Higgs e il suo bosone

Ian Sample
Higgs e il suo bosone
La caccia alla particella di Dio
Traduzione di Paolo Bartesaghi
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© Ian Sample, 2010, 2013
© il Saggiatore S.p.A., Milano 2013
Titolo originale: Massive: The Hunt for the God Particle
Higgs e il suo bosone
ai miei genitori
Sommario
Prologo
9
1. La lunga strada verso Princeton
13
2. L’ombra della bomba
27
3. Settantanove righe
51
4. Il principe azzurro
74
5. Una seria rivincita
93
6. Il ribelle di Reagan
126
7. Grande Maggie!
150
8. La fine non è vicina
171
9. Il nodo gordiano
198
10. Girare in tondo
219
11. Il mondo nascosto
240
Epilogo
255
Ringraziamenti
285
Note
289
Bibliografia
311
Indice analitico
315
Prologo
Dal villaggio di montagna di Crozet, nella Francia orientale, la vista domina su chilometri e chilometri di campagna. Villaggi e fattorie punteggiano i campi, collegati solo da poche, strette strade. A parte una manciata
di edifici moderni disposti sul territorio lungo un enorme anello, non c’è
nulla che sembri inusuale.
Nondimeno, si tratta di un luogo tutt’altro che ordinario. Alcuni di
questi edifici posti in superficie nascondono profondi pozzi che li collegano sottoterra alla più grande e sofisticata macchina che il genere umano
abbia mai costruito. Se un gigante la strappasse dal suolo e la sollevasse,
si staglierebbe nel cielo come un enorme anello di otto chilometri di diametro. Accenderla significa un consumo di energia elettrica pari a quello
di una città di medie dimensioni.
È questa la sede del lhc (Large Hadron Collider), il grande collisore
di adroni, la macchina costata miliardi di dollari costruita nei dintorni di
Ginevra dal cern, l’Organizzazione europea per la Ricerca nucleare, per
far schiantare gli atomi uno contro l’altro. Più di venti nazioni si sono associate per pagare quest’opera colossale, la cui costruzione ha richiesto
oltre un decennio. Diecimila scienziati qui e nei laboratori sparsi per il
mondo lavorano sull’enorme mole di dati che sforna.
Dentro la macchina, frammenti di atomi vengono lanciati a velocità di
poco inferiori a quella della luce e fatti urtare l’uno contro l’altro in collisioni
frontali. Questi premeditati atti di violenza ricreano le condizioni che hanno dominato i primi istanti dopo il Big Bang, l’eruzione cosmica che ha dato
10 Higgs e il suo bosone
vita all’universo. Ed è tra questi fuggevoli frammenti del fuoco primordiale che gli scienziati cercano le risposte ai più profondi misteri della natura.
Uno di questi misteri, probabilmente il più affascinante, ha tormentato gli scienziati per quasi mezzo secolo. Ammettiamolo francamente: gli
scienziati non sanno perché le cose hanno il peso che hanno. Possono avvicinarsi, anche di molto, alla spiegazione, ma manca sempre qualcosa.
E sanno perché. Se facciamo a pezzi qualcosa e lo riduciamo in polvere
e poi in atomi e quindi in frammenti di atomo, raggiungeremo alla fine i
più piccoli mattoncini che costituiscono la materia. La verità sconcertante, quasi imbarazzante, è che gli scienziati non sanno affatto perché quelle particelle, delle quali tutto è fatto, abbiano un peso.
Nel 1964, un fisico di Edimburgo, Peter Higgs, lavorando solo con
carta e penna nel suo ufficio, si imbatté in quella che molti scienziati ritengono essere la risposta al mistero. All’inizio dei tempi un campo invisibile permeava ogni angolo del cosmo. Tale campo rimase latente sino
a quando il neonato universo non cominciò a espandersi e raffreddarsi.
Fu allora che prese vita e ci informò della sua presenza. In quell’istante
i costituenti elementari della materia acquisirono peso, essendone prima
totalmente privi. Tutto ciò che non aveva massa, assunse una massa. Le
conseguenze di quell’evento sono ovunque attorno a noi. Sono le fondamenta della nostra stessa esistenza.
Senza tale campo, detto campo di Higgs, il nostro universo sarebbe un
turbine frenetico di particelle senza massa che sfrecciano alla velocità della luce. Gli atomi e le molecole, come li conosciamo, non esisterebbero. Il
materiale cosmico non si sarebbe mai aggregato a formare galassie, stelle
e pianeti. Non ci sarebbe alcuna struttura familiare nell’universo, alcun
luogo in cui la vita potrebbe muovere i suoi primi incerti passi.
Uno scienziato al cern una volta mi spiegò che il campo di Higgs è come la neve che era caduta quella notte e si era adagiata su quel paesaggio
idillico tra la Francia e la Svizzera, immagina una distesa di neve senza
interruzione in tutte le direzioni, mi disse. I raggi di luce vi si muovono
come se avessero gli sci ai piedi: sfrecciano attraverso il campo come se
questo non ci fosse. Alcune particelle hanno scarponi da neve e avanzano
più lentamente, altre ancora sono a piedi nudi e arrancano faticosamente, procedendo a passo di lumaca. Ebbene, la massa di una particella non
è altro che la misura di quanto essa rimane impantanata in questo campo.
Prologo 11
Il lhc è stato progettato per rivelare una volta per tutte la vera natura del campo previsto da Peter Higgs. La macchina dovrebbe creare increspature nel campo, che si manifesterebbero come particelle, chiamate
bosoni di Higgs. Questi sono i fiocchi di neve che producono il nostro
campo innevato, e sono la conferma ultima che gli scienziati stanno cercando per spiegare compiutamente perché le cose hanno una massa.
Il cern non è l’unico luogo in cui si dà la caccia al bosone di Higgs.
Nei dintorni di Chicago, al Fermilab, dove ha sede il secondo collisore più potente al mondo, gli scienziati hanno come priorità la ricerca di
questa particella. Per i due laboratori, posti sulle due sponde dell’Atlantico, questa caccia decennale è ormai diventata la più grande competizione nella fisica moderna.
Ma c’è in gioco molto più che l’orgoglio della scoperta. La particella di Higgs è la sola tessera mancante nel mosaico del Modello Standard,
l’insieme delle leggi che descrivono tutte le particelle note nell’universo.
Un gruppo sempre più numeroso di scienziati crede che la scoperta della
particella di Higgs non solo risolverà il mistero della massa ma aprirà un
portale verso un mondo nascosto di particelle e forze che possiamo solo
iniziare a immaginare.
La natura elusiva e l’importanza profonda della particella di Higgs
hanno indotto un fisico, vincitore del premio Nobel, a darle un soprannome grandioso: la particella di Dio. Come si scoprirà proseguendo nella lettura, poche cose accomunano i fisici quanto lo sdegno per questo nome. Il
loro disprezzo è pari soltanto alla gioia di chi scrive i titoli per gli articoli
dei giornali, per i quali quel nome è stato, in tutt’altro senso, la salvezza.
Questo libro racconta la storia di come l’universo sia diventato «pesante» e di come un’idea, scritta su un blocco di appunti quasi mezzo secolo
fa, sia diventata l’obiettivo di una caccia globale, costata diversi miliardi
di dollari, che ha coinvolto migliaia di scienziati e le più grandi e più complesse macchine mai costruite dall’uomo. In qualunque modo la si guardi, questa storia ha avuto e ha un peso enorme.
1. La lunga strada verso Princeton
Nel migliore dei casi, guidare fino a Princeton poteva prendere buona
parte di una giornata. Il percorso seguiva la linea costiera del litorale
orientale, girava attorno all’ampia insenatura di Chesapeake Bay, per poi
procedere verso Washington, Baltimora e Philadelphia, prima di arrivare infine alla città in cui ebbe dimora il più grande fisico di tutti i tempi,
Albert Einstein.
Peter Higgs mise in valigia alcuni vestiti e un raccoglitore pieno di appunti e si diresse verso la macchina con la moglie, Jody, e il figlio, Christopher, di soli sei mesi. Gettò la valigia nel portabagagli e osservò a lungo
la mappa stradale. Esaminato il tragitto, partì in direzione nordest attraverso strade alberate, e oltre, verso l’autostrada, lasciandosi alle spalle la
città che tornava lentamente alla vita sotto il Sole, in quel mattino di primavera.
Era il 14 marzo 1966. Higgs, un fisico dell’Università di Edimburgo, si
era trasferito l’anno precedente a Chapel Hill nel North Carolina per un
anno sabbatico presso l’università della città.1 Lì, il suo lavoro attirò l’attenzione di un illustre scienziato, il quale lo invitò a tenere un seminario
al Princeton’s Institute for Advanced Study, uno dei più importanti centri
intellettuali del mondo e luogo in cui Einstein stesso trascorse gran parte
della sua vita lavorativa. Quel seminario era destinato sin dall’inizio a diventare oggetto di grandi discussioni: Higgs aveva appena scoperto quella che poi sarebbe stata identificata come l’origine della massa.
Quel viaggio risultò essere molto più di una normale visita accademi-
14 Higgs e il suo bosone
ca. Segnò l’inizio di una catena di eventi che catapultò Higgs al centro
della ribalta scientifica e gettò le basi per la più grande ricerca mai concepita dalla fisica moderna. Usando macchine che occupano chilometri di
tunnel nel sottosuolo e il cui costo è dell’ordine di diversi miliardi di dollari, migliaia di scienziati hanno speso decenni nella ricerca di quella particella che rappresenta il fulcro della teoria di Higgs. Il loro mantra era
semplice: scopri la particella di Higgs e il mistero dell’origine della massa sarà risolto.
Per secoli, gli scienziati neppure si erano posti il problema dell’origine
della massa, almeno non nel senso che oggi attribuiamo alla parola «origine». La parola massa descriveva quanta materia costituiva un oggetto
e materia altro non era che un termine più raffinato per dire «roba». Un
blocco di roccia aveva più massa di una pagnotta (a meno che il panettiere avesse avuto una giornata storta), e questo era tutto. Il significato di
massa era così intuitivo e concreto che nessuno aveva mai pensato seriamente di metterlo in discussione.
Alcune nozioni vaghe e incomplete di massa emersero nell’antichità e
vennero poi sviluppate nel corso del Medioevo. Egidio Romano, eminente teologo e tra i più influenti pensatori della seconda metà del xiii secolo, fece un importante passo concettuale distinguendo tra le dimensioni
di un oggetto e la quantità di materia in esso contenuta.2 Un blocco di
ghiaccio, per esempio, chiaramente modificava la propria forma quando
veniva fuso trasformandosi in acqua, quest’ultima veniva trasformata in
vapore, il vapore veniva condensato e infine l’acqua veniva riportata allo stato solido. Tuttavia la quantità di materia – egli sosteneva – rimaneva la stessa qualunque forma quella sostanza assumesse. L’osservazione,
che certamente sollevò accese discussioni teologiche in merito al problema della transustanziazione, rispecchia in fondo le moderne definizioni
di volume e massa.
Agli inizi del xiv secolo, il filosofo francese Jean Buridan (Giovanni
Buridano) ricorse al concetto di massa per descrivere come lanciando un
oggetto a esso venisse impresso un impeto (impetus). Tale impeto risultava dipendere da quanta materia l’oggetto contenesse e dalla velocità alla
quale esso veniva lanciato.3 L’astronomo tedesco Johannes Kepler (Giovanni Keplero), nel xvi secolo, fece un ulteriore passo avanti sostenendo
che i pianeti rimanessero perfettamente nelle proprie orbite e non se ne
1. La lunga strada verso Princeton 15
andassero a spasso per lo spazio come palle da biliardo impazzite proprio
grazie all’inerzia prodotta dalle loro enormi masse.
Nonostante il prezioso lavoro dei primi filosofi e dei primi astronomi, il termine massa non venne utilizzato sistematicamente fino al 1687,
allorché Isaac Newton gettò le fondamenta della meccanica classica con
un’opera imponente ma perlopiù inaccessibile: i Principia.4 In essi Newton affermava che la massa è una misura della quantità materia e che dipende dal volume e dalla densità dell’oggetto. La massa di un oggetto ne
determina l’inerzia, ovvero quanto esso si oppone a una spinta, ma anche
quanto intensamente risente della forza di gravità. Poste queste definizioni, Newton ne dedusse le leggi fondamentali del moto.
Newton aveva una comprensione intuitiva dei concetti di massa e materia che andava ben più in profondità di quanto avesse lasciato intendere nei Principia. Credeva che gli oggetti materiali fossero costituiti da
innumerevoli piccole particelle create da Dio e indistruttibili. Le particelle avevano forme e dimensioni differenti e si legavano a formare materiali differenti. Tutto ciò che l’uomo poteva sperare era di modellare nuove
forme e oggetti a partire da questi agglomerati di particelle infinitamente piccole.
Quasi vent’anni dopo la pubblicazione dei Principia, Newton si concesse di fare nuove indagini sulla natura della materia in quella successiva
e più accessibile grande opera che è l’Opticks. Scrisse: «Mi sembra probabile che Dio al principio abbia creato la materia sotto forma di particelle
solide, compatte, dure, impenetrabili e mobili […] tanto perfettamente
dure, da non poter mai consumarsi o infrangersi».5
Le riflessioni di Newton sulla materia non erano poi così lontane dalla
realtà. Oggi, gli scienziati concepiscono la materia come costituita da una
manciata di particelle quasi indistruttibili. Occorse più di mezzo secolo
perché gli scienziati identificassero tali costituenti ultimi della materia, i
quali, aggregandosi, formano le viscere degli atomi. I diversi modi in cui
questi costituenti si aggregano danno origine alla varietà degli elementi
chimici della tavola periodica: atomi che formano metalli, cristalli, liquidi
e gas e che si mescolano a produrre un elenco quasi infinito di molecole.
Gli scienziati chiamano i mattoncini ultimi della materia particelle fondamentali o elementari; per definizione, esse non possono essere spezzate in parti più piccole. La prima particella elementare venne scoperta nel
16 Higgs e il suo bosone
1897 da J.J. Thomson, ai laboratori Cavendish dell’Università di Cambridge.6 Thomson, come molti altri fisici a quell’epoca, era interessato alla
natura di quei raggi luminescenti che apparivano quando una differenza
di potenziale veniva applicata alle estremità di un tubo di vetro riempito
con un gas a bassa pressione. I raggi passavano dal catodo, l’elettrodo caricato negativamente, all’anodo, caricato positivamente. Da che cosa fossero costituiti quei raggi restava un mistero.
Thomson avviò una serie di esperimenti per studiare la natura di questi curiosi «raggi catodici». In uno di questi esperimenti utilizzò un tubo
a vuoto, lungo circa 38 cm, che presentava un’estremità rivestita internamente di uno strato di materiale fosforescente. Thomson modificò l’anodo in modo tale da creare su di esso una fenditura che permettesse a
una parte dei raggi provenienti dal catodo di oltrepassare l’anodo e produrre una macchiolina luminosa sullo strato fosforescente. Il suo colpo
di genio, però, fu di porre all’interno del tubo a vuoto una seconda coppia di elettrodi paralleli attraverso la quale i raggi sarebbero dovuti passare. Quando Thomson collegò tali elettrodi a una batteria, scoprì che il
punto luminoso si muoveva repentinamente, indicando una deflessione
del raggio che si allontanava dalla lamina negativa per avvicinarsi a quella positiva.
Esperimenti successivi mostrarono poi che i raggi catodici erano costituiti da un flusso di piccolissime particelle cariche negativamente.
Thomson le chiamò elettroni, utilizzando un termine coniato vent’anni
prima dal fisico irlandese George Johnstone Stoney, e suggerì che fossero l’ingrediente onnipresente in tutti gli atomi sino ad allora noti agli
scienziati. Incoraggiato dalla sua scoperta, Thomson propose il cosiddetto modello a panettone dell’atomo):7 gli atomi venivano rappresentati come sfere di materia uniformemente carica positivamente, punteggiata da
piccole cariche negative, gli elettroni.
Risultò poi che il «panettone» atomico di Thomson non era precisamente ciò che la Natura aveva ordinato.8 Quell’idea decadde quando il
fisico e chimico di origini neozelandesi Ernest Rutherford annunciò la notizia sorprendente che gli atomi erano in gran parte vuoti. Nel 1911, infatti, egli giunse ad affermare che pressoché l’intera massa dell’atomo era
come impacchettata entro una regione centrale molto piccola e carica positivamente, il nucleo. Verso la fine del decennio, Rutherford esplorò an-
1. La lunga strada verso Princeton 17
cora più in profondità il nucleo ed emersero le evidenze di un nuovo tipo
di particella al suo interno, il protone, carico positivamente.
Intorno alla metà degli anni trenta, i fisici ritenevano di avere scoperto
i principali costituenti della materia. Il nucleo di un atomo era formato da
protoni e (a eccezione dell’atomo di idrogeno, il più semplice in natura)9
da un altro tipo di particella, priva di carica, che venne scoperta dal fisico
inglese James Chadwick10 nel 1932. A tale particella venne dato il nome
di neutrone. Uno o più elettroni di carica negativa, poi, circondavano il
nucleo. Questa interpretazione della struttura dell’atomo era sulla buona
strada, benché fosse incompleta. Solo più tardi gli scienziati si accorsero
che protoni e neutroni non sono affatto particelle elementari. A differenza degli elettroni, protoni e neutroni sono costituiti da particelle ancora
più piccole, chiamate quark.
Ci volle molto tempo perché i fisici accettassero che i quark fossero particelle reali, innanzitutto perché nessuno ne aveva mai osservato
uno. I primi ad avanzare l’idea che protoni e neutroni fossero costituiti da quark furono i fisici americani Murray Gell-Mann e Georg Zweig,
i quali vi giunsero separatamente nel 1964.11 Il comportamento di protoni e neutroni risultava comprensibile soltanto ammettendo che contenessero una terna di quark. La proposta era ancora dibattuta quando Peter
Higgs fece visita all’Institute for Advanced Study, nel 1966. I quark sarebbero stati ampiamente accettati come particelle fisiche reali soltanto
alcuni anni più tardi.
Nel mezzo secolo, o giù di lì, che seguì il lavoro di Thomson sull’elettrone, i fisici identificarono circa duecento tipi diversi di particelle, molte
delle quali risultarono essere coppie o terne di altri ingredienti subatomici.12 La proliferazione di particelle stava diventando motivo di confusione entro la comunità dei fisici, ma verso la metà degli anni settanta si
riuscì a fare ordine grazie a ciò che a ragione potrebbe considerarsi il coronamento della fisica delle particelle. Noto come Modello Standard, un
nome tanto banale da risultare quasi offensivo, si tratta di una teoria in
grado di spiegare l’intera materia conosciuta grazie a una manciata di particelle propriamente elementari.13
In base al Modello Standard, ci sono ventiquattro particelle identificabili come i veri mattoncini di base della materia. Tra di esse, troviamo
sei tipi di quark (chiamati up, down, top, bottom, charm e strange), i qua-
18 Higgs e il suo bosone
li si raggruppano in tre varietà a seconda del valore di una loro proprietà
che viene chiamata carica di colore.14 La carica di colore può essere rossa, verde o blu, ma tali nomi non hanno alcuna attinenza con il significato visivo di colore. Semplicemente, quark di diverso colore si attraggono
l’un l’altro. Le rimanenti sei particelle sono invece chiamate leptoni, famiglia che include gli elettroni e particelle evanescenti quasi totalmente
prive di massa chiamate neutrini. I neutrini sono così poco interagenti da
attraversare senza difficoltà qualunque cosa si frapponga sul loro cammino. Tutta la materia stabile che conosciamo nel nostro universo è basata
su elettroni e quark.
Le altre particelle che intervengono nel Modello Standard non sono
veri e propri mattoncini di materia, ma hanno per così dire altre mansioni.
Quattro di loro, in particolare, sono responsabili della trasmissione delle
forze fondamentali della natura e vengono chiamate bosoni.15 Non cadiamo attraverso il pavimento grazie alla forza elettromagnetica e le particelle mediatrici di tale forza sono i fotoni, che essenzialmente sono particelle
di luce. All’interno dei nuclei atomici, i quark sono per così dire incollati gli uni agli altri dalla interazione «forte», la quale è mediata da particelle che molto opportunamente sono state chiamate gluoni (dall’inglese
glue, colla). Altre particelle, chiamate bosoni W e Z, sono le particelle mediatrici dell’interazione cosiddetta «debole», che interviene quando certi
elementi radioattivi decadono.16 Un’ulteriore particella, infine, completa
il Modello Standard: è una particella teorica, prevista cioè dalla teoria di
Peter Higgs e nota come bosone di Higgs.
A questo punto saremmo del tutto giustificati se pensassimo che il Modello Standard abbia esaurito tutto ciò che doveva essere detto in merito all’origine della massa. Se tutta la materia stabile è costituita da quark
ed elettroni, allora queste particelle elementari rappresentano certamente
la più piccola unità di massa possibile. In base a ciò, dovremmo dire che
esse sono l’origine della massa. Si potrebbe dedurre quanta massa è contenuta in un oggetto semplicemente sommando i contributi dei miliardi
e miliardi di quark ed elettroni al suo interno. Il problema è che le cose
non sono così semplici.
Quando i calcoli non tornano fin dall’inizio, di solito significa che stai
dimenticando qualcosa. Ed è proprio il nostro caso. Un protone contiene
due quark up e un quark down. Se sommiamo le masse dei tre quark, il
1. La lunga strada verso Princeton 19
totale risulta essere solo l’1% della massa del protone. Un buon 99% della massa del protone non si spiega. La stessa cosa succede per i neutroni,
che contengono un quark up e due quark down. Se l’ultima parola sulla
massa l’avesse avuta Newton – cioè che essa sia semplicemente una misura della quantità di materia –, allora sommando le masse dei quark avremmo dovuto ottenere i valori esatti. Ma Newton conosceva solo una parte
della storia. Quella massa mancante proveniva da qualcos’altro.
C’è in natura molta più massa di quanto sembri a prima vista. A quanto corrisponda questo «molta di più» divenne più chiaro quando, nel
1905, un Albert Einstein ventiseienne, che all’epoca aveva un impiego a
tempo pieno all’Ufficio brevetti di Berna, in Svizzera, pubblicò un articolo dal titolo: «Può l’inerzia di un corpo dipendere dal suo contenuto
di energia?». Per rovinarvi il finale, la risposta è sì. Einstein dimostrò che
massa ed energia sono intercambiabili, che la massa può essere considerata una misura di quanta energia un oggetto contiene. Per l’establishment
scientifico fu un fulmine a ciel sereno, ma si tratta di una conseguenza inevitabile della cosiddetta teoria della relatività ristretta di Einstein. 17 L’equazione ricavata da Einstein fu m = E/c2, in base alla quale la massa di
un oggetto è pari alla sua energia divisa per il quadrato della velocità della luce nel vuoto. Invertita, tale equazione diventa la fin troppo familiare
E = mc2. Il valore gigantesco della velocità della luce nel vuoto (prossimo
a 300 000 km/s) rende immediato osservare che anche masse molto piccole possono racchiudere enormi quantità di energia.
La scoperta di Einstein apre la strada alla comprensione del motivo
per cui la massa del protone risulta maggiore della somma delle sue componenti. I tre quark all’interno del protone giustificano l’1% della sua
massa, ma essi sono trattenuti e legati uno all’altro da forze straordinariamente grandi. La gran parte della massa del protone proviene dall’energia imprigionata nel movimento dei quark al suo interno e dall’energia di
legame che li tiene uniti. Questo ci conduce a una verità che merita sottolineare: qualunque oggetto si voglia citare, dal proprio cane al proprio
cellulare, deve gran parte della sua massa all’intensa energia che occorre
per tenerlo insieme.
L’equivalenza tra massa ed energia messa in luce da Einstein è magnificamente dimostrata all’interno dei grandi acceleratori di particelle utilizzati dai fisici per studiare le particelle subatomiche. Sbatti una contro
20 Higgs e il suo bosone
l’altra due particelle a velocità sufficientemente elevata ed è probabile che
le macerie, i prodotti della collisione, contengano particelle più pesanti di
quelle da cui si è partiti. L’energia rilasciata quando le particelle collidono si converte quasi istantaneamente in nuova materia.
Newton e Einstein gettarono le fondamenta della nostra comprensione della natura della massa, ma negli anni sessanta era ormai chiaro che
mancava ancora qualcosa. Gli scienziati non erano in grado di spiegare
da che cosa traessero la propria massa le particelle elementari. La teoria
di Higgs sembrava risolvere proprio questo mistero. Diede agli scienziati
la speranza, come mai prima, di descrivere compiutamente l’origine della massa di tutto ciò che conoscevano.
Peter Higgs giunse a Chapel Hill per prendere casa il 6 settembre
1965, avendo lasciato la moglie Jody, in quel periodo in avanzata gravidanza, con i genitori, a Urbana, nell’Illinois. In università, egli si accinse
a scrivere il suo primo e importante articolo sull’origine della massa. Il 24
settembre stava lavorando all’articolo nella biblioteca del suo nuovo dipartimento quando ricevette una chiamata telefonica. Era nato il suo primo figlio, Christopher.
Higgs terminò l’articolo in novembre e inviò una copia per la pubblicazione e poche altre a fisici che pensava potessero essere interessati. Anche se in quel periodo non era per nulla chiaro, la teoria di Higgs faceva
riferimento a un momento critico della nascita del nostro universo. La
teoria asseriva, infatti, che all’inizio i mattoncini di materia erano senza
peso. Le particelle elementari erano totalmente prive di massa. In seguito, una frazione di secondo dopo il Big Bang, l’esplosione cataclismatica
che scaraventò l’universo nell’esistente, accadde qualcosa:18 si attivò un
campo di energia prima sconosciuto che invase lo spazio. In un istante,
particelle di massa nulla che vagavano alla velocità della luce vennero catturate dal campo e divennero massive. Quanto più intensamente risentirono degli effetti del campo, tanto maggiore fu la massa che assunsero.
Il tempo ebbe inizio 13,7 miliardi di anni fa con la prima esplosione
mai avvenuta.19 L’universo, allora una microscopica sferetta di altissima
energia, era troppo caldo perché emergessero le leggi fisiche come le conosciamo oggi. In un batter d’occhio (sempre che ce ne sia stato in giro
uno a osservare) l’universo crebbe alle dimensioni di una palla da spiaggia e si «raffreddò» a una temperatura di circa diecimila milioni di milio-
1. La lunga strada verso Princeton 21
ni di gradi Celsius, abbastanza perché prendesse vita il campo di Higgs.
In quell’istante, i primi mattoncini di materia vennero imbrigliati, resi pesanti e lenti, come mosche in un piatto di minestra.
Il campo di Higgs è cruciale per la struttura del nostro universo e per
la possibilità che esso supporti la vita così come la conosciamo. Senza
questo campo le particelle elementari si comporterebbero come la luce.
La chimica cui siamo abituati non sarebbe possibile.20 La materia non si
aggregherebbe negli atomi che vediamo oggi. Stelle e pianeti non si sarebbero formati. Il nostro sistema solare sarebbe una landa desolata senza vita e così sarebbe per tutti i sistemi stellari, ovunque nell’universo.
Al cuore della teoria di Higgs troviamo una nuova particella, associata a questo campo generatore di massa. In un certo senso, il bosone di
Higgs è parte stessa del campo residuo rimasto dopo aver dato vita alla
massa delle particelle.21 La principale speranza che i fisici hanno di comprovare la teoria di Higgs risiede proprio nella dimostrazione dell’esistenza di tale particella.
Poco tempo dopo aver inviato il suo articolo al mondo accademico,
Higgs ricevette una lettera nel suo ufficio di Chapel Hill. Veniva da Freeman Dyson, il matematico inglese che, durante la Seconda guerra mondiale, aveva lavorato al comando bombardieri della Royal Air Force. Dyson
aveva attraversato l’Atlantico all’età di ventitré anni, con in mano una
lettera che lo indicava come il miglior matematico d’Inghilterra. Da allora era diventato professore emerito al Princeton’s Institute for Advanced Study.
La lettera di Dyson era estremamente cordiale e non avrebbe potuto
essere più lusinghiera. Dyson spiegava quanto avesse apprezzato l’ultimo
lavoro di Higgs e quanta chiarezza tale lavoro avesse apportato al quadro
confuso della fisica degli ultimi tempi. Chiedeva inoltre a Higgs di tenere un seminario sulla sua teoria all’istituto, la primavera successiva. Higgs
rimase sorpreso ma accettò senza pensarci due volte.
L’entusiasmo di Dyson per quel lavoro non deve lasciar pensare che a
Higgs si fossero aperte di colpo tutte le porte all’Institute for Advanced
Study. A Princeton lavoravano alcune tra le menti fisiche più brillanti al
mondo ed era pressoché sicuro che alcuni avrebbero disapprovato la teoria di Higgs. Da quando Louis Bamberger, un filantropo americano, lo
fondò negli anni trenta, all’istituto vennero riuniti molti fisici di fama, da
22 Higgs e il suo bosone
tutto il mondo. Albert Einstein, il più famoso, trascorse lì gli ultimi venticinque anni della propria vita, cercando di comprendere come fossero
sorte le forze fondamentali della natura. Vi risiedette anche il matematico e logico austriaco Kurt Gödel, naturalizzato statunitense, che con il
suo lavoro cercò di ridefinire i limiti della conoscenza umana e turbò Einstein osservando che le sue teorie rendevano possibili viaggi nel tempo.22
Vi lavorò anche John von Neumann, il padre dell’informatica moderna,
che trasformò la matematica dei giochi d’azzardo in una strategia politica per vincere la Guerra fredda.23
Nel 1946 venne posta a capo dell’istituto quella figura straordinaria
che fu Robert Oppenheimer, colui che condusse il Progetto Manhattan
alla costruzione della prima bomba atomica. La sua nomina aggiunse a
quel luogo un’ulteriore aura di timore reverenziale. Oppenheimer era famoso per il suo temperamento irascibile e la lingua affilata e poteva dare il peggio di sé quando doveva comparire ai seminari settimanali che si
tenevano al campus. Non era inusuale per lui maltrattare i relatori meno
sicuri, confondendoli implacabilmente e correggendoli prima ancora che
avessero la possibilità di rispondere. Era un tratto del suo carattere che
Dyson disprezzava e talvolta tra i due si scatenavano accese discussioni
al termine dei seminari. Dyson mi disse: «Oppenheimer cercava sempre
di dirti quello che avresti detto se fossi stato intelligente come Oppenheimer».24
Mentre guidava, il pensiero di Higgs andava al seminario che avrebbe
dovuto tenere il giorno seguente. L’uditorio sarebbe stato completamente diverso da tutti quelli cui aveva già avuto occasione di parlare. Quando
la sua attenzione tornò alla strada, venne stretto dalla morsa del panico.25
Accostò, temendo di perdere il controllo dell’auto. Fermo al bordo della strada, fece alcuni profondi respiri e cercò di riprendere la calma. In
quell’istante vide un cartello stradale: l’uscita per Princeton era solo a poco più di un chilometro. Era quasi arrivato.
L’Institute for Advanced Study si trova in mezzo a quasi tre chilometri quadrati di giardini panoramici, poco fuori Princeton. Higgs però non
andò direttamente all’istituto. Fece una deviazione che lo portò in città,
dove parcheggiò l’auto per andare in cerca di un ufficio postale. Poche
parole con l’addetto delle poste e da dietro il bancone l’uomo gli porse una «busta primo giorno» con i francobolli commemorativi da 8 cent
1. La lunga strada verso Princeton 23
di colore violetto che erano stati appena emessi per l’anniversario della
nascita di Einstein (che era nato proprio in quel giorno, il 14 marzo, nel
1879). Ognuno di essi riportava una fotografia del grande fisico scattata
vent’anni prima da un amico di famiglia, tale Philippe Halsman, il quale
scontò una pena in una prigione austriaca per aver ucciso suo padre durante un’escursione alpina. Alla vista dei francobolli, Higgs ne rimase infastidito perché Einstein veniva indicato come un «insigne americano».
Einstein aveva preso la cittadinanza americana nel 1940, ma Higgs lo considerò sempre, nel cuore, un europeo. Tuttavia pensò che il suo amico e
mentore Nicholas Kemmer, a Edimburgo, potesse gradire quel regalo e
dunque si sentì in dovere di spedirglielo direttamente in Scozia.
Stava ormai scendendo la sera quando Higgs parcheggiò l’auto all’istituto. Lui e sua moglie, Jody, incontrarono Freeman Dyson e tra loro si
instaurò subito piena sintonia, tanto che Higgs dimenticò presto il nervosismo che l’aveva sopraffatto durante il viaggio. Terminata la chiacchierata, gli Higgs si recarono al proprio alloggio e crollarono in un sonno
indispensabile.
L’intervento di Higgs era fissato per le 16.15 del pomeriggio seguente. Quando arrivò, vide che Dyson era intenzionato a parlare per primo.
La sua conferenza sarebbe stata piuttosto accademica, sulla stabilità della
materia, ma avrebbe posto una domanda abbastanza semplice: com’è possibile che gli oggetti intorno a noi rimangano integri pur contenendo un
infinità di particelle tenute al loro posto da forze finemente bilanciate eppure straordinariamente potenti? Perché questo libro, con tutta l’energia
imprigionata nei suoi atomi, non viene dilaniato improvvisamente? Perché i nostri vestiti non esplodono spontaneamente in un’infinità di frammenti subatomici?
Dyson completò la sua brillante lezione e lasciò spazio alle domande. Come ci si poteva aspettare, l’uditorio era acuto e stimolante. Le loro competenze si erano affinate grazie alla forte tradizione dell’istituto,
che aveva fatto meritare ai seminari settimanali il nome curioso di seminari shotgun.26 Ogni settimana il dipartimento teneva un seminario. Ma
invece di annunciare in anticipo il relatore, il pubblico e il relatore stesso lo scoprivano nel corso della giornata. Quando l’uditorio arrivava, veniva fatto passare un cappello da cui ognuno estraeva un pezzo di carta.
Chiunque avesse preso l’ultimo pezzo di carta, avrebbe tenuto il semina-
24 Higgs e il suo bosone
rio quel giorno. L’idea era essere sicuri che tutti fossero sulle spine, pronti
cioè a tenere il proprio intervento, ma anche ansiosi di torchiare chiunque avesse preso la parola.
Quando il pubblico esaurì la propria scorta di domande, Dyson invitò tutti a una pausa per il tè e annunciò che il loro ospite, Peter Higgs,
avrebbe parlato subito dopo. Higgs seguì la folla verso la mensa. Ebbe
così occasione di incrociare un fisico tedesco, Klaus Hepp, che aveva già
incontrato a una scuola estiva in Scozia nel 1960 e con il quale conversò
bevendo una tazza di tè. La loro conversazione si portò subito su un articolo, cui Hepp fece cenno, che stava per essere pubblicato da tre scienziati tenuti in grande considerazione nel mondo scientifico.27 Fu un colpo
allo stomaco per la teoria di Higgs ed Hepp stesso era dispiaciuto di doverne parlare. «Non c’è dubbio» disse infatti Hepp mentre i due facevano
ritorno alla sala conferenze. «C’è qualcosa di sbagliato nei tuoi risultati.»
Almeno non c’era in giro Oppenheimer. Higgs a quel tempo non lo sapeva, ma l’impietoso direttore era gravemente malato di cancro e si sarebbe ritirato formalmente dal suo ruolo tre mesi più tardi.28 Higgs raccolse
i suoi articoli e salì sul palco da cui, passo dopo passo, condusse i presenti attraverso i nodi della sua teoria. Dyson ascoltò attentamente: pensava
che il lavoro di Higgs fosse magnifico.29 Quando il loro ospite finì di parlare, diverse mani si alzarono nella sala.
Anche se Higgs era ansioso per il seminario, i suoi modi comunicavano una fiducia di fondo: conosceva talmente bene le equazioni della sua
teoria da poterne afferrare i significati più profondi. Egli era sicuro che
le idee che stava sostenendo fossero più che ragionevoli. Ciò non voleva dire avere la certezza che fossero anche vere. Molte cose teoricamente
possibili non sono poi realizzate dalla natura. Ma se la teoria era impeccabile, poteva essere almeno candidata a descrivere l’origine della massa.
Le domande del pubblico furono intelligenti, profonde e anche critiche, ma nessuna mise in evidenza errori nella logica di Higgs. La sua teoria aveva passato il test più impegnativo. Dyson ringraziò Higgs per il suo
contributo e chiuse la sessione, lieto che fosse andato tutto bene. Più tardi giunse all’orecchio di Higgs che Arthur Wightman, uno dei fisici più
eminenti presenti alla conferenza, aveva invitato i colleghi a rivedere e verificare la «dimostrazione» che avrebbe dovuto confutare le tesi di Higgs.
Egli uscì di lì convinto di ogni parola pronunciata da Higgs.
1. La lunga strada verso Princeton 25
Il giorno seguente, dopo aver cenato con Dyson, Higgs prese la via
del ritorno. Gli era giunto un secondo invito dall’Università di Harvard,
dove lavorava Sidney Coleman, fisico importante e persona molto piacevole: Higgs accettò di farci un salto per una discussione aperta prima di
far ritorno a Chapel Hill. Il talk era fissato per il pomeriggio, e c’era da
aspettarselo: Coleman era famoso per mancare a tutti gli appuntamenti
mattutini. Una volta giustificò la sua assenza a una lezione che avrebbe
dovuto tenere alle 9.00 del mattino protestando e dicendo che non poteva rimanere sveglio fino a così tardi. Coleman sperava di divertirsi con
Higgs.30 In seguito confessò di aver detto ai suoi studenti che sarebbe andato un idiota a far loro visita e che, così disse, l’avrebbero fatto a brandelli.
Lo strazio però non ci fu. Anzi, ad Harvard l’intervento di Higgs si
trasformò in un’appassionata discussione cui tutti presero parte. Ancora
una volta, la teoria resistette alla prova. Se era partito con l’idea di farla a
pezzi, il pubblico dovette poi ammettere di esserne rimasto affascinato.
La teoria di Higgs segnò un momento di svolta: uno di quei passi cruciali
della fisica che apre le porte a un mondo nuovo in cui nuove scoperte diventano, da un momento all’altro, accessibili.
La storia della scienza è piena di idee brillanti andate sprecate, giunte al momento sbagliato o maldestramente esposte o semplicemente non
notate dalle persone giuste. E ognuna di esse ha relegato nell’oscurità un
possibile profondo balzo in avanti nella nostra comprensione delle cose e
soffocato il progresso della scienza. In un viaggio durato meno di una settimana, Higgs si era reso conto che la sua teoria non sarebbe scomparsa
senza lasciare traccia. Gradualmente, gli altri fisici cominciarono a comprenderla e si cominciò a parlare del meccanismo di Higgs, del campo di
Higgs e della particella la cui esistenza avrebbe provato che tutto ciò aveva un qualche aggancio con la realtà, cioè il bosone di Higgs.
Quell’autunno Higgs tornò a Edimburgo e si gettò nel suo lavoro con
rinnovato vigore. Un grosso punto interrogativo pendeva però sulla sua
teoria. Era qualcosa di più di una brillante idea? O si trattava solo di un
trucchetto intelligente che la natura si era guardata dal realizzare? A questo punto, doveva prendere in mano quell’idea e mostrare come fosse
all’opera nel mondo reale. La teoria, infatti, era debole nei dettagli. Mostrava come, nell’universo primordiale, particelle prive di peso avrebbe-
26 Higgs e il suo bosone
ro potuto diventare massive, ma i fisici avevano un intero zoo di particelle
da spiegare, alcune delle quali hanno massa, altre no. La teoria non chiariva a quali particelle il campo di Higgs avrebbe dato massa e perché proprio a quelle.
La risposta a questa domanda era destinata a diventare una delle scoperte del secolo. Un gruppo di fisici che aveva colto in profondità tutti i
risvolti dell’idea di Higgs sospettava che essa avesse preparato la strada a
una delle più grandi conquiste della fisica. Negli ultimi anni di vita, Einstein divenne ossessionato dal tentativo di dimostrare che le diverse forze
della natura, come l’elettromagnetismo e la gravità, erano originariamente parte di un’unica superforza che le racchiudeva tutte e che ebbe una
fugace esistenza solo nei primi istanti di vita dell’universo. Dai tempi del
sogno di Einstein, i fisici hanno continuato a chiedersi se potesse esserci una Teoria di grande unificazione (indicata spesso con l’acronimo gut,
Grand Unified Theory). La teoria di Higgs spiegava come la natura avesse potuto prendere tutte le particelle dell’universo e ordinare ad alcune
(i costituenti della materia) di assumere di colpo una massa, lasciando le
altre (i fotoni, per esempio) senza massa. Ai fisici questo sembrava un indizio: se solo avessero avuto il coraggio di andare più in profondità nella
teoria di Higgs, forse sarebbero anche arrivati a capire come riunificare
tutte le forze della natura.