Urbanistica e Appalti nr 11 2014 - Le Banche Dati per gli Operatori

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Urbanistica e appalti
Sommario
OPINIONI
Contratti
Servizi pubblici
L’ATTIVITA` CONTRATTUALE DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
di Italo Franco
1129
INCARICHI LEGALI ED EVIDENZA PUBBLICA
di Antonio Senatore
1140
LEGISLAZIONE
D.L. 90/2014
D.L. 90/2014
SEMPLIFICAZIONE DEGLI ONERI FORMALI NELLE PROCEDURE DI AFFIDAMENTO DI CONTRATTI
PUBBLICI
D.L. 24 giugno 2014, n. 90, convertito, con modificazioni, in L. 11 agosto 2014, n. 114
di Sergio Foa`
1147
1147
IL RITO DEGLI APPALTI PUBBLICI DOPO IL D.L. 90/2014
D.L. 24 giugno 2014, n. 90, convertito, con modificazioni, in L. 11 agosto 2014, n. 114
il commento di Rosanna De Nictolis
1147
1157
GIURISPRUDENZA
Corte UE
DURC
LA DISCIPLINA ITALIANA SULLA REGOLARITA` CONTRIBUTIVA E` COMPATIBILE CON IL DIRITTO UE
Corte di giustizia UE, sez. X, 10 luglio 2014, causa C-358/12
il commento di Paolo Patrito
1170
1172
Civile
Responsabilita`
della p.a.
LA CASSAZIONE CONFERMA LA RESPONSABILITA` PRECONTRATTUALE DELLA P.A.
NELLA FASE PRECEDENTE L’AGGIUDICAZIONE
Cassazione civile, sez. I, 3 luglio 2014, n. 15260
il commento di Alessandra Vapino
1181
1182
OSSERVATORIO
a cura di Ignazio Pagani
1189
Amministrativa
Recesso
` ESERCITARE SOLO IL RECESSO
DOPO LA STIPULA DEL CONTRATTO DI APPALTO LA P.A. PUO
Consiglio di Stato, Ad. Plen., 20 giugno 2014, n. 14
il commento di Antonino Longo e Enrico Canzonieri
1195
1199
Sicurezza
INDICAZIONE DEGLI ONERI PER LA SICUREZZA NEGLI APPALTI DI LAVORI
Consiglio di Stato, sez. V, 17 giugno 2014, n. 3056
il commento di Carmen Mucio
1208
1210
Titoli abilitativi
LA DEMOLIZIONE DELLE OPERE TRA ESECUZIONE DEL GIUDICATO E SANATORIA
T.A.R. Piemonte, Torino, sez. II, 8 luglio 2014, n. 1171
il commento di Valerio de Gioia
1218
1221
Convenzioni
Consip
LA COMPATIBILITA` COMUNITARIA DELLA PROROGA EX LEGE DELLE CONVENZIONI CONSIP
T.A.R. Abruzzo, L’Aquila, sez. I, 5 giugno 2014, n. 515
Consiglio di Stato, sez. III, 27 marzo 2014, n. 1486
T.A.R. Abruzzo, Pescara, 5 aprile 2013 n. 197
il commento di Alessandro Di Sciascio
1225
1226
IL SERVIZIO DI TELERISCALDAMENTO: QUESTIONI DEFINITORIE E TUTELA DELLA CONCORRENZA
T.A.R. Lombardia, Milano, sez. I, 9 maggio 2014, n. 1217
il commento di Raffaele Micalizzi
1234
1238
Servizi pubblici
Urbanistica e appalti 11/2014
1127
Urbanistica e appaltiAVCP BIBLIOTECA
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Sommario
OSSERVATORIO
a cura di Giulia Ferrari e Luigi Tarantino
1245
Penale
OSSERVATORIO
a cura di Alessio Scarcella
1249
INDICI
1253
Indice degli autori, indice cronologico, indice analitico
COMITATO PER LA VALUTAZIONE
A. Angeletti, G. Acquarone, M. Andreis, A. Bartolini, M. Bombardelli, C. Cacciavillani, M. M. Cafagno, R. Caranta, M. P. Chiti, F. Cintioli, S. Civitarese Matteucci, A. Clarizia, G. Clemente di San Luca, G. D. Comporti, M. Dugato, M. Esposito, R. Ferrara, F. Figorilli,
E. Follieri, F. Fracchia, C. E. Gallo, G. Gardini, M. Immordino, G. Manfredi, F. Manganaro, B. Marchetti, M. Mazzamuto, A. Meale,
G. Morbidelli, N. Paolantonio, V. Parisio, E. Picozza, M. Renna, G. Rossi, F. Saitta, D. Vaiano, F. Volpe, A. Zito
Urbanistica
e appalti
Mensile di edilizia, urbanistica, espropriazione,
appalti, lavori pubblici
RESPONSABILI DI SETTORE
Diritto costituzionale: Maria Teresa Sempreviva
Diritto civile: Ignazio Pagani
Diritto penale: Alessio Scarcella
Diritto amministrativo:
— Ambiente: Martino Colucci
— Appalti pubblici: Roberto Damonte, Mauro
Giovannelli, Barbara Mameli, Carmen Mucio
— Edilizia e Urbanistica: Mario Bassani, Cesare
Lamberti, Antonello Mandarano
— Espropriazione e beni culturali: Paolo
Carpentieri, Stefano Fantini
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Diritto comunitario: Francesco Leggiadro
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Urbanistica e appalti 11/2014
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Opinioni
Atti amministrativi
Contratti
L’attività contrattuale della
pubblica Amministrazione
di Italo Franco
Lo scritto si propone di tracciare, con tratti per quanto possibile rapidi e concisi, un quadro attendibile
delle trasformazioni, spesso scoordinate e finanche tumultuose, che vanno interessando l’ordinamento
amministrativo ormai da oltre un ventennio. Lo sguardo è rivolto precipuamente all’attività contrattuale
della p.a., e mira a mostrare come le tradizionali concezioni del diritto amministrativo - fino a poco tempo
fa salde e indiscusse quanto meno sul piano teorico-sistematico - siano andate pressoché insensibilmente mutando fino ad assumere sembianze diverse. Il progressivo mutamento dell’assetto sistematico di tale branca del diritto sul versante descrittivo dell’attività a contenuto economico di organi ed uffici pubblici
è avvenuto sotto la spinta di diversi fattori, il più potente fra i quali è costituito dall’irruzione del diritto di
origine comunitaria, senza togliere importanza alla spinta endogena verso modus operandi e stilemi propri del diritto comune. Ne è risultato una sorta di diritto ibrido, alquanto insofferente (per ora) alla sistematizzazione e alla razionale articolazione del diritto in comparti.
Premessa
Lo scopo del presente scritto è quello di gettare
uno sguardo d’assieme sulle trasformazioni che l’ordinamento amministrativo ha attraversato negli ultimi decenni (1) (tuttora il processo è in corso), e
di mostrare come, da una visione pressoché monoliticamente improntata alla concezione pubblicistica, dove è insita la primazia dell’interesse pubblico
su ogni altro tipo di interesse, si è a poco a poco
passati quasi a concepire l’interesse pubblico medesimo come pari-ordinato rispetto all’interesse privato. In sostanza è accaduto che l’ottica delle relazioni giuridiche propria dei rapporti interprivati
(dove il rapporto fra le parti è, quanto meno sul
piano formale, improntato alla parità delle posizioni soggettive (2)) è andata insinuandosi gradatamente fra le maglie e gli interstizi degli istituti peculiari del diritto amministrativo, tanto da rendere
difficile, oggi, il rispondere alla necessità, per lo
più ineludibile, di dare prevalenza agli interessi
pubblici e al bene comune (3) su interessi e appetiti
dei soggetti privati (ivi compresi quelli formalmen-
te pubblici, ma che operano alla stregua dei privati,
sotto mentite spoglie, come si vedrà più avanti).
Pertanto, il filo conduttore sarà costituito da quello
che possiamo definire “incontro-scontro” tra la visione pubblicistica e quella privatistica nella gestione della cosa pubblica, vale a dire tra la concezione improntata ad una relazione (fra pubblici poteri e soggetti amministrati) di autoritatività - e di
supremazia, dunque, dell’interesse pubblico su quello privato -, ed una visione orientata alla pariteticità
fra le posizioni delle parti. (Il discorso riguarderà
principalmente il versante dell’attività amministrativa che produce effetti, diretti o indiretti, sul piano economico).
Ora, nel ripercorrere le linee evolutive dell’ordinamento amministrativo nel senso appena sintetizzato, risulterà che le trasformazioni in questione vanno messe in relazione, primieramente, con l’istituto
del contratto, che apparirà come la chiave di volta
e lo strumento centrale delle medesime trasformazioni (su ciò, infra). Da ciò consegue anche che l’analisi, per quanto per linee sintetiche, si svolgerà
con peculiare riguardo all’attività della p.a. non
(1) Per comodità prendiamo, qui, come momento iniziale di
questa “evoluzione” del sistema normativo al riguardo, la data
di emanazione della L. 7 agosto 1990, n. 241.
(2) Quanto all’assunto che la parità delle parti sia soltanto
formale in tantissime fattispecie contrattuali (laddove in realtà
nelle medesime fattispecie si verifica la presenza di uno sbilanciamento fra le posizioni delle parti contraenti anche molto
gravi), si veda, per qualche altro accenno sul punto, poco più
avanti, nel testo.
(3) Per accenni sulla questione del bene comune in non poche fattispecie (che oggi si agitano spesso sulla stampa, quotidiana e non) si rinvia a I. Franco, Il bene comune e l’incontroscontro tra pubblico e privato nell’attività della p.a., in questa Rivista, 2013, 6, 643.
Urbanistica e appalti 11/2014
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Opinioni
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Atti amministrativi
connotata, in linea di massima, dall’autoritività
(propria dell’attività provvedimentale), bensì di
carattere, in principio, privatistico ovvero di diritto
comune (quando ciò è consentito), oppure, ancora,
di carattere misto o speciale (4). Sul punto accenniamo solo, en passant, al rilievo che il potere di supremazia, o meglio l’attività provvedimentale comporta che l’amministrazione pubblica agisca con atti unilaterali e autoritativi, vale a dire provvedimenti, in grado di incidere ex auctoritate sua sulla
sfera giuridica del destinatario.
Il dato di fondo che sottostà alle presenti considerazioni è che la distinzione fra l’ambito, o dominio,
dell’interesse pubblico (con il corollario dell’utilizzazione di strumenti esclusivamente pubblicistici),
proprio degli organi dello Stato-apparato, e quello
dei rapporti interprivati di pertinenza degli altri
soggetti, per così dire, di diritto comune (con l’utilizzazione dei relativi strumenti, tra i quali primeggia il contratto) appariva, fino a non molto tempo
fa, alquanto netta ed anzi assiomatica, laddove le
cose sono andate intorbidandosi (rectius: ibridandosi) in prosieguo di tempo. (Ovviamente, la disciplina e il regime dell’attività propriamente pubblicistica si rinveniva nei principi e nelle regole che
reggono l’ordinamento amministrativo - esplicati
nella branca della scienza giuridica che prende il
nome di diritto amministrativo -, mentre, notoriamente, le regole che reggono gli atti dei privati
vengono trattate nel diritto privato, o diritto civile
o, ancora, diritto comune).
Ma, in verità, occorre dire che un certo grado di
commistione nell’operato degli organi pubblici,
quanto al modus operandi, fra aree pubblicistiche e
privatistiche era da sempre presente nell’ordinamento, per quanto in forme meno coinvolgenti e
impegnative rispetto ad oggi, quanto meno sul piano astratto o teorico-sistematico. In concreto, avveniva che, anche se quotidianamente le amministrazioni pubbliche emettevano atti retti dal regime
In effetti, tutti gli autori che se ne sono occupati
convengono nell’affermare che gli organi ed enti
dello Stato-apparato (il complesso delle amministrazioni - e non solo (5) - pubbliche) sono dotati,
oltre che della speciale capacità di diritto pubblico,
che conferisce loro un potere di supremazia sui cittadini e su tutti gli altri soggetti amministrati, anche della comune autonomia e capacità negoziale
(giuridica prima ancora che di agire) di diritto comune appartenente a tutti gli altri soggetti (6). Ciò
significa, in concreto, che amministrazioni ed enti
pubblici e loro organi sono legittimati ad emettere
non solo atti e provvedimenti amministrativi, ma
anche gli atti di diritto comune, alla stregua delle
regole contenuti nel codice civile ed in altre leggi.
Sempre da parte della dottrina si teorizzava, anzi,
che in linea di massima - posto che comunque la
p.a. agisce sempre al fine di realizzare l’interesse
pubblico specifico di volta in volta perseguito nel
contesto delle proprie competenze istituzionali e
dell’interesse pubblico generico (rientrante nei
compiti e nella sfera di competenza ad ogni ente
assegnati dall’ordinamento) - in realtà la soddisfazione di tale interesse pubblico specifico potrebbe
essere conseguita, in buona parte dei casi, tanto
mediante atti amministrativi e/o provvedimenti (il
che costituirebbe la via ordinaria), quanto mediante l’adozione di atti di diritto privato. L’esempio
classico che si porta onde illustrare tale enunciato (7) è quello della finalità di acquisire un’area o
un altro immobile necessario per realizzarvi un’opera pubblica, la quale, se può essere soddisfatta a
mezzo dell’espropriazione per pubblica utilità (tipico
(4) Dei contratti della p.a. cd. speciali si darà qualche cenno
più avanti, nel testo.
(5) In effetti, come già aveva chiarito da gran tempo (fin
dalle prime edizioni del suo Manuale) Sandulli, nell’ambito dello Stato-apparato vanno inclusi anche amministrazioni ed organi che non appartengono al complesso della p.a. ma, ad
es., al potere giurisdizionale o legislativo.
(6) Si possono consultare, al riguardo, tutte le opere manualistiche, fra le quali ci limitiamo a citare, per tutti: A. M.
Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, XIV ed., Napoli
1984, 714 ss., in particolare 715, dove l’A. nota l’esclusione di
quelle posizioni proprie soltanto delle persone fisiche; E. Casetta, Manuale di diritto amministrativo, I, Milano 1999, 281282 (il quale osserva, tra l’altro: “prima ancora di essere ente
pubblico, il soggetto pubblico è, in quanto persona giuridica,
soggetto di diritto comune e dunque ha la relativa capacità
giuridica”. E più avanti: “La circostanza che le pubbliche amministrazioni possano porre in essere atti di diritto comune perciò sottoposti al medesimo regime degli atti stipulati tra
soggetti privati - non esclude poi la rilevanza pubblicistica del
procedimento attraverso il quale il soggetto pubblico addiviene alla stipulazione dell’atto finale …” (per una più ampia illustrazione di quest’ultimo punto cfr. infra, nel testo); I. Franco,
Manuale del nuovo diritto amministrativo, Padova, 2012, 544,
95, 797 e passim.
(7) In tal senso si veda, da ultimo, G. P. Cirillo, I contratti e
gli accordi delle amministrazioni pubbliche, in www.giustiziaamministrativa.it 31 marzo 2014, scritto destinato a confluire
nel Manuale di diritto civile e commerciale, di prossima pubblicazione per i tipi della Giuffré.
1130
privato, ciò appariva marginale o secondario, specialmente perché, come si vedrà, tali atti riguardavano attività meno cospicue e consistenti.
L’attività non autoritativa (o
provvedimentale) della p.a. nelle
impostazioni più tradizionali
Urbanistica e appalti 11/2014
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Opinioni
Atti amministrativi
provvedimento unilaterale autoritativo), può esserlo ugualmente attraverso la cd. cessione bonaria (un
contratto di compravendita stipulato previo accordo con il proprietario che, laddove intendesse cedere bonariamente il terreno, eviterebbe di esserne
espropriato). Come si vede, qui l’accordo con il
proprietario espropriando determina il blocco, o arresto, del procedimento di espropriazione, ed impedisce l’emissione del relativo decreto (provvedimento conclusivo del relativo procedimento).
A prescindere dalla riferita teorizzazione, va detto,
peraltro (e di ciò diremo più diffusamente fra breve), che - fermo restando che la maggior parte delle amministrazioni e degli enti pubblici (a parte
quelli c.d. economici) ordinariamente agisce, al fine di realizzare l’interesse pubblico specifico di volta in volta perseguito, con gli strumenti propri del
diritto amministrativo- gli stessi soggetti pubblici
soddisfano una più o meno estesa gamma di compiti specifici mediante adozione di atti privatistici,
vale a dire con strumenti del diritto comune. Ciò
accade da sempre (specialmente con la stipulazione
di contratti ordinari, o di diritto comune, in relazione
ad affari per lo più di minore rilevanza economica:
infra), e non ha mai messo in crisi la visione peculiarmente pubblicistica dell’azione della p.a. Si intende che, nei contratti ordinari, la qualità di soggetto pubblico dell’amministrazione contraente
non rileva e non refluisce sul rapporto contrattuale, valendo in simili circostanze proprio ed esclusivamente le regole dettate dal codice civile (8).
D’altronde, bisogna convenire che non sempre la
realizzazione dell’interesse pubblico specifico attraverso strumenti di diritto comune riguardava affari
minori, e non sempre si realizzava mediante strumenti di rilevanza economica quale il contratto.
Rilevano, al riguardo, le convenzioni (tra amministrazioni e/o enti pubblici, e tra p.a. e privati). Il
modulo convenzionale era ben conosciuto ed usato
da molti anni (9), del resto divenuto strumento ordinario di gestione di attività e servizi pubblici da
parte dei comuni a partire dagli artt. 22 e 24 della
L. n. 142/90 sull’ordinamento delle autonomie locali): basti pensare, quanto alle prime, alle convenzioni tra Università e ASL, al fine di disciplinare
l’attività di assistenza sanitaria con rilevanza ai fini
della docenza universitaria e, quanto alla seconda
ipotesi, alle convenzioni edilizie o alle convenzioni di
lottizzazione. Si tenga presente, poi, che specialmente in relazione ad attività in dominio della p.a.
ma di sicura se non esclusiva rilevanza economica,
l’ordinamento conosce la figura dell’ente pubblico
economico (10) (che agisce precipuamente avvalendosi di strumenti propri del diritto privato), di cui
anche oggi conosciamo non pochi esempi.
Viceversa, da ormai più di un paio di decenni si
può dire che la visione stessa e gli stilemi propri
del diritto civile siano entrati in modo progressivo
ma sempre più penetrante ed esteso (come si vedrà) nell’area già di dominio (pressoché esclusivamente) pubblicistico, tanto da mutare la relativa
disciplina più o meno sensibilmente quanto all’impronta sistematica di fondo e alla stessa percezione
da parte degli operatori del diritto.
Per quanto concerne le linee di tendenza dalle
quali muove detto progressivo movimento, si può
fare riferimento, più che sinteticamente: a) in primo luogo, alla presa in considerazione (e spesso, a
conti fatti, alla sopravvalutazione) dell’amministrazione cd. negoziata o per accordi, che muove - sul
piano generale - dalla L. n. 241/90; b) alla tendenza verso la cd. liberalizzazione e, ancora più, alla cd.
privatizzazione (11) nella gestione di molteplici servizi pubblici e nello svolgimento di altre attività in
dominio della p.a.; c) alla forte enfatizzazione, nei
fatti, dello strumento contrattuale (in forme più o
meno inedite) per comporre e conciliare l’interesse
pubblico con quello privato; d) all’invadenza del
diritto comunitario, che ha condotto alla distorsione di tradizionali e rilevanti istituti del diritto amministrativo (12).
(8) Viceversa, come pure si accennerà più avanti nel testo,
negli altri (più rilevanti) contratti speciali rilievo decisivo assume
il fatto che l’ente (ad es., nei contratti di appalto pubblico) sia
un soggetto pubblico, a causa dell’imponente massa di norme
predisposte ad hoc per siffatti tipologie di contratti della p.a.,
che vanno ad aggiungersi o a derogare a quelle codicistiche.
(9) Per qualche cenno sulle relative nozioni si rinvia a Casetta, Manuale di diritto amministrativo, cit. 607 ss.
(10) Per la nozione di ente pubblico economico si veda, per
tutti, V. Ottaviano, Ente pubblico economico, in Dig. discipl.
pubbl., Torino, 1991, ad vocem; I. Franco, Manuale del nuovo
diritto amministrativo, cit., 243-44 (cenni) e (per i nessi con la
nozione di Organismo di diritto pubblico, di derivazione comunitaria), 249 ss.
(11) Le due nozioni vengono spesso citate insieme, con
qualche ambiguità e possibile confusione. Posto che si tratta
comunque di concetti contigui, si può dire, icasticamente, che
la privatizzazione attiene all’uscita, in tutto o in parte, di enti
ed amministrazioni pubbliche (specialmente in passato, in primis il Tesoro) dal capitale di società pubbliche spesso di grande rilevanza economica, come è accaduto per ENI, ENEL, FS,
etc.), mentre la liberalizzazione comporta che determinati settori di attività direttamente o indirettamente economiche gestite dalla p.a. in regime di privativa (id est, con esclusione di altri
soggetti, in specie privati) vengano aperti alle imprese private,
in regime di concorrenza.
(12) Emblematico è il caso concernente la nozione teoricosistematica dell’istituto della concessione come classico istitu-
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Non si può concludere sul punto dell’immissione
di moduli privatistici nell’azione della p.a. senza
menzionare, quanto meno, il comma 1-bis dell’art.
1 della L. n. 241/90 (introdottovi dalla L. n.
205/2000). Testualmente, detta disposizione recita:
“La pubblica amministrazione, nell’adozione di atti
di natura non autoritativa, agisce secondo le norme del diritto privato salvo che la legge disponga
diversamente”. Non è il caso di soffermarsi più di
tanto su di essa, quanto meno dal punto di vista di
chi scrive, poiché, a nostro avviso, lungi dal determinare una svolta fondamentale nell’ordinamento
amministrativo - con una sorta di inversione della
visione tradizionale, facendosi ora prevalere l’impostazione civilistica o di diritto comune su quella
pubblicistica (13) - la disposizione medesima non
fa che ribadire una situazione in essere già da decenni, tutt’al più svolgendo un ruolo di avallo e
rafforzamento della sottolineata tendenza verso la
pretesa “privatizzazione del diritto della p.a.” (14).
Interferenze e commistioni tra regimi
pubblicistici e privatistici tra passato e
presente
Quello che si è fin qui detto mostra come le interferenze tra moduli propri del diritto amministrativo
e stilemi e strumenti tipici del diritto interprivato
costituiscano un tema non solo attuale, nel moto
di trasformazione perenne dell’ordinamento giuridico (per quello che qui interessa, principalmente
quello amministrativo). Ed invero, bisogna ricordare come già in passato, per quanto meno evidenti
(o meno “pubblicizzate”), le interferenze tra regimi
pubblicistici e civilistici non erano né scarse, né irrilevanti. Basti pensare al caso della cd. concessione-contratto, istituto da sempre contemplato nel
nostro ordinamento e utilizzato da non poche amministrazioni pubbliche e variamente interpretato
to del diritto amministrativo, ora molto ibridato per effetto dell’immissione della normativa comunitaria nel nostro ordinamento, quanto meno sul fronte della disciplina dei contratti
pubblici di appalto. Su ciò infra nel testo. Infine, quanto alla disciplina dei contrati pubblici (di appalto o concessione), per
tutti si rinvia a F. Caringella - M. Protto (curatori), Codice e regolamento unico dei contratti pubblici, Roma, 2011.
(13) Quasi come se si volesse fuoruscire dalla famiglia degli
Stati a diritto amministrativo per confluire verso schemi ordinamentali propri dei paesi di common low.
(14) Per più ampie considerazioni sulla posizione di chi scrive si rinvia a I. Franco, Manuale del nuovo diritto amm., cit.,
passim.
(15) C’è, comunque,una sostanziale diversità tra i due istituti: mentre nella concessione di un bene pubblico (anche in ordine al solo uso) è insita la finalità di consentire uno sfruttamento economico-commerciale del bene medesimo (ad es.,
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e inteso dalla dottrina che si è interessata dell’argomento.
Al riguardo si può dire, brevemente, che “in principio era la concessione” (vale a dire, il classico
provvedimento amministrativo unilaterale, ampliativo della sfera giuridica del destinatario (ovvero
concessionario), a fini di utilizzazione e sfruttamento
economico, di un bene, o anche della gestione di
un pubblico servizio (15). In effetti, anche stando
alla tradizionale visione pubblicistica dell’istituto
della concessione, va ricordato come, pressoché
nella totalità dei casi, il provvedimento di concessione non venisse in essere da solo: il medesimo
era, infatti, accompagnato dalla stipulazione di un
accordo tra amministrazione concedente e privato
concessionario, volto a disciplinare la vita del rapporto che veniva a sorgere sulla scorta di quel
provvedimento.
Nella concezione tradizionale il contratto che si
accompagnava alla concessione era concepito come un quid di ausiliario e accessorio rispetto al
provvedimento concessorio, anche se in realtà era
(ed è, quando tuttora ricorre) un atto di tutto rilievo, diretto a disciplinare la vita del rapporto sorto
sulla base del provvedimento di concessione. Nella
costruzione tradizionale il contratto si concepiva
come accessorio anche in altro senso, vale a dire
rispetto alla formazione della volontà dell’ente
concedente, nel senso che, mentre la volontà
espressa dalla p.a. mediante l’emissione del provvedimento fungeva da elemento fondante e indispensabile dello stesso, l’adesione volontaria del privato
sottoscrivente (concessionario) valeva soltanto come condizione di efficacia del provvedimento stesso
(dunque, non quale elemento costitutivo di esso,
ma solo quale strumento utile per dare concreta attuazione al medesimo (16)). E infatti certi autori,
che più se ne sono interessati, vedevano la concessione-contratto (sorta di ircocervo, dalla doppia
l’arenile di una spiaggia demaniale) al privato in cambio del
pagamento di un canone, la concessione di lavori pubblici ovvero di servizi si presenta come uno strumento affine al contratto (pubblico di appalto), dove la differenza sta nella circostanza che il pagamento del corrispettivo alla società aggiudicataria consiste nei proventi che deriveranno dalla gestione
dell’opera all’uopo realizzata o del servizio in questione, ovvero
nel pagamento di un prezzo, che va ad aggiungersi ai detti
proventi (nel caso che questi siano insufficienti a ripagare l’attività del gestore).
(16) Tale era la situazione che si verificava, ad es., nel provvedimento di nomina a pubblico dipendente di una persona fisica, dante luogo ad un rapporto di pubblico impiego: cfr., tra
gli altri, S. Buscema - A. Buscema, I contratti della pubblica
amministrazione, II ed., vol. VII del Trattato di diritto amministrativo diretto da G. Santaniello, Padova, 1994.
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anima) come un istituto eminentemente e sostanzialmente privatistico (contrattuale) (17). In tale
visione (del fenomeno concessione-contratto), era
il secondo elemento dell’endiadi, insomma, a costituirne il fulcro, e porne la disciplina, passando così
in secondo piano l’aspetto provvedimentale del
rapporto medesimo. Ma in tal modo, pare evidente, l’istituto giuridico in discorso cessava di essere
un istituto del diritto amministrativo, per entrare a
far parte, pressoché in toto, di quello interprivato.
(Non è senza importanza rilevare fin d’ora che,
nella visione di origine comunitaria, recepita nel
nostro ordinamento ancora prima dell’emanazione
del D.Lgs. n. 163/2006 recante il codice dei contratti pubblici, la concessione tout-court - vale a dire, come istituto generale del diritto amministrativo - diviene, sic et simplicter, un contratto, con un
bell’ossimoro rispetto alla tradizionale impostazione
teorico-sistematica del nostro ordinamento amministrativo).
Maggiormente rilevante, nell’ordine di pensiero or
ora intrapreso (vale a dire, il tema della commistione tra pubblico e privato già nel sistema previgente), può considerarsi il caso, emblematico, degli
enti pubblici economici. Questi soggetti nacquero,
sulla base di previsioni di legge, al precipuo scopo
di consentire a questo o a quel ramo dello Statoapparato di svolgere attività (pur sempre finalizzate
alla realizzazione di particolari interessi pubblici)
avvalendosi degli strumenti propri del diritto privato in
luogo di quelli precipui del diritto amministrativo
(si tratta di settori di attività dove prevale il profilo
tecnico della gestione - e l’esigenza che questa sia
efficiente ed efficace -, oltre che della funzionalità
- su quello attinente all’esercizio di poteri più o
meno autoritativi). Simili enti, dotati di autonomia gestionale e di bilancio - si pensi, per dirne
una, a determinati istituti di credito, antecedentemente alla tumultuosa fase di trasformazione della
disciplina del settore creditizio che ha travolto il
precedente assetto delle Banche, ovvero alla tipologia di enti quale ad es., era l’ENEL prima che a
sua volta il settore dell’energia elettrica fosse investito da sostanziali modifiche, con la liberalizzazione del settore e la cd. privatizzazione di tale soggetto -, insomma, operano contraendo obbligazioni e
stipulando contratti con i soggetti con i quali vengono in rapporto e, infine, con logiche di gestione
privatistiche (vale a dire, ispirate alla realizzazione
di un profitto o utile ricavato dalla gestione delle
attività di competenza).
Peraltro, si deve registrare, al riguardo, la caduta in
disuso, quasi, dell’espressione ente pubblico economico. La ragione di ciò sembra doversi ascrivere al
più che rilevante fenomeno della penetrazione del
diritto comunitario nell’ordinamento (specie amministrativo) e, più ampiamente, alle consistenti
trasformazioni subite dall’ordinamento giuridico
nazionale. Più specificamente, si può dire - senza
tema di incorrere più di tanto in errore - che la nozione in discorso sia stata grosso modo assorbita
dalla nozione (di derivazione comunitaria) di organismo di diritto pubblico, (18) nonostante che questi
(gli organismi di diritto pubblico) tendano a coincidere, alla stregua della definizione che ne danno
sia la direttiva 18/2004/CE sia la giurisprudenza
della Corte di giustizia di Lussemburgo, piuttosto,
con la nozione di ente pubblico non economico.
Conclusivamente, mentre va ribadito che il nostro
ordinamento è stato coinvolto in molteplici trasformazioni nei tempi più recenti - le più rilevanti
e consistenti delle quali hanno interessato i settori
retti da discipline di derivazione comunitaria, in
quanto rientranti nei settori di attività (di amministrazioni ed enti pubblici) di interesse dell’UE - si
può dire, in via di larga sintesi, che nel nostro diritto amministrativo si è percorso un itinerario
che, partendo dal provvedimento autoritativo unilaterale, è pervenuto a modelli di amministrazione
caratterizzati dall’accordo paritario tra la parte pubblica (p.a. procedente) e quella privata (destinatario del provvedimento conclusivo del procedimento) (19).
(17) Per tutti si veda D’Alberti, Concessioni amministrative,
in Enc. Giur. Treccani, ad vocem; idem, La concessione amministrativa, Napoli, 1981.
(18) Per una trattazione sintetica della nozione di organismo
di diritto pubblico si rinvia, per tutti, a I. Franco, Manuale del
nuovo diritto amministrativo, cit., 249-251 e passim.
(19) Per l’illustrazione più diffusa di queste tematiche ci sia
consentito rinviare alle varie edizioni del ns. Il Procedimento
amministrativo (commento alla L. n. 241/90 e alle successive
modifiche subite da tale legge fondamentale), Padova, 2001.
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Tipologie di contratti della p.a. retti in
toto dalla disciplina civilistica (cd.
contratti ordinari)
È il caso, a questo punto, di individuare e/o esemplificare tipi di contratti, posti in essere dalle amministrazioni pubbliche, che sono regolati sotto
tutti gli aspetti dal codice civile, senza il sovrapporsi o l’aggiungersi di normative pubblicistiche,
come accade per altre, più rilevanti, tipologie di
contratto (cfr. infra). Esistono, invero, non pochi
tipi contrattuali “comuni” usualmente utilizzati da-
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gli uffici pubblici al fine di svolgere la loro attività,
per lo più di rilievo marginale rispetto ai compiti
connessi alle finalità istituzionali di propria competenza, nonché di rilievo anche consistente per
quanto concerne contratti posti in essere in funzione strumentale rispetto al funzionamento di organi
di amministrazioni o enti pubblici.
In concreto, è dato riscontrare che molto frequentemente vengono posti in essere contratti comuni,
ad es. per l’acquisto di materiale di cancelleria ovvero di altro materiale indispensabile per il funzionamento corrente degli uffici, ovvero volti a realizzare riparazioni o la piccola manutenzione dei locali ove hanno sede gli uffici, et coetera. Similmente,
vengono spesso stipulati contratti di locazione di
locali al fine di ospitare gli uffici, oppure di compravendita di immobili sempre volti alla medesima
finalità. In simili casi la disciplina applicabile è
quella dettata dal codice civile, e la qualità di ente
pubblico di uno dei soggetti stipulanti non refluisce, ordinariamente, sulla vita del rapporto instaurato con il contratto. Per tale ragione i contratti in
questione vengono definiti dalla dottrina “contratti
ordinari”.
Rientrano, inoltre, in detta categoria (in verità,
più ancora prima delle ultime modifiche dettate
dall’art. 125 del richiamato codice dei contratti
pubblici) anche i cd. lavori in economia, realizzabili
- alla stregua delle previsioni normative recate dalla legge di contabilità dello Stato e dal relativo regolamento, risalenti agli anni 1923 e 1924 (20) in amministrazione diretta ovvero mediante affidamento ad un imprenditore di fiducia dell’amministrazione - rectius: dell’agente responsabile - mediante il cd. cottimo fiduciario). Si tratta, anche in
questo caso, di lavori, ed anche di servizi, di importo limitato, che giustifica, insieme all’urgenza (fermo restando il limite di spesa contemplato per tale
tipologia di contratti), il ricorso a tale strumento
in luogo dello svolgimento di apposite gare a evidenza pubblica (su cui infra).
Per concludere il panorama dell’intera gamma dei
contratti della p.a. (anzi, precipuamente, della loro
classificazione), occorre richiamare la categoria più
importante - cui or ora si è accennato - dei contratti stipulati a conclusione di una procedura concorsuale (gara) cd. a evidenza pubblica, ora dalla
dottrina (21) unanimemente chiamati contratti spe-
La cd. evidenza pubblica connota quelle tipologie
contrattuali (cui si è appena accennato) rette da
una disciplina composita, ma prevalentemente
pubblicistica, ormai pressoché in toto di derivazione
comunitaria. Un po’ semplificando, diremo che la
felice espressione del Giannini (che la usò ben prima dell’intrusione nel nostro ordinamento del diritto comunitario), ormai da tempo entrata nell’uso, intanto rispecchia una categoria di fatto preesistente nella legislazione pregressa, vale a dire la già
richiamata legge di contabilità dello Stato e relativo regolamento. Essa sta a significare che, al fine
di concludere determinati contratti della p.a., assume significativa rilevanza il momento pubblicistico, come previsto nella normativa che disciplinava
- e disciplina tuttora, seppure con intonazione diversa, dovuta principalmente all’intrusione del diritto comunitario - la materia. Si tratta, prevalentemente, dei contratti di appalto pubblico (e, per
quanto detto poco addietro, contratto di concessione, di lavori o di servizi), ma non solo: infatti, tanto per menzionare un altro esempio ben noto, si
pensi all’instaurazione del rapporto di lavoro alle dipendenze di una pubblica amministrazione (23), ai
sensi del D.Lgs. n. 165/2001.
Cos’hanno in comune siffatte tipologie di contratti? Il fatto che le vicende relative ad entrambi sono
scindibili (anzi, scisse) in due tronconi, risalenti, la
prima, ad una fase retta eminentemente dalle norme del diritto pubblico, e l’altra, invece, grosso
modo dalle regole del diritto comune.
Più in dettaglio, per communis opinio, si dice che la
fase retta da norme del diritto amministrativo con-
(20) Rispettivamente, R.D. n. 2340/23 e R.D. n. 827/24.
(21) Si veda, per 41tutti, P. Cirillo, I contratti e gli accordi
delle amministrazioni pubbliche, cit., 3 ss.
(22) Per la definizione normativa delle due tipologie contrat-
tuali si veda, in primo luogo, l’art. 3 del codice dei contratti
pubblici (D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163).
(23) Un tempo (anteriormente, cioè, al D.Lgs. n. 29/93),
rapporto di pubblico impiego.
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ciali, per il fatto che essi sono disciplinati solo in
parte dal regime civilistico (di diritto comune),
che ne costituisce in certo modo l’ossatura e l’origine, laddove una parte molto rilevante della disciplina che li regola è di estrazione pubblicistica, il
che rende affatto rilevante la circostanza che una
delle parti contraenti sia un soggetto pubblico (si
pensi alle ipotesi in cui la parte pubblica intenda
svincolarsi dall’accordo, contando proprio sul fatto
di essere tale). Si tratta di contratti di appalto pubblico (di lavori, di servizi e di fornitura) e di concessione pubblica (rispettivamente, di lavori pubblici
o di servizi) (22).
I contratti speciali e l’evidenza pubblica
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cerne il procedimento concorsuale volto alla formazione della volontà contrattuale dell’ente o amministrazione procedente (vale dire, lo svolgimento della gara sfociante, poi, nell’aggiudicazione, nel
caso delle gare propedeutiche all’affidamento di appalti e concessioni al soggetto risultato aggiudicatario, ovvero lo svolgimento e valutazione delle prove inerenti al procedimento selettivo - il concorso
pubblico - nel caso dell’assunzione alle dipendenze
di una p.a.). Viceversa, una volta stipulato il contratto, sulla base del provvedimento di aggiudicazione nel primo caso e delle risultanze della graduatoria definitiva nel secondo caso, la vita del rapporto instaurato su quella base si svolge, nell’assieme, secondo la disciplina civilistica (nel caso del
rapporto di impiego secondo le norme giuslavoristiche, ma non nella totalità dei casi (24)), dove entrano in gioco, sostanzialmente, posizioni giuridiche soggettive (quali, in breve, diritti ed obblighi)
proprie del diritto comune.
Conviene sottolineare che la distinzione tra la fase
pubblicistica e quella civilistica rifluisce, nel nostro
sistema di giustizia, sul riparto della giurisdizione
sulle controversie nascenti, rispettivamente, nella
fase concorsuale e, dopo, durante la vita del rapporto contrattuale, tra giudice amministrativo e
giudice ordinario. Ed invero, sia detto, qui, schematicamente, nella fase inerente alla procedura
concorsuale vengono in rilievo posizioni di interesse legittimo (25), laddove le controversie originatesi durante la vita del rapporto si innestano su contestazioni concernenti posizioni giuridiche definibili come diritti soggettivi. Dobbiamo, inoltre, avvertire che, specialmente in seguito all’apertura del sistema al risarcimento dei danni derivanti dalla lesione degli interessi legittimi, ma più ancora a seguito del recepimento da parte dell’Italia della c.d.
“direttiva ricorsi”, la giurisdizione sulle controversie inerenti al risarcimento (come pure ai riflessi
sul contratto già stipulato con la ditta risultata aggiudicataria a seguito dell’annullamento giudiziale
(24) Categorie non contrattualizzate: si tratta, come è noto,
di poche ma importanti categorie di lavoratori nell’assieme
connotate dal fatto, evidente specialmente per talune di esse,
di costituire un potere dello Stato (come i magistrati), ovvero
di agire ed operare esprimendo il versante autoritativo o sovrano dello Stato (personale di polizia, militari). Significativamente, per tali categorie la giurisdizione sulle controversie inerenti
al rapporto di impiego è rimasto, in via esclusiva, al giudice
amministrativo.
(25) In realtà, come abbiamo spesso sottolineato in altri nostri scritti, si tratta di una distinzione affatto schematica, e non
poche volte del tutto astratta: pare evidente, infatti, che la posizione di chi - come, ad es., l’impresa che è stata esclusa dalla partecipazione alla gara, ovvero quella risultata seconda o
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di tale aggiudicazione qualificata illegittima con la
sentenza) rientrano, ora, nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo anziché - come dovrebbe ragionarsi in base alla distinzione schematica previgente - al giudice ordinario (26).
Linee di tendenza delle trasformazioni
dell’ordinamento amministrativo quanto
all’attività contrattuale della p.a.
Passiamo, ora, a tracciare un quadro sintetico delle
linee di tendenza dei cambiamenti normativi che
sono andati affermandosi su più piani, con modifiche al sistema pregresso molto incisive, intervenute negli anni più recenti. In effetti, l’ordinamento
amministrativo è andato in questi anni, anche se
forse inavvertitamente, trasformandosi, sotto la
spinta di vari fattori, ed oggi è qualcosa di sensibilmente diverso da quello che era qualche decennio
fa, nel senso che ne sono cambiati anche tratti
fondamentali. Anche quella che potrebbe definirsi
“privatizzazione” della cosa pubblica, che è avanzata su fronti paralleli o piuttosto convergenti, a sua
volta lentamente ma progressivamente, verso la
medesima visione, si inserisce in questo macrofenomeno che ormai ci tocca tutti.
A) Si è già accennato alla prepotente (si può dire)
ascensione dei moduli dell’evidenza pubblica nelle
procedure di gara che precedono la stipulazione dei
contratti di appalto pubblico e di concessione (di
lavori e di servizi): oggi l’apparato normativo che
disciplina gli appalti pubblici si può dire semplicemente impressionante (la normativa è racchiusa in
un codice dei contratti pubblici, di per sé imponente, e di un corposo regolamento (27)), che va
pur sempre completato con le non poche (e non
certo inconsistenti) direttive comunitarie in materia.
Ecco, è proprio questo il più rilevante filone, o direttrice, di consistenti mutamenti nel nostro ordinamento amministrativo che hanno interessato come abbiamo già sottolineato -, tra l’altro, istituti
terza classificata -, quando adisce il giudice (amministrativo),
rispettivamente, per essere ammessa alla gara o per ottenere
di essere classificata al 1° posto e divenire aggiudicataria, invoca una posizione giuridica soggettiva più prossima al diritto
soggettivo che all’interesse legittimo.
(26) Cfr. D.Lgs. n. 53/2010 e D.Lgs. n. 104/2010 (recante il
codice del processo amministrativo, specialmente art. 133, dove si elencano le varie ipotesi di controversie devolute alla giurisdizione esclusiva del g.a.).
(27) Rispettivamente, D.Lgs. 12 aprile 2006 n. 163 e D.P.R.
5 ottobre 2010 n. 207. Ma a tali fonti normative occorre aggiungere le disposizioni del capitolato generale e di non pochi
decreti ministeriali, nonché le disposizioni recate da leggi regionali che dispongono in materia di appalti pubblici, ecc.
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basilari, come la nozione di concessione ovvero di
fornitura ad organi della p.a., sul che non ci soffermiamo oltre. Quello che conviene ricordare, al riguardo, è il meccanismo giuridico di operatività
delle direttive comunitarie (non solo, beninteso, in
materia di appalti, ma in qualsiasi altra materia di
interesse comunitario) che, in breve, opera attraverso il recepimento delle direttive medesime da
parte del singolo paese membro dell’UE, cosicché
ci si trova, a recepimento avvenuto, di fronte ad
una norma nazionale.
Doveroso sembra, al riguardo, richiamare la ricorrenza di direttive cd. autoesecutive, nel senso che
accade, a volte, che le disposizioni contenute in talune di esse siano suscettibili di applicazione immediata nei confronti dei cittadini e degli altri soggetti dell’ordinamento (28), anche a prescindere dal
recepimento in una fonte normativa interna del
singolo Stato. Tanto accade allorquando la previsione normativa comunitaria riconosca un diritto a
determinati soggetti, o categorie di soggetti, senza
sottoporre a condizioni o comandi il diritto medesimo, con la conseguenza che, nell’eventualità che
il recepimento non sia avvenuto entro il termine
fissato nella direttiva data, gli organi dello Stato e
gli stessi organi giurisdizionali (in ipotesi di controversia al riguardo) non possono disconoscere il diritto nato dalla direttiva.
Non può, inoltre, ignorarsi (nemmeno in una succinta trattazione come la presente, l’istituto, o
piuttosto meccanismo, della disapplicazione delle
norme interne (nazionali) che si pongano in conflitto con disposizioni di una direttiva comunitaria
(come accadrebbe nel caso, ad es., di una norma
nazionale che disconoscesse o ponesse comunque
ostacoli al riconoscimento del diritto sorto da una
direttiva UE). La disapplicazione, istituto di non
frequente utilizzazione (specialmente in passato)
del nostro ordinamento (29), è diventato più ricorrente proprio in seguito all’irruzione delle norme
comunitarie (le direttive), allorquando il conflitto
si è presentato tra norme, per di più appartenenti
ad ordinamenti diversi (quello nazionale e quello
comunitario). Detto per inciso, poiché si è considerato preminente l’ordinamento comunitario, si è
stabilito che la norma nazionale in conflitto con
esso cede davanti alla disposizione del Trattato o
della direttiva di senso contrario.
In base ad un orientamento giurisprudenziale ormai
consolidato, la disapplicazione si è, poi, affermata
anche in relazione all’ordinamento nazionale, nel
contesto di situazioni che evidenziano conflitti tra
norme che si presentano allorquando il conflitto si
verifica tra norme (interne) appartenenti a fonti di
rango diverso. Tanto accade in presenza di una o
più disposizioni regolamentari confliggenti con
norme di legge. In forza di tale modo di argomentare, così, non soltanto disposizioni recate da un
regolamento comunale, provinciale o regionale,
ma anche da un regolamento governativo non potranno applicarsi in ipotesi di loro contrasto con
norme di legge (di rango, cioè, superiore) (30). Come si comprende, quello che potrebbe definirsi un
principio (la disapplicazione) non è nient’altro sul piano teorico - che una manifestazione della gerarchia tra (ranghi diversi di) norme, e ciò vale sia
nell’ambito del diritto nazionale, sia per quanto
concerne i rapporti tra ordinamento comunitario e
ordinamento nazionale. (È appena il caso di notare, peraltro, la profonda differenza tra l’annullamento dell’atto amministrativo - o anche della
norma regolamentare - riconosciuti illegittimi, e la
disapplicazione, che lascia in vita la norma in conflitto con altra norma di rango superiore, e che potrebbe - la prima -, in teoria essere applicata in altre occasioni e situazioni).
In conclusione, si deve dire che, ormai, il diritto di
origine europea condiziona pesantemente l’ordinamento nazionale e lo stesso procedimento normopoietico nazionale, spingendosi non poche volte specialmente attraverso le norme-principio, ad es.,
del Trattato - a disciplinare direttamente situazioni
una volta in dominio del sistema normativo interno, e del suo farsi in conformità ai principi e alle
regole dettate dalla Costituzione. Le conseguenze
più vistose di ciò, detto in maniera rapida e appros-
(28) Si sa, infatti, che le direttive sono, sì, fonti del diritto
comunitario, ma operano, ordinariamente, non (come i regolamenti comunitari) direttamente nei confronti dei cittadini dei
Paesi appartenenti all’UE, bensì nei confronti degli Stati membri, che esse obbligano a perseguire determinati obbiettivi o risultati, specificati nelle direttive medesime, entro un termine
prefissato.
(29) La disapplicazione era nota e praticata non in relazione
a disposizioni di legge, ma solo con riguardo ad atti amministrativi giudicati illegittimi, in via incidentale, dal giudice ordinario nelle ipotesi di controversia soggetta alla giurisdizione
del g.o. ma implicante l’applicazione di un provvedimento amministrativo (oppure anche di un atto pianificatorio, come, ad
es., un piano urbanistico). La cosa riguardava, insomma, i criteri di riparto della giurisdizione tra giudice amministrativo e
giudice ordinario.
(30) Per più ampi cenni sui vari tipi di disapplicazione, si veda I. Franco, Gli strumenti di tutela nei confronti della pubblica
amministrazione, II ed., Padova, 2003, 247-254; idem, Manuale
del nuovo diritto amministrativo (La tutela nei confronti della p.a.
nel mutato quadro normativo e giurisprudenziale), vol. I, Milano,
2008, 247-253.
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Da un lato il grande fabbisogno finanziario degli
enti pubblici (a cominciare dalle amministrazioni
centrali dello Stato), dall’altro l’accrescersi di compiti via via affidati (in misura crescente) dalle nuove leggi agli enti di autonomia locale (specialmente comuni e regioni) e, inoltre, la presenza di modelli esistenti ed operanti nei paesi a noi vicini,
hanno indotto il sorgere ed affermarsi in maniera
sempre più consistente dell’afflusso di capitali privati nella gestione della res publica attraverso forme
di commistione di risorse finanziarie pubbliche e
private nel finanziamento di opere pubbliche, et similia.
Tutto ciò sostanzialmente riposa - e indulge - su
una concezione, per così dire, paracontrattualistica
del bene comune ovvero di quello che in passato si
definiva tout-court interesse pubblico (o interesse
generale), sostanzialmente considerando alla stregua dell’interesse particolare, ad es., di un’impresa
(mirante naturalmente alla creazione di un profitto
per sé), la ragione che muove organi pubblici alla
costruzione di un’opera pubblica, ovvero alla gestione di una struttura creata per soddisfare interessi e bisogni dei cittadini, ecc.
Di seguito si condurrà un molto succinto excursus
sulle varie forme di penetrazione del capitale privato nella sfera dell’amministrazione pubblica, e sugli
istituti giuridici in cui le stesse si sono concretizzate a seguito del recepimento legislativo della nominata tendenza.
A) Società partecipate. L’inizio si ebbe, si può dire,
con la previsione, nell’art. 22 della legge sull’ordinamento degli enti locali (L. n. 142/1990) dei vari
modi di gestione dei servizi pubblici di competenza
di enti di autonomia locale quali specialmente i
comuni, tra i quali veniva inclusa, per la prima
volta, la creazione di apposite società a capitale
misto pubblico-privato per la gestione di specifici
servizi (evidentemente, a contenuto tecnico-gestionale elevato o particolare). A mano a mano
che si andava modificando l’ordinamento degli enti di autonomia locale (fino a pervenire al T.U. n.
267/2001), andava in qualche modo arricchendosi
(o complicandosi) la disciplina di queste società di
capitale dalla veste formale privata (s.p.a.).
Senza pretendere di affrontare funditus l’argomento, possiamo dire, in estrema sintesi, che lo sviluppo avuto dell’istituto in discorso mostra la presenza
(e l’accentuarsi) di due vistosi difetti contrapposti:
la natura ibrida - quasi da ossimoro - sopra appena
descritta; la logica di gestione e di governo di tali
società che, formalmente di veste privata, vengono
governate con le logiche della più vieta e bassa politica, con i connessi aspetti corruttivi oggi venuti
clamorosamente alla luce (così che può dirsi che
forse rispondevano meglio allo scopo ed erano meno esposte alla corruzione (?) - o forse più funzionali - le vecchie aziende municipalizzate, di fatto
sostituite da questo nuovo ircocervo). Detto per
inciso, in questa sede, il fenomeno è apparso più
frequentemente come foriero di perplessità e conseguenze negative specialmente nel settore delle
società di servizi, dove più forte e quasi naturale si
è manifestata la necessità di associare alla proprietà
pubblica le imprese dotate della capacità tecnica,
gestionale e professionale occorrenti per la gestione
di servizi caratterizzati dalla prevalenza del profilo
tecnico (si pensi al settore dei rifiuti, della distribuzione di acqua o energia, ecc.). Il socio privato,
quindi, andava ricercato per l’apporto non solo e
non tanto di capitale, ma delle capacità appena
menzionate.
B) Un’altra direttrice, o filone, strettamente attinente all’ingresso del capitale privato nella gestio-
(31) Lo scontro di sovranità, se mai esistito in forme aperte,
ha visto il contrapporsi delle Corti costituzionali di tre Paesi
con la Corte di giustizia di Lussemburgo. La prima a recedere
è stata la Corte costituzionale italiana (che, con una ben nota
sentenza del 1984, accettò la primazia del diritto comunitario
rispetto a quello nazionale); seguì il Conseil constitutionel fran-
cese, che ragionò in modo sostanzialmente analogo all’incirca
nel 2005. Infine, la Corte tedesca di Karlsrhue soltanto oggi
(2014) ha dato segni di cedimento, interrogando la CG sulla
compatibilità dell’ordinamento comunitario con quello interno
in tema di oneri del debito pubblico degli stati membri diversi
dalla Germania.
simativa, stanno in primis in un sostanziale (e sostanzioso) contrasto con la sovranità dello Stato
(da noi, del resto, presto sopito (31)), in secundis
nell’ibridazione del nostro ordinamento e, a seguire, nell’affermarsi inesorabile del totem della libera
concorrenza (a tutto campo) e del mercato aperto
(l’UE è, almeno fin adesso, l’Europa dell’economia,
più precisamente del neo-liberismo spinto e inutilmente oppressivo quanto, ad es., ai rigidi e indiscutibili vincoli di bilancio dei singoli Stati, con l’aggravante che si tratta di una visione economica
estremistica all’interno delle concezioni capitalistiche, di neo-liberismo spinto fino al limite dell’irragionevole e dell’errore, come si può vedere nella
conduzione della profonda crisi che stiamo vivendo
in Europa molto più che nel resto dell’Occidente
…).
L’ingresso del capitale privato nella
gestione della cosa pubblica
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ne dell’attività che prima era esclusivo appannaggio della p.a. è costituito dalle STU (società di trasformazione urbana), istituto giuridico-finanziariotecnico non privo di interesse, preso dal sistema
francese dove, come enti con partecipazione di capitale privato, erano state create le cd. SEML (societés mixtes d’economie sociale) (32). Qui, come appare evidente, il socio privato della STU sarà una
società di costruzioni particolarmente attrezzata e
qualificata (si pensa).
C) Ma l’istituto più noto e, per così dire, propagandato (in ordine alla partecipazione del capitale privato nella gestione dell’interesse pubblico), di derivazione comunitaria, è la finanza di progetto (project financing). Si ricorre a tale strumento allorquando occorra reperire risorse finanziarie al di
fuori dell’ambito pubblico, per via della scarsa (o
nulla) disponibilità di denaro nelle pieghe dei bilanci dei comuni e di altri enti pubblici che intendano realizzare, specialmente, opere pubbliche ovvero strutture e impianti da porre al servizio dei
cittadini-utenti, et similia. La finanza di progetto (33) è, ormai, uno strumento moto usato, per le
ragioni brevemente richiamate più addietro, perché consente di realizzare opere e strutture pubbliche di grande impegno, pur nella penuria di risorse
finanziarie pubbliche; ma, specialmente nell’attualità (giugno 2014), essa si è rivelata, purtroppo, facile strumento per l’agevole infiltrazione di corruzione a largo raggio, illeciti arricchimenti ai danni
dell’erario e quant’altro (è per questo che, ad avviso di chi scrive, bisogna diffidare, in principio, della commistione con l’interesse pubblico di quello
dei privati, quanto meno allorquando si tratti di
interessi facenti capo ad imprenditori o altri soggetti miranti al profitto).
D) Bisognerebbe parlare - sempre in tema di riorientamento del modus operandi degli organi dello
Stato-apparato in senso tendenzialmente paritetico
e in forme più o meno privatistiche - degli epifenomeni cd. della liberalizzazione (di attività in principio in dominio dell’amministrazione pubblica) e
della privatizzazione di settori più o meno ampi dell’attività in precedenza facente capo ad organi e
strutture (per lo più tecniche) dell’apparato costituito dai pubblici uffici.
Non ci sembra, tuttavia, opportuno in questa sede
trattare anche di queste tematiche, che ovviamente postulano una trattazione a se stante. Ci limitiamo, al riguardo, a rinviare (oltre agli accenni fatti
retro nel testo) ad altri scritti e ad altre opere dedicati all’argomento (34).
Non si può fare a meno di accennare, en passant, al
cd. partenariato pubblico-privato, formalmente introdotto nel codice dei contratti pubblici (D.Lgs.
n. 163/2006) da una novella del 2008. Ma si tratta,
come si dirà brevemente, di una novità solo apparente, dal momento che le forme contrattuali incluse in questa figura già sono disciplinate dallo
stesso codice.
Dispone, infatti, il comma 15-ter dell’art. 3 del codice (introdottovi ad opera dell’art. 2 del D.Lgs. 11
settembre 2008 n. 152: «Ai fini del presente codice, i
“contratti di partenariato pubblico-privato” sono contratti aventi per oggetto una o più prestazioni quali la
progettazione, la costruzione, la gestione o la manutenzione di un’opera pubblica o di pubblica utilità, oppure
la fornitura di un servizio, compreso in ogni caso il finanziamento totale o parziale a carico di privati, anche
in forme diverse, di tali prestazioni, con allocazione dei
rischi ai sensi delle prescrizioni e degli indirizzi comunitari vigenti. Rientrano, a titolo esemplificativo, tra i
contratti di partenariato pubblico-privato la concessione
di lavori, la concessione di servizi, la locazione finanziaria, il contratto di disponibilità (cfr. art. 44 D.L. 24
gennaio n. 1 conv. in L. 24 marzo 2012 n. 27),
l'affidamento di lavori mediante finanza di progetto, le
società miste. Possono rientrare altresì tra le operazioni
di partenariato pubblico-privato l'affidamento a contraente generale ove il corrispettivo per la realizzazione
dell'opera sia in tutto o in parte posticipato e collegato
alla disponibilità dell'opera per il committente o per
utenti terzi”.
Come si vede, a parte la fattispecie del “contratto
di disponibilità” (comunque rientrante nel genus
degli strumenti consistenti nell’apporto di finanziamenti privati alla realizzazione di opere, servizi
pubblici et similia), si tratta di figure contrattuali
tutte già previste e disciplinate singolarmente nel
medesimo D.Lgs. n. 163/2006 (cosicché l’unica utilità recata da questa nuova previsione normativa
sembra consistere nell’avere accomunato il menzio-
(32) Come si evince anche dalla denominazione, le SEML
costituiscono in parte il modello anche delle società partecipate, cui si è accennato poco addietro nel testo (cfr. anche, per
accenni sul punto, I. Franco, Manuale del nuovo diritto amministrativo, cit., 27). Quanto alle STU, cfr, ancora, ibidem, op. loc.
cit. e, dello stesso A., Le società di trasformazione urbana nel
quadro del nuovo diritto amministrativo, in Dir. Reg., 2001, 6,
1037 ss. (ivi indicazioni di bibliografia e giurisprudenza).
(33) Naturalmente, la letteratura su tale istituto è, ormai,
notevole. Rinviamo, per tutti, a F. Caringella - M. Protto (curatori), Codice e regolamento unico dei contratti pubblici, Roma,
2011, sub commento agli art. 153-160-bis.
(34) Per tutti cfr. gli accenni in proposito contenuti nel ns.
Manuale del nuovo diritto amministrativo, cit., 17 ss.
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nato “grappolo” di strumenti contrattuali preesistenti in un’unica figura-madre, una sorta di “famiglia contrattuale” (35), allo scopo di dettare una
normativa applicabile uniforme).
Come si evince da quanto siamo andati fin qui dicendo, non solo quella parte dell’ordinamento amministrativo che ne occupa, ma anche detto ordinamento su un piano più ampio ed esteso sono andati sensibilmente mutando da qualche decennio
(specialmente gli ultimi due), attraverso il cambiamento anche di istituti fondamentali del diritto
amministrativo. Tanto è avvenuto - ripetiamo qui
sinteticamente - principalmente sotto la spinta di
origine comunitaria, e, su un secondo versante,
sotto una spinta altrettanto forte (si direbbe, una
pulsione “cui resisti non potest”, una sorta di coazione a ripetere) verso forme di “privatizzazione” della
gestione e dello svolgersi dell’attività di molteplici
enti ed organi della p.a.
Dunque, da una parte nel nostro ordinamento hanno fatto ingresso una nozione di concessione amministrativa diversa da quella tradizionale (che potrebbe sembrare, erroneamente, abbandonata) ed istituti nuovi quali, ad es., la finanza di progetto, ovvero nel campo degli appalti pubblici, una diversa e
più ampia figura (non tanto di imprenditore, quanto) di operatore economico (legittimato a concorrere
per l’aggiudicazione di commesse pubbliche), ecc.
(senza parlare delle consistenti e sostanziali modifiche arrecate al sistema di giurisdizione amministra-
tiva, quali, in primis, il risarcimento del danno per
faute de service e così via, dall’altro avanza il modo
di concepire sotto un’ottica a colorazione privatistica la gestione della res publica.
Ove, poi, si tenga conto anche delle innovazioni
che interessano più da vicino il complesso di norme concernenti i rapporti fra privati (basti pensare
alle nuove prospettive riguardanti il diritto d’autore e, più in generale, la proprietà intellettuale e le
opere dell’ingegno - si pensi alla creazione artistica
che si esprime attraverso la produzione di film e
brani musicali, pressoché liberamente, ormai, scaricabili da internet senza corrispondere il compenso
a titolo di diritti d’autore ovvero, su altro, non
troppo lontano, versante, al prepotere delle multinazionali, capaci di imporre i loro voleri agli Stati
(ex) sovrani sub specie anche di creazione di norme
internazionali (36) -), si comprende come, ormai,
ci si muova, giuridicamente, su un piano affatto diverso da quello del passato, e ci si trovi al cospetto
di quello che non sapremmo definire meglio se
non come “diritto in movimento”, in continua attesa di una sistematizzazione che, forse, tarderà
molto a venire.
Verrebbe da parlare, in proposito, di un diritto ibrido, poiché gli elementi che lo compongono (o, meglio, caratterizzano) sono eterogenei per caratteri
distintivi, provenienza e ratio, e apportano elementi spuri al sistema, che - quanto meno in via teorica - non si sa come saldare e coordinare con quelli
preesistenti.
(35) Sull’argomento si rinvia, per un primo commento, a S.
M. Sambri, Le varie forme di partenariato pubblico-privato e la
finanza di progetto nel nuovo assetto normativo, scritto rinvenuto su internet utilizzando come chiave di ricerca la denominazione in discorso.
(36) Precipuamente attinenti alla risoluzione delle controversie attraverso arbitrati internazionali, come sta accadendo,
ad es., in tema di trattato transatlantico, al momento in uno
stadio avanzato di trattative tra USA ed UE che bisognerebbe
augurarsi non arrivare alla conclusione, specialmente in ragione delle negative ricadute sulla sovranità degli stati firmatari e
dei rispettivi cittadini. Al riguardo, si vedano gli ampi servizi
dedicati all’argomento da Le Monde diplomatique, specialmente nel n. 6/2014.
Conclusioni: il “diritto ibrido”
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Servizi pubblici
Incarichi legali ed evidenza
pubblica
di Antonio Senatore (*)
Il presente contributo si propone di trattare il tema dell’affidamento di incarichi professionali da parte delle amministrazioni pubbliche a professionisti esterni ad esse, con particolare attenzione agli incarichi affidati agli avvocati. Per tali affidamenti non solo saranno trattate le relative modalità e condizioni, ma altresì l’incidenza su di essi delle norme di cui alla recente Direttiva europea in materia di appalti.
Premessa
Il tema del conferimento degli incarichi professionali da parte delle amministrazioni pubbliche a
professionisti esterni ad esse si presenta di particolare attualità, soprattutto con riferimento agli incarichi legali; ciò è tanto vero se si considera l’esistenza di difformi indirizzi giurisprudenziali in proposito, il che dimostra una concreta difficoltà di ricomporre la questione in maniera sistematica. Si
ritiene tuttavia che su tale questione sicuramente
avrà una positiva incidenza la nuova disciplina introdotta con la recente Direttiva comunitaria (1)
in tema di appalti pubblici.
Prima di ogni considerazione, però, è doverosa la
trattazione e l’analisi della qualificazione degli incarichi professionali in esame e della rilevanza di
tali affidamenti per la disciplina sull’evidenza pubblica.
Incarichi legali ed appalti di servizi
Secondo un primo orientamento, più volte condiviso in giurisprudenza (2) ma non definibile come
preminente, le prestazioni rese dai professionisti in
favore delle amministrazioni, ed in particolare
quelle degli avvocati, sono da qualificarsi in tutti
casi come “servizi”, o meglio, come attività riconducibili nel novero dei “servizi legali” quale settore
(*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla
valutazione di un referee.
(1) Direttiva 26 febbraio 2014, n. 2014/24/UE, pubblicata
sulla GUCE 28 marzo 2014, n. 94, in www.eur-lex.europa.eu.
(2) T.A.R. Lazio, Latina, sez. I, 20 luglio 2011, n. 606, in Foro Amm. TAR, 2011, 2395 ss.; Corte Conti, sez. controllo Veneto, delibera 21 gennaio 2009, n. 7/2009/par e 19 giugno 2008,
n. 19/2008/par, entrambe in www.corteconti.it; T.A.R. Calabria,
Reggio Calabria, 4 giugno 2008, n. 330, in Rass. Forense,
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cd. escluso indicato al punto 21 dell’allegato II B
del D.Lgs. n. 163/2006.
L’impostazione anzidetta accoglie un’accezione
molto ampia di servizi legali, riconducendo ad essi,
senza eccezione alcuna, ogni attività svolta da avvocati libero professionisti in favore delle amministrazioni, secondo una linea di continuità con l’elencazione dei servizi contenuta nell’art. 50 del
Trattato CE, che in tale categoria include pure le
“attività delle libere professioni”, fornite normalmente dietro retribuzione, al fine di evitare restrizioni alla libera prestazione di esse nell’ambito dell’Unione Europea.
Si tratta di una definizione, come efficacemente
evidenziato, di tipo “oggettivo” che non tiene conto della soggettività giuridica di chi svolge il servizio (3). Infatti, il codice degli appalti, all’art. 34,
nell’individuare i contraenti dell’amministrazione,
non distingue l’imprenditore dal professionista, riconducendo entrambe le figure nella più ampia nozione di operatore economico (4). L’applicazione
del codice dei contratti pubblici alle prestazioni
professionali degli avvocati, secondo l’orientamento in esame, discenderebbe anche in virtù della definizione di servizio contenuta nell’art. 1, comma
1, del D.Lgs. n. 59 del 26 marzo 2010 (“Attuazione
della direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno”), secondo cui servizio è qualunque at2007, 776; T.A.R. Puglia, Lecce, sez. II, 25 ottobre 2006, in
www.giustizia-amministrativa.it.
(3) C. Mucio, Legittimità dell’affidamento del patrocinio legale senza gara, in questa Rivista, 2012, 1183 ss.
(4) Sul tema della mancanza di una distinzione a livello comunitario tra libero professionista e imprenditore si veda
T.A.R. Veneto, sez. I, 26 marzo 2009, n. 881, in www.giustiziaamministrativa.it.
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Per un secondo orientamento, affermatosi occasionalmente in giurisprudenza (7), le prestazioni pro-
fessionali degli avvocati in favore delle amministrazioni sono in tutti i casi da qualificarsi come
prestazioni rese in esecuzione di contratti d’opera
intellettuale, ex artt. 2229 c.c. ss., la cui disciplina
risiede, non nelle disposizioni sull’affidamento dei
contratti pubblici, ma nell’art. 7, commi 6 e 6-bis,
del D.Lgs. n. 165/2001, per come modificato dall’art. 32 del D.L. n. 223/2006, convertito in L. n.
248/2006, regolante i rapporti di collaborazione
autonoma tra amministrazione e privati.
L’impostazione in questione si differenzia da quella
precedentemente richiamata per il rilievo assegnato alle caratteristiche soggettive di chi svolge l’attività, assegnando alle stesse caratteristiche soggettive un valore dirimente al fine di escludere la qualificazione delle prestazioni in termini di servizi legali di cui alla disciplina dei contratti pubblici. In
particolare, è messo in risalto che il contratto d’opera, stipulato tra amministrazione e professionista,
presenta in comune con il contratto di appalto di
servizi, stipulato tra amministrazione e imprenditore, gli elementi di indipendenza rispetto al committente e l’assunzione del rischio, ma si differenzia
dal secondo per via non della natura dell’oggetto
oppure del contenuto della prestazione, bensì solo
per gli aspetti organizzativi del soggetto che deve
compiere la prestazione (8). In altri termini, l’appalto si differenzia dal contratto d’opera intellettuale perché l’appaltatore deve necessariamente essere un’impresa e non un libero professionista
iscritto in appositi albi (9).
Dunque, sia nel caso di singoli incarichi professionali, che in caso di attività di assistenza e consulenza per un tempo determinato, verrebbe in rilievo una collaborazione autonoma riconducibile all’art. 7 del D.Lgs. n. 165/2001, mentre, anche in
questo caso, nessuna valenza assume il carattere fiduciario che connota l’assegnazione del singolo incarico di patrocinio in una lite giudiziale. Di conseguenza, in ossequio alle previsioni di cui alla norma appena richiamata, ogni tipo di incarico potrebbe essere assegnato all’esterno solo in esito ad
una valutazione comparativa tra più soggetti aspiranti, la cui indizione, sempre come sancito dalla
norma, deve essere caratterizzata da massima pubblicità ed il relativo svolgimento deve essere retto
(5) T.A.R. Lazio, Latina, n. 606/2011, cit.
(6) Amplius sui principi dell’evidenza pubblica, S. S. Scoca, I
principi dell’evidenza pubblica, in I contratti di appalto pubblico,
a cura di C. Franchini, Torino, 2010, 289-344.
(7) T.A.R. Campania, Napoli, sez. II, 24 aprile 2008, n. 4855,
in www.giustizia-amministrativa.it.
(8) Cass. civ., sez. lav., 26 giugno 2013, n. 16092, in Diritto
e Giustizia on-line; Cass. civ., Sez. Un., 19 ottobre 1998, n.
10370, in Giust. Civ. Mass., 1998, 2123; Cons. Stato, sez. IV,
28 agosto 2001, n. 4573, in Foro It., 2002, 110.
(9) Sulla distinzione tra appalto e contratto d’opera intellettuale, amplius, L. Moscarini, L’appalto nel codice civile e nel codice dei contratti pubblici, a cura di M. A. Sandulli, R. De Nictolis, R. Garofoli, Milano, 2008, 68 ss.
tività economica, imprenditoriale o professionale,
svolta senza vincolo di subordinazione, diretta allo
scambio di beni o alla fornitura di altra prestazione
anche a carattere intellettuale.
In tale ottica, costituisce affidamento di un servizio
legale anche l’affidamento di un singolo incarico
professionale a un avvocato (per la difesa in giudizio dell’amministrazione o per la redazione di un
parere), dunque, non solo l’affidamento di rapporti
più complessi, come attività di consulenza che si
protraggono per un certo periodo di tempo e che
presuppongo l’inserimento, per quanto provvisorio,
del prestatore (id est del professionista) nella struttura burocratica dell’amministrazione.
L’orientamento in esame, quindi, nell’equiparare a
livello normativo ogni attività professionale svolta
dall’avvocato, non assegna alcuna rilevanza al carattere fiduciario che caratterizza il contratto di patrocinio in giudizio, evidenziando come tale carattere non possa validamente rappresentare ragione
di distinguo rispetto al caso di affidamento di attività di consulenza per un determinato periodo di
tempo o di patrocinio per un numero predefinito
di contenziosi. Tale conclusione è giustificata dal
fatto che pure in questi ultimi casi la fiduciarietà
non è assente, al contrario, si tratterebbe di un elemento maggiormente presente considerato che l’attività di consulenza e/o di patrocinio per un certo
periodo di tempo sarebbe ancora più complessa e
variegata rispetto all’espletamento di un singolo
patrocinio legale (5).
Dalla suddetta qualificazione discende la necessaria
osservanza, per l’affidamento degli incarichi legali,
delle previsioni di cui agli artt. 20, 65, 68, 225 e
l’art. 27 del codice appalti, quest’ultima disposizione relativa ai principi fondamentali in tema di affidamento dei contratti nei settori cd. esclusi, come
appunto quello dei servizi legali, nella quale sono
richiamati i principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, economicità, trasparenza e proporzionalità (6).
Incarichi legali e rapporti di
collaborazione autonoma
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Appalti e lavori pubblici
Vi è un terzo orientamento sulla qualificazione da
assegnare alle prestazioni rese dai legali in favore
delle amministrazioni, maggiormente condiviso in
giurisprudenza (10), che si ritiene essere in linea,
come si dirà meglio infra, con le nuove indicazioni
normative contenute nella Direttiva comunitaria
sugli appalti.
Secondo tale orientamento, che si può dire si pone
in posizione intermedia tra i due orientamenti anzidetti, si è al cospetto di attività riconducibili nel
concetto di servizi legali soltanto qualora l’affidamento non si esaurisca nel patrocinio legale occasionale o episodico dell’amministrazione, ma si
configuri come modalità organizzativa di un servizio, affidato a professionisti esterni, più complesso
e articolato, che può anche comprendere la difesa
giudiziale ma in essa non si esaurisca. Dunque, soggiacciono alle regole della evidenza pubblica i soli
rapporti che presentano predeterminabilità degli
aspetti temporali, economici e sostanziali della prestazioni.
L’orientamento in discorso, analogamente al secondo esaminato poc’anzi, muove dalla qualificazione degli incarichi legali in termini di contratto
d’opera intellettuale ex artt. 2229 ss. c.c., ritenendo
in che la natura del rapporto non muti in ragione
delle caratteristiche del committente, ma giunge a
conclusioni differenti, quanto a modalità di confe-
rimento degli stessi incarichi, alla luce delle caratteristiche di questi. Come anticipato, è escluso che
si possa procedere all’affidamento con una selezione qualora l’incarico consista nell’occasionale o
episodico patrocinio legale dell’ente in giudizio oppure nell’altrettanto occasionale o episodico svolgimento di una attività di consulenza legale.
Sono diversi gli argomenti su cui si fonda tale impostazione teorica.
Il primo prende le mosse dalla caratteristiche che
riguardano, soprattutto, l’attività di difesa legale in
giudizio, la quale, riconnettendosi ad interessi costituzionalmente rilevanti, elevabili a veri e propri
diritti inviolabili quale alla difesa ex art. 24 della
Cost., presenta delle peculiarità, come il requisito
della fiduciarietà del rapporto tra legale e parte assistita, che impongono un trattamento a livello
normativo differenziato rispetto alle altre ipotesi di
rapporti professionali (si pensi all’incarico professionale di progettazione o di redazione di uno strumento urbanistico ove il requisito della fiduciarietà
è mancante o, comunque, non ha una valenza caratterizzate del rapporto che è invece imperniato
soprattutto sul possesso di determinate competenze
tecniche).
Proprio in virtù delle caratteristiche dell’attività di
patrocinio in giudizio che l’orientamento in discorso ritiene non decisivo il dato letterale del punto
21 dell’allegato II B del D.Lgs. n. 163/2006 al fine
di ricondurre sempre e in tutti i casi l’attività legale nel concetto di appalto di “servizi legali”. Si aggiunge al dato testuale il fatto che il patrocinio in
giudizio è conferito in un momento di bisogno di
assistenza legale, che per natura è un bisogno occasionale e contingente che non ricorre nel caso delle esigenze di servizio, le quali, invece, sottintendono un bisogno non episodico ma perdurante nel
tempo, riconducibile alla necessità di perseguire i
fini istituzionali dell’amministrazione. La difesa in
giudizio rappresenta, più che un servizio di cui ha
necessità l’amministrazione, l’esercizio di un diritto/dovere correlato al bisogno a che sia affermata
la rispondenza dell’attività amministrativa svolta al
paradigma normativo prestabilito, nei casi in cui
dovessero sorgere dubbi in proposito nell’ambito
delle liti giudiziali che vedono coinvolta la p.a.
Le caratteristiche anzidette dell’attività di patrocinio in giudizio, nonché la circostanza che tale atti-
(10) Da ultimo, T.A.R. Campania, Salerno, sez. II, 16 luglio
2014, n. 1383, in www.lexitalia.it; Cons. Stato, sez. V, n.
2730/2012, in questa Rivista, 2012 con nota di C. Mucio, cit.,
1181 ss.; Cons. Stato, sez. V, 29 gennaio 2008, n. 263, in Foro
Amm. CdS, 2008, 112; Corte Conti, sez. controllo Basilicata,
delibera 3 aprile 2009, n. 19/2009/par, in www.corteconti.it;
Autorità per la Vigilanza sui contratti, determina 7 luglio 2011,
n. 4, in www.avcp.it.
dai fondamentali principi che governano l’azione
amministrativa.
L’orientamento, al di là del dato concettuale sulla
qualificazione dell’attività professionale in discorso,
presenta effetti pratici che non lo distinguono particolarmente dall’altro orientamento precedentemente richiamato. Infatti, sia nel caso in cui si voglia qualificare l’attività professionale in esame resa
nei confronti dell’amministrazione come appalto di
servizi regolato dagli artt. 20, 65, 68, 225 e l’art. 27
del D.Lgs. n. 163/2006, sia nel caso si voglia qualificare in termini di collaborazione autonoma di cui
all’art. 7 del D.Lgs. n. 165/2001, l’effetto è sempre
quello di negare che tali incarichi possano essere
assegnati intuitu personae, ma solo previo svolgimento di una valutazione comparativa, per quanto
“snella” perché regolata dai principi essenziali dell’agere amministrativo.
Incarichi legali e fiduciarietà
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vità si concreta nell’ambito di un rapporto di lavoro autonomo (al di fuori, quindi, della struttura organizzativa dell’ente), è ciò che distingue tale tipo
di rapporto che intercorre tra professionista e amministrazione da quello che si instaura in caso di
collaborazione autonoma ex art. 7 del D.Lgs. n.
165/2001.
Dunque, ritornando alla distinzione iniziale, se la
prestazione richiesta al professionista comporta un
complesso di attività variegate che non si sostanziano nel solo patrocinio in giudizio, ma presuppongono altresì attività che denotano l’inserimento del medesimo professionista nell’organizzazione
dell’ente, in questi casi è configurabile un appalto
di servizi legali, con conseguente applicazione delle
modalità selettive previste dall’art. 20 del D.Lgs. n.
163/2006. Tali modalità selettive - circostanza invero non esplicitamente messa in rilievo nelle diverse pronunce intervenute - si presentano di fatto
identiche a quelle richieste dall’art. 7, comma 6bis, del D.Lgs. n. 165/2001, laddove impongono
l’invito di un congruo numero di professionisti, la
comparazione delle singole candidature e, ancora
prima, il necessario rispetto dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza e proporzionalità. Conclusa la procedura selettiva, l’amministrazione ne rimane vincolata ai relativi esiti, senza poter affidare l’incarico ad altro professionista che non sia quello individuato in base ai criteri predeterminati (11).
Condizioni, competenza e modalità per
l’assegnazione degli incarichi fiduciari
Nel caso in cui l’incarico professionale consista
nell’occasionale o, comunque, episodica assistenza
in giudizio o assistenza in termini di consulenza,
non sussiste alcun obbligo di selezione comparativa, essendo l’amministrazione unicamente tenuta
ad affidare l’incarico nel rispetto dei principi di trasparenza e di adeguata motivazione, al fine di rendere doverosamente comprensibili all’esterno le ragioni che inducono a riporre fiducia su un determinato professionista.
Nell’esperienza concreta molto spesso le amministrazioni, specie quelle locali, di anno in anno,
quindi senza attendere l’instaurarsi di contenziosi
che le vedono coinvolte, indicono procedure mol(11) Cons. Stato, sez. IV, 29 gennaio 2008, n. 263, in Foro
Amm. CdS, 2008, 112.
(12) Ex multis, Cass. civ., sez. I, 30 ottobre 2013, n. 24478,
in Giust. Civ. Mass., 2013; idem Cass. civ., Sez. Un., 10 giugno
2005, n. 12195, in Giur. It., 2005, 2400.
Urbanistica e appalti 11/2014
to semplici al fine di raccogliere candidature di
professionalità con specifiche competenze e interessate ad assumere singoli incarichi, grazie alle
quali viene poi redatto un elenco ove attingere secondo necessità, normalmente facendo applicazione di una regola di rotazione al fine di garantire le
più volte rammentate esigenze di trasparenza e
buon andamento dell’azione amministrativa.
Pur se non assoggettato alla formalità di una gara,
il conferimento dell’incarico fiduciario rimane sottoposto a talune condizioni necessarie, iniziando
dal necessario e preventivo impegno contabile da
parte dell’ente (previsto in via generale per gli enti
locali dall’art. 191 del TUEL), in mancanza del
quale l’atto di conferimento dell’incarico deve ritenersi addirittura nullo e, quindi, incapace di produrre effetto giuridico alcuno (12). Normalmente,
nella prassi concreta, alla base dell’impegno di spesa vi è un preventivo economico redatto dal professionista (molto spesso di concerto con l’amministrazione interessata) che viene poi posto alla base
dell’atto di impegno economico; in mancanza di
un preventivo di spesa, l’impegno economico non
potrà che essere quantificato in base alle tariffe
professionali forensi vigenti al momento (13).
La forma dell’accordo non potrà che essere quella
scritta alla luce delle previsioni di cui agli artt. 16
e 17 del R.D. n. 2440/1923.
In tema di conferimento di incarichi fiduciari esiste inoltre un principio generale, unanimemente
riconosciuto in giurisprudenza (14), ed espressione
delle generali esigenze di contenimento della spesa
pubblica da anni di interesse del legislatore, secondo cui l’attività delle amministrazioni deve essere
svolta dai propri organi e uffici, con la possibilità
di far ricorso a professionalità esterne solo nei casi
previsti dalla legge o in relazione ad eventi e situazioni straordinarie non fronteggiabili con le disponibilità tecnico - burocratiche esistenti.
Dall’affermazione della regola anzidetta discende
che l’amministrazione deve dimostrare l’impossibilità da parte del personale interno di assolvere adeguatamente all’incarico, corredando la delibera di
conferimento dell’incarico di una congrua motivazione con la quale fornire una valida giustificazione
alla deroga della regola generale sopra richiamata.
Il conferimento dell’incarico ad un professionista
esterno deve tener conto sia dell’esistenza o meno
(13) Attualmente contenute nel Decreto del Ministro della
Giustizia 10 marzo 2014, n. 55, in GU 2 aprile 2014, n. 77.
(14) Tra le prime, Corte Conti, sez. giurisdiz. Lazio, 25 settembre 2000, n.1545, in Lavoro nelle P.A., 2002, 1140.
1143
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di un ufficio legale interno ma soprattutto della
qualificata prestazione da rendere in giudizio in relazione alla particolare complessità della questione
controversa; l’accertamento della sussistenza dei requisiti soggettivi ed oggettivi dinanzi ricordati, da
compiersi in via preventiva da parte del soggetto
pubblico conferente, devono evidenziarsi nella motivazione della delibera di conferimento dell’incarico che puntualmente deve riportare le ragioni della
scelta compiuta (15).
Per quanto riguarda specificamente gli enti locali,
in base alle previsioni attualmente in vigore, in
particolare all’art. 50 del TUEL, il conferimento
dell’incarico compete al sindaco o al presidente
della provincia, i quali, proprio in virtù dei poteri
di rappresentanza dell’ente loro assegnati, non abbisognano dell’autorizzazione dell’organo di giunta (16).
C’è, comunque, da rilevare l’esistenza di una tendenza giurisprudenziale che pur riconoscendo al
sindaco o al presidente della provincia il suddetto
potere di rappresentanza, nonché il potere in generale di decidere se resistere o ricorrere in giudizio,
demanda al dirigente preposto al settore legale la
scelta se avvalersi o meno di professionalità esterne, previa verifica delle condizioni sopra richiamate, nonché la scelta del professionista da nominare,
venendo a rilevare in questi ultimi casi delle scelte
ricadenti nelle attività gestionali tipiche del dirigente (17), ai sensi dell’art. 107 del TUEL (che riproduce con riguardo agli enti locali le previsioni
generali di cui all’art. 16 del D.Lgs. n. 165/2001).
Tale assunto, come efficacemente rilevato (18), è
sicura espressione di una lettura sistematica ed evolutiva dell’attuale sistema normativo improntato
sulla suddivisione delle funzioni di indirizzo politico da quelle amministrative, che demanda l’adozione di atti e provvedimenti di gestione agli organi
burocratici, ma pone qualche dubbio in punto di
compatibilità con la natura fiduciaria degli incarichi di cui si discorre; fiducia che dovere di coerenza e logica vorrebbero intercorresse tra il professionista e il titolare della rappresentanza legale dell’ente, ovvero il sindaco o il presidente di provincia.
(15) Corte Conti, sez. giuristi. Lazio, 6 ottobre 2011, n.
1566, in www.corteconti.it.
(16) Ex multis, Cons. Stato, sez. V, 19 luglio 2013, n. 3934,
in www.giustizia-amministrativa.it, e Cons. Stato, sez. IV, 1° ottobre 2008, n. 4744, in Foro Amm. CdS, 2008, 2766.
(17) Cons. Stato, sez. V, 14 febbraio 2012, n. 730, in Foro
Amm. CdS, 2012, 350; in limine, Cons. Stato, sez. V, 23 dicem-
1144
L’incidenza delle nuove direttive UE
sull’affidamento degli incarichi legali
Il tema del conferimento degli incarichi professionali legali, come più volte accennato in precedenza, è oggetto di interesse della direttiva n.
2014/24/UE, pubblicata sulla G.U. dell’Unione Europea n. 94 del 28 marzo 2014, relativa ai contratti
di appalto, che abroga e sostituisce la precedente
disciplina contenuta nella direttiva 2004/18/CE.
Le nuove norme, contenute nei considerando 25 e
116 nonché nell’art. 10, si ritiene abbiano una portata risolutiva delle questioni richiamate relative
alla qualificazione degli incarichi e alle procedure
da seguire per l’assegnazione di essi, accogliendo (o
almeno ponendosi in linea con) l’orientamento
giurisprudenziale maggioritario, dando a questo un
valido fondamento normativo che - nonostante lo
sforzo argomentativo e di indagine della giurisprudenza (19)- non pareva avere sino ad oggi a differenza degli orientamenti minoritari.
Il legislatore comunitario anzitutto riconduce ogni
attività professionale legale in favore delle pubbliche amministrazioni nel concetto generale di servizio legale, ma a differenza della previgente disciplina, distingue le varie attività professionali, sottoponendole a differenti regimi quanto all’applicazione
nei confronti di esse delle norme sugli appalti pubblici. In particolare, è affermato testualmente che
esistono “taluni servizi legali che comportano la
rappresentanza dei clienti in procedimenti giudiziari da parte di avvocati … di solito prestati da organismi e persone selezionate secondo modalità che
non possono essere disciplinate da norme di aggiudicazione di appalti” (cfr. considerando 25).
Dunque, in senso innovativo rispetto al passato, ed
eliminando ogni dubbio in merito a quali attività
potessero essere ricondotte nel novero dei servizi
legali per la cui assegnazione fosse necessaria la gara, il legislatore comunitario prende in considerazione alcune prestazioni professionali escludendo
espressamente per esse l’applicazione della disciplina per gli appalti di servizi legali.
Tali prestazioni sono quelle rese in rappresentanza
legale dell’amministrazione:
bre 2013, n. 6198, in Foro Amm. CdS, 2013, 3463.
(18) G. Manfredi, Appunti sull’affidamento degli incarichi legali delle pubbliche amministrazioni:competenza, procedimento
e forma, in questa Rivista, 2013, 877 ss.
(19) Si veda Corte Conti, sez. controllo Basilicata, n.
19/2009/par, cit.
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- in un arbitrato o in una conciliazione tenuti in
uno Stato membro, un paese terzo o dinanzi a un’istanza arbitrale o conciliativa internazionale;
- in procedimenti giudiziari dinanzi a organi giurisdizionali o autorità pubbliche di uno Stato membro o un paese terzo o dinanzi a organi giurisdizionali o istituzioni internazionali.
Sono altresì escluse dall’applicazione delle disposizioni sugli appalti di servizi legali le prestazioni di
carattere occasionale o episodico di consulenza legale fornita in preparazione di uno dei procedimenti contenziosi sopra richiamati o qualora vi sia una
probabilità elevata che la questione su cui verte la
consulenza divenga oggetto dei suddetti procedimenti. Per queste tipologie di prestazioni professionali le uniche formalità da rispettare, dunque, rimangono quelle di cui si è trattato al precedente
paragrafo.
Inoltre, le norme individuano altri servizi legali
che dovranno ritenersi esclusi dall’applicazione
delle norme sugli appalti pubblici, come quelli prestati da soggetti designati da un organo giurisdizionale nello Stato membro per svolgere specifici
compiti sotto la vigilanza di detti organi giurisdizionali (si pensi ad esempio i CTU); ed ancora la
categoria non molto definita degli “altri servizi legali che, nello Stato membro, sono connessi, anche occasionalmente, all’esercizio dei pubblici poteri”.
Pertanto, alla luce della normativa in esame, per
quanto riguarda particolarmente le attività professionali rese da avvocati nei confronti delle amministrazioni, in linea con quanto affermato dalla
maggioritaria giurisprudenza amministrativa, rimangono attratte nella categoria dei servizi legali
tutte le attività che non si limitano al mero patrocinio o alla consulenza episodica dell’amministrazione, ma si configurino come forme organizzative
di un servizio più complesse e articolate che denotano l’inserimento del professionista, per quanto
transitoriamente, nella struttura organizzativa dell’ente.
La distinzione operata da parte della nuova disciplina, e il trattamento differenziato riconosciuto all’attività di difesa giudiziale e quella di consulenza
strettamente connessa a quest’ultima, dimostra la
particolare attenzione prestata per le istanze e gli
aspetti presi più volte in considerazione dalla giurisprudenza amministrativa per escludere la gara, come la fiduciarietà quale elemento essenziale ed
identificativo che caratterizza il rapporto tra parte
assistita e difensore.
Urbanistica e appalti 11/2014
Ed ancora, il legislatore comunitario dimostra una
particolare attenzione nei confronti delle caratteristiche del rapporto di patrocinio legale che difficilmente pare compatibile con le caratteristiche della
selezione per via della aleatorietà del giudizio, sia
dal punto di vista dei tempi, dell’iter di svolgimento che del risultato finale, e quindi dal punto di vista degli aspetti economici e sostanziali delle prestazioni professionali.
Si consideri, a titolo di esempio, a dimostrazione
della non compatibilità del modello concorsuale
per l’assegnazione degli incarichi di che trattasi,
un’amministrazione costretta a svolgere una selezione per individuare un professionista da nominare in un giudizio con oggetto l’impugnazione proprio di atti di una procedura di appalto, in questi
casi il rischio è che i tempi necessari per l’espletamento di tale nuova selezione (senza considerare
eventuali liti insorgenti da essa) porterebbero all’individuazione del professionista in una fase successiva a quella cautelare (che notoriamente è un
momento cruciale per tali contenziosi amministrativi), se non addirittura in un momento in cui la
controversia risulta conclusa.
Si aggiunge agli aspetti della fiduciarietà ed a quello temporale appena evidenziato, a dimostrazione
ancora della non compatibilità del modello concorsuale riconosciuta dal legislatore comunitario
per gli incarichi di patrocinio in giudizio, le concrete difficoltà insite nell’individuare degli adeguati criteri valutativi per la selezione del professionista cui assegnare il mandato.
È quantomeno dubbio che una selezione improntata sulla valutazione dei titoli (pubblicazioni scientifiche, incarichi accademici, master, dottorati di ricerca) consenta di individuare il professionista migliore degli altri per assumere la difesa dell’amministrazione in un certo tipo di giudizio. I titoli formativi e scientifici costituiscono sicuro indice di preparazione teorica e del livello di maturità scientifica, ma non anche indici di esperienza professionale
in un determinato settore che spesso è in possesso
di professionisti che non si sono mai dedicati all’accademia e/o che non mai dedicatisi a pubblicazioni scientifiche. La copiosa redazione di scritti
scientifici, corredata da un’intensa attività universitaria, potrebbe addirittura essere sintomatica di
una non elevata esperienza professionale, considerato come al giorno d’oggi, molto di più rispetto al
passato, sia difficile conciliare l’attività professionale con l’attività accademica e di studio.
Tuttavia, esclusa la possibilità di compiere una valutazione per titoli, rimane che l’esperienza profes-
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sionale e la competenza in determinati settori è
difficilmente documentabile ai fini selettivi, cosicché la prassi testimonia selezioni regolate dall’offerta del prezzo più basso, che pur raggiungendo il fine del massimo del risparmio per l’amministrazione
sono incapaci di selezionare la professionalità più
idonea perché non esistono criteri valutativi ulteriori rispetti a quelli meramente economici; oltre
al fatto che questi tipi di selezioni, specie quando
danno luogo a ribassi molto elevati, pongono diversi dubbi di compatibilità con i principi in tema
di prestazione d’opera professionale, in particolare
con il comma 2 dell’art. 2233 c.c. che impone che
la misura del compenso sia adeguata all’importanza
dell’opera e al decoro della professione.
In considerazione di quanto osservato, traendo le
conclusioni sul punto, non possono che ritenersi
opportune e da accogliere con favore le nuove norme che escludono l’applicabilità di meccanismi selettivi concorsuali all’assegnazione degli incarichi
alle liti o di episodica consulenza, al di là del fatto
che esse risolvono una delle questioni più attuali e
delicate ove si riscontano diverse difficoltà operative delle amministrazioni e sulla quale la stessa giurisprudenza ha assunto posizioni non univoche. Si
ritiene, inoltre, che tale esclusione trovi una condivisibile logica a livello di diritto comunitario, ovvero garantire la migliore tutela possibile del prestatore del servizio e del destinatario della stessa
prestazione; obiettivi che rientrano tra quelli ritenuti motivi imperativi di interesse pubblico in grado di giustificare una restrizione della libera prestazione dei servizi, come ripetutamente affermato
dalla giurisprudenza comunitaria (20).
(20) Ex multis, Corte Giust., 18 luglio 2007, n. 134, in Foro
Amm. CdS, 2007, 1992; Corte Giust., 5 dicembre 2006, cause
riunite 94 e 202, in www.eur-lex.europa.eu.
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Normativa
D.L. 90/2014
Le novità del D.L. 90/2014 in
materia di appalti
DECRETO LEGGE 24 giugno 2014, n. 90, convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1,
comma 1, legge 11 agosto 2014, n. 114
Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l'efficienza degli uffici giudiziari
Omissis.
Semplificazione degli oneri formali nelle procedure di
affidamento di contratti pubblici
di Sergio Foà
La nuova disciplina introduce una sanzione pecuniaria a carico dell’operatore economico in caso di mancanza, incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale “degli elementi e delle dichiarazioni sostitutive”
presentate, e la successiva possibilità di integrare o regolarizzare le dichiarazioni necessarie, indicandone
il contenuto e i soggetti, entro un termine massimo di dieci giorni, assegnato dalla stazione appaltante,
decorso il quale il concorrente viene escluso dalla gara. Nei casi di “irregolarità non essenziali”, ovvero di
mancanza o incompletezza di dichiarazioni “non indispensabili”, la stazione appaltante non ne richiede la
regolarizzazione e non applica alcuna sanzione. In via complementare e sistematica, la novella legislativa
ha modificato anche la disciplina del cosiddetto “soccorso istruttorio” di cui all’art. 46 del Codice.La disposizione, pur intuibile nell’intento perseguito, non chiarisce quando le irregolarità possano definirsi “essenziali”, né chiarisce quando le dichiarazioni possano considerarsi “non indispensabili”. L’imprecisione
lessicale del legislatore e il carattere laconico della disciplina ritagliano un ambito discrezionale di notevole ampiezza in capo alla stazione appaltante, che dispone della facoltà di consentire la regolarizzazione
della documentazione in luogo dell’esclusione dalla gara. Le scelte rimesse alla p.a. saranno sindacabili
sotto il profilo della ragionevolezza, in applicazione della perdurante tassatività delle cause di esclusione.
Novità sui requisiti di partecipazione:
elementi e dichiarazioni
L’art. 39 del D.L. n. 90 del 2014, convertito in
legge n. 114 del 2014, rubricato Semplificazione degli
oneri formali nella partecipazione a procedure di affidamento di contratti pubblici, interviene sulla disciplina
dell’attestazione dei requisiti di ordine generale necessari per la partecipazione alle procedure di affidamento dei contratti pubblici, integrando gli articoli 38 e 46 del codice dei contratti pubblici. La
disposizione è curiosamente collocata all’interno
del Capo I, dedicato al processo amministrativo,
auspicandone una efficacia deflattiva del contenzioso (1).
Il nuovo comma 2-bis dell’art. 38 del codice dei
contratti pubblici, così introdotto, prevede a carico
del concorrente una sanzione pecuniaria in caso di
mancanza, incompletezza e ogni altra irregolarità
essenziale “degli elementi e delle dichiarazioni sostitutive” presentate, e la successiva possibilità di
integrare o regolarizzare le dichiarazioni necessarie,
indicandone il contenuto e i soggetti, entro un termine massimo di dieci giorni, assegnato dalla stazione appaltante, decorso il quale il concorrente
viene escluso dalla gara.
(1) Su cui M. A. Sandulli, Il D.L. 24 giugno 2014 n. 90 e i
suoi effetti sulla giustizia amministrativa. Osservazioni a primissima lettura, in Federalismi, 2014.
Urbanistica e appalti 11/2014
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Appalti e lavori pubblici
Normativa
Nei casi di “irregolarità non essenziali”, ovvero
di mancanza o incompletezza di dichiarazioni “non
indispensabili”, la stazione appaltante non ne richiede la regolarizzazione e non applica alcuna sanzione.
La disposizione, pur intuibile nell’intento perseguito, non chiarisce quando le irregolarità possano
definirsi “essenziali”, laddove anzi i due termini accostati producono un ossimoro, né chiarisce quando le dichiarazioni possano considerarsi “non indispensabili”. L’imprecisione lessicale del legislatore
ed il carattere laconico della disciplina ritagliano
un ambito discrezionale di notevole ampiezza in
capo alla stazione appaltante, che dispone della facoltà di consentire la regolarizzazione della documentazione in luogo dell’esclusione dalla gara.
Nella prima fase applicativa della norma le amministrazioni aggiudicatrici sono chiamate ad uno
sforzo ricostruttivo delle varie ipotesi, inteso a ricondurre tra le dichiarazioni indispensabili tutte
quelle che illustrano il possesso di requisiti o attestano condizioni essenziali per la partecipazione alla gara.
Visto che il nuovo comma 2-bis dell’art. 38, cit.
è riferito alle dichiarazioni e agli elementi necessari
alla partecipazione alle gare, la sua interpretazione
deve essere armonizzata con quella complessivamente riferita allo stesso articolo. Tale disposizione
disciplina, come noto, le cosiddette “cause di esclusione” dalla partecipazione alle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti di lavori,
forniture e servizi, nonché per l’affidamento di subappalti, ossia i requisiti di ordine generale (cd.
“requisiti morali”) che devono possedere i soggetti
che devono stipulare i contratti con la pubblica
amministrazione (2). Il comma 1 elenca le cause di
esclusione dalle gare (3); il comma 2, prevede, che
il candidato o il concorrente debba attestare il possesso dei requisiti mediante dichiarazione sostituti-
In via complementare e sistematica, la novella
legislativa ha modificato anche la disciplina del cosiddetto “soccorso istruttorio” di cui all’art. 46 del
codice, in base al quale le stazioni appaltanti invitano, se necessario, i concorrenti a completare o a
fornire chiarimenti in ordine al contenuto dei certificati, documenti e dichiarazioni presentati nei limiti previsti dagli artt. da 38 a 45 del codice dei
contratti, sul possesso di requisiti di carattere generale e requisiti specifici (requisiti morali e di idoneità professionale, qualificazione per eseguire lavori pubblici, capacità economica, finanziaria, tecnica e professionale dei fornitori e dei prestatori di
servizi, garanzia della qualità, gestione ambientale,
ed elenchi ufficiali di fornitori o prestatori di servizi).
Ai sensi del comma 1-bis del citato art. 46, la
stazione appaltante esclude i candidati o i concorrenti in caso di mancato adempimento alle prescrizioni previste dal codice e dal relativo regolamento
e da altre disposizioni di legge vigenti, nonché nei
casi di incertezza assoluta sul contenuto o sulla pro-
(2) Con riferimento all’art. 38 del D.Lgs. n. 163 del 2006,
cit., cfr. G. Bergonzini, I requisiti di partecipazione agli appalti
pubblici di lavori, servizi e forniture, in R. Villata, M. Bertolissi,
V. Domenichelli, G. Sala (a cura di), I contratti pubblici di lavori,
servizi e forniture, Padova, 2014, vol. I, 299 ss.; H. Garuzzo, Requisiti di ordine generale, in G. F. Ferrari - G. Morbidelli (diretto
da), Commentario al codice dei contratti pubblici, Milano, 2013,
Vol. I, 527 ss.; G. Manfredi, Moralità professionale nelle procedure di affidamento e certezza del diritto, in questa Rivista,
2010, 508 ss.; R. Greco, I requisiti di ordine generale, in M. A.
Sandulli, R. De Nictolis, R. Garofoli (a cura di), Trattato dei contratti pubblici, Milano, 2008, vol. II, 1267 ss.
(3) Tra le quali rilevano: fallimento, liquidazione coatta, concordato preventivo, misure di prevenzione antimafia, sentenze
di condanna per reati che incidono sulla moralità professionale
e reati di partecipazione ad un'organizzazione criminale, corruzione, frode, riciclaggio, divieto di intestazione fiduciaria, irre-
golarità fiscali e contributive, falsa dichiarazione o falsa documentazione in merito a specifici requisiti e condizioni rilevanti
per la partecipazione a procedure di gara e per l’affidamento
dei subappalti, sospensione o revoca dell'attestazione SOA,
omessa denuncia dei reati di concussione ed estorsione, rapporti di controllo e collegamento sostanziale.
(4) Per una critica alla previsione in esame, M. Lipari, L'efficienza della P.A. e le nuove norme sul processo amministrativo,
in www.giustamm.it, 2014, secondo il quale tale previsione
“seppure finalizzata a velocizzare le operazioni di gara e, soprattutto, a impedire che si possa contestare l'ammissione o
l'esclusione di un soggetto terzo, ai fini del solo calcolo della
soglia di anomalia, non convince pienamente, perché potrebbe determinare la patologia opposta, consentendo una preventiva influenza sul procedimento di gara, al prezzo di sole sanzioni pecuniarie, mediante la domanda di partecipazione di
soggetti sicuramente disinteressati”.
1148
va in conformità alle previsioni del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa, di cui al
D.P.R. n. 445 del 2000, in cui indica tutte le condanne penali riportate, ivi comprese quelle per le
quali abbia beneficiato della non menzione.
Il nuovo comma 2-bis dell’art. 38 del codice dispone, infine, che ogni variazione che intervenga,
anche in conseguenza di una pronuncia giurisdizionale, successivamente alla fase di ammissione, regolarizzazione o esclusione delle offerte, non rileva
ai fini del calcolo di medie nella procedura, né per
l’individuazione della soglia di anomalia delle offerte medesime (4).
Novità sul soccorso istruttorio
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Normativa
venienza dell’offerta, per difetto di sottoscrizione o
di altri elementi essenziali ovvero in caso di non
integrità del plico contenente l'offerta o la domanda di partecipazione o altre irregolarità relative alla
chiusura dei plichi, tali da far ritenere, secondo le
circostanze concrete, che sia stato violato il principio di segretezza delle offerte. La norma specifica
inoltre che i bandi e le lettere di invito non possono contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione e comunque dette prescrizioni sono nulle.
In disparte gli orientamenti giurisprudenziali, sui
quali si tornerà, l’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici ha già chiarito che la cd. regolarizzazione non può in alcun caso essere riferita agli elementi essenziali della domanda o dell’offerta e non
deve essere consentita nell’ipotesi di documentazione del tutto assente; diversamente, si realizzerebbe un’alterazione degli elementi essenziali dell’offerta, che devono essere sempre presenti ab origine,
ed una lesione del carattere perentorio del termine
per la presentazione dell’offerta stessa” (5).
Su tale impianto normativo è appunto intervenuta la novella in commento: introducendo il
comma 1-ter nel corpo dell’art. 46 del codice, ha
esteso l’applicazione delle disposizioni contenute
nel nuovo comma 2-bis dell’art. 38 del codice, sulle
irregolarità essenziali (e non), sul relativo regime
sanzionatorio e sul procedimento rimediale, ad
ogni ipotesi di mancanza, incompletezza o irregolarità delle dichiarazioni, anche di soggetti terzi, che
devono essere prodotte dai concorrenti in base alla
legge, al bando o al disciplinare di gara.
Le norme così introdotte, e dunque le correlate
modifiche degli artt. 38 e 46 del codice, si applica-
Il ruolo così riconosciuto alla stazione appaltante
impone una riflessione sui rapporti intercorrenti
tra cause di esclusione legali, previsioni della lex
specialis e soccorso istruttorio, non pacificamente
individuati nemmeno dopo i recenti interventi dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (7).
La ricostruzione prospettata dall’Adunanza Plenaria si fonda sulla distinzione tra integrazione documentale e regolarizzazione. La prima si sostanzia
nella facoltà di produzione di documenti interamente omessi, mentre la seconda consiste nella sola possibilità di correggere refusi, specificare parti
incomplete del documento, fornire chiarimenti in
ordine al contenuto o alla portata degli stessi. Secondo la giurisprudenza prevalente soltanto la richiesta di regolarizzazione sarebbe conforme al
principio di parità di trattamento e di autoresponsabilità degli operatori economici e sarebbe per vero soltanto essa conforme alla lettera dell’art. 46
D.Lgs. n. 163 del 2006, che stabilisce che “nei limiti previsti dagli articoli da 38 a 45, le stazioni
appaltanti invitano, se necessario, i concorrenti a
completare o a fornire chiarimenti in ordine al
contenuto dei certificati, documenti e dichiarazioni presentati” (8). Tale disposizione impone di
(5) AVCP, determinazione n. 4 del 2012.
(6) R. De Nictolis, Le novità dell'estate 2014 in materia di
contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, in Federalismi, 2014, avrebbe preferito estendere la nuova disciplina anche alle gare in corso, che non fossero giunte alla fase di verifica della completezza delle produzioni documentali. P. Provenzano, Brevi riflessioni a margine della disciplina sugli oneri
dichiarativi ex art. 38 D.Lgs. 163/2006 contenuta nell'art. 39 del
D.L. n. 90/2014, in Giustamm. 2014, teme che una lettura della
norma come innovativa e non confermativa possa sortire effetti paradossali sul contenzioso in corso, consentendo ai fautori
dell'interpretazione formalistica di trarre dalla nuova disciplina
argomenti a sostegno della correttezza della lettura dell'art. 38
da essi finora operata.
(7) Cons. Stato, Ad. Plen., 25 febbraio 2014, n. 9; successivamente Cons. Stato, sez. VI, 14 luglio 2014, n. 3663, secondo
cui la norma sul soccorso istruttorio (art. 46 del D.Lgs. n. 163
del 2006) deve essere intesa, alla luce di quanto affermato con
la sentenza n. 9 del 2014 dall'Adunanza Plenaria del Consiglio
di Stato, nel senso che occorre tenere separati i concetti di regolarizzazione documentale e di integrazione documentale: la
prima, consistendo nel "completare dichiarazioni o documenti
già presentati" dall'operatore economico, è ammessa, per i soli
requisiti generali, al fine di assicurare, evitando inutili formalismi, il principio della massima partecipazione; la seconda,
consistendo nell'introdurre nel procedimento nuovi documenti,
è vietata per garantire il principio della parità di trattamento.
La distinzione è superabile in presenza di "clausole ambigue"
che autorizzano il soccorso istruttorio anche mediante integrazione documentale. Pertanto, le prescrizioni contenute nel
bando di gara che contengono clausole contrarie alla suddetta
norma imperativa, così come interpretata, devono ritenersi
nulle. Esse, infatti, si risolverebbero nella previsione di una
causa di esclusione non consentita dalla legge. Cons. Stato,
Ad. Plen., 30 luglio 2014, n. 16, ha affermato che la dichiarazione resa da uno dei componenti del consiglio di amministrazione, ai sensi del D.P.R. n. 445 del 2000 di insussistenza delle
condizioni ostative previste dall’art. 38 D.Lgs. n.163 del 2006
“non deve contenere la menzione nominativa di tutti i soggetti
muniti di poteri rappresentativi dell’impresa, quando questi ultimi possano essere agevolmente identificati mediante l’accesso a banche dati ufficiali o a registri pubblici”. La presenza di
una dichiarazione sostitutiva così resa, ha puntualizzato l’Adunanza Plenaria, “non necessita di integrazioni o regolarizzazioni mediante l’uso dei poteri di soccorso istruttorio”.
(8) Cons. Stato, sez. V, 11 gennaio 2011, n. 78; Cons. Stato,
Urbanistica e appalti 11/2014
no, per espressa previsione della novella, alle procedure di affidamento indette successivamente all’entrata in vigore del presente articolo (6). Tali disposizioni, infatti, richiedono che sia il bando di
gara a determinare la sanzione pecuniaria da applicare al concorrente che incorra in irregolarità essenziali e sanabili delle dichiarazioni sostitutive.
Lo stato dell’arte secondo la giurisprudenza
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Appalti e lavori pubblici
Normativa
mantenere fermi i limiti previsti dagli artt. da 38 a
45 (così indicando che l’integrale inadempimento
agli oneri imposti dagli stessi non può essere sanato, sicché l’esclusione discenderebbe automaticamente dalla legge), consentendo soltanto un completamento o una chiarificazione dei documenti
presentati.
Il dovere di soccorso istruttorio a fronte di omissioni documentali potrebbe riconoscersi sussistente
soltanto nel caso eccezionale in cui l’omissione sia
ingenerata da un comportamento della stessa stazione appaltante che sia ambigua nel formulare la
legge di gara o che comunque non espliciti con sufficiente chiarezza quali adempimenti formali siano
necessari per l’ammissione alla procedura (9). Proprio a tal fine la nuova disciplina qui in esame impone alla stazione appaltante una pubblicità iniziale che individui le “dichiarazioni indispensabili”,
per la dimostrazione del possesso di requisiti o attestanti condizioni essenziali per la partecipazione alla gara.
Altro orientamento della giurisprudenza, anche
del Consiglio di Stato, mira a garantire una maggiore partecipazione alle gare a soggetti sostanzialmente in possesso dei requisiti di ammissione, nonostante la documentazione da essi presentata sia
caratterizzata da lacune più gravi del mero refuso o
imprecisione (10).
Il fondamento di tali impostazioni riferisce alla
materia amministrativa la categoria penale del cd.
“falso innocuo”, considerato che l’offensività dei
reati di falso non è riferibile al solo bene giuridico
della pubblica fede, ma anche rispetto alla possibilità di ledere gli interessi tutelati dalla integrità dei
mezzi probatori oggetto di aggressione e che costituiscono l’oggetto finale di tutela (11).
Il falso inoffensivo può essere grossolano quando
l'alterazione, pur presente, è talmente abnorme che
la falsità del documento risulta in modo evidente a
chiunque, sicché non è idonea a trarre in inganno
nessuno e pertanto nemmeno a mettere in pericolo
il bene della fede pubblica. Il falso è invece defini-
to inutile quando la falsificazione riguarda una parte del documento che non ha alcun rilievo probatorio: il documento ha uno scopo attestativo e nel
falso inutile la parte falsificata è parte estranea a
tale scopo. Infine con il termine falso innocuo si fa
riferimento al falso che, pur potenzialmente e in
astratto non inutile perché incidente proprio sulla
parte del documento utile ai fini probatori, in concreto – e in ragione di fattori estranei alla falsificazione stessa – non può raggiungere l'effetto di compromissione degli ulteriori beni giuridici che la punizione della falsificazione mira a proteggere (12).
L'applicazione della teoria del falso innocuo alla
disciplina di gara è ipotizzabile nei casi in cui la
falsità in cui incorre il documento si accompagni
al possesso sostanziale dei requisiti che le norme in
materia richiedono ai concorrenti per poter contrattare con la p.a.: in tale caso, perciò, la falsità
non sarebbe suscettibile di ledere l'interesse finale
protetto dalla norma, ovvero l'esclusione dalle
competizioni di soggetti immeritevoli (13).
La giurisprudenza amministrativa riconduce la
nozione del falso innocuo ai casi di documentazione omessa, e dunque al falso cd. omissivo, con applicazione evidentemente diversa rispetto al diritto
penale.
Una parte della giurisprudenza del Consiglio di
Stato ha così trovato nella teoria in esame un riferimento per riconoscere maggiore ampiezza al soccorso istruttorio: per il suo tramite, infatti, potrebbe ritenersi esperibile il potere/dovere di soccorso
in tutti quei casi in cui pur a fronte di un’omissione (e non solo di una irregolarità) sia indubbia la
sussistenza effettiva del requisito che il documento
mirava ad attestare.
L'adesione alla teoria del falso innocuo è rimasta
minoritaria in giurisprudenza, in quanto “nelle procedure di evidenza pubblica la completezza delle
dichiarazioni, invece, è già di per sé un valore da
perseguire perché consente – anche in ossequio al
principio di buon andamento dell'amministrazione
e di proporzionalità – la celere decisione in ordine
sez. III, 14 dicembre 2011, n. 6569; Cons. Stato, sez. III, 16
marzo 2012, n. 1471.
(9) Cons. Stato, sez, III, 4 febbraio 2014, n. 507; Cons. Stato, sez. V, 11 gennaio 2011, n. 78; Cons. Stato, sez. III, 14 novembre 2012, n. 5758; Cons. Stato, sez. V, 24 ottobre 2013, n.
5155.
(10) Cons. Stato, sez. V, 13 febbraio 2009, n. 829; Cons.
Stato, sez. VI, 22 febbraio 2010, n. 1017; Cons. Stato, sez. V,
24 novembre 2011, n. 6240; Cons. Stato, sez. VI, 4 agosto
2009, n. 4906.
(11) G. Cocco, Il falso bene giuridico della fede pubblica, in
Riv. It. Dir. e Proc. Pen. 2010, 1, 68.
(12) Sul tema del falso inoffensivo, in generale, cfr. G. Fiandaca - E. Musco, Diritto penale - parte speciale, 555 ss.; R. Giovagnoli, Studi di diritto penale, parte generale, Milano, 2008,
1038 ss.; R. Garofoli, Manuale di diritto penale, Parte generale,
Roma, 2013, 631 ss.
(13) Cfr. L. Ieva, Le "falsità" amministrative irrilevanti nelle
procedure di gara, in questa Rivista, 2010, 1325 ss.; A. Larussa, Dal settore penale a quello amministrativo: la rilevanza del
falso innocuo nell'ordinamento giuridico, in www.giustamm.it;
E. Munno, L'ambito di applicazione dell'art. 38 del D.Lgs. n.
163/2006: il recente orientamento del Consiglio di Stato, in
Nuova Giur. Civ., 2011, 638 ss.
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Urbanistica e appalti 11/2014
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all'ammissione dell'operatore economico alla gara” (14). Tale lettura è focalizzata sulla tutela dell’interesse della pubblica amministrazione a fare legittimo affidamento sulla correttezza e completezza
delle dichiarazioni rese (15).
Con l’Ad. Plen. n. 9 del 2014, il Consiglio di
Stato ha ritenuto effettuato a monte dal legislatore
il vaglio circa la meritevolezza della sanzione dell’esclusione a fronte dello specifico inadempimento: tale sarebbe l’unico profilo di interazione tra la
disciplina sulla tassatività delle cause di esclusione
e il soccorso istruttorio.
La pronuncia è invero laconica sul punto e ha
lasciato inesplorati alcuni profili sul rapporto tra i
due istituti. La nuova norma, qui in esame, testimonia la necessità di un ulteriore sforzo di chiarificazione riguardo alla rilevanza degli oneri documentali e dichiarativi gravanti sugli operatori economici. Tale sforzo è accollato alla stazione appaltante, probabilmente in via ricognitiva della interpretazione giurisprudenziale formatasi sulle previgenti disposizioni di legge. Nello stesso tempo, il
bando di gara viene “rivitalizzato” perché le indicazioni della stazione appaltante sulle irregolarità sanabili accedono all’avvio di un procedimento sanzionatorio di carattere innovativo, che si aggiunge
al classico soccorso istruttorio.
Rafforzamento del ruolo del bando
Fin dall’introduzione della tassatività delle cause
di esclusione il dovere di soccorso (nella richiamata accezione di strumento di regolarizzazione e non
di integrazione documentale) è limitato ai casi in
cui l'adempimento omesso sia richiesto dalla legge
a pena di esclusione, dovendosi ritenere ragionevolmente che in ogni altro caso non potrà mai far
seguito all’inadempimento l’esclusione dalla gara (16).
(14) Cons. Stato, sez. III, 16 marzo 2012, n. 1471; Cons.
Stato, sez. VI, 8 luglio 2010, n. 4436; Cons. Stato, sez. VI, 3
settembre 2013, n. 4392; Cons. Stato, sez. VI, 11 aprile 2014,
n. 1771.
(15) Cass. pen., Sez. Un., 16 febbraio 2009, n. 6591, in
Cass. Pen., 2009, 6, 2323, ha affermato che il falso non può
dirsi innocuo in caso di dichiarazione mendace perché, benché
il soggetto si trovi effettivamente nelle condizioni di reddito
per accedere al beneficio del patrocinio a spese dello Stato,
occorre considerare come bene giuridico tutelato (e leso) altresì quello all’affidamento che il giudice possa riporre nel documento, necessario alla pronta decisione della questione che
può basarsi anche unicamente sulle dichiarazioni della parte.
(16) Cons. Stato, Ad. Plen. n. 9 del 2014, cit., par. 7.3: “L’innovativa novella al codice dei contratti pubblici, ha ridotto dra-
Urbanistica e appalti 11/2014
L’interpretazione rigorosa offerta dalla giurisprudenza evita di gravare la pubblica Amministrazione
dell’onere di verificare sempre la sussistenza dei requisiti sostanziali, indipendentemente dalla omissione di prova da parte delle partecipanti o anche
indipendentemente dalla stessa falsità nelle dichiarazioni. La stessa interpretazione fatica tuttavia a
conciliarsi con le istanze sostanzialistiche intese a
favorire la massima partecipazione alle gare.
Nella interpretazione giurisprudenziale prevalente la causa escludente opera ex lege, anche se il
bando non la prevede: tale lettura sminuiva il ruolo della lex specialis e accollava agli operatori economici un difficile onere ricostruttivo. In quest’ottica parte della giurisprudenza aveva ritenuto illegittima l’esclusione di una concorrente nei casi in
cui essa avesse diligentemente adempiuto alle prescrizioni del bando che non risultavano però esaustive rispetto alla disciplina legale: in tali ipotesi
infatti incomberebbe alla p.a. il dovere di richiedere l’integrazione documentale, in omaggio a principi di affidamento e leale collaborazione e considerando che non può ritenersi lesa la par condicio quando l’inadempimento deriva appunto da
una imprecisione del bando (17).
La novella in esame rafforza tale ruolo della stazione appaltante, arricchendo il contenuto chiarificatore della lex specialis sugli oneri documentali e
sulla relativa rilevanza.
Le direttive europee (2004 e 2014) : tra
rinvii pregiudiziali e interpretazioni
conformi
La disciplina in esame pare altresì recepire
un’interpretazione europea sulle cause di esclusione, fondata sul tenore delle direttive appalti, che
nel 2014 confermano le previsioni di quelle del decennio antecedente.
sticamente la discrezionalità della stazione appaltante nella cd.
(auto)regolamentazione del soccorso istruttorio, atteso che
l’Amministrazione ha perso la facoltà di inserire nel bando, al
di fuori della legge, la previsione che un determinato adempimento sostanziale, formale o documentale sia richiesto a pena
di esclusione”.
(17) Cons. Stato, sez. VI, 1° febbraio 2013, n. 634: “È vero
che, a norma dell'art. 1-bis del citato art. 46 del D.Lgs. n.
163/2006, nel testo introdotto dal D.L. n. 70/2011, detta esclusione appare comunque connessa all'inosservanza di disposizioni, che impongano adempimenti doverosi o contengano divieti, pur senza espressa sanzione di esclusione: quanto sopra,
tuttavia, in un quadro che escluda ogni incertezza interpretativa e sia riconducibile ad espressioni non equivoche del bando”.
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Normativa
In alcuni casi il giudice amministrativo ha provato a conformare l’interpretazione delle norme interne alle indicazioni sovranazionali, anche in caso
di omessa dichiarazione prevista dall’art. 38 comma
1, lett. b) e c). In caso di omissione da parte del direttore tecnico dell’impresa di tali dichiarazioni, il
TAR Lombardia ha sostenuto l’illegittimità del
provvedimento di esclusione senza previo esperimento soccorso istruttorio, nonostante fosse stata
acclarata, mediante prova fornita dall’impresa, l’assoluta insussistenza di condanne. Mentre il Consiglio di Stato ha ribadito la preminenza delle esigenze di tutela della par condicio e della imperatività della legge di gara, il TAR in sede di ottemperanza ha invece ritenuto di dover disporre rinvio
pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione Europea (18), onde richiedere una interpretazione
dell’art. 45 della direttiva 2004/18/CE, per vagliare
la compatibilità con essa della disciplina interna in
materia di requisiti soggettivi di accesso alle gare (19).
La norma europea riconosce alle Amministrazioni procedenti poteri istruttori ampi e innominati,
compresa la possibilità di richiedere informazioni e
di chiedere la produzione stessa dei documenti necessari a comprovare la situazione personale del
concorrente ai fini di accedere alla contrattazione
con la p.a.
Contrariamente all’impostazione europea, tipicamente coerente con i principi di effettività ed efficienza e con l’assenza di formalismo che caratterizzano la legislazione in materia di concorrenza, il
giudice italiano rileva come l’art. 38 non solo non
contenga formulazioni simili, ma sia costantemente
interpretato dalla giurisprudenza interna (nel combinato disposto con l’art. 46) in modo tale che
omissioni anche meramente formali possono legittimamente escludere dalla gara concorrenti sostanzialmente idonei a contrattare con la p.a.
A tale impostazione infatti la giurisprudenza del
Consiglio di Stato accede in modo quasi univoco,
come si è visto, essendo anche i tentativi di apertura offerti da alcune pronunce insoddisfacenti a
garantire il superamento dei formalismi. Anche la
teoria del falso innocuo non appare idonea a evitare che la stazione appaltante sia libera di escludere
i partecipanti per omissioni meramente formali
laddove previste espressamente come escludenti
nel bando.
Ancorché il principio di tassatività delle cause
di esclusione limiti la discrezionalità dell’Amministrazione, che autonomamente non può più prevedere adempimenti meramente formali a pena di
esclusione, si è visto che la portata della norma è
lungi dall’essere univocamente intesa, sicché la L.
n. 114 del 2014 ha ritenuto doveroso che la stazione appaltante chiarisca fin dall’inizio agli operatori
economici quali oneri documentali sono essenziali
e quali dichiarazioni sono indispensabili.
Su un caso analogo a quello per cui il TAR
Lombardia ha chiesto lumi al Giudice dell’Unione
europea, il Consiglio di Stato ha viceversa ritenuto
“chiara” la materia, ritenendo che in caso di dichiarazioni incomplete in sede di partecipazione alla gara, la stazione appaltante non può ricorrere al
cd. soccorso istruttorio, che è volto a chiarire e
completare dichiarazioni, certificati o documenti
comunque già esistenti, a rettificare errori materiali
o refusi, ma non certo a consentire integrazioni o
modifiche della domanda (20). Il cd. “soccorso
istruttorio” sovviene quando la p.a. ha la disponibilità di intervenire su elementi e dati comunque forniti anche parzialmente e non invece quando non
c’è alcunché su cui intervenire ab initio e quindi in
presenza di dati per nulla conosciuti dalla stazione
appaltante perché omessi (nella specie, era stata
omessa la dichiarazione sulle precedenti condanne
penali del rappresentante legale dell’impresa concorrente e non poteva quindi essere sanata o rego-
(18) T.A.R. Lombardia, 15 gennaio 2013, ord. di rinvio pregiudiziale n. 123, su cui S. Foà, Rinvio pregiudiziale accelerato
del T.A.R. per ‘‘disapplicare’’ il giudicato del Consiglio di Stato,
in Giur. It., 2013, n. 6, 1432 ss.; Id., Le nuove frontiere del rinvio
pregiudiziale alla Corte di Giustizia. Il rinvio accelerato del T.A.R.
per “disapplicare” il giudicato del Consiglio di Stato, in Federalismi, 2013, n. 10; P. Provenzano, La teoria del “ falso innocuo ”
in materia di dichiarazioni ex art. 38 D.Lgs. n. 136/2006 al vaglio
della Corte di giustizia, in Riv. It. Dir. Pubb. Com., 2013, 234.
(19) Art. 45 dir. 2004/18/CE: Situazione personale del candidato o dell'offerente: “1. È escluso dalla partecipazione ad un
appalto pubblico il candidato o l’offerente condannato, con
sentenza definitiva di cui l'amministrazione aggiudicatrice è a
conoscenza; per una o più delle ragioni elencate qui di seguito: [...] Ai fini dell'applicazione del presente paragrafo, le amministrazioni aggiudicatrici chiedono, se del caso, ai candidati
o agli offerenti di fornire i documenti di cui al paragrafo 3 e,
qualora abbiano dubbi sulla situazione personale di tali candidati/offerenti, possono rivolgersi alle autorità competenti per
ottenere le informazioni relative alla situazione personale dei
candidati o offerenti che reputino necessarie. Se le informazioni riguardano un candidato o un offerente stabilito in uno Stato membro diverso da quello dell'amministrazione aggiudicatrice, quest'ultima può richiedere la cooperazione delle autorità
competenti. In funzione del diritto nazionale dello Stato membro in cui sono stabiliti i candidati o gli offerenti, le richieste riguarderanno le persone giuridiche e/o le persone fisiche, compresi, se del caso, i dirigenti delle imprese o qualsiasi persona
che eserciti il potere di rappresentanza, di decisione o di controllo del candidato o dell'offerente”.
(20) Cons. Stato, sez. III, 8 settembre 2014, n. 4543.
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Urbanistica e appalti 11/2014
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larizzata o integrata in concreto con la produzione
ex novo di dichiarazione o certificazione dall’inizio
mancante, rientrando fra i cd. adempimenti doverosi imposti comunque dalla norma e dal disciplinare, e anche a prescindere dalla previsione della
disciplina di gara e da ogni visione “sostanzialistica” di tali adempimenti).
Con particolare riguardo al tema di dichiarazioni
sulla cd. moralità professionale, l’Adunanza Plenaria ha così negato il rinvio pregiudiziale alla Corte
di giustizia di interpretazione dell’art. 38, comma
1, lett. b e c) del codice in rapporto all'art. 45 direttiva 2004/18/CE, in merito alla rilevanza o meno del reato ai fini dell’obbligo dichiarativo in capo all’operatore economico (21), non sussistendo
“ragionevoli dubbi interpretativi” sulla corretta soluzione da dare e data alla questione sollevata (22).
Le disposizioni del codice sono espressive di
principi generali anche di derivazione europea e
possono trovare, ai fini dell’ampiezza applicativa, la
ratio nella tutela di valori immanenti al sistema
della contrattualistica pubblica. La stessa Adunanza Plenaria ritiene che anche la direttiva europea
sugli appalti pubblici n. 24 del 26 febbraio 2014,
non ancora recepita in Italia, impedisce la produzione di dichiarazioni che omettano tutte le informazioni indispensabili ad eseguire le verifiche di
ufficio sulla loro veridicità e preclude l’esercizio del
potere istruttorio.
In effetti le norme comunitarie tendono sì a
semplificare e ad accelerare i procedimenti, ma
non ad eliminare il sistema di attestazione dell’insussistenza delle situazioni ostative quale prova preliminare sostitutiva di certificazioni, che nella direttiva n. 24/2014 vengono ridotte ad un’unica
autodichiarazione (23).
La nuova direttiva appalti prevede innanzitutto
che l’autodichiarazione di possesso dei requisiti
soggettivi di ammissione avverrà tramite un formulario denominato Documento di Gara Unico Europeo (DGUE), di semplice compilazione e che non
dovrà essere accompagnato dalla presentazione delle dichiarazioni e dei certificati (24). La presentazione della documentazione probante sarà richiesta
solo all’aggiudicataria, salva la possibilità conferita
dal par. 4 alle Amministrazioni di “chiedere a offerenti e candidati, in qualsiasi momento nel corso
della procedura, di presentare tutti i documenti
complementari o parte di essi, qualora questo sia
necessario per assicurare il corretto svolgimento
della procedura”.
L’interazione tra oneri istruttori della stazione
appaltante e possibilità per le imprese di provare
con ogni mezzo l’insussistenza di una causa ostativa
sembrano confermare la visione della disciplina europea come maggiormente sostanzialista e improntata alla massima collaborazione, semplificata appunto da strumenti come il DGUE e le banche dati (25).
Rispetto alla compatibilità del sistema interno
in materia di soccorso istruttorio con quello europeo scaturente dalle nuove direttive, significativo
risulta l’inciso iniziale dell’art. 57: “le amministrazioni aggiudicatrici escludono un operatore economico dalla partecipazione a una procedura d'appalto qualora abbiano stabilito attraverso una verifica
ai sensi degli artt. 59, 60 e 61 o siano a conoscenza
in altro modo del fatto che tale operatore economico è stato condannato con sentenza definitiva
per uno dei seguenti motivi [...]”, che collega l’esclusione soltanto ad una attiva verifica di sussi-
(21) Per giurisprudenza costante è compito dell’Amministrazione valutare la gravità o meno del reato, che può essere
accertato con qualsiasi mezzo di prova, e quindi l’incidenza
sulla moralità professionale, e non di certo al concorrente, che
non può quindi operare alcun proprio “filtro” in sede di domanda di partecipazione e quindi di dichiarazione in proposito.
Quindi non sussisterebbero i presupposti per rimettere alla
Corte di giustizia UE la questione pregiudiziale al momento
che l’obbligo del rinvio alla Corte di giustizia richiede una valutazione di compatibilità che spetta anche al Consiglio di Stato,
quale giudice nazionale di ultima istanza (cfr., Cons. Stato, sez.
VI n. 6553/2010 e 693/2014; sez. III, nn. 4428/2013, 34753481/2014; sez. IV, n. 1423/2014; sez. V, n. 3474/2012).
(22) Sui presupposti per il rinvio pregiudiziale, S. Foà, Giustizia amministrativa e pregiudizialità costituzionale, comunitaria
e internazionale. I confini dell’interpretazione conforme, Napoli,
2011; ID., Giustizia amministrativa atipicità delle azioni ed effettività della tutela, Napoli, 2012, 182 ss. Cfr. Corte giust. UE, 6 ottobre 1982, C-283/81; Cons. Stato, sez. VI, nn. 896 e
1810/2011; Id., sez. III, nn. 3475-3481/2014.
(23) C. E. Gallo (a cura di), Autorità e consenso nei contratti
pubblici alla luce delle direttive 2014, Torino, 2014.
(24) Art. 59 direttiva 2014/24/UE: “[...] Il DGUE consiste in
una dichiarazione formale da parte dell'operatore economico,
in cui si attesta che il pertinente motivo di esclusione non si
applica e/o che il pertinente criterio di selezione è soddisfatto,
e fornisce le informazioni rilevanti come richiesto dall'amministrazione aggiudicatrice. Il DGUE indica inoltre l'autorità pubblica o il terzo responsabile per determinare il documento
complementare e include una dichiarazione formale secondo
cui l'operatore economico sarà in grado, su richiesta e senza
indugio, di fornire tali documenti complementari”.
(25) E-Certis in materia comunitaria, che per vero si presenta maggiormente come piattaforma per lo scambio di informazioni ma che funziona anche come collegamento alle banche
dati dei vari paesi membri. Art. 59 par. 6: “Gli Stati membri
mettono a disposizione e aggiornano su e-Certis un elenco
completo di banche dati contenenti informazioni pertinenti sugli operatori economici che possono essere consultate dalle
amministrazioni aggiudicatrici di altri Stati membri. Su richiesta, gli Stati membri comunicano agli altri Stati membri le informazioni relative alle banche dati di cui al presente articolo”.
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stenza di un motivo ostativo all’ammissione alla
gara.
Comprendere se le nuove direttive possano incidere sulla disciplina interna del soccorso istruttorio
è certamente complesso, in ragione della differente
impostazione della disciplina europea rispetto a
quella interna (26). Sul punto potrà forse esprimersi la stessa Corte di giustizia nel rispondere alla
questione pregiudiziale di cui si è fatta menzione.
Nel frattempo il Consiglio di Stato ha ritenuto di
confermare il proprio precedentemente orientamento elevandolo ad interpretazione conforme alla
sopravvenuta normativa europea.
Le applicazioni della nuova disciplina
“anticipate” dal Consiglio di Stato
Per ora, il Consiglio di Stato ha indicato qualche esempio di irregolarità e omissioni meramente
formali delle dichiarazioni rese, quindi ritenute
“non essenziali” secondo la novella in esame.
Con la pronuncia dell’Ad. Plen. n. 16 del 2014,
ha affermato che la dichiarazione resa da uno dei
componenti del consiglio di amministrazione, ai
sensi del D.P.R. n. 445 del 2000 di insussistenza
delle condizioni ostative previste dall’art. 38 del
codice “non deve contenere la menzione nominativa di tutti i soggetti muniti di poteri rappresentativi dell’impresa, quando questi ultimi possano essere
agevolmente identificati mediante l’accesso a banche dati ufficiali o a registri pubblici”. La presenza
di una dichiarazione sostitutiva così resa, ha puntualizzato l’Adunanza Plenaria, “non necessita di
integrazioni o regolarizzazioni mediante l’uso dei
poteri di soccorso istruttorio”.
La stessa Adunanza Plenaria ha ricondotto
espressamente tale interpretazione, basata su criteri
non formalistici, alla previsione qui in esame (allora nel testo del D.L. 24 giugno 2014, n. 90) per le
gare indette successivamente alla sua entrata in vi(26) Sul fronte interno, la semplificazione nella produzione
documentale dovrebbe conseguire all’attivazione della Banca
Dati Nazionale dei Contratti Pubblici preso l’AVCP prevista dall’art. 44 del D.Lgs. n. 235 del 2010, destinata a raccogliere
non solo i dati in possesso dell’Autorità (art. 7, comma 4, lett.
a), ma anche le informazioni riguardanti i requisiti soggettivi di
ammissione delle imprese. Il D.L. n. 5 del 2012 ha implementato lo strumento prevedendo l’obbligatorietà per le imprese di
inserire nella Banca i dati relativi ai requisiti di carattere generale, tecnico-organizzativo ed economico-finanziario e il complementare obbligo per le Stazioni Appaltanti di verificare il
possesso degli stessi esclusivamente tramite la Banca Dati
Nazionale, tramite il sistema AVCPass. Il termine inizialmente
previsto per l’avvio definitivo del sistema (1° gennaio 2013) è
stato posticipato dalla L. n. 15/2014 di conversione del cd.
1154
gore. La nuova disposizione prevede che persino la
mancanza, l’incompletezza e ogni altra irregolarità
essenziale delle dichiarazioni sostitutive, pur comportando l’obbligo di pagare una sanzione pecuniaria, impone alla stazione appaltante l’esercizio dei
poteri di soccorso istruttorio mediante l’assegnazione di un termine perentorio per la integrazione o
regolarizzazione. L’esclusione è prevista soltanto
nel caso in cui il concorrente non adempia nel termine assegnato.
Più di recente, il Consiglio di Stato ha affrontato il caso in cui il rappresentante legale dell’impresa non ha espressamente affermato che gli altri
componenti del consiglio di amministrazione non
avevano pregiudizi penali. Anche in tal caso, seguendo l’interpretazione confermata dal legislatore,
il giudice amministrativo ha ritenuto la dichiarazione conforme alle prescrizioni legali, per le seguenti ragioni: perché la dichiarazione – resa dal
Presidente del Consiglio di amministrazione, con
funzioni di rappresentante legale – presentava un
contenuto complessivo riferito all’ente; perché i
dati identificativi degli amministratori risultavano
facilmente desumibili dal registro delle imprese;
perché, a seguito di accertamenti disposti dalla stazione appaltante, i due componenti del consiglio di
amministrazione avevano comunque reso nel corso
della procedura la dichiarazione personale di mancanza di pregiudizi penali (27).
Con tale pronuncia il Consiglio di Stato ha esteso l’ambito di applicazione dei principi enunciati
nella Plenaria anche ai casi in cui il bando di gara
sia specifico, nel prescrivere l’esclusione, e la stazione appaltante abbia anche predisposto lo schema di dichiarazione sostitutiva in tal senso. Tali
prescrizioni amministrative, infatti, secondo le parole del giudice amministrativo, «devono [...] essere
interpretate in modo conforme a quanto stabilito
dalla legge, con la conseguenza che deve ritenersi
giuridicamente equipollente, [...], al requisito pre“Decreto Milleproroghe” (D.L. n. 150 del 2013) al 1° luglio
2014 con l’obbligo, per le stazioni appaltanti e per i partecipanti alle pubbliche gare d’appalto (d’importo a base d’asta pari o
superiore ai 40.000 euro nei settori ordinari) di utilizzare esclusivamente l’AVCPass per la verifica telematica dei requisiti
soggettivi di ammissione alla gara. Il progetto consente un'evidente riduzione dei tempi di formazione delle autocertificazioni
e alla formazione delle buste, eliminando parte delle incertezze
e dei rischi di errori. Inoltre permette un celere recepimento
delle informazioni, che rimangono nella Banca Dati per tutto il
periodo di validità dei documenti, anche oltre la singola gara,
sicché esaurito l’onere di primo caricamento a sistema saranno le Amministrazioni a dover procedere all’acquisizione.
(27) Cons. Stato, sez. VI, 12 settembre 2014, n. 4666.
Urbanistica e appalti 11/2014
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scritto dalla lex specialis della dichiarazione resa “da
tutti” la dichiarazione resa “per tutti” dal legale
rappresentante».
La pronuncia pare fornire la chiave di lettura
dell’art. 39 della L. n. 114 del 2014 qui in esame,
laddove introduce una sanzione pecuniaria per la
mancanza, incompletezza e ogni altra irregolarità
delle dichiarazioni sostitutive; obbliga la stazione
appaltante ad assegnare al concorrente un termine
non superiore a dieci giorni per l’integrazione delle
dichiarazioni carenti; ed ammette l’esclusione nel
solo caso di inosservanza di quest’ultimo adempimento.
Dunque emerge con chiarezza come la ratio del
legislatore sia quella di imporre un’istruttoria veloce ma preordinata ad acquisire la completezza delle
dichiarazioni, e di evitare le esclusioni dalla procedura per mere carenze e irregolarità documentali (28).
Gli “elementi” mancanti, incompleti o
irregolari
L’art. 39 in esame riferisce il sistema sanzionatorio introdotto non solo al caso delle dichiarazioni
sostitutive di certificazione e di atto di notorietà
relative ai requisiti (di idoneità professionale, di
ordine generale, di capacità economico-finanziaria
e tecnico-professionale) degli operatori economici,
ma anche ad altri “elementi” che devono essere
prodotti in relazione alla gara.
Se si intende riconoscere autonomia alla voce
“elementi” rispetto alle patologie delle dichiarazioni, tra gli stessi documenti previsti dal codice dei
contratti pubblici, dal regolamento attuativo e da
altre disposizioni di legge come strumenti attestativi di condizioni necessariamente incidenti sulla
partecipazione alla gara: in questo novero possono
rientrare la cauzione provvisoria, l’attestazione del
versamento del contributo all’AVCP per la partecipazione alle gare o la dichiarazione di accettazione (che non è dichiarazione sostitutiva) del protocollo di legalità eventualmente adottato dalla stazione appaltante, in applicazione dell’art. 1, comma 17, della L. n. 190 del 2012 (29).
Anche in tal caso la stazione appaltante deve individuare le correlate irregolarità essenziali, solo ad
(28) S. Crisci, Il futuro dell’art. 38 del Codice dei contratti
pubblici alla luce dei recenti orientamenti giurisprudenziali, in
Giustamm, 2014.
(29) A. Barbiero, Le novità in materia di "sanzioni" per le dichiarazioni sostitutive non rese o rese in modo incompleto o irregolare nelle gare di appalto. Sui protocolli di legalità e patti di
Urbanistica e appalti 11/2014
esse potendo applicare il provvedimento sanzionatorio e l’eventuale esclusione in caso di mancata
regolarizzazione nei termini.
Qualora la stazione appaltante intenda invece il
dato letterale riferito agli elementi come connesso
esclusivamente alle dichiarazioni, deve enucleare il
complesso degli oneri dichiarativi, esplicitarne l’indispensabilità e precisare i presupposti per le irregolarità essenziali.
Simile scelta presuppone, tuttavia, che la mancata produzione di altre dichiarazioni (non sostitutive di certificazione o di atto di notorietà, ma riconducibili alle tipologie delle dichiarazioni di accettazione o di impegno) e di alcuni documenti individuati dal codice dei contratti pubblici e da altre norme di legge come obbligatori in relazione alla partecipazione alla gara (ad es. la cauzione provvisoria) sia esplicitamente sanzionata con l’esclusione dalla gara, in coerenza con quanto previsto
dal comma 1-bis dell’art. 46 del D.Lgs. n. 163/2006
(ed a quanto specificato dall’AVCP nella determinazione n. 4/2012) (30).
Proprio il riferimento agli elementi che devono
essere prodotti in gara induce a ritenere che questi
non siano riferiti tanto al contenuto delle dichiarazioni sostitutive, quanto ai documenti che devono
obbligatoriamente essere presentati in gara. Le stazioni appaltanti tendono per l’effetto a disciplinare
nel bando la sottoposizione alla sanzione e alla regolarizzazione anche la mancata presentazione della cauzione provvisoria o dell’attestazione di pagamento del contributo all’AVCP per la partecipazione alle gare.
Il trattamento sanzionatorio e l’autonomia
dal procedimento di regolarizzazione
La sanzione pecuniaria, che il concorrente è tenuto a versare alla stazione appaltante per le dichiarazioni mancanti, incomplete o irregolari, sarà
determinata dal bando di gara in misura non inferiore all’uno per mille e non superiore all’uno per
cento del valore della gara e comunque non sarà
superiore a 50.000 euro. Il versamento di questa
sanzione è garantito dalla cauzione provvisoria prevista per la partecipazione alla gara di appalto.
integrità, cfr. S. Foà, Le novità della legge anticorruzione, in
questa Rivista, 2013, 301 ss.
(30) S. Lazzini, Il “delirio” delle nuove disposizioni: breve nota sul combinato disposto del comma 2 bis dell’articolo 38 con
comma 1-ter dell’articolo 46 del codice dei contratti, in Diritto.it,
2014
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La sanzione così prevista potrebbe cumularsi con
quella irrogata dall’Autorità per la vigilanza sui
contratti pubblici, ai sensi dell’art. 6, comma 11,
del codice (sanzione amministrativa pecuniaria fino a 25.822 euro o fino a 51.545 euro a seconda
che gli operatori economici forniscano informazioni non veritiere, ovvero omettano di fornire documenti, informazioni e chiarimenti relativamente ai
lavori, servizi e forniture pubblici, in corso o da
iniziare, al conferimento di incarichi di progettazione, agli affidamenti) (31). La norma specifica,
infatti, che le stesse sanzioni si applicano agli operatori economici che non ottemperano alla richiesta della stazione appaltante o dell'ente aggiudicatore di comprovare il possesso dei requisiti di partecipazione alla procedura di affidamento, nonché
agli operatori economici che forniscono dati o documenti non veritieri, circa il possesso dei requisiti
di qualificazione, alle stazioni appaltanti o agli enti
aggiudicatori o agli organismi di attestazione.
La sanzione è correlata all’esistenza di irregolarità essenziali sanabili individuate dalla stazione appaltante, sottoposte al particolare subprocedimento
di regolarizzazione, mentre quelle non ritenute tali,
se non rese o rese in modo incompleto o irregolare,
non determinano né l’applicazione della sanzione
né l’obbligo di regolarizzazione.
La regolarizzazione documentale, peraltro, non è
correlata al pagamento della sanzione, quindi gli
operatori economici che abbiano reso o completato
le dichiarazioni insufficienti sono ammessi alla gara, indipendentemente dal pagamento della sanzione. Andrebbe, altresì, chiarito se il pagamento sia
comunque dovuto anche laddove il concorrente
non intenda sanare la propria posizione nel termine assegnatogli (32).
Salva dunque l’autonomia dell’irrogazione della
sanzione rispetto alla regolarizzazione documentale,
non può sfuggire la varietà delle fattispecie di violazioni delle regole di gara contemplate dalla norma in esame. La mancanza, l’incompletezza e ogni
altra irregolarità essenziale degli elementi e delle
dichiarazioni sostitutive imporrebbero un trattamento differenziato ed una previa specificazione
del correlato disvalore in sede di bando, in applicazione del principio della gradualità delle sanzioni
in relazione alla gravità delle infrazioni. Nella pras-
si si sta tuttavia affermando l’irragionevole definizione di un trattamento sanzionatorio unitario nei
bandi di gara.
Ulteriore criticità è riferita alla previsione di
una cauzione provvisoria a garanzia del pagamento
della sanzione. La previsione comporta che in caso
di mancato pagamento da parte dell’impresa concorrente dopo la contestazione della sanzione, qualora l’amministrazione aggiudicatrice non riesca ad
ottenere il versamento, possa rivalersi sulla cauzione (che il concorrente dovrà reintegrare tempestivamente). In tale prospettiva, nelle fidejussioni dovrà essere fatta menzione della garanzia specifica.
Molte amministrazioni hanno scelto di prevedere
nel bando anche un’integrazione supplementare
del valore della garanzia provvisoria, corrispondente alla sanzione, determinando tuttavia un maggior
onere per le imprese.
(31) Su cui C. Celone, I procedimenti sanzionatori dell'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, in M. Allena, S. Cimini
(a cura di), Il potere sanzionatorio delle Autorità amministrative
indipendenti, in Dir. Econ., 2013, 301 ss.
(32) Camera dei deputati, Scheda di lettura, Misure urgenti
per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per
l'efficienza degli uffici giudiziari D.L. 90/2014 - A.C. 2486, pag.
170.
(33) P. Provenzano, Brevi riflessioni a margine della disciplina
sugli oneri dichiarativi ex art. 38 D.Lgs. 163/2006 contenuta nell'art. 39 del D.L. n. 90/2014, in Giustamm, 2014
1156
L’applicazione della norma nel tempo e il
rischio di disparità di trattamento
Si può concordare solo parzialmente con le letture che riconoscono alla disposizione in commento, oltre alla innegabile e prevalente portata innovativa correlata all’introduzione del sistema sanzionatorio, una natura interpretativa, e dunque meramente confermativa, della preminenza del dato sostanziale su quello formale in ordine ai requisiti di
partecipazione alle gare (33).
Proprio tale ultima affermazione, condivisibile in
astratto, sollecita infatti alcune ulteriori considerazioni: il principio in sé pare incontestabile e ispirato alla disciplina europea, ma il suo concreto ambito applicativo pare ancora incerto, come testimoniano le contrastanti posizioni assunte dal giudice
amministrativo sul rinvio pregiudiziale interpretativo alla Corte di giustizia.
La lettura più sostanzialista degli artt. 38 e 46
del codice, suggerita dalla novella, dovrebbe orientare il giudice amministrativo a evitare discrasie
nel trattamento delle omissioni dichiarative legate
al momento di indizione della gara, evitando che
le medesime irregolarità oggi considerate (o meglio
considerabili dalla stazione appaltante) come sanabili, negli altri casi provochino viceversa l'esclusione dell’operatore economico.
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In questo senso sono condivisibili le osservazioni
di chi prospetta il rischio di violazione del principio della retroattività della norma sanzionatoria
più favorevole, che si verificherebbe per effetto
dell’esclusione dalla gara, a fronte di una sopravvenuta disciplina normativa che consente di sanare
l’irregolarità integrata (34). Anche se il principio,
enunciato dalla CEDU, deve superare nell’ordinamento interno una consolidata giurisprudenza (vero e proprio diritto vivente) della Corte di Cassazione, oltre a precedenti negativi della Corte costituzionale che, in più occasioni, hanno ribadito la
sua non applicabilità alle sanzioni amministrative (35).
Il rito degli appalti pubblici dopo il D.L. 90/2014
di Rosanna De Nictolis
Il D.L. n. 90/2014, e le sue modifiche intervenute con il D.L. n. 114/2014, hanno ridisegnano in modo significativo il rito degli appalti pubblici disciplinato dall’art. 120 c.p.a. Nel testo si opera una ricostruzione
sistematica del rito, alla luce delle novità introdotte.
La storia del rito appalti
Il D.L. n. 90/2014, e le sue modifiche intervenute con il D.L. n. 114/2014, hanno ridisegnano in
modo significativo il rito degli appalti pubblici disciplinato dall’art. 120 c.p.a., e che riguarda l’impugnazione degli atti delle procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi, forniture, davanti al
giudice amministrativo, ossia la c.d. procedura di
evidenza pubblica che sfocia nell’aggiudicazione.
Il cd. rito appalti ha conosciuto vicende travagliate, essendo stato ritoccato più volte, sempre in
nome di “emergenze” e bisogno di far presto.
Appartengono ormai al passato remoto sia le disposizioni processuali di cui all’art. 31-bis, L. Merloni, sia il rito speciale di cui al D.L. n. 67/1997.
Appartiene al passato, sia pure prossimo, anche
il rito dell’art. 23-bis, L. TAR, introdotto dalla L.
n. 205/2000 e abrogato, per quanto riguarda gli appalti, dal D.Lgs. n. 53/2010, recante recepimento
(34) P. Provenzano, La retroattività in mitius delle norme sulle sanzioni amministrative, in Riv. It. Dir. Pubb. Com., 2012, 877
ss. Cfr., in generale, F. Goisis, Nuove prospettive per il principio
di legalità in materia sanzionatoria-amministrativa: gli obblighi
discendenti dall'art. 7 CEDU, in Foro Amm. TAR, 2013, 1228
ss.; Id., Garanzie procedimentali e Convenzione europea per la
tutela dei diritti dell'uomo, in Riv. Dir. Proc. Amm., 2009, 1339
ss.; M. Allena, Art. 6 CEDU. Procedimento e processo amministrativo, Napoli, 2012, passim. I criteri per estendere le garanzie
individuali riservate dalla CEDU ai destinatari di sanzioni penali
risalgono alla sentenza CEDU, 8 giugno 1976, caso n.
5100/71, Engel v. Olanda.
(35) Cass. n. 6712/1999, Cass., Sez. Un., n. 890/1998, Cass.
n. 8074/1998, Cass. n. 2058/1998, Cass. n. 11928/1995, Cass.
n. 13246/1992, Cass. n. 6318/1986, Cons. Stato n. 3497/2010,
Cons. Stato n. 2544/2000. Tale orientamento è stato in passato
avallato in passato dalle sentenze 501/2002 e 245/2003 della
Corte costituzionale, sfavorevole all’applicazione alla materia
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della direttiva ricorsi, che aveva novellato il D.Lgs.
n. 163/2006.
Ma a sua volta la novella processuale del D.Lgs.
n. 163/2006, se pure non è vissuta un solo giorno
come le rose di una nota canzone, ha avuto comunque vita brevissima, dal 27 aprile al 15 settembre 2010, avendo subìto un’abrogazione (sia pure
travestita da modifica degli articoli) ad opera del
codice del processo amministrativo di cui al D.Lgs.
n. 104/2010 (art. 3, comma 19, disp. coord. e abr.,
c.p.a.).
Mentre le disposizioni in tema di sorte del contratto, sanzioni alternative, tutela risarcitoria, hanno subito solo un trasloco con ritocchi minimi, dal
D.Lgs. n. 163/2006 al codice del processo amministrativo, invece il nuovo rito processuale sui pubblici appalti (già art. 245, D.Lgs. n. 163/2006) dopo la sua vita brevissima dal 27 aprile 2010 al 15
settembre 2010, è stato trasferito dal D.Lgs. n.
163/2006 al c.p.a. (art. 120) con sensibili modificadelle sanzioni amministrative del principio in esame. La giurisprudenza richiamata ha finora rifiutato un’applicazione analogica dell’art. 2 comma 2 c.p., anche alla luce dell’art. 14 preleggi (cfr. Cass. n. 6712/1999, Cass., Sez. Un., n. 890/1998,
Cass. n. 8074/1998, Cass. n. 2058/1998, Cass. n. 11928/1995,
Cass. n. 13246/1992, Cass. n. 6318/1986, Cons. Stato n.
3497/2010, Cons. Stato n. 2544/2000) e ha considerato i limitati casi in cui il principio della retroattività della lex mitior opera
come casi settoriali, non estensibili oltre il loro ristretto ambito
di applicazione. Come evidenziato dalla Corte costituzionale
con le sentenze nn. 347 e 348 del 2007, l’unico rimedio in caso
di contrasto tra la normativa italiana e quella convenzionale,
laddove non sia possibile un’interpretazione conforme (come
nella specie, stante il diritto vivente contrario), non potendosi
ricorrere alla tecnica della disapplicazione (prerogativa del diritto comunitario), è il rinvio alla Corte costituzionale per violazione dell’art. 117 comma 1 Cost.
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zioni che ne hanno fatto un’entità profondamente
diversa.
Ora il D.L. n. 90/2014 segna un parziale ritorno
a quel regime introdotto dal D.Lgs. n. 53/2010 e
che visse, come visto, meno di cinque mesi.
Non può poi trascurarsi il dato di fondo che il
regime delle controversie in materia di appalti è
strettamente condizionato dall’ordinamento dell’Unione Europea, che, in deroga al principio generale comunitario di autonomia processuale degli
Stati membri, a partire dal 1989 è intervenuto con
norme processuali cogenti per garantire una tutela
effettiva contro le violazioni comunitarie sulle procedure di affidamento, poste a tutela della concorrenza e del mercato.
Infatti le due “direttive ricorsi” 89/665/CEE e
92/13/CEE, poi modificate in modo pregnante dalla direttiva 2007/66/CE, hanno trovato attuazione
in Italia sia con le disposizioni processuali sopra ricordate, sia, e in modo sistematico, con il citato
D.Lgs. n. 53/2010, trasfuso poi, con modificazioni,
negli artt. 120 ss. c.p.a.
Sicché ogni intervento del legislatore italiano
sul rito appalti e sulla tutela cautelare, deve necessariamente passare il vaglio della compatibilità comunitaria.
Sul piano sistematico e della razionalità organizzativa, poi, il rito appalti era già un rito celere, le
ulteriori misure previste difficilmente potranno
renderlo più veloce, sia per l’oggettiva complessità
del contenzioso, sia perché le risorse umane sono
rimaste invariate, e i carichi di lavoro dei magistrati e del personale di segreteria difficilmente consentiranno una accelerazione ulteriore, se non a
scapito o della qualità del lavoro, o della decisione
tempestiva di altri tipi di contenzioso.
Se già in passato si criticava la creazione di “corsie preferenziali” per certi tipi di contenzioso, che
inevitabilmente rallentano le altre materie, la critica oggi va riconfermata.
Le nuove regole processuali incidono, in una
prospettiva acceleratoria, sulla forma degli atti di
parte, sui tempi di decisione e deposito della sentenza, e sulla fase cautelare.
Ne risulta un rito articolato secondo le seguenti
linee di fondo:
a) costruzione di un nuovo rito speciale, che si
muove nei binari dell’art. 119, c.p.a., ma se ne discosta in più punti;
b) la disciplina del rito abbreviato comune (art.
119 c.p.a.) resta applicabile per quanto non espressamente disposto (art. 120, comma 3, c.p.a.);
1158
c) competenza inderogabile generalizzata per tutti i giudizi amministrativi (art. 13 c.p.a.);
d) previsione di termini più brevi sia di quelli
ordinari, sia di quelli di cui all’art. 119 c.p.a. (art.
120, commi 2 e 5, c.p.a.);
e) obbligatorietà e non mera facoltatività dei
motivi aggiunti per impugnare atti connessi a quello già impugnato (art. 120, comma 7, c.p.a.);
f) giudizio di merito ove possibile immediato, diversamente da celebrarsi in ogni caso entro breve
termine (nell’art. 120, comma 6 c.p.a., come novellato dalla L. n. 114/2014, udienza da celebrarsi
entro 45 giorni; nella versione originaria dell’art.
120, comma 6, udienza da fissarsi con assoluta priorità; dal 27 aprile al 15 settembre 2010, nell’art.
245, D.Lgs. n. 163/2006: udienza di norma entro
60 giorni);
g) sinteticità degli atti di parte secondo un puntuale format da fissarsi con decreto del Presidente
del Consiglio di Stato (art. 120, comma 6, c.p.a.,
regola introdotta dalla L. n. 114/2014).
Ambito applicativo
Il D.L. n. 90/2014 non ha innovato sull’ambito
oggettivo di applicazione del rito.
Esso si applica anzitutto agli atti delle procedure
di affidamento, ivi comprese le procedure di affidamento di incarichi e concorsi di progettazione e di
attività tecnico-amministrative ad esse connesse,
relativi a lavori, servizi o forniture.
Il rito si applica poi ai connessi provvedimenti
dell’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici, alla
quale, a partire dal D.L. n. 90/2014, è subentrata
l’ANAC: ad es. iscrizioni nel casellario informatico, o applicazione di sanzioni, conseguenti a provvedimenti di esclusione dalla gara adottati dalle
singole stazioni appaltanti.
La connessione di tali atti a quelli di gara comporta che essi devono obbligatoriamente essere impugnati con motivi aggiunti nello stesso processo
in cui sono impugnati gli atti di gara.
Se tuttavia gli atti di gara non vengono impugnati, mentre si impugnano solo i provvedimenti
dell’Autorità, p.es. non si impugna l’esclusione dalla gara ma solo l’iscrizione dell’esclusione nel casellario informatico, non si applica il nuovo rito speciale, ma resta applicabile l’art. 119, c.p.a., tra le
cui materie vi sono i provvedimenti delle Autorità
amministrative indipendenti.
Il che implica anche una diversa scansione temporale, a partire dal termine di proposizione del ricorso, che nel rito dell’art. 119 c.p.a. è di sessanta
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giorni, in quello dell’art. 120 c.p.a. è di trenta giorni.
In sintesi, due sono le condizioni per l’applicazione del nuovo rito ai provvedimenti dell’Autorità:
a) che siano connessi con gli atti di gara;
b) che siano impugnati insieme agli atti di gara
o con motivi aggiunti.
Esclusività del rito
Il D.L. n. 90/2014 non ha innovato quanto alla
esclusività del rito, sancita dall’art. 120 comma 1
c.p.a. Rimane escluso, per gli atti ivi menzionati, il
rimedio del ricorso straordinario al Presidente della
Repubblica.
I termini per gli atti di parte e del giudice
I termini per gli atti di parte non sono stati toccati dal D.L. n. 90/2014, mentre sono state toccati
i termini relativi ad attività e provvedimenti del
giudice.
Essendo stato previsto un regime transitorio, per
alcuni termini vi sarà un doppio regime.
Si illustrano di seguito i termini processuali più
importanti.
Atti di parte
a) il termine per il ricorso introduttivo è di trenta giorni;
b) il termine per i motivi aggiunti è di trenta
giorni;
c) il termine per il ricorso incidentale è di trenta
giorni;
d) il termine per il deposito del ricorso principale e incidentale e dei motivi aggiunti è di quindici
giorni;
e) il termine di costituzione delle altre parti è
trenta giorni dal perfezionamento della notifica per
le parti medesime;
f) il termine per documenti è fino a venti giorni
liberi prima dell’udienza;
g) il termine per memorie è fino a quindici giorni liberi prima dell’udienza;
h) il termine per repliche è fino a dieci giorni liberi prima dell’udienza;
i) il termine per la notifica dell’appello cautelare
è di trenta giorni dalla notifica o sessanta dalla
pubblicazione, in quanto nulla dice l’art. 120,
c.p.a., mentre l’art. 119, comma 2, c.p.a., applicabile per colmare le lacune, sottrae al dimezzamento
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i termini di notifica dell’appello cautelare, che sono fissati dall’art. 62, comma 1, c.p.a.;
l) il termine per il deposito dell’appello cautelare
è di quindici giorni: infatti nulla dice l’art. 120
c.p.a., per cui si applica l’art. 119, comma 2, che
prevede il dimezzamento di tutti i termini processuali salvo quelli ivi espressamente eccettuati; in
tema di appello cautelare, l’art. 119, comma 2, sottrae al dimezzamento i termini di notifica, di cui
all’art. 62, comma 1, c.p.a., ma non anche i termini di deposito, che restano dimezzati; pertanto, siccome l’art. 62, comma 2, c.p.a., prevede trenta
giorni per il deposito dell’appello cautelare (mediante rinvio a catena all’art. 45, c.p.a.), ne deriva
che nel rito speciale il termine di deposito dell’appello cautelare è di quindici giorni;
m) per i termini delle impugnazioni, nulla dispone l’art. 120 c.p.a.; si applica perciò l’art. 119,
commi 2 e 6; il comma 2 sottrae al dimezzamento
solo i ricorsi e motivi aggiunti in primo grado,
mentre il comma 6 dispone sui termini dell’appello
avverso il dispositivo e avverso la motivazione dopo un appello avverso il dispositivo; se ne desume
il seguente quadro:
m.1) trenta giorni per impugnare il dispositivo,
decorrenti dalla sua pubblicazione;
m.2) trenta giorni, decorrenti dalla notificazione, per impugnare la motivazione della sentenza
dopo l’impugnazione del dispositivo;
m.3) trenta giorni, decorrenti dalla notificazione, per impugnare la sentenza;
m.4) tre mesi, decorrenti dalla pubblicazione,
per impugnare la sentenza;
m.5) tre mesi, decorrenti dalla pubblicazione,
per impugnare la motivazione della sentenza dopo
l’impugnazione del dispositivo;
m.6) quindici giorni dal perfezionamento dell’ultima notificazione, per depositare l’atto di impugnazione, termine dimezzato rispetto a quello ordinario di trenta giorni per il deposito delle impugnazioni ex art. 94 c.p.a.;
m.7) quanto all’appello incidentale, in virtù dell’art. 119, comma 2, che sottrae al dimezzamento
solo atti introduttivi in primo grado, è da ritenere
che il termine dell’appello incidentale sia dimezzato e pari a trenta giorni rispetto a quello ordinario
di sessanta giorni indicato nell’art. 96 c.p.a., con le
decorrenze ivi previste a seconda che si tratti di
impugnazione incidentale proposta ai sensi dell’art.
333 o 334 c.p.c.;
m.8) quanto al termine di deposito dell’appello
incidentale, l’appello incidentale sia di quello ex
art. 333 c.p.c. sia di quello incidentale ex art. 334
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c.p.c. va depositato entro quindici giorni (termine
di trenta giorni, ex art. 96, comma 5, c.p.a., dimezzato).
Attività e atti del giudice
La novella incide sulla durata dell’ordinanza
cautelare, sui termini di fissazione dell’udienza, sul
termine per il dispositivo e la sentenza.
Vi è però un regime transitorio, per cui si delinea un doppio regime.
In particolare, le nuove disposizioni si applicano
ai giudizi introdotti con ricorso depositato, in primo grado o in grado di appello, in data successiva
alla data di entrata in vigore del decreto legge.
Il D.L. è stato pubblicato sulla G.U. del 24 giugno 2014 ed è entrato in vigore il 25 giugno 2014.
Per “data successiva” alla “data di entrata in vigore”, sembra doversi intendere una data dal 26 giugno in poi. Sicché la nuova disciplina riguarda i ricorsi depositati dal 26 giugno 2014 in poi. Con
l’assurdità, tuttavia, che molte regole non sono state introdotte dal D.L. n. 90/2014, ma dalla legge di
conversione n. 114/2014, entrata in vigore il 19
agosto 2014, e che dunque si applicano retroattivamente ai ricorsi depositati dal 26 giugno al 18 agosto. I problemi connessi alla retroattività si evitano
solo perché le disposizioni dettate dalla legge di
conversione sono migliorative e più favorevoli, ponendo termini e adempimenti meno rigorosi.
Per i ricorsi depositati fino al 25 giugno 2014, in
primo grado o in appello, continuano a valere le
seguenti regole:
a) non vi è un limite di durata dell’ordinanza
cautelare;
b) non vi è un preciso limite temporale per l’udienza di merito, che però va fissata d’ufficio con
assoluta priorità (al di fuori dei casi in cui il giudizio non è immediatamente definito, nel merito, all’udienza cautelare);
c) il decreto di fissazione dell’udienza va comunicato alle parti costituite almeno trenta giorni prima dell’udienza (combinato disposto degli artt.
120, comma 3, 119, comma 2, 71 comma 5,
c.p.a.);
d) in primo grado è obbligatorio pubblicare il dispositivo della sentenza, entro sette giorni dalla sua
deliberazione; in appello il dispositivo va pubblicato, entro tale termine, solo se c’è istanza di parte;
e) la sentenza va redatta (non pubblicata) entro
23 giorni dal passaggio della causa in decisione
(combinato disposto dell’art. 120 comma 3, 119
comma 2, 89 c.p.a.).
1160
Per i ricorsi depositati dal 26 giugno 2014, in
primo grado, valgono le seguenti regole:
a) l’ordinanza cautelare ha una durata massima
di sessanta giorni dalla sua pubblicazione (recte, le
misure cautelari con essa disposte durano al massimo sessanta giorni dalla pubblicazione dell’ordinanza);
b) l’udienza va celebrata entro quarantacinque
giorni dalla scadenza del termine di costituzione
delle parti diverse dal ricorrente; se con ordinanza
viene disposta istruttoria, integrazione del contraddittorio, concessione di termini a difesa, la stessa
ordinanza fissa la nuova udienza di merito da tenersi non oltre trenta giorni (da intendersi decorrenti dalla scadenza del termine fissato dall’ordinanza per l’istruttoria, integrazione del contraddittorio, termine a difesa);
c) della data di udienza va dato immediato avviso alle parti a mezzo PEC;
d) il termine per la pubblicazione del dispositivo
in primo grado diventa di due giorni, da intendersi
decorrenti dall’udienza di discussione, ma la pubblicazione avviene non più d’ufficio ma su istanza
di parte;
e) il termine per la sentenza in primo grado è
trenta giorni, decorrenti dall’udienza di discussione, ed è termine per la sua pubblicazione e non solo per la sua redazione (nell’art. 119 c.p.a. e nel
previgente art. 120 c.p.a., invece il termine era di
ventitre giorni, decorrenti dal passaggio della causa
in decisione, ed era per la sola redazione e non anche per la pubblicazione della sentenza).
Per i ricorsi depositati dal 26 giugno in poi in
grado di appello si applicano le nuove regole, contenute nell’art. 120 comma 6, e sopra richiamate,
in ordine al termine dell’udienza di discussione (45
giorni, 30 giorni in caso di istruttoria, termini a difesa, integrazione del contraddittorio), mentre non
si applicano né le regole sulla durata massima dell’ordinanza cautelare, dettata nell’art. 120 comma
8-bis, né le regole sulla pubblicazione del dispositivo entro 2 giorni e della sentenza entro trenta giorni, dettate nell’art. 120, comma 9, perché l’art.
120, comma 11, che indica le disposizioni dell’art.
120 applicabili in appello, non richiama né il comma 8-bis né il comma 9. Pertanto in appello il dispositivo è pubblicato entro sette giorni, e solo se
c’è istanza di parte, e il termine per la sentenza resta di 23 giorni, per la sola redazione, e decorrente
dal passaggio della causa in decisione e non dall’udienza di discussione.
Urbanistica e appalti 11/2014
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Normativa
La forma degli atti di parte
L’art. 245, comma 2-undecies, D.Lgs. n.
163/2006, imponeva la sinteticità di “tutti gli atti
di parte”, nel rito appalti in termini di doverosità.
La regola è ribadita dall’art. 120, comma 10,
c.p.a., non toccato dal D.L. n. 90/2014, ed estesa
ai provvedimenti del giudice.
Inoltre il c.p.a. pone la sinteticità anche come
principio generale (art. 3, c.p.a.).
Si tratta di un’importante novità, atteso che tale
principio non era stato, fino al c.p.a. imposto, per
gli atti di parte, né dalla disciplina del processo
amministrativo né dalla disciplina del processo civile.
Il c.p.a. ha generalizzato il principio di sinteticità
degli atti di parte e del giudice (art. 3, comma 2,
c.p.a.), peraltro ribadendolo specificamente per gli
appalti (art. 120, comma 10, c.p.a.).
Fino alla L. n. 114/2014, era tuttavia mancata
una declinazione concreta del principio.
La L. n. 114/2014, di conversione del D.L. n.
90/2014, ha novellato l’art. 120, comma 6, introducendo puntuali canoni che danno attuazione al
principio di sinteticità degli atti di parte.
Si stabilisce, infatti, che al fine di consentire lo
spedito svolgimento del giudizio in coerenza con il
principio di sinteticità di cui all’art. 3, comma 2,
c.p.a. le parti contengono le dimensioni del ricorso
e degli altri atti difensivi nei termini stabiliti con
decreto del Presidente del Consiglio di Stato, sentiti il Consiglio nazionale forense e l'Avvocato generale dello Stato, nonché le associazioni di categoria riconosciute degli avvocati amministrativisti.
Con il medesimo decreto sono stabiliti i casi per i
quali, per specifiche ragioni, può essere consentito
superare i relativi limiti. Il medesimo decreto, nella
fissazione dei limiti dimensionali del ricorso e degli
atti difensivi, tiene conto del valore effettivo della
controversia, della sua natura tecnica e del valore
dei diversi interessi sostanzialmente perseguiti dalle
parti. Dai suddetti limiti sono escluse le intestazioni e le altre indicazioni formali dell'atto. Il giudice
è tenuto a esaminare tutte le questioni trattate nelle pagine rientranti nei suddetti limiti; il mancato
esame delle suddette questioni costituisce motivo
di appello avverso la sentenza di primo grado e di
revocazione della sentenza di appello.
La previsione si applica, formalmente, ai ricorsi
depositati dal 26 giugno 2014 (art. 40, comma 2,
D.L. n. 90/2014), tuttavia è stata introdotta solo
con la L. n. 114/2014, in vigore dal 19 agosto
Urbanistica e appalti 11/2014
2014, e sarà concretamente applicabile solo quando sarà adottato il previsto decreto presidenziale.
Inoltre l’art. 40, comma 2-bis, D.L. n. 90/2014,
inserito dalla legge di conversione n. 114/2014 ha
specificato che “Le disposizioni relative al contenimento del numero delle pagine, stabilite dal decreto del Presidente del Consiglio di Stato di cui alla
lettera a) del comma 1 sono applicate in via sperimentale per due anni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto.
Al termine di un anno decorrente dalla medesima
data, il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa effettua il monitoraggio degli esiti di
tale sperimentazione”.
Sul piano procedurale, il decreto presidenziale
necessiterà di molteplici pareri: il Consiglio nazionale forense, l'Avvocato generale dello Stato, nonché le associazioni di categoria riconosciute degli
avvocati amministrativisti.
Quanto all’ambito applicativo, il decreto dovrà
fissare le dimensioni sia del ricorso introduttivo
che degli altri atti di parte, dunque ricorso incidentale, motivi aggiunti, memorie, repliche, istanze.
Nella fissazione dei limiti si dovrà tener conto di
una serie di parametri, alcuni rigidi, altri discrezionali, sicché se ne desume che potranno essere fissati non solo limiti dimensionali diversi per i diversi
tipi di atti (ricorso, ricorso incidentale, motivi aggiunti, memorie, repliche), ma anche limiti dimensionali diversi per lo stesso tipo di atto.
Parametro rigido, fissato ex lege, è che dai limiti
dimensionali sono escluse le intestazioni e le altre
indicazioni formali dell'atto: sembra doversi intendere, oltre alla intestazione, l’indicazione dei nomi
delle parti e relativi difensori, le relate di notifica,
l’indice degli allegati.
Sebbene il parametro sia fissato direttamente
dalla legge, necessiterà di specificazione nel decreto presidenziale, che chiarisca cosa si intenda per
intestazione e indicazione formale, con tutto quel
che ne consegue, al fine dell’esclusione o dell’inclusione nel computo del limite dimensionale.
Parametri elastici di cui tener conto sono:
- valore effettivo della controversia;
- natura tecnica della controversia;
- valore dei diversi interessi sostanzialmente perseguiti dalle parti;
- casi per i quali, per specifiche ragioni, può essere consentito superare i relativi limiti.
La legge, mentre demanda al decreto presidenziale la fissazione dei limiti dimensionali, disciplina
direttamente le conseguenze della inosservanza dei
limiti dimensionali, sia pure implicitamente.
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Si stabilisce infatti che il giudice è tenuto a esaminare tutte le questioni trattate nelle pagine rientranti nei suddetti limiti; il mancato esame delle
suddette questioni costituisce motivo di appello avverso la sentenza di primo grado e di revocazione
della sentenza di appello. La regola positiva posta è
l’immediato corollario del principio della domanda
e della necessità che il giudice la esamini tutta
(art. 112 c.p.c.), e codifica l’elaborazione giurisprudenziale in tema di vizio della sentenza per omesso
esame della domanda. Si accetta, in sintesi, la tesi
giurisprudenziale secondo cui l’omesso esame della
domanda è un vizio revocatorio, fatto rientrare nel
travisamento dei fatti. Si può anche sostenere che
senza più ricorrere a forzature esegetiche, si è introdotta una nuova causa di revocazione, che riguarda
però le sole sentenze del Consiglio di Stato; è da
ritenere che si tratti di revocazione ordinaria, da
far valere nei relativi termini. Mentre per le sentenze di primo grado, l’omesso esame della domanda è motivo di appello, da farsi valere nei relativi
termini.
Va sottolineato che la norma utilizza la formula
generica e onnicomprensiva di “questioni”, che
possono ricomprendere le domande, le eccezioni, i
motivi, comunque tutto ciò che dia luogo a “controversia”, e dunque non ciò che è dato per pacifico e incontroverso.
Oltre alla regola esplicita, sufficientemente chiara, ben più interessante è il corollario implicito
che si desume dalla regola secondo cui “il giudice è
tenuto a esaminare tutte le questioni trattate nelle
pagine rientranti nei suddetti limiti;” e che il mancato esame di tali questioni è un vizio della sentenza. Infatti a contrario se ne desume che il giudice
non è tenuto ad esaminare le questioni che sono
contenute nelle pagine eccedenti i limiti dimensionali. L’omesso esame di tali questioni non dà luogo
ad alcun vizio della sentenza. Anzi, a tutela del
contraddittorio, il giudice non solo non è tenuto
ad esaminare tali questioni, non deve esaminarle.
Se ne desume anche che questioni contenute in
pagine eccedenti i limiti dimensionali, esulano dalla materia del contendere, sono tamquam non esset,
ossia del tutto ininfluenti sulla lite. La materia del
contendere resta così circoscritta a ciò che è dentro i limiti dimensionali.
Tuttavia, questa affermazione non è del tutto
completa, perché, come si è detto, secondo la norma nei limiti dimensionali non si calcolano le intestazioni e le altre indicazioni formali dell'atto: si
deve intendere, oltre alla intestazione, l’indicazio-
1162
ne dei nomi delle parti e relativi difensori, le relate
di notifica, l’indice degli allegati.
Il che significa che tali parti, non computandosi
nei limiti dimensionali, e non costituendo perciò
una loro violazione, devono essere esaminate comunque dal giudice, sia su istanza di parte che d’ufficio.
Eventuali “questioni” che riguardino l’intestazione e altre indicazioni formali, devono essere esaminate comunque dal giudice: si pensi ad una mancata o erronea indicazione del nome di una parte, o
di un domicilio, o ad un vizio di notificazione.
Le disposizioni relative al contenimento del numero delle pagine, stabilite dal decreto del Presidente del Consiglio di Stato sono applicate in via
sperimentale per due anni dalla data di entrata in
vigore della L. n. 114/2014, ossia dal 19 agosto
2014. Al termine di un anno decorrente dalla medesima data, il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa effettua il monitoraggio degli
esiti di tale sperimentazione.
La previsione transitoria è di dubbia intelleggibilità: intanto fa decorrere i due anni di sperimentazione non da quando essa parte effettivamente, ossia dall’adozione del decreto presidenziale, ma dal
19 agosto 2014, data di entrata in vigore della legge che l’ha prevista. Con il rischio che la tardiva
adozione del decreto ridurrà sia la sperimentazione,
sia il monitoraggio demandato all’organo di autogoverno.
Non si comprende poi cosa significhi che le disposizioni sono applicate in via sperimentale per
due anni: e cioè se si tratti di sunset rules, o disposizioni a termine, che cessano automaticamente i loro effetti allo scadere del biennio, o se finita la sperimentazione biennale, vanno a regime automaticamente, salvo una rinnovata diversa volontà del
legislatore.
La notificazione alle amministrazioni
patrocinate dall’Avvocatura dello Stato
Il D.L. n. 90/2014 non ha toccato, in tema di
notifica del ricorso introduttivo, la speciale regola
dettata per quando il ricorso è rivolto contro una
stazione appaltante che fruisce del patrocinio legale dell’Avvocatura dello Stato. In tal caso al solo
fine della produzione dell’effetto sospensivo automatico, il ricorso avverso l’aggiudicazione, oltre
che all’Avvocatura erariale, va notificato alla stazione appaltante nella sua sede reale.
Questa speciale regola si applica solo quando è
impugnata l’aggiudicazione definitiva e non anche
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quando sono impugnati precedenti atti di gara o
susseguenti provvedimenti della stazione appaltante o dell’Autorità di vigilanza, atteso che solo all’impugnazione dell’aggiudicazione definitiva si riconnette l’effetto sospensivo ex lege.
I tempi per la decisione
La regola anteriore al D.L. n. 90/2014, e tuttora
applicabile ai giudizi il cui ricorso sia stato depositato fino al 25 giugno 2014, è che se la causa non
viene definita nel merito già nella fase cautelare,
delle due l’una: o l’udienza di merito è fissata dal
collegio della fase cautelare, ovvero viene fissata
d’ufficio (dal presidente) “immediatamente e con
assoluta priorità” (art. 120 comma 6, nel testo anteriore al D.L. n. 90/2014).
Vi è dunque un onere di fissare l’udienza di decisione con immediatezza e priorità assoluta. Ma si
tratta ovviamente di termini ordinatori, che sono
in concreto declinati tenendo conto dei ruoli e carichi di lavoro.
In ogni caso, nel regime anteriore al D.L. n.
90/2014, anche se l’udienza viene fissata immediatamente e con priorità, vale la regola, che si desume dal combinato disposto degli artt. 120, comma
3, 119 comma 2 e 71, comma 5, secondo cui il decreto di fissazione udienza va comunicato alle parti
costituite almeno trenta giorni prima dell’udienza.
Dunque l’udienza non potrebbe essere mai fissata
prima di trenta giorni dalla scadenza del termine di
costituzione delle parti diverse dal ricorrente.
Si deve per memoria storica ricordare che l’art.
120 c.p.a. nella formulazione sopra ricordata è in
vigore dal 16 settembre 2010 e sostituisce una previgente disciplina che era stata introdotta in quello
stesso anno, il 2010, dal D.Lgs. n. 53/2010 di recepimento della cd. direttiva ricorsi n. 2007/66.
Ebbene questa previgente disciplina (era l’art.
245 codice appalti) era stata costruita nella stessa
direzione in cui si muove oggi il D.L., ossia con fissazione di un termine certo entro cui l’udienza di
merito dovesse essere celebrata. Si stabiliva infatti
che “il processo, ferma la possibilità della sua definizione immediata nell'udienza cautelare ove ne ricorrano i presupposti, viene comunque definito ad
una udienza fissata d'ufficio e da tenersi entro sessanta giorni dalla scadenza del termine per la costituzione delle parti diverse dal ricorrente. Della data di udienza è dato avviso alle parti a cura della
segreteria, anche a mezzo fax o posta elettronica,
almeno venti giorni liberi prima della data dell'udienza. In caso di esigenze istruttorie o quando è
Urbanistica e appalti 11/2014
necessario integrare il contraddittorio o assicurare
il rispetto di termini a difesa, la definizione del merito viene rinviata, con l'ordinanza che dispone gli
adempimenti istruttori o l'integrazione del contraddittorio o dispone il rinvio per l'esigenza di rispetto
dei termini a difesa, ad una udienza da tenersi non
oltre sessanta giorni”.
Tale disciplina venne volutamente superata dal
c.p.a. con la previsione più generica della fissazione
dell’udienza immediatamente e con priorità assoluta, per garantire una maggiore flessibilità nella gestione dei carichi.
Ora l’odierno D.L. è un sostanziale ritorno al
passato, perché ripristina esattamente questa disciplina, con la sola differenza che il termine di decisione passa da 60 a 45 giorni (45 giorni secondo la
legge di conversione n. 114/2014, il D.L. n.
90/2014 prevedeva 30 giorni). Infatti stabilisce che
se il giudizio non è definito immediatamente all’udienza cautelare, viene comunque definito con
sentenza in forma semplificata ad una udienza fissata d'ufficio e da tenersi entro quarantacinque giorni dalla scadenza del termine per la costituzione
delle parti diverse dal ricorrente. Della data di
udienza è dato immediato avviso alle parti a cura
della segreteria, a mezzo posta elettronica certificata. In caso di esigenze istruttorie o quando è necessario integrare il contraddittorio o assicurare il rispetto di termini a difesa, la definizione del merito
viene rinviata, con l'ordinanza che dispone gli
adempimenti istruttori o l'integrazione del contraddittorio o dispone il rinvio per l'esigenza di rispetto
dei termini a difesa, ad una udienza da tenersi non
oltre trenta giorni.
Si deve osservare che il termine di 60 giorni previsto dal D.Lgs. n. 53/2010 era più realistico di
quello di 45 previsto dal D.L. n. 90/2014, perché
teneva conto di quello che accade normalmente
nella prassi del contenzioso appalti, ossia la quasi
ineluttabilità che al ricorso principale seguano motivi aggiunti e ricorsi incidentali, che fanno slittare
in avanti i termini a difesa.
Pertanto il termine di 45 giorni enunciato dal
D.L. n. 90/2014, rischia di essere un mero slogan
che non avrà alcuna applicazione concreta.
Nella nuova disciplina, la data di udienza va comunicata alle parti immediatamente, a mezzo PEC.
La nuova disciplina va tuttavia coordinata con
la regola previgente secondo cui il decreto di fissazione dell’udienza va comunicato alle parti almeno
trenta giorni prima dell’udienza, regola che non risulta abrogata.
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Sicché, l’udienza, da tenersi entro 45 giorni, non
potrà comunque tenersi prima di trenta giorni, dovendosi calcolare che dell’udienza va dato avviso
alle parti almeno trenta giorni prima.
Bisogna poi tener conto che, scaduto il termine
di costituzione delle parti diverse dal ricorrente e
fissata l’udienza entro 45 giorni da tale termine, le
parti avranno termini ridottissimi per la preparazione di documenti, memorie e repliche, che possono,
rispettivamente, essere depositati fino a 20, 15, 10
giorni liberi prima dell’udienza. Quindi in concreto, dalla data di udienza, e dando per presupposto
che l’udienza, una volta fissata, sia comunicata lo
stesso giorno alle parti, e che sia fissata al 45° giorno dalla scadenza del termine di costituzione, le
parti avranno 25 giorni per preparare e depositare i
documenti, trenta giorni per preparare e depositare
le memorie, cinque giorni per preparare e depositare le repliche.
Termini che si accorciano ove in ipotesi l’udienza venga fissata prima del 45° giorno, come pure è
possibile, atteso che 45 giorni è un termine massimo.
Così, esemplificando, se l’udienza venisse fissata
al 40° giorno dalla scadenza del termine di costituzione delle parti, e posto che documenti, memorie
e repliche, possono, rispettivamente, essere depositati fino a 20, 15, 10 giorni liberi prima dell’udienza, le parti avrebbero 20 giorni per preparare e depositare i documenti, 25 giorni per preparare e depositare le memorie, cinque giorni per preparare e
depositare le repliche.
Diventa allora essenziale, per non comprimere
eccessivamente i termini a difesa, che l’udienza sia
fissata il più possibile vicina al 45° giorno, e che
l’avviso via PEC sia dato alle parti contestualmente al momento della fissazione, ovvero lo stesso
giorno (così va intesa la regola dell’avviso immediato).
I tempi del dispositivo in primo grado e in
appello
Nell’art. 120 c.p.a. c’è un regime differenziato
quanto alla pubblicazione del dispositivo in primo
grado e in appello, che perdura con il D.L. n.
90/2014.
Ai sensi dell’art. 119 c.p.a., nel rito abbreviato
comune, la pubblicazione del dispositivo è eventuale, sia in primo grado che in appello, e avviene
solo su istanza di parte, che dichiari all’udienza di
discussione di avere interesse alla pubblicazione
anticipata del dispositivo.
1164
Nel nuovo rito appalti, nel giudizio di primo grado, fino al 25 giugno 2014, il dispositivo era sempre pubblicato, entro sette giorni, dalla data di deliberazione, a prescindere dall’istanza di parte (art.
120, comma 9, c.p.a.), mentre in appello era pubblicato solo se vi fosse istanza di parte.
Con il D.L. n. 90/2014, per i ricorsi depositati a
decorrere dal 26 giugno 2014, il Tribunale amministrativo regionale deposita la sentenza con la
quale definisce il giudizio entro trenta giorni (la
versione originaria del D.L. diceva venti giorni)
dall'udienza di discussione, ferma restando la possibilità di chiedere l'immediata pubblicazione del dispositivo entro due giorni.
La formulazione “ferma restando la possibilità di
chiedere l'immediata pubblicazione del dispositivo
entro due giorni”, al di là della sua non del tutto
perspicua espressione letterale, va intesa nel senso
che ciascuna parte può chiedere che sia pubblicato
il dispositivo, e in tal caso il giudice deve pubblicarlo entro due giorni dall’udienza di discussione.
Non avrebbe senso logico una interpretazione letterale, in base alla quale “la parte chiede, entro
due giorni, l’immediata pubblicazione del dispositivo”. E però, a voler cavillare, immediata pubblicazione e due giorni di tempo per la pubblicazione,
non sono esattamente la stessa cosa.
La pubblicazione del dispositivo, che era sinora
indefettibile (in primo grado), diventa ora doverosa solo se c’è istanza di parte: si torna così al regime generale contenuto nell’art. 119 c.p.a. e applicabile nel giudizio di appello nel rito appalti.
È poi da ritenere che la previsione dell’art. 120,
comma 9, vada coordinata con quella dell’art. 119,
comma 5, (che diviene applicabile, in virtù della
novella del 120, comma 9, che àncora la pubblicazione del dispositivo all’istanza di parte), e a tenore
della quale la parte deve dichiarare nell’udienza di
discussione di avere interesse alla pubblicazione
anticipata del dispositivo.
Dunque i presupposti della pubblicazione del dispositivo sono ora (dopo il D.L. n. 90/2014) nel
giudizio di primo grado:
- istanza di almeno una parte e non di tutte;
- istanza da formulare all’udienza di discussione,
e da verbalizzarsi;
- manifestazione di interesse alla pubblicazione
del dispositivo.
Tanto, da un lato per evitare che l’istanza di
pubblicazione del dispositivo sia dispersa in un
qualsiasi atto processuale e corra così il rischio di
non essere vista dal giudice, e, dall’altro lato per fare sì che l’interesse alla pubblicazione del dispositi-
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vo sia attuale, dovendo essere manifestato nel momento in cui la causa va in decisione.
Si riduce poi nel giudizio di primo grado il termine per il dispositivo da sette a due giorni, e cambia la decorrenza, non più dal passaggio della causa
in decisione, ma dall’udienza di discussione.
Tale riduzione, in disparte il carattere ordinatorio del termine, non tiene adeguato conto della
complessità delle liti sugli appalti. Non sempre una
controversia può essere decisa in due giorni, e comunque ciò avviene, a risorse umane invariate, a
scapito di altri contenziosi. In ogni caso il margine
di errore aumenta.
In termini più generali, è censurabile la frammentazione tra dispositivo e sentenza, che fa aumentare il margine di errore, ma questo è un vizio
non del D.L. ma già degli artt. 119 e 120 c.p.a.
La riduzione dei tempi del dispositivo è però
compensata dal fatto che la pubblicazione è doverosa solo se lo chiede una parte.
Nei giudizi di impugnazione, l’art. 120, comma
9, anche dopo la novella recata dal D.L. n.
90/2014, non è richiamato (art. 120, comma 11,
c.p.a.), per cui si applica l’art. 119, comma 5,
c.p.a., a tenore del quale il dispositivo è pubblicato
se c’è istanza di parte in tal senso formulata nell’udienza di discussione, e resta il termine di sette
giorni.
In sostanza, secondo la esegesi che qui si accoglie, l’art. 119 comma 5, in passato applicabile solo
in appello, ora diviene applicabile anche in primo
grado, quanto ai presupposti della pubblicazione
del dispositivo (istanza di parte fatta nell’udienza
di discussione).
La differenza tra primo grado e appello attiene
ora non più ai presupposti per la pubblicazione del
dispositivo, ma al termine di pubblicazione del dispositivo e sua decorrenza (due giorni in primo grado, decorrenti dall’udienza, sette giorni in appello,
decorrenti dal passaggio della causa in decisione).
La ratio dell’indefettibilità della pubblicazione
del dispositivo in primo grado e non anche nei giudizi di impugnazione risiedeva nel rilievo che solo
in primo grado vi sono ragioni di urgenza, potendo
riconnettersi alla pubblicazione del dispositivo, in
difetto di provvedimento cautelare, la cessazione
dell’effetto sospensivo automatico.
Questa stessa urgenza non si ripropone nei giudizi di impugnazione, dove si lascia alle parti il compito di segnalare l’eventuale urgenza. In difetto, il
giudice, non avendo la pressione della tempestiva
pubblicazione del dispositivo, avrà più tempo per
meglio ponderare la decisione.
Urbanistica e appalti 11/2014
Ora l’urgenza connessa alla indefettibile pubblicazione del dispositivo viene meno anche in primo
grado, dopo il D.L. n. 90/2014 che ha ridotto sia i
tempi di istruttoria e fase decisoria, sia i tempi di
pubblicazione della sentenza.
Giova sottolineare che in presenza di istanza di
parte, la pubblicazione del dispositivo è doverosa,
dovendosi solo verificare che l’istanza di parte sia
fatta nell’udienza di decisione.
È sufficiente l’istanza di una parte qualsiasi, anche senza l’istanza o il consenso delle altre parti.
Inoltre, anche se la norma prevede una “dichiarazione di interesse alla pubblicazione anticipata
del dispositivo”, non sembra che il giudice possa
sindacare la sussistenza effettiva dell’interesse, e
negare la pubblicazione del dispositivo se ritiene
che difetta un interesse effettivo.
I tempi della sentenza in primo grado e in
appello
Per i ricorsi depositati fino al 25 giugno 2014, il
termine per la sentenza è disciplinato dall’art. 119
in combinato disposto con le regole generali: 23
giorni, per la redazione della sentenza, e non per la
sua pubblicazione, decorrenti dal passaggio della
causa in decisione.
Con il D.L. n. 90/2014, come modificato dalla
L. n. 114/2014, si crea un regime differenziato tra
primo grado e appello.
Mentre in appello permane la regola previgente,
in primo grado apparentemente il termine si amplia, passando da 23 a 30 giorni.
In realtà si abbrevia perché cambia il dies a quo,
e anche l’adempimento richiesto nel termine: infatti il termine per la sentenza decorre per regola
generale dalla decisione, ossia da quando il collegio
delibera in camera di consiglio (art. 89 c.p.a.), la
nuova disciplina formalmente prevede un dies a
quo diverso, che è quello dell’udienza di discussione: sicché il termine apparentemente ora più lungo, di 30 giorni anziché 23, è in realtà un termine
più breve, perché decorre dall’udienza e non dalla
camera di consiglio in cui si delibera la decisione,
e perché entro il termine la sentenza va pubblicata,
e non solo redatta, quindi in tale termine rientrano
gli adempimenti successivi alla redazione da parte
del giudice, che afferiscono alla pubblicazione a cura del segretario.
Ora, nella normalità dei casi i due momenti, vale a dire udienza di discussione e decisione, coincidono. Può però verificarsi uno sfalsamento se il
collegio, che delibera dopo l’udienza di discussione,
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ha in prosieguo un ripensamento e riporta la causa
sul ruolo in decisione: è la c.d. doppia camera di
consiglio.
Ora, questa prassi (che per dirla tutta talora ha
avuto degenerazioni, essendo stata utilizzata per
non incorrere nel ritardo nel deposito delle decisioni), non può essere eliminata per i casi in cui è
realmente necessaria, ma va doverosamente messa
su binari di legalità e trasparenza.
Nulla quaestio, ovviamente, se la doppia camera
di consiglio si fa a distanza ravvicinatissima e non
impedisce che la decisione sia presa entro il termine di 20 giorni.
Ma ove ciò fosse impossibile, per rispettare la regola che àncora il dies a quo della decisione alla
udienza di discussione, occorrerà che il meccanismo della doppia camera di consiglio sia accompagnato dalla doppia udienza. Ossia, se il collegio ha,
dopo la prima deliberazione, un dubbio che impone di riunire nuovamente il collegio in camera di
consiglio, dovrà anche fissarsi una nuova udienza
di discussione con l’invito alle parti a partecipare.
Non sembra che questo modus operandi trovi
ostacolo nella legge, che non impone che ci sia
una sola udienza di discussione, sebbene questa dovrebbe essere la regola tendenziale.
Quanto, poi, a ciò che va fatto nel termine di
30 giorni, la regola generale è che nel termine assegnato al giudice per la sentenza, questa vada “redatta”, che è cosa diversa dal “deposito”. Per redazione si intende, infatti, che il giudice relatore trasmetta (con il sistema informatico) la minuta al
Presidente, e che il Presidente riveda la minuta e
la trasmetta in segreteria. Il deposito, invece, implica la pubblicazione della sentenza (art. 89, comma 2 c.p.a.).
Ora la nuova disciplina richiede che nel termine
di 30 giorni non ci sia solo l’adempimento dell’art.
89 comma 1, c.p.a. (redazione della sentenza da
parte del giudice), ma anche quello dell’art. 89,
comma 2 c.p.a. (pubblicazione della sentenza a cura del segretario di udienza).
La novella recata dal D.L. n. 90/2014 non tocca
il comma 11 dell’art. 120, che è la previsione che
indica quali commi dell’art. 120 si applicano in appello: restano richiamati i commi 3, 6, 8 e 10.
Se ne desume che in appello non si applica il
comma 9 sul termine di pubblicazione di sentenza
e dispositivo: in appello resta il termine di 23 giorni per la sentenza e 7 per il dispositivo (su istanza
di parte), con la diversa decorrenza dal passaggio
in decisione e non dall’udienza di discussione, e
con l’onere di redigere e non anche di pubblicare,
1166
entro tali termini, sentenza e dispositivo. Si noti
che a suo tempo il mancato richiamo, nel comma
11, del comma 9, fu voluto, al fine di evitare la indefettibilità della pubblicazione del dispositivo in
fase di appello, e lasciare la regola generale della
pubblicazione solo su richiesta di parte, ai sensi
dell’art. 119 comma 5, richiamato dall’art. 120
comma 3, a sua volta richiamato dall’art. 120 comma 11. Ora, però, l’art. 120 comma 9 non si occupa più solo di pubblicazione del dispositivo, ma anche di termine di pubblicazione della sentenza.
La forma della sentenza
L’art. 120, comma 10, c.p.a. (dal 27 aprile al 15
settembre 2010, l’art. 245, D.Lgs. n. 163/2006), dispone che la sentenza che decide il ricorso è redatta, “ordinariamente, in forma semplificata”.
Ora, l’art. 120, comma 6, come novellato dal
D.L. n. 90/2014, dice che il giudizio viene comunque definito con “sentenza in forma semplificata”.
Il D.L. n. 90/2014 non ha tuttavia toccato l’art.
120, comma 10, che resta in vigore.
Si delinea perciò una contraddizione tra i due
commi, uno che impone la forma semplificata come indefettibile, l’altro che la prevede come regola
ordinaria ma non indefettibile.
La contraddizione potrebbe essere risolta con il
canone della successione delle leggi nel tempo,
dando la prevalenza alla norma successiva cronologicamente (120, comma 6 novellato) e ritenendo
implicitamente superato il comma 10, o con il canone della interpretazione sistematica, che porta
ad una soluzione opposta: l’art. 120, comma 6, nell’enunciare la forma semplificata, la intende negli
stessi termini del comma 10, che ha una portata
maggiormente chiarificatrice, in quanto indica il
significato della “forma semplificata” rinviando alla
sedis materiae che è l’art. 74. Sicché la forma semplificata è la regola, ma non assolutamente indefettibile, ma solo ordinaria. Ovviamente, se e quando,
dopo l’adozione del decreto presidenziale previsto
dall’art. 120, comma 6, gli atti di parte avranno limiti dimensionali ragionevoli, sarà più agevole
rendere la sentenza in forma semplificata. “Nelle
more”, a atti di parte complessi e lunghi, corrisponderanno sentenze redatte in forma ordinaria.
Nel processo amministrativo ordinario, la sentenza deve per regola generale essere sintetica. Viene poi prevista specificamente la forma semplificata solo per i soli casi più semplici, in cui vi sia una
situazione manifesta (di inammissibilità, irricevibilità, fondatezza o infondatezza) (art. 74 c.p.a.).
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L’art. 120, comma 10, c.p.a., prevede che la sentenza è ordinariamente redatta “nelle forme di cui
all’art. 74” c.p.a. È da ritenere perciò che il rinvio
sia disposto solo ai requisiti formali della sentenza,
non anche ai presupposti per la sentenza in forma
semplificata.
La imposizione della forma semplificata della
sentenza può anche essere letta come una rete di
protezione per i giudici, a compensazione del gravoso onere di decidere entro 45 giorni e pubblicare
il dispositivo entro due giorni e la sentenza entro
30.
Infatti, potranno rispettare tali termini scrivendo
sentenze in forma semplificata anziché in forma ordinaria, con un minor rischio di incorrere in vizi
revocatori. Infatti potranno decidere con la tecnica
del sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo, con assorbimento, legalmente autorizzato, dei motivi ritenuti non risolutivi.
Sicché, mentre nel rito ordinario la sentenza in
forma semplificata presuppone una situazione manifesta, nel nuovo rito appalti la sentenza in forma
semplificata è possibile anche in caso di liti complesse.
Per forma semplificata si intende la possibilità di
omettere la ricostruzione dei fatti e dei motivi di
ricorso (rinviando per essi agli scritti di parte),
concentrando la decisione nella sola motivazione.
Inoltre la motivazione può essere sintetica, e essere
costruita mediante rinvio a precedenti conformi o
mediante esame delle sole questioni ritenute decisive e assorbenti.
Nel nuovo rito, la sentenza in forma semplificata
viene imposta come regola, a prescindere dall’esservi o meno una situazione manifesta.
Pertanto, l’obiettivo perseguito dal legislatore è
che il giudice faccia un più ampio uso della sentenza in forma semplificata, così risparmiando energie
processuali.
Tuttavia, la forma semplificata non è imposta
come regola esclusiva, ma solo come regola ordinaria.
Questo significa che il giudice conserva integra
la possibilità di redigere la sentenza in forma ordinaria, ma solo come facoltà residuale, cui, normalmente, ricorrere nei casi di questioni di particolare
complessità.
Giova osservare che la generalizzazione della forma semplificata era già stata introdotta dall’art. 20,
comma 8, D.L. n. 185/2008, peraltro in termini assoluti, che avevano dato luogo a perplessità da parte degli interpreti.
Urbanistica e appalti 11/2014
In giurisprudenza si è ritenuto che la regola di
redazione della sentenza in forma semplificata, di
cui all’art. 120 c.p.a. possa essere osservata mediante le seguenti tecniche:
a) attraverso un rapido riepilogo del c.d. “fatto”
e l’esposizione sintetica delle censure sollevate;
b) concentrando la motivazione della pronuncia
sui profili ex se risolutivi della controversia;
c) facendo ampio ricorso alla tecnica del rinvio
per relationem ai precedenti giurisprudenziali condivisi dal collegio (T.A.R Lombardia, Brescia, sez. II,
4 novembre 2010, n. 4552).
La tutela cautelare
Quanto alla fase cautelare, la novità è la generalizzazione della misura della cauzione e la temporalizzazione della misura cautelare. Viene nell’art.
120 aggiunto un comma 8-bis a tenore del quale il
collegio, quando dispone le misure cautelari, ne
può subordinare l'efficacia, anche qualora dalla decisione non derivino effetti irreversibili, alla prestazione, anche mediante fideiussione, di una cauzione di importo commisurato al valore dell'appalto e comunque non superiore allo 0,5 per cento
del suddetto valore.
Tali misure sono disposte per una durata non superiore a sessanta giorni dalla pubblicazione della
relativa ordinanza, fermo restando quanto stabilito
dal comma 3 dell'art. 119, vale a dire la fissazione
dell’udienza di merito quando viene concessa misura cautelare.
La temporalizzazione della tutela cautelare che
non può eccedere i 60 giorni non dà luogo a censure di costituzionalità e di compatibilità comunitaria perché il legislatore la accompagna con un
meccanismo che dovrebbe assicurare che entro 60
giorni sopraggiunga la decisione di merito. Ma ove
così non fosse, una interpretazione costituzionalmente e comunitariamente orientata impone di ritenere che scaduta la prima misura cautelare, la relativa istanza possa essere reiterata.
Quanto alla cauzione, la previsione è innovativa
rispetto alle regole generali in tema di cauzione, in
quanto per l’adozione della misura non occorre necessariamente il presupposto degli effetti irreversibili della misura cautelare, in quanto viene indicata la tipologia di cauzione e ne viene quantificato
l’importo massimo. Si individua infatti, tra le forme di cauzione, la fideiussione (peraltro con previsione che appare esemplificativa), e si stabilisce
che l’importo va commisurato al valore dell'appalto e comunque non superiore allo 0,5 per cento
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del suddetto valore. Si tratterà di stabilire cosa si
intende per valore dell’appalto e, in particolare, se
si intende l’importo a base di gara, o l’importo risultante dall’aggiudicazione, ovvero l’importo offerto dal soggetto ricorrente in giudizio (che non è
l’aggiudicatario). La soluzione preferibile, proprio
perché l’aggiudicazione è sub iudice, e dunque il
prezzo di aggiudicazione non indica in modo definitivo il valore dell’appalto, è ritenere che il valore
dell’appalto sia il prezzo posto a base di gara.
La soluzione accolta dal comma 8-bis dell’art.
120, e inserita dalla L. n. 114/2014, non si presta a
rilievi di illegittimità, a differenza della versione
originaria proposta dal D.L. n. 90/2014, che prevedeva la cauzione come indefettibile, così esponendosi a dubbi di compatibilità comunitaria.
Infatti la cauzione indefettibile non è contemplata dalle c.d. direttive ricorsi.
La direttiva 2007/66 esige che gli Stati membri
garantiscano che l’organo chiamato a decidere possa “prendere con la massima sollecitudine e con
procedura d’urgenza provvedimenti cautelari intesi
a riparare la violazione denunciata o ad impedire
che altri danni siano causati agli interessi coinvolti, compresi i provvedimenti intesi a sospendere o
a far sospendere la procedura di aggiudicazione di
un appalto pubblico o l’esecuzione di qualsiasi decisione presa dall’amministrazione aggiudicatrice”.
E per converso consente un bilanciamento di interessi, nel senso che il giudice possa tener conto
delle probabili conseguenze dei provvedimenti cautelari per tutti gli interessi che possono essere lesi,
nonché per l’interesse pubblico e decidere di non
accordare tali provvedimenti qualora le conseguenze negative possano superare quelle positive.
Ma ove, in base a tale bilanciamento, la misura
cautelare vada accordata, la previsione indefettibile di una cauzione potrebbe essere interpretata come una regola che rende eccessivamente difficile
l’esercizio dei diritti e l’effettività della tutela, comunitariamente imposta.
Sul piano strettamente esegetico, poi, è poco
chiaro che si intenda per subordinazione a cauzione non già della concessione della misura cautelare, come dice in termini generali l’art. 55 comma 2
c.p.a., ma della sua sola “efficacia”.
Poiché il nuovo c. 8-bis dell’art. 120 c.p.a. non è
elencato tra le disposizioni applicabili in appello,
se ne desume che in appello non si applicano le
nuove regole in tema di cauzione e temporalizzazione della misura cautelare.
Si segnala, infine, che il D.L. n. 133/2014 (cd.
sblocca Italia) ha dettato una ulteriore regola, in
1168
materia cautelare, per gli interventi di estrema urgenza in materia di vincolo idrogeologico, di normativa antisismica e di messa in sicurezza degli edifici scolastici, che siano di importo inferiore alla
soglia comunitaria: ad essi non si applica lo standstill, ossia la preclusione alla stipula del contratto
fino alla pronuncia cautelare del giudice di primo
grado (art. 9, comma 2, lett. a), D.L. n. 133/2014).
Le nuove regole in tema di sanzione per lite
temeraria negli appalti
L’art. 246-bis, codice appalti, introdotto dal D.L.
n. 70/2011, prevedeva, nel rito appalti, una specifica sanzione per lite temeraria, in favore dell’Erario,
che si aggiungeva alla previsione dell’art. 26 c.p.a.,
che prevedeva la condanna per lite temeraria in favore della controparte.
In prosieguo, l’art. 246-bis codice appalti è stato
abrogato e la sanzione per lite temeraria, in aggiunta alla condanna per lite temeraria, è stata generalizzata e introdotta direttamente nell’art. 26 c.p.a.
Nell’art. 26 c.p.a., anche prima della novella introdotta con il D.L. n. 90/2014, era pacifica la coesistenza dei due istituti, condanna e sanzione, ancorati al presupposto della lite temeraria.
E, invero:
- l’art. 26, comma 1, rinvia all’art. 96 c.p.c., che
a sua volta prevede: (1) la condanna, su istanza di
parte, al risarcimento del danno se la parte ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave (art. 96, comma 1, c.p.c.); (2) la condanna anche d’ufficio in favore dell’altra parte, di una somma equitativamente determinata;
- l’art. 26, comma 2, c.p.a. prevede che il giudice
condanna d’ufficio la parte soccombente al pagamento di una sanzione pecuniaria, in misura non
inferiore al doppio e non superiore al quintuplo del
contributo unificato dovuto per il ricorso, quando
la parte soccombente ha agito o resistito temerariamente in giudizio.
Il D.L. n. 90/2014 ha inciso sia sull’art. 26, comma 1, c.p.a., in termini generali, valevoli per tutti i
riti davanti al giudice amministrativo, sia sull’art.
26, comma 2, c.p.a., in termini specifici, valevoli
solo per il rito appalti.
Sebbene l’art. 26, comma 1, continui a richiamare l’art. 96 c.p.c., in tema di lite temeraria detta
ora una regola più puntuale, introdotta dal D.L. n.
90/2014, stabilendosi che in ogni caso, il giudice,
anche d'ufficio, può altresì condannare la parte
soccombente al pagamento, in favore della controparte, di una somma equitativamente determinata,
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comunque non superiore al doppio delle spese liquidate, in presenza di motivi manifestamente infondati.
Inoltre nell’art. 26, comma 2 c.p.a. si detta una
ulteriore regola sulla sanzione pecuniaria per lite
temeraria nel caso di contenzioso sui pubblici appalti soggetto al rito dell’art. 120 c.p.a. Infatti l’importo della sanzione pecuniaria (che come visto va
dal doppio al quintuplo del contributo unificato
dovuto per il ricorso introduttivo), può essere elevato fino all'uno per cento del valore del contratto, ove il valore del contratto sia superiore al quintuplo del contributo unificato.
Quanto alla nozione di “valore del contratto”,
che può in astratto determinarsi tenendo conto del
prezzo a base di gara o del prezzo di aggiudicazione,
sembra corretto che esso si determini caso per caso
secondo l’esito del contenzioso in cui si liquida la
sanzione. Se, p.es. vengono respinti i ricorsi contro
l’aggiudicazione, il valore del contratto è il prezzo
offerto dall’aggiudicatario; se, per converso, viene
accolto il ricorso contro l’aggiudicazione, il valore
del contratto è il prezzo offerto dal ricorrente vittorioso.
L’importo dell’1% del valore del contratto, secondo cui quantificare la sanzione per lite temeraria, se riferita ad appalti di importo superiore a 3
milioni di euro, può essere una cifra molto elevata,
ben più dei 30.000 euro a cui può arrivare la sanzione pari a cinque volte il contributo unificato.
Esemplificando:
- per un appalto fino a 200.000 euro il contributo unificato è 2.000 euro, e la sanzione per lite temeraria, commisurata al contributo unificato, può
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arrivare a 10.000 euro, laddove l’1% del valore del
contratto è 2.000 euro;
- per un appalto da 200.000 a 1.000.000 di euro
il contributo unificato è 4.000 euro e la sanzione
per lite temeraria, commisurata al contributo unificato, può arrivare a 20.000 euro, laddove l’1% del
valore del contratto è 10.000 euro;
- ma per appalti di importo superiore a
1.000.000 di euro il contributo unificato è 6.000
euro e la sanzione per lite temeraria, commisurata
al contributo unificato, può arrivare a 30.000 euro,
laddove l’1% del valore del contratto, per appalti
di valore superiore a 3.000.000 di euro, supera i
30.000 euro. Ad es. per un appalto di 4.000.000 di
euro la sanzione potrebbe arrivare a 40.000 euro,
per un appalto di 10.000.000 di euro a 100.000 euro, per un appalto di 100.000.000 di euro a 1 milione di euro.
Conclusioni
In conclusione, le nuove regole processuali appaiono criticabili sotto più profili:
a) sostanziale inutilità della riduzione del termine per il dispositivo da sette a due giorni;
b) disallineamento tra rito del primo grado e rito
dell’appello;
c) eccentricità del regime transitorio.
Apprezzabile è invece la previsione di un contenuto concreto in relazione al principio di sinteticità degli atti di parte e di una temporalizzazione certa dei tempi di fissazione dell’udienza di merito,
anche se il termine di 45 giorni appare poco realistico.
1169
Giurisprudenza
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Comunitaria
DURC
La disciplina italiana sulla
regolarità contributiva è
compatibile con il diritto UE
CORTE DI GIUSTIZIA UE, sez. X, 10 luglio 2014, in causa C-358/12 – Pres. Rosas – Rel. Vajda –
Consorzio Stabile Libor Lavori Pubblici c. Comune di Milano e Pascolo s.r.l.
Gli articoli 49 TFUE e 56 TFUE nonché il principio di proporzionalità vanno interpretati nel senso che non ostano a una normativa nazionale che, riguardo agli appalti pubblici di lavori il cui valore sia inferiore alla soglia
definita all’articolo 7, lettera c), della direttiva 2004/18, obblighi l’amministrazione aggiudicatrice a escludere
dalla procedura di aggiudicazione di un tale appalto un offerente responsabile di un’infrazione in materia di
versamento di prestazioni previdenziali se lo scostamento tra le somme dovute e quelle versate è di un importo superiore, al contempo, a EUR 100 e al 5% delle somme dovute.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme
Cons. Stato, Ad. Plen., 4 maggio 2012, n. 8;Corte giust., 9 febbraio 2006, cause riunite C-226/04 e C-228/04, La
Cascina
Difforme
Cons. Stato, sez. V, 16 settembre 2011, n. 5186
1 La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione degli articoli 49 TFUE, 56 TFUE e 101
TFUE.
2 Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una
controversia tra il Consorzio Stabile Libor Lavori Pubblici (in prosieguo: il “Libor”) ed il Comune di Milano,
riguardo alla decisione di quest’ultimo di annullare l’aggiudicazione definitiva al Libor di un appalto pubblico
di lavori, in base al rilievo secondo cui il Libor aveva
violato l’obbligo di pagare i versamenti contributivi per
un importo pari a EUR 278.
Omissis.
10 Con bando pubblicato il 6 giugno 2011, il Comune
di Milano indiceva una gara per l’affidamento dell’appalto avente ad oggetto “i lavori di manutenzione
straordinaria e opere antintrusione su immobili di edilizia residenziale di proprietà del Comune di Milano”, da
aggiudicare secondo il criterio del massimo ribasso, partendo da un importo a base di gara pari a EUR 4 784
914,61.
11 Il bando imponeva espressamente a ciascun concorrente, a pena di esclusione, di dichiarare il possesso dei
requisiti di ordine generale per la partecipazione alla gara previsti dall’art. 38 del D.Lgs. n. 163/2006.
12 Il Libor presentava la domanda di partecipazione alla
gara e dichiarava, ai sensi dell’art. 38, paragrafo1, lett.
i), del D.Lgs. n. 163/2006, di “non avere commesso violazioni gravi, definitivamente accertate, alle norme in
materia di contributi previdenziali ed assistenziali, secondo la legislazione italiana”.
1170
13 All’esito della procedura il Comune di Milano disponeva l’aggiudicazione in favore del Libor e gliene dava
comunicazione con nota del 28 luglio 2011. Effettuava
poi il controllo della dichiarazione resa dall’aggiudicatario. A tal fine, conseguiva dall’amministrazione competente il DURC dal quale emergeva che il Libor non era
in regola con il pagamento dei versamenti contributivi
al momento della presentazione della sua domanda di
partecipazione alla gara, avendo omesso di effettuare,
entro il termine richiesto, i versamenti relativi al mese
di maggio 2011, di importo pari a EUR 278 e corrispondenti alla totalità dei versamenti contributivi dovuti
per tale mese. Tale somma veniva versata tardivamente
dal Libor in data 28 luglio 2011.
14 In considerazione dell’infrazione emergente dal
DURC, il Comune di Milano annullava l’aggiudicazione definitiva disposta a favore del Libor e escludeva
quest’ultimo dalla procedura, individuando quale nuova
aggiudicataria la Pascolo s.r.l.
15 Avverso tale provvedimento di annullamento, il Libor proponeva impugnazione dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, facendo valere,
sostanzialmente, che l’art. 38, paragrafo 2, del D.Lgs. n.
163/2006, è incompatibile con il diritto dell’Unione.
16 Il giudice del rinvio indica che la gara di cui si trattasi non ricade nella direttiva 2004/18 in quanto il valore dell’appalto oggetto del procedimento principale è
inferiore alla soglia fissata dall’art. 7, lett. c), di tale direttiva. Detto giudice considera, tuttavia, che tale gara
presenta un interesse transfrontaliero sicché, secondo la
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Giurisprudenza
Comunitaria
giurisprudenza della Corte, le norme fondamentali del
Trattato FUE devono essere rispettate. Al riguardo, detto giudice nutre dubbi quanto alla compatibilità dell’art.
38, paragrafo 2, del D.Lgs. n. 163/2006 con i principi di
proporzionalità e di parità di trattamento del diritto dell’Unione.
17 Secondo il giudice del rinvio, introducendo una nozione esclusivamente legale di “gravità” della violazione
contributiva, detta disposizione produce come effetto
che l’autorità aggiudicatrice viene privata di ogni margine di discrezionalità ai fini dell’accertamento dei requisiti di partecipazione relativi all’assenza di contributi arretrati. Una siffatta esclusione sarebbe, di per sé, compatibile con il diritto dell’Unione, in quanto rafforzerebbe la parità di trattamento tra i diversi operatori economici partecipanti ad una gara.
18 Tuttavia, il giudice del rinvio si interroga sulla compatibilità dei criteri elaborati dal legislatore nazionale
con il principio di proporzionalità e rileva che il requisito relativo al rispetto, da parte di un’impresa, dei suoi
obblighi di pagamento delle prestazioni previdenziali è
stato istituito con l’obiettivo di accertarsi dell’affidabilità, della diligenza e della serietà dell’impresa concorrente nonché della correttezza del suo comportamento nei
confronti dei suoi dipendenti. Il giudice del rinvio si
chiede se, riguardo a uno specifico procedimento di aggiudicazione, una violazione di tale requisito costituisca
realmente un indice significativo della mancanza di affidabilità dell’impresa. Si tratterebbe, infatti, di un criterio astratto che non tiene conto delle caratteristiche di
un bando di gara specifico, relative all’oggetto e al valore attuale di quest’ultimo, nonché dell’importanza del
fatturato e della capacità economica e finanziaria dell’impresa che ha commesso l’infrazione. Peraltro, l’esclusione di un’impresa dalla partecipazione a un bando di
gara sarebbe sproporzionata in casi in cui, come nel procedimento principale, l’infrazione verte su un importo
poco rilevante.
19 Il giudice del rinvio, inoltre, nutre dubbi quanto alla
coerenza delle condizioni di esclusione da un appalto
per il mancato pagamento delle prestazioni previdenziali
con quelle concernenti il mancato pagamento in materia fiscale, secondo le quali solo le infrazioni che vertono su un importo superiore a EUR 10 000 sarebbero
qualificate come gravi.
Omissis.
27 Per contro, come risulta dal considerando 2 della direttiva 2004/18, tra i principi del Trattato che devono
essere rispettati nell’aggiudicazione di appalti pubblici
ricadono, segnatamente, quelli della libertà di stabilimento e della libera prestazione dei servizi, nonché il
principio di proporzionalità.
28 Quanto agli articoli 49 TFUE e 56 TFUE, risulta
dalla giurisprudenza costante della Corte che tali articoli ostano a ogni misura nazionale che, anche applicabile
senza discriminazione relativa alla nazionalità, sia in
grado di vietare, di ostacolare o di rendere meno attraente l’esercizio, da parte di cittadini dell’Unione europea, della libertà di stabilimento e della libera prestazione dei servizi garantite da dette disposizioni del Trat-
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tato (v., segnatamente, sentenza Serrantoni e Consorzio
stabile edili, C-376/08, EU:C:2009:808, punto 41).
29 Per quanto riguarda gli appalti pubblici, è interesse
dell’Unione in materia di libertà di stabilimento e di libera prestazione di servizi che l’apertura di un bando di
gara alla concorrenza sia la più ampia possibile (v., in
tal senso, sentenza CoNISMa, C-305/08,
EU:C:2009:807, punto 37). Orbene, l’applicazione di
una disposizione che esclude dalla partecipazione alle
procedure di aggiudicazione di appalti pubblici di lavori
i soggetti che hanno commesso violazioni gravi alle
norme nazionali applicabili in materia di prestazioni
previdenziali, come quella prevista dall’art. 38, paragrafo 1, lett. i), del D.Lgs. n. 163/2006, è tale da ostacolare
la partecipazione più ampia possibile di offerenti alle
procedure di aggiudicazione.
30 Una siffatta disposizione nazionale, tale da ostacolare
la partecipazione degli offerenti a un appalto pubblico
che presenti un interesse transfrontaliero certo, costituisce una restrizione ai sensi degli articoli 49 TFUE e 56
TFUE.
31 Tuttavia, una restrizione siffatta può essere giustificata qualora essa persegua un obiettivo legittimo di interesse pubblico e purché rispetti il principio di proporzionalità, vale a dire, sia idonea a garantire la realizzazione
di tale obiettivo e non vada oltre quanto è necessario
per conseguirlo (v., in tal senso, sentenza Serrantoni e
Consorzio stabile edili, EU:C:2009:808, punto 44).
32 A tal riguardo, anzitutto, risulta dalla decisione di
rinvio che l’obiettivo perseguito dalla causa di esclusione dagli appalti pubblici definita dall’art. 38, paragrafo
1, lett. i), del D.Lgs. n. 163/2006 consiste nell’accertarsi
dell’affidabilità, della diligenza e della serietà dell’offerente nonché della correttezza del suo comportamento
nei confronti dei suoi dipendenti. Occorre rilevare che
accertarsi che un offerente possieda tali qualità costituisce un obiettivo legittimo di interesse generale.
33 Occorre quindi rilevare che una causa di esclusione
come quella prevista dall’art. 38, paragrafo 1, lett. i),
del D.Lgs. n. 163/2006 è idonea a garantire il conseguimento dell’obiettivo perseguito, dato che il mancato
versamento delle prestazioni previdenziali da parte di
un operatore economico tende a indicare assenza di affidabilità, di diligenza e di serietà di quest’ultimo quanto
all’adempimento dei suoi obblighi legali e sociali.
34 Infine, per quanto riguarda la necessità di una tale
misura, occorre rilevare, in primo luogo, che la definizione, da parte della normativa nazionale, di una soglia
precisa di esclusione alla partecipazione agli appalti
pubblici, vale a dire uno scostamento tra le somme dovute a titolo di prestazioni sociali e quelle versate è di
un importo superiore, al contempo, a EUR 100 e al 5%
delle somme dovute, garantisce non solo la parità di
trattamento degli offerenti ma anche la certezza del diritto, principio il cui rispetto costituisce una condizione
della proporzionalità di una misura restrittiva (v., in tal
senso, sentenza Itelcar, C-282/12, EU:C:2013:629, punto 44).
35 In secondo luogo, per quanto riguarda il livello di tale soglia di esclusione, quale definito dalla normativa
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nazionale, occorre ricordare che, riguardo agli appalti
pubblici che ricadono nella sfera di applicazione della
direttiva 2004/18, l’articolo 45, paragrafo 2, di tale direttiva lascia l’applicazione dei casi di esclusione che
menziona alla valutazione degli Stati membri, come risulta dall’espressione “può venire escluso dalla partecipazione ad un appalto”, che figura all’inizio di detta disposizione, e rinvia esplicitamente, in particolare alle
lettere e) e f), alle disposizioni legislative nazionali [v.,
per quanto riguarda l’art. 29 della direttiva 92/50/CEE
del Consiglio, del 18 giugno 1992 che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di servizi
(GU L 209, pag. 1), sentenza La Cascina e a., C-226/04
e C-228/04, EU:C:2006:94, punto 21]. Inoltre, ai sensi
del secondo comma di detto articolo 45, paragrafo 2, gli
Stati membri precisano, conformemente al rispettivo diritto nazionale e nel rispetto del diritto dell’Unione, le
condizioni di applicazione del paragrafo stesso.
36 Di conseguenza, l’art. 45, paragrafo 2, della direttiva
2004/18 non prevede una uniformità di applicazione
delle cause di esclusione ivi indicate a livello dell’Unione, in quanto gli Stati membri hanno la facoltà di non
applicare affatto queste cause di esclusione o di inserirle
nella normativa nazionale con un grado di rigore che
potrebbe variare a seconda dei casi, in funzione di considerazioni di ordine giuridico, economico o sociale prevalenti a livello nazionale. In tale ambito, gli Stati
membri hanno il potere di attenuare o di rendere più
flessibili i criteri stabiliti da tale disposizione (v., per
quanto riguarda l’art. 29 della direttiva 92/50, sentenza
La Cascina e a., EU:C:2006:94, punto 23).
37 Orbene, l’art. 45, paragrafo 2, lett. e), della direttiva
2004/18 consente agli Stati membri di escludere dalla
partecipazione a un appalto pubblico ogni operatore
economico che non sia in regola con gli obblighi relativi al pagamento dei contributi previdenziali e assistenziali, senza che sia previsto un qualsivoglia importo minimo di contributi arretrati. In tale contesto, il fatto di
prevedere un siffatto importo minimo nel diritto nazionale costituisce un’attenuazione del criterio di esclusione previsto da tale disposizione e non può, pertanto, ritenersi che vada oltre il necessario. Ciò vale, a fortiori,
riguardo agli appalti pubblici che non raggiungono la
soglia definita dall’art. 7, lett. c), di tale direttiva e, di
conseguenza, non sono assoggettati alle procedure particolari e rigorose previste dalla direttiva stessa.
38 Peraltro, il fatto che la soglia di esclusione prevista
dal diritto nazionale per il mancato pagamento di imposte e tasse sia, come rileva il giudice del rinvio, nettamente più elevata della soglia relativa ai contributi previdenziali non incide, di per sé, sulla proporzionalità di
quest’ultima. Infatti, come si evince dal punto 36 della
presente sentenza, gli Stati membri sono liberi di integrare le cause di esclusione previste, in particolare, dall’art. 45, paragrafo 2, lett. e) e f), di detta direttiva nella
normativa nazionale con un grado di rigore che potrebbe variare a seconda dei casi, in funzione di considerazioni di ordine giuridico, economico o sociale prevalenti
a livello nazionale.
Omissis.
IL COMMENTO
di Paolo Patrito
La sentenza della Corte di giustizia in commento ritiene compatibile con la disciplina europea la normativa italiana in materia di regolarità contributiva nelle gare d'appalto. L'Autore esprime talune riserve sul
punto, anche alla luce di alcuni precedenti della stessa Corte di giustizia, per poi soffermarsi sulla disciplina dettata in argomento dalla nuova direttiva 2014/24/UE.
La Corte di giustizia ritiene compatibile con i
principi del Trattato la disciplina italiana in tema
di esclusione dalle gare d'appalto per irregolarità
contributiva di cui all'art. 38, comma 1, lett. i),
D.Lgs. n. 163/2006, in combinato disposto con
l'art. 8, comma 3, D.M. 24 ottobre 2007, relativo
al DURC (1).
In estrema sintesi, il combinato disposto delle citate disposizioni prevede che siano esclusi dalla
partecipazione alle procedure di evidenza pubblica,
in quanto non possono essere considerati affidabili (2), gli operatori economici che hanno commesso violazioni gravi, definitivamente accertate, alle
(1) L'ordinanza di rinvio proveniva da T.A.R. Lombardia, Milano, ord. 12 luglio 2012, n. 1969), in questa Rivista, 2012,
1310, con nota di I. Pagani, I parametri di valutazione della gravità degli inadempimenti contributivi e previdenziali al vaglio della Corte di Giustizia.
(2) Come rammenta T.A.R. Lombardia, Milano, n.
1969/2912, cit., “la regolarità contributiva è un requisito di ordine generale di partecipazione ad una gara ed integra un indice dell’affidabilità, della diligenza e della serietà dell’impresa
concorrente e della sua correttezza nei rapporti con i dipendenti (cfr. sul punto Cons. Stato, sez. V, 18 ottobre 2001, n.
5517). L’impresa che è in regola con i versamenti contributivi
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norme in materia di contributi previdenziali e assistenziali (art. 38, cit.), dovendosi intendere per
gravi quelle violazioni contributive che eccedono
il 5% dello scostamento tra le somme dovute e
quelle versate con riferimento a ciascun periodo di
paga o di contribuzione, fermo restando che, in
ogni caso, non è grave la violazione di importo inferiore a 100,00 euro (D.M. 24 ottobre 2007) (3).
Sono, così sciolti i dubbi, peraltro niente affatto
peregrini, sollevati dal Tribunale milanese circa la
“euroconformità” della disciplina sopra richiamata,
la quale, a dire del giudice del rinvio, non sarebbe
rispettosa del canone della proporzionalità in quanto, da un lato, “il dato meramente quantitativo
dell'importo della violazione commessa non integra
un indice significativo dell'inaffidabilità dell'impresa rispetto alla specifica procedura di gara” (4), dal-
l'altro, l'esiguità in concreto della violazione, pur
se superiore alla soglia di cui al D.M. 24 ottobre
2007, comporterebbe una sanzione sproporzionata,
anche tenuto conto che, per le violazioni in materia fiscale, lo stesso art. 38, cit., in combinato disposto con l'art. 48-bis, commi 1 e 2-bis, D.P.R. n.
602/1973, considera gravi solo le violazioni superiori a 10.000,00 euro (5).
Occorrerebbe, conclude il TAR, “ancorare il parametro quantitativo dell'entità della violazione ad
aspetti oggettivi della gara, che siano rilevanti, secondo l'id quod plerumque accidit, per giudicare dell'affidabilità in concreto del concorrente incorso in
violazioni contributive” (6).
In sostanza, il principio della certezza del diritto
assicurata dalla disciplina in materia di regolarità
contributiva dovrebbe essere recessivo (7), a dire
viene considerata affidabile dal legislatore nazionale, sia dal
punto di vista della sua solidità finanziaria, perché adempie
con regolarità ai propri debiti contributivi, sia sul piano della
capacità di gestire in modo diligente e serio tanto i rapporti
con l’amministrazione previdenziale, quanto i rapporti di lavoro
con i propri dipendenti, palesandosi così come controparte
contrattuale meritevole di fiducia” (p. 31). Nello stesso senso,
ad es., Cons. Stato, sez. VI, 4 aprile 2011, n. 2100, ibid.; Id.,
sez. V, 8 aprile 2014, n. 1647, ibid., secondo cui “la regolarità
contributiva e fiscale […] deve essere mantenuta per tutto l’arco di svolgimento della gara […] fino al momento dell’aggiudicazione, sussistendo l’esigenza della stazione appaltante di verificare l’affidabilità del soggetto partecipante alla gara fino alla
conclusione della stessa, restando irrilevante un eventuale
adempimento tardivo degli obblighi contributivi e fiscali, ancorché con effetti retroattivi […], giacché la (ammissibilità della) regolarizzazione postuma si tradurrebbe in una integrazione
dell’offerta, configurandosi come violazione della par condicio”. Sulla ratio della disposizione o, detto diversamente, sull'interesse dalla stessa tutelato, v. amplius infra.
(3) Sul requisito della regolarità contributiva, v., in generale,
R. Greco, I requisiti di ordine generale, in R. De Nictolis, R. Garofoli, M. A. Sandulli (a cura di), Trattato sui contratti pubblici,
II, Milano, 2008, 1267 ss.; L. Ponzone, Requisiti di ordine generale e di idoneità professionale, in F. Saitta (a cura di), Il nuovo
codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, 2008,
231; S. Sticchi Damiani, I requisiti di ordine generale, in C.
Franchini (a cura di), I contratti di appalto pubblico, Torino,
2010, 446 ss.; R. Proietti, Art. 38. I requisiti di ordine generale,
in S. Baccarini, G. Chiné, R. Proietti (a cura di), Codice dell’appalto pubblico, Milano, 2011, 451 ss.; S. Luce, Requisiti soggettivi degli operatori economici affidatari degli appalti pubblici di
lavori, in F. Caringella, M. Protto (a cura di), L'appalto e gli altri
contratti della P.A., Bologna, 2012, 437 ss., R. Caranta, I contratti pubblici, II ed., Torino, 2012, 345. Sul DURC H. D'Herin,
S. Cresta, I principi relativi all'esecuzione del contratto, in F. Caringella, M. Protto (a cura di), L'appalto e gli altri contratti della
P.A., cit., 1322 ss.
(4) T.A.R. Lombardia, Milano, n. 1969/2012, cit., p. 33.
(5) T.A.R. Lombardia, Milano, n. 1969/2012, cit. Di fatto,
con l'ordinanza in parola, il TAR aveva tentato di ottenere il superamento del principio di diritto affermato da Cons. Stato,
Ad. Plen., 4 maggio 2012, n. 8, in questa Rivista, 2012, 911,
con nota di H. D'Herin, La Plenaria fa luce sull'efficacia del
DURC ai fini dell'esclusione delle gare d'appalto; in Foro Amm.
CdS, 2012, 2234, con nota favorevole di P. Gotti, Vincolatività
o meno delle risultanze in materia di regolarità contributiva nelle
procedure di affidamento degli appalti pubblici, al vaglio dell'Adunanza Plenaria, secondo cui «ai sensi e per gli effetti dell’art.
38, comma 1, lett. i), D.Lgs. n. 163 del 2006 […], la nozione di
“violazione grave” non è rimessa alla valutazione caso per caso della stazione appaltante, ma si desume dalla disciplina
previdenziale, e in particolare dalla disciplina del documento
unico di regolarità contributiva; ne consegue che la verifica
della regolarità contributiva delle imprese partecipanti a procedure di gara per l’aggiudicazione di appalti con la pubblica amministrazione è demandata agli istituti di previdenza, le cui certificazioni (DURC) si impongono alle stazioni appaltanti, che
non possono sindacarne il contenuto». Sul rinvio pregiudiziale
alla Corte di giustizia come strumento per superare i principi
espressi dall'Adunanza Plenaria, v. C. Lamberti, Stare decisis,
nomofilachia e supremazia nel diritto amministrativo, in Giur.
It., 2013, 976 ss. Va ancora rilevato che, mentre per i TAR non
sussiste alcun ostacolo, diverso è per le Sezioni semplici del
Consiglio di Stato, che, ai sensi dell'art. 99, comma 3, c.p.a.,
ove vogliano discostarsi dal principio di diritto affermato dall'Adunanza Plenaria, devono rimettere a quest'ultima la decisione
del ricorso, senza potersi rivolgere direttamente alla Corte di
giustizia. Tali, almeno, le conclusioni cui giunge C.G.A. Sicilia,
17 ottobre 2013, n. 848, che ha rimesso alla Corte di giustizia
la questione sulla “compatibilità eurounitaria dell’art. 99, comma 3, c.p.a., qualora detta disposizione debba applicarsi anche in controversie che siano disciplinate dal diritto dell’Unione europea (o dal diritto interno che costituisca recepimento di
quello sovranazionale) e nella misura in cui l’applicazione di
detta disposizione si traduca [...] in un ostacolo al pieno esercizio della potestà di ogni Sezione e Collegio del Consiglio di
Stato, in quanto giudice di ultima istanza, di rinviare pregiudizialmente una questione alla CGUE; ovvero, e altresì, in un
ostacolo al pieno esercizio della potestà di ogni Sezione e Collegio del Consiglio di Stato, in quanto giudice di ultima istanza,
di applicare direttamente, quale giudice comune del diritto dell’Unione europea, i principi del diritto euro unitario, per come
declinati dalla Corte di giustizia UE, in guisa da assicurarne il
maggiore (e più sollecito) effetto utile”.
(6) T.A.R. Lombardia, Milano, n. 1969/2012, cit., p. 43.
(7) Certezza del diritto che, invece, per Cons. Stato, Ad.
Plen., n. 8/2012, cit., fa premio sulla giustizia del caso concreto: v., sul punto, P. Gotti, Vincolatività o meno delle risultanze in
materia di regolarità contributiva nelle procedure di affidamento
degli appalti pubblici, al vaglio dell'Adunanza Plenaria, cit., secondo cui “le conclusioni a cui nella specie perviene l'Ad. Plen.
sembrano nel complesso condivisibili, in quanto esse se, per
un verso, finiscono col porre un freno al cd. favor partecipatio-
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del TAR, rispetto alla giustizia del caso concreto (8), che può essere assicurata solamente mediante la previsione di una disciplina che consenta di
valorizzare una serie di dati ulteriori (9), alla stregua dei quali l'amministrazione (e, di conseguenza,
il giudice (10)) possa valutare se la violazione debba considerarsi grave o meno (11).
La Corte di giustizia, facendo proprie le argomentazioni del TAR circa l'interesse tutelato dalla
disposizione (l'affidabilità del concorrente (12)),
non ravvisa però alcuna violazione del principio di
proporzionalità in relazione a tutte le sue componenti (idoneità, necessità e proporzione in senso
stretto) (13): la disciplina in esame è idonea al raggiungimento dello scopo perseguito; essa è rispettosa del requisito della necessità che, nell'argomentare della Corte, sarebbe garantito dalla previsione di
una soglia di “punibilità” predeterminata la quale
assicura, oltre alla parità di trattamento, anche la
certezza del diritto, principio il cui rispetto costituisce una “condizione della proporzionalità di una
misura restrittiva”; tenuto conto, poi, che l'art. 45
della direttiva 2004/18/CE consente (pur non imponendolo) di escludere gli operatori economici
non in regola con la normativa previdenziale, senza prevedere una soglia minima (14), per definizio-
nis alle gare da parte delle imprese, che - come noto - informa
di sé tutta la normativa (comunitaria ed interna) in materia di
affidamento di appalti pubblici ed è ispirato al principio della libera concorrenza per il mercato e della par condicio di tutti i
partecipanti alle gare; per l'altro verso, valorizzano e pongono
al vertice il principio della certezza del diritto e della semplificazione nei rapporti giuridici tra p.a. e privati (e, di conseguenza,
anche nelle relazioni interprivate”.
(8) Sulla necessità di rifarsi al concetto di giustizia ai fini
della comprensione del diritto amministrativo, E. Cannada Bartoli, Interesse (diritto amministrativo), in Enc. Dir., XXII, Milano,
1972, 18.
(9) Il TAR puntualizza che “la scelta del legislatore nazionale
di escludere poteri valutativi in capo alla stazione appaltante
sia di per sé comunitariamente compatibile, perché rafforza la
parità di trattamento tra i diversi operatori economici partecipanti ad una gara, evitando rischi di comportamenti discriminatori” (p. 28): le critiche, come risulta dal testo, si appuntano
sulla tecnica legislativa.
(10) Sulla distinzione tra “problema dell'amministrazione” e
“problema del giudice” (che interviene, necessariamente, dopo che l'amministrazione abbia esercitato il potere), v. F. Ledda, Efficacia del processo e ipoteca degli schemi, in Atti del
Convegno di Messina 15-16 aprile 1988, Milano, 1993, ora in
Id., Scritti giuridici, Padova, 2002, 315. Di “competenza esclusiva” dell'amministrazione (ossia della “gestione in via fisiologica dell'affare (senza lite)”) discorreva E. Capaccioli, Le sanzioni pecuniarie e il loro procedimento di irrogazione, in Le sanzioni amministrative. Atti del XXVI Convegno di Studi di Scienza
dell'Amministrazione. Varenna, Villa Monastero, 18-20 settembre 1980, Milano, 1982, 117. Su tale aspetto dell'opera di E.
Capaccioli, v. C. Marzuoli, Una nozione da ricordare: la «competenza esclusiva », in Dir. Amm., 2009, 909 ss.
(11) Sul problema della rapporto tra discrezionalità e vincolo nella disciplina degli appalti pubblici, v. già M. Clarich, La
legge Merloni quater tra instabilità e flessibilità, in Corr.
Giur., 2002, 1401 ss., che parla di “difficoltà di trovare un equilibrio tra due ordini di valori irrinunciabili, ma in parte confliggenti: rigore, trasparenza, imparzialità, da un lato; flessibilità,
informalità, celerità delle procedure, dall'altro”: mentre “il primo ordine di valori tende a favorire regole rigide tali da garantire al massimo grado la par condicio tra le imprese che aspirino a stipulare il contratto con l'amministrazione appaltante. Il
legislatore delinea così sequenze procedimentali articolate, individua con la maggior precisione possibile i requisiti soggettivi e oggettivi per la partecipazione alla gare, prevede meccanismi di valutazione di tipo automatico. Idealmente, la procedura ad evidenza pubblica non dovrebbe attribuire all'amministrazione alcun margine di discrezionalità”; il secondo “al contrario, tende a strutturare le procedura ad evidenza pubblica,
per quanto possibile, sulla falsariga delle contrattazioni tra
soggetti privati che avvengono, com'è noto, su basi di informalità o di regole interne che ciascun contraente si dà in base
al particolare tipo di organizzazione”. In argomento, v. poi G.
D. Comporti, Introduzione: dal potere discrezionale alle scelte
negoziali, in Id. (a cura di), Le gare pubbliche: il futuro di un modello, Napoli, 2011, 1 ss.
(12) Sul punto ci si soffermerà diffusamente nel prosieguo,
non senza anticipare che è forse questo il “peccato d'origine”
dell'ordinanza: se si fosse posto l'accento sulla tutela della
concorrenza, probabilmente, come si avrà modo di vedere oltre, le conclusioni avrebbero potuto essere diverse.
(13) Sul sindacato della Corte di giustizia, v. M. Dawson, B.
De Witte, E. Muir, Judicial Activism at the European Court of
Justice, Cheltenham, 2013. Sul principio di proporzionalità, T.
Tridimas, The General Principles of EC Law, II ed., Oxford,
2006; D. U. Galetta, Principio di proporzionalità e sindacato giurisdizionale nel diritto amministrativo, Milano, 1998; Ead., Principio di proporzionalità e giudice amministrativo nazionale, in
Foro Amm. TAR, 2007, 603; A. Sandulli, La proporzionalità dell'azione amministrativa, Padova, 1998; S. Cognetti, Principio di
proporzionalità: profili di teoria generale e di analisi sistematica,
Torino, 2011. A livello comparatistico, B. Pieker, Proportionality
Analysis and Models of Judicial Review: a Theoretical and Comparative Study, Groningen, 2013.
(14) In Francia, ad esempio, non è prevista alcuna soglia di
“punibilità”: ai sensi del combinato disposto dell'art. 43 del Code des marchés publics e dell'art. 8 dell'ordonnance 6 giugno
2005, non possono partecipare alle gare d'appalto “les personnes qui, au 31 décembre de l'année précédant celle au cours de
laquelle a lieu le lancement de la consultation, n'ont pas souscrit
les déclarations leur incombant en matière fiscale et sociale ou
n'ont pas acquitté les impôts et cotisations exigibles à cette date.
Toutefois, sont considérées comme en situation régulière les
personnes qui, au 31 décembre de l'année précédant celle au
cours de laquelle a eu lieu le lancement de la consultation, n'avaient pas acquitté les divers produits devenus exigibles à cette
date, ni constitué de garanties, mais qui, avant la date du lancement de la consultation, ont, en l'absence de toute mesure d'exécution du comptable ou de l'organisme chargé du recouvrement, soit acquitté lesdits produits, soit constitué des garanties
jugées suffisantes par le comptable ou l'organisme chargé du recouvrement. Les personnes physiques qui sont dirigeants de
droit ou de fait d'une personne morale qui ne satisfait pas aux
conditions prévues au présent alinéa ne peuvent ętre personnellement candidates à un marché”. Assolutamente esigua la giurisprudenza in argomento; v., tuttavia, Cour Administrative
d'Appel de Marseille, 4 giugno 2012, Sociètè Azur Fetes, in
www.legifrance.gouv.fr, che ha respinto il ricorso proposto per
l'annullamento dell'aggiudicazione disposta a favore di impresa che era in regola con il versamento delle imposte al 31 dicembre dell'anno precedente la pubblicazione del bando, ma
che era risultata debitrice di una somma nei confronti del Fisco
maturata nell'anno in corso. In dottrina, v. sul punto T. Del Farra, Les exclusions généales et automatiques des marchés publics sont-elles conformes au Traité sur l'Union européenne et à
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ne - si potrebbe dire - l'aver previsto una soglia di
“punibilità” non è in contrasto con il requisito della necessarietà; infine, la diversità di disciplina rispetto all'ipotesi di violazione in materia fiscale
“non incide, di per sé, sulla proporzionalità di quest'ultima” in quanto gli Stati membri sono liberi di
integrare le cause di esclusione previste dall'art. 45
della direttiva 2004/18/Ce “con un grado di rigore
che potrebbe variare a seconda dei casi, in funzione di considerazioni di ordine giuridico, economico
o sociale prevalenti a livello nazionale” (15).
Anzi, ancor più radicalmente, afferma la Corte
che “gli Stati membri hanno la facoltà di non applicare affatto queste cause di esclusione o di inserirle nella normativa nazionale […]. In tale ambito,
gli Stati membri hanno il potere di attenuare o di
rendere più flessibili i criteri stabiliti da tale disposizione” (16): come subito si vedrà, neppure potrebbe venire in rilievo il principio di proporzionalità,
la Constitution?, in Bulletin juridique des contrats publics, 2011,
n. 74, 2 ss. Nel Regno Unito, l'esclusione è rimessa alla volontà dell'Amministrazione: ai sensi dell'art. 23, par. 4, lett. f, delle
Public Contracts Regulations del 2006 (e delle Public Contracts
(Scotland) Regulations 2006 per la Scozia) “a contracting authority may treat an economic operator as ineligible or decide
not to select an economic operator in accordance with these Regulations on one or more of the following grounds, namely that
the economic operator - […] has not fulfilled obligations relating
to the payment of social security contributions under the law of
any part of the United Kingdom or of the relevant State in which
the economic operator is established”. In Belgio, la “soglia di
punibilità” è di 3.000 euro (per quanto riguarda sia la regolarità
fiscale sia quella contributiva): v. artt. 62 e 63, arreté royale 15
juillet 2011.
(15) Per il vero, l'appalto di cui si tratta non ricade nell'ambito di applicazione della direttiva 2004/18/CE, in quanto sottosoglia, ma, avendo un interesse transfrontaliero certo, è regolato dai principi del Trattato di libertà di stabilimento, di prestazione dei servizi e di proporzionalità (sulla questione, v. in generale R. Caranta, Le regole applicabili ai contratti non o solo
parzialmente disciplinati dalle direttive “appalti pubblici”, in Giur.
It., 2010, 2659; P. Patrito, L’appalto pubblico transfrontaliero e
le regole comuni per l’affidamento, in G. A. Benacchio, M. Cozzio (a cura di), Gli appalti pubblici tra regole europee e nazionali,
Milano, 2012, 431 ss.; A. D. Mazzilli, G. Mari, R. Chieppa, I
contratti esclusi dall'applicazione del Codice dei contratti pubblici, in M. A. Sandulli, R. De Nictolis, R. Garofoli (a cura di), Trattato sui contratti pubblici, I, Milano, 2008, 396, ss.). Circa il rilievo dell'art. 45 della direttiva, la sentenza in epigrafe precisa
che i principi da essa desumibili valgono “a fortiori, riguardo
agli appalti pubblici che non raggiungono la soglia definita dall’art. 7, lett. c), di tale direttiva e, di conseguenza, non sono assoggettati alle procedure particolari e rigorose previste dalla
direttiva stessa” (p. 37).
(16) Punto 36 della decisione in commento. Non si tratta
neanche di un caso di armonizzazione minima, “in base alla
quale la norma comunitaria fissa gli standards minimi di tutela,
liberi restando gli Stati membri di fissare, ognuno al loro interno, standards più elevati” (così la definizione offerta da R. Caranta, La cooperazione tra amministrazioni nazionali nell'ambito
del mercato unico, in Giur. It., 1997, I, 1, 1449; v. anche F. Munari, Direttive e armonizzazione, in G. Casale, Europa: verso
quale integrazione?, Milano, 2001, 409 ss.), in quanto, in realtà,
Urbanistica e appalti 11/2014
che, pertanto, nell'argomentare della Corte null'altro sarebbe se non un obiter dictum.
Discrezionalità e proporzionalità
Si è appena visto che, sulla base dell'art. 45 della
direttiva 2004/18/CE, come interpretato dalla sentenza in commento, al legislatore nazionale sono
concesse tre possibilità, tutte legittime: escludere il
concorrente non in regola con i versamenti previdenziali; non escluderlo; escluderlo solo se lo scostamento tra il dovuto ed il versato superi una certa soglia; e, come affermato dalla decisione in esame, la scelta tra le tre possibilità dipende da “considerazioni di ordine giuridico, economico o sociale” (p. 36) (17), rimesse interamente, id est insindacabilmente, alle valutazioni dei singoli Stati.
In pratica, ci si troverebbe di fronte ad una sostanziale libertà del legislatore nazionale rispetto a
non viene neppure indicata uno standard minimo. Va peraltro
evidenziato che secondo J.H. Jans, Minimum Harmonisation
and the Role of the Principle of Proportionality, http://ssrn.com/abstract=1105341, nonostante, a prima vista, il principio di
proporzionalità non operi in tali ipotesi, “a further analysis of
the case law of the Court, furthermore, gives the impression that
in fact the Court does carry out a review of the suitability of the
stricter measures, but does so 'between the lines', by requiring
that the national measures are an extension of the objectives of
the European minimum rules”. Tale impressione è confermata
dalla lettura di Corte giust. CE, 21 settembre 2006, causa C168/04, Commissione C. Repubblica d'Austria, p. 37, secondo
cui “una normativa nazionale ricompresa in un settore che
non abbia costituito oggetto di armonizzazione a livello comunitario e che si applichi indistintamente a tutte le persone o imprese che esercitino un’attività nel territorio dello Stato membro ospitante può, nonostante gli effetti restrittivi sulla libera
prestazione dei servizi, essere giustificata se risponde a ragioni
imperative d’interesse generale, qualora tale interesse non sia
già tutelato dalle norme cui il prestatore è soggetto nello Stato
membro in cui risiede, se è idonea a garantire il conseguimento dello scopo perseguito e se non va oltre quanto necessario
per il suo raggiungimento”.
(17) Il principio non è certamente nuovo: v., in precedenza,
Corte giust. CE, cause riunite C-226/08 e C-228/08, La Cascina,
in questa Rivista, 2006, 540, con nota di P. Lotti, Corte CE e
esclusione dalla gara per irregolarità fiscale e contributiva: è necessaria una regola chiara, p. 23, secondo cui “l’art. 29 della direttiva non prevede in materia una uniformità di applicazione
delle cause di esclusione ivi indicate a livello comunitario, in
quanto gli Stati membri hanno la facoltà di non applicare affatto queste cause di esclusione, optando per la partecipazione
più ampia possibile alle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici, o di inserirle nella normativa nazionale con un
grado di rigore che potrebbe variare a seconda dei casi, in funzione di considerazioni di ordine giuridico, economico o sociale prevalenti a livello nazionale. In tale ambito, gli Stati membri
hanno il potere di alleviare o di rendere più flessibili i criteri stabiliti dall’art. 29 della direttiva”; Id., 16 dicembre 2008, in C213/07, Michainiki, in Foro Amm. CdS, 2008, 3213 (s.m), 56;
Id., 4 ottobre 2012, in C-502/11, in questa Rivista, 2012, 522,
con nota di A. Giacalone, La Corte UE apre le gare pubbliche
alle società semplici.
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quello europeo in ordine all'attuazione della direttiva, per cui non parrebbe fuori luogo evocare il
concetto della “sfera di libertà lasciata da norme
giuridiche” (18) e di “potere libero [...], ossia un
potere la cui caratteristica fondamentale è di essere
ordinato in una sfera di libera disposizione dell'agente” (19).
E, si badi, nel caso come quello di cui si tratta,
stante la formulazione dell'art. 45 della direttiva
2004/18/CE, come anticipato, non potrebbero soccorrere neppure i principi di ragionevolezza e proporzionalità, che costituiscono, nella maggior parte
dei casi, il limite della discrezionalità del legislatore (20) (e dell'ambito di estensione del sindacato
del giudice dei pubblici poteri (21)).
In realtà, è assai dubbio che le cose stiano proprio così.
Punto di partenza è la (ovvia) notazione che il
principio di diritto affermato dalla Corte di giustizia non può che essere letto alla luce del fatto; e,
mutando il fatto, muta il principio di diritto (22).
Si immagini che il rinvio fosse stato effettuato
dal giudice di uno Stato ove la regola è quella dell'esclusione senza la previsione di alcuna soglia di
punibilità (ad es. la Francia). In tale ipotesi, probabilmente, la soluzione sarebbe stata diversa: non è
da escludere che l'invocazione del principio di proporzionalità avrebbe potuto trovare accoglimento,
almeno in linea di principio, salvo poi assegnare al
giudice a quo il compito di farne applicazione concreta nel caso di specie (23).
Tali conclusioni paiono avvalorate dalla nuova
direttiva appalti (2014/24/UE), che prevede, all'art. 57, l'obbligatorietà dell'esclusione per irregolarità contributiva, in una con la possibilità, per i
singoli Stati membri, di stabilire una soglia di punibilità (24).
Se le cose stanno così, allora le affermazioni della Corte di giustizia vanno interpretate nel senso
che la disciplina italiana è compatibile con il diritto europeo proprio in quanto è previsto il requisito
della gravità, pur se determinato a priori ed una
volta per tutte, in modo fisso, dal legislatore.
Ma è proprio tale ultima affermazione che non
convince del tutto, parendosi scontrare con il principio espresso da precedenti sentenze della Corte
di giustizia in tema di cause di esclusione, che, pur
riconoscendo a ciascuno degli Stati membri un certo margine di discrezionalità nell'adozione di misure idonee a garantire il rispetto della par condicio e
della trasparenza “alla luce di considerazioni di ordine storico, giuridico, economico o sociale che gli
sono proprie” (25), tuttavia “conformemente al
principio di proporzionalità [...]”, indicano che “le
misure adottate dagli Stati membri non devono eccedere quanto necessario per raggiungere tale
obiettivo” (26).
Ora, se pur è indubbio che la disciplina in materia di regolarità contributiva abbia lo scopo di garantire l'amministrazione circa l'affidabilità dei
concorrenti (27), essa è altresì volta alla tutela dei
principi di parità di trattamento e trasparenza (28),
(18) Ossia la definizione di discrezionalità amministrativa di
M.S. Giannini, L'interpretazione dell'atto amministrativo e la teoria giuridica dell'interpretazione, Milano, 1939, 212. Sull'opera
di Giannini, v. F. G. Scoca, La discrezionalità nel pensiero di
Giannini e nella dottrina successiva, in Riv. Trim. Dir. Pubb.,
2000, 1045 ss. Ci si ritiene autorizzati a usare principi propri
del diritto amministrativo alla funzione legislativa in considerazione della circostanza che “la Corte di giustizia […] costruisce
l'attività dei pubblici poteri secondo un unico continuum decrescente di discrezionalità”, senza distinguere, da un punto di vista qualitativo, si potrebbe dire, l'attività legislativa da quella
amministrativa (e da quella giurisdizionale): così R. Caranta, La
responsabilità per fatto illecito delle istituzioni comunitarie è in
funzione dei margini di discrezionalità di cui dispongono, in Giur.
It., 2001, 150; G. Tesauro, Responsabilité des États membres
pour la violation du droit communautaire, in Revue du Marché
Unique Européen, 3, 1996, 24.
(19) M. S. Giannini, Il potere discrezionale della pubblica amministrazione, Milano, 1939, 73.
(20) Sui limiti derivanti dal diritto europeo alla discrezionalità del legislatore, v. G. Tesauro, Responsabilità degli Stati per
violazione del diritto comunitario, in La tutela giurisdizionale dei
diritti nel sistema comunitario, Bruxelles 1997, 306 ss.; S. Morettini, La disciplina europea sulla discrezionalità amministrativa
nel settore dei servizi, in S. Battini, G. Vesperini, I limiti globali
ed europei alla disciplina nazionale dei servizi, Milano, 2008,
241 ss.
(21) Su tali aspetti, v., da ultimo, B. Giliberti, Il merito ammi-
nistrativo, Padova, 2013, passim.
(22) M. Taruffo, La motivazione della sentenza civile, Padova,
1975, 224, parla al riguardo di “un reciproco e progressivo
condizionamento e arricchimento che si instaura tra l'interpretazione dell'enunciato normativo e l'interpretazione delle circostanza di fatto”.
(23) Ad esempio in un caso in cui lo scostamento tra il dovuto ed il versato sia di entità minima.
(24) In argomento, v. infra.
(25) Corte giust. UE, 23 dicembre 2009, in causa C-376/08,
Serrantoni, in Foro Amm. CdS, 2009, 2781, 32.
(26) Corte giust. UE, C-376/08, cit., p. 33.
(27) Come anticipato, la decisione in epigrafe si esprime in
questo senso, condividendo le argomentazioni dell'ordinanza
di rinvio. Sulla base di quanto si dirà subito dopo nel testo, se
l'ordinanza avesse posto l'attenzione sul principio di massima
concorrenza, forse diverse sarebbero state le conclusioni della
sentenza in commento.
(28) Così P. Lotti, Corte CE e esclusione dalla gara per irregolarità fiscale e contributiva: è necessaria una regola chiara,
cit., secondo cui la disposizione è posta “a tutela di una sana
concorrenza, che verrebbe compromessa nel caso in cui
un'impresa, in situazione di inadempimento dei propri obblighi
tributari e contributivi, potesse legittimamente partecipare ad
una gara pubblica, avvantaggiandosi di risorse che ha illegittimamente trattenuto presso di sé, non ottemperando alle leggi
sociali e fiscali dello Stato”. Nello stesso senso, T. Del Farra,
Les exclusions généales et automatiques des marchés publics
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oltre che dei diritti dei lavoratori (29), non potendosi ravvisare tra i vari interessi tutelati alcuna incompatibilità (30).
Se, però, si pone l'accento sull'affidabilità dell'operatore economico, l'irrilevanza del principio di
proporzionalità può trovare giustificazione: chi non
è in regola non è affidabile (31), mentre la soglia
di tolleranza va considerata alla stregua di “graziosa
concessione”, stabilita per evitare di sanzionare
piccoli errori, magari commessi in buona fede.
Trattandosi, allora, di disposizione del tutto eccezionale, se ne spiega anche la rigida applicazione e
l'impossibilità della valutazione, caso per caso, della gravità della violazione ai fini dell'esclusione o
meno, in quanto ogni violazione è tale da minare
la fiducia, e se non si arriva sempre alla sanzione
espulsiva, è dovuto unicamente, come appena det-
to, alla eccezionale volontà in tal senso del legislatore (32).
Se, invece, si pone l'accento sulla tutela della
concorrenza, forse, le conclusioni possono mutare,
nel senso che si renderebbe necessario confrontare
il dato oggettivo della violazione alle norme contributive con le caratteristiche della situazione
concreta, al fine di stabilire se l'irregolarità contributiva, in relazione al valore dell'appalto, al rapporto tra entità della violazione e il fatturato dell'impresa, all'occasionalità o meno della violazione
commessa (33), sia tale da determinare effettivamente un vulnus alla concorrenza tra gli operatori
economici e, quindi, se l'esclusione risulti o meno
proporzionata all'infrazione (34).
Quanto, poi alla tutela dei lavoratori, è da premettere che l'operatore economico, in caso di
violazione non grave (perché inferiore alla soglia
sont-elles conformes au Traité sur l'Union européenne et à la
Constitution?, cit., 2 s., secondo cui l'esclusione connessa all'irregolarità fiscale e contributiva è funzionale al mantien d'une
juste concurrence, in quanto garantisce la parità di trattamento
degli offerenti.
(29) Sul punto, v. I. Pagani, I parametri di valutazione della
gravità degli inadempimenti contributivi e previdenziali al vaglio della Corte di giustizia, cit., 1317. Sugli interessi tutelati
dalla disciplina in materia di contratti pubblici, v. M. D'Alberti, Interesse pubblico e concorrenza nel codice dei contratti
pubblici, in Dir. Amm., 2008, 297; E. Picozza, L’appalto pubblico tra diritto comunitario e diritto nazionale, in C. Franchini,
I contratti di appalto pubblico, Torino, 2010, 36 ss.; R. Caranta, Le società semplici escluse dalle gare d’appalto?, in questa
Rivista, 2011, 1348, i quali rilevano la differenza tra il diritto
europeo, che ha di mira la creazione di un mercato concorrenziale, e quello italiano, volto a tutelare le ragioni dell'amministrazione.
(30) V., ad es., T.A.R. Campania, Napoli, 12 giugno 2014,
n. 3334, che pone sullo stesso piano “i principi di tutela dell’interesse pubblico alla scelta di un contraente affidabile e della
par condicio tra le imprese concorrenti”.
(31) Del resto, è questa la disciplina in tema di “affidabilità
morale” di cui all'art. 38, D.Lgs. n. 163/2006: la commissione
anche di un solo reato incidente sulla moralità professionale,
pure se risalente e di non rilevante entità, determina l'esclusione dalla procedura (C.G.A. Sicilia, 1° giugno 2010, n. 806;
Cons. Stato, 31 gennaio 2006, n. 349).
(32) Similmente, la disciplina in tema di esclusione per irregolarità fiscale, prima della novella di cui all'art. 4, D.L. n.
70/2011 (che ha introdotto il requisito della “gravità” della
violazione) era interpretata dalla giurisprudenza nel senso
che “ai fini della configurabilità del requisito della regolarità
fiscale non può che essere escluso ogni rilievo alla modestia
dell’entità del debito definitivamente accertato, non essendo
in proposito previsto da parte della stazione appaltante alcun apprezzamento discrezionale della gravità e del sottostante elemento psicologico della violazione. Il cit. art. 38,
lett. g), dispone infatti che sono esclusi dalla partecipazione
alle gare pubbliche coloro che “hanno commesso violazioni,
definitivamente accertate, rispetto agli obblighi relativi al pagamento delle imposte ...”; dunque ogni violazione, anche di
importo esiguo, senza che sia consentito all’amministrazione che ha bandito la gara, e tanto meno al concorrente, valutarne la rilevanza e la buona o mala fede del contribuente,
giacché tale valutazione - diversamente dalle ipotesi di cui
alle lett. e) ed f) - è stata evidentemente effettuata dal legislatore in ragione dello scopo della norma di garantire non
solo l’affidabilità dell’offerta e nell’esecuzione del contratto,
ma anche la correttezza e la serietà del concorrente”: così
Cons. Stato, sez. V, 15 ottobre 2009, n. 6352; T.A.R. Puglia,
Bari, 8 marzo 2012, n. 491. Da rilevare, poi, che nonostante
l'introduzione del requisito della gravità ad opera del legislatore, “la ratio della normativa […] risponde all'esigenza di
garantire l'amministrazione pubblica in ordine alla solvibilità
e alla solidità finanziaria del soggetto con il quale essa contrae”: così Cons. di Stato, Ad. Plen., 20 agosto 2013, n. 20,
in questa Rivista, 2013, 1055, con nota di F. Manganaro,
Esclusione dalle gare di appalto per violazioni tributarie definitivamente accertate.
(33) Si tratta dei parametri proposti da T.A.R. Milano, n.
1969/2012, cit.
(34) Secondo il principio, già rammentato, per cui la disciplina delle cause di esclusione non deve eccedere quanto necessario ai fini del raggiungimento degli obiettivi della trasparenza e della par condicio. Simile è la posizione assunta, con riguardo alla discipline dell'irregolarità fiscale antecedente la riforma del 2011, da Cons. Stato, sez. III, 26 settembre 2014, n.
4854, secondo cui “l’interpretazione più conforme alla ratio
della norma [si tratta dell'art. 38, comma 1, lett. g), D.Lgs. n.
163/2006, n.d.r.], anche nel testo vigente nel 2009, tenuto conto della evoluzione legislativa successiva, e letta alla luce della
norma europea che ne costituisce la fonte (l’art. 45, comma 2,
lett. f) direttiva CE 2004/18), sia quella che tenga conto concretamente della sussistenza del requisito dell’affidabilità e solidità finanziaria del concorrente e attribuisca rilievo, pertanto,
ancora prima della modifica legislativa di cui al D.L. n.
70/2011, che ha introdotto il detto requisito della “gravità” della violazione, sia all’importo del debito tributario, che non deve
essere irrisorio in relazione alla complessiva dimensione societaria del concorrente, sia all’intervenuto ravvedimento operoso”. Nello stesso senso, v. A. Sanchez Graells, Exclusion, Qualitative Selection and Short-listing in the New Public Sector Procurement Directive 2014/24, in F. Lichére, R. Caranta, S. Treumer (eds.), Modernising Public Procurement. The new Directive,
Copenhagen, 2014, 109, secondo cui “exclusion for any minor
infringement of social, labour or environmental requirements
may be disproportionate and, ultimately, not in the public interest if it affects the level and intensity of competition for the contracts”.
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di punibilità), è tenuto al pagamento del relativo
importo entro trenta giorni dal rilascio del
DURC (35): il medesimo meccanismo deve valere per la violazione non ritenuta grave dal giudice, con il che non si avrebbe alcuna lesione dell'interesse protetto, proprio come non si ha, per
definizione, lesione nel caso di violazione non
grave.
Se tali considerazioni sono corrette, se ne può
trarre una conclusione alternativa: o la giurisprudenza italiana (rectius, parte di essa) è, per così dire, più europeista della giurisprudenza europea (36),
o la Corte di giustizia (spia ne sarebbe il riferimento all'affidabilità del concorrente) anticipa il nuovo corso della disciplina europea in materia di contratti pubblici di cui alla nuova direttiva
2014/24/UE, che pare, per certi aspetti (e, spesso, a
livello solamente declamatorio), voler spostare il
baricentro a favore dell'amministrazione (37) e dell'“efficiency in public spending” (38) rispetto alla precedente tutela della concorrenza, pur, naturalmente, senza obliterarla (39).
Resta, allora, da verificare quanto sostenuto alla
luce della nuova direttiva appalti.
La regolarità contributiva nella nuova
direttiva appalti
(35) Art. 8, comma 3, D.M. 24 ottobre 2007.
(36) Sul fenomeno, v. G. Manfredi, Appunti sull'affidamento
degli incarichi legali delle pubbliche amministrazioni: competenza, procedimento, forma, in questa Rivista, 2013, 884, il quale
rinvia a M. Cartabia, Cultura dei giuristi e processi di integrazione europea, in L. Paggi (a cura di), Un’altra Italia in un’altra Europa. Mercato e interesse nazionale, Roma, 2011, 98 ss.
(37) P. Patrito, Sulla dichiarazione ex art. 38 D.Lgs. n.
163/2006 fatta “collettivamente ed impersonalmente”, in questa Rivista, 2014, 914 ss.
(38) A tale ultimo riguardo, v. M. E. Comba, Variations in
the scope of the new EU public procurement Directives of 2014:
Efficiency in public spending and a major role of the approximation of laws, in F. Lichére, R. Caranta, S. Treumer (eds.), Modernising Public Procurement. The new Directive, cit., 29 ss.
passim. Ha rilevato tale tendenza, in anticipo rispetto alla pubblicazione delle nuove direttive, M. Occhiena, Gli appalti pubblici e la semplificazione impossibile, in Dir. Economia, 2013,
521.
(39) V., infatti, l'art. 18, direttiva 2014/24/UE, e il principio
di concorrenza in esso ribadito. Al riguardo, A. Sanchez
Graells, Exclusion, Qualitative Selection and Short-listing in the
New Public Sector Procurement Directive 2014/24, cit., 127, rileva (con toni forse eccessivamente “entusiastici”) che “there
are also several indications of a clearer integration of public procurement and competition rules […] which should be seen as a
natural result of the consolidation of the principle of competition
in Article 18(1) of the new Directive”. Sul punto, v. comunque
infra.
(40) Peraltro, in assenza di una decisione giurisdizionale o
amministrativa definitiva, “le amministrazioni aggiudicatrici
possono escludere o possono essere obbligate dagli Stati
membri a escludere dalla partecipazione a una procedura
d’appalto un operatore economico se l’amministrazione aggiudicatrice può dimostrare con qualunque mezzo adeguato che
l’operatore economico non ha ottemperato agli obblighi relativi al pagamento di imposte o contributi previdenziali” (art. 57,
par. 2, terzo periodo, direttiva 2014/24/UE). Sulla disposizione,
v. A. Sanchez Graells, Exclusion, Qualitative Selection and
Short-listing in the New Public Sector Procurement Directive
2014/24, cit., 105 ss.
(41) L'art. 45, par. 2, direttiva 2004/18/CE, prevede, come
noto, la possibilità di una siffatta esclusione.
(42) A. Sanchez Graells, Exclusion, Qualitative Selection and
Short-listing in the New Public Sector Procurement Directive
2014/24, cit., 107, rileva che “a common definition of what
constitutes ‘minor amounts’ seems necessary”. Per una diversa
prospettiva, v. oltre nel testo. La disposizione consente la partecipazione anche dell’operatore economico che “sia stato informato dell’importo preciso dovuto a seguito della sua violazione degli obblighi relativi al pagamento di imposte o di contributi previdenziali in un momento in cui non aveva la possibilità di prendere provvedimenti in merito [..], prima della scadenza del termine per richiedere la partecipazione ovvero, in
procedure aperte, del termine per la presentazione dell’offerta”. Il principio per cui la regolarizzazione sia possibile solamente prima della scadenza del termine di partecipazione si
discosta dal precedente di cui a Corte giust. CE, cause riunite
C-226/04 e C-228/04, cit., che, viceversa, aveva riservato agli
Stati membri l'individuazione del termine entro il quale “gli interessati devono aver effettuato i pagamenti corrispondenti ai
loro obblighi oppure […] aver provato che le condizioni per
una regolarizzazione a posteriori sono soddisfatte. Tale termine
può essere, in particolare, la data limite per la presentazione
della domanda di partecipazione alla gara, la data di spedizione della lettera di invito a presentare un’offerta, la data limite
della presentazione delle offerte dei candidati, la data di valutazione delle offerte da parte dell’amministrazione aggiudicatrice o, ancora, il momento che precede immediatamente l’aggiudicazione dell’appalto” (p. 31).
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Ai sensi dell'art. 57, par. 2, della nuova direttiva, “un operatore economico è escluso dalla partecipazione a una procedura d’appalto se l’amministrazione aggiudicatrice è a conoscenza del fatto
che l’operatore economico non ha ottemperato
agli obblighi relativi al pagamento di imposte o
contributi previdenziali e se ciò è stato stabilito
da una decisione giudiziaria o amministrativa
avente effetto definitivo e vincolante secondo la
legislazione del paese dove è stabilito o dello Stato membro dell’amministrazione aggiudicatrice” (40).
L'esclusione diviene, dunque, obbligatoria (e
non più facoltativa, come nella previgente disciplina europea (41)): una conferma del favor administrationis che permea la nuova direttiva.
Va peraltro rilevato che, ai sensi del successivo
par. 3, “gli Stati membri possono [...] prevedere
una deroga alle esclusioni obbligatorie di cui al
paragrafo 2 nei casi in cui un’esclusione sarebbe
chiaramente sproporzionata, in particolare qualora non siano stati pagati solo piccoli importi di
imposte o contributi previdenziali” (42).
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Il problema è dato dall'uso del verbo “possono”: esso indica una mera facoltà o un potere-dovere?
La direttiva parrebbe essere nel primo senso (appartiene alla discrezionalità degli Stati membri introdurre o meno l'eccezione), senza che l'esclusione di tale possibilità possa essere censurata in sede
giudiziale.
Peraltro, si ritiene una siffatta soluzione interpretativa del tutto insoddisfacente.
Infatti, se, in ragione dell'esiguo scostamento
tra importi dovuti e importi versati, l'esclusione
risulta “chiaramente sproporzionata”, tale dato di
fatto resta, a prescindere dalla circostanza che lo
Stato membro abbia o meno previsto espressamente la clausola di deroga: il principio di proporzionalità è immanente non abbisogna certo di
un espresso richiamo legislativo per essere operante (43).
Di conseguenza, la disciplina nazionale che
non prevedesse la clausola in questione o, a maggior ragione, che la escludesse espressamente,
violerebbe essa stessa il principio di proporzionalità, né potrebbe trovare copertura nell'art. 57
della direttiva 2014/24/UE, che, se interpretato
nel senso di consentire di escludere la clausola di
salvezza, non parrebbe essa stessa conforme ai
principi del Trattato, in primis quello di proporzionalità.
Detto diversamente, se la misura restrittiva (per
usare le parole della Corte) non è proporzionata alla violazione commessa – e la sussistenza della
sproporzione può essere accertata dal giudice senza
che il legislatore fissi una più o meno ampia soglia
di punibilità –, ciò rimane vero a prescindere da
un'espressa previsione di deroga all'esclusione automatica, la cui assenza non può giustificare l'espulsione dalla gara sempre e comunque, quale che sia
l'entità della violazione.
Conferma di quanto sin qui sostenuto parrebbe
provenire dall'art. 18, direttiva 2014/24/UE, che
sancisce, tra i principi generali in materia di con-
tratti pubblici, oltre alla parità di trattamento, non
discriminazione e trasparenza, quello di proporzionalità: anche da questo punto di vista, non si vede
ragione alcuna per escluderne l'applicazione alla
causa di esclusione in parola.
In sintesi, il “possono” deve – almeno così si ritiene – essere interpretato come “devono”.
Tali conclusioni non paiono tali da sconfessare
quanto prima sostenuto circa il favor administrationis che sembra caratterizzare la nuova direttiva.
Si tratta, infatti, di un favor administrationis,
talora declamato, ma che, spesso, rimane sulla
carta (44): anche l'art. 57, comma 3, della direttiva 2014/24/UE, esprime un'intenzione (“possono”) che pare destinata a rimanere tale, in quanto, sulla base di quanto appena affermato, il
principio di proporzionalità non può essere messo 'in sordina' da una contraria disposizione legislativa.
In disparte tali riflessioni, per tornare alla sentenza in commento, se il principio di proporzionalità è immanente all'ordinamento giuridico europeo, a prescindere dal tenore letterale dell'art. 45,
della direttiva 2004/18/CE, esso avrebbe dovuto,
ove la situazione di fatto l'avesse permesso, condurre ad una diversa decisione della Corte, nel senso
che l'eventuale esclusione automatica priva di una
qualunque soglia di punibilità non avrebbe potuto,
almeno così si crede, passare indenne al vaglio del
giudice europeo.
Forse, però, neppure la decisione della Corte di
giustizia è conforme al principio di proporzionalità: se la soglia di punibilità, come prevista dal legislatore, è, essa stessa, sproporzionata, come parrebbe a proposito della disciplina italiana (che,
infatti, non tenendo conto di parametri quale il
valore dell'appalto e la dimensione dell'operatore
economico, può comportare l'esclusione anche in
caso di debiti “irrisori” (45)), essa non dovrebbe
essere considerata conforme al diritto europeo, in
quanto si violerebbe il principio del favor parteci-
(43) R. Cavallo Perin, I principî come disciplina giuridica
del pubblico servizio tra ordinamento interno ed ordinamento
europeo, in Dir. Amm., 2000, 41 ss.; F. Pellizer, Gli accordi
pubblico-privato nel governo del territorio, in F. Mastragostino (a cura di), La collaborazione pubblico-privato e l'ordinamento amministrativo. Dinamiche e modello di partenariato in
base alle recenti riforme, Torino, 2011, 205 s.; V. Fanti, Dimensioni della proporzionalità: profili ricostruttivi tra attività e
processo amministrativo, Torino, 2012, 276 ss.
(44) Come in altra sede rilevato, spesso le intenzioni manifestate dalla direttiva 2014/24/UE, non pare possano tutte
tradursi in realtà: v. P. Patrito, Sulla dichiarazione ex art. 38
D.Lgs. n. 163/2006 fatta “collettivamente ed impersonalmente”, cit., 924, che richiama l'attenzione al considerando n. 83
alla direttiva 2014/24/UE, a mente del quale “le amministrazioni aggiudicatrici dovrebbero mantenere la facoltà di decidere autonomamente se sia opportuno e pertinente stabilire
requisiti di fatturato minimo più elevati senza essere soggette a supervisione amministrativa o giudiziaria”, precisando
che tale “zona franca” non può sussistere.
(45) Così Cons. Stato, n. 4854/2014, cit.
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pationis in una con quello della par condicio (46),
in quanto la violazione, pur commessa, non è in
grado di falsare il principio della libera concorrenza.
(46) Assimila par condicio e favor partecipationis P. Gotti,
op. loc. cit. Nello stesso senso, P. Patrito, op. ult. cit., 921 s.
Tradizionalmente, i due principi sono invece intesi come potenzialmente contrapposti: v., ad es., Cons. Stato, sez. V, 5 luglio 2011, n. 4029, secondo cui “il principio del favor partecipationis, volto a favorire la più ampia partecipazione alle gare
pubbliche, ha di norma carattere recessivo rispetto al principio
della par condicio (se le prescrizioni del bando sulle formalità
di presentazione delle offerte rispondono ad un particolare interesse dell'Amministrazione o sono poste a garanzia di essa
par condicio)”; C. Cacciavillani, Dichiarazioni negli appalti pub-
blici: Profili generali e problematici, in www.giustamm.it, “il
principio del favor partecipationis inoltre può cozzare contro il
principio della par condicio, e ciò tutte le volte in cui possa
concludersi che la deroga al rigore formale di regole sulla partecipazione, pur nell’ipotesi in cui l’osservanza di queste non
sia prescritta a pena di esclusione, si traduca in vantaggio che ben può consistere nella riduzione o attenuazione di oneri
procedimentali - di un concorrente, che risulti di fatto posto in
condizione meno onerosa, e quindi più vantaggiosa, rispetto
ad altro”.
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Civile
Responsabilità della p.a.
La Cassazione conferma la
responsabilità precontrattuale
della p.a. nella fase precedente
l’aggiudicazione
CASSAZIONE CIVILE, sez. I, 3 luglio 2014, n. 15260 – Pres. Vitrone – Rel. Cristiano – Provincia
di Isernia c. D.D.V.
La responsabilità precontrattuale della p.a. è configurabile in tutti i casi in cui l'ente pubblico, nelle trattative
con i terzi, compia azioni o incorra in omissioni contrastanti con i principi della correttezza e della buona fede,
alla cui puntuale osservanza è tenuto già nel procedimento amministrativo strumentale alla scelta del contraente, ossia nel momento in cui entra in contatto con una pluralità di offerenti, instaurando con ciascuno di
essi trattative (multiple o parallele) idonee a determinare la costituzione di rapporti giuridici, nel cui ambito è
tenuto al rispetto di principi generali di comportamento posti dalla legge a tutela indifferenziata degli interessi delle parti. Ne consegue che l'inosservanza di tale precetto, anche prima della conclusione della gara, determina l'insorgere della responsabilità della p.a. per violazione del dovere di correttezza previsto dall'art. 1337
c.c. a prescindere dalla prova dell'eventuale diritto all'aggiudicazione del partecipante.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme
Cons. Stato, 15 marzo 2012, n. 1140; Cons. Stato, 25 luglio 2012, n. 4236; Cons. Stato, 7 novembre 2012, n. 5638
Difforme
Cass. civ., sez. I, 18 giugno 2005, n. 13164; Cass. civ., sez. II, 10 gennaio 2013, n. 477
Motivi della decisione
Va, in via generale, ricordato che nella giurisprudenza
di questa Corte è da tempo acquisito il dato della assoggettabilità della pubblica amministrazione al disposto
dell'art. 1337 c.c. Con un primo arresto (Cass. n.
1142/63), fu superato il pregresso orientamento che riteneva sempre precluso il sindacato del giudice ordinario sulle scelte discrezionali della pubblica amministrazione e si affermò che anche questa, quando intraprende
iniziative di contratti privatistici, è tenuta al rispetto
del principio generale dettato dall'art. 1337 c.c., il quale
informa tutto l'ordinamento giuridico, con la precisazione che il relativo accertamento, che implica una valutazione non sull'operato del corretto amministratore, ma
sul suo comportamento quale “corretto contraente”,
non sfugge alla cognizione del giudice ordinario.
A partire dalla sentenza n. 2110/74, si è andato poi progressivamente consolidando l'indirizzo che ritiene configurabile una responsabilità precontrattuale della p.a. anche in materia di contratti ad evidenza pubblica in tutti
i casi in cui l'ente pubblico, nelle trattative con i terzi,
abbia compiuto azioni o sia incorso in omissioni contrastanti con i principi della correttezza e della buona fede,
Urbanistica e appalti 11/2014
alla cui puntuale osservanza anch’esso è tenuto (Cass.
nn. 477/2013; 27678/11; 23393/08; 4856/07; 12313/05).
Si è al riguardo precisato (cfr. Cass., Sez. Un., n.
11656/08) che si tratta di una responsabilità da comportamento e non da provvedimento, che non investe la
legittimità degli atti amministrativi posti in essere dalla
p.a. né ne richiede l'annullamento, ma postula unicamente la lesione dell'affidamento dell'altra parte nella
fase formativa del contratto. Essa può dunque sussistere
anche in presenza di atti di autotutela (revoca, annullamento, diniego di stipula o di approvazione) pienamente legittimi, ove assistiti dai presupposti per la loro emanazione, e va pertanto tenuta distinta dalla responsabilità per lesione di un interesse legittimo, che, pur facendo
anch'essa capo ai canoni della correttezza e della buona
fede (cfr. Cass. n. 500/99) ha come presupposto, non
unico, ma comunque necessario, un vizio di legittimità
dell'atto amministrativo.
Ciò, evidentemente, non comporta che, in presenza di
un atto amministrativo viziato possa configurarsi solo
lesione dell'interesse legittimo e non anche violazione
dell'art. 1337 c.c., dovendosi piuttosto ritenere che all'illegittimità del provvedimento amministrativo possa
corrispondere una situazione di diritto tutelabile sotto
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l'uno o l'altro profilo a seconda della posizione assunta
del privato nei confronti della p.a., e che, ove sia invocata la responsabilità precontrattuale dell'amministrazione, il vizio dell'atto assurga a circostanza rilevante ai
fini della prova della ricorrenza della culpa in contraendo
della stessa.
Questa Corte ha, tuttavia, costantemente escluso la
configurabilità di una responsabilità precontrattuale della p.a. nella fase procedimentale che precede l'aggiudicazione della gara. Si è osservato a riguardo che l'apertura della competizione ad una pluralità di concorrenti
non instaura ancora una relazione specifica tra soggetti
paragonabile allo svolgimento di trattative cui è riferibile, in sede privatistica, l'art. 1337 c.c.. e che il partecipante alla gara non può nutrire alcun legittimo affidamento sull'esito della stessa e sulla conclusione del relativo contratto, ma è unicamente titolare di un interesse
legittimo al corretto esercizio del potere di scelta da
parte dell'amministrazione (Cass. nn. 6545/87; 9892/93;
5995/97; 12313/05; 13164/05).
Ad avviso di questo collegio, il predetto orientamento,
invocato dalla ricorrente a sostegno del proprio assunto
difensivo, merita di essere superato, in adesione alla giurisprudenza del giudice amministrativo (cui, a partire
dall'entrata in vigore della L. n. 205 del 2000, spetta la
giurisdizione esclusiva nelle controversie, anche risarcitorie, relative alle procedure di affidamento di appalti,
forniture e servizi pubblici) ed in un'ottica di adeguamento della disciplina nazionale a quella europea e comunitaria, che subordina l'interesse della pubblica amministrazione, un tempo ritenuto preminente, all'interesse di un mercato concorrenziale, in cui il partecipante alla gara è titolare di una posizione soggettiva direttamente tutelata, avente ad oggetto il corretto adempimento della procedura, indipendentemente da un affidamento specifico alla conclusione del contratto.
Si è in proposito esattamente rilevato da parte del giudice amministrativo (Cons. Stato, sez. V, n. 3831/013,
sez. IV, n. 6000/013) che, in materia, si è in presenza di
una formazione necessariamente progressiva del contratto, non derogabile dalle parti, che si sviluppa secondo
lo schema dell'offerta al pubblico ed in cui l'amministrazione entra in contatto con una pluralità di partecipanti al procedimento negoziale, con ciascuno dei quali
instaura trattative (cd. multiple o parallele) che determinano la costituzione di un rapporto giuridico sin dal
momento della presentazione delle offerte, secondo
un'impostazione che risulta rafforzata dall'irrevocabilità
delle stesse. È pertanto già nell'ambito di ognuno di tali
rapporti che la p. a. è tenuta al rispetto di principi generali di comportamento posti dalla legge a tutela indifferenziata degli interessi delle parti in contatto, con la
conseguenza che il mancato rispetto di tale precetto,
anche anteriore alla conclusione della gara, determina
l'insorgere della sua responsabilità precontrattuale a prescindere dalla prova dell'eventuale diritto all'aggiudicazione del partecipante. La disciplina in materia di culpa
in contrahendo non necessita, infatti, di un “rapporto
personalizzato” fra p.a. e privato, che troverebbe la sua
unica fonte del provvedimento di aggiudicazione, ma è
posta a tutela del legittimo affidamento nella correttezza
della controparte, che sorge sin dall'inizio del procedimento. Diversamente argomentando l'interprete sarebbe invece costretto a scindere un comportamento che si
presenta unitario e che conseguentemente non può che
essere valutato nella sua complessità.
Del resto, come chiarito dal Consiglio di Stato (sez. V,
n. 3831/013 cit.) la fase di formazione dei contratti pubblici è caratterizzata dalla contestuale presenza di un
procedimento amministrativo e di un procedimento negoziale (l'uno disciplinato da regole di diritto pubblico
finalizzate ad assicurare il perseguimento, anche quando
la p.a. agisce mediante moduli convenzionali, dell'interesse pubblico e l'altro disciplinato da regole di diritto
privato, finalizzate alla formazione della volontà contrattuale): si è dunque in presenza di un'unica serie di
atti operanti in una duplice dimensione, pubblicistica e
privatistica, il che consente di concludere che la fase
dell'evidenza pubblica non si colloca al di fuori delle
trattative, ma ne costituisce parte integrante.
Infine, non può farsi a meno di rilevare come l'interpretazione restrittiva, che esclude la configurabilità di una
responsabilità precontrattuale della p.a. nella fase pubblicistica che precede l'aggiudicazione, finisca con l'offrire una giustificazione a possibili condotte elusive dell'amministrazione, che potrebbe porre in essere comportamenti non conformi ai principi generali di buona fede
oggettiva e correttezza cui deve essere improntato il suo
agire, fino al punto di sfavorire artatamente un concorrente per favorirne un altro, nella consapevolezza di
non essere tenuta a risponderne.
IL COMMENTO
di Alessandra Vapino
Le conclusioni raggiunte dal giudice amministrativo in tema di responsabilità precontrattuale della pubblica Amministrazione vengono, finalmente, recepite anche dalla giurisprudenza civile di legittimità, da
sempre molto prudente sulla possibilità di riconoscere una responsabilità ex art. 1337 c.c. in capo al soggetto pubblico.Il nuovo orientamento è (anche) espressione dell’esigenza di un adeguamento della disciplina nazionale a quella europea, adeguamento che, alla luce della disciplina italiana della responsabilità
precontrattuale, appare, al momento, solo parziale.
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La Corte, nella sentenza in commento, affronta il
tema della responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione, offrendone, finalmente, una
lettura moderna, allineata all’orientamento seguito,
già da qualche tempo, dal giudice amministrativo (1)
e conforme a quanto previsto dalla disciplina europea in materia di contratti pubblici (2).
Superando le perplessità che avevano frenato il riconoscimento della responsabilità precontrattuale
nella fase precedente l’aggiudicazione della gara (3),
la Cassazione aderisce ora alle tesi promosse dalla
giurisprudenza amministrativa, che vede nella disciplina civilistica della culpa in contrahendo uno strumento generale posto a tutela della correttezza del
comportamento della controparte, quale essa sia.
La pretesa di correttezza, oltre a poter essere
estesa a qualunque soggetto, anche pubblico, non
può essere limitata solo ad alcune attività specifiche, ma il comportamento del contraente deve essere corretto, considerandolo nel suo complesso.
Anche la fase precedente l’aggiudicazione, quindi,
deve essere tenuta in considerazione per la valutazione di correttezza e, in caso di esito negativo del
giudizio, la p.a. viene chiamata a rispondere ex art.
1337 c.c.
Il caso
La vicenda sulla quale si pronunciano i giudici
di legittimità origina dalla gara a licitazione privata
indetta dalla Provincia di Isernia per la realizzazio(1) Già a partire dal 2008 il Consiglio di Stato, in alcune pronunce, riconosce la responsabilità precontrattuale per la revoca di procedimenti non ancora pervenuti ad aggiudicazione
(Cons. Stato, sez. V, 11 maggio 2009, n. 2882; Cons. Stato,
sez. V, 8 ottobre 2008, n. 4947; Cons. Stato, sez. VI, 5 settembre 2011, n. 5002; Cons. Stato, sez. VI, 2 settembre 2011, n.
4921) ma la tesi non è ancora pacifica e in alcune occasioni lo
stesso consesso si pronuncia in maniera contraria (Cons. Stato, sez. V, 28 maggio 2010, n. 3393; Cons. Stato, sez. V, 8 settembre 2010, n. 6489). È a partire dal 2012, con le pronunce
n. 1140 del 15 marzo, n. 4236 del 25 luglio, n. 5638 del 7 novembre, che il Consiglio di Stato, sez. VI, abbandona definitivamente la tesi dell’inconfigurabilità di una responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione anteriormente alla
scelta del contraente e riconosce la responsabilità della stessa,
per comportamento scorretto, sin dalla pubblicazione del bando. Tale orientamento, che era già stato anticipato anche da alcuni tribunali di merito (T.A.R. Calabria, sez. II, 9 giugno 2009,
n. 627 e T.A.R. Lazio, sez. III, 22 giugno 2009, n. 5986) viene
consolidato nella giurisprudenza più recente (su tutte Cons.
Stato, sez. V, 15 luglio 2013, n. 3831) e portato alle estreme
conclusioni con la pronuncia in commento.
(2) Come si legge nella sentenza in commento, infatti, la disciplina europea e comunitaria subordina “l’interesse della
pubblica amministrazione, un tempo ritenuto preminente, all’interesse di un mercato concorrenziale, in cui il partecipante
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ne di un tratto di dorsale appenninica, alla quale
prendevano parte, tra le altre, alcune imprese di
costruzioni raggruppate in un’ATI.
Nonostante l’acquisizione del miglior punteggio
provvisorio, l’ATI in questione veniva esclusa dalla gara e, pertanto, chiedeva la condanna dell’ente
pubblico appaltante al risarcimento dei danni subiti.
Il Tribunale di Isernia riconosceva all’ATI il diritto al risarcimento del danno, ma ex art. 1337
c.c. e non a titolo di responsabilità contrattuale,
come richiesto invece dall’attrice.
La responsabilità dell’ente pubblico veniva riconosciuta come precontrattuale sulla base del fatto
che l’intero procedimento di gara era stato annullato (dal Consiglio di Stato, con due altre pronunce, relative ad altre imprese partecipanti alla medesima gara) e siccome l’ATI in questione aveva solo
ottenuto il diritto ad essere riammessa alla gara, e
non anche il diritto all’aggiudicazione della stessa,
il danno subito poteva essere risarcito solo ex art.
1337 c.c.
La Corte d’appello di Campobasso confermava
quanto disposto in primo grado, riconoscendo la
responsabilità precontrattuale della Provincia di
Isernia e condannando quest’ultima al risarcimento
dei danni causati.
I giudici di legittimità, pur dando atto del precedente orientamento della Corte, la quale aveva costantemente escluso la configurabilità di una responsabilità precontrattuale della p.a. prima delalla gara è titolare di una posizione soggettiva direttamente tutelata, avente ad oggetto il corretto adempimento della procedura”. Ma non solo. Le tendenze evolutive dell’ordinamento
amministrativo, sulla scia di quello europeo, volgono verso un
parziale ridimensionamento della posizione del soggetto pubblico al quale fa da contraltare un progressivo riconoscimento,
in capo al privato, di posizioni soggettive fondate su un preteso diritto all’affidamento nella altrui correttezza, di matrice tipicamente civilistica. Ma in presenza di quali circostanze si può
dire che sorga una posizione soggettiva di questo tipo? Tali
questioni sono oggetto dell’interesse della dottrina delle legitimate expectations. Sul tema cfr., ad esempio, A. Perry, The Coherence of the Doctrine of Legitimate Expectations, in Cambridge Law Journal, 61, 2014, 73.
(3) Come si vedrà meglio in seguito, fino ad un recente passato, sia la giurisprudenza civile sia quella amministrativa
escludevano la configurabilità di una responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione nella fase antecedente
l’aggiudicazione. Si riteneva che a quello stadio del procedimento i concorrenti vantassero solo una posizione di interesse
legittimo al corretto svolgimento dell’attività della p.a. e non
anche la qualità di futuri contraenti, che consentirebbe il risarcimento ex art. 1337 c.c. (ex multis Cass. civ., Sez. Un., 26
maggio 1997, n. 4673; Cons. Stato, sez. V, 8 settembre 2010,
n. 6489).
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l’aggiudicazione della gara, ritengono definitivamente superabile il suddetto orientamento e ammettono la responsabilità ex art. 1337 c.c. anche
prima dell’aggiudicazione della gara.
I termini della questione
Il tema della responsabilità della pubblica amministrazione impone, da sempre, la necessità di
mediazione tra due opposti interessi, entrambi
meritevoli di protezione. Da un lato si deve garantire ai cittadini una tutela nei confronti dei
pubblici poteri, dall’altro lato bisogna riconoscere
alle pubbliche amministrazioni un sufficiente spazio d’azione che consenta loro di perseguire il
pubblico interesse in maniera efficiente. L’esito
del bilanciamento di questi opposti interessi dipende dalla preminenza che l’ordinamento riconosce all’uno o all’altro interesse e, storicamente,
tale preminenza è stata riconosciuta alla tutela
dell’interesse della p.a. (4).
Il favor riconosciuto al soggetto pubblico ha determinato così perplessità e incertezze in ordine
alla possibilità di riconoscere, anche per i pubblici poteri, una responsabilità precontrattuale, propriamente intesa (5). La precisazione è necessaria
perché come chiarisce autorevole dottrina (6) esistono due tipi di responsabilità precontrattuale
della p.a. Il primo tipo è costituito dalla responsabilità precontrattuale cd. spuria, con la quale si
designa l’obbligazione risarcitoria avente ad oggetto i danni cagionati dall’adozione di provvedimenti illegittimi nel corso della serie procedimentale di evidenza pubblica. Il secondo tipo è
rappresentato dalla responsabilità precontrattuale
(4) In questo frangente per “interesse della pubblica amministrazione” deve intendersi esclusivamente l’interesse allo
svolgimento dell’attività amministrativa in modo efficiente ed
efficace, quasi come se il soggetto pubblico fosse portatore di
istanze necessariamente confliggenti con quelle dei privati.
L’interesse pubblico, nell’accezione più classica, ricomprende,
invece, anche l’interesse alla correttezza e al buon andamento
delle attività dei soggetti pubblici, nonché al rispetto del canone di imparzialità per scongiurare comportamenti sleali delle
amministrazioni. Si veda A. Travi, Nuovi fermenti del diritto amministrativo verso la fine degli anni ’90, in Foro It., 1997, 6, 186
ss., che sottolinea come l’evoluzione del diritto amministrativo
e, segnatamente, dei rapporti tra amministrazioni e cittadini,
passi anche dal significato che si è dato al concetto di pubblico interesse. L’autore osserva come, nel corso del tempo, si
sia passati dal considerare l’interesse pubblico come un “interesse esistente in natura, superiore o contrapposto all’interesse privato” a ritenerlo “il risultato di una valutazione o di un apprezzamento specifici dell’amministrazione, aventi per oggetto
interessi privati o comunque omogenei tra loro”.
(5) Le perplessità derivavano per lo più dalla modalità di
azione della pubblica amministrazione. Essa, nel determinarsi
a contrarre con il privato, esercita un libero potere discreziona-
1184
cd. pura, che discende dalla trasgressione dei canoni comportamentali privatistici posti dagli artt.
1337 e 1338 c.c.
Nel primo caso la responsabilità è definita precontrattuale ma in realtà lo è solo sul piano cronologico. La sua natura è quella di una normale responsabilità da lesione di interessi legittimi “solo
ambientalmente connessa alle trattative precontrattuali” (7). La p.a. in questo caso non è un cattivo contraente ma solo un cattivo amministratore.
Nel secondo caso, invece, il soggetto pubblico
non adotta provvedimenti illegittimi ma tiene
comportamenti illeciti. Gli atti emessi dall’amministrazione sono formalmente legittimi ma l’attività della p.a. che li ha originati non è stata rispettosa dei canoni di correttezza e buona fede imposti
dalla legge. È questa la responsabilità precontrattuale propriamente intesa ed è in questa accezione
che qui interessa.
L’evoluzione giurisprudenziale
Chiariti i termini della questione, l’attenzione
può essere ora rivolta all’evoluzione che la responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione ha avuto nel corso degli anni.
Come si è detto il favor tradizionalmente riconosciuto alla p.a. faceva da freno al riconoscimento
della responsabilità ex art. 1337 c.c. Solo in seguito
alla valorizzazione, da parte di dottrina e giurisprudenza, dei principi di parità contrattuale e di solidarietà sociale, a partire dagli anni ’60 (8), si è incominciato a mettere in discussione il dogma della
non assoggettabilità della pubblica amministrazione alla normativa di correttezza di cui all’art. 1337
le e fino all’approvazione del contratto (da parte degli organi
ogni volta competenti) essa può sempre annullare ogni trattativa. Attribuire una responsabilità ex art. 1337 c.c. alla p.a. sembrava, pertanto, un inammissibile snaturamento, perché voleva dire vincolarla in una sfera di attività in cui essa ha piena libertà di determinarsi. Così Cass. civ., Sez. Un., 12 luglio 1951,
con nota di D. Palmieri, La responsabilità precontrattuale nella
giurisprudenza, Milano, 1999.
(6) F. Caringella, La responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione: un istituto dal sesso incerto, Relazione tenuta a Roma al convegno del 29 ottobre 2007 su “Attività contrattuale e responsabilità della pubblica amministrazione”, pubblicata su www.giustizia-amministrativa.it.
(7) F. Caringella, op. cit.
(8) L’atteggiamento prudente della giurisprudenza verso il
riconoscimento di una responsabilità a carico della pubblica
amministrazione per il comportamento tenuto nella fase delle
trattative si rispecchia anche nelle prime pronunce in materia
(Cass., 12 luglio 1961, n. 1675) che non si fondano ancora sull’art. 1337 c.c., bensì sull’art. 1338 c.c. (conoscenza di cause
di invalidità). Secondo autorevole dottrina, infatti, quest’ultima
norma rappresenta una specificazione della clausola generale
di buona fede di cui all’art. 1337 c.c.
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c.c. (9). Negare l’applicazione dei canoni di buona
fede e correttezza ai contratti conclusi con i soggetti pubblici avrebbe significato, infatti, legittimare i
comportamenti non virtuosi della p.a., concedendo
a quest’ultima un privilegio ingiustificato (10).
Il recepimento di queste tesi (11) da parte della
giurisprudenza è avvenuto in maniera graduale e in
un arco di tempo piuttosto ampio, seguendo un
percorso affatto lineare, nel quale si sono alternate
pronunce innovative e brusche retromarce (12).
Dapprima si è abbandonata la tesi della irresponsabilità della p.a. e si è ammessa l’applicazione dell’art. 1337 c.c. ai contratti della p.a., limitatamente
però ai comportamenti tenuti durante la fase terminale delle trattative e nei soli casi di trattativa
privata con un unico soggetto (13). L’accoglimento
di una nozione restrittiva di “parti”, che considerava tali solo i soggetti identificati come possibili futuri contraenti, portava ad escludere la responsabilità precontrattuale nelle fasi precedenti, quando i
concorrenti erano ancora una pluralità (14).
Solo più tardi la giurisprudenza ha riconosciuto
tale forma di responsabilità anche nel procedimento ad evidenza pubblica, ma solo nel caso di condotta illecita posta in essere successivamente all’aggiudicazione e nella fase precedente la stipula del
contratto (15).
È stata così riconosciuta la responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione nel caso di mancata stipulazione del contratto con l’impresa aggiudicataria senza plausibili motivi di pubblico interesse, ovvero nel caso di mancato dovuto
controllo del contratto o nel caso di omissione,
colposa o dolosa della redazione formale dello stesso (16).
La violazione delle regole di correttezza che presiedono alla formazione del contratto poteva però
assumere rilevanza solo dopo che la fase pubblicistica avesse attribuito al ricorrente effetti concretamente vantaggiosi, come quello dell’aggiudicazione, e solo dopo che tali effetti fossero venuti meno,
nonostante l’affidamento ormai conseguito dalla
parte interessata (17).
Nel percorso per il riconoscimento della responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione una delle tappe fondamentali viene individuata nella sentenza della Corte di Cassazione, Sezioni Unite, n. 500, del 22 luglio 1999. Tale pronuncia, come è noto, ha rappresentato una svolta
epocale in tema di responsabilità della p.a., che ha
stravolto il modo di agire del soggetto pubblico,
obbligandolo al rispetto del principio di neminem
laedere, pena il risarcimento del danno causato al
privato. È evidente, allora che le ipotesi di questo
tipo siano da ricondursi alla responsabilità di cui
all’art. 2043 c.c. e non a quella, propriamente precontrattuale, degli artt. 1337 c.c. e 1338 c.c.
(9) Come osserva E. Liuzzo, La responsabilità precontrattuale
della pubblica amministrazione, Milano, 1995, “i criteri dell’uguaglianza, della pari dignità sociale e della solidarietà umana
hanno infatti avuto un ruolo decisivo nell’allargare le ipotesi di
responsabilità civile, l’area di risarcibilità del danno e la nozione stessa di danno ingiusto. Ancor più tali criteri rilevano in ordine alla responsabilità precontrattuale nell’ambito della quale
i doveri di diligenza, di avviso e in generale di correttezza trovano un sicuro riscontro nel dettato costituzionale: in forza di
esso si impone che, nell’autoregolamento privato degli interessi, entri in gioco il superiore interesse della collettività”.
(10) Le argomentazioni che verranno (gradualmente) recepite dalla giurisprudenza civile e amministrative sono così efficacemente sintetizzate da M. Nigro, L’amministrazione fra diritto pubblico e privato: a proposito di condizioni legali, Roma,
1961: “È la stessa Amministrazione che scegliendo il mezzo
privatistico si è assoggettata alla disciplina privatistica. La
scelta del mezzo privatistico non fa venire meno la particolare
qualità di essa Amministrazione, ma restringe il vigore della disciplina pubblicistica a quei profili che con tale qualità sono
strettamente e necessariamente connessi. Al di fuori di questi,
il contraente privato ha ragione di attendersi che l’Amministrazione si comporti come il diritto dei privati, che essa ha scelto,
esige”.
(11) Tra i primi ad occuparsi dell’argomento A. Vela, Riflessi
giurisprudenziali in tema di responsabilità precontrattuale della
Pubblica Amministrazione, in Riv. Gen. Edil., fasc. 1, 855 ss. e
M. Nigro, L’amministrazione fra diritto pubblico e diritto privato:
a proposito di condizioni legali, nota a Cass., Sez. Un., 15 novembre 1960, n. 3042, in Foro It., 1961, 1, 457 ss.
(12) E. Liuzzo, La responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione, cit., riassume le tappe principali del percorso evolutivo di dottrina e giurisprudenza dagli anni ’50 fino alla
metà degli anni ‘90. Si veda anche R. Giovagnoli, La responsabilità extra e pre contrattuale della P.A., Milano, 2009, 532 ss.
per l’evoluzione sino ai giorni nostri.
(13) Cass., Sez. Un., 12 luglio 1961, n. 1674, in Foro
It., 1962, I, 98. Viene attribuito al giudice del merito il compito
di valutare se il soggetto pubblico sia stato non già un corretto
amministratore, bensì se sia stato un corretto contraente.
(14) G. M. Racca, Giurisdizione esclusiva e affermazione della responsabilità precontrattuale della p.a., in questa Rivista,
2002, 2, 199 ss.
(15) M. S. Forte, Quale la responsabilità della P.A. che ricerca il contraente nella fase precedente la stipula del contratto?, in
Corr. Giur., 2014, 5, 656 ss.
(16) A. Passarella, Responsabilità precontrattuale della P.A.
anche prima dell’aggiudicazione: un passo avanti o una vittoria
di Pirro?, nota a Cons. Stato, sez. V, 3831/2013, in Contratti,
2014, 2, 146 ss.
(17) Cons. Stato, sez. V, 11 novembre 2008, n. 5633, in
Danno e Resp., 2009, 8, 819 ss.
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Il nuovo orientamento giurisprudenziale
Il percorso evolutivo in materia non poteva però
ritenersi concluso. Le ragioni che avevano portato
la giurisprudenza a riconoscere la responsabilità ex
art. 1337 c.c. della pubblica amministrazione meri-
1185
Giurisprudenza
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tavano di essere ulteriormente sviluppate ed infatti
in tempi molto recenti la giurisprudenza amministrativa ha esteso la responsabilità precontrattuale
all’intera fase dell’evidenza pubblica, a prescindere
dall’avvenuta aggiudicazione (18).
A tale risultato ha sicuramente contribuito la
nota pronuncia dell’Adunanza Plenaria del
2005 (19). Nella sentenza citata si afferma che
“l’impresa può confidare, durante il procedimento
di evidenza pubblica, prima sulla possibilità di diventare affidataria del contratto e più tardi – ad aggiudicazione intervenuta – sulla disponibilità di un
titolo che l’abilita ad accedere alla stipula del contratto stesso”. Sebbene la pronuncia sia relativa ad
un’ipotesi in cui l’aggiudicazione era avvenuta, le
motivazioni che la Plenaria ha addotto a sostegno
di tale tesi hanno consentito, in tempi più recenti,
di riconoscere anche altre forme di affidamento, in
momenti antecedenti l’aggiudicazione, rilevanti ai
fini della configurazione di una responsabilità precontrattuale della p.a. (20).
Il giudice civile, invece, aveva sempre escluso la
configurabilità di una responsabilità precontrattuale della p.a. nella fase del procedimento che precede l’aggiudicazione della gara.
Con la pronuncia che si commenta la Cassazione apre al nuovo orientamento e si allinea alla giurisprudenza del giudice amministrativo: la disciplina della culpa in contrahendo non necessita – secondo la Corte – di un rapporto personalizzato fra p.a.
e privato, ma è posta a tutela del legittimo affidamento alla correttezza della controparte, che sorge
sin dall’inizio del procedimento.
Sebbene la giurisdizione in materia sia al momento esclusiva del giudice amministrativo (21),
l’importanza della pronuncia è notevole, non solo
perché rende omogenea la giurisprudenza civile e
amministrativa su una questione di indubbio rilievo ma perché rappresenta il recepimento, sul piano
L’espresso richiamo all’ordinamento europeo
rappresenta un’occasione per rimettere in discussione alcune questioni, in tema di responsabilità
precontrattuale, sulle quali la giurisprudenza sembrava aver messo un punto.
È noto che l’annoso dibattito (in realtà mai del
tutto sopito) relativo alla natura della responsabilità precontrattuale vede ora prevalere nettamente
quell’orientamento che ravvisa nell’art. 1337 c.c.
un’ipotesi di responsabilità aquiliana (22). Secondo
questa dottrina, maggioritaria e consolidata, la violazione del precetto posto dall'art. 1337 c.c. costituisce una forma di responsabilità extracontrattuale
che si riconnette alla violazione della regola di
condotta stabilita erga omnes e contenuta nell'art.
2043 c.c. (23). Se un contratto non è ancora stato
concluso non vi può essere responsabilità contrattuale.
Dalla tesi della natura aquiliana discendono
conseguenze sul piano della disciplina applicabile
alla responsabilità prevista dall'art. 1337 c.c., in
particolare in materia di prescrizione, di onere della prova, di regime della mora nonché dell'elemento psicologico del contraente che pone in essere il
comportamento scorretto.
Tra le conseguenze derivanti dalla natura aquiliana dell'art. 1337 c.c. il profilo che interessa in
questa sede è quello della necessaria prova del dolo
o della colpa dell'amministrazione. La prova dell'elemento psicologico del soggetto pubblico rappresenta senza dubbio l'ostacolo maggiore per il privato che voglia far valere il proprio diritto al risarcimento ex art. 1337 c.c. nei confronti della
p.a. (24).
(18) Per i riferimenti giurisprudenziali si veda la nota 1.
(19) Con. Stato, Ad. Plen., 5 settembre 2005, n. 6, in questa
Rivista, 2006, 1, 69 ss.
(20) T.A.R. Lazio, sez. III, 22 giugno 2009, n. 5986, in Giur.
Merito, 2010, 4, 1133 ss. Si noti, peraltro, che la stessa sentenza dell’Adunanza Plenaria è stata richiamata a sostegno della
tesi (opposta) della non configurabilità della responsabilità precontrattuale della p.a. anteriormente alla scelta del contraente
da Cons. Stato, sez. IV, 11 novembre 2008, n. 5633, in Foro
Amm. CdS, 2008, 11, 2990. Il Consiglio di Stato nella pronuncia Cons. Stato, sez. V, n. 3831/2013 evidenzia questa incongruenza, escludendo che l’Adunanza Plenaria abbia inteso
esonerare l’amministrazione dal rispetto del canone di correttezza e diligenza per tutto l’arco di svolgimento dei procedimenti ad evidenza pubblica.
(21) In seguito all’entrata in vigore della L. 21 luglio 2000,
n. 205 di riforma del processo amministrativo.
(22) Cfr. Cass. civ., sez. I, 11 giugno 2010, n. 14056 in Resp.
Civ., 2011, 11, 801 ss.; Cass. civ., sez. I, 17 febbraio 2009, n.
3773, in Danno e Resp., 2009, 503 ss.; Cass. civ., Sez. Un., 19
dicembre 2007, n. 26724 in Obblig. e Contr., 2008, 2, 99 ss.;
Cass. civ., sez. I, 29 settembre 2005, n. 19024, in Nuova Giur.
Civ.
(23) Cass. civ., sez. I, 10 gennaio 2013, n. 477, in Contratti, 2013, 5, 441 ss. con nota di A. Passarella.
(24) Accade talvolta che, sebbene le enunciazioni di principio della giurisprudenza siano del tutto condivisibili, le loro applicazioni pratiche non lo siano altrettanto. Evidenzia queste
perplessità A. Passarella, Responsabilità precontrattuale della
P.A. anche prima dell’aggiudicazione: un passo avanti o una vit-
1186
dei principi, di quanto disposto dalla disciplina europea.
La responsabilità della p.a.
nell'ordinamento europeo
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È proprio sotto questo profilo che il recepimento
dei principi di matrice europea sembra contrastare
con l’attuale disciplina della colpa nella responsabilità precontrattuale. Secondo le direttive europee, (25) infatti, la risarcibilità dei danni che conseguono alla violazione di norme in materia di
scelta del contraente, da un lato, è ammessa indipendentemente dalla prova di un diritto all'aggiudicazione (26), dall'altro lato, è accordata a prescindere dall'accertamento dell'elemento della colpa in capo alla p.a. (27).
Sembra, allora, che l'ordinamento europeo configuri la responsabilità del soggetto pubblico in senso oggettivo (28).
Nel settore specifico degli appalti pubblici, segnatamente, l'Unione Europea impone agli Stati la
previsione di procedure di ricorso contro le decisioni delle amministrazioni pubbliche con determinate caratteristiche, ma nulla dice in ordine all'elemento soggettivo della responsabilità.
La Corte di Giustizia dell'Unione Europea, infatti, in tutte le occasioni (29) in cui è stata chiamata
a verificare la conformità degli ordinamenti nazionali al diritto dell'Unione Europea ne ha statuito
l'incompatibilità quando risultava che il risarcimento del danno era subordinato alla prova del
comportamento colposo assunto dalla p.a.
La stessa Corte ha anche affermato che i rimedi
risarcitori sono idonei a ristorare il privato “soltanto a condizione che la possibilità di riconoscere un risarcimento in caso di violazione delle norme sugli appalti pubblici non sia subordinata alla
constatazione dell'esistenza di un comportamento
colpevole tenuto dall'amministrazione aggiudicatrice”. Ciò perché la normativa in materia “non
indica in alcun modo che la violazione delle norme sugli appalti pubblici, atta a far sorgere un diritto al risarcimento a favore del soggetto leso,
debba presentare caratteristiche particolari, quale
quella di essere connessa ad una colpa, comprovata o presunta, dell'amministrazione aggiudicatrice” (30).
È evidente che molto deve ancora essere fatto
per rendere la disciplina italiana conforme a quella
europea. La necessità di provare la colpa della p.a.,
che discende dalla natura aquiliana della responsabilità ex art. 1337 c.c., non sembra, infatti, compatibile con i principi enunciati in sede comunitaria.
Le soluzioni che la giurisprudenza potrebbe percorrere per rendere l'ordinamento italiano compatibile con quello dell'Unione Europea sono molteplici.
Il problema sarebbe risolto alla radice se si aderisse a quell’orientamento che sostiene la natura
contrattuale della responsabilità ex art. 1337
c.c. (31). Ove non si voglia rimettere in discussione la natura della responsabilità ex art. 1337 c.c.,
l’alternativa potrebbe essere offerta da quella dottrina che in termini più generali conforma la responsabilità della pubblica amministrazione non
sul parametro della colpa ma su altri criteri di tipo
oggettivo.
Osservano i sostenitori di tale tesi che ogni qualvolta la pubblica amministrazione viola le norme
dettate per il corretto esercizio del suo potere autoritativo si verifica una oggettiva disfunzione, come
toria di Pirro?, cit.; l'autrice critica la pronuncia del Supremo
Consesso che, sebbene abbia aperto al riconoscimento della
responsabilità ex art. 1337 c.c., anche prima dell'aggiudicazione della gara, non ha poi riconosciuto la responsabilità precontrattuale dell'ente pubblico ritenendo il suo comportamento
scevro dell'elemento della colpa.
(25) Si vedano le cd. Direttive Ricorsi (direttiva 2007/66/CE,
che modifica le direttive 89/665/CEE e 92/13/CEE) oltre che la
recentissima direttiva 2014/24/UE sugli appalti pubblici che
abroga la direttiva 2004/18/CE, sulla quale v. R. Caranta, D.C.
Dragos, La mini-rivoluzione del diritto europeo dei contratti pubblici, in questa Rivista, 2014, 5, 493ss.
(26) S. Ponzio, Il comportamento contraddittorio nella revoca
dell'aggiudicazione di un appalto pubblico: la responsabilità precontrattuale e il danno risarcibile, in questa Rivista, 2013, 10,
1085 ss.
(27) A. Feliziani, Responsabilità della pubblica amministrazione senza colpa? Riflessioni a margine di una sentenza della Corte di Giustizia, in Foro Amm. CdS, 2011, 3015 ss., mette a confronto la disciplina della responsabilità della pubblica Amministrazione nell'ordinamento italiano e in quello europeo.
(28) Corte giust. UE, 30 settembre 2010, causa C-314/09,
Graz Stadt, in Foro Amm. CdS, 2011, 3015 ss.
(29) Corte giust. UE, 14 ottobre 2004, causa C-275/03,
Commissione c. Repubblica Portoghese, in questa Rivista,
2005, 36 ss. con commento di M. Protto, Per il diritto europeo
la responsabilità della p.a. non richiede la prova dell''elemento
soggettivo.
(30) Corte giust. UE, 30 settembre 2010, causa C-314/09,
Graz Stadt, in Giur. It., 2011, 3, 664 con nota di S. Cimini, La
colpa è ancora un elemento essenziale della responsabilità da attività provvedimentale della P.A.? I principi cardine dell'ordinamento comunitario in materia di responsabilità della p.a. sono
stati posti dalla Corte di giustizia con alcune importanti pronunce, Corte giust. CE, 5 febbraio 1963, Van Gend & Loos;
Corte giust. CE, 19 novembre 1991, C-6/90, Francovich; Corte
giust. CE, 5 marzo 1996, causa C-46/93, Brasserie du pécheur
- Factorame. In quest'ultima pronuncia, in particolare, la Corte
statuisce che il giudice nazionale non può subordinare il risarcimento del danno all'esistenza di una condotta dolosa o colposa dell'organo statale al quale è imputabile l'inadempimento.
(31) A sostegno della tesi della natura contrattuale della responsabilità ex art. 1337 c.c. si veda F. Mengoni, Sulla natura
della responsabilità precontrattuale, in Riv. Dir. Comm., 1956, 2,
360 ss. e Responsabilità precontrattuale, in Enc. Giur., vol.
XXXIV, Milano, 1988, 1072 ss.; M. Renna, Sulla natura della responsabilità della P.A. per la violazione degli obblighi procedimentali e di correttezza, in Giur. It., 2012, 12, 386 ss.
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tale valutata negativamente dall'ordinamento. Il
ristoro del soggetto danneggiato da tale disfunzione
non può e non deve essere subordinato alla verifica
di altri presupposti. La prospettiva dalla quale dovrebbe essere valutato l'agire amministrativo è,
dunque, esclusivamente oggettiva e la colpa dovrebbe essere identificata nella semplice violazione
delle regole che governano l'agire della p.a. (32).
In particolare, si è affermato che ogniqualvolta vi
sia un danno obiettivamente determinato dalla
violazione delle procedure comunitarie non vi sarebbe alcuna necessità di legittimare il risarcimento sulla base della disciplina normativa interna della responsabilità civile (33).
In tal modo anche la responsabilità precontrattuale verrebbe ad essere ricondotta ad una specifica
figura di “responsabilità civile di diritto pubblico”,
che tenga conto delle peculiarità derivanti dalla
natura pubblica del soggetto coinvolto e del ruolo
istituzionale che esso ricopre.
(32) E. Scotti, Appunti per una responsabilità dell'amministrazione tra realtà ed uguaglianza, in Dir. Amm., fasc. 3, 2009.
(33) F. Merusi, La natura delle cose come criterio di armoniz-
zazione comunitaria nella disciplina sugli appalti, in Riv. It. Dir.
Pubbl. Comm., 1997, 1, 389.
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Giurisprudenza
Osservatorio civile
a cura di IGNAZIO PAGANI
APPALTI E LAVORI PUBBLICI
AMBITO SOGGETTIVO DI APPLICABILITÀ DEL FERMO
AMMINISTRATIVO
Cassazione civile, sez. I, 8 settembre 2014, n. 18880 Pres. Forte - Rel. Benini
L’istituto del fermo amministrativo (art. 69, comma 6,
R.D. n. 2440/1923) è riferito esclusivamente alle Amministrazioni statali e non può essere utilizzato da altri enti, sicché anche un provvedimento pur deliberato dall'Amministrazione statale ma a favore della gestione
contabile di altro ente (quale un Comune) e da questi
utilizzato per la sospensione del pagamento di propri
debiti, deve ritenersi emesso in totale carenza di potere
ed è assolutamente inidoneo a cagionare effetti d’affievolimento delle posizioni di diritto soggettivo vantate
dal titolare del credito fermato.
Un Comune oppose un decreto ingiuntivo ottenuto da un
appaltatore, recante condanna al pagamento di un’ingente
somma a titolo di revisione prezzi in un contratto di appalto, oltre interessi e spese.
L'opponente deduceva la sussistenza di uno specifico impedimento alla corresponsione della somma, in ragione di
un fermo amministrativo disposto dal Commissario straordinario di Governo ai sensi della L. n. 219/1981, poiché la
società creditrice in sede monitoria era tenuta a restituire
quanto ad altro titolo riscosso da altra Amministrazione
statale. Il Comune peraltro provò di avere accantonato le
somme dovute, le quali furono corrisposte in corso di giudizio di primo grado, non appena il fermo cessò i propri effetti. Il Tribunale, dato atto del pagamento del capitale in
corso di causa, dichiarava cessata la materia del contendere e revocava il decreto opposto, assumendo che i provvedimenti di fermo integrassero il paradigma dell'art. 1256,
comma 2, c.c. per il quale se l’impossibilità all’adempimento è solo temporanea, il debitore, finché essa perdura, non
è responsabile del ritardo: per l’effetto, nulla riconosceva
per interessi maturati in pendenza di giudizio.
Adita dall’impresa, la Corte d’appello riformò la sentenza
condannando il Comune al pagamento degli interessi, deducendo che i provvedimenti di fermo amministrativo non
potevano vincolare il Comune che, non facendo parte dell'Amministrazione statale, non poteva ritenersi esonerato
dal pagamento.
Il Comune ricorre per la cassazione di tale sentenza, ma il
ricorso è respinto.
Tra gli altri motivi di ricorso, il Comune denuncia violazione
e falsa applicazione di norme di diritto con riferimento agli
artt. 1218 e 1256 c.c.; censura la sentenza impugnata per
aver configurato l'obbligo di pagamento del Comune (che,
anzi, avrebbe esposto l'Ente a responsabilità erariale, dipendente da una condotta in contrasto con il fermo disposto dal Commissario di Governo).
Osserva la Suprema Corte che i provvedimenti di fermo
amministrativo non possono costituire ostacolo all'adempi-
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mento del debito di un Comune verso il proprio creditore.
Infatti, l’istituto del fermo amministrativo (art. 69 R.D. n.
2440/1923) - che consente a un’Amministrazione statale
che abbia, a qualsiasi titolo, ragioni di credito verso creditori di essa (o di altre Amministrazioni) di richiedere e ottenere la sospensione cautelare e provvisoria del pagamento,
è riferito esclusivamente ad Amministrazioni statali e non
può essere utilizzato da altri enti, in quanto la traslazione di
tale strumento, suscettibile di importare un eccezionale affievolimento dei diritti di credito dei privati ad opera della
stessa p.a. che è parte del rapporto, al di fuori dell'alveo legislativamente assegnatogli, può ammettersi solo in presenza d’una espressa e inequivoca disposizione normativa,
non già in via di interpretazione estensiva od analogica
(Cass. 4 novembre 2002, n. 15382). Sicché ogni provvedimento deliberato dall'Amministrazione statale a favore della gestione contabile di altro ente (quale un Comune) e da
questo utilizzato per la sospensione del pagamento di propri debiti, deve ritenersi emesso in totale carenza di potere
ed è quindi assolutamente inidoneo a cagionare effetti
d’affievolimento delle posizioni di diritto soggettivo vantate
dal titolare del credito fermato (cfr. Cass. 29 luglio 1998, n.
7414).
In ragione di ciò, la sentenza supera il vaglio del Giudice di
legittimità che riconosce il diritto alla corresponsione degli
interessi sul debito capitale (pagato in corso di primo grado). Infatti, in ragione dell'inefficacia del fermo amministrativo, gli effetti dello stesso devono ritenersi definitivamente
elisi sin dall'origine e il credito, per l’inefficacia del provvedimento cautelare, è produttivo di interessi anche nel periodo di vigenza del fermo stesso, con decorrenza dal momento della costituzione in mora dell'Amministrazione
(Cass. 23 luglio 2004, n. 13808).
La Corte chiosa ribadendo un importante aspetto, peraltro
non inedito: in tema di appalti pubblici, in relazione all'atto
dell'autorità che costituisca impedimento alla prestazione
contrattuale, incidendo su di un momento strumentale o finale dell'esecuzione, deve escludersi che l'atto amministrativo, pur illegittimo, determini l'esonero da responsabilità
del debitore che vi abbia dato causa colposamente e, segnatamente, non si sia diligentemente attivato in modo
adeguato per ottenerne la revoca o l'annullamento (Cass.
19 ottobre 2007, n. 21973; 16 ottobre 2012, n. 17771).
EFFICACIA PROBATORIA DEGLI ATTI DI CONTABILITÀ
REDATTI IN CORSO D’APPALTO
Cassazione civile, sez. III, 27 agosto 2014, n. 18316 Pres. Berruti - Rel. D’Amico
Gli stati di avanzamento, i libretti delle misurazioni e
quelli di contabilità, relativi agli appalti della p.a. sono
atti pubblici e non mere certificazioni amministrative, in
quanto formati da un pubblico ufficiale nell'esercizio
delle proprie funzioni, sicché essi fanno prova dei fatti
giuridicamente rilevanti ivi contenuti e descritti, dai
quali derivano obblighi a carico della p.a. e hanno efficacia probatoria ai sensi dell’art. 2700 c.c.
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La controversia origina da un’opposizione a decreto ingiuntivo proposta da un Comune contro una società bancaria
di factoring, cessionaria d’un credito derivante da concessione di lavori pubblici. La creditrice opposta, costituendosi, domandò anche il maggior danno per la svalutazione
monetaria maturata in corso di causa. Con separata azione
ordinaria - in ragione del difetto del requisito di liquidità del
credito (per mancata approvazione della stazione appaltante dei relativi prezzi) - la cessionaria del credito domandò
anche importi revisionali maturati.
I due giudizi furono riuniti per connessione e - all’esito di
CTU contabile, dopo l’intervento volontario del Fallimento
della società cedente, foriero di domanda risolutiva del
contratto di factoring e di pagamento delle somme ancor
spettanti alla fallita (in pretesa applicazione analogica dell’art. 78 L.F.) - decisi con sentenza d’accoglimento dell’opposizione e revoca del decreto. Circa le domande accessorie spiegate dal factor il Tribunale rigettò la riconvenzionale
e declinò la propria giurisdizione, in favore di quella del
g.a., sulla domanda di revisione prezzi.
Per quanto qui interessi, il Tribunale sul gravame monitorio
osservò che le fatture azionate non documentassero il credito, benché riconducibili a S.A.L. predisposti dalla D.L., vistati dal responsabile dell’Amministrazione appaltante e
che, comunque, non fossero esigibili perché relative a opere contabilizzate ma non eseguite o realizzate in eccesso
(perché mai autorizzate, o non rientranti nella previsione di
spesa e negli obblighi contrattuali assunti dall’Ente pubblico).
Per l’effetto, rilevò la nullità, per contrasto con norme imperative ex art. 1418 c.c., dei S.A.L. contabilizzanti opere
eseguite senza autorizzazione del committente, ordinando
la trasmissione della sentenza alla Procura della Repubblica ravvisando nell’accaduto circostanze di rilevanza penale.
Dall’insussistenza della pretesa creditoria del factor, il Tribunale fece discendere l'infondatezza della pretesa della
Curatela, rigettando la relativa domanda.
Il factor gravò la sentenza sotto ogni profilo chiedendo altresì - in preliminare di rito - accertarsi la sussistenza della
giurisdizione ordinaria sulla domanda revisionale.
Di contro, la Curatela spiegò appello incidentale per ottenere la risoluzione del contratto di factoring e il pagamento
delle somme ancor dovute dall’Ente pubblico in base al
contratto.
La Corte territoriale, a definizione dell’appello, dichiarò la
giurisdizione ordinaria sulla domanda revisionale rimandando, in punto, le parti al giudice di primo grado. Nel merito,
rigettò il gravame quanto alla domanda di rivalutazione
monetaria, accogliendolo per i restanti motivi: al definitivo,
in riforma dell'impugnata sentenza, rigettò l'originaria opposizione a decreto ingiuntivo, dichiarando assorbito (e in
ogni caso rigettato) l’appello incidentale.
La questione approda in Cassazione, con ricorso del Comune al quale resistono le altre parti con controricorso e ricorso incidentale.
La Suprema Corte rigetta i ricorsi - principale e i due incidentali - con varie argomentazioni, alcune delle quali sono
d’interesse per la materia di questa Rivista
Nel confutare specifica eccezione in punto, la Corte ricorda
che gli stati di avanzamento, i libretti delle misure e di contabilità, relativi a lavori dati in appalto dalla p.a., sono atti
pubblici e non certificazioni amministrative, perché formati
da un pubblico ufficiale nell'esercizio delle proprie funzioni,
sicché essi fanno prova dei fatti giuridicamente rilevanti ivi
1190
contenuti e descritti, dai quali derivano obblighi a carico
della p.a. (Cass. pen., 13 febbraio 1986, n. 5562) ed efficacia probatoria ai sensi dell’art. 2700 c.c.
Nella fattispecie, osserva la Suprema Corte, emerge dagli
atti che alle fatture corrispondono S.A.L. vistati dal D.L. e
controfirmati R.U.P., il che basta a far ritenere eseguiti i lavori stessi sino prova contraria, da ottenersi mediante proposizione di querela di falso, nello specifico non proposta.
LIMITI AL SINDACATO DELLA CASSAZIONE CIRCA LA
DIFFERENZA FRA FIDEIUSSIONE E CONTRATTO AUTONOMO
DI GARANZIA E SUGLI EFFETTI DEL TERMINE PER
L’APPROVAZIONE DEL COLLAUDO, IN ORDINE AL
PERMANERE DELLA GARANZIA
Cassazione civile, sez. I, 7 agosto 2014, n. 17783 - Pres.
Salvago - Rel. Campanile
L'accertamento su natura e contenuto del contratto, in
tema di distinzione tra fideiussione e contratto autonomo di garanzia, è questione riservata al giudice del merito ed è censurabile in sede di legittimità esclusivamente per violazione dei canoni legali di ermeneutica o
per vizi della motivazione
Il termine temporale di sei mesi dalla fine dei lavori, fissato dall’art. 5 della L. n. 741/1981 per la definizione del
collaudo di opere pubbliche, ha natura perentoria sicché - qualora il certificato di collaudo non sia approvato
nei successivi due mesi dalla scadenza dei sei utili - la
fideiussione si estingue di diritto, salvo che l'ente garantito non comunichi al garante, prima della scadenza
stessa, che la mancata approvazione dipenda da fatto
imputabile alla ditta obbligata.
Un’Amministrazione pubblica risolse per inadempimento
dell’appaltatore, ai sensi dell’allora vigente art. 340 L. n.
2248/ all. E/1865 (oggi art. 136 D.Lgs. n. 163/2006), un
contratto per la costruzione di un’opera pubblica, a garanzia del quale erano rilasciate due polizze fideiussorie per lo
svincolo delle ritenute in garanzia sugli stati di avanzamento dei lavori.
Per l’ottenimento di quanto di spettanza, non avendo recuperato dall'appaltatore il dovuto, la committente aveva convenuto al Tribunale civile la garante compagnia assicuratrice chiedendone la condanna al pagamento della somma
dovuta in dipendenza delle rilasciate polizze.
La convenuta eccepiva l'estinzione dei rapporti di garanzia,
con tesi condivisa dal Tribunale.
La Corte d’appello, adita dalla p.a., osservava che la durata
della garanzia - giusta pattuizione contrattuale - era limitata
all'approvazione del certificato di collaudo o di regolare
esecuzione e, comunque, non si sarebbe potuta estendere
oltre il termine di due mesi (previsto dall’art. 5 L. n.
741/1981 per l’approvazione di tali atti, salvo che l'ente garantito non avesse comunicato, prima della scadenza stessa, che la mancata approvazione dipendeva da fatto imputabile alla ditta obbligata). Circostanze, queste, non verificatesi, perché il pagamento delle garanzie era stato richiesto dopo ben quattro anni dalla rescissione del contratto.
La controversia è portata dall’Amministrazione committente all’esame della Suprema Corte che - a conferma della
doppia conforme - rigetta il ricorso.
Fra i punti d’interesse della pronuncia, vanno segnalati i seguenti.
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Il ricorrente si duole che la sentenza impugnata qualifichi il
rapporto dedotto in giudizio come fideiussione anziché
quale contratto autonomo di garanzia. A dir del medesimo,
ai fini della configurabilità del contratto autonomo di garanzia, non sarebbe decisivo l'impiego di espressioni quali "a
semplice richiesta" ovvero "a prima richiesta", dovendosi
piuttosto valutare la relazione in cui le parti hanno inteso
porre l'obbligazione principale e l'obbligazione di garanzia,
per dedurne la sussistenza o meno dell'elemento dell'accessorietà della garanzia medesima. Nello specifico, si deduce che la Corte di merito non avrebbe considerato il valore precettivo delle condizioni generali del contratto, secondo cui la garante godeva del beneficio della preventiva
escussione dell'appaltatore ma doveva effettuare il pagamento a seguito di mero avviso alla ditta obbligata e senza
la necessità del preventivo consenso della stessa.
La Corte di Cassazione disattende l’assunto, affermando
che l'accertamento su natura e contenuto del contratto, in
tema di distinzione tra fideiussione e contratto autonomo
di garanzia, è questione riservata al giudice del merito ed è
censurabile in sede di legittimità esclusivamente per violazione dei canoni legali di ermeneutica o per vizi della motivazione (Cass., n. 13001/2006; Cass., n. 2464/2004).
Con altro mezzo, l’Amministrazione ricorrente assume che
la dichiarata decadenza della garanzia fideiussoria riguarderebbe i soli rapporti fra committente (garantito) e appaltatore, escludendo la garante. Aggiunge che il termine di
otto mesi, fissato per il collaudo, non sarebbe perentorio,
al punto che in modo del tutto legittimo ed esplicito il Comune non ha mai reso l'originale della polizza in segno di
assenso alla liberazione dagli obblighi fideiussori. La Corte
respinge la doglianza, osservando che la sentenza impugnata correttamente afferma che il rapporto in oggetto,
nell'ambito della disciplina della fideiussione, è disciplinato
dell'autonomia delle parti integrata dalle previsioni di legge
(qui, la n. 741/1981) richiamate espressamente dalle parti
nel contratto. Tra esse, quella sui tempi di collaudo (art. 5,
legge cit.), da terminare entro sei mesi dall’ultimazione di
lavori e, se il certificato di collaudo sia approvato nei due
mesi successivi alla scadenza dei sei utili, la fideiussione si
estingue di diritto, trattandosi di termine perentorio nella
produzione di effetti. Del resto, chiosa la Corte, se anche si
volesse attribuire al rapporto in oggetto il carattere di contratto autonomo di garanzia (inibendosi perciò al garante di
poter opporre le eccezioni attinenti alla validità o all'efficacia del rapporto garantito), non potrebbe tuttavia esser preclusa al garante medesimo la possibilità di eccepire l’estinzione del contratto di fideiussione.
CRITERI DI COMPUTO RISARCITORIO IN TEMA D’AZIONE DI
INDEBITO ARRICCHIMENTO VERSO LA P.A.
Cassazione civile, sez. III, 28 luglio 2014, n. 17085 Pres. Russo - Rel. Stalla
In tema di azione d’indebito arricchimento nei confronti
della p.a., conseguente all’assenza di un valido contratto di appalto di opere, l’indennità prevista dall’art. 2041
c.c. dev’esser liquidata nei limiti della diminuzione patrimoniale subita dal prestatore d’opera, con esclusione
di quanto il medesimo avrebbe percepito a titolo di lucro cessante se il rapporto negoziale fosse stato valido
ed efficace, questo anche in ragione che l’azione di cui
all’art. 2041 c.c. non ha - diversamente da quella disciplinata dall’art. 2043 c.c. - natura risarcitoria ma solo indennitaria. Pertanto, ai fini della determinazione dell’in-
Urbanistica e appalti 11/2014
dennizzo, non possono essere assunte a parametro le
tariffe professionali vidimate dall’Ordine di appartenenza a cui può ricorrersi solo quando le prestazioni siano
effettuate per effetto d’un valido contratto d’opera.
Due professionisti convennero un Comune per il pagamento di una somma di circa un milione di euro a titolo d’indebito arricchimento (art. 2041 c.c.) in dipendenza del fatto
che la p.a. convenuta si era avvalsa - a seguito d’una delibera d’incarico professionale non seguita da formale contratto - della loro attività professionale consistita nella progettazione di massima ed esecutiva di un’opera pubblica finanziata dalla Regione. Il Tribunale condannava il Comune
al pagamento di un importo pari a un terzo delle somme richieste, con rivalutazione monetaria, interessi e spese di lite.
La Corte d’appello, adita dal Comune, riduceva l’importo di
circa un terzo rispetto alla condanna di primo grado: al definitivo, l’importo liquidato era poco meno di un terzo di
quanto inizialmente domandato.
La Cassazione, adita dal Comune, accoglie con rinvio, enucleando interessanti principi sull’azione per arricchimento
indebito verso una p.a., specie per la determinazione del
quantum indennizzabile.
Osserva la Corte che tale mezzo, per la specifica impossibilità di un’azione contrattuale in dipendenza della mancata
sottoscrizione di un contratto, era l’unico esperibile. I suoi
presupposti sono - oltre a quelli ordinari e valevoli nei rapporti tra privati, ossia: il carattere residuale e l’impoverimento d’una parte con correlativo arricchimento dell’altra anche il riconoscimento, esplicito o implicito, dell’utilità arrecata da parte della p.a. Sulla scorta di questi presupposti,
la Suprema Corte afferma che l’indennità ex art. 2041 c.c.
va liquidata nei limiti della diminuzione patrimoniale subìta
dall’esecutore della prestazione resa in virtù del contratto
invalido o inesistente. Essa, perciò deve computarsi avuto
riguardo alla minor somma tra l’entità dell’arricchimento
dell’ente e quella dell’impoverimento dei progettisti, senza
aver riguardo alla diminuzione patrimoniale patita da questi
ultimi e rapportata ai costi d’esecuzione dell’opera. In tale
computo, al giudice è precluso il ricorso alla legge professionale che contempla una maggiorazione degli onorari
per incarico parziale e, ancor più, è impossibile fare riferimento ai parametri equitativi di cui all’art. 1226 c.c. in assenza dei criteri applicativi che ne sono tipici. Tale articolo comunque valevole solo per stabilire il quantum del pregiudizio e non anche l’an del medesimo (per il quale occorre
prova attorea ex art. 2697 c.c.) - presuppone l’impossibilità
(o l’assoluta difficoltà) di darne dimostrazione (Cass. nn.
11968 e 27447 del 2013). Solo se il Giudice di merito abbia
dato atto dei criteri logici di effettività (e non di mera apparenza) adottati per la determinazione del ristoro, la decisione può definirsi equitativa ex art. 1226 c.c. e non arbitraria,
ben potendo - in assenza di ciò - la predetta valutazione
trovare sindacato anche in sede di legittimità (Cass. n.
8123 del 2013).
Né, per determinare l’importo dovuto anche ex art. 1226
c.c., può farsi riferimento ad altri elementi reperiti in corso
di rapporto, quali le somme in origine stanziate dall’Ente
per la progettazione o l’importo del finanziamento: infatti, è
pacifico che nell’ambito di un’azione residuale - qual è
quella di cui all’art. 2041 c.c. - non è possibile fare riferimento a elementi o fatti viceversa tipici e propri di un rapporto sinallagmatico puro.
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Osservatorio in sintesi
Giurisprudenza
ATTI AMMINISTRATIVI
CESSIONE E PIGNORABILITÀ DEI CREDITI, DERIVANTI DA
CONTRATTO, VERSO LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
Cassazione civile, sez. III, 27 agosto 2014, n. 18339 Pres. Salmé - Rel. Rubino
Gli artt. 69 e 70 del R.D. n. 2440/1923 hanno carattere
eccezionale e, come tali, sono insuscettibili di applicazione analogica e vanno soggetti a interpretazione restrittiva (cfr. art. 117 D.Lgs. n. 163/2006).
La previsione dell’art. 159 T.U. enti locali (D.Lgs. n.
267/2000) - che circoscrive in solo favore degli Enti locali la pignorabilità dei fondi con vincolo di destinazione è parimenti norma insuscettibile di applicazione estensiva e perciò non si applica alle ASL né, in generale, ai
soggetti non sussumibili nel novero di cui all’art. 2 del
D.Lgs. n. 267/2000.
Un’ASL propose opposizione contro due pignoramenti
presso terzi iniziati da un privato (cessionario di crediti vantati da un terzo verso la medesima ASL) sulla scorta d’un
titolo esecutivo coperto da giudicato. A fondamento dell’opposizione, l’Azienda dedusse che la cessione non le era
mai stata notificata e, a fortiori, neppure accettata sicché
essa non poteva spiegare effetti nei propri confronti. Ancora, deduceva che il debito era stato pagato dall’ASL all’originario debitore e, in ultimo, che le somme oggetto di
provvedimento esecutivo erano impignorabili perché a destinazione vincolata.
Il Tribunale rigettò l’opposizione non ritenendo potersi enucleare, nel sistema delineabile dagli artt. 69 e 70 del R.D. n.
2440/1923, la necessità d’un preventivo consenso della
p.a. alla cessione del credito verso di essa. Ciò, osservò la
sentenza, è previsto nella sola materia degli appalti e da
una speciale disposizione che trova propria ratio nella necessità di tutelare l’interesse pubblico alla miglior esecuzione dell'opera (oggi cfr. art. 117 D.Lgs. n. 163/2006, codice
dei contratti pubblici).
La sentenza è gravata dall’ASL con ricorso per Cassazione,
che è respinto.
Contrariamente a quanto assunto dall’Azienda, il Giudice di
legittimità non ravvisa alcuna violazione della disciplina recata dagli artt. 69 e 70 del R.D. n. 2440/1923. La giurisprudenza - tanto ordinaria (Cass. nn. 981/2002; 18601/2005)
quanto amministrativa - ha infatti sempre riconosciuto a tali norme (che in taluni casi subordinano alla necessità d’accettazione del debitore ceduto l'efficacia del negozio di
cessione del credito) carattere eccezionale, come tale insuscettibile di applicazione analogica e, al contrario, destinatarie d’interpretazione restrittiva. Lo scopo della specifica
disciplina della cessione del credito verso le pp.aa. - che,
contrariamente alla generale regola civilistica, richiede il
consenso del debitore ceduto affinché la cessione sia efficace - è costituito dalla necessità di garantire la regolare
esecuzione dei contratti di durata da essa considerati, impedendo che nel corso degli stessi l'appaltatore potesse
privarsi dei mezzi finanziari erogatigli dalla p.. in base allo
stato di avanzamento dei lavori e allo sviluppo delle forniture (Cass. n. 18610/2005). In sintesi, il consenso del debitore
ceduto è richiesto per consentire che l’Amministrazione
committente possa ponderare la compatibilità della cessione con l’interesse pubblico alla puntuale e migliore esecuzione del contratto.
1192
Nello specifico, osserva la Corte, si esorbita dall’ambito applicativo della norma: tanto sotto il profilo soggettivo - perché essa è applicabile ai soli enti locali (mentre le ASL sono
persone giuridiche autonome rispetto agli enti locali stessi)
- quanto sotto quello oggettivo - perché tal norma si applica principalmente agli appalti, ove sussiste interesse del
committente (e debitore) di verificare che il proprio appaltatore (e creditore) mantenga i fondi per terminare l'opera secondo le prescrizioni contrattuali, circostanza astrattamente verificabile allorché ne fosse consentita un’indiscriminata cessione.
Parimenti reietta è la censura fondata sulla pretesa violazione dell’art. 159 del T.U. enti locali (D.Lgs. n. 267/2000) che
limita - in solo favore degli enti locali - la pignorabilità dei
fondi con vincolo di destinazione. Questo, in quanto, osserva la Corte, la giurisprudenza pacificamente limita il vincolo
d’indisponibilità alle somme dei soli enti locali (ambito soggettivo dal quale è estranea un’ASL) e - in ogni caso - occorre sotto il profilo oggettivo che i fondi siano vincolati, in
via preventiva, con delibera.
ESPROPRIAZIONE PER P.I.
CRITERIO DI LIQUIDAZIONE PER LE OCCUPAZIONI
APPROPRIATIVE DI TERRENI EDIFICABILI
Cassazione civile, sez. I, 13 agosto 2014, n. 17906 Pres. Salvago - Rel. Giancola
Per effetto della sentenza Corte cost. n. 348/2007, recante declaratoria d’incostituzionalità dell’art. 5-bis,
comma 7-bis, della L. n. 359/1992, applicabile a tutti i
rapporti non esauriti e concernenti le occupazioni appropriative di terreni edificabili verificatesi prima dell’entrata in vigore (al 30 giugno 2003) del T.U. espropriazioni (D.P.R. n. 327/2001), va applicato non già il criterio risarcitorio riduttivo previsto dalla norma espunta
bensì quello contemplato dalla disciplina transitoria
(art. 55, come modificato dall’art. 2, comma 89, L. n.
244/2007) che assicura alle vecchie occupazioni appropriative "sino a esaurimento" il risarcimento commisurato al valore venale del bene.
Due privati convennero al Tribunale ordinario un’Amministrazione comunale domandando - sulla premessa che essa aveva assoggettato a procedimento espropriativo un loro terreno offrendo un'indennità provvisoria, accettata con
manifestazione di disponibilità alla stipula del contratto di
cessione volontaria ex art. 12 L. n. 865/1971 verso un corrispettivo pari alla somma offerta, maggiorata del 50% e che
il Comune, pur avendo manifestato la volontà di accettare,
mai formalizzò la cessione dell'atto né pagò la somma dovuta, né l'indennità per il periodo d’occupazione legittima in principalità che il Comune fosse condannato al pagamento dell’indennità d’occupazione (con interessi e maggior danno anche da svalutazione) o, in subordine, al risarcimento dei danni subiti. Il Comune costituendosi osservò
che la mancata stipulazione dell’atto era imputabile agli attori, perché l’art. 12 legge cit. non poteva interpretarsi nel
senso da loro invocato, in quanto esso non prevedeva - nel
caso di cessione volontaria - un'automatica maggiorazione
del 50% dell'indennità offerta. Ancora, eccepì che nel proporre la cessione volontaria del bene i privati non avessero
chiesto alcun aumento dell'indennità a loro offerta. In con-
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Giurisprudenza
seguenza di ciò, le domande andavano respinte o, in subordine, limitate alla somma offerta senza la maggiorazione pretesa.
Con sentenza parziale il Tribunale - ritenuto che, per la
mancata stipulazione dell’atto in forma scritta, la cessione
bonaria del terreno non si fosse verificata - rigettava la domanda spiegata in principalità dagli attori e, in accoglimento della subordinata condannava il Comune a pagare l'indennità di occupazione per il periodo di legittima occupazione del fondo (quinquennio 15 dicembre 1979 / 14 dicembre 1984) oltre al risarcimento del danno per illegittima
occupazione del fondo stesso nel periodo successivo (id
est, dal 15 dicembre 1984 in poi), disponendo la prosecuzione dell'istruttoria con CTU contabile.
La sentenza parziale era oggetto di riserva d’appello da
parte del Comune.
Con sentenza definitiva il Tribunale, in base alla CTU, liquidava l'indennità di occupazione legittima e il risarcimento
del danno per occupazione illegittima, condannando il Comune al pagamento di una somma assai superiore a quella
inizialmente offerta, anche se (paradossalmente) maggiorata del 50% richiesto dagli attori.
Il Comune gravava la decisione lamentando l’ultra-petizione ed eccependo l'intervenuta prescrizione dei diritti riconosciuti a controparte. Gli attori, a loro volta, proponevano
appello incidentale assumendo l'erroneità dei criteri applicati per calcolare l'ammontare del danno da occupazione
acquisitiva e dell'indennità d’occupazione legittima.
La Corte territoriale rigettava l’appello principale del Comune e, in accoglimento dell'incidentale, condannava l'Ente a
pagare quale risarcimento del danno derivato dalla perdita
del bene, una somma ricalcolata in maggiorazione, oltre a
interessi legali dalla sentenza al saldo. Ancora, pronunciando in unico grado - in esercizio della propria competenza
funzionale in materia d’indennizzi espropriativi - determinava l'indennità d’occupazione legittima dovuta dal Comune,
oltre interessi legali su ogni singolo importo annuale a decorrere dal 15 dicembre dell'anno di riferimento, sino al disposto deposito della intera somma (per capitale ed interessi) presso la Cassa Depositi e Prestiti. La Corte territoriale osservava che entrambe le sentenze impugnate avevano
condannato il Comune a pagare una somma per indennità
da occupazione legittima del terreno protrattasi per un
quinquennio (dal 15 dicembre 1979) oltre a una somma a
titolo risarcitorio del danno da fatto illecito extracontrattuale di difficile individuazione. Tra le varie ipotesi al riguardo,
prospettate dalle parti, ve n'era una (comune a entrambe)
per cui la somma liquidata dal Tribunale sarebbe servita a
risarcire il danno subito dai privati per la perdita del diritto
di proprietà sul terreno in questione, a seguito di occupazione appropriativa (alias, accessione invertita) e non di un
atto di cessione (mai intervenuto). Tale interpretazione andava recepita, anche perché coerente con le domande formulate in primo grado dai danneggiati, che non avevano
chiesto la restituzione del terreno ma solo la corresponsione di somme di denaro.
L’interpretazione non era peraltro inconciliabile con l'affermazione contenuta nella sentenza non definitiva, per la
quale “il bene era rimasto di proprietà degli attori”, in
quanto l’assunto si collocava nella parte motiva dedicata a
esaminare la sola domanda di pagamento del corrispettivo
dell'atto di cessione, fondata sul presupposto che la cessione volontaria del bene si fosse comunque perfezionata (anche in assenza del formale atto di cessione) ed avesse prodotto come effetto il trasferimento al Comune del diritto di
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proprietà sull'immobile. Per effetto di ciò, la Corte di merito
ritenne che il Tribunale aveva accertato che in data 15 dicembre 1984 il Comune era divenuto proprietario - per occupazione acquisitiva - del fondo. In seguito a tale pronuncia, il Tribunale aveva condannato il Comune a pagare agli
attori l'indennità per il periodo di occupazione legittima
protrattosi per un quinquennio decorrente dal 15 dicembre
1979 ed a risarcire il danno da essi subito per avere perduto la proprietà dell'immobile.
La sentenza è impugnata in Cassazione, con ricorso principale dai privati e incidentale del Comune: il primo è accolto, il secondo è respinto.
Osserva la Suprema Corte come nella specie sia incontroverso che l'opera pubblica sia stata realizzata nel periodo
di occupazione temporanea, iniziato il 15 dicembre 1979 e
scaduto il 15 dicembre 1984. Muovendo da tal presupposto fattuale, sono respinti il primo e il terzo motivo del ricorso incidentale, inerenti al contenuto della domanda risarcitoria, proposta in subordine dai privati, e alla qualificazione
della vicenda in termini d’illecita occupazione acquisitiva.
La decisione della Corte di merito, del resto, è frutto d’irreprensibile esegesi della domanda svolta dai privati in via
subordinata e non appare né confliggere con il tenore della
statuizione sul punto adottata con la sentenza non definitiva del Tribunale, che consentiva di essere intesa (com’è
stato anche nel decisum conclusivo del primo grado) in termini di occupazione illecita definitiva e irreversibile dal
1984 in poi, quindi non solo d’illecita occupazione temporanea protrattasi a decorrere dalla medesima epoca; né di
risolversi in una reformatio in pejus sia per tale profilo, sia
con riguardo al contenuto dell'appello incidentale svolto
dai danneggiati avverso l'entità del ristoro liquidato, coerentemente con la ravvisata tipologia di illecito, in base ai
criteri prescritti per le aree edificabili dall’art. 5-bis, comma
7-bis, della L. n. 359/1992.
Con riferimento alla dedotta sopravvenienza di prescrizione
del credito, osserva la Corte che esso era stato azionato
sin dal 1991, quando fu introdotto il giudizio, in epoca in
cui non era ancor maturato il quinquennio di prescrizione.
Ancora si osservò che tal termine - in ogni caso - non
avrebbe potuto iniziare a decorrere prima del 3 novembre
1988, data di entrata in vigore della L. n. 458/1988 la quale
aveva portato il riconoscimento legislativo dell'istituto dell'occupazione in questione (cfr. Cass. n. 8965/2014).
La Corte, su questi presupposti, esamina e accoglie i due
motivi del ricorso principale.
Quanto al primo motivo, osserva che per effetto della sentenza Corte cost. n. 348/2007 - recante declaratoria d’incostituzionalità dell’art. 5-bis, comma 7-bis, L. n. 359/1992
per i rapporti non esauriti e concernenti le occupazioni appropriative di terreni edificabili verificatesi prima dell'entrata in vigore (30 giugno 2003) del T.U. espropriazioni
(D.P.R. n. 327/2001) - va applicato non il criterio risarcitorio
riduttivo previsto dalla norma espunta ma quello contemplato dalla disciplina transitoria (art. 55, come modificato
dall’art. 2, comma 89, L. n. 244/2007) che assicura alle
vecchie occupazioni appropriative "sino ad esaurimento" il
risarcimento commisurato al valore venale del bene.
Anche il secondo motivo del ricorso principale è accolto in
ragione della medesima declaratoria di incostituzionalità
dei criteri riduttivi di determinazione dell'indennità di espropriazione delle aree edificabili nel caso applicati nella quantificazione dell'indennità di espropriazione virtuale, alla quale è stata commisurata l'indennità di occupazione legittima,
che deve per l’effetto essere ricalcolata in sede di rinvio,
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Giurisprudenza
adottando come parametro di riferimento il valore pieno di
mercato attribuibile al bene occupato, secondo il criterio
generale già previsto dall’art. 39 della legge fondamentale
n. 2359/1865 (cfr. Cass. n. 14939/2010).
RISARCIMENTO DEL DANNO DA OCCUPAZIONE E CRITERIO
DI LIQUIDAZIONE
Cassazione civile, sez. I, 8 agosto 2014, n. 17809 - Pres.
Salvago - Rel. Forte
Il risarcimento del danno da occupazione deve essere,
per tutte le fattispecie ancor pendenti, determinato con
i parametri successivi alla declaratoria di incostituzionalità di cui alla sentenza Corte cost. n. 349/2007, posto
che quello in precedenza computato in forza della disciplina incostituzionale deve considerarsi tamquam non
esset: per l’effetto, non è più possibile applicare detto
criterio per determinare quanto dovuto a titolo risarcitorio per l'illecita occupazione e la connessa trasformazione irreversibile delle aree dei privati con la realizzazione di opere di pubblica utilità.
Alcuni privati convennero in giudizio al Tribunale civile
un’Amministrazione comunale e - sul presupposto che
quest’ultima avesse occupato dei loro terreni per realizzarvi
alloggi di edilizia residenziale pubblica dell'IACP senza alcun procedimento espropriativo - chiedevano di essere risarciti per l’illecita occupazione e la trasformazione irreversibile delle aree. Il litisconsorzio era esteso all’IACP che
aveva nella propria materiale disponibilità le aree e che, nel
costituirsi, si opponeva all'accoglimento della domanda nei
suoi confronti, chiedendo in subordine di essere manlevato
dal Comune, in caso di soccombenza.
Il Tribunale, in accoglimento della domanda attorea, condannava in solido Comune e IACP a pagare agli attori
un’ingente somma per capitale, rivalutazione e interessi;
ancora, condannava il solo Comune a corrispondere l'indennità di occupazione legittima e a rivalere l'IACP per
quanto eventualmente da questi pagato per gli espropri e
le occupazioni di cui sopra.
La sentenza era appellata dal Comune e la Corte di merito,
al definitivo, in accoglimento parziale dell’appello incidentale condannò Comune e IACP in solido, a pagare un risarcimento del danno agli appellati, determinato in misura ridotta, per l’irreversibile trasformazione del terreno, ponendo a carico del solo Comune l'ulteriore indennità di occupazione legittima, con interessi e condannando i privati appellati a restituire le somme ricevute in eccedenza, a piè di
sentenza di prime cure.
La sentenza è gravata per Cassazione dagli originari attori,
con ricorso accolto in applicazione dello jus superveniens
costituito dalle sentenze Corte cost. nn. 348 e 349 del
2007, dichiarative di incostituzionalità dell’art. 5-bis, com-
1194
ma 7-bis, D.L. n. 333/1992, per contrasto sia con il diritto
interno (art. 117 Cost.) che con l'art. 6 CEDU (la cui valenza
nel diritto interno è assicurata dalla previsione dell’art. 10,
comma 1, della Carta fondamentale). Declaratoria, questa,
destinata a incidere, ex art. 30 L. n. 87/1953, su ogni fattispecie ancora pendente (ossia non coperta da giudicato, o
per la quale non siano intervenute decadenze, preclusioni
o prescrizioni - salva ovviamente la materia penale, ove tali
limiti non operano, ai sensi del comma 4 dell’art. 30 in parola).
In ragione di ciò, osserva il Giudice nomofilattico, il risarcimento del danno va rideterminato con i nuovi parametri,
posto che quello in precedenza computato in forza della disciplina incostituzionale deve considerarsi tamquam non
esset (Cass. n. 83842008). In particolare, mentre la disciplina incostituzionale escludeva un ristoro integrale del danno
da occupazione illecita, oggi esso va corrisposto e computato avendo a parametro il valore di mercato del bene occupato, in conformità a quanto previsto con l'art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU e nel rispetto dell'art. 117
Cost. e per tali ragioni la sentenza deve essere cassata, affinché il giudice di rinvio determini, sulla scorta dei parametri qui enucleati, il valore da corrispondersi ai ricorrenti,
determinando il risarcimento sulla scorta del valore di mercato delle aree occupate, rivalutato all'attualità, con gli interessi di legge dalla data dell'acquisizione.
Invero - a seguito della sentenza Corte cost. n. 349/2007
che ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 5-bis L. n.
359/1992, che prescriveva un criterio di computo dell'indennità d’espropriazione, riduttivo di circa il 50% rispetto
al valore venale del bene - non è più possibile applicare
detto indennizzo, per determinare quanto dovuto a titolo risarcitorio per l'illecita occupazione e la connessa trasformazione irreversibile delle aree dei privati con la realizzazione di opere di pubblica utilità. Se ne ha, quindi, che anche
l'indennità di occupazione legittima, da determinare in una
percentuale di quella di espropriazione, va liquidata in rapporto alla misura di quest'ultima rapportata al valore di
mercato delle aree, e quindi deve essere ricomputata dal
giudice di rinvio secondo i parametri sopra enucleati.
Sotto il profilo della legittimazione passiva dell’IACP, argomentata dall’Istituto con la circostanza che l’attività materiale di occupazione e trasformazione è stata effettata dal
solo Comune e non dall’IACP, è di interesse la parte di pronuncia con cui la Suprema Corte, nel respingere il ricorso
incidentale da questo proposto, ne afferma la sussistenza
ricordando come in altri precedenti occasioni (cfr. Cass.
ord. n. 7198/2011; n. 4817/2009; n. 18612/2008) sia stato
affermato che dell'occupazione appropriativa illecita, con
irreversibile trasformazione di aree private destinate ad edilizia residenziale pubblica, risponde in solido con il comune
anche l'IACP che sia in possesso delle aree.
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Giurisprudenza
Amministrativa
Recesso
Dopo la stipula del contratto di
appalto la p.a. può esercitare
solo il recesso
CONSIGLIO DI STATO, Ad. Plen., 20 giugno 2014, n. 14 – Pres. Giovannini – Est. Meschino –
Azienda per la Mobilità del Comune di Roma – ATAC s.p.a. c. Consorzio Cooperative Costruzioni CCC Società Cooperativa
Nel procedimento di affidamento di lavori pubblici le pubbliche Amministrazioni se, in seguito alla stipula del
contratto di appalto, rinvengano sopravvenute ragioni di inopportunità della prosecuzione del rapporto negoziale, non possono utilizzare lo strumento pubblicistico della revoca dell’aggiudicazione – previsto dall’art.
21-quinquies della L. n. 241/1990 – ma devono esercitare il diritto potestativo di recesso regolato dall’art. 134
del D.Lgs. n. 163/2006.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme
Cons. Stato, sez. III, 13 aprile 2011, n. 2291; Cons. Stato, sez. V, 18 settembre 2008, n. 4455; Cass. civ., Sez. Un.,
11 gennaio 2011, n. 391; Cass. civ., Sez. Un., 17 dicembre 2008, n. 29425; Cass. civ., Sez. Un., 26 giugno 2003, n.
10160; T.A.R. Lazio, sez. II-ter, 6 marzo 2013, n. 2432
Difforme
Cons. Stato, sez. IV, 14 gennaio 2013, n. 156; Cons. Stato, sez. VI, 27 novembre 2012, n. 5993; Cons. Stato, sez.
VI, 17 marzo 2010, n. 1554
Diritto
Omissis.
1. La questione da esaminare è esposta dalla V sezione
nei termini che di seguito si sintetizzano riportando il
quadro della normativa rilevante e delle posizioni della
giurisprudenza al riguardo, con l'indicazione, su questa
base, dell'ipotesi interpretativa ritenuta preferibile.
1.1. La normativa rilevante.
Nella normativa si riscontra anzitutto, afferma la Sezione, un elemento di contraddittorietà tra i commi 1 e 1bis dell'art. 21-quinquies della L. n. 241 del 1990, poiché, per il primo, la revoca può incidere soltanto su atti
“ad efficacia durevole”, mentre, per il secondo, l'atto revocato può anche essere “ad efficacia istantanea” se incidente su “rapporti negoziali”, con un possibile effetto
retroattivo che avvicina l'istituto a quello dell'annullamento d'ufficio per illegittimità, convergendo, in questo
senso, anche l'art. 1, comma 136, della L. 30 dicembre
2004, n. 311, per il quale l'annullamento volto a “conseguire risparmi o minori oneri finanziari” regola il caso
in cui incida “su rapporti contrattuali o convenzionali
con privati”; potere quest'ultimo che, al di là del nomen
dell'atto, appare peraltro vicino allo schema della revoca sul presupposto della rivalutazione della convenienza
di contratti già stipulati.
La normativa richiamata deve essere a sua volta esaminata insieme con quella dell'art. 21-sexies della L. n.
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241 del 1990, per cui è possibile “il recesso unilaterale
dai contratti della pubblica amministrazione ... nei casi
previsti dalla legge o dal contratto”, secondo una regola
di tipicità delle ipotesi di recesso analoga a quella di cui
agli artt. 1372 e 1373 c.c.
Emerge da ciò la questione se con il potere attribuito
dall'art. 21-quinquies e dalla L. n. 311 del 2004 si possa
incidere sul contratto stipulato e come ciò si concili
con il carattere paritetico delle posizioni fondate su di
esso, di cui è espressione la generalizzazione dell'istituto
del recesso ex art. 21-sexies, cui si correla la previsione
specifica dell'art. 134 del codice dei contratti pubblici
che, per gli appalti di lavori pubblici, attribuisce all'amministrazione “il diritto di recedere in qualunque tempo
dal contratto”, con effetto economico più oneroso, però,
di quanto previsto dal comma 136 dell'art. 1 della L. n.
311 del 2004, poiché non limitato alla dimensione indennitaria ma comprendente il ristoro dei lavori eseguiti e dei materiali utili in cantiere oltre al decimo delle
opere non eseguite (effetto non dissimile da quello, previsto dall'art. 158 del medesimo codice dei contratti
pubblici, in caso di risoluzione per inadempimento o di
revoca delle concessioni di lavori pubblici).
Il quadro normativo deve essere completato, infine, con
il richiamo dell'art. 11 della L. n. 241 del 1990, che fa
salvo il potere di recesso dell'amministrazione “per sopravvenuti motivi di pubblico interesse” in caso di ac-
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cordi integrativi o sostitutivi del provvedimento, e degli
artt. 121 e 122 c.p.a. quanto ai poteri del giudice amministrativo di incidere sul contratto.
1.2. La giurisprudenza.
La Sezione riferisce:
a) che il Consiglio di Stato ha affermato la legittimità
del potere di revoca degli atti amministrativi del procedimento ad evidenza pubblica anche se sia stato stipulato il contratto, con il conseguente diritto del privato all'indennizzo; ciò emerge in particolare dalle sentenze
della sez. VI, n. 1554 del 2010 e n. 5993 del 2012 e della sez. IV, n. 156 del 2013 (nella quale si richiama anche, con il comma 136 dell'art. 1 della L. n. 311 del
2004, il comma 9 dell'art. 11 del codice dei contratti
pubblici che consente l'intervento in autotutela sugli
atti di gara pur divenuta efficace l'aggiudicazione definitiva), apparendo parzialmente difforme la sola sentenza
della sez. III, n. 2291 del 2011, poiché la legittimità della revoca degli atti di una gara vi è affermata anche perché intervenuta prima della stipulazione del contratto;
b) che la Corte di Cassazione ha affermato, al contrario,
che tutte le vicende successive alla stipulazione del contratto danno luogo a questioni relative alla sua validità
ed efficacia anche se dovute all'esercizio di poteri pubblicistici in autotutela. Con la stipula del contratto si
costituisce infatti tra le parti, pubblica e privata, un rapporto giuridico paritetico intercorrente tra situazioni
soggettive da qualificare in termini di diritti soggettivi e
di obblighi giuridici; il riscontro di sopravvenuti motivi
di inopportunità della realizzazione dell'opera si riconduce perciò all'esercizio del potere contrattuale di recesso, previsto dalla normativa sugli appalti pubblici, con
scelta che si riverbera sul contratto in quanto potere
contrattuale del committente di recedere da esso, cosicché l'atto di revoca dell'aggiudicazione, ciò nonostante
adottato, risulta lesivo del diritto soggettivo del privato
in quanto incidente sul sinallagma funzionale (Cass.
civ., Sez. Un., n. 10160 del 2003 e n. 29425 del 2008).
1.3. L'interpretazione prospettata.
La sezione prospetta l'esigenza di riconsiderare l'indirizzo prevalente nella giurisprudenza amministrativa ritenendo che, intervenuta la stipulazione del contratto ad
evidenza pubblica, l'amministrazione non possa esercitare il potere di revoca ma debba agire attraverso il recesso.
1.3.1. In primo luogo la sezione osserva che:
- nonostante la sussistenza della norma generale dell'art.
21-quinquies sono state previste norme specifiche che,
attraverso il potere di revoca per pubblico interesse, attribuiscono all'amministrazione la facoltà di incidere
unilateralmente sui contratti stipulati con i privati, come è per l'art. 11, comma 4, della L. n. 241 del 1990
(dove il potere, pur nominato di “recesso”, è in sostanza
di revoca) e per il citato art. 158 del codice dei contratti pubblici;
- ne emerge sul piano normativo la categoria dei contratti di diritto pubblico (o ad oggetto pubblico) che,
fermo il ricorso alle regole civilistiche per la disciplina
generale del rapporto contrattuale tra amministrazione
e privati, si distingue da quella dei contratti di diritto
1196
privato per il mantenimento di una posizione di supremazia dell'amministrazione;
- in relazione a ciò la parallela previsione dell'art. 21-sexies della L. n. 241 del 1990, sulla facoltà dell'amministrazione di incidere sul contratto con il recesso, deve
ritenersi propria dei contratti in cui essa non è in posizione di supremazia, cioè di quelli di diritto privato,
considerate: l'analogia della norma con quelle di cui
agli artt. 1372 e 1373 c.c.; la sua coerenza con il principio di cui all'art. 1, comma 1-bis, della L. n. 241 del
1990, per il quale “La pubblica amministrazione, nell'adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente”; l'inutilità della previsione, altrimenti,
se l'amministrazione potesse sempre incidere sul contratto con la revoca, peraltro più conveniente per il
profilo economico;
- essendo quindi corretta la valutazione del primo giudice per la quale la revoca può essere ammessa solo nelle
concessioni, dove il contratto è accessivo al provvedimento concessorio e ne dipende direttamente, fondandosi su ciò anche la giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo in materia, considerato che nelle concessioni il modulo consensuale è sempre sostitutivo di
poteri autoritativi (Cass. civ., Sez. Un., ord. n. 8094 del
2007).
1.3.2. Tanto rilevato le previsioni dell'art. 21-sexies della L. n. 241 del 1990 e dell'art. 134 del codice dei contratti pubblici portano a non riferire i contratti ad evidenza pubblica al contesto dei rapporti negoziali distinti
dal potere autoritativo di revoca, essendo avvalorata
questa conclusione dalle seguenti considerazioni:
- la riconosciuta scissione tra aggiudicazione e stipulazione del contratto, che emerge sul piano funzionale
poiché, con la prima, si conclude la fase pubblicistica
del perseguimento dell'interesse pubblico alla selezione
della migliore offerta mentre la seconda si colloca nel
diverso quadro del rapporto paritetico tra i contraenti
con predominanza del diritto privato, riflettendosi questa scissione anche sul piano strutturale, poiché, ai sensi
dell'art. 11 del codice dei contratti pubblici, “l'aggiudicazione definitiva non equivale ad accettazione dell'offerta” (comma 7), essendo poi previsto un termine per
stipulare successivamente il contratto soltanto entro il
quale l'amministrazione può agire in autotutela (comma
9);
- ciò che porta alla distinzione fra l'atto di aggiudicazione e il consenso contrattuale dell'amministrazione e a
far escludere che questo possa essere ritirato in via unilaterale, e tanto meno perciò mediante il riesame dell'aggiudicazione in autotutela, essendo il detto consenso
confluito con quello della parte privata nell'accordo di
cui all'art. 1325, n. 1), c.c., essendo in seguito possibile
soltanto il mutuo dissenso di cui all'art. 1372 c.c., ed
operando la altresì prevista facoltà di recesso non sull'atto contrattuale ma sul rapporto.
Sarebbe peraltro ingiustificato, si soggiunge, che l'amministrazione possa, attraverso i propri poteri di autotutela decisoria, ottenere un risultato in ipotesi superiore
a quello ottenibile dal contraente privato in sede giuri-
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sdizionale ai sensi della normativa sull'inefficacia del
contratto per l'annullamento giurisdizionale dell'aggiudicazione, di cui agli artt. 121 e 122 c.p.a.
1.3.3. La sezione conclude osservando che:
- la normativa posta con il comma 1-bis dell'art. 21quinquies della L. n. 241 del 1990, così come con l'art.
1, comma 136 della L. n. 311 del 2004, si inserisce nel
quadro delineato se si circoscrive il potere di revoca ivi
previsto soltanto alle concessioni amministrative, con
ciò erigendo a ratio della normativa il suo puntuale scopo originario, dell'intervento sulle concessioni di lavori
pubblici a favore della TAV, e risultando in essa presupposto l'effetto di incidenza sul contratto in coerenza
con l'assenza di deroga all'art. 21-sexies e all'art. 134;
- il divieto di revoca quando sia stato stipulato il contratto si fonda sulla fondamentale ragione dell'affidamento del privato negli impegni reciproci consacrati
nell'accordo, sulla cui base egli ha maturato aspettative
di profitto e assunto impegni organizzativi che l'art. 21quinquies non impone di considerare (a differenza dell'art. 21-nonies per l'annullamento d'ufficio) e il cui ristoro è ivi previsto soltanto con l'indennizzo, mentre,
ad esito del recesso consentito per i contratti di diritto
privato, l'amministrazione è obbligata, come visto, ad
una più adeguata compensazione del pregiudizio sofferto
dalla controparte;
- ciò non comporta, peraltro, un'automatica svalutazione dell'interesse pubblico, di cui la pubblica amministrazione è sempre portatrice, al quale è comunque strumentale il diritto di recesso nell'ampia configurazione
dell'art. 134 del codice dei contratti pubblici, potendo
l'amministrazione valorizzare, ai fini del recesso, circostanze che porterebbero alla revoca, con il corollario di
non dover assicurare il contraddittorio procedimentale
né esternare compiutamente le motivazioni della scelta,
essendo ciò bilanciato dal maggiore onere economico
che ne consegue.
2. Si passa ora all'esame del quesito sottoposto all'Adunanza Plenaria precisando, in via preliminare, che si
prescinde da questioni attinenti alla giurisdizione, che
pure possano essere connesse al quesito stesso, considerato che nel caso di specie la questione di giurisdizione
è stata espressamente decisa in primo grado con pronuncia confermata in secondo grado, essendosi perciò
formato al riguardo il giudicato.
3. L'Adunanza Plenaria ritiene, per le ragioni che seguono, che, intervenuta la stipulazione del contratto
per l'affidamento dell'appalto di lavori pubblici, l'amministrazione non può esercitare il potere di revoca dovendo operare con l'esercizio del diritto di recesso.
3.1. Ai sensi del codice dei contratti pubblici di cui al
D.Lgs. n. 163 del 2006 (in seguito anche “codice”), la
fase della scelta del contraente, conclusa con l'aggiudicazione definitiva, risulta distinta da quella, successiva,
della stipulazione e conseguente esecuzione del contratto, pur costituendone il necessario presupposto funzionale, considerato che l'aggiudicazione definitiva non
equivale ad accettazione dell'offerta (art. 11, comma 7,
primo periodo del codice) e che, pur divenuta efficace
l'aggiudicazione definitiva, prima della stipulazione resta
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comunque salvo “L'esercizio dei poteri di autotutela nei
casi consentiti dalle norme vigenti” (art. 11, comma 9).
Il vincolo sinallagmatico nasce perciò soltanto con il
separato e distinto atto della stipulazione del contratto
quando, essendo stata fino a quel momento irrevocabile
soltanto l'offerta dell'aggiudicatario (art. 11, comma 7,
secondo periodo), l'amministrazione a sua volta si impegna definitivamente.
3.2. Ciò considerato la giurisprudenza ha affermato che
la fase conclusa con l'aggiudicazione ha carattere pubblicistico, in quanto retta da poteri amministrativi attribuiti alla stazione appaltante per la scelta del miglior
contraente nella tutela della concorrenza, mentre quella
che ha inizio con la stipulazione del contratto e prosegue con l'attuazione del rapporto negoziale ha carattere
privatistico ed è quindi retta dalle norme civilistiche
(Corte cost., sentenze n. 53 e n. 43 del 2011; Cass. civ.,
Sez. Un., n. 391 del 2011; Cons. Stato, sez. III, n. 450
del 2009).
3.3. Nella fase privatistica l'amministrazione si pone
quindi con la controparte in posizione di parità che però, è stato anche precisato, è “tendenziale” (Corte cost.
n. 53 e n. 43 del 2011 citate), con ciò sintetizzando l'effetto delle disposizioni per cui, pur nel contesto di un
rapporto paritetico, sono apprestate per l'amministrazione norme speciali, derogatorie del diritto comune, definite di autotutela privatistica (Ad. Plen. n. 6 del 2014);
ciò, evidentemente, perché l'attività dell'amministrazione, pur se esercitata secondo moduli privatistici, è sempre volta al fine primario dell'interesse pubblico, con la
conseguente previsione, su tale presupposto, di regole
specifiche e distinte.
3.4. Nel codice dei contratti pubblici sono previste norme con tratti di specialità riguardo specificamente alla
fase dell'esecuzione del contratto per la realizzazione di
lavori pubblici, cui attiene la questione all'esame.
Ci si riferisce a norme collocate nella parte II, titolo III
del codice (Disposizioni ulteriori per i contratti relativi
ai lavori pubblici) relative alla disciplina del recesso dal
contratto e della sua risoluzione, ai sensi, rispettivamente, degli artt. 134-136 del codice (collocate nel capo II
del titolo III e perciò riferite agli appalti di lavori pubblici ex art. 126 del codice), della risoluzione per inadempimento e, specificamente, della revoca delle concessioni di lavori pubblici in finanza di progetto ai sensi
dell'art. 158 del medesimo codice, ovvero della sospensione dei lavori ai sensi dell'art. 158 e seguenti del regolamento di attuazione (D.P.R. 5 ottobre 2010, n. 207).
In questo contesto la specialità della disciplina del recesso emerge non soltanto perché, a fronte della generale previsione civilistica (art. 1373 c.c.), il legislatore ne
ha ritenuto necessaria una specifica nella legge sul procedimento (art. 21-sexies) ma in particolare perché l'art.
134, nel concretare il caso applicativo di tale previsione, lo regola in modo diverso rispetto all'art. 1671 c.c.,
prevedendo il preavviso all'appaltatore e, quanto agli
oneri, la forfetizzazione del lucro cessante nel dieci per
cento delle opere non eseguite e la commisurazione del
danno emergente, fermo il pagamento dei lavori eseguiti, al “valore dei materiali utili esistenti in cantiere”
1197
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mentre, per il citato art. 1671 c.c., il lucro cessante è
dovuto per intero (“il mancato guadagno”) e per il danno emergente vanno rimborsate tutte le spese sostenute.
3.5. Su questa base si ritiene di poter affermare quanto
segue.
3.5.1. La posizione dell'amministrazione nella fase del
procedimento di affidamento di lavori pubblici aperta
con la stipulazione del contratto è definita dall'insieme
delle norme comuni, civilistiche, e di quelle speciali, individuate dal codice dei contratti pubblici, operando
l'amministrazione, in forza di quest'ultime, in via non
integralmente paritetica rispetto al contraente privato,
fermo restando che le sue posizioni di specialità, essendo l'amministrazione comunque parte di un rapporto
che rimane privatistico, restano limitate alle singole
norme che le prevedono.
Ciò rilevato ne consegue che deve ritenersi insussistente, in tale fase, il potere di revoca, poiché: presupposto
di questo potere è la diversa valutazione dell'interesse
pubblico a causa di sopravvenienze; il medesimo presupposto è alla base del recesso in quanto potere contrattuale basato su sopravvenuti motivi di opportunità
(Cass. civ. n. 391 del 2011 cit.; Cons. Stato, sez. V, 18
settembre 2008, n. 4455); la specialità della previsione
del recesso di cui al citato art. 134 del codice preclude,
di conseguenza, l'esercizio della revoca.
Se infatti, come correttamente indicato dal giudice rimettente, nell'ambito della normativa che regola l'attività dell'amministrazione nella fase del rapporto negoziale di esecuzione del contratto di lavori pubblici, è stata in particolare prevista per gli appalti di lavori pubblici una norma che attribuisce il diritto di recesso, non si
può ritenere che sul medesimo rapporto negoziale si
possa incidere con la revoca, basata su presupposti comuni a quelli del recesso (la rinnovata valutazione dell'interesse pubblico per sopravvenienze) e avente effetto
analogo sul piano giuridico (la cessazione ex nunc del
rapporto negoziale); richiamato anche che, quando il
legislatore ha ritenuto di consentire la revoca “per motivi di pubblico interesse” a contratto stipulato, lo ha
fatto espressamente, in riferimento, come visto, alla
concessione in finanza di progetto per la realizzazione di
lavori pubblici (o la gestione di servizi pubblici; art. 158
del codice).
In caso contrario la norma sul recesso sarebbe sostanzialmente inutile, risultando nell'ordinamento, che per
definizione reca un sistema di regole destinate a operare, una normativa priva di portata pratica, dal momento
che l'amministrazione potrebbe sempre ricorrere alla
meno costosa revoca ovvero decidere di esercitare il diritto di recesso secondo il proprio esclusivo giudizio,
conservando in tale modo nel rapporto una posizione
comunque privilegiata; fermo restando, come anche richiamato dalla V sezione, che per l'amministrazione la
maggiore onerosità del recesso è bilanciata dalla mancanza dell'obbligo di motivazione e del contraddittorio
procedimentale.
3.5.2. Quanto sopra vale in riferimento alla possibilità
della revoca nella fase aperta con la stipulazione del
contratto nel procedimento per l'affidamento dell'appal-
1198
to di lavori pubblici, che è l'oggetto specifico del quesito all'esame.
Resta perciò impregiudicata, nell'inerenza all'azione della pubblica amministrazione dei poteri di autotutela
previsti dalla legge, la possibilità: a) della revoca nella
fase procedimentale della scelta del contraente fino alla
stipulazione del contratto; b) dell'annullamento d'ufficio dell'aggiudicazione definitiva anche dopo la stipulazione del contratto, ai sensi dell'art. 1, comma 136 della
L. n. 311 del 2004, nonché concordemente riconosciuta
in giurisprudenza, con la caducazione automatica degli
effetti negoziali del contratto per la stretta consequenzialità funzionale tra l'aggiudicazione della gara e la stipulazione dello stesso (Cass. civ., Sez. Un., 8 agosto
2012, n. 14260; Cons. Stato, sez III, 23 maggio 2013, n.
2802; sez. V, 7 settembre 2011, n. 5032; 4 gennaio
2011, n. 11; 9 aprile 2010, n. 1998).
Così come, pure nel caso di contratto stipulato, sussiste
la speciale previsione in ordine al recesso della stazione
appaltante quando si verifichino i presupposti previsti
dalla normativa antimafia che la giurisprudenza (Cass.
civ., n. 391 del 2011 cit.) ha riferito alla nozione dell'autotutela autoritativa, poiché potere “del tutto alternativo a quello generale di cui alla L. n. 2248 del 1865,
art. 345, all. F” (oggi art. 134 del codice dei contratti
pubblici); qualificazione questa che può ritenersi tuttora
valida poiché le stazioni appaltanti, pur nel quadro della
normativa oggi vigente in materia, devono comunque
valutare l'esistenza delle eccezionali condizioni non
comportanti l'altrimenti vincolato esercizio del diritto
di recesso (art. 94, commi 2 e 3 del D.Lgs. n. 159 del
2011).
3.5.3. In questo quadro si coordina e delimita, ad avviso del Collegio, la previsione della revoca di cui al
comma 1-bis dell'art. 21-quinquies della L. n. 241 del
1990, poiché dall'ambito di applicazione della norma
risulta esclusa la possibilità di revoca incidente sul
rapporto negoziale fondato sul contratto di appalto di
lavori pubblici, in forza della speciale e assorbente
previsione dell'art. 134 del codice (così, come, per la
medesima logica, né è esclusa la revoca di cui all'art.
158 del codice), restando per converso e di conseguenza consentita la revoca di atti amministrativi incidenti sui rapporti negoziali originati dagli ulteriori e
diversi contratti stipulati dall'amministrazione, di appalto di servizi e forniture, relativi alle concessionicontratto (sia per le convenzioni accessive alle concessioni amministrative che per le concessioni di servizi e di lavori pubblici), nonché in riferimento ai
contratti attivi.
4. Sulla base di quanto esposto l'Adunanza Plenaria afferma il seguente principio di diritto: “Nel procedimento di affidamento di lavori pubblici le pubbliche amministrazioni se, stipulato il contratto di appalto, rinvengano sopravvenute ragioni di inopportunità della prosecuzione del rapporto negoziale, non possono utilizzare lo
strumento pubblicistico della revoca dell'aggiudicazione
ma devono esercitare il diritto potestativo regolato dall'art. 134 del D.Lgs. n. 163 del 2006”.
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5. Ciò affermato l'Adunanza Plenaria, ai sensi dell'art.
99, comma 4, c.p.a., restituisce gli atti alla sezione V di
questo Consiglio per le ulteriori pronunce sul merito
della controversia e sulle spese del giudizio.
IL COMMENTO
di Antonino Longo ed Enrico Canzonieri (*) (**)
La sentenza in rassegna costituisce l’attuale approdo di un complesso dibattito giurisprudenziale incentrato sull’individuazione dello strumento del quale la pubblica amministrazione possa e debba avvalersi
allo scopo di privare di efficacia il contratto di appalto già stipulato, qualora dovessero sopravvenire ragioni di inopportunità della prosecuzione del rapporto.L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, prendendo le mosse dall’esame della complessa normativa in materia e proseguendo con l’analisi dei discordanti indirizzi giurisprudenziali sviluppatisi nel corso del tempo e delle indicazioni fornite dalla sezione rimettente, traccia un percorso ricco di argomentazioni logico-giuridiche che conduce infine a ritenere
che, una volta stipulato il contratto di appalto, la pubblica amministrazione non possa più utilizzare il potere di revoca, essendo quindi obbligata ad esercitare il diritto potestativo di recesso riconosciutole dall’art. 134 del D.Lgs. n. 163/2006.Presupposto tanto della revoca dell’aggiudicazione quanto del recesso
dal contratto è, infatti, a parere dei giudici di Palazzo Spada, la diversa valutazione dell’interesse pubblico
a causa di sopravvenienze, ciò che – stante la specialità della previsione sul recesso – precluderebbe, nelle ipotesi in esame, l’esercizio del potere di revoca di cui all’art. 21-quinquies della L. n. 241/1990.
L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con
la sentenza n. 14 del 20 giugno 2014, ha esaminato
e risolto la questione di diritto sottopostale dai giudici della V Sezione di Palazzo Spada con sentenza
non definitiva n. 5786 del 5 dicembre 2013, stabilendo se, una volta intervenuta la stipulazione del
contratto per l’affidamento dell’appalto di lavori
pubblici, la pubblica amministrazione potesse esercitare il potere di revoca dell’aggiudicazione o dovesse, piuttosto, operare con l’esercizio del diritto
di recesso.
La vicenda processuale traeva origine dal ricorso
proposto presso il TAR Lazio da parte della Consorzio Cooperative Costruzioni CCC Società Cooperativa, la quale – in proprio e nella qualità di
mandataria dell’ATI composta anche da I.GE.M.A.S. Soc. Cons. a r.l., SALCEF Costruzioni Edili e Ferroviarie s.p.a., Erregi s.r.l. e Project Automation s.p.a. – chiedeva l’annullamento del provvedimento reso in data 4 giugno 2012 (n. di prot.
80861) con il quale l’Azienda per la Mobilità del
Comune di Roma – ATAC s.p.a. aveva disposto la
revoca in autotutela di tutti gli atti della procedura
di gara – aggiudicata alla ricorrente con deliberazione del consiglio di amministrazione n. 81 del 14
novembre 2005 – per l’affidamento della progetta-
zione ed esecuzione del deposito tranviario “Centro
Carni” ed opere connesse.
La revoca disposta dall’ATAC s.p.a. – intervenuta successivamente alla stipula del contratto di
appalto, avvenuta in data 19 maggio 2006 – era
basata su diversi motivi di interesse pubblico, consistenti nella sostanziale non esecuzione dell’appalto; nell’aggravio dei costi prospettati dall’appaltatrice, nelle proprie sopravvenute mutate esigenze
operative, nell’inserimento del deposito tramviario
in un piano di dismissioni immobiliari deliberato
dall’assemblea di Roma Capitale, ed infine nell’incertezza sulla effettiva disponibilità di risorse per finanziare l’opera.
Con ricorso per motivi aggiunti la CCC Società
Cooperativa chiedeva, altresì, l’annullamento della
nota ATAC s.p.a. n. 147684 del 19 ottobre 2012,
con la quale venivano dichiarati formalmente cessati anche gli effetti derivanti dai verbali di consegna delle aree di cantiere concernenti la medesima
procedura di gara.
Specificamente, la società ricorrente – per come
rilevato dal giudice di primo grado – deduceva che:
1) il provvedimento di aggiudicazione fosse insuscettibile di revoca ex art. 21-quinquies (1) della L. n.
241/1990, in quanto gli effetti dello stesso si erano
già esauriti da tempo, stante l’avvenuta stipula del
(*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla
valutazione di un referee.
(**) Il commento, benché frutto di un lavoro congiunto dei
due autori, è imputabile, quanto ai paragrafi 1, 2 e 3, ad Antonino Longo e, quanto al paragrafo 4, ad Enrico Canzonieri.
(1) Art. 21-quinquies (Revoca del provvedimento) - 1. Per
La vicenda processuale
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contratto d’appalto; 2) il provvedimento di revoca
avesse omesso qualsiasi specifica considerazione dell’interesse privato, proclamando sic et simpliciter la
prevalenza dell’interesse pubblico e ledendo l’affidamento ingenerato nell’ATI aggiudicataria; 3) il
provvedimento di revoca fosse stato esercitato al di
fuori dei presupposti applicativi e per un fine incompatibile con quello tipico del potere di autotutela
della pubblica amministrazione, per sciogliere unilateralmente la stazione appaltante dall’atto negoziale
stipulato a valle del provvedimento di aggiudicazione; 4) il provvedimento di revoca fosse illegittimo
in quanto adottato senza prendere in considerazione
le osservazioni procedimentali presentate dall’ATI;
5) per quanto atteneva ai motivi aggiunti, la nota n.
147684 fosse illegittima in quanto avrebbe preteso
di derivare, dalla revoca dell’aggiudicazione, la cessazione degli effetti scaturenti dai verbali di consegna.
Il ricorso proposto dalla ditta ricorrente – e la prima censura in particolare – veniva accolto dal TAR
Lazio, sez. II-ter che, con sentenza n. 2432 del 6
marzo 2013, affermava come la revoca fosse stata
adottata, da parte della stazione appaltante “in assenza del suo essenziale presupposto, e cioè di un oggetto costituito da un provvedimento che continua
ancora a spiegare effetti”. Il TAR riteneva, quindi,
che l’amministrazione, per potersi ritenere libera dal
vincolo discendente dal contratto d’appalto già stipulato, avrebbe dovuto ricorrere all’istituto del recesso ex art. 134 del D.Lgs. n. 163/2006.
Avverso la sentenza del TAR Lazio l’Azienda
per la Mobilità del Comune di Roma – ATAC
s.p.a. interponeva il gravame innanzi al Consiglio
di Stato, sostenendo, nel merito, come il potere di
revoca fosse conformato dall’art. 21-quinquies della
L. n. 241/1990 in termini talmente ampi da renderlo esercitabile non soltanto su atti ad effetti duraturi, ma anche su atti “ad effetti istantanei”,
nonché su qualsiasi tipologia di contratti della pubblica amministrazione, e ciò sulla scorta del comma
1-bis della citata disposizione.
La V Sezione del Consiglio di Stato, respinti i
pregiudiziali motivi di appello di insussistenza della
giurisdizione amministrativa sulla controversia e di
mancata integrazione del contraddittorio, procedeva all’analisi della normativa rilevante e delle posizioni della giurisprudenza al riguardo, giungendo –
per la complessità delle questioni affrontate, per i
contrasti interni tra sezioni del Consiglio di Stato,
nonché alla luce della posizione assunta dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione – a ritenere
opportuno un intervento nomofilattico dell’Adunanza Plenaria.
In particolare, i giudici amministrativi, reputando essenziale l’interpretazione del dato normativo
in una prospettiva sistematica ed in chiave teleologica, proponevano la rilettura del prevalente indirizzo giurisprudenziale offerto dal Consiglio di Stato, secondo cui, anche dopo l’avvenuta stipula del
contratto di appalto, l’amministrazione aggiudicatrice sarebbe stata libera di revocare l’aggiudicazione ex art. 21-quinquies della L. n. 241/1990, senza
dover necessariamente ricorrere all’esercizio del più
oneroso diritto di recesso di cui all’art. 134 del
D.Lgs. n. 163/2006.
I giudici di Palazzo Spada, con la decisione in
rassegna, hanno fatto sostanzialmente propri i presupposti logico-giuridici della disamina compiuta
dalla Sezione rimettente, provvedendo, quindi, a
concludere un dibattito giurisprudenziale non soltanto giuridicamente complesso, ma anche di particolare rilievo pratico, stanti le evidenti conseguenze economiche correlate alla diversa interpretazione della normativa in materia.
sopravvenuti motivi di pubblico interesse ovvero nel caso di
mutamento della situazione di fatto o di nuova valutazione dell'interesse pubblico originario, il provvedimento amministrativo
ad efficacia durevole può essere revocato da parte dell'organo
che lo ha emanato ovvero da altro organo previsto dalla legge.
La revoca determina la inidoneità del provvedimento revocato
a produrre ulteriori effetti. Se la revoca comporta pregiudizi in
danno dei soggetti direttamente interessati, l'amministrazione
ha l'obbligo di provvedere al loro indennizzo.
1-bis. Ove la revoca di un atto amministrativo ad efficacia
durevole o istantanea incida su rapporti negoziali, l'indennizzo
liquidato dall'amministrazione agli interessati è parametrato al
solo danno emergente e tiene conto sia dell'eventuale conoscenza o conoscibilità da parte dei contraenti della contrarietà
dell'atto amministrativo oggetto di revoca all'interesse pubblico, sia dell'eventuale concorso dei contraenti o di altri soggetti
all'erronea valutazione della compatibilità di tale atto con l'interesse pubblico.
1-ter. Ove la revoca di un atto amministrativo ad efficacia
durevole o istantanea incida su rapporti negoziali, l’indennizzo
liquidato dall’amministrazione agli interessati è parametrato al
solo danno emergente e tiene conto sia dell’eventuale conoscenza o conoscibilità da parte dei contraenti della contrarietà
dell’atto amministrativo oggetto di revoca all’interesse pubblico, sia dell’eventuale concorso dei contraenti o di altri soggetti
all’erronea valutazione della compatibilità di tale atto con l’interesse pubblico.
1200
Profili di giurisdizione e normativa in tema
di revoca dell’aggiudicazione e recesso dal
contratto di appalto
Sebbene l’Adunanza Plenaria non abbia indugiato nell’analisi dei profili di giurisdizione relativi al
caso di specie – ritenendo che tale questione fosse
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stata già decisa in primo grado con pronuncia confermata in secondo grado – meritevole di commento appare senz’altro l’opinione espressa in argomento dalla Sezione rimettente con pronuncia non definitiva n. 5786 del 5 dicembre 2013.
A tal proposito, appare necessario rilevare, innanzitutto, come l’appellante avesse sostenuto, in
via di subordine, che il TAR Lazio avrebbe dovuto
declinare la giurisdizione in favore del giudice ordinario, avendo riqualificato la revoca come atto di
esercizio di un diritto potestativo di recesso, e
avendo dunque affermato che l’atto impugnato risultasse viziato da carenza di potere in astratto.
I giudici della V Sezione, con diffusa argomentazione, hanno censurato tale motivo di appello,
chiarendo innanzitutto come il giudice di primo
grado avesse in realtà qualificato correttamente il
provvedimento della pubblica amministrazione
quale revoca, e la posizione giuridica soggettiva del
ricorrente come interesse legittimo, con ciò rispettando pienamente il criterio del petitum sostanziale (2) in tema di riparto di giurisdizione.
Tanto precisato, la Sezione rimettente ha escluso, in primo luogo, che nel caso di specie l’atto fosse stato adottato in ipotesi di carenza di potere in
astratto, che, a norma dell’art. 21-septies (3) L. n.
241/1990, avrebbe determinato la nullità dello
stesso, con conseguente devoluzione della controversia al giudice ordinario.
A parere dei giudici amministrativi, invece, l’atto di revoca era stato adottato in mancanza dei
presupposti essenziali dell’atto stesso, ciò che, secondo l’insegnamento della giurisprudenza di legittimità, costituisce ipotesi di carenza di potere in
concreto.
È proprio questo, nella fattispecie in esame, il
punto focale del ragionamento compiuto dal Consiglio di Stato, in quanto i giudici amministrativi
hanno ritenuto, con argomentazione adeguatamente motivata, come in seguito all’entrata in vigore
del citato art. 21-septies L. n. 241/1990, ad opera
della L. n. 15/2005, i casi di carenza di potere in
concreto non dovessero essere più devoluti alla
giurisdizione ordinaria, bensì risultare accomunati
a quelli di atti caratterizzati da vizi di legittimità,
integrando ipotesi di annullabilità dell’atto, in relazione alle quali sussiste senz’altro la giurisdizione
amministrativa.
Ulteriore argomento a sostegno del proprio assunto, a parere della Sezione rimettente, è anche
l’avvenuto recepimento, con D.Lgs. n. 53/2010,
della direttiva ricorsi 2007/66/CE: tale circostanza
ha, infatti, determinato il superamento della ricostruzione secondo cui, venendo meno gli atti di gara, verrebbe ad essere caducato necessariamente
anche il contratto di appalto, avvinto agli stessi da
un nesso di presupposizione, sicché l’accertamento
delle conseguenze sul contratto risulterebbe oggi
compiuto in via meramente incidentale, senza efficacia di giudicato.
Entrambe le predette argomentazioni hanno
quindi spinto il Consiglio di Stato a confermare la
giurisdizione amministrativa nel caso in esame,
vertendosi, a parere del Collegio, in tema di carenza di potere in concreto, e dovendosi statuire sulla
sorte del contratto di appalto soltanto in via meramente incidentale, come conseguenza della decisione sulla legittimità dell’atto di revoca.
La decisione della V Sezione in tema di giurisdizione, appena richiamata, appare di particolare interesse giacché guidata dall’intento di mettere ordine in una questione che, nel corso del tempo, è
stata caratterizzata da diversi dubbi interpretativi e
oscillazioni giurisprudenziali.
La maggiore problematica presentatasi in argomento è stata, infatti, rappresentata dalla difficile
individuazione di una chiara linea di demarcazione
fra le ipotesi di carenza di potere in concreto
(mancanza dei presupposti essenziali dell’atto), tradizionalmente devolute al giudice ordinario, e
quelle di vizi di legittimità, di spettanza, invece,
del giudice amministrativo.
Ciò comportava che la questione attinente alla
giurisdizione dipendesse, in definitiva, dall’esito di
una valutazione di merito (la quale dovrebbe di
converso seguire la verifica della giurisdizione), ma
anche che varie complicazioni e contraddizioni si
sarebbero verificate qualora il ricorrente avesse inteso al tempo stesso lamentare la mancanza sia dei
presupposti di esercizio del potere che dei requisiti
(2) Tale criterio individua la giurisdizione con riferimento al
provvedimento richiesto all’autorità giudiziaria, tenendo altresì
in considerazione la posizione giuridica soggettiva vantata dal
ricorrente.
Nel caso di specie, il ricorrente aveva contestato non la liceità dell’esercizio del diritto di recesso ex art. 134 D.Lgs. n.
163/2006, bensì la carenza di potere in concreto ai fini del legittimo esercizio del potere di revoca, con ciò deducendo in
giudizio una posizione giuridica soggettiva di interesse legittimo.
(3) Articolo 21-septies (Nullità del provvedimento) - 1. È nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi
essenziali, che è viziato da difetto assoluto di attribuzione, che
è stato adottato in violazione o elusione del giudicato, nonché
negli altri casi espressamente previsti dalla legge.
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di legittimità (e quindi il cattivo esercizio del potere).
Il pregio della sentenza non definitiva n. 5786
del 5 dicembre 2013 risiede allora proprio nell’aver
chiarito come, a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 21-septies L. n. 241/1990, le ipotesi di carenza
di potere in concreto, quale quella in esame, siano
ormai accomunate a quelle di vizi di legittimità e
sanzionate con la mera annullabilità ex art. 21-octies (4) L. n. 241/1990, con devoluzione delle stesse
alla cognizione del giudice amministrativo, indipendentemente dall’eventuale interessamento di
un contratto di appalto.
Conclusa la disamina del profilo attinente alla
giurisdizione, appare innanzitutto opportuno rilevare come la risoluzione della questione di diritto
sottoposta all’Adunanza Plenaria del Consiglio di
Stato non poteva che derivare dall’individuazione
e dalla corretta interpretazione della normativa rilevante in materia, alla cui attenta e approfondita
analisi si era già dedicata la Sezione rimettente.
I giudici amministrativi hanno posto in rilievo
tanto la normativa in tema di revoca dei provvedimenti amministrativi, contenuta nella legge sul
procedimento amministrativo, quanto quella sul
recesso dal contratto d’appalto pubblico, collocata
nel codice degli appalti pubblici di lavori, servizi e
forniture. Ciò al fine di individuare, in maniera
quanto più netta possibile, la linea di confine tra i
due istituti.
Essi sembrerebbero, prima facie, operare su piani
ben distinti, riferendosi il primo alla fase pubblicistica ed incidendo direttamente sull’atto amministrativo che è alla base del contratto, ed esplicando, al contrario, il secondo la sua operatività con
esclusivo riferimento al momento negoziale.
Eppure, come correttamente posto in rilievo da
autorevole dottrina, la revoca del provvedimento
di aggiudicazione si palesa idonea ad esplicare effetti anche sul contratto stipulato, privandolo della
sua base giuridica (5).
Prendendo le mosse proprio dalla normativa sul
potere di revoca, infatti, il citato art. 21-quinquies della L. n. 241/1990, dopo aver disposto, al
primo comma, che il potere di revoca della pubblica Amministrazione può incidere su atti “ad efficacia durevole”, statuisce, altresì, con il comma 1-bis
– aggiunto dall’art. 13, comma 8-duodecies, D.L. n.
7/2007, convertito con modificazioni in L. n.
40/2007 – che l’atto revocato può essere anche “ad
efficacia istantanea” qualora incida su “rapporti negoziali”.
Tale disposizione, letta in uno con l’art. 1, comma 136 della L. n. 311/2004 (“Legge Finanziaria
2005”) (6), regolante il caso in cui, per “conseguire
risparmi o minori oneri finanziari”, l’amministrazione provveda ad un annullamento che incida “su
rapporti contrattuali o convenzionali con privati”,
sembrerebbe profilare, a parere dei giudici amministrativi, una possibile deviazione del potere di revoca rispetto al proprio archetipo classico.
A fronte di elementi strutturali tradizionalmente
identificabili nella natura della revoca quale atto
espressivo del potere di modificazione unilaterale
di un rapporto scaturente da un precedente provvedimento amministrativo, diretto a produrre la
cessazione degli effetti per il futuro in seguito alla
constatazione della sopravvenuta non congruenza
di quest’ultimo rispetto agli interessi pubblici perseguiti dall’amministrazione, il comma 1-bis dell’art.
21-quinquies sembrerebbe, infatti, avvicinare l’istituto del potere di revoca a quello dell’annullamento d’ufficio per illegittimità, poiché la revoca stessa
finirebbe per operare con effetti retroattivi, vale a
dire su atti la cui efficacia si sarebbe già esaurita.
Tale interpretazione, applicata alla fattispecie
concreta, porterebbe a ritenere che l’amministrazione possa revocare il provvedimento di aggiudicazione i cui effetti si sarebbero esauriti, privando
conseguentemente di efficacia anche il susseguente
contratto di appalto già stipulato.
Richiamata la disciplina dell’istituto della revoca, i giudici di Palazzo Spada hanno poi posto l’ac-
(4) Articolo 21-octies (Annullabilità del provvedimento) - 1.
È annullabile il provvedimento amministrativo adottato in violazione di legge o viziato da eccesso di potere o da incompetenza.
2. Non è annullabile il provvedimento adottato in violazione
di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per
la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo
contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da
quello in concreto adottato. Il provvedimento amministrativo
non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in
giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
(5) Cfr. S. Baccarini, G. Chiné, R. Proietti, Codice dell’appalto pubblico, Milano, 2011, 1554 ss.
(6) L’art. 1, comma 136, L. n. 311/2004 dispone: 136. Al fine di conseguire risparmi o minori oneri finanziari per le amministrazioni pubbliche, può sempre essere disposto l’annullamento di ufficio di provvedimenti amministrativi illegittimi, anche se l’esecuzione degli stessi sia ancora in corso. L’annullamento di cui al primo periodo di provvedimenti incidenti su
rapporti contrattuali o convenzionali con privati deve tenere indenni i privati stessi dall’eventuale pregiudizio patrimoniale derivante, e comunque non può essere adottato oltre tre anni
dall’acquisizione di efficacia del provvedimento, anche se la
relativa esecuzione sia perdurante.
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cento sulla necessità che tale – già di per sé contraddittoria – normativa venisse coordinata con
quella riguardante il recesso contrattuale della pubblica amministrazione (7), contenuta specificamente negli artt. 21-sexies della L. n. 241/1990 (8) e
134 del D.Lgs. n. 163/2006 (9).
Il codice degli appalti pubblici, con l’art. 134, attribuisce, infatti, alla stazione appaltante il diritto,
in corso di esecuzione del contratto di appalto, di
recedere in qualunque tempo dallo stesso, previo
pagamento dei lavori eseguiti e del valore dei materiali utili esistenti in cantiere, oltre al decimo
dell'importo delle opere non eseguite.
Una disciplina che disvela la natura privatistica
dell’istituto del recesso dal contratto di appalto (10), disciplinato in via generale dall’art. 1671
c.c. (11), rispetto al quale l’art. 134 del D.Lgs. n.
163/2006 si differenzia con riferimento ai criteri di
quantificazione del lucro cessante, in ossequio all’esigenza di tutelare la stazione appaltante da richieste indennitarie incerte ed esorbitanti, ma anche di assicurare alla stessa una stima preventiva
del costo dello scioglimento del rapporto (12).
Una disciplina significativamente differente, peraltro, da quella prevista dall’art. 21-quinquies della
legge sul procedimento amministrativo in tema di
risarcimento; quest’ultima, infatti, avendo riguardo
all’esercizio di un potere di autotutela della pubblica amministrazione, strettamente correlato ad una
nuova valutazione degli interessi pubblici rilevanti
nel caso di specie, prevede il risarcimento del solo
danno emergente tramite un indennizzo da corrispondere al contraente privato.
Chiariti i presupposti logico-giuridici e i principali contenuti normativi degli istituti in esame, il
percorso seguito dai giudici amministrativi nella
pronuncia in commento è, dunque, proseguito definendo se, una volta stipulato il contratto di affidamento dell’appalto di lavori pubblici, vi fosse ancora spazio, per la stazione appaltante, in ordine all’esercizio di un’azione amministrativa in autotutela,
finalizzata alla revoca del provvedimento di aggiudicazione con contestuale caducazione del connesso contratto d’appalto, ovvero se l’unica alternativa possibile fosse il recesso ex art. 134 D.Lgs. n.
163/2006, con tutte le conseguenze economiche da
ciò scaturenti.
(7) Cfr. G. Musolino, Il contratto di appalto, Rimini, 2007,
410 ss.; A. Carullo, G. Iudica, Commentario breve alla legislazione sugli appalti pubblici e privati, Padova, 2009, 865 ss., a parere dei quali l’art. 134 D.Lgs. n. 163/2006 costituisce una norma
specifica disciplinante, con riferimento agli appalti di lavori stipulati dalla pubblica amministrazione, un istituto già previsto
in via generale dall’art. 1671 c.c., il quale stabilisce la possibilità incondizionata ed insindacabile per il committente di recedere dal contratto, con l’obbligo di indennizzare l’appaltatore
per le spese sostenute, per i lavori eseguiti e per il mancato
guadagno.
(8) Art. 21-sexies (Recesso dai contratti) - 1. Il recesso unilaterale dai contratti della pubblica amministrazione è ammesso nei casi previsti dalla legge o dal contratto.
(9) Art. 134 (Recesso) - 1. La stazione appaltante ha il diritto
di recedere in qualunque tempo dal contratto previo il pagamento dei lavori eseguiti e del valore dei materiali utili esistenti
in cantiere, oltre al decimo dell'importo delle opere non eseguite.
2. Il decimo dell'importo delle opere non eseguite è calcolato sulla differenza tra l'importo dei quattro quinti del prezzo posto a base di gara, depurato del ribasso d'asta, e l'ammontare
netto dei lavori eseguiti.
3. L'esercizio del diritto di recesso è preceduto da formale
comunicazione all'appaltatore da darsi con un preavviso non
inferiore a venti giorni, decorsi i quali la stazione appaltante
prende in consegna i lavori ed effettua il collaudo definitivo.
4. I materiali il cui valore è riconosciuto dalla stazione appal-
tante a norma del comma 1 sono soltanto quelli già accettati
dal direttore dei lavori prima della comunicazione del preavviso
di cui al comma 3.
5. La stazione appaltante può trattenere le opere provvisionali e gli impianti che non siano in tutto o in parte asportabili
ove li ritenga ancora utilizzabili. In tal caso essa corrisponde all'appaltatore, per il valore delle opere e degli impianti non ammortizzato nel corso dei lavori eseguiti, un compenso da determinare nella minor somma fra il costo di costruzione e il valore
delle opere e degli impianti al momento dello scioglimento del
contratto.
6. L'appaltatore deve rimuovere dai magazzini e dai cantieri
i materiali non accettati dal direttore dei lavori e deve mettere i
predetti magazzini e cantieri a disposizione della stazione appaltante nel termine stabilito; in caso contrario lo sgombero è
effettuato d'ufficio e a sue spese.
(10) La natura privatistica del recesso è sottolineata dalle
pronunzie che attribuiscono la giurisdizione in materia al giudice ordinario (cfr., in tal senso, Cass. civ., Sez. Un., 26 giugno
2003, n. 10160).
(11) Art. 1671 c.c. (Recesso unilaterale dal contratto) - Il
committente può recedere dal contratto, anche se è stata iniziata l'esecuzione dell'opera o la prestazione del servizio, purché tenga indenne l'appaltatore delle spese sostenute, dei lavori eseguiti e del mancato guadagno.
(12) Cfr. M. Nunziata, Art. 134, in A. Cancrini, C. Franchini,
S. Vinti, a cura di, Codice degli appalti pubblici, Torino, 2014,
881 ss.
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Gli orientamenti giurisprudenziali e la
soluzione prospettata dalla Sezione
rimettente
Come rilevato tanto dai giudici della Sezione rimettente quanto da quelli dell’Adunanza Plenaria,
il quesito ha trovato soluzioni contrastanti non soltanto nel confronto fra giurisdizione ordinaria e
amministrativa, ma anche nell’alveo della stessa
giurisprudenza del Consiglio di Stato.
A tal proposito, i giudici di Palazzo Spada hanno
ritenuto opportuno ripercorrere, in primo luogo, i
principali orientamenti della giurisprudenza amministrativa in materia allo scopo di individuare
1203
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spunti dogmatici utili alla risoluzione della questione sottoposta al proprio vaglio.
Il prevalente indirizzo giurisprudenziale formatosi
in seno al Consiglio di Stato, e richiamato nella
pronuncia in commento, è quello espresso dalla
sentenza 17 marzo 2010, n. 1554, secondo cui “il
potere di eliminare (con revoca) gli atti amministrativi
della serie di evidenza pubblica (…) sussiste anche in
caso di esistenza del contratto”, fermo restando il
conseguente diritto del privato all’indennizzo.
Un indirizzo ribadito dalla sentenza 14 gennaio
2013, n. 156, la quale, argomentando sulla base del
citato art. 1, comma 136, della L. n. 311/2004,
nonché dell’art. 11, comma 9, del D.Lgs. n.
163/2006 (13) – che fa salvo l’esercizio del potere
di autotutela dell’amministrazione sugli atti di gara
anche una volta divenuta efficace l’aggiudicazione
definitiva – ha ritenuto possibile l’esercizio del potere di autotutela anche in presenza di un contratto di appalto già stipulato.
Qualora, infatti, il progetto non fosse più in grado di soddisfare l’interesse pubblico connesso alla
realizzazione dell’appalto ovvero contrastasse con
altre, diverse e sopravvenute esigenze di pubblico
interesse, la preminente finalità pubblica sarebbe
comunque destinata a prevalere, nonostante l’avvenuta sottoscrizione del contratto.
Al suddetto orientamento fa, tuttavia, da contraltare, per come rilevato dai giudici amministrativi, la sentenza 13 aprile 2011, n. 2291, con la quale la III Sezione del Consiglio di Stato ha sostenuto, sebbene indirettamente, che la stipulazione del
contratto di affidamento di appalti pubblici inibirebbe l’esercizio del potere di revoca di cui all’art.
21-quinquies della L. n. 241/1990 (14).
A fronte di una giurisprudenza amministrativa
quantomeno ondivaga, la Corte di Cassazione ha
invece ripetutamente affermato, nel corso del tempo, come con la stipula del contratto di appalto le
parti, pubblica e privata, istituiscano un rapporto
giuridico paritetico, sicché il riscontro di sopravvenuti motivi di inopportunità di prosecuzione dello
stesso, da parte della stazione appaltante, non potrebbe che essere ricondotto all’esercizio del potere
contrattuale di recesso previsto dalla normativa sugli appalti pubblici (15).
Tanto premesso in ordine ai principali orientamenti giurisprudenziali in materia, i giudici dell’Adunanza Plenaria hanno quindi provveduto ad
esporre, con ampiezza argomentativa, la soluzione
ermeneutica proposta da parte della Sezione rimettente con sentenza non definitiva 5 dicembre
2013, n. 5786.
A tal riguardo, la sentenza in rassegna ha rilevato innanzitutto come, a parere della Sezione, a
fronte dell’esistenza di una norma generale afferente alla revoca dei provvedimenti amministrativi
per pubblico interesse (art. 21-quinquies, L. n.
241/1990), sussistano anche norme specifiche idonee ad attribuire alla pubblica Amministrazione la
facoltà di recedere unilateralmente dai contratti
stipulati con i privati (16).
Da tale circostanza i giudici amministrativi hanno tratto la determinante conseguenza dell’emersione, già sul piano normativo, della categoria dei
contratti di diritto pubblico (o ad oggetto pubblico) i quali si caratterizzerebbero, diversamente da
quelli di diritto privato, per il mantenimento, da
parte della stazione appaltante, di una posizione di
supremazia.
(13) Art. 11 Fasi delle procedure di affidamento - 9. Divenuta efficace l'aggiudicazione definitiva, e fatto salvo l'esercizio
dei poteri di autotutela nei casi consentiti dalle norme vigenti,
la stipulazione del contratto di appalto o di concessione ha
luogo entro il termine di sessanta giorni, salvo diverso termine
previsto nel bando o nell'invito ad offrire, ovvero l'ipotesi di differimento espressamente concordata con l'aggiudicatario. Se
la stipulazione del contratto non avviene nel termine fissato,
ovvero il controllo di cui all'art. 12, comma 3, non avviene nel
termine ivi previsto, l'aggiudicatario può, mediante atto notificato alla stazione appaltante, sciogliersi da ogni vincolo o recedere dal contratto. All'aggiudicatario non spetta alcun indennizzo, salvo il rimborso delle spese contrattuali documentate.
Nel caso di lavori, se è intervenuta la consegna dei lavori in via
di urgenza e nel caso di servizi e forniture, se si è dato avvio all'esecuzione del contratto in via d'urgenza, l'aggiudicatario ha
diritto al rimborso delle spese sostenute per l'esecuzione dei
lavori ordinati dal direttore dei lavori, ivi comprese quelle per
opere provvisionali. Nel caso di servizi e forniture, se si è dato
avvio all'esecuzione del contratto in via d'urgenza, l'aggiudicatario ha diritto al rimborso delle spese sostenute per le prestazioni espletate su ordine del direttore dell'esecuzione. L'esecu-
zione di urgenza di cui al presente comma non è consentita
durante il termine dilatorio di cui al comma 10 e durante il periodo di sospensione obbligatoria del termine per la stipulazione del contratto previsto dal comma 10-ter, salvo che nelle
procedure in cui la normativa vigente non prevede la pubblicazione del bando di gara, ovvero nei casi in cui la mancata esecuzione immediata della prestazione dedotta nella gara determinerebbe un grave danno all'interesse pubblico che è destinata a soddisfare, ivi compresa la perdita di finanziamenti comunitari.
(14) Specificamente, la sentenza in esame ritiene che l’amministrazione si era legittimamente avvalsa di un proprio potere: “nel corso della procedura di gara e prima della stipulazione del contratto quando ancora gli interessi economici delle
parti non si erano consolidati”.
(15) Cfr. Cass. civ., Sez. Un., 11 gennaio 2011, n. 391; Cass.
civ., Sez. Un., 17 dicembre 2008, n. 29425; Cass. civ., Sez.
Un., 26 giugno 2003, n. 10160.
(16) La sentenza fa riferimento, a titolo esemplificativo, all’art. 11, comma 4, L. n. 241/1990, nonché all’art. 158, D.Lgs.
n. 163/2006.
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Si tratterebbe, in definitiva, di tutti quei contratti accessivi ai provvedimenti amministrativi, la
cui sussistenza dipenderebbe direttamente e inscindibilmente da quella dei provvedimenti stessi, come avviene in occasione delle concessioni-contratto.
Una situazione, a ben vedere, nettamente diversa da quella sussistente nel caso di specie, in cui la
stipula del contratto ad evidenza pubblica si colloca in una fase del tutto scissa da quella dell’aggiudicazione, nonché contraddistinta dalla sussistenza
di un rapporto paritetico tra i contraenti, con predominanza del diritto privato, come emerge anche
dal tenore delle disposizioni di cui agli artt. 21-sexies, L. n. 241/1990 (17), 11, commi 7 e 9, e 134
D.Lgs. n. 163/2006.
La Sezione rimettente ha allora ritenuto che, appurata la confluenza del consenso contrattuale della pubblica amministrazione e quello della parte
privata nell’accordo contrattuale ex art. 1325, n.
1), c.c., fosse da escludere l’eventualità che tale
consenso potesse essere ritirato in via unilaterale
mediante riesame dell’aggiudicazione in via di
autotutela.
Tutte le predette considerazioni hanno, quindi,
condotto i giudici amministrativi a proporre un revirement del prevalente indirizzo giurisprudenziale
del Consiglio di Stato, ritenendo che, una volta intervenuta la stipulazione del contratto di appalto
(ad evidenza pubblica), l’amministrazione potesse
incidere sullo stesso esclusivamente attraverso l’esercizio del diritto di recesso di cui all’art. 134
D.Lgs. n. 163/2006.
Ciò, sempre a parere della Sezione rimettente,
non comporterebbe, peraltro, una totale svalutazione dell’interesse pubblico, stante l’ampia configurazione data al diritto di recesso dal citato articolo
134, il quale consentirebbe all’amministrazione
persino di recedere dal contratto d’appalto senza
necessità di motivare la propria scelta nei confronti
del contraente privato.
Le condivisibili argomentazioni dei giudici amministrativi risultano, peraltro, confermate da una
più approfondita valutazione della consistenza dogmatica dei due istituti della revoca dei provvedimenti amministrativi e del recesso della pubblica
amministrazione dai contratti.
Se, infatti, è vero che entrambi risultano caratterizzati da una struttura unilaterale, necessitando
della sola volontà del soggetto pubblico per essere
attivati, è altrettanto vero che ben diverse sono la
disciplina e la natura degli stessi.
Il potere di revoca della pubblica Amministrazione risulta, infatti, caratterizzato da una più spiccata procedimentalizzazione, ma soprattutto da una
previsione (l’art. 21-quinquies L. n. 241/1990) che,
in tema di procedimento amministrativo, ne sancisce la generale applicabilità.
Esso rappresenta, a tutti gli effetti, un potere di
natura pubblicistica, espressione dell’autotutela
amministrativa, destinato a trovare la propria sede
privilegiata in un contesto – quale quello del procedimento amministrativo – nel quale i principi
dell’attività amministrativa, ed in primo luogo
quelli di buon andamento ed economicità, non risultano compressi da posizioni private di particolare rilevanza.
D’altro canto, ben diversa appare la consistenza
del diritto di recesso dai contratti, oggi disciplinato
dall’art. 21-sexies L. n. 241/1990; esso, infatti, non
risulta procedimentalizzato dal citato articolo, il
quale non ne sancisce nemmeno la generale applicabilità, rinviando piuttosto alle singole norme
istituenti ipotesi di recesso negoziale.
Il diritto di recesso opera, come noto, in un momento successivo alla stipula del contratto, sicché
l’interesse pubblico alla chiusura del rapporto è necessariamente destinato a “scontrarsi” con il legittimo affidamento del privato, sorto a seguito del
comportamento della pubblica amministrazione,
che ha determinato in capo a questi una posizione
di vantaggio.
La tutela degli interessi pubblici, dunque, non
può che uscirne affievolita, sebbene la pubblica
amministrazione, come giustamente rilevato dall’Adunanza Plenaria nella sentenza in commento,
assuma comunque una posizione di parità soltanto
“tendenziale”.
Il risultato è quello di un diritto di chiara natura
privatistica, operante nell’ambito delle paritetiche
posizioni contrattuali delle parti ma non caratterizzato da particolari oneri motivazionali, il cui esercizio comporta, per il privato, il diritto al risarcimento non soltanto del danno emergente, ma anche del lucro cessante.
(17) La norma in questione, a parere della Sezione rimettente, deve ritenersi propria dei contratti in cui la pubblica amministrazione non è in posizione di supremazia, stante l’analogia
con gli artt. 1372 e 1373 c.c., nonché la coerenza con il princi-
pio di cui all’art. 1, comma 1-bis, L. n. 241/1990, per il quale:
“La pubblica amministrazione, nell’adozione di atti di natura
non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente”.
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Da tutto quanto fin qui esposto sembra quindi
derivare la conseguenza che il percorso della Sezione rimettente, snodatosi per i controversi indirizzi
giurisprudenziali e riferimenti normativi, risulti
pienamente rispettoso della ratio posta a fondamento dei due istituti della revoca e del recesso,
apparendo il diritto di recesso dal contratto pubblico, anche dal punto di vista dogmatico, certamente
più congeniale al raggiungimento dell’obiettivo
della caducazione, nel corso di svolgimento del
contratto di appalto pubblico, degli effetti dello
stesso.
È, quindi, con questo bagaglio dogmatico, costituito non soltanto dalle argomentazioni della Sezione rimettente, ma anche dagli approdi della pregressa giurisprudenza in materia, che l’Adunanza
Plenaria del Consiglio di Stato si è determinata
nella risoluzione della questione di diritto sottopostale, al fine di stabilire – in definitiva – se una
volta intervenuta la stipulazione del contratto di
appalto ad evidenza pubblica, potesse ancora sussistere uno spiraglio per l’esercizio, da parte della stazione appaltante, del potere di revoca in autotutela
dell’aggiudicazione, ovvero se si dovesse, piuttosto,
procedere necessariamente con il recesso di cui all’art. 134 D.Lgs. n. 163/2006.
Il punto di partenza del percorso ermeneutico seguito nella sentenza in rassegna è la netta distinzione della fase di scelta del contraente, conclusa con
l’aggiudicazione definitiva, da quella di stipulazione
e conseguente esecuzione del contratto. Distinzione che trova piena giustificazione nelle disposizioni
del D.Lgs. n. 163/2006, dalle quali si evince chiaramente come l’aggiudicazione definitiva non equivalga ad accettazione dell’offerta (cfr. art. 11, comma 7), e come, fino alla stipula del contratto, resti
salvo l’esercizio dei poteri di autotutela da parte
della stazione appaltante (cfr. art. 11, comma 9).
I giudici amministrativi hanno sostanzialmente
ristretto da subito il proprio “campo d’azione”, focalizzando tutta l’attenzione sulla fase caratterizzata
dall’impegno definitivo dell’amministrazione, a seguito dall’avvenuto incontro della propria volontà
contrattuale con quella del privato. Ciò, al chiaro
fine di evitare ingerenze e possibili suggestioni derivanti dalla natura pacificamente pubblicistica
della procedura di aggiudicazione, intrisa di pervadenti poteri amministrativi in capo alla stazione
appaltante.
Il percorso dei giudici è proseguito, dunque, con
il richiamo di quella giurisprudenza, anche costituzionale, che ha avuto modo di affermare in maniera decisa la natura privatistica della fase che ha inizio con la stipulazione del contratto di appalto, la
quale sarebbe quindi retta da norme di carattere civilistico (18).
Le argomentazioni sostenute dall’Adunanza Plenaria, se raffrontate con quelle offerte dalla Sezione rimettente, sembrano però compiere un passaggio ulteriore, consistente nell’enunciazione dell’assunto secondo cui, sebbene la fase in questione
possa essere ben definita come privatistica, l’amministrazione si pone tuttavia con la controparte in
una condizione di parità solamente “tendenziale”.
La stazione appaltante, infatti, non smette e non
può smettere, per il solo fatto di intrattenere un
rapporto di natura privatistica, di essere portatrice
di un interesse pubblico, e proprio per tale motivo
la legge appresta per essa norme speciali, derogatorie di quelle comuni, che l’Adunanza Plenaria definisce di “autotutela privatistica”.
Tipico esempio di tali norme, a parere della sentenza in commento, è proprio l’art. 134 D.Lgs. n.
163/2006, disciplinante il recesso dal contratto di
appalto il quale presenta elementi di specialità non
soltanto rispetto alle previsioni generali in materia
di recesso, contenute nel codice civile (art. 1373
c.c.) e nella legge sul procedimento amministrativo
(art. 21-sexies), ma anche rispetto alla disposizione
speciale relativa ai contratti d’appalto, disciplinata
dall’art. 1671 c.c. (19).
È questo, sostanzialmente, il presupposto fondamentale che ha guidato l’Adunanza Plenaria ad
escludere la possibilità di esercizio del potere di revoca, da parte della pubblica Amministrazione,
nella fase di esecuzione del contratto di appalto.
A parere dei giudici amministrativi, se è vero,
infatti, che la posizione dell’amministrazione, in tale fase, è definita dall’insieme delle norme comuni
(18) Cfr. Corte cost., 7 febbraio 2011, n. 43; Corte cost., 9
febbraio 2011, n. 53; Cass. civ., Sez. Un., 11 gennaio 2011, n.
391; Cons. Stato, sez. III, 5 maggio 2009, n. 450.
(19) L’Adunanza Plenaria ha, infatti, rilevato che: «l'art. 134,
nel concretare il caso applicativo di tale previsione (il recesso
dal contratto di appalto), lo regola in modo diverso rispetto all'art. 1671 c.c., prevedendo il preavviso all'appaltatore e, quan-
to agli oneri, la forfetizzazione del lucro cessante nel dieci per
cento delle opere non eseguite e la commisurazione del danno
emergente, fermo il pagamento dei lavori eseguiti, al “valore
dei materiali utili esistenti in cantiere” mentre, per il citato art.
1671 c.c., il lucro cessante è dovuto per intero (“il mancato
guadagno”) e per il danno emergente vanno rimborsate tutte
le spese sostenute».
La soluzione dell’Adunanza Plenaria
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e di quelle speciali facenti si che la stessa operi in
via non integralmente paritetica, e se è vero, altresì, che il presupposto e gli effetti dell’esercizio del
potere di revoca risultano essere gli stessi del diritto di recesso di cui all’art. 134 D.Lgs. n. 163/2006
– vale a dire la diversa valutazione dell’interesse
pubblico a causa di sopravvenienze e la perdita di
efficacia ex nunc del provvedimento – logico corollario di tali considerazioni non può che essere l’insussistenza, nel caso di specie, di alcun potere di revoca dell’aggiudicazione.
La previsione di una norma di carattere speciale,
nell’ottica dei giudici di Palazzo Spada, non può
infatti che escludere a priori la possibilità di applicazione dell’art. 21-quinquies della L. n. 241/1990,
con le relative conseguenze di carattere economico
(maggiore onerosità del recesso), ma anche procedimentale (mancanza dell’obbligo motivazionale
nel recesso (20)).
Argomentando diversamente, peraltro, si finirebbe per togliere qualsiasi rilevanza alla norma sul diritto di recesso (21), senza considerare che, qualora
il legislatore avesse ritenuto di consentire che la
stazione appaltante potesse incidere, con il potere
di revoca, financo su un contratto stipulato, lo
avrebbe fatto in maniera espressa e precisa (22).
Le ulteriori argomentazioni addotte nella sentenza in commento sembrerebbero confermare l’assunto dei giudici amministrativi: compatibile con
la soluzione fornita dall’Adunanza Plenaria risulterebbe, infatti, l’impregiudicata possibilità, per la
stazione appaltante, di esercizio i poteri di autotutela fino alla stipula del contratto di appalto, nonché successivamente, nell’ipotesi prevista dall’art.
1, comma 136, della L. n. 311/2004.
Nel primo caso, infatti, ci si trova ancora, come
già precisato, all’interno di una fase procedimentale di natura prettamente pubblicistica, mentre nel
secondo l’azione in via di autotutela, posta in essere successivamente alla stipulazione del contratto,
è giustificata dal carattere di specialità della disposizione normativa richiamata.
Peraltro, ha tenuto ancora a precisare il Collegio, la soluzione ermeneutica fatta propria con la
pronuncia in rassegna non escluderebbe del tutto
l’applicabilità del comma 1-bis dell’art. 21-quinquies L. n. 241/1990, il quale continuerebbe ad assumere rilievo con riferimento ad atti amministrativi incidenti sui rapporti negoziali originati dagli
ulteriori e diversi contratti di appalto, di servizi e
forniture o relativi a concessioni contratto stipulati
dall’amministrazione.
Vagliata, dunque, anche la tenuta sistematica
dell’opzione interpretativa accolta, l’Adunanza Plenaria ha concluso esponendo il seguente principio
di diritto: “Nel procedimento di affidamento di lavori pubblici le pubbliche amministrazioni se, stipulato il contratto di appalto, rinvengano sopravvenute ragioni di inopportunità della prosecuzione
del rapporto negoziale, non possono utilizzare lo
strumento pubblicistico della revoca dell’aggiudicazione ma devono esercitare il diritto potestativo regolato dall’art. 134 del D.Lgs. n. 163 del 2006”.
Un approdo giurisprudenziale, in conclusione,
che ha provveduto a rivedere un orientamento dei
giudici amministrativi probabilmente troppo incline a conferire rilievo agli interessi pubblicistici, di
cui la stazione appaltante è comunque portatrice, a
scapito di una più corretta valutazione della normativa in materia.
(20) La mancanza di disposizioni riguardanti l’obbligo motivazionale e i limiti alla possibilità di recedere renderebbero l’esercizio di tale diritto, a parere di parte della dottrina (cfr. A.
Cianflone, G. Giovannini, L’appalto di opere pubbliche, Milano,
2010, 1910 ss.) e della giurisprudenza più risalente, del tutto
incensurabile nel merito (cfr. Cass. civ., Sez. Un., 22 giugno
1978, n. 3069). Tuttavia, altra parte della dottrina (cfr. A. Catricalà, L’autotutela della stazione appaltante, in Riv. Trim. App., Rimini, 2001, 433 ss.) ha manifestato alcune perplessità in merito al corollario dell’assoluta insindacabilità del recesso che, oltre a non risultare appropriata alla natura pubblica dell’ente titolare del diritto, potrebbe comportare un importante vuoto di
tutela per i privati interessati dalla determinazione di scioglimento del vincolo contrattuale. È stato, pertanto, proposto di
utilizzare il principio generale del divieto di abuso del diritto il
quale, in uno con la clausola generale di buona fede nell’ese-
cuzione del contratto (art. 1375 c.c.) e con il principio di correttezza nel rapporto obbligatorio (art. 1175 c.c.), consentirebbe
di sindacare le modalità di esercizio del diritto da parte della
pubblica amministrazione. Come noto, infatti, l’interesse pubblico al corretto esborso del denaro pubblico non è solo immanente alla fase della procedura selettiva, ma può emergere anche nella successiva fase di esecuzione del contratto, condizionandone alcuni momenti (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 24 marzo
2010, n. 1713).
(21) La dottrina si è chiesta, infatti, a più riprese, quale potesse mai essere la convenienza, per l’amministrazione, ad
esercitare il diritto di recesso invece che operare tramite la revoca. Cfr., in tal senso, S. Baccarini, G. Chiné, R. Proietti, Codice dell’appalto pubblico, Milano, 2011, 1556 ss.
(22) È il caso, ad esempio, della concessione in finanza di
progetto di cui all’art. 158 del D.Lgs. n. 163/2006.
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Sicurezza
Indicazione degli oneri per la
sicurezza negli appalti di lavori
CONSIGLIO DI STATO, sez. V, 17 giugno 2014, n. 3056 – Pres. Maruotti – Est. Franconiero –
Atheste Costruzioni s.r.l. c. Mag Costruzioni s.r.l e Ente Spes - Servizi alla persona educativi e
sociali
È legittima l'aggiudicazione di una gara di appalto di lavori in favore di un'impresa che non ha indicato specificamente, nell'offerta economica, gli oneri per la sicurezza aziendale. Infatti il combinato-disposto degli artt.
83, comma 3-bis, D.Lgs. n. 163/2006 e 26, comma 6, D.Lgs. n 81/2008 non impone alle imprese partecipanti a
procedure di affidamento di contratti pubblici di lavori l'obbligo, a pena di esclusione dalla gara, di indicare
gli oneri per la sicurezza aziendale ed in nessuna parte di tali disposizioni è previsto che per gli appalti di lavori pubblici si debbano indicare nell'offerta tali costi. Gli artt. 86 e 87 del D.Lgs. n. 163/2006 regolano la verifica
dell'anomalia dell'offerta. Ne consegue che è in questa sede che l'obbligo di indicare, e giustificare, i costi per
la sicurezza viene in rilievo, mentre risulta eccedente, rispetto al fine di consentire nella stessa sede tale verifica, pretendere che l'impresa provveda ad indicare i costi in questione già nella propria offerta.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme
Cons. Stato, sez. V, 9 ottobre 2013, n. 4964
Difforme
Cons. Stato, sez. III, 3 luglio 2013, n. 3565; Id., 7 maggio 2012, n. 2628; Id., 19 gennaio 2012, n. 212
Diritto
1. Gli appelli devono essere riuniti ai sensi dell’art. 96
c.p.a., perché rivolti nei confronti della medesima sentenza, e devono essere accolti perché fondati nel merito, potendo quindi prescindersi dalle eccezioni pregiudiziali in essi prospettate.
Nessuno dei passaggi motivazionali addotti dal TAR a
sostegno dell’accoglimento del ricorso, sopra elencati,
risulta infatti condivisibile.
2. In primo luogo, contrariamente a quanto rilevato dal
TAR, il combinato disposto degli artt. 86-comma 3-bis,
D.Lgs. n. 163/2006 e 26, comma 6, D.Lgs. n. 81/2008
non impone alle imprese partecipanti a procedure di affidamento di contratti pubblici di lavori l’obbligo, a pena di esclusione dalla gara, di indicare gli oneri per la
sicurezza aziendale.
L’assunto si fonda su una non condivisibile esegesi della
disposizione del codice dei contratti pubblici sopra citata, la quale recita testualmente: “Nella predisposizione
delle gare di appalto e nella valutazione dell’anomalia
delle offerte nelle procedure di affidamento di appalti di
lavori pubblici, di servizi e di forniture, gli enti aggiudicatori sono tenuti a valutare che il valore economico
sia adeguato e sufficiente rispetto al costo del lavoro e
al costo relativo alla sicurezza, il quale deve essere specificamente indicato e risultare congruo rispetto all’entità
e alle caratteristiche dei lavori, dei servizi o delle forniture”.
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Come correttamente evidenziato dal difensore della originaria controinteressata, ed a confutazione dei contrari
rilievo della Mag Costruzioni, la norma si rivolge quindi, in primo luogo, agli enti aggiudicatori, imponendo
loro, “nella predisposizione delle gare di appalto e nella
valutazione dell’anomalia delle offerte”, di effettuare
uno specifico apprezzamento della congruità dei costi
del lavoro e della sicurezza indicati dalle concorrenti
nelle loro offerte.
Ciò del resto si evince dalla rubrica della disposizione:
“criteri di individuazione delle offerte anormalmente
basse”.
È del pari incontestabile che la medesima norma prevede che il costo in questione “deve essere specificamente
indicato”, ma va precisato che tale indicazione è funzionale alla predetta verifica di congruità e dunque all’attuazione del precetto cui soggiacciono le stazioni appaltanti.
L’art. 86 va poi coordinato con il successivo art. 87
(“criteri di verifica delle offerte anormalmente basse”),
il quale prevede, al comma 4, che “Nella valutazione
dell’anomalia la stazione appaltante tiene conto dei costi relativi alla sicurezza, che devono essere specificamente indicati nell’offerta e risultare congrui rispetto
all'entità e alle caratteristiche dei servizi o delle forniture”. Il medesimo comma 4 dispone inoltre che “Non sono ammesse giustificazioni in relazione agli oneri di sicurezza in conformità all’articolo 131, nonché al piano
di sicurezza e coordinamento di cui all’art. 12, D.Lgs. 14
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agosto 1996, n. 494 e alla relativa stima dei costi conforme all’art. 7, D.P.R. 3 luglio 2003, n. 222”.
Quindi, dal complesso delle disposizioni in esame si ricava che le stazioni appaltanti sono tenute a verificare
gli oneri per la sicurezza ai fini del giudizio di anomalia
dell’offerta e, in stretta conseguenza di ciò, che le imprese sono tenute ad indicare nella loro offerta detta
voce di costo.
3. Del pari, come già affermato da questa Sezione (sentenza n. 4964 del 9 ottobre 2013), le medesime norme
operano una distinzione tra appalti di lavori da una parte e appalti di servizi e forniture dall’altra.
Infatti, il ridetto art. 87, comma 4, specifica il più generale ed onnicomprensivo comma 3-bis dell’art. 86, imponendo alle imprese - partecipanti a procedure di affidamento della seconda tipologia di contratti - di indicare nell’offerta “i costi relativi alla sicurezza”.
Per la prima tipologia di giustificazioni, per contro, il
precetto è significativamente diverso, giacché esso vieta
giustificazioni (e dunque ribassi) rispetto agli “oneri relativi alla sicurezza” già stimati dalla stazione appaltante
nel piano di sicurezza e coordinamento dalla stessa predisposto ai sensi del richiamato art. 131.
Per contro, in nessuna parte di queste tali disposizioni è
previsto che per gli appalti di lavori pubblici si debbano
indicare nell’offerta i costi per la sicurezza aziendale.
E soprattutto, in nessuna parte è prevista la comminatoria di esclusione per l’omessa indicazione degli stessi:
certamente non per gli appalti di lavori, per i quali vi è
una rigorosa analisi dei costi in questione da parte della
stazione appaltante nella fase della progettazione, in virtù di puntuali disposizioni del regolamento di attuazione
di cui al D.P.R. n. 207/2010, come sottolinea l’appellante a pag. 9 dell’atto d’appello (e non rileva in questa
sede verificare quale sia la soluzione nel caso di appalto
di servizi e forniture).
All’interpretazione letterale finora svolta se ne salda
una di carattere teleologico, la quale muove dalla circostanza che, come ampiamente visto finora, le disposizioni in esame regolano la verifica dell’anomalia dell’offerta.
Ne consegue che è in questa sede che l’obbligo di indicare (e giustificare) i costi per la sicurezza viene in rilievo, mentre risulta eccedente, rispetto al fine di consentire nella stessa sede tale verifica, pretendere che l’impresa provveda ad indicare i costi in questione già nella
propria offerta.
3.1 Una diversa conclusione rispetto a quanto finora
esposto non può essere ricavata nemmeno dall’art. 26,
comma 6, D.Lgs. n. 81/2008.
Quest’ultima disposizione è così formulata: “Nella predisposizione delle gare di appalto e nella valutazione dell’anomalia delle offerte nelle procedure di affidamento
di appalti di lavori pubblici, di servizi e di forniture, gli
enti aggiudicatori sono tenuti a valutare che il valore
economico sia adeguato e sufficiente rispetto al costo
del lavoro e al costo relativo alla sicurezza, il quale deve
essere specificamente indicato e risultare congruo rispetto all’entità e alle caratteristiche dei lavori, dei servizi o
delle forniture”.
Urbanistica e appalti 11/2014
Vi è certamente un’unificazione di disciplina per tutti
gli appalti pubblici, ma il precetto in esso contenuto è
rivolto ancora una volta agli “enti aggiudicatori”, ed è
del pari indubbio che questa norma vada coordinata
con gli artt. 86 e 87, le quali contengono disposizioni di
maggiore dettaglio. Peraltro, ed a conferma di quanto
ora detto, anche la norma in esame fa riferimento alla
verifica dell’anomalia.
4. Non è condivisibile nemmeno il secondo passaggio
argomentativo della sentenza di primo grado.
È certamente indiscutibile che tutte le norme di legge
finora analizzate perseguono l’obiettivo di assicurare la
tutela dei lavoratori e che tale fine trascende i contrapposti interessi delle stazioni appaltanti e delle imprese
partecipanti a procedure di affidamento di contratti
pubblici, rispettivamente di aggiudicare questi ultimi alle migliori condizioni consentite dal mercato, da un lato, e di massimizzare l’utile ritraibile dal contratto dall’altro.
Ma questo fine si può ampiamente realizzare attraverso
l’obbligo per le stazioni appaltanti di effettuare una specifica valutazione della congruità del costo per la sicurezza, nella appropriata sede della verifica dell’anomalia
dell’offerta.
4.1 Per contro, si rileva ingiustificatamente penalizzante
per le imprese, e dunque per le esigenze della concorrenza che pure la legislazione sui contratti pubblici persegue, quello di sanzionare con l’esclusione dalla gara la
mancata indicazione dei costi per la sicurezza aziendale.
È infatti palese la sproporzione tra obiettivi perseguiti e
risultati realizzati, giacché - al fine di tutelare la sicurezza ed i connessi diritti dei lavoratori - si preclude all’impresa di concorrere per l’affidamento di contratti pubblici per il solo fatto di non avere esposto nell’offerta i
relativi costi per la sicurezza aziendale, quand’anche gli
stessi risultassero congrui nell’unica sede deputata a tale
verifica.
5. Ne consegue che perde rilievo la ipotizzata valenza
eterointegratrice delle ridette disposizioni di legge nei
confronti della normativa di gara, laddove cioè la prima
sia interpretata nel senso finora esposto.
Peraltro, del potere di eterointegrazione deve essere fatto un uso accorto.
Come infatti di recente sottolineato dalla III Sezione di
questo Consiglio di Stato, l’inserzione automatica di
clausole prevista dall’art. 1339 c.c., in cui si sostanzia il
meccanismo in questione, in tanto si giustifica in quanto occorra conformare il contenuto delle obbligazioni e
di diritti nascenti da contratti già conclusi con esigenze
di ordine imperativo non disponibili dai contraenti
(sentenza, 2 settembre 2013, n. 4364).
Alla luce di questa considerazione, rispondente ad incontestati principi di teoria generale di diritto, è assai
dubbia la operatività del meccanismo in questione nei
confronti di aspetti che concernono lo svolgimento della procedura selettiva ed in particolare le modalità con
cui le imprese formulano la loro offerta.
In un’altra recente decisione, la III Sezione ha anche affermato che l’eterointegrazione del bando di gara è configurabile in presenza di norme imperative recanti una
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rigida predeterminazione dell'elemento destinato a sostituirsi alla clausola difforme, ma non già nei casi in
cui alle parti siano affidati la determinazione del corrispettivo e dei suoi elementi (sentenza 18 ottobre 2013,
n. 5069). In questa pronuncia la III Sezione è quindi
giunta alla conclusione, opposta a quella cui è pervenuto il TAR nella sentenza qui appellata, secondo cui è
legittima la clausola del bando di gara che semplifichi
le modalità di manifestazione dell’offerta economica relativamente agli oneri di sicurezza, in difformità agli
artt. 86, comma 3-bis, e 87, comma 4, D.Lgs. n.
163/2006.
6. Che del potere di eterointegrazione debba essere fatto
un uso accorto si trae conferma anche dal consolidato
indirizzo della giurisprudenza amministrativa secondo
cui la legge di gara deve essere interpretata secondo le
regole dettate dagli artt. 1362 e ss. c.c., alla stregua dei
quali si deve comunque attribuire valore preminente all’interpretazione letterale, in coerenza con i principi di
chiarezza e trasparenza ex art. 1 L. n. 241/1990, mentre
devono essere escluse interpretazioni integrative contrarie al canone della buona fede interpretativa di cui all’art. 1366 c.c. (Cons. Stato, sez. III, 2 settembre 4364;
sez. V, 21 dicembre 2012, n. 6615, 5 settembre 2011, n.
4980).
In particolare non sono consentite interpretazioni volte
ad enucleare significati impliciti nella normativa di gara, potenzialmente in grado quindi di ledere l’affidamento dei terzi e la massima partecipazione alla gara
(Cons. Stato, sez. V, 13 gennaio 2014, n. 72, 16 gennaio 2013, n. 238, 7 gennaio 2013, n. 7, 31 ottobre
2012, n. 5570).
In questa linea si colloca quindi la regola secondo cui la
buona fede e l’affidamento - che le imprese partecipanti
a procedure di affidamento di contratti pubblici circa la
necessità di rispettare le clausole della normativa di gara - non devono risolversi in loro danno, attraverso l’esclusione dalla gara (sez. V, 24 ottobre 2013, n. 5155).
6.1 Tale indirizzo è pertinente al caso di specie, in cui
la stazione appaltante non aveva preteso la specificazione dei costi per la sicurezza aziendale in sede di offerta,
ed è confermato dal fatto che, tranne la ricorrente di
primo grado, tutte le imprese concorrenti alla procedura
in contestazione non hanno indicato nella propria offerta i costi aziendali per la sicurezza.
7. Alla luce di quanto finora osservato, perde di rilievo
l’ultimo argomento addotto dal TAR a sostegno della
propria decisione, e cioè che il piano di sicurezza e coordinamento predisposto dalla stazione appaltante ex art.
131 D.Lgs. n. 163/2006 concerne i soli oneri da interferenza e non già i costi aziendali.
Questa corretta asserzione non è infatti idonea a superare i rilievi sopra svolti. Giova infatti ribadire che è nella
pertinente sede del sub-procedimento di verifica dell’anomalia dell’offerta che la seconda tipologia di oneri
possono essere apprezzati dalla stazione appaltante, senza tuttavia che questo doveroso accertamento debba necessariamente presupporre l’indicazione di tale voce di
costo già nell’offerta.
7.1 L’assunto, peraltro, non trova rispondenza nel dato
normativo, come ben evidenziato dal difensore della
Atheste Costruzioni nella discussione.
A differenza dei servizi e delle forniture, gli appalti di
lavori importano la necessità di istituire “cantieri temporanei o mobili” ai sensi del titolo IV del testo unico
di cui al D.Lgs. n. 81/2008 (in precedenza D.Lgs. n.
494/1996), concetto sulla cui base la disciplina giuslavoristica concernente la sicurezza sul lavoro si è sviluppata, attraverso numerosi istituti, tra cui il piano di sicurezza e coordinamento previsto dagli artt. 100 del citato testo unico sulla sicurezza sul lavoro e 131 cod.
contratti pubblici.
È dunque in conseguenza dei rischi per la sicurezza derivanti dalla installazione e gestione del cantiere nel quale i lavori sono destinati ad essere svolti che sorge la necessità, in primo luogo, che la stazione appaltante provveda alla stima dei costi delle misure necessarie alla loro
prevenzione di tali rischi, e, in seconda battuta, che
l’impresa esecutrice dei lavori impieghi all’uopo i mezzi
e le risorse previste a questo scopo.
A comprova di ciò va rilevato che l’art. 39 D.P.R. n.
207/2010 demanda al piano di sicurezza e coordinamento (con i documenti ad esso allegati), come integrato
dalle indicazioni dell’aggiudicataria ex art. 131, comma
4, cod. contratti pubblici, l’intera problematica degli
oneri per la sicurezza.
La citata disposizione prevede infatti che il piano in
questione “deve prevedere l’individuazione, l’analisi e la
valutazione dei rischi in riferimento all’area e all’organizzazione dello specifico cantiere, alle lavorazioni interferenti ed ai rischi aggiuntivi rispetto a quelli specifici propri dell’attività delle singole imprese esecutrici o
dei lavoratori autonomi” (comma 2).
Questa disposizione, oltre a spiegare la diversa disciplina
contenuta nel sopra esaminato art. 87, comma 4, D.Lgs.
n. 163/2006, rende evidente che per i lavori pubblici
ogni questione inerente la congruità degli oneri per la
sicurezza non costituisce requisito di validità delle offerte la cui mancanza ne determina l’esclusione.
8. In conclusione, in riforma della sentenza appellata
deve essere respinto il ricorso di primo grado della Mag
Costruzioni. Omissis
IL COMMENTO
di Carmen Mucio
Le disposizioni in vigore, ed in particolare gli artt. 86, comma 3-bis, e 87, comma 4 del codice dei contratti pubblici e l'art. 26, comma 6, del D.Lgs. n. 81/2008, non impongono un obbligo a carico delle imprese
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concorrenti a procedure per l'affidamento di lavori rispetto all'indicazione in sede di offerta dei costi per
la sicurezza. A tali norme, che si rivolgono agli enti aggiudicatori e concernono l’anomalia dell’offerta,
non può inoltre essere riconosciuta una valenza eterointegratrice della lex specialis. In virtù del principio
generale del favor partecipationis, ove la documentazione di gara predisposta dall’amministrazione aggiudicatrice non richieda l’indicazione degli oneri della sicurezza interna nell’offerta non possono essere
escluse le imprese che non abbiano effettuato tale dichiarazione, dal momento che non esiste una disposizione di legge che preveda come causa di esclusione la mancata indicazione di che trattasi in ipotesi di
affidamento di lavori.
Il contesto di riferimento
Con la sentenza n. 3056 del 17 giugno 2014 il
Consiglio di Stato ritorna sulla vexata quaestio dell’esistenza o meno di un obbligo a carico delle imprese partecipanti alle procedure di affidamento di
contratti pubblici di indicare nell’offerta economica, a pena di esclusione, gli oneri per la sicurezza.
I giudici amministrativi si sono espressi sulla tematica, anche di recente, optando di volta in volta
per interpretazioni alquanto difformi delle norme
di riferimento, in primis dell’art. 86, comma 3-bis,
del codice dei contratti pubblici, in base al quale
nelle procedure di affidamento di appalti di lavori
pubblici, di servizi e di forniture, gli enti aggiudicatori, sia nella predisposizione delle gare di appalto
che nella valutazione dell’anomalia delle offerte,
sono tenuti a valutare che il valore economico sia
adeguato e sufficiente rispetto al costo del lavoro e
al costo relativo alla sicurezza, il quale deve essere
specificamente indicato e risultare congruo rispetto
all’entità e alle caratteristiche dei lavori, dei servizi
o delle forniture.
Tale disposizione deve poi essere coordinata con
il successivo art. 87, comma 4, secondo cui in relazione a servizi e forniture nella valutazione dell’anomalia la stazione appaltante tiene conto dei costi relativi alla sicurezza, che devono essere specificamente indicati nell’offerta e risultare congrui rispetto all'entità e alle caratteristiche dei servizi o
delle forniture. In base alla medesima norma, non
sono ammesse giustificazioni in relazione agli oneri
di sicurezza in conformità all'art. 131 del codice,
nonché al piano di sicurezza e coordinamento di
cui all'art. 12 del D.Lgs. n. 494/1996 e alla relativa
(1) Cons. Stato, sez. III, 23 gennaio 2014, n. 348: la quantificazione degli oneri di sicurezza aziendale spetta a ciascuno dei
concorrenti e varia in rapporto alla qualità ed entità della sua
offerta. T.A.R. Lazio, Latina, sez. I, 15 gennaio 2014, n. 7;
T.A.R. Lombardia, Milano, sez. IV, 9 gennaio 2014, n. 36. Cfr.
Cons. Stato, sez. III, 3 ottobre 2011, n. 5421. AVCP, parere 9
maggio 2013, n. 77.
(2) Cons. Stato, sez. III, 23 gennaio 2014, n. 348: tali costi
sono predeterminati dalla stazione appaltante e riguardano ri-
Urbanistica e appalti 11/2014
stima dei costi conforme all'art. 7 del D.P.R. n.
222/2003.
Ancora, rileva richiamare l'art. 26, comma 6,
del D.Lgs. n. 81/2008, in base al quale nella predisposizione delle gare di appalto e nella valutazione
dell'anomalia delle offerte nelle procedure di affidamento di appalti di lavori pubblici, di servizi e di
forniture, gli enti aggiudicatori sono tenuti a valutare che il valore economico sia adeguato e sufficiente rispetto al costo del lavoro e al costo relativo alla sicurezza, il quale deve essere specificamente indicato e risultare congruo rispetto all'entità e
alle caratteristiche dei lavori, dei servizi o delle forniture.
Con riferimento alla nozione di oneri per la sicurezza occorre premettere che alla stessa vengono
ascritte due distinte categorie di costi, quelli relativi ai rischi c.d. da “interferenze”, o esterni, da un
lato e quelli interni, connessi ai rischi dell'attività
propria dell'appaltatore, c.d. “rischi propri” o “costi
di sicurezza aziendale”, dall'altro. Questi ultimi possono essere quantificati unicamente dal singolo
concorrente in rapporto alla sua offerta economica
e alla sua specifica organizzazione, ossia ai propri rischi specifici (1). Gli oneri esterni, o da interferenze, sono invece quelli connessi ai rischi derivanti
dai contatti, nell'ambiente di esecuzione dell'appalto, tra il personale, o l’utenza, del committente
e il personale dell'appaltatore, per la cui prevenzione la stazione appaltante deve elaborare il Documento Unico per la Valutazione dei Rischi da Interferenze (cd. DUVRI), quantificando i relativi
costi, che devono essere espressamente indicati
nella lex specialis e non possono essere soggetti a ribasso in sede di gara (2).
schi relativi alla presenza nell’ambiente della stessa di soggetti
estranei chiamati ad eseguire il contratto. T.A.R. Lombardia,
Milano, sez. IV, 9 gennaio 2014, n. 36: si pensi ad esempio ai
possibili rischi derivanti dalla sovrapposizione di più attività
svolte da operatori di appaltatori diversi, dalle lavorazioni dell’appaltatore nel luogo di lavoro del committente ovvero dalle
particolari richieste di esecuzione del committente in relazione
ai rischi specifici dell’attività propria dell’appaltatore.
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Nel variegato panorama giurisprudenziale cui sopra si è fatto cenno si rinvengono in particolare
decisioni non concordi circa l'obbligatorietà dell'indicazione degli oneri di sicurezza sia aziendali
che da interferenze, e ciò anche in relazione alla
presenza o meno di un'espressa previsione in tal
senso nella lex specialis della gara. L'obbligo di che
trattasi, si aggiunge, viene talora ritenuto vigente
per tutte le tipologie di affidamento di contratti
pubblici, più spesso solo in relazione agli appalti di
servizi e di forniture. Di tali difformi orientamenti
sulla questione si dirà brevemente qui di seguito.
L'omessa indicazione come causa di
esclusione dalla gara
Secondo il più rigido degli orientamenti la mancata indicazione nell'offerta dei costi per la sicurezza, per le interferenze o per i rischi specifici, non
può che determinare la sanzione dell'esclusione del
concorrente dalla gara, e ciò anche in assenza di
un'espressa previsione in proposito da parte della
lex specialis (3).
L'inosservanza delle norme sopra richiamate sarebbe infatti configurabile come inadempimento
delle prescrizioni del codice degli appalti, determinerebbe incertezza assoluta del contenuto dell'offerta per mancanza di un elemento essenziale di
quest'ultima, ex art. 46, comma 1-bis, del codice (4), e comporterebbe dunque inevitabilmente la
sanzione espulsiva (5).
In base a tale impostazione, nell'ipotesi di omissione non potrebbe ipotizzarsi un potere di soccor(3) Cfr. Cons. Stato, sez. III, 3 luglio 2013, n. 3565. AVCP,
parere 25 settembre 2013, n. 147.
(4) Cons. Stato, Ad. Plen., 25 febbraio 2014, n. 9; Cons.
Stato, sez. III, 23 gennaio 2014, n. 348; T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 25 maggio 2014, n. 2785; Id., 8 aprile 2014, n.
2010.
(5) Così Cons. Stato, sez. V, ord. 5 febbraio 2014, n. 522
con riferimento sia a servizi e forniture che per i lavori. Cons.
Stato, sez. III, 3 luglio 2013, n. 3565; T.A.R. Veneto, sez. I, 5
marzo 2014, n. 299.
(6) Cons. Stato, sez. III, 23 gennaio 2014, n. 348; AVCP, parere 9 maggio 2013, n. 72. In tema di cd. soccorso istruttorio
interessante Cons. Stato, sez. III, 4 marzo 2014, n. 1030, secondo cui l’art. 46, comma 1, del D.Lgs. n. 163 del 2006, nel
prevedere che le “stazioni appaltanti invitano, se necessario, i
concorrenti a completare o a fornire chiarimenti in ordine al
contenuto dei certificati, documenti o dichiarazioni presentati”,
è volto a soddisfare il principio di più ampia partecipazione
delle imprese alla selezione e che, al contempo, orienta le stazioni appaltanti, a fronte di una pluralità di adempimenti ed
oneri di carattere formale posti a carico di chi aspira all’affidamento della commessa pubblica, verso la verifica su un piano
di concretezza ed effettività dei requisiti di partecipazione e
della capacità dei concorrenti. Circa la sussistenza di un potere
di soccorso istruttorio solo nel caso di documentazione incom-
1212
so da parte della stazione appaltante dopo l’apertura delle offerte economiche (6). Una diversa opzione interpretativa, che consentisse l'integrazione
delle offerte nell’ambito della procedura in contraddittorio volta al controllo dell'anomalia, si risolverebbe infatti in una interpretatio abrogans della
disciplina normativa che dedica una specifica attenzione ai costi di sicurezza, imponendo l’indicazione in sede di offerta in ragione della particolare
delicatezza dei valori in gioco (7), e si configurerebbe inoltre come violazione della par condicio tra
i concorrenti, con alterazione delle offerte a buste
aperte, traducendosi in un ingiustificato favor concesso a imprese inadempienti a oneri legali, a danno delle concorrenti che, invece, vi hanno correttamente risposto (8).
Neppure la mancanza di una specifica previsione
sul punto nella lex specialis potrebbe giustificare l’omessa indicazione dei costi per la sicurezza aziendale, atteso il carattere cogente ed immediatamente
precettivo delle norme di legge sopra richiamate,
che prescrivono di esporre distintamente tali costi,
e che dunque risulterebbero idonee ad eterointegrare, ex art. 1374 c.c. (9), le regole procedurali e
tali da imporre, in caso di loro inosservanza, l’esclusione dalla gara (10).
Tra le decisioni a favore della tesi della sanzione
espulsiva come conseguenza dell'omessa specificazione dei costi per la sicurezza, ve ne sono alcune
secondo le quali, posto che gli oneri di sicurezza da
interferenze sono oggetto di previsione obbligatoria
a cura della stazione appaltante nel DUVRI, gli
artt. 86, comma 3-bis, e 87, comma 4, del D.Lgs. n.
pleta, ma non in quello di documentazione del tutto omessa,
cfr. T.A.R. Puglia, Lecce, 28 febbraio 2012, n. 378.
(7) Cfr. T.AR. Lombardia, Milano, sez. I, 9 maggio 2011, n.
1217, secondo cui deve essere considerata la peculiare natura
delle norme in materia di sicurezza del lavoro, finalizzate a garantire l'intangibilità dei diritti fondamentali della persona del
lavoratore, quali quelli alla vita e alla salute, come emerge dalla ampia produzione legislativa degli ultimi anni. Il conseguimento di tali fini rappresenta, quindi, un obiettivo essenziale
del sistema normativo in materia, che è altresì avvalorato da
sicuri riferimenti costituzionali (artt. 2, 3, 32 e 38 della Costituzione).
(8) Così T.A.R. Roma, sez. II-bis, 26 febbraio 2014, n. 2234.
(9) T.A.R. Lazio, Latina, sez. I, 15 gennaio 2014, n. 7. Cfr.
T.A.R. Lombardia, Milano, sez. I, 9 maggio 2011, n. 1217. In
tema di eterointegrazione interessanti le argomentazioni di
T.A.R. Piemonte, 12 gennaio 2012, n. 23.
(10) La sanzione dell’esclusione risulterebbe ineluttabile in
quanto l’offerta sarebbe incompleta sotto un profilo particolarmente rilevante alla luce della natura costituzionalmente sensibile degli interessi protetti. T.A.R. Latina, sez. I, 15 gennaio
2014, n. 7; T.A.R. Veneto, sez. I, 8 agosto 2013, n. 1050;
T.A.R. Brescia, sez. II, 19 febbraio 2013, n. 181; T.A.R. Roma,
sez. II, 7 gennaio 2013, n. 66.
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163 del 2006, imporrebbero unicamente la previsione degli oneri di sicurezza aziendale. L’indicazione di tali costi, unitamente alle altre voci di prezzo,
sarebbe infatti indispensabile per la valutazione
della congruità dell’offerta economica, anche in relazione all’eventuale anomalia, da parte della stazione appaltante. In sostanza dunque il combinato
disposto delle norme sopra indicate imporrebbe ai
concorrenti di segnalare in ogni caso gli oneri economici che intendono sopportare per l’adempimento degli obblighi di sicurezza sul lavoro, cd. costi di sicurezza aziendale (11), al fine di porre la
stazione appaltante nella condizione di verificare il
rispetto di norme inderogabili a tutela di fondamentali interessi dei lavoratori e di consentire alla
stessa la valutazione della congruità dell’importo
destinato ai costi per la sicurezza (12).
Viceversa, il divieto di integrazione successiva
viene talora ritenuto applicabile anche per l'ipotesi
di omessa specificazione dei costi per la sicurezza
da rischi esterni, che pure devono essere previamente quantificati dalla stazione appaltante. In caso contrario, infatti, non essendo dimostrato che il
partecipante abbia effettivamente preso in considerazione tali costi ed abbia formulato di conseguenza
la propria offerta economica, si configurerebbe la
mancanza di uno degli elementi essenziali previsti
dall’art. 46, comma 1-bis, del D.Lgs. n. 163/06.
Tale rigorosa interpretazione del contesto normativo di riferimento è stata talora applicata, si osserva, anche in relazione a gare per la concessione
di servizi, in quanto le norme che prevedono l'obbligatoria indicazione nell'offerta degli oneri aziendali rappresenterebbero corollari dei principi di trasparenza, parità di trattamento e non discriminazione che l’art. 30 del codice dei contratti enuncia
come propri anche di tale tipologia di contratti (13).
Sotto il profilo oggettivo, le regole di che trattasi
sono state ritenute non applicabili agli appalti di
servizi ricadenti nell’allegato II B al codice dei
contratti, in quanto soggetti all’applicazione dei soli artt. 68, 65 e 225 del medesimo codice nonché
dei principi di economicità, efficacia, imparzialità,
parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità (14). Non integrando principi generali, le predette disposizioni non sarebbero applicabili - neppure in via di eterointegrazione degli atti di gara alle procedure che abbiano ad oggetto i servizi in
questione, se non nell’ipotesi in cui la stazione appaltante si sia auto-vincolata ad osservarle richiamandole espressamente nella lex specialis (15).
Infine, pare interessante evidenziare in questa
sede che secondo la giurisprudenza del Consiglio di
Stato (16) l'illegittimità derivante dall'omessa indicazione nella disciplina di gara dei costi della sicurezza non soggetti a ribasso, e dunque dall'indeterminatezza del complessivo valore contrattuale, inciderebbe direttamente sulla formulazione dell’offerta, impedendone la corretta e consapevole elaborazione, ragione per la quale la lesività della stessa disciplina di gara andrebbe immediatamente
contestata, senza attendere l’esito della procedura
per rilevare il pregiudizio che da quelle previsioni è
derivato. Sussisterebbe dunque un immediato onere di impugnazione a carico delle imprese concorrenti.
(11) T.A.R. Lazio, Roma, sez. II, 7 gennaio 2013, n. 66; Id.,
sez. I, 17 ottobre 2012, n. 8522; T.A.R. Palermo, sez. I, 17 gennaio 2013, n. 124.
(12) Cons. Stato, sez. III, 23 gennaio 2014, n. 348; Cons.
Stato, sez. III, 28 agosto 2012, n. 4622; Cons. Stato, sez. III, 19
gennaio 2012, n. 212; Cons. Stato, sez. V, 29 febbraio 2012, n.
1172; Cons. Stato, sez. III, 3 ottobre 2011, n. 5421.
(13) T.A.R. Toscana, sez. II, 20 gennaio 2014, n. 106; T.A.R.
Roma, sez. II-bis, 26 febbraio 2014, n. 2234, peraltro riformata
da Cons. Stato, sez. V, 30 giugno 2014, n. 3921, che ritiene legittima l'omessa indicazione degli oneri nell'ambito di una concessione di servizi la cui lex specialis nulla specifichi in merito
all'indicazione degli oneri. Così anche Cons. Stato, sez. VI, 18
luglio 2014, n. 3864.
(14) Cons. Stato, sez. V, 6 agosto 2012, n. 4510; T.A.R. Catanzaro, sez. II, 6 marzo 2014, n. 408: non essendo applicabili
gli artt. 86, comma 3-bis, e 87, comma 4, del D.Lgs. n.
163/2006, nessuna conseguenza di carattere escludente può
derivare nei confronti dei concorrenti, ivi compreso l’aggiudicatario, dalla mancata indicazione, nell’offerta, degli oneri di
sicurezza.
(15) AVCP, parere 20 giugno 2014, n. 142. Cfr. Cons. Stato,
sez. III, 21 gennaio 2014, n. 280; Id., sez. V, 6 agosto 2012, n.
4510; T.A.R. Toscana, sez. I, 20 febbraio 2014, n. 338; T.A.R.
Piemonte, sez. I, 22 novembre 2013, n. 1254; Id., sez. I, 21 dicembre 2012, n. 1376. Cfr. AVCP, parere 10 aprile 2014, n. 67.
(16) Cons. Stato, sez. IV, 13 dicembre 2013, n. 5983.
(17) Cons. Stato, sez. III, 4 marzo 2014, n. 1030; Id., 18 ottobre 2013, n. 5070: quando si tratti di appalti diversi dai lavori
e non vi sia una comminatoria espressa d’esclusione ove sia
omesso lo scorporo matematico degli oneri, il relativo costo, appunto perché coessenziale e consustanziale al prezzo offerto, ri-
Urbanistica e appalti 11/2014
Rilevanza di una comminatoria espressa
Secondo un diverso orientamento, la mancata
indicazione nell’offerta dei costi relativi alla sicurezza non potrebbe determinare automaticamente
l'esclusione del concorrente qualora il bando non
preveda espressamente tale sanzione, rilevando il
richiamo agli artt. 86 e 87 del D.Lgs. n. 163/2006
ai soli fini della verifica di anomalia dell’offerta (17). Sarebbe, dunque, ammissibile una regolarizzazione nella fase di giustificazione dell’anomalia.
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Nell’ipotesi in cui la lex specialis nulla abbia specificato in ordine all’onere di indicare, a pena di
esclusione, i costi di sicurezza aziendale, la sanzione
espulsiva nei confronti della ditta che abbia omesso tale indicazione verrebbe infatti a colpire, in
contrasto con i principi di certezza del diritto, di
tutela dell’affidamento e del favor partecipationis, i
concorrenti che hanno presentato un’offerta perfettamente conforme alle prescrizioni stabilite dal
bando e dall'allegato modulo d'offerta (18).
L’art. 86, comma 3-bis, del D.Lgs. n. 163/2006
individua espressamente come sue destinatarie le
stazioni appaltanti, che sono pertanto obbligate,
innanzitutto, a prevedere, nel disciplinare di gara,
che le offerte economiche rechino l'espressa indicazione dei costi della sicurezza aziendale. La disposizione inoltre, analogamente alla norma recata
dall’art. 87, comma 4 del medesimo codice, non
contempla espressamente l’omessa indicazione,
nell’offerta economica, dei costi della sicurezza
aziendale tra le cause di esclusione automatiche
dalle procedure di affidamento.
La mancanza di esplicita previsione nella lettera
di invito e nel disciplinare di gara dell’obbligo di
indicazione, nell’offerta economica, dei costi per la
sicurezza, costituisce in sostanza violazione degli
artt. 86 e 87 del D.Lgs. n. 163/2006 da parte della
stazione appaltante, responsabile della redazione
della documentazione di gara; tale illegittimità non
può però pregiudicare le ragioni dell’impresa che
abbia riposto legittimo affidamento nella regolamentazione della procedura disposta dalla stazione
appaltante, redigendo un’offerta economica perfettamente conforme a quanto richiesto (19). La
mancata indicazione dei costi di sicurezza aziendali
si configurerà peraltro come causa automatica di
esclusione ove il bando lo preveda espressamente.
Ancora, l'eventuale esclusione del concorrente,
oltre che in violazione del principio del legittimo
affidamento, risulterebbe in contrasto con il disposto dell’art. 46, comma 1-bis, del codice dei contratti pubblici. Stando al dato letterale, il legislatore parrebbe aver inteso applicare la sanzione escludente limitatamente a quelle ipotesi in cui la violazione commessa attenga ad un adempimento prescritto a pena di esclusione. In altri termini, in assenza di norma di legge o della lex specialis che
commini espressamente, quale sanzione relativa alla mancata indicazione nell’offerta degli oneri di sicurezza, l’esclusione dalla gara, la stazione appaltante non potrebbe procedervi automaticamente in
quanto risulterebbe violato il principio di tassatività della cause di esclusione (20).
Sempre nel rispetto del principio di tutela dell'affidamento, l’adozione della sanzione espulsiva
non potrebbe a maggior ragione avvenire ove l’amministrazione abbia indotto in errore l’operatore
economico (21) allegando al bando un modello di
offerta che non preveda l’indicazione degli oneri
della sicurezza non soggetti a ribasso (22). Ciò neppure ove detta modulistica risulti non conforme alle prescrizioni di legge, dovendo in tal caso prevalere il favor partecipationis e non potendosi risolvere
la circostanza in danno del concorrente (23).
Le conclusioni ora esposte sarebbero avvalorate
anche dalla collocazione sistematica delle disposizioni di riferimento nell'ambito della disciplina relativa al procedimento ed ai criteri di verifica delle
leva proprio ai soli fini dell’anomalia di quest’ultimo, nel senso
che, per scelta della stazione appaltante, il momento di valutazione degli oneri stessi non è eliso, ma è posticipato al sub-procedimento di verifica della congruità dell’offerta nel suo complesso.
(18) T.A.R. Lombardia, Milano, sez. I, 18 aprile 2014, n.
1001; T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 12 marzo 2014, n. 1492.
Cfr. T.A.R. Piemonte, sez. I, 22 novembre 2013, n. 1254; T.A.R.
Puglia, Bari, sez. II, 22 ottobre 2013, n. 1429.
(19) Così T.A.R. Napoli, sez. I, 12 marzo 2014, n. 1492. L'esclusione potrà essere disposta solo se l'impresa non fornisce
convincenti spiegazioni nella successiva fase di verifica in contraddittorio: cfr. T.A.R. Lazio, Roma, sez. II, 14 giugno 2012, n.
5465.
(20) T.A.R. Napoli, sez. I, 12 marzo 2014, n. 1492. Cfr.
Cons. Stato, sez. III, 10 luglio 2013, n. 3706: ove il bando di
gara ed il capitolato non lo richiedano espressamente e l'impresa offerente non precisi gli oneri nella propria offerta, l'omissione dei costi relativi alla sicurezza aziendale non causa
automaticamente l'esclusione della ditta, bensì costringe la
stazione appaltante ad approfondire tale aspetto in sede di
giustificazioni. Aderisce ad un'interpretazione del principio di
tassatività delle clausole di esclusione tale da tutelare il princi-
pio del favor partecipationis - ritenendo una clausola di esclusione in materia di omessa indicazione degli oneri della sicurezza illegittima in applicazione di generali principi in tema di
ragionevolezza - Cons. Stato, sez. VI, 19 ottobre 2012, n. 5389.
(21) Per un'applicazione che valorizza la buona fede del
concorrente cfr. Cons. Stato, sez. VI, 20 settembre 2012, n.
4999.
(22) Cons. Stato, sez. V, 6 agosto 2012, n. 4510; Id., 5 luglio
2011, n. 4029; cfr. anche T.A.R. Brescia, sez. II, 12 marzo
2014, n. 250, circa l’applicazione del potere di soccorso ove
l’omessa indicazione degli oneri per i rischi aziendali sia imputabile alla stazione appaltante come conseguenza dell’imperfetta redazione della lex specialis.
(23) Cfr. AVCP, pareri 23 ottobre 2013, n. 169, 17 luglio
2013, n. 118 e 23 aprile 2013, n. 54. Cons. Stato, sez III, 4
marzo 2014, n. 1030. T.A.R. Lombardia, Milano, sez. IV, 9 gennaio 2014, n. 36: a fronte di un'oggettiva incertezza ingenerata
dagli atti predisposti dalla stazione appaltante, e della buona
fede che va riconosciuta al concorrente, deve prevalere il principio del favor partecipationis; pertanto eventuali clausole incerte od ambigue del bando di gara sono da interpretare nel senso favorevole alla più ampia partecipazione.
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Urbanistica e appalti 11/2014
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offerte anormalmente basse e non di quella inerente al contenuto essenziale delle offerte.
La tesi dell'inesistenza dell'obbligo
dichiarativo per gli appalti di lavori
Secondo una diffusa opzione interpretativa, lo
specifico obbligo di indicare, a pena di esclusione,
i costi per la sicurezza interna previsto dagli artt.
86, comma 3-bis, e 87, comma 4, del D.Lgs. n.
163/2006 varrebbe solo per le procedure di affidamento di forniture e servizi. Viceversa, nel caso degli appalti di lavori la quantificazione sarebbe rimessa al piano di sicurezza e coordinamento ex art.
100 del D.Lgs. n. 81/2008, predisposto dalla stazione appaltante ai sensi dell’art. 131 del D.Lgs. n.
163/2006 (24).
A supporto di tale orientamento i giudici hanno
richiamato l’art. 24, comma 3, del D.P.R. n.
207/2010, che include tra i documenti da allegare
al progetto definitivo il piano di sicurezza e di
coordinamento sulla base del quale determinare il
costo della sicurezza, nel rispetto dell’allegato XV
del D.Lgs. n. 81/2008. Inoltre l'art. 32, comma 4,
lett. o), del medesimo decreto prevede che nell’analisi delle spese generali, destinata a confluire nel
computo metrico estimativo da porre a base di gara, occorre anche procedere alla quantificazione
delle spese di adeguamento del cantiere in osservanza del D.Lgs. n. 81/2008, di cui è indicata la
quota di incidenza sul totale delle spese generali, ai
fini degli adempimenti previsti dall’art. 86, comma
3-bis, del codice dei contratti (25). Laddove poi il
piano di sicurezza e coordinamento non sia necessario, le amministrazioni devono comunque compiere la stima dei costi per la sicurezza ai sensi del
comma 3 dell'art. 131, nonché del punto 4.1.2 dell'Allegato XV al D.Lgs. n. 81/2008. In tale contesto, l’art. 26, comma 6, del D.Lgs. n. 81/2008, che
prescrive che il costo del lavoro deve essere specificato anche per gli appalti di lavori pubblici, deve
(24) Cfr. peraltro T.A.R. Sicilia, sez. I, 18 luglio 2014, n.
2517.
(25) Così Cons. Stato, sez. V, 9 ottobre 2013, n. 4964.
(26) T.A.R. Palermo, sez. III, 24 marzo 2014, n. 852.
(27) Cons. di Stato, sez. V, 7 maggio 2014 n. 2343.
(28) Cons. Stato, sez. III, 4 marzo 2014, n. 1030; Id., 18 ottobre 2013, n. 4070; T.A.R. Lombardia, Milano, sez. IV, 9 gennaio 2014, n. 36: quando si tratti di appalti diversi dai lavori
pubblici, e non vi sia una comminatoria espressa d’esclusione,
ove sia omesso da parte del concorrente lo scorporo degli
oneri di sicurezza per rischio specifico, il relativo costo, poiché
coessenziale al prezzo offerto, non può dare luogo ex se ad
esclusione dalla gara, ma rileva ai soli fini dell’anomalia dell'offerta, potendo pertanto farsi luogo all’esclusione solamente al-
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essere coordinato con le specifiche disposizioni di
cui agli artt. 87, comma 4, e 131 del codice dei
contratti (26), dovendo essere interpretato nel senso del carattere generale dell’obbligo, per le stazioni appaltanti, di verifica dell’adeguatezza degli oneri per tutti i contratti pubblici in forza dell’art. 86,
comma 3-bis, del codice (27).
Fermo restando dunque, secondo le decisioni riconducibili alla tesi qui in esame, l'onere dello
scorporo matematico dei costi di sicurezza per rischio specifico quando si tratti di servizi e forniture, nell'ipotesi di appalti di lavori l'omessa indicazione di tali costi, ove il bando non contenga una
comminatoria espressa, rileverebbe ai soli fini dell'anomalia dell'offerta (28).
Il caso di specie
Pronunciandosi in merito ad un appalto di lavori
la cui lex specialis non specificava gli oneri per la sicurezza cd. interna, la quinta Sezione del Consiglio
di Stato, riformando la decisione del TAR Veneto
n. 299/2014, aderisce all'orientamento secondo cui
l'onere di indicare i costi per la sicurezza aziendale
sussisterebbe solo per gli appalti di servizi e forniture.
Partendo dall'esegesi delle disposizioni del codice dei contratti pubblici sopra citate, i supremi giudici precisano innanzitutto che l'art. 86, comma 3bis, si rivolge in primo luogo agli enti aggiudicatori,
imponendo loro, nella predisposizione delle gare di
appalto e nella valutazione dell’anomalia delle offerte, di effettuare uno specifico apprezzamento
della congruità dei costi del lavoro e della sicurezza
indicati dalle concorrenti nelle loro offerte. A dimostrazione di ciò viene richiamata innanzitutto la
rubrica della disposizione, “criteri di individuazione
delle offerte anormalmente basse”. La previsione
secondo la quale il costo in questione deve essere
specificamente indicato sarebbe dunque funzionale
alla verifica di congruità dell'offerta.
l'esito, ove negativo, di una verifica più ampia sulla serietà e
sulla sostenibilità dell'offerta economica nel suo insieme.
Cons. Stato, sez. V, 23 luglio 2010, n. 4849: la circostanza che
solo nei bandi di gara relativi agli appalti di lavori, ai sensi dell’art. 131 del codice dei contratti pubblici, debbano essere evidenziati gli oneri di sicurezza non soggetti a ribasso, fa sì che
nelle altre procedure di gara, in assenza della preventiva fissazione del costo per la sicurezza da parte dell’amministrazione
aggiudicatrice quale specifica componente del costo del lavoro, è necessario che il relativo importo venga scorporato dalle
offerte dei singoli concorrenti e sottoposto a verifica per valutare se sia congruo rispetto alle esigenze di tutela dei lavoratori.
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Analogamente deve essere interpretato l'art. 87,
comma 4, del codice, che specifica il più generale
ed onnicomprensivo comma 3-bis dell'art. 86, distinguendo peraltro tra appalti di lavori - per i quali sono vietate giustificazioni, e dunque ribassi, rispetto agli oneri relativi alla sicurezza già stimati
dalla stazione appaltante nel piano di sicurezza e
coordinamento predisposto ai sensi dell'art. 131 - e
di servizi e forniture - per i quali la seconda parte
del comma 4 dell'art. 87 prevede che la stazione
appaltante nella valutazione dell'anomalia tenga
conto dei costi relativi alla sicurezza, che devono
essere specificati nell'offerta.
Ancora, tali disposizioni non prevedono la comminatoria di esclusione per l’omessa indicazione
dei costi di che trattasi (29).
All'interpretazione letterale, rileva la quinta Sezione, si aggiunge poi quella di carattere teleologico, con particolare riferimento al fatto che le norme in questione concernono la verifica dell'anomalia dell'offerta ed è dunque in tale sede che l'obbligo di indicare e giustificare i costi per la sicurezza viene in rilievo. Risulta viceversa eccedente pretendere che l'impresa provveda ad indicare i costi
in questione già nell'ambito dell'offerta.
Anche il disposto dell'art. 26, comma 6, del codice è rivolto agli enti aggiudicatori e fa riferimento alla verifica dell'anomalia, ragione per la quale
lo stesso deve essere coordinato con le disposizioni
di cui agli artt. 86, comma 3-bis, e 87, comma 4.
Quanto poi all'assunto secondo il quale le citate
disposizioni di legge hanno carattere imperativo,
essendo preordinate a tutelare i diritti fondamentali dei lavoratori, e quindi valenza eterointegratrice
della normativa di gara (30), i giudici di Palazzo
Spada evidenziano che, benché sia indiscutibile
che tali norme perseguano l’obiettivo di assicurare
la tutela dei lavoratori, tale fine può essere ampiamente realizzato attraverso l’obbligo per le stazioni
appaltanti di effettuare una specifica valutazione
della congruità del costo per la sicurezza nell'appropriata sede della verifica dell’anomalia dell’offerta.
Sarebbe infatti ingiustificatamente penalizzante per
le imprese, e dunque in contrasto con le regole della concorrenza che la legislazione sui contratti pubblici persegue, sanzionare con l’esclusione dalla ga-
ra la mancata indicazione dei costi per la sicurezza
aziendale. Sussisterebbe, ancora, un'evidente sproporzione tra l'obiettivo di tutelare la sicurezza ed i
connessi diritti dei lavoratori ed il risultato ottenuto, ossia la preclusione all’impresa di concorrere
per l’affidamento del contratto per il solo fatto di
non avere esposto nell’offerta i relativi costi per la
sicurezza aziendale, quand’anche gli stessi risultassero congrui nell’unica sede deputata a tale verifica.
I giudici respingono dunque la tesi della valenza
eterointegratrice delle disposizioni esaminate nei
confronti della normativa di gara, rimarcando che
del potere di eterointegrazione deve essere fatto un
attento uso. L’inserzione automatica di clausole
prevista dall’art. 1339 c.c. si giustifica infatti ove
occorra conformare il contenuto di obbligazioni e
diritti nascenti da contratti già conclusi con esigenze di ordine imperativo non disponibili dai contraenti (31). È quindi assai dubbia, in base ad incontestati principi di teoria generale di diritto, l'operatività del meccanismo in questione nei confronti di aspetti che concernono lo svolgimento
della procedura selettiva ed in particolare le modalità con cui le imprese formulano la loro offerta. A
ciò si aggiunga che, come confermato da un consolidato indirizzo giurisprudenziale, la lex specialis della gara deve essere interpretata secondo le regole
dettate dagli artt. 1362 e ss. c.c., in base ai quali si
deve comunque attribuire valore preminente all’interpretazione letterale, in coerenza con i principi
di chiarezza e trasparenza di cui all'art. 1 della L. n.
241/1990, mentre devono essere escluse interpretazioni integrative contrarie al canone della buona
fede interpretativa di cui all’art. 1366 c.c. (32). Interpretazioni volte ad enucleare significati impliciti
nella normativa di gara risultano infatti potenzialmente in grado di ledere l’affidamento dei terzi e la
massima partecipazione alla gara (33).
La decisione della quinta Sezione sul caso di specie, ove la stazione appaltante non ha richiesto la
specificazione dei costi per la sicurezza aziendale in
sede di offerta, appare coerente con il quadro normativo sopra descritto, nell'ambito del quale sembra corretto affermare che non sussista uno specifico obbligo dichiarativo in capo alle imprese con-
(29) Certamente, precisano i giudici, non per gli appalti di
lavori, per i quali vi è una rigorosa analisi dei costi in questione
da parte della stazione appaltante nella fase della progettazione, in virtù di puntuali disposizioni del regolamento di attuazione di cui al D.P.R. n. 207/2010.
(30) Cfr. supra.
(31) Cons. Stato, sez. III, 2 settembre 2013, n. 4364.
(32) Cons. Stato, sez. III, 2 settembre 2013, n. 4364; Id.,
sez. V, 21 dicembre 2012, n. 6615; Id., 5 settembre 2011, n.
4980.
(33) Cons. Stato, sez. V, 13 gennaio 2014, n. 72; Id., 16
gennaio 2013, n. 238; Id., 7 gennaio 2013, n. 7; Id., 31 ottobre
2012, n. 5570. Cfr. anche, in tema di buona fede e affidamento, Cons. Stato, sez. V, 24 ottobre 2013, n. 5155.
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Urbanistica e appalti 11/2014
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correnti in ordine ai costi per la sicurezza interna
per gli appalti di lavori.
Il legislatore ha infatti dettato in materia una disciplina diversa per tali appalti e per quelli di forniture e di servizi. Ai primi, caratterizzati da un più
elevato livello di rischio e per i quali è indispensabile un’apposita pianificazione in materia di sicurezza e prevenzione dei rischi nonché dei connessi
oneri economici, è destinata la specifica disciplina
di cui al titolo IV del D.Lgs. n. 81/2008. Le disposizioni in vigore, in altri termini, non impongono
un obbligo a carico delle imprese concorrenti a
procedure per l'affidamento di lavori rispetto all'indicazione in sede di offerta dei costi per la sicurezza, dovendo questi ultimi essere oggetto di apposita
pianificazione preventiva, che si configura come
componente essenziale della progettazione e dei
piani di sicurezza sui quali, poi, si svilupperà l’esecuzione contrattuale (34).
La tesi del Consiglio di Stato appare condivisibile anche in virtù del principio generale del favor
partecipationis, il quale informa di sé tutta la normativa interna e comunitaria in materia di affidamento di appalti pubblici. La lex specialis predisposta dall’amministrazione aggiudicatrice non richiedeva l’indicazione degli oneri della sicurezza interna nell’offerta, ragione per la quale non potevano
essere escluse le imprese che non avevano effettuato tale dichiarazione, dal momento che non esiste
una disposizione di legge che preveda come causa
di esclusione la mancata indicazione di che trattasi
in ipotesi di affidamento di lavori (35).
Il quadro interpretativo sulla tematica, si conclude, resta comunque assolutamente incerto e non
univoco, ragione per la quale, posta anche la rilevanza degli interessi in gioco, pare auspicabile un
decisivo intervento legislativo, o dell’Adunanza
Plenaria del Consiglio di Stato, che faccia finalmente chiarezza sulla questione.
(34) La dottrina e la giurisprudenza evidenziano in particolare che non sarebbe corretto che si determinassero competizioni in ambiti coperti da garanzie e tutele costituzionali, laddove,
l’omissione dei dovuti accorgimenti può comportare il rischio
di ledere diritti fondamentali della persona.
(35) Vd. in tal senso T.A.R. Veneto, sez. I, 22 novembre
2011, n. 1720.
Urbanistica e appalti 11/2014
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Titoli abilitativi
La demolizione delle opere tra
esecuzione del giudicato e
sanatoria
T.A.R. PIEMONTE, TORINO, sez. II, 8 luglio 2014, n. 1171 – Pres. ed Est. Salamone – B. c. Comune di Bruino, in persona del Sindaco pro tempore, F. e Commissario ad acta presso Regione Piemonte
L'annullamento in sede giurisdizionale del permesso di costruire provoca la qualificazione di abusività delle
opere edilizie realizzate in base ad esso: il Comune, stante l’efficacia conformativa della sentenza del giudice
amministrativo, oltre che costitutiva e ripristinatoria, è obbligato a dare esecuzione al giudicato adottando i
provvedimenti conseguenziali che, tuttavia, non devono avere ad oggetto necessariamente la demolizione
delle opere realizzate, prescrivendo, l’art. 38 D.P.R. n. 380 del 2001, in caso di annullamento del permesso di
costruire, una nuova valutazione da parte del dirigente del competente ufficio comunale riguardo alla possibilità di restituzione in pristino cosicché, qualora la demolizione non risulti possibile, il Comune dovrà irrogare
una sanzione pecuniaria, nei termini fissati da detta disposizione.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme
Cons. Stato, sez. IV, 12 maggio 2014, n. 2398; Cons. Stato, sez. VI, 13 giugno 2011, n. 3571, in Foro Amm. CdS
2011, 6, 2051; T.A.R. Campobasso, sez. I, 17 ottobre 2013, n. 598, in Foro Amm. TAR, (Il) 2013, 10, 3127; T.A.R.
Bari, sez. III, 17 dicembre 2013, n. 1695, in Foro Amm. TAR 2013, 12, 3865
Difforme
T.A.R. Salerno, sez. I, 19 aprile 2012, n. 738, in Foro Amm. TAR 2012, 4, 1361
Diritto
Con il ricorso di cui in epigrafe si chiede la dichiarazione di nullità, di inefficacia e, comunque, l'annullamento del permesso di costruire n. 7582/2 del 22-27 gennaio
2014, rilasciato dal Comune di Bruino, Responsabile
Settore urbanistica, lavori pubblici, ambiente, casa, al
sig. F.F., comunicato al ricorrente con nota del Comune
di Bruino prot. n. 1058 del 3 febbraio 2014, come infra
specificando e di tutti gli atti presupposti, successivi,
consequenziali e comunque connessi con quelli impugnati, con particolare riferimento, in quanto occorra, al
parere favorevole condizionato reso dalla Commissione
Edilizia nella seduta del 28 novembre 2013 su istanza
edilizia presentata dal sig. F.F. ed avente ad oggetto “ristrutturazione di fabbricato di civile abitazione” nonché
al parere della Commissione Edilizia nella seduta del 9
ottobre 2013.
Si chiede altresì la condanna del Comune di Bruino al
risarcimento del danno arrecato al signor B. nonché al
pagamento di una somma di denaro per ogni violazione,
elusione del giudicato/o ritardo nell'esecuzione della
sentenza del TAR Piemonte n. 377/2011 e n. 510/2012
ai sensi e per gli effetti dell'art. 114, comma 2, lett. e)
c.p.a.
1218
Si sono costituti in giudizio il Comune di Bruino e F.F.,
che hanno chiesto il rigetto del ricorso.
Va premesso che è stata pronunciata da questo TAR
una prima sentenza su giudizio di ottemperanza, n. 510
del 2012 che fissava le modalità dell’ottemperanza alla
sentenza n. 377 del 2011, di annullamento del permesso
di costruire.
Nonostante i solleciti del ricorrente, i 90 giorni assegnati in sentenza al Comune di Bruino per ordinare al
sig. F. la demolizione e la messa in pristino delle opere
abusive scadevano senza che si producessero gli effetti
indicati dai giudicato del Tribunale Amministrativo.
In seguito alla sentenza del TAR Piemonte ed all'adozione da parte del Comune di Bruino di nuova ordinanza di demolizione, il sig. F. presentava tre istanze di sanatoria, e precisamente l'istanza-pratica n. 6220/2 del
16 luglio 2012, n. 6220/3 del 17 luglio 2012 e n. 6220/4
del 17 luglio 2012, tutte respinte, con conseguente
emissione da parte del Comune di Bruino di nuova ordinanza di demolizione.
Gli atti di diniego di sanatoria venivano impugnati dal
controinteressato F., con tre distinti ricorsi, la cui contestuale istanza cautelare veniva respinta dal TAR Piemonte, con ordinanze confermate in appello dal Consiglio di Stato.
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Successivamente il Comune di Bruino inviava a F. e a
B. una “comunicazione di avvio del procedimento”, nota prot. n. 5683 del 13 giugno 2013, per intervento sostitutivo comunale di demolizione e ricostruzione della
copertura del fabbricato F. a seguito di inottemperanza
all'ordinanza di demolizione n. 77/2012, superata da
successiva ordinanza n. 109/2012.
Con nota prot. 24468/DB0800 del 29 agosto 2013, il
Commissario ad acta, preso atto di quanto evidenziato
nella richiesta dell'avv. C. del 1° agosto 2013, disponeva che: “è necessario stabilire in maniera definitiva che
l'ingiunto, F.F., deve depositare immediatamente presso
l'Amministrazione comunale idoneo atto d'impegno
che lo obblighi, senza deroghe o ritardi: 1) alla presentazione del progetto definitivo della demolizione e ricostruzione della copertura ... entro lunedì 16 settembre
prossimo; 2) alla relativa demolizione entro il 15 aprile
2014. Si prescrive che il progetto definitivo debba essere accompagnato da fideiussione bancaria, valida fino
all'ultimazione dei lavori che, sempre entro il 16 settembre prossimo, deve essere trasmessa in copia allo studio legale che legge per conoscenza”.
Il Comune di Bruino con nota del 29 agosto 2013 invitava il sig. F. a “depositare immediatamente ... - atto di
impegno alla presentazione del progetto definitivo di
demolizione e ricostruzione della copertura entro e non
oltre il 16 settembre prossimo e alla relativa demolizione entro il 15 aprile 2014; - fideiussione bancaria valida
sino alla fine dei lavori per l'importo dei lavori in progetto a garanzia della demolizione e ricostruzione”.
In data 16 settembre 2013 il sig. F. depositata in Comune due domande edilizie in sanatoria relative al medesimo immobile interessato dalle sentenze di questo TAR,
identificate con n. 7582 e 7582/1, con le quali realizzare
“abbassamento copertura porzione sud-ovest e ristrutturazione dell'intero compendio ... ovvero abbassamento
di circa cm 50 della copertura della porzione di stabile
posta a sud est della proprietà F. e modifiche interne”.
In data 9 dicembre 2013 il controinteressato F. presentava il progetto n. 7582/2 mediante deposito di 3 tavole
e infine, con nota datata 3 febbraio 2014, il Comune
comunicava al ricorrente il rilascio del permesso di costruire impugnato, relativo alla pratica n. 7582/2.
Il predetto permesso di costruire è stato annullato in
autotuela con ordinanza n. 44 del 2014.
Con riguardo alla declaratoria di nullità del permesso di
costruire va dichiarata, pertanto, la cessazione della materia del contendere.
Quanto alla ottemperanza alla sentenza n. 377 del 30
marzo 2011 ed alla sentenza n. 510/2012 dell'8 maggio
2012 di questo Tribunale Amministrativo Regionale,
vanno prescritte le seguenti modalità, conferendo al
Comune di Bruino ed in via sostitutiva al Commissario
ad acta già nominato da questo TAR.
Va premesso che l'amministrazione ha rivalutato i fatti
sottoposti all'esame del giudice ed è pervenuta a conclusioni favorevoli al mantenimento della sopraelevazione.
La costruzione di cui si tratta è composta di due distinti
volumi contigui.
Urbanistica e appalti 11/2014
Uno di questi risulta collocato in aderenza alla linea di
confine con la proprietà del signor B., l'altro (più alto
rispetto al precedente) interamente localizzato ad oltre
5,00 metri dal confine stesso.
Il Collegio ritiene che vanno contemperati l'interesse
della parte ricorrente alla tutela del proprio diritto di
proprietà, correlato al consenso che secondo lo strumento urbanistico deve esprimere al fine di consentire
modifiche che alterino lo stato dell'immobile confinante, l'interesse pubblico al rispetto della normativa urbanistica che disciplina le modalità di edificazione e l'interesse del controinteressato a non subire un pregiudizio
particolarmente oneroso in conseguenza dell'edificazione che non è conforme allo strumento urbanistico, non
tanto per un contrasto con le norme limitative dell'edificazione, quanto con quelle che, integrando il codice
civile, disciplinano i rapporti di vicinato tra i proprietari di edifici.
In sostanza il vizio rilevato nel permesso di costruire oggetto di annullamento con la sentenza di cui si chiede
l'esecuzione riguarda, non tanto i limiti di edificazione,
quanto i rapporti tra proprietà edilizie contigue.
Il ripristino dello stato dei luoghi potrebbe essere seguito da una nuova edificazione nel rispetto delle caratteristiche plano volumetriche consentite in difetto di un
consenso del proprietario dell'edificio confinante.
D'altronde vi è una oggettiva difficoltà a demolire soltanto la porzione di fabbricato che supera in altezza
quella consentita senza pregiudicare le restanti parti.
Il Collegio ritiene, pertanto, che vanno individuate nell'ambito dell'ordinamento soluzioni alla fattispecie oggetto del giudizio che contemperino i contrapposti interessi pubblici e privati.
Il D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia)
all’art. 38 disciplina gli interventi eseguiti in base a permesso annullato disponendo che “1. In caso di annullamento del permesso di costruire, qualora non sia possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la restituzione in
pristino, il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale applica una sanzione pecuniaria pari al
valore venale delle opere o loro parti abusivamente eseguite, valutato dall'Agenzia del territorio, anche sulla
base di accordi stipulati tra quest'ultima e l'amministrazione comunale. La valutazione dell'agenzia è notificata
all'interessato dal dirigente o dal responsabile dell'ufficio e diviene definitiva decorsi i termini di impugnativa. 2. L'integrale corresponsione della sanzione pecuniaria irrogata produce i medesimi effetti del permesso di
costruire in sanatoria di cui all'articolo 36. 2-bis. Le disposizioni del presente articolo si applicano anche agli
interventi edilizi di cui all'art. 22, comma 3, in caso di
accertamento dell'inesistenza dei presupposti per la formazione del titolo”.
In applicazione di detta disposizione la giurisprudenza
(Cons. Stato, sez. VI, sent. n. 3571 del 13 giugno 2011)
ha affermato il principio che l'annullamento giurisdizionale del permesso di costruire provoca la qualificazione
di abusività delle opere edilizie realizzate in base ad es-
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so, per cui il Comune, stante l'efficacia conformativa
della sentenza del giudice amministrativo, oltre che costitutiva e ripristinatoria, è obbligato a dare esecuzione
al giudicato adottando i provvedimenti consequenziali.
Tali provvedimenti non devono, peraltro, avere ad oggetto necessariamente la demolizione delle opere realizzate, l'art. 38, D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, prescrivendo, in caso di annullamento del permesso di costruire,
una nuova valutazione da parte del dirigente del competente ufficio comunale riguardo la possibilità di restituzione in pristino; qualora la demolizione non risulti
possibile, il Comune dovrà irrogare una sanzione pecuniaria, nei termini fissati dallo stesso art. 38, D.P.R. 6
giugno 2001, n. 380.
Dalla previsione di cui all'art. 38 del D.P.R. n.
380/2001, che prevede, come sopra rilevato, la rimozione dei vizi delle procedure amministrative in caso di
permesso di costruire annullato in via giurisdizionale,
non deriva un generale divieto di rinnovazione dei permessi di costruire annullati in sede giurisdizionale per
vizi di carattere sostanziale.
La norma non implica, invero, alcun generale divieto di
rinnovazione dei permessi di costruire annullati in sede
giurisdizionale per vizi di carattere sostanziale.
Non può ritenersi, pertanto, che la concessione edilizia
in sanatoria sarebbe ammissibile solo in caso di annullamento della prima per motivi procedurali o formali, rimanendone, conseguentemente, esclusa la legittimità in
ordine all'annullamento dell'originaria concessione per
motivi sostanziali di contrarietà allo strumento urbanistico (Cons. Stato, sez. IV, sent. n. 7731 del 2 novembre 2010).
A ciò va aggiunto che l'affidamento del privato a poter
conservare l'opera realizzata sulla base di un titolo edilizio successivamente annullato non é tutelato in via generale, ma é rimesso alla discrezionalità del legislatore,
al quale compete emanare norme speciali di tutela come la potenziale commutabilità della sanzione demolitoria in quella pecuniaria (da cui la disciplina dell’art.
38 D.P.R. n. 380 del 2001), ovvero un regime di favore
in sede di condono edilizio, come avvenuto con l'art.
39, L. n. 724 del 1994 (Cons. Stato, sez. IV, sent. n.
4770 del 10 agosto 2011).
Il ricorso è stato accolto con la sentenza di cui si chiede
l’esecuzione ed è stata conseguentemente annullata la
concessione edilizia in sanatoria n. 6220 del 15 aprile
2002 rilasciata dal Comune di Bruino al signor F.G.,
per l'esecuzione di opere edilizie, facendo obbligo al Comune di Bruino di porre in essere l'attività sanzionatoria di ripristino dello stato dei luoghi.
Già nella sentenza n. 510 del 2012 questo TAR rilevò
che “il conseguimento della sanatoria di abusi edilizi
non trova ostacolo nella esistenza di provvedimenti
sanzionatori, anche se adottati in seguito a giudizio di
ottemperanza, per cui non può essere considerato ostativo all'ottenimento della sanatoria un ordine di demolizione emanato per ottemperare al giudicato formatosi
sulla decisione di annullamento della concessione edilizia stessa. Poiché, però, da un lato si hanno i diritti dei
terzi che costituiscono un ostacolo assoluto al titolo abi-
1220
litativo in sanatoria o meno, e dall'altro lato si ha che
non necessariamente la esistenza di un ordine di demolizione, anche successivo al giudicato, costituisce una
preclusione assoluta, per conciliare tali aspetti, si deve
ritenere che il giudicato non possa mai essere superato
quando la sentenza de qua costituisca proprio lo strumento di tutela con il quale i terzi, i cui diritti sono fatti salvi, abbiano fatto valere le loro posizioni”.
Ne consegue che il Comune è legittimato a rilasciare il
permesso di costruire in sanatoria, ma l'eventuale regolarizzazione delle opere abusive può avvenire soltanto
nel rispetto delle norme e dei procedimenti individuati
dalla legge che potrebbe seguire o ad un assenso esplicito del signor B., ovvero all’applicazione dell’art. 38
T.U. n. 380 del 2001 nella parte in cui prescrive “In caso di annullamento del permesso di costruire, qualora
non sia possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la restituzione in pristino, il dirigente o il responsabile del
competente ufficio comunale applica una sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere o loro parti
abusivamente eseguite, valutato dall'agenzia del territorio, anche sulla base di accordi stipulati tra quest'ultima
e l'amministrazione comunale. La valutazione dell'agenzia è notificata all'interessato dal dirigente o dal responsabile dell'ufficio e diviene definitiva decorsi i termini
di impugnativa. 2. L'integrale corresponsione della sanzione pecuniaria irrogata produce i medesimi effetti del
permesso di costruire in sanatoria di cui all'art. 36”.
In sede di ottemperanza al giudicato l'Amministrazione
è tenuta, pertanto, non solo a uniformarsi alle indicazioni rese dal giudice, e a determinarsi secondo i limiti
imposti dalla rilevanza sostanziale della posizione soggettiva azionata e consolidata in sentenza, ma anche a
prendere in esame la situazione controversa nella sua
complessiva estensione, valutando non soltanto i profili
oggetto della decisione del giudice, ma pure quelli comunque rilevanti per provvedere definitivamente sull'oggetto della pretesa, all'evidente scopo di evitare ogni
possibile elusione del giudicato.
Alla luce delle predette considerazioni va affermata la
persistenza dell'obbligo del Comune di Bruino di ottemperare integralmente al giudicato di cui alla sentenza n.
377/2001 del 30 marzo 2011 di questo Tribunale Amministrativo Regionale, ordinando ai contro interessati:
- o la demolizione/rimessa in pristino dell'intera opera
abusiva oggetto della concessione edilizia in sanatoria
n. 2662/2002, rilasciata dal Comune di Bruino al sig.
F.G.,
- ovvero, qualora non sia possibile, in base a motivata
valutazione, la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la restituzione in pristino, attraverso l'emanazione da parte del dirigente o del responsabile del
competente ufficio comunale di un atto di applicazione
di una sanzione pecuniaria pari al valore venale delle
opere o loro parti abusivamente eseguite, valutato dall'Agenzia del territorio, anche sulla base di accordi stipulati tra quest'ultima e l'amministrazione comunale.
Correlativamente, al fine di tutelare la situazione giuridica lesa del ricorrente, il Comune a titolo di risarcimento
Urbanistica e appalti 11/2014
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del danno corrisponderà, ai sensi dell’art. 114 comma 4
lett. e c.p.a., al ricorrente stesso, D.B., una somma di denaro da determinare con le modalità di cui sopra ed in
applicazione dell’art. 30 c.p.a., contestualmente alla determinazione della sanzione pecuniaria, a ristoro del pregiudizio subito dalla esecuzione delle opera abusive e correlata alla perdita di valore dell’immobile di proprietà di quest’ultimo, con rivalutazione monetaria ed interessi dalla
data di esecuzione delle opere al soddisfo.
In caso di mancato accordo sulla quantificazione del risarcimento si provvederà ai sensi dell’art. 34 comma 4 c.p.a.
Per i predetti adempimenti al Comune di Bruino viene
assegnato il termine di giorni 60 dalla comunicazione
e/o notifica della presente sentenza.
Decorso infruttuosamente tale termine ai medesimi
adempimenti provvederà, sostitutivamente, il Commissario ad acta indicato in dispositivo, che adotterà, entro
il successivo termine fissato in dispositivo e sotto la sua
personale responsabilità, ogni provvedimento utile a dare integrale esecuzione al giudicato.
Le spese e gli onorari del giudizio è giusto che seguano
la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
IL COMMENTO
di Valerio de Gioia (*)
Il conseguimento della sanatoria di abusi edilizi non trova ostacolo nella esistenza di provvedimenti sanzionatori, anche se adottati in seguito a giudizio di ottemperanza; non può, quindi, essere considerato
ostativo all'ottenimento della sanatoria un ordine di demolizione emanato per ottemperare al giudicato
formatosi sulla decisione di annullamento del titolo abilitativo edilizio. Poiché, però, da un lato, si hanno i
diritti dei terzi che costituiscono un ostacolo assoluto al titolo abilitativo in sanatoria, dall'altro, non necessariamente l’esistenza di un ordine di demolizione, anche successivo al giudicato, costituisce una preclusione assoluta si deve ritenere, per conciliare tali aspetti, che il giudicato non possa mai essere superato
quando la sentenza costituisca proprio lo strumento di tutela con il quale i terzi, i cui diritti sono fatti salvi,
abbiano fatto valere le loro posizioni.
Gli interessi in gioco
La sentenza in rassegna torna ad esaminare la
questione degli effetti derivanti dell'annullamento,
in sede giurisdizionale, del permesso di costruire
che, per consolidato orientamento giurisprudenziale, provoca la qualificazione di abusività delle opere edilizie realizzate in base ad esso, obbligando il
Comune a dare esecuzione al giudicato con l’adozione dei provvedimenti conseguenziali.
I profili da considerare sono due: le condizioni
in presenza delle quali il Comune può, in luogo
della demolizione delle opere realizzate, irrogare
una sanzione pecuniaria; l’ammissibilità della sanatoria degli abusi edilizi, allorché siano stati
adottati provvedimenti sanzionatori in seguito a
giudizio di ottemperanza al giudicato formatosi
sulla decisione di annullamento del titolo abilitativo edilizio.
Diversi sono gli interessi in gioco: la tutela del
diritto di proprietà del terzo (correlato al consenso che, secondo lo strumento urbanistico, deve
esprimere al fine di consentire modifiche che alterino lo stato dell'immobile confinante), quello
pubblico al rispetto della normativa urbanistica
che disciplina le modalità di edificazione e, infine,
quello di chi ha eseguito le opere a non subire un
pregiudizio particolarmente oneroso in conseguenza dell'edificazione che non è conforme allo
strumento urbanistico, non tanto per un contrasto
con le norme limitative dell'edificazione, quanto
con quelle che, integrando il codice civile, disciplinano i rapporti di vicinato tra i proprietari di
edifici.
Nel caso di specie, il vizio rilevato nel permesso
di costruire oggetto di annullamento, con la sentenza di cui è stata chiesta l'esecuzione, non riguarda i limiti di edificazione bensì i rapporti tra
proprietà edilizie contigue: il ripristino dello stato
dei luoghi, pertanto, può essere seguito da una
nuova edificazione nel rispetto delle caratteristiche planovolumetriche, consentite in difetto di
un consenso del proprietario dell'edificio confinante, ma vi è una oggettiva difficoltà a demolire
soltanto la porzione di fabbricato che supera in altezza quella consentita senza pregiudicare le restanti parti.
(*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla
valutazione di un referee.
Urbanistica e appalti 11/2014
1221
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Imprescindibile, al fine di procedere all’individuazione di soluzioni che contemperino i contrapposti interessi pubblici e privati, è l’art. 38 del
D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia
edilizia) a tenore del quale, in caso di annullamento del permesso di costruire, qualora non sia
possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la
restituzione in pristino, il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale applica una
sanzione pecuniaria pari al valore venale delle
opere o loro parti abusivamente eseguite, valutato
dall'agenzia del territorio, anche sulla base di accordi stipulati tra quest'ultima e l'amministrazione
comunale (1).
La valutazione dell'agenzia, prosegue la norma, è
notificata all'interessato dal dirigente o dal responsabile dell'ufficio e diviene definitiva decorsi i termini di impugnativa e l'integrale corresponsione
della sanzione pecuniaria irrogata produce i mede-
simi effetti del permesso di costruire in sanatoria di
cui all'art. 36 del medesimo decreto (2).
Tale dato normativo deve essere raccordato con
il principio, ormai pacificamente acquisito a livello
giurisprudenziale (3), secondo cui l'annullamento
giurisdizionale del permesso di costruire provoca la
qualificazione di abusività delle opere edilizie realizzate in base ad esso, per cui il Comune, stante
l'efficacia conformativa della sentenza del giudice
amministrativo, oltre che costitutiva e ripristinatoria, è obbligato a dare esecuzione al giudicato adottando i provvedimenti conseguenziali (4).
Tali provvedimenti, per come più volte chiarito
dai giudici amministrativi, non devono avere ad
oggetto necessariamente la demolizione delle opere
realizzate (5), prescrivendo, l’art. 38 T.U. edilizia,
in caso di annullamento del permesso di costruire,
una nuova valutazione da parte del dirigente del
competente ufficio comunale riguardo alla possibilità di restituzione in pristino cosicché, qualora la
demolizione non risulti possibile, il Comune deve
irrogare una sanzione pecuniaria, nei termini fissati
dalla medesima disposizione.
(1) In sede amministrativa, la scelta comunale di dare applicazione all'art. 38, D.P.R. n. 380 del 2001, con esclusione della
sanzione demolitoria, appare quella maggiormente rispettosa
di tutti gli interessi coinvolti e anche del principio di proporzionalità dell'azione amministrativa, di diretta derivazione dal diritto dell'Unione Europea, principio che impone all'amministrazione il perseguimento del pubblico interesse col minor sacrificio possibile dell'interesse privato (v., in questo senso, T.A.R.
Lombardia, Milano, sez. II, 6 dicembre 2012, n. 2944, in Foro
Amm. TAR, 2012, 12, 3772).
(2) Per approfondimenti sulla portata applicativa dell’art. 38
T.U. edilizia sia consentito rinviare a V. de Gioia, Edilizia e urbanistica. Regimi normativi, titoli abilitativi e strumenti di tutela,
Torino, 2008, 753 ss. V. anche R. Leonardi, M. Occhiena, Interventi eseguiti in base a permesso annullato, in AA.VV., Testo
Unico dell’edilizia, a cura di A. M. Sandulli, Milano, 2004, 457
ss.
(3) Cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12 maggio 2014, n. 2398;
Cons. Stato, sez. VI, 13 giugno 2011, n. 3571, in Foro Amm.
CdS, 2011, 6, 2051; T.A.R. Molise, Campobasso, sez. I, 17 ottobre 2013, n. 598, in Foro Amm. TAR (Il), 2013, 10, 3127;
T.A.R. Puglia, Bari, sez. III, 17 dicembre 2013, n. 1695, ivi,
2013, 12, 3865; T.A.R. Valle d'Aosta, Aosta, sez. I, 27 luglio
2011, n. 52, ivi, 2011, 7-8, 2208. Si veda anche T.A.R. Campania, Napoli, sez. VIII, 26 aprile 2013, n. 2162, Foro Amm. TAR,
2013, 4, 1305, secondo cui, nel caso di annullamento del titolo
abilitativo edilizio, in disparte l'ipotesi di vizi di ordine meramente procedurale e formale, il modello legale tipico di atto
consequenziale è proprio quello dell'ordine di ripristino dello
stato dei luoghi, in quanto unico atto idoneo ad arrecare una
piena soddisfazione all'interesse pubblico alla rimozione delle
opere in contrasto con la disciplina urbanistica, cosicché, ove
lo sviluppo attuativo del pregresso annullamento della concessione si incanali nell'alveo naturale della riduzione in pristino,
alcun onere di specifica motivazione ricade sull'amministrazione procedente, il cui operato è obbligatoriamente scandito dallo stesso legislatore; mentre, solo in presenza di circostanze
peculiari ed eccezionali, idonee ad accreditare l'oggettiva im-
possibilità di attuare la misura ordinaria della riduzione in pristino, sarà possibile accedere alla misura residuale della sanzione pecuniaria, occorrendo, però, in siffatta evenienza, giustificare la deroga alla soluzione di “tutela reale” privilegiata
dal legislatore mediante una congrua motivazione che dia adeguatamente conto delle valutazioni effettuate. In senso parzialmente difforme si veda T.A.R. Campania, Salerno, sez. I, 19
aprile 2012, n. 738, in Foro Amm. TAR, 2012, 4, 1361 per il
quale, in caso di annullamento in sede giurisdizionale di una
concessione edilizia, considerata illegittima per vizio sostanziale, l'amministrazione non può ricorrere all'art. 38 D.P.R. n.
380/2001, norma che consente di rimediare ai soli vizi formali
o procedurali: la regola posta da tale disposizione è rappresentata dall'operatività della sanzione reale che, in quanto effetto
primario e naturale derivante dall'annullamento del permesso
di costruire, non richiede all'amministrazione un particolare
onere della motivazione, ma rinviene la sua giustificazione, in
re ipsa, nella legalità violata; ne consegue che la sanzione alternativa pecuniaria deve intendersi riferita alle sole costruzioni
assentite mediante titoli abilitativi annullati per vizi formali.
(4) In dottrina v. F. Rocco, Accordo, esecuzione del giudicato
e giudizio di ottemperanza, in questa Rivista, 1, 2005, 97 ss.; G.
Bellucci, P. Pellegrini, La repressione degli abusi edilizi nella giurisprudenza amministrativa, penale e della Corte europea dei diritti dell’uomo, Torino, 2012, 141; S. Castro, Il giudizio di ottemperanza amministrativa, Milano, 2012, 497 ss.; M. Antonioli,
Spigolature sul nuovo giudizio di ottemperanza, in Dir. Proc.
Amm., 2011, 1291; S. Tarullo, Il giudizio di ottemperanza, in
Giustizia amministrativa (a cura di F. G. Scoca), IV ed., Torino,
2011, 563 ss.
(5) Principio ribadito, da ultimo, da Cons. Stato, sez. IV, 12
maggio 2014, n. 2398, cit. (in linea con quanto già in precedenza affermato da Cons. Stato, sez. IV, 16 marzo 2010, n.
1535, in Foro Amm. CdS, 2010, 3, 555 e Cons. Stato, sez. IV,
17 maggio 2012, n. 2852, ivi, 2012, 5, 1172), con la precisazione che la demolizione, rappresentando l'extrema ratio, rende
necessaria una motivazione specifica e non, quindi, estremamente sintetica se non implicita.
Il dato normativo
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Amministrativa
La rinnovazione dei permessi di costruire
annullati in sede giurisdizionale
Secondo il TAR Piemonte, dalla previsione di
cui all'art. 38 T.U. edilizia - laddove prevede, come
sopra rilevato, la rimozione dei vizi delle procedure
amministrative in caso di permesso di costruire annullato in via giurisdizionale -, non deriva un generale divieto di rinnovazione dei permessi di costruire annullati in sede giurisdizionale per vizi di
carattere sostanziale.
La norma, in altre parole, non implica alcun generale divieto di rinnovazione dei permessi di costruire annullati in sede giurisdizionale per vizi di
carattere sostanziale (6), non potendosi ritenere
che la concessione edilizia in sanatoria sia ammissibile solo in caso di annullamento della prima per
motivi procedurali o formali, rimanendo, conseguentemente, esclusa la legittimità in ordine all'annullamento dell'originaria concessione per motivi sostanziali di contrarietà allo strumento urbanistico (7).
Tuttavia, l'affidamento del privato a poter conservare l'opera realizzata sulla base di un titolo edilizio successivamente annullato non è tutelato in
via generale, ma è rimesso alla discrezionalità del
legislatore, al quale compete emanare norme speciali di tutela come la potenziale commutabilità
della sanzione demolitoria in quella pecuniaria (da
cui la disciplina dell’art. 38 D.P.R. n. 380 del
2001), ovvero un regime di favore in sede di condono edilizio, come avvenuto con l'art. 39, L. n.
724 del 1994 (8).
La sanatoria di abusi edilizi: ammissibilità
Il TAR Piemonte, del resto, già in altra occasione (9) ha sostenuto che il conseguimento della sa(6) V., in questo senso, Cons. Stato, sez. IV, 17 settembre
2012, n. 4923, in Riv. Giur. Edil., 2012, 5, I, 1140. Nell'ipotesi in
cui il permesso di costruire sia stato annullato in sede giurisdizionale a causa di vizi emendabili e, quindi, fuori dei casi di divieto assoluto di edificazione, l'effetto conformativo, che discende dal decisum di annullamento, non comporta affatto
per il Comune l'obbligo sempre e comunque di disporre la demolizione di quanto realizzato sulla base del titolo annullato,
ma è circoscritto al divieto, in caso di adozione di un nuovo titolo edilizio, di riprodurre i medesimi vizi (formali o sostanziali
che siano) che detto titolo avevano connotato: tanto evincendosi anche dall'art. 38, D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, che disciplina proprio la sorte delle opere realizzate sulla base di un permesso di costruire poi annullato (Così T.A.R. Liguria, Genova,
sez. I, 12 marzo 2013, n. 476, in Foro Amm. TAR, 2013, 3,
802).
(7) Cfr., sul punto, Cons. Stato, sez. IV, 2 novembre 2010,
n. 7731, in Riv. Giur. Edil., 2011, 1, 118.
(8) In questi termini, più di recente, Cons. Stato, sez. IV, 12
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natoria di abusi edilizi non trova ostacolo nella esistenza di provvedimenti sanzionatori, anche se
adottati in seguito a giudizio di ottemperanza, per
cui non può essere considerato ostativo all'ottenimento della sanatoria un ordine di demolizione
emanato per ottemperare al giudicato formatosi
sulla decisione di annullamento della concessione
edilizia stessa.
Poiché, però, da un lato si hanno i diritti dei terzi, che costituiscono un ostacolo assoluto al titolo
abilitativo in sanatoria, dall'altro, non necessariamente l’esistenza di un ordine di demolizione, anche successivo al giudicato, costituisce una preclusione assoluta, si deve ritenere, per conciliare tali
aspetti, che il giudicato non possa mai essere superato quando la sentenza costituisca proprio lo strumento di tutela con il quale i terzi, i cui diritti sono fatti salvi, abbiano fatto valere le loro posizioni.
Il Comune, di conseguenza, è legittimato a rilasciare il permesso di costruire in sanatoria, ma l'eventuale regolarizzazione delle opere abusive può
avvenire soltanto nel rispetto delle norme e dei
procedimenti individuati dalla legge a seguito di
un assenso esplicito del proprietario confinante ovvero per effetto dell’applicazione dell’art. 38,
D.P.R. n. 380 del 2001, nella parte in cui prescrive
che, in caso di annullamento del permesso di costruire, qualora non sia possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione dei vizi delle procedure
amministrative o la restituzione in pristino, il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale applica una sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere o loro parti abusivamente
eseguite, valutato dall'agenzia del territorio, anche
sulla base di accordi stipulati tra quest'ultima e
l'amministrazione comunale, il cui pagamento promaggio 2014, n. 2398 cit. secondo cui, in difetto di una
espressa previsione legislativa, la posizione di colui che abbia
realizzato l'opera sulla base di un titolo annullato non si differenzia dagli altri soggetti che hanno invece realizzato l'opera
abusiva senza titolo. V. anche Cons. Stato, sez. IV, 10 agosto
2011, n. 4770, in Foro Amm. CdS, 2011, 7-8, 2412, per il quale, ai sensi dell'art. 21-nonies, L. 7 agosto 1990 n. 241, l'esercizio del potere di autotutela e, quindi, il concreto provvedimento di ufficio adottato dall'amministrazione, richiede che quest'ultima, oltre ad accertare entro un termine ragionevole l'illegittimità dell'atto (nella specie di rilascio del permesso di costruire), debba altresì valutare la sussistenza di un interesse
pubblico all'annullamento, attuale e prevalente sulle posizioni
giuridiche private costituitesi e consolidatesi medio tempore,
dovendosi in particolare escludere che tale interesse pubblico
possa consistere nel mero ripristino della legalità violata.
(9) Il riferimento è a T.A.R. Piemonte, sez. II, 8 maggio
2012, n. 510, in Foro Amm. TAR, 2012, 5, 1468.
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duce i medesimi effetti del permesso di costruire in
sanatoria di cui all'art. 36 stesso decreto (10).
Gli obblighi dell’amministrazione in sede di
ottemperanza …
In sede di ottemperanza al giudicato, secondo un
principio pacificamente accolto in giurisprudenza,
l'amministrazione è tenuta non solo a uniformarsi
alle indicazioni rese dal giudice, e a determinarsi
secondo i limiti imposti dalla rilevanza sostanziale
della posizione soggettiva azionata e consolidata in
sentenza, ma anche a prendere in esame la situazione controversa nella sua complessiva estensione,
valutando, non soltanto i profili oggetto della decisione del giudice, ma pure quelli comunque rilevanti per provvedere definitivamente sull'oggetto
della pretesa, all'evidente scopo di evitare ogni
possibile elusione del giudicato (11).
Nel caso di specie, dunque, persistendo l'obbligo
del Comune di ottemperare integralmente al giudicato, il TAR Piemonte ha ordinato ai controinteressati la demolizione/rimessione in pristino dell'intera opera abusiva oggetto della concessione edilizia in sanatoria, ovvero, qualora non sia possibile,
in base a motivata valutazione, la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la restituzione
(10) Si segnala, al riguardo, T.A.R. Liguria, Genova, sez. I,
18 febbraio 2014, n. 282 secondo cui, l'individuazione dei casi
di impossibilità ai sensi dell'art. 38 T.U. edilizia in tema di conseguenze di annullamento di titolo edilizio, non può arrestarsi
alla mera impossibilità (o grave difficoltà) tecnica, potendo anche trovare considerazione ragioni di equità o al limite di opportunità. Al riguardo, la demolizione può essere considerata
quale extrema ratio, dovendo privilegiarsi, ogni volta che ciò
sia possibile, la riedizione del permesso di costruire emendato
dai vizi riscontrati. Infatti, l'art. 38 cit. rappresenta “speciale
norma di favore” che differenzia sensibilmente la posizione di
colui che abbia realizzato l'opera abusiva sulla base di titolo
annullato rispetto a coloro che hanno realizzato opere pari-
1224
in pristino, attraverso l'emanazione da parte del dirigente o del responsabile del competente ufficio
comunale di un atto di applicazione di una sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere o
loro parti abusivamente eseguite, valutato dall'agenzia del territorio, anche sulla base di accordi stipulati tra quest'ultima e l'amministrazione comunale.
… e la tutela del privato
I giudici amministrativi concludono con una
fondamentale precisazione: in caso di mancata demolizione, al fine di tutelare la situazione giuridica
lesa del proprietario confinante (ricorrente in sede
di ottemperanza), il Comune - per attuare un reale
contemperamento degli interessi in gioco - contestualmente alla determinazione della sanzione pecuniaria deve corrispondere, a titolo di risarcimento del danno (ex art. 114, comma 4, lett. e c.p.a.),
una somma di denaro a ristoro del pregiudizio subito dalla esecuzione delle opere abusive e correlata
alla perdita di valore dell’immobile di proprietà
dello stesso, con rivalutazione monetaria ed interessi dalla data di esecuzione delle opere al soddisfo.
menti abusive senza alcun titolo, tutelando l'affidamento del
privato che ha avviato i lavori in base a titolo ottenuto.
(11) Conseguentemente, l'atto emanato dall'amministrazione, dopo l'annullamento in sede giurisdizionale di un provvedimento illegittimo, può considerarsi adottato in violazione o elusione del giudicato solo quando da esso derivi un obbligo talmente puntuale che l'ottemperanza si concreta nell'adozione
di un atto il cui contenuto è integralmente desumibile nei suoi
tratti essenziali dalla sentenza (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 21
maggio 2010, n. 3223, in Foro Amm. CdS, 2010, 5, 1026;
T.A.R. Piemonte, Torino, sez. I, 8 aprile 2011, n. 365, in Foro
Amm. TAR, 2011, 4, 1152; T.A.R. Piemonte, sez. II, 8 maggio
2012, n. 510, cit.).
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Convenzioni Consip
La compatibilità comunitaria
della proroga ex lege delle
convenzioni Consip
T.A.R. ABRUZZO, L’AQUILA, sez. I, 5 giugno 2014, n. 515 – Pres. f.f. Passoni – Est. Gizzi – Elettrobiomedicale c. Asl01 Avezzano/Sulmona/L’Aquila e Hospital Consulting s.p.a.
È consentito ricorrere ad una procedura negoziata, con o senza pubblicazione del bando di gara, solo nei casi
espressamente individuati dagli art. 30 e 31 della direttiva.
Nella fattispecie in questione il citato, comma 1, n. 4, lett. b) consente il rinnovo dell’affidamento ricorrendo
alla procedura negoziata solo quando ricorrono le condizioni ivi indicate tra le quali rileva che la possibilità di
rinnovo sia indicato “sin dall’avvio del confronto competitivo” e l’importo totale previsto per la prosecuzione
sia individuato nel bando.
Il rinnovo operato ex lege dalla convenzioni della Consip si pone pertanto in violazione del diritto comunitario.
CONSIGLIO DI STATO, sez. III, 27 marzo 2014, n. 1486 – Pres. Lignani – Est. Corradino – Hospital Consulting s.p.a- Elettrobiomedicale c. Asl07 Carbonia
È consentito ricorrere ad un procedura negoziata, con o senza pubblicazione del bando di gara, solo nei casi
espressamente individuati dagli artt. 30 e 31 della direttiva.
Il rinnovo operato ex lege dalle convenzioni della Consip si pone pertanto in violazione del diritto comunitario.
Né la natura transitoria della norma né tanto meno la finalità di risparmio per le finanze pubbliche in periodo
di necessaria “spending review” consentono la violazione della normativa comunitaria e la connessa distorsione delle regole concorrenziali.
T.A.R. ABRUZZO, PESCARA, 5 aprile 2013, n. 197 – Pres. Eliantonio – Est. Balloriani – Elettrobiomedicale c. Asl02Lanciano/Vasto/Chieti e Hospital Consulting s.p.a.
L’art. 15 ai commi 12 e 13 ha dettato disposizioni speciali con riguardo ai contratti di fornitura di beni e servizi
degli enti del SSN, e di tali disposizioni dovranno presumibilmente tener conto anche le centrali uniche di
committenza nella stipula dei futuri contratti.
In ogni caso, la previsione, in via interpretativa, dell’efficacia anche nei confronti degli enti del SSN della proroga dei contratti delle centrali di committenza, già stipulati prima dell’entrata in vigore di tali disposizioni e
quindi senza tener conto di tali nuovi parametri, finirebbe per obbligare anche tali enti ad aderirvi, con l’effetto di posticipare l’applicazione delle disposizioni di cui all’art. 15 commi 12 e 13.
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IL COMMENTO
di Alessandro F. Di Sciascio (*)
Le sentenze in commento costituiscono i leading cases della giurisprudenza amministrativa italiana circa
l’applicazione e la prevalenza del diritto comunitario in materia di contratti pubblici, a seguito dell’introduzione delle misure legislative nazionali in tema di proroga delle convenzioni Consip. Dal percorso ricostruttivo della trattazione (con l’analisi dei casi giurisprudenziali) emerge che il mercato e la concorrenza
trovano tutela piena nell’ordinamento giuridico nazionale a discapito delle misure previste per il risparmio
di spesa. L’autore chiude il percorso argomentativo con la constatazione dell’ormai prevalenza del diritto
comunitario (almeno in materia di contratti pubblici) soffermandosi sull’idea che le misure introdotte dal
legislatore nazionale in quanto misure temporanee e frammentate, non possono rappresentare strumenti
di sistema utili all’intero ordinamento giuridico ed ai consociati medesimi.
Il casus belli
Le sentenze, oggetto delle presente riflessioni,
hanno come casus belli dei giudizi instaurati i medesimi fatti: l’affidamento diretto senza gara, da parte
di più aziende sanitarie locali in più regioni, dei servizi per la gestione delle apparecchiature elettromedicali mediante l’adesione alla Convenzione della
Consip s.p.a. di cui all’art. 26 della L. n. 488 del
1999 (SIGAE 3) (1), prorogata ex lege dall’art. 2
commi 15 e 16 del D.L. n. 95 del 2012 (2). Tale
adesione alla Convenzione Consip s.p.a. è stata sottoposta al vaglio del sindacato del giudice amministrativo (3), in quanto il comma 23 dell’art. 1 del
D.L. n. 95 del 2012 esclude gli enti del servizio sanitario nazionale dalla possibilità di ricorrere alle Convenzioni prorogate ai sensi dei commi 15 e 16 del
medesimo articolo 1 (4). L’adesione al dettato normativo da parte delle pubbliche amministrazioni, secondo la ricostruzione portata all’attenzione dei giudici amministrativi ha violato le norme inderogabili
(*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla
valutazione di un referee.
(1) Consip s.p.a. - Convenzione Sigae 3, Gara a procedura
aperta ai sensi del D.Lgs. 163/2006 e s.m.i. per la prestazione
di servizi integrati per la gestione delle apparecchiature elettromedicali per le pubbliche Amministrazioni nei territori di Umbria, Marche, Abruzzo, Lazio, Campania e Sardegna.
La L. n. 488 del 23 dicembre 1999 all’art. 26 è rubricato
“Acquisto beni e servizi” e prevede al primo comma che “Il ministero del tesoro … stipula convenzioni con le quali l’impresa
prescelta si impegna ad accettare, sino a concorrenza della
quantità massima complessiva stabilita dalla convenzione ed
ai prezzi e condizioni ivi previsti, ordinativi di fornitura di beni e
servizi deliberati dalle amministrazioni dello Stato anche con il
ricorso alla locazione finanziaria”.
(2) Il D.L. n. 95 del 2012 prevede all’art. 1 commi 15 e 16
che “le quantità ovvero gli importi massimi complessivi ivi previsti sono incrementati in misura pari alla quantità ovvero all’importo originario, a decorrere dalla data di esaurimento delle
convenzioni stesse … la durata delle convenzioni di cui al precedente comma 15 è prorogata fino al 30 giugno 2013”, a decorrere dalla data di esaurimento della convenzione originaria
e solo se a tale data non sia già intervenuta da parte delle me-
1226
del diritto comunitario (con particolare riferimento
agli artt. 28, 31 e 32 della direttiva 2004/18/CE) (5)
sul presupposto che le norme interne andavano disapplicate così come previsto da una serie di precedenti giurisprudenziali noti. In particolare, nel caso
di specie ha trovato applicazione il principio di necessaria ed immediata disapplicazione da parte del
giudice nazionale delle norme interne sulla spending
review in relazione alla proroga della Convenzione
in contrasto con il diritto comunitario.
La disapplicazione del diritto nazionale trova il
suo leading case nella sentenza del 9 marzo 1978
della Corte di Giustizia Unione europea, in causa
C-106/77, Simmenthal/Amministrazione delle finanze
dello Stato (6).
La Consip s.p.a e gli accordi quadro (e/o
convenzioni)
Dall’analisi delle parti in fatto delle sentenze
emerge che il giudicante ha fatto un breve excurdesima centrale di committenza la pubblicazione di una procedura di gara per la stipula di una convenzione avente prodotti
o servizi analoghi!”. Tali commi sono stati sostituiti e modificati
dalla legge di conversione del D.L. 7 agosto 2012, n. 135.
(3) Le Aziende Sanitarie Locali che hanno aderito sono
quelle di: Carbonia, Lanciano-Vasto-Chieti, Avezzano-Sulmona-L’Aquila.
(4) Il D.L. 6 luglio 2012, n. 95 rubricato “Disposizioni urgenti
per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi
ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle
imprese del settore bancario” prevede all’art. 1 comma 23
(comma modificato dalla legge di conversione del decreto)
che “Agli enti del servizio sanitario nazionale non si applicano
le disposizioni di cui al presente articolo, salvo quanto previsto
dal comma 24”.
(5) Al riguardo si vedano R. Garofoli, Il nuovo testo unico europeo degli appalti pubblici (direttiva 2004/18/Ce del 31 marzo
2014). Le principali novità e le persistenti lacune regolamentari,
in Servizi Pubblici e Appalti, 2004, 3, 653-667.
(6) Sulla incidenza interna del diritto comunitario in materia
di appalti pubblici vedasi Cons. Stato, sez. V, del 8 novembre
2011, n. 5686, in Foro Amm. CdS, 2012, 11, 2883 ss.
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sus sull’istituzione e sulla ratio della creazione della
Consip s.p.a., così da giustificare, da un lato la
scelta delle Aziende Sanitare Locali e, dall’altro
verificare le illegittimità segnalate dai ricorrenti.
Secondo la ricostruzione dei giudici amministrativi l’interesse comunitario per i modelli organizzativi centralizzati di acquisto di beni e servizi prende
piede dalla necessità di andare oltre la frammentazione della gestione degli appalti pubblici, abbattendo i costi sostenuti per le procedure ad evidenza
pubblica – in particolare per le amministrazioni
più piccole – e allo stesso tempo, favorendo un
maggiore sviluppo di professionalità da parte delle
stazioni appaltanti nella fase di aggiudicazione o
negoziazione. Un ulteriore fine voluto dal legislatore comunitario è quello di creare azioni combinate
e diverse da parte di molteplici pubbliche amministrazioni nell’attivazione delle procedure per l’acquisizione di beni e/o servizi di comune necessità
ed abbattere i costi delle procedure europee.
La Consip s.p.a. è una tipica centrale di committenza (7), quest’ultima prevista dall’art. 33 del codice dei contratti (8). La centralizzazione degli acquisti ha la capacità di ridurre il numero di entità
organizzative coinvolte nell’esercizio della funzione
amministrativa (9), e ridurre il costo del controllo
sulla regolarità formale delle procedure sviluppando efficaci controlli interni (10).
Il D.M. 24 febbraio 2000, emanato sulla base
dell’art. 26 della L. 23 dicembre 1999 (la legge finanziaria per il 2000) statuisce l’affidamento alla
Consip s.p.a. (società pubblica interamente statale)
del compito di stipulare convenzioni ed accordi
quadro per l’acquisto di beni e servizi per conto
delle amministrazioni dello Stato e, in virtù dell’art. 24 della L. 28 dicembre 2001 (legge finanziaria per il 2002), anche per gli enti territoriali. Si
aggiunga, inoltre, che secondo parte della dottrina
la Consip s.p.a. è stata introdotta in vista anche
dell’adozione dell’euro (11). Da ultimo l’utilizzo di
Consip s.p.a. e delle altre centrali di committenza
è stato favorito (dal legislatore) come strumento di
lotta alla corruzione (12).
Il meccanismo di funzionamento degli acquisti
di beni e servizi mediante Consip s.p.a è relativamente semplice (13).
Le amministrazioni, infatti, aderiscono ad un
“accordo quadro e/o convenzione” (14) di tipo pubblicistico stipulato da Consip s.p.a. (e/o altra centrale di committenza) attraverso le quali le amministrazioni medesime possono acquisire determinati
beni, prodotti dalle imprese che si sono obbligate a
(7) Sulle centrali di committenza si rinvia, tra gli altri, a R.
Caranta, Le centrali di committenza, in Trattato sui contratti pubblici. I principi generali. I contratti pubblici. I soggetti a cura di
M. A. Sandulli - R. De Nictolis - R. Garofoli, Milano, 2008, 607622. Sempre di R. Caranta, sul modello Consip si rinvia a I
contratti Pubblici, Torino, 2004, 174 ss.
(8) Il D.L. 24 aprile 2014, n. 66, convertito in legge n. 95 del
23 giugno 2014 all’art. 9 prevede l’elenco dei soggetti aggregatori di cui fanno parte Consip s.p.a. e una centrale di committenza per ciascuna Regione, qualora costituita ai sensi dell’art. 1, comma 455, L. n. 296 del 2006.
A titolo esemplificativo tra i vari commenti alla normativa si
vada C. Iaione, L’ambito oggettivo e soggettivo (artt. 3; 28-33;
14-15; 53), in Commentario al Codice dei Contratti Pubblici, a
cura di M. Clarich, Torino, 2010, 204-276, in particolare 262265.
(9) Gli scritti sulla funzione sono innumerevoli si rinvia a titolo esemplificativo a F. Modugno, Funzione ad vocem, in Enc.
Dir., Vol. XVIII, Milano, 1969, 301 ss.; F. Benvenuti, Funzione
amministrativa, procedimento, processo in Riv. Trim. Dir.
Pubbl., 1952, 1, 118 ss., G. Marongiu, Funzione amministrativa, in La democrazia come problema, I. Diritto, amministrazione
ed economia, Tomo, II, Bologna, 1994, 301 ss., M. S, Giannini,
In principio sono le funzioni, in Scritti, Vol. IV, Milano, 2004,
721 ss.; G. Napolitano, Funzioni amministrative, in Dizionario di
diritto pubblico, diretto da S. Cassese, Vol. III, Milano, 2006,
2631 ss.
(10) F. Di Lascio, La centralizzazione degli appalti, la spending review e l’autonomia organizzativa locale, in Giorn. Dir.
Amm., 2014, 2, 205-219. In particolare l’autrice ritiene che “in
ambito europeo la disciplina delle contrali di committenza mira
prevalentemente all’obiettivo di promuovere la concorrenza tra
le imprese e che, invece nel diritto italiano appare preponderante la finalità di limitare la spesa pubblica, ciò anche al prezzo di condizionare fortemente il potere di autorganizzazione
degli enti locali”, 205.
(11) Così G. Piga, E pluribus unum? Una valutazione dell’esperienza Consip s.p.a. in L’industria, 2009, 2, 225-243 in particolare 243. Lo stesso autore ritiene che le frequenti modifiche
apportate alla normativa riguardante Consip sono un segno
evidente dell’impatto pervasivo delle centrali di committenza,
228.
(12) R. Garofoli, Politiche di prevenzione della corruzione e
crisi finanziaria, politica e istituzionale, in www.giustamm.it, L.
Giampaolino, La prevenzione della corruzione, in www.giustamm.it; C. E Gallo, Legge anticorruzione e funzione amministrativa, in www.giustamm.it. Si veda sullo stato attuale dell’attuazione della normativa anticorruzione, Il Rapporto sul primo anno di attuazione della legge n. 190/2012, a cura dell’autorità
Anti corruzione e la trasparenza delle pubbliche amministrazioni, pubblicata sul sito istituzionale www.anac.it.
(13) Al riguardo si veda E. Pintus, Il procurement nelle aziende sanitarie pubbliche, in www.astridonline.it e la Relazione sui
fabbisogni annuali di beni e servizi delle P.A. e sui risparmi conseguiti con il sistema delle Convenzioni Consip L. 244/2007, art.
2, cc. 569-574, allegata al Documento di economia e finanza
2014 reperibile in rete sul sito www.mef.gov.it.
(14) Secondo alcuni la convenzione è da inquadrarsi nell’istituto di cui all’art. 11 della legge generale sull’azione amministrativa. Il riferimento è a F. M. Nicosia, “Modello Consip” tra
Stato e Mercato (Lineamenti e prospettive evolutive), in Riv. It.
Dir. Pubbl. Comunit., 2002, 4, 711-739 ss. Sull’accordo sostitutivo il provvedimento amministrativo e più in generale sul procedimento amministrativo si vedano, ex multis, V. Cerulli Irelli
a cura di, La disciplina generale dell’azione amministrativa, Napoli, 2006; N. Paolantonio - A. Police - A. Zito, a cura di, La
pubblica amministrazione e la sua azione, Torino, 2005; M. Renna - F. Saitta, a cura di, Studi sui principi del diritto amministrativo, Milano, 2012.
Urbanistica e appalti 11/2014
1227
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stipulare contratti di fornitura di beni e servizi a
determinati prezzi e condizioni. L’utilizzo dell’accordo quadro può essere uno stimolo per l’innovazione delle imprese aggiudicatrici per il mercato di
riferimento (come nel settore della fornitura e della gestione delle apparecchiature elettromedicali) e
le decisioni assunte dalle centrali di committenza
sono in grado di incidere anche sulle decisioni e
scelte che devono essere assunte da amministrazioni minori (15). Si aggiunga, inoltre, che secondo i
giudici di Palazzo Spada, “l’adesione delle amministrazioni pubbliche alle convenzioni non integra
un obbligo di individuare il miglior contraente mediante le procedure ad evidenza pubblica poiché
nel sistema centralizzato di acquisti il confronto
comparativo è assicurato dalla centrale di committenza Consip s.p.a.” (16).
Come le centrali di committenza anche l’accordo quadro trova fondamento positivo nell’ordinamento comunitario (17) e precisamente negli artt.
32 e 1 comma 5 della direttiva 2004/18/CE. Infatti
le Convenzioni (e/o accordo quadro) sono il frutto
di una riforma del sistema comunitario dei contratti pubblici che ha avuto un iter assai complesso per
tener conto delle implicazioni e delle dinamiche
sul mercato e sulla concorrenza a livello regionale,
nazionale e comunitario.
È di palese evidenza che l’utilizzo di tali convenzioni, come si specificherà nel corso della trattazione, presenta alcuni profili problematici.
In particolare la volontà del legislatore di prorogare le convenzioni circa il quantum di prestazioni
disponibili acquistabili per un corrispettivo può
danneggiare il mercato e la concorrenza, in quanto
viene meno la gara pubblica (per aggiudicare il servizio e/o la fornitura) presupposto di tutta la nor-
mativa nazionale e comunitaria in materia di contratti pubblici. Si tratta infatti di un sistema di acquisto, così come stabilito dal legislatore, che comporta il blocco del mercato di riferimento per un
determinato periodo di tempo a beneficio dell’operatore economico che ne risulta aggiudicatario (18).
(15) G. M. Racca, La professionalità nei contratti pubblici della sanità: centrali di committenza ed accordo quadro, in Foro
Amm. TAR, 2010, 7-8, 1744 ss.
(16) Cons. Stato, sez. V, 22 marzo 2005, n. 1192 e più recentemente ed in senso conforme T.A.R. Lombardia, Brescia,
sez. II, 5 novembre 2009, n. 1920.
(17) Secondo parte della dottrina la normativa comunitaria
lascia ampio spazio ai singoli Paesi membri dell’Unione circa il
modello organizzativo da adottare per la centrale di committenza, C. Malinconico Commento all’art. 33. Appalti pubblici e accordi quadro stipulati dalle centrali di committenza, in Commentario al Codice dei contratti pubblici, a cura di G. F. Ferrari e G.
Morbidelli, Milano, 2013, 431-445, in particolare 435-436.
(18) Per un’analisi giuridica del mercato si rinvia A. Zito, la
voce mercati (Regolazione dei), in Enc. Dir., Annali III, Milano,
2010 850 ss. e F. G. Scoca, Giudice amministrativo ed esigenze
del mercato in Dir. Amm., 2008, 2, 257 ss.
(19) Al riguardo vedasi R. Spagnuolo Vigorita, Politiche pubbliche del servizio sanitario. Profili giuridici, Napoli, 2003; C. Bottari, Tutela della salute ed organizzazione sanitaria, Torino,
2009; F. Liguori - A. Zoppoli, a cura di, La sanità flessibile, Na-
poli, 2011; C. Bottari, a cura di, Terzo settore e servizi socio-sanitari: tra gare pubbliche e accreditamento, Torino, 2013.
(20) Così G. M. Racca, La professionalità nei contratti pubblici della sanità: centrali di committenza e accordi quadro, in Foro
Amm. CdS, 2010, 7-8, 1727 ss.
(21) Sui diritti sociali e sulle problematiche connesse si rinvia, tra gli altri, a A. Giorgis, Diritti sociali (ad vocem), in Dizionario di diritto pubblico, a cura di S. Cassese, vol. III, Milano,
2006, 1903-1915; B. Pezzini, La decisione sui diritti sociali, Milano, 2001. Sullo stato sociale e sulla sua evoluzione si vedano
L. Torchia, Welfare e federalismo, Bologna, 2005; G. Vittadini,
Liberi di scegliere. Dal welfare state alla welfare society, Milano,
2002.
(22) Per un commento delle disposizioni normative relative
alla spesa pubblica circa l’approvvigionamento di beni e servizi
si veda S. Fantini, Le Novità della Spendig Review, in questa
Rivista, 2012, 11, 1115 ss. Al riguardo si veda la sentenza
T.A.R. Lazio, Roma, sez. III-quater, 12 luglio 2012, n. 6393 riportata da A. Piazza, Commento all’art. 33 D.Lgs. 163/2006, in
Codice degli Appalti Pubblici, A. Cancrini - C. Franchini - S. Vinti
a cura di, Torino, 2014, 208-212, nella cui massima i giudici
1228
Le norme della spending review e
l’adesione (obbligatoria) alle convenzioni
Consip (prorogate ex lege)
La necessità di risparmiare sulla spesa pubblica
ed il perseguimento di livelli ottimali di efficienza
dell’azione amministrativa hanno richiesto e richiedono l’elaborazione di politiche nazionali (19),
regionali per le aziende sanitarie e ospedaliere (e
per tutte le altre amministrazioni dello Stato) volte
all’individuazione di strategie di acquisto di beni e
servizi alle migliori condizioni di mercato (20). La
creazione di nuove strategie per lo sviluppo trova il
fondamento anche (e soprattutto) nella revisione
della spesa pubblica che è finalizzata al contenimento (e riduzione) della medesima, cercando di
garantire i livelli essenziali di assistenza e le prestazioni idonee al mantenimento dello stato sociale
attuale (21).
Alla luce di ciò successivamente all’entrata in
vigore del D.L. 6 luglio 2012 n. 95 (cd. spending review) e della L. 24 dicembre 2012 n. 228 (legge di
stabilità 2013) sono state introdotte incisive disposizioni in tema di razionalizzazione degli approvvigionamenti di beni e servizi con l’obbligo di reperirli mediante Consip s.p.a. le cui convenzioni quadro sono divenute parametro ineludibile delle gare
da parte delle singole stazioni appaltanti (22). Nel
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caso sottoposto all’odierna analisi, il legislatore ha
previsto l’estensione della convenzione bloccando
il mercato di riferimento (quello della fornitura e
della gestione delle apparecchiature elettromedicali) per i successivi quattro anni (per importi significativi) in quanto, seppur l’estensione sia limitata
nel tempo, la durata dei contratti di erogazione dei
servizi di ingegneria clinica oggetto degli ordinativi
(secondo la ricostruzione portata all’attenzione del
giudicante) è per lo meno triennale sulla base anche del presupposto normativo (di cui all’art. 1
comma 12 del D.L. n. 95 del 6 luglio 2012) che
“agli enti del servizio sanitario nazionale non si applicano le disposizioni di cui al presente articolo,
salvo quanto previsto al comma 24”.
Il contrasto tra TAR e Consiglio di Stato
sulle applicabilità delle disposizioni
dell’adesione alla convenzione Consip di
cui alla Spending Review alle ASL
Le norme di cui in commento sono disposizioni
in materia di spesa e quindi si fondano su scrupolosi calcoli in ordine alle conseguenze contabili delle
varie previsioni.
Contrariamente a quanto intuitivamente si potrebbe pensare, però il giudice amministrativo ha
seguito due interpretazioni diverse circa l’ambito di
applicazione di tale normativa.
Il giudice di prime cure (il TAR Abruzzo Pescara
nella sentenza 197 del 9 aprile 2013 (23)) ha seguito un’interpretazione strettamente letterale e. pertanto, ha ritenuto di non applicare la normativa di
cui in oggetto alle Aziende Sanitarie Locali in
quanto, la previsione dell’efficacia anche nei confronti degli enti del Servizio Sanitario Nazionale
della proroga dei contratti delle centrali di committenza (già stipulati prima dell’entrata in vigore
di tali disposizioni finirebbe per obbligare anche tali questi ultimi enti ad aderirvi) con l’effetto di posticipare di fatto l’applicazione delle disposizioni di
cui all’15 commi 12 e 13 del D.L. n. 95 del 6 luglio
2012.
amministrativi hanno stabilito che “in materia di contratti della
p.a. laddove l’amministrazione abbia deciso di aderire alle convenzioni Consip riguardo alle modalità di fornitura non può più
modificare, sulla base dei principi consolidati che regolano l'affidamento di appalti pubblici, le condizioni contrattuali. Pertanto deve considerarsi illegittimo un affidamento che esorbiti il
perimetro di dette convenzioni”.
(23) In senso conforme anche T.A.R. Lazio, Roma, sez. III,
1° marzo 2013, n. 2260. I giudici amministrativi ritengono che
le aziende sanitarie non sono tra i soggetti obbligati ad aderire
a Consip, ma non escludono la possibilità di tali soggetti di
Urbanistica e appalti 11/2014
Al contrario i giudici di Palazzo Spada hanno ritenuto, con la sentenza n. 1486 del 27 marzo 2014
che la normativa nazionale impone anche alle
Amministrazioni Sanitarie Locali di ricorrere alla
convenzioni Consip. Tale obbligo discende dall’art.
15 comma 13 lett. d) del D.Lgs. 6 luglio 2012 n.
95 convertito in legge 7 agosto 2012, n. 135. La
norma prevede per “… gli enti del servizio sanitario nazionale ovvero, per essi ... utilizzano, per l’acquisto di beni e servizi relative alle categorie merceologiche presenti nella piattaforma Consip, gli
strumenti di acquisto e negoziazione telematici
messi a disposizione dalla stessa Consip ... I contatti stipulati in violazione di quanto disposto dalla
presente lettera sono nulli, costituiscono illecito
disciplinare e sono causa di responsabilità amministrativa”. L’applicazione di tale norma non è esclusa dall’art. 1 comma 23 del medesimo decreto legge
benché sia statuito che “agli enti del servizio sanitario nazionale non si applicano le disposizioni di
cui al presente articolo” in quanto tale comma deve essere letto in combinato disposto con l’art. 15
comma 13 lett. d) che impone, appunto, un obbligo generalizzato anche per il Servizio Sanitario Nazionale di utilizzare gli strumenti di acquisto e negoziazione messi a disposizione da Consip s.p.a.
mentre al comma 23 dell’art. 1 va attribuito il solo
scopo di escludere l’applicazione del medesimo articolo agli enti del servizio sanitario nazionale giacché materia disciplinata dal successivo art. 15 (24).
A parere di chi scrive è preferibile la strada seguita
dai giudici di Palazzo Spada in quanto l’interpretazione sistematica della normativa permette di meglio comprendere le implicazioni e le interferenze
della normativa statale (e le eventuali violazioni)
del diritto comunitario circa i profili della tutela
della concorrenza e del mercato. È di palese evidenza, infatti, che le violazioni del diritto comunitario in materia di appalti pubblici e relative proroghe contrattuali necessariamente interessano tutte
le pubbliche amministrazioni in senso ampio. Si
aggiunga che la normativa sul risparmio di spesa
aderirvi sulla base del presupposto che nel sistema centralizzato di acquisti il meccanismo del confronto comparativo è assicurato dalla stazione appaltante Consip che gestisce una procedura di gare ed individua il soggetto affidatario, al quale gli
altri enti potranno rivolgersi per ottenere prestazioni oggetto
dell’impegno negoziale assunto.
(24) L’art. 15 è dedicato espressamente alla spesa degli enti del SSN, ed è rubricato “Disposizioni urgenti per l’equilibrio
del settore sanitario e misure di governo della spesa farmaceutica”.
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coinvolge tutte le organizzazioni e strutture del sistema Paese.
Da ultimo, inoltre, come giustamente evidenziato dai Giudici del Consiglio di Stato la non adesione da parte di tutte le pubbliche amministrazione
alla convenzione Consip (per l’approvvigionamento di beni e servizi) costituisce per il dipendente
pubblico illecito disciplinare ed è causa di responsabilità amministrativa (25). Anche in questo caso
il giudice amministrativo ha rilevato che sia gli illeciti disciplinari sia la responsabilità amministrativa interessano il personale di tutti gli enti e pubbliche amministrazioni, a prescindere dell’appartenenza ad una determinata struttura organizzativa.
Il rinnovo ex lege delle convenzioni Consip
e la violazione degli artt. 28 e 31 della
direttiva 2004/18/CE
I giudici amministrativi di prime cure e di Palazzo Spada hanno rilevato in maniera chiara ed univoca che le disposizioni di cui al decreto legge n.
95 del 6 luglio 2012 in particolare all’art. 1 nella
parte in cui dispone “le quantità ovvero gli importi
massimi complessivi delle convenzioni Consip sono incrementati in misura pari alla quantità ovvero
all’importo originario, a decorrere dalla data di
esaurimento della stessa, ove questa non intervenga prima del 31 dicembre 2012” e che “la durata
delle convenzioni di cui al precedente comma 15 è
prorogata fino al 30 giugno 2013 , a decorrere dalla
data di esaurimento della presente convenzione”
contrastano con il diritto comunitario e pertanto,
vanno disapplicate
La normativa nazionale sul risparmio di spesa
viola infatti gli artt. 28 e 31 della direttiva
2004/18 CE, che precludono la possibilità di affidare contratti pubblici senza procedure di gara ad evi(25) Sulla responsabilità amministrativa e danno alla concorrenza si veda R. Dipace, Il danno alla concorrenza tra giudice amministrativo e contabile, in F. G. Scoca, A. F. Di Sciascio
a cura di, Le linee evolutive della responsabilità amministrativa e
del suo processo, Napoli, 2014, 159 ss. L’autore ritiene che il
danno alla concorrenza stia divenendo un’ipotesi di danno residuale in quanto vi è stretta dipendenza con il fenomeno corruttivo dei pubblici dipendenti e non può essere computato come ulteriore rispetto a quello che si assume conseguente alla
traslazione di compensi corruttivi nei corrispettivi degli appalti,
171.
(26) Sui profili di responsabilità delle amministrazioni per
violazione del diritto comunitario si veda A. Bartolini, La responsabilità delle amministrazioni aggiudicatrici e degli enti aggiudicatori per violazione del diritto comunitario degli appalti, in
Responsabilità e concorrenza nel codice dei contratti pubblici, a
cura di G. F. Cartei, Napoli, 2008, 139 ss. Vedasi inoltre, A.
Bartolini, Il risarcimento del danno tra giudice comunitario e giudice amministrativo: la nuova tutela del cd. interesse legittimo,
1230
denza pubblica (26). La direttiva impone agli Stati
di aggiudicare tutte le categorie di appalti pubblici
attraverso l’utilizzo della procedura aperta o ristretta in base a quanto disposto dall’art. 29 della direttiva 2004/18/CE ed esclude l’utilizzo di altre procedure non previste dalla direttiva sul presupposto
comunque, che tale direttiva non è intesa a stabilire un’armonizzazione completa del regime degli appalti pubblici negli Stati membri (27). È possibile,
pertanto, utilizzare una procedura negoziata solo ed
esclusivamente nei casi previsti dagli artt. 31 e 32
della direttiva comunitaria. In particolare le stazioni appaltanti possono evitare la pubblicazione del
bando di gara ed aggiudicare appalti pubblici per
nuovi lavori e servizi quando quest’ultimi “consistono nella ripetizione di lavori o servizi analoghi
già affidati all’operatore economico aggiudicatario
dell’appalto iniziale ... a condizione ... che tali servizi siano conformi a un progetto di base oggetto
di un primo appalto aggiudicato secondo le procedure ad evidenza pubblica aperte o ristrette” (28).
Tale contrasto normativo ha avuto comunque,
come rilevato dal Consiglio di Stato, già un precedente nel nostro ordinamento giuridico a dimostrazione del fatto che da un lato la normativa sugli
appalti è realmente in continua evoluzione, e dall’altro il legislatore italiano sembra preferire il risparmio di spesa pubblica alla tutela del mercato. Il
contrasto con la normativa comunitaria era dato
dall’art. 6 comma 2 della L. n. 537 del 24 dicembre
1993 che permetteva alle stazioni appaltanti, senza
esperire alcuna procedura ad evidenza pubblica, il
rinnovo dei contratti entro tre mesi accertata la
convenienza e le ragioni di pubblico interesse (29).
Tale violazione ha determinato l’apertura di una
procedura di infrazione nei confronti del nostro
Paese che si è chiusa a seguito dell’abrogazione
Torino, 2005. L’autore ritiene che la responsabilità delle autorità nazionali, in particolare di quella amministrativa, può essere
fatta valere quando siano rispettate tre condizioni sostanziali:
l’ordinamento comunitario abbia inteso attribuire diritti ai singoli, la violazione delle norme dirette a conferire tali diritti sia
sufficientemente caratterizzata e, da ultimo, che vi sia un nesso tra la violazione e il danno subito dai singoli, in particolare
142-143.
(27) Al riguardo vedasi la sentenza della Corte di Giustizia
CE, sez. III, 10 dicembre 2009, causa C-29, Commissione Europea c.Repubblica Francese ed particolare, si leggano i punti 28
e 29 della sentenza.
(28) Così l’art. 31 comma 1 n. 4 lett. b) della direttiva
18/2004/CE.
(29) Al riguardo si vedano T.A.R. Sicilia, Catania, sez. II, 22
giugno 2007, n. 1086, in Comuni d’Italia, 2007, 12, II, 4 ss.;
Cons. Stato, sez. IV, 31 ottobre 2006, n. 6458, in Comuni d’Italia, 2008, 7-8, II, 7 ss.
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La pronunce hanno evidenziato, infine, che neppure “la natura transitoria della norma né tanto
meno la finalità di risparmio per le finanze pubbliche in periodo di necessaria spending review consentono la violazione della normativa comunitaria
e la connessa distorsione delle regole concorrenziali” (33) censurando così, implicitamente, il legislatore e le modalità utilizzate (la decretazione d’urgenza) per ridurre la spesa pubblica. In ogni caso,
però anche la riduzione della spesa pubblica è stata
voluta ed imposta dall’Unione Europea.
In particolare, le norme sulla spendig review trovano il fondamento costituzionale nella L. n. 1 del
20 aprile 2012 (34). Con tale legge viene introdotto in Costituzione il principio del pareggio di bilancio. Tale intervento normativo si inserisce nel
ben più ampio processo di revisione delle regole e
delle procedure nazionali di misure adottate a livello europeo per il migliore e più stringente coordinamento delle politiche economiche dei Paesi dell’Unione, con la più forte applicazione del Patto di
Stabilità e crescita e l’introduzione di requisiti comuni per i quadri di bilancio nazionali (35).
La nuova disciplina costituzionale in materia fiscale introduce, inoltre, l’inserimento di un ulteriore periodo al primo comma dell’art. 97 della Costi-
tuzione che prevede che “le pubbliche amministrazioni, in coerenza con l’Ordinamento dell’Unione
europea assicurano l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico”. Si evidenza che le
norme che hanno dettato la proroga delle convenzioni Consip sono state previste in linea con la legge costituzionale n. 1 del 20 aprile 2012, così da
permettere alla pubbliche amministrazioni che aderivano alle convenzioni di avere costi certi circa i
servizi e le forniture (le prestazioni in senso ampio)
da remunerare e avere, di conseguenza, bilanci
maggiormente in equilibrio, così come richiesto
dall’Ordinamento europeo. Si aggiunga, inoltre,
che nel parere reso sul D.L. n. 95 del 6 luglio 2012
dalla Commissione Parlamentare “Politiche dell’Unione Europea” (36), è stato evidenziato che la revisione della spesa pubblica, è oggetto “di valutazioni e raccomandazioni indirizzate all’Italia dalle
istituzioni dell’Unione nell’ambito del semestre europeo per il coordinamento delle politiche economiche e, più in generale, nel quadro del monitoraggio sulle misure volte al conseguimento degli
obiettivi e parametri di finanza pubblica previsti
dal patto di stabilità”. Nel medesimo parere è stato
evidenziato che la revisione della spesa pubblica “è
oggetto di specifiche indicazioni nelle raccomandazioni ECOFIN del 10 luglio 2012”; e che tali raccomandazioni sono state avallate dal Consiglio dell’Unione Europea il quale, nell’operare una valutazione della situazione macroeconomica e di finanza
pubblica dell’Italia ha rilevato da un lato che “il
governo si è impegnato a perseguire un miglioramento duraturo dell’efficienza e della qualità della
spesa pubblica mediante approfondite revisioni della spesa a tutti i livelli amministrativi” e dall’altro
ha raccomandato all’Italia di “perseguire un miglioramento duraturo dell’efficienza e della qualità della spesa pubblica mediante la spending review”.
(30) La legge è rubricata come “Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle
Comunità europee - Legge Comunitaria 2004”. Per una lucida
analisi della casistica giurisprudenziale prima e dopo l’abrogazione dell’art. 6 comma della L. 24 dicembre 1993, n. 537 si
rinvia a M. G. Roversi Monaco, Rapporti in corso e rinnovazione
nei contratti della p.a. in www.giustizia-amministrativa.it.
(31) Sull’applicazione dell’art. 57 del codice dei contratti
pubblici e sulla possibilità di effettuare proroghe contrattuali si
veda la delibera n. 17 del 13 maggio 2014 della Corte dei Conti
sezione di controllo di legittimità degli atti di governo, e la sentenza del T.A.R. Veneto, sez. I, 14 maggio 2014, n. 633.
(32) Sempre secondo i giudici amministrativi “la proroga
violerebbe anche gli artt. 49 in tema di libertà di stabilimento e
56 TFUE, favorendo i vecchi affidatari a scapito di altri concorrenti e costituendo una illecita restrizione del mercato dei servizi, nonché l’art. 107 potendo costituire un concreto aiuto di
stato”, così nella sentenza del T.A.R. Lazio, Roma, sez. III, 10
aprile 2014, n. 3922.
(33) Cosi Cons. Stato, sez. III, 27 marzo 2014, n. 1486.
(34) Per un primo commento della legge si rinvia C. Deodato, I limiti costituzionali alla spending review ovvero quello che il
Governo (e il Parlamento) possono (e non possono) fare per ridurre la spesa pubblica, in www.giustamm.it.
(35) Le disposizioni europee sono cd. six pack, che si compone delle direttiva 2011/85/UE e dei regolamenti n. 1173,
1174, 1175, 1176, 1177 del 2011.
(36) Sulle politiche dell’Unione europea sia rinvia a S. Cimini - M. D’Orsogna, a cura di, Le politiche comunitarie di coesione economica e sociale. Nuovi strumenti di sviluppo territoriale
in un approccio multidimensionale, Napoli, 2011 e A. F. Di Sciascio, Le politiche europee di coesione sociale tra amministrazione comunitaria e sistema degli enti territoriali. Un’introduzione
critica, Torino, 2014.
espressa della norma in parola ad opera dell’art. 23
comma 1 della L. 18 aprile 2005 n. 62 (30). Pertanto, nell’ordinamento italiano è stato introdotto
il divieto del rinnovo espresso dei contratti pubblici, fatta salva però, la possibilità di applicare le disposizioni di cui all’art. 57 del codice dei contratti
pubblici (31), che prevede ipotesi tassative di procedura in deroga ai principi di apertura del mercato (32).
La prevalenza del mercato e della
concorrenza sul risparmio di spesa
Urbanistica e appalti 11/2014
1231
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Amministrativa
È altrettanto vero però, che l’ordinamento europeo prevede tra le sue “fondamenta” la tutela della
concorrenza e del mercato. Il legislatore nazionale
sembra quasi non trovare l’equilibrio, tra risparmio
di spesa e tutela del mercato e della concorrenza.
Il risparmio di spesa, secondo il giudicante, non
può mortificare il mercato. Le norme di matrice
comunitaria danno prevalenza al mercato ed alla
concorrenza (con il corollario delle quattro libertà
economiche: libera circolazione dei cittadini, delle
merci, dei servizi e dei capitali) poiché, il legislatore comunitario ritiene che solo in un mercato veramente libero vi può essere risparmio di spesa, anche e soprattutto, per le pubbliche amministrazioni (37).
Conclusioni possibili
I giudici amministrativi hanno preso ormai piena coscienza, con le sentenze in commento, dell’influenza e della prevalenza della normativa comunitaria in materia di contratti pubblici nel nostro sistema giuridico dando prevalenza alla tutela
del mercato e della concorrenza.
L’orientamento giurisprudenziale analizzato trova
oggi conforto anche nelle nuove direttive comunitarie in materia di contratti pubblici la numero
2014/24/UE e la 2014/25/UE che sostituiscono le
direttive 2004/18/CE per gli appalti nei settori ordinari e 2004/17/CE per gli appalti nei settori
esclusi (38).
(37) Secondo l’Antitrust italiana è necessario creare un ordine del mercato più aperto, caratterizzato da una concorrenza
basata sui meriti piuttosto che sulle rendite di posizioni raggiungendo un duplice obiettivo: migliorare il benessere del
consumatore e rafforzare la competitività dell’economia, favorendo la crescita economica. Al riguardo si veda la Relazione
Annuale del 30 giugno 2014 al Parlamento del Presidente dell’autorità garante della concorrenza pubblicata sul sito istituzionale www.agcm.it.
(38) Per un prima commento si rinvia R. Caranta e D.Cosmin Dragos, La mini-rivoluzione del diritto europeo dei contratti
pubblici, in questa Rivista, 2014, 5, 493-504. Cfr. inoltre E. Picozza, Le proposte nazionali all’UE di direttive in materia di appalti e concessioni e l’attuale Progetto europeo, Relazione tenuta nell’incontro di studio “Il diritto degli appalti pubblici all’alba
delle nuove direttive comunitarie”, Camera dei Deputati, Roma
15 novembre 2013.
(39) Al riguardo si veda R. Villata - M. Ramajoli, Il provvedimento amministrativo, Torino, 2006 i quali ritengono che il
provvedimento amministrativo per essere tale deve contenere
in sé non solo il potere amministrativo ma anche la possibilità
(e le istanze) di tutela del cittadino, 41.
(40) Sui limiti dell’attività normativa rectius della funzione legislativa nei confronti della p.a. si rinvia a F. G. Scoca, Condizioni e limiti alla funzione legislativa nella disciplina della pubblica amministrazione, in Annuario Aipda 2004, Milano, 2005, 110. In particolare, l’autorevole Maestro del diritto amministrativo ritiene che il legislatore incontri dei limiti negativi e positivi
1232
È altrettanto vero, però, che il legislatore statale
ha preferito il risparmio e/o revisione della spesa a
discapito di un mercato che stenta, forse, ad essere
veramente concorrenziale.
Si aggiunga, inoltre, che nei casi analizzati non
vi è (come riconosciuto anche dal giudicante) un
interesse leso e/o prevalente da attività amministrativa autoritativa in senso stretto (39), ma
piuttosto una lesione di interesse legittimo scaturita da un’attività normativa (40), che ha danneggiato non tanto il mercato e la concorrenza,
ma piuttosto gli operatori medesimi e le amministrazioni. Infatti le imprese hanno perso ed acquistato “fette” di mercato con un comma di un articolo e, allo stesso tempo, le amministrazioni rispettando il dettato normativo si sono esposte,
come poi è stato, a numerosi ricorsi che di per sé
arrecano un danno all’attività amministrativa in
termini di efficienza, economicità ed erogazioni
delle prestazioni.
Il monito (e l’invito) non scritto dai giudici amministrativi nelle sentenze è quello rivolto al legislatore statale. Quest’ultimo deve scrivere norme
chiare e coerenti in ottica sistemica (41), così da
realizzare nuove ed efficienti politiche pubbliche di
approvvigionamento e assicurare reali e consistenti
risparmi di spesa tutelando però (42), allo stesso
tempo, la professionalità e l’aggregazione degli acquisti in un mercato veramente libero e concorrenziale, così come richiesto (e voluto) dalla normativa comunitaria sui contratti pubblici.
nel disciplinare e dettare le norme sull’amministrazione. Limiti
negativi su ciò che il legislatore non può fare e limiti positivi riguardanti invece ciò che il legislatore dovrebbe fare. Nello
stesso volume si veda il contributo G. Pastori, Statuto dell’amministrazione e disciplina legislativa, 11-22, il quale ritiene che
le garanzie costituzionali dell’amministrazione possono essere
tradotti (concretamente, nell’agire amministrativo) come garanzie costituzionali dei cittadini.
(41) Sempre attuali le tesi di Santi Romano, Maestro del diritto pubblico, il quale nei Frammenti di un dizionario giuridico, Milano, Ristampa inalterata, 1983, 135-144, alla voce destinatari delle norme giuridiche riteneva giustamente che nessuna
norma, per quanto voglia essere speciale o urgente, può estraniarsi da un dato ordinamento giuridico, anche la norma più
insignificante ha ricadute sull’intero sistema giuridico.
(42) Sui rapporti tra politiche pubbliche e diritto amministrativo si veda A. Vino, Politiche pubbliche e innovazione amministrativa. Indizi per un paradigma emergente, in Riv. It. Pol.
Pubbl., 2007, 3, 135 ss., M. Fedele, Il management delle politiche pubbliche, Roma-Bari, 2002. Secondo parte della dottrina
le politiche pubbliche “sono il frutto di una sequenza le cui fasi
sono le seguenti: la formazione dell’agenda, la preparazione
del progetto, la sua attuazione concreta in via esecutiva, l’esame dei risultati ottenuti, l’eventuale correzione o riformulazione
che si trae dall’analisi dei risultati”, così S. Cassese, La qualità
delle politiche pubbliche ovvero del metodo di governare, in Il
Mulino, 2013, 3, 411-417, in particolare 412.
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Amministrativa
Servizi pubblici
Il servizio di teleriscaldamento:
questioni definitorie e tutela
della concorrenza
T.A.R. LOMBARDIA, MILANO, sez. I, 9 maggio 2014, n. 1217 – Pres. Mariuzzo – Est. Lombardi
– Milanofiori Energia s.p.a c. Comune di Assago
Poiché la rete di distribuzione del calore destinato al teleriscaldamento può essere qualificata quale monopolio naturale, il comune, anche qualora volesse non considerare il teleriscaldamento quale servizio pubblico locale, deve subordinare il rilascio dell'autorizzazione alla posa della rete ad una regolamentazione, anche a
mezzo di procedura concorsuale, volta a garantire che la costruzione e la gestione della stessa sia contendibile ed effettuata da un soggetto che si impegni ad erogare il servizio in termini di concorrenzialità e non discriminazione.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme
In senso contrario alla qualificazione del teleriscaldamento come servizio pubblico Cons. Stato, sez. V, 28 dicembre
2007, n. 6690
Difforme
Cons. Stato, sez. V, 2 maggio 2013, n. 2396; T.A.R. Milano, sez. III, 28 maggio 2012, n. 1457; cfr. anche AVCP delib. 10 novembre 2011, n. 101
Diritto
Nel merito, il Collegio ritiene utile fare un breve excursus sul concetto di servizio pubblico e di servizio pubblico locale, e sulla sussumibilità astratta in tale ultimo
concetto del servizio di teleriscaldamento, di seguito
precisando quale sia la natura della convenzione stipulata tra la ricorrente e il Comune e la sua rilevanza in
ordine alla legittimità del provvedimento impugnato.
Sarà, infine, necessario stabilire se un’eventuale autorizzazione alla “manomissione del suolo pubblico”, nel caso di specie, confligga, come ipotizzato dal Consiglio di
Stato in sede cautelare, con gli artt. 41 e 118 della
Cost., nonché con gli artt. 14 e 106 del Trattato sul
funzionamento dell’Unione Europea. Omissis.
La sentenza n. 2396/2013 del Consiglio di Stato - già
citata in precedenza, in quanto pronunciata proprio in
materia di teleriscaldamento - ha ricordato che, difettando una espressa definizione del servizio pubblico locale, la giurisprudenza ha univocamente riconosciuto
tale qualifica a “quelle attività caratterizzate sul piano
oggettivo dal perseguimento di scopi sociali e di sviluppo della società civile, selezionati in base a scelte di carattere eminentemente politico, quanto alla destinazione delle risorse economiche disponibili ed all’ambito di
intervento, e, su quello soggettivo, dalla riconduzione
diretta o indiretta (per effetto di rapporti concessori o
di partecipazione all’assetto organizzativo dell’ente) ad
una figura soggettiva di rilievo pubblico. La qualifica di
1234
servizio pubblico locale (in contrapposizione a quella di
appalto di servizi) è stata pertanto riconosciuta a quelle
attività destinate a rendere una utilità immediatamente
percepibile ai singoli o all’utenza complessivamente
considerata, che ne sopporta i costi direttamente, mediante il pagamento di un’apposita tariffa, così che requisito essenziale della nozione di servizio pubblico locale è la circostanza che il singolo o la collettività ricevano un vantaggio diretto, e non mediato, da un certo
servizio”.
In conclusione, dunque, è possibile dire, in conformità
con la giurisprudenza appena richiamata, cui il Collegio
non ha motivo di discostarsi, che per la configurabilità
di un servizio pubblico locale occorre che il medesimo
abbia una sua soggettiva ed oggettiva qualificazione, la
quale deve garantire la realizzazione di prevalenti fini
sociali, oltre che la promozione dello sviluppo economico e civile delle relative comunità. Non è invece qualificabile come servizio pubblico locale l'attività alla quale non corrisponda una specifica pretesa degli utenti,
come avviene per la gestione di un'opera pubblica o anche per i servizi resi all'amministrazione, così come non
è servizio pubblico locale l’attività avente rilevanza economica per la quale manchi una effettiva ed inequivoca
manifestazione di volontà dell’amministrazione locale
interessata di assumerla (e/o quanto meno di considerarla) come tale.
Urbanistica e appalti 11/2014
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1.2. La qualificazione giuridica del servizio di teleriscaldamento (servizio pubblico locale o attività di libero
mercato) risulta molto dibattuta, sia in dottrina che in
giurisprudenza, per quanto non vi siano state molte occasioni di approfondimento. Omissis.
La differenza fra le due prospettazioni (servizio pubblico
locale o attività di libero mercato) è di non poco momento: aderendo, infatti, alla tesi volta a qualificare il
teleriscaldamento come servizio pubblico locale, verrebbe attribuita all’ente locale territorialmente competente
la facoltà, qualora non vi sia gestione in house, di individuare un soggetto esterno incaricato di erogare l’attività
di cui trattasi all’interno del proprio perimetro di riferimento, con modalità di affidamento di tale servizio assoggettate alla disciplina comunitaria in materia di concorrenza.
Nella diversa ipotesi (configurazione del servizio de quo
quale attività di libero mercato) non sarebbe al contrario consentito all’ente locale di operare alcuna verifica
di sorta, essendo lo stesso unicamente legittimato ad
autorizzare o meno lo svolgimento del servizio in questione a seguito di semplice richiesta formulata da operatori interessati alla prestazione delle citate attività
energetiche.
La giurisprudenza amministrativa ha affrontato la peculiare tematica con pronunce non univoche, o comunque non risolutive del problema di fondo della qualificazione giuridica del servizio di teleriscaldamento.
Omissis.
Occorre dunque verificare ora, ai fini della risoluzione
della questione in esame, e prima ancora di accertare la
compatibilità dell’assunzione di un servizio pubblico
con la struttura del mercato territoriale di riferimento,
se la scelta di assunzione di tale servizio sia univocamente rinvenibile nella delibera, con cui il Comune di
Assago ha approvato lo schema di convenzione stipulata in data 14 maggio 2008 con la dante causa di Milanofiori Energia (Milanofiori 2000 s.r.l.).
2. Nel parere di Delegas s.r.l. allegato alla deliberazione
del consiglio comunale n. 11 del 19 febbraio 2008, con
la quale è stato approvato l’unito schema di convenzione per la realizzazione della centrale di cogenerazione
con annessa rete di teleriscaldamento, sono testualmente riportate le seguenti considerazioni: “nel mese di luglio del 2007 la scrivente è stata contattata dal Comune
al fine di partecipare ad un incontro con la società Milanofiori 2000 finalizzato a definire gli aspetti dell’atto
in oggetto. In quella sede si ipotizzava la definizione di
un atto concessorio di più ampio respiro in quanto si
ipotizzava la definizione di una concessione per la gestione del servizio di teleriscaldamento sull’intero ambito territoriale del Comune di Assago. Successivamente
tale ipotesi veniva abbandonata, ipotizzando semplicemente la definizione di una convenzione per la costruzione di una centrale di cogenerazione a servizio esclusivo del comparto D4 su un terreno esterno al comparto
da cedersi poi in proprietà al Comune in base alle vigenti normative urbanistiche e sulla scorta degli accordi
specifici contenuti nella concessione stessa”.
Urbanistica e appalti 11/2014
La successiva delibera del Comune di Assago, a sua volta, pur dando atto dei generici benefici che l’impianto
di cogenerazione avrebbe comportato rispetto agli impianti di riscaldamento tradizionali (rientrando lo stesso
“tra gli impianti tecnologici che contribuiscono a ridurre il fabbisogno energetico nazionale con benefici per
l’intera collettività”) non fa alcun cenno ad una ipotetica volontà dell’ente pubblico di assumere il servizio di
teleriscaldamento quale servizio pubblico locale, ed anzi
riconosce espressamente che era stata la società Milanofiori 2000 s.r.l., su una zona di sua proprietà limitrofa all’area interessata dal piano particolareggiato della zona
“D4”, a proporre la realizzazione di una centrale di cogenerazione per l’utilizzo di una potenza non superiore a
50 Mw a servizio degli edifici da realizzare in tale comparto (D4).
Il soggetto attuatore è stato dunque una società di diritto privato del tutto libero da influenze pubbliche nel
suo capitale o nei suoi meccanismi aziendali e inizialmente proprietario del terreno su cui aveva proposto di
costruire l’impianto tecnologico.
L’iniziativa in esame è, quindi, da classificarsi come una
tipica iniziativa di natura imprenditoriale, che scontava
però l’applicazione di alcuni oneri di natura pubblicistica in relazione alla classificazione dell’area interessata
dall’intervento, che il PRG del Comune di Assago destinava a standard al servizio della produzione, e come
tale “riservata ad attrezzatura pubbliche o assoggettate a
servitù di uso pubblico, realizzate dall’Amministrazione
comunale o dai privati”, prescrivendo che le aree in
questione avrebbero dovuto essere “di proprietà pubblica ovvero (…) concesse in diritto di superficie convenzionando l’uso pubblico delle attrezzature”.
Questo passaggio appare al Collegio fondamentale ai fini del decidere, posto che gli obblighi funzionali e i diritti speciali garantiti al privato attuatore traggono le
loro origini dalla destinazione urbanistica impressa sull’area su cui realizzare la centrale e non dalla volontà
politico-amministrativa del Comune di Assago di assumere il servizio di teleriscaldamento quale servizio pubblico locale.
Si spiegano così, da un lato, il diritto del Comune al
corrispettivo per il (solo) mantenimento del diritto di
superficie in capo alla società e il correlato obbligo di
garantire il funzionamento senza soluzione di continuità
dell’impianto tecnologico (cui sono riconnesse delle
“sanzioni” tipicamente civilistiche) e, dall’altro, la totale libertà di determinazione delle tariffe da praticare agli
utenti da parte del gestore.
È, anzi, paradossalmente, il Comune di Assago ad impegnarsi (non si comprende nei confronti di chi, data la
natura bilaterale della convenzione) a mantenere in
esercizio l’impianto tecnologico, una volta estinto il diritto di superficie concesso al gestore, e a garantire nei
confronti degli utenti le stesse condizioni economiche
praticate in precedenza dal soggetto privato.
D’altra parte, che l’ente locale, lungi dall’assumere un
servizio locale pubblico, avesse attuato un investimento
condizionato alla sua sostenibilità finanziaria, nell’ambito di una precedente destinazione urbanistica dell’area,
1235
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e non una scelta di campo a favore della collettività di
riferimento, si intuisce da altre tre disposizioni della
convenzione:
- la possibilità che, alla scadenza del diritto di superficie, il Comune, in caso di disinteresse al mantenimento
dell’impianto, possa obbligare il soggetto privato a rimuovere tutti i manufatti;
- la fungibilità dell’impianto e dell’attività nel caso in
cui la gestione della centrale di cogenerazione non risulti più economicamente sostenibile;
- l’ancoraggio, a decorrere dal nono anno dalla messa in
esercizio dell’impianto, del corrispettivo da corrispondere per il mantenimento del diritto di superficie ad una
percentuale degli utili netti derivanti dalla gestione del
servizio di teleriscaldamento.
Ha scarso rilievo sulla specifica questione, per contro, il
collegamento gratuito alla rete pubblica per la fornitura
di gas alla centrale di cogenerazione, anche perché, per
il resto, era previsto che il soggetto attuatore sopportasse per intero gli oneri per l’allacciamento dell’impianto
alla rete di adduzione principale e agli edifici ricadenti
nel comparto D4.
2.1. Ad ogni modo, se anche si volesse trarre dalla convenzione la volontà implicita da parte del Comune di
assumere un servizio di interesse generale avente rilevanza economica, l’ambito effettivo di tale convenzione
(e volontà) era stato esplicitamente circoscritto al solo
comparto D4.
La stessa convenzione, peraltro, aveva fissato il limite di
utilizzo della capacità della centrale di cogenerazione ad
un massimo di 50 Mw, lasciando libero, di conseguenza,
il soggetto privato di fornire il servizio fino a tale limite,
e quindi, potenzialmente, anche oltre il comparto D4,
non esistendo al riguardo alcun esplicito divieto.
Invero, la peculiarità del caso concreto sta proprio nel
fatto che Milanofiori intenderebbe sfruttare la centrale
realizzata in regime di convenzione per erogare il servizio in un comparto diverso da quello ivi previsto.
Anche sotto questo profilo, poiché la convenzione dispiega i suoi effetti limitatamente al comparto D4, la
volontà da parte del Comune di erigere a servizio pubblico il servizio di teleriscaldamento tout court esorbiterebbe dall’oggetto della convenzione stessa, che era, appunto, la dotazione di un impianto di interesse generale
al servizio di un determinato comprensorio.
Non essendo, come visto, l’attività di teleriscaldamento
classificata ex lege come servizio pubblico, essa può divenire tale solo se e nella misura in cui un ente locale la
assuma direttamente fra i suoi compiti, vincolandosi ad
erogare il servizio secondo determinati standard qualitativi e di prezzo. Dal fatto che, nell’ambito dell’urbanizzazione di un determinato comparto, si sia voluto dotare
l’insediamento di una centrale di teleriscaldamento,
non si può, invero, arguire che il Comune di Assago intendesse nel contempo assicurare a tutta la cittadinanza
tale servizio.
Peraltro, laddove (in ipotesi) fosse stato deliberato un
programma di servizio pubblico per fornire il teleriscaldamento al di fuori del comparto D4, ciò implicherebbe
solo l’obbligo del Comune di Assago di bandire una ga-
1236
ra per l’affidamento della fornitura alle condizioni dallo
stesso prestabilite, ma non comporterebbe anche il potere di vietare ad altri operatori economici di erogare il
medesimo servizio in regime di libero mercato.
È pacifico, infatti, che servizio pubblico e privativa sono
due concetti completamente diversi, che possono talora
coesistere, ma che non sono affatto implicati l’uno dall’altro.
Ai sensi dell’art. 106 del Trattato sul funzionamento
dell’Unione Europea, come già detto, le imprese incaricate di servizi di interesse economico generale devono
operare in un regime di libera concorrenza, salvo che
ciò osti al perseguimento della missione ad esse affidata.
Quindi la privativa può essere prevista (peraltro solo
dalla legge, vista la riserva dell’art. 41 Cost.) unicamente qualora si dimostri che gli obiettivi di servizio pubblico non potrebbero essere realizzati in regime di concorrenza.
Quanto all’esclusività del diritto concesso a Milanofiori,
la convenzione 14 maggio 2008 limita espressamente
questa esclusività, peraltro concessa senza il previo esperimento di una gara pubblica, con riferimento alla fornitura di energia e di calore al solo comparto D4.
Risulta, pertanto, di per sé infondato l’assunto del Comune secondo cui, con l’eventuale rilascio dell’autorizzazione alla “manomissione di suolo pubblico”, Milanofiori Energia si troverebbe ad esercitare il servizio di teleriscaldamento in esclusiva su di una porzione rilevante del territorio comunale.
In termini fattuali tale affermazione appare, infatti, largamente ridimensionata dalla circostanza - da ritenersi
pacifica tra le parti, in quanto non contestata dall’amministrazione - secondo cui la potenza residua utilizzabile da Milanofiori Energia per servire comparti esterni al
D4 (in base alla convenzione del 14 maggio 2008) è di
soli 15.5 Mw, sui 50 totali autorizzati.
Occorre, inoltre, considerare che, dal verbale di riunione tra il Comune di Assago, Enel Rete Gas s.p.A. e Milanofiori Energia del 27 marzo 2013, emerge che la zona
del Comprensorio di Milanofiori (cui il gestore del servizio di teleriscaldamento vorrebbe estendere la propria
fornitura di energia) è una zona non metanizzata, ma
che attendibilmente riceve da altri operatori quanto necessario per il servizio di riscaldamento di spazi e di approvvigionamento di acqua calda sanitaria.
A ciò si aggiunga che la convenzione di natura privatistica del 19 giugno 2013, in base alla quale la società ricorrente e Ama Rozzano s.p.a. hanno stipulato con il
Comprensorio di Milanofiori la concessione per l’utilizzo del suolo e del sottosuolo comprensoriale per l’istallazione e la gestione, in forma di esclusiva, di una rete di
teleriscaldamento, condiziona la costruzione e il collegamento ai singoli edifici della rete di distribuzione alla
successiva richiesta degli utenti (cfr. documento n. 9 ritualmente versato in atti dalla difesa della ricorrente).
Di conseguenza, Milanofiori Energia entrerebbe in un
mercato (già) aperto alla concorrenza senza avere alcun
diritto di esclusiva e senza che gli utenti del nuovo
comprensorio abbiano l’obbligo di stipulare con il nuovo operatore i relativi contratti di somministrazione.
Urbanistica e appalti 11/2014
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2.2. Il Collegio ritiene, in definitiva, che la motivazione
opposta dagli uffici tecnici del Comune di Assago all’istanza di manomissione del suolo pubblico presentata
dalla ricorrente sia insufficiente o comunque incongrua.
L’autorizzazione richiesta non poteva essere respinta sul
presupposto che il servizio di teleriscaldamento sarebbe
tout court da considerarsi un servizio pubblico, perché,
da un lato, così non è, né sotto un profilo ontologico
né da un punto di vista della qualificazione normativa,
dall’altro, il Comune di Assago, tramite la delibera di
approvazione dello schema di convenzione del 14 maggio 2008, non lo ha assunto neppure quale servizio pubblico “facoltativo”.
D’altra parte, risulta egualmente errata anche l’altra
parte della motivazione del provvedimento di diniego,
secondo cui, in quanto servizio pubblico, il servizio di
teleriscaldamento dovrebbe essere “eventualmente e obbligatoriamente affidato nelle forme di legge mediante
una gara ad evidenza pubblica”.
Tale affermazione implica una necessaria coincidenza
tra servizio pubblico e privativa, mentre l’assunzione da
parte dell’ente locale di un servizio di interesse economico generale svolto a favore della collettività di riferimento può senz’altro coesistere, secondo il diritto comunitario, con la possibilità che altre imprese svolgano
la stessa attività in regime di concorrenza, fatta salva
l’attribuzione di diritti speciali e di esclusiva al soggetto
incaricato, qualora il rispetto dei principi del trattato
ostacoli la missione allo stesso affidata.
3. Da quanto sopra esposto deriva che l’affermazione secondo cui l’accoglimento dell’istanza di autorizzazione
negata con il provvedimento impugnato sottrarrebbe
“di fatto” nel territorio comunale al libero mercato il residuo servizio di riscaldamento e di raffrescamento degli
edifici è destituita di fondamento, così come argomentata.
Invero, da un punto di vista fattuale, la residua capacità
di utilizzo dell’impianto di cogenerazione, da una parte
non consentirebbe la copertura di ulteriori significative
parti del territorio comunale (e forse neppure quella
dell’intero Comprensorio di Milanofiori), mentre, dall’altra, l’iniziativa del privato non porterebbe con sé diritti di esclusiva e non precluderebbe astrattamente la
concorrenza né ad operatori che forniscano altre forme
di energia né a quelli che volessero distribuire energia
tramite il servizio di teleriscaldamento.
Al contrario, un diniego assoluto, come quello opposto
(la gara per l’affidamento del servizio è stata, infatti,
qualificata come solo “eventuale”), compromette ingiustificatamente la libertà d’impresa della società ricorrente.
Come peraltro osservato anche dall’Antitrust all’esito
della sua indagine conoscitiva, il servizio di teleriscaldamento presenta aspetti critici sotto il profilo della concorrenza nel mercato, specialmente ex post (in virtù degli elevati switching costs), cui occorre intervenire garantendo l’efficacia della concorrenza ex ante tra TLR e altri sistemi di riscaldamento; tale efficacia è direttamente
collegata alla capacità dei consumatori di effettuare, in
maniera autonoma e con tempi congrui, tutte le valuta-
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zioni e i confronti ritenuti necessari al fine di effettuare
la scelta della migliore modalità di riscaldamento individuale.
Laddove l’utente non abbia tali facoltà, si può prospettare come necessaria una gara per l’affidamento del servizio che garantisca una concorrenza “per” il mercato o
una regolamentazione che limiti il potere del gestore di
falsare il mercato ex post.
Con riferimento specifico, poi, alla concorrenza tra più
gestori che vogliano distribuire energia tramite il servizio di teleriscaldamento, l’Antitrust ha evidenziato che,
in astratto, non vi sarebbero impedimenti fisici alla posa
di due reti di TLR separate in tutte le strade aventi una
larghezza della carreggiata di circa 5 metri, ma, che, per
ciò che concerne invece la replicabilità economica della rete, la densità termica influenza sensibilmente l’incidenza del costo della rete di distribuzione sul costo complessivo della rete stessa.
Ne deriva che la concorrenza tra due reti che insistano
sul medesimo territorio (che sia soltanto un quartiere o
un’intera città) si rivela inefficiente, in quanto le reti di
distribuzione saranno caratterizzate da una densità termica non superiore a quella di una sola rete che copra
il territorio suddetto, con un aggravio di costo più che
proporzionale.
In altri termini, secondo l’Autorità, una sola rete di distribuzione permette un minore costo di distribuzione
del calore e, quindi, la rete di distribuzione del calore
destinato al TLR può essere qualificata quale monopolio naturale.
Tale conclusione è peraltro coerente con il fatto che il
costo di costruzione della rete di TLR è più elevato di
quello della rete per la distribuzione del gas naturale,
comunemente considerata un monopolio naturale.
Sotto questo profilo, pertanto, il Comune non può consentire la posa di una dorsale di teleriscaldamento, tramite la mera autorizzazione alla “manomissione” di suolo pubblico.
La consapevolezza dell’inefficienza economica generata
dalla duplicazione della rete impone, invero, all’ente locale di rispettare i principi comunitari in materia di
concorrenza, perché, in caso contrario, attribuirebbe ingiustificatamente un diritto di natura esclusiva (costruzione e gestione di una rete non duplicabile) ad una società che opera in un regime di libero mercato.
Sotto altro, concorrente profilo, l’autorizzazione richiesta, data la condizione di monopolio naturale della rete
da costruire, risulta assimilabile alla concessione di un
bene demaniale suscettibile di sfruttamento economico,
e deve essere pertanto preceduta da una procedura competitiva per la scelta del concessionario, al fine di non
introdurre una barriera all’ingresso nel mercato di riferimento, con conseguente lesione della parità di trattamento, del principio di non discriminazione e di trasparenza tra gli operatori economici, in violazione dei vincoli comunitari di concorrenza e di libertà di stabilimento (cfr., al riguardo, tra le altre, Cons. di Stato,
sent. n. 3250/2011).
Ad avviso del Collegio, il rispetto di tutte le esigenze
appena rappresentate può avvenire in due modi tra di
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loro concorrenti: tramite la prescrizione di alcuni obblighi di servizio volti a tutelare il consumatore finale dall’esercizio di un monopolio di fatto ex post (a causa degli
elevati costi da sostenere per passare da un sistema di riscaldamento ad un altro), e a mezzo di una selezione
che assicuri la concorrenza “per” il mercato, nei termini
e con le modalità suggerite dall’Autorità garante del
commercio e del mercato ad esito della sua indagine conoscitiva.
Non sembra invece attagliarsi al caso di specie l’art. 8
della L. n. 287/1990 (con l’imposizione dei relativi obblighi di “unbundling societario"), in quanto Milanofiori
Energia non è un’impresa che, per disposizioni di legge,
eserciti la gestione di servizi di interesse economico generale ovvero operi in regime di monopolio sul mercato.
3.1. Tirando le fila delle svolte argomentazioni, il Collegio ritiene che il servizio di teleriscaldamento non costituisca di per sé un servizio pubblico locale, e che la
delibera di approvazione dello schema di convenzione
stipulata tra il Comune di Assago e Milanofiori 2000
s.r.l. non abbia determinato l’assunzione di detto servizio da parte dell’ente locale.
Si è già osservato, d’altra parte, che gli effetti della predetta convenzione sono comunque limitati alla fornitura di teleriscaldamento al solo comparto D4, non potendosi dedurre che il Comune di Assago abbia inteso assicurare a tutta la cittadinanza tale servizio dal fatto che,
nell’ambito dell’urbanizzazione di un determinato comparto, i relativi insediamenti siano stati dotati di una
centrale di cogenerazione.
Ritiene, altresì, il Collegio che l’amministrazione resistente, prima di confermare con delibera del Consiglio
comunale di volere assumere o comunque considerare,
quale scelta strategica di natura amministrativa, l’attività di teleriscaldamento svolta nel suo ambito territoriale
di riferimento alla stregua di un servizio pubblico locale,
debba accertare, anche ai fini del regime giuridico da
adottare, l’insussistenza in concreto di un sistema di
concorrenza ex ante, tale cioè da garantire agli utenti,
senza l’imposizione di ulteriori obblighi rispetto a quelli
derivanti dall’applicazione della normativa regionale,
un’erogazione del servizio non discriminatoria.
Si precisa ad ogni buon conto che, poiché la rete di distribuzione del calore destinato al teleriscaldamento può
essere qualificata quale monopolio naturale, il Comune,
anche qualora volesse non considerare il TLR quale servizio pubblico locale, dovrebbe subordinare la richiesta
autorizzazione alla “manomissione del suolo pubblico” ad
una regolamentazione, anche a mezzo di attivazione di
una procedura concorsuale, volta a garantire che la costruzione e la gestione della rete sia contendibile ed effettuata da un soggetto che s’impegni ad erogare il servizio
in termini di concorrenzialità e non discriminazione, con
possibilità di accesso all’impianto di cogenerazione anche
per operatori diversi dalla società ricorrente.
Seppure nei limiti appena rappresentati, la domanda di
annullamento va dunque accolta, con obbligo dell’amministrazione di riesaminare l’istanza della ricorrente alla luce delle considerazioni sopra esposte.
IL COMMENTO
di Raffaele Micalizzi (*)
La sentenza in oggetto dà nuova linfa all'interessante dibattito in merito alla natura – pubblica o meno –
del servizio di teleriscaldamento, ponendo l'attenzione sui possibili profili anticoncorrenziali di una gestione non regolata della rete.
La vicenda: la realizzazione di un impianto
di cogenerazione per l'erogazione del
teleriscaldamento ad un quartiere
Prima di affrontare le questioni giuridiche toccate dalla sentenza in commento, caratterizzate da
notevole complessità, occorre effettuare una breve
sintesi fattuale della vicenda; come si vedrà, infatti, il Giudice de quo ha adottato un approccio marcatamente casistico.
La controversia nasce dalla realizzazione di un
impianto cd. “di cogenerazione”. Si tratta, nel caso
(*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla
valutazione di un referee.
(1) Cfr. la pagina sugli “Impianti di cogenerazione ad alto
1238
di specie, di una centrale elettrica alimentata a
combustibile fossile, nella quale il calore generato,
ma non direttamente impiegato per la produzione
di energia, viene immesso in una rete di tubature –
sottoforma di vapore o di acqua calda – ed utilizzato per fini domestici (1).
Il principale beneficio del suddetto sistema, dal
punto di vista della tutela ambientale, consiste nella mancata dispersione del calore e, quindi, nel
maggiore rendimento del combustibile fossile che
rendimento” sul sito internet del Gestore Servizi Energetici
(www.gse.it).
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alimenta l'impianto, con conseguente riduzione
delle emissioni indotte dalla combustione.
Nel caso di specie, l'impianto era realizzato da
una società ad intero capitale privato, in forza di
una convenzione stipulata dalla propria dante causa (un'altra società senza partecipazioni pubbliche)
con il Comune. Dal punto di vista soggettivo, pertanto, la convenzione rappresentava il più vistoso
“innesto” pubblicistico in un'iniziativa tipicamente
imprenditoriale.
Occorre altresì notare che l'area sulla quale è
stato realizzato l'impianto era azzonata dallo strumento urbanistico vigente a “standard a servizio
della produzione”, come tale “riservata ad attrezzature pubbliche o assoggettate a servitù di uso pubblico, realizzate dall'Amministrazione comunale o
dai privati”.
Sotto il profilo privatistico, la convenzione prevedeva la cessione al Comune dell'area di proprietà
dell'operatore privato, con la contestuale creazione
di un diritto di superficie cinquantennale a favore
di quest'ultimo. Il privato si impegnava a realizzare
l'opera e a gestirla, retribuendosi con la vendita del
calore prodotto; il Comune, per contro, avrebbe riscosso dalla suddetta società un canone, dapprima
in misura fissa, in un secondo momento parametrato agli utili derivanti dalla gestione.
Alla scadenza dei cinquant’anni, l'impianto sarebbe passato in proprietà al Comune. Se, invece,
nel corso del tempo la gestione si fosse rivelata
economicamente insostenibile, “l'ente locale e la
società di gestione avrebbero di comune accordo
individuato un altro impianto di interesse per la
collettività e per l'operatore privato in sostituzione
della centrale di cogenerazione”.
Mette conto evidenziare come, ai sensi della
convenzione, l'impianto di cogenerazione doveva
considerarsi ad esclusivo servizio di un unico comparto di PRG, escludendo, in altri termini, che la
distribuzione del calore potesse interessare anche
altre aree.
Invero, la controversia sorge proprio a seguito
dell'istanza della società finalizzata alla realizzazione della rete di distribuzione anche per un altro e
diverso comparto. La relativa autorizzazione è stata
(2) La bibliografia in materia di servizi pubblici è sconfinata,
e in questa sede non pare possibile, né utile, proporne una panoramica esaustiva. Sul tema, più circoscritto, dei servizi pubblici locali si rimanda a R. Cavallo Perin, Commento all'art. 112,
in R. Cavallo Perin - A. Romano, Commentario breve al Testo
Unico sulle autonomie locali, Padova, 2006, 604, e dottrina ivi
citata; per un quadro riassuntivo sui più recenti sviluppi della
normativa in materia, cfr. V. Parisio, Gestione dei servizi pubblici
locali, tutela delle risorse pubbliche e contenimento della spesa,
Urbanistica e appalti 11/2014
denegata dall'Amministrazione proprio in base alla
considerazione che tale estensione, nella sostanza,
sarebbe consistita nell'affidamento di un servizio
pubblico in assenza di una procedura di evidenza
pubblica (2).
Emerge con evidenza come la problematica qualificatoria del teleriscaldamento, ben lungi dal rappresentare un mero rovello teorico, sia il presupposto per la risoluzione di problemi concreti di non
poco momento.
La definizione di “servizio pubblico” nella
dottrina e nella giurisprudenza più recenti
La pronuncia oggetto del presente commento effettua, a titolo di premessa in diritto, una puntuale
ed organica digressione teorica sul concetto di “servizio pubblico”, alla quale integralmente si rimanda. Ivi si dà conto, in particolare, della tradizionale
bipartizione tra la nozione soggettiva, affermatasi
in tempi più risalenti ma mai del tutto superata (3), e la più moderna nozione oggettiva (4).
Sembra utile, tuttavia, soffermarsi brevemente
sull'orientamento attuale, dapprima elaborato dalla
dottrina più attenta, poi fatto proprio anche dalla
giurisprudenza. Tale impostazione, in un certo senso, supera le teorie cui si è fatto cenno, pur sviluppandone alcuni concetti-chiave. Il profilo soggettivo del servizio pubblico, in detta ottica, viene in
rilievo non tanto per la natura pubblica del soggetto che eroga il servizio, quanto per la destinazione
dello stesso al “pubblico” dei cittadini, come prestazione fornita, di volta in volta, uti singuli ovvero
uti universi. La “pubblicità” del servizio, in altri termini, non deriva dalla fonte dello stesso, bensì dalla sua destinazione (5).
Invero, se tale è la peculiarità del servizio pubblico, occorre che il medesimo sia di pertinenza
della pubblica Amministrazione. Tale pertinenza
non viene meno neppure nei casi, sempre più frequenti, nei quali la gestione del servizio è demandata ad altri soggetti, i quali comunque operano in
virtù di strumenti organizzatori adottati dall'Amministrazione. Alla base del servizio pubblico deve
in Foro Amm. TAR, 2013, 1, 385.
(3) Cfr. A. De Valles, I servizi pubblici, in V. E. Orlando (diretto da), Primo trattato di diritto amministrativo italiano, vol. IV,
Milano, 1930.
(4) Cfr. U. Pototschnig, I pubblici servizi, Padova, 1964.
(5) G. Caia, Funzione pubblica e servizio pubblico, in Mazzarolli, Pericu, Romano, Roversi-Monaco, Scoca (a cura di), Diritto amministrativo, Bologna, 2001.
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infatti sussistere una disciplina positiva che ne definisca i moduli organizzativi e gestori.
La suddetta impostazione teorica sembra trovare
conferma nel dettato dell'art. 112, comma 1 del
D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, in materia di servizio pubblico locale, che dispone: “Gli enti locali,
nell'ambito delle rispettive competenze, provvedono alla gestione dei servizi pubblici che abbiano
per oggetto produzione di beni ed attività rivolte a
realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo
economico e civile delle comunità locali”. Un'attenta dottrina ha osservato come tale disposizione
debba essere coordinata con l'art. 118 Cost., ove è
previsto il conferimento ai Comuni di tutte le funzioni amministrative, salva l'applicazione dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza.
La previsione costituzionale assumerebbe un valore
solo programmatico per le funzioni propriamente
dette (l'attività autoritativo-provvedimentale (6)),
che debbono essere conferite da espresse previsioni
legislative, ma un valore precettivo per l'attribuzione dei servizi (7). In altri termini, pur nel rispetto
dei citati principi, l'ente locale potrebbe decidere
di assumere su di sé la titolarità di una qualsiasi attività prestazionale che risponda alle esigenze presenti nella comunità di riferimento.
In proposito, il Consiglio di Stato ha ritenuto
che: “Ai fini della qualificazione di un'attività come servizio pubblico locale o meno occorre considerare l'art. 112, TUEL [...] Quel che rileva è perciò la scelta politico-amministrativa dell'ente locale di assumere il servizio, al fine di soddisfare in
modo continuativo obiettive esigenze della collettività; pertanto, la qualificazione di servizio pubblico locale spetta a quelle attività caratterizzate, sul
piano oggettivo, dal perseguimento di scopi sociali
e di sviluppo della società civile, selezionati in base
a scelte di carattere eminentemente politico, quanto alla destinazione delle risorse economiche disponibili ed all'ambito di intervento, e, su quello soggettivo, dalla riconduzione diretta o indiretta (per
effetto di rapporti concessori o di partecipazione all'assetto organizzativo dell'ente) ad una figura soggettiva di rilievo pubblico” (8).
Pertanto, ferme restando determinate caratteristiche “fisiche” della prestazione di teleriscaldamento (elemento oggettivo), occorre interrogarsi
in merito alla sussistenza o meno di quell'atto di
“assunzione” delle prestazioni che dottrina e giurisprudenza hanno individuato quale elemento (soggettivo) sine qua non di un servizio pubblico. Assunzione che, in concreto, può assumere diverse
forme, e che, in molti casi, andrà ricercata non in
un unico atto amministrativo (ad esempio, una
concessione o un accordo ex art. 11, L. 7 agosto
1990, n. 241), ma in tutti i tratti di attività amministrativa riconducibili all'erogazione delle prestazioni alla comunità di riferimento.
La corretta individuazione della natura del servizio di teleriscaldamento rappresenterà quindi l'esito
di un'indagine analitica sia sulle caratteristiche oggettive delle prestazioni erogate, sia sui rapporti tra
i pubblici poteri e gli operatori privati coinvolti.
(6) Sulla contrapposizione tra i concetti di “servizio pubblico” e “funzione amministrativa”, nonché sulla dubbia utilità,
ad oggi, di una tale classificazione, cfr.: M. R. Spasiano, La
funzione amministrativa: dal tentativo di frammentazione allo
statuto unico dell'amministrazione, in Dir. Amm., 2004, 2, 297;
G. Caia, Funzione pubblica, cit.
(7) A. Police, Spigolature sulla nozione di “servizio pubblico
locale”, in Dir. Amm., 2007, 1, 79.
(8) Cons. Stato, sez. V, 13 dicembre 2006, n. 7369.
(9) In argomento, ex multis, cfr. R. De Nictolis - L. Cameriero, Le società pubbliche in house e miste, Milano, 2008.
1240
La giurisprudenza favorevole alla
classificazione del teleriscaldamento tra i
servizi pubblici
Prima di vagliare la soluzione proposta dal TAR
di Milano, pare necessario volgere l'attenzione alla
sentenza n. 1457/2012, con la quale il medesimo
TAR aveva avallato l'orientamento opposto, individuando cioè nel servizio di teleriscaldamento le
caratteristiche proprie del servizio pubblico.
Invero, nella pronuncia in commento, il Giudice
dà conto delle ragioni alla base del netto cambio
di orientamento, ponendo l'attenzione, in particolare, sulle differenze fattuali tra le due fattispecie
trattate, tali per cui nel primo caso sarebbe certamente rinvenibile l'elemento soggettivo che connota il servizio pubblico, mentre nel secondo caso
detto elemento assumerebbe contorni tanto sfumati da divenire impalpabile.
Nel caso oggetto della sentenza n. 1457/2012,
sotto un primo profilo, la Società coinvolta aveva
natura mista, dal momento che i Comuni interessati dalla nuova rete avevano sottoscritto una quota (a quanto si intuisce, minoritaria) del capitale
sociale, in origine del tutto privato. Come noto, la
società mista rappresenta uno dei tipici modelli gestori del servizio pubblico locale (9).
In secondo luogo, i Comuni avevano provveduto
ad istituire un'apposita Conferenza dei Sindaci, organo puramente pubblicistico cui erano stati attri-
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buiti, tra l'altro, compiti di vigilanza ed approvazione delle tariffe.
A giudizio del TAR, quindi, in quel caso la “assunzione” del servizio di teleriscaldamento da parte
dell'Amministrazione era avvenuta in termini assai
evidenti, sia mediante una diretta partecipazione
dell'Ente al capitale di rischio imprenditoriale, sia
tramite una diretta ingerenza in uno dei tratti più
tipici dell'attività di servizio pubblico, ossia la determinazione delle tariffe (10).
Sotto il profilo oggettivo, invece, non parevano
porsi particolari dubbi, atteso che il teleriscaldamento è “un'attività oggettivamente correlata alla
realizzazione di interessi pubblici, essendo funzionale, per le sue caratteristiche intrinseche, a consentire a qualunque interessato di approvvigionarsi
di energia termica, a fini di riscaldamento e di usi
civili per abitazioni, uffici pubblici etc. Tale attività, quindi, è oggettivamente connessa ad essenziali
esigenze delle persone, cui si correla la qualità della
vita e la salvaguardia della salute, che l'art. 32 della Costituzione individua quale fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività. La
destinazione dell'attività alla soddisfazione di interessi generali di rango primario emerge anche sotto
il profilo ambientale, atteso che le amministrazioni
interessate hanno aderito alla convenzione anche
per finalità di recupero del patrimonio boschivo e
forestale, attraverso la realizzazione di impianti idonei a funzionare mediante l'utilizzo come fonte
energetica della biomassa recuperata” (11). Si aggiunga, per inciso, che l'interesse alla salvaguardia
dell'ambiente può reputarsi presente anche quando
l'impianto sia alimentato mediante combustibile
fossile; come accennato, infatti, la cogenerazione
garantisce lo sfruttamento di calore che, in un impianto tradizionale, andrebbe disperso, garantendo
conseguentemente un risparmio nell'uso complessivo di combustibile inquinante.
La citata pronuncia ha trovato conferma anche
in sede d'appello (12), ove anzi i Giudici hanno in-
dividuato altri ed ulteriori “indici” dell'assunzione
del servizio da parte dell'Amministrazione (13).
Nel caso vagliato dalla sentenza in commento,
invece, la Società era ad intero capitale privato e,
pur essendo stata stipulata una convenzione con il
Comune, la stessa non prevedeva alcun intervento
pubblico in punto di determinazione delle tariffe.
(10) Il tema meriterebbe un approfondimento ad hoc. In
dottrina, si veda: P. Pozzani, I parametri di determinazione delle
tariffe amministrative, in Foro Amm. TAR, 2012, 1, 36; E. Manassero, Il passaggio dai certificati verdi alla tariffa onnicomprensiva, in Amb. e svil., 2013, 7, 657; G. Balocco, Il price-cap
nelle tariffe autostradali, in questa Rivista, 2007, 2, 245; F. Liguori, I servizi pubblici locali, Torino, 2007, 215.
(11) T.A.R. Lombardia, Milano, sez. III, 28 maggio 2012, n.
1457. La medesima posizione, peraltro, era stata espressa anche dall'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici (ora confluita
nell'Autorità nazionale anticorruzione), nella delibera n. 101 del
10 novembre 2011.
(12) Cons. Stato, sez. V, 2 maggio 2013, n. 2396.
(13) Ad esempio, una nota della Società a capitale misto
nella quale si dava conto degli “scopi sociali e di sviluppo della
società civile perseguiti e dalla affermata riferibilità delle scelte
aziendali anche alla volontà degli enti locali”, nota alla quale il
Consiglio di Stato attribuisce valore “confessorio” circa la natura di servizio pubblico locale del teleriscaldamento (cfr. sent. n.
2396/2013, punto 7.1.2.3).
(14) S. Bini, Determinazione degli oneri di urbanizzazione e
degli standard, in questa Rivista, 2011, 3, 346. In argomento
cfr. anche: A. Di Mario, Standard urbanistici e distanze tra costruzioni tra Stato e Regioni dopo il “Decreto del fare”, in questa
Rivista, 2013, 11, 1121; G. C. Mengoli, Manuale di diritto urbanistico, Milano, 2009, 149.
Urbanistica e appalti 11/2014
La soluzione del TAR Milano e il parziale
superamento della problematica definitoria
Il TAR Milano, quindi, propende per la natura
privata del servizio di teleriscaldamento, non rinvenendo nello stesso (quantomeno, non necessariamente) le caratteristiche soggettive del servizio
pubblico.
In tale ottica, vengono sottolineati taluni indici
che escluderebbero la sussistenza di una assunzione
del servizio da parte del Comune.
In primo luogo, i Giudici evidenziano come la
stipula di una convenzione e la conseguente creazione di obblighi lato sensu “di servizio” a carico
dell'operatore privato “traggono le loro origini dalla destinazione urbanistica [standard a servizio della produzione, n.d.r.] impressa sull'area su cui realizzare la centrale e non dalla volontà politico-amministrativa del Comune […] di assumere il servizio di teleriscaldamento quale servizio pubblico locale”.
Il punto merita un breve approfondimento. È
noto come la locuzione “standard urbanistico” faccia riferimento ai rapporti massimi tra spazi destinati ad insediamenti residenziali o produttivi ed
aree “libere”, da destinare a verde ovvero ad opere
di pubblica utilità (parcheggi, scuole, ospedali,
ecc.). Nell'uso corrente, peraltro, detta locuzione
viene utilizzata come sineddoche, per definire non
tanto tali rapporti, quanto le stesse aree a standard (14). Nel caso di specie, quindi, la centrale di
cogenerazione è stata realizzata proprio su di un'area destinata, dal punto di vista urbanistico, ad
opere di interesse generale. Il Tribunale ha ritenu-
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to tale circostanza sostanzialmente “accidentale”,
ed anzi tale da ingenerare ambiguità circa la natura
delle prestazioni erogate dalla centrale di cogenerazione poi realizzata; la presenza di una convenzione, in altri termini, andrebbe ricollegata esclusivamente alla destinazione urbanistica dell'area. Detta
lettura sembra svalutare eccessivamente le interconnessioni sussistenti tra i profili urbanistici e le
scelte politico-amministrative dell'Ente. Contrariamente a quanto ritenuto dal TAR, infatti, l'ubicazione della centrale di teleriscaldamento su di un'area a standard potrebbe essere letta proprio quale
indice dell'assunzione del relativo servizio da parte
dell'Amministrazione. Diversamente opinando, occorrerebbe conciliare la natura meramente privatistica dell'opera con la destinazione urbanistica “a
standard” dell'area; un'operazione giuridica forse
possibile, ma tutt'altro che scontata (15).
In secondo luogo, il Giudice pone in evidenza la
clausola convenzionale che prevede la facoltà del
Comune, alla scadenza del diritto di superficie, di
richiedere al privato lo smantellamento di tutte le
opere. Detta previsione, invero, non sembra porsi
in contrasto con la natura di servizio pubblico del
teleriscaldamento, dal momento che una determinata prestazione può ben perdere, nel corso del
tempo, la connotazione (oggettiva) di “servizio
pubblico”; né, del pari, l'Amministrazione che decida di assumere l'erogazione di un determinato
servizio è vincolata a farlo sine die.
Neppure appare decisivo il fatto che il teleriscaldamento fosse fornito solo ad un comparto, e non
a tutto il Comune. Tale elemento non sembra inconciliabile con la qualifica di servizio pubblico.
Non pare potersi escludere che un servizio sia erogato, in una prima fase ed in via sperimentale, solo
in determinate aree del comune.
Per contro, la circostanza che, nel caso di specie,
le tariffe del servizio possano essere determinate di-
screzionalmente dal privato, senza alcuna ingerenza
dell'Amministrazione, sembrerebbe in effetti far
propendere per la mancata assunzione del servizio
pubblico, nella misura in cui l'accessibilità alla prestazione – dal punto di vista economico – non è in
alcun modo regolamentato.
Fatte tali premesse sulla ritenuta assenza di natura pubblicistica, nel caso di specie, del servizio di
teleriscaldamento, il TAR affronta la problematica
sotto un altro profilo, ossia indagando le implicazioni connesse alla conformazione fisica dell'infrastruttura di servizio.
Il teleriscaldamento, infatti, rientra nella categoria dei servizi cd. a rete, nei quali la concreta consegna del bene avviene a valle dell'immissione dello stesso in una rete fisica di trasmissione, di estensione più o meno vasta. La rete del teleriscaldamento, al pari delle altre reti, può essere qualificata
quale “monopolio naturale”, poiché non appare
plausibile – a costi socialmente accettabili – la realizzazione nel sottosuolo di un numero indeterminato di condutture, riconducibili a più imprese in
concorrenza fra loro (16). Qualora fossero installate
anche solo due condutture parallele, peraltro, la
conseguente diminuzione della densità termica
renderebbe l'operazione certamente antieconomica (17).
Secondo il Giudice de quo, pertanto, la necessità
di instaurare una qualche forma di competizione
deriva, in primo luogo, dalla non replicabilità della
rete, che insiste nel sottosuolo demaniale. Più in
particolare: «poiché la rete di distribuzione del calore destinato al teleriscaldamento può essere qualificata quale monopolio naturale, il comune, anche qualora volesse non considerare il TLR quale
servizio pubblico locale, dovrebbe subordinare la
richiesta autorizzazione alla “manomissione del
suolo pubblico” ad una regolamentazione, anche a
mezzo di attivazione di una procedura concorsuale,
(15) Invero, in materia di destinazione delle aree a standard,
nonché di “standard qualitativo” (ossia di opere realizzate dal
privato in luogo della mera cessione al Comune di aree), la
giurisprudenza dello stesso TAR di Milano si è talvolta rivelata
assai flessibile. Si fa qui riferimento, in particolare, alla pronuncia n. 6188 del 23 dicembre 2009, con la quale il suddetto Tribunale ha statuito: «Contesta la ricorrente l'inclusione di
20.000 mq, destinati alle Manifestazioni espositive, sfilate ed
eventi collettivi legati alla moda e al design, tra le aree per funzioni pubbliche, nonché la possibilità di qualificare come standard di qualità il Museo della Moda, in quanto non sarebbe
classificabile come "infrastruttura o servizi di interesse generale". Anche queste censure non hanno pregio. Considerando
che il concetto di standard costituisce "una categoria aperta,
per cui spetta alle amministrazioni il compito di svolgere valutazioni di dettaglio riferite alle singole realtà locali" (T.A.R.
Lombardia, Brescia 15 dicembre 2006, n. 1548), la Città della
Moda e la scuola di moda, a Milano, possono essere ragionevolmente classificate come servizi ed attrezzature di interesse
comune, in quanto sono in funzione di quella che è ormai divenuta una connotazione consolidata della città, con ovvi riscontri sul piano delle relative attività rilevantissime sul piano economico e industriale».
(16) La problematica è posta in luce sin dai primissimi studi
in materia di diritto delle reti: si veda, ad es., E. Chadwick, Results of different principles of legislation and administration in
Europe; of competition for the field, as compared with competition within the field, of service, in Journal of the Statistical Society of London, Londra, 1859, 22, 3, 387, reperibile presso l'archivio online www.jstor.org.
(17) Cfr. Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato,
indagine conoscitiva n. 46 del 5 marzo 2014, citata dalla sentenza in commento.
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volta a garantire che la costruzione e la gestione
della rete sia contendibile ed effettuata da un soggetto che s’impegni ad erogare il servizio in termini
di concorrenzialità e non discriminazione, con possibilità di accesso all’impianto di cogenerazione anche per operatori diversi dalla società ricorrente».
Sembra quindi che la questione definitoria del
servizio di teleriscaldamento possa essere superata
o, quantomeno, “aggirata”, ponendosi in un'ottica
sostanziale: occorrerà domandarsi non più (o non
solo) se il teleriscaldamento possa essere annoverato tra i servizi pubblici locali, quanto se e come
possa essere garantita la contendibilità dello stesso,
atteso che l'infrastruttura di trasmissione, in ciascun contesto geografico, può essere solo una (18).
In merito, possono ipotizzarsi diversi scenari.
In un caso come quello in oggetto, nel quale l'iniziativa finalizzata alla realizzazione della rete di
teleriscaldamento proviene dall'operatore privato,
in assenza di assunzione del servizio da parte dell'Amministrazione, il Comune potrà mettere in gara la concessione di occupazione del sottosuolo necessaria all'installazione delle condutture (19). Si
tratterebbe, cioè, di un tipico caso di concorrenza
“per” il mercato (e non già “nel” mercato), in
quanto l'aggiudicatario godrebbe di un diritto di
privativa per tutto il tempo di durata della concessione; lasso di tempo che, ragionevolmente, dovrebbe essere parametrato sia all'onerosità degli in-
vestimenti per la realizzazione delle opere, sia alla
necessità di non sottrarre il bene all'uso pubblico
sine die (20). In detta ipotesi, al contrario, la gara
non avrebbe ad oggetto la costruzione della rete, e
neppure la sua successiva gestione, dal momento
che il bene-rete non avrebbe alcun tipo di connotazione pubblicistica, ma, al contrario, sarebbe meramente strumentale all'esercizio (pur in regime di
privativa) di una libera attività economica (21).
Invero, sempre nel caso di iniziativa privata, si
potrebbe configurare anche un altro scenario. Atteso che, come accennato, la restrizione della concorrenza pubblicisticamente rilevante sarebbe relativa non tanto alla realizzazione della rete (bene
privato), quanto all'occupazione di sottosuolo demaniale, l'Amministrazione potrebbe optare per il
rilascio di una concessione demaniale “convenzionata”; nella convenzione, il concessionario si dovrebbe impegnare a consentire l'accesso alla rete
anche ad altri operatori economici (previo, ad
esempio, il pagamento di un canone). In tal caso,
si garantirebbe la concorrenza non già “per” il mercato, ma “nel” mercato, in base alla considerazione
che la rete unica – come avviene, ad esempio, nel
settore dell'energia elettrica – potrebbe essere sfruttata economicamente da un numero potenzialmente indeterminato di operatori, mediante l'immissione, da parte di ciascuno di essi, di calore generato
da vari impianti.
(18) Il tema può essere ricollegato, a livello comunitario, alla nota direttiva 12 dicembre 2006, n. 123 (cd. Bolkenstein),
che all'art. 12 statuisce: “1. Qualora il numero di autorizzazioni
disponibili per una determinata attività sia limitato per via della
scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche utilizzabili, gli Stati membri applicano una procedura di selezione tra i
candidati potenziali, che presenti garanzie di imparzialità e di
trasparenza e preveda, in particolare, un'adeguata pubblicità
dell'avvio della procedura e del suo svolgimento e completamento. 2. Nei casi di cui al paragrafo 1 l'autorizzazione è rilasciata per una durata limitata adeguata e non può prevedere
la procedura di rinnovo automatico né accordare altri vantaggi
al prestatore uscente o a persone che con tale prestatore abbiano particolari legami. 3. Fatti salvi il paragrafo 1 e gli articoli
9 e 10, gli Stati membri possono tener conto, nello stabilire le
regole della procedura di selezione, di considerazioni di salute
pubblica, di obiettivi di politica sociale, della salute e della sicurezza dei lavoratori dipendenti ed autonomi, della protezione
dell'ambiente, della salvaguardia del patrimonio culturale e di
altri motivi imperativi d'interesse generale conformi al diritto
comunitario”. Le conseguenze di tale direttiva (recepita con
D.Lgs. 26 marzo 2010, n. 59) sulle concessioni demaniali è
stata indagata dalla dottrina con particolare riferimento al tema del demanio marittimo: cfr. A. Monica, Le concessioni demaniali marittime in fuga dalla concorrenza, in Riv. It. Dir. Pubbl.
Com., 2013, 2, 437; M. D'orsogna, Le concessioni demaniali
marittime nel prisma della concorrenza: un nodo ancora irrisolto,
in questa Rivista, 2011, 5, 599; G. Gruner, L'affidamento ed il
rinnovo delle concessioni demaniali marittime tra normativa interna e principi del diritto dell'Unione Europea, in Foro Amm.
CdS, 2010, 3, 678.
(19) Per la regione Lombardia, cfr. artt. 34-40, L.R. 12 dicembre 2003, n. 26. Tale legislazione, invero, disciplina l'installazione e gestione non tanto delle “reti” propriamente dette,
quanto delle infrastrutture per l'alloggiamento delle stesse. In
tale prospettiva, non è previsto l'esperimento di una gara per il
rilascio dell'autorizzazione, ma solo l'obbligo, per il concessionario, di stipulare una convenzione con l'Amministrazione, nella quale sia prevista la possibilità anche per altri operatori di alloggiare le proprie reti nell'infrastruttura. Detta disciplina, comunque, non sembra risolvere le problematiche del caso di
specie, derivanti, come accennato, dalla (sostanziale) non replicabilità della rete.
(20) Cfr. giurisprudenza in materia di concessioni cimiteriali;
ex multis, T.A.R. Puglia, Lecce, sez. II, 31 gennaio 2014, n.
289: “La natura demaniale dei cimiteri contrasta con la perpetuità delle concessioni cimiteriali che finirebbe per occultare
un vero e proprio diritto di proprietà sul bene demaniale (cimitero) che, per sua natura, è un bene pubblico, destinato a vantaggio dell'intera collettività; ne consegue che l'utilizzo di tale
bene in favore di alcuni soggetti, che è quanto si verifica con
una concessione, deve necessariamente essere temporalmente limitato, anche stabilendo una durata prolungata nel tempo
e rinnovabile alla scadenza, venendo altrimenti contraddetta la
sua ontologica finalità pubblica, al quale il bene verrebbe definitivamente sottratto”.
(21) In tale ipotesi, resta ovviamente ferma la necessità che
la società privata si doti del titolo autorizzatorio per la realizzazione dell'impianto. Ad esempio, nel caso di un impianto di cogenerazione alimentato da fonti energetiche rinnovabili (come
le biomasse) si tratterà di un'autorizzazione unica ex art. 12, L.
29 dicembre 2003, n. 387.
Urbanistica e appalti 11/2014
1243
Giurisprudenza
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Amministrativa
Le due opzioni – gara per la concessione e convenzionamento della stessa – potrebbero anche
coesistere, mediante la definizione di strumenti organizzatori che garantiscano il complessivo equilibrio economico dell'operazione.
Qualora invece l'iniziativa finalizzata alla creazione di un servizio di teleriscaldamento provenisse
dall'Amministrazione comunale, la stessa potrebbe
porre in gara la realizzazione delle infrastrutture,
ovvero la realizzazione e successiva gestione, ad
esempio mediante una procedura di project-financing (22).
In tutte queste ipotesi, infine, l'Amministrazione
potrebbe optare per una gara bifasica. Una prima
fase sarebbe volta non tanto all'individuazione del
concessionario/contraente, quanto alla verifica in
merito all'esistenza, o meno, di un mercato concorrenziale per quel determinato servizio (23). Qualora detta verifica restituisse un esito negativo, l'Amministrazione potrebbe procedere ad affidare direttamente il servizio (ovvero la concessione) al soggetto privato che ne ha fatto richiesta. In tal caso,
infatti, non essendoci alcun “mercato” per detto
servizio, non si concreterebbe alcuna lesione alla
concorrenza.
I problemi di inquadramento dogmatico del servizio di teleriscaldamento generano notevoli difficoltà nell'individuare, in concreto, la disciplina applicabile. Le caratteristiche “fisiche” di tale servizio, infatti, mal si prestano ad un'applicazione ana-
logica delle discipline settoriali di altri servizi a rete, quali la distribuzione di energia elettrica, il gas
ed il servizio idrico.
La (poca) giurisprudenza in materia e gli studi
dell'Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici e
dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato hanno posto in luce la principale problematica sottesa all'attuale stato di deregolamentazione
legislativa del teleriscaldamento, ossia i possibili riflessi negativi in punto di restrizioni del mercato
concorrenziale. Il teleriscaldamento, infatti, viene
erogato in condizioni di monopolio naturale.
In tale contesto, la sentenza in commento giunge a conclusioni condivisibili, laddove afferma che
il necessario esperimento di una procedura ad evidenza pubblica non debba essere ricondotto solo
alla qualifica di servizio pubblico locale. Anche
qualora – come nel caso di specie – non sia rinvenibile una chiara assunzione del servizio da parte
dell'Amministrazione, e, quindi, detto servizio non
abbia una valenza propriamente pubblicistica, la
materiale realizzazione della rete da parte dell'operatore privato deve essere preceduta dal rilascio di
atti amministrativi (concessioni demaniali) idonei
a porre lo stesso in posizione monopolistica e, specularmente, a creare ad eventuali competitors barriere all'ingresso insormontabili. Anche in tali ipotesi, quindi, l'Amministrazione sarà tenuta ad esperire procedure competitive, la cui concreta configurazione – in merito alla quale si è tentato di proporre qualche sintetico spunto – rappresenterà
un'interessante sfida per gli Enti Locali (24).
(22) Cfr. F. Vada - V. De Sanctis, Natura e finalità del project
financing. Infrastrutture realizzabili, in Mariani, Menaldi & Associati (a cura di), Il project financing, Torino, 2012, 355. Secondo
tali Autori: “tipici esempi di opere calde sono impianti di cogenerazione di energia (considerate tra le opere più idonee ad essere realizzate con tale tecnica di finanziamento)”.
(23) Una gara così impostata non pare contrastare con la
legislazione vigente; si tenga altresì presente che, ai sensi dell'art. 40, direttiva 2014/24/UE del Parlamento Europeo e del
Consiglio in data 26 febbraio 2014 (in attesa di recepimento):
“Prima dell’avvio di una procedura di appalto, le amministrazioni aggiudicatrici possono svolgere consultazioni di mercato
ai fini della preparazione dell’appalto e per informare gli opera-
tori economici degli appalti da essi programmati e dei requisiti
relativi a questi ultimi. A tal fine, le amministrazioni aggiudicatrici possono ad esempio sollecitare o accettare consulenze da
parte di esperti o autorità indipendenti o di partecipanti al mercato. Tali consulenze possono essere utilizzate nella pianificazione e nello svolgimento della procedura di appalto, a condizione che non abbiano l’effetto di falsare la concorrenza e non
comportino una violazione dei principi di non discriminazione
e di trasparenza”.
(24) Procedure che, tra l'altro, saranno utili non solo per tutelare la concorrenza, ma anche per garantire all'Amministrazione maggiori introiti: si pensi al caso in cui per la concessione demaniale sia bandita una gara al massimo rialzo.
Conclusioni
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Osservatorio in sintesi
Giurisprudenza
Osservatorio amministrativo
a cura di GIULIA FERRARI e LUIGI TARANTINO (*)
APPALTI E LAVORI PUBBLICI
GLI ELEMENTI UTILI AI FINI DELL’ADOZIONE
DELL’INFORMATIVA ANTIMAFIA
Consiglio di Stato, sez. III, 15 settembre 2014, n. 4701 Pres. Romeo - Est. Polito
Nell’ambito dei controlli sul pericolo di infiltrazione e
condizionamento mafioso tra le circostanze e fatti indizianti si riconducono i contatti e le frequentazioni con
pregiudicati o soggetti in rapporto di contiguità alla criminalità organizzata che possono essere elevati a presupposto per l’adozione della misura prevista dall’art.
90 D.Lgs. n. 159/2011. È quindi legittima l’informativa
antimafia prefettizia che dà rilievo a fatti inerenti alla vita di relazione dell’imprenditore che, proprio perché ripetutisi nel tempo, di per sé assumono significativo valore indiziario dell’esposizione al pericolo di condizionamento mafioso.
L’accertamento del pericolo di infiltrazione e condizionamento mafioso ai sensi dell’art. 90 D.Lgs. n. 159/2011
preceduto da apposita istruttoria che si caratterizza come autonoma per contesto temporale e geografico elementi acquisiti e spessore dell’indagine rispetto ad ogni
altro provvedimento avente il medesimo oggetto, non
è contraddetto dal previo rilascio dell’attestazione SOA.
Quest’ultima implica l’individuazione dell’assenza di
specifiche cause di decadenza, di sospensione e di divieto di cui all’art. 10 della L. n. 575/1965.
Il contenzioso all’attenzione del Consiglio trae origine dall’impugnazione di un’interdittiva antimafia adottata dal Prefetto e dal provvedimento di esclusione dalla procedura di
gara emanato da una stazione appaltante. Le censure avverso i citati provvedimenti, già disattese dal primo giudice,
vengono reiterate dinanzi al Consiglio ed hanno per lo più
oggetto il quadro degli elementi sulla scorta dei quali la
Prefettura può adottare ai sensi dell’art. 90, D.Lgs. n.
159/2011 l’informativa antimafia. Al riguardo, la Sezione
premette che l’Autorità prefettizia gode della più ampia sfera di discrezionalità nel selezionare e valorizzare fatti, circostanze ed accadimenti cui possa ricondursi, anche in via indiziaria, sintomatica e presuntiva il collegamento e/o il pericolo di condizionamento mafioso dell’attività d’impresa.
Pertanto, i contatti e le frequentazioni con pregiudicati o
soggetti in rapporto di contiguità alla criminalità organizzata ben possono essere utilizzati quali elementi sui quali
poggiare il provvedimento de quo.
Né può ritenersi che la loro saltuarietà, dieci incontri nel
corso di dieci anni, ne indebolisca la portata indiziante, poiché le valutazioni effettuate in merito dal Prefetto sono suscettibili di sindacato in sede giurisdizionale nei soli limiti di
evidenti vizi di eccesso di potere nei profili della manifesta
illogicità e dell’erronea e travisata valutazione dei presupposti del provvedere. Ipotesi questa che nella fattispecie
non ricorre in ragione della reiterazione nel tempo delle
suddette condotte, dalle quali è legittimo inferire la contiguità con ambienti della criminalità organizzata.
In senso opposto a giudizio della Sezione non milita neanche la circostanza che vi sia stato un periodo di discontinuità di due anni nel quale non vi sono analoghe segnalazioni, poiché la tutela anticipata della difesa sociale prevista dalla normativa di riferimento, non consente di ritenere
illogico o irragionevole il provvedimento in questione.
IL PRINCIPIO DELLA NECESSARIA CORRISPONDENZA TRA LA
QUALIFICAZIONE DI CIASCUNA IMPRESA E LA QUOTA
DELLA PRESTAZIONE DI RISPETTIVA PERTINENZA NEI
RTI
Consiglio di Stato, Ad. Plen., 28 agosto 2014, n. 27 Pres. Giovannini - Est. Scola
Ai sensi dell’art. 37, commi 4 e 13 del codice dei contratti pubblici (D.Lgs. n. 163/2006), nel testo antecedente alle modifiche apportate dall’art. 1, comma 2-bis, lett.
a), D.L. 6 luglio 2012 n. 95, convertito nella L. 7 agosto
2012 n. 135, negli appalti di servizi o di forniture da affidarsi a raggruppamenti temporanei di imprese non vige
ex lege il principio di necessaria corrispondenza tra la
qualificazione di ciascuna impresa e la quota della prestazione di rispettiva pertinenza, essendo la relativa disciplina rimessa alle disposizioni della lex specialis della
gara.
Il quesito di diritto sottoposto all’attenzione della Plenaria
del Consiglio di Stato riguarda la corrispondenza tra quote
di partecipazione e quote di esecuzione della prestazione
oggetto di appalto in caso di raggruppamenti temporanei
di imprese. L’attenzione del Consiglio si appunta sull’esegesi da offrire del comma 13 dell’art. 37, D.Lgs. n.
163/2006 - norma prima novellata dalla L. n. 135/2012, e
poi abrogata dall’ art. 12, comma 8, D.L. 28 marzo 2014,
n. 47, convertito, con modificazioni, dalla L. 23 maggio
2014, n. 80 - secondo il quale, nel testo previgente alla novella del 2012: “I concorrenti riuniti in raggruppamento
temporaneo devono eseguire le prestazioni nella percentuale corrispondente alla quota di partecipazione al raggruppamento”. Il legislatore del 2012 limitò l’obbligo di
corrispondenza al solo caso dei lavori.
Nella pronuncia in esame il massimo consesso della giustizia amministrativa mette un punto fermo sulla portata applicativa della norma in caso di appalto di servizi nella vigenza del citato comma 13 prima della novella del 2012. Al
riguardo, la Plenaria precisa che la giurisprudenza si era
uniformata nel senso di ritenere che l’obbligo di corrispondenza tra quote di partecipazione e quote di esecuzione va-
(*) La rassegna delle decisioni del Consiglio di Stato è curata da L. Tarantino; la rassegna delle sentenze del TAR è curata
da G. Ferrari.
Urbanistica e appalti 11/2014
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Giurisprudenza
lesse anche per gli appalti di servizi e, conseguentemente:
a) ciò dovesse risultare già in sede di offerta; b) nel caso di
mancata previsione da parte della lex specialis dell’esclusione per la violazione del principio di corrispondenza, la stessa dovesse ritenersi eterointegrata; c) un simile obbligo
fosse valevole per tutte le tipologie di raggruppamenti.
Quest’impostazione a giudizio della Plenaria non può essere seguita, in quanto: I) contrasta con il dato letterale dei
commi 4 e 13 dell’art. 37; II) va in senso opposto rispetto a
quanto prevede il codice dei contratti, che disciplina in maniera completa e nella sede propria il regime della qualificazione delle imprese anche riunite in ATI, per i lavori,
mentre affida alla disciplina di gara ogni determinazione in
materia per gli appalti di servizi e forniture, salvi i limiti sanciti dagli artt. 41-45.
Pertanto, per gli appalti di forniture e servizi vale soltanto la
norma sancita dal comma 4 dell’art. 37, che impone alle
imprese raggruppate il più modesto obbligo d’indicare le
parti del servizio o della fornitura facenti capo a ciascuna
di esse, senza pretendere anche l’obbligo della corrispondenza fra quote di partecipazione e quote di esecuzione,
fermo restando, però, che ciascuna impresa va qualificata
per la parte di prestazioni che s’impegna ad eseguire, nel
rispetto delle speciali prescrizioni e modalità contenute nella normativa di gara.
ALLA CORTE DI GIUSTIZIA LA VALUTAZIONE DEI
PROTOCOLLI DI LEGALITÀ
C.G.A. Sicilia, 12 settembre 2014, n. 534 - Pres. Lipari Est. Carlotti
In tema di normativa antimafia negli appalti pubblici
vanno deferite alla Corte di giustizia UE le seguenti
questioni pregiudiziali relative al dubbio se: a) il diritto
dell’Unione europea e, in particolare, l’art. 45 della direttiva CE n. 18 del 2004 osti a una disposizione, come
l’art. 1, comma 17 L. 6 novembre 2012 n. 190, che consente alle stazioni appaltanti di prevedere come legittima causa di esclusione delle imprese partecipanti alla
gara la mancata accettazione, o la mancata prova documentale dell’avvenuta accettazione, da parte delle suddette imprese, degli impegni contenuti nei c.d. “protocolli di legalità” e, più in generale, in accordi, tra le Amministrazioni e le imprese partecipanti, finalizzati a contrastare le infiltrazioni della criminalità organizzata nel
settore in parola; b) ai sensi dell’art. 45 della direttiva
CE n. 45 del 2004, l’eventuale previsione da parte dell’ordinamento di uno Stato membro della potestà di
esclusione, descritta nel precedente quesito, possa essere considerata una deroga al principio della tassatività delle cause di esclusione giustificata dall’esigenza
imperativa di contrastare il fenomeno dei tentativi di infiltrazione della criminalità organizzata nelle procedure
de quibus.
Il CGA ritiene di dubbia compatibilità comunitaria per possibile contrasto con l’art. 45 della direttiva 2004/18/CE l’art.
1, comma 17, della L. 6 novembre 2012, n. 190 che, in materia di procedure di affidamento di appalti pubblici, contempli la facoltà, per le amministrazioni aggiudicatrici, di
considerare, quale valida causa di esclusione dalle predette
procedure, la mancata accettazione o la mancata dimostrazione documentale dell’avvenuta accettazione, da parte
delle imprese partecipanti, degli impegni contenuti nei pro-
1246
tocolli di legalità. Il citato art. 45, infatti, non prevede alcuna analoga ipotesi di esclusione.
I protocolli di legalità sono stati introdotti nell’ordinamento
italiano al fine di contrastare il fenomeno delle infiltrazioni
della criminalità organizzata nel settore degli appalti pubblici. Le amministrazioni aggiudicatrici attraverso tali protocolli assumono l’obbligo di inserire nei bandi e negli altri atti di indizione di gare, quale condizione per la partecipazione, l’accettazione preventiva, da parte degli operatori economici, di determinate clausole intese alla prevenzione, al
controllo e al contrasto delle attività criminali, nonché alla
verifica della sicurezza e della regolarità dei luoghi di lavoro; a loro volta nei medesimi protocolli è specularmente
stabilito l’obbligo, gravante in capo a ogni impresa partecipante a una procedura di affidamento di un pubblico contratto, di rendere una dichiarazione, sottoscritta dai legali
rappresentanti, recante vari impegni. Simili strumenti hanno natura giuridica di accordi tra amministrazione e privato
e nella misura in cui contrastano l’ingerenza della criminalità organizzata perseguono il fine di tutela della concorrenza e della trasparenza.
In costanza, però, di un principio di tendenziale tassatività
delle cause di esclusione sposato a livello comunitario sorge il dubbio che una simile previsione a pena di esclusione
contrasti con il precetto dell’art. 45, che del citato principio
è diretta espressione. Ciò nonostante il Consiglio ritiene
che possa non esserci incompatibilità sia in ragione della
giurisprudenza della Corte di giustizia che ha ammesso la
previsione di ulteriori cause di esclusione, dirette a garantire il rispetto dei principi di parità di trattamento degli offerenti e di trasparenza, purché siffatte misure non eccedano
quanto necessario per raggiungere tale obiettivo. Sia in ragione della possibilità di una deroga al principio della tassatività delle clausole di esclusione pure desumibile dall’art. 57, paragrafi 3 e 7, della direttiva 26 febbraio 2014 n.
2014/24/UE (non ancora recepita dalla Repubblica italiana),
del Parlamento europeo e del Consiglio sugli appalti pubblici e che abroga la direttiva 2004/18/CE.
ESCLUSIONE PER MANCATA ALLEGAZIONE COPIA CARTA DI
IDENTITÀ
T.A.R. Sardegna, sez. I, 19 settembre 2014, n. 725 Pres. Monticelli - Est. Manca
È illegittima l’esclusione da una gara pubblica del concorrente che non ha allegato, all’offerta economica, la
copia della carta di identità del proprio legale rappresentante se, ciò nonostante, non sussiste alcun dubbio
sulla provenienza soggettiva delle offerte, risultando le
fotocopie dei relativi documenti d’identità comunque
inserite nei plichi contenenti la documentazione amministrativa.
È impugnata l’esclusione di una concorrente ad una gara
pubblica per non avere allegato, all’offerta economica, copia fotostatica del documento d’identità del legale rappresentante della ditta. L’adito TAR Sardegna accoglie il ricorso. Premette che, nella specie, dalle previsioni contenute
nella lex specialis di gara non emerge, in termini chiari e
inequivoci, l’onere formale la cui omissione ha determinato
l’esclusione della impresa. Ed infatti, da un lato le prescrizioni del bando non impongono, a pena di esclusione, l’allegazione del documento d’identità all’offerta economica;
dall’altro, con riguardo alla documentazione da inserire nel
plico relativo all’offerta economica, il bando pone esplicita-
Urbanistica e appalti 11/2014
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mente il divieto di inserire altri documenti, diversi dall’offerta stessa. Trova quindi applicazione il principio del favor
partecipationis che impone, nel dubbio, di optare per l’interpretazione della clausola ambigua della lex specialis di gara
che consenta la massima partecipazione alla procedura degli operatori economici. Pertanto, sussistendo nella specie
un’obiettiva incertezza sulla necessità o meno di allegare
all’offerta economica la fotocopia del documento d’identità, la stazione appaltante avrebbe dovuto considerare come non essenziale tale adempimento, per favorire la massima partecipazione delle imprese concorrenti, procedendo,
se del caso, all’integrazione documentale ai sensi dell’art.
46, comma 1, del codice dei contratti pubblici. Aggiunge il
Tribunale che in ogni caso, seppure dalle disposizioni del
disciplinare avesse potuto ricavarsi l’onere formale di cui
trattasi, nondimeno l’esclusione sarebbe illegittima, per
violazione del principio di tassatività delle cause di esclusione. L’art. 46, comma 1-bis, del codice dei contratti pubblici consente infatti alle stazioni appaltanti di disporre l’esclusione, oltre che per violazione di specifiche prescrizioni
normative, solo in ipotesi di incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienze dell’offerta. Nell’ottica sostanzialistica adottata dal legislatore, che sottende chiaramente il
principio generale della strumentalità delle forme, di cui
quello del raggiungimento dello scopo costituisce un corollario, non c’è spazio per cause di esclusione connesse al
mancato adempimento di obblighi formali, quando non sia
in dubbio il contenuto o la provenienza soggettiva dell’offerta. Le clausole escludenti di tale tenore sarebbero, difatti, senz’altro nulle, ai sensi della norma citata. Nel caso all’esame del TAR, nonostante la mancata allegazione del
documento d’identità all’offerta economica da parte delle
imprese escluse, non sussiste alcun dubbio sulla provenienza soggettiva delle offerte, atteso che le fotocopie dei
relativi documenti d’identità erano state comunque inserite
nei plichi contenenti la documentazione amministrativa.
Pertanto, lo scopo dell’obbligo formale in esame doveva
considerarsi pienamente raggiunto.
PIENA CONOSCENZA AI FINI DELLA DECORRENZA DEL
TERMINE PER IMPUGNARE L’AGGIUDICAZIONE
T.A.R. Umbria, 9 settembre 2014, n. 448 - Pres. Lamberti - Est. Amovilli
La “conoscenza” utile ai fini della decorrenza del termine per impugnare gli atti di una gara pubblica, di cui all’art. 120, comma 5, c.p.a., sempre laddove la violazione
non sia percepibile dal contenuto della dichiarazione di
cui all’art. 79, D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163, coincide con
la cognizione acquisita in sede di accesso informale, a
condizione che entro il termine di dieci giorni di cui al
citato art. 79 l’interessato presenti la relativa istanza.
In occasione dell’impugnazione di atti di gara pubblica il
TAR Umbria si pone d’ufficio la questione relativa alla tempestività di un ricorso, notificato soltanto il 9 gennaio 2014,
pur avendo il ricorrente ricevuto la comunicazione dell’aggiudicazione al controinteressato in data 26 novembre
2013, contenente peraltro solo il nominativo del vincitore e
l’ordine di graduatoria. Il TAR deve stabilire se la suddetta
comunicazione - di contenuto analogo a quella prevista
dall’art. 79, D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163 in quanto contenente le informazioni di cui al comma 2, lett. c) - sia stata
idonea o non a determinare la “piena conoscenza” ai fini
della decorrenza del termine decadenziale dimidiato di
Urbanistica e appalti 11/2014
trenta giorni di cui all’art. 120, comma 5, c.p.a., tenendo
presente che il ricorrente ha potuto percepire i vizi dell’aggiudicazione soltanto dalla concreta visione dell’offerta
economica del controinteressato avvenuta successivamente, a seguito all’istanza di accesso formale ex art. 13,
D.Lgs. n. 163 del 2006. Premette che in ambito comunitario vige il principio secondo il quale il termine per proporre
un ricorso diretto a far accertare la violazione della normativa in materia di aggiudicazione di appalti pubblici decorre
“dalla data in cui il ricorrente è venuto a conoscenza o
avrebbe dovuto essere a conoscenza della violazione stessa” (Corte giust. UE, sez. III, 28 gennaio 2010, C-406/08,
Uniplex UK Ltd), poiché l’obiettivo di celerità del contenzioso perseguito dalla stessa direttiva ricorsi non consente
agli Stati membri di prescindere dal principio di effettività
della tutela giurisdizionale, evidentemente leso laddove le
modalità di applicazione del termine di decadenza rendano
impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti
spettanti agli operatori economici concorrenti. Nel caso all’esame del TAR la comunicazione ricevuta dal ricorrente il
26 novembre 2013, benché di contenuto analogo all’informativa di cui all’art. 79, D.Lgs. n. 163 del 2006, non era
idonea a porre il concorrente a conoscenza dei documenti
e delle circostanze di fatto rilevanti ai fini della decisione
sulla proposizione del ricorso, dal momento che soltanto
con la presa visione dell’offerta economica dell’aggiudicatario è stato possibile verificare i vizi oggetto dell’impugnativa. Il TAR non condivide la tesi della sufficienza in ogni
caso dell’informativa di cui all’art. 79, D.Lgs. n. 163 del
2006, essendo a suo avviso indefettibile la necessità dell’accesso postumo alla documentazione di gara al fine della percezione della concreta lesività del procedimento di
aggiudicazione. E ciò tanto più ove si consideri che, nella
materia degli appalti, la prassi dei ricorsi cd. “al buio”, con
conseguente proposizione di motivi aggiunti, espone il ricorrente al rischio di coltivare un’azione manifestamente
infondata, con il rischio di subire una condanna per lite temeraria ai sensi dell’art. 26, comma 2, c.p.a., recentemente
resa ancor più rigorosa per effetto del D.L. 24 giugno
2014, n. 90 il cui art. 41, con norma ad hoc per il rito appalti, prevede il possibile aumento dell’importo della sanzione
pecuniaria sino all’uno per cento del valore del contratto,
ove superiore al limite di cui al comma 1. Ciò premesso, il
Tribunale ritiene però che è onere del concorrente, secondo un criterio di media diligenza professionale, richiedere
senza indugio l’ostensione informale nel termine di dieci
giorni di cui all’art. 79, comma 5-quater, D.Lgs. n. 163 del
2006, con l’obbligo dell’Amministrazione di soddisfazione
immediata e conseguente decorrenza del termine a partire
dal decimo giorno dalla predetta comunicazione qualora il
concorrente ometta di esercitare il predetto diritto. Tale
orientamento pare coniugare la finalità di celerità del contenzioso perseguito dalla stessa direttiva ricorsi con l’effettività della tutela giurisdizionale. Diversamente opinando, e
cioè richiedendo comunque per la piena conoscenza l’effettiva ostensione degli atti di gara mediante accesso formale (artt. 13, D.Lgs. n. 163 del 2006 e 23 ss., L. 7 agosto
1990, n. 241), si dilaterebbe eccessivamente il termine breve di impugnativa e le esigenze di accelerazione insite nel
rito appalti, potendo l’interessato, a proprio piacimento,
inoltrare istanza di accesso agli atti e avendo l’Amministrazione ulteriori trenta giorni dal ricevimento dell’istanza per
definire il procedimento ostensivo.
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MANCATA DIMOSTRAZIONE DEL POSSESSO DI SPECIFICA
AUTORIZZAZIONE PER PARTECIPARE ALLA GARA
T.A.R. Toscana, sez. II, 1° settembre 2014, n. 1409 Pres. Buonvino - Est. Massari
Qualora, per partecipare ad una gara pubblica, il concorrente deve essere in possesso di specifica autorizzazione, come nel caso di appalto di servizio di trasporto
di persone, è legittimamente escluso dalla procedura il
concorrente che non ha provato di avere tale autorizzazione.
La partecipante ad una gara pubblica impugna l’esito della
procedura indetta per l'affidamento del servizio di trasporto
scolastico, contestando i titoli di partecipazione dell’aggiudicataria ed affermando che la commissione di gara avrebbe dovuto disporne l’esclusione. L’aggiudicataria propone
ricorso incidentale sostenendo, a sua volta, che la ricorrente principale, che ha partecipato alla gara in veste di consorzio stabile, avrebbe dovuto essere esclusa dalla gara,
non essendo in possesso di un requisito essenziale richiesto dalla legge di gara, in violazione dell’art. 39, D.Lgs. 12
aprile 2006, n. 163. L’adito TAR Toscana, principiando dall’esame del ricorso incidentale, lo accoglie. Il comma 4 del
citato art. 39 stabilisce che “nelle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di servizi, se i candidati o gli offerenti devono essere in possesso di una particolare autorizzazione … la stazione appaltante può chiedere loro di
provare il possesso di tale autorizzazione”. Nel caso di specie l’esercizio dell’attività di trasporto di persone è subordinato al possesso di un titolo autorizzativo rilasciato dal Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, ovvero dell’iscrizione al Registro elettronico nazionale (REN), di cui all’art.
1 del Regolamento UE n. 1071/2009 per l’accesso alla professione di trasportatore su strada e l’esercizio della stessa.
La ricorrente principale, pur avendo dichiarato di “essere in
regola con tutte le autorizzazioni amministrative richieste
dalla vigente normativa di settore per l’effettuazione del
servizio in oggetto”, non ha prodotto la documentazione
1248
relativa all’iscrizione nel suddetto registro, documentazione
che non è stata richiesta neanche dalla stazione appaltante. Non varrebbe opporre che il requisito in parola sarebbe
in realtà posseduto dalla società consorziata per la quale il
Consorzio avrebbe dichiarato di voler partecipare e che, in
caso di aggiudicazione, sarebbe la materiale esecutrice del
servizio. Ed invero, nel caso in cui l’impresa concorrente ha
natura di consorzio stabile questo si pone direttamente in
veste di parte contrattuale, con relativa assunzione in proprio di tutti gli obblighi e le responsabilità (Cons. Stato, sez.
VI, 24 dicembre 2009, n. 8720). Segue da ciò che i requisiti
di partecipazione devono essere posseduti e verificati solo
in capo al consorzio stabile che partecipa alla gara, e non
anche in capo all'impresa consorziata indicata come esecutrice (Cons. Stato, sez. V, 27 aprile 2011, n. 2454; T.A.R. Liguria, sez. II, 21 febbraio 2013, n. 351), tanto più che, ricadendo la prestazione contrattuale direttamente sul consorzio, esso potrà anche provvedervi direttamente, senza essere vincolato alla originaria designazione (Cons. Stato,
sez. V, 29 novembre 2004, n. 7765). Accolto il ricorso incidentale, il Tribunale passa all’esame del ricorso principale,
il quale non è divenuto improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse in considerazione dell’esito del gravame
principale atteso che entrambi i ricorsi, proposti dalle due
uniche imprese rimaste in gara, fanno valere la medesima
causa escludente (Cons. Stato, Ad. Plen., 25 febbraio
2014, n. 9; Corte giust. UE, sez. X, 4 luglio 2013, C100/12). Il TAR ritiene fondato anche il ricorso principale
perché l’avvalimento, cui ha fatto ricorso l’aggiudicataria
per sopperire alla carenza della certificazione di qualità,
non possiede i requisiti stabiliti dalla legge. È ben vero, infatti, che la certificazione di qualità rientra tra i requisiti
soggettivi di carattere tecnico-organizzativo che, in astratto, possono essere oggetto di avvalimento, afferendo essa
alla capacità tecnica dell'imprenditore. È però necessario,
al fine di riconoscerne la validità, che l’impresa ausiliaria
metta a disposizione dell’altra il complesso aziendale cui la
certificazione stessa è riferita, il che nella specie non è avvenuto.
Urbanistica e appalti 11/2014
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Osservatorio in sintesi
Giurisprudenza
Osservatorio penale
a cura di ALESSIO SCARCELLA
EDILIZIA E URBANISTICA
INSUFFICIENTE IL MERO SBANCAMENTO DELL’AREA PER
IMPEDIRE LA DECADENZA ANNUALE DEL TITOLO
ABILITATIVO
Cassazione penale, sez. III, 4 settembre 2014, n. 36856
Il mero sbancamento non integra l'inizio dei lavori, che
deve avvenire entro il termine annuale dal rilascio del
permesso di costruire a pena di decadenza del titolo
abilitativo D.P.R. n. 380 del 2001, ex art. 15, dovendosi
invece aggiungere a tale attività una compiuta organizzazione del cantiere e altri indizi idonei a confermare
l'effettiva intenzione del titolare del permesso di costruire l'opera assentita.
Interessante la decisione della S.C. che contribuisce a delineare con sufficiente certezza il minimum richiesto dalla
legge al fine di impedire la decadenza del titolo edilizio. La
vicenda processuale segue al rigetto da parte della Corte
d'appello dell’impugnazione proposta dal Procuratore della
Repubblica presso il Tribunale avverso sentenza con cui il
Tribunale aveva assolto gli imputati dal reato di cui all'art.
110 c.p. e al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma 1, lett.
b), per avere realizzato, nelle rispettive qualità, opere edilizie abusive sulla base di atti di assenso illegittimi. Contro la
sentenza proponeva ricorso per cassazione il P.G., in particolare sostenendo, per quanto qui di interesse, la violazione del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 15 non essendo identificabile l'inizio dei lavori nel mero sbancamento e non essendo stato comunicato l'inizio dei lavori stessi all'ente competente.
DIVERSITÀ DEI TITOLI ABILITATIVI RICHIESTI PER LE
“VARIANTI IN SENSO PROPRIO” E PER QUELLE “VARIANTI
ESSENZIALI”
Cassazione penale, sez. III, 1° agosto 2014, n. 34100
In tema di reati edilizi, mentre le “varianti in senso proprio”, ovvero le modificazioni qualitative o quantitative
di non rilevante consistenza rispetto al progetto approvato, tali da non comportare un sostanziale e radicale
mutamento del nuovo elaborato rispetto a quello oggetto di approvazione, sono soggette al rilascio di permesso in variante, complementario ed accessorio, anche sotto il profilo temporale della normativa operante,
rispetto all'originario permesso a costruire, le “varianti
essenziali”, ovvero quelle caratterizzate da incompatibilità quali-quantitativa con il progetto edificatorio originario rispetto ai parametri indicati dall'art. 32 del D.P.R.
n. 380 del 2001, sono soggette al rilascio di permesso a
costruire del tutto nuovo ed autonomo rispetto a quello
originario e per il quale valgono le disposizioni vigenti
al momento di realizzazione della variante.
Urbanistica e appalti 11/2014
Il tema affrontato dalla Corte di Cassazione con la sentenza
in esame attiene all’esatta delimitazione dei titoli abilitativi
necessari per le varianti cc.dd. essenziali rispetto alle varianti in senso proprio. La vicenda processuale trae origine
dal provvedimento con cui il Tribunale ha rigettato l'istanza
di riesame proposta dalla proprietaria di un immobile avverso il Decreto con il quale il Giudice per le indagini preliminari, sulla ritenuta sussistenza dei reati di lottizzazione
abusiva di terreni ed altri reati urbanistici ed edilizi inerenti
la costruzione, in zona sottoposta a vincolo paesaggistico
ed in variazione essenziale e totale difformità dai titoli edilizi rilasciati, di 8 villette unifamiliari, aveva disposto il sequestro preventivo delle aree, dei terreni, delle opere e dei fabbricati meglio in detto decreto individuati. Contro l’ordinanza in questione, proponeva ricorso l’interessata, in particolare sostenendo l’insussistenza della illegittima trasformazione urbanistica e la mancata urbanizzazione dell'area.
La Cassazione, sul punto, ha respinto il ricorso e, nell’affermare il principio di cui in massima, ha richiamato un orientamento giurisprudenziale in precedenza già sostenuto dalla stessa Cassazione, rafforzandone la valenza argomentativa (in precedenza, in senso conforme: Cass. pen., sez. III,
24 giugno 2010, n. 24236, in CED Cass., n. 247686).
REATI EDILIZI
INSUFFICIENTE MOTIVARE SOLO SULLA SUSSISTENZA DEL
REATO EDILIZIO QUANDO IL SEQUESTRO PREVENTIVO
RIGUARDA ANCHE L’ABUSO DI UFFICIO
Cassazione penale, sez. III, 5 settembre 2014, n. 37194
Non esime il giudice del riesame dal dovere giuridico imposto dalla legge processuale - di pronunciarsi sulle
deduzioni difensive (nella specie, specificamente afferenti l'esistenza del fumus del reato di abuso d’ufficio
per cui era stato disposto il sequestro preventivo), il
mero richiamo alla complessità ed alla sicura superfluità di dover affrontare detta questione per essere "comunque" ravvisabile il reato edilizio che legittima il
mantenimento del vincolo cautelare.
La questione giuridica oggetto di esame da parte della Suprema Corte verte, in particolare, sulla individuazione dell’esatto dovere motivazionale che la legge impone al Tribunale del riesame nel caso in cui, unitamente al reato edilizio, sia contestato anche il reato di abuso d’ufficio a carico
degli amministratori locali. La vicenda processuale trae origine dall’ordinanza con cui il Tribunale del riesame, ha respinto le istanze proposte dagli indagati, confermando il
decreto di sequestro preventivo disposto dal GIP del tribunale avente ad oggetto l'area denominata ex Consorzio
Agrario. Il decreto era stato emesso in quanto gli stessi risultavano indagati per i reati di cui all'art. 323 c.p. e D.P.R.
n. 380 del 2001, art. 44, lett. a), in particolare per avere il
primo rilasciato, quale dirigente del dipartimento del territorio del Comune, in violazione di norme di legge, alla ditta
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proprietaria dell'area in oggetto, un'autorizzazione per la
demolizione e ricostruzione dell'edificio ex Consorzio, con
realizzazione di medie strutture di vendita in luogo di quelle
residenziali previste dal PRG e, ad entrambi, l'abuso edilizio
conseguente all'autorizzazione illegittima; le principali violazioni di legge ascritte al primo sono consistite nell'aver dato parere favorevole alla delibera di revoca del piano di recupero dell'area che era stato approvato con precedente
delibera e nell'aver concesso l'autorizzazione unica con cui
consentiva ai sensi della legge regionale applicabile (piano
casa) la demolizione e ricostruzione dell'edificio dell'ex
Consorzio agrario, con realizzazione di due medie strutture
di vendita non previste dal PRG che destinava l'area a zona
B2-1 (uso residenziale). Contro l’ordinanza i due indagati
presentavano ricorso per cassazione, in particolare dolendosi - per quanto qui di interesse - del fatto che il Tribunale
avrebbe motivato ritenendo assorbita la questione relativa
alla configurabilità del reato di abuso d'ufficio (che, si legge
in motivazione, “sarebbe assai complesso e comunque superfluo affrontare in questa sede”), in quanto la sola abusività dell'intervento in corso di realizzazione avrebbe giustificato pienamente il vincolo imposto; diversamente, sostenevano gli indagati, il Tribunale avrebbe dovuto delibare la
ricorrenza anche del reato in questione, sia sotto il profilo
oggettivo che soggettivo; l'intimo legame intercorrente tra
il reato di abuso d'ufficio e la violazione urbanistica avrebbe, invece, imposto al giudice del riesame di soffermarsi
sul fumus di tale delitto, laddove, si osserva, la ricorrenza
del reato urbanistico è stata ritenuta solo perché dipendente e ricollegato all'ipotesi delittuosa.
La tesi è stata ritenuta fondata dalla Cassazione che, sul
punto, nell’affermare il principio di cui in massima, ha precisato che se la motivazione offerta può essere in astratto
sufficiente a soddisfare quel minimo requisito motivazionale richiesto con riferimento alla sussistenza del fumus e del
periculum in mora quanto al reato urbanistico, non può sicuramente ritenersi adeguato per giustificare il mantenimento del vincolo cautelare in assenza di qualsiasi motivazione sul delitto di abuso d'ufficio. Non deve, infatti, dimenticarsi che non potrebbe ritenersi legittimamente disposto
il sequestro preventivo di un bene individuato come corpo
del reato di abuso di ufficio qualora siano stati contestati ai
pubblici amministratori comportamenti realizzanti inosservanza di norme disciplinanti la loro attività nell'emissione
dei provvedimenti adottati, senza peraltro indicare alcun
dato significativo di una condotta dei medesimi diretta a
favore o a danno di taluno. Invero, posto che tale finalità
costituisce elemento essenziale del reato di abuso, l'omissione suddetta comporta la non configurabilità, neppure in
astratto, del reato stesso, presupposto essenziale del sequestro a cui ricollegare i beni oggetto di quest'ultimo
(Cass. pen., sez. VI, 31 agosto 1995, n. 2578, in CED Cass.,
n. 202580).
PER LA SOSPENSIONE DELL’ORDINE DI DEMOLIZIONE
NECESSARIO ACCERTARE L’INESISTENZA DI CAUSE DI
INCONDONABILITÀ ASSOLUTA DELL’OPERA
Cassazione penale, sez. III, 5 settembre 2014, n. 37188
In sede di esecuzione dell'ordine di demolizione del manufatto abusivo, il giudice, al fine di pronunciarsi sulla
sospensione dell'esecuzione per avvenuta presentazione di domanda di condono edilizio, deve accertare, tra
l'altro, l'esistenza della imprescindibile condizione circa
l'insussistenza di cause di non condonabilità assoluta
1250
dell'opera, pervenendo così al rigetto dell'istanza per
essere l'abuso di assoluta consistenza riguardando
un'opera realizzata in zona vincolata.
Il tema oggetto di attenzione da parte della Suprema Corte
con la sentenza in esame è quello, assai frequente nella
pratica giudiziaria, dell’individuazione delle condizioni in
presenza delle quali il giudice dell’esecuzione può disporre
la sospensione (e/o la revoca) dell’ordine di demolizione di
un manufatto abusivo, ordine disposto in sede di condanna
divenuta irrevocabile. La vicenda processuale trae origine
dall’ordinanza con cui il Tribunale, in funzione di giudice
dell'esecuzione, ha rigettato l'istanza con la quale il condannato aveva chiesto la sospensione dell'ordine di demolizione di un manufatto, sospensione richiesta fino alla definizione del procedimento relativo alla domanda di condono
edilizio di cui al D.L. 30 settembre 2003, n. 269, convertito
nella L. 24 novembre 2003, n. 326. Ricorrendo in Cassazione, questi sosteneva che il Tribunale avrebbe violato il predetto D.L. n. 269 del 2003, art. 32, conv. in L. n. 326 del
2003, ovvero la disciplina del cd. terzo condono edilizio ivi
contenuta e le successive disposizioni, anche con riferimento alla pronuncia della Corte costituzionale n. 196 del
2004.
La Cassazione ha, però, dichiarato inammissibile il ricorso.
In particolare, nell’affermare il principio di cui in massima,
ha rilevato come non può essere disposta in sede di esecuzione la sospensione dell'ordine di demolizione impartito
dal giudice con la sentenza di condanna in attesa della definizione della procedura relativa al rilascio della concessione in sanatoria (cd. condono edilizio) qualora l'opera non
rientri tra quelle condonabili (Cass. pen., sez. III, 16 novembre 2004, n. 49399, in CED Cass., n. 230798), costituendo
ciò la puntuale applicazione del disposto di cui al L. 24 novembre 2003, n. 326, art. 32, comma 27, lett. d), di conversione con modificazioni del D.L. n. 269 del 2003, secondo
il quale non sono comunque suscettibili di sanatoria le opere che "siano state realizzate su immobili soggetti a vincoli
imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela degli
interessi idrogeologici e delle falde acquifere, dei beni ambientali e paesistici, nonché dei parchi e delle aree protette
nazionali, regionali e provinciali qualora istituiti prima della
esecuzione di dette opere, in assenza o in difformità del titolo abilitativo edilizio e non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici". Nella vicenda in esame, infatti, non si verte in ipotesi di illeciti cd.
minori (restauro e risanamento conservativo) ma si verte in
ipotesi di opere abusive non suscettibili di sanatoria, ai sensi del D.L. n. 269 del 2003, art. 32, comma 27, lett. d), poiché si tratta di nuove costruzioni realizzate, in assenza del
titolo abilitativo edilizio, in zona vincolata, opera non costituente pertinenza dell'abitazione principale dell'istante, trattandosi di un manufatto per una cubatura complessiva di
mc 478 ed utilizzato come abitazione.
ESISTE CONTRASTO IN GIURISPRUDENZA SULL'ATTITUDINE
DELLA RELAZIONE ASSEVERATA AD ESSERE INQUADRATA
NELLA CATEGORIA DEI CERTIFICATI
Cassazione penale, sez. III, 5 settembre 2014, n. 37174
È ravvisabile un contrasto nella giurisprudenza di legittimità In ordine alla configurabilità del reato di falsità
ideologica in certificati (art. 481 c.p.) in caso di falsificazione della relazione di accompagnamento alla DIA,
non essendone pacifica la natura di certificato in ordine
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alla descrizione dello stato attuale dei luoghi, alla ricognizione degli eventuali vincoli esistenti sull'area o sull'immobile interessati dall'intervento, alla rappresentazione delle opere che si intende realizzare e all'attestazione della loro conformità agli strumenti urbanistici ed
al regolamento edilizio.
La Corte di Cassazione torna ad occuparsi, nella sentenza
qui esaminata, della configurabilità del reato di falso ideologico nei confronti del professionista che provveda a redigere una falsa relazione di accompagnamento delle denuncia di inizio attività in materia edilizia. La vicenda processuale che ha fornito l’occasione alla Corte per occuparsi
della questione segue alla sentenza con cui la Corte di appello ha parzialmente riformato quella emessa dal Tribunale nei confronti di due imputati, condannati, per quanto qui
interessa, per i reati di esecuzione di opere edili in zona sottoposta al vincolo paesaggistico-ambientale in assenza di
permesso di costruire limitatamente alla costruzione di un
fabbricato denominato "B" (D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380,
art. 44, lett. e) e per falsità ideologica (art. 481 c.p.) in certificati commessa da persone esercenti un servizio di pubblica necessità (per entrambi i reati il primo, quale tecnico asseverante, progettista e direttore dei lavori ed, il secondo,
quale proprietario dell'area). Si rimproverava in particolare
agli imputati di aver eseguito i lavori sulla base di una DIA
alla quale erano allegate planimetrie ed altra documentazione attestanti una situazione di fatto diversa da quella
reale dando per esistente, contrariamente al vero, un vecchio fabbricato cd. "B" laddove esisteva solo una piccola
costruzione, tipo baracca, abusivamente eseguita e traslata
su un mappale diverso in quanto il fabbricato "B" fu demolito per consentire in loco la costruzione di un tratto autostradale. Contro la sentenza di condanna presentavano ricorso per cassazione ambedue gli imputati, in particolare
censurando la sentenza per vizio di violazione di legge e
motivazionali.
La Cassazione ha accolto il ricorso degli interessati non ritenendolo manifestamente infondato, in particolare osservando come la doglianza, con la quale si prospettava l'inconfigurabilità del reato previsto dall'art. 481 c.p., per l'assenza di sottoscrizione comportante l'inesistenza della relazione asseverata, l'inesistenza della stessa DIA e dunque
l'insussistenza del falso, non poteva ritenersi manifestamente infondata in presenza di una contrastante giurisprudenza di legittimità circa l'attitudine della relazione asseverata ad essere inquadrata nella categoria dei certificati (per
l'affermativa: Cass. pen., sez. III, 17aprile 2012, n. 35795,
in CED Cass., n. 253666; per la negativa: Cass. pen., sez. V,
26 aprile 2005, n. 23668, in CED Cass., n. 231906).
SI CONSIDERANO SEMPRE IN TOTALE DIFFORMITÀ DAL
P.D.C. GLI INTERVENTI RICADENTI IN ZONA
PAESAGGISTICAMENTE VINCOLATA
Cassazione penale, sez. III, 5 settembre 2014, n. 37169
In tema di reati edilizi, si considerano in ogni caso eseguiti in totale difformità dal permesso di costruire gli interventi che ricadono in zona paesaggisticamente vincolata, tanto perché, in presenza di interventi edilizi in
siffatte zone, è indifferente, ai fini della loro qualificazione giuridica e dell'individuazione della sanzione penale
applicabile, la distinzione tra interventi eseguiti in difformità totale o parziale ovvero in variazione essenziale, in quanto il D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, art. 32,
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comma 3, prevede espressamente che tutti gli interventi realizzati in zona sottoposta a vincolo paesaggistico
eseguiti in difformità dal titolo abilitativo, inclusi quelli
eseguiti in parziale difformità, si considerano come variazioni essenziali e, quindi, quali difformità totali.
La questione giuridica oggetto di esame da parte della Suprema Corte verte, in particolare, sulla legittimità o meno
dell’esecuzione, in base a titolo abilitativo diverso dal permesso di costruire, degli interventi edilizi eseguiti in zona
vincolata paesaggisticamente. La vicenda processuale trae
origine dalla sentenza con cui la Corte di appello di Lecce
ha confermato la pronuncia resa dal Tribunale che aveva
condannato per il reato di cui al D.P.R. 6 giugno 2001, n.
380, art. 44, lett. c) il titolare di una s.r.l. esercente attività
edilizia, per avere dato corso a lavori di edificazione delle
seguenti opere: realizzazione di una scala in c.a. sul lato
ovest con annessa rampa; realizzazione di una rampa scale
che conduce al lastrico solare; realizzazione sul terrazzino,
posto al lato Ovest, di strutture architettoniche a vela; realizzazione nell'area di pertinenza posta a Nord dell'immobile
di n. 4 pilastri in c.a.; ampliamento di circa mq. 4 del vano
identificato in progetto come “servizi”; fusione di locali
commerciali al piano terra, da tre unità previste in progetto
a due unità.
Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione l’imputato sostenendo che la Corte avrebbe erroneamente interpretato il D.P.R. n. 380 del 2001, artt. 31 e segg., ritenendo gli abusi come commessi in variazione essenziale
ed in totale difformità dal permesso di costruire laddove,
trattandosi invece di parziali difformità, il fatto andava sussunto nell'ambito della fattispecie prevista del D.P.R. n.
380 del 2001, art. 44, lett. a) e non avendo, in ogni caso, la
Corte d'appello tenuto in considerazione la novella di cui al
D.L. n. 69 del 2013 che, con l'art. 30, ha modificato l'art. 3,
comma 1, lett. d) T.U.E prevedendo la soppressione delle
parole “e sagoma” così da rendere irrilevanti le “modifiche
interne e di prospetto” sulla cui base sarebbe stata fondata
la sentenza di condanna emessa a carico del ricorrente.
La Cassazione, nel respingere il ricorso, ha però affermato
il principio di cui in massima, così richiamando una giurisprudenza consolidata, peraltro confermata anche dopo
l’entrata in vigore del cd. “decreto del fare”, su cui la difesa
aveva insistito, avendo infatti puntualizzato la giurisprudenza che l'art. 30 del D.L. n. 69 del 2013 (conv. in L. n. 98 del
2013), se consente di qualificare come “ristrutturazione
edilizia”, l'intervento di ripristino o di ricostruzione di edifici
o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, anche in
caso di modifica della sagoma degli stessi, richiede, però,
che sia accertata la preesistente consistenza dell'immobile
in base a riscontri documentali o altri elementi certi e verificabili (Cass. pen., sez. III, 7 febbraio 2014, n. 5912, in CED
Cass., n. 258597).
INAPPLICABILE L’ATTENUANTE DELLA RIPARAZIONE DEL
DANNO SE L’ABBATTIMENTO VOLONTARIO È SUCCESSIVO
ALL’ORDINANZA SINDACALE
Cassazione penale, sez. III, 5 settembre 2014, n. 37168
La circostanza attenuante della avvenuta riparazione
del danno non è applicabile ai reati edilizi quando l'abbattimento volontario dell'opera abusiva sia avvenuto
in epoca posteriore all'emanazione dell'ordinanza sindacale che impone la demolizione delle opere, la cui
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inottemperanza avrebbe determinato l'acquisizione del
sito al patrimonio comunale.
La sentenza in esame si occupa di un questione invero non
molto approfondita nella giurisprudenza di legittimità, in
particolare afferente alla possibilità di riconoscere la circostanza attenuante della riparazione del danno in caso di volontaria demolizione dell’abuso edilizio. La vicenda processuale vedeva imputato il proprietario di un immobile del
reato di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b), cui
era stato contestato di aver realizzato, in assenza del permesso di costruire, un muro con sovrastante basamento
delle dimensioni di m. l. 9,40x5,40 circa, sul quale era stato
eretto un fabbricato, costituito da blocchetti in cemento e
coperture in legno e tegole, aventi dimensioni planimetriche pari a m. l. 9,40 x5,40 ed altezze variabili dai m. l. 2,70
ai m. l. 3,70 all'interno del quale erano stati ricavati tre distinti ambienti mediante tramezzatura ed una tettoia. Contro la sentenza di condanna proponeva ricorso per Cassazione l’interessato, in particolare dolendosi della mancata
concessione dell'attenuante prevista dall'art. 62 c.p., n. 6,
nonostante l'avvenuta e spontanea demolizione del manufatto.
La Cassazione ha però respinto il ricorso dell’imputato e,
nell’affermare il principio di cui in massima, ha così inteso
richiamarsi ad un principio giurisprudenziale di recente affermato dalla giurisprudenza della Cassazione (v., in termini: Cass. pen., sez. III, 13 luglio 2011, n. 29991, in CED
Cass., n. 251025).
IL REATO DI OCCUPAZIONE ARBITRARIA DI SPAZIO
DEMANIALE È UN REATO A STRUTTURA TIPICAMENTE
DOLOSA
Cassazione penale, sez. III, 5 settembre 2014, n. 37165
Il reato di occupazione arbitraria di spazio demaniale è
un reato a struttura tipicamente dolosa, che rientra nelle ipotesi di cd. illiceità speciale in quanto nella descrizione della condotta tipica della contravvenzione è stato inserito l'avverbio arbitrariamente, con la conseguenza che per l'integrazione del modello legale è necessaria
la precisa consapevolezza di agire in violazione degli
elementi normativi del reato.
La sentenza in esame si occupa di un tema particolare nel
campo della disciplina edilizia, in particolare riguardante la
natura giuridica del reato di occupazione arbitraria di spazio demaniale, contemplato dall’art. 1161 c.n. La vicenda
1252
processuale segue alla condanna emessa nei confronti di
due donne, ritenute responsabili del reato previsto dagli
artt. 54 e 1161 c.n., cui si era accompagnata nel contempo
l’assoluzione, perché il fatto non costituisce reato, dal concorrente delitto di occupazione abusiva di suolo pubblico
(artt. 633 e 639-bis c.p.); alle stesse era stato contestato di
avere, in concorso tra loro, attraverso la realizzazione di un
muro di contenimento in pietra alto metri 2,50 circa, con
sovrastante giardino e di due balconi ognuno delle dimensioni di circa mq.2,00 invaso arbitrariamente circa mq. 110
di suolo demaniale al fine di occuparlo e/o di trarne altrimenti profitto. Nel pervenire a tale conclusione il Tribunale
osservava come le imputate, pur in presenza di fondati
dubbi circa i confini delimitanti la loro proprietà con quella
demaniale, avessero comunque invaso il suolo pubblico
con la conseguenza che, se in base alla maturata incertezza poteva essere escluso il dolo con esonero di responsabilità dal contestato delitto, residuava comunque un rimprovero a titolo di colpa, circostanza che rendeva configurabile
a loro carico la contestata fattispecie contravvenzionale.
Contro la sentenza di condanna le stesse proponevano ricorso per cassazione, in particolare sostenendo l’assoluta
mancanza di motivazione in ordine alla sussistenza dell'elemento psicologico.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima,
ha ritenuto fondato il motivo di ricorso, in particolare osservando come la sentenza avesse radicato il rimprovero sulla
mera colpa (v., sulla nozione di arbitrarietà: Cass. pen., sez.
III, 26 luglio 2011, n. 29915, in CED Cass., n. 250666), alla
luce della natura di norma a più fattispecie dell'art. 1161
c.n., tra loro distinte e costituite da elementi materiali differenti in rapporto alla condotta ed all'evento, le quali possono integrare diversi titoli di reato previsti dalla medesima
disposizione penale (occupazione arbitraria di spazio demaniale; esecuzione di innovazioni non autorizzate; inosservanza dei vincoli cui è assoggettata la proprietà privata nelle zone prossime al demanio).
La Cassazione ha, sul punto, accolto il ricorso del Procuratore e, nell’affermare il principio di cui in massima, ha ricordato che quegli “altri indizi”, idonei a confermare l'effettiva
intenzione del titolare del permesso di costruire l'opera assentita, devono consistere proprio “nell'impianto del cantiere, nell'innalzamento di elementi portanti, nell'elevazione di
muri e nell'esecuzione di scavi coordinati al gettito delle
fondazioni del costruendo edificio” (v., in senso conforme:
Cass. pen., sez. III, 23 febbraio 2010, n. 7114, in CED
Cass., n. 246220).
Urbanistica e appalti 11/2014
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Urbanistica e appalti
Indici
INDICE DEGLI AUTORI
Giurisprudenza
Corte UE
Canzonieri Enrico
10 luglio 2014, sez. X, C-358/12 ........................
Dopo la stipula del contratto di appalto la p.a. puo`
esercitare solo il recesso .................................
Corte costituzionale
1199
de Gioia Valerio
La demolizione delle opere tra esecuzione del giudicato e sanatoria ............................................
De Nictolis Rosanna
Il rito degli appalti pubblici dopo il D.L. 90/2014 ......
1157
Di Sciascio Alessandro
La compatibilita` comunitaria della proroga ex lege
delle convenzioni Consip .................................
1226
Ferrari Giulia
Osservatorio amministrativo .............................
1245
Foa` Sergio
Semplificazione degli oneri formali nelle procedure
di affidamento di contratti pubblici ......................
17 giugno 2014, sez. V, n. 3056 ........................
20 giugno 2014, Ad. Plen., n. 14 ........................
28 agosto 2014, Ad. Plen., n. 27 ........................
15 settembre 2014, sez. III, n. 4701 ...................
1147
Consiglio di giustizia amministrativa Regione Sicilia
1246
Tribunali amministrativi regionali
5 aprile 2013, Pescara, n. 197 ...........................
9 maggio 2014, Milano, sez. I, n. 1217 ................
8 luglio 2014, Torino, sez. II, n. 1171 ..................
18 settembre 2014, Toscana, sez. II, n. 1409 .........
9 settembre 2014, Umbria, n. 448 .....................
1129
19 settembre 2014, Sardegna, sez. I, n. 725 .........
3 luglio 2014, sez. I, n. 15260 ...........................
Dopo la stipula del contratto di appalto la p.a. puo`
esercitare solo il recesso .................................
28 luglio 2014, sez. III, n. 17085 ........................
Micalizzi Raffaele
Il servizio di teleriscaldamento: questioni definitorie
e tutela della concorrenza ................................
Mucio Carmen
Indicazione degli oneri per la sicurezza negli appalti
di lavori ......................................................
1210
1189
Patrito Paolo
La disciplina italiana sulla regolarita` contributiva e`
compatibile con il diritto UE ..............................
1172
Corte di Cassazione penale
18 agosto 2014, sez. III, n. 34100 .......................
4 settembre 2014, sez. III, n. 36856 ...................
5 settembre 2014, sez. III, n. 37168 ...................
5 settembre 2014, sez. III, n. 37169 ...................
5 settembre 2014, sez. III, n. 37188 ...................
5 settembre 2014, sez. III, n. 37194 ...................
1249
1249
1252
1251
1251
1250
1250
1249
INDICE ANALITICO
1245
Vapino Alessandra
La Cassazione conferma la responsabilita` precontrattuale della p.a. nella fase precedente l’aggiudicazione .........................................................
1181
1191
1190
1194
1192
1189
1192
1189
1140
Tarantino Luigi
Osservatorio amministrativo .............................
8 settembre 2014, sez. I, n. 18880 .....................
5 settembre 2014, sez. III, n. 37174 ...................
1249
Senatore Antonio
Incarichi legali ed evidenza pubblica ....................
27 agosto 2014, sez. III, n. 18316 ......................
5 settembre 2014, sez. III, n. 37165 ...................
Scarcella Alessio
Osservatorio penale .......................................
13 agosto 2014, sez. I, n. 17906 ........................
27 agosto 2014, sez. III, n. 18339 ......................
Pagani Ignazio
Osservatorio civile .........................................
7 agosto 2014, sez. I, n. 17783 .........................
8 agosto 2014, sez. I, n. 17809 .........................
1238
1225
1234
1225
1218
1248
1247
1246
Corte di Cassazione civile
Longo Antonino
1199
1225
1208
1195
1245
1245
12 settembre 2014, n. 534 ..............................
5 giugno 2014, L’Aquila, sez. I, n. 515 .................
Franco Italo
L’attivita` contrattuale della pubblica Amministrazione ............................................................
Consiglio di Stato
27 marzo 2014, sez. III, n. 1486 ........................
1221
1170
Appalti e lavori pubblici
Aggiudicazione
1182
T.A.R. Umbria, 9 settembre 2014, n. 448 (Oss.
amm.) .......................................................
1247
Arricchimento indebito
Cass. civ., sez. I, 7 agosto 2014, n. 17785 (Oss.
civ.) ..........................................................
INDICE CRONOLOGICO
1191
Collaudo
Legislazione
24 giugno 2014, D.L. n. 90 ...............................
Urbanistica e appalti 11/2014
1147
Cass. civ., sez. I, 7 agosto 2014, n. 17783 (Oss.
civ.) ..........................................................
1190
1253
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Indici
Contabilita` dei lavori
Cass. civ., sez. III, 27 agosto 2014, n. 18316 (Oss. civ.)
1189
Cass. civ., sez. III, 27 agosto 2014, n. 18339 (Oss.
civ.) ..........................................................
Convenzioni Consip
Responsabilita` della p.a.
La compatibilita` comunitaria della proroga ex lege
delle convenzioni Consip (T.A.R. L’Aquila, sez. I, 5
giugno 2014, n. 515; Cons. Stato, sez. III, 27 marzo
2014, n. 1486; T.A.R. Pescara, 5 aprile 2013, n. 197)
il commento di A. Di Sciascio ...........................
La Cassazione conferma la responsabilita` precontrattuale della p.a. nella fase precedente l’aggiudicazione (Cass., sez. I, 3 luglio 2014, n. 15260) il commento di A. Vapino ........................................
1225
Titoli abilitativi
Il rito degli appalti pubblici dopo il D.L. 90/2014 (D.L.
24 giugno 2014, n. 90, convertito, con modificazioni,
in L. 11 agosto 2014, n. 114) il commento di R. De
Nictolis ......................................................
La demolizione delle opere tra esecuzione del giudicato e sanatoria (T.A.R. Torino, sez. II, 8 luglio 2014,
n. 1171) il commento di V. de Gioia ....................
Cass. pen., sez. III, 4 settembre 2014, n. 36856
(Oss. pen.) ..................................................
Semplificazione degli oneri formali nelle procedure
di affidamento di contratti pubblici (D.L. 24 giugno
2014, n. 90, convertito, con modificazioni, in L. 11
agosto 2014, n. 114) il commento di S. Foa` ..........
1170
1189
Gara
T.A.R. Toscana, sez. II, 18 settembre 2014, n. 1409
(Oss. amm.) ................................................
1248
T.A.R. Sardegna, sez. I, 19 settembre 2014, n. 725
(Oss. amm.) ................................................
1246
1245
C.G.A. Sicilia, 12 settembre 2014, n. 534 (Oss.
amm.) ........................................................
1246
Raggruppamento temporaneo di imprese
1245
Cass. civ., sez. I, 13 agosto 2014, n. 17906 (Oss.
civ.) ..........................................................
1192
Risarcimento danni
Cass. civ., sez. I, 8 agosto 2014, n. 17809 (Oss.
civ.) ..........................................................
1194
Reati edilizi
Cass. pen., sez. III, 5 settembre 2014, n. 37194
(Oss. pen.) ..................................................
Cass. pen., sez. III, 5 settembre 2014, n. 37168
(Oss. pen.) ..................................................
1249
1251
Demolizione del manufatto abusivo
1250
Falsita` ideologica
Cass. pen., sez. III, 5 settembre 2014, n. 37174
(Oss. pen.) ..................................................
1250
Occupazione di spazio demaniale
1195
Servizi pubblici
Incarichi legali ed evidenza pubblica di A. Senatore .
Occupazione appropriativa
Cass. pen., sez. III, 5 settembre 2014, n. 37188
(Oss. pen.) ..................................................
Recesso
Il servizio di teleriscaldamento: questioni definitorie
e tutela della concorrenza (T.A.R. Milano, sez. I, 9
maggio 2014, n. 1217) il commento di R. Micalizzi ..
1249
Attenuanti
Cons. Stato, sez. III, 15 settembre 2014, n. 4701
(Oss. amm.) ................................................
Dopo la stipula del contratto di appalto la p.a. puo`
esercitare solo il recesso (Cons. Stato, Ad. Plen., 20
giugno 2014, n. 14) il commento di A. Longo e E.
Canzonieri ...................................................
Cass. pen., sez. III, 18 agosto 2014, n. 34100 (Oss.
pen.) .........................................................
Abuso d’ufficio
Normativa antimafia
Cons. Stato, Ad. Plen., 28 agosto 2014, n. 27 (Oss.
amm.) ........................................................
1249
Espropriazione per p.i.
Fermo amministrativo
Cass. civ., sez. I, 8 settembre 2014, n. 18880 (Oss.
civ.) ...........................................................
1218
Varianti
1147
DURC
La disciplina italiana sulla regolarita` contributiva e`
compatibile con il diritto UE (Corte giust. UE, sez. X,
10 luglio 2014, C-358/12) il commento di P. Patrito .
1181
Edilizia e urbanistica
D.L. 90/2014
1157
1192
Cass. pen., sez. III, 5 settembre 2014, n. 37165
(Oss. pen.) ..................................................
1252
Vincoli paesaggistici
1234
1140
Cass. pen., sez. III, 5 settembre 2014, n. 37169
(Oss. pen.) ..................................................
1251
Sicurezza
Indicazione degli oneri per la sicurezza negli appalti
di lavori (Cons. Stato, sez. V, 17 giugno 2014, n.
3056) il commento di C. Mucio .........................
1208
Atti amministrativi
Contratti
L’attivita` contrattuale della pubblica Amministrazione
di I. Franco ..................................................
1254
1129
Urbanistica e appalti 11/2014
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URBANISTICA E APPALTI - NOVEMBRE 2014 N. 11
CODICE
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Urbanistica
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COMITATO SCIENTIFICO
Matteo Baldi, Giovanni Balocco,
Claudio Contessa, Roberto Conti,
Giulia Ferrari, Saverio Musolino,
Luigi Tarantino
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