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LA CORTE
Composta dai Sig.ri
- Dr. Arturo Soprano
Presidente
- Gen. C. di A. Giorgio Battisti
Consigliere
- Dr. Jole Milanesi
Consigliere
nel processo nei confronti del Maresciallo Pietro Badoglio, nato a Grazzano Monferrato il
28 settembre 1871, ha pronunciato la seguente
SENTENZA
Il Maresciallo Pietro Badoglio è stato chiamato, innanzi a questa Corte, per rispondere di
numerose accuse che nella sostanza possono essere riassunte:
A.
Negligenza, imperizia e disobbedienza, con riferimento alla disastrosa sconfitta di
Caporetto;
B.
Genocidio, con riferimento alle condotte attuate in occasione della campagna militare
C.
Tradimento dell’alleato tedesco e dell’Esercito italiano in occasione dell’armistizio
abissina;
separato con gli angloamericani e della prosecuzione del conflitto a fianco degli alleati, nel mese di
settembre 1943 e di abbandono del proprio esercito in balia del nemico.
Nel presente giudizio, all’esito dell’esposizione introduttiva, sono state ammesse e assunte
le prove orali hic et hinde dedotte.
Sono stati, quindi, escussi i testi indotti dal P.M. e dalla Difesa.
All’esito dell’istruzione dibattimentale, data lettura degli atti consentiti, il rappresentante
dell’Accusa, la Difesa della P.C. e la Difesa hanno rassegnato le conclusioni di cui al verbale in atti.
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MOTIVI DELLA DECISIONE
Preambolo:
Grazie alla lodevole iniziativa del Generale Camillo De Milato e alla squisita ospitalità
offerta, in questo splendido palazzo seicentesco, dal Generale Antonio Pennino, al quale ci lega la
comune passione per la difesa della legalità, si è celebrato questa sera il “Processo a Badoglio” .
Non si tratta ovviamente di un Processo vero e proprio, ma di una finzione scenica di una
“rappresentazione teatrale”, di una manifestazione ludico-ricreativa- culturale, sulla falsariga di un
Processo Penale vero e proprio.
Tutti i protagonisti di questa manifestazione si sono cimentati con passione, con
competenza, in un dibattimento ove il Rappresentante dell’accusa e i Difensori hanno esaminato sei
testimoni svolto le loro requisitorie ed arringhe dando conto, nella finzione scenica, di
responsabilità dell’accusato, vere o soltanto presunte, e degli effetti che dalle sue condotte
sarebbero scaturite nella guerra, nella politica, nella cultura e nella società.
Giova ripetere nuovamente che non si tratta quindi di un processo vero e proprio ma
semplicemente di una simulazione teatrale senza alcuna pretesa di giungere all’accertamento di una
Verità su fatti che furono e restano ancora oggi controversi e che giustificano le più diverse
interpretazioni con riferimento alle condotte attuate da un Uomo, il Maresciallo Badoglio che nel
bene o nel male il giudizio definitivo è riservato soltanto alla Storia e non certamente a questa
Corte, è stato un Protagonista della Storia d’Italia e che nella Storia ha comunque impresso la sua
indelebile orma.
Premesse metodologiche:
1) E’ necessario anche aggiungere che non è facile giudicare il comportamento del
Maresciallo Pietro Badoglio senza risentire delle emozioni e delle vivaci passioni che, ancora oggi,
dopo oltre 70 anni, si agitano attorno a vicende così complesse e travagliate della storia d’Italia ed
attorno ad una delle figure più controverse della storia del nostro Paese.
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Non è poi agevole, nella valutazione dei fatti oggetto del presente giudizio, prescindere da
considerazioni di carattere morale o politico che, in qualche modo, investono il personaggio
Badoglio ritenuto da taluni il più grande traditore della storia e, da altri, il salvatore della Patria che
portò l’Italia, dopo il fascismo, dalla parte “giusta”.
Non è neppure facile tenere in non cale lutti, umiliazioni, perdite di ogni genere, sofferenze
che gli avvenimenti in esame provocarono.
Non è infine agevole prescindere, nel formulare un giudizio sulla condotta di Badoglio, dal
contesto in cui l’Uomo si è trovato ad operare, circondato da persone che, certamente, non erano
migliori di lui e che erano, tra l’altro, compromesse con il passato regime: una classe dirigente
italiana che, per salvare sé stessa, prima di affidarsi a Badoglio, si era poi arresa, affidandosi
completamente a Mussolini; ad una monarchia particolarmente debole che, alla prima occasione,
nel disorientamento generale, non trovò di meglio che fuggire da Roma verso il Sud d’Italia.
Il Giudice nelle proprie decisioni e nelle proprie valutazioni dei fatti e delle persone non
deve ispirarsi o piegarsi a ideologie, a pulsioni morali, a sentimenti; non deve cercare ad ogni costo
la Verità assoluta; deve accontentarsi della verità processuale, quale emergente dall’incarto
processuale; deve attenersi strettamente ai fatti ed esprimere un giudizio sugli stessi con riferimento
agli specifici addebiti che sono mossi all’imputato, nei limiti della specifica contestazione.
Il capo d’imputazione (contenente l’indicazione della condotta addebitata all’imputato,
delle circostanze di tempo e di luogo del fatto e delle modalità di realizzazione dello stesso)
costituisce, infatti, il limite invalicabile del sindacato del Giudice.
Tra fatto contestato e fatto ritenuto in sentenza deve pertanto esserci perfetta coincidenza:
in breve, l’imputato non può essere condannato per un “fatto” diverso da quello enunciato nel capo
di imputazione; ogni immutazione non consentita inficerebbe di nullità la decisione.
Ne consegue che esula, senza dubbio, dal presente giudizio – per la scelta operata
dall’Accusa - qualsiasi considerazione sull’accertata sottoscrizione, da parte di Badoglio, del
Manifesto della razza.
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Non rientra, infine, nella materia del contendere, neppure l’accertamento della precisa
posizione assunta da Badoglio, all’epoca Capo di Stato Maggiore Generale delle Forze armate di
terra, di aria e di mare e, quindi, massima autorità militare, nei confronti del fascismo.
Certo, Badoglio non fu un entusiasta sostenitore dell’ascesa di Mussolini ma fu, sempre, un
soldato estremamente fedele alla Monarchia fino a quel famoso messaggio alla radio dell’8
settembre 1943, oggetto – questa volta - del presente giudizio sul quale si ritornerà nel prosieguo
della presente motivazione.
2) pur a fronte di una minuziosa contestazione articolata in una pluralità di capi di
imputazione, contenenti l’analitica descrizione delle specifiche condotte addebitate all’imputato,
questa Corte ritiene opportuno, al fine di rendere più agevole la lettura della sentenza, concentrare
la propria valutazione dei fatti ai punti innanzi ricordati nei quali possono essere ricompresi tutti i
fatti specificamente indicati nella sua diligenza dal Rappresentante dell’Accusa
Ciò premesso, vanno ora prese in considerazione le singole contestazioni.
A) Sulla disfatta di “Caporetto” e sull’accusa di disobbedienza:
Devono essere ora esaminate le questioni riguardanti la correttezza o meno delle condotte e
delle scelte strategiche adottate dal Maresciallo Pietro Badoglio in occasione della battaglia di
Caporetto, conclusa, come è noto, con la disfatta dell’esercito italiano e, più precisamente, la
configurabilità o meno della contestata condotta di disobbedienza descritta nel capo di imputazione
sub A).
Va innanzitutto rilevato che le responsabilità del Maresciallo Badoglio, comandante del
27° Corpo d’Armata, per tale disfatta, non furono mai, fino ad oggi, chiaramente accertate e che lo
stesso, invece di essere sottoposto a giudizio di una Corte Marziale, conseguì l’inattesa promozione
a sottocapo di Stato Maggiore dell’Esercito e, poi, fu nominato Senatore del Regno d’Italia
nell’anno 1919.
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Certo è che la debole, intempestiva e inefficace risposta della nostra artiglieria sul fronte
del predetto Corpo d’Armata favorì, senza dubbio, lo sfondamento del fronte comandato da
Badoglio.
Certo è anche che gli altri due comandanti dei corpi di armata coinvolti nella sconfitta
(Cavaciocchi, Bongiovanni) furono tutti giudicati colpevoli dalla Commissione d’inchiesta di prima
istanza, con l’unica eccezione di Badoglio.
Il fatto:
Nelle prime ore del 24 ottobre 1917 iniziò un violento fuoco di artiglieria austro-tedesca,
con ampio impiego di gas, da Plezzo a Tolmino, sul fronte italiano dell’Isonzo.
Il fuoco si concentrò, poi, sulle prime linee del IV e XXVII corpo della Seconda Armata
italiana.
Ben presto la linea di difesa della II Armata venne sfondata a sinistra e al centro, proprio in
corrispondenza degli schieramenti dei predetti due Corpi.
Dopo indecisioni e cambiamenti di piani, in un clima di totale confusione, Cadorna decise
la ritirata generale che si concluse con moltissime perdite il 9 novembre sulla linea del Piave.
Queste,
in sintesi, sono le fasi salienti della dodicesima Battaglia dell’Isonzo o di
“Caporetto”.
La sconfitta, com’è noto, fu causata principalmente dall’effetto sorpresa dell’attacco
austriaco, non valutato adeguatamente dal Comando Supremo.
Altri fattori concorsero, a determinare quella disastrosa sconfitta:
a) i rapporti tesi tra il Generale Cadorna e il Generale Capello (Comandante della II
Armata);
b) un significativo errore di previsione delle intenzioni nemiche (anche dopo lo
sfondamento delle prime linee, Cadorna si ostinò a credere che si trattasse di un semplice attacco
diversivo);
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c) un notevole ritardo nell’attuazione della manovra controffensiva italiana;
d) l’errata dislocazione delle truppe e delle artiglierie, troppo avanzate, secondo gli ordini
impartiti, però, dal Generale Capello che aveva mantenuto uno schieramento offensivo.
In tale situazione, la disfatta italiana fu anche favorita dalla forte nebbia e dalla pioggia che
coprirono l’avanzata del nemico e dalla vulnerabilità del fronte italiano, in posizioni difficili da
difendere.
Ma la disfatta dell’esercito italiano fu provocata, secondo quanto evidenziato all’odierna
udienza dall’Accusa, anche da una grave “disubbidienza” del Generale Pietro Badoglio, che
comandava proprio il XXVII corpo d’armata.
Il Gen. Pietro Badoglio, schierato di fronte a Tolmino, dove gli austro-tedeschi attuarono
uno dei due principali attacchi, operava sotto il comando del Generale Capello, convinto sostenitore
di tattiche che privilegiassero al massimo la più immediata controffensiva.
Cadorna era, invece, favorevole a un arretramento delle truppe su linee più facilmente
difendibili.
Comunque sia, nel suo punto più debole e più esposto al pericolo, il fronte italiano fu
lasciato scoperto.
Le artiglierie del XXVII Corpo d’Armata italiano, non certo schierate sulla difensiva,
furono affidate ad un colonnello al quale Badoglio aveva dato l’ordine di non aprire il fuoco,
riservandosi di farlo poi, personalmente.
In tale situazione, le artiglierie italiane furono tagliate fuori dal cannoneggiamento di
preparazione nemico, in quanto le linee telefoniche furono interrotte dai bombardamenti; Badoglio
poté raggiungere le postazioni dei cannoni soltanto a sera, dopo che tutto il giorno quei cannoni
erano rimasti tragicamente silenziosi.
Non è dubitabile che un pressante e intenso tiro di sbarramento di centinaia di cannoni del
nostro esercito avrebbe potuto rallentare, se non arrestare, l’avanzata delle truppe austro-tedesche.
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Ma Badoglio continuò a rendersi irreperibile fino a sera e non diede inizio ad una
tempestiva controffensiva.
Se il Gen. Badoglio avesse fatto uso dei cannoni, l’esito dello sfondamento a Tolmino
sarebbe stato certamente diverso; se non altro, le rimanenti forze nelle diverse aree del fronte
avrebbero intuito che qualcosa di grave stava accadendo e sarebbero intervenute contrastando o
riducendo i devastanti effetti della sorpresa strategica nemica.
Ma Badoglio, dopo avere esposto a rischio l’artiglieria, disponendola su schieramenti
avanzati (e pertanto facile preda del nemico, come poi avvenne) attese fin troppo, fino all’ultimo
istante, per rispondere con i cannoni al fuoco nemico.
In breve, tra le cause che permisero lo sfondamento deve essere, senza dubbio, compresa la
disposizione eccessivamente offensiva della 2ª Armata (al comando del generale Capello) ed in
particolare del 27º Corpo d'armata (al comando del Gen. Badoglio), con le artiglierie ed alcune
unità (tre divisioni su quattro sulla sinistra dell'Isonzo) troppo avanzate rispetto alla prima linea di
fronte e un fianco sinistro eccessivamente debole.
A ciò si aggiunga che il Generale Badoglio, pur essendo a pochi chilometri dal fronte,
seppe dell'attacco delle fanterie nemiche troppo tardi, soltanto verso mezzogiorno, e riuscì a
comunicarlo al comando della 2ª Armata (al Gen. Capello) soltanto qualche ora dopo.
Non va poi dimenticato che, al momento giusto, il Gen. Badoglio non fu in grado di dare
alle sue artiglierie l'ordine del tiro di contropreparazione, condizione imprescindibile per la difesa
dei reparti in quanto, in precedenza, aveva dato la precisa disposizione che il fuoco sarebbe dovuto
iniziare solo dietro suo ordine esplicito.
L’errore tattico più sconcertante e oggettivamente misterioso fu senza dubbio operato da
Badoglio sul suo fianco sinistro.
Ma Pietro Badoglio fece di più.
Nella conca di Volzana, dove il XXVII corpo era schierato, l’Esercito italiano si trovava
nel punto più pericoloso del fronte: in quell’unico punto, l’ansa di Tolmino, gli austriaci tenevano
saldamente una testa di ponte sulla riva destra dell’Isonzo e stavano ammassando truppe per
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l’attacco.
L’ordine specificamente dato da Cadorna, di portare sulla riva destra del fiume il XXVII
Corpo, non fu, tuttavia, eseguito; i motivi per i quali tale ordine rimase ineseguito sono rimasti
oscuri.
Il comandante del XXVII corpo d'armata, gen. Badoglio non si attenne, quindi, agli ordini
impartiti dal generale Capello; Badoglio aveva, infatti, un suo piano preferito, diverso da quello del
suo superiore gerarchico ed intendeva tendere all'attaccante una "trappola", lasciandolo penetrare
nelle linee italiane, per poi tagliarlo fuori ed annientarlo con l'artiglieria.
Era così convinto della bontà del suo piano che tassativamente avocò a se l'ordine di aprire
il fuoco d'artiglieria.
Ciò ha fatto pensare molti storici che Badoglio avesse voluto preparare addirittura una
trappola in danno delle forze austriache (la cd. la trappola di Volzana); altri hanno, invece,
ipotizzato – ma l’ipotesi è carente di qualsiasi conforto - un tradimento.
L’ipotesi più attendibile rimane, ancora oggi, quella della trappola, tesa da un generale
inosservante degli ordini ricevuti e in cerca di facile gloria.
Considerazioni conclusive:
Se non può addebitarsi al solo Badoglio la causa della sconfitta italiana, certo è che la sua
disubbidienza, particolarmente grave, ne fu una chiara concausa, e tanto basta per ritenerlo oggi
responsabile di quanto contestatogli al capo A, con le limitazioni che seguono:
1. Non vi è prova certa che Badoglio abbia omesso di predisporre un adeguato sistema di
comunicazioni telefoniche e abbandonato il XXVII Corpo d'Armata in rotta senza ordini e senza
direttive al fine di assicurarsi l'impunità e soprattutto che, a tal fine, abbia utilizzato con artifizio e
raggiro un falso telegramma per far credere di essere stato trasferito ad altro Comando prima dello
sfondamento del suo Corpo d'Armata.
Va pertanto affermata la responsabilità dell’imputato in ordine alla sola contestazione di
disastro militare ascrittagli al capo A della rubrica, con esclusione delle condotte riguardanti le
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contestazioni di omessa predisposizione di adeguate linee telefoniche e di utilizzo di un falso
telegramma, per le quali lo stesso deve quindi essere assolto sia pure con formula dubitativa.
B) Sulla contestazione di genocidio:
I fatti:
Vanno ora esaminate le accuse mosse al Generale Badoglio dal Governo Etiope per crimini
di guerra per il deliberato uso di gas e per il bombardamento di ospedali della Croce Rossa nella
campagna militare del 1935-1936;
I documenti storici acquisiti dimostrano che fu proprio Mussolini ad autorizzare Badoglio
all’uso dei gas per la repressione dei “ribelli”; certo è, però, che lo stesso Badoglio, già di propria
iniziativa e senza attendere, quindi, l’ordine di Mussolini, aveva già fatto ricorso ad armi chimiche
sin dal 22 dicembre 1935; è oramai accertato che l’aviazione italiana, violando il protocollo di
Ginevra del 17 giugno 1925, sottoscritto anche dall’Italia, utilizzò su larga scala il gas iprite allo
scopo di far insorgere il panico tra la popolazione abissina e vincerne ogni resistenza.
Con l’arrivo di Badoglio la guerra mutò carattere diventando guerra di distruzione.
Furono colpite le città, gli accampamenti, le strade, gli ospedali. Furono impiegati per la
prima volta gas, l'iprite e il fosgene.
Penetrando in profondità nel tessuto cutaneo, anche attraverso abiti, cuoio e gomma,
l’iprite causa in poche ore l’apertura di grosse piaghe nella pelle, oltre che gravissimi danni
all’apparato respiratorio ed ematopoietico.
Dal 22 dicembre al 18 gennaio furono lanciati sul fronte nord duemila quintali di bombe,
per una parte rilevante caricate a gas tra cui l'iprite (solfuro di etile biclorurato), che provocava la
necrosi del protoplasma cellulare ed era sicuramente mortale.
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A ciò si aggiunga che particolarmente grave fu anche il comportamento del Maresciallo
Badoglio in occasione della campagna militare in Tripolitania e in Libia durante le quali furono
deportati nei campi di concentramento quasi 100 mila civili, con un vero e proprio genocidio.
Governatore della Tripolitania e della Cirenaica, il Maresciallo Pietro Badoglio dispose,
infatti, l’evacuazione forzata della popolazione della Cirenaica; quasi centomila persone furono
costrette ad abbandonare i loro (miseri) beni e a portare con sé solo il bestiame.
I deportati furono, poi, rinchiusi in campi di concentramento in Libia, dopo una pesante
marcia forzata di oltre 1000 chilometri.
Solo sessantamila dei centomila deportati sopravvissero.
Dopo la fine della seconda guerra mondiale, su richiesta dell’Etiopia, Badoglio venne
inserito nella lista dei criminali di guerra dell’ONU, ma non fu mai processato per questo fatto.
I fatti (l’uso di gas e la deportazione della popolazione civile) possono ritenersi
storicamente accertati e, in buona sostanza, neppure contestati dalla Difesa dell’imputato nel
presente processo.
E’ incontroverso, infatti, che nel corso delle operazioni militari in Libia e in Etiopia,
Badoglio si avvalse ripetutamente dell'armamento chimico bombardando il nemico con l'iprite e il
fosgene.
Non solo l'utilizzo dei gas in Libia fu comunque inferiore rispetto all'impiego che se ne
fece durante la guerra d'Etiopia, ma nel secondo caso l’utilizzo era espressamente vietato dal
protocollo sottoscritto anche dall’Italia.
Per regalare il prima possibile un impero all'Italia, Mussolini ordinò di utilizzare i gas per
piegare la resistenza etiope.
Per questa e per altre efferate operazioni militari che furono disapprovate dall'intera
Comunità̀ Internazionale, Badoglio rischiò di essere messo sotto processo come criminale di guerra.
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Sull’uso dei gas:
La Difesa, quanto all’impiego dei gas, non ha contestato la sussistenza del fatto e la
riferibilità dello stesso all’imputato; si è limitata, invero, a dedurre che il Maresciallo Pietro
Badoglio sarebbe stato costretto a fare uso dei gas per dare esecuzione ad un preciso ordine
impartitogli dal Duce, ordine al quale non avrebbe potuto sottrarsi.
La prospettazione difensiva non merita accoglimento.
Va innanzitutto ricordato che il Maresciallo Pietro Badoglio, di propria iniziativa, ancor
prima di ricevere l’ordine di Mussolini, ha impiegato gas iprite per fiaccare la resistenza degli
avversari e costringerli alla resa e ciò appare già di per sé sufficiente per riconoscere le
responsabilità dell’imputato per il grave crimine contro l’umanità commesso.
Ciò basta per riconoscerlo responsabile del crimine di guerra, nonostante sia stato
riconosciuto che il nemico avesse utilizzato pallottole dum dum e che avesse sottoposto a tortura i
prigionieri italiani.
Ad analoga conclusione si deve pervenire anche ove si voglia condividere la tesi difensiva
della commissione del reato per adempimento di un dovere.
Non può, invero, essere riconosciuta al Maresciallo Badoglio la scriminante
dell’adempimento di un dovere (art. 51 c.p.) per avere agito in esecuzione dell’ordine del superiore
gerarchico (Mussolini).
E ciò per un duplice ordine di considerazioni:
1.
Il cosiddetto ordine di Mussolini, tra l’altro manifestamente criminale, in realtà non
imponeva, ma autorizzava, l’uso dei predetti gas, lasciando, quindi, intatta la piena ed assoluta
autonomia decisionale del predetto Generale, libero di adottare mezzi, strumenti, armi e tattiche
ritenuti più opportuni;
2.
E’ poi principio di civiltà giuridica, prima ancora che regola del nostro ordinamento
e del diritto internazionale che il sottoposto (nella specie il Maresciallo Pietro Badoglio) possa
sindacare e debba disattendere l’ordine impartito dal superiore (nella specie l’ordine di Benito
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Mussolini di fare uso di gas tossici ed iprite) qualora, come nel caso in esame, l’ordine sia
palesemente illegittimo.
Sul punto, anche recentemente la S.C. ha, infatti, in più occasioni rilevato che “L'esimente
dell'adempimento di un dovere si applica a condizione che l'ordine del superiore gerarchico sia
assolutamente insindacabile. Ciò non si verifica quando l'ordine si concreta nella richiesta di
provvedere alla commissione di un reato, perché, il manifesto carattere delittuoso del
comportamento ordinato comporta la sindacabilità dell'ordine impartito e ne esclude l'efficacia
esimente sotto il profilo non solo obiettivo ma anche putativo”.
Certo, è vero, il codice militare punisce chi rifiuta, omette o ritarda di obbedire a un ordine
impartito dal superiore;
Non è poi revocabile in dubbio che ove si ritenga che un soldato sia obbligato a dare
esecuzione solo agli ordini legittimi, allora deve riconoscersi che lo stesso debba anche valutarne la
legittimità prima di darvi esecuzione e ciò potrebbe rendere impossibile l'immediata esecuzione
dell'ordine e svuotare il principio militare di ordine e obbedienza:
la conseguenza potrebbe essere
la paralisi dell'organizzazione militare.
Del resto al sottoposto manca, spesso, la conoscenza degli elementi essenziali per valutare
il caso.
Egli non può fare altro che partire dal presupposto che l'ordine del superiore sia legittimo e
che egli, per tanto, sia tenuto all'obbedienza.
Il subalterno può, quindi, invocare, a ragione, la scriminante in esame quando non sia in
grado, per formazione culturale, per grado militare e per altre rilevanti qualità personali, di
coglierne l’illegittimità e questa non sia chiaramente ed univocamente percepibile.
Si pensi, ad esempio, in guerra, ai componenti di un plotone di esecuzione i quali, sovente,
non sanno minimamente perché devono fucilare altri commilitoni; devono solo far fuoco ed
eseguire l’ordine impartito; non possono porsi il problema della legittimità o meno di quell’ordine
che, nell’immediatezza, non appare manifestamente illegittimo; non sono, di regola a conoscenza
delle ragioni che hanno determinato quella decisione del superiore gerarchico; non possono
impietosirsi né possono dubitare fondatamente della legittimità dell’ordine ricevuto.
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Ma se questa regola può valere per la truppa, per il soldato semplice, per il militare privo di
specifiche conoscenze delle vicende, per il soldato che non è neppure in grado di discernere l’ordine
militare illegittimo da quello legittimo, non può, invece, operare per chi, nell’Esercito, ricopra un
ruolo apicale, abbia il comando delle forze armate, diriga le operazioni militari ed a maggior
ragione per un Generale dell’Esercito a capo di una spedizione militare in Africa, a fronte di un
ordine che appariva, ictu oculi, palesemente criminale ed illegittimo imponendogli la realizzazione
di un grave delitto contro l’umanità (ordine che, tra l’altro, come già si è innanzi ricordato, non
imponeva neppure, ma si limitava soltanto ad autorizzare, l’uso di quei micidiali gas).
L’uso dei gas era illecito e vietato dal diritto internazionale (cfr. protocollo di Ginevra in
data 17 giugno 1925, contro l’uso in guerra di gas asfissianti, tossici e similari e di mezzi
batteriologici, sottoscritto anche dall’Italia) e Badoglio, per la carica ricoperta, ne era a conoscenza;
il Comandante incontrastato delle truppe italiane nella campagna di Libia era, quindi, in condizione
di rendersi pienamente conto dell’illiceità dell’uso di quei micidiali gas, così come dell’illegittimità
dell’ordine impartitogli da Mussolini e, per grado, posizione gerarchica, per autorevolezza e per
prestigio, era in condizioni di poterlo agevolmente disattendere.
Considerazioni conclusive:
L’avere Badoglio agito in esecuzione di un ordine (rectius, di un’autorizzazione) di
Mussolini non può, quindi, esonerarlo da responsabilità di fronte al diritto internazionale, tenuto
conto che una diversa scelta era, per lui, facilmente attuabile.
L’atrocità e l’illiceità del mezzo bellico volontariamente scelto per colpire la popolazione
africana, sia pure sotto la copertura di un’autorizzazione ricevuta del capo del governo che non
giustifica, non scrimina, la condotta dell’imputato né vale ad attenuare le sue responsabilità sotto il
profilo sanzionatorio, impongono ora la condanna dell’imputato anche per l’imputazione in esame.
Badoglio deve, quindi, essere riconosciuto colpevole dell’uso illecito del predetto gas.
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Sulla deportazione della popolazione africana:
Analoghe considerazioni valgono per la deliberata e barbara deportazione della
popolazione civile in campi di concentramento in Libia, infatti per evitare che la guerriglia locale
facesse proseliti, Badoglio dispose l'evacuazione forzata di tutta la popolazione della Cirenaica.
Circa centomila persone furono costrette a lasciare i propri beni portando con sè soltanto il
bestiame. Fu una marcia terribile di oltre mille chilometri.
Una volta giunta a destinazione nella Sirtica, la regione centrale della Libia, questa massa
di deportati venne rinchiusa in tredici campi di concentramento.
Nel 1932-33, quando questi campi furono chiusi, di quei centomila deportati ne uscirono
vivi poco più della metà.
Anche per tale fatto, Badoglio va ora riconosciuto colpevole.
C) Sull’accusa (o meglio, sulle duplici accuse di tradimento) con riferimento ai fatti
del mese di settembre 1943:
Premessa:
Nella prospettazione accusatoria, in estrema sintesi, il Maresciallo Badoglio, nel settembre
del 1943, si sarebbe reso responsabile di tradimento dell’alleato tedesco, facendo apparire il nostro
Paese scarsamente affidabile agli occhi del mondo, provocando quindi un danno immenso alla
credibilità internazionale dell’Italia e lasciando, al tempo stesso, il nostro esercito, con la fuga del re
e del governo a Brindisi, allo sbando, facile preda dei tedeschi sparsi, in forza, su tutta la penisola.
Non c’era bisogno, per l’Accusa, di chiedere la cobelligeranza e di dichiarare guerra
all’alleato germanico, nonostante l’opportunità di conferire lo status di prigionieri di guerra ai circa
seicentomila soldati italiani catturati dai tedeschi.
L’armistizio, secondo l’Accusa, sarebbe stato gestito male da Badoglio e dal re,
preoccupati soltanto di assicurarsi la loro salvezza mediante una poco patriottica fuga.
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Quell’armistizio e, più ancora, la successiva dichiarazione di guerra all’alleato tedesco,
sarebbero stati, sempre secondo l’Accusa, un atto di vigliaccheria e di grave infedeltà verso un
alleato a fianco del quale l’Esercito italiano aveva combattuto per tre lunghi anni.
Badoglio – come ha ricordato l’Accusa e come scrisse a suo tempo Eisenhower, avrebbe
fatto terminare la guerra all’Italia con discredito e disonore.
L’assunto accusatorio è stato contrastato dalla Difesa dell’incolpato la quale, nella sua
diligenza, ha rilevato che al momento dell’armistizio la guerra, per l’Italia, era oramai
irrimediabilmente persa.
La richiesta di armistizio, per il Difensore di Badoglio, era stata, quindi, doverosa.
Nell’assunto defensionale, occorreva, in quel momento, garantire che la Bandiera italiana
continuasse a sventolare su tutto il territorio nazionale; occorreva impedire che, a fine guerra,
l’Italia fosse costretta, come la Germania, a pagare un prezzo troppo alto; occorreva assecondare la
volontà degli italiani i quali avevano voglia di terminare il conflitto dalla parte dei vincitori.
Il Maresciallo Badoglio, a giudizio della Difesa, sarebbe, quindi, da assolvere perché riuscì
a salvare l’indipendenza e l’Unità dello Stato e ad impedire la devastazione di un numero incredibili
di città italiane.
Senza quell’armistizio, nell’assunto difensivo, l’Italia sarebbe stata rasa al suolo dagli
alleati e resa schiava.
La valutazione demandata a questa Corte investe, come è noto, la fase finale della guerra e,
più precisamente, la posizione assunta da Badoglio dapprima con la firma dell’armistizio e, poi, con
la dichiarazione di prosecuzione della guerra contro l’originario alleato tedesco.
Si tratta, cioè, di accertare unicamente se, con riferimento ai ricordati episodi dei mesi di
settembre e ottobre 1943, Badoglio fu l’uomo sbagliato al posto sbagliato, nel momento sbagliato,
oppure un mero capro espiatorio dell’inefficienza e delle altrui gravi responsabilità e più
propriamente se Badoglio fu un traditore o un salvatore della Patria.
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Per tentare di risolvere il problema, occorre, come sempre, prendere le mosse dai fatti.
I fatti:
Dopo lo sbarco degli alleati in Sicilia, nel luglio 1943, il re Vittorie Emanuele III, prima
ancora di ricevere Benito Mussolini a Villa Savoia, convocò Pietro Badoglio e gli conferì l’incarico
di formare il nuovo governo.
Badoglio accettò l’incarico.
Più tardi, alle ore 17 dello stesso 25 luglio 1943, Benito Mussolini fu tratto in arresto per
ordine del re.
Badoglio, come primo atto, incorporò nell’esercito regolare la milizia fascista che cessò di
essere una forza militare e politica del partito fascista.
In serata il re fece diffondere il comunicato delle dimissioni di Mussolini e della nomina di
Badoglio a capo del governo.
Alle ore 22,45 dello stesso giorno, Badoglio comunicò alla nazione, via radio: “la guerra
continua e l’Italia resta fedele alla parola data …”.
Nel frattempo, ovunque vi erano manifestazioni di cittadini che provvedevano a rimuovere
dai palazzi i simboli del passato regime fascista.
In seguito (il 28 luglio), Badoglio inviò una lettera ad Hitler ribadendo ancora che, per
l’Italia, la guerra continuava a fianco dell’alleato tedesco.
In tale situazione, Badoglio, di accordo con il re, mirava, da un lato a mantenere un regime
militare sul piano interno e, dall’altro, a fare lentamente accettare alla Germania l’uscita dell’Italia
dalla guerra in cambio della più completa neutralità, per poi negoziare con gli alleati la resa.
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Gli alleati, d’altra parte, all’indomani del 25 luglio, manifestarono in più occasioni il loro
interesse a un accordo separato con l’Italia ed a garantirne l’integrità del territorio dalle truppe
tedesche che vi si trovavano.
Nonostante la disponibilità degli anglo-americani, il governo italiano rimase a lungo
immobile e ciò favorì l’inizio dell’operazione “Alarico” da parte dei tedeschi: la dislocazione in
Italia, nell’arco di alcune settimane, di ben 17 divisioni tedesche in grado di far fronte alla nuova
situazione, in caso di abbandono da parte dell’Italia della alleanza con la Germania.
L’attendismo, se non l’inerzia del maresciallo Badoglio, fu oggetto di un’aspra critica da
parte del generale Eisenhower.
Solo allora, iniziarono seri tentativi di trattative di pace tra l’Italia e gli anglo-americani.
Nell’agosto 1943 gli alleati cominciarono un’escalation di bombardamenti aerei su tutte le
maggiori città italiane (Napoli, Roma, Torino, Milano, Genova).
Il 27 agosto furono comunicate a Badoglio le condizioni imposte dagli alleati: resa
incondizionata con sottoscrizione di un accordo con il quale l’Italia s’impegnava, tra l’altro, a non
chiedere l’armistizio prima che gli alleati, con nuovi sbarchi, avessero capovolto la situazione di
forza a sfavore dei tedeschi nella penisola).
L’8 settembre 1943 il Maresciallo Badoglio, a mezzo radio, comunicava agli italiani: “il
Governo italiano, riconosciuta l’impossibilità di continuare l’impari lotta contro la soverchiante
potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi danni alla nazione, ha chiesto
l’armistizio al generale Eisenhower … La richiesta è stata accolta. Conseguentemente ogni atto
di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo.
Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza …”.
In quel momento la superiorità tedesca nell’Italia settentrionale era incontestabile; la
situazione era, invece, ben diversa nell’Italia centrale e nel Sud d’Italia.
La stessa sera, dopo l’annuncio radiofonico di Badoglio, gli alleati ultimarono i preparativi
per lo sbarco, in forze, a Salerno, poi avvenuto nelle prime ore del giorno successivo (9 settembre).
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Nel frattempo, a Roma, i tedeschi che, nei giorni precedenti, in un clima di sospetto nei
confronti del nuovo governo italiano, si preparavano ad attuare una dura reazione all’annuncio
dell’armistizio.
In tale incandescente clima di timori, di sospetti e di paure, il 9 settembre il Re ed il
Maresciallo Badoglio con il Governo e gli ufficiali della Stato Maggiore, abbandonarono
clandestinamente Roma e partirono per il Sud, via Pescara, diretti a Brindisi.
A Brindisi si stabilì la sede del nuovo governo.
La Capitale d’Italia, abbandonata dal re e dal Governo, rimasta senza difesa, dopo aspri
combattimenti, si arrese ai tedeschi nel pomeriggio del 10 settembre.
Il 13 ottobre 1943 il governo Badoglio dichiarò guerra alla Germania.
Questi, succintamente, i fatti.
Il tradimento dell’alleato germanico:
Resta ora da valutare se la condotta attuata dal Maresciallo Pietro Badoglio in tale
situazione integri o meno la contestata accusa di tradimento.
Certamente grave fu, con il comunicato dell’8 settembre, l’omessa indicazione, da parte di
Badoglio, del comportamento da tenere nei confronti dell’ancora alleato germanico.
Grave e pavida fu certamente la decisione di Badoglio - in un momento di disorientamento
generale della nazione bisognosa di solidi punti di riferimento e di precise indicazioni - di fuggire,
con il re, a Brindisi, assieme alla famiglia reale ed allo stato maggiore.
Grave fu anche non impartire alcun preciso ordine al nostre Forze Armate su come
comportarsi con i tedeschi; e così, nel caos generale, nel nord dell’Italia, il nostri militari furono
disarmati dai soldati tedeschi e larga parte della nazione cadde sotto l’occupazione tedesca.
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Fu giusto e corretto, politicamente e militarmente, comportarsi in quel modo?
Non erano attuabili soluzioni dignitosamente e coraggiosamente differenti?
Quanto peso ebbe in tale situazione l’attendismo del governo italiano e, quindi, di
Badoglio, a fronte della sollecitazione degli anglo-americani di giungere, in tempi brevi, ad un
armistizio, prima di dare ai tedeschi il tempo di invadere con altre truppe il territorio italiano?
Fu giusto abbandonare i nostri soldati, senza ordini, in mano ad un nemico oramai
inferocito per il tradimento?
La risposta – come si è già innanzi anticipato - non è certamente agevole.
L’istruzione dibattimentale qui svolta ha cercato di dare una risposta a tali interrogativi.
Certamente, in condizioni ideali, una nazione che decide di uscire dal conflitto e che vuole
ritirarsi dignitosamente dalla guerra deve semplicemente limitarsi a uscire e dare ai soldati le
necessarie istruzioni per la cessazione delle ostilità.
Innegabilmente, in condizioni ideali, una nazione non muta, improvvisamente, alleanze,
trasformando in nemico chi, fino a pochi minuti prima, era suo alleato.
Inconfutabilmente, in condizioni ideali, una nazione resta fedele alla parola data al proprio
alleato militare.
In condizioni ideali, un Comandante dell’Esercito e Capo del Governo non lascia la
nazione e l’Esercito, senza ordini, allo sbando, preoccupandosi unicamente di fuggire e di “salvare
la propria pelle”.
Ragionando, però, a mente fredda, con distacco, senza passioni, senza eccitazioni e
trasporti, deve tuttavia riconoscersi che, con quel “tradimento”, il re e Badoglio conseguirono,
nell’interesse della nazione, almeno due buoni risultati: consentirono il mantenimento della
sovranità nazionale in una parte del territorio e fecero sì che, alla fine della guerra, l’Italia non fosse
trattata come la Germania e conservasse, in buona sostanza, il suo originario territorio, senza
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gravose mutilazioni in favore dei paesi usciti vincitori dal conflitto, tra i quali la Jugoslavia dei
Titini desiderosi di mettere le mani su larghe fette del territorio italiano, i francesi con mire sulla val
d’Aosta, i separatisti siciliani, sollecitati dagli Stati Uniti e da cosche malavitose, pronti a
proclamare l’indipendenza della Sicilia ed annetterla agli Stati Uniti.
Ragionando con serenità e distacco, si potrebbe ancora riconoscere che nell’estate del 1943
– quando oramai era a tutti evidente che la guerra sarebbe finita male per la nostra nazione e che
era, anzi, già irrimediabilmente persa - Badoglio assunse il gravoso compito di fare, per tutti, il cd.
“lavoro sporco” ma necessario: per tirare fuori l’Italia dai guai in cui era precipitata con il fascismo,
con le leggi razziali e con la guerra, per tentare di sottrarre il Paese ad una evidente sconfitta finale
accanto ai tedeschi, occorreva badare al sodo e guardare al futuro, anche a costo di eliminare
Mussolini, “tradire” l’alleato, firmare l’armistizio con gli eserciti alleati, per poi passare
militarmente dalla loro parte, per combattere questa volta contro Hitler.
Badoglio, in una visione pragmatica e utilitaristica degli accadimenti del settembre 1943,
circondato da persone che non furono certamente migliori di lui, firmando l’armistizio, continuando
poi la guerra a fianco degli alleati e contro i tedeschi e consentendo, quindi, all’Italia di non subire
pesanti ritorsioni e gravose condanne dagli Alleati a fine guerra, può essere assolto da parte
dell’accusa oggi addebitatagli.
Militano a favore di Badoglio, sul punto, alcune considerazioni: con quell’armistizio
l’Italia non subì la resa incondizionata agli angloamericani; l’Italia fu riconosciuta dagli alleati
come un interlocutore; la scelta assicurò la continuità dello Stato.
A ben vedere, con occhio sereno, si potrebbe riconoscere che con quell’armistizio separato
e con la nuova alleanza il governo italiano riuscì a ottenere in quel momento il massimo che si
potesse conseguire.
Del resto, Badoglio (e la monarchia) in quel momento si trovò a gestire una situazione
grave in cui lo Stato non c’era più e si era dissolto; la colpa di quel caos non era certamente di
Badoglio ma di Mussolini e del fascismo che aveva condotto l’Italia ad una guerra per la quale non
era preparata, di una classe dirigente che aveva sorretto il fascismo e lo aveva appoggiato anche
quando si adottarono vergognose leggi razziali, fino alla nascita della Repubblica Sociale Italiana.
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Per l’accusa di tradimento dell’alleato tedesco, il Maresciallo Pietro Badoglio può, quindi,
sia pure con formula dubitativa, essere qui assolto.
Il tradimento delle Forze Armate Italiane:
Se le osservazioni innanzi svolte militano, certamente, in favore di Badoglio e della
prospettazione difensiva, nondimeno deve rilevarsi che quella scelta di Badoglio (e del re),
l’improvviso e non meditato armistizio seguito dalla decisione di continuare la guerra a fianco degli
alleati e contro i tedeschi, hanno cagionato alla nazione ed alla credibilità dell’Italia ed al rispetto
degli italiani nei confronti dello Stato, un danno immenso, difficilmente colmabile.
A ciò si aggiunga che quelle scelte sono state in ogni caso gestite nel peggiore dei modi, in
maniera pasticciata: Badoglio ed il re hanno abbandonato l’Italia e l’esercito in mano ai tedeschi, in
uno dei momenti più difficili della storia d’Italia, scappando a Brindisi e pensando di salvare
soltanto se stessi ed alcuni fedelissimi.
All’indomani
dell’8
settembre,
novecentomila
soldati
italiani
sono
rimasti
improvvisamente senza ordini.
Soprattutto per l’Esercito l’annuncio dell’armistizio ha provocato conseguenze disastrose:
in Italia e nelle zone di occupazione italiana, oltre seicentocinquantamila soldati italiani, allo
sbando, sono stati fatti prigionieri dei tedeschi, sono stati disarmati, sono stati deportati in Germania
e in Polonia e sono stati internati in campi di lavoro.
Tra coloro che si sono sottratti alla cattura e alla deportazione, molti soldati italiani sono
riusciti, grazie all’aiuto della popolazione civile (e agli abiti borghesi ad essi consegnati) a trovare
rifugio o a raggiungere fortunosamente le loro abitazioni e le loro famiglie.
Altri hanno dato vita a formazioni partigiane o si sono inseriti in gruppi partigiani già attivi
che hanno, poi, animato la Resistenza.
Badoglio (e il re) dopo avere tradito l’alleato germanico (ancorché per un fine che
giustifica, come innanzi rilevato, quella scelta) hanno, però, tradito, per incapacità ed inettitudine,
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anche l’Esercito italiano lasciandolo privo di qualsiasi istruzione ed ordine del Comando Generale,
in balia dell’ex alleato tedesco, nel più completo sbando.
E’ per tali fatti che il Maresciallo Pietro Badoglio, traditore, questa volta
ingiustificatamente, dell’Esercito italiano, deve ora essere riconosciuto colpevole: traditore dei
propri soldati che hanno fatto di lui una bandiera.
E’ per tale condotta (d’inadeguatezza e di opportunismo) – nei limiti innanzi indicati - e
per il grave danno arrecato all’Esercito italiano e al Paese che il Maresciallo Pietro Badoglio, che
questa Corte lo riconosce colpevole, nei limiti innanzi indicati, del fatto ascrittogli nel capo di
imputazione sub C).
P.Q.M
DICHIARA
Pietro Badoglio colpevole di:
a)
disastro militare ascrittogli al capo A) della rubrica, con esclusione delle
condotte riguardanti le contestazioni di omessa predisposizione di adeguate
linee telefoniche e di utilizzo di un falso telegramma, dell’uso illecito di gas;
b)
deportazione della popolazione in occasione della campagna militare
abissina,di cui al capo B) della rubrica;
c)
tradimento delle Forze Armate Italiane di cui al capo C) della rubrica;
ASSOLVE
il predetto Badoglio dal reato sub A (limitatamente contestazioni di omessa
predisposizione di adeguate linee telefoniche e di utilizzo di un falso telegramma) perché non
sufficiente la prova della sussistenza dei fatti e sub C (limitatamente all’accusa di tradimento
dell’alleato tedesco) perché il fatto non costituisce reato;
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CONDANNA
Pietro Badoglio al risarcimento dei danni in favore della costituta parte civile liquidati, in
via equitativa, in 1 Am Lire;
CONDANNA
inoltre il predetto alle spese del grado di giudizio, nonché alla rifusione, in favore della
P.C. delle spese di rappresentanza e di assistenza del grado, liquidate in 1 Am Lire oltre accessori
ex lege.
Così deciso in Milano il 23 ottobre 2014
I Consiglieri est.
Il Presidente est
(Gen di C.d.A Giorgio Battisti)
(dr. Arturo Soprano)
(dr. Jole Milanesi)
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