Attualità - Centro Editoriale Dehoniano

quindicinale di attualità e documenti
2014
4
Attualità
73 Chiesa e famiglie, nuova visione
78 La CEI, il papa, il progetto pastorale
83 Germania e Polonia: la Chiesa dopo
118 Veladiano e Manzoni, la folla e il web
123 Studio del Mese
Identità e dispersione
C. Theobald sui riferimenti testimoniali della fede
Anno LIX - N. 1161 - 15 febbraio 2014 - IL REGNO - Via Scipione Dal Ferro 4 - 40138 Bologna - Tel. 051/3941511 - ISSN 0034-3498 - Il mittente chiede la restituzione
e s’impegna a pagare la tassa dovuta - Tariffa ROC: “Poste Italiane spa - Sped. in A.P. - DL 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB Bologna”
quindicinale di attualità e documenti
A
ttualità
15.2.2014 - n. 4 (1161)
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Libri del mese
73 (L. Lorenzetti)
da venti giorni abbiamo aperto
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di questo ulteriore servizio.
L’abbiamo voluto come luogo
dove incontrarci e rimanere in
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e commenti su quanto esce sulla
rivista o succede nell’attualità;
conoscere altri lettori e altri
mondi; condividere idee, letture,
impressioni e anche – perché
no – suggerimenti o critiche, in
un modo più diretto e informale
rispetto agli altri canali sinora
aperti. La rubrica «I lettori ci
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R
Sinodo – La morale e la pastorale:
una nuova visione di Chiesa
{ Il Vangelo alle famiglie
in condizioni difficili }
99 (F. Ruggiero)
77 (S. Numico)
102
Santa Sede – Sinodo sulla famiglia
L’Europa risponde
78 (G. Brunelli)
Italia - Conferenza episcopale:
il progetto pastorale
{ Papa Francesco e la CEI }
82 (M. B.)
Francia – Famiglia
Un anno di Manif pour tous
83 (S. Orth)
Germania – Chiesa cattolica:
riposizionarsi
{ Dopo la perdita di credibilità
imparare lo stile di Francesco}
86 (M. Matté, F. Strazzari)
Costantino: anniversario di un mito
{ L’Enciclopedia costantiniana
e il punto storico-culturale }
Schede (a cura di M.E. Gandolfi)
Segnalazioni
115 (A. Franzoni)
D. Di Cesare,
Israele. Terra, ritorno, anarchia
116 (A. Righi, A. Deoriti)
L. Gherardi, Le querce di Monte Sole
118 (M. Veladiano)
Riletture
Dal pertugio della nostra paura
119 (D. Sala)
Francia – Ortodossi:
fra tradizione e modernità
{ Intervista al nuovo arcivescovo degli
ortodossi russi legati al Patriarcato
Ecumenico }
Polonia – Chiesa:
immobile e aggressivo
{ Il cattolicesimo polacco
dieci anni dopo Wojtyla }
121 (D. Sala)
89 (S. Numico)
122 (L. Accattoli)
Russia - Intervista al prof. Lupandin
Le tensioni e le Olimpiadi
Diario ecumenico
Agenda vaticana
90 (M. Castagnaro)
Colombia – Negoziati:
interessati alla pace
{ Il Governo, le FARC
e gli altri soggetti sociali.
Intervista a p. Javier Giraldo }
92 (M. C.)
Brasile – Comunità di base
Strumento per il popolo
93 (E. Casale)
Africa – Somalia:
la fuga continua
{ In un paese senza controllo,
solo la Chiesa non se n’è andata }
95 (D. Maggiore)
Studio del mese
{ I riferimenti testimoniali della fede }
123 (C. Theobald)
Identità cristiana:
tra dispersione e discernimento
130 (M. Pohlmeyer)
Profilo { Sören Kierkegaard }
Incursioni nella modernità.
Dall’Esercizio del cristianesimo
suggestioni su un Cristo postmoderno
138 (P. Stefani)
Parole delle religioni
Tra sole e luna. Leopardi e Qoèlet
Africa – Sud Sudan
Futuro in bilico
140
96 (D. M.)
143 (L. Accattoli)
Africa – Madagascar
Il nuovo presidente
97 (M.E. Gandolfi)
Santa Sede – Diritti dell’infanzia:
a chi giova lo scontro
{ Le Osservazioni del Comitato ONU:
la realtà e l’ideologia }
I lettori ci scrivono
Io non mi vergogno del Vangelo
Ricchi di martiri.
Che ci dice la vicenda dei certosini
di Farneta
Colophon a p. 139
La morale e la pastorale
Sinodo
u
na nuova visione di Chiesa
I l Va n g e l o a l l e f a m i g l i e i n c o n d i z i o n i d i f f i c i l i
A
l matrimonio e alla famiglia, la Chiesa cattolica dedicherà il Sinodo
dei vescovi in due tappe: l’Assemblea generale straordinaria del prossimo ottobre
2014 con lo scopo di «raccogliere testimonianze e proposte»; e l’Assemblea
generale ordinaria del 2015 per «cercare linee operative per la pastorale
della persona e della famiglia». Non
sfugge l’importanza e la novità della
prima tappa: il magistero ecclesiale,
prima di parlare, si mette in ascolto. È
una Chiesa docente che si fa discente e
una Chiesa discente che si fa, in qualche modo, docente.
In questi mesi è stato inviato alle
Chiese locali di tutto il mondo un questionario al quale hanno risposto, oltre
alle diocesi, parrocchie, associazioni,
gruppi e coppie di sposi. La Segreteria
del Sinodo ne farà una sintesi in preparazione dell’Instrumentum laboris
per la discussione di ottobre 2014. Nel
frattempo, alcune riviste e, tra queste,
il Regno, hanno coinvolto nel questionario i lettori, che hanno risposto in
numero rilevante.1
Questa mia riflessione si concentra sulla nuova visione di Chiesa: una
Chiesa intesa come comunità che include e non esclude; che annuncia il
Vangelo (buona novella) del matrimonio e della famiglia nella cultura contemporanea; e in questa, la risposta alla
forte domanda morale come domanda
di senso; una Chiesa che riconsidera la
pastorale delle situazioni matrimoniali difficili; infine, alcune conclusioni e
prospettive.
Una Chiesa che include
e non esclude
L’esortazione apostolica Evangelii gaudium di papa Francesco afferma e promette che «la Chiesa deve
essere il luogo della misericordia gratuita, dove tutti possano sentirsi accolti, amati, perdonati e incoraggiati
a vivere secondo la vita buona del
Vangelo».2
Per molti non è così. Uno storico
della Chiesa, Alberto Melloni, registra un diffuso disagio. «Da parte di
donne e di uomini, anche cristiani,
c’è la sensazione che nella Chiesa è
sempre più difficile abitare, perché
questa Chiesa non perdona e i cristiani lo sanno. Questa Chiesa assolve,
sì, se richiesta (è questa la tradizione
latina). Ma comunicare il perdono
è un’altra cosa. Lo sanno i cristiani,
lo sanno i cattolici, e non ne parlano
volentieri, perché non vogliono condoni o sconti di cui non si sentono degni. Hanno fame di misericordia e se
non la chiedono nemmeno più, è per
bontà: perché sembra di infierire e di
chiedere l’impossibile a una Chiesa,
il cui volto materno s’irrigidisce spesso nei tratti di una matrigna spietata».3
Non sono pochi quelli che la pensano così, anche se non vedono proprio la Chiesa «nei tratti di una matrigna spietata». Tra questi, non ci
sono soltanto quanti si trovano in situazioni matrimoniali difficili (divorziati risposati, sposati solo civilmente,
conviventi); ci sono anche sacerdoti
che hanno lasciato e si sono sposati;
persone omosessuali e, in senso più
Le immagini alle pp. 73 e 74 ci sono state gentilmente concesse da Home Movies – Archivio nazionale
del film di famiglia (ANFF, Bologna; www.homemovies.it) e provengono, rispettivamente, dal Fondo
Famiglia Fornaciari (8mm, 1967) e dal Fondo Angelo Selleri (8mm, 1962).
generale e più ampio, i cosiddetti
lontani, così considerati dai buoni
parrocchiani. Si sentono dimenticati,
marginali, anzi esclusi non solo dai
sacramenti ma soprattutto dalla vita
comunitaria, che è sempre più difficile per giudizi (pregiudizi) e sospetti
duri a morire. Più che del giudizio
giusto e misericordioso di Dio, temono il giudizio – a volte nemmeno
tanto velato – dei fratelli e sorelle che
appaiono forti nella fede, ma deboli
nella carità e nella misericordia.
Che dire? Che ci sono solo fraintendimenti e pregiudizi? È più importante mostrare, con le parole e
con i fatti, che così non è. È questa
la via dell’Evangelii gaudium che invita tutti a «ripensare gli obiettivi, le
strutture, lo stile e i metodi evangelizzatori delle proprie comunità».4
Ripensare l’insegnamento
della famiglia nella nuova
cultura
Dalle risposte al questionario, emerge una distanza, anzi una dissonanza
tra l’insegnamento della Chiesa e il
comportamento praticato, tra la teoria insegnata e la prassi adottata da
larga parte di credenti e praticanti.
Si tratta forse d’incomprensione, incoscienza, o ricerca di facili costumi?
La risposta non si presta a semplificazioni. L’annuncio del Vangelo
e, quindi, l’insegnamento dottrinale
e morale della Chiesa, avviene in un
contesto sociale e culturale profondamente mutato.
La situazione della famiglia oggi.
I segni di un mutato quadro sociale
e culturale relativo al matrimonio e
alla famiglia sono identificabili.
– I giovani rinviano il matrimonio e, una volta sposati, rinviano la
decisione di diventare genitori e, per
renderla praticabile, a volte sono costretti a ricorrere alle tecniche procreative.
– Il matrimonio non è considerato una realtà destinata a durare
incondizionatamente per sempre: il
divorzio è messo in conto. Si evidenzia, così, una contraddizione: da un
lato, si esalta l’amore come movente,
giustificazione e ideale della vita di
coppia, come mai era accaduto nelle
generazioni precedenti; dall’altro se
ne teorizza, per principio, la fragilità
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Il Regno -
attualità
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e l’instabilità, così molti prendono le
distanze dall’istituzione civile e religiosa, per lasciarsi piena libertà.
– La libera unione (o unione di
fatto), anche tra persone omosessuali/lesbiche, rivendica un riconoscimento sociale e giuridico, e anche
morale.
– Il concetto di matrimonio non è
univoco. Si sostiene che il matrimonio tradizionale non è l’unico né l’esclusivo, ci sono altre forme di convivenza. «Se in Italia, il matrimonio
resta il modello di gran lunga preferito, esiste tuttavia una lenta e progressiva diffusione di altri stili di vita
familiare, che ci avvicina sempre più
agli altri paesi europei occidentali».5
È un’analisi di circa due decenni fa,
ma è ancora più attuale oggi.
Come osservazione generale, si
può riconoscere che tale cultura è
ancora minoritaria, ma è già molto
influente a livello di idee e di mentalità. Tuttavia, non legittima nessuna
conclusione pessimistica sulla famiglia tradizionale che – come emerge
da serie indagini e dati statistici – tiene bene, sebbene in condizione di
grande instabilità, come appare dalla
curva delle separazioni e dei divorzi.
Inoltre non è detto che la diffusa cultura familiare postmoderna sia quella vincente.
In ogni caso, è questa la sfida culturale alla quale la Chiesa è chiamata a rispondere.
La dottrina della Chiesa nel mutato contesto sociale e culturale. È compito della Chiesa annunciare il Vangelo (buona notizia) del matrimonio
e della famiglia a tutte le generazioni
e, quindi, a questa generazione; in
tutti i tempi e, quindi, al nostro tempo, per non incorrere nell’astrattezza
e nella a-storicità: nel rischio, cioè, di
parlare a tutte le generazioni e a nessuna in particolare.
L’attenzione alla contemporaneità è determinante per diversi motivi: «Sono le famiglie implicate nelle
presenti condizioni del mondo, che
sono chiamate ad accogliere e a vivere il progetto di Dio che le riguarda»; inoltre, «l’intelligenza (…) del
matrimonio e della famiglia» proviene anche dalle «domande, ansie e
speranze dei giovani, degli sposi e dei
genitori di oggi».6
Le domande, le ansie e le speranze dei giovani, degli sposi e dei genitori di oggi costituiscono altrettanti
segni dei tempi da decifrare, alla luce
del Vangelo, e così rispondere alle
attese e alle speranze della famiglia
oggi.
Dalla crisi morale
una forte domanda morale
La domanda morale come domanda di senso. Da più parti si afferma
che la questione morale (la questione
del bene e del male morale) è rimossa: il criterio dell’agire morale non
è ciò che è giusto/ingiusto, ma il
calcolo utilitarista, le convenienze, il
tornaconto individuale. Si è affermata una morale soggettivista, in base
alla quale si ritiene giusto/ingiusto
quello che l’individuo ritiene tale;
e ugualmente una morale relativa
(relativista), che sostiene come ogni
scelta, anche contraddittoria con
un’altra, ha le sue buone ragioni. È
evidente che, con tali presupposti, la
morale, che per sé stessa pretende
universalità, non è più morale. «La
morale è morta – scriveva un noto
giornalista e saggista – e non ritorna
più».
Al contrario, se si va oltre le apparenze, si constata che la domanda
morale c’è ed è forte, ma si pone a un
livello più profondo di quello che si è
soliti pensare. Oggi la domanda morale, prima che domanda di norme
e di regole, riguarda la questione del
senso (finalità) dell’agire umano e, in
argomento: Perché sposarsi? Qual è
la ragione d’essere del matrimonio,
come istituzione religiosa e civile?
Cosa è meglio: il matrimonio senza
amore o l’amore senza matrimonio?
Che senso ha una vita di coppia che
è divenuta insignificante? Se l’amore
non c’è più, non è forse meglio prenderne atto e tirare le conclusioni? E
ancora: perché aprirsi alla vita?
E si potrebbe continuare, ma è
sufficiente per riconoscere che la domanda morale, prima del che cosa
fare, è domanda del perché fare. La
risposta non è facile, perché le società occidentali sono ricche di mezzi,
ma povere di fini; sanno proporre
molto l’«avere di più», poco l’«essere
di più».
Una morale che risponde alla do-
manda di senso. Se la domanda morale è domanda di senso (di finalità),
di certo non vi risponde una morale
che si attarda sulle norme e sulle regole, che sono importanti ma vengono dopo. Le norme morali sono, per
così dire, il secondo capitolo che, se
separato dal primo (la questione del
senso), è acefalo e incomprensibile.
Non è difficile constatare che,
dentro e fuori il mondo cattolico, l’idea di morale si riduce a un insieme
di norme per lo più proibizioniste:
no ai rapporti prematrimoniali; no
alle libere convivenze; no incondizionato al secondo matrimonio; no
ai metodi artificiali nella regolazione
delle nascite, ecc.
Una siffatta morale precettistica,
specie se argomentata esclusivamente in termini di permesso/proibito,
non risponde alla domanda morale che oggi, più di ieri, è domanda
di senso (di significato, di fine). In
altre parole, il perché fare viene prima, e non solo in ordine di tempo,
del cosa fare. Ad es., prima del cosa
fare/non fare nel comportamento
sessuale, viene cosa è la sessualità,
quale è il suo significato; prima dei
metodi regolativi della natalità, viene la questione del senso (significato)
della trasmissione della vita: come
discernere le condizioni favorevoli/
sfavorevoli per accogliere o no la vita
in questa famiglia? In breve, prima
di ogni normativa morale (perennità,
fedeltà, trasmissione della vita) viene
il senso (significato) del matrimonio,
dal quale dipende tutta la morale.
Si deve riconoscere che la questione del senso è stata abbastanza eclissata nel periodo postconciliare anche
per le problematiche specifiche che
hanno successivamente, per decenni, polarizzato l’opinione pubblica:
contraccezione, divorziati risposati,
fecondazione artificiale, problemi di
inizio e fine vita. La teologia e l’etica
devono ritornare a dare rilievo alla
questione centrale. Nella visione cristiana, il senso (finalità) del matrimonio è costituito dalla centralità della
relazione uomo-donna; e al centro
della relazione l’amore, come fondamento, giustificazione e movente.
Se il senso (significato, valore, bene) del matrimonio è la relazione tra
un uomo e una donna, che ha l’amo-
re per motivazione, giustificazione e
movente, la morale che vi risponde
– in dialogo e confronto con le morali laiche – converge nell’umanizzazione della relazione. Si parlerà
di fedeltà, di perennità, di apertura
alla vita, ma non come doveri in più
o a sé stanti. Questi, infatti, non sono
che determinazioni e concretizzazioni dell’unica e prima opzione che
conduce a costruire una unità nella
diversità e, per realizzarla, non basta
una vita intera.
Per molti è un traguardo non raggiungibile e di fatto e di frequente
non raggiunto, con il forte carico di
sofferenza che ne consegue per colpa
propria o altrui o di tutti e due i partner.
La pastorale per alcune
situazioni matrimoniali
difficili
Situazioni diverse. Con l’espressione «situazioni matrimoniali difficili» si comprendono, nel questionario, le unioni di fatto, gli sposati solo
civilmente e i divorziati risposati.
Questi ultimi presentano problemi
teologici e pastorali più seri. Le risposte sono critiche nei confronti dell’attuale normativa, perché non tiene
conto delle situazioni molto diverse
tra loro, come del resto raccomanda
la Familiaris consortio,7 che però non
trae alcuna conclusione operativa.
Tentativi teologico-morali di
coniugare etica e situazione (che è
tutt’altro che etica della situazione),
non hanno avuto ascolto soddisfacente da parte del magistero ecclesiale. Tra questi, va ricordata la proposta di B. Häring,8 che considera
appunto la diversità dei casi coperti
con il medesimo termine di divorziati risposati. La norma morale vale
per il caso generale e, pertanto, non
dispensa dalla corretta applicazione.
Häring argomenta in base alla tradizionale categoria dell’epikeia (o caso
eccezionante), che non può essere intesa come una scappatoia dalla norma, ed è invece la presunzione motivata che il caso concreto non rientra
nella norma generale.
Inoltre, la considerazione della
situazione implica attenzione alla
coscienza. Infatti, non è sempre dimostrabile la nullità del matrimonio
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attualità
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in foro esterno. Non sarebbe allora il
caso di rispettare il giudizio della coscienza, qualora i divorziati risposati, dopo un serio ripensamento, con
una guida spirituale, si sentissero degni del sacramento della comunione
eucaristica? È una posizione sostenuta anche, nel 1993, da alcuni vescovi
tedeschi, che si dichiararono favorevoli ad ammettere all’eucaristia i divorziati risposati qualora, dopo una
verifica con un sacerdote prudente
ed esperto, avessero ritenuto in coscienza di esservi autorizzati. Tale
posizione è criticata dall’autorità ecclesiale competente, ma la questione
merita di essere riconsiderata.9
La posizione della Evangelii gaudium sui sacramenti. La Evangelii
gaudium si limita a dire che «le porte
dei sacramenti [non] si dovrebbero
chiudere per una ragione qualsiasi»,
e stigmatizza alcuni atteggiamenti
che conducono a decisioni arbitrarie, sbagliate e ingiuste. E questi sono
identificati: comportarsi «come controllori della grazia e non come facilitatori»; ritenere che l’eucaristia sia
«un premio per i perfetti», mentre è
«un generoso rimedio e un alimento
per i deboli»; «pensare che la Chiesa
sia come «una dogana», mentre «è la
casa paterna dove c’è posto per ciascuno con la sua vita faticosa».10
Superare tali atteggiamenti è il
presupposto per stabilire, con prudenza e audacia, una coerente pastorale verso le famiglie in situazioni
difficili che fanno fatica ad aprirsi un
cammino umano e umanizzante.
Alcune conclusioni
e prospettive
La riflessione, in conclusione, si
limita ad alcune considerazioni che
riguardano il cristiano come soggetto
nella comunità ecclesiale e, anche sia
pure per aspetti diversi, nella società
civile.
Appartenenza alla comunità ecclesiale. Non è superfluo riconoscere
che la questione dei divorziati risposati in particolare e, in generale, delle
situazioni matrimoniali difficili (convivenze, eterosessuali e omosessuali;
sposati solo civilmente, ecc) non è riducibile ai sacramenti sì, sacramenti
no. La questione rinvia, più in profondità, alla Chiesa, sperimentata o
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attualità
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no come comunione-comunità. Forse è venuto meno il senso di appartenenza alla comunità ecclesiale.11 La
si considera il luogo dove si danno e
si ricevono determinate prestazioni
e, quando non si danno e non si ricevono, la si lascia.
La questione sacramenti, venuta
al centro del dibattito ecclesiale negli
ultimi decenni, può costituire l’occasione per risvegliare il senso di appartenenza alla comunità ecclesiale
sia di chi potrebbe andare ai sacramenti e non ci va, sia di quelli ai quali è impedito di andare e ne sente la
mancanza. Si tratta di rendere vera
una comunità dell’inclusione: una
comunità dove non ci sono i giudicanti (i cosiddetti giusti) e i giudicati
(i soliti pubblicani e samaritani), ma
dove tutti si sperimentano giudicati
dall’amore-misericordia di Dio e si
accolgono reciprocamente nella verità e nella carità: mai l’una senza
l’altra.
Appartenenza alla società civile. Il
fenomeno delle unioni civili pone dei
problemi seri per la società civile per
il semplice fatto che non è indifferente che diminuiscano i matrimoni e si
accrescano le libere convivenze. Certamente è più facile e comodo, per
la società e per lo stato, legalizzare
e, per i comuni, aprire registri delle
unioni libere, piuttosto che impegnarsi nei servizi sociali e nelle politiche familiari per dare casa e lavoro a
quanti non possono sposarsi.
D’altra parte, la questione delle
convivenze si pone anche a livello
legislativo. In un contesto politico
democratico e laico, si può trovare
accordo su un tipo di legislazione
che salvaguardi l’unicità della famiglia fondata sul matrimonio e,
nello stesso tempo, riconosca i diritti individuali che derivano da una
convivenza protratta nel tempo, ad
esempio, il subentro nel contratto di
affitto, la reversibilità della pensione,
l’assistenza sanitaria, ecc. In altre
parole, i diritti individuali si possono
riconoscere, ma per questo non c’è
bisogno di equiparare, per legge, le
libere convivenze alla famiglia cosiddetta tradizionale, che è altra realtà. L’omologazione (confusione) di
realtà diverse non giova a nessuno,
nemmeno alle coppie di fatto. La fa-
miglia, fondata sul matrimonio tra
uomo e donna, è un bene comune
ed è bene che tale rimanga per tutti,
credenti e non credenti.
C’è, infine, da osservare che il
questionario non espone particolari
domande sulla questione giuridicopolitica. In primo piano c’è la preoccupazione di recare l’annuncio del
Vangelo a tutti, in qualsiasi situazione si trovino, nella consapevolezza
che il Vangelo apre a tutti una via di
speranza.
Luigi Lorenzetti
1 La rivista ne ha già dato un’interessante analisi descrittiva e interpretativa: cf. M.E.
Gandolfi, «In ascolto. Prime sintesi e riflessioni a partire dai questionari arrivati in redazione», in Regno-att. 2,2014,5-7.
2 Francesco, es. ap. Evangelii gaudium
sull’annuncio del Vangelo nel mondo attuale,
23.11.2013, n. 114; Regno-doc. 21,2013,663.
3 A. Melloni, Chiesa madre, Chiesa matrigna, Einaudi, Torino 2004, 139-140.
4 Francesco, Evangelii gaudium, n. 33;
Regno-doc. 21,2013,647.
5 A.L. Zanatta, Le nuove famiglie, Il
Mulino, Bologna 1997, 18.
6 Giovanni Paolo II, es. ap. Familiaris
consortio sui compiti della famiglia cristiana
nel mondo contemporaneo, 22.11.1981, n. 4;
EV 7/1533.
7 «Sappiano i pastori che, per amore
della verità, sono obbligati a ben discernere
le situazioni. C’è infatti differenza tra quanti
sinceramente si sono sforzati di salvare il primo matrimonio e sono stati abbandonati del
tutto ingiustamente, e quanti per loro grave
colpa hanno distrutto un matrimonio canonicamente valido. Ci sono infine coloro che
hanno contratto una seconda unione in vista
dell’educazione dei figli, e talvolta sono soggettivamente certi in coscienza che il precedente matrimonio, irreparabilmente distrutto, non era mai stato valido» (Giovanni Paolo II, Familiaris consortio, n. 84; EV 7/1797).
8 B. Häring, Pastorale dei divorziati,
nuova edizione con Prefazione di Luigi Lorenzetti, EDB, Bologna 32013 (prima edizione: 1990).
9 Cf. Vescovi dell’Oberrhein, Per l’accompagnamento pastorale di persone con matrimoni falliti, divorziati e divorziati risposati,
10.7.1993; Regno-doc. 19,1993,613; Congregazione per la dottrina della fede,
Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica circa
la recezione della comunione eucaristica da
parte di fedeli divorziati risposati, 14.9.1994,
in particolare nn. 7-8; EV 14/1460-1461.
Cf. L. Lorenzetti, «Lettera ai vescovi della
Chiesa cattolica», in Rivista di teologia morale
(1995)105, 89-93.
10 Francesco, Evangelii gaudium, n. 47;
Regno-doc. 21,2013,650.
11 «Tutti possono partecipare in qualche
modo alla vita ecclesiale, tutti possono fare
parte della comunità» (Francesco, Evangelii
gaudium, n. 47; Regno-doc. 21,2013,650).
Santa Sede
Sinodo sulla famiglia
Q
L’Europa risponde
ualcosa trapela circa gli esiti del processo di consultazione delle Chiese
locali in preparazione al prossimo Sinodo straordinario dedicato alle sfide pastorali sulla famiglia (ottobre 2014). Solo qualcosa, perché la richiesta da parte della Segreteria del Sinodo dei vescovi è di non pubblicare
i dati raccolti attraverso i questionari. In
un’intervista all’italiano QN, comparsa lo
scorso 11 febbraio, il segretario del Sinodo e
ormai prossimo cardinale Lorenzo Baldisseri
ha confermato: «La pubblicazione del materiale non era prevista. Si tratta di un’iniziativa
unilaterale delle singole conferenze episcopali. L’indicazione era di inviare il materiale riservatamente in Vaticano»,. E ha motivato la
linea della riservatezza con l’osservazione
che «si tratta di materiale non ancora esaminato, di documenti non ufficiali. Poi se c’è
qualcuno che fa quello che vuole non ci posso far nulla, ma non era nel programma». La
maggior parte delle conferenze episcopali
quindi si attiene alla consegna. Ciò naturalmente non toglie che tale materiale sarà tenuto in conto, «altrimenti che cosa l’abbiamo
fatto a fare? Questa inchiesta che consulta i
fedeli dal basso è la volontà di papa Francesco», conclude Baldisseri.
Ad aver messo on line le sintesi elaborate sono state fino ad ora Germania, Svizzera,
Lussemburgo, Belgio. I vescovi austriaci hanno pubblicato un riassunto dettagliato del
documento che hanno consegnato nel corso
della visita ad limina a fine gennaio. La Chiesa cattolica in Norvegia ha invece pubblicato
sul suo periodico ufficiale St. Olav un’intervista a chi ha curato il processo di raccolta e
studio delle risposte. In Inghilterra la decisione dei vescovi di non fornire alcuna informazione alla fine del processo di consultazione ha ricevuto aspre critiche: il settimanale
The Tablet ha definito «quasi una crisi della
fiducia» la mancata comunicazione su come
sono stati sintetizzati i punti di vista raccolti, «bizzarra» la scelta di «consultare i fedeli in
materia di dottrina e poi non dire loro a che
cosa è approdata la consultazione». Eppure
proprio i vescovi inglesi erano stati i primi a
rendere disponibile on line il testo del questionario, per rispondere alla richiesta di «diffondere il Documento capillarmente».
In ogni caso il processo ha coinvolto e
prodotto un numero considerevole di risposte. Oltre 16.000 in Gran Bretagna, 23.600 in
Svizzera, 34.000 in Austria, 3.000 in Belgio, 52
in Lussemburgo, 758 in Norvegia: un «dato
storico» per la piccola comunità cattolica
del paese, come ha affermato Maria Sammut, responsabile dell’Ufficio pastorale della
diocesi di Oslo che ha coordinato l’indagine.
Da queste poche cifre emerge innanzitutto
la voglia di essere Chiesa di comunione. A rispondere sono stati singoli, associazioni, diocesi, gruppi parrocchiali, in uno sforzo notevole considerata la brevità del tempo a disposizione e la difficoltà delle questioni poste (o del linguaggio in cui le questioni sono
state poste, come rilevato in tanti questionari).
Non più «irregolari»
Tuttavia i cattolici laici hanno espresso
la loro gratitudine per essere stati consultati
sulla famiglia, tema così propriamente laico e
bisognoso di nuove prospettive. Sì, perché la
distanza tra quello che è l’insegnamento magisteriale e quella che è la vita delle persone è il dato comunque che emerge dalle risposte per ora note. Ciononostante resta la
consapevolezza che il matrimonio è importante, un accompagnamento pastorale delle
coppie è necessario e l’educazione cristiana
dei figli un’esigenza. Però, scrivono ad esempio i lussemburghesi, dove il 72% dei giovani vive la convivenza ad experimentum, «la
sfida pastorale è di considerare seriamente
questo tempo prima del matrimonio e riconoscere che il matrimonio si realizza per tappe che la Chiesa appoggia e accompagna, nel
tempo di una promessa che si consolida fino
alla conferma sacramentale».
Altra sfida pastorale è certamente quella
dei separati: i cattolici soffrono e contestano
il fatto che i separati non siano ammessi ai sacramenti e quindi di fatto vivano marginalizzati rispetto alla vita della comunità cristiana.
Condizione che ha come esito ulteriore sofferenza e un alto numero di allontanamenti
dalla Chiesa. Ed è perciò accorata la richiesta
di un atteggiamento pastorale di accoglienza
e di misericordia nei confronti del fallimento,
di rispetto di fronte al problema di coscien-
za del singolo e in generale della «riammissione ai sacramenti, in particolare all’eucaristia»,
come scrivono i tedeschi. Si chiede anche di
non usare più termini come «regolari» o «irregolari» in riferimento alle coppie. Sintetizzano i vescovi del Belgio: «Possiamo affermare
che la riforma più richiesta dai rispondenti è
quella dell’insegnamento della Chiesa riguardo la comunione per i divorziati risposati».
Gli svizzeri, a grande maggioranza (circa 90%),
«attendono dalla Chiesa anche il riconoscimento e la benedizione delle coppie» in seconde nozze. Si delinea la richiesta «di un ulteriore sviluppo della dottrina della Chiesa»,
scrivono gli austriaci, pena il rischio che «la
realtà del fallimento del matrimonio e della
famiglia non siano prese abbastanza sul serio
dalla Chiesa».
Maggiore diversificazione nelle risposte
che affrontano il tema delle coppie omosessuali. La Germania registra «una chiara tendenza a vedere il riconoscimento giuridico
delle unioni omosessuali e la loro parità di
trattamento rispetto al matrimonio come un
comandamento di giustizia»; pur respingendo l’ipotesi di «matrimonio in quanto tale», si
menziona la possibilità di «un rito di benedizione» anche a coppie omosessuali. Questo
vale anche per la Svizzera e il Belgio, paesi
che registrano però anche voci che chiedono «alla Chiesa di non rinunciare ad opporsi»
alla società su questo tema. Anche qui, tratto comune è l’insistenza sull’atteggiamento
con cui la Chiesa dovrebbe muoversi in questi contesti: tornano parole come compassione, apertura, comprensione, assenza di
pregiudizi, stima, desiderio di esplorare e capire prima di prendere una decisione.
L’accordo è di nuovo pressoché unanime
sulla necessità di rivedere la dottrina della
Chiesa sulla contraccezione. L’Humanae vitae pare sconosciuta, certamente disattesa
sul tema dei metodi anticoncezionali. Si critica per un verso la banalizzazione della sessualità operata nel contesto attuale (Lussemburgo, Belgio), c’è una quasi totale opposizione all’aborto, ma si considera opportuno
distinguere tra vita sessuale, costruzione di
una relazione di coppia e procreazione.
Per i paesi dove i cattolici sono minoranza, un problema fortemente sentito, racconta la Norvegia, è quello dei matrimoni
misti con tutte le conseguenze e difficoltà
che derivano dal sentire inadeguata alla concretezza dei vissuti la dottrina cattolica del
matrimonio. L’elemento che emerge in generale è infine la necessità di approfondire la dimensione della «famiglia come Chiesa domestica» e di intensificare l’accompagnamento pastorale e spirituale alle coppie
e alle famiglie.
S. N.
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attualità
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I ta l i a
i
I
l prossimo aprile, la Conferenza episcopale italiana compie 50
anni. E da quando esiste l’organismo collettivo della Conferenza, il rapporto tra i papi e i vescovi italiani è un rapporto a un tempo privilegiato e complesso, soprattutto a motivo del fatto che il papa è il vescovo di Roma e il primate d’Italia e
del particolare legame storico tra il papato e l’Italia. La complessità della relazione si è riproposta anche con papa
Francesco.
Dal 14 al 16 aprile 1964 si svolse il
primo incontro di tutti i vescovi d’Italia, convocati da Paolo VI in preparazione della terza sessione del Concilio.
È la data che segna convenzionalmente l’inizio della Conferenza episcopale
italiana plenaria. Dal 1952 si erano radunati in consiglio solo i presidenti delle allora 19 Conferenze conciliari regionali. L’istituzione di una conferenza episcopale in forma piena segnò un
salto di qualità nelle relazioni pastorali e politiche tra il papa, i vescovi e l’Italia. La curia romana non era più il
punto di mediazione esclusivo.
L’istituzione della CEI conferiva ai
vescovi italiani una fisionomia e una
responsabilità nuove. Lo evidenziò lo
stesso Paolo VI parlando loro nella I
Assemblea generale, il 26 giugno 1966:
«I vescovi italiani, tutti, si trovano finalmente riuniti in una sola, omogenea e concorde espressione ecclesiastica». A una fisionomia unitaria doveva corrispondere una pastorale unitaria, che aveva come orizzonte la realizzazione del rinnovamento conciliare. All’unità dei vescovi doveva corri-
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attualità
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Conferenza episcopale
l progetto pastorale
P a p a Fr a n c e s c o e l a C E I
spondere l’unità del cattolicesimo italiano, rilanciandone il ruolo e la forza
a ogni livello della vita civile, compreso
il rapporto più personale e meno istituzionale con il partito di riferimento,
la Democrazia cristiana (DC). La CEI
si affiancava in posizione di leadership
all’organizzazione principe del laicato italiano, l’Azione cattolica (ACI), fino a quel momento l’unico strumento unitario.
Paolo VI ottenne un riallineamento dell’episcopato italiano sulle sue posizioni grazie anche a un ricambio dei
suoi membri, effettuato attraverso una
precisa strategia di nomine che escludeva le punte estreme, consentendo
tuttavia un certo pluralismo di rappresentatività. Sui vertici della CEI egli
agì sempre direttamente, dapprima
con la nomina del presidente, nella figura del card. Giovanni Urbani, poi,
dopo la sua morte (1969), puntando sul
segretario generale, Enrico Bartoletti (cf. Regno-att. 2,2014,27). Per la successione a Urbani furono fatte le prime
consultazioni: Paolo VI convocò solo i
cardinali titolari di sedi residenziali e il
vice-presidente della CEI. Bartoletti fu
una sua nomina diretta.
Non possiamo rifare qui un bilancio storico di questa istituzione. Occorre richiamare come, dei due aspetti fondamentali dell’azione della CEI,
quello pastorale segna certamente la
parte più positiva e propositiva: catechesi, liturgia, vita delle comunità locali sono i punti di maggiore acquisizione del rinnovamento conciliare attorno al centro ermeneutico dell’evangelizzazione.
La parabola
degli anni Settanta
È soprattutto nella prima metà degli anni Settanta, a fronte di una crisi
sociale e religiosa e di una radicalizzazione dello scontro ideologico dentro
e fuori la Chiesa, che la CEI manifestò una notevole capacità di iniziativa,
elaborando un tentativo di fuoriuscita
dalla contrapposizione interna-esterna
e considerando il processo di rinnovamento ecclesiale come indirettamente
capace di promozione dell’intera comunità civile. Il documento-programma pastorale Evangelizzazione e sacra-
menti (1973) e il I Convegno ecclesiale «Evangelizzazione e promozione
umana» (1976) rispondevano a una
visione piuttosto organica del rinnovamento conciliare e del rapporto tra
azione pastorale e realtà politica.
Fu il punto di massima consonanza tra la CEI e il pontificato di Paolo
VI. Anche se il papa aspirava a una riforma della Chiesa immunizzata dalle tensioni politiche e sociali; mentre il
segretario della CEI, mons. Bartoletti,
il principale artefice del progetto pastorale, era più propenso ad accettare
le interferenze esterne e la loro riproducibilità interna, attraverso una prudente integrazione nel progetto pastorale della Chiesa italiana. Soprattutto
dopo le divisioni manifeste dei cattolici sul referendum successivo all’introduzione del divorzio nella legislazione
italiana (1974). Ma questo fu anche il
punto finale del pontificato e la scomparsa di mons. Bartoletti nel 1976, prima della celebrazione del I Convegno
ecclesiale, interruppe il cammino. Determinante è il dato politico. Con l’assassinio di Aldo Moro si avviò la crisi
profonda e irreversibile del sistema politico italiano. E il tema dell’unità dei
cattolici nella vita pubblica si coniugò
sempre più con quello della tenuta del
partito di riferimento: la DC.
Già dopo il referendum del 1974,
crebbero da parte dei vescovi i giudizi
negativi sulla situazione italiana e i toni allarmati per il futuro del cattolicesimo italiano. Penetrò fra loro, accanto al timore dell’espansione del Partito comunista, quello di una condizione minoritaria del cristianesimo per effetto della secolarizzazione e di una radicalizzazione culturale della borghesia italiana, e si fece largo tra una parte
di essi, sostenuti anche dai nuovi movimenti, la convinzione che la riaffermazione dell’identità cattolica non potesse essere solo quella della fede e della
comunione ecclesiale, ma dovesse essere anche culturale e sociale e, fin dove possibile, politica. Con un giudizio
sempre più strumentale nei confronti
della DC e il tentativo di influire sullo
strumento attraverso la strategia della
«ricomposizione» dei cattolici italiani.
Il cambio di pontificato, con l’elezione del primo papa non italiano
e polacco, ripropose la questione del
rapporto tra il papato e la CEI. La
presidenza del card. Ballestrero (19791985), scelto da Giovanni Paolo II attraverso una consultazione con i presidenti delle conferenze episcopali regionali, non si discostò troppo dalla linea pastorale assunta dalla CEI durante il pontificato montiniano. Tuttavia, se per Bartoletti la tematica teologica di riferimento era stata il rapporto
tra fede e storia e l’intervento specifico
nella vita civile riguardava soprattutto
l’area del pre-politico (da cui il grande
sviluppo del volontariato), ora l’orientamento teologico affrontava il rapporto Chiesa e società in relazione al piano pastorale avviato col documento
Comunione e comunità (1981).
L’iniziativa
di Giovanni Paolo II
La questione morale che agita il
paese spinge per un passaggio dalla dimensione pre-politica a quella etica; lo
scontro interno tra movimenti (CL) e
associazioni (ACI) a individuare nella
cifra teologica della riconciliazione l’istanza di superamento di ogni divisione ecclesiale e il luogo testimoniale per
l’intera società.
Se nei primi mesi del suo pontificato Giovanni Paolo II si mosse con
discrezione e non si mostrò contrario
all’autonomia pastorale della CEI, già
nel maggio del 1980, un anno prima
della sconfitta «cattolica» nel referendum sull’aborto (1981), prese personalmente l’iniziativa. Rivolto ai vescovi radunati in Assemblea generale, dichiarava che «i vescovi sono una rappresentanza legittima e qualificata del
popolo italiano, sono una forza sociale che ha una responsabilità nella vita
dell’intera nazione e pertanto (…) devono rendersi presenti, a tutti i livelli,
nel contesto della vita nazionale, essere
effettivamente gli animatori attivi e coscienti delle forze che rappresentano,
formare il centro di coesione, il vessillo di identità, il punto di riferimento».
Una visione diversa, sociale e culturale del cristianesimo, tale da esigere la
riproposizione di un’identità forte e di
una presenza significativa.
L’esito negativo del referendum
manifestò il distacco della società italiana dalla tradizione morale cattolica,
mentre la firma dell’Accordo di revisione del Concordato fra la Santa Sede e
lo Stato italiano (1984) sanciva la diminuzione del ruolo pubblico della Chiesa rispetto al Concordato del 1929, pur
ribadendo il nesso di cooperazione tra
le due istituzioni e stabiliva un legame
fra i vertici della Chiesa italiana e la dirigenza politica dello stato. Al calo di
influsso della Chiesa sulla società corrispondeva l’aumento di peso dei suoi
vertici in seno al ceto politico, progressivamente enfatizzato anche dalla crisi
del sistema dei partiti.
Ma fu a Loreto, al II Convegno ecclesiale nazionale (1985), che Giovanni
Paolo II intervenne ponendo apertamente la questione dell’indirizzo pastorale della Chiesa italiana, con il mandato esplicito di ricristianizzare la società italiana. Il che per il papa significava opporsi alla secolarizzazione; «iscrivere la verità sull’uomo nella realtà della nazione italiana»; recuperare alla fede «un ruolo guida e un’efficacia trainante nel cammino verso il
futuro»; e, conseguentemente, «far sì
che le strutture sociali siano o tornino
a essere sempre più rispettose di quei
valori etici in cui si rispecchia la piena verità sull’uomo». L’altra linea teologico-pastorale, di cui rimane vivida traccia nella relazione introduttiva
al convegno (affidata a Bruno Forte),
era rappresentata dalla forte insistenza
su una Chiesa tutta ministeriale: «Sia
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pure nella varietà dei carismi e dei ministeri, tutta la Chiesa locale è invitata
ad annunciare tutto il Vangelo a tutto
l’uomo, a ogni uomo».
Fu a seguito di quel confronto che
il papa provvide a cambiare il vertice della CEI. A luglio del 1985 sostituì l’arcivescovo di Torino, Ballestrero,
con il provicario per Roma Ugo Poletti. E nel giugno del 1986 nominò il nuvo segretario. Camillo Ruini, così come Bartoletti lo era stato per Paolo VI,
divenne il punto di riferimento di Giovanni Paolo II presso la Conferenza
episcopale italiana e l’Italia. Nel 1991
lo portò alla presidenza della CEI da
vicario per Roma e lo tenne nell’incarico per tre mandati consecutivi, oltre
la fine stessa del pontificato.
Il mandato del card. Ruini
Tra il 1983 e il 1984, in vista del
nuovo statuto della CEI, la maggioranza dei vescovi italiani aveva auspicato
l’elezione diretta dei vertici della Conferenza, come per tutte le altre conferenze episcopali. L’elezione diretta del
presidente ottenne, nella consultazione generale che fu effettuata, la maggioranza assoluta, ma per sei voti non
quella qualificata richiesta dallo Statuto. Obiettivo che fu invece raggiunto per l’elezione del segretario. Portata al papa, la richiesta non fu accolta.
Il nuovo Statuto, approvato nel 1985,
riconfermò al papa la prerogativa delle nomine. Giovanni Paolo II intendeva seguire da vicino le vicende dei vescovi italiani. Per il papa polacco, l’Italia e la Chiesa italiana erano un punto
di tenuta dell’insieme del suo disegno
ecclesiale.
Il mandato a Ruini è pieno, sottolineato, dal 1991, col doppio incarico di vicario per Roma e di presidente. Ruini unisce a un’intelligenza «laica» la forte e determinata convinzione
che i vescovi debbano puntare a una
rinnovata presenza sociale della Chiesa attraverso la declinazione culturale del tema della fede, operando una
forte centralizzazione della vita interna. Di qui l’attenzione alle organizzazioni tradizionali del laicato cattolico
(ACI, ACLI, AGESCI), il rapporto diretto con la stessa DC, la mobilitazione pubblica del laicato attraverso il ripristino delle Settimane sociali (sospese
dal 1970) e la creazione e la direzione
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di organismi di settore: i vari Forum.
Ruini non ama i nuovi movimenti, ma
la riorganizzazione della CEI prevede
anche la loro normalizzazione e il loro
utilizzo.
A seguito della revisione concordataria, la struttura centrale della Conferenza episcopale si allarga significativamente. L’autonomia finanziaria dalla Santa Sede, grazie al sistema di finanziamento pubblico tramite l’otto
per mille, consente investimenti importanti, dalla comunicazione (Avvenire,
Sat 2000, il digitale), alle nuove Chiese, all’azione caritativa. Quest’ultima
viene lasciata alla Caritas italiana, ma
ricondotta attraverso la specifica Commissione episcopale, direttamente sotto
la guida dei vertici della CEI.
Sarà il crollo della DC a spuntare
le ali a un progetto che aveva nel partito dei cattolici il punto di riferimento privilegiato per la tenuta del sistema politico italiano. Il «progetto culturale» avviato dal 1994 e vidimato dal
papa a Palermo, al III Convegno ecclesiale (1995), sortirà il completamento del processo di centralizzazione della Chiesa italiana e una forte presenza pubblica della CEI come tale, ma
vedrà inesorabilmente ridotta la presenza pubblica dei cattolici, ricondotti a una componente meno significativa senza lo strumento del partito, che
ne esaltava comunque la funzione.
Il progetto culturale ha avuto il significato di un atto di realismo corrispondente a una strategia di arretramento, senza la DC più che dopo la
DC, su una linea di confronto tra la gerarchia ecclesiastica e la società italiana, ma la sua stessa definizione progettuale e la sua gestione verticistica manifestavano anche la consapevolezza dell’insufficienza culturale del cattolicesimo italiano, dovuta soprattutto
all’evoluzione dei processi sociali. Ma
pur con questi limiti, la Chiesa non è
stata estromessa dal dibattito pubblico
in un passaggio di sistema delicatissimo e ha contribuito certamente in positivo a salvaguardare l’unità e ad approfondire l’identità nazionale.
Da papa Ratzinger
a papa Bergoglio
Il nuovo passaggio di pontificato,
con l’elezione del card. Ratzinger (Benedetto XVI), non modificò i rappor-
ti tra il papato e la CEI sul piano delle linee pastorali. Benedetto XVI accentuò il dialogo tra fede e ragione.
Al IV Convegno ecclesiale nazionale
di Verona (2006), sia nel lungo testo
programmatico del papa sia nella relazione conclusiva del card. Ruini, si
esplicitò il tentativo organico, in piena
coerenza col pontificato wojtyliano,
di stabilire una maggiore convergenza tra Chiesa e mondo moderno, salvaguardando il più possibile alla Chiesa il primato del giudizio circa la criteriologia e il fondamento della questione antropologica. La forma e la modalità con cui la verità cristiana veniva
tuttavia proposta era quella della testimonianza.
La sostituzione di Ruini alla guida
della CEI dopo vent’anni è avvenuta
attraverso la più ampia delle consultazioni. Il nunzio in Italia mons. Paolo
Romeo, su indicazione del papa, scrisse a tutti i vescovi residenziali perché
offrissero, oltre al nome per la successione, un giudizio complessivo sul futuro della vita della CEI e sulle sue scelte
pastorali. Il tentativo fu ostacolato dalla pubblicazione non autorizzata della
lettera e in parte fu ridimensionato.
Si giunse così alla nomina del card.
Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova, come punto di mediazione tra
la precedente presidenza e i desiderata
della nuova Segreteria di stato guidata dal card. Bertone. A essa aveva fatto seguito una lettera dello stesso Bertone, che ridelineava il ruolo del presidente della CEI, limitandolo all’azione pastorale e riconducendo alla Segreteria di stato il compito della rappresentanza nelle relazioni non solo istituzionali con lo stato italiano e i
suoi vertici.
La consonanza della presidenza Bagnasco col pontificato di Ratzinger è
stata molto alta. Così come è certamente intervenuta una progressiva ridefinizione della posizione pubblica della
CEI, certamente meno interventista rispetto alla stagione precedente, seppur
in continuità con essa. Si è data continuità ai temi educativi e al valore culturale della fede. Nel rapporto con la
società italiana si è tenuta ferma l’indicazione di Benedetto XVI di affrontare il confronto per una laicità più aperta, riaffermando i valori «non negoziabili». La ripresa del tema teologico del
Dio-Carità ha consentito nuove aperture sul versante sociale e delle marginalità.
L’accelerazione impressa alla storia dalle dimissioni di Benedetto XVI
e l’inattesa elezione di Francesco hanno come scompaginato le posizioni,
gli equilibri, le correnti di pensiero e
quelle politiche. In molti ai vertici della Chiesa si sono trovati scavalcati dagli avvenimenti. Anche in CEI.
Il nuovo papa ha una visione totale della pastorale. Per papa Bergoglio, «pastorale» non si oppone a «dottrinale», né si pone in maniera subalterna. Non si tratta di semplice applicazione pratica: tutta la teologia è pastorale. Egli non procede per accumulo dottrinale, non è preoccupato di dare ragione sempre in ogni singolo punto dell’annuncio del contenuto dogmatico della fede. Francesco ha una concezione processuale e relazionale, incentrata sul kerygma e sulla libertà di
chi riceve l’annuncio. Questo è molto chiaro nell’esortazione apostolica
Evangelii gaudium, del cui carattere
programmatico non si può dubitare.
Rinnovare lo stile,
il metodo, le strutture
La sua è una svolta di linguaggio.
Al Consiglio episcopale latinoamericano (CELAM), il 28 luglio scorso ha
detto che dobbiamo sperimentare tutti gli idiomi: «Se noi rimaniamo solamente nei parametri della “cultura di
sempre”, il risultato finirà con l’annullare la forza dello Spirito Santo. Dio
sta in tutte le parti: bisogna saperlo
scoprire per poterlo annunciare nell’idioma di ogni cultura; e ogni realtà,
ogni lingua ha un ritmo diverso».
Anche le riforme della Chiesa, così necessarie, sono per Francesco seconde. «La prima riforma deve essere quella dell’atteggiamento. I ministri
del Vangelo devono essere persone capaci di riscaldare il cuore delle persone, di camminare nella notte con loro,
di saper dialogare e anche di scendere nella loro notte, nel buio senza perdersi» (così nell’intervista alle riviste
dei gesuiti). Se Dio ha corso il rischio
dell’umano e della libertà dell’umano,
chi sono io per intromettermi?
Parole che chiedono ai vescovi, gli
italiani compresi, un ampio rinnovamento di stile pastorale, di metodo ecclesiale, di strutture organizzative. A
partire dal settembre scorso, la CEI
si è chiesta come rispondere alle richieste del nuovo papa, a cominciare dalla maggiore partecipazione alla vita della Conferenza stessa stimolando la collegialità e favorendo la co-
munione tra i vescovi. Espressamente
richiesto dal papa, è tornato così anche il tema della modifica dello Statuto per consentire all’assemblea dei vescovi di eleggere sia il presidente della CEI, sia il segretario generale. Nel
frattempo il papa ha già, in via transitoria, provveduto alla sostituzione del
segretario, mons. Crociata (che era
a fine mandato), con mons. Galantino. Il Comunicato finale del Consiglio
permanente di gennaio 2014 (cf. Regno-doc. 1,2014,94) ci ha fornito la risposta dei vescovi italiani.
La consultazione avviata presso le
conferenze episcopali regionali (dunque non presso i vescovi presi singolarmente) ha dato un risultato diverso
rispetto alle indicazioni di trent’anni
fa. La maggioranza dei vescovi italiani vuole ampliare la propria partecipazione alle decisioni della CEI, desidera
un presidente che somigli di più a un
coordinatore che a un leader (da questo punto di vista, l’esperimento Ruini rimane un caso irripetibile), ma desidera non spezzare il particolare legame tra il vescovo di Roma e la Conferenza episcopale.
Per questo chiede che continui a essere il papa a nominare sia il presidente, sia il segretario. Le modalità tuttavia vengono corrette. Il testo del Comunicato suggerisce due possibili percorsi, che a ben vedere possono anche
essere compresi come l’uno di seguito
all’altro: una consultazione riservata di
tutti i singoli vescovi e, in un passaggio successivo, una votazione riservata
dell’Assemblea generale su una quindicina di nomi, corrispondenti ai candidati maggiormente votati nella prima consultazione. Quanto al segretario, la maggioranza dei consultati chiede che sia un vescovo, nominato dal
papa su una rosa di nomi proposta dalla Presidenza dopo aver sentito il Consiglio episcopale permanente.
Si tratta di un buon equilibrio, che
riduce le prerogative papali, escludendo di fatto l’imposizione di un nome non condiviso, ma le conserva nella
sostanza del particolare legame tra il
vescovo di Roma e i vescovi italiani.
Francesco non imporrà la sua visione pastorale ai vescovi italiani. Chiede
che sia condivisa.
Gianfranco Brunelli
Il Regno -
attualità
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Francia
Famiglia
Divergenze di metodo
L
Un anno di
Manif pour tous
a Manif pour tous, il movimento popolare sorto in Francia nel novembre del
2012 in opposizione alla legge sul matrimonio omossessuale, ha di nuovo riempito le
strade. Questa volta contro la riforma del diritto di famiglia annunciata dal Governo socialista. Domenica 2 febbraio, un anno dopo
le prime manifestazioni (cf. Regno-att.
2,2013,23), due cortei hanno sfilato a Parigi
(stimate oltre 100.000 persone) e Lione (circa
20.000).
Nonostante l’approvazione della legge
(lo scorso 23 aprile), il matrimonio omosessuale continua a destare preoccupazioni. I timori riguardavano in questo caso soprattutto quanto poteva essere collegato alla legge «famiglia», un progetto che doveva passare in Consiglio dei ministri ad aprile per essere dibattuto in Parlamento nella seconda
metà dell’anno. Due in particolare le questioni temute: quella delle «madri surrogate» (gestation pour autrui; GPA) e l’estensione del
diritto alla procreazione assistita (PMA) alle coppie di donne omosessuali. Misure che
non rientravano nel progetto, ma verso le
quali spingevano sia il ministro per la famiglia,
Dominique Bertinotti, sia una parte di deputati socialisti.
Per smorzare le polemiche il ministro
dell’Interno, Manuel Valls, ha comunicato
l’intenzione del governo di respingere ogni
eventuale emendamento sui due temi controversi. Ma non è stato sufficiente. Il giorno dopo la manifestazione, lunedì 3 febbraio, l’annuncio dalla sede del primo ministro:
il progetto di legge non sarà presentato, almeno nel 2014. Marcia indietro che è suonata come una «vittoria» per gli esponenti della Manif pour tous e per tutti gli oppositori
della politica familiare di Hollande.
Non posso «passare oltre»
Definita «composita» (hétéroclite) nelle
sue rivendicazioni, la manifestazione è stata screditata da una parte dei media, che
l’hanno strumentalmente accostata a quella del 26 gennaio, organizzata dal collettivo
di estrema destra «Jour de colère». Quest’ul-
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Il Regno -
attualità
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tima aveva suscitato inquietudini per i suoi
toni violenti e antisemiti, e lo stesso Valls
l’ha stigmatizzata come convergenza di forze «anti-repubblicane», definendola una sorta di «Tea Party alla francese», coagulatosi intorno all’opposizione alla legge Taubira
(www.lejdd.fr 2.2.2014).
Molto diverso, e senza incidenti, l’evento del 2 febbraio, sostenuto da diversi parlamentari, soprattutto dell’opposizione (anche
se il tema ha creato anche qui delle divisioni),
e da alcuni responsabili religiosi. Il corteo di
Lione si è segnalato per la presenza contemporanea del rettore della Grande moschea
cittadina, Kamel Kabtane, del rettore della
moschea di Villeurbane, Azzedine Gaci, e del
vescovo diocesano, il card. Philippe Barbarin.
In un intervento sul quotidiano La Croix,
Barbarin aveva anticipato le ragioni della sua
presenza, aprendo un dibattito sull’opportunità per un vescovo di prendere parte alla manifestazione. La svolta di civiltà annunciata dal Governo, ha detto il presule, si gioca oggi «soprattutto nel quadro della legge “famiglia”». E se inizialmente non si parlerà né di PMA né di GPA, quanto sarà stato
«buttato fuori dalla porta, rientrerà dalla finestra degli emendamenti». Aperto l’accesso a queste tecniche l’intera questione della «filiazione» sarà «sconvolta». Per la prima
volta, prosegue Barbarin, «avremo una generazione di bambini intenzionalmente privati
di uno dei genitori (...). In fondo, ciò che tali misure consacrano è il diritto dell’adulto su
quello del bambino, il diritto del più forte su
quello del più debole». E conclude: «Ciascuno di noi può oggi riconoscersi frutto dell’unione di un uomo e di una donna... ma che
cosa sarà domani? Come risponderemo ai
bambini che ci domanderanno perché lo abbiamo permesso? Per i bambini senza nascita, senza genitori, senza voce; per le persone senza età, senza futuro; per i senza-permesso, i senza tetto e per tutti i “senza” che
ci sono prossimi, la parabola del buon samaritano mi interpella: io, Philippe, prete, non
posso “passare oltre”» (La Croix 23.1.2014).
Al card. Barbarin ha risposto – sempre su
La Croix – il confratello Hippoliyte Simon,
vescovo di Clermont. «Comprendo e rispetto la scelta dei miei fratelli che andranno a
manifestare il 2 febbraio. Ma ho la libertà di
pensare e dire perché io non andrò con loro». E ha proseguito: «Comprendo i cittadini che hanno, a più riprese, manifestato contro la legge sul matrimonio (...). Capisco anche il desiderio di proseguire il loro movimento. Tuttavia, dobbiamo noi parteciparvi
come vescovi correndo il rischio di dargli un
carattere confessionale?» (La Croix 30.1.2014).
A un anno dall’inizio, diversi vescovi riconoscono che le loro prese di posizione –
e in alcuni casi la loro partecipazione diretta
– hanno suscitato e suscitano un certo «malessere nelle comunità». Quasi tutti hanno ricevuto messaggi di persone, spesso omosessuali, che esprimono «sofferenza» o «sentimento di esclusione»; oppure che, al contrario, li rimproverano per non essersi esposti con più coraggio. «Tutti si sono accordati su una linea comune richiamata in Assemblea generale a Lourdes. Una linea che incontra il sentimento maggiormente diffuso
nelle diocesi, anche se – riconoscono alcuni – “consenso non significa unanimità”» (La
Croix 2.2.2014).
Le critiche e le divergenze (anche tra l’episcopato) riguardano dunque la forma. «La
famiglia è un tema estremamente sensibile», ricorda l’ausiliare di Parigi mons. MoulinsBeaufort. «Le parole non sono mai sufficienti e gli slogan non sono mai perfetti. Tuttavia, questo non deve impedirci di dire la bellezza delle nostre convinzioni». Ma è proprio
necessario «reagire con tanta passione e vigore?», si chiede mons. Brunin, vescovo di
Le Havre, a cui dei fedeli «stanchi delle manifestazioni» hanno espresso il loro desiderio
«che la Chiesa si mobiliti con altrettanta forza
sulle questioni della povertà e dell’ecologia».
«Sono contrario alla legge Taubira – dice mons. Dagens, vescovo di Angoulême –
ma l’eccesso di manifestazioni che si svolgono senza mai arrivare al fondo delle questioni ha finito per sopravvalutare lo straordinario a discapito dell’impegno ordinario del
cristiano. (...) Molti impegnati nella pastorale familiare non hanno vissuto che attraverso il prisma di tale dibattito per un anno intero, facendo sì che certuni si siano di conseguenza sentiti esclusi dalla Chiesa» (La Croix
2.2.2014). La posizione ecclesiale, nonostante l’immagine mediatica, non è dunque monolitica. Il grande assente, nota mons. Fonloup, è stato forse quel dibattito che i vescovi stessi avevano auspicato (Regno-doc.
19,2012,621ss).
M. B.
Chiesa cattolica
Germania
r
iposizionarsi
Q
uale delle Chiese locali avrebbe avuto più ragione di essere dispiaciuta per la fine del
pontificato di Benedetto XVI? Dopo molti secoli nel 2005, con il card. Joseph
Ratzinger, uno dei suoi membri era
nuovamente diventato papa, assicurando così una maggiore attenzione
nei confronti della Chiesa cattolica in
Germania.
Questa situazione tuttavia ha portato con sé anche il fatto che, dopo
un’iniziale fase di euforia generale, anche tra i non praticanti, si sono evidenziate maggiormente le tensioni in seno
al cattolicesimo tedesco. Perciò la spettacolare rinuncia di Benedetto XVI,
nel 2013, è stata percepita in definitiva
anche come una sorta di liberazione,
inducendo poi necessariamente anche
in Germania delle aspettative molto,
se non troppo, elevate sul nuovo papa
Francesco, anche se il nuovo papa con
le sue pubblicazioni compare più raramente nelle liste dei best-seller.
Fra le ragioni a monte c’è il fatto
che già il pontificato di Giovanni Paolo II, con il card. Joseph Ratzinger
come prefetto della Congregazione
per la dottrina della fede, aveva indotto a discutere e appoggiare anche a livello delle comunità cristiane i temi dei
gruppi cattolici riformisti (ad esempio
la morale sessuale cattolica, la questione dei divorziati risposati, il celibato
obbligatorio dei preti, la partecipazione dei laici, il ruolo della donna nella
Chiesa). Successivamente questa tendenza si era inasprita ulteriormente.
Dopo gli scandali recenti e la perdita di credibilità,
s i c e r c a d ’ i m p a r a r e l o s t i l e d i p a p a Fr a n c e s c o
Non da ultimo il venire a galla di molti
casi di violenza sessuale perpetrata da
sacerdoti e religiosi e il silenzio imposto dai vescovi e altri responsabili nei
decenni passati hanno indotto a parlare più apertamente di quelle questioni
rispetto al passato.
C’è bisogno di un’analisi
spietata
Di fronte alla veemenza della discussione, nell’autunno di quell’annus horribilis che è stato il 2010 per
la Chiesa tedesca, il presidente della Conferenza episcopale tedesca Robert Zollitsch, arcivescovo di Freiburg,
ha suggerito espressamente un processo di dialogo. In seno alla Chiesa cattolica in Germania esso è stato avviato
– anche se in modo esitante – a livelli
molto diversi. Da una parte la Conferenza episcopale ha organizzato dei forum annuali con circa 300 partecipanti provenienti da tutte le diocesi e dalle associazioni. Sono stati poi creati dei
gruppi di dialogo tematici con il Comitato centrale dei cattolici tedeschi,
l’organismo eletto dai laici. Dall’altra
parte si è avviato qualcosa del genere in una serie di diocesi, ma non in
tutte. Nella diocesi di Trier il vescovo Stephan Ackermann ha addirittura
convocato un Sinodo diocesano, che
ha cominciato i suoi lavori nel dicembre 2013. L’ultimo Sinodo diocesano
in una diocesi tedesca era stato celebrato ad Augsburg nel 1990.
Gli sviluppi a livello socio-religioso dimostrano la necessità di un’analisi
spietata dello stato della Chiesa cattolica anche al di là delle classiche questio-
ni controverse. La partecipazione alla
celebrazione eucaristica domenicale
continua a diminuire. Nel 2000 vi partecipava ancora mediamente il 16,5%
dei cattolici, sceso nel 2012 all’11,8%.
Nel 2012 c’erano ancora 24,3 milioni di cattolici in Germania (a fronte
di 23,5 milioni di protestanti e 1,3 milioni di ortodossi). Ma nello scorso decennio, ogni anno sono usciti sia dalla
Chiesa cattolica sia dalla Chiesa evangelica fra 100.000 e 150.000 fedeli, soprattutto a causa di un previo processo di estraniazione dalla Chiesa e dalla
fede cristiana.
Poiché in Germania l’appartenenza alla Chiesa richiede automaticamente il versamento supplementare di un’imposta che ammonta all’89% dell’imposizione fiscale generale,
e che viceversa può essere risparmiata se si esce dalla Chiesa, in definitiva questo passo viene compiuto anche
per ragioni economiche. Negli ultimi
anni anche gli scandali hanno aumentato le uscite dalla Chiesa: ad esempio
la remissione della scomunica ai quattro vescovi della Fraternità sacerdotale San Pio X da parte di Benedetto
XVI (2009), lo scandalo delle violenze sessuali su minori (2010) o la mancata accoglienza in un ospedale cattolico a Colonia di una donna violentata
(2013; Regno-att. 4,2013,81).
Lo scandalo più recente è stato ciò
che è accaduto l’anno scorso a Limburg, una piccola città con sede episcopale a Nord-ovest della sede metropolitana di Francoforte (cf. Regno-att.
20,2013,629). In seguito all’inaugurazione della nuova residenza episco-
Il Regno -
attualità
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83
pale, il vescovo Franz-Peter Tebartzvan Elst ha dovuto ammettere che i
costi della ristrutturazione del complesso storico e delle ali aggiunte, di
cui fa parte anche una nuova cappella (privata), sono sfuggiti al controllo.
Lo scalpore praticamente senza precedenti suscitato dalla vicenda è dipeso
certamente anche dalla vistosa discrepanza rispetto alle richieste del nuovo
pontificato di papa Francesco. Il papa
ha sospeso temporaneamente il vescovo dal suo incarico, nell’attesa che le
accuse vengano chiarite da una commissione istituita dalla Conferenza episcopale.
La conoscenza dei fatti ha scatenato accese discussioni anche e soprattutto sui comportamenti finanziari della
Chiesa cattolica nel suo complesso.
Più trasparenza,
più credibilità
La massiccia critica sulla mancanza di trasparenza ha indotto molte diocesi a pubblicare in fretta e furia il rendiconto dei beni delle loro sedi episcopali. Ma le cifre sono difficilmente comparabili per mancanza di criteri corrispondenti. A prescindere dalle
chiese in quanto edificio, anche molti
altri immobili storici non possono essere alienati; inoltre spesso non è facile calcolare il valore degli immobili.
Perciò alcune diocesi, come ad esempio quella di Rottenburg-Stuttgart, vogliono anzitutto procedere a una precisa valutazione prima di pubblicare cifre che poi devono essere nuovamente
corrette.
Inoltre in Germania si discute già
da molto tempo sui contributi statali
alle Chiese, che a causa della secolarizzazione delle proprietà della Chiesa nel 1803 vengono tuttora versati dai vecchi Land come sovvenzione della pastorale a titolo risarcitorio,
benché già la Costituzione di Weimar
nel 1919 ne avesse previsto la cancellazione. Anche se le richieste non sono
contestate sul piano giuridico, hanno
in gran parte perso la loro plausibilità. Mentre le entrate totali dell’imposta per la Chiesa cattolica ammontano attualmente a 5,2 miliardi di euro
all’anno, i contributi statali ammontano a circa 250 milioni di euro all’anno. L’obiettivo di una «Chiesa povera per i poveri» di papa Francesco,
84
Il Regno -
attualità
4/2014
come già il discorso di Benedetto XVI
a Freiburg nel 2011, nel quale – anche
guardando all’ottima situazione finanziaria della Chiesa tedesca – parlò della necessità di una «demondanizzazione», ha rafforzato la voce degli avversari della Chiesa. Ma anche da dentro la Chiesa erano arrivate sollecitazioni a rinunciare ai contributi statali per incrementare la credibilità dell’istituzione.
L’intera discussione viene portata
avanti con grande vivacità anche perché la Chiesa cattolica in Germania,
proprio a causa della sua eminente posizione finanziaria di partenza su scala
mondiale, può assumere molti collaboratori laici a tempo pieno nella pastorale, nelle scuole e nell’amministrazione. Nella pastorale, ad esempio, i circa 15.000 sacerdoti diocesani e religiosi sono affiancati da circa 6.600 cosiddetti referenti comunitari o pastorali,
assunti a tempo pieno e relativamente ben pagati, nell’amministrazione,
nella formazione, nei media e in molti altri campi. La Caritas tedesca con i
suoi cerca 560.000 collaboratori, i cui
salari sono rifinanziati in gran parte –
ma non solo – dallo stato e dalle casse sociali, senza l’attuale sostegno della Chiesa dovrebbe ridurre il proprio
personale e le proprie attività.
Proprio all’inizio del nuovo anno,
la Chiesa cattolica in Germania è finita nuovamente in serie difficoltà in
materia di «Chiesa e denaro». Già da
anni i vescovi avevano cercato di vendere il gruppo mediatico Weltbild, appartenente a una dozzina di diocesi e
ad alcuni altri attori ecclesiali. Si riteneva che un’azienda con un volume di
affari annuo di 1,6 miliardi di euro e
circa 400 librerie fosse diventata troppo grande per la Chiesa. In Germania
occupa il secondo posto dopo Amazon
nel commercio on-line. Inoltre ultimamente si erano levate delle critiche riguardo all’offerta commerciale, comprendente, come nel caso di altri venditori per corrispondenza, anche bestseller erotici ed esoterici, perché assicurano un buon fatturato. A questo si
sono aggiunte negli anni scorsi le difficoltà generali della vendita del libro
a causa delle mutate abitudini dei lettori e delle sfide della digitalizzazione.
All’inizio di gennaio il gruppo, dopo le
ristrutturazioni e i concomitanti ten-
tativi di risanamento a proprie spese,
ha dovuto presentare istanza di fallimento. Soprattutto il card. Reinhard
Marx, arcivescovo di München-Freising, si era ripetutamente impegnato a favore del gruppo e aveva attirato
l’attenzione sulla responsabilità sociale della Chiesa come datrice di lavoro.
Per il momento non è dato sapere quali parti del gruppo potranno essere affidate a un’altra direzione e se avranno
delle opportunità per il futuro.
Dopo i casi di violenze sessuali sui
minori, il comportamento finanziario
delle Chiese è diventato attualmente uno dei punti più importanti per la
credibilità della Chiesa, e vi è coinvolta a tratti anche la Chiesa evangelica.
Come a causa delle decisioni controverse di Benedetto XVI anche dei protestanti sono usciti dalla loro Chiesa,
così anche le Chiese evangeliche hanno perso parecchi membri a causa dei
fatti di Limburg. Ci si trova in una sorta di «comunione di responsabilità»
ecumenica: di fronte alla preferenza di
papa Francesco per auto più piccole gli
stessi vescovi evangelici devono interrogarsi sulla cilindrata e l’emissione di
sostanze tossiche delle loro auto di servizio.
Si attendono molte nomine
di vescovi
Il processo di dialogo dei vescovi
tedeschi, che attira molto meno l’attenzione rispetto a tutti questi scandali, deve terminare nel 2015 con le celebrazioni del cinquantenario della fine
del concilio Vaticano II. Al riguardo si
continua ad ammonire soprattutto che
non basteranno la sola buona volontà e un paio di buoni dialoghi su problemi evidenti. Alois Glück, presidente
del Comitato centrale dei cattolici tedeschi, ha ripetutamente sottolineato
che il fallimento o l’assenza di cambiamenti tangibili, riguardo ad esempio i
divorziati risposati o la collaborazione
fra preti e laici, uomini e donne nella
Chiesa, accelereranno lo sgretolamento interiore del cattolicesimo tedesco.
Pur non potendo ancora sapere se
e in che misura le iniziative di dialogo possano essere considerate un successo, papa Francesco, attirando con
la sua spontaneità e cordialità molti cattolici e non cattolici tedeschi, ha
impresso un nuovo impulso. In base a
tutte le previsioni, il nuovo papa non
rivoluzionerà la dottrina cattolica in
materia di fede e costumi. Tuttavia la
maggior parte dei cattolici è convinta
che attraverso gli attuali passi per la riforma della curia egli accresca anche
la libertà di azione delle Chiese locali.
Anche solo il questionario della Segreteria del Sinodo dei vescovi per la preparazione dell’Assemblea speciale del
prossimo ottobre su questioni relative
alla pastorale delle famiglie ha ulteriormente elevato le aspettative di discussioni libere e di un corso meno rigido
da parte della Chiesa. In ogni angolo del paese, le diocesi hanno comunicato che su molti punti anche cattolici
praticanti non si attengono alle direttive della dottrina cattolica (cf. in questo
numero a p. 77).
Con particolare tensione, non da
ultimo a causa del nuovo clima ecclesiale generale, si attendono le prossime nomine di vescovi. Si devono nominare i vescovi di due importanti diocesi: Colonia e Freiburg. Dopo Colonia, Freiburg, con circa due milioni di cattolici, è la diocesi più grande
e la sede della Caritas tedesca, e ultimamente con Robert Zollitsch ha prodotto anche il presidente della Conferenza episcopale tedesca. Le dimissioni offerte da mons. Zollitsch sono state
accettate nell’agosto 2013, poco prima
del suo 75° compleanno, ma sorprendentemente è stato nominato amministratore apostolico della diocesi. L’arcivescovo è stato anche espressamente autorizzato a restare presidente della Conferenza episcopale fino al termine del suo mandato, cioè fino all’inizio
di marzo.
Il fatto che questo ufficio non sia
stato attribuito, come spesso in passato, all’arcivescovo di Colonia è dipeso
anche dalla persona del card. Joachim
Meisner. Egli si è compiaciuto soprattutto nell’esercitare il ruolo del censore fedele al papa, provocando così anche forti contrapposizioni. Questo cominciò già all’epoca della sua nomina,
quando non riuscì a ottenere i voti della maggioranza del capitolo della cattedrale di Colonia come richiesto dal
relativo diritto. Questo fu uno dei motivi alla base della Dichiarazione di Colonia del 1989, il memorandum di professori di teologia contro le «tendenze
accentratrici» nella Chiesa cattolica,
sottoscritto inizialmente da circa 200
professori dell’area linguistica tedesca
e alla fine da 700 docenti a livello mondiale (cf. Regno-att. 4,1989,71). La sua
influenza giunge fino ai nostri giorni. Il
25 dicembre Meisner ha festeggiato il
suo 80° compleanno, il 12 febbraio festeggerà il suo 25° giubileo come arcivescovo di Colonia e ben presto dovrà
lasciare il suo ufficio. Si deve provvedere anche alle sedi episcopali di Erfurt, Passau e probabilmente Limburg.
Nel mese di dicembre 2013 l’arcivescovo Werner Thissen di Amburgo ha
compiuto 75 anni, e non appena verranno accettate le sue dimissioni si renderà vacante un’altra diocesi.
La proposta di Zollitsch
L’episcopato, le cui correnti negli anni scorsi sono emerse più apertamente, dovrà riposizionarsi, dopo che,
oltre a Meisner (e probabilmente a Tebartz-van Elst), con il vescovo Wilhelm
Schrami di Passau saranno usciti anche altri vescovi piuttosto conservatori. Gerhard Ludwig Müller, già vescovo di Regensburg, noto in Germania
come rappresentante della linea dura
per la riduzione dei diritti dei laici, è
dal 2012 prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. Il card.
Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco, mentre in passato veniva collocato nel campo conservatore, attraverso
il suo impegno a favore della dichiarazione sullo scandalo delle violenze sessuali si è guadagnato il rispetto di tutti
e ha aderito praticamente fin dall’inizio al nuovo corso di papa Francesco,
cosa che in quanto esperto della dottrina sociale cattolica non gli è stata difficile.
Anche altri, che a volte si erano allineati in modo ostentato a Benedetto
XVI, ora hanno celebrato papa Francesco come «un dono per la Chiesa».
Solo Rudolf Voderholzer, successore di Müller a Regensburg, in quanto
direttore della fondazione dell’Institut
Papst Benedikt XVI deve essere considerato un conservatore e si è già segnalato per le sue dichiarazioni di solidarietà con Tebartz-van Elst. Tra parentesi, sarà a Regensburg che si terrà il
99° Katholikentag tedesco, in maggio.
Pochi ritengono che l’arcivescovo Georg Gänswein, sacerdote diocesano di
Freiburg e a lungo segretario privato
del card. Joseph Ratzinger/papa Benedetto XVI, possa ottenere una sede
episcopale in Germania. In tale eventualità le cose apparirebbero naturalmente in modo ancora diverso.
Si segue con grande interesse anche la nomina del prossimo presidente della Conferenza episcopale tedesca. Dopo che per molto tempo è sembrato che la scelta fosse circoscritta
tra il card. Reinhard Marx (60 anni,
Monaco e il card. Rainer Maria Woelki (57 anni, Berlino), oggi la situazione si presenta in modo più aperto. Marx, diventato nel frattempo anche presidente della Commissione degli episcopati della Comunità Europea (COMECE) e membro del Consiglio degli otto cardinali di papa Francesco, è già il vescovo tedesco di gran
lunga più influente. A causa di ciò che
è successo a Weltbild, anche la sua immagine potrebbe aver subito dei danni. Il card. Woelki invece, come anche
altri vescovi, a causa dell’accorpamento di comunità cristiane per mancanza di preti nella sua diocesi, ha il vento contro. Poiché la maggior parte dei
cattolici le sperimenta concretamente
sul proprio corpo, queste ristrutturazioni sono oggetto di discussioni emotive e hanno quindi molto peso. Fra gli
altri possibili candidati alla presidenza della Conferenza episcopale vi sono
Stephan Ackermann (51 anni), vescovo
di Trier, che si è fatto dei meriti come
incaricato della Conferenza episcopale
per i casi di violenza sessuale, nonché il
più loquace Franz-Josef Overbeck (49
anni), vescovo di Essen, ordinario militare e incaricato di Adveniat, ma anche Ludwig Schick (64 anni), arcivescovo di Bamberg, e Franz-Josef Bode
(63 anni), vescovo di Osnabrück.
Ma potrebbe sempre imporsi Zollitsch con la sua proposta di emulare il
pre-conclave, dal quale è uscito papa
Francesco, all’inizio dell’Assemblea plenaria di primavera (primi di marzo)
della Conferenza episcopale tedesca,
discutendo apertamente per un’intera
giornata su quali sono le sfide del cattolicesimo tedesco, che il nuovo presidente dovrà affrontare. Qui appare
chiaramente che la Chiesa cattolica in
Germania cerca proprio di imparare
da Francesco.
Stefan Orth
Il Regno -
attualità
4/2014
85
Polonia
i
M
Cambiamenti e reazioni
I vescovi sono scesi a Roma, otto
anni dopo la visita effettuata nel 2005,
per esporre le loro preoccupazioni e
per avere un indirizzo pastorale, che
s’è smarrito in questi ultimi anni, non
tenendo conto che la situazione religiosa nella terra di Giovanni Paolo II
è completamente cambiata. Su una
popolazione di 38.533.789 abitanti,
i cattolici sono l’88,7%, gli ortodossi
l’1,3%, i protestanti lo 0,4%, i non religiosi e atei il 9,3%. I vescovi in attività sono 98; reggono più di 40 tra sedi
metropolitane, arcivescovili, vescovi-
Il Regno -
mmobile e aggressivo
I l c a t t o l i c e s i m o p o l a c c o d i e c i a n n i d o p o Wo j t y l a
Varsavia, gennaio.
entre siamo a Varsavia, i vescovi della
Polonia stanno concludendo a Roma la
loro visita ad limina.
Alla fine della quale incontreranno il
papa. Il clima in Polonia non è tra i
più favorevoli al dialogo. Le affermazioni del presidente della Conferenza
episcopale, mons. Jozef Michalik, arcivescovo di Przemysl dei Latini (ai confini con l’Ucraina, oltre 700.000 cattolici), a proposito dei mass media polacchi, che adopererebbero papa Francesco per attaccare la Chiesa e soprattutto i vescovi, hanno suscitato dure reazioni: «Con il papa si combatte oggi
in Polonia contro i vescovi – ha detto mons. Michalik –: papa Francesco
buono, vescovi cattivi; papa Francesco sì, vescovi e Chiesa in Polonia no».
Affermazioni inopportune, che hanno
provocato indignazione nei circoli più
liberali e plauso negli ambienti conservatori.
86
Chiesa
attualità
4/2014
li e due ordinariati. Le parrocchie sono all’incirca 10.000, i preti 20.000 e
i religiosi circa 10.000. Si tratta ancora di un corpo ben compatto, ma che
già da tempo conosce un’inversione di
tendenza.
Ci fa da guida nel reportage sulla
vita della Chiesa in Polonia il gesuita
p. Andrzej Majewski, rettore del Collegio Bobolanum di Varsavia, e per
molti anni responsabile della sezione polacca alla Radio vaticana. Conosce molto bene il suo paese, vivendo a contatto quotidiano con una settantina di religiosi gesuiti, per lo più
professori, e con gli studenti, un po’
angustiati in questo periodo di esami.
Ovviamente, seguiamo anche le indicazioni di altre attendibili persone
da noi incontrate, che, a titolo diverso, hanno a che fare con la vita della
Chiesa e della società.
È proprio il rettore Majeswski, che
incontriamo di buon mattino al Collegio, a darci le prime linee interpretative. Ammette che i mass media cosiddetti laico-liberali a volte vadano sopra le righe, ma, d’altra parte, gli pare
«che la Chiesa in Polonia abbia bisogno di un certo cambiamento di volto. Deve abbattere alcuni muri, che
sono ancora abbastanza forti tra di essa e le persone». Il riferimento è presto fatto: la crisi della famiglia. «In Polonia c’è sì la pastorale dei divorziati,
ma c’è poca comprensione per coloro che entrano nel secondo matrimonio. Alcuni guardano al papa con una
certa speranza: non si aspettano che il
papa approvi tutto e dica che va bene
così, ma almeno di sentirsi capiti, co-
sa che non trovano nella nostra Chiesa, nei vescovi, nei preti. La Chiesa dice: “Bravi voi cristiani che ricevete i
sacramenti, che siete in regola con le
leggi della Chiesa. Gli altri, invece, sono di seconda categoria”. Questa situazione porta molti a trascurare gli
insegnamenti della Chiesa e a diventare tiepidi nei confronti della fede e
della pratica religiosa, quando non a
lasciare del tutto».
Mettendo da parte gli stereotipi di
una Chiesa polacca compatta, massiccia, obbediente alla gerarchia, devota
alle pratiche devozionali dei pellegrinaggi, affrontiamo con p. Majewski,
e con il retroterra di conversazioni in
altre sedi, anche ad alto livello, le sfide che mettono sul chi va là la Chiesa, soprattutto la gerarchia. «La prima sfida che io vedo è la gioventù perché la Chiesa, noi preti, religiosi, stiamo perdendo la gioventù. Le istituzioni giovanili, che un tempo, soprattutto negli anni Settanta-Ottanta, erano
fiorenti (ad esempio, le cosiddette oasi, considerate roccaforti della Chiesa in Polonia), ora non bastano più. Si
pone il problema: come riconquistare il mondo giovanile? C’è un preoccupante dato di fatto: la Chiesa in Polonia sta invecchiando molto rapidamente, più rapidamente della società
stessa».
«La seconda sfida riguarda il linguaggio: come parlare alla gente, come predicare il Vangelo, come avvicinare e stare con la gente. Noi preti in
Polonia abbiamo ancora il linguaggio
di una volta. I mass media ora sono
veloci, lanciano messaggi immediati,
si rivolgono al pubblico con espressioni accattivanti. Noi siamo ancora con
le nostre prediche chilometriche».
Qui si potrebbe inserire il discorso sullo status di parte della gerarchia
e dei preti. Conducono uno standard
di vita medio-borghese. Molti abitano
ancora in palazzi, in canoniche e in
edifici che non hanno nulla da invidiare alle abitazioni migliori. Le parole di papa Francesco, che spingono a
una vita più sobria, a una abitazione
più modesta, a mezzi di locomozione
comuni, non sembrano avere sconvolto più di tanto la vita di vescovi, preti e religiosi. C’è chi dice apertamente
che il papa in questo campo non verrà seguito. I mass media laico-liberali non perdono occasione per attaccare il lusso in cui vivono certi uomini di
Chiesa, ovviamente contrapponendo
la figura del papa a quei vescovi che si
sentono principi.
La sfida della cultura
Ma veniamo a un’altra sfida, seguendo l’acuta riflessione di p. Majewski: il pluralismo. «Si sono fatti
certamente dei passi in avanti, ma
la Chiesa è ancora un monolite, un
blocco. Dovrebbe non essere più così.
Nella Chiesa le voci non devono avere tutte lo stesso suono. Nella Chiesa
dobbiamo far vedere che il dialogo è
possibile, che la polifonia è una ricchezza. Ora, chi la pensa diversamente è ritenuto un agnostico, ateo, anticlericale, sovversivo».
Ritorniamo a parlare di vocazioni. La diminuzione del clero non è di
adesso. «È un fenomeno preoccupante. Sono soprattutto gli ordini femminili a risentirne, eccezione fatta per
i monasteri di clausura. Il posto della donna nella Chiesa polacca meriterebbe una riflessione approfondita.
Le religiose non vogliono più svolgere quei lavori ai quali erano destinate una volta. Ad esempio, qui, nel nostro grande collegio, la cucina era gestita dalle suore: era una cosa normale. Oggi è molto difficile avere religiose che si dedichino ancora a questi
servizi. Ora vogliono insegnare il catechismo, lavorare in parrocchia, essere presenti nei vari gruppi e movimenti. Vogliono, giustamente, avere il
loro ruolo».
Di casi di pedofilia nel clero non
si sa molto e, per la verità, non se ne
vuole parlare. È vero che sono piuttosto limitati, «non perché – osserva p.
Majewski – noi siamo più bravi e più
santi, ma perché in Polonia per 50 anni le scuole non sono state gestite dai
religiosi, a motivo della nazionalizzazione messa in atto dal regime comunista. E per un’altra ragione: la famiglia aveva solide basi di formazione
cristiana».
La Chiesa in Polonia viene spesso
accusata di non sapere (o volere) dialogare con la cultura. Fa fatica a capirla e si mostra spesso diffidente. «È vero – dice il rettore – che trent’anni fa,
sotto il regime comunista, la Chiesa
tutelava la cultura e gli uomini di cultura, che la consideravano una roccaforte in opposizione all’ideologia marxista imperante e asfissiante. Si pensi ai grandi registi: Wajda, Zanussi…
Nella Chiesa vedevano un posto dove
poter dialogare, un luogo dove potersi
incontrare. La Chiesa dava loro degli
spazi e loro potevano realizzare la loro missione culturale (non religiosa!),
non consentita altrove. Erano molti
i club di intellettuali cattolici. Era un
onore farne parte. Si trovavano a loro
agio tra le mura della Chiesa, anche
se non ne vivevano la vita. Si può dire che non vi erano mai entrati pienamente. Oggi la Chiesa trova difficoltà
con questi intellettuali, che mai per la
verità sono stati evangelizzati in modo
adeguato».
«Lo stesso discorso – prosegue p.
Majewski – vale per molti politici, uomini di scienza, d’arte... La Chiesa
non parla il loro linguaggio. Riesce a
esprimersi con difficoltà nel linguaggio della cultura moderna. Il problema dell’evangelizzazione della cultura resta dunque aperto. Il dialogo è
quasi inesistente, lo scambio è a senso unico, la discussione è subito stroncata quando si toccano determinati argomenti, che anche la gente della
strada avverte. La Chiesa li ha persi.
Ci sono alcuni preti, più sensibili e attenti, che cercano di essere più vicini
agli uomini di cultura, agli operatori
nei mass media. Ma la strada è ancora molto lunga, e manca nella gerarchia questo impulso a uscire in periferia, come dice papa Francesco. Devo
dare atto al nostro arcivescovo di Varsavia, il card. Kazimierz Nycz, di es-
sere attento alla cultura». Ma si sa che
viene criticato perché è troppo «liberale», che in Polonia significa «progressista», mentre la gran parte dell’episcopato è più su posizioni conservatrici. Per questo si pensa che gli sarà
difficile essere eletto nuovo presidente della Conferenza episcopale, succedendo all’intransigente Michalik.
La sindrome di Smolensk
Il 10 aprile 2010 l’aereo presidenziale di Lech Kaszynski si schiantò. A bordo c’erano, oltre al presidente
con la moglie, una folta delegazione di parlamentari di tutto lo schieramento politico, membri del Governo e
ministri della cancelleria presidenziale. Non si è salvato nessuno. Dovevano recarsi a Katyn, dove nell’aprile del
1940 Stalin fece uccidere circa 22.000
ufficiali polacchi, i cui nomi sono ora
sulle pareti della chiesa-tempio dedicata ai caduti nel centro di Varsavia.
Lech Kaczynski viene ora presentato
come il miglior leader di tutta la storia polacca; viene addirittura venerato come martire, e la sua morte il frutto di un complotto orchestrato da Putin e Tusk. Ne paiono convinti molti
vescovi e gran parte della popolazione, mentre Radio Maryja si appella alla sua personalità e al suo programma
ogniqualvolta vengono attaccati i valori della tradizione polacca, soprattutto da parte di Bruxelles, là dove – dicono – si trova il centro della massoneria, dei poteri economico-finanziari,
che hanno come scopo la laicizzazione
più spinta dell’Europa.
Spiega ancora Majewski: «È uno
dei punti di frizione, di divisione, di
contrasto che serpeggiano nella Chiesa polacca. Non si parla con argomenti seri e obiettivi, ma con un’emotività che sconfina spesso nell’irrazionalità. Da una parte, è vero che il governo attuale non ha fatto tutto per spiegare la catastrofe, probabilmente d’accordo con i russi; dall’altra, Smolensk
serve più per suscitare emozioni, condurre campagne politiche antirusse e
antieuropee, opporsi alla linea liberale
del governo. Quanto tempo tutto questo durerà, non lo so. Vedo però che
l’attenzione su Smolensk va diminuendo e sono sempre meno le persone che
manifestano davanti al palazzo presidenziale. È vero comunque che que-
Il Regno -
attualità
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sta tragedia ha segnato la vita dei polacchi. Ovviamente, sarà uno dei punti
forti della campagna elettorale in vista
delle elezioni europee di maggio e soprattutto delle presidenziali e politiche
del 2015».
Ma c’è un altro punto nella vita
dei cattolici polacchi che merita una
chiave di lettura: il rilievo della figura di Giovanni Paolo II. Lo chiediamo ancora a p. Majewski, che da Roma commentava il fenomeno-Wojtyla. «Il papa polacco è stato un po’ strumentalizzato in Polonia. Abbiamo le
nostre colpe, nel senso che la Chiesa
in Polonia è diventata molto passiva.
Con un papa polacco a Roma, ci si rivolgeva a lui. Un esempio: quando nel
2004 si trattava di decidere l’ingresso
nell’Unione Europea, era forte l’opposizione anche da parte di molti vescovi, preti, conservatori d’ogni tipo e soprattutto di Radio Maryja. Intervenne
papa Giovanni Paolo II, che era favorevole e si votò a favore. Il papa disse
con tutta chiarezza: “L’Unione Europea è un bene comune. Noi siamo da
secoli in Europa”».
L’effetto-Wojtyla è diminuito in questi anni. Secondo p. Majewski, è normale. Riuscirà la canonizzazione in
aprile a ridare slancio alla sua figura?
«Sì, ma sarà solo un momento emozionale. Noi dobbiamo trovare le nostre strade. Sarebbe auspicabile che
i nostri vescovi assumessero più coraggiosamente le loro responsabilità.
Non dico che non sono responsabili, ma, a volte, ci vuole una voce più
chiara e convincente. Mi riferisco anche all’Unione Europea, che ci chiamerà alle urne».
Il rettore del Bobolanum pensa che i vantaggi di una permanenza
della Polonia nell’Unione Europea siano tanti. «Si ha la possibilità di avere contatti con altri paesi, di vedere le
cose da prospettive diverse, di usufruire di strutture più adeguate, di dialogare con gli altri episcopati, di confrontarsi con la vita di altre popolazioni. La Chiesa polacca è chiamata ad
aprirsi ad altre prospettive. Lo dicono
gli emigrati che ritornano a far visita al
loro paese: da fuori le cose si vedono in
modo diverso: anche la Chiesa, la religione, gli atti di culto. Non è vero che
la Chiesa polacca non può dare niente all’Europa. Va detto dei polacchi
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che sono andati in Inghilterra, in Scozia. Là i cattolici sono pochi e i polacchi in certi posti stanno rinvigorendo
la Chiesa, influiscono sulla vita ecclesiale. E inoltre, non ci sta male un certo controllo dell’Unione Europea. Mi
riferisco ai diritti umani, alla lotta alla
corruzione, molto forte in Polonia».
I conservatori e Radio Maryja
Il rallentamento dell’economia ha
reso un po’ più fragile l’ampio consenso di cui ha goduto in Polonia negli ultimi anni il governo del primo ministro
Donald Tusk, di Piattaforma civica
(PO). Insediatosi nel novembre 2007,
è stato riconfermato nell’ottobre 2011.
L’inflazione è al 3,7% e la disoccupazione al 10,1%. Anche se la crescita
del PIL rimane sopra la media europea, si è indebolita nel 2012-2013. Il
governo ha messo in atto un piano di
privatizzazioni e si dice capace di contenere la spesa pubblica, tenendo sotto
controllo il deficit di bilancio. Ma nel
2011 hanno lasciato la Polonia per trasferirsi all’estero quasi 20.000 persone,
molte delle quali, sebbene provengano
da zone in cui la fede era forte, tradizionale, a contatto con modi di vivere
e con tradizioni diverse ne perdono il
sapore e abbandonano la pratica religiosa.
Sono filoeuropei: Piattaforma civica (PO), partito liberale di Donald
Tusk; il Partito popolare contadino
(PSL); Alleanza democratica, di sinistra. Euroscettici sono il partito Legge e giustizia (PiS), conservatore, di Jaroslaw Kaczynski, che conduce la sua
lotta partendo dal culto di Smolensk.
Sarà l’eurozona il tema che, con ogni
probabilità, porterà Legge e giustizia
a spuntarla su Piattaforma civica nelle elezioni presidenziali e legislative del
2015. La campagna elettorale non è
ufficialmente partita, ma già si fanno
sondaggi, che danno per il momento
il partito di opposizione a Piattaforma
civica in forte crescita.
Sull’euro il programma di Legge e
giustizia è perentorio: no perché la moneta nazionale (sloty) ci ha fatto uscire
a testa alta dalle crisi e l’economia polacca continua a tirare, benché in termini più ridotti che in passato. E poi la
moneta nazionale fa sentire i polacchi
ancora legati alla loro tradizione, senza cedere di un millimetro sull’identi-
tà nazionale (per la verità meno sentita
di un tempo, soprattutto dai giovani).
Si guardi – dicono quelli contrari a entrare nell’eurozona – alla Svezia, alla
Danimarca, all’Ungheria, che tengono
banco nell’economia europea.
Teniamo per ultima la scottante
questione di Radio Maryja. Il fondatore e manager, p. Tadeusz Rydzyk,
è notoriamente un conservatore. Personalità carismatica, senza dubbio,
ma anche complessa. Assomma elementi della tradizione cattolica polacca a innovazioni culturali e mediatiche tipiche del nostro tempo. È un uomo audace, che ama le sfide e non si
sottrae alle provocazioni. Sa sfruttare
ogni occasione per farsi sentire e valere. È senza dubbio un uomo che, con
le sue opere (televisione, radio, scuole,
giornali), costruisce piuttosto muri che
ponti. Neppure Giovanni Paolo II è riuscito a modificare il suo impianto ideologico. Lo seguono parte dei vescovi,
dei preti, dei religiosi, della gente semplice.
Significativo il titolo di una sua biografia apparsa nel 2013: Imperator.
Così viene definito dai mass media laico-liberali. Vanno comunque rifatte
le stime sugli ascolti di Radio Maryja:
non più 5 milioni di ascoltatori, come
si diceva enfaticamente qualche anno
fa, forse 2 milioni. Non tutto è negativo nelle trasmissioni di Radio Maryja.
Per la gente dei villaggi e delle campagne rappresenta una parola di conforto. Ma quando si mette ad attaccare i politici di Piattaforma civica e a
osannare Legge e giustizia non c’è limite. Problema di linguaggio o anche
di contenuti? Entrambi.
Ci aiuta di nuovo, al termine di
questo breve reportage, la riflessione di
p. Majewski, che di radio se ne intende: «Una delle sfide poste alla Chiesa in Polonia, forse la più importante,
è quella ricordata da papa Francesco:
la Chiesa deve costruire ponti e abbattere muri. Una stranezza, che è paradossale: i due grandi partiti di massa
in opposizione – Piattaforma civica e
Legge e giustizia – hanno le stesse radici. Sono sorti come protesta contro
il comunismo ad opera di persone che
ora non sanno più dialogare».
Marcello Matté
Francesco Strazzari
R
u ss i a
L
- Intervista al prof. Lupandin
L
e tensioni e le Olimpiadi
a competizione sportiva nelle Olimpiadi invernali di Sochi, in
Russia (7-23.2.2014) è solo una parte di una ben più complessa
competizione sullo scacchiere geopolitico a cui politologi e analisti hanno dedicato molte pagine in queste settimane. Il fiato è sospeso per vedere la meraviglia voluta dal leader russo Putin, per contare le medaglie sui medaglieri, per scongiurare il reale pericolo di attentati, per capire che cosa maturerà attraverso gli incontri informali
che avverranno parallelamente alle competizioni.
I motivi di critica e di scetticismo, da un punto di vista occidentale non mancano. A partire dalle cifre da capogiro (con stime attorno
ai 51 miliardi di euro) che sarebbero state investite nelle infrastrutture
atletiche e nei servizi per collegare la città affacciata al Mar Nero,
con padiglioni per le gare indoor, ai due siti preparati per le gare di
sci sulla Krasnaya Polyana, la montagna a 75 chilometri dalla località
balneare di Sochi. Gli ambientalisti sono assai critici verso Putin che
ha voluto qui i Giochi e ha stravolto e cementificato una regione
naturalisticamente protetta e preziosa. Sfruttamento dei lavoratori,
corruzione, rischio terrorismo sono altre accuse che Putin si è tirato
addosso in questi mesi.
Alcune delegazioni nazionali alle cerimonie ufficiale hanno avuto un profilo molto basso, perché secondo l’Occidente la Russia ha
a livello internazionale alcune questioni aperte: violazioni dei diritti
umani, metodi anti-democratici per tacitare le dissidenze, le posizioni nella vicenda dell’Ucraina (cf. Regno-att. 2,2014,15). C’è una partita
tra economie e democrazie, tra storie e Chiese, tra culture. Una delle
sfide più profonde e urgenti, è però quella di trovare un modello di
confronto e di convivenza, in cui Europa e Russia, libere dalle proprie
presuntuose e inconsistenti autocomprensioni, retaggio di un passato svanito, possano affrontare insieme le grandi insidie che minacciano l’umanità oggi. Europa e Russia vivono al loro interno profonde disgregazioni e fragilità, eppure fanno la voce grossa l’una nei confronti
dell’altra.
Per cercare di vedere le cose da un altro punto di vista, abbiamo
interpellato Ivan Lupandin, cattolico, professore di Filosofia alla Facoltà delle scienze umane dell’Istituto di fisica e tecnologia dell’Università di Mosca.
– Quale messaggio ha voluto dare la Russia al mondo, secondo
lei, in questa circostanza?
«Accogliere nel proprio territorio le Olimpiadi è sempre stata
una cosa molto onorevole. Va notato che, dopo la Rivoluzione d’ottobre del 1917, l’URSS a lungo ha boicottato le Olimpiadi, comprese le Olimpiadi di Berlino nel 1936. Nel 1952 l’Unione Sovietica ha
partecipato ai Giochi olimpici di Helsinki. Poi venne il 1956, l’anno
del XX Congresso, la riabilitazione dei detenuti dei campi di Stalin,
ma anche l’anno della violenta rivoluzione ungherese. Dopo allora,
l’URSS è stata la sede dei Giochi olimpici estivi nel 1980, ma frattanto
le truppe sovietiche erano entrate in Afghanistan, così Stati Uniti,
Gran Bretagna e altri paesi boicottarono le Olimpiadi di Mosca. Da
allora, molto è cambiato. L’URSS non esiste più. C’è la Russia. Che
vuole mostrare al mondo di essere uno stato democratico civile,
con cui si può commerciare, in cui si possono investire capitali. E
anche il fatto che in Russia è possibile ascoltare diversi punti di vista,
viaggiare liberamente, entrare nei social network è la prova che dal
1980 molto è cambiato. Ciò che Andrei Sakharov sognava – la libertà
di scambiare informazioni e la libertà di movimento – è diventato
una realtà».
– Nel clima teso tra Russia ed Europa qualcuno è tornato
persino a parlare di guerra fredda. Lei vede da parte dell’Europa un interesse reale verso la partnership economica e politica
con la Russia? Che prospettive ha la relazione tra Russia ed
Europa?
«Io non parlerei di un “clima di tensione” e tantomeno di una
“guerra fredda”. L’Europa economica dipende dalle materie prime russe, in particolare dal petrolio e dal gas. Inoltre, la Russia
può essere un garante della stabilità, come dimostra il successo
della missione di mediazione del presidente Putin sulla questione
della guerra civile in Siria. Molto interessante il fatto che il presidente Putin ha trovato una consonanza in papa Francesco».
Diritti umani:
invocati, goduti, violati
– Tanti capi di stato e di governo non sono stati presenti
all’inaugurazione dei Giochi olimpici per protesta verso le violazioni ai diritti civili e dell’uomo che avvengono in Russia. Lei
pensa che questo «boicottaggio» sia produttivo?
«Non dobbiamo dimenticare che il concetto di “diritti umani”
è nato in una particolare situazione storica, vale a dire, nel tempo
della Rivoluzione francese. Tuttavia, la storia di questa rivoluzione
ha dimostrato quanto facilmente lo si possa invocare e violare al
tempo stesso. Ricordiamo il Terrore giacobino, la Vandea, la dittatura di Napoleone. Da persona che vive in Russia, constato che
abbiamo almeno il diritto all’informazione (che alla maggioranza
dei cittadini nell’epoca dell’URSS era negato), e il diritto a ottenere
un passaporto. È paradossale a volte il fatto che la libertà di movimento dei russi sia ostacolata dai paesi occidentali (conosco diversi
casi in cui a giovani non sposate è stato negato il visto americano o
francese). E quante lacrime sono state versate a suo tempo presso
il consolato italiano a causa di uno stupido cavillo burocratico (l’ho
visto io stesso)! In generale, non riesco a immaginare niente di più
umiliante che una domanda di visto presso le ambasciate occidentali. Ora, sembra la situazione sia migliorata. Grazie a Dio!».
– Che cosa pensa dei 51 miliardi di dollari investiti a Sochi,
mentre il paese vive ancora gravi difficoltà e lentezze, o della contaminazione delle risorse ambientali preziose, avvenuta
nella regione di Sochi?
«Penso che i siti olimpici e le infrastrutture costruite a Sochi
saranno ripagati, dal momento che si tratta di una città turistica
con un clima mite, sul mare. Per quanto riguarda l’inquinamento,
si tratta di un problema globale. Basti ricordare l’incidente su una
piattaforma petrolifera nel Golfo del Messico nell’aprile 2010 o
l’incidente della centrale nucleare di Fukushima. Mi auguro che
qualcosa di simile non accada a Sochi».
– In quale misura secondo lei questa manifestazione sportiva può essere un momento effettivo di tregua, di riflessione, di
dialogo pacifico a livello internazionale?
«Io non ripongo speranze particolari nelle Olimpiadi di Sochi.
Penso che l’interesse per questo evento sia un poco gonfiato. Io
sono molto più preoccupato per la crisi della famiglia, del cristianesimo e dei valori morali in Europa, in Russia e negli Stati Uniti,
così come per il fondamentalismo islamico».
a cura di
Sarah Numico
(17 febbraio 2014)
Il Regno -
attualità
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Negoziati
Colombia
i
nteressati alla pace
I l G o v e r n o , l e FA RC e g l i a l t r i s o g g e t t i s o c i a l i .
I n t e r v i s t a a p. Jav i e r G i r a l d o
I
l gesuita colombiano p. Javier
Giraldo, membro della Commissione interecclesiale di giustizia e
pace, è da oltre 30 anni in prima
fila nella difesa dei diritti umani,
documentando massacri e presentando
denunce a organismi nazionali e internazionali. Per questo suo impegno è
stato più volte minacciato di morte e
ha dovuto trascorrere in esilio diversi
periodi della sua vita.
– P. Giraldo, come spiega la riapertura, più di un anno fa (cf.Regno-att.
2,2013,16), di un dialogo di pace tra
governo e Forze armate rivoluzionarie
della Colombia (FARC)? E quali condizioni sono necessarie affinché i negoziati
si concludano con successo?
«Purtroppo in Colombia, negli ultimi 60 anni, la guerra e la pace sono
state guardate attraverso le lenti degli
interessi di partito. Si dice che nel 1998
Andrés Pastrana vinse le presidenziali
grazie a una fotografia che ritraeva il
suo più stretto consigliere col leader
delle FARC; c’era un’evidente stanchezza della guerra e la sensazione di
una sconfitta militare dello stato. Anche il trionfo elettorale di Álvaro Uribe
nel 2002 fu attribuito alle sue critiche
nei confronti del fallito processo di
pace di Pastrana e alle sue nuove proposte per vincere la guerra.
Comunque a finanziare le campagne elettorali sono i grandi conglomerati economici narcoparamilitares,
molto legati alle imprese multinazionali. In questi ambienti, la pace è stata
vista come urgente per la tranquillità
degli investimenti. L’altro sguardo sulla pace, quello dei senza potere, si con-
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Il Regno -
attualità
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centra sulle radici del conflitto, che si
trovano nell’ingiustizia sociale, ma non
è stato dominante nei processi di pace
sviluppatisi in Colombia.
Il dialogo attuale è motivato dalle
necessità dei capitalisti nazionali e stranieri, che non vogliono continuare a
pagare (per gli squadroni paramilitari,
la corruzione delle forze dell’ordine, le
imposte a gruppi insorti o la ricostruzione di quanto distrutto dalle azioni
belliche) per proteggere i propri investimenti in territori e contesti di guerra. Tali interessi, decisivi per l’attuale
governo, si combinano con un discorso
umanitario centrato sul mettere fine a
tanti anni di spargimento di sangue,
un fatto che motiva gli strati popolari
maggioritari nel paese.
Tuttavia, le trattative in corso all’Avana sono state frenate dalle visioni e
prospettive totalmente contrapposte
dei due gruppi che negoziano. La delegazione governativa è composta da
imprenditori e militari che considerano “non negoziabili” le riforme economiche e sociali che la guerriglia ha
proposto. A mio avviso è molto difficile
che da lì emerga una vera proposta di
pace».
– Pensando alla molteplicità di cause
del conflitto colombiano, lei crede che l’agenda dei negoziati sia sufficientemente
ampia per condurre a una pace duratura?
«L’agenda attuale mi pare molto
più adeguata di quelle dei precedenti
negoziati, perché si concentra su pochi
punti (sviluppo agrario integrale, partecipazione politica, fine della guerra,
soluzione del problema delle droghe
illecite, risarcimento delle vittime) davvero chiave. Ma forse per questo il processo è lento e sembra non progredire.
Su ogni punto governo e guerriglia
hanno posizioni diametralmente opposte».
I modi della partecipazione
– Ad esempio?
«Dal punto di vista storico e strutturale è centrale il problema della
terra. Le FARC sono nate come confederazione di gruppi contadini che
resistevano all’espropriazione violenta
della terra negli anni Sessanta e l’asse
del loro programma è stato la riforma
agraria. Negli ultimi 60 anni l’appropriazione di terre è stata enorme ed
è avvenuta con stragi di contadini,
indigeni, afrodescendientes nonché col
trasferimento forzato di 5 milioni di
persone. L’attuale presidente della Repubblica, Juan Manuel Santos, propone di scambiare il massacro col titolo di
proprietà (restituzione della terra), ma
con l’intenzione che questi 10 milioni
di ettari entrino nel mercato e allora
l’espropriazione sarà “legale”. Il governo, per questa via più presentabile,
vuole consegnare alle multinazionali
le terre per lo sfruttamento minerario
e attraverso i Trattati di libero scambio siglati con gli Stati Uniti e l’Unione
Europea importare alimenti all’ingrosso, favorendo il capitale transnazionale e affossando lo sviluppo dell’agricoltura locale sognato dalle masse impoverite. I movimenti sociali difendono
un sistema di protezione della terra nei
confronti del mercato, già previsto nella Legge 160 del 1996, chiamato Zone
di riserva contadina, che fa delle terre
assegnate ai poveri beni non trasferibili né negoziabili, con la possibilità di
costituirsi in proprietà collettive il cui
sviluppo deve essere sostenuto con risorse dello stato. Il Governo e lo strato
sociale che esso rappresenta respingono questa proposta. Perciò su questo
primo punto non è stato raggiunto un
vero accordo all’Avana e credo che
mai lo sarà. Penso sia insensato attendersi da un negoziato come questo la
soluzione di tutti i problemi sociali, ma
ci sono punti che aprono la porta a livelli elementari di democrazia da cui
potrebbe sorgere, in molti anni, a un
vero processo di pace».
– Qual è l’atteggiamento della popolazione di fronte a questo dialogo?
«I negoziati hanno risvegliato aspettative di riforme sociali. Movimenti popolari schiacciati dalla repressione e
dal terrorismo di stato tornano a manifestarsi. Cominciano a essere conosciute le proposte del Governo e della guerriglia e molta gente inizia a schierarsi.
Ma il maggiore scoglio è l’informazione. I mass media sono tutti in mano a
imprese multinazionali e nascondono
o deformano la verità, e finché la coscienza della gente sarà manipolata,
non si potrà parlare di democrazia.
Purtroppo Governo e mass media hanno interpretato il problema della partecipazione politica come quello di garanzie minime da dare alle FARC affinché possano entrare in Parlamento,
inserendosi in un sistema politico che è
spaventosamente corrotto, poiché l’apparato elettorale è da molti decenni in
mano al narcoparamilitarismo, come ha
dimostrato la stessa Corte suprema di
giustizia nei pochi processi sulla “parapolitica”. C’è da sperare che le FARC
non cadano in questa trappola e non
ripetano la storia dell’Unione patriottica, un partito che nel primo processo
di pace del 1984-86 volle scambiare le
armi con la politica e fu annientato».
– Come si è sviluppato finora il negoziato e come questo si collega con le elezioni del 2014?
«I negoziati sono stati molto criticati da ampi settori dell’opinione pubblica perché sono circondati da una segretezza inaccettabile, dato che i punti in
discussione interessano tutto il paese, e
vanno avanti senza un cessate-il-fuoco,
almeno temporaneo, per cui il conflitto
armato prosegue in maniera intensa.
Inoltre il processo elettorale, specie la
pretesa di Santos di essere riconfermato, condiziona le trattative e gli spazi di
partecipazione della popolazione sono
troppo ristretti, limitandosi ad alcuni
forum organizzati dall’ONU e dall’Università nazionale».
La Chiesa non incide
– Negli ultimi mesi la società colombiana ha visto un’inedita mobilitazione
di diversi settori sociali (minatori, lavoratori del settore caffeario, ecc.). Alcuni la spiegano come un tentativo delle
FARC di mobilitare la propria base sociale per premere sul Governo nel negoziato;
altri vedono in queste proteste lo sforzo
di organizzazioni sociali per ottenere un
posto al tavolo del dialogo o farvi entrare
le proprie rivendicazioni; altri ancora la
ritengono manifestazione della volontà
della società civile di esprimere la propria
irriducibilità alle due parti che trattano.
Qual è la sua opinione?
«Forse tutte queste interpretazioni
contengono una parte di verità. I Trattati di libero scambio hanno gravemente deteriorato le condizioni di sopravvivenza, specie di contadini e indigeni,
perciò l’indignazione e la disperazione
li sta portando a proteste continue. Anche le FARC spingono i settori sociali
che controllano a mobilitarsi. Pure le
organizzazioni sociali sono in fase di
riassestamento e le forze politiche di
opposizione stanno ridefinendo proposte e alleanze. C’è un clima di agitazione sociale, cui il governo risponde con
la repressione. Nell’ultimo sciopero ci
sono stati oltre 20 morti, più di 500 feriti e circa 800 persone sono finite sotto
processo».
– In questa fase chi difende i diritti
umani ha più spazio per agire?
«La persecuzione dei difensori dei
diritti umani è cresciuta. Nel primo semestre di quest’anno ne sono stati assassinati 37, il 27% in più dello stesso
periodo del 2012. Ignorando l’opposizione di tutti i gruppi democratici, degli organismi intergovernativi dei diritti
umani e dell’ONU, in giugno Santos
ha fatto approvare da un Congresso
corrotto una Legge statutaria della giurisdizione penale militare, che “legalizza” perfino ciò che abbiamo chiamato
“falsi positivi” (esecuzioni sommarie di
civili per presentarli falsamente come
“morti in combattimento”). In uno dei
suoi articoli, infatti, autorizza a uccidere civili che, secondo i militari, “partecipino alle ostilità” (termine troppo
vago). A questo si aggiunge la riattivazione di strutture paramilitari».
– Come giudica l’atteggiamento della
Chiesa, in particolare dell’episcopato, rispetto ai negoziati?
«La gerarchia della Chiesa non vi
ha partecipato, mentre in passato alcuni vescovi avevano giocato un ruolo di mediazione, ma all’epoca dell’ex
presidente Uribe in alcune occasioni i
vertici ecclesiastici si sono troppo sbilanciati dalla parte del Governo, per
cui la guerriglia non si fida più di loro.
L’attuale gerarchia appoggia la pace,
ma senza analisi concrete, per cui il
termine diventa troppo ambiguo, dato
che ne esistono numerose concezioni,
molte funzionali a interessi particolari».
– C’è chi rimprovera alla Conferenza
episcopale di aver appoggiato il rifiuto
governativo di un cessate-il-fuoco, che
la guerriglia era disposta ad accettare,
e di aver chiesto gesti di buona volontà
più alle FARC che al governo. Condivide
questa opinione?
«La gerarchia colombiana è sempre stata molto critica nei confronti
della violenza della guerriglia e non
altrettanto verso quella statale. Il silenzio davanti al terrorismo di stato è stato
scandaloso. Un giorno la Chiesa dovrà
chiedere perdono per questo silenzio,
che rasenta la complicità».
– Più in generale, come vede la situazione della Chiesa colombiana oggi?
«Non è la stessa degli anni Settanta
e Ottanta, estremamente conservatrice, alleata di governi corrotti e criminali nonché di un establishment escludente e sfruttatore. Ora abbiamo una
gerarchia un po’ più indipendente, più
pastorale, però molto passiva e ingenua
in materia sociale. Poi ci sono gruppi
di base e operatori pastorali (preti, religiose e laici) che hanno sposato la causa
del popolo emarginato, sfruttato e represso. Tuttavia, come forza istituzionale, la Chiesa colombiana non riesce
a svolgere oggi un ruolo rilevante nelle
questioni nevralgiche che oppongono
pace e guerra, giustizia e barbarie».
a cura di
Mauro Castagnaro
Il Regno -
attualità
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Brasile
Comunità di base
canza di una pianificazione urbana che
benefici i quartieri poveri, di una dignitosa assistenza sanitaria».
Una rete di comunità
O
Strumento
per il popolo
ltre 5.000 persone, tra cui 4.000
delegati e delegate provenienti
da tutto il Brasile, 72 vescovi, 146
religiosi e religiose, 232 preti e una settantina di consulenti, hanno partecipato, insieme a 75 leader di gruppi indigeni, 20
esponenti di altre Chiese cristiane e 35 di
altre religioni, e 36 rappresentanti stranieri, al XIII Interecclesiale delle comunità ecclesiali di base (CEB), svoltosi a Juazeiro do
Norte, nello stato nordestino del Cearà,
dal 7 all’11 gennaio, sul tema «Giustizia e
profezia al servizio della vita. CEB, pellegrine del Regno in campagna e in città».
Tuttavia questo incontro, che si svolge dal 1975 circa ogni quattro anni, non
verrà ricordato solo come il più grande
della storia, ma soprattutto come il primo
cui un papa abbia inviato un proprio messaggio. Nella lettera Francesco definisce
le CEB «uno strumento che permette al
popolo di accedere a una maggiore conoscenza della parola di Dio, all’impegno
sociale nel nome del Vangelo, allo sgorgare di nuovi servizi laicali e all’educazione
della fede degli adulti», ricordando che
«apportano un nuovo fervore evangelizzatore e una capacità di dialogo col mondo che rinnovano la Chiesa». Il saluto del
papa ha galvanizzato i presenti, che già da
qualche anno percepiscono una ripresa di
interesse per questo «nuovo modo essere Chiesa» da parte dell’episcopato.
Nel 2010, infatti, la Conferenza nazionale dei vescovi del Brasile (CNBB) ha
approvato un Messaggio al popolo di Dio
che, a 30 anni dal precedente documento
sulle CEB, ne rilanciava la validità. E dom
Fernando Panico, vescovo della diocesi
ospitante di Crato, ha significativamente
aggiornato l’espressione coniata nel 1981
dall’allora card. Aloisio Lorscheider, arcivescovo di Fortaleza e presidente della
CNBB dal 1971 al 1979, definendo le CEB «il
modo normale di essere Chiesa».
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Il Regno -
attualità
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Le giornate hanno alternato celebrazioni liturgiche e momenti di preghiera,
conferenze e discussioni in plenaria e in
piccoli gruppi, testimonianze e scambi di
esperienze, visite a comunità e una Fiera
dell’economia solidale e del commercio
equo. Sette i filoni tematici attorno a cui
si è concentrata la riflessione sulle CEB:
«spiritualità del pellegrinaggio», «in campagna e in città», «protagonismo dei giovani», «servizio della vita», «pratica della
giustizia», «vocazione profetica», «impegno missionario».
Condanna dell’agrobusiness
Particolare evidenza hanno avuto la
questione indigena – con la denuncia delle politiche del governo di Dilma Rousseff,
che «mirano a impedire la demarcazione delle terre indigene» e promuovono
«grandiosi progetti infrastrutturali che
aggrediscono le comunità originarie», e
la valorizzazione del Buen vivir delle popolazioni autoctone del continente – e le
lotte dei piccoli pescatori per proteggere
i propri territori dallo sfruttamento selvaggio delle risorse ittiche attuato dalle
grandi imprese.
Meno evocate, invece, la partecipazione della donna nella Chiesa e nella società,
nonostante i maschi fossero meno della
metà dei delegati delle 100.000 CEB sparse nel paese, e la condizione dei giovani,
di cui comunque si sono ricordati i molti
morti per mano delle forze dell’ordine.
I vescovi presenti hanno riconosciuto di essere stati «molto sensibilizzati
dalle forti proteste di tante persone
per le conseguenze dell’agrobusiness,
del disboscamento, della costruzione di
centrali idroelettriche, dell’attività mineraria, delle opere per la Coppa del mondo di calcio, della siccità prolungata nel
Nordest, del traffico di esseri umani, del
lavoro schiavo, delle droghe, della man-
Elementi caratteristici di questo XIII
Interecclesiale sono stati, da una parte,
l’intreccio tra religiosità popolare e spiritualità liberatrice, e, dall’altra, la consapevolezza delle sfide pastorali connesse alla volontà della Chiesa brasiliana di
strutturarsi come «rete di comunità».
Il Ceará, infatti, è una regione molto
segnata dalla devozione nei confronti di
p. José Antonio Ibiapina, missionario che
nel XIX secolo svolse una grande opera
di promozione sociale delle poverissime
popolazioni del semidesertico sertão, e
soprattutto di p. Cicero (Cicero Romão
Batista), che a cavallo tra il XIX e l’inizio
del XX secolo svolse un’intensa attività
apostolica e di fondazione di comunità,
guadagnandosi un enorme prestigio presso la popolazione, ma entrando anche in
conflitto col vescovo dom Joaquin Viera,
fino alla sua scomunica (attualmente in
corso di revisione), dopo la quale si dedicò alla vita politica, divenendo sindaco di
Juazeiro do Norte.
D’altro canto, la riflessione avviata
nella Chiesa brasiliana attorno alla parrocchia come «comunità di comunità»
esige la creazione di nuove CEB e di nuovi leader, secondo uno spirito missionario, in un contesto culturale segnato
dall’urbanizzazione, dai social network,
dal pluralismo etico e religioso. Ma per
suor Anette Dumoulin, missionaria belga delle canonichesse di sant’Agostino,
ciò richiede di «cambiare la formazione
dei seminaristi per avere preti che sappiano lavare i piedi delle loro pecore e
non abbiamo una mentalità da padroni».
Inoltre, se «essere fermento tra le masse delle città-imprese e delle campagne
dell’agrobusiness è la missione profetica delle CEB oggi», come ha sostenuto il
carmelitano p. Gilvander Moreira, consulente della Commissione pastorale della
terra della CNBB, è necessario che esse
ritornino a una maggiore partecipazione
alle mobilitazioni popolari. Non a caso
p. Manuel Godoy ha parlato di «spoliticizzazione delle CEB», molte delle quali
«mescolano lotta sociale ed espressioni
religiose emotive e pragmatiche, giustapponendo gruppi su “fede e politica” a liturgie alienanti e fondamentaliste». Temi
da riprendere al prossimo Interecclesiale,
che si terrà nel 2017 a Londrina, nello Stato del Paraná.
M. C.
Africa
l
C
ercare di ricostruire la storia della Somalia degli ultimi anni è un’impresa difficile. Paese complesso dal
punto di vista sociale e
giovane come stato indipendente, essa sta vivendo una lunghissima fase di
anarchia priva di credibili autorità politiche, in preda a una guerra civile sanguinosa, ostaggio del fondamentalismo
islamico e delle mire egemoniche dei
paesi confinanti. Le cronache (in verità
molto scarne) ci parlano di una situazione umanitaria gravissima, con migliaia
di sfollati interni e decine di migliaia di
rifugiati all’estero, emergenze alimentari causate da carestie continue, per non
parlare della cronica mancanza di una
qualsivoglia rete che offra assistenza sanitaria. Un paese alla deriva che stenta
a trovare una via per uscire da una crisi
che si trascina dal 1991, quando il roveDonna somala rifugiata in Kenya
dopo le incursioni dei militari kenioti
nella regione di Mudug, ottobre 2011.
Somalia
a fuga continua
In un paese senza controllo,
solo la Chiesa non se n’è andata
sciamento della dittatura di Siad Barre
sfocia nella guerra civile e, dopo il ritiro
degli eserciti occidentali, lascia la Somalia preda dei «signori della guerra», che
si combattono senza quartiere causando
migliaia di vittime.
Le conferenze di Gibuti (2000) e Mbagathi (2002) non riescono a imporre un
minimo di stabilità nel paese. Solo nel
2004, grazie a una mediazione dell’IGAD (l’organizzazione politico-commerciale dei paesi dell’Africa orientale), vengono formati un Parlamento e
un Governo nazionale di transizione
(GNT), ma anche queste istituzioni rimangono preda dei «signori della guerra», che formalmente le sostengono, ma
nei fatti continuano a combattersi.
L’anno di svolta è il 2006. Le Corti islamiche, tribunali che dirimono le
controversie locali e mantengono l’ordine pubblico nei quartieri, sostenute dal-
la popolazione si ribellano ai clan. In
poche settimane, i gruppi armati delle
Corti hanno il sopravvento sulle milizie
dei «signori della guerra». La conquista
di Mogadiscio e di ampie zone del paese mette il Governo alle corde. Nelle zone sotto il controllo delle Corti islamiche torna la stabilità.
Gli Stati Uniti, pur temendo che la
Somalia si trasformi in un nuovo Afghanistan, memori delle sconfitte negli anni
Novanta non si impegnano direttamente sul territorio somalo. Fanno quindi pressioni sull’Etiopia (nemico storico
della Somalia) affinché intervenga per
prendere il controllo del paese. L’intervento militare etiope spazza via le Corti
islamiche, ma per la Somalia si apre una
stagione ancora più dura. Una fazione
delle Corti continua a lottare. Si autodefiniscono al-Shabaab («I giovani»), propugnano un ritorno a un islam radicale e si propongono come veri nazionalisti che combattono contro il GNT sostenuto dagli «invasori etiopi cristiani».
Le loro milizie occupano ampie zone
della Somalia meridionale, schiacciando le istituzioni in alcune aree limitate del paese (cf. ampiamente Regno-att.
22,2008,755ss).
Intanto alla guida del GNT si alternano figure diverse. Al presidente Abdullahi Yusuf Ahmed (2004-2008) subentra Sheikh Sharif Sheikh Ahmed
(2009-2012), al quale succede poi l’attuale capo di stato, Hassan Sheikh Mohamoud. Il Governo, nonostante il sostegno internazionale (non solo dei paesi
occidentali ma anche dell’Unione Africana, che invia la missione AMISOM),
non riesce a riportare la stabilità.
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attualità
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La pace che non c’è
Nel 2011 l’esecutivo di Mogadiscio
lancia un’ampia offensiva per riprendere il controllo della Somalia meridionale. È l’operazione militare «Linda
Nchi», coordinata con Nairobi (il Kenya vuole rispondere in questo modo alla crescente minaccia degli interessi kenioti nel settore del turismo e petrolifero da parte di al-Shabaab). Le truppe
somale e keniote non combattono però
da sole: forte è il supporto logistico e di
intelligence offerto da Stati Uniti, Gran
Bretagna e Francia. I miliziani islamici
vengono costretti a lasciare i centri della
costa e a rifugiarsi nelle loro basi all’interno. L’operazione termina nel giugno
2012; da quel momento il Governo proclama di aver sconfitto al-Shabaab e di
aver ripreso il controllo del paese.
La realtà è diversa. La situazione
umanitaria è tragica. L’aspettativa di vita è crollata a 49 anni, il 79% della popolazione è analfabeta e il PIL pro-capite è pari a 155 dollari all’anno (50 centesimi al giorno). Per mettersi in salvo, le
persone fuggono. Secondo l’Alto Commissariato per i rifugiati delle Nazioni
Unite, più di un milione di somali sono sfollati in zone sicure all’interno del
paese e altrettante sono fuggite all’estero (soprattutto in Kenya).
Ma il GNT non sembra far fronte
a questa emergenza. Il presidente Hassan Sheikh Mohamoud è un musulmano intransigente che guida deboli istituzioni di transizione attraverso un gruppo di fedelissimi. Ciò ha favorito corruzione, scandali, nepotismo. Dal punto di vista militare, il Governo controlla
poche strade della capitale intorno all’aeroporto di Mogadiscio dove, sul modello di quella istituita a Baghdad, ha
creato una «zona verde». In quest’area,
protetta dai soldati dell’AMISOM, sono concentrati ministeri, uffici pubblici
e delle organizzazioni internazionali e
alcune rappresentanze diplomatiche. Al
di là della «zona verde», il GNT non ha
autorità.
In Somalia esistono poi alcune realtà semi-autonome. Quelle storiche, Somaliland e Puntland, sono abbastanza stabili. Le altre sono fittizie. È il caso dell’amministrazione del Jubaland,
la cui esistenza è assicurata dai militari
AMISOM. Se così non fosse, verrebbe
spazzato via da al-Shabaab.
Al Shabaab, infatti, è tutt’altro che
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attualità
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allo sbando. Si è riorganizzata attraverso
un duro confronto interno da cui è uscito vincitore Moktar Ali Zubeyr «Godane»; questi ha poi stretto un solido rapporto con al-Qaeda, di cui al-Shabaab
è diventata la «filiale» in Africa orientale. Al di là della sua dimensione jihadista internazionale, al-Shabaab è rimasta però un’organizzazione nazionalistica. Nei suoi proclami continua a condannare la presenza di truppe straniere
sul territorio nazionale e ad accusare la
comunità internazionale di sostenere un
governo-fantoccio. Messaggi che fanno
molta presa sulla popolazione.
Sulla Somalia pesano anche le forti influenze occidentali. La Gran Bretagna è la guida politica del GNT. Ha
aperto un’ambasciata nella «zona verde» e ha dispiegato un contingente militare, mentre proprio a Londra si è tenuto il 7 maggio 2013 un summit internazionale che ha lasciato ben sperare (cf.
Regno-att. 10,2013,289). Londra non
è tanto interessata alle risorse naturali,
quanto piuttosto alla gestione dei flussi migratori verso il Regno Unito, per
prevenire attentati terroristici. In questo lavora con il pieno assenso degli Stati Uniti, i quali operano sul territorio in
segreto attraverso reparti speciali e droni. Molto interessata alle risorse naturali (petrolio) è la Francia. Non è un caso che, insieme alla Norvegia (che a sua
volta mira ai giacimenti), abbia sostenuto l’operazione militare «Linda Nchi».
Una Chiesa martire
A livello locale, Addis Abeba vuole
una Somalia instabile per mantenere il
suo ruolo di leader regionale. Per questo motivo mantiene truppe ai confini e
alimenta il conflitto tra le milizie somale. Neanche Nairobi vuole una Somalia
forte. Il Kenya sta lavorando alla creazione di un mercato per i suoi prodotti che vada dalla regione somala keniota alla zona meridionale della Somalia.
Ciò gli permetterebbe di controllare la
zona di mare al confine tra i due paesi,
dove esistono importanti blocchi petroliferi, e, soprattutto, di evitare che la comunità somala in Kenya dia vita a una
rivolta che potrebbe destabilizzare il paese.
L’Italia, ex paese coloniale, ha ormai un ruolo defilato. La crisi economico-finanziaria ne ha eroso sia i fondi sia
il peso politico. Roma non ha più una li-
nea autonoma e spesso si accoda alle decisioni di Gran Bretagna e Stati Uniti.
Qualcosa tuttavia si sta muovendo. Recentemente il Ministero degli Esteri ha
nominato Andrea Mazzella incaricato
d’affari presso il Governo di Mogadiscio
e sta progettando di costruire un’ambasciata su un terreno che le è stato donato
all’interno del perimetro aeroportuale.
Per proteggere il piccolo compound che
attualmente ospita gli uffici diplomatici
dell’Italia sono stati inviati una sessantina di uomini della Brigata Folgore, che
lavorano anche nell’addestramento del
nuovo esercito somalo.
La guerra civile non ha solo distrutto
il paese, ma ha anche travolto la piccola comunità cattolica locale. Eredità coloniale, la Chiesa cattolica aveva mantenuto una propria presenza anche dopo l’indipendenza. La diocesi di Mogadiscio contava due parrocchie nella capitale e diverse stazioni missionarie. I
fedeli erano in maggior parte stranieri:
ex coloni, cooperanti, personale diplomatico, professori italiani dell’Università nazionale. I cattolici somali erano
poco meno del 3% del totale. L’azione
di sacerdoti e suore, soprattutto quella
in campo sociale, era molto apprezzata
dalla popolazione. Il primo segnale d’allarme per la Chiesa è stato l’assassinio di
mons. Colombo il 9 luglio 1989.
Quella morte ha segnato l’avvio del
disfacimento dello stato e l’inizio della
guerra civile. Ma la Chiesa non se n’è
andata. Anche negli anni più duri, è rimasta attiva attraverso l’azione della
Caritas, delle suore della Consolata e di
numerosi missionari. Una presenza pagata a caro prezzo con la morte di diversi testimoni della fede (Annalena Tonelli, suor Leonella Sgorbati, Graziella Fumagalli, padre Pietro Turati) e la distruzione di chiese e luoghi di culto.
Oggi la Chiesa somala è retta da
mons. Giorgio Bertin, vescovo di Gibuti e amministratore apostolico di Mogadiscio. Sul territorio non sono rimaste
che rovine delle chiese e delle stazioni
missionarie. La Caritas però continua a
operare sostenendo scuole, centri sanitari, iniziative professionali e cercando
di rispondere a emergenze varie. Una
presenza viva, nonostante le enormi difficoltà di uno stato travolto da vent’anni
di anarchia.
Enrico Casale
Africa
Sud Sudan
è
Futuro in bilico
arrivata improvvisa ma non inaspettata, la guerra intestina in Sud Sudan.
Tensioni vecchie di anni stanno dietro le tappe della crisi: gli scontri che il 15
dicembre nella capitale Juba hanno opposto reparti della guardia presidenziale
fedeli al presidente Salva Kiir e al suo ex
vice (deposto a luglio scorso) Riek Machar; l’accusa di golpe mossa dal capo
dello stato al rivale; oltre un mese di
scontri costati la vita, secondo alcune stime ancora non confermate, a 10.000
sudsudanesi e che hanno visto l’intervento di truppe ugandesi a fianco del governo; le complesse trattative che ad Addis
Abeba hanno portato alla firma di un cessate il fuoco il 23 gennaio.
«Il problema di fondo è come condividere il potere con la seconda grande etnia del paese, i nuer», di cui anche
Riek Machar è un esponente, argomenta il dottor Paolo Setti-Carraro, operatore umanitario di Medici con l’AfricaCUAMM in Sud Sudan. E spiega: «Le minoranze, grandi come i nuer o più piccole, in questo momento non sono rappresentate; la gestione del potere è verticistica e in mano ai dinka», la popolazione
cui appartengono il presidente e la maggior parte dei ministri. Il nodo non è nuovo, perché risale agli anni in cui l’attuale
partito di governo, il Sudan people’s liberation movement (SPLM), conduceva
la lotta armata contro il governo sudanese di Khartoum, ma spiega anche perché uno scontro essenzialmente politico
– con in palio posti di potere e controllo
delle risorse petrolifere del paese – si sia
sviluppato, a livello locale, anche lungo linee etniche.
«La separazione tra dinka e nuer, e
quindi la voglia di rappresaglia – dice ancora Setti-Carraro – sono all’ordine del
giorno in realtà come i campi profughi e
nei loro dintorni». Considerando che gli
sfollati causati solo dall’ultimo conflitto
sono già oltre 860.000, su poco meno di
11 milioni di abitanti totali, è facile immaginare che, come sostiene lo stesso cooperante di Medici Con l’Africa–Cuamm
«nel grosso del paese questa contrapposizione sarà difficilissima da risolvere
senza scelte politiche al vertice». Al momento, tuttavia, le parti sono divise persino sulla sorte degli 11 alti dirigenti politici arrestati da Kiir con l’accusa di complicità con Machar (che nega, però, il tentativo di golpe). Sette di loro, dopo lunghe trattative, sono stati consegnati alle
autorità kenyane, ma rischiano ancora
il processo, e per gli altri quattro non è
stato compiuto nemmeno questo primo
passo.
La pace secondo le Chiese
Ai capi delle due fazioni si sono rivolti anche i vescovi di Sudan e Sud Sudan,
riuniti a Juba dal 21 al 31 gennaio. «Dispute interne al partito» di governo, la «tendenza a personalizzare il potere politico e
a comportarsi in modo contrario agli interessi delle nostre comunità», «corruzione e nepotismo» sono tutti elementi citati dall’esortazione pastorale che ha concluso l’incontro. Nel cercare una soluzione, i presuli invitano a «una riforma democratica all’interno del SPLM», alla nomina
di «individui scelti per la loro competenza e professionalità» alla guida delle istituzioni locali, alla «trasparenza» e alla fine
dell’impunità «per i crimini commessi da
politici, esercito, polizia e altri soggetti».
Inoltre, una riforma delle istituzioni di sicurezza è considerata «urgente».
I vescovi hanno rivendicato, in più, un
ruolo nei colloqui di pace, dicendosi «critici» dell’esclusione «delle Chiese e delle
altre forze della società civile» dal tavolo
di Addis Abeba, come già fu, nel 2005, per
gli accordi che gettarono le basi per l’in-
dipendenza sudsudanese. «Perché solo
coloro che hanno preso le armi stanno discutendo il futuro del nostro paese? Qual è la legittimità di qualsiasi accordo firmato ad Addis Abeba da gruppi militari che determinano il nostro futuro?»,
si legge nel documento. E anche il primate della Comunione anglicana, Justin Welby, arrivato a Juba, ha esortato i leader in
conflitto a «mettere da parte le differenze politiche per portare pace e riconciliazione», dicendo poi che «non ci deve essere impunità» per i responsabili di gravi attacchi come quelli condotti contro
operatori umanitari.
Da risolvere restano anche i problemi quotidiani. Paolo Setti-Carraro spiega
che «una certa serenità sociale» dovrebbe tornare con la riapertura delle scuole,
annunciata dal governo. Molti, però, sottolinea il medico, «non credono che questo armistizio rappresenti la fine dei conflitti», non solo per la presenza di alcuni
gruppi armati ribelli che sfuggono al controllo di Machar e potrebbero dare vita a
scontri «almeno a livello locale»; neanche
l’esercito regolare ha arrestato l’avanzata. E mentre, secondo l’ONU, 3 milioni e
700.000 persone hanno urgente bisogno
di cibo, anche chi ancora può rivolgersi
ai mercati locali incontra difficoltà. «L’impressione è che il flusso di prodotti freschi che in genere arrivavano dall’Uganda sia rallentato. Si trovano i cibi di base,
riso e fagioli, un po’ di carne di bue e pesce secco, ma manca, ad esempio, la carne di pollo e i prodotti dell’orto, già scarsi, sono contingentati», racconta l’operatore del CUAMM.
Un punto ancora più importante,
continua Setti-Carraro, è che i materiali
inviati dal governo attraverso gli aiuti internazionali sono stati ovviamente «dirottati verso le zone teatro degli scontri»
e quindi anche presidi sanitari come quello di Medici con l’Africa dovranno probabilmente acquistare quelli di prima necessità sul mercato dove i prezzi – come
per qualsiasi merce – sono molto aumentati. E per il Sud Sudan sarà difficile rimediare alla scarsità di beni attraverso la
vendita del petrolio, da sempre àncora di
salvezza del paese: i combattimenti hanno quasi fermato la produzione dei pozzi,
negli stati di Unity e Upper Nile. Sembra
dunque essere stato vano anche l’accordo stilato da Kiir – attraverso una probabile mediazione cinese – con il nemico di
sempre, Khartoum, che prevedeva persino un pattugliamento congiunto dei giacimenti.
Davide Maggiore
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Africa
Madagascar
L
Il nuovo presidente
a chiave d’oro è passata di mano ad
Antananarivo. Con la consegna del
simbolo del potere nelle mani del
neopresidente Hery Rajaonarimampianina da parte del suo predecessore Andry
Rajoelina, il Madagascar ha voluto sancire
anche simbolicamente la fine della crisi
politica e istituzionale iniziata nel 2009
(cf. Regno-att. 10,2013,290). Il ballottaggio
che lo scorso dicembre ha visto prevalere
Hery (come viene familiarmente chiamato da molti malgasci) sul rivale Jean-Louis
Robinson, infatti, ha riportato la pace tra
la Grande Isola e la comunità internazionale. A livello interno, però, il futuro presenta diverse incognite.
Il giorno stesso dell’insediamento del
nuovo presidente, il 27 gennaio, racconta
don Luca Treglia, salesiano, direttore di
Radio Don Bosco nella capitale Antananarivo «è stata fatta esplodere una bomba a mano in mezzo a un gruppo di persone, due bambini sono morti, e ci sono
molti feriti, anche gravi»: sui responsabili
«ci sono ancora soltanto ipotesi – continua il religioso – ma molto probabilmente c’è dietro una matrice politica». Hery, in effetti, non è una figura nuova sulla scena locale: nel 2009, dopo il golpe
che portò Rajoelina al potere, fu nominato ministro delle Finanze e su di lui il leader uscente – a cui era vietato candidarsi
– ha riversato il suo peso elettorale.
Per capire il perché delle tensioni
che ancora restano, bisogna tenere conto anche del fatto che i candidati presidenti registrati per il primo turno delle
presidenziali, tenutosi il 25 ottobre dopo una lunga serie di rinvii, erano ben 33:
una frammentazione che aveva provocato la preoccupazione dello stesso arcivescovo di Antananarivo, mons. Odon Razanakolona. Proprio il presule, subito dopo le elezioni, quando Robinson contestava l’esito del voto denunciando brogli,
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«si è preso l’incarico di riunire i due candidati e alla fine lo sconfitto ha accettato
la vittoria del rivale», dice don Treglia. A
sua volta il vincitore «ha lasciato aperta la
porta all’opposizione», tanto che anche
Marc Ravalomanana, il presidente deposto nel 2009 e grande sponsor proprio di
Robinson, «ha la speranza di poter tornare dall’esilio in Sudafrica e collaborare
col nuovo governo», prosegue il direttore di Radio Don Bosco.
«Ovviamente - riconosce il salesiano
- un nuovo presidente da solo non può
fare miracoli, ma c’è una speranza anche
per alcune sue prese di posizione, con
cui ha eliminato alcune vecchie strutture
che potevano creare problemi e bloccare il processo di riconciliazione». Il riferimento è alla Forza di intervento speciale
(FIS) e alla Direzione di sicurezza del territorio (DST), create da Rajoelina e malviste – secondo don Treglia – «anche dalla comunità internazionale». Hanno perso il loro posto anche «alcuni consiglieri
legati al vecchio presidente», prosegue il
religioso, e altri provvedimenti sono stati presi «a livello dei ministeri: ora i ministri in carica non possono prendere decisioni e si dovrà attendere la formazione
del nuovo governo».
Cinque anni
da cancellare
Nominare un nuovo esecutivo, però,
rischia di non essere facile. L’indicazione del premier spetta allo schieramento di maggioranza relativa, cioè la coalizione pro-Rajoelina, che ha ottenuto 53
seggi su 151, contro i 30 deputati che fanno riferimento a Robinson. La situazione
potrebbe cambiare solo se tutti o quasi i parlamentari eletti come indipendenti, che sono 68, si federassero in un gruppo unico. In ogni caso, Hery dovrà trovare la formula che permetta di conci-
liare la sua fedeltà verso Rajoelina con le
esigenze della pace. Un fine, quest’ultimo, perseguito anche dal Consiglio delle Chiese malgasce (FFKM la sigla in lingua
locale dell’organismo ecumenico), che ha
avuto un ruolo di mediazione fin dall’inizio della crisi. Tuttavia il programma di riconciliazione elaborato da questo organismo – nota don Treglia – «è molto valido ma non ha avuto un sèguito», anche
perché alcune figure dell’organismo sono
percepite come legate alle diverse parti
in campo, a testimonianza di quanto cinque anni di crisi abbiano reso invasive le
divisioni politiche.
La ricerca dell’unità istituzionale non
è l’unico problema: il golpe ha portato
alla sospensione di tutti gli aiuti e i programmi umanitari, tranne quelli di emergenza. Di conseguenza «la gente è in una
situazione critica, l’economia non gira,
il lavoro è poco e ogni famiglia non ha i
soldi sufficienti per portare avanti la vita
domestica, far studiare i bambini, assicurare loro il cibo quotidiano o i medicinali che servono», sintetizza il sacerdote salesiano. Lo stesso quadro emerge dai dati
della Banca mondiale, per cui il 92% della
popolazione vive con meno di 2 dollari al
giorno.
Cinque anni di crisi hanno significato
anche l’azzeramento degli investimenti privati: comprensibile quindi che il ritorno del Madagascar a un vertice dell’Unione Africana (da cui era stato sospeso
dopo il golpe) abbia coinciso con un appello di Hery ai donatori perché organizzino una conferenza che delinei un piano economico per l’isola. Tra economia
bloccata e instabilità politica, del resto,
c’è un nesso strettissimo. A riconoscerlo sono stati anche i vescovi cattolici del
paese che nel loro messaggio a chiusura dell’Anno della fede – pubblicato tra
il primo e il secondo turno elettorale –
hanno scritto: «A causa del potere del
denaro, durante le campagne elettorali
hanno abbondato le calunnie e le esclusioni su base tribale, e la compravendita
dei voti è stata effettuata su larga scala».
«I poveri delle campagne – continua
il documento – erano stupefatti davanti all’arrivo di un numero smisurato di potenti berline e SUV e al dispiegamento
di elicotteri», segno «che denaro ce n’è,
ma non è stato utilizzato per il bene della popolazione». Anche questo, per il paese e il suo nuovo leader, sarà un banco
di prova della credibilità appena ritrovata, sul piano interno e su quello internazionale.
D. M.
S a n ta S e d e
a
I
toni perentori e le critiche ad amplissimo raggio fanno delle Osservazioni conclusive sul secondo rapporto periodico della Santa Sede sulla Convenzione sui diritti dell’infanzia, stilate dal Comitato
sui diritti dell’infanzia dell’ONU e rese note il 5 febbraio 2014, un punto di
non facile ritorno.1 Che non si può liquidare con un’alzata di spalle.
Il testo misura il parere della Commissione su quanto le prassi e i provve-
Dal film Philomena,
ispirato alla vicenda
di Philomena Lee che il papa
ha incontrato il 5 febbraio.
Diritti dell’infanzia
chi giova lo scontro
Le Osservazioni del Comitato ONU:
la realtà e l’ideologia
dimenti legislativi degli stati firmatari
della Convenzione si discostano o meno dalla stessa. Ma mentre nell’introduzione s’afferma che c’è un «cambiamento d’atteggiamento e delle prassi»
(n. 3) della Santa Sede, nel (lungo) seguito si afferma che «le raccomandazioni contenute nelle Osservazioni conclusive del Comitato del 1995 (…) non
sono state pienamente accolte» (n. 9).
L’elenco molto esteso comprende
le dichiarazioni del Vaticano sull’o-
mosessualità, che «contribuiscono alla
stigmatizzazione sociale e alla violenza contro adolescenti lesbiche, gay, bisessuali e transgender o contro i figli allevati da coppie dello stesso sesso» (n.
25); l’enfatizzazione della «promozione della complementarietà e dell’uguaglianza in dignità» tra uomo e donna,
concetti distanti dall’«uguaglianza nella legge e nella prassi prevista dall’art.
2 della Convenzione e che spesso sono
usati per giustificare legislazioni e politiche discriminatorie» (n. 27); il problema dei «bambini nati da preti cattolici» che «non conoscono l’identità dei
propri padri» (n. 33); l’insegnamento sull’aborto (n. 55); per finire con le
mancate «misure per risolvere i casi di
violenze sessuali su minori», cosa che
«ha portato al protrarsi delle violenze
e all’impunità dei colpevoli» (n. 43).
Diritti non negoziabili
Una sorta di manifesto ideologico
dei diritti non negoziabili, a dire il vero
non coerente e contenente anche errori grossolani,2 che coglie l’occasione
per sferrare colpi all’unico soggetto al
mondo che si sia dato una policy sulla pedofilia valida – pur con i limiti e
le carenze che anche in queste pagine
non abbiamo mai mancato di sottolineare – a ogni latitudine.
Ci sono però, tra le altre, due contraddizioni che confermano che l’obiettivo ultimo del documento non è
la modalità con la quale la Chiesa fa
fronte alla pedofilia e alla tutela dei minori, bensì portare un attacco ideologico alla Chiesa.
La prima è quella del tempo, qui
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considerato come una variabile indifferente, per cui sono messi sulla medesima linea di valutazione, da un lato, gli abusi compiuti all’interno della congregazione dei Legionari, gli orrori delle Magdalene laundries (l’ultima delle quali chiusa nel 1996) e la famosa lettera del 2001 a firma del card.
D. Castrillón Hoyos in cui si complimentava con un vescovo per non aver
consegnato alla giustizia un sacerdote – citata anche nello scontro con il
Parlamento irlandese (cf. Regno-att. 16,
2011,549) –; dall’altro, le azioni intraprese sotto il pontificato di Benedetto XVI, sino alla richiesta formulata a
tutte le conferenze episcopali di dotarsi
di linee guida in materia entro il maggio 2012 (cf. Regno-att. 11,2011,333).
La seconda è che poiché la critica
del Comitato va ben oltre la questione
della pedofilia e pretenderebbe modifiche al Codice di diritto canonico sull’intera morale – comprendendo ad esempio anche «le diverse forme di famiglia» (n. 48) – come se la pedofilia esistesse nella Chiesa a motivo di norme
morali restrittive, nella società «dei diritti individuali» il fenomeno non dovrebbe semplicemente esistere. Senza
dire – ma questa è un’aggravante per
il Comitato ONU, non una giustificazione per il Vaticano – che tanto zelo dovrebbe essere applicato anche a
Congo, Germania, Portogallo, Russia
e Yemen, che fanno parte della stessa
tornata di revisione sull’applicazione
della Convenzione...
È probabile dunque che il vero
obiettivo sia quello di cercare di spingere la Santa Sede verso la porta d’uscita dagli organismi dell’ONU, tribuna internazionale per eccellenza, ancorché in forte crisi politica. Era già
stato tentato una prima volta a partire dalla metà degli anni Novanta: allora circa 400 ONG raccolsero firme
per chiedere la cancellazione dello status di osservatore della Santa Sede in
ragione delle sue posizioni in materia
di famiglia e sessualità. Riconfermata infine la forma della sua presenza
con una votazione per acclamazione
dall’Assemblea nel luglio 2004,3 oggi
questo testo sembra voler riaprire quel
solco con il grimaldello delle malefatte
(reali) del clero e degli episcopati riluttanti (realmente) nel prendere sul serio
il fenomeno pedofilia.
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Tuttavia è ragionevole dubitare che
possa essere proprio questo documento, che fa di tutto per ottenere un’apologetica risposta «per le rime», a convincere i riluttanti che la via della trasparenza e della responsabilità verso
i mali commessi dagli ecclesiastici sia
la migliore possibile. E a convincere
in particolare l’episcopato italiano – il
più additato dai commentatori, che sono in attesa di conoscere il nuovo testo delle Linee guida licenziato dall’ultimo Consiglio permanente della CEI
e attualmente all’esame della Congregazione per la dottrina della fede – a
inserire il dovere «morale» del vescovo
locale di sporgere denuncia alle autorità giudiziarie, ancorché formalmente
non tenuto, per il fatto che questi, come il sacerdote, non è secondo la legge
italiana un «pubblico ufficiale».
La risposta
Il crinale quindi su cui si dovrà
muovere la risposta vaticana è formato da un terreno molto franoso. Innanzitutto le argomentazioni del Comitato
– omertà, silenzi in cambio dei risarcimenti, irresponsabilità dei vescovi – riaprono ferite vere e chiedono un’accelerazione della messa in atto e il consolidamento degli strumenti per la lotta e
soprattutto per la prevenzione della pedofilia. Primo fra tutti l’avvio del lavoro della Commissione per la protezione
dei fanciulli istituita da papa Francesco
e richiamata anche a fine gennaio, durante l’incontro con la Congregazione
per la dottrina della fede.
Poi i toni. «La Santa Sede non farà mancare le sue risposte attente e argomentate» – ha detto in un’articolata
dichiarazione a Radio Vaticana p. Federico Lombardi, direttore della Sala
stampa della Santa Sede il 10 febbraio –, senza voler cercare lo «scontro»
su un testo che in più punti lo merita,
come tanti osservatori hanno egregiamente dimostrato.4
Una risposta contrappositiva, da
alcuni strumentalmente invocata, è innanzitutto controproducente, come
il caso Irlanda ha dimostrato,5 perché
chiude «il dialogo» che viceversa la
Santa Sede, e non da oggi, «desidera»
con l’ONU, «luogo d’incontro fra tutte le nazioni» e «vasto mondo (in cui)
s’incontrano o si scontrano visioni diverse» – ha ribadito p. Lombardi.
E, ancor più, costituisce un ulteriore alibi per chi, tra il clero e magari anche tra i laici, ai diritti dei minori
proprio non vuole dare la priorità, ma
preferisce addossare semplicisticamente la colpa alle «congiure mediatiche».
A questo proposito gioverà valorizzare maggiormente il percorso d’«ampia consultazione» aperto in vista del
prossimo Sinodo sulla famiglia, dove
il dibattito su alcune tematiche sensibili andrà a toccare tutte le criticità sollevate dal Comitato. E dimostrare che
sullo specifico della pedofilia la Chiesa
ha riconfermato con decisione la strada
intrapresa, in modo che le divergenze
d’opinione non siano più oscurate dai
fatti su cui chiedere perdono.
Maria Elisabetta Gandolfi
1
Il Comitato è formato da 18 membri
«d’alto profilo morale ed esperti nel campo dei
diritti umani», eletti tra i paesi firmatari della
Convenzione. Le loro posizioni sono espresse a
titolo personale e non rappresentano il proprio
paese ma «rispondono solamente ai bambini di
tutto il mondo» (sic!). Gli attuali sono: Amal Aldoseri (Bahrein); Aseil Al-Shehail (Arabia Saudita); Jorge Cardona Llorens (Spagna); Sara de
Jesus Oviedo Fierro (Ecuador); Bernard Gastaud (Monaco); Peter Guran (Slovacchia); Maria Herczog (Ungheria); Olga Khazova (Russia); Hatem Kotrane (Tunisia); Gehad Madi
(Egitto); Benyam Dawit Mezmur (Etiopia); Yasmeen Muhamad Shariff (Malaysia); Wanderlino Nogueira Neto (Brasile); Maria Rita Parsi
(Italia); Kirsten Sandberg (Norvegia, presidente); Hiranthi Wijemanne (Sri Lanka); e Renate Winter (Austria). Il testo integrale delle Osservazioni conclusive, in una nostra traduzione dall’inglese, uscirà sul prossimo Regno-doc.
5,2014.
2 Ad esempio il n. 39 afferma che in alcune istituzioni cattoliche «permangono» pratiche
come le «percosse rituali». Il n. 43d dice che ai
preti in alcuni casi venne imposto il silenzio sulle violenze «pena la scomunica». Il n. 44d ritiene che l’espressione «delitto contro la morale»
presente nel Codice di diritto canonico non configuri un «reato», come invece dovrebbe essere
considerata, secondo il Comitato, la violenza sui
minori.
3 Cf., sull’argomento, Regno-att. 14,2004,454;
18,2005,577; 16,2007,528; 10,2008,357; 22,2008,
754; Regno-doc. 17,2004,524.
4 Ad esempio il 5 febbraio: J. Allen sul Boston Globe; A. Ivereigh sul blog cvcomment.org;
M. Politi su Il fatto quotidiano. Il 6 l’intervista a
Jeffrey Lena a cura di E. Molinari su Avvenire.
5 Anche se oggi il caso pare risolto, dopo
l’annuncio della prossima riapertura dell’ambasciata irlandese presso la Santa Sede. Sulla vicenda irlandese cf. Regno-att. 10,1996,271;
4,2002,93; 22,2009,736; 4,2010,84; 6,2010,164;
6,2011,159; 16,2011,549; 20,2011,665; 6,2012,
160; 8,2012,242; 14,2012,452; 2,2013,26; 10,2013,
277;12,2013,340;Regno-doc.13,2009,442;11,2010,
327; 7,2011,228; 19,2011,594; 7,2012,213.
L
L ibri del mese
Costantino: anniversario di un mito
L’Enciclopedia costantiniana e il punto storico-culturale
P
reparato con largo anticipo da una serie tanto
di celebrazioni culturali, quali mostre e convegni in svariate città
europee, quanto di pubblicazioni sia
scientifiche sia di alta o meno alta divulgazione, il XVII centenario dell’editto
di Milano ha certamente toccato il suo
apice internazionale con un prodotto
XXI
pensato, voluto e realizzato in Italia:
Costantino I. Enciclopedia costantiniana sulla figura e l’immagine dell’imperatore del cosiddetto editto di Milano.
313-2013,1 opera definitoria e insieme
provocatoria già nel titolo, uscita appena qualche mese fa in tre grandi volumi
per i tipi dell’Istituto della Enciclopedia
italiana, noto al largo pubblico con il
nome di Treccani.
Sull’arco di 1700 anni
di storia
Questa iniziativa editoriale si distingue da ogni altra precedente almeno per
tre motivi. Anzitutto, per l’ampiezza cronologica considerata, dal momento che
l’esame prende le mosse dalla complessa vicenda del primo imperatore morto
cristiano per poi estendersi lungo l’intero
percorso storico sino alle ultime riletture
ideologico-politiche e alle odierne rivisitazioni artistico-culturali.
In secondo luogo, per la profondità
dell’analisi offerta, se si tiene presente che
ogni argomento tematizzato in forza della sua rilevanza storico-culturale è fatto
oggetto di almeno un saggio, aggiornato
scientificamente e bibliograficamente, e
che per l’individuazione del suo autore
nella maggior parte dei casi si è scelto
uno studioso tra quelli più rappresentativi dell’attuale ricerca in materia sul piano internazionale; non è dunque fortuito
che gli scritti degli autori stranieri, proposti sempre in traduzione, rappresentino
all’incirca un terzo dell’intera opera.
Nella trattazione di ciascuna voce si è
ritenuto opportuno, come si conviene al
genere enciclopedico, ricercare il giusto
contemperamento tra nozioni acquisite
e ipotesi pur suggestive ma non ancora
pienamente suffragate dai dati, così che
nell’alveo della tradizione meglio accreditata potessero trovare spazio tanto
l’originalità di organizzazione e di esame dei materiali come la parziale novità
della sintesi storiografica d’insieme proposta.
In terzo luogo, infine, per il rigore
metodologico, che si ravvisa nella precisione degli apparati (fonti, repertori,
tavole), nell’accuratezza della scelta del
materiale iconografico, nell’articolazione
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attualità
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99
L
ibri del mese
stessa della materia – suppergiù 150 saggi
atti a coprire più di 17 secoli di storia –
, ma specie nel tono unitario dell’opera,
frutto maturo di un progetto di lunga e
complessa gestazione e insieme esito della collaborazione tra mondo editoriale e
della ricerca del nostro paese.
Nella realizzazione di tale monumento, la Treccani ha richiesto, per ciò che
concerne l’insieme degli aspetti ideativi,
progettuali e pratici, la collaborazione –
felicemente sperimentata in un’analoga
opera enciclopedica, Cristiani d’Italia,
uscita alla fine del 2012 e già oggigiorno
non più disponibile sul mercato se non in
formato kindle – della Fondazione per le
scienze religiose di Bologna. Essa, sessantennale laboratorio e officina di ricerca
storico-religiosa fondata da Giuseppe
Dossetti, a lungo animata da Giuseppe
Alberigo e attualmente guidata da Alberto Melloni, suo direttore scientifico, porta
avanti progetti di ricerca di rilievo internazionale su tematiche storiche cruciali
nel campo della storia del cristianesimo
e della multiculturalità religiosa.
Non solo la gestazione, evidentemente, ma anche la realizzazione di una pubblicazione che ha finito col contare molte
migliaia di pagine d’ampio formato, si è
rivelata così impegnativa e ha incontrato
talora qualche difficoltà così seria da rendere quasi doverosa la menzione in questa sede degli studiosi che vi hanno più
direttamente lavorato. Per limitarsi alle
principali questioni, si è richiesto prima
di tutto un immane lavoro pre-editoriale, con la formazione di un’autorevole
direzione scientifica internazionale (Alberto Melloni,2 Peter Brown, Johannes
Helmrath, Emanuela Prinzivalli, Silvia
Ronchey, Norman Tanner); di un prestigioso comitato d’onore (Bartolomeo I,
arcivescovo di Costantinopoli e patriarca
ecumenico; card. Angelo Scola, arcivescovo di Milano); e di un nutrito ed eccellente advisory board.
Successivamente si è costituito un
gruppo redazionale, in cui ad alcuni (Stefania De Nardis, Federica Meloni e Davide Dainese) è stato affidato l’incarico di
coordinatori e supervisori, col compito
primario di mantenere i rapporti con gli
autori e la casa editrice, ad altri invece
(Tessa Canella, lo scrivente, Francesco
Ursini e Francesco Ziosi), quello di redattori, col compito di assicurare la buona
qualità dei testi infine da pubblicare.
100
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attualità
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Dopo l’immane lavoro critico sulle
fonti compiuto dalla storiografia ottonovecentesca può apparire difficile ancora crederlo, ma uno dei principali auspici
degli autori di questa Enciclopedia costantiniana, così come uno dei più seri compiti da loro assuntisi nello scriverla, è che
da quest’opera esca finalmente rinnovata
la nostra conoscenza della materia.
Cancellare gli stereotipi
Certo oggi siamo lontani dagli stereotipi e dalle generalizzazioni che massicciamente caratterizzarono il passato
XVI centenario, commemorato nel clima
celebrativo e propagandistico stabilito
dagli ultimi imperi che si rifacevano per
qualche linea più o meno diretta a quello
di Costantino, la cui figura, scivolata ormai nel mito, dava spazio per lo più a una
intensa produzione di scritterelli di taglio
apologetico-ideologico.3
E queste potrebbero quindi sembrare
considerazioni ovvie, se non fosse che certa pubblicistica e certa editoria scolastica
proseguono a inondare il terreno della storia di luoghi comuni, ancora provvisti tutti
d’intensa connotazione ideologica. Già il
grande storico francese Henri-Irénée Marrou, in un saggio del 1939 (tradotto in Italia disgraziatamente solo sessant’anni più
tardi) osservava: «Molti avvenimenti, o periodi, sono conosciuti in forma grossolana;
così si riterrà assodato che Costantino ha
rovesciato la politica religiosa dell’Impero
romano; dopo la sua vittoria su Massenzio,
ha finito per favorire il cristianesimo e per
convertire lui stesso sul serio. Ma, come ci
si ingegna di fare da dieci anni sulla scia di
Norman Baynes e di Grégoire, se si vuole
serrare da presso la questione, precisare e
datare le tappe dell’evoluzione religiosa di
Costantino, sapere se egli ha veramente
avuto una visione nella notte dal 27 al 28
ottobre 312, e ciò che ha visto o creduto
di vedere in quel momento, ci si perde,
poiché per tali fatti la documentazione è
presto insufficiente».4
Osservazioni che parrebbero fatte
invano, se si sta a una certa divulgazione ancor oggi dimentica della complessità delle realtà. Pur nella semplicità delle
analisi, vale la pena fare qualche esempio.
Si prenda il caso della visione della croce e del cristogramma in occasione della
battaglia di ponte Milvio. Se è vero che
secondo la tradizione degli storici cristiani
Costantino riceve una visione, il contenu-
to e l’occasione di questa sono ben diverse
in Lattanzio e in Eusebio, dato che il primo storico racconta che Cristo esorta in
sogno Costantino a porre il cristogramma
sulle insegne e gli scudi dei suoi uomini,
mentre per il secondo storico il futuro
imperatore riceve una visione durante la
marcia, riconoscendo in cielo una croce
con le parole «In hoc signo vinces». In
sostanza, se i due racconti si confermano
reciprocamente e concordano nel messaggio – ponendosi sotto la protezione
del Dio dei cristiani, Costantino otterrà
la vittoria – è però vero che nei dettagli
discordano notevolmente.
Oppure si consideri l’adesione al cristianesimo di Costantino. Egli si fa battezzare solo in punto di morte e da un
vescovo ariano: dunque aderisce proprio
a quell’arianesimo che aveva cercato di
sconfiggere convocando e presiedendo il
concilio di Nicea.
Ancora: un editto di Milano non
esistette mai, perché nella città padana
Costantino e Licinio s’incontrarono certamente nel febbraio o nel marzo del 313,
affrontando questioni relative alla pace
della Chiesa nella parte orientale dello
stato romano, ma mai vi promulgarono
una legge imperiale con misure da applicare in tutto l’Impero. Inoltre tale presunto editto non significò assolutamente l’avvio della pace religiosa nell’Impero, dal
momento che anzi segnò di fatto l’inizio
sistematico delle persecuzioni dei gruppi
acattolici con la nascita della categoria
giuridica di eretico.
Ebbene, i molti saggi di questa vastissima opera contribuiscono ciascuno secondo il suo specifico non solo a delineare
un aspetto della personalità di Costantino
e del suo mondo, ma anche a sorreggere
il lettore lungo un percorso di rara complessità, e proprio per questo originale,
variegato, multiforme come in sostanza è
l’intero edificio tardoantico.
È indubbio che negli ultimi cinquant’anni l’interesse per il tardo Impero
sia venuto di anno in anno accrescendosi
sempre più. E che questo processo sia stato incentivato in modo tutt’altro che insignificante dalle profonde riconsiderazioni
storiografiche degli studiosi del periodo
e degli storici del cristianesimo antico di
svariati paesi dell’Occidente, uniti dalla
consapevolezza dell’urgenza di un profondo rinnovamento delle loro discipline
in certa misura richiesto dai tempi nuovi
XXII
che le società novecentesche, specie postbelliche, stavano vivendo.
Si imponevano, dunque, per così dire,
nuove analisi e nuovi linguaggi per esprimere meno frettolosamente che in termini
di mera decadenza la complessa scena esistenziale, anzitutto storico-antropologica,
in cui si muoveva l’individuo tardoantico,
erede di un mondo in declino e tuttavia
capace di stabilire relazioni personali e
culturali rinnovate e vive, con caratteri costitutivi propri non evanescenti. Un
fenomeno che ha conosciuto i rischi di
interpretazioni forse eccessivamente plurali, di abbracci cronologici talora troppo
indistinti, ma che ha colto con precisione
la sintonia tra quel periodo del mondo antico e l’ultima modernità dei nostri giorni.
E in tale processo magmatico di lunga durata Costantino e la sua visione di
Impero romano occupano un posto di
primaria importanza, finendo col rappresentare uno degli spartiacque culturali
fondamentali nella ripartizione cronologica di quell’epoca.
Insieme con l’accresciuta curiosità
scientifica per gli ultimi secoli della società
romana, mi pare che vada rimarcato anche un secondo dato, ossia il rinnovato interesse per la figura di Eusebio di Cesarea
come intellettuale e storico cui si assiste
ormai da diversi anni e che ha portato a
riconoscerlo quale vero anello di congiunzione per un allargamento di prospettiva
negli studi costantiniani, in quanto fonte
storiograficamente privilegiata nella nostra conoscenza dell’ideologia del sovrano. In particolare, la rivalutazione della
Vita di Costantino in sede di teologia politica da un lato consente nuovi significativi
approcci e dall’altro apre a nuove traiettorie nell’universo delle ipotesi storiografiche e degli eventi di lunga durata, di cui
numerosi saggi di questa Enciclopedia tengono conto.
Costantino sanguinario?
L’architettura dell’Enciclopedia è lineare: procede secondo due coordinate
consolidate e insieme rinnovate: la cronologica e la politica. Dove per politica si intende tutto ciò che è espressione e rappresentazione del potere. Ciascun volume si
compone di due sezioni, per un totale di
sei: la prima è dedicata a «La figura di
Costantino nel suo secolo»; la seconda a
«Lo sfondo storico costantiniano, III-V
secolo»; la terza a «Genesi dell’immagine
XXIII
di Costantino, IV-VI secolo»; la quarta a
«Trasmissione e funzione del mito, VIIXV secolo»; la quinta a «Il destino moderno di Costantino, XVI-XIX secolo»;
la sesta e ultima a «Costantino e il Novecento».
Il primo volume si apre, dunque,
con una sezione consacrata all’esame di
Costantino attraverso le testimonianze
del suo secolo (pp. 1-578). Anzitutto, la
complessa questione della larga famiglia
(genealogia, politica dinastica, morte e
successione), in cui uno spazio speciale
è dedicato al ruolo rivestito dalla madre
Elena, unitamente alla carriera e al governo di Roma e di Costantinopoli. In secondo luogo, dapprima le scelte religiose
personali del sovrano (considerate nella
loro progressione: politica verso i cristiani
– editto di Serdica del 311 e incontro di
Milano del 313 –, rapporto con la divinità del Sol Invictus, infine battesimo ariano), poi quelle pubbliche (il problematico
rapporto con i vescovi di Roma, la convocazione del concilio di Nicea, le linee
generali di politica religiosa: nei riguardi
di pagani, cattolici, ariani, donatisti ed
eretici). In terzo luogo, le scelte politiche
dell’imperatore (riforme amministrative
locali e generali, nonché politica verso i
barbari e gli stati confinanti).
Infine, la rappresentazione del potere
imperiale che trova espressione non solo
nell’architettura e nell’arte delle svariate
città costantiniane (York, Treviri, Arles,
Aquileia, Milano, Niš, Serdica, Sirmio,
Tessalonica, Nicea, Antiochia, Gerusalemme, Roma e Costantinopoli), ma anche nell’epigrafia e nell’iconografia monetale, straordinari veicoli di propaganda
ideologica e di costruzione del consenso.
La seconda sezione, di più ampio
respiro, s’interessa dello sfondo storico
costantiniano, considerando non solo l’epoca del sovrano, ma anche i tempi a lui
successivi, fino al basso Impero (pp. 579958). Il discorso prende le mosse dagli
scenari geo-amministrativi e storico-culturali dell’epoca di Costantino (geografia,
amministrazione, diritto e forme di governo, culture figurativa e filosofica), per
poi passare al clima religioso della società
e allo specifico cristiano.
Il secondo volume si apre con una sezione, la terza dell’intera opera, che riprende e approfondisce la figura di Costantino
attraverso l’immagine che ne offrono durante i secoli IV e V tanto i suoi sostenitori
come i suoi avversari (pp. 1-304). L’esame
ha avvio con i panegiristi, quindi prosegue
con Lattanzio ed Eusebio, tutti favorevoli
alla svolta costantiniana, mentre giudizi
perplessi se non apertamente critici si levano in area monastica egiziana e tra numerosi padri latini del IV-V secolo.
Particolarmente degno di nota è il
giudizio che esce dalla storiografia profana, nel complesso avversa all’imperatore
e di cui condanna l’avidità, la brama di
potere e soprattutto la violenza sanguinaria. La sezione quarta, che chiude il
secondo volume, apre su un problema
storiografico nuovo, quello della trasmissione, della ricezione e della funzione
del mito costantiniano nei cristianesimi
bizantino e medievale, con speciale riferimento a Costantinopoli e a Roma (pp.
305-821).
Non solo agiografia, liturgia e tradizioni cultuali delle Chiese secolarmente
legate a Costantinopoli e della Chiesa
latina, ma anche iconografia, arte e architettura costantiniane sono oggetto di
un accurato esame, al fine di verificare la
vitalità stessa del mito costantiniano tramite le forme culturali attraverso cui esso
entra in processi di assimilazione che ne
consentono sempre nuove modalità d’impiego.
Il terzo volume è interamente dedicato al destino moderno (quinta sezione) e
novecentesco (sesta sezione) dell’imperatore: tra Umanesimo e Riforma, prima (pp.
1-227), tra XVI e XVII centenario dell’editto di Milano, poi (pp. 228-606). In sostanza, come dalla modernità in avanti si
sono lette la vicenda di Costantino e la
sua svolta, e in particolare il cammino
che ha portato quest’ultima a caricarsi
via via di così tante implicazioni ideologiche che nemmeno ora appare possibile
liberarsene.
Fabio Ruggiero
1 Aa. Vv., Costantino I. Enciclopedia costantiniana sulla figura e l’immagine dell’imperatore
del cosiddetto editto di Milano. 313-2013, Istituto
della Enciclopedia italiana, Roma 2013, 3 voll., pp.
vol. 1 XLIV + 1059, vol. 2 XXVII + 927, vol. 3
XXVII + 786, s.i.p. 9788812001712.
2 Sua è l’Introduzione generale, vol. I, pp.
XIII-XXX.
3 Su ciò, cf. S. De Nardis, «L’Italia e il XVI
centenario dell’Editto di Milano», in Costantino I,
vol. III, 447.
4 H.-I. Marrou, Tristezza dello storico. Possibilità e limiti della storiografia, Morcelliana, Brescia
1999, 48.
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attualità
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L ibri del mese / schede
Per la redazione delle Schede di questo numero hanno collaborato: Giancarlo Azzano, Marco Bernardoni, M. Caterina Bombarda, Eleonora Corti, Alfio Filippi, Andrea Franzoni, Maria
Elisabetta Gandolfi, Marco Giardini, Manuela Panieri, Daniela
Sala, Domenico Segna.
I Libri del mese si possono acquistare:
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Sacra Scrittura, Teologia
Brancato F., Realtà escatologiche, Cittadella, Assisi (PG) 2013,
pp. 161, € 13,50. 9788830813502
I
l vol. fa parte della collana che, nel contesto della «nuova evangelizzazione», l’editore ha pensato per favorire una «cosciente riappropriazione
delle parole centrali della fede cristiana». Docente di Teologia dogmatica
allo Studio teologico San Paolo di Catania, l’a. affronta con la consueta
scansione (Scrittura, elaborazione teologica, Vaticano II e sistematica) la
riflessione sull’escatologico cristiano, profondamente rinnovata dalla stagione conciliare. Se ne evidenzia in particolare l’inesauribile dialettica tra
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presente (l’eschaton come «compimento di ciò che sta già sviluppandosi nella storia») e futuro (la speranza cristiana) e una rinnovata comprensione del
tema del giudizio. Introduzione pensata per un pubblico ampio.
PIERO MILAN
Crescere
e credere
L’annuncio della fede nell’età evolutiva
A
ccanto alla Parola di Dio nella
elvatici o domestici, familiari o esotici, gli animali hanno sempre esercitato una grande suggestione sugli uomini. Anche le pagine della Bibbia
sono popolate di animali e mostri. Pur avendo conosciuto periodi d’idolatria,
Israele non è mai stato tentato dalla zoolatria – il vitello d’oro è come un episodio isolato – e il simbolismo degli animali nella Scrittura presenta una sua configurazione particolare. Inoltre la fantasia degli autori biblici ha creato realtà
surreale che merita d’essere esaminata, ben sapendo che le invenzioni dell’immaginazione restano subordinate, in queste pagine, a uno scopo spirituale.
Flacio Illirico, Comprendere le Scritture. A cura di U. Neri, EDB,
Bologna 2014, pp. 150, € 13,50. 9788810558119
C
onsiderato il teologo più rilevante per lo sviluppo dell’ermeneutica nel
periodo della Riforma, Illirico è noto soprattutto per la Clavis Scripturae
Sacrae, di cui si propone e si commenta il 1o trattato della II parte. La sua
originalità sta in due aspetti: la dichiarazione netta della comprensibilità
della Scrittura letta con fede e la composizione stessa della Clavis, che elenca una lunga e dettagliata serie di difficoltà da conoscere e di norme da
applicare nel campo linguistico, storico e retorico. Oltre a essere un libro
ispirato, la Bibbia è un «classico» del quale occorre ritrovare l’attualità
recuperandone l’autenticità anche letteraria. Un’impostazione che fa di
Illirico un’a. sorprendentemente moderno. Firma la cura del vol. U. Neri,
monaco dossettiano scomparso nel 1997.
Giuliani M., Teologia ebraica. Una mappatura, Morcelliana, Brescia
2014, pp. 293, € 20,00. 9788837227463
I
l lemma «teologia ebraica» descrive un fenomeno che l’a. ritiene propriamente «europeo degli ultimi due secoli». Nel vol. se ne propone la
«mappatura» attraverso una serie di percorsi, di taglio eminentemente storico, tra le idee, le dottrine e le credenze che danno forma a quell’identità
«ben precisa» e peculiare, qualificabile come «ebraica»: la particolare concezione di Dio; la «nozione» d’Israele come comunità di fede; l’insegnamento e il commento della Torah; la letteratura rabbinica e qabbalistica;
le pratiche liturgiche quotidiane e sabbatiche.
Manicardi L., Zorzi B., «Se fosse un profeta?» (Lc 7,39). Profezia e testimonianza cristiana oggi, Studium, Roma 2013, pp. 128, € 9,00. 9788838242465
I
l vol. raccoglie la trascrizione delle lezioni tenute nella prima delle due
«Settimane teologiche» della FUCI del 2012. L’iniziativa, che ha quasi
80 anni, aveva a tema le «urgenze profetiche» del tempo presente in relazione alla testimonianza dei credenti. I relatori lo hanno affrontato rispettivamente in prospettiva biblico-teologica (Manicardi), con un percorso
dalla profezia veterotestamentaria a quella gesuana a quella ecclesiale; e
con un approccio più storico e sistematico (Zorzi), che si è proposto di
«analizzare la struttura e la dinamica» della testimonianza cristiana, evidenziandone l’aspetto «giudiziale»: «La testimonianza continua un processo che è innanzitutto quello che il mondo non cessa di fare a Gesù».
l vol. fa parte di una collana di manuali d’introduzione alla Scrittura.
Prende in considerazione le lettere autografe di Paolo, seguendo l’ordine
cronologico e non canonico, allo scopo di meglio percepire l’evoluzione
del suo pensiero. Non è un commento al testo e sono esclusi anche dei
saggi esemplificativi di esegesi. L’articolazione della materia trattata segue
un impianto che si ripete per ogni lettera: problemi introduttivi d’ordine
storico e letterario della singola lettera; l’«intreccio argomentativo» di essa,
costruito attraverso la presentazione del testo per grandi sezioni; il «messaggio» mette a fuoco i temi teologici principali. Segue la «Conclusione» e
l’indicazione bibliografica. Stile conciso ed essenziale.
l’uomo. A partire da questa convinzione, il volume indaga sulle domande e le esperienze che accompagnano la proposta di fede nelle varie
Edizioni
Dehoniane
Bologna
S
I
insita nella natura e nel cuore del-
alla giovinezza.
Cocagnac M., La colomba e il drago. Animali reali e immaginari nelle
pagine della Bibbia, EDB, Bologna 2014, pp. 86, € 7,00. 9788810707807
Pitta A., L’Evangelo di Paolo. Introduzione alle lettere autorali, Elledici,
Cascine Vica (TO) 2013, pp. 365, € 20,00. 9788801047097
sua forma scritta, ne esiste una
tappe dell’età evolutiva, dall’infanzia
Servizio a cura di Maria Elisabetta Gandolfi
«FORMAZIONE CATECHISTI»
pp. 192 - € 18,00
Ticonio, Sette regole per la Scrittura. A cura di L. e D. Leoni, EDB,
Bologna 2014, pp. 134, € 12,50. 9788810560013
I
l Libro delle regole o Libro delle sette regole di Ticonio è il più antico manuale
d’ermeneutica biblica dell’Occidente cristiano. Apprezzato da Agostino,
102
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XXIV
R2f_Ravasi_commenta:Layout 1 17/01/14 16.26 Pagina 1
GIANFRANCO
il testo ha avuto nei secoli una vasta accoglienza: Cassiodoro, Cassiano
ed Erasmo, Isidoro di Siviglia, Beda il Venerabile e Ugo di San Vittore.
La riflessione di T. individua alcuni principi ermeneutici fondamentali per
rendere accessibili i segreti della Legge a chiunque si trovi a percorrere
l’immensa selva della profezia. L’enunciazione delle sette regole, accompagnata dalla citazione di numerosissimi testi dell’AT e del NT, forma un
unico edificio concettuale. Compito essenziale dell’esegeta – insegna l’a.
– è distinguere i diversi livelli di lettura del testo (storico, tipologico, allegorico) per coglierne la profondità teologica e trarne un arricchimento
etico-spirituale.
Reggi R. (a cura di), Marco. Traduzione interlineare italiana, EDB, Bologna
2014, pp. 68, € 8,00. 9788810821008
Reggi R. (a cura di), Matteo. Traduzione interlineare italiana, EDB, Bologna
2014, pp. 105, € 11,00. 9788810821015
Pastorale, Catechesi, Liturgia
R AVA S I
commenta
I QUATTRO
VANGELI
Bollin A. (a cura di), Confermali con la tua benedizione. Celebrazioni del mandato e pensieri formativi per gli operatori della catechesi, Elledici, Cascine
Vica (TO) 2013, pp. 159, € 10,50. 9788801054361
L
a formazione e l’accompagnamento dei catechisti richiede e merita
un’attenzione sempre crescente da parte dei pastori e delle comunità. Di
questo è convinto mons. Nosiglia, ora arcivescovo di Torino, che rivendica la
necessità di fare del servizio catechistico un vero e proprio ministero istituito.
Nel vol. si offrono 7 celebrazioni del mandato catechistico, ispirate al rito del
Benedizionale della CEI e precedute da note organizzative e celebrative. Seguono 7 «pensieri formativi», ossia riflessioni su ruolo e profilo del catechista
svolte da Nosiglia durante il suo ministero di vescovo a Vicenza.
Brancato F., Vide e credette. Dire il Credo con arte, EMP - Edizioni Messaggero, Padova 2013, pp. 119, € 16,00. 9788825034073
U
n piacevole accompagnamento nei meandri del Simbolo reso ancora
più ricco dalle immagini attraverso le quali artisti d’ogni epoca si sono
cimentati nel raffigurare i capisaldi della fede.
Cabra P.G., Gilberti M., Attorno alla Pasqua, La Scuola, Brescia
2013, pp. 46, € 5,90. 9788835033639
D
al coro di personaggi che fa da corona alla passione di Cristo vengono
tratte alcune voci soliste che interpretano in soggettiva gli eventi cui
hanno preso parte accompagnate dalle illustrazioni di Gilberti. Un utile
strumento per la catechesi dell’iniziazione.
Compiani M., Meditare con Marco la Pasqua di Gesù, EDB, Bologna 2014, pp. 197, € 19,00. 9788810211359
I
l libro «nasce in risposta a una duplice richiesta. Dopo aver pubblicato
la tesi di dottorato in teologia biblica (…) alcuni confratelli mi hanno
incoraggiato a una nuova pubblicazione che rendesse accessibile (…) quella ricerca» incentrata sulla conclusione del Vangelo di Marco. E ad «approntare un testo di brevi meditazioni sul mistero pasquale» in Marco che
hanno a monte un fecondo scavo esegetico e a valle il vasto campo della
pastorale parrocchiale.
Dall’Asta A., Dio storia dell’uomo. Dalla Parola all’Immagine, EMP
- Edizioni Messaggero, Padova 2013, pp. 207, € 23,00. 9788825029727
L’
Autoritratto di Albrecht Dürer, dipinto per il quale il pittore stesso, che
abbracciò la giustificazione per sola fede di Lutero, ebbe a scrivere
«Io, Albrecht Dürer di Norimberga, all’età di 28 anni, con colori eterni
ho creato me stesso a mia immagine». Con queste parole l’esistenza di
Dio si cala nel quotidiano abbandonando ogni idea d’abitare l’assoluta
trascendenza dell’icona. Quello di Dürer è un esempio di come all’a. siano
particolarmente cari gli itinerari storici: in questo suo ultimo lavoro sceglie il cammino del discorso sulla conoscenza di Dio attraverso la «storia
dell’immagine». Percorso che si muove tra due sensi: quello dell’udito legato
XXV
Il Regno -
attualità
4/2014
103
I
l «Vangelo» fu prima «parola proclamata» e solo
successivamente divenne libro, prima fu predi-
cato e poi scritto, prima fu ascoltato e poi letto.
Il cardinal Ravasi aiuta a entrare sempre più nei
testi evangelici, autentiche catechesi apostoliche,
per coglierne il messaggio di salvezza. Le sue conferenze, ora riproposte in CD/MP3, sono accompagnate da un volume con una sintesi del contenuto
delle registrazioni rivista dall’autore.
«LETTURA DELLA BIBBIA»
pp. 128 + 4 CD/MP3 - € 44,00
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L
ibri del mese / schede
all’ascolto di Dio invisibile, ma che nella Parola si rivela, e quello della vista,
della visione di Dio stesso che si fa immagine visibile nel volto di Cristo.
Emilianos del Monte Athos, Catechesi sulla preghiera del Cuore. Versione italiana a cura di T. Guadagno, ADP – Apostolato della preghiera,
Roma 2013, pp. 79, € 5,50. 9788873575672
R
Garini M., Galateo per i preti e le loro comunità, EMP - Edizioni
Messaggero, Padova 2013, pp. 183, € 13,00. 9788825033861
U
na riflessione scritta con apprezzabile leggerezza e ironia in forma di
galateo per «semplici preti e semplici comunità». L’a., giovane sacerdote mantovano, si occupa dello «stile» – e non della «spiritualità», che «è
una cosa ben più seria» – di tanti gesti piccoli e grandi della vita di un prete
e di una comunità cristiana, tutti molto concreti e quotidiani: dal denaro
alla casa; dal vestiario all’uso di cellulari e Internet; dalla tavola all’universo
femminile. «Scrivendo queste pagine ho potuto specchiarmi in esse, scoprendo che il mio “essere prete” viene spesso interrogato e “messo in crisi”
nel confronto con una quotidianità tutta umana e, forse, troppo umana».
accolta di catechesi sulla «preghiera di Gesù» tenute nella Quaresima
del 1973 ai novizi del monastero di Simonos Petras, sul Monte Athos,
dall’allora igumeno, l’archimandrita Emilianos. Si tratta di un breve, prezioso vol. nel quale l’a. – ancora sconosciuto al pubblico italiano – offre un’introduzione pratica alla preghiera del cuore e all’esercizio della preghiera
in quanto tale: che cosa è, «come deve essere vissuta nel suo percorso e
fin dove ci deve condurre». Lettura spirituale destinata al monaco, ma del
tutto consigliabile al cristiano laico.
Gruppo La vigna, Coppie della Bibbia e di oggi: storie d’amore
a confronto, EDB, Bologna 2014, pp. 226, € 20,00. 9788810511411
Ferrari M., In quello stesso giorno. L’«oggi» della Parola nel Vangelo di
Luca, EDB, Bologna 2014, pp. 92, € 10,00. 9788810411421
I
D
a diversi decenni i singoli Vangeli vengono studiati con l’intento di
mettere in luce la struttura, gli elementi letterari e il messaggio teologico trasmesso da ciascun evangelista. Il vol. approfondisce il testo di Luca
– che secondo Dante si prefigge «di descrivere la mansuetudine di Gesù»
– e trae origine da un corso di esercizi spirituali. La cornice è il discorso
nella sinagoga di Nazaret, quello dell’investitura, mentre il giorno della
risurrezione viene presentato come il «lascito» profondo del terzo Vangelo.
Fanin L., Il dono delle sacre Scritture. Introduzione alla Bibbia, EMP
R1f_Salmi:Layout
1 15-02-2014
9:19pp.Pagina
1 9788825034523
- Edizioni Messaggero,
Padova 2013,
222, € 18,00.
B
reve introduzione generale alla Scrittura per poterla conoscere, ascoltare, celebrarla e, soprattutto, viverla. Nella collana «Dabar – Logos
– parola. Lectio divina popolare».
Salmi
Dalla Bibbia di Gerusalemme
PREFAZIONE DI GIANFRANCO RAVASI
L’
edizione raccoglie l’intero libro dei
Salmi, consentendo di associare l’esigenza di accedere agilmente ai passi più
consultati della Sacra Scrittura alla possibilità di usufruire dei commenti e delle
note della Bibbia di Gerusalemme.
pp. 224 - € 5,90
DALLA BIBBIA DI GERUSALEMME
VANGELI, ATTI E SALMI
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NUOVO TESTAMENTO E SALMI
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Dehoniane
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l gruppo La vigna è andato alla ricerca delle tracce di Dio che emergono
dalla storia di 8 coppie della Scrittura (Davide e Betsabea, i protagonisti del
Cantico dei Cantici, Booz e Rut, Tobia e Sara, Élkana e Anna, Osea e Gomer,
Abramo e Sara, Aquila e Priscilla) e ha riletto la vita sponsale alla luce degli
orizzonti nuovi che la Parola apre. Ogni c. è articolato in tre parti: una breve
presentazione dell’episodio biblico; una parte nella quale esso s’intreccia con
le storie delle coppie del gruppo; una riflessione sul significato che la storia
biblica può avere per la coppia cristiana nel mondo e nella Chiesa di oggi.
Maio C., «Incamminarsi nella via del Signore». Idee guida di un indirizzo catechetico, Editoriale progetto 2000, Cosenza 2013, pp. 160, € 10,00.
9788882764111
S
enza pretesa di offrire un nuovo trattato di catechetica, il vol. è un
«compendio originale di fondamenti catechetici» descritti con stile
semplice e in modo sintetico. L’a., frate dell’Ordine dei minimi di san
Francesco di Paola, dopo 40 anni di attività – molti dei quali a servizio
nella Chiesa calabrese – mette a fuoco i «fondamenti» di un’esperienza
vissuta con passione, suggerendo anche tecniche e strumenti che lo hanno
sostenuto nell’azione pastorale.
Movimento eucaristico giovanile (a cura di), Parola di Dio e fede.
«La fede è decidere di stare con il Signore per vivere con Lui» (Benedetto XVI, motu proprio “Porta Fidei”», ADP - Apostolato della Preghiera, Roma 2013, pp. 183,
€ 10,50. 9788873575634
S
ussidio nato all’interno di un percorso annuale del Movimento giovanile legato ai gesuiti nell’anno 2009-2010 che raccoglie una serie di
contributi «tagliati» per rispondere all’esigenze della fede a volte molto
nascoste tra le pieghe della vita dei giovani. Il testo iniziale «Parola di Dio
e la nostra fede» è la trascrizione rivista della relazione che don Guido
Benzi, direttore dell’Ufficio catechistico nazionale della CEI, ha tenuto al
movimento nel novembre del 2009.
Nosiglia C., Ghiberti G., Repole R., Barberis B. (a cura di), Sindone e fede. Un dialogo possibile, Effatà, Cantalupa (TO) 2013,
pp. 96, € 12,00. 9788874028450
S
critto in occasione dell’Anno delle fede, il testo è un accompagnamento a più voci sul tema della Sindone, come «icona del Sabato santo»
(mons. C. Nosiglia, arcivescovo di Torino), che tiene equilibratamente
conto dell’aspetto scientifico, pastorale e teologico. Come riassume efficacemente il biblista Ghiberti, «Pensiamo che la posizione più prudente e
realistica oggi si possa riassumere così: c’è un’altissima probabilità – confinante con la sicurezza morale – dell’“autenticità” della Sindone, mentre
non si può parlare di certezza scientifica assoluta».
Segretariato Attività Ecumeniche (SAE), Condividere e annunciare la Parola. «Come il Padre ha mandato me, così anch’io mando voi. Atti della
50a sessione di formazione ecumenica, Paderno del Grappa (TV), 28 luglio - 3 agosto
2013, Paoline, Milano 2014, pp. 174, € 17,00. 9788831544382
N
el 2013, in occasione della sua 50a Sessione di formazione ecumenica
(cf. Regno-att. 16,2013,499), il SAE ha trattato il tema che dà titolo al
vol. che pubblica relazioni. Nelle 4 parti si affrontano i temi della Parola
(E. Pace, B. Carucci Viterbo, D. Kampen, S. Houshmand), dell’annuncio
104
Il Regno -
attualità
4/2014
XXVI
RÉGINALD GRÉGOIRE
I santi
anomali
comune (P. Stefani, P.A. Gajewski, A. Fasiolo), dell’annuncio tra Vangelo e
laicità (B. Salvarani, D. Bognandi, C. Zamboni), della prassi storica delle
Chiese rispetto alla predicazione del regno di Dio (U. Eckert, C. Molari).
Svanera O., Tu sei amore. Una prospettiva francescana sulla coppia, EMP
- Edizioni Messaggero, Padova 2013, pp. 219, € 18,00. 9788825034011
Forme inconsuete di vita cristiana
P
uò esservi uno specifico carisma francescano applicato alla vita coniugale? Ne è convinto l’a., francescano, docente di Teologia morale
sessuale e familiare e promotore di iniziative formative per la coppia e la
famiglia. Il vol. dunque s’interroga sull’identità dell’amore, il suo profilo
nella cultura contemporanea e le difficoltà che lo insidiano, prendendo
come riferimento alcuni brani biblici e ampi stralci della vita del santo di
Assisi, ravvisando in lui un ottimo modello per l’amore di coppia per il
percorso compiuto dall’innamoramento all’amore, la capacità di superare
le crisi, di coniugare eros e agape e di vivere l’unità nella differenza.
Tagle Gokim L.A., Raccontare Gesù. Parola, Comunione, Missione,
EMI, Bologna 2014, pp. 60, € 6,90. 9788830720985
S
ono riprese nel volumetto due catechesi dell’arcivescovo di Manila, ai
Congressi eucaristici internazionali di Dublino nel 2012 e di TQuébec nel
2008, e una conferenza al I Congresso missionario asiatico di Chiang Mai in
Thailandia, nel 2006. Soprattutto quest’ultima – «Raccontare Gesù nell’Asia
di oggi» – è interessante, per la riflessione distesa sulla narrazione come «cornice creativa per la comprensione della missione in Asia, un continente le cui
culture e religioni sono radicate in grandi narrazioni o poemi epici».
Dall’Olio S., Nagy K.K., In sella a un asinello, EDB, Bologna
2013, pp. 27, € 6,90. 9788810751183
Pappalardo M., Mistero e stupore. Meditazioni per la Settimana santa.
Anni A-B-C, EDB, Bologna 2014, pp. 111, € 9,50. 9788810710791
Santangelo I.A., Vivremo per sempre, Quinto Evangelista, Prato
2013, pp. 80, € 10,00. 9788898541010
Semeraro M., Messa e preghiera quotidiana / Marzo 2014 Riflessioni a cura di fratel Michael Davide, EDB, Bologna 2014, pp. 349, € 3,90.
9788810713877
Spiritualità
Barcellona P., Cavicchia A., Fattibene D., Discese dal cielo. A cura di M. Bertin, Macondo libri, Vicenza 2013, pp. 62, s.i.p.
V
isitare in prima persona la Terra santa è un’esperienza forte perché
invita a recuperare, nella propria fede, la storicità dell’incarnazione.
I tre contributi qui pubblicati raccontano l’esperienza intima della Terrasanta fatta da tre persone molto diverse: Pietro Barcellona, ex-comunista,
uomo di primo piano nella vita politica e culturale dell’Italia del secondo
Novecento, recentemente scomparso; Alessandro Cavicchia, francescano,
docente di Esegesi biblica; Daniele Fattibene, giovane studente di un Master sull’Europa orientale. Ne emerge la capacità per questi siti di essere
«sacramento» della presenza del Cristo, grazie ai cristiani del luogo che è
possibile incontrarvi, vere e proprie «pietre vive».
L’
originale repertorio di santi anomali, spesso famosi
e popolari, in alcuni casi ancor oggi venerati nella
Chiesa cattolica, dimostra l’esistenza di forme inconsuete e singolari di vita cristiana. Lontani dai modelli
più comuni della santità, questi personaggi sono talvolta inquadrabili in situazioni agiografiche fragili e
confuse, incerte e poco chiare, ma hanno il pregio di
testimoniare l’effervescenza della vita spirituale e della
devozione popolare.
«STRUMENTI»
pp. 248 - € 24,00
Bargellini F., Bolis E.L., Cozzi A., et al., «Perché non venga
resa vana la croce di Cristo». La croce nella spiritualità cristiana, Glossa,
Milano 2013, pp. XIII + 255, € 22,00. 9788871053233
I
l vol. raccoglie gli atti del corso residenziale dal titolo omonimo organizzato dal Centro studi di spiritualità della Facoltà teologica dell’Italia
settentrionale (Milano) svoltosi presso l’eremo di Bienno (BS, 9-12.6.2013).
Attraverso un percorso che parte dalla riflessione sulla croce come simbolo
religioso e dalla posizione che esso occupa nella cultura contemporanea, il
vol. analizza la centralità dell’evento della croce nelle testimonianze evangeliche e neotestamentarie – con particolare riferimento a Paolo – passando per
Giovanni della Croce ed Edith Stein, per concludere con una riflessione sistematica sulla logica e il significato di questa realtà nell’esperienza cristiana.
XXVII
Il Regno -
attualità
4/2014
105
DELLO STESSO AUTORE
LA TEOLOGIA MONASTICA
SPIRITUALITÀ DELLA SACRA PAGINA
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L
ibri del mese / schede
Bouyer L., Storia della spiritualità 6. L’ortodossia bizantina e
russa. Nuova edizione, EDB, Bologna 2014, pp. 136, € 15,00. 9788810304327
D
opo la caduta di Costantinopoli e la sottomissione dell’antico Oriente cristiano alla dominazione turca, lo sviluppo della spiritualità bizantina, fino a quel momento molto fecondo, sembra arrestarsi, creando
la convinzione erronea di una stagnante immobilità. Tuttavia, quasi per
provvidenziale disposizione, nel momento in cui la vita della Bisanzio cristiana sta per cristallizzarsi a causa dell’opposizione dell’islam vittorioso, i
popoli slavi giungono alla loro «adolescenza spirituale». L’arresto momentaneo dello sviluppo della spiritualità bizantina coincide così col fiorire di
quella russa, che, ereditata la tradizione di Bisanzio, ne rivela possibilità
fino ad allora insospettate. Quando poi, nella seconda metà del Seicento,
anch’essa giunge a una fase di presunto esaurimento, rinasce quella greca,
che recupera le proprie sorgenti aprendosi anche a nuove influenze.
Main J., Abbracciare il mondo. Scritti fondamentali. Scelti e introdotti da L. Freeman, edizione italiana a cura di S. Facci, Morcelliana, Brescia
2013, pp. 284, € 20,00. 9788837226787
R
accolta antologica dei testi dell’a. – monaco benedettino e fondatore
del primo Centro di meditazione cristiana nel 1972 a Londra, nonché
ispiratore della Comunità mondiale per la meditazione cristiana – tratta
dai suoi Scritti fondamentali. I testi, ognuno dei quali è introdotto da un breve
commento redazionale, rendono partecipe il lettore sia della testimonianza dell’esperienza spirituale del monaco londinese, sia degli effetti prolifici
della pratica contemplativa nella tradizione cristiana.
Cantalamessa R., Gesù Cristo il santo di Dio, San Paolo, Cinisello
Balsamo (MI) 2013, pp. 205, € 14,50. 9788821590399
Martini C.M., Williams R., Essere cristiani credibili, Qiqajon,
Magnano (BI) 2013, pp. 75, € 8,00. 9788882274054
U
os’hanno in comune la prima lettera pastorale scritta dal card. Martini come arcivescovo di Milano, nel 1980 – La dimensione contemplativa
della vita –, e l’intervento dell’allora primate della Comunione anglicana,
Rowan Williams, al Sinodo dei vescovi sulla nuova evangelizzazione, nel
2012 – Essere pienamente umani -? Ce lo svela l’Introduzione di Enzo Bianchi,
amico di entrambi: la medesima centralità riconosciuta alla contemplazione per la vita del cristiano, requisito imprescindibile per permettergli di
essere «credibile». Nelle nostre vite frenetiche, la capacità di fare silenzio
e abitarlo con la lettura della parola di Dio diventa sempre più cruciale.
n percorso di ricerca spirituale, profondo e ben impostato è quello elaborato da Cantalamessa. L’a., francescano e predicatore della Casa pontificia, ha condotto con «attenzione e costanza» il programma televisivo A sua
immagine imparando a conoscere paure e speranze dell’uomo e soprattutto «il
suo infinito bisogno d’amore». A questa necessità risponde il vol. che attraverso un percorso di meditazione sulle Scritture, insegna a «essere amati da Cristo, a innamorarsi di lui a prenderlo come sigillo sul proprio cuore. In eterno».
Carroll J., L’enigma Gesù. Traduzione di F. Saulini, Fazi, Roma 2013,
pp. 250, € 17,50. 9788864112442
G
esù è un enigma che fonda la civiltà occidentale, come sostiene John
Carrol in questo testo? Per l’a. i racconti evangelici sono una metafora
della ricerca esistenziale che si condensa nelle domande: Da dove vengo?
Chi sono? C’è la vita oltre la morte? I vagabondaggi di Gesù con i suoi discepoli e i tanti incontri evangelici narrati rappresentano questa complessa
ricerca del senso e l’esito di questa ricerca non è certo scontato. Infatti
i Vangeli, in particolare quello di Marco, mettono in chiaro la difficoltà
d’autocomprensione dei personaggi che stanno attorno al Maestro e i loro
fallimenti temporanei o definitivi non sono pochi. Scritto avvincente anche
se non sempre convincente dal punto di vista esegetico: esso tuttavia prende il lettore in una rete di interpretazioni esistenziali che lo costringono a
chiedersi: ho trovato il mio centro di gravità esistenziale?
Chittister J., Felicità, Queriniana, Brescia 2013, pp. 299, € 23,50.
9788839931566
C
Morandi F., Pavel Evdokimov. Un percorso spirituale tra Oriente e Occidente,
Paoline, Milano 2013, pp. 207, € 16,00. 9788831543903
P
rofilo biografico e spirituale di uno dei principali esponenti della diaspora
russo-ortodossa del XX sec. Con respiro arioso e approccio «simpatetico», l’a. ripercorre i principali momenti della vita del noto teologo, ricostruendone le vicende travagliate successive alla forzata emigrazione, il percorso di
studi, necessariamente (ma provvidenzialmente) improntato all’ecumenicità
e non circoscritto alla discussione accademica, e soprattutto gli aspetti di vita
famigliare, in particolare i rapporti di E. con le figure femminili, nelle quali
l’a. vede le principali ispiratrici e motivatrici del lavoro del teologo.
Pagola J.A., Padre nostro. Pregare con lo spirito di Gesù, Borla, Roma
2013, pp. 107, € 10,00. 9788826318752
I
a felicità è una faccenda estremamente seria, come ricercarla e
riconoscerla?» Joan Chittister, guida spirituale e scrittrice cerca di
rispondere alla domanda. Un percorso di ricerca nelle profondità dell’ animo, alla scoperta di una soddisfazione personale che non ha nulla a che
spartire con la pretesa di appagamento del consumismo dei nostri tempi.
Dice l’a.: «Non è ciò che compriamo a renderci felici, soldi e possesso sono
nulla». Un saggio storico sulle molteplici dimensioni della felicità nelle varie epoche. Non una formula definitiva ma provocazioni critiche sul tema.
l vol. continua la riflessione dell’a. sulla vita e l’opera di Gesù avviata con
i due precedenti lavori: Gesù. Un approccio storico (2009), che suscitò anche
alcune critiche da parte della Congregazione per la dottrina della fede, e La
via aperta da Gesù (2012), quest’ultimo articolato in 4 voll. ognuno dei quali
dedicato allo studio di un singolo Vangelo. Il presente vol. si divide in due
parti: la I offre un commento per aiutare a comprendere il contenuto di
ognuna delle richieste che costituiscono il Padre nostro; nella II vengono
invece proposte alcune suppliche tratte dal libro dei Salmi, che possono aiutare ogni richiesta del Padre Nostro ad acquisire una maggiore risonanza.
Krätzl H., Ma Dio è diverso. Le domande del Venerdì santo, EDB, Bologna
2014, pp. 143, € 12,50. 9788810571064
Percudani F., Confesso che ho trovato. Ragioni di una conversione, Grafica & Arte, Bergamo 2013, pp. 209, € 18,00. 9788872013144
«L
T
ra il mercoledì delle ceneri e la domenica in albis, nella liturgia e nei
testi biblici irrompono interrogativi profondi. Gli stessi discepoli che
amavano Gesù, spesso non lo hanno compreso, soprattutto quando parlava di croce e di risurrezione, e dopo la cattura e la morte hanno interpretato la sua missione come un fallimento e lo hanno abbandonato. Spaventati
dalla tomba vuota del terzo giorno, lo hanno incontrato, ma non lo hanno
subito riconosciuto. «Dovettero dapprima staccarsi faticosamente dalla
loro immagine precostituita di lui – scrive l’a. in un vol. spiritualmente
coinvolgente – per poter credere che egli viveva davvero, di nuovo in mezzo a loro, anche se in modo del tutto diverso».
Maggioni B., Perché state a guardare il cielo? Le due strade per incontrare Dio, Vita e pensiero, Milano 2013, pp. 93, € 12,00. 9788834326183
I
106
comprensione del culto, della dimensione del sacro e del profano, in un
percorso tra l’Antico e il Nuovo Testamento.
l noto e amato biblista riflette sulla relazione tra il tempo presente e
l’attesa della seconda venuta del Signore mettendo in luce la diversa
Il Regno -
attualità
4/2014
L’
a. consegna in questo vol. la propria «scoperta» delle ragioni dell’esistenza e la propria conversione originate dalla convivenza con una lunga
malattia neurodegenerativa che l’ha infine condotto alla morte nel 2012. L’adesione entusiastica e appassionata alla fede si esprime in queste pagine con un
linguaggio semplice, schietto, famigliare e vibrante e spinge l’a. a toccare varie
questioni di carattere spirituale e apologetico che rivelano il percorso d’avvicinamento alla «verità semplice e alla credibilità di Dio e di Gesù».
Sartorio U., Mi dica padre. Domande e risposte a cuore aperto, EMP - Edizioni Messaggero, Padova 2013, pp. 362, € 15,00. 9788825036800
«U
na delle esperienze più stimolanti per il direttore di un periodico è
ricevere posta dai suoi lettori». Da questa premessa nasce il lavoro
di raccolta delle lettere inviate al Messaggero di sant’Antonio. A rispondere è
p. Sartori, teologo francescano che ha selezionato nel vol. alcuni dei que-
XXVIII
ANDRÉ-MARIE DUBARLE
Il peccato
originale
siti più frequenti e interessanti. I temi sono molteplici: dalla morte alle
difficoltà della vita quotidiana, all’accettazione del diverso. Motore delle
riflessioni la voglia di riscoprire la propria fede. «Spesso una risposta chiara
alle nostre domande è impossibile. La soluzione è affidarci a Dio aprendo
il nostro cuore alla sua presenza».
Prospettive teologiche
Scquizzato P., Elogio della vita imperfetta. La via della fragilità, Effatà, Cantalupa (TO) 2013, pp. 75, € 6,00. 9788874028771
I
n che rapporto stanno la perfezione e la santità? Secondo la mentalità
contemporanea, la relazione fra i due termini è forte, tanto da diventare
quasi sinonimi. E invece, ci ricorda l’a., il rapporto è debole, anzi i due termini quasi si oppongono, perché l’imperfezione, il limite e perfino il peccato
sono la condizione per l’intervento salvifico di Dio. Il libro, attraverso agili cc.
e citazioni di brani biblici, accompagna nella riconciliazione con la propria
fragilità ontologica e nell’abbandono di una cultura efficientista che ci pervade fino a farci credere di dover essere «performanti» anche davanti a Dio.
Tozzi A.A., Il Cantico di Francesco. L’invocazione universale del santo di
Assisi, EDB, Bologna 2014, pp. 53, € 5,50. 9788810555224
N
NUOVA EDIZIONE
P
er l’autore il peccato originale non va
inteso come il primo, in ordine di
tempo, degli eventi che hanno influito sul
destino dell’umanità. Nella Genesi il racconto della caduta è di natura ‘simbolica’.
L’importanza decisiva è data dal cumulo di
peccati che accompagnano e sfigurano da
sempre il destino dell’umanità, rendendo
necessaria la redenzione in Cristo.
el 1225, un anno prima della morte, Francesco d’Assisi è infermo,
quasi completamente cieco. Nel giardino del monastero di san Damiano, dove è accolto e curato da Chiara, raggiunge nel corso di una notte
d’insonnia il fondo fisico e psichico della sofferenza. È in quella circostanza
che detta il Cantico delle creature o Cantico di frate Sole, la sua opera più nota, un
«NUOVI SAGGI TEOLOGICI»
inno di vittoria sulla disperazione superata al termine di una notte oscura.
Grazie al suo contenuto, il testo appartiene alla letteratura mondiale e poR1f_Mommeja:Layout 1 3-02-2014
trebbe essere considerato il più bel brano di poesia religiosa dopo i Vangeli.
Edizioni
Un’invocazione universale che richiama i Salmi e i canti liturgici e che
Dehoniane
trova numerosi spunti descrittivi in pagine bibliche, dal cantico di Daniele
Bologna
all’Ecclesiastico, dalle beatitudini all’Apocalisse.
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Zarri A., Nostro Signore del deserto. Meditazioni sulla preghiera, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2013, pp. 208, € 14,00. 9788849838077
P
ubblicato per la prima volta nel 1978, il vol. viene riproposto a distanza di 3 anni dalla morte dell’a., avvenuta nel 2010. Attraverso numerose
riflessioni, che intendono definire la preghiera soprattutto per quello che essa
non è, una delle voci più originali del cattolicesimo italiano ci introduce in modo
del tutto peculiare a quella dimensione vocativa che caratterizza l’esperienza
cristiana e che contemporaneamente definisce l’essenza stessa della persona.
ÉDITH MOMMÉJA
Le feste cristiane
Storia, significato e tradizioni
Bello T., Maria. Serva di Dio e del mondo, EMP – Edizioni messaggero,
Padova 2013, pp. 125, € 8,00. 9788825023800
Bruni L., L’interrogativo dell’uomo. Otto racconti ebraici al tempo di
Gesù, Quinto Evangelista, Prato 2013, pp. 91, € 10,00. 9788898541065
Bruni L., La doppia illusione: Prometeo e Sisifo, Quinto Evangelista, Prato 2013, pp. 82, € 10,00. 9788898541027
Nouwen H.J.M., La formazione spirituale. Seguire i movimenti dello
Spirito, Queriniana, Brescia 2012, pp. 258, € 18,50. 9788839931481
Ghidelli C., Se cerchi la sapienza. Riflessioni bibliche, Morcelliana,
Brescia 2012, pp. 140, € 12,00. 9788837225896
Granados J., Noriega J., Betania: una dimora per l’amico. Pilastri di spiritualità familiare, Effatà, Cantalupa (TO) 2012, pp. 190, € 12,50.
9788874027866
L
e feste del calendario cristiano non sono
indipendenti le une dalle altre e, messe
in fila, raccontano la storia dell’amore di
Dio per le sue creature. Il volume si articola
in quattro parti – domenica; Avvento e
Quaresima; feste in onore del Signore;
feste in onore di Maria e dei santi – e si
propone di spiegare il significato di ogni
ricorrenza e di indicarne il messaggio spirituale e il senso per la vita del cristiano.
Storia della Chiesa
«PREDICARE LA PAROLA»
Aa. Vv., Pietro Favre. Servitore della consolazione. A cura di A. Spadaro, Áncora, Milano 2013, pp. 141, € 17,00. 9788851413309
GIOVANNI BUZZONI
U
n esempio di come l’«effetto Francesco» contagi anche l’editoria. Il
vol. raccoglie 7 contributi (quasi tutti sono articoli già apparsi su La
Civiltà cattolica), a firma di altrettanti gesuiti, che raccontano la figura fi-
XXIX
Il Regno -
attualità
4/2014
107
pp. 168 - € 16,00
NELLA STESSA COLLANA
LA SAPIENZA DEL GIUSTO
OMELIE DI ISPIRAZIONE PATRISTICA
Edizioni
Dehoniane
Bologna
pp. 376 - € 25,00
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Tel. 051 3941511 - Fax 051 3941299
www.dehoniane.it
L
ibri del mese / schede
nora poco nota di Pietro Favre (1506-1546). Si tratta del primo compagno di sant’Ignazio, che papa Bergoglio ha indicato quale gesuita da lui
«preferito» e ha canonizzato nel giorno del suo compleanno, lo scorso 17
dicembre, dicendo: «Solo se si è centrati in Dio è possibile andare verso le
periferie del mondo. E Favre ha viaggiato senza sosta sulle frontiere geografiche tanto che si diceva di lui “pare che sia nato per non stare fermo
da nessuna parte”».
Balzaretti C., La cioccolata cattolica. Storia di una disputa tra teologia e
medicina, EDB, Bologna 2014, pp. 95, € 8,50. 9788810555248
L
a pianta del cacao venne portata dal nuovo continente in Europa e lì
comparve sulla scena innanzitutto come bevanda, la cioccolata, aprendo una singolare disputa che coinvolse la teologia e la medicina. Due le
posizioni che si confrontarono nell’Europa tra Seicento e Settecento: o la
cioccolata è cibo e non la si può prendere fuori pasto nei giorni di digiuno
ecclesiastico, oppure è bevanda e la si può bere quando si vuole perché le
bevande non interrompono il digiuno.
Cremaschi L. (a cura di), Donne di comunione. Vite di monache d’oriente e
d’occidente, Qiqajon, Magnano (BI) 2013, pp. 311, € 25,00. 9788882273859
Q
ual era la condizione delle donne nella Chiesa antica? E quale il loro
apporto spirituale? Per contribuire con qualche elemento di riflessione vengono qui raccolte sette biografie (tutte di mano maschile) di monache, provenienti da ambienti sociali e culturali diversi, da un’area geografica che spazia dall’Egitto a Roma e alla Palestina e in un arco temporale dal
IV al VI secolo. Si tratta di Macrina, Sincletica, Maria-Marino, Marcella,
Paola, Melania la Giovane e Scolastica. Le traduzioni degli antichi testi
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08.15 Pagina
sono della curatrice
Lisa Cremaschi,
monaca1 di Bose, sulla base delle edizioni critiche.
Encicliche di
Benedetto XVI
Ufficio Storico del PIME pubblica la tesi di dottorato (datata 1977)
che l’a. aveva scritto – sotto la sapiente guida di p. Giacomo Martina – sulla figura di Giuseppe Marinoni, primo direttore delle Missioni
estere di Milano. Non si tratta di una vera e propria biografia, dichiara
l’a., ma dell’intreccio di due vicende particolari. «Di volta in volta nella trattazione ha prevalso ora la figura di Marinoni che sta alla guida
dell’Istituto; ora quella dell’Istituto in quanto tale, che cresce, si evolve,
e si consolida a mano a mano che la sua esperienza si matura» (dall’Introduzione).
Gherardini B., Tu, il mio piccolo Io. Dina Bélanger e il suo carisma.
Una ricostruzione storica, La fontana di Siloe, Torino 22013, pp. 449, € 26,00.
9788867370214
S
i tratta della 2a edizione della biografia della religiosa canadese Bélanger (1897-1929) a dieci anni dalla beatificazione a opera di Giovanni
Paolo II nel 1993. La vita della mistica è delineata dall’a., sacerdote toscano già ordinario di Ecclesiologia alla Pontificia università lateranense
e che fa parte – come dice R. De Mattei – del gruppo italiano dei «valorosi apologeti» che a lungo si è esercitato sul tema dell’ermeneutica del
Concilio.
Monticone A., La croce e il filo spinato. Tra prigionieri e internati civili
nella Grande guerra 1914-1918. La missione umanitaria dei delegati religiosi, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2013, pp. 361, € 18,00. 9788849835915
N
ella storiografia della Grande guerra 1914-1918, il tema dei prigionieri è stato a lungo considerato sotto il profilo degli effetti sociali,
economici e politici. Sarà a partire dagli anni Novanta del XX sec. che
la «realtà concentrazionaria» assumerà uno spazio autonomo nell’ambito
degli studi storico-sociali. Attraverso una puntuale ricostruzione storica, il
vol. presenta una descrizione inedita dei campi di prigionia: quella della
situazione religiosa e della cura d’anime al loro interno. Uno studio che
getta nuova luce sull’emergenza umanitaria di quegli anni.
Attualità ecclesiale
Cereti G., Commento al decreto sull’ecumenismo. Per rivivere le riflessioni e le speranze dell’epoca conciliare, Gabrielli, San Pietro in Cariano (VR)
2013, pp. XIV + 242, € 16,00. 9788860992048
istampa anastatica dell’ormai classico commento, che nel 1966 il teologo ed ecumenista genovese propose per illustrare il decreto conciliare Unitatis redintegratio, con cui la Chiesa cattolica abbandonava l’orientamento unionista (l’invito a «ritornare nel seno della Chiesa di Roma»)
e si avviava insieme alle altre Chiese nel cammino verso la piena unione
visibile dei cristiani. Una lettura ancora capace di far rivivere l’entusiasmo
di quella stagione di passione e di speranza.
I
Frassati L. (a cura di), Mio fratello Pier Giorgio. La carità. Nuova edizione, Effatà, Cantalupa (TO) 2013, pp. 303, € 14,00. 9788874027682
R
«ENCHIRIDION VATICANUM» pp. 200 - € 6,00
N ELLA
Edizioni
Dehoniane
Bologna
L’
R
l volume raccoglie le tre encicliche (Deus caritas est,
Spe salvi, Caritas in veritate)
firmate da papa Ratzinger, rendendole accessibili al grande
pubblico in formato tascabile.
ENCICLICHE DI GIOVANNI XXIII
Donegana C., Mons. Giuseppe Marinoni. Primo direttore e cofondatore dell’Istituto per le missioni estere di Milano (1850-1891), Ufficio storico del
PIME, Roma 2013, pp. 184, s.i.p.
STESSA COLLANA
pp. 256 - € 6,00
iedizione rivista del vol. che vide la luce per i tipi della SEI nel 1957,
scritto dalla sorella di Frassati, proclamato beato da Giovanni Paolo II
nel 1990. Non si tratta di «fioretti ove impera l’esaltazione talora enfatica e
gli eventi sono spesso alonati di leggenda. Qui di scena è la concretezza operosa della carità che Pier Giorgio aveva iniziato a praticare infrangendo la
copertina protettiva del suo statuto sociale, penetrando nel dedalo delle vie
periferiche ove, soprattutto allora (ma non solo) si stendeva il sudario oscuro
della miseria» (dalla Prefazione alla nuova edizione del card. G. Ravasi).
Gallo A., Di Chiara A., Il Regno è ma non ancora. Dialogo per un’etica della liberazione. Introduzione di E. Matassi, Il ramo, Rapallo (GE) 2013,
pp. 100, € 15,00. 9788889351369
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attualità
4/2014
XXX
PAOLA RESTA - LOREDANA TIRABOSCHI
ANNA MARIA VILLA
Un rogo
di carità
I
n questo dialogo fra don Gallo e Alessandro di Chiara s’avverte complicità nelle domande e nelle risposte e la ricerca di una tensione profetica.
Gli anawin, i poveri, sono al centro del messaggio biblico e sono l’oggetto
delle cure di Dio. Purtroppo però – dicono gli aa. – gli anawin sono stati
traditi dalla Chiesa a partire dal periodo costantiniano quando la Chiesa
si è alleata allo stato. E qualcosa del genere si è verificato – a loro avviso
– quando i pontificati di Wojtyla e Ratzinger hanno cercato di liquidare
la teologia della liberazione nonostante essa dichiarasse che dal Vaticano
II traeva le proprie radici. Nel testo le questioni vengono affrontate senza
obliquità e questo può risultare fastidioso per il lettore: ma forse è proprio
l’effetto che gli aa. volevano ottenere.
Hebblethwaite P., Giovanni XXIII. Il papa del Concilio, Castelvecchi,
Roma 2013, pp. 666, € 29,00. 9788876159169
A
cclamata come la più celebre e diffusa biografia del «papa buono»,
l’a. con una minuzia d’indagine, che mai scade nella pedanteria,
consegna al lettore un ritratto vivido ed esaustivo del papa decisamente più importante del secolo breve. Leggere quest’opera significa calarsi,
tramite un magistrale e onesto uso dei diari di Giovanni XIII e delle
testimonianze dei contemporanei, in quel giro di boa della storia della
Chiesa cattolica, determinato dall’apertura del concilio Vaticano II. L’a.,
infatti, indugia nell’evidenziare i «fili elettrici», culminati nell’enciclica
Pacem in terris, che permisero d’illuminare di spirito nuovo la Chiesa stessa offrendo all’intera ecumene cristiana (e non) una speranza, un orizzonte, un modo di vivere insieme, nella realtà di ogni giorno, la preghiera nei confronti dell’unico Dio.
Laboa J.M., Gesù a Roma. Il sogno di Benedetto XVI. Una parabola, Jaca
Book, Milano 2013, pp. 157, € 12,00. 9788816305281
L’eredità francescana della beata Francesca Rubatto
A CURA DI GRAZIELLA MERLATTI
I
l volume approfondisce e divulga la figura
e l’opera della beata piemontese Madre
Francesca Rubatto (1844-1904), fondatrice
di una comunità cappuccina. Dalla biografia al contesto storico-spirituale, dai fondamenti del carisma francescano alla spiritualità evangelica, dalla sororitas alla missione
si delinea un ritratto con note di originalità
e, al tempo stesso, di familiare affezione.
«TEOLOGIA SPIRITUALE»
R1f_Dallari:Layout 1
I
l noto studioso e docente di Storia della Chiesa si cimenta con un racconto ricalcato sul topos letterario del «grande Inquisitore» dostoevskjiano. Siamo nel 2012 e Gesù ricompare a Roma accompagnato da alcuni
apostoli e santi. Lo si vede in periferia tra la gente; in una fabbrica tra gli
operai; a un concerto rock e al Circo Massimo, mentre passeggia con i
suoi. La notizia sconvolge Roma e mette in agitazione una curia vaticana
non certo irreprensibile e costretta a interrogarsi sulla fedeltà al mandato
del Risorto. Benedetto XVI decide così di dimettersi e attendere, in penitenza e in preghiera, l’incontro con il Cristo, in seguito al quale sceglierà di
vivere al Laterano in uno stile più semplice e sobrio. Nel vol. era soltanto
un sogno... ma alla luce degli eventi la «parabola» assume un sapore profetico.
l nome dell’a. è noto a chiunque pratichi gli ambienti del dialogo ebraico-cristiano. Fondatore del Centro cristiano di studi ebraici Ratisbonne a
Gerusalemme, l’a. ripercorre in questa autobiografia il suo percorso di vita
cristiana in ascolto della tradizione di Israele.
Lercaro G., Per la forza dello Spirito. Discorsi conciliari. Nuova edizione
a cura di S. Marotta. Introduzione di G. Alberigo, EDB, Bologna 2014, pp. 328,
€ 26,00. 9788810810057
Il vol. raccoglie i discorsi che il card. Lercaro fece come moderatore al
concilio Vaticano II, dove aveva come segretario Giuseppe Dossetti.
Malnati E., Roncalli M., Pacem in terris. L’ultimo dono di Giovanni
XXIII, Cantagalli, Siena 2013, pp. 194, € 12,00. 9788882729691
P
ubblicato nel 50° anniversario della promulgazione dell’enciclica Pacem
in terris, il vol. ne ripropone il testo facendolo precedere da due contributi di segno diverso. Il 1o, di taglio teologico, espone con linguaggio divulgativo i temi principali della lettera e ne evidenzia quelli maggiormente
ripresi dal magistero ecclesiale successivo. Il 2o riferisce delle risultanze
della ricerca storica su papa Roncalli, in particolare del modo in cui ha
sviluppato il suo atteggiamento personale sul tema della pace e il suo impegno concreto per essa, esemplificato dall’intervento deciso in occasione
della crisi dei missili a Cuba.
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attualità
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Edizioni
Dehoniane
Bologna
9:51
Pagina 1
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CARLO DALLARI - PATRIZIA LUPPI
Il respiro
del tempo
Lenhardt, Una vita cristiana all’ascolto di Israele, Effatà, Cantalupa (TO) 2013, pp. 138, € 11,00. 9788874028320
I
pp. 304 - € 23,00
15-02-2014
L
e pareti dell’immaginario negozio di un
orologiaio sono la metafora della vita,
vissuta con orologi del tutto personali. Perché gli uomini di oggi sanno governare
qualsiasi macchina, ma non sanno più organizzare il tempo e demandano ad altri il
compito di gestirlo. Dominati dalla frenesia, tendono a dimenticare che non tutto è
misurabile. E che il tempo è un grande
dono.
«ITINERARI»
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DEGLI STESSI AUTORI
TRACCE DI SPERANZA
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L
ibri del mese / schede
Masciarelli M.G., Il papa vicino. Francesco e l’odore delle pecore, il popolo
e l’odore del pastore. Presentazione del card. Ó. Rodríguez Maradiaga, Tau Editrice,
Todi 2013, pp. 190, € 14,00. 9788862442701
S
tupore e gioia attraversano le pagine di questo scritto, sentimenti
coinvolgono anche il lettore perché l’elezione di papa Francesco è
stata una felice sorpresa per molti. Parole e gesti di questo papa sono
frutto di una sapiente interpretazione della tradizione evangelica.
Umiltà nelle parole, umiltà nei gesti sono il segno di una forza coinvolgente perché sono il presupposto per comprendere e vivere il messaggio evangelico. Così sin dall’inizio del pontificato Francesco propone
la tenerezza di Dio come fondamento della vita cristiana, in un mondo
dove la scaltrezza e la forza sembrano permeare il vissuto dei singoli e
delle comunità.
Morandini S., Quale casa accogliente. Vivere il mondo come creazione,
EMP - Edizioni Messaggero, Padova 2013, pp. 119, € 14,00. 9788825033816
U
n saggio che propone spunti per un opportuno ripensamento del
principio di creazione in dialogo con le provocazioni della cultura
contemporanea, in particolare l’istanza scientifica. Consapevole della necessità di riaffermare quanto «la confessione del Dio creatore sia collegata
con la percezione di una sua presenza attiva nel cuore del mondo», l’a.
suggerisce direzioni di ricerca interessanti e attuali – per questo si sente
la mancanza di una bibliografia conclusiva –, come quelle proposte nel c.
conclusivo sul rapporto tra la creazione del mondo e «le dinamiche della
vita trinitaria».
Palladino E., Gaudium et spes. Storia, commento, recezione, Studium,
Roma 2013, pp. 198, € 15,50. 9788838242281
I
l vol. offre un commento di carattere generale alla costituzione pastorale
sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, che tiene conto dei numerosi
contributi pubblicati negli ultimi anni e soprattutto in occasione del 50º
anniversario del Concilio. Il vol. è diviso in tre sezioni: nella I viene raccontata la storia della redazione; nella II (che contiene il commento vero
e proprio) vengono prima trattati i cc. dottrinali – i primi 4 – e successivamente quelli dedicati ai problemi sociali; la III sezione è dedicata invece
alla recezione della costituzione nel quadro più generale dell’ermeneutica
postconciliare.
Wallet J.M., Sorgi T., Igino Giordani. Cristiano, politico, scrittore, Paoline, Milano 2013, pp. 352, € 21,00. 9788831543309
B
iografia di una delle personalità più rappresentative del cattolicesimo laico del secolo scorso: gli aa. ripercorrono la vita spirituale e
l’impegno politico e sociale di Igino Giordani (1894-1980) cofondatore
– secondo le parole di Chiara Lubich – del Movimento dei focolari. Al
centro degli snodi più rilevanti del cattolicesimo italiano, Giordani da
questa avvincente narrazione emerge non solo come colui che visse, da
autentico credente, la tensione mai placata per una società più giusta
e più umana ma, soprattutto, come intellettuale che ebbe in Tommaso
Moro un modello cui ispirarsi. Entrambi furono laici, padri di famiglia,
politici, amici dei potenti e degli umili, entrambi non persero mai la coscienza d’essere e di rimanere semplici cristiani, laddove per «semplicità»
s’intende capire la complessità del proprio tempo mettendosi dalla parte
della persona umana.
Zavattiero C., Le lobby del Vaticano. I gruppi integralisti che frenano la
rivoluzione di papa Francesco, Chiarelettere, Milano 2013, pp. XX + 181, €
13,00. 9788861902961
I
l vol., lavoro d’inchiesta dell’a., descrive alcuni movimenti laicali in Italia: dai focolarini di Chiara Lubich all’Opus Dei, da Comunione e liberazione alla Comunità di sant’ Egidio. I vari cc. presentano luci e ombre
di questi movimenti, fortemente appoggiati da papa Wojtyla, guardati con
preoccupazione da papa Francesco avverso a ogni tentativo di frazionare
l’unità ecclesiale. Tra documenti «segreti», testimonianze di fuoriusciti e
nomi della politica italiana, il vol. s’interroga con puntualità su «uno dei
fenomeni più problematici che papa Francesco dovrà affrontare nel suo
pontificato». Interessante.
110
Il Regno -
attualità
4/2014
Filosofia
Aguti A., Filosofia della religione. Storia, temi, problemi, La Scuola,
Brescia 2013, pp. 393, € 23,00. 9788835035510
I
l vol. offre un’introduzione storica e concettuale alla filosofia della religione, osservandola attraverso la chiave interpretativa del «teismo», che
ammette «l’esistenza di Dio e considera quest’ultimo buono, onnipotente,
personale, creatore del mondo». Pur sovrapponendosi alla concezione dei
monoteismi occidentali, questo aspetto metodologico non è qui assunto a
partire da presupposti confessionali ma per poter rendere maggiormente
accessibili al pubblico i temi trattati.
Hegel G.W.F., Credere e sapere. A cura di A. Tassi, Morcelliana, Brescia 2013, pp. 243, € 18,00. 9788837226534
T
esto giovanile di H., scritto nel 1802, in un periodo di collaborazione con Schelling. L’a., confrontandosi aspramente con alcune correnti
contemporanee, scardina alcune assunzioni del criticismo kantiano che, circoscrivendo il Glauben (credere) al solo dominio della soggettività, lo estraniano da un ordine conoscitivo esclusivamente fenomenico; il movimento dello
spirito esige al contrario che «anche quanto è interiore deve farsi esteriore»,
cioè che «la verità di cui la coscienza finita partecipa si faccia reale, che la
sfera dell’azione soggettiva si determini facendosi oggettiva».
Kierkegaard S., La nostra epoca. A cura di D. Borso, Morcelliana, Brescia 2013, pp. 97, € 10,00. 9788837227395
Q
uesto vol., scritto agilmente con un linguaggio che conserva molti tratti
del contesto letterario-filosofico nel quale ha visto la luce, consiste in
una riflessione a tutto campo dell’a. sull’epoca a lui contemporanea, percepita nelle sue ambigue e sotto certi aspetti inquietanti contraddizioni. Se da
un lato è possibile «che l’approdo riflessivo della nostra epoca si trasfiguri in
una forma superiore di esistenza», d’altro canto, «l’apatia della riflessione»
conduce a una tensione sfibrante, capace di prosciugare ogni passione. Il
testo godette di una rinnovata fortuna nella Germania della Prima guerra
mondiale nell’ambito della (minoritaria) prospettiva antimilitarista.
Moretti G., Heidelberg romantica. Romanticismo tedesco e nichilismo
europeo, Morcelliana, Brescia 2013, pp. 260, € 20,00. 9788837226824
N
ella I parte del vol. vengono analizzati i tratti principali di quello che,
per usare un’espressione classica e ripresa con ampie rivisitazioni
dall’a., è chiamato il «romanticismo di Heidelberg» (Görres, Creuzer, i fratelli Grimm e Bachofen), contrapposto a quello cosiddetto di Jena (Schlegel e Schelling) per la propria «concezione della storia di tipo simbolico»,
distinta dalla separazione di Schelling «fra temporalità storica e mitica».
La II parte ripercorre l’origine del nichilismo, inteso come «destituzione di
senso», posta originariamente sul piano estetico, dell’universo fondato sui
concetti di analogia e metamorfosi.
Moser P.K., Di Ceglie R., Amore e obbedienza in filosofia, Lindau, Torino 2013, pp. 131, € 14,00. 9788867082209
V
ol. scritto a quattro mani incentrato sulla questione ricorrente della
possibilità e del significato di una «filosofia cristiana». Cogliendo nei
concetti d’amore e obbedienza gli aspetti della rivelazione cristiana dai
quali enucleare un discorso filosofico, gli aa. cercano di delineare i tratti
essenziali di una filosofia che parta dai fondamenti evangelici piuttosto che
sovrapporsi e mantenere quindi una «distanza» rispetto a essi. Un tentativo, cioè, che intende criticare l’atteggiamento di molti filosofi credenti i
quali hanno proposto «un modello di riflessione per nulla (o quasi) toccato
dalla vitalità del messaggio cristiano».
Peroli E., La trasparenza dell’io e l’abisso dell’anima. Sul rapporto tra platonismo e cristianesimo, Morcelliana, Brescia 2013, pp. 159, € 15,00.
9788837227036
R
iflessione sulla vexata quaestio del platonismo cristiano. Se infatti la tradizione platonica è stata fondamentale per costruire l’impianto teolo-
XXXII
R2f_EV27:Layout 1 03/12/13 13.31 Pagina 1
gico dei primi secoli del cristianesimo, come testimonia il corpus patristico,
a partire dal XII sec. assistiamo invece a un vero e proprio fenomeno di antiplatonismo cristiano. Dopo una ricostruzione storica dei motivi che portarono a tale rifiuto, la parte centrale del vol. è dedicata invece all’esame
di alcuni temi centrali della riflessione cristiana che la tradizione platonica,
secondo l’a., ha grandemente contribuito a sviluppare: «La comprensione
dell’uomo e la comprensione di Dio, l’antropologia e la teologia spirituale,
la concezione del fondamento divino della realtà e della dottrina trinitaria».
Sellier P., Pascal e Port-Royal. Introduzione, traduzione e note di Maria
Vita Romeo, Morcelliana, Brescia 2013, pp. 620, € 40,00. 9788837227487
Enchiridion
Vaticanum.27
Documenti ufficiali della Santa Sede
(2011)
S
ono 36 saggi su Pascal provenienti sopratutto da Convegni tenuti dall’a.
nell’arco di quattro decenni. Essi hanno il pregio di indagare un aspetto
della riflessione pascaliana della quale poco si è occupata la critica letteraria tradizionale – attirata sopratutto dalle Lettere provinciali e dai Pensieri – e
cioè quello degli «scritti spirituali» e del rapporto del filosofo di ClermontFerrand con la Bibbia. Uno studio prezioso e armonico che restituisce un
Pascal inedito.
Storia, Saggistica
Battelli G., Società, stato e Chiesa in Italia. Dal tardo Settecento a
oggi, Carocci, Roma 2013, pp. 207, € 16,00. 9788843071128
I
l vol. ripercorre le varie tappe dei rapporti fra Chiesa e stato in Italia
dalla fine dell’Antico regime a oggi, sottolineando la peculiarità del caso
italiano a motivo della presenza al suo interno della Santa Sede. Particolare attenzione è dedicata da un lato alla contrapposizione dell’intransigentismo cattolico allo stato liberale unitario, dall’altro, dopo un’analisi dei rapporti ambivalenti nella prima metà del sec. XX, alla vicenda post-bellica
prima e postconciliare poi, con l’ascesa e la sparizione del partito cattolico
fino al ruolo e all’influenza della CEI in campo politico e culturale.
Branca P. (a cura di), Louis Massignon. Tra orientalismo e profezia, Morcelliana, Brescia, pp. 160, € 13,00. 9788837227050
I
l n. 3/2013 di Humanitas raccoglie rielaborati i contributi di un convegno
– curato da G: Potestà e P. Branca – celebrato presso l’Università cattolica di Milano il 31.10.2012, nel 50c della morte del celebre orientalista
(nato nel 1883) e precursore del dialogo islamo-cristiano che coincide con
il 50 c di quel Concilio «nel corso del quale risuonarono molte di quelle
idee (…) a suo tempo avanzate da Massignon, e che poi furono accolte nei
testi conciliari».
Buccini S., Francesco Pona. L’ozio lecito della Scrittura, Leo S. Olschki
Editore, Firenze 2013, pp. XIV+225, € 24,00. 9788822261304
N
el pieno clima di censura imposto dalla Controriforma, l’opera di
Francesco Pona, a. seicentesco, è studio della presente indagine. Essa
si suddivide in quattro sezioni: «L’esordio», «La trasgressione», «Il conformismo», «L’epilogo». In ognuna di esse l’a. con scrupolosa e appassionata
curiosità intellettuale, descrive la complessa parabola di un a. che esordì nel
1625 con un romanzo estremamente compromettente, Lucerna, ispirato alla
dottrina pitagorica della metempsicosi, e che trascorse il resto della sua vita
nel respingere qualsiasi accusa nei suoi confronti dichiarando la propria conformità all’ortodossia tridentina. Un caso storico-letterario tutto da leggere.
Gulisano P., Fino all’abisso. Il mito moderno di Moby Dick, Ancora, Milano 2013, pp. 168, € 16,00. 9788851412241
I
l «famoso romanzo di Melville si potrebbe riassumere come una semplice avventura di caccia. Ma è molto più di questo». L’a., medico esperto
di narrativa del fantastico, costruisce un saggio sulla famosa caccia alla
balena bianca. I significati politici e religiosi che sono stati attribuiti, nei
secoli, ai vari elementi del romanzo, convergono nel vol. Centro del discorso è la ricerca, motore inarrestabile della curiosità umana verso l’ignoto. E
ogni uomo «nel labirinto della vita è un capitano Achab alla ricerca della
sua personale balena bianca». Disponibile anche in e-book.
XXXIII
Il Regno -
attualità
4/2014
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I
l volume è dedicato ai documenti pubblicati
dalla Santa Sede nel 2011. Vi si riflette quindi
l’attività del papa – dai viaggi di Benedetto XVI
in Germania, Croazia e Benin fino all’indizione
dell’Anno della fede – e dei principali organismi vaticani. Tra i numerosi documenti di carattere canonico e legislativo, compare anche la
circolare sulle linee guida per i casi di abuso
sessuale su minori da parte di chierici.
«ENCHIRIDION VATICANUM»
pp. 1160 - € 47,00
www.dehoniane.it
L
ibri del mese / schede
Maritain J., Scritti di guerra (1940-1945). A cura e con Introduzione di
R.Papini, Studium, Roma 2013, pp. 379, € 24,50. 9788838241826
R
accolta di scritti meno noti dell’a. composti nel periodo di guerra,
coinciso con il suo esilio forzato negli Stati Uniti. In questi testi, che
riecheggiano i libri più importanti redatti in questo periodo, come I diritti dell’uomo e la legge naturale e Cristianesimo e democrazia, l’a. contribuisce
al dibattito sulla futura rifondazione dell’Europa, indicando nell’idea federale e nell’instaurazione di un nuovo modello internazionale la strada
da percorrere per uscire dalla barbarie totalitaria, all’insegna dei principi
dell’«umanesimo cristiano» (convergenza fra principi cristiani e principi
democratici).
Pomilio M., Il cimitero cinese. Con i racconti Ritorno a Cassino e l’inedito I partigiani, Studium, Roma 2013, pp. 117, € 12,00. 9788838242267
«U
no sradicato»: fu il modo con cui si definì lo scrittore abruzzese
che nel corso della propria esistenza artistica meditò sul problema
dell’Unde malum posto dalla filosofia di Boezio. Del suo sradicamento sono
testimonianza i tre straordinari racconti (Il cimitero cinese, Ritorno a Cassino, I partigiani) di questa raccolta che testimoniano la lezione, fatta propria
dall’a., di un recupero del manzonismo alla luce della dura esperienza della Seconda guerra mondiale. Vicende storiche e personali s’intrecciano in
maniera tale da dare spessore all’istanza etico-civile che l’a. avvertiva nel
suo animo. Il risultato è una scrittura densa di pietas, dove lo stesso sradicamento diviene cifra per narrare quella lacerazione originaria che dà luogo
all’attuale condizione umana. Uno sradicato, un grande dimenticato da
tornare a scoprire.
Preziosi E., Il Vittorioso. Storia di un settimanale per ragazzi 1937-1966, Il
Mulino, Bologna 2012, pp. 344, € 29,00. 9788815237880
N
egli anni della Seconda guerra mondiale e fino al primo dopoguerra,
il periodico a fumetti Il Vittorioso, espressione della Gioventù italiana di
Azione cattolica, fu una voce originale e seppe realizzare un’intensa azione formativa e culturale, realizzando un proprio progetto educativo che
si proponeva di formare laicamente le coscienze e le identità civili degli
adolescenti italiani. Ernesto Preziosi, già vicepresidente dell’AC e oggi deputato del Partito democratico, ne esamina il profilo all’interno della coeva
produzione editoriale per ragazzi e ne mette in evidenza le caratteristiche
di fumetto «italiano» a confronto con il modello americano e il contributo
offerto alla formazione di un ethos civile in quegli anni.
Quaderni della Libera Università Maria SS. Assunta - LUMSA,
Comunicazione e verità. Omaggio a Gianfranco Ravasi, Studium, Roma
2013, pp. 115, € 10,00. 9788838242717
L’
inaugurazione dell’anno accademico 2013-2014 alla LUMSA è stata
occasione per la consegna della laurea honoris causa in Scienze della comunicazione al card. G. Ravasi, presidente del Pontificio consiglio
della cultura. Il vol. raccoglie gli atti della cerimonia tenutasi lo scorso
22 novembre. La lectio magistralis, nella quale l’erudito cardinale evidenzia
eccessi e povertà della comunicazione attuale con la consueta ricchezza di
riferimenti culturali, è corredata da una raccolta di aforismi e riflessioni di
R., tratti da articoli e commenti apparsi sulle principali testate nazionali, e
da una dettagliata bibliografia dell’a. dal 1972 al 2013.
Bressan L., Maria nella devozione e nella pittura dell’islam. con
la collaborazione di M. Borrmans, A. Hussein Hassoun, L. Passalacqua, M. Rajab
al Bayyūmī, Jaca Book, Milano 2011, pp. 231, € 34,00. 9788816409859
Politica, Economia, Società
Argiropoulos D., Spigolare parole rubare sguardi. Conversazioni
con i rom. Incontri da intuire, da pensare, da narrare e da riscrivere, Polistampa,
Firenze 2013, pp. 249, € 18,00. 9788859612322
A
mpia e preziosa testimonianza sulla vita delle comunità rom e sinti nel
territorio italiano. Il vol. raccoglie i dialoghi – molto lunghi ed elaborati – con diverse persone risiedenti nei campi e, in linguaggio solo in mi-
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attualità
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nima parte corretto per lasciar spazio a uno stile e un’espressività peculiari,
affronta gli aspetti più disparati della vita di una comunità sempre meno
tollerata e tutelata, a causa di numerosi vuoti normativi e di un persistente
– e anzi accentuato – blocco culturale. Centrato sulla vita vissuta, il vol.
contiene anche utili informazioni sulla storia di un popolo che solo dai gagi
(i non-sinti) è stato denominato, in tono dispregiativo, «zingaro».
Bodrato G., L’inganno del bipolarismo. Diario politico da bordo campo
(2005-2013), Cittadella, Assisi (PG) 2013, pp. 162, € 13,80. 9788830813151
P
arlamentare nazionale nelle file della Democrazia cristiana dal 1968 al
1994 (e più volte ministro) e parlamentare europeo dal 1999 al 2004,
esponente della terza generazione DC e critico del sistema politico bipolare sia in astratto sia per com’è stato declinato nella politica italiana,
Bodrato percorre la cronaca dei fatti politici che vanno dal marzo 2005
al febbraio 2013, recuperando tra l’altro molti degli articoli scritti per il
settimanale diocesano Il nostro tempo di Torino. La rilettura di questi anni
ha come punto di partenza il fallimento del PD nel 2013 e la costatazione
dell’irrilevanza dei cattolici nel quadro politico attuale.
Caffè F., Economia senza profeti. Contributi di bibliografia economica.
A cura e con postfazione di R. Bellofiore, Studium, Roma 2013, pp. 165, € 16,50.
9788838242311
F
ederico Caffè è stato uno dei maggiori economisti italiani del Novecento, docente di Politica economica alla Sapienza, critico del pensiero
«liberale», capace di cogliere e valorizzare la novità del pensiero di Keynes.
L’editore ripubblica un testo del 1977 particolarmente espressivo di un
rigore intellettuale che mostrava profondo rispetto per tutte le scuole di
pensiero economico. Nell’agile vol. «figurano saggi che tracciano in termini essenziali un bilancio critico di opere importanti di politica economica
e di teoria economica apparse tra il 1973 e il 1977». La nuova edizione
include un ricordo introduttivo di G. Lazzaro (direttore di Studium) e una
postfazione del curatore, R. Bellofiore.
Colombo A. (a cura di), Stranieri in Italia. Figli, lavoro, vita quotidiana, Il
Mulino, Bologna 2013, pp. 338, € 26,00. 9788815248251
N
ell’ambito delle ricerche sociologiche sull’immigrazione in Italia, sulle
quali l’Istituto Cattaneo è stato un pioniere fin dagli anni Novanta, il
vol. che esce ora raccoglie contributi occasionati da un call for papers aperto
a studiosi di tutte le discipline che si occupano di migrazioni umane, senza
vincoli tematici, di prospettiva teorica e di metodologia di ricerca. Ne risulta un quadro che, a partire da punti prospettici pur periferici o particolari
– ma sempre basandosi su dati statistici oggettivi anche se in qualche caso
empirici –, restituisce molto chiaramente l’idea che nel discorso sull’immigrazione in Italia ci si basi su una vulgata tanto diffusa quanto falsa. Anche
con le migliori intenzioni e nel nome del politically correct.
Crosti M., Mantovani M. (a cura di), Per una finanza responsabile e solidale. Problemi e prospettive, LAS, Roma 2013, pp. 288, € 19,00.
9788821308826
I
l tema della crisi che stiamo attraversando, che è insieme crisi economico-finanziaria, politica, sociale e umana, è stato oggetto di un convegno
alla Pontificia università salesiana (marzo 2013) pensato in chiave non solo
di diagnosi del momento, ma anche di prognosi, ovvero con l’obiettivo di
guardare «oltre la crisi». Il vol. raccoglie i contributi proposti in occasione
del convegno, che affrontano il tema della finanza sotto diverse angolature: le nuove caratteristiche dell’attività finanziaria, le sue degenerazioni, la
dissoluzione dei legami tra responsabilità e solidarietà, l’esigenza di una
riforma verso nuove regole e su valori diversi.
Di Giorgi P.L., Immagini della secolarizzazione, Aleph, Montespertoli (FI) 2013, pp. 126, € 10,00. 9788895594453
I
n maniera piuttosto generica, con il termine secolarizzazione (al quale
bisognerebbe accompagnare sempre anche quello di modernizzazione)
si vuole indicare «il processo di marginalizzazione irreversibile della religione a cui si accompagna una crescente privatizzazione del sentire religioso». Tuttavia, a partire dalla fine del XX sec., si è verificato un ritorno
XXXIV
della questione religiosa soprattutto all’interno del dibattito pubblico. L’a.
– docente di Sociologia presso l’Istituto superiore di scienze religiose di
Firenze – intende presentare, accanto agli approcci classici alla secolarizzazione, i più recenti paradigmi d’interpretazione sociologica nel tentativo
di aggiungere nuove variabili per la comprensione di questo fenomeno.
Felice E., Perché il Sud è rimasto indietro, Il Mulino, Bologna
2013, pp. 258, € 16,00. 9788815247926
Q
uesto saggio storico sul problema del Mezzogiorno d’Italia si colloca
in una prospettiva intermedia tra le due posizioni classiche, tanto incorrette quanto fuorvianti per il futuro: quella che addossa ogni colpa alla
geografia e alla «dominazione» del Nord, assolvendo in toto la società e le
classi meridionali, e quella che viceversa le condanna senza appello per le
loro responsabilità ataviche. Oggi c’è anche una terza variante, che pensa il
Sud come portatore di una civiltà ideale fatta di valori antichi e di resistenza all’impero del consumismo. Se il Sud vuole riscattarsi dalla sua condizione oggettivamente arretrata, sostiene l’a., docente di Storia economica
all’Università autonoma di Barcellona, deve modificare la propria società,
spezzando le catene socio-istituzionali che lo condannano all’arretratezza.
Geninazzi L., L’Atlantide rossa. La fine del comunismo in Europa, Lindau,
Torino 2013, pp. 288, € 19,00. 9788867081752
Q
uesto libro è un’occasione per riflettere sul secolo scorso, sulla fine
della guerra fredda e sulla fine del comunismo in Europa. Questa
svolta storica è raccontata dall’interno delle vicende dei paesi comunisti
coinvolti nel processo di democratizzazione che si è verificato fra gli anni
Ottanta e Novanta. L’Europa dell’Est dalla fine della Seconda guerra era
diventato il «blocco socialista» che si dimostrerà essere un’«Atlantide rossa», perché nel giro di pochi anni quell’ipotesi politica scomparirà dalla
scena del nostro continente. Geninazzi racconta la corruzione, le persecuzioni, le menzogne, le violenze e i comportamenti grotteschi dei politici e
dei funzionari della sicurezza e ne esce un ritratto inaccettabile di governi
che pretendevano di operare in nome del popolo. Leggendo questo testo
ci possiamo domandare se oggi nei nostri paesi liberi i vizi di quei regimi
siano del tutto assenti.
Maffei L., La libertà di essere diversi. Natura e cultura alla prova delle
neuroscienze, Il Mulino, Bologna 22013, pp. 181, € 12,00. 9788815247889
R
istampa in edizione economica di un vol. uscito nel 2011. L’a., già
presidente dell’Accademia dei Lincei, docente di Neurobiologia e direttore dell’Istituto di neuroscienze del CNR, affronta con competenza un
tema di stretta attualità: il rapporto tra natura e cultura in relazione al
funzionamento del cervello. Il risultato è un saggio di alta divulgazione,
semplice da leggere e rigoroso nei contenuti (corredato da una robusta
bibliografia scientifica). Con sorpresa finale: l’antidoto alla tendenza verso la globalizzazione del pensiero («una sorta di neuropotere» nelle mani
dei nuovi potentati finanziari) consisterebbe nella libertà d’essere «diversi»
(come gli artisti o i ricercatori), ovvero con un pizzico di creativa «follia».
Urbinati N., Il bene e il giusto, Forum, Udine 2013, pp. 62, € 8,00.
9788884207548
I
concetti di «bene» e di «giusto» vengono in questo breve vol. rigorosamente distinti. Il «giusto» è la garanzia dei diritti dell’individuo contro
qualsiasi sopruso alla sua libera espressione; il «bene» invece è l’insieme
di tutte le aspirazioni e delle finalità che l’individuo, nella sua libertà, si
prefigge di raggiungere. Esso riguarda la sfera delle convinzioni individuali
che necessariamente confliggono con quelle altrui; ed è per evitare che
dall’incontro di queste vedute divergenti si origini l’imposizione di un’opinione sull’altra che, secondo l’a., la separazione del «giusto» dal «bene» è
essenziale per la sopravvivenza della democrazia.
Volpi A., La globalizzazione dalla culla alla crisi. Una nuova biografia del mercato globale, Altra Economia, Milano 2013, pp. 160, € 14,00.
9788865161036
I
l titolo del vol. riecheggia la locuzione «dalla culla alla tomba» che rimanda all’«età felice» del welfare state dove la programmazione econo-
XXXV
mica, finanziaria e politica aveva caratteri relativamente stabili; invece qui
nell’età della globalizzazione tutto appare fluido e pare che all’apprendista
stregone stia sfuggendo ciò che ha costruito. Il lettore è preso dallo stordimento per una realtà che non ha confini definiti ed è caratterizzata: dal
militarismo, dall’emigrazione, dall’economia informale, dal terrorismo,
dalla destrutturazione delle istituzioni statali, dalla delocalizzazione della
produzione, dall’indebolimento delle organizzazioni sindacali... e dove la
responsabilità dell’impoverimento dei più non ha un volto ben definito
perché sia i politici sia gli uomini della finanza internazionale si muovono
in un meccanismo che non sempre approvano e su cui riescono scarsamente a intervenire.
Pedagogia, Psicologia
Amarelli P., Ferraboschi L., Metelli L., Sacchella S., Le indicazioni scolastiche in classe. Guida alla lettura e alla progettazione, La
Scuola, Brescia 2013, pp. 167, € 14,00. 9788835035268
G
uida «dettagliata a disposizione di docenti e dirigenti scolastici per
l’elaborazione del curricolo d’istituto dalla scuola dell’infanzia alla
secondaria di 1o grado, previsto dal Regolamento sull’autonomia e in piena
coerenza con le nuove Indicazioni nazionali».
Crocetti G., Gerbi R.F., Tavella S. (a cura di), Parabole, metafore e simboli del dolore e della sofferenza. Manuale di psiconcologia. «Tra malessere e benessere la persona al centro», Borla, Roma 2012, pp. 340,
€ 36,00. 9788826318547
I
l manuale nasce da un progetto dell’Unità di psicologia oncologica e
delle patologie organiche gravi che opera presso il Policlinico Umberto
I di Roma, e che nel corso degli anni ha portato avanti attraverso alcuni
simposi un percorso su come – nelle diverse età della vita – concretizzare
la filosofia di fondo di mettere la persona al centro delle cure mediche, aderendo a una corrente sempre diffusa che tende a riscoprirne il fondamento
umanistico dell’arte medica per bilanciarne la crescente tecnicizzazione. I
contributi rispecchiano la stessa divisione per fasi della vita: infanzia, adolescenza, età adulta, vecchiaia, e trattano per ciascuna gli aspetti psicologici e psicopatologici, le coordinate culturali specifiche del rapporto con la
malattia e la morte, l’organizzazione dell’assistenza sanitaria e le questioni
legate alla nutrizione.
Cucci G., Abitare lo spazio della fragilità. Oltre la cultura dell’«homo
infirmus», Ancora - La civiltà cattolica, Milano 2014, pp. 159, € 16,00.
9788851412753
L’
ossessione per la salute è un ingrediente base per l’attuale disagio
esistenziale. Teologo e psicologo gesuita, l’a. analizza i fondamenti
dell’attuale cultura terapeutica (c. I), il vuoto di senso che essa lascia (c.
II), la critica di Alasdair MacIntyre al progetto filosofico sottostante, figlio della modernità (c. III). Quindi seguendo MacIntyre propone un
recupero della dimensione valoriale sulla scorta di Aristotele (c. IV), con
l’educazione come momento decisivo e urgente per recuperare il senso
della fragilità umana e la capacità di abitarvi (c. V). Nella conclusione
vengono presentate alcune parole chiave della Bibbia che possono giocare un ruolo contro-culturale rispetto all’imperante cultura terapeutica
che ci circonda.
Frankl V.E., La sofferenza di una vita senza senso. Psicoterapia per
l’uomo di oggi. A cura di E. Fizzotti, Mursia, Milano 2013, pp. 156, € 15,00.
9788842551805
F
rutto di diverse conferenze e articoli rielaborati dall’a., il presente
vol. – apparso per la prima volta in Italia nel 1978 e qui pubblicato
in una nuova edizione – offre la possibilità di conoscere il pensiero dello psicoterapeuta viennese considerato il fondatore della terza grande
Scuola di psicoterapia (dopo le prime due, tradizionalmente attribuite
rispettivamente a Freud e Jung), conosciuta come Logoterapia e Analisi
esistenziale.
Il Regno -
attualità
4/2014
113
L
ibri del mese / schede
Grosso W. (a cura di), Una casa per un po’. Esperienze di casa-famiglia. Quaderni di psicoterapia infantile, Borla, Roma 2013, pp. 269, € 30,00.
9788826318691
N
umero monografico dei Quaderni di psicoterapia infantile interamente dedicato alle realtà delle casa-famiglia, delle quali la curatrice, psicanalista, si occupa da vent’anni come supervisore e formatore degli operatori.
La psicoterapia per l’infanzia spinge in modo peculiare per una conciliazione delle polarità individuo-relazione e corpo-mente; nel vol. si presentano due approcci teorici che integrano questi aspetti nella cura dei bambini
traumatizzati. I cc. precedenti presentano le specificità dello sviluppo dei
bambini accolti in case-famiglia e presentano i diversi aspetti di queste
realtà d’accoglienza, anche attraverso due testimonianze di operatori.
Jung C.G., Il simbolismo della messa. Presentazione di L. Aurigemma,
traduzione di E. Schanzer, Bollati Boringhieri, Torino 2013, pp. 168, € 15,00.
9788833924427
L’
esperienza intellettuale dello psicanalista svizzero, padre della psicologia analitica, affascina per le sue profonde esplorazioni del patrimonio simbolico che, secondo le sue teorie, costituisce il retroterra comune
del subconscio. In questo vol., che s’inserisce negli studi condotti dall’a.
tra il 1930 e il 1940 sulla «fenomenologia della trasformazione», viene
indagato – senza alcuna pretesa teologica – il simbolismo della messa e il
significato psicoanalitico del sacrificio.
Montuschi F., Gli equilibri dell’amore. Cura di sé e identità personale,
EDB, Bologna1 2014,
pp. 140, € 12,00.
R1f_Diodato:Layout
3-02-2014
8:379788810558034
Pagina 1
A
mare per dovere è la peggior sorte che possa capitare all’amore. Eppure accade spesso che la mancanza di consapevolezza di ciò che avviene
nella vita affettiva e l’incapacità di cogliere i condizionamenti della propria
Relazione
e virtualità
Un esercizio del pensiero estetico
Palagi E., I segnali del disagio. Guida per adulti ai problemi dei ragazzi,
EDB, Bologna 2014, pp. 168, € 15,00. 9788810809464
C
he cosa possiamo fare per aiutare i giovani ad affrontare in modo sereno i momenti più difficili? Il testo, rivolto in particolare a genitori,
insegnanti ed educatori, offre alcune indicazioni pratiche per osservare le
molte sfaccettature del comportamento dei ragazzi e un’analisi delle più
frequenti forme di disagio che si verificano nel periodo della scuola media
e nei primi anni della scuola superiore.
Scaglia E., Giovanni Calò. Nella pedagogia italiana del ‘900, La Scuola,
Brescia 2013, pp. 346, € 19,50. 9788835035206
ar conoscere la vicenda dell’intellettuale Calò, nato filosofo poi diventato pedagogista a Firenze, significa ripercorrere una vicenda intrecciatasi con il dibattito pedagogico della prima metà del Novecento, tra modernismo, anti-idealismo e anche anti-positivismo, che prese corpo attorno
alla riforma degli ordinamenti scolastici. Liberale della «vecchia guardia»
cercò costantemente un «connubio fra cultura classica, primato del cristianesimo e concezione realistica del mondo, per promuovere la formazione
integrale di un uomo inteso come personalità psichica e morale».
Schiavo G., Dal signor maestro al prof. in crisi. L’insegnante di scuola
attraverso la letteratura italiana contemporanea, Armando, Roma 2013, pp. 174,
€ 15,00. 9788866773733
Ternynck C., L’uomo di sabbia. Individualismo e perdita di sé, Vita e
pensiero, Milano 2012, pp. 203, € 16,00. 9788834321843
pp. 128 - € 11,00
NELLA STESSA COLLANA
Edizioni
Dehoniane
Bologna
a I parte di questo vol. s’interroga sulle ragioni per le quali il cibo e il
sesso attraggono gli esseri umani, sul ruolo dell’amore e sull’originalità
di ciò che nella riflessione classica veniva denominata «ragione pratica»,
ovvero il modo di pensare rivolto all’azione. La II affronta invece il rapporto tra fame, libido e «vita buona», una vita nella quale non tutto è dato
dall’inizio e in cui si deve raccogliere la sfida di costruire rapporti con gli
altri e con il creato. Il filo conduttore dell’intera analisi è l’interrogativo
sulla finalità dei desideri e delle azioni; la parola chiave è telos, il cui campo
semantico indica non semplicemente il fine come terminazione, ma anche
la perfezione, la pienezza, il compimento.
he la figura dell’insegnante abbia subito in Italia nel corso dell’ultimo
secolo un’erosione se non un vero e proprio tracollo del suo prestigio
sociale è del tutto evidente. L’a. argomenta questo passaggio prendendo
come cartina di tornasole l’immagine dell’insegnante nella letteratura in
quattro periodi storici: post-unitario, fascista, i decenni successivi alla Seconda guerra mondiale e gli anni a cavallo fra XX e XXI sec. Il percorso
ci mostra anche alcuni grandi cambiamenti intercorsi nella nostra società,
come il diverso ruolo assegnato al sistema scolastico nazionale, l’ingresso
della donna nel mondo del lavoro e la scolarizzazione delle classi subalterne.
l volume svolge il tema della qualità
spirituale nel postmoderno digitale. A
fronte della crescente complessità del
mondo e del sapere, manca un linguaggio
adatto a esprimerla. Le relazioni sembrano
confinate nel mondo della virtualità. Ma la
questione vitale dell’umano non può giocarsi solo sul piano della «quantità» e dell’accumulo di dati...
NELLE TRAME DEL DONO
FORME DI VITA E LEGAMI SOCIALI
L
C
I
SUSY ZANARDO
Noriega J., Enigmi del piacere. Cibo, desiderio e sessualità, EDB, Bologna 2014, pp. 279, € 26,00. 9788810809457
F
ROBERTO DIODATO
«PERCONOSCENZA»
storia e dei propri vissuti rendano faticosa la ricerca di un equilibrio tra la
cura di sé e l’attenzione per gli altri. Da compito che si limita ad allontanare il senso di colpa, «farsi prossimo» può così diventare un segno naturale il
cui significato, vissuto in profondità, ricompensa chi lo compie trasformando l’amore in una forza propulsiva che trova fonte e confine nella persona
stessa. Un amore che supera ogni contabilità, dà pienezza a chi lo esprime
e crea analoghe premesse in chi lo riceve.
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Tel. 051 3941511 - Fax 051 3941299
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I
l vol. è il frutto di numerosi anni che l’a. ha dedicato all’ascolto nel suo
lavoro di psicoanalista. Evidenziando le maggiori debolezze del pensiero
e della cultura individualista, l’a. intende farci familiarizzare con l’«uomo
di sabbia», immagine tragica dell’uomo moderno, fluttuante e sempre alla
ricerca di una definizione. Tuttavia, quest’ultimo non è necessariamente
una figura negativa, quanto piuttosto «il testimone di un’umanità che cerca un passaggio, che tenta di aprirsi un varco. Una figura terminale, ma
anche qualcosa che sta emergendo, (…), nel momento in cui una cultura
si sostituisce a un’altra».
114
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attualità
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XXXVI
L
L ibri del mese / segnalazioni
D. Di Cesare,
Israele. Terra,
ritorno,
anarchia,
Bollati Boringhieri,
Torino 2014,
pp. 105, € 12,50.
9788833924939
J
acob Taubes – rabbino e filosofo tedesco – definiva Israele «l’elemento inquieto della storia universale»,1 poiché
a quest’ultimo manca quella caratteristica
comune alle grandi civiltà egiziana e babilonese, e cioè l’appartenenza a una terra di
origine. In questo modo, fa notare Taubes,
per Israele lo spazio perde valore rispetto
al tempo, che è la sostanza della promessa
di cui Israele si nutre: quella di un nuovo
cielo e di una nuova terra che orientino il
tempo verso un compimento.
Il libro di Donatella Di Cesare – docente di Filosofia teoretica presso il dipartimento di Filosofia dell’Università La
Sapienza di Roma – deve molto alle idee
taubesiane, anche se solo in un’occasione
all’interno del testo si fa riferimento al filosofo tedesco. Va subito chiarito che non
siamo di fronte a un nuovo saggio di teologia politica: la stessa autrice chiarisce
infatti che la sua riflessione, in linea con
le sue precedenti monografie,2 vuole approfondire alcuni aspetti ermeneutici della
questione ebraica.
Per l’autrice si tratta in primo luogo
d’analizzare cosa s’intende quando si usa il
termine Israele. Quest’ultimo appare infatti attraversato da una profonda ambiguità
semantica e politica. «Si parla dello Stato
di Israele? Oppure del nome con cui, a partire da Giacobbe, viene chiamato tutto il
popolo ebraico?» (9).
Questa ambiguità non va tuttavia aggirata, poiché essa si rivela feconda per due
motivi: in primo luogo perché spinge a riflettere sul futuro dell’Israele attuale alla
luce di quello antico; in secondo luogo,
perché tale ambiguità mette in luce uno
degli aspetti essenziali del mondo ebraico,
e cioè la strettissima relazione tra religione
e politica.
Il punto di partenza, sul quale si concentra la prima parte del lavoro, ruota
intorno alla possibilità di ripensare il sionismo scavando al di là della sua impostazione ideologica. Una volta raggiunta la meta
dello stato, l’obiettivo del sionismo politico può dirsi concluso?
XXXVII
A questa domanda risponde negativamente una corrente di filosofi ebrei, rimasta ai margini del sionismo ufficiale, ai quali
l’autrice intende dar voce. Le riflessioni di
Hannah Arendt, Emmanuel Lévinas, Gershom Scholem, Gustav Landauer e sopratutto di Martin Buber, descrivono un altro
sionismo, in cui «lo stato avrebbe dovuto
essere non già la meta, bensì la via verso la
meta» (31).
Ma tenere presente questi autori significa fare i conti con la storia biblica dalla
quale Israele trae giustificazione: significa
cioè considerare il legame strettissimo tra
il «libro» e la «terra».
L’autrice sottolinea come per Israele
sia stato «il libro che ha dato luogo alla
terra narrandola; ne ha ricordato la promessa, ne ha alimentato l’attesa. Che cosa
sarebbe dunque la terra, se si dimenticasse
il libro?» (13).
In questo senso, centrale nella sua riflessione è il ruolo che la promessa della
terra gioca nella definizione e nell’autocoscienza del popolo ebraico; è la promessa, infatti, il paradigma sul quale diventa
possibile formulare un nuovo abitare e una
nuova idea di cittadinanza.
In primo luogo, l’ingiunzione della Torah, che a partire da Abramo accompagna
il popolo ebraico, implica l’idea di una
nuova politica, quella di essere «stranieri
residenti» nella Terra promessa. Significa
soggiornare mantenendo sempre aperta la
possibilità della presenza dell’altro. In secondo luogo si viene a stabilire un nuovo
rapporto con la terra, che in quanto promessa è inappropriabile. Efficace risulta
qui l’uso che l’autrice fa della metafora
sponsale, in cui la terra è vista da Israele
come promessa sposa. Questo significa
che il popolo, sposandola, deve dare vita a
qualcosa di nuovo, qualcosa a-venire, una
comunità santa.
Proprio la metafora sponsale, che sottolinea la reciproca alterità tra Israele e la
terra, aiuta a tenere insieme la possibilità
effettiva del ritorno e la necessità di restare, contemporaneamente, nella dimensione dell’esilio. Infatti, «se il ritorno è determinante per l’esilio, che altrimenti sarebbe
solo sradicamento, l’esilio è a sua volta determinante per il ritorno» (48). Conservare il ricordo dell’esilio significa preservare
l’apertura dell’a-venire e cioè del regno di
Dio, ovvero la possibilità reale della giustizia e della pace.
Qui l’autrice tocca un punto importante: la relazione che nella tradizione ebraica, soprattutto del Novecento, lega strettamente utopia e comunità.
La seconda e la terza parte del libro, infatti, intendono far luce proprio su questo
aspetto, che ha a che fare con la definizione di teocrazia.
L’ebraismo non concepisce la teocrazia né come sovranità umana legittimata
né come ierocrazia, ma piuttosto come la
sovranità diretta e assolutamente reale di
Dio (cf. 82). La conseguenza diretta di questa concezione della sovranità è l’anarchia,
poiché nessun governo umano potrà mai
essere considerato legittimo o alternativo
alla sovranità di Dio.
Tuttavia, la storia d’Israele narrata dalla
Bibbia mostra come il popolo sia costantemente desideroso di un re ed evidenzia
con forza la necessità ma anche le contraddizioni della monarchia. Il desiderio di
una guida che possa preparare il campo al
futuro regno di Dio si traduce nell’ebraismo nella speranza messianica.3 Quest’ultima deve tuttavia rimanere una speranza
per essere efficace, perché la sua effettiva realizzazione smentirebbe l’a-venire di
Dio. Inoltre, l’attesa messianica non fa che
produrre una passione per l’azione in cui
l’uomo diventa un collaboratore attivo di
Dio e lavora per la manifestazione futura
della sua regalità.
Il saggio di Di Cesare lascia aperto il
problema di articolare in modo equilibrato attesa e prassi, escatologia ed economia. Infatti, nel tentativo di elaborare
un’«escatologia della pace», come la chiama l’autrice – in cui la pace non è l’assenza
della guerra ma propriamente ciò che sta
al di là di quest’ultima, e può compiersi
solo con l’irrompere del tempo messianico
nel tempo storico –, si corre il rischio di
sottrarre la promessa all’orizzonte nel quale Israele s’inscrive e di cui è segno per le
altre nazioni: l’esigenza di futuro.
Andrea Franzoni
1
J. Taubes, Escatologia occidentale, Garzanti, Milano 1997, 37.
2
In questo senso il nuovo lavoro della
Di Cesare s’inserisce nel percorso da lei iniziato con le monografie precedenti: Utopia
del comprendere (Il Nuovo Melangolo, Genova 2003); Grammatica dei tempi messianici (Giuntina, Firenze 2011); La giustizia deve
essere di questo mondo. Passaggi dell’etica
ebraica (Fazi, Roma 2012). In esse venivano
poste in particolare evidenza l’importanza
della parola di Dio, la vocazione messianica
del popolo ebraico e la possibilità d’inscrivere quest’ultima all’interno della prassi politico-sociale.
3 G. Scholem, L’idea messianica nell’ebraismo. E altri saggi sulla spiritualità ebraica, Adelphi, Milano 2008; D. Banon, Il messianismo, Giuntina, Firenze 2000.
Il Regno -
attualità
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115
L
ibri del mese / segnalazioni
L. Gherardi,
Le querce
di Monte Sole.
Vita e morte delle
comunità martiri
fra Setta e Reno
(1898-1944).
EDB, Bologna 22014,
pp. 504, € 25,00.
9788810560037
G
iunto al termine del libro, credo che il
lettore possa concordare che il maggior merito dell’opera di don Luciano
Gherardi, che ne ha molti, è quello di farci
progressivamente entrare in comunione con
le vittime della strage e quasi con i loro volti.
La sua capacità narrativa e poetica ci guida in
questo cammino con delicatezza e passione.
Non è libro di uno storico, pur condotto
con rigorosità nell’uso delle testimonianze e
con una miriade di dati essenziali. È più una
memoria intima, uno sguardo che si affaccia
con affetto e spesso nostalgia sui visi amici e
sulla vita che più non c’è di intere comunità civili e parrocchiali. Per alcuni questo può essere
anche un limite e una visuale ristretta, ma chi
ha conosciuto don Luciano sa bene la consapevolezza che aveva su questo punto.
Altra era la sua preoccupazione e la sua
competenza: mettere a fuoco l’eredità lasciata dai preti e dalle altre vittime e riportare la
Chiesa bolognese in contatto con il sangue
sparso in queste montagne, sangue di martiri,
sangue che semina vita e non morte, sangue
che parla con voce flebile, disponibile solo a
chi tende l’orecchio.
Ma questo aspetto non è in collisione con
la ricerca storica, anzi il contatto con la testimonianza lasciata esige un’indagine sui fatti
libera e approfondita, scrupolosa e sempre
rinnovata. Sono convinto dell’apprezzamento
dell’autore di questo libro per il lavoro di documentazione che ha portato alla pubblicazione di volumi come Marzabotto. Quanti, chi e
dove (a cura del Comitato regionale per le onoranze ai caduti di Marzabotto, Bologna 21995) e
più recentemente Il Massacro (L. Baldissara, P.
Pezzino, Bologna 2009). Penso che questi debbano qualcosa anche alle Querce di Gherardi.
Nella sua Introduzione, don Giuseppe Dossetti insiste sul primo obbligo che sorge dalla
strage: «La prima cosa da fare, in modo molto
risoluto, sistematico, profondo e vasto, è l’impegno per una lucida coscienza storica e perciò
ricordare: rendere testimonianza in modo corretto degli eventi» (Introduzione, n. 11, 42).
Nessuna pretesa dunque né in Gherardi
né in Dossetti di dire l’ultima parola e quella
«vera», né confusione di ruoli, ma solo volontà
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Il Regno -
attualità
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di contribuire a una riflessione sui fatti e sul
loro significato e, oltre ancora, a un contatto
vitale con gli uccisi. Quante volte ho sentito
don Giuseppe raccomandarci: «Voi non dovete custodire solo le pietre di queste rovine, ma
ancor più la comunione con chi vi è morto, il
rapporto con loro che sappiamo vivi in Dio».
Lo scriverà anche nella richiesta presentata alle autorità comunali di Marzabotto per
la sua sepoltura nel cimitero di Casaglia: «Ho
aspirato a essere sepolto in quel luogo, in cui
tante vittime innocenti hanno dato il loro sangue, (...) anzitutto per segnalare a tutti quanti
mi hanno conosciuto il significato, ora più che
mai valido, della morte gloriosa e feconda delle vittime di Monte Sole» (Al Consiglio comunale di Marzabotto, 18 maggio 1993. Ora in G.
Dossetti, La parola e il silenzio, Milano 2005,
466).
Singolare coincidenza: l’autore dell’Introduzione e quello del libro sono ora di nuovo
a fianco non nello scrivere ma nel riposare in
quell’ultima dimora, nel luogo dell’eccidio di
Casaglia, accomunati nel riverente onore per
quanti là e nei tanti luoghi limitrofi hanno scritto con il loro sangue la testimonianza più alta.
Vorrei però fermarmi particolarmente sulle
parole di chi mi è stato padre e che ha dettato
alla mia Famiglia e a me il modo in cui vivere
a Monte Sole. Lo farò solo per accenno a tre
punti fondamentali da lui più volte ribattuti e
che mi paiono tuttora offrirsi a chi, terminata
la lettura, s’interroga sulla portata dei fatti.
– Revisione teologica. A prima lettura le
pagine di Dossetti possono sembrare troppo
«religiose», con i continui riferimenti biblici e
le parole su Dio, satana e gli idoli, e forse anche scavalcare il piano strettamente storico
per dissertare sul piano metafisico. No, tutta
l’argomentazione di don Giuseppe è tesa ad
avvalorare degli impegni molto concreti da ricavare: la necessità di ricostruire e ricordare i
fatti, di assumerli nella coscienza comunitaria
ed ecclesiale, di vigilare che non si ripetano, di
mettere allo scoperto le radici culturali e religiose che possono averli favoriti, di formare
coscienze capaci di vigilanza e silenzio, quale
spazio essenziale per consolidare pensieri e
cammini di pace. Dossetti si rivolge alla Chiesa
e sottolinea la domanda che la catastrofe, prodottasi nel cuore dell’Europa cristiana, pone al
discorso su Dio e sulla Chiesa.
I tragici avvenimenti del secondo conflitto mondiale non possano trovare a livello
teologico una risposta a buon mercato, ma richiedono un profondo ripensamento. «La mia
preoccupazione non è stata tanto di parlare
delle stragi di Monte Sole ma di inquadrarle un
poco, un poco solo, in una teologia che rendesse al cristiano il senso profondo delle cose,
e particolarmente la centralità esclusiva di Cristo» (G. Dossetti, Riunione con la comunità,
Monte Sole 3.5.1995).
Si tratta di obbligare la teologia a misurarsi con la realtà senza fuggire nella devozione
e, d’altra parte, a liberarsi da ogni ottimistico
accompagnamento della storia, quasi fosse
in continua progressione verso il bene; essa
deve misurarsi solo su Cristo crocifisso e il suo
abbassamento totale nelle mani degli uomini,
facendosi compagno di ogni vittima della storia e proclamando la beatitudine dei piccoli e
degli inermi.
– Presenza sui luoghi. La stessa presenza
ecclesiale nei luoghi della strage, e specificamente la nostra, deve essere consapevole,
mite, rispettosa, orante. Fin dall’origine, invitando alla prima liturgia solenne (la professione religiosa di quattro sorelle e tre fratelli
celebrata nei ruderi di Casaglia) aveva specificato: «Vorremmo (...) stabilire lassù, in una
grande solitudine e in un grande silenzio, una
diaconia di sola preghiera per i morti e per i
vivi, veramente per tutti, in modo che nessuno se ne senta escluso, qualunque sentimento
possa avere» (Lettera agli amici, Monteveglio
3.8.1984).
E in Consiglio comunale a Marzabotto:
«Questa sera avete fornito materia a me – e
alla mia comunità – per sentire più acutamente la necessità di purificare sempre di più il
nostro comportamento e persino le nostre intenzioni, in modo da essere davvero una presenza pacifica e pacificante. Cioè di realizzare
(...) una vera unità fra tutte le parti e fra tutti gli
uomini, di qualunque sentire, tutti destinati a
essere figli dell’unico Padre» (ivi, 467).
– Vigilanza. Ricordo ancora benissimo i
giorni e la fatica con cui don Giuseppe, ritirato
nella sua cella in un’appassionata ricerca, stendeva il testo dell’Introduzione. All’epoca certo
non immaginava che, dieci anni dopo, le parole
che stava spendendo lo avrebbero spinto a un
altro appassionato intervento, quello per la difesa della Costituzione italiana.
Diceva a noi, nella riunione che ho già citato sopra, tenuta per approfondire i contenuti
della sua Introduzione, precisamente in merito
al n. 13: «“In terzo luogo, occorre proporsi di
conservare una coscienza non solo lucida, ma
vigile, capace di opporsi a ogni inizio di ‘sistema di male’, finché ci sia tempo”. Ecco questa
è la mia situazione. Se rileggete questo paragrafo 13 vedete anche la critica molto molto
leggera che ho fatto alla Chiesa (...) certamente poteva essere molto più pesante (...). È evidente, c’è stato un momento in cui si poteva
parlare e bisognava parlare, dopo è diventato
tutto più difficile e impossibile.
Oggi siamo in una situazione analoga:
certo è un momento privilegiatissimo, sono
ancora pochissimi mesi in cui si potrà parlare, dire le cose, dopo potrebbe essere troppo tardi. L’avvio è un avvio indiscutibilmente
autoritario (...). Quindi, vecchio come sono, (...)
sentendomi una certa responsabilità non solo
XXXVIII
T3_enciclicheGXXIII:Layout 1 04/02/14 22.22 Pagina 1
Encicliche di
personale ma comunitaria, però non solo comunitaria ma anche personale, per una certa
autorevolezza di cui godo, vedendo che nessuno dice – anzi tutti più o meno si adeguano
o dicono il contrario di quello che dovrebbero
dire – ho creduto di dover parlare (...). È insomma un principio solo: “Stiamo alle regole, non
andiamo fuori dalle regole”. Andare fuori dalle
regole vuol dire imboccare la strada autoritaria, più o meno. Magari non con i sistemi della
tortura, ma con i sistemi dell’istupidimento dei
cervelli».
Io arrossisco se mi confronto con la tensione che animava Dossetti nella ricerca di una
presenza a Monte Sole all’altezza degli eventi
che lì si sono svolti, con quale forza interiore
voleva che vivessimo qui. Noi non ne siamo
capaci. A lui, a don Luciano, alla Chiesa di Bologna che ci ha voluto qui in suo nome e specialmente alle vittime, ai più piccoli e innocenti,
chiedo grazia che ci diano loro capacità di vivere in modo minimamente degno nei luoghi
degli eccidi e lascino a tutti coloro che salgono per rinnovare la memoria un vero dono di
pace segreto e profondo.
don Athos Righi*
C’
è un lungo intervallo di tempo, apparentemente silente, che separa i
fatti dell’autunno 1944 dalla «risalita» della Chiesa bolognese a Monte Sole, e la
morte violenta dei cinque presbiteri – due alla
Botte di Pioppe di Salvaro, tre sull’altopiano –
dalla decisione di formalizzare la loro causa di
beatificazione. È doveroso puntualizzare che,
ai bordi dei luoghi segnati dalla strage e resi
inabitati, le parrocchie non hanno mai cessato di commemorare le tante vittime e il sacrificio dei preti uccisi insieme alla loro gente:
lo hanno fatto nelle forme loro proprie della
celebrazione liturgica e del suffragio, della
preghiera itinerante sulle antiche vie e sentieri
dell’acrocoro, largamente inselvatichiti, e soprattutto nel ricordo tenace e grato. Chi ha
visto la buona testimonianza offerta in vita e
suggellata con la morte di quei presbiteri, da
subito, in modo spontaneo, adotta la cifra del
martirio per indicarne la fine: una fine violenta, ma non casuale, non cercata ma presentita
possibile e non evitata pur potendolo. (…)
A differenza degli altri «uomini comuni»
imbestialiti dalla guerra (…) questi preti e religiosi, alcuni così giovani e freschi d’ordinazione, incontrano nel crogiolo della guerra che
lambisce e poi investe Monte Sole l’appello a
inverare la sequela di Gesù nell’ora delle tenebre. (…) Rievocando le figure dei cinque sacerdoti trucidati così chiudeva il suo discorso don
Angelo Serra, dal 1946 parroco di Marzabotto:
«Sono arrivati i barbari per sbranare le pecore
ma hanno trovato i pastori a difenderle, e per
le pecore hanno lottato e, come insegna l’Evangelo, hanno dato la vita. Nessun prete del
mio vicariato è fuggito dal campo di guerra».
(…)
A posteriori, questo ritardo nel riappropriarsi della vicenda di Monte Sole potrà apparire provvidenziale, consentendo alla Chiesa locale d’elaborare una propria, originale,
memoria di fatti che a buon diritto ella rifiuta
d’interpretare con categorie esclusivamente
politiche. Il tempo di sedimentazione, che per
la gran parte dei cattolici bolognesi è d’oblio,
esercita lo sguardo più vigile di alcuni custodi
del ricordo a darne una lettura profonda, una
nuova spremitura.(…).
Anche il libro di Luciano Gherardi, imperniato non solo sulla strage, ma sulla vita di
quelle popolazioni tra Setta e Reno, di quelle parrocchie e dei loro pastori nel tempo
antecedente, lascia volutamente sullo sfondo la Resistenza, ma evita di sottoporla a un
giudizio sommario. Essa non entra nella storia
come soggetto collettivo, né come oggetto di
inconciliabili dispute sulla responsabilità morale del massacro; l’autore ne segnala invece
dinamicamente le comparse e le interazioni
con i preti e l’altra gente del territorio, mano a
mano che il racconto procede nei suoi singoli
atti. Sono gli uomini della Stella rossa – non la
Resistenza in quanto tale – che entrano con
naturalezza nel grande affresco del quale, in
effetti, sono parte viva da sempre, da quando
erano bambini all’asilo delle Orsoline.
Mettendo al centro le persone nel loro
contesto di vita e di morte subita che suggella il vincolo comunitario, e senza mai farci dimenticare chi sono i «sacrificatori specializzati» che causano la catastrofe, Gherardi restituisce alla Chiesa di Bologna un intenso e dolente
dramma dalla tessitura quasi liturgica, con il
mestiere dello storico e la penna del poeta.
Non è tutto il dicibile, sui fatti di Monte Sole:
ma l’opera ci pare ancora un punto fermo, raro
e sapiente, di storia e parte Ecclesiae che non
espropria nessuno del diritto ad altre narrazioni. Una storia finalmente non rancorosa, non
rivendicativa, non scritta contro qualcuno, ma
per piantare nella Chiesa madre le querce longeve della memoria dei piccoli del Vangelo, e
dei pastori che non hanno lasciato l’ovile.
«Ardono le querce come il cero pasquale
sul candelabro della notte a Monte Sole».
Alessandra Deoriti*
* Il testo di Athos Righi, monaco della Piccola famiglia dell’Annunziata, costituisce la Postfazione alla nuova edizione de Le querce di Monte
Sole pubblicata dalle Edizioni dehoniane Bologna
(EDB), che ringraziamo per la gentile concessione.
Il testo di Alessandra Deoriti è tratto dall’ampio
saggio «Chiesa e Resistenza: il caso Monte Sole»,
pubblicato dall’autrice in Chiesa in Italia. Annale
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XXXIX
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attualità
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iletture
Mariapia Veladiano
L
ibri del mese
Dal pertugio della nostra paura
C’è un piccolo utile divertissement che si fa a scuola.
Trovare le parole che nei Promessi sposi si riferiscono alla
folla.
Al capitolo XIV siamo a Milano, assalto al forno delle grucce, la giornata è finita quasi. La folla «comincia a
sbandarsi» dopo tanti accadimenti. Resta «ancor condensato il fondaccio», «un branco di birboni» che «brontolavano» e «bestemmiavano».
Nel capitolo precedente, durante l’assalto alla sua casa,
il vicario di provvisione terrorizzato dall’«urlìo crescente»
di chi si radunava là fuori, dalla soffitta dove la paura lo ha
spinto a intrappolarsi, ha visto «da un pertugio» la strada
«piena zeppa di furibondi» che volevano il suo sangue.
La folla contemporanea del grande web sembra decisamente al riparo dalla prospettiva circoscritta che limitava Renzo e i suoi occasionali compagni di avventura a
Milano. Il web permette uno sguardo dall’alto impensabile in una piazza materiale per quanto letteraria e quindi
dilatabile quasi come si vuole, almeno sulle pagine.
Il cittadino del web può spostarsi da un angolo all’altro
della sua piazza e indagare le intenzioni dei soggetti in
tempo reale, può verificare l’informazione ricevuta, può
sbertucciare in diretta il millantatore, il bugiardo, il seduttore. Se non è lui la sua vittima.
Il potere del web è nella disponibilità di tutti i frequentatori. Autenticamente democratico nell’accesso e nel valore attribuito all’affermazione, resa sicura dai like, tweet o
condivisioni, quale che sia la fonte.
Eppure le piazze materiali e quella nostra quotidiana
e virtuale si somigliano eccome. Le opinioni sul web sembrano muoversi con lo stesso disegno che registra Manzoni quando scrive che «chi forma la massa, e quasi il materiale del tumulto, è un miscuglio accidentale di uomini
(…) che tengono dell’uno e dell’altro estremo (…). Pronti
alla ferocia e alla misericordia, a detestare e adorare».
Semplicemente perché assertività e verità vengono
confuse, allora come ora. E allora come ora apparenza e
realtà si rovesciano l’una nell’altra in un gioco di paura e
potere alquanto pericoloso, che confonde chi sta dentro
quel che avviene.
Nella giornata di Renzo questo gioco è letterariamente
spinto a estremi che la vita non sente eccessivi per niente.
L’oste sembra amico, ma in realtà è un servo, forse reso
pavido dalla dittatura dell’occupante o forse semplicemente non è un cuor di leone, ma è servo. Renzo sembra
un mestatore a chi gli sta intorno, in realtà è un ingenuo
dal cuore giusto, che sperimenta quant’è largo il mondo
per la prima volta.
Nei capitoli XIII e XIV è in atto un rovesciamento radicale. Il male appare nella forma della luce che evita la
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tragedia e invece è la tenebra in cui il male dell’oppressione resta tale e quale era.
Il web vive quotidianamente questo capovolgimento.
A tutti i livelli. Di notizia minuta postata per vera dalla
quale parte un sisma di condivisioni indignate fino a che
arriva la contronotizia minuta, a sua volta postata per
vera, che rivela che la prima era una ciofeca, casuale o
cercata, per disegno o per stupidità.
Certo ci si deve domandare se c’è una possibilità, sia
pure piccola piccola, di stare in compagnia di quella verità
quotidiana che ci restituisca a una forma di cura del reale,
capace di farci vivere meno emotivamente manipolati. Se
ci sia la possibilità di comprendere qualcosa del movimento del nostro presente senza aspettare i secoli di distanza
che solo la storia a volte pretende.
Anche qui la particolare giornata di Renzo può dire
qualcosa. A Milano il sangue non scorre quel giorno. Da
un lato perché in molti, come anche in Renzo, funziona
un fondamentale rispetto per la vita, un orrore per la violenza; e dall’altro perché c’è una materialità stretta stretta
dei rapporti, una contiguità fra ingannato e ingannatore
che permette di riconoscere che in un certo punto c’è l’inganno, magari all’improvviso, per un ulteriore rovesciamento benedetto, come accade a Renzo che nel capitolo
successivo è salvato dalla folla.
Avere evitato il sangue è per Manzoni un traguardo.
Qualcuno certo può ritenere che questa non sia stata cosa
buona. Qualcuno può pensare che il sangue sia necessario
come quasi tutte le rivoluzioni ci vorrebbero raccontare.
È l’amore per quel quasi che oggi va difeso a tutti i
costi.
La «funesta docilità degli animi appassionati all’affermare appassionato di molti» è pericolosa oggi più di
un tempo, perché la distanza che segna la virtualità dei
rapporti sul web è micidiale, soprattutto dove non c’è
un’educazione allo strumento e c’è una forte esposizione
emozionale.
Così non funziona l’effetto empatico che la contiguità materiale permette. Konrand Lorenz parlava in
modo simile dell’effetto delle armi moderne che, uccidendo a distanza, hanno fatto venir meno la contiguità
che ci permette di riconoscere i segni dell’inganno e anche quelli della resa e della sottomissione. E arrestano
la violenza.
E allora? E allora (semplicemente) bisogna studiare,
sapere e conoscere la natura buona e rischiosa di questa
grande città virtuale che abitiamo. Per non dover scoprire
tardi che anche noi, come il vicario di provvisione, stiamo
guardando la vita dal pertugio della nostra paura. Dematerializzato, ma pertugio.
XL
Francia
f
F
ondato nel 1926 dal metropolita Evloghji per assistere spiritualmente gli ortodossi russi esuli in seguito
alla Rivoluzione d’ottobre,
ma sotto la giurisdizione del Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli e non
del Patriarcato di Mosca, l’Arcivescovado delle Chiese ortodosse russe in
Europa occidentale è da quasi 90 anni
un luogo importante di riflessione teologica e sperimentazione pastorale della diaspora ortodossa su temi come l’inculturazione, il rapporto tra tradizione ortodossa e modernità, la relazione
tra la Chiesa locale e la Chiesa madre
(in questo caso è come se vi fossero due
«Chiese madri», con un rapporto reciproco a volte conflittuale). Da qualche mese, dopo la morte dell’arcivescovo Gabriele di Comana, l’archimandrita Job (Getcha) di Telmessos è il nuovo
arcivescovo. Nato in Canada nel 1974,
ha insegnato all’Istituto Saint-Serge di
Parigi e al Centro ortodosso di Chambésy, in Svizzera. Nella sua prima lettera pastorale ha affermato: «Il nostro
dovere oggi è di restare fedeli all’eredità di testimoniare l’ortodossia in Europa
ed essere aperti alle altre Chiese cristiane in un dialogo di verità, e continuare a
servire l’unità della diaspora ortodossa».
– Eccellenza, ci può descrivere la
situazione attuale dell’arcidiocesi che le
è stata affidata, l’Arcivescovado per le
Chiese ortodosse russe in Europa occidentale? Quante parrocchie ha, e com’è
organizzato?
«La nostra arcidiocesi è molto grande e diffusa: abbiamo circa 120 parrocchie, per la maggior parte situate in
Ortodossi
ra tradizione e modernità
Intervista al nuovo arcivescovo deg li ortodossi russi
leg ati al Patriarcato Ecumenico
Francia. Tuttavia la nostra arcidiocesi è presente in otto diversi paesi europei: Regno Unito, Belgio, Italia, Paesi
Bassi, Germania, Danimarca, Norvegia
e Svezia. Oltre a queste parrocchie ci
sono otto comunità monastiche: la più
antica è il nostro monastero della Santa
Protezione a Bussy-en-Othe, in Francia, fondato nel 1946. Abbiamo oltre
100 sacerdoti che celebrano i riti liturgici e i santi misteri impiegando lo slavonico – la lingua del culto degli slavi
ortodossi – accanto alle lingue moderne
dei relativi paesi».
– Quali sono le sue priorità come
nuovo arcivescovo?
«Il compito di ogni vescovo è il ministero pastorale, cioè prendersi cura del
gregge che gli è stato affidato. Nella situa-
zione attuale vedo tre priorità urgenti tra quelle che mi sono poste di fronte. La prima è la formazione permanente del clero per aiutare i sacerdoti nelle
loro parrocchie ad affrontare le sfide del
presente. La seconda è trovare le risorse economiche per restaurare e mantenere gli edifici ecclesiastici, dal momento che – come sa – alcuni di essi hanno più di un secolo. Infine di non minor
importanza, considerando la crescita
della povertà nei nostri paesi europei a
causa della crisi finanziaria, è il compito
di sviluppare un programma umanitario
per aiutare i poveri della nostra società seguendo l’esempio di santa Maria
Skobtsova, una nota emigrata russa che
è stata canonizzata dal Patriarcato Ecumenico nel 2004».
L’arcivescovo Job di Telmessos.
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– Lei è stato per alcuni anni decano
dell’Istituto di teologia ortodossa SaintSerge, lo storico centro di ricerca e insegnamento fondato nel 1925 da esuli russi, che ha avuto tra i suoi docenti grandi
teologi come Sergej Bulgakov, Vladimir
Lossky, Nikolai Afanasiev. Qual è oggi
la situazione del Saint-Serge?
«L’Istituto Saint-Serge oggi continua a compiere la missione che ha
ricevuto dalla sua fondazione. Oltre a
formare il clero che è necessario nelle
diverse parrocchie della diaspora ortodossa, l’Istituto è un centro di riflessione
teologica sui temi della contemporaneità e sul dialogo ecumenico. Questa missione rimane vera anche nella situazione attuale, e l’Istituto la prende sul serio
nonostante i problemi finanziari che
l’affliggono e che sono noti a noi tutti».
I nuovi immigrati
parlano russo
– L’Arcivescovado che lei guida
ha sempre cercato di coniugare la fedeltà alla tradizione ortodossa russa con il
radicamento nella realtà locale dell’Europa occidentale, caratterizzata da pluralismo religioso e secolarizzazione (in Francia anche laicismo). Come avviene questo
concretamente, e quali sono le principali
sfide che vi trovate ad affrontare oggi?
«Lei si riferisce qui a una delle specificità della nostra arcidiocesi, che è fatta
di parrocchie russe – il suo nucleo storico – e di parrocchie che usano le lingue
moderne dei relativi paesi. Di fatto molte delle nostre parrocchie sono bilingui.
Per esempio, molte parrocchie in Francia usano sia lo slavonico sia il francese nei loro riti liturgici, e usano il russo e
il francese nella vita comunitaria. Negli
anni passati la tendenza era verso un
passaggio graduale alla lingua vernacolare del paese, a causa del naturale processo d’integrazione delle varie generazioni
successive di emigrati russi nella società
in cui vivono; oggi invece, per via della
nuova ondata di emigrazione proveniente dall’Europa orientale e composta principalmente di immigrati di lingua russa, c’è un bisogno urgente di bilinguismo
nelle nostre parrocchie, poiché ognuno
deve capire la liturgia ed essere accolto
nella Chiesa nella sua lingua propria».
– Come sono oggi i vostri rapporti con
le realtà che fanno riferimento al Patriarcato di Mosca, cioè la diocesi del Chersoneso e la Chiesa russa fuori frontiera?
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«Abbiamo rapporti fraterni con le
diverse diocesi della Chiesa ortodossa
russa, poiché la Chiesa ortodossa è una.
Abbiamo un’eccellente collaborazione
con i vescovi di queste diocesi nel contesto delle Assemblee dei vescovi ortodossi delle diverse regioni europee».
– Nella sua recentissima visita in
Francia, il patriarca ecumenico Bartolomeo I ha ricordato che siamo alla vigilia di un’importante sinassi dei primati
delle Chiese ortodosse al Fanar, il 9 marzo, e che «davanti alle nuove condizioni in cui la Chiesa ortodossa vive dopo
la fine del comunismo, nel momento in
cui i flussi migratori portano le popolazioni ortodosse in tutto il pianeta, dobbiamo più che mai essere attenti all’unità di comunione». Quali sono i rapporti
con le altre realtà ortodosse locali, e come
funziona l’Assemblea dei vescovi ortodossi di Francia?
«Ciò che ho detto per la Chiesa
ortodossa russa si può far valere anche
per le altre giurisdizioni ortodosse con
le quali conviviamo nella diaspora.
L’Assemblea dei vescovi ortodossi di
Francia s’incontra regolarmente, ogni
mese, e i suoi membri si confrontano
apertamente sulle questioni comuni in
spirito fraterno. Come risultato l’Assemblea dei vescovi ortodossi è riuscita a organizzare insieme delle trasmissioni radiofoniche e televisive, a realizzare insieme delle traduzioni liturgiche
in francese, a organizzare le cappellanie
militari e ospedaliere e a rappresentare
gli ortodossi con una voce sola ai diversi livelli della vita civile».
– Lei è di famiglia ucraina e conosce
molto bene il paese. Che cosa pensa della
situazione attuale?
«Certamente l’attuale corso degli
eventi in Ucraina è preoccupante. Personalmente, prego che non finisca in un
bagno di sangue. Tutti noi però dobbiamo capire che la crisi politica attuale
ha delle radici più profonde: è una crisi
spirituale. La gente soffre molto per la
corruzione e per la privazione di diritti che ciononostante talvolta esistono, e
quindi cerca disperatamente di trovare delle soluzioni. Ma l’unica soluzione
può essere trovata nelle radici cristiane
dell’Ucraina e nello spirito del Vangelo di Cristo. Non c’è da stupirsi quindi se le Chiese cristiane in Ucraina svolgono un’azione di pacificazione nell’attuale conflitto».
Non c’è primato senza
sinodalità
– Come teologo e membro del Gruppo
di lavoro teologico misto cattolico-ortodosso Sant’Ireneo, del quale è recentemente stato eletto co-presidente per parte ortodossa, lei si è occupato della questione della sinodalità e del primato
nell’ambito sia delle relazioni ecumeniche sia di quelle inter-ortodosse. Qual è
la sua visione su questo tema che divide
non solo ortodossi e cattolici, ma anche
le Chiese ortodosse tra loro?
«Ciò che è estremamente importante sottolineare oggi, sia nelle relazioni
ecumeniche sia in quelle inter-ortodosse, è che il primato è inseparabile dalla
sinodalità. Per avere un Sinodo, abbiamo bisogno di chi lo presieda. Ma essere colui che presiede implica il fatto di
avere un Sinodo radunato. L’uno non
può esistere senza l’altro, la nostra eredità comune dal primo millennio cristiano è molto chiara in proposito. Sfortunatamente nel corso del secondo millennio abbiamo visto, sia in Occidente
sia in Oriente, una tendenza all’estremizzazione: da un lato un orientamento centralistico che ha dato un’autorità esagerata al primate, dall’altro lato
un’inclinazione de-centralistica che ha
dato un potere sproporzionato ai membri o alle entità locali. Perciò è molto
importante per tutti noi riflettere sulla
questione del primato a partire da una
prospettiva ecumenica».
– Qual è la sua visione dell’Europa,
e quale può essere la testimonianza delle
Chiese ortodosse in Occidente?
«Per me personalmente l’Europa
non è una realtà nuova. L’Europa è
il risultato di una storia molto lunga e
complessa, che risale almeno all’Impero romano. Nella storia dell’Impero romano un momento decisivo è stata la conversione al cristianesimo. Oggi
perciò non si può considerare l’Europa senza riconoscerne le radici cristiane. Sotto questo aspetto la Chiesa
ortodossa può giocare un ruolo profetico mostrando come sia possibile riconciliare tradizione e modernità, come
coabitare pacificamente con le altre
religioni e come trovare nuove forme
di “sinfonia” (cooperazione) tra Chiesa e stato».
a cura di
Daniela Sala
diario ecumenico
GENNAIO
Ortodossia – Contrasti sul primato. Agli inizi di gennaio
si sviluppa una controversia intra-ortodossa tra il Patriarcato Ecumenico e il Patriarcato di Mosca sulla questione ecclesiologica del
primato, in seguito all’approvazione di un documento Sul problema del primato nella Chiesa universale da parte del Santo Sinodo
della Chiesa ortodossa russa il 26 dicembre. Tale contrasto getta
un’ombra sul processo di preparazione del Concilio panortodosso,
in vista del quale il patriarca ecumenico Bartolomeo I ha invitato a
Costantinopoli tutti i patriarchi e gli arcivescovi ortodossi il 9 marzo, come anche sul dialogo ecumenico in atto con la Chiesa cattolica proprio sul tema del primato. Dopo quattro anni dall’ultima
riunione dell’apposita commissione cattolica-ortodossa nel 2010,
un nuovo incontro è programmato per il prossimo settembre in
Serbia. Cf. Regno-att. 2,2014,54; Regno-doc. 3,2014,121.
Ortodossi e anglicani – Visita tra primati. Il 13 gennaio
l’arcivescovo di Canterbury Justin Welby, primate dell’anglicana
Chiesa d’Inghilterra e primus inter pares tra gli arcivescovi anglicani, fa visita a Istanbul a Bartolomeo I, patriarca ecumenico
e primus inter pares tra gli arcivescovi ortodossi, su invito di
quest’ultimo. Afferma che la riconciliazione tra le Chiese d’Oriente e d’Occidente è una delle sue priorità e invita il primate
ortodosso a Londra nel 2015.
Siria – Le Chiese alla conferenza di pace «Ginevra
II». Durante un simposio tenutosi nella sede del Consiglio ecumenico delle Chiese (CEC) a Ginevra dal 15 al 17 gennaio, alcuni
rappresentanti cattolici, ortodossi, protestanti e anglicani, molti
dei quali provenienti dal Medio Oriente, scrivono un appello alla
Conferenza internazionale di pace «Ginevra II» che si riunisce a
Montreux, in Svizzera, il 22 gennaio e a Ginevra dal 23 al 31. Nella
dichiarazione congiunta affermano che non c’è alcuna soluzione
militare al conflitto siriano, e la consegnano a Lakhdar Brahimi,
rappresentante delle Nazioni Unite e della Lega araba per la Siria.
Chiedono la deposizione delle armi dentro i confini siriani, per
consentire le operazioni di aiuto umanitario e la ricostruzione del
paese, ferma restando l’adeguata tutela del carattere multietnico,
multireligioso e multiconfessionale della società siriana, e chiedono un’assistenza umanitaria appropriata ai bisogni delle comunità
siriane più vulnerabili, nonché ai profughi che si trovano nei paesi
limitrofi. Nell’incontro tra Brahimi, il segretario generale del CEC
Tveit e Michel Nseir, responsabile del CEC per il Medio Oriente,
Brahimi assicura l’impegno a cooperare con le Chiese e l’ONU a
favore della pace in Siria.
Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. Sotto il
titolo «Cristo non può essere diviso!» (1Cor 1,1-17), dal 18 al 25 gennaio si celebra la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. Il
tema dell’iniziativa, promossa dal CEC e dal Pontificio consiglio per
la promozione dell’unità dei cristiani, è stato scelto quest’anno dai
cristiani del Canada, che hanno elaborato anche il relativo sussidio.
In Italia i materiali vengono adattati dalla Società biblica in Italia
(www.societabiblica.eu). Il 17 papa Francesco, accogliendo come
ogni anno una delegazione della Chiesa luterana finlandese in pellegrinaggio ecumenico a Roma afferma: «Nel tempo attuale, anche
il cammino ecumenico e le relazioni tra i cristiani stanno attraversando significativi cambiamenti, dovuti in primo luogo al fatto che
ci troviamo a professare la nostra fede nel contesto di società e
culture dove è sempre meno presente il riferimento a Dio e a tutto
ciò che richiama la dimensione trascendente della vita. (…) Proprio
per questo motivo, bisogna che la nostra testimonianza si concentri sul centro della nostra fede, sull’annuncio dell’amore di Dio
che si è manifestato in Cristo suo Figlio. Troviamo qui spazio per
crescere nella comunione e nell’unità tra di noi, promuovendo l’ecumenismo spirituale, che nasce direttamente dal comandamento
dell’amore lasciato da Gesù ai suoi discepoli. (…) L’ecumenismo è
infatti un processo spirituale, che si realizza nell’obbedienza fedele
al Padre, nel compimento della volontà di Cristo e sotto la guida
dello Spirito Santo».
Portogallo – Battesimo comune. Il 25 gennaio a Lisbona
i rappresentanti di varie Chiese cristiane, tra cui quella cattolica, quella presbiteriana, quella metodista e quella ortodossa,
firmano una dichiarazione di mutuo riconoscimento del sacramento del battesimo, dopo molti anni di lavoro di un’apposita
commissione ecumenica. «Questo passo concreto – si legge nel
comunicato congiunto delle Chiese cristiane – riafferma le tante cose che ci uniscono in Cristo come i suoi discepoli, come
un popolo di battezzati chiamati a essere nel mondo e per il
mondo un segno credibile del Vangelo». Le Chiese ricordano
come l’enciclica di Giovanni Paolo II Ut unum sint affermi che
«il riconoscimento della fraternità non è la conseguenza di un
filantropismo liberale o di un vago spirito di famiglia. Esso si
radica nel riconoscimento dell’unico battesimo e nella conseguente esigenza che Dio sia glorificato nella sua opera» (n. 42;
EV 14/2745). Pertanto il riconoscimento del battesimo «va ben al
di là di un atto di cortesia ecumenica e costituisce una basilare
affermazione ecclesiologica».
Italia-Parma – Chiese e moschea. Il 28 gennaio nel corso di
una conferenza stampa il Consiglio delle Chiese cristiane di Parma
invia alle forze politiche, alle istituzioni locali e al sindaco Federico
Pizzarotti un appello – sottoscritto dai rappresentanti delle Chiese metodista, avventista, cattolica, ortodossa greca e romena –,
che chiede che a tutti venga garantito il diritto costituzionale alla
professione del culto in spazi adeguati e dignitosi, consentendo
così il pluralismo religioso proprio di una democrazia. Si riferisce
alla lunga e ancora aperta vicenda del Centro islamico locale, da
anni ubicato in un capannone nella zona artigianale, dopo che già
in precedenza l’amministrazione pubblica era stata sollecitata a
trovare una soluzione per garantire a tutti l’esercizio della libertà
religiosa attraverso il culto.
Dialogo tra battisti e metodisti. Si tiene a Birmingham
(Alabama, USA) dal 30 gennaio al 5 febbraio la prima sessione della prima fase di dialogo ecumenico tra Alleanza battista mondiale
e Consiglio metodista mondiale sul tema «Fede attiva nell’amore:
cantata e predicata, confessata e ricordata, vissuta e appresa», che
impegnerà i rappresentanti delle due confessioni dal 2014 al 2018.
L’obiettivo del dialogo è quello di arrivare a una migliore comprensione reciproca, allo scambio di doni per l’arricchimento di entrambe le Chiese e a un’accresciuta partecipazione per una missione
e testimonianza comune nel mondo. Nel primo incontro è stata
svolta una panoramica dell’eredità storica e teologica del battismo
e del metodismo.
Daniela Sala
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agenda vaticana
GENNAIO
Pellegrinaggio a Gerusalemme. «Dal 24 al 26 maggio prossimo, a Dio piacendo, compirò un pellegrinaggio in Terra santa.
Scopo principale è commemorare lo storico incontro tra il papa
Paolo VI e il patriarca Atenagora, che avvenne esattamente il 5
gennaio, come oggi, di 50 anni fa. Le tappe saranno tre: Amman,
Betlemme e Gerusalemme. Presso il santo Sepolcro celebreremo
un incontro ecumenico con tutti i rappresentanti delle Chiese
cristiane di Gerusalemme, insieme al patriarca Bartolomeo di Costantinopoli»: così il papa all’Angelus del 5 gennaio. L’invito per un
incontro a Gerusalemme era venuto da Bartolomeo all’indomani
del Conclave (cf. Regno-att. 8,2013,247).
Nuovi cardinali. All’Angelus del 12 gennaio il papa annuncia
per il 22 febbraio un Concistoro per la nomina di 19 cardinali, 16 dei
quali elettori. Si tratta degli arcivescovi Pietro Parolin, segretario
di stato; Lorenzo Baldisseri, segretario generale del Sinodo dei vescovi; Gerhard Ludwig Müller, prefetto della Congregazione per la
dottrina della fede; Beniamino Stella, prefetto della Congregazione
per il clero; Vincent Gerard Nichols, Westminster (Gran Bretagna);
Leopoldo José Brenes Solórzano, Managua (Nicaragua); Gérald
Cyprien Lacroix, Québec (Canada); Jean-Pierre Kutwa, Abidjan (Costa d’Avorio); João Orani Tempesta, Rio de Janeiro (Brasile); Gualtiero Bassetti, Perugia; Mario Aurelio Poli, Buenos Aires (Argentina);
Andrew Yeom Soo jung, Seul (Corea); Ricardo Ezzati Andrello, Santiago del Cile (Cile); Philippe Nakellentuba Ouédraogo, Ouagadougu (Burkina Faso); Orlando Beltran Quevedo, Cotabato (Filippine);
più il vescovo di Les Cayes (Haiti), Chibly Langlois. Quattro italiani,
due del resto dell’Europa, uno del Nordamerica, due dell’America
centrale, tre dell’America meridionale, due dell’Africa, due dell’Asia. I tre arcivescovi ultraottantenni sono Loris Francesco Capovilla,
Fernando Sebastián Aguilar, emerito di Pamplona, e Kelvin Edward
Felix, emerito di Castries (Antille). Cf. Regno-att. 2,2014,3.
Cardinali festeggino in povertà. «Il cardinalato non significa una promozione, né un onore, né una decorazione; semplicemente è un servizio che esige di ampliare lo sguardo e allargare
il cuore. E, benché sembri un paradosso, questo poter guardare
più lontano e amare più universalmente con maggiore intensità
si può acquistare solamente seguendo la stessa via del Signore: la
via dell’abbassamento e dell’umiltà, prendendo forma di servitore
(cf. Fil 2,5-8). Perciò ti chiedo, per favore, di ricevere questa designazione con un cuore semplice e umile. E, sebbene tu debba
farlo con gaudio e con gioia, fa’ in modo che questo sentimento
sia lontano da qualsiasi espressione di mondanità, da qualsiasi festeggiamento estraneo allo spirito evangelico di austerità, sobrietà
e povertà»: così una lettera del papa ai nuovi cardinali pubblicata il
13 gennaio. Cf. Regno-doc. 3,2014,67.
Dogane pastorali. Fra i 32 bambini battezzati domenica 12
gennaio dal papa nella Sistina c’è Giulia, sette mesi, di Grosseto, figlia di genitori sposati solo civilmente: un gesto – commentano negli ambienti vaticani – che non ha riferimento al diritto di chiedere
il battesimo da parte di genitori in posizione irregolare, che è fuori
questione, ma all’intenzione di superare le «dogane pastorali» più
volte dichiarata dal papa e in questo caso attuata simbolicamente
con l’ammissione di una coppia irregolare a un atto papale.
Siria. «Tutti i combattenti interni della regione devono deporre le armi; tutte le potenze straniere devono adottare misure im-
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mediate per fermare il flusso di armi e il finanziamento delle stesse,
che alimenta l’escalation della violenza e della distruzione»: così una
mozione intitolata Siria: si può restare indifferenti? sottoscritta il 13
gennaio da esperti internazionali convocati dalla Pontificia accademia
delle scienze, con la partecipazione del card. Tauran, a una settimana
dall’avvio della Conferenza di pace di Ginevra. Il documento auspica
che la Conferenza Ginevra 2 aiuti «il popolo siriano a porre fine alla
violenza che ha provocato oltre 130.000 morti e ha lasciato un paese bellissimo nella rovina e nel caos». Tra le condizioni per la riuscita
della Conferenza, viene indicata la partecipazione di «tutti gli attori
regionali e globali» (il riferimento è all’Iran, la cui presenza è sollecitata
anche dalla Russia). Lungo il mese sono due i richiami diretti del papa
a Ginevra 2: uno nel discorso del 13 gennaio al corpo diplomatico (cf.
Regno-doc. 3,2014,65ss), un altro il giorno stesso dell’avvio dei lavori,
il 22 gennaio: «Auspico alla cara nazione siriana un cammino deciso di
riconciliazione, di concordia e di ricostruzione con la partecipazione di
tutti i cittadini, dove ognuno possa trovare nell’altro non un nemico,
non un concorrente, ma un fratello da accogliere e da abbracciare».
Falsi papi nella rete. «Tutte le pagine su Facebook o su altri social network che si presentano come profili personali di papa
Francesco / Jorge Mario Bergoglio non sono pagine ufficiali del papa,
né sono state autorizzate a rappresentarlo»: così una nota della pagina Facebook del sito vaticano News.va postata il 13 gennaio con il
titolo Dichiarazioni false attribuite a papa Francesco e con l’invito
a controllare sulle fonti ufficiali quanto circola in Internet.
Commissione di vigilanza sullo IOR. Il 15 gennaio il papa
rinnova ad quinquennium la Commissione cardinalizia di vigilanza sullo IOR, mantenendo il solo Tauran tra i componenti che erano stati nominati da Benedetto il 16 febbraio scorso (cf. Regno-doc.
13,2013,408), cinque giorni dopo l’annuncio della rinuncia: Christoph
Schönborn (Vienna), Thomas Christopher Collins (Toronto), Jean-Louis
Tauran (Consiglio per il dialogo interreligioso), Santos Abril y Castelló
(arciprete di Santa Maria Maggiore), Pietro Parolin (segretario di stato).
Pontificie accademie e scelta missionaria. «Il “sogno
di una scelta missionaria capace di rinnovare ogni cosa” (Evangelii gaudium, n. 27; Regno-doc. 21,2013,646) riguarda tutta la Chiesa
e ogni sua parte. Anche le Accademie pontificie sono chiamate a
questa trasformazione, per non far mancare al corpo ecclesiale il
contributo loro proprio»: così il messaggio inviato il 28 gennaio da
Francesco al presidente del Consiglio di coordinamento tra Accademie pontificie, card. Gianfranco Ravasi, in occasione della XVIII
seduta pubblica delle Accademie.
Da Nicora a Corbellini. Il 30 gennaio il papa accoglie la richiesta del card. Attilio Nicora di essere sollevato dall’incarico di
presidente dell’Autorità di informazione finanziaria (AIF) e nomina
presidente ad interim il vescovo Giorgio Corbellini, che conserva
gli incarichi di presidente dell’Ufficio del lavoro e della Commissione disciplinare della curia romana.
Controllo conti degli ospedali. Continuando nella politica
di affidamento a organismi indipendenti di iniziative di controllo
dei conti, il 31 gennaio la Commissione referente di studio e di indirizzo sull’organizzazione della struttura economica e amministrativa della Santa Sede dà mandato a PWC e a Deloitte di realizzare una verifica gestionale dei due ospedali dipendenti dalla Santa
Sede: il Bambino Gesù di Roma e la Casa Sollievo della sofferenza
di San Giovanni Rotondo.
Luigi Accattoli
S
studio del mese
I riferimenti
testimoniali
della fede
Identità cristiana:
tra dispersione
e discernimento
Quale futuro è riservato alla tradizione
cristiana nei nostri paesi? La «dispersione»
attuale ne annuncia la prossima fine o
prepara una nuova e diversa coscienza
cristiana? Attento ai «movimenti sotterranei»
che stanno producendo una mutazione
radicale del cristianesimo occidentale,
Theobald azzarda una «scommessa difficile»:
per superare la crisi dei riferimenti
tradizionali della fede occorre incoraggiare
il processo di ricezione del Vaticano II
spingendosi verso una configurazione diversa
e «testimoniale» degli stessi riferimenti.
Nell’«immenso laboratorio» delle nostre
società è forse il momento di «affidare
l’identità cristiana ai cristiani, di dare
fiducia, a tutti i livelli, ai processi spirituali
di ricerca comune del vero». Una conversione
«ecumenica» che tocca al contempo
la concezione della Tradizione, dell’autorità
e del riferimento costituito dalle Scritture.
Qui a fianco: C aravaggio , Conversione di san Paolo,
1600-1601 (part.); Roma, collezione privata Odescalchi.
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ra il 1378 e il 1417, la cristianità latina dovette subire la coesistenza prima di due e
poi, dopo il concilio di Pisa (1409), di tre
papi: «L’esecrabile trinità», come si diceva all’epoca. Passa una generazione e l’errore, per quanto evidente, diventa «invincibile». Per uscire da questo vicolo cieco
costituzionale, occorrerà un concilio, quello di Costanza
(1414-1418), seguito nel 1431 da un altro concilio a Basilea, che sfocerà in un nuovo scisma. Trasferito sei anni
dopo la sua apertura a Sud delle Alpi, a Ferrara e a Firenze, dal successore del papa uscito da Costanza, la maggior
parte dei padri conciliari gli resisterà restando a Basilea e
trasferendosi in seguito sulle rive del lago Lemano, a Losanna, dopo aver eletto un altro papa…1
Crisi di riferimenti come non mai; accompagnata da
un’acuta presa di coscienza della fragilità di un’istituzione venerabile, divisa da cima a fondo! Da questa scossa
nasce una nuova visione del mondo, i cui effetti raggiungono tutte le «rappresentazioni» della fede: dalle immagini della maestà divina, rimpiazzate nella stessa epoca
da quelle del Crocifisso, alle figure prestigiose del «potere spirituale» che, screditate dal grande scisma, lasciano il
posto a procedure decisionali più collettive. La cristianità
latina fa la dolorosa esperienza di uno scarto fra il destino più o meno tortuoso delle sue istituzioni e la vocazione spirituale del corpo ecclesiale: ormai il riferimento ultimo – Cristo – è raffigurato sub contraria specie dell’uomo
dei dolori, sentito presente nell’immensa congregatio fidelium a lui direttamente legata nello Spirito Santo.
L’istituzione conciliare, cui spetta il gravoso compito
di «rappresentare» questa Ecclesia universalis sulla scena
della storia, riceve dunque legittimità solo trasformando
lo scarto fra la santità di Cristo e la vita della cristianità
in una dinamica di conversione e di continua riforma garantita in qualche modo da una conciliarità permanente. Il cosiddetto «nominalismo» è in parte la formulazione di questo nuovo pensiero processuale con la sua etica della comunicazione, pensiero che sviluppa un senso
inedito dell’assoluto di Dio e di ciò che possono e sono le
nostre mediazioni storiche.
Sembra esservi notevole distanza tra questa mutazione e la dispersione che patisce la cristianità attuale. Ma
io penso – ed è la mia ipotesi – che sia possibile, e che
offra intelligibilità ecumenica, considerare l’attuale crisi
dei riferimenti su tale orizzonte della fine del XIV secolo. Il mio obiettivo principale non è fare una diagnosi teologica più precisa della situazione attuale (anche se inizierò indicandone alcuni elementi), ma esplicitare in termini positivi quanto ci si può attendere dalla mutazione
della coscienza cristiana che accade sotto i nostri occhi e
l’impatto che questa mutazione ha, o avrà, sui classici riferimenti che consentono l’accesso all’identità cristiana.
Diagnosi
Una comparazione anche sommaria fra quanto è avvenuto nel passaggio dal XIV al XV secolo e l’attuale
crisi dei riferimenti consente di tracciare il profilo di alcuni sintomi raggruppabili sotto il lemma «dispersione»
o «frammentazione» del cristianesimo contemporaneo.
Il Regno -
attualità
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La crisi istituzionale del XIV secolo
e le sue sfide
A un primo sguardo, la crisi costituzionale del XIV
secolo riguarda soltanto il vertice della cristianità; con il
trasferimento del concilio da Basilea a Ferrara e poi a Firenze, si sarebbe finalmente ristabilito l’ordine. Tuttavia questa interpretazione2 sottostima lo sconvolgimento senza precedenti patito dalla coscienza europea a causa del cedimento al suo vertice, e la violenza con la quale le «nazioni» cristiane reagiscono a tutte le deviazioni e
le differenze al loro interno. Mentre gli inviati di Costanza negoziano con i tre papi, vengono affrontate le questioni ecclesiologiche poste dal riformatore John Wyclif
e dai due boemi Jan Hus e Girolamo di Praga: il primo,
morto nel 1384, viene riesumato e distrutto; gli altri due
bruciati vivi.
Grave ipoteca che pesa su un concilio peraltro così
preoccupato di varare procedure giuridiche inattaccabili
nella soluzione dei conflitti! In realtà, la crisi promuove
strumenti di comunicazione e di negoziazione – alcuni
più classici, come la legalizzazione di un diritto di urgenza, e altri più nuovi, come la formalizzazione delle condizioni di un vero «consenso» –, tanto che si può parlare
dell’introduzione a Basilea di un’«etica della comunicazione», perché i «modi di procedere» qui diventano criteri di verità. Sullo sfondo, è la stessa ecclesiologia a trasformarsi – come vedremo più avanti – facendo progressivamente spazio all’idea di «rappresentazione» di una
congregatio fidelium dalle dimensioni incommensurabili.
L’attuale dispersione
dell’identità cristiana
Preso atto di tali sfumature, resta il fatto che la crisi dei riferimenti della fine del XIV secolo scaturisce
dall’interno di un edificio gerarchico di cui non si mette
fondamentalmente in discussione la struttura globale. Lo
testimonia la grande battaglia di Costanza intesa a ottenere le dimissioni dei tre detentori della carica pontificia
e a eleggere un papa legittimo, riconosciuto da tutta la
cristianità.
Nella situazione attuale, invece, sono la stessa architettura ecclesiale della fede e la sua struttura istituzionale a vacillare a causa di una «folla» di credenti che non
vi si riconoscono più. Le indagini sociologiche sembrano
andare tutte nella stessa direzione: il soggettivismo semiinconscio, dominante nelle nostre società europee e occidentali, induce la maggior parte dei fedeli a scegliere fra
le credenze e le condotte proposte dalle autorità ecclesiali quelle che corrispondono al criterio pragmatico dell’utilità per la propria vita quotidiana e per la propria realizzazione personale. Essi le «rinegoziano» in qualche modo, ritenendole spesso solo probabili, addirittura metaforizzandole, mostrandosi in ogni caso scettici nei confronti di ogni proposta di una verità oggettiva che metterebbe in pericolo il valore fondamentale della tolleranza e
la capacità di ogni individuo di cercare la propria strada
verso la felicità.3 Si tratta di una ricerca non necessariamente arbitraria, ma segnata da un’esigenza etica di coerenza o di autenticità che si è sostituita all’idea classica
di una verità «che sta fuori».
VLADIMIR LOSSKY
Già nel 1991, Eugen Biser definiva questa situazione
uno «scisma verticale» – lo scioglimento dei legami vitali e affettivi fra il vertice della Chiesa e la sua base –; situazione drammatica a suo avviso, perché consegna la
fede alla «banalizzazione» e lascia i credenti senza asilo.4
Da allora questa diagnosi, soprattutto intra-ecclesiale, si
è generalizzata e radicalizzata cedendo il posto al concetto di «deistituzionalizzazione del senso» sia in campo religioso sia a livello sociopolitico.5 Mentre la società
nel suo complesso sembra aver superato una nuova soglia di omogeneizzazione, a causa delle ultime acquisizioni tecnologiche e mediatiche, le domande di senso si
diversificano all’infinito: stimolate dall’imperativo sociale di una «vita riuscita» esse si fanno più pressanti, generando nuove credenze, spesso con una forte impronta terapeutica, ecologica e cosmica. Credenze che continuano a combinarsi, mescolarsi, ricomporsi in funzione
dei bisogni del momento. Il risultato è la dispersione delle «proposte di senso» di fronte a istituzioni che si rivelano sempre meno capaci di integrarle e regolarle.
Il grande scisma, la separazione fra orientali e latini che sarà all’ordine del giorno del concilio di Basilea e
di Ferrara-Firenze, e in seguito la Riforma luterana, calvinista e anglicana hanno certamente diviso la cristianità. Ma questa «confessionalizzazione» dell’Europa non
ha nulla della «dispersione» o della «frammentazione»
nel senso attuale del termine. Queste ultime derivano
dall’individualismo e dal pragmatismo contemporanei e
sono evidenti soprattutto nel movimento trasversale dell’«evangelismo» o «pentecostalismo» sia all’interno delle
Chiese tradizionali sia all’esterno, quali che siano i luoghi di origine di tale «corrente», le sue forme di socializzazione e i suoi modi di perpetuarsi.
Tale paesaggio, sempre più esploso, dà del filo da torcere alle istituzioni cristiane: sia che esse si irrigidiscano attorno a una forte affermazione della loro identità
«confessionale», rischiando di accentuare – nel caso del
cattolicesimo europeo – il fenomeno della sua esculturazione;6 sia che esse adottino – come al concilio Vaticano
II – strategie di reinterpretazione creativa della fede in
funzione della situazione culturale; l’ecumenismo s’iscrive in parte in questo tentativo moderno di aggiornamento che favorisce la relativizzazione del potere sociale delle nostre culture confessionali in favore delle esperienze
e delle scelte pragmatiche di ciascuno.7
La situazione si fa oggi più complessa, perché intorno a questi due «posizionamenti» istituzionali si stringono alleanze interconfessionali che non mancano mai di
trovare alleati fra i «fedeli». In una situazione culturale
di pluralismo radicale, infatti, l’affermazione contro-culturale dei segni che marcano una differenza confessionale può rivendicare tanta plausibilità quanto un modo di
vivere la propria fede in forma più autonoma e maggiormente in sintonia con le attese dei nostri contemporanei.
I due atteggiamenti e le loro varianti, ciascuno a suo modo, favoriscono così la dispersione della cristianità. Se il
primo posizionamento istituzionale tende ad arginare la
deistituzionalizzazione del credere, esso non riesce però
a superare la costellazione «ecumenica» che Jean-Paul
Willaime descrive in termini di «protestantizzazione» se-
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attualità
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125
La teologia mistica
della Chiesa d’Oriente
La visione di Dio
I
l volume comprende due opere che, considerate nel loro complesso, costituiscono
una sintesi della teologia ortodossa fra le
più illuminanti. Lontana dal minimizzare
le divergenze dottrinali tra Oriente e Occidente, la penetrante analisi di Lossky mette
in risalto gli elementi fondamentali delle
posizioni dogmatiche più caratteristiche e
le loro implicazioni nella teologia spirituale.
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Abitare le parole
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riflessione e suggerire comportamenti che definiscano l’identità e lo
stile di vita del giovane, il piccolo
vademecum per studenti invita ad
andare oltre il ricorso superficiale a
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collana di formazione per universitari.
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S
colare degli atteggiamenti religiosi individuali e di «cattolicizzazione» secolare delle organizzazioni ecclesiastiche. La prima idea indica i comportamenti religiosi individuali caratterizzati da «individualizzazione, critica
dei magisteri, declericalizzazione, desiderio di una maggiore democratizzazione della vita ecclesiale»; mentre la
seconda riguarda le organizzazioni ecclesiastiche portate alla «personalizzazione delle istituzioni attraverso la
mediatizzazione dei loro rappresentanti legittimi; all’episcopalizzazione dei responsabili ecclesiastici, richiesti
di esercitare un ministero di unità quanto maggiore è
la diversità interna; alla clericalizzazione delle funzioni
(...); al rafforzamento della legittimità dell’istituzione come istanza regolatrice di fronte al moltiplicarsi delle religiosità e delle derive settarie».8
Quale futuro riserva alla tradizione cristiana nei nostri paesi la diagnosi tratteggiata a grandi linee sullo sfondo della crisi costituzionale della fine del XIV secolo? La
dispersione di cui abbiamo parlato ne annuncia la prossima fine o prepara una mutazione della coscienza cristiana? Quali sono allora le risorse che una tale mutazione potrebbe trovare nella storia dell’Occidente cristiano? Se lo storico e il sociologo devono interdirsi simili
questioni prospettiche, il teologo non può non discernere, in nome della sua fede, i «possibili» forse ancora inediti che a tale fede si aprono davanti.
U n ’ i d e n t i t à l a sc i a t a
a l l a n o s t r a c a p a c i t à d i d i sc e r n i m e n t o
Nel conflitto delle interpretazioni che si annuncia al
cuore stesso della nostra diagnosi, l’alternativa tra «dispersione» e «riaffermazione contro-culturale» dell’identità cristiana rischia di divenire caricaturale e di rivelarsi in definitiva un vicolo cieco di fronte al vacillare della
coscienza cristiana che, forse per la prima volta, è messa
di fronte alla minaccia della sua scomparsa.
Questo «deserto», attraversato da molti cristiani in
osmosi con le incertezze radicali circa il futuro della cultura europea sul nostro pianeta, produce un lavoro sotterraneo di affinamento della coscienza, delle coscienze
e del sentire comune. È come se i cristiani dovessero imparare da soli, nell’immenso laboratorio che sono diventate le nostre società, il modo in cui dire l’essenziale della loro esperienza di fede a sé stessi e ad altri. Il ché suppone che l’«unico necessario» in questione non sia definito ed espresso una volta per tutte, ma sia consegnato –
attraverso lo Spirito Santo, crediamo noi – alla loro capacità di discernimento.9
Per un reciproco aggiustamento
delle istanze di discernimento
Si può certamente rifiutare un simile approccio in nome di un sistema giuridico preciso che delimita a priori le
funzioni dell’istituzione ecclesiale e quelle che spettano a
tutto il popolo cristiano. Ma in questo modo si diventa insensibili ai movimenti sotterranei che agitano e trasformano la cristianità, almeno dalla fine del XIV secolo, e dei
quali non è possibile sospettare immediatamente l’ispirazione evangelica.
La crisi costituzionale di cui abbiamo parlato ha por-
126
Il Regno -
attualità
4/2014
tato anzitutto a distinguere più chiaramente la Chiesa nella sua misteriosa identità teologale di congregatio fidelium
universale direttamente legata a Cristo; le Chiese visibili
(ad esempio, d’Oriente e d’Occidente), con i loro destini
tortuosi; e infine la «rappresentazione» del popolo cristiano
sulla scena della storia da parte dell’istituzione conciliare
e pontificia.10 Il rispetto dei principi di una libera formazione delle opinioni e della «concordia» o del «consenso»
raggiunti mediante il dibattito all’interno della «rappresentazione» legittima della Ecclesia universalis divengono
pertanto il segno ultimo della presenza dello Spirito.11
Lutero diffidava di questa «concordia» conciliare, giustificata da un «in spiritu sancte legitime congregatum»,
esattamente quanto il papa Eugenio IV, che aveva trasferito il concilio da Basilea a Ferrara. Il primo, in nome
dell’unica istanza della «viva vox Evangelii», da udire attraverso la sola coscienza;12 il secondo, a causa della sua
autorità pontificia. Avrebbero potuto intendersi intorno
a una stessa «fede» nell’individuo come istanza ultima –
sia nella sua versione pontificia sia in quella della coscienza credente –, poiché entrambi distinguevano chiaramente fra consensus ecclesiale e verità. La Chiesa d’Occidente
ha sperimentato tutti questi tre scenari estremi: Basilea ha
reso infallibile e senza appello il consenso conciliare; Lutero la coscienza giustificata dalla fede; e Pio IX il giudizio pontificio in materia di fede e di costumi. Ogni volta,
un «ex sese» blocca il processo della circolazione fra istanze e fissa «definitivamente» un ultimo ricorso.
Solo il concilio Vaticano II avvia un’articolazione relativamente equilibrata delle diverse istanze, senza dubbio perché ha potuto fare l’esperienza difficile, ma in definitiva felice, di una conversione collettiva come condizione
di un «consenso» raggiunto attraverso un libero confronto fra convinzioni e opinioni e non per stratagemmi politici o per imposizione autoritaria.13 Oggi la ricezione di
questa esperienza conciliare si scontra frontalmente con
lo spettro della dispersione della cattolicità e del cristianesimo, in un certo senso reale, e che le autorità ecclesiali
tentano di scongiurare attraverso una riaffermazione contro-culturale dell’identità cristiana, che in realtà ne rafforza la frammentazione.14 Le stesse autorità sono scosse e
interrogate nella loro credibilità: in apparenza messe fuori gioco dalla deistituzionalizzazione delle credenze, e tuttavia spinte in primo piano dalla loro mediatizzazione, esse rischiano di accontentarsi dei modi abituali in cui opera ogni potere, senza sottoporli a una conversione evangelica.
La scommessa difficile da fare in questa situazione cruciale consiste nell’affidare l’identità cristiana ai cristiani,
quindi nel dare fiducia, a tutti i livelli, ai processi spirituali di ricerca comune del vero (cf. Unitatis redintegratio, n.
11; EV 1/534ss; e Dignitatis humanae, n. 3; EV 1/1047ss).
Processi che non rinunciano né alla coscienza come ultima istanza (cf. Gaudium et spes, n. 16; EV 1/1369), né al
sensus e consensus fidei della collettività universale di tutti i cristiani (cf. Lumen gentium, n. 12; EV 1/313ss), né
all’autorità apostolica, il cui carisma e la cui funzione consistono nel permettere ai credenti di ricevere la parola di
Dio «non come parola di uomini ma, qual è veramente,
come parola di Dio» (1Ts 2,13; cf. Lumen gentium, n. 12;
EV 1/316s).15 A noi sembra che la sfida principale nell’attuale crisi del cristianesimo europeo e occidentale sia proprio una tale complessiva mutazione della coscienza cristiana, avviata dal concilio Vaticano II.
La storia delle istituzioni del credere:
argomento in favore di una conversione
Oltre alla necessaria diagnosi dell’attuale dispersione
dell’identità cristiana, la storia delle istituzioni del credere sembra offrirci l’argomento sufficiente e decisivo in favore di questa conversione, senza evidentemente costringerci ad essa.
La crisi costituzionale della fine del XIV secolo di
cui abbiamo ampiamente trattato s’inserisce nella lunga storia della tradizione cristiana e comporta un tratto a monte e uno a valle. A monte, distinguiamo16 una
prima fase, che copre grosso modo il primo millennio, di
formazione e prima sperimentazione di un dispositivo
di regolazione – la tradizione, la Scrittura e l’istituzione
conciliare e pontificia –, attribuito dal concilio Vaticano II a una «disposizione divina» (Dei verbum, n. 7; EV
1/880); e una seconda fase, che inizia con la crisi costituzionale del XIV secolo e comprende in parte le divisioni del XVI secolo, che è incentrata sulla «riforma della
Chiesa in capite et in membris» nel senso della presenza
dell’assoluto nelle istituzioni ecclesiali radicalmente debilitate. A valle, una terza fase, che si annuncia al tempo della Riforma e inizia realmente con la nascita della
coscienza storica nel XVII secolo, segnata dalla radicalizzazione della questione ermeneutica e dalla crisi della metafisica che rendono la pluralità dei contesti storico-culturali e l’alterità dell’altro lo spazio mondiale sempre più complesso nel quale la fede cristiana ed ecclesiale deve identificarsi ed esprimersi.
Ogni passaggio da una fase all’altra si compie attraverso una crisi che mette in pericolo la permanenza della
fede e della Chiesa e fa prendere coscienza, in una sorta
di vertigine individuale e collettiva, del fatto che il futuro
non è affatto garantito e dipende da fattori, anche spirituali nel senso più forte del termine, di cui nessuno è padrone. Si produce allora uno specifico «reinquadramento»,17 una presa di coscienza «riflessiva» che tenta di superare i precedenti conflitti ermeneutici a partire da un
nuovo punto di riferimento.
Nei secoli XIV e XV, come abbiamo visto, il nuovo
punto di riferimento è offerto dal principio di riforma in
capite et in membris, che è basato sull’infallibilità dell’atto
di fede dell’Ecclesia universalis. Solo l’Ecclesia universalis
è infallibile perché, in forza del suo legame spirituale con
Cristo, possiede – insieme alla carità o alla santità dei piccoli –, anche la conoscenza di ciò che è vero. Dobbiamo
a Giovanni di Segovia (1393-1458) la formulazione più
riuscita di una tale convinzione fondamentale, che si basa in definitiva sulla distinzione fra un «magistero» fallibile sotto l’antica Alleanza – l’istituzione del Sinedrio in Dt
17,8-18, continuamente corretta dallo Spirito dei profeti
– e un magistero divenuto esso stesso profetico nella nuova
Alleanza – espressione pneumatomorfa del carattere ultimo della rivelazione in Cristo, ricevuta infallibilmente
dall’atto di fede, speranza e carità di tutta la Chiesa.18 Un
Il Regno -
attualità
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127
atto, quest’ultimo, che esige di per sé, volendo restare riconoscibile nella storia, un’istanza di giudizio, qualunque
essa sia, la cui unica funzione è quella di «custodire» l’atto di fede nel suo elemento escatologico. Questa posizione fondamentale si reggeva a quel tempo su un ragionamento a contrario, cioè sull’inconveniente che ne sarebbe derivato dalla negazione di una simile istanza di giudizio all’opera nella definizione del canone delle Scritture e
nelle sentenze dottrinali e conciliari della Chiesa antica.
Con la nascita della coscienza storica e la comparsa di uno spazio di accoglienza della fede cristiana radicalmente pluralistico e individualizzato, un nuovo tipo di
vertigine scuote la coscienza cristiana. Come conservare
l’unicità della rivelazione cristiana di fronte a tale diversità incommensurabile? Come non ridurla a una produzione storica fra tante altre? È sempre più difficile sfuggire a domande come queste ed evitare la prova che esse suscitano per la nostra fede, a meno di accontentarsi di
un fondamentalismo più o meno cosciente.
L’appello ad affidare l’identità cristiana ai cristiani, e
quindi a fidarsi di processi spirituali che rispettino l’unicità della coscienza individuale, il carattere comune della ricerca del vero e il ruolo inalienabile dell’autorità apostolica, trova la sua ragione decisiva in questa prova della fede che nessuno può attraversare al posto dell’altro né affrontare
senza gli altri. Se1 da3-02-2014
un punto di8:41
vista esterno,
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Pagina 1
o sociologico, i cristiani appaiono prima di tutto credenti
che fanno «esistere» Dio, un simile atto di «invenzione» –
se così si può dire – consiste, visto dall’interno o sul piano
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iovanni Nervo (1918-2013), prete, cappellano di fabbrica, «padre fondatore» e
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tudio del mese
S
teologico, nel dare a Dio lo statuto di «soggetto». Ma ciò
implica un’«inversione» dello sguardo o una conversione
del soggetto umano, che ormai affronta il «reale» con stupore adottando in qualche modo lo sguardo stesso di Dio
su di lui: «Nella tua luce, noi vediamo la luce», canta il
salmista. Questo nuovo principio, che io chiamo principio di rivelazione (in riferimento a Dei verbum, nn. 2 e 6;
EV 1/873.878s), o principio «dossologico», è simboleggiato o «rappresentato» dalla figura del «testimone». Percependosi esistente a partire da Dio, egli è cosciente sia
della sua inalienabile unicità o solitudine sia, per la stessa
ragione, del legame costitutivo che lo lega al resto dell’umanità nella ricerca comune del vero.19
Questa costellazione spirituale non può non riflettersi sulla concezione dell’autorità e delle autorità, o istanze di regolazione, della tradizione cristiana formatesi, come abbiamo detto, durante la prima fase della sua storia.
Oggi le stesse istanze devono trasformarsi in riferimenti testimoniali, trovandosi confrontate ai criteri pragmatici di coerenza e di autenticità visti sopra. Notiamo, prima di precisare tale trasformazione nell’ultima parte, che
il modus operandi evocato assume particolare importanza in una situazione inedita nella quale l’umano deve essere voluto come tale da un’umanità che, come mai prima
d’ora, ha iniziato a dubitare della frontiera fra l’umano e
il regno animale e che nello stesso tempo sogna un «uomo potenziato» dallo sviluppo delle sue capacità tecniche
di manipolazione genetica, senza disporre di riferimenti
esterni per pilotarlo.
Conferire il loro posto
La mutazione della coscienza cristiana individuata
nella nostra diagnosi e dominata oggi dall’opposizione
fra dispersione e riaffermazione contro-culturale dell’identità cristiana ci conduce, in conclusione, a riappro-
priarci in modo nuovo dei riferimenti classici che consentono l’accesso al credere cristiano. Questa conversione «ecumenica» tocca contemporaneamente la concezione della tradizione, dell’autorità e del riferimento costituito dalle nostre Scritture, tre istanze che devono rimanere «trasparenti» per rapporto all’«unico necessario», che è l’atto di fede nella sua struttura dossologica
già indicata.
Per una concezione processuale
e relazionale della Tradizione
Riguardo alla Tradizione,20 le resistenze provengono da un approccio cumulativo unilateralmente preoccupato del contenuto della fede cristiana, mentre l’apostolo Paolo e sant’Ireneo ne propongono un’idea processuale o relazionale, incentrata sull’«offerta» del Vangelo di Dio, che implica la libertà ma soprattutto la capacità di apprendere e la creatività di «coloro che lo ricevono».21 Il n. 7 della costituzione conciliare Dei verbum ha perfettamente registrato questa visione biblica
e patristica che collega intimamente i due versanti della Tradizione: ciò che si deve trasmettere (traditum) e gli
attori della trasmissione (tradentes), chiamati a lasciare il
loro posto ad altri che prendano il testimone e proseguano, a proprio rischio e pericolo, il processo storico della
trasmissione.22
È quindi impossibile «consegnare» il Vangelo di Dio
ad altri senza mettersi personalmente in gioco (cf. 1Ts
2,3-12). Qui appare un criterio immanente di autenticità o di coerenza: il vero «testimone» è colui che si lascia interrogare e continua a interrogarsi sulla coerenza
fra ciò che trasmette e il modo in cui lo fa. A partire dalla crisi del XIV secolo, questa coerenza o questa santità
– assoluta nel caso di Gesù Cristo – è sentita come unica presenza, «definitiva» o «infallibile», del Vangelo di
Dio nella storia. Questo implica, da parte di coloro che
* Docente di Teologia fondamentale e dogmatica al Centre
Sèvres di Parigi. Il saggio che pubblichiamo, in una nostra traduzione
dal francese, è apparso su D. Müller, G. Waterlot (a cura di), Faire face à la crise, serie Revue d’éthique et de théologie morale n. 10, Cerf,
Paris 2013, 151-165.
1 Per un primo orientamento, cf. J. Wohlmuth, «Le concile de
Constance (1414-1418) et le concile de Bâle (1431-1449)», in G. Alberigo (a cura di), Les conciles œcuméniques. 1. L’histoire, Cerf, Paris 1994,
205-255 (con bibliografia); cf. anche (con riferimento ai dibattiti contemporanei) C. Theobald, La réception du concile Vatican II. I. Accéder à la
source, Cerf, Paris 2009, 81-96 e 180-185 (trad. it. La ricezione del Vaticano II. 1. Tornare alla sorgente, EDB, Bologna 2011, 63-74 e 142-145).
2 Cf. W. Brandmüller, Das Konzil von Konstanz. 1414-1418.
1. Bis zur Abreise Sigismunds nach Narbonne, Schöning, Paderborn
1991; e Id., Das Konzil von Konstanz. 1414-1418. 2. Bis zum Konzilsende, Schöning, Paderborn 1997. Cf. la valutazione canonica nel vol.
2, 415-422.
3 Cf. J.-M. Donegani, «La mondanisation du salut», in Recherches de science religieuse 100(2012) 3, 345-363.
4 Cf. E. Biser, Glaubensprognose. Orientierung in postsäkularistischer Zeit, Styria, Graz 1991. Cf. la nostra recensione in Recherches de
science religieuse 82(1994), 290-295.
5 Cf. J.-P. Willaime, Europe et religions. Les enjeux du XXI, Fayard, Paris 2004.
6 Cf. D. Hervieu Léger, Catholicisme, fin d’un monde?, Bayard,
Paris 2003.
7 Cf. J.-P. Willaime, «L’ultramodernité sonne-t-elle la fin de l’œcuménisme?», in Recherches de science religieuse 89(2001) 2, 201-204.
8 Ivi, 191s.
9 Questa diakrisis pneumatôn non riguarda solo la condotta della vita personale, ma anche la corretta espressione della fede (cf. 1Cor
12,2.3 e 14,1-25).
10 Cf. soprattutto il celebre decreto Haec sancta di Costanza
(Alberigo G., Dossetti G., Joannou P., Leonardi C., Prodi
P., Jedin H. [a cura di], Conciliorum oecumenicorum decreta (COD),
EDB, Bologna 1991, 409, 15-27) o anche il celebre decreto Laetentur caeli di Firenze (del 1439; COD 524, 8-32). Per il concetto di
«rappresentazione», il suo sfondo aristotelico e la sua ripresa da parte dell’ecclesiologia medievale, cf. H.-J. Sieben, Die Konzilsidee des
lateinischen Mittelalters (847-1378), Schöningh, Paderborn 1988,
366-469.
11 Riguardo all’etica della comunicazione di Basilea e di Costanza, cf. J. Wohlmuth, Verständigung in der Kirche. Untersucht an der
Sprache des Konzils von Basel, Grünewald, Mainz 1983.
12 Cf. M. Lutero, Sermone del 10 agosto 1522 (WA 10, 260):
«Come possiamo sapere ciò che è parola di Dio, ciò che è falso o vero? Loro (i papisti) dicono che dobbiamo impararlo dai dottori, dal
papa e dai concili. Ebbene, lasciali decidere e dire ciò che vogliono.
Tu non puoi basare la tua fiducia su questo, né tranquillizzare così la
tua coscienza. Si tratta del tuo collo e della tua vita; perciò Dio stesso
deve dirti fin nel tuo cuore: ecco è questa la parola di Dio, altrimenti nulla è deciso; tu devi essere certo in te stesso, qui tutti gli altri esseri umani sono esclusi».
13 Cf. Theobald, La réception du concile Vatican II. I., 319-363
(trad. it. La ricezione del Vaticano II. 1., 252-286); cf. anche Id., «Le
concile Vatican II face à l’inconnu. L’aventure d’un discernement
alle istanze testimoniali della fede
128
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attualità
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vi fanno riferimento collettivamente, la confessione delle proprie incoerenze e l’autoriforma permanente come
parte integrante della loro propria credibilità.
Per un certo tipo di credibilità
Oggi, per i «testimoni rappresentanti» che sono le autorità ecclesiali, tale coerenza diventa un’esigenza pubblica di un certo tipo. La loro credibilità implica la capacità di raggiungere, in parole e opere, le coscienze umane,
di risvegliarle e coinvolgerle radicalmente in una ricerca
comune del vero, ricerca che non esonera nulla e nessuno. E poiché questo «vero», che è il Vangelo di Dio o la
santità di Cristo, deve restare riconoscibile nella storia,
queste autorità apostoliche hanno il carisma e la funzione di mantenere aperta, all’interno di una ricerca sempre
comune, la possibilità che questa parola di Dio sia compresa come tale e compresa in modo infinitamente differenziato in uno spazio di accoglienza sempre più pluralistico e individuale.
Il concilio Vaticano II ha avviato questa conversione
dell’idea di autorità.23 L’attuale esperienza di dispersione dell’identità cristiana e la risposta contro-culturale rischiano non solo di ritornare a una focalizzazione unilaterale sul contenuto della fede,24 di banalizzarla e di renderla ancora più folkloristica, ma di dimenticare anche
le procedure di una ricerca del vero che corrispondono a
ciò che esso è – Vangelo di Dio –, di privatizzare la santità e l’autoriforma e di cedere alla fine il posto a comportamenti amministrativi e a conflitti di potere ben noti in tutte le istituzioni umane.
La funzione particolare delle Scritture
Il riferimento alla Scrittura,25 che si sarebbe potuto menzionare per primo acquista in questa mutazione
una funzione unica, probabilmente a causa dell’accesso
sempre più ampio di cui beneficia nella cultura occiden-
tale. Infatti la Bibbia è diventata un testo «classico» fra
gli altri, sottoposto a un test di umanità nel quale deve
mostrare il suo carattere ispirante a partire sempre dallo
stesso criterio di autenticità che lavora e trasforma le coscienze umane.
Come sacra Scrittura, essa offre ai cristiani un mondo di linguaggio plurale, uno spazio ospitale che suscita la
loro propria parola e la loro propria creatività, in vista di
un mondo da custodire abitabile. A questo titolo essa è il
luogo per eccellenza nel quale l’identità cristiana deve essere consegnata al discernimento di ciascuno e di tutti, secondo il processo spirituale sopra accennato, che implica una crescente sensibilità circa la maniera apostolica di
conservare riconoscibile tale identità. È in questo spazio
infinitamente ampio di una lettura e di un ascolto comuni
che l’unicità di ogni coscienza può esprimersi, che il legame ecclesiale fra tutti si costituisce e che la fede personale
e comune scopre la sua forma dossologica che fiorisce da
ultimo nella celebrazione della cena del Signore.
Conclusione
Riconosciamo, per concludere, il carattere utopico o
vulnerabile dell’abbozzo teologico dei riferimenti testimoniali qui proposto. Esso è doppiamente esposto: alle diagnosi dei sociologi e degli storici, rivolte al passato e al presente; e a coloro che, incaricati del presente e del futuro
delle Chiese, esercitano una responsabilità ecclesiale o addirittura magisteriale. La conversione collettiva delle mentalità che sembra presentarsi a noi come una sfida non si
lascia produrre mediante argomenti, per quanto convincenti possano essere. Essa dipende dalla libertà di ciascuno, entro un complesso di condizioni storiche, e da una
concordia fra tutti o quasi tutti, che è altamente improbabile eppure resa possibile alla fine… dallo Spirito Santo.
Christoph Theobald*
collégial des signes des temps», in Etudes, n. 4174 (ottobre 2012), 353363.
14 Con i suoi 2.865 articoli, il Catechismo della Chiesa cattolica
(1992) è un esempio della concezione cumulativa della fede e della sua
frammentazione interna.
15 La sfida della nostra lettura del concilio Vaticano II è la raccolta delle indicazioni relative al «modo di procedere» del Concilio o al
«modo di cercare la verità», distribuite in vari documenti, senza esplicitare e pensare l’esatta articolazione delle diverse istanze. Il triplice
«né» della nostra formula indica che queste istanze operano come criteri formali, lasciando aperta l’articolazione positiva che è riservata al
discernimento effettivo e in situazione dell’identità cristiana.
16 Per maggiori precisazioni cf. Theobald, La réception du concile Vatican II. I., 57-123, 161-206 e 266-269 (trad. it. La ricezione del
Vaticano II. 1., 45-96, 127-161 e 210-213).
17 Per la definizione di questo concetto, cf. ivi, 683-693 (trad. it.,
533-541).
18 Giovanni di Segovia, Historia generalis synodi Basiliensis (14491453), in Monumenta Conciliorum Generalium Seculi Decimi Quinti (MCG),
vol. III, 823-835. Cf. il compendio di queste pagine essenziali in H.J. Sieben, Traktate und Theorien zum Konzil. Vom Beginn des grossen Schismas
bis zum Vorabend der Reformation (1378-1521), Knecht, Frankfurt 1983,
193-195; cf. anche la nostra analisi in La réception du concile Vatican II. I.,
180-185 (trad. it. La ricezione del Vaticano II. 1., 142-145).
19 Cf. C. Theobald, «Vers une nouvelle théorie des sens», in Recherches de science religieuse 99(2011) 2, 253s e Id., La Révélation…
tout simplement, Les édition de l’Atelier, Paris 22006 (trad. it. La rivelazione, EDB, Bologna 2006).
20 Cf. C. Theobald, «“La transmission de la Révélation divine”.
A propos du chapitre 2 de “Dei verbum”», in Id., «Dans les traces…»
de la constitution «Dei verbum» du concile Vatican II. Bible, théologie et
pratiques de lectures, «Cogitatio fidei» n. 270, Cerf, Paris 2009, 35-55;
cf. anche Id., «Tradition als kreativer Prozess. Eine fundamentaltheologische Herausforderung» (di prossima pubblicazione).
21 Questa distinzione è la sfida principale del famoso principio
di «pastoralità», esposto da Giovanni XXIII al concilio Vaticano II
nel suo discorso di apertura Gaudet mater Ecclesia; cf. Theobald, La
réception du concile Vatican II. I., 250-258 e 290-319 (trad. it. La ricezione del Vaticano II. 1., 197-203 e 230-252).
22 Il n. 7 della Dei verbum (EV 1/880ss) offre una descrizione
storica del processo di trasmissione, fondata sulla relazione fra Cristo Signore e i suoi apostoli, prima di indicare il complesso di questo processo che riguarda il contenuto (traditum) e coloro che lo trasmettono (tradentes) con il concetto di «sacra Tradizione». Cf. il nostro commento dettagliato in La réception du concile Vatican II. I.,
711-721 e 734-745 (trad. it. La ricezione del Vaticano II. 1., 555-562
e 572-580).
23 Cf., ad esempio, Presbyterorum ordinis, n. 6 (EV 1/1257ss), che
sviluppa una concezione «pedagogica» dell’autorità, orientata verso la
maturità cristiana dei fedeli.
24 Una concezione cumulativa del contenuto della fede rischia di
lasciare il discernimento ai «tecnici» del dogma e di rafforzare così lo
scisma verticale e il fenomeno dell’esculturazione.
25 Cf. C. Theobald, «La réception des Ecritures inspirées. Une
relecture du chapitre III de Dei verbum», in Id., «Dans les traces…» de
la constitution «Dei verbum», 57-89.
Il Regno -
attualità
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“
Sören Kierkegaard
rofil o
1813 - 1855
Incursioni nella modernità
Dall’Esercizio del cristianesimo suggestioni su un Cristo postmoderno
Esercizio del cristianesimo di Anti-Climacus
edito da Sören Kierkegaard
«In questo scritto, che appartiene all’anno 1848,
l’esigenza di essere cristiano è spinta dallo pseudonimo al
massimo dell’idealità; (…) e io considero ciò che qui si dice
come fosse soltanto per me (…). Egli [Cristo] mantiene
le sue parole, egli stesso anzi è la Parola, egli è ciò che
dice, e quindi in questo senso egli è la Parola. (…) La
cristianità ha abolito il cristianesimo senz’accorgersene.
La conseguenza è che, se bisogna fare qualcosa, bisogna
cercare un’altra volta di introdurre il cristianesimo nella
cristianità. (…) Manca la categoria propria della verità
(…) e la categoria di ogni religiosità: il “per te”. (…) E ora,
l’Uomo-Dio! Egli è Dio, ma sceglie di diventare l’uomo
singolo (…). Il nostro tempo non conosce purtroppo
altro genere di comunicazione se non quello del docere.
Si è dimenticato completamente che cos’è l’exsistere. (…)
La verità è nel senso in cui solo Cristo è: non come una
somma di proposizioni, non come una determinazione di
concetti ecc., ma come vita. (…) Ma guai, guai alla Chiesa
cristiana che pretendesse di avere trionfato in questo
mondo, perché allora non è stata essa a trionfare ma il
mondo. (…) E anche se io non ho autorità di obbligare
nessun altro uomo, ogni parola che pronuncio dal pulpito
nel mio sermone obbliga me stesso e Dio l’ha sentita».1
uesto articolo intende proporsi come
uno stimolo alla riflessione, perché molto
di quanto è detto sono semplici abbozzi
d’intuizioni e idee provvisorie. È un rischio condensare in poche righe, in una
sorta di summary, uno scritto del grande
danese che, nella mia traduzione tedesca,
occupa oltre 200 pagine. Ma le citazioni
che ho scelto mi sembrano un’architettura interna del libro; altri lettori o autori potranno fare una scelta diversa,
cosa che, nel caso di Kierkegaard, è assolutamente legittima, perché questo testo mirabile, irritante, ha un carattere
iconografico già semplicemente per la scelta dello pseudonimo: Anti-Climacus, la posizione intertestuale opposta a
quella di Giovanni Climaco, lo pseudonimo ad esempio di
Briciole di filosofia. Forse tradotto liberamente indica uno
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che scende dalla cima, così come il Logos divenne uomo.
Ma su questo più avanti.
La poetologia dell’Esercizio
L’opera di Kierkegaard si sviluppa come un universo di
discorso autopoietico e intrecciato in forma autoreferenziale. Ogni libro è come un libro che contiene se stesso e quelli che lo hanno preceduto (una mise en abyme, un’infinita
ripetizione con variazioni) e a volte rinvia a ciò che deve
venire, a ciò che deve essere ancora scritto, che è sempre in
qualche modo già virtualiter presente. Ma questa concezione che collega unità e diversità diventa in Kierkegaard un
momento performativo della libertà letterariamente generato. Mentre molti filosofi – permettetemi un’affermazione
un po’ generica per amore di retorica – costringono i loro
lettori ad accettare determinate posizioni o costruendo una
fortezza inespugnabile basata su argomenti logici (ma questo solo se non si conosce Gödel), o mediante l’esibizione
del possesso di un’autorità corazzata (a volte in Heidegger
si sente in sottofondo una musica marziale), oppure anche
mediante una tranquilla, narcotizzante musealizzazione,
Kierkegaard o convince oppure no.
Nel turning point delle sue riflessioni, spesso il lettore
Kierkegaard lo lascia solo! Questo può spaventare, soprattutto quando si tratta di qualcosa così familiare e così saldamente radicato nella storia europea come il cristianesimo.
Ma per Kierkegaard si tratta piuttosto di rispettare la libertà del singolo, di non chiudergli la bocca con affermazioni
dogmatiche, e di affermare che questo singolo non può lasciarsi rubare la responsabilità di diventare personalmente
l’autore del testo della sua vita e dei rispettivi contesti. Gli
scritti di Kierkegaard – fortemente retorici, magnifici e aridi, erotici e casti, demoniaci e santi – flirtano con il lettore,
senza costringerlo ad aderire a una determinata posizione.
Anche i monologhi più intimi o folli sono un dialogo fra
io, tu e Dio. Infatti, «il cristianesimo è spirito, lo spirito è
interiorità, l’interiorità è soggettività, la soggettività è essenzialmente passione infinita della persona interessata alla
propria salvezza eterna».2
L’Esercizio del cristianesimo viene pubblicato nel 1850,
ma il manoscritto risale al 1848.3 La Parefazione suggerisce
che il testo che segue è opera dell’autore Anti-Climacus, e
che Kierkegaard ne è solo l’editore. Senza affrontare qui in
dettaglio la complessa funzione dello pseudonimo nell’opera di Kierkegaard, Anti-Climacus segnala quasi come chiave ermeneutica o guida alla lettura che il testo che segue è
un esperimento di riflessione, nel quale «l’esigenza di essere
cristiano è spinta dallo pseudonimo al massimo dell’idealità».4 Ma, cosa sconcertante, il destinatario del testo è lo
stesso editore: «Io considero ciò che qui si dice come fosse
soltanto per me». Perciò l’autore storico Kierkegaard crea
uno pseudonimo che entra in scena come l’autore reale fittizio dell’Esercizio del cristianesimo, il cui editore e destinatario è ancora Kierkegaard. Egli è a due lati del testo, come
produttore e destinatario, come colui che lo redige e colui
che lo scopre.
Io, come se l’Esercizio del cristianesimo fosse rivolto soltanto a me, lo leggo come un processo decostruttivo, come
un esercizio di decostruzione: una determinata forma della cristianità istituzionalizzata (concretamente, la Chiesa
di stato danese) viene decostruita, smascherata come non
cristiana; e formulato in modo programmatico: «La cristianità ha abolito il cristianesimo senz’accorgersene. La conseguenza è che, se bisogna fare qualcosa, bisogna cercare
un’altra volta di introdurre il cristianesimo nella cristianità».5 La crisi dell’istituzione non è solo una crisi relativa di
carattere storico, ma il dato critico in sé è il fatto dell’istituzionalizzazione, cioè il fatto di essere cristianità (così nel
linguaggio di Anti-Climacus) in contrapposizione a ciò che
è qualitativamente altro: il cristianesimo. Questa crisi delle
istituzioni ecclesiali è contraddistinta da un fascio di caratteristiche. Qui ci limitiamo a indicarne alcune.
Il Gesù storico
Nella ricostruzione del dato cristiano il testo riflette continuamente, sotto forma di variazioni sul tema, sulla questione esplosiva del Gesù storico e sulla rilevanza esistenziale di una possibile risposta positiva. Dietro c’è l’impegnativa provocazione di Lessing, che colloca tutte le religioni in
un rapporto critico con le loro figure fondatrici e conduce
abilmente in un dilemma della giustificazione, nella misura in cui esse attribuiscono una normatività per i contenuti
dogmatici alla loro forma presentata come storica e quindi
relativa-contingente: «Verità storiche casuali non possono
mai diventare la prova di verità razionali necessarie. (…)
Questo è lo sgradevole ampio fosso, che io non riesco a superare, pur avendo cercato spesso e seriamente di spiccare
il salto. (…) Non nego che Cristo abbia fatto miracoli; ma
nego che questi miracoli, da quando la loro verità è completamente cessata, siano provati attraverso miracoli praticabili ancora attualmente; da quando essi non sono altro
che notizie di miracoli».6
Kant risolve il problema spiegando, nella Critica della
ragion pura, che non si può risolvere la questione della dimostrabilità o non dimostrabilità dell’esistenza di Dio con
le possibilità offerte dalla ragion pura, ma ripristinando,
nella Critica della ragione pratica, Dio come garante necessario dell’azione buona e collegando così in un modo non
oltrepassabile il concetto di Dio con la moralità e la soggettività: «Decisivo in questo passaggio dalla dimensione teoretica alla dimensione pratica è il cambiamento di prospettiva a esso collegato: la ragione pura riflette per così dire
I
l 5 maggio 1813 nasceva a Copenaghen Sören Kierkegaard;
insieme a Nietzsche probabilmente una delle figure più
emblematiche e culturalmente sensibili davanti alla crisi del
sistema dell’Europa moderna. Talvolta accade che i passaggi
epocali si iscrivano nella biografia delle persone, tuttavia la sua
opera non può essere ridotta semplicemente allo specchio
esistenziale di una vicenda autobiografica. Quella di Kierkegaard rimane una scrittura difficilmente inquadrabile in un genere specifico, ed è forse proprio per questo che ha saputo
coinvolgere gli interessi di discipline così diverse tra di loro,
dalla teologia alla letteratura, rimettendo sempre nelle mani
del lettore l’esito del libro.
Il testo che Markus Pohlmeyer ha scritto per Il Regno s’inserisce in una serie di iniziative didattiche e culturali promosse
dall’Università di Flensburg (Germania) e dal Centro teologico
pedagogico di Loegumkloster (Danimarca) nel corso dell’anno giubilare (da novembre 2012 a giugno 2013); coinvolgendo
diverse realtà locali e studiosi provenienti da diversi paesi
europei, e costruendo un percorso kierkegaardiano nelle vie
della città (www.kierkegaard2013.de). Un esperimento riuscito,
dove la celebrazione di un anniversario si è fatta occasione,
soprattutto per gli studenti, di una presenza diffusa nel tessuto della vita locale di due paesi europei.
M. N.
dalla prospettiva dell’osservatore. Nella dimensione della
ragione pratica, la domanda su Dio viene posta nella prospettiva della prima persona – e questo è per Kant anche il
luogo autentico della legge morale. Infatti la incontra inevitabilmente chi chiede: “Che cosa devo fare?” – e a questo
c’è una risposta incondizionata, che appare nell’esperienza
della coscienza».7
Kierkegaard (o uno dei suoi pseudonimi?) salta il fosso
di Lessing con la categoria della contemporaneità, che implica l’esistenza: diventare contemporanei con l’Assoluto/
l’Eterno nell’istante. Tutte le dimostrazioni storiche, per
quanto scientifiche e scrupolose, sono solo un’approssimazione.8 Nella Postilla non scientifica per illustrare quest’idea, lo pseudonimo Giovanni Climaco ricorre al paragone
comico di «una ragazza innamorata [che] conta le lettere
della missiva che ha ricevuto dall’amato» (I, 233). Al contrario la verità è «la trasformazione del soggetto in se stesso» (I, 236).
Nella nuova messa in scena letteraria della figura di
Cristo crocifisso e umiliato – questo è il momento della
costruzione nel processo decostruttivo di Kierkegaard –
l’Anti-Climacus spinge il lettore «non alle lacrime o altro
sentimentalismo, ma lontano dal testo verso un’azione al di
fuori del testo vero e proprio. Quest’azione è la vera conclusione della lettura».9 In questo modo il singolo diventa
un’immagine vivente di Cristo incarnato. Perciò l’Assoluto
non è il Lontano infinito e quindi irraggiungibile e non raggiunto, il totalmente Altro, ma attraverso l’incarnazione il
Divino si fa uomo. La conseguenza radicale è che questo
Dio incarnato sa che cosa significa essere uomo, soffrire
come uomo. Si dovrebbe quindi leggere l’Esercizio del cristianesimo anche come teodicea implicita, perché l’uomo
nella sua angoscia e disperazione sa di essere compreso sul
piano esistenziale da questo Dio incarnato: «Letteralmen-
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te la realtà della sua sofferenza puramente umana non si
riduce a una semplice apparenza ma, in un certo senso, è
il dominio che l’inconoscibilità da lui assunta esercita su di
lui. Soltanto così si prende con la massima serietà il fatto
che egli è diventato vero uomo, per cui giunge al colmo
della sofferenza sino al punto di sentirsi abbandonato da
Dio».10
Quest’allusione alla scena marciana della crocifissione
esclude ogni docetismo, che però ritorna in modo fatale
e socialmente potente su un altro piano: nella santità apparente della cristianità istituzionalizzata, che ha preso le
distanze dalla serietà e tragicità della figura di Cristo. Che
cosa significa Cristo, l’uomo può sperimentarlo solo a livello esistenziale, diventando Cristo, seguendo Cristo e non
solo ammirandolo. Il soggetto della fede (non l’oggetto di
un’entità amministrativa clericale), per così dire il singolo
di Kierkegaard, salta il fosso di Lessing, collegando a livello esistenziale il versante del contenuto e il versante dell’espressione e potendo quindi chiudere lo iato di Lessing (res
e vox sono separate!) – si tratterebbe ancora solo di notizie
sul miracolo e non del miracolo in sé. Su questa base per
Anti-Climacus la distanza storica di 1.800 anni non gioca
più alcun ruolo: «In rapporto all’Assoluto non c’è infatti
che un solo tempo: il presente; per colui che non è contemporaneo con l’Assoluto, è facile vedere che rispetto a lui è
possibile solo una situazione: quella della contemporaneità;
300, 700, 1.500, 1.700, 1.800 anni a lui non tolgono né
aggiungono nulla; non lo cambiano, né rivelano chi egli sia,
poiché chi egli sia è manifesto solo per la fede».11
Ma l’incarnazione ha anche altre conseguenze: l’evento
comunicativo della rivelazione sperimenta nell’incarnazione una trasformazione esistenziale: «Egli [Cristo] mantiene le sue parole, egli stesso anzi è la Parola, egli è ciò che
dice, e quindi in questo senso egli è la Parola».12 Lo si può
leggere come un’anticipazione della teoria del linguaggio
di J.L. Austin.13 Il concetto di performatività di Austin si
riferisce primariamente a fenomeni del linguaggio quotidiano; Kierkegaard/Anti-Climacus al contrario attribuisce
una performanza all’incarnazione dell’Assoluto (in qualche
modo alla Trascendenza), che – per libera scelta! – diventa
un singolo, con tutte le conseguenze: dalla nascita fino alla
morte in croce, ma in questo diventare singolo rimane ciò
che costituisce nel contesto del Nuovo Testamento l’Assoluto creduto: l’Amore: «E ora l’Uomo-Dio! Egli è Dio, ma
sceglie di diventare l’uomo singolo».14
Questa performanza incarnata non ha solo un carattere
esemplare, ma diventa anche la misura per tutti coloro che
vogliono seguire Cristo. Cristo è ciò che è e non si spaccia
per qualcosa che non è. Il carattere tragico della diagnosi
di Anti-Climacus non consiste solo nel fatto che la Chiesa
danese avrebbe in qualche modo snaturato il cristianesimo
trasformandolo in cristianità stabilita (per ragioni di bassa
lega, quali la comodità, la volontà di essere mantenuta, la
sete di onori, la brama di carriera, ecc.), ma anche e soprattutto nel fatto che in questo modo non si è mai scoperto il
cristianesimo: «Solo un cristianesimo intriso di metafisica
e solidificato nel folclore del potere sacrale poteva credere che la tradizione dei martiri, dei santi e dei padri della
teologia diventasse una somma di prove evidenti alle quali il singolo credente potesse guardare con la stessa fiducia
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con cui il filosofo guarda ai suoi archetipi interiori. Ma per
Kierkegaard il singolo si trova tuttora senza alcun aiuto davanti alla leggenda cristiana».15
Anti-Climacus è assolutamente favorevole a un progetto illuministico nello spirito di Kant: abbi il coraggio di
superare il tuo non essere cristiano o non esserlo ancora,
che dipende da te stesso ed è condizionato dall’istituzione.
Infatti «manca la categoria propria della verità (come interiorità) e la categoria di ogni religiosità: il “per te”».16 Credere non significa credere una qualunque serie di espressioni
dogmatiche insegnate, per il solo fatto che esse appaiono
intrinsecamente evidenti o devono esserlo semplicemente
in forza di una trasmissione autoritaria; credere significa
tradurre il nocciolo del messaggio cristiano in una storia di
fede e forma di vita personale.
I drammi e le tragedie di soggetti non liberi, considerati minorenni, non solo nel cristianesimo, ma in tutte le
religioni mondiali, sono ben noti. Con il concetto di teologia di Kierkegaard si potrebbe difficilmente giustificare e
conservare, ad esempio, il sistema indù delle caste.17 Ma la
gerarchizzazione e la formazione di caste particolari sembrano un fenomeno presente in tutte le religioni. Dietro c’è
anche una domanda più fondamentale: con quale diritto
i capi religiosi credono (dal loro punto di vista, sono stati
chiamati: la colpa è quindi di Dio?) di poter determinare
il percorso di vita di milioni e milioni di persone, svalutare
queste o quelle, perseguitare, e persino eliminare, queste o
quelle, legittimare in nome di Dio lo sfruttamento sessuale e l’emarginazione delle donne…? Questi capi religiosi
assumono, in modo performativo-esistenziale, anche la responsabilità per ciò che fanno e predicano o profittano solo
del sistema della gerarchizzazione?18 L’Esercizio del cristianesimo descrive uno dei modi collaudati per sfuggire a questa responsabilità: «Il nostro tempo non conosce purtroppo
altro genere di comunicazione se non quello del docere. Si
è dimenticato completamente cos’è l’exsistere. (…) La verità nel senso in cui solo Cristo lo è: non come una somma
di proposizioni, non come una determinazione di concetti,
ecc., ma come vita».19
Si potrebbe comprendere l’incarnazione di Dio anche
come una comunicazione indiretta, come un’offerta d’amore. O in altri termini: Dio si manifesta in modo non
dogmatico, non è un docente privato con facultas legendi,
anche se resta dogmaticamente fedele a se stesso nel senso
cristiano, nel fatto per esempio di essere Trinità. Ma questo dogmatico-non dogmatico è la condizione paradossale
della possibilità di scegliere: per Dio e per l’uomo! L’evento
Cristo apre quindi una storia di libertà (sia sul piano narrativo sia su quello storico) fra Dio e l’uomo: Dio che s’incarna liberamente e l’uomo che può comportarsi liberamente
nei riguardi dell’auto-rivelazione di Dio nell’incarnazione:
«Non si tratta né di comunicazione, né di ricezione diretta:
è in ballo una scelta».20
La conoscenza diventa verità per me, verità che io ho
scelto, quando la vivo. Questo vale per qualsivoglia verità?
Per eliminare subito fin dall’inizio un sospetto ideologico,
sottolineo che l’Esercizio del cristianesimo rifiuta tutte le
pretese di totalità e ogni legittimazione violenta di natura
religiosa, perché l’Assoluto offre in modo performativo nella sua auto-rivelazione incarnata criteri semantici esclusivi:
amore, umiltà, abbassamento, pazienza, capacità di compatire veramente… L’Esercizio del cristianesimo non vuole
neppure avviare un movimento di massa mondiale di tipo
storico o vedervi una lotta di classe come strumento (di potere) ritenuto legittimo a partire dalla struttura economica
del mondo. Al riguardo la Postilla non scientifica afferma:
«Quel che qui è stato accennato (…), le Briciole l’hanno
spesso messo in rilievo, che non c’è un passaggio diretto e
immediato al cristianesimo! Perciò tutti coloro che a questo
modo vogliono spingere qualcuno ad abbracciare il cristianesimo, oppure vogliono spingerlo perfino a colpi di frusta,
tutti costoro sono imbroglioni – no: non sanno quello che
fanno» (I, 247).
La tragedia
Il dramma tragico di un cristianesimo travisato ha dimensioni storiche mondiali. A partire da Costantino, la
Chiesa perseguitata si è trasformata in una Chiesa perseguitante. A partire da quel Costantino, che a mio avviso
sconfisse veramente il cristianesimo, accordandogli un potere politico e integrandolo strategicamente, con un vero
colpo di genio, nel sistema patriarcale-gerarchico dell’Imperium romanum: «Ma guai, guai alla Chiesa cristiana che
pretendesse di aver trionfato in questo mondo, perché allora non è stata essa a trionfare ma il mondo».21 Su questo
sfondo la sorprendente dissolvenza della storia della Chiesa
da parte di Kierkegaard può apparire plausibile: la storia
cristiana dei vincitori (a seconda del partito/confessione),
che spesso si è tradotta per i vinti in puro orrore, dimostra semplicemente una cosa: era indubbiamente Cristo,
ma non cristianesimo. Kierkegaard mi sembra ancor più
radicale di Lutero: non si tratta più di sapere chi abbia la
corretta ermeneutica della Bibbia, talmente corretta da generare un’escalation di guerre di religione. Ciò che rimane
è solo Christo, a livello esistenziale. Si potrebbe dire – come
variante di un detto di Feuerbach – che in Kierkegaard la
cristologia diventa antropologia e viceversa.
Il rifiuto di seguire il martirio di Cristo e l’opzione di
ammirare Cristo da una distanza più sicura22 ha come conseguenza l’assurdità di una Chiesa trionfante, che si è sistemata in modo domestico e comodo nel mondo. Su questo
sfondo bisogna comprendere anche la radicale critica della
comunità da parte di Anti-Climacus: «La “comunità” appartiene anzitutto e soprattutto all’eternità; la “comunità”
è in quiete ciò che il singolo è nell’inquietudine. Ma questa vita è appunto il tempo della prova e dell’inquietudine:
ecco perché la “comunità” non ha la sua patria nel tempo,
ma soltanto nell’eternità dove in quiete essa è “assemblea”
di tutti i singoli che si mantennero saldi nella lotta e nella
prova».23
E in forma ancor più provocante: «Infatti, mentre lui
[Cristo] fu crocifisso, essi diventarono potenti con onori e
considerazione».24 Questa critica spietata potrebbe trasformarsi nell’esigenza universale di dover diventare tutti martiri. Ma Anti-Climacus reagisce a questa obiezione: «Non
ho mai preteso che ogni cristiano sia martire o che, tralasciando di diventare martiri, non si sia veramente cristiani;
anche se penso che ogni cristiano – e includo anche me
stesso – proprio per essere un vero cristiano deve fare una
dichiarazione di umiltà riconoscendo di essersela cavata in
un modo assai più facile di quei veri cristiani nel senso più
rigoroso».25
All’accusa di riduzione della vita di Gesù a favore di
un approccio incarnazionistico Kierkegaard risponde con
il concetto di performanza: l’intera vita di Gesù diventa
modello. E risponde anche all’accusa di riduzione allo staurocentrismo (e a una possibile patologia della passione che
ne deriva): la croce è solo la conseguenza di un’esistenza
povera e umiliata di questo Cristo, che sa che cosa significa
vivere come uomo, morire come uomo, perché è vissuto
come uomo ed è morto come uomo, e, per non banalizzare
nulla, è morto sulla croce come abbandonato da Dio.
Amore e sistema
«Cristo non è venuto nel mondo col proposito di salvare
il mondo e col proposito – che è contenuto nel primo – di
essere il “Modello”, di lasciare un’impronta per chi volesse unirsi a lui: quindi il dover diventare un “imitatore” ha
per momento corrispondente “l’impronta”. Per questo egli
accettò di nascere in umiltà e poi di vivere povero, abbandonato, disprezzato e umiliato (…). A che scopo e perché
allora quell’umiltà e quell’abbassamento? Per la ragione
che colui che deve essere in verità il Modello, e deve rapportarsi solo agli imitatori, deve in un certo senso trovarsi
dietro agli uomini per spingerli avanti, mentre in un altro
senso sia davanti a essi per chiamarli. Tale è nel Modello
il rapporto fra l’elevatezza e l’abbassamento. (…) Se egli
[Cristo] fosse venuto al mondo nell’elevatezza temporale e
terrena, sarebbe stata la più grande menzogna».26
In poche righe Anti-Climacus sviluppa l’essenza del cristianesimo, descrivendo la formula della confessione di fede
relativa al vero uomo e vero Dio ed esplicitando dal punto di
vista soteriologico e come teologia della sequela l’intenzione dell’incarnazione come storia della salvezza. Si tratta ovviamente di un circolo ermeneutico, nel quale l’uomo viene
coinvolto quando accetta sul piano esistenziale la condizione della possibilità di essere cristiano: l’incarnazione.
Per sgombrare subito il campo dall’accusa di un automatismo fondamentalista, universale della salvezza in
Kierkegaard, indico qui due argomenti: 1) L’Esercizio del
cristianesimo è un esperimento mentale di un cristiano ideale, che formula nel modo più alto le sue richieste, sottopone la Chiesa di stato danese a una revisione critica, senza
risparmiare ironia e cinismo, ma mai giudica o condanna!
Il testo termina con una magnifica preghiera di invocazione. Anche la pseudonimia deve essere intesa come una forma di iconoclastia: il testo si cancella da solo, perché vuole
essere un esercizio e non un’introduzione. Il testo stesso è
sequela, non ammirazione distante. 2) L’incarnazione è un
invito, un’offerta per poter permettere una reazione libera,
e con conseguenze sociali che in fondo non potrebbero essere più democratiche. Anche se il Kierkegaard storico ha
mantenuto durante tutta la sua vita un motivato atteggiamento critico verso determinate manifestazioni del socialismo e dei movimenti di massa nella Danimarca del suo
tempo, il concetto di incarnazione, insieme alle esortazioni
continuamente variate nei suoi scritti, impegna a diventare un singolo, un io, implica una carica sociale esplosiva,
perché smaschera tutte le gerarchie umane come assolutamente contrarie a Dio e questo proprio perché l’Assoluto è
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diventato il più piccolo fra gli uomini e questo Dio rincorre
tutti gli uomini come un vero mendicante: «Ed eccoci ora
al cristianesimo! Il cristianesimo insegna che questo singolo
uomo, e quindi ogni singolo uomo, qualunque sia la sua
condizione: uomo, donna, ragazza di servizio, ministro,
commerciante, studente, ecc., che questo singolo uomo esiste davanti a Dio! Questo singolo uomo che forse sarebbe
orgoglioso di aver parlato una volta in vita sua con il re,
questo uomo che si vanta tanto di vivere in rapporti cordiali
con questo e quell’altro, sicuro di essere ascoltato: insomma
questo uomo è invitato a vivere nei rapporti più familiari con Dio! Inoltre, per amore di questo uomo, anche di
questo uomo, Dio viene nel mondo, nasce, soffre, muore; e
questo Dio sofferente prega e quasi supplica l’uomo di accettare l’aiuto che gli viene offerto! In verità se c’è qualcosa
da far perdere il cervello è certamente questo! Chiunque
non abbia abbastanza coraggio umile per osare di credervi,
si scandalizzerà. (…) Infatti cos’è lo scandalo? Lo scandalo
è ammirazione infelice (…). La grettezza dell’uomo naturale non può invidiare a se stesso il dono straordinario che
Dio gli ha voluto concedere, perciò si scandalizza».27
Nonostante la sua aspra critica del sistema di Hegel, anche Kierkegaard opera con un sistema implicito in questo
senso: «Per il successore di Kant, “sistema” è un complesso
fondante, che permette di dedurre conseguenze da un primo fondamento o principio».28 Considerata in modo sistematico, l’incarnazione rappresenta, in quasi tutte le opere di
Kierkegaard, la base insuperabile di un complesso fondante,
per cui i suoi testi pseudonimi, non pseudonimi e i Discorsi
edificanti sono illustrazioni letterarie di un primo principio
basilare e mettono in gioco a livello sperimentale ciò che significa l’incarnazione sul piano estetico, etico e religioso, riprendendo così anche idee di altre critiche di Kant: la forma
di vita di Cristo (piano estetico) serve come modello (piano
religioso) della propria forma di vita (piano etico).
La specificità di Kierkegaard consiste nel fatto che il
suo sistema (e il suo contemporaneo rifiuto dello stesso) è
rimasto olistico sul piano della disposizione, ma frammentario nello suo svolgimento.29 Benché l’edizione di Kierkegaard, ad esempio nella mia traduzione tedesca ben lungi
dall’essere completa, comprenda 32 volumi, a me sembra
che l’opera incomparabilmente più ridotta di Kant – comprendente nella mia edizione di W. Weischedel solo 6 volumi – presenti una disposizione molto più ricca sul piano
tematico. E rispetto alla spiegazione del mondo offerta da
Hegel, Kierkegaard è essenzialmente più modesto e umile.
Ma un sistema del genere implica in modo performativo
l’esistenza, per cui supera le carenze di Hegel diagnosticate
da Kierkegaard e apre uno spazio per un rapporto dialetticamente determinato fra assolutezza e contingenza, che
viene sviluppato, sul piano storico e metafisico, dogmatico
e speculativo, in una mescolanza singolare e appassionante
mediante l’incarnazione. Il sistema di Kierkegaard richiede
riflessione, ma la eleva, nel senso di Hegel, nell’esistenza,
che in quanto tale trascende il piano concettuale, perché sa
che i concetti non possono coglierla.
Diversamente da Kant, preoccupato dell’autonomia,
Kierkegaard introduce nella sua etica un momento eteronomo, cioè decisamente cristiano. A prima vista sembra un
ritorno a posizioni prekantiane. Tuttavia anche per Kant
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Dio resta un elemento costitutivo dell’unità della ragione,
come idea regolatrice e componente integrativa della sua
etica, ma questo è un concetto di Dio in qualche modo
svuotato e ridotto a una mera struttura funzionale, al quale
è difficile attribuire le tradizionali caratteristiche teistiche.
Sarebbe comunque un grosso errore ritenere che Kierkegaard ritorni a una prova di Dio di tipo medievale (e nuovamente dietro Kant). Tuttavia egli condivide con un autore come Anselmo di Canterbury l’idea che il primo passo
presuppone la fede e che la funzione della prova che segue
è quella di mostrare che non è illogico credere in Dio. Non
si tratta quindi di indottrinare qualcuno con l’esistenza di
Dio, ma di mostrare che la mia fede non contrasta con la
ragione.30
In varie opere Kierkegaard rende l’incarnazione visibile ed evidente, sia in relazione con la sua concezione
dell’autocoscienza, sia come concetto pedagogico-didattico
(Dio è in qualche modo un Socrate evoluto). L’incarnazione percorre un doppio movimento. Questo elemento
eteronomo di ciò che è cristiano viene ridotto in modo rigoroso alla struttura di un’idea regolatrice; la vita storica
del Gesù incarnato sembra legata anzitutto alla nascita e
alla morte. E tuttavia all’elemento storico si attribuisce un
enorme significato, perché l’incarnazione costituisce un
modello dell’esistenza concreta: e precisamente sul piano
etico. Kierkegaard si muove sempre nella dimensione della
ragion pratica. E così getta in qualche modo un ponte sul
fosso di Lessing. Infatti questo costituisce il presupposto ermeneutico: solo nella mia decisione di buttarmi nella fede
appare a livello sia intellettuale sia esistenziale l’evidenza
del complesso sistematico che è l’incarnazione. E depone
a favore di Kierkegaard il fatto di mettere in bocca a Giovanni Climaco queste espressioni: «L’uomo vive indisturbato in se stesso; poi si risveglia il paradosso dell’amore di
sé come amore di un altro, di uno di cui si manca. (…) Ma
che cos’è questo sconosciuto, nel quale la ragione nella sua
passione paradossale s’imbatte e che disturba persino la conoscenza di se stesso nell’uomo? È lo sconosciuto. Ma non è
un uomo qualunque, per quanto egli lo conosce, o un’altra
cosa qualsiasi, che egli conosce. Perciò chiamiamo questo
sconosciuto Dio. È solo un nome, che noi così gli diamo.
Voler dimostrare che questo sconosciuto (Dio) esiste è una
cosa che sfugge praticamente alla ragione».31
L’esperienza non mediata dell’amore innesca un processo di riflessione su sé stessi, che attraverso il concetto
limite dello sconosciuto formulato come luogo vuoto conduce a Dio, che conduce nuovamente la ragione a un limite
(kantiano). Dio appare anzitutto ridotto come convenzione
linguistica a nominare proprio questo sconosciuto che si affaccia nell’amore. C’è qualcosa che non si può esprimere
mediante il concetto, che si sottrae alla possibilità di dominarlo. L’amore di sé diventa, in un movimento iconoclastico, amore per un altro. In Der Liebe Tun questo paradosso
viene presentato come spiegazione di una struttura profondamente trascendentale e speculativa, che rivela nell’analisi
del comportamento verso sé stessi l’alterità costitutiva implicita: «Il termine “prossimo” è propriamente il raddoppio
del tuo proprio io; “il prossimo” è ciò che i pensatori chiamerebbero l’altro».32 E per Kierkegaard questi altri sono
sempre il tu e Dio.
Dopo la morte di Hegel l’idealismo crolla. Le teorie di
Marx e di Engels esercitano progressivamente un’influenza
mondiale. In seguito le utopie comuniste si trasformeranno in
false utopie catastrofiche. Il nominalismo trasformerà l’Europa in un deserto e condurrà fra l’altro alle guerre mondiali.
Kierkegaard moderno?
Che cosa costituisce la modernità di Kierkegaard? Naturalmente si pensa subito allo slogan dell’esistenza. Ma
restano le tensioni: Kierkegaard in gran parte trascura le
scienze della natura in rapido sviluppo – questo suona antimoderno – e si dedica a una ricostruzione del cristianesimo
– questo è già quasi eroico –, una ricostruzione che unisce
alcuni tratti della critica distruttiva della Chiesa e dell’apologetica fortemente differenziata, di un’apologetica che non
vuole privarsi di Lessing, Kant e Hegel. Kierkegaard produce, mediante una rilettura – o meglio un’archeologia –
del cristianesimo, delle costellazioni fondamentali della modernità, che lo ricollegano a discorsi dell’idealismo tedesco.
Talune sue risposte oltrepassano alcuni di questi discorsi e
indicano al tempo stesso l’avvenire, ad esempio con i termini performanza ed esistenza, come dimostra chiaramente
anche la successiva storia della recezione. Alcune risposte
sono stranamente restauratrici o anacronistiche, come se
egli realizzasse il programma che ci si attendeva da Schelling, quando fu chiamato a Berlino (anche Kierkegaard ne
ascoltò le lezioni e in seguito lo criticò duramente), cioè attaccare l’hegelianismo e ripristinare il cristianesimo.
Kierkegaard si trova in una duplice aporia. Da una parte «il genio di Kierkegaard ha prodotto una vera filosofia
di Cristo con le sue proprie categorie: l’Assoluto, il paradosso, lo scandalo, l’istante, la contemporaneità, la contemporaneità, la ripetizione, la reduplicazione ecc., dalla
contemplazione di Cristo e dalla relazione con lui. Ma una
dissertazione sull’esistenza cristiana è impossibile senza una
conoscenza di Cristo acquisita mediante la fede e poi fatta
oggetto di riflessione».33
L’Esercizio del cristianesimo è teologia, confronto profondamente meditato con la rivelazione di Cristo, anche
quando mostra un atteggiamento assolutamente pedagogico e per lunghi tratti funziona come una predica; comunque si tratta appunto solo di un esercizio, di una guida a
un’esistenza cristiana, nel quadro di un’analisi critica delle
condizioni della sua possibilità. Ma così l’Esercizio del cristianesimo diventa anche la cosa più difficile, perché il lettore deve abbandonare l’ambiente protetto del testo e andare
verso ciò che è incerto, aperto, ma sempre libero. Ciò che
questo testo significa non si rivela unicamente lettura. Al
contrario, le «introduzioni» al cristianesimo si potevano e si
possono trovare facilmente sul mercato e quelle più classiche fra loro, ripetutamente riedite, suscitano l’applauso.
Dall’altra parte, tornando all’aporia, «Kierkegaard non
ha attuato la conseguenza della sua posizione teologica, che
consiste nell’abolizione della dimensione teologica. Questo
è il passo che oltrepassa Kierkegaard verso le figure della
filosofia dell’esistenza del XX secolo, (…) rappresentata in
particolare da Heidegger e Sartre».34
Si percepisce questo Kierkegaard secolarizzato anche
nel commento ammirato di Camus: «Forse il più interessante di tutti, Kierkegaard, per una parte almeno della sua
esistenza, fa qualche cosa di meglio che scoprire l’assurdo;
lo vive. L’uomo che scrive: “Il più sicuro dei mutismi non è
quello di tacere, ma di parlare”, si accerta, per cominciare,
che nessuna verità è assoluta e può rendere soddisfacente
un’esistenza impossibile in sé. Don Giovanni della conoscenza, egli moltiplica gli pseudonimi e le contraddizioni,
scrive i Discorsi edificanti e, al tempo stesso, quel manuale
dello spiritualismo cinico che è il Diario del seduttore. Rifiuta ogni consolazione, la morale, i principi tranquillizzanti;
non si cura di sopire il dolore di quella spina che sente nel
cuore, ma lo ridesta, invece, e nella gioia disperata di un
crocifisso, contento di essere tale, costruisce, frammento
per frammento, lucidità, rifiuto, commedia, una categoria
del demoniaco».35
Contro Camus: Kierkegaard tiene fermo l’assioma
dell’incarnazione (nota bene, Kierkegaard stesso e non solo
Anti-Climacus), perché dopo l’Esercizio del cristianesimo
viene la rivista Il momento, che fondamentalmente, come
scritto non pseudonimo, inasprisce radicalmente in forma
ironico-satirica e retorica solo le tesi e il programma dell’Esercizio del cristianesimo. Una tale critica della Chiesa di
stato danese senza collegamento con Cristo e con il Nuovo
Testamento sarebbe priva del suo modello di riferimento, perché ogni elemento cristiano deve essere valutato in
base a Cristo. Ma Camus ha anche ragione: Kierkegaard è
tutt’altro che un riformatore cristiano ingenuo, che si può
liquidare con un ritorno alle fonti; egli vuole mostrare, nonostante la categoria del salto nella fede, la ragionevolezza
della fede, ma anche i suoi limiti, dove allora si dovrebbe
collocare il luogo del salto – e forse anche l’assurdo e il paradosso, che Kierkegaard vive e descrive con passione.
K. Flasch mostra la difficoltà di delimitare chiaramente
le epoche storiche con i termini «Medioevo», «Rinascimento» e «Riforma»: «Ogni studioso che interpreta un testo
del XII o del XV secolo sa di non poter conseguire alcun
progresso della conoscenza con questi termini generali (…);
essi rafforzano il predominio di concezione invecchiate;
uniformano là dove lo stato della nostra conoscenza non
lo permette».36 E ciò vale anche per «epoca moderna»,
«modernità» e «postmodernità»: quest’ultima «non è sicuramente un termine adatto, se applicato all’epoca che succede la modernità. Esso è adatto a descrivere piuttosto una
mentalità, quell’atteggiamento dello spirito che si è venuto
a sviluppare proprio nelle condizioni della modernità».37
H. Verweyen cita la peste e lo scisma d’Occidente come
esperienze catastrofiche, «che contribuirono a dissipare
quell’atmosfera di protezione che nel Medioevo si respirava».38 In Inghilterra, ad esempio, la peste avrebbe ucciso
il 40% della popolazione.39 E la crisi delle istituzioni della
Chiesa colpì al cuore il fondamento dell’auto-comprensione religiosa: «L’ordinamento medievale, di stampo sacrale,
si fondava proprio sul Verbo di Dio incarnato, quindi su
una conciliazione permanente della differenza infinita che
esiste fra il Dio sovrano e la creatura umana (...). La salvezza pareva quasi tangibile – nelle reliquie, in Terra santa – e
pure quantificabile in base alle indulgenze garantite dalla
buone opere».40
Secondo Verweyen, reliquie e indulgenze si sarebbero
dimostrare in ultima analisi un «investimento sbagliato».
Kierkegaard mantiene il motivo medievale dell’incarnazio-
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“
Sören Kierkegaard
rofil o
ne di Dio, ma gli imprime la svolta moderna nel soggettivo.
K. Müller elenca, accanto a peste e scisma, una serie di
altri motivi che segnano un passaggio fluido dal Medioevo
all’epoca moderna: nominalismo, Rinascimento, marrani
e Riforma.41 «Per quanto diversi, questi precedenti esercitarono un’influenza congiunta: scossero le istanze della
coscienza tramandate. Così si liquidarono metafisica, natura come creazione, società, verità universalmente valide
e insegnamento della Chiesa come garanti della stabilità.
Poiché non reggeva più alcuna verità esteriore, al suo posto
subentrò – per così dire mediante un’inversione – il soggetto autocosciente».42
Secondo Müller, l’«unità trascendentale dell’idea dell’Io
e del concetto di Dio» ha tre conseguenze: 1) «Se l’immanenza implica la trascendenza come condizione della sua
possibilità, allora il trascendente appartiene allo stesso immanente, senza da parte sua dissolversi in esso, essere cioè
momento dell’immanente». 2) I cambiamenti nell’immagine di Dio e dell’uomo condurrebbero a un antropocentrismo. 3) E infine le conseguenze istituzionali: «Quanto più
sottilmente, intellettualmente e religiosamente viene inteso
il rapporto fa Dio e l’uomo, tanto più esso dipende dalla sua
realistica dimostrazione e possibilità di accertamento».43
Tutto questo si ritrova in forma diversa in Kierkegaard.
L’istituzione non è più garante della fede o istanza di mediazione fra immanenza e trascendenza: «Allora il problema oggettivo sarebbe: “Della verità del cristianesimo”. E il
problema soggettivo: “Del rapporto dell’individuo al cristianesimo”».44 O in una variante ironica: «Mio padre mi ha
detto questo; questo sta scritto nel registro parrocchiale, io
ho un certificato di battesimo, ecc. Oh sì, io sono tranquillizzato».45 L’antropologia di Kierkegaard, esplicitata letterariamente, o più precisamente la sua dottrina degli stadi
(estetico, etico, religioso) prefigura in certo qual modo forme di vita dalla lontananza di Dio fino alla vicinanza a Dio.
E – importantissimo – il suo concetto dell’io, che fonda sempre speculativamente la libertà di Dio e del tu, per esempio
attraverso il momento della scelta, mantiene aperto ciò che
si riflette anche nell’atteggiamento dialettico-dialogico della
sua opera, perché Dio è costitutivo della coscienza di sé in
modo immanente come suo fondamento creativo!46
Qui non è assolutamente in discussione il fatto che le
società in grado di funzionare abbiano bisogno di istituzioni.47 Non si deve assolutamente minimizzare o addirittura
trascurare l’impegno sociale delle Chiese. Assolutamente
no. E tuttavia proprio le istituzioni moderne con le loro tecniche di sorveglianza mediatica e il loro potenziale militare
offrono anche a psicopatici e dittatori lo spazio protetto o le
possibilità d’azione necessari per operare in modo efficace
e fatale su singoli, masse e storia. Ma è stato sempre così; si
tratta solo di potere. E si è trattato sempre solo della relazione fra il singolo e il potere.
Certo, l’opera del grande danese è stata sottoposta, sul
piano della storia della recezione (e questo dimostra le sue
inesauribili potenzialità), a un processo di trasformazione
nell’epoca (post)moderna.48 Resta la domanda se, remoto
Christo, le categorie del pensiero e dell’esistenza di Kierkegaard conservino ancora una validità postmoderna. Personalmente considero la postmodernità una designazione
lineare: ciò che è venuto dopo la modernità. Bisogna lascia-
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re alle generazioni future una migliore designazione delle
epoche. Forse noi sperimentiamo solo determinati effetti di
una modernizzazione del mondo, che hanno assunto dimensioni drammatiche. G. Vattimo ha pubblicato un volume che è stato tradotto in tedesco con un titolo fuorviante: Breve storia della filosofia nel XX secolo,49 perché il testo
originario delinea più specificamente un’antropologia della
modernità fra due estremi: Tecnica ed esistenza. In esistenza
non è difficile scorgere Kierkegaard (e coloro che lo hanno
ricevuto, come ad esempio Camus, Heidegger, Jaspers e
molti altri). Tecnica descrive un mutamento profondo, che
è stato avviato dall’epoca industriale e ha caratterizzato, nel
bene e nel male, come nessun’altra realtà (neppure l’Illuminismo!) il nostro mondo (e solo in forma iniziale quello di
Kierkegaard).
Sulla scia della rivoluzione industriale (estendendo un
po’ il lasso temporale e intendendolo come processo aperto)
i media registreranno un boom inaspettato. A Copenaghen
Kierkegaard da una parte commenterà in modo critico il
loro inizio, perché personalmente vittima di rabbiose caricature della rivista Der Korsar, ma dall’altra userà la loro
potente efficacia nella sua battaglia contro la Chiesa, come
autore ed editore de Il momento. Alcuni anni dopo la sua
morte viene pubblicata L’origine delle specie di Charles Darwin, la Danimarca e la Prussia entrano in guerra, il nazionalismo europeo cresce fino a sfociare in due guerre mondiali. L’ideologia nazionalsocialista e l’ideologia comunista
avanzano una pretesa messianica, che produce infinite sofferenze. Costruzioni intellettuali primitive, barbare, usano
la tecnica e i media moderni per imporsi sul piano politico e
sociale. Seguono le armi atomiche di distruzione di massa,
che caratterizzano la dinamica della guerra fredda.
Di fronte alle catastrofi ecologiche oggi occorrono nuove forme di esistenza globale, di fronte all’ontologizzazione
mediatica della nostra realtà (qualunque essa fosse in precedenza) occorrono nuove antropologie. Ma quale fu la reazione della Chiesa/teologia cattolica di fronte all’avanzare
della modernità e della soggettività liberata? «Alla nuova
istanza della soggettività autocosciente si contrappongono
– apparentemente – realtà oggettive: Chiesa, struttura, costituzione, istituzione, elaborate anzitutto in parte a livello
teologico. Si pensi, ad esempio, che nell’opera gigantesca di
Tommaso d’Aquino non c’è alcuna quaestio sulla Chiesa, e
tanto meno un trattato sulla Chiesa».50
Nel fatto che la Chiesa di stato danese si riveli in definitiva un’impresa economica risuona già quasi in forma
profetica la critica marxista: la religione come sovrastruttura e fattore di stabilizzazione per rapporti di dominazione.
Ma diversamente da Marx ed Engels, Kierkegaard non
promuove lotte di classe di dimensioni storiche mondiali,
ma il singolo. Quindi più nessun nascondimento dietro sistemi hegeliani, ideologie politiche, uffici ecclesiastici (con
molto denaro e velluto), anonimato dei media. No, questa
non è teologia senza Dio in Kierkegaard, perché i teoremi
dell’incarnazione e della autocoscienza e il loro vituperato
incrocio costituiscono i fondamenti irrinunciabili della sua
opera. Ma il carattere letterario-poetico di questi testi, la
pseudonimia, la serietà e l’ironia, sono espressione di una
elevata forma dialogica; essi aprono all’altro e anche al divino lo spazio della possibilità della libertà. In quest’ope-
ra si tratta di una dogmatica ed esegesi di vari passi della
Bibbia riflessa a livello letterario-filosofico, che si trasforma continuamente nell’esistenziale e non nasconde mai il
coinvolgimento dell’uomo Kierkegaard. Ma, nonostante il
tono personale e intimo, il Kierkegaard storico scivola in un
complesso labirinto di pseudonimi, generi testuali diversi,
ruoli, voci e umori. Probabilmente ciò che io leggo in Kierkegaard è ciò che egli ha letto in me. Kierkegaard non è
una superficie di proiezione per il lettore, ma viceversa. La
citazione di Camus ha mostrato anche questo.
Epilogo
Queste brevi considerazioni presentano gli aspetti di un
mondo globalizzato e mediatizzato. Tutto sembra possibile. Pieni poteri illimitati: anything goes, secondo il noto
slogan. Ma è veramente così? La corruzione che demolisce
lo stato, i flussi finanziari non più controllabili, le armi di
distruzione di massa, il fondamentalismo radicale di alcuni
gruppi religiosi. E la democrazia solo come un bell’ornamento per una politica smaccatamente lobbistica? L’apocalisse per tutti? Borgia a livello mondiale? Endgame?
Proprio per questo è così importante un’Europa transnazionale, che ha introdotto qualcosa di nuovo nella storia
della violenza europea: la speranza. In ogni ambito – e si
può lamentare o meno il crollo numerico di coloro che frequentano le chiese –, molte Costituzioni e anche la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, con la prassi politica
e sociale che ne è derivata, hanno fatto spazio esplicitamente e implicitamente allo spirito evangelico e spesso –
nonostante tutte le difficoltà – sono più vicini all’intenzione di questi testi degli amministratori istituzionali di certe
tradizioni cristiane. Dobbiamo configurare l’Europa come
un modello per tutti gli uomini, non come dovere ma come
offerta, nel rispetto della rispettiva storia e tradizione. Per
questo apprezzo tanto Kierkegaard: egli offre una risposta
affascinante a partire da una storia e tradizione cristiana,
che è anche la mia tradizione. Il Figlio di Dio di Kierkegaard, giunto nel frattempo all’anno 2014, si presenta
così incredibilmente democratico e postmoderno. È postmoderno, perché può aiutare a superare le carenze della
modernità, per cui orienta oltre la modernità. È postmoderno, perché può liberarci da forme religiose pre-moderne
arcaiche, antidemocratiche, sprezzanti dell’uomo. Per me
una delle utopie più belle della storia dell’umanità e della
religione è quella di Gesù che dice ai suoi apostoli: «Voi
sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle
nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono.
Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra
voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi
sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non
è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria
vita in riscatto per molti».51
Markus Pohlmeyer
1 S. Kierkegaard, Esercizio del cristianesimo, Studium, Roma 1971,
Prefazione e pp. 70, 98, 127, 190, 193, 262, 279, 292.
2 S. Kierkegaard, Briciole di filosofia. Postilla non scientifica, 2
voll., Zanichelli, Bologna 1962, I, 230.
3 Cf., al riguardo, J. Garff, Sören Kierkegaard. Biographie, München-Wien 2004, 740s.
4 Esercizio del cristianesimo, Prefazione.
5 Esercizio del cristianesimo, 98.
6 G.E. Lessing, Über den Beweis des Geistes und der Kraft, in Id., Gesammelte Werke in zehn Bänden, vol. 8, Berlin 1956, 9-16; qui 12 e 14-15.
7 K. Müller, Glauben – Fragen - Denken, vol. 1, Münster 2006, 322s.
8 Postilla non scientifica, I, 237-241.
9 Garff, Biographie, 742.
10 Esercizio del cristianesimo, 191.
11 Ivi, 126.
12 Ivi, 70.
13 J.L. Austin, Performative Äußerungen, in Id., Gesammelte philosophische Aufsätze, trad. e cura di J. Schulte, Stuttgart 1986, 307-327; qui 307s.
14 Esercizio del cristianesimo, 190.
15 P. Sloterdijk, «Vorbemerkung», in B. Groys (a cura di), Sören
Kierkegaard, München 1996, 9-12; qui 12.
16 Esercizio del cristianesimo, 190.
17 Cf. direttamente S. Kierkegaard, Der Liebe Tun, in Id., Gesammelte Werke und Tagebücher, vol. 14, Simmerath 2003, 79. Cf. anche S.
Kierkegaard, Atti dell’amore, Bompiani, Milano 2003.
18 Cf. P. Bourdieu, «Genese und Struktur des religiösen Feldes», in
Was ist Religion? Texte von Cicero bis Luhmann, Stuttgart 2010, 226-231;
qui 230s.
19 Esercizio del cristianesimo, 193; 262.
20 Ivi, 200.
21 Ivi , 279.
22 Cf. Esercizio del cristianesimo, 283ss.
23 Esercizio del cristianesimo, 279.
24 Ivi, 280.
25 Ivi, 283.
26 Ivi, 296, 297.
27 S. Kierkegaard, La malattia mortale. Saggio di psicologia cristiana per edificazione e risveglio di Anti-Climacus edito da Sören Kierkegaard,
in Opere, Sansoni, Milano 1972, 621-692; qui 666.
28 W. Jaeschke, A. Arndt, Die Philosophie der Neuzeit 3, Teil 2:
Klassische Deutsche Philosophie von Fichte bis Hegel, München 2013, 16.
29 Qui purtroppo devo tralasciare il complesso dibattito sulla relazione fra panteismo e monismo, che si cela dietro a questo.
30 Cf. anche K. Müller, Gottes Dasein denken. Eine philosophische
Gotteslehre für heute, Regensburg 2001.
31 Kierkegaard citato da Groys, Kierkegaard, 290s.
32 Kierkegaard, Der Liebe Tun, 25. Nel suo commento il traduttore
rinvia direttamente a un passo di Hegel (Scienza della logica), che viene
ripreso in questa citazione.
33 X. Tilliette, Philosophische Christologie. Eine Hinführung, Freiburg 1998, 288s.
34 O. Marquard, Der Einzelne. Vorlesungen zur Existenzphilosophie,
Stuttgart 2013, 180.
35 A. Camus, Il mito di Sisifo, Bompiani, Milano 1947, 48-49.
36 K. Flasch, Das philosophische Denken im Mittelalter. Von Augustin zu Machiavelli, Stuttgart 22011, 627.
37 H. Verweyen, La teologia nel segno della ragione debole, Queriniana, Brescia 2001, 56.
38 Ivi, 58.
39 Cf. ivi.
40 Ivi, 59s.
41 Cf. K. Müller, Glauben – Fragen - Denken, vol. 3, Münster 2010,
287-289.
42 Ivi, 289.
43 Ivi, 290, per le tre citazioni.
44 Postilla non scientifica, 215.
45 Ivi, 242.
46 Cf., al riguardo, M. Pohlmeyer, «“Die Krankheit zum Tode”
– Aporien des Selbstbewusstseins. Fichte, Kierkegaard und Dieter Henrich», in M. Bauer, M. Pohlmeyer (a cura di) Existenz und Reflexion.
Aktuelle Aspekte der Kierkegaard-Rezeption, Schriften der Georg-BrandesGesellschaft, vol. 1, Hamburg 2012, 168-198.
47 Cf., sul contributo del Vaticano per la formazione dello stato moderno, P. Prodi, Il sovrano pontefice : un corpo e due anime: la monarchia
papale nella prima età moderna, Il Mulino, Bologna 1982.
48 M.J. Matuštík, M. Westphal (a cura di), Kierkegaard in postmodernity, Indiana University Press, Bloomington 1995.
49 G. Vattimo, Kurze Geschichte der Philosophie im 20. Jahrhundert.
Eine Einführung, Herder, Freiburg-Basel-Wien 2002.
50 K. Müller, Homiletik. Ein Handbuch für kritische Zeiten, Regensburg 1994, 45s.
51 Mc 10,42-45.
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p arole
delle religioni
Piero Stefani
Tra sole e luna
Leopardi e Qoèlet
N
el nostro vivere consueto è piuttosto raro essere illuminati soltanto dal notturno chiarore della luna. Peraltro pure le stelle si son fatte meno brillanti di un
tempo. La luce artificiale ormai è presente quasi ovunque
tanto da essere costretti, pure nel suo caso, a far ricorso alla
parola inquinamento. Si tratta, in queste proporzioni, di un
fenomeno relativamente recente. Se una sera ci si trovasse a
Recanati i nostri occhi non vedrebbero né la «cara luna», né
le «vaghe stelle dell’Orsa» con la stessa intensità con cui le
scorse Giacomo Leopardi: la luce sarebbe meno diffusa e le
«faci» celesti più tenui. Nonostante il grande lasso temporale
trascorso e la differente latitudine, con ogni probabilità non
fu invece così grande la differenza tra il cielo notturno visto
dal biblico Qoèlet e quello osservato da Leopardi. Eppure
proprio la volta celeste potrebbe essere assunta come simbolo della distanza, non solo temporale, che sussiste tra due autori che, per più versi, sembrano far vibrare in noi le stesse
corde: «vanitas vanitatum» per l’uno, l’«infinita vanità del
tutto» per l’altro.
In effetti, quando ci si pone il problema dei rapporti tra
Leopardi e Qoèlet si ha l’impressione, da un lato, di trovarsi
di fronte a due mondi che, di primo acchito, siamo indotti
ad accostare, mentre dall’altro lato si constata una specie di
reticenza da parte del poeta nel riferirsi in maniera diretta e
riconoscibile a una fonte da cui pur scaturiscono acque a lui
ben note.1 Forse la ragione più consistente di tutto ciò sta nel
fatto che pensieri dedicati allo svanire di ogni cosa o a temi
consimili si trovano presenti in molti autori, alcuni dei quali
assiduamente frequentati da Leopardi (si pensi, per esempio,
ai Trionfi del Petrarca ma anche al Tasso o a Edward Young,
autore di un poema notturno allora ben conosciuto). Senza
contare che riflessioni del genere nascono, spontaneamente,
nelle persone pensanti di qualunque cultura o provenienza.
Il cielo notturno
Per ricostruire somiglianze e differenze conviene ritornare
a volgere lo sguardo al cielo notturno. La notte e la luna
furono interlocutrici costanti di Leopardi ben oltre Recanati;
esse giunsero infatti fino a Napoli e alle pendici del Vesuvio.
Non è ascrivibile al caso il fatto che il poeta terminasse,
il 14 giugno 1837, gli ultimi sei versi de Il tramonto della
luna nel letto in cui sarebbe morto due ore dopo. Quando il
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pallido pianeta scompare, il mondo si scolora e la notte resta
orba della sua luce. I versi dell’ultima poesia sono il sigillo
di un itinerario in cui il ruolo simbolico della dimensione
della notte ha rappresentato una costante. Solo poco tempo
prima, ne La ginestra, Leopardi aveva scritto versi notturni
che esprimevano il senso della pochezza umana di fronte
all’infinità del tutto.
Immagini e sentimenti di questo tipo possono aver luogo
solo dopo il tramonto. Il sole comunica un senso di potenza e
di dominio, ma è la notte a dischiuderci l’infinito. Quando si
contempla il cielo notturno ci assale uno stato d’animo privo
di ogni ricaduta pratica. Con i sensi avvertiamo l’azione
del sole, mentre non percepiamo l’influsso di remote stelle.
Cogliamo all’istante che senza sole non ci sarebbe vita sulla
terra; di contro, gli eventuali influssi di altri corpi celesti
sono ricostruibili soltanto attraverso una lunga catena di
mediazioni e ragionamenti: l’azione della luna sulle maree
era ignota persino al grande Galileo.
Il discorso di Qoèlet è, dal canto suo, tutto diurno; il suo
ritornello incalzante riguarda quanto avviene sotto il sole. Il
suo sguardo perciò non è rivolto all’insù: a nessuno è dato
di fissare il sole al meriggio. L’attenzione del libro biblico
è concentrata, quindi, sui fatti che avvengono sulla terra
illuminata dal sole. Alla luna e alle stelle non è affidato alcun
ruolo. Nel Qoèlet è il sole, e non la luna, a essere collegato,
fin dalle battute iniziali, al ciclo di un perpetuo ritornare:
«Sorse il sole e subito il sole si incamminò verso il luogo dal
quale sorgerà ancora» (Qo 1,5).2 Nel testo biblico non c’è
posto per la silenziosa luna che sorge la sera, poi va e, dopo
aver contemplato i deserti, riprende il cammino senza essere
paga di «riandare i sempiterni calli» (Canto notturno di un
pastore errante dell’Asia).
Sotto il sole, le vicende umane
Il martellante richiamo al fatto che tutte le vicende
umane si collocano sotto il sole si spiega pensando che
l’intento di Qoèlet è di additare la labilità di ogni faticoso
lavoro compiuto dagli esseri umani sulla terra. L’attenzione
incentrata sulle opere, pur viste nella prospettiva del loro
inesorabile venir meno, esige un’ambientazione diurna.
Inoltre per Qoèlet il simbolo della perennità rispetto alla
quale si misura la labilità della vita umana è la terra, non il
cielo (cf. Qo 1,3). Quando si evoca la notte lo si fa solo per
riferirsi al riposo, che è dolce per chi ha svolto un lavoro
dotato di una qualche compiutezza, mentre è affannosa per
chi si preoccupa per un’opera dall’esito ancora incerto (cf.
Qo 2,22-23; 5,11).
In Qoèlet è sempre la dimensione pratica a reggere
il bandolo della matassa. Per lui la notte è il tempo del
meritato sonno o di un agitato vegliare, non l’occasione
per contemplare il cielo stellato o per dialogare con la luna.
Diverso è anche il senso del mattino. In effetti, sia per Qoèlet
sia per Leopardi, si tratta di momenti positivi in quanto non
ancora esposti alla delusione; tuttavia, in un caso ciò avviene
perché si è aperti al rischio dell’operare (cf. Qo 11,6-7),
mentre nell’altro le cose stanno ben diversamente. Afferma
Leopardi: «Nella mia vita infelicissima l’ora meno trista è
quella del levarmi. Le speranze e le illusioni ripigliano per
pochi momenti un certo corpo, ed io chiamo quell’ora la
gioventù della giornata per questa similitudine che ha colla
gioventù della vita».3
Vanità della sapienza
In Qoèlet manca il senso del passato profondo, vale a
dire in lui è assente uno dei motivi ispiratori più ricorrenti
della poesia e del pensiero leopardiani. Le ere remotissime
non sono una delle preoccupazioni di un libro biblico in cui
l’arco dello svanire è, in definitiva, antropologico e quindi
rivolto, soprattutto, al proprio futuro o a quello dei viventi
che verranno dopo. Con facile previsione, si afferma che nei
tempi a venire ci si dimenticherà di tutto quanto costituisce
il tessuto delle nostre vite (cf. Qo 2,16). La maggior affinità
tra Qoèlet e Leopardi, perciò, la si trova in tre versi (peraltro
contrassegnati da un tono ben più appassionato) della Sera
del dì di festa: «E fieramente mi si stringe il core, / a pensar
come tutto al mondo passa, / e quasi orma non lascia» (vv.
28-30). Uno dei riferimenti possibili per spiegare il senso del
termine hevel – parola tradotta di solito non molto felicemente
con vanità – è la scia prodotta da un’imbarcazione che solca
la superficie dell’acqua, suscitando un’effimera schiuma
destinata a scomparire senza lasciar tracce.
In Qoèlet non vi è nulla che evochi il sovvenire dell’eterno
e delle morte stagioni, né in lui alberga il senso dell’indefinito,
cifra indelebile della poesia leopardiana. Il pensiero della
totalità che, pur presente nell’uomo, non gli consente di
comprendere l’opera divina estesa dal principio alla fine (cf.
Qo 3,11), ha scarse parentele con l’indefinito leopardiano:
«L’antico non è eterno, e quindi non è infinito, ma il
concepire che fa l’anima uno spazio di molti secoli, produce
una sensazione indefinita, l’idea di un tempo indeterminato,
dove l’anima si perde, e sebben sa che vi sono confini, non
li discerne, e non sa quali sieno».4 In anni di poco successivi
a L’Infinito (1819), Leopardi indica a più riprese lo scarto
esistente tra il desiderio presente nell’uomo di una felicità
assoluta e le esperienze compensative dell’infinito, le uniche
per noi accessibili, qualificate con il termine indefinito.
La parentela tra Leopardi e l’Ecclesiaste è più forte
(ammesso che non siano veri e propri influssi diretti) rispetto
al tema del sapere e del suo collegamento con il dolore, senza
però che questo nesso sia in grado di modificare la natura,
in fin dei conti anch’essa effimera, del conoscere. Sapiente –
sostiene Leopardi – è colui che, in virtù del proprio sapere,
acquisisce quanto per i più è frutto di dolorose o tragiche
circostanze occasionali; infatti, «gli uomini sono miseri
per necessità, e risoluti di credersi miseri per accidente».5
Tuttavia questo approccio più profondo proprio del sapiente
che «ha gli occhi aperti, mentre lo stolto vaga nell’oscurità»
(Qo 2,13) alla lunga non garantisce nulla: «Se molti sapienti
hanno conosciuto la tristezza e la vanità delle cose, io, come
parecchi altri, ho conosciuto anche la tristezza e la vanità
della sapienza».6 «In molta sapienza vi è infatti un grande ed
esacerbato tormento e accrescere la conoscenza comporta
moltiplicare gli affanni» (Qo 1,18).
1 Cf. R. Gatti, «Leopardi e Qoèlet», in E.I. Rambaldi (a cura di),
Qoèlet: letture e prospettive, con la collaborazione di P. Pozzi, Franco
Angeli, Milano 2006, 133-149.
2 Le traduzioni del Qoèlet dall’ebraico sono mie.
3 G. Leopardi, Zibaldone, 4 luglio 1820.
4 Ivi, 1 agosto 1821.
5 Leopardi, Pensieri, n. XXXI.
6 Id., Lettera a Giulio Perticari, 9 aprile 1821.
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attualità
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i
i lettori ci scrivono
Primazialità e collegialità
Caro direttore,
al n. 244 dell’esortazione apostolica Evangelii gaudium papa Francesco ha scritto: «Nel dialogo con i fratelli ortodossi, noi cattolici abbiamo
la possibilità di imparare qualcosa di più sul significato della collegialità
episcopale e sulla loro esperienza della sinodalità». A sua volta, nell’intervista da lui concessa a La Civiltà cattolica, pubblicata il 19 settembre
2013, egli aveva affermato di voler riprendere in mano il Documento di
Ravenna,1 il quinto documento comune prodotto nel 2007 nell’ambito
dei lavori della Commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica romana e le Chiese ortodosse.2 L’idea di fondo di questo documento consiste nell’affermazione che il governo della
Chiesa, a ogni livello, da quello di base delle Chiese locali sino a quello
massimo della Chiesa universale, richiede inderogabilmente una sinergia
perfetta di collegialità e primazialità, precisando, nel contempo, che, a
livello di Chiesa universale, tale primato spetta indiscutibilmente al vescovo di Roma.
Si tratta di un’idea cara al co-presidente ortodosso della Commissione, il metropolita di Pergamo Giovanni Zizioulas, che ripetutamente ha
citato al riguardo la testimonianza del canone 34 dei cosiddetti Canoni
apostolici, che conferisce a questo principio una dimensione mistica, assimilando la coesistenza nella Chiesa delle due diverse forme di governo alla mirabile armonia sussistente tra le divine Persone all’interno del
Dio trinitario.3 Io stesso, scrivendo in qualche occasione o insegnando su
questo argomento, sono stato indotto a parlare, al riguardo, di una vera e
propria «antinomia ecclesiologica». Il riconoscimento congiunto che primazialità e collegialità sono, nella stessa misura, coessenziali nel governo
della Chiesa e, sul piano pratico, il fatto che la parte cattolica avesse
sottoscritto la necessità di integrare, anche a livello di Chiesa universale, la primazialità con una collegialità effettiva e che la parte ortodossa
avesse riconosciuto al vescovo di Roma il diritto a questa primazialità,
altrettanto effettiva, fu salutato allora come un passo decisivo verso una
felice conclusione del dialogo teologico tra le due Chiese. Purtroppo però
le delusioni non sono mancate. All’assenza, anche se per altri motivi,4
alla sessione ravennate dei lavori della Commissione, della Chiesa russa – circostanza che ha tolto al documento, non di diritto, ma di fatto,
molto della sua autorevolezza –, si aggiunsero, da parte cattolica, delle
dichiarazioni assai critiche del card. Angelo Amato5 (del resto il sito web
della Santa Sede, nel riportare i documenti ufficiali relativi al dialogo
cattolico-ortodosso, si premura di precisare che essi non possono essere
accolti come espressione del magistero).
Come penso sia noto, il problema non è cruciale solo in riferimento al
dialogo cattolico-ortodosso, ma è anche, per così dire, un nervo scoperto
all’interno dell’ortodossia, dove la primazialità di Costantinopoli è oggi
ridotta – nonostante le rivendicazioni del Patriarcato ecumenico – all’insensato ossimoro del primus inter pares (Cf. Regno-doc. 3,2014,121ss).
Recentemente l’archim. Panteleimon Manousakis, professore al Collegio
greco-ortodosso della Santa Croce a Boston, in un intervento diffuso in
rete in occasione della festa dell’apostolo sant’Andrea, patrono della sede
di Costantinopoli,6 ha osservato che senza il riconoscimento di questa
necessità di integrare la collegialità con la primazialità non ci può essere
unità all’interno dell’ortodossia, proprio come senza il riconoscimento
che bisogna integrare la primazialità con la collegialità non ci può essere
unità tra cattolici e ortodossi. L’archim. Manousakis conclude affermando che, per una specie di ironia della sorte, oggi il dialogo con Roma può
sensibilmente aiutare la Chiesa ortodossa a superare le proprie divisioni
interne, ovviamente nel segno di una valorizzazione, nell’ambito della
propria ecclesiologia, del principio della primazialità (che storicamente
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attualità
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spetta al patriarca di Costantinopoli, come, in termini altrettanto indiscutibili, spetta al papa di Roma all’interno della cristianità).
Ritornando alle problematiche evocate da papa Francesco, l’integrazione, nel governo della Chiesa cattolica, della primazialità con la
collegialità è un’operazione non solo oggettivamente difficile – in quanto
aliena, da quasi un millennio, all’ecclesiologia della Chiesa romana – ma
soprattutto delicata e complessa in quanto si tratta di armonizzare due
realtà, come si è detto, oggettivamente antinomiche (per questo il risultato non sarà mai perfetto, ma sarà sempre il frutto di un progressivo
affinamento delle tecniche di governo, accompagnato, naturalmente, da
un costante approfondimento teologico). A questo punto, ho osato esternare alcune mie riflessioni, ordinate in una specie di progetto di riforma,
che non hanno assolutamente alcuna velleità propositiva, ma potrebbero
rappresentare un contributo a un dibattito ancora aperto.
Un primo punto è rappresentato dalla trasformazione del Sinodo dei
vescovi, previsto dal motu proprio Apostolica sollicitudo di papa Paolo VI
del 15 settembre 1965, in un’assemblea non solo consultiva ma deliberativa. Non c’è infatti collegialità dove non c’è decisionalità: un’assemblea
dove il «primo» (uso la terminologia del Canone 34) si limita chiedere
il parere dei «molti», ma poi decide da solo e non insieme a essi, non è
un organo collegiale, cioè un «sinodo», ma un semplice «consiglio della
corona».
Il secondo punto è rappresentato dalla composizione di questo Sinodo episcopale, che diventerebbe il supremo organo di governo della Chiesa latina (cioè, in termini divenuti oggi purtroppo desueti, del
Patriarcato romano). Costituito da rappresentanti di tutte le conferenze
episcopali nazionali e da tutti i cardinali in carica (che rappresentano il
clero romano: vescovi suffraganei, presbiteri cardinales e diaconi), vi dovrebbero partecipare solo vescovi di rito latino: infatti il supremo organo
di governo della Chiesa universale, al quale partecipano i vescovi di tutti
i riti, è il concilio ecumenico. Nel frattempo però i temi previsti per la
discussione potrebbero essere contestualmente presentati all’esame dei
sinodi delle Chiese orientali cattoliche (patriarcati e arcivescovati maggiori).
Il Sinodo dei vescovi dovrebbe essere convocato dal papa, che lo
presiede personalmente (convocazione e presidenza che esprimono la
sua effettiva primazialità), ordinariamente ogni due o anche tre anni
(fatta salva la possibilità di convocazioni straordinarie). Ogni riunione
del sinodo episcopale dovrebbe esprimere per elezione un consiglio permanente di 12 vescovi, tutti cardinali (scelti anche tra quelli di curia), da
affiancare al papa nel governo ordinario della Chiesa, costituendo un
«sinodo permanente» fornito, sotto la presidenza primaziale del papa,
di potere decisionale, da convocare ogni due o tre mesi e da rinnovare alla successiva seduta del sinodo. Per questo il numero previsto è di
12, proprio perché il voto del papa, il tredicesimo membro, possa essere
decisivo (a salvaguardia della collegialità delle decisioni di questo organismo), riservando però al papa il diritto di veto (a salvaguardia della sua
primazialità). La libera scelta, effettuata dai rappresentanti dell’episcopato mondiale, tra i membri di un collegio i cui componenti sono tutti
di diretta nomina papale, intende esprimere l’equilibrio tra collegialità e
primazialità.
A questo punto è coinvolto, in questo ipotetico recupero della collegialità, anche il meccanismo dell’elezione papale. A mio giudizio essa va
assolutamente mantenuta come una prerogativa esclusiva del Collegio
cardinalizio, proprio per la sua simbolica – ma per questo estremamente
significativa, in quanto già garantisce, al suo interno, una certa rappresentanza dell’episcopato cattolico – coincidenza storica con il clero romano. Mi sembra invece assolutamente impropria l’aggregazione a questo collegio di patriarchi orientali. Non solo infatti non possono essere
nemmeno virtualmente membri del clero romano (e infatti non ricevono
un titulus), ma proprio in virtù della prerogativa dell’elezione papale
riservata a questo collegio, non potrebbero farvi parte: mai nella storia
della Chiesa un patriarca, titolare di una sede apostolica, ha partecipato
all’elezione di un altro patriarca, nel caso specifico il titolare della prima
sede apostolica (i canoni dei primi concili sono severissimi nell’interdire
la partecipazione di un patriarca alla vita interna di un altro patriarcato).
Diverso è il discorso per gli arcivescovi maggiori orientali, primati di una
Chiesa sui iuris, che potrebbero essere creati dal papa «titolari» di una
Chiesa romana di quel rito e di quella nazionalità.
Scendendo nello specifico dell’elezione papale, la garanzia di una
scelta collegiale di tutto l’episcopato cattolico potrebbe essere assicurata
dal conferimento dell’elettorato attivo e passivo ai soli 12 cardinali membri del «sinodo permanente», tutti eletti – come si è visto – dal Sinodo dei
vescovi, mentre il conferimento dell’elettorato attivo a tutto il Collegio
cardinalizio garantisce – come avviene ancor oggi – il ruolo canonicamente spettante alla Chiesa di Roma. Anche in questo caso, la libera
scelta, effettuata dai membri di un collegio tutto di esclusiva nomina
papale tra 12 suoi membri designati dai rappresentanti dell’episcopato
mondiale, intende esprimere l’equilibrio tra primazialità e collegialità.
Il numero dei cardinali elettori, cioè sotto gli 80 anni, non dovrebbe
assolutamente superare il numero di 120, per mantenere il rapporto di
dieci a uno, tra chi ha l’elettorato attivo e chi ha anche quello passivo. I
cardinali ultraottantenni dovrebbero essere ammessi al conclave, anche
se privi del diritto di voto, per contribuire comunque con il loro consiglio
all’elezione del papa, che dovrebbe avvenire sempre e solo con i due
terzi più uno dei voti (data la ristretta rosa degli eleggibili). In questo
modo il Sinodo dei vescovi, oltre che organo di governo della Chiesa
latina, diventerebbe anche una forma di pre-conclave, scegliendo, dal
suo interno, quei 12 porporati, costituenti il «sinodo permanente», che
potrebbero essere comunque sostituiti o confermati alla successiva sessione sinodale.
In conclusione, in questo schema – che potrebbe sembrare limitante
la libertà di scelta sia del sinodo dei vescovi sia dei cardinali elettori – la
sinergia tra collegialità e primazialità è tendenzialmente perfetta, sia nel
governo della Chiesa latina, dove chi è scelto dai rappresentanti dell’episcopato mondiale – cioè dai «molti» – per il governo collegiale della
Chiesa è tra coloro che erano stati già pre-scelti dal papa – cioè dal «primo» –, sia nell’elezione del papa stesso, dove l’eletto – cioè il «primo» – è
tra coloro che erano stati già pre-scelti dai rappresentanti dell’episcopato
– cioè dai «molti» –, oltre che dai predecessori dello stesso eligendo.
Molto perplesso mi trova invece l’auspicio, formulato dal papa al
n. 32 della medesima Evangelii gaudium, che le conferenze episcopali
divengano «soggetti di attribuzioni concrete includendo anche qualche autentica autorità dottrinale». Mi sembra infatti che, nel caso delle
conferenze episcopali, si tratti di organismi dal carattere decisamente
contingente, determinati essenzialmente dall’esigenza di un raccordo
pastorale tra i vescovi di un determinato ambito, delineato, tra l’altro,
da criteri non sempre univoci, in quanto vanno dall’unità territoriale
di uno stato nazionale all’unità linguistica inglobante più stati. Esse si
configurano pertanto come un fenomeno della Chiesa contemporanea
– non a caso non hanno l’appellativo ecclesiastico tradizionale di «sinodi», ma quello mondano di «conferenze» – e possono avere persino una configurazione interrituale, eludendo in tal modo la nozione
di Chiesa sui iuris, la quale ha invece – a differenza delle conferenze
episcopali – una sua precisa configurazione teologica. Dissento perciò
personalmente da chi ritiene questi organismi, importanti per la loro
efficacia pastorale, come luoghi privilegiati, già a nostra disposizione,
per l’auspicata introduzione nella Chiesa cattolica di forme di effettiva
collegialità. Non si verifica in esse la necessaria integrazione tra collegialità e primazialità, ma anzi questi due requisiti appaiono attualmente
in esse decisamente dissociati. Infatti, com’è noto, il presidente di questi organismi non è sempre il titolare di una determinata sede, cioè il
primate regionale o nazionale – com’è richiesto dal concetto stesso di
primazialità, che non è mai relativa alla persona del sedente, ma alla
sede – bensì è un vescovo eletto pro tempore dai confratelli, o, nel caso
unico dell’Italia, nominato dal papa, per il fatto di essere lui il primate
del nostro paese. Siamo pertanto davanti a una proposta assai insidiosa
che, mentre sembra promuovere la collegialità a livello locale, in realtà
affossa a livello di Chiesa particolare sia la collegialità che la primazialità, mentre non prevede forme effettive di collegialità a livello di Chiesa
universale.
In altri termini, la Chiesa cattolica, diventando sempre più simile
a un’unione di Chiese nazionali, finirebbe per cadere nello scompenso
ecclesiologico di cui soffre l’ortodossia, afflitta dalla proliferazione di patriarcati e di autocefalie, a scapito delle prerogative delle antiche Chiese patriarcali. Non è certo un caso che la prospettiva di un’impropria
assimilazione conferenze episcopali-patriarcati orientali sia uscita dagli
ambienti che esprimono una concezione negazionista nei confronti della
sussistenza di un patriarcato romano, in un’ottica manifestamente enfatizzante la primazialità papale.7
Chiudo queste mie note, ribadendo che non ho inteso in alcun modo
pretenziosamente proporre – nonostante le mie determinazioni talvolta
minuziose – un modello di riforma del governo ecclesiastico, ma che ho
voluto semplicemente presentare, per così dire, una libera esercitazione
intellettuale, non però retorica, ma finalizzata a offrire un modesto contributo a una discussione quanto mai attuale nella contingenza del momento ecclesiale e, soprattutto dell’attuale pontificato, come mostrano i
tre passi da cui sono partito.
Enrico Morini, diacono*
Bologna, 18 dicembre 2013.
* Docente di Storia e istituzioni della Chiesa ortodossa presso l’Alma Mater
Studiorum Università di Bologna; presidente della Commissione diocesana per l’ecumenismo dell’archidiocesi di Bologna.
1
La Civiltà cattolica 164(2013) 3918, 466. Nello stesso punto, il papa afferma:
«[Dagli ortodossi] si può imparare di più sul senso della collegialità episcopale e
sulla tradizione della sinodalità. Lo sforzo di riflessione comune, guardando a come
si governava la Chiesa nei primi secoli, prima della rottura tra oriente e Occidente,
darà frutti a suo tempo».
2 Testo integrale in Regno-doc. 21,2007,708ss.
3 «I vescovi di ciascun popolo devono sapere chi di loro è il primo, e considerarlo come capo, e non compiere alcunché di particolare importanza senza il suo
parere; ogni singolo (vescovo) deve invece limitarsi a svolgere tutte le attività che
concernono la sua parrocchia (leggi: diocesi) ed i territori che le sono soggetti. Ma
neppure quegli (cioè il primo) faccia alcunché senza il parere di tutti: in tal modo
vi sarà unanimità e sarà glorificato il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo» («Canones Apostolorum, XXXIV: De primatu episcoporum», in P.-P. Joannou, Discipline
générale antique (IVe-IXe siècles), I, 2: Les canons des synodes particuliers, Grottaferrata (Roma) 1963 (Pontificia Commissione per la redazione del Codice di diritto
canonico orientale, Fonti, serie I, fasc. IX), 24, ll. 1-15.
4 Cf. Regno-att. 20,2007,664.
5 Il card. Angelo Amato – a quel tempo ancora arcivescovo segretario della
Congregazione per la dottrina della fede – ebbe a dire, in un’intervista rilasciata
al quotidiano Avvenire del 21 marzo 2007, che, a un primo sguardo, il documento
gli era «sembrato usare un linguaggio più vicino alla tradizione ecclesiologica ortodossa che a quella cattolica, laddove ad esempio si parla di sinodalità invece che
di collegialità. Inoltre non si può dare una precisa identità teologica alla Chiesa
universale senza il riferimento al primato di giurisdizione del papa, successore di
Pietro. Il primato non è un’aggiunta opzionale, ma un elemento essenziale che
qualifica la Chiesa particolare e la Chiesa universale».
6 Cf. http://www.amen.gr (29/11/2013); http://www.fanarion.blogspot.it
(29/11/2013).
7 Cf. A. Garuti, Il papa patriarca d’Occidente? Studio storico dottrinale, Studio teologico francescano, Bologna 1990, 261-267; Id., Patriarca d’Occidente? Storia e attualità, EDS - Edizioni studio domenicano, Bologna 2007, 107-125.
Il Regno -
attualità
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i
lettori ci scrivono
Sinodo e famiglia
Caro papa Francesco,
è con profonda gioia che rispondiamo al tuo invito; mai prima d’ora
il papà di famiglia ci aveva chiamati, come laici e come famiglie, perché
potessimo comunicargli i nostri sentimenti e i nostri pensieri. La domanda
più bella che ci hai fatto è l’ultima: «Ci sono altre sfide e proposte riguardo
ai temi trattati in questo questionario, avvertite come urgenti o utili da parte
dei destinatari?».
A noi sembra di poter dire che la qualità della vita e della testimonianza
della Chiesa dipenderà principalmente dalla santità della vita delle famiglie
e dei laici. Nel corpo del Signore che è la Chiesa è necessario che tutte le
persone e le realtà che lo compongono (sacerdoti, consacrati, laici, famiglie, comunità) possano sentirsi a pieno titolo partecipi e corresponsabili di
questa straordinaria appartenenza. L’urgenza del nostro tempo ci sembra
quella di far crescere le famiglie affinché la comunione tra gli sposi sia così
radicata in Cristo da renderle a tutti gli effetti «Chiese domestiche», nelle
quali fin dal seno materno si è accompagnati ad accogliere il disegno di Dio.
L’ascolto quotidiano della Parola, la vita di comunione familiare, interfamiliare e comunitaria, il servizio ai familiari e ai poveri, il nutrimento
dell’eucaristia rendono le famiglie piccole Chiese domestiche, cellule del
tessuto della Chiesa che solo attraverso una comunione continua in Cristo
possono rimanere in vita e rigenerarsi, diventando allo stesso tempo vivai
per il fiorire di nuove vocazioni e realtà che custodiscono nella fedeltà la
vocazione degli sposi. La sequela di Cristo nel matrimonio non può essere
annacquata, gli sposi cristiani sono chiamati ad accogliere e a portare Gesù
come Maria e Giuseppe, e a essere apostoli e ministri del Vangelo così come
hanno fatto Priscilla e Aquila, Giunia e Andronico. La Chiesa deve essere
esigente nell’ammissione al matrimonio così come è esigente nell’ammissione al sacerdozio. (…)
Alle famiglie manca spesso il nutrimento e il sostegno necessario per
vivere in pienezza il proprio ministero. A volte manca l’iniziativa dei laici,
più spesso la possibilità di esprimersi, come tu stai offrendo attraverso questo
questionario, non c’è. Nella nostra diocesi il questionario è arrivato appena
prima di Natale, solo in alcune parrocchie, solamente con alcune domande
(per una serie di domande sono state mandate risposte già scritte) e con un
tempo di risposta ridotto a un quinto rispetto a quello che tu avevi dato. Da
parte tua è chiaro il desiderio di ascoltarci, noi però abbiamo appreso del
questionario da un quotidiano laico; aspettavamo che arrivasse attraverso
i capillari del tessuto della Chiesa alla quale apparteniamo, ma c’è stato un
intervento di occlusione tra te e noi. Se spesso non c’è la possibilità di esprimersi, tanto meno la possibilità di prendere decisioni insieme per il buon
funzionamento della grande famiglia alla quale apparteniamo.
Una delle sfide che abbiamo davanti è quella di rendere effettivamente
la Chiesa come una famiglia, con uno stile di famiglia, e con una reciprocità
e una corresponsabilità nei rapporti fra uomo e donna che oggi non c’è.
Oggi molte donne, a seconda che si occupino del lavoro, della loro piccola
famiglia o della loro famiglia più grande che è la Chiesa, passano più volte in
una giornata o in una settimana attraverso i secoli. Nel lavoro e in famiglia
solitamente vivono nel 2014: stessa dignità, stessa possibilità di esprimersi,
stessa responsabilità. Ruoli a volte diversi, sensibilità diverse rispetto a quelle
maschili ma effettiva parità, reciprocità, complementarietà, corresponsabilità. Nella Chiesa, soprattutto nelle realtà comunitarie interfamiliari, spesso
si sentono, come in famiglia e come nel lavoro, con la possibilità di dare il
meglio di sé, ma più spesso, nelle realtà parrocchiali, diocesane, nazionali e
globali, fanno un salto indietro di alcuni secoli: accendono la televisione e
sentono interviste ad alcune donne (25 su 110) che hanno potuto assistere
unicamente come uditrici al sinodo sulla parola di Dio. Passare da un secolo
all’altro ti fa vedere molte cose ridicole e allo stesso tempo terribili.
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Il Regno -
attualità
4/2014
Le donne che hanno conosciuto il Gesù storico hanno ricevuto un
ascolto, una considerazione e una fiducia da parte sua inimmaginabili da
parte degli uomini, a quel tempo, che le hanno catapultate in avanti di secoli. Alle donne del 2014 capita l’esperienza contraria, per un’infedeltà alla
volontà di colui che della Chiesa è il cuore pulsante.
Conosciamo quale finezza spirituale e quale capacità di governo secondo il cuore di Cristo molte donne esprimono nel condurre come pastori
la propria famiglia; conosciamo quali doni spirituali e pastorali il Signore
abbia elargito a donne alle quali sono stati affidati non per iniziativa della
Chiesa, ma direttamente da lui, all’interno del suo corpo (con la successiva
e necessaria conferma) greggi smisurati, e però nella Chiesa non vedi tra i
pastori istituiti alcun volto femminile.
Far crescere le persone in Cristo e presiedere alla carità non è un’esclusiva dei sacerdoti, è una dedizione quotidiana ininterrotta di molte mamme
e di molti papà. Nella Chiesa primitiva saper condurre secondo il cuore
di Cristo la propria famiglia era condizione necessaria indispensabile per
ricevere in affidamento una porzione più ampia di famiglie, per aver cura
della Chiesa. C’è una sposa e mamma di quattro figli, nella nostra diocesi,
che dal momento in cui ha testimoniato con la franchezza degli apostoli la
resurrezione di Gesù, in occasione della nascita al cielo della sua primogenita, sposata da appena due anni, uno di noi chiama «mio vescovo».
Quante benedizioni di sensibilità, di cura, di franchezza e di forza riceverebbe la nostra Chiesa se potesse avere tra i suoi pastori (non necessariamente sacerdoti), delle persone che sono state e sono madri e padri
esemplari delle proprie famiglie, e hanno testimoniato e testimoniano il
Vangelo nella loro vita professionale, perché hanno attraversato anni di
discernimento tra la Parola e il mondo, esprimendo nelle piccole e nelle
grandi scelte la fedeltà a Gesù. Uomini e donne che sono ricolmi di Spirito
Santo nell’annunciare la sua resurrezione.
La Scrittura ci dice che la Chiesa è autorizzata a leggere le sfide della
storia e a istituire ministeri «nuovi», che Gesù non aveva creato durante
la sua vita terrena ma che è lui stesso a creare perché assiste la Chiesa in
queste sue nuove scelte. Così è stato per i diaconi e così può essere per nuovi
ministeri. In questo tempo di confusione sulla bellezza di quella Parola che
Dio ha scritto nel crearci uomini e donne e nella vocazione a esprimere un
riflesso della sua immagine nella comunione degli sposi, ci pare necessario
istituire un ministero apostolico e pastorale degli sposi, e liberare attraverso altri ministeri istituiti le tante energie laiche che, mortificate per il disorientamento determinato dalla distanza di secoli nei modi, nei ruoli e nelle
procedure tra il tempo dell’attualità e il tempo della Chiesa, rischiano di
spegnersi e di perdersi.
I ministeri nuovi andrebbero individuati, come faceva la prima Chiesa,
con il digiuno e l’invocazione dello Spirito. Sottovoce, suggeriamo: «Ministri della Parola, del servizio, della comunione». Terremmo uniti questi
ambiti per fare in modo che non ci siano specialisti della Parola che non
sanno chinarsi a lavare i piedi dei fratelli, per fare in modo che non ci siano
persone specializzate nel servizio ai poveri che non vivono in uno stile di
comunione con i vicini e i lontani. Nelle coppie di sposi in cui già si può
riconoscere individualmente questo ministero di fatto, può aggiungersi un
ministero che esprime la specificità della spiritualità coniugale e familiare
ed è costituito per la cura di questa specifica via di santità all’interno della
Chiesa attraverso l’accoglienza e l’accompagnamento spirituale di coppie di
fidanzati, di sposi e di famiglie, a partire dal proprio essere sposi in Cristo,
chiese domestiche aperte alla comunità.
Affidiamo al tuo cuore di pastore secondo il cuore di Cristo queste riflessioni, rendendo continuamente grazie al Padre per questa ondata di Spirito
Santo che riconosciamo nelle tue parole e nei tuoi gesti. Un abbraccio,
Paola (Casi) e Pietro (Cilloni)
Albinea (RE), 25 gennaio 2014, conversione di san Paolo.
Ricchi di martiri
Che ci dice la vicenda dei certosini di Farneta
“
io non
mi vergogno
del vangelo
“
Luigi Accattoli
E
ra: «Se veniamo uccisi voi dite che è stato a causa della carità» il titolo che avevo proposto per un
libretto su un fatto di significato cristiano della Seconda guerra mondiale, che nel sottotitolo segnalavo come
«storia mirabile e sconosciuta dei certosini di Farneta fucilati dai tedeschi
nel 1944». Il titolo non è stato accettato, come capita, ma il libro l’hanno
preso ed esce ora: La strage di Farneta. Storia sconosciuta dei dodici certosini fucilati dai tedeschi nel 1944 (Rubbettino, Soveria Mannelli – CZ 2014,
pp. 138, € 12).
Mi era già capitato di farmi certosino per tre giorni allo scopo di intervistare il priore di Serra San Bruno in prospettiva della visita di papa
Benedetto, avvenuta poi il 9 ottobre
2011. Ne era venuto il volumetto Solo
dinanzi all’Unico. Colloquio con il Priore della Certosa di Serra San Bruno
(Rubbettino, Soveria Mannelli – CZ
2011, pp. 140, € 12; cf. Regno-att.
18,2011,647).
Ho indossato
la cappa del postulante
Ho ripetuto l’esperienza dei tre
giorni in Certosa, stavolta a Farne-
ta (Lucca), per indagare sul martirio di quei monaci incredibilmente trascurato – nella Chiesa – fino a
oggi. Ho cenato alle 18, sono andato
a dormire – in una stanza della Foresteria interna – alle 19.30 mettendo la sveglia alle 23. Alle 23.25 ho indossato la cappa nera dei postulanti e ho percorso vialetti, salito gradini, costeggiato celle per arrivare alla
chiesa conventuale, guidato dal padre bibliotecario che era il mio tutor
in quei giorni. Al centro del coro dei
monaci era inginocchiato il sacrista,
immobile nel buio, con le due mani
sulla corda della campana. Dalla postura orante del monaco sacrista imparavo come possa divenire liturgia
il tiro delle campane.
Alle 23.30 i rintocchi del Mattutino avviavano i canti del Primo notturno. Straordinario equilibrio della
riforma liturgica certosina: ha introdotto la comunione sotto le due specie, la concelebrazione, le letture in
italiano; ma ha conservato il latino
della salmodia, quel loro recto tono
simile al gregoriano, la messa solitaria di ogni monaco sacerdote. Chi ha
detto che non vi può essere osmosi
tra vecchio e nuovo ordo? Il rito certosino ora unisce la vitalità del nuovo alla solennità dell’antico. Un modello per la riconciliazione tra le due
forme del Rito romano auspicata da
papa Benedetto, che le invitava ad
«arricchirsi a vicenda» (Regno-doc.
15,2007,457ss).
Oltre alla cappa del postulante, che a Serra non avevo indossato,
dal priore di Farneta ho avuto un’altra sorpresa: mi ha invitato a parlare
ai 21 confratelli con i quali due volte ho cantato il Mattutino e due volte sono stato alla Messa conventuale. Mi hanno chiesto una conversazione su papa Francesco e mi hanno
fatto le domande che già avevo raccolto nelle varie conferenze, ma senza i toni polemici che sempre spun-
tano in esse. Ho visitato – prima di
prendere congedo – i vecchi ambienti di lavoro dei conversi: stalle e fienili, lavatoio per le pecore, pollaio,
frantoio, mulino, cantina, distilleria,
forgia, forno. Le pecore che scendono e risalgono dalla vasca, prima e
dopo la tosatura: guardando com’era fatta mi pareva non solo di vedere
il passaggio del gregge, ma di sentire i graffi della forbice sul groppone.
Ho trovato questi ambienti più interessanti della biblioteca e dell’archivio, della sartoria e della cucina, che
pure ho visto, sempre domandando.
La pazienza dei certosini provoca
all’inchiesta.
Alla ricerca di un fatto
primario e sconosciuto
A Serra San Bruno ero stato felice ascoltando il padre priore che mi
confidava come tutto il Vangelo per
lui si riassuma nelle parole «misericordia, compassione, tenerezza» e
che questo egli l’affermava non per
dottrina ma per esperienza, sollecitando una maggiore apertura di tutti
«all’inedito e al non sperimentato».
Avevo avuto consolazione ad ascoltare quelle parole che oggi Francesco pone ad antifona della sua predicazione. A Farneta ho avuto un’analoga consolazione dalla scoperta che le calde insistenze del nuovo
papa a «uscire» possono essere intese nel giusto senso anche da chi fisicamente non esce mai, ma da eremita vive immerso nella Catholica e si
prostra nella notte sulla terra rotonda a nome di tutti.
Nel libretto che ho intessuto con i
materiali raccolti a Farneta racconto
un fatto primario e sconosciuto della
reazione italiana all’occupazione tedesca, forse il più corposo dal punto di vista cristiano: dodici monaci
fucilati perché nascondono nel monastero un centinaio di ricercati dai
Il Regno -
attualità
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Quel memorabile
ottavario del martirio
Straordinari aspetti simbolici arricchiscono la vicenda. I dodici vengono da sei nazioni, hanno varie età,
portano con sé singolari esperienze. Tre sono di lingua tedesca ma
ciò non vale a salvarli dall’ordine del
«fuoco!» dato in tedesco. Uno era
stato vescovo in Venezuela, ne era
stato cacciato da un dittatore e i nazisti lo prendono per una spia americana. Un altro è spagnolo e in patria
otto anni prima si era avventurosamente salvato da un analogo assalto
alla Certosa di Montalegre portato
dai rivoluzionari rossi: come se fosse
destino, suo e dei certosini che fuggono il mondo, di provocare la furia
d’ogni milizia violatrice della dignità dell’uomo. Qui in verità è il titolo del loro martirio: hanno sfamato e
nascosto chi era minacciato, hanno
avuto pietà quando la pietà era bandita.
L’hanno argomentata e pregata
quella compassione per i perseguitati: qui è un altro elemento che fa
ricca la storia. Dal 2 settembre 1944
quando la Certosa viene «rastrellata» – come annota un documento
dell’occupante tedesco – al 10 settembre quando i più tra loro vengo-
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Il Regno -
attualità
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no mitragliati, in quell’ottavario del
martirio i dodici attestano in gesti
e parole il significato dell’opera che
hanno svolto e per la quale danno
la vita. Sono prigionieri con loro 22
confratelli che sopravvivranno, alcuni contadini e dipendenti della Certosa, i tanti da loro beneficati e centinaia di altri «rastrellati» che narreranno gli sguardi, le battute di spirito, il loro modo di dividere il cibo
e la paglia, di invocare Dio, di alzare gli occhi con uguale sentimento su
ognuno che a loro si avvicinasse.
Nonostante l’oro che porta con
sé, questa vicenda è sconosciuta alla
memoria collettiva. Eppure su di
essa si sono tenuti tre processi (Firenze 1947, La Spezia 1948, La Spezia 2004) e hanno lavorato gli storici locali e i monaci che presero il posto dei fucilati nella guida della comunità: il monastero tornò alla vita
normale dopo la ritirata dei tedeschi,
con il rientro dei deportati e con l’affluenza di monaci da altre Certose. Più circostanze hanno concorso
all’oscuramento del fatto nella grande divulgazione: l’atteggiamento riservato dei certosini, la scarsa attenzione della comunità cattolica a una
realtà monastica percepita erroneamente come chiusa in sé stessa, il
conflitto interpretativo dell’evento
tra chi lo collocava nell’orizzonte della Resistenza e chi invece l’intendeva come opera di carità lontana dalla politica.
Autorizzato
dal ministro dell’ordine
La possibilità di portare oggi questo fatto al grande pubblico con una
“
io non
mi vergogno
del vangelo
“
nazifascisti, compresi perseguitati
politici, partigiani ed ebrei. Si tratta di sei monaci sacerdoti e sei fratelli laici, fatti prigionieri dalle SS con
un’irruzione in Certosa nella notte
tra il 1° e il 2 settembre 1944, condotti prigionieri a Nocchi di Camaiore e poi a Massa, uccisi a piccoli gruppi e in diversi luoghi, due il 7
settembre e gli altri il 10 settembre.
Vengono fucilati negli stessi giorni e luoghi altri 32 catturati in Certosa, in parte perché ritenuti colpevoli di resistenza all’occupante alla
pari dei monaci, in parte selezionati
per fare numero in azioni di rappresaglia, sommati a decine di altri rastrellati in quelle giornate di ritirata delle truppe tedesche dalla Lucchesia: la Quinta Armata americana
entra in Lucca il 5 settembre e Farneta è a soli otto chilometri, in direzione Nord-ovest, poco oltre il fiume
Serchio.
narrazione breve, che è lo scopo del
mio volumetto, è dovuta al parziale superamento di quegli ostacoli. Il
primo superamento riguarda il riserbo dei certosini: a seguito della mia
esperienza di Serra San Bruno – ricordata all’inizio – ho avuto dal ministro generale dell’ordine l’autorizzazione a pubblicare la Relazione sui
martiri di Farneta che l’ordine stesso
inviò nel 1999 alla Commissione vaticana per la Commemorazione ecumenica dei testimoni della fede del
XX secolo, 7 maggio 2000 (cf. Regno-doc. 11,2000,329ss e Regno-att.
10,2000,299ss.).
Il secondo superamento – quello del conflitto interpretativo – è più
importante e più complesso a dire:
qui basterà segnalare che finalmente,
nelle pubblicazioni degli ultimi anni,
le conclusioni degli storici vengono a
coincidere, nella sostanza, con quelle degli eredi diretti dei protagonisti,
come sono consegnate alla Relazione
che dicevo.
Nei giri per conferenze mi trovo
spesso a trattare di giusti delle nazioni e di testimoni del nostro tempo, e
tra quelli che hanno testimoniato con
il sangue metto sempre i certosini di
Farneta, che chiamo «martiri della
carità e dell’aiuto agli ebrei» e sempre vengo ascoltato con meraviglia
dai tantissimi che non hanno mai inteso la loro storia. Persino in Toscana succede così e anche in ambienti
che coltivano memorie di martirio simili a questa.
Mio suggerimento
ai vescovi della Toscana
I certosini per una consuetudine
quasi millenaria – il IX centenario
dell’ordine è stato celebrato nel 2001
– non promuovono cause di canonizzazione, ma nulla osta che il riconoscimento del chiaro martirio dei dodici di Farneta sia promosso – poniamo – dai vescovi della Toscana. Colpisce che a oggi siano state quasi solo
laiche e civili le iniziative che hanno
tenuto vivo il ricordo di una vicenda
che è di Chiesa. Quest’anno – in settembre – cade il LXX di questi martiri: è un’occasione da cogliere.
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