n. 81 – aprile 2014

Pe r i o d i c o F I LT- C G I L N a z i o n a l e
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aprile 2014
Euro 2.00
grafica: Antonella Rotellini
Numero 81
NOSTOP 2010-2013
Le riflessioni di NOSTOP
tra due congressi
di Franco Nasso, Segretario Generale Nazionale Filt-Cgil
I quattro anni trascorsi dal precedente Congresso del 2010
sono senza alcun dubbio il periodo economico e sociale più
complesso e difficile dal dopoguerra. Quattro anni nei quali
l'attività della Filt, e della Cgil, ha prodotto uno sforzo straordinario per sostenere le ragioni del mondo del lavoro, non
rinchiudendosi dentro i propri spazi ma tentando di affrontare la crisi e la trasformazione in atto. NOSTOP è uno degli
strumenti di analisi e riflessione dei contesti in cui agiamo.
Quelli propri dei trasporti, delle imprese, dei settori.
Ma anche i contesti sociali, politici e culturali dentro cui il
sindacato agisce. E che condiziona opinioni e forme rappresentative anche dei lavoratori.
La scelta di questo numero è stata quella di ripercorrere i
quattro anni trascorsi scegliendo una piccola parte degli
articoli e provando così a dare un senso ai tanti fatti che ci
hanno coinvolto. Non una semplice collezione di articolI,
ma il tentativo di riflettere partendo dalle nostre opinioni
e dai nostri approfondimenti.
Questo a maggior ragione poiché viviamo una crisi economica
senza precedenti e che, in Europa e in Italia, si sta affrontando quasi esclusivamente sul versante della riduzione della
spesa pubblica, con il risultato che nel nostro Paese sono in
atto pesanti effetti sociali, l’ulteriore impoverimento delle
fasce più deboli, il crollo dei consumi interni ed incerte prospettive di crescita. Secondo gli andamenti attualmente stimati, è collocato a non prima del 2020, tra sei anni, il ripristino dei valori nominali di PIL del 2007. Dopo sei anni di crisi,
ne occorrerebbero almeno altrettanti perché l’Italia assorba
economicamente gli effetti della crisi.
Nei trasporti, nel 2013, si sono mosse meno merci e si sono
trasportati meno passeggeri del 2007. L’industria italiana è
ancora più debole nello scenario internazionale ed il lavoro
nel settore ne sta pagando le conseguenze sul versante retributivo, nei diritti e nei livelli occupazionali, che registrano
tra il 2010 ed il 2013 un andamento analogo a quello generale relativo ai servizi.
Negli ultimi anni, in confronto con il resto d’Europa e malgrado la propaganda, la dotazione di infrastrutture di trasporto
italiana è regredita sostanzialmente per tutte le modalità ed
è peggiorato l’equilibrio modale tra forme di trasporto inquinanti ed a forte impatto ambientale, e forme di trasporto
maggiormente compatibili con l’ambiente.
La crescita del Paese andrebbe invece sostenuta con scelte di
segno opposto di finanza pubblica, partendo da politiche redistributive del reddito e da politiche anticicliche negli investimenti. I trasporti potrebbero positivamente concorrere per il
loro valore sociale, ambientale, economico ed industriale,
trasformandosi così da 'zavorra' dell’economia italiana, come
spesso sono descritti, in 'volano' della crescita.
Il trasporto pubblico locale e regionale che, non a caso, sarà al
centro di uno dei due dibattiti al nostro Congresso, merita l’attenzione come una delle priorità nazionali nella programmazione pubblica in quanto l’attività di questo comparto ha connaturate caratteristiche di inclusione sociale, dà risposte positive
in termini di inquinamento e congestione nei centri urbani, ha
una rilevante dimensione economica ed industriale. Per ognuno di questi quattro valori, la sua riforma e il suo sviluppo rappresentano altrettante opportunità positive per il Paese.
Inoltre, nel settore dei trasporti è prioritario l’avvio di una
nuova fase dell’azione sindacale che dia impulso a politiche
contrattuali efficaci ed inclusive che conquistino la corretta ed
estesa applicazione dei CCNL, clausole sociali adeguate ed un
deciso innalzamento dei livelli di sicurezza sul lavoro. Una
nuova fase dell’azione sindacale fatta anche di piattaforme,
contrattazione, interlocuzione con le istituzioni per costruire
contesti legislativi e di regolazione del mercato più avanzati.
Emblematica la situazione nella logistica e cooperazione,
al centro del secondo dibattito al Congresso, dove la gestione
dei magazzini delle imprese di logistica non può proseguire
nelle attuali condizioni produttive e deve essere rapidamente
recuperata l'efficacia dei controlli e dei servizi ispettivi.
Va interrotta ed invertita la deriva degli allentamenti normativi
e, in merito alla responsabilità solidale, degli obblighi contributivi e fiscali tra committenti ed appaltatori. L’accordo del 13
febbraio scorso tra Filt, Fit e Uiltrasporti con Confetra e Fedit
persegue questi obiettivi, attraverso la contrattazione aziendale, l’attivazione di rapporti di lavoro dipendente e stabile nelle
ribalte e nei magazzini, nonché l’impegno delle committenze.
Serve una diversa regolazione dell’esercizio del diritto di
sciopero e un nuovo modello di relazioni industriali nel settore, avviando una nuova fase che oggi, rispetto a ieri, ha la
possibilità di mettere utilmente a frutto la vera svolta sui
temi della contrattazione e della democrazia sindacale, rappresentata dagli accordi interconfederali di giugno - settembre 2011, di maggio 2013 con il regolamento attuativo del 10
gennaio 2014. Una rappresentanza sindacale rafforzata da
una rappresentatività certa, in quanto certificata, è resa più
autorevole e, al contempo, più responsabilizzata nel costruire nei trasporti un modello di relazioni industriali fondato su
basi nuove. Si apre, finalmente, uno scenario inedito che può
rafforzare anche la prospettiva da tempo sostenuta dalla Filt
in tema di regolazione dell’esercizio del diritto di sciopero.
Infine, sui temi più strettamente organizzativi, la proposta
dell’integrazione delle strutture tra capoluogo di
regione/area metropolitana e Regione, dei Comprensori di
ridotte dimensioni, delle Segreterie e dei Comitati Direttivi
ed il percorso da realizzare rappresentano la risposta ai mutamenti avvenuti sul piano istituzionale, economico e degli
assetti delle imprese e su quello della riduzione delle risorse
pubbliche e propongono un obiettivo concreto di cambiamento per rafforzare la Filt a partire dai prossimi quattro anni.
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2010
C’è bisogno del CCNL della Mobilità
di Alessandro Rocchi, Segretario Nazionale Filt-Cgil
In un Paese moderno come l’Italia è di interesse generale,
dal punto di vista sociale ed economico, l’esigenza di una
maggiore qualità del servizio offerto nella mobilità locale,
nel trasporto delle merci, in quello delle persone. Per questo
la contrattazione da sola non basta: c’è bisogno di un quadro
normativo di regolazione del settore che la sostenga.
I quattro capitoli già individuati dal
Protocollo sottoscritto il 14 maggio 2009
presso il Ministero di Infrastrutture e
Trasporti come il primo “nucleo” del
nuovo CCNL della Mobilità (campo di applicazione; decorrenza e durata; mercato del
lavoro; sistema delle relazioni industriali).
Inoltre, un “quinto” capitolo, determinato
dal ritardo da allora accumulato dal negoziato, riferito all’esigenza, posta dal
Sindacato, di dare risposta anche agli
aspetti economici del nuovo CCNL, quantomeno, intanto, per l’anno 2009. Questi i
contenuti della fase negoziale faticosamente riattivata, ancora presso il
Ministero, soltanto l’11 maggio.
Questi i contenuti di un negoziato che,
dopo l’ordinanza di differimento dello
sciopero del 28 maggio da parte del
Ministro, rischia nuovamente di “evaporare” sotto la spinta ormai evidentemente
ostruzionistica e dilatoria esercitata da
Anav e Asstra.
Il sindacato ha fortemente criticato l’ordinanza ministeriale. Debole dal punto di
vista giuridico, scarsamente fondata nel
merito, attivata ai sensi della legge 146
senza che la Commissione di Garanzia
eccepisse alcunché di sostanziale sulla collocazione di quello sciopero e sulle sue
modalità di svolgimento. Nonostante queste valutazioni, il sindacato ha però scelto
di ottemperare all’ordinanza per evitare
che la sua violazione esponesse i lavoratori e se stesso a pesanti sanzioni, con una
conseguente vertenza il cui sbocco finale
sarebbe stato inevitabilmente l’accelerazione dell’iter approvativo in Parlamento
dello sciagurato ddl delega governativo
sull’esercizio del diritto di sciopero.
D’altra parte, inoltre, l’ordinanza ministeriale, impedendo lo sciopero del 28 maggio, ha mandato un segnale alle controparti datoriali che rischia di accentuarne l’irresponsabilità, già ampiamente dimostrata, peraltro, fin dall’inizio di questa vertenza contrattuale, soprattutto da parte
di Anav e Asstra. Per queste ragioni, le
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Segreterie Nazionali si sono viste costrette
a proclamare nuovamente lo sciopero
nazionale di 24 ore per il 24-25 giugno.
Il nuovo CCNL rimane un obiettivo irrinunciabile per dotare il lavoro di un adeguato
strumento di tutela nel pieno dei processi
in atto di liberalizzazione, privatizzazione,
riassetto del sistema delle imprese nel trasporto locale, in quello ferroviario e nei
servizi connessi.
Fondamentale resta l’idea di unificare il
lavoro per contrastare il dumping contrattuale offerto alla competizione di una
regolazione di questi processi che sta risultando incerta e contraddittoria, con spinte liberiste collocate in Italia ben al di là
degli stessi obblighi imposti dall’Unione
Europea e componenti “para-federaliste”
che delineano sbocchi diversi, spesso insostenibili per il lavoro e inefficaci per lo sviluppo e la qualità del servizio, nelle diverse regioni e a livello locale.
Una regolazione incerta e contraddittoria,
quindi, complessivamente debole, priva
com’è di tutele sociali e che nel corso
degli ultimi due anni si è andata orientando verso soluzioni peggiorative, come
dimostrano lo stallo legislativo sul trasporto ferroviario ed i recenti provvedimenti
adottati dal Parlamento sui servizi pubblici locali.
Una regolazione, infine, che in questo
quadro e con queste prospettive sta determinando ulteriori rischi per il lavoro, in
quanto il dumping sociale verso cui tende
il sistema delle imprese mano a mano che
si amplia la competizione risulta favorito,
in modo solo apparentemente paradossale, dalla coesistenza nel settore di più
discipline contrattuali collettive applicabili o, ancora peggio, dalla possibilità per le
nuove imprese di operare nel settore,
soprattutto nel trasporto ferroviario,
anche senza applicare alcuna disciplina
contrattuale collettiva.
Nell’anno di grazia 2010, sorprende l’opportunismo di chi ci parla delle straordinarie capacità taumaturgiche del mercato e
della competizione immaginandole basate
su norme sull’orario di lavoro del 1923, o
la miopia di chi, a volte purtroppo anche
da parte sindacale, continua ad illudersi
che il lavoro sarebbe già sufficientemente
tutelato, almeno nel TPL, da norme sul
rapporto di lavoro del 1931.
D’altra parte, i due anni che ormai ci separano dal varo della piattaforma sindacale
sul nuovo CCNL hanno offerto ulteriori
dimostrazioni della necessità della nuova
strumentazione contrattuale.
Tra queste, la più diretta, evidente ed
immediata è la costituzione in Lombardia
della new.co “Trenitalia Le Nord” nel trasporto ferroviario locale, vicenda più volte
2010
descritta nelle pagine di questo giornale.
Ma l’intero sistema che rientra nel campo
di applicazione del nuovo CCNL è oggetto
di un’apparentemente caotica evoluzione,
la quale interroga (o, meglio, dovrebbe
interrogare) tutti gli attori imprenditoriali
ed istituzionali di tale evoluzione.
Limitiamoci ad elencare i numerosi processi in atto:
m il cosiddetto “decreto Ronchi” spinge
verso la sostanziale privatizzazione dei
servizi pubblici locali. Anche se, dopo
gli entusiastici annunci da parte governativa che seguirono l’approvazione del
decreto, alla fine del 2009, si sta registrando un già sensibile ritardo nell’emanazione dei numerosi decreti
attuativi previsti, l’anno 2010 è destinato ad essere l’ultimo del “periodo
transitorio” in atto dal 1997. Se non
intervengono ulteriori novità normative
– apparentemente ormai assai improbabili, ma, in questo campo, mai dire
mai… - entro la fine dell’anno in corso
devono essere bandite le gare, in gran
parte del TPL, oppure, in quella stessa
parte, vanno applicate le nuove soglie
di privatizzazione delle aziende. La
condizione finanziaria di molte aziende
del settore e di molte delle amministrazioni locali che ne detengono o ne controllano la proprietà sembrano spingere
inesorabilmente in molti casi verso la
seconda delle due ipotesi;
m d’altra parte, anche l’ipotesi delle gare
non offre affatto, allo stato, sufficienti
tutele per il lavoro.
Emblematico è il caso, tuttora aperto,
delle gare per l’affidamento dei servizi
di trasporto ferroviario locale in
Piemonte, ma anche nel TPL le possibili
variabili attualmente consentite nei
bandi di gara (estensione lotti, livello di
servizio, importi corrispettivi a base di
offerta) determinano forti preoccupazioni sulla tenuta dei livelli occupazionali, dei trattamenti e dei diritti;
m sia nel trasporto locale sia in quello ferroviario, i principali operatori internazionali sono attualmente protagonisti di
giganteschi processi di riassetto industriale e finanziario. È così tra Transdev,
Ratp (già presenti in Italia nel TPL) e
Veolia e tra Arriva (anch’essa già operante nel TPL italiano) e DB (la compagnia ferroviaria pubblica tedesca), a
dimostrazione che, per questi operatori
leaders nei loro settori, il posizionamento competitivo nel trasporto locale
si realizza con una visione strategica
unitaria di gomma e ferro. Ma è così
anche nel trasporto ferroviario, dove le
compagnie ferroviarie pubbliche estere
(la francese SNCF, la svizzera SBB, la
tedesca DB, l’austriaca ÖBB) presidiano
ormai stabilmente in territorio italiano,
in modo diretto o indiretto, tutti i valichi alpini nel trasporto delle merci,
mentre alcune di esse hanno recentemente intrapreso iniziative nel trasporto passeggeri di lunga percorrenza (DB
e ÖBB in partnership con Le Nord sul
versante italiano della direttrice del
Brennero) o partecipano ad iniziative in
specifici ambiti dello stesso segmento
(SNCF in NTV nel trasporto Alta velocità, commercialmente operativo nel settembre 2011);
m i recenti rinnovi dei contratti di servizio
tra FS e quasi tutte le regioni, pur delineando una stabilizzazione della prospettiva nel trasporto locale ferroviario, attraverso le scadenze di 6 più 6
anni e un adeguamento delle risorse
finanziarie dedicate, hanno introdotto
ulteriori possibili variabili nell’assetto
dei gestori dei servizi. Oltre al già citato caso della Lombardia, i rinnovi con
Toscana e Veneto ipotizzano la costituzione di nuove società regionali di trasporto ferroviario locale e quelli con
Friuli Venezia Giulia e, ancora, Veneto,
di trasporto ferroviario merci. E anche
in questi casi, pur non essendo l’occasione di approfondire l’analisi, è utile
comunque evidenziare il ruolo che si
annuncia possibile per la francese Ratp
nel caso toscano e di DB e ÖBB nei casi
veneto e friulano;
m infine, appare evidente come processi
così importanti, profondi e complessi
potrebbero impattare sull’assetto della
“catena del valore” e della filiera produttiva dell’indotto del settore. In primo
luogo, nella manutenzione, per effetto
della sempre più diffusa scelta di acquisire in leasing le flotte (sia nel trasporto
su gomma che, ancora di più, in quello
su ferro). Poi, nei molteplici servizi di
supporto (amministrativi, di pulizia, di
ingegneria e, in specifici segmenti del
ferroviario, di accompagnamento e di
ristorazione a bordo), dove la crescente
pressione della competizione aumenterà
la spinta verso l’esternalizzazione e la
terziarizzazione di attività.
Un nuovo CCNL che unifichi il lavoro coinvolto in questi processi è, per quanto elencato, strumento indispensabile, ma, da
solo, non sufficiente. Indispensabile per
governare questi processi con una strumentazione unica ed unificante che disciplini livelli di trattamenti e diritti minimi
nazionali e che favorisca il consolidamento e l’ampliamento della contrattazione
aziendale di secondo livello.
Ma, da solo, non sufficiente, perché la
portata di questi processi è tale da richiedere un quadro normativo di regolazione e
di riferimento che per via legislativa dia la
necessaria dignità al nuovo CCNL.
Nonostante le incertezze giuridiche nazionali e i nuovi obblighi e limitazioni imposti
dal diritto comunitario, l’esperienza italiana degli ultimi 15 anni ha dimostrato,
seppure finora, purtroppo, in pochi casi,
che i processi di liberalizzazione e privatizzazione possono coesistere con gli interessi del lavoro e con le evoluzioni del
mercato quando le norme che regolano i
processi sono integrate da strumenti prodotti dalla contrattazione collettiva.
Gran parte delle attività ricomprese nel
nuovo CCNL della Mobilità hanno caratteristiche evidentemente rispondenti ad
almeno due requisiti di interesse generale:
la sicurezza dell’esercizio e l’universalità
del servizio.
In un Paese moderno come l’Italia è inoltre di interesse generale, sia dal punto di
vista sociale che economico, l’esigenza di
una maggiore qualità del servizio offerto
nella mobilità locale, nel trasporto delle
merci, in quello delle persone.
In sostanza, questo interesse generale
incrocia l’interesse del lavoro se la contrattazione sindacale è supportata e sostenuta da una regolazione dei processi di
liberalizzazione e di privatizzazione che
affermi un principio semplice: procedure
sicure, universalità del servizio, qualità
dell’offerta hanno bisogno di lavoro di
qualità, adeguato dal punto di vista professionale, tutelato dal punto di vista
sociale, risorsa fondamentale e non semplicisticamente costo.
Ma proprio sul versante legislativo si registra tuttora la lacuna peggiore, con l’aggravante rappresentata dal fatto che, a differenza della precedente legislatura, l’attuale Governo non sembra interessato ad assumere alcuna concreta iniziativa, nonostante l’impegno formalmente assunto in occasione del Protocollo del 14 maggio 2009.
C’è bisogno del nuovo CCNL. C’è bisogno di
un quadro normativo di regolazione del settore che lo sostenga. Sull’uno e sull’altro
piano si orienta l’iniziativa della Filt-Cgil.
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2010
Un passo altrove
di Mariagrazia Fontana
Non credo che la scelta sia fra aderire al nostro
destino biologico e rifugiarci nel ruolo di madri
e mogli oppure mimare il maschile.
Credo che la strada stia nel dare visibilità e
valore alla differenza, nel mettere la differenza
al posto della parità.
Questo testo nasce da un incontro sul tema del lavoro organizzato
dall’Associazione Italiana Donne Medico, sezione di Brescia, cui
hanno partecipato le associazioni femminili della Provincia.
La necessità di questo incontro emergeva dalla nostra passione
per il lavoro e dalla necessità di alcune di noi di sedare un
conflitto, di fare dei conti con il lavoro, su ciò che ci ha dato e
ciò che ci ha tolto, di interrogare alcune nostre scelte. Abbiamo
deciso di farlo a partire da una narrazione, quella della storia mia
e di Carmen, entrambe chirurghe perché, seppur molto specifica,
la consideriamo paradigmatica.
Quando abbiamo cominciato, 30 anni fa, non era comune per una
donna scegliere specialità chirurgiche, diciamo che la nostra è
stata la prima generazione di donne che si è autorizzata a fare
questo passo.
“Ti assumo perché sei brava, anche se sei una donna” Queste
le parole del nostro direttore, il giorno in cui mi comunicava l’esito del mio concorso di assunzione in Iª Chirurgia all’Ospedale
Civile. Un sogno si realizzava, anche se attraverso parole che
sapevano di umiliazione, che dicevano quanto l’esser donna connotasse in negativo l’essere che mi era spettato in sorte. Parole
che ricordano la battuta di Clint Eastwood nello splendido film
Million dollar baby, quando l’allenatore di box, dopo insistenze e
suppliche, finalmente decide di allenare Hilary Swank e dice:
“Cercherò di dimenticare il fatto che sei una ragazza”.
Supplicare, insistere, questa è stata la strada che abbiamo scelto
e quando finalmente ci hanno fatte entrare, pena la mortificazione della nostra femminilità, il dover far dimenticare che siamo
donne, noi ci siamo sentite grate, perché come loro percepivamo
questo ingresso come un privilegio, una concessione, un elevarsi
al di sopra della comune condizione femminile, che poteva essere solo mediocre.
Le donne sono considerate non affini alla scienza, ad una scienza che
si presenta come neutra ma che nei fatti è maschile. Per poterla avvicinare è necessario possedere dei caratteri di eccezionalità che portino “a livello” un femminile mancante. In un bel testo della comunità scientifica femminile Ipazia, fondata da donne scienziate che promuovono un nuovo modo di fare scienza, si legge “Quando il riconoscimento è dato ad una donna è come se fosse sempre accompagnato da un NONOSTANTE, perché la sua presenza non era prevista. Si crea perciò una contraddizione tra la fonte dell’autorevolezza e la persona che ne viene investita... questo spinge molte donne
che lavorano in campo scientifico a considerare il valore dato a sé
come dato ad un neutro, ed a temere che esso sarebbe diminuito
da un collegamento esplicito al loro essere donne” (1). Il nostro
femminile è in sostanza un ingombro, di cui noi per prime vogliamo
dimenticarci perché non ci venga revocato il privilegio.
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Così è stato per me e per Carmen, abbiamo reso invisibile, volatile, la nostra femminilità. Turni massacranti, impegno fisico e
mentale molto gravoso, accettato con entusiasmo e con una resistenza alla fatica e allo stress inconsuete. Perché quello del chirurgo è il più bel lavoro del mondo e per entrambe è stata una
grande passione, un grande amore. Pur di tenerlo vivo siamo state
disponibili a sacrifici enormi: le nostre rispettive famiglie non
hanno mai pesato sul lavoro, le abbiamo occultate, nessuna di noi
ha mai reclamato un giorno di permesso per la malattia di un
figlio, esattamente come per un chirurgo maschio, perché in
primo luogo eravamo chirurghi.
Non credo che per noi l’amore per i figli sia stato minore che per
altre donne, è che dovevamo/volevamo relegarlo alla sfera del
privato, per tenere fede ad una promessa implicita: vi lasciamo
entrare, ma dimenticatevi di essere donne. Una prescrizione che
è risultata ancora più chiara il giorno in cui ho dovuto annunciare al nostro direttore la mia prima gravidanza, accolta con urla e
strepiti e con queste parole: “Tu mi hai tradito”. Io avevo infranto l’implicita promessa di dimenticare di essere donna, dunque
non meritavo il privilegio che mi aveva concesso. La maternità è
costata a me e a Carmen l’esclusione dalla sala operatoria per
mesi, una sorta di espiazione.
Comunque, va detto, abbiamo abbondantemente mortificato la
nostra femminilità, ma i figli li abbiamo fatti e la famiglia l’abbiamo tenuta in piedi, la sfida l’abbiamo lanciata. E, paradossalmente, questa famiglia che ci avevano venduto come intralcio al
lavoro, ci ha salvate entrambe da deliri di carriera: l’essere
madri, con i piedi ben conficcati per terra, attente alle relazioni
d’amore, ci ha aiutate a capire ciò che realmente contava.
Va anche citata l’autorizzazione materna che nel mio caso è stata
fondamentale. Mia madre ha dovuto sudarsi lo studio che per lei
non era previsto, attraverso uno sciopero della fame per potersi
2010
iscrivere ad una scuola superiore. Nella sua generazione,
le donne, anche quelle che appartenevano a famiglie abbienti,
non erano destinate allo studio ma unicamente al matrimonio.
La sua presa di posizione netta e coraggiosa, la sua scelta di stare
nel mondo e non solo in famiglia, ha segnato il mio immaginario
e mi ha autorizzata a scegliere il lavoro che amavo, un lavoro che
è stato centrale nella mia vita, in cui ho investito moltissimo.
Ovviamente questo enorme investimento non è stato gratuito.
È un’atavica abilità femminile quella dell’unire invece che separare. È un grande sogno il nostro di volere tutto, sostenuto dalla
passione e dal desiderio di essere nel mondo.
Dunque non credo che il problema stia nelle propensioni scientifiche delle donne. Sia io che Carmen abbiamo all’attivo 2 specialità chirurgiche, insegnamento universitario, quasi 30 anni di chirurgia sul campo, anche con ruoli dirigenziali. Ad un certo punto
della nostra carriera ci siamo trovate entrambe contemporaneamente, capo reparto di 2 settori del reparto di chirurgia, cosa mai
vista che 2 donne dirigessero chirurghi maschi anche più anziani.
Alla dirigenza ci siamo arrivate, come molte altre donne, ma non
abbiamo voluto restarci. È questo che va interrogato.
Le scienziate della comunità Ipazia, ascrivono questa insofferenza non tanto all’oppressione ma alla mancanza di un linguaggio
autonomo, una mancanza di simbolico che non permette di
avere autorità femminile.
In un testo del 1991 della comunità filosofica di Diotima (2) si
legge: “La donna non ha un linguaggio suo, ma piuttosto utilizza
il linguaggio dell’altro. Essa non si autorappresenta nel
linguaggio, ma accoglie con questo le rappresentazioni di lei
prodotte dall’uomo. Così la donna parla e pensa e si pensa,
ma non a partire da sé”.
“Sul piano simbolico l’autorità resta legata al nome del padre,
fa corpo con l’ordine simbolico maschile, e quando è un corpo
di donna ad essere portatore di autorità, quest’ultima si dà
come supplente, continua a riferirsi all’ordine paterno”… “Il
nodo dell’autorità femminile renderebbe ragione della
difficoltà delle donne a esercitare autorità e ad attribuirla ad
altre donne, dello stridore a coniugare l’identità di scienziate
con quella di donne. Una sorta di conflitto fra la fedeltà alla
comunità scientifica e l’appartenenza sessuale, come se
lasciando parlare il nostro femminile si perdesse autorità
scientifica, perché l’autorità resta legata al padre”.
Il disagio che percepivamo nel lavoro riguardava principalmente
2 temi. La relazione con i pazienti che noi vivevamo in modo
diverso dai colleghi maschi. Non si tratta semplicemente di essere gentili, umani con i pazienti,
è che per la maggioranza dei colleghi la relazione con il paziente è assolutamente secondaria,
sovrastata dalla ricerca di prestigio personale.
In un ambiente competitivo come la chirurgia,
la lotta è per sé, per il proprio successo,
per la propria affermazione, per la carriera. La
relazione con il paziente viene dopo. Per noi
questa relazione è centrale, è il lavoro, è ciò che
attribuisce un senso al gesto tecnico.
Difficile stabilire perché per molte donne,
anche in altre professioni, sia così, Possiamo
appellarci ad una diversità fisiologica, al nostro
essere biologicamente predisposte all’accoglienza, a possedere un corpo che diventa due.
Non che la carriera ci abbia fatto schifo, riconosco in noi ambizione e bisogno di riconoscimento che considero legittime molle al miglioramento di sé. Ma non come obiettivo primario
e non a tutti i costi.
E arrivo al secondo disagio, che è quello di dover accettare percorsi di carriera non trasparenti. In chirurgia, come in molte altre
professioni altamente qualificate, la carriera è raramente legata
alla competenza, alla bravura o al curriculum. Contano molto di
più nepotismo, cooptazione, appoggi politici, portaborsismo.
Questo è dato per scontato dai colleghi maschi, che lo vivono con
disagio, ma lo accettano come regola del gioco. Per noi è stato
difficile, direi impossibile ad un certo punto stare a questi patti.
Prioritaria invece è stata la relazione fra noi due. Ci siamo trovate
di fronte alla scelta se farci la guerra, che è il normale relazionarsi fra colleghi nelle professioni competitive, o provare a sostenerci
a vicenda. Abbiamo scelto la seconda opzione e sottolineo che non
era certo nell’ordine delle cose. Nel momento in cui vivi il lavoro
come affermazione personale, tutti ti sono nemici, perché tutti ti
possono fare ombra. Se metti al centro la relazione con il paziente cambi completamente prospettiva e anche la relazione sul posto
di lavoro può essere uno strumento per lavorare meglio. E in effetti così è stato. In realtà non si è trattato di una scelta consapevole, diciamo che le cose sono venute così, abbiamo cominciato a
condividere i pensieri, le perplessità, la stanchezza, l’arrabbiatura, la sofferenza che si provava di fronte al dolore. E questa condivisione è diventata sostegno quando una delle due non ce la faceva, quando prevaleva lo sconforto, quando si andava allo scontro.
È stata inconsapevole produzione di pensiero femminile nel
momento in cui inventavamo strategie cliniche o progetti di studio.
In quel contesto di relazione, una volta che ci siamo dimostrate
che quel lavoro lo sapevamo fare e ci è stato riconosciuto, abbiamo realizzato che il nostro desiderio non era la parità, non era
essere come loro. Ci sentivamo estranee, quel modo di lavorare
non ci corrispondeva, la libertà femminile era altro, noi lavoravamo in altro modo.
Non avevamo davanti a noi modelli femminili di riferimento che
legittimassero questa diversità, noi eravamo modello per le colleghe giovani e per le studentesse. Abbiamo fatto di tutto per
modificare il contesto, per piegare le regole del gioco, ci siamo
impegnate in questo tentativo per più di 20 anni e in parte, per
ciò che competeva noi, qualcosa è cambiato. Una pratica diversa
si è sperimentata e si è resa visibile, il nostro sforzo era davanti
agli occhi di tutti, colleghi, pazienti e studenti.
Ma il contesto solo questo concedeva, la testimonianza individuale,
non di più. Pur essendo convinte che la relazione fra il cambiamento di sé e il cambiamento del mondo è strettissima, abbiamo dovuto realizzare che ci voleva ben altro per cambiare la chirurgia.
5
2010
Ci si è chiarito che quel contesto, quello della gara con il
maschio, non era fecondo, era per noi paralizzante, che non
avevo tempo da perdere in fatica sterile perché quel contesto
non lo avremmo trasformato, non c’era spostamento possibile.
C’era un’integrità da difendere, una pratica da affermare, incompatibile con quelle rigidità che producevano solitudine e che premiavano talenti che non mi appartenevano.
Quell’inadeguatezza, quella mancanza di significato nel nostro
essere donne non le sentivamo più, sentivamo di non poterci più
appiattire su un modello non nostro perché c’era altro che doveva essere lasciato vivere ed agire.
In questa nostra relazione è maturata la scelta di abbandonare la
chirurgia. Scelta molto dura e sofferta, ma l’unica che ci consentisse di restare intere, di restare fedeli a noi, a come siamo fatte,
di sopravvivere senza farci stritolare e soprattutto di non legittimare uno stile di lavoro che non riuscivamo a modificare.
Non era una discriminazione quella che pativamo, lì c’eravamo e
con autorevolezza, ma non volevamo restarci a quei patti.
Delfina Lusiardi (3) scrive: “Inconsapevoli, ci lasciamo trascinare nel disordine del mondo e spendiamo la nostra energia, la
nostra immaginazione e passione, la nostra intelligenza in giochi dove le regole sono già decise in partenza dentro un ordine che si nutre della fecondità femminile senza nemmeno
accorgersi dell’alimento che riceve. La divora e basta… E in
effetti lì, in quelle istituzioni, siamo entrate in tantissime negli
ultimi decenni, ma vediamo che proprio lì è diventato molto
faticoso, se non impossibile, per una donna essere culturalmente creativa, spiritualmente feconda. Spesso una donna
esaurisce la propria energia nell’inventare strategie di sopravvivenza, nel resistere e proteggersi dai giochi di potere ai quali
viene costantemente invitata, nel cercare qualche passaggio
perché la sua vitalità creativa possa realmente esprimersi e
dare i suoi frutti”.
Il nostro non è un passo indietro, è un passo altrove, un voler
prendere le distanze, un non voler partecipare, non spartirsi la
torta a tutti i costi, perché il nostro obiettivo non è il potere in
sé ma caso mai il potere come strumento per fare ciò che ci
appassiona.
Così a 50 anni suonati ci siamo rimesse in gioco, non abbiamo
scelto di dedicarci alla vita privata o di restare a fare flanella
in attesa della pensione. Abbiamo investito in nuove imprese
professionali, sempre con entusiasmo e passione.
6
Non è stata una passeggiata lasciare la chirurgia dopo tanti anni.
Alcune notti mi sogno ancora di essere in sala operatoria e mi sveglio con la sensazione di avere operato realmente. Quando ci
capita di parlarne, cioè sempre, entrambe manifestiamo i sintomi della nostalgia di un grande amore finito.
È un po’ come quando ci si innamora dell’uomo sbagliato.
Sarebbe perfetto se solo non avesse alcune caratteristiche. Allora
ci si fa in 4 per modificarlo ma, ovviamente, non cambia e l’unica strada resta quella di lasciarlo per cercare un altro amore. Più
facile a dirsi che a farsi!
È un cambio di direzione che altre donne faticosamente hanno
maturato in altri ambiti.
Marina Terragni (4) dice nel suo libro intitolato “La scomparsa
delle donne” che “Forse oggi i partiti vogliono le donne più di
quanto le donne vogliano i partiti” e riporta l’opinione di Luisa
Muraro, docente di filosofia all’università di Verona e fondatrice della comunità filosofica femminile Diotima “In questo
momento storico c’è una pressione sulle donne perché si uniscano agli sforzi di credere nelle imprese della buona volontà
umana maschile. Ci viene offerta l’integrazione in queste
imprese (parlamenti, partiti, eserciti, università, società scientifiche e sportive), alla pari con gli uomini, in cambio di quello
che io chiamerei un servizio simbolico. Che consiste nel dare
credito a queste imprese spostando su di esse i nostri più grandi desideri”. Continua Terragni “Per adesso la maggioranza di
donne continua a non lasciarsi irretire da quello che Muraro
definisce “un mediocre possibile”. Non si fidano di quella politica, non ci credono, importa loro poco. Non ci si sente poi
così povere per il fatto di non essere lì. Non andrebbero mai a
perdere il loro tempo in quei giochi di potere e in quei corridoi. Uno spreco di tempo che è anche “spreco di spirito” come
dice Virginia Woolf”.
Non credo che la scelta sia fra aderire al nostro destino biologico
e rifugiarci nel ruolo di madri e mogli oppure mimare il maschile.
Credo che la strada stia nel dare visibilità e valore alla differenza, nel mettere la differenza al posto della parità.
È una strada difficile, tutta da inventare, ma a mio avviso è l’unica per la quale valga la pena di impegnare energie. Anche perché
se annulliamo la differenza, se ci trasformiamo in una fotocopia
del maschio dove finisce l’amore? L’amore è amore per ciò che
è diverso da noi e ci attrae. Livellarci ci fa correre il rischio di
cancellare il motore del mondo, che non è né la forza né il potere,
e noi lo sappiamo bene.
BIBLIOGFRAFIA
(1)(2)(3)(4)-
Ipazia, Autorità scientifica autorità femminile. Editori Riuniti, 1992
Diotima, Il pensiero della differenza sessuale, La tartaruga edizioni, 1991
D. Lusiardi, Che cosa sa -il corpo che io non so? Seminario Madrid 2008
M. Terragni, La scomparsa delle donne, Mondadori 2007
MARIAGRAZIA FONTANA
Laurea in Medicina e Chirurgia nel 1982. Specializzazione in
Chirurgia Generale, in Chirurgia Apparato Digerente e Chirurgia
Digestiva. Dirigente Medico presso l’Unità Operativa di I Chirurgia
Generale dal 1986 al 2007. Dirigente Medico presso Dipartimento
Emergenza Ospedale Civile di Brescia. Ha rivestito per anni il ruolo di
Professore a contratto presso il Corso di Laurea in Medicina e
Chirurgia dell’Università di Brescia, presso la Scuola di
Specializzazione in Chirurgia dell’apparato digerente e presso il corso
di laurea per ostetriche. Presidente Associazione Italiana Donne
Medico sezione Brescia. Responsabile del progetto di “Accoglienza
delle donne che hanno subito violenza” per l’Ospedale Civile di
Brescia dalla sua istituzione.
(Un suo precedente articolo su NOSTOP n. 58 - Marzo 2008).
2010
L
’intervista
Susanna Camusso
Il 3 novembre è stato un giorno importante per te, per le
donne, ma per la stessa storia della Cgil. L’Italia è un paese
in cui molto si è parlato di quote rosa e presenza di genere,
ma nel quale la responsabilità assegnata alle donne, in ogni
settore, è inferiore agli altri paesi europei. Ti confronterai
con Emma Marcegaglia primo presidente donna di
Confindustria.
La guida femminile delle due rappresentanze economiche e
sociali più rappresentative del paese contrasta, anche simbolicamente, con un vissuto in cui le donne sono sembrate
sempre più silenziose e sovrastate da una politica e dai
media che hanno usato, e degradato, il loro corpo ed
il loro ruolo nella società. Come pensi di utilizzare la
tua nuova responsabilità e come pensi sia possibile far
emergere una nuova solidarietà e partecipazione femminile
nel sindacato e nella società?
Si è detto molto sulla scelta della Cgil che arriva dopo cento anni.
A me piace sottolineare che questa scelta è, però, figlia di un grande lavoro fatto dalle donne e dalle dirigenti della Cgil, anche innovando così una discussione sulle quote rosa, se servono o non servono. In realtà, la scelta di una norma antidiscriminatoria e un’attenzione di genere, seppur non ancora sufficiente in tutta l’organizzazione, ha promosso una rappresentanza vera di uomini e di
donne, rendendo così forse meno traumatico di quanto potrebbe
apparire dall’esterno questo percorso. Non dobbiamo dimenticare
che l’ultima segreteria era paritaria, c’è stato un percorso positivo,
indubbiamente del tutto diverso da quello che riguarda il paese,
che è invece preda di un machismo non più sopportabile e di
un’idea di subalternità inconcepibile. Che poi voglia dire qualcosa,
dal punto di vista di una diversa relazione, il fatto che anche la presidenza di Confindustria sia donna non è così automatico, perché
sono tutte esperienze molto concretamente calate dentro i ruoli in
rappresentanza di interessi precisi, mediamente conflittuali. Forse
si potrà utilizzare ciò che sta nella classica relazione tra le donne,
cioè una migliore capacità di gestire il conflitto che le relazioni
determinano. Ma non credo che, di per sé, cambi qualcosa nei
rapporti tra le organizzazioni di rappresentanza. Certo, simbolicamente cambiano molte cose, perché la presidenza di Confindustria
e la segreteria generale della Cgil sono tutti segni che non c’è un
modello univoco, quello berlusconiano delle escort e delle veline.
Che c’è un’altra modalità, un’altra possibilità, un’altra realtà,
fatta dalle donne concrete di questo paese, donne che lavorano,
che vogliono la loro libertà, che vogliono poter progettare il loro
futuro. In questo senso, la mia elezione in Cgil è stata importante
anche nella comunicazione. Poi c’è un’altra cosa, che continua a
stupirmi: esattamente in questo degrado, questa scelta che ha
fatto la Cgil ha rappresentato per moltissime donne un punto di
riferimento, non solo per la partecipazione delle nostre iscritte e
delegate, ma anche per molte donne fuori di noi. È come se avessimo squarciato un velo, indicato un diverso orizzonte.
La straordinaria trasformazione del mondo negli ultimi
vent’anni, dalla fine del comunismo alla nuova ed allargata
Unione Europea, dalla globalizzazione con il ridisegno degli
assetti economici e geopolitici, dal peso della finanza all’attuale crisi irrisolta, ha oggettivamente ridotto il ruolo delle
Segretario Generale CGIL
organizzazioni sindacali nei singoli stati e nei luoghi di lavoro. Non ritieni vi sia un ritardo di analisi e di conoscenza
nella comprensione dei fenomeni, tanto da riportare spesso
i nostri dibattiti su schemi e contenuti ormai superati o che
richiederebbero vie d’uscita differenti?
Io credo che non sia tanto un ritardo del movimento sindacale, che
da sempre si è dotato di organizzazioni internazionali, quanto
degli strumenti per poter concretamente agire. La politica ha in
qualche modo rinunciato a governare l’economia, ha pensato che
il sistema finanziario e delle multinazionali fosse così forte da non
poterlo governare ed ha sottovalutato che dentro l’idea liberista
della globalizzazione c’erano anche due conseguenze ideologicamente pensate: che si sarebbero ampliate le disuguaglianze e che
tutti i costi di quest’operazione sarebbero stati pagati dal lavoro
produttivo e dalla ricerca del lavoro sempre a peggiori condizioni.
Il vero tema che noi dovremmo proporci è come la relazione esistente tra i tanti sindacati del mondo diventi anche effettiva capacità di agire comune uscendo dalla stretta in cui siamo. Vale anche
per l’Europa. Va bene anche la giornata di mobilitazione indetta
dalla confederazione europea dei sindacati, alla quale abbiamo
sempre partecipato, ma se poi c’è una grande vertenza aziendale
che contrappone due paesi, ognuno difende se stesso, allora l’incrocio fra organizzazioni sovranazionali e organizzazioni nazionali
è un grandissimo punto di domanda. Se anche all’interno di organizzazioni sovranazionali, come l’Europa, in realtà c’è un mondo
binario fra chi è a basso costo e chi invece difende la propria condizione, questo è il grande interrogativo. Non a caso noi abbiamo
detto che bisogna provare ad andare oltre, a immaginare elementi di contrattazione europea, a rendere i Cae uno strumento effettivamente contrattuale, perché anche noi dobbiamo provare ad
essere un’organizzazione sovranazionale.
Il nostro paese è stato caratterizzato da un’anomalia politica, sociale e culturale che ha segnato profondamente questi
venti anni. Alla trasformazione nel mondo si è sovrapposto
un paese dilaniato da un conflitto politico e da una instabilità permanente, con spinte verso una sua spaccatura territoriale, con intere regioni dominate dalla malavita arrivata
ad assassinare un sindaco come Angelo Vassallo, con un
sentimento di paura verso l’altro e verso il futuro.
A un sindacato come la Cgil, con la storia della Cgil,
quale responsabilità storica spetta nella rappresentanza di
interessi del lavoro, ma sempre vissuti e legati al futuro
di questo paese?
Abbiamo avuto occasione di dire, anche alla manifestazione del 27,
che per noi la legalità è un punto di partenza fondamentale, perché
le ragioni del declino prima e del degrado progressivo del paese poi
sono più d’una, ovviamente. Una è la debolezza della politica,
soprattutto quella di un’alternativa politica, ma c’è anche la debolezza della politica di una maggioranza che, nel momento in cui non
può più solo occuparsi dei fatti propri, va in crisi, perché non riesce
a rispondere alle esigenze presenti nel paese. Il problema è che la
non gestione della crisi ha fatto riesplodere, facendoli ricrescere,
i fenomeni di infiltrazione della criminalità organizzata. Io so che
c’è chi si offende ma se, in una fase in cui le imprese e le persone
hanno bisogno di investimenti e di credito, il sistema bancario non
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2010
glieli offre, è evidente che qualcun altro si presta a farlo. E se tu
decidi, come ha deciso, purtroppo, la politica di questo governo, di
ridurre i diritti dei lavoratori e di favorire alla fine il lavoro illegale, questo diventa un altro canale di infiltrazione della criminalità,
la quale, quando si sente così forte, può fare qualunque cosa, anche
uccidere un sindaco simbolo di un’Italia onesta. Il vero tema,
che non è nuovo ma torna di straordinaria attualità è che, insieme
al controllo del territorio (che va fatto con le forze dell’ordine e non
mettendo soldatini che si trovano di fronte a cose che non sanno
gestire, va fatto con l’intelligence e le indagini), bisogna aprire una
grande stagione di controllo e di legalizzazione dell’economia.
E, duole dirlo, ma oltre a ciò che si può fare contro l’evasione e
la corruzione, serve anche reintrodurre quelle norme di legalità
e trasparenza delle imprese, penso al falso in bilancio e a tutte
quelle leggi che sono state man mano cancellate per favorire colui
che fa il presidente del consiglio ma che, in realtà, hanno rappresentato tante debolezze rispetto alle infiltrazioni mafiose.
La Cgil ha aperto una riflessione seria sull’accordo separato
del 2009 che porti ad un suo superamento e riscrittura. In
quest’analisi peseranno certamente i contratti nazionali sottoscritti insieme alle categorie di Cisl e Uil ed i tanti accordi
aziendali firmati in tutto il paese. Pur nella convinzione che
la Cgil ha evitato la meccanica applicazione dei contenuti
negativi dell’accordo separato, perché questa divaricazione
tra la contrattazione reale e l’accordo separato? Perché,
oltretutto in una fase di crisi, l’insieme del sindacato confederale non è stato in grado, pur nella sua pluralità, di esprimere una posizione unitaria e insieme autonoma dal governo e dalla politica?
L’accordo separato voluto dal governo e dalle associazioni di impresa nel 2009 è stato, forse, il punto più basso in assoluto mai raggiunto dalle relazioni sindacali e, ovviamente, ha determinato
delle conseguenze: contratti separati in alcune categorie, impossibilità di avere un confronto unitario col governo sulle questioni
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della crisi, una progressiva frantumazione soprattutto a livello
nazionale dei rapporti, nel momento in cui con la crisi e con le difficoltà presenti sarebbe stato necessario esattamente l’opposto.
Però rimaniamo convinti di aver fatto bene a non accettare quella
modalità e i fatti man mano lo dimostrano, perché quella era
un’idea di sottrazione di funzione del contratto nazionale, di riduzione dei diritti delle persone. Era il tentativo di scaricare, ancora
una volta, sui lavoratori i costi e gli effetti della crisi.
Noi abbiamo reagito a quell’accordo separato proponendo e verificando in ogni categoria quali margini c’erano per continuare a
rappresentarla e, come succede in tali situazioni, abbiamo registrato molti risultati positivi e qualche altro incerto insieme alla
rottura rappresentata dai metalmeccanici. Noi abbiamo sempre
detto che ci vorrà un altro modello contrattuale perché non si può
restare con regole separate. La riflessione che abbiamo aperto e
dobbiamo fare è, però, se ci si deve limitare a cancellare quelle
norme che non vanno bene, cosa da fare comunque ovviamente, o
se invece è anche l’occasione per pensare quali limiti ci sono, dal
nostro punto di vista, nel sistema contrattuale che abbiamo oggi.
Cioè, se i nostri contratti nazionali, che devono rimanere lo strumento fondamentale e universale di tutela dei diritti, parlano
davvero a tutti i lavoratori oppure no, perché la dualità dentro le
stesse imprese e dentro gli stessi settori tra chi applica il contratto
nazionale e chi non lo applica può diventare per noi un problema,
oltre a non consentirci di avere una risposta per chi sta peggio.
Quindi, come sempre, anche da una situazione difficile bisogna
trarre l’elemento di occasione positiva, provare a declinare delle
regole di rappresentanza e democrazia che valgano davvero, a
partire dalla rappresentanza. La democrazia senza il tema della
rappresentanza non regge, perché è soggetta alle cose che abbiamo visto e cioè al fatto che poi si sveglia un ministro e decide di
cambiare la norma del pubblico impiego, se ne sveglia un altro e
decide di decretare chi è il sindacato più grande. Portare alla luce,
in totale trasparenza, la reale rappresentanza di ogni sindacato
credo sia il punto di partenza anche per avere regole di democrazia
davvero efficaci.
Il paese e l’economia, e quindi il mondo delle imprese ed il
lavoro, sembrano stretti tra una crisi che in Italia è più forte
che altrove ed un deficit pubblico che non sembra permettere forti politiche di spesa. Questo mentre le scelte del
Governo sembrano rivolte a tagli dagli impatti insostenibili
(scuola e trasporto pubblico, tra gli altri) e vi è un’assenza
completa di politiche industriali, di ripresa dei salari e dei
consumi interni.
La rappresentanza confederale del lavoro, di fronte alla
disgregazione sociale, dovrebbe porsi scelte non tattiche
e non legate all’oggi. Tra queste almeno tre sono essenziali: come dare prospettive e certezze a coloro, i giovani e non solo, che entrano nel mondo del lavoro anche
attraverso la definizione di diritti e regole generali che
possano ridisegnare un diverso welfare oggi disequilibrato e penalizzante per le future generazioni; come declinare ruolo, democrazia e rappresentatività del sindacato;
come ipotizzare un nuovo patto sociale che sposti verso un
diverso sviluppo economico e verso il lavoro la redistribuzione della ricchezza.
Quale idea ha e può offrire la Cgil al mondo del lavoro, alla
politica ed al paese?
Abbiamo detto più volte che il nostro governo ha fatto esattamente l’opposto di ciò che facevano gli altri paesi per governare
la crisi. Le cose fondamentali che vanno criticate sono sostanzialmente due: la prima è che non c’è stata politica di crescita,
allentamento del patto di stabilità per i comuni, avvio dei cantieri, ciò che un governo deve fare per rimettere in moto il lavoro
2010
quando comincia a mancare; la seconda è aver deciso di tagliare
il futuro, infatti, con l’operazione di tagli sulla scuola, sulla ricerca e sull’università non si fa solo un danno al momento, che già è
molto grave per tutti i lavoratori che hanno anche perso materialmente il lavoro, ma si fa anche un danno rispetto al futuro perché non ci saranno giovani qualificati, perché ci saranno meno
competenze, perché non ci sarà ricerca e dipenderemo sempre
più dagli altri paesi. Queste due cose hanno determinato degli
impatti sulla prospettiva, tant’è che la crescita è diminuita di
molto e tuttora siamo in una crisi profonda, e hanno reso evidente anche nodi strutturali, penso a tutte le tematiche ambientali.
Non è ovviamente colpa di questo governo se il paese va sott’acqua ogni volta che piove, ma è anche responsabilità di questo
governo non aver scelto quella come una priorità di investimento. Tutte queste cose determinano danni per il futuro del paese,
sono debito che stiamo accumulando rispetto alla prospettiva di
ripresa. Poi ci sono debiti del futuro che, però, hanno già un
impatto violento oggi: penso alle persone che, tra gennaio e febbraio, rischiano di non potersi più muovere nelle città, perché
abbiamo lasciato a metà del guado la riforma del trasporto pubblico locale, perché si tagliano le risorse e le aziende non ce la
fanno, perché si considera la mobilità non un diritto delle persone, ma semplicemente un problema economico. Così, ovviamente, si colpiscono le persone più deboli perché, se tu non sostieni
il trasporto pubblico locale, avrai il problema dei pendolari di
breve e lungo periodo, il problema delle donne sole, degli anziani, di tutte quelle fasce che hanno bisogno della mobilità collettiva; oltre al fatto che, visto che sono già poco inquinate le nostre
città, tutto ciò favorisce ovviamente il trasporto individuale.
Potrei andare avanti e parlare di tutti i servizi, in una logica di
tagli, di sottrazione del pubblico e di negazione del futuro. È
un’altra la proposta che noi proviamo a contrapporre, anche perché gli investimenti nel territorio, dal trasporto alla sanità al welfare, sono investimenti che generano ulteriore sviluppo, non sono
solo costi, bisogna smetterla di considerarli dei costi.
Qui è la vera risposta che bisogna dare, anche nel confronto aperto
con le parti imprenditoriali, avviando una ricerca positiva di strade
comuni per provare a sollecitare e fare politiche per l’occupazione.
Noi continuiamo a insistere sul fatto che c’è una relazione tra contratti che rappresentino l’insieme delle persone e diritti che valgano per tutti, e non concorrenza sleale attraverso deroghe e appalti
al massimo ribasso, assenza di clausole sociali. Nel rapporto fra noi
e le imprese quelle parti lì devono essere chiare, perché sono la
condizione per dare maggiore efficienza al paese.
L’efficienza e la produttività non si ottengono facendo lavorare di
più le persone che già lavorano tanto; si ottengono rendendo utile
quel lavoro, riconoscendolo ed eliminando le condizioni di dumping reciproco che ci sono. L’idea che si possa tout court tagliare
la spesa pubblica e la spesa per servizi è sbagliata dal punto di
vista della crescita, ma anche dal punto di vista della condizione
delle persone.
La manifestazione del 27 novembre a Roma, con lo slogan
“Il futuro è dei giovani e del lavoro”, si è svolta nel pieno
di una crisi politica e istituzionale (oltre che sociale ed
economica) e in un quadro europeo che chiede un risanamento del debito. È anche per questo che la gente della
Cgil l’ha vissuta in modo così convinto e corale. Tu hai
sfidato il governo chiedendo qual è la sua agenda politica.
E dalla Cgil, quale messaggio di speranza arriva al Paese?
La manifestazione del 27 - una manifestazione imponente con
una grandissima adesione e uno sforzo straordinario delle nostre
strutture, dei nostri dirigenti e militanti - è stata anche un
momento molto sereno di grande partecipazione positiva, di
lavoratori, lavoratrici, pensionati, giovani che sanno che c’è
un’altra strada. Credo che sia motivo di grande felicità per la
Cgil sapere che raccoglie intorno a sé persone che sfidano questa situazione che sembra paralizzata, di una crisi perenne,
chiedendo un paese che non rinuncia al futuro.
Al governo abbiamo detto che l’agenda che ha utilizzato non va
bene perché ha aumentato la drammaticità della crisi e della
condizione delle persone. Noi diciamo che deve esserci un’altra
agenda e, se non c’è, se ne vada a casa questo governo perché
è dannoso per il paese, non è solo inutile è proprio dannoso perché lo fa arretrare sempre di più.
Da dove parte un’altra strada? Parte dal piano per il lavoro, che
si basa su due cose fondamentali: i giovani e la precarietà,
Bisogna che in questo davvero i giovani diventino un soggetto
non più disposto a tutto, come abbiamo detto nei nostri slogan,
che rifiutino quella modalità.
E a noi va il compito di ridurre le forme di lavoro, di difenderli
dal collegato al lavoro, i famosi 60 giorni di tempo per decidere le cause. A noi sta l’onere di una contrattazione che riprenda dentro i luoghi di lavoro, che dia risposte ai diritti e non si
limiti a considerarli un’altra cosa rispetto ai lavoratori a tempo
indeterminato. Infine, dicevo sulle politiche di investimento che
si possono realizzare, per esempio utilizzando le risorse comunitarie e quelle per le aree non sviluppate, non come bancomat
del governo quando non sa cosa fare, ma come programmazione
effettiva di cantieri che si aprono e quindi di lavoro che si crea.
Si può immaginare una scuola che dia risposte e non impedisca
alle donne di lavorare, si possono fare tante cose anche con
poche risorse, non è necessario aspettare quando sarà.
Tutto questo il governo non l’ha fatto; però tutto questo raccoglie sempre più consensi, ha aperto delle contraddizioni nel
sistema delle imprese, ci sono regioni che stanno facendo scelte giuste. Allora la strada è quella di continuare ad insistere,
continuare a dire alle persone che si può fare e, per quanto ci
riguarda, contrattare perché quello è un grande compito.
Continuare a dire che ci può essere un’agenda diversa per
questo nostro paese.
Grazie, Guglielmo
Dopo 8 anni, Guglielmo Epifani lascia la guida della
Cgil, ma prosegue il suo impegno come Presidente
dell’Istituto Bruno Trentin, che ha oggi il ruolo di coordinamento degli istituti della Cgil che si occupano di
ricerca, formazione, storia ed economia. A lui va il
“grande e sentito ringraziamento per il lavoro svolto
nella sua lunga militanza nella Cgil e, in particolare, in
questi anni da segretario generale, tra i più difficili
nella storia del dopoguerra del nostro paese, nei quali
ha sempre operato per mantenere salda l’unità della
Cgil, per affermare la centralità del lavoro e la sua
dignità, per far avanzare la democrazia e il progresso
sociale in un’Italia troppo spesso malata di trasformismo e ambiguità, valorizzando un forte legame con gli
ideali, i valori, la storia ricca e complessa di questi
oltre 100 anni della Cgil” (sono parole di Morena
Piccinini). Nel suo commiato Guglielmo ha detto “ho
avuto il grande onore di dirigere una grande organizzazione e soprattutto una straordinaria comunità di
persone, di valori e di moralità. In una lettera a
Fernanda Pivano, Cesare Pavese scriveva ‘la vita, cara
Fernanda, ha molti giorni’. Per questo chiudo qui come
al congresso e ripeto: buongiorno Cgil”.
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2010
TLN • il nuovo volto
del trasporto regionale
in Lombardia
Vanno identificati percorsi e strumenti per arrivare ad una struttura contrattuale di livello aziendale, calibrata alla nuova realtà
industriale nata con la fusione di due società interamente di
proprietà pubblica, che si collochi nell’ambito del CCNL della
Mobilità. Non transigendo sulla tutela dei diritti e sulla difesa dei
livelli occupazionali dei lavoratori.
di Gabriele Cerratti, Filt-Cgil Nazionale
Ricostruire cronologicamente il tragitto che
TLN ha sin qui percorso è relativamente
semplice. In termini cronologici è passato
poco più di un anno e gli accadimenti che
riguardano TLN sono ricostruibili sulle dita
di una mano. Se, invece, si considera questa
fase sotto il profilo politico-sociale, ciò che
è avvenuto sembra riguardare un secolo.
In questi ultimi due anni gli eventi che si
sono succeduti hanno travolto e sconvolto
il mondo politico, economico, finanziario e
il mondo del lavoro.
L’operazione di partnership tra Trenitalia
Spa e FNM Spa si avvia con una comunicazione – obbligatoria per legge – nella quale
si concedono in affitto i due rami di azienda (la Direzione Regionale Lombardia di
Trenitalia e Le Nord Trasporto Regionale)
ad una newco denominata “TLN”.
A TLN, dunque, con procedura di legge,
sono assegnate tutte le risorse strumentali per assumere effettivamente, a processo societario completato, il ruolo di
“Gestore unico del servizio di trasporto
pubblico locale ferroviario nel territorio
della regione Lombardia”. Completato il
processo, TLN subentra nella titolarità dei
due “Contratti di servizio” con i quali la
regione Lombardia affida, a fronte di un
corrispettivo economico, la gestione del
servizio di trasporto ferroviario nell’ambito del territorio regionale, in precedenza
gestito disgiuntamente e autonomamente
da Trenitalia e Le Nord.
Nel corso di questo periodo, tra rinvii e conferme di riunioni, si sono effettuati una serie
di incontri: alcuni importanti, come quelli
in cui si attestavano e si mantenevano le
condizioni e i diritti quesiti dei lavoratori
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che transitavano nella newco TLN, provenienti da Trenitalia e da Le Nord; altri
incontri più interlocutori, ma sostanziali,
come quello tenuto nel febbraio del 2010
nel quale l’Amministratore Delegato ha
delineato il Piano industriale di TLN.
Alla base della decisione – tutta politica – di
costruire una nuova società come TLN, a cui
affidare unitariamente la gestione di un
servizio fondamentale come quello del trasporto pubblico locale ferroviario, in una
regione come la Lombardia, vi sono ragioni
condivisibili. Soprattutto in una fase come
l’attuale, contraddistinta dall’assenza di
una politica chiara relativa alla sorte che
toccherà al TPL. Ancora non si stabiliscono
con certezza le modalità e i criteri con cui
si intendono affidare i servizi di trasporto
pubblico; siamo di fronte ad una manovra
finanziaria che colpisce in modo durissimo
gli enti locali e che, di conseguenza, mette
strutturalmente in discussione i servizi forniti ai cittadini dalle Regioni, in particolare
quelli di trasporto locale.
In questo incerto e preoccupante quadro,
se il tentativo di costruire un’unica società
– come può essere in questo caso TLN – ha
lo scopo di integrare l’offerta di trasporto
ferroviario, di rendere sinergici i sistemi di
gestione industriale del parco rotabile e
delle strutture di manutenzione, di razionalizzare il sistema delle forniture di beni e
servizi alle due imprese ferroviarie, di
migliorare il servizio reso, il sindacato non
può che condividere tali obiettivi.
Vi è però da chiarire, senza illusioni, che
una razionalizzazione e una riorganizzazione come questa, sebbene possa ridurre
alcuni costi unificando attività, non può
certamente essere sufficiente – dato il
robusto “taglio” di risorse operato dal
Governo nazionale con la finanziaria – a colmare la riduzione dei trasferimenti di risorse da governo a regioni destinate all’acquisto, appunto, del servizio di mobilità regionale dagli operatori del settore.
Evidenziati questi argomenti (spesso inspiegabilmente ignorati da alcuni sindacati), che
assumono una rilevanza notevole e non certamente neutra ai fini dell’individuazione
dei livelli e dei volumi di servizio di trasporto pubblico che sarà possibile effettuare nel
territorio regionale, bisogna concentrare
l’attenzione su quello che tutto ciò determinerà in termini di ricaduta sul fattore lavoro
e sulle condizioni dei lavoratori che, per
effetto della fusione, dovranno transitare
definitivamente dai rami di azienda affittati
alle dipendenze della newco “TLN”.
Sarebbe un bene per tutti, credo, affrontare questi temi in maniera decisa e passare rapidamente alla fase successiva di
discussione del “Piano Industriale di TLN”
per individuare con precisione gli effetti
che la manovra finanziaria produrrà sul
progetto ed individuare consapevolmente
2010
le soluzioni che siano in grado di contemperare le diverse istanze.
Mi sembra di poter asserire che è pacifico,
per quanto riguarda la vicenda di TLN,
che, quando l’operazione di fusione sarà
definitivamente conclusa, tutti i lavoratori transitati saranno semplicemente inquadrabili come dipendenti di TLN, senza più
alcuna distinzione di “status” tra ferrovieri e autoferrotranvieri. È altrettanto pacifico che si dovrà raggiungere questo obiettivo strategico mantenendo la barra diritta sulla tutela dei diritti e sulla difesa dei
livelli occupazionali dei lavoratori.
Tale obiettivo – mi sembra superfluo ricordarlo – è centrale per il sindacato e lo conferma l’assidua e tenace tenuta di posizione del sindacato nazionale sull’unificazione normativa dei quattro punti fondamentali – campo di applicazione, decorrenza e
durata, relazioni sindacali, mercato del
lavoro nell’ambito della vertenza sul CCNL
della Mobilità che si è attestata recentemente, in maniera positiva, con la certificazione da parte del Ministero dei Trasporti
dei testi contrattuali convenuti tra le
Organizzazioni Sindacali a livello nazionale
e le Associazioni datoriali delle Attività
Ferroviarie e degli utoferrotranvieri.
Nell’immediato e dati i tempi sempre più
serrati – nonostante lo slittamento di tre
mesi della decorrenza dell’assetto societario rispetto alla data iniziale dell’1 gennaio
2011 – è necessario individuare un sistema
adeguato di armonizzazione contrattuale
progressiva, che consenta di fondere con
equilibrio le condizioni normative, economiche e retributive dei lavoratori di TLN
che giungono da due situazioni contrattuali
diverse e che hanno una lunga storia contrattuale e aziendale alle proprie spalle.
Naturalmente riuscire in questa fase stagnante – almeno per quanto riguarda il
confronto in TLN - a costruire celermente
uno strumento contrattuale di sintesi delle
due realtà che insistono nella newco, è
oggettivamente difficoltoso. Proprio per
non avere obiettivi velleitari, ma ben concreti, è basilare agire nella direzione di
identificare percorsi e strumenti che
determinino le condizioni per l’individuazione di una struttura contrattuale di livello aziendale calibrata ad una nuova realtà
industriale come quella che si è strutturata, con la fusione di due società interamente di proprietà pubblica. È necessario
che si intensifichino i confronti per individuare una fase transitoria, mantenendo ai
lavoratori la condizione di lavoro, retributiva e occupazionale, che porti poi rapidamente e con certezza ad approdare ad uno
strumento contrattuale che si collochi nell’ambito del CCNL della Mobilità e dei contenuti che si definiranno.
La situazione è complessa. Credo che sia
però consapevolezza comune evitare l’errore di fare un’armonizzazione contrattuale
che si basi su una semplice sommatoria
delle due strutture contrattuali o, addirittura, cercare di adattarne una all’altra
agendo esclusivamente nella contrattazione aziendale. Processi di questo tipo sono
complicati e spesso danno risultati confusi
che finiscono per creare strumenti contrattuali che non agevolano la gestione del
personale. Questo naturalmente non significa – e lo sottolineo con forza – che per
fare uno strumento contrattuale unico e
applicabile a TLN si debba passare attraverso un ineludibile arretramento dei
diritti dei lavoratori.
È altrettanto evidente, invece, che va
costruito uno strumento normativo che
assegni al livello contrattuale aziendale
una serie di strumenti in grado di gestire
normativamente ed economicamente,
senza intaccare il ruolo e la funzione del
CCNL della Mobilità.
Quello che sta avvenendo in Lombardia
con la vicenda TLN, questa “novità”, al di
là della sua dimensione regionale, a mio
avviso, sarà un evento che può riverberarsi in altre regioni italiane, seppure con
modalità e contenuti diversi.
Quando questioni così complesse – in questo caso decise dalla politica – vengono
prepotentemente avanti, il sindacato ha
l’obbligo di porsi degli interrogativi su
come gestire la fase che si apre. Nella
generalità dei casi, in eventi di questa
dimensione, o se ne esce travolti o si ha la
forza di saperle gestire: non esistono
mezze misure. La Filt, ovviamente, intende battersi e ha proposte e competenze
per gestirle. Avendo la capacità di non
farsi trascinare in atti unilaterali decisi
dalla politica o dalle imprese, ma nemmeno di lasciarsi irretire in una incapacità di
concludere le trattative con un accordo
che contenga i diritti e le prospettive del
lavoro e del servizio.
11
2011
Risposte sempre private
ad affari molto pubblici
di Elisabetta Donati, Università di Torino
Che la flessibilizzazione del mercato del
lavoro abbia conseguenze sulle risorse
materiali e di disponibilità di tempo, oltre
che sui diritti ad essi, che i genitori possono offrire alla crescita e all’educazione dei
loro figli, specie se piccoli, e che il processo di invecchiamento e relativa fragilizzazione delle persone anziane sia gestito per
oltre il 90% dei casi di non autosufficienza
nelle famiglie italiane è notizia che assume
al massimo la forma di un rumore di fondo:
raramente trova udienza nei dibattiti pubblici e nei talk show televisivi.
Eppure i bisogni di cura delle persone,
soprattutto se dipendenti come accade
quando un individuo è bambino o a causa di
una malattia o del progressivo invecchiamento, sono riconosciuti come diritti di cittadinanza e, più recentemente, anche i
bisogni di chi fornisce questa cura, si tratti
di lavoro svolto in servizi pubblici e privati
o in rapporti di lavoro interpersonali, sono
al centro di “una teoria della giustizia fondata sulla dignità e sullo sviluppo delle
capacità di tutti” (M. Nussbaum, 2000).
A livello di comunità europea sono passati
trent’anni da quando il tema del “time to
care” (1984) è diventato non solo una riflessione teorica per studiare come le diverse
tradizioni di welfare state rispondono ai
temi della cura, ma un progetto politico di
organizzazione sociale in cui l’attenzione ai
bisogni e al prendersi cura sono a pieno
titolo considerati obiettivi di benessere
sociale e di inclusione (L. Balbo, 1991).
L’Unione europea ha elaborato, a partire
dagli anni ’80, proposte innovative in tema
di politiche sociali per la cura dei figli e
per la cura delle persone anziane: partendo dall’obiettivo principale dell’eguaglianza di opportunità fra i sessi, ha messo al
centro le politiche di conciliazione famiglia-lavoro, chiedendo agli stati di promuovere, attraverso il riconoscimento di
congedi genitoriali e servizi per l’infanzia,
il diritto di entrambi i genitori a vedere
riconosciuto il tempo della cura con la permanenza nel mercato del lavoro1.
12
Per effetto di processi demografici, legati
alla riduzione della fecondità e all’allungamento delle speranze di vita, e per i
mutamenti nella struttura familiare,
anche i bisogni di cura degli anziani hanno
trovato una nuova formulazione nella logica domiciliare (community care) e le attività di cura informali erogate dai familiari
(figli e soprattutto figlie, ancora occupati
nel mercato del lavoro), ad integrazione di
quelle formali, sono state ridefinite come
esigenze di conciliazione fra responsabilità
familiari (di più famiglie) e responsabilità
lavorative.
Le responsabilità di cura di chi lavora,
verso i figli minori (riformulate in Italia
dalla legge n. 53/2000) come verso un
parente non autosufficiente (con la legge
quadro sull’handicap n. 104/1992) coinvolgono non solo i legami e le obbligazioni
familiari ma interrogano complessivamente la società, il mondo del lavoro, lo stato
e le politiche pubbliche. Avviene così?
Non si direbbe, se a pochi mesi dalla
seconda Conferenza nazionale sulla famiglia (novembre 2010) non suscita troppo
scalpore la diffusione dei dati relativi ai
tagli di spesa operati in questi anni, a partire dal Fondo nazionale per le politiche
sociali. Come nota in un recente articolo
S. Pasquinelli 2, ciò che aumenta è purtroppo solo il numero dei fondi “letteralmente
Le famiglie italiane sono la
riserva esplicita ed infinita
di risorse per rispondere ad
esigenze complesse anche
quando il sistema “famiglialavoro” entra in conflitto
perché le domande di cura e
le necessità di reddito rivendicano stesse presenze, lealtà e disponibilità di tempo.
svuotati: dopo il Piano straordinario per i
nidi è toccato al Fondo per la non autosufficienza. Altri, come quello per gli affitti,
sono ridotti ad una cifra simbolica: giovani coppie e famiglie in crisi potranno sperare quasi soltanto negli aiuti che Regioni
e Comuni, in ordine molto sparso, hanno
deciso di mantenere. Mentre le riduzioni
sul servizio civile rischiano di mortificare
un’esperienza il cui valore è riconosciuto
a livello europeo. Nel complesso, se nel
2008 per i principali fondi sociali lo stanziamento superava i due miliardi di euro,
quest’anno siamo a meno di un quarto”.
I tagli colpiscono le risorse degli enti locali, di servizi sociali e assistenziali essenziali, come l’assistenza domiciliare, i servizi
di sollievo, i centri diurni, ma anche i
fondi a disposizione delle scuole, per il
diritto allo studio, il tempo pieno, le
mense scolastiche, l’assistenza ad personam. Le famiglie italiane sono la riserva
esplicita ed infinita di risorse per rispondere ad esigenze complesse anche quando
il sistema “famiglia-lavoro” entra in conflitto perché le domande di cura e le
necessità di reddito rivendicano stesse
presenze, lealtà e disponibilità di tempo.
Principali fondi statali a carattere sociale (milioni di euro)
2008
2009
2010
Fondo nazionale politiche sociali
929,3
583,9
453,3
275
Fondo politiche per la famiglia
346,5
186
185,3
52,5
Fondo per la non autosufficienza
Fondo per le politiche giovanili
Fondo servizi per l’infanzia-Piano Nidi
2011
300
400
400
0
137,4
79,8
94,1
32,9
100
100
0
0
Fondo sociale per l’affitto
205,6
161,1
143,8
33,5
Fondo per il servizio civile
299,6
171,4
170,3
113
Fonte: A. Misiani, Finanziaria 2011: fine delle politiche sociali? e legge di stabilità 2011.
1
Communication from the commission to the European Parliament, the council, the european economic and social Committee and the committee of the regions: Strategy for
equality between women and men, 2010-2015
2
S. Pasquinelli: I tagli che non fanno rumore, La voce info, 10.02.2011
2011
Una ricerca europea
Due fasi della vita si rivelano particolarmente critiche per le domande di cura e di reddito che premono sull’organizzazione complessiva dei tempi delle famiglie: la prima,
quando vi sono bambini piccoli, la seconda
quando vi sono genitori non autosufficienti.
Su queste criticità si è focalizzata una
recente ricerca europea dal titolo emblematico: “Woups: working under pressure”
ovvero lavorare sotto pressione come
accade alle coppie con lavori atipici e figli
minori di 12 anni e a lavoratrici e lavoratori adulti che hanno uno o entrambi i
genitori fragili 3.
Nelle coppie con figli piccoli 4 si osserva
come per conciliare lavoro e famiglia si
ricorra ad un puzzle di risorse, formali
2,835 pted informali, che sono i servizi per
l’infanzia (asili nido pubblici e privati, scuole materne) e le scuole primarie, servizi privati a pagamento come baby sitter o tate,
nonne e nonni e altri parenti. Chi è costretto a fare affidamento solo su una di queste
risorse (pagata o non pagata) significa che
ha una ridotta gamma di opportunità da
mettere in campo per fronteggiare situazioni dinamiche ed imprevedibili.
Il modello prevalente fra gli intervistati è
quello che cerca di tenere insieme i servizi
(diversi in relazione all’età dei figli) e la
presenza dei nonni (quando ci sono e stanno bene). Ogni giorno questi puzzle di presenze e di orari vanno combinati secondo
esigenze specifiche e mutevoli: genitori che
il più delle volte lavorano quando i figli sono
a casa e viceversa; madri e padri che sono
impegnati nel lavoro durante i weekend,
che scelgono turni alternati per poter stare
vicino ai figli, nonni e nonne che entrano ed
escono di casa per accompagnare bambini a
scuola, prenderli a fine lezione, far fare i
compiti e spesso dormire con loro se il papà
e la mamma fanno i turni di notte.
Ma non sono solo i confini fisici tra famiglie
e parentele ad essere attraversate quotidianamente per far convergere i vari
tempi e le varie incombenze, ma sono
anche i modelli educativi da sintonizzare,
le reciproche aspettative fra i coniugi
circa il “meglio per i figli” e “chi deve
stare a casa quando sono malati” e il dover
dipendere “da altri” per poterlo realizzare
(che siano i nonni o una baby sitter).
Una delle principali tensioni raccontate
durante le interviste riguarda proprio la
mancanza di coincidenza fra i modelli educativi e le pratiche quotidiane: il tempo
dei nonni, che integra quello dei genitori
quando i bambini sono a scuola, sottolinea
la “povertà di tempo dei genitori” soprattutto se svolgono lavori atipici. Qualcuno
prova a sfidare le ferree scansioni del
tempo lavorativo e durante la pausa pranzo corre a casa, raggiunto dal coniuge, pur
di pranzare con i figli e “vedere le loro
facce e sentire i loro discorsi quando tornano da scuola”.
Anche la mancanza di sincronizzazione dei
tempi familiari rende evidente che, sebbene l’ideale siano i genitori che trascorrono
il maggior tempo possibile con i loro figli,
in realtà quello che si disegna quotidianamente è il modello del “genitore alternato” o del genitore a turno, soluzione che
diventa particolarmente critica nel fine
settimana, quando i bambini possono stare
solo con la madre o con il padre. I tempi
costretti dal lavoro che interferiscono
pesantemente con i tempi familiari,
soprattutto quando sono tempi ed orari
flessibili, imprevedibili, incerti acuiscono
le criticità organizzative e le percezioni
dei genitori di trovarsi “sotto pressione”,
a volte “senza vie d’uscita”.
È curioso sottolineare come per i padri
intervistati la “mancanza di tempo” di cui
parlano è spesso riferita a quello delle
madri: sono soprattutto le loro mogli ad
avere un tempo scarso per gestire al
meglio tutto!
Inoltre, dover dipendere ogni giorno, per
sintonizzare lavoro e famiglia, dalla presenza di altre persone, per quanto siano “di
casa” come i nonni e le nonne, ha conseguenze anche sull’intimità familiare, sul
tempo che la coppia può riservare a se stessa, ma anche sul tempo che possono dedicare al tempo libero, all’apprendimento, alla
socialità.
Può, inoltre, mettere in discussione anche il
modo in cui i coniugi si sono accordati sulla
divisione del lavoro. I flussi di aiuto che
giungono dai nonni, in termini di tempo ma
anche di denaro (sotto varie forme, soprattutto nel caso di famiglie mono genitore,
in conseguenza di separazione e divorzio)
possono richiedere e confermare modelli di
genere tradizionali: sono soprattutto le
madri ad organizzare il sistema delle risorse, formali ed informali, a modulare le
richieste, a mediare gli stili educativi per
fruire nel modo più “razionale” possibile
dell’apporto dei nonni; e sono soprattutto le
nonne ad essere interpellate quando alla
madre risulta impossibile far fronte a necessità impreviste.
Ma può valere anche il caso che sia gli
scambi di cura sia quelli economici, di
fatto, riescano a promuovere e sostenere
investimenti e strategie più innovative:
sono questi i terreni in cui si annodano
quei sottili fili che tengono “le vite legate”, in cui quelle femminili risultano sempre centrali, con donne delle generazioni
più vecchie che supportano quelle delle
generazioni più giovani a sentirsi buone
madri ma anche a continuare ad investire
nella propria carriera professionale.
Elisabetta Donati, sociologa e ricercatrice. Laureata all’Università di Trento. Insegna Sociologia
della Famiglia all’Università degli studi di Torino. Approfondisce, attraverso la prospettiva teorica del corso di vita, le scelte professionali e formative degli individui, le transizioni lavorative,
le interdipendenze fra ruoli familiari e lavorativi e le relazioni intergenerazionali. Dal 1993 è
responsabile dell’area Ricerche della società Pari e Dispari. È stata presidente della
Commissione Pari Opportunità del Comune di Brescia.
Ha pubblicato nel 2008, per F. Angeli, un saggio sulle transizioni nelle età adulte “Nuovi cinquantenni e secondi cinquant’anni. Donne e uomini adulti in transizione verso nuove età” (con L.
Abburrà) e nel 2010 e nel 2011, nella collana Auserbiblioteca, i risultati di due ricerche sul fenomeno della violenza contro le donne anziane.
Suoi articoli su NOSTOP nr. 53, 61, 69
3
La ricerca ha analizzato le storie di vita di circa 250 uomini e donne, che vivono in sei paesi europei: Francia, Germania, Portogallo, Olanda, Svezia ed Italia. In Italia la ricerca ha
coinvolto oltre 50 individui, residenti in Lombardia ed in Piemonte. I risultati delle due ricerche sono contenuti in due rapporti: M. Naldini, E. Donati, Combining Work and Childcare
in Italy. Atypical dual-worker family and childcare strategies” e M. Naldini, B. Da Roit, E. Donati, Working and caring for an older parent in Italy. Woups Project 2009-2010.
4
In quest’articolo facciamo riferimento ad alcuni risultati della ricerca sui genitori con lavori atipici e figli sotto i 12 anni di età. In un prossimo articolo presenteremo i dati relativi alle testimonianze di adulti con genitori non autosufficienti.
13
2011
La Resistenza
sulle rotaie
di Cristina Palmieri
La lotta dei tranvieri e dei ferrovieri
milanesi dal 1943 al 1945
Mi ricordo che una volta stavo andando alla stazione Nord per
portare stampa e direttive dei compagni di là. Ero letteralmente imbottito di volantini. Salgo sul tram e in largo Cairoli rubano un portafoglio. Il derubato grida: «Mi hanno rubato il portafoglio» e aggiunge «Andiamo in Questura!». Il tranviere chiude le
porte e si dirige verso la Questura. Io penso: «Qui è finita».
Liberarmi dai volantini non potevo: erano troppi e mi avrebbero
visto tutti. Ho pensato: «Anche tra i tranvieri ce ne sono molti
che non sono fascisti» e allora mi sono avvicinato al manovratore e gli ho detto che ero un ferroviere e che ero carico di volantini antifascisti. Lui mi fa cenno con la testa di aver capito poi
ferma il tram apre la porta davanti e scende come se cercasse
qualcuno. Io scendo con lui, stiamo un momento fermi senza dirci
una parola poi lui risale e parte senza di me. Non l’ho più rivisto
e non so neanche chi sia, certo mi ha salvato la pelle.
Il racconto è di Cesare Luccioli, un fuochista che, nei mesi della
Repubblica sociale italiana, diventò uno dei principali agitatori
antifascisti del compartimento ferroviario di Milano. Come si
deduce dalla testimonianza, durante la Resistenza ferrovieri e
tranvieri non ebbero molte occasioni di contatto, ma condussero
nei propri luoghi di lavoro una lotta che, pur con differenze,
portò entrambe le categorie ad un’importante partecipazione nei
giorni della liberazione della città.
I venti mesi dei tranvieri:
tra scioperi e insurrezione
Durante il fascismo, i tranvieri dell’Atm avevano subìto un rigido
sistema di controllo politico: i gangli vitali dell’azienda erano
controllati da esponenti del Partito nazionale fascista, che non
facevano mistero delle pratiche di licenziamento per motivi ideologici e si avvalevano del famigerato Ispettorato speciale del personale, una sorta di servizio informazioni interno, per controllare
la vita privata dei dipendenti. L’animo paternalista del regime si
esprimeva, invece, nel Dopolavoro aziendale, una sorta di organismo pacificatore, che organizzava svaghi e servizi senza dare
alcuno spazio di autonomia ai lavoratori.
Di fronte a questo clima aziendale, l’antifascismo dei tranvieri era
rimasto sopito, ma vivo. Il 25 luglio 1943, giorno della caduta del
fascismo e della nascita del governo Badoglio, l’intera popolazione
di Milano scese in piazza, finalmente libera di manifestare contro i
simboli del passato regime, per la pace e la democrazia. I tranvieri entrarono spontaneamente in sciopero, e ripresero il servizio
solo con l’intervento dell’ufficiale Ascanio Calierno, che fece presidiare militarmente le officine ma, non ottenendo nulla con la
forza, dovette promettere la liberazione dei prigionieri politici di
San Vittore per convincere i lavoratori a ritornare sui tram.
Questa fu solo la prima, naturale, presa di coscienza e conquista
di protagonismo di una categoria che non aveva dimenticato l’impegno sindacale espresso con la Lega tranvieri fino al 1925. Con
l’occupazione tedesca e la costituzione della Repubblica sociale
14
italiana, anche i tranvieri si organizzarono clandestinamente.
Già il 20 novembre essi si astennero dal lavoro per richiedere un
aumento salariale e, dopo la fallita partecipazione allo sciopero
generale di dicembre, essi si riorganizzarono presto con un manifesto rivendicativo che fu pubblicato da “La Fabbrica”, il giornale clandestino del Pci rivolto agli operai milanesi.
Il processo di costruzione di cellule clandestine nei depositi dell’azienda e nelle officine ebbe un ottimo riscontro e portò ad un
episodio che, ancora oggi, è ricordato nella storia di Milano: lo
sciopero del marzo 1944. Di fronte alla proclamazione della mobilitazione generale, i tranvieri aderirono in massa già dal 2 marzo,
superando le aspettative dei dirigenti antifascisti. Fu una protesta di grande impatto, che arrivò a fermare tutti i mezzi pubblici. Il 3 marzo le vetture ricominciarono a circolare, condotte da
alcuni tranvieri costretti a riprendere il lavoro con le minacce e,
soprattutto, da militi della Muti e soldati dell’aviazione che, propagandisticamente, si sostituirono ai lavoratori, provocando
anche diversi incidenti stradali. All’Atm l’astensione dal lavoro
durò circa 4 giorni, apparentemente non molti, ma sufficienti a
scatenare un’ondata repressiva senza precedenti. Ad oggi non è
noto il numero dei lavoratori deportati in Germania dopo lo sciopero, ma si suppone che fossero diverse decine; si sa che tra di
loro 14 morirono nei campi di concentramento.
Il trauma degli arresti a tappeto condizionò molto l’azione resistenziale dei mesi successivi, durante i quali la massa dei lavoratori si chiuse nell’ “attendismo”, ma essa riprese con nuovo slancio dall’autunno 1944 e soprattutto nella fase pre-insurrezionale.
I tranvieri si unirono alle agitazioni più o meno estemporanee di
quei mesi e, grazie ad un efficiente Comitato di liberazione
aziendale, si organizzarono per difendere il materiale rotabile e
per prendere rapidamente il controllo dell’Atm nel giorno dell’insurrezione. Il 25 aprile, e nei giorni successivi, quella che fu ribattezzata 192ª brigata Garibaldi, composta soprattutto da tranvieri, si distinse sul piano militare per aver contribuito alla liberazione della zona di Lambrate. Nelle officine i tranvieri dimostrarono
le loro capacità di auto organizzazione: già il 26 aprile i lavoratori avevano aperto un servizio mensa, presidiavano tutti i luoghi di
lavoro ed erano stati in grado di riprendere il servizio già il 28
aprile, nonostante le ultime sparatorie per le strade. Quando
l’esercito alleato entrò in città, i tram circolavano e i tranvieri
lavoravano per la ricostruzione aziendale: un impegno che valse
la Medaglia d’oro per la Resistenza.
2011
La difficile Resistenza dei ferrovieri
Se l’Atm venne fascistizzata con la costruzione di un modello
aziendale frutto del connubio tra aggregazione corporativa e
rigido controllo delle strutture nodali, il governo Mussolini impose alle Ferrovie dello Stato una struttura di regime fin dai primi
mesi. Già dal gennaio 1923 fu nominato un commissario straordinario, Edoardo Torre, che abolì qualsiasi istituto di gestione
democratica, annullando anche le conquiste dei lavoratori; a
partire dallo stesso anno, fu condotta un’epurazione radicale
dei ferrovieri sindacalizzati, che portò all’allontanamento di più
di 45.000 dipendenti.
In un’azienda di Stato, dove l’obbedienza fu barattata con un
salario ben superiore a quello degli altri operai, fu quasi impossibile coltivare l’antifascismo e la vivace attività sindacale delle
origini. Del Sindacato ferrovieri italiani, SFI, fu mantenuta la
memoria soprattutto grazie ai dirigenti allontanati dal fascismo;
esso rinacque il 28 luglio 1943; negli stessi giorni altri ferrovieri
cercavano di dare avvio ad una gestione diretta dell’azienda istituendo un Comitato ferroviario rivoluzionario, subito sciolto dal
governo Badoglio.
La relativa libertà di cui i ferrovieri poterono godere durante i
45 giorni ebbe fine con l’occupazione tedesca. I lavoratori che
più si erano esposti nell’attività politica, come il socialista Luigi
Pecoraro, furono arrestati e molti altri dovettero abbandonare il
posto di lavoro per entrare in clandestinità. Il controllo di polizia
all’interno delle ferrovie era particolarmente rigido: l’esercito
tedesco controllava tutti gli impianti, dato il valore strategico dei
trasporti, e assegnava un militare ad ogni locomotore in funzione
per evitare sabotaggi. Inoltre, sin dall’inizio della guerra, i ferrovieri furono sottoposti al diritto militare, provvedimento che rendeva qualsiasi azione politica molto rischiosa. Per questo motivo
il Partito comunista, l’organizzazione maggiormente presente
nelle ferrovie, invitava a «sabotare e fuggire»: si distribuivano
volantini dettagliati sulle modalità di grippaggio delle ruote e di
distruzione delle caldaie o degli interi locomotori; l’istruzione era
quella di agire e poi abbandonare il posto di lavoro, unendosi ai
partigiani. Durante tutti i 20 mesi dell’occupazione, i lavoratori si
organizzarono per sostenere economicamente chi aveva scelto la
via della clandestinità, autotassandosi e dividendo i viveri.
L’episodio emblematico della strategia di sabotaggio fu l’azione partigiana al deposito di Greco, che avvenne il 24 giugno 1944: quattro
ferrovieri, Ottoboni, Bottani, Guerra e Conti, con la direzione militare della 3ª Gap di Giovanni Pesce, piazzarono diversi ordigni facendo esplodere 2 locomotori, 5 locomotive, un trasformatore elettrico
e un deposito di carburanti. L’evento provocò la vendetta dei tedeschi, che arrestarono 40 operai. Tre di loro, Antonio Colombo, Carlo
Mariani e Siro Mazzetti, furono fucilati per rappresaglia davanti ai
colleghi la mattina del 16 luglio, mentre altri sei furono inviati nei
campi di concentramento: Dario Borroni, Egidio Bosè, Rocco
Gargano, Venanzio Gibillini, Mario Molteni e Orfeo Passarella.
Venanzio Gibillini è ancora oggi uno dei più importanti testimoni
della vita operaia sotto il fascismo e della deportazione tedesca.
I tentativi di sciopero del 10 settembre e del 2 ottobre 1944 nelle
ferrovie milanesi fallirono clamorosamente per l’opposizione dei
socialisti e per uno stato di paura che portava la maggior parte
dei lavoratori a non volersi esporre prendendo parte a lotte troppo rischiose. Il timore si placò solo con l’avvicinarsi dell’insurrezione; nei luoghi di lavoro si ritornò all’azione, soprattutto con
l’intervento del primo distaccamento della 116ª brigata
Garibaldi, che effettuò sabotaggi e distribuzioni della legna sottratta ai magazzini ferroviari. Anche palazzo Litta divenne meta
di proteste e delegazioni, fino alla famosa manifestazione del 18
marzo 1945 che radunò 500 ferrovieri.
Come ultimo atto strategico, ai ferrovieri fu affidato l’inizio dell’insurrezione di Milano: il 23 aprile del 1945 i lavoratori entrarono in sciopero, bloccando i trasporti in anticipo di due giorni e
preparando la giornata della liberazione del 25 aprile.
Cristina Palmieri è laureata in scienze politiche e si occupa di
storia del movimento operaio. L’argomento trattato è un’anticipazione del volume che uscirà a breve sulla storia dei tranvieri e
dei ferrovieri milanesi tra il fascismo e la Resistenza, frutto di
una ricerca proposta dalla Filt Milano e Lombardia.
15
2011
BINARIO 21 - Stazione di Milano Centrale
per non dimenticare
di Roberto Jarach, Vicepresidente Fondazione del Memoriale della Shoah di Milano
Dieci anni fa è stato istituito, con legge dello
Stato votata all’unanimità dal Parlamento, il
Giorno della Memoria, destinato a tenere vivo
il ricordo della Shoah, la deportazione e lo
sterminio di ebrei da parte dei regimi nazifascisti attorno alla metà del secolo scorso.
Nel corso degli anni questa ricorrenza ha visto
evolversi il cerimoniale da pochi eventi concentrati nelle ventiquattro ore del 27 Gennaio
ad una pluralità di occasioni di incontro e
approfondimento del tema spalmati su più
giornate di intense attività.
Ma l’aspetto più significativo è lo sviluppo
nelle scuole di iniziative miranti a costruire
percorsi educativi e di conoscenza preziosi per
la formazione di giovani generazioni sempre
più sensibili e coscienti dei temi inerenti alla
crescita della società multietnica nella quale
oggi viviamo.
Presa di coscienza delle possibili degenerazioni dei regimi totalitari, delle tragiche estreme
conseguenze a cui possono portare il rifiuto del
diverso ed il pregiudizio verso le minoranze.
Va riconosciuto a molte scuole, alle loro direzioni illuminate ed a corpi insegnati preparati
ed impegnati, il merito di aver creato questi
percorsi educativi che trovano nelle celebrazioni del 27 Gennaio e, spesso, nei viaggi di
visita ai luoghi simbolo, teatro dei tragici
avvenimenti della prima metà del novecento,
il loro punto di riferimento. Non, quindi, fredde cerimonie di rievocazione ma percorsi per
mantenere viva la memoria, comprendere i
processi ed i motivi che portarono alle leggi
razziali del 1938 prima ed alla deportazione
ed allo sterminio poi. Monito per le future
generazioni perché questo non possa ripetersi
e perché i segni di una rinascita, sempre possibile, dell’oppressione contro il “diverso”
possano essere colti tempestivamente e bloccati. Con questo duplice fine di conoscenza ed
educazione è nato, diversi anni fa, il progetto
del Memoriale della Shoah della stazione di
Milano Centrale. Nacque originariamente
come nuovo luogo d’incontro multireligioso e
multiculturale dove studio e confronto dialettico tra “diversi” potessero porre le basi per la
civile convivenza e l’arricchimento di “ciascuno” attraverso la conoscenza “dell’altro”.
Si pensava, allora, ad una struttura nuova
o recuperata, non necessariamente con propri
valori storici o simbolici.
Nello stesso periodo, la Comunità di
Sant’Egidio aveva da poco iniziato a ricordare
il 30 Gennaio, data di partenza nel 1944 di uno
16
dei convogli diretti ad Auschwitz carico di prigionieri ebrei di S.Vittore, destinati allo sterminio, con una cerimonia proprio nella zona
della Stazione Centrale, lato Via Ferrante
Aporti, sotto il piano dei binari.
Dall’incontro dei due progetti è nata la prima
idea di alloggiare in quel luogo sotterraneo e
buio, semiabbandonato dalle ferrovie, il
Memoriale della Shoah di Milano.
Non vi è in Europa un altro simile luogo che,
teatro di momenti tragici delle deportazioni,
sia rimasto intatto nelle sue strutture e nelle
caratteristiche ambientali.
Iniziarono lunghi anni d’incontri con i vertici
delle Ferrovie dello Stato, RFI (Rete
Ferroviaria Italiana) e la società Grandi
Stazioni per ottenere tali spazi in comodato,
mentre iniziavano i contatti con le massime
autorità politiche locali per dare vita ad una
Fondazione che realizzasse e gestisse il
Memoriale.
Grazie al determinante appoggio dell’allora
Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio
Ciampi, e del nuovo Amministratore Delegato
del Gruppo FS, Ing. Moretti, l’idea ebbe un
impulso decisivo che vide Regione, Provincia e
Comune di Milano unirsi alle Ferrovie dello
Stato, alla Comunità di Sant’Egidio ed a quattro istituzioni ebraiche come Soci Fondatori
della Fondazione per il Memoriale della Shoah
di Milano.
Il successivo riconoscimento, con visita al sito
da parte dell’attuale Presidente della
Repubblica, Giorgio Napolitano, diede al consiglio neoeletto la spinta per avviare il progetto esecutivo e la raccolta dei fondi per iniziare i lavori.
Il progetto è stato completato nel corso del
2007/08 e l’appalto del primo stralcio dei
lavori è avvenuto alla fine del 2008.
Il progetto si articola su due zone concettualmente distinte:
● Il Memoriale
● Il Centro di studi ed approfondimenti.
Il Memoriale, partendo dall’ingresso monumentale su via Ferrante Aporti, al piano strada, si sviluppa attraverso un corridoio di attraversamento e due spezzoni paralleli di binario, sul primo dei quali sono alloggiati 4 vagoni merci, costruiti tra il 1930 e il 1940, dello
stesso tipo di quelli usati per il trasporto verso
i campi di sterminio; sul secondo si affaccia il
muro dei nomi a perenne ricordo di chi partì
dalla stazione di Milano Centrale.
A completamento, sarà realizzato in capo ai
Recuperare alla vista dei cittadini e dei visitatori di passaggio
un luogo simbolo della deportazione degli ebrei verso i campi
di sterminio, per farne non solo
un luogo della memoria, come
debito doveroso verso chi non è
più tornato, ma un centro in cui
creare occasioni di dialogo e
confronto tra culture e per
educare i giovani a superare
tutte le barriere, linguistiche,
culturali e sociali.
due binari il “luogo di meditazione”, un
manufatto troncoconico, senza simboli di
alcun genere, nel quale i visitatori potranno
sostare in raccoglimento al termine del percorso di visita del Memoriale.
Il Centro di studi si articola in una Biblioteca
su tre livelli in grado di contenere oltre 40.000
volumi, in un Auditorio di circa 200 posti, in
grado di ospitare intere scolaresche ed eventi, in una serie di locali di studio per gruppi
ridotti di persone.
Sofisticati e moderni sistemi multimediali
consentiranno di diffondere programmi
dedicati alle tematiche della deportazione,
come pure di creare i collegamenti con le
più importanti istituzioni mondiali quali Yad
Vashem a Gerusalemme, i Musei della Shoah
nel mondo ed archivi di analoghe Fondazioni
internazionali.
Purtroppo la situazione economica generale
ha, di fatto, bloccato il reperimento dei fondi
necessari per procedere col cantiere.
Guardiamo, però, con fiducia al futuro sia per
la speranza che l’appello ai privati, di partecipare anche con piccole donazioni, fatto dal
Presidente della Provincia, Guido Podestà,
possa dare concreti risultati e sia perché
anche Comune e Regione, con interventi
diretti del Sindaco Moratti e del Presidente
del Consiglio Regionale Boni, ci dimostrano
quasi quotidianamente l’impegno perché un
patrimonio storico della città di Milano possa
essere completato.
Siamo convinti, come Fondazione, che la realizzazione del progetto e l’inizio della fruibilità nella sua duplice valenza arricchiranno la
città e tutti i cittadini di un nuovo luogo simbolo della pace e della convivenza, punto di
confronto e di scambio che migliorerà la
società del domani.
Ci auguriamo che l’esempio dato dalla FILT
CGIL Lombardia, tra i primi a rispondere
all’appello, possa essere di sprone per tanti
altri enti o singoli cittadini.
2011
“La fatica di cambiare”
Trent’anni di lavoro, sindacato e
imprese nei trasporti in Lombardia
Le ragioni della ricerca
Con la ricerca su trent’anni di trasporti in
Lombardia non volevamo né compiere
un’autocelebrazione, né produrre dei
testi utili all’oggi o al nostro dibattito
interno.
Volevamo chiederci quali mutamenti
erano avvenuti e come, quale ruolo, tra i
molti soggetti ed attori che compongono i
trasporti, aveva svolto la Filt lombarda.
Da qui la scelta di ricercatori, con provenienze disciplinari diverse, esterni alla
nostra organizzazione, che potessero realizzare un’analisi libera ed autonoma.
La stessa decisione di produrre un video è
il tentativo di riportare i volti e le voci di
migliaia di militanti e delegati sindacali che
sono la parte nascosta di questi 30 anni.
La Filt lombarda ha cercato di approfondire le criticità e le trasformazioni in atto.
Da qui deriva, come ha ben detto
Francesco Samorè, quel “corpo a corpo
con la realtà” o quella “autoriflessività”,
descritta da Cristina Tajani.
Le ragioni della Filt
Nel 1980 nasce a Livorno la Filt e Lucio De
Carlini ne individua in quattro punti l’asse
strategico, dando un legame alla categoria
dentro un quadro confederale:
1) la scelta consapevole della programmazione;
2) la produttività come misura del risanamento aziendale e generale del sistema
economico;
3) una politica salariale che puntasse alle
due grandi aree di lavoratori più colpite
dall’inflazione e da una pratica egualitaristica (le alte professionalità ed i lavoratori esposti alla fatica e alla nocività);
4) la democrazia sindacale e la riforma del
sindacato.
L’altra scelta fondante avviene nel 1982
quando si decide di tenere insieme, in
un’unica struttura, la Filt di Milano e la
Filt della Lombardia. Fatto che ha permesso di governare un mondo costruito a rete,
con imprese diffuse sul territorio, di avere
una sintesi coerente.
Un altro momento che segna la nostra
azione deriva dall’assemblea programmatica nazionale a Malpensa nel 1999.
Guido Abbadessa indicava <<da un lato, la
necessità di superare i contratti nazionali-
aziendali per poter governare i mutamenti
connessi al superamento dei monopoli,
dall’altro, la necessità di rappresentare il
lavoro diffuso, sempre più polverizzato e
sostanzialmente privo di una rete di tutela sindacale>>.
I contratti aziendali erano un derivato
delle imprese in regime di monopolio. Se il
monopolio dava una tutela, al di là dell’azione del sindacato, la liberalizzazione
richiedeva nuove ed esigibili tutele.
La fatica del cambiamento
A distanza di trent’anni la Filt continua
ancora oggi a tradurre e reinterpretare
una sua idea forte di confederalità, dentro una categoria che era e resta soggetta a tradizioni sia aziendalistiche sia corporative. Tanto da richiedere alla Filt,
una confederazione in sé, una ricerca
continua delle ragioni e dell’utilità di
stare insieme.
Questo aziendalismo, esasperato anche
da pratiche consociative e clientelari,
non solo non portava ad un’attenuazione
del conflitto, ma lo inaspriva in quanto,
alle normali relazioni industriali, si sostituiva un conflitto originato da aspettative
e da ruoli esercitati impropriamente.
Le complesse variabili che hanno determinato le trasformazioni nei trasporti si sono
intrecciate senza una direzione logica e,
spesso, prive di una volontà chiara; un’assenza in questo caso della politica, ma
anche dei gruppi chiamati a dirigere
imprese e sindacati.
Dalla riforma infinita descritta da Ida
Regalia si è passati prima alla riforma
indefinita e oggi ad una trasformazione
continua.
Proprio l’esito della stagione delle riforme
possibili (insieme al ridursi delle risorse
pubbliche ed al pessimo giudizio sul servizio
fornito), alla fine degli anni novanta, ha
prodotto l’accelerazione delle crisi delle
grandi imprese pubbliche nazionali. Un
progetto riformatore è il contenitore entro
cui tutti i soggetti devono muoversi con
pratiche differenti dal passato.
Si è compreso, con molto ritardo, che il
servizio fornito nei trasporti non era solo
una componente funzionale al sistema
sociale ed economico, ma diventava una
componente della vita soggettiva delle
persone ed un sinonimo di libertà individuale. La liberalizzazione nel trasporto
aereo era uno straordinario processo che
ha trasformato un prodotto d’élite in uno
di massa. Le esigenze di qualità del servizio nella mobilità delle persone non erano
delle imprese ma degli utenti.
Nel settore della logistica e delle merci la
rottura delle frontiere doganali, gli inarrestabili aumenti del commercio mondiale, i processi di esternalizzazione delle
attività, la riduzione delle scorte e la
velocizzazione dei tempi di consegna
delle merci, la fragilità delle imprese
nazionali, hanno permesso l’ingresso di
imprese multinazionali che dominano il
nostro mercato. Si aggiunga la frammentazione sia dell’autotrasporto sia delle
attività di movimentazione, ormai in
mano a migliaia di consorzi e cooperative,
spesso sconfinate nell’illegalità non solo
contrattuale.
I dati della ricerca di Massimiliano Sartori
evidenziano volumi di risorse, produzione,
presenza di imprese e redditi da lavoro in
Lombardia, oltre a criticità quali la fase
dall’hub di Malpensa al de-hubbing, conseguenza del fallimento di Alitalia, il progetto di una sola società ferroviaria regionale (SFR) negli anni ottanta sino all’attuale gestazione di Trenord, l’arrivo di
imprese multinazionali quali Ryanair, Easy
Jet, Deutsche Bahn, Sbb.
Per ricostruire una lettura dei fenomeni
economici e sociali, abbiamo creato
un’analisi della filiera della mobilità
data da:
● assetti normativi
(europei/nazionali/locali);
17
2011
● regole di mercato e concorrenza;
● infrastrutture;
● risorse e investimenti;
● materiale/flotta/mezzi;
● impresa;
● regole contrattuali;
● condizioni/qualità del lavoro;
● qualità del servizio/prodotto.
Una filiera della mobilità, su cui agiscono
molte variabili, nonché una pluralità estesa
e non coerente di attori, deve rispondere a
ogni anello della catena, provando a leggere i processi in atto e le tendenze future.
Riformisti e radicali
Nella geografia politica della Cgil, la Filt
lombarda è spesso stata identificata come
una categoria riformista.
Nelle fasi di crescita e sviluppo la tendenza
a migliorare salari ed occupazione è implicita. Nelle situazioni di crisi abbiamo rivendicato una pratica che chiamo riformista e
si misura nella capacità di produrre analisi,
nell’affrontare le criticità esterne ed interne, nell’ipotizzare possibili vie d’uscita,
nella costruzione di alleanze necessarie,
nella tutela del lavoro e delle persone.
In un mercato aperto la crisi va affrontata
con coraggio e senza renderla irrisolvibile.
L’essere subalterni ad una crisi o ad una
controparte deriva anzitutto da una carenza
di analisi e strategia. L’assenza di autonomia di un sindacato nasce per pigrizia di elaborazione ed è anzitutto intellettuale. Così
il ricorso, sempre più problematico, al conflitto è spesso un sintomo di debolezza e
non di forza. La responsabilità etica, prima
che politica, di un dirigente sindacale verso
i lavoratori consiste nel non nascondere le
ragioni avverse, la difficoltà di una vertenza. Spesso si è disposti ad autoingannarsi,
fino a pensare che una sconfitta possa
essere presentata come una vittoria.
In questi anni, al minor utilizzo del conflitto nei trasporti, avremmo dovuto sostituire, e pretendere, maggiore potere decisionale nelle imprese e verso le istituzioni.
Invece i modelli di relazioni sindacali sono
analoghi a prima della legge 146/90. Non
siamo riusciti a costruire relazioni sindacali con l’obiettivo di un’informazione preventiva e attiva, a valorizzare il lavoro
puntando a percorsi di carriera e mobilità
basati sul merito e non sulle relazioni o
sull’ancora presente logica clientelare.
L’azione del sindacato si ritrova in due
momenti centrali: la contrattazione, da
ricercare sempre come luogo ove trova
sintesi la nostra azione e si traduce in
contenuti esigibili ma vincolanti per le
parti; l’esercizio della rappresentanza
nel rapporto con le altre organizzazioni
sindacali ed i lavoratori attraverso cui
costruire e cercare nel tempo il consenso.
18
Cambiare la Filt per rappresentare il lavoro che cambia
I cambiamenti avvenuti abbiamo cercato
non solo di leggerli, ma di interpretarli per
riorientare la nostra rappresentanza.
Fondamentale è stata la conferenza organizzativa conclusasi a Monza nel 2007.
Mentre la Filt era cresciuta nella cooperazione e nei settori deboli, la rappresentanza era dominio dei settori storici, provocando nei nostri dibattiti un corto circuito
tra i soggetti che dobbiamo tutelare ed i
temi della nostra discussione. Stefania
Marino ha colto con intuizione e profondità le trasformazioni, anche soggettive, del
lavoro in alcuni settori dei trasporti.
In altri settori, tra tutti certamente il merci,
l’incremento straordinario di lavoratori
stranieri, i nuovi italiani, ha portato ad una
trasformazione della Filt, tale da non poter
ravvisare segni di continuità. Il progetto
C.o.s.ì, un camper che esplora i centri logistici e intermodali o l’Ortomercato di
Milano, rappresenta la coniugazione tra
l’essere un sindacato riformista e l’avere
una pratica radicale di approccio alla realtà.
Perché la radicalità è sulle cose, l’estremismo è ideologico.
Durante i congressi provinciali e in quello
regionale della Filt nel 2010, abbiamo
voluto costruire una rappresentanza che,
anche visivamente, segnasse uno scarto
col passato. Non è un caso, né un evento
naturale che abbiamo dirigenti, anche
locali, giovani, molte donne, nuovi italiani
provenienti da ogni continente.
Nel percorso congressuale regionale della
Filt, chiusosi a Brescia nel 2010, abbiamo
elaborato tre documenti votati all’unanimità: La qualità del lavoro e la qualità del
servizio; Proposte sul settore del mercicooperazione e sui lavoratori immigrati;
Rinnovamento della rappresentanza e dei
gruppi dirigenti.
Tre proposte nate da un lungo percorso vissuto dentro la FILT e dentro la CGIL, fino a
scoprire un involontario collegamento con i
punti individuati da De Carlini nel 1980.
Non si cambia strategia, non si affermano
nuovi contenuti, se insieme non si costruisce un gruppo dirigente rinnovato. Non
solo nelle naturali prassi democratiche
legate ai nostri organismi o alla contrattazione. I nostri bilanci economici, le risorse
che dal tesseramento i lavoratori ci consegnano, devono essere resi evidenti nel loro
utilizzo. S’impone un’etica ed una sobrietà nei comportamenti. Per queste ragioni
la Filt ha posto un’attenzione rigorosa alla
propria gestione economica ed ha in progetto di consegnare, nel 2012, il proprio
bilancio sociale. Consapevoli che il cambiamento non è solo nel presentarci
all’esterno ma, mentre si compie questo
percorso, cambiare noi stessi.
La Filt della Lombardia, in ogni sua articolazione territoriale ed aziendale, è stata in
questi trent’anni anche una comunità di
uomini e donne che hanno dato motivazione ad un proprio percorso di vita. I lavoratori chiedono risposte immediate, ma
spetta a noi, insieme, legare le nostre
azioni e decisioni in un tempo più lungo.
Per trovare tra l’oggi ed il domani coerenza, o consapevolezza dei nostri limiti,
umani prima che politici.
Un sindacato deve vivere dentro i luoghi di
lavoro in un rapporto costante con i lavoratori, ma deve guardare oltre le mura
della fabbrica e dell’impresa, per leggere
cosa accade nel mondo e capire quali
siano le dinamiche economiche e sociali di
quel settore. Se svolgiamo un ruolo troppo
lontano dal lavoro o solo dentro un’impresa, non solo non capiremo la realtà, ma
diventeremo distanti, autoreferenziali,
subordinati, corporativi.
La caratteristica forte di questi trent’anni
della Filt è stata il tentativo di avere una
propria autonomia non rinunciando mai ad
essere parte leale della Cgil.
Solo da questa energia e da questa fatica
può scaturire l’analisi che risponde e che
crea un consenso vero, il progetto che
costruisce il cambiamento, la via d’uscita
da una vertenza, la soluzione alle tante
domande e bisogni che la realtà e le persone, uomini e donne, italiani e nuovi italiani, ci pongono.
2011
L’incerto futuro del TPL in Italia
tra tagli di bilancio e federalismo
di Ennio Cascetta, Professore Ordinario di Pianificazione dei sistemi di trasporto, Università di Napoli Federico II
Un Piano nazionale di rilancio e di sviluppo del
trasporto pubblico locale che preveda il potenziamento e lo sviluppo dei servizi di tpl, delle
infrastrutture ferroviarie metropolitane e, più
in generale, del trasporto rapido di massa, del
materiale rotabile e delle tecnologie, oltre a
nuove regole e nuovi livelli di produttività,
sarebbe una grande priorità per il Paese, più
di tante grandi infrastrutture annunciate da
anni, ma non altrettanto necessarie.
Per delineare il quadro complessivo del settore del trasporto
pubblico locale nel nostro Paese è utile partire dal forte deficit
che caratterizza l’Italia rispetto ai grandi partner europei per
le diverse modalità di trasporto.
Nel quadro di un ritardo infrastrutturale generalizzato spicca il
ritardo nella dotazione di metropolitane: 161 km a fronte dei 570
km della Spagna e dei 350 della Francia. La sola città di Madrid
(con 296 km) ha più ferrovie metropolitane di tutta l’Italia.
In termini di km di metro per abitante, il nostro Paese è agli ultimi
posti in Europa (finanche il Portogallo fa meglio di noi).
Lo stesso discorso vale per le ferrovie suburbane: la nostra rete è di
592 km a fronte dei 2.000 della Germania e dei 1.345 della Spagna.
All’inadeguatezza delle reti ferroviarie urbane e regionali si
aggiunge il problema dei nodi metropolitani della rete nazionale,
che vanno liberati e dedicati al traffico in entrata e in uscita dalle
aree urbane.
Anche il trasporto pubblico su gomma, rispetto ai competitors
europei, si caratterizza per una minore quantità e qualità dei servizi (minori servizi per abitante, minore velocità commerciale, un
parco mezzi più vecchio), per l’inefficienza di molte aziende di
trasporto pubblico ed anche per condizioni al contorno più difficili. Ad esempio, mentre Vienna presenta 600 chilometri di corsie
preferenziali ed una velocità dei bus di 20 km/h, a Roma si trovano solo 109 km di corsie preferenziali e una velocità dei bus di
12 km/h.
Non è un caso, quindi, che oltre l’80% degli spostamenti in Italia
avvenga su mezzo privato e la quota di pendolari che utilizza i
mezzi pubblici si dichiari in gran parte insoddisfatta dalla qualità
dei servizi.
Tuttavia i margini di crescita ci sono e sono significativi. In Italia
i flussi di pendolari casa-lavoro con destinazione nelle città metropolitane sono aumentati dal 1991 al 2005 del 5,5%, con picchi del
9% a Roma, dell’8% a Milano e 6% a Torino (Cittaitalia, 2009).
Secondo Pendolaria, sono circa 2 milioni e 700 mila le persone che
quotidianamente utilizzano i treni, ma molti di più sono quelli
che complessivamente si muovono verso le grandi e medie città,
14 milioni complessivamente secondo il Censis (2009) e che in
larga parte utilizzano l’auto, anche se per il 70% si dichiarano
disponibili a optare per il treno se fosse più competitivo.
Il ritardo del trasporto pubblico locale impatta negativamente
soprattutto sulla vivibilità e sulla produttività delle nostre città.
Congestione, incidentalità, occupazione di spazio e soprattutto
inquinamento, rischiano di renderle invivibili, compromettendo
l’ambiente e penalizzando seriamente lo sviluppo economico del
Paese. Il 70-80% del PIL è prodotto nelle aree urbane e ormai la
competitività fra città a livello globale si gioca molto sulla loro
vivibilità. Un recente studio dell’ACI quantifica in circa 30 miliardi i costi per la collettività legati alla congestione e quindi al
tempo perso nel traffico in Italia. A cui bisogna aggiungere i drammatici effetti del traffico sulla salute dei cittadini:
● ogni anno in Italia si registrano 6.000 morti e 330.000 feriti per
incidenti stradali (di cui il 76,5% su strade urbane);
● oltre l’80% dei capoluoghi italiani supera ogni anno i limiti
previsti per gli sforamenti del Pm10 (uno studio dell’OMS stima
in oltre 8.000 i decessi all’anno per Pm10 nelle 13 principali
città italiane) e sempre più frequenti e diffusi sono i provvedimenti di chiusura al traffico per le nostre città.
Finanche la Corte dei Conti ha recentemente rilevato il notevole
ritardo dell’Italia rispetto agli altri Paesi europei per estensione, qualità e numero di passeggeri delle reti di trasporto rapido
di massa a guida vincolata e di tranvie. Sempre secondo la Corte
dei Conti, i problemi strutturali del traffico e dell’inquinamento
sono in parte legati alla non sufficiente quantità di risorse impegnate per il trasporto collettivo e, inoltre, la mancanza di una
chiara strategia e di una programmazione degli interventi a livello
urbano ha finito per alimentare politiche discontinue e spesso
incoerenti nella regolazione e gestione dell’offerta.
Migliorare la mobilità nelle aree urbane richiede certamente più
fattori: politiche urbanistiche, controllo della domanda, promozione
di modalità “leggere“ di trasporto, dai piedi alla bici. Ma non vi è
19
2011
dubbio che un ruolo centrale può e deve svolgerlo il trasporto pubblico integrato, su gomma e su ferro. Ancora più forte è il ruolo del
tpl nel caso della mobilità metropolitana e regionale.
Di fronte a questi bisogni e alla situazione di grande arretratezza, sarebbe necessario intervenire con un Piano nazionale di
rilancio e di sviluppo del trasporto pubblico locale. Un piano che
preveda il potenziamento e lo sviluppo dei servizi di tpl, delle
infrastrutture ferroviarie metropolitane e, più in generale, del
trasporto rapido di massa, del materiale rotabile e delle tecnologie, ma anche nuove regole e nuovi livelli di produttività. Un
piano di questo tipo sarebbe una grande priorità per il Paese, più
di tante grandi infrastrutture annunciate da anni, ma non altrettanto necessarie. Un piano, quindi, di livello nazionale che veda
la partecipazione attiva, sotto il profilo politico ed economico,
delle Regioni e degli Enti Locali.
Invece del necessario piano di riforma e sviluppo, il trasporto
pubblico locale sta vivendo un periodo di sofferenza dovuta alla
grande incertezza che pervade tutto il sistema, incertezza sulle
risorse ed incertezza sulle regole.
Le risorse sono state prima tagliate drasticamente per il 2011 con
la legge di stabilità 2010 e successivamente reintegrate con una
serie di provvedimenti e di misure, ancora non del tutto definitivi e di cui, a quasi metà 2011, le Regioni ancora non hanno piena
consapevolezza. Misure tampone che prevedono il reperimento di
risorse dal Fondo sociale per l’occupazione e la formazione, dai
fondi inizialmente destinati al materiale rotabile e, come al solito, dai Fondi FAS. Insomma risorse non strutturate e quindi assolutamente incerte per gli anni futuri.
Pur con queste misure intervenute, si avrebbe un taglio residuo in
conto corrente di circa 57 milioni di euro, a cui aggiungere un
taglio di circa 296 milioni per le risorse in conto capitale.
Molte Regioni hanno attenuato i tagli previsti inizialmente. Tagli
che comunque restano significativi e, contestualmente, sono stati
introdotti aumenti delle tariffe mediamente intorno al 10-15%.
Dall’anno 2012 dovrebbe, inoltre, partire la fiscalizzazione dei
trasferimenti relativi al TPL su ferro come inizialmente previsto
dalla L.244/2007. In sostanza, un’ulteriore riduzione delle risorse disponibili.
Paradossalmente le Regioni più penalizzate sono proprio quelle
che, come la Campania, si sono attivate negli ultimi anni per
potenziare le infrastrutture per il trasporto pubblico e che, oltre
ai tagli sui servizi storici, avranno grandi difficoltà se non l’impossibilità di reperire le risorse per nuovi servizi sulle nuove tratte di metropolitana. Il discorso si può estendere a tutto il Paese:
ai tanti investimenti in corso sulle metropolitane e sulle ferrovie
regionali (vedi tabella) non si accompagna un’adeguata previsione
di nuove risorse per servizi. Si corre così il rischio di costruire la
metropolitana e di non avere i soldi per farci camminare i treni.
Investimenti su metropolitane e ferrovie regionali nelle Regioni italiane
INVESTIMENTI IN CORSO
TOTALE
(Fonte: Regioni)
INVESTIMENTI PROGRAMMATI FINO AL 2015
INVESTIMENTI
IN CORSO
RISORSE
DISPONIBILI
RISORSE
DA REPERIRE
INVESTIMENTI
PROGRAMMATI
RISORSE
DISPONIBILI
RISORSE
DA REPERIRE
18.036
14.501
3.536
20.939
2.669
18.270
In questo contesto di grande incertezza si inserisce, poi, il tema del federalismo fiscale. Per quanto riguarda specificamente il tpl la
norma stabilisce che “nella determinazione dell’ammontare del finanziamento, si tiene conto della fornitura di un livello adeguato
del servizio su tutto il territorio nazionale nonché dei costi standard”, e che “l’attribuzione delle quote del fondo perequativo è subordinata al rispetto di un livello di servizio minimo, fissato a livello nazionale”. Per sviluppare questi temi, andrebbero quindi elaborati, su tutto il territorio nazionale, studi e analisi sulla determinazione dei livelli minimi dei servizi, dei costi standard e di tanti altri
aspetti di cui, al momento non si ha traccia. Né si può pensare che il concetto di costo standard risolva da solo i tanti problemi di
omogeneità e comparabilità del nostro Paese.
Una situazione, in conclusione, poco confortante per il settore. Per offrire ai cittadini servizi adeguati di tpl, in linea con gli standard
europei, occorrono risorse economiche adeguate e certe, una programmazione pluriennale ed un quadro normativo più snello e stabile. Servirebbe un impegno politico responsabile che coinvolga tutti i protagonisti del settore e i diversi livelli di governo. Impegno
di cui, negli ultimi anni, non vi è stata traccia.
20
2011
L
’intervista
Antonio Pizzinato
Presidente onorario ANPI Regionale Lombardia
Nel 150° dell’unità d’Italia
far vivere i Valori della Resistenza
e attuare la Costituzione
Il 150° anniversario dell’unità nazionale sollecita
diverse riflessioni. Una su tutte: profonde sono le
divisioni che ancora attraversano il paese e che solo
il Presidente Giorgio Napolitano sembra in grado di
riportare ad unità. Si cerca di far passare una dicotomia tra la Costituzione (ormai solo formale) della
Repubblica italiana e una Costituzione materiale che
si sarebbe generata attraverso il voto. Chiediamo ad
Antonio Pizzinato, già Segretario Generale della CGIL
e ora Presidente onorario dell’ANPI Regionale
Lombardia, qual è la sua opinione.
È opportuno partire da una premessa di carattere storico.
I Cittadini italiani, dopo la Liberazione, esprimendosi per la
prima volta con lo strumento del suffragio universale (donne e
uomini), hanno scelto di raccogliere e portare a compimento la
migliore e più feconda prospettiva risorgimentale, votando nel
referendum del 1946 a favore della Repubblica. La Costituzione,
elaborata ed approvata dai costituenti eletti nel 1946 ed entrata in vigore il 1° gennaio del 1948, ci dice che non di una
Repubblica qualsiasi si tratta. Nella Carta costituzionale, infatti,
è stato delineato con chiarezza il carattere della democrazia da
costruire attraverso la progressiva affermazione dei valori di
equità e coesione sociale, eguale titolarità dei diritti, pari dignità della persona, solidarietà.
In essa si prevede, inoltre, che la partecipazione diretta dei cittadini alla vita delle Istituzioni non si limiti all’elezione dei propri rappresentanti a livello nazionale, locale e territoriale, ma sia
esercizio costante e diffuso di pratica democratica, da attuarsi
anche attraverso il libero associarsi ed organizzarsi e la diffusa
partecipazione all’attività delle forze politiche e sociali. Nonché
facendo del confronto e del dialogo tra opinioni differenti un
momento fondante del vivere civile e perseguire con consapevolezza, per il superamento delle diseguaglianze e per realizzare
l’inclusione.
Non per caso questo flusso, che dovrebbe essere incessante e
vera linfa vitale del nostro collettivo appartenere alla Nazione,
non prevede separatezze tra i differenti ambiti e tempi di vita di
ciascun cittadino. Voglio dire che la partecipazione alla vita
democratica non è occupazione per il tempo libero; ma deve
essere esercitata e attuata nei luoghi di lavoro, di studio ed in
tutte quelle istanze che hanno a che fare con “il pieno sviluppo
della persona”.
Questa qualità della sovranità popolare è la risorsa più pulsante
e viva della nostra Costituzione. Per decenni con la mobilitazione, l’iniziativa, certo anche con lotte aspre, è stato possibile far
progredire l’Italia nel senso “alto” indicato dall’art. 3, ossia affidando alla Repubblica il compito di rimuovere quegli ostacoli
di ordine economico e sociale che, di fatto, avrebbero potuto
sminuire o impedire il pieno esercizio della cittadinanza,
l’eguaglianza dei diritti e la pari dignità.
Dalla premessa alla fotografia di oggi, nel 150.mo dell’Unità
d’Italia. Mentre abbiamo bisogno di perseguire – rimuovendo gli
ostacoli derivanti dalle trasformazioni - l’obiettivo di nuovi passi
in avanti aprendoci alla prospettiva sovranazionale per contribuire alla costruzione di un’Europa, non solo economica, ma
anche politica, sociale, dei popoli, siamo invece - come conseguenza delle politiche conservatrici, di destra, “berlusconiane”
–regrediti, tormentati da una lacerazione che attraversa il nostro
Paese (ma anche l’Europa) e che investe il piano economico, così
come, non meno pericolosamente, quello sociale e culturale.
Per la prima volta dopo la Liberazione, le nuove generazioni
hanno meno diritti delle loro madri e dei loro padri. Basta pensare alla disoccupazione diffusa (1 giovane ogni 3 senza lavoro),
al precariato, alla riduzione dell’accesso al sapere. La vita democratica italiana, di fatto, è svuotata; non si affrontano i problemi
reali, a partire dalle conseguenze della crisi economica; il confronto politico – nel paese ed in parlamento- è da tempo impraticabile e si procede a colpi di “Decreti legge” e “voti di fiducia”.
Questo genera, non può che generare, una sempre più netta separazione tra i luoghi del potere e i cittadini.
Questa la vera dicotomia che potrebbe indurre, determinare una
crisi non reversibile del concetto stesso di Istituzione democratica alla cui costruzione si sono dedicati i sindacati, le forze politiche democratiche, i lavoratori – con conquiste notevolissime –
nella seconda metà del secolo che ci siamo lasciati alle spalle.
A fronte del cambiamento epocale derivante dal processo di globalizzazione e trasformazione delle strutture economiche e produttive, dell’organizzazione del lavoro, la politica si è, il più delle
volte, limitata ad una sorta di ordinaria amministrazione. Invece
il centro- destra, il “berlusconismo”, non solo non ha rimossocome stabilito dalla Costituzione - gli ostacoli che non consentono di garantire la parità di diritti, ma ha utilizzato questi mutamenti economico- produttivi come motivazione, pretesto, per
adottare modifiche regressive alle norme di tutela dei diritti
(lavoro precario, saltuario, instabilità dei rapporti, diversità di
trattamenti economico-normativi –nello stesso luogo di lavoroattraverso la frammentazione delle imprese con appalti, subappalti), come pure con il cambiamento delle norme di tutela e salvaguardia dell’integrità psico-fisica dei lavoratori (come sottolineato dalla sentenza sulla “Tyssen Krupp”).
È quindi necessario muoversi, operare – come sindacati, forze
politiche democratiche, lavoratori, cittadini- sia per sconfiggere
le forze che sono contrarie ad esprimere una nuova idea di
mondo, sia a cercare efficaci strumenti in grado di incidere concretamente in una realtà frammentata e ripiegata su un presente privo di sogno e di speranza di futuro come credo mai si era
verificato in Italia dalla Liberazione, dalla fine della Seconda
Guerra mondiale.
La strada da percorrere. A questo punto, a mio parere, la
priorità per tutti noi è di operare affinché si rimetta al centro
del fare politica quell’idea alta di partecipazione alla vita pubblica su cui è incardinata la nostra Costituzione che, non a
caso, rimane un modello attualissimo e non invecchiato per le
21
2011
democrazie di tutto il mondo.
Per fare ciò occorre lavorare da subito e con forte determinazione
per cambiare l’attuale legge elettorale che costituisce una
deviazione dalla qualità e dai principi della sovranità popolare di
cui ho già detto prima, a partire dalla privazione del diritto dei
cittadini alla scelta dei propri rappresentanti determinata dall’abolizione del voto di preferenza. Si tratta, inoltre, di eliminare
l’attuale premio di maggioranza che consente di ottenere la
maggioranza, oltre il 50% del numero dei parlamentari con un
numero di voti espresso da una minoranza (tra il 35-40%) dei
cittadini, degli aventi diritto al voto.
Bisogna avere ben chiaro che, a questo punto, siamo molto in là
con il rischio di un’involuzione autoritaria: ce lo dicono la sempre
più evidente riduzione degli spazi di libera informazione, l’attacco alla scuola pubblica, la subalternità e l’assenza del Governo in
tutte le grandi questione del lavoro, la guerra alla magistratura e
la volontà di cancellare la separazione dei poteri che è la principale garanzia per il rispetto del nostro ordinamento democratico.
Non c’è più tempo. Dobbiamo agire e saper di nuovo suscitare la
speranza che, attraverso l’impegno e la partecipazione, è ancora
possibile vincere la battaglia per uno Stato equo, onesto, fondato
sulla legalità e capace davvero di tutelare beni e risorse con il
senso profondo dell’interesse pubblico e dell’equità sociale. I
risultati delle recenti elezioni amministrative, in molte città e
province, dicono che questo si può realizzare.
Tra le tante richieste di modifica degli articoli della
Costituzione, che coinvolgono la stessa prima parte sino
a pochi mesi fa ritenuta immodificabile, ha fatto molta
impressione la richiesta sia di modificare l’art 41 in modo
da rendere l’iniziativa economica privata spoglia di una
sua utilità sociale, sia, soprattutto, di cambiare l’art 1
che mette il lavoro a fondamento della repubblica prospettando una centralità del parlamento, scoperto solo in
funzione di contrasto ai poteri del Presidente della
Repubblica. Cosa significa quest’idea di mettere la libertà d’impresa insieme ad una riduzione di valore del lavoro al centro delle richieste provenienti dai settori del
centro destra? L’obbiettivo è evidente: scardinare, demolire i pilastri su cui si
regge lo stato democratico, colpire i fondamenti di libertà, eguaglianza pari dignità. Infatti, nel nostro Paese non vi è alcun impedimento alla libertà di impresa. La dimostrazione? Lo sviluppo
realizzato con l’industrializzazione del paese, a partire dagli anni
del “boom, il miracolo economico” (1960), quando l’Italia diventò la sesta potenza economica mondiale.
Quindi la vera posta in gioco, con queste proposte di modifica degli
articoli 1 e 41 della Costituzione, ritengo sia ben più eversiva della
messa in discussione dei diritti del e sul lavoro. Per riportare la
nostra odierna riflessione ai dati oggettivi della realtà mi sembra
importante richiamare l’intensa discussione che portò all’approvazione da parte dell’Assemblea Costituente della formulazione
«L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro».
È giusto rilevare come la proposta che sancì il superamento delle
divisioni emerse tra i costituenti, nei lavori della Commissione dei
75, fu presentata dall’onorevole Amintore Fanfani (costituente e
– è giusto ricordarlo- dirigente della Democrazia Cristiana). Egli,
illustrando la proposta (eravamo nel 1947, ho ritrovato il testo
negli archivi del Parlamento) sottolineò: “In questa formulazione
l’espressione democratica vuole indicare i caratteri tradizionali,
i fondamenti di libertà e di eguaglianza, senza dei quali non v’è
democrazia. Ma in questa stessa espressione la dizione «fondata
sul lavoro» vuol indicare il nuovo carattere che lo Stato italiano,
quale noi lo abbiamo immaginato, dovrebbe assumere. […]
Dicendo che la Repubblica è fondata sul lavoro, si esclude che
22
essa possa fondarsi sul privilegio, sulla nobiltà ereditaria, sulla
fatica altrui e si afferma invece che essa si fonda sul dovere, che
è anche diritto ad un tempo per ogni uomo, di trovare nel suo
sforzo libero la sua capacità di essere e di contribuire al bene
della comunità nazionale. […] L’espressione «fondata sul lavoro»
segna quindi l’impegno, il tema di tutta la nostra Costituzione
[…]”. Poco più avanti è sempre Amintore Fanfani a rilevare come
quest’impegno è ribadito nella concezione di tutto il titolo terzo
della Costituzione, quello cioè dedicato ai rapporti economici, in
cui rientra l’art. 41.
Mi sembra del tutto chiaro che pretendere - com’è nella proposta
di modifica dell’art. 41 avanzata dal centrodestra - che non vi sia
da parte dello Stato alcuna attività di programmazione, indirizzo e
controllo equivalga “di fatto” a scardinare il complesso equilibrio
di garanzia, inducendo un vero e proprio snaturamento del carattere peculiare del nostro Stato. Non stupisce dunque che le proposte di modifica dell’art. 41 procedano in parallelo agli attacchi, più
o meno sconsiderati, all’art.1, o sulla parificazione dei “repubblichini” con i partigiani. È un ulteriore segnale dei pericoli, gravi,
che incombono sul futuro della democrazia italiana.
Quindi, come si è fatto nei trascorsi decenni e, da ultimo, con la
vittoria del “NO” al referendum del 2006, sulle modifiche e sullo
stravolgimento della Costituzione, è necessario ed indispensabile
sviluppare un ampio movimento, non solo per difendere la
Costituzione e contro le proposte di cambiamento degli articoli 1
e 41, ma per la sua attuazione a partire dall’articolo 3.
La FILT – CGIL ha recentemente presentato il libro
“La Libertà sulle Rotaie” che ricostruisce la storia dei
trasporti nel fascismo e nella liberazione dal fascismo. I
trasporti sono stati per loro natura un luogo fondamentale della Resistenza milanese e italiana. La FILT – CGIL
ha scelto di dar vita a questo progetto di ricostruzione
storica affinché si potesse depositare un messaggio
scritto e video attraverso le testimonianze degli anziani partigiani del settore. Una staffetta della memoria
con le nuove generazioni. Il recentissimo congresso
dell’ANPI ha avuto come centrale il rapporto con le
nuove generazioni. Qual è il messaggio che la
Resistenza oggi consegna ai ragazzi? Personalmente ed in nome dell’ANPI considero importante ed
efficace il lavoro svolto e programmato. Desidero ringraziare la
FILT-CGIL per il contributo dato e che dà, a far vivere la memoria
della lotta di Liberazione, con la realizzazione del bel volume “La
libertà sulle Rotaie”. Un lavoro che contribuisce a far conoscere,
non solo alle nuove generazioni, ma anche a tutti i cittadini,
il contributo dato dai ferrovieri e dai tranvieri alla lotta antifascista ed alla Liberazione dell’Italia, alla costruzione della Libertà e
Democrazia.
L’ultimo Congresso dell’ANPI -svoltosi a Torino nel 150° dell’unità d’Italia – ha avviato la nuova stagione dell’ “ANPI: Casa dei
democratici e degli antifascisti”. Associazione intergenerazione
che si è riradicata, insediata e cresciuta – con oltre 140.00 iscritti
- in tutte le 110 province italiane grazie anche al contributo dei
giovani inferiori ai 35 anni, che sono uno ogni 4 iscritti all’ANPI.
È indispensabile, fondamentale che le ragazze ed i ragazzi partecipino attivamente alla vita ed all’attività della nuova stagione
dell’ANPI, per contribuire a formare le nuove generazioni ai valori della Resistenza –implementati nella Costituzione- nelle scuole, nell’università, come nei luoghi di lavoro e nei quartieri, nella
società. Questo per avviare una nuova stagione di attuazione
della Costituzione, far crescere la solidarietà e coesione sociale,
rendere effettiva la parità dei diritti e le pari dignità. Un momento efficace di questa nuova stagione è stato vissuto il 2 giugno,
a Milano, alla festa della Costituzione e della Repubblica.
2011
Le donne TERRE-MUTATE chiamano
L’Aquila 7-8 maggio 2011
di Oriella Savoldi, Responsabile Dipartimento Ambiente e Territorio CGIL Nazionale
Non puoi capire se non vieni qui. Se non incroci quegli sguardi
così profondi da sembrare assenti, se non cogli nelle parole lo
spavento per la città, la vita perduta, la nostalgia per la sua bellezza e il desiderio smarrito di chi si ritrova a reinventarsi la vita,
nonostante tutto. Le donne si sono attivate fin dai primi giorni
del dopo terremoto per riannodare i fili, per favorire una presa
di parola sulla sofferenza patita, perché il dolore non restasse
un fatto privato, perché la verità di quanto stava succedendo
arrivasse oltre le chiusure imposte e l’indifferenza.
Sapevo che avrei accolto l’invito fin dalla
prima comunicazione arrivata mesi fa,
quando donne dell’Aquila anticipavano
l’intenzione di promuovere un incontro fra
donne nella loro città. Non mi sono chiesta
chi erano, cosa le muoveva e cosa proponevano; era come se stessi aspettando
quell’invito da tempo, per via di una consapevolezza profonda dentro di me. Quella
che sa come, al presente, ovunque ci sono
donne, la libertà femminile prima o poi
trovi parole e gesti per farsi riconoscere.
L’invito mi ha colto non nuova a discussioni sulla distruzione di quella città, sul terremoto, sulla ricostruzione desiderata e su
quella, invece, imposta ex-novo con il progetto C.A.S.E. voluto da Berlusconi.
Quartieri anonimi come se ne incontrano
ovunque nelle periferie delle città, qui
inquietano di più. Gli aquilani li giudicano
senza troppa convinzione temporanei.
Insieme alle speculazioni raccontate dai
quotidiani, sono i costi a far dubitare: duemilasettecento euro al mq, minimo
150.000 euro per appartamento. I criteri
di assegnazione fanno discutere o, meglio,
sono proprio incomprensibili. Convivono, a
pari condizioni, nuclei familiari senza reddito e nuclei con redditi elevati e proprietari di case accessibili situate in comuni
non troppo distanti, usciti indenni dal terremoto. A prescindere dalle loro condizioni, nessuno di quei nuclei si aspettava
tanto. Senza ignorare l’enormità della
distruzione, l’assegnazione di queste case
è considerata persino eccessiva, tanto da
far precipitare in un acritico e imprigionante senso di gratitudine quando, a ben
vedere, la loro richiesta si limitava all’avvio di una ricostruzione fino ad oggi mai
neppure tentata, desiderata anche a scapito di una maggiore provvisorietà.
Si sarebbero accontentati di molto meno
pur di poter ricostruire, riparare le loro
case e rientrare nella loro città. “L’Aquila
era bella - raccontano - e come tutte le
altre non era soltanto una somma di palazzi storici, case, strade e piazze, un agglomerato abitato in un contesto incantevole,
indicato nelle mappe turistiche”.
La città è il luogo dell’abitare, del convivere molteplice di uomini e donne di
diverse generazioni, spesso di altre provenienze. È alzarsi al mattino, scendere dal
giornalaio e incontrare un viso noto con
cui scambiarsi il buongiorno. Imboccare
vicoli senza perdersi, senza smarrire il
senso di sé, così segnato dal luogo che
riconosci, che ti riconosce; un luogo che
non ha soluzione di continuità con il tessuto di relazioni che lo anima.
La città è tutto questo: un intreccio di rapporti, di passato e di presente, normale
preludio di un futuro possibile. Così era
l’Aquila prima di quelle scosse violente e
interminabili di un terremoto prima sussultorio, ondulatorio e, poi, incredibilmente
rotatorio, il cui boato ancora risuona nelle
menti di chi lo ha vissuto. Da allora gli
aquilani, traumatizzati e carichi del dolore per le loro perdite, chiedono la ricostruzione e hanno promosso molteplici
azioni per sostenerne l’avvio. Sono arrivati fino a dotarsi di carriole per scavare e
rimuovere quello che era rimasto lì, scomposto e abbandonato, pezzi di una quotidianità frantumata. Ancora oggi si vedono
panni stesi su balconi semi crollati. Case
sventrate con mobili dentro. Specchiere in
stanze prima chiuse, che ora, crollate le
pareti, riflettono la luce di un cielo che
sembra irreale. Sono soprattutto i giovani
a tornare il sabato sera, che continuano il
rito delle passeggiate nella via principale,
quasi l’unica a non essere chiusa dalle
transenne. Sono loro, quelli che incontri
davanti i pochi locali aperti, mentre una
musica assordante sembra voler diffondere che la vita continua, comunque e nonostante tutto, in una città resa deserta e
preclusa ai suoi abitanti, che non vuole
morire. La vita salvata continua qui e nei
cuori degli aquilani, che di necessità si
sono reinventati la vita da qualche altra
parte, o, rassegnati, vivono in C.A.S.E.
temporal-durature.
Contro la speculazione calata come un
avvoltoio sulla città ferita, contro l’irresponsabile inerzia di chi potrebbe decidere e non lo fa, contro una gestione straordinaria in una situazione paradossalmente
ordinaria nella sua voluta incapacità di
individuare criteri per sbloccare la situazione, contro le transenne che sbarrano il
passo sotto lo sguardo degli ultimi militari
rimasti a ricordarci che oltre non si può
andare, le donne si sono attivate fin dai
primi giorni del dopo terremoto per riannodare i fili, per favorire una presa di
parola sulla sofferenza patita, perché il
dolore non restasse un fatto privato, perché la verità di quanto stava succedendo
arrivasse oltre le chiusure imposte e l’indifferenza. Hanno permesso la ripresa
della scuola combattendo difficoltà e
23
2011
resistenze, perché i bambini e le bambine
tornassero ad incontrarsi, perché con la
ripresa dell’attività, nei disegni, nei giochi, uscisse il loro muto spavento. Lo
hanno fatto con le morti nel cuore, le
crepe e le ferite sotto lo sguardo, con la
terra che continuava a tremare.
Non puoi capire se non vieni qui. Se non
incroci quegli sguardi così profondi da
sembrare assenti, se non cogli nelle parole lo spavento per la città, la vita perduta,
la nostalgia per la sua bellezza e il desiderio smarrito di chi si ritrova a reinventarsi
la vita, nonostante tutto. Donne impegnate a ricucire rapporti lacerati, a sviluppare attività, seppure catapultate in tempi e
luoghi moltiplicati. “Sono una delle poche
fortunate, - ha raccontato nel nostro gruppo Filomena- da poco sono tornata nella
mia casa. Eppure – ha proseguito – la sento
estranea. Forse sono inadeguata”. L’ha
raccontato a bassa voce, come se quanto
le stava accadendo fosse una colpa di cui
vergognarsi davanti ad altre meno fortunate di lei, che ancora aspettano di poter
rientrare nelle loro case. Nelle sue parole
mi tornava l’eco dei racconti di partigiane,
quelle che dopo la Resistenza, tornate a
casa, in tempi di pace non si ritrovavano.
Come se dopo il dolore, le tragedie cui la
vita espone e, insieme, la convivenza in
stretta comunanza, il senso guadagnato
dell’utilità della propria esistenza nell’impegno che ha costretto oltre la dimensione propria a guardare alla vita condivisa, a
farsene carico, il ritorno alla “normalità”
permetta di cogliere la trasformazione
profonda che è avvenuta dentro, e non soltanto intorno a noi. Nulla sarà come
prima, hanno detto molti degli intervistati
dopo il violento terremoto in Giappone.
Per una donna sembra essere più vero.
Quasi che strappate alle case, il poi reinventato mandasse in frantumi anche il
24
senso stesso della casa, come luogo esclusivo del vivere, reso impossibile da una
riscoperta e activa vita in comune.
“No, Filomena, non sei inadeguata - ha risposto Maria Luisa - È la domanda sbagliata!”
È vero, ho pensato ascoltando, ma non era
solo la domanda che si poneva Filomena ad
essere sbagliata; lo era anche quella che
aleggiava fra le convenute all’Aquila.
Mentre visitavamo la città accompagnate
dai racconti di donne aquilane, ci chiedevamo il motivo di quell’invito. Dalle comunicazioni arrivate era chiaro come avremmo lavorato: divise in “stanze” tematiche,
distribuite nella città come se tutta
l’Aquila fosse una grande casa accogliente
e dove, una volta entrate, ognuna si sarebbe orientata con altre nella stanza prescelta, per un lavoro di confronto e riflessione ricavato dentro un ricco programma
di musica, teatro, danza e poesia.
La due giorni in programma seguiva il
Concerto offerto dalle cantanti aquilane
alla loro città e lo spettacolo gratuito di
Sabina Guzzanti. La domanda durante la
visita e soprattutto negli incontri sembrava scontata, ma la risposta è venuta soltanto ad un certo punto, nel gruppo corpi
violati, corpi desideranti, mentre il
discorso oscillava fra le violenze subite,
comprese quelle che ci auto infliggiamo
quando incapaci di dire “no” a noi stesse e
ad altri, ad altre seppure ne va del nostro
piacere e della nostra libertà, e quelle
inflitte sui corpi resi vittime della violenza
maschile. Qui Filomena aveva espresso il
desiderio di alcune promotrici degli incontri: aprire all’Aquila, come in altre città,
una Casa delle donne. La volevano, a maggior ragione considerando il trauma provocato dal terremoto che, nel rompere la
quotidianità, aveva messo allo scoperto
anche quella della molta violenza consumata nelle case. Ascoltando, quella richiesta
di aiuto per realizzare la casa mi era sembrata sproporzionata e così piccola rispetto all’enormità della ricostruzione di quella città e alla grandezza del gesto di invito che c’era stato proposto. Avevo considerato che essa era formulata proprio
dopo che i centri anti-violenza erano stati
presi di mira e privati del necessario sostegno finanziario senza che le sostenitrici
impegnate a farli vivere fossero interpellate. Nella discussione non erano mancate le
sollecitazioni a non mettersi al posto delle
vittime, a non farsi vittimizzare, ma anche
dubbi intorno al fatto di riconoscere quando, invece, davvero siamo vittime colpite
al cuore, nel corpo e nello spirito.
Avvertire quella sproporzione, tuttavia, è
stato illuminante; poco a poco, spogliandomi del bagaglio di convinzioni che avevo
portato con me, ho colto quello che davvero stava avvenendo lì e mi sono aperta a
quanto l’essere in presenza, l’essere soggettività intere e originali in relazione,
stava provocando. Ritrovarsi fra donne
porta con sé il rischio di rendere mute le
differenze che ci animano, facendoci perdere la realtà sotto la coltre delle rispettive convinzioni.
Mi sono accorta che stavamo chiedendo
alle donne dell’Aquila, provate e trasformate da quanto loro accaduto, una forza
desiderante che loro stesse non si riconoscevano. Lo dicevano i loro occhi, i loro
corpi salvati, i segni sui loro volti della
fatica per tenersi vive e attive, per ricucire legami dentro un corpo sociale disperso. E ora quelli delle prove cui la trasformazione interiore e materiale le sottoponeva. Noi convenute potevamo alimentare
la fonte di forza, semplicemente riconoscendo la grandezza del loro esporsi nella
fragilità. Le parole allora sono venute;
come da un unico corpo più voci si sono
sciolte e sono arrivate al cuore, facendosi
ascoltare. In altri convegni avevo sentito
da parte di aquilani l’avocazione a sé della
titolarità dell’ultima parola sulla ricostruzione della città che, sebbene espressa
per impedire la loro esclusione dalle decisioni, aveva provocato chiusura nel confronto. Al contrario, la fragilità esposta
nella titubanza di un desiderio rimasto
quasi fino alla fine inespresso aveva aperto alla parola e alla comprensione.
La Casa che alcune donne aquilane in relazione fra loro volevano realizzare altro
non era che un farsi casa, casa ospitante di
corpi violati e corpi desideranti, di legami
materiali e simbolici che agiscono oltre
ogni distanza e testimoniano l’amore femminile per la vita e per gli esseri viventi.
Riconoscerlo da parte delle convenute
poteva rappresentare una fonte di forza
per queste donne che a l’Aquila stanno già
facendo la differenza nella ricostruzione.
2011
Il collegamento ferroviario Torino-Lione
perché Sì!
di Massimiliano Sartori,
Consulente The European House-Ambrosetti
Oggi nel nostro Paese mancano misure per la crescita. Crescita
economica che stenta da almeno un decennio. NOSTOP da tempo
propone riflessioni, sintesi di analisi economiche e strategiche e
presenta i piani di sviluppo dei Paesi avanzati, concorrenti
dell’Italia, ed emergenti sul tema delle infrastrutture.
I risultati degli studi condotti a livello internazionale hanno evidenziato l’importanza economica, sociale e occupazionale delle
infrastrutture di trasporto nelle moderne economie di mercato.
È indiscutibile che le infrastrutture abbiano effetti positivi sulla crescita economica, sull’attrazione di capitali/investimenti, sulla redistribuzione del reddito nella popolazione, sulla migliore allocazione
dei servizi, sulla produttività del sistema economico, sul tasso di
innovazione nel campo dei trasporti sotto il profilo della sicurezza
e dell’abbattimento dei costi energetici legati al trasporto.
Questo è il punto di partenza su cui costruire qualsiasi ragionamento e valutazione sulla necessità o meno di realizzare o potenziare nuove infrastrutture di trasporto. Tale valutazione deve
mantenere carattere di scientificità e indipendenza e integrarsi
con una visione strategica di sviluppo del Paese di lungo periodo.
Non è più il tempo di mantenere pregiudizi e far vivere preconcetti ingiustificati dettati da ideologie.
Partiamo dall’inizio. Il progetto di costruzione della TAV della TorinoLione è stato definito alla fine degli anni Novanta, quando era in
carica il Governo Amato e il dicastero dell’Ambiente era guidato da
un ministro “verde”, Ronchi, la cui commissione per la valutazione
d’impatto ambientale vagliò ed approvò, elogiandolo, il progetto.
Il Governo italiano dell’epoca lo presentò all’Unione Europea perché
fosse incluso nell’elenco di progetti ad altissima priorità delle grandi reti o Corridoi europei, i Trans European Networks.
Gli obiettivi del progetto erano, e sono rimasti, due: riduzioni dei
tempi di percorrenza (e aggancio dell’Italia ai principali network
europei); miglioramento delle condizioni ambientali,
riequilibrando il trasporto merci e passeggeri a favore della rotaia, che rappresenta la modalità di trasporto più sostenibile dal
punto di vista ambientale.
Primo obiettivo: il tempo di percorrenza sulla tratta Torino - Lione
si attesterà a circa 1h e 40min, che equivale ad una riduzione di
2h e 20 min rispetto all’attuale tempo di percorrenza che è di 4h.
Ciò rappresenta una contrazione del 55% del tempo di percorrenza. È sufficiente, serve a qualcosa? Innumerevoli studi e ricerche
hanno dimostrato come riduzioni nell’ordine del 15%-20% del
tempo di percorrenza generino effetti positivi e di dimensioni rilevanti sull’economia che si protraggono nel tempo. In tale contesto, la tratta Torino - Parigi potrà essere percorsa in un range compreso tra le 3h e le 3h e 30min, rispetto al tempo attuale che è
compreso tra 5h e 30 min e 6 ore.
Secondo obiettivo: ridistribuzione modale dei traffici verso modalità più sostenibili e meno invasive per l’ambiente, cioè favorire il trasporto su ferro rispetto al trasporto su gomma. Oggi, l’80% delle
merci tra Francia e Italia viaggia su strada e solo il 20% su ferro. Le
previsioni della UE sono di un incremento dei traffici pesanti
(camion) del 70% entro il 2025, in altre parole il traffico passerebbe
dagli attuali 50 milioni di tonnellate a circa 85 milioni di tonnellate.
Il tempo di percorrenza sulla tratta Torino Lione si attesterà a circa 1h e 40min, che equivale ad una riduzione di 2h e 20 min rispetto
all’attuale tempo di percorrenza che è di 4h.
Altro obiettivo è la ridistribuzione modale dei
traffici verso modalità più sostenibili e meno
invasive per l’ambiente, cioè favorire il trasporto su ferro rispetto al trasporto su gomma,
visto che oggi l’80% delle merci tra Francia e
Italia viaggia su strada e solo il 20% su ferro.
Vien da sé che, senza il collegamento ferroviario, la gran parte
dell’incremento sarà assorbito dalla strada. Lo squilibrio modale,
sopratutto nelle valli alpine, provocherà gravi ripercussioni sull’ambiente e sulla qualità della vita nei territori attraversati. Già
oggi, i danni annuali per la salute pubblica causati dal ritardo nella
realizzazione dell’opera sono stimati in 1.900 tonnellate di polveri sottili (principali responsabili di malattie respiratorie e cardiovascolari) che, secondo la UE, sono responsabili del 90% dei decessi da smog nell’intera Europa.
Tabella 1
Danni alla salute pubblica causati dal ritardo di 1 anno nella
realizzazione della Torino - Lione, simulazione effettuata
sulla base di una media di 3.000 veicoli pesanti al giorno
per 250 gg lavorativi in un anno.
CO2 (Anidride Carbonica)
CO (Ossido di Carbonio)
NOX (Ossido di Azoto)
VOC (Composti Organici Volatili)
PM (Particolato
99.750 tonnellate
300 tonnellate
1.725 tonnellate
135 tonnellate
22,5 tonnellate
È tutto? No. Sebbene i vantaggi ambientali e di crescita economica siano enormi, c’è anche un fattore strategico, forse più importante ancora dei due obiettivi dichiarati con la realizzazione del
collegamento Torino - Lione.
Qualora non fosse realizzata l’opera, il Piemonte, in particolare,
e l’Italia del Nord in modo secondario, pagherebbero un “isolamento” dai grandi flussi di traffico merci e passeggeri di dimensioni estremamente rilevanti. Chi lo dice? il comitato promotore
del collegamento Torino - Lione? No. È l’opinione diffusa e sempre più dibattuta da studiosi e trasportisti in Germania e Austria.
L’articolo del 26 gennaio 2006 comparso su Frankfurter
Allgemeine Zeitung è uno dei tanti e forse uno dei più esemplificativi della situazione. In sintesi, si evidenzia come un collegamento est-ovest Europa sia imprescindibile per il futuro economico, sociale e politico della UE. Se le difficoltà incontrate sulla
Torino - Lione dovessero essere non risolvibili, la Germania insieme ai partner del Nord Europa sarebbe pronta a proporre un
25
2011
“Corridoio V” a nord delle alpi, che interessi quindi la Germania
e i Paesi del Nord Europa.
Ma proprio non si può costruire altrove o potenziare la linea già
esistente? La scelta non è casuale, ma deriva da studi attenti dei
due Governi (italiano e francese) e le altre vie possibili come il
Monte Bianco e il San Bernardo risultano inadatte. Con riferimento al potenziamento, RFI, RFF e LTF hanno dimostrato come l’attuale rete non sia adatta né al volume di traffico futuro, né al
tipo di servizio che si vuole offrire. Inoltre, le stime sui traffici
non vanno effettuate sull’attuale linea che può fornire un servizio qualitativamente basso. Si pensi ad esempio al collegamento
ad alta velocità Milano-Roma. Prima della sua realizzazione la
tratta era percorsa quasi esclusivamente con l’aereo, mentre oggi
il 55% di tutti i viaggi tra le due città è percorso in treno, contro
il 30% dell’aereo e il 15% dell’automobile. Analizzando i dati storici sulla vecchia linea Milano - Roma e effettuando delle stime di
incremento nessuno avrebbe mai pensato a tali risultati, generati dall’offerta di un servizio nuovo e migliore, differente da quello precedete e non paragonabile.
La linea produrrà un notevole inquinamento acustico con treni
che viaggeranno a 200 km/h? La linea sarà interrata per il 90% del
percorso e, sulla base delle attuali tecnologie e materiali, un
nuovo treno che viaggia a 200 km/h produce meno rumore di un
treno vecchio che viaggia a 95 km/h2.
Che fine farà il materiale di scavo? Per la realizzazione del tunnel
di base saranno estratti 15 milioni di metri cubi di materiale. Il
40% di esso sarà subito riutilizzato per la costruzione dell’opera.
Il restante sarà trasportato in appositi siti e utilizzato per colmare vuoti lasciati da vecchie cave e, se richiesto dagli enti locali,
potrà essere utilizzato per proteggere dalla caduta massi o dagli
smottamenti, cioè per migliorare l’assetto idrogeologico del territorio. Il principale sito di accoglimento (90% del materiale) sarà
in Francia a Carriere du Paradis.
I costi dell’opera continuano a salire e sono insostenibili? I costi
dell’opera a valori reali (cioè depurati dall’inflazione) sono rimasti gli stessi. Oggi si attestano a circa 15 miliardi di Euro, da dividere in parti uguali tra Francia e Italia. Pertanto il costo in capo
all’Italia è di 7,5 miliardi di Euro, che equivale allo 0,35% del PIL
che, spalmato su 10 anni di costruzione, equivale allo 0,035%
all’anno del PIL nazionale (senza contare i contributi a fondo perduto che la UE darà per la realizzazione). Anche a fronte delle
attuali difficoltà economiche e finanziarie, un Paese come il
nostro non può affrontare un investimento di questo tipo che promuoverà la crescita, l’interscambio, l’occupazione e la competitività per i prossimi 50/60 anni?
Quali altre opere esistono concretamente simili a questa e che
successo hanno ottenuto? Il Tunnel del Loetschberg (34 km) è
già in servizio e sta assolvendo ai suoi compiti di riparto modale a favore della ferrovia, mentre è in realizzazione il tunnel
del San Gottardo (57 km pronto nel 2016) anch’esso finalizzato
a spostare il trasporto dalla gomma al ferro. Il successo delle
linee è evidente: con riferimento al traffico passeggeri in
Francia sono scomparsi i collegamenti interni su Parigi su
gomma e per via aerea, nelle città dove è presente il TGV. In
Italia la Milano-Roma è percorsa per il 55% in treno e la quota
è destinata a salire con la riduzione ulteriore dei tempi di percorrenza già previsti.
La nuova linea sarà redditizia? È un fatto ben noto come la linea
Torino - Lione avrà una redditività contenuta nel medio lungo
periodo. Ma chi è quel pazzo che valuta un’opera così importante dal punto di vista strategico con la sola redditività finanziaria? Inoltre, nelle valutazioni economiche è sempre opportuno
spiegare bene i confini entro cui si valuta e le variabili considerate. Mi spiego meglio. La redditività o la convenienza economica può essere valutata in capo al soggetto gestore del servizio
(redazione di un piano economico finanziario), oppure per la
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collettività (tramite analisi costi benefici), oppure in analisi di
impatto economico sull’attrattività di imprese, sulla competitività, sulla crescita, sull’occupazione (analisi input-output e moltiplicatori economici). In questo contesto, come richiesto dalla
UE che fornisce anche le linee guida su come realizzarla, viene
effettuata un’analisi costi benefici. La cosa interessante è che
da quando è stato introdotto l’obbligo a livello europeo di effettuare analisi costi benefici per valutare la realizzazione di un’infrastruttura, nessuna opera ferroviaria è risultata conveniente.
Ancora, se gli Stati si fossero basati su questa metodologia, nessuno degli attuali valichi alpini ferroviari e autostradali sarebbe
stato mai realizzato. Francia, Italia, Svizzera e Austria sarebbero oggi scollegate, però non avremmo disatteso i risultati delle
analisi costi benefici!
Torniamo alla valutazione strategica dell’opera. Per l’Italia tale
progetto, oltre a dotare il quadrante nord del Paese di un nuovo
asse infrastrutturale, andrà ad incidere su una porzione di territorio ben più ampia di quella direttamente interessata dal tracciato che, nel segmento centrale del Corridoio V, risulterebbe
supportata, a sud, dagli hub portuali del sistema tirrenico e del
sistema adriatico e, a nord, dagli assi stradali e ferroviari dei
valichi del Sempione, del Gottardo e del Brennero. Con la realizzazione della Torino - Lione possiamo intercettare e deviare
flussi di merci e persone che vogliono andare da ovest a est
dell’Europa. Le merci possono essere smistate in centri intermodali, spedite nei porti italiani che soffrono da anni della concorrenza dei porti spagnoli e del nord Europa, lavorate in Italia in
centri logistici ad elevato valore aggiunto, creando occupazione,
sviluppo di nuove imprese, ricerca nel campo della logistica e dei
trasporti e indotto economico.
Interessanti sono state, a mio avviso, le reazioni sulla stampa e
nell’opinione pubblica sia in Francia, sia in Italia, a seguito della
realizzazione del Viadotto di Millau (opera autostradale) inaugurata a fine 2004. Soprannominato fin da subito ponte dei record,
dei miracoli e dei misteri, il viadotto sospeso sul “gran canyon”
d’Europa, ha ridotto di 3 ore la strada dei commerci e delle
vacanze da Clermont Ferrand verso la Spagna e la costa francese.
Orgoglio dei cittadini francesi e ammirazione dei cittadini italiani, per il lavoro compiuto, per un viadotto con piloni che superano di 40 metri la Torre Eiffel.
Perché dobbiamo continuare ad ammirare le capacità architettoniche e di progettazione degli altri Paesi e blocchiamo sistematicamente le nostre?
Eppure le nostre tradizioni storiche e il nostro spirito non è questo. Tralasciamo l’instancabile vena costruttiva dei romani che
hanno realizzato strade e acquedotti ovunque in Europa, che resistono tuttora, se veniamo più ai giorni nostri dobbiamo ricordarci che la direttissima Firenze - Roma fu la prima linea ferroviaria
veloce in Europa e l’Autostrada dei Laghi fu la prima autostrada
al mondo. Le abbiamo realizzate noi, in Italia.
A questo punto le alternative sono due: realizziamo l’opera e
diamo via al processo di integrazione delle infrastrutture (ferrovie, porti, aeroporti, centri logistici e intermodali), tirando fuori
anche un po’ di orgoglio nazionale; oppure continuiamo ad ammirare e incensare, con atteggiamenti da provinciali, la velocità e
la bellezza del TGV in Francia e la loro capacità di realizzare dei
ponti con piloni di 350 metri in tempi record che abbattono i
tempi di percorrenza, l’efficienza e la precisione dei collegamenti ferroviari in Germania e la bravura e la capacità della Svizzera
che limita il traffico su gomma sui valichi a favore di un utilizzo
maggiore della ferrovia, dopo aver costruito tunnel ferroviari
sulle alpi. In questa seconda opzione possiamo, al tempo stesso,
continuare a lamentarci che l’Italia è in declino e che non si riesce a fare niente per la crescita economica.
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2011
Uno scontro
dai toni intollerabili
di Antonio Corradi, Segretario Generale Filt-Cgil Piemonte
Esiste in Italia un’opera pubblica o privata
(scuola, ospedale, asse di comunicazione
stradale, edilizia abitativa o produttiva)
realizzata tra il 1857 e il 1871, con i limiti
delle caratteristiche costruttive dell’epoca, che non sia stata sostituita da una
nuova infrastruttura, adeguata al contesto
tecnologico ed economico più recente?
Esiste, è il tunnel del Frejus, primo traforo ferroviario alpino (quelli stradali sarebbero arrivati molti anni dopo) e prima
linea di comunicazione ferroviaria
dell’Italia con l’estero. Il progetto del
nuovo tunnel di base risale al 1991 e da
allora solo grandi polemiche e nessun
avanzamento dei lavori.
Ovviamente le ragioni alla base del progetto sono altre rispetto alla semplice
necessità di aggiornare il tracciato, ma
questo è oggetto di approfondimento
nell’articolo che precede.
Interessa, invece, analizzare le caratteristiche del forte movimento di opposizione
locale e nazionale che, da anni, impedisce di
portare avanti la realizzazione dell’opera.
La protesta ha indubbiamente solide basi
locali, grazie ad un movimento di opinione
che è riuscito negli anni a creare una diffusa sfiducia nella comunità sulla reale
necessità dell’opera, sui danni ambientali
in fase di costruzione, sui pericoli di infiltrazione della malavita nei cantieri.
Per la verità, considerata la fase politica
che attraversa il paese, e l’incapacità del
Governo nazionale e regionale di porsi con
un minimo di credibilità nei confronti della
popolazione, non deve essere stata una
grande fatica.
Tuttavia, vista da Torino e dal Piemonte, la
vicenda TAV è sconcertante per il livello
che ha raggiunto lo scontro, senza precedenti per radicalità e durata.
È diventata una battaglia simbolo dell’opposizione sociale non a questo o quel
Governo, ma alla politica in generale, considerando un unicum indistinto ogni voce
favorevole alla realizzazione dell’opera, e
creando nella valle un clima che non ha
mai permesso una discussione serena.
Nella protesta si sono innestate componenti
violente, sicuramente estranee alla popolazione, ma dalla quale il movimento no TAV
avrebbe dovuto prendere le distanze con
maggiore nettezza, né il movimento stesso si
è mai organizzato efficacemente per isolare
le frange facinorose. In alcuni casi assalti
violenti ai cantieri sono stati perfino liquidati in dichiarazioni pubbliche come “passeggiate nei boschi alla ricerca di funghi”.
Per avere un’idea della pericolosità della
situazione basti dire che, secondo la
Prefettura di Torino, dall’inizio dell’anno
sono ben 321 gli addetti delle forze dell’ordine che presidiano i cantieri rimasti
feriti negli scontri, un numero imprecisato
tra i manifestanti; ci sono state aggressioni fisiche a dipendenti, titolari e familiari
delle ditte appaltatrici dei lavori, sono
stati dati alle fiamme mezzi di cantiere.
Certo, non si può ridurre la questione ad
un problema di ordine pubblico, ma ormai
lo è diventato, anche per responsabilità di
chi dirige il movimento, e questo danneggia soprattutto le ragioni degli oppositori
del progetto.
Il dialogo è e rimane l’unica soluzione ed
anche la CGIL piemontese ha cercato di
contribuire a questo, innanzi tutto con il
dibattito interno.
La posizione favorevole del nostro sindacato alla TAV, scaturita dai documenti ripetutamente approvati in ben quattro congressi, cioè nell’arco di sedici anni, è frutto di
un ampio dibattito nelle categorie e nelle
Camere del lavoro, che ha cercato di tenere insieme le ragioni di tutti.
In particolare, occorre riconoscere che in
questi anni la FILT piemontese è stata la
casa di chi è favorevole e di chi è contrario
all’opera; tuttavia ci sono stati casi di RSU,
delegati ed attivisti presenti in val di Susa
ed appartenenti al movimento di opposizione che hanno reagito in maniera differente:
la grande maggioranza ha continuato con
lealtà e correttezza il proprio impegno nell’organizzazione, altri hanno ritenuto la
propria militanza no TAV incompatibile con
l’adesione alla CGIL.
Questo è uno dei frutti avvelenati della
protesta, il ritenere che il successo di questa battaglia, che alla fine è impedire la
realizzazione di una linea ferroviaria, non
di una centrale nucleare, venga prima di
ogni altra istanza di rivendicazione politica e sociale e che, anzi, opporsi alla TAV
come simbolo di sviluppo distorto, sprechi
e corruzione, è la strada giusta.
È evidente che non può essere questa la
linea della FILT e della CGIL.
Tuttavia il nostro sindacato, fermo restando le posizioni assunte, non rinuncia a
chiedere al Governo nazionale, agli enti
locali e a LTF (Lyon-Turin ferroviarie, realizzatore dell’opera) trasparenza nelle
procedure, chiarezza nella comunicazione, informazioni costanti alla popolazione.
Questi elementi, insieme all’occupazione,
alla sicurezza dei cantieri e al controllo sul
sistema degli appalti, sono alla base dell’accordo siglato nel febbraio 2011 con la
Regione Piemonte, che prevede la realizzazione di una speciale procedura, sul modello della legge Dèmarche Grand Chantier utilizzata in Francia, per programmare ed ottimizzare gli effetti dei cantieri sul territorio,
con lo scopo di governare le ricadute.
Ad esempio, in val di Susa, non saranno
realizzati villaggi prefabbricati per ospitare gli operai, i quali saranno tutti alloggiati negli alberghi della zona.
Il dibattito continua, sta a tutti i soggetti
coinvolti trovare un punto di equilibrio,
possibilmente prima che l’attuale tunnel
del Frejus compia altri 140 anni.
27
2011
Un secolo
sull’orlo del precipizio
di Nino Cortorillo, Segretario Generale Filt-Cgil Lombardia
Da dove ripartire se i nodi appaiono inestricabili e i luoghi delle
decisioni non sono solo nel nostro paese? Se non si ha
la capacità di innescare la crescita, resteremo fermi con nessuna redistribuzione del lavoro ed entrate fiscali che si ridurranno. Se l’evasione resterà il male incurabile del paese, la riduzione del debito sarà solo riduzione del welfare, nazionale e locale.
Servirebbe un’assunzione di responsabilità e una corresponsabilità di tutti i soggetti sociali che capiscono che il baratro è vicino.
“In principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche
di proferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenziali: l’idea s’ammette per isbieco in un
aggettivo. Poi, non vera peste; vale a dire
peste sì, ma in un certo senso; non peste
proprio, ma una cosa alla quale non si sa
trovare un altro nome. Finalmente, peste
senza dubbio, e senza contrasto: ma già ci
si è attaccata un’altra idea, l’idea del
venefizio e del malefizio, la quale altera e
confonde l’idea espressa dalla parola che
non si può più mandare indietro”.
Si tratta di un passaggio del XXXI capitolo
de “I Promessi Sposi”, libro che mantiene
attorno alla storia semplice di Renzo e
Lucia i caratteri e la raffigurazione non
solo degli italiani e di quel tempo, ma di
avvenimenti, pur diversi, che si ripetono
con straordinaria analogia nello svolgersi e
nell’incapacità di affrontarli come fossero
una profezia.
La storia somiglia nelle accuse e nell’odio
mosso ai medici che per primi l’avevano
riconosciuta e che per questo erano additati per la strada come “coloro che volevano
per forza ci fosse la peste” e indicati “d’esser bersaglio delle grida, avere il nome di
nemici della patria, pro patriae hostibus”.
Somiglia, dopo che la peste era ormai diffusa e scordandosi d’aver già vissuto epidemie simili, nella ricerca degli untori o
delle streghe cui far risalire ogni causa;
riconoscendoli in quelli che “eran scappati da Madrid quattro francesi ricercati
come sospetti di sparger unguenti velenosi, pestiferi” o “in ogni parte della città si
videro le porte delle case e le muraglie per
lunghissimi tratti, intrise di non so che
sudiceria, giallognola, biancastra sparsavi
28
come con delle spugne” e in ogni stranezza vera o così interpretata o in ogni persona, da medico a stracciano o forestiero,
utile a sviare ogni responsabilità.
Somiglia, mentre avanzava la peste e l’allarme dei medici, alle pubbliche feste che
il Re Filippo IV ordinò per la nascita del
primogenito Carlo che, radunando per tre
giorni tutta la popolazione, favorì irrimediabilmente il contagio.
Somiglia al Governatore che, su mandato del
Re, era impegnato nel lungo e dispendioso
assedio di Casale lasciando così la città
di Milano abbandonata e non governata.
La peste e il suo nascondimento somiglia,
inutile nasconderlo, alla nostra crisi.
Somiglia alla superficialità con cui si è
assistito al suo dispiegarsi, alle analisi che
si sono fatte, all’attenzione posta al suo
contrasto, alla ricerca di trovarne i
responsabili come se coincidesse con la
soluzione.
Questa crisi, insieme nel e del mondo, è
crisi dell’Europa e del suo futuro.
Meglio di quella parte che sino a ieri continuavamo a ritenere il primo mondo.
In Italia, abituata stancamente all’abuso
della parola crisi da quasi 30 anni, crisi
anche morale e civile. Delle sue istituzioni
sputtanate ogni giorno, da anni, da
Berlusconi che ci ha trascinati in un paese
irreale o forse troppo reale, dove esiste una
menzogna per ogni parola e ogni parola è
menzogna. Dove quel che è sempre apparso inaccettabile e riprovevole lo diviene
solo a difesa di chi eleva una vergogna, se
non un reato, una libertà non giudicabile.
Dovremmo aver la lucidità che deriva solo
dall’essere consapevoli che questo è
tempo di molte domande e si deve diffidare di chi non ascolta e che quindi non ha
risposte. Si tratta di un tempo in cui siamo
circondati da troppi incendi per pensare di
spegnerli con le mani nude.
Mi accade spesso di leggere e ascoltare
analisi, che partono da opinioni anche
molto distanti, che mi convincono, ma allo
stesso tempo, vedo la loro parzialità.
E, soprattutto, quasi mai riesco a trovare
2011
quel filo che mi dia la sensazione, non dico
la certezza, che seguendolo riesca a portarmi/ci fuori dal labirinto.
Tentare di leggere la realtà resta l’unica
via per avere e trovare una speranza che
può partire solo dalla conoscenza e dalla
consapevolezza dei processi avvenuti o
dentro cui siamo immersi. Provando a mettere dei punti fermi nell’uscita da questo
labirinto, senza dare l’idea di riprendere
il cammino a ogni passo o di cambiare
direzione a ogni bivio.
La crisi del 2008, da cui non siamo riemersi,
ha cambiato il mondo. Ma con una profondità che non ha confronti con quella del ’29.
Dovremmo abituarci a sostituire il termine
crisi con trasformazione. Perché la prima
sembra un fatto contingente e quindi risolvibile. La seconda ci impone di capire che
non si tornerà al punto di partenza. Questa
crisi è la somma e l’intreccio di molte crisi.
Quella finanziaria, quella produttiva, quella del debito, che producono trasformazioni sociali, culturali, antropologiche.
Una trasformazione non lineare. Non
governata,
se
non
nelle
forme
più acute e con provvedimenti spesso
emergenziali.
La crisi/trasformazione ha reso evidente
alcuni fenomeni avvenuti nei decenni precedenti, ma che certo hanno subìto
un‘accelerazione.
Fenomeni in parte dovuti a scelte economiche liberiste. Ma anche a rotture geopolitiche prive di volontà politica (pensiamo alla volontà di uscire da una lunga,
ma non permanente, arretratezza di
paesi che non sono più del terzo mondo),
o alla democratizzazione, politica ed economica, dei paesi della cosiddetta Europa
dell’est, o di interi continenti quali il Sud
America.
Questa crisi/trasformazione, avviata circa
trent’anni fa, ha prodotto uno spostamento
e una distribuzione/redistribuzione della
ricchezza che ci appare oggi ormai delineata e che si può individuare in sei punti:
1. l’attività economica che aveva il suo
centro nella produzione industriale
dei beni e dei prodotti si è spostata
prima a quella dei servizi e poi alla
finanza e all’intermediazione improduttiva delle attività;
2. la produzione industriale si è spostata
da Europa e Usa verso altre aree del
mondo anche per via di un costo del
lavoro e di diritti non confrontabili. Si
genera una rivoluzione industriale
paragonabile a quella inglese del ‘700.
Un’immensa inarrestabile crescita
industriale che ha determinato esportazioni, profitti, riserve finanziarie e
quindi potere;
3. in Europa e Usa i tassi di crescita si riducono e si avvicinano allo zero. Per la
prima volta dal dopoguerra le retribuzioni da lavoro restano ferme. La ricchezza
si sposta dalla produzione alla rendita ed
ai patrimoni ed è controllata e governata dalla finanza anziché dagli stati;
4. in Europa e Usa aumentano le disuguaglianze di reddito e sociali. Le entrate
fiscali complessive non si riducono, ma
sono ridotte le aliquote ai redditi alti;
5. i debiti privati e quelli della finanza si
redistribuiscono o meglio si scaricano
su quelli pubblici. I debiti privati diventano degli stati;
6. la ricchezza, quasi sempre patrimonio
cumulato, si concentra nelle fasce anagrafiche più adulte, mentre, per la
prima volta, chi entra nel mondo del
lavoro ha una prospettiva di reddito e
di pensione minore dei propri genitori.
Per la prima volta a maggiore scolarità
corrisponde, per fasce generazionali,
minore stabilità e minore reddito.
In sintesi, è avvenuta una crisi/trasformazione che ha determinato una redistribuzione geografica, produttiva, sociale e
anagrafica della ricchezza.
La crisi del 2008 non ci permette semplicemente di tamponare effetti gravi ma congiunturali: impone di ripensare a quel ciclo
lungo durato un secolo. Non a caso oggi le
differenze non sono tanto dentro l’Europa
ma tra questa e i paesi emergenti.
Lo sguardo lungo ci dice che dentro un
processo democratico che ha riconosciuto
i diritti sociali del mondo del lavoro:
● la crescita economica, la produttività e la
tecnologia, l’azione del sindacato nelle
fabbriche, nelle imprese, ha prodotto la
redistribuzione a vantaggio dei salari;
● lo stato moderno, attraverso la fiscalità,
lo strumento che qualifica la redistribuzione sociale della ricchezza, ha prodotto
il welfare. Scuola, sanità, assistenza,
previdenza, lavoro.
Si trasforma e si riduce quella redistribuzione, nei luoghi di lavoro e nella società,
che ha cambiato così profondamente la
vita delle persone lungo un intero secolo.
Ogni paese in Europa, socialdemocratico o
conservatore, ha cercato un equilibrio
dato dai rispettivi valori, dalla storia o
dalla realtà economica, ma certo rendendo quest’aerea più simile al proprio interno di quanto non siamo abituati a ritenere. Non sarebbe, infatti, nata progressivamente l’Unione Europea che conosciamo.
Pensare con lo sguardo lungo significa oggi
capire che non si tornerà a prima della crisi.
Non siamo in presenza di un debito che va
estinto, ma di una trasformazione. Siamo
però dentro una trasformazione non lineare.
In poche settimane prima la Cina ha incoraggiato e sollecitato gli Usa a risanare i
propri conti e sostenere i consumi interni,
dopo i paesi del Brics (Brasile, Russia, India,
Cina, Sud Africa) si sono riuniti dando sostegno all’Euro e dichiarandosi pronti, in caso
di privatizzazioni, a finanziare acquisizioni
o acquistare debito. Di quali ulteriori prove
abbiamo bisogno? Come non capire che la
stessa leadership americana, sostenuta
anche dalla capacità di spesa e intervento
militare, sta mutandosi, lasciando spazio
forse a nuovi equilibri, ma forse a conflitti
non regolabili e instabilità non governabili?
L’Italia assomma i problemi del mondo,
quelli dell’Europa e quelli nazionali che
fanno di noi uno dei paesi più esposti ad
un’implosione dagli esiti non prevedibili.
Una Grecia non curabile.
Siamo stretti da elementi quali il debito
pubblico vicino ai 2 mld di Euro, una
crescita che nel periodo 1995-2015 è la
più bassa d’Europa, una produttività e
29
2011
competitività bloccata, un quadro politico
ed una classe di governo e dirigente concausa di quanto avvenuto, un’intera area
del paese priva di prospettive e con una
malavita endemica, un’evasione fiscale
che da problema sociale ed economico è
diventato nodo della democrazia. Se questo è pessimismo, ognuno dovrebbe provare in una lavagna immaginaria a mettere
su un lato gli elementi di pessimismo e sull’altro quelli di ottimismo.
Se le risorse si riducono dovremmo sostenere l’inversione del principio No taxation without representation. Nelle società moderne il non pagamento delle tasse è
la negazione del principio di comunità e
solidarietà prima ancora che obbligo civile
o normativo. L’evasione è oggi insopportabile non in astratto per i conti pubblici, ma
perché a una parte del paese è dato di
farsi carico del debito mentre un’altra può
continuare ad arricchirsi.
Il centro destra, avvolto in ogni decisione
dagli interessi economici, personali, psicologici di Berlusconi, si è mosso in questi
anni su piani anche tra loro dialettici,
derivanti dall’asse con la Lega. Un liberismo sociale (protettore però di tutte le
caste professionali ed economiche) che ha
colpevolizzato il lavoro pubblico e privato, un’ideologia dell’impresa e particolarmente della micro impresa e delle partite
Iva mitizzate come le nuove figure sociali, un federalismo rozzo che chiudeva
l’Italia al mondo e all’Europa, e chiedeva
di spostare le risorse calanti dal centro e
dal sud al nord.
La nemesi della Lega è evidente perché non
riesce a tenere insieme il mantra religioso
del federalismo o secessione mimetizzata
(sempre meno paradiso in terra e soluzione
d’ogni problema e sempre più medicina con
il solo effetto placebo), con l’annuncio di
espulsione dei sindaci che dissentono e
l’aumento delle imposte locali.
Con Tremonti adatto a fingere politiche
economiche con la lungimiranza di un
fiscalista e capace solo, anziché immaginifiche filosofie colme di paure e speranze,
di tagliare le voci di spesa sociale senza
curarsi delle conseguenze.
A questo si aggiunga una componente ideologica, astiosa, quasi vendicativa, che
immagina come suo unico scopo di riscrivere la storia del sindacato, dei rapporti
capitale/lavoro, delle relazioni sindacali,
con una furia demolitrice che, dopo aver
diviso il sindacato confederale, con parte
di questo partecipe alla demolizione
anche della propria storia, si trova oggi a
fronteggiare le stesse perplessità dei datori di lavoro. E certo non basterà la grande
presenza della Cgil a tenere insieme una
difesa del lavoro e delle persone e cercare
una difficile via d’uscita.
30
Quanto all’opposizione, è indecisa su come
venir fuori da questo governo, in un alternarsi di indicazioni quali: via Berlusconi ma
scelga lui il successore (aspetta e spera),
governo di unità nazionale, no a elezioni
anticipate, elezioni subito, elezioni sì ma
fra qualche mese, Nuovo Ulivo, sinistra
unita, centro sinistra. Resta il dato che nel
paese vi è un consenso al momento maggioritario fuori dal centro destra che non trova
una rispondenza né in termini di alleanze
né in termini di progetto e programma. È
evidente la domanda, ancorché non lineare, ma le offerte non sono adeguate. A
volte penso che, anziché dar ragione sempre al Presidente Napolitano, basterebbe
far quel che dice una volta su due.
E non ci si può rivolgere ad un’antipolitica
che non ha mai, nella storia del paese,
portato un consenso a sinistra. Ma questo
dovrebbe indurre a comportamenti da
parte della politica, di cui facciamo parte,
non corrispondenti alle scelte che si compiono o ai sacrifici che si chiedono.
Da dove ripartire se i nodi appaiono inestricabili e i luoghi delle decisioni non sono
solo nel nostro paese?
Continuo a pensare che tra discussioni
oscillanti sulle cause, spesso confondendole, e sugli effetti della crisi, concentrando
qui la nostra iniziativa, dovremmo privilegiare quelle date dal come influire sulle
trasformazioni in atto.
Il debito pubblico, oltre a richiedere,
anche per via degli interessi sempre crescenti e dell’inaffidabilità di questo
governo all’estero, di essere drasticamente ridotto nel medio periodo, non
permette le classiche ricette keynesiane
di spesa pubblica.
Se la crescita (quale, come, dove?) non si
ha la capacità di innescarla, resteremo
fermi con nessuna redistribuzione del e nel
lavoro ed entrate fiscali che si ridurranno.
Se l’evasione, la leva fondamentale su cui
agire nelle entrate, resterà il male incurabile del paese, la riduzione del debito sarà solo
riduzione del welfare, nazionale e locale.
Proprio perché il paese è diviso e tutte le
ricette di chi ha governato ci hanno portato sull’orlo di un precipizio, mentre l’orchestrina di Apicella suona ancora a
Palazzo Grazioli, servirebbe un’assunzione
di responsabilità e una corresponsabilità di
tutti i soggetti sociali che capiscono che il
baratro è vicino.
Proprio perché la trasformazione sarà radicale si deve, ora e subito, provare a dare
una direzione al mutamento. Se non
vogliamo che il debito sia solo taglio del
welfare e la crescita mancata solo precarietà, dobbiamo immaginare che si debba
aprire una fase lunga durante la quale un
nuovo governo e un nuovo patto sociale si
facciano carico di ricostruire una nuova
crescita, un nuovo welfare da cui derivi
una diversa redistribuzione.
Un vasto patto sociale che agisca non solo
a livello nazionale, sulle indispensabili
scelte generali, ma avvenga anche a livello locale, perché stiamo ancora sottovalutando, magari mentre protestiamo, che
l’impatto potrebbe travolgere in pochissimo tempo quanto è stato costruito in
decenni. Proprio chi deve tenere insieme
rappresentanza sociale e ruolo nazionale,
come compito che ci siamo assegnati nella
nostra storia, non deve aver timore di
affermare che una crisi che trovi le soluzioni fuori o contro una parte del paese
non è nelle nostre opzioni.
L’assunzione di responsabilità non è una
scelta rivolta a noi stessi, ma al paese.
Se questo non avverrà, dovremo attendere
una lettura a posteriori per capire come sia
stato possibile dissipare un intero patrimonio nazionale e intaccare le condizioni
sociali e umane di così tante persone.
L’invito a noi tutti è quello che ancora
Manzoni ci riporta nel ricostruire gli avvenimenti della peste a Milano. Provando a ricostruirlo adesso e non lasciandolo agli storici.
“Solamente abbiam tentato di distinguere
e di verificare i fatti più generali e importanti, di disporli nell’ordine reale della
loro successione per quanto lo comporti la
ragione e la natura d’essi, d’osservare la
loro efficienza reciproca, e di dar così, per
ora e finché qualchedun altro non faccia
meglio, una notizia succinta, ma sincera e
continuata, di quel disastro”.
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2011
Non è un Paese per donne
di Tatiana Fazi, Segretaria Nazionale Filt-Cgil
Se si puntasse sul lavoro femminile, se si permettesse alle donne di dedicarsi meno alla
casa e tirare fuori dal cassetto diplomi e lauree, l’Italia potrebbe farcela prima e meglio.
Un interessante articolo di Chiara Saraceno su “Repubblica”
dell’8 settembre iniziava così: “Tra i tanti difetti e ingiustizie
della manovra varata dal governo una sta passando sotto silenzio: i costi della manovra saranno pagati direttamente e indirettamente in modo sproporzionato dalle donne, come lavoratrici e
come principali responsabili del lavoro famigliare”.
La questione di genere è, infatti, completamente assente dalle
scelte di politica economica che emergono analizzando la manovra del Governo.
Questa assenza si percepisce ovunque: dalle questioni legate al
mercato del lavoro a quelle di sanità pubblica passando per le
politiche sociali. Si tagliano fondi, si abrogano leggi, si gettano le
basi per ulteriori discriminazioni. Una macchina demolitrice alimentata ad indifferenza.
Ed è semplice rendersene conto.
Chi, se non le donne, pagherà il prezzo principale dell’articolo 8
che mira a cancellare le tutele previste dai contratti nazionali e
dall’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori?
Chi si accollerà i 16 miliardi di tagli alle agevolazioni assistenziali nel 2012 e nel 2013?
E su quali vite incideranno i minori servizi sociali che saranno erogati dagli enti locali a seguito dei tagli?
Ma non basta: le donne sono la maggioranza dei dipendenti pubblici i cui rinnovi contrattuali sono stati bloccati per 7 anni e
sono la maggioranza degli insegnanti a cui sono bloccati gli scatti di anzianità. Sono anche le stesse alle quali, già qualche
tempo fa, è stata innalzata l’età della pensione a 65 anni, avendo preso come pretesto la procedura aperta contro l’Italia,
motivata in sede europea dalla necessità di contrastare ogni
politica discriminatoria, in particolare di non discriminare le
donne, obbligandole ad andare in pensione anticipatamente e
dunque con pensioni più basse.
Nessuno, compreso il Governo e la Ministra delle Pari Opportunità,
ha mai obiettato, però, in sede europea il fatto elementare che le
donne nel nostro paese non sono obbligate ad andare in pensione
anticipatamente, ma possono farlo se lo scelgono, come disposto
dalla legge 903 del 1977 e che, dunque, non si tratta di discriminazione, ma di una possibilità, di un’opportunità positiva.
Esiste, inoltre, una direttiva dell’Unione Europea, la 79/7 del 1978
che, intervenendo sull’obbligo di rimuovere ogni discriminazione,
lascia salva la possibilità per gli stati di fissare età pensionabili
diversi tra i sessi. Ma i governi italiani non sono riusciti, o non hanno
voluto dimostrare, che a quella direttiva ci si doveva riferire.
Con una legge approvata dal parlamento italiano, si era almeno stabilito di far confluire i risparmi derivati da quest’allungamento (120
milioni nel 2010 e 242 nel 2011) in un Fondo strategico con il quale
finanziare politiche e servizi di sostegno alla conciliazione e alla non
autosufficienza, per l’inclusione delle donne nel mondo del lavoro.
Non investimenti a fondo perduto, ma un modo per ridare respiro al
potenziale femminile e per investire nella crescita del paese.
Oltre il danno anche la beffa: la manovra finanziaria ha cambiato destinazione a questo tesoretto, quelle somme sono state utilizzate per tappare il buco nei conti dello Stato, nel silenzio più
assoluto della stampa e della politica.
31
2011
Ciò fa il paio con l’anticipo del percorso per l’innalzamento dell’età pensionabile delle donne nel settore privato al 2014, una
misura che porterà a regime a risparmiare 720 milioni di euro
l’anno e, anche qui, neanche un centesimo sarà reinvestito per
rafforzare i servizi, liberando le donne da quel lavoro di cura che
grava ancora per la maggior parte sulle spalle femminili.
Da non sottovalutare, in questa “lettura di genere” della manovra,
anche i numerosi tagli previsti per gli enti locali, che andranno ad
indebolire tutto quel sistema di Welfare sociale che svolge un ruolo
fondamentale di alleggerimento dei compiti di cura di una donna:
● I servizi per i disabili e gli anziani (assistenza domiciliare, attività
di socializzazione…)
● I servizi per i minori (assistenti sociali, sostegno educativo, attività ricreative e culturali, consultori, sostegno alla maternità…)
● La scuola (asili nido, riduzione degli orari, mense scolastiche
sempre più costose...)
● I trasporti ( in particolare trasporto urbano e locale)
Saranno ancora una volta le donne (mamme, nonne, zie, sorelle)
a sopportare il peso della mancanza di servizi, donne su cui si scarica il peso del lavoro domestico e di cura, più di 5 ore di media
al giorno contro un’ora e mezzo degli uomini. Aumenterà cosi la
difficoltà di conciliazione tra lavoro e famiglia costringendo
molte di loro a lasciare il lavoro; aumenterà il numero di donne
disoccupate che già nel nostro Paese è del 46% (con differenziali
di carriera e retributivi medi intorno al 20%), come dire che una
donna su due non lavora.
Per i trasporti, anche se è difficile valutarne con esattezza l’impatto di genere, è importante osservare che, essendo le donne
quelle che spesso accompagnano negli spostamenti i minori e gli
anziani e che devono districarsi nel difficile compito di “incastrare”
orario di lavoro, uscita dalle scuole, spesa, medico, un’organizzazione più efficiente del trasporto locale potrebbe migliorarne
sensibilmente la qualità della vita.
Misure queste che penalizzeranno ulteriormente la situazione già
insostenibile del Sud Italia, dove la carenza dei servizi è fortissima,
32
la disoccupazione raggiunge picchi spaventosi (le donne che lavorano sono solo il 30,3%), l’abbandono scolastico è in forte aumento.
Ne risentiranno le famiglie con meno possibilità economiche che
non avranno modo di sopperire in altro modo alla carenza di servizi e che dovranno ritenersi fortunate se potranno contare su un
“welfare familiare” che sarà “ovviamente” tutto al femminile.
Mi sento di affermare che la scelta che i paesi europei e l’Italia
in particolar modo stanno compiendo, di politiche iper - restrittive avviterà l’economia del continente in una spirale recessiva
sempre più grave.
I tagli non serviranno per ridurre l’indebitamento, ma distruggeranno quel che resta del welfare europeo: i sistemi pensionistici,
sanitari, formativi, assistenziali con un danno enorme per tutti i
cittadini che avrà un impatto ancor più pesante sulle donne.
Al contrario, se si puntasse sul lavoro femminile, se si permettesse alle donne di dedicarsi meno alla casa e tirare fuori dal cassetto diplomi e lauree, l’Italia potrebbe farcela prima e meglio.
Non è solo una questione di pari opportunità, ma è una questione
di ripresa economica e lo ha detto Mario Draghi, attuale presidente della Bce: “la scarsa partecipazione del femminile al mercato
del lavoro è un fattore cruciale di debolezza del sistema”.
Migliori condizioni di vita delle donne significano benessere guadagnato per tutti.
Non dobbiamo tacere, non possiamo permettere che la crisi sia
usata contro di noi. Bisogna chiedere a gran voce che nell’agenda politica sia messo non solo l’obiettivo della parità delle pensioni ma, anzitutto, quello della parità nel lavoro, del sostegno
alla conciliazione fra vita familiare e lavorativa.
Per far tutto questo c’è la necessità di muoverci insieme, di mantenere viva quella speranza che abbiamo visto accendersi in tante
donne (e uomini) il 13 febbraio del 2011, poi in altre occasioni fino
all’ultima di Siena, il 9 e 10 luglio, eravamo tante e siamo tante.
Allora non resta che ripartire da lì, da quelle bellissime piazze
perché noi siamo l’unica alternativa possibile...
SE NON ORA, QUANDO?
2011
Giovani sindacalisti
dei trasporti europei crescono
di Sara Tripodi, Comitato Politiche Internazionali Filt-Cgil
Il progetto Transunion è stato promosso da
ETF (European Trasport Federation), la
Federazione Europea dei Trasporti.
ETF comprende più di 240 sindacati, tra
cui la Filt-Cgil, appartenenti a 41 paesi e
rappresenta circa 2,5 milioni di lavoratori
divisi in sezioni: più di 275.000 trasporto
aereo civile; oltre 100.000 attività portuali; oltre 40.000 settore pesca; oltre 15.000
trasporti lagunari e fluviali; oltre 260.000
settore marittimo; oltre 845.000 settore
ferroviario; oltre 750.000 settore trasporto su gomma ed oltre 25.000 settore del
turismo.
Il progetto si è sviluppato attraverso l’analisi e l’articolazione di tre focus che hanno
dato vita ai tre pilastri del progetto: i giovani nei trasporti, le donne nei trasporti, il
cambiamento climatico. La Filt-Cgil nazionale ha incaricato un portavoce di riferimento per ogni pilastro.
Il progetto legato ai giovani ha visto la
mia partecipazione, assieme ad altri 60
ragazzi appartenenti ad oltre 40 stati
europei. “Transunion e i giovani” si è sviluppato attraverso 2 seminari: il primo a
Madrid il 5-6 maggio 2011, il secondo a
Berlino il 27-28 giugno 2011, per poi concludersi con la prima Conferenza
Internazionale dei giovani ETF a Riga il 2627 settembre 2011. L’esperienza del progetto Transunion è stata una grande
opportunità di scambio di conoscenze,
che ha permesso a tutti i ragazzi presenti
di spogliarsi dei propri nazionalismi e settori di provenienza per condividere gli
aspetti positivi e negativi che accomunano “il mondo del lavoro e il sindacato nei
trasporti visto dalla prospettiva dei giovani”. Nonostante la presenza di sindacalisti
e lavoratori provenienti da diverse realtà
del mondo dei trasporti e da stati con
modelli sindacali molto differenti, si è riusciti, grazie ai gruppi di lavoro, a fare un
interessante lavoro d’analisi e condivisione. In particolare, sono state affrontate
alcune criticità di merito legate alle
caratteristiche del lavoro ed altre più
politiche legate al modello sindacale
attuale ed a quello che si vorrebbe adottare, stante il nuovo scenario mondiale e
la crisi.
Tra le criticità di merito c’è sicuramente
un’analisi del lavoro:
● l’alienazione della condizione lavorativa
su turni, che comporta spesso la lontananza da casa con l’impossibilità di fare
programmi di lungo termine e l’inconciliabilità tra tempo libero, famiglia e
lavoro;
● i luoghi di lavoro spesso angusti, sporchi
ed insicuri; i cosiddetti “non luoghi”
come le stazioni, le banchine portuali o
l’abitacolo di un taxi;
● la mancanza di prospettive di carriera e
la precarietà costante del lavoro visti i
numerosi contratti atipici presenti;
● l’assenza di regole comuni che innescano meccanismi di paura dettati dalla
liberalizzazione, dove la concorrenza si
gioca sul costo del lavoro anzichè sulla
qualità del servizio, costringendo
soprattutto i giovani ad essere davvero
“disposti a tutto” dato che sono i primi
a rischiare il posto di lavoro.
Dal punto di vista politico, di giovani sindacalisti ETF, si è analizzato come in questo contesto risulti molto difficile avvicinare i giovani al sindacato. Il sindacato è
lontano, parla spesso un linguaggio che
non è quello giovanile e farne parte non è
vissuto come protezione e tutela dei
diritti, ma come minaccia per l’eventuale conferma del contratto di lavoro. Gli
strumenti di lotta come lo sciopero sono
deboli e male utilizzati a causa della
frammentazione delle sigle sindacali, con
una vanificazione degli effetti e dei risultati. A quest’elemento si aggiunge un
aspetto legato all’immagine stessa del
mondo dei trasporti, decisamente negativa. Potendo scegliere (ed in Italia, come
in molti paesi mediterranei dilaniati dalla
crisi economica, questa opzione non c’è
più), un giovane non cerca lavoro nel
mondo dei trasporti.
Non è un settore attrattivo, a parte qualche piccola isola felice come il settore
aereo dove Hollywood ha contribuito a
costruire l’immagine idilliaca di affascinanti piloti di volo. Ma oggi la realtà
anche del settore aereo è molto lontana
dalla finzione cinematografica. Non si
vive di sogni: la crisi di Alitalia, o di
Air Malta, solo per citarne alcune, sono
una realtà!
Si è rilevato che, in generale, il giovane lavoratore precario si trova in una situazione
33
2011
soprattutto, di ottenere dei fondi per
costruire una campagna pubblicitaria che
dia realmente voce ai giovani dei trasporti.
La risoluzione “Enough is Enough” è stata
approvata in occasione del Comitato
Esecutivo ETF tenutosi il 9-10 novembre
2011 a Bruxelles. Il prossimo passo sarà
quello di trasformare l’incubatrice di idee
dell’esperienza Transunion in azioni concrete. Il primo strumento reale è stato la
creazione di una rete: esiste un’utenza in
Facebook ETF Transunion ed è stato creato l’ETF social network, il principale strumento di scambio nonché laboratorio di
creazione della futura campagna Enough is
Enough.
A questo si aggiungono dalle proposte
chiaramente esplicitate nella risoluzione:
● la creazione di una costituzione dei giovani ETF;
● l’effettuazione anche per il 2012 di
seminari ETF dei giovani lavoratori dei
trasporti;
sociale dettata da una serie di mancanze,
in inglese “Lack”: mancanza di regole
comuni, mancanza di diritti e mancanza di
futuro che si traduce in individualismo e
superficialità di una vita a termine! Ma
una grande lezione di fiducia è venuta
dalla testimonianza a Riga di due ragazzi:
Kamel esponente della “primavera araba”
e Wbawe rappresentante del movimento
sindacale africano. Il loro è stato un messaggio di speranza nel cambiamento ed è
stato spunto di riflessione ed ispirazione
per la strategia futura.
Oltre ad un’analisi critica della percezione
del mondo dei trasporti e della strategia
sindacale atta al proselitismo, si sono articolate delle azioni strategiche che possono
davvero invertire l’attuale contesto negativo, a partire dall’immagine del settore.
Lo sviluppo di una campagna che metta in
risalto gli aspetti positivi del mondo dei
trasporti è il primo passo, accompagnata
naturalmente da azioni interne agli stati,
attraverso il dialogo sociale, la contrattazione collettiva nazionale e quella aziendale che prevedano, oltre a regole comuni, percorsi di formazione, contratti di settore forti e percorsi di valorizzazione premianti per i giovani.
Affinché ciò che si è detto nei seminari
diventi realtà è importante, prima di
tutto, consolidare l’identità dei giovani
nel sindacato. E ciò avviene attraverso
l’istituzione negli stati di strutture permanenti dedicate ai giovani ed attraverso
investimenti a loro dedicati: la Filt Cgil in
questo senso è già molto avanti.
Proseguono i progetti di formazione per i
giovani sindacalisti Filt-Cgil nella categoria, a livello nazionale e territoriale, che
34
hanno anche grande risonanza europea, (ci
guardano con ammirazione ed invidia!),
per le numerose campagne confederali
come “Se non ora quando”, “Non + disposti a tutto”.
In occasione della Conferenza nazionale dei
giovani ETF, al fine di dare voce ai giovani,
si è realizzato un flashmod presente su youtube e nella pagina facebook e un documento formale approvato all’unanimità: la
risoluzione dal titolo “Enough is Enough”,
“quando è troppo è troppo”.
Il titolo volutamente provocatorio ha
l’obiettivo di ritagliare uno spazio permanente all’interno degli organismi ETF e,
● la realizzazione della prima scuola primaverile di formazione e la creazione di
una struttura permanente dei giovani,
sia negli organismi ETF, sia in quelli dei
sindacati europei affiliati.
Tutto questo affinché i giovani, come ha
detto Eduardo Chagas (Segretario generale
ETF), non siano il futuro ma il presente!
Il prossimo appuntamento sarà la
Conferenza per il dialogo sociale a
Bruxelles nel Gennaio 2012, dove ci auspichiamo che, vista l’esperienza dei giovani,
il peso delle categorie sia filtrato da elementi comuni quali i giovani, le donne e la
sostenibilità ambientale: elementi costanti in un mondo di variabili!
2012
L’incidente Concordia:
andare oltre l’errore umano
di Maurizio Catino
Professore di Sociologia dell’organizzazione, Università di Milano Bicocca
Gli incidenti nelle organizzazioni sono
stati, per lungo tempo, spiegati come un
fallimento della tecnologia, o un errore da
parte degli operatori. Ciò che accomuna
tali spiegazioni è l’attribuzione di ogni
responsabilità dell’incidente non all’organizzazione e alle sue pratiche di funzionamento, ma al più comodo capro espiatorio: l’errore umano.
Tuttavia, quando accade un evento come
il disastro della nave Concordia, è tutta
l’organizzazione che fallisce: il management della nave, il sistema di gestione
del rischio e della sicurezza della compagnia, il sistema dei controlli. Non soltanto alcuni degli operatori a più stretto
contatto col compito che, in questo caso,
sembrano aver mostrato particolare
negligenza.
Possiamo suddividere i fatti relativi al disastro in due fasi: (1) la fase precedente
all’impatto della nave con lo scoglio e (2)
la fase di gestione dell’emergenza. È fin
troppo chiaro che quest’ultima è stata mal
gestita, con un’improvvisazione inefficace. Non è solo questione di eroismo o di
codardia, ma di organizzazione.
In situazioni di impreparazione e di inadeguata comunicazione, il panico prende
il sopravvento a prescindere dalle virtù
individuali. L’abilità nel gestire una
situazione critica dipende dalle strutture
che sono state sviluppate prima che l’organizzazione si trovi nello stato di piena
crisi. Per poter gestire una crisi, quindi,
occorre aver imparato prima che essa si
manifesti.
Ma l’aspetto più rilevante attiene alle fasi
che precedono il disastro. Come le ricerche
sugli incidenti organizzativi hanno dimostrato, esiste un periodo di incubazione di un
incidente durante il quale vi sono molti
segnali che, se colti in tempo, possono evitare il successivo disastro. Gli errori e gli
incidenti sono costruiti organizzativamente
e non soltanto da un errore umano o da un
guasto tecnico.
Questi eventi sono raramente determinati
da una singola causa (umana o tecnologica),
ma piuttosto derivano da molteplici eventi
diversi che, entrando in relazione tra loro,
causano un incidente.
Si tratta di “errori organizzativi”. Se è
vero dunque che un incidente è attivato
dall’errore di un operatore (un pilota, un
macchinista, un medico, un tecnico di una
centrale), è altrettanto vero che quell’errore s’innesta, spesso, in un sistema organizzativo caratterizzato da criticità latenti che
rimangono silenti finché un errore umano,
appunto, non le attiva. Ne deriva che, in
molti casi, le condizioni per l’errore umano
sono precostituite, seppur inintenzionalmente, dall’organizzazione.
Nel caso del Concordia, l’incidente sembra
essere stato causato da un mix di errore
umano durante una violazione di routine
delle regole di prudenza marinaresca.
L’errore umano è stato, probabilmente,
uno slip, uno scivolamento dell’attenzione
da parte del Comandante e del team di
comando che ha mal valutato la distanza
tra la nave e la costa.
La violazione di routine era la pratica dell’inchino, ovvero la deviazione di rotta per
avvicinarsi alle coste. Un’irrinunciabile
tradizione, così definita dal Sindaco del
Giglio, per far piacere sia ai passeggeri
(sul suo sito la Costa Crociere elogiava il
comandante della Concordia per l’inchino
all’isola di Procida), sia ai residenti sulla
terraferma. Non era una pratica sconosciuta, tutt’altro. Accadeva diffusamente
da molti anni e alla luce del sole. Era ben
nota ed era sottolineata anche con luci e
sirene da parte della nave e, talvolta, con
segnali sonori dalla terraferma.
Invece di essere sanzionata, tale pratica
era applaudita da chi vi partecipava. La
stessa nave Concordia più volte si era avvicinata alla terraferma derogando dalla
rotta prevista. Questa pratica portava ad
una “normalizzazione della devianza”,
dove il comportamento deviante pericoloso (l’avvicinamento sottocosta) diventava
prassi comune e incentivata.
Se ci si abitua a fare violazioni di routine,
l’errore umano – involontario – può accadere. In quella situazione, l’eccessiva confidenza del comandante e del suo team
derivante dalle esperienze passate, assieme ad un qualsiasi imprevisto - guasto tecnico o errore umano – può dar luogo ad una
situazione ingestibile e dalle conseguenze
catastrofiche. Sono stati rilevati decine di
avvicinamenti, anche da parte di altre
navi: dov’erano i controllori e i regolatori
(Capitanerie di porto, enti locali)?
È importante notare che un comandante,
per far questo, deve disattivare il sistema
d’allarme sonoro e visivo che lo avvisa della
variazione della rotta, con la complicità
degli altri membri presenti in plancia di
comando. Era una violazione di routine certamente ben nota ai controllori e all’impresa di appartenenza, ma da questi tollerata
se non talvolta elogiata. In una situazione
di questo tipo, il limite oggettivo da rispettare (la distanza di sicurezza dalla costa)
diventa un limite soggettivo da sfidare:
ogni volta ci si avvicina un po’ di più. Il
primo errore, poi, genera un disastro.
Un altro aspetto nel caso Concordia attiene
al sistema di comando. Anche ammettendo
che la causa di tutto sia il comandante,
sorgono due dubbi di natura organizzativa.
Il primo attiene alla selezione della persona da molti anni al comando e del suo
staff: chi li ha scelti? Quali erano i confini
tra il livello personale e quello professionale? Erano previsti test psicoattitudinali e
verifiche della loro capacità di gestione?
Erano stati addestrati, attraverso la simulazione, a gestire un’emergenza? Come
accade per i piloti civili e militari, ad
esempio.
Una seconda questione attiene alla catena
di comando. È emerso chiaramente che si
trattava di un sistema piramidale dove se
il comandante sbaglia tutta l’organizzazione diventa vulnerabile. Ma questa è una
regola organizzativa inadatta per guidare
sistemi così complessi e a rischio.
L’aeronautica militare italiana, ad esempio, funziona in altro modo. Durante le
operazioni di volo, se un pilota si accorge
di un qualcosa di cui il leader non è a
conoscenza, prende temporaneamente il
comando per poi restituirlo, quando il leader ha ripreso consapevolezza della situazione. In questo modo l’organizzazione è
più capace di affrontare eventi inaspettati. Il contrario della nave Concordia dove,
a parte la tardiva risposta dell’ammutinamento, se il leader sbaglia o va nel panico,
tutta l’organizzazione si distrugge.
35
2012
SUD
tra esaurimento di assistenzialismo
e nuove rivolte
di Serena Sorrentino, Segretaria Nazionale CGIL
Siamo proprio sicuri che la crisi sociale del
Sud sia da attribuire all’esaurimento di
“assistenzialismo”?
Cosa è successo nel Sud dalla fine dell’intervento straordinario all’inizio della crisi,
questa sarebbe la domanda da porsi.
Il Ministro Barca appena insediato ha svolto una relazione al Parlamento in cui sintetizza la fotografia del Sud: “Al divario
col Centro Nord in termini di reddito, stazionario da un cinquantennio, si accompagnano divari in tutti i servizi pubblici fondamentali per la qualità della vita dei cittadini. Per alcuni di essi si notano miglioramenti (accesso al servizio scolastico e
livelli di apprendimento, cura dei bambini,
reti ferroviarie, gestione dei rifiuti urbani,
servizi energetici); per altri non si vedono
ancora segnali di cambiamento (giustizia,
sicurezza – dopo il miglioramento degli
anni ‘90 – cura per gli anziani, ricerca e
innovazione, reti e società digitali, servizio idrico integrato, servizi alle imprese).
L’insieme di questi servizi, da cui dipendono,
ad un tempo, crescita e inclusione sociale,
configura l’agenda della politica per la
coesione territoriale”.
36
Certo, se il punto di riferimento è un cinquantennio, in termini di reti e servizi, il
Sud ha fatto grandi passi avanti ma non al
passo con il resto d’Italia, l’Europa e il
Mediterraneo.
Il Ministro, quando scrive, sa bene che nel
Mezzogiorno un serio investimento sui
fattori di contesto economici e sociali su
cui puntare per determinare condizioni di
competitività, sostenibilità e benessere,
ad oggi, non c’è mai stato.
Per titoli e un po’ grossolanamente potremmo fare alcune rapide affermazioni.
La Cassa per il Mezzogiorno e poi AgenSud
ebbero un effetto positivo per l’industrializzazione forzata e le prime grandi infrastrutture (ancora oggi i poli industriali e gli
assi di collegamento derivano da quell’impostazione), ma deleterio dal punto di
vista della costruzione di meccanismi di
consenso che hanno condizionato le classi
dirigenti meridionali. La Programmazione
Negoziata e la Strategia Europea di
Coesione hanno prodotto un primo impulso
positivo nel responsabilizzare le comunità
locali (forze economiche e sociali,
Istituzioni), in parallelo con importanti
In una situazione come
quella meridionale in cui
c’è forte disoccupazione,
desertificazione industriale, tagli di servizi, redditi
deboli, amministrazioni pubbliche sull’orlo del dissesto
economico, la domanda di
nuova assistenza cresce,
ma cresce anche un sentimento di riscatto sociale.
riforme amministrative come quelle dell’elezione diretta dei sindaci. È l’epoca
delle azioni di prossimità, delle esaltazioni
localistiche, dei tanti mezzogiorni. Nella
fase di programmazione dei fondi strutturali 2000/06, ad esempio, il completamento di grandi opere rivolte alla mobilità
urbana, investimenti nell’educazione e
nelle reti, nell’ammodernamento degli
interventi di sviluppo locale volti sempre di
più alla ricerca e innovazione, azioni positive rivolte all’occupazione, hanno prodotto risultati in taluni casi sorprendenti, dove
il Pil delle regioni meridionali era più alto
di regioni del centro nord e il reddito
medio delle famiglie riduceva la forbice
differenziale segnando un ciclo economico
positivo, se guardiamo all’andamento dei
consumi e dell’occupazione.
Sono anni in cui la deindustrializzazione
pesante dei centri urbani e la terziarizzazione spinta cambiano la fisionomia geomorfologica e sociale delle città. Tante
lavoratrici e lavoratori si ritrovano espulsi
dai cicli produttivi senza speranza di collocazione per età e formazione; molti di
loro, circa 100 mila, trovano nei lavori
socialmente utili e di pubblica utilità
l’unica forma di sostegno. A 16 anni dall’introduzione di queste norme esistono
ancora bacini di lavoratori non collocati o
collocati in aziende pubbliche e private
che sono andate in crisi a loro volta. Oggi
la vita media è migliore nelle città meridionali rispetto a vent’anni fa, ma il disagio sociale aumenta. Le politiche di tagli
lineari alla spesa pubblica, la contrazione
di risorse per le autonomie locali, la mancanza di investimenti mirati su settori
strategici per il mezzogiorno ed il Paese
(l’assetto del territorio, le reti energetiche, la mobilità di persone e merci, i beni
culturali e paesaggistici, l’industria manifatturiera e i servizi pubblici) hanno indebolito le capacità di restringere i divari
con risorse ordinarie e limitato l’effetto
dell’aggiuntività dei fondi strutturali che
2012
hanno colmato in parte quelle carenze.
Questo elemento era cominciato già nel
sestennio precedente in cui la capacità di
spesa delle regioni del Sud è stata elevata
tant’è che Molise, Abruzzo, Basilicata sono
uscite dall’ex obiettivo uno.
Per il 2007/13 abbiamo avuto una serie di
fattori concorrenti che hanno immobilizzato
spesa e, quindi, ristretto i margini di crescita e ridotto occupazione e assistenza. Il
blocco dei fondi Fas non ha attivato il cofinanziamento dei fondi regionali; gli enti
locali, che hanno visto diminuire sempre
di più le loro risorse, non potevano attivare investimenti per i vincoli del patto di
stabilità, col risultato di non avere risorse
per garantire servizi ai cittadini e non
poter spendere le risorse europee
rischiando il disimpegno (cioè di restituirle!), non dimenticando i primi effetti della
legge 42 sul federalismo fiscale che hanno
aggravato la situazione.
Nella crisi il sud strutturalmente più debole ha sofferto di più ed è più lenta la ripresa tendenziale, è l’area che cresce di
meno (solo lo 0,6%), in cui il tasso di esportazioni è più basso, due donne su tre sono
senza occupazione e un giovane su due è
senza occupazione, il tasso di risparmio
delle famiglie è più debole e le forme di
sommerso si ampliano sempre di più nel
lavoro e sul fronte fiscale. Inutile ripeterci che ciò trova una responsabilità nell’aver negato la crisi e nel non aver
approntato un piano per la crescita, nell’impianto derogalamentatorio utilizzato
dal precedente Governo che ha indebolito
regole e controlli, esponendo ancor di più
il sistema d’impresa e il lavoro ad una
competizione senza regole dove il prezzo
da pagare è rinunciare ai propri diritti (da
Fiat a Barletta) e, per le imprese, rivolgersi a pezzi di economia illegale.
Portualità, Alta velocità e Capacità, Banda
Larga, Energie Pulite, Servizi e Conoscenza
sono titoli che ci parlano di una scommessa
possibile, cioè quella di conciliare occupazione e crescita sistemica, che proiettano
il Sud nel panorama Euromediterraneo a
candidarsi come area strategica sia culturalmente che economicamente.
Invece, anche in questi mesi di vigenza del
Governo Monti, abbiamo registrato segnali
contrastanti. Le misure sulla previdenza
lasciano senza coperture tanti lavoratori
che erano coperti da accordi di scivolamento dalla mobilità alla pensione e che
ora si trovano senza reddito; l’assenza del
ripristino del fondo delle politiche sociali
rischia di far scomparire l’assistenza già
gravemente in crisi in questi anni di tagli
con un effetto sul lavoro e sui servizi; le
misure di stabilità e poi sulle liberalizzazioni sono state troppo timide in alcuni
casi (in prevalenza nel colpire i privilegi)
e fonte di pesanti ingiustizie (come nel
caso della non obbligatorietà dell’applicazione del contratto di settore per il trasporto ferroviario) e di scelte di politica
economica sbagliata come l’aumento dell’iva, in particolare sui carburanti, misura
di per sé recessiva.
In una situazione come quella meridionale
in cui c’è forte disoccupazione, desertificazione industriale, tagli di
servizi (non ultimi quelli
relativi a pendolarismo e
lunga percorrenza), redditi
deboli, amministrazioni pubbliche sull’orlo del dissesto
economico, la domanda di
nuova assistenza cresce, ma
cresce anche un sentimento
di riscatto sociale.
La forme di nuovo ribellismo
nascente vanno analizzate
nella loro differenza e prospettiva. Mentre, infatti, lo
sciopero dei pescatori è una
forma nota nel Sud di prote-
sta legittima e coerente rispetto al diritto,
anche nella crisi, di poter sopravvivere in
un settore come quello della pesca e dell’itticoltura scarsamente tutelato e sostenuto e sul quale l’aumento del prezzo dei
carburanti ha un’incidenza notevole, vale
lo stesso ragionamento per le mobilitazioni dei pastori e degli agricoltori. Per gli
autotrasportatori e per gli episodi accaduti in Sicilia, bisogna distinguere tra chi ha
rivendicato il diritto a svolgere il proprio
lavoro contestando l’aumento dei carburanti come azione ingiusta e vessatoria e
tra chi ha utilizzato rabbia e disperazione,
un finto ribellismo e la riproposizione
dell’uso della violenza come forma di
pressione sociale orientata a costruire
consenso verso certe forze politiche (in
periodo preelettorale) e di rivendicazionismo territoriale.
Il Sud oggi è una polveriera sociale, un
campo che può essere sminato solo se si
crea lavoro e s’introduce una misura
seria di lotta alla povertà ed agli abusi
(dal caporalato all’illegalità economica).
Il nuovo Piano di azione e coesione presentato dal Ministro ha in sé obiettivi
condivisibili, ma occorre agire in termini
più rapidi. Per questo la Cgil ha lanciato
il Piano per il Lavoro. Bisogna far ripartire l’Italia, non solo con le esortazioni,
ma ricostruendo quel principio di coesione sociale sempre richiamato dal
Presidente Napolitano che deve fondarsi
sul Lavoro di qualità. Se il Sud cresce
l’Italia può uscire dalla crisi, se ai giovani diamo una prospettiva diversa dall’emigrazione, dallo sfruttamento e dalla
rassegnazione, allora potremmo dire che
il nostro presente potrà condurre ad un
futuro migliore per loro.
37
2012
La vendita di ATAF
tra crisi del TPL e
difficoltà degli enti locali
di Gianfranco Conti, Segretario Generale Filt-Cgil Toscana
In ATAF SpA, la principale azienda di trasporto urbano dell’area metropolitana fiorentina, da oltre un anno è aperto scontro
fra le OO.SS. e la direzione aziendale, con
pesanti naturali coinvolgimenti della proprietà della stessa, ancora interamente
pubblica.
In un anno si sono ormai spese dieci iniziative di sciopero, con numerose manifestazioni e presidii, specialmente davanti alla
sede del Comune di Firenze, proprietario
dell’82,2% delle quote societarie.
Numerose sono state anche le iniziative collaterali (dibattiti, convegni, assemblee e
seminari) che la FILT di Firenze ha organizzato, assieme alla CGIL provinciale e con la
collaborazione delle strutture regionali,
centrate sull’iniziativa “Muovi Firenze
2012”, un sito (www.muovifirenze.com) ed
un tabloid attraverso i quali si è cercato di
indicare soluzioni di razionalizzazione della
mobilità dell’area metropolitana nel sistema regionale, per attenuare gli effetti della
crisi prodotta dai tagli al settore da parte
del Governo nazionale.
Le risposte dell’Amministrazione Comunale
di Firenze, direttamente o tramite l’azienda, sono state sempre negative e soprattutto tendenti ad individuare le ragioni
delle forti perdite strutturali di ATAF esclusivamente nel costo del lavoro e nei diritti dei lavoratori, bollati come privilegi,
anticipando quindi solo di qualche mese i
contenuti irricevibili del dibattito di questi
giorni sulle regole del mercato del lavoro.
Altrettanto anticipatrice è stata la proposta che lo stesso Comune di Firenze ha
avanzato da subito: la vendita dell’azienda, prima in quota azionaria (40%), poi
totalmente, dopo aver però proceduto allo
scorporo del patrimonio immobiliare.
Questa proposta ha trovato solo deboli
opposizioni negli altri otto Comuni proprietari, spazzata via dalla fortissima
resistenza che Firenze ha messo in campo
contro il processo di unificazione del
bacino di gara per il TPL, prevista per
il 2013 dalla Regione Toscana: l’atto di
conferimento alla stessa Regione delle
competenze necessarie per il bando unificato è stato deliberato dalla Giunta da
38
poco più di un mese ed attende ancora la
ratifica consiliare e questo solo per evitare il pesante storno di finanziamenti pubblici previsto per i bacini non inseriti
nella gara regionale.
Le OO. SS. hanno provato a respingere la
scelta della privatizzazione, proprio affermando la necessità dell’unificazione della
gara (prima) e dell’azienda (dopo) del TPL
in Toscana, un processo indispensabile, per
altro agevolato da una legge regionale del
1998, molto attenta alla salvaguardia del
servizio, dell’occupazione e dei diritti dei
lavoratori.
Lo scontro con l’Amministrazione Comunale
di Firenze è stato spesso durissimo, ma il
Consiglio Comunale del capoluogo alla fine
(il 22 dicembre 2011) ha votato l’avvio del
percorso di privatizzazione di ATAF SpA,
attraverso lo scorporo del servizio in un
nuovo soggetto (ATAF Gestioni srl) ed il 17
gennaio successivo è stato pubblicato il
“Bando relativo all’avvio di una procedura
di gara per la cessione da parte di ATAF
S.p.A. di ATAF GESTIONI S.r.l., del ramo di
azienda TPL e di specifiche partecipazioni
societarie” che ha raccolto sei manifestazioni d’interesse: 1) Autolinee Toscane SpA
di Borgo San Lorenzo (proprietario unico
RATP DEV di Parigi); 2) una costituenda ATI
tra Busitalia-Sita Nord srl, Autoguidovie SpA
di Milano e la cooperativa CAP che gestisce
il TPL principalmente nella provincia di
Prato; 3) SIA SpA di Brescia (proprietaria
l’inglese Arriva, ma di fatto la tedesca DB)
e tre aziende pubbliche italiane; 4) GTT
SpA di Torino; 5) Umbria TPL e Mobilità SpA
di Perugia; 6) TPER SpA di Bologna.
La FILT Toscana e la FILT di Firenze hanno
organizzato, il 17 marzo 2012, un incontro
con le strutture FILT delle regioni, dei territori e delle aziende che avevano manifestato l’interesse per l’acquisto di ATAF, per
un primo scambio di informazioni sulle
condizioni e le reali intenzioni delle aziende
coinvolte: dal confronto è emerso che i
soggetti probabilmente più interessati
sembravano essere quelli governati dai
grandi operatori (FS, RATP, DB), di cui i
primi due già presenti nel servizio affidato
dalle gare pubbliche toscane.
In particolare, l’azienda municipalizzata
parigina (RATP appunto), oltre ad alcuni
pacchetti azionari locali minori, possiede
il 51% delle quote di GEST SpA, la società affidataria della tramvia fiorentina,
della Linea 1 adesso attiva, ma anche
delle Linee 2 e 3 di cui é già prevista la
realizzazione.
Proprio il pacchetto azionario di GEST di
proprietà ATAF (il restante 49%) è entrato
nel bando di gara per la vendita di ATAF
Gestioni srl: i sei soggetti manifestanti interesse potranno presentare la loro offerta,
entro la data del 8 giugno, su una base economica di 13 milioni di euro, che rappresenta il valore delle società partecipate di
ATAF SpA (una decina) la cui parte preponderante è proprio l’usufrutto di GEST (quasi
il 41%), insieme (altro 26%) alle quote di
Linea SpA (l’altro soggetto che gestisce il
TPL fiorentino) ed infine alla partecipazione a Ferroviaria Italiana di Arezzo, per un
controvalore ulteriore del 17%; anche questi due ultimi soggetti risultano partecipati
indirettamente da RATP.
In questo pacchetto messo a bando, il
fenomeno rilevante risulta il controvalore
indicato per la parte scorporata da ATAF,
cioè il servizio, i mezzi ed il lavoro: solo
400.000 euro (il 3% del totale) a fronte di
16 milioni di chilometri per oltre 35 milioni di euro di finanziamento pubblico, 400
mezzi e più di 1.200 lavoratori.
L’articolazione dell’offerta messa a bando
manifesta una volontà amministrativa
chiara ma non condivisibile: liberarsi di
una perdita economica (oggi pare attorno
agli 800.000 euro mensili) vendendo la
gestione di servizi pubblici - pubblicamente
2012
finanziati - senza alcun tentativo di rivalorizzazione, preoccupandosi solo di salvare
il patrimonio immobiliare con cui provare
a colmare il debito pregresso, chiamarsi
fuori, cioè, da qualsiasi responsabilità
gestionale, ma soprattutto politica della
qualità dei servizi offerti ai cittadini.
La scelta ha evidenti analogie con quelle
del Governo Monti, soprattutto nell’individuazione dei soggetti a cui far pagare le
criticità economiche prodotte da evidenti
insufficienze gestionali, però con l’aggravante, in sede locale, del tentativo di
attribuire al lavoro ed ai lavoratori le
responsabilità quasi esclusive del deficit di
ATAF e di aver provato a giustificare la
scelta della privatizzazione solo con l’indisponibilità proprio dei lavoratori a veder
ulteriormente compressi diritti, qualità
della vita e del lavoro.
In questo quadro l’elemento oggettivo di
criticità delle scelte consumatesi attorno
al destino di ATAF sta essenzialmente nell’astrazione del servizio di trasporto dell’area fiorentina dal contesto della riforma
regionale, una riforma che prevede – come
detto – l’unificazione regionale del bacino
di gara (rispetto ai 14 precedenti) e la prospettiva di un’unificazione aziendale, alla
fine del percorso, seppur nella consapevolezza della debolezza oggettiva dei soggetti imprenditoriali locali, pubblici e privati, testimoniata inequivocabilmente
dalla mancata manifestazione d’interesse
proprio per la gara ATAF.
Questa
scelta
dell’Amministrazione
Comunale fiorentina, di fatto, priva la
costruzione del sistema di regolazione delle
risorse e razionalizzazione dei servizi proprio dell’elemento nodale centrale, attorno
alla stabilizzazione, semplificazione (e con-
trollo), del quale si doveva sostenere una
riforma, che provava ad affermare non solo
il governo economico e organizzativo pubblico, ma anche quello gestionale, visto
l’orientamento di alcuni percorsi di aggregazione aziendale, dei quali il più virtuoso è
risultato quello che ha già costruito un’unica società di gestione del TPL (Tiemme SpA)
per le province di Arezzo, Grosseto, Siena e
della parte sud di Livorno.
Questa riforma regionale, che ha trovato
subito la condivisione dei lavoratori e
delle OO. SS. e – di contro – “scetticismo”
(trasversale) in parecchi amministratori
locali e, soprattutto, forti resistenze nei
gruppi dirigenti aziendali, sta in ogni modo
procedendo su una base politico-amministrativa importante, come la citata LR
42/1998, che ha come fulcro la clausola
sociale, per la conservazione dei livelli di
servizio, dell’occupazione e dei diritti
contrattuali dei lavoratori stessi.
Anche su questo punto il processo di privatizzazione di ATAF marca differenze politiche
sostanziali col contesto regionale: il bando
di gara locale è stato licenziato senza la
previsione della continuità occupazionale
e contrattuale, ovviamente senza alcun
tipo di accordo sindacale e, soprattutto,
fuori dalle regole della LR 42.
Su quest’aspetto si sta concentrando nelle
ultime settimane l’iniziativa delle OO. SS.
con altre azioni di lotta, con iniziative
politiche e perfino legali.
Non è, infatti, esclusa la presentazione –
come estrema ratio - di un ricorso contro
la gara da parte dei lavoratori e delle loro
rappresentanze, contro il passaggio ad
altro soggetto del servizio, affidato ad
ATAF attraverso la LR 42, ma senza le salvaguardie previste dalla stessa legge.
Tutto questo proprio mentre (come riporta
la stampa locale in questi giorni) sono stati
annunciati altri ricorsi al TAR, sia per i
requisiti minimi per l’ammissione dei partecipanti al bando, sia per l’indeterminatezza ed irragionevolezza di alcune parti
dello stesso, riferite forse alla cessione
delle quote azionarie delle partecipate,
sulle quali esisterebbero diritti di prelazione proprio di uno dei soggetti partecipanti. Soprattutto, però, sull’inserimento dell’obbligo di partecipazione alla futura gara
unica regionale, che – come la FILT e la
CGIL di Firenze hanno ricordato più volte –
crea incertezza sul destino dell’azienda,
in caso di insuccesso nella gara stessa e
comunque produce come effetto immediato il deprezzamento delle offerte. Per
questo motivo FILT e CGIL avevano già
chiesto almeno il rinvio della gara ATAF a
dopo la gara regionale unica.
39
2012
Quando la fede parla ai non credenti
Un ricordo del Cardinale Martini
di Don Raffaello Ciccone
A Milano abbiamo vissuto una grande commozione per la morte
del Cardinale Carlo Maria Martini e, nello stesso tempo, abbiamo
scoperto molto stupore per ciò che si è detto sulla sua vita e ciò
che è avvenuto attorno alla sua salma. Centinaia di migliaia di
persone hanno voluto dargli l’ultimo saluto, non solo credenti
cattolici ma ebrei, musulmani, cristiani protestanti, cristiani
ortodossi, persone indifferenti alla fede, atei: tutti con molti
ricordi nel cuore e molta riconoscenza per ciò che avevano ascoltato, colto, capito. Ma si è mosso anche il mondo economico,
politico, sociale, intravedendo così la statura di una personalità
di altissimo livello e coerenza di vita.
Entrato nella Compagnia di Gesù a 17 anni, Carlo Maria Martini è
stato consacrato sacerdote il 13 luglio 1952. Apprezzatissimo per le
sue competenze negli studi biblici, fu rettore a Roma al Pontificio
Istituto Biblico dal 1969 al 1978. Nel 1979, Giovanni Paolo II lo
nominò vescovo di Milano. Una tale scelta era inimmaginabile per
la lontananza di esperienze e di cultura, ma Giovanni Paolo II ritenne, avendolo conosciuto in alcuni incontri nella spiritualità e nella
profondità di pensiero, che fosse la persona più adatta. La diocesi
di Milano, tra le 288 in Italia, è la maggiore e, nel mondo, tra le più
grandi. Martini era il 142° vescovo ed è rimasto a Milano 22 anni e
sei mesi, un periodo lungo e anche molto difficile. Scelse come
motto dello stemma, che ogni vescovo deve darsi per usanza,
questa frase di Gregorio Magno: “Pro veritate adversa diligere, per
la verità ama e affronta le difficoltà”.
Ricercare la verità
Egli intese allora ricercare la verità, attraverso il cammino degli
altri, le loro testimonianze e il proprio personale percorso morale
e di vita. Il Cardinale Martini percepiva fortemente la responsabilità e il peso di rappresentare un punto di riferimento per
moltissime persone nel mondo. Perciò la verità non era tanto un
desiderio personale di correttezza ma una profonda responsabilità
che comportava sostegno e aiuto dei molti a lui affidati dal Signore
per il suo ruolo di Pastore. Così sapeva di dover trasmettere fiducia in ogni circostanza e guardava sempre al futuro, pensando che
sarebbe stato migliore del passato, soprattutto grazie alle idee e
all'impegno delle nuove generazioni.
La scuola della Parola
La conoscenza della Bibbia e l’amore per questa Parola del
Signore furono il suo più grande impegno e la sua passione. Fu
riconosciuta a livello mondiale la sua competenza sul greco utilizzato nella scrittura del Nuovo Testamento e fu coinvolto nella
ricerca di un testo critico valido per tutti, scientificamente
garantito. È indispensabile questa premessa per capire perchè il
Cardinale Carlo Maria Martini ha più volte manifestato il desiderio che sulla sua tomba ci fossero le parole del salmo 118 [119]:
«Lampada ai miei passi la tua parola, luce al mio cammino».
L’appuntamento mensile in Duomo come momento di lettura e di
riflessione raccoglieva fino a 6000 giovani, seduti per terra o sui
gradini degli altari e il cardinale Martini stava semplicemente
seduto in mezzo a loro con un microfono davanti.
40
Discorsi alla città
E la sintonia con Milano si misura anno dopo anno nella ricorrenza
di sant’Ambrogio, attraverso i “Discorsi Alla Città”, in cui Martini si
confronta con la “città dell’uomo” e con i suoi travagli: dal terrorismo alle nuove modalità della politica, dalla crisi di Tangentopoli
al leghismo degli anni di Formentini, fino all’incontro con l’Islam e
all’apertura del nuovo millennio, carico di attese ma anche di
ombre dopo gli attentati dell’11 settembre 2001. Vennero anni
diversi, in cui al peso del piombo si sostituirono giochi di interesse
e di tangenti. Nel 1984 e nel 1987 fece due interventi pesanti contro la corruzione, in anni che non erano ancora quelli conclamati di
Tangentopoli e Mani pulite. Pronunciò frasi come “finché la nostra
società stimerà di più i furbi, che hanno successo, un’acqua limacciosa continuerà ad alimentare il mulino dell’illegalità”. Anche nel
discorso alla città del 1986 anticipava l’esistenza di “camere oscure” dove i politici non chiari si spartiscono affari e tangenti. Suscitò
malessere, stupore per la denuncia che veniva da un pulpito così
inusuale, ma non si mosse nulla.
La moderazione
Nel 1999 il Cardinale Martini interviene in quella interpretazione
corrente che mette i cristiani tra i moderati. “Tra le forme pericolose di adulazione sta la persuasione o meglio il pregiudizio diffuso che chi opera in politica ispirato dalla fede debba distinguersi sempre e quasi unicamente per la sua moderazione. C’è certamente una moderazione buona che è il rispetto dell’avversario, lo
sforzo di comprendere le sue istanze giuste e anche di relativizzazione dell’enfasi salvifica della politica. Ma per quanto riguarda le proposte, le encicliche sociali vedono il cristiano come
depositario di iniziative coraggiose e di avanguardia”.
2012
Violenza a Milano
Celebrando i funerali di Tobagi, ucciso il 28 maggio 1980, Martini si
rivolge agli assassini invitandoli a “mettersi in dialogo” e “combattere liberamente, coraggiosamente, a viso aperto, con le parole,
con gli argomenti, con la forza della verità stessa”. E quel dialogo
Martini lo persegue tenacemente, visitando a più riprese i terroristi nelle carceri, nel segno di quell’intercedere – camminare nel
mezzo, tra le parti in conflitto – che sarà un tratto ricorrente del
suo magistero. Fino a raccoglierne la resa delle armi quando, il 13
giugno 1984, in arcivescovado sono recapitate tre grosse borse che
contengono un piccolo arsenale: il segno della resa di una lotta
armata ormai esausta, che nel Cardinale di Milano aveva trovato un
interlocutore attento e partecipe, piuttosto che un giudice.
Rapporto con l’Europa
Sostenne con vigore il cammino dell’Europa, rendendosi conto
che molte paure e interessi di gruppi rendevano sempre più difficile una integrazione che non fosse solo economica, ma anche
politica. Non ci siamo arrivati neppure ora, anche se proprio la
crisi ci obbliga a rivedere le chiusure e gli individualismi.
Cattedra dei non credenti
La Cattedra dei non credenti, avviata nel 1987, fu una straordinaria novità. Una serie di incontri a tema in cui Martini chiamava
a dialogare personalità di fedi diverse o non credenti, a partire
dalla convinzione che “Ciascuno di noi ha in sé un credente e un
non credente che si interrogano a vicenda”. Dialogo, meditazione, amore alla libertà, sono forse le caratteristiche dell’uomo in
cui la città riconobbe se stessa e la sua vocazione a terra di
mezzo, di incontro tra diversi. La capacità di dialogo rispettoso e
schietto con la cultura laica suscitò sorpresa e accoglienza. Alla
domanda che gli fu rivolta in un’intervista “Lei in che cosa
crede?”, rispose “alla ragione umana” aggiungendo che questa
era necessaria per accostarsi senza pregiudizi al dato rivelato per
scoprirvi la sapienza della vita.
Voglio una chiesa umile, libera e sciolta
E questo è il compito della Chiesa. Il Cardinale Martini ce lo ha
voluto insegnare con le sue parole e con la sua esistenza. Egli ha
vissuto con amore il significato della Parola che ha ascoltato con
attenzione, lasciandosi coinvolgere, nei problemi e nella fatica
della gente. La sua novità, fondamentalmente, è stata questa.
La Chiesa, come l'arcivescovo amava dire, “è seme, lievito, «piccolo gregge» e non potere, privilegi, riconoscimenti”.
Nella società dominata dall’economicismo, in un tempo in cui si
fatica a respirare fede, speranza e carità, il Cardinale ha parlato
di tutti i temi importanti e significativi. Non vi era fatto di cronaca
rilanciato dal telegiornale che non trovasse eco in lui. E’ come se
egli dicesse dentro di sé: “Che cosa Dio vuol dire con questo avvenimento?” È il richiamo che ci fa il Concilio in un suo documento:
“Il Signore si manifesta mediante parole e fatti: le parole sono la
Scrittura ma anche i messaggi delle persone, i fatti sono la storia
da interpretare”.
Il magistero del cardinale Martini sui problemi
del lavoro e più in generale dell’economia
Stupisce la riflessione e la mole di lavoro prodotto poiché si allarga a svariatissime realtà che toccano i problemi delle persone e
resiste alle intemperie del tempo e alla sua vulnerabilità.
Dalla crisi del lavoro degli anni ’80 alla rivoluzione strutturale che
stiamo vivendo per via della globalizzazione a metà degli anni
’90, sono maturate le sue riflessioni sul rapporto tra l’etica e
l’economia, etica e lavoro, etica e impresa.
Ricordo l’interessamento alle RSU di moltissime ditte che lo interpellavano in momenti di crisi o di difficoltà e che passavano per
l’Ufficio della Pastorale del lavoro che si faceva tramite.
Il Cardinale era informato di ogni richiesta ed era fortemente
interessato.
Ricordo ancora un suo intervento, molto apprezzato, davanti a 3
mila operai della Pirelli, ma anche i dibattiti sul tema del profitto
con Agnelli, Romiti, De Benedetti. Lui era dell’opinione che
il profitto non andasse demonizzato, ma neppure divinizzato,
trasformato in un idolo in nome del quale poter fare tutto.
Due appuntamenti annuali
La “Giornata della Solidarietà”. Si celebrava ogni anno a gennaio
nella diocesi; era iniziata nel 1982 alle avvisaglie di crisi occupazionali già in quel momento, dopo il boom economico degli anni
’60 e ’70, con lo scopo di coinvolgere le comunità cristiane, utilizzando un documento su un tema da sviluppare e ripensare.
La “Veglia dei lavoratori”. Si organizzava, soprattutto nelle
sette zone pastorali, nei luoghi di lavoro e di crisi. Era un incontrare i lavoratori coinvolgendo la comunità cristiana e le veglie
erano aperte a tutti: credenti e non credenti, comunque persone
che erano preoccupate e coinvolte da quei problemi.
Il Cardinale è stato spesso al centro
del dibattito politico
Guardava con attenzione alla politica, come alle cose del mondo.
Considerava la politica come l’esercizio della libertà nella costruzione di quella che Lazzati chiamava la “città dell’uomo”.
Ha scritto: “L’illuminismo e il cristianesimo che innervano la
nostra civiltà, pur essendo storicamente in contrasto, con il
tempo hanno prodotto una sintesi preziosa che fa perno sulla
dignità della persona umana e sul carattere inalienabile dei suoi
diritti fondamentali”. Un non credente non avrebbe potuto
scrivere una cosa così profonda.
Due testi significativi del Cardinale Martini
SINDACATO
Attorno agli anni 2000, il cardinale Martini fu invitato ad un convegno
sindacale e ne fu lieto poiché si accostava a questo mondo per cui ha
nutrito sempre una sua nostalgia di unità per costruire insieme.
“Il Sindacato, nella propria vocazione, ha come prospettiva non
quella di chiudersi in interessi di parte, ma di collaborare con la
forza che viene dalla base e dalla coscienza di un popolo per portare, rispettando limiti e competenze, un contributo di solidarietà per il bene di tutti.
Di fronte ad ogni ideologia selvaggia di consumismo, di sfruttamento e di libertà senza limiti anche quando si esplica a danno
degli altri, noi richiamiamo la responsabilità della libertà che è
41
2012
benessere per tutti, rispetto delle culture e delle differenze,
attenzione ai più deboli.
Per il Sindacato, mi sembra, che suo primo compito sia di essere
sentinella a quel diritto al lavoro che è fonte di fiducia ed elemento di coesione sociale nel tessuto della convivenza”.
“In quest’ottica si profila la figura del sindacalista come colui
che si mette in leale rapporto con gli altri, responsabile dei diritti umani, capace di reggere l’utopia e di contagiare anche coloro
con cui opera agli stessi suoi entusiasmi. Non ha preoccupazioni
per propri interessi monetari e rifiuta il privilegio che è il tarlo di
ogni convivenza. Preoccupandosi di ciascuno, difende non i soldi
ma il valore delle persone lottando anche per il giusto riconoscimento economico. A tale profilo generale il sindacalista guarda
nell’azienda i lavoratori che a diverso titolo vi lavorano: dalle
cooperative ai lavoratori del week-end, dagli extracomunitari
alle persone fragili, dai giovani che hanno bisogno d’inserimento
agli anziani che si sentono disorientati. E poiché il clima nelle
aziende si è fatto attualmente più pesante, va considerato, in
particolare, il lavoro delle donne che spesso sono in difficoltà,
quello degli ultra quarantenni che facilmente sono lasciati come
esuberi per poi magari sostituirli con persone che costano meno
in salario e contributi. Vanno ricordati pure i troppi orari straordinari che nella nostra società tendono a coprire il tempo del
riposo domenicale, la mancanza di sufficiente sicurezza che moltiplica gli incidenti sul lavoro, lo stesso amplissimo mondo dello
sviluppo sostenibile che non deve essere solo problema del
Sindacato, ma è tema generale di natura politica.
Mentre vi invito a essere coscienti dei vostri talenti e a sentirvi fieri
del ruolo di persone che cercano la giustizia, vi invito anche a cercarla con disinteresse senza indulgere a vantaggi e a privilegi.
Ma, anzi, l’impegno parallelo e più grande vada alla formazione
che sviluppate per voi e che incoraggiate per gli altri affinché i
diversi lavori, che si profilano nell’arco della vita di un lavoratore,
non siano traumi che angosciano bensì momenti di ricerca e di scelta di vita diversa. Prima di concludere voglio dire che spesso tra
Sindacato e Chiesa le strade si incrociano, particolarmente sul
piano educativo. Mentre riceviamo dal Sindacato l'appello alla concretezza e alla percezione della dimensione strutturale, da parte
nostra rilanciamo il richiamo alle motivazioni, ai valori, al senso
della vita, al significato alto di ogni persona, uomo o donna”.
PER UN’AUTENTICA SPIRITUALITÀ DEL LAVORO.
Nove punti programmatici per rimettere il lavoro al centro dell’attenzione pubblica
1. Il primo punto, inalienabile, è la dignità di ogni essere umano.
Ogni persona è dunque immagine di Dio, anzi figlio o figlia di
Dio, e porta perciò segnata nel cuore quella tenerezza di cui
Dio è capace.
2. Dalla dignità di ogni essere umano deriva la dignità di ogni
lavoro. Congiungendo tale principio con il primo, se ne deduce che chi ha il lavoro non si può chiudere nel privilegio di una
garanzia e di un lavoro tranquillo, ma si deve porre nell’atteggiamento di chi sa conoscere e riconoscere le sofferenze di
quanti non sanno o non possono lavorare. Va quindi allargata
la base di solidarietà verso le persone più deboli. Non c’è riforma che possa togliere la solidarietà verso le fasce più deboli.
3. Il terzo criterio programmatico per rimettere il mondo del lavoro al centro dell’attenzione pubblica viene indicato dalle parole di Gesù nel discorso della Montagna: “Cercate prima il regno
di Dio e la sua giustizia... non affannatevi per il domani...”.
È il divieto di una eccessiva preoccupazione per il lavoro e
l’esistenza. Non è l’unica realtà, c’è qualcosa di più. Soltanto
chi cerca prima il regno di Dio, potrà occuparsi con libertà,
equilibrio ed efficacia delle sofferenze proprie e dei fratelli.
42
4. Dai tre atteggiamenti sottolineati, nasce un’autentica spiritualità del lavoro. Va perciò evitato -quale conseguenza pratica- il “lavorismo” o l’ossessione del lavoro. Un credente dovrà
allora preoccuparsi di non scegliere lo “straordinario” come
ritmo normale di vita, né il “doppio lavoro” come ovvio, pur
se nessuno può permettersi di giudicare gli altri, perché ci
possano essere problemi gravi o difficoltà economiche altrimenti insormontabili o esigenze imprescindibili di insostituibili conoscenze. Al mondo del lavoro però si può e si deve chiedere di accompagnare le nuove generazioni affinché apprendano presto quelle competenze che permettono di poter sostituire degnamente coloro che hanno terminato il loro impegno
lavorativo.
5. Una spiritualità del lavoro si esprime, inoltre, in uno stile di
sobrietà e di essenzialità di vita, operando tagli sul superfluo
e scelte di consumi alternativi per rispondere a questo ideale.
Insieme occorre coltivare una certa scioltezza di azione e di
pensiero, sostenendola con l’acquisizione di un sapere sempre
più maturo sviluppando le proprie capacità. Qui si gioca la
grande sfida sul futuro: acquisire un sapere sempre più maturo sviluppando le proprie capacità.
6. Perché questo criterio abbia luogo e trovi ampia applicazione
è necessario promuovere una solidarietà a livelli via via più
larghi, fino al livello internazionale; una solidarietà che riesca
a far superare la paura oggi indotta dalla globalizzazione dei
mercati e dalle sue conseguenze negative, che stiamo toccando con mano in alcuni episodi drammatici. In recenti occasioni ho denunciato tali conseguenze negative e drammatiche, e
sono stato fortemente criticato come uno che si ostina ad
andare contro processi irreversibili. Occorre, in altre parole,
una mobilitazione non solo del mondo operaio, bensì di tutto
il mondo imprenditoriale, finanziario e politico per guidare i
processi mondiali affinché lo sviluppo di alcune economie e
mercati sia il più possibile omogeneo e rispettoso di altre economie e mercati.
7. Settima conseguenza. Per l’obiettivo che ho delineato, ci
vuole un nuovo e coraggioso ripensamento culturale dei grandi temi del lavoro e dello sviluppo. In questo fine millennio
emerge sempre meglio l’urgenza di “rispondere ai saperi dell’informatica con i nuovi saperi dell’uomo; di affrontare lo
spaesamento della globalizzazione con ricostruite e tangibili
identità; di interpretare al meglio le spinte della flessibilità
evitandone la disumanizzazione dannosa per la stessa impresa; di ripensare l’uso del tempo fuori della consueta dicotomia
tra tempo della fatica e tempo del divertimento; di ridisegnare lo Stato e i suoi compiti anche a seguito di simili obiettivi e
non solo secondo più o meno astratte ingegnerie istituzionali”.
8. Per creare una cultura di sostegno cristiana alla base di tutto
il processo, bisogna che nelle aziende e tra i lavoratori ci si
incontri pure come credenti.
9. Ritorni perciò il mondo del lavoro ad esser considerato la grande palestra dove ci si allena per le scelte coraggiose dei credenti, dove si sa scoprire la presenza del Signore nei valori di
ogni persona, dove l’attenzione verso le persone fragili diventi la misura della solidarietà, non la ricerca dei privilegi e dei
corporativismi.
Don Raffaello Ciccone ha collaborato come responsabile dell’Ufficio
della Pastorale del lavoro nella Curia di Milano con il Card. Martini dal
1995 al 2002. Attualmente è in pensione e segue ancora come “accompagnatore spirituale” le Acli di Milano e Lombardia.
2012
Le donne cambiano...
di Rosanna Rosi, Responsabile Politiche di genere CGIL Nazionale
Dopo l’assemblea nazionale delle delegate e
dirigenti CGIL del 5/6 Giugno 2012, le donne
sono impegnate in un percorso per cambiare la
contrattazione, il welfare, l’Europa.
Una bella assemblea quella che si è svolta il 5 e 6 Giugno al teatro
Capranica a Roma; oltre seicento donne, iscritte, delegate dei posti di
lavoro, quadri e dirigenti, protagoniste di una discussione vera, libera e
tesa a trovare risposte alle tante domande vecchie e nuove che derivano anche dalla crisi economica e politica che attraversa il nostro paese.
E proprio l’analisi della condizione delle donne e delle lavoratrici italiane dentro la crisi, tenute ai margini della vita pubblica, escluse
dalle posizioni apicali, tra le più disoccupate e precarie d’Europa, ha
messo ancor più in evidenza la necessità per il paese, le imprese, la
società tutta dell’investimento sul lavoro delle donne, per uscire
dalla crisi, con passi in avanti per tutti.
L’analisi che abbiamo svolto parte dal dato sull’occupazione femminile fermo al 46,2% da anni e che, quindi, come ci dice Linda Laura
Sabbatini nel suo interessante e puntuale intervento, meno di metà
delle donne oggi lavora, il sud scende al 30%, il nord sta al 56%. Le
donne che non hanno titolo di studio non riescono ad entrare nel mercato del lavoro, hanno un tasso di occupazione che va sotto il 30%,
addirittura arriva al 17% nel sud se si ha al massimo la licenza media.
Al sud serve la laurea per arrivare ad un tasso di occupazione superiore al 50%, il tasso di disoccupazione femminile continua ad essere
maggiore di quello maschile, mentre in Europa non lo è più, e il tasso
di inattività molto elevato, arriva quasi al 50%, è superiore a quello
europeo di ben 13 punti, sintomo di un fortissimo scoraggiamento che
riguarda soprattutto le donne del sud. Inoltre, il tasso di disoccupazione diminuisce all’aumentare del numero dei figli: passiamo
dall’81% delle donne single al 73% di chi vive in coppia senza figli, al
50% di chi vive in coppia con due figli, al 33% di chi ha tre o più figli;
nonostante ciò, l’avere figli nel nostro paese è un elemento di criticità all’accesso o alla permanenza nel mercato del lavoro oltreché
alla progressione di carriera. Tra le madri il 30% interrompe il lavoro
per motivi familiari, l’istat ha stimato in 800 mila le donne che tra il
2008 e 2009 hanno sperimentato le dimissioni in bianco. Il fenomeno
è ancora più preoccupante se si considera che, quando una donna
lascia, ovvero è costretta a lasciare, il lavoro difficilmente lo ritrova
(solo 4 su 10); nel sud è praticamente impossibile poi rientrare.
Ma anche sulla qualità del lavoro c’è da dire molto e da quello che è
emerso dagli interventi delle delegate, che hanno descritto le loro
esperienze di lavoro e di vita, ci viene la conferma che in proporzione più donne che uomini lavorano part-time, per lo più forzoso e quindi non volontario o con contratti a tempo determinato, con contratti
precari e quindi più esposte al pericolo di essere licenziate. Altro
punto “la disparità salariale” tra lavoratrici e lavoratori che è ancora
molto elevata, derivata non solo dal tipo di impiego, ma anche dalla
difficoltà nelle carriere, dai premi di produttività basati ancora e
spesso sulla presenza, tant’è che in alcune situazioni le assenze per
“maternità” non sono conteggiate nei premi di produzione.
Il lavoro, quindi, quando c’è, è più povero in partenza ed inevitabilmente assicura alle donne pensioni più basse e, nei fatti, le rende più
vulnerabili e soggette a rischio povertà.
Oggi non più solo la CGIL, ma tutti gli osservatori nazionali ed internazionali, economisti, centri di ricerca e centri studi, ci dicono che
proprio in tempi di crisi/recessione, il rafforzamento della posizione
delle donne nel mercato del lavoro e nella società è una necessità e
che la futura competitività economica di tutta l’Europa dipende dalla
capacità dei Governi di utilizzare le proprie risorse di forza lavoro, a
partire dai giovani e dalle donne, per raggiungere una delle priorità
di Europa 2020: un tasso di occupazione del 75% per donne e uomini.
Ma dal dire al fare....
Parlando di welfare, infatti, altro argomento sviluppato durante i
lavori dell’assemblea, è emerso evidente l’attacco feroce allo stato
sociale messo in atto dai governi che incide sia sull’occupazione femminile che sulle differenze di retribuzione perché più donne sono
occupate nei settori pubblici e perché i tagli alla spesa sociale (meno
servizi o servizi più costosi) costituiscono un ulteriore ostacolo alla
partecipazione delle donne al mercato del lavoro.
E se i progressi per raggiungere l’uguaglianza di genere sono stati lenti,
soprattutto per quanto riguarda l’uguaglianza economica, perchè il
sostegno formale dei governi non si è tradotto in politiche concrete e
neppure in serie strategie economiche, oggi c’è il rischio che l’attuale
crisi inverta il progresso verso l’eguaglianza di genere. E se è vero com’è
vero che l’obiettivo dell’eguaglianza di genere richiede una migliore e
maggiore rappresentanza politica delle donne, anche su questo fronte,
negli ultimi anni, non si è registrato alcun miglioramento.
Analisi quindi ma anche ricerca di risposte, come dicevo all’inizio:
“quali idee, quali azioni per cambiare e segnare la contrattazione,
cambiare e segnare il welfare, cambiare e segnare il paese”?
Non abbiamo tutte le risposte, ce lo siamo dette, ed è per questo che
l’assemblea è stata pensata come il primo passo di un percorso che
deve continuare alla ricerca appunto di “risposte” e quindi proposte
perché siamo convinte della necessità per il paese, la società, le
imprese, di investire sulle donne in particolare sulle giovani donne
per uscire dalla crisi e per crescere.
Il 12 Settembre ci siamo ritrovate per comporre i gruppi di lavoro che
prepareranno i tre seminari.
Il primo: “Le donne cambiano... l’Europa”. Oggi il profilo della cittadinanza europea (civiltà del lavoro e welfare) è fortemente messa
in discussione dall’assenza di istituzioni comunitarie legittimate e da
politiche regressive che hanno fatto aumentare il sentimento di ostilità nei confronti dell’Europa. L’obiettivo è contribuire a ricostruire e
riconquistare (per tutti) la cultura del modello sociale europeo, condizione per la libertà e l’autonomia delle donne; i diritti delle donne
si difendono e si conquistano se si estendono e l’Europa sociale è il
perimetro fisico di quei diritti ed è la condizione politica per realizzarli; per questo L’Europa sociale è anche il nostro obiettivo.
Il secondo: “Le donne cambiano... la contrattazione”. Segnare e
cambiare (per tutti) le piattaforme contrattuali e i contratti facendo
emergere le discriminazioni presenti spesso nelle piattaforme e non
solo negli accordi: accesso al lavoro, differenze salariali, segregazione professionale. La dignità e libertà del lavoro delle donne sono la
nostra scelta di valore, ma sono anche la scelta necessaria per migliorare la qualità del lavoro, produrre ricchezza, migliorare la stessa
performance delle imprese.
Il terzo: “Le donne cambiano...il welfare”. Contrastare la riduzione progressiva del perimetro del welfare, un welfare non solo non
universale ma non più definibile come lavorista perchè spesso la condizione di lavoratrice non consente, di per sé, l’inclusione o l’accesso a prestazioni sociali (pensione ad esempio, maternità ecc.) e,
d’altra parte, l’assenza di servizi scarica sulle donne il “welfare che
non c’è” caricandole di lavori di cura il cui valore peraltro non è riconosciuto, né socialmente né dal punto di vista previdenziale. Noi crediamo che politiche pubbliche inclusive, un welfare di qualità e dunque il sostegno alla libertà/autonomia femminile creino sviluppo.
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2012
ALITALIA
prima che sia troppo tardi
Di Mauro Rossi, Segretario Nazionale Filt-Cgil
Bisogna agire ed assumersi le proprie responsabilità, a meno che non si voglia essere complici del fallimento dell’industria italiana del
trasporto aereo ormai prossima. A fronte dello
stato di crisi che peggiora quotidianamente,
dando luogo ad un reiterarsi di crisi aziendali
irreversibili, che generano disservizi, emergenze occupazionali e forte disagio sociale, è
urgente un intervento governativo.
In questo stesso periodo, nell’estate del 2008 che volgeva al termine, ci si preparava a qualcosa che nessuno o quasi, prima di allora,
avrebbe mai creduto possibile: il fallimento della Compagnia di bandiera italiana. Pochi mesi dopo, in una tradizionale atmosfera italica, condita di nefandezze e speculazioni a danno della collettività,
nasceva la nuova Alitalia Cai.
Cosa è cambiato da gennaio 2009 ad oggi? L’esperienza tragica di
quel fallimento ha insegnato qualcosa? Quali iniziative sono state
assunte a fronte di un fatto cosi traumatico? L’industria del trasporto aereo italiano sta meglio o peggio a distanza di tre anni?
Le risposte a queste domande necessitano di una premessa. Siamo
in Italia, un Paese che continua, malgrado tutto, ad avere una
memoria labile. Un paese dove il bene collettivo è percepito come
bene di “nessuno” e non di tutti. Un Paese dove liberalizzazioni, privatizzazioni, uscita dai monopoli hanno seguito una strada italica,
avendo a che fare più con gli interessi di pochi che con il miglioramento della qualità dei servizi per tutti. Un Paese che non ha una
visione strategica, una politica industriale, un paese che ha smarrito il valore del lavoro. Un paese che ha quindi perso il contatto con
le proprie radici, non solo costituzionali.
Dunque, cosa ha insegnato la tragica esperienza del fallimento
Alitalia (e di molti altri piccoli vettori)? A giudicare dai fatti successivi dobbiamo prendere atto che non ha insegnato nulla. Quali iniziative sono state assunte a fronte di un fatto cosi traumatico? Ben
poche, se si esclude il fondamentale strumento di sostegno al reddito, che è stato necessario istituire in quegli ultimi anni di agonia
della compagnia di bandiera per le migliaia di lavoratori del settore
(non solo Alitalia) che hanno perso il lavoro. Una leva fondamentale che ha sostenuto l’industria del trasporto aereo italiano in questi
anni e che la Ministra Fornero del “governo dei tecnici” ha visto
bene di distruggere. L’industria del trasporto aereo italiano sta
meglio o peggio a distanza di tre anni? Sicuramente peggio. Visto
che, mentre scriviamo, almeno il 50% delle aziende del trasporto
aereo italiano registrano perdite notevoli nei loro bilanci e molte di
queste sono prossime al fallimento.
L’assenza di programmazione e scelta politica è la differenza maggiore che si registra tra l’Italia e gli altri stati europei. In nessun
altro Paese è possibile che accadano le cose che quotidianamente
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segnano il destino del trasporto aereo italiano. Altrove si è programmato, si è scelto e legiferato di conseguenza, nel puntuale rispetto
delle previsioni UE ma valutando gli effetti, sulla propria economia
reale, dei dispositivi e delle normative europee. Sono state assunte
scelte di sistema sulla catena del valore, sulla intermodalità dei trasporti e sui sistemi a rete. Inoltre, sono state fatte scelte sulle regole e sulla capacità di esigerle, da noi inesistenti, che hanno accompagnato i processi di liberalizzazione che hanno coinvolto tutta
l’Europa, ma hanno sconvolto e distrutto solo la nostra industria del
settore. Da diverse legislature si parla di un riordino e classificazione del sistema aeroportuale italiano. La politica italiana ha evidenziato una miopia criminale e per venti anni ha costruito la dinamica
dell’aeroporto del collegio elettorale. Il risultato è drammatico:
nessun sistema a rete, nessun punto di contatto intermodale. Un
microterritorio in competizione contro un altro microterritorio che
mortifica e impoverisce ogni volano economico. Prevalso l’assistenzialismo più bieco secondo una logica clientelare e di distribuzione
di falso sviluppo e occupazione.
Oggi il governo tecnico annuncia il piano nazionale aeroporti. Di
fatto lo stesso studio presentato nel corso degli anni, prima dal ministro Tassone (governo Berlusconi), poi dal ministro Bianchi (governo
Prodi) e che ha via via perso, seppure nella teoria, molta della propria originaria incisività. Negli altri stati europei è stato voluto e
costruito un sistema aeroportuale, si è difeso un vettore di riferimento, operano solo alcune certificate e limitate aziende di
assistenza qualificata. Gli aeroporti sono generalmente collegati
alla rete ferroviaria ad alta velocità. Il vettore di riferimento opera
dall’hub nazionale molti collegamenti di lungo raggio garantiti da
flotte adeguate allo scopo.
Tutto questo nel rispetto delle direttive europee, assicurando libera concorrenza, ma vigilando e garantendo legalità, qualità dei
servizi, sostenibilità economica delle imprese, tutele del lavoro.
Nessun altro vettore di riferimento europeo ha una flotta cosi sbilanciata sul medio-corto raggio come ha oggi Alitalia Cai. In nessun aeroporto europeo operano 7 diverse aziende di handling
come accade a Roma Fiumicino. In nessun altro Paese europeo
sono operativi così tanti aeroporti come in Italia. In nessun altro
Paese europeo vige una normativa cosi restrittiva sull’esercizio del
2012
diritto di sciopero e sussistono oggi condizioni di lavoro e retribuzioni inferiori a quelle italiane.
Da molti anni il sindacato rivendica una politica dei trasporti.
Una scelta strategica ed una iniziativa politica di sistema, per
ricondurre alla civiltà ed al rispetto di lavoratrici, lavoratori e cittadini gli effetti distorsivi delle liberalizzazioni all’italiana, ancor di
più in un paese, il nostro, dove questi effetti si sono intrecciati spesso con truffe a danno della collettività, con inadeguatezza politica
e manageriale, con l’assenza di competenze. Con il ruolo davvero
incomprensibile esercitato dagli enti regolatori in primis Antitrust ed
Enac e nella completa assenza della politica.
Molte le iniziative sindacali negli ultimi anni: denunce, vertenze,
perfino scioperi generali. Certo, colmare il vuoto ed anni di ritardo
non è agevole e la drammatica crisi economico finanziaria che viviamo non può certo aiutare, ma è necessario proseguire e rivendicare
risposte ed atti concreti, avanzare e ribadire proposte ed iniziative.
Dello stato del settore abbiamo accennato. A cominciare dalla
“nuova” Alitalia Cai. Il piano Fenice ha determinato più cenere che
nuovi voli. La cordata voluta e imposta dal governo Berlusconi è alle
prese con perdite difficilmente sostenibili e con l’incapacità a ricapitalizzare un’azienda che perde oggi più o meno quello che perdeva tre anni prima un’azienda che impiegava quasi il doppio del personale. Il piano ha schiacciato Alitalia Cai sulla concorrenza di medio
raggio, dove l’assenza di regole ed il tollerare pratiche illegali ha
consegnato quote di mercato enormi alle low cost. Il programma di
consegnare tutto ad Air France nel 2013 si è scontrato con la crisi ed
i problemi dell’aviolinea francese che non si può permettere l’acquisizione decisa, anche se negata, dal governo Berlusconi.
Gli altri vettori Italiani sono tutti alle prese con tentativi di sopravvivenza probabilmente impossibili. Meridianafly, dopo l’ennesimo
cambio di guida aziendale, annuncia l’ennesima grave perdita, dopo
l’acquisizione di Eurofly è giunta quella di Air Italy che di certo non
hanno cambiato il trend disastroso di performance, anzi sembrano
aver inciso negativamente. Windjet ha riempito le pagine dei
giornali in agosto, un disastro annunciato da tempo che il Governo
ha scoperto il 12 agosto. Livingston appena fallita è oggi la new
livingston ed opera in un mercato in forte contrazione con la speranza di farcela. Blu Panorama si dibatte tra difficoltà enormi e conclamate da tempo. Si è registrato negli ultimi anni un lungo elenco
di vettori che nel giro di pochi mesi hanno aperto e chiuso i battenti, lasciando danni, debiti e disoccupazione.
Tutte le aziende di assistenza aeroportuale, l’handling italiano,
registrano perdite e non coprono i costi. Ciò accade solo in Italia,
dove si è assistito ad una proliferazione di soggetti autorizzati ad
operare da Enac che infestano gli aeroporti italiani lavorando sottocosto e mettendo in ginocchio un segmento produttivo, lasciando anche qui debiti e fabbricando precarietà e disoccupazione. Le
stesse difficoltà del mondo del catering aereo strozzato dalla revisione dei servizi di bordo. Oggi anche i gestori aeroportuali, concessionari in monopoli naturali, registrano difficoltà. Molti piccoli
aeroporti hanno bisogno ogni anno di ripianare perdite – spesso
determinate dai finanziamenti illegali a Ryanair- e lo fanno con
denaro pubblico. Aeroporti che fanno il gioco del vettore irlandese che opera nell’assoluta evasione delle leggi italiane, mettendoli in competizione tra loro.
I grandi gestori aeroportuali sono spasmodicamente alla ricerca dell’aumento delle tariffe e vivono spesso situazioni difficili con il sistema del credito a causa del sistema italiano delle privatizzazioni a
debito. Gestori aeroportuali sempre più lontani dal ruolo di responsabilità che dovrebbero esercitare in virtù delle concessioni loro
assegnate e sempre più vicini al ruolo di affittacamere o di imprenditori edili. La manutenzione aeronautica langue e soffre la disastrosa fine di Alitalia che ha determinato impoverimento del segmento
e la perdita verso l’estero di lavorazioni fondamentali e di prospettiva per l’industria aeronautica. Perfino l’assistenza al volo subisce
i risvolti negativi della crisi economica ed inizia a fare i conti con i
problemi generati dall’impoverimento del traffico e delle tariffe.
Bisogna agire. Assumersi responsabilità o essere complici del fallimento dell’industria italiana del trasporto aereo ormai davvero
prossima.
La vertenza nazionale trasporto aereo rilanciata nel maggio scorso e la richiesta di istituzione del tavolo permanente sulla crisi del
settore presso il ministero dello sviluppo economico vanno in questa direzione.
A fronte dello stato di crisi dell’intera industria del Trasporto
Aereo italiano che peggiora quotidianamente, dando luogo ad un
reiterarsi di crisi aziendali irreversibili, che generano disservizi,
emergenze occupazionali e forte disagio sociale, è urgente e indispensabile un intervento governativo. Utilizzando un approccio
industriale, definendo e coordinando iniziative idonee a costruire
un esigibile sistema regolatorio, anche attraverso l’introduzione di
eventuali interventi legislativi, finalizzati al riordino e riequilibrio
della catena del valore dell’intero sistema del Trasporto Aereo
Italiano. Con un occhio a ciò che funziona nel resto d’Europa.
Definendo norme strutturali e di sistema, la cui cronica assenza
falsa le corrette regole di concorrenza tra gli operatori e a breve
raggiungerà un punto di non ritorno con i relativi risvolti negativi
sul versante economico e sociale.
L’altro cardine della necessaria riforma è rappresentato dalla piattaforma unitaria che rivendica la stipula del CCNL del settore. Per
un livello uniforme di tutele generali, per contrapporci al dumping
salariale, per affermare il principio della clausola sociale, per la
tutela del reddito dell’occupazione e della sicurezza sul lavoro. Per
la ricomposizione della filiera produttiva. Regole uniformi per liberare il lavoro dalla morsa della competizione sleale tra le imprese.
Nei prossimi mesi saremo impegnati a costruire, con il coinvolgimento e contributo delle istituzioni e delle Associazioni delle imprese
del settore, una vera e propria riforma del trasporto aereo italiano
rivendicata da tempo ma da avviare prima che sia troppo tardi.
45
2012
La sfida per l’Europa
di Guglielmo Epifani, Presidente Associazione Bruno Trentin
Se l’Europa non si sveglia, ci sarà un mondo che avrà meno
Europa non solo sui mercati dei prodotti o dei servizi, delle
tecnologie o delle università: avrà meno Europa anche dal punto
di vista della democrazia, della cittadinanza, dei diritti, dei
doveri e della dignità dei cittadini e dei lavoratori.
L’Europa di domani si costruisce oggi e,
per paradossale che sia, la si costruisce nel
fuoco dei problemi, delle contraddizioni,
dei drammi che l’intero continente sta
vivendo adesso. È sbagliato immaginare
che ci sarà un secondo tempo migliore, più
agevole per disegnare l’Europa che verrà.
Partendo da questa premessa, siamo tutti
consapevoli quanto sia difficile la situazione dell’Europa, la condizione sociale di
una parte crescente di cittadini europei.
Crescita della disoccupazione, crescita
della precarietà soprattutto tra i giovani,
tagli dappertutto allo Stato sociale e
soprattutto alla sanità, all’assistenza,
all’istruzione, deregolamentazione crescente delle condizioni, dei diritti e delle
normative del mondo del lavoro. È vero
che molte di queste tendenze, in realtà,
preesistevano alla crisi, ed è sbagliato
ricondurle completamente ad essa, ma è
anche vero che la crisi le sta accentuando
in una maniera drammatica. Si può dire,
senza timore di esagerare, che in realtà la
crisi è stata usata per colpire in profondità non solo il modello sociale europeo, ma
anche l’idea dei diritti, della cittadinanza
e dell’uguaglianza sociale.
Non è un caso, dunque, che di fronte a questa situazione la Confederazione europea
dei sindacati abbia deciso per il 14 novembre scorso di indire una giornata di mobilitazione per tutta l’Europa; è stato un segnale
per i tanti che non si rassegnano a vedere
svanire risultati di lunghe battaglie di generazioni che hanno conquistato un modello
accettabile di vita e di dignità personale.
La crisi mette in evidenza la fragilità della
costruzione europea colpendola, per così
dire, nel cuore di un processo in corso e
finisce, purtroppo, per dividere. Segna un
solco fra paesi che hanno l’euro e paesi
che non ce l’hanno e, all’interno dei paesi
che hanno la stessa moneta, tra paesi
debitori e creditori; e divide all’interno
46
degli stessi paesi perché questa è una crisi
che non passa allo stesso modo per tutti.
Per qualcuno toglie tutto, anche la speranza; per altri questa crisi lascia immutate
condizioni, speranza e visione del mondo e
della propria condizione. Per dirla in una
sola parola, la crisi sta allargando le diseguaglianze tra paese e paese e, all’interno
del paese, tra fasce sociali e purtroppo
anche tra generazioni.
È una divisione evidente nel momento in cui
si discute il bilancio 2013, che un grande
paese come la Gran Bretagna ha minacciato di non votare, prova di come la divisione
tra paesi che hanno la moneta unica e paesi
con una propria moneta si stia allargando.
Grandi sono le difficoltà ad integrare l’euro
con le politiche di convergenza, dall’unione
bancaria a quella fiscale.
L’Europa appare come una nave nella tempesta senza un nocchiero, senza una guida.
Anzi, per essere precisi, con troppi nocchieri, con troppe guide, ognuno dei quali cerca
di navigare in direzione diversa dagli altri.
Così la nave resta in balia degli eventi e dei
processi che non si riescono a governare.
Paradossalmente tutti, apparentemente,
hanno una propria legittima ragione. Ha
ragione la Grecia, quando lamenta un
eccesso di accanimento su piani di risanamento che, oltre un certo limite, stanno
condannando quel paese ad una povertà
che neanche una generazione sarà in condizione di superare. Ma hanno ragione anche
gli altri paesi che alla Grecia dicono:
“Perché in tutti questi anni non hai provato
a fare i compiti a casa ed a mettere un po’
in ordine spese e fisco?”. Hanno ragione i
paesi più forti che hanno affrontato con
grande rigore le politiche di bilancio nell’ultimo decennio; ma hanno anche ragione
i paesi creditori i quali, avviati a risanare i
propri conti, non possono non vedere che
c’è una trappola nel meccanismo dell’austerità, in base alla quale più tagli e più
aumenti le tasse, più il tuo paese andrà
indietro e quindi il debito aumenterà perché, pur non spendendo, non si produce più
come prima. Tutto questo è vero, tuttavia
ci sono altri aspetti incomprensibili che
riguardano, tanto per cominciare, l’incredibile ruolo delle agenzie di rating internazionali che hanno gravi conflitti di interesse
al loro interno e hanno determinato comportamenti abnormi. Cosa si aspetta a
costruire delle agenzie di rating europee?
Dovranno farlo i paesi del Bric, come hanno
annunciato, o dobbiamo aspettare che le
vecchie agenzie di rating continuino a dettare l’agenda? Dovrebbe essere l’Europa a
costruire un punto di riferimento onesto,
non statale, che consenta un punto di vista
neutro e più oggettivo sui mercati e i debiti sovrani.
È stata costruita una moneta unica senza
costruirvi attorno istituzioni realmente
comuni e unitarie. La moneta non è solo
un mezzo di pagamento, è sostanzialmente un potere. Ci sarà una ragione se, nella
storia dell’umanità, a ogni stato ha sempre corrisposto una moneta e ogni moneta
ha sempre corrisposto a uno stato, così
come ci sarà una ragione per cui, tra i
poteri dello stato, c’è quello di battere
moneta. Stato, moneta, banca centrale
sono un tutt’uno e, se si sceglie un modello diverso, bisogna essere consapevoli dei
problemi che ne nascono. Ci siamo cullati
in un’età dell’oro, la prima fase della
moneta unica, dove avevamo tutti una
convenienza. L’Italia, che aveva un debito
alto, pagava interessi bassi come mai nella
sua vita; altri paesi traevano alimento
dalla moneta unica per accrescere la propria bilancia commerciale e dei pagamenti. Ma, passata l’età dell’oro, scopriamo
che i vantaggi non si ripartiscono fra tutti
allo stesso modo perché ci sono paesi che
guadagnano da questa situazione, del
tutto legittimamente, e altri che vivono
2012
difficoltà profonde. Infatti, non c’è più la
corsa ad entrare nell’euro.
È giusto che ognuno faccia “i compiti a casa
propria” perché naturalmente non si possono scaricare sugli altri proprie responsabilità. Questo vale per l’Italia, per la Grecia,
per ogni paese. Però fare i compiti a casa
propria vuol dire che non esiste più
un’Europa della solidarietà e dell’attenzione verso chi ha più problemi o essere lasciati soli proprio nel momento difficile. Fare i
compiti a casa propria non vuol dire
forse pensare di appartenere comunque ad una comunità?
Come si può avere la stessa moneta
in condizioni così diverse di costo del
denaro, della raccolta del debito,
del credito? Come può un’azienda
che si finanzia al 15 per cento competere con un’impresa che si finanzia a 0 o all’1%? È evidente che
prima o poi questo sistema non regge
in equilibrio.
Questo problema riguarda sia le
imprese che i cittadini, perchè anche
loro si trovano nelle condizioni di
aver bisogno di un prestito.
C’è poi un altro grande problema
relativo alla presa delle decisioni. Se
i mercati spingono ad una soluzione
d’urgenza e i tempi della decisione
sono molto più lenti, quando si deciderà di intervenire i costi dell’intervento diventeranno cinque volte più
alti che se si fosse intervenuti subito.
Il caso della Grecia è esemplare: con
150 miliardi la Grecia si sarebbe potuta salvare all’inizio di questa crisi.
Oggi ci vogliono due, tre, quattro
volte quelle cifre.
Infine, c’è la domanda delle domande, la più difficile. Quando c’è una crisi
come questa, con una moneta unica che
invece di unire divide, chi decide e per
chi, e sulla base di quale mandato? Come
si tiene assieme la questione di una moneta senza uno stato e uno stato senza moneta con il problema democratico della
responsabilità delle decisioni e del mandato democratico? È molto pericoloso l’orizzonte in una crisi della democrazia come
questa, quando allignano populismi, xenofobie, ritorni indietro, principi di esclusione, irrazionalità crescente. C’è un rischio
per la democrazia non in un solo paese,
perché per la nostra Europa la democrazia
è indivisibile, vale per Atene e per Berlino,
per Roma e per Madrid, per Vienna e per
Stoccolma.
È abbastanza semplice immaginare
l’Europa di cui ci sarebbe bisogno. È fondamentale una moneta comune, ma insieme
ci vogliono istituzioni realmente comuni,
convergenze di politiche sociali ed economiche, politiche industriali; servono comuni
regole e una comune democrazia. E questo
processo deve vedere alla fine anche un
completamento istituzionale e politico
dell’Unione europea, sotto forma di una
federazione leggera di stati o sotto altre
forme, ma non si può lasciare questo percorso incompleto del suo luogo di approdo.
Su questo punto ci sono le difficoltà più
grandi. Un grande padre della Germania e
dell’Europa, Helmut Schmidt, ha detto
all’ultimo congresso della Spd: “La
Germania deve essere più europea” ma ha
anche detto che non ci sono le condizioni
per costruire gli stati uniti d’Europa.
Eppure, con tutto il rispetto che si deve ad
un punto di vista di straordinaria forza,
penso che prima o poi quest’obiettivo
debba essere conseguito.
Cosa vuol dire, d’altra parte, il tema
posto con forza dalla cancelliera Merkel
sulla cessione di sovranità nazionale? Si
può cedere la propria sovranità, ma a chi
e per che cosa? Bisogna saper rispondere
subito a questa domanda: ci deve essere,
in sostanza, un punto finale di questo
processo, altrimenti diventa tutto più difficile perchè i populismi, le chiusure
nazionalistiche identitarie, i sentimenti e
i risentimenti reciproci crescono e si diffondono. E non crescono solo tra stato e
stato, crescono anche dentro gli stati.
Pensiamo alla Spagna, alla stessa Italia,
alla Gran Bretagna: i germi di divisione,
una volta che li inneschi, poi non li puoi
tenere fuori dai tuoi confini.
Ognuno, in questa crisi, tende a difendersi da sé, ma così si torna indietro.
Vediamo le vicende relative all’industria
dell’auto: se il governo francese ritiene
di intervenire con qualcosa come oltre
11 o 12 miliardi di euro per sostenere
un’azienda automobilistica privata francese essa, per essere salvata, dovrà probabilmente chiudere uno stabilimento e
non lo farà in Francia ma in un altro
paese europeo. È un esempio, ma significa che si va sempre più verso un
processo in cui ognuno pensa unicamente a se stesso.
Ma se ciascuno pensa a sé, non
potranno che ritornare i nazionalismi
che l’Europa pensava di aver estirpato dopo tante tragedie costruendo
questo percorso.
Dunque, l’Europa è una sfida infernale, difficile ma assolutamente
necessaria perché fondata su una
razionalità fatta di due aspetti.
Il primo è che da sessant’anni
l’Europa non conosce guerre e non
era mai avvenuto nella storia bimillenaria dell’Europa. Non è qualcosa di
cui possiamo perdere la memoria: per
millenni i popoli europei, i cittadini,
gli stati si sono massacrati. Se si
perde questo valore della pace, del
rispetto reciproco, viene a mancare
uno dei grandi connotati della costruzione europea.
L’altro aspetto riguarda il mondo globalizzato dove avanzano, con contraddizioni forti, grandi paesi, grandi
mercati. Se l’Europa si presenta
divisa, con i suoi stati magari in conflitto tra loro, sarà destinata a contare sempre meno. Il mondo che
verrà, se l’Europa non si sveglia, sarà un
mondo che avrà meno Europa e non solo
sui mercati dei prodotti o dei servizi, delle
tecnologie o delle università: avrà meno
Europa anche dal punto di vista dell’idea
della democrazia, della cittadinanza, dei
diritti, dei doveri e della dignità dei cittadini e dei lavoratori.
Questa è la sfida. Per tutto questo continuo a pensare, come il sindacato italiano,
il sindacato europeo hanno sempre detto,
che l’austerità da sola non risolve i problemi, ma forse è destinata ad aumentarli.
Il Fondo salva-stati, le decisioni del
Consiglio dei ministri del 28 giugno che
fine hanno fatto? Sono passati mesi e l’attuazione ancora non si vede. È una china
pericolosa, mentre la crisi si avvita e coinvolge anche la stessa Germania.
Diceva Jacques Delors: “L’Europa in fondo
è come una bicicletta: se non continui a
pedalare, prima o poi ti fermi e prima o
poi cadi”. È proprio il senso di quanto
potrebbe accadere.
47
2013
La contrattazione
al tempo della crisi
di Nino Cortorillo, Segretario Nazionale Filt-Cgil
Qual è l’idea forte, il progetto visibile, riconosciuto, su cui siamo stati in grado di costruire
alleanze e consenso, dopo la lontana fase
del biennio 93/95, con gli accordi sul sistema
contrattuale, la politica dei redditi, l’ingresso
nell’euro, la riforma del sistema pensionistico?
Da molti anni una parte centrale della riflessione del sindacato
confederale ruota intorno al tema di quale sia il sistema contrattuale dentro cui realizzare la contrattazione.
Spesso dimenticando che la rappresentanza sociale esercita la sua
funzione solo se è in grado di contrattare, nei luoghi di lavoro dal
livello nazionale a quello aziendale con le imprese, nel territorio
con le istituzioni, e solo se trasforma questa immensa energia in
accordi e quindi norme pattizie riconosciute ed esigibili.
Ma la nostra valutazione su quale sistema contrattuale, tempi,
livelli, contenuti, relazioni tra gli attori, non può che esser posta
dentro le dinamiche più generali che vanno lette e capite. Senza
forzature ideologiche, ma senza ritagliarsi un ruolo oggettivamente passivo. Avendo anche la capacità di cambiare noi stessi
laddove le soluzioni ipotizzate e praticate non siano portatrici di
cambiamento o rispondenti alle analisi. Non è sinonimo di coerenza il ripetere con accanimento sempre le stesse analisi, ma di
incapacità di riconoscere i propri limiti. Con la conseguenza che
si diventa conservatori o addirittura nostalgici del passato. Sino al
punto di essere sostenitori anche di quello contro cui ci eravamo
aspramente opposti.
Le fasi economiche e sociali, dentro le quali provare a semplificare questi decenni, possono essere individuate come segue.
1. Fase della crescita e dello sviluppo
2. Fase della crisi energetica e della svalutazione della moneta
3. Fase dell’euro e della politica dei redditi
4. Fase della globalizzazione e della flessibilità
5. Fase della recessione e del debito pubblico
Ogni fase non ha ovviamente costruito un modello contrattuale,
ma potremmo ben identificare e riconoscere in ogni periodo sia
l’azione del sindacato come attore di quel periodo (con le proprie
scelte e comportamenti) sia le conseguenze che si sono determinate sulla complessiva condizione sociale. È però utile soffermarci sul periodo più recente e tentare di uscire da una meccanica
analisi delle genesi degli accordi separati come frutto di dinamiche interne alle relazioni tra i sindacati o frutto solo della volontà delle controparti. Ponendoci una riflessione centrale:
● Qual
è l’idea forte, il progetto visibile, riconosciuto, su cui
siamo stati in grado di costruire alleanze e consenso, dopo la
lontana fase del biennio 93/95, con gli accordi sul sistema contrattuale, la politica dei redditi, l’ingresso nell’euro, la riforma del sistema pensionistico?
48
Provo ad individuare alcuni spunti di riflessione.
● Negli
ultimi 15 anni abbiamo realizzato decine di migliaia di
accordi unitari. Quasi tutti fatti dalle categorie con una varietà di temi molto estesa: dai contratti nazionali, a quelli territoriali e aziendali; da quelli acquisitivi (pochi o non visibili) a
quelli (molti e anch’essi poco visibili) per gestire ristrutturazioni o crisi di settore o aziendali. In ogni settore ed in ogni realtà territoriale del paese. A questi si aggiungono i tanti accordi
confederali a livello regionale e territoriale soprattutto rivolti
alla gestione della crisi economica, ai suoi impatti, alla strumentazione e all’utilizzo degli ammortizzatori sociali.
● Nello
stesso periodo, pochi accordi separati. Sempre di estrema rilevanza di contenuti e mediatica. Quelli confederali del
2002 e del 2009, e quello recente del 2012, il contratto nazionale dei metalmeccanici, quello del commercio e del pubblico
impiego. Il caso Fiat ha una dinamica che non è originata dal
contesto generale né tantomeno è la sintesi della realtà del
paese. Con buona pace delle facili letture che assimilano una
parte al tutto. È una metastasi del sistema, non il sistema.
● L’accordo
del 28 giugno 2011 è un risultato eccezionale, un
miracolo sindacale, che ha rischiato e rischia di essere riassorbito tra gli accordi confederali separati precedenti e quello
successivo. Quasi a confermare la sua anomalia.
● Questa
dicotomia che si è prodotta nella realtà, aldilà di una
volontà determinata, ha innestato nella storia recente della
Cgil un seme diverso che ha ridotto drasticamente la capacità
di un’analisi articolata come richiederebbe una realtà insieme
complessa e frammentata.
● Insieme,
si è ridotta l’attitudine alla faticosa conquista della
mediazione. Senza il principio della mediazione, del compromesso tra visioni diverse, anzitutto esistenti tra i sindacati, e
naturalmente con le controparti, non avremmo alcun accordo.
2013
Sbaglia chi pensa che l’accordo sia solo, o principalmente, il
frutto di rapporti di forza. Va letta come una degenerazione il
misurare, anziché il consenso, i rapporti di forza tra sindacati
prima ancora che con le controparti.
● La contrattazione non esercitata sia come pratica costante che
nel suo esito possibile porta a un’atrofia della nostra organizzazione, disabituata di conseguenza a misurarsi sul risultato
della mediazione. Ne consegue che analisi, dibattito, posizionamento, capacità di chiudere accordi attraverso il lavoro
della mediazione hanno perso l’indispensabile linearità tra
obiettivi e risultati.
● La non realizzazione di accordi condivisi (anche per mancanza
di un progetto e obiettivi capaci di creare consenso e alleanze
oltre a noi) ha trasformato gran parte del nostro dibattito
interno in una litania ed elencazione delle trasformazioni negative della realtà. In assenza di analisi e accordi che abbiano
l’ambizione di influire sulla realtà, il dibattito interno è racchiuso in una graduazione della nostra opposizione con stanche
e rituali richieste di agitazioni e scioperi generali.
● L’oggettivo venir meno di un ruolo sindacale basato su accordi
confederali/accordi di categoria ed il venir meno della centralità della nostra organizzazione non nella rappresentanza sociale, ma nella capacità di essere il fulcro della ricerca della
mediazione, ha prodotto anche una deformazione politicista
nel nostro dibattito e quindi delle nostre analisi.
● Non
potendo costruire rapporti sindacali a noi più favorevoli
pensiamo di compensare questa debolezza avendo l’ambizione
di esser parte di un campo politico più vasto che potremmo
condizionare nelle scelte. Sperando così di recuperare lo spazio perduto. Nella realtà a sinistra, aldilà del rispetto dovuto
alla nostra storia, non si riscontra una condivisione esplicita
alla nostra azione. Allo stesso modo, il ricercare alleanze esterne,
verso partiti o parte di essi o di movimenti più o meno vicini a
noi, spesso anche a noi estranei e antagonisti, aggiunge elementi distorti al nostro dibattito, spostando il nostro agire su
temi che sono distanti dai bisogni espressi dal lavoro. Un tatticismo esasperato coperto da slogan, ma privo di visione.
● L’ultimo
accordo separato sulla produttività, a differenza di
altri, ha avuto una trattativa. Non un prendere o lasciare. Che
abbiamo condotto sin all’ultimo, ma di cui non si è compreso,
perché è risultato inatteso, l’esito finale. Troppo influenzato
da quelle analisi politiciste e tattiche al cui centro è risuonato
l’antico e sbagliato pensiero “ Cui prodest”. A chi giova? Al centro con l’asse Bonanni/Passera? A Monti? Alla sinistra dentro il
Pd o a quella alla sua sinistra? Ed è meglio aver le mani libere
o star dentro l’accordo? Una dinamica quasi morettiana analoga al “mi si nota di più se ci sono o se mi nascondo e si chiedono dove sono?” Riflessioni che sono evaporate in pochi giorni.
La politica, anche a sinistra, guarda a noi come un interlocutore
fondamentale. Ma non l’unico. E sarebbe sbagliato il contrario.
Non a caso, a distanza di poche settimane, parte di quelle
letture si sono rivelate parziali se non sbagliate.
● Un accordo è un accordo. Una tautologia si dirà. Ma risponde a
una complessa valutazione delle molte variabili sociali ed economiche (ed anche politiche, ma in giusta misura) che deve
condensarsi e tramutarsi in un testo. Ma che non può aver l’ambizione di esaurire né le contraddizioni esistenti né la nostra
azione. Vale per la confederazione e per tutte le categorie.
Emerge, però, una disabitudine alla fatica non solo della
mediazione, ma del consenso da ricercare. Come se i grandi
accordi che hanno segnato la storia della Cgil siano passati tra
entusiastiche ovazioni e non siano stati il frutto anche di profonde lacerazioni.
La dicotomia accordo separato confederale/gestione delle
categorie non può esser la via d’uscita spendibile sempre. Il
paradosso è che stiamo provando a difender l’esistente, ma
rifiutiamo di fare accordi di difesa. Dovremmo assumere come
un’anomalia profonda, non un giudizio di valore, la distanza tra
gli accordi separati su cui ha ruotato l’intero dibattito sindacale in questi anni e le migliaia di accordi fatti dalle categorie,
svalorizzati perché ormai privi di significato. Col paradosso che
gli accordi unitari, e i loro contenuti, non sono oggetto di
discussione, mentre quelli non sottoscritti diventano il collante che supera anche le differenze al nostro interno. Le modalità di analisi e i giudizi che si possono assumere nella teoria
49
2013
sia temporanea, con un volgere lo sguardo all’indietro e a condizioni che non ritorneranno disponibili. Basterebbe chiedersi: le
pensioni al termine di questa crisi ritorneranno come erano,
magari con 35 anni di contributi? Ipotizzare e magari praticare
con troppa disinvoltura attese e impegni che allo stato appaiono
irrealistici significa andare incontro a esiti ancor più pericolosi. Il
passaggio da illusione a disillusione è sempre la premessa a disimpegno e distanza da qualunque forma di partecipazione attiva che
non sia generata da rancore individuale.
non dovrebbero esser troppo distanti da quelli che nella realtà
assumiamo. E la contrattazione non è l’esito di un’analisi, ma
la risultante dei tanti accordi che nelle realtà realizziamo.
Dovremmo domandarci perché, per la prima volta nella storia,
la confederazione si è ritrovata ad assumere un ruolo più radicale di quasi tutte le categorie. Con una lettura su temi quali
mercato del lavoro, produttività, enti bilaterali, che trova
spesso troppa distanza tra un dibattito basato su principi e la
necessità di trovare regole di tutela nelle condizioni date. La
risultante delle nostre valutazioni non risiede nelle nostre riunioni interne ma nella contrattazione e nel suo esito possibile.
Un primo fondamentale appuntamento sarà in come saremo
capaci di governare il tema produttività generato dall’accordo
ultimo. Qualche prescrizione in meno e qualche analisi su quale
contrattazione è oggi possibile sul tema aiuterebbe a tenere un
rapporto più realistico con i lavoratori.
La campagna elettorale appena conclusa ci ha consegnato scelte
e posizioni apertamente ostili non ai partiti, ma alle forme della
rappresentanza sia politica che sociale. Assistiamo con troppa
disinvoltura ai populismi di destra, sinistra e apparentemente
senza colore, che nella iper semplificazione dei problemi,
accusano il sindacato, quello confederale, di esser la causa dei
problemi del paese e della crisi. Salvo accorgerci con stupida
superficialità che queste opinioni attraversano anche il mondo
che rappresentiamo.
Il prossimo governo, se questo parlamento sarà in condizione di
averne uno o non si dovrà tornare alle urne a breve, e quindi nella
sua apparente certezza e prevedibile incertezza, si muoverà dentro un quadro, se non già scritto, almeno molto descritto. La cessione di sovranità all’Europa non è un limite ma un’opportunità.
Se avessimo immaginato come una riduzione negativa la cessione
di poteri dai singoli stati all’Europa dopo la seconda guerra mondiale, non sarebbe mai stato avviato quel lunghissimo percorso
che ci porta oggi a poter criticare scelte europee, ma con la possibilità che si possano cambiare. La somma o l’intreccio dato da
debiti pubblici e crisi economica sta trasformando l’Europa del
welfare e della redistribuzione della ricchezza. Non abbiamo
ancora la consapevolezza che questa trasformazione sociale ed
economica, che sarà lunga e irreversibile, non possa essere
affrontata solo con un’azione eroica di difesa, senza prevedere
insieme una nostra trasformazione. Di contenuti, di ruolo, di
obiettivi. Fingiamo, mentre la dichiariamo strutturale, che la crisi
50
La Cgil ha presentato il suo Piano per il lavoro che sarà messo alla
prova sia dall’azione del futuro governo, sia da un contesto che
continua a vedere un paese stretto tra declino produttivo e debito pubblico. Un paese che mostra una maggioranza trasversale
costruita su ipotesi populistiche che uniscono, in una prospettiva
di ingovernabilità, i sostenitori dell’anti politica e gli esegeti della
corruzione. Un quadro politico ed economico che, a breve, ci indicherà o costringerà a scelte difficili. Sia per il merito che per il
ruolo assunto nell’ultimo decennio. Scelte che non possono esser
solo derivate da una lettura didascalica del Piano del lavoro, né da
attese miracolistiche che legano maggiori investimenti pubblici al
miglioramento di tutti gli indicatori economici e sociali.
Abbiamo bisogno di ridare speranza alle attese del paese e
del lavoro. Ma dentro un insieme stretto di compatibilità nazionali ed europee se non globali. Alla confederazione e alle categorie
decidere quali spazi larghi e quali accordi generali tentare
di costruire con il nuovo governo, sperando di averne uno, e con
le rappresentanze economiche. Da subito tentare di ricostruire
su tre temi che non possiamo rimandare o eludere.
1. La rappresentanza sociale richiede una lettura pragmatica
dell’accordo del 28 giugno 2011. Non scaltra come operata da
coloro che prima l’hanno individuato come un’intesa contro
cui scioperare e dopo ne rivendicano la piena applicazione. Ma
sapendo che non esiste misurazione possibile della rappresentanza in presenza di un clima di rottura permanente. Il campo
della rappresentanza sindacale, almeno tra Cgil Cisl e Uil, non
è similare a quello della politica. La misurazione non porta a
maggioranze e minoranze antagoniste, ma a costruire le forme
unitarie della gestione. Le regole sulla rappresentanza da
ricercare non devono solo misurare il consenso, ma agevolare,
indurre a costruire rapporti unitari. La Cgil non deve accontentarsi di un termometro, ma sforzarsi di curare la febbre.
2. L’esercizio della contrattazione di categoria che punti a
un’estensione dei campi di applicazione dei vecchi contratti
nazionali ma anche lasciata libera di costruire nuovi punti di
equilibrio. Il tema produttività, tutto da verificare, s’incastra
in modo ancora non chiaro tra primo e secondo livello.
Andrebbe lasciata alle categorie la decisione di definire quale
produttività, non solo del lavoro ma anche dei processi organizzativi e di sistema. Regolandone distribuzione e criteri nel
contratto nazionale. Senza isterie e senza pregiudizi. Perché,
di fronte alle poche risorse destinate al lavoro, sarebbe un suicidio lasciare ad altri il compito di decidere quanto, come e
dove assegnarle.
3. Un rafforzamento della nostra struttura organizzata sui territori e nelle imprese proprio perché in una fase di crisi acuta
che incide sulla stabilità lavorativa, sociale e delle persone, il
riferimento del sindacato è dato dalle nostre migliaia di quadri
che sono spesso l’unica interlocuzione reale. C’e chi immagina l’abolizione del sindacato o la sua trasformazione in una
rete virtuale. Noi dobbiamo mantenere e difendere il sindacato fatto di una rete concreta di persone in rappresentanza di
altre persone.
[email protected]
2013
Le politiche infrastrutturali
nel Piano per il Lavoro della CGIL
di Simone Ombuen, Docente di urbanistica - Università Roma Tre
Le infrastrutture, le organizzazioni e le aziende che garantiscono
la mobilità delle merci e delle persone avranno un ruolo determinante, sia per garantire l’ordinato sviluppo delle attività civili
ed economiche del Paese, sia per consentire all’Italia di trovare
nel nuovo ordine mondiale una collocazione adeguata al rango
raggiunto nel passato dal punto di vista culturale e produttivo.
Queste brevi riflessioni prendono spunto
dalle attività seminariali di elaborazione
del volume “Tra crisi e grande trasformazione. Libro Bianco per il Piano del Lavoro
2013”, a cura di Laura Pennacchi, che la
CGIL ha promosso a supporto delle sue
recenti attività per mettere i problemi
reali al centro dell’agenda del Paese e
della campagna elettorale. Le elaborazioni svolte e l’ampiezza di campo dei concetti e dei problemi affrontati non consentono qui che una brevissima e sintetica descrizione della latitudine principale
emersa; scusandoci per l’inevitabile brevità rimandiamo per ulteriori approfondimenti alla lettura del volume, che presenta interessanti approfondimenti e
soprattutto una lettura generale di scenario che ha pochi esempi confrontabili nell’attuale letteratura internazionale sui
temi della crisi.
Nel corso delle elaborazioni alcuni elementi generali sono emersi come prioritari, e sono andati a caratterizzare la proposta della CGIL anche a confronto con corrispondenti elaborazioni svolte da altre
parti politiche e sociali in preparazione
del dibattito preelettorale per il rilancio
dell’economia italiana. In estrema sintesi,
questi gli elementi di scenario emersi nel
Piano per il Lavoro.
evitare l’abnorme espansione dei fenomeni speculativi che ne sono la causa.
● Il
modello di sviluppo basato sul debito
ha portato ad una condizione di “trappola della liquidità”, che rende molto
difficoltoso ogni ulteriore debito nazionale. Gli investimenti infrastrutturali,
indispensabili al riavvio della domanda
interna, dovranno avvenire mutualizzando tale nuovo debito a livello europeo, per realizzare investimenti di ricapitalizzazione territoriale che rendano
l’Italia più europea e che riguardino
processi a più alta intensità di lavoro, in
grado di rilanciare i redditi.
● La chiave della sostenibilità ambientale
non va assunta più come una condizione
di compatibilità del modello di sviluppo,
ma come una vera e propria sostituzione
del paradigma di base della produzione.
Ciò che oggi chiamiamo green economy
un giorno dovrà essere, semplicemente,
l’economia.
● Occorre rilanciare la produzione di beni e
servizi collettivi e pubblici, per riequilibrare una patrimonializzazione nazionale
eccessivamente sbilanciata verso il possesso privato, e privilegiando le condizioni ambientali e di contesto, la dotazione
fattoriale esistente e non trasferibile,
per qualificare ambientalmente il modello di sviluppo e ridurne le fragilità a fronte dei fenomeni di delocalizzazione.
In questa prospettiva generale l’elaborazione del Libro Bianco ha messo in luce
alcuni aspetti più specifici, relativi alle
politiche infrastrutturali e dei sistemi di
trasporto, qui di seguito accennati in
modo estremamente sintetico.
Una prima certezza è che le infrastrutture, le organizzazioni e le aziende che
garantiscono la mobilità delle merci e
delle persone avranno un ruolo determinante, sia per garantire l’ordinato sviluppo delle attività civili ed economiche del
Paese, sia soprattutto per consentire
all’Italia di trovare nel nuovo ordine mondiale una collocazione adeguata al rango
● La crisi non è congiunturale, è strutturale; essa cambierà in profondità il paradigma produttivo del Paese e la sua
organizzazione economico-sociale.
● Nulla
sarà più come prima: ogni ipotesi
basata sulla ripresa di un business-asusual già praticato in passato è destinata al fallimento.
● La crisi non è solo frutto di un fallimento del mercato finanziario, ma anche
della regolazione che avrebbe dovuto
51
2013
raggiunto nel passato dal punto di vista
culturale e produttivo.
Mettere al centro del prossimo ciclo di
investimenti il capitale in grado di produrre abbondanza di occasioni di lavoro e gli
investimenti sulle condizioni di contesto
più che sui cicli produttivi interni alle
aziende, vuol dire privilegiare gli investimenti che consentono la più ampia
affluenza territoriale delle forze di lavoro
alle attività produttive. Cioè anzitutto gli
investimenti in infrastrutture e servizi per
il trasporto pubblico metropolitano su
ferro, e per la mobilità sostenibile.
Tipologie di investimenti che hanno fra
l’altro il vantaggio, se realizzati, di
ampliare il ruolo strutturale del trasporto
inter metropolitano consentito dalla TAV
(e liberare così più ampi benefici da un
investimento già in gran parte realizzato)
e di sfruttare nello stesso tempo l‘occasione fornita dalla liberazione dai binari ordinari del traffico passeggeri di lungo raggio,
per convertire quella rete al trasporto passeggeri metropolitano (come la RER francese o le S-Bahn tedesche) e all’ampliamento dell’offerta di trasporto merci.
Un’altra dimensione di sviluppo riguarderà
il servizio aereo cargo: con il solo 2% dei
volumi totali il traffico merci aereo rappresenta oltre il 40% del valore complessivo delle merci trasportate. I vantaggi italiani di posizione geografica, baricentrica
rispetto al bacino mediterraneo, e di alto
valore aggiunto del made in Italy, non
sono sufficientemente supportati da servizi
e infrastrutture di rete efficienti: circa il
51% del traffico avio merci oggi esce
dall’Italia su gomma per andare a imbarcarsi in altri importanti aeroporti europei,
con un sovraccosto per l’Italia e un beneficio per altri paesi europei.
Una terza priorità sarà la realizzazione
delle reti TEN-T, nella nuova multidimensionalità che esse hanno assunto di recente. Anzitutto l’incremento dell’interconnessione ferroviaria transalpina, che renderebbe possibile l’espansione dei servizi
logistici dei porti italiani verso i distretti
produttivi dell’area della Blue Banana
europea, e l’espansione della rete verso
sud (direttrice Napoli-Bari e attrezzaggio
dei porti interconnessi per lo short sea
shipping mediterraneo).
Dagli ultimi dati ISTAST relativi ai trasporti
2011 per regione di origine e destinazione
emerge come:
● oltre
il 90% dei trasporti ha origine e
destinazione in Italia;
● il
nord da solo esprime al suo stesso
interno il 61% del totale del trasporto
merci italiano;
● il complesso dei trasporti verso l’estero
è il 9,5% del totale;
52
● da
solo il Nord produce oltre il 90% dei
trasporti verso l’estero (esclusi i transiti).
Da tali dati deriva una politica di efficientamento dell’apparato logistico e infrastrutturale tesa più a eliminare colli di
bottiglia e intasamenti, che non a realizzare nuove dotazioni assolute, fatti salvi
gli interventi per migliorare efficienza ed
efficacia dei traffici marittimi in transito
nei gateways verso il core europeo, anzitutto nella direzione nord-sud e su
entrambe i versanti, Tirrenico e Adriatico.
Analizzando poi i diversi ruoli del sistema
infrastrutturale nei confronti del sistema
produttivo, sono emerse tre distinte funzioni da esso svolte:
● interconnessione del sistema produttivo
italiano al suo interno, su cui sono basate componenti importanti di efficienza,
flessibilità e competitività dei sistemi
manifatturieri delle PMI;
● interconnessione del sistema produttivo
italiano con i gateways verso i mercati
internazionali (porti, valichi alpini,
aeroporti, corridoi e hub energetici);
● impegno dei gateways per il transito dei
flussi di merci di provenienza estera e
destinate ad altri mercati.
A questi compiti si aggiunge un ruolo welfaristico delle infrastrutture: garantire
qualità e accessibilità all’intero territorio
nazionale, con standard e affidabilità
paragonabili a quelli europei.
Ricapitolando, una breve possibile agenda
di alcuni dei principali interventi operabili
in rapidità e orientabili per avviare un
diverso modello di sviluppo, prevederà:
● la
messa in sicurezza del patrimonio
pubblico essenziale dalle possibili conseguenze del mutamento climatico, che
aggravano i rischi su infrastrutture
materiali e immateriali, e rischiano
altresì di rendere inutilizzabili eventuali investimenti infrastrutturali compiuti
senza considerare le conseguenze del
Global Climate Change;
● il potenziamento del trasporto metropolitano su ferro, attraverso il riutilizzo
della rete ferroviaria liberata dalla
AV/AC e con la messa in linea di nuovi
convogli leggeri, attrezzati per il trasporto a bordo delle biciclette;
● la contestuale realizzazione delle interfacce fra il ferro e le altre modalità di
trasporto persone (dalle bici agli aerei),
in particolare con la realizzazione di
nodi e parcheggi di scambio;
● di
promuovere la realizzazione di sistemi di mobilità sostenibile, in particolare
la realizzazione di piste ciclabili interconnesse ai sistemi di trasporto metropolitano su ferro, perché grazie a
queste interfacce è possibile allargare
di molto il buffer di servizio della rete
infrastrutturale, aumentando le occasioni di accesso dei cittadini ed ottimizzando l’investimento pubblico;
● di
promuovere la diffusione dei sistemi
di infomobilità, anzitutto con la sincronizzazione dei diversi servizi di trasporto al fine di ridurre le rotture di carico;
● di
realizzare in tutti i sistemi urbani e
metropolitani il sistema di bigliettazione unica fra i vari gestori dei servizi, con
l’adozione di sistemi informatizzati di
attribuzione dei ricavi sulla base della
gestione dei dati di annullamento/convalida dei titoli di viaggio;
● la
promozione dei sistemi di logistica
urbana e di miglioramento del servizio di
ultimo miglio, con la cura delle interfacce a monte e l’allestimento degli opportuni hub intermodali e con la cura delle
interfacce a valle, per migliorare il rapporto con la reverse logistics e il sostegno alle funzioni di chiusura dei cicli di
materia, e di recupero integrale degli
imballaggi e dei prodotti a fine vita.
[email protected]
2013
“Dalla crisi globale alla giustizia globale”
Note dal Congresso ETF 2013
di Eduardo Chagas, Segretario Generale ETF
Il Congresso ETF 2013 si è appena concluso e tutto il team ETF è tornato al lavoro,
con l’impegno ad affrontare le minacce
che sono state lanciate, in tutti i settori
dei trasporti, ai lavoratori e ai sindacati
che li rappresentano.
Questo è stato uno dei temi centrali
affrontati dal nostro Congresso: è ormai
evidente che la Commissione Europea, le
istituzioni finanziarie internazionali, i
governi nazionali e le associazioni datoriali hanno aperto una vera e propria guerra
contro il mondo del lavoro.
Le attività sviluppate dalla Federazione sono
chiaramente contrassegnate dalla grave crisi
economica e sociale che stiamo vivendo, e i
cui primi segnali erano già emersi nel 2009,
anno del nostro precedente Congresso a
Ponta Delgada, nelle Azzorre.
Nonostante la lotta condotta da molti dei
nostri affiliati e dall’ETF per contrastare
le strategie neoliberiste, apparentemente
volte ad affrontare la crisi, la verità è che
i paesi europei non sono stati in grado di
imparare la lezione impartita dall’esperienza del disastro causato da decenni di
deregulation, speculazione e de-industrializzazione dell’assetto economico a
favore di un’economia finanziaria che si è
dimostrata miope rispetto alle conseguenze sociali delle sue politiche.
Sebbene le misure di austerità della
Troika, imposte – nonostante gli avvertimenti di economisti di fama mondiale –
dalla Commissione Europea, dalla Banca
Centrale Europea e dal Fondo Monetario
Internazionale
abbiano
determinato
un’enorme spirale recessiva, la realtà è
che la crisi, nelle sue diverse forme, è utilizzata per attaccare le basi del modello
sociale europeo, sradicare i diritti sociali e
sindacali, tagliare sui diritti acquisiti,
spesso non rispettando i diritti fondamentali delle costituzioni nazionali.
In questa “guerra del lavoro” il movimento sindacale europeo non è stato in grado
di mostrare la sua vera forza e di arginare questa drammatica offensiva. Anche
sul piano politico, i partiti tradizionalmente impegnati nella difesa dei diritti
sociali sono stati trascinati nella trappola
del “discorso di austerità”, in grado di
imporre una più equa distribuzione della
ricchezza. Ciò ha avuto come conseguenza anche il trasferimento dei voti di una
parte della classe operaia a partiti populisti, xenofobi e di estrema destra, che
cercano di sfruttare il malcontento e la
perdita di speranza dei cittadini.
L’eliminazione dei diritti sindacali, la crescente mancanza di partecipazione dei cittadini al processo decisionale, basata sull’assunto per cui la loro partecipazione
alle elezioni è più che sufficiente, insieme
agli allarmanti livelli di disoccupazione e
di precarietà, in particolare tra le donne e
i giovani, stanno diventando un ordigno
che rischia di esplodere senza preavviso.
Il rapporto sull’andamento del mercato
del lavoro recentemente pubblicato dalla
Direzione Generale Affari Economici e
Finanziari è una chiara espressione degli
obiettivi della Commissione Europea. Pur
riconoscendo che l’UE è “l’unica grande
regione del mondo dove la disoccupazione
non si abbassa”, il report enumera i “successi” di un decennio di riforme del mercato del lavoro. Tra gli altri:
l diminuzione dei contributi previdenziali
per i datori di lavoro e/o dipendenti;
l diminuzione della durata del periodo di
preavviso e del livello delle indennità,
riduzione dei requisiti procedurali per i
licenziamenti in contratti a tempo indeterminato;
l aumento della durata massima cumulativa dei contratti a tempo determinato
e del numero massimo di rinnovi;
l diminuzione del livello di contributi per
i regimi pensionistici e di invalidità;
l aumento dell’età pensionabile e criteri
di riduzione dei trattamenti per programmi di pensionamento anticipato;
l riduzione della quantità di prestazioni
pensionistiche e indennità;
l diminuzione dei salari minimi legali e
contrattuali;
l riduzione dell’ambito di applicazione
della contrattazione o (automatica)
estensione dei contratti collettivi;
l riduzione complessiva del potere di fissazione dei salari da parte dei sindacati;
l aumento del tempo di lavoro, riduzione
degli straordinari, maggiore flessibilità
dell’orario di lavoro, incentivo al ricorso
a contratti a tempo parziale.
La lista è molto lunga e il fatto che la relazione è prodotta dalla DG ECFIN mostra
chiaramente il controllo che gli affari
finanziari hanno preso sulle politiche
economiche e sociali europee.
Il Congresso ETF ha inviato un chiaro
53
2013
segnale sul fatto che i lavoratori dei trasporti combatteranno contro queste politiche e che il programma di lavoro adottato
all’unanimità dai delegati al Congresso
sarà determinante nel mettere in pratica
tale obiettivo.
Il documento individua cinque priorità
principali, ciascuna delle quali descrive la
situazione e le sfide attuali, stabilisce gli
obiettivi da perseguire nel corso del prossimo mandato e le possibili azioni concrete da sviluppare.
In linea con ciò che è stato già discusso
nello scorso Congresso, la prima priorità è
la Politica dei trasporti e la mobilità
sostenibile. La tendenza attuale di porre
la concorrenza come principale forza
motrice della politica dei trasporti dell’UE
deve essere fermata e l’ETF ribadisce la
sua opinione: è attraverso la cooperazione
tra le modalità di trasporto che sarà possibile sviluppare soluzioni sostenibili per
ridurre in modo significativo l’impatto che
i trasporti hanno sul cambiamento climatico. Ciò è importante anche per porre fine
all’ossessione dei responsabili politici per
la liberalizzazione.
È indispensabile che la politica dei trasporti assuma un approccio sociale in
grado di abbattere le attuali forme di
dumping sociale, che si traducono in una
corsa al ribasso dei salari e delle condizioni di lavoro. Allo stesso tempo, l’Europa
deve continuare a migliorare l’implementazione degli standard di sicurezza.
La seconda priorità è il Lavoro e i diritti
sindacali. Alla luce delle considerazioni di
cui sopra, questo è un compito fondamentale per l’ETF nel prossimo mandato, dati
i crescenti attacchi ai diritti sindacali consolidati. Lo sfruttamento e altre forme di
abusi proliferano, con il consenso, manifesto o latente, di molti Stati membri e
delle loro amministrazioni. L’ETF promuoverà attivamente il raggiungimento di un
54
più equo bilanciamento di
potere, cui gli affiliati
potranno ricorrere al fine
di garantire un’azione più
efficace, in particolare nel
quadro del dialogo sociale
settoriale. Il programma di
lavoro prevede anche la
creazione di un osservatorio ETF sulle violazioni dei
diritti sindacali.
La terza priorità va nella
stessa direzione.
L’abbiamo
denominata
Sindacati più forti: organizzarsi globalmente e
intende individuare aree
chiave di intervento, tra cui
donne e giovani lavoratori
dei trasporti. È opportuno
quindi sottolineare che il Congresso ha
approvato una serie di emendamenti alla
Costituzione ETF per quanto riguarda la
creazione del Comitato giovani ETF, che
sarà formalmente costituito a ottobre 2013
nel corso di una grande conferenza che si
terrà a Zagabria, in Croazia.
Durante il Congresso si è tenuto un vivace
dibattito, in cui circa 60 giovani lavoratori che partecipano ad attività di formazione ETF hanno mostrato la loro disponibilità a essere soggetti attivi, insieme ai loro
colleghi più anziani, nel rafforzamento
dei sindacati e nella condivisione delle
responsabilità.
Sindacati più forti: formazione e istruzione è la quarta priorità di lavoro. Essa è
destinata a promuovere un migliore uso
delle risorse formative esistenti (umane e
materiali), sviluppare altri strumenti di formazione e continuarne la promozione. La
forza della Federazione deriva dalla forza
dei suoi membri e, data l’ancora bassa presenza sindacale in alcuni paesi, molto può
essere fatto per migliorarne i livelli.
L’ultima (ma non per importanza) è la
priorità di Rappresentanza e coordinamento transfrontaliero. L’obiettivo è di
promuovere la cooperazione transfrontaliera tra gli affiliati, con un maggiore
scambio di informazioni e l’assistenza
attraverso la creazione di un fondo di
organizzazione transfrontaliera. Si continuerà a dare sostegno agli affiliati nei rapporti con i comitati aziendali europei
(CAE) e nelle fusioni aziendali. Sarà allestito un progetto pilota per l’affiliazione
diretta a ETF dei lavoratori non sindacalizzati, nei casi in cui, nei loro rispettivi
paesi d’origine, non esistano sindacati tramite cui organizzarsi.
Le cinque priorità sono completate da programmi di lavoro che ogni sezione ETF ha
approvato per lo stesso periodo di quattro
anni, oltre a quello approvato nella
Conferenza delle Donne, che ha preceduto il
Congresso, e quello dei Giovani che sarà adottato nel mese di ottobre, come già detto.
Come ho ribadito nel mio discorso al
Congresso, la forza della Federazione è
quella dei suoi affiliati. Tutte le decisioni
prese dal nostro Congresso saranno pienamente attuate solo con il sostegno e la
partecipazione dei suoi membri. A questo
proposito, sono felice di aver potuto contare sul contributo attivo della Filt-Cgil e
mi auguro di continuare la collaborazione
a tutti i livelli, dal Comitato Esecutivo alle
Sezioni, ai Comitati Donne e Giovani. Le
sfide del futuro richiedono più che mai che
i sindacati agiscano insieme, facendo sì
che la solidarietà prevalga sullo sfruttamento dei lavoratori.
Anche in questo caso, vi rinnovo il mio
impegno e quello del team ETF a lavorare
al meglio delle nostre capacità per la difesa, la promozione e il miglioramento delle
condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori
dei trasporti. Con il vostro supporto,
il nostro compito sarà reso più agevole.
ETF – European Transport Workers’ Federation
Federazione Europea dei Lavoratori dei Trasporti
L’ETF rappresenta oltre 2,5 milioni di lavoratici e lavoratori dei trasporti provenienti da 231 sindacati dei trasporti e 41 paesi dell’Unione Europea, dello Spazio
Economico Europeo e dei paesi dell’Europa centrale ed orientale.
Nasce nel 1999 (congresso fondativo il 14-15 giugno), a seguito della fusione tra
Federazione dei lavoratori dei trasporti (FST, ora disciolta) con filiali europee
della International Transport Workers’ Federation (ITF).
È affiliata alla Confederazione Europea dei Sindacati (CES) ed ha sede a Bruxelles.
Partner sociale riconosciuto nel dialogo sociale europeo, l’ETF rappresenta gli interessi delle lavoratrici e dei lavoratori dei trasporti in Europa presso la Commissione
Europea e il Consiglio dei Ministri Europeo.
I sindacati affiliati organizzano i lavoratori delle ferrovie, del trasporto pubblico locale, dell’autotrasporto e della logistica, del trasporto marittimo, dei
porti, delle vie navigabili interne, dell’aviazione civile, della pesca e del turismo.
2013
Organizzare i non organizzati
Idee ed esperienze per il sindacato che verrà
di Ilaria Lani, Responsabile Politiche Giovanili CGIL Nazionale
Come connettere i nuovi soggetti del mercato
del lavoro? Come costruire partecipazione e
azione collettiva? Come dare potere ai nuovi
esclusi? Sono domande oggi più che mai cruciali per affrontare la crisi della rappresentanza,
o meglio, per cogliere la nuova domanda di
rappresentanza.
Sono passati tre anni da quando i giovani della Cgil hanno affisso
nelle strade e diffuso nel web migliaia di annunci di lavoro indecenti, una provocazione che serviva a lanciare la campagna
“Giovani NON+ disposti a tutto”. Si è trattato di una grande intuizione, sia per la forza del messaggio, che ha svelato e ribaltato
l’immaginario dominante sulla condizione giovanile (ricordiamoci
gli appellativi bamboccioni, choosy, sfigati), sia per gli strumenti
adoperati, capaci di generare, rispetto a quel messaggio, identificazione e aggregazione.
La ricchezza della campagna ha consentito di gemmare nuove
esperienze: dai forum del sito “Giovani NON+” i partecipanti ci
segnalavano gli annunci di stage gratuiti, così nacque la campagna “NON+ stage truffa” che ancora oggi ci vede impegnati per
ottenere una legislazione migliore, in particolare sul livello regionale. Allo stesso tempo, ci siamo battuti contro lo sfruttamento
del praticantato e con la Filcams stiamo tentando di introdurre
una regolamentazione nel contratto nazionale degli studi professionali; a questo fine abbiamo promosso, assieme alle reti di praticanti e professionisti, la campagna “conilcontratto.it”.
Il rapporto costante con le reti di giovani, precari, professionisti
rappresenta una grande risorsa per la Cgil, che in questi anni è
stata alimentata anche grazie al Comitato “Il nostro tempo è
adesso” e alle sue declinazioni territoriali, nate dopo il debutto
nella giornata nazionale di mobilitazione del 9 Aprile 2011.
Queste sono solo alcune esperienze raccolte nel libretto appena uscito “Organizzare i non organizzati - idee ed esperienze per il sindacato che verrà”: si tratta di esperimenti innovativi per il tipo di soggetti mobilitati, per i contenuti sollevati, per le forme utilizzate.
È, infatti, impensabile rispondere ai problemi delle giovani generazioni prendendo a riferimento le rivendicazioni e gli strumenti
di trenta o quaranta anni fa.
Questo è vero per le forme organizzative, per le rivendicazioni
sindacali, ma anche per le scelte contrattuali.
Una e ormai più generazioni sono intrappolate in una condizione di
precarietà e di umiliazione, costrette a lavori saltuari, usa e getta,
sottopagati, sottoinquadrati, senza diritti né ammortizzatori. O,
peggio ancora, vivono in una perenne condizione di inoccupazione.
Ciò significa che intere generazioni non hanno conosciuto la
copertura del contratto collettivo e sono state costrette ad
accettare qualsiasi condizione, abituandosi a vivere in completa
solitudine il proprio lavoro o, perfino, ad essere messi in competizione l’uno con l’altro. Altri ancora hanno visto mortificata la
loro professionalità attraverso un lavoro formalmente autonomo,
che in realtà appare molto poco libero, proprio perché privo di
tutele. Questo esercito di riserva è stato l’ultimo anello della
catena su cui scaricare i rischi e i costi della produzione per poi
diventare, all’occorrenza, lo strumento per mettere in discussione i diritti di tutti.
Agli occhi di queste lavoratrici e lavoratori la battaglia contro la
precarietà, tutta orientata sulle modifiche legislative, è risultata
distante ed inefficace e si pone per noi l’esigenza di coniugare la
riforma della legislazione con un’azione contrattuale inclusiva,
capace di guardare alle tante differenze che contraddistinguono
le diverse condizioni.
Contrattazione inclusiva significa ricomporre la filiera dei diritti,
includendo le tipologie di lavoro non dipendenti nei contratti
nazionali, e sancire in primo luogo per tutti una giusta retribuzione, ma anche l’individuazione di nuovi diritti legati alla formazione, all’autonomia, alla professionalità. Sempre più i nuovi lavoratori pongono una domanda di conoscenza e riconoscimento
professionale. Deve essere, infatti, il sindacato ad incalzare
55
2013
le imprese rispetto all’innovazione dei processi produttivi e non
limitarsi a subire le “non scelte” di politica industriale.
Contrattazione inclusiva significa guardare alle politiche pubbliche, siano esse nazionali o territoriali, per ridurre le disparità:
pensiamo, per esempio, al sistema pensionistico o agli ammortizzatori sociali e a quanta iniquità è scaricata su coloro che hanno
carriere fragili e discontinue.
Infine, contrattazione inclusiva significa rappresentanza inclusiva, ovvero si pone la necessità di garantire diritti sindacali anche
alle lavoratrici e ai lavoratori precari.
La contrattazione inclusiva può trovare forza e legittimazione
solo se accompagnata da una coerente strategia di reinsediamento. Significa costruire iniziative mirate per rendere trasparente,
riconosciuta e partecipata nei singoli settori la nostra battaglia
per tale contrattazione. Le campagne di sindacalizzazione già
sperimentate in questi anni da alcune categorie, sulla scia del
community organising americano, sono uno strumento per dare
forza alle rivendicazioni contrattuali finalizzate ad includere i
segmenti più fragili e non rappresentati.
Nella necessaria, e peraltro già avviata, riorganizzazione della
struttura Cgil occorre non solo spostare risorse dal centro al territorio, ma spostare risorse dall’attività ordinaria a quella straordinaria. Come sappiamo, non è affatto semplice visto che attualmente l’attività ordinaria fa fatica ad auto-sostenersi, considerato il
crescente bisogno di tutela dei lavoratori e la contemporanea riduzione delle risorse dovuta alla crisi economica ed occupazionale.
Ma occorre anche un reinsediamento sociale nel territorio che
sappia riaggregare le differenti figure rispetto ai loro bisogni per
costruire coalizioni sociali e battaglie locali: dal diritto alla casa,
ai trasporti, allo sviluppo territoriale, alle scelte urbane, ai servizi pubblici, all’accesso al lavoro e alla formazione.
Il territorio non va solo presidiato, ma riattivato attraverso esperimenti sociali capaci di mobilitare innanzitutto gli iscritti e i simpatizzanti della Cgil: immaginiamo forme di coinvolgimento più
informali, dirette e orizzontali che possano mettere a valore le
sensibilità dei singoli compagni e magari intrecciarle con le competenze espresse nel territorio da studiosi, esperti, attivisti di
altre realtà sociali.
Questo tipo di esperimenti, seppur con forme diverse, richiamano il ruolo esercitato dalle Camere del Lavoro alle origini quale
spazio di aggregazione, mutualismo, formazione. Esattamente
ripercorrendo questa visione sono nati alcuni progetti per attiva-
56
re spazi di aggregazione rivolti a giovani e precari nelle sedi sindacali o all’interno di circoli culturali già presenti.
Si tratta, anche in questo caso, di tentativi per rispondere ad una
forte domanda di partecipazione che tuttavia fatica, per molti
motivi, ad avvalersi dei canali tradizionali.
Questa difficoltà richiama l’immagine di un animale che spesso è
usato come metafora delle grandi organizzazioni di rappresentanza: l’elefante. L’elefante è un animale lento ai cambiamenti, ma
è anche forte e solido, con una lunga memoria. Certo l’elefante
non potrà mai essere rapido e scattante, però sopperisce a questo bisogno con la proboscide che gli consente di raggiungere
qualsiasi cosa. La Cgil dovrebbe riorganizzarsi guardando a questa immagine e potenziando la propria proboscide con azioni straordinarie e sperimentali, capaci di arrivare anche nelle aree più
periferiche della nostra società.
Quanto emerge dalla parabola del movimento 5 Stelle e dei movimenti sociali degli ultimi anni non può essere eluso: evidenzia,
infatti, che le ragioni dell’azione collettiva non vengono meno,
ma non possono essere sovradeterminate, devono nutrirsi del
desiderio di costruire “comunità di destino” che rispondano,
anche in maniera disordinata e sfuggevole, ai bisogni che ognuno
porta con sé. Questo interroga profondamente anche le forme
della rappresentanza sociale e richiede uno sforzo di innovazione
considerevole per contrastare la delegittimazione e rilanciare il
ruolo del sindacato generale. Se sapremo intraprendere questa
sfida ed effettuare scelte coerenti e coraggiose, riusciremo sempre di più a parlare alle nuove generazioni, ma soprattutto ad
essere per loro lo strumento di emancipazione che il sindacato è
stato nella sua lunga storia.
2013
SEA: una storia italiana
di Stefano Malorgio, Segretario Generale Filt-Cgil Milano
PREMESSA
La vita è fatta di vicende ed episodi che
segnano e cambiano. Fatti personali prima
di tutto, ma anche questioni legate al proprio lavoro, in particolare nel nostro
mestiere, così coinvolgente e appassionante, così strettamente intrecciato con la
dimensione personale. Da segretario a
Brescia iniziai, poco dopo l’insediamento, a
gestire una brutta vertenza legata ad una
cooperativa
presso
l’Aeroporto
di
Montichiari (strano legame il mio con questo settore), che si chiuse poco prima della
conclusione del mio incarico. Allo stesso
modo, le vicende di Sea stanno segnando
profondamente questa fase del mio impegno sindacale a Milano, legate sia alla quotazione in Borsa, di cui ho già avuto modo
di scrivere su questo giornale, sia all’eterna diatriba tra Linate e Malpensa, che ha
recentemente vissuto un’accelerazione, sia
alla questione di Sea Handling, della quale
mi accingo a scrivere.
Vertenze che permettono di guardare criticamente alle tue certezze, al rapporto con
la tua stessa organizzazione e con il resto
dei soggetti in campo, dalle istituzioni alla
politica, ai lavoratori, alle imprese. Fatti
che, più di ogni analisi teorica, consentono
di accedere alla complessità delle dinamiche economiche e sociali, mai riconducibili
a semplici slogan. Vicende che, sono sicuro,
incideranno sia sul mio agire sia sulle scelte future della nostra organizzazione, ma
che, soprattutto, permettono di cogliere
nel profondo la debolezza e la fragilità del
nostro Paese. Per questo Sea Handling è una
storia soprattutto italiana. Così come lo fu
quella di Alitalia.
I FATTI
Sea S.p.A. è la Società di gestione degli
aeroporti di Milano Linate e Malpensa, posseduta da sempre dal Comune (maggioranza assoluta) e dalla Provincia di Milano. Tale
assetto azionario, dopo ripetuti tentativi di
vendita e privatizzazione nell’ultimo
decennio, compreso quello del 2012, è oggi
così composto: Comune di Milano 54.81%,
Fondo di Investimento F2I 44.31%, Altri
0,88%.
Nell’Aprile 2002, in ottemperanza alla
Direttiva Europea 96/97 in merito al libero
accesso al mercato dei servizi di terra negli
aeroporti della Comunità, è costituita la
società SEA Handling Spa controllata al
100% da Sea Spa. Ricordiamo che la nascita
di Sea H. prevedeva l’ingresso nel capitale
sociale della società di gestione dell’aeroporto di Francoforte, Fraport, indispensabile al risanamento ed efficientamento. Quel
progetto, al momento della firma, fu fermato dall’allora sindaco Albertini. Giusto
ricordare che la Filt, forse da sola, giudicò
negativamente quel fatto. In quell’occasione, tutte le Organizzazioni Sindacali diedero il via libera al riassetto societario
(Accordo del 04/04/2002), dopo aver ottenuto garanzie occupazionali quinquennali
attraverso un verbale sottoscritto con il
Comune di Milano il 26/03/1999.
Proprio questo atto, che tra l’altro si
dimostrò di dubbia efficacia, ha costituito uno degli elementi fondanti a sostegno
della tesi della commissione europea
sugli aiuti di stato, confermando che non
è con eccessi di zelo, dannose rigidità sindacali o ricerca di formali protezioni che
si tutela il lavoro.
In quegli anni inizia la grande trasformazione del mercato del trasporto Aereo con l’ingresso delle compagnie Low Cost, la crisi
delle compagnie aeree nazionali, la deregulation nel settore dei servizi di terra aeroportuali, nonché alcune specifiche situazioni che hanno influenza sul Trasporto Aereo
(settembre del 2001).
Per Sea e il contesto territoriale lombardo,
si aggiunge la rottura dell’alleanza tra
Alitalia e Klm, che riduce i voli intercontinentali, la crisi di Alitalia sino al de-hubbing
di Malpensa, il fallimento del progetto basato su Lufthansa. A questo aggiungiamo la
perenne querelle Linate/Malpensa.
Per Sea Handling sono anni di perdite, come
per tutte le società di Handling in questo
Paese. Le contromisure a queste situazioni
sono differenti. In altre realtà aeroportuali
si esternalizza scegliendo la strada della
drastica riduzione dei costi del personale.
Negli aeroporti milanesi accade invece che
Sea Spa effettui il ripianamento delle perdite e gli aumenti di capitale necessari a
permettere a questa società di stare sul
mercato. Dal 2002 al 2006 si tratta di una
operazione di salvataggio di circa 230 milioni di euro. Si deve ricordare lo scherno e le
accuse che la Filt ha subìto in tutti questi
anni ogni volta che ha posto come priorità
assoluta il pareggio di bilancio proprio perché non era normale una copertura dei
disavanzi.
Eppure, un’altra scelta era possibile, senza
rincorrere le scelte di ristrutturazione fatte
in altre realtà con pesanti conseguenze sul
mondo del lavoro, ma ponendosi, il problema
di un’Azienda che continuava a perdere 50
mln € all’anno. Infatti, a partire dal 2007,
proprio nella fase più dura per Sea, dopo il
de-hubbing di Alitalia da Malpensa, le
Organizzazioni sindacali e la Filt in primis,
iniziano una fase di risanamento (che certo
sarebbe stata più facile nel periodo precedente) attraverso una ristrutturazione organizzativa, il miglioramento della produttività e l’uso massiccio di ammortizzatori
sociali per via del -25% di attività.
Riducendo progressivamente il disavanzo
negli ultimi 4 anni, nel 2012 Sea H. chiuderà con un passivo di 2 mln €. L’obbiettivo
del pareggio di bilancio sarebbe oggi a portata di mano.
Sennonché, nel 2006, parte la “strana
inchiesta” della Commissione Europea che,
a fronte di una denuncia anonima di un concorrente, inizia col chiedere chiarimenti
sugli aumenti di capitale di SEA Handling.
Si avvia una fase per noi oscura. Come
abbiamo avuto modo di capire nel corso del
nostro viaggio a Bruxelles, l’istruttoria è
costruita senza che il Governo Italiano si
occupi mai della cosa, lasciando la difesa
nelle mani della sola Sea. Sta di fatto che,
dopo che nel 2007 fu comunicata l’archiviazione della pratica (!), nel 2010 (dopo ben
57
2013
4 anni!) fu aperta un’indagine formale per
presunti aiuti di stato.
Il 19/12/2012 la Commissione Europea ha
notificato al Governo Italiano la decisione
con la quale ha valutato come aiuti di
Stato, incompatibili con il libero mercato,
gli aumenti di capitale e il ripianamento
delle perdite, effettuati a favore di SEA H.
da SEA Spa nel periodo 2002-2010 (circa 360
mln € + Interessi per un totale di circa 450
mln €). La complessa articolazione delle
motivazioni contenute nel provvedimento
della Commissione Europea ruota sostanzialmente intorno ad un concetto di fondo:
a fronte di un mercato libero e totalmente
aperto alla concorrenza, la situazione debitoria di SEA H. è stata gestita come un soggetto pubblico e non come avrebbe fatto un
privato, il quale, secondo la Commissione
con quelle perdite avrebbe chiuso o ceduto
l’impresa.
Inizia la tempesta perfetta.
I tempi per avere una risposta da parte del
Tribunale Europeo su un eventuale ricorso
contro tale decisione sono di circa due
anni. Tali ricorsi non hanno però effetto
sospensivo, ma anche le istanze di sospensione hanno tempi di risoluzione che
rischiano di non coincidere con le necessità
di Sea Handling che dovrà, entro la fine di
Giugno, approvare il Bilancio del 2012,
all’interno del quale dovrebbe, in linea teorica, accantonare i 450 mln € per far fronte
alla sanzione. Se facesse questo, ci troveremmo di fronte al fallimento della società.
Crollerebbe il valore della stessa, si porrebbero i 2300 lavoratori in una condizione di
estrema debolezza, si metterebbero in
discussione gli attuali accordi di natura
commerciale tra Sea H e le compagnie
aeree, si priverebbero gli aeroporti di
Linate e Malpensa della necessaria operatività. Il combinato disposto degli elementi
di cui sopra ci dice, inoltre, che tale fallimento potrebbe avvenire senza aver potuto
discutere della legittimità della decisione
della Commissione.
A questo si aggiunga che tutto avveniva in
una fase di instabilità politica nazionale e
regionale (eravamo nel pieno della campagna elettorale), nel corso di una rottura in
seno alla proprietà tra Comune di Milano e
F2i per gli strascichi derivanti dalla mancata quotazione. Per ultimo, ma non in ordine di importanza, tutti gli organi societari
(CdA di Sea H. incluso) erano e sono scaduti e da rinnovare.
LA FILT, I SINDACATI E I LAVORATORI
Superato lo sgomento dei primi giorni, il
primo impegno che ci siamo presi è stato
quello di capire in profondità cosa stava
accadendo. Ho notato che questo sforzo,
che ha occupato un intero mese di lavoro,
non è stato compreso da parte di molti lavoratori e spesso neanche dalle altre OO.SS.
Come se si potesse gestire una vicenda così
58
complessa, e che riguarda il destino di più di
4000 lavoratori, senza sapere se le strade da
percorrere siano realizzabili. Noi lo abbiamo
fatto, avvalendoci del supporto di diversi
esperti, di una conoscenza non improvvisata
di quanto avveniva, di una discussione fatta
senza reticenze. Questo anche quando tutti
ci chiedevano di limitarci a dichiarare scioperi senza una chiara piattaforma e con
obiettivi impossibili.
Ci siamo poi dati una impostazione di lavoro,
condivisa con il nostro gruppo dirigente aziendale, fondata su alcuni capisaldi.
1 - Autonomia di giudizio e di azione sui
nostri obbiettivi. Non è un elemento scontato in una vicenda in cui tutti i soggetti
politici, economici, aziendali ed anche sindacali giocavano e giocano una loro partita
autonoma, non necessariamente, anzi spesso in contrapposizione, con la scelta di
tutela del lavoro.
2 - Ricerca di unità sindacale quanto più
larga possibile ma mai a discapito del principio sopra enunciato. Siamo riusciti faticosamente, pazientemente e con le mediazioni necessarie a tenere assieme CGIL CISL
UIL e a fasi alterne anche UGL (a dimostrazione che spesso l’unità si può avere, ma
solo con una grande fatica e cognizione di
sé). Subito si è invece rotto il rapporto con
il sindacato autonomo e di base, che autonomo è solo per convenzione e che, invece,
ha fin da subito perseguito una logica orientata all’erosione del consenso verso il sindacato confederale e spesso di asservimento a logiche politiche (ed economiche)
inconfessabili. Basterebbe ripercorrere nella
storia Sea le tante indicazioni sbagliate,
per fortuna dei lavoratori quasi mai in
grado di diventare realtà.
3 - Rapporto limpido e costante con i
lavoratori. Abbiamo provato sempre a dire
loro la verità. Ci siamo riusciti quando il
nostro gruppo dirigente aziendale si è
messo in campo coraggiosamente, nonostante le minacce e gli assalti alle sedi, per
spiegare ciò che stava accadendo. Abbiamo
fallito nelle assemblee generali, dove il
tema del contendere è diventato lo scontro
tra noi e gli “autonomi”, falsando il dibattito dei giorni seguenti, a dimostrazione
che una democrazia consapevole si costruisce nella quotidianità e non nel vuoto
assemblearismo. Il rapporto tra noi e i lavoratori ha avuto insomma fasi alterne, dall’aggressione subìta nel primo periodo, alla
consapevolezza spaventata poi, sino al
fatalismo e alla disattenzione ultima (come
si evince dalla molto scarsa partecipazione
agli ultimi scioperi ed iniziative sindacali). I
lavoratori oggi appaiono divisi tra chi pensa
che tutto è stato concordato da una mano
oscura che ogni cosa manovra e che nulla si
può fare, chi ritiene che tutto si risolverà e
nulla cambierà e chi infine ha seguito la
nostra idea che le cose si possono cambiare
se si esercita un ruolo positivo insieme.
4 - Evitare a tutti i costi il fallimento di Sea
Handling. Anche questo approccio era tutt’altro che scontato. Si tenga conto, infatti,
che da più parti il fallimento è stato visto
come la soluzione di tutti i mail. Non solo da
parte di chi avrebbe voluto usare questa
occasione per liberarsi di lavorazioni con
poco margine, ma anche da chi avrebbe
dovuto tutelare i lavoratori. Chi ha sostenuto (autonomi ma anche altri sindacati confederali, in alcune fasi) che si sarebbe potuto
far rientrare tutti i lavoratori in Sea SPA, pur
sapendo che questo non sarebbe stato né
possibile né consentito, ha creato un danno
enorme a tutti, mettendo non solo in secondo piano la battaglia contro il fallimento, ma
addirittura considerandola dannosa perchè
in contrasto con l’idea di accomodarsi tutti
nella “casa madre”.
2013
5 - Allineare tutti i soggetti all’obbiettivo di non far fallire l’Azienda, nella consapevolezza che solo in questo modo
avremmo potuto avere qualche possibilità
di riuscita. Questo ha significato innanzitutto cercare di portare allo scoperto gli
interessi di ognuno e sopratutto svolgere
una vera e propria azione di lobbing che ci
ha portato, con il contributo della Filt
Nazionale e della stessa Susanna Camusso,
in tutti i luoghi e tutte le sedi utili per
spiegare la situazione e chiedere interventi. Dal Ministero, alla Commissione
Europea (esperienza che riprenderò brevemente dopo), dai Parlamentari Europei a
quelli Italiani ed infine con la proprietà
(Comune e F2i), provando a rimettere
assieme attorno a tavoli sindacali soggetti
che non dialogavano più.
Una strategia che per sua natura è più
discreta e sotto traccia e per questo più
attaccabile da chi immagina che bastino le
urla e qualche presidio semivuoto a risolvere i problemi. Come a dire che servono i
neuroni e non i watt. Il quadro che ne
abbiamo ricavato è piuttosto deludente e
desolante soprattutto in rapporto alla politica e alle sue articolazioni sul territorio.
Spesso distanti e disinformate, ma soprattutto indisposte alla comprensione e al
dialogo. Lo dico con l’amarezza che deriva
dalla mia storia personale e convinto che
sempre di più non potremo risolvere da
soli i problemi del lavoro. Da qui la necessità di ritrovare un autorevole e autonomo
legame con la politica. Nota sicuramente
positiva è invece il comportamento del
Comune di Milano, che ha coraggiosamente messo in campo tutte le azioni possibili
per scongiurare il deteriorarsi della situazione sanando, per quanto ci riguarda,
ferite profonde che si erano determinate
nella fase della mancata quotazione.
L’EUROPA
Questo episodio merita un piccolo approfondimento. Il viaggio della delegazione
sindacale Filt-Fit-Uilt in Europa per una
audizione presso la Commissione Europea
è stato un appuntamento non scontato
che abbiamo testardamente voluto e realizzato attraverso la Filt Nazionale ed ETF
(mi sia concesso di ringraziare qui la compagna Elisabetta Chicca della Filt nazionale, prezioso, generoso e competente
aiuto in quella fase). Lo abbiamo fatto
perché era giusto che i lavoratori potessero avere voce in quella sede.
Non ci aspettavamo nulla sul piano pratico, ma la sensazione è stata terribile.
Abbiamo toccato con mano l’importanza
delle decisioni che lì si prendono, nella
completa assenza di una verifica politica,
fondate solo su un complesso equilibrio tra
Stati Nazionali. Abbiamo misurato l’assenza e il poco peso che il nostro Paese ha
avuto sinora (dov’era mentre alcune deci-
sioni si prendevano?). Abbiamo infine constatato il peso delle tante lobby presenti
tra le quali (spiccava per assenza) quella
che dovrebbe rappresentare gli interessi
dei lavoratori.
Penso francamente che lo sbilanciamento
tra i poteri assegnati e l’assenza di meccanismi decisionali democratici e trasparenti
non sia più sostenibile e che rischi di condannare l’Europa ad essere vista come un
luogo dal quale difendersi e non nel quale
riconoscersi.
Credo, infine, che il sindacato debba
attrezzarsi, senza preclusioni ideologiche
e con forti investimenti di risorse, per
pesare di più in quel contesto o davvero
rischieremo la completa indifferenza
rispetto ai processi in atto, sempre meno
modificabili sul piano nazionale.
OGGI
Governo, Comune, F2I e Sea hanno presentato i ricorsi contro la Decisione della
Commissione. Allo stesso modo, tutti (escluso il Governo che non era titolato a farlo, ma
che ha formalmente appoggiato le altre
istanze) hanno fatto Istanza di Sospensione
del provvedimento al Tribunale Europeo. Il
Governo pare essere infine sceso in campo,
in maniera diplomatica e forse ancora timida, sia non chiedendo ad oggi l’attuazione
della decisione dell’Europa, sia spingendo
sull’Europa per la riapertura di una sorta di
tavolo negoziale che individui altre soluzioni
possibili. Il Comune di Milano e CGIL CISL e
UIL hanno presentato un ricorso al TAR contro i pochi atti del Governo fatti in recepimento della decisione. Il ricorso ha avuto un
esito molto positivo anche nei contenuti che
hanno motivato l’accoglimento della richiesta. L’Azienda Sea ha fatto ciò che era in suo
potere per contrastare ciò che stava accadendo. Lo penso ora e l’ho pensato quando
ha provato, ad oggi senza ottenere risultati,
ad imbastire una soluzione alternativa rispetto al pagamento della somma, proponendo la
vendita ad un grande operatore Europeo.
Il 4 Giugno Sea Handling ha deciso l’approvazione del bilancio 2012 senza l’appostamento della sanzione di 450 mln di Euro,
sulla base di complesse valutazioni legali
che si fondano essenzialmente sulla sentenza del TAR. Si è così compiuto un passo
importante che evita, almeno per qualche
tempo, il fallimento della Azienda e l’ingenerarsi di una situazione drammatica.
Ora si apre uno scenario diverso, che ci
lascia più tempo, nella consapevolezza
però che la situazione rimane complessa e
difficile. Il Bilancio 2012 di Sea Handling,
analogamente a quello del 2011, è in perdita, questo significa che bisognerà necessariamente procedere, nel bilancio 2013, ad
una ricapitalizzazione che dovrebbe essere
autorizzata dalla Commissione Europea, la
quale nel frattempo non ha cambiato di una
virgola le sue rigide posizioni. Rischiamo di
trovarci ancora, tra meno di un anno, in
una condizione difficilissima derivante dall’impossibilità di ricapitalizzare. Senza
dimenticare il rischio connesso ad un esito
negativo del ricorso di merito.
Per questo motivo dovremo fin da subito
chiedere che il Governo intervenga nei confronti della UE sulla inapplicabilità di quella Decisione così com’è. Perché sbagliata
nel merito, considerando alla stessa stregua gli aiuti di stato e i mancati dividendi
alla proprietà pubblica; SEA Spa ha sempre
generato risultati per i soci (500 mln di dividendi in dieci anni) e mai ricevuto finanziamenti pubblici. Perché squilibrata nel confronto con le altre realtà Europee, alcune
delle quali (Francoforte per esempio) non
hanno nemmeno separato le strutture
societarie, continuando a tenere separate
solo le contabilità e andando avanti senza
che nessuno abbia posto problemi. Non si
può far morire una realtà industriale come
questa, nella nostra condizione di crisi, per
una Decisione che non tiene conto degli
sforzi compiuti verso la messa in equilibrio
della Società, ad oggi quasi raggiunta.
Infine, perché non può essere solo il sistema delle cooperative negli Aeroporti, con la
loro carica di illegalità e precarietà, l’unico
modello industriale vincente in Italia.
Dobbiamo però essere realisticamente consapevoli che ci sarà una difficile trattativa
ed una mediazione tra Italia ed Europa. Non
aspettiamoci un giudizio che porti indietro
le lancette della storia lasciando tutto inalterato. Se ne prenderemo coscienza, capiremo che non potremo stare fermi nell’attesa di un nuovo “inaspettato” intervento
della Commissione. Si dovrà agire a partire
dal raggiungimento dell’equilibrio di bilancio, tenendo conto che altre ricapitalizzazioni non saranno attuabili e che siamo di
fronte ad una possibile limitazione nell’utilizzo e nell’efficacia degli ammortizzatori
sociali fin qui usati a seguito della nuova
normativa nazionale. Ma forse anche questo non sarà sufficiente.
Non c’è gloria in questa vicenda, e chi la
cerca sbaglia, e non ci attendiamo che
siano riconosciuti gli sforzi che abbiamo
fatto. Comunque andrà, ci troveremo a
dover compiere scelte che toccheranno
la condizione del lavoro. Noi dobbiamo
salvare il lavoro e la dimensione industriale nel quale si colloca, salvaguardando con essa i lavoratori. Sarà difficile da
spiegare e non so se ci riusciremo, ma in
questa vicenda così come più in generale
in questo mestiere, dentro questa
Organizzazione, in questo Paese e in questo momento, nulla è mai facile.
Chi pensa il contrario propone soluzioni che
o sono impossibili o aggravano la già difficile condizione in cui agiamo.
[email protected]
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2013
Un accordo che
mette al centro il lavoro
di Franco Nasso, Segretario Generale Nazionale Filt-Cgil
Nel sistema delle relazioni sindacali in Italia, la data del 31 maggio
2013 è destinata a rappresentare un passaggio di portata senza
precedenti.
L’accordo sottoscritto con Confindustria, che fa seguito e completa l’accordo del 28 giugno 2011, introduce elementi di novità tali
da giustificare la definizione di “intesa storica”.
Si vedrà col tempo se il sindacato italiano e il sistema di rappresentanza delle imprese sapranno rispondere positivamente, ma non
c’è alcun dubbio che i contenuti dell’accordo risolvono problemi
aperti da molto tempo, attraverso un’intesa tra le parti sociali che
può essere successivamente rafforzata dall’intervento legislativo.
L’accordo mette insieme la rappresentanza degli iscritti con la rappresentanza dell’insieme dei lavoratori e non è poco, ricordando
che intorno a questo punto si sono misurate per molto tempo le differenze tra Cgil e Cisl.
Con l’intesa del 31 maggio, gli iscritti a ciascun sindacato contano
nella misura certificata del tesseramento e i lavoratori contano
attraverso il voto alle liste per le RSU attribuendo il 50% di valore
alla percentuale degli iscritti e il 50% ai risultati del voto di tutti i
lavoratori.
L’abilitazione ai tavoli negoziali avviene in conseguenza del raggiungimento del 5% di rappresentatività con la conseguente possibilità di presentare piattaforme e partecipare alla trattativa.
Il 5% è ripreso dalla legge che regola il pubblico impiego e può favorire una regolazione omogenea in tutto il mondo del lavoro.
Gli accordi sono validi se sottoscritti da sindacati che insieme superano il 50% di rappresentatività e se approvati dal almeno il 50% dei
lavoratori attraverso la certificazione del voto.
È un accordo di pochi essenziali punti, ma di portata tale da poter
determinare un radicale cambiamento nel sistema delle relazioni
sindacali e nella contrattazione.
C’è ancora molto lavoro da fare: le confederazioni devono sviluppare il confronto con tutte le associazioni d’impresa per estendere
l’intesa e devono stipulare le convenzioni con gli Enti preposti alla
certificazione degli iscritti; le categorie devono fare le intese
applicative e il tutto deve avvenire nel più breve tempo possibile
per rafforzare e far partire l’accordo.
Con una soluzione semplice, per niente scontata, si risolve un problema che è andato avanti per decenni e si può dare finalmente
una risposta al disposto dell’art. 39 della Costituzione sulla validità “erga omnes” dei contratti. Si chiariscono le condizioni che,
attraverso un processo democratico, possono dare efficacia obbligatoria ai contratti, così come previsto dall’art. 39.
Un successo per tutti e un successo per la CGIL.
Si è realizzata una sintesi che corrisponde, si può dire coincide, con
le proposte della Cgil sul tema della rappresentanza, della rappresentatività e della sua misura, della conseguente qualifica come
soggetto negoziale e sulle regole di approvazione degli accordi.
Sbaglieremmo, però, a considerare l’accordo solo un successo
della Cgil e a non valutare bene le ragioni che hanno portato Cisl
e Uil a sostenere una proposta unitaria e Confindustria a sottoscrivere l’intesa.
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C’è sicuramente la presa d’atto che il modello di relazioni sindacali che i governi di centro destra hanno tentato di affermare, alimentando le divisioni e le intese separate, si è rivelato fallimentare, ancora più dentro la gravissima crisi che pesa sul paese e sulle
condizioni materiali di grandi masse di cittadini e di lavoratori.
C’è, però, alla base dell’accordo, la scelta convinta di democrazia
sindacale che tutto il sindacato confederale italiano propone ai
lavoratori e, in modo trasparente, al paese: questo rappresenta
una grande risposta unitaria all’attacco alle rappresentanze intermedie condotto da molte parti.
Il confronto sindacale è regolato attraverso procedure chiare ed
esigibili. Non si possono avere e lasciare dubbi sulla scelta strategica di portare nei posti lavoro il confronto di merito sulle piattaforme e sugli accordi. Ciascuna organizzazione non stempera la sua
identità con l’intesa del 31 maggio, ma anzi si rafforza nel voto dei
lavoratori per le RSU e sugli accordi.
La competizione democratica nei posti di lavoro rappresenta una
sfida e una novità per tutti, a maggior ragione per noi della Cgil che
questo risultato lo abbiamo sempre perseguito.
Dobbiamo saper rispondere con la coerenza nelle scelte contrattuali, con il rafforzamento dell’unità dell’organizzazione e la partecipazione degli iscritti e dei lavoratori.
Al mondo nuovo nelle relazioni sindacali, che può nascere dopo
l’intesa e che mette al centro i luoghi di lavoro, la Filt e la Cgil
devono saper rispondere con la formazione e con il recupero delle
risorse necessarie per sostenere il cambiamento, anche con le scelte organizzative necessarie da compiere nel prossimo Congresso.
Il nuovo assetto delle relazioni sindacali deve altresì portare tutta
l’organizzazione a valutare bene le novità e i cambiamenti che l’intesa introduce nella contrattazione.
I vincoli democratici relativi all’approvazione degli accordi, maggiormente dentro la crisi, impongono un modello a forte impronta
partecipativa in tutte le fasi del negoziato, nella preparazione della
piattaforma, durante la trattativa e nel processo di approvazione.
La contrattazione inclusiva e la solidarietà, necessità molto forti
dentro la crisi, non possono essere date per scontate e sempre condivise. Le regressioni corporative sono un rischio sempre presente e
si contrastano solo con la partecipazione democratica.
Solo attraverso un processo individuato di validazione degli accordi, basato su confronto continuo e consenso, eviteremo esiti e sorprese negative.
2013
L’incidente nel porto di Genova
Riflessioni sulle cause tra organizzazione,
sicurezza e professionalità nel lavoro marittimo
di Giacomo Santoro, Segretario Generale Filt-Cgil Liguria
La tragedia della Torre piloti stravolge
l’intera città, il porto e la sua gente.
Colpisce Genova, stretta tra crisi e ripartenza economica, colpisce la comunità
marittimo portuale, primo scalo italiano
per dimensioni e merce che tenta con fatica di recuperare traffico perduto, colpisce
la sua gente violata nell’intimo delle proprie calate, delle proprie banchine.
La risposta non si fa attendere: forte ed
immediata. I servizi marittimi ed il porto si
fermano in segno di lutto per trenta ore,
le Confederazioni unitariamente dichiarano lo sciopero generale della città.
Ogni incidente sul lavoro è drammatico,
tragico, spesso inspiegabile. Ancora oggi la
sicurezza rappresenta la priorità nella
nostra agenda sindacale. L’INAIL ci consegna un dato disarmante: sono circa tre i
lavoratori che ogni giorno escono da casa
per non farne ritorno.
Il porto ed il mare, mare e porto, intrinsecamente abbracciati alla città in un secolare rapporto dialettico, hanno pagato
negli anni, per cause diverse, un caro, anzi
carissimo contributo in vite umane.
Andrea Doria, London Valour, Haven,
Snam Portovenere sono fantasmi, mai cacciati, che ricorrono nella memoria collettiva
della gente di mare. Ma questa tragedia,
per ciò che essa rappresenta e per le circostanze assurde con cui si è verificata,
assume da subito i connotati dell’immane
catastrofe.
La Torre era stata costruita in una posizione centrale e strategica all’indomani
delle celebrazioni per le Colombiadi sul
molo Giano, la divinità bifronte che
Genova scelse come simbolo, prima di San
Giorgio, nel Medioevo. L’edificio si rese
necessario a seguito dell’accresciuta
domanda di trasporto via mare e quindi
dell’introduzione del sistema VTS (Vessel
Traffic Service), lo straordinario sistema
informatico di localizzazione delle navi in
tutto il mondo, in tempo reale, che permette lo scambio di informazioni tra nave
e porto. Emblema della sintesi del coordinamento operativo di tutte le fasi della
navigazione delle unità in arrivo e partenza, ospitava gli uffici sia della Capitaneria
sia della Corporazione dei piloti e della
Rimorchiatori Riuniti.
Questi rappresentano - assieme agli
ormeggiatori - i cosiddetti servizi tecnico
nautici ovvero quelle attività disciplinate
dal Codice della navigazione svolte in regime di monopolio nell’esclusivo interesse
generale della sicurezza, alle dipendenze
della Capitaneria stessa che ne determina
le tariffe con decreto.
Servizi fondamentali per la sicurezza della
navigazione - ormeggio e disormeggio,
pilotaggio e il servizio del rimorchio - sui
quali si è spesso polemizzato, svolti da
personale qualificato.
Quella maledetta sera, il 7 maggio, pare
uguale a tante altre. Le condizioni meteo
marine sono ottimali quando il Jolly Nero,
una portacontainer di 40 mila tonnellate di
stazza lorda, chiede l’autorizzazione alla
Torre per salpare dal Ponte Nino Ronco con
rotta verso Napoli.
La nave, pur solcando i mari da oltre trenta anni, non è una carretta del mare,
come quelle che gli armatori acquistavano
dall’estero anche di terza mano ad inizio
del XX secolo nella cruciale fase di passaggio dalla vela al vapore. Di tali unità, spesso utilizzate nel trasporto degli emigranti
in cerca di fortuna verso le Americhe, sono
colme le pagine di storia della marina
mercantile del tempo del Capitan Giulietti
poiché protagoniste di affondamenti, naufragi ed avarie dovute alla vetustà ed alla
scarsa manutenzione. Il piroscafo Sirio è
una di quelle.
Ma questo è un altro capitolo. Il motore
del Jolly Nero è un danese Burmeister &
Wain, uno fra i migliori del mondo.
È reversibile e a due tempi, cioè quando si
deve dare indietro occorre spegnerlo,
invertire il senso di rotazione e riaccenderlo. Otto secondi al massimo: affidabili,
come rendimento, per le portacontainer.
Le certificazioni, secondo la Capitaneria
ed il Rina, sono in regola. I servizi tecnico
nautici al posto giusto: il pilota - colui il
quale suggerisce la rotta ed assiste il
Comandante del Jolly nella determinazione delle manovre necessarie - si trova in
plancia, gli ormeggiatori mollano le cime
in banchina, i due rimorchiatori – il Genua
e lo Spagna – sono sottobordo, la pilotina
attende il termine della manovra. Il Jolly
Nero è quindi alla via.
La manovra dal Ponte Ronco all’imboccatura di Levante è pura routine: una delle
14 mila annue, quasi 40 al giorno, all’interno del Porto. Si tratta di una semplice
retrocessione a velocità contenuta,
61
2013
un’evoluzione per invertire la marcia e
quindi l’uscita di prua.
Chissà quante volte l’hanno già effettuata,
assieme e non, in qualsiasi condizione
meteo marine, di giorno e di notte,
i soggetti coinvolti. Ma chi va per mare sa
perfettamente che ogni operazione non è
mai uguale all’altra. A riguardo la saggezza marinara genovese recita per mare non
ci sono taverne a conferma che in acqua
non esistono luoghi sicuri.
Poco dopo le 23, accade qualcosa di incredibile: il Jolly, dopo aver ultimato la retrocessione, nella fase di evoluzione, anziché
ripartire avanti adagio, dopo appunto lo
spegnimento ed inversione del motore,
prosegue inspiegabilmente forse per abbrivio contro il molo.
I rimorchiatori allora tirano a tutta nel
vano tentativo di far compiere una rotazione al cargo sul proprio asse, ma non c’è
acqua, lo spazio sufficiente alla manovra
correttiva.
Agli uomini in mare, che sanno perfettamente che nella Torre ci sono i loro colleghi ed i loro amici, non resta che seguire
con lo sguardo la materializzazione di un
incubo che si consuma in pochi istanti.
La Torre nulla può contro la stazza del Jolly
e l’edificio, unico presidiato in tutta la
zona, si accascia sul basso fondale. La magistratura farà chiarezza su quanto accaduto.
Una drammatica pagina di storia del porto
e della città di Genova. “È il nostro 11 settembre”, affermano disperati i primi soccorritori, gente di mare in servizio, giunti
in banchina.
Il personale coinvolto è altamente qualificato. I mestieri marittimi non sono un
lavoro qualsiasi: spesso tramandati di
padre in figlio, dopo miglia di rollii e beccheggi, si scelgono anche per passione.
Non rappresentano solamente un’occupazione ma un’identità, una cultura. Intere
comunità sulla costa ligure e non vivono
ancora di mare.
Lavoro nero o malpagato, precario o
62
dequalificato sono tipologie non conosciute: le controparti armatoriali sanno
perfettamente che devono contare su
professionalità e fattore umano per assegnare i propri ingenti investimenti a personale adeguato.
Lupi di mare, orgogliosamente genovesi,
nel vero senso della parola: sono i figli
delle importanti politiche della fine degli
anni Novanta per rilanciare l’occupazione
marittima conto le bandiere ombra – le
Flag of Convenience - rendendo competitivo il settore.
Da un canto l’introduzione del Registro
internazionale e la Tonnage tax, dall’altro
l’attenzione alla qualità dell’istruzione
marittima ed alla formazione degli Istituti
nautici e dell’Accademia marina mercantile.
Anni di navigazione lontano dalla Superba,
anche fuori dagli Stretti, prima di cercare
lavoro vicino a casa, rinunciando al fascino
del world wide o per rifuggire dalla solitudine coatta, per stare vicino agli affetti ed ai
propri cari. E quindi l’occupazione in porto,
ma in ogni modo sempre in mare: il giusto
compromesso tra passione e scelta di vita.
In quel porto che ha cambiato volto: prepensionamenti, riduzioni di organici,
nuove organizzazioni del lavoro interessano anche il settore marittimo. Ma il ricambio generazionale non mette in discussione
la sicurezza sul lavoro e la professionalità.
La flotta è sostanzialmente rinnovata per
garantire la massima efficienza e prontezza: le barche sono tutte di qualità e dotate di strumentazioni tecnologiche di ultima generazione. Alcuni mezzi hanno la
propulsione azimutale che consente la
rotazione secondo un asse verticale orientato in una qualsiasi direzione orizzontale,
al fine di consentire una maggiore manovrabilità rispetto al sistema di propulsione
costituito da eliche fisse e timone.
Inoltre, l’elevata professionalità è tutelata con importanti barriere all’ingresso
del mercato del lavoro: addestramento
di qualità e formazione continua contrad-
distinguono un percorso di anni determinato - oltre che da normative nazionali da convenzioni internazionali come la
STCW (Standard Training Certificated
Watchkeeping). Occorre essere assai
motivati e preparati, oltre che in possesso di particolari requisiti, per partecipare
al concorso pubblico presso la
Capitaneria per essere arruolato come
pilota o ormeggiatore; discorso analogo
per il rimorchio, che opera in monopolio
ed è gestito in forma privata.
Sulla Torre ci sono coloro i quali saranno
tragicamente le vittime di quest’assurda
catastrofe: altra gente di mare. Uomini
semplici ed onesti, caduti sul lavoro e per
il lavoro, uomini che hanno scelto di vivere di mare rimanendo a terra garantendo
le comunicazioni con le navi: i militari
della Capitaneria e gli operatori dei rimorchiatori e dei piloti dell’intero turno notturno. Nove in tutto, nove di noi. Genova
ed il suo porto li ricorderà per sempre.
Come abbiamo visto in materia di professionalità, il settore marittimo è per definizione globale e disciplinato da normative
e convenzioni, tra cui appunto la STCW,
emanate da organismi sovranazionali.
Non solo professionalità. Dal 21 agosto di
quest’anno, grazie all’impegno del sindacato internazionale, entrerà in vigore la
MLC (Maritime Labour Convention) della
International Labour Organization: la Bill
of rights della gente di mare ossia un testo
che, in tutto il mondo, disciplinerà orario
di lavoro, sicurezza, tempi di riposo.
La normativa nazionale è già sostanzialmente in linea, ma la Convenzione rappresenterà un importante strumento per contrastare il fenomeno del dumping economico e sociale, soprattutto nel lungo corso,
sulla base della nazionalità dei marittimi,
della bandiera o delle rotte solcate.
La crisi del settore, più congiunturale –
legata alla sovra offerta di stiva - che
strutturale, ha acuito talune spinte, anche
provenienti dall’Europa, a favore della
liberalizzazione dei servizi tecnico nautici,
attori coinvolti nella catastrofe.
Secondo alcuni è necessario rendere più
competitivo il settore, aprendolo alla libera concorrenza, e ridurre le tariffe ma è
evidente che è troppo elevato il rischio
che la concorrenza tra soggetti avvenga
sul costo del lavoro, professionalità e tecnica dei mezzi, eludendo qualità e rispetto delle regole.
La FILT ha sempre rigettato al mittente in
quanto, oltre ai posti di lavoro, metterebbero in discussione le nostre parole d’ordine: gli standards di security e professionalità, elementi fondamentali per la sicurezza della navigazione che quanto accaduto
a Genova conferma non essere, purtroppo,
mai a sufficienza. Purtroppo.
2013
Frammenti disordinati
in attesa di tempi migliori
di Nino Cortorillo, Segretario Nazionale Filt-Cgil
Servirebbe un’idea orizzontale della democrazia e dei diritti
sociali. Metterli ogni volta in relazione ai diritti degli altri. Anche
quelli che ancora non hanno diritti. Serve anche una redistribuzione nel tempo, che guardi al futuro.
Nei prossimi mesi si svolgeranno i congressi del Partito Democratico e della Cgil. Che
possono essere l’occasione di segnare una
grande, aldilà dei giudizi di ognuno,
discontinuità. Nella primavera dell’anno
prossimo si svolgeranno le elezioni europee e in molti enti locali. Sempre che questo governo, un calabrone che vola pur se
non potrebbe, non cada sotto la pressione
data da un partito della sua coalizione o se
non accadrà per logiche indipendenti dalla
stessa azione del governo.
Una cadenza di appuntamenti che meriterebbe uno straordinario sforzo di analisi
che, anziché guardare agli assetti, alle
maggioranze interne, o solo alle leadership, provasse a leggere, fuori da schemi
ormai superati, i cambiamenti avvenuti e
l’impossibilità di ripercorrere strade e
risposte ormai esauste.
La nostra storia è pienamente collocata
dentro il solco del progressismo europeo.
Per questa ragione, dentro i cambiamenti
profondi che investono il presente, credo
sia necessario provare ad esplicitare alcune
considerazioni che hanno l’ambizione di
individuare le radici delle questioni in un
periodo contraddistinto solo dalla superficialità dei posizionamenti, in un risiko che
nulla ha a che vedere con l’analisi politica.
A cosa serve una sinistra che sa esprimere
solo la difesa dei più poveri (concetto molto
soggettivo visto che per il fisco siamo un
paese di poveri, ma nei consumi siamo ricchi) o di quelli che protestano con la logica
del “peggio di così non si può andare”?
Incapaci di organizzare quelli che hanno
qualcosa da perdere che, lasciati a sé,
sono preda della paura e quindi delle suggestioni più contraddittorie ed emozionali.
È la fiducia che guarda alle persone come
amiche e vede lontano, mentre la paura
associa un nemico alle risposte immediate. L’ideologia dello slogan antico “Non si
tocca” anteposto a quasi tutto è stata
spesso la premessa di una sconfitta.
La usiamo ancora e ci sono anche buone
ragioni, ma non sappiamo sostituirla con
altre parole.
Il “non si tocca” delle tante corporazioni
che s’illudono di salvarsi perché chiudono
la porta al mondo. La disassunzione di
responsabilità. Una società chiusa su di sé.
Composta da atomi sociali. Legati da interessi difensivi.
Se i diritti sono rivolti verso di noi ed i
doveri verso gli altri, come interpretiamo
e dove collochiamo la difesa dei “diritti
acquisti”? L’estensione di un diritto è quasi
sempre una sua rilettura e la valutazione
se sia sostenibile nell’oggi e nel futuro. La
storia è, invece, portatrice di rivoluzioni
che hanno spazzato via i “diritti acquisiti”.
Dietro la parola d’ordine “è un diritto”
spesso si celano difese di condizioni di
gruppi ristretti della società. Se quel diritto non è sostenibile e non è estendibile, ha
in sé una valenza conservatrice.
Il livello dei servizi pubblici e del diritto di
ogni cittadino a usufruirne cambia in ogni
regione e città. Nel sud del paese sanità
pubblica, trasporto pubblico, raccolta rifiuti, funzionamento della pubblica amministrazione, qualità dell’offerta turistica,
infrastrutture e tecnologie di uso collettivo,
sono fuori da ogni livello di confronto col
resto del paese e con l’Europa. Questo gap
non deriva da fattori esterni, ma dalla
nostra incapacità di far funzionare quelli
che solo nei convegni sono beni comuni, ma
che nella loro gestione ridiventano imprese
e enti utili sono a loro stessi. Il primo vero
grande piano di ripresa sociale ed economica sarebbe far funzionare l‘esistente, pulire le strade e le spiagge, alzare il livello
della qualità dei servizi che è anzitutto il
risultato del lavoro delle persone. Il sud
appare ormai il sud di se stesso. La politica
e anche noi voliamo alti.
Penso che un vero progetto rivoluzionario
per il sud del paese sarebbe gestire il bene
pubblico con i programmi di un partito
conservatore del nord dell’Europa.
Ai giovani, ormai arrivati alla soglia dei 40
anni, che guardano nelle vetrine delle
altre generazioni i diritti acquisiti che non
vivranno, che risposta possiamo dare?
Solo qualche decennio fa, pensione significava per molti miseria e precarietà;
mentre lavoro era sinonimo di tutela e
63
2013
sicurezza. Oggi il reddito medio dato dalle
pensioni, escluse quelle sociali, è più alto
del reddito medio dei giovani tra i 18 e i 35
anni. Che se riusciranno a lavorare pagheranno la nostra pensione, ma non avranno
diritto alla loro. Perché non è una cosa
acquisita. A chi chiederanno una redistribuzione? Nessuna società può crescere ed
avere energia positiva, innovazione, se si
priva di coloro che mettono in gioco la
propria vita futura. Non ciò che è acquisito, ma ciò che potrà esser conquistato.
Siamo stati abituati ad un’idea verticale
della democrazia e delle conquiste sociali.
Diritti che ci portano un gradino più in alto.
Ottenere una quantità maggiore. Con risorse crescenti o con un debito pubblico sempre maggiore si trasformava in diritto anche
ciò che non era o che paghiamo ora. Con
risorse stabili o decrescenti la trasformazione dei diritti in spesa non può più esistere.
Servirebbe quindi un’idea orizzontale
della democrazia e dei diritti sociali.
Metterli ogni volta in relazione ai diritti
degli altri. Anche quelli che ancora non
hanno diritti. Serve anche una redistribuzione nel tempo. Che guardi al futuro.
Indecisi tra un futuro visto come un buco
nero e la lettura, giorno per giorno, dell’arretramento che viviamo. Senza capire
il motivo. Se non i mostri che spiegano
tutto e niente (la finanza, la casta, l’euro,
la globalizzazione e via così).
Usiamo un determinismo e uno schematismo che vorrebbero spiegare con le stesse
argomentazioni realtà totalmente diverse.
Un breviario religioso privo, come nei farmaci, delle controindicazioni che pure la
storia ci ha abbondantemente fornito.
La rilettura degli ultimi decenni come una
sequela di sconfitte, cedimenti e tradimenti (ma quando è avvenuto il big bang)?
Su fronti opposti c’è chi con disinvoltura
motiva e giustifica quasi tutto e chi si affida ad una visione quasi esoterica della realtà tra Nostradamus e Dan Brown.
Un’impronta nichilista, ma camuffata da
parole d’ordine apparentemente di sinistra
che legge ogni fatto avvenuto come un
complotto e ogni decisione, spesso non rinviabile o dipesa da fattori esterni, come un
tradimento. D’altronde va di moda l’autocritica in conto terzi. Ovviamente spietata.
Il ‘900 è il secolo dell’espansione della democrazia. Quella politica e quella sociale.
Mentre vivevamo una guerra fredda tra
due mondi, in realtà la democrazia in
occidente ha vissuto una dialettica e un
conflitto (tra cattolici e socialisti, tra
capitale e lavoro) in grado di far crescere
e ridistribuire la ricchezza prodotta. Da
qui nasce lo stato sociale. Non da altra
mitologia. Al contrario, il comunismo realizzato o è imploso, non lasciando nulla o
macerie dietro di se, o si è trasformato in
64
un immenso laboratorio neocapitalista.
Che dovrà costruire un suo nuovo welfare
e quindi guardare all’Europa.
Demonizzare la globalizzazione appare
come la lettura che i nobili davano della
nascita della borghesia. O dell’occidente di
fronte alle colonie che diventavano stati
sovrani. Il mondo non sta regredendo, ma
cambiando. Anche in forme tumultuose ed
incontrollabili e ancora colme di ingiustizie,
ma spostando opportunità, riducendo la
miseria e compiendo una trasformazione
che è pari solo alla rivoluzione industriale.
Il G8 è diventato G20 e Brasile, India e
Corea ci hanno superato nella produzione
industriale, ma noi, con snobismo intellettuale pari solo a cecità politica, sosteniamo imperterriti che in quei paesi è aumentata la disuguaglianza.
Negli anni ‘60 e ‘70, la sinistra europea
assumeva senza alcuno spirito critico e di
contesto teorie che arrivavano da oriente
come la rivoluzione culturale o dal terzo
mondo inneggiando a rivoluzioni rovinose
e teorie economiche fallimentari. Realtà
agricole e senza industrie da cui attingevamo modelli per una società in pieno sviluppo capitalistico e consumistico. Al contrario, oggi che dovremmo guardare a cosa
accade, non per copiare ma per capire,
non solo ci ritraiamo, ma guardiamo con
sospetto ed emettiamo giudizi drastici e
negativi. Sbagliavamo allora e sbagliamo
adesso.
Se globalizzazione e informatica, le due
rivoluzioni in atto, cambiano il mondo e
hanno la capacità di spostare produzioni e
informazioni fuori dai confini, dovremmo
ripensare all’Italia con le sue opportunità
irripetibili e non replicabili. Il territorio
non come antagonista del mondo ma come
opportunità e apertura al mondo.
Un territorio devastato in tante sue parti
da abusivismi di massa, da incuria pubblica e privata, da un’insopportabile capacità di sporcare spiagge e città. Ma i migliori intellettuali sono invece affascinati
dalla protesta contro una galleria in una
valle ai confini dell’Italia, confondendo il
bene comune che richiederebbe responsabilità collettive e rispetto per il nostro
paese in ogni sua realtà.
Il declino dell’Italia non si misura solo nel
Pil o nei dati economici e sociali. Sembra
in atto un progressivo scivolamento in
quasi tutte le sue componenti che rifiutano l’interesse nazionale come baricentro
del proprio agire.
Se volessimo vedere quello che non ė
declino, ma decadenza di un paese
dovremmo leggere, invece delle pagine
nazionali dei quotidiani, quelle locali.
Troveremmo fatti e azioni e comportamenti,
individuali o ascrivibili a intere comunità,
che segnano fin dove arriva il degrado
ambientale e civile. Una assuefazione progressiva rotta solo da piccoli e grandi conflitti ogni volta che qualcosa interviene e
che catalizza le tensioni di una comunità o
la sua parte più energicamente visibile.
Un sistema politico in cui l’anomalia non è
mai sinonimo di originalità.
Un partito ora secessionista ora federalista
sempre razzista che è stato al governo del
paese per anni.
Un partito a monarchia assoluta il cui leader ha tentato di sovvertire ogni regola
istituzionale e il cui assoluto interesse è in
grado di piegare quelli del paese e della
sua parte ai suoi facendoli coincidere. In
questi giorni, il ritorno alle origini di Forza
Italia appare come voler re-iniziare la partita dopo averla persa.
Un non partito che, sull’onda della crisi e
2013
del disfacimento degli altri partiti, è guidato da un guru che ha come modello non
la democrazia suggestionante della rete
ma la sua parola e le sue decisioni inappellabili, pena l’immediata gogna e messa al
bando del dissenso.
Riporto di seguito una sua illuminante
dichiarazione ed emblematica concezione
della democrazia.
“Il 50% degli agenti diritto al voto non va a
votare, e il 50% di quelli che votano non
sanno cosa devono votare o cosa significa
il loro voto. Bisognerebbe fare un esame
a chi va alle urne, chiedergli cos’è la
Costituzione, di cosa tratta, quanti articoli
ha, cos’è il codice penale, cos’è la libertà
di stampa, cioè vedere se sanno quelle tre,
quattro cose che gli danno il diritto di votare, se no il diritto di voto non ha più senso”.
Il paradosso del tenere insieme l’esame di
abilitazione al voto al salire sul parlamento a difesa della Costituzione.
La democrazia diretta è parte di quella
rappresentativa. Non la sostituisce. Ha in
sé, invece, se esercitata come modello
generale, un’idea pericolosa di leaderismo
e legame tra popolo e decisione senza
alcuna mediazione. Al contrario, la rappresentanza politica è mediazione di interessi. Ed anche di differenti principi. La
scrittura della Costituzione ne è la prova
più grandiosa.
Tre partiti senza analogie in alcun paese
europeo e che ci rendono ormai oggetto di
studio più che di confronto.
O un altro partito a sinistra che, come fosse
una linea gotica della politica, a nord è
contrario all’alta velocità e a sud ne richiede invece rapidissimi finanziamenti per
farla arrivare anche dove non ha senso.
Quello maggiore, del centro- sinistra,
preda di un permanente svuotamento e
ridiscussione sul perché è nato, su quali
identità poggia il proprio ruolo e quale sia
la sua visione futura del paese. Con nuove
leadership che sembra vogliano conquistare quel partito solo per offrirlo come sacrificio alle tante e giuste proteste dei suoi
aderenti per quanto avvenuto in questi
mesi. Ma così l’euforia si trasformerà in
disorientamento in pochissimo tempo. La
disinvoltura del linguaggio non copre, ma è
la sostanza. Trovo incomprensibile a chi ha
scelto di far parte di una comunità politica
l’uso del noi e loro. Io è voi. Oppure prendere con facilità le tante ferite aperte, nel
governo, nel partito, nel mondo reale, e
darne la responsabilità sempre ad altri.
Apprezzerei il coraggio di chi si presentasse dicendo semplicemente “anche se noi
non siamo responsabili di quanto avvenuto,
ce ne assumiamo la responsabilità”. Come
dire “right or wrong this is my country”.
Smacchiare il giaguaro o asfaltarlo? La differenza tra la poetica del Viava e la prosa
del bitume.
Nel mentre un governo degli opposti tenta
di governare in un parlamento e quadro
politico dove sembrano tutti all’opposizione. E sempre pronti alla prossima campagna elettorale. Pronti a vincere dentro la
propria parte politica e contro le altre.
Il governo o meglio il governare è la brutalità della responsabilità e la consapevolezza
dei ridotti margini di manovra. Oltretutto
in questo contesto.
Anche chi era partito fautore keynesiano
di un aumento della spesa pubblica oggi
ammette che non si trova 1 miliardo di
euro per evitare l’aumento dell’Iva. Così
come la sinistra, anche più radicale, negli
enti locali è protagonista di vendita di
aziende che svolgono sevizi pubblici o di
aumento delle tariffe.
La miglior metafora di questi anni e della
incapacità della sinistra di affrontare il
tema è data dalla sequela di decisioni,
ripensamenti, battaglie ideologiche a
destra e sinistra, sull’Ici prima e l’Imu poi.
Si mette, si decide di ridurla, poi si leva,
poi si reintroduce con altro nome e il giorno dopo la si vuole modificare sino ad eliminarla in meno di dodici mesi.
Possibile che si approcci al giusto tema
della tassazione delle rendite non tarando
l’intervento su un paese dove l’80% è proprietario della prima abitazione? E agitare
il tema come se da questo derivassero
risanamento e investimenti risolutivi di
una crisi del paese che ha ben altre origini e profondità?
Nei giorni successivi al temporaneo superamento dell’Imu il settimanale della Cgil
titolava “E ora una vera patrimoniale”.
Con un salto tra realtà e proposta che
segna anche per noi questo clima di permanente incertezza.
Servirebbe un ripensamento radicale tra
progetti, piani, programmi e il loro abbandono e oblio non solo nelle decisioni del governo, ma nello stesso dibattito del paese.
Abbiamo molti più vincoli che opportunità.
Vincoli che derivano dal mutato contesto
mondiale e dalle decisioni che abbiamo
preso in Europa. Ma ancor di più sono i vincoli che abbiamo determinato in questi
decenni nel nostro paese e che sono solo il
frutto delle nostre scelte. Solo per i demagoghi le opportunità sono l’azzeramento
dei vincoli. Che spesso sono regole condivise in altri luoghi.
La storia è fatta di se e di ma. Coloro che
affrontano ogni problema con la sicurezza
del “senza se e senza ma”, non si pongono
il tema che sempre vi sono alternative e
quindi rifiutano il dilemma di quali scelte
possibili.
Questi anni ci presentano realtà nuove
e cambiamenti che proseguiranno.
Globalizzazione, debito pubblico insostenibile, welfare da ripensare, nuove
immense povertà di intere generazioni,
declino delle tante articolazioni e componenti del paese, industria in arretramento
e sparizione delle grandi imprese motore
della crescita del paese nel dopoguerra,
forze politiche e sociali che agiscono in
una permanente emergenza.
Possiamo semplicemente agire con le
vecchie ricette, pensando che la prossima
volta sarà quella buona?
[email protected]
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2013
CCNL Logistica, Trasporto Merci e Spedizione
di Giulia Guida, Segretaria Nazionale Filt-Cgil
Il rinnovo del contratto nazionale Logistica, Trasporto Merci e
Spedizione, scaduto il 31 dicembre 2012 e siglato il 1 agosto 2013, si
è svolto nella fase più acuta della crisi economica italiana che ha colpito l’intero settore della logistica.
Certamente l’apertura a giugno 2013 di una procedura di licenziamento collettivo per 854 dipendenti della multinazionale Tnt ha rappresentato la prima grave crisi di un settore, come quello dei corrieri espressi, che fino a qualche mese fa continuava a registrare
aumenti di volume di traffico e margini di crescita. In particolare, è
venuto meno un modello profondamente radicato nel mercato italiano, caratterizzato da forme di terziarizzazione a ribasso, a cui non
ha mai corrisposto una scelta industriale di qualità, ma solo l’abbattimento dei costi del lavoro e delle condizioni dei lavoratori, attraverso lo schiacciamento delle tariffe sul mercato.
Altresì l’autotrasporto italiano, nei primi sei mesi del 2013, ha subito
un consistente calo del traffico per effetto di una preoccupante riduzione della domanda interna e quindi della movimentazione delle
merci. Un settore già messo in crisi da una concorrenza sleale praticata dai tanti vettori italiani e stranieri che, attraverso un abuso della
normativa europea sul lavoro in somministrazione transnazionale e
sul cabotaggio, estromettono dal mercato le aziende sane che operano nel rispetto delle regole e della trasparenza.
Inoltre, anche lo stesso modello cooperativistico che opera nella
filiera della logistica registra un notevole freno nella gestione delle
attività, per effetto di un disordine sociale avvenuto nei luoghi di
lavoro, caratterizzati da condizioni di eccessiva precarietà e sfruttamento, dove le differenze culturali e religiose sono divenute elemento di condizionamento per vertenze sindacali di organizzazioni
autonome. Un modello fondato sulla gradualità di applicazione degli
istituti contrattuali che in tanti anni ha certamente agevolato
l’estensione della filiera produttiva, ma oggi non più sostenibile per
un serio e concreto sviluppo del settore.
In tale contesto e nella piena consapevolezza di affrontare il rinnovo in un momento di grave crisi economica, la Segreteria Nazionale
Filt-Cgil ha scelto di presentare nei tempi dovuti una piattaforma
unitaria di rinnovo, poiché nella crisi un contratto collettivo può
essere non solo uno strumento di difesa salariale, ma anche un aiuto
per affrontare le problematiche del settore e migliorare le condizioni di lavoro di tutti gli addetti.
La piattaforma approvata conteneva elementi necessari per fronteggiare nodi strutturali come: la distribuzione delle merci, settore in
cui i livelli di precarietà dei lavoratori hanno raggiunto livelli allarmanti; una disciplina del mercato del lavoro che tutelasse il lavoro
subordinato per le nuove occupazioni. Per l’autotrasporto erano previsti gli obblighi informativi a carico delle imprese sui contratti in
somministrazione transnazionale e cabotaggio, così come percorsi di
qualifica professionale per il personale viaggiante ed aumenti salariali in grado di difendere il potere d’acquisto dei lavoratori.
La trattativa tra le parti, nonostante molte associazioni datoriali
avessero chiesto una moratoria di un anno e lo slittamento del rinnovo, è iniziata nei tempi previsti. Dall’inizio si è registrata una
volontà delle controparti di destrutturare nella crisi il contratto,
presentando una piattaforma datoriale di 28 punti composti dall’annullamento della tredicesima, della quattordicesima, delle ferie, dei
permessi. Inoltre, tale piattaforma prevedeva l’abbattimento dello
straordinario e dei primi tre giorni di malattia, l’elevazione dell’orario di lavoro. Richieste che seguivano una logica datoriale che, ancora una volta, ha inteso il costo del lavoro come unico elemento di
competizione sul mercato e la soluzione di problemi strutturali
66
attraverso lo svilimento del contratto.
È fondamentale ricordare che la trattativa è stata anche fortemente condizionata dalla richiesta del mondo della committenza di
escludere, attraverso un articolo contrattuale, la responsabilità solidale regolata ai sensi della legge 92/2012 ed in proseguimento degli
impegni assunti con l’Avviso Comune nel contratto sottoscritto il 26
gennaio 2011.
La Filt ha intrapreso una battaglia giusta nel contrastare tale disegno
e difendere il diritto individuale dei lavoratori, sostenendo invece che
occorreva una legge nazionale sugli appalti, per garantire correttezza, trasparenza e monitoraggio vero sulle modalità di appalto.
Le controparti hanno dimostrato esclusivamente l’interesse ad ottenere l’esonero e di non volere sottoporsi ad ulteriori procedure tali
da garantire certezza e congruità degli appalti, in un settore dove l’illegalità e l’evasione contributiva hanno raggiunto livelli allarmanti.
Nonostante le profonde divergenze e la crisi incalzante, si è riusciti
a siglare il contratto in tempi contenuti rispetto ai rinnovi precedenti, riconoscendo un aumento contrattuale di 108 euro con i primi 35
euro come trance erogata nel mese di giugno attraverso l’elemento
di garanzia, i successivi 35 euro ad ottobre 2014 ed infine 38 euro ad
ottobre 2015. Inoltre, è stata concordata l’una tantum, a titolo di
arretrati, di 88 euro che saranno erogati tra novembre 2013 e febbraio 2014. Un altro segnale importante è rappresentato dall’aumento della trasferta per gli autisti di 0,60 nel 2014 ed ulteriori 0,60
nel 2015, che sembra poca cosa, ma era bloccato ormai da diversi
rinnovi. Fondamentale è il termine della sterilizzazione su tutti gli
istituti contrattuali degli aumenti salariali ormai prolungata da anni
e la novità che nel corso della vigenza contrattuale non ci sarà alcuna verifica economica. Nella parte normativa si è riusciti ad affrontare e determinare un articolo per stabilizzare i lavoratori precari
nel settore della distribuzione merci a fronte di accordi sindacali
aziendali con un’estensione dell’orario di lavoro a 44 ore. Altri punti
essenziali sono: il rafforzamento della contrattazione di secondo
livello in grado di consolidare le aziende; l’obbligo di informativa da
parte delle Rsu o delle Rsa sui lavoratori in somministrazione transnazionale; l’accordo sull’autotrasporto per gestire la crisi ed evitare l’annullamento degli istituti contrattuali; il livello di parametro
intermedio per gli autisti assunti a tempo indeterminato con possibilità di carriera per il personale già in forza; l’aumento delle percentuali del lavoro a tempo determinato e part-time per contrastare
l’abuso del lavoro a chiamata e favorire nuova occupazione.
Dal 1 settembre sono state avviate le consultazioni in tutti i luoghi
di lavoro per presentare l’ipotesi di accordo anche nelle aziende
aderenti alle associazioni datoriali che non hanno ancora firmato il
rinnovo del 1 agosto 2013, come le centrali cooperative, Fita Cna
e Confartigianato ed Assologistica. Nei primi giorni di settembre le
organizzazioni sindacali hanno incontrato tali associazioni al fine di
concretizzare l’adesione al contratto. Un punto che è stato posto
al centro della discussione: non è più possibile all’interno del settore creare condizioni di dumping salariale e contrattuale. Il contratto dovrà essere esigibile nella sua piena interezza.
Dopo l’esito della consultazione tra i lavoratori, sarà sciolta la riserva dalle segreterie nazionali Filt, Fit e Uilt sull’ipotesi di accordo,
nella consapevolezza che il contratto non basterà a risolvere i nodi
strutturali del settore. Occorrerà rendere da subito esigibile un confronto con il Governo, convocando uno dei tavoli promessi dal ministro dei Trasporti Maurizio Lupi sulla logistica, poiché questo settore
strategico per l’economia italiana necessita di una politica infrastrutturale che garantisca crescita, sviluppo e nuova occupazione.
2013
Porti e logistica
una visione strategica di lungo periodo
di Massimiliano Sartori - Consulente The European House-Ambrosetti
50 Miliardi di Euro in commercio internazionale
e conseguente indotto occupazionale perso
sulle banchine italiane ogni anno… ma tutta
l’attenzione è sull’IMU e sull’IVA.
A leggere il bilancio dello Stato, i prospetti di entrata e di spesa,
rimango sempre stupito di come voci di spesa o di entrata che
incidono per meno dell’1% siano così importanti, mentre sono
quasi totalmente trascurate politiche a favore di settori, come ad
esempio quello portuale ma la lista è lunga, la cui crescita consentirebbe di generare reddito per valori superiori (e di molto) ai
piccoli numeri su cui ci si ostina a ragionare e dibattere.
Non bisogna sperare nella crescita economica, bisogna realizzarla
ed oggi è possibile attuare politiche a costo quasi zero per rendere meno lunghe e burocratiche certe procedure, per liberalizzare
dei settori, per mettere a concorrenza imprese vecchie e nuove.
17 sono i giorni medi per l’esportazione della merce dai porti italiani, rispetto ad una media UE di 11 giorni. I porti spagnoli e i
porti francesi del Mediterraneo, competitor diretti dei porti italiani, operano con un vantaggio rispettivamente di 8 e 6 giorni e
– potenzialmente – potrebbero essere in grado di sottrarre traffico in uscita dall’Italia. Francia e Spagna sono nell’UE e nostri vicini, com’è possibile questa differenza?
Pubblicazioni scientifiche hanno dimostrato che ad 1 giorno di ritardo, in media, nel transito di un prodotto corrisponda una flessione
del commercio di almeno l’1% nell’arco di un anno. Riportando questo valore sull’Italia si stima come, per ogni giorno di ritardo, il
danno sul commercio internazionale dell’Italia sia pari a 7,5 miliardi di Euro l’anno. Riportando tale valore sui 6/8 giorni di ritardo
medio rispetto a Francia e Spagna, il commercio internazionale del
nostro Paese potrebbe aumentare di circa 50 miliardi di Euro.
Tempi medi per l’export dei porti italiani – Fonte: rielaborazione The
European House - Ambrosetti su dati World Bank, 2013
Tempi medi per l’import dei porti italiani – Fonte: rielaborazione The
European House - Ambrosetti su dati World Bank, 2013
Sembra un’esagerazione, sembra l’ennesimo numero giornalisticamente prodotto per fare un po’ di scena, ma purtroppo non è
così. È dimostrato come lo sviluppo portuale segua queste dinamiche e chi ha saputo posizionarsi bene ha raccolto i frutti in termini di ricchezza e occupazione.
Uno studio approfondito sugli indirizzi strategici per la portualità in
Italia è stato presentato il 18 giugno scorso a Roma con i Presidenti
di Assoporti, Federspedi e Federagenti e alla presenza dei Ministri
Giampiero D’Alia e Gaetano Quagliariello, del sottosegretario ai
Trasporti Rocco Girlanda, del Presidente di Cassa Depositi e Prestiti
Franco Bassanini, di parlamentari dei maggiori partiti e rappresentanti delle istituzioni pubbliche e degli operatori privati.
Quello che è emerso con evidenza lapalissiana è che, da troppo
tempo, nella mappa mentale del Paese non ci sono più i porti.
Tradizione portuale, invidiabile posizione geografica e ruolo economico (tutt’ora l’Italia è la seconda manifattura in Europa e tra
le prime potenze industriali del mondo) non contano nulla. I porti
non interessano a nessuno (al di fuori di chi ne è coinvolto direttamente o indirettamente).
Ma perché la portualità è strategica per l’Italia e può (anzi, DEVE)
rappresentare un’occasione di sviluppo economico e occupazionale?
● Il settore è “pesante” anche se fermo da anni. Vale 40 miliardi
di Euro di PIL (quasi il 3% del totale) e dà occupazione ad oltre
210mila persone.
● Le interrelazioni con il tessuto produttivo sono fortissime (100
occupati del cluster marittimo ne attivano 173 nell’intera
economia).
● Il 60% delle esportazioni e il 45% delle importazioni dell’Italia
avvengono via mare.
Inoltre, il porto, quale anello del sistema di posizionamento delle
merci sui mercati, gestisce una parte considerevole del valore
aggiunto che viene creato nelle aziende lungo la catena del
67
2013
valore. Gestendo il prodotto dalla fase iniziale a quella distributiva e/o di reverse logistic, si cattura tutto il valore aggiunto prodotto, non solo nelle fasi di produzione o industrializzazione, con
benefici a cascata per il Paese in termini di occupazione, reddito,
valore aggiunto e gettito erariale.
Il ruolo distributivo e di posizionamento che ricoprono i porti
sull’export è predominante e, quindi, fondamentale per aiutare il
Paese a mantenere forti le imprese che esportano.
Queste ultime sono oggi le uniche che mantengono i livelli occupazionali e di reddito nonostante la contrazione del mercato
interno, contribuendo, in modo strutturale, a riequilibrare la
bilancia commerciale del Paese che per anni ha registrato importazioni superiori rispetto alle esportazioni, con conseguente perdita di potere d’acquisto interno. I porti sono fondamentali per
mantenere forti le nostre imprese esportatrici e per creare valore aggiunto in Italia lungo tutta la catena, non solo nella fase di
si sa rispondere in modo univoco a queste semplici domande.
Quale domanda di traffico si vuole intercettare? in che segmenti
di mercato? con quali interconnessioni? per quali filiere/imprese?
con quali obiettivi (misurabili e tempificati) di medio lungo termine? In altri termini, quali specializzazioni e priorità di intervento vogliamo definire per far sì che i porti alimentino al meglio
l’economia italiana?
E infine: vogliamo fare business con i porti? Business significa
aprire il mercato, slegarlo dai vincoli e dalla burocrazia attuale
per fare finalmente profitto, da investire per potenziare le
imprese logistiche, per rendere il porto un luogo attrattivo con
obiettivi di sviluppo, per attrarre professionalità nuove, per
richiamare giovani laureati nel settore, i migliori talenti nel
campo, generare ricerca nell’economia dei trasporti sui temi
della sostenibilità ambientale, della sicurezza.
Non rispondere a queste domande significa non poter assicurare un’efficace gestione del settore e,
quindi, la sua capacità nel lungo periodo.
Questo rischia di essere un autogol strategico per il Paese.
In un momento di difficoltà come quella
attuale, ma direi soprattutto in questi
momenti, agire su settori come la portualità rappresenta una carta strategica
importante da giocare, per ridare slancio e
prospettive allo sviluppo.
Nello studio abbiamo individuato quattro
grandi cantieri di lavoro.
Governance. È urgente superare la frammentazione delle competenze e i localismi.
Cosa significa concretamente? Definire criteri per individuare le Autorità Portuali e le
modalità più opportune per favorire una
maggiore autonomia finanziaria alle stesse;
individuare porti (pochi) di interesse nazionale su cui occorre concentrare le energie.
Particolarmente utile è l’introduzione di
Fonte: rielaborazione The European House - Ambrosetti su dati nazioni Unite 2012
figure manageriali nella gestione dei Porti
(CEO come “manager di porto”) come avvieproduzione, ma anche in quella di distribuzione.
ne ad esempio nei porti del Nord Europa.
In tale contesto, l’ultima legge sul settore è del 1994, venti anni Snellimento della burocrazia. Non si può competere quando
fa, e allora il trasporto marittimo era 1/3 dell’attuale, non esi- occorrono fino a 68 istanze a 18 amministrazioni differenti (oltre
steva la concentrazione dei traffici in pochi grandi porti hub, le la dichiarazione doganale) per una operazione di import o export.
shipping company non detenevano il potere contrattuale e l’in- Come visto prima, non si può competere quando sono necessari
fluenza che detengono oggi e, infine, lo spostamento dei baricen- 17 giorni per esportare la merce dai porti italiani, rispetto ad una
tri verso l’Asia era ancora in divenire.
media UE di 11 giorni e rispetto a una media dei porti spagnoli,
Il mondo cambia in fretta e noi cosa facciamo? Ci muoviamo alla nostri competitor diretti, di 9 giorni. Gli interventi possibili sono
giornata! Non abbiamo alcuna visione
di medio-lungo periodo sul settore,
perdiamo quote di mercato (i soli
porti del Nord Europa ci sottraggono,
ogni anno, un volume merci pari a
quello del porto di Napoli) e occasioGenio civile
Polizia di
opere
Marina Militare
frontiera
ni di sviluppo (sprechiamo un potenmarittime
ziale di 50 miliardi di Euro l’anno di
Presidi portuali
Capitaneria di
Autorità
commercio estero per le nostre inefCarabinieri,
porto-Guardia
Portuale
GDF, ecc.
costiera
ficienze, pari al 7% dell’interscambio
Enti con attività
Agenzie
commerciale totale dell’Italia).
di controllo
doganali
(RINA)
Manca un organico Piano Strategico
Operatori
Attivitè di
Nazionale della Portualità e della
autotrasporto
sanità marina
vettori logistici e
e veterinaria
Logistica che identifichi la visione
imprese ferroviarie
portuale
per il futuro del settore declinata
sulle dimensioni chiave per un’efficace gestione strategica del sistema.
Fonte: rielaborazione The European House - Ambrosetti
Oggi in Italia non c’è chiarezza e non
68
2013
numerosi e a costo limitato (se non nullo) come: l’introduzione di
procedure di pre-sdoganamento di almeno 48 ore; la piena attivazione dello Sportello Unico Doganale attribuendogli anche
obiettivi di riduzione dei tempi e non solamente di facilitazione
delle procedure; la costituzione di una piattaforma integrata dei
flussi informativi al fine di consentire che i differenti sistemi
informativi riescano a parlarsi tra loro.
Investimenti infrastrutturali. Occorre in modo deciso superare
l’attuale iper-progettualità che risulta, spesso, non legata agli
interessi del Paese. Oggi esistono progetti di potenziamento dei
porti per 9 miliardi di Euro e, se fossero realizzati, il sistema
aumenterebbe la sua capacità di 11 milioni di container l’anno.
Considerando che la portualità italiana movimenta 9,6 milioni di
container l’anno e non è satura, non appare sensato prevederne,
oggi, il raddoppio della capacità. Le risorse disponibili devono
essere allocate secondo criteri di concentrazione, sostenibilità
finanziaria e integrazione.
Massa critica. Non è il numero dei porti che determina la capacità di attrarre e gestire traffico del Paese. La portualità italiana si
posiziona al terzo posto con una movimentazione totale superiore a 480 milioni di tonnellate, ma per trovare un porto italiano
bisogna scendere fino al 15° e 16° dove si posizionano Genova e
Trieste, i principali scali italiani. Non è il numero dei porti che
determina la capacità di attrarre e gestire traffico del Paese. La
dimensione del singolo porto è essa stessa un fattore di attrattività. Le evidenze del settore tendono a confermare una progressiva concentrazione dei traffici in pochi e grandi porti.
Nei container, ad esempio, in Europa la quota dei primi 15 porti è
passata dal 61% circa dei traffici totali nel 1985 a oltre il 78% nel
Traffici TEUs nei porti europei (% su totale, 2012) - Fonte: rielaborazione The European House - Ambrosetti su dati ESPO 2013
Quote mercato operatori italiani nei porti italiani - Fonte: rielaborazione The European House - Ambrosetti su Banca d’Italia 2012
2010. I porti più piccoli hanno subito, e stanno subendo, una progressiva marginalizzazione. La dimensione infrastrutturale di un
porto, i suoi spazi di banchina, il numero di container che possono
essere gestiti contemporaneamente, le capacità e dotazioni
del retroporto, così come la dimensione stessa dei traffici gestiti
e del bacino economico di riferimento sono elementi su cui si basa
il successo o la marginalizzazione di un complesso portuale.
In aggiunta, la presenza di grandi operatori della logistica che
possano utilizzare un porto come base operativa delle loro attività
è un ulteriore elemento di significativo vantaggio competitivo.
Due altre proposte possono essere formulate con specifico riferimento al tema dimensionale. È necessario coinvolgere gli operatori di logistica nazionale nello sviluppo e nella gestione dei volumi movimentati dai porti italiani. Il duplice obiettivo consiste nel
favorire una crescita dimensionale degli operatori logistici italiani e, contemporaneamente, recuperare quote di traffico merci
gestite dagli operatori esteri. Favorire, anche con incentivi fiscali, la riduzione nell’uso del franco fabbrica per l’export e del
franco destino per l’import, rovesciando la situazione, cioè spingere all’utilizzo del franco destino per l’export e del franco fabbrica per l’import. La gran parte delle aziende manifatturiere italiane esporta a condizioni franco fabbrica. Questo significa che
l’intero trasporto è organizzato dallo spedizioniere estero nominato dal compratore estero, sottraendo il controllo dell’intero
processo logistico agli operatori italiani, con conseguenze negative per il sistema economico nazionale, in termini di perdita di
potenziale fatturato per le imprese, generazione di valore
aggiunto e occupazione e di entrate per lo Stato.
Per fare bene queste cose occorre decidere dove vogliamo portare il Paese e, quindi, i suoi porti e la sua logistica: una visione
strategica di lungo periodo.
I nostri concorrenti l’hanno, tutti. Noi cosa vogliamo fare?
[email protected]
69
2013
X Congresso Filt-Cgil
Riforma organizzativa e rinnovamento
di Franco Nasso, Segretario Generale Nazionale Filt-Cgil
Il XVII congresso della Cgil si avvia, e si concluderà, dentro la più grave crisi economica della storia del paese, dalla nascita della
repubblica.
Questa condizione del paese, che tutto
lascia prevedere non sia destinata a cambiare nei prossimi mesi, rappresenta la
grande questione italiana. Molto più grave
che nel resto d’Europa e che richiede di
essere affrontata e condotta verso una possibile via d’uscita.
Tra le proposte della Cgil, contenute nei
documenti congressuali, c’è la rivendicazione dei necessari cambiamenti nella politica economica, per affrontare la crisi dalla
parte di chi sta pagando duramente i vincoli restrittivi dell’Europa e le scelte sbagliate dei nostri governi.
La Cgil chiede di cambiare le scelte attuali
per dare risposte a chi non regge più il peso
della crisi. Chiede la riduzione delle insopportabili diseguaglianze, amplificate dalla
crisi stessa e dall’iniquità sociale dei provvedimenti che hanno tentato, peraltro
senza successo, di contrastarla.
Le difficoltà del mondo del lavoro, dei pensionati e d’intere generazioni di giovani, che
si aggiungono all’enorme numero di disoccupati e di lavoratori in cassa integrazione e
mobilità, accompagneranno il dibattito congressuale che si avvierà a gennaio, nei luoghi di lavoro e in realtà dove domina la preoccupazione per il futuro e dove si stanno
scontando gli effetti occupazionali della
crisi e della riduzione del reddito.
Anche il congresso della Filt si svolgerà in
un contesto produttivo molto mutato, in
tutti i settori dei trasporti, rispetto al 2010.
La crisi e i grandi cambiamenti nel sistema
manifatturiero e negli scambi a livello globale hanno modificato, con una velocità senza
precedenti, l’assetto dei trasporti. Non ci
sono solo le tante emergenze e le tante chiusure, ma anche una trasformazione produttiva che ha cambiato molto le caratteristiche,
le dimensioni e la collocazione delle aziende
e, con esse, l’insediamento organizzativo
della Filt. Questo mentre viviamo la crisi
acuta di grandi imprese e di interi settori.
La Filt ha reagito molto bene sul piano
organizzativo, gli iscritti sono aumentati in
tutti i quattro anni, ma le caratteristiche
del nostro tesseramento sono in continua
trasformazione.
70
Il lavoro è più povero e più precario, la
tutela sindacale ha fatto molta fatica e la
prospettiva per i prossimi anni si presenta
sotto lo stesso segno. È cambiato il lavoro e
il perdurare della crisi renderà lungo il
recupero. Un contesto così mutato che
anche la Filt dovrà cambiare insieme alla
sua organizzazione, ad ogni livello.
È del tutto evidente che la crisi economica
e le variazioni subite dall’intero comparto
dei trasporti possono pesare molto sulla
nostra capacità di azione e sul consenso, e
non ci consentono di continuare con un
modello organizzativo che è stato pensato
molto prima della crisi e che chiede di essere cambiato. Per queste ragioni il congresso è la sede giusta per decidere quale
forma organizzativa, più adeguata ai cambiamenti intervenuti, ci dobbiamo dare.
Coerentemente con le indicazioni assunte
dal direttivo nazionale della Cgil, dobbiamo
ridisegnare la nostra organizzazione sul territorio, attraverso la concentrazione e la
riduzione delle strutture e la riallocazione
di maggiori risorse nei posti di lavoro.
Partendo dalle fondamentali risposte che
dobbiamo dare alla crisi, ma anche dai
grandi cambiamenti che riguardano la contrattazione e la rappresentanza, dopo gli
accordi interconfederali del 31 maggio 2013
e del 28 giugno 2011.
Le RSU e la contrattazione, i processi
democratici di coinvolgimento dei lavoratori nelle piattaforme e nella validazione
degli accordi impongono di pensare a una
Filt che sposta il baricentro della sua organizzazione verso i posti di lavoro.
Tutto quello che possiamo e dobbiamo fare,
nella riforma organizzativa, sarà possibile
solo se tutta l’organizzazione si doterà di
strumenti atti a rendere sempre rispettato il
rapporto costi ricavi da tesseramento e se
saranno chiaramente individuate le responsabilità amministrative in tutte le strutture.
Tra le principali decisioni da assumere c’è
il processo di accorpamento dei piccoli
territori, attraverso l’unificazione dei
punti di direzione, con una sola segreteria
della categoria, mantenendo, salvo il caso
di unificazioni a livello confederale, i
direttivi territoriali.
Insieme ai processi di accorpamento e di
semplificazione bisogna completare, in
tutta la Federazione, l'integrazione tra
strutture regionali e capoluoghi di regione
che, per le caratteristiche della categoria e
sulla base delle tante esperienze regionali
consolidate, è sicuramente il modello organizzativo che meglio risponde alle necessità della Filt.
Dobbiamo realizzare la semplificazione
organizzativa e la riduzione dei numeri di
componenti degli organismi e degli esecutivi, per liberare risorse che ci consentano di
essere più presenti nel territorio e nei posti
di lavoro. Questi risparmi possono aiutare il
rinnovamento, obiettivo sempre perseguito
nei congressi, con risultati a volte importanti, ma che necessita di un forte impulso
nel congresso. Il rinnovamento è obiettivo
concretamente realizzabile, potendo raccogliere il lavoro fatto in questi anni, attraverso impegnativi processi di formazione
che hanno coinvolto centinaia di giovani,
con un’elevata presenza di donne, che
hanno dimostrato forte appartenenza ideale alla Cgil e che sono pronti all’impegno
sindacale nella Filt.
Prima dell'inizio del congresso è bene che
tutta la federazione assuma gli obiettivi di
riorganizzazione e di rinnovamento.
Gli obiettivi d’iniziativa generale che la
Cgil discuterà nel congresso hanno bisogno anche delle gambe per camminare e,
tra queste, come priorità, ci sono la riforma organizzativa, la cura e la responsabilità nella gestione delle risorse che i
lavoratori ci affidano.
2013
Proposte CGIL e FILT
per uscire dalla crisi del TPL
di Alessandro Rocchi, Segretario Nazionale Filt-Cgil
Il cittadino-utente chiede un’offerta di trasporto collettivo indipendente dalla modalità di erogazione. Domanda un
servizio frequente e di qualità che penetri le aree urbane,
con una percorrenza che non ecceda, più o meno, l’ora,
che non comporti più titoli di viaggio e con un costo correlato alla qualità.
L’assetto attuale del settore rappresenta il principale
impedimento alla costruzione di qualsiasi prospettiva utile
all’utenza e ai sistemi di mobilità locale e, conseguentemente, all’interesse del lavoro che in questi sistemi opera.
Si propongono tre concetti: servizio, produttività, tutele.
Il Convegno del 21 novembre “Trasporto pubblico locale e regionale:
esperienze e proposte per uscire dalla crisi” é una tappa del percorso di elaborazione che Cgil e Filt hanno deciso di intraprendere
per aggiornare gli elementi di analisi e di proposta per questo settore. Un’elaborazione che analizza il motivo per cui l’uscita di questo settore dalla sua crisi concorre all’uscita del Paese dalla crisi.
Sono quattro i valori e le opportunità che offre il settore: sociale,
ambientale, economico e industriale.
Valore sociale in quanto la mobilità collettiva è un fattore di inclusione sociale e un misuratore del livello di qualità della vita. Quasi
25 milioni di persone (41% del totale nazionale) risiede nel 9% del
territorio italiano formato da 10 aree metropolitane e da almeno 6
“sistemi urbani”, dove in 20 anni la densità abitativa è cresciuta del
7%, cioè 1,5 milioni di persone, e in cui oggi si concentra oltre l’80%
della domanda nazionale di mobilità. Domanda che, nel corso dell’ultimo quadriennio, è molto cambiata. Tra il 2009 e il 2012 in città
sono 360 mila in più le persone che ogni giorno usano il mezzo pubblico; nel ferroviario 120 mila persone. 11 milioni di persone, di cui
9,6 nei servizi urbani ed extraurbani e quasi 1,5 in quelli ferroviari
hanno usato quotidianamente nel 2012 un mezzo di trasporto
collettivo. Inoltre, malgrado gli aumenti tariffari del biennio 20112012, il costo annuo a carico di un nucleo familiare medio che usa
il mezzo pubblico è pari a circa mille euro, mentre usando il mezzo
privato sale a 4.000 euro. Quantità, qualità e riassetto dell’offerta
di trasporto pubblico possono quindi determinare anche effetti
redistributivi del reddito.
Valore ambientale considerando che il parco autovetture circolanti resta in Italia il più alto d’Europa e che almeno il 70% delle
polveri sottili è prodotto dal traffico stradale. Più del 53% dei
Comuni, dove risiede quasi il 75% della popolazione nazionale,
sfora ogni anno il numero di giorni consentiti oltre i limiti di legge.
In Pianura Padana quel numero è spesso superato già nel primo
semestre dell’anno. La congestione da traffico è l’altro aspetto
tipico del traffico privato in Italia. Le basse velocità aumentano i
tassi di inquinamento, la sosta dei veicoli privati occupa caoticamente spazio e i mezzi privati assediano le città.
Valore economico in quanto le flotte impiegate nel settore in Italia avevano nel 2012 un’età media di quasi 12
anni nei servizi urbani, più di 12 in quelli extraurbani e
quasi 20 nel ferroviario. Le infrastrutture dedicate alla
mobilità collettiva in Italia hanno indicatori assai distanti
dall’Europa. Nel prossimo decennio, per stabilizzare la
vetustà delle flotte ai valori attuali servirebbero quasi 4
miliardi di euro di investimenti per i bus ed almeno 5 per
i treni. Per raggiungere l’età media delle flotte impiegate in Europa occorrerebbero, invece, nello stesso periodo,
8 miliardi per i primi e quasi 10 per i secondi. Infine, per
l’adeguamento delle infrastrutture per la mobilità collettiva locale agli standard medi europei, servirebbero almeno 35 miliardi di euro nel decennio. Investimenti ingenti
ma necessari ed utili, con evidenti effetti anticiclici, per
sostenere i quali, mirando e selezionando con rigore,
occorre una maggiore flessibilità del patto di stabilità
interno e, auspicabilmente, europeo e la possibilità di
attingere alle risorse FAS. Inoltre, per quanto riguarda i
mezzi, potrebbero essere sostenuti da un’adeguata durata
71
2013
degli affidamenti dei servizi, mentre per le infrastrutture dalla
penalizzazione nelle città della mobilità privata più inquinante e
dalle valorizzazioni immobiliari.
Pur nella pesantissima crisi economica del Paese, questo settore
continua ad avere in ogni caso anche un valore industriale complessivo, considerando i trasferimenti per obblighi di servizio pubblico, tariffe ed investimenti, stimato in 12-13 miliardi l’anno.
Entro il prossimo triennio questo valore andrebbe portato a 15
miliardi per disporre di almeno la metà degli investimenti necessari,
quantomeno, a stabilizzare ai parametri attuali i differenziali
negativi dell’Italia rispetto all’Europa su flotte e infrastrutture.
Altri 500 milioni l’anno, infine, potrebbero affluire entro il prossimo triennio dagli introiti da traffico, anche senza aumenti tariffari ulteriori rispetto a quelli già decisi, ma solo per effetto della loro
attuazione, dell’incremento ipotizzabile al 5% di passeggeri e, seppure marginalmente, da qualche recupero dell’evasione tariffaria.
I valori industriali in gioco sono dunque notevoli e tali da rappresentare, nella crisi del Paese, un’opportunità da cogliere. La programmazione pubblica deve, però, fare scelte di politica economica e industriale.
Nel dibattito sulle ricette per il settore si registra tuttora un “furore ideologico” forte e pericoloso, che inverte l’ordine corretto del
processo di programmazione pubblica: prima andrebbe deciso quali
siano i servizi di pubblica utilità; poi, andrebbe verificato il livello
di risorse finanziare necessarie; infine, in ultimo, come fornirli.
Questo dibattito distorto è alimentato dalle contraddizioni e dai
conflitti interistituzionali generati dalla riforma del 2001 del Titolo
V della Costituzione, ma, in attesa che esso sia riscritto, la programmazione pubblica non deve assolutamente stare ferma. La
legislazione nazionale del settore offre attualmente alle Regioni e,
in parte agli Enti Locali, ampi margini di azione in cui è urgente
agire. Il cittadino-utente chiede un’offerta di trasporto collettivo
indipendente dalla modalità di erogazione. Domanda, di solito, un
servizio frequente e di qualità che penetri le aree urbane, con una
percorrenza che non ecceda, più o meno, l’ora, che non comporti
più titoli di viaggio e con un costo correlato alla qualità.
L’istituzione di apposite Agenzie locali di settore può avere un
senso se non sottrae responsabilità fondamentali di decisore pubblico e se il loro costo di funzionamento è più che compensato dall’efficienza di quanto gestito. Nell’immediato, però, basterebbe
meno. Ad esempio, se la velocità commerciale in Italia fosse allineata agli indici europei, si libererebbe quasi il 25% del parco bus
adibito ai servizi urbani, offrendo così una maggiore offerta a parità di mezzi. Per farlo, però, sarebbe necessario raddoppiare l’attuale 9% di corsie preferenziali di reti urbane e nelle aree metropolitane e portarle al 40%. Ogni km/h di incremento della velocità
commerciale media nazionale nel trasporto urbano produrrebbe
72
150 milioni di euro l’anno di risparmio nei costi di esercizio.
Insomma: la classica riforma a costo pressoché zero, dagli effetti
formidabili, ma la cui attuazione è legata ad una fortissima determinazione di chi amministra le città…
La visione di sistema tra “offerta forte” e “offerta sociale” va
sostenuta individuando bacini di traffico ampi, tendenzialmente su
base regionale e a forte integrazione modale. Inoltre, per spostare
sull’affidatario del servizio gli investimenti sui mezzi, gli affidamenti devono avere durate tali da consentire un consistente tempo
di ammortamento del capitale investito dall’affidatario; quindi,
per gli affidamenti mediante gara, di 9 anni (elevabili fino a 13,5)
per i servizi urbani ed extraurbani e di 15 anni (elevabili fino a
22,5) per i servizi ferroviari, ovvero, senza gare, fino al 2019.
Nell’attuale condizione del settore e del Paese non è affatto determinante, oggi, il tema delle modalità di affidamento. In questo
momento è invece determinante decidere se una Regione o un Ente
Locale fa o no le gare e, sia nel primo che nel secondo caso, in
quali condizioni agisce. Se le fa, è opportuno che la stazione appaltante sia la Regione, cosicché è unica la cabina di regia su evoluzione legislativa regionale, elaborazione dei bandi di gara, progettazione dei bacini, durata degli affidamenti e assetto industriale
dell’aggiudicatario. Se fa le gare, inoltre, deve appostare a bilancio risorse adeguate per i corrispettivi pubblici per l’intera durata
del contratto di servizio, indicizzandoli all’inflazione. Se, invece,
l’ente pubblico decide di procedere con affidamento diretto, si
pongono ulteriori problemi che, a loro volta, vanno valutati.
Infatti, l’inasprirsi della condizione finanziaria induce diversi Enti
Locali, come in qualche caso già accaduto, a cedere quote di proprietà delle aziende. Inoltre, le norme comunitarie ammettono
fino al 2019 l’affidamento “in house”, ma le condizioni per attuarlo impongono soglie minime del 10% di servizio da affidare ad altro
soggetto. Il maggiore margine di manovra che fino al 2019 è oggi
consentito alle amministrazioni locali nell’affidamento diretto
deve essere finalmente utilizzato per costruire, anche attraverso
questa via, soggetti aziendali unici su bacini di traffico più estesi,
intermodali ovunque possibile, eventualmente anche strutturati in
holding, in grado di arrivare alle gare con possibilità di competere.
Sia che l’amministrazione pubblica decida di fare le gare, sia che
decida di non farle, il tema delle clausole sociali è centrale. In tanti
sostengono che l’ente affidante non deve imporre all’affidatario
eccessivi vincoli, mentre l’Antitrust nazionale ha dato spesso responsi ben più rigidi degli orientamenti giurisprudenziali comunitari.
Inoltre, ulteriori incrementi delle tariffe del trasporto collettivo
determinerebbero, nella crisi del Paese, iniquità sociale e ridurrebbero gli effetti anticiclici che, invece, può offrire il settore.
Rispetto al 1998 le tariffe del trasporto pubblico in Italia sono quasi
raddoppiate. Solo dal 2009 al 2012 sono cresciute di almeno il 15%
medio nazionale e, per effetto di quanto già deciso dalle
amministrazioni locali, nel 2014 questa differenza supererà il 20%. Nonostante la distanza delle tariffe medie italiane da quelle del resto d’Europa, è quindi assolutamente necessario non agire ulteriormente, almeno fino a
tutto il 2015, sulla leva tariffaria.
Anche dopo la costituzione nel 2013 dell’apposito Fondo
nazionale, la ripartizione delle risorse tra Regioni, e tra
queste ed i rispettivi Enti Locali, continua a basarsi
sulla cosiddetta spesa storica, i cui criteri risalgono al
1998. Risulta però ancora molto incerta l’effettiva
volontà, o capacità, politica di agire rapidamente nella
direzione giusta sui costi standard. Sbagliato e dannoso
sarebbe se, invece di essere concepiti come uno degli
strumenti della programmazione pubblica, cioè un
mezzo, fossero pensati come un fine: fare per dimostrare che si è fatto, a prescindere.
In merito ai finanziamenti, con l’istituzione dal 2013 dell’apposito Fondo nazionale di settore il meccanismo è ancora più confuso. I trasferimenti erogati complessivamente
2013
dai tre livelli istituzionali che concorrono al finanziamento sono
quantitativamente insufficienti. Incerta è la prospettiva dei costi
standard. Il sistema di finanziamento è legato, pena ulteriori contraddizioni, alla riscrittura del Titolo V. D’altra parte, il livello di
finanziamento sarebbe oggi probabilmente ancora più basso se
quel Fondo non fosse stato istituito. Con orizzonte 2019 va impostata una progressiva transizione del sistema di finanziamento,
considerando sia i trasferimenti pubblici che le tariffe. In una
prima fase, collocabile al 2016, il blocco delle tariffe richiede la
stabilizzazione dei trasferimenti al livello del 2013, il mantenimento del Fondo nazionale e la graduale modifica dei suoi criteri di
ripartizione. Nella stessa fase, Regioni ed Enti Locali devono anche
agire, come descritto, sui bacini di traffico e sugli affidamenti,
sostenendo ed orientando il riassetto industriale del settore. Nella
seconda fase, qualora definiti correttamente i costi standard, la
programmazione dei servizi da parte delle Regioni va accompagnata con il graduale ritorno alle medesime delle risorse oggi accentrate nel Fondo, che a regime potrebbe però svolgere una funzione perequativa, con una dotazione pari al 20% di quella attuale.
Nel frattempo, il riassetto industriale delle aziende pubbliche del
settore, avviato nel triennio precedente, dovrebbe assumere la
configurazione dimensionale, organizzativa, intermodale e finanziaria necessaria a giocare la partita delle gare.
La riduzione delle risorse di questi anni, calata su un sistema industriale fragile, sta facendo precipitare numerose aziende pubbliche
nella crisi patrimoniale, per cui il rischio di tracollo del sistema sta
oggi nella necessità che, per le aziende prossime a questa crisi, urge
una ricapitalizzazione da parte della proprietà. L’amministrazione
pubblica che può e che vuole lo fa. Quella che non può non lo fa.
Altre potrebbero, ma non intendono più farlo. Poi ci sono quelle che
stanno valutando se è conveniente farlo. In ognuna delle categorie
appena descritte brilla però troppo spesso l’assenza di una politica
industriale, quindi del ruolo del “pubblico programmatore”.
Senza una politica industriale il “pubblico gestore” si ritira abdicando dal proprio ruolo di “pubblico programmatore” e si distruggono pezzi importanti di proprietà pubblica: non è una ritirata, è
una rotta! Tutti i principali operatori in Europa, leaders nel mondo,
producono i servizi di mobilità collettiva in tutte le gamme possibili. I primi 6 operatori presenti in Europa fatturano complessivamente nel mondo quasi 3,5 volte l’intero fatturato di tutte le
imprese di trasporto locale e regionale operanti in Italia. Il valore
della produzione di ATAC Roma, la prima in Italia, è quasi 1/7 di
quello di Veolia-Transdev e poco più di 1/6 di RATP e di Arriva.
Complessivamente, i primi 6 operatori presenti in Europa occupano nel mondo circa 436 mila addetti. Le aziende operanti in Italia,
conteggiando anche Trenitalia, non arrivano a 135 mila. L’assetto
italiano di offerta del sistema di trasporto locale e regionale deve
essere progressivamente ricostruito, entro il 2019, intorno a quella ventina di aree metropolitane e urbane già
indicate e con le caratteristiche di domanda e di organica integrazione modale dell’offerta in precedenza
descritte. Per questo, formato un bacino di traffico
unico, va previsto l’obbligo di fusione in un’unica azienda delle eventuali coalizioni di imprese affidatarie del
servizio, mono o plurimodale che sia. Con questa impostazione strategica la programmazione pubblica deve
valutare se il processo di riassetto ha bisogno di partners
industriali esterni e, in tal caso, va prima considerato
l’interesse manifestato da aziende pubbliche, ricercando
altre soluzioni solo in assenza di alternative.
In merito al lavoro, l’assetto attuale del settore rappresenta il principale impedimento alla costruzione di qualsiasi
prospettiva utile all’utenza e ai sistemi di mobilità locale
e, conseguentemente, all’interesse del lavoro che in questi sistemi opera, ma questo assetto è difeso da giganteschi interessi coalizzati localmente che godono di efficienti protezioni. Il riassetto industriale può essere guidato,
non subìto, da aggregazioni di aziende pubbliche, come si propone
che prioritariamente sia, se il “pubblico gestore” pretende trasparenza gestionale, amministrativa ed operativa dalla propria azienda.
Si propongono tre concetti: servizio, produttività, tutele. Servizio,
perché se in un’attività di pubblica utilità il lavoro non rivendica
un’organizzazione del servizio efficiente e rispondente alle esigenze
di chi usa quel servizio, commette due errori. Primo: svaluta l’attività che svolge, quindi anche l’importanza e la prospettiva di questa
attività. Secondo: fa schierare contro di sé il cittadino utente, che
deve essere invece il suo principale alleato. Produttività, perché se
questo è, il lavoro non può non sentirsi chiamato in causa anche
quando si parla della sua produttività. Anzi, come in qualsiasi settore dei servizi, il lavoro rischia di non essere credibile se, nel sostenere l’efficienza del servizio, non si confronta sulla produttività del
lavoro. Cioè: trasparenza gestionale; progetti industriali che dicano
dove s’intende andare e perché; vertici aziendali autorevoli e competenti; azioni concrete che riorganizzino produzione e servizi.
Tutele, perché la situazione in cui si trova il settore ed il suo percorso di uscita dalla crisi non può essere ad esclusivo carico del lavoro. Le norme che regolano il processo di riassetto industriale e produttivo del settore devono supportare la disciplina derivante dalla
contrattazione collettiva, con particolare riferimento a ciò che essa
deve contenere, sulle tutele contrattuali, occupazionali e del reddito. Le soluzioni competono principalmente alla contrattazione collettiva, ma se non sono sostenute per via legislativa non funzionano.
Gara o meno, le Regioni devono perciò inserire clausole sociali nella
loro legislazione e negli affidamenti effettuati e le amministrazioni
locali devono prevedere queste clausole nei loro affidamenti.
Inoltre, la contrattazione aziendale deve svolgere il suo ruolo nell’armonizzare i trattamenti contrattuali delle aziende che attuano
processi industriali di fusione: non esiste un altro luogo dove ciò
possa avvenire, ma quel luogo dispone oggi di strumenti legislativi e
contrattuali inadeguati. Soprattutto, non dispone ancora di un CCNL
adeguato, perché il nuovo CCNL della Mobilità rimane un fondamentale, ma inattuato, strumento di tutela del lavoro e di regolazione
dei processi. Il Ministro di Infrastrutture e Trasporti si era impegnato
fin da giugno, appena insediatosi, a riattivare una sede di confronto
governativa. Poi, a luglio, disse che ci avrebbe pensato il Ministero
del Lavoro, e quel confronto sarebbe partito a settembre, ma non è
stato così. Nel frattempo, Asstra e Anav, con le quali l’ultimo incontro si è svolto il 18 ottobre, hanno ribadito che il rinnovo contrattuale deve essere autofinanziato. La trattativa sul CCNL può ormai svolgersi ed essere conclusa solo in sede governativa.
L’elaborazione proposta da Cgil e Filt e gli atti del Convegno
sono disponibili sul sito:
http://www.filtcgil.it/convegno-tpl-21-novembre-2013.htm
73
2013
Prioritario il rilancio del TPL
in Campania
di Mario Salsano, Segretario Generale Filt-Cgil Campania
La Campania ha bisogno di un vero progetto
industriale per eliminare il nanismo aziendale,
migliorare la quantità e la qualità del servizio
offerto, rilanciare l’industria di costruzione
dei bus e del materiale rotabile, ridurre il traffico veicolare. In breve, realizzare il sogno di
una mobilità sostenibile.
La competitività della Regione Campania, soprattutto nel settore
del turismo, dipende molto dalla qualità e dalla vivibilità delle proprie città e queste dipendono in modo essenziale da un sistema di
trasporto pubblico efficiente ed adeguato per la mobilità dei cittadini, per la fruizione delle bellezze artistiche, architettoniche e
paesaggistiche, per limitare i danni dell’inquinamento.
Per la Campania è un sogno questo modello di mobilità sostenibile.
La dura e tragica realtà è purtroppo molto diversa: abbiamo un servizio di trasporto pubblico locale indegno di un Paese civile.
Com’è stato possibile giungere in pochi anni ad un così scarso livello di qualità, a questo stato di degrado e inefficienza? Il fallimento o la messa in liquidazione del CSTP di Salerno, dell’ACMS di
Caserta, dell’EAV BUS, le gravissime difficoltà economico-finanziarie di tutte le partecipate pubbliche degli Enti Locali e della
Regione sono il risultato di una fallimentare politica dei trasporti.
I motivi di questa profonda crisi sono diversi: il taglio delle risorse
destinate alla gestione del servizio e agli investimenti per il rinnovo del parco bus e treni; la mancanza di un Piano Regionale dei
74
Trasporti; la gestione inefficiente e clientelare di quasi tutte le
aziende partecipate pubbliche; l’assenza di un progetto industriale per efficientare il settore; il pauroso deficit di bilancio della
Regione Campania (oltre 15 miliardi di euro) e degli Enti Locali che
ha comportato enormi difficoltà economico-finanziarie e di gestione del servizio alle aziende pubbliche (che vantano rilevanti
crediti nei confronti degli Enti pubblici) soggette ad una notevole
esposizione creditizia nei confronti delle banche.
Il problema principale è rappresentato dal fatto che la Giunta
Regionale della Campania, dal 2010, ha ridotto notevolmente le
risorse per i contratti di servizio sottoscritti con le imprese di trasporto: del 29% per il TPL su gomma, da 395 milioni a 286 milioni
di euro; del 14% per Trenitalia Trasporto Regionale, da 165 milioni
a 142 milioni di euro; del 15% per EAV Ferro, da 175 milioni a 150
milioni di euro.
Allo straordinario e importante programma di infrastrutturazione
della rete ferroviaria regionale, che ha portato la Campania ad
avere una dotazione infrastrutturale ferroviaria tra le più alte
d’Italia, è mancato un adeguato programma di potenziamento degli standard di
sicurezza, ambientali e di tecnologie avanzate per l’esercizio ferroviario. Ma ancora
più grave è stato il disimpegno finanziario
per l’acquisto di nuovi bus e per il rinnovo
del materiale rotabile. Tanto che, mentre
in Europa la vetustà media dei mezzi è di 7
anni, la Campania si ritrova un parco mezzi
tra i più vetusti d’Italia: per gli autobus il
23,49% ha più di 15 anni, il 26,74% da 10 a
15 anni e solo il 46% dei mezzi ha meno di
10 anni; per l’EAV si passa da una vetustà
media di 26 anni per l’ex Circumvesuviana
a una media di 32 anni per l’ex Sepsa, ad
una media di 37 anni per l’ex
Metrocampania N/E. È stata abbandonata,
inoltre, la programmazione regionale del
trasporto pubblico locale, mirata a migliorare l’efficienza del sistema, eliminare le
sovrapposizioni dei servizi, ridurre il traffico veicolare ed abbattere l’inquinamento
atmosferico. Il risultato è stato che il TPL
2013
è diventato sempre più frammentato ed
inefficiente: 12.000 addetti per 139 aziende di trasporto locale, di cui 14 pubbliche
e 125 private, il più alto numero di aziende tra le Regioni Italiane, seconda solo alla
Sicilia, con circa il 65% di aziende sotto ai
10 dipendenti e con una dotazione di bus
inferiore a 10.
Abbiamo bisogno di un progetto industriale
per eliminare il nanismo aziendale, migliorare la quantità e la qualità del servizio offerto, rilanciare l’industria di costruzione dei
bus e del materiale rotabile. Invece, l’Iribus
di Avellino, unica fabbrica che produce bus
in Italia, è fallita per mancanza di commesse e la Firema di Caserta, fabbrica di costruzione e riparazione di locomotive, treni,
metropolitane e tram, è in amministrazione
controllata. Ma va evidenziata soprattutto la
gestione fallimentare di quasi tutte le partecipate della Regione e degli Enti Locali che,
in questi anni, hanno svolto una politica
clientelare, con un management espressione
della peggiore partitocrazia, spesso privo di
competenze e di capacità professionali. Infatti, secondo uno studio
di ASSTRA, le aziende pubbliche campane hanno un’incidenza del
costo del personale, sul totale dei costi, superiore alla media nazionale del 13%, una produttività espressa in termini di Km eserciti per
ogni mezzo inferiore del 5%, un rapporto costi/ricavi tra i peggiori
d’Italia. Naturalmente tutto il settore degli Appalti, nel TPL ed in
Trenitalia Trasporto Regionale, ha subìto rilevanti riduzioni con un
esteso ricorso agli ammortizzatori sociali.
In Europa, il settore del TPL sta subendo un processo di riorganizzazione rilevante, con la nascita di grandi gruppi, per fare economie di scala, con la possibilità di effettuare maggiori investimenti
e con know-how. Anche l’Italia comincia a muoversi in tal senso,
con alcuni esempi eloquenti di aziende in Lombardia e in Emilia
Romagna. È tempo che anche la Campania realizzi un progetto
industriale analogo. Per il rilancio del settore avremmo la necessità di una svolta nelle scelte politiche della Giunta Regionale della
Campania che non si intravede, anche se sarebbe sbagliato non
vedere alcuni cambiamenti che si stanno producendo. Elementi
positivi sono: l’individuazione del bacino unico regionale ottimale,
suddiviso in lotti, designando la Regione quale ente di governo
(Legge Finanziaria Regionale n. 5 del 6 maggio 2013), al fine di
avere un coordinamento centralizzato a livello regionale delle attività di pianificazione e di programmazione dei servizi di trasporto
pubblico locale; l’approvazione del Piano di Riprogrammazione dei
Servizi che, previsto dalla legislazione vigente (Legge di stabilità
2013, art. 1 comma 301 Legge 228 del 24.12.2012), rappresenta il
primo tentativo di programmazione, delineando le linee strategiche per il settore.
In sintesi: promuovere l’intermodalità; rafforzare i servizi ferroviari; adeguare i servizi a scarsa domanda prevedendo la sostituzione
delle modalità di trasporto diseconomiche.
Senza risorse adeguate, il Piano rischia di trasformarsi in un ulteriore taglio dei servizi. La Giunta Regionale non può pensare di confermare soltanto le risorse del 2012, senza tener conto che nei precedenti anni c’è stato un taglio di circa il 30% e che il TPL è sull’orlo del baratro; è necessario che preveda in bilancio risorse adeguate e pluriennali. Anche gli Enti Locali devono contribuire al finanziamento del settore, almeno per le risorse storiche. Si sono completati importanti processi di fusione delle aziende partecipate del
Comune di Napoli e della Regione Campania: ANM e Metronapoli
per il Comune di Napoli; Circumvesuviana, Sepsa e Metrocampania
N/E (oggi EAV) per la Regione. Questi provvedimenti, insieme al
contratto di rete tra le aziende di mobilità su gomma (ANM – CTP
ed EAV BUS) che ha l’obiettivo di fare sinergie evitando sovrapposizioni di servizi, e l’approvazione del Piano di Rientro dell’EAV con
relativo sblocco di 200 milioni di euro di fondi FAS, vanno nella giusta direzione di riorganizzazione ed efficientamento. Per questo
riteniamo sbagliata la volontà dell’Assessore Regionale ai Trasporti
di effettuare le gare per l’affidamento dei servizi minimi entro fine
anno. È una scelta sciagurata perché significherebbe svendere le
partecipate pubbliche (che nelle attuali condizioni sarebbero
impossibilitate a competere) e rappresenterebbe un grande affare
per i privati, con i rischi anche di infiltrazione della criminalità,
l’unica organizzazione in grado di avere enorme liquidità.
Il regolamento 1370/2007 della Comunità Europea rinvia al 2019
l’obbligo delle gare, consentendo nella fase di transizione l’affidamento diretto dei contratti di concessione dei relativi servizi (in
house) oppure la gara a “doppio oggetto” (per favorire la crescita
industriale delle aziende pubbliche e per superare la frammentazione del settore), che individui sia il socio, cui deve essere conferita una partecipazione non inferiore al 40%, sia gli specifici compiti operativi connessi alla gestione del servizio. Sono queste le
scelte più idonee per completare il processo di riorganizzazione del
settore e per evitare rischi di licenziamenti collettivi non essendo
il settore dotato di ammortizzatori sociali.
In Italia, tutti i settori che hanno subìto processi di riorganizzazione hanno goduto di un sistema di regole e di ammortizzatori sociali strutturali per tutelare i lavoratori.
L’affidamento dei servizi mediante gara pubblica, prima di avere
una legislazione di supporto a tutela dei lavoratori che non troveranno proficua occupazione, avrebbe un impatto sociale drammatico. In questi ultimi anni la FILT, insieme alle altre Organizzazioni
Sindacali Confederali, ha impedito il ricorso a licenziamenti collettivi nel TPL, costituendo il Fondo di sostegno, con un accordo con
le Associazioni Datoriali ASSTRA e ANAV e la Giunta Regionale della
Campania. Ma non è sufficiente, a causa dell’esiguità delle risorse
a disposizione (15 milioni di euro già impegnati) a fronte degli
imponenti processi di riorganizzazione necessari. Occorre essere
consapevoli che il TPL, per essere rilanciato, deve diventare prioritario nelle scelte politiche, per il suo valore sociale, ambientale
ed economico. A tale proposito è necessaria una grande operazione politica e culturale, che coinvolga i cittadini, le forze sociali, le
associazioni ambientaliste, le associazioni dei consumatori, le istituzioni e le forze politiche.
75
2013
Cambiare per evitare
il disastro dell’Italia
di Fabrizio Solari, Segretario Nazionale CGIL
Assetto idrogeologico, energie rinnovabili, green economy, edilizia
antisismica, trasporto locale, reti telematiche, filiera agroalimentare
di qualità, infrastrutture, istruzione e educazione, salute e assistenza, riqualificazione urbana, sono alcuni dei temi indicati dalla
Cgil come priorità su cui è urgente intervenire per creare posti di
lavoro, favorire l’innovazione, aumentare la produttività.
Il declino del sistema economico italiano
ha anticipato la crisi mondiale di almeno
10 anni. La bassa crescita, l’azzeramento
degli investimenti in innovazione e ricerca, la stasi della produttività iniziano nel
nostro Paese dalla metà degli anni ’90.
Con la creazione dell’Euro, che impedisce
di acquisire nuovi mercati svalutando la
lira, l’industria italiana ha perso competitività non solo rispetto ai paesi a basso
costo di manodopera, ma anche rispetto ai
partner europei che hanno saputo aumentare il valore delle loro produzioni in termini di qualità e innovazione.
Di fronte alla globalizzazione dei mercati,
la struttura produttiva italiana ha risentito
drammaticamente della sua dimensione
media troppo ridotta, della gestione prevalentemente famigliare delle imprese,
della sottocapitalizzazione, della insufficiente collocazione in borsa, di un difficile accesso al credito che ha preferito
finanziare la rendita fondiaria piuttosto
che le attività produttive.
Si è attuato così, salvo rare eccezioni, un
massiccio disinvestimento sul lavoro che è
stato ridotto di peso, svalorizzato sul
piano retributivo e professionale, mantenuto il più possibile esterno a un ciclo
della produzione che si è progressivamente ristretto secondo il modello di “impresa
snella e corta” concentrata sulla sua attività principale. Ciò è accaduto sia nell’industria, a partire da quella manifatturiera,
sia nei servizi.
La linea dominante dei governi succedutisi nell’ultimo quindicennio ha assecondato
il ripiegamento dell’industria, dell’economia e della società italiane. Il Paese ha
rinunciato ad investire sull’istruzione e
sulla formazione, contribuendo in questo
modo a bloccare definitivamente la già
scarsa mobilità sociale e consolidando lo
strapotere e la separatezza delle varie
76
“caste” che caratterizzano il nostro Paese,
non ha attuato politiche attive verso il
lavoro (riducendo funzioni e attività del
collocamento pubblico), non ha incentivato innovazione e ricerca pubblica, non ha
creato domanda aggiuntiva. Si è continuato a voler trasferire “aiuti” alle imprese
sotto varie forme, tutte non selettive:
nemmeno il fisco è stato utilizzato per
sostenere investimenti e innovazione.
Negli ultimi 10 anni abbiamo sprecato, evitando per motivi politici di perseguire
l’evasione fiscale, risorse ingentissime che
avrebbero potuto essere impiegate in
innovazione, istruzione, infrastrutture,
welfare per rendere più omogenei servizi e
condizioni di vita nelle Regioni italiane e
per accrescere la produttività di sistema.
Spiace constatare che anche la Legge di
Stabilità in discussione in questi giorni non
inverte la tendenza. Non impiega risorse
adeguate agli obbiettivi più volte annunciati della crescita e del lavoro, non punta
a un piano straordinario per l’occupazione
giovanile, non mira a rilanciare la domanda interna. Anzi, al contrario di ciò che
sarebbe necessario, impiega enormi risorse nel tentativo di eliminare l’IMU nel 2013
(per riproporne una nuova versione nel
2014) e annuncia un programma di ulteriori dismissioni del patrimonio industriale
pubblico per reperire risorse con cui
abbattere il debito. Quando non addirittura la cessione del patrimonio demaniale
dello Stato. La verità è che i vincoli imposti dall’Europa e i limiti politici interni di
una politica di “larghe intese senza programma” impediscono una vera scelta
economica espansiva al Governo Letta.
Si perdono altri mesi preziosi per avviare
scelte economiche anticicliche, mentre la
recessione s’inasprisce e così la situazione
economica e sociale del Paese.
Ci si aggrappa all’idea che, prima o poi,
ripresa economica e investimenti arriveranno dall’estero a sollevare la nostra economia, a compensare le nostre scelte di
austerità e mero equilibrio dei conti.
Ma senza innovazione, produttività, competitività non arriverà alcun investimento
e la ripresa non produrrà nuovo lavoro.
2013
I risultati di questi errori di politica economica sono sotto gli occhi di tutti: la disoccupazione cresce, quella giovanile raggiunge punte storiche mai viste, investimenti e consumi sono fermi, il Paese non
si innova, migliaia di piccole aziende chiudono. Nell’indifferenza dei partiti e sotto
un’ottusa regia del Governo si sta smantellando e cedendo a pezzi il sistema delle
grandi imprese nazionali, le uniche in possesso di tecnologie e potenziale innovativo.
L’indebolimento della politica rafforza le
tecnocrazie industriali che decidono la
riorganizzazione delle imprese senza un
confronto pubblico e senza un disegno
industriale: ciò che è utile o non utile al
Paese è deciso da manager che non hanno
saputo gestire l’internazionalizzazione di
quelle stesse aziende.
È il caso di Telecom, di Alitalia, di Finmeccanica, di Fincantieri.
Senza una svolta coraggiosa di politica
economica e sociale cresceranno ancora
diseguaglianze e ingiustizia, soprattutto
l’Italia non si riprenderà e perderà posizioni a livello internazionale.
Da tempo il sindacato ha indicato la necessità immediata di aumentare i redditi da
lavoro non solo per un problema di giustizia sociale, ma anche per aumentare i
consumi e da qui trascinare una ripresa
degli investimenti. Il Governo dichiara di
condividere questa filosofia, ma destina a
questo obbiettivo risorse poco più che simboliche. Ora, dopo le prime mobilitazioni
generali nei territori, siamo impegnati a
decidere quali altre iniziative di pressione
e di lotta attivare per arrestare il declino
e garantire al Paese la politica necessaria.
Un anno fa, di fronte al già evidente
fallimento dell’austerità, alle inique e
controproducenti riforme del Governo dei
“tecnici”, la Cgil ha costruito una proposta
di politica economica per la crescita e il
lavoro intitolata “Il Piano del Lavoro”.
Per avviare un percorso di innovazione del
Paese nel medio periodo, il Piano del
Lavoro sceglie e si propone di partire dalle
grandi arretratezze, dai fattori che hanno
fatto perdere competitività al sistema
Italia, ma anche alle sue grandi potenzialità inespresse e non valorizzate.
Assetto idrogeologico, energie rinnovabili,
bonifiche ambientali, green economy, edilizia antisismica, ciclo dei rifiuti urbani e
industriali, trasporto locale, reti telematiche, filiera agroalimentare di qualità,
infrastrutture, riorganizzazione dei servizi
sociali, istruzione ed educazione, salute e
assistenza, riqualificazione urbana, bonifiche industriali, patrimonio artistico e
ambientale sono solo alcuni dei temi indicati nel Piano del Lavoro come priorità su
cui è urgente intervenire per ridurre i
ritardi del sistema Italia, creare posti di
lavoro stabili e di qualità, favorire la diffusione dell’innovazione, aumentare la produttività media del sistema.
In genere su questi temi il Governo italiano non interviene o lo fa esclusivamente in
emergenza, con un effetto di spesa immediata maggiore che non quella programmabile in forma pluriennale. Il Piano del
Lavoro si propone di capovolgere questa
logica con la creazione di fondi pluriennali (europei, nazionali e regionali) orientati
a colmare ritardi e lacune che allontanano
sempre più l’Italia dal resto d’Europa.
Noi proponiamo che si definiscano indirizzi condivisi per innovare il Paese e che si
predispongano fondi mirati di investimento, condizionati alla collaborazione tra
investitori pubblici e privati. Soprattutto,
il Piano del Lavoro intende mobilitare le
conoscenze e le capacità dei territori nel
realizzare progetti concreti che intervengano sui ritardi e sulle inefficienze. La Cgil
sarà soggetto attivo di questo percorso,
attraverso la costituzione di Comitati
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2013
Rappresentanza
e conflitto
di Riccardo Terzi, Segreteria Nazionale SPI-CGIL
Dovremo anche noi, come sta facendo la Chiesa,
tornare alle origini, alla costruzione concreta di
una rete di solidarietà, e fare un grande investimento sull’autonomia e sulla responsabilità delle
persone, allargando tutti gli spazi di partecipazione, ed entrando in comunicazione con tutto ciò
che sta fuori del nostro perimetro organizzato.
Con questo seminario tentiamo un’operazione complessa, perché
parlare della rappresentanza vuol dire parlare di noi stessi, delle
nostre contraddizioni e del nostro destino, e questo lavoro di
auto-osservazione, si tratti di persone singole o di soggetti collettivi, è un’impresa ardua, perché dobbiamo liberarci delle tante
rappresentazioni giustificatorie e consolatorie che ci tengono in
vita, e dobbiamo conquistare la freddezza di uno sguardo oggettivo. In vista del prossimo Congresso della Cgil, mi sembra indispensabile questo lavoro preliminare di chiarificazione sulle condizioni attuali della rappresentanza, per capire il senso e la portata della crisi nella quale siamo tuttora immersi, e l’intreccio
complesso tra crisi istituzionale e crisi sociale.
È un problema non solo nostro, ma di tutte le grandi organizzazioni, che devono riposizionarsi di fronte ai grandi mutamenti del
nostro tempo contemporaneo, nel quale agisce in profondità un
processo di corrosione di tutte le identità collettive e di tutte le
istituzioni in cui quelle identità hanno preso forma. L’esempio più
sorprendente e più avvincente è il nuovo corso della Chiesa cattolica, con Papa Francesco, dove tutto il tradizionale apparato
dottrinario è rimesso in discussione, non per rincorrere i miti della
modernità, ma per riscoprire le origini del messaggio cristiano,
con una critica durissima all’attuale dominio del denaro e alla
perdita di dignità delle persone, nel lavoro e nella vita. La Chiesa
tenta così di ricostruire una relazione con il vissuto concreto delle
persone, con le loro domande e con le loro sofferenze, presentandosi non come la potenza che giudica, ma come la forza che accoglie. C’è dunque un investimento non sulla dottrina, ma sulle relazioni umane, non sui “valori non negoziabili”, ma sullo spirito di
solidarietà che può tenere insieme un’umanità sofferente.
Anche la religione rientra in questo nostro discorso sulla rappresentanza, perché si tratta, nei diversi campi, di costruire una relazione, un rapporto di fiducia, un sistema di valori nel quale ci si
riconosce. E questa relazione funziona fin quando c’è un movimento nelle due direzioni, dall’alto e dal basso, ed entra in crisi
quando viene meno questa circolarità del processo. Ciò può avvenire da un lato o dall’altro, per un gesto di rottura del rappresentante o del rappresentato. E probabilmente, nella crisi attuale, ci
sono entrambi questi movimenti. C’è una classe dirigente, debole
e senza prestigio, che proprio per questo difende con tutti i mezzi
il suo ruolo, la sua funzione di comando, nel nome del “primato”
della politica, e c’è, sull’altro lato, una società civile sempre più
insofferente e diffidente, che cerca di sottrarsi alle mediazioni
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della politica, alle sue procedure troppo complesse e tortuose.
Non credo che possiamo cavarcela, nell’interpretazione di questo
processo, con le troppo facili categorie dell’antipolitica e del
populismo, le quali a loro volta andrebbero specificate e interpretate. Quando un fenomeno esce fuori dai nostri parametri di valutazione, e si presenta perciò con i tratti inquietanti dell’irrazionalità, la prima istintiva nostra reazione è quella di un giudizio
liquidatorio, senza compiere il necessario lavoro di analisi e di
comprensione, deviati dalla falsa idea che comprendere vuol dire
giustificare. E così ci si ferma all’invettiva, alla denuncia moralistica. E nel grande contenitore del populismo rientra, all’ingrosso, tutto ciò che suscita la nostra avversione o inquietudine:
Berlusconi, la Lega, il movimento di Grillo. Antipolitica? O non
sono piuttosto, ciascuna di esse, operazioni politiche che costruiscono nuove forme di appartenenza collettiva, nuove identità?
L’impolitico, quando si solleva oltre l’immediatezza del sentimento e rende esplicite e argomentate le proprie ragioni, non è che
una variante del politico. Prendiamo l’esempio delle
“Considerazioni di un impolitico” di Thomas Mann, che sono in
realtà uno straordinario e provocatorio manifesto a sostegno di
una politica conservatrice e antidemocratica. Occorre, dunque,
una percezione chiara di queste diverse manifestazioni dello spirito pubblico per intervenire nei loro punti di debolezza e nelle
loro interne contraddizioni.
Tutto ciò può essere analizzato con il metro della rappresentanza
come relazione. Se le relazioni primarie, in quanto concreto e
reale tessuto connettivo della società, entrano in crisi, intervengono allora dei surrogati, delle mitologie, delle proiezioni simboliche, dando luogo a forme di identificazione passiva e subalterna. L’esempio più vistoso è quello dell’idolatria del capo, sul
quale si proiettano tutte le nostre frustrazioni. Ma ciò avviene,
nelle diverse tipologie politiche, lungo delle traiettorie specifiche, e non tutto è solo mito e apparenza, perché in qualche
forma, più o meno densa e strutturata, si determina anche la
costruzione di uno spazio collettivo. Quando abbiamo a che fare
con fenomeni di massa, c’è sempre una miscela complessa di
motivazioni, e non si tratta mai solo di manipolazione, di asservimento mediatico. Del tutto particolare è poi il caso del
Movimento 5 Stelle, che ha la sua forza non nella passività, ma nel
tentativo di costruire una nuova rete di relazioni, una rete virtuale, mediata dalla tecnologia informatica, che crea comunque uno
spazio comune, aperto allo scambio intersoggettivo.
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La linea di demarcazione tra il politico e l’impolitico non è affatto chiara, e forse c’è dove meno ce la immaginiamo, perché, a
ben guardare, è proprio dall’interno delle organizzazioni politiche
tradizionali che stanno prendendo forza processi di sradicamento,
di svuotamento dell’identità, di individualizzazione, per cui è proprio in questo campo, là dove la politica continua a vantare il suo
primato, che essa appare in una condizione di maggiore sofferenza. Le reti relazionali si sono del tutto sfilacciate e snervate, e il
partito politico sopravvive a se stesso come una maschera che non
riesce più a coprire il vuoto della sua vita reale, e quindi accade
che alla democrazia fondata sulle rappresentanze subentra la
politica come mercato, come competizione di potentati e di oligarchie, essendosi ormai spezzato il rapporto con la dinamica
reale della società. Non c’è, dunque, una fortezza politica assediata dai populismi, ma c’è un processo corrosivo che investe
tutte le forze politiche, nessuna esclusa, e per questo tutto l’edificio istituzionale si trova in un equilibrio precario. Fine dei partiti? Si può dire: fine di un ciclo politico, e situazione aperta, arrischiata, in cui agiscono insieme, e talora si sovrappongono, spinte democratiche e spinte eversive.
Proprio perché siamo nel mezzo di una “crisi di sistema”, non funziona più lo schema politologico per cui la strategia vincente sta
nella capacità di occupare e di rappresentare il centro moderato,
perché questo centro è in via di dissoluzione e tutta la situazione si
è radicalizzata. E non funziona il tentativo di ricondurre tutta la
dialettica politica dentro la formula rassicurante e semplificata del
bipolarismo. La crisi non si lascia racchiudere in nessuno schema
precostituito, e la stessa distinzione tra destra e sinistra si presenta in forme del tutto nuove, con un gioco di scavalcamenti e di trasformismi che rende tutto il quadro politico assai meno decifrabile.
La rappresentanza, abbiamo detto, è un sistema di relazioni. Ma
molto dipende dal perimetro entro il quale la relazione viene
costruita. Esistono relazioni strette, dirette, dove non c’è distanza tra il rappresentante e il rappresentato, ma c’è una comunanza di vita e di esperienza. Il caso più tipico di questa forma di rappresentanza è quello del delegato sindacale nel luogo di lavoro,
scelto come il portavoce di un gruppo omogeneo al quale risponde quotidianamente di tutte le sue iniziative. È a questo modello
che dovrebbe tendere ad avvicinarsi il più possibile la rappresentanza sociale, la quale può essere riconosciuta proprio in quanto
non è separata, non è burocratizzata, ma è solo un’articolazione
funzionale al servizio della causa comune. Ma questo rapporto di
vicinanza non può più funzionare quando si tratta di agire su una
scala più vasta, e questo problema si pone sia per il partito politico sia per le grandi organizzazioni sindacali. Come agire nei
grandi spazi della politica nazionale, o sovranazionale, senza perdere il contatto vivente con le persone che vogliamo rappresentare? Il problema dello spazio è il grande nodo di tutta la costruzione politica moderna, del suo sempre più difficile equilibrio tra il
locale e il globale.
Se guardiamo alla passata esperienza storica delle grandi organizzazioni del movimento operaio, possiamo dire che questo scarto
dimensionale è stato risolto con le risorse dell’ideologia. La relazione funziona, anche a distanza, perché c’è un comune bagaglio
ideologico che tiene insieme i diversi punti del movimento. La crisi
si apre nel momento in cui si sfalda questa compattezza ideologica, e si fa sempre più problematico ricondurre ad una visione di
insieme tutta l’estrema variabilità degli interessi e delle passioni.
Non è, necessariamente, la fine della rappresentanza, ma è la fine
dell’appartenenza, o della militanza, di quella configurazione della
politica modellata secondo uno schema di tipo militare, con le sue
gerarchie e con i suoi vincoli di fedeltà e di obbedienza.
Dalla politica militarizzata si è passati alla politica-spettacolo,
tutta giocata sul terreno mediatico, e alla militanza subentra il
fanatismo delle tifoserie contrapposte, o il disincanto di chi non
ne può più di questa grottesca messinscena. Il passaggio che, a
questo punto, andrebbe compiuto è quello della costruzione di
uno spazio democratico aperto, dove ha voce il cittadino consapevole e informato, che prende posizione su tutti i temi in discussione, dove c’è ascolto, approfondimento, elaborazione collettiva. È la “mobilitazione cognitiva” di cui parla il documento di
Fabrizio Barca. Ma per giungere a questo risultato occorre compiere una lunga e durissima azione di bonifica dell’attuale sistema politico, il quale produce, sistematicamente, passività e disaffezione, essendo tutto costruito intorno al delirio narcisistico dei
suoi leader, reali o potenziali.
La democratizzazione, dunque, è la più efficace risposta alla crisi,
in quanto promuove quella “cittadinanza attiva” che sta al centro
della nostra Costituzione, su basi di eguaglianza e di pari dignità.
Non si tratta solo di porre mano alle procedure decisionali, ma alla
sostanza stessa del nostro ordinamento, intendendo la democrazia
come il processo che incide su tutte le strutture di potere, politiche
ed economiche, riportandole sotto il controllo della volontà popolare e mettendo in campo strumenti effettivi di partecipazione alle
decisioni e di controllo dal basso sulla gestione. In questo senso,
l’idea democratica ha in sé una forza ideologica, che può colmare
il vuoto desolante dell’attuale dibattito politico. Non è solo un
insieme di regole, ma è un programma di trasformazione sociale.
Nel discorso sulla rappresentanza è certo possibile e necessario
distinguere tra la sfera politica e quella sociale, ma questa distinzione è sempre relativa, perché i due campi si influiscono reciprocamente, nel bene e nel male. Vale poco, a mio giudizio, la formula “a ciascuno il suo mestiere”, come se fosse possibile tracciare
una netta linea divisoria tra il sociale e il politico, mentre è chiaro
che tutto è intrecciato, che la politica non può essere socialmente
neutra, né il sociale può essere indifferente agli esiti e ai conflitti
della politica. Le due rappresentanze vivono della loro reciproca
autonomia, ma stanno dentro un comune processo, e sono destinate ad affermarsi o a declinare insieme. Ciò appare del tutto chiaro
nella situazione attuale, dove la fragilità della politica lascia anche
le rappresentanze sociali in una condizione di indeterminatezza,
oscillando tra le due opposte vie di fuga del corporativismo subalterno e della mobilitazione politicizzata, senza riuscire a presidiare il proprio specifico e autonomo campo di azione.
Venendo ora ai dilemmi che dovrà affrontare il sindacato nel prossimo futuro, il primo passo è sicuramente quello di affermare con
più decisione la propria autonomia, potremmo anche dire, con
una formula più forte, la propria alterità rispetto al sistema politico. Ma in cosa consiste questa alterità? Consiste nel fatto che il
sindacato è lo strumento al servizio dell’autonomia del soggetto
sociale, che dunque deve poter funzionare una rappresentanza
diretta, ravvicinata, nella quale il baricentro, a differenza di
quanto accade nel campo della politica, è decisamente spostato
verso il basso, per cui rappresentare vuol dire accompagnare e
sostenere il processo di auto-organizzazione dei lavoratori.
L’insidia, per il sindacato, non è tanto quella di subire un condizionamento partitico, ma è piuttosto quella di uno “slittamento
nel politico”, per cui il suo modo di essere e di operare finisce per
riprodurre le forme e le procedure della politica. E a me sembra
che questo slittamento in gran parte si sia verificato. Struttura
centralizzata, negoziazione di vertice, comunicazione per via
televisiva, convegnistica, carriera interna tutta ascendente dalla
periferia verso il centro, frequenti passaggi da ruoli sindacali a
ruoli politici, impegno diretto nelle campagne elettorali, tutto ciò
crea l’immagine di un sindacato che è parte del sistema politico,
e lascia troppo scoperta la sua funzione di presidio democratico
del territorio. Non è casuale che tutte le decisioni per una riforma organizzativa che sposti l’asse verso il territorio sono rimaste
largamente inapplicate. E da troppo tempo manca uno sforzo di
analisi delle trasformazioni del lavoro, dei nuovi sistemi di organizzazione dell’impresa, dell’impatto delle innovazioni tecnologiche, senza aver tentato di rimettere con i piedi per terra il grande tema della democrazia economica. Si produce così un effetto
di spiazzamento e di perdita di efficacia, perché la macchina
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organizzativa funziona come salvaguardia dell’esistente, e non
come promozione di una nuova sperimentazione, funziona come
garanzia dell’unità interna, e delle relazioni di tipo gerarchico,
non come spinta al rinnovamento.
È una situazione classica di impasse burocratica, dove il mezzo finisce per mettere in ombra il fine. Dovremo anche noi, come sta
facendo la Chiesa, tornare alle origini, alla costruzione concreta di
una rete di solidarietà, e fare un grande investimento sull’autonomia e sulla responsabilità delle persone, allargando tutti gli spazi di
partecipazione, ed entrando in comunicazione con tutto ciò che sta
fuori del nostro perimetro organizzato. Questo può fare il sindacato, nella sua autonomia, con uno sforzo serio di autoriforma.
Ma tutto ciò non potrà essere sufficiente, se non si riesce a sbloccare il sistema politico. Dove sta il blocco? Sta nel fatto che tutta la
politica è guidata solo dal tema della governabilità, della stabilità,
della manutenzione tecnica del sistema. Ogni alternativa è esclusa,
ogni conflitto deve essere neutralizzato, e tutto il pluralismo deve
alla fine ricompattarsi nella grande palude dell’interesse nazionale,
sotto la rigorosa sorveglianza del Presidente della Repubblica. Si è
determinata così una vera e propria sospensione della democrazia,
perché l’agenda politica è già scritta e si possono discutere solo i
dettagli, ma anche questi con uno spirito di moderazione e di compromesso. La nuova legislatura si è aperta così, con un governo che
è politico nella forma e tecnico nella sostanza.
È cambiato qualcosa con le ultime contorsioni parlamentari, con la
crisi minacciata e poi rientrata? Sì, il mutamento c’è, e sta nel
fatto che una compagine governativa nata sotto il segno della provvisorietà e dell’emergenza ora si presenta come una stabile alleanza politica, e dunque i vincoli di questo regime tecnocratico si sono
fatti ancora più stretti. C’è una sinistra che canta vittoria perché è
stato sconfitto Berlusconi, e che ha l’avventatezza di parlare della
fine di un’epoca, e non si accorge di essere ancora più intrappolata in un meccanismo che le toglie qualsiasi autonomia. E tutto
ancora ruota, con un parossismo ormai patologico, intorno al desti-
no personale di Berlusconi. Continua la drammatica illusione che
Berlusconi sia l’unica palla al piede per l’Italia, senza vedere come
si stia giocando in tutta Europa una decisiva partita politica, con
una nuova forza aggressiva delle correnti conservatrici, con un
attacco concentrico ai valori e alle istituzioni dell’Europa sociale.
A questo attacco non c’è risposta, non c’è l’organizzazione di un
conflitto politico e culturale che sia all’altezza della sfida.
Se questo è il quadro, le rappresentanze, sia politiche che sociali,
non hanno aria per respirare, perché la rappresentanza si costituisce nel conflitto, nello scontro tra opzioni alternative, e questo è
il cuore della democrazia. Il conflitto, a sua volta, può essere regolato, mediato, ma in prima istanza deve essere riconosciuto e legittimato come l’espressione di una diversità, di interessi, di valori,
di progetti, che costituisce la trama profonda di una società plurale e complessa. La negazione del conflitto è lo svuotamento della
democrazia, e si torna all’antica idea aristocratica che decidono gli
esperti, i competenti, mettendo così finalmente sotto controllo le
turbolenze e le emotività del popolo sovrano. Anche il linguaggio
politico segna questo passaggio, in quanto alla legittimazione
democratica del governo si sostituisce la neutralità della governance che è, come dice Carlo Galli, “l’addio alla trasparenza razionale della rappresentanza, la politica opaca dei poteri forti”. È su
questo punto che occorre una rottura, una discontinuità, uno spostamento di tutto il dibattito politico corrente. Ed è con questa
bussola che vanno valutate tutte le ipotesi di riforma istituzionale,
se il loro obbiettivo è quello di rafforzare o di imbrigliare il tessuto della rappresentanza e della partecipazione.
C’è un popolo di sinistra, tramortito dalle sconfitte subite e disorientato sul suo possibile futuro, per il quale conta ormai solo l’ossessione di vincere, non importa come, nell’indifferenza totale
per i contenuti programmatici. Ed è pronto a consegnarsi nelle
mani di un leader carismatico che sappia promettere questa vittoria. Ma, con ciò, siamo ancora prigionieri dell’universo ideologico e simbolico di questa lunga stagione di svuotamento della politica, dove l’apparenza distrugge la sostanza. E la vittoria, pagata
a questo prezzo, può essere non l’uscita dalla crisi, ma il suo
punto culminante. C’è un possibile cammino alternativo? Io credo
di sì, ma i tempi sono inevitabilmente lunghi, e il percorso tortuoso. Nell’opacità della politica, molto dipende da noi, dai soggetti
sociali, dal dinamismo della società civile. Il cambiamento può
venire da qui, da un movimento che nasce dal basso e riesce ad
imporre una diversa agenda politica. Per questo, dobbiamo lavorare sulla nostra funzione di rappresentanza e renderla vitale,
efficace, condivisa, in un rapporto con la vita reale delle persone
e con le loro domande di identità.
E questo lavoro potrà essere produttivo solo se si supera ogni forma
di prudenza e di sudditanza rispetto al sistema politico, se si assume, in tutta la sua pregnanza, il tema della crisi della democrazia.
È nelle situazioni di crisi che bisogna avere il coraggio di percorrere nuove strade, e la rappresentanza può essere il detonatore che
fa saltare gli equilibri paralizzanti dell’attuale sistema.
Relazione fatta al Seminario “SINDACATI, PARTITI E MOVIMENTI
NELLA CRISI” (Urbino, 24 – 25 ottobre 2013)
NOSTOP
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