A • 40254/14 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SECONDA SEZIONE PENALE UDIENZA PUBBLICA DEL 12/06/2014 Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. ANTONIO PRESTIPINO Dott. DOMENICO GALLO Dott. MARGHERITA TADDEI Dott. GEPPINO RAGO Dott. GIOVANNA VERGA - Presidente - Consigliere - Consigliere - SENTENZA N. 16.5i REGISTRO GENERALE N. 52573/2013 - Consigliere - Rel. Consigliere - ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: AVALLONE FRANCESCO N. IL 16/02/1971 BONIFACIO GUGLIELMO N. IL 04/06/1960 CANNAVALE LAZZARO N. IL 03/09/1973 CANNAVALE VINCENZO N. IL 10/11/1948 CAROLEI PAOLO N. IL 13/12/1971 CASCONE FRANCESCO N. IL 10/01/1962 CASCONE GENNARO N. IL 11/04/1953 CASCONE VINCENZO N. IL 02/08/1980 DI MAIO EGIDIO N. IL 17/06/1973 DI MARTINO LEONARDO N. IL 06/11/1958 DI MARTINO MICHELE N. IL 17/07/1990 GAMBARDELLA GIUSEPPE N. IL 21/03/1967 IACCARINO MARIA TERESA N. IL 24/04/1964 MOLINARI ANNAMARIA N. IL 07/06/1965 NAPODANO ANIELLO N. IL 12/03/1979 PALOMBA FERDINANDO N. IL 18/01/1958 avverso la sentenza n. 10202/2012 CORTE APPELLO di NAPOLI, del 14/06/2013 visti gli atti, la sentenza e il ricorso udita in PUBBLICA UDIENZA del 12/06/2014 la relazione fatta dal Consigliere Dott. GIOVANNA VERGA Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. 2.<4;' ' 2 che ha concluso per =fu. „0-29 e caf Ci_ mn ro.raryr) r24 "2i2 e• Pít2,1 CI • /71 e 1-42./)r-,/»0 .5)- - -9-3 C13 r-ttge..;mi csr-YY7 PD ,e i -e ro cpLe...; "7-7‹. M I 1 . 17. c'~ • Udito, per la parte civile, l'Avv Udit i difensor Avv. ; A m. 6-0„g f-D/)/ o /9 e (-arpe-0.7A e Y-v3.1 ry»•O J-0../Y7 rn l o, 06 b-; /70-) r-v, e v - de ed- ea-e,e. (2-f2-e P- Irr . go dir, ra c›,* Ungi rY7 C2/2-; .~ A) ol" RZ-4),r1 e-e-"De-._— n . y; eLe_.e t2-f /9 )--a_o_e,c--7-) ie,"9 e (A:VJ e.-Cr 77 0,../ /''' ' ' (1(-1 -d-I• › /19 _c> re / s2.9 rymy) rZigil • lY7 -Q/V; 1-7,2 V(/4 0 ,,12 'riY2--rì • I Il+ i 2 , ' . a22-Q-_. ; ,,A.C:2:19') e f.%'11 , i e--41:, / i ; erg'Q___ A i' ti...0 ,.... 2.,.z.. /--í r, p rr , ,,,, ,4,-,_,, Le 9-7,,, ,,,,f ef.-,•.2,.,3,--u2, 'c.c. — ,e -5;`"7-re. 1 e)--'1 . /»2 ..Q . I re ___ -.'(;2-/2 r&:24'.1 . '2— -- r / 0./7 -7 t7-7 L.~ ./rn e.->-, ( -0 c___-6D-7-2 otzL- l'e Ò''-. r-r)-7e--7-, ( 3 1-- i • 1 002, ry, L.40 re a (n ovrn e (IY)' fio.) C.» 9 (-7, • ed.-,-2,2_ Ge/W-3--9 (7-0,..4. i-f cle rQ___ -:- .2 , g-,,,,,n ce,.,. ..5 4,.-4-t , . ' ,"» e. --#21-2 . -,____-•c> Ze .C. vi 2 a z G-. I . 1 # g RITENUTO IN FATTO Ricorrono per Cassazione : 1. AVALLONE Francesco di Paola 2. BONIFACIO Guglielmo 3. CANNAVALE Lazzaro 4. CANNAVALE Vincenzo 5. CAROLEI Paolo 6. CASCONE Francesco 7. CASCONE Gennaro 8. CASCONE Vincenzo 9. DI MAIO Egidio 10.DI MARTINO Leonardo 11.DI MARTINO Michele 12.GAMBARDELLA Giuseppe 13.IACCARINO Maria Teresa 14.MOLINARI Annamaria 15.NAPODANO Aniello 16.PALOMBA Ferdinando avverso la sentenza della Corte d'Appello di Napoli che, in data 14.6.2013, in riforma della sentenza emessa in data 27.3.2012 dal G.U.P. presso il Tribunale di Napoli, appellata da AVALLONE Francesco di Paola, BONIFACIO Guglielmo, CANNAVALE Lazzaro, CANNAVALE Vincenzo, CAROLEI Paolo, CASCONE Francesco, CASCONE Gennaro, CASCONE Vincenzo, DI MAIO Egidio, DI MARTINO Leonardo , DI MARTINO Michele, GAMBARDELLA Giuseppe, IACCARINO Maria Teresa, MOLINARI Annamaria, NAPODANO Aniello, PALOMBA Ferdinando e dal PM, dichiarava: • inammissibile l'appello del PM avverso i capi della sentenza che avevano escluso la sussistenza dell'aggravante di cui all'art. 7 L. 203/91 e l'applicazione dell'aumento per la contestata recidiva nei confronti di Bonifacio Guglielmo, Cascone Francesco, Cascone Gennaro, Cascone Vincenzo, Di Maio Egidio, Gambardella Giuseppe, Iaccarino Maria Teresa e Palomba Ferdinando per i reati per i quali era già intervenuta condanna; • Carolei Paolo colpevole del reato di cui all'art. 416 bis comma 2 cp contestato al capo A) della rubrica ed altresì dei reati di cui ai capi G), O), Q) ed S) e, riconosciuta per questi ultimi reati la sussistenza dell'aggravante 1 di cui all'art. 7 I. 203/91 e con la continuazione con i reati per i quali era già intervenuta condanna, per l'effetto ridetermina la pena a lui inflitta in quella di anni quattordici di reclusione; • Cannavale Lazzaro colpevole dei reati ascritti ai capi T) ed U) della rubrica, come originariamente contestati e, riconosciuta per tali reati la sussistenza dell'aggravante di cui all'art. 7 I. 203/91, con la continuazione tra i reati, lo condanna alla pena di anni quattro mesi nove e giorni dieci di reclusione ed euro 2.000,00 di multa; Cannavale Vincenzo colpevole del reato a lui ascritto al capo S) della rubrica e, riconosciuta la sussistenza dell'aggravante di cui all'art. 7 I. 203/91, concesse le circostanze attenuanti generiche equivalenti alla contestata recidiva, lo condanna alla pena di anni due mesi otto di reclusione ed euro 6.000,00 di multa; Cascone Francesco, Cascone Vincenzo e Palomba Ferdinando colpevoli dei reati loro rispettivamente ascritti ai capi S), T), U) ed A2) della rubrica, come originariamente contestati, e riconosciuta la sussistenza dell'aggravante di cui all'art. 7 I. 203/91, con la continuazione con i reati per i quali era già intervenuta condanna, per l'effetto ridetermina la pena nei confronti di Cascone Francesco in quella di anni dieci di reclusione ed euro 3.000,00 di multa; nei confronti di Cascone Vincenzo in quella di anni dieci mesi otto di reclusione ed euro 2.200,00 di multa; nei confronti di Palomba Ferdinando in quella di anni quattro mesi nove e giorni dieci di reclusione ed euro 1.600,00 di multa; • Iaccarino Maria Teresa colpevole del reato a lei ascritto al capo Al) e, riconosciuta la sussistenza dell'aggravante di cui all'art. 7 I. 203/91, con la concessione delle circostanze attenuanti generiche e con la continuazione con il reato di cui al capo Z), per l'effetto ridetermina la pena nei suoi confronti in quella di anni tre mesi dieci giorni venti di reclusione ed euro 8.400,00 di multa; • Napodano Aniello colpevole dei reati a lui ascritti ai capi G) ed H) e con la continuazione con i reati per cui è già intervenuta condanna, per l'effetto ridetermina la pena nei suoi confronti in quella di anni quattro e mesi otto di reclusione ed euro 3.000,00 di multa; • Di Martino Leonardo e Di Martino Michele colpevoli dei reati loro rispettivamente ascritti ai capi A) e B) della rubrica e con la continuazione con i reati per i quali era già intervenuta condanna e concesse le attenuanti generiche a Di Martino Michele, per l'effetto ridetermina la pena nei confronti di Di Martino Leonardo in quella di anni venti di reclusione e nei confronti di Di Martino Michele in quella di anni cinque e mesi quattro di 2 ,,/ reclusione; • Molinari Annamaria colpevole dei reati a lei ascritti ai capi B) e C) della rubrica e, ritenuta la continuazione tra i suddetti reati ed esclusa la contestata recidiva, per l'effetto la condanna alla pena di anni sette e mesi quattro di reclusione; Applicava a Cannavale Lazzaro, Palomba Ferdinando e Iaccarino Maria Teresa la pena accessoria dell'interdizione temporanea dai pubblici uffici per la durata di anni cinque; a Molinari Annamaria la pena accessoria dell'interdizione perpetua dai pubblici uffici e dell'interdizione legale durante la pena; sostituiva nei confronti di Cascone Vincenzo la pena accessoria dell'interdizione temporanea dai pubblici uffici con quella perpetua ed applica nei suoi confronti la pena accessoria dell'interdizione legale. Applicava a Carolei Paolo, Cascone Francesco, Cascone Vincenzo e Di Martino Leonardo la misura di sicurezza della libertà vigilata per la durata minima di anni tre. Confermava nel resto l'impugnata sentenza e condannava Avallone Francesco di Paola, Bonifacio Guglielmo, Cascone Gennaro, Di Maio Egidio, Gambardella Giuseppe, singolarmente al pagamento delle ulteriori spese processuali. Il GUP del Tribunale di Napoli, all'esito del disposto giudizio abbreviato, aveva dichiarato: • AVALLONE Francesco di Paola colpevole dei reati ascritti ai capi E) e I) e, ritenuta la continuazione, applicata la diminuente processuale, lo aveva condannato alla pena di 5 anni di reclusione ed C 4.000,00 di multa. • BONIFACIO Guglielmo colpevole dei reati ascritti ai capi I) e N) e, escluso l'aumento per la recidiva, ritenuta la continuazione, applicata la diminuente processuale, lo aveva condannato alla pena di 5 anni di reclusione ed C 4.000,00 di multa; aveva dichiarato BONIFACIO Guglielmo altresì colpevole dei reati ascritti ai capi O), Q), e, escluse la circostanza aggravante di cui all'art. 7 L. 203.'91 e la recidiva, ritenuta la continuazione, applicata la diminuente processuale, lo aveva condannato alla pena di 2 anni e 10 mesi di reclusione ed C 8.000,00 di multa; CAROLEI Paolo colpevole dei reati ascritti ai capi A), D), F) e, esclusa la qualità di promotore o capo, ritenuta la continuazione, applicati l'aumento per la recidiva reiterata, specifica e infraquinquennale e la diminuente processuale, lo aveva condannato alla pena di 11 anni e 2 mesi di reclusione ; CASCONE Francesco colpevole dei reati ascritti ai capi O), P), Q), R), V) Z), Al) e, escluse la circostanza aggravante di cui all'art. 7 L. 203.'91 e la 3 recidiva, applicata la diminuente processuale, lo aveva condannato alla pena di 6 anni di reclusione ed C 2.000,00 di multa ; • CASCONE Gennaro colpevole dei reati ascritti ai capi D) e E) e, escluso l'aumento per la recidiva, ritenuta la continuazione, applicata la diminuente processuale lo aveva condannato alla pena 5 anni di reclusione ed C 4.000,00 di multa; • CASCONE Vincenzo colpevole del reato ascritto al capo O), e, esclusa la circostanza aggravante di cui all'art. 7 L. 203.'91, applicati l'aumento per la recidiva reiterata, specifica e infraquinquennale e la diminuente processuale, lo aveva condannato alla pena di 4 anni 5 mesi e 20 giorni di reclusione ed C 10.000,00 di multa; • DI MAIO Egidio colpevole colpevole del reato ascritto al capo O), e, esclusa la circostanza aggravante di cui all'art. 7 L. 203.'91, applicata la diminuente processuale lo aveva condannato alla pena di 2 anni e 8 mesi di reclusione ed C 6.000,00 di multa; • DI MARTINO Leonardo colpevole del reato ascritto al capo C) e, applicati l'aumento per la recidiva reiterata, specifica contestata e la diminuente processuale lo aveva condannato alla pena di 8 anni e 4 mesi di reclusione ed C 50.000,00 di multa; DI MARTINO Michele colpevole del reato ascritto al capo C) e, applicata la diminuente processuale, lo aveva condannato alla pena di 5 anni di reclusione ed C 30.000,00 di multa; GAMBARDELLA Giuseppe colpevole del reato ascritto al capo V) e, esclusa la circostanza aggravante di cui all'art. 7 L. 203.'91, applicata la diminuente processuale, lo aveva condannato alla pena di 2 anni e 8 mesi di reclusione ed C 6.000,00 di multa; • IACCARINO Maria Teresa colpevole del reato ascritto al capo Z) e, esclusa la circostanza aggravante di cui all'art. 7 L. 203.'91, applicata la diminuente processuale, la aveva condannato alla pena di 2 anni e 8 mesi di reclusione ed C 6.000,00 di multa; • NAPODANO Aniello colpevole dei reati ascritti ai capi F), I), N) e, concesse le circostanze attenuanti generiche, ritenuta la continuazione, applicata alla diminuente processuale lo aveva condannato alla pena 4 anni e 4 mesi di reclusione ed C 3.000,00 di multa; • PALOMBA Ferdinando colpevole del reato ascritto al capo V) e, esclusa la circostanza aggravante di cui all'art. 7 L. 203.'91, applicata alla diminuente processuale, lo aveva condannato alla pena di 2 anni e 8 mesi di reclusione ed C 6.000,00 di multa. Aveva applicato agli imputati AVALLONE Francesco di Paola, BONIFACIO Guglielmo, 4 CAROLEI Paolo, CASCONE Francesco, CASCONE Gennaro, DI MARTINO Leonardo, DI MARTINO Michele le pene accessorie della interdizione legale per la durata della pena detentiva a ciascuno inflitta e della interdizione perpetua dai pubblici uffici; applica inoltre a CASCONE Vincenzo, NAPODANO Aniello la pena accessoria della interdizione dai pubblici per il periodo di 5 anni. Aveva dichiarato non doversi procedere nei confronti di CASCONE Francesco e di CANNAVALE Lazzaro in ordine ai reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone così diversamente qualificati i fatti ascritti ai capi T) e U) perché l'azione penale non doveva essere iniziata per difetto di querela. Aveva assolto: • DI MARTINO Leonardo dal reato contestato al capo A) per non aver commesso il fatto; • MOLINARI Annamaria, DI MARTINO Leonardo, DI MARTINO Michele dal reato contestato al capo B) perché il fatto non sussiste; • MOLINARI Annamaria dal reato contestato al capo C) per non aver commesso il fatto; • ORNETO Gennaro dal reato contestato al capo D) perché il fatto non costituisce reato; • CAROLEI Paolo e NAPODANO Aniello dai reati rispettivamente contestati ai capi G) e H) perché il fatto non sussiste; • CAROLEI Paolo dai reati ascritti ai capi O), Q) per non aver commesso il fatto; • CASCONE Francesco dal reato ascritto al capo A2) perché il fatto non sussiste; • CANNAVALE Vincenzo, CAROLEI Paolo, CASCONE Francesco, CASCONE Vincenzo, PALOMBA Ferdinando dal reato ascritto al capo S) perché il fatto non sussiste; • CASCONE Vincenzo, PALOMBA Ferdinando dai reati rispettivamente ascritti ai capi T) e U) e come sopra derubricati di per non aver commesso il fatto; • IACCARINO Maria Teresa dal reato ascritto al capo Al) per non aver commesso il fatto; LA SENTENZA IMPUGNATA La Corte d'Appello con la sentenza impugnata ha respinto numerose questioni preliminari alla decisione di merito . In particolare ha respinto l'eccezione, sollevata dai difensori di DI MARTINO Leonardo di inammissibilità dell'atto di appello proposto dal P.M. mediante deposito in cancelleria 5 effettuato da suo incaricato, per inosservanza delle modalità dettate dall'art. 582 c.p.p Veniva respinta anche l'eccezione sollevata dall'avv. Esposito Fariello di una possibile rinuncia implicita all'appello promosso dal P.M., considerato che le conclusioni del P.G. di udienza, divergevano parzialmente dalle richieste del P.M. appellante. La Corte Territoriale respingeva anche l'eccezione CI:v inutilizzabilità delle intercettazioni telefoniche sollevate dalle difese Carolei, Avallone , Bonifacio e Di Martino con riguardo ai decreti n. 4725/2008 e n. 1317/09. Veniva respinta anche l'eccezione sollevata dalla difesa Di Martino Leonardo di inutilizzabilità del contenuto delle conversazioni intercettate sul presupposto che gli impianti in concreto utilizzati per effettuare le captazioni appartenevano ad una ditta privata: la C.P.V. Intelligence srl di Tagliacozzo. La Corte di merito ha respinto anche l'eccezione sollevata dalla difesa DI MARTINO di nullità dell'accertamento tecnico irripetibile effettuato sulle piante sottoposte a sequestro, sul presupposto che l'accertamento non aveva natura di atto irripetibile e, comunque, l'analisi sui campioni doveva essere preceduto dall'avviso agli imputati che non erano "ignoti" quando la P.G. provvide al sequestro delle piantagioni ed al prelevamento di campioni per le analisi. I giudici di merito respingevano anche l'eccezione sollevata dalle difese Bonifacio, Di Maio e Cascone di inutilizzabilità delle dichiarazioni rese da Del Gaudio Raffaele Ciro, per violazione degli artt. 63 c.p.p. in riferimento agli artt. 191 c.p.p., 12 e 371 c.p.p. sollevata sul presupposto che il testimone nel riferire dell'intervento del CAROLEI e dell'effettiva interruzione delle richieste usuraie da parte di PUPETTA MARESCA e dell'ACCARDO, si sarebbe accusato di condotte illecite in concorso con il CAROLEI. Veniva respinta anche l'eccezione, sollevata dalla difesa Gambardella e Di Maio di inutilizzabilità delle dichiarazioni rese da Maresca Luigi, per violazione degli artt. 63 co. 2 c.p.p., in riferimento agli artt. 191 c.p.p., 12 e 371 co. 2 lett. b) c.p.p. sul presupposto che erano emersi, nel corso delle indagini, indizi di reità a carico della persona offesa Maresca, per il delitto di usura. Con riguardo al merito veniva sottolineato che il processo ruota attorno alla figura di CAROLEI Paolo, soggetto di significativa caratura criminale come dimostrato da specifici precedenti per il reato di cui all'art. 416 bis c.p., che, secondo l'ipotesi accusatoria, una volta riacquistata la libertà dopo un lungo periodo di detenzione, avrebbe stretto alleanze con il clan capeggiato da D'ALESSANDRO Vincenzo, occupandosi del riciclaggio dei proventi dell'attività criminale sia nel settore delle scommesse sportive, grazie peraltro ai legami creati con emissari della concessionaria INTRALOT, sia nel settore dell'usura, grazie all'operato di CASCONE Francesco, suo cognato. Inoltre, CAROLEI Paolo avrebbe mediato per creare un'intesa tra il clan D'ALESSANDRO e il gruppo criminale egemone in Gragnano, asseritamente capeggiato da DI MARTINO Leonardo, a sua volta impegnato insieme ai suoi affiliati nel traffico di sostanze stupefacenti, grazie alla coltivazione di 6 numerose piantagioni collocate in zone impervie delle alture del Monte Faito. Il primo giudice aveva ritenuto, diversamente dalla Corte d'Appello, che le risultanze probatorie non avevano confermato che nell'attività di usura gestita in prima persona da CASCONE Francesco, attraverso una rete di complici, fosse coinvolto il cognato CAROLEI Paolo e ciò sia in considerazione degli scarni e generici indizi ricavabili dall'attività di intercettazione, sia in considerazione della esplicita indicazione del collaboratore di giustizia BELVISO, che aveva escluso che il clan D'ALESSANDRO si occupasse anche di usura. I giudici di merito hanno ritenuto pienamente confermate le accuse nei confronti di CASCONE Francesco, di CASCONE Vincenzo, di BONIFACIO Guglielmo e di DI MAIO Egidio con riguardo all'usura contestata al capo O) essendo dimostrato che il CASCONE Francesco, utilizzando denaro del figlio Vincenzo, erogò al DEL GAUDIO un prestito a tassi sicuramente usurari, servendosi del BONIFACIO e del DI MAIO per la riscossione dei tassi usurai e ricorrendo sistematicamente a gravissime minacce per ottenere il pagamento del denaro pattuito (capo P) e di CASCONE Francesco e BONIFACIO Guglielmo, in ordine al reato contestato al capo Q ( usura ai danni di Amendola) e la responsabilità del CASCONE Francesco in ordine al reato contestato al capo R ( minacce per ottenere il pagamento). Ma mentre il primo giudice ha ritenuto che nelle attività usurarie del CASCONE non fosse coinvolto il Carolei Paolo la Corte Territoriale ha ritenuto che l'interessamento al settore dell'usura, da parte del predetto risultava acclarato dal riferimento contenuto nella lettera di Cascone Vincenzo allo zio Cannavale, dalle dichiarazioni del collaboratore Spera Michele, dal contenuto delle conversazioni intercettate e dalle dichiarazioni delle persone offese (cfr. pag. 94 ss sentenza impugnata). Secondo i giudici d'Appello le dichiarazioni del collaboratore Spera, unitamente a tutte le altre circostanze indicate dimostravano la partecipazione del Carolei nell'attività usuraria cui era dedito il cognato Cascone, con il ruolo di coordinatore e di finanziatore. Veniva sottolineato che il Carolei, aveva notevoli possibilità economiche, evidentemente collegate alle attività illecite svolte, come indicato dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Spera e dal contenuto della missiva di Cascone Vincenzo. Il fatto che il collaboratore Belviso Salvatore avesse escluso che il clan D'Alessandro svolgesse attività usuraria secondo i giudici di secondo grado non era un elemento che inficiasse la validità delle prove indicate e non valeva ad escludere l'aggravante di cui all'art. 7 L. 203/91 con riferimento ai reati di usura ascritti al Carolei, considerato che si riteneva sufficientemente dimostrato che costui si dedicasse a tale attività, al fine di agevolare il clan d'Alessandro a cui apparteneva a pieno titolo, con funzioni dirigenziali. Veniva altresì rilevato che l'aggravante in parola sussisteva anche sotto il profilo del metodo mafioso. In particolare la Corte Territoriale riteneva che il metodo mafioso e la conseguente esistenza dell'aggravante in parola anche sotto questo profilo, poteva essere desunta: 7 r -nella vicenda Del Gaudio: dal tenore delle minacce che erano rivolte alla persona offesa da Cascone Francesco che agiva con metodi intimidatori di stampo camorristico; dalla consapevolezza della vittima, manifestata nel corso delle sue dichiarazioni, di avere a trattare con soggetti inseriti in un più vaso contesto criminale (desumibile dal fatto che fin dall'inizio, Del Gaudio, aveva indicato il Cascone con il soprannome con cui era noto negli ambienti della malavita stabiese); dall'avere il Carolei, ingenerato la consapevolezza in Del Gaudio di trovarsi al cospetto di un soggetto di elevato spessore criminale, in un territorio caratterizzato da una elevata presenza della criminalità organizzata, in grado di fare cessare, con il suo intervento, le pretese dei suoi originari usurai. - nella vicenda Amendola: dal tenore delle minacce rivolte alla persona offesa da Cascone Francesco che agiva con metodi intimidatori di stampo camorristico; dalla consapevolezza della vittima, manifestata nel corso delle sue dichiarazioni, di avere a trattare con soggetti inseriti in un più vaso contesto criminale, desumibile dal fatto che fin dall'inizio, Amendola ha indicato il Cascone con il soprannome con cui era noto negli ambienti della malavita stabiese. Con riguardo alla vicenda Lauri che aveva generato le imputazioni di cui ai capi S), T) ed U) deve rilevarsi che in ordine al reato di cui al capo S) (art. 644 c.p.), ascritto agli imputati, Cascone Francesco, Cascone Vincenzo, Carolei Paolo, Cannavale Vincenzo e Palomba Ferdinando, il Giudice di primo grado, è pervenuto a pronuncia di assoluzione per insussistenza del fatto. In ordine al reato di cui al capo T) (estorsione continuata), ascritto agli imputati Cascone Francesco, Cascone Vincenzo e Cannavale Lazzaro, il giudice di primo grado, previa derubricazione del fatto in esercizio arbitrario delle proprie ragioni, è pervenuto a pronuncia di non doversi procedere per mancanza di querela. Analoga pronuncia è stata emessa in ordine al reato di cui al capo U) della rubrica, ascritto a Cascone Francesco, Cascone Vincenzo, Cannavale Lazzaro e Palomba Ferdinando. La pronuncia di assoluzione resa dal Giudice di primo grado, si fondava sostanzialmente sulla presunta inattendibilità delle persone offese, che era desunta dal fatto che le stesse avevano reso dichiarazioni in parte contrastanti tra loro. I giudici d'Appello, proprio sotto questo profilo ritenevano invece pienamente condivisibile quanto argomentato dal P.M. nell'atto di appello, dove aveva evidenziato come le divergenze rilevate dal GUP in sentenza fossero del tutto giustificabili sulla base del notevole lasso di tempo trascorso e sulla base della stessa natura del rapporto usurario, che era destinato a protrarsi nel tempo ed era caratterizzato da frequenti novazioni e rinegoziazioni degli accordi stabiliti all'origine. La Corte Territoriale aveva anche evidenziato che era ragionevole ritenere che molte delle discrasie e delle contraddizioni in cui erano incorse le vittime, erano da attribuirsi al profondo stato di timore indotto dagli imputati che, quasi quotidianamente, li minacciavano gravemente. I giudici di secondo grado ritenevano trattarsi, comunque, di contraddizioni che 8 v- riguardavano aspetti non essenziali nell'economia dell'articolata vicenda in esame e tali da non inficiare la complessiva attendibilità delle persone offese le cui dichiarazioni erano innegabilmente riscontrate dal contenuto delle intercettazioni telefoniche e dalle missive inviate da Cascone Vincenzo allo zio Cannavale Vincenzo. Il carattere usurario del prestito ottenuto dai Lauri, emergeva chiaramente dalle condizioni e modalità riferite dalle vittime, dal contenuto delle suddette missive, dal contenuto delle conversazioni intercettate. Lo svolgimento dell'attività usuraria anche in questo caso, ricalcava il modus operandi osservato negli altri episodi usurari, posti in essere sempre dal Cascone Francesco il quale, evidentemente, era dedito in modo stabile e professionale a questo tipo di attività illecita e, allorquando le vittime dei reati stentavano a mantenere gli impegni presi, le minacciava brutalmente. Proprio per gli interessi maturati, come spiegato dal Lauri Francesco e dalle conversazioni intercettate, gli imputati decidevano di appropriarsi dell'immobile sito in Capaccio, acquisendone la proprietà dai Lauri alla cifra irrisoria di 35 mila euro. I giudici di secondo grado ritenevano che sulla base di tali elementi, non poteva seriamente sostenersi che la vicenda in esame potesse essere inquadrata nell'ambito di leciti rapporti negoziali, sfociati in un esercizio arbitrario delle proprie ragioni da parte degli imputati, animati dall'intento di fare valere delle legittime pretese. Del resto, il Giudice di primo grado, in sentenza, pur provvedendo alla riqualificazione dei reati di cui ai capi T) ed U) della rubrica, secondo la Corte di merito non spiegava assolutamente in che cosa sarebbe consistito il diritto degli imputati e quale legittimo fondamento potesse avere. Nella realtà dei fatti, gli imputati non possedevano alcuna legittima pretesa da fare valere nei confronti delle persone offese, essendo il prestito elargito alle vittime, di natura usuraria e, quindi, assolutamente illecito e sprovvisto di una qualunque forma di tutela nel nostro ordinamento. I giudici d'appello ritenevano pertanto di pervenire a pronuncia di condanna nei confronti di Cascone Francesco, Cascone Vincenzo, Cannavale Vincenzo, Cannavale Lazzaro, Palomba Ferdinando e Carolei Paolo in ordine ai reati loro rispettivamente ascritti ai capi S), T) ed U) della rubrica . Con riguardo sempre ai reati di usura la Corte d'Appello non solo confermava pronuncia di responsabilità di Cascone Francesco, Palomba Ferdinando e di Gambardella Giuseppe in ordine al reato contestato al capo V) ( usura in danno di Maresca) e quella del Cascone e della moglie Iaccarino M. Teresa per il reato contestato al capo Z) (usura in danno di Tito), ma in accoglimento dell'appello del P.M. ritenevano responsabile la Iaccarino anche per il reato di cui al capo Al) in concorso con il marito, con l'aggravante del metodo mafioso, stante la particolare carica intimidatoria con cui era stato realizzato il delitto. I giudici di merito, come già indicato, hanno ritenuto dimostrato l'inserimento di CAROLEI Paolo nella consorteria criminale promossa e diretta da D'ALESSANDRO Vincenzo, 9 egemone in Castellammare di Stabia, con il precipuo incarico, fra gli altri, di predisporre canali di riciclaggio dei proventi dell'attività del gruppo criminale attraverso l'apertura di agenzie di raccolta di scommesse su eventi sportivi come evidenziato in particolar modo dal collaboratore di giustizia BELVISO Salvatore e come corroborato dalle risultanze delle intercettazioni telefoniche poste a fondamento dei capi di imputazione D, E, F, G, H, I, N. In detti capi risulta descritta la rete attraverso cui CAROLEI Paolo provvedeva alla gestione, per conto del clan D'ALESSANDRO, del redditizio e utile settore della raccolta delle scommesse sportive, tramite suoi emissari: CASCONE Gennaro, AVALLONE Francesco di Paola, BONIFACIO Guglielmo, NAPODANO Aniello, potendo peraltro contare sul particolare legame con alcuni dirigenti della INTRALOT, società concessionaria. In particolare con il capo D viene contesta l'interposizione fittizia relativa all'agenzia di via Pioppaino, formalmente intestata a CASCONE Gennaro, ma di fatto nella titolarità del CAROLEI Paolo, che faceva affluire i proventi delle attività illecite del clan D'ALESSANDRO, come riferito da BELVISO Salvatore, per il tramite del suo fiduciario AVALLONE Francesco di Paola. I giudici di merito hanno ritenuto la responsabilità degli imputati CAROLEI e CASCONE Gennaro in ordine al reato contestato al capo D ( violazione art. 12 quinquies L. n. 356/1992) rilevando che il contenuto delle conversazioni intercettate e delle dichiarazioni del BELVISO Salvatore avevano evidenziato come l'intestazione esclusiva della agenzia di raccolta di scommesse su eventi sportivi di via Pioppaino fosse fittizia, atteso che era il CAROLEI, soggetto già gravitante in clan operanti in Castellammare di Stabia, il reale titolare di detta agenzia, laddove l'intestazione al CASCONE Gennaro serviva per prevenire possibili confische dell'agenzia e delle sue pertinenze. Così come hanno ritenuto la responsabilità di CASCONE Gennaro e di AVALLONE Francesco di Paola in ordine al reato contestato al capo E) ( violazione dell'art. 648 ter c.p.) ritenendo che le conversazioni intercettate ed indicate nelle sentenze, dimostravano come l'AVALLONE operasse quale fiduciario del CAROLEI nella gestione nella raccolta delle scommesse occupandosi di convogliare il flusso del denaro di provenienza illecita verso scommesse su eventi sportivi il cui esito era sicuro, perché assicurato dalla complicità degli attori della gara calcistica. In ordine alla vicenda di cui ai capi G) H) I) e N) che coinvolge, oltre al CAROLEI, NAPODANO Aniello e BONIFACIO Guglielmo il giudice di primo grado rilevava che già in fase cautelare era emerso come il CAROLEI e il clan di riferimento non avessero alcun interesse in merito al bar gestito dal NAPODANO - tanto che il giudice cautelare aveva rigettato la richiesta di sequestro - con la conseguenza che per le contestazioni di cui ai capi G) ed H) veniva emessa sentenza di assoluzione perché il fatto non sussiste. I giudici d'appello ritenevano invece meritevole di accoglimento, alla stregua delle risultanze processuali la richiesta avanzata dal P.M. di condanna del Carolei e del Napodano in ordine ai reati agli stessi rispettivamente ascritti ai capi G) ed H) della 10 p7 rubrica. Secondo la Corte Territoriale le intercettazioni delle conversazioni monitorate sull'utenza in uso a Carolei Paolo ed intercorse con Falcone Concetta dimostravano che il Carolei, proprio quale soggetto deputato a gestire i canali di riciclaggio e reimpiego del danaro sporco (compreso quello collegato alle scommesse clandestine), era il reale proprietario anche del nuovo bar di Piazza Spartaco nel quale erano state investite le laute risorse del clan. Il Napodano era un prestanome e lo gestiva per conto di Carolei. La disponibilità di tale bar era strettamente funzionale all'apertura, all'interno di esso, del centro INTRALOT, di cui era effettivo titolare il Carolei Paolo. Con riguardo agli altri capi di imputazioni relativi al punto di raccolta di scommesse sito in via Spartaco secondo i giudici di merito le intercettazioni telefoniche davano riscontro alle riferite accuse di BELVISO Salvatore, il quale, nel fornire particolari circa il ruolo del CAROLEI di plenipotenziario per conto del clan D'ALESSANDRO nel settore della raccolta delle scommesse per realizzare il comodo riciclaggio dei proventi delle attività criminali del clan, aveva descritto come si era pervenuti alla decisioni di affidare allo stesso CAROLEI la gestione del punto scommesse di piazza Spartaco. In particolare 1"agenzia di Piazza Spartaco veniva affidata alla gestione di BONIFACIO Guglielmo, fedelissimo di CAROLEI Paolo e con un' esperienza specifica nel settore delle scommesse maturata con la gestione di una precedente agenzia a Santa Maria la Carità. I legami strettissimi tra il CAROLEI ed il BONIFACIO emergevano non solo alla luce del contenuto e del tenore delle conversazioni intercettate (nonché dal loro numero - trattasi di 1093 contatti monitorati in un arco di tempo di circa 4 mesi ), ma anche alla luce delle stesse dichiarazioni rese dal BONIFACIO al P.M. nel corso interrogatorio reso in data 18.10.2010). Il ruolo del BONIFACIO, di soggetto deputato a gestire le scommesse clandestine assieme al NAPODANO Aniello, trovava conferma non solo nelle conversazioni intercettate, ma anche dalle dichiarazioni resa dall'imputato PETRICCIONE Luigi nel corso dell'interrogatorio reso in data 11 luglio 2011 innanzi al P.M. Anche a Di Martino Leonardo, veniva contestato di avere fatto parte, unitamente al Carolei, dell'associazione di stampo mafioso denominata clan D'Alessandro (capo A). Allo stesso e a Di Martino Michele e Molinari Annamaria veniva contestato anche di avere partecipato ad un'associazione finalizzata alla coltivazione ed al traffico di sostanze stupefacenti di tipo marijuana (capo B) e di avere insediato diverse coltivazioni di canapa indiana sui monti Lattari (capo C). All'esito del giudizio di primo grado, Di Martino Leonardo e Di Martino Michele erano però ritenuti responsabili solo del reato di cui al capo C), mentre venivano assolti dai residui capi di imputazione. Molinari Annamaria veniva assolta da tutti i reati a lei ascritti. Riteneva il primo giudice che gli elementi raccolti dagli inquirenti dimostravano la piena attribuibilità a DI MARTINO Leonardo e ai suoi figli Fabio e Michele delle piantagioni di marijuana sequestrate. Non vi era infatti dubbio alla luce del contenuto dei colloqui intercettati che DI MARTINO Fabio e DI MARTINO Michele, sulla scorta di precise direttive 11 m.z del padre LEONARDO, avevano provveduto a curare la preparazione dei terreni, la semina e la coltivazione delle piante di cannabis poi sequestrate. Diversamente in relazione alla posizione processuale di MOLINARI Anna Maria, moglie di DI MARTINO Leonardo, il giudice di primo grado riteneva la sua totale estraneità alla attività di coltivazione delle piantagioni in sequestro. La Corte d'Appello confermava la pronuncia di condanna e accoglieva l'appello del P.M. in ordine alla responsabilità degli imputati anche con riferimento agli altri capi di imputazione a loro ascritti. Ritenevano i giudici di secondo grado che l'appartenenza di Di Martino Leonardo (detto o' !ione) all'associazione di cui al capo A) della rubrica si desumeva da plurimi elementi. I giudici d'Appello accoglievano anche la richiesta di condanna proveniente dalla pubblica Accusa in ordine al delitto di cui al capo C) della rubrica con riguardo a Molinari Annamaria. Così come i giudici d'Appello ritenevano tutti e tre gli imputati responsabili del reato di cui al capo B) ( violazione dell'art. 74 DPR 309/90). I RICORSI Ricorrono per Cassazione AVALLONE Francesco di Paola, BONIFACIO Guglielmo , CANNAVALE Lazzaro , CANNAVALE Vincenzo, CAROLEI Paolo, CASCONE Francesco, CASCONE Gennaro , CASCONE Vincenzo, DI MAIO Egidio, DI MARTINO Leonardo, DI MARTINO Michele, GAMBARDELLA Giuseppe, IACCARINO Maria Teresa, MOLINARI Annamaria, NAPODANO Aniello e PALOMBA Ferdinando. AVALLONE Francesco di Paola, a mezzo dell'Avv. Stefano Sorrentino, deduce che la sentenza impugnata è incorsa in: 1. violazione dell'articolo 606 lett. c) codice di procedura penale in ordine all'inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni telefoniche disposte con decreto numero 4725/08 del 30 ottobre 2008 e successivi decreti di proroga. Rileva il ricorrente che la nota dei carabinieri richiamata dai giudici d'appello, già depositata dal pubblico ministero innanzi al tribunale del riesame in sede di rinvio colloca temporalmente l'utilizzo del telefono dell'Avallone da parte del Carolei al 13 dicembre 2008 e quindi tre giorni dopo la scadenza del termine prevista per il primo decreto intercettativo. È evidente quindi che l'autorizzazione nel primo decreto non poteva riferirsi all'utilizzo da parte del Carolei del telefono dell'Avallone in quanto solo in data 13/12/2008 si era palesato l'utilizzo promiscuo dell'utenza telefonica; 2. violazione dell'articolo 606 lettera B) ed E) codice procedura penale in riferimento agli articoli 530,649 codice di procedura penale 648 del codice penale aggravato ex articolo 7 legge 203/91 dell'articolo 416 codice penale aggravata articolo 7 12 legge 203/91. Sostiene il ricorrente che i reati oggetto della imputazione nell'ambito del presente procedimento trovano la loro "genesi" nel delitto di cui all'art. 416 c.p. aggravato dall'art. 7 L. 203/91 e si inseriscono nell'ambito di tale contestazione. Il procedimento riguardante il reato associativo è stato oggetto di stralcio, culminato nella sentenza emessa ai sensi dell'art. 442 e ss. c.p.p. dal GUP dott. Gallo in data 24.1.2012. Tale pronuncia, non appellata dal P.M., sarebbe interdipendente funzionalmente e probatoriamente rispetto alla pronuncia oggetto di impugnazione. L'interdipendenza, secondo la difesa, sarebbe in re ipsa in quanto la imputazione associativa oggetto della sentenza Gallo prevede, tra i delitti scopo, quello di cui all'art. 648 ter c.p. ed i capi E) ed I) della presente pronuncia ricalcanAostanzialmente una imputazione di 416 bis c.p., in quanto la condotta ivi descritta è finalizzata ad agevolare il clan D'Alessandro. Esisterebbe quindi una "possibile incidenza processual-penale dell'apparato motivazionale della sentenza emessa dal Gup dott. Gallo rispetto a quella emessa dal GUP dott. Alabiso". La citata sentenza Gallo esclude che il clan D'Alessandro abbia investito capitali nell'attività dell'associazione che riguardava la gestione dei punti Intralot. In ordine alla esclusione dell'art. 7 L. 203/91, la difesa ripropone in questa sede le medesime argomentazioni adottate dal GIP dott. Gallo per pervenire alla sua esclusione incentrate sull'assenza di prove atte a dimostrare che ad investire danaro nell'attività riguardante la gestione dei centri Intralot di Castellammare sia stato il clan D'Alessandro e non il Carolei in proprio. I Giudici nella sentenza impugnata, ritenendo di configurare nei fatti il delitto di cui all'art. 648 ter c.p., unitamente all'aggravante di cui all'art. 7 L. 203/91, incorrono, secondo il ricorrente, in una evidente contraddizione rispetto al contenuto della sentenza emessa dal GIP dott. Gallo, dove è stato escluso l'impiego di capitale proveniente dal clan D'Alessandro nella creazione e gestione dei centri Intralot. Rileva il ricorrente che l'Avallone è stato condannato con sentenza definitiva per un delitto logicamente incompatibile con i delitti scopo contestati nel presente procedimento. Viene evidenziato che gli elementi costitutivi dei due delitti contestati (articolo 416 del codice penale aggravato ex articolo 7 legge 203/91 e articolo 648ter c.p. aggravato ex articolo 7) non sono ontologicamente diversi e strutturalmente incompatibili in quanto questi ultimi oggetto di specifici delitti scopo del consesso associativo. E proprio in relazione alla contestazione associativa viene rilevato che vi è agli atti un provvedimento definitivo avente ad oggetto la giuridica esclusione dell' aggravante e dei reati fine specificatamente contestati nell'ambito del presente procedimento. Secondo la difesa se tali rilievi non sono indicativi della violazione delle ne bis in idem palesano comunque un'incompatibilità logica della motivazione in relazione ad una presunta diversità tra le due contestazioni 3. violazione dell'articolo 606 lettera B) ed E) con riguardo agli articoli 192, 648 ter 13 codice penale e 7 legge 203 del 91. Contesta la valutazione data dalla corte territoriale alle dichiarazioni rese da Belviso Salvatore rilevando inoltre l'assenza di riscontri. Lamenta la mancata motivazione in ordine alla sussistenza dell'aggravante di cui all'articolo 7 e del dolo specifico richiesto per l'articolo 648 ter codice penale 4. violazione di legge, vizio della motivazione in relazione all'articolo 81. Lamenta omessa motivazione sul punto 5. violazione di legge vizio della motivazione con riguardo al trattamento sanzionatorio e alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche BONIFACIO Guolielmo, CAN NAVALE Vincenzo, CASCONE Francesco, IACCARINO Maria Teresa presentano personalmente un unico ricorso nel quale tutti deducono inammissibilità dell'atto di appello proposto dal pubblico ministero per inosservanza delle disposizioni dell'articolo 582 codice di procedura penale, quindi singolarmente deducono: BONIFACIO Gualielmo a. inutilizzabilità delle intercettazioni telefoniche (decreto numero 4725/08); b. inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dalla parte offesa Del Gaudio Raffaele per violazione dell'articolo 63 codice procedura penale c. vizio della motivazione in relazione alla pronuncia di responsabilità d. violazione di legge in ordine alla sussistenza dell'aggravante di cui all'articolo 7; CANNAVALE Vincenzo a. vizio della motivazione in relazione alla pronuncia di responsabilità . Si rileva che nessuna delle due persone offese,Lauri Francesco e Lauri Aniello, hanno riferito di alcun ruolo ricoperto dall'imputato. Viene evidenziato che la sentenza impugnata ha riportato il contenuto delle missive spedite da Cascone Vincenzo allo zio Cannavale Vincenzo dal carcere in totale contrasto con quanto dichiarato dalle persone offese. Viene rilevato che la stessa Corte d'Appello ben conscia di non poter porre rimedio alle predette discrasie ha parlato di uno stato di profondo timore in cui versavano le vittime, timore indotto dagli imputati. Si sottolinea la assurdità da un punto di vista processuale di porre una contraddittorietà probatoria a fondamento di una pronuncia di condanna. b. violazione di legge in ordine alla sussistenza dell'aggravante di cui all'articolo 7; CASCONE Francesco a. lamenta la mancanza di un penetrante e rigoroso esame delle dichiarazioni delle parti offese considerato che si verte in tema di delitti di usura, considerato che non può non tenersi conto della circostanza che il soggetto 14 V passivo è portatore di un interesse diretto a un determinato esito processuale, in quanto il processo pende nei confronti di un soggetto presunto usuraio rispetto al quale risulta una posizione debitoria o con il quale, comunque, ha avuto significativi rapporti economici b. In ordine ai reati di cui ai capi S) T) U) A2 si duole del riconoscimento dell'aggravante di cui all'art. 7 L. n. 203/91 Rileva in particolare: CAPO A2) vicenda Sorrentino che a fronte della pronuncia assolutoria intervenuta in primo grado la corte territoriale ritiene di pervenire ad una decisione di condanna basata su mere congetture e soggettive impressioni. Nei confronti dell'imputato non risulta formulata un'adeguata ipotesi commissiva rispetto al reato né un impianto probatorio forte circa lo svolgimento da parte dello stesso delle condotte meramente supposte. Analoghe considerazioni secondo il ricorrente valgono anche con riguardo alla ritenuta aggravante di cui all'articolo 7. La motivazione della sentenza impugnata disattende il principio dell'oltre ragionevole dubbio in quanto si fonda su un accertamento giudiziale non sostenuto da certezza razionale. CAPI S) T) U) vicenda LAURI che la pronuncia di condanna si fonda essenzialmente sulle dichiarazioni delle persone offese ritenute dal primo giudice inattendibili perché troppo discordanti tra loro. La Corte d'Appello si limita a giustificare tale contraddittorietà con un ritenuto stato di timore delle presunte vittime. Rileva il ricorrente che da un punto di vista procedurale è assurdo pensare che l'ammissione esplicita di una contraddittorietà probatoria possa aver dato luogo a una pronuncia di condanna considerato che il codice di rito all'articolo 530 comma due menziona la contraddittorietà come motivo di assoluzione. Rileva che nella realtà dei fatti le dichiarazioni delle parti offese non forniscono dati precisi ed univoci circa la natura della loro relazione con Cascone Francesco e neppure dalle conversazioni intercettate si ricava un contributo rassicurante circa la sussistenza di un prestito a tassi usurari in favore dei Lauri da parte del Cascone. Sempre con riferimento alle contraddittorie dichiarazioni delle parti offese la Corte d'Appello riconosce la sussistenza dell'aggravante di cui all'articolo 7 senza però mai dire in che cosa sia consistito il comportamento aggravato dai Cascone che doveva essere esplicitato in sentenza IACCARINO Maria Teresa quanto al capo Z) lamenta una motivazione meramente apparente. quanto al capo Al) rileva che il suo coinvolgimento in ordine all'usura in danno di Sorrentino Michele è fondata su due sole conversazioni telefoniche intrattenute dal Sorrentino con Cascone Michele (conversazione 7 aprile 2009 e 20 aprile 2009). 15 P/ Ritiene la ricorrente che nella valutazione della prova non sono stati tenuti in considerazione i principi che la governano in particolare non risulta formulata una prova adeguata circa lo svolgimento della Iaccarino di un ruolo attivo nella esazione e nella riscossione dei prestiti usurari. Sostiene che le conversazioni richiamate possono essere lette anche in senso opposto a quello valutato dalla Corte d'Appello che ha fondato la sua interpretazione su mere presunzioni. Ritiene insussistente anche la ritenuta aggravante del metodo mafioso. CASCONE Vincenzo, a mezzo dell'Avv. Gaetano Aufiero deduce: 1. inammissibilità dell'atto di appello proposto dal pubblico ministero per inosservanza delle disposizioni dell'articolo 582 o di procedura penale 2. nullità della sentenza per inosservanza degli articoli 191,254 353 codice di procedura penale, 18 18 ter ordinamento penitenziario mancanza di motivazione. Lamenta che la Corte territoriale ha ritenuto, respingendo l'eccezione difensiva che la corrispondenza epistolare, acquisita presso il detenuto Cascone Vincenzo, in violazione dell'art. 18 0.P., per non essere stato dato avviso al detenuto, era utilizzabile nell'ambito del presente giudizio, sul presupposto che il giudizio abbreviato consente la utilizzazione di prove acquisite, come nel caso in questione, anche in forma irrituale ad eccezione di quelle affette da nullità assoluta e patologica. Sostiene che la libertà Aia segretezza della corrispondenza costituiscono un diritto inviolabile anche nei confronti dei detenuti sacrificabile solo per esigenze attinenti le indagini e con la particolare procedura del cosiddetto visto di controllo da parte del magistrato di sorveglianza, con conseguente avviso al detenuto nel caso in cui, come nella specie, la corrispondenza sia trattenuta o sequestrata. Richiama sul punto sentenza delle sezioni unite di questa corte numero 28997 della 19 aprile 2012. 3. Nullità della sentenza per mancanza, contraddittorietà manifesta illogicità della motivazione nonché per travisamento della prova in relazione ai capi S) T) e U). Sostiene che la corte territoriale ha travisato il contenuto delle due missive inviate da Cascone Vincenzo a Cannavale Vincenzo e non si è resa conto che le conclusioni erano fermamente contrastate dalle ulteriori emergenze probatorie che non formavano oggetto di adeguata motivazione. I giudici d'appello ritenevano che le missive fossero riferibili alla vicenda Lauri solo perché in esse si faceva riferimento generico ad una somma di euro 15.000 che Cascone Vincenzo aveva chiesto al proprio zio Cannavale Vincenzo somma che, ad avviso del giudicante, era pari a quella che originariamente Lauri padre aveva dichiarato essere oggetto della restituzione di un prestito di euro 11.000. Secondo il ricorrente la Corte d'Appello avrebbe dovuto spiegare, anche in ragione del cambiamento di versione sia di Lauri padre che di Lauri figlio, nelle loro successive 16 Y..' dichiarazioni, perché a differenza di quanto dagli stessi successivamente dichiarato, la somma prestata ammontasse realmente ad euro 15.000 e non alle diverse somme dagli stessi dichiarati . Veniva altresì evidenziato che i giudici , avevano ritenuto le missive riferibild, alla vicenda Lauri perché si faceva riferimento ad un'intermediazione avvenuta due anni prima senza tenere conto che il rapporto usurario era sorto negli anni 2005 e 2006 e quindi tre o quattro anni prima delle missive. Inoltre i giudicanti non avevano tenuto conto che Cascone Vincenzo era detenuto ininterrottamente dal 2006 . In sintesi secondo il ricorrente l'unica informazione che emergeva dalle due lettere era quella relativa alla richiesta di recupero di una somma di denaro per far fronte alle spese legali da sostenere in vista dell'imminente celebrazione del giudizio di cassazione per una vicenda processuale che all'epoca vedeva l'imputato detenuto da oltre tre anni e mezzo. Veniva altresì aggiunto che le due missive sequestrate potevano al • massimo dimostrare il coinvolgimento del ricorrente nel rapporto usurario ma non certamente in quello estorsivo. 4. Nullità della sentenza per erronea applicazione dell'articolo 7 legge 203/91 in relazione ai capi S) T) ed U). Lamenta omessa motivazione con riguardo alla sua posizione. 5. Nullità della sentenza per la violazione di legge in relazione ai capi T) ed U) laddove ha escluso trattarsi di tentativo di estorsione 6. nullità della sentenza per inosservanza degli articoli 191,63, 64, 351, 362 e 197bis codice di procedura penale con riguardo alle dichiarazioni della parte offesa Del Gaudio Raffaele 7. nullità della sentenza per vizio della motivazione nonché travisamento della prova in relazione al capo O). Contesta la valutazione delle prove operate dai giudici di merito 8. nullità della sentenza per inosservanza ed erronea applicazione degli articoli 63 comma quattro e 99 codice penale. Lamenta che la sentenza impugnata nel determinare la pena comminata all'imputato ha erroneamente applicato il disposto dell'articolo 63 comma quattro codice penale esclusivamente con riferimento alla circostanza aggravante ad effetto speciale di cui all'articolo 7 legge 203/91, operando invece con riferimento alla recidiva, un autonomo aumento di pena rispetta alla pena base relativa al delitto di estorsione già aggravata. E ciò in inosservanza del disposto di legge e della sentenza delle sezioni unite numero 20798 del 2011. CANNAVALE Lazzaro a mezzo dell'Avv. Gaetano Aufiero deduce: 1. nullità della sentenza per inosservanza degli articoli 591 lett. d) e 589 codice procedura penale. Carenze contraddittorietà della motivazione. Ritiene il ricorrente 17 che la sentenza impugnata merita annullamento nella parte in cui non ha dichiarato l'inammissibilità dell'appello proposto dal pubblico ministero per sopravvenuta rinuncia allo stesso da parte del Procuratore Generale di udienza. 2. nullità della sentenza per inosservanza degli articoli 191,254 353 codice di procedura penale, 18 18 ter ordinamento penitenziario per gli stessi motivi di CASCONE Vincenzo; 3. nullità della sentenza per mancanza contraddittorietà manifesta illogicità della motivazione con riguardo ai reati di cui ai capi T) e U). Sostiene il ricorrente che i giudici d'appello non hanno indicato le ragioni per cui avevano ritenuto inattendibile Lauri solo con riferimento all'esclusione di responsabilità del Cannevale, considerato che proprio in ragione di un giudizio di inattendibilità complessivo il giudice di primo grado aveva mandato assolto l'imputato 4. nullità della sentenza per inosservanza ed erronea applicazione dell'articolo7 L. n. 203/91. Vizio della motivazione. Rileva il ricorrente la mancanza di motivazione con riguardo specifico all'imputato; 5. nullità della sentenza per inosservanza ed erronea applicazione degli articoli 56,629 393 codice penale. Vizio della motivazione. Ritiene il ricorrente che l'impugnata sentenza meriti annullamento nella parte in cui con riferimento ai capi T) ed U) ha escluso che potesse ricorrere l'ipotesi di tentata estorsione o il diverso delitto di cui all'articolo 393 codice penale. GAMBARDELLA Giuseppe e PALOMBA Ferdinando presentano personalmente distinti ricorsi aventi analogo contenuto. In particolare deducono: a. inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dalla parte offesa Maresca Luigi per violazione dell'articolo 63 codice procedura penale b. vizio di motivazione in ordine all'attendibilità della persona offesa. Sostengono che la Corte d'Appello di Napoli erra in punto di valutazione dell'attendibilità della parte offesa considerato che le inesattezze che vengono richiamate nel ricorso non sono affatto marginali considerato che riguardano anche il calcolo del tasso di interesse concretamente praticato. Sostengono inoltre che le dichiarazioni del Marasca contrastano con il contenuto delle intercettazioni telefoniche che vengono espressamente richiamate. c. Vizio di motivazione in ordine al diniego delle circostanze attenuanti generiche e all'entità della pena PALOMBA Ferdinando deduce anche: d. vizio di motivazione in relazione alla valutazione degli elementi probatori in ordine alla sua partecipazione concorsuale al delitto di cui al capo S) ed U) e carenza di 18 motivazione in ordine agli stessi delitti. Rileva che la sentenza impugnata capovolge il deciso di quella di primo grado basando il convincimento di colpevolezza su delle congetture condizionate dal rapporto già accertato con riguardo al delitto di cui al capo V di Palomba Ferdinando con Cascone Francesco. e. La corte territoriale non dice quale è stato l'apporto causale dato dal ricorrente. f. Violazione di legge e vizio della motivazione in relazione alla sussistenza dell'aggravante di cui all'articolo 7 legge 203/91. Viene rilevato che nessuna minaccia è stata profferita dal ricorrente e che il ragionamento utilizzato dalla corte territoriale per ritenere sussistente l'aggravante non trova riscontro neanche nel narrato delle parti offese. DI MAIO Egidio presenta personalmente ricorso deducendo: a. inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dalla parte offesa Del Gaudio Raffaele Ciro per violazione dell'articolo 63 codice procedura penale b. violazione di legge e vizio della motivazione in ordine alla sua partecipazione nel reato sostiene che non vi è stato alcun incarico conferito da Cascone Franco al DI Maio che si è limitato a riscuotere la somma prestata e non gli interessi pattuiti a seguito di richiesta della parte offesa. c. violazione di legge e vizio della motivazione in ordine al diniego delle circostanze attenuanti generiche NAPODANO Aniello e CASCONE Gennaro presentano personalmente distinti ricorsi aventi motivi in comune. Entrambi deducono: inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni telefoniche disposte con decreto numero 4725/08 del 30 ottobre 2008 e successivi decreti di proroga. Rilevano che in ambito cautelare si è registrato l'intervento della Suprema Corte che ha ritenuto la inutilizzabilità di tali intercettazioni. In particolare il Supremo Collegio, accogliendo l'eccezione sollevate dalle difese , riteneva l'inutilizzabilità delle conversazioni intercettate sull'utenza nr. 334/9899280,non essendo stato rispettato il principio di diritto che impone il "collegamento tra le indagini in corso e gli intercettandi" . Veniva in particolare evidenziata la circostanza che l'utenza in questione non appariva in uso all'indagato CAROLEI Paolo (soggetto attinto da elementi indizianti circa la deliberazione ed organizzazione del duplice omicidio di D'ANTUONO Carmine e DONNARUMMA Federico ed indicato,invece,a1 momento di disporre il monitoraggio della scheda quale utilizzatore della stessa). Su tale base le difese avevano eccepito l'inutilizzabilità anche in sede di merito delle 19 intercettazioni in questione. I ricorrenti sostengono di non condividere le argomentazioni espresse dalla Corte d'Appello che ha ritenuto che la riferibilità a Carolei Paolo della utenza per la quale era stata autorizzata l'intercettazione, rispondente al numero 334/9899280, risultava accertata in modo definitivo con la nota nr. 57/201-1 di prot. del 12.5.2011 dei CC. di Torre Annunziata (che è successiva all'ordinanza del Tribunale del Riesame e non è stata sottoposta al vaglio della Suprema Corte che si pronunciò sull'ordinanza del riesame in materia di libertà personale). In tale nota, secondo i giudici d'Appello, la P.G. indicava una serie di conversazioni registrate sulla predetta utenza, dalle quali si evince che il Carolei risultava autonomo utilizzatore di quel numero telefonico. Tale elemento, sebbene fosse emerso agli atti in modo completo e definitivo con la nota appena richiamata, era però esistente fin dal momento iniziale dell'attività di captazione autorizzata ed era stato già prospettato nella richiesta del 28.10.08 dagli organi di Polizia Giudiziaria al P.M e da questi al GIP, che ne aveva autorizzato lo svolgimento. Secondo i ricorrenti le argomentazioni della Corte di merito realizzano una sanatoria postuma del decreto autorizzativo non ammissibile anche alla luce degli insegnamenti delle SS della Suprema Corte ( sentenza 26.7.2007 n. 30347). Viene comunque evidenziato che la circostanza che il numero 334.98 99. 280 veniva utilizzato dal Carolei non risponde a verità in quanto nei primi 40 giorni di intercettazione l'Avallone dal proprio numero chiamava più volte il Carolei che aveva quindi la disponibilità di un diverso numero telefonico e comunque la nota dei carabinieri richiamata avrebbe dimostrato che la prima telefonata dal numero intercettato avviene in data 13 dicembre 2008 e quindi 40 gg. dopo il primo decreto. NAPODANO Aniello deduce anche: 1. vizio di motivazione in ordine alla sua partecipazione al delitto di cui ai capi F), I) ed N) e carenza di motivazione in ordine alla documentazione prodotta in sede di appello. Sostiene che la Corte d'Appello di Napoli ha disatteso la produzione documentale fornita dalla difesa in grado di dimostrare l'inesistenza del capo F) ed I) senza alcuna parola, così come non ha fornito alcuna motivazione in ordine al capo N). Sostiene che gli elementi posti a disposizione della Corte d'Appello e dalla stessa non presi in considerazione erano inequivocabilmente muniti di un chiaro carattere di decisività. Rileva altresì l'illogicità della motivazione nella parte in cui ritiene i collaboratori di giustizia, nella specie Polito non a conoscenza dell'interesse del clan d'Alessandro nelle attività delle scommesse perchè posizionato su una diversa scala rispetto a Belviso Salvatore. Sostiene che l'illogicità si rinviene laddove Polito Raffaele, escusso nel processo parallelo innanzi al tribunale di Torre Annunziata (il cui verbale era stato prodotto) aveva reso dichiarazioni che escludevano l'interesse del clan ; 2. vizio della motivazione in ordine ai capi G) ed H) relativamente alla valutazione degli elementi probatori a carico del ricorrente in ordine alla sua partecipazione. 20 Carenza di motivazione in ordine alla documentazione prodotta in appello. Sostiene che la Corte d'Appello di Napoli con riguardo ai capi in esame per riformare la sentenza assolutoria, ancorché in presenza di elementi sopravvenuti favorevoli all'imputato e non valutati, si è limitata alla prospettazione di una diversa valutazione del materiale probatorio già acquisito in primo grado ed ivi ritenuto idoneo a giustificare una pronuncia di colpevolezza, attraverso una motivazione caratterizzata da pari o addirittura minore plausibilità rispetto a quella operata dal primo giudice. 3. erronea applicazione della legge penale in relazione al capo N) . Rileva che la sentenza della Corte d'Appello ha confermato la condanna per il capo N), dove è contestato l'esercizio abusivo di scommesse attraverso il sito telematico illegale denominato "milanobet.com " limitandosi a riferirsi alle condivisibili motivazioni del primo giudice. Sostiene che dalle deposizioni dei testi richiamati ( Petriccione e M.Ilo Galdi) emerge che detto sito non venne mai utilizzato. 4. Erronea applicazione della legge penale riguardo aggravante di cui all'articolo 7. Rileva che i giudici non hanno indicato alcuna conversazione intercettata dalla quale si evince la consapevolezza del Napodano di agevolare la consorteria criminale del D'Alessandro attraverso le sue condotte CASCONE Gennaro 1. vizio di motivazione relativamente alla valutazione degli elementi probatori in ordine alla sua partecipazione al delitto di cui ai capi D) ed E) . Travisamento della prova in ordine alle dichiarazioni di Belviso Salvatore ed alle altre dichiarazioni dei propalanti. Lamenta che la corte territoriale ha travisato le dichiarazioni del Belviso che non ha mai fatto riferimento all'agenzia di Cascone Gennaro quale agenzia sottoposte al controllo del clan d'Alessandro e ha stigmatizzato le dichiarazioni degli altri collaboratori che hanno confermato che il clan d'Alessandro non era interessato al settore delle scommesse (Polito) e che addirittura il Cascone Gennaro era stato vittima di Belviso Salvatore di un'estorsione (Spera). Lamenta altresì che la corte territoriale non ha considerato la deposizione del teste Bruno Lener e del maresciallo Galdi. 2. Violazione di legge con riguardo all'aggravante di cui all'articolo 7 sotto il profilo dell'agevolazione. Sostiene che per la sussistenza dell'aggravante è necessaria non la semplice consapevolezza di favorire l'associazione, bensì la specifica finalità di favorirla insussistente, nel caso di specie 3. Vizio di motivazione in ordine al diniego delle circostanze attenuanti generiche. 4. vizio di motivazione in ordine alla confisca. Omessa motivazione con riguardo alla documentazione prodotta in sede di appello attestante la liceità dell'assenza di ogni collegamento probatorio tra l'impresa individuale del Cascone e i fatti per cui 21 è processo CAROLEI Paolo a mezzo del difensore Avv. Raffaele Chiummarello deduce che la sentenza impugnata è incorsa in: 1. inosservanza ed erronea applicazione della legge processuale penale per violazione del combinato disposto degli articoli 191 e 271 codice di procedura penale. Deduce: • inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni telefoniche disposte con decreto numero 4725/08 del 30 ottobre 2008 e successivi decreti di proroga per le stesse argomentazioni espresse dalla difesa Napodano e Cascone Gennaro; • inutilizzabilità delle captazioni avvenute in ambientale relative al decreto numero 1317/09 che ha autorizzato il ricorso agli impianti esterni senza che ricorressero le ragioni di urgenza richieste dall'articolo 268 comma tre codice di procedura penale • inutilizzabilità delle dichiarazioni rese da Romano Catello per violazione dell'articolo 141 bis del codice di procedura penale per mancata fonoregistrazione 2. inosservanza ed erronea applicazione della legge penale per violazione dell'articolo 12 quinquies L. 356/1992. Lamenta che con riguardo a dette imputazioni appaiono carenti tutti gli elementi univocamente individuati dalla giurisprudenza e rileva come la difesa abbia dimostrato in maniera inequivocabile, attraverso apposite indagini difensive la legittimità della provenienza dei beni sottoposto a sequestro e successivamente confiscati 3. inosservanza dell'applicazione di legge in relazione all'articolo 416 bis del codice penale nonché all'articolo 7 legge 203/91. Sostiene che il giudice di secondo grado ha fatto riferimento alla pronuncia del primo giudice senza alcun vaglio critico. Rileva che l'esistenza di plurime dichiarazioni convergenti non costituisce automaticamente prova della responsabilità del soggetto nei cui confronti sono dirette. Sostiene che in difetto della prova certa dell'appartenenza a strutture mafiose non può ritenersi sussistente l'aggravante di cui all'articolo 7 e come non possa ritenersi ascrivibile al ricorrente alcuna condotta caratterizzata dal metodo mafioso 4. inosservanza o erronea applicazione della legge processuale penale per violazione degli articoli 194 e 495 codice procedura penale. Rileva la difesa che la citazione di Belviso Salvatore ritenuta necessaria ai fini della decisione ex art. 441 co. 5 c.p.p. in seguito al deposito da parte dei difensori di una fonia relativa ad una intercettazione ambientale in un'auto, è stata ammessa quale prova contraria rispetto a quella difensiva che doveva essere quindi limitata a quell'ambito. Ne 22 consegue che il contenuto delle dichiarazioni "ultra petitum" non può essere utilizzato 5. inosservanza ed erronea applicazione della legge penale stante l' intercorsa violazione dell'articolo 81 codice di procedura penale. Si duole il ricorrente del mancato accoglimento della richiesta di continuazione tra il capo A) della rubrica e la sentenza della V sezione della Corte di Appello di Napoli del 16.5.2003 6. inosservanza dell'art. 581 codice procedura penale. Ribadiva la richiesta di inammissibilità dell'estensione dell'impugnazione del P.M. anche ai capi O) e Q) rispetto ai quali l'organo dell'Accusa non aveva richiesto espressamente la condanna. 7. Inosservanza ed erronea violazione di legge in particolare degli articoli 443 codice di procedura penale e 416 bis comma due codice penale che secondo il ricorrente integra una circostanza aggravante ad effetto speciale. 8. Mancanza manifesta illogicità della motivazione con riguardo all'affermazione della natura autonoma della figura del capo e promotore di cui all'articolo 416 bis del codice penale DI MARTINO Leonardo, a mezzo dell'Avv. Giovanni ESPOSITO FARIELLO, deduce che la sentenza impugnata è incorsa in: 1. violazione di legge processuale in punto di corretta individuazione dei requisiti formali, intrinseci ed estrinseci, che devono ex lege connotare il gravame proposto dalla pubblica, Accusa soprattutto in relazione alla individuabilità del soggetto preposto al deposito dell'atto, nonché violazione di norme processuali stabilite a pena di inammissibilità in relazione agli articoli 582,586 e 591.1 lett.c) codice di procedura penale. Lamenta che, pur figurando nell'impugnazione dell'organo del P.M. la firma del ricevente, con il relativo timbro del depositato, non è dato rinvenirsi alcuna indicazione circa il nominativo del soggetto incaricato dal P.M. alla presentazione dell'atto o alcun riferimento alla esistenza di una delega scritta o orale che sia - alla presentazione dell'atto di impugnazione presso la cancelleria del Giudice, proveniente dall'organo di accusa; 2. violazione di legge processuale in relazione alla corretta individuazione dei requisiti materiali legittimante l'ufficio di procura a ricorrere e ad avvalersi di impianti esterni per svolgere le operazioni di intercettazioni di conversazioni cosiddette ambientali, nonché il riferimento all'avvenuta utilizzazione di impianti appartenenti a privati presi a noleggio. Lamenta in particolare l'inutilizzabilità delle captazioni avvenute in ambientale relative al decreto numero 1317/09 sprovvisto di motivazione circa la insufficienza e inidoneità delle apparecchiature presenti nella procura della Repubblica di Napoli. Lamenta inoltre che gli impianti in concreto utilizzati per eseguire le intercettazioni appartenevano ad una ditta 23 privata e ciò in violazione dell'articolo 268 comma tre codice di procedura penale; 3. violazione di legge prevista a pena di nullità e di inutilizzabilità in punto di corretta instaurazione del contraddittorio in occasione ed in vista dell'accertamento tecnico non ripetibile (analisi tossicologica sulla sostanza stupefacente cadute in sequestro e conseguente distruzione) che non è stato proceduto dall'avviso ex articolo 360 codice di procedura penale all'indagato e al suo difensore, con assoluto nocumento per le attività difensive che avrebbero potuto essere attuate, soprattutto per avere privato di indagato della possibilità di promuovere incidente probatorio a norma del comma quattro dell'articolo 360 codice di procedura penale. Vizio motivazionale risultante dall'analisi svolta sul provvedimento impugnato e sulla memoria difensiva depositata all'udienza del 12 marzo 2012 nel corso del giudizio di primo grado. Rileva che la corte territoriale ha errato laddove ha affermato che l'eccezione è stata sollevata solo con i motivi di appello quando la stessa era già stata avanzata durante il giudizio di primo grado e precisamente nel corpo della memoria difensiva depositata all'udienza del 12 marzo 2012, proprio quando il difensore aveva rassegnato le proprie conclusioni; 4. inosservanza ed erronea applicazione della legge penale in relazione alla ritenuta integrazione degli elementi costitutivi del delitto di cui all'articolo 74 d.p.r. 309/90, soprattutto per non avere la Corte d'Appello colto il discrimine esistente tra detta fattispecie associativa e quella disciplinata dall'articolo 73, eventualmente aggravata ex articolo 80. Carenza contraddittorietà e manifesta illogicità della sentenza, risultante dal testo del provvedimento impugnato e da altri atti del procedimento ( in particolare sentenza emessa nei confronti di Di Martino Fabio dal giudice delle indagini preliminari del tribunale di Napoli Dott.ssa Pilla in data 15 maggio 2012, agli atti del presente processo); vizio di motivazione in punto di mancata compiuta analisi degli elementi favorevoli all'imputato. Evidenzia che la posizione del Di Martino Fabio, diversamente da quanto indicato dai giudici d'appello, non è stata stralciata per una diversa scelta processuale avendo anche costui definito il procedimento nelle forme del rito abbreviato. Rileva che la corte territoriale si è diffusa nell'affermare la ritenuta non applicabilità dell'effetto estensivo dell'impugnazione ex articolo 587 del codice di procedura penale, rilevando che non era neanche stata richiesta dal difensore che aveva prodotto la sentenza solo per porre la corte davanti a un giudicato assolutorio rispetto al quale la corte aveva l'obbligo di confrontarsi considerato in particolare che si trattava di un giudizio assolutorio di insussistenza del fatto. Confronto che nel caso di specie non è avvenuto . Contesta la valutazione delle prove operata dalla corte territoriale. 5. Inosservanza ed erronea applicazione della legge penale in relazione alla ritenuta integrazione, a carico del prevenuto, dei requisiti strutturanti il delitto di 24 coltivazione di sostanza stupefacente. Lamenta il travisamento del contenuto delle conversazioni intercettate in particolare delle conversazioni della 12 marzo 2009, 14 maggio 2009, 11 giugno 2009, 6 agosto 2009; 6. inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, in punto di corretta individuazione dei requisiti strutturanti una partecipazione associativa di tipo mafioso. Inosservanza ed erronea applicazione della legge processuale penale in relazione ai doverosi controlli, nella specie omessi, che il decidente avrebbe dovuto operare, con specifico riferimento al narrato dei collaboratori sulla credibilità della fonte, sull'attendibilità delle dichiarazioni e sull'esistenza di riscontri esterni individualizzati; 7. carenza di motivazione in relazione alla mancata analisi del motivo d'appello con il quale si invocava l'applicazione al prevenuto delle circostanze attenuanti generiche ai sensi e per gli effetti dell'articolo 62 bis del codice penale, risultante dal testo del provvedimento impugnato e dai motivi d'appello presentati DI MARTINO Leonardo, a mezzo dell'Avv. Alfredo GAITO, deduce che la sentenza impugnata è incorsa in: 1. erronea applicazione della legge penale, vizio di motivazione. Rileva il ricorrente che punto di partenza deve essere la fissità del compendio probatorio che nelle due fasi di merito non ha subito alcun integrazione, quindi se di cambiamento si può parlare questo riguarda semplicemente il differente convincimento del secondo giudice rispetto alla deliberazione del primo. Ciò posto rileva che per consolidata giurisprudenza della corte di cassazione la motivazione della sentenza d'appello che riforma la sentenza di primo grado deve caratterizzarsi da un obbligo peculiare di motivazione (c.d. motivazione rafforzata) nel senso che l'affermazione di responsabilità dell'imputato deve essere accertata oltre ogni ragionevole dubbio . In sintesi ritiene il ricorrente che è illegittima la pronuncia che dichiari la colpevolezza dell'imputato in luogo della precedente assoluzione nel caso in cui il giudice dei gravame si limiti a ritenere più persuasiva la propria lettura del materiale di causa rispetto a quella operata dal primo giudice. Questo a maggior ragione a fronte dei più recenti orientamenti della CEDU. Lamenta infatti che il giudice d'appello ha ribaltato il giudizio liberatorio sulla base di una mera rilettura del medesimo materiale probatorio, costituito sostanzialmente dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, senza che, oltretutto, a superare la forza del pregresso giudicato assolutorio, si sia giunti attraverso l'audizione del ricorrente e/o degli accusatori alcuni dei quali (esempio Belviso) sono stati esaminati solo nell'integrazione probatoria nel corso del giudizio abbreviato . 2. Erronea applicazione della legge penale. Violazione dei criteri di valutazione della prova. Vizio di motivazione. Ritiene che nel caso di specie non possa trovare 25 applicazione il principio della convergenza del molteplice perché i cosiddetti pentiti hanno riferito cose diverse, alcune delle quali apprese per sentito dire. Lamenta inoltre che l'esame delle chiamate in correità non è stato effettuato secondo le fasi specifiche della credibilità del soggetto, della credibilità del suo racconto e dei riscontri. Sostiene l'inconsistenza degli elementi probatori posti a base della sentenza impugnata 3. violazione di norme previste a pena di invalidità. Vizio di motivazione quanto all'accertamento della sussistenza dell'associazione volta a coltivazione e smercio di sostanze stupefacenti. Lamenta il ricorrente che la corte territoriale ha completamente frainteso le eccezioni difensive e la portata indiziante del materiale probatorio. Rileva che nel corso del giudizio era stata prodotta la pronuncia di assoluzione emessa dal giudice per le indagini preliminari Dott. Pilla del 17 maggio 2012 nel procedimento instaurato a carico di Di Martino Fabio figlio e coimputato dell'attuale ricorrente nel reato di cui all'articolo 74 DPR 309/90, all'esito del separato procedimento. Era stato evidenziato che la sentenza, passata in giudicato, aveva ritenuto insussistente l'associazione in argomento. Era stato pertanto richiesto di procedere ad una sorta di effetto estensivo di tale pronuncia oppure di tenerne in debito conto ai sensi dell'articolo 238 bis codice procedura penale. Rileva che alla corte partenopea era stato solo richiesto di valutare nel merito il principio di prova rappresentato dalla sentenza irrevocabile acquisita ai sensi e per gli effetti dell'articolo 238 bis. Lamenta che la motivazione data dalla corte territoriale non si è confrontata con il principio di prova rappresentato dalla sentenza irrevocabile acquisita. 4. erronea applicazione di legge e vizio di motivazione con riguardo alla violazione dell'articolo 74. Sostiene che il giudizio di condanna è arbitrario e non permette, al pari di quello relativo all'accertamento del reato di cui all'articolo 416 bis codice penale, di superare dubbi più che ragionevoli circa la affermata colpevolezza del ricorrente. Rileva che le chiamate e i contenuti dei colloqui intercettati appaiono infatti inconferenti rispetto all'addebito associativo . Quanto alla collocazione del ricorrente nella compagine criminosa viene rilevato l'inesistenza di dati e circostanze comprovanti l'effettivo svolgimento di un'attività rapportabile alla organizzazione ovvero direzione del gruppo. 5. Violazione di legge processuale prescritta pena di inutilizzabilità. Violazione dei criteri di valutazione della prova. Erronea applicazione della legge penale e vizio della motivazione riguardo alla violazione dell'articolo 73. Solleva eccezione di inutilizzabilità del decreto di urgenza numero 1317 del 2009. Rileva comunque la apoditticità della sentenza censurata per omessa motivazione in ordine al contributo del ricorrente 6. erronea applicazione della legge penale quanto al trattamento sanzionatorio e 26 vizio della motivazione. Lamenta che la corte territoriale ha operato sia l'aumento previsto dalle aggravante ad effetto speciale capo e promotore sia l'aumento previsto dall'articolo 99 comma 4 e 5 codice penale senza tenere conto che la recidiva è una circostanza aggravante ad effetto speciale con la conseguenza che una volta operato l'aumento per le circostanze ad effetto speciale relative alla norme incriminatrici il giudice non avrebbe dovuto applicare l'aumento automatico previsto dall'articolo 99 codice penale. Omessa motivazione in ordine alla richiesta delle circostanze attenuanti generiche. MOLINARI Annamaria, a mezzo dell'Avv. Alfredo GAITO, deduce, dopo essersi preliminarmente richiamata ai motivi di ricorso presentati dal coimputato Di Martino Leonardo, che la sentenza impugnata è incorsa anche in: 1. erronea applicazione della legge penale e vizio della motivazione posto che il giudice d'appello ha riformato il giudizio liberatorio sulla base di una rilettura delle conversazioni intercorse presso la sala colloqui del carcere di Sulmona e di una diversa valutazione di generiche dichiarazioni dei collaboratori che in ogni caso non avevano riguardato la Molinari, senza alcun contatto diretto con le fonti e senza procedere all'esame dell'imputata; 2. violazione del procedimento probatorio, elusione dei criteri di valutazione della prova, vizio di motivazione quanto all'accertamento della sussistenza dell'associazione volta alla coltivazione e allo smercio di sostanze stupefacenti. Rileva che il racconto dei tre collaboratori non ha riguardato in alcun modo la Molinari. Racconti che sono contenutisticamente differenti con la conseguenza che l'assunto motivazionale della corte territoriale, laddove ha affermato che " tali dichiarazioni dimostrano come i Di Martino potessero fare affidamento su ben determinati canali di smercio dello stupefacente," è del tutto arbitrario e illogico. Analoga valutazione viene effettuata con riferimento al contenuto dei colloqui intercettati. Ritiene la ricorrente apodittica la sentenza anche con riguardo al suo contributo. 3. violazione di norme processuali. Viene ribadita l'inutilizzabilità delle conversazioni ambientali registrate presso la casa di lavoro di Sulmona e violazione dei criteri di valutazione del materiale decisorio. Vizio di motivazione. Si sostiene che anche con riguardo alla partecipazione dell'imputata nel reato sub C) la sentenza è meramente apodittica. Viene rilevato che il dato è ancora più rilevante a fronte del silenzio serbato nei confronti del sequestro della piantagione del 28 luglio 2010, ove la riferibilità alla ricorrente della coltivazione in discorso è del tutto arbitraria anche in considerazione della circostanza cronologica rappresentata dall'interruzione delle operazioni captative dal settembre 2009. I giudici di secondo grado hanno criticamente recepito i motivi di appello senza fornire alcuna 27 risposta alle deduzioni critiche presentate dalla ricorrente, specificatamente richiamate nel ricorso; 4. erronea applicazione di legge quanto al trattamento sanzionatorio. Vizio della motivazione si lamenta in particolare l'omesso riconoscimento delle attenuanti generiche. MOLINARI Annamaria, a mezzo dell'Avv. Filippo Torrente, deduce che la sentenza impugnata è incorsa in: 1. violazione di legge in riferimento agli articoli 74 d.p.r. 309 90 e il 192 codice di procedura penale. Vizio di motivazione emergente dal testo della sentenza impugnata. Lamenta la ricorrente l'incoerenza logica dell'impianto motivazionale circa la sussistenza della contestata associazione e la ritenuta sua partecipazione sostiene che la corte territoriale al fine di sminuire la portata in chiave difensiva della sentenza della 17 maggio 2012 si è arrogata un potere giurisdizionale in maniera del tutto arbitrario, cioè quello di censurarla come se fosse stato il giudice di appello, dimenticando che si trattava di sentenza irrevocabile acquisita ai sensi dell'articolo 238 bis del codice di procedura. Ritiene che sia stata del tutto pretermessa la valutazione ai sensi del terzo comma dell'articolo 192 . Considera del tutto assertiva la motivazione della sentenza che non evidenzia l'attività realizzata dalla Molinari nel reato contestato. Sostiene che in ogni caso anche la rivalutazione del materiale probatorio operata dalla Corte d'Appello si fonda su una motivazione illogica fondata su mere supposizioni. In particolare sottolinea che dalle prove non emerge la predisposizione di una stabile struttura permanente per la coltivazione dello stupefacente e per la distribuzione commerciale. Manca la suddivisione in ruoli, l'individuazione di stabili acquirenti o spacciatori, di stabili percorsi di narcotraffico, circostanze tutte necessarie per poter tracciare un minimo profilo organizzativo dell'associazione; 2. violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla ritenuta la partecipazione della ricorrente all'associazione di cui al capo B). Viene eccepita la inutilizzabilità delle captazioni ambientale intervenute nella casa di lavoro di Sulmona per le stesse ragioni indicate nel ricorso del coimputato di Martino Leonardo; 3. Travisamento della prova con riguardo alle eccezione relativa all'accertamento tecnico irripetibile. Rileva che l'eccezione, diversamente da quanto indicato dalla corte territoriale, era stata sollevata nel corso delle giudizio di primo grado. Contesta la non deducibilità della eccezione in sede di giudizio abbreviato 4. vizio di motivazione in ordine alla valutazione degli elementi probatori relativi alla partecipazione della ricorrente nei reati sub B) e C). Viene contestata in particolare la evidente contraddizione in cui sono incorsi il giudice di secondo 28 grado nella valutazione delle conversazioni intercettate ponendo l'accento sul fatto che la corte territoriale non ha indicato la conseguenza temporale di alcuni episodi (colloquio 27 agosto 2009 risulterebbe confermato da un colloquio avvenuto due mesi prima ) e sull'assertività delle conclusioni nella valutazione delle prove DI MARTINO Michele, a mezzo dell'Avv. Vincenzo Maiello, deduce che la sentenza impugnata è incorsa in: 1. inosservanza di legge in relazione al decreto autorizzativo di intercettazioni audiovideo numero 1317/09 2. inosservanza di legge e vizio della motivazione in relazione alla utilizzazione degli esiti dell'accertamento tecnico effettuato ai sensi dell'articolo 360 codice di procedura penale sulle piante sottoposte a sequestro. Vengono sollevate sul punto le medesime censure presentate dai coimputati 3. vizio della motivazione ed erronea applicazione dell'articolo 73 d.p.r. 309/90. Lamenta che il difensore con il motivo di gravami aveva proposto alla corte territoriale una diversa lettura dei soli due colloqui nei quali il giudice di prime cure aveva intravisto elementi indiziari utilizzati per l'affermazione di responsabilità. Lamenta la lacunosità della risposta della corte territoriale elusiva dei criteri fissati dalla giurisprudenza di questa corte in tema di interpretazione delle intercettazioni telefoniche ed ambientali 4. violazione ed erronea applicazione degli articoli 649, 587 codice procedura penale in relazione all'articolo 74 d.p.r. numero 309/90. Sostiene richiamando la sentenza di questa corte numero 7804 del 28 febbraio 2000 l'effetto estensivo della sentenza di assoluzione irrevocabile pronunciata nei confronti di Di Martino Fabio giudicato separatamente. 5. Inosservanza dell'articolo 74 in relazione all'articolo 606 comma uno lettera b) ed e) codice procedura penale. Si evidenzia la palese incompletezza dell'apparato argomentativo della sentenza impugnata con riguardo alla partecipazione associativa dell'imputato 6. violazione di legge in ordine alla determinazione della pena. Lamenta la mancata concessione dell' ipotesi attenuata e delle circostanze attenuanti generiche; CASCONE Francesco, IACCARINO Maria Teresa depositavano in data 27 maggio 2014 motivi nuovi con i quali veniva argomentato l'errore procedimentale e decisorio della corte del gravame che ha ribaltato la pronuncia liberatoria attraverso la mera rilettura degli atti, senza procedere alla rinnovazione della istruttoria dibattimentale. CASCONE Vincenzo presentava motivi nuovi finalizzati a meglio specificare le censure indicate nel quarto e quinto motivo di ricorso CAROLEI Paolo presentava motivi aggiunti con i quali ribadiva le argomentazioni sollevate 29 nei motivi principali e solleva violazione dell'art. 606 lett. c) in riferimento all'art. 127 e 599 c.p.p. con conseguente violazione del diritto di difesa per omesso provvedimento di riunione della sua posizione, separata all'udienza del 3.5.2013 e mai più riunita al fascicolo principale con conseguente nullità della sentenza. AVALLONE Francesco presentava memoria e depositava note di udienza con le quali ulteriormente illustrava le doglianze di cui ai motivi sub 1 e 2 del ricorso. DI MARTINO Leonardo e MOLINARI Anna presentavano motivi nuovi con i quali, quanto alla reformatio in pejus di alcune ipotesi delittuose, sottolineavano i limiti e le condizioni che la giurisprudenza europea e di legittimità pone all'adozione di una decisione di colpevolezza a fronte di una pregressa assoluzione dinanzi al medesimo materiale istruttorio. Rilevavano che in un meccanismo di accertamento votato all'equità processuale, in cui il controllo nel merito diviene lo strumento attraverso cui contemplare e rendere effettivo il quadro delle garanzie individuali, il secondo grado di giudizio non può essere caratterizzato da un soliloquio del giudice e da una celebrazione sostanzialmente cartolare, ma deve necessariamente perseguire quell'attività "del conoscere per accertare" che costituisce l'unica via per giungere ad una decisione che possa definirsi "giusta". Sostengono che ad esigerlo non è solo la giurisprudenza europea, ma lo stesso paradigma processuale imposto dalla C.e.d.u. in cui il diritto di difendersi provando, il contraddittorio orale delle parti, così come il principio di immediatezza che presiede il rapporto diretto tra il giudice chiamato a decidere e gli elementi conoscitivi su cui si fonda la stessa decisione, divengono le linee guida lungo le quali ogni vicenda giudiziaria deve inevitabilmente assestarsi. E ancora di più se si tratta di una sentenza di condanna in riforma di una precedente assoluzione. Lamentano che la Corte d'Appello ha escluso nella vicenda concreta la riassunzione della deposizione della prova dichiarativa a carico sul presupposto tacito che il diverso apprezzamento della prova dichiarativa fosse avvenuto solamente sotto il profilo della attendibilità estrinseca e cioè alla luce di altri elementi eventualmente trascurate in primo grado e che dunque la riforma in appello in pejus della prima pronuncia non avessi in alcun modo pregiudicato concretamente i diritti degli imputati posto che si osservava anche che gli stessi non avevano neppure chiesto la rinnovazione del dibattimento. Con riguardo a tale ultima affermazione veniva rilevato che nulla avrebbe impedito di adottare tale misura d'ufficio come riconosciuto anche dalla giurisprudenza europea nella sentenza Manolachi c.Romania dove è stato osservato che pur in assenza di espressa richiesta di nuovo esame dei testimoni da parte dell'imputato il giudice del ricorso (sia) tenuto ad adottare d'ufficio misure positive a tale scopo anche se ciò non è espressamente richiesto dal ricorrente. Veniva altresì evidenziato che questa Corte nella sentenza 29 novembre 2012 aveva ritenuto che il giudice d'appello qualora intenda riformare la precedente sentenza di assoluzione deve procedere alla rinnovazione dell'istruzione dibattimentale per l'audizione dei testimoni ritenuti inattendibili, a nulla rilevando che il procedimento in 30 primo grado fosse stato definito con rito abbreviato. CONSIDERATO IN DIRITTO Prospettando alcuni dei ricorsi delle eccezioni e deduzioni, talora di carattere preliminare, suscettibili di influire, ove ritenute fondate, sulla decisione delle impugnazioni proposte anche dagli altri ricorrenti, si ritiene opportuno, anche per evitare inutili ripetizioni, far precedere una specifica trattazione delle stesse alla compiuta disamina dei motivi "specifici" proposti da ciascun ricorrente. Inammissibilità dell'atto di appello del P.M. Il difensore di DI MARTINO Leonardo sostiene l' inammissibilità dell'atto di appello proposto dal P.M. per inosservanza delle modalità dettate dall'art. 582 c.p.p. Il difensore lamenta che, pur figurando nell'impugnazione dell'organo del P.M. la firma del ricevente, con il relativo timbro del depositato, non è dato rinvenirsi alcuna indicazione circa il nominativo del soggetto incaricato dal P.M. alla presentazione dell'atto o alcun riferimento all'esistenza di una delega - scritta o orale che sia - alla presentazione dell'atto di impugnazione presso la cancelleria del Giudice. L'art. 582 c.pp.p. prevede che, in assenza di diversa disposizione di legge, l'atto di impugnazione è presentato personalmente ovvero a mezzo di incaricato nella cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato. Il pubblico ufficiale addetto ha l'obbligo di apporvi l'indicazione del giorno in cui riceve l'atto e della persona che lo presenta, di sottoscriverlo, di unirlo agli atti del procedimento e di rilasciare, se richiesto, attestazione della ricezione. A norma dell'art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c), l'impugnazione è inammissibile quando non sono osservate le disposizioni del menzionato art. 582. Peraltro, detta inammissibilità si configura solamente ove vi sia concreta incertezza sulla legittima provenienza del gravame dal soggetto titolare del relativo diritto e non anche quando l'identità della persona appaia desumibile dal complessivo esame del documento. L'inammissibilità può, in altre parole, essere pronunciata soltanto se la violazione, che è addebitabile al pubblico ufficiale ricevente, assuma caratteristiche tali da far escludere anche la possibilità della presunzione della legittima provenienza dell'atto, ne', in proposito, alcun onere di controllo può essere ascritto a colui che lo presenta sull'operato della persona addetta a riceverlo (Cass. 1^ 14 marzo 1991, Leanza, RV 187970; Cass. 2^ 11 aprile 2000, Mannuccia, RV 215911; Cass. 2^ 9 ottobre 2002, Gregory, RV 224854). E' indubbio che l'impugnazione in questione è stata presentata dall'organo dell'Accusa mediante deposito presso la cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento. 31 V Ciò detto con riferimento alla previsione del comma 1 dell'art. 582 c.p.p., deve rilevarsi che quando parte impugnante è il pubblico ministero, la giurisprudenza di legittimità ha precisato che al novero dei soggetti abilitati alla presentazione appartengono coloro che siano a ciò espressamente delegati, anche in forma orale, purché tale loro qualità sia desumibile dalla natura dei rapporti o delle relazioni intercorrenti fra il presentatore e il sottoscrittore dell'atto. Il pubblico ministero, dunque, può avvalersi di tale disposizione dando incarico a persona addetta al suo ufficio la quale, fungendo da mero tramite materiale ai fini della presentazione dell'atto nella cancelleria del giudice competente, non necessita di un formale atto di delega, atteso il rapporto di "immedesimazione organica" per cui l'attività materiale del dipendente, nell'ambito delle funzioni demandate all'ufficio di cui fa parte, non può che essere ricondotta a disposizioni impartite dal titolare dell'ufficio stesso o da chi ne fa le veci (la casistica da conto di fattispecie in cui il Procuratore della Repubblica aveva dato incarico a un autista addetto all'ufficio: v. Cass. Sez. 6, sent. 7 luglio 2006, Sicuranza e altri; Cass. Sez. 2, sent. 12 giugno 2002, n. 35345, Cordella; Cass. Sez. 5 sent. 21 ottobre 1998, n. 12754, Trimarco; Cass. Sez. 6, Sent. 26/02/1997, n. 4947 Musca e altro). Deve quindi ribadirsi che "non è causa di inammissibilità dell'impugnazione proposta dal pubblico ministero il fatto che, in sede di attestazione dell'avvenuta presentazione del gravame, sia stata omessa, da parte del pubblico ufficiale addetto alla ricezione, l'indicazione, prevista dall'art. 582, comma 1, c.p.p., della persona che ha provveduto alla presentazione stessa, quando, come nel caso in esame, la chiara intestazione dell'atto di impugnazione Procura della Repubblica, la firma del magistrato ed il timbro dell'ufficio, nonché il timbro dell'ufficio ricevente, con l'indicazione della data e la sottoscrizione del pubblico ufficiale addetto non lascia dubbi circa l'avvenuta identificazione di detta persona" (Cass. Sez.1, sent. 2.4.1992 n. 1448, Liberati; Cass. Sez. 2, sent. 11 4.2000 n. 2017, Mannuccia; e da ultimo, Cass. Sez. 5, sent. 25.5. 2006, n. 506, Genovese e altri; Cass. Sez. 1, sent. 5.11. 2009 n. 46171, Tancredi) . Il difensore di Cannavale reitera l'eccezione sollevata di rinuncia implicita all'appello promosso dal P.M., considerato che il P.G. di udienza per taluni imputati o talune imputazioni aveva chiesto la conferma della pronuncia di assoluzione emessa dal Giudice di primo grado. L'eccezione è manifestamente infondata. In ordine alle conclusioni del P.M. in udienza presso la Corte di Appello trova applicazione il consolidato principio affermato dalla giurisprudenza di questa Corte (N. 10855 del 1982 Rv. 156152, N. 2529 del 1996 Rv. 204577, N. 8005 del 1997 Rv. 209085, N. 8204 del 1998 Rv. 211360, N. 40433 del 2003 Rv. 228437, N. 43363 del 2005 Rv. 232454, N. 42157 del 2006 Rv. 235567; N.. 1591 del 2009 Ud. Rv. 245754) secondo cui "non può ravvisarsi una rinuncia all'impugnazione nella richiesta del rappresentante della pubblica accusa il quale, nel giudizio scaturito da un gravame del pubblico ministero, solleciti la 32 conferma del provvedimento impugnato, posto che tale richiesta esprime solo una valutazione circa il merito della questione sottoposta a giudizio". È stato in proposito precisato che "il Pubblico Ministero presso il giudice dell'impugnazione può sì rinunciare al gravame proposto da altro PM ma la rinuncia può essere effettuata entro un termine espressamente stabilito e cioè prima dell'inizio della discussione (art. 589 c.p.p., comma 1) con dichiarazione espressa ricevuta dal cancelliere o inserita nel processo verbale dell'udienza prima del termine suindicato. Pertanto non può essere preso in considerazione, come atto di rinuncia all'impugnazione per acquiescenza, la richiesta dibattimentale del Procuratore Generale di conferma della decisione impugnata da altro Pubblico Ministero: ciò non solo perché tale richiesta, (intesa come rinuncia), non rispetterebbe i termini di cui all'art. 589 c.p.p., ma anche perché manca nel processo penale, a differenza che in quello civile (art. 329 c.p.p.) una norma che preveda l'acquiescenza come causa di estinzione del diritto all'impugnazione vigendo il diverso principio della natura esclusivamente formale dell'atto processuale di rinuncia all'impugnazione". In altri termini la rinuncia all'impugnazione, che è un negozio formale, non può desumersi dalla richiesta di assoluzione dell'imputato formulata dal pubblico ministero d'udienza. Inutilizzabilità delle intercettazioni telefoniche In ordine alla utilizzabilità delle intercettazioni svolte sull'utenza n. 3349899280 autorizzate con decreto n. 4725/2008 deve ricordarsi che, come indicato dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass. Sez. 6, n. 12722 del 2009 Rv. 243241; Sez. 6 n. 29594 del 2011) se è vero che per legittimare l'intercettazione di conversazioni non si richiedono gravi indizi di colpevolezza, ma bastano "gravi indizi di reato" (art. 267 c.p.p., comma 1) e che questi possono anche riguardare soggetti diversi dagli intercettandi, è però altrettanto vero che l'intercettazione può disporsi soltanto quando "è assolutamente indispensabile ai fini della prosecuzione delle indagini", requisito essenziale di legittimità che deve costituire specifico oggetto di motivazione. E per giustificare l'indispensabilità ai fini della prosecuzione delle indagini, la motivazione deve necessariamente dar conto delle ragioni che impongono l'intercettazione di una determinata utenza telefonica che fa capo ad una specifica persona e, perciò, non può omettere di indicare il collegamento tra l'indagine in corso e l'intercettando. Applicando detto principio questa Corte con la sentenza n. 29594 dell'8.7.2011 ha annullato con rinvio per nuovo esame sul punto l'ordinanza con la quale, in data 14.2.2011, il Tribunale di Napoli, adito ex art. 309 c.p.p., aveva confermato la misura cautelare della custodia in carcere disposta nell'ambito del presente procedimento nei confronti di Avallone Francesco e Cascone Ciro sul presupposto che nel caso in esame era pacifico che l'attività di intercettazione era iniziata 33 con riferimento alle indagini in ordine ad un duplice omicidio ritenuto commesso nel contesto delle attività criminali organizzate nel territorio dei Comuni di Gragnano, Castellammare di Stabia e Santa Maria la Carità e che tali intercettazioni erano mirate alla utenza che, secondo gli inquirenti, apparteneva a Carolei Paolo, accusato da un dichiarante di essere colui che gli aveva dato l'incarico (non accettato) di uccidere una delle due vittime. Il numero telefonico indicato dal dichiarante e individuato come appartenente a Carolei (3349899280) era invece una utenza dell'indagato Avallone Francesco e, prima ancora, della sorella di quest'ultimo, e nessuna telefonata risultava essere stata effettuata dal Carolei su tale utenza. Premesso che "in tema di utilizzabilità della prova, il fatto che l'inutilizzabilità sia stata dichiarata nel corso del procedimento incidentale de libertate svoltosi durante le indagini preliminari, anche se con il vaglio della Corte di cassazione, non ha alcun effetto preclusivo sulla sua utilizzazione in sede di giudizio, dal momento che il problema dell'utilizzabilità delle prove si pone esclusivamente con riferimento al dibattimento, ed ogni valutazione compiuta in proposito in tema di procedimento cautelare non può vincolare il giudice del dibattimento" (Cfr. Cass., N. 5501 del 1996 Rv. 205649, N. 1495 del 1998 Rv. 210551, N. 19331 del 2007 Rv. 236414, N. 33810 del 2007 Rv. 237154, N. 14653 del 2010 Rv. 236870, N. 16285 del 2010 Rv. 247265 n. 40301 del 2012 Rv. 253842) deve però rilevarsi che l'attività di intercettazione sull'utenza in argomento è stata disposta e si è sviluppata in piena adesione ai principi di diritto indicati dalla corte di cassazione nella sentenza n. 29594. I giudici d'Appello, richiamando sul punto la decisione del primo giudice, hanno infatti dato atto che la riferibilità a Carolei Paolo della utenza per la quale era stata autorizzata l'intercettazione, rispondente al numero 334/9899280, seppure era emersa agli atti in modo completo e definitivo con la nota nr. 57/201-1 di prot. del 12.5.2011 dei CC. di Torre Annunziata ( non contenuta negli atti sottoposti al vaglio della Suprema Corte) che indicava una serie di conversazioni registrate sulla predetta utenza, dalle quali si evinceva che il Carolei risultava autonomo utilizzatore di quel numero telefonico, era esistente fin dal momento iniziale dell'attività di captazione autorizzata ed era stata già prospettata nella richiesta del 28.10.08 dagli organi di Polizia Giudiziaria al P.M e da questi al GIP, che ne aveva autorizzato lo svolgimento. In particolare viene indicato in sentenza che i Carabinieri di Castellammare di Stabia in data 28.10.08 avevano redatto un'annotazione che riguardava le indagini in corso di svolgimento sul duplice omicidio D'Antuono - Donnarumma evidenziando che Napodano Giuseppe, affiliato al clan D'Alessandro, in occasione del suo arresto aveva reso una serie di dichiarazioni affermando tra l'altro, il coinvolgimento di Carolei quale mandante della uccisione del D'Antuono perché concorrente nella gestione delle estorsioni, richiedendo la intercettazione della utenza n. 3349899280 indicata come in uso al predetto. Nel momento in cui con decreto del 29 ottobre 2008 (all'indomani dell'agguato) veniva disposta e convalidata l'intercettazione dell'utenza in argomento la 34 dichiarata finalità investigative era proprio quella di intercettare su questo recapito le telefonate direttamente riconducibili al CAROLEI o comunque direttamente ricollegabili alla sua figura e le risultanze investigative (specificatamente richiamate dal primo giudice a pagina 114 della sentenza) hanno consacrato che si trattava effettivamente di un'utenza nella disponibilità del CAROLEI o comunque riconducibile allo stesso. I giudici di merito hanno correttamente ritenuto che l'utilizzo di tale numero telefonico da parte del CAROLEI, essendo una circostanza preesistente rispetto al provvedimento autorizzativo, già individuata dagli inquirenti all'atto della richiesta e valutata dal GIP in sede di convalida, rendeva legittima e rituale l'attività di intercettazione. La successiva nota dei Carabinieri di Torre Annunziata del 12.5.2011, attestante "ab origine" la riconducibilità al Carolei della utenza predetta non rappresenta una "sanatoria" o una integrazione postuma, come sostenuto dalla difesa, in quanto tale nota non fa altro che rendere manifesta l'esistenza di quel preciso collegamento, già valutato dal Gip al momento dell'emissione del provvedimento, tra uno degli utilizzatori di detta utenza (il Carolei) e le indagini in corso, a nulla rilevando il fatto che la suddetta utenza, effettivamente riferibile al CAROLEI, fosse utilizzata, in larga misura, anche dall'AVALLONE Francesco, "braccio destro" del CAROLEI. In ordine alla eccepita inutilizzabilità delle intercettazioni disposte con decreto n. 1317/09 per insufficienza della motivazione del decreto di esecuzione delle intercettazioni emesso dal P.M. che autorizzava il ricorso ad impianti esterni alla Procura va precisato, anzitutto, che le "regole di giudizio" enucleate dai giudici di merito per deliberare sul punto, devono ritenersi senz'altro corrette, condivisibili e conformi ai principi ripetutamente affermati da questa Corte. In particolare, avuto riguardo alle deduzioni difensive riproposte nei ricorsi, deve ribadirsi che la motivazione svolta dai giudici di appello sul punto, nelle sue linee teoriche, è senz'altro corretta, dal momento che il richiamo alla "indisponibilità" degli impianti non è meramente ripetitivo della formula normativa che richiede impianti insufficienti o inidonei e, come ricordato da S.U., sentenza n. 919 del 26/11/2003, dep. 19/01/2004, imp. Gatto "una volta evidenziata l'indisponibilità delle linee non occorre indicarne anche le cause, perché è la situazione obiettiva che rileva ai fini della motivazione, ed essa ben può essere attestata dal pubblico ministero presso il quale sono installati gli impianti di intercettazione". E ne' S.U. sentenza n. 2737 del 29/11/2005, imp. Campenni, ne' S. U., sentenza n. 30347 del 12/7/2007, imp. Aguneche si sono discostate sul punto dalla precedente, osservando anzi che (S.U. Aguneghe) : "... quanto alla motivazione del decreto del p.m. reso ai sensi dell'art. 263 c.p.p., comma 3, non può non ribadirsi che, quali che siano le espressioni lessicali usate (che possono anche essere estremamente concise, come nel caso in cui si dia atto della indisponibilità degli impianti), "ciò che rileva è... che si possa dedurre l'iter cognitivo e valutativo seguito... e se ne possano conoscere i risultati che siano conformi alle prescrizioni di legge" essendo "l'esistenza di una obiettiva situazione di insufficienza o di inidoneità che deve emergere 35 dalla motivazione del decreto"). Laddove, con riferimento a detto requisito, nessuno dei ricorrenti ha mai dedotto che vi fossero, all'opposto, all'interno della Procura impianti disponibili o idonei, limitandosi a prospettare censure che attengono all'aspetto motivazionale - che, come precisato dai giudici di merito, non era assente ne' apparente e non all'effettiva indisponibilità o inidoneità degli impianti. Al riguardo non è superfluo ricordare, inoltre, che sin da S.U., sentenza n. 17 del 21/6/2000, imp. Primavera (nello stesso senso S.U., sentenza n. 45189 del 17/11/2004, imp. Esposito e le successive) è principio consolidato che solo la mancanza - tale dovendosi intendere anche la mera apparenza o l'assoluta incongruità - della motivazione dei decreti che autorizzano o prorogano le operazioni di intercettazioni comporta l'inutilizzabilità dei risultati delle operazioni captative. Mentre il difetto della motivazione - che si ha allorché questa sia incompleta, insufficiente, non perfettamente adeguata, affetta da vizi che non negano, ne' compromettono la giustificazione, ma la rendono non puntuale - è emendabile dal giudice cui la doglianza venga prospettata - ovverosia dal giudice del merito che deve utilizzare i risultati delle intercettazioni o dal giudice dell'impugnazione nella fase di merito o in quella di legittimità - e, non costituendo diretta violazione del precetto dell'art. 15 Cost., non conduce all'inutilizzabilità patologica delle captazioni. Del tutto condivisibili - e conformi a principi ripetutamente affermati da questa Corte (in termini si veda ex multis, Sez. 1, Sentenza n. 29188 del 29/03/2011, dep. 21/07/2011, Rv. 250754, imp. D'Iorio) - si rivelano, anche le considerazioni svolte dai giudici di appello con riferimento al concetto di "inidoneità tecnica" degli impianti della Procura e l'adeguatezza della motivazione dei provvedimenti autorizzativi, "tutte le volte in cui nel decreto (o nell'informativa per relationem) viene indicata la necessità di ricorrere al noleggio delle apparecchiature da parte di una ditta privata" ed "in tutte le ipotesi in cui è stata indicata la necessità di procedere alla captazione di conversazioni ambientali sia dell'audio che del video, ad esempio nei casi di colloqui in carcere", ciò risultando impossibile per mezzo delle postazioni installate presso l'Ufficio procedente. In materia di intercettazioni, l'obbligo di impiego di congegni in dotazione alla polizia non attiene allo strumento giuridico (compravendita, comodato, locazione etc.) attraverso cui la P.G. si procura le apparecchiature - che possono anche restare di proprietà del privato - ma impone a terzi il divieto di accedere alla strumentazione fin quando essa è utilizzata per l'intercettazione (Cass. Penale sez. 6^, 28514/2005, Rv. 231748, Contorno. Massime precedenti Conformi: N. 40330 del 2003 Rv. 227602, N. 48461 del 2004 Rv. 230757). In buona sostanza in materia di intercettazioni ambientali è legittima, in caso di urgenza e nel caso in cui la polizia giudiziaria non sia dotata delle necessarie apparecchiature, l'utilizzazione di impianti e mezzi appartenenti a privati, purché le operazioni, autorizzate con decreto motivato del P.M., avvengano - come nel caso di specie, perché non contestato - sotto il diretto controllo degli organi di polizia giudiziaria, di modo che, in tale evenienza, i privati vengano ad agire come "longa manus" o ausiliari del Pubblico 36 Ministero o della polizia (Cass. Penale sez. 2^, 1595/2005, Rv. 233147, Prezzavento; Massime precedenti Conformi: N. 797 del 2001 Rv. 217548, N. 2613 del 2005 Rv. 230532). Nullità dell'accertamento tecnico irripetibile La Corte di appello ha rigettato l'eccezione della difesa DI MARTINO di nullità dell'accertamento tecnico irripetibile effettuato sulle piante sottoposte a sequestro, sollevato sul presupposto che l'accertamento non aveva natura di atto irripetibile e, comunque, l'analisi sui campioni doveva essere preceduto dall'avviso agli imputati che non erano "ignoti" quando la P.G. provvide al sequestro delle piantagioni ed al prelevamento di campioni per le analisi, rilevando che l' eccezione, proposta per la prima volta con i motivi d'appello, con la scelta del giudizio abbreviato doveva ritenersi rinunciata e che in ogni caso l'opzione dell'imputato per il giudizio abbreviato comporta la rinuncia ad eccepire la nullità derivante dalla violazione dell'art. 360 cod. proc. pen.. In ogni caso il mancato avviso all'indagato e al suo difensore dell'accertamento disposto ex art. 360 c.p.p. dava luogo a nullità di ordine generale a regime intermedio, che andava dedotta non oltre la conclusione del giudizio di primo grado. Le argomentazioni del giudice di merito sono corrette. Come già affermato da questa Corte ( Cass. N. 360 del 1995 Rv. 201551; N. 43726 del 2010 Rv. 249221; N. 28459 del 2013 Rv. 256106) qualora vi sia stata richiesta di rito abbreviato, con l'accettazione da parte dell'imputato del giudizio allo stato degli atti, la scelta operata comporta la rinuncia ad eccepire la nullità di cui all'art. 178 c.p.p., lett. c) derivante dalla effettuazione di un accertamento tecnico irripetibile senza dare gli avvisi previsto dall'art. 360 cod. proc. pen. A prescindere dalla sanatoria derivante dalla scelta del rito abbreviato, si osserva che l'art. 360 c.p.p., comma 5 commina la sanzione della inutilizzabilità nel solo caso in cui il pubblico ministero, malgrado l'espressa riserva di promuovere incidente probatorio formulata dall'indagato e pur non sussistendo la indifferibilità degli accertamenti, ha ugualmente disposto di procedere. Invece, in caso di omissione degli avvisi previsti dall'art. 360 c.p.p., comma 1 è ravvisabile la sanzione della nullità di ordine generale prevista dall'art. 178 c.p.p., lett. c), la quale non può più esser fatta valere, se non è stata tempestivamente dedotta prima della deliberazione della sentenza di primo grado a norma dell'art. 180 cod. proc. pen. (conforme Sez. 1, n. 3066 del 22/01/1996, Altomare, Rv. 204301). Nel caso in esame risulta che il ricorrente ha dedotto la nullità della consulenza tecnica, disposta dal pubblico ministero senza la formulazione degli avvisi previsti dall'art. 360 cod. proc. pen., soltanto con l'atto di appello avverso la sentenza emessa nel giudizio abbreviato, quindi oltre il limite temporale di deducibilità delle nullità di ordine generale a regime intermedio stabilito dall'art. 180 cod. proc. pen. 37 Inutilizzabilità delle dichiarazioni rese da Del Gaudio Raffaele Ciro e di Maresca Luigi per violazione dell'art. 63 C.D.D. Le difese Bonifacio, Di Maio e Cascone reiterano in questa sede eccezione di inutilizzabilità delle dichiarazioni rese da Del Gaudio Raffaele Ciro, per violazione dell'art. 63 c.p.p. sul presupposto che il testimone nel riferire dell'intervento del CAROLEI e dell'effettiva interruzione delle richieste usuraie da parte di PUPETTA MARESCA e dell'ACCARDO, si sarebbe accusato di condotte illecite in concorso con il CAROLEI. Così come la difesa Gambardella e Di Maio reiterano eccezione di inutilizzabilità delle dichiarazioni rese da Maresca Luigi, per violazione dello stesso articolo, sul presupposto che erano emersi, nel corso delle indagini, indizi di reità a carico del Maresca per il delitto di usura. L' assunto si fonderebbe sul contenuto di talune telefonate intercettate nelle quali il Maresca chiedeva al Gambardella di intercedere presso il Cascone Francesco per ottenere in prestito una somma di danaro che il Maresca, a sua volta, diceva di dovere elargire ad un amico in difficoltà economica. Attività di "intermediazione" che secondo le difese avrebbe reso Maresca passibile di essere indagato per il reato di usura. Le S.U. di questa Corte, risolvendo il contrasto di giurisprudenza esistente sul punto, hanno affermato il principio, qui condiviso, secondo il quale le dichiarazioni della persona che fin dall'inizio avrebbe dovuto essere sentita come indagata o imputata sono inutilizzabili anche nei confronti dei terzi, sempre che provengano da soggetto a carico del quale già sussistevano indizi in ordine al medesimo reato ovvero a reato connesso o collegato con quello attribuito al terzo, per cui dette dichiarazioni egli avrebbe avuto il diritto di non rendere se fosse stato sentito come indagato o imputato (S.U. - 13.12.96, Carpanelli, in. CED 206846). La valutazione in ordine al sussistere ab initio degli indizi di reità a carico del soggetto escusso in qualità di testimone costituisce accertamento in punto di fatto che si sottrae al controllo di legittimità se risulta correttamente motivato. Nel caso di specie la corte territoriale ha fatto puntuale applicazione del principio sopra enunciato. Essa, infatti, dopo una attenta disanima delle dichiarazioni rese da Del Gaudio e Maresca ha affermato l'insussistenza a carico dei medesimi di indizi di reità, quali concorrenti, il primo di condotte illecite con il CAROLEI e il secondo di concorrente nel reato di usura. Sia il giudice di primo grado che quello d'appello non hanno individuato nella condotta serbata dal Del Gaudio alcun comportamento illecito sussumibile sotto una precisa fattispecie di reato. E' stato evidenziato, con motivazione logica e coerente, che dalle dichiarazioni rese dallo stesso Del Gaudio, emergeva solo che lo stesso si era limitato a riferire al Carolei la sua disperata situazione e in secondo luogo, che non era dato conoscere quale metodo (lecito o meno) avesse adoperato il Carolei per convincere i due a soprassedere dalle ingiuste pretese nei confronti di Del Gaudio. Non vi erano pertanto elementi che facevano ritenere neppure astrattamente ipotizzabile un delitto di 38 estorsione a carico del Del Gaudio. Veniva altresì rilevato che, anche se si volesse sostenere, come suggerito dalle difese, che il Del Gaudio si fosse servito del Carolei per costringere Somma e Accardi a rinunciare all'acquisizione degli interessi usurari sulla somma data in prestito, mancherebbe l'elemento dell'ingiusto profitto, essendo gli interessi pretesi dagli originari usurai del tutto illeciti. Così come i giudici d'Appello hanno escluso che dal contenuto delle conversazioni intercettate emergesse il ruolo di "intermediario" del Maresca nei confronti del suo amico, perché il Maresca si era limitato a riferire al Gambardella che un suo amico era bisognoso di un prestito urgente. Non risultava dalla lettura delle conversazioni che il Maresca intendesse ricevere personalmente tale prestito per poi trasferirlo all'amico, praticando interessi usurari. Inoltre non risultava che il prestito fu erogato. In più difetterebbe la prova che il Maresca intendesse lucrare interessi usurari. Anzi la Corte d'Appello rilevava che dal contenuto delle conversazioni era verosimile ritenersi che il fantomatico "amico" di cui parlava il Maresca, fosse il Maresca stesso che, pressato dai debiti e dalla necessità di reperire altre somme di danaro, trovandosi nella impossibilità di richiederle alle stesse persone che, molto probabilmente gli avrebbero negato un nuovo prestito, aveva escogitato il sistema di farsi portavoce delle esigenze di un fantomatico amico. Ricostruzione che era ritenuta avvalorata dal fatto che nelle conversazioni, il Maresca parlava sempre in modo molto vago e generico di questo suo "amico", che veniva citato soltanto una volta per nome e non compariva mai personalmente nel corso delle conversazioni intercettate. I giudici di merito hanno quindi dichiarato utilizzabili le dichiarazioni in argomento sulla scorta di una valutazione in fatto, adeguatamente motivata, e quindi incensurabile in questa sede. Inutilizzabilità della corrispondenza intercettata in danno di Cascone Vincenzo Per violazione dell'art. 18 ter O.P. I difensori di CASCONE Vincenzo e CAROLEI Paolo reiterano l'eccezione di inutilizzabilità della corrispondenza intercettata per violazione dell'art. 18 ter 0.P., rilevando che sulla questione era intervenuta pronuncia della Cassazione a Sezioni Unite, ( sentenza 19.4.2012) che metteva in risalto la necessità di dare immediato avviso al detenuto dell'acquisizione della sua corrispondenza. Con riguardo all'eccezione sollevata deve rilevarsi che secondo la giurisprudenza di questa Corte, confermata dalle SSUU nella pronuncia indicata, gli istituti predisposti dal legislatore per acquisire al procedimento la corrispondenza epistolare del detenuto sono due: il visto di controllo di cui all'art. 18 ter 0.P., "funzionale al provvedimento di non inoltro della corrispondenza" ed il sequestro di corrispondenza di cui all'art. 254 cod. proc. pen. Individuate le norme applicabili alla fattispecie in esame, non resta che 39 conformarsi alla loro disciplina: in virtù dell'art. 18 ter o.p., la facoltà dell'autorità giudiziaria "di sottoporre a visto di controllo la corrispondenza dell'imputato detenuto è funzionale al provvedimento di non inoltro della corrispondenza, provvedimento ... che deve però essere immediatamente comunicato al detenuto e che, secondo la novellata disciplina, è impugnabile". Ulteriore possibilità è rappresentata dal "sequestro della corrispondenza a norma dell'art. 254 cod. proc. pen.", per il quale sussistono pure le garanzie di comunicazione e impugnazione del relativo decreto, previste dal codice di rito. Tertium non datur. L'intercettazione di corrispondenza non esiste, è "al di fuori di qualsiasi previsione normativa". Va da sè che la corrispondenza acquisita al di fuori dei predetti modelli probatori è inutilizzabile. Ciò detto deve rilevarsi che non sono date comprendere dal tenore dei ricorsi le modalità di apprensione delle missive considerato che nel ricorso CASCONE si afferma che la corrispondenza "è stata trattenuta ovvero sequestrata" e che CAROLEI pone il problema solo nei motivi aggiunti dove si limita a richiamare la pronuncia delle sezioni unite. Si può pertanto affermare che i ricorrenti - in violazione del canone della autosufficienza del ricorso, il quale rappresenta la necessaria esplicazione del requisito della specificità dei motivi, laddove la impugnazione inerisca a elementi extra testuali - hanno trascurato di rappresentare compiutamente (e di documentare) le emergenze processuali che sorreggono la eccezione di inutilizzabilità in argomento, considerato anche che la e sentenza impugnata non offre indicazioni perché si" limitata ad affermare l'utilizzabilità della prova sul presupposto che se anche ci fosse stata una violazione nell'acquisizione la stessa non avrebbe realizzato una inutilizzabilità patologica, l'unica rilevabile in sede di giudizio abbreviato. La doglianza in esame è pertanto inammissibile. Reformatio in pejus: principi della giurisprudenza europea e di legittimità E' giurisprudenza pacifica di questa Suprema Corte che la sentenza appellata e quella di appello, quando non vi è difformità sui punti denunciati, si integrano vicendevolmente, formando un tutto organico ed inscindibile, una sola entità logico-giuridica, alla quale occorre fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione, integrando e completando con quella adottata dal primo giudice le eventuali carenze di quella di appello (Sez. 1", 22/11/1993-4/2/1994, n. 1309, Albergamo, riv. 197250; Sez. 3^, 14/2- 23/4/1994, n. 4700, Scauri, riv. 197497; Sez. 2^, 2/3-4/5/1994, n. 5112, Palazzotto, riv. 198487; Sez.2^, 13/11-5/12/1997, n. 11220, Ambrosino, riv. 209145; Sez. 6^, 20/113/3/2003, n. 224079). Ne consegue che il giudice di appello, in caso di pronuncia conforme a quella appellata, può limitarsi a rinviare per relationem a quest'ultima sia nella ricostruzione del fatto sia nelle parti non oggetto di specifiche 40 censure, dovendo soltanto rispondere in modo congruo alle singole doglianze prospettate dall'appellante. In questo caso il controllo del giudice di legittimità si estenderà alla verifica della congruità e logicità delle risposte fornite alle predette censure. L'obbligo motivazionale del giudice di appello assume invece connotati più originali e stringenti nel caso in cui la sentenza di appello affermi una responsabilità negata in primo grado. Questo non solo perché vi sono due valutazioni giurisdizionali assolutamente difformi del medesimo materiale probatorio, ma anche perché il soggetto condannato per la prima volta in secondo grado di fatto si è visto privato della possibilità di una impugnazione di merito quale spetta invece al soggetto condannato in primo grado. In questa situazione è stato affermato da questa Corte ( SSUU sentenza n° 33748/2005 riv 231675) che, ai fini della rilevabilità del vizio di prova omessa decisiva, la Corte di cassazione possa e debba fare riferimento, come tertium comparationis per lo scrutinio di fedeltà al processo del testo del provvedimento impugnato, non solo alla sentenza assolutoria di primo grado, ma anche (non certo ai motivi d'appello dell'imputato, carente d'interesse all'impugnazione, perciò inesistenti) alle memorie ed agli atti con i quali la difesa, nel contestare il gravame del pubblico ministero, abbia prospettato al giudice d'appello l'avvenuta acquisizione dibattimentale di altre e diverse prove, favorevoli e nel contempo decisive, pretermesse dal giudice di primo grado nell'economia di quel giudizio. Questo è, quindi, il criterio che necessariamente dovevano seguire i giudici di appello nel decidere e motivare le condanne irrogate in riforma della sentenza di primo grado ed il cui rispetto va controllato nel valutare la adeguatezza della motivazione rispetto ai vizi logici dedotti dai difensori. Vi è anche un altro aspetto da considerare che riguarda l' utilizzazione da parte del giudice di appello di una prova orale (dichiarazioni delle persone offese con riguardo ai reati di usura e dichiarazioni di Esposito, Polito, Spera, Belviso e Giordano con riguardo ai capi A) e B) che le difese lamentano non essere state rinnovate avanti il secondo giudice con conseguente violazione dei principi stabiliti dalla Corte EDU con la sentenza del 5 luglio 2011 nel caso Dan c/Moldavia. Si ritiene opportuno richiamare il testo della sentenza, nella traduzione italiana, per la parte di rilievo : ".... Il Tribunale di primo grado ha assolto il ricorrente perché esso non ha creduto ai testimoni dopo averli uditi personalmente. Nel riesaminare il caso, la Corte d'Appello ha dissentito dal Tribunale di primo grado sulla attendibilità delle dichiarazioni dei testimoni dell'accusa e ha condannato il ricorrente. Nel far ciò, la Corte d'Appello non ha udito nuovamente i testimoni ma si è semplicemente basata sulle loro dichiarazioni come verbalizzate agli atti .... Visto quanto è in gioco per il ricorrente, la Corte non è convinta del fatto che le questioni che dovevano essere determinate dalla Corte d'Appello quando essa ha condannato il ricorrente e gli ha inflitto una pena - e facendo ciò ribaltando la sua assoluzione da parte del Tribunale di primo grado - avrebbero potuto, 41 in termini di equo processo, essere esaminate correttamente senza una diretta valutazione delle prove fornite dai testimoni dell'accusa. La Corte ritiene che coloro che hanno la responsabilità di decidere la colpevolezza o l'innocenza di un imputato dovrebbero, in linea di massima, poter udire i testimoni personalmente e valutare la loro attendibilità. La valutazione dell'attendibilità di un testimone è un compito complesso che generalmente non può essere eseguito mediante una semplice lettura delle sue parole verbalizzate..." La pronuncia è un'ulteriore espressione del principio di immediatezza che si ritiene attuato quando vi è un rapporto privo di intermediazioni tra l'assunzione della prova e la decisione. Al fine di permettere una valutazione sull'attendibilità delle dichiarazioni si vuole che il giudice prenda direttamente contatto con la fonte di prova. È una regola non di carattere assoluto in quanto tale ascolto diretto deve avvenire "in linea di massima" perché "generalmente" la semplice lettura non risolve il compito complesso di valutazione della attendibilità intrinseca del testimone. La Corte Edu ha ritenuto che coloro che anche in secondo grado hanno la responsabilità di decidere la colpevolezza o l'innocenza di un imputato dovrebbero, in linea di massima, poter sentire, come hanno fatto i giudici di primo grado, i testimoni, ritenuti decisivi, personalmente per poterne valutare la loro attendibilità intrinseca perché la valutazione dell'attendibilità è un compito complesso che richiede un contatto diretto del giudice con il dichiarante al fine di permettere una valutazione "di prima mano" sull'attendibilità delle dichiarazioni. La Corte EDU ha statuito con riguardo ad una reformatio in pejus di processo celebrato nelle forme ordinarie dove il Tribunale di primo grado aveva assolto l'imputato perché non aveva creduto ai testimoni dopo averli uditi personalmente, mentre la Corte d'Appello senza sentire nuovamente i testi, ma basandosi semplicemente sulle loro dichiarazioni come verbalizzate agli atti era pervenuta a diversa decisione. Ciò detto deve però rilevarsi che nel caso in esame il procedimento di primo grado è stato deciso nelle forme del giudizio abbreviato che è quel procedimento speciale che consente al giudice, su richiesta dell'imputato, di pronunciare, già al momento dell'udienza preliminare quella decisione di merito ( condanna o assoluzione) che di regola è emanata all'esito del dibattimento. L'istituto che ha la funzione di deflazionare il dibattimento e che pertanto presuppone minori garanzie nella formazione della prova, si fonda sul consenso dell'imputato che, nell'accettare questo procedimento speciale, da un lato rinuncia ad avvalersi delle regole ordinarie e dall'altro però ottiene un trattamento premiale attraverso l'applicazione della diminuente prevista dall'art. 442 c.p.p. Ne deriva che la prova non è formata nel contraddittorio delle parti e non trovano applicazione il principio dell'oralità (è un processo allo stato degli atti e quindi si fonda sulla lettura di atti scritti) e dell'immediatezza (il giudice non ha un contatto diretto con la fonte di prova). Il giudice decide sul compendio conoscitivo contenuto nel fascicolo del P.M. che 42 annovera le risultanze degli atti di indagine, i verbali delle eventuali prove assunte in sede di incidente probatorio e il fascicolo del difensore, valutando le deposizioni testimoniali, e quindi anche l'attendibilità dei testi, attraverso la lettura delle loro parole verbalizzate. L'istituto che ha avuto riconoscimento costituzionale nel nuovo comma 5 dell'art. 111 rispetto al testo originario del codice del 1988 ha subito con l'introduzione della Novella del 1999 modifiche. Mentre nel 1988 il giudizio abbreviato era stato costruito come un giudizio "a prova contratta" che si poneva in alternativa al dibattimento - il rito abbreviato necessitava del consenso del pubblico ministero- con la legge Carotti del 1999 il Parlamento ha eliminato la necessità del consenso del pubblico ministero e ha attribuito al giudice un limitato potere di integrazione probatoria (art. 441 co 5 c.p.p.). Si può pertanto affermare che in caso di celebrazione del processo nelle forme del giudizio abbreviato sia il giudice di primo grado che quello di secondo grado hanno un rapporto intermediato con la fonte della prova dichiarativa che non viene assunta davanti a loro, con la sola eccezione della assunzione diretta di elementi necessari ai fini della decisione qualora ritengano di non essere in grado di decidere allo stato degli atti (art. 441 co 5 c.p.p. e 603 co 3 c.p.p.). Ritiene pertanto il Collegio che, diversamente da quanto affermato nelle sentenze N. 5854 del 2013 Rv. 254850, N. 8654 del 2014 Rv. 259107, nel caso di celebrazione del processo nelle forme del giudizio abbreviato non debbano, trovare applicazione in linea teorica, salvo le possibili eccezioni in caso di integrazione probatoria, i principi stabiliti dalla Corte EDU con la sentenza indicata perché nel caso di giudizio abbreviato è stata proprio la richiesta dell'imputato di definizione del processo allo stato degli atti a determinare la celebrazione già in primo grado di un processo basato non su oralità ed immediatezza ma sulla sola valutazione della documentazione inserita nel fascicolo del P. M. Sulla scorta dei principi indicati saranno esaminati gli specifici motivi di ricorso . Ricorso AVALLONE Francesco La Corte d'Appello ha confermato la condanna di AVALLONE Francesco per i reati a lui ascritti ai capi E) (violazione continuata in concorso dell'art. 648 ter c.p.) e I) (violazione dell'art. 12 quinquies L. n. 356/92) Il primo motivo di ricorso con il quale viene dedotta l'inutilizzabilità delle intercettazioni telefoniche disposte con decreto n. 4725/08 è manifestamente infondato alla luce delle argomentazioni sopra espresse 43 Con il secondo motivo di ricorso, reitera una doglianza già avanzata in sede di appello, lamentando che i reati oggetto della imputazione nell'ambito del presente procedimento trovano la loro "genesi" nel delitto di cui all'art. 416 c.p. aggravato dall'art. 7 L. 203/91, reato che è stato oggetto di stralcio e ha dato luogo a diverso procedimento conclusosi con la sentenza, emessa ai sensi dell'art. 442 e ss. c.p.p., dal GUP dott. Gallo in data 24.1.2012 che escludeva che il clan D'Alessandro abbia investito capitali nell'attività dell'associazione che riguardava la gestione dei punti Intralot. Tale pronuncia, secondo il ricorrente, non appellata dal P.M. sarebbe interdipendente funzionalmente e probatoriamente rispetto alla pronuncia oggetto di impugnazione in questa sede. L'interdipendenza sarebbe in re ipsa perchè la imputazione associativa oggetto della sentenza Gallo prevede, tra i delitti scopo, quello di cui all'art. 648 ter c.p. ed i capi E) ed I) della sentenza impugnata ricalcano sostanzialmente una imputazione di 416 bis c.p., in quanto la condotta ivi descritta è finalizzata ad agevolare il clan D'Alessandro. In ordine alla esclusione dell'art. 7 L. 203/91, vengono riproposte le medesime argomentazioni adottate dal GIP dott. Gallo per pervenire alla sua esclusione, incentrate sull'assenza di prove atte a dimostrare che ad investire danaro nell'attività riguardante la gestione dei centri Intralot di Castellammare sia stato il clan D'Alessandro e non il Carolei in proprio. Si insiste nel dire che i giudici di merito ritenendo di configurare nei fatti il delitto di cui all'art. 648 ter c.p., unitamente all'aggravante di cui all'art. 7 L. 203/91, incorrono in una evidente contraddizione rispetto al contenuto della sentenza emessa dal GIP dott. Gallo, dove è stato escluso l'impiego di capitale proveniente dal clan D'Alessandro nella creazione e gestione dei centri Intralot. In ordine al prospettato collegamento tra la sentenza impugnata e la pronuncia emessa dal GIP presso il Tribunale di Napoli dott. Gallo, in data 24.1.2012 non può che ribadirsi quanto indicato dalla Corte Territoriale: la pronuncia oggetto di impugnazione nella presente sede e quella emessa dal GUP dott. Gallo hanno ad oggetto imputazioni diverse. Nel presente giudizio l'Avallone è chiamato e rispondere del delitto di cui all'art. 648 ter c.p.; nel giudizio conclusosi con sentenza del 24.1.2012, l'Avallone rispondeva del reato di cui all'art. 416 c.p. aggravato dall'art. 7 L. 203/91. Le imputazioni elevate a carico dell'imputato hanno natura diversa, perché attinenti, l'una alla partecipazione dell'imputato ad un'associazione per delinquere finalizzata ad una pluralità di scopi (quello di esercitare abusivamente l'organizzazione di scommesse e di pronostici; quello di alterare l'esito di competizioni sportive; quello di attribuire fittiziamente a prestanomi la titolarità di agenzie di scommesse); l'altra, oggetto del presente giudizio, al reimpiego di capitale illecito proveniente dall'attività delinquenziale del clan D'Alessandro nella gestione delle agenzie di scommesse Intralot esistenti in Castellammare alla via Pioppaino e alla Piazza Spartaco. 44 La sostanziale diversità dei fatti contestati risulta permanere benchè, tra i delitti scopo menzionati nella imputazione di cui all'art. 416 c.p.,fosse stata indicata l'attività di reimpiego nei centri scommessa Intralot, di danaro proveniente dalle attività illecite del clan D'Alessandro. Lo stesso ricorrente è conscio del fatto che non ricorre nel caso in esame un'ipotesi di bis in idem nel momento in cui nel ricorso afferma che se tali rilievi non sono indicativi della violazione delle ne bis in idem palesano comunque un'incompatibilità logica della motivazione in relazione ad una presunta diversità tra le due contestazioni. Deve però rilevarsi che la prospettata "interdipendenza" tra le due pronunce sul piano tecnico può trovare ingresso solo ove sia intesa come possibilità di un contrasto di giudicato, e che questa Corte (Sez. 5, n. 8462 del 9.7.97, dep. 18.9.97; Sez. 4, n. 8135 del 25.10.01, dep. 28.2.02; Sez. 1, n. 18380 del 20.2.02, dep.14.5.02; Sez. 1, n. 36121 del 9.6.04, dep. 9.9.04; Sez. 5, n. 40819 del 22.9.05, dep. 10.11.05), in materia di revisione ha statuito che il disposto di cui all'art. 630, comma 1, lett. a), c.p.p., che autorizza la richiesta di revisione qualora i fatti stabiliti a fondamento della sentenza di condanna non possano conciliarsi con quelli stabiliti in altra sentenza irrevocabile, si riferisce agli elementi storici adottati per la ricostruzione del fatto di reato, non già alla contraddittorietà logica tra le valutazioni operate nelle due decisioni (Sez. 2, n. 12809 del 11/03/2011, dep. 29/03/2011, Rv. 250061). L'inconciliabilità, dunque, deve riguardare i fatti di reato accertati e posti a fondamento delle due diverse decisioni, non già l'ipotesi in cui la stessa verta sulla valutazione giuridica attribuita agli stessi fatti dai due diversi giudici. (Sez. 1, n. 381 del 30/11/1992, dep. 15/01/1993, Rv. 194797; Sez. 5, n. 3914 del 17/11/2011, dep. 31/01/2012, Rv. 251718). Il motivo è pertanto infondato. Con riguardo al terzo motivo deve osservarsi che i giudici d'appello hanno dato atto che il quadro probatorio emergente nelle conversazioni intercettate funge da riscontro alle dichiarazioni del collaboratore Belviso Salvatore che ha riferito dello specifico interesse del clan nel settore delle scommesse e delle agenzie di scommesse di Castellammare di Stabia. In particolare i giudici d'appello hanno rilevato come il collaboratore abbia riferito come, grazie al rapporto privilegiato tra i D'ALESSANDRO e il dirigente della INTRALOT, LOPEZ Maurizio, il clan aveva assunto il controllo totale della raccolta di scommesse sportive nei territori di Castellammare di Stabia, Sorrento e Gragnano e che in relazione alla agenzia di piazza Spartaco - cosidetta " di mezzo all'Arco"- D'ALESSANDRO Vincenzo autorizzò la gestione da parte del CAROLEI che a sua volta si serviva per le attività esecutive di AVALLONE Francesco di Paola. Tale agenzia aprì nel luglio del 2009, a seguito di problemi di gestione dell'agenzia dell'Acqua della Madonna, il LOPEZ fu rimosso 45 e la gestione delle agenzie INTRALOT fu affidata a FALCONE Concetta la quale chiese di parlare con CAROLEI in relazione alla concessione relativa all'agenzia di piazza Spartaco. Il CAROLEI ne parlò con il BELVISO che a sua volta incontrò D'ALESSANDRO che autorizzò l'affidamento dell'agenzia al CAROLEI che per la gestione dell'agenzia di piazza Spartaco si affidava ad AVALLONE Francesco di Paola. Quanto dichiarato dal collaboratore trova preciso riscontro nel contenuto delle conversazioni registrate e nella intensità di rapporti esistente tra Avallone e Carolei. I giudici d'appello hanno dato atto che la vicinanza dell'Avallone al Carolei risultava dimostrata dal numero elevatissimo di contatti telefonici registrati tra i due, quotidianamente, nel corso delle attività di intercettazione. Il ricorrente era una delle persone di fiducia di Carolei, la cui indiscussa caratura criminale emergeva in modo chiaro non solo dal contenuto delle conversazioni registrate ma anche dalle convergenti dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. Particolarmente significative risultavano essere, circa la genesi delle condotte contestate all'Avallone, le conversazioni intervenute tra Carolei Paolo, Avallone Francesco e Falcone Concetta (detta Titti, responsabile di zona per l'area commerciale Intralot) sull'avvio del nuovo centro di scommesse di Piazza Spartaco e sulla gestione del preesistente centro scommesse di via Pioppaino, conversazioni che rivelano la piena consapevolezza da parte dell'Avallone, di agire quale fiduciario di Carolei nella gestione di tali centri e nella raccolta delle scommesse. In sentenza viene sottolineato come la circostanza che l'Avallone fosse il braccio destro di Carolei nel settore delle scommesse e del reimpiego di capitale illecito del clan e che fosse stato messo la corrente dal Carolei delle strategie avute di mira da questi per la gestione dei centri scommessa di Castellammare, era rivelato chiaramente dalla conversazione dell'8.4.09 tra Avallone Francesco e Scannapieco Michele (pag. 18 sentenza impugnata). Così come viene indicato che esistono tutta una serie di conversazioni dalle quali risulta in modo evidente la funzione dell'imputato di raccoglitore di scommesse da convogliare nei diversi punti Intralot e la pratica del sistema di "bancare le scommesse", vale a dire di inserire in un circuito parallelo e clandestino le puntate di gioco e viene sottolineato come lo stesso Avallone, in sede di interrogatorio, ha ammesso che Cascone Gennaro gli aveva chiesto aiuto utilizzandolo come procacciatore di scommettitori affidabili per l'agenzia da lui diretta, data la sua esperienza nel settore delle scommesse, rivelando e ammettendo il cosiddetto meccanismo di "bancare le scommesse". Secondo la Corte Territoriale tutto quanto indicato permetteva di ritenere dimostrata anche la sussistenza dell'aggravante di cui all'art. 7 L. 203/91, sotto il profilo contestato nelle imputazioni, dell'agevolazione del clan denominato D'Alessandro. A fronte di tutto quanto esposto dai giudici di merito il ricorrente contrappone unicamente generiche contestazioni in fatto, con le quali, in realtà, si propone solo una non consentita - in questa sede di legittimità - diversa lettura degli elementi valutati dai 46 giudici di merito e senza evidenziare alcuna manifesta illogicità o contraddizione della motivazione. Inoltre, le censure del ricorrente non tengono conto delle argomentazioni della Corte di appello. In proposito questa Corte Suprema ha più volte affermato il principio, condiviso dal Collegio, che sono inammissibili i motivi di ricorso per Cassazione quando manchi l'indicazione della correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'atto di impugnazione, che non può ignorare le affermazioni del provvedimento censurato, senza cadere nel vizio di aspecificità, che conduce, ex art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c), all'inammissibilità del ricorso (Si veda fra le tante: Sez. 1, sent. n. 39598 del 30.9.2004 - dep. 11.10.2004-rv 230634). I restanti motivi riguardano l'entità della pena. Contesta il ricorrente la mancata concessione delle generiche, l'omessa motivazione in ordine all'aumento per la continuazione e all'entità della pena. La sussistenza di circostanze attenuanti rilevanti ai sensi dell'art. 62-bis cod. pen. è oggetto di un giudizio di fatto, e può essere esclusa dal giudice con motivazione fondata sulle sole ragioni preponderanti della propria decisione, di talché la stessa motivazione, purché congrua e non contraddittoria, non può essere sindacata in cassazione neppure quando difetti di uno specifico apprezzamento per ciascuno dei pretesi fattori attenuanti indicati nell'interesse dell'imputato (Cass. sez.VI 24 settembre 2008 n.42688, Caridi; sez.VI 4 dicembre 2003 n.7707, Anaclerio). Nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo disattesi o superati tutti gli altri da tale valutazione (Cass. sez.VI 16 giugno 2010 n.34364, Giovane, Sez. 6, Sentenza n. 34364 del 16/06/2010 Ud. (dep. 23/09/2010) Rv. 248244) Nella fattispecie la Corte territoriale ha motivato il diniego delle attenuanti generiche con riferimento alla gravità dei fatti, all'allarmante contesto delinquenziale in cui è maturata la vicenda e alla ripetitività delle condotte criminose, sottolineando come la semplice incensuratezza dell'imputato, in assenza di altri positivi elementi di valutazione, non era da sola sufficiente a consentire l'applicazione dell'invocato beneficio, considerato che le ammissioni dell'imputato erano state soltanto parziali e non avevano apportato alcun reale contributo volto a consentire un approfondimento delle indagini nel più vasto e articolato ambito delinquenziale in cui si collocano le condotte attribuite all'Avallone. Così come l'imputato non può dolersi della mancata motivazione in ordine alla fissazione della pena quando, come nel caso di specie, il giudice ha indicati in sentenza gli elementi ritenuti rilevanti o determinanti nell'ambito della complessiva dichiarata applicazione di tutti i criteri di cui all'art. 133 c.p. Il ricorrente lamenta difetto di motivazione in relazione all'aumento di pena fissato per la continuazione. A tale proposito deve rilevarsi che nel caso in cui il giudice abbia motivato in ordine alla determinazione della pena, facendo 47 riferimento, come nel caso di specie, ai criteri di cui all'art. 133 c.p egli non ha l'obbligo di autonoma e specifica motivazione in ordine alla quantificazione dell'aumento per continuazione, posto che i parametri al riguardo sono identici a quelli valevoli per la pena base (cfr. Cass. N. 3034 del 1997 Rv. 209369, N. 11945 del 1999 Rv. 214857, N. 27382 del 2011 Rv. 250465). Il ricorso deve pertanto essere respinto e il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali. Ricorso di BONIFACIO Guglielmo Premesso che la Corte d'Appello ha confermato la sua condanna per i reati a lui ascritti ai capi I) e N) e, O), Q) non sono accoglibili le doglianze, genericamente espresse, avanzate sub a) inutilizzabilità delle intercettazioni telefoniche (decreto numero 4725/08) e b) inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dalla parte offesa Del Gaudio Raffaele per violazione dell'articolo 63 codice procedura penale per le motivazioni già espresse e quelle sub c) e d) perché del tutto generiche, non tenendo conto delle argomentazioni esposte dalla sentenza impugnata ( pag 27). Il ricorso deve pertanto essere respinto e il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali Vicenda Lauri Francesco e Lauri Aniello che ha dato origine ai capi S). T) ed U) Ricorsi di CASCONE Francesco, CASCONE Vincenzo, CAROLEI Paolo, CANNAVALE Vincenzo, PALQMBA Ferdinando con riguardo a detta vicenda Si ritiene opportuno procedere alla trattazione congiunta dei ricorsi relativi a questi episodi perché le doglianze investono questioni simili. Deve premettersi che con riguardo alla vicenda Lauri che aveva generato le imputazioni di cui ai capi S), T) ed U) con riguardo al reato di cui al capo S) (art. 644 c.p.), ascritto agli imputati, Cascone Francesco, Cascone Vincenzo, Carolei Paolo, Cannavale Vincenzo e Palomba Ferdinando, il Giudice di primo grado, era pervenuto a pronuncia di assoluzione per insussistenza del fatto. In ordine al reato di cui al capo T) (estorsione continuata), ascritto agli imputati Cascone Francesco, Cascone Vincenzo e Cannavale Lazzaro, il giudice di primo grado, previa derubricazione del fatto in esercizio arbitrario delle proprie ragioni, era pervenuto a pronuncia di non doversi procedere per mancanza di querela. Analoga pronuncia è stata emessa in ordine al reato di cui al capo U) della rubrica, ascritto a Cascone Francesco, Cascone Vincenzo, Cannavale Lazzaro e Palomba Ferdinando. La pronuncia di assoluzione resa dal Giudice di primo grado, si fondava sostanzialmente sulla presunta inattendibilità delle persone offese, che era desunta dal fatto che le stesse avevano reso dichiarazioni in parte contrastanti tra loro. I giudici d'Appello, proprio sotto questo profilo ritenevano invece pienamente condivisibile quanto argomentato dal P.M. nell'atto di appello, e pervenivano a pronuncia 48 di condanna nei confronti di Cascone Francesco, Cascone Vincenzo, Cannavale Vincenzo, Cannavale Lazzaro, Palomba Ferdinando e Carolei Paolo in ordine ai reati loro rispettivamente ascritti ai capi S), T) ed U) della rubrica . Ciò detto, considerata l'utilizzabilità delle intercettazioni e della corrispondenza di Cascone Vincenzo per i motivi sopra illustrati, richiamati i principi indicati in tema di reformatio in pejus, dato atto che sia il giudice di primo grado che quello di secondo grado non hanno effettuato un apprezzamento diretto della prova orale (dichiarazioni delle parti offese) nel suo formarsi ma hanno potuto valutare solo i verbali nei quali detta prova era documentata, con conseguente non applicabilità dei principi fissati dalla sentenza CEDU "Dan contro Moldavia" deve rilevarsi che tutti gli imputati contestano le conclusioni cui è pervenuta la Corte Territoriale lamentando il permanere delle discrasie evidenziate dal primo giudice. La Corte Territoriale ha invece evidenziato come le divergenze rilevate dal GUP in sentenza fossero del tutto giustificabili sulla base del notevole lasso di tempo trascorso e sulla base della stessa natura del rapporto usurario, che era destinato a protrarsi nel tempo ed era caratterizzato da frequenti novazioni e rinegoziazioni degli accordi stabiliti all'origine. I giudici d'Appello hanno anche evidenziato che era ragionevole ritenere che molte delle discrasie e delle contraddizioni in cui erano incorse le vittime, erano da attribuirsi al profondo stato di timore indotto dagli imputati che, quasi quotidianamente, li minacciavano gravemente. Ritenevano trattarsi, comunque, di contraddizioni che riguardavano aspetti non essenziali nell'economia dell'articolata vicenda in esame e tali da non inficiare la complessiva attendibilità delle persone offese le cui dichiarazioni erano innegabilmente riscontrate dal contenuto delle intercettazioni telefoniche e dalle missive inviate da Cascone Vincenzo allo zio Cannavale Vincenzo. Considerando complessivamente tali dichiarazioni, hanno sottolineato come le discrasie ivi esistenti fossero riconducibili essenzialmente all'originario importo del prestito ricevuto dalle persone offese. Per il resto, le parti offese erano concordi nel riferire che: 1) il prestito prevedeva un iniziale rilascio di cambiali ed il pagamento di una somme mensile; 2) l'accordo prevedeva la cessione di un immobile in caso di mancato pagamento del capitale ricevuto in prestito; 3) furono oggetto di gravi minacce, pressioni ed aggressioni da parte degli imputati. Il previsto pagamento di interessi periodici emergeva dalle dichiarazioni di Lauri Aniello e dalle affermazioni di Lauri Francesco (pag. da 75 a 81 sentenza impugnata) Proprio per gli interessi maturati, come spiegato da Lauri Francesco e come emergeva dalle conversazioni intercettate, gli imputati decidevano di appropriarsi dell'immobile sito in Capaccio, acquisendone la proprietà dai Lauri alla cifra irrisoria di 35 mila euro. Secondo i giudici d'appello sulla base di tali elementi, non poteva seriamente sostenersi che la vicenda in esame potesse essere inquadrata nell'ambito di leciti rapporti negoziali, sfociati in un esercizio arbitrario delle proprie ragioni da parte degli imputati, animati dall'intento di fare valere delle legittime pretese. Lo stesso Giudice di primo 49 grado, in sentenza, pur provvedendo alla riqualificazione dei reati di cui ai capi T) ed U) della rubrica, non spiegava in che cosa sarebbe consistito il diritto degli imputati e quale legittimo fondamento potesse avere. Nella realtà dei fatti, gli imputati non possedevano alcuna legittima pretesa da fare valere nei confronti delle persone offese, essendo il prestito elargito alle vittime, di natura usuraria e, quindi, assolutamente illecito e sprovvisto di una qualunque forma di tutela nel nostro ordinamento. Hanno ritenuto pertanto dimostrata la responsabilità di Cascone Vincenzo che nelle missive inviate allo zio Cannavale Vincenzo, aveva confermato che l'importo ottenuto in prestito dai Lauri, era di 15.000 euro, come del resto aveva originariamente affermato anche Lauri padre nelle dichiarazioni del 14.9.09. Tali missive, il cui contenuto era riportato in sentenza, contenevano informazioni significative per comprendere il ruolo di finanziatore del Cascone Vincenzo e quello di intermediario assunto da Cannavale Vincenzo nel rapporto con i Lauri (pag. 81 sentenza impugnata). Dalla missiva, datata 12.12.2009, emergeva con evidenza che Cannavale Vincenzo aveva messo in contatto i Lauri con i Cascone. In essa, infatti, Cascone Vincenzo rinfacciava allo zio il mancato pagamento delle somme date in prestito, rammentando al Cannavale Vincenzo come lo zio Paolo, (Carolei Paolo) "persona d'onore", in un'altra occasione, gli aveva presentato qualcuno che non aveva rispettato gli impegni, sdebitandosi di persona. Ulteriori elementi atti a dimostrare il pieno coinvolgimento di Cascone Vincenzo e Cannavale Vincenzo, nell'usura ai danni dei Lauri, venivano tratti dai giudici d'appello dalla ulteriore missiva del 5.10.09, in cui il Cascone dava specifiche direttive allo zio Cannavale Vincenzo affinchè costui si attivasse per impedire a Lauri Francesco di denunciare il padre Cascone Francesco, minaccia che trovava puntuale riscontro nel contenuto delle conversazioni intercettate, richiamate alle pagine da 84 a 90 della sentenza impugnata dalle quali emerge che Lauri Francesco era sottoposto ad usura da parte di Cascone Francesco il quale, vantando un credito imprecisato, lo minacciava telefonicamente per la restituzione di quanto dovutogli. Le dichiarazioni della persona offesa evidenziavano in maniera esaustiva le condizioni relative alla restituzione del denaro, fornendo la prova del rapporto usurario in corso, sfociato in estorsione, allorquando Cascone, con la collaborazione di Palomba Ferdinando e Cannavale Lazzaro, pretese l' acquisizione della proprietà immobiliare di Lauri, a fronte della sua insolvenza. Alla luce di tutti gli elementi indicati i giudici di secondo grado ritenevano che le imprecisioni, i tentennamenti e le contraddizioni in cui erano incorse le vittime del reato, erano ragionevolmente ascrivibili oltre che al tempo trascorso ed alla difficoltà di ricostruire con precisione una vicenda così articolata, anche al forte stato di timore loro ingenerato dal Cascone Francesco e dagli altri imputati, primo tra tutti Cannavale Lazzaro che, da quanto risultava dalle conversazioni intercettate, quasi quotidianamente perseguitava i Lauri con continue minacce e pressioni. Confrontandosi con le deduzioni difensive la Corte di merito ha sottolineato come la estraneità ai fatti del Cannavale Lazzaro non poteva essere desunta 50 dalla circostanza che il Lauri Aniello aveva escluso di avere ricevuto minacce dallo stesso perché la realtà fotografata dalle conversazioni telefoniche era completamente diversa da quella rappresentata da Lauri Aniello. Le conversazioni intercettate, mostravano all'evidenza che il Cannavale Lazzaro, particolarmente attivo nell'intimidire le parti offese, prestando piena adesione al programma criminoso ordito ai danni delle persone offese, rassicurava continuamente lo zio, offrendogli il proprio sostegno in ogni occasione e tenendolo informato di tutte le sue azioni intimidatorie. Non era pertanto sostenibile, quanto indicato dalla difesa e cioè che Cannavale Lazzaro aveva ritenuto, con la sua condotta, di sostenere le ragioni dello zio Cascone Francesco, nella convinzione della legittimità delle sue pretese perché risultava evidente, dalle conversazioni intercettate, che il Cannavale Lazzaro era perfettamente al corrente del sottostante rapporto usuraio. I giudici di secondo grado davano atto che non era possibile aderire alla richiesta della difesa di Cannavale di ravvisare nei fatti la più lieve ipotesi del tentativo di estorsione perchè dal contenuto delle conversazioni intercettate e dalle dichiarazioni delle persone offese risultava dimostrato che gli imputati si procurarono un ingiusto profitto con danno di Lauri Francesco ed Aniello, rappresentato dalle cambiali versate e dagli interessi mensili. L'interessamento al settore dell'usura, da parte di Carolei Paolo secondo i giudici d'appello risultava acclarato, diversamente da quanto ritenuto dal primo Giudice, dal riferimento contenuto nella lettera di Cascone Vincenzo allo zio Cannavale, dalle dichiarazioni del collaboratore Spera Michele, dal contenuto delle conversazioni intercettate e dalle dichiarazioni delle persone offese nonchè da una visione completa e non parcellizzata dei singoli episodi e dai riferimenti che gli imputati si lasciano scappare in talune occasioni, con molta circospezione ( pagg. 95 ss sentenza impugnata). Così come dagli atti emergeva chiaramente anche la responsabilità del PALOMBA Ferdinando, più volte citato nelle conversazioni e presente durante la spedizione a Capaccio. Proprio la conversazione registrata in ambientale, in quella circostanza secondo i giudici d'appello dimostrava il pieno coinvolgimento, anche in questa vicenda usuraria, di Palomba Ferdinando, vero socio in affari di Cascone Francesco. Le emergenze processuali dimostravano anche come l'attività di usura e di estorsione ai danni di Lauri Francesco e Lauri Aniello erano state poste in essere dagli imputati con modalità di chiaro stampo camorristico, volutamente ingenerando nelle persone offese il convincimento di avere di fronte pericolosi esponenti della malavita organizzata locale ed "emissari" di organizzazioni di stampo mafioso con conseguente sussistenza della contestata aggravante di cui all'art. 7 Legge 203/91. Veniva rilevato come era sufficiente scorrere le dichiarazioni delle due vittime dei reati, per comprendere come le stesse fossero state fatte oggetto di continue e ripetute minacce evocative della presenza incombente di una pericolosa organizzazione di tipo camorristico interessata al prestito usurario. 51 La Corte territoriale ha dimostrato in maniera specifica l'insostenibilità degli argomenti più rilevanti di perplessità indicati nella sentenza di primo grado, e, con rigorosa analisi, seguita da completa e convincente motivazione, si è sovrapposta a tutto campo alla decisione del primo giudice, dando ragione delle scelte operate e confrontandosi con le deduzioni difensive e dando atto dello specifico contributo causale di ciascun concorrente. A fronte di tutto quanto esposto dai giudici di appello CANNAVALE Vincenzo, CANNAVALE Lazzaro, CASCONE Francesco , CASCONE Vincenzo e PALOMBA Ferdinando contestano con riguardo alla c.d. vicenda Lauri genericamente l'affermazione di responsabilità, la qualificazione dei reati, la sussistenza dell'aggravante di cui all'art. 7 riproponendo ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame. I ricorsi di CANNAVALE Vincenzo e CANNAVALE Lazzaro che riguardano solo la vicenda in esame devono pertanto essere respinti e i ricorrenti condannati al pagamento delle spese processuali. Devono essere esaminati gli ulteriori motivi di ricorso di CASCONE Francesco, CASCONE Vincenzo e PALOMBA Ferdinando che riguardano anche altri capi di imputazione Ricorso di CASCONE Francesco La Corte d'Appello ha confermato la condanna di CASCONE Francesco per i reati di cui ai capi 0),P)- vicenda Del Gaudio; Q), R) - vicenda Mendolia; V)- vicenda Maresca; Z)vicenda Tito . Con riguardo alla vicenda Sorrentino che ha dato origine ai capi A 1 ) e A2) ha confermato la pronuncia di condanna di cui al capo A 1 ) (usura) e in accoglimento dell'appello del P.M. avverso la pronuncia di assoluzione emessa dal Giudice di primo grado lo ha condannato anche per l'estorsione contestata al capo A2 )(estorsione). Generico è il motivo in cui lamenta un non corretto esame delle parti offese dei delitti di usura considerato che la Corte Territoriale ha fondato il giudizio di colpevolezza non solo su dette dichiarazioni ma anche sul contenuto delle intercettazioni telefoniche ed ambientali che oltre ad essere estremamente chiare avvaloravano le varie fasi del racconto delle persone offese. Nell'esame operato dai giudici del merito le acquisizioni probatorie risultano interpretate nel pieno rispetto dei canoni legali di valutazione e risultano applicate con esattezza le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la conferma delle conclusioni di colpevolezza. Con riguardo al motivo con cui lamenta l'intervenuta condanna per il capo A2)- estorsione in danno di Sorrentino deve rilevarsi che secondo la Corte d'Appello, diversamente da quanto ritenuto dal GUP, le dichiarazioni della vittima e le conversazioni intercettate tra il Sorrentino ed il Cascone, evidenziavano come quest' ultimo avesse effettivamente minacciato l'usurato per costringerlo a pagare gli interessi illeciti. In sentenza veniva 52 anche sottolineato che a seguito del fermo di Cascone Francesco, il Sorrentino veniva escusso a sommarie informazioni e, in quella sede, oltre a rendere dettagliate dichiarazioni in ordine ai prestiti ricevuti dal Cascone, affermava di essere stato minacciato dall'imputato, di cui conosceva il peso e la influenza negli ambienti criminali di Castellammare di Stabia. In particolare aveva indicato che nel corso di uno dei suoi tentativi di temporeggiare nel pagamento, il Cascone gli aveva detto che lo "aspettava" davanti al bar. Espressione che, nel contesto in cui è stata pronunciata dal Cascone, poteva essere ritenuta idonea ad incutere timore nella vittima ed a coartarne la volontà. Secondo i giudici d'Appello detta espressione, atteso lo spessore criminale dell'imputato, aveva il valore di un comando perentorio, che sottintendeva l'esposizione ad un grave pericolo personale in caso di inadempimento . Si tratta di una minaccia larvata, non per questo inidonea ad essere ritenuta tale e ad integrare gli estremi della estorsione considerato l'ambiente in cui si è sviluppata e lo stato di timore e soggezione in cui versava il Sorrentino come attestato dalle conversazioni intercettate. Riteneva la Corte territoriale che, con riguardo al reato in questione, ricorressero le condizioni perché potesse dirsi realizzata l'aggravante sotto il profilo contestato dall'Accusa. Le modalità attraverso le quali è stato realizzato il delitto di estorsione, erano infatti connotate da una più rilevante carica intimidatoria, riconducibile alla metodologia mafiosa. Il particolare stato di soggezione psicologica in cui versava il Sorrentino, risultava evidente già dalla circostanza che la persona offesa si fosse determinata a denunciare il fatto solo dopo l'arresto del Cascone Francesco, circostanza che rendeva manifesto lo stato di particolare soggezione in cui versava la vittima nel corso del rapporto usurario, ingenerato dalla consapevolezza di intrattenere rapporti con un soggetto collegato alla malavita organizzata locale. L'atteggiamento omertoso serbato dalla vittima fino all'arresto del Cascone Francesco è uno degli elementi significativi della particolare carica intimidatoria collegata alla persona del Cascone Francesco, in un territorio, come quello stabiese, nel quale particolarmente radicata e tenace è la presenza di agguerrite organizzazioni criminali di tipo camorristico. Il contenuto della denuncia rivelava che la vittima era al corrente della caratura criminale del Cascone Francesco che era indicato dalla persona offesa con il soprannome con cui era noto negli ambienti malavitosi di appartenenza (o' sfregiato). L'appuntamento per la dazione della somma gli era stato dato nel temibile quartiere dell'Annunziatella, dove risiedeva anche il Carolei, cognato di Cascone Francesco, esponente di spicco della malavita organizzata locale. Anche in questo caso il giudice di appello ha raffrontato il proprio decisum con il giudizio espresso dal primo giudice, che si compone sia della ricostruzione del fatto che della valutazione complessiva degli elementi probatori, nel loro valore intrinseco e nelle connessioni tra essi esistenti ed è pervenuto a diversa conclusioni dando atto della propria decisione con motivazione logica , coerente e giuridicamente corretta. 53 A fronte di tutto quanto esposto dai giudici di appello il ricorrente si limita genericamente a contestare la diversa decisione senza tenere conto delle argomentazioni della Corte di appello, limitandosi ad affermare che le stesse sono inosservanti dei principio dell'oltre ragionevole dubbio. Con i motivi nuovi la difesa di CASCONE Francesco lamentava l'errore procedimentale e decisorio della corte del gravame che aveva ribaltato la pronuncia liberatoria attraverso la mera rilettura degli atti, senza procedere alla rinnovazione della istruttoria dibattimentale. Sul punto non può che richiamarsi quanto già detto e cioè che nel caso in esame sia il giudice di primo grado che quello di secondo grado non hanno effettuato un apprezzamento diretto della prova orale (dichiarazioni della parte offesa) nel suo formarsi ma hanno potuto valutare solo i verbali nei quali detta prova era documentata, con conseguente non applicabilità dei principi fissati dalla sentenza CEDU "Dan contro Moldavia" Alla luce delle considerazioni esposte il ricorso di CASCONE Francesco deve essere respinto e il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali. Ricorso di CASCONE Vincenzo La Corte d'Appello ha confermato la condanna di CASCONE Vincenzo per i reati di cui al capo 0)- vicenda Del Gaudio. Con riguardo all'utilizzabilità delle dichiarazioni di Del Gaudio deve richiamarsi quanto già indicato. Ciò detto deve rilevarsi che al punto 7 del ricorso con riguardo alla contestazione in esame a fronte di tutto quanto esposto dai giudici di merito ( pagg. da 57 a 60) il ricorrente contrappone unicamente generiche contestazioni in fatto, con le quali, in realtà, si propone solo una non consentita - in questa sede di legittimità diversa lettura degli elementi valutati dai giudici di merito e senza evidenziare alcuna manifesta illogicità o contraddizione della motivazione. Inoltre, le censure del ricorrente non tengono conto delle argomentazioni della Corte di appello. In proposito questa Corte Suprema ha più volte affermato il principio, condiviso dal Collegio, che sono inammissibili i motivi di ricorso per Cassazione quando manchi l'indicazione della correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'atto di impugnazione, che non può ignorare le affermazioni del provvedimento censurato, senza cadere nel vizio di aspecificità, che conduce, ex art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c), all'inammissibilità del ricorso (Si veda fra le tante: Sez. 1, sent. n. 39598 del 30.9.2004 dep. 11.10.2004-rv 230634) Fondato è invece il motivo di ricorso in punto pena. Come indicato dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass SSU n. 20798 del 2011 Rv. 249664) la recidiva è circostanza aggravante ad effetto speciale quando, come nel caso 54 di specie, comporta un aumento di pena superiore a un terzo e pertanto soggiace, in caso di concorso con circostanze aggravanti dello stesso tipo ( art . 629 , 628 co n. 1 c.p.), alla regola dell'applicazione della pena prevista per la circostanza più grave, con possibilità per il giudice di applicare un ulteriore aumento ai sensi dell'art. 63 co 4 c.p. fino ad un massimo di 1/3. Nel caso in esame ha invece proceduto sulla pena base già aggravata ad un aumento per la recidiva pari a 2/3. La sentenza deve pertanto essere annullata nei confronti di Cascone Vincenzo limitatamente alla determinazione della pena, con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Napoli per nuovo giudizio sul punto, ferma l' irrevocabilità dell'affermazione di responsabilità. Ricorsi di GAMBARDELLA Giuseppe e PALOMBA Ferdinando La Corte d'Appello ha confermato la condanna di GAMBARDELLA e PALOMBA per il reato di cui al capo V) - vicenda Maresca . Con riguardo all'utilizzabilità delle dichiarazioni del Maresca deve richiamarsi quanto già indicato. Ciò detto deve rilevarsi che i giudici d'Appello hanno sottolineato come la partecipazione di PALOMBA Ferdinando e GAMBARDELLA Giuseppe nel reato di usura in argomento, risulta pacificamente accertata sulla base delle dichiarazioni della persona offesa, sulla cui attendibilità si soffermano alle pagg. 38 e 39 avvalorate dal tenore delle conversazioni intercettate. Sono quindi insussistenti, del resto, i vizi di motivazione pur genericamente denunciati dai ricorrenti, perché la Corte territoriale ha compiutamente esaminato le doglianze difensive ed ha dato conto del proprio convincimento sulla base di tutti gli elementi a sua disposizione, esaurientemente argomentando circa la pronuncia di responsabilità. Nell'esame operato dai giudici del merito le acquisizioni probatorie risultano interpretate nel pieno rispetto dei canoni legali di valutazione e risultano applicate con esattezza le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la conferma delle conclusioni di colpevolezza Lamentano i ricorrenti anche la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche. Premesso che la sussistenza di circostanze attenuanti rilevanti ai sensi dell'art. 62-bis cod. pen. è oggetto di un giudizio di fatto, e può essere esclusa dal giudice con motivazione fondata sulle sole ragioni preponderanti della propria decisione, di talché la stessa motivazione, purché congrua e non contraddittoria, non può essere sindacata in cassazione. Nel caso di specie la concessione è stata esclusa sul presupposto della gravità dei fatti, dell'allarmante contesto delinquenziale in cui è maturata la vicenda e della mancanza di qualunque elemento idoneo a dimostrare una forma di resipiscenza . La doglianza in punto pena é generica. I ricorrenti si limitano a contestare l'eccessività della pena senza considerare che il giudice ha indicato in sentenza tutti gli elementi ritenuti rilevanti o determinanti nell'ambito della complessiva applicazione di tutti i criteri di cui all'art. 133 c.p. I ricorsi di PALOMBA e GAMBARDELLA devono pertanto essere respinti e i ricorrenti 55 condannati al pagamento delle spese processuali. Ricorso di IACCARINO Maria Teresa La Corte d'Appello ha confermato la condanna di IACCARINO Maria Teresa per il reato di cui al capo Z) - usura in danno di Tito Vincenzo e in accoglimento dell'appello del P.M. avverso la pronuncia di assoluzione emessa dal Giudice di primo grado lo ha condannata anche per l'usura in danno di Sorrentino Michele contestata al capo A1). Il motivo di ricorso con cui lamenta motivazione apparente con riguardo alla condanna di cui al capo Z) è infondato ai limiti dell'inammissibilità. I giudici d'appello non solo hanno dato conto di condividere le argomentazioni poste a fondamento della pronuncia di condanna resa dal primo giudice, alle pagine 70 e ss. della sentenza, ma hanno esaminato compiutamente le doglianze difensive sottolineando come l'ordinanza di custodia cautelare citata dalla difesa nell'atto di appello era superato dalle ulteriori acquisizioni probatorie riversate in atti, rappresentate dalle dichiarazioni rese in data 31.10.2009, dalla persona offesa Tito Vincenzo che aveva illustrava, con dovizia di particolari, tutte le fasi del rapporto usurario intrattenuto con Cascone Francesco, nel quale risultava coinvolta pure la moglie (Iaccarino Maria Teresa) che in alcune occasioni ha svolto il ruolo di esattrice degli interessi usurari, nella piena consapevolezza del rapporto illecito sottostante ( pagg. 45-46 sentenza impugnata) Con riguardo al motivo di doglianza con cui contesta la condanna per il reato di usura di cui al capo A 1 ) premesso che anche in questo caso non può trovare applicazione la sentenza CEDU "Dan contro Moldavia"perchè sia il giudice di primo grado che quello di secondo grado non hanno effettuato un apprezzamento diretto della prova orale (dichiarazioni della parte offesa) nel suo formarsi ma hanno potuto valutare solo i verbali nei quali detta prova era documentata, deve rilevarsi che la Corte Territoriale si è attenuta ai principi sopra indicati circa l'obbligo rafforzato di motivazione dimostrando con rigorosa analisi critica l'incompletezza o l'incoerenza della decisione del primo giudice e confrontandosi con le deduzioni difensive. In particolare ha sottolineato che non esistevano ragioni per ritenere non genuine le dichiarazioni del Sorrentino, visto che il contenuto delle conversazioni intercettate era assolutamente in linea con quanto veniva riferito da quest'ultimo. Ha rilevato che il giudice di primo grado aveva trascurato il valore altamente significativo con riguardo alla responsabilità della donna delle intercettazioni in data 7.4.2009 e 20.4.2009 che dimostrano come il Sorrentino avesse una certa familiarità con la Iaccarino, a cui si rivolgeva apertamente, come se si trattasse dello stesso Cascone. Secondo la Corte d'Appello proprio il tenore inequivoco delle conversazioni intercettate dimostra come la Iaccarino facesse le veci del marito in sua assenza e come fosse solita riscuotere le rate degli interessi dai diversi usurati. Ha ritenuto errata la prospettiva del giudice di primo grado che ha sostenuto che il 56 compendio probatorio rappresentato dalle due telefonate sopra richiamate non fosse sufficiente per ritenere dimostrata la responsabilità della imputata, in mancanza di specifiche dichiarazioni provenienti dalla persona offesa, perché il contenuto delle conversazioni intercettate costituisce piena prova di quanto gli interlocutori affermano, senza che sia necessario procedere alla individuazione di elementi di riscontro esterni e indipendentemente dalle dichiarazioni della persona offesa. Ma vi è di più. I giudici d'Appello hanno rilevato che le ulteriori emergenze processuali esistenti a carico della Iaccarino confermavano ulteriormente il contenuto di dette intercettazioni. Venivano richiamate conversazioni relative alla vicenda Del Gaudio e l'accertata responsabilità della donna nella vicenda Tito elementi che impedivano una diversa lettura delle conversazioni richiamate. La Corte territoriale ha dimostrato in maniera specifica l'insostenibilità degli argomenti più rilevanti di perplessità indicati nella sentenza di primo grado, e, con rigorosa analisi, seguita da completa e convincente motivazione, si è sovrapposta a tutto campo alla decisione del primo giudice, dando ragione delle scelte operate e della maggiore considerazione accordata alle intercettazioni telefoniche il cui chiaro ed univoco contenuto, conduceva in maniera inequivoca al convincimento opposto rispetto a quello espresso dal GUP. A fronte di tutto quanto esposto dai giudici di appello la ricorrente contrappone generiche contestazioni. Sono insussistenti, del resto, i vizi di motivazione pur genericamente denunciati, perché la Corte territoriale ha dato conto del proprio convincimento esaurientemente argomentando circa la pronuncia di responsabilità. Nell'esame operato dai giudici del merito le acquisizioni probatorie risultano interpretate nel pieno rispetto dei canoni legali di valutazione e risultano applicate con esattezza le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato il giudizio di colpevolezza Il ricorso deve pertanto essere respinto e la ricorrente condannata al pagamento delle spese processuali. Ricorso di DI MAIO Egidio La Corte d'Appello ha confermato la condanna di DI MAIO per il reato di cui al capo O) vicenda Del Gaudio. In ordine all'utilizzabilità delle dichiarazione di DEL GAUDIO Raffaele Ciro si rimanda a quanto sopra indicato. Con riguardo al motivo sub b) il ricorrente reitera analoga doglianza avanzata in sede di gravame, disattese nella sentenza impugnata con motivazione coerente priva di vizi logici. I giudici d'Appello affermano che dalle conversazioni registrate e dalle stesse dichiarazioni della persona offesa emerge che Di Maio Egidio svolse il ruolo di esattore degli interessi usurai che la persona offesa aveva pattuito con Cascone Francesco. 57 Viene altresì sottolineato che la tesi difensiva - che sostiene che la riscossione aveva riguardato la somma prestata dal Cascone e non gli interessi pattuiti - non ha alcun reale fondamento ed è smentita dalle stesse dichiarazioni della persona offesa la quale, trovandosi nella impossibilità di restituire la somma ricevuta in prestito, fu costretta a mantenere in vita il rapporto usurario corrispondendo periodicamente al Cascone gli interessi sulla somma presa in prestito che si attestavano intorno al 5% mensile. Ha infatti spiegato il Del Gaudio che l'accordo intrapreso con il Cascone ricalcava lo schema del rapporto usurario esistente con i suoi precedenti usurai il quale prevedeva, alla fine di ogni mese o la restituzione della intera somma prestata maggiorata del 5 % o il pagamento dei soli interessi. Il ruolo di esattore svolto da Di Maio Egidio, è confermato dalla persona offesa che ha riferito di avere corrisposto gli interessi attraverso il Di Maio ed il Bonifacio i quali, per come risulta dal tenore delle conversazione e dallo sviluppo della vicenda narrata dalla persona offesa, erano ben consapevoli del rapporto di natura usuraria che si era instaurato tra Del Gaudio e Cascone Francesco. Veniva altresì evidenziato che fu proprio il Di Maio, perfettamente al corrente della disperata situazione economica della persona offesa, ad introdurre Del Gaudio al cospetto di Carolei Paolo, di cui Cascone Francesco era il cognato. A fronte di tutto quanto esposto dai giudici di merito il ricorrente contrappone unicamente generiche contestazioni in fatto, con le quali si propone solo una non consentita - in questa sede di legittimità - diversa lettura degli elementi valutati dai giudici di merito, senza evidenziare alcuna manifesta illogicità o contraddizione della motivazione . Con riguardo alla doglianza in ordine alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, peraltro genericamente richieste dal prevenuto, deve rilevarsi che i giudici di merito con valutazione in fatto, incensurabile in questa sede hanno dato conto delle ragioni che ne impedivano la concessione individuate nell'allarmante contesto sociale in cui i fatti erano maturati. Il ricorso deve pertanto essere respinto e il ricorrente condannata al pagamento delle spese processuali Ricorso di NAPODANO Aniello La Corte d'Appello ha confermato la condanna di NAPODANO per i reati a lui ascritti ai capi F) (violazione dell'art. 12 quinquies L. n. 356/92 con riguardo alla fittizia intestazione del punto scommesse Intralot di P.za Spartaco) I) (violazione art. 648 ter c.p.) e N) ( violazione dell'art. 4 co 1 L. n. 401/89) ed in accoglimento dell'appello del P.M. lo ha condannato anche per i capi G) (violazione dell'art. 12 quinquies L. n. 356/92con riguardo alla fittizia intestazione del bar Napodano e del relativo complesso aziendale sito in Pza Spartaco) ed H) (violazione art. 648 c.p.) 58 Con riguardo alla doglianza relativa all'inutilizzabilità delle intercettazioni telefoniche di cui al decreto n. 4725/08 si rimanda a quanto detto in precedenza. Con il primo motivo si duole il NAPODANO del mancato esame di elementi, anche documentali, significativi, di segno contrario idonei a smentire la tesi accusatoria con riguardo ai capi F), I) ed N) rispetto a quest'ultimo reato lamenta anche omessa motivazione. Il motivo è infondato. Deve premettersi che in sede di legittimità non è censurabile una sentenza per il suo silenzio su una specifica deduzione prospettata col gravame quando la stessa è stata disattesa dalla motivazione della sentenza complessivamente considerata. Per la validità della decisione non è infatti necessario che il giudice di merito sviluppi nella motivazione la specifica ed esplicita confutazione della tesi difensiva disattesa, essendo sufficiente per escludere la ricorrenza del vizio che la sentenza evidenzi una ricostruzione dei fatti che conduca alla reiezione della deduzione difensiva implicitamente e senza lasciare spazio ad una valida alternativa. Qualora il provvedimento indichi con adeguatezza e logicità quali circostanze ed emergenze processuali si sono rese determinanti per la formazione del convincimento del giudice, in modo da consentire l'individuazione dell'iter logico - giuridico seguito per addivenire alla statuizione adottata, non vi è luogo per la prospettabilità del denunciato vizio di preterizione (Cass. Pen. Sez. 5, 2459/2000; Cass Sez. 2 N. 29439/2004; Cass Sez.2 n.29439/2009) . Il giudice di merito non è infatti tenuto a compiere un'analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti ed a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una valutazione globale di quelle deduzioni e risultanze, spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni che hanno determinato il suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo. Devono, infatti, considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata. Deve inoltre evidenziarsi che il ricorrente sotto il profilo del vizio di motivazione tenta di sottoporre a questa Corte un giudizio di merito, non consentito perchè la modifica normativa dell'art. 606 c.p.p., lettera e), di cui alla L. 20 febbraio 2006, n. 46 ha lasciato inalterata la natura del controllo demandato alla Corte di cassazione, che può essere solo di legittimità e non può estendersi ad una valutazione di merito. Il nuovo vizio introdotto è quello che attiene alla motivazione, il cui vizio di mancanza, illogicità o contraddittorietà può ora essere desunto non solo dal testo del provvedimento impugnato, ma anche da altri atti del processo specificamente indicati. È perciò possibile ora valutare il cosiddetto travisamento della prova, che si realizza allorché si introduce nella motivazione un'informazione rilevante che non esiste nel processo oppure quando si omette la valutazione di una prova decisiva ai fini della pronunzia. Attraverso l'indicazione specifica di atti contenenti la prova travisata od omessa si consente nel giudizio di cassazione di 59 verificare la correttezza della motivazione. Ciò peraltro vale nell'ipotesi di decisione di appello difforme da quella di primo grado, in quanto nell'ipotesi di doppia pronunzia conforme il limite del devolutum non può essere superato ipotizzando recuperi in sede di legittimità, salva l'ipotesi in cui il giudice d'appello, al fine di rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, richiami atti a contenuto probatorio non esaminati dal primo giudice. Infine il dato probatorio che si assume travisato od omesso deve avere carattere di decisività non essendo possibile da parte della Corte di cassazione una rivalutazione complessiva delle prove che sconfinerebbe nel merito. Ciò detto la censura del ricorrente con riguardo alla mancata valutazione delle specifiche doglianze difensive si palesa infondata non apprezzandosi nella motivazione del provvedimento gravato alcuna illogicità che ne vulneri la tenuta complessiva. Deve aggiungersi che al giudice di legittimità resta tuttora preclusa - in sede di controllo della motivazione - la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice del merito perché ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa: un tale modo di procedere trasformerebbe, infatti, la Corte nell'ennesimo giudice del fatto. Con riguardo al vizio di omessa motivazione lamentato con riguardo al reato di cui al capo N) devo osservarsi che se è vero che l'impugnazione resta qualificata dalla "risposta" che il giudice del gravame è tenuto ad adottare, la mancanza di motivazione sta però ad indicare l'assoluto rifiuto da parte del giudice del gravame dell'esame delle censure proposte. La motivazione per relationem a quella impugnata, diventa, infatti, insindacabile in cassazione nel caso in cui le censure formulate a carico della sentenza del primo giudice non contengano elementi di novità con riferimento a quelli già esaminati e disattesi. Il giudice del gravame non è tenuto in questo caso a riesaminare una questione formulata genericamente nei motivi di appello, questione sulla quale il primo giudice si sia già soffermato ed abbia risolto con argomentazioni corrette e prive di vizi logici (Sez. 5^, 5 marzo, 1999, Tedesco; Sez. 5^, 22 aprile 1999, Maffeis). Deve rilevarsi che l'ambito della necessaria autonoma motivazione del Giudice d'appello risulta correlato alla qualità e alla consistenza delle censure rivolte dall'appellante. Se questi si limita alla mera riproposizione di questioni di fatto già adeguatamente esaminate e correttamente risolte dal primo giudice, oppure di questioni generiche, superflue o palesemente inconsistenti, il giudice dell'impugnazione ben può motivare per relazione e trascurare di esaminare argomenti superflui, non pertinenti, generici o manifestamente infondati. Quando, invece, le soluzioni adottate dal Giudice di primo grado siano state specificamente censurate dall'appellante, sussiste il vizio di motivazione, sindacabile ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), se il giudice del gravame si limita a respingere tali censure e a richiamare la contestata motivazione in termini apodittici o meramente 60 ripetitivi, senza farsi carico di argomentare sulla fallacia o inadeguatezza o non consistenza dei motivi di impugnazione. Nel caso di specie il NAPODANO si è limitato a chiedere l'assoluzione per il capo N) e la Corte Territoriale si è correttamente richiamata alle motivazioni del primo giudice (pagg. 138 ss sentenza di primo grado) che ha ritenuto che la responsabilità di Bonifacio e Napodano con riguardo alla gestione delle scommesse clandestine si fondava sulle dichiarazioni di Petruccione Luigi, integralmente richiamate, confermate dalle conversazioni intercettate. Le argomentazioni espresse impongono la reiezione anche del motivo sub. 3) del ricorso. Con riguardo al secondo motivo di ricorso con il quale si censura la condanna per i reati di cui ai capi G) (intestazione fittizia del bar situato in piazza Spartaco) ed H) (reimpiego di capitali illeciti nel bar di piazza Spartaco) deve rilevarsi che il giudice di primo grado ha mandato assolti Napodano e Carolei dai reati in argomento sulla scorta della seguente scarna motivazione: : "...deve premettersi che già in fase cautelare è emerso come il CAROLEI e il clan di riferimento non avessero alcun interesse in merito al bar gestito dal NAPODANO - tanto che il giudice cautelare rigettò la richiesta di sequestro - di tal che per le contestazioni di cui ai capi G e H deve essere emessa sentenza di assoluzione perché il fatto non sussiste." La Corte d'Appello ha dato atto che le intercettazioni delle conversazioni monitorate sull'utenza in uso a Carolei Paolo ed intercorse con Falcone Concetta dimostravano invece che il Carolei, proprio quale soggetto deputato a gestire i canali di riciclaggio e reimpiego del danaro sporco (compreso quello collegato alle scommesse clandestine), era il reale proprietario anche del nuovo bar di Piazza Spartaco nel quale erano state investite le laute risorse del clan e che il Napodano era un prestanome e lo gestiva per conto di Carolei. La disponibilità di tale bar era strettamente funzionale all'apertura, all'interno di esso, del centro INTRALOT, di cui era effettivo titolare il Carolei Paolo, come riconosciuto anche dal giudice di primo grado che ha condannato Carolei e Napodano per il reato di cui al capo F) e che a pagina 137 della sentenza ha affermato che "relativamente agli altri capi di imputazioni relativi al punto di raccolta di scommesse sito in via Spartaco le intercettazioni telefoniche delle conversazioni intercettate (specificatamente indicate) danno riscontro alle accuse di BEL VISO Salvatore, il quale, nel fornire particolari circa il ruolo del CAROLEI di plenipotenziario per conto del clan D'ALESSANDRO nel settore della raccolta delle scommesse onde realizzare il comodo riciclaggio dei proventi delle attività criminali del clan, ha descritto come si era pervenuti alla decisioni di affidare allo stesso CAROLEI la gestione del punto scommesse di piazza Spartaco". Proprio il bar è oggetto di vanto da parte del Carolei nel messaggio inviato alla Falcone 1'1.6.2009 e la sua apertura suscita l'entusiasmo in tutti gli appartenenti al sodalizio, come rivelato dalla conversazione intercettata tra Bonifacio e l'amica Giulietta il 18.8.2006. 61 La conversazione ed il messaggio, secondo la Corte territoriale, dimostrano in modo inequivoco che il bar ed il centro scommesse rappresentavano una sola realtà, facente capo al Carolei ed alla sua organizzazione, nella quale erano state investite ingenti risorse finanziarie. I giudici d'appello davano atto che la difesa nella memoria difensiva del 31.5.2013 aveva contestato che i collaboratori non avevano parlato del bar ma solo delle agenzie, ma obiettavano che nella realtà, la unicità del bar e dell'agenzia, che sorgevano negli stessi locali ed il coinvolgimento del Carolei e del suo gruppo nella reale gestione di entrambe le attività, risultava così evidente dalle conversazioni intercettate e dal messaggio inoltrato dal Carolei in persona alla Falcone, da impedire una diversa interpretazione. Il Carolei ed il Bonifacio parlano del bar come di un bene che appartiene a "loro", nel quale, evidentemente, erano state impiegate le ingenti risorse illecite del clan d'Alessandro ("hanno speso un occhio"). Si può pertanto affermare che il giudice d'appello nel riformare in pejus la sentenza di primo grado si è attenuto ai principi indicati dimostrando l'insostenibilità sul piano probatorio dell'apodittica motivazione del primo giudice, con rigorosa analisi degli elementi probatori seguita da completa e convincente motivazione che, ha tenuto conto delle deduzioni difensive e ha dato atto della contraddittorietà del giudizio di assoluzione del primo giudice rispetto a diverse valutazioni operate nello stesso contesto probatorio, dando ragione delle scelte operate e della maggiore considerazione accordata ad elementi di prova non valutati. A fronte di tale argomentare il ricorrente si è limitato ad affermare che le argomentazioni della Corte territoriale sono inosservanti dei principi giuridici fissati dagli arresti di questa Corte in tema di obbligo rafforzato di motivazione in caso di ribaltamento della sentenza assolutoria di primo grado e a richiamare il mancato esame da parte dei giudici d'appello della documentazione prodotta. In proposito il Collegio osserva che è ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità il principio della c.d. "autosufficienza" del ricorso in base al quale quando la doglianza fa riferimento ad atti processuali, la cui valutazione si assume essere stata omessa o travisata, è onere del ricorrente suffragare la validità del proprio assunto mediante la completa trascrizione dell'integrale contenuto degli atti specificatamente indicati o la loro allegazione (ovviamente nei limiti di quanto era già stato dedotto in precedenza), essendo precluso alla Corte l'esame diretto degli atti del processo. Inammissibile perché aspecifico è il motivo sub 4 considerato che la Corte territoriale ha dato atto che il contenuto delle conversazioni intercettate e la ripetitività delle condotte, nel contesto delinquenziale ampiamente illustrato in sentenza, dimostravano senza ombra di dubbio la piena consapevolezza del Napodano di agevolare l'associazione camorristica denominata clan d'Alessandro operante sul territorio. 62 Ricorso di CASCONE Gennaro La Corte d'Appello ha confermato la condanna per i reati di cui ai capi D) (violazione dell'art. 12 quinquies L. n. 356/92 con riguardo alla fittizia intestazione del punto scommesse Intralot di via Pioppaino) ed E) (violazione dell'art. 648ter c.p.) Con riguardo alla doglianza relativa all'inutilizzabilità delle intercettazioni telefoniche di cui al decreto n. 4725/08 si rimanda a quanto detto in precedenza. Con riguardo alle doglianze formulate dal ricorrente nel primo motivo di ricorso, attinenti alla tenuta argomentativa della sentenza, deve rilevarsi che, ai sensi di quanto disposto dall'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), il controllo di legittimità sulla motivazione non concerne nè la ricostruzione dei fatti ne' l'apprezzamento del giudice di merito, ma è circoscritto alla verifica che il testo dell'atto impugnato risponda a due requisiti che lo rendono insindacabile: a) l'esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato; b) l'assenza di difetto o contraddittorietà della motivazione o di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento. Deve aggiungersi che l'illogicità della motivazione, deve risultare percepibile ictu ocu/i, in quanto l'indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di Cassazione limitarsi, per espressa volontà del legislatore, a riscontrare l'esistenza di un logico apparato argomentativo, senza possibilità di verifica della rispondenza della motivazione alle acquisizioni processuali (Cass., Sez. 4, 4 dicembre 2003, Cozzolino ed altri). Inoltre, va precisato, che il vizio della "manifesta illogicità" della motivazione deve risultare dal testo del provvedimento impugnato, nel senso che il relativo apprezzamento va effettuato considerando che la sentenza deve essere logica "rispetto a sè stessa", cioè rispetto agli atti processuali citati. Va altresì ricordato che, anche alla luce del nuovo testo dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), come modificato dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, non è tuttora consentito alla Corte di cassazione di procedere ad una rinnovata valutazione dei fatti ovvero ad una rivalutazione del contenuto delle prove acquisite, trattandosi di apprezzamenti riservati in via esclusiva al giudice del merito. La previsione secondo cui il vizio della motivazione può risultare, oltre che dal "testo" del provvedimento impugnato, anche da "altri atti del processo", purché specificamente indicati nei motivi di gravame, non ha infatti trasformato il ruolo e i compiti del giudice di legittimità, il quale è tuttora giudice della motivazione, senza essersi trasformato in un ennesimo giudice del fatto. In questa prospettiva il richiamo alla possibilità di apprezzarne i vizi anche attraverso gli "atti del processo" rappresenta null'altro che il riconoscimento normativo della possibilità di dedurre in sede di legittimità il cosiddetto "travisamento della prova" che è quel vizio in forza del quale la Corte, lungi dal procedere ad una (inammissibile) rivalutazione del fatto (e del contenuto delle prove), prende in esame gli elementi di prova risultanti dagli atti 63 pi 7 per verificare se il relativo contenuto è stato veicolato o meno, senza travisamenti, all'interno della decisione. In tal senso, per chiarire, si può apprezzare il travisamento della prova nei casi in cui il giudice di merito abbia fondato il suo convincimento su una prova che non esiste (ad esempio, il testimone indicato in sentenza non esiste) o su un risultato di prova incontestabilmente diverso da quello reale (ad esempio, il testimone ha dichiarato qualcosa di diverso da quello rappresentato in sentenza oppure nella ricognizione il soggetto ha "riconosciuto" persona diversa da quella indicata in sentenza) (v., Sezione 4, 14 dicembre 2006, p.c. Bambini ed altri in proc. Guarneri). Mentre, giova ribadirlo, non spetta comunque alla Corte di cassazione "rivalutare" il modo con cui quello specifico mezzo di prova è stato apprezzato dal giudice di merito, giacché attraverso la verifica del travisamento della prova il giudice di legittimità può e deve limitarsi a controllare se gli elementi di prova posti a fondamento della decisione esistano o, per converso, se ne esistano altri inopinatamente e ingiustamente trascurati o fraintesi. Per intenderci, non potrebbe esserci spazio per una rinnovata considerazione della valenza attribuita ad una determinata deposizione testimoniale, mentre potrebbero farsi valere la mancata considerazione di altra deposizione testimoniale di segno opposto esistente in atti ma non considerata dal giudice ovvero la valenza ingiustamente attribuita ad una deposizione testimoniale inesistente o presentante un contenuto diametralmente opposto a quello recepito dal giudicante. Ponendosi nella richiamata prospettiva ermeneutica,le doglianze del ricorrente, contenute nel motivo in esame in cui lamenta il travisamento della prova con riferimento alle dichiarazioni del Belviso e degli altri propalanti si palesa infondata, non apprezzandosi nella motivazione della sentenza gravata alcuna illogicità che ne vulneri la tenuta complessiva. In ogni caso la doglianza sarebbe infondata anche alla luce di alcuni arresti di questa Corte (Cass Sez. 6° 10 maggio 2007, Contrada; Cass Sez. 4° n. 15556/08), secondo i quali, alla luce della nuova formulazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), come modificato dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, che consente dì dedurre il vizio di motivazione desumibile dagli "atti del processo" specificamente indicati, deve per vero rilevarsi che una "fonte dichiarativa" è per sua stessa definizione scandita da significanze non univoche, sì da doversi escludere che essa possa in linea di principio integrare gli "altri atti del processo" cui potrebbe o dovrebbe estendersi in sede di legittimità lo scrutinio sulla completezza e logicità della decisione impugnata. Infatti, la testimonianza, salvi i casi limite in cui l'oggetto della deposizione sia del tutto definito o attenga alla proposizione di un dato storico semplice e non opinabile (ad esempio: il teste dice bianco, il giudice valuta la deposizione come se avesse detto nero o non avesse detto nulla), è sempre il frutto di una percezione soggettiva del dichiarante anche se attiene a fatti di sua diretta scienza, con la conseguenza che il giudice di merito, nel valutare i contenuti 64 v'' della deposizione testimoniale, è sempre chiamato a "depurare", in diversa misura, il dichiarato dalle cause di interferenza provenienti dal dichiarante: ossia dalla sua capacità cognitiva, dalla sua sensibilità percettiva ed emotiva, dal suo stato di coinvolgimento o meno negli accadimenti che riesuma e descrive. Per l'effetto, affinché il giudice di legittimità possa esprimere un eventuale giudizio sulla completezza, logicità e non contraddittorietà della motivazione in rapporto all'apprezzamento (di fatto) di una fonte testimoniale operato o non operato dal giudicante, diverrebbe necessario che avesse contezza dell'intero compendio probatorio (tutti gli atti processuali) raccolti fino al momento della decisione, sulla base dei quali svolgere l'analisi comparativa inerente la decisività o non della fonte testimoniale e della incidenza causale dalla stessa svolta (cioè della sua lacunosa o preterita considerazione) nel percorso decisionale del giudice di merito: ciò che è impraticabile in rapporto alla natura del giudizio di legittimità. Nel caso in esame, la Corte di merito argomenta la responsabilità dell'imputato facendo puntuale riferimento alle conversazioni intercettate che riscontrano le dichiarazioni del collaboratore che attestano che il clan D'Alessandro aveva un preciso interesse anche nel redditizio settore delle scommesse nel quale venivano reimpiegate le somme derivanti dalle attività estorsive ed evidenziano come l'intestazione esclusiva della agenzia di raccolta di scommesse su eventi sportivi di via Pioppaino fosse fittizia, atteso che era il CAROLEI, soggetto già gravitante in clan operanti in Castellammare di Stabia, il reale titolare di detta agenzia, laddove l'intestazione al CASCONE Gennaro serviva solo per prevenire possibili confische dell'agenzia e delle sue pertinenze. A fronte di tale motivata e coerente decisione il ricorrente chiede una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l'adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione delle dichiarazioni dei testi rispetto a quelli adottati dal giudice del merito perché ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa. Un tale modo di procedere non può essere ammesso perché trasformerebbe la Corte nell'ennesimo giudice del fatto. Nè miglior sorte ha la generica doglianza secondo cui vi sarebbe un difetto di motivazione su punti decisivi della causa, non avendo il giudice dato alcun peso ad alcune delle prove raccolte. Occorre infatti a tale proposito rammentare che il giudice di merito non ha l'obbligo di soffermarsi a dare conto di ogni singolo elemento indiziario o probatorio acquisito in atti, potendo egli invece limitarsi a porre convenientemente in luce quelli che in base al giudizio effettuato risultano gli elementi essenziali ai fini del decidere purché tale valutazione risulti logicamente coerente (Cass. Pen. Sez. 5, 2459/2000, ricorrente Garasto). Aderendo a tali principi deve perciò affermarsi che la sentenza impugnata supera il vaglio di legittimità. Il ricorrente infatti attraverso lo schermo del travisamento chiede una rivalutazione complessiva delle prove non consentita in questa fase di legittimità Con riguardo al motivo sub 2 deve rilevarsi che l'aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7 è stata giudicata applicabile dai giudici di merito sotto il primo dei due profili 65 presi in osservazione dalla norma, essendosi ritenuta sussistente la finalità di agevolare l'associazione di tipo mafioso denominata Clan D'Alessandro. Premesso che si tratta di aggravante di tipo "oggettivo", tale cioè da non riguardare soltanto la persona del singolo imputato, ma da potersi estendere ai correi, ne è stata ravvisata l'operatività a carico di CASCONE Gennaro fiduciario del CAROLEI personalità di spicco della predetta consorteria mafiosa. Lamenta la difesa che l'aggravante in questione può essere applicata anche a soggetti estranei all'associazione mafiosa soltanto se consti una cosciente e univoca finalizzazione agevolatrice del sodalizio criminale che nel caso del ricorrente non è stata provata. Ciò detto deve rilevarsi che la conclusione raggiunta dai giudici di merito è corretta. Il carattere oggettivo dell'aggravante ex D.L. n. 152 del 1991, art. 7 è già stato affermato da questa Corte con le sentenze n. 19802 del 22/01/2009 Rv. 244261 e n. 10966 dell'8.11.2012 Rv. 255206, con statuizione del tutto condivisibile. Ne discende che, stante la comunicabilità della circostanza ai corresponsabili nel medesimo reato, è sufficiente che l'aspetto volitivo - espresso nella norma col riferimento al "fine di agevolare" l'associazione mafiosa - sussista in capo ad alcuni, o anche ad uno soltanto di essi, per i soggetti concorrenti nel medesimo reato viene in considerazione soltanto l'aspetto conoscitivo, il cui accertamento è sollecitato dal disposto dell'art. 59 c.p., comma 2. Sul punto la motivazione della sentenza è tutt'altro che carente, essendo ivi ben evidenziato come il CASCONE si sia prestato ad intestarsi fittiziamente beni di Carolei la cui organicità al consorzio criminale era ben nota. Con riguardo alla doglianza in ordine alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, peraltro genericamente richieste dal prevenuto, deve rilevarsi che i giudici di merito con valutazione in fatto, incensurabile in questa sede hanno dato conto delle ragioni che ne impedivano la concessione individuate nell'allarmante contesto sociale in cui i fatti erano maturati e dall'assenza di elementi positivamente valutabili. Con riguardo alle doglianze in tema di confisca si rimanda a quanto indicato allorchè verrà trattato analogo motivo con riguardo al ricorso Carolei sottolineando però sin da ora che il CASCONE lamenta il mancato esame di documenti difensivi che non vengono però né citati compiutamente, né allegati, con conseguente violazione del canone di autosufficienza del ricorso. Ricorso di CAROLEI Paolo La Corte d'Appello ha confermato la condanna di CAROLEI Paolo con riguardo ai reati di cui ai capi A)(violazione dell'at. 416 bis per avere partecipato all'associazione di tipo mafioso denominata clan D'Alessandro), D) (violazione dell'art. 12 quinquies L. n. 356/92con riguardo alla fittizia intestazione del punto scommesse Intralot di via Pioppaino) e F) (violazione dell'art. 12 quinquies L. n. 356/92con riguardo alla fittizia intestazione del punto scommesse Intralot di P.za Spartaco) 66 Con riguardo alle questioni di inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni telefoniche disposte con decreti n. 4725/08 e n. 1317/09 si rimanda alle argomentazioni già esposte. Con riguardo all'eccezione di inutilizzabilità delle dichiarazioni rese da Catello Romano per violazione dell'art. 141bis c.p.p. deve rilevarsi che dal tenore del ricorso non è dato comprendere non solo in quale sede processuale (interrogatorio di garanzia, udienza di convalida, udienza preliminare o dibattimentale) il Catello ha reso dette dichiarazione, ma anche l'interesse a sollevare l'eccezione considerato che la Corte territoriale le ha ritenute non rilevanti nel contesto delle emergenze probatorie raccolte a carico dell'imputato ai fini della pronuncia di condanna. Si può pertanto affermare che il ricorrente in violazione del canone della autosufficienza del ricorso ha trascurato di rappresentare compiutamente (e di documentare) le emergenze processuali che sorreggono la eccezione di inutilizzabilità in argomento e di indicare l'interesse all'impugnazione che richiede che con il proposto gravame si intenda perseguire un risultato non soltanto teoricamente corretto ma anche praticamente favorevole. Con il motivo sub 2 contesta il ricorrente la sussistenza dei presupposti del reato ( violazione dell'art. 12quinquies L. n. 356/1992 ) senza considerare che il D.L. 8 giugno 1992, n. 306, art. 12 quinquies convertito, con modificazioni, nella L. 7 agosto 1992, n. 356, è una fattispecie a forma libera, finalisticamente orientata ad evitare l'attribuzione fittizia della titolarità o della disponibilità di denaro o altre utilità, protesa ad eludere talune disposizioni legislative, in materia di misure di prevenzione patrimoniali o di contrabbando, ovvero di agevolare la commissione di uno dei delitti di cui agli articoli 648, 648bis e 648ter codice penale . Finalità che può concretarsi, come nel caso in esame anche dall'intento di favorire comportamenti di reimpiego della ricchezza provento di illecito. Dalle sentenze di merito, che non essendovi difformità sui punti denunciati, si integrano vicendevolmente, emerge la prova dei reati contestati ai capi D) e F). Nelle pronunce viene infatti dato atto che tutte le conversazioni intercettate tra Carolei Paolo, Cascone Gennaro, Avallone Francesco di Paolo e Falcone Concetta (Titti) sull'avvio del nuovo centro di scommesse di Piazza Spartaco e sulla procedura per trasformare il centro di vai Pioppaino dimostrano in modo indubbio che Carolei era l'effettivo titolare di tali centri, formalmente intestati a Cascone Gennaro e Napodano Aniello proprio per prevenire possibili confische (conversazioni numero 3515, 4986, 11910, 11936, 11940, 11942, 11948). In tali conversazioni, in cui la Falcone dispensa indicazioni e si prodiga per la buona riuscita di questi obiettivi, emerge con assoluta chiarezza la riconducibilità al Carolei di queste attività. Così come sempre dalle conversazioni intercettate, che trovano conferma anche dalle dichiarazioni del Belviso, risulta che il Carolei impiegava nei suddetti centri di scommesse i lauti guadagni che gli provenivano dall'attività illecita 67 del clan d'Alessandro, considerato anche che, alla luce degli atti processuali, non vi erano diverse spiegazioni alla rilevante disponibilità di somme di danaro e oggetti di lusso di cui il Carolei era in possesso. E proprio perché mezzi per commettere il reato o perché ne costituiscono il prodotto o il profitto è stato confermato il provvedimento di confisca di tali beni. La sentenza impugnata ha pertanto provato la sussistenza dei reati, dando atto di avere esaminato tutti gli elementi a disposizione. A fronte di tale argomentare il ricorrente genericamente lamenta il mancato esame di documenti difensivi dai quali si trarrebbe la legittimità della provenienza dei beni sequestrati, documenti che non vengono però né citati compiutamente, né allegati, con conseguente violazione del canone di autosufficienza del ricorso. Il motivo sub 3) è inammissibile perché le doglianze in esso dedotte sono manifestamente infondate e ripropongono le stesse ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame, dovendosi gli stessi considerare, per di più, non specifici. La mancanza di specificità del motivo, invero, dev'essere apprezzata non solo per la sua genericità, come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'impugnazione, questa non potendo ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità, conducente a mente dell'art. 591 cod. proc. pen., comma primo, lett. c), all'inammissibilità. I giudici di merito con motivazioni che si integrano reciprocamente hanno infatti ritenuto dimostrato l'inserimento del CAROLEI nella consorteria criminale promossa e diretta da D'ALESSANDRO Vincenzo, egemone in Castellammare di Stabia, sulla scorta delle convergenti dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizi, POLITO Raffaele, SPERA Michele e BELVISO Salvatore, tutti intranei alla consorteria, che hanno indicato l'imputato come affiliato al clan camorristico dove si occupava di estorsioni e di agguati ed ulteriormente confermato dalle intercettazioni disposte nel presente procedimento che attestano che, come riferito anche dal Belviso, quando il clan, atteso il rapporto privilegiato tra i D'ALESSANDRO e dirigente della INTRALOT, LOPEZ Maurizio, ha assunto il controllo totale della raccolta di scommesse sportive nei territori di Castellammare di Stabia, Sorrento e Gragnano, D'ALESSANDRO Vincenzo ne autorizzò la gestione da parte del CAROLEI con il precipuo incarico, fra gli altri, di predisporre canali di riciclaggio dei proventi dell'attività del gruppo criminale attraverso l'apertura di agenzie di raccolta di scommesse su eventi sportivi. Ulteriori riscontri sono stati desunti anche dal ritrovamento nell' abitazione del CAROLEI di atti di indagine riguardanti l'omicidio Tommasino. Viene sottolineato in sentenza come il ritrovamento nella disponibilità dell'imputato di copie degli interrogatori dei collaboratori di giustizia Polito e Spera (ex appartenenti al clan D'Alessandro), rappresenta un fatto particolarmente rilevante ai fini della sua partecipazione al clan perché oltre ad essere 68 indicativo dell'elevato potere del ricorrente nella compagine camorristica, denota il suo pieno interessamento alla conoscenza del contenuto di tali atti e la sua viva preoccupazione di essere chiamato in causa dai collaboratori. Rileva il Collegio che il ricorrente, pur denunziando con i cennati motivi di gravame anche la formale violazione dell'art. 192.3 c.p.p., non svolge una critica logico-deduttiva dell'apprezzamento degli elementi di prova, ne' censura la violazione di regole inferenziali preposte alla formazione del convincimento del giudice, ma piuttosto genericamente richiama arresti giurisprudenziali in tema di chiamata in correità sostenendone la violazione senza tenere conto che i giudici di merito si sono attenuti compiutamente ai principi delineati nella giurisprudenza di legittimità, in tema d'interpretazione del canone di valutazione probatoria fissato dall'art. 192 co 3 c.p.p. I Dalle argomentazioni espresse discende l'infondatezza anche delle generiche censure relative alla sussistenza dell'aggravante di cui all'art. 7 L. n. 203 /1991 contestata con riguardo ai reati satelliti. I giudici di merito hanno infatti dato atto, con motivazione adeguata e non manifestamente illogica, della sussistenza dell'aggravante di cui all'art. 7 DL cit., con riguardo alle finalità di agevolare l'attività della consorteria criminale e alle modalità esecutive dell'usura di cui al capo S). Il quarto motivo di ricorso è infondato. In tema di giudizio abbreviato il potere di integrazione probatoria attribuito al giudice dall'art. 441, comma quinto, cod.proc.pen. - per il quale quando il giudice ritiene di non potere decidere allo stato degli atti assume, anche, d'ufficio, gli elementi necessari ai fini della decisione - è preordinato alla tutela dei valori costituzionali che devono presiedere, anche nei giudizi a prova contratta, all'esercizio della funzione giurisdizionale e risponde, pertanto, alle medesime finalità cui è preordinato il potere previsto dall'art. 507 cod. proc. pen. in dibattimento.(V. Cass. Sez. 5 sent. n. 4648 del 19.12.2005 dep. 3.2.2006 rv 233632). Tale potere del giudice è conseguente al principio costituzionale di obbligatorietà dell'azione penale di cui all'art. 112 Cost. che implica il controllo del giudice sull'attività del P.M. e poteri sostitutivi in caso di inerzia del P.M. o di incompletezza delle indagini preliminari. Ne discende che allorchè tale potere venga esercitato, d'ufficio o su sollecitazione di parte, la prova è nella disponibilità del giudice che procede alla sua assunzione con le forme previste dall'art. 422 co 3 c.p.p. (l'audizione delle persone è condotta di regola dal giudice al quale il P.M. e i difensori possono chiedere di porre domande). Deve rilevarsi che nessuna lesione dei diritti della difesa è ipotizzabile a seguito dell'esplicazione di tale potere di integrazione probatoria, dal momento che, allorché l'imputato richiede il giudizio abbreviato, non può non considerare anche la possibilità, prevista dalla legge, che il giudice acquisisca nuovi elementi di prova. 69 Deve essere respinto anche il 5° motivo di ricorso perché i giudici d'appello con una valutazione in fatto incensurabile in questa sede hanno rigettato la richiesta di riconoscimento del vincolo della continuazione "esterna" tra la presente sentenza e quella emessa in data 16.5.2003 dalla V sezione della corte di Appello di Napoli rilevando che vi è una cesura temporale troppo rilevante tra i fatti giudicati con le due sentenze, per potersi affermare che via sia una unicità del disegno criminoso e sottolineando che si tratta di una partecipazione a clan diversi e addirittura contrastanti, circostanza che porta ad escludere una programmazione ed una deliberazione unitaria iniziale. A fronte di tale coerente motivazione ancorata a corretti presupposti di diritto il ricorrente si limita a reiterare la richiesta senza fornire elementi in grado di contrastare quanto deciso dalla Corte territoriale. I motivi sub 7 e 8 meritano una trattazione congiunta . Osserva il Collegio che, diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente, l'art. 416 bis c.p.p. non delinea nel secondo comma una circostanza aggravante rispetto all'ipotesi della mera partecipazione di cui al primo comma, ma due distinte fattispecie. Questa Corte, con riferimento alla condotta del promotore dell'associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti, ha già ritenuto di individuare una figura autonoma di reato e non una circostanza aggravante della partecipazione all'associazione medesima (Sez. 1, n. 6312 del 27/01/2010, Mento, Rv. 246118). Con specifico riguardo all'art. 416 bis cod. pen., si è, del pari, puntualizzato che esso prevede una pluralità di figure criminose di carattere alternativo e tutte dotate di una intrinseca autonomia, le quali hanno in comune tra loro il solo riferimento ad una associazione di tipo mafioso: il fatto di partecipare ad una associazione è ben diverso dalla ipotesi di assumere un ruolo di tale preminenza da poter essere considerato come "capo" ovvero come "promotore" o "organizzatore" (Sez. 5, n. 7961 del 09/01/1990, Rabito, Rv. 184537; Sez. 1, n. 29770 del 24/03/2009, Vernengo, Rv. 244459; Sez. 5 n. 8430 del 2014 Rv. 258304). Le attività poste in essere da colui che promuove, dirige o organizza l'associazione, lungi dal caratterizzarsi per la presenza di elementi specializzanti, rispetto alla condotta di mera partecipazione, esprimono infatti un'alternatività che giustifica il diverso disvalore attribuito dal legislatore attraverso un distinto trattamento sanzionatorio. I giudici di merito si sono attenuti ai principi espressi. Dalle argomentazioni espresse discende l'infondatezza di entrambe le censure. CAROLEI Paolo con i motivi aggiunti ha sollevato violazione dell'art. 606 lett. c) con riferimento all'art. 127 e 599 c.p.p. con conseguente violazione del diritto di difesa per omesso provvedimento di riunione della sua posizione, separata all'udienza del 3.5.2013 e mai più riunita al fascicolo principale con conseguente nullità della sentenza. 70 /A2 L'eccezione deve essere respinta. L'assenza di un formale provvedimento di riunione non ha determinato alcuna lesione dei diritti di intervento e difesa dell'imputato considerato che dai verbali risulta la presenza dell'imputato e del suo difensore alle udienze del 10.5.2013 e 31.5.2013, udienze nelle quali non è stata sollevata alcuna eccezioni in tal senso anzi il difensore del CAROLEI, avvocato Chiummariello, all'udienza del 31.5.2013 ha depositato memoria con la quale si è confrontato con le conclusioni del P.M. Il ricorso di CAROLEI Paolo deve pertanto essere respinto e il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali. I ricorsi di DI MARTINO Leonardo La Corte d'Appello ha confermato la condanna di DI Martino Leonardo per il reato di cui al capo C) (illecita coltivazione di piantagioni di canapa) ed in riforma della sentenza del primo giudice lo ha condannato per i reati di cui ai capi A) (violazione art. 416 bis c.p.) e B) (violazione art. 74 DPR 309/90) Ricorso presentato a mezzo dell'Avv. Giovanni Esposito Fariello Con riguardo alle doglianze sollevata con il ricorso presentato a mezzo dell'Avv. Giovanni Esposito Fariello deve richiamarsi quanto già indicato con riguardo all'ammissibilità dell'appello del P.M., all'utilizzabilità delle conversazioni telefoniche disposte con decreto n. 1317/2009 e dell'accertamento sulla sostanza stupefacente (motivi sub 1-2-3) Con riguardo al motivo sub 4 deve da subito rilevarsi quanto ai profili di più squisita natura giuridica che questo Collegio aderisce alla lezione ermeneutica di questa Corte, secondo cui il giudicato penale formatosi nei confronti di taluno per un certo fatto non vincola il giudice chiamato a rivalutare quel fatto in relazione alla posizione di altri soggetti imputati quali concorrenti nel medesimo reato; il che comporta, tra l'altro, che qualora il giudicato sia stato di assoluzione, il giudice del separato procedimento instaurato a carico del concorrente nel medesimo reato può sottoporre a rivalutazione il comportamento dell'assolto all'unico fine - fermo il divieto del "ne bis in idem" a tutela della posizione di costui - di accertare la sussistenza ed il grado di responsabilità dell'imputato da giudicare (Cass., Sez. 1, 16/11/1998, n. 12595, rv.211768; N. 18398 del 2013 Rv. 255879; N. 19267 del 2014 Rv. 259371) L'acquisizione agli atti del procedimento, giusta quanto previsto dall'art. 238 bis c.p.p., di sentenze divenute irrevocabili non comporta, per il giudice di detto procedimento, alcun automatismo nel recepimento e nell'utilizzazione ai fini decisori dei fatti ne', tanto meno, dei giudizi di fatto contenuti nei passaggi argomentativi della motivazione delle suddette sentenze, dovendosi al contrario ritenere che quel giudice conservi integra l'autonomia e la libertà delle operazioni logiche di accertamento e formulazione di giudizio a lui istituzionalmente 71 G( riservate (Cass., cit. 12595/98; Cass., Sez. 3, 13/01/2009, n. 8823; Cass., Sez. 6, 12/11/2009, n. 47314; Cass. pen., Sez. 2, 28/02/2007, n. 16626). E' evidente che nel caso in esame non può trovare applicazione l'istituto disciplinato dall'art. 587 c.p.p. alla luce della giurisprudenza di legittimità. Come affermato da questa Corte ( da ultimo sentenze N. 3702 del 2013 Rv. 254765, N. 16678 del 2013 Rv. 255848; N. 8026 del 2013 Rv. 258530) tra i presupposti dell'estensione, pur nel caso del concorso di più persone nello stesso reato, v'è l'unicità della sentenza fatta oggetto d'impugnazione. In particolare nella sentenza n. 16678 del 2013, la cui motivazione viene fatta propria da questo Collegio, è stato sottolineato che "se si ponesse attenzione soltanto al dato letterale della disposizione di cui all'art. 587 c.p.p., comma 1, che menziona il caso di uno stesso reato con pluralità di imputati, si rischierebbe di non cogliere con la necessaria compiutezza il presupposto all'estensione, perché si potrebbe anche ritenere che, dato il concorso di più soggetti in uno stesso reato, sia irrilevante che, in luogo di un unico procedimento, si sia avuta la frammentazione dell'accertamento in più procedimenti. L'unicità del procedimento, infatti, è certo la regola in ipotesi di connessione, specie di connessione per pluralità di soggetti imputati di uno stesso fattoreato, ma può anche accadere che si abbiano più procedimenti, magari per scelte di singoli concorrenti in ordine al rito, come avvenuto nel caso ora in esame in cui il procedimento era originariamente unico, perché incentrato su un unico reato con pluralità di imputati e poi fu separato Con una lettura più ampia, e quindi corretta, della disciplina processuale si ha modo di valorizzare altra disposizione, che concorre a delineare l'istituto dell'estensione dell'impugnazione, contenuta nell'art. 601 c.p.p., comma 1, nella parte in cui fa obbligo al presidente della Corte di appello di ordinare la citazione anche dell'imputato non appellante, tra l'altro, se ricorre alcuno dei casi previsti dall'art. 587. È ovvio che di tale obbligo non potrebbe parlarsi, al di là poi di quali conseguenze comporti il suo inadempimento, se la premessa non fosse che il soggetto da citare sia da qualificarsi come imputato in quel medesimo procedimento e che quindi sia stato destinatario della medesima sentenza che altri coimputati abbiano impugnato". Deve darsi però atto di un opposto orientamento formatosi nella giurisprudenza di questa Corte, fatto proprio da quella decisione che ha riconosciuto l'operatività dell'estensione di "una sentenza assolutoria definitiva per insussistenza del fatto emessa in accoglimento dell'appello proposto da alcuni imputati" alla posizione del "coimputato nel medesimo reato che tale estensione espressamente invochi nel giudizio di appello ancora in corso a suo carico, a seguito di separazione per mere ragioni processuali" - Sez. 6, n. 7804 del 28/02/2000 - dep. 05/07/2000, P.M. e Piccinni, Rv. 220520 -. A sostegno di siffatta conclusione si è addotta l'irragionevolezza dell'opposta soluzione, che discriminerebbe la posizione del coimputato appellante in separato procedimento da quelle del non appellante o dell'appellante irrituale, riservandogli un trattamento deteriore. 72 v72 Quest'ultima soluzione per le argomentazioni indicate non può essere condivisa, e deve anzi ribadirsi che l'estensione dell'impugnazione opera, pur quando si tratti di unico reato con pluralità di imputati, a condizione che il procedimento non abbia subito separazioni tali da impedire che tutti i coimputati siano destinatari di una medesima pronuncia soggetta ad impugnazione. Deve essere comunque chiarito che, rispetto alla separazione dei processi d'impedimento all'estensione, altro è il caso, su cui si sono pronunciate anche le Sezioni unite, della separazione incorsa nel giudizio di appello in forza della rinuncia di qualche appellante ad alcuni motivi contestualmente all'accordo intervenuto con il pubblico ministero per l'accoglimento di tal'altri, secondo la previsione dell'art. 599 c.p.p., comma 4 ormai espunta dall'ordinamento processuale per effetto dell'abrogazione operata dal D.L. n. 92 del 2008. A tal proposito le Sezioni unite di questa Corte hanno ammesso l'estensione per "accoglimento di un motivo di ricorso per cassazione non esclusivamente personale" agli altri imputati del medesimo reato, pur se c.d. patteggianti in appello - Sez. U, n. 30347 del 12/7/2007 (dep. 26/7/2007), Aguneche ed altri, Rv. 236756, e ciò perché quel che importa, ai fini dell'estensione, è che l'impugnazione abbia ad oggetto, anche se non in via immediata, una sentenza che abbia direttamente riguardato il soggetto beneficiario dell'estensione medesima. Non potrebbe infatti parlarsi di estensione dell'impugnazione, e quindi della sentenza d'impugnazione, se per il soggetto sulla cui posizione il vantaggio ridondi non sia coinvolto direttamente, quale imputato, nell'accertamento da cui l'impugnazione medesima abbia tratto origine. Per gli altri casi, quelli cioè che vedono il coimputato giudicato separatamente e quindi al di fuori dell'ambito operativo dell'istituto dell'estensione dell'impugnazione, il soddisfacimento delle esigenze di giustizia e di uniformità dei giudicati è affidato ad altro strumento, ossia alla revisione delle sentenze di condanna che ha tra i presupposti, come è noto, anche l'inconciliabilità tra i fatti posti a fondamento di due diverse sentenze, una delle quali necessariamente di condanna penale. Orbene, tanto premesso sul piano dei principi, ritiene il Collegio che i giudici di secondo grado si sono confrontati con tutti i dati probatori a loro disposizione per pervenire alla decisione sottolineando in particolare come il giudice della sentenza emessa a carico di Di Martino Fabio, nella scarna motivazione afferente alla ritenuta insussistenza della compagine associativa delineata al capo B) della rubrica del presente giudizio, abbia trascurato di prendere in considerazione elementi che riguardano la suddivisione di ruoli emergenti dalle conversazioni intercettate e, soprattutto, sia caduto in evidente contraddizione allorquando, nella parte motiva, ha descritto la vicenda in termini compatibili con un'attività posta in essere in forma associata, per poi giungere alla conclusione che si trattava di un'attività posta in essere dal nucleo familiare dei Di Martino in concorso tra loro. 73 Si sono confrontati anche con la decisione del primo giudice sottolineando come le sintetiche argomentazioni che giustificavano tale pronuncia contrastavano con tutte le emergenze processuali. Veniva rilevato che il giudice di primo grado ha escluso la configurabilità del reato associativo limitandosi ad affermare: "...deve escludersi in relazione al caso di specie la configurabilità del reato associativo, atteso che l'intesa fra i DI MARTINO era limitata alla coltivazione delle piantagioni poi sequestrate e non era rivolta alla consumazione di una serie indeterminata di reati collegati al traffico di sostanze stupefacenti né risulta che gli imputati avessero predisposto una struttura permanente per la coltivazione delle sostanze stupefacenti e per la loro distribuzione commerciale. Sul punto deve infatti rilevarsi che latitano del tutto elementi probatori utili per affermare l'attribuibilità ai DI MARTINO della piantagione sequestrata in zona l'anno successivo." La scarna motivazione secondo i giudici d'appello non teneva conto del fatto che tutto il materiale probatorio raccolto a carico degli imputati, dimostrava proprio il contrario. I Di Martino, come indicato dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, dai colloqui intercettati e dall'imponente operazione di sequestro avvenuta sui Monti Lattari, erano dediti stabilmente e da anni, all'attività di produzione e smercio di sostanze stupefacenti del tipo marijuana. Il loro gruppo, a base familiare, prevedeva, come emergeva dalle conversazioni intercettate, una precisa suddivisione di ruoli. Di Martino Leonardo era promotore e capo della organizzazione; i figli erano addetti alla coltivazione della sostanza ed al loro smercio (unitamente ad altre persone di cui era dato chiaramente comprendere l' esistenza dalle indagini in atti benchè non imputate nel processo); la moglie, svolgeva la funzione di portare messaggi all'esterno del carcere, di tenere informato il marito e di gestire il cospicuo patrimonio che gli imputati ricavavano dalla vendita dello stupefacente. Proprio a questo proposito ritenevano significativo rilevare come gli introiti collegati alla vendita della sostanza stupefacente, erano elevatissimi, indice, questo, di uno stabile e consolidato sistema di smercio della sostanza, come indicato tra l'altro anche dai collaboratori di giustizia. Veniva altresì sottolineato come proprio i risultati delle intercettazione dei colloqui avvenuti in carcere tra il Di Martino Leonardo ed i suoi familiari dimostravano l'esistenza di una stabile organizzazione finalizzata alla coltivazione estensiva di piantagioni di marijuana, alla successiva estrazione e produzione di sostanza stupefacente, alla cessione della sostanza a narcotrafficanti operanti in Campania ed in Calabria. In numerosi passaggi delle conversazioni intercettate, il Di Martino Leonardo progettava con i figli l'individuazione di nuovi terreni da acquisire per la coltivazione delle piante di marijuana, allo scopo di allargare e potenziare la già consistente produzione esistente. Proprio alla luce di tali elementi i giudici d'appello hanno ritenuto che non poteva fondatamente sostenersi che la coltivazione posta in essere dalla famiglia Di Martino e dagli altri soggetti di cui si avvalevano, fosse un fatto occasionale e sporadico, realizzato in famiglia con mezzi e strumenti improvvisati, in realtà si trattava di una operazione 74 meditata e realizzata con estrema cura, che aveva richiesto l'impiego di forze ed energie criminali quotidiane ed estremamente impegnative, per la dislocazione impervia delle coltivazioni e per la loro consistenza. Proprio le modalità di realizzazione della coltivazione, alla cui cura erano dediti quotidianamente i fratelli Di Martino e la continua ricerca di nuovi terreni sui quali impiantare nuove coltivazioni per espandere la produzione era la dimostrazione dell'esistenza di un accordo permanente tra gli imputati per la realizzazione di una serie indeterminata di reati in materia di stupefacenti. A fronte di tale specifica motivazione il ricorrente si limita genericamente a sostenere la linea difensiva già espressa in sede di gravame e già valutata dalla Corte territoriale proponendo solo generiche contestazioni in fatto, con le quali, in realtà, chiede solo una non consentita - in questa sede di legittimità - diversa lettura degli elementi valutati dai giudici di merito e senza evidenziare alcuna manifesta illogicità o contraddizione della motivazione, e senza tenere conto delle argomentazioni della Corte di appello. Il motivo è pertanto infondato. Deve essere respinto il 5 motivo di ricorso e ribadito che con riferimento alle intercettazioni non possono essere accolte le censure volte a contestare il significato attribuito dai giudici alle conversazioni intercettate. Infatti, l'interpretazione del linguaggio adoperato nelle conversazioni intercettate, anche quando sia criptico o cifrato, è questione di fatto rimessa alla valutazione del giudice di merito ( Cass n. 17619/2008 RV 239724 N. 3643 del 1997 Rv. 209620, N. 117 del 2006 Rv. 232626, N. 15396 del 2007 Rv. 239636) e si sottrae al giudizio di legittimità se tale valutazione risulta logica in rapporto a massime di esperienza. Nella specie, i giudici hanno offerto una ricostruzione del significato delle conversazioni oggetto di intercettazione - in alcuni casi particolarmente esplicite - del tutto coerente. Ne consegue che le critiche mosse al senso e al significato dato ai colloqui registrati devono ritenersi del tutto infondate. Con riguardo alla doglianza di cui al punto 6) relativa all'attendibilità dei collaboratori deve rilevarsi che non è certamente questa, del sindacato di legittimità, la sede dove possa essere rimesso in discussione l'apprezzamento fattuale, riservato ai giudici del merito, sulle circostanze caratterizzanti la credibilità soggettiva e l'intrinseca affidabilità del racconto del collaboratore. Ma è precipuo compito della Corte di cassazione verificare se sia stata fatta, o non, corretta applicazione del criterio stabilito dall'art. 192 co 3 c.p.p. ai fini della valutazione dell'effettiva consistenza probatoria delle chiamate in reità. Risulta invero ormai compiutamente delineata nella giurisprudenza di legittimità, in tema d'interpretazione del canone di valutazione probatoria fissato dall'art. 192 co 3 c.p.p., l'operazione logica conclusiva di verifica giudiziale della chiamata in reità di un collaboratore di giustizia, alla stregua della quale essa, perché possa assurgere al rango di elemento di prova pienamente valido a carico del chiamato ed essere posta a fondamento di un'affermazione di responsabilità, necessita, oltre che del positivo apprezzamento in ordine alla sua intrinseca attendibilità, anche di riscontri esterni, i quali 75 debbono avere carattere "individualizzante" per il profilo dell'inerenza soggettiva al fatto, cioè riferirsi ad ulteriori, specifiche, circostanze, strettamente e concretamente ricolleganti in modo diretto il chiamato al fatto di cui deve rispondere. Con il lineare corollario che le accuse introdotte mediante dichiarazioni de relato, aventi ad oggetto la rappresentazione di fatti noti al dichiarante non per conoscenza diretta ma perché appresi da terzi, in tanto possono integrare una valida prova di responsabilità in quanto, oltre che intrinsecamente affidabili con riferimento alle persone del dichiarante e delle fonti primarie, siano sorrette da convergenti e individualizzanti riscontri esterni, in relazione al fatto che forma oggetto dell'accusa ed alla specifica condotta criminosa dell'incolpato, essendo necessario, per la natura indiretta dell'accusa, un più rigoroso e approfondito controllo del contenuto narrativo della stessa e della sua efficacia dimostrativa. Ciò detto deve evidenziarsi che i giudici d'appello hanno fatto corretta applicazione dei criteri ermeneutici sopra indicati. Hanno dato conto dell'attendibilità intrinseca dei chiamanti e ne hanno sottolineato la convergenza e l'assoluta indipendenza oltre ai numerosi riscontri. E' stato evidenziato che le dichiarazioni dei collaboratori trovavano riscontro nelle conversazioni intercettate sia presso la casa di lavoro di Sulmona, sia presso la utenza di Carolei Paolo o del suo uomo di fiducia Avallone Francesco . La vicinanza di Di Martino Leonardo a Carolei Paolo, trovava riscontro anche in una serie di circostanze evidenziate negli accertamenti di P.G., riversati nelle informative in atti e nel fidanzamento della figlia di Carolei Paolo con Di Martino Fabio, figlio di Leonardo. Proprio questo fidanzamento, a cui ha accennato anche il collaboratore Polito innanzi al Tribunale di Torre Annunziata, ampiamente riscontrato dalle conversazioni in atti, ha suggellato la coesione tra il clan D'Alessandro, di cui Carolei Paolo era uno dei capi e degli organizzatori ed il clan Di Martino. Il motivo è pertanto infondato. Con riguardo al motivo sub 7 in cui si lamenta carenza di motivazione in relazione al motivo d'appello con il quale si era richiesta la concessione delle circostanze attenuanti generiche deve rilevarsi che nel caso in argomento le circostanze attenuanti erano state genericamente richieste senza alcuna indicazione degli elementi posti a sostegno. Non è pertanto annullabile per difetto di motivazione la sentenza in argomento per il fatto che ha omesso di prendere in esame un motivo di impugnazione che, per essere privo del requisito della specificità, avrebbero dovuto essere dichiarato inammissibile. Sussiste, infatti, un effettivo interesse dell'imputato a dolersi della violazione solo quando l'assunto difensivo posto a fondamento del motivo sia in astratto suscettibile di accoglimento.( Cass. N. 2415 del 1984 Rv. 163169, N. 154 del 1985 Rv. 167304, N. 16259 del 1989 ; Cass Sez. 4 n. 1982/99; Cass Sez. 4 n. 24973/09) 76 I Ricorso presentato a mezzo dell'Avv. Alfredo Gaito Con riguardo al primo motivo di ricorso devono richiamarsi i principi sopra indicati in tema di reformatio in pejus e ribadirsi che, nel caso di celebrazione del processo nelle forme del giudizio abbreviato, non trovano applicazione i principi stabiliti dalla Corte EDU con la sentenza Dan/Moldavia perché nel caso di giudizio abbreviato è stata proprio la richiesta dell'imputato di definizione del processo allo stato degli atti a determinare la celebrazione già in primo grado di un processo basato non su oralità ed immediatezza ma sulla sola valutazione della documentazione inserita nel fascicolo del P.M. In caso di celebrazione del processo nelle forme del giudizio abbreviato sia il giudice di primo grado che quello di secondo grado hanno un rapporto intermediato con la fonte della prova dichiarativa che non viene assunta davanti a loro, con la sola eccezione della assunzione diretta di elementi necessari ai fini della decisione qualora ritengano di non essere in grado di decidere allo stato degli atti (art. 441 co 5 c.p.p. e 603 co 3 c.p.p.). E' vero che con riguardo all' imputazioni di cui al capo A) il giudice di primo grado si è avvalso dei poteri di integrazione probatoria di cui all'art. 441 co 5 c.p.p. e ha assunto la deposizione del collaboratore Belviso all'udienza del 20.12.2012, mentre la Corte d'Appello, che non ha ritenuto di avvalersi dei poteri concessigli dall'art. 603 c.p.p., ha valutato solo i verbali di trascrizione di detta audizione, senza procedere ad una rinnovazione dell'istruttoria per una nuova audizione del collaboratore, ma è pur vero che questa Corte nel dichiarare manifestamente infondata l'eccezione di legittimità costituzionale dell'art. 603 cod. proc. pen., per contrasto all'art. 117 Cost. e all'art. 6 della Convenzione Europea dei diritti dell'Uomo (CEDU) nella parte in cui non prevede la preventiva necessaria obbligatorietà della rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale per una nuova audizione dei testimoni già escussi in primo grado, nel caso in cui la Corte di Appello intenda riformare "in peius" una sentenza di assoluzione dell'imputato, ha precisato che l'art. 6 CEDU, così come interpretato dalla sentenza della Corte Europea dei diritti dell'Uomo del 5 luglio 2011, nel caso Dan c/ Moldavia, impone di rinnovare l'istruttoria soltanto in presenza di due presupposti: la decisività della prova orale e la necessità di una rivalutazione da parte del giudice di appello dell'attendibilità dei testimoni). (Sez. 5, n. 38085 del 2012 Rv. 253541)". La Corte Edu è infatti intervenuta in un caso concreto in cui il giudice di primo grado non aveva ritenuto attendibili il testimone principale, che riferiva su tutte le circostanze fondanti l'accusa, nonché gli altri testimoni che avevano assistito al preteso pagamento della tangente, per difformità delle loro versioni dei fatti. Il giudice di secondo grado senza una nuova raccolta delle prove ma sulla sola base della lettura delle dichiarazioni rese in primo grado aveva invece affermato la piena attendibilità dei medesimi testimoni. Un tale sistema, secondo la sentenza della Corte Europea, non è conforme alla 77 a Convenzione Edu perché un equo processo comporta che il giudice che deve utilizzare la dichiarazione di un testimone (in modo difforme da altro giudice) deve poterlo ascoltare personalmente e così valutarne la attendibilità. Il principio che, quindi, può evincersi dalla sentenza in questione è il seguente: laddove la prova essenziale consista in una o più prove orali che il primo giudice abbia ritenuto, dopo averle personalmente raccolte, non attendibili, il giudice di appello per disporre condanna non può procedere ad un diverso apprezzamento della medesima prova sulla sola base della lettura dei verbali ma è tenuto a raccogliere nuovamente la prova innanzi a sè per poter operare una adeguata valutazione di attendibilità. Diverso è il caso nel quale il giudice di primo grado non abbia negato l'attendibilità della prova orale e, quindi, non è su questo che si incentra la discorde valutazione del giudice di secondo grado. In tale diverso caso non può ritenersi alcuna necessità di una nuova raccolta della prova non essendovi alcuna divergenza nei due giudizi. Si tratta di casi in cui, evidentemente, la differente decisione in punto di ricostruzione dei fatti è conseguenza di diverso apprezzamento o mancato apprezzamento di altri elementi probatori. Questo è quanto è avvenuto nel caso di specie in cui il giudice di primo grado non ha ritenuto inattendibile il collaboratore Belviso ma ha ritenuto che "la genericità degli elementi di accusa, atteso che nessuno dei collaboratori di giustizia fa espresso e puntuale richiamo in merito all'imputato né indicano elementi per affermare l'affiliazione del DE MARTINO Leonardo al clan camorristico egemone in Gragnano e zone limitrofe" imponevano l'assoluzione del DI MARTINO dal capo A)" I giudici di secondo grado hanno invece ritenuto che l'appartenenza di Di Martino Leonardo (detto o' lione) all'associazione di cui al capo A) della rubrica si desumeva da plurimi elementi. Particolarmente significativa era a tale fine la nota informativa della Legione Carabinieri Campania, Gruppo di Torre Annunziata, Nucleo Investigativo, volume 3/3 relativa al p.p. n. 61516/08 R.G. depositata presso la segreteria del P.M. in data 14.9.2010 che ripercorre la storia criminale del prevenuto e lo individuava come a capo del sodalizio camorristico denominato "Afeltra - Di Martino", operante nell'area dei Monti Lattari. Nel corso degli anni il gruppo criminale Di Martino, composto dal padre e dai numerosi figli, dapprima alleato al clan Imparato ed alle famiglie Fontanella e Carfora, si sarebbe legato al clan D'Alessandro, grazie a Carolei Paolo. A dette indicazioni si aggiungevano le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia (Esposito Antonio, Polito Raffaele, Spera Michele, Belviso Salvatore ) specificatamente richiamate che indicavano Di Martino Leonardo a capo della omonima organizzazione operante nel territorio di Pimonte, Lettere e Gragnano, e che dopo alcune fasi di avvicinamento, si era definitivamente alleato con il clan D'Alessandro, anche attraverso il Carolei, con il quale condivideva gli stessi interessi e le medesime mire espansionistiche. Costoro avevano sostanzialmente creato un cartello criminale, egemone su un territorio molto vasto, che 78 t comprendeva tutta la zona di Castellammare, dei Monti Lattari e di una parte della penisola sorrentina, sbarazzandosi dei vecchi malavitosi del luogo che avrebbero potuto, in qualche modo, opporsi ad un simile obiettivo e intralciarne le attività. Di qui, la lunga sequela di omicidi verificatisi nelle suddette zone, tra cui quello di Chierchia e D'Antuono. Le dichiarazioni dei collaboratori secondo i giudici di secondo grado trovavano riscontro nelle conversazioni intercettate sia presso la casa di lavoro di Sulmona, sia presso la utenza di Carolei Paolo. La Corte Territoriale ha sottolineato come, alla stregua di quanto indicato, non corrispondeva a verità il fatto, posto dal primo giudice a fondamento della pronuncia di assoluzione, che i collaboratori non avevano fatto riferimento al Di Martino Leonardo, quale componente e alleato del clan D'Alessandro. Anzi dalle dichiarazioni dei collaboratori riscontrate dal contenuto delle conversazioni intercettate risultava dimostrato: 1. che il Di Martino aveva stretti rapporti con Carolei Paolo; 2. che si era creata un'alleanza tra il Carolei, capo ed organizzatore del clan D'Alessandro e Di Martino anche attraverso il fidanzamento dei loro rispettivi figli; 3. che il territorio di Gragnano era sotto l'egida dei D'Alessandro- Di Martino; 4. che il Di Martino Leonardo, unitamente a tutto il suo gruppo familiare, era dedito alla produzione ed al traffico di stupefacenti. Veniva evidenziato che il fatto che il clan D'Alessandro fosse, in epoca risalente, un clan avversario del Di Martino, era una circostanza che non valeva ad escludere la successiva alleanza tra i due perché è del tutto normale, nella storia criminale delle località caratterizzate da una contemporanea presenza di più organizzazioni malavitose di tipo camorristico (come Castellammare e zone limitrofe) che, nella evoluzione di ciascuna di queste organizzazioni e nella corsa all'accaparramento di settori sempre più redditizi, si creino nuove alleanze, proprio come era accaduto nel caso in esame. Non si è in cospetto nel caso di specie di "una mera rivisitazione in senso peggiorativo compiuta in appello dello stesso materiale probatorio già acquisito in primo grado ed ivi ritenuto inidoneo a giustificare una pronuncia di colpevolezza", bensì dell'unica (e non già alternativa) corretta e logica (e totalmente persuasiva) lettura degli elementi probatori a disposizione, palesemente travisati dal giudice di primo grado. Si può pertanto affermare che la decisione d'appello difforme da quella di primo grado ha fornito adeguata confutazione delle ragioni poste a base di quest'ultima". La sentenza impugnata, invero, ha, come era suo obbligo, confutato specificamente le ragioni poste a sostegno della decisione riformata, dimostrando puntualmente l'insostenibilità sul piano logico e giuridico degli argomenti più rilevanti ivi contenuti, corredandosi di una motivazione che, sovrapponendosi pienamente a quella della decisione di primo grado, ha dato ampiamente ragione delle scelte operate e della maggiore considerazione accordata ad elementi di prova diversi o diversamente valutati . Il motivo è pertanto infondato così come sono infondati i motivi nuovi presentati dall'Avv. Gaito nell'interesse del ricorrente e della Molinari. 79 • Con riguardo ai motivi sub 2-3 si richiamano le considerazioni espresse allorchè si sono trattate le medesime questione con riguardo ai motivi presentati dall'Avv. Giovanni Esposito Fariello ( motivi sub 4-5-6 ricorso Fariello) Con riguardo al motivo sub 5 si rimanda alle considerazioni espresse in ordine all'utilizzabilità delle intercettazioni di cui al decreto n. 1317/2009 Manifestamente infondato è il motivo sub 6 considerato che la condotta del promotore dell'associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti è una figura autonoma di reato e non una circostanza aggravante della partecipazione all'associazione medesima. Lo si deduce dalla ricostruzione logico-sistematica della norma e in particolare dei commi successivi al primo, rispetto al quale le altre disposizioni prevedono aumenti (comma terzo, quarto, quinto) o diminuzioni (comma secondo, settimo). La qualità di organizzatore è inoltre un elemento essenziale e non circostanziale del reato attenendo alla condizione dell'autore proprio. ( Cass. N. 26310 del 2010 Rv. 246118). Con riguardo alla censura in ordine al mancato accoglimento della richiesta di circostanze attenuanti generiche si rimanda a quanto indicato allorchè si è trattato identico motivo presentato dall'Avv. Esposito Fariello. I motivi di ricorso alla luce delle argomentazioni indicate devono pertanto essere respinti. I ricorsi di MOLINARI Annamaria La Corte d'Appello in riforma della sentenza del primo giudice ha condannato MOLINARI Annamaria per i reati di cui ai capi B) (violazione art. 74 DPR 309/90) e C) (illecita coltivazione di piantagioni di canapa) . Si ritiene opportuno procedere alla trattazione congiunta dei distinti ricorsi perché presentano questioni analoghe. Richiamate tutte le questioni di diritto indicate allorchè si sono trattati i ricorsi DI MARTINO con riguardo la valutazione della sentenza di assoluzione pronunciata il 17.5.2012 nei confronti di DI MARTINO Fabio e le argomentazioni già espresse in tema di utilizzabilità delle intercettazioni disposte con decreto 1317/2009 e dell'accertamento tecnico disposto ex art. 360 c.p.p., deve rilevarsi che a Molinari Annamaria è stato contestato di avere partecipato assieme al marito e al figlio DI MARTINO Michele ad un'associazione finalizzata alla coltivazione ed al traffico di sostanze stupefacenti di tipo marijuana (capo B) e di avere insediato diverse coltivazioni di canapa indiana sui monti Lattari (capo C). All'esito del giudizio di primo grado la Molinari veniva assolta da tutti i reati a lei ascritti. Riteneva il primo giudice che gli elementi raccolti dagli inquirenti dimostravano la piena attribuibilità a DI MARTINO Leonardo e ai suoi figli Fabio e Michele delle piantagioni di marijuana sequestrate. Non vi era infatti dubbio alla luce del contenuto dei colloqui intercettati che DI MARTINO Fabio e DI MARTINO Michele, sulla scorta di precise direttive del padre LEONARDO, avevano provveduto a curare la preparazione dei terreni, la 80 semina e la coltivazione delle piante di cannabis poi sequestrate. Diversamente in relazione alla posizione processuale di MOLINARI Anna Maria, moglie di DI MARTINO Leonardo, il giudice di primo grado riteneva la sua totale estraneità alla attività di coltivazione delle piantagioni in sequestro rilevando che la donna non forniva alcun sostegno all'azione dei suoi familiari e il tenore delle conversazioni intercettate non mostrava in capo alla stessa la consapevolezza delle condotte illecite direttamente attribuibili agli altri coimputati. Si era limitata a fare da tramite con il mondo esterno per conto di due compagni di detenzione del marito DI MARTINO Leonardo, soggetti per i quali non vi era, secondo il GUP, alcun elemento per sostenere il loro coinvolgimento nella rete di trafficanti di sostanze stupefacenti. Escludeva in relazione al caso di specie la configurabilità del reato associativo, sul presupposto che l'intesa fra i DI MARTINO si era limitata alla coltivazione delle piantagioni poi sequestrate e non si era rivolta alla consumazione di una serie indeterminata di reati collegati al traffico di sostanze stupefacenti né risultava che gli imputati avessero predisposto una struttura permanente per la coltivazione delle sostanze stupefacenti e per la loro distribuzione commerciale. La Corte d'Appello accoglieva l'appello del P.M. in ordine alla responsabilità dell'imputata con riferimento a tutti e due i reati a lei ascritti. Secondo i giudici di secondo grado tutto il materiale probatorio raccolto a carico degli imputati, dimostrava il contrario di quanto affermato in sentenza dal GUP. I Di Martino, come emergeva dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, dai colloqui intercettati e dall'imponente operazione di sequestro avvenuta sui Monti Lattari, erano dediti stabilmente e da anni, all'attività di produzione e smercio di sostanze stupefacenti del tipo marijuana. I risultati delle intercettazione dei colloqui avvenuti in carcere tra il Di Martino Leonardo ed i suoi familiari confermavano, secondo i giudici di secondo grado,l'esistenza di una stabile organizzazione finalizzata alla coltivazione estensiva di piantagioni di marijuana, alla successiva estrazione e produzione di sostanza stupefacente, alla cessione della sostanza a narcotrafficanti operanti in Campania ed in Calabria. Nell'ambito di tale organizzazione, il Di Martino Leonardo, risultava rivestire il ruolo di promotore ed organizzatore, avendo la funzione precipua di dirigere l'attività materialmente svolta dai figli, cosa che è chiaramente avvenuta anche durante il periodo di detenzione presso la Casa Lavoro di Sulmona. A tale struttura associativa, sulla base di quanto risulta dalle conversazioni intercettate, partecipavano Di Martino Michele e Molinari Annamaria, oltre ad un certo numeri di altri soggetti, rimasti evidentemente non identificati. Il loro gruppo, a base familiare, prevedeva, come emergeva dalle conversazioni intercettate una precisa suddivisione di ruoli. Invero, Di Martino Leonardo era promotore e capo della organizzazione; i figli erano addetti alla coltivazione della sostanza ed al loro smercio (unitamente ad altre persone di cui si comprende chiaramente la esistenza dalle indagini in atti benchè non imputate nel processo); la moglie, svolgeva la funzione di portare 81 t r messaggi all'esterno del carcere, di tenere informato il marito e di gestire il cospicuo patrimonio che gli imputati ricavavano dalla vendita dello stupefacente. Proprio a questo proposito era significativo rilevare come gli introiti collegati alla vendita della sostanza stupefacente, erano elevatissimi, indice, questo, di uno stabile e consolidato sistema di smercio della sostanza. In particolare proprio dal contenuto delle conversazioni registrate presso la casa di lavoro di Sulmona i giudici d'appello evincevano la piena partecipazione della Molinari al programma criminoso del marito e dei figli, sottolineando come non si trattava di un comportamento relegabile al rango di una mera connivenza come sostenuto dalla difesa essendo la donna costantemente presente ai colloqui con il marito in cui si parlava degli affari illeciti della famiglia; facendosi portavoce di informazioni utili al marito per la gestione dei traffici illeciti anche all'interno del carcere; trasmettendo all'eterno notizie rilevati per la vita dell'organizzazione. I giudici d'Appello accoglievano anche la richiesta di condanna proveniente dalla pubblica Accusa in ordine al delitto di cui al capo C) della rubrica ritenendo che il fatto che la coltivazione della marijuana fosse riconducibile a Di Martino Leonardo ed al suo nucleo familiare, era un dato che emergeva chiaramente dal contenuto delle conversazioni intercettate che erano riportate dal primo Giudice in sentenza anche in forma integrale. Del resto, il ritrovamento di tali piantagioni, come dimostravano tutte le indagini compendiate in atti, era dipeso proprio dall'ascolto delle conversazioni. I figli, come pure la moglie Molinari Annamaria tenevano continuamente informato Di Martino Leonardo dell'andamento delle coltivazioni e della successiva scoperta delle piantagioni da parte dei Carabinieri sui monti Lattari. Il padre si informava, trasmetteva ordini e messaggi, fino all'epilogo della vicenda, rappresentato dalla scoperta dei Carabinieri che, per giungere alle coltivazioni, si servirono di un elicottero e si calarono con delle funi all'interno della "Vena", unica via di passaggio che consentiva di raggiungere le piantagioni dalla sommità del monte Faito (come attestano i Carabinieri nella informativa in atti depositata in data 14.9.2010 vol. 3/3). Tutti i familiari, ivi compresa la Molinari hanno informato dettagliatamente Di Martino Leonardo di ciò stava accadendo descrivendo nei minimi particolari l'operazione di Polizia: l'uso delle funi; l'arrivo con l'elicottero; il percorso effettuato dagli agenti. Come già affermato allorchè si è trattata la posizione di DI MARTINO Leonardo non ci si trova di fronte ad "una mera rivisitazione in senso peggiorativo compiuta in appello dello stesso materiale probatorio già acquisito in primo grado ed ivi ritenuto inidoneo a giustificare una pronuncia di colpevolezza", bensì dell'unica (e non già alternativa) corretta e logica (e totalmente persuasiva) lettura degli elementi probatori a disposizione, palesemente travisati dal giudice di primo grado. Le argomentazioni espresse impongono il rigetto del motivo sub 1 della difesa Gaito Deve aggiungersi che le doglianze relative alla condanna per i reati di cui ai capi B) e C) (motivi sub 2 e 3 difesa Gaito e 4 difesa Torrente) consistono, in massima parte, nella 82 o rinnovazione di una linea difensiva basata su ragioni di merito, già esaminata dai giudici di secondo grado. Deve comunque rilevarsi che le acquisizioni probatorie risultano interpretate nel pieno rispetto dei canoni legali di valutazione e risultano applicate con esattezza le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la pronuncia di colpevolezza. Deve ricordarsi che in materia di intercettazioni telefoniche, l'interpretazione del linguaggio e del contenuto delle conversazioni costituisce questione di fatto, rimessa alla valutazione del giudice di merito, e si sottrae al sindacato di legittimità se tale valutazione è motivata, come nel caso in esame, in conformità ai criteri della logica e delle massime di esperienza. Generica è la doglianza relativa alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche non individuando la ricorrente le ragioni, al di là della enunciazione di principi astratti in materia di discrezionalità del giudice, per cui nel caso in esame potevano essere concesse dette circostanze. Deve invece essere accolta la censura avanzata in punto pena considerato l'intervento del giudice delle leggi, che ha reintrodotto, per la marijuana in quanto droga c.d. leggera, la sanzione antecedente alla incostituzionale modifica apportata dalla legge Fini-Giovanardi. Il ricorso di DI MARTINO Michele La Corte d'Appello ha confermato la condanna di DI Martino Michele per il reato di cui al capo C) (illecita coltivazione di piantagioni di canapa) ed in riforma della sentenza del primo giudice lo ha condannato per il reato di cui al capi B) (violazione art. 74 DPR 309/90) Con riguardo ai motivi di cui ai punti 1,2 e 4 si richiamano le argomentazioni già espresse allorchè si sono trattate identiche doglianze con riguardo ai ricorsi di DI MARTINO Leonardo e MOLINARI Annamaria I motivi sub 3) e 5) sono del tutto generici, non tenendo conto delle argomentazioni esposte dalla sentenza impugnata, e prospettando una semplice rilettura del compendio probatorio, secondo un iter tipicamente inammissibile nel giudizio di legittimità. Con riguardo al reato sub C) le sentenze di merito hanno dimostrato che gli elementi raccolti dagli inquirenti confermano la piena attribuibilità a DI MARTINO Leonardo e ai suoi figli Fabio e Michele delle piantagioni di marijuana sequestrate e che non vi era dubbio alla luce del contenuto dei colloqui intercettati, richiamati integralmente nella sentenza di primo grado, che DI MARTINO Fabio e DI MARTINO Michele, sulla scorta di precise direttive del padre LEONARDO, abbiano provveduto a curare la preparazione dei terreni, la semina e la coltivazione delle piante di cannabis poi sequestrate. E' stata altresì affermata l'infondatezza delle osservazioni mosse dai difensori circa l'equivocità dei discorsi registrati nella casa di lavoro tra Di Martino Leonardo, la moglie ed il figlio perchè il contenuto delle conversazioni, anche alla luce del sequestro delle piante di marijuana, era chiaramente riferibile a tali coltivazioni. 83 • Così come con riguardo al reato sub B) non può che richiamarsi quanto già indicato allorchè si sono trattate le posizioni di MOLINARI e DI MARTINO Leonardo e ribadirsi che i giudici d' appello con rigorosa e penetrante analisi critica seguita da completa e convincente motivazione si sono sovrapposti a tutto campo alla decisione del primo giudice dando ragione delle scelte operate e della maggiore considerazione accordata ad elementi di prova diversi o diversamente valutati, dando atto della sussistenza della contestata associazione e del ruolo rivesto dall'imputato nella struttura associativa ("esiste agli atti la prova di un accordo permanente tra gli imputati per la realizzazione di una serie indeterminata di reati in materia di stupefacenti, desumibile dalle modalità di realizzazione della coltivazione, alla cui cura erano dediti quotidianamente i fratelli Di Martino e dalla continua ricerca di nuovi terreni sui quali impiantare nuove coltivazioni per espandere la produzione"pag. 148 sentenza impugnata). A fronte di tutto quanto esposto dai giudici di appello il ricorrente contrappone generiche censure che non tengono conto delle argomentazioni della sentenza impugnata. Con riguardo al motivo sub 6) deve preliminarmente rilevarsi che le circostanze attenuanti sono state concesse proprio in considerazione della giovane età e del ruolo subordinato e con riguardo alla richiesta di concessione dell'ipotesi attenuata che la stessa era stata genericamente avanzata senza alcuna indicazione degli elementi posti a sostegno. Non è pertanto annullabile per difetto di motivazione la sentenza in argomento per il fatto che ha omesso di prendere in esame un motivo di impugnazione che, per essere privo del requisito della specificità, avrebbero dovuto essere dichiarato inammissibile. Deve invece essere accolta la censura avanzata in punto pena considerato l'intervento del giudice delle leggi, che ha reintrodotto, per la marijuana in quanto droga c.d. leggera, la sanzione antecedente alla incostituzionale modifica apportata dalla legge Fini-Giovanardi. La sentenza impugnata deve essere annullata nei confronti di DI MARTINO Michele e Molinari Anna e per l'effetto estensivo anche nei confronti di DI MARTINO Leonardo per l'effetto estensivo limitatamente alla determinazione della pena con rinvio ad altra Sezione della Corte d'Appello di Napoli per nuovo giudizio sul punto sopra indicato, ferma l'irrevocabilità della dichiarazione di responsabilità, con rigetto nel resto dei loro ricorsi. P.Q.M Annulla la sentenza impugnata nei confronti di CASCONE Vincenzo, DI MARTINO Leonardo, DI MARTINO Michele, MOLINARI Annamaria, limitatamente alla determinazione della pena, con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Napoli per nuovo giudizio sul punto; dichiara irrevocabile l'affermazione di responsabilità degli stessi ricorrenti; rigetta nel resto i ricorsi dei predetti ricorrenti; rigetta i ricorsi di AVALLONE Francesco 84 i. di Paola, BONIFACIO Guglielmo, CANNAVALE Lazzaro, CANNAVALE Vincenzo, CAROLEI Paolo, CASCONE Francesco, CASCONE Gennaro„ DI MAIO Egidio, GAMBARDELLA Giuseppe, IACCARINO Maria Teresa, NAPODANO Aniello, PALOMBA Ferdinando, che condanna singolarmente al pagamento delle spese processuali. Così deliberato in Roma il 12.6.2014 Il Consigliere estensore Il Pesderìte nto Giovanna VERGA 85 PINO
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