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Urbanistica e appalti Sommario OPINIONI Contratti Servizi pubblici L’ATTIVITA` CONTRATTUALE DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE di Italo Franco 1129 INCARICHI LEGALI ED EVIDENZA PUBBLICA di Antonio Senatore 1140 LEGISLAZIONE D.L. 90/2014 D.L. 90/2014 SEMPLIFICAZIONE DEGLI ONERI FORMALI NELLE PROCEDURE DI AFFIDAMENTO DI CONTRATTI PUBBLICI D.L. 24 giugno 2014, n. 90, convertito, con modificazioni, in L. 11 agosto 2014, n. 114 di Sergio Foa` 1147 1147 IL RITO DEGLI APPALTI PUBBLICI DOPO IL D.L. 90/2014 D.L. 24 giugno 2014, n. 90, convertito, con modificazioni, in L. 11 agosto 2014, n. 114 il commento di Rosanna De Nictolis 1147 1157 GIURISPRUDENZA Corte UE DURC LA DISCIPLINA ITALIANA SULLA REGOLARITA` CONTRIBUTIVA E` COMPATIBILE CON IL DIRITTO UE Corte di giustizia UE, sez. X, 10 luglio 2014, causa C-358/12 il commento di Paolo Patrito 1170 1172 Civile Responsabilita` della p.a. LA CASSAZIONE CONFERMA LA RESPONSABILITA` PRECONTRATTUALE DELLA P.A. NELLA FASE PRECEDENTE L’AGGIUDICAZIONE Cassazione civile, sez. I, 3 luglio 2014, n. 15260 il commento di Alessandra Vapino 1181 1182 OSSERVATORIO a cura di Ignazio Pagani 1189 Amministrativa Recesso ` ESERCITARE SOLO IL RECESSO DOPO LA STIPULA DEL CONTRATTO DI APPALTO LA P.A. PUO Consiglio di Stato, Ad. Plen., 20 giugno 2014, n. 14 il commento di Antonino Longo e Enrico Canzonieri 1195 1199 Sicurezza INDICAZIONE DEGLI ONERI PER LA SICUREZZA NEGLI APPALTI DI LAVORI Consiglio di Stato, sez. V, 17 giugno 2014, n. 3056 il commento di Carmen Mucio 1208 1210 Titoli abilitativi LA DEMOLIZIONE DELLE OPERE TRA ESECUZIONE DEL GIUDICATO E SANATORIA T.A.R. Piemonte, Torino, sez. II, 8 luglio 2014, n. 1171 il commento di Valerio de Gioia 1218 1221 Convenzioni Consip LA COMPATIBILITA` COMUNITARIA DELLA PROROGA EX LEGE DELLE CONVENZIONI CONSIP T.A.R. Abruzzo, L’Aquila, sez. I, 5 giugno 2014, n. 515 Consiglio di Stato, sez. III, 27 marzo 2014, n. 1486 T.A.R. Abruzzo, Pescara, 5 aprile 2013 n. 197 il commento di Alessandro Di Sciascio 1225 1226 IL SERVIZIO DI TELERISCALDAMENTO: QUESTIONI DEFINITORIE E TUTELA DELLA CONCORRENZA T.A.R. Lombardia, Milano, sez. I, 9 maggio 2014, n. 1217 il commento di Raffaele Micalizzi 1234 1238 Servizi pubblici Urbanistica e appalti 11/2014 1127 Urbanistica e appaltiAVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Sommario OSSERVATORIO a cura di Giulia Ferrari e Luigi Tarantino 1245 Penale OSSERVATORIO a cura di Alessio Scarcella 1249 INDICI 1253 Indice degli autori, indice cronologico, indice analitico COMITATO PER LA VALUTAZIONE A. Angeletti, G. Acquarone, M. Andreis, A. Bartolini, M. Bombardelli, C. Cacciavillani, M. M. Cafagno, R. Caranta, M. P. Chiti, F. Cintioli, S. Civitarese Matteucci, A. Clarizia, G. Clemente di San Luca, G. D. Comporti, M. Dugato, M. Esposito, R. Ferrara, F. Figorilli, E. Follieri, F. Fracchia, C. E. Gallo, G. Gardini, M. Immordino, G. Manfredi, F. Manganaro, B. Marchetti, M. Mazzamuto, A. Meale, G. Morbidelli, N. Paolantonio, V. Parisio, E. Picozza, M. Renna, G. Rossi, F. Saitta, D. Vaiano, F. Volpe, A. Zito Urbanistica e appalti Mensile di edilizia, urbanistica, espropriazione, appalti, lavori pubblici RESPONSABILI DI SETTORE Diritto costituzionale: Maria Teresa Sempreviva Diritto civile: Ignazio Pagani Diritto penale: Alessio Scarcella Diritto amministrativo: — Ambiente: Martino Colucci — Appalti pubblici: Roberto Damonte, Mauro Giovannelli, Barbara Mameli, Carmen Mucio — Edilizia e Urbanistica: Mario Bassani, Cesare Lamberti, Antonello Mandarano — Espropriazione e beni culturali: Paolo Carpentieri, Stefano Fantini — Processo Amministrativo: Massimo Andreis, Paolo Patrito Diritto comunitario: Francesco Leggiadro EDITRICE Wolters Kluwer Italia S.r.l. Strada 1, Palazzo F6 20090 Milanofiori Assago (MI) DIRETTORE RESPONSABILE Giulietta Lemmi REDAZIONE Ines Attorresi Maria Grazia Bonacini ([email protected]) Francesco Cantisani Per informazioni su gestione abbonamenti, numeri arretrati, cambi d’indirizzo, ecc. scrivere o telefonare a: IPSOA Servizio Clienti Casella postale 12055 – 20120 Milano telefono (02) 824761 – telefax (02) 82476.799 Servizio risposta automatica: telefono (02) 82476.999 Nell’ordine di acquisto i magistrati dovranno allegare fotocopia del proprio tesserino identificativo attestante l’appartenenza alla magistratura e dichiarare di essere iscritti all’Associazione Nazionale Magistrati. db Consulting srl Event & Advertising via Leopoldo Gasparotto 168 - 21100 Varese tel. 0332/282160 - fax 0332/282483 e-mail: [email protected] www.db-consult.it MODALITA` DI PAGAMENTO — Versare l’importo sul C/C/P n. 583203 intestato a WKI S.r.l. 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Opinioni Atti amministrativi Contratti L’attività contrattuale della pubblica Amministrazione di Italo Franco Lo scritto si propone di tracciare, con tratti per quanto possibile rapidi e concisi, un quadro attendibile delle trasformazioni, spesso scoordinate e finanche tumultuose, che vanno interessando l’ordinamento amministrativo ormai da oltre un ventennio. Lo sguardo è rivolto precipuamente all’attività contrattuale della p.a., e mira a mostrare come le tradizionali concezioni del diritto amministrativo - fino a poco tempo fa salde e indiscusse quanto meno sul piano teorico-sistematico - siano andate pressoché insensibilmente mutando fino ad assumere sembianze diverse. Il progressivo mutamento dell’assetto sistematico di tale branca del diritto sul versante descrittivo dell’attività a contenuto economico di organi ed uffici pubblici è avvenuto sotto la spinta di diversi fattori, il più potente fra i quali è costituito dall’irruzione del diritto di origine comunitaria, senza togliere importanza alla spinta endogena verso modus operandi e stilemi propri del diritto comune. Ne è risultato una sorta di diritto ibrido, alquanto insofferente (per ora) alla sistematizzazione e alla razionale articolazione del diritto in comparti. Premessa Lo scopo del presente scritto è quello di gettare uno sguardo d’assieme sulle trasformazioni che l’ordinamento amministrativo ha attraversato negli ultimi decenni (1) (tuttora il processo è in corso), e di mostrare come, da una visione pressoché monoliticamente improntata alla concezione pubblicistica, dove è insita la primazia dell’interesse pubblico su ogni altro tipo di interesse, si è a poco a poco passati quasi a concepire l’interesse pubblico medesimo come pari-ordinato rispetto all’interesse privato. In sostanza è accaduto che l’ottica delle relazioni giuridiche propria dei rapporti interprivati (dove il rapporto fra le parti è, quanto meno sul piano formale, improntato alla parità delle posizioni soggettive (2)) è andata insinuandosi gradatamente fra le maglie e gli interstizi degli istituti peculiari del diritto amministrativo, tanto da rendere difficile, oggi, il rispondere alla necessità, per lo più ineludibile, di dare prevalenza agli interessi pubblici e al bene comune (3) su interessi e appetiti dei soggetti privati (ivi compresi quelli formalmen- te pubblici, ma che operano alla stregua dei privati, sotto mentite spoglie, come si vedrà più avanti). Pertanto, il filo conduttore sarà costituito da quello che possiamo definire “incontro-scontro” tra la visione pubblicistica e quella privatistica nella gestione della cosa pubblica, vale a dire tra la concezione improntata ad una relazione (fra pubblici poteri e soggetti amministrati) di autoritatività - e di supremazia, dunque, dell’interesse pubblico su quello privato -, ed una visione orientata alla pariteticità fra le posizioni delle parti. (Il discorso riguarderà principalmente il versante dell’attività amministrativa che produce effetti, diretti o indiretti, sul piano economico). Ora, nel ripercorrere le linee evolutive dell’ordinamento amministrativo nel senso appena sintetizzato, risulterà che le trasformazioni in questione vanno messe in relazione, primieramente, con l’istituto del contratto, che apparirà come la chiave di volta e lo strumento centrale delle medesime trasformazioni (su ciò, infra). Da ciò consegue anche che l’analisi, per quanto per linee sintetiche, si svolgerà con peculiare riguardo all’attività della p.a. non (1) Per comodità prendiamo, qui, come momento iniziale di questa “evoluzione” del sistema normativo al riguardo, la data di emanazione della L. 7 agosto 1990, n. 241. (2) Quanto all’assunto che la parità delle parti sia soltanto formale in tantissime fattispecie contrattuali (laddove in realtà nelle medesime fattispecie si verifica la presenza di uno sbilanciamento fra le posizioni delle parti contraenti anche molto gravi), si veda, per qualche altro accenno sul punto, poco più avanti, nel testo. (3) Per accenni sulla questione del bene comune in non poche fattispecie (che oggi si agitano spesso sulla stampa, quotidiana e non) si rinvia a I. Franco, Il bene comune e l’incontroscontro tra pubblico e privato nell’attività della p.a., in questa Rivista, 2013, 6, 643. Urbanistica e appalti 11/2014 1129 Opinioni AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Atti amministrativi connotata, in linea di massima, dall’autoritività (propria dell’attività provvedimentale), bensì di carattere, in principio, privatistico ovvero di diritto comune (quando ciò è consentito), oppure, ancora, di carattere misto o speciale (4). Sul punto accenniamo solo, en passant, al rilievo che il potere di supremazia, o meglio l’attività provvedimentale comporta che l’amministrazione pubblica agisca con atti unilaterali e autoritativi, vale a dire provvedimenti, in grado di incidere ex auctoritate sua sulla sfera giuridica del destinatario. Il dato di fondo che sottostà alle presenti considerazioni è che la distinzione fra l’ambito, o dominio, dell’interesse pubblico (con il corollario dell’utilizzazione di strumenti esclusivamente pubblicistici), proprio degli organi dello Stato-apparato, e quello dei rapporti interprivati di pertinenza degli altri soggetti, per così dire, di diritto comune (con l’utilizzazione dei relativi strumenti, tra i quali primeggia il contratto) appariva, fino a non molto tempo fa, alquanto netta ed anzi assiomatica, laddove le cose sono andate intorbidandosi (rectius: ibridandosi) in prosieguo di tempo. (Ovviamente, la disciplina e il regime dell’attività propriamente pubblicistica si rinveniva nei principi e nelle regole che reggono l’ordinamento amministrativo - esplicati nella branca della scienza giuridica che prende il nome di diritto amministrativo -, mentre, notoriamente, le regole che reggono gli atti dei privati vengono trattate nel diritto privato, o diritto civile o, ancora, diritto comune). Ma, in verità, occorre dire che un certo grado di commistione nell’operato degli organi pubblici, quanto al modus operandi, fra aree pubblicistiche e privatistiche era da sempre presente nell’ordinamento, per quanto in forme meno coinvolgenti e impegnative rispetto ad oggi, quanto meno sul piano astratto o teorico-sistematico. In concreto, avveniva che, anche se quotidianamente le amministrazioni pubbliche emettevano atti retti dal regime In effetti, tutti gli autori che se ne sono occupati convengono nell’affermare che gli organi ed enti dello Stato-apparato (il complesso delle amministrazioni - e non solo (5) - pubbliche) sono dotati, oltre che della speciale capacità di diritto pubblico, che conferisce loro un potere di supremazia sui cittadini e su tutti gli altri soggetti amministrati, anche della comune autonomia e capacità negoziale (giuridica prima ancora che di agire) di diritto comune appartenente a tutti gli altri soggetti (6). Ciò significa, in concreto, che amministrazioni ed enti pubblici e loro organi sono legittimati ad emettere non solo atti e provvedimenti amministrativi, ma anche gli atti di diritto comune, alla stregua delle regole contenuti nel codice civile ed in altre leggi. Sempre da parte della dottrina si teorizzava, anzi, che in linea di massima - posto che comunque la p.a. agisce sempre al fine di realizzare l’interesse pubblico specifico di volta in volta perseguito nel contesto delle proprie competenze istituzionali e dell’interesse pubblico generico (rientrante nei compiti e nella sfera di competenza ad ogni ente assegnati dall’ordinamento) - in realtà la soddisfazione di tale interesse pubblico specifico potrebbe essere conseguita, in buona parte dei casi, tanto mediante atti amministrativi e/o provvedimenti (il che costituirebbe la via ordinaria), quanto mediante l’adozione di atti di diritto privato. L’esempio classico che si porta onde illustrare tale enunciato (7) è quello della finalità di acquisire un’area o un altro immobile necessario per realizzarvi un’opera pubblica, la quale, se può essere soddisfatta a mezzo dell’espropriazione per pubblica utilità (tipico (4) Dei contratti della p.a. cd. speciali si darà qualche cenno più avanti, nel testo. (5) In effetti, come già aveva chiarito da gran tempo (fin dalle prime edizioni del suo Manuale) Sandulli, nell’ambito dello Stato-apparato vanno inclusi anche amministrazioni ed organi che non appartengono al complesso della p.a. ma, ad es., al potere giurisdizionale o legislativo. (6) Si possono consultare, al riguardo, tutte le opere manualistiche, fra le quali ci limitiamo a citare, per tutti: A. M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, XIV ed., Napoli 1984, 714 ss., in particolare 715, dove l’A. nota l’esclusione di quelle posizioni proprie soltanto delle persone fisiche; E. Casetta, Manuale di diritto amministrativo, I, Milano 1999, 281282 (il quale osserva, tra l’altro: “prima ancora di essere ente pubblico, il soggetto pubblico è, in quanto persona giuridica, soggetto di diritto comune e dunque ha la relativa capacità giuridica”. E più avanti: “La circostanza che le pubbliche amministrazioni possano porre in essere atti di diritto comune perciò sottoposti al medesimo regime degli atti stipulati tra soggetti privati - non esclude poi la rilevanza pubblicistica del procedimento attraverso il quale il soggetto pubblico addiviene alla stipulazione dell’atto finale …” (per una più ampia illustrazione di quest’ultimo punto cfr. infra, nel testo); I. Franco, Manuale del nuovo diritto amministrativo, Padova, 2012, 544, 95, 797 e passim. (7) In tal senso si veda, da ultimo, G. P. Cirillo, I contratti e gli accordi delle amministrazioni pubbliche, in www.giustiziaamministrativa.it 31 marzo 2014, scritto destinato a confluire nel Manuale di diritto civile e commerciale, di prossima pubblicazione per i tipi della Giuffré. 1130 privato, ciò appariva marginale o secondario, specialmente perché, come si vedrà, tali atti riguardavano attività meno cospicue e consistenti. L’attività non autoritativa (o provvedimentale) della p.a. nelle impostazioni più tradizionali Urbanistica e appalti 11/2014 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Opinioni Atti amministrativi provvedimento unilaterale autoritativo), può esserlo ugualmente attraverso la cd. cessione bonaria (un contratto di compravendita stipulato previo accordo con il proprietario che, laddove intendesse cedere bonariamente il terreno, eviterebbe di esserne espropriato). Come si vede, qui l’accordo con il proprietario espropriando determina il blocco, o arresto, del procedimento di espropriazione, ed impedisce l’emissione del relativo decreto (provvedimento conclusivo del relativo procedimento). A prescindere dalla riferita teorizzazione, va detto, peraltro (e di ciò diremo più diffusamente fra breve), che - fermo restando che la maggior parte delle amministrazioni e degli enti pubblici (a parte quelli c.d. economici) ordinariamente agisce, al fine di realizzare l’interesse pubblico specifico di volta in volta perseguito, con gli strumenti propri del diritto amministrativo- gli stessi soggetti pubblici soddisfano una più o meno estesa gamma di compiti specifici mediante adozione di atti privatistici, vale a dire con strumenti del diritto comune. Ciò accade da sempre (specialmente con la stipulazione di contratti ordinari, o di diritto comune, in relazione ad affari per lo più di minore rilevanza economica: infra), e non ha mai messo in crisi la visione peculiarmente pubblicistica dell’azione della p.a. Si intende che, nei contratti ordinari, la qualità di soggetto pubblico dell’amministrazione contraente non rileva e non refluisce sul rapporto contrattuale, valendo in simili circostanze proprio ed esclusivamente le regole dettate dal codice civile (8). D’altronde, bisogna convenire che non sempre la realizzazione dell’interesse pubblico specifico attraverso strumenti di diritto comune riguardava affari minori, e non sempre si realizzava mediante strumenti di rilevanza economica quale il contratto. Rilevano, al riguardo, le convenzioni (tra amministrazioni e/o enti pubblici, e tra p.a. e privati). Il modulo convenzionale era ben conosciuto ed usato da molti anni (9), del resto divenuto strumento ordinario di gestione di attività e servizi pubblici da parte dei comuni a partire dagli artt. 22 e 24 della L. n. 142/90 sull’ordinamento delle autonomie locali): basti pensare, quanto alle prime, alle convenzioni tra Università e ASL, al fine di disciplinare l’attività di assistenza sanitaria con rilevanza ai fini della docenza universitaria e, quanto alla seconda ipotesi, alle convenzioni edilizie o alle convenzioni di lottizzazione. Si tenga presente, poi, che specialmente in relazione ad attività in dominio della p.a. ma di sicura se non esclusiva rilevanza economica, l’ordinamento conosce la figura dell’ente pubblico economico (10) (che agisce precipuamente avvalendosi di strumenti propri del diritto privato), di cui anche oggi conosciamo non pochi esempi. Viceversa, da ormai più di un paio di decenni si può dire che la visione stessa e gli stilemi propri del diritto civile siano entrati in modo progressivo ma sempre più penetrante ed esteso (come si vedrà) nell’area già di dominio (pressoché esclusivamente) pubblicistico, tanto da mutare la relativa disciplina più o meno sensibilmente quanto all’impronta sistematica di fondo e alla stessa percezione da parte degli operatori del diritto. Per quanto concerne le linee di tendenza dalle quali muove detto progressivo movimento, si può fare riferimento, più che sinteticamente: a) in primo luogo, alla presa in considerazione (e spesso, a conti fatti, alla sopravvalutazione) dell’amministrazione cd. negoziata o per accordi, che muove - sul piano generale - dalla L. n. 241/90; b) alla tendenza verso la cd. liberalizzazione e, ancora più, alla cd. privatizzazione (11) nella gestione di molteplici servizi pubblici e nello svolgimento di altre attività in dominio della p.a.; c) alla forte enfatizzazione, nei fatti, dello strumento contrattuale (in forme più o meno inedite) per comporre e conciliare l’interesse pubblico con quello privato; d) all’invadenza del diritto comunitario, che ha condotto alla distorsione di tradizionali e rilevanti istituti del diritto amministrativo (12). (8) Viceversa, come pure si accennerà più avanti nel testo, negli altri (più rilevanti) contratti speciali rilievo decisivo assume il fatto che l’ente (ad es., nei contratti di appalto pubblico) sia un soggetto pubblico, a causa dell’imponente massa di norme predisposte ad hoc per siffatti tipologie di contratti della p.a., che vanno ad aggiungersi o a derogare a quelle codicistiche. (9) Per qualche cenno sulle relative nozioni si rinvia a Casetta, Manuale di diritto amministrativo, cit. 607 ss. (10) Per la nozione di ente pubblico economico si veda, per tutti, V. Ottaviano, Ente pubblico economico, in Dig. discipl. pubbl., Torino, 1991, ad vocem; I. Franco, Manuale del nuovo diritto amministrativo, cit., 243-44 (cenni) e (per i nessi con la nozione di Organismo di diritto pubblico, di derivazione comunitaria), 249 ss. (11) Le due nozioni vengono spesso citate insieme, con qualche ambiguità e possibile confusione. Posto che si tratta comunque di concetti contigui, si può dire, icasticamente, che la privatizzazione attiene all’uscita, in tutto o in parte, di enti ed amministrazioni pubbliche (specialmente in passato, in primis il Tesoro) dal capitale di società pubbliche spesso di grande rilevanza economica, come è accaduto per ENI, ENEL, FS, etc.), mentre la liberalizzazione comporta che determinati settori di attività direttamente o indirettamente economiche gestite dalla p.a. in regime di privativa (id est, con esclusione di altri soggetti, in specie privati) vengano aperti alle imprese private, in regime di concorrenza. (12) Emblematico è il caso concernente la nozione teoricosistematica dell’istituto della concessione come classico istitu- Urbanistica e appalti 11/2014 1131 Opinioni AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Atti amministrativi Non si può concludere sul punto dell’immissione di moduli privatistici nell’azione della p.a. senza menzionare, quanto meno, il comma 1-bis dell’art. 1 della L. n. 241/90 (introdottovi dalla L. n. 205/2000). Testualmente, detta disposizione recita: “La pubblica amministrazione, nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme del diritto privato salvo che la legge disponga diversamente”. Non è il caso di soffermarsi più di tanto su di essa, quanto meno dal punto di vista di chi scrive, poiché, a nostro avviso, lungi dal determinare una svolta fondamentale nell’ordinamento amministrativo - con una sorta di inversione della visione tradizionale, facendosi ora prevalere l’impostazione civilistica o di diritto comune su quella pubblicistica (13) - la disposizione medesima non fa che ribadire una situazione in essere già da decenni, tutt’al più svolgendo un ruolo di avallo e rafforzamento della sottolineata tendenza verso la pretesa “privatizzazione del diritto della p.a.” (14). Interferenze e commistioni tra regimi pubblicistici e privatistici tra passato e presente Quello che si è fin qui detto mostra come le interferenze tra moduli propri del diritto amministrativo e stilemi e strumenti tipici del diritto interprivato costituiscano un tema non solo attuale, nel moto di trasformazione perenne dell’ordinamento giuridico (per quello che qui interessa, principalmente quello amministrativo). Ed invero, bisogna ricordare come già in passato, per quanto meno evidenti (o meno “pubblicizzate”), le interferenze tra regimi pubblicistici e civilistici non erano né scarse, né irrilevanti. Basti pensare al caso della cd. concessione-contratto, istituto da sempre contemplato nel nostro ordinamento e utilizzato da non poche amministrazioni pubbliche e variamente interpretato to del diritto amministrativo, ora molto ibridato per effetto dell’immissione della normativa comunitaria nel nostro ordinamento, quanto meno sul fronte della disciplina dei contratti pubblici di appalto. Su ciò infra nel testo. Infine, quanto alla disciplina dei contrati pubblici (di appalto o concessione), per tutti si rinvia a F. Caringella - M. Protto (curatori), Codice e regolamento unico dei contratti pubblici, Roma, 2011. (13) Quasi come se si volesse fuoruscire dalla famiglia degli Stati a diritto amministrativo per confluire verso schemi ordinamentali propri dei paesi di common low. (14) Per più ampie considerazioni sulla posizione di chi scrive si rinvia a I. Franco, Manuale del nuovo diritto amm., cit., passim. (15) C’è, comunque,una sostanziale diversità tra i due istituti: mentre nella concessione di un bene pubblico (anche in ordine al solo uso) è insita la finalità di consentire uno sfruttamento economico-commerciale del bene medesimo (ad es., 1132 e inteso dalla dottrina che si è interessata dell’argomento. Al riguardo si può dire, brevemente, che “in principio era la concessione” (vale a dire, il classico provvedimento amministrativo unilaterale, ampliativo della sfera giuridica del destinatario (ovvero concessionario), a fini di utilizzazione e sfruttamento economico, di un bene, o anche della gestione di un pubblico servizio (15). In effetti, anche stando alla tradizionale visione pubblicistica dell’istituto della concessione, va ricordato come, pressoché nella totalità dei casi, il provvedimento di concessione non venisse in essere da solo: il medesimo era, infatti, accompagnato dalla stipulazione di un accordo tra amministrazione concedente e privato concessionario, volto a disciplinare la vita del rapporto che veniva a sorgere sulla scorta di quel provvedimento. Nella concezione tradizionale il contratto che si accompagnava alla concessione era concepito come un quid di ausiliario e accessorio rispetto al provvedimento concessorio, anche se in realtà era (ed è, quando tuttora ricorre) un atto di tutto rilievo, diretto a disciplinare la vita del rapporto sorto sulla base del provvedimento di concessione. Nella costruzione tradizionale il contratto si concepiva come accessorio anche in altro senso, vale a dire rispetto alla formazione della volontà dell’ente concedente, nel senso che, mentre la volontà espressa dalla p.a. mediante l’emissione del provvedimento fungeva da elemento fondante e indispensabile dello stesso, l’adesione volontaria del privato sottoscrivente (concessionario) valeva soltanto come condizione di efficacia del provvedimento stesso (dunque, non quale elemento costitutivo di esso, ma solo quale strumento utile per dare concreta attuazione al medesimo (16)). E infatti certi autori, che più se ne sono interessati, vedevano la concessione-contratto (sorta di ircocervo, dalla doppia l’arenile di una spiaggia demaniale) al privato in cambio del pagamento di un canone, la concessione di lavori pubblici ovvero di servizi si presenta come uno strumento affine al contratto (pubblico di appalto), dove la differenza sta nella circostanza che il pagamento del corrispettivo alla società aggiudicataria consiste nei proventi che deriveranno dalla gestione dell’opera all’uopo realizzata o del servizio in questione, ovvero nel pagamento di un prezzo, che va ad aggiungersi ai detti proventi (nel caso che questi siano insufficienti a ripagare l’attività del gestore). (16) Tale era la situazione che si verificava, ad es., nel provvedimento di nomina a pubblico dipendente di una persona fisica, dante luogo ad un rapporto di pubblico impiego: cfr., tra gli altri, S. Buscema - A. Buscema, I contratti della pubblica amministrazione, II ed., vol. VII del Trattato di diritto amministrativo diretto da G. Santaniello, Padova, 1994. Urbanistica e appalti 11/2014 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Opinioni Atti amministrativi anima) come un istituto eminentemente e sostanzialmente privatistico (contrattuale) (17). In tale visione (del fenomeno concessione-contratto), era il secondo elemento dell’endiadi, insomma, a costituirne il fulcro, e porne la disciplina, passando così in secondo piano l’aspetto provvedimentale del rapporto medesimo. Ma in tal modo, pare evidente, l’istituto giuridico in discorso cessava di essere un istituto del diritto amministrativo, per entrare a far parte, pressoché in toto, di quello interprivato. (Non è senza importanza rilevare fin d’ora che, nella visione di origine comunitaria, recepita nel nostro ordinamento ancora prima dell’emanazione del D.Lgs. n. 163/2006 recante il codice dei contratti pubblici, la concessione tout-court - vale a dire, come istituto generale del diritto amministrativo - diviene, sic et simplicter, un contratto, con un bell’ossimoro rispetto alla tradizionale impostazione teorico-sistematica del nostro ordinamento amministrativo). Maggiormente rilevante, nell’ordine di pensiero or ora intrapreso (vale a dire, il tema della commistione tra pubblico e privato già nel sistema previgente), può considerarsi il caso, emblematico, degli enti pubblici economici. Questi soggetti nacquero, sulla base di previsioni di legge, al precipuo scopo di consentire a questo o a quel ramo dello Statoapparato di svolgere attività (pur sempre finalizzate alla realizzazione di particolari interessi pubblici) avvalendosi degli strumenti propri del diritto privato in luogo di quelli precipui del diritto amministrativo (si tratta di settori di attività dove prevale il profilo tecnico della gestione - e l’esigenza che questa sia efficiente ed efficace -, oltre che della funzionalità - su quello attinente all’esercizio di poteri più o meno autoritativi). Simili enti, dotati di autonomia gestionale e di bilancio - si pensi, per dirne una, a determinati istituti di credito, antecedentemente alla tumultuosa fase di trasformazione della disciplina del settore creditizio che ha travolto il precedente assetto delle Banche, ovvero alla tipologia di enti quale ad es., era l’ENEL prima che a sua volta il settore dell’energia elettrica fosse investito da sostanziali modifiche, con la liberalizzazione del settore e la cd. privatizzazione di tale soggetto -, insomma, operano contraendo obbligazioni e stipulando contratti con i soggetti con i quali vengono in rapporto e, infine, con logiche di gestione privatistiche (vale a dire, ispirate alla realizzazione di un profitto o utile ricavato dalla gestione delle attività di competenza). Peraltro, si deve registrare, al riguardo, la caduta in disuso, quasi, dell’espressione ente pubblico economico. La ragione di ciò sembra doversi ascrivere al più che rilevante fenomeno della penetrazione del diritto comunitario nell’ordinamento (specie amministrativo) e, più ampiamente, alle consistenti trasformazioni subite dall’ordinamento giuridico nazionale. Più specificamente, si può dire - senza tema di incorrere più di tanto in errore - che la nozione in discorso sia stata grosso modo assorbita dalla nozione (di derivazione comunitaria) di organismo di diritto pubblico, (18) nonostante che questi (gli organismi di diritto pubblico) tendano a coincidere, alla stregua della definizione che ne danno sia la direttiva 18/2004/CE sia la giurisprudenza della Corte di giustizia di Lussemburgo, piuttosto, con la nozione di ente pubblico non economico. Conclusivamente, mentre va ribadito che il nostro ordinamento è stato coinvolto in molteplici trasformazioni nei tempi più recenti - le più rilevanti e consistenti delle quali hanno interessato i settori retti da discipline di derivazione comunitaria, in quanto rientranti nei settori di attività (di amministrazioni ed enti pubblici) di interesse dell’UE - si può dire, in via di larga sintesi, che nel nostro diritto amministrativo si è percorso un itinerario che, partendo dal provvedimento autoritativo unilaterale, è pervenuto a modelli di amministrazione caratterizzati dall’accordo paritario tra la parte pubblica (p.a. procedente) e quella privata (destinatario del provvedimento conclusivo del procedimento) (19). (17) Per tutti si veda D’Alberti, Concessioni amministrative, in Enc. Giur. Treccani, ad vocem; idem, La concessione amministrativa, Napoli, 1981. (18) Per una trattazione sintetica della nozione di organismo di diritto pubblico si rinvia, per tutti, a I. Franco, Manuale del nuovo diritto amministrativo, cit., 249-251 e passim. (19) Per l’illustrazione più diffusa di queste tematiche ci sia consentito rinviare alle varie edizioni del ns. Il Procedimento amministrativo (commento alla L. n. 241/90 e alle successive modifiche subite da tale legge fondamentale), Padova, 2001. Urbanistica e appalti 11/2014 Tipologie di contratti della p.a. retti in toto dalla disciplina civilistica (cd. contratti ordinari) È il caso, a questo punto, di individuare e/o esemplificare tipi di contratti, posti in essere dalle amministrazioni pubbliche, che sono regolati sotto tutti gli aspetti dal codice civile, senza il sovrapporsi o l’aggiungersi di normative pubblicistiche, come accade per altre, più rilevanti, tipologie di contratto (cfr. infra). Esistono, invero, non pochi tipi contrattuali “comuni” usualmente utilizzati da- 1133 Opinioni AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Atti amministrativi gli uffici pubblici al fine di svolgere la loro attività, per lo più di rilievo marginale rispetto ai compiti connessi alle finalità istituzionali di propria competenza, nonché di rilievo anche consistente per quanto concerne contratti posti in essere in funzione strumentale rispetto al funzionamento di organi di amministrazioni o enti pubblici. In concreto, è dato riscontrare che molto frequentemente vengono posti in essere contratti comuni, ad es. per l’acquisto di materiale di cancelleria ovvero di altro materiale indispensabile per il funzionamento corrente degli uffici, ovvero volti a realizzare riparazioni o la piccola manutenzione dei locali ove hanno sede gli uffici, et coetera. Similmente, vengono spesso stipulati contratti di locazione di locali al fine di ospitare gli uffici, oppure di compravendita di immobili sempre volti alla medesima finalità. In simili casi la disciplina applicabile è quella dettata dal codice civile, e la qualità di ente pubblico di uno dei soggetti stipulanti non refluisce, ordinariamente, sulla vita del rapporto instaurato con il contratto. Per tale ragione i contratti in questione vengono definiti dalla dottrina “contratti ordinari”. Rientrano, inoltre, in detta categoria (in verità, più ancora prima delle ultime modifiche dettate dall’art. 125 del richiamato codice dei contratti pubblici) anche i cd. lavori in economia, realizzabili - alla stregua delle previsioni normative recate dalla legge di contabilità dello Stato e dal relativo regolamento, risalenti agli anni 1923 e 1924 (20) in amministrazione diretta ovvero mediante affidamento ad un imprenditore di fiducia dell’amministrazione - rectius: dell’agente responsabile - mediante il cd. cottimo fiduciario). Si tratta, anche in questo caso, di lavori, ed anche di servizi, di importo limitato, che giustifica, insieme all’urgenza (fermo restando il limite di spesa contemplato per tale tipologia di contratti), il ricorso a tale strumento in luogo dello svolgimento di apposite gare a evidenza pubblica (su cui infra). Per concludere il panorama dell’intera gamma dei contratti della p.a. (anzi, precipuamente, della loro classificazione), occorre richiamare la categoria più importante - cui or ora si è accennato - dei contratti stipulati a conclusione di una procedura concorsuale (gara) cd. a evidenza pubblica, ora dalla dottrina (21) unanimemente chiamati contratti spe- La cd. evidenza pubblica connota quelle tipologie contrattuali (cui si è appena accennato) rette da una disciplina composita, ma prevalentemente pubblicistica, ormai pressoché in toto di derivazione comunitaria. Un po’ semplificando, diremo che la felice espressione del Giannini (che la usò ben prima dell’intrusione nel nostro ordinamento del diritto comunitario), ormai da tempo entrata nell’uso, intanto rispecchia una categoria di fatto preesistente nella legislazione pregressa, vale a dire la già richiamata legge di contabilità dello Stato e relativo regolamento. Essa sta a significare che, al fine di concludere determinati contratti della p.a., assume significativa rilevanza il momento pubblicistico, come previsto nella normativa che disciplinava - e disciplina tuttora, seppure con intonazione diversa, dovuta principalmente all’intrusione del diritto comunitario - la materia. Si tratta, prevalentemente, dei contratti di appalto pubblico (e, per quanto detto poco addietro, contratto di concessione, di lavori o di servizi), ma non solo: infatti, tanto per menzionare un altro esempio ben noto, si pensi all’instaurazione del rapporto di lavoro alle dipendenze di una pubblica amministrazione (23), ai sensi del D.Lgs. n. 165/2001. Cos’hanno in comune siffatte tipologie di contratti? Il fatto che le vicende relative ad entrambi sono scindibili (anzi, scisse) in due tronconi, risalenti, la prima, ad una fase retta eminentemente dalle norme del diritto pubblico, e l’altra, invece, grosso modo dalle regole del diritto comune. Più in dettaglio, per communis opinio, si dice che la fase retta da norme del diritto amministrativo con- (20) Rispettivamente, R.D. n. 2340/23 e R.D. n. 827/24. (21) Si veda, per 41tutti, P. Cirillo, I contratti e gli accordi delle amministrazioni pubbliche, cit., 3 ss. (22) Per la definizione normativa delle due tipologie contrat- tuali si veda, in primo luogo, l’art. 3 del codice dei contratti pubblici (D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163). (23) Un tempo (anteriormente, cioè, al D.Lgs. n. 29/93), rapporto di pubblico impiego. 1134 ciali, per il fatto che essi sono disciplinati solo in parte dal regime civilistico (di diritto comune), che ne costituisce in certo modo l’ossatura e l’origine, laddove una parte molto rilevante della disciplina che li regola è di estrazione pubblicistica, il che rende affatto rilevante la circostanza che una delle parti contraenti sia un soggetto pubblico (si pensi alle ipotesi in cui la parte pubblica intenda svincolarsi dall’accordo, contando proprio sul fatto di essere tale). Si tratta di contratti di appalto pubblico (di lavori, di servizi e di fornitura) e di concessione pubblica (rispettivamente, di lavori pubblici o di servizi) (22). I contratti speciali e l’evidenza pubblica Urbanistica e appalti 11/2014 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Opinioni Atti amministrativi cerne il procedimento concorsuale volto alla formazione della volontà contrattuale dell’ente o amministrazione procedente (vale dire, lo svolgimento della gara sfociante, poi, nell’aggiudicazione, nel caso delle gare propedeutiche all’affidamento di appalti e concessioni al soggetto risultato aggiudicatario, ovvero lo svolgimento e valutazione delle prove inerenti al procedimento selettivo - il concorso pubblico - nel caso dell’assunzione alle dipendenze di una p.a.). Viceversa, una volta stipulato il contratto, sulla base del provvedimento di aggiudicazione nel primo caso e delle risultanze della graduatoria definitiva nel secondo caso, la vita del rapporto instaurato su quella base si svolge, nell’assieme, secondo la disciplina civilistica (nel caso del rapporto di impiego secondo le norme giuslavoristiche, ma non nella totalità dei casi (24)), dove entrano in gioco, sostanzialmente, posizioni giuridiche soggettive (quali, in breve, diritti ed obblighi) proprie del diritto comune. Conviene sottolineare che la distinzione tra la fase pubblicistica e quella civilistica rifluisce, nel nostro sistema di giustizia, sul riparto della giurisdizione sulle controversie nascenti, rispettivamente, nella fase concorsuale e, dopo, durante la vita del rapporto contrattuale, tra giudice amministrativo e giudice ordinario. Ed invero, sia detto, qui, schematicamente, nella fase inerente alla procedura concorsuale vengono in rilievo posizioni di interesse legittimo (25), laddove le controversie originatesi durante la vita del rapporto si innestano su contestazioni concernenti posizioni giuridiche definibili come diritti soggettivi. Dobbiamo, inoltre, avvertire che, specialmente in seguito all’apertura del sistema al risarcimento dei danni derivanti dalla lesione degli interessi legittimi, ma più ancora a seguito del recepimento da parte dell’Italia della c.d. “direttiva ricorsi”, la giurisdizione sulle controversie inerenti al risarcimento (come pure ai riflessi sul contratto già stipulato con la ditta risultata aggiudicataria a seguito dell’annullamento giudiziale (24) Categorie non contrattualizzate: si tratta, come è noto, di poche ma importanti categorie di lavoratori nell’assieme connotate dal fatto, evidente specialmente per talune di esse, di costituire un potere dello Stato (come i magistrati), ovvero di agire ed operare esprimendo il versante autoritativo o sovrano dello Stato (personale di polizia, militari). Significativamente, per tali categorie la giurisdizione sulle controversie inerenti al rapporto di impiego è rimasto, in via esclusiva, al giudice amministrativo. (25) In realtà, come abbiamo spesso sottolineato in altri nostri scritti, si tratta di una distinzione affatto schematica, e non poche volte del tutto astratta: pare evidente, infatti, che la posizione di chi - come, ad es., l’impresa che è stata esclusa dalla partecipazione alla gara, ovvero quella risultata seconda o Urbanistica e appalti 11/2014 di tale aggiudicazione qualificata illegittima con la sentenza) rientrano, ora, nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo anziché - come dovrebbe ragionarsi in base alla distinzione schematica previgente - al giudice ordinario (26). Linee di tendenza delle trasformazioni dell’ordinamento amministrativo quanto all’attività contrattuale della p.a. Passiamo, ora, a tracciare un quadro sintetico delle linee di tendenza dei cambiamenti normativi che sono andati affermandosi su più piani, con modifiche al sistema pregresso molto incisive, intervenute negli anni più recenti. In effetti, l’ordinamento amministrativo è andato in questi anni, anche se forse inavvertitamente, trasformandosi, sotto la spinta di vari fattori, ed oggi è qualcosa di sensibilmente diverso da quello che era qualche decennio fa, nel senso che ne sono cambiati anche tratti fondamentali. Anche quella che potrebbe definirsi “privatizzazione” della cosa pubblica, che è avanzata su fronti paralleli o piuttosto convergenti, a sua volta lentamente ma progressivamente, verso la medesima visione, si inserisce in questo macrofenomeno che ormai ci tocca tutti. A) Si è già accennato alla prepotente (si può dire) ascensione dei moduli dell’evidenza pubblica nelle procedure di gara che precedono la stipulazione dei contratti di appalto pubblico e di concessione (di lavori e di servizi): oggi l’apparato normativo che disciplina gli appalti pubblici si può dire semplicemente impressionante (la normativa è racchiusa in un codice dei contratti pubblici, di per sé imponente, e di un corposo regolamento (27)), che va pur sempre completato con le non poche (e non certo inconsistenti) direttive comunitarie in materia. Ecco, è proprio questo il più rilevante filone, o direttrice, di consistenti mutamenti nel nostro ordinamento amministrativo che hanno interessato come abbiamo già sottolineato -, tra l’altro, istituti terza classificata -, quando adisce il giudice (amministrativo), rispettivamente, per essere ammessa alla gara o per ottenere di essere classificata al 1° posto e divenire aggiudicataria, invoca una posizione giuridica soggettiva più prossima al diritto soggettivo che all’interesse legittimo. (26) Cfr. D.Lgs. n. 53/2010 e D.Lgs. n. 104/2010 (recante il codice del processo amministrativo, specialmente art. 133, dove si elencano le varie ipotesi di controversie devolute alla giurisdizione esclusiva del g.a.). (27) Rispettivamente, D.Lgs. 12 aprile 2006 n. 163 e D.P.R. 5 ottobre 2010 n. 207. Ma a tali fonti normative occorre aggiungere le disposizioni del capitolato generale e di non pochi decreti ministeriali, nonché le disposizioni recate da leggi regionali che dispongono in materia di appalti pubblici, ecc. 1135 Opinioni AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Atti amministrativi basilari, come la nozione di concessione ovvero di fornitura ad organi della p.a., sul che non ci soffermiamo oltre. Quello che conviene ricordare, al riguardo, è il meccanismo giuridico di operatività delle direttive comunitarie (non solo, beninteso, in materia di appalti, ma in qualsiasi altra materia di interesse comunitario) che, in breve, opera attraverso il recepimento delle direttive medesime da parte del singolo paese membro dell’UE, cosicché ci si trova, a recepimento avvenuto, di fronte ad una norma nazionale. Doveroso sembra, al riguardo, richiamare la ricorrenza di direttive cd. autoesecutive, nel senso che accade, a volte, che le disposizioni contenute in talune di esse siano suscettibili di applicazione immediata nei confronti dei cittadini e degli altri soggetti dell’ordinamento (28), anche a prescindere dal recepimento in una fonte normativa interna del singolo Stato. Tanto accade allorquando la previsione normativa comunitaria riconosca un diritto a determinati soggetti, o categorie di soggetti, senza sottoporre a condizioni o comandi il diritto medesimo, con la conseguenza che, nell’eventualità che il recepimento non sia avvenuto entro il termine fissato nella direttiva data, gli organi dello Stato e gli stessi organi giurisdizionali (in ipotesi di controversia al riguardo) non possono disconoscere il diritto nato dalla direttiva. Non può, inoltre, ignorarsi (nemmeno in una succinta trattazione come la presente, l’istituto, o piuttosto meccanismo, della disapplicazione delle norme interne (nazionali) che si pongano in conflitto con disposizioni di una direttiva comunitaria (come accadrebbe nel caso, ad es., di una norma nazionale che disconoscesse o ponesse comunque ostacoli al riconoscimento del diritto sorto da una direttiva UE). La disapplicazione, istituto di non frequente utilizzazione (specialmente in passato) del nostro ordinamento (29), è diventato più ricorrente proprio in seguito all’irruzione delle norme comunitarie (le direttive), allorquando il conflitto si è presentato tra norme, per di più appartenenti ad ordinamenti diversi (quello nazionale e quello comunitario). Detto per inciso, poiché si è considerato preminente l’ordinamento comunitario, si è stabilito che la norma nazionale in conflitto con esso cede davanti alla disposizione del Trattato o della direttiva di senso contrario. In base ad un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, la disapplicazione si è, poi, affermata anche in relazione all’ordinamento nazionale, nel contesto di situazioni che evidenziano conflitti tra norme che si presentano allorquando il conflitto si verifica tra norme (interne) appartenenti a fonti di rango diverso. Tanto accade in presenza di una o più disposizioni regolamentari confliggenti con norme di legge. In forza di tale modo di argomentare, così, non soltanto disposizioni recate da un regolamento comunale, provinciale o regionale, ma anche da un regolamento governativo non potranno applicarsi in ipotesi di loro contrasto con norme di legge (di rango, cioè, superiore) (30). Come si comprende, quello che potrebbe definirsi un principio (la disapplicazione) non è nient’altro sul piano teorico - che una manifestazione della gerarchia tra (ranghi diversi di) norme, e ciò vale sia nell’ambito del diritto nazionale, sia per quanto concerne i rapporti tra ordinamento comunitario e ordinamento nazionale. (È appena il caso di notare, peraltro, la profonda differenza tra l’annullamento dell’atto amministrativo - o anche della norma regolamentare - riconosciuti illegittimi, e la disapplicazione, che lascia in vita la norma in conflitto con altra norma di rango superiore, e che potrebbe - la prima -, in teoria essere applicata in altre occasioni e situazioni). In conclusione, si deve dire che, ormai, il diritto di origine europea condiziona pesantemente l’ordinamento nazionale e lo stesso procedimento normopoietico nazionale, spingendosi non poche volte specialmente attraverso le norme-principio, ad es., del Trattato - a disciplinare direttamente situazioni una volta in dominio del sistema normativo interno, e del suo farsi in conformità ai principi e alle regole dettate dalla Costituzione. Le conseguenze più vistose di ciò, detto in maniera rapida e appros- (28) Si sa, infatti, che le direttive sono, sì, fonti del diritto comunitario, ma operano, ordinariamente, non (come i regolamenti comunitari) direttamente nei confronti dei cittadini dei Paesi appartenenti all’UE, bensì nei confronti degli Stati membri, che esse obbligano a perseguire determinati obbiettivi o risultati, specificati nelle direttive medesime, entro un termine prefissato. (29) La disapplicazione era nota e praticata non in relazione a disposizioni di legge, ma solo con riguardo ad atti amministrativi giudicati illegittimi, in via incidentale, dal giudice ordinario nelle ipotesi di controversia soggetta alla giurisdizione del g.o. ma implicante l’applicazione di un provvedimento amministrativo (oppure anche di un atto pianificatorio, come, ad es., un piano urbanistico). La cosa riguardava, insomma, i criteri di riparto della giurisdizione tra giudice amministrativo e giudice ordinario. (30) Per più ampi cenni sui vari tipi di disapplicazione, si veda I. Franco, Gli strumenti di tutela nei confronti della pubblica amministrazione, II ed., Padova, 2003, 247-254; idem, Manuale del nuovo diritto amministrativo (La tutela nei confronti della p.a. nel mutato quadro normativo e giurisprudenziale), vol. I, Milano, 2008, 247-253. 1136 Urbanistica e appalti 11/2014 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Opinioni Atti amministrativi Da un lato il grande fabbisogno finanziario degli enti pubblici (a cominciare dalle amministrazioni centrali dello Stato), dall’altro l’accrescersi di compiti via via affidati (in misura crescente) dalle nuove leggi agli enti di autonomia locale (specialmente comuni e regioni) e, inoltre, la presenza di modelli esistenti ed operanti nei paesi a noi vicini, hanno indotto il sorgere ed affermarsi in maniera sempre più consistente dell’afflusso di capitali privati nella gestione della res publica attraverso forme di commistione di risorse finanziarie pubbliche e private nel finanziamento di opere pubbliche, et similia. Tutto ciò sostanzialmente riposa - e indulge - su una concezione, per così dire, paracontrattualistica del bene comune ovvero di quello che in passato si definiva tout-court interesse pubblico (o interesse generale), sostanzialmente considerando alla stregua dell’interesse particolare, ad es., di un’impresa (mirante naturalmente alla creazione di un profitto per sé), la ragione che muove organi pubblici alla costruzione di un’opera pubblica, ovvero alla gestione di una struttura creata per soddisfare interessi e bisogni dei cittadini, ecc. Di seguito si condurrà un molto succinto excursus sulle varie forme di penetrazione del capitale privato nella sfera dell’amministrazione pubblica, e sugli istituti giuridici in cui le stesse si sono concretizzate a seguito del recepimento legislativo della nominata tendenza. A) Società partecipate. L’inizio si ebbe, si può dire, con la previsione, nell’art. 22 della legge sull’ordinamento degli enti locali (L. n. 142/1990) dei vari modi di gestione dei servizi pubblici di competenza di enti di autonomia locale quali specialmente i comuni, tra i quali veniva inclusa, per la prima volta, la creazione di apposite società a capitale misto pubblico-privato per la gestione di specifici servizi (evidentemente, a contenuto tecnico-gestionale elevato o particolare). A mano a mano che si andava modificando l’ordinamento degli enti di autonomia locale (fino a pervenire al T.U. n. 267/2001), andava in qualche modo arricchendosi (o complicandosi) la disciplina di queste società di capitale dalla veste formale privata (s.p.a.). Senza pretendere di affrontare funditus l’argomento, possiamo dire, in estrema sintesi, che lo sviluppo avuto dell’istituto in discorso mostra la presenza (e l’accentuarsi) di due vistosi difetti contrapposti: la natura ibrida - quasi da ossimoro - sopra appena descritta; la logica di gestione e di governo di tali società che, formalmente di veste privata, vengono governate con le logiche della più vieta e bassa politica, con i connessi aspetti corruttivi oggi venuti clamorosamente alla luce (così che può dirsi che forse rispondevano meglio allo scopo ed erano meno esposte alla corruzione (?) - o forse più funzionali - le vecchie aziende municipalizzate, di fatto sostituite da questo nuovo ircocervo). Detto per inciso, in questa sede, il fenomeno è apparso più frequentemente come foriero di perplessità e conseguenze negative specialmente nel settore delle società di servizi, dove più forte e quasi naturale si è manifestata la necessità di associare alla proprietà pubblica le imprese dotate della capacità tecnica, gestionale e professionale occorrenti per la gestione di servizi caratterizzati dalla prevalenza del profilo tecnico (si pensi al settore dei rifiuti, della distribuzione di acqua o energia, ecc.). Il socio privato, quindi, andava ricercato per l’apporto non solo e non tanto di capitale, ma delle capacità appena menzionate. B) Un’altra direttrice, o filone, strettamente attinente all’ingresso del capitale privato nella gestio- (31) Lo scontro di sovranità, se mai esistito in forme aperte, ha visto il contrapporsi delle Corti costituzionali di tre Paesi con la Corte di giustizia di Lussemburgo. La prima a recedere è stata la Corte costituzionale italiana (che, con una ben nota sentenza del 1984, accettò la primazia del diritto comunitario rispetto a quello nazionale); seguì il Conseil constitutionel fran- cese, che ragionò in modo sostanzialmente analogo all’incirca nel 2005. Infine, la Corte tedesca di Karlsrhue soltanto oggi (2014) ha dato segni di cedimento, interrogando la CG sulla compatibilità dell’ordinamento comunitario con quello interno in tema di oneri del debito pubblico degli stati membri diversi dalla Germania. simativa, stanno in primis in un sostanziale (e sostanzioso) contrasto con la sovranità dello Stato (da noi, del resto, presto sopito (31)), in secundis nell’ibridazione del nostro ordinamento e, a seguire, nell’affermarsi inesorabile del totem della libera concorrenza (a tutto campo) e del mercato aperto (l’UE è, almeno fin adesso, l’Europa dell’economia, più precisamente del neo-liberismo spinto e inutilmente oppressivo quanto, ad es., ai rigidi e indiscutibili vincoli di bilancio dei singoli Stati, con l’aggravante che si tratta di una visione economica estremistica all’interno delle concezioni capitalistiche, di neo-liberismo spinto fino al limite dell’irragionevole e dell’errore, come si può vedere nella conduzione della profonda crisi che stiamo vivendo in Europa molto più che nel resto dell’Occidente …). L’ingresso del capitale privato nella gestione della cosa pubblica Urbanistica e appalti 11/2014 1137 Opinioni AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Atti amministrativi ne dell’attività che prima era esclusivo appannaggio della p.a. è costituito dalle STU (società di trasformazione urbana), istituto giuridico-finanziariotecnico non privo di interesse, preso dal sistema francese dove, come enti con partecipazione di capitale privato, erano state create le cd. SEML (societés mixtes d’economie sociale) (32). Qui, come appare evidente, il socio privato della STU sarà una società di costruzioni particolarmente attrezzata e qualificata (si pensa). C) Ma l’istituto più noto e, per così dire, propagandato (in ordine alla partecipazione del capitale privato nella gestione dell’interesse pubblico), di derivazione comunitaria, è la finanza di progetto (project financing). Si ricorre a tale strumento allorquando occorra reperire risorse finanziarie al di fuori dell’ambito pubblico, per via della scarsa (o nulla) disponibilità di denaro nelle pieghe dei bilanci dei comuni e di altri enti pubblici che intendano realizzare, specialmente, opere pubbliche ovvero strutture e impianti da porre al servizio dei cittadini-utenti, et similia. La finanza di progetto (33) è, ormai, uno strumento moto usato, per le ragioni brevemente richiamate più addietro, perché consente di realizzare opere e strutture pubbliche di grande impegno, pur nella penuria di risorse finanziarie pubbliche; ma, specialmente nell’attualità (giugno 2014), essa si è rivelata, purtroppo, facile strumento per l’agevole infiltrazione di corruzione a largo raggio, illeciti arricchimenti ai danni dell’erario e quant’altro (è per questo che, ad avviso di chi scrive, bisogna diffidare, in principio, della commistione con l’interesse pubblico di quello dei privati, quanto meno allorquando si tratti di interessi facenti capo ad imprenditori o altri soggetti miranti al profitto). D) Bisognerebbe parlare - sempre in tema di riorientamento del modus operandi degli organi dello Stato-apparato in senso tendenzialmente paritetico e in forme più o meno privatistiche - degli epifenomeni cd. della liberalizzazione (di attività in principio in dominio dell’amministrazione pubblica) e della privatizzazione di settori più o meno ampi dell’attività in precedenza facente capo ad organi e strutture (per lo più tecniche) dell’apparato costituito dai pubblici uffici. Non ci sembra, tuttavia, opportuno in questa sede trattare anche di queste tematiche, che ovviamente postulano una trattazione a se stante. Ci limitiamo, al riguardo, a rinviare (oltre agli accenni fatti retro nel testo) ad altri scritti e ad altre opere dedicati all’argomento (34). Non si può fare a meno di accennare, en passant, al cd. partenariato pubblico-privato, formalmente introdotto nel codice dei contratti pubblici (D.Lgs. n. 163/2006) da una novella del 2008. Ma si tratta, come si dirà brevemente, di una novità solo apparente, dal momento che le forme contrattuali incluse in questa figura già sono disciplinate dallo stesso codice. Dispone, infatti, il comma 15-ter dell’art. 3 del codice (introdottovi ad opera dell’art. 2 del D.Lgs. 11 settembre 2008 n. 152: «Ai fini del presente codice, i “contratti di partenariato pubblico-privato” sono contratti aventi per oggetto una o più prestazioni quali la progettazione, la costruzione, la gestione o la manutenzione di un’opera pubblica o di pubblica utilità, oppure la fornitura di un servizio, compreso in ogni caso il finanziamento totale o parziale a carico di privati, anche in forme diverse, di tali prestazioni, con allocazione dei rischi ai sensi delle prescrizioni e degli indirizzi comunitari vigenti. Rientrano, a titolo esemplificativo, tra i contratti di partenariato pubblico-privato la concessione di lavori, la concessione di servizi, la locazione finanziaria, il contratto di disponibilità (cfr. art. 44 D.L. 24 gennaio n. 1 conv. in L. 24 marzo 2012 n. 27), l'affidamento di lavori mediante finanza di progetto, le società miste. Possono rientrare altresì tra le operazioni di partenariato pubblico-privato l'affidamento a contraente generale ove il corrispettivo per la realizzazione dell'opera sia in tutto o in parte posticipato e collegato alla disponibilità dell'opera per il committente o per utenti terzi”. Come si vede, a parte la fattispecie del “contratto di disponibilità” (comunque rientrante nel genus degli strumenti consistenti nell’apporto di finanziamenti privati alla realizzazione di opere, servizi pubblici et similia), si tratta di figure contrattuali tutte già previste e disciplinate singolarmente nel medesimo D.Lgs. n. 163/2006 (cosicché l’unica utilità recata da questa nuova previsione normativa sembra consistere nell’avere accomunato il menzio- (32) Come si evince anche dalla denominazione, le SEML costituiscono in parte il modello anche delle società partecipate, cui si è accennato poco addietro nel testo (cfr. anche, per accenni sul punto, I. Franco, Manuale del nuovo diritto amministrativo, cit., 27). Quanto alle STU, cfr, ancora, ibidem, op. loc. cit. e, dello stesso A., Le società di trasformazione urbana nel quadro del nuovo diritto amministrativo, in Dir. Reg., 2001, 6, 1037 ss. (ivi indicazioni di bibliografia e giurisprudenza). (33) Naturalmente, la letteratura su tale istituto è, ormai, notevole. Rinviamo, per tutti, a F. Caringella - M. Protto (curatori), Codice e regolamento unico dei contratti pubblici, Roma, 2011, sub commento agli art. 153-160-bis. (34) Per tutti cfr. gli accenni in proposito contenuti nel ns. Manuale del nuovo diritto amministrativo, cit., 17 ss. 1138 Urbanistica e appalti 11/2014 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Opinioni Atti amministrativi nato “grappolo” di strumenti contrattuali preesistenti in un’unica figura-madre, una sorta di “famiglia contrattuale” (35), allo scopo di dettare una normativa applicabile uniforme). Come si evince da quanto siamo andati fin qui dicendo, non solo quella parte dell’ordinamento amministrativo che ne occupa, ma anche detto ordinamento su un piano più ampio ed esteso sono andati sensibilmente mutando da qualche decennio (specialmente gli ultimi due), attraverso il cambiamento anche di istituti fondamentali del diritto amministrativo. Tanto è avvenuto - ripetiamo qui sinteticamente - principalmente sotto la spinta di origine comunitaria, e, su un secondo versante, sotto una spinta altrettanto forte (si direbbe, una pulsione “cui resisti non potest”, una sorta di coazione a ripetere) verso forme di “privatizzazione” della gestione e dello svolgersi dell’attività di molteplici enti ed organi della p.a. Dunque, da una parte nel nostro ordinamento hanno fatto ingresso una nozione di concessione amministrativa diversa da quella tradizionale (che potrebbe sembrare, erroneamente, abbandonata) ed istituti nuovi quali, ad es., la finanza di progetto, ovvero nel campo degli appalti pubblici, una diversa e più ampia figura (non tanto di imprenditore, quanto) di operatore economico (legittimato a concorrere per l’aggiudicazione di commesse pubbliche), ecc. (senza parlare delle consistenti e sostanziali modifiche arrecate al sistema di giurisdizione amministra- tiva, quali, in primis, il risarcimento del danno per faute de service e così via, dall’altro avanza il modo di concepire sotto un’ottica a colorazione privatistica la gestione della res publica. Ove, poi, si tenga conto anche delle innovazioni che interessano più da vicino il complesso di norme concernenti i rapporti fra privati (basti pensare alle nuove prospettive riguardanti il diritto d’autore e, più in generale, la proprietà intellettuale e le opere dell’ingegno - si pensi alla creazione artistica che si esprime attraverso la produzione di film e brani musicali, pressoché liberamente, ormai, scaricabili da internet senza corrispondere il compenso a titolo di diritti d’autore ovvero, su altro, non troppo lontano, versante, al prepotere delle multinazionali, capaci di imporre i loro voleri agli Stati (ex) sovrani sub specie anche di creazione di norme internazionali (36) -), si comprende come, ormai, ci si muova, giuridicamente, su un piano affatto diverso da quello del passato, e ci si trovi al cospetto di quello che non sapremmo definire meglio se non come “diritto in movimento”, in continua attesa di una sistematizzazione che, forse, tarderà molto a venire. Verrebbe da parlare, in proposito, di un diritto ibrido, poiché gli elementi che lo compongono (o, meglio, caratterizzano) sono eterogenei per caratteri distintivi, provenienza e ratio, e apportano elementi spuri al sistema, che - quanto meno in via teorica - non si sa come saldare e coordinare con quelli preesistenti. (35) Sull’argomento si rinvia, per un primo commento, a S. M. Sambri, Le varie forme di partenariato pubblico-privato e la finanza di progetto nel nuovo assetto normativo, scritto rinvenuto su internet utilizzando come chiave di ricerca la denominazione in discorso. (36) Precipuamente attinenti alla risoluzione delle controversie attraverso arbitrati internazionali, come sta accadendo, ad es., in tema di trattato transatlantico, al momento in uno stadio avanzato di trattative tra USA ed UE che bisognerebbe augurarsi non arrivare alla conclusione, specialmente in ragione delle negative ricadute sulla sovranità degli stati firmatari e dei rispettivi cittadini. Al riguardo, si vedano gli ampi servizi dedicati all’argomento da Le Monde diplomatique, specialmente nel n. 6/2014. Conclusioni: il “diritto ibrido” Urbanistica e appalti 11/2014 1139 Opinioni AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Appalti e lavori pubblici Servizi pubblici Incarichi legali ed evidenza pubblica di Antonio Senatore (*) Il presente contributo si propone di trattare il tema dell’affidamento di incarichi professionali da parte delle amministrazioni pubbliche a professionisti esterni ad esse, con particolare attenzione agli incarichi affidati agli avvocati. Per tali affidamenti non solo saranno trattate le relative modalità e condizioni, ma altresì l’incidenza su di essi delle norme di cui alla recente Direttiva europea in materia di appalti. Premessa Il tema del conferimento degli incarichi professionali da parte delle amministrazioni pubbliche a professionisti esterni ad esse si presenta di particolare attualità, soprattutto con riferimento agli incarichi legali; ciò è tanto vero se si considera l’esistenza di difformi indirizzi giurisprudenziali in proposito, il che dimostra una concreta difficoltà di ricomporre la questione in maniera sistematica. Si ritiene tuttavia che su tale questione sicuramente avrà una positiva incidenza la nuova disciplina introdotta con la recente Direttiva comunitaria (1) in tema di appalti pubblici. Prima di ogni considerazione, però, è doverosa la trattazione e l’analisi della qualificazione degli incarichi professionali in esame e della rilevanza di tali affidamenti per la disciplina sull’evidenza pubblica. Incarichi legali ed appalti di servizi Secondo un primo orientamento, più volte condiviso in giurisprudenza (2) ma non definibile come preminente, le prestazioni rese dai professionisti in favore delle amministrazioni, ed in particolare quelle degli avvocati, sono da qualificarsi in tutti casi come “servizi”, o meglio, come attività riconducibili nel novero dei “servizi legali” quale settore (*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla valutazione di un referee. (1) Direttiva 26 febbraio 2014, n. 2014/24/UE, pubblicata sulla GUCE 28 marzo 2014, n. 94, in www.eur-lex.europa.eu. (2) T.A.R. Lazio, Latina, sez. I, 20 luglio 2011, n. 606, in Foro Amm. TAR, 2011, 2395 ss.; Corte Conti, sez. controllo Veneto, delibera 21 gennaio 2009, n. 7/2009/par e 19 giugno 2008, n. 19/2008/par, entrambe in www.corteconti.it; T.A.R. Calabria, Reggio Calabria, 4 giugno 2008, n. 330, in Rass. Forense, 1140 cd. escluso indicato al punto 21 dell’allegato II B del D.Lgs. n. 163/2006. L’impostazione anzidetta accoglie un’accezione molto ampia di servizi legali, riconducendo ad essi, senza eccezione alcuna, ogni attività svolta da avvocati libero professionisti in favore delle amministrazioni, secondo una linea di continuità con l’elencazione dei servizi contenuta nell’art. 50 del Trattato CE, che in tale categoria include pure le “attività delle libere professioni”, fornite normalmente dietro retribuzione, al fine di evitare restrizioni alla libera prestazione di esse nell’ambito dell’Unione Europea. Si tratta di una definizione, come efficacemente evidenziato, di tipo “oggettivo” che non tiene conto della soggettività giuridica di chi svolge il servizio (3). Infatti, il codice degli appalti, all’art. 34, nell’individuare i contraenti dell’amministrazione, non distingue l’imprenditore dal professionista, riconducendo entrambe le figure nella più ampia nozione di operatore economico (4). L’applicazione del codice dei contratti pubblici alle prestazioni professionali degli avvocati, secondo l’orientamento in esame, discenderebbe anche in virtù della definizione di servizio contenuta nell’art. 1, comma 1, del D.Lgs. n. 59 del 26 marzo 2010 (“Attuazione della direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno”), secondo cui servizio è qualunque at2007, 776; T.A.R. Puglia, Lecce, sez. II, 25 ottobre 2006, in www.giustizia-amministrativa.it. (3) C. Mucio, Legittimità dell’affidamento del patrocinio legale senza gara, in questa Rivista, 2012, 1183 ss. (4) Sul tema della mancanza di una distinzione a livello comunitario tra libero professionista e imprenditore si veda T.A.R. Veneto, sez. I, 26 marzo 2009, n. 881, in www.giustiziaamministrativa.it. Urbanistica e appalti 11/2014 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Opinioni Appalti e lavori pubblici Per un secondo orientamento, affermatosi occasionalmente in giurisprudenza (7), le prestazioni pro- fessionali degli avvocati in favore delle amministrazioni sono in tutti i casi da qualificarsi come prestazioni rese in esecuzione di contratti d’opera intellettuale, ex artt. 2229 c.c. ss., la cui disciplina risiede, non nelle disposizioni sull’affidamento dei contratti pubblici, ma nell’art. 7, commi 6 e 6-bis, del D.Lgs. n. 165/2001, per come modificato dall’art. 32 del D.L. n. 223/2006, convertito in L. n. 248/2006, regolante i rapporti di collaborazione autonoma tra amministrazione e privati. L’impostazione in questione si differenzia da quella precedentemente richiamata per il rilievo assegnato alle caratteristiche soggettive di chi svolge l’attività, assegnando alle stesse caratteristiche soggettive un valore dirimente al fine di escludere la qualificazione delle prestazioni in termini di servizi legali di cui alla disciplina dei contratti pubblici. In particolare, è messo in risalto che il contratto d’opera, stipulato tra amministrazione e professionista, presenta in comune con il contratto di appalto di servizi, stipulato tra amministrazione e imprenditore, gli elementi di indipendenza rispetto al committente e l’assunzione del rischio, ma si differenzia dal secondo per via non della natura dell’oggetto oppure del contenuto della prestazione, bensì solo per gli aspetti organizzativi del soggetto che deve compiere la prestazione (8). In altri termini, l’appalto si differenzia dal contratto d’opera intellettuale perché l’appaltatore deve necessariamente essere un’impresa e non un libero professionista iscritto in appositi albi (9). Dunque, sia nel caso di singoli incarichi professionali, che in caso di attività di assistenza e consulenza per un tempo determinato, verrebbe in rilievo una collaborazione autonoma riconducibile all’art. 7 del D.Lgs. n. 165/2001, mentre, anche in questo caso, nessuna valenza assume il carattere fiduciario che connota l’assegnazione del singolo incarico di patrocinio in una lite giudiziale. Di conseguenza, in ossequio alle previsioni di cui alla norma appena richiamata, ogni tipo di incarico potrebbe essere assegnato all’esterno solo in esito ad una valutazione comparativa tra più soggetti aspiranti, la cui indizione, sempre come sancito dalla norma, deve essere caratterizzata da massima pubblicità ed il relativo svolgimento deve essere retto (5) T.A.R. Lazio, Latina, n. 606/2011, cit. (6) Amplius sui principi dell’evidenza pubblica, S. S. Scoca, I principi dell’evidenza pubblica, in I contratti di appalto pubblico, a cura di C. Franchini, Torino, 2010, 289-344. (7) T.A.R. Campania, Napoli, sez. II, 24 aprile 2008, n. 4855, in www.giustizia-amministrativa.it. (8) Cass. civ., sez. lav., 26 giugno 2013, n. 16092, in Diritto e Giustizia on-line; Cass. civ., Sez. Un., 19 ottobre 1998, n. 10370, in Giust. Civ. Mass., 1998, 2123; Cons. Stato, sez. IV, 28 agosto 2001, n. 4573, in Foro It., 2002, 110. (9) Sulla distinzione tra appalto e contratto d’opera intellettuale, amplius, L. Moscarini, L’appalto nel codice civile e nel codice dei contratti pubblici, a cura di M. A. Sandulli, R. De Nictolis, R. Garofoli, Milano, 2008, 68 ss. tività economica, imprenditoriale o professionale, svolta senza vincolo di subordinazione, diretta allo scambio di beni o alla fornitura di altra prestazione anche a carattere intellettuale. In tale ottica, costituisce affidamento di un servizio legale anche l’affidamento di un singolo incarico professionale a un avvocato (per la difesa in giudizio dell’amministrazione o per la redazione di un parere), dunque, non solo l’affidamento di rapporti più complessi, come attività di consulenza che si protraggono per un certo periodo di tempo e che presuppongo l’inserimento, per quanto provvisorio, del prestatore (id est del professionista) nella struttura burocratica dell’amministrazione. L’orientamento in esame, quindi, nell’equiparare a livello normativo ogni attività professionale svolta dall’avvocato, non assegna alcuna rilevanza al carattere fiduciario che caratterizza il contratto di patrocinio in giudizio, evidenziando come tale carattere non possa validamente rappresentare ragione di distinguo rispetto al caso di affidamento di attività di consulenza per un determinato periodo di tempo o di patrocinio per un numero predefinito di contenziosi. Tale conclusione è giustificata dal fatto che pure in questi ultimi casi la fiduciarietà non è assente, al contrario, si tratterebbe di un elemento maggiormente presente considerato che l’attività di consulenza e/o di patrocinio per un certo periodo di tempo sarebbe ancora più complessa e variegata rispetto all’espletamento di un singolo patrocinio legale (5). Dalla suddetta qualificazione discende la necessaria osservanza, per l’affidamento degli incarichi legali, delle previsioni di cui agli artt. 20, 65, 68, 225 e l’art. 27 del codice appalti, quest’ultima disposizione relativa ai principi fondamentali in tema di affidamento dei contratti nei settori cd. esclusi, come appunto quello dei servizi legali, nella quale sono richiamati i principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, economicità, trasparenza e proporzionalità (6). Incarichi legali e rapporti di collaborazione autonoma Urbanistica e appalti 11/2014 1141 Opinioni AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Appalti e lavori pubblici Vi è un terzo orientamento sulla qualificazione da assegnare alle prestazioni rese dai legali in favore delle amministrazioni, maggiormente condiviso in giurisprudenza (10), che si ritiene essere in linea, come si dirà meglio infra, con le nuove indicazioni normative contenute nella Direttiva comunitaria sugli appalti. Secondo tale orientamento, che si può dire si pone in posizione intermedia tra i due orientamenti anzidetti, si è al cospetto di attività riconducibili nel concetto di servizi legali soltanto qualora l’affidamento non si esaurisca nel patrocinio legale occasionale o episodico dell’amministrazione, ma si configuri come modalità organizzativa di un servizio, affidato a professionisti esterni, più complesso e articolato, che può anche comprendere la difesa giudiziale ma in essa non si esaurisca. Dunque, soggiacciono alle regole della evidenza pubblica i soli rapporti che presentano predeterminabilità degli aspetti temporali, economici e sostanziali della prestazioni. L’orientamento in discorso, analogamente al secondo esaminato poc’anzi, muove dalla qualificazione degli incarichi legali in termini di contratto d’opera intellettuale ex artt. 2229 ss. c.c., ritenendo in che la natura del rapporto non muti in ragione delle caratteristiche del committente, ma giunge a conclusioni differenti, quanto a modalità di confe- rimento degli stessi incarichi, alla luce delle caratteristiche di questi. Come anticipato, è escluso che si possa procedere all’affidamento con una selezione qualora l’incarico consista nell’occasionale o episodico patrocinio legale dell’ente in giudizio oppure nell’altrettanto occasionale o episodico svolgimento di una attività di consulenza legale. Sono diversi gli argomenti su cui si fonda tale impostazione teorica. Il primo prende le mosse dalla caratteristiche che riguardano, soprattutto, l’attività di difesa legale in giudizio, la quale, riconnettendosi ad interessi costituzionalmente rilevanti, elevabili a veri e propri diritti inviolabili quale alla difesa ex art. 24 della Cost., presenta delle peculiarità, come il requisito della fiduciarietà del rapporto tra legale e parte assistita, che impongono un trattamento a livello normativo differenziato rispetto alle altre ipotesi di rapporti professionali (si pensi all’incarico professionale di progettazione o di redazione di uno strumento urbanistico ove il requisito della fiduciarietà è mancante o, comunque, non ha una valenza caratterizzate del rapporto che è invece imperniato soprattutto sul possesso di determinate competenze tecniche). Proprio in virtù delle caratteristiche dell’attività di patrocinio in giudizio che l’orientamento in discorso ritiene non decisivo il dato letterale del punto 21 dell’allegato II B del D.Lgs. n. 163/2006 al fine di ricondurre sempre e in tutti i casi l’attività legale nel concetto di appalto di “servizi legali”. Si aggiunge al dato testuale il fatto che il patrocinio in giudizio è conferito in un momento di bisogno di assistenza legale, che per natura è un bisogno occasionale e contingente che non ricorre nel caso delle esigenze di servizio, le quali, invece, sottintendono un bisogno non episodico ma perdurante nel tempo, riconducibile alla necessità di perseguire i fini istituzionali dell’amministrazione. La difesa in giudizio rappresenta, più che un servizio di cui ha necessità l’amministrazione, l’esercizio di un diritto/dovere correlato al bisogno a che sia affermata la rispondenza dell’attività amministrativa svolta al paradigma normativo prestabilito, nei casi in cui dovessero sorgere dubbi in proposito nell’ambito delle liti giudiziali che vedono coinvolta la p.a. Le caratteristiche anzidette dell’attività di patrocinio in giudizio, nonché la circostanza che tale atti- (10) Da ultimo, T.A.R. Campania, Salerno, sez. II, 16 luglio 2014, n. 1383, in www.lexitalia.it; Cons. Stato, sez. V, n. 2730/2012, in questa Rivista, 2012 con nota di C. Mucio, cit., 1181 ss.; Cons. Stato, sez. V, 29 gennaio 2008, n. 263, in Foro Amm. CdS, 2008, 112; Corte Conti, sez. controllo Basilicata, delibera 3 aprile 2009, n. 19/2009/par, in www.corteconti.it; Autorità per la Vigilanza sui contratti, determina 7 luglio 2011, n. 4, in www.avcp.it. dai fondamentali principi che governano l’azione amministrativa. L’orientamento, al di là del dato concettuale sulla qualificazione dell’attività professionale in discorso, presenta effetti pratici che non lo distinguono particolarmente dall’altro orientamento precedentemente richiamato. Infatti, sia nel caso in cui si voglia qualificare l’attività professionale in esame resa nei confronti dell’amministrazione come appalto di servizi regolato dagli artt. 20, 65, 68, 225 e l’art. 27 del D.Lgs. n. 163/2006, sia nel caso si voglia qualificare in termini di collaborazione autonoma di cui all’art. 7 del D.Lgs. n. 165/2001, l’effetto è sempre quello di negare che tali incarichi possano essere assegnati intuitu personae, ma solo previo svolgimento di una valutazione comparativa, per quanto “snella” perché regolata dai principi essenziali dell’agere amministrativo. Incarichi legali e fiduciarietà 1142 Urbanistica e appalti 11/2014 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Opinioni Appalti e lavori pubblici vità si concreta nell’ambito di un rapporto di lavoro autonomo (al di fuori, quindi, della struttura organizzativa dell’ente), è ciò che distingue tale tipo di rapporto che intercorre tra professionista e amministrazione da quello che si instaura in caso di collaborazione autonoma ex art. 7 del D.Lgs. n. 165/2001. Dunque, ritornando alla distinzione iniziale, se la prestazione richiesta al professionista comporta un complesso di attività variegate che non si sostanziano nel solo patrocinio in giudizio, ma presuppongono altresì attività che denotano l’inserimento del medesimo professionista nell’organizzazione dell’ente, in questi casi è configurabile un appalto di servizi legali, con conseguente applicazione delle modalità selettive previste dall’art. 20 del D.Lgs. n. 163/2006. Tali modalità selettive - circostanza invero non esplicitamente messa in rilievo nelle diverse pronunce intervenute - si presentano di fatto identiche a quelle richieste dall’art. 7, comma 6bis, del D.Lgs. n. 165/2001, laddove impongono l’invito di un congruo numero di professionisti, la comparazione delle singole candidature e, ancora prima, il necessario rispetto dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza e proporzionalità. Conclusa la procedura selettiva, l’amministrazione ne rimane vincolata ai relativi esiti, senza poter affidare l’incarico ad altro professionista che non sia quello individuato in base ai criteri predeterminati (11). Condizioni, competenza e modalità per l’assegnazione degli incarichi fiduciari Nel caso in cui l’incarico professionale consista nell’occasionale o, comunque, episodica assistenza in giudizio o assistenza in termini di consulenza, non sussiste alcun obbligo di selezione comparativa, essendo l’amministrazione unicamente tenuta ad affidare l’incarico nel rispetto dei principi di trasparenza e di adeguata motivazione, al fine di rendere doverosamente comprensibili all’esterno le ragioni che inducono a riporre fiducia su un determinato professionista. Nell’esperienza concreta molto spesso le amministrazioni, specie quelle locali, di anno in anno, quindi senza attendere l’instaurarsi di contenziosi che le vedono coinvolte, indicono procedure mol(11) Cons. Stato, sez. IV, 29 gennaio 2008, n. 263, in Foro Amm. CdS, 2008, 112. (12) Ex multis, Cass. civ., sez. I, 30 ottobre 2013, n. 24478, in Giust. Civ. Mass., 2013; idem Cass. civ., Sez. Un., 10 giugno 2005, n. 12195, in Giur. It., 2005, 2400. Urbanistica e appalti 11/2014 to semplici al fine di raccogliere candidature di professionalità con specifiche competenze e interessate ad assumere singoli incarichi, grazie alle quali viene poi redatto un elenco ove attingere secondo necessità, normalmente facendo applicazione di una regola di rotazione al fine di garantire le più volte rammentate esigenze di trasparenza e buon andamento dell’azione amministrativa. Pur se non assoggettato alla formalità di una gara, il conferimento dell’incarico fiduciario rimane sottoposto a talune condizioni necessarie, iniziando dal necessario e preventivo impegno contabile da parte dell’ente (previsto in via generale per gli enti locali dall’art. 191 del TUEL), in mancanza del quale l’atto di conferimento dell’incarico deve ritenersi addirittura nullo e, quindi, incapace di produrre effetto giuridico alcuno (12). Normalmente, nella prassi concreta, alla base dell’impegno di spesa vi è un preventivo economico redatto dal professionista (molto spesso di concerto con l’amministrazione interessata) che viene poi posto alla base dell’atto di impegno economico; in mancanza di un preventivo di spesa, l’impegno economico non potrà che essere quantificato in base alle tariffe professionali forensi vigenti al momento (13). La forma dell’accordo non potrà che essere quella scritta alla luce delle previsioni di cui agli artt. 16 e 17 del R.D. n. 2440/1923. In tema di conferimento di incarichi fiduciari esiste inoltre un principio generale, unanimemente riconosciuto in giurisprudenza (14), ed espressione delle generali esigenze di contenimento della spesa pubblica da anni di interesse del legislatore, secondo cui l’attività delle amministrazioni deve essere svolta dai propri organi e uffici, con la possibilità di far ricorso a professionalità esterne solo nei casi previsti dalla legge o in relazione ad eventi e situazioni straordinarie non fronteggiabili con le disponibilità tecnico - burocratiche esistenti. Dall’affermazione della regola anzidetta discende che l’amministrazione deve dimostrare l’impossibilità da parte del personale interno di assolvere adeguatamente all’incarico, corredando la delibera di conferimento dell’incarico di una congrua motivazione con la quale fornire una valida giustificazione alla deroga della regola generale sopra richiamata. Il conferimento dell’incarico ad un professionista esterno deve tener conto sia dell’esistenza o meno (13) Attualmente contenute nel Decreto del Ministro della Giustizia 10 marzo 2014, n. 55, in GU 2 aprile 2014, n. 77. (14) Tra le prime, Corte Conti, sez. giurisdiz. Lazio, 25 settembre 2000, n.1545, in Lavoro nelle P.A., 2002, 1140. 1143 Opinioni AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Appalti e lavori pubblici di un ufficio legale interno ma soprattutto della qualificata prestazione da rendere in giudizio in relazione alla particolare complessità della questione controversa; l’accertamento della sussistenza dei requisiti soggettivi ed oggettivi dinanzi ricordati, da compiersi in via preventiva da parte del soggetto pubblico conferente, devono evidenziarsi nella motivazione della delibera di conferimento dell’incarico che puntualmente deve riportare le ragioni della scelta compiuta (15). Per quanto riguarda specificamente gli enti locali, in base alle previsioni attualmente in vigore, in particolare all’art. 50 del TUEL, il conferimento dell’incarico compete al sindaco o al presidente della provincia, i quali, proprio in virtù dei poteri di rappresentanza dell’ente loro assegnati, non abbisognano dell’autorizzazione dell’organo di giunta (16). C’è, comunque, da rilevare l’esistenza di una tendenza giurisprudenziale che pur riconoscendo al sindaco o al presidente della provincia il suddetto potere di rappresentanza, nonché il potere in generale di decidere se resistere o ricorrere in giudizio, demanda al dirigente preposto al settore legale la scelta se avvalersi o meno di professionalità esterne, previa verifica delle condizioni sopra richiamate, nonché la scelta del professionista da nominare, venendo a rilevare in questi ultimi casi delle scelte ricadenti nelle attività gestionali tipiche del dirigente (17), ai sensi dell’art. 107 del TUEL (che riproduce con riguardo agli enti locali le previsioni generali di cui all’art. 16 del D.Lgs. n. 165/2001). Tale assunto, come efficacemente rilevato (18), è sicura espressione di una lettura sistematica ed evolutiva dell’attuale sistema normativo improntato sulla suddivisione delle funzioni di indirizzo politico da quelle amministrative, che demanda l’adozione di atti e provvedimenti di gestione agli organi burocratici, ma pone qualche dubbio in punto di compatibilità con la natura fiduciaria degli incarichi di cui si discorre; fiducia che dovere di coerenza e logica vorrebbero intercorresse tra il professionista e il titolare della rappresentanza legale dell’ente, ovvero il sindaco o il presidente di provincia. (15) Corte Conti, sez. giuristi. Lazio, 6 ottobre 2011, n. 1566, in www.corteconti.it. (16) Ex multis, Cons. Stato, sez. V, 19 luglio 2013, n. 3934, in www.giustizia-amministrativa.it, e Cons. Stato, sez. IV, 1° ottobre 2008, n. 4744, in Foro Amm. CdS, 2008, 2766. (17) Cons. Stato, sez. V, 14 febbraio 2012, n. 730, in Foro Amm. CdS, 2012, 350; in limine, Cons. Stato, sez. V, 23 dicem- 1144 L’incidenza delle nuove direttive UE sull’affidamento degli incarichi legali Il tema del conferimento degli incarichi professionali legali, come più volte accennato in precedenza, è oggetto di interesse della direttiva n. 2014/24/UE, pubblicata sulla G.U. dell’Unione Europea n. 94 del 28 marzo 2014, relativa ai contratti di appalto, che abroga e sostituisce la precedente disciplina contenuta nella direttiva 2004/18/CE. Le nuove norme, contenute nei considerando 25 e 116 nonché nell’art. 10, si ritiene abbiano una portata risolutiva delle questioni richiamate relative alla qualificazione degli incarichi e alle procedure da seguire per l’assegnazione di essi, accogliendo (o almeno ponendosi in linea con) l’orientamento giurisprudenziale maggioritario, dando a questo un valido fondamento normativo che - nonostante lo sforzo argomentativo e di indagine della giurisprudenza (19)- non pareva avere sino ad oggi a differenza degli orientamenti minoritari. Il legislatore comunitario anzitutto riconduce ogni attività professionale legale in favore delle pubbliche amministrazioni nel concetto generale di servizio legale, ma a differenza della previgente disciplina, distingue le varie attività professionali, sottoponendole a differenti regimi quanto all’applicazione nei confronti di esse delle norme sugli appalti pubblici. In particolare, è affermato testualmente che esistono “taluni servizi legali che comportano la rappresentanza dei clienti in procedimenti giudiziari da parte di avvocati … di solito prestati da organismi e persone selezionate secondo modalità che non possono essere disciplinate da norme di aggiudicazione di appalti” (cfr. considerando 25). Dunque, in senso innovativo rispetto al passato, ed eliminando ogni dubbio in merito a quali attività potessero essere ricondotte nel novero dei servizi legali per la cui assegnazione fosse necessaria la gara, il legislatore comunitario prende in considerazione alcune prestazioni professionali escludendo espressamente per esse l’applicazione della disciplina per gli appalti di servizi legali. Tali prestazioni sono quelle rese in rappresentanza legale dell’amministrazione: bre 2013, n. 6198, in Foro Amm. CdS, 2013, 3463. (18) G. Manfredi, Appunti sull’affidamento degli incarichi legali delle pubbliche amministrazioni:competenza, procedimento e forma, in questa Rivista, 2013, 877 ss. (19) Si veda Corte Conti, sez. controllo Basilicata, n. 19/2009/par, cit. Urbanistica e appalti 11/2014 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Opinioni Appalti e lavori pubblici - in un arbitrato o in una conciliazione tenuti in uno Stato membro, un paese terzo o dinanzi a un’istanza arbitrale o conciliativa internazionale; - in procedimenti giudiziari dinanzi a organi giurisdizionali o autorità pubbliche di uno Stato membro o un paese terzo o dinanzi a organi giurisdizionali o istituzioni internazionali. Sono altresì escluse dall’applicazione delle disposizioni sugli appalti di servizi legali le prestazioni di carattere occasionale o episodico di consulenza legale fornita in preparazione di uno dei procedimenti contenziosi sopra richiamati o qualora vi sia una probabilità elevata che la questione su cui verte la consulenza divenga oggetto dei suddetti procedimenti. Per queste tipologie di prestazioni professionali le uniche formalità da rispettare, dunque, rimangono quelle di cui si è trattato al precedente paragrafo. Inoltre, le norme individuano altri servizi legali che dovranno ritenersi esclusi dall’applicazione delle norme sugli appalti pubblici, come quelli prestati da soggetti designati da un organo giurisdizionale nello Stato membro per svolgere specifici compiti sotto la vigilanza di detti organi giurisdizionali (si pensi ad esempio i CTU); ed ancora la categoria non molto definita degli “altri servizi legali che, nello Stato membro, sono connessi, anche occasionalmente, all’esercizio dei pubblici poteri”. Pertanto, alla luce della normativa in esame, per quanto riguarda particolarmente le attività professionali rese da avvocati nei confronti delle amministrazioni, in linea con quanto affermato dalla maggioritaria giurisprudenza amministrativa, rimangono attratte nella categoria dei servizi legali tutte le attività che non si limitano al mero patrocinio o alla consulenza episodica dell’amministrazione, ma si configurino come forme organizzative di un servizio più complesse e articolate che denotano l’inserimento del professionista, per quanto transitoriamente, nella struttura organizzativa dell’ente. La distinzione operata da parte della nuova disciplina, e il trattamento differenziato riconosciuto all’attività di difesa giudiziale e quella di consulenza strettamente connessa a quest’ultima, dimostra la particolare attenzione prestata per le istanze e gli aspetti presi più volte in considerazione dalla giurisprudenza amministrativa per escludere la gara, come la fiduciarietà quale elemento essenziale ed identificativo che caratterizza il rapporto tra parte assistita e difensore. Urbanistica e appalti 11/2014 Ed ancora, il legislatore comunitario dimostra una particolare attenzione nei confronti delle caratteristiche del rapporto di patrocinio legale che difficilmente pare compatibile con le caratteristiche della selezione per via della aleatorietà del giudizio, sia dal punto di vista dei tempi, dell’iter di svolgimento che del risultato finale, e quindi dal punto di vista degli aspetti economici e sostanziali delle prestazioni professionali. Si consideri, a titolo di esempio, a dimostrazione della non compatibilità del modello concorsuale per l’assegnazione degli incarichi di che trattasi, un’amministrazione costretta a svolgere una selezione per individuare un professionista da nominare in un giudizio con oggetto l’impugnazione proprio di atti di una procedura di appalto, in questi casi il rischio è che i tempi necessari per l’espletamento di tale nuova selezione (senza considerare eventuali liti insorgenti da essa) porterebbero all’individuazione del professionista in una fase successiva a quella cautelare (che notoriamente è un momento cruciale per tali contenziosi amministrativi), se non addirittura in un momento in cui la controversia risulta conclusa. Si aggiunge agli aspetti della fiduciarietà ed a quello temporale appena evidenziato, a dimostrazione ancora della non compatibilità del modello concorsuale riconosciuta dal legislatore comunitario per gli incarichi di patrocinio in giudizio, le concrete difficoltà insite nell’individuare degli adeguati criteri valutativi per la selezione del professionista cui assegnare il mandato. È quantomeno dubbio che una selezione improntata sulla valutazione dei titoli (pubblicazioni scientifiche, incarichi accademici, master, dottorati di ricerca) consenta di individuare il professionista migliore degli altri per assumere la difesa dell’amministrazione in un certo tipo di giudizio. I titoli formativi e scientifici costituiscono sicuro indice di preparazione teorica e del livello di maturità scientifica, ma non anche indici di esperienza professionale in un determinato settore che spesso è in possesso di professionisti che non si sono mai dedicati all’accademia e/o che non mai dedicatisi a pubblicazioni scientifiche. La copiosa redazione di scritti scientifici, corredata da un’intensa attività universitaria, potrebbe addirittura essere sintomatica di una non elevata esperienza professionale, considerato come al giorno d’oggi, molto di più rispetto al passato, sia difficile conciliare l’attività professionale con l’attività accademica e di studio. Tuttavia, esclusa la possibilità di compiere una valutazione per titoli, rimane che l’esperienza profes- 1145 Opinioni AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Appalti e lavori pubblici sionale e la competenza in determinati settori è difficilmente documentabile ai fini selettivi, cosicché la prassi testimonia selezioni regolate dall’offerta del prezzo più basso, che pur raggiungendo il fine del massimo del risparmio per l’amministrazione sono incapaci di selezionare la professionalità più idonea perché non esistono criteri valutativi ulteriori rispetti a quelli meramente economici; oltre al fatto che questi tipi di selezioni, specie quando danno luogo a ribassi molto elevati, pongono diversi dubbi di compatibilità con i principi in tema di prestazione d’opera professionale, in particolare con il comma 2 dell’art. 2233 c.c. che impone che la misura del compenso sia adeguata all’importanza dell’opera e al decoro della professione. In considerazione di quanto osservato, traendo le conclusioni sul punto, non possono che ritenersi opportune e da accogliere con favore le nuove norme che escludono l’applicabilità di meccanismi selettivi concorsuali all’assegnazione degli incarichi alle liti o di episodica consulenza, al di là del fatto che esse risolvono una delle questioni più attuali e delicate ove si riscontano diverse difficoltà operative delle amministrazioni e sulla quale la stessa giurisprudenza ha assunto posizioni non univoche. Si ritiene, inoltre, che tale esclusione trovi una condivisibile logica a livello di diritto comunitario, ovvero garantire la migliore tutela possibile del prestatore del servizio e del destinatario della stessa prestazione; obiettivi che rientrano tra quelli ritenuti motivi imperativi di interesse pubblico in grado di giustificare una restrizione della libera prestazione dei servizi, come ripetutamente affermato dalla giurisprudenza comunitaria (20). (20) Ex multis, Corte Giust., 18 luglio 2007, n. 134, in Foro Amm. CdS, 2007, 1992; Corte Giust., 5 dicembre 2006, cause riunite 94 e 202, in www.eur-lex.europa.eu. 1146 Urbanistica e appalti 11/2014 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Appalti e lavori pubblici Normativa D.L. 90/2014 Le novità del D.L. 90/2014 in materia di appalti DECRETO LEGGE 24 giugno 2014, n. 90, convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, legge 11 agosto 2014, n. 114 Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l'efficienza degli uffici giudiziari Omissis. Semplificazione degli oneri formali nelle procedure di affidamento di contratti pubblici di Sergio Foà La nuova disciplina introduce una sanzione pecuniaria a carico dell’operatore economico in caso di mancanza, incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale “degli elementi e delle dichiarazioni sostitutive” presentate, e la successiva possibilità di integrare o regolarizzare le dichiarazioni necessarie, indicandone il contenuto e i soggetti, entro un termine massimo di dieci giorni, assegnato dalla stazione appaltante, decorso il quale il concorrente viene escluso dalla gara. Nei casi di “irregolarità non essenziali”, ovvero di mancanza o incompletezza di dichiarazioni “non indispensabili”, la stazione appaltante non ne richiede la regolarizzazione e non applica alcuna sanzione. In via complementare e sistematica, la novella legislativa ha modificato anche la disciplina del cosiddetto “soccorso istruttorio” di cui all’art. 46 del Codice.La disposizione, pur intuibile nell’intento perseguito, non chiarisce quando le irregolarità possano definirsi “essenziali”, né chiarisce quando le dichiarazioni possano considerarsi “non indispensabili”. L’imprecisione lessicale del legislatore e il carattere laconico della disciplina ritagliano un ambito discrezionale di notevole ampiezza in capo alla stazione appaltante, che dispone della facoltà di consentire la regolarizzazione della documentazione in luogo dell’esclusione dalla gara. Le scelte rimesse alla p.a. saranno sindacabili sotto il profilo della ragionevolezza, in applicazione della perdurante tassatività delle cause di esclusione. Novità sui requisiti di partecipazione: elementi e dichiarazioni L’art. 39 del D.L. n. 90 del 2014, convertito in legge n. 114 del 2014, rubricato Semplificazione degli oneri formali nella partecipazione a procedure di affidamento di contratti pubblici, interviene sulla disciplina dell’attestazione dei requisiti di ordine generale necessari per la partecipazione alle procedure di affidamento dei contratti pubblici, integrando gli articoli 38 e 46 del codice dei contratti pubblici. La disposizione è curiosamente collocata all’interno del Capo I, dedicato al processo amministrativo, auspicandone una efficacia deflattiva del contenzioso (1). Il nuovo comma 2-bis dell’art. 38 del codice dei contratti pubblici, così introdotto, prevede a carico del concorrente una sanzione pecuniaria in caso di mancanza, incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale “degli elementi e delle dichiarazioni sostitutive” presentate, e la successiva possibilità di integrare o regolarizzare le dichiarazioni necessarie, indicandone il contenuto e i soggetti, entro un termine massimo di dieci giorni, assegnato dalla stazione appaltante, decorso il quale il concorrente viene escluso dalla gara. (1) Su cui M. A. Sandulli, Il D.L. 24 giugno 2014 n. 90 e i suoi effetti sulla giustizia amministrativa. Osservazioni a primissima lettura, in Federalismi, 2014. Urbanistica e appalti 11/2014 1147 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Appalti e lavori pubblici Normativa Nei casi di “irregolarità non essenziali”, ovvero di mancanza o incompletezza di dichiarazioni “non indispensabili”, la stazione appaltante non ne richiede la regolarizzazione e non applica alcuna sanzione. La disposizione, pur intuibile nell’intento perseguito, non chiarisce quando le irregolarità possano definirsi “essenziali”, laddove anzi i due termini accostati producono un ossimoro, né chiarisce quando le dichiarazioni possano considerarsi “non indispensabili”. L’imprecisione lessicale del legislatore ed il carattere laconico della disciplina ritagliano un ambito discrezionale di notevole ampiezza in capo alla stazione appaltante, che dispone della facoltà di consentire la regolarizzazione della documentazione in luogo dell’esclusione dalla gara. Nella prima fase applicativa della norma le amministrazioni aggiudicatrici sono chiamate ad uno sforzo ricostruttivo delle varie ipotesi, inteso a ricondurre tra le dichiarazioni indispensabili tutte quelle che illustrano il possesso di requisiti o attestano condizioni essenziali per la partecipazione alla gara. Visto che il nuovo comma 2-bis dell’art. 38, cit. è riferito alle dichiarazioni e agli elementi necessari alla partecipazione alle gare, la sua interpretazione deve essere armonizzata con quella complessivamente riferita allo stesso articolo. Tale disposizione disciplina, come noto, le cosiddette “cause di esclusione” dalla partecipazione alle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti di lavori, forniture e servizi, nonché per l’affidamento di subappalti, ossia i requisiti di ordine generale (cd. “requisiti morali”) che devono possedere i soggetti che devono stipulare i contratti con la pubblica amministrazione (2). Il comma 1 elenca le cause di esclusione dalle gare (3); il comma 2, prevede, che il candidato o il concorrente debba attestare il possesso dei requisiti mediante dichiarazione sostituti- In via complementare e sistematica, la novella legislativa ha modificato anche la disciplina del cosiddetto “soccorso istruttorio” di cui all’art. 46 del codice, in base al quale le stazioni appaltanti invitano, se necessario, i concorrenti a completare o a fornire chiarimenti in ordine al contenuto dei certificati, documenti e dichiarazioni presentati nei limiti previsti dagli artt. da 38 a 45 del codice dei contratti, sul possesso di requisiti di carattere generale e requisiti specifici (requisiti morali e di idoneità professionale, qualificazione per eseguire lavori pubblici, capacità economica, finanziaria, tecnica e professionale dei fornitori e dei prestatori di servizi, garanzia della qualità, gestione ambientale, ed elenchi ufficiali di fornitori o prestatori di servizi). Ai sensi del comma 1-bis del citato art. 46, la stazione appaltante esclude i candidati o i concorrenti in caso di mancato adempimento alle prescrizioni previste dal codice e dal relativo regolamento e da altre disposizioni di legge vigenti, nonché nei casi di incertezza assoluta sul contenuto o sulla pro- (2) Con riferimento all’art. 38 del D.Lgs. n. 163 del 2006, cit., cfr. G. Bergonzini, I requisiti di partecipazione agli appalti pubblici di lavori, servizi e forniture, in R. Villata, M. Bertolissi, V. Domenichelli, G. Sala (a cura di), I contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, Padova, 2014, vol. I, 299 ss.; H. Garuzzo, Requisiti di ordine generale, in G. F. Ferrari - G. Morbidelli (diretto da), Commentario al codice dei contratti pubblici, Milano, 2013, Vol. I, 527 ss.; G. Manfredi, Moralità professionale nelle procedure di affidamento e certezza del diritto, in questa Rivista, 2010, 508 ss.; R. Greco, I requisiti di ordine generale, in M. A. Sandulli, R. De Nictolis, R. Garofoli (a cura di), Trattato dei contratti pubblici, Milano, 2008, vol. II, 1267 ss. (3) Tra le quali rilevano: fallimento, liquidazione coatta, concordato preventivo, misure di prevenzione antimafia, sentenze di condanna per reati che incidono sulla moralità professionale e reati di partecipazione ad un'organizzazione criminale, corruzione, frode, riciclaggio, divieto di intestazione fiduciaria, irre- golarità fiscali e contributive, falsa dichiarazione o falsa documentazione in merito a specifici requisiti e condizioni rilevanti per la partecipazione a procedure di gara e per l’affidamento dei subappalti, sospensione o revoca dell'attestazione SOA, omessa denuncia dei reati di concussione ed estorsione, rapporti di controllo e collegamento sostanziale. (4) Per una critica alla previsione in esame, M. Lipari, L'efficienza della P.A. e le nuove norme sul processo amministrativo, in www.giustamm.it, 2014, secondo il quale tale previsione “seppure finalizzata a velocizzare le operazioni di gara e, soprattutto, a impedire che si possa contestare l'ammissione o l'esclusione di un soggetto terzo, ai fini del solo calcolo della soglia di anomalia, non convince pienamente, perché potrebbe determinare la patologia opposta, consentendo una preventiva influenza sul procedimento di gara, al prezzo di sole sanzioni pecuniarie, mediante la domanda di partecipazione di soggetti sicuramente disinteressati”. 1148 va in conformità alle previsioni del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa, di cui al D.P.R. n. 445 del 2000, in cui indica tutte le condanne penali riportate, ivi comprese quelle per le quali abbia beneficiato della non menzione. Il nuovo comma 2-bis dell’art. 38 del codice dispone, infine, che ogni variazione che intervenga, anche in conseguenza di una pronuncia giurisdizionale, successivamente alla fase di ammissione, regolarizzazione o esclusione delle offerte, non rileva ai fini del calcolo di medie nella procedura, né per l’individuazione della soglia di anomalia delle offerte medesime (4). Novità sul soccorso istruttorio Urbanistica e appalti 11/2014 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Appalti e lavori pubblici Normativa venienza dell’offerta, per difetto di sottoscrizione o di altri elementi essenziali ovvero in caso di non integrità del plico contenente l'offerta o la domanda di partecipazione o altre irregolarità relative alla chiusura dei plichi, tali da far ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia stato violato il principio di segretezza delle offerte. La norma specifica inoltre che i bandi e le lettere di invito non possono contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione e comunque dette prescrizioni sono nulle. In disparte gli orientamenti giurisprudenziali, sui quali si tornerà, l’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici ha già chiarito che la cd. regolarizzazione non può in alcun caso essere riferita agli elementi essenziali della domanda o dell’offerta e non deve essere consentita nell’ipotesi di documentazione del tutto assente; diversamente, si realizzerebbe un’alterazione degli elementi essenziali dell’offerta, che devono essere sempre presenti ab origine, ed una lesione del carattere perentorio del termine per la presentazione dell’offerta stessa” (5). Su tale impianto normativo è appunto intervenuta la novella in commento: introducendo il comma 1-ter nel corpo dell’art. 46 del codice, ha esteso l’applicazione delle disposizioni contenute nel nuovo comma 2-bis dell’art. 38 del codice, sulle irregolarità essenziali (e non), sul relativo regime sanzionatorio e sul procedimento rimediale, ad ogni ipotesi di mancanza, incompletezza o irregolarità delle dichiarazioni, anche di soggetti terzi, che devono essere prodotte dai concorrenti in base alla legge, al bando o al disciplinare di gara. Le norme così introdotte, e dunque le correlate modifiche degli artt. 38 e 46 del codice, si applica- Il ruolo così riconosciuto alla stazione appaltante impone una riflessione sui rapporti intercorrenti tra cause di esclusione legali, previsioni della lex specialis e soccorso istruttorio, non pacificamente individuati nemmeno dopo i recenti interventi dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (7). La ricostruzione prospettata dall’Adunanza Plenaria si fonda sulla distinzione tra integrazione documentale e regolarizzazione. La prima si sostanzia nella facoltà di produzione di documenti interamente omessi, mentre la seconda consiste nella sola possibilità di correggere refusi, specificare parti incomplete del documento, fornire chiarimenti in ordine al contenuto o alla portata degli stessi. Secondo la giurisprudenza prevalente soltanto la richiesta di regolarizzazione sarebbe conforme al principio di parità di trattamento e di autoresponsabilità degli operatori economici e sarebbe per vero soltanto essa conforme alla lettera dell’art. 46 D.Lgs. n. 163 del 2006, che stabilisce che “nei limiti previsti dagli articoli da 38 a 45, le stazioni appaltanti invitano, se necessario, i concorrenti a completare o a fornire chiarimenti in ordine al contenuto dei certificati, documenti e dichiarazioni presentati” (8). Tale disposizione impone di (5) AVCP, determinazione n. 4 del 2012. (6) R. De Nictolis, Le novità dell'estate 2014 in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, in Federalismi, 2014, avrebbe preferito estendere la nuova disciplina anche alle gare in corso, che non fossero giunte alla fase di verifica della completezza delle produzioni documentali. P. Provenzano, Brevi riflessioni a margine della disciplina sugli oneri dichiarativi ex art. 38 D.Lgs. 163/2006 contenuta nell'art. 39 del D.L. n. 90/2014, in Giustamm. 2014, teme che una lettura della norma come innovativa e non confermativa possa sortire effetti paradossali sul contenzioso in corso, consentendo ai fautori dell'interpretazione formalistica di trarre dalla nuova disciplina argomenti a sostegno della correttezza della lettura dell'art. 38 da essi finora operata. (7) Cons. Stato, Ad. Plen., 25 febbraio 2014, n. 9; successivamente Cons. Stato, sez. VI, 14 luglio 2014, n. 3663, secondo cui la norma sul soccorso istruttorio (art. 46 del D.Lgs. n. 163 del 2006) deve essere intesa, alla luce di quanto affermato con la sentenza n. 9 del 2014 dall'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, nel senso che occorre tenere separati i concetti di regolarizzazione documentale e di integrazione documentale: la prima, consistendo nel "completare dichiarazioni o documenti già presentati" dall'operatore economico, è ammessa, per i soli requisiti generali, al fine di assicurare, evitando inutili formalismi, il principio della massima partecipazione; la seconda, consistendo nell'introdurre nel procedimento nuovi documenti, è vietata per garantire il principio della parità di trattamento. La distinzione è superabile in presenza di "clausole ambigue" che autorizzano il soccorso istruttorio anche mediante integrazione documentale. Pertanto, le prescrizioni contenute nel bando di gara che contengono clausole contrarie alla suddetta norma imperativa, così come interpretata, devono ritenersi nulle. Esse, infatti, si risolverebbero nella previsione di una causa di esclusione non consentita dalla legge. Cons. Stato, Ad. Plen., 30 luglio 2014, n. 16, ha affermato che la dichiarazione resa da uno dei componenti del consiglio di amministrazione, ai sensi del D.P.R. n. 445 del 2000 di insussistenza delle condizioni ostative previste dall’art. 38 D.Lgs. n.163 del 2006 “non deve contenere la menzione nominativa di tutti i soggetti muniti di poteri rappresentativi dell’impresa, quando questi ultimi possano essere agevolmente identificati mediante l’accesso a banche dati ufficiali o a registri pubblici”. La presenza di una dichiarazione sostitutiva così resa, ha puntualizzato l’Adunanza Plenaria, “non necessita di integrazioni o regolarizzazioni mediante l’uso dei poteri di soccorso istruttorio”. (8) Cons. Stato, sez. V, 11 gennaio 2011, n. 78; Cons. Stato, Urbanistica e appalti 11/2014 no, per espressa previsione della novella, alle procedure di affidamento indette successivamente all’entrata in vigore del presente articolo (6). Tali disposizioni, infatti, richiedono che sia il bando di gara a determinare la sanzione pecuniaria da applicare al concorrente che incorra in irregolarità essenziali e sanabili delle dichiarazioni sostitutive. Lo stato dell’arte secondo la giurisprudenza 1149 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Appalti e lavori pubblici Normativa mantenere fermi i limiti previsti dagli artt. da 38 a 45 (così indicando che l’integrale inadempimento agli oneri imposti dagli stessi non può essere sanato, sicché l’esclusione discenderebbe automaticamente dalla legge), consentendo soltanto un completamento o una chiarificazione dei documenti presentati. Il dovere di soccorso istruttorio a fronte di omissioni documentali potrebbe riconoscersi sussistente soltanto nel caso eccezionale in cui l’omissione sia ingenerata da un comportamento della stessa stazione appaltante che sia ambigua nel formulare la legge di gara o che comunque non espliciti con sufficiente chiarezza quali adempimenti formali siano necessari per l’ammissione alla procedura (9). Proprio a tal fine la nuova disciplina qui in esame impone alla stazione appaltante una pubblicità iniziale che individui le “dichiarazioni indispensabili”, per la dimostrazione del possesso di requisiti o attestanti condizioni essenziali per la partecipazione alla gara. Altro orientamento della giurisprudenza, anche del Consiglio di Stato, mira a garantire una maggiore partecipazione alle gare a soggetti sostanzialmente in possesso dei requisiti di ammissione, nonostante la documentazione da essi presentata sia caratterizzata da lacune più gravi del mero refuso o imprecisione (10). Il fondamento di tali impostazioni riferisce alla materia amministrativa la categoria penale del cd. “falso innocuo”, considerato che l’offensività dei reati di falso non è riferibile al solo bene giuridico della pubblica fede, ma anche rispetto alla possibilità di ledere gli interessi tutelati dalla integrità dei mezzi probatori oggetto di aggressione e che costituiscono l’oggetto finale di tutela (11). Il falso inoffensivo può essere grossolano quando l'alterazione, pur presente, è talmente abnorme che la falsità del documento risulta in modo evidente a chiunque, sicché non è idonea a trarre in inganno nessuno e pertanto nemmeno a mettere in pericolo il bene della fede pubblica. Il falso è invece defini- to inutile quando la falsificazione riguarda una parte del documento che non ha alcun rilievo probatorio: il documento ha uno scopo attestativo e nel falso inutile la parte falsificata è parte estranea a tale scopo. Infine con il termine falso innocuo si fa riferimento al falso che, pur potenzialmente e in astratto non inutile perché incidente proprio sulla parte del documento utile ai fini probatori, in concreto – e in ragione di fattori estranei alla falsificazione stessa – non può raggiungere l'effetto di compromissione degli ulteriori beni giuridici che la punizione della falsificazione mira a proteggere (12). L'applicazione della teoria del falso innocuo alla disciplina di gara è ipotizzabile nei casi in cui la falsità in cui incorre il documento si accompagni al possesso sostanziale dei requisiti che le norme in materia richiedono ai concorrenti per poter contrattare con la p.a.: in tale caso, perciò, la falsità non sarebbe suscettibile di ledere l'interesse finale protetto dalla norma, ovvero l'esclusione dalle competizioni di soggetti immeritevoli (13). La giurisprudenza amministrativa riconduce la nozione del falso innocuo ai casi di documentazione omessa, e dunque al falso cd. omissivo, con applicazione evidentemente diversa rispetto al diritto penale. Una parte della giurisprudenza del Consiglio di Stato ha così trovato nella teoria in esame un riferimento per riconoscere maggiore ampiezza al soccorso istruttorio: per il suo tramite, infatti, potrebbe ritenersi esperibile il potere/dovere di soccorso in tutti quei casi in cui pur a fronte di un’omissione (e non solo di una irregolarità) sia indubbia la sussistenza effettiva del requisito che il documento mirava ad attestare. L'adesione alla teoria del falso innocuo è rimasta minoritaria in giurisprudenza, in quanto “nelle procedure di evidenza pubblica la completezza delle dichiarazioni, invece, è già di per sé un valore da perseguire perché consente – anche in ossequio al principio di buon andamento dell'amministrazione e di proporzionalità – la celere decisione in ordine sez. III, 14 dicembre 2011, n. 6569; Cons. Stato, sez. III, 16 marzo 2012, n. 1471. (9) Cons. Stato, sez, III, 4 febbraio 2014, n. 507; Cons. Stato, sez. V, 11 gennaio 2011, n. 78; Cons. Stato, sez. III, 14 novembre 2012, n. 5758; Cons. Stato, sez. V, 24 ottobre 2013, n. 5155. (10) Cons. Stato, sez. V, 13 febbraio 2009, n. 829; Cons. Stato, sez. VI, 22 febbraio 2010, n. 1017; Cons. Stato, sez. V, 24 novembre 2011, n. 6240; Cons. Stato, sez. VI, 4 agosto 2009, n. 4906. (11) G. Cocco, Il falso bene giuridico della fede pubblica, in Riv. It. Dir. e Proc. Pen. 2010, 1, 68. (12) Sul tema del falso inoffensivo, in generale, cfr. G. Fiandaca - E. Musco, Diritto penale - parte speciale, 555 ss.; R. Giovagnoli, Studi di diritto penale, parte generale, Milano, 2008, 1038 ss.; R. Garofoli, Manuale di diritto penale, Parte generale, Roma, 2013, 631 ss. (13) Cfr. L. Ieva, Le "falsità" amministrative irrilevanti nelle procedure di gara, in questa Rivista, 2010, 1325 ss.; A. Larussa, Dal settore penale a quello amministrativo: la rilevanza del falso innocuo nell'ordinamento giuridico, in www.giustamm.it; E. Munno, L'ambito di applicazione dell'art. 38 del D.Lgs. n. 163/2006: il recente orientamento del Consiglio di Stato, in Nuova Giur. Civ., 2011, 638 ss. 1150 Urbanistica e appalti 11/2014 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Appalti e lavori pubblici Normativa all'ammissione dell'operatore economico alla gara” (14). Tale lettura è focalizzata sulla tutela dell’interesse della pubblica amministrazione a fare legittimo affidamento sulla correttezza e completezza delle dichiarazioni rese (15). Con l’Ad. Plen. n. 9 del 2014, il Consiglio di Stato ha ritenuto effettuato a monte dal legislatore il vaglio circa la meritevolezza della sanzione dell’esclusione a fronte dello specifico inadempimento: tale sarebbe l’unico profilo di interazione tra la disciplina sulla tassatività delle cause di esclusione e il soccorso istruttorio. La pronuncia è invero laconica sul punto e ha lasciato inesplorati alcuni profili sul rapporto tra i due istituti. La nuova norma, qui in esame, testimonia la necessità di un ulteriore sforzo di chiarificazione riguardo alla rilevanza degli oneri documentali e dichiarativi gravanti sugli operatori economici. Tale sforzo è accollato alla stazione appaltante, probabilmente in via ricognitiva della interpretazione giurisprudenziale formatasi sulle previgenti disposizioni di legge. Nello stesso tempo, il bando di gara viene “rivitalizzato” perché le indicazioni della stazione appaltante sulle irregolarità sanabili accedono all’avvio di un procedimento sanzionatorio di carattere innovativo, che si aggiunge al classico soccorso istruttorio. Rafforzamento del ruolo del bando Fin dall’introduzione della tassatività delle cause di esclusione il dovere di soccorso (nella richiamata accezione di strumento di regolarizzazione e non di integrazione documentale) è limitato ai casi in cui l'adempimento omesso sia richiesto dalla legge a pena di esclusione, dovendosi ritenere ragionevolmente che in ogni altro caso non potrà mai far seguito all’inadempimento l’esclusione dalla gara (16). (14) Cons. Stato, sez. III, 16 marzo 2012, n. 1471; Cons. Stato, sez. VI, 8 luglio 2010, n. 4436; Cons. Stato, sez. VI, 3 settembre 2013, n. 4392; Cons. Stato, sez. VI, 11 aprile 2014, n. 1771. (15) Cass. pen., Sez. Un., 16 febbraio 2009, n. 6591, in Cass. Pen., 2009, 6, 2323, ha affermato che il falso non può dirsi innocuo in caso di dichiarazione mendace perché, benché il soggetto si trovi effettivamente nelle condizioni di reddito per accedere al beneficio del patrocinio a spese dello Stato, occorre considerare come bene giuridico tutelato (e leso) altresì quello all’affidamento che il giudice possa riporre nel documento, necessario alla pronta decisione della questione che può basarsi anche unicamente sulle dichiarazioni della parte. (16) Cons. Stato, Ad. Plen. n. 9 del 2014, cit., par. 7.3: “L’innovativa novella al codice dei contratti pubblici, ha ridotto dra- Urbanistica e appalti 11/2014 L’interpretazione rigorosa offerta dalla giurisprudenza evita di gravare la pubblica Amministrazione dell’onere di verificare sempre la sussistenza dei requisiti sostanziali, indipendentemente dalla omissione di prova da parte delle partecipanti o anche indipendentemente dalla stessa falsità nelle dichiarazioni. La stessa interpretazione fatica tuttavia a conciliarsi con le istanze sostanzialistiche intese a favorire la massima partecipazione alle gare. Nella interpretazione giurisprudenziale prevalente la causa escludente opera ex lege, anche se il bando non la prevede: tale lettura sminuiva il ruolo della lex specialis e accollava agli operatori economici un difficile onere ricostruttivo. In quest’ottica parte della giurisprudenza aveva ritenuto illegittima l’esclusione di una concorrente nei casi in cui essa avesse diligentemente adempiuto alle prescrizioni del bando che non risultavano però esaustive rispetto alla disciplina legale: in tali ipotesi infatti incomberebbe alla p.a. il dovere di richiedere l’integrazione documentale, in omaggio a principi di affidamento e leale collaborazione e considerando che non può ritenersi lesa la par condicio quando l’inadempimento deriva appunto da una imprecisione del bando (17). La novella in esame rafforza tale ruolo della stazione appaltante, arricchendo il contenuto chiarificatore della lex specialis sugli oneri documentali e sulla relativa rilevanza. Le direttive europee (2004 e 2014) : tra rinvii pregiudiziali e interpretazioni conformi La disciplina in esame pare altresì recepire un’interpretazione europea sulle cause di esclusione, fondata sul tenore delle direttive appalti, che nel 2014 confermano le previsioni di quelle del decennio antecedente. sticamente la discrezionalità della stazione appaltante nella cd. (auto)regolamentazione del soccorso istruttorio, atteso che l’Amministrazione ha perso la facoltà di inserire nel bando, al di fuori della legge, la previsione che un determinato adempimento sostanziale, formale o documentale sia richiesto a pena di esclusione”. (17) Cons. Stato, sez. VI, 1° febbraio 2013, n. 634: “È vero che, a norma dell'art. 1-bis del citato art. 46 del D.Lgs. n. 163/2006, nel testo introdotto dal D.L. n. 70/2011, detta esclusione appare comunque connessa all'inosservanza di disposizioni, che impongano adempimenti doverosi o contengano divieti, pur senza espressa sanzione di esclusione: quanto sopra, tuttavia, in un quadro che escluda ogni incertezza interpretativa e sia riconducibile ad espressioni non equivoche del bando”. 1151 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Appalti e lavori pubblici Normativa In alcuni casi il giudice amministrativo ha provato a conformare l’interpretazione delle norme interne alle indicazioni sovranazionali, anche in caso di omessa dichiarazione prevista dall’art. 38 comma 1, lett. b) e c). In caso di omissione da parte del direttore tecnico dell’impresa di tali dichiarazioni, il TAR Lombardia ha sostenuto l’illegittimità del provvedimento di esclusione senza previo esperimento soccorso istruttorio, nonostante fosse stata acclarata, mediante prova fornita dall’impresa, l’assoluta insussistenza di condanne. Mentre il Consiglio di Stato ha ribadito la preminenza delle esigenze di tutela della par condicio e della imperatività della legge di gara, il TAR in sede di ottemperanza ha invece ritenuto di dover disporre rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione Europea (18), onde richiedere una interpretazione dell’art. 45 della direttiva 2004/18/CE, per vagliare la compatibilità con essa della disciplina interna in materia di requisiti soggettivi di accesso alle gare (19). La norma europea riconosce alle Amministrazioni procedenti poteri istruttori ampi e innominati, compresa la possibilità di richiedere informazioni e di chiedere la produzione stessa dei documenti necessari a comprovare la situazione personale del concorrente ai fini di accedere alla contrattazione con la p.a. Contrariamente all’impostazione europea, tipicamente coerente con i principi di effettività ed efficienza e con l’assenza di formalismo che caratterizzano la legislazione in materia di concorrenza, il giudice italiano rileva come l’art. 38 non solo non contenga formulazioni simili, ma sia costantemente interpretato dalla giurisprudenza interna (nel combinato disposto con l’art. 46) in modo tale che omissioni anche meramente formali possono legittimamente escludere dalla gara concorrenti sostanzialmente idonei a contrattare con la p.a. A tale impostazione infatti la giurisprudenza del Consiglio di Stato accede in modo quasi univoco, come si è visto, essendo anche i tentativi di apertura offerti da alcune pronunce insoddisfacenti a garantire il superamento dei formalismi. Anche la teoria del falso innocuo non appare idonea a evitare che la stazione appaltante sia libera di escludere i partecipanti per omissioni meramente formali laddove previste espressamente come escludenti nel bando. Ancorché il principio di tassatività delle cause di esclusione limiti la discrezionalità dell’Amministrazione, che autonomamente non può più prevedere adempimenti meramente formali a pena di esclusione, si è visto che la portata della norma è lungi dall’essere univocamente intesa, sicché la L. n. 114 del 2014 ha ritenuto doveroso che la stazione appaltante chiarisca fin dall’inizio agli operatori economici quali oneri documentali sono essenziali e quali dichiarazioni sono indispensabili. Su un caso analogo a quello per cui il TAR Lombardia ha chiesto lumi al Giudice dell’Unione europea, il Consiglio di Stato ha viceversa ritenuto “chiara” la materia, ritenendo che in caso di dichiarazioni incomplete in sede di partecipazione alla gara, la stazione appaltante non può ricorrere al cd. soccorso istruttorio, che è volto a chiarire e completare dichiarazioni, certificati o documenti comunque già esistenti, a rettificare errori materiali o refusi, ma non certo a consentire integrazioni o modifiche della domanda (20). Il cd. “soccorso istruttorio” sovviene quando la p.a. ha la disponibilità di intervenire su elementi e dati comunque forniti anche parzialmente e non invece quando non c’è alcunché su cui intervenire ab initio e quindi in presenza di dati per nulla conosciuti dalla stazione appaltante perché omessi (nella specie, era stata omessa la dichiarazione sulle precedenti condanne penali del rappresentante legale dell’impresa concorrente e non poteva quindi essere sanata o rego- (18) T.A.R. Lombardia, 15 gennaio 2013, ord. di rinvio pregiudiziale n. 123, su cui S. Foà, Rinvio pregiudiziale accelerato del T.A.R. per ‘‘disapplicare’’ il giudicato del Consiglio di Stato, in Giur. It., 2013, n. 6, 1432 ss.; Id., Le nuove frontiere del rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia. Il rinvio accelerato del T.A.R. per “disapplicare” il giudicato del Consiglio di Stato, in Federalismi, 2013, n. 10; P. Provenzano, La teoria del “ falso innocuo ” in materia di dichiarazioni ex art. 38 D.Lgs. n. 136/2006 al vaglio della Corte di giustizia, in Riv. It. Dir. Pubb. Com., 2013, 234. (19) Art. 45 dir. 2004/18/CE: Situazione personale del candidato o dell'offerente: “1. È escluso dalla partecipazione ad un appalto pubblico il candidato o l’offerente condannato, con sentenza definitiva di cui l'amministrazione aggiudicatrice è a conoscenza; per una o più delle ragioni elencate qui di seguito: [...] Ai fini dell'applicazione del presente paragrafo, le amministrazioni aggiudicatrici chiedono, se del caso, ai candidati o agli offerenti di fornire i documenti di cui al paragrafo 3 e, qualora abbiano dubbi sulla situazione personale di tali candidati/offerenti, possono rivolgersi alle autorità competenti per ottenere le informazioni relative alla situazione personale dei candidati o offerenti che reputino necessarie. Se le informazioni riguardano un candidato o un offerente stabilito in uno Stato membro diverso da quello dell'amministrazione aggiudicatrice, quest'ultima può richiedere la cooperazione delle autorità competenti. In funzione del diritto nazionale dello Stato membro in cui sono stabiliti i candidati o gli offerenti, le richieste riguarderanno le persone giuridiche e/o le persone fisiche, compresi, se del caso, i dirigenti delle imprese o qualsiasi persona che eserciti il potere di rappresentanza, di decisione o di controllo del candidato o dell'offerente”. (20) Cons. Stato, sez. III, 8 settembre 2014, n. 4543. 1152 Urbanistica e appalti 11/2014 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Appalti e lavori pubblici Normativa larizzata o integrata in concreto con la produzione ex novo di dichiarazione o certificazione dall’inizio mancante, rientrando fra i cd. adempimenti doverosi imposti comunque dalla norma e dal disciplinare, e anche a prescindere dalla previsione della disciplina di gara e da ogni visione “sostanzialistica” di tali adempimenti). Con particolare riguardo al tema di dichiarazioni sulla cd. moralità professionale, l’Adunanza Plenaria ha così negato il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia di interpretazione dell’art. 38, comma 1, lett. b e c) del codice in rapporto all'art. 45 direttiva 2004/18/CE, in merito alla rilevanza o meno del reato ai fini dell’obbligo dichiarativo in capo all’operatore economico (21), non sussistendo “ragionevoli dubbi interpretativi” sulla corretta soluzione da dare e data alla questione sollevata (22). Le disposizioni del codice sono espressive di principi generali anche di derivazione europea e possono trovare, ai fini dell’ampiezza applicativa, la ratio nella tutela di valori immanenti al sistema della contrattualistica pubblica. La stessa Adunanza Plenaria ritiene che anche la direttiva europea sugli appalti pubblici n. 24 del 26 febbraio 2014, non ancora recepita in Italia, impedisce la produzione di dichiarazioni che omettano tutte le informazioni indispensabili ad eseguire le verifiche di ufficio sulla loro veridicità e preclude l’esercizio del potere istruttorio. In effetti le norme comunitarie tendono sì a semplificare e ad accelerare i procedimenti, ma non ad eliminare il sistema di attestazione dell’insussistenza delle situazioni ostative quale prova preliminare sostitutiva di certificazioni, che nella direttiva n. 24/2014 vengono ridotte ad un’unica autodichiarazione (23). La nuova direttiva appalti prevede innanzitutto che l’autodichiarazione di possesso dei requisiti soggettivi di ammissione avverrà tramite un formulario denominato Documento di Gara Unico Europeo (DGUE), di semplice compilazione e che non dovrà essere accompagnato dalla presentazione delle dichiarazioni e dei certificati (24). La presentazione della documentazione probante sarà richiesta solo all’aggiudicataria, salva la possibilità conferita dal par. 4 alle Amministrazioni di “chiedere a offerenti e candidati, in qualsiasi momento nel corso della procedura, di presentare tutti i documenti complementari o parte di essi, qualora questo sia necessario per assicurare il corretto svolgimento della procedura”. L’interazione tra oneri istruttori della stazione appaltante e possibilità per le imprese di provare con ogni mezzo l’insussistenza di una causa ostativa sembrano confermare la visione della disciplina europea come maggiormente sostanzialista e improntata alla massima collaborazione, semplificata appunto da strumenti come il DGUE e le banche dati (25). Rispetto alla compatibilità del sistema interno in materia di soccorso istruttorio con quello europeo scaturente dalle nuove direttive, significativo risulta l’inciso iniziale dell’art. 57: “le amministrazioni aggiudicatrici escludono un operatore economico dalla partecipazione a una procedura d'appalto qualora abbiano stabilito attraverso una verifica ai sensi degli artt. 59, 60 e 61 o siano a conoscenza in altro modo del fatto che tale operatore economico è stato condannato con sentenza definitiva per uno dei seguenti motivi [...]”, che collega l’esclusione soltanto ad una attiva verifica di sussi- (21) Per giurisprudenza costante è compito dell’Amministrazione valutare la gravità o meno del reato, che può essere accertato con qualsiasi mezzo di prova, e quindi l’incidenza sulla moralità professionale, e non di certo al concorrente, che non può quindi operare alcun proprio “filtro” in sede di domanda di partecipazione e quindi di dichiarazione in proposito. Quindi non sussisterebbero i presupposti per rimettere alla Corte di giustizia UE la questione pregiudiziale al momento che l’obbligo del rinvio alla Corte di giustizia richiede una valutazione di compatibilità che spetta anche al Consiglio di Stato, quale giudice nazionale di ultima istanza (cfr., Cons. Stato, sez. VI n. 6553/2010 e 693/2014; sez. III, nn. 4428/2013, 34753481/2014; sez. IV, n. 1423/2014; sez. V, n. 3474/2012). (22) Sui presupposti per il rinvio pregiudiziale, S. Foà, Giustizia amministrativa e pregiudizialità costituzionale, comunitaria e internazionale. I confini dell’interpretazione conforme, Napoli, 2011; ID., Giustizia amministrativa atipicità delle azioni ed effettività della tutela, Napoli, 2012, 182 ss. Cfr. Corte giust. UE, 6 ottobre 1982, C-283/81; Cons. Stato, sez. VI, nn. 896 e 1810/2011; Id., sez. III, nn. 3475-3481/2014. (23) C. E. Gallo (a cura di), Autorità e consenso nei contratti pubblici alla luce delle direttive 2014, Torino, 2014. (24) Art. 59 direttiva 2014/24/UE: “[...] Il DGUE consiste in una dichiarazione formale da parte dell'operatore economico, in cui si attesta che il pertinente motivo di esclusione non si applica e/o che il pertinente criterio di selezione è soddisfatto, e fornisce le informazioni rilevanti come richiesto dall'amministrazione aggiudicatrice. Il DGUE indica inoltre l'autorità pubblica o il terzo responsabile per determinare il documento complementare e include una dichiarazione formale secondo cui l'operatore economico sarà in grado, su richiesta e senza indugio, di fornire tali documenti complementari”. (25) E-Certis in materia comunitaria, che per vero si presenta maggiormente come piattaforma per lo scambio di informazioni ma che funziona anche come collegamento alle banche dati dei vari paesi membri. Art. 59 par. 6: “Gli Stati membri mettono a disposizione e aggiornano su e-Certis un elenco completo di banche dati contenenti informazioni pertinenti sugli operatori economici che possono essere consultate dalle amministrazioni aggiudicatrici di altri Stati membri. Su richiesta, gli Stati membri comunicano agli altri Stati membri le informazioni relative alle banche dati di cui al presente articolo”. Urbanistica e appalti 11/2014 1153 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Appalti e lavori pubblici Normativa stenza di un motivo ostativo all’ammissione alla gara. Comprendere se le nuove direttive possano incidere sulla disciplina interna del soccorso istruttorio è certamente complesso, in ragione della differente impostazione della disciplina europea rispetto a quella interna (26). Sul punto potrà forse esprimersi la stessa Corte di giustizia nel rispondere alla questione pregiudiziale di cui si è fatta menzione. Nel frattempo il Consiglio di Stato ha ritenuto di confermare il proprio precedentemente orientamento elevandolo ad interpretazione conforme alla sopravvenuta normativa europea. Le applicazioni della nuova disciplina “anticipate” dal Consiglio di Stato Per ora, il Consiglio di Stato ha indicato qualche esempio di irregolarità e omissioni meramente formali delle dichiarazioni rese, quindi ritenute “non essenziali” secondo la novella in esame. Con la pronuncia dell’Ad. Plen. n. 16 del 2014, ha affermato che la dichiarazione resa da uno dei componenti del consiglio di amministrazione, ai sensi del D.P.R. n. 445 del 2000 di insussistenza delle condizioni ostative previste dall’art. 38 del codice “non deve contenere la menzione nominativa di tutti i soggetti muniti di poteri rappresentativi dell’impresa, quando questi ultimi possano essere agevolmente identificati mediante l’accesso a banche dati ufficiali o a registri pubblici”. La presenza di una dichiarazione sostitutiva così resa, ha puntualizzato l’Adunanza Plenaria, “non necessita di integrazioni o regolarizzazioni mediante l’uso dei poteri di soccorso istruttorio”. La stessa Adunanza Plenaria ha ricondotto espressamente tale interpretazione, basata su criteri non formalistici, alla previsione qui in esame (allora nel testo del D.L. 24 giugno 2014, n. 90) per le gare indette successivamente alla sua entrata in vi(26) Sul fronte interno, la semplificazione nella produzione documentale dovrebbe conseguire all’attivazione della Banca Dati Nazionale dei Contratti Pubblici preso l’AVCP prevista dall’art. 44 del D.Lgs. n. 235 del 2010, destinata a raccogliere non solo i dati in possesso dell’Autorità (art. 7, comma 4, lett. a), ma anche le informazioni riguardanti i requisiti soggettivi di ammissione delle imprese. Il D.L. n. 5 del 2012 ha implementato lo strumento prevedendo l’obbligatorietà per le imprese di inserire nella Banca i dati relativi ai requisiti di carattere generale, tecnico-organizzativo ed economico-finanziario e il complementare obbligo per le Stazioni Appaltanti di verificare il possesso degli stessi esclusivamente tramite la Banca Dati Nazionale, tramite il sistema AVCPass. Il termine inizialmente previsto per l’avvio definitivo del sistema (1° gennaio 2013) è stato posticipato dalla L. n. 15/2014 di conversione del cd. 1154 gore. La nuova disposizione prevede che persino la mancanza, l’incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale delle dichiarazioni sostitutive, pur comportando l’obbligo di pagare una sanzione pecuniaria, impone alla stazione appaltante l’esercizio dei poteri di soccorso istruttorio mediante l’assegnazione di un termine perentorio per la integrazione o regolarizzazione. L’esclusione è prevista soltanto nel caso in cui il concorrente non adempia nel termine assegnato. Più di recente, il Consiglio di Stato ha affrontato il caso in cui il rappresentante legale dell’impresa non ha espressamente affermato che gli altri componenti del consiglio di amministrazione non avevano pregiudizi penali. Anche in tal caso, seguendo l’interpretazione confermata dal legislatore, il giudice amministrativo ha ritenuto la dichiarazione conforme alle prescrizioni legali, per le seguenti ragioni: perché la dichiarazione – resa dal Presidente del Consiglio di amministrazione, con funzioni di rappresentante legale – presentava un contenuto complessivo riferito all’ente; perché i dati identificativi degli amministratori risultavano facilmente desumibili dal registro delle imprese; perché, a seguito di accertamenti disposti dalla stazione appaltante, i due componenti del consiglio di amministrazione avevano comunque reso nel corso della procedura la dichiarazione personale di mancanza di pregiudizi penali (27). Con tale pronuncia il Consiglio di Stato ha esteso l’ambito di applicazione dei principi enunciati nella Plenaria anche ai casi in cui il bando di gara sia specifico, nel prescrivere l’esclusione, e la stazione appaltante abbia anche predisposto lo schema di dichiarazione sostitutiva in tal senso. Tali prescrizioni amministrative, infatti, secondo le parole del giudice amministrativo, «devono [...] essere interpretate in modo conforme a quanto stabilito dalla legge, con la conseguenza che deve ritenersi giuridicamente equipollente, [...], al requisito pre“Decreto Milleproroghe” (D.L. n. 150 del 2013) al 1° luglio 2014 con l’obbligo, per le stazioni appaltanti e per i partecipanti alle pubbliche gare d’appalto (d’importo a base d’asta pari o superiore ai 40.000 euro nei settori ordinari) di utilizzare esclusivamente l’AVCPass per la verifica telematica dei requisiti soggettivi di ammissione alla gara. Il progetto consente un'evidente riduzione dei tempi di formazione delle autocertificazioni e alla formazione delle buste, eliminando parte delle incertezze e dei rischi di errori. Inoltre permette un celere recepimento delle informazioni, che rimangono nella Banca Dati per tutto il periodo di validità dei documenti, anche oltre la singola gara, sicché esaurito l’onere di primo caricamento a sistema saranno le Amministrazioni a dover procedere all’acquisizione. (27) Cons. Stato, sez. VI, 12 settembre 2014, n. 4666. Urbanistica e appalti 11/2014 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Appalti e lavori pubblici Normativa scritto dalla lex specialis della dichiarazione resa “da tutti” la dichiarazione resa “per tutti” dal legale rappresentante». La pronuncia pare fornire la chiave di lettura dell’art. 39 della L. n. 114 del 2014 qui in esame, laddove introduce una sanzione pecuniaria per la mancanza, incompletezza e ogni altra irregolarità delle dichiarazioni sostitutive; obbliga la stazione appaltante ad assegnare al concorrente un termine non superiore a dieci giorni per l’integrazione delle dichiarazioni carenti; ed ammette l’esclusione nel solo caso di inosservanza di quest’ultimo adempimento. Dunque emerge con chiarezza come la ratio del legislatore sia quella di imporre un’istruttoria veloce ma preordinata ad acquisire la completezza delle dichiarazioni, e di evitare le esclusioni dalla procedura per mere carenze e irregolarità documentali (28). Gli “elementi” mancanti, incompleti o irregolari L’art. 39 in esame riferisce il sistema sanzionatorio introdotto non solo al caso delle dichiarazioni sostitutive di certificazione e di atto di notorietà relative ai requisiti (di idoneità professionale, di ordine generale, di capacità economico-finanziaria e tecnico-professionale) degli operatori economici, ma anche ad altri “elementi” che devono essere prodotti in relazione alla gara. Se si intende riconoscere autonomia alla voce “elementi” rispetto alle patologie delle dichiarazioni, tra gli stessi documenti previsti dal codice dei contratti pubblici, dal regolamento attuativo e da altre disposizioni di legge come strumenti attestativi di condizioni necessariamente incidenti sulla partecipazione alla gara: in questo novero possono rientrare la cauzione provvisoria, l’attestazione del versamento del contributo all’AVCP per la partecipazione alle gare o la dichiarazione di accettazione (che non è dichiarazione sostitutiva) del protocollo di legalità eventualmente adottato dalla stazione appaltante, in applicazione dell’art. 1, comma 17, della L. n. 190 del 2012 (29). Anche in tal caso la stazione appaltante deve individuare le correlate irregolarità essenziali, solo ad (28) S. Crisci, Il futuro dell’art. 38 del Codice dei contratti pubblici alla luce dei recenti orientamenti giurisprudenziali, in Giustamm, 2014. (29) A. Barbiero, Le novità in materia di "sanzioni" per le dichiarazioni sostitutive non rese o rese in modo incompleto o irregolare nelle gare di appalto. Sui protocolli di legalità e patti di Urbanistica e appalti 11/2014 esse potendo applicare il provvedimento sanzionatorio e l’eventuale esclusione in caso di mancata regolarizzazione nei termini. Qualora la stazione appaltante intenda invece il dato letterale riferito agli elementi come connesso esclusivamente alle dichiarazioni, deve enucleare il complesso degli oneri dichiarativi, esplicitarne l’indispensabilità e precisare i presupposti per le irregolarità essenziali. Simile scelta presuppone, tuttavia, che la mancata produzione di altre dichiarazioni (non sostitutive di certificazione o di atto di notorietà, ma riconducibili alle tipologie delle dichiarazioni di accettazione o di impegno) e di alcuni documenti individuati dal codice dei contratti pubblici e da altre norme di legge come obbligatori in relazione alla partecipazione alla gara (ad es. la cauzione provvisoria) sia esplicitamente sanzionata con l’esclusione dalla gara, in coerenza con quanto previsto dal comma 1-bis dell’art. 46 del D.Lgs. n. 163/2006 (ed a quanto specificato dall’AVCP nella determinazione n. 4/2012) (30). Proprio il riferimento agli elementi che devono essere prodotti in gara induce a ritenere che questi non siano riferiti tanto al contenuto delle dichiarazioni sostitutive, quanto ai documenti che devono obbligatoriamente essere presentati in gara. Le stazioni appaltanti tendono per l’effetto a disciplinare nel bando la sottoposizione alla sanzione e alla regolarizzazione anche la mancata presentazione della cauzione provvisoria o dell’attestazione di pagamento del contributo all’AVCP per la partecipazione alle gare. Il trattamento sanzionatorio e l’autonomia dal procedimento di regolarizzazione La sanzione pecuniaria, che il concorrente è tenuto a versare alla stazione appaltante per le dichiarazioni mancanti, incomplete o irregolari, sarà determinata dal bando di gara in misura non inferiore all’uno per mille e non superiore all’uno per cento del valore della gara e comunque non sarà superiore a 50.000 euro. Il versamento di questa sanzione è garantito dalla cauzione provvisoria prevista per la partecipazione alla gara di appalto. integrità, cfr. S. Foà, Le novità della legge anticorruzione, in questa Rivista, 2013, 301 ss. (30) S. Lazzini, Il “delirio” delle nuove disposizioni: breve nota sul combinato disposto del comma 2 bis dell’articolo 38 con comma 1-ter dell’articolo 46 del codice dei contratti, in Diritto.it, 2014 1155 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Appalti e lavori pubblici Normativa La sanzione così prevista potrebbe cumularsi con quella irrogata dall’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, ai sensi dell’art. 6, comma 11, del codice (sanzione amministrativa pecuniaria fino a 25.822 euro o fino a 51.545 euro a seconda che gli operatori economici forniscano informazioni non veritiere, ovvero omettano di fornire documenti, informazioni e chiarimenti relativamente ai lavori, servizi e forniture pubblici, in corso o da iniziare, al conferimento di incarichi di progettazione, agli affidamenti) (31). La norma specifica, infatti, che le stesse sanzioni si applicano agli operatori economici che non ottemperano alla richiesta della stazione appaltante o dell'ente aggiudicatore di comprovare il possesso dei requisiti di partecipazione alla procedura di affidamento, nonché agli operatori economici che forniscono dati o documenti non veritieri, circa il possesso dei requisiti di qualificazione, alle stazioni appaltanti o agli enti aggiudicatori o agli organismi di attestazione. La sanzione è correlata all’esistenza di irregolarità essenziali sanabili individuate dalla stazione appaltante, sottoposte al particolare subprocedimento di regolarizzazione, mentre quelle non ritenute tali, se non rese o rese in modo incompleto o irregolare, non determinano né l’applicazione della sanzione né l’obbligo di regolarizzazione. La regolarizzazione documentale, peraltro, non è correlata al pagamento della sanzione, quindi gli operatori economici che abbiano reso o completato le dichiarazioni insufficienti sono ammessi alla gara, indipendentemente dal pagamento della sanzione. Andrebbe, altresì, chiarito se il pagamento sia comunque dovuto anche laddove il concorrente non intenda sanare la propria posizione nel termine assegnatogli (32). Salva dunque l’autonomia dell’irrogazione della sanzione rispetto alla regolarizzazione documentale, non può sfuggire la varietà delle fattispecie di violazioni delle regole di gara contemplate dalla norma in esame. La mancanza, l’incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale degli elementi e delle dichiarazioni sostitutive imporrebbero un trattamento differenziato ed una previa specificazione del correlato disvalore in sede di bando, in applicazione del principio della gradualità delle sanzioni in relazione alla gravità delle infrazioni. Nella pras- si si sta tuttavia affermando l’irragionevole definizione di un trattamento sanzionatorio unitario nei bandi di gara. Ulteriore criticità è riferita alla previsione di una cauzione provvisoria a garanzia del pagamento della sanzione. La previsione comporta che in caso di mancato pagamento da parte dell’impresa concorrente dopo la contestazione della sanzione, qualora l’amministrazione aggiudicatrice non riesca ad ottenere il versamento, possa rivalersi sulla cauzione (che il concorrente dovrà reintegrare tempestivamente). In tale prospettiva, nelle fidejussioni dovrà essere fatta menzione della garanzia specifica. Molte amministrazioni hanno scelto di prevedere nel bando anche un’integrazione supplementare del valore della garanzia provvisoria, corrispondente alla sanzione, determinando tuttavia un maggior onere per le imprese. (31) Su cui C. Celone, I procedimenti sanzionatori dell'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, in M. Allena, S. Cimini (a cura di), Il potere sanzionatorio delle Autorità amministrative indipendenti, in Dir. Econ., 2013, 301 ss. (32) Camera dei deputati, Scheda di lettura, Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l'efficienza degli uffici giudiziari D.L. 90/2014 - A.C. 2486, pag. 170. (33) P. Provenzano, Brevi riflessioni a margine della disciplina sugli oneri dichiarativi ex art. 38 D.Lgs. 163/2006 contenuta nell'art. 39 del D.L. n. 90/2014, in Giustamm, 2014 1156 L’applicazione della norma nel tempo e il rischio di disparità di trattamento Si può concordare solo parzialmente con le letture che riconoscono alla disposizione in commento, oltre alla innegabile e prevalente portata innovativa correlata all’introduzione del sistema sanzionatorio, una natura interpretativa, e dunque meramente confermativa, della preminenza del dato sostanziale su quello formale in ordine ai requisiti di partecipazione alle gare (33). Proprio tale ultima affermazione, condivisibile in astratto, sollecita infatti alcune ulteriori considerazioni: il principio in sé pare incontestabile e ispirato alla disciplina europea, ma il suo concreto ambito applicativo pare ancora incerto, come testimoniano le contrastanti posizioni assunte dal giudice amministrativo sul rinvio pregiudiziale interpretativo alla Corte di giustizia. La lettura più sostanzialista degli artt. 38 e 46 del codice, suggerita dalla novella, dovrebbe orientare il giudice amministrativo a evitare discrasie nel trattamento delle omissioni dichiarative legate al momento di indizione della gara, evitando che le medesime irregolarità oggi considerate (o meglio considerabili dalla stazione appaltante) come sanabili, negli altri casi provochino viceversa l'esclusione dell’operatore economico. Urbanistica e appalti 11/2014 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Appalti e lavori pubblici Normativa In questo senso sono condivisibili le osservazioni di chi prospetta il rischio di violazione del principio della retroattività della norma sanzionatoria più favorevole, che si verificherebbe per effetto dell’esclusione dalla gara, a fronte di una sopravvenuta disciplina normativa che consente di sanare l’irregolarità integrata (34). Anche se il principio, enunciato dalla CEDU, deve superare nell’ordinamento interno una consolidata giurisprudenza (vero e proprio diritto vivente) della Corte di Cassazione, oltre a precedenti negativi della Corte costituzionale che, in più occasioni, hanno ribadito la sua non applicabilità alle sanzioni amministrative (35). Il rito degli appalti pubblici dopo il D.L. 90/2014 di Rosanna De Nictolis Il D.L. n. 90/2014, e le sue modifiche intervenute con il D.L. n. 114/2014, hanno ridisegnano in modo significativo il rito degli appalti pubblici disciplinato dall’art. 120 c.p.a. Nel testo si opera una ricostruzione sistematica del rito, alla luce delle novità introdotte. La storia del rito appalti Il D.L. n. 90/2014, e le sue modifiche intervenute con il D.L. n. 114/2014, hanno ridisegnano in modo significativo il rito degli appalti pubblici disciplinato dall’art. 120 c.p.a., e che riguarda l’impugnazione degli atti delle procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi, forniture, davanti al giudice amministrativo, ossia la c.d. procedura di evidenza pubblica che sfocia nell’aggiudicazione. Il cd. rito appalti ha conosciuto vicende travagliate, essendo stato ritoccato più volte, sempre in nome di “emergenze” e bisogno di far presto. Appartengono ormai al passato remoto sia le disposizioni processuali di cui all’art. 31-bis, L. Merloni, sia il rito speciale di cui al D.L. n. 67/1997. Appartiene al passato, sia pure prossimo, anche il rito dell’art. 23-bis, L. TAR, introdotto dalla L. n. 205/2000 e abrogato, per quanto riguarda gli appalti, dal D.Lgs. n. 53/2010, recante recepimento (34) P. Provenzano, La retroattività in mitius delle norme sulle sanzioni amministrative, in Riv. It. Dir. Pubb. Com., 2012, 877 ss. Cfr., in generale, F. Goisis, Nuove prospettive per il principio di legalità in materia sanzionatoria-amministrativa: gli obblighi discendenti dall'art. 7 CEDU, in Foro Amm. TAR, 2013, 1228 ss.; Id., Garanzie procedimentali e Convenzione europea per la tutela dei diritti dell'uomo, in Riv. Dir. Proc. Amm., 2009, 1339 ss.; M. Allena, Art. 6 CEDU. Procedimento e processo amministrativo, Napoli, 2012, passim. I criteri per estendere le garanzie individuali riservate dalla CEDU ai destinatari di sanzioni penali risalgono alla sentenza CEDU, 8 giugno 1976, caso n. 5100/71, Engel v. Olanda. (35) Cass. n. 6712/1999, Cass., Sez. Un., n. 890/1998, Cass. n. 8074/1998, Cass. n. 2058/1998, Cass. n. 11928/1995, Cass. n. 13246/1992, Cass. n. 6318/1986, Cons. Stato n. 3497/2010, Cons. Stato n. 2544/2000. Tale orientamento è stato in passato avallato in passato dalle sentenze 501/2002 e 245/2003 della Corte costituzionale, sfavorevole all’applicazione alla materia Urbanistica e appalti 11/2014 della direttiva ricorsi, che aveva novellato il D.Lgs. n. 163/2006. Ma a sua volta la novella processuale del D.Lgs. n. 163/2006, se pure non è vissuta un solo giorno come le rose di una nota canzone, ha avuto comunque vita brevissima, dal 27 aprile al 15 settembre 2010, avendo subìto un’abrogazione (sia pure travestita da modifica degli articoli) ad opera del codice del processo amministrativo di cui al D.Lgs. n. 104/2010 (art. 3, comma 19, disp. coord. e abr., c.p.a.). Mentre le disposizioni in tema di sorte del contratto, sanzioni alternative, tutela risarcitoria, hanno subito solo un trasloco con ritocchi minimi, dal D.Lgs. n. 163/2006 al codice del processo amministrativo, invece il nuovo rito processuale sui pubblici appalti (già art. 245, D.Lgs. n. 163/2006) dopo la sua vita brevissima dal 27 aprile 2010 al 15 settembre 2010, è stato trasferito dal D.Lgs. n. 163/2006 al c.p.a. (art. 120) con sensibili modificadelle sanzioni amministrative del principio in esame. La giurisprudenza richiamata ha finora rifiutato un’applicazione analogica dell’art. 2 comma 2 c.p., anche alla luce dell’art. 14 preleggi (cfr. Cass. n. 6712/1999, Cass., Sez. Un., n. 890/1998, Cass. n. 8074/1998, Cass. n. 2058/1998, Cass. n. 11928/1995, Cass. n. 13246/1992, Cass. n. 6318/1986, Cons. Stato n. 3497/2010, Cons. Stato n. 2544/2000) e ha considerato i limitati casi in cui il principio della retroattività della lex mitior opera come casi settoriali, non estensibili oltre il loro ristretto ambito di applicazione. Come evidenziato dalla Corte costituzionale con le sentenze nn. 347 e 348 del 2007, l’unico rimedio in caso di contrasto tra la normativa italiana e quella convenzionale, laddove non sia possibile un’interpretazione conforme (come nella specie, stante il diritto vivente contrario), non potendosi ricorrere alla tecnica della disapplicazione (prerogativa del diritto comunitario), è il rinvio alla Corte costituzionale per violazione dell’art. 117 comma 1 Cost. 1157 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Appalti e lavori pubblici Normativa zioni che ne hanno fatto un’entità profondamente diversa. Ora il D.L. n. 90/2014 segna un parziale ritorno a quel regime introdotto dal D.Lgs. n. 53/2010 e che visse, come visto, meno di cinque mesi. Non può poi trascurarsi il dato di fondo che il regime delle controversie in materia di appalti è strettamente condizionato dall’ordinamento dell’Unione Europea, che, in deroga al principio generale comunitario di autonomia processuale degli Stati membri, a partire dal 1989 è intervenuto con norme processuali cogenti per garantire una tutela effettiva contro le violazioni comunitarie sulle procedure di affidamento, poste a tutela della concorrenza e del mercato. Infatti le due “direttive ricorsi” 89/665/CEE e 92/13/CEE, poi modificate in modo pregnante dalla direttiva 2007/66/CE, hanno trovato attuazione in Italia sia con le disposizioni processuali sopra ricordate, sia, e in modo sistematico, con il citato D.Lgs. n. 53/2010, trasfuso poi, con modificazioni, negli artt. 120 ss. c.p.a. Sicché ogni intervento del legislatore italiano sul rito appalti e sulla tutela cautelare, deve necessariamente passare il vaglio della compatibilità comunitaria. Sul piano sistematico e della razionalità organizzativa, poi, il rito appalti era già un rito celere, le ulteriori misure previste difficilmente potranno renderlo più veloce, sia per l’oggettiva complessità del contenzioso, sia perché le risorse umane sono rimaste invariate, e i carichi di lavoro dei magistrati e del personale di segreteria difficilmente consentiranno una accelerazione ulteriore, se non a scapito o della qualità del lavoro, o della decisione tempestiva di altri tipi di contenzioso. Se già in passato si criticava la creazione di “corsie preferenziali” per certi tipi di contenzioso, che inevitabilmente rallentano le altre materie, la critica oggi va riconfermata. Le nuove regole processuali incidono, in una prospettiva acceleratoria, sulla forma degli atti di parte, sui tempi di decisione e deposito della sentenza, e sulla fase cautelare. Ne risulta un rito articolato secondo le seguenti linee di fondo: a) costruzione di un nuovo rito speciale, che si muove nei binari dell’art. 119, c.p.a., ma se ne discosta in più punti; b) la disciplina del rito abbreviato comune (art. 119 c.p.a.) resta applicabile per quanto non espressamente disposto (art. 120, comma 3, c.p.a.); 1158 c) competenza inderogabile generalizzata per tutti i giudizi amministrativi (art. 13 c.p.a.); d) previsione di termini più brevi sia di quelli ordinari, sia di quelli di cui all’art. 119 c.p.a. (art. 120, commi 2 e 5, c.p.a.); e) obbligatorietà e non mera facoltatività dei motivi aggiunti per impugnare atti connessi a quello già impugnato (art. 120, comma 7, c.p.a.); f) giudizio di merito ove possibile immediato, diversamente da celebrarsi in ogni caso entro breve termine (nell’art. 120, comma 6 c.p.a., come novellato dalla L. n. 114/2014, udienza da celebrarsi entro 45 giorni; nella versione originaria dell’art. 120, comma 6, udienza da fissarsi con assoluta priorità; dal 27 aprile al 15 settembre 2010, nell’art. 245, D.Lgs. n. 163/2006: udienza di norma entro 60 giorni); g) sinteticità degli atti di parte secondo un puntuale format da fissarsi con decreto del Presidente del Consiglio di Stato (art. 120, comma 6, c.p.a., regola introdotta dalla L. n. 114/2014). Ambito applicativo Il D.L. n. 90/2014 non ha innovato sull’ambito oggettivo di applicazione del rito. Esso si applica anzitutto agli atti delle procedure di affidamento, ivi comprese le procedure di affidamento di incarichi e concorsi di progettazione e di attività tecnico-amministrative ad esse connesse, relativi a lavori, servizi o forniture. Il rito si applica poi ai connessi provvedimenti dell’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici, alla quale, a partire dal D.L. n. 90/2014, è subentrata l’ANAC: ad es. iscrizioni nel casellario informatico, o applicazione di sanzioni, conseguenti a provvedimenti di esclusione dalla gara adottati dalle singole stazioni appaltanti. La connessione di tali atti a quelli di gara comporta che essi devono obbligatoriamente essere impugnati con motivi aggiunti nello stesso processo in cui sono impugnati gli atti di gara. Se tuttavia gli atti di gara non vengono impugnati, mentre si impugnano solo i provvedimenti dell’Autorità, p.es. non si impugna l’esclusione dalla gara ma solo l’iscrizione dell’esclusione nel casellario informatico, non si applica il nuovo rito speciale, ma resta applicabile l’art. 119, c.p.a., tra le cui materie vi sono i provvedimenti delle Autorità amministrative indipendenti. Il che implica anche una diversa scansione temporale, a partire dal termine di proposizione del ricorso, che nel rito dell’art. 119 c.p.a. è di sessanta Urbanistica e appalti 11/2014 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Appalti e lavori pubblici Normativa giorni, in quello dell’art. 120 c.p.a. è di trenta giorni. In sintesi, due sono le condizioni per l’applicazione del nuovo rito ai provvedimenti dell’Autorità: a) che siano connessi con gli atti di gara; b) che siano impugnati insieme agli atti di gara o con motivi aggiunti. Esclusività del rito Il D.L. n. 90/2014 non ha innovato quanto alla esclusività del rito, sancita dall’art. 120 comma 1 c.p.a. Rimane escluso, per gli atti ivi menzionati, il rimedio del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica. I termini per gli atti di parte e del giudice I termini per gli atti di parte non sono stati toccati dal D.L. n. 90/2014, mentre sono state toccati i termini relativi ad attività e provvedimenti del giudice. Essendo stato previsto un regime transitorio, per alcuni termini vi sarà un doppio regime. Si illustrano di seguito i termini processuali più importanti. Atti di parte a) il termine per il ricorso introduttivo è di trenta giorni; b) il termine per i motivi aggiunti è di trenta giorni; c) il termine per il ricorso incidentale è di trenta giorni; d) il termine per il deposito del ricorso principale e incidentale e dei motivi aggiunti è di quindici giorni; e) il termine di costituzione delle altre parti è trenta giorni dal perfezionamento della notifica per le parti medesime; f) il termine per documenti è fino a venti giorni liberi prima dell’udienza; g) il termine per memorie è fino a quindici giorni liberi prima dell’udienza; h) il termine per repliche è fino a dieci giorni liberi prima dell’udienza; i) il termine per la notifica dell’appello cautelare è di trenta giorni dalla notifica o sessanta dalla pubblicazione, in quanto nulla dice l’art. 120, c.p.a., mentre l’art. 119, comma 2, c.p.a., applicabile per colmare le lacune, sottrae al dimezzamento Urbanistica e appalti 11/2014 i termini di notifica dell’appello cautelare, che sono fissati dall’art. 62, comma 1, c.p.a.; l) il termine per il deposito dell’appello cautelare è di quindici giorni: infatti nulla dice l’art. 120 c.p.a., per cui si applica l’art. 119, comma 2, che prevede il dimezzamento di tutti i termini processuali salvo quelli ivi espressamente eccettuati; in tema di appello cautelare, l’art. 119, comma 2, sottrae al dimezzamento i termini di notifica, di cui all’art. 62, comma 1, c.p.a., ma non anche i termini di deposito, che restano dimezzati; pertanto, siccome l’art. 62, comma 2, c.p.a., prevede trenta giorni per il deposito dell’appello cautelare (mediante rinvio a catena all’art. 45, c.p.a.), ne deriva che nel rito speciale il termine di deposito dell’appello cautelare è di quindici giorni; m) per i termini delle impugnazioni, nulla dispone l’art. 120 c.p.a.; si applica perciò l’art. 119, commi 2 e 6; il comma 2 sottrae al dimezzamento solo i ricorsi e motivi aggiunti in primo grado, mentre il comma 6 dispone sui termini dell’appello avverso il dispositivo e avverso la motivazione dopo un appello avverso il dispositivo; se ne desume il seguente quadro: m.1) trenta giorni per impugnare il dispositivo, decorrenti dalla sua pubblicazione; m.2) trenta giorni, decorrenti dalla notificazione, per impugnare la motivazione della sentenza dopo l’impugnazione del dispositivo; m.3) trenta giorni, decorrenti dalla notificazione, per impugnare la sentenza; m.4) tre mesi, decorrenti dalla pubblicazione, per impugnare la sentenza; m.5) tre mesi, decorrenti dalla pubblicazione, per impugnare la motivazione della sentenza dopo l’impugnazione del dispositivo; m.6) quindici giorni dal perfezionamento dell’ultima notificazione, per depositare l’atto di impugnazione, termine dimezzato rispetto a quello ordinario di trenta giorni per il deposito delle impugnazioni ex art. 94 c.p.a.; m.7) quanto all’appello incidentale, in virtù dell’art. 119, comma 2, che sottrae al dimezzamento solo atti introduttivi in primo grado, è da ritenere che il termine dell’appello incidentale sia dimezzato e pari a trenta giorni rispetto a quello ordinario di sessanta giorni indicato nell’art. 96 c.p.a., con le decorrenze ivi previste a seconda che si tratti di impugnazione incidentale proposta ai sensi dell’art. 333 o 334 c.p.c.; m.8) quanto al termine di deposito dell’appello incidentale, l’appello incidentale sia di quello ex art. 333 c.p.c. sia di quello incidentale ex art. 334 1159 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Appalti e lavori pubblici Normativa c.p.c. va depositato entro quindici giorni (termine di trenta giorni, ex art. 96, comma 5, c.p.a., dimezzato). Attività e atti del giudice La novella incide sulla durata dell’ordinanza cautelare, sui termini di fissazione dell’udienza, sul termine per il dispositivo e la sentenza. Vi è però un regime transitorio, per cui si delinea un doppio regime. In particolare, le nuove disposizioni si applicano ai giudizi introdotti con ricorso depositato, in primo grado o in grado di appello, in data successiva alla data di entrata in vigore del decreto legge. Il D.L. è stato pubblicato sulla G.U. del 24 giugno 2014 ed è entrato in vigore il 25 giugno 2014. Per “data successiva” alla “data di entrata in vigore”, sembra doversi intendere una data dal 26 giugno in poi. Sicché la nuova disciplina riguarda i ricorsi depositati dal 26 giugno 2014 in poi. Con l’assurdità, tuttavia, che molte regole non sono state introdotte dal D.L. n. 90/2014, ma dalla legge di conversione n. 114/2014, entrata in vigore il 19 agosto 2014, e che dunque si applicano retroattivamente ai ricorsi depositati dal 26 giugno al 18 agosto. I problemi connessi alla retroattività si evitano solo perché le disposizioni dettate dalla legge di conversione sono migliorative e più favorevoli, ponendo termini e adempimenti meno rigorosi. Per i ricorsi depositati fino al 25 giugno 2014, in primo grado o in appello, continuano a valere le seguenti regole: a) non vi è un limite di durata dell’ordinanza cautelare; b) non vi è un preciso limite temporale per l’udienza di merito, che però va fissata d’ufficio con assoluta priorità (al di fuori dei casi in cui il giudizio non è immediatamente definito, nel merito, all’udienza cautelare); c) il decreto di fissazione dell’udienza va comunicato alle parti costituite almeno trenta giorni prima dell’udienza (combinato disposto degli artt. 120, comma 3, 119, comma 2, 71 comma 5, c.p.a.); d) in primo grado è obbligatorio pubblicare il dispositivo della sentenza, entro sette giorni dalla sua deliberazione; in appello il dispositivo va pubblicato, entro tale termine, solo se c’è istanza di parte; e) la sentenza va redatta (non pubblicata) entro 23 giorni dal passaggio della causa in decisione (combinato disposto dell’art. 120 comma 3, 119 comma 2, 89 c.p.a.). 1160 Per i ricorsi depositati dal 26 giugno 2014, in primo grado, valgono le seguenti regole: a) l’ordinanza cautelare ha una durata massima di sessanta giorni dalla sua pubblicazione (recte, le misure cautelari con essa disposte durano al massimo sessanta giorni dalla pubblicazione dell’ordinanza); b) l’udienza va celebrata entro quarantacinque giorni dalla scadenza del termine di costituzione delle parti diverse dal ricorrente; se con ordinanza viene disposta istruttoria, integrazione del contraddittorio, concessione di termini a difesa, la stessa ordinanza fissa la nuova udienza di merito da tenersi non oltre trenta giorni (da intendersi decorrenti dalla scadenza del termine fissato dall’ordinanza per l’istruttoria, integrazione del contraddittorio, termine a difesa); c) della data di udienza va dato immediato avviso alle parti a mezzo PEC; d) il termine per la pubblicazione del dispositivo in primo grado diventa di due giorni, da intendersi decorrenti dall’udienza di discussione, ma la pubblicazione avviene non più d’ufficio ma su istanza di parte; e) il termine per la sentenza in primo grado è trenta giorni, decorrenti dall’udienza di discussione, ed è termine per la sua pubblicazione e non solo per la sua redazione (nell’art. 119 c.p.a. e nel previgente art. 120 c.p.a., invece il termine era di ventitre giorni, decorrenti dal passaggio della causa in decisione, ed era per la sola redazione e non anche per la pubblicazione della sentenza). Per i ricorsi depositati dal 26 giugno in poi in grado di appello si applicano le nuove regole, contenute nell’art. 120 comma 6, e sopra richiamate, in ordine al termine dell’udienza di discussione (45 giorni, 30 giorni in caso di istruttoria, termini a difesa, integrazione del contraddittorio), mentre non si applicano né le regole sulla durata massima dell’ordinanza cautelare, dettata nell’art. 120 comma 8-bis, né le regole sulla pubblicazione del dispositivo entro 2 giorni e della sentenza entro trenta giorni, dettate nell’art. 120, comma 9, perché l’art. 120, comma 11, che indica le disposizioni dell’art. 120 applicabili in appello, non richiama né il comma 8-bis né il comma 9. Pertanto in appello il dispositivo è pubblicato entro sette giorni, e solo se c’è istanza di parte, e il termine per la sentenza resta di 23 giorni, per la sola redazione, e decorrente dal passaggio della causa in decisione e non dall’udienza di discussione. Urbanistica e appalti 11/2014 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Appalti e lavori pubblici Normativa La forma degli atti di parte L’art. 245, comma 2-undecies, D.Lgs. n. 163/2006, imponeva la sinteticità di “tutti gli atti di parte”, nel rito appalti in termini di doverosità. La regola è ribadita dall’art. 120, comma 10, c.p.a., non toccato dal D.L. n. 90/2014, ed estesa ai provvedimenti del giudice. Inoltre il c.p.a. pone la sinteticità anche come principio generale (art. 3, c.p.a.). Si tratta di un’importante novità, atteso che tale principio non era stato, fino al c.p.a. imposto, per gli atti di parte, né dalla disciplina del processo amministrativo né dalla disciplina del processo civile. Il c.p.a. ha generalizzato il principio di sinteticità degli atti di parte e del giudice (art. 3, comma 2, c.p.a.), peraltro ribadendolo specificamente per gli appalti (art. 120, comma 10, c.p.a.). Fino alla L. n. 114/2014, era tuttavia mancata una declinazione concreta del principio. La L. n. 114/2014, di conversione del D.L. n. 90/2014, ha novellato l’art. 120, comma 6, introducendo puntuali canoni che danno attuazione al principio di sinteticità degli atti di parte. Si stabilisce, infatti, che al fine di consentire lo spedito svolgimento del giudizio in coerenza con il principio di sinteticità di cui all’art. 3, comma 2, c.p.a. le parti contengono le dimensioni del ricorso e degli altri atti difensivi nei termini stabiliti con decreto del Presidente del Consiglio di Stato, sentiti il Consiglio nazionale forense e l'Avvocato generale dello Stato, nonché le associazioni di categoria riconosciute degli avvocati amministrativisti. Con il medesimo decreto sono stabiliti i casi per i quali, per specifiche ragioni, può essere consentito superare i relativi limiti. Il medesimo decreto, nella fissazione dei limiti dimensionali del ricorso e degli atti difensivi, tiene conto del valore effettivo della controversia, della sua natura tecnica e del valore dei diversi interessi sostanzialmente perseguiti dalle parti. Dai suddetti limiti sono escluse le intestazioni e le altre indicazioni formali dell'atto. Il giudice è tenuto a esaminare tutte le questioni trattate nelle pagine rientranti nei suddetti limiti; il mancato esame delle suddette questioni costituisce motivo di appello avverso la sentenza di primo grado e di revocazione della sentenza di appello. La previsione si applica, formalmente, ai ricorsi depositati dal 26 giugno 2014 (art. 40, comma 2, D.L. n. 90/2014), tuttavia è stata introdotta solo con la L. n. 114/2014, in vigore dal 19 agosto Urbanistica e appalti 11/2014 2014, e sarà concretamente applicabile solo quando sarà adottato il previsto decreto presidenziale. Inoltre l’art. 40, comma 2-bis, D.L. n. 90/2014, inserito dalla legge di conversione n. 114/2014 ha specificato che “Le disposizioni relative al contenimento del numero delle pagine, stabilite dal decreto del Presidente del Consiglio di Stato di cui alla lettera a) del comma 1 sono applicate in via sperimentale per due anni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto. Al termine di un anno decorrente dalla medesima data, il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa effettua il monitoraggio degli esiti di tale sperimentazione”. Sul piano procedurale, il decreto presidenziale necessiterà di molteplici pareri: il Consiglio nazionale forense, l'Avvocato generale dello Stato, nonché le associazioni di categoria riconosciute degli avvocati amministrativisti. Quanto all’ambito applicativo, il decreto dovrà fissare le dimensioni sia del ricorso introduttivo che degli altri atti di parte, dunque ricorso incidentale, motivi aggiunti, memorie, repliche, istanze. Nella fissazione dei limiti si dovrà tener conto di una serie di parametri, alcuni rigidi, altri discrezionali, sicché se ne desume che potranno essere fissati non solo limiti dimensionali diversi per i diversi tipi di atti (ricorso, ricorso incidentale, motivi aggiunti, memorie, repliche), ma anche limiti dimensionali diversi per lo stesso tipo di atto. Parametro rigido, fissato ex lege, è che dai limiti dimensionali sono escluse le intestazioni e le altre indicazioni formali dell'atto: sembra doversi intendere, oltre alla intestazione, l’indicazione dei nomi delle parti e relativi difensori, le relate di notifica, l’indice degli allegati. Sebbene il parametro sia fissato direttamente dalla legge, necessiterà di specificazione nel decreto presidenziale, che chiarisca cosa si intenda per intestazione e indicazione formale, con tutto quel che ne consegue, al fine dell’esclusione o dell’inclusione nel computo del limite dimensionale. Parametri elastici di cui tener conto sono: - valore effettivo della controversia; - natura tecnica della controversia; - valore dei diversi interessi sostanzialmente perseguiti dalle parti; - casi per i quali, per specifiche ragioni, può essere consentito superare i relativi limiti. La legge, mentre demanda al decreto presidenziale la fissazione dei limiti dimensionali, disciplina direttamente le conseguenze della inosservanza dei limiti dimensionali, sia pure implicitamente. 1161 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Appalti e lavori pubblici Normativa Si stabilisce infatti che il giudice è tenuto a esaminare tutte le questioni trattate nelle pagine rientranti nei suddetti limiti; il mancato esame delle suddette questioni costituisce motivo di appello avverso la sentenza di primo grado e di revocazione della sentenza di appello. La regola positiva posta è l’immediato corollario del principio della domanda e della necessità che il giudice la esamini tutta (art. 112 c.p.c.), e codifica l’elaborazione giurisprudenziale in tema di vizio della sentenza per omesso esame della domanda. Si accetta, in sintesi, la tesi giurisprudenziale secondo cui l’omesso esame della domanda è un vizio revocatorio, fatto rientrare nel travisamento dei fatti. Si può anche sostenere che senza più ricorrere a forzature esegetiche, si è introdotta una nuova causa di revocazione, che riguarda però le sole sentenze del Consiglio di Stato; è da ritenere che si tratti di revocazione ordinaria, da far valere nei relativi termini. Mentre per le sentenze di primo grado, l’omesso esame della domanda è motivo di appello, da farsi valere nei relativi termini. Va sottolineato che la norma utilizza la formula generica e onnicomprensiva di “questioni”, che possono ricomprendere le domande, le eccezioni, i motivi, comunque tutto ciò che dia luogo a “controversia”, e dunque non ciò che è dato per pacifico e incontroverso. Oltre alla regola esplicita, sufficientemente chiara, ben più interessante è il corollario implicito che si desume dalla regola secondo cui “il giudice è tenuto a esaminare tutte le questioni trattate nelle pagine rientranti nei suddetti limiti;” e che il mancato esame di tali questioni è un vizio della sentenza. Infatti a contrario se ne desume che il giudice non è tenuto ad esaminare le questioni che sono contenute nelle pagine eccedenti i limiti dimensionali. L’omesso esame di tali questioni non dà luogo ad alcun vizio della sentenza. Anzi, a tutela del contraddittorio, il giudice non solo non è tenuto ad esaminare tali questioni, non deve esaminarle. Se ne desume anche che questioni contenute in pagine eccedenti i limiti dimensionali, esulano dalla materia del contendere, sono tamquam non esset, ossia del tutto ininfluenti sulla lite. La materia del contendere resta così circoscritta a ciò che è dentro i limiti dimensionali. Tuttavia, questa affermazione non è del tutto completa, perché, come si è detto, secondo la norma nei limiti dimensionali non si calcolano le intestazioni e le altre indicazioni formali dell'atto: si deve intendere, oltre alla intestazione, l’indicazio- 1162 ne dei nomi delle parti e relativi difensori, le relate di notifica, l’indice degli allegati. Il che significa che tali parti, non computandosi nei limiti dimensionali, e non costituendo perciò una loro violazione, devono essere esaminate comunque dal giudice, sia su istanza di parte che d’ufficio. Eventuali “questioni” che riguardino l’intestazione e altre indicazioni formali, devono essere esaminate comunque dal giudice: si pensi ad una mancata o erronea indicazione del nome di una parte, o di un domicilio, o ad un vizio di notificazione. Le disposizioni relative al contenimento del numero delle pagine, stabilite dal decreto del Presidente del Consiglio di Stato sono applicate in via sperimentale per due anni dalla data di entrata in vigore della L. n. 114/2014, ossia dal 19 agosto 2014. Al termine di un anno decorrente dalla medesima data, il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa effettua il monitoraggio degli esiti di tale sperimentazione. La previsione transitoria è di dubbia intelleggibilità: intanto fa decorrere i due anni di sperimentazione non da quando essa parte effettivamente, ossia dall’adozione del decreto presidenziale, ma dal 19 agosto 2014, data di entrata in vigore della legge che l’ha prevista. Con il rischio che la tardiva adozione del decreto ridurrà sia la sperimentazione, sia il monitoraggio demandato all’organo di autogoverno. Non si comprende poi cosa significhi che le disposizioni sono applicate in via sperimentale per due anni: e cioè se si tratti di sunset rules, o disposizioni a termine, che cessano automaticamente i loro effetti allo scadere del biennio, o se finita la sperimentazione biennale, vanno a regime automaticamente, salvo una rinnovata diversa volontà del legislatore. La notificazione alle amministrazioni patrocinate dall’Avvocatura dello Stato Il D.L. n. 90/2014 non ha toccato, in tema di notifica del ricorso introduttivo, la speciale regola dettata per quando il ricorso è rivolto contro una stazione appaltante che fruisce del patrocinio legale dell’Avvocatura dello Stato. In tal caso al solo fine della produzione dell’effetto sospensivo automatico, il ricorso avverso l’aggiudicazione, oltre che all’Avvocatura erariale, va notificato alla stazione appaltante nella sua sede reale. Questa speciale regola si applica solo quando è impugnata l’aggiudicazione definitiva e non anche Urbanistica e appalti 11/2014 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Appalti e lavori pubblici Normativa quando sono impugnati precedenti atti di gara o susseguenti provvedimenti della stazione appaltante o dell’Autorità di vigilanza, atteso che solo all’impugnazione dell’aggiudicazione definitiva si riconnette l’effetto sospensivo ex lege. I tempi per la decisione La regola anteriore al D.L. n. 90/2014, e tuttora applicabile ai giudizi il cui ricorso sia stato depositato fino al 25 giugno 2014, è che se la causa non viene definita nel merito già nella fase cautelare, delle due l’una: o l’udienza di merito è fissata dal collegio della fase cautelare, ovvero viene fissata d’ufficio (dal presidente) “immediatamente e con assoluta priorità” (art. 120 comma 6, nel testo anteriore al D.L. n. 90/2014). Vi è dunque un onere di fissare l’udienza di decisione con immediatezza e priorità assoluta. Ma si tratta ovviamente di termini ordinatori, che sono in concreto declinati tenendo conto dei ruoli e carichi di lavoro. In ogni caso, nel regime anteriore al D.L. n. 90/2014, anche se l’udienza viene fissata immediatamente e con priorità, vale la regola, che si desume dal combinato disposto degli artt. 120, comma 3, 119 comma 2 e 71, comma 5, secondo cui il decreto di fissazione udienza va comunicato alle parti costituite almeno trenta giorni prima dell’udienza. Dunque l’udienza non potrebbe essere mai fissata prima di trenta giorni dalla scadenza del termine di costituzione delle parti diverse dal ricorrente. Si deve per memoria storica ricordare che l’art. 120 c.p.a. nella formulazione sopra ricordata è in vigore dal 16 settembre 2010 e sostituisce una previgente disciplina che era stata introdotta in quello stesso anno, il 2010, dal D.Lgs. n. 53/2010 di recepimento della cd. direttiva ricorsi n. 2007/66. Ebbene questa previgente disciplina (era l’art. 245 codice appalti) era stata costruita nella stessa direzione in cui si muove oggi il D.L., ossia con fissazione di un termine certo entro cui l’udienza di merito dovesse essere celebrata. Si stabiliva infatti che “il processo, ferma la possibilità della sua definizione immediata nell'udienza cautelare ove ne ricorrano i presupposti, viene comunque definito ad una udienza fissata d'ufficio e da tenersi entro sessanta giorni dalla scadenza del termine per la costituzione delle parti diverse dal ricorrente. Della data di udienza è dato avviso alle parti a cura della segreteria, anche a mezzo fax o posta elettronica, almeno venti giorni liberi prima della data dell'udienza. In caso di esigenze istruttorie o quando è Urbanistica e appalti 11/2014 necessario integrare il contraddittorio o assicurare il rispetto di termini a difesa, la definizione del merito viene rinviata, con l'ordinanza che dispone gli adempimenti istruttori o l'integrazione del contraddittorio o dispone il rinvio per l'esigenza di rispetto dei termini a difesa, ad una udienza da tenersi non oltre sessanta giorni”. Tale disciplina venne volutamente superata dal c.p.a. con la previsione più generica della fissazione dell’udienza immediatamente e con priorità assoluta, per garantire una maggiore flessibilità nella gestione dei carichi. Ora l’odierno D.L. è un sostanziale ritorno al passato, perché ripristina esattamente questa disciplina, con la sola differenza che il termine di decisione passa da 60 a 45 giorni (45 giorni secondo la legge di conversione n. 114/2014, il D.L. n. 90/2014 prevedeva 30 giorni). Infatti stabilisce che se il giudizio non è definito immediatamente all’udienza cautelare, viene comunque definito con sentenza in forma semplificata ad una udienza fissata d'ufficio e da tenersi entro quarantacinque giorni dalla scadenza del termine per la costituzione delle parti diverse dal ricorrente. Della data di udienza è dato immediato avviso alle parti a cura della segreteria, a mezzo posta elettronica certificata. In caso di esigenze istruttorie o quando è necessario integrare il contraddittorio o assicurare il rispetto di termini a difesa, la definizione del merito viene rinviata, con l'ordinanza che dispone gli adempimenti istruttori o l'integrazione del contraddittorio o dispone il rinvio per l'esigenza di rispetto dei termini a difesa, ad una udienza da tenersi non oltre trenta giorni. Si deve osservare che il termine di 60 giorni previsto dal D.Lgs. n. 53/2010 era più realistico di quello di 45 previsto dal D.L. n. 90/2014, perché teneva conto di quello che accade normalmente nella prassi del contenzioso appalti, ossia la quasi ineluttabilità che al ricorso principale seguano motivi aggiunti e ricorsi incidentali, che fanno slittare in avanti i termini a difesa. Pertanto il termine di 45 giorni enunciato dal D.L. n. 90/2014, rischia di essere un mero slogan che non avrà alcuna applicazione concreta. Nella nuova disciplina, la data di udienza va comunicata alle parti immediatamente, a mezzo PEC. La nuova disciplina va tuttavia coordinata con la regola previgente secondo cui il decreto di fissazione dell’udienza va comunicato alle parti almeno trenta giorni prima dell’udienza, regola che non risulta abrogata. 1163 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Appalti e lavori pubblici Normativa Sicché, l’udienza, da tenersi entro 45 giorni, non potrà comunque tenersi prima di trenta giorni, dovendosi calcolare che dell’udienza va dato avviso alle parti almeno trenta giorni prima. Bisogna poi tener conto che, scaduto il termine di costituzione delle parti diverse dal ricorrente e fissata l’udienza entro 45 giorni da tale termine, le parti avranno termini ridottissimi per la preparazione di documenti, memorie e repliche, che possono, rispettivamente, essere depositati fino a 20, 15, 10 giorni liberi prima dell’udienza. Quindi in concreto, dalla data di udienza, e dando per presupposto che l’udienza, una volta fissata, sia comunicata lo stesso giorno alle parti, e che sia fissata al 45° giorno dalla scadenza del termine di costituzione, le parti avranno 25 giorni per preparare e depositare i documenti, trenta giorni per preparare e depositare le memorie, cinque giorni per preparare e depositare le repliche. Termini che si accorciano ove in ipotesi l’udienza venga fissata prima del 45° giorno, come pure è possibile, atteso che 45 giorni è un termine massimo. Così, esemplificando, se l’udienza venisse fissata al 40° giorno dalla scadenza del termine di costituzione delle parti, e posto che documenti, memorie e repliche, possono, rispettivamente, essere depositati fino a 20, 15, 10 giorni liberi prima dell’udienza, le parti avrebbero 20 giorni per preparare e depositare i documenti, 25 giorni per preparare e depositare le memorie, cinque giorni per preparare e depositare le repliche. Diventa allora essenziale, per non comprimere eccessivamente i termini a difesa, che l’udienza sia fissata il più possibile vicina al 45° giorno, e che l’avviso via PEC sia dato alle parti contestualmente al momento della fissazione, ovvero lo stesso giorno (così va intesa la regola dell’avviso immediato). I tempi del dispositivo in primo grado e in appello Nell’art. 120 c.p.a. c’è un regime differenziato quanto alla pubblicazione del dispositivo in primo grado e in appello, che perdura con il D.L. n. 90/2014. Ai sensi dell’art. 119 c.p.a., nel rito abbreviato comune, la pubblicazione del dispositivo è eventuale, sia in primo grado che in appello, e avviene solo su istanza di parte, che dichiari all’udienza di discussione di avere interesse alla pubblicazione anticipata del dispositivo. 1164 Nel nuovo rito appalti, nel giudizio di primo grado, fino al 25 giugno 2014, il dispositivo era sempre pubblicato, entro sette giorni, dalla data di deliberazione, a prescindere dall’istanza di parte (art. 120, comma 9, c.p.a.), mentre in appello era pubblicato solo se vi fosse istanza di parte. Con il D.L. n. 90/2014, per i ricorsi depositati a decorrere dal 26 giugno 2014, il Tribunale amministrativo regionale deposita la sentenza con la quale definisce il giudizio entro trenta giorni (la versione originaria del D.L. diceva venti giorni) dall'udienza di discussione, ferma restando la possibilità di chiedere l'immediata pubblicazione del dispositivo entro due giorni. La formulazione “ferma restando la possibilità di chiedere l'immediata pubblicazione del dispositivo entro due giorni”, al di là della sua non del tutto perspicua espressione letterale, va intesa nel senso che ciascuna parte può chiedere che sia pubblicato il dispositivo, e in tal caso il giudice deve pubblicarlo entro due giorni dall’udienza di discussione. Non avrebbe senso logico una interpretazione letterale, in base alla quale “la parte chiede, entro due giorni, l’immediata pubblicazione del dispositivo”. E però, a voler cavillare, immediata pubblicazione e due giorni di tempo per la pubblicazione, non sono esattamente la stessa cosa. La pubblicazione del dispositivo, che era sinora indefettibile (in primo grado), diventa ora doverosa solo se c’è istanza di parte: si torna così al regime generale contenuto nell’art. 119 c.p.a. e applicabile nel giudizio di appello nel rito appalti. È poi da ritenere che la previsione dell’art. 120, comma 9, vada coordinata con quella dell’art. 119, comma 5, (che diviene applicabile, in virtù della novella del 120, comma 9, che àncora la pubblicazione del dispositivo all’istanza di parte), e a tenore della quale la parte deve dichiarare nell’udienza di discussione di avere interesse alla pubblicazione anticipata del dispositivo. Dunque i presupposti della pubblicazione del dispositivo sono ora (dopo il D.L. n. 90/2014) nel giudizio di primo grado: - istanza di almeno una parte e non di tutte; - istanza da formulare all’udienza di discussione, e da verbalizzarsi; - manifestazione di interesse alla pubblicazione del dispositivo. Tanto, da un lato per evitare che l’istanza di pubblicazione del dispositivo sia dispersa in un qualsiasi atto processuale e corra così il rischio di non essere vista dal giudice, e, dall’altro lato per fare sì che l’interesse alla pubblicazione del dispositi- Urbanistica e appalti 11/2014 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Appalti e lavori pubblici Normativa vo sia attuale, dovendo essere manifestato nel momento in cui la causa va in decisione. Si riduce poi nel giudizio di primo grado il termine per il dispositivo da sette a due giorni, e cambia la decorrenza, non più dal passaggio della causa in decisione, ma dall’udienza di discussione. Tale riduzione, in disparte il carattere ordinatorio del termine, non tiene adeguato conto della complessità delle liti sugli appalti. Non sempre una controversia può essere decisa in due giorni, e comunque ciò avviene, a risorse umane invariate, a scapito di altri contenziosi. In ogni caso il margine di errore aumenta. In termini più generali, è censurabile la frammentazione tra dispositivo e sentenza, che fa aumentare il margine di errore, ma questo è un vizio non del D.L. ma già degli artt. 119 e 120 c.p.a. La riduzione dei tempi del dispositivo è però compensata dal fatto che la pubblicazione è doverosa solo se lo chiede una parte. Nei giudizi di impugnazione, l’art. 120, comma 9, anche dopo la novella recata dal D.L. n. 90/2014, non è richiamato (art. 120, comma 11, c.p.a.), per cui si applica l’art. 119, comma 5, c.p.a., a tenore del quale il dispositivo è pubblicato se c’è istanza di parte in tal senso formulata nell’udienza di discussione, e resta il termine di sette giorni. In sostanza, secondo la esegesi che qui si accoglie, l’art. 119 comma 5, in passato applicabile solo in appello, ora diviene applicabile anche in primo grado, quanto ai presupposti della pubblicazione del dispositivo (istanza di parte fatta nell’udienza di discussione). La differenza tra primo grado e appello attiene ora non più ai presupposti per la pubblicazione del dispositivo, ma al termine di pubblicazione del dispositivo e sua decorrenza (due giorni in primo grado, decorrenti dall’udienza, sette giorni in appello, decorrenti dal passaggio della causa in decisione). La ratio dell’indefettibilità della pubblicazione del dispositivo in primo grado e non anche nei giudizi di impugnazione risiedeva nel rilievo che solo in primo grado vi sono ragioni di urgenza, potendo riconnettersi alla pubblicazione del dispositivo, in difetto di provvedimento cautelare, la cessazione dell’effetto sospensivo automatico. Questa stessa urgenza non si ripropone nei giudizi di impugnazione, dove si lascia alle parti il compito di segnalare l’eventuale urgenza. In difetto, il giudice, non avendo la pressione della tempestiva pubblicazione del dispositivo, avrà più tempo per meglio ponderare la decisione. Urbanistica e appalti 11/2014 Ora l’urgenza connessa alla indefettibile pubblicazione del dispositivo viene meno anche in primo grado, dopo il D.L. n. 90/2014 che ha ridotto sia i tempi di istruttoria e fase decisoria, sia i tempi di pubblicazione della sentenza. Giova sottolineare che in presenza di istanza di parte, la pubblicazione del dispositivo è doverosa, dovendosi solo verificare che l’istanza di parte sia fatta nell’udienza di decisione. È sufficiente l’istanza di una parte qualsiasi, anche senza l’istanza o il consenso delle altre parti. Inoltre, anche se la norma prevede una “dichiarazione di interesse alla pubblicazione anticipata del dispositivo”, non sembra che il giudice possa sindacare la sussistenza effettiva dell’interesse, e negare la pubblicazione del dispositivo se ritiene che difetta un interesse effettivo. I tempi della sentenza in primo grado e in appello Per i ricorsi depositati fino al 25 giugno 2014, il termine per la sentenza è disciplinato dall’art. 119 in combinato disposto con le regole generali: 23 giorni, per la redazione della sentenza, e non per la sua pubblicazione, decorrenti dal passaggio della causa in decisione. Con il D.L. n. 90/2014, come modificato dalla L. n. 114/2014, si crea un regime differenziato tra primo grado e appello. Mentre in appello permane la regola previgente, in primo grado apparentemente il termine si amplia, passando da 23 a 30 giorni. In realtà si abbrevia perché cambia il dies a quo, e anche l’adempimento richiesto nel termine: infatti il termine per la sentenza decorre per regola generale dalla decisione, ossia da quando il collegio delibera in camera di consiglio (art. 89 c.p.a.), la nuova disciplina formalmente prevede un dies a quo diverso, che è quello dell’udienza di discussione: sicché il termine apparentemente ora più lungo, di 30 giorni anziché 23, è in realtà un termine più breve, perché decorre dall’udienza e non dalla camera di consiglio in cui si delibera la decisione, e perché entro il termine la sentenza va pubblicata, e non solo redatta, quindi in tale termine rientrano gli adempimenti successivi alla redazione da parte del giudice, che afferiscono alla pubblicazione a cura del segretario. Ora, nella normalità dei casi i due momenti, vale a dire udienza di discussione e decisione, coincidono. Può però verificarsi uno sfalsamento se il collegio, che delibera dopo l’udienza di discussione, 1165 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Appalti e lavori pubblici Normativa ha in prosieguo un ripensamento e riporta la causa sul ruolo in decisione: è la c.d. doppia camera di consiglio. Ora, questa prassi (che per dirla tutta talora ha avuto degenerazioni, essendo stata utilizzata per non incorrere nel ritardo nel deposito delle decisioni), non può essere eliminata per i casi in cui è realmente necessaria, ma va doverosamente messa su binari di legalità e trasparenza. Nulla quaestio, ovviamente, se la doppia camera di consiglio si fa a distanza ravvicinatissima e non impedisce che la decisione sia presa entro il termine di 20 giorni. Ma ove ciò fosse impossibile, per rispettare la regola che àncora il dies a quo della decisione alla udienza di discussione, occorrerà che il meccanismo della doppia camera di consiglio sia accompagnato dalla doppia udienza. Ossia, se il collegio ha, dopo la prima deliberazione, un dubbio che impone di riunire nuovamente il collegio in camera di consiglio, dovrà anche fissarsi una nuova udienza di discussione con l’invito alle parti a partecipare. Non sembra che questo modus operandi trovi ostacolo nella legge, che non impone che ci sia una sola udienza di discussione, sebbene questa dovrebbe essere la regola tendenziale. Quanto, poi, a ciò che va fatto nel termine di 30 giorni, la regola generale è che nel termine assegnato al giudice per la sentenza, questa vada “redatta”, che è cosa diversa dal “deposito”. Per redazione si intende, infatti, che il giudice relatore trasmetta (con il sistema informatico) la minuta al Presidente, e che il Presidente riveda la minuta e la trasmetta in segreteria. Il deposito, invece, implica la pubblicazione della sentenza (art. 89, comma 2 c.p.a.). Ora la nuova disciplina richiede che nel termine di 30 giorni non ci sia solo l’adempimento dell’art. 89 comma 1, c.p.a. (redazione della sentenza da parte del giudice), ma anche quello dell’art. 89, comma 2 c.p.a. (pubblicazione della sentenza a cura del segretario di udienza). La novella recata dal D.L. n. 90/2014 non tocca il comma 11 dell’art. 120, che è la previsione che indica quali commi dell’art. 120 si applicano in appello: restano richiamati i commi 3, 6, 8 e 10. Se ne desume che in appello non si applica il comma 9 sul termine di pubblicazione di sentenza e dispositivo: in appello resta il termine di 23 giorni per la sentenza e 7 per il dispositivo (su istanza di parte), con la diversa decorrenza dal passaggio in decisione e non dall’udienza di discussione, e con l’onere di redigere e non anche di pubblicare, 1166 entro tali termini, sentenza e dispositivo. Si noti che a suo tempo il mancato richiamo, nel comma 11, del comma 9, fu voluto, al fine di evitare la indefettibilità della pubblicazione del dispositivo in fase di appello, e lasciare la regola generale della pubblicazione solo su richiesta di parte, ai sensi dell’art. 119 comma 5, richiamato dall’art. 120 comma 3, a sua volta richiamato dall’art. 120 comma 11. Ora, però, l’art. 120 comma 9 non si occupa più solo di pubblicazione del dispositivo, ma anche di termine di pubblicazione della sentenza. La forma della sentenza L’art. 120, comma 10, c.p.a. (dal 27 aprile al 15 settembre 2010, l’art. 245, D.Lgs. n. 163/2006), dispone che la sentenza che decide il ricorso è redatta, “ordinariamente, in forma semplificata”. Ora, l’art. 120, comma 6, come novellato dal D.L. n. 90/2014, dice che il giudizio viene comunque definito con “sentenza in forma semplificata”. Il D.L. n. 90/2014 non ha tuttavia toccato l’art. 120, comma 10, che resta in vigore. Si delinea perciò una contraddizione tra i due commi, uno che impone la forma semplificata come indefettibile, l’altro che la prevede come regola ordinaria ma non indefettibile. La contraddizione potrebbe essere risolta con il canone della successione delle leggi nel tempo, dando la prevalenza alla norma successiva cronologicamente (120, comma 6 novellato) e ritenendo implicitamente superato il comma 10, o con il canone della interpretazione sistematica, che porta ad una soluzione opposta: l’art. 120, comma 6, nell’enunciare la forma semplificata, la intende negli stessi termini del comma 10, che ha una portata maggiormente chiarificatrice, in quanto indica il significato della “forma semplificata” rinviando alla sedis materiae che è l’art. 74. Sicché la forma semplificata è la regola, ma non assolutamente indefettibile, ma solo ordinaria. Ovviamente, se e quando, dopo l’adozione del decreto presidenziale previsto dall’art. 120, comma 6, gli atti di parte avranno limiti dimensionali ragionevoli, sarà più agevole rendere la sentenza in forma semplificata. “Nelle more”, a atti di parte complessi e lunghi, corrisponderanno sentenze redatte in forma ordinaria. Nel processo amministrativo ordinario, la sentenza deve per regola generale essere sintetica. Viene poi prevista specificamente la forma semplificata solo per i soli casi più semplici, in cui vi sia una situazione manifesta (di inammissibilità, irricevibilità, fondatezza o infondatezza) (art. 74 c.p.a.). Urbanistica e appalti 11/2014 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Appalti e lavori pubblici Normativa L’art. 120, comma 10, c.p.a., prevede che la sentenza è ordinariamente redatta “nelle forme di cui all’art. 74” c.p.a. È da ritenere perciò che il rinvio sia disposto solo ai requisiti formali della sentenza, non anche ai presupposti per la sentenza in forma semplificata. La imposizione della forma semplificata della sentenza può anche essere letta come una rete di protezione per i giudici, a compensazione del gravoso onere di decidere entro 45 giorni e pubblicare il dispositivo entro due giorni e la sentenza entro 30. Infatti, potranno rispettare tali termini scrivendo sentenze in forma semplificata anziché in forma ordinaria, con un minor rischio di incorrere in vizi revocatori. Infatti potranno decidere con la tecnica del sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo, con assorbimento, legalmente autorizzato, dei motivi ritenuti non risolutivi. Sicché, mentre nel rito ordinario la sentenza in forma semplificata presuppone una situazione manifesta, nel nuovo rito appalti la sentenza in forma semplificata è possibile anche in caso di liti complesse. Per forma semplificata si intende la possibilità di omettere la ricostruzione dei fatti e dei motivi di ricorso (rinviando per essi agli scritti di parte), concentrando la decisione nella sola motivazione. Inoltre la motivazione può essere sintetica, e essere costruita mediante rinvio a precedenti conformi o mediante esame delle sole questioni ritenute decisive e assorbenti. Nel nuovo rito, la sentenza in forma semplificata viene imposta come regola, a prescindere dall’esservi o meno una situazione manifesta. Pertanto, l’obiettivo perseguito dal legislatore è che il giudice faccia un più ampio uso della sentenza in forma semplificata, così risparmiando energie processuali. Tuttavia, la forma semplificata non è imposta come regola esclusiva, ma solo come regola ordinaria. Questo significa che il giudice conserva integra la possibilità di redigere la sentenza in forma ordinaria, ma solo come facoltà residuale, cui, normalmente, ricorrere nei casi di questioni di particolare complessità. Giova osservare che la generalizzazione della forma semplificata era già stata introdotta dall’art. 20, comma 8, D.L. n. 185/2008, peraltro in termini assoluti, che avevano dato luogo a perplessità da parte degli interpreti. Urbanistica e appalti 11/2014 In giurisprudenza si è ritenuto che la regola di redazione della sentenza in forma semplificata, di cui all’art. 120 c.p.a. possa essere osservata mediante le seguenti tecniche: a) attraverso un rapido riepilogo del c.d. “fatto” e l’esposizione sintetica delle censure sollevate; b) concentrando la motivazione della pronuncia sui profili ex se risolutivi della controversia; c) facendo ampio ricorso alla tecnica del rinvio per relationem ai precedenti giurisprudenziali condivisi dal collegio (T.A.R Lombardia, Brescia, sez. II, 4 novembre 2010, n. 4552). La tutela cautelare Quanto alla fase cautelare, la novità è la generalizzazione della misura della cauzione e la temporalizzazione della misura cautelare. Viene nell’art. 120 aggiunto un comma 8-bis a tenore del quale il collegio, quando dispone le misure cautelari, ne può subordinare l'efficacia, anche qualora dalla decisione non derivino effetti irreversibili, alla prestazione, anche mediante fideiussione, di una cauzione di importo commisurato al valore dell'appalto e comunque non superiore allo 0,5 per cento del suddetto valore. Tali misure sono disposte per una durata non superiore a sessanta giorni dalla pubblicazione della relativa ordinanza, fermo restando quanto stabilito dal comma 3 dell'art. 119, vale a dire la fissazione dell’udienza di merito quando viene concessa misura cautelare. La temporalizzazione della tutela cautelare che non può eccedere i 60 giorni non dà luogo a censure di costituzionalità e di compatibilità comunitaria perché il legislatore la accompagna con un meccanismo che dovrebbe assicurare che entro 60 giorni sopraggiunga la decisione di merito. Ma ove così non fosse, una interpretazione costituzionalmente e comunitariamente orientata impone di ritenere che scaduta la prima misura cautelare, la relativa istanza possa essere reiterata. Quanto alla cauzione, la previsione è innovativa rispetto alle regole generali in tema di cauzione, in quanto per l’adozione della misura non occorre necessariamente il presupposto degli effetti irreversibili della misura cautelare, in quanto viene indicata la tipologia di cauzione e ne viene quantificato l’importo massimo. Si individua infatti, tra le forme di cauzione, la fideiussione (peraltro con previsione che appare esemplificativa), e si stabilisce che l’importo va commisurato al valore dell'appalto e comunque non superiore allo 0,5 per cento 1167 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Appalti e lavori pubblici Normativa del suddetto valore. Si tratterà di stabilire cosa si intende per valore dell’appalto e, in particolare, se si intende l’importo a base di gara, o l’importo risultante dall’aggiudicazione, ovvero l’importo offerto dal soggetto ricorrente in giudizio (che non è l’aggiudicatario). La soluzione preferibile, proprio perché l’aggiudicazione è sub iudice, e dunque il prezzo di aggiudicazione non indica in modo definitivo il valore dell’appalto, è ritenere che il valore dell’appalto sia il prezzo posto a base di gara. La soluzione accolta dal comma 8-bis dell’art. 120, e inserita dalla L. n. 114/2014, non si presta a rilievi di illegittimità, a differenza della versione originaria proposta dal D.L. n. 90/2014, che prevedeva la cauzione come indefettibile, così esponendosi a dubbi di compatibilità comunitaria. Infatti la cauzione indefettibile non è contemplata dalle c.d. direttive ricorsi. La direttiva 2007/66 esige che gli Stati membri garantiscano che l’organo chiamato a decidere possa “prendere con la massima sollecitudine e con procedura d’urgenza provvedimenti cautelari intesi a riparare la violazione denunciata o ad impedire che altri danni siano causati agli interessi coinvolti, compresi i provvedimenti intesi a sospendere o a far sospendere la procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico o l’esecuzione di qualsiasi decisione presa dall’amministrazione aggiudicatrice”. E per converso consente un bilanciamento di interessi, nel senso che il giudice possa tener conto delle probabili conseguenze dei provvedimenti cautelari per tutti gli interessi che possono essere lesi, nonché per l’interesse pubblico e decidere di non accordare tali provvedimenti qualora le conseguenze negative possano superare quelle positive. Ma ove, in base a tale bilanciamento, la misura cautelare vada accordata, la previsione indefettibile di una cauzione potrebbe essere interpretata come una regola che rende eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti e l’effettività della tutela, comunitariamente imposta. Sul piano strettamente esegetico, poi, è poco chiaro che si intenda per subordinazione a cauzione non già della concessione della misura cautelare, come dice in termini generali l’art. 55 comma 2 c.p.a., ma della sua sola “efficacia”. Poiché il nuovo c. 8-bis dell’art. 120 c.p.a. non è elencato tra le disposizioni applicabili in appello, se ne desume che in appello non si applicano le nuove regole in tema di cauzione e temporalizzazione della misura cautelare. Si segnala, infine, che il D.L. n. 133/2014 (cd. sblocca Italia) ha dettato una ulteriore regola, in 1168 materia cautelare, per gli interventi di estrema urgenza in materia di vincolo idrogeologico, di normativa antisismica e di messa in sicurezza degli edifici scolastici, che siano di importo inferiore alla soglia comunitaria: ad essi non si applica lo standstill, ossia la preclusione alla stipula del contratto fino alla pronuncia cautelare del giudice di primo grado (art. 9, comma 2, lett. a), D.L. n. 133/2014). Le nuove regole in tema di sanzione per lite temeraria negli appalti L’art. 246-bis, codice appalti, introdotto dal D.L. n. 70/2011, prevedeva, nel rito appalti, una specifica sanzione per lite temeraria, in favore dell’Erario, che si aggiungeva alla previsione dell’art. 26 c.p.a., che prevedeva la condanna per lite temeraria in favore della controparte. In prosieguo, l’art. 246-bis codice appalti è stato abrogato e la sanzione per lite temeraria, in aggiunta alla condanna per lite temeraria, è stata generalizzata e introdotta direttamente nell’art. 26 c.p.a. Nell’art. 26 c.p.a., anche prima della novella introdotta con il D.L. n. 90/2014, era pacifica la coesistenza dei due istituti, condanna e sanzione, ancorati al presupposto della lite temeraria. E, invero: - l’art. 26, comma 1, rinvia all’art. 96 c.p.c., che a sua volta prevede: (1) la condanna, su istanza di parte, al risarcimento del danno se la parte ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave (art. 96, comma 1, c.p.c.); (2) la condanna anche d’ufficio in favore dell’altra parte, di una somma equitativamente determinata; - l’art. 26, comma 2, c.p.a. prevede che il giudice condanna d’ufficio la parte soccombente al pagamento di una sanzione pecuniaria, in misura non inferiore al doppio e non superiore al quintuplo del contributo unificato dovuto per il ricorso, quando la parte soccombente ha agito o resistito temerariamente in giudizio. Il D.L. n. 90/2014 ha inciso sia sull’art. 26, comma 1, c.p.a., in termini generali, valevoli per tutti i riti davanti al giudice amministrativo, sia sull’art. 26, comma 2, c.p.a., in termini specifici, valevoli solo per il rito appalti. Sebbene l’art. 26, comma 1, continui a richiamare l’art. 96 c.p.c., in tema di lite temeraria detta ora una regola più puntuale, introdotta dal D.L. n. 90/2014, stabilendosi che in ogni caso, il giudice, anche d'ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, in favore della controparte, di una somma equitativamente determinata, Urbanistica e appalti 11/2014 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Appalti e lavori pubblici Normativa comunque non superiore al doppio delle spese liquidate, in presenza di motivi manifestamente infondati. Inoltre nell’art. 26, comma 2 c.p.a. si detta una ulteriore regola sulla sanzione pecuniaria per lite temeraria nel caso di contenzioso sui pubblici appalti soggetto al rito dell’art. 120 c.p.a. Infatti l’importo della sanzione pecuniaria (che come visto va dal doppio al quintuplo del contributo unificato dovuto per il ricorso introduttivo), può essere elevato fino all'uno per cento del valore del contratto, ove il valore del contratto sia superiore al quintuplo del contributo unificato. Quanto alla nozione di “valore del contratto”, che può in astratto determinarsi tenendo conto del prezzo a base di gara o del prezzo di aggiudicazione, sembra corretto che esso si determini caso per caso secondo l’esito del contenzioso in cui si liquida la sanzione. Se, p.es. vengono respinti i ricorsi contro l’aggiudicazione, il valore del contratto è il prezzo offerto dall’aggiudicatario; se, per converso, viene accolto il ricorso contro l’aggiudicazione, il valore del contratto è il prezzo offerto dal ricorrente vittorioso. L’importo dell’1% del valore del contratto, secondo cui quantificare la sanzione per lite temeraria, se riferita ad appalti di importo superiore a 3 milioni di euro, può essere una cifra molto elevata, ben più dei 30.000 euro a cui può arrivare la sanzione pari a cinque volte il contributo unificato. Esemplificando: - per un appalto fino a 200.000 euro il contributo unificato è 2.000 euro, e la sanzione per lite temeraria, commisurata al contributo unificato, può Urbanistica e appalti 11/2014 arrivare a 10.000 euro, laddove l’1% del valore del contratto è 2.000 euro; - per un appalto da 200.000 a 1.000.000 di euro il contributo unificato è 4.000 euro e la sanzione per lite temeraria, commisurata al contributo unificato, può arrivare a 20.000 euro, laddove l’1% del valore del contratto è 10.000 euro; - ma per appalti di importo superiore a 1.000.000 di euro il contributo unificato è 6.000 euro e la sanzione per lite temeraria, commisurata al contributo unificato, può arrivare a 30.000 euro, laddove l’1% del valore del contratto, per appalti di valore superiore a 3.000.000 di euro, supera i 30.000 euro. Ad es. per un appalto di 4.000.000 di euro la sanzione potrebbe arrivare a 40.000 euro, per un appalto di 10.000.000 di euro a 100.000 euro, per un appalto di 100.000.000 di euro a 1 milione di euro. Conclusioni In conclusione, le nuove regole processuali appaiono criticabili sotto più profili: a) sostanziale inutilità della riduzione del termine per il dispositivo da sette a due giorni; b) disallineamento tra rito del primo grado e rito dell’appello; c) eccentricità del regime transitorio. Apprezzabile è invece la previsione di un contenuto concreto in relazione al principio di sinteticità degli atti di parte e di una temporalizzazione certa dei tempi di fissazione dell’udienza di merito, anche se il termine di 45 giorni appare poco realistico. 1169 Giurisprudenza AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Comunitaria DURC La disciplina italiana sulla regolarità contributiva è compatibile con il diritto UE CORTE DI GIUSTIZIA UE, sez. X, 10 luglio 2014, in causa C-358/12 – Pres. Rosas – Rel. Vajda – Consorzio Stabile Libor Lavori Pubblici c. Comune di Milano e Pascolo s.r.l. Gli articoli 49 TFUE e 56 TFUE nonché il principio di proporzionalità vanno interpretati nel senso che non ostano a una normativa nazionale che, riguardo agli appalti pubblici di lavori il cui valore sia inferiore alla soglia definita all’articolo 7, lettera c), della direttiva 2004/18, obblighi l’amministrazione aggiudicatrice a escludere dalla procedura di aggiudicazione di un tale appalto un offerente responsabile di un’infrazione in materia di versamento di prestazioni previdenziali se lo scostamento tra le somme dovute e quelle versate è di un importo superiore, al contempo, a EUR 100 e al 5% delle somme dovute. ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI Conforme Cons. Stato, Ad. Plen., 4 maggio 2012, n. 8;Corte giust., 9 febbraio 2006, cause riunite C-226/04 e C-228/04, La Cascina Difforme Cons. Stato, sez. V, 16 settembre 2011, n. 5186 1 La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione degli articoli 49 TFUE, 56 TFUE e 101 TFUE. 2 Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra il Consorzio Stabile Libor Lavori Pubblici (in prosieguo: il “Libor”) ed il Comune di Milano, riguardo alla decisione di quest’ultimo di annullare l’aggiudicazione definitiva al Libor di un appalto pubblico di lavori, in base al rilievo secondo cui il Libor aveva violato l’obbligo di pagare i versamenti contributivi per un importo pari a EUR 278. Omissis. 10 Con bando pubblicato il 6 giugno 2011, il Comune di Milano indiceva una gara per l’affidamento dell’appalto avente ad oggetto “i lavori di manutenzione straordinaria e opere antintrusione su immobili di edilizia residenziale di proprietà del Comune di Milano”, da aggiudicare secondo il criterio del massimo ribasso, partendo da un importo a base di gara pari a EUR 4 784 914,61. 11 Il bando imponeva espressamente a ciascun concorrente, a pena di esclusione, di dichiarare il possesso dei requisiti di ordine generale per la partecipazione alla gara previsti dall’art. 38 del D.Lgs. n. 163/2006. 12 Il Libor presentava la domanda di partecipazione alla gara e dichiarava, ai sensi dell’art. 38, paragrafo1, lett. i), del D.Lgs. n. 163/2006, di “non avere commesso violazioni gravi, definitivamente accertate, alle norme in materia di contributi previdenziali ed assistenziali, secondo la legislazione italiana”. 1170 13 All’esito della procedura il Comune di Milano disponeva l’aggiudicazione in favore del Libor e gliene dava comunicazione con nota del 28 luglio 2011. Effettuava poi il controllo della dichiarazione resa dall’aggiudicatario. A tal fine, conseguiva dall’amministrazione competente il DURC dal quale emergeva che il Libor non era in regola con il pagamento dei versamenti contributivi al momento della presentazione della sua domanda di partecipazione alla gara, avendo omesso di effettuare, entro il termine richiesto, i versamenti relativi al mese di maggio 2011, di importo pari a EUR 278 e corrispondenti alla totalità dei versamenti contributivi dovuti per tale mese. Tale somma veniva versata tardivamente dal Libor in data 28 luglio 2011. 14 In considerazione dell’infrazione emergente dal DURC, il Comune di Milano annullava l’aggiudicazione definitiva disposta a favore del Libor e escludeva quest’ultimo dalla procedura, individuando quale nuova aggiudicataria la Pascolo s.r.l. 15 Avverso tale provvedimento di annullamento, il Libor proponeva impugnazione dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, facendo valere, sostanzialmente, che l’art. 38, paragrafo 2, del D.Lgs. n. 163/2006, è incompatibile con il diritto dell’Unione. 16 Il giudice del rinvio indica che la gara di cui si trattasi non ricade nella direttiva 2004/18 in quanto il valore dell’appalto oggetto del procedimento principale è inferiore alla soglia fissata dall’art. 7, lett. c), di tale direttiva. Detto giudice considera, tuttavia, che tale gara presenta un interesse transfrontaliero sicché, secondo la Urbanistica e appalti 11/2014 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Comunitaria giurisprudenza della Corte, le norme fondamentali del Trattato FUE devono essere rispettate. Al riguardo, detto giudice nutre dubbi quanto alla compatibilità dell’art. 38, paragrafo 2, del D.Lgs. n. 163/2006 con i principi di proporzionalità e di parità di trattamento del diritto dell’Unione. 17 Secondo il giudice del rinvio, introducendo una nozione esclusivamente legale di “gravità” della violazione contributiva, detta disposizione produce come effetto che l’autorità aggiudicatrice viene privata di ogni margine di discrezionalità ai fini dell’accertamento dei requisiti di partecipazione relativi all’assenza di contributi arretrati. Una siffatta esclusione sarebbe, di per sé, compatibile con il diritto dell’Unione, in quanto rafforzerebbe la parità di trattamento tra i diversi operatori economici partecipanti ad una gara. 18 Tuttavia, il giudice del rinvio si interroga sulla compatibilità dei criteri elaborati dal legislatore nazionale con il principio di proporzionalità e rileva che il requisito relativo al rispetto, da parte di un’impresa, dei suoi obblighi di pagamento delle prestazioni previdenziali è stato istituito con l’obiettivo di accertarsi dell’affidabilità, della diligenza e della serietà dell’impresa concorrente nonché della correttezza del suo comportamento nei confronti dei suoi dipendenti. Il giudice del rinvio si chiede se, riguardo a uno specifico procedimento di aggiudicazione, una violazione di tale requisito costituisca realmente un indice significativo della mancanza di affidabilità dell’impresa. Si tratterebbe, infatti, di un criterio astratto che non tiene conto delle caratteristiche di un bando di gara specifico, relative all’oggetto e al valore attuale di quest’ultimo, nonché dell’importanza del fatturato e della capacità economica e finanziaria dell’impresa che ha commesso l’infrazione. Peraltro, l’esclusione di un’impresa dalla partecipazione a un bando di gara sarebbe sproporzionata in casi in cui, come nel procedimento principale, l’infrazione verte su un importo poco rilevante. 19 Il giudice del rinvio, inoltre, nutre dubbi quanto alla coerenza delle condizioni di esclusione da un appalto per il mancato pagamento delle prestazioni previdenziali con quelle concernenti il mancato pagamento in materia fiscale, secondo le quali solo le infrazioni che vertono su un importo superiore a EUR 10 000 sarebbero qualificate come gravi. Omissis. 27 Per contro, come risulta dal considerando 2 della direttiva 2004/18, tra i principi del Trattato che devono essere rispettati nell’aggiudicazione di appalti pubblici ricadono, segnatamente, quelli della libertà di stabilimento e della libera prestazione dei servizi, nonché il principio di proporzionalità. 28 Quanto agli articoli 49 TFUE e 56 TFUE, risulta dalla giurisprudenza costante della Corte che tali articoli ostano a ogni misura nazionale che, anche applicabile senza discriminazione relativa alla nazionalità, sia in grado di vietare, di ostacolare o di rendere meno attraente l’esercizio, da parte di cittadini dell’Unione europea, della libertà di stabilimento e della libera prestazione dei servizi garantite da dette disposizioni del Trat- Urbanistica e appalti 11/2014 tato (v., segnatamente, sentenza Serrantoni e Consorzio stabile edili, C-376/08, EU:C:2009:808, punto 41). 29 Per quanto riguarda gli appalti pubblici, è interesse dell’Unione in materia di libertà di stabilimento e di libera prestazione di servizi che l’apertura di un bando di gara alla concorrenza sia la più ampia possibile (v., in tal senso, sentenza CoNISMa, C-305/08, EU:C:2009:807, punto 37). Orbene, l’applicazione di una disposizione che esclude dalla partecipazione alle procedure di aggiudicazione di appalti pubblici di lavori i soggetti che hanno commesso violazioni gravi alle norme nazionali applicabili in materia di prestazioni previdenziali, come quella prevista dall’art. 38, paragrafo 1, lett. i), del D.Lgs. n. 163/2006, è tale da ostacolare la partecipazione più ampia possibile di offerenti alle procedure di aggiudicazione. 30 Una siffatta disposizione nazionale, tale da ostacolare la partecipazione degli offerenti a un appalto pubblico che presenti un interesse transfrontaliero certo, costituisce una restrizione ai sensi degli articoli 49 TFUE e 56 TFUE. 31 Tuttavia, una restrizione siffatta può essere giustificata qualora essa persegua un obiettivo legittimo di interesse pubblico e purché rispetti il principio di proporzionalità, vale a dire, sia idonea a garantire la realizzazione di tale obiettivo e non vada oltre quanto è necessario per conseguirlo (v., in tal senso, sentenza Serrantoni e Consorzio stabile edili, EU:C:2009:808, punto 44). 32 A tal riguardo, anzitutto, risulta dalla decisione di rinvio che l’obiettivo perseguito dalla causa di esclusione dagli appalti pubblici definita dall’art. 38, paragrafo 1, lett. i), del D.Lgs. n. 163/2006 consiste nell’accertarsi dell’affidabilità, della diligenza e della serietà dell’offerente nonché della correttezza del suo comportamento nei confronti dei suoi dipendenti. Occorre rilevare che accertarsi che un offerente possieda tali qualità costituisce un obiettivo legittimo di interesse generale. 33 Occorre quindi rilevare che una causa di esclusione come quella prevista dall’art. 38, paragrafo 1, lett. i), del D.Lgs. n. 163/2006 è idonea a garantire il conseguimento dell’obiettivo perseguito, dato che il mancato versamento delle prestazioni previdenziali da parte di un operatore economico tende a indicare assenza di affidabilità, di diligenza e di serietà di quest’ultimo quanto all’adempimento dei suoi obblighi legali e sociali. 34 Infine, per quanto riguarda la necessità di una tale misura, occorre rilevare, in primo luogo, che la definizione, da parte della normativa nazionale, di una soglia precisa di esclusione alla partecipazione agli appalti pubblici, vale a dire uno scostamento tra le somme dovute a titolo di prestazioni sociali e quelle versate è di un importo superiore, al contempo, a EUR 100 e al 5% delle somme dovute, garantisce non solo la parità di trattamento degli offerenti ma anche la certezza del diritto, principio il cui rispetto costituisce una condizione della proporzionalità di una misura restrittiva (v., in tal senso, sentenza Itelcar, C-282/12, EU:C:2013:629, punto 44). 35 In secondo luogo, per quanto riguarda il livello di tale soglia di esclusione, quale definito dalla normativa 1171 Giurisprudenza AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Comunitaria nazionale, occorre ricordare che, riguardo agli appalti pubblici che ricadono nella sfera di applicazione della direttiva 2004/18, l’articolo 45, paragrafo 2, di tale direttiva lascia l’applicazione dei casi di esclusione che menziona alla valutazione degli Stati membri, come risulta dall’espressione “può venire escluso dalla partecipazione ad un appalto”, che figura all’inizio di detta disposizione, e rinvia esplicitamente, in particolare alle lettere e) e f), alle disposizioni legislative nazionali [v., per quanto riguarda l’art. 29 della direttiva 92/50/CEE del Consiglio, del 18 giugno 1992 che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di servizi (GU L 209, pag. 1), sentenza La Cascina e a., C-226/04 e C-228/04, EU:C:2006:94, punto 21]. Inoltre, ai sensi del secondo comma di detto articolo 45, paragrafo 2, gli Stati membri precisano, conformemente al rispettivo diritto nazionale e nel rispetto del diritto dell’Unione, le condizioni di applicazione del paragrafo stesso. 36 Di conseguenza, l’art. 45, paragrafo 2, della direttiva 2004/18 non prevede una uniformità di applicazione delle cause di esclusione ivi indicate a livello dell’Unione, in quanto gli Stati membri hanno la facoltà di non applicare affatto queste cause di esclusione o di inserirle nella normativa nazionale con un grado di rigore che potrebbe variare a seconda dei casi, in funzione di considerazioni di ordine giuridico, economico o sociale prevalenti a livello nazionale. In tale ambito, gli Stati membri hanno il potere di attenuare o di rendere più flessibili i criteri stabiliti da tale disposizione (v., per quanto riguarda l’art. 29 della direttiva 92/50, sentenza La Cascina e a., EU:C:2006:94, punto 23). 37 Orbene, l’art. 45, paragrafo 2, lett. e), della direttiva 2004/18 consente agli Stati membri di escludere dalla partecipazione a un appalto pubblico ogni operatore economico che non sia in regola con gli obblighi relativi al pagamento dei contributi previdenziali e assistenziali, senza che sia previsto un qualsivoglia importo minimo di contributi arretrati. In tale contesto, il fatto di prevedere un siffatto importo minimo nel diritto nazionale costituisce un’attenuazione del criterio di esclusione previsto da tale disposizione e non può, pertanto, ritenersi che vada oltre il necessario. Ciò vale, a fortiori, riguardo agli appalti pubblici che non raggiungono la soglia definita dall’art. 7, lett. c), di tale direttiva e, di conseguenza, non sono assoggettati alle procedure particolari e rigorose previste dalla direttiva stessa. 38 Peraltro, il fatto che la soglia di esclusione prevista dal diritto nazionale per il mancato pagamento di imposte e tasse sia, come rileva il giudice del rinvio, nettamente più elevata della soglia relativa ai contributi previdenziali non incide, di per sé, sulla proporzionalità di quest’ultima. Infatti, come si evince dal punto 36 della presente sentenza, gli Stati membri sono liberi di integrare le cause di esclusione previste, in particolare, dall’art. 45, paragrafo 2, lett. e) e f), di detta direttiva nella normativa nazionale con un grado di rigore che potrebbe variare a seconda dei casi, in funzione di considerazioni di ordine giuridico, economico o sociale prevalenti a livello nazionale. Omissis. IL COMMENTO di Paolo Patrito La sentenza della Corte di giustizia in commento ritiene compatibile con la disciplina europea la normativa italiana in materia di regolarità contributiva nelle gare d'appalto. L'Autore esprime talune riserve sul punto, anche alla luce di alcuni precedenti della stessa Corte di giustizia, per poi soffermarsi sulla disciplina dettata in argomento dalla nuova direttiva 2014/24/UE. La Corte di giustizia ritiene compatibile con i principi del Trattato la disciplina italiana in tema di esclusione dalle gare d'appalto per irregolarità contributiva di cui all'art. 38, comma 1, lett. i), D.Lgs. n. 163/2006, in combinato disposto con l'art. 8, comma 3, D.M. 24 ottobre 2007, relativo al DURC (1). In estrema sintesi, il combinato disposto delle citate disposizioni prevede che siano esclusi dalla partecipazione alle procedure di evidenza pubblica, in quanto non possono essere considerati affidabili (2), gli operatori economici che hanno commesso violazioni gravi, definitivamente accertate, alle (1) L'ordinanza di rinvio proveniva da T.A.R. Lombardia, Milano, ord. 12 luglio 2012, n. 1969), in questa Rivista, 2012, 1310, con nota di I. Pagani, I parametri di valutazione della gravità degli inadempimenti contributivi e previdenziali al vaglio della Corte di Giustizia. (2) Come rammenta T.A.R. Lombardia, Milano, n. 1969/2912, cit., “la regolarità contributiva è un requisito di ordine generale di partecipazione ad una gara ed integra un indice dell’affidabilità, della diligenza e della serietà dell’impresa concorrente e della sua correttezza nei rapporti con i dipendenti (cfr. sul punto Cons. Stato, sez. V, 18 ottobre 2001, n. 5517). L’impresa che è in regola con i versamenti contributivi Il principio di diritto affermato dalla Corte di giustizia 1172 Urbanistica e appalti 11/2014 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Comunitaria norme in materia di contributi previdenziali e assistenziali (art. 38, cit.), dovendosi intendere per gravi quelle violazioni contributive che eccedono il 5% dello scostamento tra le somme dovute e quelle versate con riferimento a ciascun periodo di paga o di contribuzione, fermo restando che, in ogni caso, non è grave la violazione di importo inferiore a 100,00 euro (D.M. 24 ottobre 2007) (3). Sono, così sciolti i dubbi, peraltro niente affatto peregrini, sollevati dal Tribunale milanese circa la “euroconformità” della disciplina sopra richiamata, la quale, a dire del giudice del rinvio, non sarebbe rispettosa del canone della proporzionalità in quanto, da un lato, “il dato meramente quantitativo dell'importo della violazione commessa non integra un indice significativo dell'inaffidabilità dell'impresa rispetto alla specifica procedura di gara” (4), dal- l'altro, l'esiguità in concreto della violazione, pur se superiore alla soglia di cui al D.M. 24 ottobre 2007, comporterebbe una sanzione sproporzionata, anche tenuto conto che, per le violazioni in materia fiscale, lo stesso art. 38, cit., in combinato disposto con l'art. 48-bis, commi 1 e 2-bis, D.P.R. n. 602/1973, considera gravi solo le violazioni superiori a 10.000,00 euro (5). Occorrerebbe, conclude il TAR, “ancorare il parametro quantitativo dell'entità della violazione ad aspetti oggettivi della gara, che siano rilevanti, secondo l'id quod plerumque accidit, per giudicare dell'affidabilità in concreto del concorrente incorso in violazioni contributive” (6). In sostanza, il principio della certezza del diritto assicurata dalla disciplina in materia di regolarità contributiva dovrebbe essere recessivo (7), a dire viene considerata affidabile dal legislatore nazionale, sia dal punto di vista della sua solidità finanziaria, perché adempie con regolarità ai propri debiti contributivi, sia sul piano della capacità di gestire in modo diligente e serio tanto i rapporti con l’amministrazione previdenziale, quanto i rapporti di lavoro con i propri dipendenti, palesandosi così come controparte contrattuale meritevole di fiducia” (p. 31). Nello stesso senso, ad es., Cons. Stato, sez. VI, 4 aprile 2011, n. 2100, ibid.; Id., sez. V, 8 aprile 2014, n. 1647, ibid., secondo cui “la regolarità contributiva e fiscale […] deve essere mantenuta per tutto l’arco di svolgimento della gara […] fino al momento dell’aggiudicazione, sussistendo l’esigenza della stazione appaltante di verificare l’affidabilità del soggetto partecipante alla gara fino alla conclusione della stessa, restando irrilevante un eventuale adempimento tardivo degli obblighi contributivi e fiscali, ancorché con effetti retroattivi […], giacché la (ammissibilità della) regolarizzazione postuma si tradurrebbe in una integrazione dell’offerta, configurandosi come violazione della par condicio”. Sulla ratio della disposizione o, detto diversamente, sull'interesse dalla stessa tutelato, v. amplius infra. (3) Sul requisito della regolarità contributiva, v., in generale, R. Greco, I requisiti di ordine generale, in R. De Nictolis, R. Garofoli, M. A. Sandulli (a cura di), Trattato sui contratti pubblici, II, Milano, 2008, 1267 ss.; L. Ponzone, Requisiti di ordine generale e di idoneità professionale, in F. Saitta (a cura di), Il nuovo codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, 2008, 231; S. Sticchi Damiani, I requisiti di ordine generale, in C. Franchini (a cura di), I contratti di appalto pubblico, Torino, 2010, 446 ss.; R. Proietti, Art. 38. I requisiti di ordine generale, in S. Baccarini, G. Chiné, R. Proietti (a cura di), Codice dell’appalto pubblico, Milano, 2011, 451 ss.; S. Luce, Requisiti soggettivi degli operatori economici affidatari degli appalti pubblici di lavori, in F. Caringella, M. Protto (a cura di), L'appalto e gli altri contratti della P.A., Bologna, 2012, 437 ss., R. Caranta, I contratti pubblici, II ed., Torino, 2012, 345. Sul DURC H. D'Herin, S. Cresta, I principi relativi all'esecuzione del contratto, in F. Caringella, M. Protto (a cura di), L'appalto e gli altri contratti della P.A., cit., 1322 ss. (4) T.A.R. Lombardia, Milano, n. 1969/2012, cit., p. 33. (5) T.A.R. Lombardia, Milano, n. 1969/2012, cit. Di fatto, con l'ordinanza in parola, il TAR aveva tentato di ottenere il superamento del principio di diritto affermato da Cons. Stato, Ad. Plen., 4 maggio 2012, n. 8, in questa Rivista, 2012, 911, con nota di H. D'Herin, La Plenaria fa luce sull'efficacia del DURC ai fini dell'esclusione delle gare d'appalto; in Foro Amm. CdS, 2012, 2234, con nota favorevole di P. Gotti, Vincolatività o meno delle risultanze in materia di regolarità contributiva nelle procedure di affidamento degli appalti pubblici, al vaglio dell'Adunanza Plenaria, secondo cui «ai sensi e per gli effetti dell’art. 38, comma 1, lett. i), D.Lgs. n. 163 del 2006 […], la nozione di “violazione grave” non è rimessa alla valutazione caso per caso della stazione appaltante, ma si desume dalla disciplina previdenziale, e in particolare dalla disciplina del documento unico di regolarità contributiva; ne consegue che la verifica della regolarità contributiva delle imprese partecipanti a procedure di gara per l’aggiudicazione di appalti con la pubblica amministrazione è demandata agli istituti di previdenza, le cui certificazioni (DURC) si impongono alle stazioni appaltanti, che non possono sindacarne il contenuto». Sul rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia come strumento per superare i principi espressi dall'Adunanza Plenaria, v. C. Lamberti, Stare decisis, nomofilachia e supremazia nel diritto amministrativo, in Giur. It., 2013, 976 ss. Va ancora rilevato che, mentre per i TAR non sussiste alcun ostacolo, diverso è per le Sezioni semplici del Consiglio di Stato, che, ai sensi dell'art. 99, comma 3, c.p.a., ove vogliano discostarsi dal principio di diritto affermato dall'Adunanza Plenaria, devono rimettere a quest'ultima la decisione del ricorso, senza potersi rivolgere direttamente alla Corte di giustizia. Tali, almeno, le conclusioni cui giunge C.G.A. Sicilia, 17 ottobre 2013, n. 848, che ha rimesso alla Corte di giustizia la questione sulla “compatibilità eurounitaria dell’art. 99, comma 3, c.p.a., qualora detta disposizione debba applicarsi anche in controversie che siano disciplinate dal diritto dell’Unione europea (o dal diritto interno che costituisca recepimento di quello sovranazionale) e nella misura in cui l’applicazione di detta disposizione si traduca [...] in un ostacolo al pieno esercizio della potestà di ogni Sezione e Collegio del Consiglio di Stato, in quanto giudice di ultima istanza, di rinviare pregiudizialmente una questione alla CGUE; ovvero, e altresì, in un ostacolo al pieno esercizio della potestà di ogni Sezione e Collegio del Consiglio di Stato, in quanto giudice di ultima istanza, di applicare direttamente, quale giudice comune del diritto dell’Unione europea, i principi del diritto euro unitario, per come declinati dalla Corte di giustizia UE, in guisa da assicurarne il maggiore (e più sollecito) effetto utile”. (6) T.A.R. Lombardia, Milano, n. 1969/2012, cit., p. 43. (7) Certezza del diritto che, invece, per Cons. Stato, Ad. Plen., n. 8/2012, cit., fa premio sulla giustizia del caso concreto: v., sul punto, P. Gotti, Vincolatività o meno delle risultanze in materia di regolarità contributiva nelle procedure di affidamento degli appalti pubblici, al vaglio dell'Adunanza Plenaria, cit., secondo cui “le conclusioni a cui nella specie perviene l'Ad. Plen. sembrano nel complesso condivisibili, in quanto esse se, per un verso, finiscono col porre un freno al cd. favor partecipatio- Urbanistica e appalti 11/2014 1173 Giurisprudenza AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Comunitaria del TAR, rispetto alla giustizia del caso concreto (8), che può essere assicurata solamente mediante la previsione di una disciplina che consenta di valorizzare una serie di dati ulteriori (9), alla stregua dei quali l'amministrazione (e, di conseguenza, il giudice (10)) possa valutare se la violazione debba considerarsi grave o meno (11). La Corte di giustizia, facendo proprie le argomentazioni del TAR circa l'interesse tutelato dalla disposizione (l'affidabilità del concorrente (12)), non ravvisa però alcuna violazione del principio di proporzionalità in relazione a tutte le sue componenti (idoneità, necessità e proporzione in senso stretto) (13): la disciplina in esame è idonea al raggiungimento dello scopo perseguito; essa è rispettosa del requisito della necessità che, nell'argomentare della Corte, sarebbe garantito dalla previsione di una soglia di “punibilità” predeterminata la quale assicura, oltre alla parità di trattamento, anche la certezza del diritto, principio il cui rispetto costituisce una “condizione della proporzionalità di una misura restrittiva”; tenuto conto, poi, che l'art. 45 della direttiva 2004/18/CE consente (pur non imponendolo) di escludere gli operatori economici non in regola con la normativa previdenziale, senza prevedere una soglia minima (14), per definizio- nis alle gare da parte delle imprese, che - come noto - informa di sé tutta la normativa (comunitaria ed interna) in materia di affidamento di appalti pubblici ed è ispirato al principio della libera concorrenza per il mercato e della par condicio di tutti i partecipanti alle gare; per l'altro verso, valorizzano e pongono al vertice il principio della certezza del diritto e della semplificazione nei rapporti giuridici tra p.a. e privati (e, di conseguenza, anche nelle relazioni interprivate”. (8) Sulla necessità di rifarsi al concetto di giustizia ai fini della comprensione del diritto amministrativo, E. Cannada Bartoli, Interesse (diritto amministrativo), in Enc. Dir., XXII, Milano, 1972, 18. (9) Il TAR puntualizza che “la scelta del legislatore nazionale di escludere poteri valutativi in capo alla stazione appaltante sia di per sé comunitariamente compatibile, perché rafforza la parità di trattamento tra i diversi operatori economici partecipanti ad una gara, evitando rischi di comportamenti discriminatori” (p. 28): le critiche, come risulta dal testo, si appuntano sulla tecnica legislativa. (10) Sulla distinzione tra “problema dell'amministrazione” e “problema del giudice” (che interviene, necessariamente, dopo che l'amministrazione abbia esercitato il potere), v. F. Ledda, Efficacia del processo e ipoteca degli schemi, in Atti del Convegno di Messina 15-16 aprile 1988, Milano, 1993, ora in Id., Scritti giuridici, Padova, 2002, 315. Di “competenza esclusiva” dell'amministrazione (ossia della “gestione in via fisiologica dell'affare (senza lite)”) discorreva E. Capaccioli, Le sanzioni pecuniarie e il loro procedimento di irrogazione, in Le sanzioni amministrative. Atti del XXVI Convegno di Studi di Scienza dell'Amministrazione. Varenna, Villa Monastero, 18-20 settembre 1980, Milano, 1982, 117. Su tale aspetto dell'opera di E. Capaccioli, v. C. Marzuoli, Una nozione da ricordare: la «competenza esclusiva », in Dir. Amm., 2009, 909 ss. (11) Sul problema della rapporto tra discrezionalità e vincolo nella disciplina degli appalti pubblici, v. già M. Clarich, La legge Merloni quater tra instabilità e flessibilità, in Corr. Giur., 2002, 1401 ss., che parla di “difficoltà di trovare un equilibrio tra due ordini di valori irrinunciabili, ma in parte confliggenti: rigore, trasparenza, imparzialità, da un lato; flessibilità, informalità, celerità delle procedure, dall'altro”: mentre “il primo ordine di valori tende a favorire regole rigide tali da garantire al massimo grado la par condicio tra le imprese che aspirino a stipulare il contratto con l'amministrazione appaltante. Il legislatore delinea così sequenze procedimentali articolate, individua con la maggior precisione possibile i requisiti soggettivi e oggettivi per la partecipazione alla gare, prevede meccanismi di valutazione di tipo automatico. Idealmente, la procedura ad evidenza pubblica non dovrebbe attribuire all'amministrazione alcun margine di discrezionalità”; il secondo “al contrario, tende a strutturare le procedura ad evidenza pubblica, per quanto possibile, sulla falsariga delle contrattazioni tra soggetti privati che avvengono, com'è noto, su basi di informalità o di regole interne che ciascun contraente si dà in base al particolare tipo di organizzazione”. In argomento, v. poi G. D. Comporti, Introduzione: dal potere discrezionale alle scelte negoziali, in Id. (a cura di), Le gare pubbliche: il futuro di un modello, Napoli, 2011, 1 ss. (12) Sul punto ci si soffermerà diffusamente nel prosieguo, non senza anticipare che è forse questo il “peccato d'origine” dell'ordinanza: se si fosse posto l'accento sulla tutela della concorrenza, probabilmente, come si avrà modo di vedere oltre, le conclusioni avrebbero potuto essere diverse. (13) Sul sindacato della Corte di giustizia, v. M. Dawson, B. De Witte, E. Muir, Judicial Activism at the European Court of Justice, Cheltenham, 2013. Sul principio di proporzionalità, T. Tridimas, The General Principles of EC Law, II ed., Oxford, 2006; D. U. Galetta, Principio di proporzionalità e sindacato giurisdizionale nel diritto amministrativo, Milano, 1998; Ead., Principio di proporzionalità e giudice amministrativo nazionale, in Foro Amm. TAR, 2007, 603; A. Sandulli, La proporzionalità dell'azione amministrativa, Padova, 1998; S. Cognetti, Principio di proporzionalità: profili di teoria generale e di analisi sistematica, Torino, 2011. A livello comparatistico, B. Pieker, Proportionality Analysis and Models of Judicial Review: a Theoretical and Comparative Study, Groningen, 2013. (14) In Francia, ad esempio, non è prevista alcuna soglia di “punibilità”: ai sensi del combinato disposto dell'art. 43 del Code des marchés publics e dell'art. 8 dell'ordonnance 6 giugno 2005, non possono partecipare alle gare d'appalto “les personnes qui, au 31 décembre de l'année précédant celle au cours de laquelle a lieu le lancement de la consultation, n'ont pas souscrit les déclarations leur incombant en matière fiscale et sociale ou n'ont pas acquitté les impôts et cotisations exigibles à cette date. Toutefois, sont considérées comme en situation régulière les personnes qui, au 31 décembre de l'année précédant celle au cours de laquelle a eu lieu le lancement de la consultation, n'avaient pas acquitté les divers produits devenus exigibles à cette date, ni constitué de garanties, mais qui, avant la date du lancement de la consultation, ont, en l'absence de toute mesure d'exécution du comptable ou de l'organisme chargé du recouvrement, soit acquitté lesdits produits, soit constitué des garanties jugées suffisantes par le comptable ou l'organisme chargé du recouvrement. Les personnes physiques qui sont dirigeants de droit ou de fait d'une personne morale qui ne satisfait pas aux conditions prévues au présent alinéa ne peuvent ętre personnellement candidates à un marché”. Assolutamente esigua la giurisprudenza in argomento; v., tuttavia, Cour Administrative d'Appel de Marseille, 4 giugno 2012, Sociètè Azur Fetes, in www.legifrance.gouv.fr, che ha respinto il ricorso proposto per l'annullamento dell'aggiudicazione disposta a favore di impresa che era in regola con il versamento delle imposte al 31 dicembre dell'anno precedente la pubblicazione del bando, ma che era risultata debitrice di una somma nei confronti del Fisco maturata nell'anno in corso. In dottrina, v. sul punto T. Del Farra, Les exclusions généales et automatiques des marchés publics sont-elles conformes au Traité sur l'Union européenne et à 1174 Urbanistica e appalti 11/2014 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Comunitaria ne - si potrebbe dire - l'aver previsto una soglia di “punibilità” non è in contrasto con il requisito della necessarietà; infine, la diversità di disciplina rispetto all'ipotesi di violazione in materia fiscale “non incide, di per sé, sulla proporzionalità di quest'ultima” in quanto gli Stati membri sono liberi di integrare le cause di esclusione previste dall'art. 45 della direttiva 2004/18/Ce “con un grado di rigore che potrebbe variare a seconda dei casi, in funzione di considerazioni di ordine giuridico, economico o sociale prevalenti a livello nazionale” (15). Anzi, ancor più radicalmente, afferma la Corte che “gli Stati membri hanno la facoltà di non applicare affatto queste cause di esclusione o di inserirle nella normativa nazionale […]. In tale ambito, gli Stati membri hanno il potere di attenuare o di rendere più flessibili i criteri stabiliti da tale disposizione” (16): come subito si vedrà, neppure potrebbe venire in rilievo il principio di proporzionalità, la Constitution?, in Bulletin juridique des contrats publics, 2011, n. 74, 2 ss. Nel Regno Unito, l'esclusione è rimessa alla volontà dell'Amministrazione: ai sensi dell'art. 23, par. 4, lett. f, delle Public Contracts Regulations del 2006 (e delle Public Contracts (Scotland) Regulations 2006 per la Scozia) “a contracting authority may treat an economic operator as ineligible or decide not to select an economic operator in accordance with these Regulations on one or more of the following grounds, namely that the economic operator - […] has not fulfilled obligations relating to the payment of social security contributions under the law of any part of the United Kingdom or of the relevant State in which the economic operator is established”. In Belgio, la “soglia di punibilità” è di 3.000 euro (per quanto riguarda sia la regolarità fiscale sia quella contributiva): v. artt. 62 e 63, arreté royale 15 juillet 2011. (15) Per il vero, l'appalto di cui si tratta non ricade nell'ambito di applicazione della direttiva 2004/18/CE, in quanto sottosoglia, ma, avendo un interesse transfrontaliero certo, è regolato dai principi del Trattato di libertà di stabilimento, di prestazione dei servizi e di proporzionalità (sulla questione, v. in generale R. Caranta, Le regole applicabili ai contratti non o solo parzialmente disciplinati dalle direttive “appalti pubblici”, in Giur. It., 2010, 2659; P. Patrito, L’appalto pubblico transfrontaliero e le regole comuni per l’affidamento, in G. A. Benacchio, M. Cozzio (a cura di), Gli appalti pubblici tra regole europee e nazionali, Milano, 2012, 431 ss.; A. D. Mazzilli, G. Mari, R. Chieppa, I contratti esclusi dall'applicazione del Codice dei contratti pubblici, in M. A. Sandulli, R. De Nictolis, R. Garofoli (a cura di), Trattato sui contratti pubblici, I, Milano, 2008, 396, ss.). Circa il rilievo dell'art. 45 della direttiva, la sentenza in epigrafe precisa che i principi da essa desumibili valgono “a fortiori, riguardo agli appalti pubblici che non raggiungono la soglia definita dall’art. 7, lett. c), di tale direttiva e, di conseguenza, non sono assoggettati alle procedure particolari e rigorose previste dalla direttiva stessa” (p. 37). (16) Punto 36 della decisione in commento. Non si tratta neanche di un caso di armonizzazione minima, “in base alla quale la norma comunitaria fissa gli standards minimi di tutela, liberi restando gli Stati membri di fissare, ognuno al loro interno, standards più elevati” (così la definizione offerta da R. Caranta, La cooperazione tra amministrazioni nazionali nell'ambito del mercato unico, in Giur. It., 1997, I, 1, 1449; v. anche F. Munari, Direttive e armonizzazione, in G. Casale, Europa: verso quale integrazione?, Milano, 2001, 409 ss.), in quanto, in realtà, Urbanistica e appalti 11/2014 che, pertanto, nell'argomentare della Corte null'altro sarebbe se non un obiter dictum. Discrezionalità e proporzionalità Si è appena visto che, sulla base dell'art. 45 della direttiva 2004/18/CE, come interpretato dalla sentenza in commento, al legislatore nazionale sono concesse tre possibilità, tutte legittime: escludere il concorrente non in regola con i versamenti previdenziali; non escluderlo; escluderlo solo se lo scostamento tra il dovuto ed il versato superi una certa soglia; e, come affermato dalla decisione in esame, la scelta tra le tre possibilità dipende da “considerazioni di ordine giuridico, economico o sociale” (p. 36) (17), rimesse interamente, id est insindacabilmente, alle valutazioni dei singoli Stati. In pratica, ci si troverebbe di fronte ad una sostanziale libertà del legislatore nazionale rispetto a non viene neppure indicata uno standard minimo. Va peraltro evidenziato che secondo J.H. Jans, Minimum Harmonisation and the Role of the Principle of Proportionality, http://ssrn.com/abstract=1105341, nonostante, a prima vista, il principio di proporzionalità non operi in tali ipotesi, “a further analysis of the case law of the Court, furthermore, gives the impression that in fact the Court does carry out a review of the suitability of the stricter measures, but does so 'between the lines', by requiring that the national measures are an extension of the objectives of the European minimum rules”. Tale impressione è confermata dalla lettura di Corte giust. CE, 21 settembre 2006, causa C168/04, Commissione C. Repubblica d'Austria, p. 37, secondo cui “una normativa nazionale ricompresa in un settore che non abbia costituito oggetto di armonizzazione a livello comunitario e che si applichi indistintamente a tutte le persone o imprese che esercitino un’attività nel territorio dello Stato membro ospitante può, nonostante gli effetti restrittivi sulla libera prestazione dei servizi, essere giustificata se risponde a ragioni imperative d’interesse generale, qualora tale interesse non sia già tutelato dalle norme cui il prestatore è soggetto nello Stato membro in cui risiede, se è idonea a garantire il conseguimento dello scopo perseguito e se non va oltre quanto necessario per il suo raggiungimento”. (17) Il principio non è certamente nuovo: v., in precedenza, Corte giust. CE, cause riunite C-226/08 e C-228/08, La Cascina, in questa Rivista, 2006, 540, con nota di P. Lotti, Corte CE e esclusione dalla gara per irregolarità fiscale e contributiva: è necessaria una regola chiara, p. 23, secondo cui “l’art. 29 della direttiva non prevede in materia una uniformità di applicazione delle cause di esclusione ivi indicate a livello comunitario, in quanto gli Stati membri hanno la facoltà di non applicare affatto queste cause di esclusione, optando per la partecipazione più ampia possibile alle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici, o di inserirle nella normativa nazionale con un grado di rigore che potrebbe variare a seconda dei casi, in funzione di considerazioni di ordine giuridico, economico o sociale prevalenti a livello nazionale. In tale ambito, gli Stati membri hanno il potere di alleviare o di rendere più flessibili i criteri stabiliti dall’art. 29 della direttiva”; Id., 16 dicembre 2008, in C213/07, Michainiki, in Foro Amm. CdS, 2008, 3213 (s.m), 56; Id., 4 ottobre 2012, in C-502/11, in questa Rivista, 2012, 522, con nota di A. Giacalone, La Corte UE apre le gare pubbliche alle società semplici. 1175 Giurisprudenza AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Comunitaria quello europeo in ordine all'attuazione della direttiva, per cui non parrebbe fuori luogo evocare il concetto della “sfera di libertà lasciata da norme giuridiche” (18) e di “potere libero [...], ossia un potere la cui caratteristica fondamentale è di essere ordinato in una sfera di libera disposizione dell'agente” (19). E, si badi, nel caso come quello di cui si tratta, stante la formulazione dell'art. 45 della direttiva 2004/18/CE, come anticipato, non potrebbero soccorrere neppure i principi di ragionevolezza e proporzionalità, che costituiscono, nella maggior parte dei casi, il limite della discrezionalità del legislatore (20) (e dell'ambito di estensione del sindacato del giudice dei pubblici poteri (21)). In realtà, è assai dubbio che le cose stiano proprio così. Punto di partenza è la (ovvia) notazione che il principio di diritto affermato dalla Corte di giustizia non può che essere letto alla luce del fatto; e, mutando il fatto, muta il principio di diritto (22). Si immagini che il rinvio fosse stato effettuato dal giudice di uno Stato ove la regola è quella dell'esclusione senza la previsione di alcuna soglia di punibilità (ad es. la Francia). In tale ipotesi, probabilmente, la soluzione sarebbe stata diversa: non è da escludere che l'invocazione del principio di proporzionalità avrebbe potuto trovare accoglimento, almeno in linea di principio, salvo poi assegnare al giudice a quo il compito di farne applicazione concreta nel caso di specie (23). Tali conclusioni paiono avvalorate dalla nuova direttiva appalti (2014/24/UE), che prevede, all'art. 57, l'obbligatorietà dell'esclusione per irregolarità contributiva, in una con la possibilità, per i singoli Stati membri, di stabilire una soglia di punibilità (24). Se le cose stanno così, allora le affermazioni della Corte di giustizia vanno interpretate nel senso che la disciplina italiana è compatibile con il diritto europeo proprio in quanto è previsto il requisito della gravità, pur se determinato a priori ed una volta per tutte, in modo fisso, dal legislatore. Ma è proprio tale ultima affermazione che non convince del tutto, parendosi scontrare con il principio espresso da precedenti sentenze della Corte di giustizia in tema di cause di esclusione, che, pur riconoscendo a ciascuno degli Stati membri un certo margine di discrezionalità nell'adozione di misure idonee a garantire il rispetto della par condicio e della trasparenza “alla luce di considerazioni di ordine storico, giuridico, economico o sociale che gli sono proprie” (25), tuttavia “conformemente al principio di proporzionalità [...]”, indicano che “le misure adottate dagli Stati membri non devono eccedere quanto necessario per raggiungere tale obiettivo” (26). Ora, se pur è indubbio che la disciplina in materia di regolarità contributiva abbia lo scopo di garantire l'amministrazione circa l'affidabilità dei concorrenti (27), essa è altresì volta alla tutela dei principi di parità di trattamento e trasparenza (28), (18) Ossia la definizione di discrezionalità amministrativa di M.S. Giannini, L'interpretazione dell'atto amministrativo e la teoria giuridica dell'interpretazione, Milano, 1939, 212. Sull'opera di Giannini, v. F. G. Scoca, La discrezionalità nel pensiero di Giannini e nella dottrina successiva, in Riv. Trim. Dir. Pubb., 2000, 1045 ss. Ci si ritiene autorizzati a usare principi propri del diritto amministrativo alla funzione legislativa in considerazione della circostanza che “la Corte di giustizia […] costruisce l'attività dei pubblici poteri secondo un unico continuum decrescente di discrezionalità”, senza distinguere, da un punto di vista qualitativo, si potrebbe dire, l'attività legislativa da quella amministrativa (e da quella giurisdizionale): così R. Caranta, La responsabilità per fatto illecito delle istituzioni comunitarie è in funzione dei margini di discrezionalità di cui dispongono, in Giur. It., 2001, 150; G. Tesauro, Responsabilité des États membres pour la violation du droit communautaire, in Revue du Marché Unique Européen, 3, 1996, 24. (19) M. S. Giannini, Il potere discrezionale della pubblica amministrazione, Milano, 1939, 73. (20) Sui limiti derivanti dal diritto europeo alla discrezionalità del legislatore, v. G. Tesauro, Responsabilità degli Stati per violazione del diritto comunitario, in La tutela giurisdizionale dei diritti nel sistema comunitario, Bruxelles 1997, 306 ss.; S. Morettini, La disciplina europea sulla discrezionalità amministrativa nel settore dei servizi, in S. Battini, G. Vesperini, I limiti globali ed europei alla disciplina nazionale dei servizi, Milano, 2008, 241 ss. (21) Su tali aspetti, v., da ultimo, B. Giliberti, Il merito ammi- nistrativo, Padova, 2013, passim. (22) M. Taruffo, La motivazione della sentenza civile, Padova, 1975, 224, parla al riguardo di “un reciproco e progressivo condizionamento e arricchimento che si instaura tra l'interpretazione dell'enunciato normativo e l'interpretazione delle circostanza di fatto”. (23) Ad esempio in un caso in cui lo scostamento tra il dovuto ed il versato sia di entità minima. (24) In argomento, v. infra. (25) Corte giust. UE, 23 dicembre 2009, in causa C-376/08, Serrantoni, in Foro Amm. CdS, 2009, 2781, 32. (26) Corte giust. UE, C-376/08, cit., p. 33. (27) Come anticipato, la decisione in epigrafe si esprime in questo senso, condividendo le argomentazioni dell'ordinanza di rinvio. Sulla base di quanto si dirà subito dopo nel testo, se l'ordinanza avesse posto l'attenzione sul principio di massima concorrenza, forse diverse sarebbero state le conclusioni della sentenza in commento. (28) Così P. Lotti, Corte CE e esclusione dalla gara per irregolarità fiscale e contributiva: è necessaria una regola chiara, cit., secondo cui la disposizione è posta “a tutela di una sana concorrenza, che verrebbe compromessa nel caso in cui un'impresa, in situazione di inadempimento dei propri obblighi tributari e contributivi, potesse legittimamente partecipare ad una gara pubblica, avvantaggiandosi di risorse che ha illegittimamente trattenuto presso di sé, non ottemperando alle leggi sociali e fiscali dello Stato”. Nello stesso senso, T. Del Farra, Les exclusions généales et automatiques des marchés publics 1176 Urbanistica e appalti 11/2014 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Comunitaria oltre che dei diritti dei lavoratori (29), non potendosi ravvisare tra i vari interessi tutelati alcuna incompatibilità (30). Se, però, si pone l'accento sull'affidabilità dell'operatore economico, l'irrilevanza del principio di proporzionalità può trovare giustificazione: chi non è in regola non è affidabile (31), mentre la soglia di tolleranza va considerata alla stregua di “graziosa concessione”, stabilita per evitare di sanzionare piccoli errori, magari commessi in buona fede. Trattandosi, allora, di disposizione del tutto eccezionale, se ne spiega anche la rigida applicazione e l'impossibilità della valutazione, caso per caso, della gravità della violazione ai fini dell'esclusione o meno, in quanto ogni violazione è tale da minare la fiducia, e se non si arriva sempre alla sanzione espulsiva, è dovuto unicamente, come appena det- to, alla eccezionale volontà in tal senso del legislatore (32). Se, invece, si pone l'accento sulla tutela della concorrenza, forse, le conclusioni possono mutare, nel senso che si renderebbe necessario confrontare il dato oggettivo della violazione alle norme contributive con le caratteristiche della situazione concreta, al fine di stabilire se l'irregolarità contributiva, in relazione al valore dell'appalto, al rapporto tra entità della violazione e il fatturato dell'impresa, all'occasionalità o meno della violazione commessa (33), sia tale da determinare effettivamente un vulnus alla concorrenza tra gli operatori economici e, quindi, se l'esclusione risulti o meno proporzionata all'infrazione (34). Quanto, poi alla tutela dei lavoratori, è da premettere che l'operatore economico, in caso di violazione non grave (perché inferiore alla soglia sont-elles conformes au Traité sur l'Union européenne et à la Constitution?, cit., 2 s., secondo cui l'esclusione connessa all'irregolarità fiscale e contributiva è funzionale al mantien d'une juste concurrence, in quanto garantisce la parità di trattamento degli offerenti. (29) Sul punto, v. I. Pagani, I parametri di valutazione della gravità degli inadempimenti contributivi e previdenziali al vaglio della Corte di giustizia, cit., 1317. Sugli interessi tutelati dalla disciplina in materia di contratti pubblici, v. M. D'Alberti, Interesse pubblico e concorrenza nel codice dei contratti pubblici, in Dir. Amm., 2008, 297; E. Picozza, L’appalto pubblico tra diritto comunitario e diritto nazionale, in C. Franchini, I contratti di appalto pubblico, Torino, 2010, 36 ss.; R. Caranta, Le società semplici escluse dalle gare d’appalto?, in questa Rivista, 2011, 1348, i quali rilevano la differenza tra il diritto europeo, che ha di mira la creazione di un mercato concorrenziale, e quello italiano, volto a tutelare le ragioni dell'amministrazione. (30) V., ad es., T.A.R. Campania, Napoli, 12 giugno 2014, n. 3334, che pone sullo stesso piano “i principi di tutela dell’interesse pubblico alla scelta di un contraente affidabile e della par condicio tra le imprese concorrenti”. (31) Del resto, è questa la disciplina in tema di “affidabilità morale” di cui all'art. 38, D.Lgs. n. 163/2006: la commissione anche di un solo reato incidente sulla moralità professionale, pure se risalente e di non rilevante entità, determina l'esclusione dalla procedura (C.G.A. Sicilia, 1° giugno 2010, n. 806; Cons. Stato, 31 gennaio 2006, n. 349). (32) Similmente, la disciplina in tema di esclusione per irregolarità fiscale, prima della novella di cui all'art. 4, D.L. n. 70/2011 (che ha introdotto il requisito della “gravità” della violazione) era interpretata dalla giurisprudenza nel senso che “ai fini della configurabilità del requisito della regolarità fiscale non può che essere escluso ogni rilievo alla modestia dell’entità del debito definitivamente accertato, non essendo in proposito previsto da parte della stazione appaltante alcun apprezzamento discrezionale della gravità e del sottostante elemento psicologico della violazione. Il cit. art. 38, lett. g), dispone infatti che sono esclusi dalla partecipazione alle gare pubbliche coloro che “hanno commesso violazioni, definitivamente accertate, rispetto agli obblighi relativi al pagamento delle imposte ...”; dunque ogni violazione, anche di importo esiguo, senza che sia consentito all’amministrazione che ha bandito la gara, e tanto meno al concorrente, valutarne la rilevanza e la buona o mala fede del contribuente, giacché tale valutazione - diversamente dalle ipotesi di cui alle lett. e) ed f) - è stata evidentemente effettuata dal legislatore in ragione dello scopo della norma di garantire non solo l’affidabilità dell’offerta e nell’esecuzione del contratto, ma anche la correttezza e la serietà del concorrente”: così Cons. Stato, sez. V, 15 ottobre 2009, n. 6352; T.A.R. Puglia, Bari, 8 marzo 2012, n. 491. Da rilevare, poi, che nonostante l'introduzione del requisito della gravità ad opera del legislatore, “la ratio della normativa […] risponde all'esigenza di garantire l'amministrazione pubblica in ordine alla solvibilità e alla solidità finanziaria del soggetto con il quale essa contrae”: così Cons. di Stato, Ad. Plen., 20 agosto 2013, n. 20, in questa Rivista, 2013, 1055, con nota di F. Manganaro, Esclusione dalle gare di appalto per violazioni tributarie definitivamente accertate. (33) Si tratta dei parametri proposti da T.A.R. Milano, n. 1969/2012, cit. (34) Secondo il principio, già rammentato, per cui la disciplina delle cause di esclusione non deve eccedere quanto necessario ai fini del raggiungimento degli obiettivi della trasparenza e della par condicio. Simile è la posizione assunta, con riguardo alla discipline dell'irregolarità fiscale antecedente la riforma del 2011, da Cons. Stato, sez. III, 26 settembre 2014, n. 4854, secondo cui “l’interpretazione più conforme alla ratio della norma [si tratta dell'art. 38, comma 1, lett. g), D.Lgs. n. 163/2006, n.d.r.], anche nel testo vigente nel 2009, tenuto conto della evoluzione legislativa successiva, e letta alla luce della norma europea che ne costituisce la fonte (l’art. 45, comma 2, lett. f) direttiva CE 2004/18), sia quella che tenga conto concretamente della sussistenza del requisito dell’affidabilità e solidità finanziaria del concorrente e attribuisca rilievo, pertanto, ancora prima della modifica legislativa di cui al D.L. n. 70/2011, che ha introdotto il detto requisito della “gravità” della violazione, sia all’importo del debito tributario, che non deve essere irrisorio in relazione alla complessiva dimensione societaria del concorrente, sia all’intervenuto ravvedimento operoso”. Nello stesso senso, v. A. Sanchez Graells, Exclusion, Qualitative Selection and Short-listing in the New Public Sector Procurement Directive 2014/24, in F. Lichére, R. Caranta, S. Treumer (eds.), Modernising Public Procurement. The new Directive, Copenhagen, 2014, 109, secondo cui “exclusion for any minor infringement of social, labour or environmental requirements may be disproportionate and, ultimately, not in the public interest if it affects the level and intensity of competition for the contracts”. Urbanistica e appalti 11/2014 1177 Giurisprudenza AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Comunitaria di punibilità), è tenuto al pagamento del relativo importo entro trenta giorni dal rilascio del DURC (35): il medesimo meccanismo deve valere per la violazione non ritenuta grave dal giudice, con il che non si avrebbe alcuna lesione dell'interesse protetto, proprio come non si ha, per definizione, lesione nel caso di violazione non grave. Se tali considerazioni sono corrette, se ne può trarre una conclusione alternativa: o la giurisprudenza italiana (rectius, parte di essa) è, per così dire, più europeista della giurisprudenza europea (36), o la Corte di giustizia (spia ne sarebbe il riferimento all'affidabilità del concorrente) anticipa il nuovo corso della disciplina europea in materia di contratti pubblici di cui alla nuova direttiva 2014/24/UE, che pare, per certi aspetti (e, spesso, a livello solamente declamatorio), voler spostare il baricentro a favore dell'amministrazione (37) e dell'“efficiency in public spending” (38) rispetto alla precedente tutela della concorrenza, pur, naturalmente, senza obliterarla (39). Resta, allora, da verificare quanto sostenuto alla luce della nuova direttiva appalti. La regolarità contributiva nella nuova direttiva appalti (35) Art. 8, comma 3, D.M. 24 ottobre 2007. (36) Sul fenomeno, v. G. Manfredi, Appunti sull'affidamento degli incarichi legali delle pubbliche amministrazioni: competenza, procedimento, forma, in questa Rivista, 2013, 884, il quale rinvia a M. Cartabia, Cultura dei giuristi e processi di integrazione europea, in L. Paggi (a cura di), Un’altra Italia in un’altra Europa. Mercato e interesse nazionale, Roma, 2011, 98 ss. (37) P. Patrito, Sulla dichiarazione ex art. 38 D.Lgs. n. 163/2006 fatta “collettivamente ed impersonalmente”, in questa Rivista, 2014, 914 ss. (38) A tale ultimo riguardo, v. M. E. Comba, Variations in the scope of the new EU public procurement Directives of 2014: Efficiency in public spending and a major role of the approximation of laws, in F. Lichére, R. Caranta, S. Treumer (eds.), Modernising Public Procurement. The new Directive, cit., 29 ss. passim. Ha rilevato tale tendenza, in anticipo rispetto alla pubblicazione delle nuove direttive, M. Occhiena, Gli appalti pubblici e la semplificazione impossibile, in Dir. Economia, 2013, 521. (39) V., infatti, l'art. 18, direttiva 2014/24/UE, e il principio di concorrenza in esso ribadito. Al riguardo, A. Sanchez Graells, Exclusion, Qualitative Selection and Short-listing in the New Public Sector Procurement Directive 2014/24, cit., 127, rileva (con toni forse eccessivamente “entusiastici”) che “there are also several indications of a clearer integration of public procurement and competition rules […] which should be seen as a natural result of the consolidation of the principle of competition in Article 18(1) of the new Directive”. Sul punto, v. comunque infra. (40) Peraltro, in assenza di una decisione giurisdizionale o amministrativa definitiva, “le amministrazioni aggiudicatrici possono escludere o possono essere obbligate dagli Stati membri a escludere dalla partecipazione a una procedura d’appalto un operatore economico se l’amministrazione aggiudicatrice può dimostrare con qualunque mezzo adeguato che l’operatore economico non ha ottemperato agli obblighi relativi al pagamento di imposte o contributi previdenziali” (art. 57, par. 2, terzo periodo, direttiva 2014/24/UE). Sulla disposizione, v. A. Sanchez Graells, Exclusion, Qualitative Selection and Short-listing in the New Public Sector Procurement Directive 2014/24, cit., 105 ss. (41) L'art. 45, par. 2, direttiva 2004/18/CE, prevede, come noto, la possibilità di una siffatta esclusione. (42) A. Sanchez Graells, Exclusion, Qualitative Selection and Short-listing in the New Public Sector Procurement Directive 2014/24, cit., 107, rileva che “a common definition of what constitutes ‘minor amounts’ seems necessary”. Per una diversa prospettiva, v. oltre nel testo. La disposizione consente la partecipazione anche dell’operatore economico che “sia stato informato dell’importo preciso dovuto a seguito della sua violazione degli obblighi relativi al pagamento di imposte o di contributi previdenziali in un momento in cui non aveva la possibilità di prendere provvedimenti in merito [..], prima della scadenza del termine per richiedere la partecipazione ovvero, in procedure aperte, del termine per la presentazione dell’offerta”. Il principio per cui la regolarizzazione sia possibile solamente prima della scadenza del termine di partecipazione si discosta dal precedente di cui a Corte giust. CE, cause riunite C-226/04 e C-228/04, cit., che, viceversa, aveva riservato agli Stati membri l'individuazione del termine entro il quale “gli interessati devono aver effettuato i pagamenti corrispondenti ai loro obblighi oppure […] aver provato che le condizioni per una regolarizzazione a posteriori sono soddisfatte. Tale termine può essere, in particolare, la data limite per la presentazione della domanda di partecipazione alla gara, la data di spedizione della lettera di invito a presentare un’offerta, la data limite della presentazione delle offerte dei candidati, la data di valutazione delle offerte da parte dell’amministrazione aggiudicatrice o, ancora, il momento che precede immediatamente l’aggiudicazione dell’appalto” (p. 31). 1178 Ai sensi dell'art. 57, par. 2, della nuova direttiva, “un operatore economico è escluso dalla partecipazione a una procedura d’appalto se l’amministrazione aggiudicatrice è a conoscenza del fatto che l’operatore economico non ha ottemperato agli obblighi relativi al pagamento di imposte o contributi previdenziali e se ciò è stato stabilito da una decisione giudiziaria o amministrativa avente effetto definitivo e vincolante secondo la legislazione del paese dove è stabilito o dello Stato membro dell’amministrazione aggiudicatrice” (40). L'esclusione diviene, dunque, obbligatoria (e non più facoltativa, come nella previgente disciplina europea (41)): una conferma del favor administrationis che permea la nuova direttiva. Va peraltro rilevato che, ai sensi del successivo par. 3, “gli Stati membri possono [...] prevedere una deroga alle esclusioni obbligatorie di cui al paragrafo 2 nei casi in cui un’esclusione sarebbe chiaramente sproporzionata, in particolare qualora non siano stati pagati solo piccoli importi di imposte o contributi previdenziali” (42). Urbanistica e appalti 11/2014 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Comunitaria Il problema è dato dall'uso del verbo “possono”: esso indica una mera facoltà o un potere-dovere? La direttiva parrebbe essere nel primo senso (appartiene alla discrezionalità degli Stati membri introdurre o meno l'eccezione), senza che l'esclusione di tale possibilità possa essere censurata in sede giudiziale. Peraltro, si ritiene una siffatta soluzione interpretativa del tutto insoddisfacente. Infatti, se, in ragione dell'esiguo scostamento tra importi dovuti e importi versati, l'esclusione risulta “chiaramente sproporzionata”, tale dato di fatto resta, a prescindere dalla circostanza che lo Stato membro abbia o meno previsto espressamente la clausola di deroga: il principio di proporzionalità è immanente non abbisogna certo di un espresso richiamo legislativo per essere operante (43). Di conseguenza, la disciplina nazionale che non prevedesse la clausola in questione o, a maggior ragione, che la escludesse espressamente, violerebbe essa stessa il principio di proporzionalità, né potrebbe trovare copertura nell'art. 57 della direttiva 2014/24/UE, che, se interpretato nel senso di consentire di escludere la clausola di salvezza, non parrebbe essa stessa conforme ai principi del Trattato, in primis quello di proporzionalità. Detto diversamente, se la misura restrittiva (per usare le parole della Corte) non è proporzionata alla violazione commessa – e la sussistenza della sproporzione può essere accertata dal giudice senza che il legislatore fissi una più o meno ampia soglia di punibilità –, ciò rimane vero a prescindere da un'espressa previsione di deroga all'esclusione automatica, la cui assenza non può giustificare l'espulsione dalla gara sempre e comunque, quale che sia l'entità della violazione. Conferma di quanto sin qui sostenuto parrebbe provenire dall'art. 18, direttiva 2014/24/UE, che sancisce, tra i principi generali in materia di con- tratti pubblici, oltre alla parità di trattamento, non discriminazione e trasparenza, quello di proporzionalità: anche da questo punto di vista, non si vede ragione alcuna per escluderne l'applicazione alla causa di esclusione in parola. In sintesi, il “possono” deve – almeno così si ritiene – essere interpretato come “devono”. Tali conclusioni non paiono tali da sconfessare quanto prima sostenuto circa il favor administrationis che sembra caratterizzare la nuova direttiva. Si tratta, infatti, di un favor administrationis, talora declamato, ma che, spesso, rimane sulla carta (44): anche l'art. 57, comma 3, della direttiva 2014/24/UE, esprime un'intenzione (“possono”) che pare destinata a rimanere tale, in quanto, sulla base di quanto appena affermato, il principio di proporzionalità non può essere messo 'in sordina' da una contraria disposizione legislativa. In disparte tali riflessioni, per tornare alla sentenza in commento, se il principio di proporzionalità è immanente all'ordinamento giuridico europeo, a prescindere dal tenore letterale dell'art. 45, della direttiva 2004/18/CE, esso avrebbe dovuto, ove la situazione di fatto l'avesse permesso, condurre ad una diversa decisione della Corte, nel senso che l'eventuale esclusione automatica priva di una qualunque soglia di punibilità non avrebbe potuto, almeno così si crede, passare indenne al vaglio del giudice europeo. Forse, però, neppure la decisione della Corte di giustizia è conforme al principio di proporzionalità: se la soglia di punibilità, come prevista dal legislatore, è, essa stessa, sproporzionata, come parrebbe a proposito della disciplina italiana (che, infatti, non tenendo conto di parametri quale il valore dell'appalto e la dimensione dell'operatore economico, può comportare l'esclusione anche in caso di debiti “irrisori” (45)), essa non dovrebbe essere considerata conforme al diritto europeo, in quanto si violerebbe il principio del favor parteci- (43) R. Cavallo Perin, I principî come disciplina giuridica del pubblico servizio tra ordinamento interno ed ordinamento europeo, in Dir. Amm., 2000, 41 ss.; F. Pellizer, Gli accordi pubblico-privato nel governo del territorio, in F. Mastragostino (a cura di), La collaborazione pubblico-privato e l'ordinamento amministrativo. Dinamiche e modello di partenariato in base alle recenti riforme, Torino, 2011, 205 s.; V. Fanti, Dimensioni della proporzionalità: profili ricostruttivi tra attività e processo amministrativo, Torino, 2012, 276 ss. (44) Come in altra sede rilevato, spesso le intenzioni manifestate dalla direttiva 2014/24/UE, non pare possano tutte tradursi in realtà: v. P. Patrito, Sulla dichiarazione ex art. 38 D.Lgs. n. 163/2006 fatta “collettivamente ed impersonalmente”, cit., 924, che richiama l'attenzione al considerando n. 83 alla direttiva 2014/24/UE, a mente del quale “le amministrazioni aggiudicatrici dovrebbero mantenere la facoltà di decidere autonomamente se sia opportuno e pertinente stabilire requisiti di fatturato minimo più elevati senza essere soggette a supervisione amministrativa o giudiziaria”, precisando che tale “zona franca” non può sussistere. (45) Così Cons. Stato, n. 4854/2014, cit. Urbanistica e appalti 11/2014 1179 Giurisprudenza AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Comunitaria pationis in una con quello della par condicio (46), in quanto la violazione, pur commessa, non è in grado di falsare il principio della libera concorrenza. (46) Assimila par condicio e favor partecipationis P. Gotti, op. loc. cit. Nello stesso senso, P. Patrito, op. ult. cit., 921 s. Tradizionalmente, i due principi sono invece intesi come potenzialmente contrapposti: v., ad es., Cons. Stato, sez. V, 5 luglio 2011, n. 4029, secondo cui “il principio del favor partecipationis, volto a favorire la più ampia partecipazione alle gare pubbliche, ha di norma carattere recessivo rispetto al principio della par condicio (se le prescrizioni del bando sulle formalità di presentazione delle offerte rispondono ad un particolare interesse dell'Amministrazione o sono poste a garanzia di essa par condicio)”; C. Cacciavillani, Dichiarazioni negli appalti pub- blici: Profili generali e problematici, in www.giustamm.it, “il principio del favor partecipationis inoltre può cozzare contro il principio della par condicio, e ciò tutte le volte in cui possa concludersi che la deroga al rigore formale di regole sulla partecipazione, pur nell’ipotesi in cui l’osservanza di queste non sia prescritta a pena di esclusione, si traduca in vantaggio che ben può consistere nella riduzione o attenuazione di oneri procedimentali - di un concorrente, che risulti di fatto posto in condizione meno onerosa, e quindi più vantaggiosa, rispetto ad altro”. 1180 Urbanistica e appalti 11/2014 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Civile Responsabilità della p.a. La Cassazione conferma la responsabilità precontrattuale della p.a. nella fase precedente l’aggiudicazione CASSAZIONE CIVILE, sez. I, 3 luglio 2014, n. 15260 – Pres. Vitrone – Rel. Cristiano – Provincia di Isernia c. D.D.V. La responsabilità precontrattuale della p.a. è configurabile in tutti i casi in cui l'ente pubblico, nelle trattative con i terzi, compia azioni o incorra in omissioni contrastanti con i principi della correttezza e della buona fede, alla cui puntuale osservanza è tenuto già nel procedimento amministrativo strumentale alla scelta del contraente, ossia nel momento in cui entra in contatto con una pluralità di offerenti, instaurando con ciascuno di essi trattative (multiple o parallele) idonee a determinare la costituzione di rapporti giuridici, nel cui ambito è tenuto al rispetto di principi generali di comportamento posti dalla legge a tutela indifferenziata degli interessi delle parti. Ne consegue che l'inosservanza di tale precetto, anche prima della conclusione della gara, determina l'insorgere della responsabilità della p.a. per violazione del dovere di correttezza previsto dall'art. 1337 c.c. a prescindere dalla prova dell'eventuale diritto all'aggiudicazione del partecipante. ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI Conforme Cons. Stato, 15 marzo 2012, n. 1140; Cons. Stato, 25 luglio 2012, n. 4236; Cons. Stato, 7 novembre 2012, n. 5638 Difforme Cass. civ., sez. I, 18 giugno 2005, n. 13164; Cass. civ., sez. II, 10 gennaio 2013, n. 477 Motivi della decisione Va, in via generale, ricordato che nella giurisprudenza di questa Corte è da tempo acquisito il dato della assoggettabilità della pubblica amministrazione al disposto dell'art. 1337 c.c. Con un primo arresto (Cass. n. 1142/63), fu superato il pregresso orientamento che riteneva sempre precluso il sindacato del giudice ordinario sulle scelte discrezionali della pubblica amministrazione e si affermò che anche questa, quando intraprende iniziative di contratti privatistici, è tenuta al rispetto del principio generale dettato dall'art. 1337 c.c., il quale informa tutto l'ordinamento giuridico, con la precisazione che il relativo accertamento, che implica una valutazione non sull'operato del corretto amministratore, ma sul suo comportamento quale “corretto contraente”, non sfugge alla cognizione del giudice ordinario. A partire dalla sentenza n. 2110/74, si è andato poi progressivamente consolidando l'indirizzo che ritiene configurabile una responsabilità precontrattuale della p.a. anche in materia di contratti ad evidenza pubblica in tutti i casi in cui l'ente pubblico, nelle trattative con i terzi, abbia compiuto azioni o sia incorso in omissioni contrastanti con i principi della correttezza e della buona fede, Urbanistica e appalti 11/2014 alla cui puntuale osservanza anch’esso è tenuto (Cass. nn. 477/2013; 27678/11; 23393/08; 4856/07; 12313/05). Si è al riguardo precisato (cfr. Cass., Sez. Un., n. 11656/08) che si tratta di una responsabilità da comportamento e non da provvedimento, che non investe la legittimità degli atti amministrativi posti in essere dalla p.a. né ne richiede l'annullamento, ma postula unicamente la lesione dell'affidamento dell'altra parte nella fase formativa del contratto. Essa può dunque sussistere anche in presenza di atti di autotutela (revoca, annullamento, diniego di stipula o di approvazione) pienamente legittimi, ove assistiti dai presupposti per la loro emanazione, e va pertanto tenuta distinta dalla responsabilità per lesione di un interesse legittimo, che, pur facendo anch'essa capo ai canoni della correttezza e della buona fede (cfr. Cass. n. 500/99) ha come presupposto, non unico, ma comunque necessario, un vizio di legittimità dell'atto amministrativo. Ciò, evidentemente, non comporta che, in presenza di un atto amministrativo viziato possa configurarsi solo lesione dell'interesse legittimo e non anche violazione dell'art. 1337 c.c., dovendosi piuttosto ritenere che all'illegittimità del provvedimento amministrativo possa corrispondere una situazione di diritto tutelabile sotto 1181 Giurisprudenza AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Civile l'uno o l'altro profilo a seconda della posizione assunta del privato nei confronti della p.a., e che, ove sia invocata la responsabilità precontrattuale dell'amministrazione, il vizio dell'atto assurga a circostanza rilevante ai fini della prova della ricorrenza della culpa in contraendo della stessa. Questa Corte ha, tuttavia, costantemente escluso la configurabilità di una responsabilità precontrattuale della p.a. nella fase procedimentale che precede l'aggiudicazione della gara. Si è osservato a riguardo che l'apertura della competizione ad una pluralità di concorrenti non instaura ancora una relazione specifica tra soggetti paragonabile allo svolgimento di trattative cui è riferibile, in sede privatistica, l'art. 1337 c.c.. e che il partecipante alla gara non può nutrire alcun legittimo affidamento sull'esito della stessa e sulla conclusione del relativo contratto, ma è unicamente titolare di un interesse legittimo al corretto esercizio del potere di scelta da parte dell'amministrazione (Cass. nn. 6545/87; 9892/93; 5995/97; 12313/05; 13164/05). Ad avviso di questo collegio, il predetto orientamento, invocato dalla ricorrente a sostegno del proprio assunto difensivo, merita di essere superato, in adesione alla giurisprudenza del giudice amministrativo (cui, a partire dall'entrata in vigore della L. n. 205 del 2000, spetta la giurisdizione esclusiva nelle controversie, anche risarcitorie, relative alle procedure di affidamento di appalti, forniture e servizi pubblici) ed in un'ottica di adeguamento della disciplina nazionale a quella europea e comunitaria, che subordina l'interesse della pubblica amministrazione, un tempo ritenuto preminente, all'interesse di un mercato concorrenziale, in cui il partecipante alla gara è titolare di una posizione soggettiva direttamente tutelata, avente ad oggetto il corretto adempimento della procedura, indipendentemente da un affidamento specifico alla conclusione del contratto. Si è in proposito esattamente rilevato da parte del giudice amministrativo (Cons. Stato, sez. V, n. 3831/013, sez. IV, n. 6000/013) che, in materia, si è in presenza di una formazione necessariamente progressiva del contratto, non derogabile dalle parti, che si sviluppa secondo lo schema dell'offerta al pubblico ed in cui l'amministrazione entra in contatto con una pluralità di partecipanti al procedimento negoziale, con ciascuno dei quali instaura trattative (cd. multiple o parallele) che determinano la costituzione di un rapporto giuridico sin dal momento della presentazione delle offerte, secondo un'impostazione che risulta rafforzata dall'irrevocabilità delle stesse. È pertanto già nell'ambito di ognuno di tali rapporti che la p. a. è tenuta al rispetto di principi generali di comportamento posti dalla legge a tutela indifferenziata degli interessi delle parti in contatto, con la conseguenza che il mancato rispetto di tale precetto, anche anteriore alla conclusione della gara, determina l'insorgere della sua responsabilità precontrattuale a prescindere dalla prova dell'eventuale diritto all'aggiudicazione del partecipante. La disciplina in materia di culpa in contrahendo non necessita, infatti, di un “rapporto personalizzato” fra p.a. e privato, che troverebbe la sua unica fonte del provvedimento di aggiudicazione, ma è posta a tutela del legittimo affidamento nella correttezza della controparte, che sorge sin dall'inizio del procedimento. Diversamente argomentando l'interprete sarebbe invece costretto a scindere un comportamento che si presenta unitario e che conseguentemente non può che essere valutato nella sua complessità. Del resto, come chiarito dal Consiglio di Stato (sez. V, n. 3831/013 cit.) la fase di formazione dei contratti pubblici è caratterizzata dalla contestuale presenza di un procedimento amministrativo e di un procedimento negoziale (l'uno disciplinato da regole di diritto pubblico finalizzate ad assicurare il perseguimento, anche quando la p.a. agisce mediante moduli convenzionali, dell'interesse pubblico e l'altro disciplinato da regole di diritto privato, finalizzate alla formazione della volontà contrattuale): si è dunque in presenza di un'unica serie di atti operanti in una duplice dimensione, pubblicistica e privatistica, il che consente di concludere che la fase dell'evidenza pubblica non si colloca al di fuori delle trattative, ma ne costituisce parte integrante. Infine, non può farsi a meno di rilevare come l'interpretazione restrittiva, che esclude la configurabilità di una responsabilità precontrattuale della p.a. nella fase pubblicistica che precede l'aggiudicazione, finisca con l'offrire una giustificazione a possibili condotte elusive dell'amministrazione, che potrebbe porre in essere comportamenti non conformi ai principi generali di buona fede oggettiva e correttezza cui deve essere improntato il suo agire, fino al punto di sfavorire artatamente un concorrente per favorirne un altro, nella consapevolezza di non essere tenuta a risponderne. IL COMMENTO di Alessandra Vapino Le conclusioni raggiunte dal giudice amministrativo in tema di responsabilità precontrattuale della pubblica Amministrazione vengono, finalmente, recepite anche dalla giurisprudenza civile di legittimità, da sempre molto prudente sulla possibilità di riconoscere una responsabilità ex art. 1337 c.c. in capo al soggetto pubblico.Il nuovo orientamento è (anche) espressione dell’esigenza di un adeguamento della disciplina nazionale a quella europea, adeguamento che, alla luce della disciplina italiana della responsabilità precontrattuale, appare, al momento, solo parziale. 1182 Urbanistica e appalti 11/2014 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Civile La Corte, nella sentenza in commento, affronta il tema della responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione, offrendone, finalmente, una lettura moderna, allineata all’orientamento seguito, già da qualche tempo, dal giudice amministrativo (1) e conforme a quanto previsto dalla disciplina europea in materia di contratti pubblici (2). Superando le perplessità che avevano frenato il riconoscimento della responsabilità precontrattuale nella fase precedente l’aggiudicazione della gara (3), la Cassazione aderisce ora alle tesi promosse dalla giurisprudenza amministrativa, che vede nella disciplina civilistica della culpa in contrahendo uno strumento generale posto a tutela della correttezza del comportamento della controparte, quale essa sia. La pretesa di correttezza, oltre a poter essere estesa a qualunque soggetto, anche pubblico, non può essere limitata solo ad alcune attività specifiche, ma il comportamento del contraente deve essere corretto, considerandolo nel suo complesso. Anche la fase precedente l’aggiudicazione, quindi, deve essere tenuta in considerazione per la valutazione di correttezza e, in caso di esito negativo del giudizio, la p.a. viene chiamata a rispondere ex art. 1337 c.c. Il caso La vicenda sulla quale si pronunciano i giudici di legittimità origina dalla gara a licitazione privata indetta dalla Provincia di Isernia per la realizzazio(1) Già a partire dal 2008 il Consiglio di Stato, in alcune pronunce, riconosce la responsabilità precontrattuale per la revoca di procedimenti non ancora pervenuti ad aggiudicazione (Cons. Stato, sez. V, 11 maggio 2009, n. 2882; Cons. Stato, sez. V, 8 ottobre 2008, n. 4947; Cons. Stato, sez. VI, 5 settembre 2011, n. 5002; Cons. Stato, sez. VI, 2 settembre 2011, n. 4921) ma la tesi non è ancora pacifica e in alcune occasioni lo stesso consesso si pronuncia in maniera contraria (Cons. Stato, sez. V, 28 maggio 2010, n. 3393; Cons. Stato, sez. V, 8 settembre 2010, n. 6489). È a partire dal 2012, con le pronunce n. 1140 del 15 marzo, n. 4236 del 25 luglio, n. 5638 del 7 novembre, che il Consiglio di Stato, sez. VI, abbandona definitivamente la tesi dell’inconfigurabilità di una responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione anteriormente alla scelta del contraente e riconosce la responsabilità della stessa, per comportamento scorretto, sin dalla pubblicazione del bando. Tale orientamento, che era già stato anticipato anche da alcuni tribunali di merito (T.A.R. Calabria, sez. II, 9 giugno 2009, n. 627 e T.A.R. Lazio, sez. III, 22 giugno 2009, n. 5986) viene consolidato nella giurisprudenza più recente (su tutte Cons. Stato, sez. V, 15 luglio 2013, n. 3831) e portato alle estreme conclusioni con la pronuncia in commento. (2) Come si legge nella sentenza in commento, infatti, la disciplina europea e comunitaria subordina “l’interesse della pubblica amministrazione, un tempo ritenuto preminente, all’interesse di un mercato concorrenziale, in cui il partecipante Urbanistica e appalti 11/2014 ne di un tratto di dorsale appenninica, alla quale prendevano parte, tra le altre, alcune imprese di costruzioni raggruppate in un’ATI. Nonostante l’acquisizione del miglior punteggio provvisorio, l’ATI in questione veniva esclusa dalla gara e, pertanto, chiedeva la condanna dell’ente pubblico appaltante al risarcimento dei danni subiti. Il Tribunale di Isernia riconosceva all’ATI il diritto al risarcimento del danno, ma ex art. 1337 c.c. e non a titolo di responsabilità contrattuale, come richiesto invece dall’attrice. La responsabilità dell’ente pubblico veniva riconosciuta come precontrattuale sulla base del fatto che l’intero procedimento di gara era stato annullato (dal Consiglio di Stato, con due altre pronunce, relative ad altre imprese partecipanti alla medesima gara) e siccome l’ATI in questione aveva solo ottenuto il diritto ad essere riammessa alla gara, e non anche il diritto all’aggiudicazione della stessa, il danno subito poteva essere risarcito solo ex art. 1337 c.c. La Corte d’appello di Campobasso confermava quanto disposto in primo grado, riconoscendo la responsabilità precontrattuale della Provincia di Isernia e condannando quest’ultima al risarcimento dei danni causati. I giudici di legittimità, pur dando atto del precedente orientamento della Corte, la quale aveva costantemente escluso la configurabilità di una responsabilità precontrattuale della p.a. prima delalla gara è titolare di una posizione soggettiva direttamente tutelata, avente ad oggetto il corretto adempimento della procedura”. Ma non solo. Le tendenze evolutive dell’ordinamento amministrativo, sulla scia di quello europeo, volgono verso un parziale ridimensionamento della posizione del soggetto pubblico al quale fa da contraltare un progressivo riconoscimento, in capo al privato, di posizioni soggettive fondate su un preteso diritto all’affidamento nella altrui correttezza, di matrice tipicamente civilistica. Ma in presenza di quali circostanze si può dire che sorga una posizione soggettiva di questo tipo? Tali questioni sono oggetto dell’interesse della dottrina delle legitimate expectations. Sul tema cfr., ad esempio, A. Perry, The Coherence of the Doctrine of Legitimate Expectations, in Cambridge Law Journal, 61, 2014, 73. (3) Come si vedrà meglio in seguito, fino ad un recente passato, sia la giurisprudenza civile sia quella amministrativa escludevano la configurabilità di una responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione nella fase antecedente l’aggiudicazione. Si riteneva che a quello stadio del procedimento i concorrenti vantassero solo una posizione di interesse legittimo al corretto svolgimento dell’attività della p.a. e non anche la qualità di futuri contraenti, che consentirebbe il risarcimento ex art. 1337 c.c. (ex multis Cass. civ., Sez. Un., 26 maggio 1997, n. 4673; Cons. Stato, sez. V, 8 settembre 2010, n. 6489). 1183 Giurisprudenza AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Civile l’aggiudicazione della gara, ritengono definitivamente superabile il suddetto orientamento e ammettono la responsabilità ex art. 1337 c.c. anche prima dell’aggiudicazione della gara. I termini della questione Il tema della responsabilità della pubblica amministrazione impone, da sempre, la necessità di mediazione tra due opposti interessi, entrambi meritevoli di protezione. Da un lato si deve garantire ai cittadini una tutela nei confronti dei pubblici poteri, dall’altro lato bisogna riconoscere alle pubbliche amministrazioni un sufficiente spazio d’azione che consenta loro di perseguire il pubblico interesse in maniera efficiente. L’esito del bilanciamento di questi opposti interessi dipende dalla preminenza che l’ordinamento riconosce all’uno o all’altro interesse e, storicamente, tale preminenza è stata riconosciuta alla tutela dell’interesse della p.a. (4). Il favor riconosciuto al soggetto pubblico ha determinato così perplessità e incertezze in ordine alla possibilità di riconoscere, anche per i pubblici poteri, una responsabilità precontrattuale, propriamente intesa (5). La precisazione è necessaria perché come chiarisce autorevole dottrina (6) esistono due tipi di responsabilità precontrattuale della p.a. Il primo tipo è costituito dalla responsabilità precontrattuale cd. spuria, con la quale si designa l’obbligazione risarcitoria avente ad oggetto i danni cagionati dall’adozione di provvedimenti illegittimi nel corso della serie procedimentale di evidenza pubblica. Il secondo tipo è rappresentato dalla responsabilità precontrattuale (4) In questo frangente per “interesse della pubblica amministrazione” deve intendersi esclusivamente l’interesse allo svolgimento dell’attività amministrativa in modo efficiente ed efficace, quasi come se il soggetto pubblico fosse portatore di istanze necessariamente confliggenti con quelle dei privati. L’interesse pubblico, nell’accezione più classica, ricomprende, invece, anche l’interesse alla correttezza e al buon andamento delle attività dei soggetti pubblici, nonché al rispetto del canone di imparzialità per scongiurare comportamenti sleali delle amministrazioni. Si veda A. Travi, Nuovi fermenti del diritto amministrativo verso la fine degli anni ’90, in Foro It., 1997, 6, 186 ss., che sottolinea come l’evoluzione del diritto amministrativo e, segnatamente, dei rapporti tra amministrazioni e cittadini, passi anche dal significato che si è dato al concetto di pubblico interesse. L’autore osserva come, nel corso del tempo, si sia passati dal considerare l’interesse pubblico come un “interesse esistente in natura, superiore o contrapposto all’interesse privato” a ritenerlo “il risultato di una valutazione o di un apprezzamento specifici dell’amministrazione, aventi per oggetto interessi privati o comunque omogenei tra loro”. (5) Le perplessità derivavano per lo più dalla modalità di azione della pubblica amministrazione. Essa, nel determinarsi a contrarre con il privato, esercita un libero potere discreziona- 1184 cd. pura, che discende dalla trasgressione dei canoni comportamentali privatistici posti dagli artt. 1337 e 1338 c.c. Nel primo caso la responsabilità è definita precontrattuale ma in realtà lo è solo sul piano cronologico. La sua natura è quella di una normale responsabilità da lesione di interessi legittimi “solo ambientalmente connessa alle trattative precontrattuali” (7). La p.a. in questo caso non è un cattivo contraente ma solo un cattivo amministratore. Nel secondo caso, invece, il soggetto pubblico non adotta provvedimenti illegittimi ma tiene comportamenti illeciti. Gli atti emessi dall’amministrazione sono formalmente legittimi ma l’attività della p.a. che li ha originati non è stata rispettosa dei canoni di correttezza e buona fede imposti dalla legge. È questa la responsabilità precontrattuale propriamente intesa ed è in questa accezione che qui interessa. L’evoluzione giurisprudenziale Chiariti i termini della questione, l’attenzione può essere ora rivolta all’evoluzione che la responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione ha avuto nel corso degli anni. Come si è detto il favor tradizionalmente riconosciuto alla p.a. faceva da freno al riconoscimento della responsabilità ex art. 1337 c.c. Solo in seguito alla valorizzazione, da parte di dottrina e giurisprudenza, dei principi di parità contrattuale e di solidarietà sociale, a partire dagli anni ’60 (8), si è incominciato a mettere in discussione il dogma della non assoggettabilità della pubblica amministrazione alla normativa di correttezza di cui all’art. 1337 le e fino all’approvazione del contratto (da parte degli organi ogni volta competenti) essa può sempre annullare ogni trattativa. Attribuire una responsabilità ex art. 1337 c.c. alla p.a. sembrava, pertanto, un inammissibile snaturamento, perché voleva dire vincolarla in una sfera di attività in cui essa ha piena libertà di determinarsi. Così Cass. civ., Sez. Un., 12 luglio 1951, con nota di D. Palmieri, La responsabilità precontrattuale nella giurisprudenza, Milano, 1999. (6) F. Caringella, La responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione: un istituto dal sesso incerto, Relazione tenuta a Roma al convegno del 29 ottobre 2007 su “Attività contrattuale e responsabilità della pubblica amministrazione”, pubblicata su www.giustizia-amministrativa.it. (7) F. Caringella, op. cit. (8) L’atteggiamento prudente della giurisprudenza verso il riconoscimento di una responsabilità a carico della pubblica amministrazione per il comportamento tenuto nella fase delle trattative si rispecchia anche nelle prime pronunce in materia (Cass., 12 luglio 1961, n. 1675) che non si fondano ancora sull’art. 1337 c.c., bensì sull’art. 1338 c.c. (conoscenza di cause di invalidità). Secondo autorevole dottrina, infatti, quest’ultima norma rappresenta una specificazione della clausola generale di buona fede di cui all’art. 1337 c.c. Urbanistica e appalti 11/2014 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Civile c.c. (9). Negare l’applicazione dei canoni di buona fede e correttezza ai contratti conclusi con i soggetti pubblici avrebbe significato, infatti, legittimare i comportamenti non virtuosi della p.a., concedendo a quest’ultima un privilegio ingiustificato (10). Il recepimento di queste tesi (11) da parte della giurisprudenza è avvenuto in maniera graduale e in un arco di tempo piuttosto ampio, seguendo un percorso affatto lineare, nel quale si sono alternate pronunce innovative e brusche retromarce (12). Dapprima si è abbandonata la tesi della irresponsabilità della p.a. e si è ammessa l’applicazione dell’art. 1337 c.c. ai contratti della p.a., limitatamente però ai comportamenti tenuti durante la fase terminale delle trattative e nei soli casi di trattativa privata con un unico soggetto (13). L’accoglimento di una nozione restrittiva di “parti”, che considerava tali solo i soggetti identificati come possibili futuri contraenti, portava ad escludere la responsabilità precontrattuale nelle fasi precedenti, quando i concorrenti erano ancora una pluralità (14). Solo più tardi la giurisprudenza ha riconosciuto tale forma di responsabilità anche nel procedimento ad evidenza pubblica, ma solo nel caso di condotta illecita posta in essere successivamente all’aggiudicazione e nella fase precedente la stipula del contratto (15). È stata così riconosciuta la responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione nel caso di mancata stipulazione del contratto con l’impresa aggiudicataria senza plausibili motivi di pubblico interesse, ovvero nel caso di mancato dovuto controllo del contratto o nel caso di omissione, colposa o dolosa della redazione formale dello stesso (16). La violazione delle regole di correttezza che presiedono alla formazione del contratto poteva però assumere rilevanza solo dopo che la fase pubblicistica avesse attribuito al ricorrente effetti concretamente vantaggiosi, come quello dell’aggiudicazione, e solo dopo che tali effetti fossero venuti meno, nonostante l’affidamento ormai conseguito dalla parte interessata (17). Nel percorso per il riconoscimento della responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione una delle tappe fondamentali viene individuata nella sentenza della Corte di Cassazione, Sezioni Unite, n. 500, del 22 luglio 1999. Tale pronuncia, come è noto, ha rappresentato una svolta epocale in tema di responsabilità della p.a., che ha stravolto il modo di agire del soggetto pubblico, obbligandolo al rispetto del principio di neminem laedere, pena il risarcimento del danno causato al privato. È evidente, allora che le ipotesi di questo tipo siano da ricondursi alla responsabilità di cui all’art. 2043 c.c. e non a quella, propriamente precontrattuale, degli artt. 1337 c.c. e 1338 c.c. (9) Come osserva E. Liuzzo, La responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione, Milano, 1995, “i criteri dell’uguaglianza, della pari dignità sociale e della solidarietà umana hanno infatti avuto un ruolo decisivo nell’allargare le ipotesi di responsabilità civile, l’area di risarcibilità del danno e la nozione stessa di danno ingiusto. Ancor più tali criteri rilevano in ordine alla responsabilità precontrattuale nell’ambito della quale i doveri di diligenza, di avviso e in generale di correttezza trovano un sicuro riscontro nel dettato costituzionale: in forza di esso si impone che, nell’autoregolamento privato degli interessi, entri in gioco il superiore interesse della collettività”. (10) Le argomentazioni che verranno (gradualmente) recepite dalla giurisprudenza civile e amministrative sono così efficacemente sintetizzate da M. Nigro, L’amministrazione fra diritto pubblico e privato: a proposito di condizioni legali, Roma, 1961: “È la stessa Amministrazione che scegliendo il mezzo privatistico si è assoggettata alla disciplina privatistica. La scelta del mezzo privatistico non fa venire meno la particolare qualità di essa Amministrazione, ma restringe il vigore della disciplina pubblicistica a quei profili che con tale qualità sono strettamente e necessariamente connessi. Al di fuori di questi, il contraente privato ha ragione di attendersi che l’Amministrazione si comporti come il diritto dei privati, che essa ha scelto, esige”. (11) Tra i primi ad occuparsi dell’argomento A. Vela, Riflessi giurisprudenziali in tema di responsabilità precontrattuale della Pubblica Amministrazione, in Riv. Gen. Edil., fasc. 1, 855 ss. e M. Nigro, L’amministrazione fra diritto pubblico e diritto privato: a proposito di condizioni legali, nota a Cass., Sez. Un., 15 novembre 1960, n. 3042, in Foro It., 1961, 1, 457 ss. (12) E. Liuzzo, La responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione, cit., riassume le tappe principali del percorso evolutivo di dottrina e giurisprudenza dagli anni ’50 fino alla metà degli anni ‘90. Si veda anche R. Giovagnoli, La responsabilità extra e pre contrattuale della P.A., Milano, 2009, 532 ss. per l’evoluzione sino ai giorni nostri. (13) Cass., Sez. Un., 12 luglio 1961, n. 1674, in Foro It., 1962, I, 98. Viene attribuito al giudice del merito il compito di valutare se il soggetto pubblico sia stato non già un corretto amministratore, bensì se sia stato un corretto contraente. (14) G. M. Racca, Giurisdizione esclusiva e affermazione della responsabilità precontrattuale della p.a., in questa Rivista, 2002, 2, 199 ss. (15) M. S. Forte, Quale la responsabilità della P.A. che ricerca il contraente nella fase precedente la stipula del contratto?, in Corr. Giur., 2014, 5, 656 ss. (16) A. Passarella, Responsabilità precontrattuale della P.A. anche prima dell’aggiudicazione: un passo avanti o una vittoria di Pirro?, nota a Cons. Stato, sez. V, 3831/2013, in Contratti, 2014, 2, 146 ss. (17) Cons. Stato, sez. V, 11 novembre 2008, n. 5633, in Danno e Resp., 2009, 8, 819 ss. Urbanistica e appalti 11/2014 Il nuovo orientamento giurisprudenziale Il percorso evolutivo in materia non poteva però ritenersi concluso. Le ragioni che avevano portato la giurisprudenza a riconoscere la responsabilità ex art. 1337 c.c. della pubblica amministrazione meri- 1185 Giurisprudenza AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Civile tavano di essere ulteriormente sviluppate ed infatti in tempi molto recenti la giurisprudenza amministrativa ha esteso la responsabilità precontrattuale all’intera fase dell’evidenza pubblica, a prescindere dall’avvenuta aggiudicazione (18). A tale risultato ha sicuramente contribuito la nota pronuncia dell’Adunanza Plenaria del 2005 (19). Nella sentenza citata si afferma che “l’impresa può confidare, durante il procedimento di evidenza pubblica, prima sulla possibilità di diventare affidataria del contratto e più tardi – ad aggiudicazione intervenuta – sulla disponibilità di un titolo che l’abilita ad accedere alla stipula del contratto stesso”. Sebbene la pronuncia sia relativa ad un’ipotesi in cui l’aggiudicazione era avvenuta, le motivazioni che la Plenaria ha addotto a sostegno di tale tesi hanno consentito, in tempi più recenti, di riconoscere anche altre forme di affidamento, in momenti antecedenti l’aggiudicazione, rilevanti ai fini della configurazione di una responsabilità precontrattuale della p.a. (20). Il giudice civile, invece, aveva sempre escluso la configurabilità di una responsabilità precontrattuale della p.a. nella fase del procedimento che precede l’aggiudicazione della gara. Con la pronuncia che si commenta la Cassazione apre al nuovo orientamento e si allinea alla giurisprudenza del giudice amministrativo: la disciplina della culpa in contrahendo non necessita – secondo la Corte – di un rapporto personalizzato fra p.a. e privato, ma è posta a tutela del legittimo affidamento alla correttezza della controparte, che sorge sin dall’inizio del procedimento. Sebbene la giurisdizione in materia sia al momento esclusiva del giudice amministrativo (21), l’importanza della pronuncia è notevole, non solo perché rende omogenea la giurisprudenza civile e amministrativa su una questione di indubbio rilievo ma perché rappresenta il recepimento, sul piano L’espresso richiamo all’ordinamento europeo rappresenta un’occasione per rimettere in discussione alcune questioni, in tema di responsabilità precontrattuale, sulle quali la giurisprudenza sembrava aver messo un punto. È noto che l’annoso dibattito (in realtà mai del tutto sopito) relativo alla natura della responsabilità precontrattuale vede ora prevalere nettamente quell’orientamento che ravvisa nell’art. 1337 c.c. un’ipotesi di responsabilità aquiliana (22). Secondo questa dottrina, maggioritaria e consolidata, la violazione del precetto posto dall'art. 1337 c.c. costituisce una forma di responsabilità extracontrattuale che si riconnette alla violazione della regola di condotta stabilita erga omnes e contenuta nell'art. 2043 c.c. (23). Se un contratto non è ancora stato concluso non vi può essere responsabilità contrattuale. Dalla tesi della natura aquiliana discendono conseguenze sul piano della disciplina applicabile alla responsabilità prevista dall'art. 1337 c.c., in particolare in materia di prescrizione, di onere della prova, di regime della mora nonché dell'elemento psicologico del contraente che pone in essere il comportamento scorretto. Tra le conseguenze derivanti dalla natura aquiliana dell'art. 1337 c.c. il profilo che interessa in questa sede è quello della necessaria prova del dolo o della colpa dell'amministrazione. La prova dell'elemento psicologico del soggetto pubblico rappresenta senza dubbio l'ostacolo maggiore per il privato che voglia far valere il proprio diritto al risarcimento ex art. 1337 c.c. nei confronti della p.a. (24). (18) Per i riferimenti giurisprudenziali si veda la nota 1. (19) Con. Stato, Ad. Plen., 5 settembre 2005, n. 6, in questa Rivista, 2006, 1, 69 ss. (20) T.A.R. Lazio, sez. III, 22 giugno 2009, n. 5986, in Giur. Merito, 2010, 4, 1133 ss. Si noti, peraltro, che la stessa sentenza dell’Adunanza Plenaria è stata richiamata a sostegno della tesi (opposta) della non configurabilità della responsabilità precontrattuale della p.a. anteriormente alla scelta del contraente da Cons. Stato, sez. IV, 11 novembre 2008, n. 5633, in Foro Amm. CdS, 2008, 11, 2990. Il Consiglio di Stato nella pronuncia Cons. Stato, sez. V, n. 3831/2013 evidenzia questa incongruenza, escludendo che l’Adunanza Plenaria abbia inteso esonerare l’amministrazione dal rispetto del canone di correttezza e diligenza per tutto l’arco di svolgimento dei procedimenti ad evidenza pubblica. (21) In seguito all’entrata in vigore della L. 21 luglio 2000, n. 205 di riforma del processo amministrativo. (22) Cfr. Cass. civ., sez. I, 11 giugno 2010, n. 14056 in Resp. Civ., 2011, 11, 801 ss.; Cass. civ., sez. I, 17 febbraio 2009, n. 3773, in Danno e Resp., 2009, 503 ss.; Cass. civ., Sez. Un., 19 dicembre 2007, n. 26724 in Obblig. e Contr., 2008, 2, 99 ss.; Cass. civ., sez. I, 29 settembre 2005, n. 19024, in Nuova Giur. Civ. (23) Cass. civ., sez. I, 10 gennaio 2013, n. 477, in Contratti, 2013, 5, 441 ss. con nota di A. Passarella. (24) Accade talvolta che, sebbene le enunciazioni di principio della giurisprudenza siano del tutto condivisibili, le loro applicazioni pratiche non lo siano altrettanto. Evidenzia queste perplessità A. Passarella, Responsabilità precontrattuale della P.A. anche prima dell’aggiudicazione: un passo avanti o una vit- 1186 dei principi, di quanto disposto dalla disciplina europea. La responsabilità della p.a. nell'ordinamento europeo Urbanistica e appalti 11/2014 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Civile È proprio sotto questo profilo che il recepimento dei principi di matrice europea sembra contrastare con l’attuale disciplina della colpa nella responsabilità precontrattuale. Secondo le direttive europee, (25) infatti, la risarcibilità dei danni che conseguono alla violazione di norme in materia di scelta del contraente, da un lato, è ammessa indipendentemente dalla prova di un diritto all'aggiudicazione (26), dall'altro lato, è accordata a prescindere dall'accertamento dell'elemento della colpa in capo alla p.a. (27). Sembra, allora, che l'ordinamento europeo configuri la responsabilità del soggetto pubblico in senso oggettivo (28). Nel settore specifico degli appalti pubblici, segnatamente, l'Unione Europea impone agli Stati la previsione di procedure di ricorso contro le decisioni delle amministrazioni pubbliche con determinate caratteristiche, ma nulla dice in ordine all'elemento soggettivo della responsabilità. La Corte di Giustizia dell'Unione Europea, infatti, in tutte le occasioni (29) in cui è stata chiamata a verificare la conformità degli ordinamenti nazionali al diritto dell'Unione Europea ne ha statuito l'incompatibilità quando risultava che il risarcimento del danno era subordinato alla prova del comportamento colposo assunto dalla p.a. La stessa Corte ha anche affermato che i rimedi risarcitori sono idonei a ristorare il privato “soltanto a condizione che la possibilità di riconoscere un risarcimento in caso di violazione delle norme sugli appalti pubblici non sia subordinata alla constatazione dell'esistenza di un comportamento colpevole tenuto dall'amministrazione aggiudicatrice”. Ciò perché la normativa in materia “non indica in alcun modo che la violazione delle norme sugli appalti pubblici, atta a far sorgere un diritto al risarcimento a favore del soggetto leso, debba presentare caratteristiche particolari, quale quella di essere connessa ad una colpa, comprovata o presunta, dell'amministrazione aggiudicatrice” (30). È evidente che molto deve ancora essere fatto per rendere la disciplina italiana conforme a quella europea. La necessità di provare la colpa della p.a., che discende dalla natura aquiliana della responsabilità ex art. 1337 c.c., non sembra, infatti, compatibile con i principi enunciati in sede comunitaria. Le soluzioni che la giurisprudenza potrebbe percorrere per rendere l'ordinamento italiano compatibile con quello dell'Unione Europea sono molteplici. Il problema sarebbe risolto alla radice se si aderisse a quell’orientamento che sostiene la natura contrattuale della responsabilità ex art. 1337 c.c. (31). Ove non si voglia rimettere in discussione la natura della responsabilità ex art. 1337 c.c., l’alternativa potrebbe essere offerta da quella dottrina che in termini più generali conforma la responsabilità della pubblica amministrazione non sul parametro della colpa ma su altri criteri di tipo oggettivo. Osservano i sostenitori di tale tesi che ogni qualvolta la pubblica amministrazione viola le norme dettate per il corretto esercizio del suo potere autoritativo si verifica una oggettiva disfunzione, come toria di Pirro?, cit.; l'autrice critica la pronuncia del Supremo Consesso che, sebbene abbia aperto al riconoscimento della responsabilità ex art. 1337 c.c., anche prima dell'aggiudicazione della gara, non ha poi riconosciuto la responsabilità precontrattuale dell'ente pubblico ritenendo il suo comportamento scevro dell'elemento della colpa. (25) Si vedano le cd. Direttive Ricorsi (direttiva 2007/66/CE, che modifica le direttive 89/665/CEE e 92/13/CEE) oltre che la recentissima direttiva 2014/24/UE sugli appalti pubblici che abroga la direttiva 2004/18/CE, sulla quale v. R. Caranta, D.C. Dragos, La mini-rivoluzione del diritto europeo dei contratti pubblici, in questa Rivista, 2014, 5, 493ss. (26) S. Ponzio, Il comportamento contraddittorio nella revoca dell'aggiudicazione di un appalto pubblico: la responsabilità precontrattuale e il danno risarcibile, in questa Rivista, 2013, 10, 1085 ss. (27) A. Feliziani, Responsabilità della pubblica amministrazione senza colpa? Riflessioni a margine di una sentenza della Corte di Giustizia, in Foro Amm. CdS, 2011, 3015 ss., mette a confronto la disciplina della responsabilità della pubblica Amministrazione nell'ordinamento italiano e in quello europeo. (28) Corte giust. UE, 30 settembre 2010, causa C-314/09, Graz Stadt, in Foro Amm. CdS, 2011, 3015 ss. (29) Corte giust. UE, 14 ottobre 2004, causa C-275/03, Commissione c. Repubblica Portoghese, in questa Rivista, 2005, 36 ss. con commento di M. Protto, Per il diritto europeo la responsabilità della p.a. non richiede la prova dell''elemento soggettivo. (30) Corte giust. UE, 30 settembre 2010, causa C-314/09, Graz Stadt, in Giur. It., 2011, 3, 664 con nota di S. Cimini, La colpa è ancora un elemento essenziale della responsabilità da attività provvedimentale della P.A.? I principi cardine dell'ordinamento comunitario in materia di responsabilità della p.a. sono stati posti dalla Corte di giustizia con alcune importanti pronunce, Corte giust. CE, 5 febbraio 1963, Van Gend & Loos; Corte giust. CE, 19 novembre 1991, C-6/90, Francovich; Corte giust. CE, 5 marzo 1996, causa C-46/93, Brasserie du pécheur - Factorame. In quest'ultima pronuncia, in particolare, la Corte statuisce che il giudice nazionale non può subordinare il risarcimento del danno all'esistenza di una condotta dolosa o colposa dell'organo statale al quale è imputabile l'inadempimento. (31) A sostegno della tesi della natura contrattuale della responsabilità ex art. 1337 c.c. si veda F. Mengoni, Sulla natura della responsabilità precontrattuale, in Riv. Dir. Comm., 1956, 2, 360 ss. e Responsabilità precontrattuale, in Enc. Giur., vol. XXXIV, Milano, 1988, 1072 ss.; M. Renna, Sulla natura della responsabilità della P.A. per la violazione degli obblighi procedimentali e di correttezza, in Giur. It., 2012, 12, 386 ss. Urbanistica e appalti 11/2014 1187 Giurisprudenza AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Civile tale valutata negativamente dall'ordinamento. Il ristoro del soggetto danneggiato da tale disfunzione non può e non deve essere subordinato alla verifica di altri presupposti. La prospettiva dalla quale dovrebbe essere valutato l'agire amministrativo è, dunque, esclusivamente oggettiva e la colpa dovrebbe essere identificata nella semplice violazione delle regole che governano l'agire della p.a. (32). In particolare, si è affermato che ogniqualvolta vi sia un danno obiettivamente determinato dalla violazione delle procedure comunitarie non vi sarebbe alcuna necessità di legittimare il risarcimento sulla base della disciplina normativa interna della responsabilità civile (33). In tal modo anche la responsabilità precontrattuale verrebbe ad essere ricondotta ad una specifica figura di “responsabilità civile di diritto pubblico”, che tenga conto delle peculiarità derivanti dalla natura pubblica del soggetto coinvolto e del ruolo istituzionale che esso ricopre. (32) E. Scotti, Appunti per una responsabilità dell'amministrazione tra realtà ed uguaglianza, in Dir. Amm., fasc. 3, 2009. (33) F. Merusi, La natura delle cose come criterio di armoniz- zazione comunitaria nella disciplina sugli appalti, in Riv. It. Dir. Pubbl. Comm., 1997, 1, 389. 1188 Urbanistica e appalti 11/2014 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Osservatorio in sintesi Giurisprudenza Osservatorio civile a cura di IGNAZIO PAGANI APPALTI E LAVORI PUBBLICI AMBITO SOGGETTIVO DI APPLICABILITÀ DEL FERMO AMMINISTRATIVO Cassazione civile, sez. I, 8 settembre 2014, n. 18880 Pres. Forte - Rel. Benini L’istituto del fermo amministrativo (art. 69, comma 6, R.D. n. 2440/1923) è riferito esclusivamente alle Amministrazioni statali e non può essere utilizzato da altri enti, sicché anche un provvedimento pur deliberato dall'Amministrazione statale ma a favore della gestione contabile di altro ente (quale un Comune) e da questi utilizzato per la sospensione del pagamento di propri debiti, deve ritenersi emesso in totale carenza di potere ed è assolutamente inidoneo a cagionare effetti d’affievolimento delle posizioni di diritto soggettivo vantate dal titolare del credito fermato. Un Comune oppose un decreto ingiuntivo ottenuto da un appaltatore, recante condanna al pagamento di un’ingente somma a titolo di revisione prezzi in un contratto di appalto, oltre interessi e spese. L'opponente deduceva la sussistenza di uno specifico impedimento alla corresponsione della somma, in ragione di un fermo amministrativo disposto dal Commissario straordinario di Governo ai sensi della L. n. 219/1981, poiché la società creditrice in sede monitoria era tenuta a restituire quanto ad altro titolo riscosso da altra Amministrazione statale. Il Comune peraltro provò di avere accantonato le somme dovute, le quali furono corrisposte in corso di giudizio di primo grado, non appena il fermo cessò i propri effetti. Il Tribunale, dato atto del pagamento del capitale in corso di causa, dichiarava cessata la materia del contendere e revocava il decreto opposto, assumendo che i provvedimenti di fermo integrassero il paradigma dell'art. 1256, comma 2, c.c. per il quale se l’impossibilità all’adempimento è solo temporanea, il debitore, finché essa perdura, non è responsabile del ritardo: per l’effetto, nulla riconosceva per interessi maturati in pendenza di giudizio. Adita dall’impresa, la Corte d’appello riformò la sentenza condannando il Comune al pagamento degli interessi, deducendo che i provvedimenti di fermo amministrativo non potevano vincolare il Comune che, non facendo parte dell'Amministrazione statale, non poteva ritenersi esonerato dal pagamento. Il Comune ricorre per la cassazione di tale sentenza, ma il ricorso è respinto. Tra gli altri motivi di ricorso, il Comune denuncia violazione e falsa applicazione di norme di diritto con riferimento agli artt. 1218 e 1256 c.c.; censura la sentenza impugnata per aver configurato l'obbligo di pagamento del Comune (che, anzi, avrebbe esposto l'Ente a responsabilità erariale, dipendente da una condotta in contrasto con il fermo disposto dal Commissario di Governo). Osserva la Suprema Corte che i provvedimenti di fermo amministrativo non possono costituire ostacolo all'adempi- Urbanistica e appalti 11/2014 mento del debito di un Comune verso il proprio creditore. Infatti, l’istituto del fermo amministrativo (art. 69 R.D. n. 2440/1923) - che consente a un’Amministrazione statale che abbia, a qualsiasi titolo, ragioni di credito verso creditori di essa (o di altre Amministrazioni) di richiedere e ottenere la sospensione cautelare e provvisoria del pagamento, è riferito esclusivamente ad Amministrazioni statali e non può essere utilizzato da altri enti, in quanto la traslazione di tale strumento, suscettibile di importare un eccezionale affievolimento dei diritti di credito dei privati ad opera della stessa p.a. che è parte del rapporto, al di fuori dell'alveo legislativamente assegnatogli, può ammettersi solo in presenza d’una espressa e inequivoca disposizione normativa, non già in via di interpretazione estensiva od analogica (Cass. 4 novembre 2002, n. 15382). Sicché ogni provvedimento deliberato dall'Amministrazione statale a favore della gestione contabile di altro ente (quale un Comune) e da questo utilizzato per la sospensione del pagamento di propri debiti, deve ritenersi emesso in totale carenza di potere ed è quindi assolutamente inidoneo a cagionare effetti d’affievolimento delle posizioni di diritto soggettivo vantate dal titolare del credito fermato (cfr. Cass. 29 luglio 1998, n. 7414). In ragione di ciò, la sentenza supera il vaglio del Giudice di legittimità che riconosce il diritto alla corresponsione degli interessi sul debito capitale (pagato in corso di primo grado). Infatti, in ragione dell'inefficacia del fermo amministrativo, gli effetti dello stesso devono ritenersi definitivamente elisi sin dall'origine e il credito, per l’inefficacia del provvedimento cautelare, è produttivo di interessi anche nel periodo di vigenza del fermo stesso, con decorrenza dal momento della costituzione in mora dell'Amministrazione (Cass. 23 luglio 2004, n. 13808). La Corte chiosa ribadendo un importante aspetto, peraltro non inedito: in tema di appalti pubblici, in relazione all'atto dell'autorità che costituisca impedimento alla prestazione contrattuale, incidendo su di un momento strumentale o finale dell'esecuzione, deve escludersi che l'atto amministrativo, pur illegittimo, determini l'esonero da responsabilità del debitore che vi abbia dato causa colposamente e, segnatamente, non si sia diligentemente attivato in modo adeguato per ottenerne la revoca o l'annullamento (Cass. 19 ottobre 2007, n. 21973; 16 ottobre 2012, n. 17771). EFFICACIA PROBATORIA DEGLI ATTI DI CONTABILITÀ REDATTI IN CORSO D’APPALTO Cassazione civile, sez. III, 27 agosto 2014, n. 18316 Pres. Berruti - Rel. D’Amico Gli stati di avanzamento, i libretti delle misurazioni e quelli di contabilità, relativi agli appalti della p.a. sono atti pubblici e non mere certificazioni amministrative, in quanto formati da un pubblico ufficiale nell'esercizio delle proprie funzioni, sicché essi fanno prova dei fatti giuridicamente rilevanti ivi contenuti e descritti, dai quali derivano obblighi a carico della p.a. e hanno efficacia probatoria ai sensi dell’art. 2700 c.c. 1189 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Osservatorio in sintesi Giurisprudenza La controversia origina da un’opposizione a decreto ingiuntivo proposta da un Comune contro una società bancaria di factoring, cessionaria d’un credito derivante da concessione di lavori pubblici. La creditrice opposta, costituendosi, domandò anche il maggior danno per la svalutazione monetaria maturata in corso di causa. Con separata azione ordinaria - in ragione del difetto del requisito di liquidità del credito (per mancata approvazione della stazione appaltante dei relativi prezzi) - la cessionaria del credito domandò anche importi revisionali maturati. I due giudizi furono riuniti per connessione e - all’esito di CTU contabile, dopo l’intervento volontario del Fallimento della società cedente, foriero di domanda risolutiva del contratto di factoring e di pagamento delle somme ancor spettanti alla fallita (in pretesa applicazione analogica dell’art. 78 L.F.) - decisi con sentenza d’accoglimento dell’opposizione e revoca del decreto. Circa le domande accessorie spiegate dal factor il Tribunale rigettò la riconvenzionale e declinò la propria giurisdizione, in favore di quella del g.a., sulla domanda di revisione prezzi. Per quanto qui interessi, il Tribunale sul gravame monitorio osservò che le fatture azionate non documentassero il credito, benché riconducibili a S.A.L. predisposti dalla D.L., vistati dal responsabile dell’Amministrazione appaltante e che, comunque, non fossero esigibili perché relative a opere contabilizzate ma non eseguite o realizzate in eccesso (perché mai autorizzate, o non rientranti nella previsione di spesa e negli obblighi contrattuali assunti dall’Ente pubblico). Per l’effetto, rilevò la nullità, per contrasto con norme imperative ex art. 1418 c.c., dei S.A.L. contabilizzanti opere eseguite senza autorizzazione del committente, ordinando la trasmissione della sentenza alla Procura della Repubblica ravvisando nell’accaduto circostanze di rilevanza penale. Dall’insussistenza della pretesa creditoria del factor, il Tribunale fece discendere l'infondatezza della pretesa della Curatela, rigettando la relativa domanda. Il factor gravò la sentenza sotto ogni profilo chiedendo altresì - in preliminare di rito - accertarsi la sussistenza della giurisdizione ordinaria sulla domanda revisionale. Di contro, la Curatela spiegò appello incidentale per ottenere la risoluzione del contratto di factoring e il pagamento delle somme ancor dovute dall’Ente pubblico in base al contratto. La Corte territoriale, a definizione dell’appello, dichiarò la giurisdizione ordinaria sulla domanda revisionale rimandando, in punto, le parti al giudice di primo grado. Nel merito, rigettò il gravame quanto alla domanda di rivalutazione monetaria, accogliendolo per i restanti motivi: al definitivo, in riforma dell'impugnata sentenza, rigettò l'originaria opposizione a decreto ingiuntivo, dichiarando assorbito (e in ogni caso rigettato) l’appello incidentale. La questione approda in Cassazione, con ricorso del Comune al quale resistono le altre parti con controricorso e ricorso incidentale. La Suprema Corte rigetta i ricorsi - principale e i due incidentali - con varie argomentazioni, alcune delle quali sono d’interesse per la materia di questa Rivista Nel confutare specifica eccezione in punto, la Corte ricorda che gli stati di avanzamento, i libretti delle misure e di contabilità, relativi a lavori dati in appalto dalla p.a., sono atti pubblici e non certificazioni amministrative, perché formati da un pubblico ufficiale nell'esercizio delle proprie funzioni, sicché essi fanno prova dei fatti giuridicamente rilevanti ivi 1190 contenuti e descritti, dai quali derivano obblighi a carico della p.a. (Cass. pen., 13 febbraio 1986, n. 5562) ed efficacia probatoria ai sensi dell’art. 2700 c.c. Nella fattispecie, osserva la Suprema Corte, emerge dagli atti che alle fatture corrispondono S.A.L. vistati dal D.L. e controfirmati R.U.P., il che basta a far ritenere eseguiti i lavori stessi sino prova contraria, da ottenersi mediante proposizione di querela di falso, nello specifico non proposta. LIMITI AL SINDACATO DELLA CASSAZIONE CIRCA LA DIFFERENZA FRA FIDEIUSSIONE E CONTRATTO AUTONOMO DI GARANZIA E SUGLI EFFETTI DEL TERMINE PER L’APPROVAZIONE DEL COLLAUDO, IN ORDINE AL PERMANERE DELLA GARANZIA Cassazione civile, sez. I, 7 agosto 2014, n. 17783 - Pres. Salvago - Rel. Campanile L'accertamento su natura e contenuto del contratto, in tema di distinzione tra fideiussione e contratto autonomo di garanzia, è questione riservata al giudice del merito ed è censurabile in sede di legittimità esclusivamente per violazione dei canoni legali di ermeneutica o per vizi della motivazione Il termine temporale di sei mesi dalla fine dei lavori, fissato dall’art. 5 della L. n. 741/1981 per la definizione del collaudo di opere pubbliche, ha natura perentoria sicché - qualora il certificato di collaudo non sia approvato nei successivi due mesi dalla scadenza dei sei utili - la fideiussione si estingue di diritto, salvo che l'ente garantito non comunichi al garante, prima della scadenza stessa, che la mancata approvazione dipenda da fatto imputabile alla ditta obbligata. Un’Amministrazione pubblica risolse per inadempimento dell’appaltatore, ai sensi dell’allora vigente art. 340 L. n. 2248/ all. E/1865 (oggi art. 136 D.Lgs. n. 163/2006), un contratto per la costruzione di un’opera pubblica, a garanzia del quale erano rilasciate due polizze fideiussorie per lo svincolo delle ritenute in garanzia sugli stati di avanzamento dei lavori. Per l’ottenimento di quanto di spettanza, non avendo recuperato dall'appaltatore il dovuto, la committente aveva convenuto al Tribunale civile la garante compagnia assicuratrice chiedendone la condanna al pagamento della somma dovuta in dipendenza delle rilasciate polizze. La convenuta eccepiva l'estinzione dei rapporti di garanzia, con tesi condivisa dal Tribunale. La Corte d’appello, adita dalla p.a., osservava che la durata della garanzia - giusta pattuizione contrattuale - era limitata all'approvazione del certificato di collaudo o di regolare esecuzione e, comunque, non si sarebbe potuta estendere oltre il termine di due mesi (previsto dall’art. 5 L. n. 741/1981 per l’approvazione di tali atti, salvo che l'ente garantito non avesse comunicato, prima della scadenza stessa, che la mancata approvazione dipendeva da fatto imputabile alla ditta obbligata). Circostanze, queste, non verificatesi, perché il pagamento delle garanzie era stato richiesto dopo ben quattro anni dalla rescissione del contratto. La controversia è portata dall’Amministrazione committente all’esame della Suprema Corte che - a conferma della doppia conforme - rigetta il ricorso. Fra i punti d’interesse della pronuncia, vanno segnalati i seguenti. Urbanistica e appalti 11/2014 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Osservatorio in sintesi Giurisprudenza Il ricorrente si duole che la sentenza impugnata qualifichi il rapporto dedotto in giudizio come fideiussione anziché quale contratto autonomo di garanzia. A dir del medesimo, ai fini della configurabilità del contratto autonomo di garanzia, non sarebbe decisivo l'impiego di espressioni quali "a semplice richiesta" ovvero "a prima richiesta", dovendosi piuttosto valutare la relazione in cui le parti hanno inteso porre l'obbligazione principale e l'obbligazione di garanzia, per dedurne la sussistenza o meno dell'elemento dell'accessorietà della garanzia medesima. Nello specifico, si deduce che la Corte di merito non avrebbe considerato il valore precettivo delle condizioni generali del contratto, secondo cui la garante godeva del beneficio della preventiva escussione dell'appaltatore ma doveva effettuare il pagamento a seguito di mero avviso alla ditta obbligata e senza la necessità del preventivo consenso della stessa. La Corte di Cassazione disattende l’assunto, affermando che l'accertamento su natura e contenuto del contratto, in tema di distinzione tra fideiussione e contratto autonomo di garanzia, è questione riservata al giudice del merito ed è censurabile in sede di legittimità esclusivamente per violazione dei canoni legali di ermeneutica o per vizi della motivazione (Cass., n. 13001/2006; Cass., n. 2464/2004). Con altro mezzo, l’Amministrazione ricorrente assume che la dichiarata decadenza della garanzia fideiussoria riguarderebbe i soli rapporti fra committente (garantito) e appaltatore, escludendo la garante. Aggiunge che il termine di otto mesi, fissato per il collaudo, non sarebbe perentorio, al punto che in modo del tutto legittimo ed esplicito il Comune non ha mai reso l'originale della polizza in segno di assenso alla liberazione dagli obblighi fideiussori. La Corte respinge la doglianza, osservando che la sentenza impugnata correttamente afferma che il rapporto in oggetto, nell'ambito della disciplina della fideiussione, è disciplinato dell'autonomia delle parti integrata dalle previsioni di legge (qui, la n. 741/1981) richiamate espressamente dalle parti nel contratto. Tra esse, quella sui tempi di collaudo (art. 5, legge cit.), da terminare entro sei mesi dall’ultimazione di lavori e, se il certificato di collaudo sia approvato nei due mesi successivi alla scadenza dei sei utili, la fideiussione si estingue di diritto, trattandosi di termine perentorio nella produzione di effetti. Del resto, chiosa la Corte, se anche si volesse attribuire al rapporto in oggetto il carattere di contratto autonomo di garanzia (inibendosi perciò al garante di poter opporre le eccezioni attinenti alla validità o all'efficacia del rapporto garantito), non potrebbe tuttavia esser preclusa al garante medesimo la possibilità di eccepire l’estinzione del contratto di fideiussione. CRITERI DI COMPUTO RISARCITORIO IN TEMA D’AZIONE DI INDEBITO ARRICCHIMENTO VERSO LA P.A. Cassazione civile, sez. III, 28 luglio 2014, n. 17085 Pres. Russo - Rel. Stalla In tema di azione d’indebito arricchimento nei confronti della p.a., conseguente all’assenza di un valido contratto di appalto di opere, l’indennità prevista dall’art. 2041 c.c. dev’esser liquidata nei limiti della diminuzione patrimoniale subita dal prestatore d’opera, con esclusione di quanto il medesimo avrebbe percepito a titolo di lucro cessante se il rapporto negoziale fosse stato valido ed efficace, questo anche in ragione che l’azione di cui all’art. 2041 c.c. non ha - diversamente da quella disciplinata dall’art. 2043 c.c. - natura risarcitoria ma solo indennitaria. Pertanto, ai fini della determinazione dell’in- Urbanistica e appalti 11/2014 dennizzo, non possono essere assunte a parametro le tariffe professionali vidimate dall’Ordine di appartenenza a cui può ricorrersi solo quando le prestazioni siano effettuate per effetto d’un valido contratto d’opera. Due professionisti convennero un Comune per il pagamento di una somma di circa un milione di euro a titolo d’indebito arricchimento (art. 2041 c.c.) in dipendenza del fatto che la p.a. convenuta si era avvalsa - a seguito d’una delibera d’incarico professionale non seguita da formale contratto - della loro attività professionale consistita nella progettazione di massima ed esecutiva di un’opera pubblica finanziata dalla Regione. Il Tribunale condannava il Comune al pagamento di un importo pari a un terzo delle somme richieste, con rivalutazione monetaria, interessi e spese di lite. La Corte d’appello, adita dal Comune, riduceva l’importo di circa un terzo rispetto alla condanna di primo grado: al definitivo, l’importo liquidato era poco meno di un terzo di quanto inizialmente domandato. La Cassazione, adita dal Comune, accoglie con rinvio, enucleando interessanti principi sull’azione per arricchimento indebito verso una p.a., specie per la determinazione del quantum indennizzabile. Osserva la Corte che tale mezzo, per la specifica impossibilità di un’azione contrattuale in dipendenza della mancata sottoscrizione di un contratto, era l’unico esperibile. I suoi presupposti sono - oltre a quelli ordinari e valevoli nei rapporti tra privati, ossia: il carattere residuale e l’impoverimento d’una parte con correlativo arricchimento dell’altra anche il riconoscimento, esplicito o implicito, dell’utilità arrecata da parte della p.a. Sulla scorta di questi presupposti, la Suprema Corte afferma che l’indennità ex art. 2041 c.c. va liquidata nei limiti della diminuzione patrimoniale subìta dall’esecutore della prestazione resa in virtù del contratto invalido o inesistente. Essa, perciò deve computarsi avuto riguardo alla minor somma tra l’entità dell’arricchimento dell’ente e quella dell’impoverimento dei progettisti, senza aver riguardo alla diminuzione patrimoniale patita da questi ultimi e rapportata ai costi d’esecuzione dell’opera. In tale computo, al giudice è precluso il ricorso alla legge professionale che contempla una maggiorazione degli onorari per incarico parziale e, ancor più, è impossibile fare riferimento ai parametri equitativi di cui all’art. 1226 c.c. in assenza dei criteri applicativi che ne sono tipici. Tale articolo comunque valevole solo per stabilire il quantum del pregiudizio e non anche l’an del medesimo (per il quale occorre prova attorea ex art. 2697 c.c.) - presuppone l’impossibilità (o l’assoluta difficoltà) di darne dimostrazione (Cass. nn. 11968 e 27447 del 2013). Solo se il Giudice di merito abbia dato atto dei criteri logici di effettività (e non di mera apparenza) adottati per la determinazione del ristoro, la decisione può definirsi equitativa ex art. 1226 c.c. e non arbitraria, ben potendo - in assenza di ciò - la predetta valutazione trovare sindacato anche in sede di legittimità (Cass. n. 8123 del 2013). Né, per determinare l’importo dovuto anche ex art. 1226 c.c., può farsi riferimento ad altri elementi reperiti in corso di rapporto, quali le somme in origine stanziate dall’Ente per la progettazione o l’importo del finanziamento: infatti, è pacifico che nell’ambito di un’azione residuale - qual è quella di cui all’art. 2041 c.c. - non è possibile fare riferimento a elementi o fatti viceversa tipici e propri di un rapporto sinallagmatico puro. 1191 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Osservatorio in sintesi Giurisprudenza ATTI AMMINISTRATIVI CESSIONE E PIGNORABILITÀ DEI CREDITI, DERIVANTI DA CONTRATTO, VERSO LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE Cassazione civile, sez. III, 27 agosto 2014, n. 18339 Pres. Salmé - Rel. Rubino Gli artt. 69 e 70 del R.D. n. 2440/1923 hanno carattere eccezionale e, come tali, sono insuscettibili di applicazione analogica e vanno soggetti a interpretazione restrittiva (cfr. art. 117 D.Lgs. n. 163/2006). La previsione dell’art. 159 T.U. enti locali (D.Lgs. n. 267/2000) - che circoscrive in solo favore degli Enti locali la pignorabilità dei fondi con vincolo di destinazione è parimenti norma insuscettibile di applicazione estensiva e perciò non si applica alle ASL né, in generale, ai soggetti non sussumibili nel novero di cui all’art. 2 del D.Lgs. n. 267/2000. Un’ASL propose opposizione contro due pignoramenti presso terzi iniziati da un privato (cessionario di crediti vantati da un terzo verso la medesima ASL) sulla scorta d’un titolo esecutivo coperto da giudicato. A fondamento dell’opposizione, l’Azienda dedusse che la cessione non le era mai stata notificata e, a fortiori, neppure accettata sicché essa non poteva spiegare effetti nei propri confronti. Ancora, deduceva che il debito era stato pagato dall’ASL all’originario debitore e, in ultimo, che le somme oggetto di provvedimento esecutivo erano impignorabili perché a destinazione vincolata. Il Tribunale rigettò l’opposizione non ritenendo potersi enucleare, nel sistema delineabile dagli artt. 69 e 70 del R.D. n. 2440/1923, la necessità d’un preventivo consenso della p.a. alla cessione del credito verso di essa. Ciò, osservò la sentenza, è previsto nella sola materia degli appalti e da una speciale disposizione che trova propria ratio nella necessità di tutelare l’interesse pubblico alla miglior esecuzione dell'opera (oggi cfr. art. 117 D.Lgs. n. 163/2006, codice dei contratti pubblici). La sentenza è gravata dall’ASL con ricorso per Cassazione, che è respinto. Contrariamente a quanto assunto dall’Azienda, il Giudice di legittimità non ravvisa alcuna violazione della disciplina recata dagli artt. 69 e 70 del R.D. n. 2440/1923. La giurisprudenza - tanto ordinaria (Cass. nn. 981/2002; 18601/2005) quanto amministrativa - ha infatti sempre riconosciuto a tali norme (che in taluni casi subordinano alla necessità d’accettazione del debitore ceduto l'efficacia del negozio di cessione del credito) carattere eccezionale, come tale insuscettibile di applicazione analogica e, al contrario, destinatarie d’interpretazione restrittiva. Lo scopo della specifica disciplina della cessione del credito verso le pp.aa. - che, contrariamente alla generale regola civilistica, richiede il consenso del debitore ceduto affinché la cessione sia efficace - è costituito dalla necessità di garantire la regolare esecuzione dei contratti di durata da essa considerati, impedendo che nel corso degli stessi l'appaltatore potesse privarsi dei mezzi finanziari erogatigli dalla p.. in base allo stato di avanzamento dei lavori e allo sviluppo delle forniture (Cass. n. 18610/2005). In sintesi, il consenso del debitore ceduto è richiesto per consentire che l’Amministrazione committente possa ponderare la compatibilità della cessione con l’interesse pubblico alla puntuale e migliore esecuzione del contratto. 1192 Nello specifico, osserva la Corte, si esorbita dall’ambito applicativo della norma: tanto sotto il profilo soggettivo - perché essa è applicabile ai soli enti locali (mentre le ASL sono persone giuridiche autonome rispetto agli enti locali stessi) - quanto sotto quello oggettivo - perché tal norma si applica principalmente agli appalti, ove sussiste interesse del committente (e debitore) di verificare che il proprio appaltatore (e creditore) mantenga i fondi per terminare l'opera secondo le prescrizioni contrattuali, circostanza astrattamente verificabile allorché ne fosse consentita un’indiscriminata cessione. Parimenti reietta è la censura fondata sulla pretesa violazione dell’art. 159 del T.U. enti locali (D.Lgs. n. 267/2000) che limita - in solo favore degli enti locali - la pignorabilità dei fondi con vincolo di destinazione. Questo, in quanto, osserva la Corte, la giurisprudenza pacificamente limita il vincolo d’indisponibilità alle somme dei soli enti locali (ambito soggettivo dal quale è estranea un’ASL) e - in ogni caso - occorre sotto il profilo oggettivo che i fondi siano vincolati, in via preventiva, con delibera. ESPROPRIAZIONE PER P.I. CRITERIO DI LIQUIDAZIONE PER LE OCCUPAZIONI APPROPRIATIVE DI TERRENI EDIFICABILI Cassazione civile, sez. I, 13 agosto 2014, n. 17906 Pres. Salvago - Rel. Giancola Per effetto della sentenza Corte cost. n. 348/2007, recante declaratoria d’incostituzionalità dell’art. 5-bis, comma 7-bis, della L. n. 359/1992, applicabile a tutti i rapporti non esauriti e concernenti le occupazioni appropriative di terreni edificabili verificatesi prima dell’entrata in vigore (al 30 giugno 2003) del T.U. espropriazioni (D.P.R. n. 327/2001), va applicato non già il criterio risarcitorio riduttivo previsto dalla norma espunta bensì quello contemplato dalla disciplina transitoria (art. 55, come modificato dall’art. 2, comma 89, L. n. 244/2007) che assicura alle vecchie occupazioni appropriative "sino a esaurimento" il risarcimento commisurato al valore venale del bene. Due privati convennero al Tribunale ordinario un’Amministrazione comunale domandando - sulla premessa che essa aveva assoggettato a procedimento espropriativo un loro terreno offrendo un'indennità provvisoria, accettata con manifestazione di disponibilità alla stipula del contratto di cessione volontaria ex art. 12 L. n. 865/1971 verso un corrispettivo pari alla somma offerta, maggiorata del 50% e che il Comune, pur avendo manifestato la volontà di accettare, mai formalizzò la cessione dell'atto né pagò la somma dovuta, né l'indennità per il periodo d’occupazione legittima in principalità che il Comune fosse condannato al pagamento dell’indennità d’occupazione (con interessi e maggior danno anche da svalutazione) o, in subordine, al risarcimento dei danni subiti. Il Comune costituendosi osservò che la mancata stipulazione dell’atto era imputabile agli attori, perché l’art. 12 legge cit. non poteva interpretarsi nel senso da loro invocato, in quanto esso non prevedeva - nel caso di cessione volontaria - un'automatica maggiorazione del 50% dell'indennità offerta. Ancora, eccepì che nel proporre la cessione volontaria del bene i privati non avessero chiesto alcun aumento dell'indennità a loro offerta. In con- Urbanistica e appalti 11/2014 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Osservatorio in sintesi Giurisprudenza seguenza di ciò, le domande andavano respinte o, in subordine, limitate alla somma offerta senza la maggiorazione pretesa. Con sentenza parziale il Tribunale - ritenuto che, per la mancata stipulazione dell’atto in forma scritta, la cessione bonaria del terreno non si fosse verificata - rigettava la domanda spiegata in principalità dagli attori e, in accoglimento della subordinata condannava il Comune a pagare l'indennità di occupazione per il periodo di legittima occupazione del fondo (quinquennio 15 dicembre 1979 / 14 dicembre 1984) oltre al risarcimento del danno per illegittima occupazione del fondo stesso nel periodo successivo (id est, dal 15 dicembre 1984 in poi), disponendo la prosecuzione dell'istruttoria con CTU contabile. La sentenza parziale era oggetto di riserva d’appello da parte del Comune. Con sentenza definitiva il Tribunale, in base alla CTU, liquidava l'indennità di occupazione legittima e il risarcimento del danno per occupazione illegittima, condannando il Comune al pagamento di una somma assai superiore a quella inizialmente offerta, anche se (paradossalmente) maggiorata del 50% richiesto dagli attori. Il Comune gravava la decisione lamentando l’ultra-petizione ed eccependo l'intervenuta prescrizione dei diritti riconosciuti a controparte. Gli attori, a loro volta, proponevano appello incidentale assumendo l'erroneità dei criteri applicati per calcolare l'ammontare del danno da occupazione acquisitiva e dell'indennità d’occupazione legittima. La Corte territoriale rigettava l’appello principale del Comune e, in accoglimento dell'incidentale, condannava l'Ente a pagare quale risarcimento del danno derivato dalla perdita del bene, una somma ricalcolata in maggiorazione, oltre a interessi legali dalla sentenza al saldo. Ancora, pronunciando in unico grado - in esercizio della propria competenza funzionale in materia d’indennizzi espropriativi - determinava l'indennità d’occupazione legittima dovuta dal Comune, oltre interessi legali su ogni singolo importo annuale a decorrere dal 15 dicembre dell'anno di riferimento, sino al disposto deposito della intera somma (per capitale ed interessi) presso la Cassa Depositi e Prestiti. La Corte territoriale osservava che entrambe le sentenze impugnate avevano condannato il Comune a pagare una somma per indennità da occupazione legittima del terreno protrattasi per un quinquennio (dal 15 dicembre 1979) oltre a una somma a titolo risarcitorio del danno da fatto illecito extracontrattuale di difficile individuazione. Tra le varie ipotesi al riguardo, prospettate dalle parti, ve n'era una (comune a entrambe) per cui la somma liquidata dal Tribunale sarebbe servita a risarcire il danno subito dai privati per la perdita del diritto di proprietà sul terreno in questione, a seguito di occupazione appropriativa (alias, accessione invertita) e non di un atto di cessione (mai intervenuto). Tale interpretazione andava recepita, anche perché coerente con le domande formulate in primo grado dai danneggiati, che non avevano chiesto la restituzione del terreno ma solo la corresponsione di somme di denaro. L’interpretazione non era peraltro inconciliabile con l'affermazione contenuta nella sentenza non definitiva, per la quale “il bene era rimasto di proprietà degli attori”, in quanto l’assunto si collocava nella parte motiva dedicata a esaminare la sola domanda di pagamento del corrispettivo dell'atto di cessione, fondata sul presupposto che la cessione volontaria del bene si fosse comunque perfezionata (anche in assenza del formale atto di cessione) ed avesse prodotto come effetto il trasferimento al Comune del diritto di Urbanistica e appalti 11/2014 proprietà sull'immobile. Per effetto di ciò, la Corte di merito ritenne che il Tribunale aveva accertato che in data 15 dicembre 1984 il Comune era divenuto proprietario - per occupazione acquisitiva - del fondo. In seguito a tale pronuncia, il Tribunale aveva condannato il Comune a pagare agli attori l'indennità per il periodo di occupazione legittima protrattosi per un quinquennio decorrente dal 15 dicembre 1979 ed a risarcire il danno da essi subito per avere perduto la proprietà dell'immobile. La sentenza è impugnata in Cassazione, con ricorso principale dai privati e incidentale del Comune: il primo è accolto, il secondo è respinto. Osserva la Suprema Corte come nella specie sia incontroverso che l'opera pubblica sia stata realizzata nel periodo di occupazione temporanea, iniziato il 15 dicembre 1979 e scaduto il 15 dicembre 1984. Muovendo da tal presupposto fattuale, sono respinti il primo e il terzo motivo del ricorso incidentale, inerenti al contenuto della domanda risarcitoria, proposta in subordine dai privati, e alla qualificazione della vicenda in termini d’illecita occupazione acquisitiva. La decisione della Corte di merito, del resto, è frutto d’irreprensibile esegesi della domanda svolta dai privati in via subordinata e non appare né confliggere con il tenore della statuizione sul punto adottata con la sentenza non definitiva del Tribunale, che consentiva di essere intesa (com’è stato anche nel decisum conclusivo del primo grado) in termini di occupazione illecita definitiva e irreversibile dal 1984 in poi, quindi non solo d’illecita occupazione temporanea protrattasi a decorrere dalla medesima epoca; né di risolversi in una reformatio in pejus sia per tale profilo, sia con riguardo al contenuto dell'appello incidentale svolto dai danneggiati avverso l'entità del ristoro liquidato, coerentemente con la ravvisata tipologia di illecito, in base ai criteri prescritti per le aree edificabili dall’art. 5-bis, comma 7-bis, della L. n. 359/1992. Con riferimento alla dedotta sopravvenienza di prescrizione del credito, osserva la Corte che esso era stato azionato sin dal 1991, quando fu introdotto il giudizio, in epoca in cui non era ancor maturato il quinquennio di prescrizione. Ancora si osservò che tal termine - in ogni caso - non avrebbe potuto iniziare a decorrere prima del 3 novembre 1988, data di entrata in vigore della L. n. 458/1988 la quale aveva portato il riconoscimento legislativo dell'istituto dell'occupazione in questione (cfr. Cass. n. 8965/2014). La Corte, su questi presupposti, esamina e accoglie i due motivi del ricorso principale. Quanto al primo motivo, osserva che per effetto della sentenza Corte cost. n. 348/2007 - recante declaratoria d’incostituzionalità dell’art. 5-bis, comma 7-bis, L. n. 359/1992 per i rapporti non esauriti e concernenti le occupazioni appropriative di terreni edificabili verificatesi prima dell'entrata in vigore (30 giugno 2003) del T.U. espropriazioni (D.P.R. n. 327/2001) - va applicato non il criterio risarcitorio riduttivo previsto dalla norma espunta ma quello contemplato dalla disciplina transitoria (art. 55, come modificato dall’art. 2, comma 89, L. n. 244/2007) che assicura alle vecchie occupazioni appropriative "sino ad esaurimento" il risarcimento commisurato al valore venale del bene. Anche il secondo motivo del ricorso principale è accolto in ragione della medesima declaratoria di incostituzionalità dei criteri riduttivi di determinazione dell'indennità di espropriazione delle aree edificabili nel caso applicati nella quantificazione dell'indennità di espropriazione virtuale, alla quale è stata commisurata l'indennità di occupazione legittima, che deve per l’effetto essere ricalcolata in sede di rinvio, 1193 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Osservatorio in sintesi Giurisprudenza adottando come parametro di riferimento il valore pieno di mercato attribuibile al bene occupato, secondo il criterio generale già previsto dall’art. 39 della legge fondamentale n. 2359/1865 (cfr. Cass. n. 14939/2010). RISARCIMENTO DEL DANNO DA OCCUPAZIONE E CRITERIO DI LIQUIDAZIONE Cassazione civile, sez. I, 8 agosto 2014, n. 17809 - Pres. Salvago - Rel. Forte Il risarcimento del danno da occupazione deve essere, per tutte le fattispecie ancor pendenti, determinato con i parametri successivi alla declaratoria di incostituzionalità di cui alla sentenza Corte cost. n. 349/2007, posto che quello in precedenza computato in forza della disciplina incostituzionale deve considerarsi tamquam non esset: per l’effetto, non è più possibile applicare detto criterio per determinare quanto dovuto a titolo risarcitorio per l'illecita occupazione e la connessa trasformazione irreversibile delle aree dei privati con la realizzazione di opere di pubblica utilità. Alcuni privati convennero in giudizio al Tribunale civile un’Amministrazione comunale e - sul presupposto che quest’ultima avesse occupato dei loro terreni per realizzarvi alloggi di edilizia residenziale pubblica dell'IACP senza alcun procedimento espropriativo - chiedevano di essere risarciti per l’illecita occupazione e la trasformazione irreversibile delle aree. Il litisconsorzio era esteso all’IACP che aveva nella propria materiale disponibilità le aree e che, nel costituirsi, si opponeva all'accoglimento della domanda nei suoi confronti, chiedendo in subordine di essere manlevato dal Comune, in caso di soccombenza. Il Tribunale, in accoglimento della domanda attorea, condannava in solido Comune e IACP a pagare agli attori un’ingente somma per capitale, rivalutazione e interessi; ancora, condannava il solo Comune a corrispondere l'indennità di occupazione legittima e a rivalere l'IACP per quanto eventualmente da questi pagato per gli espropri e le occupazioni di cui sopra. La sentenza era appellata dal Comune e la Corte di merito, al definitivo, in accoglimento parziale dell’appello incidentale condannò Comune e IACP in solido, a pagare un risarcimento del danno agli appellati, determinato in misura ridotta, per l’irreversibile trasformazione del terreno, ponendo a carico del solo Comune l'ulteriore indennità di occupazione legittima, con interessi e condannando i privati appellati a restituire le somme ricevute in eccedenza, a piè di sentenza di prime cure. La sentenza è gravata per Cassazione dagli originari attori, con ricorso accolto in applicazione dello jus superveniens costituito dalle sentenze Corte cost. nn. 348 e 349 del 2007, dichiarative di incostituzionalità dell’art. 5-bis, com- 1194 ma 7-bis, D.L. n. 333/1992, per contrasto sia con il diritto interno (art. 117 Cost.) che con l'art. 6 CEDU (la cui valenza nel diritto interno è assicurata dalla previsione dell’art. 10, comma 1, della Carta fondamentale). Declaratoria, questa, destinata a incidere, ex art. 30 L. n. 87/1953, su ogni fattispecie ancora pendente (ossia non coperta da giudicato, o per la quale non siano intervenute decadenze, preclusioni o prescrizioni - salva ovviamente la materia penale, ove tali limiti non operano, ai sensi del comma 4 dell’art. 30 in parola). In ragione di ciò, osserva il Giudice nomofilattico, il risarcimento del danno va rideterminato con i nuovi parametri, posto che quello in precedenza computato in forza della disciplina incostituzionale deve considerarsi tamquam non esset (Cass. n. 83842008). In particolare, mentre la disciplina incostituzionale escludeva un ristoro integrale del danno da occupazione illecita, oggi esso va corrisposto e computato avendo a parametro il valore di mercato del bene occupato, in conformità a quanto previsto con l'art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU e nel rispetto dell'art. 117 Cost. e per tali ragioni la sentenza deve essere cassata, affinché il giudice di rinvio determini, sulla scorta dei parametri qui enucleati, il valore da corrispondersi ai ricorrenti, determinando il risarcimento sulla scorta del valore di mercato delle aree occupate, rivalutato all'attualità, con gli interessi di legge dalla data dell'acquisizione. Invero - a seguito della sentenza Corte cost. n. 349/2007 che ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 5-bis L. n. 359/1992, che prescriveva un criterio di computo dell'indennità d’espropriazione, riduttivo di circa il 50% rispetto al valore venale del bene - non è più possibile applicare detto indennizzo, per determinare quanto dovuto a titolo risarcitorio per l'illecita occupazione e la connessa trasformazione irreversibile delle aree dei privati con la realizzazione di opere di pubblica utilità. Se ne ha, quindi, che anche l'indennità di occupazione legittima, da determinare in una percentuale di quella di espropriazione, va liquidata in rapporto alla misura di quest'ultima rapportata al valore di mercato delle aree, e quindi deve essere ricomputata dal giudice di rinvio secondo i parametri sopra enucleati. Sotto il profilo della legittimazione passiva dell’IACP, argomentata dall’Istituto con la circostanza che l’attività materiale di occupazione e trasformazione è stata effettata dal solo Comune e non dall’IACP, è di interesse la parte di pronuncia con cui la Suprema Corte, nel respingere il ricorso incidentale da questo proposto, ne afferma la sussistenza ricordando come in altri precedenti occasioni (cfr. Cass. ord. n. 7198/2011; n. 4817/2009; n. 18612/2008) sia stato affermato che dell'occupazione appropriativa illecita, con irreversibile trasformazione di aree private destinate ad edilizia residenziale pubblica, risponde in solido con il comune anche l'IACP che sia in possesso delle aree. Urbanistica e appalti 11/2014 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Amministrativa Recesso Dopo la stipula del contratto di appalto la p.a. può esercitare solo il recesso CONSIGLIO DI STATO, Ad. Plen., 20 giugno 2014, n. 14 – Pres. Giovannini – Est. Meschino – Azienda per la Mobilità del Comune di Roma – ATAC s.p.a. c. Consorzio Cooperative Costruzioni CCC Società Cooperativa Nel procedimento di affidamento di lavori pubblici le pubbliche Amministrazioni se, in seguito alla stipula del contratto di appalto, rinvengano sopravvenute ragioni di inopportunità della prosecuzione del rapporto negoziale, non possono utilizzare lo strumento pubblicistico della revoca dell’aggiudicazione – previsto dall’art. 21-quinquies della L. n. 241/1990 – ma devono esercitare il diritto potestativo di recesso regolato dall’art. 134 del D.Lgs. n. 163/2006. ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI Conforme Cons. Stato, sez. III, 13 aprile 2011, n. 2291; Cons. Stato, sez. V, 18 settembre 2008, n. 4455; Cass. civ., Sez. Un., 11 gennaio 2011, n. 391; Cass. civ., Sez. Un., 17 dicembre 2008, n. 29425; Cass. civ., Sez. Un., 26 giugno 2003, n. 10160; T.A.R. Lazio, sez. II-ter, 6 marzo 2013, n. 2432 Difforme Cons. Stato, sez. IV, 14 gennaio 2013, n. 156; Cons. Stato, sez. VI, 27 novembre 2012, n. 5993; Cons. Stato, sez. VI, 17 marzo 2010, n. 1554 Diritto Omissis. 1. La questione da esaminare è esposta dalla V sezione nei termini che di seguito si sintetizzano riportando il quadro della normativa rilevante e delle posizioni della giurisprudenza al riguardo, con l'indicazione, su questa base, dell'ipotesi interpretativa ritenuta preferibile. 1.1. La normativa rilevante. Nella normativa si riscontra anzitutto, afferma la Sezione, un elemento di contraddittorietà tra i commi 1 e 1bis dell'art. 21-quinquies della L. n. 241 del 1990, poiché, per il primo, la revoca può incidere soltanto su atti “ad efficacia durevole”, mentre, per il secondo, l'atto revocato può anche essere “ad efficacia istantanea” se incidente su “rapporti negoziali”, con un possibile effetto retroattivo che avvicina l'istituto a quello dell'annullamento d'ufficio per illegittimità, convergendo, in questo senso, anche l'art. 1, comma 136, della L. 30 dicembre 2004, n. 311, per il quale l'annullamento volto a “conseguire risparmi o minori oneri finanziari” regola il caso in cui incida “su rapporti contrattuali o convenzionali con privati”; potere quest'ultimo che, al di là del nomen dell'atto, appare peraltro vicino allo schema della revoca sul presupposto della rivalutazione della convenienza di contratti già stipulati. La normativa richiamata deve essere a sua volta esaminata insieme con quella dell'art. 21-sexies della L. n. Urbanistica e appalti 11/2014 241 del 1990, per cui è possibile “il recesso unilaterale dai contratti della pubblica amministrazione ... nei casi previsti dalla legge o dal contratto”, secondo una regola di tipicità delle ipotesi di recesso analoga a quella di cui agli artt. 1372 e 1373 c.c. Emerge da ciò la questione se con il potere attribuito dall'art. 21-quinquies e dalla L. n. 311 del 2004 si possa incidere sul contratto stipulato e come ciò si concili con il carattere paritetico delle posizioni fondate su di esso, di cui è espressione la generalizzazione dell'istituto del recesso ex art. 21-sexies, cui si correla la previsione specifica dell'art. 134 del codice dei contratti pubblici che, per gli appalti di lavori pubblici, attribuisce all'amministrazione “il diritto di recedere in qualunque tempo dal contratto”, con effetto economico più oneroso, però, di quanto previsto dal comma 136 dell'art. 1 della L. n. 311 del 2004, poiché non limitato alla dimensione indennitaria ma comprendente il ristoro dei lavori eseguiti e dei materiali utili in cantiere oltre al decimo delle opere non eseguite (effetto non dissimile da quello, previsto dall'art. 158 del medesimo codice dei contratti pubblici, in caso di risoluzione per inadempimento o di revoca delle concessioni di lavori pubblici). Il quadro normativo deve essere completato, infine, con il richiamo dell'art. 11 della L. n. 241 del 1990, che fa salvo il potere di recesso dell'amministrazione “per sopravvenuti motivi di pubblico interesse” in caso di ac- 1195 Giurisprudenza AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Amministrativa cordi integrativi o sostitutivi del provvedimento, e degli artt. 121 e 122 c.p.a. quanto ai poteri del giudice amministrativo di incidere sul contratto. 1.2. La giurisprudenza. La Sezione riferisce: a) che il Consiglio di Stato ha affermato la legittimità del potere di revoca degli atti amministrativi del procedimento ad evidenza pubblica anche se sia stato stipulato il contratto, con il conseguente diritto del privato all'indennizzo; ciò emerge in particolare dalle sentenze della sez. VI, n. 1554 del 2010 e n. 5993 del 2012 e della sez. IV, n. 156 del 2013 (nella quale si richiama anche, con il comma 136 dell'art. 1 della L. n. 311 del 2004, il comma 9 dell'art. 11 del codice dei contratti pubblici che consente l'intervento in autotutela sugli atti di gara pur divenuta efficace l'aggiudicazione definitiva), apparendo parzialmente difforme la sola sentenza della sez. III, n. 2291 del 2011, poiché la legittimità della revoca degli atti di una gara vi è affermata anche perché intervenuta prima della stipulazione del contratto; b) che la Corte di Cassazione ha affermato, al contrario, che tutte le vicende successive alla stipulazione del contratto danno luogo a questioni relative alla sua validità ed efficacia anche se dovute all'esercizio di poteri pubblicistici in autotutela. Con la stipula del contratto si costituisce infatti tra le parti, pubblica e privata, un rapporto giuridico paritetico intercorrente tra situazioni soggettive da qualificare in termini di diritti soggettivi e di obblighi giuridici; il riscontro di sopravvenuti motivi di inopportunità della realizzazione dell'opera si riconduce perciò all'esercizio del potere contrattuale di recesso, previsto dalla normativa sugli appalti pubblici, con scelta che si riverbera sul contratto in quanto potere contrattuale del committente di recedere da esso, cosicché l'atto di revoca dell'aggiudicazione, ciò nonostante adottato, risulta lesivo del diritto soggettivo del privato in quanto incidente sul sinallagma funzionale (Cass. civ., Sez. Un., n. 10160 del 2003 e n. 29425 del 2008). 1.3. L'interpretazione prospettata. La sezione prospetta l'esigenza di riconsiderare l'indirizzo prevalente nella giurisprudenza amministrativa ritenendo che, intervenuta la stipulazione del contratto ad evidenza pubblica, l'amministrazione non possa esercitare il potere di revoca ma debba agire attraverso il recesso. 1.3.1. In primo luogo la sezione osserva che: - nonostante la sussistenza della norma generale dell'art. 21-quinquies sono state previste norme specifiche che, attraverso il potere di revoca per pubblico interesse, attribuiscono all'amministrazione la facoltà di incidere unilateralmente sui contratti stipulati con i privati, come è per l'art. 11, comma 4, della L. n. 241 del 1990 (dove il potere, pur nominato di “recesso”, è in sostanza di revoca) e per il citato art. 158 del codice dei contratti pubblici; - ne emerge sul piano normativo la categoria dei contratti di diritto pubblico (o ad oggetto pubblico) che, fermo il ricorso alle regole civilistiche per la disciplina generale del rapporto contrattuale tra amministrazione e privati, si distingue da quella dei contratti di diritto 1196 privato per il mantenimento di una posizione di supremazia dell'amministrazione; - in relazione a ciò la parallela previsione dell'art. 21-sexies della L. n. 241 del 1990, sulla facoltà dell'amministrazione di incidere sul contratto con il recesso, deve ritenersi propria dei contratti in cui essa non è in posizione di supremazia, cioè di quelli di diritto privato, considerate: l'analogia della norma con quelle di cui agli artt. 1372 e 1373 c.c.; la sua coerenza con il principio di cui all'art. 1, comma 1-bis, della L. n. 241 del 1990, per il quale “La pubblica amministrazione, nell'adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente”; l'inutilità della previsione, altrimenti, se l'amministrazione potesse sempre incidere sul contratto con la revoca, peraltro più conveniente per il profilo economico; - essendo quindi corretta la valutazione del primo giudice per la quale la revoca può essere ammessa solo nelle concessioni, dove il contratto è accessivo al provvedimento concessorio e ne dipende direttamente, fondandosi su ciò anche la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia, considerato che nelle concessioni il modulo consensuale è sempre sostitutivo di poteri autoritativi (Cass. civ., Sez. Un., ord. n. 8094 del 2007). 1.3.2. Tanto rilevato le previsioni dell'art. 21-sexies della L. n. 241 del 1990 e dell'art. 134 del codice dei contratti pubblici portano a non riferire i contratti ad evidenza pubblica al contesto dei rapporti negoziali distinti dal potere autoritativo di revoca, essendo avvalorata questa conclusione dalle seguenti considerazioni: - la riconosciuta scissione tra aggiudicazione e stipulazione del contratto, che emerge sul piano funzionale poiché, con la prima, si conclude la fase pubblicistica del perseguimento dell'interesse pubblico alla selezione della migliore offerta mentre la seconda si colloca nel diverso quadro del rapporto paritetico tra i contraenti con predominanza del diritto privato, riflettendosi questa scissione anche sul piano strutturale, poiché, ai sensi dell'art. 11 del codice dei contratti pubblici, “l'aggiudicazione definitiva non equivale ad accettazione dell'offerta” (comma 7), essendo poi previsto un termine per stipulare successivamente il contratto soltanto entro il quale l'amministrazione può agire in autotutela (comma 9); - ciò che porta alla distinzione fra l'atto di aggiudicazione e il consenso contrattuale dell'amministrazione e a far escludere che questo possa essere ritirato in via unilaterale, e tanto meno perciò mediante il riesame dell'aggiudicazione in autotutela, essendo il detto consenso confluito con quello della parte privata nell'accordo di cui all'art. 1325, n. 1), c.c., essendo in seguito possibile soltanto il mutuo dissenso di cui all'art. 1372 c.c., ed operando la altresì prevista facoltà di recesso non sull'atto contrattuale ma sul rapporto. Sarebbe peraltro ingiustificato, si soggiunge, che l'amministrazione possa, attraverso i propri poteri di autotutela decisoria, ottenere un risultato in ipotesi superiore a quello ottenibile dal contraente privato in sede giuri- Urbanistica e appalti 11/2014 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Amministrativa sdizionale ai sensi della normativa sull'inefficacia del contratto per l'annullamento giurisdizionale dell'aggiudicazione, di cui agli artt. 121 e 122 c.p.a. 1.3.3. La sezione conclude osservando che: - la normativa posta con il comma 1-bis dell'art. 21quinquies della L. n. 241 del 1990, così come con l'art. 1, comma 136 della L. n. 311 del 2004, si inserisce nel quadro delineato se si circoscrive il potere di revoca ivi previsto soltanto alle concessioni amministrative, con ciò erigendo a ratio della normativa il suo puntuale scopo originario, dell'intervento sulle concessioni di lavori pubblici a favore della TAV, e risultando in essa presupposto l'effetto di incidenza sul contratto in coerenza con l'assenza di deroga all'art. 21-sexies e all'art. 134; - il divieto di revoca quando sia stato stipulato il contratto si fonda sulla fondamentale ragione dell'affidamento del privato negli impegni reciproci consacrati nell'accordo, sulla cui base egli ha maturato aspettative di profitto e assunto impegni organizzativi che l'art. 21quinquies non impone di considerare (a differenza dell'art. 21-nonies per l'annullamento d'ufficio) e il cui ristoro è ivi previsto soltanto con l'indennizzo, mentre, ad esito del recesso consentito per i contratti di diritto privato, l'amministrazione è obbligata, come visto, ad una più adeguata compensazione del pregiudizio sofferto dalla controparte; - ciò non comporta, peraltro, un'automatica svalutazione dell'interesse pubblico, di cui la pubblica amministrazione è sempre portatrice, al quale è comunque strumentale il diritto di recesso nell'ampia configurazione dell'art. 134 del codice dei contratti pubblici, potendo l'amministrazione valorizzare, ai fini del recesso, circostanze che porterebbero alla revoca, con il corollario di non dover assicurare il contraddittorio procedimentale né esternare compiutamente le motivazioni della scelta, essendo ciò bilanciato dal maggiore onere economico che ne consegue. 2. Si passa ora all'esame del quesito sottoposto all'Adunanza Plenaria precisando, in via preliminare, che si prescinde da questioni attinenti alla giurisdizione, che pure possano essere connesse al quesito stesso, considerato che nel caso di specie la questione di giurisdizione è stata espressamente decisa in primo grado con pronuncia confermata in secondo grado, essendosi perciò formato al riguardo il giudicato. 3. L'Adunanza Plenaria ritiene, per le ragioni che seguono, che, intervenuta la stipulazione del contratto per l'affidamento dell'appalto di lavori pubblici, l'amministrazione non può esercitare il potere di revoca dovendo operare con l'esercizio del diritto di recesso. 3.1. Ai sensi del codice dei contratti pubblici di cui al D.Lgs. n. 163 del 2006 (in seguito anche “codice”), la fase della scelta del contraente, conclusa con l'aggiudicazione definitiva, risulta distinta da quella, successiva, della stipulazione e conseguente esecuzione del contratto, pur costituendone il necessario presupposto funzionale, considerato che l'aggiudicazione definitiva non equivale ad accettazione dell'offerta (art. 11, comma 7, primo periodo del codice) e che, pur divenuta efficace l'aggiudicazione definitiva, prima della stipulazione resta Urbanistica e appalti 11/2014 comunque salvo “L'esercizio dei poteri di autotutela nei casi consentiti dalle norme vigenti” (art. 11, comma 9). Il vincolo sinallagmatico nasce perciò soltanto con il separato e distinto atto della stipulazione del contratto quando, essendo stata fino a quel momento irrevocabile soltanto l'offerta dell'aggiudicatario (art. 11, comma 7, secondo periodo), l'amministrazione a sua volta si impegna definitivamente. 3.2. Ciò considerato la giurisprudenza ha affermato che la fase conclusa con l'aggiudicazione ha carattere pubblicistico, in quanto retta da poteri amministrativi attribuiti alla stazione appaltante per la scelta del miglior contraente nella tutela della concorrenza, mentre quella che ha inizio con la stipulazione del contratto e prosegue con l'attuazione del rapporto negoziale ha carattere privatistico ed è quindi retta dalle norme civilistiche (Corte cost., sentenze n. 53 e n. 43 del 2011; Cass. civ., Sez. Un., n. 391 del 2011; Cons. Stato, sez. III, n. 450 del 2009). 3.3. Nella fase privatistica l'amministrazione si pone quindi con la controparte in posizione di parità che però, è stato anche precisato, è “tendenziale” (Corte cost. n. 53 e n. 43 del 2011 citate), con ciò sintetizzando l'effetto delle disposizioni per cui, pur nel contesto di un rapporto paritetico, sono apprestate per l'amministrazione norme speciali, derogatorie del diritto comune, definite di autotutela privatistica (Ad. Plen. n. 6 del 2014); ciò, evidentemente, perché l'attività dell'amministrazione, pur se esercitata secondo moduli privatistici, è sempre volta al fine primario dell'interesse pubblico, con la conseguente previsione, su tale presupposto, di regole specifiche e distinte. 3.4. Nel codice dei contratti pubblici sono previste norme con tratti di specialità riguardo specificamente alla fase dell'esecuzione del contratto per la realizzazione di lavori pubblici, cui attiene la questione all'esame. Ci si riferisce a norme collocate nella parte II, titolo III del codice (Disposizioni ulteriori per i contratti relativi ai lavori pubblici) relative alla disciplina del recesso dal contratto e della sua risoluzione, ai sensi, rispettivamente, degli artt. 134-136 del codice (collocate nel capo II del titolo III e perciò riferite agli appalti di lavori pubblici ex art. 126 del codice), della risoluzione per inadempimento e, specificamente, della revoca delle concessioni di lavori pubblici in finanza di progetto ai sensi dell'art. 158 del medesimo codice, ovvero della sospensione dei lavori ai sensi dell'art. 158 e seguenti del regolamento di attuazione (D.P.R. 5 ottobre 2010, n. 207). In questo contesto la specialità della disciplina del recesso emerge non soltanto perché, a fronte della generale previsione civilistica (art. 1373 c.c.), il legislatore ne ha ritenuto necessaria una specifica nella legge sul procedimento (art. 21-sexies) ma in particolare perché l'art. 134, nel concretare il caso applicativo di tale previsione, lo regola in modo diverso rispetto all'art. 1671 c.c., prevedendo il preavviso all'appaltatore e, quanto agli oneri, la forfetizzazione del lucro cessante nel dieci per cento delle opere non eseguite e la commisurazione del danno emergente, fermo il pagamento dei lavori eseguiti, al “valore dei materiali utili esistenti in cantiere” 1197 Giurisprudenza AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Amministrativa mentre, per il citato art. 1671 c.c., il lucro cessante è dovuto per intero (“il mancato guadagno”) e per il danno emergente vanno rimborsate tutte le spese sostenute. 3.5. Su questa base si ritiene di poter affermare quanto segue. 3.5.1. La posizione dell'amministrazione nella fase del procedimento di affidamento di lavori pubblici aperta con la stipulazione del contratto è definita dall'insieme delle norme comuni, civilistiche, e di quelle speciali, individuate dal codice dei contratti pubblici, operando l'amministrazione, in forza di quest'ultime, in via non integralmente paritetica rispetto al contraente privato, fermo restando che le sue posizioni di specialità, essendo l'amministrazione comunque parte di un rapporto che rimane privatistico, restano limitate alle singole norme che le prevedono. Ciò rilevato ne consegue che deve ritenersi insussistente, in tale fase, il potere di revoca, poiché: presupposto di questo potere è la diversa valutazione dell'interesse pubblico a causa di sopravvenienze; il medesimo presupposto è alla base del recesso in quanto potere contrattuale basato su sopravvenuti motivi di opportunità (Cass. civ. n. 391 del 2011 cit.; Cons. Stato, sez. V, 18 settembre 2008, n. 4455); la specialità della previsione del recesso di cui al citato art. 134 del codice preclude, di conseguenza, l'esercizio della revoca. Se infatti, come correttamente indicato dal giudice rimettente, nell'ambito della normativa che regola l'attività dell'amministrazione nella fase del rapporto negoziale di esecuzione del contratto di lavori pubblici, è stata in particolare prevista per gli appalti di lavori pubblici una norma che attribuisce il diritto di recesso, non si può ritenere che sul medesimo rapporto negoziale si possa incidere con la revoca, basata su presupposti comuni a quelli del recesso (la rinnovata valutazione dell'interesse pubblico per sopravvenienze) e avente effetto analogo sul piano giuridico (la cessazione ex nunc del rapporto negoziale); richiamato anche che, quando il legislatore ha ritenuto di consentire la revoca “per motivi di pubblico interesse” a contratto stipulato, lo ha fatto espressamente, in riferimento, come visto, alla concessione in finanza di progetto per la realizzazione di lavori pubblici (o la gestione di servizi pubblici; art. 158 del codice). In caso contrario la norma sul recesso sarebbe sostanzialmente inutile, risultando nell'ordinamento, che per definizione reca un sistema di regole destinate a operare, una normativa priva di portata pratica, dal momento che l'amministrazione potrebbe sempre ricorrere alla meno costosa revoca ovvero decidere di esercitare il diritto di recesso secondo il proprio esclusivo giudizio, conservando in tale modo nel rapporto una posizione comunque privilegiata; fermo restando, come anche richiamato dalla V sezione, che per l'amministrazione la maggiore onerosità del recesso è bilanciata dalla mancanza dell'obbligo di motivazione e del contraddittorio procedimentale. 3.5.2. Quanto sopra vale in riferimento alla possibilità della revoca nella fase aperta con la stipulazione del contratto nel procedimento per l'affidamento dell'appal- 1198 to di lavori pubblici, che è l'oggetto specifico del quesito all'esame. Resta perciò impregiudicata, nell'inerenza all'azione della pubblica amministrazione dei poteri di autotutela previsti dalla legge, la possibilità: a) della revoca nella fase procedimentale della scelta del contraente fino alla stipulazione del contratto; b) dell'annullamento d'ufficio dell'aggiudicazione definitiva anche dopo la stipulazione del contratto, ai sensi dell'art. 1, comma 136 della L. n. 311 del 2004, nonché concordemente riconosciuta in giurisprudenza, con la caducazione automatica degli effetti negoziali del contratto per la stretta consequenzialità funzionale tra l'aggiudicazione della gara e la stipulazione dello stesso (Cass. civ., Sez. Un., 8 agosto 2012, n. 14260; Cons. Stato, sez III, 23 maggio 2013, n. 2802; sez. V, 7 settembre 2011, n. 5032; 4 gennaio 2011, n. 11; 9 aprile 2010, n. 1998). Così come, pure nel caso di contratto stipulato, sussiste la speciale previsione in ordine al recesso della stazione appaltante quando si verifichino i presupposti previsti dalla normativa antimafia che la giurisprudenza (Cass. civ., n. 391 del 2011 cit.) ha riferito alla nozione dell'autotutela autoritativa, poiché potere “del tutto alternativo a quello generale di cui alla L. n. 2248 del 1865, art. 345, all. F” (oggi art. 134 del codice dei contratti pubblici); qualificazione questa che può ritenersi tuttora valida poiché le stazioni appaltanti, pur nel quadro della normativa oggi vigente in materia, devono comunque valutare l'esistenza delle eccezionali condizioni non comportanti l'altrimenti vincolato esercizio del diritto di recesso (art. 94, commi 2 e 3 del D.Lgs. n. 159 del 2011). 3.5.3. In questo quadro si coordina e delimita, ad avviso del Collegio, la previsione della revoca di cui al comma 1-bis dell'art. 21-quinquies della L. n. 241 del 1990, poiché dall'ambito di applicazione della norma risulta esclusa la possibilità di revoca incidente sul rapporto negoziale fondato sul contratto di appalto di lavori pubblici, in forza della speciale e assorbente previsione dell'art. 134 del codice (così, come, per la medesima logica, né è esclusa la revoca di cui all'art. 158 del codice), restando per converso e di conseguenza consentita la revoca di atti amministrativi incidenti sui rapporti negoziali originati dagli ulteriori e diversi contratti stipulati dall'amministrazione, di appalto di servizi e forniture, relativi alle concessionicontratto (sia per le convenzioni accessive alle concessioni amministrative che per le concessioni di servizi e di lavori pubblici), nonché in riferimento ai contratti attivi. 4. Sulla base di quanto esposto l'Adunanza Plenaria afferma il seguente principio di diritto: “Nel procedimento di affidamento di lavori pubblici le pubbliche amministrazioni se, stipulato il contratto di appalto, rinvengano sopravvenute ragioni di inopportunità della prosecuzione del rapporto negoziale, non possono utilizzare lo strumento pubblicistico della revoca dell'aggiudicazione ma devono esercitare il diritto potestativo regolato dall'art. 134 del D.Lgs. n. 163 del 2006”. Urbanistica e appalti 11/2014 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Amministrativa 5. Ciò affermato l'Adunanza Plenaria, ai sensi dell'art. 99, comma 4, c.p.a., restituisce gli atti alla sezione V di questo Consiglio per le ulteriori pronunce sul merito della controversia e sulle spese del giudizio. IL COMMENTO di Antonino Longo ed Enrico Canzonieri (*) (**) La sentenza in rassegna costituisce l’attuale approdo di un complesso dibattito giurisprudenziale incentrato sull’individuazione dello strumento del quale la pubblica amministrazione possa e debba avvalersi allo scopo di privare di efficacia il contratto di appalto già stipulato, qualora dovessero sopravvenire ragioni di inopportunità della prosecuzione del rapporto.L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, prendendo le mosse dall’esame della complessa normativa in materia e proseguendo con l’analisi dei discordanti indirizzi giurisprudenziali sviluppatisi nel corso del tempo e delle indicazioni fornite dalla sezione rimettente, traccia un percorso ricco di argomentazioni logico-giuridiche che conduce infine a ritenere che, una volta stipulato il contratto di appalto, la pubblica amministrazione non possa più utilizzare il potere di revoca, essendo quindi obbligata ad esercitare il diritto potestativo di recesso riconosciutole dall’art. 134 del D.Lgs. n. 163/2006.Presupposto tanto della revoca dell’aggiudicazione quanto del recesso dal contratto è, infatti, a parere dei giudici di Palazzo Spada, la diversa valutazione dell’interesse pubblico a causa di sopravvenienze, ciò che – stante la specialità della previsione sul recesso – precluderebbe, nelle ipotesi in esame, l’esercizio del potere di revoca di cui all’art. 21-quinquies della L. n. 241/1990. L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la sentenza n. 14 del 20 giugno 2014, ha esaminato e risolto la questione di diritto sottopostale dai giudici della V Sezione di Palazzo Spada con sentenza non definitiva n. 5786 del 5 dicembre 2013, stabilendo se, una volta intervenuta la stipulazione del contratto per l’affidamento dell’appalto di lavori pubblici, la pubblica amministrazione potesse esercitare il potere di revoca dell’aggiudicazione o dovesse, piuttosto, operare con l’esercizio del diritto di recesso. La vicenda processuale traeva origine dal ricorso proposto presso il TAR Lazio da parte della Consorzio Cooperative Costruzioni CCC Società Cooperativa, la quale – in proprio e nella qualità di mandataria dell’ATI composta anche da I.GE.M.A.S. Soc. Cons. a r.l., SALCEF Costruzioni Edili e Ferroviarie s.p.a., Erregi s.r.l. e Project Automation s.p.a. – chiedeva l’annullamento del provvedimento reso in data 4 giugno 2012 (n. di prot. 80861) con il quale l’Azienda per la Mobilità del Comune di Roma – ATAC s.p.a. aveva disposto la revoca in autotutela di tutti gli atti della procedura di gara – aggiudicata alla ricorrente con deliberazione del consiglio di amministrazione n. 81 del 14 novembre 2005 – per l’affidamento della progetta- zione ed esecuzione del deposito tranviario “Centro Carni” ed opere connesse. La revoca disposta dall’ATAC s.p.a. – intervenuta successivamente alla stipula del contratto di appalto, avvenuta in data 19 maggio 2006 – era basata su diversi motivi di interesse pubblico, consistenti nella sostanziale non esecuzione dell’appalto; nell’aggravio dei costi prospettati dall’appaltatrice, nelle proprie sopravvenute mutate esigenze operative, nell’inserimento del deposito tramviario in un piano di dismissioni immobiliari deliberato dall’assemblea di Roma Capitale, ed infine nell’incertezza sulla effettiva disponibilità di risorse per finanziare l’opera. Con ricorso per motivi aggiunti la CCC Società Cooperativa chiedeva, altresì, l’annullamento della nota ATAC s.p.a. n. 147684 del 19 ottobre 2012, con la quale venivano dichiarati formalmente cessati anche gli effetti derivanti dai verbali di consegna delle aree di cantiere concernenti la medesima procedura di gara. Specificamente, la società ricorrente – per come rilevato dal giudice di primo grado – deduceva che: 1) il provvedimento di aggiudicazione fosse insuscettibile di revoca ex art. 21-quinquies (1) della L. n. 241/1990, in quanto gli effetti dello stesso si erano già esauriti da tempo, stante l’avvenuta stipula del (*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla valutazione di un referee. (**) Il commento, benché frutto di un lavoro congiunto dei due autori, è imputabile, quanto ai paragrafi 1, 2 e 3, ad Antonino Longo e, quanto al paragrafo 4, ad Enrico Canzonieri. (1) Art. 21-quinquies (Revoca del provvedimento) - 1. Per La vicenda processuale Urbanistica e appalti 11/2014 1199 Giurisprudenza AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Amministrativa contratto d’appalto; 2) il provvedimento di revoca avesse omesso qualsiasi specifica considerazione dell’interesse privato, proclamando sic et simpliciter la prevalenza dell’interesse pubblico e ledendo l’affidamento ingenerato nell’ATI aggiudicataria; 3) il provvedimento di revoca fosse stato esercitato al di fuori dei presupposti applicativi e per un fine incompatibile con quello tipico del potere di autotutela della pubblica amministrazione, per sciogliere unilateralmente la stazione appaltante dall’atto negoziale stipulato a valle del provvedimento di aggiudicazione; 4) il provvedimento di revoca fosse illegittimo in quanto adottato senza prendere in considerazione le osservazioni procedimentali presentate dall’ATI; 5) per quanto atteneva ai motivi aggiunti, la nota n. 147684 fosse illegittima in quanto avrebbe preteso di derivare, dalla revoca dell’aggiudicazione, la cessazione degli effetti scaturenti dai verbali di consegna. Il ricorso proposto dalla ditta ricorrente – e la prima censura in particolare – veniva accolto dal TAR Lazio, sez. II-ter che, con sentenza n. 2432 del 6 marzo 2013, affermava come la revoca fosse stata adottata, da parte della stazione appaltante “in assenza del suo essenziale presupposto, e cioè di un oggetto costituito da un provvedimento che continua ancora a spiegare effetti”. Il TAR riteneva, quindi, che l’amministrazione, per potersi ritenere libera dal vincolo discendente dal contratto d’appalto già stipulato, avrebbe dovuto ricorrere all’istituto del recesso ex art. 134 del D.Lgs. n. 163/2006. Avverso la sentenza del TAR Lazio l’Azienda per la Mobilità del Comune di Roma – ATAC s.p.a. interponeva il gravame innanzi al Consiglio di Stato, sostenendo, nel merito, come il potere di revoca fosse conformato dall’art. 21-quinquies della L. n. 241/1990 in termini talmente ampi da renderlo esercitabile non soltanto su atti ad effetti duraturi, ma anche su atti “ad effetti istantanei”, nonché su qualsiasi tipologia di contratti della pubblica amministrazione, e ciò sulla scorta del comma 1-bis della citata disposizione. La V Sezione del Consiglio di Stato, respinti i pregiudiziali motivi di appello di insussistenza della giurisdizione amministrativa sulla controversia e di mancata integrazione del contraddittorio, procedeva all’analisi della normativa rilevante e delle posizioni della giurisprudenza al riguardo, giungendo – per la complessità delle questioni affrontate, per i contrasti interni tra sezioni del Consiglio di Stato, nonché alla luce della posizione assunta dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione – a ritenere opportuno un intervento nomofilattico dell’Adunanza Plenaria. In particolare, i giudici amministrativi, reputando essenziale l’interpretazione del dato normativo in una prospettiva sistematica ed in chiave teleologica, proponevano la rilettura del prevalente indirizzo giurisprudenziale offerto dal Consiglio di Stato, secondo cui, anche dopo l’avvenuta stipula del contratto di appalto, l’amministrazione aggiudicatrice sarebbe stata libera di revocare l’aggiudicazione ex art. 21-quinquies della L. n. 241/1990, senza dover necessariamente ricorrere all’esercizio del più oneroso diritto di recesso di cui all’art. 134 del D.Lgs. n. 163/2006. I giudici di Palazzo Spada, con la decisione in rassegna, hanno fatto sostanzialmente propri i presupposti logico-giuridici della disamina compiuta dalla Sezione rimettente, provvedendo, quindi, a concludere un dibattito giurisprudenziale non soltanto giuridicamente complesso, ma anche di particolare rilievo pratico, stanti le evidenti conseguenze economiche correlate alla diversa interpretazione della normativa in materia. sopravvenuti motivi di pubblico interesse ovvero nel caso di mutamento della situazione di fatto o di nuova valutazione dell'interesse pubblico originario, il provvedimento amministrativo ad efficacia durevole può essere revocato da parte dell'organo che lo ha emanato ovvero da altro organo previsto dalla legge. La revoca determina la inidoneità del provvedimento revocato a produrre ulteriori effetti. Se la revoca comporta pregiudizi in danno dei soggetti direttamente interessati, l'amministrazione ha l'obbligo di provvedere al loro indennizzo. 1-bis. Ove la revoca di un atto amministrativo ad efficacia durevole o istantanea incida su rapporti negoziali, l'indennizzo liquidato dall'amministrazione agli interessati è parametrato al solo danno emergente e tiene conto sia dell'eventuale conoscenza o conoscibilità da parte dei contraenti della contrarietà dell'atto amministrativo oggetto di revoca all'interesse pubblico, sia dell'eventuale concorso dei contraenti o di altri soggetti all'erronea valutazione della compatibilità di tale atto con l'interesse pubblico. 1-ter. Ove la revoca di un atto amministrativo ad efficacia durevole o istantanea incida su rapporti negoziali, l’indennizzo liquidato dall’amministrazione agli interessati è parametrato al solo danno emergente e tiene conto sia dell’eventuale conoscenza o conoscibilità da parte dei contraenti della contrarietà dell’atto amministrativo oggetto di revoca all’interesse pubblico, sia dell’eventuale concorso dei contraenti o di altri soggetti all’erronea valutazione della compatibilità di tale atto con l’interesse pubblico. 1200 Profili di giurisdizione e normativa in tema di revoca dell’aggiudicazione e recesso dal contratto di appalto Sebbene l’Adunanza Plenaria non abbia indugiato nell’analisi dei profili di giurisdizione relativi al caso di specie – ritenendo che tale questione fosse Urbanistica e appalti 11/2014 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Amministrativa stata già decisa in primo grado con pronuncia confermata in secondo grado – meritevole di commento appare senz’altro l’opinione espressa in argomento dalla Sezione rimettente con pronuncia non definitiva n. 5786 del 5 dicembre 2013. A tal proposito, appare necessario rilevare, innanzitutto, come l’appellante avesse sostenuto, in via di subordine, che il TAR Lazio avrebbe dovuto declinare la giurisdizione in favore del giudice ordinario, avendo riqualificato la revoca come atto di esercizio di un diritto potestativo di recesso, e avendo dunque affermato che l’atto impugnato risultasse viziato da carenza di potere in astratto. I giudici della V Sezione, con diffusa argomentazione, hanno censurato tale motivo di appello, chiarendo innanzitutto come il giudice di primo grado avesse in realtà qualificato correttamente il provvedimento della pubblica amministrazione quale revoca, e la posizione giuridica soggettiva del ricorrente come interesse legittimo, con ciò rispettando pienamente il criterio del petitum sostanziale (2) in tema di riparto di giurisdizione. Tanto precisato, la Sezione rimettente ha escluso, in primo luogo, che nel caso di specie l’atto fosse stato adottato in ipotesi di carenza di potere in astratto, che, a norma dell’art. 21-septies (3) L. n. 241/1990, avrebbe determinato la nullità dello stesso, con conseguente devoluzione della controversia al giudice ordinario. A parere dei giudici amministrativi, invece, l’atto di revoca era stato adottato in mancanza dei presupposti essenziali dell’atto stesso, ciò che, secondo l’insegnamento della giurisprudenza di legittimità, costituisce ipotesi di carenza di potere in concreto. È proprio questo, nella fattispecie in esame, il punto focale del ragionamento compiuto dal Consiglio di Stato, in quanto i giudici amministrativi hanno ritenuto, con argomentazione adeguatamente motivata, come in seguito all’entrata in vigore del citato art. 21-septies L. n. 241/1990, ad opera della L. n. 15/2005, i casi di carenza di potere in concreto non dovessero essere più devoluti alla giurisdizione ordinaria, bensì risultare accomunati a quelli di atti caratterizzati da vizi di legittimità, integrando ipotesi di annullabilità dell’atto, in relazione alle quali sussiste senz’altro la giurisdizione amministrativa. Ulteriore argomento a sostegno del proprio assunto, a parere della Sezione rimettente, è anche l’avvenuto recepimento, con D.Lgs. n. 53/2010, della direttiva ricorsi 2007/66/CE: tale circostanza ha, infatti, determinato il superamento della ricostruzione secondo cui, venendo meno gli atti di gara, verrebbe ad essere caducato necessariamente anche il contratto di appalto, avvinto agli stessi da un nesso di presupposizione, sicché l’accertamento delle conseguenze sul contratto risulterebbe oggi compiuto in via meramente incidentale, senza efficacia di giudicato. Entrambe le predette argomentazioni hanno quindi spinto il Consiglio di Stato a confermare la giurisdizione amministrativa nel caso in esame, vertendosi, a parere del Collegio, in tema di carenza di potere in concreto, e dovendosi statuire sulla sorte del contratto di appalto soltanto in via meramente incidentale, come conseguenza della decisione sulla legittimità dell’atto di revoca. La decisione della V Sezione in tema di giurisdizione, appena richiamata, appare di particolare interesse giacché guidata dall’intento di mettere ordine in una questione che, nel corso del tempo, è stata caratterizzata da diversi dubbi interpretativi e oscillazioni giurisprudenziali. La maggiore problematica presentatasi in argomento è stata, infatti, rappresentata dalla difficile individuazione di una chiara linea di demarcazione fra le ipotesi di carenza di potere in concreto (mancanza dei presupposti essenziali dell’atto), tradizionalmente devolute al giudice ordinario, e quelle di vizi di legittimità, di spettanza, invece, del giudice amministrativo. Ciò comportava che la questione attinente alla giurisdizione dipendesse, in definitiva, dall’esito di una valutazione di merito (la quale dovrebbe di converso seguire la verifica della giurisdizione), ma anche che varie complicazioni e contraddizioni si sarebbero verificate qualora il ricorrente avesse inteso al tempo stesso lamentare la mancanza sia dei presupposti di esercizio del potere che dei requisiti (2) Tale criterio individua la giurisdizione con riferimento al provvedimento richiesto all’autorità giudiziaria, tenendo altresì in considerazione la posizione giuridica soggettiva vantata dal ricorrente. Nel caso di specie, il ricorrente aveva contestato non la liceità dell’esercizio del diritto di recesso ex art. 134 D.Lgs. n. 163/2006, bensì la carenza di potere in concreto ai fini del legittimo esercizio del potere di revoca, con ciò deducendo in giudizio una posizione giuridica soggettiva di interesse legittimo. (3) Articolo 21-septies (Nullità del provvedimento) - 1. È nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali, che è viziato da difetto assoluto di attribuzione, che è stato adottato in violazione o elusione del giudicato, nonché negli altri casi espressamente previsti dalla legge. Urbanistica e appalti 11/2014 1201 Giurisprudenza AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Amministrativa di legittimità (e quindi il cattivo esercizio del potere). Il pregio della sentenza non definitiva n. 5786 del 5 dicembre 2013 risiede allora proprio nell’aver chiarito come, a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 21-septies L. n. 241/1990, le ipotesi di carenza di potere in concreto, quale quella in esame, siano ormai accomunate a quelle di vizi di legittimità e sanzionate con la mera annullabilità ex art. 21-octies (4) L. n. 241/1990, con devoluzione delle stesse alla cognizione del giudice amministrativo, indipendentemente dall’eventuale interessamento di un contratto di appalto. Conclusa la disamina del profilo attinente alla giurisdizione, appare innanzitutto opportuno rilevare come la risoluzione della questione di diritto sottoposta all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato non poteva che derivare dall’individuazione e dalla corretta interpretazione della normativa rilevante in materia, alla cui attenta e approfondita analisi si era già dedicata la Sezione rimettente. I giudici amministrativi hanno posto in rilievo tanto la normativa in tema di revoca dei provvedimenti amministrativi, contenuta nella legge sul procedimento amministrativo, quanto quella sul recesso dal contratto d’appalto pubblico, collocata nel codice degli appalti pubblici di lavori, servizi e forniture. Ciò al fine di individuare, in maniera quanto più netta possibile, la linea di confine tra i due istituti. Essi sembrerebbero, prima facie, operare su piani ben distinti, riferendosi il primo alla fase pubblicistica ed incidendo direttamente sull’atto amministrativo che è alla base del contratto, ed esplicando, al contrario, il secondo la sua operatività con esclusivo riferimento al momento negoziale. Eppure, come correttamente posto in rilievo da autorevole dottrina, la revoca del provvedimento di aggiudicazione si palesa idonea ad esplicare effetti anche sul contratto stipulato, privandolo della sua base giuridica (5). Prendendo le mosse proprio dalla normativa sul potere di revoca, infatti, il citato art. 21-quinquies della L. n. 241/1990, dopo aver disposto, al primo comma, che il potere di revoca della pubblica Amministrazione può incidere su atti “ad efficacia durevole”, statuisce, altresì, con il comma 1-bis – aggiunto dall’art. 13, comma 8-duodecies, D.L. n. 7/2007, convertito con modificazioni in L. n. 40/2007 – che l’atto revocato può essere anche “ad efficacia istantanea” qualora incida su “rapporti negoziali”. Tale disposizione, letta in uno con l’art. 1, comma 136 della L. n. 311/2004 (“Legge Finanziaria 2005”) (6), regolante il caso in cui, per “conseguire risparmi o minori oneri finanziari”, l’amministrazione provveda ad un annullamento che incida “su rapporti contrattuali o convenzionali con privati”, sembrerebbe profilare, a parere dei giudici amministrativi, una possibile deviazione del potere di revoca rispetto al proprio archetipo classico. A fronte di elementi strutturali tradizionalmente identificabili nella natura della revoca quale atto espressivo del potere di modificazione unilaterale di un rapporto scaturente da un precedente provvedimento amministrativo, diretto a produrre la cessazione degli effetti per il futuro in seguito alla constatazione della sopravvenuta non congruenza di quest’ultimo rispetto agli interessi pubblici perseguiti dall’amministrazione, il comma 1-bis dell’art. 21-quinquies sembrerebbe, infatti, avvicinare l’istituto del potere di revoca a quello dell’annullamento d’ufficio per illegittimità, poiché la revoca stessa finirebbe per operare con effetti retroattivi, vale a dire su atti la cui efficacia si sarebbe già esaurita. Tale interpretazione, applicata alla fattispecie concreta, porterebbe a ritenere che l’amministrazione possa revocare il provvedimento di aggiudicazione i cui effetti si sarebbero esauriti, privando conseguentemente di efficacia anche il susseguente contratto di appalto già stipulato. Richiamata la disciplina dell’istituto della revoca, i giudici di Palazzo Spada hanno poi posto l’ac- (4) Articolo 21-octies (Annullabilità del provvedimento) - 1. È annullabile il provvedimento amministrativo adottato in violazione di legge o viziato da eccesso di potere o da incompetenza. 2. Non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. (5) Cfr. S. Baccarini, G. Chiné, R. Proietti, Codice dell’appalto pubblico, Milano, 2011, 1554 ss. (6) L’art. 1, comma 136, L. n. 311/2004 dispone: 136. Al fine di conseguire risparmi o minori oneri finanziari per le amministrazioni pubbliche, può sempre essere disposto l’annullamento di ufficio di provvedimenti amministrativi illegittimi, anche se l’esecuzione degli stessi sia ancora in corso. L’annullamento di cui al primo periodo di provvedimenti incidenti su rapporti contrattuali o convenzionali con privati deve tenere indenni i privati stessi dall’eventuale pregiudizio patrimoniale derivante, e comunque non può essere adottato oltre tre anni dall’acquisizione di efficacia del provvedimento, anche se la relativa esecuzione sia perdurante. 1202 Urbanistica e appalti 11/2014 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Amministrativa cento sulla necessità che tale – già di per sé contraddittoria – normativa venisse coordinata con quella riguardante il recesso contrattuale della pubblica amministrazione (7), contenuta specificamente negli artt. 21-sexies della L. n. 241/1990 (8) e 134 del D.Lgs. n. 163/2006 (9). Il codice degli appalti pubblici, con l’art. 134, attribuisce, infatti, alla stazione appaltante il diritto, in corso di esecuzione del contratto di appalto, di recedere in qualunque tempo dallo stesso, previo pagamento dei lavori eseguiti e del valore dei materiali utili esistenti in cantiere, oltre al decimo dell'importo delle opere non eseguite. Una disciplina che disvela la natura privatistica dell’istituto del recesso dal contratto di appalto (10), disciplinato in via generale dall’art. 1671 c.c. (11), rispetto al quale l’art. 134 del D.Lgs. n. 163/2006 si differenzia con riferimento ai criteri di quantificazione del lucro cessante, in ossequio all’esigenza di tutelare la stazione appaltante da richieste indennitarie incerte ed esorbitanti, ma anche di assicurare alla stessa una stima preventiva del costo dello scioglimento del rapporto (12). Una disciplina significativamente differente, peraltro, da quella prevista dall’art. 21-quinquies della legge sul procedimento amministrativo in tema di risarcimento; quest’ultima, infatti, avendo riguardo all’esercizio di un potere di autotutela della pubblica amministrazione, strettamente correlato ad una nuova valutazione degli interessi pubblici rilevanti nel caso di specie, prevede il risarcimento del solo danno emergente tramite un indennizzo da corrispondere al contraente privato. Chiariti i presupposti logico-giuridici e i principali contenuti normativi degli istituti in esame, il percorso seguito dai giudici amministrativi nella pronuncia in commento è, dunque, proseguito definendo se, una volta stipulato il contratto di affidamento dell’appalto di lavori pubblici, vi fosse ancora spazio, per la stazione appaltante, in ordine all’esercizio di un’azione amministrativa in autotutela, finalizzata alla revoca del provvedimento di aggiudicazione con contestuale caducazione del connesso contratto d’appalto, ovvero se l’unica alternativa possibile fosse il recesso ex art. 134 D.Lgs. n. 163/2006, con tutte le conseguenze economiche da ciò scaturenti. (7) Cfr. G. Musolino, Il contratto di appalto, Rimini, 2007, 410 ss.; A. Carullo, G. Iudica, Commentario breve alla legislazione sugli appalti pubblici e privati, Padova, 2009, 865 ss., a parere dei quali l’art. 134 D.Lgs. n. 163/2006 costituisce una norma specifica disciplinante, con riferimento agli appalti di lavori stipulati dalla pubblica amministrazione, un istituto già previsto in via generale dall’art. 1671 c.c., il quale stabilisce la possibilità incondizionata ed insindacabile per il committente di recedere dal contratto, con l’obbligo di indennizzare l’appaltatore per le spese sostenute, per i lavori eseguiti e per il mancato guadagno. (8) Art. 21-sexies (Recesso dai contratti) - 1. Il recesso unilaterale dai contratti della pubblica amministrazione è ammesso nei casi previsti dalla legge o dal contratto. (9) Art. 134 (Recesso) - 1. La stazione appaltante ha il diritto di recedere in qualunque tempo dal contratto previo il pagamento dei lavori eseguiti e del valore dei materiali utili esistenti in cantiere, oltre al decimo dell'importo delle opere non eseguite. 2. Il decimo dell'importo delle opere non eseguite è calcolato sulla differenza tra l'importo dei quattro quinti del prezzo posto a base di gara, depurato del ribasso d'asta, e l'ammontare netto dei lavori eseguiti. 3. L'esercizio del diritto di recesso è preceduto da formale comunicazione all'appaltatore da darsi con un preavviso non inferiore a venti giorni, decorsi i quali la stazione appaltante prende in consegna i lavori ed effettua il collaudo definitivo. 4. I materiali il cui valore è riconosciuto dalla stazione appal- tante a norma del comma 1 sono soltanto quelli già accettati dal direttore dei lavori prima della comunicazione del preavviso di cui al comma 3. 5. La stazione appaltante può trattenere le opere provvisionali e gli impianti che non siano in tutto o in parte asportabili ove li ritenga ancora utilizzabili. In tal caso essa corrisponde all'appaltatore, per il valore delle opere e degli impianti non ammortizzato nel corso dei lavori eseguiti, un compenso da determinare nella minor somma fra il costo di costruzione e il valore delle opere e degli impianti al momento dello scioglimento del contratto. 6. L'appaltatore deve rimuovere dai magazzini e dai cantieri i materiali non accettati dal direttore dei lavori e deve mettere i predetti magazzini e cantieri a disposizione della stazione appaltante nel termine stabilito; in caso contrario lo sgombero è effettuato d'ufficio e a sue spese. (10) La natura privatistica del recesso è sottolineata dalle pronunzie che attribuiscono la giurisdizione in materia al giudice ordinario (cfr., in tal senso, Cass. civ., Sez. Un., 26 giugno 2003, n. 10160). (11) Art. 1671 c.c. (Recesso unilaterale dal contratto) - Il committente può recedere dal contratto, anche se è stata iniziata l'esecuzione dell'opera o la prestazione del servizio, purché tenga indenne l'appaltatore delle spese sostenute, dei lavori eseguiti e del mancato guadagno. (12) Cfr. M. Nunziata, Art. 134, in A. Cancrini, C. Franchini, S. Vinti, a cura di, Codice degli appalti pubblici, Torino, 2014, 881 ss. Urbanistica e appalti 11/2014 Gli orientamenti giurisprudenziali e la soluzione prospettata dalla Sezione rimettente Come rilevato tanto dai giudici della Sezione rimettente quanto da quelli dell’Adunanza Plenaria, il quesito ha trovato soluzioni contrastanti non soltanto nel confronto fra giurisdizione ordinaria e amministrativa, ma anche nell’alveo della stessa giurisprudenza del Consiglio di Stato. A tal proposito, i giudici di Palazzo Spada hanno ritenuto opportuno ripercorrere, in primo luogo, i principali orientamenti della giurisprudenza amministrativa in materia allo scopo di individuare 1203 Giurisprudenza AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Amministrativa spunti dogmatici utili alla risoluzione della questione sottoposta al proprio vaglio. Il prevalente indirizzo giurisprudenziale formatosi in seno al Consiglio di Stato, e richiamato nella pronuncia in commento, è quello espresso dalla sentenza 17 marzo 2010, n. 1554, secondo cui “il potere di eliminare (con revoca) gli atti amministrativi della serie di evidenza pubblica (…) sussiste anche in caso di esistenza del contratto”, fermo restando il conseguente diritto del privato all’indennizzo. Un indirizzo ribadito dalla sentenza 14 gennaio 2013, n. 156, la quale, argomentando sulla base del citato art. 1, comma 136, della L. n. 311/2004, nonché dell’art. 11, comma 9, del D.Lgs. n. 163/2006 (13) – che fa salvo l’esercizio del potere di autotutela dell’amministrazione sugli atti di gara anche una volta divenuta efficace l’aggiudicazione definitiva – ha ritenuto possibile l’esercizio del potere di autotutela anche in presenza di un contratto di appalto già stipulato. Qualora, infatti, il progetto non fosse più in grado di soddisfare l’interesse pubblico connesso alla realizzazione dell’appalto ovvero contrastasse con altre, diverse e sopravvenute esigenze di pubblico interesse, la preminente finalità pubblica sarebbe comunque destinata a prevalere, nonostante l’avvenuta sottoscrizione del contratto. Al suddetto orientamento fa, tuttavia, da contraltare, per come rilevato dai giudici amministrativi, la sentenza 13 aprile 2011, n. 2291, con la quale la III Sezione del Consiglio di Stato ha sostenuto, sebbene indirettamente, che la stipulazione del contratto di affidamento di appalti pubblici inibirebbe l’esercizio del potere di revoca di cui all’art. 21-quinquies della L. n. 241/1990 (14). A fronte di una giurisprudenza amministrativa quantomeno ondivaga, la Corte di Cassazione ha invece ripetutamente affermato, nel corso del tempo, come con la stipula del contratto di appalto le parti, pubblica e privata, istituiscano un rapporto giuridico paritetico, sicché il riscontro di sopravvenuti motivi di inopportunità di prosecuzione dello stesso, da parte della stazione appaltante, non potrebbe che essere ricondotto all’esercizio del potere contrattuale di recesso previsto dalla normativa sugli appalti pubblici (15). Tanto premesso in ordine ai principali orientamenti giurisprudenziali in materia, i giudici dell’Adunanza Plenaria hanno quindi provveduto ad esporre, con ampiezza argomentativa, la soluzione ermeneutica proposta da parte della Sezione rimettente con sentenza non definitiva 5 dicembre 2013, n. 5786. A tal riguardo, la sentenza in rassegna ha rilevato innanzitutto come, a parere della Sezione, a fronte dell’esistenza di una norma generale afferente alla revoca dei provvedimenti amministrativi per pubblico interesse (art. 21-quinquies, L. n. 241/1990), sussistano anche norme specifiche idonee ad attribuire alla pubblica Amministrazione la facoltà di recedere unilateralmente dai contratti stipulati con i privati (16). Da tale circostanza i giudici amministrativi hanno tratto la determinante conseguenza dell’emersione, già sul piano normativo, della categoria dei contratti di diritto pubblico (o ad oggetto pubblico) i quali si caratterizzerebbero, diversamente da quelli di diritto privato, per il mantenimento, da parte della stazione appaltante, di una posizione di supremazia. (13) Art. 11 Fasi delle procedure di affidamento - 9. Divenuta efficace l'aggiudicazione definitiva, e fatto salvo l'esercizio dei poteri di autotutela nei casi consentiti dalle norme vigenti, la stipulazione del contratto di appalto o di concessione ha luogo entro il termine di sessanta giorni, salvo diverso termine previsto nel bando o nell'invito ad offrire, ovvero l'ipotesi di differimento espressamente concordata con l'aggiudicatario. Se la stipulazione del contratto non avviene nel termine fissato, ovvero il controllo di cui all'art. 12, comma 3, non avviene nel termine ivi previsto, l'aggiudicatario può, mediante atto notificato alla stazione appaltante, sciogliersi da ogni vincolo o recedere dal contratto. All'aggiudicatario non spetta alcun indennizzo, salvo il rimborso delle spese contrattuali documentate. Nel caso di lavori, se è intervenuta la consegna dei lavori in via di urgenza e nel caso di servizi e forniture, se si è dato avvio all'esecuzione del contratto in via d'urgenza, l'aggiudicatario ha diritto al rimborso delle spese sostenute per l'esecuzione dei lavori ordinati dal direttore dei lavori, ivi comprese quelle per opere provvisionali. Nel caso di servizi e forniture, se si è dato avvio all'esecuzione del contratto in via d'urgenza, l'aggiudicatario ha diritto al rimborso delle spese sostenute per le prestazioni espletate su ordine del direttore dell'esecuzione. L'esecu- zione di urgenza di cui al presente comma non è consentita durante il termine dilatorio di cui al comma 10 e durante il periodo di sospensione obbligatoria del termine per la stipulazione del contratto previsto dal comma 10-ter, salvo che nelle procedure in cui la normativa vigente non prevede la pubblicazione del bando di gara, ovvero nei casi in cui la mancata esecuzione immediata della prestazione dedotta nella gara determinerebbe un grave danno all'interesse pubblico che è destinata a soddisfare, ivi compresa la perdita di finanziamenti comunitari. (14) Specificamente, la sentenza in esame ritiene che l’amministrazione si era legittimamente avvalsa di un proprio potere: “nel corso della procedura di gara e prima della stipulazione del contratto quando ancora gli interessi economici delle parti non si erano consolidati”. (15) Cfr. Cass. civ., Sez. Un., 11 gennaio 2011, n. 391; Cass. civ., Sez. Un., 17 dicembre 2008, n. 29425; Cass. civ., Sez. Un., 26 giugno 2003, n. 10160. (16) La sentenza fa riferimento, a titolo esemplificativo, all’art. 11, comma 4, L. n. 241/1990, nonché all’art. 158, D.Lgs. n. 163/2006. 1204 Urbanistica e appalti 11/2014 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Amministrativa Si tratterebbe, in definitiva, di tutti quei contratti accessivi ai provvedimenti amministrativi, la cui sussistenza dipenderebbe direttamente e inscindibilmente da quella dei provvedimenti stessi, come avviene in occasione delle concessioni-contratto. Una situazione, a ben vedere, nettamente diversa da quella sussistente nel caso di specie, in cui la stipula del contratto ad evidenza pubblica si colloca in una fase del tutto scissa da quella dell’aggiudicazione, nonché contraddistinta dalla sussistenza di un rapporto paritetico tra i contraenti, con predominanza del diritto privato, come emerge anche dal tenore delle disposizioni di cui agli artt. 21-sexies, L. n. 241/1990 (17), 11, commi 7 e 9, e 134 D.Lgs. n. 163/2006. La Sezione rimettente ha allora ritenuto che, appurata la confluenza del consenso contrattuale della pubblica amministrazione e quello della parte privata nell’accordo contrattuale ex art. 1325, n. 1), c.c., fosse da escludere l’eventualità che tale consenso potesse essere ritirato in via unilaterale mediante riesame dell’aggiudicazione in via di autotutela. Tutte le predette considerazioni hanno, quindi, condotto i giudici amministrativi a proporre un revirement del prevalente indirizzo giurisprudenziale del Consiglio di Stato, ritenendo che, una volta intervenuta la stipulazione del contratto di appalto (ad evidenza pubblica), l’amministrazione potesse incidere sullo stesso esclusivamente attraverso l’esercizio del diritto di recesso di cui all’art. 134 D.Lgs. n. 163/2006. Ciò, sempre a parere della Sezione rimettente, non comporterebbe, peraltro, una totale svalutazione dell’interesse pubblico, stante l’ampia configurazione data al diritto di recesso dal citato articolo 134, il quale consentirebbe all’amministrazione persino di recedere dal contratto d’appalto senza necessità di motivare la propria scelta nei confronti del contraente privato. Le condivisibili argomentazioni dei giudici amministrativi risultano, peraltro, confermate da una più approfondita valutazione della consistenza dogmatica dei due istituti della revoca dei provvedimenti amministrativi e del recesso della pubblica amministrazione dai contratti. Se, infatti, è vero che entrambi risultano caratterizzati da una struttura unilaterale, necessitando della sola volontà del soggetto pubblico per essere attivati, è altrettanto vero che ben diverse sono la disciplina e la natura degli stessi. Il potere di revoca della pubblica Amministrazione risulta, infatti, caratterizzato da una più spiccata procedimentalizzazione, ma soprattutto da una previsione (l’art. 21-quinquies L. n. 241/1990) che, in tema di procedimento amministrativo, ne sancisce la generale applicabilità. Esso rappresenta, a tutti gli effetti, un potere di natura pubblicistica, espressione dell’autotutela amministrativa, destinato a trovare la propria sede privilegiata in un contesto – quale quello del procedimento amministrativo – nel quale i principi dell’attività amministrativa, ed in primo luogo quelli di buon andamento ed economicità, non risultano compressi da posizioni private di particolare rilevanza. D’altro canto, ben diversa appare la consistenza del diritto di recesso dai contratti, oggi disciplinato dall’art. 21-sexies L. n. 241/1990; esso, infatti, non risulta procedimentalizzato dal citato articolo, il quale non ne sancisce nemmeno la generale applicabilità, rinviando piuttosto alle singole norme istituenti ipotesi di recesso negoziale. Il diritto di recesso opera, come noto, in un momento successivo alla stipula del contratto, sicché l’interesse pubblico alla chiusura del rapporto è necessariamente destinato a “scontrarsi” con il legittimo affidamento del privato, sorto a seguito del comportamento della pubblica amministrazione, che ha determinato in capo a questi una posizione di vantaggio. La tutela degli interessi pubblici, dunque, non può che uscirne affievolita, sebbene la pubblica amministrazione, come giustamente rilevato dall’Adunanza Plenaria nella sentenza in commento, assuma comunque una posizione di parità soltanto “tendenziale”. Il risultato è quello di un diritto di chiara natura privatistica, operante nell’ambito delle paritetiche posizioni contrattuali delle parti ma non caratterizzato da particolari oneri motivazionali, il cui esercizio comporta, per il privato, il diritto al risarcimento non soltanto del danno emergente, ma anche del lucro cessante. (17) La norma in questione, a parere della Sezione rimettente, deve ritenersi propria dei contratti in cui la pubblica amministrazione non è in posizione di supremazia, stante l’analogia con gli artt. 1372 e 1373 c.c., nonché la coerenza con il princi- pio di cui all’art. 1, comma 1-bis, L. n. 241/1990, per il quale: “La pubblica amministrazione, nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente”. Urbanistica e appalti 11/2014 1205 Giurisprudenza AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Amministrativa Da tutto quanto fin qui esposto sembra quindi derivare la conseguenza che il percorso della Sezione rimettente, snodatosi per i controversi indirizzi giurisprudenziali e riferimenti normativi, risulti pienamente rispettoso della ratio posta a fondamento dei due istituti della revoca e del recesso, apparendo il diritto di recesso dal contratto pubblico, anche dal punto di vista dogmatico, certamente più congeniale al raggiungimento dell’obiettivo della caducazione, nel corso di svolgimento del contratto di appalto pubblico, degli effetti dello stesso. È, quindi, con questo bagaglio dogmatico, costituito non soltanto dalle argomentazioni della Sezione rimettente, ma anche dagli approdi della pregressa giurisprudenza in materia, che l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato si è determinata nella risoluzione della questione di diritto sottopostale, al fine di stabilire – in definitiva – se una volta intervenuta la stipulazione del contratto di appalto ad evidenza pubblica, potesse ancora sussistere uno spiraglio per l’esercizio, da parte della stazione appaltante, del potere di revoca in autotutela dell’aggiudicazione, ovvero se si dovesse, piuttosto, procedere necessariamente con il recesso di cui all’art. 134 D.Lgs. n. 163/2006. Il punto di partenza del percorso ermeneutico seguito nella sentenza in rassegna è la netta distinzione della fase di scelta del contraente, conclusa con l’aggiudicazione definitiva, da quella di stipulazione e conseguente esecuzione del contratto. Distinzione che trova piena giustificazione nelle disposizioni del D.Lgs. n. 163/2006, dalle quali si evince chiaramente come l’aggiudicazione definitiva non equivalga ad accettazione dell’offerta (cfr. art. 11, comma 7), e come, fino alla stipula del contratto, resti salvo l’esercizio dei poteri di autotutela da parte della stazione appaltante (cfr. art. 11, comma 9). I giudici amministrativi hanno sostanzialmente ristretto da subito il proprio “campo d’azione”, focalizzando tutta l’attenzione sulla fase caratterizzata dall’impegno definitivo dell’amministrazione, a seguito dall’avvenuto incontro della propria volontà contrattuale con quella del privato. Ciò, al chiaro fine di evitare ingerenze e possibili suggestioni derivanti dalla natura pacificamente pubblicistica della procedura di aggiudicazione, intrisa di pervadenti poteri amministrativi in capo alla stazione appaltante. Il percorso dei giudici è proseguito, dunque, con il richiamo di quella giurisprudenza, anche costituzionale, che ha avuto modo di affermare in maniera decisa la natura privatistica della fase che ha inizio con la stipulazione del contratto di appalto, la quale sarebbe quindi retta da norme di carattere civilistico (18). Le argomentazioni sostenute dall’Adunanza Plenaria, se raffrontate con quelle offerte dalla Sezione rimettente, sembrano però compiere un passaggio ulteriore, consistente nell’enunciazione dell’assunto secondo cui, sebbene la fase in questione possa essere ben definita come privatistica, l’amministrazione si pone tuttavia con la controparte in una condizione di parità solamente “tendenziale”. La stazione appaltante, infatti, non smette e non può smettere, per il solo fatto di intrattenere un rapporto di natura privatistica, di essere portatrice di un interesse pubblico, e proprio per tale motivo la legge appresta per essa norme speciali, derogatorie di quelle comuni, che l’Adunanza Plenaria definisce di “autotutela privatistica”. Tipico esempio di tali norme, a parere della sentenza in commento, è proprio l’art. 134 D.Lgs. n. 163/2006, disciplinante il recesso dal contratto di appalto il quale presenta elementi di specialità non soltanto rispetto alle previsioni generali in materia di recesso, contenute nel codice civile (art. 1373 c.c.) e nella legge sul procedimento amministrativo (art. 21-sexies), ma anche rispetto alla disposizione speciale relativa ai contratti d’appalto, disciplinata dall’art. 1671 c.c. (19). È questo, sostanzialmente, il presupposto fondamentale che ha guidato l’Adunanza Plenaria ad escludere la possibilità di esercizio del potere di revoca, da parte della pubblica Amministrazione, nella fase di esecuzione del contratto di appalto. A parere dei giudici amministrativi, se è vero, infatti, che la posizione dell’amministrazione, in tale fase, è definita dall’insieme delle norme comuni (18) Cfr. Corte cost., 7 febbraio 2011, n. 43; Corte cost., 9 febbraio 2011, n. 53; Cass. civ., Sez. Un., 11 gennaio 2011, n. 391; Cons. Stato, sez. III, 5 maggio 2009, n. 450. (19) L’Adunanza Plenaria ha, infatti, rilevato che: «l'art. 134, nel concretare il caso applicativo di tale previsione (il recesso dal contratto di appalto), lo regola in modo diverso rispetto all'art. 1671 c.c., prevedendo il preavviso all'appaltatore e, quan- to agli oneri, la forfetizzazione del lucro cessante nel dieci per cento delle opere non eseguite e la commisurazione del danno emergente, fermo il pagamento dei lavori eseguiti, al “valore dei materiali utili esistenti in cantiere” mentre, per il citato art. 1671 c.c., il lucro cessante è dovuto per intero (“il mancato guadagno”) e per il danno emergente vanno rimborsate tutte le spese sostenute». La soluzione dell’Adunanza Plenaria 1206 Urbanistica e appalti 11/2014 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Amministrativa e di quelle speciali facenti si che la stessa operi in via non integralmente paritetica, e se è vero, altresì, che il presupposto e gli effetti dell’esercizio del potere di revoca risultano essere gli stessi del diritto di recesso di cui all’art. 134 D.Lgs. n. 163/2006 – vale a dire la diversa valutazione dell’interesse pubblico a causa di sopravvenienze e la perdita di efficacia ex nunc del provvedimento – logico corollario di tali considerazioni non può che essere l’insussistenza, nel caso di specie, di alcun potere di revoca dell’aggiudicazione. La previsione di una norma di carattere speciale, nell’ottica dei giudici di Palazzo Spada, non può infatti che escludere a priori la possibilità di applicazione dell’art. 21-quinquies della L. n. 241/1990, con le relative conseguenze di carattere economico (maggiore onerosità del recesso), ma anche procedimentale (mancanza dell’obbligo motivazionale nel recesso (20)). Argomentando diversamente, peraltro, si finirebbe per togliere qualsiasi rilevanza alla norma sul diritto di recesso (21), senza considerare che, qualora il legislatore avesse ritenuto di consentire che la stazione appaltante potesse incidere, con il potere di revoca, financo su un contratto stipulato, lo avrebbe fatto in maniera espressa e precisa (22). Le ulteriori argomentazioni addotte nella sentenza in commento sembrerebbero confermare l’assunto dei giudici amministrativi: compatibile con la soluzione fornita dall’Adunanza Plenaria risulterebbe, infatti, l’impregiudicata possibilità, per la stazione appaltante, di esercizio i poteri di autotutela fino alla stipula del contratto di appalto, nonché successivamente, nell’ipotesi prevista dall’art. 1, comma 136, della L. n. 311/2004. Nel primo caso, infatti, ci si trova ancora, come già precisato, all’interno di una fase procedimentale di natura prettamente pubblicistica, mentre nel secondo l’azione in via di autotutela, posta in essere successivamente alla stipulazione del contratto, è giustificata dal carattere di specialità della disposizione normativa richiamata. Peraltro, ha tenuto ancora a precisare il Collegio, la soluzione ermeneutica fatta propria con la pronuncia in rassegna non escluderebbe del tutto l’applicabilità del comma 1-bis dell’art. 21-quinquies L. n. 241/1990, il quale continuerebbe ad assumere rilievo con riferimento ad atti amministrativi incidenti sui rapporti negoziali originati dagli ulteriori e diversi contratti di appalto, di servizi e forniture o relativi a concessioni contratto stipulati dall’amministrazione. Vagliata, dunque, anche la tenuta sistematica dell’opzione interpretativa accolta, l’Adunanza Plenaria ha concluso esponendo il seguente principio di diritto: “Nel procedimento di affidamento di lavori pubblici le pubbliche amministrazioni se, stipulato il contratto di appalto, rinvengano sopravvenute ragioni di inopportunità della prosecuzione del rapporto negoziale, non possono utilizzare lo strumento pubblicistico della revoca dell’aggiudicazione ma devono esercitare il diritto potestativo regolato dall’art. 134 del D.Lgs. n. 163 del 2006”. Un approdo giurisprudenziale, in conclusione, che ha provveduto a rivedere un orientamento dei giudici amministrativi probabilmente troppo incline a conferire rilievo agli interessi pubblicistici, di cui la stazione appaltante è comunque portatrice, a scapito di una più corretta valutazione della normativa in materia. (20) La mancanza di disposizioni riguardanti l’obbligo motivazionale e i limiti alla possibilità di recedere renderebbero l’esercizio di tale diritto, a parere di parte della dottrina (cfr. A. Cianflone, G. Giovannini, L’appalto di opere pubbliche, Milano, 2010, 1910 ss.) e della giurisprudenza più risalente, del tutto incensurabile nel merito (cfr. Cass. civ., Sez. Un., 22 giugno 1978, n. 3069). Tuttavia, altra parte della dottrina (cfr. A. Catricalà, L’autotutela della stazione appaltante, in Riv. Trim. App., Rimini, 2001, 433 ss.) ha manifestato alcune perplessità in merito al corollario dell’assoluta insindacabilità del recesso che, oltre a non risultare appropriata alla natura pubblica dell’ente titolare del diritto, potrebbe comportare un importante vuoto di tutela per i privati interessati dalla determinazione di scioglimento del vincolo contrattuale. È stato, pertanto, proposto di utilizzare il principio generale del divieto di abuso del diritto il quale, in uno con la clausola generale di buona fede nell’ese- cuzione del contratto (art. 1375 c.c.) e con il principio di correttezza nel rapporto obbligatorio (art. 1175 c.c.), consentirebbe di sindacare le modalità di esercizio del diritto da parte della pubblica amministrazione. Come noto, infatti, l’interesse pubblico al corretto esborso del denaro pubblico non è solo immanente alla fase della procedura selettiva, ma può emergere anche nella successiva fase di esecuzione del contratto, condizionandone alcuni momenti (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 24 marzo 2010, n. 1713). (21) La dottrina si è chiesta, infatti, a più riprese, quale potesse mai essere la convenienza, per l’amministrazione, ad esercitare il diritto di recesso invece che operare tramite la revoca. Cfr., in tal senso, S. Baccarini, G. Chiné, R. Proietti, Codice dell’appalto pubblico, Milano, 2011, 1556 ss. (22) È il caso, ad esempio, della concessione in finanza di progetto di cui all’art. 158 del D.Lgs. n. 163/2006. Urbanistica e appalti 11/2014 1207 Giurisprudenza AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Amministrativa Sicurezza Indicazione degli oneri per la sicurezza negli appalti di lavori CONSIGLIO DI STATO, sez. V, 17 giugno 2014, n. 3056 – Pres. Maruotti – Est. Franconiero – Atheste Costruzioni s.r.l. c. Mag Costruzioni s.r.l e Ente Spes - Servizi alla persona educativi e sociali È legittima l'aggiudicazione di una gara di appalto di lavori in favore di un'impresa che non ha indicato specificamente, nell'offerta economica, gli oneri per la sicurezza aziendale. Infatti il combinato-disposto degli artt. 83, comma 3-bis, D.Lgs. n. 163/2006 e 26, comma 6, D.Lgs. n 81/2008 non impone alle imprese partecipanti a procedure di affidamento di contratti pubblici di lavori l'obbligo, a pena di esclusione dalla gara, di indicare gli oneri per la sicurezza aziendale ed in nessuna parte di tali disposizioni è previsto che per gli appalti di lavori pubblici si debbano indicare nell'offerta tali costi. Gli artt. 86 e 87 del D.Lgs. n. 163/2006 regolano la verifica dell'anomalia dell'offerta. Ne consegue che è in questa sede che l'obbligo di indicare, e giustificare, i costi per la sicurezza viene in rilievo, mentre risulta eccedente, rispetto al fine di consentire nella stessa sede tale verifica, pretendere che l'impresa provveda ad indicare i costi in questione già nella propria offerta. ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI Conforme Cons. Stato, sez. V, 9 ottobre 2013, n. 4964 Difforme Cons. Stato, sez. III, 3 luglio 2013, n. 3565; Id., 7 maggio 2012, n. 2628; Id., 19 gennaio 2012, n. 212 Diritto 1. Gli appelli devono essere riuniti ai sensi dell’art. 96 c.p.a., perché rivolti nei confronti della medesima sentenza, e devono essere accolti perché fondati nel merito, potendo quindi prescindersi dalle eccezioni pregiudiziali in essi prospettate. Nessuno dei passaggi motivazionali addotti dal TAR a sostegno dell’accoglimento del ricorso, sopra elencati, risulta infatti condivisibile. 2. In primo luogo, contrariamente a quanto rilevato dal TAR, il combinato disposto degli artt. 86-comma 3-bis, D.Lgs. n. 163/2006 e 26, comma 6, D.Lgs. n. 81/2008 non impone alle imprese partecipanti a procedure di affidamento di contratti pubblici di lavori l’obbligo, a pena di esclusione dalla gara, di indicare gli oneri per la sicurezza aziendale. L’assunto si fonda su una non condivisibile esegesi della disposizione del codice dei contratti pubblici sopra citata, la quale recita testualmente: “Nella predisposizione delle gare di appalto e nella valutazione dell’anomalia delle offerte nelle procedure di affidamento di appalti di lavori pubblici, di servizi e di forniture, gli enti aggiudicatori sono tenuti a valutare che il valore economico sia adeguato e sufficiente rispetto al costo del lavoro e al costo relativo alla sicurezza, il quale deve essere specificamente indicato e risultare congruo rispetto all’entità e alle caratteristiche dei lavori, dei servizi o delle forniture”. 1208 Come correttamente evidenziato dal difensore della originaria controinteressata, ed a confutazione dei contrari rilievo della Mag Costruzioni, la norma si rivolge quindi, in primo luogo, agli enti aggiudicatori, imponendo loro, “nella predisposizione delle gare di appalto e nella valutazione dell’anomalia delle offerte”, di effettuare uno specifico apprezzamento della congruità dei costi del lavoro e della sicurezza indicati dalle concorrenti nelle loro offerte. Ciò del resto si evince dalla rubrica della disposizione: “criteri di individuazione delle offerte anormalmente basse”. È del pari incontestabile che la medesima norma prevede che il costo in questione “deve essere specificamente indicato”, ma va precisato che tale indicazione è funzionale alla predetta verifica di congruità e dunque all’attuazione del precetto cui soggiacciono le stazioni appaltanti. L’art. 86 va poi coordinato con il successivo art. 87 (“criteri di verifica delle offerte anormalmente basse”), il quale prevede, al comma 4, che “Nella valutazione dell’anomalia la stazione appaltante tiene conto dei costi relativi alla sicurezza, che devono essere specificamente indicati nell’offerta e risultare congrui rispetto all'entità e alle caratteristiche dei servizi o delle forniture”. Il medesimo comma 4 dispone inoltre che “Non sono ammesse giustificazioni in relazione agli oneri di sicurezza in conformità all’articolo 131, nonché al piano di sicurezza e coordinamento di cui all’art. 12, D.Lgs. 14 Urbanistica e appalti 11/2014 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Amministrativa agosto 1996, n. 494 e alla relativa stima dei costi conforme all’art. 7, D.P.R. 3 luglio 2003, n. 222”. Quindi, dal complesso delle disposizioni in esame si ricava che le stazioni appaltanti sono tenute a verificare gli oneri per la sicurezza ai fini del giudizio di anomalia dell’offerta e, in stretta conseguenza di ciò, che le imprese sono tenute ad indicare nella loro offerta detta voce di costo. 3. Del pari, come già affermato da questa Sezione (sentenza n. 4964 del 9 ottobre 2013), le medesime norme operano una distinzione tra appalti di lavori da una parte e appalti di servizi e forniture dall’altra. Infatti, il ridetto art. 87, comma 4, specifica il più generale ed onnicomprensivo comma 3-bis dell’art. 86, imponendo alle imprese - partecipanti a procedure di affidamento della seconda tipologia di contratti - di indicare nell’offerta “i costi relativi alla sicurezza”. Per la prima tipologia di giustificazioni, per contro, il precetto è significativamente diverso, giacché esso vieta giustificazioni (e dunque ribassi) rispetto agli “oneri relativi alla sicurezza” già stimati dalla stazione appaltante nel piano di sicurezza e coordinamento dalla stessa predisposto ai sensi del richiamato art. 131. Per contro, in nessuna parte di queste tali disposizioni è previsto che per gli appalti di lavori pubblici si debbano indicare nell’offerta i costi per la sicurezza aziendale. E soprattutto, in nessuna parte è prevista la comminatoria di esclusione per l’omessa indicazione degli stessi: certamente non per gli appalti di lavori, per i quali vi è una rigorosa analisi dei costi in questione da parte della stazione appaltante nella fase della progettazione, in virtù di puntuali disposizioni del regolamento di attuazione di cui al D.P.R. n. 207/2010, come sottolinea l’appellante a pag. 9 dell’atto d’appello (e non rileva in questa sede verificare quale sia la soluzione nel caso di appalto di servizi e forniture). All’interpretazione letterale finora svolta se ne salda una di carattere teleologico, la quale muove dalla circostanza che, come ampiamente visto finora, le disposizioni in esame regolano la verifica dell’anomalia dell’offerta. Ne consegue che è in questa sede che l’obbligo di indicare (e giustificare) i costi per la sicurezza viene in rilievo, mentre risulta eccedente, rispetto al fine di consentire nella stessa sede tale verifica, pretendere che l’impresa provveda ad indicare i costi in questione già nella propria offerta. 3.1 Una diversa conclusione rispetto a quanto finora esposto non può essere ricavata nemmeno dall’art. 26, comma 6, D.Lgs. n. 81/2008. Quest’ultima disposizione è così formulata: “Nella predisposizione delle gare di appalto e nella valutazione dell’anomalia delle offerte nelle procedure di affidamento di appalti di lavori pubblici, di servizi e di forniture, gli enti aggiudicatori sono tenuti a valutare che il valore economico sia adeguato e sufficiente rispetto al costo del lavoro e al costo relativo alla sicurezza, il quale deve essere specificamente indicato e risultare congruo rispetto all’entità e alle caratteristiche dei lavori, dei servizi o delle forniture”. Urbanistica e appalti 11/2014 Vi è certamente un’unificazione di disciplina per tutti gli appalti pubblici, ma il precetto in esso contenuto è rivolto ancora una volta agli “enti aggiudicatori”, ed è del pari indubbio che questa norma vada coordinata con gli artt. 86 e 87, le quali contengono disposizioni di maggiore dettaglio. Peraltro, ed a conferma di quanto ora detto, anche la norma in esame fa riferimento alla verifica dell’anomalia. 4. Non è condivisibile nemmeno il secondo passaggio argomentativo della sentenza di primo grado. È certamente indiscutibile che tutte le norme di legge finora analizzate perseguono l’obiettivo di assicurare la tutela dei lavoratori e che tale fine trascende i contrapposti interessi delle stazioni appaltanti e delle imprese partecipanti a procedure di affidamento di contratti pubblici, rispettivamente di aggiudicare questi ultimi alle migliori condizioni consentite dal mercato, da un lato, e di massimizzare l’utile ritraibile dal contratto dall’altro. Ma questo fine si può ampiamente realizzare attraverso l’obbligo per le stazioni appaltanti di effettuare una specifica valutazione della congruità del costo per la sicurezza, nella appropriata sede della verifica dell’anomalia dell’offerta. 4.1 Per contro, si rileva ingiustificatamente penalizzante per le imprese, e dunque per le esigenze della concorrenza che pure la legislazione sui contratti pubblici persegue, quello di sanzionare con l’esclusione dalla gara la mancata indicazione dei costi per la sicurezza aziendale. È infatti palese la sproporzione tra obiettivi perseguiti e risultati realizzati, giacché - al fine di tutelare la sicurezza ed i connessi diritti dei lavoratori - si preclude all’impresa di concorrere per l’affidamento di contratti pubblici per il solo fatto di non avere esposto nell’offerta i relativi costi per la sicurezza aziendale, quand’anche gli stessi risultassero congrui nell’unica sede deputata a tale verifica. 5. Ne consegue che perde rilievo la ipotizzata valenza eterointegratrice delle ridette disposizioni di legge nei confronti della normativa di gara, laddove cioè la prima sia interpretata nel senso finora esposto. Peraltro, del potere di eterointegrazione deve essere fatto un uso accorto. Come infatti di recente sottolineato dalla III Sezione di questo Consiglio di Stato, l’inserzione automatica di clausole prevista dall’art. 1339 c.c., in cui si sostanzia il meccanismo in questione, in tanto si giustifica in quanto occorra conformare il contenuto delle obbligazioni e di diritti nascenti da contratti già conclusi con esigenze di ordine imperativo non disponibili dai contraenti (sentenza, 2 settembre 2013, n. 4364). Alla luce di questa considerazione, rispondente ad incontestati principi di teoria generale di diritto, è assai dubbia la operatività del meccanismo in questione nei confronti di aspetti che concernono lo svolgimento della procedura selettiva ed in particolare le modalità con cui le imprese formulano la loro offerta. In un’altra recente decisione, la III Sezione ha anche affermato che l’eterointegrazione del bando di gara è configurabile in presenza di norme imperative recanti una 1209 Giurisprudenza AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Amministrativa rigida predeterminazione dell'elemento destinato a sostituirsi alla clausola difforme, ma non già nei casi in cui alle parti siano affidati la determinazione del corrispettivo e dei suoi elementi (sentenza 18 ottobre 2013, n. 5069). In questa pronuncia la III Sezione è quindi giunta alla conclusione, opposta a quella cui è pervenuto il TAR nella sentenza qui appellata, secondo cui è legittima la clausola del bando di gara che semplifichi le modalità di manifestazione dell’offerta economica relativamente agli oneri di sicurezza, in difformità agli artt. 86, comma 3-bis, e 87, comma 4, D.Lgs. n. 163/2006. 6. Che del potere di eterointegrazione debba essere fatto un uso accorto si trae conferma anche dal consolidato indirizzo della giurisprudenza amministrativa secondo cui la legge di gara deve essere interpretata secondo le regole dettate dagli artt. 1362 e ss. c.c., alla stregua dei quali si deve comunque attribuire valore preminente all’interpretazione letterale, in coerenza con i principi di chiarezza e trasparenza ex art. 1 L. n. 241/1990, mentre devono essere escluse interpretazioni integrative contrarie al canone della buona fede interpretativa di cui all’art. 1366 c.c. (Cons. Stato, sez. III, 2 settembre 4364; sez. V, 21 dicembre 2012, n. 6615, 5 settembre 2011, n. 4980). In particolare non sono consentite interpretazioni volte ad enucleare significati impliciti nella normativa di gara, potenzialmente in grado quindi di ledere l’affidamento dei terzi e la massima partecipazione alla gara (Cons. Stato, sez. V, 13 gennaio 2014, n. 72, 16 gennaio 2013, n. 238, 7 gennaio 2013, n. 7, 31 ottobre 2012, n. 5570). In questa linea si colloca quindi la regola secondo cui la buona fede e l’affidamento - che le imprese partecipanti a procedure di affidamento di contratti pubblici circa la necessità di rispettare le clausole della normativa di gara - non devono risolversi in loro danno, attraverso l’esclusione dalla gara (sez. V, 24 ottobre 2013, n. 5155). 6.1 Tale indirizzo è pertinente al caso di specie, in cui la stazione appaltante non aveva preteso la specificazione dei costi per la sicurezza aziendale in sede di offerta, ed è confermato dal fatto che, tranne la ricorrente di primo grado, tutte le imprese concorrenti alla procedura in contestazione non hanno indicato nella propria offerta i costi aziendali per la sicurezza. 7. Alla luce di quanto finora osservato, perde di rilievo l’ultimo argomento addotto dal TAR a sostegno della propria decisione, e cioè che il piano di sicurezza e coordinamento predisposto dalla stazione appaltante ex art. 131 D.Lgs. n. 163/2006 concerne i soli oneri da interferenza e non già i costi aziendali. Questa corretta asserzione non è infatti idonea a superare i rilievi sopra svolti. Giova infatti ribadire che è nella pertinente sede del sub-procedimento di verifica dell’anomalia dell’offerta che la seconda tipologia di oneri possono essere apprezzati dalla stazione appaltante, senza tuttavia che questo doveroso accertamento debba necessariamente presupporre l’indicazione di tale voce di costo già nell’offerta. 7.1 L’assunto, peraltro, non trova rispondenza nel dato normativo, come ben evidenziato dal difensore della Atheste Costruzioni nella discussione. A differenza dei servizi e delle forniture, gli appalti di lavori importano la necessità di istituire “cantieri temporanei o mobili” ai sensi del titolo IV del testo unico di cui al D.Lgs. n. 81/2008 (in precedenza D.Lgs. n. 494/1996), concetto sulla cui base la disciplina giuslavoristica concernente la sicurezza sul lavoro si è sviluppata, attraverso numerosi istituti, tra cui il piano di sicurezza e coordinamento previsto dagli artt. 100 del citato testo unico sulla sicurezza sul lavoro e 131 cod. contratti pubblici. È dunque in conseguenza dei rischi per la sicurezza derivanti dalla installazione e gestione del cantiere nel quale i lavori sono destinati ad essere svolti che sorge la necessità, in primo luogo, che la stazione appaltante provveda alla stima dei costi delle misure necessarie alla loro prevenzione di tali rischi, e, in seconda battuta, che l’impresa esecutrice dei lavori impieghi all’uopo i mezzi e le risorse previste a questo scopo. A comprova di ciò va rilevato che l’art. 39 D.P.R. n. 207/2010 demanda al piano di sicurezza e coordinamento (con i documenti ad esso allegati), come integrato dalle indicazioni dell’aggiudicataria ex art. 131, comma 4, cod. contratti pubblici, l’intera problematica degli oneri per la sicurezza. La citata disposizione prevede infatti che il piano in questione “deve prevedere l’individuazione, l’analisi e la valutazione dei rischi in riferimento all’area e all’organizzazione dello specifico cantiere, alle lavorazioni interferenti ed ai rischi aggiuntivi rispetto a quelli specifici propri dell’attività delle singole imprese esecutrici o dei lavoratori autonomi” (comma 2). Questa disposizione, oltre a spiegare la diversa disciplina contenuta nel sopra esaminato art. 87, comma 4, D.Lgs. n. 163/2006, rende evidente che per i lavori pubblici ogni questione inerente la congruità degli oneri per la sicurezza non costituisce requisito di validità delle offerte la cui mancanza ne determina l’esclusione. 8. In conclusione, in riforma della sentenza appellata deve essere respinto il ricorso di primo grado della Mag Costruzioni. Omissis IL COMMENTO di Carmen Mucio Le disposizioni in vigore, ed in particolare gli artt. 86, comma 3-bis, e 87, comma 4 del codice dei contratti pubblici e l'art. 26, comma 6, del D.Lgs. n. 81/2008, non impongono un obbligo a carico delle imprese 1210 Urbanistica e appalti 11/2014 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Amministrativa concorrenti a procedure per l'affidamento di lavori rispetto all'indicazione in sede di offerta dei costi per la sicurezza. A tali norme, che si rivolgono agli enti aggiudicatori e concernono l’anomalia dell’offerta, non può inoltre essere riconosciuta una valenza eterointegratrice della lex specialis. In virtù del principio generale del favor partecipationis, ove la documentazione di gara predisposta dall’amministrazione aggiudicatrice non richieda l’indicazione degli oneri della sicurezza interna nell’offerta non possono essere escluse le imprese che non abbiano effettuato tale dichiarazione, dal momento che non esiste una disposizione di legge che preveda come causa di esclusione la mancata indicazione di che trattasi in ipotesi di affidamento di lavori. Il contesto di riferimento Con la sentenza n. 3056 del 17 giugno 2014 il Consiglio di Stato ritorna sulla vexata quaestio dell’esistenza o meno di un obbligo a carico delle imprese partecipanti alle procedure di affidamento di contratti pubblici di indicare nell’offerta economica, a pena di esclusione, gli oneri per la sicurezza. I giudici amministrativi si sono espressi sulla tematica, anche di recente, optando di volta in volta per interpretazioni alquanto difformi delle norme di riferimento, in primis dell’art. 86, comma 3-bis, del codice dei contratti pubblici, in base al quale nelle procedure di affidamento di appalti di lavori pubblici, di servizi e di forniture, gli enti aggiudicatori, sia nella predisposizione delle gare di appalto che nella valutazione dell’anomalia delle offerte, sono tenuti a valutare che il valore economico sia adeguato e sufficiente rispetto al costo del lavoro e al costo relativo alla sicurezza, il quale deve essere specificamente indicato e risultare congruo rispetto all’entità e alle caratteristiche dei lavori, dei servizi o delle forniture. Tale disposizione deve poi essere coordinata con il successivo art. 87, comma 4, secondo cui in relazione a servizi e forniture nella valutazione dell’anomalia la stazione appaltante tiene conto dei costi relativi alla sicurezza, che devono essere specificamente indicati nell’offerta e risultare congrui rispetto all'entità e alle caratteristiche dei servizi o delle forniture. In base alla medesima norma, non sono ammesse giustificazioni in relazione agli oneri di sicurezza in conformità all'art. 131 del codice, nonché al piano di sicurezza e coordinamento di cui all'art. 12 del D.Lgs. n. 494/1996 e alla relativa (1) Cons. Stato, sez. III, 23 gennaio 2014, n. 348: la quantificazione degli oneri di sicurezza aziendale spetta a ciascuno dei concorrenti e varia in rapporto alla qualità ed entità della sua offerta. T.A.R. Lazio, Latina, sez. I, 15 gennaio 2014, n. 7; T.A.R. Lombardia, Milano, sez. IV, 9 gennaio 2014, n. 36. Cfr. Cons. Stato, sez. III, 3 ottobre 2011, n. 5421. AVCP, parere 9 maggio 2013, n. 77. (2) Cons. Stato, sez. III, 23 gennaio 2014, n. 348: tali costi sono predeterminati dalla stazione appaltante e riguardano ri- Urbanistica e appalti 11/2014 stima dei costi conforme all'art. 7 del D.P.R. n. 222/2003. Ancora, rileva richiamare l'art. 26, comma 6, del D.Lgs. n. 81/2008, in base al quale nella predisposizione delle gare di appalto e nella valutazione dell'anomalia delle offerte nelle procedure di affidamento di appalti di lavori pubblici, di servizi e di forniture, gli enti aggiudicatori sono tenuti a valutare che il valore economico sia adeguato e sufficiente rispetto al costo del lavoro e al costo relativo alla sicurezza, il quale deve essere specificamente indicato e risultare congruo rispetto all'entità e alle caratteristiche dei lavori, dei servizi o delle forniture. Con riferimento alla nozione di oneri per la sicurezza occorre premettere che alla stessa vengono ascritte due distinte categorie di costi, quelli relativi ai rischi c.d. da “interferenze”, o esterni, da un lato e quelli interni, connessi ai rischi dell'attività propria dell'appaltatore, c.d. “rischi propri” o “costi di sicurezza aziendale”, dall'altro. Questi ultimi possono essere quantificati unicamente dal singolo concorrente in rapporto alla sua offerta economica e alla sua specifica organizzazione, ossia ai propri rischi specifici (1). Gli oneri esterni, o da interferenze, sono invece quelli connessi ai rischi derivanti dai contatti, nell'ambiente di esecuzione dell'appalto, tra il personale, o l’utenza, del committente e il personale dell'appaltatore, per la cui prevenzione la stazione appaltante deve elaborare il Documento Unico per la Valutazione dei Rischi da Interferenze (cd. DUVRI), quantificando i relativi costi, che devono essere espressamente indicati nella lex specialis e non possono essere soggetti a ribasso in sede di gara (2). schi relativi alla presenza nell’ambiente della stessa di soggetti estranei chiamati ad eseguire il contratto. T.A.R. Lombardia, Milano, sez. IV, 9 gennaio 2014, n. 36: si pensi ad esempio ai possibili rischi derivanti dalla sovrapposizione di più attività svolte da operatori di appaltatori diversi, dalle lavorazioni dell’appaltatore nel luogo di lavoro del committente ovvero dalle particolari richieste di esecuzione del committente in relazione ai rischi specifici dell’attività propria dell’appaltatore. 1211 Giurisprudenza AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Amministrativa Nel variegato panorama giurisprudenziale cui sopra si è fatto cenno si rinvengono in particolare decisioni non concordi circa l'obbligatorietà dell'indicazione degli oneri di sicurezza sia aziendali che da interferenze, e ciò anche in relazione alla presenza o meno di un'espressa previsione in tal senso nella lex specialis della gara. L'obbligo di che trattasi, si aggiunge, viene talora ritenuto vigente per tutte le tipologie di affidamento di contratti pubblici, più spesso solo in relazione agli appalti di servizi e di forniture. Di tali difformi orientamenti sulla questione si dirà brevemente qui di seguito. L'omessa indicazione come causa di esclusione dalla gara Secondo il più rigido degli orientamenti la mancata indicazione nell'offerta dei costi per la sicurezza, per le interferenze o per i rischi specifici, non può che determinare la sanzione dell'esclusione del concorrente dalla gara, e ciò anche in assenza di un'espressa previsione in proposito da parte della lex specialis (3). L'inosservanza delle norme sopra richiamate sarebbe infatti configurabile come inadempimento delle prescrizioni del codice degli appalti, determinerebbe incertezza assoluta del contenuto dell'offerta per mancanza di un elemento essenziale di quest'ultima, ex art. 46, comma 1-bis, del codice (4), e comporterebbe dunque inevitabilmente la sanzione espulsiva (5). In base a tale impostazione, nell'ipotesi di omissione non potrebbe ipotizzarsi un potere di soccor(3) Cfr. Cons. Stato, sez. III, 3 luglio 2013, n. 3565. AVCP, parere 25 settembre 2013, n. 147. (4) Cons. Stato, Ad. Plen., 25 febbraio 2014, n. 9; Cons. Stato, sez. III, 23 gennaio 2014, n. 348; T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 25 maggio 2014, n. 2785; Id., 8 aprile 2014, n. 2010. (5) Così Cons. Stato, sez. V, ord. 5 febbraio 2014, n. 522 con riferimento sia a servizi e forniture che per i lavori. Cons. Stato, sez. III, 3 luglio 2013, n. 3565; T.A.R. Veneto, sez. I, 5 marzo 2014, n. 299. (6) Cons. Stato, sez. III, 23 gennaio 2014, n. 348; AVCP, parere 9 maggio 2013, n. 72. In tema di cd. soccorso istruttorio interessante Cons. Stato, sez. III, 4 marzo 2014, n. 1030, secondo cui l’art. 46, comma 1, del D.Lgs. n. 163 del 2006, nel prevedere che le “stazioni appaltanti invitano, se necessario, i concorrenti a completare o a fornire chiarimenti in ordine al contenuto dei certificati, documenti o dichiarazioni presentati”, è volto a soddisfare il principio di più ampia partecipazione delle imprese alla selezione e che, al contempo, orienta le stazioni appaltanti, a fronte di una pluralità di adempimenti ed oneri di carattere formale posti a carico di chi aspira all’affidamento della commessa pubblica, verso la verifica su un piano di concretezza ed effettività dei requisiti di partecipazione e della capacità dei concorrenti. Circa la sussistenza di un potere di soccorso istruttorio solo nel caso di documentazione incom- 1212 so da parte della stazione appaltante dopo l’apertura delle offerte economiche (6). Una diversa opzione interpretativa, che consentisse l'integrazione delle offerte nell’ambito della procedura in contraddittorio volta al controllo dell'anomalia, si risolverebbe infatti in una interpretatio abrogans della disciplina normativa che dedica una specifica attenzione ai costi di sicurezza, imponendo l’indicazione in sede di offerta in ragione della particolare delicatezza dei valori in gioco (7), e si configurerebbe inoltre come violazione della par condicio tra i concorrenti, con alterazione delle offerte a buste aperte, traducendosi in un ingiustificato favor concesso a imprese inadempienti a oneri legali, a danno delle concorrenti che, invece, vi hanno correttamente risposto (8). Neppure la mancanza di una specifica previsione sul punto nella lex specialis potrebbe giustificare l’omessa indicazione dei costi per la sicurezza aziendale, atteso il carattere cogente ed immediatamente precettivo delle norme di legge sopra richiamate, che prescrivono di esporre distintamente tali costi, e che dunque risulterebbero idonee ad eterointegrare, ex art. 1374 c.c. (9), le regole procedurali e tali da imporre, in caso di loro inosservanza, l’esclusione dalla gara (10). Tra le decisioni a favore della tesi della sanzione espulsiva come conseguenza dell'omessa specificazione dei costi per la sicurezza, ve ne sono alcune secondo le quali, posto che gli oneri di sicurezza da interferenze sono oggetto di previsione obbligatoria a cura della stazione appaltante nel DUVRI, gli artt. 86, comma 3-bis, e 87, comma 4, del D.Lgs. n. pleta, ma non in quello di documentazione del tutto omessa, cfr. T.A.R. Puglia, Lecce, 28 febbraio 2012, n. 378. (7) Cfr. T.AR. Lombardia, Milano, sez. I, 9 maggio 2011, n. 1217, secondo cui deve essere considerata la peculiare natura delle norme in materia di sicurezza del lavoro, finalizzate a garantire l'intangibilità dei diritti fondamentali della persona del lavoratore, quali quelli alla vita e alla salute, come emerge dalla ampia produzione legislativa degli ultimi anni. Il conseguimento di tali fini rappresenta, quindi, un obiettivo essenziale del sistema normativo in materia, che è altresì avvalorato da sicuri riferimenti costituzionali (artt. 2, 3, 32 e 38 della Costituzione). (8) Così T.A.R. Roma, sez. II-bis, 26 febbraio 2014, n. 2234. (9) T.A.R. Lazio, Latina, sez. I, 15 gennaio 2014, n. 7. Cfr. T.A.R. Lombardia, Milano, sez. I, 9 maggio 2011, n. 1217. In tema di eterointegrazione interessanti le argomentazioni di T.A.R. Piemonte, 12 gennaio 2012, n. 23. (10) La sanzione dell’esclusione risulterebbe ineluttabile in quanto l’offerta sarebbe incompleta sotto un profilo particolarmente rilevante alla luce della natura costituzionalmente sensibile degli interessi protetti. T.A.R. Latina, sez. I, 15 gennaio 2014, n. 7; T.A.R. Veneto, sez. I, 8 agosto 2013, n. 1050; T.A.R. Brescia, sez. II, 19 febbraio 2013, n. 181; T.A.R. Roma, sez. II, 7 gennaio 2013, n. 66. Urbanistica e appalti 11/2014 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Amministrativa 163 del 2006, imporrebbero unicamente la previsione degli oneri di sicurezza aziendale. L’indicazione di tali costi, unitamente alle altre voci di prezzo, sarebbe infatti indispensabile per la valutazione della congruità dell’offerta economica, anche in relazione all’eventuale anomalia, da parte della stazione appaltante. In sostanza dunque il combinato disposto delle norme sopra indicate imporrebbe ai concorrenti di segnalare in ogni caso gli oneri economici che intendono sopportare per l’adempimento degli obblighi di sicurezza sul lavoro, cd. costi di sicurezza aziendale (11), al fine di porre la stazione appaltante nella condizione di verificare il rispetto di norme inderogabili a tutela di fondamentali interessi dei lavoratori e di consentire alla stessa la valutazione della congruità dell’importo destinato ai costi per la sicurezza (12). Viceversa, il divieto di integrazione successiva viene talora ritenuto applicabile anche per l'ipotesi di omessa specificazione dei costi per la sicurezza da rischi esterni, che pure devono essere previamente quantificati dalla stazione appaltante. In caso contrario, infatti, non essendo dimostrato che il partecipante abbia effettivamente preso in considerazione tali costi ed abbia formulato di conseguenza la propria offerta economica, si configurerebbe la mancanza di uno degli elementi essenziali previsti dall’art. 46, comma 1-bis, del D.Lgs. n. 163/06. Tale rigorosa interpretazione del contesto normativo di riferimento è stata talora applicata, si osserva, anche in relazione a gare per la concessione di servizi, in quanto le norme che prevedono l'obbligatoria indicazione nell'offerta degli oneri aziendali rappresenterebbero corollari dei principi di trasparenza, parità di trattamento e non discriminazione che l’art. 30 del codice dei contratti enuncia come propri anche di tale tipologia di contratti (13). Sotto il profilo oggettivo, le regole di che trattasi sono state ritenute non applicabili agli appalti di servizi ricadenti nell’allegato II B al codice dei contratti, in quanto soggetti all’applicazione dei soli artt. 68, 65 e 225 del medesimo codice nonché dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità (14). Non integrando principi generali, le predette disposizioni non sarebbero applicabili - neppure in via di eterointegrazione degli atti di gara alle procedure che abbiano ad oggetto i servizi in questione, se non nell’ipotesi in cui la stazione appaltante si sia auto-vincolata ad osservarle richiamandole espressamente nella lex specialis (15). Infine, pare interessante evidenziare in questa sede che secondo la giurisprudenza del Consiglio di Stato (16) l'illegittimità derivante dall'omessa indicazione nella disciplina di gara dei costi della sicurezza non soggetti a ribasso, e dunque dall'indeterminatezza del complessivo valore contrattuale, inciderebbe direttamente sulla formulazione dell’offerta, impedendone la corretta e consapevole elaborazione, ragione per la quale la lesività della stessa disciplina di gara andrebbe immediatamente contestata, senza attendere l’esito della procedura per rilevare il pregiudizio che da quelle previsioni è derivato. Sussisterebbe dunque un immediato onere di impugnazione a carico delle imprese concorrenti. (11) T.A.R. Lazio, Roma, sez. II, 7 gennaio 2013, n. 66; Id., sez. I, 17 ottobre 2012, n. 8522; T.A.R. Palermo, sez. I, 17 gennaio 2013, n. 124. (12) Cons. Stato, sez. III, 23 gennaio 2014, n. 348; Cons. Stato, sez. III, 28 agosto 2012, n. 4622; Cons. Stato, sez. III, 19 gennaio 2012, n. 212; Cons. Stato, sez. V, 29 febbraio 2012, n. 1172; Cons. Stato, sez. III, 3 ottobre 2011, n. 5421. (13) T.A.R. Toscana, sez. II, 20 gennaio 2014, n. 106; T.A.R. Roma, sez. II-bis, 26 febbraio 2014, n. 2234, peraltro riformata da Cons. Stato, sez. V, 30 giugno 2014, n. 3921, che ritiene legittima l'omessa indicazione degli oneri nell'ambito di una concessione di servizi la cui lex specialis nulla specifichi in merito all'indicazione degli oneri. Così anche Cons. Stato, sez. VI, 18 luglio 2014, n. 3864. (14) Cons. Stato, sez. V, 6 agosto 2012, n. 4510; T.A.R. Catanzaro, sez. II, 6 marzo 2014, n. 408: non essendo applicabili gli artt. 86, comma 3-bis, e 87, comma 4, del D.Lgs. n. 163/2006, nessuna conseguenza di carattere escludente può derivare nei confronti dei concorrenti, ivi compreso l’aggiudicatario, dalla mancata indicazione, nell’offerta, degli oneri di sicurezza. (15) AVCP, parere 20 giugno 2014, n. 142. Cfr. Cons. Stato, sez. III, 21 gennaio 2014, n. 280; Id., sez. V, 6 agosto 2012, n. 4510; T.A.R. Toscana, sez. I, 20 febbraio 2014, n. 338; T.A.R. Piemonte, sez. I, 22 novembre 2013, n. 1254; Id., sez. I, 21 dicembre 2012, n. 1376. Cfr. AVCP, parere 10 aprile 2014, n. 67. (16) Cons. Stato, sez. IV, 13 dicembre 2013, n. 5983. (17) Cons. Stato, sez. III, 4 marzo 2014, n. 1030; Id., 18 ottobre 2013, n. 5070: quando si tratti di appalti diversi dai lavori e non vi sia una comminatoria espressa d’esclusione ove sia omesso lo scorporo matematico degli oneri, il relativo costo, appunto perché coessenziale e consustanziale al prezzo offerto, ri- Urbanistica e appalti 11/2014 Rilevanza di una comminatoria espressa Secondo un diverso orientamento, la mancata indicazione nell’offerta dei costi relativi alla sicurezza non potrebbe determinare automaticamente l'esclusione del concorrente qualora il bando non preveda espressamente tale sanzione, rilevando il richiamo agli artt. 86 e 87 del D.Lgs. n. 163/2006 ai soli fini della verifica di anomalia dell’offerta (17). Sarebbe, dunque, ammissibile una regolarizzazione nella fase di giustificazione dell’anomalia. 1213 Giurisprudenza AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Amministrativa Nell’ipotesi in cui la lex specialis nulla abbia specificato in ordine all’onere di indicare, a pena di esclusione, i costi di sicurezza aziendale, la sanzione espulsiva nei confronti della ditta che abbia omesso tale indicazione verrebbe infatti a colpire, in contrasto con i principi di certezza del diritto, di tutela dell’affidamento e del favor partecipationis, i concorrenti che hanno presentato un’offerta perfettamente conforme alle prescrizioni stabilite dal bando e dall'allegato modulo d'offerta (18). L’art. 86, comma 3-bis, del D.Lgs. n. 163/2006 individua espressamente come sue destinatarie le stazioni appaltanti, che sono pertanto obbligate, innanzitutto, a prevedere, nel disciplinare di gara, che le offerte economiche rechino l'espressa indicazione dei costi della sicurezza aziendale. La disposizione inoltre, analogamente alla norma recata dall’art. 87, comma 4 del medesimo codice, non contempla espressamente l’omessa indicazione, nell’offerta economica, dei costi della sicurezza aziendale tra le cause di esclusione automatiche dalle procedure di affidamento. La mancanza di esplicita previsione nella lettera di invito e nel disciplinare di gara dell’obbligo di indicazione, nell’offerta economica, dei costi per la sicurezza, costituisce in sostanza violazione degli artt. 86 e 87 del D.Lgs. n. 163/2006 da parte della stazione appaltante, responsabile della redazione della documentazione di gara; tale illegittimità non può però pregiudicare le ragioni dell’impresa che abbia riposto legittimo affidamento nella regolamentazione della procedura disposta dalla stazione appaltante, redigendo un’offerta economica perfettamente conforme a quanto richiesto (19). La mancata indicazione dei costi di sicurezza aziendali si configurerà peraltro come causa automatica di esclusione ove il bando lo preveda espressamente. Ancora, l'eventuale esclusione del concorrente, oltre che in violazione del principio del legittimo affidamento, risulterebbe in contrasto con il disposto dell’art. 46, comma 1-bis, del codice dei contratti pubblici. Stando al dato letterale, il legislatore parrebbe aver inteso applicare la sanzione escludente limitatamente a quelle ipotesi in cui la violazione commessa attenga ad un adempimento prescritto a pena di esclusione. In altri termini, in assenza di norma di legge o della lex specialis che commini espressamente, quale sanzione relativa alla mancata indicazione nell’offerta degli oneri di sicurezza, l’esclusione dalla gara, la stazione appaltante non potrebbe procedervi automaticamente in quanto risulterebbe violato il principio di tassatività della cause di esclusione (20). Sempre nel rispetto del principio di tutela dell'affidamento, l’adozione della sanzione espulsiva non potrebbe a maggior ragione avvenire ove l’amministrazione abbia indotto in errore l’operatore economico (21) allegando al bando un modello di offerta che non preveda l’indicazione degli oneri della sicurezza non soggetti a ribasso (22). Ciò neppure ove detta modulistica risulti non conforme alle prescrizioni di legge, dovendo in tal caso prevalere il favor partecipationis e non potendosi risolvere la circostanza in danno del concorrente (23). Le conclusioni ora esposte sarebbero avvalorate anche dalla collocazione sistematica delle disposizioni di riferimento nell'ambito della disciplina relativa al procedimento ed ai criteri di verifica delle leva proprio ai soli fini dell’anomalia di quest’ultimo, nel senso che, per scelta della stazione appaltante, il momento di valutazione degli oneri stessi non è eliso, ma è posticipato al sub-procedimento di verifica della congruità dell’offerta nel suo complesso. (18) T.A.R. Lombardia, Milano, sez. I, 18 aprile 2014, n. 1001; T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 12 marzo 2014, n. 1492. Cfr. T.A.R. Piemonte, sez. I, 22 novembre 2013, n. 1254; T.A.R. Puglia, Bari, sez. II, 22 ottobre 2013, n. 1429. (19) Così T.A.R. Napoli, sez. I, 12 marzo 2014, n. 1492. L'esclusione potrà essere disposta solo se l'impresa non fornisce convincenti spiegazioni nella successiva fase di verifica in contraddittorio: cfr. T.A.R. Lazio, Roma, sez. II, 14 giugno 2012, n. 5465. (20) T.A.R. Napoli, sez. I, 12 marzo 2014, n. 1492. Cfr. Cons. Stato, sez. III, 10 luglio 2013, n. 3706: ove il bando di gara ed il capitolato non lo richiedano espressamente e l'impresa offerente non precisi gli oneri nella propria offerta, l'omissione dei costi relativi alla sicurezza aziendale non causa automaticamente l'esclusione della ditta, bensì costringe la stazione appaltante ad approfondire tale aspetto in sede di giustificazioni. Aderisce ad un'interpretazione del principio di tassatività delle clausole di esclusione tale da tutelare il princi- pio del favor partecipationis - ritenendo una clausola di esclusione in materia di omessa indicazione degli oneri della sicurezza illegittima in applicazione di generali principi in tema di ragionevolezza - Cons. Stato, sez. VI, 19 ottobre 2012, n. 5389. (21) Per un'applicazione che valorizza la buona fede del concorrente cfr. Cons. Stato, sez. VI, 20 settembre 2012, n. 4999. (22) Cons. Stato, sez. V, 6 agosto 2012, n. 4510; Id., 5 luglio 2011, n. 4029; cfr. anche T.A.R. Brescia, sez. II, 12 marzo 2014, n. 250, circa l’applicazione del potere di soccorso ove l’omessa indicazione degli oneri per i rischi aziendali sia imputabile alla stazione appaltante come conseguenza dell’imperfetta redazione della lex specialis. (23) Cfr. AVCP, pareri 23 ottobre 2013, n. 169, 17 luglio 2013, n. 118 e 23 aprile 2013, n. 54. Cons. Stato, sez III, 4 marzo 2014, n. 1030. T.A.R. Lombardia, Milano, sez. IV, 9 gennaio 2014, n. 36: a fronte di un'oggettiva incertezza ingenerata dagli atti predisposti dalla stazione appaltante, e della buona fede che va riconosciuta al concorrente, deve prevalere il principio del favor partecipationis; pertanto eventuali clausole incerte od ambigue del bando di gara sono da interpretare nel senso favorevole alla più ampia partecipazione. 1214 Urbanistica e appalti 11/2014 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Amministrativa offerte anormalmente basse e non di quella inerente al contenuto essenziale delle offerte. La tesi dell'inesistenza dell'obbligo dichiarativo per gli appalti di lavori Secondo una diffusa opzione interpretativa, lo specifico obbligo di indicare, a pena di esclusione, i costi per la sicurezza interna previsto dagli artt. 86, comma 3-bis, e 87, comma 4, del D.Lgs. n. 163/2006 varrebbe solo per le procedure di affidamento di forniture e servizi. Viceversa, nel caso degli appalti di lavori la quantificazione sarebbe rimessa al piano di sicurezza e coordinamento ex art. 100 del D.Lgs. n. 81/2008, predisposto dalla stazione appaltante ai sensi dell’art. 131 del D.Lgs. n. 163/2006 (24). A supporto di tale orientamento i giudici hanno richiamato l’art. 24, comma 3, del D.P.R. n. 207/2010, che include tra i documenti da allegare al progetto definitivo il piano di sicurezza e di coordinamento sulla base del quale determinare il costo della sicurezza, nel rispetto dell’allegato XV del D.Lgs. n. 81/2008. Inoltre l'art. 32, comma 4, lett. o), del medesimo decreto prevede che nell’analisi delle spese generali, destinata a confluire nel computo metrico estimativo da porre a base di gara, occorre anche procedere alla quantificazione delle spese di adeguamento del cantiere in osservanza del D.Lgs. n. 81/2008, di cui è indicata la quota di incidenza sul totale delle spese generali, ai fini degli adempimenti previsti dall’art. 86, comma 3-bis, del codice dei contratti (25). Laddove poi il piano di sicurezza e coordinamento non sia necessario, le amministrazioni devono comunque compiere la stima dei costi per la sicurezza ai sensi del comma 3 dell'art. 131, nonché del punto 4.1.2 dell'Allegato XV al D.Lgs. n. 81/2008. In tale contesto, l’art. 26, comma 6, del D.Lgs. n. 81/2008, che prescrive che il costo del lavoro deve essere specificato anche per gli appalti di lavori pubblici, deve (24) Cfr. peraltro T.A.R. Sicilia, sez. I, 18 luglio 2014, n. 2517. (25) Così Cons. Stato, sez. V, 9 ottobre 2013, n. 4964. (26) T.A.R. Palermo, sez. III, 24 marzo 2014, n. 852. (27) Cons. di Stato, sez. V, 7 maggio 2014 n. 2343. (28) Cons. Stato, sez. III, 4 marzo 2014, n. 1030; Id., 18 ottobre 2013, n. 4070; T.A.R. Lombardia, Milano, sez. IV, 9 gennaio 2014, n. 36: quando si tratti di appalti diversi dai lavori pubblici, e non vi sia una comminatoria espressa d’esclusione, ove sia omesso da parte del concorrente lo scorporo degli oneri di sicurezza per rischio specifico, il relativo costo, poiché coessenziale al prezzo offerto, non può dare luogo ex se ad esclusione dalla gara, ma rileva ai soli fini dell’anomalia dell'offerta, potendo pertanto farsi luogo all’esclusione solamente al- Urbanistica e appalti 11/2014 essere coordinato con le specifiche disposizioni di cui agli artt. 87, comma 4, e 131 del codice dei contratti (26), dovendo essere interpretato nel senso del carattere generale dell’obbligo, per le stazioni appaltanti, di verifica dell’adeguatezza degli oneri per tutti i contratti pubblici in forza dell’art. 86, comma 3-bis, del codice (27). Fermo restando dunque, secondo le decisioni riconducibili alla tesi qui in esame, l'onere dello scorporo matematico dei costi di sicurezza per rischio specifico quando si tratti di servizi e forniture, nell'ipotesi di appalti di lavori l'omessa indicazione di tali costi, ove il bando non contenga una comminatoria espressa, rileverebbe ai soli fini dell'anomalia dell'offerta (28). Il caso di specie Pronunciandosi in merito ad un appalto di lavori la cui lex specialis non specificava gli oneri per la sicurezza cd. interna, la quinta Sezione del Consiglio di Stato, riformando la decisione del TAR Veneto n. 299/2014, aderisce all'orientamento secondo cui l'onere di indicare i costi per la sicurezza aziendale sussisterebbe solo per gli appalti di servizi e forniture. Partendo dall'esegesi delle disposizioni del codice dei contratti pubblici sopra citate, i supremi giudici precisano innanzitutto che l'art. 86, comma 3bis, si rivolge in primo luogo agli enti aggiudicatori, imponendo loro, nella predisposizione delle gare di appalto e nella valutazione dell’anomalia delle offerte, di effettuare uno specifico apprezzamento della congruità dei costi del lavoro e della sicurezza indicati dalle concorrenti nelle loro offerte. A dimostrazione di ciò viene richiamata innanzitutto la rubrica della disposizione, “criteri di individuazione delle offerte anormalmente basse”. La previsione secondo la quale il costo in questione deve essere specificamente indicato sarebbe dunque funzionale alla verifica di congruità dell'offerta. l'esito, ove negativo, di una verifica più ampia sulla serietà e sulla sostenibilità dell'offerta economica nel suo insieme. Cons. Stato, sez. V, 23 luglio 2010, n. 4849: la circostanza che solo nei bandi di gara relativi agli appalti di lavori, ai sensi dell’art. 131 del codice dei contratti pubblici, debbano essere evidenziati gli oneri di sicurezza non soggetti a ribasso, fa sì che nelle altre procedure di gara, in assenza della preventiva fissazione del costo per la sicurezza da parte dell’amministrazione aggiudicatrice quale specifica componente del costo del lavoro, è necessario che il relativo importo venga scorporato dalle offerte dei singoli concorrenti e sottoposto a verifica per valutare se sia congruo rispetto alle esigenze di tutela dei lavoratori. 1215 Giurisprudenza AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Amministrativa Analogamente deve essere interpretato l'art. 87, comma 4, del codice, che specifica il più generale ed onnicomprensivo comma 3-bis dell'art. 86, distinguendo peraltro tra appalti di lavori - per i quali sono vietate giustificazioni, e dunque ribassi, rispetto agli oneri relativi alla sicurezza già stimati dalla stazione appaltante nel piano di sicurezza e coordinamento predisposto ai sensi dell'art. 131 - e di servizi e forniture - per i quali la seconda parte del comma 4 dell'art. 87 prevede che la stazione appaltante nella valutazione dell'anomalia tenga conto dei costi relativi alla sicurezza, che devono essere specificati nell'offerta. Ancora, tali disposizioni non prevedono la comminatoria di esclusione per l’omessa indicazione dei costi di che trattasi (29). All'interpretazione letterale, rileva la quinta Sezione, si aggiunge poi quella di carattere teleologico, con particolare riferimento al fatto che le norme in questione concernono la verifica dell'anomalia dell'offerta ed è dunque in tale sede che l'obbligo di indicare e giustificare i costi per la sicurezza viene in rilievo. Risulta viceversa eccedente pretendere che l'impresa provveda ad indicare i costi in questione già nell'ambito dell'offerta. Anche il disposto dell'art. 26, comma 6, del codice è rivolto agli enti aggiudicatori e fa riferimento alla verifica dell'anomalia, ragione per la quale lo stesso deve essere coordinato con le disposizioni di cui agli artt. 86, comma 3-bis, e 87, comma 4. Quanto poi all'assunto secondo il quale le citate disposizioni di legge hanno carattere imperativo, essendo preordinate a tutelare i diritti fondamentali dei lavoratori, e quindi valenza eterointegratrice della normativa di gara (30), i giudici di Palazzo Spada evidenziano che, benché sia indiscutibile che tali norme perseguano l’obiettivo di assicurare la tutela dei lavoratori, tale fine può essere ampiamente realizzato attraverso l’obbligo per le stazioni appaltanti di effettuare una specifica valutazione della congruità del costo per la sicurezza nell'appropriata sede della verifica dell’anomalia dell’offerta. Sarebbe infatti ingiustificatamente penalizzante per le imprese, e dunque in contrasto con le regole della concorrenza che la legislazione sui contratti pubblici persegue, sanzionare con l’esclusione dalla ga- ra la mancata indicazione dei costi per la sicurezza aziendale. Sussisterebbe, ancora, un'evidente sproporzione tra l'obiettivo di tutelare la sicurezza ed i connessi diritti dei lavoratori ed il risultato ottenuto, ossia la preclusione all’impresa di concorrere per l’affidamento del contratto per il solo fatto di non avere esposto nell’offerta i relativi costi per la sicurezza aziendale, quand’anche gli stessi risultassero congrui nell’unica sede deputata a tale verifica. I giudici respingono dunque la tesi della valenza eterointegratrice delle disposizioni esaminate nei confronti della normativa di gara, rimarcando che del potere di eterointegrazione deve essere fatto un attento uso. L’inserzione automatica di clausole prevista dall’art. 1339 c.c. si giustifica infatti ove occorra conformare il contenuto di obbligazioni e diritti nascenti da contratti già conclusi con esigenze di ordine imperativo non disponibili dai contraenti (31). È quindi assai dubbia, in base ad incontestati principi di teoria generale di diritto, l'operatività del meccanismo in questione nei confronti di aspetti che concernono lo svolgimento della procedura selettiva ed in particolare le modalità con cui le imprese formulano la loro offerta. A ciò si aggiunga che, come confermato da un consolidato indirizzo giurisprudenziale, la lex specialis della gara deve essere interpretata secondo le regole dettate dagli artt. 1362 e ss. c.c., in base ai quali si deve comunque attribuire valore preminente all’interpretazione letterale, in coerenza con i principi di chiarezza e trasparenza di cui all'art. 1 della L. n. 241/1990, mentre devono essere escluse interpretazioni integrative contrarie al canone della buona fede interpretativa di cui all’art. 1366 c.c. (32). Interpretazioni volte ad enucleare significati impliciti nella normativa di gara risultano infatti potenzialmente in grado di ledere l’affidamento dei terzi e la massima partecipazione alla gara (33). La decisione della quinta Sezione sul caso di specie, ove la stazione appaltante non ha richiesto la specificazione dei costi per la sicurezza aziendale in sede di offerta, appare coerente con il quadro normativo sopra descritto, nell'ambito del quale sembra corretto affermare che non sussista uno specifico obbligo dichiarativo in capo alle imprese con- (29) Certamente, precisano i giudici, non per gli appalti di lavori, per i quali vi è una rigorosa analisi dei costi in questione da parte della stazione appaltante nella fase della progettazione, in virtù di puntuali disposizioni del regolamento di attuazione di cui al D.P.R. n. 207/2010. (30) Cfr. supra. (31) Cons. Stato, sez. III, 2 settembre 2013, n. 4364. (32) Cons. Stato, sez. III, 2 settembre 2013, n. 4364; Id., sez. V, 21 dicembre 2012, n. 6615; Id., 5 settembre 2011, n. 4980. (33) Cons. Stato, sez. V, 13 gennaio 2014, n. 72; Id., 16 gennaio 2013, n. 238; Id., 7 gennaio 2013, n. 7; Id., 31 ottobre 2012, n. 5570. Cfr. anche, in tema di buona fede e affidamento, Cons. Stato, sez. V, 24 ottobre 2013, n. 5155. 1216 Urbanistica e appalti 11/2014 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Amministrativa correnti in ordine ai costi per la sicurezza interna per gli appalti di lavori. Il legislatore ha infatti dettato in materia una disciplina diversa per tali appalti e per quelli di forniture e di servizi. Ai primi, caratterizzati da un più elevato livello di rischio e per i quali è indispensabile un’apposita pianificazione in materia di sicurezza e prevenzione dei rischi nonché dei connessi oneri economici, è destinata la specifica disciplina di cui al titolo IV del D.Lgs. n. 81/2008. Le disposizioni in vigore, in altri termini, non impongono un obbligo a carico delle imprese concorrenti a procedure per l'affidamento di lavori rispetto all'indicazione in sede di offerta dei costi per la sicurezza, dovendo questi ultimi essere oggetto di apposita pianificazione preventiva, che si configura come componente essenziale della progettazione e dei piani di sicurezza sui quali, poi, si svilupperà l’esecuzione contrattuale (34). La tesi del Consiglio di Stato appare condivisibile anche in virtù del principio generale del favor partecipationis, il quale informa di sé tutta la normativa interna e comunitaria in materia di affidamento di appalti pubblici. La lex specialis predisposta dall’amministrazione aggiudicatrice non richiedeva l’indicazione degli oneri della sicurezza interna nell’offerta, ragione per la quale non potevano essere escluse le imprese che non avevano effettuato tale dichiarazione, dal momento che non esiste una disposizione di legge che preveda come causa di esclusione la mancata indicazione di che trattasi in ipotesi di affidamento di lavori (35). Il quadro interpretativo sulla tematica, si conclude, resta comunque assolutamente incerto e non univoco, ragione per la quale, posta anche la rilevanza degli interessi in gioco, pare auspicabile un decisivo intervento legislativo, o dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, che faccia finalmente chiarezza sulla questione. (34) La dottrina e la giurisprudenza evidenziano in particolare che non sarebbe corretto che si determinassero competizioni in ambiti coperti da garanzie e tutele costituzionali, laddove, l’omissione dei dovuti accorgimenti può comportare il rischio di ledere diritti fondamentali della persona. (35) Vd. in tal senso T.A.R. Veneto, sez. I, 22 novembre 2011, n. 1720. Urbanistica e appalti 11/2014 1217 Giurisprudenza AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Amministrativa Titoli abilitativi La demolizione delle opere tra esecuzione del giudicato e sanatoria T.A.R. PIEMONTE, TORINO, sez. II, 8 luglio 2014, n. 1171 – Pres. ed Est. Salamone – B. c. Comune di Bruino, in persona del Sindaco pro tempore, F. e Commissario ad acta presso Regione Piemonte L'annullamento in sede giurisdizionale del permesso di costruire provoca la qualificazione di abusività delle opere edilizie realizzate in base ad esso: il Comune, stante l’efficacia conformativa della sentenza del giudice amministrativo, oltre che costitutiva e ripristinatoria, è obbligato a dare esecuzione al giudicato adottando i provvedimenti conseguenziali che, tuttavia, non devono avere ad oggetto necessariamente la demolizione delle opere realizzate, prescrivendo, l’art. 38 D.P.R. n. 380 del 2001, in caso di annullamento del permesso di costruire, una nuova valutazione da parte del dirigente del competente ufficio comunale riguardo alla possibilità di restituzione in pristino cosicché, qualora la demolizione non risulti possibile, il Comune dovrà irrogare una sanzione pecuniaria, nei termini fissati da detta disposizione. ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI Conforme Cons. Stato, sez. IV, 12 maggio 2014, n. 2398; Cons. Stato, sez. VI, 13 giugno 2011, n. 3571, in Foro Amm. CdS 2011, 6, 2051; T.A.R. Campobasso, sez. I, 17 ottobre 2013, n. 598, in Foro Amm. TAR, (Il) 2013, 10, 3127; T.A.R. Bari, sez. III, 17 dicembre 2013, n. 1695, in Foro Amm. TAR 2013, 12, 3865 Difforme T.A.R. Salerno, sez. I, 19 aprile 2012, n. 738, in Foro Amm. TAR 2012, 4, 1361 Diritto Con il ricorso di cui in epigrafe si chiede la dichiarazione di nullità, di inefficacia e, comunque, l'annullamento del permesso di costruire n. 7582/2 del 22-27 gennaio 2014, rilasciato dal Comune di Bruino, Responsabile Settore urbanistica, lavori pubblici, ambiente, casa, al sig. F.F., comunicato al ricorrente con nota del Comune di Bruino prot. n. 1058 del 3 febbraio 2014, come infra specificando e di tutti gli atti presupposti, successivi, consequenziali e comunque connessi con quelli impugnati, con particolare riferimento, in quanto occorra, al parere favorevole condizionato reso dalla Commissione Edilizia nella seduta del 28 novembre 2013 su istanza edilizia presentata dal sig. F.F. ed avente ad oggetto “ristrutturazione di fabbricato di civile abitazione” nonché al parere della Commissione Edilizia nella seduta del 9 ottobre 2013. Si chiede altresì la condanna del Comune di Bruino al risarcimento del danno arrecato al signor B. nonché al pagamento di una somma di denaro per ogni violazione, elusione del giudicato/o ritardo nell'esecuzione della sentenza del TAR Piemonte n. 377/2011 e n. 510/2012 ai sensi e per gli effetti dell'art. 114, comma 2, lett. e) c.p.a. 1218 Si sono costituti in giudizio il Comune di Bruino e F.F., che hanno chiesto il rigetto del ricorso. Va premesso che è stata pronunciata da questo TAR una prima sentenza su giudizio di ottemperanza, n. 510 del 2012 che fissava le modalità dell’ottemperanza alla sentenza n. 377 del 2011, di annullamento del permesso di costruire. Nonostante i solleciti del ricorrente, i 90 giorni assegnati in sentenza al Comune di Bruino per ordinare al sig. F. la demolizione e la messa in pristino delle opere abusive scadevano senza che si producessero gli effetti indicati dai giudicato del Tribunale Amministrativo. In seguito alla sentenza del TAR Piemonte ed all'adozione da parte del Comune di Bruino di nuova ordinanza di demolizione, il sig. F. presentava tre istanze di sanatoria, e precisamente l'istanza-pratica n. 6220/2 del 16 luglio 2012, n. 6220/3 del 17 luglio 2012 e n. 6220/4 del 17 luglio 2012, tutte respinte, con conseguente emissione da parte del Comune di Bruino di nuova ordinanza di demolizione. Gli atti di diniego di sanatoria venivano impugnati dal controinteressato F., con tre distinti ricorsi, la cui contestuale istanza cautelare veniva respinta dal TAR Piemonte, con ordinanze confermate in appello dal Consiglio di Stato. Urbanistica e appalti 11/2014 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Amministrativa Successivamente il Comune di Bruino inviava a F. e a B. una “comunicazione di avvio del procedimento”, nota prot. n. 5683 del 13 giugno 2013, per intervento sostitutivo comunale di demolizione e ricostruzione della copertura del fabbricato F. a seguito di inottemperanza all'ordinanza di demolizione n. 77/2012, superata da successiva ordinanza n. 109/2012. Con nota prot. 24468/DB0800 del 29 agosto 2013, il Commissario ad acta, preso atto di quanto evidenziato nella richiesta dell'avv. C. del 1° agosto 2013, disponeva che: “è necessario stabilire in maniera definitiva che l'ingiunto, F.F., deve depositare immediatamente presso l'Amministrazione comunale idoneo atto d'impegno che lo obblighi, senza deroghe o ritardi: 1) alla presentazione del progetto definitivo della demolizione e ricostruzione della copertura ... entro lunedì 16 settembre prossimo; 2) alla relativa demolizione entro il 15 aprile 2014. Si prescrive che il progetto definitivo debba essere accompagnato da fideiussione bancaria, valida fino all'ultimazione dei lavori che, sempre entro il 16 settembre prossimo, deve essere trasmessa in copia allo studio legale che legge per conoscenza”. Il Comune di Bruino con nota del 29 agosto 2013 invitava il sig. F. a “depositare immediatamente ... - atto di impegno alla presentazione del progetto definitivo di demolizione e ricostruzione della copertura entro e non oltre il 16 settembre prossimo e alla relativa demolizione entro il 15 aprile 2014; - fideiussione bancaria valida sino alla fine dei lavori per l'importo dei lavori in progetto a garanzia della demolizione e ricostruzione”. In data 16 settembre 2013 il sig. F. depositata in Comune due domande edilizie in sanatoria relative al medesimo immobile interessato dalle sentenze di questo TAR, identificate con n. 7582 e 7582/1, con le quali realizzare “abbassamento copertura porzione sud-ovest e ristrutturazione dell'intero compendio ... ovvero abbassamento di circa cm 50 della copertura della porzione di stabile posta a sud est della proprietà F. e modifiche interne”. In data 9 dicembre 2013 il controinteressato F. presentava il progetto n. 7582/2 mediante deposito di 3 tavole e infine, con nota datata 3 febbraio 2014, il Comune comunicava al ricorrente il rilascio del permesso di costruire impugnato, relativo alla pratica n. 7582/2. Il predetto permesso di costruire è stato annullato in autotuela con ordinanza n. 44 del 2014. Con riguardo alla declaratoria di nullità del permesso di costruire va dichiarata, pertanto, la cessazione della materia del contendere. Quanto alla ottemperanza alla sentenza n. 377 del 30 marzo 2011 ed alla sentenza n. 510/2012 dell'8 maggio 2012 di questo Tribunale Amministrativo Regionale, vanno prescritte le seguenti modalità, conferendo al Comune di Bruino ed in via sostitutiva al Commissario ad acta già nominato da questo TAR. Va premesso che l'amministrazione ha rivalutato i fatti sottoposti all'esame del giudice ed è pervenuta a conclusioni favorevoli al mantenimento della sopraelevazione. La costruzione di cui si tratta è composta di due distinti volumi contigui. Urbanistica e appalti 11/2014 Uno di questi risulta collocato in aderenza alla linea di confine con la proprietà del signor B., l'altro (più alto rispetto al precedente) interamente localizzato ad oltre 5,00 metri dal confine stesso. Il Collegio ritiene che vanno contemperati l'interesse della parte ricorrente alla tutela del proprio diritto di proprietà, correlato al consenso che secondo lo strumento urbanistico deve esprimere al fine di consentire modifiche che alterino lo stato dell'immobile confinante, l'interesse pubblico al rispetto della normativa urbanistica che disciplina le modalità di edificazione e l'interesse del controinteressato a non subire un pregiudizio particolarmente oneroso in conseguenza dell'edificazione che non è conforme allo strumento urbanistico, non tanto per un contrasto con le norme limitative dell'edificazione, quanto con quelle che, integrando il codice civile, disciplinano i rapporti di vicinato tra i proprietari di edifici. In sostanza il vizio rilevato nel permesso di costruire oggetto di annullamento con la sentenza di cui si chiede l'esecuzione riguarda, non tanto i limiti di edificazione, quanto i rapporti tra proprietà edilizie contigue. Il ripristino dello stato dei luoghi potrebbe essere seguito da una nuova edificazione nel rispetto delle caratteristiche plano volumetriche consentite in difetto di un consenso del proprietario dell'edificio confinante. D'altronde vi è una oggettiva difficoltà a demolire soltanto la porzione di fabbricato che supera in altezza quella consentita senza pregiudicare le restanti parti. Il Collegio ritiene, pertanto, che vanno individuate nell'ambito dell'ordinamento soluzioni alla fattispecie oggetto del giudizio che contemperino i contrapposti interessi pubblici e privati. Il D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia) all’art. 38 disciplina gli interventi eseguiti in base a permesso annullato disponendo che “1. In caso di annullamento del permesso di costruire, qualora non sia possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la restituzione in pristino, il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale applica una sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere o loro parti abusivamente eseguite, valutato dall'Agenzia del territorio, anche sulla base di accordi stipulati tra quest'ultima e l'amministrazione comunale. La valutazione dell'agenzia è notificata all'interessato dal dirigente o dal responsabile dell'ufficio e diviene definitiva decorsi i termini di impugnativa. 2. L'integrale corresponsione della sanzione pecuniaria irrogata produce i medesimi effetti del permesso di costruire in sanatoria di cui all'articolo 36. 2-bis. Le disposizioni del presente articolo si applicano anche agli interventi edilizi di cui all'art. 22, comma 3, in caso di accertamento dell'inesistenza dei presupposti per la formazione del titolo”. In applicazione di detta disposizione la giurisprudenza (Cons. Stato, sez. VI, sent. n. 3571 del 13 giugno 2011) ha affermato il principio che l'annullamento giurisdizionale del permesso di costruire provoca la qualificazione di abusività delle opere edilizie realizzate in base ad es- 1219 Giurisprudenza AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Amministrativa so, per cui il Comune, stante l'efficacia conformativa della sentenza del giudice amministrativo, oltre che costitutiva e ripristinatoria, è obbligato a dare esecuzione al giudicato adottando i provvedimenti consequenziali. Tali provvedimenti non devono, peraltro, avere ad oggetto necessariamente la demolizione delle opere realizzate, l'art. 38, D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, prescrivendo, in caso di annullamento del permesso di costruire, una nuova valutazione da parte del dirigente del competente ufficio comunale riguardo la possibilità di restituzione in pristino; qualora la demolizione non risulti possibile, il Comune dovrà irrogare una sanzione pecuniaria, nei termini fissati dallo stesso art. 38, D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380. Dalla previsione di cui all'art. 38 del D.P.R. n. 380/2001, che prevede, come sopra rilevato, la rimozione dei vizi delle procedure amministrative in caso di permesso di costruire annullato in via giurisdizionale, non deriva un generale divieto di rinnovazione dei permessi di costruire annullati in sede giurisdizionale per vizi di carattere sostanziale. La norma non implica, invero, alcun generale divieto di rinnovazione dei permessi di costruire annullati in sede giurisdizionale per vizi di carattere sostanziale. Non può ritenersi, pertanto, che la concessione edilizia in sanatoria sarebbe ammissibile solo in caso di annullamento della prima per motivi procedurali o formali, rimanendone, conseguentemente, esclusa la legittimità in ordine all'annullamento dell'originaria concessione per motivi sostanziali di contrarietà allo strumento urbanistico (Cons. Stato, sez. IV, sent. n. 7731 del 2 novembre 2010). A ciò va aggiunto che l'affidamento del privato a poter conservare l'opera realizzata sulla base di un titolo edilizio successivamente annullato non é tutelato in via generale, ma é rimesso alla discrezionalità del legislatore, al quale compete emanare norme speciali di tutela come la potenziale commutabilità della sanzione demolitoria in quella pecuniaria (da cui la disciplina dell’art. 38 D.P.R. n. 380 del 2001), ovvero un regime di favore in sede di condono edilizio, come avvenuto con l'art. 39, L. n. 724 del 1994 (Cons. Stato, sez. IV, sent. n. 4770 del 10 agosto 2011). Il ricorso è stato accolto con la sentenza di cui si chiede l’esecuzione ed è stata conseguentemente annullata la concessione edilizia in sanatoria n. 6220 del 15 aprile 2002 rilasciata dal Comune di Bruino al signor F.G., per l'esecuzione di opere edilizie, facendo obbligo al Comune di Bruino di porre in essere l'attività sanzionatoria di ripristino dello stato dei luoghi. Già nella sentenza n. 510 del 2012 questo TAR rilevò che “il conseguimento della sanatoria di abusi edilizi non trova ostacolo nella esistenza di provvedimenti sanzionatori, anche se adottati in seguito a giudizio di ottemperanza, per cui non può essere considerato ostativo all'ottenimento della sanatoria un ordine di demolizione emanato per ottemperare al giudicato formatosi sulla decisione di annullamento della concessione edilizia stessa. Poiché, però, da un lato si hanno i diritti dei terzi che costituiscono un ostacolo assoluto al titolo abi- 1220 litativo in sanatoria o meno, e dall'altro lato si ha che non necessariamente la esistenza di un ordine di demolizione, anche successivo al giudicato, costituisce una preclusione assoluta, per conciliare tali aspetti, si deve ritenere che il giudicato non possa mai essere superato quando la sentenza de qua costituisca proprio lo strumento di tutela con il quale i terzi, i cui diritti sono fatti salvi, abbiano fatto valere le loro posizioni”. Ne consegue che il Comune è legittimato a rilasciare il permesso di costruire in sanatoria, ma l'eventuale regolarizzazione delle opere abusive può avvenire soltanto nel rispetto delle norme e dei procedimenti individuati dalla legge che potrebbe seguire o ad un assenso esplicito del signor B., ovvero all’applicazione dell’art. 38 T.U. n. 380 del 2001 nella parte in cui prescrive “In caso di annullamento del permesso di costruire, qualora non sia possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la restituzione in pristino, il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale applica una sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere o loro parti abusivamente eseguite, valutato dall'agenzia del territorio, anche sulla base di accordi stipulati tra quest'ultima e l'amministrazione comunale. La valutazione dell'agenzia è notificata all'interessato dal dirigente o dal responsabile dell'ufficio e diviene definitiva decorsi i termini di impugnativa. 2. L'integrale corresponsione della sanzione pecuniaria irrogata produce i medesimi effetti del permesso di costruire in sanatoria di cui all'art. 36”. In sede di ottemperanza al giudicato l'Amministrazione è tenuta, pertanto, non solo a uniformarsi alle indicazioni rese dal giudice, e a determinarsi secondo i limiti imposti dalla rilevanza sostanziale della posizione soggettiva azionata e consolidata in sentenza, ma anche a prendere in esame la situazione controversa nella sua complessiva estensione, valutando non soltanto i profili oggetto della decisione del giudice, ma pure quelli comunque rilevanti per provvedere definitivamente sull'oggetto della pretesa, all'evidente scopo di evitare ogni possibile elusione del giudicato. Alla luce delle predette considerazioni va affermata la persistenza dell'obbligo del Comune di Bruino di ottemperare integralmente al giudicato di cui alla sentenza n. 377/2001 del 30 marzo 2011 di questo Tribunale Amministrativo Regionale, ordinando ai contro interessati: - o la demolizione/rimessa in pristino dell'intera opera abusiva oggetto della concessione edilizia in sanatoria n. 2662/2002, rilasciata dal Comune di Bruino al sig. F.G., - ovvero, qualora non sia possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la restituzione in pristino, attraverso l'emanazione da parte del dirigente o del responsabile del competente ufficio comunale di un atto di applicazione di una sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere o loro parti abusivamente eseguite, valutato dall'Agenzia del territorio, anche sulla base di accordi stipulati tra quest'ultima e l'amministrazione comunale. Correlativamente, al fine di tutelare la situazione giuridica lesa del ricorrente, il Comune a titolo di risarcimento Urbanistica e appalti 11/2014 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Amministrativa del danno corrisponderà, ai sensi dell’art. 114 comma 4 lett. e c.p.a., al ricorrente stesso, D.B., una somma di denaro da determinare con le modalità di cui sopra ed in applicazione dell’art. 30 c.p.a., contestualmente alla determinazione della sanzione pecuniaria, a ristoro del pregiudizio subito dalla esecuzione delle opera abusive e correlata alla perdita di valore dell’immobile di proprietà di quest’ultimo, con rivalutazione monetaria ed interessi dalla data di esecuzione delle opere al soddisfo. In caso di mancato accordo sulla quantificazione del risarcimento si provvederà ai sensi dell’art. 34 comma 4 c.p.a. Per i predetti adempimenti al Comune di Bruino viene assegnato il termine di giorni 60 dalla comunicazione e/o notifica della presente sentenza. Decorso infruttuosamente tale termine ai medesimi adempimenti provvederà, sostitutivamente, il Commissario ad acta indicato in dispositivo, che adotterà, entro il successivo termine fissato in dispositivo e sotto la sua personale responsabilità, ogni provvedimento utile a dare integrale esecuzione al giudicato. Le spese e gli onorari del giudizio è giusto che seguano la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. IL COMMENTO di Valerio de Gioia (*) Il conseguimento della sanatoria di abusi edilizi non trova ostacolo nella esistenza di provvedimenti sanzionatori, anche se adottati in seguito a giudizio di ottemperanza; non può, quindi, essere considerato ostativo all'ottenimento della sanatoria un ordine di demolizione emanato per ottemperare al giudicato formatosi sulla decisione di annullamento del titolo abilitativo edilizio. Poiché, però, da un lato, si hanno i diritti dei terzi che costituiscono un ostacolo assoluto al titolo abilitativo in sanatoria, dall'altro, non necessariamente l’esistenza di un ordine di demolizione, anche successivo al giudicato, costituisce una preclusione assoluta si deve ritenere, per conciliare tali aspetti, che il giudicato non possa mai essere superato quando la sentenza costituisca proprio lo strumento di tutela con il quale i terzi, i cui diritti sono fatti salvi, abbiano fatto valere le loro posizioni. Gli interessi in gioco La sentenza in rassegna torna ad esaminare la questione degli effetti derivanti dell'annullamento, in sede giurisdizionale, del permesso di costruire che, per consolidato orientamento giurisprudenziale, provoca la qualificazione di abusività delle opere edilizie realizzate in base ad esso, obbligando il Comune a dare esecuzione al giudicato con l’adozione dei provvedimenti conseguenziali. I profili da considerare sono due: le condizioni in presenza delle quali il Comune può, in luogo della demolizione delle opere realizzate, irrogare una sanzione pecuniaria; l’ammissibilità della sanatoria degli abusi edilizi, allorché siano stati adottati provvedimenti sanzionatori in seguito a giudizio di ottemperanza al giudicato formatosi sulla decisione di annullamento del titolo abilitativo edilizio. Diversi sono gli interessi in gioco: la tutela del diritto di proprietà del terzo (correlato al consenso che, secondo lo strumento urbanistico, deve esprimere al fine di consentire modifiche che alterino lo stato dell'immobile confinante), quello pubblico al rispetto della normativa urbanistica che disciplina le modalità di edificazione e, infine, quello di chi ha eseguito le opere a non subire un pregiudizio particolarmente oneroso in conseguenza dell'edificazione che non è conforme allo strumento urbanistico, non tanto per un contrasto con le norme limitative dell'edificazione, quanto con quelle che, integrando il codice civile, disciplinano i rapporti di vicinato tra i proprietari di edifici. Nel caso di specie, il vizio rilevato nel permesso di costruire oggetto di annullamento, con la sentenza di cui è stata chiesta l'esecuzione, non riguarda i limiti di edificazione bensì i rapporti tra proprietà edilizie contigue: il ripristino dello stato dei luoghi, pertanto, può essere seguito da una nuova edificazione nel rispetto delle caratteristiche planovolumetriche, consentite in difetto di un consenso del proprietario dell'edificio confinante, ma vi è una oggettiva difficoltà a demolire soltanto la porzione di fabbricato che supera in altezza quella consentita senza pregiudicare le restanti parti. (*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla valutazione di un referee. Urbanistica e appalti 11/2014 1221 Giurisprudenza AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Amministrativa Imprescindibile, al fine di procedere all’individuazione di soluzioni che contemperino i contrapposti interessi pubblici e privati, è l’art. 38 del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia) a tenore del quale, in caso di annullamento del permesso di costruire, qualora non sia possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la restituzione in pristino, il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale applica una sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere o loro parti abusivamente eseguite, valutato dall'agenzia del territorio, anche sulla base di accordi stipulati tra quest'ultima e l'amministrazione comunale (1). La valutazione dell'agenzia, prosegue la norma, è notificata all'interessato dal dirigente o dal responsabile dell'ufficio e diviene definitiva decorsi i termini di impugnativa e l'integrale corresponsione della sanzione pecuniaria irrogata produce i mede- simi effetti del permesso di costruire in sanatoria di cui all'art. 36 del medesimo decreto (2). Tale dato normativo deve essere raccordato con il principio, ormai pacificamente acquisito a livello giurisprudenziale (3), secondo cui l'annullamento giurisdizionale del permesso di costruire provoca la qualificazione di abusività delle opere edilizie realizzate in base ad esso, per cui il Comune, stante l'efficacia conformativa della sentenza del giudice amministrativo, oltre che costitutiva e ripristinatoria, è obbligato a dare esecuzione al giudicato adottando i provvedimenti conseguenziali (4). Tali provvedimenti, per come più volte chiarito dai giudici amministrativi, non devono avere ad oggetto necessariamente la demolizione delle opere realizzate (5), prescrivendo, l’art. 38 T.U. edilizia, in caso di annullamento del permesso di costruire, una nuova valutazione da parte del dirigente del competente ufficio comunale riguardo alla possibilità di restituzione in pristino cosicché, qualora la demolizione non risulti possibile, il Comune deve irrogare una sanzione pecuniaria, nei termini fissati dalla medesima disposizione. (1) In sede amministrativa, la scelta comunale di dare applicazione all'art. 38, D.P.R. n. 380 del 2001, con esclusione della sanzione demolitoria, appare quella maggiormente rispettosa di tutti gli interessi coinvolti e anche del principio di proporzionalità dell'azione amministrativa, di diretta derivazione dal diritto dell'Unione Europea, principio che impone all'amministrazione il perseguimento del pubblico interesse col minor sacrificio possibile dell'interesse privato (v., in questo senso, T.A.R. Lombardia, Milano, sez. II, 6 dicembre 2012, n. 2944, in Foro Amm. TAR, 2012, 12, 3772). (2) Per approfondimenti sulla portata applicativa dell’art. 38 T.U. edilizia sia consentito rinviare a V. de Gioia, Edilizia e urbanistica. Regimi normativi, titoli abilitativi e strumenti di tutela, Torino, 2008, 753 ss. V. anche R. Leonardi, M. Occhiena, Interventi eseguiti in base a permesso annullato, in AA.VV., Testo Unico dell’edilizia, a cura di A. M. Sandulli, Milano, 2004, 457 ss. (3) Cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12 maggio 2014, n. 2398; Cons. Stato, sez. VI, 13 giugno 2011, n. 3571, in Foro Amm. CdS, 2011, 6, 2051; T.A.R. Molise, Campobasso, sez. I, 17 ottobre 2013, n. 598, in Foro Amm. TAR (Il), 2013, 10, 3127; T.A.R. Puglia, Bari, sez. III, 17 dicembre 2013, n. 1695, ivi, 2013, 12, 3865; T.A.R. Valle d'Aosta, Aosta, sez. I, 27 luglio 2011, n. 52, ivi, 2011, 7-8, 2208. Si veda anche T.A.R. Campania, Napoli, sez. VIII, 26 aprile 2013, n. 2162, Foro Amm. TAR, 2013, 4, 1305, secondo cui, nel caso di annullamento del titolo abilitativo edilizio, in disparte l'ipotesi di vizi di ordine meramente procedurale e formale, il modello legale tipico di atto consequenziale è proprio quello dell'ordine di ripristino dello stato dei luoghi, in quanto unico atto idoneo ad arrecare una piena soddisfazione all'interesse pubblico alla rimozione delle opere in contrasto con la disciplina urbanistica, cosicché, ove lo sviluppo attuativo del pregresso annullamento della concessione si incanali nell'alveo naturale della riduzione in pristino, alcun onere di specifica motivazione ricade sull'amministrazione procedente, il cui operato è obbligatoriamente scandito dallo stesso legislatore; mentre, solo in presenza di circostanze peculiari ed eccezionali, idonee ad accreditare l'oggettiva im- possibilità di attuare la misura ordinaria della riduzione in pristino, sarà possibile accedere alla misura residuale della sanzione pecuniaria, occorrendo, però, in siffatta evenienza, giustificare la deroga alla soluzione di “tutela reale” privilegiata dal legislatore mediante una congrua motivazione che dia adeguatamente conto delle valutazioni effettuate. In senso parzialmente difforme si veda T.A.R. Campania, Salerno, sez. I, 19 aprile 2012, n. 738, in Foro Amm. TAR, 2012, 4, 1361 per il quale, in caso di annullamento in sede giurisdizionale di una concessione edilizia, considerata illegittima per vizio sostanziale, l'amministrazione non può ricorrere all'art. 38 D.P.R. n. 380/2001, norma che consente di rimediare ai soli vizi formali o procedurali: la regola posta da tale disposizione è rappresentata dall'operatività della sanzione reale che, in quanto effetto primario e naturale derivante dall'annullamento del permesso di costruire, non richiede all'amministrazione un particolare onere della motivazione, ma rinviene la sua giustificazione, in re ipsa, nella legalità violata; ne consegue che la sanzione alternativa pecuniaria deve intendersi riferita alle sole costruzioni assentite mediante titoli abilitativi annullati per vizi formali. (4) In dottrina v. F. Rocco, Accordo, esecuzione del giudicato e giudizio di ottemperanza, in questa Rivista, 1, 2005, 97 ss.; G. Bellucci, P. Pellegrini, La repressione degli abusi edilizi nella giurisprudenza amministrativa, penale e della Corte europea dei diritti dell’uomo, Torino, 2012, 141; S. Castro, Il giudizio di ottemperanza amministrativa, Milano, 2012, 497 ss.; M. Antonioli, Spigolature sul nuovo giudizio di ottemperanza, in Dir. Proc. Amm., 2011, 1291; S. Tarullo, Il giudizio di ottemperanza, in Giustizia amministrativa (a cura di F. G. Scoca), IV ed., Torino, 2011, 563 ss. (5) Principio ribadito, da ultimo, da Cons. Stato, sez. IV, 12 maggio 2014, n. 2398, cit. (in linea con quanto già in precedenza affermato da Cons. Stato, sez. IV, 16 marzo 2010, n. 1535, in Foro Amm. CdS, 2010, 3, 555 e Cons. Stato, sez. IV, 17 maggio 2012, n. 2852, ivi, 2012, 5, 1172), con la precisazione che la demolizione, rappresentando l'extrema ratio, rende necessaria una motivazione specifica e non, quindi, estremamente sintetica se non implicita. Il dato normativo 1222 Urbanistica e appalti 11/2014 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Amministrativa La rinnovazione dei permessi di costruire annullati in sede giurisdizionale Secondo il TAR Piemonte, dalla previsione di cui all'art. 38 T.U. edilizia - laddove prevede, come sopra rilevato, la rimozione dei vizi delle procedure amministrative in caso di permesso di costruire annullato in via giurisdizionale -, non deriva un generale divieto di rinnovazione dei permessi di costruire annullati in sede giurisdizionale per vizi di carattere sostanziale. La norma, in altre parole, non implica alcun generale divieto di rinnovazione dei permessi di costruire annullati in sede giurisdizionale per vizi di carattere sostanziale (6), non potendosi ritenere che la concessione edilizia in sanatoria sia ammissibile solo in caso di annullamento della prima per motivi procedurali o formali, rimanendo, conseguentemente, esclusa la legittimità in ordine all'annullamento dell'originaria concessione per motivi sostanziali di contrarietà allo strumento urbanistico (7). Tuttavia, l'affidamento del privato a poter conservare l'opera realizzata sulla base di un titolo edilizio successivamente annullato non è tutelato in via generale, ma è rimesso alla discrezionalità del legislatore, al quale compete emanare norme speciali di tutela come la potenziale commutabilità della sanzione demolitoria in quella pecuniaria (da cui la disciplina dell’art. 38 D.P.R. n. 380 del 2001), ovvero un regime di favore in sede di condono edilizio, come avvenuto con l'art. 39, L. n. 724 del 1994 (8). La sanatoria di abusi edilizi: ammissibilità Il TAR Piemonte, del resto, già in altra occasione (9) ha sostenuto che il conseguimento della sa(6) V., in questo senso, Cons. Stato, sez. IV, 17 settembre 2012, n. 4923, in Riv. Giur. Edil., 2012, 5, I, 1140. Nell'ipotesi in cui il permesso di costruire sia stato annullato in sede giurisdizionale a causa di vizi emendabili e, quindi, fuori dei casi di divieto assoluto di edificazione, l'effetto conformativo, che discende dal decisum di annullamento, non comporta affatto per il Comune l'obbligo sempre e comunque di disporre la demolizione di quanto realizzato sulla base del titolo annullato, ma è circoscritto al divieto, in caso di adozione di un nuovo titolo edilizio, di riprodurre i medesimi vizi (formali o sostanziali che siano) che detto titolo avevano connotato: tanto evincendosi anche dall'art. 38, D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, che disciplina proprio la sorte delle opere realizzate sulla base di un permesso di costruire poi annullato (Così T.A.R. Liguria, Genova, sez. I, 12 marzo 2013, n. 476, in Foro Amm. TAR, 2013, 3, 802). (7) Cfr., sul punto, Cons. Stato, sez. IV, 2 novembre 2010, n. 7731, in Riv. Giur. Edil., 2011, 1, 118. (8) In questi termini, più di recente, Cons. Stato, sez. IV, 12 Urbanistica e appalti 11/2014 natoria di abusi edilizi non trova ostacolo nella esistenza di provvedimenti sanzionatori, anche se adottati in seguito a giudizio di ottemperanza, per cui non può essere considerato ostativo all'ottenimento della sanatoria un ordine di demolizione emanato per ottemperare al giudicato formatosi sulla decisione di annullamento della concessione edilizia stessa. Poiché, però, da un lato si hanno i diritti dei terzi, che costituiscono un ostacolo assoluto al titolo abilitativo in sanatoria, dall'altro, non necessariamente l’esistenza di un ordine di demolizione, anche successivo al giudicato, costituisce una preclusione assoluta, si deve ritenere, per conciliare tali aspetti, che il giudicato non possa mai essere superato quando la sentenza costituisca proprio lo strumento di tutela con il quale i terzi, i cui diritti sono fatti salvi, abbiano fatto valere le loro posizioni. Il Comune, di conseguenza, è legittimato a rilasciare il permesso di costruire in sanatoria, ma l'eventuale regolarizzazione delle opere abusive può avvenire soltanto nel rispetto delle norme e dei procedimenti individuati dalla legge a seguito di un assenso esplicito del proprietario confinante ovvero per effetto dell’applicazione dell’art. 38, D.P.R. n. 380 del 2001, nella parte in cui prescrive che, in caso di annullamento del permesso di costruire, qualora non sia possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la restituzione in pristino, il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale applica una sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere o loro parti abusivamente eseguite, valutato dall'agenzia del territorio, anche sulla base di accordi stipulati tra quest'ultima e l'amministrazione comunale, il cui pagamento promaggio 2014, n. 2398 cit. secondo cui, in difetto di una espressa previsione legislativa, la posizione di colui che abbia realizzato l'opera sulla base di un titolo annullato non si differenzia dagli altri soggetti che hanno invece realizzato l'opera abusiva senza titolo. V. anche Cons. Stato, sez. IV, 10 agosto 2011, n. 4770, in Foro Amm. CdS, 2011, 7-8, 2412, per il quale, ai sensi dell'art. 21-nonies, L. 7 agosto 1990 n. 241, l'esercizio del potere di autotutela e, quindi, il concreto provvedimento di ufficio adottato dall'amministrazione, richiede che quest'ultima, oltre ad accertare entro un termine ragionevole l'illegittimità dell'atto (nella specie di rilascio del permesso di costruire), debba altresì valutare la sussistenza di un interesse pubblico all'annullamento, attuale e prevalente sulle posizioni giuridiche private costituitesi e consolidatesi medio tempore, dovendosi in particolare escludere che tale interesse pubblico possa consistere nel mero ripristino della legalità violata. (9) Il riferimento è a T.A.R. Piemonte, sez. II, 8 maggio 2012, n. 510, in Foro Amm. TAR, 2012, 5, 1468. 1223 Giurisprudenza AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Amministrativa duce i medesimi effetti del permesso di costruire in sanatoria di cui all'art. 36 stesso decreto (10). Gli obblighi dell’amministrazione in sede di ottemperanza … In sede di ottemperanza al giudicato, secondo un principio pacificamente accolto in giurisprudenza, l'amministrazione è tenuta non solo a uniformarsi alle indicazioni rese dal giudice, e a determinarsi secondo i limiti imposti dalla rilevanza sostanziale della posizione soggettiva azionata e consolidata in sentenza, ma anche a prendere in esame la situazione controversa nella sua complessiva estensione, valutando, non soltanto i profili oggetto della decisione del giudice, ma pure quelli comunque rilevanti per provvedere definitivamente sull'oggetto della pretesa, all'evidente scopo di evitare ogni possibile elusione del giudicato (11). Nel caso di specie, dunque, persistendo l'obbligo del Comune di ottemperare integralmente al giudicato, il TAR Piemonte ha ordinato ai controinteressati la demolizione/rimessione in pristino dell'intera opera abusiva oggetto della concessione edilizia in sanatoria, ovvero, qualora non sia possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la restituzione (10) Si segnala, al riguardo, T.A.R. Liguria, Genova, sez. I, 18 febbraio 2014, n. 282 secondo cui, l'individuazione dei casi di impossibilità ai sensi dell'art. 38 T.U. edilizia in tema di conseguenze di annullamento di titolo edilizio, non può arrestarsi alla mera impossibilità (o grave difficoltà) tecnica, potendo anche trovare considerazione ragioni di equità o al limite di opportunità. Al riguardo, la demolizione può essere considerata quale extrema ratio, dovendo privilegiarsi, ogni volta che ciò sia possibile, la riedizione del permesso di costruire emendato dai vizi riscontrati. Infatti, l'art. 38 cit. rappresenta “speciale norma di favore” che differenzia sensibilmente la posizione di colui che abbia realizzato l'opera abusiva sulla base di titolo annullato rispetto a coloro che hanno realizzato opere pari- 1224 in pristino, attraverso l'emanazione da parte del dirigente o del responsabile del competente ufficio comunale di un atto di applicazione di una sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere o loro parti abusivamente eseguite, valutato dall'agenzia del territorio, anche sulla base di accordi stipulati tra quest'ultima e l'amministrazione comunale. … e la tutela del privato I giudici amministrativi concludono con una fondamentale precisazione: in caso di mancata demolizione, al fine di tutelare la situazione giuridica lesa del proprietario confinante (ricorrente in sede di ottemperanza), il Comune - per attuare un reale contemperamento degli interessi in gioco - contestualmente alla determinazione della sanzione pecuniaria deve corrispondere, a titolo di risarcimento del danno (ex art. 114, comma 4, lett. e c.p.a.), una somma di denaro a ristoro del pregiudizio subito dalla esecuzione delle opere abusive e correlata alla perdita di valore dell’immobile di proprietà dello stesso, con rivalutazione monetaria ed interessi dalla data di esecuzione delle opere al soddisfo. menti abusive senza alcun titolo, tutelando l'affidamento del privato che ha avviato i lavori in base a titolo ottenuto. (11) Conseguentemente, l'atto emanato dall'amministrazione, dopo l'annullamento in sede giurisdizionale di un provvedimento illegittimo, può considerarsi adottato in violazione o elusione del giudicato solo quando da esso derivi un obbligo talmente puntuale che l'ottemperanza si concreta nell'adozione di un atto il cui contenuto è integralmente desumibile nei suoi tratti essenziali dalla sentenza (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 21 maggio 2010, n. 3223, in Foro Amm. CdS, 2010, 5, 1026; T.A.R. Piemonte, Torino, sez. I, 8 aprile 2011, n. 365, in Foro Amm. TAR, 2011, 4, 1152; T.A.R. Piemonte, sez. II, 8 maggio 2012, n. 510, cit.). Urbanistica e appalti 11/2014 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Amministrativa Convenzioni Consip La compatibilità comunitaria della proroga ex lege delle convenzioni Consip T.A.R. ABRUZZO, L’AQUILA, sez. I, 5 giugno 2014, n. 515 – Pres. f.f. Passoni – Est. Gizzi – Elettrobiomedicale c. Asl01 Avezzano/Sulmona/L’Aquila e Hospital Consulting s.p.a. È consentito ricorrere ad una procedura negoziata, con o senza pubblicazione del bando di gara, solo nei casi espressamente individuati dagli art. 30 e 31 della direttiva. Nella fattispecie in questione il citato, comma 1, n. 4, lett. b) consente il rinnovo dell’affidamento ricorrendo alla procedura negoziata solo quando ricorrono le condizioni ivi indicate tra le quali rileva che la possibilità di rinnovo sia indicato “sin dall’avvio del confronto competitivo” e l’importo totale previsto per la prosecuzione sia individuato nel bando. Il rinnovo operato ex lege dalla convenzioni della Consip si pone pertanto in violazione del diritto comunitario. CONSIGLIO DI STATO, sez. III, 27 marzo 2014, n. 1486 – Pres. Lignani – Est. Corradino – Hospital Consulting s.p.a- Elettrobiomedicale c. Asl07 Carbonia È consentito ricorrere ad un procedura negoziata, con o senza pubblicazione del bando di gara, solo nei casi espressamente individuati dagli artt. 30 e 31 della direttiva. Il rinnovo operato ex lege dalle convenzioni della Consip si pone pertanto in violazione del diritto comunitario. Né la natura transitoria della norma né tanto meno la finalità di risparmio per le finanze pubbliche in periodo di necessaria “spending review” consentono la violazione della normativa comunitaria e la connessa distorsione delle regole concorrenziali. T.A.R. ABRUZZO, PESCARA, 5 aprile 2013, n. 197 – Pres. Eliantonio – Est. Balloriani – Elettrobiomedicale c. Asl02Lanciano/Vasto/Chieti e Hospital Consulting s.p.a. L’art. 15 ai commi 12 e 13 ha dettato disposizioni speciali con riguardo ai contratti di fornitura di beni e servizi degli enti del SSN, e di tali disposizioni dovranno presumibilmente tener conto anche le centrali uniche di committenza nella stipula dei futuri contratti. In ogni caso, la previsione, in via interpretativa, dell’efficacia anche nei confronti degli enti del SSN della proroga dei contratti delle centrali di committenza, già stipulati prima dell’entrata in vigore di tali disposizioni e quindi senza tener conto di tali nuovi parametri, finirebbe per obbligare anche tali enti ad aderirvi, con l’effetto di posticipare l’applicazione delle disposizioni di cui all’art. 15 commi 12 e 13. Urbanistica e appalti 11/2014 1225 Giurisprudenza AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Amministrativa IL COMMENTO di Alessandro F. Di Sciascio (*) Le sentenze in commento costituiscono i leading cases della giurisprudenza amministrativa italiana circa l’applicazione e la prevalenza del diritto comunitario in materia di contratti pubblici, a seguito dell’introduzione delle misure legislative nazionali in tema di proroga delle convenzioni Consip. Dal percorso ricostruttivo della trattazione (con l’analisi dei casi giurisprudenziali) emerge che il mercato e la concorrenza trovano tutela piena nell’ordinamento giuridico nazionale a discapito delle misure previste per il risparmio di spesa. L’autore chiude il percorso argomentativo con la constatazione dell’ormai prevalenza del diritto comunitario (almeno in materia di contratti pubblici) soffermandosi sull’idea che le misure introdotte dal legislatore nazionale in quanto misure temporanee e frammentate, non possono rappresentare strumenti di sistema utili all’intero ordinamento giuridico ed ai consociati medesimi. Il casus belli Le sentenze, oggetto delle presente riflessioni, hanno come casus belli dei giudizi instaurati i medesimi fatti: l’affidamento diretto senza gara, da parte di più aziende sanitarie locali in più regioni, dei servizi per la gestione delle apparecchiature elettromedicali mediante l’adesione alla Convenzione della Consip s.p.a. di cui all’art. 26 della L. n. 488 del 1999 (SIGAE 3) (1), prorogata ex lege dall’art. 2 commi 15 e 16 del D.L. n. 95 del 2012 (2). Tale adesione alla Convenzione Consip s.p.a. è stata sottoposta al vaglio del sindacato del giudice amministrativo (3), in quanto il comma 23 dell’art. 1 del D.L. n. 95 del 2012 esclude gli enti del servizio sanitario nazionale dalla possibilità di ricorrere alle Convenzioni prorogate ai sensi dei commi 15 e 16 del medesimo articolo 1 (4). L’adesione al dettato normativo da parte delle pubbliche amministrazioni, secondo la ricostruzione portata all’attenzione dei giudici amministrativi ha violato le norme inderogabili (*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla valutazione di un referee. (1) Consip s.p.a. - Convenzione Sigae 3, Gara a procedura aperta ai sensi del D.Lgs. 163/2006 e s.m.i. per la prestazione di servizi integrati per la gestione delle apparecchiature elettromedicali per le pubbliche Amministrazioni nei territori di Umbria, Marche, Abruzzo, Lazio, Campania e Sardegna. La L. n. 488 del 23 dicembre 1999 all’art. 26 è rubricato “Acquisto beni e servizi” e prevede al primo comma che “Il ministero del tesoro … stipula convenzioni con le quali l’impresa prescelta si impegna ad accettare, sino a concorrenza della quantità massima complessiva stabilita dalla convenzione ed ai prezzi e condizioni ivi previsti, ordinativi di fornitura di beni e servizi deliberati dalle amministrazioni dello Stato anche con il ricorso alla locazione finanziaria”. (2) Il D.L. n. 95 del 2012 prevede all’art. 1 commi 15 e 16 che “le quantità ovvero gli importi massimi complessivi ivi previsti sono incrementati in misura pari alla quantità ovvero all’importo originario, a decorrere dalla data di esaurimento delle convenzioni stesse … la durata delle convenzioni di cui al precedente comma 15 è prorogata fino al 30 giugno 2013”, a decorrere dalla data di esaurimento della convenzione originaria e solo se a tale data non sia già intervenuta da parte delle me- 1226 del diritto comunitario (con particolare riferimento agli artt. 28, 31 e 32 della direttiva 2004/18/CE) (5) sul presupposto che le norme interne andavano disapplicate così come previsto da una serie di precedenti giurisprudenziali noti. In particolare, nel caso di specie ha trovato applicazione il principio di necessaria ed immediata disapplicazione da parte del giudice nazionale delle norme interne sulla spending review in relazione alla proroga della Convenzione in contrasto con il diritto comunitario. La disapplicazione del diritto nazionale trova il suo leading case nella sentenza del 9 marzo 1978 della Corte di Giustizia Unione europea, in causa C-106/77, Simmenthal/Amministrazione delle finanze dello Stato (6). La Consip s.p.a e gli accordi quadro (e/o convenzioni) Dall’analisi delle parti in fatto delle sentenze emerge che il giudicante ha fatto un breve excurdesima centrale di committenza la pubblicazione di una procedura di gara per la stipula di una convenzione avente prodotti o servizi analoghi!”. Tali commi sono stati sostituiti e modificati dalla legge di conversione del D.L. 7 agosto 2012, n. 135. (3) Le Aziende Sanitarie Locali che hanno aderito sono quelle di: Carbonia, Lanciano-Vasto-Chieti, Avezzano-Sulmona-L’Aquila. (4) Il D.L. 6 luglio 2012, n. 95 rubricato “Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario” prevede all’art. 1 comma 23 (comma modificato dalla legge di conversione del decreto) che “Agli enti del servizio sanitario nazionale non si applicano le disposizioni di cui al presente articolo, salvo quanto previsto dal comma 24”. (5) Al riguardo si vedano R. Garofoli, Il nuovo testo unico europeo degli appalti pubblici (direttiva 2004/18/Ce del 31 marzo 2014). Le principali novità e le persistenti lacune regolamentari, in Servizi Pubblici e Appalti, 2004, 3, 653-667. (6) Sulla incidenza interna del diritto comunitario in materia di appalti pubblici vedasi Cons. Stato, sez. V, del 8 novembre 2011, n. 5686, in Foro Amm. CdS, 2012, 11, 2883 ss. Urbanistica e appalti 11/2014 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Amministrativa sus sull’istituzione e sulla ratio della creazione della Consip s.p.a., così da giustificare, da un lato la scelta delle Aziende Sanitare Locali e, dall’altro verificare le illegittimità segnalate dai ricorrenti. Secondo la ricostruzione dei giudici amministrativi l’interesse comunitario per i modelli organizzativi centralizzati di acquisto di beni e servizi prende piede dalla necessità di andare oltre la frammentazione della gestione degli appalti pubblici, abbattendo i costi sostenuti per le procedure ad evidenza pubblica – in particolare per le amministrazioni più piccole – e allo stesso tempo, favorendo un maggiore sviluppo di professionalità da parte delle stazioni appaltanti nella fase di aggiudicazione o negoziazione. Un ulteriore fine voluto dal legislatore comunitario è quello di creare azioni combinate e diverse da parte di molteplici pubbliche amministrazioni nell’attivazione delle procedure per l’acquisizione di beni e/o servizi di comune necessità ed abbattere i costi delle procedure europee. La Consip s.p.a. è una tipica centrale di committenza (7), quest’ultima prevista dall’art. 33 del codice dei contratti (8). La centralizzazione degli acquisti ha la capacità di ridurre il numero di entità organizzative coinvolte nell’esercizio della funzione amministrativa (9), e ridurre il costo del controllo sulla regolarità formale delle procedure sviluppando efficaci controlli interni (10). Il D.M. 24 febbraio 2000, emanato sulla base dell’art. 26 della L. 23 dicembre 1999 (la legge finanziaria per il 2000) statuisce l’affidamento alla Consip s.p.a. (società pubblica interamente statale) del compito di stipulare convenzioni ed accordi quadro per l’acquisto di beni e servizi per conto delle amministrazioni dello Stato e, in virtù dell’art. 24 della L. 28 dicembre 2001 (legge finanziaria per il 2002), anche per gli enti territoriali. Si aggiunga, inoltre, che secondo parte della dottrina la Consip s.p.a. è stata introdotta in vista anche dell’adozione dell’euro (11). Da ultimo l’utilizzo di Consip s.p.a. e delle altre centrali di committenza è stato favorito (dal legislatore) come strumento di lotta alla corruzione (12). Il meccanismo di funzionamento degli acquisti di beni e servizi mediante Consip s.p.a è relativamente semplice (13). Le amministrazioni, infatti, aderiscono ad un “accordo quadro e/o convenzione” (14) di tipo pubblicistico stipulato da Consip s.p.a. (e/o altra centrale di committenza) attraverso le quali le amministrazioni medesime possono acquisire determinati beni, prodotti dalle imprese che si sono obbligate a (7) Sulle centrali di committenza si rinvia, tra gli altri, a R. Caranta, Le centrali di committenza, in Trattato sui contratti pubblici. I principi generali. I contratti pubblici. I soggetti a cura di M. A. Sandulli - R. De Nictolis - R. Garofoli, Milano, 2008, 607622. Sempre di R. Caranta, sul modello Consip si rinvia a I contratti Pubblici, Torino, 2004, 174 ss. (8) Il D.L. 24 aprile 2014, n. 66, convertito in legge n. 95 del 23 giugno 2014 all’art. 9 prevede l’elenco dei soggetti aggregatori di cui fanno parte Consip s.p.a. e una centrale di committenza per ciascuna Regione, qualora costituita ai sensi dell’art. 1, comma 455, L. n. 296 del 2006. A titolo esemplificativo tra i vari commenti alla normativa si vada C. Iaione, L’ambito oggettivo e soggettivo (artt. 3; 28-33; 14-15; 53), in Commentario al Codice dei Contratti Pubblici, a cura di M. Clarich, Torino, 2010, 204-276, in particolare 262265. (9) Gli scritti sulla funzione sono innumerevoli si rinvia a titolo esemplificativo a F. Modugno, Funzione ad vocem, in Enc. Dir., Vol. XVIII, Milano, 1969, 301 ss.; F. Benvenuti, Funzione amministrativa, procedimento, processo in Riv. Trim. Dir. Pubbl., 1952, 1, 118 ss., G. Marongiu, Funzione amministrativa, in La democrazia come problema, I. Diritto, amministrazione ed economia, Tomo, II, Bologna, 1994, 301 ss., M. S, Giannini, In principio sono le funzioni, in Scritti, Vol. IV, Milano, 2004, 721 ss.; G. Napolitano, Funzioni amministrative, in Dizionario di diritto pubblico, diretto da S. Cassese, Vol. III, Milano, 2006, 2631 ss. (10) F. Di Lascio, La centralizzazione degli appalti, la spending review e l’autonomia organizzativa locale, in Giorn. Dir. Amm., 2014, 2, 205-219. In particolare l’autrice ritiene che “in ambito europeo la disciplina delle contrali di committenza mira prevalentemente all’obiettivo di promuovere la concorrenza tra le imprese e che, invece nel diritto italiano appare preponderante la finalità di limitare la spesa pubblica, ciò anche al prezzo di condizionare fortemente il potere di autorganizzazione degli enti locali”, 205. (11) Così G. Piga, E pluribus unum? Una valutazione dell’esperienza Consip s.p.a. in L’industria, 2009, 2, 225-243 in particolare 243. Lo stesso autore ritiene che le frequenti modifiche apportate alla normativa riguardante Consip sono un segno evidente dell’impatto pervasivo delle centrali di committenza, 228. (12) R. Garofoli, Politiche di prevenzione della corruzione e crisi finanziaria, politica e istituzionale, in www.giustamm.it, L. Giampaolino, La prevenzione della corruzione, in www.giustamm.it; C. E Gallo, Legge anticorruzione e funzione amministrativa, in www.giustamm.it. Si veda sullo stato attuale dell’attuazione della normativa anticorruzione, Il Rapporto sul primo anno di attuazione della legge n. 190/2012, a cura dell’autorità Anti corruzione e la trasparenza delle pubbliche amministrazioni, pubblicata sul sito istituzionale www.anac.it. (13) Al riguardo si veda E. Pintus, Il procurement nelle aziende sanitarie pubbliche, in www.astridonline.it e la Relazione sui fabbisogni annuali di beni e servizi delle P.A. e sui risparmi conseguiti con il sistema delle Convenzioni Consip L. 244/2007, art. 2, cc. 569-574, allegata al Documento di economia e finanza 2014 reperibile in rete sul sito www.mef.gov.it. (14) Secondo alcuni la convenzione è da inquadrarsi nell’istituto di cui all’art. 11 della legge generale sull’azione amministrativa. Il riferimento è a F. M. Nicosia, “Modello Consip” tra Stato e Mercato (Lineamenti e prospettive evolutive), in Riv. It. Dir. Pubbl. Comunit., 2002, 4, 711-739 ss. Sull’accordo sostitutivo il provvedimento amministrativo e più in generale sul procedimento amministrativo si vedano, ex multis, V. Cerulli Irelli a cura di, La disciplina generale dell’azione amministrativa, Napoli, 2006; N. Paolantonio - A. Police - A. Zito, a cura di, La pubblica amministrazione e la sua azione, Torino, 2005; M. Renna - F. Saitta, a cura di, Studi sui principi del diritto amministrativo, Milano, 2012. Urbanistica e appalti 11/2014 1227 Giurisprudenza AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Amministrativa stipulare contratti di fornitura di beni e servizi a determinati prezzi e condizioni. L’utilizzo dell’accordo quadro può essere uno stimolo per l’innovazione delle imprese aggiudicatrici per il mercato di riferimento (come nel settore della fornitura e della gestione delle apparecchiature elettromedicali) e le decisioni assunte dalle centrali di committenza sono in grado di incidere anche sulle decisioni e scelte che devono essere assunte da amministrazioni minori (15). Si aggiunga, inoltre, che secondo i giudici di Palazzo Spada, “l’adesione delle amministrazioni pubbliche alle convenzioni non integra un obbligo di individuare il miglior contraente mediante le procedure ad evidenza pubblica poiché nel sistema centralizzato di acquisti il confronto comparativo è assicurato dalla centrale di committenza Consip s.p.a.” (16). Come le centrali di committenza anche l’accordo quadro trova fondamento positivo nell’ordinamento comunitario (17) e precisamente negli artt. 32 e 1 comma 5 della direttiva 2004/18/CE. Infatti le Convenzioni (e/o accordo quadro) sono il frutto di una riforma del sistema comunitario dei contratti pubblici che ha avuto un iter assai complesso per tener conto delle implicazioni e delle dinamiche sul mercato e sulla concorrenza a livello regionale, nazionale e comunitario. È di palese evidenza che l’utilizzo di tali convenzioni, come si specificherà nel corso della trattazione, presenta alcuni profili problematici. In particolare la volontà del legislatore di prorogare le convenzioni circa il quantum di prestazioni disponibili acquistabili per un corrispettivo può danneggiare il mercato e la concorrenza, in quanto viene meno la gara pubblica (per aggiudicare il servizio e/o la fornitura) presupposto di tutta la nor- mativa nazionale e comunitaria in materia di contratti pubblici. Si tratta infatti di un sistema di acquisto, così come stabilito dal legislatore, che comporta il blocco del mercato di riferimento per un determinato periodo di tempo a beneficio dell’operatore economico che ne risulta aggiudicatario (18). (15) G. M. Racca, La professionalità nei contratti pubblici della sanità: centrali di committenza ed accordo quadro, in Foro Amm. TAR, 2010, 7-8, 1744 ss. (16) Cons. Stato, sez. V, 22 marzo 2005, n. 1192 e più recentemente ed in senso conforme T.A.R. Lombardia, Brescia, sez. II, 5 novembre 2009, n. 1920. (17) Secondo parte della dottrina la normativa comunitaria lascia ampio spazio ai singoli Paesi membri dell’Unione circa il modello organizzativo da adottare per la centrale di committenza, C. Malinconico Commento all’art. 33. Appalti pubblici e accordi quadro stipulati dalle centrali di committenza, in Commentario al Codice dei contratti pubblici, a cura di G. F. Ferrari e G. Morbidelli, Milano, 2013, 431-445, in particolare 435-436. (18) Per un’analisi giuridica del mercato si rinvia A. Zito, la voce mercati (Regolazione dei), in Enc. Dir., Annali III, Milano, 2010 850 ss. e F. G. Scoca, Giudice amministrativo ed esigenze del mercato in Dir. Amm., 2008, 2, 257 ss. (19) Al riguardo vedasi R. Spagnuolo Vigorita, Politiche pubbliche del servizio sanitario. Profili giuridici, Napoli, 2003; C. Bottari, Tutela della salute ed organizzazione sanitaria, Torino, 2009; F. Liguori - A. Zoppoli, a cura di, La sanità flessibile, Na- poli, 2011; C. Bottari, a cura di, Terzo settore e servizi socio-sanitari: tra gare pubbliche e accreditamento, Torino, 2013. (20) Così G. M. Racca, La professionalità nei contratti pubblici della sanità: centrali di committenza e accordi quadro, in Foro Amm. CdS, 2010, 7-8, 1727 ss. (21) Sui diritti sociali e sulle problematiche connesse si rinvia, tra gli altri, a A. Giorgis, Diritti sociali (ad vocem), in Dizionario di diritto pubblico, a cura di S. Cassese, vol. III, Milano, 2006, 1903-1915; B. Pezzini, La decisione sui diritti sociali, Milano, 2001. Sullo stato sociale e sulla sua evoluzione si vedano L. Torchia, Welfare e federalismo, Bologna, 2005; G. Vittadini, Liberi di scegliere. Dal welfare state alla welfare society, Milano, 2002. (22) Per un commento delle disposizioni normative relative alla spesa pubblica circa l’approvvigionamento di beni e servizi si veda S. Fantini, Le Novità della Spendig Review, in questa Rivista, 2012, 11, 1115 ss. Al riguardo si veda la sentenza T.A.R. Lazio, Roma, sez. III-quater, 12 luglio 2012, n. 6393 riportata da A. Piazza, Commento all’art. 33 D.Lgs. 163/2006, in Codice degli Appalti Pubblici, A. Cancrini - C. Franchini - S. Vinti a cura di, Torino, 2014, 208-212, nella cui massima i giudici 1228 Le norme della spending review e l’adesione (obbligatoria) alle convenzioni Consip (prorogate ex lege) La necessità di risparmiare sulla spesa pubblica ed il perseguimento di livelli ottimali di efficienza dell’azione amministrativa hanno richiesto e richiedono l’elaborazione di politiche nazionali (19), regionali per le aziende sanitarie e ospedaliere (e per tutte le altre amministrazioni dello Stato) volte all’individuazione di strategie di acquisto di beni e servizi alle migliori condizioni di mercato (20). La creazione di nuove strategie per lo sviluppo trova il fondamento anche (e soprattutto) nella revisione della spesa pubblica che è finalizzata al contenimento (e riduzione) della medesima, cercando di garantire i livelli essenziali di assistenza e le prestazioni idonee al mantenimento dello stato sociale attuale (21). Alla luce di ciò successivamente all’entrata in vigore del D.L. 6 luglio 2012 n. 95 (cd. spending review) e della L. 24 dicembre 2012 n. 228 (legge di stabilità 2013) sono state introdotte incisive disposizioni in tema di razionalizzazione degli approvvigionamenti di beni e servizi con l’obbligo di reperirli mediante Consip s.p.a. le cui convenzioni quadro sono divenute parametro ineludibile delle gare da parte delle singole stazioni appaltanti (22). Nel Urbanistica e appalti 11/2014 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Amministrativa caso sottoposto all’odierna analisi, il legislatore ha previsto l’estensione della convenzione bloccando il mercato di riferimento (quello della fornitura e della gestione delle apparecchiature elettromedicali) per i successivi quattro anni (per importi significativi) in quanto, seppur l’estensione sia limitata nel tempo, la durata dei contratti di erogazione dei servizi di ingegneria clinica oggetto degli ordinativi (secondo la ricostruzione portata all’attenzione del giudicante) è per lo meno triennale sulla base anche del presupposto normativo (di cui all’art. 1 comma 12 del D.L. n. 95 del 6 luglio 2012) che “agli enti del servizio sanitario nazionale non si applicano le disposizioni di cui al presente articolo, salvo quanto previsto al comma 24”. Il contrasto tra TAR e Consiglio di Stato sulle applicabilità delle disposizioni dell’adesione alla convenzione Consip di cui alla Spending Review alle ASL Le norme di cui in commento sono disposizioni in materia di spesa e quindi si fondano su scrupolosi calcoli in ordine alle conseguenze contabili delle varie previsioni. Contrariamente a quanto intuitivamente si potrebbe pensare, però il giudice amministrativo ha seguito due interpretazioni diverse circa l’ambito di applicazione di tale normativa. Il giudice di prime cure (il TAR Abruzzo Pescara nella sentenza 197 del 9 aprile 2013 (23)) ha seguito un’interpretazione strettamente letterale e. pertanto, ha ritenuto di non applicare la normativa di cui in oggetto alle Aziende Sanitarie Locali in quanto, la previsione dell’efficacia anche nei confronti degli enti del Servizio Sanitario Nazionale della proroga dei contratti delle centrali di committenza (già stipulati prima dell’entrata in vigore di tali disposizioni finirebbe per obbligare anche tali questi ultimi enti ad aderirvi) con l’effetto di posticipare di fatto l’applicazione delle disposizioni di cui all’15 commi 12 e 13 del D.L. n. 95 del 6 luglio 2012. amministrativi hanno stabilito che “in materia di contratti della p.a. laddove l’amministrazione abbia deciso di aderire alle convenzioni Consip riguardo alle modalità di fornitura non può più modificare, sulla base dei principi consolidati che regolano l'affidamento di appalti pubblici, le condizioni contrattuali. Pertanto deve considerarsi illegittimo un affidamento che esorbiti il perimetro di dette convenzioni”. (23) In senso conforme anche T.A.R. Lazio, Roma, sez. III, 1° marzo 2013, n. 2260. I giudici amministrativi ritengono che le aziende sanitarie non sono tra i soggetti obbligati ad aderire a Consip, ma non escludono la possibilità di tali soggetti di Urbanistica e appalti 11/2014 Al contrario i giudici di Palazzo Spada hanno ritenuto, con la sentenza n. 1486 del 27 marzo 2014 che la normativa nazionale impone anche alle Amministrazioni Sanitarie Locali di ricorrere alla convenzioni Consip. Tale obbligo discende dall’art. 15 comma 13 lett. d) del D.Lgs. 6 luglio 2012 n. 95 convertito in legge 7 agosto 2012, n. 135. La norma prevede per “… gli enti del servizio sanitario nazionale ovvero, per essi ... utilizzano, per l’acquisto di beni e servizi relative alle categorie merceologiche presenti nella piattaforma Consip, gli strumenti di acquisto e negoziazione telematici messi a disposizione dalla stessa Consip ... I contatti stipulati in violazione di quanto disposto dalla presente lettera sono nulli, costituiscono illecito disciplinare e sono causa di responsabilità amministrativa”. L’applicazione di tale norma non è esclusa dall’art. 1 comma 23 del medesimo decreto legge benché sia statuito che “agli enti del servizio sanitario nazionale non si applicano le disposizioni di cui al presente articolo” in quanto tale comma deve essere letto in combinato disposto con l’art. 15 comma 13 lett. d) che impone, appunto, un obbligo generalizzato anche per il Servizio Sanitario Nazionale di utilizzare gli strumenti di acquisto e negoziazione messi a disposizione da Consip s.p.a. mentre al comma 23 dell’art. 1 va attribuito il solo scopo di escludere l’applicazione del medesimo articolo agli enti del servizio sanitario nazionale giacché materia disciplinata dal successivo art. 15 (24). A parere di chi scrive è preferibile la strada seguita dai giudici di Palazzo Spada in quanto l’interpretazione sistematica della normativa permette di meglio comprendere le implicazioni e le interferenze della normativa statale (e le eventuali violazioni) del diritto comunitario circa i profili della tutela della concorrenza e del mercato. È di palese evidenza, infatti, che le violazioni del diritto comunitario in materia di appalti pubblici e relative proroghe contrattuali necessariamente interessano tutte le pubbliche amministrazioni in senso ampio. Si aggiunga che la normativa sul risparmio di spesa aderirvi sulla base del presupposto che nel sistema centralizzato di acquisti il meccanismo del confronto comparativo è assicurato dalla stazione appaltante Consip che gestisce una procedura di gare ed individua il soggetto affidatario, al quale gli altri enti potranno rivolgersi per ottenere prestazioni oggetto dell’impegno negoziale assunto. (24) L’art. 15 è dedicato espressamente alla spesa degli enti del SSN, ed è rubricato “Disposizioni urgenti per l’equilibrio del settore sanitario e misure di governo della spesa farmaceutica”. 1229 Giurisprudenza AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Amministrativa coinvolge tutte le organizzazioni e strutture del sistema Paese. Da ultimo, inoltre, come giustamente evidenziato dai Giudici del Consiglio di Stato la non adesione da parte di tutte le pubbliche amministrazione alla convenzione Consip (per l’approvvigionamento di beni e servizi) costituisce per il dipendente pubblico illecito disciplinare ed è causa di responsabilità amministrativa (25). Anche in questo caso il giudice amministrativo ha rilevato che sia gli illeciti disciplinari sia la responsabilità amministrativa interessano il personale di tutti gli enti e pubbliche amministrazioni, a prescindere dell’appartenenza ad una determinata struttura organizzativa. Il rinnovo ex lege delle convenzioni Consip e la violazione degli artt. 28 e 31 della direttiva 2004/18/CE I giudici amministrativi di prime cure e di Palazzo Spada hanno rilevato in maniera chiara ed univoca che le disposizioni di cui al decreto legge n. 95 del 6 luglio 2012 in particolare all’art. 1 nella parte in cui dispone “le quantità ovvero gli importi massimi complessivi delle convenzioni Consip sono incrementati in misura pari alla quantità ovvero all’importo originario, a decorrere dalla data di esaurimento della stessa, ove questa non intervenga prima del 31 dicembre 2012” e che “la durata delle convenzioni di cui al precedente comma 15 è prorogata fino al 30 giugno 2013 , a decorrere dalla data di esaurimento della presente convenzione” contrastano con il diritto comunitario e pertanto, vanno disapplicate La normativa nazionale sul risparmio di spesa viola infatti gli artt. 28 e 31 della direttiva 2004/18 CE, che precludono la possibilità di affidare contratti pubblici senza procedure di gara ad evi(25) Sulla responsabilità amministrativa e danno alla concorrenza si veda R. Dipace, Il danno alla concorrenza tra giudice amministrativo e contabile, in F. G. Scoca, A. F. Di Sciascio a cura di, Le linee evolutive della responsabilità amministrativa e del suo processo, Napoli, 2014, 159 ss. L’autore ritiene che il danno alla concorrenza stia divenendo un’ipotesi di danno residuale in quanto vi è stretta dipendenza con il fenomeno corruttivo dei pubblici dipendenti e non può essere computato come ulteriore rispetto a quello che si assume conseguente alla traslazione di compensi corruttivi nei corrispettivi degli appalti, 171. (26) Sui profili di responsabilità delle amministrazioni per violazione del diritto comunitario si veda A. Bartolini, La responsabilità delle amministrazioni aggiudicatrici e degli enti aggiudicatori per violazione del diritto comunitario degli appalti, in Responsabilità e concorrenza nel codice dei contratti pubblici, a cura di G. F. Cartei, Napoli, 2008, 139 ss. Vedasi inoltre, A. Bartolini, Il risarcimento del danno tra giudice comunitario e giudice amministrativo: la nuova tutela del cd. interesse legittimo, 1230 denza pubblica (26). La direttiva impone agli Stati di aggiudicare tutte le categorie di appalti pubblici attraverso l’utilizzo della procedura aperta o ristretta in base a quanto disposto dall’art. 29 della direttiva 2004/18/CE ed esclude l’utilizzo di altre procedure non previste dalla direttiva sul presupposto comunque, che tale direttiva non è intesa a stabilire un’armonizzazione completa del regime degli appalti pubblici negli Stati membri (27). È possibile, pertanto, utilizzare una procedura negoziata solo ed esclusivamente nei casi previsti dagli artt. 31 e 32 della direttiva comunitaria. In particolare le stazioni appaltanti possono evitare la pubblicazione del bando di gara ed aggiudicare appalti pubblici per nuovi lavori e servizi quando quest’ultimi “consistono nella ripetizione di lavori o servizi analoghi già affidati all’operatore economico aggiudicatario dell’appalto iniziale ... a condizione ... che tali servizi siano conformi a un progetto di base oggetto di un primo appalto aggiudicato secondo le procedure ad evidenza pubblica aperte o ristrette” (28). Tale contrasto normativo ha avuto comunque, come rilevato dal Consiglio di Stato, già un precedente nel nostro ordinamento giuridico a dimostrazione del fatto che da un lato la normativa sugli appalti è realmente in continua evoluzione, e dall’altro il legislatore italiano sembra preferire il risparmio di spesa pubblica alla tutela del mercato. Il contrasto con la normativa comunitaria era dato dall’art. 6 comma 2 della L. n. 537 del 24 dicembre 1993 che permetteva alle stazioni appaltanti, senza esperire alcuna procedura ad evidenza pubblica, il rinnovo dei contratti entro tre mesi accertata la convenienza e le ragioni di pubblico interesse (29). Tale violazione ha determinato l’apertura di una procedura di infrazione nei confronti del nostro Paese che si è chiusa a seguito dell’abrogazione Torino, 2005. L’autore ritiene che la responsabilità delle autorità nazionali, in particolare di quella amministrativa, può essere fatta valere quando siano rispettate tre condizioni sostanziali: l’ordinamento comunitario abbia inteso attribuire diritti ai singoli, la violazione delle norme dirette a conferire tali diritti sia sufficientemente caratterizzata e, da ultimo, che vi sia un nesso tra la violazione e il danno subito dai singoli, in particolare 142-143. (27) Al riguardo vedasi la sentenza della Corte di Giustizia CE, sez. III, 10 dicembre 2009, causa C-29, Commissione Europea c.Repubblica Francese ed particolare, si leggano i punti 28 e 29 della sentenza. (28) Così l’art. 31 comma 1 n. 4 lett. b) della direttiva 18/2004/CE. (29) Al riguardo si vedano T.A.R. Sicilia, Catania, sez. II, 22 giugno 2007, n. 1086, in Comuni d’Italia, 2007, 12, II, 4 ss.; Cons. Stato, sez. IV, 31 ottobre 2006, n. 6458, in Comuni d’Italia, 2008, 7-8, II, 7 ss. Urbanistica e appalti 11/2014 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Amministrativa La pronunce hanno evidenziato, infine, che neppure “la natura transitoria della norma né tanto meno la finalità di risparmio per le finanze pubbliche in periodo di necessaria spending review consentono la violazione della normativa comunitaria e la connessa distorsione delle regole concorrenziali” (33) censurando così, implicitamente, il legislatore e le modalità utilizzate (la decretazione d’urgenza) per ridurre la spesa pubblica. In ogni caso, però anche la riduzione della spesa pubblica è stata voluta ed imposta dall’Unione Europea. In particolare, le norme sulla spendig review trovano il fondamento costituzionale nella L. n. 1 del 20 aprile 2012 (34). Con tale legge viene introdotto in Costituzione il principio del pareggio di bilancio. Tale intervento normativo si inserisce nel ben più ampio processo di revisione delle regole e delle procedure nazionali di misure adottate a livello europeo per il migliore e più stringente coordinamento delle politiche economiche dei Paesi dell’Unione, con la più forte applicazione del Patto di Stabilità e crescita e l’introduzione di requisiti comuni per i quadri di bilancio nazionali (35). La nuova disciplina costituzionale in materia fiscale introduce, inoltre, l’inserimento di un ulteriore periodo al primo comma dell’art. 97 della Costi- tuzione che prevede che “le pubbliche amministrazioni, in coerenza con l’Ordinamento dell’Unione europea assicurano l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico”. Si evidenza che le norme che hanno dettato la proroga delle convenzioni Consip sono state previste in linea con la legge costituzionale n. 1 del 20 aprile 2012, così da permettere alla pubbliche amministrazioni che aderivano alle convenzioni di avere costi certi circa i servizi e le forniture (le prestazioni in senso ampio) da remunerare e avere, di conseguenza, bilanci maggiormente in equilibrio, così come richiesto dall’Ordinamento europeo. Si aggiunga, inoltre, che nel parere reso sul D.L. n. 95 del 6 luglio 2012 dalla Commissione Parlamentare “Politiche dell’Unione Europea” (36), è stato evidenziato che la revisione della spesa pubblica, è oggetto “di valutazioni e raccomandazioni indirizzate all’Italia dalle istituzioni dell’Unione nell’ambito del semestre europeo per il coordinamento delle politiche economiche e, più in generale, nel quadro del monitoraggio sulle misure volte al conseguimento degli obiettivi e parametri di finanza pubblica previsti dal patto di stabilità”. Nel medesimo parere è stato evidenziato che la revisione della spesa pubblica “è oggetto di specifiche indicazioni nelle raccomandazioni ECOFIN del 10 luglio 2012”; e che tali raccomandazioni sono state avallate dal Consiglio dell’Unione Europea il quale, nell’operare una valutazione della situazione macroeconomica e di finanza pubblica dell’Italia ha rilevato da un lato che “il governo si è impegnato a perseguire un miglioramento duraturo dell’efficienza e della qualità della spesa pubblica mediante approfondite revisioni della spesa a tutti i livelli amministrativi” e dall’altro ha raccomandato all’Italia di “perseguire un miglioramento duraturo dell’efficienza e della qualità della spesa pubblica mediante la spending review”. (30) La legge è rubricata come “Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee - Legge Comunitaria 2004”. Per una lucida analisi della casistica giurisprudenziale prima e dopo l’abrogazione dell’art. 6 comma della L. 24 dicembre 1993, n. 537 si rinvia a M. G. Roversi Monaco, Rapporti in corso e rinnovazione nei contratti della p.a. in www.giustizia-amministrativa.it. (31) Sull’applicazione dell’art. 57 del codice dei contratti pubblici e sulla possibilità di effettuare proroghe contrattuali si veda la delibera n. 17 del 13 maggio 2014 della Corte dei Conti sezione di controllo di legittimità degli atti di governo, e la sentenza del T.A.R. Veneto, sez. I, 14 maggio 2014, n. 633. (32) Sempre secondo i giudici amministrativi “la proroga violerebbe anche gli artt. 49 in tema di libertà di stabilimento e 56 TFUE, favorendo i vecchi affidatari a scapito di altri concorrenti e costituendo una illecita restrizione del mercato dei servizi, nonché l’art. 107 potendo costituire un concreto aiuto di stato”, così nella sentenza del T.A.R. Lazio, Roma, sez. III, 10 aprile 2014, n. 3922. (33) Cosi Cons. Stato, sez. III, 27 marzo 2014, n. 1486. (34) Per un primo commento della legge si rinvia C. Deodato, I limiti costituzionali alla spending review ovvero quello che il Governo (e il Parlamento) possono (e non possono) fare per ridurre la spesa pubblica, in www.giustamm.it. (35) Le disposizioni europee sono cd. six pack, che si compone delle direttiva 2011/85/UE e dei regolamenti n. 1173, 1174, 1175, 1176, 1177 del 2011. (36) Sulle politiche dell’Unione europea sia rinvia a S. Cimini - M. D’Orsogna, a cura di, Le politiche comunitarie di coesione economica e sociale. Nuovi strumenti di sviluppo territoriale in un approccio multidimensionale, Napoli, 2011 e A. F. Di Sciascio, Le politiche europee di coesione sociale tra amministrazione comunitaria e sistema degli enti territoriali. Un’introduzione critica, Torino, 2014. espressa della norma in parola ad opera dell’art. 23 comma 1 della L. 18 aprile 2005 n. 62 (30). Pertanto, nell’ordinamento italiano è stato introdotto il divieto del rinnovo espresso dei contratti pubblici, fatta salva però, la possibilità di applicare le disposizioni di cui all’art. 57 del codice dei contratti pubblici (31), che prevede ipotesi tassative di procedura in deroga ai principi di apertura del mercato (32). La prevalenza del mercato e della concorrenza sul risparmio di spesa Urbanistica e appalti 11/2014 1231 Giurisprudenza AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Amministrativa È altrettanto vero però, che l’ordinamento europeo prevede tra le sue “fondamenta” la tutela della concorrenza e del mercato. Il legislatore nazionale sembra quasi non trovare l’equilibrio, tra risparmio di spesa e tutela del mercato e della concorrenza. Il risparmio di spesa, secondo il giudicante, non può mortificare il mercato. Le norme di matrice comunitaria danno prevalenza al mercato ed alla concorrenza (con il corollario delle quattro libertà economiche: libera circolazione dei cittadini, delle merci, dei servizi e dei capitali) poiché, il legislatore comunitario ritiene che solo in un mercato veramente libero vi può essere risparmio di spesa, anche e soprattutto, per le pubbliche amministrazioni (37). Conclusioni possibili I giudici amministrativi hanno preso ormai piena coscienza, con le sentenze in commento, dell’influenza e della prevalenza della normativa comunitaria in materia di contratti pubblici nel nostro sistema giuridico dando prevalenza alla tutela del mercato e della concorrenza. L’orientamento giurisprudenziale analizzato trova oggi conforto anche nelle nuove direttive comunitarie in materia di contratti pubblici la numero 2014/24/UE e la 2014/25/UE che sostituiscono le direttive 2004/18/CE per gli appalti nei settori ordinari e 2004/17/CE per gli appalti nei settori esclusi (38). (37) Secondo l’Antitrust italiana è necessario creare un ordine del mercato più aperto, caratterizzato da una concorrenza basata sui meriti piuttosto che sulle rendite di posizioni raggiungendo un duplice obiettivo: migliorare il benessere del consumatore e rafforzare la competitività dell’economia, favorendo la crescita economica. Al riguardo si veda la Relazione Annuale del 30 giugno 2014 al Parlamento del Presidente dell’autorità garante della concorrenza pubblicata sul sito istituzionale www.agcm.it. (38) Per un prima commento si rinvia R. Caranta e D.Cosmin Dragos, La mini-rivoluzione del diritto europeo dei contratti pubblici, in questa Rivista, 2014, 5, 493-504. Cfr. inoltre E. Picozza, Le proposte nazionali all’UE di direttive in materia di appalti e concessioni e l’attuale Progetto europeo, Relazione tenuta nell’incontro di studio “Il diritto degli appalti pubblici all’alba delle nuove direttive comunitarie”, Camera dei Deputati, Roma 15 novembre 2013. (39) Al riguardo si veda R. Villata - M. Ramajoli, Il provvedimento amministrativo, Torino, 2006 i quali ritengono che il provvedimento amministrativo per essere tale deve contenere in sé non solo il potere amministrativo ma anche la possibilità (e le istanze) di tutela del cittadino, 41. (40) Sui limiti dell’attività normativa rectius della funzione legislativa nei confronti della p.a. si rinvia a F. G. Scoca, Condizioni e limiti alla funzione legislativa nella disciplina della pubblica amministrazione, in Annuario Aipda 2004, Milano, 2005, 110. In particolare, l’autorevole Maestro del diritto amministrativo ritiene che il legislatore incontri dei limiti negativi e positivi 1232 È altrettanto vero, però, che il legislatore statale ha preferito il risparmio e/o revisione della spesa a discapito di un mercato che stenta, forse, ad essere veramente concorrenziale. Si aggiunga, inoltre, che nei casi analizzati non vi è (come riconosciuto anche dal giudicante) un interesse leso e/o prevalente da attività amministrativa autoritativa in senso stretto (39), ma piuttosto una lesione di interesse legittimo scaturita da un’attività normativa (40), che ha danneggiato non tanto il mercato e la concorrenza, ma piuttosto gli operatori medesimi e le amministrazioni. Infatti le imprese hanno perso ed acquistato “fette” di mercato con un comma di un articolo e, allo stesso tempo, le amministrazioni rispettando il dettato normativo si sono esposte, come poi è stato, a numerosi ricorsi che di per sé arrecano un danno all’attività amministrativa in termini di efficienza, economicità ed erogazioni delle prestazioni. Il monito (e l’invito) non scritto dai giudici amministrativi nelle sentenze è quello rivolto al legislatore statale. Quest’ultimo deve scrivere norme chiare e coerenti in ottica sistemica (41), così da realizzare nuove ed efficienti politiche pubbliche di approvvigionamento e assicurare reali e consistenti risparmi di spesa tutelando però (42), allo stesso tempo, la professionalità e l’aggregazione degli acquisti in un mercato veramente libero e concorrenziale, così come richiesto (e voluto) dalla normativa comunitaria sui contratti pubblici. nel disciplinare e dettare le norme sull’amministrazione. Limiti negativi su ciò che il legislatore non può fare e limiti positivi riguardanti invece ciò che il legislatore dovrebbe fare. Nello stesso volume si veda il contributo G. Pastori, Statuto dell’amministrazione e disciplina legislativa, 11-22, il quale ritiene che le garanzie costituzionali dell’amministrazione possono essere tradotti (concretamente, nell’agire amministrativo) come garanzie costituzionali dei cittadini. (41) Sempre attuali le tesi di Santi Romano, Maestro del diritto pubblico, il quale nei Frammenti di un dizionario giuridico, Milano, Ristampa inalterata, 1983, 135-144, alla voce destinatari delle norme giuridiche riteneva giustamente che nessuna norma, per quanto voglia essere speciale o urgente, può estraniarsi da un dato ordinamento giuridico, anche la norma più insignificante ha ricadute sull’intero sistema giuridico. (42) Sui rapporti tra politiche pubbliche e diritto amministrativo si veda A. Vino, Politiche pubbliche e innovazione amministrativa. Indizi per un paradigma emergente, in Riv. It. Pol. Pubbl., 2007, 3, 135 ss., M. Fedele, Il management delle politiche pubbliche, Roma-Bari, 2002. Secondo parte della dottrina le politiche pubbliche “sono il frutto di una sequenza le cui fasi sono le seguenti: la formazione dell’agenda, la preparazione del progetto, la sua attuazione concreta in via esecutiva, l’esame dei risultati ottenuti, l’eventuale correzione o riformulazione che si trae dall’analisi dei risultati”, così S. Cassese, La qualità delle politiche pubbliche ovvero del metodo di governare, in Il Mulino, 2013, 3, 411-417, in particolare 412. Urbanistica e appalti 11/2014 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. 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Comune di Assago Poiché la rete di distribuzione del calore destinato al teleriscaldamento può essere qualificata quale monopolio naturale, il comune, anche qualora volesse non considerare il teleriscaldamento quale servizio pubblico locale, deve subordinare il rilascio dell'autorizzazione alla posa della rete ad una regolamentazione, anche a mezzo di procedura concorsuale, volta a garantire che la costruzione e la gestione della stessa sia contendibile ed effettuata da un soggetto che si impegni ad erogare il servizio in termini di concorrenzialità e non discriminazione. ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI Conforme In senso contrario alla qualificazione del teleriscaldamento come servizio pubblico Cons. Stato, sez. V, 28 dicembre 2007, n. 6690 Difforme Cons. Stato, sez. V, 2 maggio 2013, n. 2396; T.A.R. Milano, sez. III, 28 maggio 2012, n. 1457; cfr. anche AVCP delib. 10 novembre 2011, n. 101 Diritto Nel merito, il Collegio ritiene utile fare un breve excursus sul concetto di servizio pubblico e di servizio pubblico locale, e sulla sussumibilità astratta in tale ultimo concetto del servizio di teleriscaldamento, di seguito precisando quale sia la natura della convenzione stipulata tra la ricorrente e il Comune e la sua rilevanza in ordine alla legittimità del provvedimento impugnato. Sarà, infine, necessario stabilire se un’eventuale autorizzazione alla “manomissione del suolo pubblico”, nel caso di specie, confligga, come ipotizzato dal Consiglio di Stato in sede cautelare, con gli artt. 41 e 118 della Cost., nonché con gli artt. 14 e 106 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea. Omissis. La sentenza n. 2396/2013 del Consiglio di Stato - già citata in precedenza, in quanto pronunciata proprio in materia di teleriscaldamento - ha ricordato che, difettando una espressa definizione del servizio pubblico locale, la giurisprudenza ha univocamente riconosciuto tale qualifica a “quelle attività caratterizzate sul piano oggettivo dal perseguimento di scopi sociali e di sviluppo della società civile, selezionati in base a scelte di carattere eminentemente politico, quanto alla destinazione delle risorse economiche disponibili ed all’ambito di intervento, e, su quello soggettivo, dalla riconduzione diretta o indiretta (per effetto di rapporti concessori o di partecipazione all’assetto organizzativo dell’ente) ad una figura soggettiva di rilievo pubblico. La qualifica di 1234 servizio pubblico locale (in contrapposizione a quella di appalto di servizi) è stata pertanto riconosciuta a quelle attività destinate a rendere una utilità immediatamente percepibile ai singoli o all’utenza complessivamente considerata, che ne sopporta i costi direttamente, mediante il pagamento di un’apposita tariffa, così che requisito essenziale della nozione di servizio pubblico locale è la circostanza che il singolo o la collettività ricevano un vantaggio diretto, e non mediato, da un certo servizio”. In conclusione, dunque, è possibile dire, in conformità con la giurisprudenza appena richiamata, cui il Collegio non ha motivo di discostarsi, che per la configurabilità di un servizio pubblico locale occorre che il medesimo abbia una sua soggettiva ed oggettiva qualificazione, la quale deve garantire la realizzazione di prevalenti fini sociali, oltre che la promozione dello sviluppo economico e civile delle relative comunità. Non è invece qualificabile come servizio pubblico locale l'attività alla quale non corrisponda una specifica pretesa degli utenti, come avviene per la gestione di un'opera pubblica o anche per i servizi resi all'amministrazione, così come non è servizio pubblico locale l’attività avente rilevanza economica per la quale manchi una effettiva ed inequivoca manifestazione di volontà dell’amministrazione locale interessata di assumerla (e/o quanto meno di considerarla) come tale. Urbanistica e appalti 11/2014 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Amministrativa 1.2. La qualificazione giuridica del servizio di teleriscaldamento (servizio pubblico locale o attività di libero mercato) risulta molto dibattuta, sia in dottrina che in giurisprudenza, per quanto non vi siano state molte occasioni di approfondimento. Omissis. La differenza fra le due prospettazioni (servizio pubblico locale o attività di libero mercato) è di non poco momento: aderendo, infatti, alla tesi volta a qualificare il teleriscaldamento come servizio pubblico locale, verrebbe attribuita all’ente locale territorialmente competente la facoltà, qualora non vi sia gestione in house, di individuare un soggetto esterno incaricato di erogare l’attività di cui trattasi all’interno del proprio perimetro di riferimento, con modalità di affidamento di tale servizio assoggettate alla disciplina comunitaria in materia di concorrenza. Nella diversa ipotesi (configurazione del servizio de quo quale attività di libero mercato) non sarebbe al contrario consentito all’ente locale di operare alcuna verifica di sorta, essendo lo stesso unicamente legittimato ad autorizzare o meno lo svolgimento del servizio in questione a seguito di semplice richiesta formulata da operatori interessati alla prestazione delle citate attività energetiche. La giurisprudenza amministrativa ha affrontato la peculiare tematica con pronunce non univoche, o comunque non risolutive del problema di fondo della qualificazione giuridica del servizio di teleriscaldamento. Omissis. Occorre dunque verificare ora, ai fini della risoluzione della questione in esame, e prima ancora di accertare la compatibilità dell’assunzione di un servizio pubblico con la struttura del mercato territoriale di riferimento, se la scelta di assunzione di tale servizio sia univocamente rinvenibile nella delibera, con cui il Comune di Assago ha approvato lo schema di convenzione stipulata in data 14 maggio 2008 con la dante causa di Milanofiori Energia (Milanofiori 2000 s.r.l.). 2. Nel parere di Delegas s.r.l. allegato alla deliberazione del consiglio comunale n. 11 del 19 febbraio 2008, con la quale è stato approvato l’unito schema di convenzione per la realizzazione della centrale di cogenerazione con annessa rete di teleriscaldamento, sono testualmente riportate le seguenti considerazioni: “nel mese di luglio del 2007 la scrivente è stata contattata dal Comune al fine di partecipare ad un incontro con la società Milanofiori 2000 finalizzato a definire gli aspetti dell’atto in oggetto. In quella sede si ipotizzava la definizione di un atto concessorio di più ampio respiro in quanto si ipotizzava la definizione di una concessione per la gestione del servizio di teleriscaldamento sull’intero ambito territoriale del Comune di Assago. Successivamente tale ipotesi veniva abbandonata, ipotizzando semplicemente la definizione di una convenzione per la costruzione di una centrale di cogenerazione a servizio esclusivo del comparto D4 su un terreno esterno al comparto da cedersi poi in proprietà al Comune in base alle vigenti normative urbanistiche e sulla scorta degli accordi specifici contenuti nella concessione stessa”. Urbanistica e appalti 11/2014 La successiva delibera del Comune di Assago, a sua volta, pur dando atto dei generici benefici che l’impianto di cogenerazione avrebbe comportato rispetto agli impianti di riscaldamento tradizionali (rientrando lo stesso “tra gli impianti tecnologici che contribuiscono a ridurre il fabbisogno energetico nazionale con benefici per l’intera collettività”) non fa alcun cenno ad una ipotetica volontà dell’ente pubblico di assumere il servizio di teleriscaldamento quale servizio pubblico locale, ed anzi riconosce espressamente che era stata la società Milanofiori 2000 s.r.l., su una zona di sua proprietà limitrofa all’area interessata dal piano particolareggiato della zona “D4”, a proporre la realizzazione di una centrale di cogenerazione per l’utilizzo di una potenza non superiore a 50 Mw a servizio degli edifici da realizzare in tale comparto (D4). Il soggetto attuatore è stato dunque una società di diritto privato del tutto libero da influenze pubbliche nel suo capitale o nei suoi meccanismi aziendali e inizialmente proprietario del terreno su cui aveva proposto di costruire l’impianto tecnologico. L’iniziativa in esame è, quindi, da classificarsi come una tipica iniziativa di natura imprenditoriale, che scontava però l’applicazione di alcuni oneri di natura pubblicistica in relazione alla classificazione dell’area interessata dall’intervento, che il PRG del Comune di Assago destinava a standard al servizio della produzione, e come tale “riservata ad attrezzatura pubbliche o assoggettate a servitù di uso pubblico, realizzate dall’Amministrazione comunale o dai privati”, prescrivendo che le aree in questione avrebbero dovuto essere “di proprietà pubblica ovvero (…) concesse in diritto di superficie convenzionando l’uso pubblico delle attrezzature”. Questo passaggio appare al Collegio fondamentale ai fini del decidere, posto che gli obblighi funzionali e i diritti speciali garantiti al privato attuatore traggono le loro origini dalla destinazione urbanistica impressa sull’area su cui realizzare la centrale e non dalla volontà politico-amministrativa del Comune di Assago di assumere il servizio di teleriscaldamento quale servizio pubblico locale. Si spiegano così, da un lato, il diritto del Comune al corrispettivo per il (solo) mantenimento del diritto di superficie in capo alla società e il correlato obbligo di garantire il funzionamento senza soluzione di continuità dell’impianto tecnologico (cui sono riconnesse delle “sanzioni” tipicamente civilistiche) e, dall’altro, la totale libertà di determinazione delle tariffe da praticare agli utenti da parte del gestore. È, anzi, paradossalmente, il Comune di Assago ad impegnarsi (non si comprende nei confronti di chi, data la natura bilaterale della convenzione) a mantenere in esercizio l’impianto tecnologico, una volta estinto il diritto di superficie concesso al gestore, e a garantire nei confronti degli utenti le stesse condizioni economiche praticate in precedenza dal soggetto privato. D’altra parte, che l’ente locale, lungi dall’assumere un servizio locale pubblico, avesse attuato un investimento condizionato alla sua sostenibilità finanziaria, nell’ambito di una precedente destinazione urbanistica dell’area, 1235 Giurisprudenza AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Amministrativa e non una scelta di campo a favore della collettività di riferimento, si intuisce da altre tre disposizioni della convenzione: - la possibilità che, alla scadenza del diritto di superficie, il Comune, in caso di disinteresse al mantenimento dell’impianto, possa obbligare il soggetto privato a rimuovere tutti i manufatti; - la fungibilità dell’impianto e dell’attività nel caso in cui la gestione della centrale di cogenerazione non risulti più economicamente sostenibile; - l’ancoraggio, a decorrere dal nono anno dalla messa in esercizio dell’impianto, del corrispettivo da corrispondere per il mantenimento del diritto di superficie ad una percentuale degli utili netti derivanti dalla gestione del servizio di teleriscaldamento. Ha scarso rilievo sulla specifica questione, per contro, il collegamento gratuito alla rete pubblica per la fornitura di gas alla centrale di cogenerazione, anche perché, per il resto, era previsto che il soggetto attuatore sopportasse per intero gli oneri per l’allacciamento dell’impianto alla rete di adduzione principale e agli edifici ricadenti nel comparto D4. 2.1. Ad ogni modo, se anche si volesse trarre dalla convenzione la volontà implicita da parte del Comune di assumere un servizio di interesse generale avente rilevanza economica, l’ambito effettivo di tale convenzione (e volontà) era stato esplicitamente circoscritto al solo comparto D4. La stessa convenzione, peraltro, aveva fissato il limite di utilizzo della capacità della centrale di cogenerazione ad un massimo di 50 Mw, lasciando libero, di conseguenza, il soggetto privato di fornire il servizio fino a tale limite, e quindi, potenzialmente, anche oltre il comparto D4, non esistendo al riguardo alcun esplicito divieto. Invero, la peculiarità del caso concreto sta proprio nel fatto che Milanofiori intenderebbe sfruttare la centrale realizzata in regime di convenzione per erogare il servizio in un comparto diverso da quello ivi previsto. Anche sotto questo profilo, poiché la convenzione dispiega i suoi effetti limitatamente al comparto D4, la volontà da parte del Comune di erigere a servizio pubblico il servizio di teleriscaldamento tout court esorbiterebbe dall’oggetto della convenzione stessa, che era, appunto, la dotazione di un impianto di interesse generale al servizio di un determinato comprensorio. Non essendo, come visto, l’attività di teleriscaldamento classificata ex lege come servizio pubblico, essa può divenire tale solo se e nella misura in cui un ente locale la assuma direttamente fra i suoi compiti, vincolandosi ad erogare il servizio secondo determinati standard qualitativi e di prezzo. Dal fatto che, nell’ambito dell’urbanizzazione di un determinato comparto, si sia voluto dotare l’insediamento di una centrale di teleriscaldamento, non si può, invero, arguire che il Comune di Assago intendesse nel contempo assicurare a tutta la cittadinanza tale servizio. Peraltro, laddove (in ipotesi) fosse stato deliberato un programma di servizio pubblico per fornire il teleriscaldamento al di fuori del comparto D4, ciò implicherebbe solo l’obbligo del Comune di Assago di bandire una ga- 1236 ra per l’affidamento della fornitura alle condizioni dallo stesso prestabilite, ma non comporterebbe anche il potere di vietare ad altri operatori economici di erogare il medesimo servizio in regime di libero mercato. È pacifico, infatti, che servizio pubblico e privativa sono due concetti completamente diversi, che possono talora coesistere, ma che non sono affatto implicati l’uno dall’altro. Ai sensi dell’art. 106 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, come già detto, le imprese incaricate di servizi di interesse economico generale devono operare in un regime di libera concorrenza, salvo che ciò osti al perseguimento della missione ad esse affidata. Quindi la privativa può essere prevista (peraltro solo dalla legge, vista la riserva dell’art. 41 Cost.) unicamente qualora si dimostri che gli obiettivi di servizio pubblico non potrebbero essere realizzati in regime di concorrenza. Quanto all’esclusività del diritto concesso a Milanofiori, la convenzione 14 maggio 2008 limita espressamente questa esclusività, peraltro concessa senza il previo esperimento di una gara pubblica, con riferimento alla fornitura di energia e di calore al solo comparto D4. Risulta, pertanto, di per sé infondato l’assunto del Comune secondo cui, con l’eventuale rilascio dell’autorizzazione alla “manomissione di suolo pubblico”, Milanofiori Energia si troverebbe ad esercitare il servizio di teleriscaldamento in esclusiva su di una porzione rilevante del territorio comunale. In termini fattuali tale affermazione appare, infatti, largamente ridimensionata dalla circostanza - da ritenersi pacifica tra le parti, in quanto non contestata dall’amministrazione - secondo cui la potenza residua utilizzabile da Milanofiori Energia per servire comparti esterni al D4 (in base alla convenzione del 14 maggio 2008) è di soli 15.5 Mw, sui 50 totali autorizzati. Occorre, inoltre, considerare che, dal verbale di riunione tra il Comune di Assago, Enel Rete Gas s.p.A. e Milanofiori Energia del 27 marzo 2013, emerge che la zona del Comprensorio di Milanofiori (cui il gestore del servizio di teleriscaldamento vorrebbe estendere la propria fornitura di energia) è una zona non metanizzata, ma che attendibilmente riceve da altri operatori quanto necessario per il servizio di riscaldamento di spazi e di approvvigionamento di acqua calda sanitaria. A ciò si aggiunga che la convenzione di natura privatistica del 19 giugno 2013, in base alla quale la società ricorrente e Ama Rozzano s.p.a. hanno stipulato con il Comprensorio di Milanofiori la concessione per l’utilizzo del suolo e del sottosuolo comprensoriale per l’istallazione e la gestione, in forma di esclusiva, di una rete di teleriscaldamento, condiziona la costruzione e il collegamento ai singoli edifici della rete di distribuzione alla successiva richiesta degli utenti (cfr. documento n. 9 ritualmente versato in atti dalla difesa della ricorrente). Di conseguenza, Milanofiori Energia entrerebbe in un mercato (già) aperto alla concorrenza senza avere alcun diritto di esclusiva e senza che gli utenti del nuovo comprensorio abbiano l’obbligo di stipulare con il nuovo operatore i relativi contratti di somministrazione. Urbanistica e appalti 11/2014 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Amministrativa 2.2. Il Collegio ritiene, in definitiva, che la motivazione opposta dagli uffici tecnici del Comune di Assago all’istanza di manomissione del suolo pubblico presentata dalla ricorrente sia insufficiente o comunque incongrua. L’autorizzazione richiesta non poteva essere respinta sul presupposto che il servizio di teleriscaldamento sarebbe tout court da considerarsi un servizio pubblico, perché, da un lato, così non è, né sotto un profilo ontologico né da un punto di vista della qualificazione normativa, dall’altro, il Comune di Assago, tramite la delibera di approvazione dello schema di convenzione del 14 maggio 2008, non lo ha assunto neppure quale servizio pubblico “facoltativo”. D’altra parte, risulta egualmente errata anche l’altra parte della motivazione del provvedimento di diniego, secondo cui, in quanto servizio pubblico, il servizio di teleriscaldamento dovrebbe essere “eventualmente e obbligatoriamente affidato nelle forme di legge mediante una gara ad evidenza pubblica”. Tale affermazione implica una necessaria coincidenza tra servizio pubblico e privativa, mentre l’assunzione da parte dell’ente locale di un servizio di interesse economico generale svolto a favore della collettività di riferimento può senz’altro coesistere, secondo il diritto comunitario, con la possibilità che altre imprese svolgano la stessa attività in regime di concorrenza, fatta salva l’attribuzione di diritti speciali e di esclusiva al soggetto incaricato, qualora il rispetto dei principi del trattato ostacoli la missione allo stesso affidata. 3. Da quanto sopra esposto deriva che l’affermazione secondo cui l’accoglimento dell’istanza di autorizzazione negata con il provvedimento impugnato sottrarrebbe “di fatto” nel territorio comunale al libero mercato il residuo servizio di riscaldamento e di raffrescamento degli edifici è destituita di fondamento, così come argomentata. Invero, da un punto di vista fattuale, la residua capacità di utilizzo dell’impianto di cogenerazione, da una parte non consentirebbe la copertura di ulteriori significative parti del territorio comunale (e forse neppure quella dell’intero Comprensorio di Milanofiori), mentre, dall’altra, l’iniziativa del privato non porterebbe con sé diritti di esclusiva e non precluderebbe astrattamente la concorrenza né ad operatori che forniscano altre forme di energia né a quelli che volessero distribuire energia tramite il servizio di teleriscaldamento. Al contrario, un diniego assoluto, come quello opposto (la gara per l’affidamento del servizio è stata, infatti, qualificata come solo “eventuale”), compromette ingiustificatamente la libertà d’impresa della società ricorrente. Come peraltro osservato anche dall’Antitrust all’esito della sua indagine conoscitiva, il servizio di teleriscaldamento presenta aspetti critici sotto il profilo della concorrenza nel mercato, specialmente ex post (in virtù degli elevati switching costs), cui occorre intervenire garantendo l’efficacia della concorrenza ex ante tra TLR e altri sistemi di riscaldamento; tale efficacia è direttamente collegata alla capacità dei consumatori di effettuare, in maniera autonoma e con tempi congrui, tutte le valuta- Urbanistica e appalti 11/2014 zioni e i confronti ritenuti necessari al fine di effettuare la scelta della migliore modalità di riscaldamento individuale. Laddove l’utente non abbia tali facoltà, si può prospettare come necessaria una gara per l’affidamento del servizio che garantisca una concorrenza “per” il mercato o una regolamentazione che limiti il potere del gestore di falsare il mercato ex post. Con riferimento specifico, poi, alla concorrenza tra più gestori che vogliano distribuire energia tramite il servizio di teleriscaldamento, l’Antitrust ha evidenziato che, in astratto, non vi sarebbero impedimenti fisici alla posa di due reti di TLR separate in tutte le strade aventi una larghezza della carreggiata di circa 5 metri, ma, che, per ciò che concerne invece la replicabilità economica della rete, la densità termica influenza sensibilmente l’incidenza del costo della rete di distribuzione sul costo complessivo della rete stessa. Ne deriva che la concorrenza tra due reti che insistano sul medesimo territorio (che sia soltanto un quartiere o un’intera città) si rivela inefficiente, in quanto le reti di distribuzione saranno caratterizzate da una densità termica non superiore a quella di una sola rete che copra il territorio suddetto, con un aggravio di costo più che proporzionale. In altri termini, secondo l’Autorità, una sola rete di distribuzione permette un minore costo di distribuzione del calore e, quindi, la rete di distribuzione del calore destinato al TLR può essere qualificata quale monopolio naturale. Tale conclusione è peraltro coerente con il fatto che il costo di costruzione della rete di TLR è più elevato di quello della rete per la distribuzione del gas naturale, comunemente considerata un monopolio naturale. Sotto questo profilo, pertanto, il Comune non può consentire la posa di una dorsale di teleriscaldamento, tramite la mera autorizzazione alla “manomissione” di suolo pubblico. La consapevolezza dell’inefficienza economica generata dalla duplicazione della rete impone, invero, all’ente locale di rispettare i principi comunitari in materia di concorrenza, perché, in caso contrario, attribuirebbe ingiustificatamente un diritto di natura esclusiva (costruzione e gestione di una rete non duplicabile) ad una società che opera in un regime di libero mercato. Sotto altro, concorrente profilo, l’autorizzazione richiesta, data la condizione di monopolio naturale della rete da costruire, risulta assimilabile alla concessione di un bene demaniale suscettibile di sfruttamento economico, e deve essere pertanto preceduta da una procedura competitiva per la scelta del concessionario, al fine di non introdurre una barriera all’ingresso nel mercato di riferimento, con conseguente lesione della parità di trattamento, del principio di non discriminazione e di trasparenza tra gli operatori economici, in violazione dei vincoli comunitari di concorrenza e di libertà di stabilimento (cfr., al riguardo, tra le altre, Cons. di Stato, sent. n. 3250/2011). Ad avviso del Collegio, il rispetto di tutte le esigenze appena rappresentate può avvenire in due modi tra di 1237 Giurisprudenza AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Amministrativa loro concorrenti: tramite la prescrizione di alcuni obblighi di servizio volti a tutelare il consumatore finale dall’esercizio di un monopolio di fatto ex post (a causa degli elevati costi da sostenere per passare da un sistema di riscaldamento ad un altro), e a mezzo di una selezione che assicuri la concorrenza “per” il mercato, nei termini e con le modalità suggerite dall’Autorità garante del commercio e del mercato ad esito della sua indagine conoscitiva. Non sembra invece attagliarsi al caso di specie l’art. 8 della L. n. 287/1990 (con l’imposizione dei relativi obblighi di “unbundling societario"), in quanto Milanofiori Energia non è un’impresa che, per disposizioni di legge, eserciti la gestione di servizi di interesse economico generale ovvero operi in regime di monopolio sul mercato. 3.1. Tirando le fila delle svolte argomentazioni, il Collegio ritiene che il servizio di teleriscaldamento non costituisca di per sé un servizio pubblico locale, e che la delibera di approvazione dello schema di convenzione stipulata tra il Comune di Assago e Milanofiori 2000 s.r.l. non abbia determinato l’assunzione di detto servizio da parte dell’ente locale. Si è già osservato, d’altra parte, che gli effetti della predetta convenzione sono comunque limitati alla fornitura di teleriscaldamento al solo comparto D4, non potendosi dedurre che il Comune di Assago abbia inteso assicurare a tutta la cittadinanza tale servizio dal fatto che, nell’ambito dell’urbanizzazione di un determinato comparto, i relativi insediamenti siano stati dotati di una centrale di cogenerazione. Ritiene, altresì, il Collegio che l’amministrazione resistente, prima di confermare con delibera del Consiglio comunale di volere assumere o comunque considerare, quale scelta strategica di natura amministrativa, l’attività di teleriscaldamento svolta nel suo ambito territoriale di riferimento alla stregua di un servizio pubblico locale, debba accertare, anche ai fini del regime giuridico da adottare, l’insussistenza in concreto di un sistema di concorrenza ex ante, tale cioè da garantire agli utenti, senza l’imposizione di ulteriori obblighi rispetto a quelli derivanti dall’applicazione della normativa regionale, un’erogazione del servizio non discriminatoria. Si precisa ad ogni buon conto che, poiché la rete di distribuzione del calore destinato al teleriscaldamento può essere qualificata quale monopolio naturale, il Comune, anche qualora volesse non considerare il TLR quale servizio pubblico locale, dovrebbe subordinare la richiesta autorizzazione alla “manomissione del suolo pubblico” ad una regolamentazione, anche a mezzo di attivazione di una procedura concorsuale, volta a garantire che la costruzione e la gestione della rete sia contendibile ed effettuata da un soggetto che s’impegni ad erogare il servizio in termini di concorrenzialità e non discriminazione, con possibilità di accesso all’impianto di cogenerazione anche per operatori diversi dalla società ricorrente. Seppure nei limiti appena rappresentati, la domanda di annullamento va dunque accolta, con obbligo dell’amministrazione di riesaminare l’istanza della ricorrente alla luce delle considerazioni sopra esposte. IL COMMENTO di Raffaele Micalizzi (*) La sentenza in oggetto dà nuova linfa all'interessante dibattito in merito alla natura – pubblica o meno – del servizio di teleriscaldamento, ponendo l'attenzione sui possibili profili anticoncorrenziali di una gestione non regolata della rete. La vicenda: la realizzazione di un impianto di cogenerazione per l'erogazione del teleriscaldamento ad un quartiere Prima di affrontare le questioni giuridiche toccate dalla sentenza in commento, caratterizzate da notevole complessità, occorre effettuare una breve sintesi fattuale della vicenda; come si vedrà, infatti, il Giudice de quo ha adottato un approccio marcatamente casistico. La controversia nasce dalla realizzazione di un impianto cd. “di cogenerazione”. Si tratta, nel caso (*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla valutazione di un referee. (1) Cfr. la pagina sugli “Impianti di cogenerazione ad alto 1238 di specie, di una centrale elettrica alimentata a combustibile fossile, nella quale il calore generato, ma non direttamente impiegato per la produzione di energia, viene immesso in una rete di tubature – sottoforma di vapore o di acqua calda – ed utilizzato per fini domestici (1). Il principale beneficio del suddetto sistema, dal punto di vista della tutela ambientale, consiste nella mancata dispersione del calore e, quindi, nel maggiore rendimento del combustibile fossile che rendimento” sul sito internet del Gestore Servizi Energetici (www.gse.it). Urbanistica e appalti 11/2014 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Amministrativa alimenta l'impianto, con conseguente riduzione delle emissioni indotte dalla combustione. Nel caso di specie, l'impianto era realizzato da una società ad intero capitale privato, in forza di una convenzione stipulata dalla propria dante causa (un'altra società senza partecipazioni pubbliche) con il Comune. Dal punto di vista soggettivo, pertanto, la convenzione rappresentava il più vistoso “innesto” pubblicistico in un'iniziativa tipicamente imprenditoriale. Occorre altresì notare che l'area sulla quale è stato realizzato l'impianto era azzonata dallo strumento urbanistico vigente a “standard a servizio della produzione”, come tale “riservata ad attrezzature pubbliche o assoggettate a servitù di uso pubblico, realizzate dall'Amministrazione comunale o dai privati”. Sotto il profilo privatistico, la convenzione prevedeva la cessione al Comune dell'area di proprietà dell'operatore privato, con la contestuale creazione di un diritto di superficie cinquantennale a favore di quest'ultimo. Il privato si impegnava a realizzare l'opera e a gestirla, retribuendosi con la vendita del calore prodotto; il Comune, per contro, avrebbe riscosso dalla suddetta società un canone, dapprima in misura fissa, in un secondo momento parametrato agli utili derivanti dalla gestione. Alla scadenza dei cinquant’anni, l'impianto sarebbe passato in proprietà al Comune. Se, invece, nel corso del tempo la gestione si fosse rivelata economicamente insostenibile, “l'ente locale e la società di gestione avrebbero di comune accordo individuato un altro impianto di interesse per la collettività e per l'operatore privato in sostituzione della centrale di cogenerazione”. Mette conto evidenziare come, ai sensi della convenzione, l'impianto di cogenerazione doveva considerarsi ad esclusivo servizio di un unico comparto di PRG, escludendo, in altri termini, che la distribuzione del calore potesse interessare anche altre aree. Invero, la controversia sorge proprio a seguito dell'istanza della società finalizzata alla realizzazione della rete di distribuzione anche per un altro e diverso comparto. La relativa autorizzazione è stata (2) La bibliografia in materia di servizi pubblici è sconfinata, e in questa sede non pare possibile, né utile, proporne una panoramica esaustiva. Sul tema, più circoscritto, dei servizi pubblici locali si rimanda a R. Cavallo Perin, Commento all'art. 112, in R. Cavallo Perin - A. Romano, Commentario breve al Testo Unico sulle autonomie locali, Padova, 2006, 604, e dottrina ivi citata; per un quadro riassuntivo sui più recenti sviluppi della normativa in materia, cfr. V. Parisio, Gestione dei servizi pubblici locali, tutela delle risorse pubbliche e contenimento della spesa, Urbanistica e appalti 11/2014 denegata dall'Amministrazione proprio in base alla considerazione che tale estensione, nella sostanza, sarebbe consistita nell'affidamento di un servizio pubblico in assenza di una procedura di evidenza pubblica (2). Emerge con evidenza come la problematica qualificatoria del teleriscaldamento, ben lungi dal rappresentare un mero rovello teorico, sia il presupposto per la risoluzione di problemi concreti di non poco momento. La definizione di “servizio pubblico” nella dottrina e nella giurisprudenza più recenti La pronuncia oggetto del presente commento effettua, a titolo di premessa in diritto, una puntuale ed organica digressione teorica sul concetto di “servizio pubblico”, alla quale integralmente si rimanda. Ivi si dà conto, in particolare, della tradizionale bipartizione tra la nozione soggettiva, affermatasi in tempi più risalenti ma mai del tutto superata (3), e la più moderna nozione oggettiva (4). Sembra utile, tuttavia, soffermarsi brevemente sull'orientamento attuale, dapprima elaborato dalla dottrina più attenta, poi fatto proprio anche dalla giurisprudenza. Tale impostazione, in un certo senso, supera le teorie cui si è fatto cenno, pur sviluppandone alcuni concetti-chiave. Il profilo soggettivo del servizio pubblico, in detta ottica, viene in rilievo non tanto per la natura pubblica del soggetto che eroga il servizio, quanto per la destinazione dello stesso al “pubblico” dei cittadini, come prestazione fornita, di volta in volta, uti singuli ovvero uti universi. La “pubblicità” del servizio, in altri termini, non deriva dalla fonte dello stesso, bensì dalla sua destinazione (5). Invero, se tale è la peculiarità del servizio pubblico, occorre che il medesimo sia di pertinenza della pubblica Amministrazione. Tale pertinenza non viene meno neppure nei casi, sempre più frequenti, nei quali la gestione del servizio è demandata ad altri soggetti, i quali comunque operano in virtù di strumenti organizzatori adottati dall'Amministrazione. Alla base del servizio pubblico deve in Foro Amm. TAR, 2013, 1, 385. (3) Cfr. A. De Valles, I servizi pubblici, in V. E. Orlando (diretto da), Primo trattato di diritto amministrativo italiano, vol. IV, Milano, 1930. (4) Cfr. U. Pototschnig, I pubblici servizi, Padova, 1964. (5) G. Caia, Funzione pubblica e servizio pubblico, in Mazzarolli, Pericu, Romano, Roversi-Monaco, Scoca (a cura di), Diritto amministrativo, Bologna, 2001. 1239 Giurisprudenza AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Amministrativa infatti sussistere una disciplina positiva che ne definisca i moduli organizzativi e gestori. La suddetta impostazione teorica sembra trovare conferma nel dettato dell'art. 112, comma 1 del D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, in materia di servizio pubblico locale, che dispone: “Gli enti locali, nell'ambito delle rispettive competenze, provvedono alla gestione dei servizi pubblici che abbiano per oggetto produzione di beni ed attività rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali”. Un'attenta dottrina ha osservato come tale disposizione debba essere coordinata con l'art. 118 Cost., ove è previsto il conferimento ai Comuni di tutte le funzioni amministrative, salva l'applicazione dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza. La previsione costituzionale assumerebbe un valore solo programmatico per le funzioni propriamente dette (l'attività autoritativo-provvedimentale (6)), che debbono essere conferite da espresse previsioni legislative, ma un valore precettivo per l'attribuzione dei servizi (7). In altri termini, pur nel rispetto dei citati principi, l'ente locale potrebbe decidere di assumere su di sé la titolarità di una qualsiasi attività prestazionale che risponda alle esigenze presenti nella comunità di riferimento. In proposito, il Consiglio di Stato ha ritenuto che: “Ai fini della qualificazione di un'attività come servizio pubblico locale o meno occorre considerare l'art. 112, TUEL [...] Quel che rileva è perciò la scelta politico-amministrativa dell'ente locale di assumere il servizio, al fine di soddisfare in modo continuativo obiettive esigenze della collettività; pertanto, la qualificazione di servizio pubblico locale spetta a quelle attività caratterizzate, sul piano oggettivo, dal perseguimento di scopi sociali e di sviluppo della società civile, selezionati in base a scelte di carattere eminentemente politico, quanto alla destinazione delle risorse economiche disponibili ed all'ambito di intervento, e, su quello soggettivo, dalla riconduzione diretta o indiretta (per effetto di rapporti concessori o di partecipazione all'assetto organizzativo dell'ente) ad una figura soggettiva di rilievo pubblico” (8). Pertanto, ferme restando determinate caratteristiche “fisiche” della prestazione di teleriscaldamento (elemento oggettivo), occorre interrogarsi in merito alla sussistenza o meno di quell'atto di “assunzione” delle prestazioni che dottrina e giurisprudenza hanno individuato quale elemento (soggettivo) sine qua non di un servizio pubblico. Assunzione che, in concreto, può assumere diverse forme, e che, in molti casi, andrà ricercata non in un unico atto amministrativo (ad esempio, una concessione o un accordo ex art. 11, L. 7 agosto 1990, n. 241), ma in tutti i tratti di attività amministrativa riconducibili all'erogazione delle prestazioni alla comunità di riferimento. La corretta individuazione della natura del servizio di teleriscaldamento rappresenterà quindi l'esito di un'indagine analitica sia sulle caratteristiche oggettive delle prestazioni erogate, sia sui rapporti tra i pubblici poteri e gli operatori privati coinvolti. (6) Sulla contrapposizione tra i concetti di “servizio pubblico” e “funzione amministrativa”, nonché sulla dubbia utilità, ad oggi, di una tale classificazione, cfr.: M. R. Spasiano, La funzione amministrativa: dal tentativo di frammentazione allo statuto unico dell'amministrazione, in Dir. Amm., 2004, 2, 297; G. Caia, Funzione pubblica, cit. (7) A. Police, Spigolature sulla nozione di “servizio pubblico locale”, in Dir. Amm., 2007, 1, 79. (8) Cons. Stato, sez. V, 13 dicembre 2006, n. 7369. (9) In argomento, ex multis, cfr. R. De Nictolis - L. Cameriero, Le società pubbliche in house e miste, Milano, 2008. 1240 La giurisprudenza favorevole alla classificazione del teleriscaldamento tra i servizi pubblici Prima di vagliare la soluzione proposta dal TAR di Milano, pare necessario volgere l'attenzione alla sentenza n. 1457/2012, con la quale il medesimo TAR aveva avallato l'orientamento opposto, individuando cioè nel servizio di teleriscaldamento le caratteristiche proprie del servizio pubblico. Invero, nella pronuncia in commento, il Giudice dà conto delle ragioni alla base del netto cambio di orientamento, ponendo l'attenzione, in particolare, sulle differenze fattuali tra le due fattispecie trattate, tali per cui nel primo caso sarebbe certamente rinvenibile l'elemento soggettivo che connota il servizio pubblico, mentre nel secondo caso detto elemento assumerebbe contorni tanto sfumati da divenire impalpabile. Nel caso oggetto della sentenza n. 1457/2012, sotto un primo profilo, la Società coinvolta aveva natura mista, dal momento che i Comuni interessati dalla nuova rete avevano sottoscritto una quota (a quanto si intuisce, minoritaria) del capitale sociale, in origine del tutto privato. Come noto, la società mista rappresenta uno dei tipici modelli gestori del servizio pubblico locale (9). In secondo luogo, i Comuni avevano provveduto ad istituire un'apposita Conferenza dei Sindaci, organo puramente pubblicistico cui erano stati attri- Urbanistica e appalti 11/2014 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Amministrativa buiti, tra l'altro, compiti di vigilanza ed approvazione delle tariffe. A giudizio del TAR, quindi, in quel caso la “assunzione” del servizio di teleriscaldamento da parte dell'Amministrazione era avvenuta in termini assai evidenti, sia mediante una diretta partecipazione dell'Ente al capitale di rischio imprenditoriale, sia tramite una diretta ingerenza in uno dei tratti più tipici dell'attività di servizio pubblico, ossia la determinazione delle tariffe (10). Sotto il profilo oggettivo, invece, non parevano porsi particolari dubbi, atteso che il teleriscaldamento è “un'attività oggettivamente correlata alla realizzazione di interessi pubblici, essendo funzionale, per le sue caratteristiche intrinseche, a consentire a qualunque interessato di approvvigionarsi di energia termica, a fini di riscaldamento e di usi civili per abitazioni, uffici pubblici etc. Tale attività, quindi, è oggettivamente connessa ad essenziali esigenze delle persone, cui si correla la qualità della vita e la salvaguardia della salute, che l'art. 32 della Costituzione individua quale fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività. La destinazione dell'attività alla soddisfazione di interessi generali di rango primario emerge anche sotto il profilo ambientale, atteso che le amministrazioni interessate hanno aderito alla convenzione anche per finalità di recupero del patrimonio boschivo e forestale, attraverso la realizzazione di impianti idonei a funzionare mediante l'utilizzo come fonte energetica della biomassa recuperata” (11). Si aggiunga, per inciso, che l'interesse alla salvaguardia dell'ambiente può reputarsi presente anche quando l'impianto sia alimentato mediante combustibile fossile; come accennato, infatti, la cogenerazione garantisce lo sfruttamento di calore che, in un impianto tradizionale, andrebbe disperso, garantendo conseguentemente un risparmio nell'uso complessivo di combustibile inquinante. La citata pronuncia ha trovato conferma anche in sede d'appello (12), ove anzi i Giudici hanno in- dividuato altri ed ulteriori “indici” dell'assunzione del servizio da parte dell'Amministrazione (13). Nel caso vagliato dalla sentenza in commento, invece, la Società era ad intero capitale privato e, pur essendo stata stipulata una convenzione con il Comune, la stessa non prevedeva alcun intervento pubblico in punto di determinazione delle tariffe. (10) Il tema meriterebbe un approfondimento ad hoc. In dottrina, si veda: P. Pozzani, I parametri di determinazione delle tariffe amministrative, in Foro Amm. TAR, 2012, 1, 36; E. Manassero, Il passaggio dai certificati verdi alla tariffa onnicomprensiva, in Amb. e svil., 2013, 7, 657; G. Balocco, Il price-cap nelle tariffe autostradali, in questa Rivista, 2007, 2, 245; F. Liguori, I servizi pubblici locali, Torino, 2007, 215. (11) T.A.R. Lombardia, Milano, sez. III, 28 maggio 2012, n. 1457. La medesima posizione, peraltro, era stata espressa anche dall'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici (ora confluita nell'Autorità nazionale anticorruzione), nella delibera n. 101 del 10 novembre 2011. (12) Cons. Stato, sez. V, 2 maggio 2013, n. 2396. (13) Ad esempio, una nota della Società a capitale misto nella quale si dava conto degli “scopi sociali e di sviluppo della società civile perseguiti e dalla affermata riferibilità delle scelte aziendali anche alla volontà degli enti locali”, nota alla quale il Consiglio di Stato attribuisce valore “confessorio” circa la natura di servizio pubblico locale del teleriscaldamento (cfr. sent. n. 2396/2013, punto 7.1.2.3). (14) S. Bini, Determinazione degli oneri di urbanizzazione e degli standard, in questa Rivista, 2011, 3, 346. In argomento cfr. anche: A. Di Mario, Standard urbanistici e distanze tra costruzioni tra Stato e Regioni dopo il “Decreto del fare”, in questa Rivista, 2013, 11, 1121; G. C. Mengoli, Manuale di diritto urbanistico, Milano, 2009, 149. Urbanistica e appalti 11/2014 La soluzione del TAR Milano e il parziale superamento della problematica definitoria Il TAR Milano, quindi, propende per la natura privata del servizio di teleriscaldamento, non rinvenendo nello stesso (quantomeno, non necessariamente) le caratteristiche soggettive del servizio pubblico. In tale ottica, vengono sottolineati taluni indici che escluderebbero la sussistenza di una assunzione del servizio da parte del Comune. In primo luogo, i Giudici evidenziano come la stipula di una convenzione e la conseguente creazione di obblighi lato sensu “di servizio” a carico dell'operatore privato “traggono le loro origini dalla destinazione urbanistica [standard a servizio della produzione, n.d.r.] impressa sull'area su cui realizzare la centrale e non dalla volontà politico-amministrativa del Comune […] di assumere il servizio di teleriscaldamento quale servizio pubblico locale”. Il punto merita un breve approfondimento. È noto come la locuzione “standard urbanistico” faccia riferimento ai rapporti massimi tra spazi destinati ad insediamenti residenziali o produttivi ed aree “libere”, da destinare a verde ovvero ad opere di pubblica utilità (parcheggi, scuole, ospedali, ecc.). Nell'uso corrente, peraltro, detta locuzione viene utilizzata come sineddoche, per definire non tanto tali rapporti, quanto le stesse aree a standard (14). Nel caso di specie, quindi, la centrale di cogenerazione è stata realizzata proprio su di un'area destinata, dal punto di vista urbanistico, ad opere di interesse generale. Il Tribunale ha ritenu- 1241 Giurisprudenza AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Amministrativa to tale circostanza sostanzialmente “accidentale”, ed anzi tale da ingenerare ambiguità circa la natura delle prestazioni erogate dalla centrale di cogenerazione poi realizzata; la presenza di una convenzione, in altri termini, andrebbe ricollegata esclusivamente alla destinazione urbanistica dell'area. Detta lettura sembra svalutare eccessivamente le interconnessioni sussistenti tra i profili urbanistici e le scelte politico-amministrative dell'Ente. Contrariamente a quanto ritenuto dal TAR, infatti, l'ubicazione della centrale di teleriscaldamento su di un'area a standard potrebbe essere letta proprio quale indice dell'assunzione del relativo servizio da parte dell'Amministrazione. Diversamente opinando, occorrerebbe conciliare la natura meramente privatistica dell'opera con la destinazione urbanistica “a standard” dell'area; un'operazione giuridica forse possibile, ma tutt'altro che scontata (15). In secondo luogo, il Giudice pone in evidenza la clausola convenzionale che prevede la facoltà del Comune, alla scadenza del diritto di superficie, di richiedere al privato lo smantellamento di tutte le opere. Detta previsione, invero, non sembra porsi in contrasto con la natura di servizio pubblico del teleriscaldamento, dal momento che una determinata prestazione può ben perdere, nel corso del tempo, la connotazione (oggettiva) di “servizio pubblico”; né, del pari, l'Amministrazione che decida di assumere l'erogazione di un determinato servizio è vincolata a farlo sine die. Neppure appare decisivo il fatto che il teleriscaldamento fosse fornito solo ad un comparto, e non a tutto il Comune. Tale elemento non sembra inconciliabile con la qualifica di servizio pubblico. Non pare potersi escludere che un servizio sia erogato, in una prima fase ed in via sperimentale, solo in determinate aree del comune. Per contro, la circostanza che, nel caso di specie, le tariffe del servizio possano essere determinate di- screzionalmente dal privato, senza alcuna ingerenza dell'Amministrazione, sembrerebbe in effetti far propendere per la mancata assunzione del servizio pubblico, nella misura in cui l'accessibilità alla prestazione – dal punto di vista economico – non è in alcun modo regolamentato. Fatte tali premesse sulla ritenuta assenza di natura pubblicistica, nel caso di specie, del servizio di teleriscaldamento, il TAR affronta la problematica sotto un altro profilo, ossia indagando le implicazioni connesse alla conformazione fisica dell'infrastruttura di servizio. Il teleriscaldamento, infatti, rientra nella categoria dei servizi cd. a rete, nei quali la concreta consegna del bene avviene a valle dell'immissione dello stesso in una rete fisica di trasmissione, di estensione più o meno vasta. La rete del teleriscaldamento, al pari delle altre reti, può essere qualificata quale “monopolio naturale”, poiché non appare plausibile – a costi socialmente accettabili – la realizzazione nel sottosuolo di un numero indeterminato di condutture, riconducibili a più imprese in concorrenza fra loro (16). Qualora fossero installate anche solo due condutture parallele, peraltro, la conseguente diminuzione della densità termica renderebbe l'operazione certamente antieconomica (17). Secondo il Giudice de quo, pertanto, la necessità di instaurare una qualche forma di competizione deriva, in primo luogo, dalla non replicabilità della rete, che insiste nel sottosuolo demaniale. Più in particolare: «poiché la rete di distribuzione del calore destinato al teleriscaldamento può essere qualificata quale monopolio naturale, il comune, anche qualora volesse non considerare il TLR quale servizio pubblico locale, dovrebbe subordinare la richiesta autorizzazione alla “manomissione del suolo pubblico” ad una regolamentazione, anche a mezzo di attivazione di una procedura concorsuale, (15) Invero, in materia di destinazione delle aree a standard, nonché di “standard qualitativo” (ossia di opere realizzate dal privato in luogo della mera cessione al Comune di aree), la giurisprudenza dello stesso TAR di Milano si è talvolta rivelata assai flessibile. Si fa qui riferimento, in particolare, alla pronuncia n. 6188 del 23 dicembre 2009, con la quale il suddetto Tribunale ha statuito: «Contesta la ricorrente l'inclusione di 20.000 mq, destinati alle Manifestazioni espositive, sfilate ed eventi collettivi legati alla moda e al design, tra le aree per funzioni pubbliche, nonché la possibilità di qualificare come standard di qualità il Museo della Moda, in quanto non sarebbe classificabile come "infrastruttura o servizi di interesse generale". Anche queste censure non hanno pregio. Considerando che il concetto di standard costituisce "una categoria aperta, per cui spetta alle amministrazioni il compito di svolgere valutazioni di dettaglio riferite alle singole realtà locali" (T.A.R. Lombardia, Brescia 15 dicembre 2006, n. 1548), la Città della Moda e la scuola di moda, a Milano, possono essere ragionevolmente classificate come servizi ed attrezzature di interesse comune, in quanto sono in funzione di quella che è ormai divenuta una connotazione consolidata della città, con ovvi riscontri sul piano delle relative attività rilevantissime sul piano economico e industriale». (16) La problematica è posta in luce sin dai primissimi studi in materia di diritto delle reti: si veda, ad es., E. Chadwick, Results of different principles of legislation and administration in Europe; of competition for the field, as compared with competition within the field, of service, in Journal of the Statistical Society of London, Londra, 1859, 22, 3, 387, reperibile presso l'archivio online www.jstor.org. (17) Cfr. Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, indagine conoscitiva n. 46 del 5 marzo 2014, citata dalla sentenza in commento. 1242 Urbanistica e appalti 11/2014 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Giurisprudenza Amministrativa volta a garantire che la costruzione e la gestione della rete sia contendibile ed effettuata da un soggetto che s’impegni ad erogare il servizio in termini di concorrenzialità e non discriminazione, con possibilità di accesso all’impianto di cogenerazione anche per operatori diversi dalla società ricorrente». Sembra quindi che la questione definitoria del servizio di teleriscaldamento possa essere superata o, quantomeno, “aggirata”, ponendosi in un'ottica sostanziale: occorrerà domandarsi non più (o non solo) se il teleriscaldamento possa essere annoverato tra i servizi pubblici locali, quanto se e come possa essere garantita la contendibilità dello stesso, atteso che l'infrastruttura di trasmissione, in ciascun contesto geografico, può essere solo una (18). In merito, possono ipotizzarsi diversi scenari. In un caso come quello in oggetto, nel quale l'iniziativa finalizzata alla realizzazione della rete di teleriscaldamento proviene dall'operatore privato, in assenza di assunzione del servizio da parte dell'Amministrazione, il Comune potrà mettere in gara la concessione di occupazione del sottosuolo necessaria all'installazione delle condutture (19). Si tratterebbe, cioè, di un tipico caso di concorrenza “per” il mercato (e non già “nel” mercato), in quanto l'aggiudicatario godrebbe di un diritto di privativa per tutto il tempo di durata della concessione; lasso di tempo che, ragionevolmente, dovrebbe essere parametrato sia all'onerosità degli in- vestimenti per la realizzazione delle opere, sia alla necessità di non sottrarre il bene all'uso pubblico sine die (20). In detta ipotesi, al contrario, la gara non avrebbe ad oggetto la costruzione della rete, e neppure la sua successiva gestione, dal momento che il bene-rete non avrebbe alcun tipo di connotazione pubblicistica, ma, al contrario, sarebbe meramente strumentale all'esercizio (pur in regime di privativa) di una libera attività economica (21). Invero, sempre nel caso di iniziativa privata, si potrebbe configurare anche un altro scenario. Atteso che, come accennato, la restrizione della concorrenza pubblicisticamente rilevante sarebbe relativa non tanto alla realizzazione della rete (bene privato), quanto all'occupazione di sottosuolo demaniale, l'Amministrazione potrebbe optare per il rilascio di una concessione demaniale “convenzionata”; nella convenzione, il concessionario si dovrebbe impegnare a consentire l'accesso alla rete anche ad altri operatori economici (previo, ad esempio, il pagamento di un canone). In tal caso, si garantirebbe la concorrenza non già “per” il mercato, ma “nel” mercato, in base alla considerazione che la rete unica – come avviene, ad esempio, nel settore dell'energia elettrica – potrebbe essere sfruttata economicamente da un numero potenzialmente indeterminato di operatori, mediante l'immissione, da parte di ciascuno di essi, di calore generato da vari impianti. (18) Il tema può essere ricollegato, a livello comunitario, alla nota direttiva 12 dicembre 2006, n. 123 (cd. Bolkenstein), che all'art. 12 statuisce: “1. Qualora il numero di autorizzazioni disponibili per una determinata attività sia limitato per via della scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche utilizzabili, gli Stati membri applicano una procedura di selezione tra i candidati potenziali, che presenti garanzie di imparzialità e di trasparenza e preveda, in particolare, un'adeguata pubblicità dell'avvio della procedura e del suo svolgimento e completamento. 2. Nei casi di cui al paragrafo 1 l'autorizzazione è rilasciata per una durata limitata adeguata e non può prevedere la procedura di rinnovo automatico né accordare altri vantaggi al prestatore uscente o a persone che con tale prestatore abbiano particolari legami. 3. Fatti salvi il paragrafo 1 e gli articoli 9 e 10, gli Stati membri possono tener conto, nello stabilire le regole della procedura di selezione, di considerazioni di salute pubblica, di obiettivi di politica sociale, della salute e della sicurezza dei lavoratori dipendenti ed autonomi, della protezione dell'ambiente, della salvaguardia del patrimonio culturale e di altri motivi imperativi d'interesse generale conformi al diritto comunitario”. Le conseguenze di tale direttiva (recepita con D.Lgs. 26 marzo 2010, n. 59) sulle concessioni demaniali è stata indagata dalla dottrina con particolare riferimento al tema del demanio marittimo: cfr. A. Monica, Le concessioni demaniali marittime in fuga dalla concorrenza, in Riv. It. Dir. Pubbl. Com., 2013, 2, 437; M. D'orsogna, Le concessioni demaniali marittime nel prisma della concorrenza: un nodo ancora irrisolto, in questa Rivista, 2011, 5, 599; G. Gruner, L'affidamento ed il rinnovo delle concessioni demaniali marittime tra normativa interna e principi del diritto dell'Unione Europea, in Foro Amm. CdS, 2010, 3, 678. (19) Per la regione Lombardia, cfr. artt. 34-40, L.R. 12 dicembre 2003, n. 26. Tale legislazione, invero, disciplina l'installazione e gestione non tanto delle “reti” propriamente dette, quanto delle infrastrutture per l'alloggiamento delle stesse. In tale prospettiva, non è previsto l'esperimento di una gara per il rilascio dell'autorizzazione, ma solo l'obbligo, per il concessionario, di stipulare una convenzione con l'Amministrazione, nella quale sia prevista la possibilità anche per altri operatori di alloggiare le proprie reti nell'infrastruttura. Detta disciplina, comunque, non sembra risolvere le problematiche del caso di specie, derivanti, come accennato, dalla (sostanziale) non replicabilità della rete. (20) Cfr. giurisprudenza in materia di concessioni cimiteriali; ex multis, T.A.R. Puglia, Lecce, sez. II, 31 gennaio 2014, n. 289: “La natura demaniale dei cimiteri contrasta con la perpetuità delle concessioni cimiteriali che finirebbe per occultare un vero e proprio diritto di proprietà sul bene demaniale (cimitero) che, per sua natura, è un bene pubblico, destinato a vantaggio dell'intera collettività; ne consegue che l'utilizzo di tale bene in favore di alcuni soggetti, che è quanto si verifica con una concessione, deve necessariamente essere temporalmente limitato, anche stabilendo una durata prolungata nel tempo e rinnovabile alla scadenza, venendo altrimenti contraddetta la sua ontologica finalità pubblica, al quale il bene verrebbe definitivamente sottratto”. (21) In tale ipotesi, resta ovviamente ferma la necessità che la società privata si doti del titolo autorizzatorio per la realizzazione dell'impianto. Ad esempio, nel caso di un impianto di cogenerazione alimentato da fonti energetiche rinnovabili (come le biomasse) si tratterà di un'autorizzazione unica ex art. 12, L. 29 dicembre 2003, n. 387. Urbanistica e appalti 11/2014 1243 Giurisprudenza AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Amministrativa Le due opzioni – gara per la concessione e convenzionamento della stessa – potrebbero anche coesistere, mediante la definizione di strumenti organizzatori che garantiscano il complessivo equilibrio economico dell'operazione. Qualora invece l'iniziativa finalizzata alla creazione di un servizio di teleriscaldamento provenisse dall'Amministrazione comunale, la stessa potrebbe porre in gara la realizzazione delle infrastrutture, ovvero la realizzazione e successiva gestione, ad esempio mediante una procedura di project-financing (22). In tutte queste ipotesi, infine, l'Amministrazione potrebbe optare per una gara bifasica. Una prima fase sarebbe volta non tanto all'individuazione del concessionario/contraente, quanto alla verifica in merito all'esistenza, o meno, di un mercato concorrenziale per quel determinato servizio (23). Qualora detta verifica restituisse un esito negativo, l'Amministrazione potrebbe procedere ad affidare direttamente il servizio (ovvero la concessione) al soggetto privato che ne ha fatto richiesta. In tal caso, infatti, non essendoci alcun “mercato” per detto servizio, non si concreterebbe alcuna lesione alla concorrenza. I problemi di inquadramento dogmatico del servizio di teleriscaldamento generano notevoli difficoltà nell'individuare, in concreto, la disciplina applicabile. Le caratteristiche “fisiche” di tale servizio, infatti, mal si prestano ad un'applicazione ana- logica delle discipline settoriali di altri servizi a rete, quali la distribuzione di energia elettrica, il gas ed il servizio idrico. La (poca) giurisprudenza in materia e gli studi dell'Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici e dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato hanno posto in luce la principale problematica sottesa all'attuale stato di deregolamentazione legislativa del teleriscaldamento, ossia i possibili riflessi negativi in punto di restrizioni del mercato concorrenziale. Il teleriscaldamento, infatti, viene erogato in condizioni di monopolio naturale. In tale contesto, la sentenza in commento giunge a conclusioni condivisibili, laddove afferma che il necessario esperimento di una procedura ad evidenza pubblica non debba essere ricondotto solo alla qualifica di servizio pubblico locale. Anche qualora – come nel caso di specie – non sia rinvenibile una chiara assunzione del servizio da parte dell'Amministrazione, e, quindi, detto servizio non abbia una valenza propriamente pubblicistica, la materiale realizzazione della rete da parte dell'operatore privato deve essere preceduta dal rilascio di atti amministrativi (concessioni demaniali) idonei a porre lo stesso in posizione monopolistica e, specularmente, a creare ad eventuali competitors barriere all'ingresso insormontabili. Anche in tali ipotesi, quindi, l'Amministrazione sarà tenuta ad esperire procedure competitive, la cui concreta configurazione – in merito alla quale si è tentato di proporre qualche sintetico spunto – rappresenterà un'interessante sfida per gli Enti Locali (24). (22) Cfr. F. Vada - V. De Sanctis, Natura e finalità del project financing. Infrastrutture realizzabili, in Mariani, Menaldi & Associati (a cura di), Il project financing, Torino, 2012, 355. Secondo tali Autori: “tipici esempi di opere calde sono impianti di cogenerazione di energia (considerate tra le opere più idonee ad essere realizzate con tale tecnica di finanziamento)”. (23) Una gara così impostata non pare contrastare con la legislazione vigente; si tenga altresì presente che, ai sensi dell'art. 40, direttiva 2014/24/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio in data 26 febbraio 2014 (in attesa di recepimento): “Prima dell’avvio di una procedura di appalto, le amministrazioni aggiudicatrici possono svolgere consultazioni di mercato ai fini della preparazione dell’appalto e per informare gli opera- tori economici degli appalti da essi programmati e dei requisiti relativi a questi ultimi. A tal fine, le amministrazioni aggiudicatrici possono ad esempio sollecitare o accettare consulenze da parte di esperti o autorità indipendenti o di partecipanti al mercato. Tali consulenze possono essere utilizzate nella pianificazione e nello svolgimento della procedura di appalto, a condizione che non abbiano l’effetto di falsare la concorrenza e non comportino una violazione dei principi di non discriminazione e di trasparenza”. (24) Procedure che, tra l'altro, saranno utili non solo per tutelare la concorrenza, ma anche per garantire all'Amministrazione maggiori introiti: si pensi al caso in cui per la concessione demaniale sia bandita una gara al massimo rialzo. Conclusioni 1244 Urbanistica e appalti 11/2014 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Osservatorio in sintesi Giurisprudenza Osservatorio amministrativo a cura di GIULIA FERRARI e LUIGI TARANTINO (*) APPALTI E LAVORI PUBBLICI GLI ELEMENTI UTILI AI FINI DELL’ADOZIONE DELL’INFORMATIVA ANTIMAFIA Consiglio di Stato, sez. III, 15 settembre 2014, n. 4701 Pres. Romeo - Est. Polito Nell’ambito dei controlli sul pericolo di infiltrazione e condizionamento mafioso tra le circostanze e fatti indizianti si riconducono i contatti e le frequentazioni con pregiudicati o soggetti in rapporto di contiguità alla criminalità organizzata che possono essere elevati a presupposto per l’adozione della misura prevista dall’art. 90 D.Lgs. n. 159/2011. È quindi legittima l’informativa antimafia prefettizia che dà rilievo a fatti inerenti alla vita di relazione dell’imprenditore che, proprio perché ripetutisi nel tempo, di per sé assumono significativo valore indiziario dell’esposizione al pericolo di condizionamento mafioso. L’accertamento del pericolo di infiltrazione e condizionamento mafioso ai sensi dell’art. 90 D.Lgs. n. 159/2011 preceduto da apposita istruttoria che si caratterizza come autonoma per contesto temporale e geografico elementi acquisiti e spessore dell’indagine rispetto ad ogni altro provvedimento avente il medesimo oggetto, non è contraddetto dal previo rilascio dell’attestazione SOA. Quest’ultima implica l’individuazione dell’assenza di specifiche cause di decadenza, di sospensione e di divieto di cui all’art. 10 della L. n. 575/1965. Il contenzioso all’attenzione del Consiglio trae origine dall’impugnazione di un’interdittiva antimafia adottata dal Prefetto e dal provvedimento di esclusione dalla procedura di gara emanato da una stazione appaltante. Le censure avverso i citati provvedimenti, già disattese dal primo giudice, vengono reiterate dinanzi al Consiglio ed hanno per lo più oggetto il quadro degli elementi sulla scorta dei quali la Prefettura può adottare ai sensi dell’art. 90, D.Lgs. n. 159/2011 l’informativa antimafia. Al riguardo, la Sezione premette che l’Autorità prefettizia gode della più ampia sfera di discrezionalità nel selezionare e valorizzare fatti, circostanze ed accadimenti cui possa ricondursi, anche in via indiziaria, sintomatica e presuntiva il collegamento e/o il pericolo di condizionamento mafioso dell’attività d’impresa. Pertanto, i contatti e le frequentazioni con pregiudicati o soggetti in rapporto di contiguità alla criminalità organizzata ben possono essere utilizzati quali elementi sui quali poggiare il provvedimento de quo. Né può ritenersi che la loro saltuarietà, dieci incontri nel corso di dieci anni, ne indebolisca la portata indiziante, poiché le valutazioni effettuate in merito dal Prefetto sono suscettibili di sindacato in sede giurisdizionale nei soli limiti di evidenti vizi di eccesso di potere nei profili della manifesta illogicità e dell’erronea e travisata valutazione dei presupposti del provvedere. Ipotesi questa che nella fattispecie non ricorre in ragione della reiterazione nel tempo delle suddette condotte, dalle quali è legittimo inferire la contiguità con ambienti della criminalità organizzata. In senso opposto a giudizio della Sezione non milita neanche la circostanza che vi sia stato un periodo di discontinuità di due anni nel quale non vi sono analoghe segnalazioni, poiché la tutela anticipata della difesa sociale prevista dalla normativa di riferimento, non consente di ritenere illogico o irragionevole il provvedimento in questione. IL PRINCIPIO DELLA NECESSARIA CORRISPONDENZA TRA LA QUALIFICAZIONE DI CIASCUNA IMPRESA E LA QUOTA DELLA PRESTAZIONE DI RISPETTIVA PERTINENZA NEI RTI Consiglio di Stato, Ad. Plen., 28 agosto 2014, n. 27 Pres. Giovannini - Est. Scola Ai sensi dell’art. 37, commi 4 e 13 del codice dei contratti pubblici (D.Lgs. n. 163/2006), nel testo antecedente alle modifiche apportate dall’art. 1, comma 2-bis, lett. a), D.L. 6 luglio 2012 n. 95, convertito nella L. 7 agosto 2012 n. 135, negli appalti di servizi o di forniture da affidarsi a raggruppamenti temporanei di imprese non vige ex lege il principio di necessaria corrispondenza tra la qualificazione di ciascuna impresa e la quota della prestazione di rispettiva pertinenza, essendo la relativa disciplina rimessa alle disposizioni della lex specialis della gara. Il quesito di diritto sottoposto all’attenzione della Plenaria del Consiglio di Stato riguarda la corrispondenza tra quote di partecipazione e quote di esecuzione della prestazione oggetto di appalto in caso di raggruppamenti temporanei di imprese. L’attenzione del Consiglio si appunta sull’esegesi da offrire del comma 13 dell’art. 37, D.Lgs. n. 163/2006 - norma prima novellata dalla L. n. 135/2012, e poi abrogata dall’ art. 12, comma 8, D.L. 28 marzo 2014, n. 47, convertito, con modificazioni, dalla L. 23 maggio 2014, n. 80 - secondo il quale, nel testo previgente alla novella del 2012: “I concorrenti riuniti in raggruppamento temporaneo devono eseguire le prestazioni nella percentuale corrispondente alla quota di partecipazione al raggruppamento”. Il legislatore del 2012 limitò l’obbligo di corrispondenza al solo caso dei lavori. Nella pronuncia in esame il massimo consesso della giustizia amministrativa mette un punto fermo sulla portata applicativa della norma in caso di appalto di servizi nella vigenza del citato comma 13 prima della novella del 2012. Al riguardo, la Plenaria precisa che la giurisprudenza si era uniformata nel senso di ritenere che l’obbligo di corrispondenza tra quote di partecipazione e quote di esecuzione va- (*) La rassegna delle decisioni del Consiglio di Stato è curata da L. Tarantino; la rassegna delle sentenze del TAR è curata da G. Ferrari. Urbanistica e appalti 11/2014 1245 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Osservatorio in sintesi Giurisprudenza lesse anche per gli appalti di servizi e, conseguentemente: a) ciò dovesse risultare già in sede di offerta; b) nel caso di mancata previsione da parte della lex specialis dell’esclusione per la violazione del principio di corrispondenza, la stessa dovesse ritenersi eterointegrata; c) un simile obbligo fosse valevole per tutte le tipologie di raggruppamenti. Quest’impostazione a giudizio della Plenaria non può essere seguita, in quanto: I) contrasta con il dato letterale dei commi 4 e 13 dell’art. 37; II) va in senso opposto rispetto a quanto prevede il codice dei contratti, che disciplina in maniera completa e nella sede propria il regime della qualificazione delle imprese anche riunite in ATI, per i lavori, mentre affida alla disciplina di gara ogni determinazione in materia per gli appalti di servizi e forniture, salvi i limiti sanciti dagli artt. 41-45. Pertanto, per gli appalti di forniture e servizi vale soltanto la norma sancita dal comma 4 dell’art. 37, che impone alle imprese raggruppate il più modesto obbligo d’indicare le parti del servizio o della fornitura facenti capo a ciascuna di esse, senza pretendere anche l’obbligo della corrispondenza fra quote di partecipazione e quote di esecuzione, fermo restando, però, che ciascuna impresa va qualificata per la parte di prestazioni che s’impegna ad eseguire, nel rispetto delle speciali prescrizioni e modalità contenute nella normativa di gara. ALLA CORTE DI GIUSTIZIA LA VALUTAZIONE DEI PROTOCOLLI DI LEGALITÀ C.G.A. Sicilia, 12 settembre 2014, n. 534 - Pres. Lipari Est. Carlotti In tema di normativa antimafia negli appalti pubblici vanno deferite alla Corte di giustizia UE le seguenti questioni pregiudiziali relative al dubbio se: a) il diritto dell’Unione europea e, in particolare, l’art. 45 della direttiva CE n. 18 del 2004 osti a una disposizione, come l’art. 1, comma 17 L. 6 novembre 2012 n. 190, che consente alle stazioni appaltanti di prevedere come legittima causa di esclusione delle imprese partecipanti alla gara la mancata accettazione, o la mancata prova documentale dell’avvenuta accettazione, da parte delle suddette imprese, degli impegni contenuti nei c.d. “protocolli di legalità” e, più in generale, in accordi, tra le Amministrazioni e le imprese partecipanti, finalizzati a contrastare le infiltrazioni della criminalità organizzata nel settore in parola; b) ai sensi dell’art. 45 della direttiva CE n. 45 del 2004, l’eventuale previsione da parte dell’ordinamento di uno Stato membro della potestà di esclusione, descritta nel precedente quesito, possa essere considerata una deroga al principio della tassatività delle cause di esclusione giustificata dall’esigenza imperativa di contrastare il fenomeno dei tentativi di infiltrazione della criminalità organizzata nelle procedure de quibus. Il CGA ritiene di dubbia compatibilità comunitaria per possibile contrasto con l’art. 45 della direttiva 2004/18/CE l’art. 1, comma 17, della L. 6 novembre 2012, n. 190 che, in materia di procedure di affidamento di appalti pubblici, contempli la facoltà, per le amministrazioni aggiudicatrici, di considerare, quale valida causa di esclusione dalle predette procedure, la mancata accettazione o la mancata dimostrazione documentale dell’avvenuta accettazione, da parte delle imprese partecipanti, degli impegni contenuti nei pro- 1246 tocolli di legalità. Il citato art. 45, infatti, non prevede alcuna analoga ipotesi di esclusione. I protocolli di legalità sono stati introdotti nell’ordinamento italiano al fine di contrastare il fenomeno delle infiltrazioni della criminalità organizzata nel settore degli appalti pubblici. Le amministrazioni aggiudicatrici attraverso tali protocolli assumono l’obbligo di inserire nei bandi e negli altri atti di indizione di gare, quale condizione per la partecipazione, l’accettazione preventiva, da parte degli operatori economici, di determinate clausole intese alla prevenzione, al controllo e al contrasto delle attività criminali, nonché alla verifica della sicurezza e della regolarità dei luoghi di lavoro; a loro volta nei medesimi protocolli è specularmente stabilito l’obbligo, gravante in capo a ogni impresa partecipante a una procedura di affidamento di un pubblico contratto, di rendere una dichiarazione, sottoscritta dai legali rappresentanti, recante vari impegni. Simili strumenti hanno natura giuridica di accordi tra amministrazione e privato e nella misura in cui contrastano l’ingerenza della criminalità organizzata perseguono il fine di tutela della concorrenza e della trasparenza. In costanza, però, di un principio di tendenziale tassatività delle cause di esclusione sposato a livello comunitario sorge il dubbio che una simile previsione a pena di esclusione contrasti con il precetto dell’art. 45, che del citato principio è diretta espressione. Ciò nonostante il Consiglio ritiene che possa non esserci incompatibilità sia in ragione della giurisprudenza della Corte di giustizia che ha ammesso la previsione di ulteriori cause di esclusione, dirette a garantire il rispetto dei principi di parità di trattamento degli offerenti e di trasparenza, purché siffatte misure non eccedano quanto necessario per raggiungere tale obiettivo. Sia in ragione della possibilità di una deroga al principio della tassatività delle clausole di esclusione pure desumibile dall’art. 57, paragrafi 3 e 7, della direttiva 26 febbraio 2014 n. 2014/24/UE (non ancora recepita dalla Repubblica italiana), del Parlamento europeo e del Consiglio sugli appalti pubblici e che abroga la direttiva 2004/18/CE. ESCLUSIONE PER MANCATA ALLEGAZIONE COPIA CARTA DI IDENTITÀ T.A.R. Sardegna, sez. I, 19 settembre 2014, n. 725 Pres. Monticelli - Est. Manca È illegittima l’esclusione da una gara pubblica del concorrente che non ha allegato, all’offerta economica, la copia della carta di identità del proprio legale rappresentante se, ciò nonostante, non sussiste alcun dubbio sulla provenienza soggettiva delle offerte, risultando le fotocopie dei relativi documenti d’identità comunque inserite nei plichi contenenti la documentazione amministrativa. È impugnata l’esclusione di una concorrente ad una gara pubblica per non avere allegato, all’offerta economica, copia fotostatica del documento d’identità del legale rappresentante della ditta. L’adito TAR Sardegna accoglie il ricorso. Premette che, nella specie, dalle previsioni contenute nella lex specialis di gara non emerge, in termini chiari e inequivoci, l’onere formale la cui omissione ha determinato l’esclusione della impresa. Ed infatti, da un lato le prescrizioni del bando non impongono, a pena di esclusione, l’allegazione del documento d’identità all’offerta economica; dall’altro, con riguardo alla documentazione da inserire nel plico relativo all’offerta economica, il bando pone esplicita- Urbanistica e appalti 11/2014 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Osservatorio in sintesi Giurisprudenza mente il divieto di inserire altri documenti, diversi dall’offerta stessa. Trova quindi applicazione il principio del favor partecipationis che impone, nel dubbio, di optare per l’interpretazione della clausola ambigua della lex specialis di gara che consenta la massima partecipazione alla procedura degli operatori economici. Pertanto, sussistendo nella specie un’obiettiva incertezza sulla necessità o meno di allegare all’offerta economica la fotocopia del documento d’identità, la stazione appaltante avrebbe dovuto considerare come non essenziale tale adempimento, per favorire la massima partecipazione delle imprese concorrenti, procedendo, se del caso, all’integrazione documentale ai sensi dell’art. 46, comma 1, del codice dei contratti pubblici. Aggiunge il Tribunale che in ogni caso, seppure dalle disposizioni del disciplinare avesse potuto ricavarsi l’onere formale di cui trattasi, nondimeno l’esclusione sarebbe illegittima, per violazione del principio di tassatività delle cause di esclusione. L’art. 46, comma 1-bis, del codice dei contratti pubblici consente infatti alle stazioni appaltanti di disporre l’esclusione, oltre che per violazione di specifiche prescrizioni normative, solo in ipotesi di incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienze dell’offerta. Nell’ottica sostanzialistica adottata dal legislatore, che sottende chiaramente il principio generale della strumentalità delle forme, di cui quello del raggiungimento dello scopo costituisce un corollario, non c’è spazio per cause di esclusione connesse al mancato adempimento di obblighi formali, quando non sia in dubbio il contenuto o la provenienza soggettiva dell’offerta. Le clausole escludenti di tale tenore sarebbero, difatti, senz’altro nulle, ai sensi della norma citata. Nel caso all’esame del TAR, nonostante la mancata allegazione del documento d’identità all’offerta economica da parte delle imprese escluse, non sussiste alcun dubbio sulla provenienza soggettiva delle offerte, atteso che le fotocopie dei relativi documenti d’identità erano state comunque inserite nei plichi contenenti la documentazione amministrativa. Pertanto, lo scopo dell’obbligo formale in esame doveva considerarsi pienamente raggiunto. PIENA CONOSCENZA AI FINI DELLA DECORRENZA DEL TERMINE PER IMPUGNARE L’AGGIUDICAZIONE T.A.R. Umbria, 9 settembre 2014, n. 448 - Pres. Lamberti - Est. Amovilli La “conoscenza” utile ai fini della decorrenza del termine per impugnare gli atti di una gara pubblica, di cui all’art. 120, comma 5, c.p.a., sempre laddove la violazione non sia percepibile dal contenuto della dichiarazione di cui all’art. 79, D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163, coincide con la cognizione acquisita in sede di accesso informale, a condizione che entro il termine di dieci giorni di cui al citato art. 79 l’interessato presenti la relativa istanza. In occasione dell’impugnazione di atti di gara pubblica il TAR Umbria si pone d’ufficio la questione relativa alla tempestività di un ricorso, notificato soltanto il 9 gennaio 2014, pur avendo il ricorrente ricevuto la comunicazione dell’aggiudicazione al controinteressato in data 26 novembre 2013, contenente peraltro solo il nominativo del vincitore e l’ordine di graduatoria. Il TAR deve stabilire se la suddetta comunicazione - di contenuto analogo a quella prevista dall’art. 79, D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163 in quanto contenente le informazioni di cui al comma 2, lett. c) - sia stata idonea o non a determinare la “piena conoscenza” ai fini della decorrenza del termine decadenziale dimidiato di Urbanistica e appalti 11/2014 trenta giorni di cui all’art. 120, comma 5, c.p.a., tenendo presente che il ricorrente ha potuto percepire i vizi dell’aggiudicazione soltanto dalla concreta visione dell’offerta economica del controinteressato avvenuta successivamente, a seguito all’istanza di accesso formale ex art. 13, D.Lgs. n. 163 del 2006. Premette che in ambito comunitario vige il principio secondo il quale il termine per proporre un ricorso diretto a far accertare la violazione della normativa in materia di aggiudicazione di appalti pubblici decorre “dalla data in cui il ricorrente è venuto a conoscenza o avrebbe dovuto essere a conoscenza della violazione stessa” (Corte giust. UE, sez. III, 28 gennaio 2010, C-406/08, Uniplex UK Ltd), poiché l’obiettivo di celerità del contenzioso perseguito dalla stessa direttiva ricorsi non consente agli Stati membri di prescindere dal principio di effettività della tutela giurisdizionale, evidentemente leso laddove le modalità di applicazione del termine di decadenza rendano impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti spettanti agli operatori economici concorrenti. Nel caso all’esame del TAR la comunicazione ricevuta dal ricorrente il 26 novembre 2013, benché di contenuto analogo all’informativa di cui all’art. 79, D.Lgs. n. 163 del 2006, non era idonea a porre il concorrente a conoscenza dei documenti e delle circostanze di fatto rilevanti ai fini della decisione sulla proposizione del ricorso, dal momento che soltanto con la presa visione dell’offerta economica dell’aggiudicatario è stato possibile verificare i vizi oggetto dell’impugnativa. Il TAR non condivide la tesi della sufficienza in ogni caso dell’informativa di cui all’art. 79, D.Lgs. n. 163 del 2006, essendo a suo avviso indefettibile la necessità dell’accesso postumo alla documentazione di gara al fine della percezione della concreta lesività del procedimento di aggiudicazione. E ciò tanto più ove si consideri che, nella materia degli appalti, la prassi dei ricorsi cd. “al buio”, con conseguente proposizione di motivi aggiunti, espone il ricorrente al rischio di coltivare un’azione manifestamente infondata, con il rischio di subire una condanna per lite temeraria ai sensi dell’art. 26, comma 2, c.p.a., recentemente resa ancor più rigorosa per effetto del D.L. 24 giugno 2014, n. 90 il cui art. 41, con norma ad hoc per il rito appalti, prevede il possibile aumento dell’importo della sanzione pecuniaria sino all’uno per cento del valore del contratto, ove superiore al limite di cui al comma 1. Ciò premesso, il Tribunale ritiene però che è onere del concorrente, secondo un criterio di media diligenza professionale, richiedere senza indugio l’ostensione informale nel termine di dieci giorni di cui all’art. 79, comma 5-quater, D.Lgs. n. 163 del 2006, con l’obbligo dell’Amministrazione di soddisfazione immediata e conseguente decorrenza del termine a partire dal decimo giorno dalla predetta comunicazione qualora il concorrente ometta di esercitare il predetto diritto. Tale orientamento pare coniugare la finalità di celerità del contenzioso perseguito dalla stessa direttiva ricorsi con l’effettività della tutela giurisdizionale. Diversamente opinando, e cioè richiedendo comunque per la piena conoscenza l’effettiva ostensione degli atti di gara mediante accesso formale (artt. 13, D.Lgs. n. 163 del 2006 e 23 ss., L. 7 agosto 1990, n. 241), si dilaterebbe eccessivamente il termine breve di impugnativa e le esigenze di accelerazione insite nel rito appalti, potendo l’interessato, a proprio piacimento, inoltrare istanza di accesso agli atti e avendo l’Amministrazione ulteriori trenta giorni dal ricevimento dell’istanza per definire il procedimento ostensivo. 1247 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Osservatorio in sintesi Giurisprudenza MANCATA DIMOSTRAZIONE DEL POSSESSO DI SPECIFICA AUTORIZZAZIONE PER PARTECIPARE ALLA GARA T.A.R. Toscana, sez. II, 1° settembre 2014, n. 1409 Pres. Buonvino - Est. Massari Qualora, per partecipare ad una gara pubblica, il concorrente deve essere in possesso di specifica autorizzazione, come nel caso di appalto di servizio di trasporto di persone, è legittimamente escluso dalla procedura il concorrente che non ha provato di avere tale autorizzazione. La partecipante ad una gara pubblica impugna l’esito della procedura indetta per l'affidamento del servizio di trasporto scolastico, contestando i titoli di partecipazione dell’aggiudicataria ed affermando che la commissione di gara avrebbe dovuto disporne l’esclusione. L’aggiudicataria propone ricorso incidentale sostenendo, a sua volta, che la ricorrente principale, che ha partecipato alla gara in veste di consorzio stabile, avrebbe dovuto essere esclusa dalla gara, non essendo in possesso di un requisito essenziale richiesto dalla legge di gara, in violazione dell’art. 39, D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163. L’adito TAR Toscana, principiando dall’esame del ricorso incidentale, lo accoglie. Il comma 4 del citato art. 39 stabilisce che “nelle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di servizi, se i candidati o gli offerenti devono essere in possesso di una particolare autorizzazione … la stazione appaltante può chiedere loro di provare il possesso di tale autorizzazione”. Nel caso di specie l’esercizio dell’attività di trasporto di persone è subordinato al possesso di un titolo autorizzativo rilasciato dal Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, ovvero dell’iscrizione al Registro elettronico nazionale (REN), di cui all’art. 1 del Regolamento UE n. 1071/2009 per l’accesso alla professione di trasportatore su strada e l’esercizio della stessa. La ricorrente principale, pur avendo dichiarato di “essere in regola con tutte le autorizzazioni amministrative richieste dalla vigente normativa di settore per l’effettuazione del servizio in oggetto”, non ha prodotto la documentazione 1248 relativa all’iscrizione nel suddetto registro, documentazione che non è stata richiesta neanche dalla stazione appaltante. Non varrebbe opporre che il requisito in parola sarebbe in realtà posseduto dalla società consorziata per la quale il Consorzio avrebbe dichiarato di voler partecipare e che, in caso di aggiudicazione, sarebbe la materiale esecutrice del servizio. Ed invero, nel caso in cui l’impresa concorrente ha natura di consorzio stabile questo si pone direttamente in veste di parte contrattuale, con relativa assunzione in proprio di tutti gli obblighi e le responsabilità (Cons. Stato, sez. VI, 24 dicembre 2009, n. 8720). Segue da ciò che i requisiti di partecipazione devono essere posseduti e verificati solo in capo al consorzio stabile che partecipa alla gara, e non anche in capo all'impresa consorziata indicata come esecutrice (Cons. Stato, sez. V, 27 aprile 2011, n. 2454; T.A.R. Liguria, sez. II, 21 febbraio 2013, n. 351), tanto più che, ricadendo la prestazione contrattuale direttamente sul consorzio, esso potrà anche provvedervi direttamente, senza essere vincolato alla originaria designazione (Cons. Stato, sez. V, 29 novembre 2004, n. 7765). Accolto il ricorso incidentale, il Tribunale passa all’esame del ricorso principale, il quale non è divenuto improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse in considerazione dell’esito del gravame principale atteso che entrambi i ricorsi, proposti dalle due uniche imprese rimaste in gara, fanno valere la medesima causa escludente (Cons. Stato, Ad. Plen., 25 febbraio 2014, n. 9; Corte giust. UE, sez. X, 4 luglio 2013, C100/12). Il TAR ritiene fondato anche il ricorso principale perché l’avvalimento, cui ha fatto ricorso l’aggiudicataria per sopperire alla carenza della certificazione di qualità, non possiede i requisiti stabiliti dalla legge. È ben vero, infatti, che la certificazione di qualità rientra tra i requisiti soggettivi di carattere tecnico-organizzativo che, in astratto, possono essere oggetto di avvalimento, afferendo essa alla capacità tecnica dell'imprenditore. È però necessario, al fine di riconoscerne la validità, che l’impresa ausiliaria metta a disposizione dell’altra il complesso aziendale cui la certificazione stessa è riferita, il che nella specie non è avvenuto. Urbanistica e appalti 11/2014 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Osservatorio in sintesi Giurisprudenza Osservatorio penale a cura di ALESSIO SCARCELLA EDILIZIA E URBANISTICA INSUFFICIENTE IL MERO SBANCAMENTO DELL’AREA PER IMPEDIRE LA DECADENZA ANNUALE DEL TITOLO ABILITATIVO Cassazione penale, sez. III, 4 settembre 2014, n. 36856 Il mero sbancamento non integra l'inizio dei lavori, che deve avvenire entro il termine annuale dal rilascio del permesso di costruire a pena di decadenza del titolo abilitativo D.P.R. n. 380 del 2001, ex art. 15, dovendosi invece aggiungere a tale attività una compiuta organizzazione del cantiere e altri indizi idonei a confermare l'effettiva intenzione del titolare del permesso di costruire l'opera assentita. Interessante la decisione della S.C. che contribuisce a delineare con sufficiente certezza il minimum richiesto dalla legge al fine di impedire la decadenza del titolo edilizio. La vicenda processuale segue al rigetto da parte della Corte d'appello dell’impugnazione proposta dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale avverso sentenza con cui il Tribunale aveva assolto gli imputati dal reato di cui all'art. 110 c.p. e al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma 1, lett. b), per avere realizzato, nelle rispettive qualità, opere edilizie abusive sulla base di atti di assenso illegittimi. Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione il P.G., in particolare sostenendo, per quanto qui di interesse, la violazione del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 15 non essendo identificabile l'inizio dei lavori nel mero sbancamento e non essendo stato comunicato l'inizio dei lavori stessi all'ente competente. DIVERSITÀ DEI TITOLI ABILITATIVI RICHIESTI PER LE “VARIANTI IN SENSO PROPRIO” E PER QUELLE “VARIANTI ESSENZIALI” Cassazione penale, sez. III, 1° agosto 2014, n. 34100 In tema di reati edilizi, mentre le “varianti in senso proprio”, ovvero le modificazioni qualitative o quantitative di non rilevante consistenza rispetto al progetto approvato, tali da non comportare un sostanziale e radicale mutamento del nuovo elaborato rispetto a quello oggetto di approvazione, sono soggette al rilascio di permesso in variante, complementario ed accessorio, anche sotto il profilo temporale della normativa operante, rispetto all'originario permesso a costruire, le “varianti essenziali”, ovvero quelle caratterizzate da incompatibilità quali-quantitativa con il progetto edificatorio originario rispetto ai parametri indicati dall'art. 32 del D.P.R. n. 380 del 2001, sono soggette al rilascio di permesso a costruire del tutto nuovo ed autonomo rispetto a quello originario e per il quale valgono le disposizioni vigenti al momento di realizzazione della variante. Urbanistica e appalti 11/2014 Il tema affrontato dalla Corte di Cassazione con la sentenza in esame attiene all’esatta delimitazione dei titoli abilitativi necessari per le varianti cc.dd. essenziali rispetto alle varianti in senso proprio. La vicenda processuale trae origine dal provvedimento con cui il Tribunale ha rigettato l'istanza di riesame proposta dalla proprietaria di un immobile avverso il Decreto con il quale il Giudice per le indagini preliminari, sulla ritenuta sussistenza dei reati di lottizzazione abusiva di terreni ed altri reati urbanistici ed edilizi inerenti la costruzione, in zona sottoposta a vincolo paesaggistico ed in variazione essenziale e totale difformità dai titoli edilizi rilasciati, di 8 villette unifamiliari, aveva disposto il sequestro preventivo delle aree, dei terreni, delle opere e dei fabbricati meglio in detto decreto individuati. Contro l’ordinanza in questione, proponeva ricorso l’interessata, in particolare sostenendo l’insussistenza della illegittima trasformazione urbanistica e la mancata urbanizzazione dell'area. La Cassazione, sul punto, ha respinto il ricorso e, nell’affermare il principio di cui in massima, ha richiamato un orientamento giurisprudenziale in precedenza già sostenuto dalla stessa Cassazione, rafforzandone la valenza argomentativa (in precedenza, in senso conforme: Cass. pen., sez. III, 24 giugno 2010, n. 24236, in CED Cass., n. 247686). REATI EDILIZI INSUFFICIENTE MOTIVARE SOLO SULLA SUSSISTENZA DEL REATO EDILIZIO QUANDO IL SEQUESTRO PREVENTIVO RIGUARDA ANCHE L’ABUSO DI UFFICIO Cassazione penale, sez. III, 5 settembre 2014, n. 37194 Non esime il giudice del riesame dal dovere giuridico imposto dalla legge processuale - di pronunciarsi sulle deduzioni difensive (nella specie, specificamente afferenti l'esistenza del fumus del reato di abuso d’ufficio per cui era stato disposto il sequestro preventivo), il mero richiamo alla complessità ed alla sicura superfluità di dover affrontare detta questione per essere "comunque" ravvisabile il reato edilizio che legittima il mantenimento del vincolo cautelare. La questione giuridica oggetto di esame da parte della Suprema Corte verte, in particolare, sulla individuazione dell’esatto dovere motivazionale che la legge impone al Tribunale del riesame nel caso in cui, unitamente al reato edilizio, sia contestato anche il reato di abuso d’ufficio a carico degli amministratori locali. La vicenda processuale trae origine dall’ordinanza con cui il Tribunale del riesame, ha respinto le istanze proposte dagli indagati, confermando il decreto di sequestro preventivo disposto dal GIP del tribunale avente ad oggetto l'area denominata ex Consorzio Agrario. Il decreto era stato emesso in quanto gli stessi risultavano indagati per i reati di cui all'art. 323 c.p. e D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. a), in particolare per avere il primo rilasciato, quale dirigente del dipartimento del territorio del Comune, in violazione di norme di legge, alla ditta 1249 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Osservatorio in sintesi Giurisprudenza proprietaria dell'area in oggetto, un'autorizzazione per la demolizione e ricostruzione dell'edificio ex Consorzio, con realizzazione di medie strutture di vendita in luogo di quelle residenziali previste dal PRG e, ad entrambi, l'abuso edilizio conseguente all'autorizzazione illegittima; le principali violazioni di legge ascritte al primo sono consistite nell'aver dato parere favorevole alla delibera di revoca del piano di recupero dell'area che era stato approvato con precedente delibera e nell'aver concesso l'autorizzazione unica con cui consentiva ai sensi della legge regionale applicabile (piano casa) la demolizione e ricostruzione dell'edificio dell'ex Consorzio agrario, con realizzazione di due medie strutture di vendita non previste dal PRG che destinava l'area a zona B2-1 (uso residenziale). Contro l’ordinanza i due indagati presentavano ricorso per cassazione, in particolare dolendosi - per quanto qui di interesse - del fatto che il Tribunale avrebbe motivato ritenendo assorbita la questione relativa alla configurabilità del reato di abuso d'ufficio (che, si legge in motivazione, “sarebbe assai complesso e comunque superfluo affrontare in questa sede”), in quanto la sola abusività dell'intervento in corso di realizzazione avrebbe giustificato pienamente il vincolo imposto; diversamente, sostenevano gli indagati, il Tribunale avrebbe dovuto delibare la ricorrenza anche del reato in questione, sia sotto il profilo oggettivo che soggettivo; l'intimo legame intercorrente tra il reato di abuso d'ufficio e la violazione urbanistica avrebbe, invece, imposto al giudice del riesame di soffermarsi sul fumus di tale delitto, laddove, si osserva, la ricorrenza del reato urbanistico è stata ritenuta solo perché dipendente e ricollegato all'ipotesi delittuosa. La tesi è stata ritenuta fondata dalla Cassazione che, sul punto, nell’affermare il principio di cui in massima, ha precisato che se la motivazione offerta può essere in astratto sufficiente a soddisfare quel minimo requisito motivazionale richiesto con riferimento alla sussistenza del fumus e del periculum in mora quanto al reato urbanistico, non può sicuramente ritenersi adeguato per giustificare il mantenimento del vincolo cautelare in assenza di qualsiasi motivazione sul delitto di abuso d'ufficio. Non deve, infatti, dimenticarsi che non potrebbe ritenersi legittimamente disposto il sequestro preventivo di un bene individuato come corpo del reato di abuso di ufficio qualora siano stati contestati ai pubblici amministratori comportamenti realizzanti inosservanza di norme disciplinanti la loro attività nell'emissione dei provvedimenti adottati, senza peraltro indicare alcun dato significativo di una condotta dei medesimi diretta a favore o a danno di taluno. Invero, posto che tale finalità costituisce elemento essenziale del reato di abuso, l'omissione suddetta comporta la non configurabilità, neppure in astratto, del reato stesso, presupposto essenziale del sequestro a cui ricollegare i beni oggetto di quest'ultimo (Cass. pen., sez. VI, 31 agosto 1995, n. 2578, in CED Cass., n. 202580). PER LA SOSPENSIONE DELL’ORDINE DI DEMOLIZIONE NECESSARIO ACCERTARE L’INESISTENZA DI CAUSE DI INCONDONABILITÀ ASSOLUTA DELL’OPERA Cassazione penale, sez. III, 5 settembre 2014, n. 37188 In sede di esecuzione dell'ordine di demolizione del manufatto abusivo, il giudice, al fine di pronunciarsi sulla sospensione dell'esecuzione per avvenuta presentazione di domanda di condono edilizio, deve accertare, tra l'altro, l'esistenza della imprescindibile condizione circa l'insussistenza di cause di non condonabilità assoluta 1250 dell'opera, pervenendo così al rigetto dell'istanza per essere l'abuso di assoluta consistenza riguardando un'opera realizzata in zona vincolata. Il tema oggetto di attenzione da parte della Suprema Corte con la sentenza in esame è quello, assai frequente nella pratica giudiziaria, dell’individuazione delle condizioni in presenza delle quali il giudice dell’esecuzione può disporre la sospensione (e/o la revoca) dell’ordine di demolizione di un manufatto abusivo, ordine disposto in sede di condanna divenuta irrevocabile. La vicenda processuale trae origine dall’ordinanza con cui il Tribunale, in funzione di giudice dell'esecuzione, ha rigettato l'istanza con la quale il condannato aveva chiesto la sospensione dell'ordine di demolizione di un manufatto, sospensione richiesta fino alla definizione del procedimento relativo alla domanda di condono edilizio di cui al D.L. 30 settembre 2003, n. 269, convertito nella L. 24 novembre 2003, n. 326. Ricorrendo in Cassazione, questi sosteneva che il Tribunale avrebbe violato il predetto D.L. n. 269 del 2003, art. 32, conv. in L. n. 326 del 2003, ovvero la disciplina del cd. terzo condono edilizio ivi contenuta e le successive disposizioni, anche con riferimento alla pronuncia della Corte costituzionale n. 196 del 2004. La Cassazione ha, però, dichiarato inammissibile il ricorso. In particolare, nell’affermare il principio di cui in massima, ha rilevato come non può essere disposta in sede di esecuzione la sospensione dell'ordine di demolizione impartito dal giudice con la sentenza di condanna in attesa della definizione della procedura relativa al rilascio della concessione in sanatoria (cd. condono edilizio) qualora l'opera non rientri tra quelle condonabili (Cass. pen., sez. III, 16 novembre 2004, n. 49399, in CED Cass., n. 230798), costituendo ciò la puntuale applicazione del disposto di cui al L. 24 novembre 2003, n. 326, art. 32, comma 27, lett. d), di conversione con modificazioni del D.L. n. 269 del 2003, secondo il quale non sono comunque suscettibili di sanatoria le opere che "siano state realizzate su immobili soggetti a vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela degli interessi idrogeologici e delle falde acquifere, dei beni ambientali e paesistici, nonché dei parchi e delle aree protette nazionali, regionali e provinciali qualora istituiti prima della esecuzione di dette opere, in assenza o in difformità del titolo abilitativo edilizio e non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici". Nella vicenda in esame, infatti, non si verte in ipotesi di illeciti cd. minori (restauro e risanamento conservativo) ma si verte in ipotesi di opere abusive non suscettibili di sanatoria, ai sensi del D.L. n. 269 del 2003, art. 32, comma 27, lett. d), poiché si tratta di nuove costruzioni realizzate, in assenza del titolo abilitativo edilizio, in zona vincolata, opera non costituente pertinenza dell'abitazione principale dell'istante, trattandosi di un manufatto per una cubatura complessiva di mc 478 ed utilizzato come abitazione. ESISTE CONTRASTO IN GIURISPRUDENZA SULL'ATTITUDINE DELLA RELAZIONE ASSEVERATA AD ESSERE INQUADRATA NELLA CATEGORIA DEI CERTIFICATI Cassazione penale, sez. III, 5 settembre 2014, n. 37174 È ravvisabile un contrasto nella giurisprudenza di legittimità In ordine alla configurabilità del reato di falsità ideologica in certificati (art. 481 c.p.) in caso di falsificazione della relazione di accompagnamento alla DIA, non essendone pacifica la natura di certificato in ordine Urbanistica e appalti 11/2014 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Osservatorio in sintesi Giurisprudenza alla descrizione dello stato attuale dei luoghi, alla ricognizione degli eventuali vincoli esistenti sull'area o sull'immobile interessati dall'intervento, alla rappresentazione delle opere che si intende realizzare e all'attestazione della loro conformità agli strumenti urbanistici ed al regolamento edilizio. La Corte di Cassazione torna ad occuparsi, nella sentenza qui esaminata, della configurabilità del reato di falso ideologico nei confronti del professionista che provveda a redigere una falsa relazione di accompagnamento delle denuncia di inizio attività in materia edilizia. La vicenda processuale che ha fornito l’occasione alla Corte per occuparsi della questione segue alla sentenza con cui la Corte di appello ha parzialmente riformato quella emessa dal Tribunale nei confronti di due imputati, condannati, per quanto qui interessa, per i reati di esecuzione di opere edili in zona sottoposta al vincolo paesaggistico-ambientale in assenza di permesso di costruire limitatamente alla costruzione di un fabbricato denominato "B" (D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, art. 44, lett. e) e per falsità ideologica (art. 481 c.p.) in certificati commessa da persone esercenti un servizio di pubblica necessità (per entrambi i reati il primo, quale tecnico asseverante, progettista e direttore dei lavori ed, il secondo, quale proprietario dell'area). Si rimproverava in particolare agli imputati di aver eseguito i lavori sulla base di una DIA alla quale erano allegate planimetrie ed altra documentazione attestanti una situazione di fatto diversa da quella reale dando per esistente, contrariamente al vero, un vecchio fabbricato cd. "B" laddove esisteva solo una piccola costruzione, tipo baracca, abusivamente eseguita e traslata su un mappale diverso in quanto il fabbricato "B" fu demolito per consentire in loco la costruzione di un tratto autostradale. Contro la sentenza di condanna presentavano ricorso per cassazione ambedue gli imputati, in particolare censurando la sentenza per vizio di violazione di legge e motivazionali. La Cassazione ha accolto il ricorso degli interessati non ritenendolo manifestamente infondato, in particolare osservando come la doglianza, con la quale si prospettava l'inconfigurabilità del reato previsto dall'art. 481 c.p., per l'assenza di sottoscrizione comportante l'inesistenza della relazione asseverata, l'inesistenza della stessa DIA e dunque l'insussistenza del falso, non poteva ritenersi manifestamente infondata in presenza di una contrastante giurisprudenza di legittimità circa l'attitudine della relazione asseverata ad essere inquadrata nella categoria dei certificati (per l'affermativa: Cass. pen., sez. III, 17aprile 2012, n. 35795, in CED Cass., n. 253666; per la negativa: Cass. pen., sez. V, 26 aprile 2005, n. 23668, in CED Cass., n. 231906). SI CONSIDERANO SEMPRE IN TOTALE DIFFORMITÀ DAL P.D.C. GLI INTERVENTI RICADENTI IN ZONA PAESAGGISTICAMENTE VINCOLATA Cassazione penale, sez. III, 5 settembre 2014, n. 37169 In tema di reati edilizi, si considerano in ogni caso eseguiti in totale difformità dal permesso di costruire gli interventi che ricadono in zona paesaggisticamente vincolata, tanto perché, in presenza di interventi edilizi in siffatte zone, è indifferente, ai fini della loro qualificazione giuridica e dell'individuazione della sanzione penale applicabile, la distinzione tra interventi eseguiti in difformità totale o parziale ovvero in variazione essenziale, in quanto il D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, art. 32, Urbanistica e appalti 11/2014 comma 3, prevede espressamente che tutti gli interventi realizzati in zona sottoposta a vincolo paesaggistico eseguiti in difformità dal titolo abilitativo, inclusi quelli eseguiti in parziale difformità, si considerano come variazioni essenziali e, quindi, quali difformità totali. La questione giuridica oggetto di esame da parte della Suprema Corte verte, in particolare, sulla legittimità o meno dell’esecuzione, in base a titolo abilitativo diverso dal permesso di costruire, degli interventi edilizi eseguiti in zona vincolata paesaggisticamente. La vicenda processuale trae origine dalla sentenza con cui la Corte di appello di Lecce ha confermato la pronuncia resa dal Tribunale che aveva condannato per il reato di cui al D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, art. 44, lett. c) il titolare di una s.r.l. esercente attività edilizia, per avere dato corso a lavori di edificazione delle seguenti opere: realizzazione di una scala in c.a. sul lato ovest con annessa rampa; realizzazione di una rampa scale che conduce al lastrico solare; realizzazione sul terrazzino, posto al lato Ovest, di strutture architettoniche a vela; realizzazione nell'area di pertinenza posta a Nord dell'immobile di n. 4 pilastri in c.a.; ampliamento di circa mq. 4 del vano identificato in progetto come “servizi”; fusione di locali commerciali al piano terra, da tre unità previste in progetto a due unità. Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione l’imputato sostenendo che la Corte avrebbe erroneamente interpretato il D.P.R. n. 380 del 2001, artt. 31 e segg., ritenendo gli abusi come commessi in variazione essenziale ed in totale difformità dal permesso di costruire laddove, trattandosi invece di parziali difformità, il fatto andava sussunto nell'ambito della fattispecie prevista del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. a) e non avendo, in ogni caso, la Corte d'appello tenuto in considerazione la novella di cui al D.L. n. 69 del 2013 che, con l'art. 30, ha modificato l'art. 3, comma 1, lett. d) T.U.E prevedendo la soppressione delle parole “e sagoma” così da rendere irrilevanti le “modifiche interne e di prospetto” sulla cui base sarebbe stata fondata la sentenza di condanna emessa a carico del ricorrente. La Cassazione, nel respingere il ricorso, ha però affermato il principio di cui in massima, così richiamando una giurisprudenza consolidata, peraltro confermata anche dopo l’entrata in vigore del cd. “decreto del fare”, su cui la difesa aveva insistito, avendo infatti puntualizzato la giurisprudenza che l'art. 30 del D.L. n. 69 del 2013 (conv. in L. n. 98 del 2013), se consente di qualificare come “ristrutturazione edilizia”, l'intervento di ripristino o di ricostruzione di edifici o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, anche in caso di modifica della sagoma degli stessi, richiede, però, che sia accertata la preesistente consistenza dell'immobile in base a riscontri documentali o altri elementi certi e verificabili (Cass. pen., sez. III, 7 febbraio 2014, n. 5912, in CED Cass., n. 258597). INAPPLICABILE L’ATTENUANTE DELLA RIPARAZIONE DEL DANNO SE L’ABBATTIMENTO VOLONTARIO È SUCCESSIVO ALL’ORDINANZA SINDACALE Cassazione penale, sez. III, 5 settembre 2014, n. 37168 La circostanza attenuante della avvenuta riparazione del danno non è applicabile ai reati edilizi quando l'abbattimento volontario dell'opera abusiva sia avvenuto in epoca posteriore all'emanazione dell'ordinanza sindacale che impone la demolizione delle opere, la cui 1251 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Osservatorio in sintesi Giurisprudenza inottemperanza avrebbe determinato l'acquisizione del sito al patrimonio comunale. La sentenza in esame si occupa di un questione invero non molto approfondita nella giurisprudenza di legittimità, in particolare afferente alla possibilità di riconoscere la circostanza attenuante della riparazione del danno in caso di volontaria demolizione dell’abuso edilizio. La vicenda processuale vedeva imputato il proprietario di un immobile del reato di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b), cui era stato contestato di aver realizzato, in assenza del permesso di costruire, un muro con sovrastante basamento delle dimensioni di m. l. 9,40x5,40 circa, sul quale era stato eretto un fabbricato, costituito da blocchetti in cemento e coperture in legno e tegole, aventi dimensioni planimetriche pari a m. l. 9,40 x5,40 ed altezze variabili dai m. l. 2,70 ai m. l. 3,70 all'interno del quale erano stati ricavati tre distinti ambienti mediante tramezzatura ed una tettoia. Contro la sentenza di condanna proponeva ricorso per Cassazione l’interessato, in particolare dolendosi della mancata concessione dell'attenuante prevista dall'art. 62 c.p., n. 6, nonostante l'avvenuta e spontanea demolizione del manufatto. La Cassazione ha però respinto il ricorso dell’imputato e, nell’affermare il principio di cui in massima, ha così inteso richiamarsi ad un principio giurisprudenziale di recente affermato dalla giurisprudenza della Cassazione (v., in termini: Cass. pen., sez. III, 13 luglio 2011, n. 29991, in CED Cass., n. 251025). IL REATO DI OCCUPAZIONE ARBITRARIA DI SPAZIO DEMANIALE È UN REATO A STRUTTURA TIPICAMENTE DOLOSA Cassazione penale, sez. III, 5 settembre 2014, n. 37165 Il reato di occupazione arbitraria di spazio demaniale è un reato a struttura tipicamente dolosa, che rientra nelle ipotesi di cd. illiceità speciale in quanto nella descrizione della condotta tipica della contravvenzione è stato inserito l'avverbio arbitrariamente, con la conseguenza che per l'integrazione del modello legale è necessaria la precisa consapevolezza di agire in violazione degli elementi normativi del reato. La sentenza in esame si occupa di un tema particolare nel campo della disciplina edilizia, in particolare riguardante la natura giuridica del reato di occupazione arbitraria di spazio demaniale, contemplato dall’art. 1161 c.n. La vicenda 1252 processuale segue alla condanna emessa nei confronti di due donne, ritenute responsabili del reato previsto dagli artt. 54 e 1161 c.n., cui si era accompagnata nel contempo l’assoluzione, perché il fatto non costituisce reato, dal concorrente delitto di occupazione abusiva di suolo pubblico (artt. 633 e 639-bis c.p.); alle stesse era stato contestato di avere, in concorso tra loro, attraverso la realizzazione di un muro di contenimento in pietra alto metri 2,50 circa, con sovrastante giardino e di due balconi ognuno delle dimensioni di circa mq.2,00 invaso arbitrariamente circa mq. 110 di suolo demaniale al fine di occuparlo e/o di trarne altrimenti profitto. Nel pervenire a tale conclusione il Tribunale osservava come le imputate, pur in presenza di fondati dubbi circa i confini delimitanti la loro proprietà con quella demaniale, avessero comunque invaso il suolo pubblico con la conseguenza che, se in base alla maturata incertezza poteva essere escluso il dolo con esonero di responsabilità dal contestato delitto, residuava comunque un rimprovero a titolo di colpa, circostanza che rendeva configurabile a loro carico la contestata fattispecie contravvenzionale. Contro la sentenza di condanna le stesse proponevano ricorso per cassazione, in particolare sostenendo l’assoluta mancanza di motivazione in ordine alla sussistenza dell'elemento psicologico. La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha ritenuto fondato il motivo di ricorso, in particolare osservando come la sentenza avesse radicato il rimprovero sulla mera colpa (v., sulla nozione di arbitrarietà: Cass. pen., sez. III, 26 luglio 2011, n. 29915, in CED Cass., n. 250666), alla luce della natura di norma a più fattispecie dell'art. 1161 c.n., tra loro distinte e costituite da elementi materiali differenti in rapporto alla condotta ed all'evento, le quali possono integrare diversi titoli di reato previsti dalla medesima disposizione penale (occupazione arbitraria di spazio demaniale; esecuzione di innovazioni non autorizzate; inosservanza dei vincoli cui è assoggettata la proprietà privata nelle zone prossime al demanio). La Cassazione ha, sul punto, accolto il ricorso del Procuratore e, nell’affermare il principio di cui in massima, ha ricordato che quegli “altri indizi”, idonei a confermare l'effettiva intenzione del titolare del permesso di costruire l'opera assentita, devono consistere proprio “nell'impianto del cantiere, nell'innalzamento di elementi portanti, nell'elevazione di muri e nell'esecuzione di scavi coordinati al gettito delle fondazioni del costruendo edificio” (v., in senso conforme: Cass. pen., sez. III, 23 febbraio 2010, n. 7114, in CED Cass., n. 246220). Urbanistica e appalti 11/2014 AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Urbanistica e appalti Indici INDICE DEGLI AUTORI Giurisprudenza Corte UE Canzonieri Enrico 10 luglio 2014, sez. X, C-358/12 ........................ Dopo la stipula del contratto di appalto la p.a. puo` esercitare solo il recesso ................................. Corte costituzionale 1199 de Gioia Valerio La demolizione delle opere tra esecuzione del giudicato e sanatoria ............................................ De Nictolis Rosanna Il rito degli appalti pubblici dopo il D.L. 90/2014 ...... 1157 Di Sciascio Alessandro La compatibilita` comunitaria della proroga ex lege delle convenzioni Consip ................................. 1226 Ferrari Giulia Osservatorio amministrativo ............................. 1245 Foa` Sergio Semplificazione degli oneri formali nelle procedure di affidamento di contratti pubblici ...................... 17 giugno 2014, sez. V, n. 3056 ........................ 20 giugno 2014, Ad. Plen., n. 14 ........................ 28 agosto 2014, Ad. Plen., n. 27 ........................ 15 settembre 2014, sez. III, n. 4701 ................... 1147 Consiglio di giustizia amministrativa Regione Sicilia 1246 Tribunali amministrativi regionali 5 aprile 2013, Pescara, n. 197 ........................... 9 maggio 2014, Milano, sez. I, n. 1217 ................ 8 luglio 2014, Torino, sez. II, n. 1171 .................. 18 settembre 2014, Toscana, sez. II, n. 1409 ......... 9 settembre 2014, Umbria, n. 448 ..................... 1129 19 settembre 2014, Sardegna, sez. I, n. 725 ......... 3 luglio 2014, sez. I, n. 15260 ........................... Dopo la stipula del contratto di appalto la p.a. puo` esercitare solo il recesso ................................. 28 luglio 2014, sez. III, n. 17085 ........................ Micalizzi Raffaele Il servizio di teleriscaldamento: questioni definitorie e tutela della concorrenza ................................ Mucio Carmen Indicazione degli oneri per la sicurezza negli appalti di lavori ...................................................... 1210 1189 Patrito Paolo La disciplina italiana sulla regolarita` contributiva e` compatibile con il diritto UE .............................. 1172 Corte di Cassazione penale 18 agosto 2014, sez. III, n. 34100 ....................... 4 settembre 2014, sez. III, n. 36856 ................... 5 settembre 2014, sez. III, n. 37168 ................... 5 settembre 2014, sez. III, n. 37169 ................... 5 settembre 2014, sez. III, n. 37188 ................... 5 settembre 2014, sez. III, n. 37194 ................... 1249 1249 1252 1251 1251 1250 1250 1249 INDICE ANALITICO 1245 Vapino Alessandra La Cassazione conferma la responsabilita` precontrattuale della p.a. nella fase precedente l’aggiudicazione ......................................................... 1181 1191 1190 1194 1192 1189 1192 1189 1140 Tarantino Luigi Osservatorio amministrativo ............................. 8 settembre 2014, sez. I, n. 18880 ..................... 5 settembre 2014, sez. III, n. 37174 ................... 1249 Senatore Antonio Incarichi legali ed evidenza pubblica .................... 27 agosto 2014, sez. III, n. 18316 ...................... 5 settembre 2014, sez. III, n. 37165 ................... Scarcella Alessio Osservatorio penale ....................................... 13 agosto 2014, sez. I, n. 17906 ........................ 27 agosto 2014, sez. III, n. 18339 ...................... Pagani Ignazio Osservatorio civile ......................................... 7 agosto 2014, sez. I, n. 17783 ......................... 8 agosto 2014, sez. I, n. 17809 ......................... 1238 1225 1234 1225 1218 1248 1247 1246 Corte di Cassazione civile Longo Antonino 1199 1225 1208 1195 1245 1245 12 settembre 2014, n. 534 .............................. 5 giugno 2014, L’Aquila, sez. I, n. 515 ................. Franco Italo L’attivita` contrattuale della pubblica Amministrazione ............................................................ Consiglio di Stato 27 marzo 2014, sez. III, n. 1486 ........................ 1221 1170 Appalti e lavori pubblici Aggiudicazione 1182 T.A.R. Umbria, 9 settembre 2014, n. 448 (Oss. amm.) ....................................................... 1247 Arricchimento indebito Cass. civ., sez. I, 7 agosto 2014, n. 17785 (Oss. civ.) .......................................................... INDICE CRONOLOGICO 1191 Collaudo Legislazione 24 giugno 2014, D.L. n. 90 ............................... Urbanistica e appalti 11/2014 1147 Cass. civ., sez. I, 7 agosto 2014, n. 17783 (Oss. civ.) .......................................................... 1190 1253 Urbanistica e appaltiAVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Indici Contabilita` dei lavori Cass. civ., sez. III, 27 agosto 2014, n. 18316 (Oss. civ.) 1189 Cass. civ., sez. III, 27 agosto 2014, n. 18339 (Oss. civ.) .......................................................... Convenzioni Consip Responsabilita` della p.a. La compatibilita` comunitaria della proroga ex lege delle convenzioni Consip (T.A.R. L’Aquila, sez. I, 5 giugno 2014, n. 515; Cons. Stato, sez. III, 27 marzo 2014, n. 1486; T.A.R. Pescara, 5 aprile 2013, n. 197) il commento di A. Di Sciascio ........................... La Cassazione conferma la responsabilita` precontrattuale della p.a. nella fase precedente l’aggiudicazione (Cass., sez. I, 3 luglio 2014, n. 15260) il commento di A. Vapino ........................................ 1225 Titoli abilitativi Il rito degli appalti pubblici dopo il D.L. 90/2014 (D.L. 24 giugno 2014, n. 90, convertito, con modificazioni, in L. 11 agosto 2014, n. 114) il commento di R. De Nictolis ...................................................... La demolizione delle opere tra esecuzione del giudicato e sanatoria (T.A.R. Torino, sez. II, 8 luglio 2014, n. 1171) il commento di V. de Gioia .................... Cass. pen., sez. III, 4 settembre 2014, n. 36856 (Oss. pen.) .................................................. Semplificazione degli oneri formali nelle procedure di affidamento di contratti pubblici (D.L. 24 giugno 2014, n. 90, convertito, con modificazioni, in L. 11 agosto 2014, n. 114) il commento di S. Foa` .......... 1170 1189 Gara T.A.R. Toscana, sez. II, 18 settembre 2014, n. 1409 (Oss. amm.) ................................................ 1248 T.A.R. Sardegna, sez. I, 19 settembre 2014, n. 725 (Oss. amm.) ................................................ 1246 1245 C.G.A. Sicilia, 12 settembre 2014, n. 534 (Oss. amm.) ........................................................ 1246 Raggruppamento temporaneo di imprese 1245 Cass. civ., sez. I, 13 agosto 2014, n. 17906 (Oss. civ.) .......................................................... 1192 Risarcimento danni Cass. civ., sez. I, 8 agosto 2014, n. 17809 (Oss. civ.) .......................................................... 1194 Reati edilizi Cass. pen., sez. III, 5 settembre 2014, n. 37194 (Oss. pen.) .................................................. Cass. pen., sez. III, 5 settembre 2014, n. 37168 (Oss. pen.) .................................................. 1249 1251 Demolizione del manufatto abusivo 1250 Falsita` ideologica Cass. pen., sez. III, 5 settembre 2014, n. 37174 (Oss. pen.) .................................................. 1250 Occupazione di spazio demaniale 1195 Servizi pubblici Incarichi legali ed evidenza pubblica di A. Senatore . Occupazione appropriativa Cass. pen., sez. III, 5 settembre 2014, n. 37188 (Oss. pen.) .................................................. Recesso Il servizio di teleriscaldamento: questioni definitorie e tutela della concorrenza (T.A.R. Milano, sez. I, 9 maggio 2014, n. 1217) il commento di R. Micalizzi .. 1249 Attenuanti Cons. Stato, sez. III, 15 settembre 2014, n. 4701 (Oss. amm.) ................................................ Dopo la stipula del contratto di appalto la p.a. puo` esercitare solo il recesso (Cons. Stato, Ad. Plen., 20 giugno 2014, n. 14) il commento di A. Longo e E. Canzonieri ................................................... Cass. pen., sez. III, 18 agosto 2014, n. 34100 (Oss. pen.) ......................................................... Abuso d’ufficio Normativa antimafia Cons. Stato, Ad. Plen., 28 agosto 2014, n. 27 (Oss. amm.) ........................................................ 1249 Espropriazione per p.i. Fermo amministrativo Cass. civ., sez. I, 8 settembre 2014, n. 18880 (Oss. civ.) ........................................................... 1218 Varianti 1147 DURC La disciplina italiana sulla regolarita` contributiva e` compatibile con il diritto UE (Corte giust. UE, sez. X, 10 luglio 2014, C-358/12) il commento di P. Patrito . 1181 Edilizia e urbanistica D.L. 90/2014 1157 1192 Cass. pen., sez. III, 5 settembre 2014, n. 37165 (Oss. pen.) .................................................. 1252 Vincoli paesaggistici 1234 1140 Cass. pen., sez. III, 5 settembre 2014, n. 37169 (Oss. pen.) .................................................. 1251 Sicurezza Indicazione degli oneri per la sicurezza negli appalti di lavori (Cons. Stato, sez. V, 17 giugno 2014, n. 3056) il commento di C. Mucio ......................... 1208 Atti amministrativi Contratti L’attivita` contrattuale della pubblica Amministrazione di I. Franco .................................................. 1254 1129 Urbanistica e appalti 11/2014 IM MO BILI AVCP BIBLIOTECA - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. RIVISTE WOLTERS KLUWER RINNOVI RIVISTE 2015 RINNOVA IL MEGLIO! UN IMMENSO PATRIMONIO BIBLIOGRAFICO SUBITO A TUA DISPOSIZIONE. 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Vinti Trattazione approfondita di tutti gli istituti previsti dall’ordinamento per i contratti degli appalti pubblici, attraverso l’analisi sulla ricostruzione del regime giuridico e delle fattispecie espressamente delineate dal codice e dalla legislazione speciale. In particolare, dopo avere esaminato il dato normativo, viene riservato ampio spazio allo studio della prassi contrattuale attraverso gli apporti offerti dall’elaborazione della dottrina più accreditata e dall’interpretazione derivante dall’attività degli organi giurisprudenziali. 148790_rapp-11.indd 1 URBANISTICA E APPALTI - NOVEMBRE 2014 N. 11 CODICE DEGLI APPALTI PUBBLICI Urbanistica e appalti COMITATO SCIENTIFICO Matteo Baldi, Giovanni Balocco, Claudio Contessa, Roberto Conti, Giulia Ferrari, Saverio Musolino, Luigi Tarantino 09/10/14 13:46
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