SOMMARIO Culture Economie e Territori Rivista Quadrimestrale Numero Diciotto, 2007 Borderline Pag. 03 L’urbanistica e l’ircocervo. Eguaglianza e libertà, coesione e sussidiarietà nel governo del territorio di Umberto Janin Rivolin Pag. 09 Per una storia analitica dell’economia politica di Marco Passarella Pag. 21 Cosmosofia di Santa De Siena Pag. 51 Giovanni Vailati e Antonio Gramsci: una “quistione di parole” di Irina Di Vora Focus: Silvio Trentin Pag. 59 Natura, diritto e territorio ne “La crisi“ di Silvio Trentin di Umberto Vincenti Pag. 65 Giusnaturalismo e federalismo nella “Crisi del Diritto e dello Stato” di Silvio Trentin di Elio Franzin Pag. 75 Ricordo di Silvio Trentin di Giuseppe Gangemi Il Sestante Pag. 79 Il serbo-croato: da una lingua che univa a una lingua che divide di Ana Živkovi´c Pag. 104 La libertà come non interferenza arbitraria: libertà dal dominio e dalla corruzione di Giuseppe Gangemi Pag. 113 Un momento aureo della cultura a Padova di Mario Quaranta LibriLibriLibri Pag. 123 Recensioni 1 n.18 / 2007 2 Umberto Janin Rivolin L’urbanistica e l’ircocervo. Eguaglianza e libertà, coesione e sussidiarietà nel governo del territorio* Borderline Che libera lismo e socia lismo non sia no incompa tibili non dice a ncora nulla sulle forme e sui modi della loro possibile congiunzione Norberto Bobbio (1997b, 163) Per consuetudine istituzionale e tecnica, il piano urbanistico prescrive i diritti di trasformazione del suolo, ponendo gli obiettivi di giustizia sociale e di libertà individuale in tendenziale contrapposizione: il primo tende a perseguirsi a discapito del secondo. Ciò lascia supporre che la prospettiva del “socialismo liberale”, fondata invece sull’idea che detti obiettivi siano intrinsecamente connessi, non sia fra le esperienze riformiste che hanno caratterizzato la tradizione della pianificazione urbanistica. Ripartire da tale prospettiva sembra però inevitabile di fronte all’attualità dei problemi di governo del territorio. Ciò è implicitamente suggerito anche dal progetto d’integrazione europea che, attraverso i principi di coesione e di sussidiarietà, ripropone l’esigenza di combinare ragioni di eguaglianza e di libertà nella trasformazione territoriale. 1. Premessa La metafora dell’“ircocervo”, animale favoloso per metà capro e per metà cervo, fu polemicamente evocata da Benedetto Croce per liquidare, come irrealistica, l’idea del “socialismo liberale”. Questa prospettiva di pensiero, teorizzata da Carlo Rosselli nel 19301, ha infatti avuto scarsa fortuna. D’altra parte, basata sul superamento degli aspetti meno convincenti della palingenesi marxista2 e sostenuta, sia pure con accenti diversi nel tempo, da nomi illustri del riformismo internazionale3, essa pone una questione ancora oggi aperta nel dibattito politico e filosofico: come conciliare, in un contesto economicamente efficiente, la libertà individuale con la giustizia sociale, intendendosi la seconda come logica estensione della prima. Sebbene la questione sia al centro dei problemi di governo della città e del territorio, occorre ammettere che neppure il sapere urbanistico, certamente non in Italia, ha storicamente riconosciuto nel pensiero liberalsocialista un orientamen- * Relazione presentata alla X Conferenza nazionale della Società italiana degli urbanisti “Riformismo al plurale. Urbanistica e azione pubblica”, Milano 18-19 maggio 2006 (Janin Rivolin 2007). 1 Le declinazioni assunte dal pensiero liberalsocialista nel nostro paese sono molteplici (dal libertarismo sociale di Francesco Saverio Merlino al liberalsocialismo di Guido Calogero, al federalismo di Ernesto Rossi e di Altiero Spinelli), ma «…nella storia del pensiero politico italiano quando si parla di “socialismo liberale” è all’opera di Rosselli che ci si riferisce» (Bobbio 1997a, xl-xli). Come è noto, Rosselli diede vita con alcuni di questi autori al movimento antifascista “Giustizia e Libertà”, poi confluito nel Partito d’azione. 2 «Il cambiamento di rotta consiste nell’affermare che il socialismo, che era da sempre stato considerato… inscindibile dal marxismo, è con esso alla fine incompatibile, ed è invece perfettamente compatibile col 3 n.18 / 2007 liberalismo, del quale era stato considerato per lunga tradizione… l’antitesi. Il socialismo, inteso come ideale di libertà non per i pochi ma per i più, non solo non è incompatibile col liberalismo, ma ne è teoricamente la logica conclusione, praticamente e storicamente la continuazione» (Bobbio 1997a, xxvi). 3 Bobbio (1997b) vi riconduce in particolare le idee di Mill, Oppenheimer, Russel e Dewey. Tra i contemporanei, Rawls e Sen possono forse considerarsene gli epigoni più autorevoli. 4 Per queste ragioni l’opinionista britannico Will Hutton (2003), già coautore con Antony Giddens di un fortunato volume sul capitalismo globale, considera il progetto europeo assai preferibile al modello neoliberista di matrice nordamericana.. 5 Rimando, per un compendio critico, a: Janin Rivolin 2004. to proficuo. Al contrario, vittima forse inconsapevole dell’ircocervo crociano, l’identità riformista del sapere urbanistico si è costruita nel corso del ‘900 sul presupposto che giustizia sociale e libertà individuale siano opposti tendenzialmente inconciliabili nei processi d’uso e di trasformazione del suolo. Condizionata e insieme garantita da un contesto istituzionale improntato al paternalismo e al dirigismo propri della cultura welfarista, l’urbanistica riformista ha generalmente coltivato l’assunto che solo lo Stato, unico depositario dell’interesse collettivo, possa realizzare una città giusta e un territorio equilibrato, arginando con il piano le libertà individuali espresse dai progetti immobiliari. Incoraggiato dal progressismo apparente di tale assunto, il sapere tecnico ha contribuito ad alimentare il modello istituzionale dell’urbanistica “conformativa”, in base al quale le trasformazioni del suolo devono conformarsi alle prescrizioni del piano. Del resto, tale modello ha prosperato nel corso del ‘900, sia pure in forme non identiche, in quasi tutti i paesi occidentali. Le esigenze della ricostruzione postbellica e dell’urbanizzazione fordista hanno reso generalmente conveniente l’adozione di un’urbanistica gerarchica nel postulare le relazioni verticali tra i piani di scala differente e dirigista nel regolare i rapporti orizzontali all’interno del piano. Soltanto la crisi del fordismo, l’esplosione della globalizzazione e i conseguenti processi di riorganizzazione spaziale hanno fatto emergere, con evidenza crescente dagli anni ’70, i limiti del modello, insiti proprio nella difficoltà di conciliare le esigenze, sempre più decisive, di equilibrio sociale e di valorizzazione delle istanze locali e soggettive di sviluppo. In un contesto globale caratterizzato dalla difficoltà istituzionale di governare in modo coordinato le sollecitazioni inferte dal mutamento socioeconomico, il progetto dell’integrazione europea si è imposto all’attenzione internazionale come risposta “più efficiente ed equa” ai problemi emergenti4. Meno appariscente, ma interessante in special modo per gli urbanisti, è il ruolo che la UE (pur priva di qualsiasi potere di determinazione delle trasformazioni del suolo) ha assegnato al territorio nella realizzazione del progetto comunitario. L’obiettivo della “coesione”, da una parte, e il principio di “sussidiarietà”, dall’altra, orientano i processi di governance territoriale in Europa da ormai quasi vent’anni5 proponendo, sotto nuova luce, l’esigenza di combinare ragioni di eguaglianza e di efficienza nelle trasformazioni del suolo. Le aspirazioni “performative” del progetto comunitario faticano a conciliarsi, tuttavia, col modello dell’urbanistica conformativa, che tuttora prevale nei paesi europei. Nei paragrafi che seguono, dopo aver chiarito in quali termini coesione e sussidiarietà si rapportano al governo del territorio, si esplorano le loro possibili relazioni con i principi del socialismo liberale. Se ne deduce che l’opportunità di conciliare libertà individuale e giustizia sociale nei processi territoriali deve comportare l’abbandono dell’urbanistica conformativa. 2. Governo del territorio nell’attualità europea In un recente articolo ho sostenuto che (a) il perseguimento della “coesione economica, sociale e territoriale”, tra gli “obiettivi dell’Unione” secondo il nuovo Trattato costituzionale europeo (art. I-3), richiede l’istituzione di qualche forma coordinamento fra i sistemi nazionali di pianificazione in Europa; e che (b) il principio della “sussidiarietà” (art. I-11), di solito invocato a discapito di tale 4 Umberto Janin Rivolin L’urbanistica e l’ircocervo richiesta, dovrebbe costituire piuttosto il cardine funzionale del coordinamento auspicato6. Considerato che «ridurre il divario tra i livelli di sviluppo delle varie regioni e il ritardo delle regioni più svantaggiate» (art. III-220) è il fine dichiarato della coesione, la prima tesi (a) si fonda su ragioni interrelate di: - efficacia della politica europea, poiché i sistemi nazionali di pianificazione stabiliscono i principi di trasformazione e sviluppo del territorio; - efficienza del sistema di governo, poiché nessuna interazione è al momento istituita fra politica comunitaria di coesione e sistemi nazionali di pianificazione; - equità del processo di governance, poiché i sistemi di pianificazione vigenti nella UE sono attualmente 25 e funzionano secondo modalità differenti. Le ragioni della seconda tesi (b) sono più complesse e sollevano problemi istituzionali e tecnici relativi alla pianificazione urbanistica, più che alle modalità d’integrazione comunitaria. Esse, pertanto, esulano dal confronto europeo (anche se le pratiche di governance territoriale comunitaria offrono più d’un riscontro in favore) per riguardare, piuttosto, l’esperienza ordinaria di governo del territorio, nel nostro e in altri paesi della UE. In breve, posto che la sussidiarietà è principio riconosciuto (non solo dalla UE)7 per affermare modalità “performative” di regolazione in un orizzonte di governance8, su esso dovrebbe imperniarsi anche il funzionamento della pianificazione; la quale, al contrario, promuove la trasformazione del territorio attraverso modalità “conformative” di regolazione. S’intende con ciò l’impostazione gerarchica delle scale di piano (relazioni verticali), per cui il piano di scala inferiore deve conformarsi a quello di scala superiore; e soprattutto9 la natura prescrittiva del rapporto fra strategia e progetti all’interno del piano (relazioni orizzontali), per cui i progetti devono risultare conformi alla strategia per avere titolo di legittimità al fine della trasformazione10. Pertanto, la contraddizione che fa problema non è quella, solo apparente, fra coesione e sussidiarietà ma quella, effettiva, fra regolazione conformativa e performativa, dal momento che il controllo di conformità dei progetti di trasformazione rispetto ai diritti prescritti (e, sia pure in forme meno coercitive, dei piani locali rispetto al piano centrale) vanifica di fatto, per effetto dei termini giuridici, il loro controllo di prestazione rispetto agli obiettivi condivisi11. In sintesi, se la mancanza d’interazione fra politica europea di coesione e sistemi nazionali di pianificazione rappresenta l’aspetto formale e secondario del problema sollevato, il carattere conformativo tradizionalmente assunto dalla pianificazione urbanistica in Europa ne costituisce l’aspetto sostanziale e prioritario. 3. Sussidiarietà come perfezionamento del “metodo liberale” Secondo il modello dell’urbanistica conformativa, come si è detto, funzione principale del piano è la prescrizione dei diritti di trasformazione del suolo in base alla strategia assunta. Ancora di recente, le proposte più progredite (e maggioritarie) di riforma dell’ordinamento urbanistico nel nostro paese non rinunciano, nel riconoscere l’opportunità di un «piano strutturale non prescrittivo», a riaffermare la necessità di un «piano operativo quinquennale prescrittivo per l’attuazione»12. Sembra, dunque, che la “sindrome dell’ircocervo” impedisca tuttora al sapere 6 Cfr. Janin Rivolin 2005. Va richiamato che, malgrado la mancata ratifica del Trattato costituzionale europeo, l’obiettivo della coesione e il principio di sussidiarietà sono entrambi riconosciuti nei trattati comunitari vigenti. 7 L’adozione del principio di sussidiarietà da parte della Comunità europea fu preparata dal Parlamento europeo nel 1984 su iniziativa di Altiero Spinelli. La Costituzione italiana ha riconosciuto il principio di sussidiarietà verticale e orizzontale (art. 118) con la riforma del 2001. 8 Cfr. il Libro bianco sulla Governance europea (CCE 2001). 9 La gerarchia scalare fra i piani è una conseguenza del presupposto ideale della supremazia dello Stato sulla società. 10 Con riferimento all’esperienza italiana, si tratta dell’ordinario funzionamento del piano regolatore generale. 11 Con riferimento all’esperienza italiana ed europea, si spiegano in tal modo tanto il ricorso crescente alle “varianti” di piano, quanto la più recente iniziativa di legittimare attraverso un “piano strategico” (spesso indefinito quanto a prerogative istituzionali e funzionali) gli obiettivi non conformi ai diritti di trasformazione prescritti dal piano regolatore. 12 Così Campos Venuti (2005a, 4) nel richiamare i principi della proposta di riforma urbanistica 5 n.18 / 2007 avanzata dall’Inu nella scorsa legislatura. Cfr. anche: Campos Venuti 2005b. 13 Rosselli 1997, 100-101. 14 «Per “libertà negativa” s’intende, nel linguaggio politico, la situazione in cui un soggetto ha la possibilità di agire senza essere impedito, o di non agire senza essere costretto, da altri soggetti. …Per “libertà positiva” s’intende …la situazione in cui un soggetto ha la possibilità di orientare il proprio volere verso uno scopo, di prendere delle decisioni, senza essere determinato dal volere altrui. Questa forma di libertà si chiama anche “autodeterminazione” o, ancor più appropriatamente, “autonomia”... La libertà negativa è una qualifica dell’azione, la libertà positiva è una qualifica della volontà» (Bobbio 1995, 45-50). 15 Battista 2001, 51. 16 «Contestando il presupposto dello statalismo e non esaurendosi nella formula liberalista, non rappresenta nemmeno una formula di compromesso tra le due teorie, ma esprime una concezione originale» (Battista 2001, 51). 17 Così Ernesto Rossi (2006, 250), citando Lionel Robbins, in un articolo del 1954. 18 «Si tratta peraltro di una difficoltà politica, non di una difficoltà concettuale. Che politicamente la libertà positiva come autodeterminazione collettiva sia un ideale-limite, non toglie che sia un ideale continuamente riproposto, e che sia lecito considerare un regime 6 urbanistico riformista di condividere il «metodo liberale» suggerito quasi ottant’anni fa da Carlo Rosselli al fine di conciliare, nell’azione di governo, ragioni di libertà individuale e di giustizia sociale: “Il metodo liberale vuole che i popoli e le classi, al pari degli individui, si amministrino da sé, con le loro forze, senza interventi coercitivi o paternalistici. La sua grande virtù pedagogica consiste appunto nell’assicurare un clima che sospinga tutti gli uomini ad esercitare le loro più alte facoltà, nell’approntare istituti che inducano a partecipare attivamente alla vita sociale. Esso reca come premessa fondamentale il principio che la libera persuasione del maggior numero allo stesso modo che è il miglior mezzo per raggiungere la verità, così è il miglior mezzo per garantire il progresso sociale e assicurare la libertà. …Il riconoscimento del metodo liberale, la fedeltà al metodo, ecco in che si sostanzia praticamente il liberalismo politico”13. Si osserva che il metodo liberale di Rosselli fa riferimento a un’idea di libertà “positiva”, oltre che “negativa”14, che è invece la sola connaturata al modello dell’urbanistica conformativa. In questo, anticipa il principio di sussidiarietà (orizzontale) il quale, «affermando che lo Stato interviene solo quando l’autonomia della società risulti inefficace, si contrappone all’idea di una “cittadinanza di mera partecipazione” e promuove invece “una cittadinanza di azione” in cui è valorizzata la “genialità creativa dei singoli” e delle formazioni sociali»15. Malgrado la chiara valenza antistatalista e antiassistenzialista, il metodo liberale, così come il principio di sussidiarietà, non conduce all’ipotesi neoliberale dello “Stato minimo” poiché, «mentre riconosce alla persona il diritto di iniziativa, nel contempo ne afferma la responsabilità sociale»16. Il metodo liberale, pertanto, non implica la rinuncia alla pianificazione, ma il ricorso a «una pianificazione diversa»: volta a «coordinare le attività umane per mezzo di un complesso di norme impersonali, entro il quale i rapporti che si stabiliscono spontaneamente tra gli individui conducono al bene comune», piuttosto che a «far prescrivere in modo preciso ogni azione, od ogni categoria di azioni»17. Poiché, dunque, lo Stato non è il depositario a priori dell’interesse collettivo e il suo intervento richiede sempre una giustificazione, la «vera difficoltà sta se mai… nel progettare praticamente una volontà collettiva tale che le decisioni da essa prese siano da accogliersi come la massima espressione di volontà di ogni singolo»18. 4. Giustizia sociale e coesione in rapporto alla sussidiarietà Nella prospettiva liberalsocialista, lo Stato coordina i diritti di trasformazione del suolo non attraverso la prescrizione di “ogni azione o categoria di azioni”, ma promuovendo progetti di “volontà collettiva” e “norme impersonali” volte al conseguimento del bene comune. La città giusta e il territorio equilibrato derivano, pertanto, non già dal potere di conformare le libertà individuali alla strategia collettiva, ma dalla capacità di progettare strategie persuasive e norme condivise per coordinare (promuovere, condizionare o impedire)19 le iniziative di trasformazione. Dietro il velo della retorica progressista e della presunzione prescrittiva, l’urbanistica odierna non è strutturalmente in grado di garantire obiettivi di giustizia sociale per il non unico ma fondato motivo che la prevalenza giuridica del con- Umberto Janin Rivolin L’urbanistica e l’ircocervo trollo di conformità delle trasformazioni svincola le indicazioni di piano dall’onere, politico e tecnico, della prova. L’idea, invalsa in tempi più recenti, della “perequazione urbanistica”20, da un lato offre una soluzione soltanto parziale al problema, dal momento che può applicarsi ai soli diritti di proprietà interessati da trasformazioni (non alla cittadinanza interessata dal piano); dall’altro, poiché si propone come correttivo degli squilibri attesi dalle prescrizioni, è un’ammissione implicita delle contraddizioni del modello conformativo. Al contrario, liberalismo e sussidiarietà implicano che, al di là di ogni legittimo obiettivo strategico del piano, la giustizia sociale sia un cardine delle “norme impersonali” utili a coordinare le iniziative di trasformazione territoriale. In particolare, poiché l’eguaglianza sociale, prima che ideale più o meno condivisibile, è l’esito fattivo del rapporto dato fra “giustizia retributiva” (rapporti di scambio) e “giustizia attributiva” (rapporti di convivenza o solidarietà)21, è lecito sostenere che il suo trattamento debba competere, prima che alla strategia, alla condivisione di regole di compensazione degli interessi (collettivi e individuali) penalizzati dalle trasformazioni territoriali ammesse, a seguito di circostanziato controllo di prestazione, in rapporto alla strategia. In conclusione, riprendendo i termini del progetto d’integrazione europea, sembra che il principio di sussidiarietà e le finalità di riequilibrio e di solidarietà insiti nell’obiettivo di “coesione economica, sociale e territoriale” costituiscano il riferimento istituzionale utile a un riordino della pianificazione urbanistica nei paesi europei nel solco tracciato, agli albori del secolo scorso, dalla prospettiva del socialismo liberale. tanto più desiderabile quanto più vi si avvicina» (Bobbio 1995, 68). 19 Liberalismo e sussidiarietà, come è chiaro, non revocano allo Stato la facoltà di divieto; piuttosto, ne impongono l’obbligo di giustificazione permanente. 20 Anche la perequazione, che dispone l’equa distribuzione dei valori immobiliari prodotti dal piano e degli oneri derivanti dalla realizzazione degli interventi, è tra i principi della proposta di riforma sostenuta dall’Inu. 21 Bobbio 1995, 8-16. Cfr. inoltre: Merlino 2006. Riferimenti bibliografici Battista A. (2001), Il principio di sussidia rietà nel diritto ita lia no e comunita rio, tesi di laurea in Economia aziendale, Università degli studi Roma Tre. Bobbio N. (1995), Egua glia nza e libertà , Einaudi, Torino. Bobbio N. (1997a), Introduzione, in: C. Rosselli, Socia lismo libera le, Einaudi, Torino, xxi-liii. Bobbio N. (1997b), Tra dizione ed eredità del libera lsocia lismo, in: C. Rosselli, Socia lismo libera le, Einaudi, Torino, 145-164. Campos Venuti G. (2005a), “Come andare verso la riforma urbanistica”, Urba nistica Informa zioni , n. 203, 3-4. Campos Venuti G. (2005b), “Una strategia per il riequilibrio delle trasformazioni territoriali”, Urba nistica , n. 126, 96-102. CCE – Commissione delle Comunità europee (2001), La governa nce europea . Libro bia nco, COM(2001) 428, Bruxelles, 5.8.2001. Hutton W. (2003), Europa vs. Usa . Perché la nostra economia è più efficiente e la nostra società più equa , Fazi, Roma. Janin Rivolin U. (2004), Europea n spa tia l pla nning. 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Ha coordinato di recente, in rappresentanza dell’Italia, le ricerche europee ESPON (www.espon.eu) 2.3.1 – Application of the ESDP in the Member States (coordinamento internazionale: Nordregio, Stoccolma) e 2.3.2 – Governance of territorial and urban policies from EU to local level (coordinamento internazionale: Università di Valencia). Tra le pubblicazioni: Le politiche territoriali dell’Unione europea (a cura, Franco Angeli, 2000) e European spatial planning (Franco Angeli, 2004), oltre a vari articoli su riviste scientifiche internazionali e nazionali. [email protected]. 8 Marco Passarella Per una storia analitica dell’economia politica Borderline Senza dubbio, è meglio getta r via i modi di pensiero sorpa ssa ti che rima nere a tta cca ti indefinita mente a d essi. Nondimeno, le visite in soffitta possono riuscir profittevoli, purché non durino troppo a lungo. (J. A. Schumpeter) Non appare certo roseo il futuro della Storia del Pensiero Economico1 nell’ambito del sistema accademico italiano. Si tratta, è vero, di una disciplina di studio ancora vitale e dinamica, tuttora in grado di attrarre nuove generazioni di studiosi. Tuttavia, a dispetto di rare quanto lodevoli eccezioni, essa rimane un insegnamento facoltativo nella grande maggioranza dei corsi di laurea. Fatto assai preoccupante, la SPE è spinta sempre più al margine proprio nelle Facoltà di Economia, dove fatica a trovare un proprio spazio, stretta tra il successo crescente dei corsi a zienda listi ed il malcelato fastidio degli economisti teorici e «applicati». Le ragioni di questa difficoltà sono, ovviamente, più d’una – non ultima la recente «riforma universitaria». Qui, tuttavia, s’intende sottolineare un diverso aspetto, dibattuto anche nel corso dell’annuale convegno ESHET tenutosi nell’aprile del 2006 a Porto: l’intrinseca debolezza a na litica che caratterizza una parte rilevante dei lavori pubblicati, ancora di recente, sulle principali riviste specializzate di SPE. Capita, infatti, non di rado, di imbattersi in storie aneddotiche su economisti , ricche di particolari sulla vita pubblica e privata dei protagonisti, ma carenti di contenuto teoretico e analitico. Veri e propri schizzi agiografici che guadagnano in ridondanza di informa zioni ciò che perdono in comprensione. Il risultato di una storia siffatta è in genere quello di far conoscere tutto, ma proprio tutto, dell’autore considerato tranne… il suo pensiero economico. Nel migliore dei casi, tale eccedenza (spesso compiaciuta) di erudizione consente una meticolosa ricostruzione dell’ambiente in cui si colloca il singolo economista, al prezzo, però, di metterne in ombra le derivazioni intellettuali e le possibili interrelazioni teoriche con altri autori. Un esempio, e non certo tra i peggiori, è la monumentale biografia di Johan Maynard Keynes ad opera di Robert Skidelsky, in cui la riflessione sulla teoria economica viene affogata in un mare di informazioni personali, cosicché la ricostruzione cronologica dei fatti biografici prende il sopravvento sulla ricostruzione logica delle concatenazioni di pensiero (Skidelsky 1989; 1996; 2000). Va, però, subito chiarito che non si tratta qui di aprire l’ennesimo, estenuante, Nota: il saggio pubblicato in queste pagine è la versione riveduta e corretta dell’omonimo paper presentato in occasione del III Convegno Nazionale Stor.e.p., Lecce 1-3 giugno 2006. 1 D’ora in poi SPE. 9 n.18 / 2007 2 Da allora, il dibattito fra gli economisti è talvolta aspro, ma si svolge entro un quadro di regole e linguaggio standardizzati. 3 La definizione di «classici» coincide con quella di economia ricardiana, ossia di sistema teorico e analitico incentrato sulla teoria del valore-lavoro, sulla categoria di sovrappiù e sull’idea di una società divisa in classi. Per contro, l’appellativo di economisti «volgari» viene riservato da Marx ai teorici dell’ordine spontaneo del mercato, ossia a quei «pugilatori a pagamento» del capitale che producono consenso anziché scienza (ScrepantiZamagni 2000, p. 151). 10 Methodenstreit. Ciò che si vuole sottolineare è, piuttosto, l’esigenza per lo storico del pensiero economico di riuscire a coniugare determinazione storica e rigore d’analisi, collocando i sistemi teorici (ed i loro modelli analitici) dentro le cesure storiche che, di volta in volta, ne hanno favorito la nascita e l’affermazione; ovvero la caduta e l’oblio. *** Chi scrive condivide l’idea che l’economia politica, dopo la rivoluzione del paradigma inaugurata da Hume, Quesnay e Galiani alla metà del secolo diciottesimo e portata a compimento con la Wealth of Nations di Adam Smith (1776), abbia proceduto solamente per rivoluzioni nel paradigma, ossia per «catastrofi epistemologiche» interne ad un unico paradigma. Che, insomma, «tipizzato l’homo oeconomicus e la sua logica della scelta, il resto – da Adam Smith a John Nash – se non è stato certamente silenzio, è stato però solo conseguenza» (Gattei 2004, pp. 207-208)2. La fonda zione epistemologica della scienza economica, che affonda le sue radici nell’Età dei Lumi, riflette lo sconvolgimento/superamento del sistema economico e sociale feudale (o, comunque, pre-capitalistico) indotto dalla progressiva affermazione della moderna produzione capitalistica manifatturiera (a cui, com’è noto, fa seguito la diffusione del sistema di fabbrica, caratterizzato dall’impiego massiccio di macchinari e di capitale fisso). Da allora, il pensiero economico sembra aver seguito un andamento ciclico «a onde lunghe» in stretta connessione con i mutamenti intervenuti, via via, nel modo di produzione basato sul capitale. Da questo punto di vista, è possibile scorgere almeno quattro successive metamorfosi nel paradigma, identificabili, rispettivamente, con il pessimismo agonistico degli economisti classici (pro o a nti ) ricardiani, con l’equilibrismo meccanicistico dei marginalisti e dell’ortodossia neoclassica, con lo squilibrismo eterodosso di John Maynard Keynes e Joseph Alois Schumpeter e, da ultimo, con l’antagonismo polemico di Piero Sraffa, proprio negli anni del consolidamento della sintesi neoclassica come «situazione classica» per eccellenza. Tre grandi cicli di rottura e di successiva affermazione delle nuove idee ed un quarto ciclo, tuttora in corso, che sembra non avere ancora espresso un vera e propria egemonia teorica. Procedendo con ordine, il primo mutamento nel paradigma della scienza economica coincide, dunque, con la riformulazione della teoria smithiana operata dagli economisti del XIX secolo, e, in particolare, da David Ricardo. I «classici», come li ribattezzerà in seguito Marx, per distinguerli dagli economisti «volgari»3, si pongono alla ricerca delle leggi immutabili di una Na tura razionale e quindi pienamente intelligibile dallo scienziato, ma, al tempo stesso, avida e matrigna con il genere umano. In effetti, se, da un lato, l’idea di Smith di un «ordine naturale» oggettivo, accessibile alla Ra gione, rappresenta la grande eredità dell’Illuminismo settecentesco, dall’altro, la sfiducia nelle «magnifiche sorti e progressive» del capitalismo manifestata dagli economisti classici è, con ogni probabilità, ascrivibile all’influsso della nascente cultura romantica. La malthusiana «legge di popolazione» (secondo cui lo scarto negativo tra il tasso di crescita, aritmetico, delle superfici coltivabili e quello, geometrico, delle nascite, condanna la classe lavoratrice ad un salario di mera sussistenza), o l’aumento della rendita fondiaria a scapito del saggio di profitto degli imprenditori-capitalisti (inscritto nella legge dei rendimenti decrescenti dei terreni agricoli, ovvero nell’esaurimento delle opportunità di investimento di una economia letteralmente pre-destinata allo «stato stazionario»), sono tracce di un «pessimismo agonisti- Marco Passarella Per una storia analitica dell’economia politica co» – per utilizzare un’espressione cara a Sebastiano Timpanaro – che, seppure in modo difforme, permea le opere di Malthus, Ricardo e Sismondi. Non è un caso, dunque, che nei classici la componente macro della teoria economica finisca per prevalere, pur senza mai eliminarla, su quella squisitamente micro. La metodologia degli aggregati dell’economia politica classica rimane infatti saldamente ancorata ad una analisi della produzione, della distribuzione e dello scambio fondata sulle categorie di classe sociale (intesa come categoria strutturale, non meramente funzionale), di costo di produzione (posto a fondamento di una teoria oggettivista del valore e risolto, in genere, nella quantità di lavoro contenuto nel prodotto) e di sovrappiù (inteso come detrazione, sotto forma di profitto, interesse, rendita o altro, dal prodotto del lavoro). Si tratta di strumenti atti ad affrontare il grande tema dello sviluppo economico: delle sue cause e dei suoi limiti immanenti. Il secondo mutamento nel paradigma della scienza economica è rappresentato dalla perentoria quanto improvvisa affermazione, sul finire del secolo XIX, della dottrina neoclassica, così come espressa nella sintesi magistrale dell’equilibrio economico genera le di Léon Walras. Nei suoi Elements d’économie politique pure (1874-77), l’economista francese offre una rappresentazione algebrica, essenziale ma rigorosa, della configurazione d’equilibrio generale concorrenziale dei quattro mercati caratteristici (dei fattori produttivi, dei beni di consumo, dei nuovi beni capitali e del risparmio), che rappresenta il maggiore contributo a (e di ) quella che passerà alla storia come «Rivoluzione Marginalista». Di fatto, tutti (o quasi) gli sviluppi successivi del pensiero economico del Novecento prenderanno le mosse, consapevolmente o meno, da questa ma gna cha rta dell’economia «pura». D’ora in avanti, l’economica neoclassica, liberata dalle superstizioni e dai giudizi di valore (wertfrei , secondo l’espressione di Karl Menger), si affiderà alla matematica come criterio di ragione (intesa come coerenza logicoformale di modelli astratti) e guarderà alle scienze naturali, in particolare alla fisica teorica, come al proprio paradigma scientifico di riferimento. Una vera e propria ridefinizione epistemologica della scienza economica che sposta l’attenzione dell’economista dal tema dello sviluppo economico a quello dell’allocazione di risorse scarse tra usi alternativi (secondo la nota definizione di Robbins). I cardini di tale rivoluzione, che è essenzialmente una rivoluzione contro i cla ssici di Ma rx , possono essere brevemente richiamati. Essi consistono: a) nell’adozione di una teoria soggettivista del valore, secondo cui il valore è sempre individuale (in quanto fine di un particolare individuo) e soggettivo (ossia scaturisce da un processo di scelta ); b) nella riduzione di tutte le proposizioni relative agli aggregati sociali a proposizioni sul singolo individuo o sulla singola unità decisionale (secondo i canoni del c.d. individua lismo metodologico); c) nella rivendicazione della completa a -storicità dell’economica e delle sue leggi; d) nella simmetria consumatore/imprenditore, con il principio di ma ssimizza zione vincola ta (dell’utilità, del profitto, ecc.) posto a fondamento dell’intero sistema; e) infine, nel livello crescente di sofisticazione matematica dei relativi modelli analitici, a dispetto della estrema semplicità concettuale dell’impianto teorico. In questo senso, una tappa decisiva nella lunga storia della ortodossia neoclassica è la fondazione nel 1930, ad opera di Karl Menger, del Ma thema tisches Kolloquium, circolo viennese che può contare sulla partecipazione di studiosi della statura di Wald, von Neumann e Morgenstern (interessati alle possibili a pplica zioni della matematica ai principali problemi economici del tempo). Va da sé, che il filone di ricerca inaugurato dal Kolloquium contiene già in nuce quel pas- 11 n.18 / 2007 saggio, che pure si realizzerà compiutamente solo alcuni decenni più tardi, da una ma instrea m economics interessata al system of forces (SOF), ossia all’analisi dei processi economici generati da forze di mercato (e non) che conducono all’equilibrio economico generale (descritto mediante un sistema di equazioni che consente di calcolarne prezzi e quantità), ad una disciplina che limita il proprio ambito di indagine al system of rela tions (SOR), vale a dire alle condizioni logiche di esistenza, unicità e stabilità dell’equilibrio (Giocoli 2001; 2003). Ma è solo a partire dalla fine degli anni sessanta che la matematica (in particolare l’a ssioma tica ), unica disciplina scientifica non sperimentale, si sostituisce alla fisica come modello di riferimento per la scienza economica neoclassica. La nozione di equilibrio transita dalla accezione di punto terminale di una dinamica di forze economiche, a quella di mutua e perfetta compatibilità dei piani degli agenti economici; mentre l’altra nozione neoclassica fondamentale, quella di ra ziona lità , passa dal tradizionale significato di perseguimento e massimizzazione del self-interest, a quello, odierno, di consistenza e coerenza delle scelte (e/o delle preferenze). Caposcuola di questa svolta radicale nell’ambito della visione dominante, nota come «rivoluzione formalista», è l’economista-matematico francese (poi naturalizzato americano) Gérard Debreu. Per l’autore di Theory of Va lue (1959) l’azione di un individuo può essere descritta da un punto in uno spazio di n beni, ovvero nello spazio reale dei vettori di dimensione finita, assimilabile (al pari dell’analogo insieme dei prezzi) ad uno spazio euclideo. Da notare che, in questo contesto, non è nemmeno più possibile parlare di individua lismo metodologico, dato che qui l’individuo, con le sue motivazioni all’azione economica, letteralmente scompa re. Saranno Keynes e Schumpeter ad elaborare, nei primi decenni del Novecento, le due grandi alternative teoretiche all’equilibrio economico generale walrasiano e, più in generale, al corpo dottrinale neoclassico. Nella sua Genera l Theory (1936) Keynes dimostra scientificamente che un’economia lasciata a sé stessa può «rimanere in una condizione cronica di attività inferiore al normale per un periodo considerevole senza una tendenza decisa verso la ripresa o verso la rovina totale» (Keynes [1936] 2006). Il nesso causale istituito dalla legge di Say (per la quale, a livello aggregato, è l’offerta che «crea» la propria domanda) deve perciò essere rovesciato: sono le decisioni di spesa degli agenti economici che generano la domanda effettiva aggregata e, tramite questa, determinano il reddito aggregato, la produzione reale e l’occupazione. Il problema è che le decisioni di investimento (la c.d. «spesa autonoma») dipendono da fattori psicologici imponderabili, quali lo stato d’animo (gli a nima l spirits) degli imprenditori-investitori o la «preferenza per la liquidità» dei mercati finanziari che dovrebbero mettere a disposizione le risorse monetarie necessarie per l’acquisto dei beni capitali. Il che, ovviamente, rende quanto mai problematico il mantenimento dell’equilibrio ex ante fra risparmi e investimenti correnti. Come se non bastasse, una seconda fonte di squilibrio – interna al sistema economico, ma assai discontinua – viene individuata da Schumpeter nell’azione degli imprenditori-innovatori, moderni capitani d’industria alla perenne ricerca di un’opportunità di profitto, ossia di un reddito d’impresa positivo (che, invece, è del tutto assente nel modello walrasiano, in cui l’imprenditore non consegue né gua da gno, né perdita ). Il problema del finanziamento dei necessari investimenti, oltre l’ammontare disponibile di risparmio corrente, viene risolto dall’imprenditore schumpeteriano mediante il ricorso al credito bancario. Le banche, infatti, non svolgono il ruolo di semplici intermedia- 12 Marco Passarella Per una storia analitica dell’economia politica ri tra risparmiatori e investitori; esse creano liquidità (ossia potere d’acquisto) ex nihilo. Non stupisce, quindi, che per Schumpeter il credito rappresenti, assieme allo spirito borghese d’intrapresa, il vero carburante dello sviluppo economico, inteso come squilibrio positivo del sistema (Schumpeter [1911] 1971). Ma se gli aspetti più innovativi del pensiero di Schumpeter vengono quasi completamente ignorati negli ambienti accademici del dopoguerra, la prontezza e l’efficacia della risposta neoclassica alla grande eresia keynesiana sono impressionanti. Il lavoro di riassorbimento della Genera l Theory nell’alveo del pensiero economico dominante, inaugurato da Hicks ad appena pochi mesi di distanza dalla pubblicazione dell’opera, occuperà gli economisti ma instrea m per almeno una ventina d’anni, dando origine alla moderna metodologia degli aggregati neokeynesiana (definita anche, più propriamente, «sintesi neoclassica»). Così, già alla metà del secolo, l’ortodossia economica può contare, oltre che sull’eleganza formale del modello di equilibrio economico generale di Arrow-Debreu-McKenzie e sulla semplicità analitica del modello di crescita di Solow-Swan, anche sulla versatilità teorica del modello di equilibrio macroeconomico IS-LM di Hicks-Modigliani (Screpanti-Zamagni 2000, pp. 21, 331). Una geometrica potenza analitica che non conosce precedenti nella storia della scienza economica. Il quarto mutamento nel paradigma dell’economia politica coincide con la pubblicazione di Produzione di merci a mezzo di merci (1960) di Piero Sraffa. In sole centoventi pagine, per di più estremamente avare di riferimenti, l’economista di Cambridge costruisce un sistema simultaneo di equazioni di prezzo in grado di dare soluzione al problema distributivo senza ricorrere ad alcuna teoria del valore. Perchè se la teoria marxista del valore-lavoro è, di per sé, irrileva nte per il calcolo dei prezzi relativi e delle quote distributive, la teoria marginalistica della distribuzione si mostra affetta da circola rità , potendosi definire il rendimento del fattore capitale soltanto previa conoscenza proprio di quei prezzi relativi (dei beni capitali) che si vorrebbero determinare. Affrancato dalla «metafisica del valore», il sistema mostra allora una «ricardiana» relazione inversa che lega il saggio di profitto realizzato dai possessori di capitale al salario unitario percepito dai lavoratori. Ne deriva l’impossibilità di stabilire un criterio economico che determini in modo «oggettivo» o «naturale» la distribuzione del reddito fra i singoli attori economici in base alle loro funzioni , ovvero in proporzione al loro diverso contributo alla produzione (come invece predicato dalla dottrina neoclassica). Piuttosto, fissata esogenamente una variabile distributiva (salario unitario oppure saggio di profitto) sulla base dei rispettivi rapporti di forza, l’altra viene determinata in termini residuali simultaneamente ai prezzi. Così, se in filosofia il pensiero del Novecento proclama l’indifferenza di tutti i valori, lasciando all’individuo migliore di porre il va lore delle cose, analogamente il sistema sraffiano si affida, per chiudersi, al soprassalto della classe sociale capace di imporre il proprio reddito quale variabile indipendente (Gattei 1994, p. 52). La distribuzione del reddito tra le classi sociali viene in tal modo ridotta a mera contesa redistributiva, a volontà di potenza e nient’a ltro! Da quanto è stato detto sino ad ora, dovrebbe risultare con chiarezza che la causa di tutte le svolte nel paradigma della scienza economica va cercata «nella trasformazione del concreto storico di riferimento, a cui il ‘concreto di pensiero’ (per dirla con Marx) non può che adeguarsi» (Gattei 2004, p. 208), generando sistemi teorici e modelli analitici distinti, benché appartenenti allo stesso genere pa ra digma tico. Ovviamente, le idee, specie le gra ndi idee, per quanto influen- 13 n.18 / 2007 4 Secondo cui, poiché un aumento della base monetaria deve risolversi in una crescita proporzionale del livello dei prezzi, lasciando invariate le grandezze reali (produzione e occupazione), in presenza di agenti razionali qualsiasi sistematica politica monetaria espansiva è destinata al fallimento. Del resto, siamo nel bel mezzo dell’apogeo del neoconservatorismo thatcheriano e reaganiano. Ma non va dimenticato che è proprio con l’affermazione del neomonetarismo che ha luogo quello spostamento, anche in ambito macroeconomico, dal punto di vista SOF della tradizione (neo)classica ad un punto di vista più tipicamente SOR – implicito, ad esempio, nelle ipotesi di individuo rappresentativo caratterizzato da aspettative ra-zionali e di mercati in equilibrio in ogni istante di tempo. 14 zate dalla visione dell’economista, non possono essere considerate un mero riflesso delle sue convinzioni pre-analitiche. Ma ciò non significa che l’oggetto dell’indagine non venga suggerito in primo luogo dal contesto storico-sociale – l’a mbiente – in cui egli è inserito e dai problemi che concretamente si pongono. Non sono state, forse, la saturazione dei terreni agricoli inglesi e l’introduzione delle macchine a stimolare la riflessione sui rendimenti decrescenti della terra e sulla disoccupazione tecnologica? E se è solo con la definitiva affermazione della borghesia come classe egemone, anche sul piano politico, che l’attenzione degli economisti si sposta dalla sfera della produzione a quella dello scambio (in cui fa la propria comparsa il moderno consuma tore), non è però soltanto con l’incalzare della prima Große Depression (1873-1895) del capitalismo mondiale che si richiede che venga scientificamente provata l’efficienza del mercato nell’allocazione delle risorse? Ancora: è con lo sviluppo della produzione di massa e l’esplosione della crisi del ventinove che si impone la riflessione sulle imperfezioni dei mercati e sulla insufficienza della domanda aggregata. Mentre sono il raggiungimento del tetto del pieno impiego e la conseguente ripresa del conflitto di classe nel secondo dopoguerra ad accendere il dibattito sulla natura antagonistica della distribuzione del reddito. Al di fuori di questa, pur sintetica, periodizzazione per «svolte nel paradigma» rimane da segnalare la controrivoluzione dei Chica go Boys, estremo (ma coerente) punto d’approdo della grande opera di normalizzazione del pensiero keynesiano realizzata nel corso degli anni ‘40 e ‘50. L’ascesa del Moneta rismo di Friedman e Phelps ed il successivo trionfo del Neomoneta rismo di Lucas, Sargent e Wallace, pur essendo espressione di mutamenti rea li intervenuti nelle economie occidentali – l’avvio di imponenti processi di ristrutturazione capitalistica, gli shock petroliferi e la stagflazione degli anni settanta – non possono tuttavia essere considerati una vera rivoluzione nel paradigma della scienza economica. Se il primo filone di ricerca rappresenta, per così dire, il «lato cattivo» del sistema teorico neokeynesiano e dei suoi sviluppi successivi, il secondo appare, piuttosto, come un tentativo – peraltro riuscito – di resta ura zione della vecchia buona dottrina quantitativista della moneta4. Nemmeno il Progra mma di Ricerca Austria co o, la più recente, Public Choice School hanno prodotto una discontinuità paradigmatica nella storia della scienza economica. E ciò malgrado entrambi gli approcci mostrino un non trascurabile margine di alterità teorica rispetto al filone neoclassico più tradizionale. In effetti, se i lavori degli economisti austriaci fino ai primi anni trenta possono essere considerati alla stregua di una variante dell’ortodossia marginalista del decennio precedente, a partire da quel periodo i contributi di Mises ed Hayek si pongono l’obiettivo dichiarato di spingere la scuola austriaca in una direzione affatto differente. Sebbene quasi completamente ignorati all’epoca, i lavori di questi due autori hanno così dato origine al reviva l austriaco dell’ultimo quarto di secolo, fondando l’a pproccio neoa ustria co alla comprensione del processo concorrenziale di mercato. Alla base di questo filone di studi c’è l’idea che la microeconomia neoclassica, di cui l’equilibrio economico generale di Walras (nella versione di Arrow-Debreau) rappresenta il core, non sia riuscita a fornire un modello teorico in grado di spiegare ciò che accade realmente nelle economie di mercato. Tale convinzione prende le mosse da due questioni aperte: (a) l’irrilevanza della modellistica neoclassica che considera il mercato in posizione di equilibrio in ogni istante di tempo; e (b) la fragilità metodologica implicata dal- Marco Passarella Per una storia analitica dell’economia politica l’ipotesi strumentale che il mercato abbia già raggiunto tale posizione di equilibrio. Ciò che occorre è invece una teoria che offra una spiegazione plausibile di come, a partire da un dato insieme iniziale di condizioni di non-equilibrio, le tendenze equilibratrici del mercato possano essere messe in moto. Per gli austriaci l’avvicinamento all’equilibrio è, infatti, un processo sistematico di apprendimento, in cui i partecipanti al mercato acquisiscono progressivamente e reciprocamente una maggiore conoscenza circa le condizioni di domanda e di offerta. Si tratta, in altri termini, non di negare l’operare della concorrenza in equilibrio (come impongono di fare i modelli neoclassici, caratterizzati da una concorrenza senza… concorrenza); ma, all’opposto, di riformulare tale nozione in modo tale da renderla totalmente incompatibile con la categoria di equilibrio (Kirzner 1997; [1973] 1997). Mises parla, a questo proposito, di «concorrenza rivale». Invero, tale approccio, che rappresenta tutt’altro che un edificio dottrinario compatto, si trova oggi di fronte ad un dilemma decisivo: l’adozione del «soggettivismo radicale» propugnato dalle nuove generazioni di economisti austriaci, che impone la ricerca di una razionalità scientifica diversa sia dall’apriorismo dei vecchi maestri (Menger e, soprattutto, Mises), che dal pur cauto empirismo popperiano di Hayek, da un lato; oppure l’individuazione di limiti al soggettivismo stesso, storico «cavallo di battaglia» della scuola austriaca, dall’altro (BarrottaRaffaelli 1998). Un’idea, quest’ultima, caldeggiata dagli economisti austriaci, per così dire, «moderati», tra i quali, in particolare, Israel Kirzner. Il fatto è che le continue estensioni del soggettivismo operate dalla scuola austriaca – pur essendo coerenti con il nucleo originario del suo programma di ricerca – hanno finito con il mettere in dubbio non solo la possibilità di giungere alla formulazione di leggi economiche rigorose, ma la legittimità stessa di una scienza economica teorica , distinta dalla semplice interpreta zione dei fatti economici5. Quanto al filone della public choice di Buchanan e Tullock, l’idea-cardine è che le azioni dello Stato possono essere spiegate come esito del comportamento razionale di individui che perseguono il loro interesse personale, anziché quello generale, in risposta alle regole del gioco politiche (Stiglitz 2003, p. 164). Compito dell’economista è dunque quello di individuare una Costituzione, ossia un sistema condiviso (dunque ottima le) di regole, che informi anche l’azione dei poteri pubblici alla logica contra ttua lista del mercato. L’intendimento critico circa le potenziali implicazioni interventiste dello schema di equilibrio economico generale è qui evidente: prefigurando un modello concorrenziale ideale (una sorta di «dover essere») a cui la realtà fattuale deve tendere, la teoria neoclassica tradizionale adombra un ruolo attivo dello Stato tutte le volte che il mercato si rivela incapace di assicurare un’allocazione Pa reto-efficiente delle risorse6 – al punto che si è soliti parlare, a tal riguardo, di «fallimenti del mercato»7. Ma se si accettano i principi dell’individualismo metodologico, secondo cui alla società non può essere attribuita alcuna volontà trascendente quella dei singoli individui, siccome gli individui sono diversi, non esiste alcuna razionalità a priori del mercato da ripristinare mediante l’intervento dello Stato. Nessun ente collettivo è, infatti, legittimato a sottoporre le decisioni autonome del mercato a correzioni o limitazioni, né tanto meno a proporre misure efficientistiche che dovrebbero ispirare l’azione dell’autorità pubblica. Questo perché nessun ente collettivo è in grado di determinare il costo-opportunità (il valore che per il singolo individuo ha l’alternativa a cui egli deve rinunciare) sopportato da ogni agente individuale a seguito delle proprie scelte. Perciò, l’attenzione degli economisti deve 5 C’è chi ha parlato, con riferimento ai neoaustriaci, di «nichilismo teorico» (Barrotta-Raffaelli 1998). 6 Un mercato è efficiente in senso paretiano se e solo se non è possibile migliorare la condizione di alcuno degli operatori senza peggiorare quella di qualcun altro. Si può dimostrare che tale definizione descrive un mercato di concorrenza perfetta, in cui ciascuna impresa (price-taker) sa di non poter influenzare, con il proprio comportamento, il prezzo del prodotto (fissato al costo marginale). 7 Il punto è che nel mondo concreto la concorrenza tra le imprese è limitata da molteplici fattori quali la mancanza di perfetta informazione, l’esistenza di monopoli naturali, la presenza di protezioni brevettuali, la possibilità di comportamento collusivo tra le imprese, ecc. 15 n.18 / 2007 8 Dietro il cui apparente formalismo matematico, si celano processi storici reali, economicamente e politicamente significanti. Va, peraltro, rilevato che alla momentanea impasse della teoria economica neoclassica prodotta dalla critica sraffiana (per le sue implicazioni distributive, ma anche per l’emergere del fenomeno del c.d. «ritorno delle tecniche», che spezza il nesso tra l’intensità capitalistica della produzione ed il rapporto tra saggio di interesse e salario unitario), non ha fatto seguito alcuna corrispondente nuova «situazione classica», secondo la nota definizione di Schumpeter. 16 essere spostata dalla valutazione del fine del processo economico alle modalità con cui vengono effettuate le scelte collettive, dove l’unico criterio di valutazione ammesso è quello paretiano, ossia il criterio che regola lo scambio. Anche in questo caso valgono, tuttavia, alcune delle considerazioni già svolte con riferimento agli sviluppi del pensiero austriaco, talché non pare lecito parlare di metamorfosi nel paradigma della scienza economica. Piuttosto, con la Public Choice School «la prospettiva metodologica dell’economia austriaca viene estesa alle attività degli stati, delle burocrazie e dei politici e il fenomeno del fallimento del governo – l’incapacità del governo di conseguire il bene pubblico – trova una spiegazione» nella scarsa informazione di cui dispone lo Stato in merito alle reazioni del settore privato, nella limitata capacità di controllo dell’apparato burocratico, ovvero nei vincoli imposti dal processo politico (Gray, 1989, p. 77). Come si vede, siamo in presenza di un a ffina mento epistemologico tutto interno al filone di pensiero neoclassico-austriaco e non di un vero salto paradigmatico (sia pure nel paradigma). *** Stando così le cose, l’ultimo, ancorché controverso, tentativo di produrre un mutamento nel paradigma dell’analisi economica rimane quello, incompiuto, di Piero Sraffa8. Fatto curioso (e significativo) se si pensa che proprio all’economista di Cambridge, già biografo intellettuale di David Ricardo, si deve la dimostrazione della possibilità di coniugare in modo fecondo analisi economica stricto sensu e ricerca d’archivio. A testimonianza del fatto che le «visite in soffitta» possano rivelarsi assai profittevoli, anche sul piano della elaborazione teorica pura . Sempre all’eredità teorica di Sraffa è, del resto, riconducibile quel modo di fare SPE, al tempo stesso, attento «alle sue forme teorematiche» e alle «pressioni dei momenti storici» (Macchioro 2001, p. 525), diffusosi in Italia negli anni settanta, «quando studiare le opere di Keynes o di Ricardo non era considerato specializzarsi in SPE ma semplicemente fare buona teoria economica, prevalentemente, ma non sempre, alternativa alla ma instrea m economics» (Rosselli 2005, p. 9). Un modo di fare SPE, o, meglio, storia dell’a na lisi economica, oggi messo in discussione tanto dalla riforma universitaria, quanto dalle mode a zienda liste che nell’ultimo decennio sembrano aver contagiato studenti e atenei. Ma che annovera tra i suoi detrattori una parte non minoritaria degli stessi storici del pensiero economico, magari di prima o di seconda generazione. Per questi ultimi, la SPE dovrebbe tendere ad un affinamento degli strumenti di ricerca storiografica propriamente detti, senza curarsi troppo degli aspetti squisitamente analitici. L’approccio di storia dell’a na lisi economica, specie se adottato e praticato da economisti, ancor più se eterodossi , sarebbe invece «troppo “whig”, troppo influenzato dalla necessità di dimostrare la validità di una teoria economica a scapito di altre» (Rosselli 2005, p. 3). La SPE potrebbe allora abbandonare senza troppi rimpianti i dipartimenti di scienze economiche per trovare una diversa, ma più consona, collocazione in quelli di storia, filosofia o giurisprudenza (Rosselli 2005, p. 3), sancendo formalmente il definitivo ritorno degli economisti-storici al grembo materno. E, in effetti, se è vero che con la riforma «del 3+2» gli storici del pensiero economico, come, del resto, gli economisti hanno quasi ovunque perso, «hanno perso ancora di più gli economisti eterodossi-storici» (Rosselli 2005, p. 10), dato che si sono ridotti gli spazi della SPE proprio come ambito di formazione dei futuri docenti e ricercatori di discipline economiche. Viene da chiedersi come si Marco Passarella Per una storia analitica dell’economia politica possa diventare buoni economisti, sia pure economisti teorici , senza uno studio approfondito delle diverse strade seguite dalla scienza economica (che, specie negli ultimi trent’anni, hanno portato a tentativi di sintesi alternativi, nessuno dei quali veramente egemone sul piano della teoria positiva ), della loro storia e dei loro presupposti ideologici (le Welta nscha uungen , direbbe Wilhem Dilthey). Né, d’altronde, pare possibile fare buona SPE senza un’adeguata padronanza degli strumenti analitici (la «cassetta degli attrezzi» di cui parlavano la Robinson e Schumpeter) ed una chiara percezione dei fondamenti pre-analitici dell’economia teorica. Ma tant’è: prima di avere il tempo di porsi tali quesiti, lo studente di discipline economiche – verrebbe da dire, parafrasando un celebre passo di Joan Robinson – sarà «già diventato professore e così abiti mentali frusti sono tramandati da una generazione all’altra» (Harcourt 1973, p. 17). Il rischio è duplice: da un lato, quello di vedere ridotta la SPE a mero esercizio storiografico, tanto più virtuoso, quanto più distaccato (e dunque quanto più lontano nel tempo e nello spa zio) dall’«oggetto» d’indagine; dall’altro, che nelle facoltà di economia, accanto ai «famigerati» corsi di Management, trovino posto solo la Microeconomia manualistica, una Macroeconomia rigorosamente microfonda ta e l’Econometria. Discipline che contribuiscono «a dare alla scienza economica l’immagine di una scienza naturale, e non di una scienza sociale» (Longobardi-Lucarelli 2006, p. 5), politicamente significante. Né il fatto che gli studenti affollino i corsi aziendali mentre rifuggono da quelli di Teoria economica (Rosselli 2005, p. 10), inducendo una riduzione nel grado di ma tema ticizza zione della disciplina (connessa anche alla diminuzione nel numero delle relative ore di insegnamento), può essere considerato di buon auspicio. Tale fenomeno, infatti, non potrà che portare ad un restringimento degli spazi, già angusti, riservati alla decostruzione critica di categorie e strumenti d’analisi della scienza economica ufficiale. Con un ulteriore assottigliamento dei margini disponibili per lo studio degli approcci teorici eterodossi, come il filone di analisi neoricardiano o gli altri indirizzi di ricerca postkeynesiani (per non parlare dell’approccio classico-marxista, già da tempo bandito dalle Facoltà di Economia). Invero, nella storia della scienza economica, a differenza di quanto accade in altri ambiti di ricerca, non è possibile individuare uno sviluppo teorico unidirezionale e progressivo, in cui l’ultimo anello della catena della Conoscenza contiene in sé tutti i contributi precedenti. Detto in altri termini, la teoria economica che assurga allo status di dottrina egemone nell’ambito della comunità accademica non può considerarsi, per ciò stesso, anche la (o l’unica ) teoria «vera» o «giusta». Non pare, dunque, condivisibile la posizione di chi ritiene che approcci teorici alternativi a quello (ora) dominante debbano essere relegati nelle soffitte della scienza economica, archiviati come «irrilevanti» o «superati». Perché, se è vero che una teoria economica è sempre, in ultima istanza, una forma di a utora ppresenta zione della società, quest’ultima non è un monolite, ma l’espressione composita di gruppi o cla ssi di individui portatori di interessi pa rticola ri e, sovente, conflittua li . Tutto ciò non implica, ovviamente, che non si dia (o che non sia possibile individuare) una qualche forma di progresso scientifico all’interno di una singola scuola o di un dato programma di ricerca; né, tanto meno, che si debba rinunciare alla verifica della robustezza e della coerenza logico-formale di ogni teoria economica (sia essa ortodossa o eterodossa, espressa in forma discorsiva o formalizzata, nuova o antica). Ma è, nondimeno, doveroso ricordare che la classe sociale 17 n.18 / 2007 9 Come dimostrano le preoccupazioni manifestate di recente da Pasinetti in merito all’indagine condotta dal C.i.v.r. sullo stato della ricerca italiana (cfr. VTR 2001-2003. Risultati delle valutazioni dei Panel di Area, gennaio 2006). 10 Il che non significa affatto che l’esposizione diacronica agli studenti, per successive scuole di pensiero, sia «il modo migliore o l’unico» di insegnare SPE. In effetti, sovente «è molto utile e cattura l’attenzione prendere un problema particolare (la definizione di disoccupazione, la teoria quantitativa della moneta, il concetto di equilibrio) e far vedere come un concetto, che è stato presentato come self-evident, invece ab-bia alle spalle una lunga storia e molte controversie» (Rosselli 2005, p. 12). 11 Oppure nella forma dell’incrementalismo, che assimila il progresso scientifico «all’accrescimento di una palla di neve che scorresse per la china di un monte, raccogliendo dell’altra neve e di cui la superficie rappresenterebbe l’ignoto» (Pantaleoni 1910, p. 4). 18 di volta in volta dominante, benché giudice esigente della produzione scientifica, non è, in genere, anche un giudice imparziale. Che, insomma, benché in economia consistenza e robustezza di un sistema teorico costituiscano ceteris pa ribus importanti condizioni interne per la sua affermazione, più importante è la capacità del sistema di rispondere al desiderio di autorappresentazione del blocco sociale che lo ha adottato (condizioni esterne). Perché «quando la società ha bisogno di una teoria generale organica e ortodossa, la trova. ... E quando il mercato non offre un gran che, si prende quello che c’è anche al prezzo del sincretismo e della debolezza analitica» (Screpanti-Zamagni 2000, p. 30; anche p. 27). Malgrado ciò, lo spazio per l’analisi dei filoni di studi considerati eterodossi (che da sempre accompagnano la storia della scienza economica, costituendo, talvolta, un’anticipazione dei suoi sviluppi futuri) subisce da tempo una progressiva erosione9 e con esso si riduce la possibilità di fare SPE come critica delle teorie economiche (passate e presenti) e, al contempo, come teoria economica critica . Il che appare tanto più paradossale se si considera la crisi in cui versa, almeno sul versante della teoria positiva, il tradizionale paradigma neoclassico. In effetti, se di ma instrea m economics si può ancora parlare, ciò è reso possibile unicamente dalla convergenza della grande maggioranza della comunità accademica sugli aspetti squisitamente norma tivi della teoria economica in chiave merca tista (neoliberista , socia l-liberista o liberista tout court). È, in altri termini, l’adesione ad un, più o meno, temperato la issez fa ire in politica economica, l’unico vero collante di approcci teorici altrimenti assai differenti, quando non apertamente contrapposti. Basti pensare alla notevole distanza che si frappone, sul piano dell’analisi positiva, fra «mostri sacri» dell’economica del Novecento quali Hayek, Friedman o Samuelson. Ma se questo è il quadro, assai poco incoraggiante, che storici ed economisti critici si trovano a fronteggiare, si fa ancora più pressante l’esigenza di recuperare uno spazio adeguato per la SPE intesa come decostruzione critica e ricostruzione dia cronica di forme a na litiche differenti, perché storica mente determina te, di uno stesso pa ra digma epistemologico10. Una storia analitica dell’economia politica che eviti, al contempo, sia gli abbagli del continuismo a ssolutista , magari nella forma del «precursorismo» per cui tutto è già stato detto e la storia è ridotta ad eterno ritorno dell’identico11; sia le insidie, non meno perniciose, del relativismo o, meglio, dell’a na rchismo metodologico, che, al contrario, postula l’incommensura bilità di sistemi analitici elaborati in momenti storici differenti (Feyerabend [1975] 1991; per una posizione opposta, si veda Blaug [1968] 1970, pp. 20-21). È per questo che alla necessità di evitare chiusure settarie della disciplina – ritrovando un dialogo aperto con la storia, la filosofia della scienza e le altre scienze sociali – deve corrispondere un affinamento della strumentazione logico-matematica dei suoi studiosi. Con l’avvertenza che si tratta pur sempre di storia dell’analisi, in cui la ricostruzione rigorosa delle forme analitiche deve essere, infine, ricondotta alla determinazione dei processi reali che ne hanno visto la nascita, la diffusione, la caduta e, magari, la successiva riscoperta. Perché se lo studioso che sa di teoria può talvolta essere tentato di sostituire elenchi diligenti di nomi, date e titoli di opere, con riletture analitiche, più o meno fedeli, di un pensiero altrimenti assai frammentato, compito precipuo dell’economista -storico è, nondimeno, quello di fornire «un senso e una direzione» al tutto (Fusco 1996). Solo così, la SPE – intesa, appunto, come storia analitica dell’economia politica Marco Passarella Per una storia analitica dell’economia politica – può pensare di riguadagnare un ruolo di primo piano nell’ambito del mondo accademico italiano. Ma, soprattutto, può tornare a rappresentare il terreno sul quale, per dirlo à la Schumpeter, possono essere svelati e sottoposti a critica i presupposti ideologici delle teorie economiche. A partire, ovviamente, dall’a rché metafisico delle dottrine economiche di volta in volta dominanti. Riferimenti bibliografici Barrotta P. - Raffaelli T. (1998), Epistemologia ed Economia . Il ruolo della filosofia nella storia del pensiero economico, Utet, Torino. Barucci P. (2005), “On the Circular Process of Evolution of Economic Theory”, in Storia del Pensiero Economico, n. 2. Bellofiore R. 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Quale novità, quale mostro, quale caos, quale soggetto di contraddizioni, quale prodigio! Giudice di tutte le cose, stupido verme della terra; depositario del vero, cloaca di incertezza e d’errore; gloria e feccia dell’universo. Chi sbroglierà questo ingarbugliamento?” (B. Pascal) 1. Riaprirsi all’interrogazione Il più esplicito e profondo significato di un testo è racchiuso nella citazione scelta dall’autore all’inizio dell’epigrafe. Ed è con questa incisiva citazione di Blaise Pascal che Edgar Morin apre il Prologo al I tomo del V volume de La Méthode, dal titolo L’identità uma na . Un pensiero articolato in una lunga e complessa doma nda rivolta all’uomo dall’uomo. Il carattere metafisico dell’interrogazione consente all’uomo-filosofo francese di fare affermazioni che suonano come a ttribuzioni , creando una relazione identitaria tra Ente interrogante ed Ente interrogato. A colpire è la severità del giudizio, così tagliente, ambiguo, sprezzante, irrevocabile dal quale emerge l’immagine di un Ente soggetto-oggetto dai contorni sfocati, indefinibili e contraddittori, contemporaneamente denigrato ed esaltato, prima eretto a giudice di tutto e poi precipitato al rango di cloaca. Il linguaggio svela la polimorficità di un Ente che ha il carattere del mistero, della mostruosità e del prodigio insieme; del caos, dell’errore e della verità, della forza e della fragilità allo stesso tempo. Un’identità multipla efficacemente espressa che lascia inalterato nel tempo l’interrogativo antropo-filosofico e irrisolto il mistero della condizione uma na . Così come permane la forza prorompente evocata dall’angosciante domanda: Chi, cioè quale uomo, sbroglierà questo inga rbuglia mento? Un interrogativo che ci pone di fronte ad una metariflessione critica sulla storia evolutiva della nostra specie, sulle nostre narrazioni, sui modi di svelarci e di autorappresentarci. Interrogativo che ci impone di rimetterci in gioco, di destrutturarci e di ripensare la nostra attuale idea di uomo e di uma nità , per cercare di creare nuove condizioni di pensabilità e soluzioni di vivibilità più pertinenti. Nell’era dell’esplorazione dello spazio e del tempo profondi della nostra globalizzazione, si avverte ineludibile e cogente il bisogno di reinterroga re questa antica o recente nozione di uomo inserendo la nostra evoluzione storica 21 n.18 / 2007 1 T. PIEVANI, Homo sapiens ed altre catastrofi, Meltemi, Roma 2002. 2 E.MORIN, La Méthode 5. L'Humanité de l'Humanité. Tomo I: L'identité humaine, Editions du Seuil, Paris 2001; trad.it.: L'identità umana, Cortina, Milano 2002, pp 433, 435. 3 T. PIEVANI, Homo sapiens ed altre catastrofi, cit. p.25. 22 (siamo apparsi come umanità sul pianeta da appena un milione di anni) nella più ampia e complessa storia na tura le. La cui storia conosciuta copre poche migliaia di anni, un intervallo di tempo molto trascurabile, rispetto al tempo profondo della storia biologica della Terra. Per riesaminare, in modo altrettanto profondo, gli esiti, i prodigi, le mostruosità e gli errori che – nel bene e nel male – hanno segnato la nostra avventura cognitiva. Interrogandoci sulle scelte e creazioni che hanno reso possibile la molteplicità di storie, evoluzioni , coevoluzioni e biforca zioni e che dentro la nostra storia si sono intessute e intrecciate con quelle degli altri esseri, per sviluppare nuclei percettivi capaci di generare una molteplicità di eventi di tra sforma zione attraverso i quali delineare nuove possibilità di scelta, nuove na rra zioni e nuove interpreta zioni . E scoprire anche se effettivamente la storia sia andata proprio come noi l’abbiamo narrata o se invece altre a noi sconosciute contingenze, migrazioni e derive l’hanno segnata. Se la storia na tura le della globa lizza zione della specie umana, iniziata da alcuni cespugli di “ominidi” e proseguita con una specie “esploratrice” chiamata Homo sa piens (Pievani 2002),1 si sia sviluppata proprio come la vulgata evoluzionista l’ha raccontata oppure se, invece, sia andata diversamente da come speravamo e abbiamo creduto che fosse. In un certo qual modo la storia umana è assimilabile alla storia del cosmo: un torrente tumultuoso di crea zioni e di distruzioni, in un miscuglio di ra zionalità organizzatrice, di rumore e furore e di strabilianti atrocità e barbarie. Questa sublime e terribile identità è incisa in noi come in una sorta di memoria ereditaria, come se il cosmo ci avesse creati a sua immagine (Morin 2002, 433-435)2. Per cui più che una storia eroica di conquiste, sostiene Telmo Pievani, si potrà scoprire che la nostra è un “tessuto di fili sottilissimi e multicolori, come una tra ma di interdipendenze ina spetta te, di rela zioni sconosciute, di ra dici intreccia te”. Una storia che sarà comunque incompiuta , come incompiuto è il destino della nostra specie (Pievani 2002, 25)3. Un antico poeta persiano ha paragonato la storia dell’universo ad un gra nde ma noscritto del quale la prima e l’ultima pagina sono andate perdute. Questa suggestiva ipotesi corrobora la tesi che la complessità non è un artificio intellettuale, ma una emergenza che nasce dallo sviluppo delle scienze evoluzionistiche, della scienze della mente, della genetica e dalla microbiologia, i cui risultati si intrecciano con le esplorazioni del tempo e dello spa zio profondi che la nuova cosmologia sta effettuando in modo interdisciplinare con l’ecologia, l’archeologia e la paleontologia. Sguardi inediti che impongono approcci nuovi allo studio della fisica, della biologia, delle scienze della vita ma che permettono di scrutare e raccontare nuovi scenari di esistenze ignote o estinte, oppure predittive di a ltre ancora possibili. La complessità delle problematiche esige la complessifica zione delle epistemologie e richiede l’abbandono delle consolanti logiche di semplificazione e riduzione, come anche illusori piani armonici e leggi di uniformità che la tradizione classica ha proposto, per attivare, invece, procedure investigative capaci di crea re linguaggi, di rigenera re domande e di reinterroga re risposte, evitando come suggerisce Romain Gary, di ridurre l’uma no a ll’uma no. Pertanto, una prospettiva evoluzionistica che voglia essere veramente non riduzionista e non disgiuntiva ma multidimensiona le e complessa non può restringersi alla sola dimensione umana, ma deve estendere il suo sguardo all’intero la bora torio terrestre. A questo nostro pianeta, nostro nel senso proprio dell’ap- Santa De Siena partenenza e del possesso, di questo sterminato cantiere vivente dove si crea e si distrugge incessantemente la vita, nel quale nel tempo e nello spazio, si sono manifestate le costa nti e le va rietà uma ne – individua li, cultura li, socia li. Dal quale pluriverso nessuna varietà può essere esclusa o subordinata in quanto tutte le va rietà sono significa tive e tutte le costa nti sono fonda menta li. (Morin 2022, 58-60)4. R. Rorty sostiene che la filosofia non è lo specchio della na tura , che cioè non ci sia una necessaria corrispondenza tra logica e realtà. Non è infatti la specula rità a tracciare la filosofia ecologica di Edgar Morin, quanto piuttosto il dia logo possibile fra le forme della vita e le forme del pensiero. Soltanto la sua dia logica , espressione di una razionalità complessa, evolutiva ed ecologica è in grado di delineare (non di definire) la portata creativa della diversità vivente. Gettando lo sguardo binocula re la prospettiva evoluzionistica offre pieno diritto di cittadinanza al plura lismo e alla diversità , e può mostrare, così, come la varietà, l’eterogeneità delle forme sia generativa sia della razionalità che della vita. E senza cedere a facili suggestioni, occorre comprendere come spesso l’una non sia riducibile all’altra e viceversa. Si tratta di due storie complementari e parallele, quelle delle idee e dei saperi e quella della realtà fenomenica, entrambe ricche e affascinanti, che spesso si sono incontrate e intrecciate, costellate da significative corrispondenze, rotture, discontinuità, contingenze, biforcazioni, derive e ibridazioni. Senza voler mettere sotto accusa le passate tradizioni o rifiutare l’innegabile progresso che i differenti approcci delle diverse tradizioni del passato hanno elaborato, si può ragionevolmente ritenere che la tendenza a prediligere culturalmente lo schema che associa un modello matematico ad una verifica sperimentale e a far corrispondere l’universo alle forme di conoscenza elaborate dall’umanità, è stato predominante ed ha avuto storicamente la sua efficacia. Tuttavia è importante sottolineare come molte prospettive si siano rivelate, di fronte alla complessità, estremamente riduzioniste e che oltre al formalismo matematico altri schemi sono logicamente possibili e utilizzabili (Ekeland 1991, 58-60)5. Così come si può ormai assumere definitivamente l’idea che l’acquisizione delle conoscenze della specie umana non procede per accumulazioni, non è cioè a dditiva , come si è ritenuto fino a pochi decenni fa, ma è piuttosto moltiplica tiva ; e che percepire la dimensione dell’incertezza nelle conoscenze non può voler dire accrescere il disagio o lo scoramento, ma sviluppare il nostro desiderio di ri-pensa re e di ri-vivere l’esperienza cosmologica di disgregazione e frammentazione del cosmo che ha segnato la modernità. Anche se la nostra esperienza è resa ancora più drammatica e intensa dal fatto che oggi abbiamo sotto gli occhi la tra iettoria di sviluppo, siamo cioè più consapevoli delle scelte, delle conquiste, e anche dei fallimenti pensati e prodotti dalle ricerche scientifiche e dalle riflessioni filosofiche. Assumere l’idea che nuove biforca zioni e possibilità crea tive dell’umanità contemporanea sono ancora possibili, ma che esse dipenderanno in modo decisivo dalle nostre capacità di ascolto e dalla capacità di creare nuovi modelli che non contrappongano più verità ed errore, mente e natura (Bateson 1984) 6, filosofia e scienza, mente e corpo, per percepirci, invece, in un’unica biosfera dinamica. Si delinea la possibile emergenza di una nuova coerenza , di un nuovo sta to di sta bilità rela tiva della civiltà uma na : interconnesso a quelli a ntecedenti, ma non loro culmine e completa mento inevita bile e necessa rio. Dopo la sta - Cosmosofia 4 E. MORIN, La Methode 5, Prologo, cit. p. XVIII. 5 Cfr. I. EKELAND, A caso. La sorte, la scienza e il mondo, trad. it., Bollati Boringhieri, Torino 1991, pp 58-60. 6 G. BATESON, in Mind and the Nature, A Necessary Unity, 1979, (trad. it.: Mente e Natura, Adelphi, Milano 1984) ci insegna che evoluzione e apprendimento sono due sistemi profondamente simili, che occorre esplorare congiuntamente per ricomporre la frattura tra Mente e Natura che la modernità ha creato. 23 n.18 / 2007 7 M. CERUTI, Evoluzione senza fondamenti, Laterza, Bari-Roma, 1995, p. 86. 8 Cfr. E. MORIN, La ragione eretica, in <<Quaderni razionalisti>> 2/3, 1983; e E.MORIN, La ragione e le ragioni, La ragione derazionalizzata, in <<Lettera internazionale>>1, 1984. 9 Cfr. AA.VV., La crisi della ragione, a cura di A. Gargani, Einaudi, Torino 1979. 10 Cfr. R. RORTY, La filosofia dopo la filosofia, trad. it., Laterza, Roma-Bari 1990. 24 bilità delle civiltà a rca iche rela tiva mente isola te e sepa ra te l’una da ll’a ltra , dopo il furore provoca to da l conta tto e da l conflitto fra le civiltà storiche, sa rà possibile l’emergere di una nuova civiltà pla neta ria in cui il bila ncio penda a fa vore della plura lità piuttosto che della omogeneità , a fa vore della crea zione piuttosto che a fa vore dell’elimina zione di ciò che è considera to <<supera to>>, a fa vore della sperimenta zione e della diversifica zione piuttosto che della sta nda rdizza zione? (Ceruti 1995, 86)7 Essere al plurale È noto come già Heidegger si sia posto oltre il pensiero meta fisico oblia nte l’Essere, riproponendo l’interrogativo ontologico a partire dal punto in cui lo aveva volutamente tralasciato Kant, ritenendolo un percorso impraticabile attraverso la via metafisica. Il pensiero ecologico di Morin, a differenza di Heidegger, riprende il discorso scegliendo un sentiero che è contemporaneamente fenomenologico ed epistemologico, filosofico e poetico. Un itinerario inesplorato da Kant, e da Hegel, e neppure da Marx ed Husserl, con il quale egli ridelinea, alla luce dei risultati dei nuovi saperi e delle rivoluzioni scientifiche contemporanee, una ri-organizzazione scientifico-filosofica ed ontologica del sapere, non soltanto dell’Essere e del vivente, ma anche della metafisica e della razionalità umana, liberate dalla artificiosa polarità uma nistica e scientifica . Egli ha sottoposto a revisione critica la ra ziona lità nella molteplicità delle sue forme, comprese quelle del delirio ra ziona lizza nte, per giungere non ad una sua nichilistica demolizione, ma al suo oltrepa ssa mento. Dove l’oltre non è inteso come il semplice superamento dialettico del ra ziona le e dell’irra ziona le, nell’ottica di una logica superiorità progressiva ed infinita. Ma, al contrario, dove l’oltre è l’a ltro, cioè le differenti forme in cui la razionalità umana può manifestarsi; è la possibilità di esplorare le differenze di una ra gione multipla che le include in sé. Una ra ziona lità a perta che si lascia pervadere e contaminare dai dubbi e dalle incertezze senza lasciarsi sopraffare, ma che nel dubbio e con il dubbio, invece, si arricchisce, rafforza, rianima e rivitalizza e, nello stesso tempo, si rende più complessa , incerta , preca ria , contingente (Morin 1983; 1984)8. Morin sferra il colpo di grazia ad una ragione, la cui integrità è stata compromessa nell’orgoglio e nella presunzione della sua unicità , a ssolutezza e universa lità (Gargani 1979).9 Un processo già avvertito da Nietzsche e Heidegger e che con J. F. Lyotard pone le premesse di un post-modernismo aperto a nuove possibilità evolutive (Rorty 1990)10. Proprio attivando il gioco delle decostruzioni e ri-costruzioni la ra gione a perta di Morin ha risemantizzato una nuova epistemologia di ricerca, ridisegnato nuovi scenari di senso, imprimendo così una svolta ra dica le ad un antropocentrismo ed etnocentrismo ingenui, fondati sul modello gra dua lista che l’evoluzionismo darwiniano, con la sua fiducia in un inarrestabile progresso, avevano prefigurato. Creando nuove meta fore evolutive basate sulla rela zione e sulla reciprocità , ha messo in scacco le meta fore mecca nicistiche e riduzionistiche basate sulla sepa ra zione e sull’unicità dei sistemi, con le quali si è costruita un’immagine sociale della natura dopo aver costruito un’immagine della società come macchina. Per Heidegger solo l’uomo è un ente singola re, che ha la possibilità di essere diverso da ciò che è, mentre gli altri enti, come gli animali, vegetali, cose, sono Santa De Siena sempre ta li a come sono. Oltre ad essere singola re e ad avere possibilità di progetta rsi il proprio modo di essere, l’uomo è anche sempre in gioco, ed ha l’opportunità di giocare con se stesso e con il proprio destino. Potendo autoprogettarsi, solo dell’uomo può dirsi che ha <<esistenza>>, che ex-siste ed è perciò esposto alla possibilità di realizzarsi a utentica mente o di perdersi nell’ina utenticità . Tutta la struttura fondamentale dell’Esserci è caratterizzata da questa esistenza assolutamente singolare data dal suo essere-nel-mondo. Solo l’uomo, che non è dentro il mondo, ma ex-siste, ha molti modi possibili di essere-nelmondo. L’Essere heideggeriano si autoprogetta ed è dominato dalla Cura (con la C maiuscola), può estendere il suo orizzonte di vita e utilizza re ciò che incontra e, secondo la struttura dell’essere-nel-mondo, avere una duplice possibilità: quella di perdere ciò che ha di più proprio e cadere nell’anonimato, oppure a ver-cura di sé e degli a ltri , intendendo qui per altri gli a ltri uomini. Non c’è alcun dubbio circa la carica problematica nei confronti della soggettività espressa dal pensiero di Heidegger; come resta indiscusso il suo colpo di forza ermeneutica e la validità delineata dalla situa zione emotiva e dalla comprensione con le quali si realizza l’Esser-ci umano. Prospettiva che ha aperto la strada al multicultura lismo e all’idea di una etnicità terrestre. È però possibile interrogarci sui limiti di una prospettiva esclusivamente a ntropocentrica per riavviare la macchina riflessiva proprio su ciò che appare più scontato. Rivendicando proprio ciò che Heidegger ci ha insegnato ossia il diritto all’interrogazione, intesa sia come ri-flessione, sia come media zione. Per esempio, siamo proprio certi che sia solo l’uomo ad esistere? Certamente è il solo che può porsi gli interrogativi sul suo destino e, trascendendo se stesso, autoprogettarsi. Ed è, per quanto sappiamo, il solo che può coniugare i verbi al futuro, ma non il solo ad anticiparlo al presente. Nella temporaneità, infatti, ogni singolo si vive il proprio presente nella assoluta certezza dell’incertezza del domani. Sappiamo però che in ogni essere vivente, dotato di sistema nervoso, si sviluppano strategie cognitive, volitive e comportamentali con le quali è costantemente messo in gioco il proprio destino (Morin 1988, 41).11 È possibile domandarci, inoltre, quale sia stata, e quale è, la relazione tra il modo di essere-nel-mondo proprio dell’uomo e quello degli altri esseri o enti? Dall’ultimazione di Sein und Zeit nel 1927 a oggi è possibile riflettere sulle scelte a nticipa trici della morte che l’angosciata umanità ha fatto nel corso di questo tempo? Possiamo ripensare se sia sempre e solo l’uomo a giocare con il proprio destino o se, con il suo agire egli non definisca i confini delle scelte anche dei e per gli altri sistemi viventi, mettendo in gioco lo stesso destino del mondo. Interrogandoci se davanti agli effetti provocati dall’impronta ecologica umana e alla portata catastrofica delle emergenze ambientali cui assistiamo sia sempre maiuscola la C della Cura che domina il nostro orizzonte di senso. E ancora, nella società delle interdipendenze sistemiche, dell’informazione e della comunicazione mediatizzata, del consumismo planetarizzato e della globalizzazione economica, chiederci quale sia lo spazio della scelta e in che modo si possa ancora pensare l’a utenticità . Domandarci se la comprensione emotiva mente situata possa generare a utocomprensione o se nel frattempo non si sia totalmente smarrito il senso stesso del vivere, teso solo al hic et nunc di ciascuno e che ciò può accadere sia nel cuore delle grandi metropoli che nei ghetti delle periferie o delle bidonvilles; se non si riesca a dare conto dei perché di un unico e devastante modello di svi- Cosmosofia 11 E. MORIN,La Mèthode II, La vie de la vie, Editions du Seuil, Paris 1980; trad. it. Il pensiero ecologico, (parte prima), Hopefulmonster, Firenze 1988, p. 41. Ogni volta che valuta una scelta, che sia quella della via di fuga, della ricerca del cibo o della socialità, l’ente animale, sia esso un gatto o una lepre, mette in atto una strategia cognitiva di difesa o d’attacco ed effettua un’attività di cogito/computo che comporta in sé la possibilità di vita o di morte. La più semplice competizione che si istituisce tra un predatore e una preda mette in gioco un sistema di eco-comunicazione fra individualità intelligenti in modo tale da ottenere il maggior numero di informazioni relative al proprio nemico, eliminando il rumore, e nello stesso tempo ingannandolo con azioni di distrazione e di disturbo. Un doppio gioco antagonistico che sviluppa intelligenza, astuzia, decifrazione, decriptazione, investigazione, ipotesi e strategia. 25 n.18 / 2007 12 E. MORIN, La Methode 5, cit., p. 7. luppo e della necessità della crescita economica ad ogni costo; se il senso del nulla non sia proiettato ed esteso al tutto e, dentro questo tutto anch’esso nullifica to, l’individuo non riesca ad aprirsi un varco che non è più solo a pertura , possibilità , ma spesso diventa soltanto vincolo, limita zione, condiziona mento. Pur volendo considerare questo il nostro destino, la nostra condizione ontologica, che cosa accadrebbe se quel tutto indecifrabile, di cui non si possono né dire né pensare i confini, ma che si associa al principio di sopravvivenza del a d ogni costo, si riducesse e fosse rapportato alla sola propria individuale egoistica temporalità e, dunque, al breve spazio di vita di ciascuno? Se il rapporto con la morte diventasse solo quello della mia morte e la mia contingenza mi impedisse di aver cura degli a ltri ? Heidegger giustamente riteneva che l’essere-per-la -morte aprisse all’autoprogettazione, ma la complessità ci insegna l’ambivalenza cui ogni nozione si presta, le ambiguità interpretative implicite nelle decisioni, ognuna delle quali sarà ritenuta per sé autentica. E ciò vale sia quando si ha l’ambizione di progettare una nuova arma letale o una nuova centrale nucleare, sia quando ci si batte per la difesa dei diritti. E infine, fino a che punto la voce della coscienza può richiamarci alla moralità e alla decisione anticipatrice della morte se la morte in questione è la morte termica ? Un sapere questo che apre a nuove consapevolezze e nel contempo a nuovi conflitti etici. Perché è fuori di dubbio che se c’è morte nel cosmo, non possiamo sfuggire a questa morte e la morte non è solo “una fa ta lità del nostro destino biologico, è a nche una fa ta lità ultima del nostro destino fisico” (Morin 2002, 7).12 3. Essere è comunità 13 Cfr.T. PIEVANI, Le molte nascite dell’umanità, in M. CALLARI-GALLI, M. CERUTI-T. PIEVANI, Pensare la diversità, Meltemi, Roma 1998, p. 88-89. 14 Cfr. R. ESPOSITO, Communitas. Origine e destino della comunità, Einaudi, Torino 1998, p.XXV. 26 La modernità rappresenta per molti versi l’atto di nascita dell’individua lismo; storicamente è il momento nel quale l’individuo si è svincolato dal debito che lo legava agli uomini in un rapporto di reciprocità. Si è così rotta o interrotta l’ambivalenza implicita nel concetto di munus che è sì dono, ma anche obbligo, beneficio, prestazione. È lo spazio sociale descritto e prescritto da Hobbes che da un lato ha liberato, emancipato il singolo da ciò che ne minacciava l’identità, ma dall’altra lo ha separato, atomizzato, scindendolo dagli altri. Questa rottura non lascia posto ad alcun debito di riconoscenza verso nessuno, neppure verso la natura, tranne che nei confronti dello Stato, che di per sé ha il carattere dell’astrattezza e della neutralità, ma che poco incide sull’etica comportamentale dell’individuo e delle sue possibilità. Da quel momento nessun argine pare opporsi alla mente onnipotente e alla ragione strumentale di quell’essere che solo una piccola variazione del corredo genetico (Pievani, 1998, 88-89)13 ha reso egemone, che afferra e prende tutto ciò che ritiene utile attraverso l’estensione delle sue capacità teoriche, applicando con sistematica precisione la sua etica di controllo e di dominio. Al contrario di quanto afferma l’etica cristiana, il prendere pa rte è inteso come un a ppropria rsi , un fa r proprio. Non a caso Hobbes teorizza la società ca initica nella quale ciò che gli uomini hanno in comune è soltanto la loro uccidibilità genera lizza ta , ossia la capacità di uccidere e di essere uccisi (Esposito 1998, XXV).14 Sostenendo che la communita s si porta dentro un dono di morte, il filosofo del Leviatano riteneva di poterla mettere in discussione contestandone i Santa De Siena fondamenti. Purtroppo, non soltanto in quello sta to di na tura l’essere umano ha generato a ltri destini di morte, ma anche in quello socia le, in quanto, ampliando le possibilità della vita ha anche ampliato le possibilità della morte, le cui cause non sono più legate a quelle originarie, ma sono il frutto delle scelte e delle interazioni sistemiche prodotte. Non risparmiando nessuna critica alla modernità, Vandana Shiva ritiene che bisogna andare alle radici proprio di quel pensiero per capire l’ideologia che ha sancito il saccheggio della natura e della Madre-Terra; rileggendo le pagine della Nuova Atla ntide di F. Bacone, ad esempio, si possono scorgere le anticipazioni di quelle biotecnologie che stanno oggi sconvolgendo i naturali cicli biologici (Shiva 2002)15. L’idea di un comune destino di morte è da sempre presente nella coscienza e nel pensiero filosofico occidentale. Una volta na ti, affermava Eraclito, vogliono vivere ed a vere destino di morte, e la scia no figli perché nuove morti si generino. (Eraclito, f. 22 B 20)16 Nel descrivere la condizione umana, più che considerare un male la nascita, il filosofo di Efeso, pare riferirsi alla tensione e all’unità degli opposti, di un destino umano che è di morte-riproduzione-morte degli individui, la cui successione soltanto sancisce la permanenza della specie. Nella stessa cornice di morte-rinascita Morin parla di Comunità di destino nella quale ciò che ci accomuna non è la salvezza, ma la perdizione. Un destino questo che per Heidegger sta davanti, di fronte a noi, e le modalità di vivere dipendono dalle nostre possibilità di scelta, mentre per Hobbes era una condizione anteriore, dalla quale affrancarsi e immunizzarsi sciogliendo il legame originario e istituendone un altro artificiale attraverso il contratto. Per la logica ricorsiva di Morin, invece, entrambe le condizioni coesistono e il nostro destino di esseri perduti è sì davanti a noi, ma anche dietro di noi, è la struttura ontologica dell’Essere. La sua filosofia di vita e di morte racconta che siamo nati dalla catastrofe, che la vita sul nostro pianeta nasce dalla morte, dalla deflagrazione e dalla disintegrazione; organizzandosi la vita si nutre di morte e la morte si nutre di vita: vive ciò che si conserva attraverso la propria autodistruzione. Un destino che sembra immerso in un tempo profondo, mentre il nostro sistema solare va ineluttabilmente incontro alla morte, e forse si spegnerà o esploderà tra cinque miliardi di anni. È nella via di mezzo, tra questa fine termica annunciata e l’inizio della vita planetaria che si situa la nostra storia, iniziata con l’ominizza zione, ed ha la possibilità di concludersi con la nostra uscita anticipata dalla storia . (Secondo l’approccio evoluzionistico, infatti, la caratteristica della vita è data dall’attività prolungata del sistema biogeochimico e non dalle specie individuali che nascono, vivono e muoiono).17 Ma nonostante l’ineluttabile destino, permane la possibilità di scegliere di anticipare o posticipare la sopravvivenza della nostra specie, rispetto alle a ltre storie evolutive (Rifkin 2000).18 Il destino di perdizione del quale parla Morin, dunque non solo è davanti a noi, ma nello stesso tempo è anche dietro e dentro di noi, perché le attuali possibilità di sopravvivenza futura dipendono dal modo in cui a bitia mo e abbiamo a bita to questo pianeta. Dipende dalle scelte di vita e di morte, dalle innumerevoli e fantastiche storie di coevoluzione naturale che abbiamo fin qui contribuito a scrivere e da quelle che intendiamo, per ciò che resta del nostro futuro cosmico e intergalattico, continuare a scrivere. Questo formida bile cosmo è lui stesso vota to a lla perdizione. È na to, dunque Cosmosofia 15 Cfr. V. SHIVA, Terra Madre, Sopravvivere allo sviluppo, Utet, Torino 2002. 16 ERACLITO, frammento 22 B 20 (Diogene Laerzio). 17 Secondo l’approccio evoluzionistico, infatti, la caratteristica della vita è data dall’attività prolungata del sistema biogeochimico e non dalle specie individuali che nascono, vivono e muoiono. 18 Cfr. J. RIFKIN, Entropy. Into the Greenhouse World, Penguin Putnam Inc. 1989; trad. it. Entropia, Baldini & Castoldi, Milano 2000. 27 n.18 / 2007 19 E. MORIN, A. B. KERN, Terre-Patrie, Ed. Du Seuil, Parigi 1993; trad. it.TerraPatria, Cortina Ed., Milano 1994, p. 173. 28 morta le. Si disperde a velocità folle, mentre gli a stri si ta mpona no, esplodono, implodono. Il nostro Sole, che succede a due a ltri solo defunti, si consumerà . Tutti i viventi sono getta ti nella vita senza a verlo chiesto, sono promessi a lla morte senza a verlo desidera to. Vivono fra nulla e nulla , il nulla prima , il nulla dopo, circonda ti da l nulla dura nte. Non sono solta nto gli individui a essere perduti, ma presto o ta rdi, l’uma nità , e poi le ultime tra cce di vita , e più ta rdi la Terra . Anche il mondo va verso la morte, che sia per dispersione genera lizza ta o per ritorno implosivo a ll’origine...Da lla morte di questo mondo forse na scerà un a ltro mondo, ma a llora il nostro sa rà irrimedia bilmente morto. Il nostro mondo è vota to a lla perdizione. Sia mo tutti perduti (Morin 1994, 173).19 Con questo Va ngelo della perdizione Morin afferma con forza l’idea che sia mo tutti perduti . Gli individui, le cose, gli animali, le piante. Ma con il suo tono assertivo intende, forse, cedere alla tentazione di una ontologia negativa, o la sua è, soltanto, una metafora viva? Al di là dell’apparente paradosso due ipotesi sono possibili. Da un lato c’è forse il bisogno, la necessità di “perdersi ”, di vivere cioè l’esperienza dell’errore e dell’errare per ritrova rsi e della possibilità di riconoscersi infine tutti fratelli. È una prospettiva gradualista che corrisponderebbe allo schema hegeliano della necessità del negativo nel processo dialettico del divenire. Dall’altra la visione non lineare ma circolare e radicale del tutto muore, l’uomo, la terra, la biosfera, il sole. Questa prospettiva implica però l’idea che dalla morte nasca la vita. Dalla distruzione del nostro pianeta rinascerà probabilmente, anche se altrove, la vita. C’è perciò la morte ma c’è anche la possibilità virtuale della rinascita. Inoltre, c’è l’idea che la morte come la vita non è solo fisica, biologica, chimica, è anche esistenziale, sociale, culturale. C’è dunque anche l’idea della trasformazione e della rigenerazione. Errare nel duplice senso di sbagliare, di non cogliere la verità, ma anche di essere viandanti, di vagare, vagabondare alla ricerca di noi stessi e del nostro ra dica mento terrestre. La presa di coscienza della nostra perdizione, del nostro Da sein, dell’Essere-gettati e dell’Essere-perduti ci fa assumere definitivamente la condizione dell’incertezza e dell’inquietudine, ma allo stesso tempo ci fa scoprire la rela zione poetica con la Terra. Perchè è comunque in questo destino ambiguo, straordinario e angosciante, preludio forse di nuove aperture, che dobbiamo dibatterci. Si delinea così la prospettiva di un’estetica ecologica che apre ad un esistenzia lismo ecologico che è anche un’etica, una religione terrena che possa, con il suo precipitato assiologico, unificare le incertezze evolutive del sistema vivente con le incertezze cosmiche del pianeta terrestre, e offrire all’interrogazione filosofica sulla nostra comunità di destino, nuove opportunità e cha nces di vita. Un ruolo cruciale è dato dal recupero del con-essere, l’essere cum che la nozione di comunità contiene e che la modernità ha spezzato, per ristabilire, ri-lega re la re-la zione, cioè il legame non solo tra gli uomini che le leggi dello Stato hanno reso immuni dal debito, dall’obbligo di riconoscenza verso il dono della vita, ma anche tra tutti gli uomini e gli a ltri esseri viventi, senza i quali è impossibile concepire la vita del nostro sistema. Ciò è possibile a lterizza ndo la nostra comune condizione di destino, rendendola inclusiva delle altre specie e delle altre organizzazioni viventi, in un’unica biosfera dinamica. Si tratta di preserva re e conserva re l’intero eco-sistema non nella logica del sa crificio, ma nella logica del vivente, dello scambio, del munus, della reciprocità dell’Essere. Santa De Siena Condividere lo stesso destino di esseri perduti non significa ampliare il vuoto ra dica le dentro di noi e il vuoto cosmico fuori di noi, significa, per dirla con G. Bataille, non immunizza rsi dal dono della reciprocità immolando al sacrificio il cum in nome di una sterile individualità, ma liberare quell’eccedenza di energia catturata dentro l’ambivalenza della relazione comunitaria. La comunità planetaria non può essere intesa come un nuovo Leviatano esteso all’intero globo, istitutivo di un nuovo ordine o contratto aperto questa volta ai non-umani, ma è vivere nuovi orizzonti di senso, nella contingenza e nell’ambivalenza delle possibilità date, cioè dona te. È lasciarsi attraversare dal flusso di vita e di morte che ci possiede quando ci a lteria mo, nel senso che andiamo oltre noi stessi ed esperiamo la nostra apertura entrando in rapporto con lo stesso impulso espropriativo nelle nostra relazione con gli altri. Quando percepiamo un’irresistibile impressione di perderci e di ritrovarci allo stesso tempo. Dell’essere e del nonessere individuo nella relazione (Esposito 1998, XXXII)20. Accettare la coevoluzione oltre che la interdipendenza implica il riconoscimento e lo sviluppo di una prospettiva etica che accetti la reciprocità come condizione inevitabile per riscoprire, così, il munus che ci radica nuovamente alla nostra Terra Ma dre (Shiva 2002).21 Nel mutuo scambio tra ecosistemi ciò che la natura ci dà è influenzato da ciò che noi dia mo alla natura. Ed è del tutto evidente l’ineguaglianza di questo rapporto: lei ci offre cibo, noi le diamo rifiuti . Invece, ogni impegno per la vita deve consentire ai modi della vita di fiorire e rifiorire nuovamente. La nozione di ricchezza è sinonimo di vitalità collettiva e si riduce a zero se non c’è circolarità, se non è occasione di scambio reciproco. Lo sca mbio è un regolatore importante della vita sociale ed economica di tutte le civiltà e di tutti i tempi, ma questo purtroppo non accade oggi nello scambio con la Natura. In ogni relazione bisogna avere la capacità anche di da re oltre che di a vere, e ricevere non è un atto materiale e banale, ma un processo di seduzione reciproca e di tra sforma zione intersoggettiva . Le civiltà del passato avevano un maggiore senso di responsabilità nei confronti della natura; esse vivevano in rapporto di reciproca relazione con la foresta, con il mare, con la Terra di cui si aveva cura e si provava timore; l’uomo moderno ha sviluppato, invece, il suo egoismo preda torio e strumentale su tutto. (Passmore, 1986)22 L’uomo primitivo comprendeva che la vita è dono, è scambio ed anche il rito e il sacrificio avevano questo significato di scambio simbolico di cui parla J.Baudrillard. L’uomo moderno ha aspirato al controllo, al potere, al dominio sull’ambiente. Razionalizzando ed economicizzando ogni rapporto con l’altro, con gli altri, ha ignorato l’insuccesso, lo spreco, la ridondanza creativa che invece la poiesis suppone; liberando il suo impulso possessivo egli ignora così il dono senza contropartita, senza reciprocità, lo scambio come principio di co-creazione. Per avere una cosciente percezione della natura perversa di questo rapporto è sufficiente interrogarsi su cosa prendiamo e cosa riceviamo come società umana oggi dalla biosfera e cosa doniamo, invece, nello sca mbio ecologico con il pianeta: soltanto rifiuti e inquinamento, doni velenosi . Cosmosofia 20 E. ESPOSITO, Communitas, cit., p. XXXII. 21 Cfr. V. SHIVA, Terra Madre, Sopravvivere allo sviluppo, cit. 22 Cfr. J. PASSMORE, Man’s responsability for nature, Gerald Duckworth & Co. Ltd.,London, 1984; trad.it., La responsabilità per la natura, Feltrinelli, Milano 1986. Come ci ricorda qua lsia si libro di ecologia , la popola zione uma na ha bisogno di cibo, a cqua , a ria e sosta nze nutritive per crescere, per sostenere l’orga nismo e per riprodursi. I sistemi economici, industria li e tecnologici da noi crea ti richiedono energia , a ria , a cqua e un’enorme va rietà di meta lli, sosta nze chimiche (molte delle qua li di origine industria le e quindi <<nuove>> per i 29 n.18 / 2007 23 LESTER R. BROWN, Eco-economy: Building an Economy for the Earth, Earth Policy Institute 2001; trad.it.: Eco-Economy. Una nuova economia per la Terra, Editori Riuniti, Roma 2002, p. 13. 24 A fare emergere le questioni ambientali come un grande tema delle politiche nazionali e internazionali e a cogliere per prima la sfida dell’ipotesi di uno sviluppo sostenibile con carte, documentazioni e progettualità specifiche è stata la Conferenza su Ambiente e Sviluppo (UNCED) svoltasi a Rio de Janeiro nel giugno del 1992, cui ha fatto seguito la Conferenza di Aaalorg in Danimarca nel 1994 con la quale ebbe inizio la Campagna Europea Città Sostenibili. 25 Cfr. G. BOCCHI- M. CERUTI, (a cura di), La sfida della complessità,Feltrinelli, Milano 1985. 26 H. von FOERSTER, Attraverso gli occhi dell'altro, Guerini, Milano 1996. 27 Cfr. D. H. MEADOWSD.L.MEADOWS- J.RANDERS-WW.BEHRENS, I limiti dello sviluppo, Mondadori, Milano 1972. 30 meta bolismi degli stessi sistemi na tura li) e biologiche che servono a produrre beni e servizi. Secondo le fonda menta li leggi fisiche i ma teria li e l’energia impiega ti da lla popola zione non scompa iono; i ma teria li diventa no rifiuti e inquina mento o vengono ricicla ti mentre l’energia viene dissipa ta come ca lore e diventa non più sfrutta bile. La popola zione tra e quindi ma terie prime e la ma ggiore pa rte dell’energia da lla Terra a lla qua le restituisce rifiuti e ca lore. Di fa tto si è crea to un flusso continuo che va da lle <<sorgenti>> di ma teria ed energia della terra a i <<serba toi>> della stessa , dove finiscono inquina mento e rifiuti (Lester Brown 2002, 13)23. Ripensare questo rapporto non può più significare, perciò, riproporre la retorica dello sviluppo sostenibile che dinanzi all’inarrestabile declino ambientale e alle eco-crisi sconta il clamoroso fallimento dei suoi programmi e vertici che avrebbero dovuto affrontare il problema non di come rendere “inerti” i rifiuti, ma di come renderli “fecondi”, nello spirito del dono e dello scambio con l’ambiente24- A fare emergere le questioni ambientali come un grande tema delle politiche nazionali e internazionali e a cogliere per prima la sfida dell’ipotesi di uno sviluppo sostenibile con carte, documentazioni e progettualità specifiche è stata la Conferenza su Ambiente e Sviluppo (UNCED) svoltasi a Rio de Janeiro nel giugno del 1992, cui ha fatto seguito la Conferenza di Aa a lorg in Danimarca nel 1994 con la quale ebbe inizio la Ca mpa gna Europea Città Sostenibili. Dopo la Conferenza di Rio non c’è stata, purtroppo, alcuna integrazione tra le politiche economiche e gli stati nazionali hanno perduto di vista la prospettiva globale. Mentre la società sostenibile implica una sfida culturale e politica ai più alti livelli di complessità che non c’è stata (Bocchi-Ceruti, 1985)25. Eco-logia ed eco-nomia hanno la stessa radice: eco, ha bita t, ca sa . Governare la propria casa in maniera proficua significa distribuire le proprie risorse con la prospettiva rivolta al futuro e nello stesso tempo distribuirle come impegno-perla -vita . Una economia legata agli interessi del presente non solo non è una economia di qualità, ma è anche priva di eticità se non è retta dall’imperativo morale così espresso da Heinz von Foerster: a gisci in modo ta le da a mplia re le possibilità di coloro che verra nno dopo di te (Von Foerster 1996)26. 4. Oltre l’ecocompatibilità Per sostenibilità o Sviluppo sostenibile si è inteso un modello di sviluppo compatibile tra l’insieme delle relazioni sistemiche determinate dalle attività umane e la biosfera , costituita dal complesso degli ambienti e delle relazioni tra i viventi in tutte le sue componenti e condizioni fisico-chimiche, biologiche ed ecologiche. Ormai da tempo si è giunti alla consapevolezza dei limiti delle risorse na tura li ed alla convinzione che il nostro modo di vivere, produrre, consumare, agire, decide nei fatti la velocità del degra do entropico, ossia la velocità con cui si dissipano le risorse-energie non rinnovabili e, di conseguenza, i tempi di vita della specie umana e la durata stessa della vita sul nostro pianeta. (Meadows et alii 1972)27. Dai numerosi rapporti sullo stato di salute del pianeta, apparsi negli anni Settanta, confrontati con i ritmi accelerati di crescita industriale ed economica è emerso, con grande evidenza, che ciò che consentirà alla vita umana di continuare ad essere, agli individui di soddisfare i loro bisogni, di realizzare le proprie progettualità e alle diverse culture di svilupparsi, dipenderà Santa De Siena dalla na tura delle rela zioni e intera zioni con l’ambiente, le quali dovrebbero essere tali da non compromettere irreversibilmente il futuro del contesto biofisico globale. Invece, se pensiamo a quante specie viventi esistenti sul pianeta sono state conosciute nel corso dell’esplorazione umana (appena un terzo) e a quante ancora ne restano da conoscere, abbiamo una precisa percezione di quanto resta da esplorare dello spazio profondo planetario (Pievani 2002)28. Tuttavia il pa ra digma di dominio e di colonizza zione umana fondato sulla distruzione dei sistemi ecologici del pianeta continua ad essere prevalente. Ad ogni latitudine continuiamo a devastare gli ambienti e i loro ecosistemi senza neppure conoscerne i suoi abitanti, animali, piante, organismi e nicchie ecologiche, esattamente come facevano i conquista dores, i pionieri delle esplorazioni del XV secolo quando sterminavano migliaia di popolazioni indigene senza neppure conoscere la loro lingua. Nei confronti degli a ltri esseri viventi permane la stessa strategia cognitiva e distruttiva volta al dominio che T. Todorov ha spiegato con lo schema comprendere, prendere, distruggere (Todorov 1985)29. Ogni tipo di colonizzazione spaziale, cognitiva, affettiva viene perciò compiuta in nome di una presunta superiore capacità di conoscenze e valori che poi si trasforma in a ssimila zione e distruzione. Conoscere l’Altro, il diverso significa perciò vincerlo per poi a ssimila rlo, includerlo nella storia dell’Io, e infine distruggerlo (Semeraro 2002, 19-42)30. Di fronte alla crisi globa le (ambientale, energetica, economica e politica) che sconvolge tutto l’equilibrio biologico e fisico-termodinamico delle risorse terrestri (ritenute a torto inesauribili), della natura (ritenuta a torto un sistema in grado di riparare a lungo termine i danni) e dell’uomo (ritenuto capace di subire indenne aggressioni di ogni tipo), si è euforicamente pensato che abilità umane e tecnologie avrebbero dominato gli squilibri planetari (Tiezzi 1991, 13)31. L’idea guida dello sviluppo sostenibile era quella di un governo globale capace di integrare gli obiettivi di tutela delle risorse e qualità ambientali con le politiche e le strategie produttive. (Il ricorso al concetto integrato di sostenibilità sembrava inaugurare una stagione di politiche di tipo preventivo che richiedevano nuovi strumenti conoscitivi, informativi, partecipativi ed economici. La filosofia era quella di uno sviluppo che si proponeva di soddisfare le esigenze del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future)32. Mentre la presa di coscienza dei limiti delle sviluppo ha condotto a privilegiare unilateralmente l’idea di un ambiente come sistema a perto, nell’ottica di un incremento lineare e indefinito, e allo stesso tempo l’idea, altrettanto unilaterale, del sistema chiuso, ossia della ricerca dell’equilibrio e della conservazione dell’esistente (Ceruti 1998)33. Oggi questa prospettiva dell’equilibrio sostenibile appare non più sostenibile e profondamente in crisi; un’idea nata nel quadro delle politiche ecologiche d’emergenza e basata sul principio di a da tta mento delle specie all’ambiente, secondo una logica della conserva zione che privilegia una visione evoluzionista e sistemica il cui fine è quello di ricercare equilibrio e stabilità, in altri termini sopra vvivenza . E solo dopo un decennio che ha visto letteralmente impazzire il clima e soffocare d’inquinamento il pianeta Terra, con un aumento della temperatura di quasi mezzo grado, con un crescendo spropositato, per intensità e numero, di eventi metereologici devastanti come inondazioni, uragani, impennate repentine di calore, con vaste aree di siccità che fanno ipotizzare l’inizio dell’era dell’effetto serra , emergono chiaramente i limiti teorici e pratici di questa prospettiva. Evidenziandosi da qui la necessità di andare Cosmosofia 28 Cfr.T. PIEVANI, Homo sapiens e altre catastrofi, cit. 29 T.TODOROV, La conquista dell’America. Il problema dell’”altro”, Einaudi, Torino, 1985. 30 Cfr. A. SEMERARO, Altre Aurore, I Liberrimi, Lecce 2002, pp. 19-42 31 E. TIEZZI, Il capitombolo di Ulisse, Feltrinelli, Milano 1991, p. 13. 32 Il ricorso al concetto integrato di sostenibilità sembrava inaugurare una stagione di politiche di tipo preventivo che richiedevano nuovi strumenti conoscitivi, informativi, partecipativi ed economici. La filosofia era quella di uno sviluppo che si proponeva di soddisfare le esigenze del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future. 33 34 Cfr. M. CERUTI, Pensare la diversità, cit. Cfr. M. CERUTI, Pensare 31 n.18 / 2007 la diversità, cit. 35 Cfr. E. MORIN, Il pensiero ecologico, cit. 36 Tra cui le teorie evoluzionistiche, le scienze della mente, la cibernetica, la teoria dei sistemi, la teoria dei giochi, la nuova biologia, la cosmologia, la teoria degli equilibri punteggiati, la teoria della complessità del vivente, ecc.. 37 Cfr.T. PIEVANI, Homo sapiens, cit. 38 Cfr. M. CERUTI, Evoluzione senza fondamenti, cit. 39 E. MORIN, Il pensiero ecologizzato, in <<OIKOS>> 1, 1990. 40 A. SEN, Development as Freedom, Alfred A. Knopf, 1999; trad. it.: Lo sviluppo è libertà, A. Mondadori, Milano 2000 41 32 E.MORIN, Il pensiero oltre la concezione di una ecocompa tibilità semplice, intrinsecamente insufficiente a risolvere la complessità dei problemi ecologici. Si tratta ormai di abbandonare la meta fora dell’equilibrio e la meta fora dell’a da tta mento (Ceruti, 1998)34 ed effettuare una svolta culturale e paradigmatica che oltrepassi la visione evoluzionista ed a ntropocentrica per andare verso una concezione coevoluzionista ed eco-sistemica fondata concretamente su una logica del vivente (Morin 1988)35. Lo sviluppo di alcune particolari discipline dette Scienze del Ca mbia mento (Global Change Sciences)36 e le Scienze della Terra stanno ridisegnando una geogra fia del pa esa ggio na tura le del pianeta che permette di comprendere più in particolare i processi che si generano nei diversi eco-sistemi, facendoci percepire una realtà biologica molto più dinamica e singolare di quanto supposto fino ad ora, caratterizzata da ramificazioni, sovrapposizioni, evoluzioni e speciazioni. Più che una concezione a da ttiva , l’insieme delle intera zioni tra uomo e natura dovrebbe implicare l’idea di una reciprocità crea tiva capace di attivare processua lità ricorsive tese a permettere alla vita e all’intero Sistema vivente o Oikos di continuare ad evolversi. Si tratta di comprendere, osserva T. Pievani, che l’evoluzione non è una inarrestabile ascesa verso la perfezione, ma è l’esito di una molteplicità di eventi, di specia zione locali e che la nostra storia evolutiva non è differente, ma rispecchia quella di altre specie vissute sul pianeta. In uno scenario nel quale la stabilità e l’equilibrio non sono di casa, la contingenza assume lo stesso ruolo cruciale nella vita evolutiva come nella nostra vita quotidiana (Pievani 2002)37. Contrariamente a quanto si è sostenuto fino ad ora la natura non è retta solo da un ordine fisico produttore di inva ria nza e ripetizione, ma è retta anche da un disordine vivente produttore di diversità e irregola rità . Dai più recenti studi delle scienze evoluzionistiche emerge che la ma cchina ecologica non è composta soltanto da atomi e particelle, ma da gruppi di diversità e di esseri viventi che sviluppano forme estreme di complessità che non escludono conflitti, distruzioni, predazioni, egocentrismi, come anche forme di cooperazione e complementarità (Ceruti 1995)38. Non c’è pertanto soltanto il determinismo geo-fisico e bio-chimico con i suoi programmi e i suoi vincoli, ma c’è anche tanta imprevedibilità e spontaneità creativa. Ed è proprio dall’insieme sia dell’ordine che del disordine, della coerenza e dell’instabilità, come della cooperazione e della concorrenza, degli egoismi e delle solidarietà, che si producono spontaneamente le eco-orga nizza zioni , dotate di qualità superiori o emergenti. Le cui finalità non sono quelle di mantenere in una condizione stazionaria di equilibrio l’organizzazione sistemica della natura, compreso nel saldo tra le nascite e le morti, quanto quella di produrre, di crea re da sé, nuove organizzazioni viventi, capaci di generare quella che Morin definisce eco-evoluzione crea trice (Morin 1990).39 Sarebbe un po’ come applicare agli ecosistemi viventi l’a pproccio delle ca pa cità che A. Sen ha teorizzato per l’economia dei sistemi sociali (Sen 2000)40. Ciò che va ricercato, infatti, non è la stabilità, sempre contingente e tempora nea , dettata dai vincoli e dalle possibilità organizzative e sistemiche, ma anche la ca pa cità di poter costruire nuove stabilità, la ca pa cità di reinventare nuove riorganizzazioni in conseguenza di nuove disorganizzazioni e speciazioni. A differenza della concezione evoluzionista fisicalista dell’organizzazione biologica, l’eco-orga nizza zione non soltanto si evolve, ma è capace di evolvere e di riorganizzarsi anche in presenza di eventi perturbatori nuovi e imprevedibili dimo- Santa De Siena Cosmosofia strando capacità di agire in contesti a mbienta li a loro volta evolutivi. Ed è proprio questa capacità co-evolutiva che “consente a lla vita non solta nto di sopra vvivere, ma a nche di sviluppa rsi, o meglio di sviluppa rsi per sopra vvivere” (Morin 1990)41. In altri termini la relazione che si genera tra gli effetti perturbatori causati dall’azione antropica e l’ambiente, è generalmente causa di disgregazione delle organizzazioni naturali e dei loro equilibri eco-sistemici temporaneamente costituiti. Pertanto una prospettiva di continua crescita dello sviluppo, quale si è delineata fino ad ora, deve poter rendere possibili le ca pa cità evolutive oltre che rigenerative del sistema vivente non soltanto nel senso della sopravvivenza, ma anche del suo a uto-sviluppo crea tivo. ecologizzato, cit. p.37 5. L’apertura cosmica Il nostro Pianeta ha un’origine cosmica, un complesso biofisico che si è costituito nel momento in cui si è sviluppata la biosfera; la Terra è perciò una tota lità complessa dominata da un’orga nizza zione vivente emergente da processi fisico-chimici complessi. (È l’idea della Terra come un orga nismo-a mbiente, che Alfred Latka, padre dell’ecologia teorica, già nel ’25 aveva anticipato rispetto all’ipotesi Gaia di Lovelock, secondo cui ad evolversi non è il singolo organismo o la singola specie, ma l’intero sistema: la specie e l’a mbiente simultaneamente, in un rapporto di inseparabile coevoluzione)42. In questo pa rticola re, singola re, unico sistema a uto-eco-ego-orga nizza tore è radicata la vita . La vita è, per Morin, una forza organizzatrice bio-fisica in azione nell’atmosfera, una emergenza dalla storia della Terra, e l’uomo un’emergenza dalla storia della vita terrestre. Il pianeta è perciò una organizzazione sponta nea , a utoregola ta , composta da “cicli ricorsivi che sono cicli di vita ma a nche, nello stesso tempo, cicli di morte.” (Morin 1990, 75)43. Ciascuno di noi a ppa rtiene alla terra che ci a ppa rtiene e questa consapevolezza non può che farci giungere ad una molteplicità di prese di coscienza del nostro comune legame relazionale e del bisogno di civilizza re la Terra (Morin 1994)44. Nel senso che l’apprendimento del doppio ra dica mento nel cosmo fisico e nella sfera vivente imporrebbe un ulteriore salto di civiltà, e l’attivazione di un nuovo processo evolutivo che è anche un duplice gioco: superare il paradigma a ntropocentrico che vede soltanto l’uomo assolutamente al centro dei processi viventi del pianeta e, nello stesso tempo, ra dica re l’uomo alla sua Terra, al suo sistema di vita, dopo secoli di diaspora, alla sua eco-organizzazione vivente. La prospettiva ecologica moriniana muove da questa emergente percezione filosofica dell’esistenza; una percezione che rievoca la sensibilità dei primi pensatori greci di fronte alla Physis. Ciò che egli vede e chiama vita è “la tra sforma zione di un ruscella mento fotonico na to da scintilla nti vortici sola ri”, nei quali“Noi, viventi, e di conseguenza uma ni, figli delle a cque, della terra e del Sole, sia mo un fuscello se non un feto della dia spora cosmica , briciole dell’esistenza sola re, una minuta germoglia zione dell’esistenza terrena ”(Morin 2002, 5)45. È come dire che l’attività biologica è ontologica, in quanto proprietà planetaria. Come non sentire nel suo sguardo profondo una a pertura cosmica ed una insopprimibile istanza poetica che è anche un inno alla vita? Sia nell’uso del noi che allarga la prospettiva di comprensione, accomunandoci agli altri sistemi viventi e alla stessa origine cosmica; sia nel riconoscimento della comune iden- 42 È l’idea della Terra come un organismoambiente, che Alfred Latka, padre dell’ecologia teorica, già nel ’25 aveva anticipato rispetto all’ipotesi Gaia di Lovelock, secondo cui ad evolversi non è il singolo organismo o la singola specie, ma l’intero sistema: la specie e l’ambiente simultaneamente, in un rapporto di inseparabile coevoluzione. 43 44 45 E. MORIN, Il pensiero ecologizzato, cit. p.75 E. MORIN, Terra-Patria, cit. E. MORIN, La Methode 5, cit. p.5 33 n.18 / 2007 46 Cfr. E.MORIN, La Mèthode. I. La nature de la nature, Editions du Seuil, Paris 1977; trad. it.: Il Metodo, Ordine, disordine organizzazione, Feltrinelli, Milano 1983; La Mèthode II, La vie de la vie, Editions du Seuil, Paris 1980; trad. it.: Il pensiero ecologico, (parte prima), Hopefulmonster, Firenze 1988; La vita della vita, (parte seconda) Feltrinelli, Milano 1987. 47 Cfr.: G. BATESON, Mente e Natura, cit. 34 tità e appartenenza alla terra della nostra specie; il suo è un invito ad esplorare le meraviglie di uno spazio profondo per certi aspetti ancora incontaminato, pullulante di biodiversità e va rietà inedite perché sia possibile continuare la favolosa avventura umana della conoscenza. Ma che in primo luogo ci deve permettere di recuperare l’unità spaziale della crosta terrestre e della sua atmosfera, di quella buccia d’arancia blu intorno alla quale si è sviluppata la vita. Pensa re ecologica mente significa, infatti, pensa re la diversità , concepire ogni sistema fisico, biologico, sociale, culturale e noologico quasi come degli esseri viventi . Sistemi che sono dotati di una propria identità ed a utonomia e risultano capaci di intera gire, comunica re e a utoorga nizza rsi nelle possibilità di interrelazione date con gli altri sistemi viventi e nelle relazioni di tutti con il loro ambiente. Ogni manifestazione di vita, dalla più elementare alla più elaborata è resa possibile dalla comunica zione, dallo sca mbio e dalla reciprocità . Ciò che sin da Parmenide intendiamo per Essere non è altri che l’a uto-eco-orga nizza zione, ossia l’insieme di tutte le orga nizza zioni di orga nizza zioni di sistemi di sistemi (Morin, 1883)46. Nessuna forma di vita può essere pensata senza queste specifiche condizioni di esistenza e di relazione né collocata al di fuori di tali contesti ecologici. Nessun ente sopravviverebbe a se stesso senza la possibilità di relazionarsi di volta in volta con proprie modalità organizzative, che sono sia di a pertura sia di chiusura , con gli altri ecosistemi. Contrariamente al senso comune, all’interno della Natura non troviamo alcun principio gera rchico che stabilisca la superiorità di un sistema sull’altro, e se si allarga lo sguardo prospettico all’intera biosfera emerge immediatamente la difficoltà di stabilire relazioni di supremazia tra i diversi sistemi o di ridurre la complessità del vivente soltanto ad alcuni di questi sistemi, per quanto significativi. L’intera tradizione del pensiero filosofico e scientifico occidentale, da Platone ad Heidegger, ha invece privilegiato una visione a ntropocentrica con la quale si è teso a separare, e perciò ad escludere, l’esistenza delle altre specie viventi, ma soprattutto si è volutamente ignorata e negata la funzione vita le e crea tiva dell’ambiente. Tutte le filosofie uma nistiche sono state centrate esclusivamente sul problema dell’esistenza e della sopravvivenza di una sola specie, quella uma na . È il loro linguaggio a svelarne il modello di dominio cognitivo sotteso nel significare, ad esempio, in modo univoco con il termine specie soltanto quella umana. In Mente e Na tura , Gregory Bateson sostiene che la visione antropocentrica sia a ntiecologica , sottolineando quanto sia grave epistemologicamente perdere il senso dell’unità estetica, quella che definisce la struttura che connette (Bateson 1984)47. Sebbene le filosofie del soggetto di Nietzsche e Freud insieme a quella dell’Essere di Heidegger abbiano compiuto una svolta sul piano della metafisica, le loro interrogazione partono dall’uomo e si riducono all’uomo. Mentre la prospettiva teoretica moriniana è centrata non solo ed esclusivamente sulla esistenza dell’uomo, quale sistema di a uto-orga nizza zione in contesti di relazione, prodotto-produttore di cultura e civiltà, ma amplia lo sguardo alla percezione ed inclusione dell’intera a uto-eco-orga nizza zione del vivente, concependo tutti i sistemi in un rapporto di reciproca co-produzione, co-genera zione e co-evoluzione. Viene così riconosciuto il diritto a lla vita di ogni singola esistenza cosmica , nell’intera organizzazione del vivente, nell’intero mondo della vita . Individuando in tre inscindibili componenti la relazione: uomo-na tura -società . È interessante sottolineare nella prospettiva ecologica moriniana, l’importanza Santa De Siena Cosmosofia del “trattino” che stabilisce i legami, i nessi, che rilega i termini, che supera le separazioni; connessione nel duplice senso del rilega re insieme rivelando la connessione e del rileggere cioè del reinterpreta re. Superare il dualismo specie/individuo vuol dire, quindi, costruire relazioni di complessità che non sacrifichino l’individuo, ma guardare alla sopravvivenza e della specie e della società, intesa anche come ambiente, come biosfera . Ristabilire l’unione tra e nella riarticolazione delle scissioni, rende possibile ritessere le reti della vita e dimostrare così che il vero network è proprio quello vivente. Si può così riattivare anche la riflessione non soltanto sui limiti dello sviluppo, ma anche sui limiti del conoscere, delle modalità e dell’organizzazione delle conoscenze. Per riaprire il dibattito sul problema del dua lismo che, a partire da Kant, ha distinto le conoscenze e i saperi, e ribadire l’unità complessa e non più assoluta della razionalità scientifica e filosofica. Se Nietzsche per certi aspetti, e l’ultimo Heidegger hanno “smaghetizzato” la metafisica del soggetto, la filosofia di Morin opera una svolta ancora più ra dica le, che va oltre quella compiuta o incompiuta da entrambi, riuscendo ad uscire dalle secche di una logicità lineare e semplice, per istituire una logica evolutiva e complessa . La sua a pertura all’a lterità ed alla comprensione dell’a ltro non riguarda soltanto l’esistenza del diverso, degli a ltri popoli, culture, etnie e civiltà, rese purtroppo dentro più dai processi economici omologanti della globalizzazione che da un’autentica e solidale comprensione. Il suo è un principio di inclusione che va oltre l’uma no, spostando l’interrogazione filosofica centrata sulla condizione dell’Essere in quanto ex-sistenza , per aprirsi all’oikos, alla vita della vita, alla vita delle idee, all’esistenza di tutte le specie, nella molteplicità della diversità e specificità sociali, culturali, logiche, dei diversi livelli e ordini di realtà emergenti. Sia mo figli del cosmo, ma , a ca usa della nostra stessa uma nità , della nostra cultura , della nostra mente, della nostra coscienza , della nostra a nima , sia mo divenuti estra nei a questo cosmo da l qua le sia mo na ti e che tutta via ci rima ne segreta mente intimo (...) Sia mo figli del mondo vivente e a nima le, e tutte le nostre mitologie ha nno sentito la pa rentela e la vicina nza con gli a ltri viventi. Gli uma ni ha nno spesso venera to degli dei a nima li, i ba mbini trova no del tutto na tura le che gli a nima li delle fa vole, dei ra cconti e dei ca rtoni a nima ti pa rlino e sia no dota ti di sentimenti uma ni. Ma la nostra identità a nima le è sta ta a lungo ma schera ta da lla civiltà occidenta le, i cui progressi sono sta ti pa ga ti con una terribile regressione di coscienza , giungendo fino a considera re gli a nima li come ma cchine e, peggio, come oggetti ma nipola bili a pia cere ... Abbia mo a sservito la na tura vegeta le e a nima le, a bbia mo pensa to di poter diventa re pa droni e possessori della Terra , se non conquista tori del cosmo, e a bbia mo a ppena scoperto il lega me ma tricia le con la biosfera , senza la qua le non potremmo vivere, e dobbia mo riconoscere la nostra molto fisica e molto biologica identità terrena . È solo ora che ricomincia mo a prendere coscienza della nostra identità vivente (Morin 2002, 29)48. 48 E. MORIN, La Methode, 5, cit. p.29 Aprirsi al cosmo implica, perciò, l’andare oltre le radici umane per includere tutte le forme di vita, tutte le esistenze. Significa aprirsi mentalmente ed emotivamente alla comprensione non solo della diversità dell’Essere, ma anche della 35 n.18 / 2007 49 Non è, infatti, ormai più pensabile la sola dimensione fisica dell’Essere, senza anche quella genetica, biologica, psicologica, sociale, mitologica, culturale, simbolica, economica, sociale, storica, ecologica. diversità degli a ltri esseri viventi. Una sensibilità evolutiva potrebbe farci cogliere, in un futuro non troppo lontano, un relazione di reciprocità anche con il non-vivente, con le macchine articificiali, i robot che invaderanno la nostra vita come già hanno fatto i computer, i palmari e tutta la microtecnologia che interagisce con le nostre esistenze. Significa comprendere le metamorfosi dei mutamente antropogenici e apprendere la pluridimensiona lità dell’essere e della realtà nella quale siamo immersi e che ci immerge: l’a mbiente. Un ambiente che è anche sempre più impregnato di ipertecnologia e che richiede lo sviluppo di una ipercultura . Quella di Morin, a nostro giudizio, va intesa come una duplice apertura. La prima apertura deriva dal concepire l’Essere umano trinitario, che include in sé contemporaneamente le istanze di individuo, società e specie; individuo al tempo stesso singolare e plurale, inclusivo dell’unità e della diversità. (Non è, infatti, ormai più pensabile la sola dimensione fisica dell’Essere, senza anche quella genetica, biologica, psicologica, sociale, mitologica, culturale, simbolica, economica, sociale, storica, ecologica)49. La seconda apertura deriva dall’allargamento dell’orizzonte di significato agli altri enti, alle altre esistenze, alle altre storie, agli altri viventi;, i cui vissuti e destini si intrecciano inestricabilmente con quello umano e con quello dell’ambiente dentro il comune destino della biosfera e di questa nel cosmo. Secondo una visione ologrammatica che impone di guardare alla parte, l’umano, come inscritta, radicata in un tutto che è il pianeta terrestre, ma anche di un tutto, l’intero sistema vivente, presente in noi, nella nostra come nelle altre specie. La prospettiva ecologica ci impone una nuova concezione evoluzionistica del cosmo, delle specie, della biosfera, della noosfera, dei sistemi biotici, come anche una diversa idea di progresso che includa il regresso e di uno sviluppo che sia eco-sviluppo, prospettando nuovi orizzonti di senso che vanno effettivamente oltre la concezione riduttiva e antropocentrica della modernità. Il suo andare oltre, però, non segue un percorso semplicemente proiettato in avanti, ma implica anche un movimento all’indietro, seguendo una logica ricorsiva e circola re che ci riporta alle origini. La sua è una cosmofilosofia che recupera la migliore tradizione greca con la quale è pensabile l’Essere totalmente immerso nella Physis, vivente in una rea ltà tutto dove tutto esiste, nasce muore e diviene. 6. Ecoetnicità ed ecoalterità 50 E. TIEZZI, Il capitombolo di Ulisse, cit., p.37. 36 Tutto ciò naturalmente va inteso sul piano della conoscenza sempre compresa nell’orizzonte dei significati accessibili all’uomo e che soltanto l’uomo può definire, descrivere e narrare. Quasi a dire che ancora una volta il limite è nel linguaggio e pertanto il punto di vista umano, per quanto esercitato in modo plurale, resta comunque il solo punto di vista. Ciò sarebbe vero se non esistesse la polifonicità di un concerto suonato a più mani che tocca le note delle differenti sensibilità, culture e conoscenze umane, che moltiplicano, specificano e differenziano più punti di vista possibili sulla complessità del vivente. La natura e l’uomo, osserva E. Tiezzi, sono entità in continuo e reciproco scambio di informazioni; non essendo mai uguale a se stessa, la natura cambia e cambiando manda flussi di informazione continui alla mente dell’uomo e questi colloquia ndo modifica e si modifica (Tiezzi 1991, 37)50. La sfida della complessità pone, dunque, anche la sfida culturale di un’ermeneu- Santa De Siena tica che si apra a ll’a scolto dell’a ltro e richiede l’evoluzione di sempre maggiori capacità interpretative per lasciarci attraversare dalla comunicazione e sviluppare l’a scolto dell’a scolto. L’ascolto, dunque, come luogo del riconoscimento dell’altro nel quale si istituisce il suo diritto ad esistere e dal quale soltanto nasce la vera metacomunicazione. L’apertura a ll’a scolto dell’a scolto è tra sforma zione reciproca e al contempo innova zione linguistica, scoperta di sé e dell’a ltro, attenzione alle trasformazioni delle regole del gioco, evoluzione e genesi di nuove possibilità di dia logo. L’entità multipla che da questo nasce implica il ripensamento della nostra identità cultura le domina trice e della nostra secolare tendenza all’appropriazione delle identità altrui. Ma implica, nello stesso tempo, anche un profondo ripensamento dell’a lterità dell’a ltro, delle a ltre identità , che ci permetta cioè di decidere della nostra a lterità ma anche della pensabilità dell’altrui a ltruità . Abbandonare il punto di vista a ntropocentrico non per adottarne uno na tura centrico ricadendo in un esasperato naturalismo che supporrebbe l’unità del punto di vista, ma sviluppare un nuovo stile cognitivo ed etico capace di interrelare le informazioni e spostare lo sguardo dalle entità biologiche alle loro rela zioni. La conoscenza, infatti, non è soltanto quella del soggetto, ma è inscritta nel linguaggio delle relazioni e delle reti di informazioni che hanno preceduto la sua comparsa. La sostituzione della nostra visione monocula re fa emergere una nuova idea di soggetto che per Morin ha una base trinitaria, ossia genetica , fisiologica e cerebra le, e comporta un doppio principio di esclusione e di inclusione, che ci permette di comprendere sia l’egocentrismo, sia l’intersoggettività , che l’a ltruismo (Morin 2002, 274)51. Occorre, perciò recuperare un altro principio, quello femminile fondato sull’inclusività e sulla crea zione per oltrepa ssa re quello riduzionista maschile fondato sull’esclusione e sulla distruzione (Shiva 2002, 42)52. Ora, se quanto detto risulta pertinente, appare improbabile la sopravvivenza della nostra sola specie senza la sopravvivenza delle altre. Allo stato attuale della nostra planetarizzazione è, invece, necessario ecologizza re la nostra idea di ra dica mento terrestre di specie con le a ltre specie e con l’a mbiente e complessificare sia “il nostro pensiero rela tivo a lla na tura sia il nostro pensiero rela tivo a lla cultura ” (Morin 1988)53. Significa aprire alla possibilità di una a lterità che sia tutt’a ltra e tutt’oltre e considerare la natura nella sua complessità sistemica ed eco-(bio)—a ntropo-sociologica e percepire l’oltre nelle sue molteplici accezioni e declinazioni: oltremondano, oltreumano, oltreumanità, per ritrovare l’unità generica ma tricia le che è insieme genetica e genera trice (Morin 2002, 279)54. Comunque donna, in quanto generatrice di vita. Dall’apertura cosmica all’oltreuma nità può emergere una nuova identità plura le e polimorfa dell’umanità la cui ra ziona lità evolutiva e sistemica apre ad un ra dica mento biologico, sociale e planetario del vivente, ed estende l’interrogativo ontologico all’Essere del vivente, all’Essere e al destino dell’Essere, al destino della biosfera, dell’Oikos, del Cosmo per apprendere a vivere i confini del ca os (Morin 2002, 279)55. Se la modernità è stata svolta radicale e apertura all’a ntropos posto al centro del cosmo, avvio di un nuovo umanesimo, ricerca delle corrispondenze e perdita irrimediabile del Dio pantocreatore, la post- modernità può essere intesa come perdita della centralità terrestre, dell’unicità domina trice di una specie, perife- Cosmosofia 51 E. MORIN, La Methode 5 , cit. p. 274 52 V. SHIVA, Terra-Madre, cit. p.42 53 E. MORIN, Il pensiero ecologico, p.130 54 Cfr.: E. MORIN, La Methode 5, cit.,p.279 55 Cfr.: E. MORIN, La Methode 5, cit. 37 n.18 / 2007 56 EMPEDOCLE, Sulla natura, in DK 31 B 8,9,10,11 – DK 31 B 21, 23. 57 Cfr. G. BATESON, Mente e Natura, cit. 58 E. MORIN, La Methode, 5, cit., p. 124. 38 rizzazione e apertura al vivente, consapevole coscienza della biodiversità . L’inizio di una umanità che restituisce il Cosmo al Cosmo. ...il sole che è così sma glia nte a lla vita , ca ldo ovunque, e i corpi che s’immergono eterei nel suo tepore e nella sua bia nca luce; poi la pioggia oscura e tesa , che ovunque si distende, ma che genera a nch’essa da lla terra virgulti e a lberi. Dura nte il dominio dell’Odio, tutto è contorto e in contra sto, mentre qua ndo (sopra vviene) l’Amore gli elementi che costituiscono tutti gli esseri che furono, sono e sa ra nno si a ccosta no l’uno a ll’a ltro desidera ndosi, e così si genera no a lberi, uomini e donne, fiere ed uccelli, e i pesci che vivono nell’a cqua , i numi eterni ed eccelsi. Solo quegli elementi esistono, infa tti, diventa ndo corpi di ogni genere, pa ssa ndo gli uni con gli a ltri; questo esiste e questo il mescola rsi tra sforma , come a vviene con i pittori che dipingono pa reti va riopinte, con competenza e intelligenza , prendendo tinture diverse, mescola ndole a rmoniosa mente in misura ma ggiore o minore, foggia ndo con esse figure che somiglia no a tutto, costruendo a lberi, uomini e donne, fiere ed uccelli, e con essi i pesci che vivono in a cqua ed i numi eterni ed eccelsi. Non inga nna rti, quindi, non pensa re che a ltra sia l’origine dei morta li che sono a te ma nifesti e che si riproducono a ll’infinito (Empedocle, Sulla na tura )56. Soltanto concependo l’amore cosmico della vita che si dona, la vita come munus è possibile superare l’a ssunto a ntiestetico che ci impedisce di vedere le meraviglie dei colori con i quali la Natura partecipa all’unità dinamica del cosmo (Bateson 1984)57. L’homo delineato da Morin è, infatti, un individuo complexus, non soltanto un animale isterico, posseduto dai suoi sogni onniscenti di sa piens-demens, e neppure soltanto fa ber , oeconomicus, prosa icus, ludens, consuma ns, è anche homo poeticus. Affermando che la vera vita è poetica intende dire che la vita è poiesis, crea zione che ha in sé il proprio fine. Perciò l’a nda re oltre l’Umanità vuol significare anche irrigare poeticamente l’Essere nella sua globalità e nella sua totalità per vivere poetica mente che è vivere per vivere (Morin 2002, 124)58. Pensare l’uomo e il destino soltanto dell’uomo è fondamentale, ma riduttivo. Pensare l’Essere-degli-Esseri del cosmo implica complessificare l’idea stessa di uma nità e saper pensare la vita come evoluzione crea trice (Bergson). Sul piano del diritto alla vita è la medesima cosa rivendicare il diritto alla sopravvivenza di un popolo come salvaguardare il Panda o riprodurre in laboratorio una pianta officinale per salvarli dall’estinzione. Significa comprendere i nessi causali e casuali che rendono possibile l’esistenza di ogni biodiversità. Implica comprendere che l’uomo non è l’unico abitatore della terra e che non ha alcun diritto sulla biosfera, che egli non può decidere della morte e della vita di tutti. Può però scegliere di entrare nell’era oltre-uma na e post-uma na oppure di uscire definitivamente dalla storia. Giacché l’alternativa è soltanto tra rela zione o estinzione. Pensare la biodiversità significa, invece, combattere ogni riduzionismo sociale, economico, scientifico che distrugge le relazioni sistemiche e rafforza la colonizzazione, e mettere in discussione ogni forma di cecità selettiva . Assumere l’idea ecologica che l’uomo è na tura e che tutto ciò che noi conosciamo, amiamo, pensiamo della natura è umano, suggerisce l’idea dell’indispensabilità della natura e l’impossibilità di sostituirne i processi coevolutivi che sostengono la vita. Santa De Siena Cosmosofia Affermare che l’uomo è na tura consente di eliminare una artificiosa congiunzione, una unila tera lità , che ha generato un rapporto gerarchico innaturale. Confidando in processi a da ttivi , che spezzano le realtà coevolutive, ha accresciuto la sua duplice e ambivalente natura, potenziando la tecnica ha esteso il suo dominio come un diritto di proprietà assoluta sulla biosfera. Un predominio sulla Terra -Ma dre esercitato all’insegna del mito del progresso che soltanto la delicatezza e la sensibilità del linguaggio femminile sanno cogliere: Il mito di recente crea zione propa ga to da l pensiero ma schile occidenta le si regge sul sa crificio della na tura , delle donne e del Terzo Mondo. La questione non è solo l’impoverimento di queste ca tegorie di esclusi: è in gioco l’effettiva superfluità della na tura e delle culture non industria li e non commercia li. Conta solo il prezzo di merca to; e poco importa se nel mondo odierno esso è del tutto svincola to da l va lore rea le (Shiva 2002, 220-221) 59 59 V. SHIVA, Terra-Madre, cit., p. 220-221. 60 Cfr.. E. MORIN, Il pensiero ecologizzato, in <<Oikos>>, 1,1990, Lubrina Editore, Bergamo. 7. L’uomo è natura Non si tratta perciò, solo di individuare il limite oltre il quale lo sviluppo non è più sostenibile o di sopra vvivere a llo sviluppo come propone la Shiva. Ma di reinterrogarci sul nostro concetto di sviluppo, sul suo limite e sullo sviluppo del limite. Si tratta di essere molto più critici verso gli stili di vita e la cultura consumistica e rivedere ra dica lmente la relazione tra l’uomo e la na tura , mettendo in discussione le implicazioni e le retroazioni epistemologiche di un paradigma riduzionistico e semplicistico. Con questo paradigma la scienza ha da sempre considerato lo sviluppo come un processo ina rresta bile e linea re e la crescita economica come un’avventura continua dalla quale necessariamente conseguiva il progresso sociale e culturale (Morin 1990)60. Ha inoltre prefigurato tutte le risorse na tura li come illimita te, pertanto a ccessibili e inesa uribili . Gli esiti di questa prospettiva evoluzionista ci pongono di fronte alla responsabilità di dover abbandonare la visione euforica di un progresso che non implica il regresso con i suoi due miti: il primo, quello di considerare la Na tura come un oggetto di dominio e l’uomo come soggetto dell’universo. L’altro, quello di concepire il progresso come una crescita esponenzia le che vede la scienza o la tecno-scienza impegnata in una avventura incontrollata verso l’autodistruzione. Dobbiamo avere perciò un’idea tra gica mente sottosviluppata dello sviluppo quando pensiamo ad un intervento genetico massiccio sul bios come è quello in corso; una manipolazione bio-tecnologica che J. Rifkin definisce una nuova ma trice opera tiva : si sta attuando una straordinaria e gigantesca ricostruzione della biosfera mediante una seconda genesi concepita in laboratorio. Attraverso le tecniche del DNA ricombinante, i geni sono diventati ma teria prima e come tali possono essere comprati, venduti, manipolati e sfruttati per fini economici. La mappatura del genoma umano accanto alle nuove scoperte nel campo dello screening genetico, i bio-chip, le terapie genetiche degli ovuli, degli spermatozoi e delle cellule embrionali umane, stanno aprendo la strada “a lla tota le a ltera zione della specie uma na e a lla na scita di una civiltà eugenetica pilota ta da l commercio” (Rifkin, 1998, 35)61. Quali conseguenze deriveranno dallo sconvolgimento dei programmi genetici non è dato immediatamente di sapere, né di prevedere. Sappiamo, però, che di fronte all’aggressione dei geni patogeni, il cosiddetto assalto al sé biologico, il sistema immunitario attiva spontaneamente 61 J. RIFKIN, The Biotech century, Penguin Putnam 1998; trad. it.: Il secolo biotech, Il commercio genetico e l’inizio di una nuova era, Baldini & Castoldi, Milano 1998, p. 35. 39 n.18 / 2007 62 E. MORIN, Il pensiero ecologico, op.cit.,p.98. 63 Cfr.: M. CERUTI, Il vincolo e la possibilità, Feltrinelli, Milano, 1986. 64 Cfr.: I. PRIGOGINE, I. STENGERS, La Nuova Alleanza,Torino, Einaudi 1981. 40 i meccanismi di difesa. Le scienze cognitive ormai riconoscono questa specifica funzione del sistema immunitario, le sue capacità cioè di a pprendimento e memoria ; capacità di natura cognitiva , appunto, e pertanto biologica . Ma perché ciò accada è necessario che ci sia il riconoscimento dei profili molecolari degli invasori, attivato dai meccanismi di difesa del sè menta le. Senza tale riconoscimento cerebrale o connessione neuronale non c’è alcuna difesa, e di conseguenza non c’è attivazione del sistema immunitario. Si tratta allora di capire se l’organismo umano o animale o vegetale, in una parola vivente, sarà in grado di sviluppare tali capacità di decodificazione di agenti “ignoti” modificati artificialmente. Ci si chiede, inoltre, fino a che punto il sistema vivente è capace di a da tta rsi e di riattivare il proprio sistema di difesa in assenza del riconoscimento, dell’apprendimento e della memoria? Scienziati come R. Thom e I. Prigogine da tempo sostengono che il modello della mutazione genetica aleatorio è muto di fronte alle innovazioni creatrici di soluzioni, di organi, di specie di quelle straordinarie e incredibili proprietà emergenti e speciazioni nuove prodotte dalla vita. La biologia, le scienze della Terra ci dicono che l’ambiente è costituito da sistemi viventi a uto-eco-orga nizza tori ed a uto-eco-regola tori , ma i programmi messi in atto dai tecnocratici entrano nel cuore dei sistemi e “spezza no le retroa zioni regola trici, dila nia no e degra da no le eco-orga nizza zioni ta lvolta fino a lla morte” (Morin 1990, 98)62. È vero che il concetto di evoluzione rinvia a quello di coevoluzione, ma è pur vero che l’adattamento non è un’azione dell’ambiente sugli organismi, ma una risposta attiva dell’organismo all’interno di vincoli e le possibilità di cambiamento dipendono dalla varietà delle risposte e dagli accoppiamenti o interazioni tra sistemi, resi possibili dai vincoli stessi (Ceruti 1986)63. Perciò spezzare i legami evolutivi e creativi tra gli organismi e i loro ambienti può significare la fine di ogni risposta a ttiva o a da ttiva e di conseguenza di ogni evoluzione. Ignorare ciò significa non valutare il rischio e le conseguenze e prevedere che oltre alle risorse anche le risposte adattive possono non essere infinite. La vita non è retta da leggi atemporali e determinate, ma è immersa nel fluire del tempo. Invece le teorie economiche riduzioniste ignorano questa categoria considerandolo un’esternalità e pertanto non parte della natura. Pensare non tenendo conto dell’irreversibilità del tempo significa non comprendere l’importanza cruciale delle connessioni tra noi e gli altri sistemi, quali parti integranti dei processi coevolutivi (Prigogine-Stengers 1981)64. Il problema è perciò drammatico: intervenendo in modo massiccio con profonde trasformazioni antropiche, noi mutiamo le condizioni che rendono possibile la stabilità dell’equilibrio ecosistemico; alterandone gli equilibri, sconvolgiamo la stabilità e non sappiamo quello che succederà. Siamo già entrati nello sconvolgimento dei cicli delle stagioni, dei cicli climatici, dei cicli biologici. Una nuova immagine della storia della natura oggi mostra come non ci si possa inserire nei cicli biologici della natura sconvolgendoli senza saper preservare la stabilità degli equilibri. L’evoluzione è un processo in cui si creano e si trasformano stati di equilibrio successivi, mai definitivi, ma sempre precari e in continuo cambiamento, fra i mutamenti degli organismi dettati, da un lato, dalle condizioni storiche, fisiche e ambientali e dall’altro, dalle nuove stabilità dei cicli in cui questi elementi vengono integrati. Ma questa unità e integrazione degli organismi non deriva da una conformità ad un piano prodotto da un ingegnere onniscente, né programmabile in laboratorio; sostiene l’epistemologo Mauro Ceruti che può Santa De Siena solo essere paragonato all’opera di un bricoleur , certamente abile, ma pur sempre fallibile (Ceruti 1995, 38)65. Cosmosofia 65 M. CERUTI, Evoluzione senza fondamenti, Laterza, Roma-Bari 1995, p.38. 8. Sviluppare l’ecodiversità Secondo Amarthya Sen, premio Nobel dell’economia, c’è un altro modo di intendere lo sviluppo, il quale non è soltanto espansione economica e crescita materiale, ma è soprattutto espansione e crescita delle libertà. Per cui lo sviluppo deve essere inteso come “sviluppo integra to di espa nsione di libertà sosta nzia li interconnesse l’una con l’a ltra ” (Sen 2000, 24)66. L’idea proposta dalla sua analisi è quella di miglioramento della qualità della vita per tutti gli esseri; di superamento delle condizioni di privazione e di miseria, di emancipazione dai condizionamenti illiberali, ma soprattutto considerare che la libertà è un fine primario, non un mezzo per lo sviluppo. In quanto sistema a utonomo e a uto-orga nizza to il mercato lo si può effettivamente supporre come in grado di riassorbire le depressioni, domare le reazioni incontrollate, bloccare o impedire le crisi. Ma oltre che auto-organizzato il sistema economico è anche interconnesso con altri sistemi, inserito cioè in un contesto che è l’ambiente, nel gioco delle interdipendenze. Ciò che, invece, l’economia non sa appredere è proprio quello di dia loga re con gli altri sistemi, dimostrandosi così un sistema chiuso e talvolta opposto all’ambiente, diventando un sistema incomunica nte e perdendo ogni contatto con il non-economico. Concependosi a utoreferente e non a uto-eco-sistemico l’economico ha istituito tutto un apparato di regole a utocentra te, perciò valide solo al suo funzionamento interno. Così la crescita economica è diventata di fatto non soltanto il motore dell’economia, ma anche il suo strumento regolatore. Gli esiti della mercifica zione pla neta ria sono sotto gli occhi di tutti: disordine nel prezzo delle materie prime; conflitti per il loro controllo e sfruttamento; carattere artificiale e precario delle norme monetarie; incapacità a trovare regole ai problemi monetari come il debito enorme dei paesi in via di sviluppo; la piaga delle ecomafie; la fragilità e le perturbazioni non-economiche; concorrenze specializzate locali; rottura delle solidarietà. Un insieme di fattori che hanno innescato processi multiformi di degra da zione del pianeta, ma anche di sofferenza degli stessi sistemi economici. Tutto ciò in assenza di regolamentazioni capaci di sottoporre gli attuali processi di globalizzazione sfrenata, capricciosa al controllo politico e alla legge. Dinamiche che impongono una riflessione critica e una rivisitazione della nozione di va lore economico oltre che la necessaria distinzione tra crescita e sviluppo (Lester-Brown 2002)67. Quando si parla di economia ecocompa tibile, perciò, non ci si può ridurre a risultati, indicatori e ottimizzatori di matrice economicistica, ma far dipendere la sostenibilità dalla disponibilità a improvvisare, creare e ad impegnarsi per la vitalità e per il rispetto degli altri partners dello scambio sistemico. Si può così adottare il punto di vista della libertà ed essere per un eco-sviluppo che implichi la cooperazione evolutiva, essere per un’ecologica dell’economia che è anche un’etica ecologica o etica della reciprocità . Scegliendo il punto di vista ecologico, cioè quello della vita e non quello della morte, si sceglie anche il punto di vista vivente, antropologico, biologico, sociale, etico oltre che economico. Si può così meglio comprendere la domanda affatto retorica del testo sancrito che reci- 66 A. SEN, Development as Freedom, Alfred A. Knopf, 1999; trad. it.: Lo sviluppo è libertà, A. Mondadori, Milano 2000, p.24. 67 Cfr. LESTER R. BROWN, Eco-economy: Building an Economy for the Earth, cit. 41 n.18 / 2007 68 Cfr. P. SINGER, On World. The Ethics of Globalization. Trad. it.: One World. L’etica della globalizzazione, Einaudi, Torino 2003. 69 A. SEN, Sviluppo e libertà, cit, p.20. 70 Cfr. E. TIEZZI, Tempi storici. Tempi biologici, Donzelli, Roma 2001. 42 ta: “fino a che punto l’opulenza può a iuta rci a ottenere quello che voglia mo”? Un interrogativo che esprime molto bene il limite di una prospettiva che crede nello sviluppo solo come crescita di un mondo materiale e guarda al successo sociale come condizione umana. Non si tratta di rifiutare il mercato quale parte del processo di sviluppo, ma di prendere in esame anche le persistenti forme di privazione tra i vari segmenti della comunità planetaria che ne restano esclusi. Perché, per dirla con Polany, l’economia non coincide con il merca to. Nè si tratta di riaprire la diatriba tra chi inquina e consuma di più e chi cresce demograficamente (Singer 2003)68. Sappiamo, infatti, con A. Sen, che l’illibertà economica pone una persona preda di chi viola altre forme di libertà. Ed è innegabile che crescita , successo e ricchezza facciano coppia con merce, ca pita le, profitto. Se la competizione tende a ridurre i costi, le carni agli ormoni, lo sfruttamento del lavoro minorile, il pollo alla diossina, gli OGM, i rifiuti ne sono il corollario. Ripensare la relazione ricchezza e successo significa ripensare l’economia classica e andare oltre l’idea del semplice accumulo e depauperamento delle risorse, e concepire, invece, con Aristotele che la ricchezza non è il fine ultimo dell’uomo. L’utile, allora, non consisterebbe più in ciò che possediamo, ma in ciò che ci permette di fa re, nella qualità della vita e nelle libertà sostanziali che ci aiutano a conseguire (Sen 2000, 20)69. Ne consegue che la principale preoccupazione non sarebbe più quella di assicurare un “progresso” ad ogni costo, o una “equità” misurabile, quanto quella di sviluppare una incessa nte reciprocità intersistemica . Il piacere è dato anche da ciò che si riesce a da re, dona re alla vita e non soltanto a prendere. Un cambiamento d’approccio consiste nel rendere prioritarie le esigenze biologiche anziché quelle storiche ed economiche. È questa la sfida ecologica dell’a utonomia e della crea zione: un rimetterci in gioco che pone al centro il principio di generosità e a ltruismo che il nostro pensiero non è educato a riconoscere. Non c’è certamente alcuna forma di altruismo, nei confronti del mare e dei suoi pesci, crostacei, molluschi o degli abitanti, nelle immagini della nave Prestige davanti alle coste della Galizia. Né vengono mai calcolati i costi invisibili delle deforestazioni, del degrado ambientale o le deviazioni dell’acqua dai loro corsi naturali. La diversità degli ecosistemi, la vita degli oceani, la purezza dell’aria, la vitalità delle specie: tutto questo è anche l’a ltro, cui guardare nella rappresentazione filosofica dell’esistenza. Perché l’evoluzione è singolare e diversa e perciò occorre apprendere l’arte di saper spostare lo sguardo e di comprendere che l’a ltro, la biodiversità , la vita , sono ricchezza : le vere risorse del pia neta . Nella possibilità di trascendere poeticamente tutto questo consiste la vera sfida dell’umanità che voglia superare se stessa e apprendere ad abitare poetica mente la terra in modo che vivere ed essere possa poter significare, come sostiene Mc Harg, sa per disegna re con la Na tura . L’ecologia ci insegna la qua lità e il tempo, ed è il tempo a modellare le forme e le energie delle cose viventi; è il tempo che scrive con le sue leggi e priorità la storia dell’evoluzione e inscrive la selezione estetica nella selezione biologica (Tiezzi 2001)70. Siamo, invece, costretti a credere che la drastica perdita di biodiversità, che i comportamenti della nostra specie stanno determinando, minaccia tutte le altre. Gli scienziati la definiscono la “sesta estinzione di massa”. Ma mentre le precedenti ondate di estinzione note nella lunga storia del pianeta Terra erano state causate da eventi esterni naturali, quella che si sta preparando è cau- Santa De Siena sata soprattutto da un’altra specie vivente, una sola: quella umana. Secondo l’ultimo rapporto del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep) circa11 mila specie di piante e animali oggi viventi sul pianeta potrebbero scomparire entro i prossimi trent’anni. Di cui 1.130 sono mammiferi e 1.183 specie sono di uccelli (il 12% di quelle note), e oltre 5.600 specie di piante. E' una perdita di biodiversità impressionante, massiccia. Il rapporto Geo-3, commissionato dall'Unep ritiene che tra le diverse minacce ambientali, dalla distruzione delle foreste all'inquinamento dell'acqua e dell’aria, allo sfruttamento eccessivo di risorse naturali, il cambiamento globale del clima che trasforma gli ecosistemi, quella della perdita di diversità delle specie viventi (biodiversità) come la minaccia più grave, quella che le somma tutte. La velocità con cui oggi le specie viventi scompaiono da 1.000 a 10 mila volte più in fretta del normale ritmo di estinzione naturale, non può che compromettere irreparabilmente, aggravandone ulteriormente la distruzione, gli habitat naturali, favorendo l'introduzione di specie invasive da una parte all'altra del mondo. C’è, inoltre, uno stretto rapporto tra la conservazione della diversità dei viventi e la crescente povertà.71. Pertanto, anche una visione del progresso più limita to, capace di ridurne l’impatto ambientale, è insufficiente perché sempre fondata su un rapporto economico strumenta le e non crea tivo nell’interazione con l’ambiente. Comunque basata su un paradigma che guarda alla natura in modo predatorio per essere espropriata delle sue risorse, irrimediabilmente devastata e compromessa nei suoi equilibri eco-sistemici , nel suo bios. È sempre più difficile concepire culturalmente che le ricchezze della na tura non sono risorse spendibili e che la capacità di attivare risposte a utonome da parte di ogni sistema vivente può voler dire che possono non necessariamente essere conformi ai parametri stabiliti per calcolo e perciò imprevedibili; che ci sono risposte retroa ttive che comportano effetti disastrosi a catena come l’effetto serra o le piogge acide; ed anche risposte non a da tta tive, che implicano cioè processi di stagnazione e regresso: processi che possono andare dall’entropia fino alla morte. Sappiamo dalle scienze evolutive che il tempo biologico è un tempo entropico, riducendo tutto al tempo storico rischiamo di trasformare il nostro in un destino di competizione verso la catastrofe. Allo stato attuale l’effetto serra e il riscaldamento globale del pianeta hanno un andamento che non si potrà invertire in tempi brevi. Il fattore tempo è dunque decisivo e, guadagnare anche solo pochi decenni di tempo prezioso, significa poter ancora cogliere un’alternativa, quella tra “sopra vvivenza ed estinzione per buona pa rte della vita e della civiltà ” (Rifkin 2000, 299)72. Compreso che non esistendo rimedi tecnologici agli effetti sponta nei della biosfera, la sola soluzione può essere soltanto quella di intervenire da subito nel rimuovere le cause che innescano i processi entropici. Nè c’è da aspettarsi molto dal mercato che ha già dimostrato come gli econocra ti non sono capaci di adattare il progresso tecnico agli uomini, ma preferiscono piuttosto adattare gli uomini al progresso tecnico (Morin 1994)73. Tant’è che nei ultimi due secoli si è realizzata una vera e propria inversione a da tta tiva . Secondo questa ipotesi non è più l’uomo ad adattarsi all’ambiente per sopravvivere, ma è l’ambiente a doversi adattare all’attività culturale evolutiva dell’uomo. Nel primo principio era l’uomo ad essersi dovuto adattare all’ambiente; nel secondo vediamo come sia l’ambiente ad adattarsi all’uomo a cercare le proprie risposte comportamentali. Cosmosofia 71 Gli scienziati la definiscono la “sesta estinzione di massa”. Ma mentre le precedenti ondate di estinzione note nella lunga storia del pianeta Terra erano state causate da eventi esterni naturali, quella che si sta preparando è causata soprattutto da un'altra specie vivente, una sola: quella umana. Secondo l'ultimo rapporto del Programma delle Nazioni unite per l'ambiente (Unep) circa11 mila specie di piante e animali oggi viventi sul pianeta potrebbero scomparire entro i prossimi trent'anni Di cui 1.130 sono mammiferi e 1.183 specie sono di uccelli (il 12% di quelle note), e oltre 5.600 specie di piante. E' una perdita di biodiversità impressionante, minaccie ambientali, dalla distruzione delle foreste all'inquinamento dell'acqua, allo sfruttamento eccessivo di risorse naturali considera quella sulla perdita di diversità delle specie viventi (biodiversità) come la minaccia più grave, che le somma tutte. C’è, inoltre uno stretto rapporto tra la conservazione della diversità dei viventi e la crescente povertà. La velocità con cui oggi le specie viventi scompaiono da1.000 a 10 mila volte pimassiccia. Il rapporto Geo-3, commissionato dall'Unep ritiene che tra le diverse mù in fretta del normale ritmo di estinzione naturale, non può che compromettere aggravando ulteriormente la distruzione degli habitat naturali e l'introduzione di specie invasive da una parte all'altra del mondo, oltre all'inquinamento, il sovrasfruttamento di 43 n.18 / 2007 risorse, il cambiamento globale del clima che trasforma gli ecosistemi. 72 J. RIFKIN, Entropy. Into the Greenhouse World, Penguin Putnam Inc. 1989; trad. it.: Entropia, Baldini & Castoldi, Milano 2000, p.299. 73 Cfr.E. MORIN, TerraPatria, cit. 74 E. MORIN, Il pensiero ecologico, Hopeful Monster, Firenze 1988, p. 100. 75 E. TIEZZI, Il capitombolo di Ulisse, cit., p.90. 76 Cfr. B. MANDELBROT, Gli oggetti frattali, Einaudi, Torino 1987. 77 R.MENCHU’, Il mio sogno di un mondo più umano, in <<La Repubblica>>, 23 gennaio 2003. 44 Possiamo ora osare ipotizzare un terzo principio, quello dell’a da tta mento reciproco e della coevoluzione intersistemica . Bisogna allora lanciare una vera sfida ecologica scoprendo innanzitutto il valore della coesistenza e non inseguendo i limiti dello sviluppo, ma lo sviluppo del limite. Si tratta, in altri termini, di apprendere ad a bita re il limite, ricercando la giusta proporzione tra a ntroposfera e biosfera , ma ciò è possibile solo scegliendo di sviluppare una prospettiva etica che accetti la reciprocità . Senza la salvaguardia della biodiversità e senza ampliare la sfera dei diritti all’intero pianeta e senza un cambiamento culturale ra dica le, non è possibile assicurare neppure la sopravvivenza per una sola specie. Non è possibile dare un’impronta di sostenibilità a un mondo in cui rischia di dissolversi ogni forma di coopera tive globa l community con un’economia regolata solo dalla ma no invisibile del mercato. Più che all’inizio di un ciclo virtuoso sembriamo, infatti, osserva Edgar Morin, coinvolti in una corsa inferna le fra la degradazione ecologica che produce la nostra degradazione e le soluzioni tecnologiche che si preoccupano “degli effetti di questi ma li continua ndo però a sviluppa re le loro ca use” (Morin 1988, 100)74. Senza un radicale ripensamento ecologico dell’economia e senza un miglioramento nella gestione e nella tutela delle risorse naturali lo stesso futuro dell’umanità e delle altre specie ne sarà seriamente compromesso. Il traguardo è quello di una nuova solida rietà orga nizza tiva come ipotesi gestionale del nostro oikos. Pensare cioè la terra come “luogo geometrico della complessità e dell’entropia nega tiva ” (Tiezzi 1991, 90)75, sapendo che la geometria della natura è caotica e non può corrispondere al modello euclideo. Le coste, i cristalli, le galassie, le nuvole non fanno che mostrarci che per entrare nel caos occorre la geometria dei frattali (Mandelbrot 1987)76. 9. Coevoluzioni Nel raccontare il suo sogno di un mondo migliore, Rigoberta Menchù osserva che il mondo ha assistito alla globa lizza zione dei ca pita li e delle comunicazioni, ma non alla globa lizza zione della giustizia , della solida rietà , del rispetto e della tollera nza , come non ha saputo universalizzare i valori, il rispetto dell’ambiente e della vita. Accade così che “ma ggiore è il benessere e l’opulenza di a lcuni, ma ggiore è a nche l’insa zia bile vora cità per le risorse che dovrebbero servire a ga ra ntire a tutti un minimo” (Menchù 2003)77. È evidente come i conflitti sociali e le controversie ambientali siano destinati ad aumentare con l’evolversi delle conoscenze e con lo sviluppo globale dei mercati. Una relazione complessa unisce, infatti, i tre sistemi: culturale, economico e ambientale, ma se non si governano i processi dominati dal neo-liberismo e non si limita la dittatura tecnocratica, ad essere sconfitta sarà l’umanità intera. L’ultimo decennio del secolo ventesimo ha rappresentato una svolta epocale che ha visto l’affermazione e la reiterazione su scala planetaria del modello di sviluppo occidentale fondato, come abbiamo detto, sull’idea acritica della capacità adattiva e autorigenerativa dell’ambiente, che nel suo traslato socio-economico diventa capacità di adattamento e di autoregolamentazione del mercato e delle sue distorsioni all’interno delle società umane. Una sorta di neoevoluzionismo sociale cui non sfugge neppure chi propone un modello ecocompatibile o ecosostenibile che non tenga conto dell’ambivalenza e della complessità dei pro- Santa De Siena cessi, delle azioni e delle retroazioni che si determinano. Le contraddizioni intrinseche a questo modello di sviluppo politico-economico sono ormai troppo evidenti per non porre l’urgenza della discussione ra dica le del paradigma di progresso inaugurato con l’industrializzazione e direttamente connesso alle origini stesse della modernità, con la scoperta dell’a ltro e con l’espropriazione delle sue risorse, alla formazione dell’economia-mondo della società-mondo, non sarà sufficiente tentare di aggredire il problema. Si tratta di ripensarlo nella sua logica antiecologica. Perché i sacerdoti delle banche e delle istituzioni finanziarie del Nord del pianeta hanno potuto vivere alla grande utilizzando “la ricchezza presa in prestito o ruba ta ” ai popoli del Sud del pianeta, applicando una forma di capitalismo molto atipica e singolare che considera ”le risorse na tura li e i poveri elementi non indispensa bili degli ecosistemi ” (Shiva 2002, 222).78 L’ecofilosofia elaborata dal norvegese Arne Naess ha individuato due approcci possibili alle questioni ambientali e allo sviluppo, uno da lui definito superficia le, l’altro profondo. Con il primo, quello superficiale, ci si può limitare a ridurre l’inquinamento e a conservarne le risorse; con quello profondo, si deve allargare lo sguardo non solo a ciò che accade nei paesi ricchi, ma anche alle altre aree, soprattutto a quelle selvagge, che più di ogni altro dovrebbero essere protette, preservate e valorizzate. Fare questo significa apprendere l’arte di spostare lo sguardo e non è necessario fondare una nuova etica, secondo J. Passmore, semmai di riscoprire e va lorizza re tutte quelle tradizioni del pianeta che sono state accantonate, che sono state occultate e rese ingiustamente minoritarie, per dare forza ai principi morali già esistenti (Passmore 1986)79. Occorre sviluppare nuovi comportamenti e inventare nuove pratiche di vita che richiedono lo sforzo di confrontarci con i problemi etici pur sapendo che ogni sviluppo crea tivo porta con sé necessariamente una distruzione, e che ogni organizzazione è sempre disorga nizza trice/riorga nizza trice. Così come ogni innova zione trasformatrice è pur sempre una devia nza che da un lato rompe le regolazioni ma, dall’altro, le ricostituisce. Perchè ciò accada occorrono principi, norme e regole per operare la “deregola zione che permette l’innova zione e sta bilire la regola zione che ma ntiene la tra sforma zione” (Morin 1994, 148)80. Sarebbe, infatti, mortale continuare a destrutturare senza attivare processi capaci di sviluppare dinamiche aggregatrici. Ciò è possibile soltanto con lo sviluppo di politiche planetarie coordinate da un potere planetario in grado di regolare le forze economiche e di affrontare efficacemente i problemi complessi che proprio tali forze, finché resteranno prive di regolamentazione, creano. Di regole parla anche Z. Bauman, sostenendo che è possibile cambiare questo sviluppo, solo affrontando di petto la sfida principale del nostro tempo ossia, il bisogno urgente di sottoporre gli attuali sfrenati, erratici, capricciosi processi di globalizzazione al controllo politico e alla legge (Bauman 2002)81. Ma soprattutto bisogna essere capaci di sviluppare una coscienza pla neta ria per apprendere ad a bita re e a civilizza re la Terra e sviluppare così un senso di a ppa rtenenza alla nostra Terra-Patria. Se veramente siamo macchine non-banali possiamo apprendere a moltiplicare i punti di vista, spostare le domande ed ampliare i contesti e anche se siamo certamente destinati all’erranza, non per questo siamo “inelutta bilmente conda nna ti a ll’errore, a ll’illusione, a lla fa lsa coscienza ” (Morin 2002, 270)82. Cosmosofia 78 V. SHIVA, Terra-Madre, cit., p. 222. 79 J. PASSMORE, La nostra responsabilità per la natura, cit. 80 E. MORIN,.Terra-Patria, cit., p.148. 81 Z. BAUMAN, L'umanità segregata in una discarica, in <<Il Manifesto>>, 10 ottobre 2002. 82 E. MORIN, La Méthode 5. L'Humanité de l'Humanité. Tomo I: L'identité humaine, Editions du Seuil, Paris 2001; trad.it.: L'identità umana, Cortina, Milano 2002, p. 270. 45 n.18 / 2007 10. L’Essere-per-la-morte e L’Essere-per-la-vita 83 G. STEINER, Grammars of Creation. Trad.it.: Grammatiche della creazione, Garzanti, Milano 2003, p.10. 46 È nel secolo appena concluso che l’uomo ha percepito pienamente che la tragicità della propria condizione dipende quasi interamente da se stesso, dalla sua crea tività distruttiva . Jean Luc Nancy, ha proposto una tripartizione, teorica e storica, della nozione di ma le. Dei tre sensi in cui parliamo del male, come sventura , come ma la ttia e come ma le puro e semplice, il primo è quello fatale, caratteristico dell’antichità; il secondo è quello razionale più specifico del pensiero moderno. Ma oggi si può ormai parlare di male solo in un senso più totale e ra dica le: i campi di sterminio nazisti non sono né la disgrazia di Edipo, né un accidente che turba l’ordine razionale del mondo. Sono in molti sensi il male assoluto, hanno una portata metafisica; sono essi che ci inducono a ripensare al male sostantivo, e riparlare di una tragicità essenziale della condizione umana. Pertanto il pessimismo tragico che serpeggia nella nostra cultura ha anche motivazioni più recenti e giustificazioni più attuali dove, divenuta impraticabile la spiegazione marxiana, tutto sembra dipendere dal modo in cui ha avuto inizio questa storia con l’ominizzazione; una storia dominata da una specie, quale conseguenza inevitabile – secondo alcuni – della hybris, della tracotanza, caratteristica della tecnica (anzi della Tecnica). Ed è in questo ta rdo pomeriggio ontologico nel quale “l’inventiva tecnocra tica risponde a ll’a ppello del disuma no, o rima ne neutra le” (Steiner 2003, 10)83 che ci poniamo dinanzi alla duplice e angosciante coscienza dell’essere-per-la -morte e dell’essere-per-la -vita . Una consapevolezza che può generare due atteggiamenti opposti. Da un lato la distra zione, la rassegnazione, la fuga, intesa come disimpegno, come morte della coscienza, sorda al dolore del mondo e ubriacata dai ritmi mediatici, completamente “immersa” e nello stesso tempo “estranea” ai destini del mondo; una coscienza dissipata nella nullificazione delle merci, che ama perdersi nella deiezione dei consumi. Dove regna l’accettazione della morte quale condizione ontologica dell’Essere, per vivere in un eterno presente che annulla ogni possibilità di coniugare il futuro. Un’umanità che, dimenticata la grammatica, sia incapace di fare uso del congiuntivo e delle subordinate ipotetiche. Vivendosi un presente sempre più dilatato, infinito, senza progetto, in cui l’oggi è l’unica prospettiva senza tempo, senza passato e senza futuro. Dall’altra la possibilità di abbandonare ogni visione riduzionistica e riattivare l’interrogazione a partire dal vivente, dall’Essere degli Esser-Ci e al destino dell’Essere e del Vivente, con il quale l’uomo con-divide e con-vive e concorrere alla vita dell’Essere-per-la-vita, in un processo di coevoluzione permanente. Una prospettiva che può ben definirsi Cosmosofica , quale a more per il cosmo, che estende il suo abbraccio all’ oikos, alla Physis in una coriginale struttura ontologica dell’Essere-degli-Esser-ci. Platone nel Timeo stabiliva un nesso tra bellezza e natura, e narrava che il cosmo fosse la cosa più bella di tutte. Egli riteneva che la creazione a partire dal ca os corrispondesse alla causalità più efficiente, il cui scopo non poteva non essere la bellezza perfetta. Stabiliva così un incontro tra morale e logica, tra morale ed estetica. Kosmos viene, infatti, da kosmeo, termine dal quale deriviamo il concetto di cosmetico, di unico, di bellezza. I filosofi greci, infatti, odiavano il nulla , provavano orrore del vuoto, per questo narravano quelle fiabe della ragione che erano le cosmogonie, che, secondo G. Santa De Siena Steiner, erano risposte erotiche alle domande: perché non c’è il niente? Perché non c’è il ca os? La semantica greca non possedeva i termini per definire il nonnato, l’ex-nihilo, il nulla. Mentre la filosofia moderna concependo soltanto il pieno, l’esistente, con la sua grammatica ha reso innaturale la radicale negatività esistenziale. Ma la domanda amara: perché non c’è il niente? ritorna prepotentemente come è ritornato nuovamente presente il caos con i progressi delle matematiche. E l’interrogativo ontologico acquista una nuova urgenza metafisica e morale, perché investe la natura dell’essere, dell’Essere come dono, quindi come crea zione (Steiner 2003, 41)84. Ma dinanzi a noi esseri globalizzati incapaci di provare ex-sta si, stupore, c’è ormai la prospettiva della fine; siamo sempre più lontani dagli enigmi delle origini. La morte a cca de, è di tutti, è condizione ontologica ineludibile. Le nostre menti abilitate a pensare per scenari ci mostrano un futuro prossimo di paesaggi lunari, spettrali, desertici. Fiction e fantascienza creano proiezioni e anticipazioni inquietanti che dimostrano quanto la nostra fantasia sia ossessionata non più dal mito della genesi, dalle cosmogonie, quanto dal mito della morte, delle cosmo(a )gonie. Dinanzi a nuove possibili biforcazioni, ad eventi accidentali, discontinuità, derive ed ibridazioni solo la presa di coscienza della comune condizione terrestre e del comune duplice radicamento può farci evolvere verso una oltre-uma nità . Se la modernità ha sacrificato il cum della relazione tra gli uomini della communita s, istituendo una sorta di immunita s al fine di assicurare la propria sopravvivenza, al prezzo della dissociazione di ogni legame, Morin nel riproporre l’idea di una Comunità di destino non solo ristabilisce il legame del con-essere che permette all’umanità di uscire dal vuoto ra dica le nel quale si è venuta a trovare, ma ad uscire anche dal vuoto cosmico, nel quale si è immersa. Ponendo al centro il nulla , Morin evoca il suo contrario: la vita . Condizione biologica questa che non appartiene solo all’uomo. Non solo l’uomo, dunque, al centro della riflessione ontologica dell’esistenza. Non si tratta solo di porre l’interrogativo sul chi è dell’uomo, ma di interrogarsi sulla condizione fondamentale dell’essere-per-la -vita e dell’essere-per-la -morte. È lo spazio per un esistenzialismo cosmico cora ggioso, evolutivo, crea tivo, poietico che ristabilisce il senso della comunità proprio come la intendeva Hobbes, ossia nel comune rischio di una comune uccidibilità , fine, declino, estinzione. In cui pur nella consapevolezza della morte cosmica la comunità è assunta come eccedenza energetica che rinsalda la relazione individuo/società /specie. Nella coscienza della universa le singola re diversità e nella singolare ambivalenza di vita e di morte, per sviluppare così nuove qua lità emergenti capaci di aprire a nuovi giochi evolutivi. Questo interrogarsi dell’Ente sull’intero mondo della vita rompe definitivamente con la ra ziona lità a ntropofilosofica . L’apertura di Heidegger muove dall’uomo e riconduce l’a lterità all’umano, senza interrogare la nozione di diversità nel senso del bios, e guarda agli esiti anche nichilisti in termini di “possibilità” e di “alternativa” sempre per l’uomo e non già per-gli-a ltri esseri viventi. Che è stata un’innegabile apertura al multiculturalismo, a l plura lismo evolutivo. Ma come è altrettanto innegabile che oggi è la stessa macchina discorsiva a produrre lo stereotipo della differenza , a garantire questa prospettiva di superiorità cognitiva che i sociologi chiamano di othering e che sta generando i cosiddetti equivoci del multicultura lismo. Questo si sta trasformando, infatti, in una delle tante retoriche possibili nelle quali spesso l’a ltro si muove sempre all’interno di rap- Cosmosofia 84 G. STEINER, Grammatiche della creazione, cit., p. 41. 47 n.18 / 2007 85 Cfr.A. MONTUORI, I. CONTI, From Power to Partnership. Creating the Future of Love, Work, and Community. (Trad. It.: Dal dominio alla partecipazione, Etas Libri, Mialno 1997) presentazioni omologanti dell’a lterità . In altre parole dell’a ltro si danno solo rappresentazioni a partire dal proprio paradigma culturale dominante e con il quale si producono storie e na rra zioni. Mentre sappiamo, invece, che ciò che decide effettivamente la differenza possono essere soltanto le pratiche e le politiche di comunicazione istituite da lle e nelle relazioni. Invece, si immaginano aperture degli spazi discorsivi volti a decostruire, a svelare con il linguaggio una volontà dialogante che finisce per tradursi in una incorpora zione dell’alterità, in un gesto che decide chi decostruisce e chi attiva il procedimento pratico. Per questo un vero procedimento di decostruzione che non sia di dominio ma di partecipazione (Montuori-Conti 1997), (tra cui le teorie evoluzionistiche, le scienze della mente, la cibernetica, la teoria dei sistemi, la teoria dei giochi, la nuova biologia, la cosmologia, la teoria degli equilibri punteggiati, la teoria della complessità del vivente, ecc.)85 passa non attraverso lo svelamento dell’altro ma nella comprensione autentica dell’a ltro come tutt’a ltro. Una comprensione che come sostengono sia Levinas, sia Derrida, solo la rela zione può istituire e che nasce dall’incontro con l’altro; un incontro nel quale a bolire la parola per lasciare spazio all’a scolto. Abolire il dominio della parola e a scolta re l’a scolto è un processo di decostruzione e quindi di creazione differente dal paradigma teologico dell’ermeneutica e che potrebbe essere definito post-decostruttivista , proprio perché rende chiara la consapevolezza di un paradosso: dell’a lterità ra dica le dell’a ltro. Pertanto se è stato cruciale aver compreso l’oblio dell’Essere cui la svolta meta fisica ha messo capo ora occorre comprendere l’oblio dell’Altro-esser-ci e dare inizio ad una svolta ecologica . Scoprire e comprendere i molteplici e simultanei livelli di esistenze presenti nel nostro pluriverso e multiverso e spostare lo sguardo pia no della specie a quello rotondo della specie e delle specie, per concepire non soltanto un’a ntropo-biosfera , ma anche una bio-eco-a ntropo-biosfera . Provare l’emozione piena dell’Esser-ci, sentendoci con gli altri. Il sentire che ha la sua radice nel provare sentimento e amare, sofia appunto, nei confronti del sa pere cosmico. Perché non esiste alcun senso della realtà senza amore, e proprio questo legame, per Simon Weil, è alla radice del bello. Morin interrogando la nozione di eco apre all’oikos alla ca sa comune del vivente, ad una Cosmofilosofia . Una prospettiva pla neta ria che implica l’idea del munus, della reciprocità nei confronti di tutti coloro che ci donano la vita . Ponendoci dinanzi all’essere-per-la -morte e all’essere-per-la -vita egli rimette in gioco l’a ngoscia e la spera nza . Mostrandoci il nostro essere singola re-plura le ci apre alla nostra costitutiva a lterità nei confronti di noi stessi, ad una nuova struttura ontologica del con-Essere. Ci insegna a trascendere l’Essere per essere-congli-altri-viventi. Ma questa responsabilità ci obbliga ad una nuova crea zione verso gli altri, a dare un valore in più al mondo. La sua utopia è una poiesis, e come la poesia di tutti i tempi ci costringe a progredire. La sola capace di crea re, che ci rende vivi e desiderosi di rivelazioni. Riferimenti bibliografici G. BATESON, in Mind a nd the Na ture, A Necessa ry Unity, 1979, (trad. it.: Mente e Na tura , Adelphi, Milano 1984. Z. BAUMAN, L’uma nità segrega ta in una disca rica , in “Il Manifesto”, 10 ottobre 2002. 48 Santa De Siena Cosmosofia G. BOCCHI- M. CERUTI, (a cura di), La sfida della complessità , Feltrinelli, Milano 1985. M. CERUTI, Evoluzione senza fonda menti, Laterza, Bari-Roma, 1995. M. CERUTI, Il vincolo e la possibilità , Feltrinelli, Milano, 1986. 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Il Semina rio è sta to promosso da l Dottora to in scienze della Cognizione e della forma zione in colla bora zione con la Ssis e con il Centro di Eccellenza per la Ricerca Dida ttica e la Forma zione Ava nza ta , e sotto la direzione del prof. Umberto Ma rgiotta dell'Università Cà Fosca ri di Venezia . Sul Semina rio ritorneremo nel prossimo numero. Nella letteratura gramsciana si cita spesso il giudizio che Gramsci diede del pragmatismo italiano: “Mi pare di poter dire che la concezione del linguaggio del Vailati e di altri pragmatisti non sia accettabile: tuttavia pare che essi abbiano sentito delle esigenze reali e che le abbiano “descritte” con esattezza approssimativa, anche se non sono riusciti a impostare i problemi e a darne una soluzione” (Gramsci 1975, p. 1330). La citazione apparentemente chiude la questione intorno alla considerazione che Gramsci ebbe del pragmatismo. Ma, cosa conosceva Gramsci del pragmatismo? Il curatore dell’edizione Einaudi dei Qua derni da l ca rcere asserisce che Gramsci conosceva Il pra gma tismo, di Giovanni Vailati e Mario Calderoni (Vailati - Calderoni s.d. [1915]). Viene richiamato anche (ma, dicono i curatori, forse da fonte indiretta) Il lingua ggio come osta colo a lla elimina zione dei contra sti illusori (Vailati 1987, p. 111-115), ripubblicato negli Scritti del filosofo cremasco editi nel 1911, ma che Gramsci poteva aver letto nella rivista “Rinnovamento” nel 1908. Non risulta che abbia avuto sottomano l’edizione degli Scritti di cui parla, e che fa intendere di voler “rivedere” (Gramsci 1975, p. 1330). Il termine può lasciare intendere che Gramsci prima del carcere abbia consultato gli Scritti . Tra i testi di Giuseppe Prezzolini quello sicuramente conosciuto è Il lingua ggio come ca usa di errore, edito nel 1904. Questi i testi e questi i due principali pragmatisti che egli conosceva. Ci sono però riferimenti e citazioni sparsi, e, anche se l’elenco delle ricorrenze non è lungo, esse consentono un raffronto almeno tematico, se non puntualmente condotto sui testi, tra il pensiero di Giovanni Vailati e Antonio Gramsci. Inoltre, consente di sfumare l’accezione negativa del giudizio gramsciano sul pragmatismo e i pragmatisti. Gramsci parla “di altri pragmatisti”. Chi erano? Nei Qua derni si nominano Prezzolini e Papini, ma quest’ultimo non ricorre nei contesti in cui Gramsci parla di pragmatismo. Resta quindi Prezzolini. L’accostamento Prezzolini-Vailati, poi, a noi contemporanei non pare affatto pacifico. È dato acquisito dalla critica che Vailati fosse con Mario Calderoni esponente del pragmatismo logico, in contrapposizione con Giuseppe Prezzolini e Giovanni Papini. Oltretutto Prezzolini rinnegò il suo pragmatismo nel 1908, di qualunque specie fosse stato, e, forte del suo nuovo crocianesimo, rinnegò anche il defunto Vailati nel 1910 (Prezzolini s.d., p. 101); negli anni successivi, 51 n.18 / 2007 quando si accorse che qualcuno ritornava a Vailati con ammirazione, rinnegò anche il suo stesso rinnegamento. Ma negli anni ‘30 stava appena per arrivare il primo dei tanti momenti di rivalutazione di Vailati, e Gramsci sapeva di lui solo quello che la tradizione gli aveva consegnato, ovvero molto poco. Non è questa la sede per illustrare le ragioni per cui Vailati fu dimenticato e bandito dal panorama culturale italiano, ma il suo resta uno dei casi più strani del Novecento. Laureato in ingegneria ed in matematica, era uno dei pochissimi intellettuali italiani ad unire solide conoscenze scientifiche ad una profonda cultura filosofica. Parlava quattro lingue ed aveva rapporti intensi con la comunità scientifica internazionale. Vailati era forse l’unico che avrebbe potuto con cognizione di causa portare avanti il progetto vagheggiato dai positivisti, i quali, in realtà, parlando di scienza senza conoscerla “determinarono la sfiducia degli scienziati più avveduti e le critiche dei filosofi più accorti” e “contribuirono così a quel divorzio fra scienza e filosofia tanto dannoso per la nostra cultura” (Garin 1997, p. 8). La sua critica al positivismo si accompagnò a quella all’idealismo, che allora si stava irrobustendo, e trovò un palcoscenico nel Leona rdo, testata fondata appunto da Papini e Prezzolini con l’intento di criticare e scuotere la fiacca attività culturale italiana. La produzione culturale di Vailati è vastissima. L’articolo citato da Gramsci, Il lingua ggio come osta colo a lla elimina zione di contra sti illusori, è un buon punto di partenza per illustrare la concezione vailatiana del linguaggio, nonché per illustrare l’importanza della massima pragmatica ai fini di un confronto, seppure molto parziale, tra i due autori. La massima pragmatica Il solo fatto di parlare una lingua, dice Vailati, impone al parlante di accettare una grande quantità di classificazioni e distinzioni di cui non saprebbe indicare l’origine e il fondamento, dato che esse sono nate in circostanze differenti da quelle in cui egli vive. Tali distinzioni e classificazioni condizionano però i nostri tentativi di pensare e parlare con originalità. La storia delle scienze è ricca di esempi in tal senso. Basti pensare al ruolo che giocò la distinzione, irriducibile, tra corpi pesanti e corpi 52 leggeri, “i primi tendenti verso il “basso” e gli altri tendenti verso l’“alto””, che “fu tra i maggiori ostacoli che si opposero alla scoperta e al riconoscimento delle analogie sussistenti tra il comportamento dei corpi sotto l’azione della pressione atmosferica e quello dei corpi immersi o galleggianti in un liquido” (Vailati 1987, vol. I, p. 112). Ma se dalle ricerche fisiche si passa ad esaminare quelle che hanno per oggetto l’uomo, allora diventa ancora più lampante l’”incompatibilità tra le classificazioni, imposte dal linguaggio comune, e quelle che man mano vengono a essere riconosciute, dai singoli investigatori, come meglio rispondenti ai fatti, o più conformi alle esigenze della ricerca o delle applicazioni pratiche” (Vailati 1987, vol. I, p. 112). Socrate e i suoi interlocutori nel Teeteto non fanno altro che sottoporre a critica le distinzioni e le identificazioni implicitamente accettate dal linguaggio comune in nome del “diritto di far dipendere la propria adesione ad esse dai risultati di un’indagine pregiudiziale sul loro grado di coerenza e sui motivi adducibili a giustificazione di esse” (Vailati 1987, vol. I, p. 112). La scienza e la filosofia dovrebbero quindi essere ripensate ad ogni successiva generazione, data la resistenza che le associazioni verbali tradizionalmente accettate e date acriticamente per buone oppongono alla loro revisione. Uno dei dilemmi classici frutto appunto della difficoltà di un approccio critico al linguaggio è quello classico che oppone il “credere” al “sapere”, come, dice Vailati, se “ciò che “sappiamo” non costituisse, in ogni modo, una parte di ciò che “crediamo” (Vailati 1987, vol. I, p. 115). L’analisi linguistica appare quindi propedeutica alla determinazione dei criteri di credenza e condotta. L’ “epurazione” linguistica non è cioè mera chiarificazione di ciò che si intende con un dato termine o con un altro. O meglio, non solo. È rinvenimento dei processi che hanno condotto a quelle distinzioni e a quei concetti: tale rinvenimento ci conduce alla libertà di accettare o rifiutare le distinzioni cui hanno dato luogo, nel caso che ci paiano inopportuni e non adeguati agli scopi che noi possiamo avere in vista in una determinata circostanza. Non si tratta di ripensare il linguaggio in vista dei nostri fini immediati, in una prospettiva meramente utilitaristica. Anzi. Per restare solo ai testi che con ogni probabilità Gramsci aveva conosciuto, si pensi al testo Il pra g- Irina Di Vora ma tismo. L’opera si apre con l’esposizione della regola metodica di Ch. S. Peirce, che, ripresa da Vailati, si configura come la “cifra” del pragmatismo logico. Tale regola è sintetizzata così: “Il solo mezzo di determinare e chiarire il senso di una asserzione consiste nell’indicare quali esperienze particolari si intende con essa affermare che si produrranno, o si produrrebbero, date certe circostanze” (Vailati – Calderoni s.d. [1915], p. 20). A monte, sia detto per inciso, c’è la riflessione di Berkley, per il quale, termini come “realtà”, “sostanza”, “materia” non indicano altro che la “possibilità di sensazioni”, indicano cioè quello che noi proveremmo in determinate circostanze. L’essere o l’esistere non è insomma che il “poter essere” di determinate circostanze. L’asserzione di Peirce, dicono Vailati e Calderoni, è stata talvolta proposta da lui nella seguente variante: “Il significato di una concezione consiste nelle sue conseguenze pratiche” e questo ha dato luogo ad equivoci, come quello di concepire il pragmatismo come una specie di “utilitarismo” applicato alla logica; nel vedere in esso, cioè, una dottrina assumente a criterio della verità o falsità delle credenze, le loro conseguenze più o meno utili, o gradevoli” (Vailati – Calderoni s.d. [1915], p. 21). La regola metodica di Peirce è lontanissima da tale prospettiva. Nelle parole di Vailati e Calderoni “essa non è in sostanza che un invito a tradurre le nostre affermazioni in una forma nella quale ad esse possano venire più direttamente e agevolmente applicati, appunto quei criteri di verità e falsità che sono più ‘oggettivi’, meno dipendenti, cioè da ogni impressione o preferenza individuale; in una forma, cioè, atta a segnalare nel modo più chiaro, quali sarebbero gli esperimenti, o le constatazioni, alle quali noi, od altri, potremmo e dovremmo ricorrere per decidere se, e fino a che punto, esse siano vere” (Vailati – Calderoni s.d. [1915], p. 21). L’unica accezione nella quale è accettabile che il pragmatismo sia tacciato di avere un carattere “utilitario” è quella per cui può essere conveniente applicare la massima pragmatica perché aiuta a scartare questioni inutili o fumose. La questione non è solo di stabilire quello che si vuole dire, con una determinata affermazione, ma anche di “discernere, nelle nostre affermazioni, quella parte che, implicando delle previsioni, è suscettibile di Una “quistione di parole” venire confermata o infirmata da ulteriori esperienze, da quell’altra parte che, riferendosi invece a qualche nostro stato attuale di coscienza (sensazioni, gusti, apprezzamenti) non può dar luogo a controversie risolubili con appello a nuovi fatti” (Vailati – Calderoni s.d. [1915], p. 25). È il non tener conto di una “norma metodica” tanto elementare che porta spesso i filosofi “a impegnarsi in controversie che, in mancanza appunto di qualunque chiara determinazione della tesi cui si riferiscono, non possono che prolungarsi indefinitamente ed apparire insolubili o trascendenti la capacità della mente umana (Vailati – Calderoni s.d. [1915], p. 26). Ma, per tornare alla massima pragmatica, l’esempio illustre di degenerazione della massima stessa in un forma di utilitarismo applicato alla logica che Vailati e Calderoni avevano in mente, era Henry James, il nome del quale godeva di grande notorietà per il suo Principii di psicologia e la sua particolare varietà di pragmatismo. Di questa forma di pragmatismo Gramsci parla esplicitamente, condannandola. A proposito del pragmatismo americano e nella fattispecie riferendosi a Dewey e James afferma: “Questa tendenza a concepire la vita come fatto tecnico, spiega la filosofia americana medesima. Il pragmatismo esce per l’appunto da questa mentalità che non afferra e non pregia l’astratto” (Gramsci 1975, p. 516 ), che vuole cioè far presa immediata sulla realtà piegandola ai proprii fini. A Gramsci questa pretesa pare volgare, esattamente come a Vailati e a Calderoni, ma questo non ci consente di segnare un punto di concordanza tra filosofia della prassi e pragmatismo. Il rinvenimento dei processi che danno luogo alle distinzioni e alle classificazioni che noi utilizziamo non è che un caso specifico dell’applicazione della regola metodica. Il perno attorno alla quale ruota la regola è il concetto di previsione. La peculiarità del pragmatismo vailatiano poggia sulla consistenza della massima pragmatica, senza la quale non si avrebbe previsione fondata, né discorso e condotta coerenti. Ed è la previsione uno dei cardini di tale filosofia, il concetto attorno al quale ruota l’intera produzione vailatiana e calderoniana. È la previsione a saldare linguaggio e condotta. 53 n.18 / 2007 Storia e previsione Ed è utilizzando tale metodica che gli scienziati procedono periodicamente ad una “riaffilatura” (Vailati 1997, vol. II, p. 91) dei propri ferri del mestiere, ad un’analisi critica dei mezzi di rappresentazione che utilizzano e dei processi di prova e di ricerca seguiti. Secondo Vailati la più utile forma di queste discussioni sarebbe quella che consiste nel determinare analogie e differenze tra le diverse scienze, e soprattutto nell’esaminare se e fino a che punto tali analogie e differenze trovino giustificazione nella natura della materia trattata. Ad esempio, ha reale motivazione d’esistere la distinzione tra le scienze che hanno come oggetto l’uomo e le scienze cosiddette fisiche o naturali? Per Vailati non ha alcun senso. Si discute, dice Vailati nel saggio Sull’a pplica bilità dei concetti di ca usa ed effetto nelle scienze storiche, intorno alla possibilità o meno dell’esistenza di leggi storiche, nello stesso senso nel quale si parla di leggi fisiche o chimiche. Ebbene, “una gran parte dei dispareri sembra […] dipendere, più che da altro, dalla mancanza di un concetto sufficientemente chiaro di ciò che si intende per legge nelle scienze fisiche e matematiche e dalla tendenza ad attribuire alle leggi, da queste considerate, dei caratteri che esse sono lontane dal possedere (Vailati 1997, vol. II, p. 91). È un luogo comune contrapporre le regolarità e le analogie presentate dall’osservazione dei fatti sociali con le leggi del mondo fisico. Invece è facile dimostrare che anche le cosiddette leggi fisiche sono soggette ad eccezioni, né più né meno dei fenomeni sociali. “Quando si dice che l’acqua congela a 0 gradi, si afferma qualche cosa che può essere vera o falsa a seconda della pressione cui l’acqua di cui si parla è soggetta. Se anche si fa entrare questa restrizione nell’enunciazione della legge, e si dice che l’acqua, alla pressione di 760 mm, congela a 0 gradi, si è ancora lontani dal poter dire d’aver formulata una legge che non soffra eccezioni, poiché, (anche senza tener conto della circostanza che il punto di solidificazione dell’acqua può variare a seconda delle sostanze che essa contenga in soluzione) è noto come, con certe precauzioni, si riesca a portare dell’acqua, anche chimicamente pura, al di sotto di 0 gradi, alla pressione di 760 mm, senza che essa congeli (Vailati 1997, vol. II, p. 91). 54 Quindi a che cosa si riduce tale legge se non a dire che, date tali o altre, condizioni, si verifica, tranne i casi in cui ve ne siano altre che non siamo in grado di determinare con esattezza? Qual è la differenza con le analogie e le regolarità osservate nei fatti naturali? In secondo luogo, non è nemmeno chiaro che si intenda con il dire che esse sono necessarie, a meno che non si pensi che devono essere vere come lo sono le conclusioni che si possono trarre da premesse vere. In tal caso però non ci si sottrae alla verifica di quelle premesse che non possono essere dedotte da altre. La riluttanza ad ammettere che si potrebbe parlare di leggi storiche sta nel fatto che molti pensano che dare alla regolarità dei fatti sociali il nome di legge implichi la svalutazione della volontà umana e della sua possibilità di modificare il corso degli eventi. Ma poi in realtà essi, pur ammettendo che vi sono leggi naturali che impedirebbero in via teorica l’azione umana, non vedono nessuna incompatibilità tra le leggi dell’idrostatica e il fatto che si possa deviare il corso di un fiume. Ciò che una legge asserisce non è che il tale fatto avverrà o non avverrà, bensì “quali siano i fatti da cui è accompagnato quando avviene o da cui verrebbe accompagnato nel caso che avvenisse” (Vailati 1997, vol. II, p. 95). Ma nei Qua derni il concetto di previsione è fortemente diverso. Gramsci non cita Vailati, ma dice: “La posizione del problema come una ricerca di leggi, di linee costanti, regolari, uniformi è legata a una esigenza, concepita in modo un po’ puerile e ingenuo, di risolvere perentoriamente il problema pratico della prevedibilità degli accadimenti storici. Poiché ‘pare’, per uno strano capovolgimento delle prospettive, che le scienze naturali diano la capacità di prevedere l’evoluzione dei processi naturali, la metodologia storica è stata concepita ‘scientifica’ solo se e in quanto abilita astrattamente a “prevedere” l’avvenire della società.[…] In realtà si può prevedere scientificamente solo la lotta, ma non i momenti concreti di essa. Realmente si ‘prevede’ nella misura in cui si opera, in cui si applica uno sforzo volontario e quindi si contribuisce concretamente a creare il risultato ‘preveduto’” (Gramsci 1975, p. 1439). La previsione, continua poi Gramsci, non è un atto di conoscenza. E come potrebbe mai esserlo? “Si conosce ciò che è stato o è, non ciò che sarà, che Irina Di Vora è un ‘non esistente’ e quindi inconoscibile per definizione. Il prevedere è quindi solo un atto pratico […] È necessario impostare esattamente il problema della prevedibilità degli accadimenti storici per essere in grado di criticare esaurientemente la concezione del causalismo meccanico, per svuotarla di ogni prestigio scientifico e ridurla a puro mito” (Gramsci 1975, p. 1404). Vailati non solo sostiene la possibilità di parlare di leggi storiche, ma nega con forza che questo implichi la “causalità meccanica” di cui parla Gramsci. La concezione materialistica della storia secondo Vailati presenta in modo volgare il pregiudizio per cui i soli fattori efficaci dello sviluppo e delle trasformazioni sociali sono quelli economici, che fungerebbero come causa, mentre “l’ammettere l’influenza preponderante dei rapporti economici, nella formazione e nello sviluppo delle singole specie di attività cui dà luogo la convivenza umana non implica che queste ultime non possano a loro volta agire come cause modificatrici della struttura e della vita stessa economica della società in cui si manifestano” (Vailati 1997, vol. II, p. 96). L’errore, dice anche Gramsci, sta nel “concetto stesso di scienza”, preso di sana pianta dalle scienze naturali. “Se le verità scientifiche fossero definitive, la scienza avrebbe cessato di esistere come tale, come ricerca, come nuovi esperimenti e l’attività scientifica si ridurrebbe a una divulgazione del già scoperto. […] Ma se le verità scientifiche non sono neanche esse definitive e perentorie, anche la scienza è una categoria storica” (Gramsci 1975, p. 1456). Gramsci e Vailati quindi non si accordano sulla previsione, entrambi vogliono evitare il pericolo del determinismo meccanico e concordano sulla non assolutezza (in senso etimologico) delle scienze, ma Vailati estende il concetto di legge anche alle leggi storiche, dato che neanche le leggi naturali possono essere considerate leggi nel senso comune del termine, mentre Gramsci, data la storicità delle scienze, nega la possibilità di concepire leggi storiche. Sono due punti di vista radicalmente differenti. Entrambi restituiscono il profilo delle scienze come sapere storico, frutto dell’attività umana che procede costantemente rimettendosi in discussione, ma Vailati intende in tal modo ribadire il carattere scientifico di ogni attività umana, mentre Gramsci, del sapere scientifico, esalta la Una “quistione di parole” dimensione storica. Anche gli esiti pedagogici di tale distinzione sono diversi. Gramsci pensa ad una rivista che promuova la storia della scienza e della tecnica come base dell’educazione formativa-storica nella nuova scuola. Vailati, invece, nel suo saggio Sull’importa nza delle ricerche rela tive a lla storia delle scienze, sottolinea l’importanza del cosiddetto metodo euristico, “[…] quel metodo cioè d’esposizione e insegnamento nel quale l’allievo o il lettore arriva a impossessarsi delle cognizioni che costituiscono un dato ramo di scienza passando attraverso alle considerazioni che hanno guidato quelli che sono giunti ad esse per la prima volta. […] A nessuno che abbia avuto occasione di trattare in iscuola, davanti a dei giovani, qualunque soggetto che si riferisca alle parti astratte e teoriche della matematica, può essere sfuggito il rapido cambiamento di tono che subisce l’attenzione […] ogniqualvolta l’esposizione lascia luogo a delle considerazioni d’indole storica” (Vailati 1997, vol. II, p. 10). Il linguaggio metaforico e la storicità del linguaggio Sul rapporto tra Gramsci e i pragmatisti italiani è da vedere il notevole saggio di Derek Boothman (2004), al quale chi scrive si dichiara in debito. Qui si cercherà solamente di indicare la possibilità di un approfondimento dei temi toccati da Boothman nel contesto della produzione vailatiana. Importante, perché mette a confronto Vailati e Gramsci, è anche lo scritto di Aqueci (1998). Ma la meditazione vailatiana sulla storia della scienza non manca di tornare sulle “quistioni di parole”, che sono fra le cause costanti degli errori scientifici e filosofici. È importante, dice Vailati, il modo in cui una dottrina è espressa. Oltre agli inganni linguistici di cui qui si è già parlato,” […] il linguaggio tecnico scientifico non meno del linguaggio volgare è pieno di frasi ed espressioni metaforiche, che pur avendo cessato, pel lungo uso, di richiamare l’immagine che suggerivano originariamente, non hanno perduto la capacità di indurci ad attribuire ai fatti che esse descrivono tutte le proprietà (corsivo mio) dell’immagine cui si riferiscono” (Vailati 1997, vol. II, p. 70). La cautela nell’utilizzare le metafore ci riporta quindi alla necessità, di cui 55 n.18 / 2007 si è già parlato, di rivedere costantemente i termini che entrano a far parte del linguaggio che utilizziamo, pena l’attribuzione arbitraria di proprietà inadeguate ai fatti indagati. Sul carattere metaforico del linguaggio torna a più riprese anche Gramsci. Particolarmente significativa questa affermazione: “Il linguaggio, intanto, è sempre metaforico. Se non si può dire esattamente che ogni discorso è metaforico per rispetto alla cosa od oggetto materiale e sensibile indicati, […] si può però dire che il linguaggio attuale è metaforico per rispetto ai significati e al contenuti ideologico che le parole hanno avuto nei precedenti periodi di civiltà. Un trattato di semantica, quello di Michel Bréal per esempio, può dare un catalogo storicamente e criticamente ricostruito delle mutazioni semantiche di determinati gruppi di parole. Dal non tener conto di tale fatto, e cioè dal non avere un concetto critico e storicista del fenomeno linguistico, derivano molti errori sia nel campo della scienza che nel campo pratico: 1) Un errore di carattere estetico […] è quello di ritenere ‘belle’ in sé certe espressioni a differenza di altre in quanto sono metafore cristallizzate; 2) un errore pratico che ha molti seguaci è quello delle lingue fisse o universali; 3) una tendenza arbitraria al neolalismo, che nasce dalla quistione posta dal Pareto del “linguaggio come causa di errore”. Il Pareto, come i pragmatisti, in quanto credono di aver originato una nuova concezione del mondo […] si trovano di fronte al fatto che le parole, nell’uso comune ma anche nell’uso della classe colta e perfino nell’uso di quella sezione di specialisti che trattano la stessa scienza, continuano a mantenere il vecchio significato nonostante l’innovazione e reagiscono. Si reagisce: il Pareto crea un suo dizionario […]; i pragmatisti teorizzano astrattamente sul linguaggio come causa di errore (vedi libretto di G. Prezzolini)” (Gramsci 1975, p. 1428). I tre errori che si rischia di commettere quando non si tenga conto della natura storica del linguaggio sono strettamente correlati. Pareto aveva citato in Les systemes socia listes uno scritto di Vailati (Sulla porta ta logica della cla ssifica zione dei fa tti menta li proposta da l Prof. Fra nz Brenta no) e il suo monito a fare un uso accorto del linguaggio comune a causa della sua ambiguità. Se tra “i pragmatisti” accanto a Pareto Gramsci annovera anche Vailati, allora tra l’atteg- 56 giamento di Vailati e Pareto sembra esservi solo una differente reazione al medesimo tipo di disillusione di fronte alla pervicacia delle parole a non mutare di significato né nel linguaggio dei dotti né in quello degli incolti. Ma Vailati, se è anche di lui che Gramsci parla, nello scritto Il lingua ggio come osta colo a ll’elimina zione dei contra sti illusori era proprio partito da questo assunto, e la sua riflessione non era che la dimostrazione della necessità di procedere ad una verifica preliminare all’uso automatico ed inconsapevole del linguaggio. Vailati non propone un dizionario nuovo tout court, ma invita alla revisione continua di quello vecchio, che può sempre indurci a commettere errori. Senza contare che Vailati, nella sua recensione a Les systemes socia listes, insinuava che lo stesso Pareto non “fosse immune affatto dai sofismi e dagli equivoci verbali da lui rimproverati ad altri. (Vailati 1971, p. 85)”. Pare quindi plausibile pensare che Gramsci con l’espressione “i pragmatisti” avesse piuttosto in mente Prezzolini, che poi cita esplicitamente. Il lingua ggio come ca usa d’errore esce nel 1904: si tratta di un libretto che contiene tutti i temi fin qui citati: il linguaggio come causa di errore, le “parole gravide di associazioni multiple” e di metafore, le difficoltà insormontabili che certi problemi filosofici sollevano” e che potrebbero derivare da tranelli delle parole”. Se da un lato vi si trovano in nuce alcuni temi che verranno poi sviluppati nel corso degli anni del “Leonardo”, è evidente che manca del tutto l’impronta che la regola metodica della massima pragmatica doveva in futuro conferire alle meditazioni dei pragmatisti sul linguaggio. Tuttavia lo scritto di Prezzolini ci consente di fare una importante precisazione. È vero che il linguaggio può indurci ad errare, ma sia Gramsci che Vailati propongono un correttivo a questa sua caratteristica. Gramsci lo indica nella presa di coscienza della storicità del linguaggio, cui è impossibile sottrarsi ma che, come si vedrà, è possibile controllare e addirittura convogliare verso nuovi fini. Vailati dal canto suo propone di smontare il meccanismo che anima la metafora e convertire tale procedura in buona pratica per l’acquisizione futura di conoscenza scientifica. È vero che il linguaggio può indurci ad errare, ma con la costante e vigile applicazione pragmatica noi possiamo riuscire a dire anche il vero, il vero che ci è Irina Di Vora possibile dire. Il primo errore citato da Gramsci, quello estetico, consiste nel considerare il linguaggio come creazione artistica del singolo anziché dell’individuo come elemento storico. Il linguaggio ha le sue radici nell’intera comunità sociale. Non è questa la sede per insistere sulla portata eversiva di tale concezione al tempo di Gramsci. Il riferimento a Bréal ci consente anzi di aggiungere un’altra elemento al quadro. Vailati aveva pubblicato una recensione proprio a Bréal, intitolata La psicologia di un diziona rio, dove non solo teneva conto del fatto fondamentale che le parole vivono nel tempo le mutazioni semantiche citate da Gramsci, ma aggiungeva che sarebbe stato opportuno utilizzare tale opera nelle scuole, “per affinare in essi [negli alunni] l’attitudine a riconoscere, nella storia e nelle variazioni di significato delle parole, la traccia delle idee, dei costumi, e dei modi di pensare e di agire, propri alle generazioni passate e alle fasi di civiltà da cui la nostra deriva” (Vailati 1997, vol. III, p. 327). A ciò sembra fare eco, in perfetta consonanza, questa affermazione di Gramsci: “Lo studio dell’origine linguistico-culturale di una metafora impiegata per indicare un concetto o un rapporto nuovamente scoperto, può aiutare a comprendere meglio il concetto stesso, in quanto esso viene riportato al mondo culturale storicamente determinato, in cui è sorto, così come è utile per precisare il limite della metafora stessa, cioè a impedire che essa si materializzi e si meccanicizzi” (Gramsci 1975, p. 1474). Gramsci difende in primo luogo la facoltà di produrre nuove ed efficaci metafore in vista dei fini che la filosofia della prassi si propone, ovvero quello di “riformare intellettualmente e moralmente strati sociali culturalmente arretrati” e per far questo ammette il ricorso anche a metafore talvolta “grossolane e violente” nella loro popolarità” (Gramsci 1975, p. 1474): qui è evidente che a Gramsci interessano le metafore per il loro fine pratico. In secondo luogo a Gramsci interessa chiarire l’uso metaforico di alcuni termini chiave della sua filosofia, termini che gli sono stati consegnati dalla tradizione e del cui significato si sente chiamato a rispondere. È il caso, ad esempio, del termine “immanenza” (Boothman 2004, p. 93). Ma è possibile togliere al linguaggio il suo caratte- Una “quistione di parole” re metaforico? si chiede Gramsci. Impossibile. Il linguaggio “assume metaforicamente le parole delle civiltà e culture precedenti”. Gramsci difende la metafora e ne dà una ragione in termini linguistico-storici perché deve lavorare con il repertorio linguistico che gli è stato consegnato e che deve utilizzare per la definizione e messa a punto della filosofia della prassi. E dall’altro fa della metafora uno dei cardini su cui ruota la sua “riforma morale e intellettuale”. Gramsci e Vailati sembrano qui concordare, nel ribadire una concezione critica e storicista del linguaggio, ma è interessante notare come tale concordanza ci riporti, di nuovo, ad una diversità di fondo. In Vailati la riflessione sulla lingua e sulla sua storicità non esclude affatto l’ipotesi della costruzione, artificiale, di una lingua internazionale. L’attenzione per le complesse stratificazioni interne alla lingua, l’attenzione per le metafore, la dichiarata volontà di svelare i processi che ancorano il linguaggio al sistema di credenze e aspettative in relazione alle quali il linguaggio stesso si struttura in distinzioni e classificazioni, non impediscono a Vailati di dire: “[…] Sarebbe sempre praticamente utile e anzi indispensabile l’avere, in uno schema teorico di lingua internazionale, una specie di “piano regolatore” ideale per guidare e accelerare le diverse fasi che ciascuna lingua civile tende ad attraversare per giungere a una graduale eliminazione delle differenze che sussistono tra essa e le altre più affini. […] Dovrebbe essere riguardata come una delle funzioni più importanti della scuola quella di propagare e apprendere la capacità a distinguere, nella lingua che in un paese vi si parla, le parti che essa ha in comune con le altre lingue civili, dalle parti che sono invece esclusivamente appartenenti ad essa” (Vailati 1997, vol. III, p. 413). Vailati nota che sempre più ci “domina ‘l’internazionalità’”, i figli parlano una lingua che, sia pure di poco, è più internazionale di quella parlata dai padri. “La conoscenza di ciò che si potrebbe chiamare la ‘distribuzione geografica’ di ogni parola e di ogni famiglia di parole della lingua materna, dovrebbe essere considerata come una parte essenziale dell’educazione liberale. Si dovrebbe provocare nelle classi colte di ogni paese, la formazione di una “coscienza filologica” delle imperfezioni e deficienze, lessicali o grammaticali, della lin- 57 n.18 / 2007 gua ivi parlata, delle direzioni nelle quali essa avrebbe bisogno di essere corretta o migliorata. […], e soprattutto della possibilità di tali correzioni e miglioramenti per azione delle iniziative degli individui e dei gruppi sociali più interessati […] Occorrerebbe reagire contro ogni specie di ‘purismo’ e contro il pregiudizio che le lingue, pel fatto di essere degli ‘organismi naturali’ non possano essere modificate artificialmente. Come se le stesse piante coltivate dall’uomo non ci fornissero appunto esempi di organismi che l’Uomo ha saputo modificare per adattarli ai suoi bisogni” (Vailati 1997, vol. III, p. 414). Una lingua costruita artificialmente per Vailati non contrasta affatto con la sua “naturalità”: è anzi la nozione di “naturalità” che andrebbe ridiscussa. Difficile non pensare qui ai progetti di costruzione di lingue universali, “come le lingue internazionali a posteriori del XIX secolo” (Eco 1993, p. 8) e ai tentativi di Peano di fornire agli studiosi non una nuova lingua, ma un La tino sine flexione che servisse quantomeno agli studiosi per i loro “rapporti scientifici internazionali” (Eco 1993, p. 347). Gramsci però, oltre al “secondo errore pratico delle lingue fisse o universali” di cui parla nell’ampia citazione, scocca nei Qua derni un’altra frecciata ai fautori delle lingue internazionali, quando parla della creazione di una lingua comune nazionale, ostacolata dalla resistenza delle masse a “[…] spogliarsi delle abitudini e psicologie particolaristiche. Resistenza stupida determinata dai fautori fanatici delle lingue internazionali” (Gramsci 1975, p. 2344). Gramsci sembra quindi avere delle riserve sulla costruzione di una lingua internazionale, se non altro perché i suoi fautori ostacolano quella di una lingua nazionale. Questo è in effetti uno dei nodi più importanti della riflessione gramsciana, e non è questa la sede per insistervi. Qui il problema del linguaggio metaforico si congiunge con il problema, di cui è parte, della traduzione da una lingua all’altra e della traduzione tra diversi linguaggi teorici all’interno di una disciplina, di cui si è occupato brillantemente Boothman nel testo già citato. Concordiamo qui con il giudizio di Boothman, il quale sfuma notevolmente la connotazione negativa del giudizio di Gramsci sul pragmatismo e i 58 pragmatisti: nonostante le riserve nutrite dal pensatore sardo, “sembra che in Gramsci rimanga qualcosa del loro approccio alla lingua e in particolare sembra che abbia trovato interessanti le teorie di Vailati, altrimenti sarebbe difficile spiegare come certi suoi passaggi si riflettono nel livello linguistico” (Boothman 2004, 96). Boothman allude qui alla progressiva scomparsa di alcuni termini dal lessico gramsciano, conseguente ad una pulizia linguistica consona con le raccomandazioni dei pragmatisti. Importa sottolineare come il tema del pragmatismo ricorra in contesti ove compare la trattazione della metafora e del linguaggio, la discussione intorno ai quali ci ha consentito di aprire nuovi campi di confronto tra i due pensatori e di rilevare alcune differenze di pensiero nonostante l’apparente e pacifica concordanza su un tema quale l’inammissibilità della concezione materialistico meccanica della storia e di portare alla luce la questione dei differenti esiti cui i due pensatori pervengono una volta riconosciuta la storicità del linguaggio. Riferimenti bibliografici Aqueci, F. (1998), “Una semioetica tra Vailati e Gramsci”, Segno, 194-195, aprile-maggio. Boothman, D. (2004), Tra ducibilità e processi tra dottivi. Un ca so: A. Gra msci linguista , Guerra Edizioni, Perugia. Eco, U. (1993), La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea , Laterza, Roma-Bari. Garin, E. (1997), Crona che di filosofia ita lia na , Laterza, Bari. Gramsci, A. (1975), Qua derni da l ca rcere, Einaudi, Torino. Prezzolini, G. (s.d.), 22 uomini 3 città , Vallecchi, Firenze. Vailati (1971), Epistola rio, a cura di G. Lanaro, Einaudi, Torino. Vailati G. (1987), Scritti , 3 voll., a cura di M. Quaranta, Forni, Bologna. Vailati G. e M. Calderoni (s.d. [1915]), Il pra gma tismo, Carabba, Lanciano. Umberto Vincenti Natura, diritto e territorio ne “La crisi“ di Silvio Trentin Focus: Silvio Trentin Le ragioni della traduzione italiana de La cr isi del Dir itto e dello Sta to Perché Giuseppe Gangemi ha ostinatamente voluto questa traduzione? La risposta sta scritta (dallo stesso Gangemi) in due successivi articoli apparsi nella Rivista interna ziona le di filosofia del diritto, il primo nel 2004 (Silvio Trentin, il diritto na tura le e la libertà come a utonomia ), il secondo nel 2005 (Silvio Trentin e Giuseppe Ca pogra ssi: similitudini e differenze). Attraverso il pensiero del giurista di San Donà Gangemi vorrebbe avviare un’operazione culturale ambiziosa, però necessaria (da ‘tentare’ indubbiamente) e, pertanto, meritoria; difficile prevederne gli esiti e, in certo senso, il pessimismo è d’obbligo (anche perché non infondato considerato il contesto, dato da certi limiti del pensiero trentiniano e dalle difficoltà in cui si dibatte il pensiero giuspolitico italiano). Vediamo un poco. Nell’articolo del 2004 Gangemi dichiara che occorre un’azione volta alla riappropriazione, da parte della cultura giuspolitica italiana, della sua grande tradizione: «è colpa - egli scrive - [anche] degli intellettuali italiani che, negli ultimi sessanta anni, hanno proceduto per cancellazioni della tradizione di studi politici precedenti […] e hanno chiamato questo intervento – che ha indebolito la nostra cultura in quanto ha disperso i tesori di cultura che si erano accumulati nel passato – sprovincializzazione, quando è esattamente il suo con- trario». L’interesse per Trentin nasce così da un’esigenza, diciamo, di tutela della nostra cultura. In particolare, la lettura de La crisi farebbe balenare, nel (nostro) tempo di crisi della rappresentatività politico-democratica, nuovi, e attualissimi, paradigmi di libertà: la libertà come non dominio degli altri e la libertà come dominio di sé stessi. Nell’articolo del 2005 Gangemi precisa questa linea: La crisi contiene, riallacciandosi a quella tradizione, «l’invito all’uso pubblico della ragione come strumento indispensabile alla costruzione del federalismo e della democrazia», della democrazia, occorre aggiungere, locale «la cui pratica […] è parallela, se non sostitutiva, della democrazia rappresentativa», una «pratica precedente e indipendente dalla rivoluzione francese». Il riferimento è qui al paradigma della democrazia deliberativa. Silvio Trentin ci è presentato come un appartenente alla scuola del federalismo antropologico veneto che vuole lo sviluppo della democrazia locale: una pratica di autogoverno, di governo dal basso, di autonomie decisionali organizzate in funzione della coesistenza e coordinamento reciproci. Egli aveva nella mente l’esperienza dei consorzi di bonifica del Veneto orientale alla cui organizzazione normativa aveva contribuito da giovane, quale giurista e avvocato. Il paradigma fondante è quello di un contrattualismo piuttosto municipale, fondato su una convenzione non di tipo immutabile, di stampo hobbesia- 59 n.18 / 2007 no, ma modellata da un diritto naturale in fieri , mutante a secondo dello stadio di evoluzione degli uomini e dei loro ordini associativi. In questa prospettiva risulta determinante la diade natura-diritto e così l’interazione tra diritto positivo (dimensione irrinunciabile per qualsiasi attività di organizzazione) e diritto naturale. Si sostiene che ne La crisi Trentin avrebbe appunto fornito al federalismo antropologico l’anima spirituale del giusnaturalismo: nessuna organizzazione deve essere funzionale o strumentale, secondo questo giurista, alla soddisfazione degli appetiti materiali (economici) che l’uomo avverte, ma al perfezionamento del suo spirito (che deve vincere la materia e governare l’azione del progresso, a questo punto spiccatamente spirituale). Ma a quale giusnaturalismo fa riferimento Silvio Trentin? Per cercare di dare una risposta occorre analizzare attentamente un capitolo de La crisi , a torto svalutato da Norberto Bobbio, il quinto, significativamente intitolato Diritto positivo e Diritto na tura le. Fonti e significato del giusnaturalismo trentiniano Trentin qualifica “diritto di fatto” quello positivamente in vigore nello stato, scritto nelle sue leggi e applicato dai suoi giudici. Questo diritto, che ci organizza la vita in societa te, deve avere un fondamento etico, pena la sua crisi e la sua decadenza (fino a ridursi a “un fantasma”). Un fondamento etico che, secondo Trentin, è da individuarsi nella natura umana o, più precisamente, nella natura ragionevole dell’uomo. Esiste, dunque, un diritto naturale-razionale sotteso al diritto positivo di cui il primo dovrebbe valere da fonte ispiratrice di norme rette e, inoltre, da criterio di riscontro della rettitudine delle norme effettivamente in vigore. E una norma non è retta quando non rispetta l’uomo, la sua natura, i suoi diritti innati; quando viola la pari dignità di tutti i conviventi. Così il vero diritto rappresenta l’esito di una ricerca continua della migliore organizzazione possibile che gli uomini sperimentano nel corso della storia guidati dal «filo sacro della ragione» (Trentin 2006, p. 231). A questo proposito Trentin avverte i cultori del dogmatismo giuridico che, se il diritto non può prescindere dai concetti rappresentativi dei frammenti della realtà sociale postulanti l’ordine imposto 60 dalle norme, questi concetti, però, non sono eterni, ma debbono evolversi in adeguazione al mutamento dei fatti. Non c’è dubbio che, per Trentin, il Diritto (che egli appella sempre con la maiuscola) è uno e coincide con il diritto naturale che, si potrebbe dire, è l’ordinamento della normativa conforme, adeguata, rispettosa, protettiva, promotrice della persona umana secondo quella che è la sua natura più autentica (perché migliore), la quale attinge allo spirito. Sul punto Trentin si ripete tante (troppe) volte, certamente perché sottesa vi è una preoccupazione, anzi un’angoscia che più di qualche volta finisce con l’impadronirsi della sua costruzione, in certo senso, squilibrandola. Significativa (anche) della matrice classica di questa opzione metodologica è, anche se un poco scontata, la citazione (Trentin 2006, p. 240) dall’Antigone di Sofocle ove si evocano «le leggi non scritte ed infallibili degli dei». L’esistenza del diritto naturale è provata, avverte Trentin, dalla circostanza che solo in grazia di quest’ordine normativo è possibile valutare finalisticamente il diritto positivo o “di fatto” deviato dal solco naturalistico (che si impone, quale vero dover essere, innanzi tutto ai facitori di norme, quelle in concreto vigenti in quanto coattive). Il che, all’evidenza, sposta l’asse della normatività dalla forma (una regola è tale se creata in modi proceduralmente corretti) alla sostanza, cioè ai contenuti (una regola è tale, è diritto, se giusta). Non è poco se si pensa che il formalismo giuridico era in auge ai tempi di Trentin e lo sarà ancora a lungo nel (secondo) dopoguerra. Incidentalmente si può così notare come l’accostamento di Trentin a Capograssi sia (o possa essere) fecondo, alla stessa stregua di quel che Gangemi addita in riferimento al campo della democrazia locale diretta: infatti, sul terreno, vorrei dire, metodologicamente più importante delle fonti, l’incontro tra Trentin e Capograssi si rinnova nel sostenerne la pluralità di contro al monismo kelseniano (la legge statuale). Appunto a p. 275 e s. (dell’edizione curata da Gangemi) il sandonatese elenca, nell’ordine, la legge, la consuetudine, il costume, la pratica giudiziaria, la pratica dell’amministrazione pubblica, l’autorità della dottrina, i precedenti, al limite un precedente se particolarmente significativo: è all’evidenza il diritto come esperienza giuridica di cui Capograssi è stato, in Italia, il teorico massimo. Umberto Vincenti Natura, diritto e territorio ne “La crisi“ di Silvio Trentin Se innumerevoli sono, dunque, «i centri generatori del diritto», è da dire che questa è, in certo senso, una premessa (o una conseguenza) necessaria della concezione trentiniana – che più ora interessa – della società come composizione coordinata (dal Diritto) delle molteplici autonomie o Ordini in cui si articola la società stessa e deve altrettanto articolarsi il potere decisionale a tutti i livelli: le autonomie sono tutte fonti di produzione normativa e l’ordinamento generale, a cui sono affidate la libertà e il progresso, deve tutelarle non invasivamente. Rispetto a questo contesto monismo e formalismo giuridico restano incompatibili e vanno pertanto combattuti sul piano innanzi tutto metodologico. Conseguentemente, Trentin è fortemente critico verso giuristi come Romano e Kelsen, perché teme il neutralismo formalistico indifferente a qualunque contenuto (come il diritto puro di Kelsen). Ma egli, con qualche contraddizione però, è altrettanto critico verso Savigny perché ha paura dell’abbandonarsi del diritto allo spirito del popolo (il Volksgeist savigniano). Coerentemente a queste opzioni culturali, Trentin non ama l’Ottocento e guarda più al Sei-Settecento: sembra orientato soprattutto da Rousseau e da Grozio. Da Rousseau: scrive Trentin che la strutturazione dello Stato rousseauiana consente «quella regolamentazione dei rapporti sociali che, essa sola, può soddisfa re le esigenze della natura morale dell’uomo così come ci vengono rivelate dalla ragione» (Trentin 2006, p. 228). A Trentin dovevano piacere, del ginevrino, la fondazione della libertà sull’idea di autonomia, la visione dell’uomo come padrone del proprio destino e, appunto, dello Stato come lo strumento di cura e tutela dell’individuo e come spazio per lo sviluppo del perfezionamento umano (Rousseau introduce appunto “la capacità di perfezionarsi” all’interno e per virtù del corpo politico). Da Grozio: Trentin ne apprezza la valorizzazione di una verità elementare, «cioè che i doveri e i diritti degli uomini non sono rinchiusi nei limiti della legge positiva o della rivelazione, ma poggiano su determinati attributi universali della persona umana» (Trentin 2006, p. 246). La natura groziana è tutt’altro che quella biologica di un Ulpiano (= il diritto naturale è ciò che la natura ha insegnato a tutti gli animali): essa si manifesta attraverso la facoltà più umana di tutte, la ragione, che fonda il diritto naturale. Trentin traduce quasi Grozio (il diritto naturale è dicta men recta e ra tionis) quando afferma che il diritto naturale è il «diritto che si riallaccia alla natura ragionevole dell’uomo» (Trentin 2006, p. 239). Il diritto naturale di Trentin non è sovraordinato alla storia, ma in questa vi resta incarnato: «il diritto naturale – egli scrive – non comporta che un substrato a carattere universale ed immutabile, che un nocciolo di principi che stabiliscono le condizioni secondo le quali può operarsi quel giudizio di valore implicito in ogni norma di Diritto. Pertanto l’assunzione di questi principi non si oppone in nessun modo alla varietà inesauribile delle esigenze che dipendono dal cambiamento incessante, secondo l’epoca ed il paese, delle condizioni nelle quali evolve l’ambiente sociale» (Trentin 2006, p. 257). Ciò pone innanzi tutto la questione dell’identificazione di questo nocciolo di principi eternamente validi. Si può dire che, per Trentin, il diritto naturale sia funzionale alla tutela della persona umana nel suo svolgimento storico, nella sua progressione morale attraverso la storia: appunto «il diritto naturale non può essere la legge della natura umana che in quanto è la legge del suo indefinito perfezionamento, dell’evoluzione costante delle sue facoltà creatrici» (Trentin 2006, p. 256). Si capisce di più l’ammirazione per Rousseau che sosteneva che la natura non “nascit” ex nihilo, essendo, invece, destinata, non già da Dio ma dal soggetto politico che vuole costituire l’ordine come quel luogo in cui ogni individuo trova collocazione adeguata alla sua propria natura: l’itinerario è quello del perfezionamento progressivo in sintonia con uno dei principali attributi dell’umano, quello della perfettibilità (l’altro è la libertà). Se Rousseau è una delle fonti del naturalismo trentiniano, questo è un naturalismo singolarmente conforme all’idea di Vico, di un diritto naturale come «un diritto eterno che corre in tempo»: citando Giorgio Del Vecchio, Trentin ricorda così che «l’uomo ha già in sé predeterminato il fine, al quale deve tendere nel suo sviluppo; ed è necessario nell’esperienza un processo, per il quale egli raggiunga la sua natura e la ‘celebri’, per dirla col Vico, ossia diventi apparentemente quello che in se stesso già è» (Trentin 2006, p. 239). 61 n.18 / 2007 Gli Ordini naturali di aggregazione degli uomini liberi Il naturalismo di Vico, e (sembrerebbe doversi pensare) anche quello di Rousseau, non soddisfano tuttavia Trentin quanto ai loro, rispettivi, esiti. Su Vico disponiamo la testimonianza diretta di Trentin, il quale valuta che l’auspicio del filosofo, della costituzione di uno Stato-nazione, auspicio, in certo senso, necessitato considerata l’epoca vichiana, «suggella il tramonto delle dottrine pluralistiche e il sorgere e il diffondersi, anche in Italia, sotto il coperto di un sincero patriottismo, delle tendenze più pericolosamente statolatriche» (Trentin 1987, p. 98). Circa Rousseau, occorre ricordare che questi, se ammette le “società particolari”, le guarda però con un certo sospetto giacchè esiste la possibilità concreta di frequenti conflitti con la società politica (generale): infatti, Rousseau nel Contra tto socia le (2.1), scrive che «la volontà particolare tende per sua natura alle preferenze, e la volontà generale all’uguaglianza». Il che importa la necessità di limitare l’esercizio della “socialità” che si esprima attraverso le formazioni intermedie, con il conseguente sacrificio del grado di partecipazione politica: il pluralismo politico resta così irrimediabilmente fuori dagli orizzonti del ginevrino. Silvio Trentin ha una visione alquanto diversa, certamente condizionata dalla sua personale esperienza e dall’appropriazione dello Stato da parte del fascismo. Egli pensa che uno stato a struttura centralistica più facilmente possa espropriare l’individuo di sé stesso, cioè della sua libertà; e, d’altronde, lo stato centralistico liberal-borghese, unico interlocutore (e controllore) del cittadino intraprendente e concorrenziale, finiva, come avrebbe dimostrato la vicenda storica, con il fornire semplicemente un usbergo a tutto vantaggio dei più dotati o dei più fortunati, con ciò perpetuando le diseguaglianze tra gli uomini a cominciare dal loro (inevitabilmente diverso) livello economico. Il diritto naturale, id est la naturale aspirazione dell’uomo a realizzarsi liberamente in societa te, tra gli altri e con gli altri, esige che il singolo non operi come una monade isolata, ma in cooperazione virtuosa con i suoi simili attraverso la costituzione di istituzioni o Ordini autonomi, di cui i singoli siano direttamente partecipi e non meri deleganti. 62 Tramite queste autonomie è assicurato l’obiettivo della disarticolazione del potere e, dunque, la massima libertà possibile in un sistema giuridico che, riconosce Trentin, inevitabilmente pone dei vincoli all’azione umana: così gli individui e i gruppi vengono ad essere titolari in pa rtibus del potere e lo esercitano come naturalmente compete all’uomo che è padrone di sé stesso, della sua persona, della sua libertà. Questi uomini liberi in tal guisa cooperanti e cooperativi, esplicando il potere che loro appartiene, giungono essi stessi alla meta dell’autonomia, «di stabilire positivamente le condizioni per la costruzione, per la realizzazione del Diritto» (Trentin 2006, p. 218). La territorialità degli Ordini Infine, della questione, nel pensiero giuspolitico di Silvio Trentin, del legame tra democrazia e territorio ovvero tra libertà e territorio ovvero tra diritto e territorio. L’opzione metodologico-giuridica in favore del pluralismo delle fonti del diritto (alla Capograssi, per intendersi) è preparatoria (dunque, congrua) rispetto all’idea fondante che i «centri di vita collettiva generati dalla collaborazione spontanea delle attività individuali», gli Ordini o autonomie anche minime, siano in pa rtibus titolari del potere decisionale e così fonti di produzione giuridica: poteri, decisioni, diritto assolutamente condivisi (si direbbe oggi) in quanto «l’origine delle competenze giuridiche» si colloca «non nella forza legittimata dal suo uso, ma nel libero consenso, nell’accordo delle volontà» (Trentin 2006, p. 219). Ora è evidente che l’auspicata partecipazione di qualunque cittadino alle istituzioni si può conseguire realisticamente (e pure proficuamente) a livello locale, cioè sul territorio o sui territori: il diritto che ne scaturisce, espressione diretta della natura sociale dell’uomo, è autentico diritto naturale, secondo Trentin, il quale anche attraverso questo suo insistere sulla spontaneità della partecipazione agli Ordini e della loro incessante produzione normativa adeguatrice (alla progressiva liberazione o, se si vuole, al progressivo perfezionamento dell’individuo) si dimostra fautore di un giusnaturalismo che si fa nella storia (indubbiamente secondo la prospettiva vichiana). Le radici della democrazia occidentale, che radica- Umberto Vincenti Natura, diritto e territorio ne “La crisi“ di Silvio Trentin no, a loro volta, nella tradizione le autonomie trentiniane, stanno appunto in quel «regime inventato duemila anni fa dalle piccole società cittadine della Grecia» (Trentin 2006, p. 445) a cui si è ispirato (oltre le sue dichiarazioni) Silvio Trentin: «è proprio dello spirito latino,» - scrive appunto ne La crisi (Trentin 2006, p. 303) - «le cui leggi derivano dalla incomparabile eredità greco-romana, fondare la conoscenza sulla ragione, tendere incessantemente a trarre, dal mondo empirico delle attività coscienti, dei valori per quanto possibile fermi ed immutabili, essere portato a collocare nella natura umana la fonte di ogni legge sociale, a garantire alla persona individuale, anche nel mezzo dei flutti più tumultuosi della vita collettiva, gli attributi inviolabili dell’essere libero e ad organizzare il potere politico come strumento votato a favorirne l’indefinito perfezionamento». Il legame con il territorio emerge con maggiore chiarezza e incisività in Libera re e Federa re ove lo stato di domani appare consegnato soprattutto alla vitalità ‘naturale’ di quelle «collettività territoriali» costituite nelle relazioni «tra le persone che coabitano il territorio ch’esse circoscrivono» - che la territorialità stessa ha condotto, nei secoli, «a differenziarsi nelle manifestazioni delle loro abituali attività e nella disciplina dei rapporti sociali relativi al soddisfacimento dei loro più immediati e costanti bisogni» (Trentin 1987, p. 284). Questa inevitabile (perché necessitata) territorialità delle autonomie trentiniane, questo attaccamento, questo radicamento al territorio manifestati da Silvio Trentin lo pongono in contraddizione con quanto egli (incidentalmente) scrive ne La crisi (Trentin 2006, p. 250 e s.) scagliandosi contro «quei profeti» che esaltano «la rivincita delle forze terrene, delle forze telluriche»? Forse no, perché la dimensione terranea qui esecrata ha matrice ideologica antitetica a quella di Trentin. Ma è pur vero che il legame tra territorio, confine e diritto è stato (magnificamente) teorizzato da un giurista come Carl Schmitt, ne Il nomos della terra (pubblicato nel 1950, ma la Dottrina della costituzione è del 1928). Ed è ancora vero che, ne La crisi , Trentin descrive reiteratamente la forma-diritto come tracciata da un limite, da un confine appunto, circoscrivente un territorio etico e giuridico intriso di politicità umana (e in ciò non è poi così lontano da Schmitt). Per esempio (Trentin 2006, p. 155 e s.) egli scrive: «La regola di diritto, in effetti, considera sempre la condotta di un soggetto in rapporto ad altri soggetti. Essa si definisce come una delimitazione delle competenze individuali. Se il limite che definisce venisse infranto, ne risulterebbe un’invasione della sfera di libertà da essa riconosciuta ad ogni soggetto; il potere, di cui il soggetto è investito per il fatto che la sfera di libertà gli appartiene, cesserebbe di esistere come potere giuridico se non comportasse la possibilità di respingere la trasgressione». Passaggi interessanti metodicamente, che postulano un’interpretazione che li chiarisca. Come pure sarebbe da chiarire quell’affermazione per cui «il legame territoriale non può più essere sufficiente a qualificare i rapporti tra gli uomini né a differenziare l’esercizio delle prerogative della loro natura comune» (Trentin 2006, p. 456): è abbastanza evidente la contraddizione con l’assoluto rilievo che Trentin attribuisce agli Ordini autonomi che altro non possono essere se non territoriali. L’uomo del territorio In sintesi: lo stato nazionale moderno, secondo il modello risalente a Hobbes, è per definizione negatore dell’autonomia dell’individuo e dei suoi ordini naturali di aggregazione spontaneamente insorgenti sul territorio; ed esso dovrà pertanto essere superato disarticolandone il potere monopolisticamente detenuto. Penso che non sia azzardato concludere sostenendo che (anche) per Trentin il nuovo ordine (o l’evoluzione del vecchio?), certamente la salvezza, restano affidati all’’uomo del territorio’ che, si potrebbe aggiungere, avrà la missione di sconfiggere l’’uomo globale’ (o, secondo la potente metafora schmittiana, l’’uomo del mare’): siamo così catapultati nel dramma della (nostra) modernità. La crisi di Trentin, di questo professore veneto di una Regia Università, può, anzi deve, essere tenuta presente nel laboratorio del pensiero giuspolitico per quanto si è fin qui osservato, e per quant’altro si sarebbe potuto osservare e che altri osserverà; soprattutto, pare a me, perché questo giurista ha capito che non si possono pensare davvero nuovi paradigmi giuridici e politici se non vi sia perfetta padronanza (e rimeditazione) della grande tradizione che ci precede (anche se vi sono delle omis- 63 n.18 / 2007 sioni importanti come per l’opera eccelsa di un altro veneto, Marsilio da Padova). Trentin se deve essere accorto negli anni della sofferenza in quanto questo dialogo, questo confronto con la tradizione è del tutto assente nel suo Corso di istituzioni di diritto pubblico degli anni 1923-1926. Tale è dunque il messaggio di maggior spessore che ci viene da Silvio Trentin e, traverso di lui, da Giuseppe Gangemi. Riferimenti bibliografici Franzin, E. (2006), Silvio Trentin: da ll’interventismo a lla cris delle democra zie pa rla menta ri , Foedus, pp. 68-81; Gangemi, G. (2004), Silvio Trentin, il diritto na tura le e la libertà come a utonomia , Rivista internazionale di filosofia del diritto, pp. 465-483; Gangemi, G. (2005), Silvio Trentin e Giuseppe Ca pogra ssi: similitudini e differenze, Rivista 64 Internazionale di Fiulosofia del Diritto, pp. 377-401; Rizzi, L. (1997), Libera lismo etico e religione civile in Roussea u , Franco Angeli, Milano; Schmitt, C. (2003), Terra e ma re, Adelphi, Milano; Schmitt, C. (2003) Il nomos della terra , Adelphi, Milano; Trentin, S. (1926) Corso di istituzioni di diritto pubblico, Draghi, Padova; Trentin, S. (1987), Federa lismo e libertà . Scritti teorici 1935-1943, a cura di N. Bobbio, Marsilio, Venezia; Trentin, S. (2006), La crisi del Diritto e dello Sta to, a cura di G. Gangemi, Ed. Gangemi, Roma. Umberto Vincenti è professore ordinario di istituzioni di diritto romano all’Università di Padova. Coordina il laboratorio di metodologia giuridica La w a nd Argumenta tion . Sito Web: lawargumentation.giuri.unipd.it Elio Franzin Giusnaturalismo e federalismo nella “Crisi del Diritto e dello Stato” di Silvio Trentin Focus: Silvio Trentin La “conver sione” a l feder a lismo È comprensibile che Oliviero Zuccarini, il federalista fondatore già nel 1921 de “La Critica politica”, davanti al volume “Stato – Nazione - Federalismo” abbia definito il passaggio e l’evoluzione di Silvio Trentin al federalismo avvenuto negli anni Trenta, una “conversione vera e propria”. Zuccarini citò nel suo articolo dell’agosto-settembre 1947 della rinata rivista le parole pesanti che Trentin aveva usato, nel suo discorso inaugurale “Autonomia – Autarchia – Decentramento” pronunciato nel novembre 1924 a Ca’ Foscari, contro il regionalismo e il federalismo. Proprio contro Zuccarini, Silvio Trentin aveva accademicamente affermato “l’inoppugnabile concetto della indivisibilità del potere sovrano dello Stato”. Ed aveva contemporaneamente respinto le tesi relative allo Stato di Louis Duguit, un giurista francese con le cui teorie avrebbe fatto poi i conti durante il suo lungo e sofferto esilio francese (Zuccarini 1947, pp. 280-285). Per la verità se proprio di conversione di Trentin al federalismo si vuole parlare, sarebbe opportuno ricordare che alla conversione, avvenuta negli anni Trenta, Trentin arrivò con dei precedenti autonomistici di teoria e pratica del principio della sussidiarietà piuttosto robusti costituiti dai suoi studi sulla autonomia comunale, sui consorzi di bonifica, dalla elaborazione dello statuto dell’Istituto autonomo per la lotta contro la malaria e dalla sua attività parlamentare e professionale per lo svilup- po delle piccole e medie industrie, dalla collaborazione con l’Istituto federale di credito per il risorgimento delle Venezie “esempio tipico di self government regionale”, dalla creazione dell’Ente di ricostruzione e rinascita agraria delle province di Venezia e di Treviso (Trentin 1984, pp. 346). A parte i precedenti decentratori, autonomistici e comunalistici, la conversione al federalismo di Trentin fu certamente stimolata non soltanto da quanto stata accadendo agli inizi degli anni Trenta nelle repubbliche parlamentari europee ma anche dal dibattito fra le forze politiche dell’emigrazione antifascista in Francia proprio in materia di federalismo. Nell’aprile del 1931 il Partito comunista d’Italia nelle sue “Tesi e risoluzioni” aveva indicato come suo obbiettivo quello della Federazione della Repubbliche Socialiste e Soviettiste d’Italia, costituita da quattro repubbliche: del Nord, del Mezzogiorno d’Italia, della Sicilia e della Sardegna assicurando alle minoranze nazionali “il diritto di disporre di sé stesse fino alla separazione” (Il IV congresso del Partito comunista 1931, pp. 32-33). Bisogna però ricordare anche che Palmiro Togliatti, con il suo rapporto al V congresso nazionale del PCI del 29 dicembre 1945, ha completamente rimosso le dichiarazioni federaliste del congresso precedente dichiarando: ”Non siamo federalisti; siamo contro il federalismo”. Ed aggiungendo: ”Il nostro regionalismo però, e lo diciamo apertamente, ha dei limiti” (Togliatti 1945, p. 54). 65 n.18 / 2007 Questa affermazione di Togliatti, abbastanza sorprendente in un sedicente leninista legato all’URSS, uno Stato che si dichiarava federalista, deve essere inquadrata nell’ambito della difesa delle frontiere dello Stato italiano che fu l’obbiettivo di tutti i governi di unità nazionale antifascista. Vi era inoltre una seria preoccupazione che il federalismo potesse giustificare il separatismo siciliano e sardo di ispirazione reazionaria. Togliatti tuttavia si dichiarò per l’abolizione dei prefetti e per la loro sostituzione con funzionari eletti su scala provinciale o regionale. Nel gennaio 1933 l’organizzazione “Giustizia e libertà” pubblicò il suo programma nel quale si affermava, fra l’altro: ”L’organizzazione del nuovo Stato dovrà basarsi sulle più ampie autonomie. Le funzioni del governo centrale dovranno limitarsi alle sole materie che interessano la vita nazionale. Il principio dell’autonomia è uno dei principi direttivi del movimento rivoluzionario Giustizia e Libertà” (Quaderni di Giustizia e libertà, 1933). Emilio Lussu dedicò al federalismo di tipo regionalista ma nettamente antiseparatista un saggio sui “Quaderni di Giustizia e libertà” del marzo 1933. Nel luglio dello stesso anno Ruggero Grieco, un autorevole dirigente del Partito comunista d’Italia, motivò, in un suo articolo apparso su “Lo Stato operaio”, il federalismo dei comunisti con “lo scopo di allargare al massimo la base del potere futuro degli operai e dei contadini” (Grieco 1966, pp. 392-401). Il lungo soggiorno di Lussu ad Auch, una località di cura per le malattie polmonari, dove Trentin lavorava in una tipografia, ebbe luogo appunto nell’inverno 1933-34. Trentin stava scrivendo l’opera teorica della conversione o della svolta “La crisi del Diritto e dello Stato”, completata nel 1935 quando egli aveva 50 anni (Fiori 1985) Nella prima fase del suo esilio nel sud della Francia Trentin si era dedicato all’azione politica antifascista ed alla pubblicazione di opere in cui aveva sviluppato la sua analisi dei caratteri dello Stato italiano prefascista e del fascismo. Pubblica cinque opere: “L’avventura italiana. Leggende e realtà” (1928); “Le trasformazioni recenti del diritto italiano. Dalla Carta di Carlo Alberto alla creazione dello Stato fascista” (1929); “L’antidemocrazia” (1930); “Alle origini del fascismo” (1931); “Il fascismo a Ginevra” (1932). 66 È ancora sostanzialmente un liberale illuminato, ma certo non liberista, passato su posizioni repubblicane. La svolta si manifesta nel 1933 con la pubblicazione delle sue “Riflessioni sulla crisi e sulla rivoluzione”, un saggio politico-programmatico. “La crisi del Diritto e dello Stato” è un’opera che si colloca invece sul piano della filosofia del diritto. È rivolta ai giuristi e non ai militanti politici. Ma risponde anche alla consapevolezza della insufficienza di un programma politico non motivato e sostenuto sul piano filosofico. Nelle conclusioni de “La crisi del Diritto e dello Stato” Trentin si pone come l’interprete dell’autonomia, già affermata come principio direttivo nel programma di “Giustizia e libertà”. Trentin accetta il programma di “Giustizia e libertà” ma lo sviluppa e lo definisce in modo molto originale. L’autonomia si realizza, sul piano collettivo, mediante il federalismo delle basi istituzionali dello Stato nazionale (Trentin, 2006, 463). Negli anni successivi, nel suo “Abbozzo” di un piano di Costituzione, Trentin ha indicato le basi istituzionali dello Stato federale nei consigli dei centri di vita collettiva (le opere, le imprese, le aziende, i Comuni, le Regioni). Trentin nel capitolo settimo de “La crisi” espone anche la sua nuova interpretazione del capitalismo fondata sulle categorie del capitale finanziario, del monopolio, del capitalismo di Stato, dell’economia diretta o programmata. Egli era stato un osservatore attento dell’intervento dello Stato nella crisi economica tedesca ma la sua attenzione è diretta anche alle vicende del fascismo italiano che nel gennaio 1933 fonda l’IRI affidandone la direzione al Alberto Beneduce, personalità a lui ben nota anche come partecipante al congresso regionale delle bonifiche di San Donà di Piave del marzo 1922. Con la creazione dell’IRI lo Stato italiano, mediante un grandioso piano di salvataggio delle grandi imprese, assunse sostanzialmente la direzione della vita economica del paese (Grifone 1971, pp. 104-105). Con l’opera “La crisi del Diritto e dello Stato” Trentin affronta il problema dei fondamenti e della natura del diritto, dei caratteri dello Stato da costruire dopo la caduta del fascismo. Ma, nel capitolo settimo, dedicato ad “Alcuni aspetti della crisi del Diritto e dello Stato” riespone la sua interpre- Elio Franzin tazione delle contraddizioni della società capitalistica e del rapporto fra i monopoli e lo Stato già contenuta nelle “Riflessioni”, aggiorna la sua analisi del fascismo dopo la fondazione dell’IRI al quale dedica anche una lunga nota. L’attenzione di Trentin è rivolta al discorso di Mussolini del 26 maggio 1934 in cui il dittatore aveva dichiarato di essere in condizione di introdurre in Italia il capitalismo di Stato, come in effetti stava facendo. Ai fini della comprensione della nuova fase del fascismo Trentin, pur non essendo affatto un marxista e neanche un materialista, aderisce ad alcune analisi e tesi di carattere economico di Lenin contenute nelle opere “L’imperialismo fase suprema del capitalismo”, di cui sottolinea la profondità, “Lo sviluppo del capitalismo in Russia”, il “Contenuto economico del populismo”. Lenin ha sostenuto la tesi, sulla base di numerose opere di studiosi tedeschi e inglesi, che dopo il 1870 si è aperta in Europa una nuova fase della storia del capitalismo caratterizzata dal dominio del capitale finanziario, dalla formazione dei monopoli e dall’abbandono della libera concorrenza. Trentin nel saggio della sua svolta politica del 1933 “Riflessioni sulla crisi e sulla rivoluzione” dimostra di conoscere molto bene le opere sulla economia programmata e in particolare si serve dell’opera di Otto Ruhle, l’unico socialdemocratico tedesco che il 20 marzo 1915, assieme a Karl Liebknecht, ha votato contro il bilancio di guerra. Ruhle era un marxista eterodosso rispetto ai partiti della sinistra tedesca, nel 1932, con lo pseudonimo di Carl Steuermann pubblicò “La crisi mondiale o verso il capitalismo di Stato” (Steuermann 1932). Ruhle aggiorna le tesi di Lenin sulla nuova fase della storia del capitalismo sulla base dei suoi sviluppi in Germania (Liebknecht e Luxemburg 1967, p. XXIII; Ruhle 1972). Trentin ne accetta sostanzialmente le tesi sulle cause e sui meccanismi della crisi. Inoltre egli condivide anche l’affermazione di Ruhle sull’esistenza di vari tipi di passaggio al capitalismo di Stato ma si differenzia nella descrizione della tipologia dei passaggi. Egli individua tre tipi di capitalismo di Stato, quello sovietico, quello nazifascista, e un terzo tipo rispettoso dell’autonomia delle istituzioni di base che sarà quello della rivoluzione antifascista italiana e verso il quale potrebbe evolversi l’URSS. Trentin non era un economista. Le sue posizioni in “Crisi del Diritto e dello Stato” di Silvio Trentin materia economica dal 1933 fino al 1942, l’anno in cui scrive “Liberare e federare”, rimangono sostanzialmente immutate. I tre autori a cui fa riferimento sono, fra gli altri, Marx, Lenin, Ruhle. Agli inizi de “La crisi del Diritto e dello Stato”, stampata nel 1935 ma con l’ introduzione scritta da Francois Geny già nel 1934, Trentin si pone orgogliosamente davanti alla crisi internazionale del Diritto e dello Stato affermando che essa ha coinvolto il mondo dei giuristi caratterizzato sia da una forte anarchia e diversità dei linguaggi sia dalla incomprensione dei cambiamenti le quali però non hanno turbato i fondamenti immanenti del Diritto. Secondo Trentin, esiste, oltre la crisi, un processo di accelerazione del movimento democratico che tende a far emergere, anche dal punto di vista legislativo, l’autonomia dei centri unitari di coscienza collettiva. L’autonomia, che è il potere di dare le leggi a se stessi ed il valore essenziale al quale si richiama l’individualismo, pone sotto la sua influenza strati sempre più vasti della vita sociale. Vi è una notevole diversità fra la valutazione iniziale, da parte di Trentin, della crisi contenuta nel primo capitolo e quella finale espressa nell’ultimo capitolo, l’ottavo. Si potrebbe perfino parlare di due valutazioni diverse, sia pure non contraddittorie, della crisi. La diversità è dovuta in parte al fatto che Trentin, nella fase iniziale dell’opera, minimizza polemicamente l’importanza della crisi riaffermando orgogliosamente davanti ad essa la validità delle sue posizioni sulle fonti del diritto, sulla nozione di esso, sullo Stato, sul diritto sociale e quello individuale (quelle di un filone del giusnaturalismo che ha come suoi esponenti Hugo Grotius, Kant, Rousseau ed infine anche Francois Geny), criticando le posizioni espresse da altre tendenze filosofiche, e in particolare quella del positivismo e del formalismo giuridico rappresentata da H. Kelsen. Trentin nel primo capitolo afferma che la crisi tocca soltanto le superfetazioni arbitrarie dell’ordinamento giuridico. È innegabile che nel settimo capitolo, nei paragrafi settimo ed ottavo, della “Crisi” Trentin sposti la sua analisi dal campo degli orientamenti filosofici dei giuristi, cioè dalle conseguenze soggettive della crisi, a quello delle cause oggettive della crisi e cioè al capitalismo finanziario e di Stato che gli 67 n.18 / 2007 appare come dominante sia i regimi totalitari e autoritari di massa sia le grandi democrazie parlamentari. Trentin sottolinea nel capitolo settimo de “La crisi” la profondità delle osservazioni di Lenin nel suo “Saggio popolare”, “L’imperialismo come fase suprema del capitalismo”, un’opera nella quale Lenin dimostra che dopo il 1873 si è aperta una nuova fase della storia del capitalismo. L’antico capitalismo della libera concorrenza si è trasformato nel capitalismo monopolistico e finanziario. Lenin si serve anche di dati statistici e di pubblicazioni sulla Germania, un paese verso il quale l’attenzione di Trentin era molto alta per varie ragioni, i suoi pregiudizi di interventista, i suoi studi giuridici, la vittoria del nazismo ecc. È certo che nella evoluzione dalla prima alla seconda analisi e nella valutazione della crisi hanno avuto un ruolo importante gli avvenimenti politici ed economici verificatisi a livello internazionale durante la composizione dell’opera: la crisi degli USA, la repressione antioperaia a Vienna, la nomina di Hitler a cancelliere in Germania il 30 gennaio 1933, le agitazioni della destra francese, le difficoltà economiche del fascismo italiano. L’obbiettivo principale de “La crisi del Diritto e dello Stato” non è ancora l’esposizione del sistema federalista, che sarà l’oggetto di opere successive, ma piuttosto la motivazione del fondamento, del presupposto del federalismo: l’affermazione della validità della teoria dell’autonomia delle persone, dei gruppi sociali e degli enti territoriali sulla base del giusnaturalismo. Trentin è consapevole che senza la motivazione, senza il fondamento giusnaturalistico il principio dell’autonomia è troppo debole davanti allo Stato monocentrico, accentratore e autoritario. Il pr incipio dell’a utonomia Già nel 1933, nel capitolo diciottesimo del suo saggio “Riflessioni sulla crisi e sulla rivoluzione”, che segna la sua svolta politica, Trentin afferma che il nuovo ordinamento statale deve essere subordinato al principio dell’autonomia: ”Autonomia del cittadino; autonomia dell’imprenditore; autonomia dell’azienda; autonomia del sindacato; autonomia delle collettività territoriali” (Trentin, 1985, p. 212). Ne “La crisi” la posizione politica è la stessa del sag- 68 gio del 1933 e viene riconfermata, con una citazione molto lunga del capitolo diciottesimo delle “Riflessioni”, nelle conclusioni contenute nel capitolo finale. Lo stesso brano viene citato nella conclusione d’opera successiva “Stato, Nazione, Federalismo” (1942). Trentin vuole evidentemente sottolineare la coerenza e la continuità delle sue posizioni politiche dal 1933 in poi. Quello della sua coerenza è un problema al quale egli si mostra molto sensibile probabilmente in relazione alla notevole modifica delle posizioni che aveva espresso, negli anni precedenti all’esilio, di esaltazione del ruolo dei Comuni ma di rifiuto netto delle Regioni. Nella “Crisi” Trentin ha l’obbiettivo di porre la premessa fondativa del federalismo che è l’affermazione dell’autonomia quale unica ed esclusiva fonte del diritto. Il federalismo come posizione politica ha bisogno di un fondamento e di un sostegno filosofico. È probabile che Trentin si rendesse conto dell’isolamento sostanziale nel quale si trovava il federalismo sia nel campo delle forze politiche dell’emigrazione antifascista italiana sia nella vita politica e parlamentare della Francia. L’autonomia, che è il valore essenziale al quale si richiama l’individualismo, pone sotto la sua influenza strati sempre più vasti della vita sociale. L’autonomia da attributo esclusivo della persona individuale tende incessantemente a mutarsi in attributo di ogni essere sociale giunto a realizzare una propria individualità organica. Questo allargamento del campo di applicazione dell’autonomia può essere visto come una grande rivoluzione che non infrange mai il diritto il quale ha come scopo la realizzazione della giustizia. Per questa rivoluzione dell’autonomia che è in atto, Trentin elabora anche un programma economico e sociale il quale è subordinato, strumentale rispetto alla realizzazione del principio dell’autonomia. Trentin non è né un positivista né un economicista. A proposito dell’URSS, Trentin, pur facendo proprie e riproponendo anche per l’Italia le parole d’ordine della Rivoluzione d’ottobre, afferma nelle “Riflessioni” che è impossibile transigere con il metodo della libertà: “perché le esigenze di questo sono e restano categoriche ed irreduttibili” (Trentin, 1985, p. 126). Elio Franzin Nella “Crisi” aggiunge che: ”a Lenin doveva essere riservato il compito di fondare lo Stato più rigidamente monocentrico, il più autoritario che mai l’Europa civilizzata abbia conosciuto” (Trentin 2006, p. 185). Trentin è perfettamente consapevole delle contraddizioni emerse fra gli obbiettivi della Rivoluzione d’ottobre e lo Stato sovietico. Quali sono le fonti del diritto? Il fondamento del diritto è la natura dell’essere umano il quale è un essere autonomo che ha dentro di sé la legge morale, postulato della ragione, la quale, secondo Kant, è il fondamento di ogni legislazione possibile. La natura umana è un principio. L’esercizio della ragione da parte dell’essere umano implica l’autonomia cioè il potere di dare le leggi a se stessi. L’uomo è un essere sociale. La natura umana impone la riunione degli uomini in società. Questo è il significato della teoria del contratto sociale elaborata da Rousseau e da Kant. Secondo Trentin, lo Stato di Rousseau è l’ordinamento esemplare, conforme alla natura ragionevole dell’uomo, in rapporto al quale si deve giudicare ogni ordinamento storico concreto, positivo. Rousseau si è dibattuto nelle contraddizioni più aperte ma con la sua opera l’individuo fu elevato nell’ambiente sociale come una unità che, per sua natura, rivendica l’autonomia. Rousseau e Kant sono dunque indicati da Trentin come i due teorici dell’autonomia, oltre a Grotius il quale, grazie alla visione profonda, ha individuato alcuni attributi universali della persona umana ed ha così consentito di concepire il gruppo umano, la totalità, non come trascendente ma come immanente rispetto ai suoi membri. Grotius e i giusnaturalisti del XVII secolo hanno affermato che i doveri e i diritti degli uomini non sono rinchiusi nei limiti della legge positiva o della rivelazione ma sono fondati su determinati attributi universali della persona umana, sulla natura umana e cioè sull’immanenza dell’essere e quindi hanno distrutto i fondamenti dell’ordine dello Stato nazionale. Il diritto non è soltanto un fatto sociale. Esso è la realizzazione dell’imperativo supremo che regola il destino sociale, l’imperativo che obbliga gli uomini a entrare in rapporto fra di loro adeguandosi alle loro esigenze di natura spirituale. Le norme mediante le quali il diritto si realizza sto- “Crisi del Diritto e dello Stato” di Silvio Trentin ricamente dovrebbero essere caratterizzate dall’elemento essenziale della instaurazione di un regime sociale che è un regime di diritto solo in quanto consacra e garantisce contro qualsiasi attentato il valore della persona e l’equivalenza dei soggetti. Come scrive Kant, l’uomo non può essere destinato all’ineguaglianza giuridica poiché è dotato, per sua natura, di libertà e di ragione. Ma l’uomo arriva molto lentamente a prendere coscienza della sua natura ragionevole. A fianco del Diritto vero qualsiasi norma obbligatoria di fatto si pone come norma di Diritto vero. Il “Diritto di fatto“, il cosiddetto diritto positivo è soltanto un insieme dei sistemi delle norme sociali in vigore, in un dato momento storico. Ma il diritto positivo non ha mai potuto sottrarsi al dominio del Diritto “vero”, quello rispondente alla natura dell’uomo. Secondo Trentin, i fattori economici, cioè la proprietà privata, hanno avuto un ruolo nefasto nell’organizzazione della vita sociale. Non può esservi mai opposizione o contraddizione fra la morale e il Diritto. Il fondamento della morale e del diritto è lo stesso. Il Diritto è altrettanto assoluto e immutabile della morale quando è visto come essa nella sua ragion d’essere immanente. Il Diritto instaura la giustizia. La giustizia è il principio di razionalizzazione dell’imperativo etico che è il principio interente al Diritto. È attraverso l’idea della giustizia che l’uomo raggiunge la nozione del Diritto. La nozione di uguaglianza nel suo significato generale è alla base del principio della giustizia. Dal punto di vista della giustizia la società non è di per sé una realtà morale suscettibile di costituirsi come principio e di definirsi come fine autonomo. Questa visione del rapporto fra la giustizia e la società è il presupposto e il fondamento delle riforme radicali: la terra ai contadini, le fabbriche agli operai, le banche e il commercio allo Stato, le limitazioni della proprietà privata, indicate da Trentin come obbiettivi della rivoluzione antifascista italiana nelle sue “Riflessioni” del 1933. La realtà giuridica è una realtà metafisica. Poiché il valore ha un carattere extratemporale di immanenza, esso si oppone alla realtà empirica. Per Trentin il concetto di Diritto va stabilito riallacciandolo al dato etico fondamentale grazie al quale si stabilisce il valore immanente della natura umana in quanto natura ragionevole. 69 n.18 / 2007 Il Diritto è sostenuto nella vita sociale dall’Ordine che la cui proiezione nella realtà è lo Stato. Trentin afferma la necessità dello Stato inteso come: ”l’Ordine degli ordini, l’organizzazione completa, finita, chiusa, che abbraccia sia gli ordini esistenti sia quelli che potrebbero esistere, l’autonomia suprema alla quale si rifanno tutte le autonomie individuali o collettive” (Trentin 2006, p. 178) E rifiuta le teorie della società senza Stato ritenendo che l’esigenza dello Stato emerga anche negli scritti di Marx, Engels, Lenin malgrado le loro ripetute affermazioni a favore dell’estinzione dello Stato. Trentin definisce lo Stato anche ordine delle autonomie (Trentin 2006, p. 198). Lo Sta to monocentr ico, a ccentr a tor e, a utor ita r io È molto significativo che lo Stato “monocentrico, accentratore, autoritario”, appena accennato nella “Crisi”, che è, nelle opere successive, individuato come la negazione assoluta dello Stato federalista, emerga in relazione all’URSS vista come Stato dell’“esercizio autoritario di un potere puramente politico” (Trentin 2006, p. 187). Trentin riconosce che certi aspetti fissi e storici dello Stato borghese sono caduchi come anche la struttura dello Stato sovietico ma afferma che lo Stato come “sintesi delle esigenze che condizionano l’esistenza di ogni collettività storica” è eterno. Lo Stato come tentativo di realizzazione del Diritto può esistere solo nell’ambito e per la Società. E quindi esso per non rendersi completamente estraneo alla Società deve sempre più organizzarsi come un “ordine delle autonomie”: l’autonomia collettiva, come l’autonomia individuale, non è antitesi o negazione dello Stato. Le comunità soggiacenti sono in fondo autonomie istituzionali la cui esistenza rimane subordinata alla loro integrazione nello Stato. L’autonomia istituzionale è l’elemento costitutivo dello Stato, un ordine da integrare. La ragion d’essere dello Stato si colloca nel coordinamento di tutti gli ordini mediante il Diritto e nel Diritto. Se lo Stato cessa di essere l’ordine supremo di integrazione, allora si impone l’ordine imposto dalla forza che finisce per piegare alle sue esigenze l’organizzazione statale. Secondo Trentin, questa è la situazione paradossale dello 70 Stato capitalista “in cui precisamente i poteri giuridici si identificano con i poteri conferiti della disuguaglianza nell’usufruire dei beni economici” (Trentin 2006, p. 200). Lo Stato non potrà mai costituirsi come “un vero ordine di integrazione” finché la disuguaglianza economica resterà la base dei rapporti intersoggettivi. La crisi del dopoguerra è la crisi dello Stato capitalista dovuta al fatto che il problema dello Stato non può essere risolto con la sua subordinazione alle forze sociali dominanti. Per Trentin “Lo Stato non può essere concepito che come il regime delle autonomie, cioè come un regime che, pur conservando circa la sua ragione d’essere una carattere rigidamente monista, rimane nello stesso tempo essenzialmente pluralista circa la sua struttura, la sua costituzione organica” (Trentin 2006, pp. 202-203). L’organizzazione positiva dello Stato ha come principio ispiratore la democrazia. Trentin non è un apologeta acritico della democrazia politica parlamentare. Ne vede tutta l’incompletezza e le enormi e costanti contraddizioni. Egli afferma che ”lo Stato democratico è ben lontano dall’aver realizzato la sua espressione positiva”. Ogni sforzo di realizzazione integrale dell’ordine democratico: ”sarà fatalmente votato alla sconfitta, come è sempre accaduto finora, finché l’integrazione da parte dell’ordine dello Stato della più grande misura di giustizia egualitaria non si opererà sul piano sociale altrettanto che su quello politico, finché l’uomo non sarà liberato prima di tutto da ogni potere di dominio economico, da ogni situazione che permetta l’asservimento di una classe da parte delle altre” (Trentin 2006, p. 223). La democrazia deve essere completa e quindi politica ma anche sociale. Il programma di riforme economiche di Trentin realizza la democrazia economica e sociale. Il giusna tur a lismo come fonda mento del feder a lismo Nel capitolo quinto Trentin affronta finalmente, in modo organico, la questione del diritto naturale che è centrale ne “La crisi”. La dottrina del contratto sociale di Rousseau rimane indistruttibile nella sua portata essenziale. Lo Stato è la sola istituzione che può soddisfare le esigenze della natura morale Elio Franzin dell’uomo come vengono rivelate dalla ragione. Lo Stato, secondo Rousseau, non sarà mai razionalmente legittimo se non si organizzerà come se fosse scaturito da un contratto. Il Diritto è la legge naturale dell’uomo. La ragion d’essere del Diritto è collocata proprio nella caratteristica della persona umana di essere depositaria di un valore assoluto. La ragione del Diritto è al di sopra della ragione delle leggi. Il fenomeno del Diritto rimane sconosciuto al di fuori del Diritto naturale. “Il diritto naturale è il Diritto puro e semplice, la legge della vita sociale che ha la sua fonte nel carattere assoluto del valore che appartiene, per la sua stessa natura, alla persona umana” (Trentin 2006, p. 238) Trentin critica gli antichi giusnaturalisti che hanno confuso la natura metafisica dell’uomo, la sua natura immanente e ragionevole, con quella fisica. Il Diritto naturale affiora alla superficie del Diritto positivo molto lentamente e molto confusamente. “Lo studio della storia, ben lungi dal dimostrare l’inconsistenza del Diritto naturale, conduce indiscutibilmente alla constatazione che solo il Diritto naturale permette di comprendere e di qualificare il Diritto positivo” (Trentin 2006, p. 244). Senza il punto di riferimento costituito dal Diritto naturale non può essere formulato nessun giudizio sulla giustizia delle leggi umane, sulla loro legittimità. È dai principi del Diritto naturale che si sono dedotte direttamente le regole classiche del diritto internazionale e le garanzie costituzionali della libertà politica. Al di là dei loro limiti, Grotius e i giusnaturalisti hanno dimostrato che per valutare i regimi delle società umane bisogna paragonarli con regole eterne ed immutabili che sono conformi alla ragione ed alla natura dell’uomo. La persona è il valore supremo. Ogni diritto positivo postula il diritto naturale. Trentin, ammiratore di Benedetto Croce, ne respinge tuttavia l’ironia sul Diritto naturale la cui realizzazione, secondo il filosofo napoletano, comporterebbe la fine della storia. Il Diritto naturale è la legge del perfezionamento indefinito, dell’evoluzione costante dell’umanità. Il diritto naturale comporta: ”un nocciolo di principi che stabiliscono le condizioni secondo le quali può operarsi quel giudizio di valore implicito in ogni norma di Diritto” (Trentin 2006, p. 257). Il feticismo della legge, del diritto positivo è stato un riflesso del feticismo dello Stato monocentrico, accentratore. “Crisi del Diritto e dello Stato” di Silvio Trentin Giuseppe Ga ngemi e i due modelli di feder a lismo “La crisi del Diritto e dello Stato” è stata pubblicata in italiano soltanto nel 2006 a cura di Giuseppe Gangemi, il quale è autore anche di una serie di monografie sui federalisti di alcune importanti regioni italiane quali, la Sardegna, la Lombardia, il Veneto, la Sicilia. Abbiamo già rilevato come “La crisi” sia stata sostanzialmente esclusa dalle “Opere scelte” di Trentin precedentemente pubblicate da una commissione di studiosi diretti da Norberto Bobbio, notissimo ed autorevole sostenitore del pensiero giuridico di Kelsen molto criticato da Trentin (Quaranta 2005, p. 77). È utile ricostruire sommariamente il percorso culturale mediante il quale Gangemi è arrivato fino alla scoperta e poi alla adesione alla teoria del federalismo di Trentin. Nel gennaio 1996 è sorto, in modo molto contrastato, il Centro studi sui federalismi Silvio Trentin di Padova ma la svolta “separatista” dell’autunno successivo di Umberto Bossi e poi la sua ombra hanno ostacolato, per anni, tutte le iniziative del Centro padovano. Può essere interessante ricordare come l’on. U. Bossi, uno dei numerosi aderenti al Centro studi, abbia espresso subito la sua contrarietà alla denominazione del Centro per il riferimento alla pluralità dei federalismi. Nel 1994 Gangemi pubblica “La questione federalista Zanardelli, Cattaneo e i cattolici bresciani”. Egli individua due tipi di federalismo sulla base dei quali classifica i teorici del federalismo, quello politicoistituzionale, giuridico (che potremmo definire dall’alto o della superbia) e quello antropologico (che potremmo definire dal basso o dell’umiltà). Il federalismo antropologico si propone di realizzare una forma di democrazia decentrata che ha come obbiettivo centrale lo sviluppo economico locale. Nella valutazione dei due diversi e contrapposti federalismi, è necessario ricordare sempre che essi si manifestarono sotto il dominio della legge 20 marzo 1865, n. 2248 che, con i suoi sei decreti allegati, è una vera e propria legge di fondazione o di rifondazione dello Stato italiano come Stato accentrato. Nei decenni postunitari i sostenitori del federalismo politico-istituzionale-giuridico sostanzialmente si dedicarono all’agitazione ed alla propaganda politica mentre invece i sostenitori del federalismo 71 n.18 / 2007 antropologico organizzarono a livello locale banche, cooperative ed altri servizi autofinanziati. Carlo Cattaneo si colloca fra i federalisti politicoistituzionali il cui ultimo esponente, se vogliamo, è stato Gianfranco Miglio, l’ispiratore del separatismo bossiano. Il suo federalismo, prima della insurrezione del 1848, aveva avuto coma obbiettivo l’unificazione di stati non importa se appartenenti alla stessa nazionalità. Prima del libro di Gangemi, la collocazione di Cattaneo fra i moderati o meglio la sua subalternità nei confronti del blocco moderato non era mai stata né affermata con tanta ricchezza di argomentazione da parte di nessun interprete (Gangemi 1994, p. 135). La concezione dell’uomo dei federalisti antropologici ha origine nel pensiero di Giambattista Vico il cui insegnamento è stato ripreso da Giandomenico Romagnosi maestro sia di Carlo Cattaneo che di Andrea Zambelli, un docente universitario di Pavia. Per Gangemi, Cattaneo, anche se è ritenuto generalmente un radicale, concorda sostanzialmente, a parte la questione del decentramento, con le altre posizioni fondamentali dei moderati monarchici sia sulla ricostruzione della storia d’Italia sia sulla politica economica che ha avuto come obbiettivo l’industrializzazione del triangolo Torino-MilanoGenova sostenuta dalle risorse di tutto il paese. Il suo federalismo è fondato su una apologia della borghesia urbana della Lombardia del periodo comunale che esclude un ruolo autonomo dei comuni non-urbani e delle masse popolari delle campagne. Cattaneo attribuisce alla borghesia di tutte le regioni italiane, anche quelle del Sud, lo stesso ruolo di quella lombarda e non affronta il ruolo della borghesia delle varie città durante i secoli della crisi italiana dopo la spedizione di Carlo VIII e quindi ignora Machiavelli. Zanardelli invece si colloca fra i federalisti antropologici per i quali il federalismo è una costruzione autonoma dal basso dei contadini e degli artigiani che devono contare principalmente sulle loro forze. Alle or igini del feder a lismo a ntr opologico nel Veneto Gangemi ha individuato in un allievo di Domenico Romagnosi, Andrea Zambelli dell’Università di Pavia, il maestro comune di Zanardelli e di Angelo 72 Messedaglia, veronese, docente all’Università di Padova, che è stato, a sua volta, il maestro dei veneti Emilio Morpurgo, Fedele Lampertico, Luigi Luzzatti. Per una rappresentazione dei rapporti fra Messedaglia e Luzzatti, si rinvia a Catalano (1965) e Pecorari (1983). La collocazione di Luzzatti fra i federalisti antropologici è un contributo originale che Gangemi ha dato alla interpretazione della figura e del pensiero dell’uomo politico veneziano. Per una comprensione dell’opera di Luzzatti, si rinvia alla Biblioteca luzzattiana edita dall’Istituto veneto di scienze, lettere ed arti dove si trovano: a cura di P.L. Ballini e P. Pecorari, “Luigi Luzzatti e il suo tempo”; a cura di D. Calabi, “La politica della casa all’inizio del Novecento”; a cura di P. Pecorari, “La diffusione del credito e le banche popolari”. Luzzatti, deputato del collegio di Oderzo (Treviso), più volte ministro e Capo del governo nel 1911-12, ha esercitato un’influenza decisiva su Trentin, come è testimoniato anche dai suoi amici e come si ricava dai suoi scritti del periodo precedente all’esilio ed anche dalla fitta corrispondenza (Ronchi 1975, p. 20) Alcune pubblicazioni di Luzzatti erano presenti nella biblioteca di Trentin donata dagli eredi alla Biblioteca del Dipartimento di studi giuridici di Ca’ Foscari ed andata, purtroppo, largamente dispersa. La bibliotecaria S. Franzoso segnala che attualmente sono presenti nella biblioteca citata soltanto 72 volumi della biblioteca di Trentin. Tre sono i problemi rispetto ai quali Trentin si pone esplicitamente come il continuatore di Luzzatti: l’istituzione della cassa nazionale per le bonifiche, le case popolari, l’Ente di ricostruzione e rinascita agraria delle province di Venezia e di Treviso. A questi si aggiunge la lotta contro la malaria. Luzzatti fondò anche l‘Istituto autonomo per la lotta antimalarica nelle Venezie il cui statuto fu elaborato da Trentin (1984, pp. 50 e nn. 107-108, 119, 128, 176, 263 e 269) Trentin esalta in Parlamento l’apostolato “geniale e fervido” di Luzzatti svolto per far approvare la legge del 1903 sulle cooperative edilizie popolari, per creare un ente antimalarico all’infuori di ogni stimolo ufficiale. Gli dedica il saggio molto impegnativo sull’Istituto federale di credito per il risorgimento delle Venezie. Giustamente Luzzatti affermava di vedere in Elio Franzin Trentin il suo successore. È molto significativa la prima lettera della fitta corrispondenza fra i due uomini politici veneti. Trentin chiede aiuto per difendere il Consorzio per l’esercizio del credito agrario come organo esclusivo delle casse di risparmio e delle banche popolari contro i tentativi di infiltrazione delle banche speculative come ad esempio il Credito veneto, espressione di ambienti clericali romani e veneti (Piva 1977, pp. 58, 86-87, 231, 242) Trentin in tutta la sua corrispondenza, che dura dal settembre 1920 fino al 18 luglio 1926, con il “maestro” Luzzatti, manifesta i suoi sentimenti filiali di discepolo fedele (nell’Istituto veneto di scienze, lettere ed arti, Archivio L. Luzzatti, la cartella Trentin contiene 85 fra lettere e telegrammi). Le iniziative di Trentin come parlamentare veneto e come professionista negli anni Venti, prima dell’esilio, si collocano decisamente nell’ambito del federalismo antropologico. Con la svolta degli anni Trenta, il pensiero di Trentin fa un salto di qualità, il suo federalismo antropologico diventa teorico e politico. Egli supera i limiti del federalismo antropologico schiacciato dal centralismo dello Stato italiano strutturato dalla legge 20 marzo 1865, n. 2248 perché si rende conto che, alla caduta del fascismo, si porrà il problema della ricostruzione di un nuovo Stato italiano. Contrariamente alle sue previsioni, in realtà alla caduta del fascismo si è mantenuto intatto il centralismo del vecchio Stato sabaudo prima e fascista dopo a parte alcuni cambiamenti marginali. La conoscenza del pensiero di Vico, di Romagnosi e dei loro seguaci sia lombardi che veneti, ha consentito a Gangemi di capire l’importanza straordinaria dell’opera di Trentin “La crisi del Diritto e dello Stato”, di invocarne già nel 1997 la pubblicazione integrale, di denunciare la grave lacuna della pur meritoria edizione delle Opere scelte (Gangemi 2000b, pp. 98-100; 2004, pp. 465- 483; 2005, pp. 377-401). È utile ricordare i giudizi contrastanti o contraddittori pronunciati su “La crisi” prima della decisa rivalutazione operata da Gangemi. Nel 1954 N. Bobbio nella sua commemorazione di Trentin definisce “grandioso” il disegno de “La crisi” (Bobbio 1954, p. 711) Nel 1974 ritiene che essa sia una delle opere più importanti anche se la meno nota, data la sua irre- “Crisi del Diritto e dello Stato” di Silvio Trentin peribilità nelle biblioteche italiane (Bobbio 1974, 118-119). Nel 1987 la definisce ”opera teorica maggiore” ed aggiunge che in essa il pensiero federalista di Trentin esce, nella conclusione, “tutto spiegato” (Bobbio 1987, p. XXVI) Ma questa ultima affermazione è del tutto infondata. Le tesi fondamentali de “La crisi” sono tre: la validità del giusnaturalismo come pensiero dell’autonomia della persona, la trasformazione del capitalismo concorrenziale in capitalismo finanziario e monopolistico, il federalismo come modo di realizzazione sul piano collettivo del principio dell’autonomia. Ma Trentin non vi enuncia affatto la sua concezione del federalismo. Egli affronta, in modo organico, il problema del federalismo soltanto nell’opera successiva “Stato, nazione, federalismo” (1940). Bobbio afferma che: ”l’originalità del pensiero federalistico di Trentin, o, se vogliamo, la sua caratteristica sta nel muoversi nella direzione del federalismo interno molto più che nel federalismo esterno” (Bobbio 1987, p.XIII) Si tratta di una interpretazione molto riduttiva. I caratteri specifici del federalismo di Trentin devono essere visti nel suo fondamento giusnaturalistico, nella interpretazione del capitalismo come capitalismo finanziario e monopolistico, nel federalismo come organizzazione che ha come istituzione statale di base il Comune, nella individuazione della contraddizione esistente fra la democrazia parlamentare e la disuguaglianza economica. Fino al 1974 il pensiero giuridico e politico di Trentin è stato quasi completamente ignorato. E questo è molto significativo per capire il distacco originario fra Trentin e i membri dell’autodiscioltosi Partito d’azione. Il centro studi e ricerca Silvio Trentin è nato nel 1974 per l’appassionata iniziativa personale dell’assessore comunale di Jesolo, Raffaello Zannoner, un personaggio meritevole ma marginale rispetto alla vita politica e culturale nazionale. L’ubicazione stessa del centro, che ancora oggi ha la sua sede a Jesolo, è geograficamente decentrata non soltanto rispetto a Venezia o a Padova, città universitarie, ma perfino rispetto a San Donà di Piave luogo di nascita di Trentin. Moreno Guerrato ha ricostruito, in modo esemplare, le origini del centro nel 1974 (Guerrato 2004, pp. 29-33). 73 n.18 / 2007 Con la scomparsa del secessionismo bossiano, non è difficile prevedere che la pubblicazione de “La crisi del Diritto e dello Stato”, a cura di Giuseppe Gangemi, potrebbe aprire in Italia una nuova fase non solo della storia della conoscenza e della diffusione del pensiero di Silvio Trentin ma anche del federalismo. Riferimenti bibliografici BALLINI, Pier Luigi e PECORARI , Paolo (1994), Luigi Luzza tti e il suo tempo, Istituto veneto di scienze, lettere ed arti, Venezia. BOBBIO, Norberto (1954), Il Ponte, X, n. 5, maggio. Anche in :Ita lia civile, Mandria Bari Perugia, 1964; opuscolo, Sorteni, Venezia,1955. 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Altri testi già noti al pubblico italiano, perché contenuti nella sua opera omnia, edita per i tipi della Marsilio, Libera re e Federa re; Le tra sforma zioni recenti del diritto pubblico ita lia no; Sta to Na zione Federa lismo (quest’ultima un’opera che meriterebbe di essere stampata, come opera autonoma, con una nuova presentazione e delle note di commento ai passi più interessanti) e altre. Fu tra i fondatori, insieme ai fratelli Rosselli, di Giustizia e Libertà, dove rappresentò, ben presto, l’ala più radicale e di sinistra. Dal 1936, fu tra gli organizzatori degli aiuti internazionali alla guerra del governo spagnolo repubblicano nella lotta contro i fascisti e i generali ribelli. Varie volte si recò in Spagna dove avrebbe voluto rimanere per svolgere un ruolo più attivo nella guerra. Con l’invasione tedesca della Francia fu tra gli organizzatori della resistenza francese attraverso un movimento che, nel nome, aveva anche il suo programma: Libérer et fédérer (da cui anche una rivista clandestina e il titolo del suo importante libro). Poco prima dell’8 settembre del 1943, tornò in Veneto dove, sempre l’arrivo dei tedeschi lo costrinse alla clandestinità. Fu tra gli organizzatori della resistenza in Veneto. Fu, però, fortuitamente arrestato dai fascisti e i maltrattamenti subiti ne minarono a tal punto la salute che dalla prigione uscì solo per finire i suoi giorni in ospedale. Morì il 12 marzo del 1944. La sua morte privò la Costituente italiana di un importante apporto intellettuale e politico. Fu un federalista. Un grande federalista. Talmente grande che non ho remore a definirlo più grande del più noto e magnificato Carlo Cattaneo. La sua grandezza consiste nel non avere cercato l’affermazione del federalismo attraverso una costituzione formale, ma attraverso la costituzione nella società e nella vita quotidiana delle basi reali dell’autonomia. L’autonomia di un popolo, ci suggerisce infatti Trentin, è basata sulla capacità di disporre delle proprie risorse che sono risorse finanziarie, ma anche morali e intellettuali. IL che vuol dire che l’autonomia di un popolo comincia, ma non si esaurisce, con l’autonomia del prelievo fiscale (ed è, quindi, anche federalismo fiscale). Continua, infatti, anche con la capacità di raccogliere il rispar- 75 n.18 / 2007 mio e utilizzarlo per i fini e gli interessi di chi lo produce, sia esso un territorio o un’associazione in rete, con la capacità di produrre strategie politiche di sviluppo sia economico che politico. Il federalismo di Trentin è un federalismo costruito anche sulle banche, che devono essere banche che finanziano i progetti che nascono dalle intelligenze nel territorio o in rete, e sulla cooperazione (cioè sui consorzi, sulle associazioni di volontari, sulla capacità dei politici di costruire consenso finalizzato allo sviluppo e non al vantaggio di pochi) e sulla negoziazione (cioè sulla capacità di individuare, attraverso la logica, l’etica e il diritto, il punto di equilibrio, la regola pratica che accontenta il maggior numero di persone, se non può accontentare tutti). L’autonomia di un popolo è costruita sull’autonomia delle sue associazioni, delle sue comunità e delle sue reti. “Padroni in casa propria” vuol dire, quindi, che in ciascuno dei livelli delle autonomie (da quello dei piccoli Comuni e dei quartieri delle grandi città a quello delle Regioni) il popolo o chiunque chiede di poter partecipare deve ricevere la possibilità di farlo attraverso l’istituzionalizzazione (per ciascuna decisione da prendere) di specifiche pratiche di democrazia diretta. “Padroni in casa propria” significa che nessuno deve togliere ai cittadini di Vicenza il diritto di decidere del futuro della loro città e che questo non deve passare sopra la testa dei cittadini attraverso accordi internazionali o tra partiti nazionali. “Padroni in casa propria” vuol dire che a tutti i cittadini vicentini deve essere fornita la possibilità di esprimere la loro posizione sul futuro del Dal Molin (e non solo, ovviamente, scendendo in piazza). “Padroni in casa propria” vuol dire che, una volta raggiunta, tra i vicentini, la chiarezza della posizione da tenere, questi negoziano direttamente con il governo italiano (ma anche con il comando americano, se necessario) per ottenere, in prima istanza, che la base non si faccia a Vicenza e, se proprio questo non è possibile, per ottenere che l’impatto ambientale temuto sia ridotto al minimo e che i costi sociali di questo impatto sia pagato da chi prende la decisione di fare la base e non dai cittadini che non la volevano. “Padroni in casa propria” vuol dire padroni di decidere del proprio ambiente (per la parte che non danneggia l’ambiente di altri) e di non farsi espropriare dei diritti sul pro- 76 prio territorio dalla classe politica nazionale e nemmeno da quella locale. Quest’ultima, infatti, applicando a livello locale il metodo accentratore della classe politica nazionale, tende troppo spesso a decidere senza consultare i cittadini su tematiche che toccano la vita o gli interessi dei cittadini. “Padroni in casa propria” vuol dire che la casa è dei cittadini tutti e non dei soli politici, né di quelli nazionali, né di quelli locali che, spesso, hanno arroganza e tendenze alla prevaricazione simili, se non identiche, a quella nazionale. Da tutto questo si evincono due cose: FEDERALISMO non è SECESSIONE perché FEDERALISMO è NEGOZIAZIONE; Nel senso che la secessione è tra le possibilità, non lo si nega, ma è il risultato del fallimento del federalismo, non tutto il federalismo e la negoziazione va concepita a tutto campo. In tutte le direzioni: verso il livello superiore di più popoli che condividono identici problemi (per esempio, l’acqua e i problemi che crea un grande fiume come il Po; la montagna e chi ci sta oltre quella montagna; il mare e le potenzialità di sviluppo che crea un importante mare come l’Adriatico soprattutto quando gli scavi in corso nel Canale di Suez permetteranno alle più grandi navi del mondo di arrivare dalla Cina e dall’India dentro il Mediterraneo; etc.) e verso i livelli inferiori delle comunità che costituiscono il popolo Veneto e le reti che lo innervano (per esempio, la Regione deve negoziare con i Comuni e le Province, secondo i principi della sussidiarietà verticale, ma anche con i cittadini e le loro associazioni, le imprese, le associazioni professionali, etc., secondo i principi della sussidiarietà orizzontale); FEDERALISMO è un DIVERSO MODO DI GOVERNARE; Federalismo non è sostituzione di una classe dirigente, magari incapace di o non disponibile a negoziare, con un’altra che governa allo stesso modo, ma ha solo il vantaggio di essere più vicina ai cittadini. Federalismo è un diverso modo di governare attraverso la partecipazione di tutti, di tutti quelli che desiderano di farlo. Ed è un modo di governare a cui bisogna prepararsi e che occorre costruire giorno per giorno. Federalismo non è il modo di governare dei moderni Dogi chiusi nei loro palazzi, a contatto solo con i loro amici e con i loro consulenti che emanano editti alla cui elabo- Giuseppe Gangemi razione non è stato invitato nessuno della cosiddetta società civile. Federalismo è convinzione profonda della maturità del cittadino, dei gruppi che costituisce, delle sue associazioni delle professionalità che ha saputo costruire nel territorio. FEDERALISMO è ASCOLTO, DIALOGO e PARTECIPAZIONE. Federalismo è, per sintetizzare tutte queste cose in una, con il linguaggio geniale di Silvio Trentin, AUTONOMIA DELLE AUTONOMIE. Autonomie che cominciano dal livello delle persone, la cui professionalità va rispettata e ascoltata, continuano con il livello appena superiore delle reti di relazione cui ogni persona aderisce (reti che sono legati alle professioni, allo svago o alle tradizioni). Autonomie che si trasformano in un superiore livello di autonomia (in una autonomia delle autonomie) quando individuano il punto di equilibrio che, rispettando logica, etica e diritto, si istituzionalizza in un contratto formale o anche soltanto in un accordo implicito. Resta fermo il principio che così come ogni persona può appartenere a varie reti e a vari gruppi, allo stesso modo ogni autonomia (e persino ogni popolo) può unirsi ad altri popoli in tante autonomie più ampie (la Padania di cui tanto si parla ma che non esiste ancora nemmeno nei suoi confini che sono molto più grandi dell’area del Po, cui il Veneto federalista crede di appartenere anche se i suoi fiumi non sfociano nel Po e che comprendono popoli che nella Padania non si riconoscono, vedi i popoli della cosiddetta Padania inferiore; vedi anche l’eurore- Ricordo di Silvio Trentin gione Adria che interessa popoli al di qua e al di là delle Alpi; vedi l’euroregione Adriatica che interessa i popoli sulle rive dell’Adriatico; vedi tanti altre possibili autonomie). Se Federalismo è Autonomia delle Autonomie, come ci insegna Silvio Trentin, Federalismo non è Secessione, perché l’autonomia ha senso se è libertà di scegliersi le proprie alleanze in modo pragmatico e non precostituito. L’autonomia di un popolo è libertà di esprimersi verso Ovest come verso Est, verso Nord come verso Sud, secondo le proprie convenienze immediate o strategiche e secondo i propri interessi. FEDERALISMO è LIBERTA’ di costruirsi non una sola superiore autonomia, ma tante autonomie in tante direzioni perché nessuno di noi va in una sola direzione senza mai voltarsi indietro e senza formare per poi muoversi verso altre direzioni sempre seguendo il proprio interesse o i propri desideri o le proprie utopie. FEDERALISMO è AUTONOMIA che non consiste nel chiudersi in casa dichiarando di non avere bisogno di nessuno, ma è capacità di costruire reti che, seguendo ogni possibile direzione, diano ad ognuno (persona, persona in rete o popolo) quella forza di affrontare le sfide che ci pone il futuro verso cui abbiamo scelto di andare e gli altri che potranno intralciare o favorire il nostro percorso. San Donà di Piave, Domenica 11 marzo 2007 77 n.18 / 2007 78 Ana Živkovi´c Il serbo-croato: da una lingua che univa a una lingua che divide Il Sestante Introduzione È la scomparsa violenta di un’antica unità culturale? È il naturale affermarsi di identità nazionali finora represse? O la fine forzata di una lingua e cultura comune? L’omogeneizzazione culturale ha le proprie origini nell’assimilazione linguistica e la lingua rappresenta lo spazio identificativo del gruppo di primaria importanza. Pavle Ivić, il più importante studioso dei dialetti e della fonologia degli slavi del sud, a tal proposito, scrisse nella Storia della cultura serba : la lingua è un prodotto della storia nazionale e lo strumento essenziale della cultura di ogni popolo; essa risulta essere il mezzo più economico, diversificato ed appropriato che l’individuo ha a disposizione per partecipare alla vita della sua comunità, diventando un membro attivo, ricevendone il bagaglio culturale del proprio popolo e modificandolo secondo le proprie esigenze, in un interscambio profondo fra sé e il gruppo di appartenenza. Una disamina del percorso storico della lingua letteraria serba indica che i cambiamenti fondamentali nell’orientamento della cultura serba sono riflessi non solo nel suo vocabolario e nella sua sintassi, ma anche attraverso gli aspetti morfologici e fonologici del linguaggio utilizzato dal popolo. Le diversità che si crearono nella lingua denotano, oltre all’orientamento verso il mondo occidentale o orientale, la posizione assunta nelle singole aree del Paese nel settore religioso o profano, nell’am- bito delle attività spirituali o intellettuali e nelle questioni politiche internazionali; le varianti linguistiche rendono visibili le influenze del mondo bizantino contro quelle dell’Impero russo, del mondo germanico contro quello francese o quello anglosassone, oppure la prevaricazione dei sentimenti aristocratici piuttosto che quelli democratici e populistici. Per comprendere la complessa situazione linguistica dei Balcani è di grande rilevanza il libro Lingue di Ranko Bugarski. Egli in principio precisa che “nonostante il quadro linguistico descritto appartenga sotto numerosi aspetti al passato, gli eventi del presente e le prospettive per il futuro non possono essere compresi senza l’analisi del passato linguistico dei territori della ex Jugoslavia. Quante lingue si parlavano in questa Jugoslavia? A qualcuno potrebbe sembrare che almeno questo dato sia conosciuto ed incontestabile; tuttavia non è così: se si contano soltanto le lingue standard, esse sono 14, ma se vogliamo aggiungere anche gli idomi parlati della lingua non standardizzata, questo numero raddopia. Il numero massimo delle lingue autoctone, nel senso che esistono e sono rappresentate su questo territorio già da circa 100 anni, potrebbe essere 27” (Bugarski 2005, 92-93). Nella Tabella sottostante sono elencate le prime 15 lingue, con il riferimento al numero dei loro parlanti in base al censimento effettuato nel 1981, l’ultimo prima della dissoluzione della Federazione jugoslava. 79 n.18 / 2007 1. serbo-croato 2. sloveno 3. albanese 4. macedone 5. ungherese 6. rom 7. vlacco 8. turco 9. slovacco 10. rumeno 11. bulgaro 12. russino 13. italiano 14. cecco 15. ucraino 16.400.000 1.760.000 1.750.000 1.370.000 410.000 140.000 135.000 82.000 74.000 60.000 37.000 19.000 19.000 16.000 7.000 “Dal punto di vista geo-linguistico, il serbo-croato occupa larga parte dell’area centrale della Jugoslavia, mentre le altre lingue circondano tale area o rappresentano le enclavi all’interno di questo territorio. Dal punto di vista geo-politico, da una parte esistono il serbo-croato, lo sloveno e il macedone, quali lingue domestiche, ‘lingue dei popoli jugoslavi’, mentre tutte le altre lingue si rapportano ad esse in una posizione confinante o in una situazione di diaspora” (Bugarski 2005, 97). Relativamente alle espressioni derivanti dalla lingua turca, Ranko Bugarski, ribadendo la sua tesi principale, ossia che le lingue jugoslave si influenzano l’una con l’altra in diversi modi e con diverse estensioni, precisa quanto segue: “La Lega linguistica balcanica ha comportato lo sviluppo delle linee grammaticali uguali. A parte questo si potrebbe aggiungere l’esposizione alle stesse influenze dall’esterno: la formazione degli stessi tratti sociali, derivanti dalla civilizzazione turca, nei determinati segmenti dei dizionari di tutti i popoli balcanici. I ‘turchismi’ hanno avvicinato le lingue nonostante le loro differenziazioni e hanno reso possibile la reciproca comprensione culturale tra coloro che utilizzano le singole lingue balcaniche” (Bugarski 2005, 98). Le caratteristiche geografiche della lingua si esprimono spesso con la differente formulazione dell’interrogazione “cosa?”. Nell’area di Zagabria si usa il ‘kaj’, da cui la denominazione del dialetto ‘kajkavo’; in larga parte della costa croata si usa il ‘ča’, da cui la denominazione di ‘čakavo’. Infine in Serbia, Bosnia ed Erzegovina, Montenegro e in una 80 parte della Croazia prevale lo ‘što’, da cui la denominazione di ‘štokavo’, che è il dialetto più diffuso. Inoltre, bisogna notare che i dialetti popolari, a differenza delle lingue standard, presentano differenze notevoli. Il dialetto ‘kajkavo’ di Zagabria e della Croazia nord-occidentale, con una struttura alquanto vicina alla lingua slovena, svolgeva fino all’inizio del XIX secolo un ruolo di lingua semiufficiale. Ancora oggi il ‘kajkavo’ è parlato da molti Croati nelle città di Zagabria, Varaždin, Koprivnica, Sisak, Karlovac, e nei loro dintorni, come in altri villaggi della Croazia nord-orientale. Il secondo conglomerato dialettale, il ‘čakavo’, parlato nell’Istria e nelle regioni vicine, sulle isole, e nelle zone litorali della Dalmazia centrale, è probabilmente il relitto di un diasistema medievale, che in dialettologia, è la rappresentazione unitaria delle caratteristiche accomunanti due o più sistemi linguistici geneticamente affini e che prima delle invasioni turche copriva la maggior parte della Croazia meridionale. L’espansione dello ‘štokavo’ è legata ai processi di assimilazione linguistica durante il dominio ottomano, quando i dialetti centrali del diasistema sud slavo, entrati in contatto tra di loro all’intero dell’Impero turco, hanno creato una certa affinità ‘folcloristica’. Fuori dall’Impero ottomano, il ‘kajkavo’ ed il ‘čakavo’ riuscirono a sopravvivere in quelle parti della Croazia che non sono mai cadute in mano ai turchi. A causa degli avvenimenti storici, la regione ‘štokava’ è diventata relativamente omogenea. Tuttavia, perfino nel caso ‘štokavo’ bisogna tenere conto del fatto che, si tratta di un insieme di dialetti variabili, parlati su un territorio molto vasto. Il lessico basilare ‘štokavo’ è abbastanza unito, ma i fonemi - specialmente il famoso suono paleoslavo ‘jat’ - e il sistema di accentuazione, sono mutevoli. La scelta deliberata dello ‘štokavo’, come base delle loro lingue standard, da parte dei serbi e dei croati, ebbe come risultato l’accostamento delle loro lingue standard e rispondeva ad una strana convergenza delle politiche culturali dei croati e serbi. Oltre ad alcune finezze della grammatica e della sintassi, le differenze strettamente linguistiche si manifestano soprattutto nel lessico tecnico-scientifico, nei neologismi, nei prestiti stranieri, nei riflessi di certi fonemi e in particolare, all’interno dello ‘štokavo’, si individuano tre modi diversi nel riflettere la “jat”, vocale chiave della distinzione Ana Živkovi´c Il serbo-croato: da una lingua che univa a una lingua che divide dialettale slava, ossia la trentaduesima lettera della versione antica dell’alfabeto cirillico. La jat rappresenta una vocale lunga originale dello slavo comune. Generalmente si crede che rappresentasse il suono /æ:/, che era un riflesso di un precedente /e:/, /oj/, o /aj/ e trascritto in vari modi come / /, /ê/, e /ä/. In varie lingue slave moderne, la jat ha dato origine a diverse vocali e nei dialetti del continuum serbo-croato, la jat si è distinta in tre diverse forme: e, (i)je e i, e questo è diventato uno dei criteri di differenziazione, da cui deriva la denominazione di ‘varianti linguistiche ekava, ikava, ijekava’, che spesso viene spiegata con ‘la divisione dei fratelli in base al latte’ – mlijeko, mliko e mleko. L’uso dell’alfabeto latino prevalentemente, anche se non esclusivamente, in Croazia, o del cirillico prevalentemente in Serbia e in Montenegro, è piuttosto una vestura esterna che influisce solo sull’aspetto visuale, e non sulla sostanza lessico-grammaticale della lingua ufficiale. Relativamente a ciò risulta interessante la constatazione di Kovačević: “L’alfabeto serbo è quello cirillico, mentre quello latino non è un alfabeto serbo, bensì l’alfabeto della lingua serba, perché questa lingua è oggi scritta, non solo dai serbi, ma anche dai croati, musulmani e montenegrini, con l’alfabeto latino” (Kovačević 1999, 381). “Nello stesso modo in cui non può esistere, precisa Ranko Bugarski, un’obbligatoria coincidenza tra l’alfabeto e la nazionalità, così non dovrebbe neanche esistere la corrispondenza di una lingua ad un alfabeto. A sostegno di questa mia affermazione sta il fatto che nel mondo il numero delle lingue non corrisponde al numero degli alfabeti. A questo punto, se risulta possibile scrivere diverse lingue con lo stesso alfabeto perché non dovrebbe valere anche il contrario, che una lingua può utlizzare più alfabeti” (R. Bugarski 1996, 110). Inquadramento storico Come i popoli neolatini, anche i popoli e le lingue slave hanno radici comuni. Nel IX e X secolo le differenze tra le varie lingue parlate slave erano pressoché minime, tanto che dal Nord della Russia fino alle sponde del Mediterraneo si utilizzavano gli stessi libri liturgici. Dai territori dell’odierna Russia meridionale, dove gli Slavi erano sottoposti al dominio dei Goti, sotto la pressione delle tribù unne, che determinarono il crollo del dominio gotico, iniziarono i grandi movimenti degli slavi dalle sedi originarie verso la linea dell’Elba e, a sud, verso la penisola balcanica, lungo le valli dei grandi fiumi quali il Danubio, la Sava e il Vardar. Tali migrazioni furono concluse verso il VI-VII secolo e, in quel periodo, furono già individuabili i tre grandi principali gruppi di lingue slave: l’orientale, l’occidentale e il meridionale. Oggi si distinguono: lo slavo orientale che comprende il russo, l’ucraino e il bielorusso e si scrivono con l’alfabeto cirillico; l’occidentale comprende il polacco, il ceco e lo slovacco che si scrivono con l’alfabeto latino e sono parlati da popolazioni prevalentemente cattoliche anche se con minoranze protestanti; il meridionale comprende il bulgaro, il macedone, il serbo, le lingue dei Paesi ortodossi e quindi scritte prevalentemente col cirillico; i croati e gli sloveni, cattolici, usano, invece, l’alfabeto latino. La storia della lingua serbo-croata può essere distinta in due periodi: un primo dominato da una produzione letteraria prevalentemente religiosa con la traduzione di testi sacri, scritti ora in caratteri glagolitici, derivati probabilmente da grafemi del corsivo medievale greco, a cui venne dato un disegno ornamentale e appartaneneti all’alfabeto slavo creato dal missionario san Cirillo, insieme a suo fratello san Metodio, intorno all’862863 per tradurre la Bibbia e altri testi sacri in antico slavo ecclesiastico, ora in quelli cirillici, che giunge, grosso modo, fino al XII secolo. Il secondo periodo inizia dopo il XIII secolo, quando cominciano ad apparire testi di carattere profano e giuridico sia in Croazia che in Serbia. Lo slavo ecclesiastico (o crkvenoslovenski jezik in serbo) è considerato lingua letteraria e liturgica comune degli slavi ortodossi, ossia la lingua liturgica della Chiese ortodosse nazionali bulgara, macedone, russa e serba, oltre ad altre Chiese ortodosse dell’area slava. Storicamente questa lingua deriva dall’antico slavo ecclesiastico, adattandone la pronuncia e l’ortografia e rimpiazzando alcune parole od espressioni antiquate e di significato oscuro con le loro controparti vernacolari. Lo slavo ecclesiastico, a differenza di quello antico, cominciò a distanziarsi dalle costruzioni linguistiche proprie della sintassi greca e ad adottare regole slavo-orientali adattandosi alle varianti dialettali locali seguendo per di più le differenze fonologi- 81 n.18 / 2007 che delle diverse aree. Oltre a queste due lingue, di cui è possibile trovare testimonianze nella forma dei testi scritti, bisogna menzionare il paleoslavo, ossia l’ipotetica lingua comune appartenente alla famiglia indoeuropea che ha dato origine successivamente alle moderne lingue slave; quest’ultima non è una lingua attestata e non possiede nessun corpus letterario, nè si ha a disposizione una minima traccia scritta, bensì fu totalmente ricostruita attraverso gli studi slavistici comparativi. Lo slavo ecclesiatico antico così come è stato tramandato dalle antiche traduzioni dei testi sacri, che furono compiute a partire dal IX secolo con il processo di evangelizzazione e di culturizzazione del mondo slavo, fu scritto dapprima in caratteri glagolitici, inventati dai due apostoli tessalonicensi, Cirillo e Metodio, nel loro dialetto slavo-bulgaro di Salonicco, prendendo a modello il greco, ma introducendovi anche caratteri armeni ed ebraici e, successivamente, in caratteri derivati dall’alfabeto greco e detti ‘cirillici’ dal nome di uno dei due. Attraverso i secoli, la loro antica lingua comune paleoslava, scritta con un complicato alfabeto di origine religiosa - il glagolitico - gradualmente cominciò a diversificarsi. Pur non rimanendo estraneo alle classi sociali che non lo usavano abitualmente, lo slavo ecclesiastico non riuscì ad imporsi in tutti i settori. Esistevano, infatti, delle aree dove, per l’alfabetizzazione, veniva largamente usato il dialetto: i documenti ufficiali dei sovrani e dei magnati, oltre ad altri documenti legali, quali i codici di legge, furono tutti scritti in dialetto. L’obiettivo fu semplicemente quello di avere leggi chiare a tutti ed evitare qualsiasi ragione di discussione riguardo alla loro interpretazione. La comune lingua letteraria e la condivisione dello stesso alfabeto da parte dei diversi popoli slavi ha facilitato lo scambio dei lavori letterari e accademici tra questi ambienti sociali, consolidando la partecipazione all’ambiente sociale e culturale dell’Ortodossia come insieme, che rimase sempre aperta all’influenza proveniente dalla Grecia (Storia della cultura serba ). Molti testi furono, infatti, tradotti dal greco e una volta tradotti circolavano in tutto il mondo slavoortodosso. La comunità di monaci slava sul monte Athos era tra i centri di traduzione più noti. Il monastero serbo Hilandar su Athos fu fondato da 82 Stefan Nemanja, il padre fondatore della dinastia serba più importante del medioevo. Queste traduzioni hanno continuamente arricchito la Chiesa serba dal punto di vista letterario e culturale in generale. Relativamente a ciò, in alcuni studi si riprese a scrivere quello che fu l’ultimo messaggio del sovrano serbo Stefan Nemanja al figlio Rastko–Sveti Sava, che dovette trasmettere le parole del padre al proprio popolo. ‘È meglio perdere tutte le battaglie e tutte le guerre che perdere la propria lingua’. Nei Balcani, questo messaggio non ha perso di attualità nemmeno all’epoca moderna. “Cos’è un popolo se perde la lingua, la terra, l’anima? Non prendete nella vostra bocca le parole degli altri – se prendi le parole degli altri, questo non significa che hai conquistato un popolo, ma hai sottomesso il tuo popolo agli altri. È meglio perdere la città più grande della tua terra che non la parola più piccola del tuo vocabolario. Riccordati che il nemico ti ha conquistato tanto quanto è riuscito ad importi le sue parole e a toglierti le tue. Il popolo che perde le proprie parole smette di esistere come popolo. Le infezioni della tua lingua si verificano ai confini del popolo, nei punti di contatto con un altro popolo, dove due lingue cominciano a graffiarsi l’un l’altra. Due popoli possono combattere e possono fare la pace. Due lingue non potranno mai fare la pace. Due popoli possono vivere nell’armonia immensa, ma le loro lingue continueranno sempre a combattere. Dopo la perdita di una battaglia o di una guerra il popolo sopravvive; dopo la perdita della lingua il popolo si estingue. L’uomo impara la lingua materna in un’anno e non la dimentica per tutta la vita; il popolo non la dimentica finché esiste. Quando il nemico distruggerà tutte le fortezze e penetrerà in tutte le città, non disperarti; ascolta cosa succede con la lingua; se essa rimane intoccata, non aver paura. Lì dove risuonano le nostre parole, lì esiste ancora il nostro Stato, indipendentemente da chi lo governi. I sovrani cambiano, gli Stati periscono, ma la lingua e il popolo rimangono; le terre conquistate in tal modo un giorno torneranno alla loro ‘madrepatria linguistica’. Il popolo è più duraturo di ogni Stato; prima o poi, quando l’acqua, rappresentata dalla nostra lingua, supererà le dighe che la dividono, il popolo si riunirà” (Medić 2001, 86-94). Ana Živkovi´c Il serbo-croato: da una lingua che univa a una lingua che divide Sveti Sava, seguendo le parole del padre, realizzò l’indipendenza della Chiesa serba, permettendo in tal modo la comparsa della parola serba. A Sveti Sava i serbi attribuiscono la genesi della loro indipendenza spirituale, culturale ed accademica. Per avere la descrizione esaustiva del quadro storico-linguistico dei Balcani, è necessario menzionare l’influenza russa. Il governo austriaco utilizzò il popolo serbo per organizzare l’esercito e spesso urgeva l’accettazione serba dell’unificazione con la Chiesa di Roma. La gerarchia ecclesiastica serba cercò di fare resistenza a questo tipo di pressione e questa rimase pressoché l’unica forma di leadership che il governo austriaco tollerava. Tuttavia, la Chiesa ortodossa fu limitata nelle sue attività a causa della mancanza di libri necessari per le liturgie e la preparazione educativa del proprio clero. Le istituzioni governative austriache hanno intenzionalmente proibito la pubblicazione dei libri in serbo, ma ben presto questo si rivelò essere stato per loro un grave errore. La Russia decise, infatti, di assumersi il ruolo di difensore dell’Ortodossia serba. Dalla Russia furono importati numerosi libri e, a partire dal 1726, cominciarono ad arrivare in Serbia gli accademici russi con il preciso compito di insegnare al giovane clero serbo la lingua slava utilizzata dalla Chiesa russa; essa divenne la variante linguistica ufficiale, mettendo in ombra la lingua ecclesiastica serba. Ma cambiare la lingua significava trasformare anche la politica culturale del Paese: le tendenze principali della cultura serba continuarono ad essere definite dalla Chiesa e presero un marcato orientamento verso la Russia. Indipendentemente dalla volontà e dalle intenzioni delle autorità ecclesiatiche serbe, nella seconda metà del XVIII secolo, furono così introdotte dalla Russia questioni non appartenenti strettamente al campo religioso: il Paese russo, aperto nei confronti della cultura europea dell’Occidente, diventò il principale mediatore della penetrazione di tradizioni culturali occidentali nell’ambiente sociale delle classi medie della Serbia. Entrambe le parlate slavo-ecclesiastiche, serba e russa, furono, tuttavia, presto rimosse dalla lingua parlata del popolo serbo e lo sviluppo si orientò inarrestabilmente nella direzione della creazione di una lingua letteraria più vicina al linguaggio popolare. Nel 1768 un poeta serbo, Zaharija Orfelin, introdusse nella lingua letteraria serba una mescolanza del linguaggio religioso e di quello dialettale, conservando uno spazio per i termini di derivazione russa. Questa lingua, denominata lo slavoserbo, risultò molto più familiare alla società serba, ma ciò nonostante, fu rimossa a causa della sua caoticità e mancanza di precise regole grammaticali. In seguito, siccome cominciava a diminuire la pressione per l’unificazione delle Chiese, i motivi di disprezzo delle culture degli europei non ortodossi diminuivano; la classe media iniziava a crescere, la società e la cultura serba nei territori austriaci cominciava ad essere secolarizzata. Al posto del Paese russo, l’Europa diventò il nuovo modello da seguire (Storia della cultura serba ). Nel 1783, Dositej Obradović, la figura centrale della letteratura serba del XVIII secolo, iniziò a propugnare un nuovo programma linguistico. Ispirato dalle idee del Illuminismo europeo, seguì l’approccio utilitaristico nei confronti della lingua letteraria, che dovette diventare comprensibile innanzitutto ai lettori. Cercando di impedire che nella letteratura diminuisse l’uso del dialetto, egli ha eliminato i termini dello slavo-russo e di quello ecclesiastico ancora rimasti in uso, che non avevano un’espressione equivalente nel dialetto serbo. Così, agli inizi del XIX secolo, rimasero in Serbia solo due varianti linguistiche: la mescolanza slavo-serba di Orfelin e il dialetto di Obradović. L’intera area del serbo-croato fu caratterizzata, dunque, da una serie di mutamenti linguistici che ottennero una standardizzazione letteraria solo a metà del XIX secolo, quando l’unificazione linguistica fu portata al compimento con il progetto, definito la ‘riforma di Vuk Karadžić’, e con l’imposizione, tramite una Dicharazione del 1861 del Parlamento croato, della lingua serba e più precisamente del dialetto ‘štokavo’ di Erzegovina orientale come lingua ufficiale in Croazia. La Serbia, in cui Vuk Karadžić, il riformatore della lingua e dell’ortografia serba, nacque, faceva parte ancora dell’Impero Ottomano. Nel 1807 egli partecipò alla prima insurrezione serba, ma il suo fallimento lo costrinse ad emigrare nel 1813 a Vienna, dove grazie all’aiuto del celebre filologo sloveno Jernej Kopitar, censore imperiale dei libri slavi e neoellenici e di Josip Dobrovsky, il ceco fondatore della filologia slava, iniziò le sue ricerche linguistiche. Dichiarando guerra agli elementi ecclesiatici 83 n.18 / 2007 della lingua slava, nel 1814, egli avviò la riforma della lingua serba sulla base della lingua popolare. Karadžić ridusse, le lettere serbe da 46 a 29 e tentò di fissare le regole della declinazione e della coniugazione, propugnando la necessità di adottare come lingua letteraria il dialetto ‘štokavo’. Negli anni seguenti Karadžić viaggiò in Russia, in Germania, e per quasi tutte le terre slave del sud nelle quali raccolse materiali per il suo futuro Vocabolario serbo. Più tardi, nel 1850, un gruppo di letterati croati e serbi, o meglio jugoslavi, perché così essi si definivano, tra cui Kukuljević, Demeter, Mažuranić e Daničić, insieme allo sloveno Miklošič e allo stesso Karadžić, si incontrò a Vienna e firmò un manifesto contenente l’invito a tutti gli slavi del sud ad accettare il cosiddetto dialetto meridionale - la variante ijekava dello štokavo come loro lingua letteraria. Una breve analisi di questo documento, denominata La Casa Viennese Serbocroata, è stata svolta da Sinan Gudžević. Significativo fu il fatto che, al momento della firma dell’Accordo di Vienna, che fu elaborato in quella occasione, i partecipanti erano tutti cittadini della Monarchia d’Austria, essendo nati sul suo territorio, tutti tranne Karadžić, mentre come base della lingua letteraria suggerirono un dialetto che veniva parlato prevalentemente al di fuori del territorio della Monarchia. Il documento riporta anche le ragioni per cui quegli uomini suggerirono “che sarebbe più corretto accettare lo štokavo meridionale quale loro lingua letteraria: a) perché la maggior parte della popolazione parla in questo modo, b) perché si avvicina di più allo slavo antico e quindi anche alle altre lingue slave, c) perché la poesia popolare è scritta e cantata quasi interamente in tale dialetto, d) perché tale idioma è usato nell’antica letteratura della Repubblica di Dubrovnik, e) perché la maggioranza dei letterati, di confessione orientale ed occidentale, scrive in tale maniera”. “All’adozione generalizzata di una lingua comune per tutti i popoli di Croazia, Bosnia, Serbia e Montenegro contribuirono attivamente vescovi, scrittori, professori di tutte le nazionalità in vista del progresso civile e culturale dell’area” (La Casa Viennese Serbocroata). L’Accordo ebbe, tuttavia, un effetto limitato. Gli sloveni, seguendo l’esempio del loro poeta France 84 Prešeren (1800-1849), non vollero affatto abbandonare la loro lingua; cosa abbastanza logica, data l’importanza della lingua slovena nella coscienza etnica del popolo sloveno. Poco dopo anche la maggior parte dei serbi lasciò perdere l’accordo. Al posto del dialetto di Vuk, nella seconda metà dell’Ottocento, il dialetto di Belgrado e della Serbia centrale trionfò nello Stato serbo. La ‘riforma di Vuk’ agitò i circoli conservativi in Serbia, e soprattutto la Chiesa che si impegnava a mantenere come lingua ufficiale il serbo-slavo, una lingua letteraria ibrida modellata sulla lingua liturgica tradizionale e sulla parlata colta delle fasce urbane, cosiché le sue modifiche furono accettate dal governo serbo solo nel 1868, cioè quattro anni dopo la morte del riformatore serbo. Fino a quel momento nella lingua letteraria ha predominato il dialetto ‘štokavo-ekavo’, appartenente alle zone nord-orientali di Serbia, anche per il fatto che i centri culturali, politici ed economici più importanti si trovavano in quelle regioni. Nonostante ciò Karadžić scrisse nella sua lingua materna, ossia nella variante ‘ijekava’, che copriva le aree della Serbia occidentale, della Bosnia ed Erzegovina, di Montenegro ed era largamente utilizzata tra i serbi di Croazia, Slavonia e Dalmazia. In un certo senso la riforma non fu completa. Gran parte della Serbia e l’intera Vojvodina, con le loro tradizioni solidamente radicate, non furono preparate a interscambiare le caratteristiche di ‘ekavo e ijekavo’, mentre nelle aree dove era parlato ‘ijekavo’ le riforme furono accettate in modo inalterato. Inoltre, Karadžić, seguendo il principio dello ‘scrivi come parli’ - un grafema per ogni fonema - mise fuori uso le lettere cirilliche della vecchia lingua slava, quelle vocali che per uno svilluppo differenziato creavano dei contrasti tra lo ekavo e ijekavo. Tuttavia, nel fare ciò, egli rese impossibile la preservazione della forma grafica unificata e questo spiega la formazione e la coesistenza di due versioni della lingua letteraria serba, da cui trae origine una serie di problemi sia culturali sia politici, fra i quali una consistente parte deriva dal fatto che i croati adottarono gradualmente la variante ijekava di Karadžić come loro lingua letteraria. La lingua che utilizzavano fu, infatti, molto più vicina a quella della riforma che non alla variante ‘kajkava’, che mantenne a Zagabria lo status di lingua letteraria croata fino al 1830. Ana Živkovi´c Il serbo-croato: da una lingua che univa a una lingua che divide La riforma di Vuk è servita come esempio e modello, attraverso cui l’Illirismo di Ljudevit Gaj raccolse intorno a sé quasi tutti gli intellettuali croati per realizzare l’unità letterario-linguistica del popolo croato, che precedentemente utilizzava una molteplicità di lingue letterarie regionali. Nello stesso momento, diventò possibile la loro auto-determinazione nazionale anche in quelle regioni, dove l’auto-definizione della popolazione seguiva solo l’appartenenza alle unità regionali del Paese (Storia della cultura serba ) In uno studio del 1967, Pro e contro Vuk, lo scrittore bosniaco, Meša Selimović, decise di soffermarsi sull’importanza della riforma di Karadžić, analizzando anche gli aspetti non puramente linguistici. I motivi per cui si accettava o respingeva la lingua popolare appartenente alla cultura contadina, prevista dalla riforma di Vuk, sono nei diversi momenti storici differenti, dimostrando che il conflitto riguradante la lingua nazionale fu rinvigorito ogniqualvolta ci si trovava davanti ai significativi cambiamenti nella nostra vita sociale: nei primi decenni del XIX secolo l’accettazione o il rifiuto fanno parte della lotta per la formazione della nazione e dello Stato indipendente serbo; nel periodo della europeizzazione e di una urbanizzazione intensificata della Serbia le tesi di Vuk furono discusse in realzione alla necessità di emancipazione della sfera linguistica; nei tempi nostri, la riforma di Vuk è interpretata in base alle esperienze spirituali e culturali accumulatesi nel tempo e in relazione all’indispensabilità di raggiungere il livello europeo e mondiale, che richedono una lingua più ricca e dotata di elasticità, capace di esprimere l’interezza della vita e del mondo. Tuttavia, tra coloro che criticarono la variante linguistica di Vuk, c’è chi, come Jovan Skerlić, nello studio intitolato Gioventù e la sua letteratura, attacca in modo manifesto il dogmatismo di Vuk Karadžić, accusandolo di essere rimasto troppo lontano dal pensiero occidentale; nel nostro passato culturale Skerlić individua due modi di pensare contrapposti: quello di Vuk e quello di Dositej Obradović, esprimendosi apertamente a favore di quest’ultimo. Egli, infatti, afferma che a partire dal 1870, quando cominciarono a diffondersi le idee razionalistiche, gli spiriti serbi iniziarono a ritornare verso il pensiero di Dositej; ancora oggi l’intera area culturale si suddivide secondo due linee linguistiche: coloro che seguono l’impostazione di Dositej Obradović si avvicinano alle idee razionalistiche proprie dell’Occidente, mentre quelli che preferiscono Vuk Karadžić sostengono idee tradizionaliste proprie del Romanticismo. E ancora oggi, Obradović sembra più moderno e più vicino alla nostra realtà. “L’imporre la lingua popolare quale lingua letteraria, aveva come scopo inevitabile quello di portare alla rovina lo slavo ecclesiastico, definito quale l’ostacolo nello sviluppo della cultura nazionale, quale l’intralcio al compimento della formazione della nazione” (Selimović 2002, 4). Tuttavia, ciò esprimeva anche la posizione sociale di Vuk, quella contadino-democratica, comprensibile se si considera che nel periodo storico in cui egli operava, le masse contadine, specialmente in Serbia, furono le portatrici delle tendenze liberatrici contro qualsiasi occupazione o repressione in vista di ottenere il diritto e il riconoscimento di tutto ciò che distingue la nazione – lingua, caratteristiche morali ed etiche, letteratura. Cosiché sul fronte sociale, politico ed economico, ‘pro o contro Vuk’ rappresentava il confrontarsi tra coloro che detenevano potere e coloro che volevano ottenerlo. La conservazione ostinata dello slavo-serbo e dell’antica ortografia ecclesiastica, come d’altronde la connessione alquanto stretta con la Russia ortodossa, furono una parte importante della politica nazionale, che di fronte alla costante minaccia dell’espansione austro-ungarica difendeva la fede nella Russia protettrice dello slavismo, l’organizzazione rigidamente feudale della Chiesa e una lingua artificiale. In tal modo la questione della lingua e dell’ortografia ebbe un significato politico e fu fortemente collegata con il destino della nazionalità serba, dove qualsiasi tentativo di rovesciamento o cambiamento della tradizione fu visto come un’azione antinazionale e antiortodossa. Allora si comprende perché la lotta linguistica fu così audace: per il semplice fatto che la lingua ebbe un ruolo importante nella conservazione o rivoluzione dell’organismo della società (Pro e contro Vuk). Il serbo-croato nello Stato di Jugoslavia e la politicizzazione della questione linguistica La Costituzione jugoslava garantiva a tutti i popoli 85 n.18 / 2007 il diritto di parlare e scrivere nella propria lingua. In realtà, la lingua predominante del partito e dello Stato, e soprattutto dell’esercito, è stata quella più diffusa, il serbo-croato (croato-serbo). L’ex Jugoslavia, uno Stato multietnico, è stata per lungo, anche se in un modo incompleto, una nazione in senso funzionale. La sua lunga permanenza nel XX secolo lo doveva anche al fatto che almeno il 75% della popolazione usava la stessa lingua standard. Era usata come ‘second mother tongue’ anche dalla maggior parte degli sloveni e dei macedoni. Questo Stato non aveva una sola lingua ufficiale, ne aveva quattro: serbo, croato, sloveno e macedone, ma in qualche modo ha sentito di avere in realtà un’unica lingua e ha cercato di darne evidenza nel momento in cui ha cercato più coesione (Bogdanić L.: Serbo, croa to o serbo-croa to? L’uso geopolitico della lingua ). Nell’ex Jugoslavia il serbo-croato, il macedone e lo sloveno avevano ufficialmente pari dignità. In ogni istituzione federale documenti e scritte erano in tutte queste lingue e versioni e negli uffici governativi ogni documento veniva tradotto anche in albanese, e persino nella variante bosniaca del serbocroato. L’unica istituzione federale ad usare solo il serbo era l’esercito. Quindi, almeno formalmente, c’era un grande rispetto per le varie espressioni linguistiche. Per quanto riguarda lo status costituzionale della lingua jugoslava, essa fu regolata al livello delle comunità etniche e al livello delle stesse lingue. Nella Costituzione jugoslava del 1974 si legge: l’art. 264 al comma 1 garantisce l’equiparazione di lingue dei popoli e quelle delle nazionalità, nonché dei loro alfabeti. “La legislatura jugoslava riconosceva tre categorie di comunità: popoli, nazioni e gruppi etnici. Quindi furono considerate le lingue del popolo jugoslavo – serbo-croato, sloveno, macedone -, delle nazionalità - albanese, ungherese, turco, slovacco, romeno, bulgaro, italiano, ceco e ucraino -, e le lingue dei gruppi etnici. In Jugoslavia, dunque, non esisteva una lingua ufficiale o statale, ma si proclamava la politica dell’equiparazione linguistica, realizzata e regolata tramite la gerarchia dell’uso ufficiale della lingua” (Bugarski 2005, 100-101). “Il distacco tra le dichiarazioni di appartenenza linguistica e quelle di nazionalità risulta significativo: più di 500.000 cittadini della Jugoslavia non hanno dichiarato la lingua 86 materna che uno si aspeterebbe in base alla loro appartenenza nazionale” (Bugarski 2005, 95). Sin dall’inizio, la situazione politica dei Balcani ebbe un’influenza determinante sull’uso e sul ruolo della lingua: subito dopo il crollo dell’Impero asburgico, gli sloveni e i croati si unirono alla Serbia, dando vita al SHS - Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, divenuto nel 1928 lo Stato di Jugoslavia. Nello Stato jugoslavo, il rapportarsi dei serbi e dei croati nei confronti della lingua letteraria cambiò. Nel XIX secolo furono i croati quelli che insistettero sull’idea di unità linguistica, ma non appena l’unificazione fu raggiunta, si rivelò chiaro che l’abbiano voluta solamente per risolvere una serie di problemi che al tempo avevano nel settore della politica. Essi non avevano intenzione di costruire e sviluppare uno Stato unitario; il loro obiettivo era, al contrario, quello di procedere alla secessione, una volta ottenuta l’unificazione linguistica croata. Ben presto, infatti, i linguisti croati iniziarono a mettere in evidenza piuttosto le differenze che non le similitudini linguistiche con il popolo serbo. Durante l’intero XX secolo la questione linguistica è stata politicizzata in maniera esasperante; prima dall’ideologia unitaria della Monarchia che voleva una Jugoslavia come un’unica tribù con una lingua condivisa da tutti o dalla maggioranza, e poi con la fase di conflittualità linguistica, con periodi di concessioni autonomistiche alle quattro lingue formalmente riconosciute. Il risultato è che una lingua come il serbo-croato ha cambiato l’etichetta della propria denominazione a ogni svolta politica, alternando fasi di serbo, croato, serbo-croato, ecc., anche se nell’ultimo secolo le lingue usate dai singoli gruppi etnici del popolo sono rimaste sostanzialmente le stesse. A tal proposito, si giunse alla constatazione che per il popolo serbo fu proprio il periodo jugoslavo del regime comunista quello più disastroso: si scriveva con l’alfabeto latino e si parlava il serbo-croato. In nome della fratellanza si cambiarono le parole, si permise l’infezione. Uno dei compiti più significativi assunti dai singoli governi e altre autorità nazionali fu quello di instaurare ed istituzionalizzare differenze permanenti tra questi popoli. In mancaza di diversità nella lingua, fu la religione ad essere il Ana Živkovi´c Il serbo-croato: da una lingua che univa a una lingua che divide primo fattore di differenziazione sociale; ma dall’altra parte furono le stesse comunità religiose in Croazia, Serbia e Bosnia-Erzegovina che chiesero una lingua purificata dagli elementi dei vicini nemici. Nasce perciò il desiderio di avere a che fare solo con i concittadini ‘omogenei linguisticamente’, considerando amici solo coloro che hanno la stessa pronuncia e lo stesso accento, perché solo così è ritenuto possibile creare per i singoli una tranquillità di tipo psicologico individuale. Si tratta di un’omogeneità che deve essere solidale e che porta all’estremo limite le proprie peculiarità per stabilire definitivamente una netta differenziazione dalle lingue degli altri. È sicuramente significativo sottolineare che la situazione linguistica separatista attuale nasce dalla variazione regionale della medesima lingua in seguito allo sforzo dei poteri amministrativi nazionali di rendere più marcate le differenze tra un dialetto e l’altro, coniando termini ipoteticamente più puri etnicamente e quindi rivelatori della vicinanza con l’etnia croata o quella serba, giustificando a posteriori una scelta essenzialmente politica (Bogdanić L., Serbo, croa to o serbo-croa to? L’uso geopolitico della lingua ). Uno dei presupposti dello Stato jugoslavo, l’ideale unitario di tutti i popoli slavi del sud, fu proprio l’unicità della lingua dei serbi e dei croati. L’assenza di uno Stato che potesse assicurare uno spazio, dove le questioni politiche relative al ruolo dello Stato nella creazione di un’identità nazionale potessero essere discusse, ha fatto sì che non si formasse una cultura politica uniforme e che le questioni culturali, tra cui quelle linguistiche, divenissero il luogo privilegiato del confronto politico; discutere della lingua dei croati e dei serbi non significa “affrontare una questione accademica o meramente culturale, ma intervenire in un problema politico e geopolitico di primo ordine” (Bogdanović 2003, 230). Nella rivista Republika (01-02/2001) Snježana Kordić ha pubblicato l’articolo Rigua rdo a lla denomina zione della lingua da l punto di vista scientifico, in cui cerca di esaminare i motivi per cui numerosi linguisti stranieri continuano ad utilizzare la denominazione ‘serbo-croato’. “La linguistica nel mondo non può, a causa dei conflitti nazionali e politici sud-slavi, cambiare il criterio in base al quale si decide l’esistenza di un’unica o due diverse lingue. Kordić definisce il concetto ‘lingua’ in base alla regola seguita già nel XIX secolo: “il sistema di valutazione determinante per affermare che sulle basi linguistiche si può parlare di un’unica lingua è la reciproca comprensione: coloro che parlano diverse varianti della stessa lingua sicuramente non necessitano di un interprete. Questo criterio rimane allora l’unico conforme alle regole della linguistica: se capisco quello che dici, allora tu parli la mia lingua, se non capisco, allora parli una lingua straniera (criterio scritto nel XIX secolo da Georg von der Gabelentz, Die Sprachwissenschaft 1891, 55), concludendo che la regola della comprensione sia al di sopra di quella della nazionalità” (Kordić 2001, 237). Seguendo tale logica Snježana Kordić analizza dunque la problematica della denominazione affermando che: “dopo la disintegrazione della Jugoslavia ciascuno dei tre Stati nuovi, formatisi dalle Repubbliche jugoslave in cui si parlava il ‘serbo-croato’, chiama la propria lingua in base alla propria identità etnica” (Kordić 1997, 3), richiamando all’attenzione “il tentativo compiuto dalla Croazia di rendere la lingua della parte occidentale della ‘società linguistica serbo-croata’ il più possibile diversa di quella utilizzata nella parte orientale” (Kordić 1997, 18). La questione della lingua, ovviamente, non è e non è mai stato soltanto un problema linguistico. È stato più volte sottolineato che durante i numerosi conflitti e litigi, perpetrati tra i popoli dei Balcani, la lingua fu sempre rappresentata come una fra le pietre più dure da superare. ‘I conflitti riguardanti la lingua non durano da ieri, ma quasi da due secoli.’ La questione linguistica fu resa problematica perché si basava sulla teoria che valutava soprattutto le similitudini fra due popoli - i serbi e i croati, e durante il percorso storico cercava di ignorare qualsiasi differenziazzione. L’unificazione delle lingue sud slave sembrò necessaria per assicurare il successo del progetto ‘jugoslavo’. Esso nacque dalla convinzione, di matrice illuminista, che, data l’affinità del loro lessico, sarebbero bastate una lingua letteraria e una cultura comune per far scoprire ai popoli jugoslavi la loro parentela, fondendoli in uno solo. Nel 1991, a processo di disgregazione ormai avviato, le domande sulla nazionalità, la lingua e la religione avevano acquistato una valenza politica tale da diventare lo strumento con cui si intendeva 87 n.18 / 2007 misurare i rapporti di forza tra i diversi gruppi. La violenza nei confronti della lingua, motivata in modo dominante dalle ragioni politiche e dal dettato di essere diversi a qualsiasi prezzo, iniziò a rappresentare in realtà un atto di “culturicidio”. È vero che storicamente i croati hanno sempre cercato di evidenziare le specificità della loro lingua, ma è solo in questi ultimi anni, con l’indipendenza della Croazia e la guerra nell’ex Jugoslavia, che queste caratterizzazioni hanno assunto toni così marcati da sconfinare talvolta nel ridicolo. Nel 1955 sono le parole di Juraj Krnjević, politico croato (1895-1988), a testimoniare in modo adatto quelle che furono le conseguenze della purificazione della lingua croata: “Agli inizi dello Stato indipendente i croati cominciarono con la ‘purificazione’ delle parole, soprattutto dal serbo e dai termini internazionali. Quando adottarono la lingua serba, i croati cercarono sistematicamente di abbrutirla e degradarla. È nota l’antica tendenza smodata dei croati di cambiare le parole straniere con quelle ‘croate’. In questo processo non solo tendono a formare delle parole inappropriate, ma anche con significati del tutto inadatti e sconosciuti al popolo” (Kostić 1964, 77). “Anche se si sono impadroniti della lingua serba – del dialetto ‘štokavo-ijekavo’ -, i croati non sono mai riusciti a ‘collegarsi’ con essa; non hanno mai compreso lo spirito di questa lingua e non ne hanno mai colto la vera sostanza. A parte questo, forse per la loro avversione verso tutto quello che è straniero, non hanno creato altro che una versione deformata della lingua serba, rendendola corrotta e incomprensibile al proprio popolo” (Kostić 1964, 88). Chi ne dibatteva erano gli intellettuali; la gente comune non si preoccupava seriamente di queste discussioni. Solo negli ultimi anni la questione della lingua è diventata un fatto politico, fomentato come un elemento di identificazione nazionale. Sul piano della comunicazione quotidiana la gente è sempre stata in grado di capirsi, perchè le distanze che intercorrono tra serbo, croato e bosniaco sono più o meno quelle esistenti tra l’inglese britannico e quello americano. Però con il prevalere della funzione politica della lingua, intesa come strumento di identificazione nazionale e di rafforzamento dello Stato, si rende molto più pesante e difficile il clima culturale in cui la gente vive. 88 Lingua e nazionalismo Uno degli ideali da perseguire nel nazionalismo moderno è sicuramente la purità della lingua. Tra l’altro, è proprio sulle rivendicazioni di carattere linguistico che si sono basati molti movimenti indipendentisti e secessionisti ritornati in voga con il revival etnico contemporaneo. Senza dubbio, la lingua rappresenta un elemento che sprigiona in modo alquanto pronunciato i sentimenti di appartenenza nazionale, fungendo così da potente amplificatore delle rivendicazioni nazionalistiche; ma affinché diventi un elemento costitutivo e determinante, essa deve essere accompagnata da una cultura e da un patrimonio culturale nazionale molto solido. Il compito primario di ogni nazionalismo separatista era, ed è, provare che si tratta di due lingue diverse. La ex Jugoslavia è solo un esempio di come le varie lingue nazionali o forse i dialetti regionali di una stessa lingua abbiano favorito la formazione delle diverse cause dei nazionalismi. All’inizio degli anni ’90, nello spazio jugoslavo, si diffonde la convinzione che: “alcuni fabbricano delle parole per utilizzarle come coltelli, altri fabbricano dei coltelli per utilizzarli al posto di parole” (Uglešić 1996, 56). Dubravka Uglešić, la scrittrice croata alla quale l’opinione pubblica attribuì l’etichetta di ‘traditrice nazionale’, scrive che: “È iniziato tutto dalle parole e con parole tutto finirà. L’intervallo di tempo – segnato da migliaia di morti, di profughi e di cacciati, da case, vilaggi e città distrutte - un giorno sarà coperto da queste stesse parole, che formerano solo un’interpretazione di questa tragedia, intrepretazione storica, politologica, strategica o culturale, senza rendersi conto che esse hanno partecipato alla creazione di tutte queste disgrazie” (Uglešić 1996, 67). L’area della ex Jugoslavia è caratterizzata da una specie di nazionalismo linguistico, dovuta allo specifico contesto storico che ha determinato i rapporti tra diversi gruppi etnici. Il consolidamento delle identità nazionali è avvenuto, quindi, anche per mezzo della lingua, qualificata come un’importante caratteristica etnica e fattore di identità collettive. L’appartenenza linguistica e la relativa connessione con una determinata area geografica ha dato visibilità alle rivendicazioni territoriali; il linguaggio e l’accento diventarono, dunque, uno Ana Živkovi´c Il serbo-croato: da una lingua che univa a una lingua che divide tra i più rilevanti fattori di identificazione, in nome del quale si deve essere disposti a morire e a uccidere. Božidar Jakšić, in uno dei suoi studi, Na ziona lismo e lingua : un’esperienza ba lca nica , cerca di analizzare la correlazione tra la disintegrazione del Paese e quella della lingua unificante serbo-croata o croato-serba. Egli afferma che l’incrementata divulgazione delle differenze linguistiche, talvolta portate all’esagerazione, è stata una delle strategie prestabilite per la dissoluzione dello Stato comune. A differenza dei numerosi Paesi europei, dove la lingua ha rappresentato la base della costituzione della nazione quale comunità politica, nei Balcani, popolati da una mescolanza confusa e disordinata di serbi, croati e bošnjaki, è stata l’appartenenza alle diverse religioni e confessioni che ha determinato la suddivisione nazionale. In un secondo scritto, Jakšić analizza il processo di transizione dal totalitarismo jugoslavo titoista verso i totalitarismi sciovinisti degli Stati formatisi dopo la dissoluzione (La stra da della Jugosla via : da l tota lita rismo titoista verso il tota lita rismo sciovinista ), dove la lotta delle diverse etnie per ottenere una lingua nazionale particolare ha avuto un significato molto accentuato, in quanto ha dato l’opportunità ai numerosi linguisti, e non solo, di emergere, lasciando isolati quelli che, pur rischiando di essere impopolari, come Dubravko Škiljan di Zagabria, Ranko Bugarski e Ljubiša Rajić di Belgrado, sono riusciti a resistere all’ondata del nazionalismo linguistico. La lingua, il mezzo più importante per relazionarsi con gli altri, era diventata, come ben notato da Rajić, uno strumento di identificazione nazionale, trasformandosi progressivemante in un simbolo della nazione, in un limite di divisione. La lingua, trasformata in un linguaggio di guerra, serviva alla preparazione del conflitto e alla propaganda bellica e il tessuto linguistico unificante della lingua serbo-croata o croato-serba veniva sistematicamente disintegrato. Con un decreto del governo Tuđman, si iniziò con l’assoluta purificazione della lingua croata, attraverso la rimozione di tutti i termini stranieri. “La continua invenzione delle parole che non esistevano o non venivano più usate da decenni nel croato corrente prima del 1991, e dunque il continuo ricorrere a locuzioni che distinguessero il croato dal serbo e venissero trasmesse al popolo tramite la televisione e la stampa, è indubbiamente il particolare più marcante della politica culturale della presidenza di Franjo Tuđman, presidente della Croazia dalle libere elezioni del 1990” (Bogdanić 2003, 233-234). La Croazia ha accentuato le specificità del croato, ripulendolo da serbismi e influenze turche, presenti soprattutto in Bosnia, ma diffuse anche altrove; altrettanto ha fatto la Serbia, puntando ad una lingua simbolo di ‘compattezza nazionale’. Non di meno hanno fatto i bosniaco-musulmani, che parlano oramai di una ‘lingua bosniaca’ a sé stante. In Croazia fu rivitalizzato anche il lessico militare, appartenente al periodo del NDH – Nezavisna Država Hrvatska Stato indipendente di Croazia (1941-1945); tuttavia, ad un certo punto, qualcuno si accorse di essersi allontanati troppo dal fondamento organico della lingua. A parte questo, se la purificazione fosse stata portata agli estremi, i linguisti croati concordavano che questo avrebbe comportato il rischio di cadere nella finzione; ma se bisogna ‘pulire’ un territorio o una popolazione dagli elementi estranei, la prima a dover essere liberata dai termini del nemico, dalle parole straniere, è proprio la lingua. La storia della civiltà conferma che il purismo, non solo nel settore linguistico, è di regola collegato a ideologie e movimenti retrogradativi. Ciò nonostante la lingua croata ufficiale fu inondata da termini arcaici, evitando i serbismi e internazionalismi, e soprattutto coniando dei termini mai utilizzati prima dal popolo. La maggior parte dei cittadini croati si rapportava con ironia e con un evidente disinteresse verso questa tendenza. L’esame per indovinare quale fra le parole fossero di origine serba e quali croata non sarebbe stato superato nemmeno da nazionalisti più audaci. Nell’aspirazione di ogni etnia di ottenere il proprio Stato e di parlare la propria lingua, che doveva a tutti i costi differenziarsi dalle altre, a distinguersi dalla lingua del nemico, le vittime più segnate diventarono i popoli, in nome dei quali questi tentativi furono compiuti. Vera Bojić in uno dei suoi studi, La lingua serba : la ba se della conserva zione di una na zione: Sosta nza spiritua le, argomenta che tutti gli antichi popoli culturali – tra cui rientrano sicuramente i serbi – si sono svilluppati dalle collettività legate da vincoli linguistici che, fungendo da potente tes- 89 n.18 / 2007 suto collegante, li hanno resi uniti e li hanno conservati durante il percorso storico, nonostante gli avvenimenti politici, le divisioni e i continui mutamenti dei confini. Quasi in tutti gli antichi popoli europei – tranne che nei serbi – esiste una forte coscienza riguardo alla propria appartenenza linguistica, che rappresentasse la base della nascita e della soppravvivenza della nazione e che quindi simboleggia un valore nazionale supremo. Vuk Stefanović Karadžić riteneva che ogni lingua rappresenta l’insieme di pensieri di un popolo, nonché la consapevolezza di sé stesso e del mondo circostante; perciò la lingua raffigura le vedute di un popolo sul mondo e dal modo di percepire il mondo, sia quello materiale sia quello spirituale, dipende anche quella che viene definita la mentalità, ossia le particolarità di un popolo rispetto a tutti gli altri popoli. L’uomo non può pensare senza la lingua e quindi il suo pensiero e il suo modo di esprimersi viene predefinito e guidato dalla lingua che usa. Molte persone, soprattutto gli interpreti e i traduttori, spesso hanno notato la non corrispondenza delle parole di due lingue e questo deriva dalla diversa percezione del mondo e dalla non corrispondenza dei concetti che queste parole definiscono. Tali dissomiglianze tra due lingue non sono casuali e costituiscono un aspetto importante dell’identità nazionale. La lingua materna, che Bojić definisce come patrimonio spirituale di un popolo, non è altro che il vincolo morale o sentimentale che ci lega ai nostri connazionali, indipendentemente da dove essi si trovino. Non è difficile comprendere che curare la propria lingua significa curare la propria identità e che questo obiettivo rientra, per questo, tra i compiti primari dello Stato e delle sue istituzioni. E così accade per tutti gli antichi popoli culturali; sfortunatamente i serbi non hanno seguito la stessa strada. Vera Bojić si chiede a questo punto: si tratta di noncuranza, ignoranza o intenzionalità? Siamo testimoni, non solo dell’indifferenza nei confronti della nostra lingua, ma anche di un’organizzata azione di offesa altrui molto furba contro quasi tutti i nostri valori nazionali. Bisogna chiedersi perché il popolo serbo non ha sviluppato la consapevolezza linguistica, quale sostanza di conservazione dell’identità e della sopravvivenza? Il motivo è che la Serbia rimane ancora una ‘Jugoslavia in piccolo’, con molte minoranze alloglotte, 90 tradizionalmente molto aperta verso le altre lingue ma contemporaneamente piuttosto indifferente verso la propria. Lo studio della grammatica della lingua materna solo nelle scuole elementari, il linguaggio caotico utilizzato dai media e la mancanza di un pratico dizionario monolingue della lingua nazionale per adesso non permettono di intravvedere una soluzione alla questione linguistica serba (“La lingua serba : la ba se della conserva zione di una na zione: Sosta nza spiritua le”). È ormai ben noto, e nessuna persona seria potrebbe assumere una posizione contrastante, che, alla metà del XIX secolo, il popolo croato accettò la lingua serba, denominandola serbo o croato, restando fedele alla forma riformata e grammaticalmente elaborata, che Vuk Karadžić preparò per il proprio popolo serbo. È meno conosciuto il fatto, perché non palese e forse occultato, che i linguisti più noti di quel periodo, Dobrovsky, Šafarik, Kopitar, Miklošić e in particolar modo Vuk Karadžić, partendo dal presupposto dell’unitarietà linguistica, quale fattore di unificazione degli antichi popoli europei, ritenessero serbi tutti coloro che appartenevano alla lingua ‘štokava’, mentre definivano croati coloro che utilizzavano la lingua ‘čakava’ o ‘kajkava’. Il noto slavista, Pavle Josif Šafarik, nei suoi studi sulla linguistica attestava che la lingua serba era parlata in Serbia, Montenegro, Bosnia ed Erzegovina, Slavonia e in Dalmazia: “Anche per costui, soltanto le provincie della Croazia, dove era utilizzato il dialetto ‘kajkavo’ erano indubbiamente croate. Tuttavia, esiste la tesi di Jernej Kopitar, il quale riteneva che i croati ‘kajkavi’ erano dei puri sloveni, mentre veri croati rimanevano solo i croati ‘čakavi’ delle aree costiere. Anch’egli definì tutti gli ‘štokavi’ quali membri del popolo serbo e affermò: l’area del dialetto serbo si estende dall’Istria, attraverso la Dalmazia, Krajina croata, Bosnia e Serbia fino alla Bulgaria e al territoro di Slavonia e Ungheria meridionale” (Kostić 1964, 7). Lazo Kostić (1897-1979), uno storico serbo, si è servito più volte, nel suo libro Il furto della lingua serba , di una serie di affermazioni degli autori del XVIIXVIII secolo, che segnano le linee di separazione geografica dei tre dialetti principali. Esse identificano la lingua croata esclusivamente con il dialetto ‘čakavo’, localizzandolo nella Dalmazia meridiona- Ana Živkovi´c Il serbo-croato: da una lingua che univa a una lingua che divide le e nelle zone croate a nord della Dalmazia. “Il dialetto ‘čakavo’ è lingua croata, mentre quello ‘štokavo’ lingua serba. Il dialetto ‘kajkavo’ rappresenta solo un dialetto della lingua slava come tale” (Kostić 1964, 15). Il dialetto ‘štokavo’ veniva utilizzato in Dalmazia settentrionale e in Bosnia e siccome durante il periodo della dominazione ottomana, l’odierna regione croata di Slavonija accolse un’ondata di ‘nuova’ popolazione, che arrivò dall’altra parte del fiume Sava e utilizzava lo ‘štokavo’, il dialetto ‘kajkavo’ risultava limitato alla parte nord-occidentale della Croazia. Tuttavia, “la lingua della Dalmazia e della Bosnia, escluse le città di Dubrovnik e Boka, fu successivamente, per motivi religiosi, denominata ‘croato’, in modo da distinguerla dalle lingue dell’Ortodossia orientale, i membri della quale sono chiamati serbi” (Kostić 1964, 10-11). Kostić riporta anche che gli elementi morfologici, sintattici e lessicali della Bosnia, della Slavonia e di Dubrovnik si distinguono in modo inequivocabile dal ‘čakavo’ e si identificano con la lingua serba. Kostić riporta anche gli scritti di Matija Petar Katančić, professore all’Università di Budim e prete cattolico, oltre che poeta e archeologo, il quale alla fine del XVIII secolo scrisse: “I montenegrini, i serbi e i bošnjaki parlano la stessa lingua dei dalmati, che si differenzia da quella usata dal resto dei croati” (Kostić 1964, 108). L’adozione della variante ‘štokava’ da una parte consistente del popolo croato, differenziandosi solo in un secondo momento in base all’identità religiosa, fu il primo passo nella realizzazione della loro programmata politica linguistica, quale mezzo di espansione nazionale e territoriale; questa lingua comune ‘serba o croata’ fu il modo più adatto per oscurare i confini etnici tra i due popoli e per congiungere alla Croazia quelle parti della popolazione serba che si convertirono al cattolicesimo. Lo sviluppo successivo della questione linguistica ha registrato un infinito numero di tentativi dalla parte croata di dividere la lingua serba di Vuk; prima introducendo le varianti croato-serbo e serbo-croato, successivamente quelle occidentaleijekava e orientale-ekava. Questa versione occidentale, che comprendeva, oltre la Croazia, Bosnia ed Erzegovina, Montenegro e Serbia occidentale, quindi una parte consistente del popolo serbo, fu equiparata alla variante croata e contrassegnata come territorio linguistico croato. Questo esempio mostra un drastico abuso della lingua per fini nazional-politici. L’espansione del territorio linguistico e nazionale croato, quale fine del programma filologico croato, fu dunque compiuto a danno del popolo serbo. Un simile abuso linguistico non è possibile registrare nel percorso storico di nessun altro popolo e di nessun’altra lingua. Ma cosa hanno fatto i linguisti serbi per evitare l’appropriazione in modo illecito e la ridefinizione della lingua serba? (Bojić V., La lingua serba : la ba se della conserva zione di una na zione: Sosta nza spiritua le). Nel mondo accademico serbo la denominazione ‘serbo-croato’ della lingua serba fu introdotta dopo la Seconda Guerra mondiale. I linguisti serbi di spicco, accettando la divisione della lingua serba nelle varianti sopra menzionate e accontentando sempre di più le richieste dei letterati croati, in parte per il loro compito, in parte per le convinzioni comuniste e internazionaliste, hanno contribuito alla realizzazione del programma linguistico croato. L’esempio più eclatante dell’azione antinazionale della linguistica serba ufficiale fu l’accettazione indiscussa della proclamazione della lingua bosniaca a Dayton. Infatti, gli Accordi di Dayton sono scritti in quattro diverse lingue: inglese, croato-ijekavo e con l’alfabeto latino, bosniaco-ijekavo e con l’alfabeto latino e serbo – limitato in questo caso alla sola variante ekava e al solo alfabeto cirillico. Invece di dichiarare apertamente la propria opposizione o disapprovazione e impedire agli imperialisti politici internazionali di appropriarsi della competenza di decidere la questione linguistica dei Balcani, i linguisti serbi rimasero in silenzio e accettarono, prima di tutti gli altri centri linguistici slavi, l’esistenza non solo della lingua croata ma anche di quella bosniaca. Da questa breve analisi, risulta evidente che le istituzioni accademiche e scientifiche serbe siano guidate da persone senza una coscienza nazionale. Per questo sono necessarie immediate trasformazioni nel settore accademico del nostro Paese. Tuttavia, la situazione odierna difficilmente potrebbe comportare dei cambiamenti positivi: in cima alla scala sociale si sono insediate persone che in base alle proprie sbagliate orientazioni prooccidentali agiscono sempre di più in modo da dannegiare gli interessi e l’identità del nostro popolo. Mentre i Paesi europei curano con dili- 91 n.18 / 2007 genza la propria cultura e lingua nazionale, in Serbia si agisce in modo opposto: l’alfabeto nazionale serbo, il cirillico, è quasi del tutto fuori uso, nonostante la contrarietà delle leggi; l’inondazione di espressioni inglesi e di traduzioni assurde è ormai un fatto comune sia nella quotidianità, sia nei mass media sia nei discorsi dei nostri politici. L’arena socio-linguistica serbo-croata Il fatto che distingue immediatamente il serbo e il croato è che il primo è scritto oltre che in alfabeto latino anche in cirillico; d’altra parte anche i croati nel corso del medioevo scrivevano in glagolitico, variante più complessa del cirillico antico. In realtà serbo e croato sono la stessa lingua orale trascritta in due alfabeti. “Se il serbo-croato sia una o due lingue è rimasta fino ad oggi una questione politica fra le più dibattute. L’ideale unitario dei popoli slavi del Sud, la Jugoslavia, poggia sul presupposto che la lingua dei serbi e dei croati sia una sola. Nella Dichiarazione sul linguaggio e sull’ortografia del 1954, più nota come Gli Accordi di Novi Sad, promossa dagli intellettuali e letterati sia serbi che croati, si afferma che la lingua popolare dei serbi, croati e montenegrini è un’unica lingua. Per tale motivo anche la lingua letteraria che si è sviluppata basandosi sul comune fondamento linguistico, intorno ai due centri maggiori, Belgrado e Zagabria, è un’unica lingua con due diverse pronunce, la ekava e la ijekava. Per conseguenza, il compito primario di ogni nazionalismo separatista era ed è provare che si tratta di due lingue diversissime” (Bogdanić 2003, 233-234). Se in Croazia troviamo un’ampia e dettagliata argomentazione demagogica, anche di data alquanto recente, che spesso riprende lo stile del tradizionale ‘alibismo’ croato, dall’altra parte, in Serbia, a causa del liberalismo, noncuranza, insofferenza e fastidio verso ciò che accade al di là del confine, la questione della linguistica dei Balcani rimane circoscritta entro ambiti accademici ristretti e spesso non noti al pubblico più largo. È necessaria una grande precisione nell’esprimersi, perché coloro che desiderano discreditare qualsiasi sforzo accademico sincero, che non coincide con le loro tesi, hanno già da tempo elaborato degli schemi per contrastare quegli argomenti dell’arena socio-linguistica serbo-croata con cui si dimostra la veridi- 92 cità e l’attendibilità della teoria, secondo la quale il serbo e il croato siano un’unica lingua – la lingua serba. Gli avvenimenti dell’arena socio-linguistica serbocroata possono essere seguiti a partire dal momento della comparsa dei croati come nazione; tuttavia, si potrebbe facilmente constatare che la formazione di questa nazione si protrae tuttora grazie all’assimilazione, spesso dei serbi, e che tale programma, portato avanti dal complesso degli appartenenti all’ordine sacerdotale croato, raggiunse all’inizio del XX secolo in modo definitivo una condizione equilibrata e duratura. Infatti, il XIX secolo - il periodo della liberazione dei Balcani occidentali dall’Islam dell’Impero turco, fu visto dal Vaticano come momento opportuno per l’unificazione dei cristiani serbo-ortodossi neo-liberati con la Chiesa romano-cattolica. Nello stesso tempo, Vienna si prefisse lo stesso fine – includere la Serbia liberata dall’oppressione ottomana nei territori austriaci; il culmine di queste tendenze austriache si sarebbe verificato con la Prima Guerra mondiale, che iniziò con l’annuncio di guerra di Austria alla Serbia. Per questo, sia da parte del Vaticano, attraverso Strossmayer e la sua idea di ‘jugoslavismo’ con il centro culturale di Zagabria, sia da parte di Vienna, attraverso le idee di Jernej Kopitar e di Vuk Karadžić, fu sostenuto il modello di un unico popolo – ‘serbo-croati’; “stesso popolo che deve avere la stessa lingua” (“Accordo di Vienna 1850”). Bisogna mettere in evidenza che tra i croati provinciali–‘kajkavi’, esisteva un reale desiderio riguardante gli ideali romantici di un unico Paese slavo (Illiria o Jugoslavia); nell’ambito di quest’idea ebbe origine il cosiddetto movimento illirico, noto principalmente per i suoi esperti di linguistica, che furono talmente dominanti, da far coincidere i due termini illiristi e linguisti. In base a questo può essere percepito anche che il fine preminente degli illiristi fu quello dell’unificazione linguistica con la Serbia, ossia l’adozione della lingua serba come lingua ufficiale nella provincia austriaca di Croazia, che fino a quel momento utilizzava la lingua tedesca o latina (“In nome della difesa della lingua serba”). La discussione sul problema linguistico dei Balcani di Lazo Kostić, intitolata Il furto della lingua serba e pubblicata nel 1964, a Baden in Svizzera, inizia con la crudele constatazione che i croati siano l’u- Ana Živkovi´c Il serbo-croato: da una lingua che univa a una lingua che divide nica nazione nel mondo a non avere una propria lingua. A tal proposito Kostić richiama l’attenzione sugli studi etnografici, L’etnogra fia della Turchia europea , dove si riporta che non esistono due esperti di slavistica le cui opinioni combacino riguardo alla questione della composizione del popolo croato, della sua lingua e della sua distribuzione geografica. “Prima del rinascimento illirico, lo ‘štokavo’ serbo non era parlato da nessun croato, ma solo dai serbi cattolici. Coloro che si erano posti come guide dell’illirismo, non volevano definire, per motivi politici, la lingua come serba, ma nello stesso tempo sembrò inappropriato anche di presentarla come croata; quindi, adottarono un assurdo metodo di mascheramento, rappresentando se stessi come membri di un popolo balcanico scompraso – gli illiri. A loro sembrava opportuno includere nel fenomeno dell’Illirismo sia croati che serbi, con la pretesa di dividere in modo definitivo i serbi cattolici dalla madrepatria” (Kostić 1964, 45). “Fino al periodo del rinascimento illirico, i croati non possedevano alcuna lingua letteraria propria e non era molto chiaro cosa fosse realmente la ‘lingua croata’. Nessun autore slavo giudicava lo ‘štokavo’ come dialetto croato, ma esclusivamente serbo. I documenti storici testimoniano che, fino al XVII secolo, tutti gli ‘štokavi’ si definivano serbi, mentre unicamente i ‘čakavi’ si distinguevano come croati. Solo nel XVIII secolo, gli autori cattolici decisero di tentare di offuscare la sostanza della lingua serba denominandola ‘lingua illirica o slava’. Dall’altra parte, nel XIX secolo, quando il rinascimento illirico divenne un sentimento diffuso, un numero notevole di slavisti europei cominciò a considerare la lingua croata quale uno tra i dialetti della lingua serba.Questa spiegazione sembra quasi del tutto coincidere con la spiegazione breve e precisa che si trova alla voce ‘lingua serba’ nel Vocabolario italiano di Nicolo Tommaseo: ‘la lingua serba è uno dei quattro idiomi, non dialetti dei popoli slavi... si parla in Bosnia ed Erzegovina, in Dalmazia di Zagorje e in Serbia. Il dialetto croato, come anche la loro razza, non sono altro che una degenerazione’” (Kostić 1964, 27). Parlando di Illirismo, è utile rivedere la storia della popolazione croata e ricordare che “la situazione linguistica dal 1420 fino a 1797 fu in Dalmazia completamente trascurata e abbandona- ta a sé stessa”; non esisteva neanche un istituto scolastico che insegnasse nella lingua nazionale. ‘Si volete Dalmati fedeli tenete li ignoranti’, dicevano i conquistatori. Tuttavia, durante l’era di Napoleone, in soli 8 anni, nell’intera Dalmazia furono disseminate più di 50 scuole superiori, ma tale progresso fu successivamente interotto dall’arrivo in Dalmazia delle autorità austriache. Alcune fonti rivelano che ancora nel 1870, la regione registrava intorno all’80% di analfabeti (Frano Ivanišević, Na rodni Preporod u Da lma ciji , tr.it Il rina scimento na ziona le nella Da lma zia , Split 1932). Nel 1825, furono gli ungheresi ad imporre al popolo croato la lingua magiara quale lingua amministrativa ufficiale, costringendoli nel 1835 ad accettarla anche nelle scuole, con lo scopo ben preciso di trasformare la Croazia in una provincia ungherese, mentre gli stessi croati pensavano solo alla preservazione dell’alfabeto latino, senza preoccuparsi di salvaguardare la loro lingua popolare. Di fronte al pericolo di una totale estinzione, cominciò a svilupparsi il rinascimento croato (Dučić 2001, 3-4). “Ljudevit Gaj cominciò a dispiacersi per la situazione miserevole in cui si trovava il linguaggio popolare dei villaggi croati. Scaturì in lui l’idea della necessità di adottare la lingua letteraria serba, in quanto una comune lingua parlata avrebbe riunito le parti della Croazia, perché se nelle isole si usava il dialetto čakavo e in Zagorje quello kajkavo, il dialetto dei serbi - štokavo fu già in uso sia nella Dalmazia sia nella Slavonija, entrambe abitate dalla popolazione serba per secoli. Siccome l’intera letteratura della Dalmazia fu scritta nel dialetto štokavo serbo, l’adozione di quest’ultimo avrebbe significato l’annessione della Dalmazia a Croazia, eludendo la sua unione con lo Stato di Serbia”. (Dučić 2001, 3). “Né l’illirismo di Ljudevit Gaj né lo jugoslavismo rappresentavano un sentimento scaturito da una solidarietà nazionale o da un movimento irredentistico croato simile a quello serbo e montenegrino in vista di un futuro Stato da condividere sulle rovine dell’Impero asburgico. Si trattava, al contrario, della politica di Vienna e di Vaticano, camuffata da idealismo romantico e nazionale; gli illiri hanno preso la lingua serba, prima per poter appropriarsi della letteratura di Dubrovnik, interamente scritta nello tosavo, e successivamente per impadronirsi delle canzoni popolari della Bosnia, anch’esse in 93 n.18 / 2007 štokavo, e pubblicarle a Zagabria senza alcun pudore quale poesia popolare croata” (Dučić 2001, 9). Dallo studio politologico di Jovan Dučić, intitolato L’ideologia jugosla va : la verità sullo ‘jugosla vismo’, si intuisce che i croati non hanno mai attribuito grande importanza allo ‘slavismo’ né hanno mai espresso fiducia nei confronti dello ‘jugoslavismo’; “essi hanno identificato il primo con l’Ortodossia russa e il secondo con ‘balcanismo e orientalismo’, considerando entrambi incompatibili con l’idea croata della cultura, che secondo loro è l’unica vera cultura, più affine a quella occidentale e di maggioranza cattolica. Nello stesso modo né lo slavismo né lo jugoslavismo potevano essere tollerati dal popolo croato che nutriva il desiderio di rimanere su un ‘continente morale’ separato dalla cultura orientale legata alla Chiesa orientale” (Dučić 2001, 1). Per costruire lo Stato jugoslavo, era indispensabile creare un popolo jugoslavo e dunque fabbricare una lingua jugoslava, ma i croati rimanevano dal punto di vista nazionale sempre molto esclusivisti. Se prendiamo in considerazione i secolari reciprocisentimenti di avversione, la differenza di religione e la diversa mentalità culturale, allora si capisce che un tale amalgamarsi era impossibile in vista di un’unione statale (Dučić 2001, 13). Tra le due guerre mondiali, il politico croato, Milan Banić scrisse: “i serbi penetrando nelle aree più occidentali della Croazia e arrecando alla Croazia del sangue fresco, apportarono alla mentalità croata un po’ della durezza e dell’attivismo della serbitù e liberarono la loro anima nazionale attraverso l’introduzione della lingua parlata e della canzone popolare serba” (Kostić 1964, 18). Guidati dal sentimento di ‘unitarietà jugoslava’, i più importanti intellettuali e scrittori croati, tra i quali l’illustre Miroslav Krleža, introdussero nel linguaggio vari ‘serbismi’, simboleggiando con ciò un più forte legame tra i due popoli; esperienza che però si limitò solo alla fase iniziale della costituzione del nuovo Stato, perchè ben presto le autorità croate, attente alla tutela della propria identità ed autonomia, cominciarono a far notare il proprio scontento e gli intellettuali, influenzati largamente dalla situazione politica, riadottarono, in segno di protesta, la variante più tipicamente occidentale del croato-serbo. 94 All’inizio degli anni ’60, soprattutto nei circoli letterari croati, si iniziò con l’aperta e dichiarata negazione dell’esistenza delle due varianti. Con una sempre maggiore convinzione si difendeva la tesi di due distinte lingue letterarie. Così, a fianco delle dichiarazioni ufficiali di ‘una lingua, con due varianti’, sorgevano dei tentativi di riaffermare le caratteristiche specifiche del croato come lingua diversa dal serbo. In uno dei suoi libri, Božo Ćorić elencò alcuni principi che i linguisti croati utilizzarono per dimostrare la distinzione tra le due lingue: 1) dissoluzione di una coppia lessicale di sinonimi della lingua serba, attribuendo la prima espressione allo standard linguistico croato; 2) dissoluzione di una coppia lessicale della lingua serba, composta dall’espressione attuale neutrale e da una arcaica, attribuendo la prima alla lingua croata; 3) dissoluzione di una coppia lessicale, composta da una parola domestica e da una straniera, attribuendo la prima alla lingua croata; 4) attribuzione della forma linguistica standard di una parola al croato, mentre la sua variante locale o colloquiale veniva attribuita al serbo. Lo stesso Krleža, già nel 1967, propose di far riconoscere dalla Costituzione l’esistenza della lingua specificamente croata, intesa come a sé stante. Dopo la Dichia ra zione sulla denomina zione e la posizione della lingua lettera ria croa ta , sottoscritta dallo stesso Krleža, nel 1969, lo stesso affermava, nel tentativo di ricondurre alla calma gli animi che il croato e il serbo sono un’unica lingua, che i croati chiamano croata, mentre i serbi la chiamano serba. Erano passati molti anni da quel 1924, quando Krleža dichiarava con una sottile ironia, sul giornale Književna republika , che l’unica differenza tra il serbo e il croato era l’accento, che “un orecchio non serbo-croato difficilmente può distinguere” (Krleža 1924, 4). Uno dei discepoli di Krleža, Predrag Matvejević, come d’altronde tanti altri intellettuali croati, mise in evidenza che le questioni linguistiche sono una materia politica che richiede tatto e prudenza e che nelle società multinazionali, quale era quella jugoslava, “la tolleranza linguistica dipendeva dalla natura dei rapporti interpersonali; più quest’ultimi miglioravano, meno venivano enfatizzate le differenze (Matvejević 1984, 109). Božidar Jakšić seguì la logica opposta: ogniqualvol- Ana Živkovi´c Il serbo-croato: da una lingua che univa a una lingua che divide ta i rapporti peggioravano le differenze linguistiche venivano accentuate fino all’asurdità. Nel 1986, all’interno dell’Accademia di Serbia delle Scienze e delle Arti (SANU), si è svolto il dibattito riguardo alla corruzione della lingua serba da parte di elementi non serbi e riguardo alle precise politiche aggressive intraprese contro di essa. Il Memora ndum, documento diffuso in via ufficiosa dall’Accademia, denuncia che “in Croazia il patrimonio culturale serbo è stato oggetto di alienazione, usurpazione, noncuranza e disprezzo; l’uso della lingua soppresso e l’alfabeto cirillico sempre meno valorizzato da sofisticate ed efficaci politiche di assimilazione che minano i vincoli culturali tra i serbo-croati e il resto dei serbi. Nessun’altra nazione jugoslava è stata privata in modo così brutale della sua integrità culturale e spirituale” (Memorandum SANU 1986). Contemporaneamente, anche gli altri popoli della ex Jugoslavia esprimevano il risentimento per la contaminazione della propria lingua. Una pubblicazione del HDZ – Hrvatska Demokratska Zajednica: ‘Unione Democratica Croata’, partito politico fondato nel 1989 da alcuni nazionalisti dissidenti, guidati dal primo Presidente della Croazia indipendente, Franjo Tuđman, riportò, infatti, una lista di parole accompagnate da un’analisi, in seguito alla quale questi termini furono definiti stranieri (in quanto serbi) e ne venne allegato un equivalente croato. Avvertendo che stava per verificarsi uno di quei momenti storici, in cui a causa della questione linguistica viene a spezzarsi il destino di un intero popolo, nel 1994 Pavle Ivić pubblicò un articolo intitolato Vuk ha commesso un gra ve errore. In quell’occasione egli scrisse: “la comune lingua letteraria – ijekava - ha favorevolmente contribuito all’unificazione dei cattolici nella nazione croata; ha migliorato, inoltre, le possibilità politiche dei croati nelle aree in cui i loro interessi venivano a scontrarsi con quelli serbi: in Bosnia e a Dubrovnik. A parte questo, l’adozione di una lingua letteraria familiare a quei serbi che vivevano in Croazia, ha allontanato il pericolo per cui quest’ultimi potessero costituire, in base alla loro specificità linguistica, una qualsiasi autonomia culturale. In tal modo, si formò un’insolita asimmetria, purtroppo sfavorevole per il popolo serbo: la lingua letteraria ijekava dei croati, musulmani e della parte occidentale del popolo serbo e la lingua letteraria ekava nella parte rimanente dei serbi. Questo offriva ai nazionalisti croati l’opportunità di affermare che lo ‘ijekavo’ sia croato” (Večernje Novosti11/4). Per le tesi croate, basta l’affermazione di Sandra Šare che, nel suo libro Come scrivere per un giorna le, puntualizza: “Lo ‘ijekavo’ non è l’indicatore di un’identità nazionale, perché comune a tutte le nazioni, che fino alla guerra jugoslava utilizzavano come lingua standard il serbo-croato: risulta essere, dunque anche un’autentico dialetto standard serbo” (Šare 2004, 225). Miloš Kovačević, professore universitario e noto linguista serbo, ha cercato di seguire la questione della lingua serbo-croata, analizzando quali siano le conseguenze dell’attribuzione di una denominazione problematica quale il ‘serbo-croato’. Egli ha pubblicato il libro La lingua serba e le lingue serbe, occupandosi in modo completo della problematica dell’adozione di un determinato nome della lingua letteraria serba e della ridefinizione di tale nome nei Paesi nati dopo la dissoluzione dello Stato di Jugoslavia. Kovačević afferma che il territorio linguistico serbo si divide in una serie di lingue parlate popolar-nazionali più o meno differenti, ma tutte appartenenti al dialetto ‘štokavo’, originariamente serbo, dimostrando che tutti i serbi sono ‘štokavi’, anche in base alla lingua non letteraria, e che non esistono serbi ‘čakavi’ o ‘kajkavi’. Dopo l’avvio della cattolicizzazione e dell’islamizzazione, una parte della popolazione ‘štokava’ è rimasta priva del senso di appartenenza al popolo serbo e alla relativa collettività linguistica serba. Costoro si sono congiunti all’ethnicum croato. Un’altra parte dei serbi, invece, si è allontanata dall’etnicità serba per avvicinarsi a quella bosnjaka. Per quanto riguarda la denominazione della lingua, Kovačević spiega che la lingua letteraria serba odierna ha due sottovarianti, quella ‘zagabrese’ e quella ‘sarajevica’, che, a causa di una serie di ragioni socio-linguistiche, modificarono in modo ingiustificato la struttura linguistica di base, adottando le denominazioni croata e bosniaca. Egli ritiene che nemmeno la denominazione ‘serbocroato’, pur essendo stata a lungo quella ufficiale, può essere scientificamente giustificabile, in quanto avrebbe dovuto comprendere una mescolanza dei linguaggi, delle espressioni e degli accenti ‘štokavi’ e ‘kajkavo-čakavi’, ma siccome essa ha sem- 95 n.18 / 2007 pre avuto come base esclusivamente il dialetto ‘štokavo’ non fu nient’altro che la pura lingua serba (La lingua serba e le lingue serbe). I testi di Branislav Brborić, nei libri Sulla rovina della lingua e Da una lingua a d un’a ltra lingua , risultano paradigmatici nel senso che dimostrano la determinatezza di una nazione, quella croata, di uscire, a qualsiasi prezzo, da uno Stato ‘non desiderato’ e la capacità difensiva dell’altra nazione, quella serba, la cui posizione, sia interna sia internazionale, risultava da ogni punto di vista molto difficoltosa. Nel mondo slavo non fu un caso che due popoli usassero un’unica lingua, la stessa lingua letteraria e la stessa lingua standard. La decisione di creare una sola lingua per due popoli, in quanto del terzo e del quarto popolo con la stessa lingua ai tempi non si poteva ancora parlare, non è stata presa dai serbi, ma dai croati, che hanno accettato il modello fondato da Vuk. Un ruolo importante in questa decisione ha avuto l’anno 1878 e il congresso di Berlino; fu l’anno in cui Bosnia ed Erzegovina entrarono a far parte dell’Impero austro-ungarico e quando diventò evidente che il modello di Vuk poteva soddisfare la tendenza croata di espandere la propria influenza e coscienza nazionale nella Bosnia, estendendo le ambizioni degli strateghi politici croati di fare della Croazia un Paese guida nella riorganizzazione della futura Monarchia; 40 anni dopo, quando l’Impero austro-ungarico fu distrutto e quando fu creato il primo Stato comune degli slavi del sud, prima con la denominazione della SHS – Regno dei serbi, croati e sloveni -, sull’ordine del giorno della politica nazionale croata fu subito messa la questione della secessione da questo Stato, ossia la sua dissoluzione, con un evidente malcontento nei confronti dell’unità linguistico-letteraria serbocroata, che faceva del nuovo Stato una ‘comunità comunicativa’. I politici croati erano convinti che nel caso della dissoluzione dello Stato jugoslavo sarebbero stati seguiti da tutte quelle aree che nel frattempo erano state conquistate grazie all’azione della Chiesa cattolica romana e guidate con saggezza dalla politica linguistica croata. Assieme alla separazione politica doveva verificarsi anche la disintegrazione linguistica e la lotta contro la problematica unità linguistica fu una delle forme migliori di lotta contro l’unità politica. Le stesse 96 tendenze politiche rimasero, in modo latente o pubblico, anche dopo il 1945, nella nuova Jugoslavia, rinnovata sotto la guida del partito comunista, e a partire dal 1939, governata dal comunista croato Josip Broz Tito (Da una lingua a d un’a ltra lingua ). “Colui che si difende, accusato per quello che ha fatto o meno, si ritrova comunque in una posizione peggiore di colui che attacca. E colui che nel 1967 – attraverso la lingua e la politica linguistica – ha dato un duro colpo alle basi dello Stato comune, ha avuto in realtà le spalle protette dai vertici dello Stato, come le ha avute nel rendere impossibile qualsiasi autodeterminazione culturale dei serbi in Croazia. Riferendosi a Tito, Brborić commenta: per ben 35 anni, ai vertici dello Stato si trovava la persona che poteva fare praticamente tutto. Egli aveva due capitali: una a Belgrado, l’altra nei Brioni, l’isola dell’Adriatico settentrionale. Sembra abbia preferito la seconda” (Sulla rovina della lingua ). Un momento importante nel processo del separatismo linguistico croato fu, secondo Brborić, la Dichia ra zione sulla denomina zione e posizione della lingua lettera ria croa ta dell’Associazione dei letterati della Croazia. Il principio della sovranità nazionale e della totale equiparazione dei diritti comprende anche il diritto di ciascuno dei popoli della ex Jugoslavia di conservare gli attributi della propria esistenza nazionale e di sviluppare in sommo grado, non solo la propria sfera economica, ma anche tutte le attività della sfera culturale. Tra questi attributi gioca un ruolo importante la denominazione della lingua nazionale di cui si serve il popolo croato, in quanto questo risulta essere un diritto inalienabile di ogni popolo, indipendentemente dal fatto che si tratti di una base linguistica che, nella sua variante speciale linguistica o anche nella sua totalità, appartiene ad un altro popolo, quello serbo. La Dichia ra zione fu naturalmente un documento eminentemente politico, malgrado nessun organo politico abbia mai deciso di sostenerla apertemente. Fu valutata come un’azione intenzionalmente nazionalistica, ma senza vedersi attribuita l’etichetta di sciovinistica. Che essa rappresentasse l’annuncio di un’impostazione diversa dello Stato e non soltanto una chiarificazione dei rapporti politici, sarebbe stato dimostrato dai successivi emendamenti su tutte le carte costituzionali dello Stato federale jugoslavo e dalla Ana Živkovi´c Il serbo-croato: da una lingua che univa a una lingua che divide nascita del movimento nazionalistico di massa, denominato MASPOKOM; nel 1972 la Dichia ra zione fu inserita nella Costituzione: la lingua letteraria croata diventò l’idioma ufficiale della Croazia. La reazione più significativa a questa Dichia ra zione si trova nel documento intitolato ‘Proposte per pensare’, dietro il quale stavano i pensieri di una quarantina di scrittori serbi, membri dell’Associazione dei letterati di Serbia; esso però non riuscì a produrre alcun effetto nella sfera della politica linguistica serba, l’importanza della quale rimase in Serbia sottovalutata, forse anche perché si contava troppo sull’eternità della Jugoslavia multinazionale, nella quale i serbi erano, a dire il vero, sparsi e male rappresentati – soprattutto quelli in Croazia furono una vittima costante della politica linguistica croata che ammetteva la familiarità della loro lingua con quella serba, ma ciò nonostante non poteva né chiamarsi né ritenersi serbo. Per complicare ulteriormente la scena linguistica, etnografica e politica del sud slavo del XX secolo, l’etnologia di impronta comunista ha ritenuto doveroso riconoscere i montenegrini quale il terzo, e nella sua fase più matura anche i musulmani, quale il quarto popolo costitutivo della SFRJ – Stato Federale Socialista jugoslavo, creando una nuova fonte di problematiche linguistiche. In Bosnia ed Erzegovina, prima della dissoluzione dello Stato unitario, la lingua utilizzata fu indistintamente denominata come serbo-croato e fu previsto l’utilizzo di entrambi gli alfabeti cirillico e latino. Negli anni successivi al conflitto, si sono andate definendo tre differenti varianti del linguaggio, portando con sé una netta divisione tra coloro che rimasero fedeli all’alfabeto latino (croato-bosnjaki e bošnjaki) e coloro che utilizzano l’alfabeto cirillico (serbo-bošnjaki). Scaturisce la tendenza di radicare l’odierna identità dei bošnjak nelle tradizioni dell’Oriente e dell’Islam. Essa si esprime in diverse strategie, come, per esempio, quella della reintroduzione di espressioni turche e arabe non solo nel linguaggio quotidiano colloquiale, parlato tradizionalmente da una parte della popolazione, ma anche in quello ufficiale. In una situazione alquanto specifica si trovarono i bošnjaki-musulmani. Hanno desiderato confermare la loro identità nazionale anche con la denominazione specifica della loro lingua – bosniaco. Senahid Halilović, il linguista musulmano, scrive: “Se i serbi e i croati hanno rinunciato alla denominazione unica della loro lingua, risultava arduo aspettarsi che i musulmani mantenessero una denominazione in cui non era presente il nome della loro etnia”. Il letterato Alija Isaković evidenzia che il bosniaco si differenzia dal serbo e dal croato nella stessa misura in cui gli ultimi due si differenziano tra di loro. Il problema sorge dal fatto che il serbo e il croato siano dal punto di vista linguistico un’unica lingua; tale problema sarà risolto con l’esagerato uso dei ‘turchismi’ e degli arcaismi. Le differenze devono essere messe in evidenza. Così, i cittadini di uno Stato, Bosnia ed Erzegovina, sono divisi in due entità politiche, Federazione bosniaco-croata e Repubblica Srpska, ma costretti a parlare tre lingue, anche se parlano tutti la stessa lingua, utilizzata in Bosnia anche prima del conflitto. Queste tre lingue di nuova formazione comunque confluiscono nella propaganda in una sola lingua – quella dell’odio. Ranko Bugarski, con i libri Lingua da lla pa ce a lla guerra del 1994 e Lingua nella crisi socia le del 1997, in cui ha spesso dedicato attenzione agli aspetti politici, non ha mai lasciato da parte la linguistica, anche se la maggior parte dei suoi lavori degli ultimi anni sono dedicati al ruolo che la lingua ha svolto nella dissoluzione della Jugoslavia e nell’ascesa del nazionalismo, nei conflitti intranazionali e sociali. Bugarski cerca di dimostrare che la lingua non sia la fondamentale base dell’etnicità. Egli non supporta la comune convinzione che esista la relazione ‘una lingua–un’etnia–una nazione?, perché è convinto che tale formulazione idealizzata e schematica esista molto raramente nelle realtà statali moderne. Sul tentativo di separatismo linguistico montenegrino dalla lingua serba, Bugarski dice che, per la sua realizzazione, manchi del tutto una base linguistica, perché gli ‘ingegneri’ della potenziale lingua montenegrina cercano di basarsi sugli arcaismi e sui localismi, formando una lingua che non sarebbe altro che la lingua serba con specificità dialettali montenegrine. La questione della lingua montenegrina rappresenta solo il culmine del processo. Tutte le argomentazioni a favore di una ‘lingua 97 n.18 / 2007 montenegrina’ sono esclusivamente politiche e prive di fondamento scientifico. Si tratta più di una serie di anomalie linguistiche che non di vere e proprie differenze. Significherebbe quasi che qualsiasi regione della Serbia o della Croazia potrebbe reclamare l’esistenza di una propria lingua. È ovvio che i dialetti locali differiscono dalla lingua letteraria, ma questo non risulta sufficiente per la proclamazione di una nuova lingua, nemmeno tenendo conto della componente nazionale di un tale processo di costruzione. La lingua è una delle componenti della nazionalità, ma non sicuramente necessaria e ancor meno unica. I serbi, i croati, i musulmani e i montenegrini hanno sicuramente una serie di altre componenti importanti con cui potranno distinguersi – cultura, territorio, storia comune (La questione linguistica ). Si delinenano, dunque, due tesi intrecciate, tra cui la prima stabilisce che: “La differenziazione qualitativa segue l’appartenenza alla confessione religiosa, simbolizzata anche dai diversi alfabeti e solo parzialmente dalle cornici statali. Il serbo-croato è geneticamente e strutturalmente un’unica lingua e una parte di coloro che la utilizzano la valorizzano come tale, mentre il resto dei parlanti del serbocroato lo vivono psicologicamente come due o più lingue, con forti correlazioni etniche, religiose e culturali” (Bugarski 2005, 13). Si tratta di un’unica lingua, che ha assunto diverse denominazioni a causa dell’esistenza nei Balcani di tre confessioni religiose: serbi–ortodossi, croati–cattolici e bosniacchi–musulmani. L’insieme di cittadini dei tre relativi Stati parlano la stessa lingua, il cui fondamento organico è rappresentato dalla lingua dei serbi dell’Erzegovina orientale, che fu adottata quale lingua letteraria da Vuk Stefanović Karadžić. Quest’ultima risulta essere anche la lingua, attraverso la quale si è realizzata l’assimilazione della città di Dubrovnik latina - l’Erzegovina orientale è la regione retrostante a Dubrovnik, sulla quale per secoli gravitò economicamente, e nella quale fu scritta la letteratura rinascimentale di questa città. Attraverso gli abitanti di Dubrovnik, dichiaratisi cattolici, i croati all’inizio del XX secolo, cominciano a pretendere di chiamare questa lingua il croato. La suddivisione religiosa: i croati cattolici, i serbi ortodossi, e la diversa storia politica: il nord austriaco, il sud prima greco e poi turco, la costa romana e veneziana, oltre ai particolarismi locali, 98 ha determinato la formazione di due diverse tradizioni di lingua scritta. Le differenze più significative rimasero nel lessico: latinismi e germanismi nel croato; grecismi e turchismi nel serbo. Meno notevoli sono le differenze fonetiche e morfologiche: il serbo documenta maggiori balcanismi, costruzioni linguistiche simili a quelle che si ritrovano nelle diverse lingue dell’area e documentano un comune substrato balcanico. I serbi, collocati nei territori più orientali, subirono gli influssi di Costantinopoli e dell’attuale Bulgaria, e adottarono infine l’alfabeto cirillico. I croati, insediati a Ovest, subirono invece l’influsso latino, adottandone vari riferimenti culturali e l’alfabeto con alcune varianti fonetiche. “Le differenze tra il serbo e il croato non sono maggiori di quelle tra dialetti di una medesima lingua. Si tratta di diversità dovute al differente sviluppo storico che la lingua ha avuto in differenti regioni. La lingua serba è piena di parole di origine turca. Il modo di parlare dei serbi, croati e musulmani in Bosnia, specialmente in quelle regioni dove le tre popolazioni vivevano insieme fino a ieri, è uguale. È dunque impossibile distinguerli in base al linguaggio. L’unico modo per determinare se si tratta di serbi, croati o musulmani è classificarli in base alla religione” (Bogdanić 2003, 232). La seconda tesi è quella più tipicamente linguistica: ogni lingua ha un fondamento organico, formato da un substrato etnico, dal cui dialetto si forma gradualmente una lingua standard. Qual è il substrato etnico che ha dato origine al dialetto da cui si sono formate la lingua standard serba, la lingua standard croata e le altre lingue standard dei Balcani? È il dialetto serbo ‘štokavo’ dell’Erzegovina orientale. Dimostrare che il serbo e il croato siano la stessa lingua è allo stesso modo facile e difficile. È difficile perché i linguisti croati, come Brozović, Babić, Grčević, Nataša Bašić e Radoslav Katičić hanno ideato una dottrina linguistica propagandistico-demagogica, che si basa su un’insieme di elementi stilistici artficiosi, creati al fine di dimostrare la differenziazione del fondamento organico della lingua croata da quello della lingua serba. L’analisi più esaustiva della situazione linguistica post-conflittuale della ex Jugoslavia è data dalla dispensa di studi Lingua e democratizzazione, che contiene i testi delle ricerche dei linguisti prove- Ana Živkovi´c Il serbo-croato: da una lingua che univa a una lingua che divide nienti dai territori dell’intero spazio linguistico serbo-croato, presentate nel 2001, in occasione della Conferenza internazionale tenutasi a Neum, in Bosnia ed Erzegovina, e organizzata dall’Istituto di Lingua di Sarajevo e l’Istituto di studi est-europei e orientali di Oslo (Norvegia). Nella parte introduttiva del fascicolo gli organizzatori della Conferenza hanno constatato con soddisfazione che “i fini della stessa furono tutti realizzati”, mettendo in evidenza come sia “di grande importanza il ristabilirsi dei rapporti interrotti tra i linguisti e le istituzioni linguistiche della ex Jugoslavia e appurando che gli avvenimenti quali la Conferenza possono mostrare come il rispetto dei principi della democratizzazione rappresentano un modo efficace nella soluzione di numerosi problemi ed incertezze nel campo linguistico, senza violare i diritti di qualsiasi nazione”. Di seguito sono riportate alcune delle osservazioni più significative dei vari linguisti, di cui i primi cercarono di fissare la propria attenzione sulla questione della denominazione delle lingue nei Balcani e sul ruolo che a riguardo ha avuto la politica, anche in considerazione del fatto che in altre regioni del mondo si assiste al comune e pacifico utilizzo, da parte di più popoli, di varianti di una stessa lingua anche molto diverse tra loro, chiamate tutte nello stesso modo (vedi l’inglese o lo spagnolo). La denominazione diventa dunque un modo per appoggiare, almeno in apparenza, l’ipotesi dell’esistenza di lingue separate. Dalibor Brozović, nel suo studio intitolato Le denomina zioni linguistiche nell’a rea centro-sudsla va , ha esposto le motivazioni per cui le qualificazioni ‘lingua serbo-croata’ e ‘lingua standard serbo-croata’ oggi non sono più accettabili, proponendo di conseguenza due nomi nuovi: ‘lingua centro-sud-slava’ per la lingua parlata dai bošnjaki, montenegrini, croati e serbi e per la loro comune area linguistica, mentre già nel 1970, al posto di ‘lingua standard serbo-croata’, egli indicò come più appropriata la denominazione ‘il neo-štokavo standard’, che però funge da modello astratto, le cui reali concretizzazioni sono rappresentate dagli “idiomi utilizzati da ciascuna delle quattro nazioni” (Brozović 2001, 27). Come motivo diinadeguatezza della denominazione doppia come ‘serbo-croato o croato-serbo’ egli indica tre argomenti: 1) tali nomi sono derivati dagli appellativi delle due sole nazionalità e perciò risultano trattati con scarso riguardo i bošnjaki e i montenegrini; 2) tali nomi possono avere più chiavi d’interpretazione: serbocroato potrebbe significare ‘lingua croata in modo serbo’ e croato-serbo ‘lingua serba in modo croato’; 3) “tutte queste denominazioni sono compromesse in modo irreversibile dalla politica linguistica di entrambi i periodi jugoslavi, quello della Monarchia dei serbi, croati e sloveni (SHS) e quello del jugoslavismo comunista” (Brozović 2001, 26), caratterizzati entrambi da sforzi per l’unificazione linguistica. Al di là della discussione sui termini da utilizzare o meno, Brozović implicitamente mette in rilievo il suo costrutto teorico ‘unica lingua comune alle quattro nazioni – differenti standard linguistici nazionali’; in base a questo presupposto e seguendo la classificazione genetico-linguistica, sembra che egli presupponga l’esistenza di un’unica lingua sud-slava, mentre in base alla classificazione socio-linguistica si manifestano più lingue standard specifiche. Sostenendo l’esistenza di una serie di criteri di differenziazione degli idiomi linguistici e appoggiandosi al pensiero di Ranko Bugarski, Miloš Kovačević, nella ricerca Una lingua o tre lingue ha concluso che: “non c’è alcun dilemma: si tratta di una lingua dal punto di vista linguistico, ma di tre lingue politiche” (Kovačević 2001, 33). “È facilmente dimostrabile che quello che fino a ieri era chiamato ‘serbo-croato’ non era altro che una denominazione della lingua serba”, scelta per fini politici. “E se il ‘serbo-croato’ indicava la denominazione del serbo nel contesto jugoslavo, allora in base alle regole della deduzione scientifica anche le odierne denominazioni della lingua ‘croata’ o ‘bošnjaka’ non sono altro che un’ulteriore modo di chiamare la lingua serba” (Kovačević 2001, 39). La creazione dei nuovi standard e nuovi nomi ufficiali non vuol dire che siano nate lingue nuove. Branislav Brborić ha in sostanza esaminato lo stesso tema dei due precedenti partecipanti della Conferenza; tuttavia a differenza loro, nella sua ricerca Trilinguismo e/o bilinguismo, egli ha seguito un’argomentazione sociolinguistica, osservando quanto segue: “è vero che continua ad esistere il monolinguismo standard, ma è un fatto puramente sociolinguistico che la nostra lingua [serba] è stata scomposta in tre varianti nazionali, portate al livello di lingue nazionali, e ciò ha pro- 99 n.18 / 2007 vocato spesso dei giudizi contrastanti relativi alla questione se si tratti di una o più lingue, sfortunatamente supportati anche dal conflitto armato e producendo non poca sfiducia reciproca nei parlanti delle tre ‘nuove lingue’” (Brborić 2001, 58). Le ricerche successive della Dispensa Lingua e democra tizza zione si sono, invece, concentrate sul concetto del ‘nazionalismo linguistico’ e sul bisogno di sottolineare le differenze tra le varianti, di ‘inventare le proprie tradizioni’, politicizzando naturalmente le scelte linguistiche È utile partire dalla considerazione di Josip Lisac, professore di Zara, contenuta nella ricerca intitolata Il na ziona le negli idiomi sud-sla vi , dove egli ha analizzato le potenzialità dell’orientamento nazionale nel campo linguistico e le conseguenti divisioni della lingua parlata popolare, da egli definita ‘centro-sud-slava’, giungendo alla conclusione che: “non raramente si è dimostrato che non esistono caratteristiche linguistiche che appartengono ad una sola nazione. Sicuramente esistono alcune qualità proprie dell’idioma di una sola nazionalità, ma abitualmente tali qualità non sono presenti in tutti i dialetti della nazione o nell’intero territorio nazionale, potendo essere invece facilmente trovate nel linguaggio di un’altra nazionalità” (Lisac 2001, 97). Milorad Radovanović, nello studio Lingua sta nda rd, le sue va ria nti, sotto-va ria nti e rea lizza zioni urba no-regiona li spiega: “nella teoria linguistica generale è ben noto che le lingue standard possono essere ramificate e scomposte in base ad una suddivisione territoriale in varianti e quest’ultime in un’insieme di sotto-varianti. Inoltre, è noto che nella prassi comunicativa privata e pubblica e nella realizzazine regionale di una lingua standard, risultano come più importanti gli elementi in base ai quali si individuano e costruiscono le differenze e specificità di una lingua. Seguendo questo quadro teorico, e avendo in mente l’esempio della ex lingua standard ‘serbo-croata’, nonché le sue numerose varianti regionali, può essere spiegato anche il fenomeno di disintegrazione di una lingua standard in una serie di varianti e i derivanti processi glotopolitici di promozione di queste varianti a livello di una serie di lingue standard diversificate” (Radovanović 2001, 149). Senza dubbio, risulta molto utile l’impegno di Radovanović nel distinguere i diversi aspetti e livel- 100 li nelle discussioni linguistiche: a) gli aspetti genetico-storici, b) gli aspetti linguistici e quelli sociolinguistici e c) gli aspetti di comunicazione e quelli simbolici. Nello stesso modo bisogna distinguere “la linguistica e la glotopolitica, la pianificazione della lingua e la politica linguistica” (Radovanović 2001, 170). Tuttavia, dal punto di vista socio-linguistico, si potrebbe affermare che, nonostante le buone basi teoriche, la debolezza del suo discorso si ritrova nel fatto di non aver preso in considerazione, in modo concreto nell’esempio jugoslavo, le forze sociali centrifughe che hanno causato la divisione nazionale della preesistente lingua standard comune. Al contrario, Dubravko Škiljan, nella ricerca intitolata Le vecchie leggi linguistiche e le nuove minora nze, ha constatato che “già precedentemente alla dissoluzione statale, specialmente nei membri istruiti di una determinata comunità linguistica, fu presente la tendenza a ritenere la lingua una delle fondamentali identificazioni dell’identità collettiva nazionale ... cosiché le questioni linguistiche sono state nei Balcani problemi eminentemente politici” (Škiljan 2001, 181). Anche nella situazione postconflittuale la politica continuava ad avere il ruolo predominante. Come conseguenza della guerra “nella maggior parte dei casi, i cambiamenti demografici hanno comportato l’uniformazione etnica dei territori” (Škiljan 2001, 180), e “in seguito a tutte le trasformazioni si creò la necessità di cambiare anche la condizione delle minoranze linguistiche, soprattutto dopo che le nuove politiche linguistiche hanno introdotto delle novità nelle relazioni tra le società linguistiche maggioritarie e quelle minoritarie” (Škiljan 2001, 182). Il stabilirsi delle nuove società linguistiche maggioritarie e minoritarie fu nel nostro caso alquanto particolare, perché “determinare chi può ritenersi membro di una minoranza linguistica nel caso croato-serbo si doveva per forza confrontare con il problema dell’esistenza di un idioma non sufficientemente diversificato o, secondo alcuni, un idioma dove addirittura non esiste alcuna differenziazione” (Škiljan 2001, 187). Škiljan ha concluso la propria ricerca con la seguente constatazione: “parlando di minoranze linguistiche all’interno dell’area croato-serba, tutti i processi furono indirizzati verso una loro netta divisione; i membri di tali nuove minoranze lingui- Ana Živkovi´c Il serbo-croato: da una lingua che univa a una lingua che divide stiche si ritrovarono in una situazione schizofrenica segnata dalle attuali costellazioni politiche ed ideologiche, la cui consegenza finale potrebbe essere la messa a repentaglio della loro identità collettiva ed individuale” (Škiljan 2001, 188). Anche Milorad Pupovac all’inizio dello studio Due a spetti della situa zione post-moderna della sta nda rdizza zione linguistica , mette in evidenza quanto la politica e il nazionalismo hanno inciso sulle numerose suddivisioni territoriali, politiche o etniche della lingua. “Al centro dell’interesse del pensiero modernistico si trovano il garantire della libertà d’espressione, l’esistere di un mezzo adatto di comunicazione, lo sviluppo dei canali comunicativi pubblici e la formazione dei soggetti e istituzioni che offrono un efficace meccanismo di regolazione e controllo”. Partendo dalla tesi che “la standardizzazione di una lingua si realizza attraverso quello che Pupovac definisce “il discorso della nazione - prassi discorsiva” (Pupovac 2001, 195), egli distingue nettamente il discorso della nazione e la lingua dello Stato, affermando che “negli ultimi dieci anni, nell’area della ex Jugoslavia, i processi di standardizzazine hanno permesso la realizzazione e la prevalenza del ‘discorso della nazione’ sulla ‘lingua dello Stato’”, (Pupovac 2001, 196); la lingua diventò così un simbolo della nazione e non simbolo dello Stato. Lo studio di Josip Baotić s’intitola La lingua nel processo di integra zione e disintegra zione della comunità socia le. Appoggiandosi alle tesi di V. Gak, che “pose l’attenzione sul fatto che, negli spazi dell’America come anche in quelli europei, nonostante i processi di globalizzazione, caratterizzati dalle tendenze integralistiche economiche e politiche, si manifestano in modo sempre più evidente le tendenze di diversificazione linguisticoculturale”, Baotić afferma: “la dissoluzione dello standard linguistico dei bošnjaki, montenegrini, croati e serbi sarebbe accaduta anche senza la disgregazione della loro unità statale. I processi democratici nei nostri territori hanno permesso tale evoluzione, causando in una società multinazionale, quale era la nostra, che aveva le basi linguitsiche in un diasistema, la estinzione della comune lingua standard” (Baotić 2001, 203). “Secondo me”, prosegue Baotić “la gran parte delle nostre problematiche linguistiche, come anche i malintesi e l’allontanamento tra le nazioni, hanno le proprie origini nel nazionalismo linguistico, fortemente radicato soprattutto negli studi e negli scritti delle nuove generazioni degli esperti di grammatica, che affermarono con insistenza che la lingua rappresenta un’emanazione dello spirito del popolo, spiegato attraverso la formula semplificata: lingua = popolo, ossia popolo = lingua. Di conseguenza questo ha avuto diverse interpretazioni, di cui la più significativa risulta quella secondo la quale solamente partendo da una lingua puoi risalire all’identità nazionale; un popolo o una nazione sono tali se riescono a mostrare o provare la propria specificità linguistica” (Baotić 2001, 207). Il processo di affermazione nazionale è stato, dunque, accompagnato da un imponente sforzo normativo, finalizzato non solo a descrivere e normalizzare ciascuno standard ma anche ad affermarne e a potenziarne le differenze rispetto agli altri standard successori del serbo-croato. Baotić prosegue dicendo che negli ultimi anni il ‘nazionalismo linguistico’ dei Balcani diventò un ‘nazionalismo della lingua’, che aveva come compito primario quello di convincere gli individui “non come dovrebbero scrivere e parlare, ma come devono scrivere e parlare se sono serbi, croati o bošnjaki, a chi di loro sia proibito parlare la lingua serba, croata o bošnjaka, e quali novità inaugurate dalle rispettive nuove norme linguistiche devono essere introdotte e incorportte nel proprio idioletto decidendo anche quali parole delle parlate altrui devono essere riggettate” (Baotić 2001, 211). Non è un caso che il conflitto sia stato preparato da un decennio di ‘guerra delle parole’ per conquistare l’omogeneità nazionale nel linguaggio ufficiale e pubblico, nei giornali, nelle stazioni televisive e nelle scuole, per poter poi passare alla guerra vera. Nello scritto intitolato Le società democra tiche a fferma no la diversità , Ljiljana Stančić ha messo in rilievo in che modo la democratizzazione può servire a superare le problematiche rilevate dagli altri autori: “bisogna accettare la diversità linguistica, affermare il diritto alla diversità e alla libertà individuale, perché soltanto le società democratiche e gli individui liberi possono diventare i portatori di una coscienza che non vuole alcuna supremazia di qualsiasi formula culturologica o etnica” (Stančić 2001, 215). In tale contesto “le lingue standard, quali simboli e l’incontro delle diversità 101 n.18 / 2007 dovrebbero essere definite in modo oggettivo, per mezzo di misure linguistiche e sociolinguistiche, tenendo sempre presente che un idioma standard ha due funzioni principali, quello comunicativo e quello simbolico. Questo, tuttavia, significa che la lingua standard quale valore comunicativo bisogna sia definita in base alle misurazioni linguistiche, mentre la sua essenza potrebbe essere trovata in una dimensione simbolica; in altre parole dal punto di vista sociolinguistico la lingua deve essere valutata in base all’identità dei suoi utenti, grazie ai quali esiste e grazie ai quali riesce ad essere una componente dinamica” (Stančić 2001, 215). Esaminare le motivazioni che, dopo quasi due secoli di sforzi per l’unificazione linguistica, hanno condotto al prevalere delle forze centrifughe nei Paesi slavi meridionali con comune lingua standard neo-štokava significa che, pur partendo dal fatto che in Jugoslavia, il termine ‘serbo-croato’ indicava più di una semplice comunanza linguistica, è necessario porsi nella mutata realtà politicoculturale e sociolinguistica degli Stati successori della ex Jugoslavia e cercare di confrontare due posizioni radicalmente contrapposte: la negazione di qualsiasi comunanza linguistica sia nell’attualità sia in prospettiva storica e l’affermazione dell’esistenza di una unica lingua standard serbocroata realizzata in diverse varianti nazionali. Tra questi due estremi, si colloca una serie di varie posizioni con un atteggiamento più cauto, che rivelano la consapevolezza della complessità della situazione socio-lingistica attuale senza proporre delle soluzioni ‘rigide’ alla questione linguistica dei Balcani. La maggior parte dei linguisti, indipendentemente dalla loro nazionalità, concordano nel riconoscere una forte funzione simbolica della lingua, soprattutto nell’affermazione dell’identità nazionale o etnica. Va osservato che molti di loro parlano di un solo standard monolingistico con diversi centri di realizzazione concreta e dell’esistenza di una serie di varianti nazionali, mentre altrettanti si soffermano sulla strumentalizzazione politica e sulla manipolazione della lingua in vista dell’attuazione dei fini politici unionisti o separatisti. Accanto alla forte contrapposizione delle posizioni estreme, emerge una maggioranza preoccupata, che di fronte alla problematicità formale e sostanziale della situazione linguistica ex jugoslava si dichiara consapevole della necessità di dialogo e 102 di riavvicinamento culturale-politico tra coloro, che pur non volendo più essere confusi con i propri vicini, non possono negare la quasi totale comprensibilità reciproca. Riferimenti bibliografici Belić A. (1999), Istorija srpskog jezika : studije, ra spra ve, kritike (Storia della lingua serba: studi, discussioni e critiche) Zavod za udžbenike i nastavna sredstva, Belgrado; Bogdanić L. (2003), Serbo, croa to o serbo-croa to? L’uso geopolitico della lingua , Limes 6, 2003; Brborić B. (2000), O jezičkom raskolu (tr.it. Sulla rovina della lingua), Prometej, Belgrado – Novi Sad; Brborić B. (2001), S jezika na jezik (tr.it. Da una lingua ad un’altra lingua), Prometej, Belgrado – Novi Sad; Bugarski R. (1994), Jezik od mira do ra ta (tr.it. 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I precedenti, già presentati in questa rivista, sono: John Pocock, Il momento ma chia vellia no. Il pensiero politico fiorentino e la tra dizione repubblica na a nglosa ssone (in due voll.: Il pensiero politico fiorentino; La “Repubblica ” nel pensiero politico a nglosa ssone), prima edizione 1975; Quentin Skinner, Le origini del pensiero politico moderno (in due voll.: Il Rina scimento; L’età della Riforma ), prima edizione 1978. La prima edizione di questo volume di Pettit è del 1997. I due scritti di Pocock e Skinner sono due ricerche storiografiche sulla letteratura e presentano il taglio tipico della ricerca storica; lo scritto di Pettit è diverso in quanto si presenta soprattutto come una riflessione teorica. Per questo, qua e là, risulta meno convincente. Ma vediamo di che cosa esattamente ci parla Pettit. Egli comincia con il confrontarsi con la definizione del concetto di libertà; un concetto che intende come lo strumento attraverso cui conciliare l’individuo come valore intrinsecamente sociale e l’individuo come valore istintivamente soggettivo. Egli pensa che, per meglio definire la libertà, occorra distinguere tra l’interferenza per conseguire un bene comune e l’interferenza arbitraria (pp. 3-4). Una distinzione di questo genere gli permette di arrivare alla definizione di libertà come non dominio, cioè ad una condizione nella quale sia possibile guardare l’autorità diritto negli occhi, faccia a faccia. 104 Mi si permetta di sostenere che questa definizione di libertà come non dominio ha origine nel primo grande libro della cultura occidentale, la Bibbia. In questo libro, che Pettit non cita mai nel suo volume, gli incontri di Mosé con l’Onnipotente sono descritti come incontri faccia a faccia. Mosè, si legge nella Bibbia, incontra il Creatore faccia a faccia e ci ragiona, argomentando anche in modo tale che finisce per convincere il Creatore a cambiare propositi. L’argomento definitivo di Mosé è che non è giusto che l’Onnipotente rompa il patto con la stirpe di Abramo solo perché una minoranza della stirpe di Abramo, alle pendici del monte Sinai, lo ha rinnegato come Dio e si è costruito un idolo d’oro. Più concretamente, il punto di partenza del concetti di libertà come non dominio, Pettit lo individua nel linguaggio legato al rifiuto di essere dominati che si afferma a Roma nel primo secolo avanti Cristo (cioè dodici secoli dopo Mosé). Pettit associa il concetto a una tradizione politica che comincia con Cicerone e Sallustio, viene ripresa nella Firenze del Rinascimento da Machiavelli e viene rilanciata nel mondo anglosassone da James Harrington. Pettit ci tiene, inoltre, a sottolineare che questo concetto di libertà come non interferenza arbitraria (dove la semplice interferenza non si configura come dominio, ma solo l’interferenza arbitraria) non è presente solo in questi grandi autori, che ci sarebbero arrivati per la loro grandezza e per la specificità del loro punto di vista; Giuseppe Gangemi questa concezione della libertà esisterebbe e si sarebbe affermata in tutte le società in cui problematico è sia il rapporto padrone-servo (o schiavo), sia il rapporto uomo-donna, sia il rapporto padrefiglio. Ecco perché, mi permetto di aggiungere qualcosa che Pettit non considera: questa concezione della libertà viene elaborata da Mosé e proposta alla società dei figli di Israele in fuga dall’Egitto. Quella società è, infatti, una società di schiavi che si sono liberati da un padrone che si concepiva anche come la divinità suprema vivente. Non stupisce, quindi, che gli Ebrei impostino il rapporto tra Dio e il Suo primo profeta come un rapporto di non dominio, come l’esigenza profonda di una società di individui che non vogliono avere più alcun padrone, di donne che non vogliono più farsi picchiare, di debitori che non vogliono che la loro vita dipenda dalla volontà del creditore, etc. E si può persino arrivare a ipotizzare che la concezione della libertà come non dominio sia congeniale anche a una società in cui i cittadini non vogliono venirsi a trovare a dipendere da un’assistenza sociale che un burocrate può, arbitrariamente, decidere di negare. Ma, se questo è vero, se questa è la caratteristica di questa concezione della libertà, perché sta ritornando di moda proprio adesso, nell’ultimo quarto del secolo XX, esattamente dopo i “trenta anni gloriosi”? Perché, inoltre, questa vecchia concezione, apparentemente superata dalla storia, riappare proprio nelle maggiori democrazie occidentali? La mia spiegazione è che, a parte la breve parentesi dei “trenta gloriosi”, il secolo XX è caratterizzato da un valore eccessivo dato al problema dell’identità collettiva; un problema a cui è stata data, nei primi venti anni del secolo (fino alla disgregazione dell’impero austro-ungarico), una provvisoria soluzione attraverso la sicurezza garantita dai confini di tante nuove nazioni omogenee sul piano etnico o sul piano culturale. Il XX secolo è caratterizzato dalla crisi di tutte le soluzioni “austro-ungariche” adottate in Europa (vedi, per esempio, il caso della Jugoslavia sgretolatosi tra mille violenze e violazioni dei diritti umani a partire dalla morte di Tito). Sotto l’onda della globalizzazione, i confini si stanno facendo più fragili verso l’esterno, mentre altri fattori culturali stanno rendendo sempre meno La libertà come non interferenza arbitraria sicure le garanzie di sicurezza interne ai singoli Paesi. Si sta sviluppando, attraverso lo sviluppo del convenzionalismo logico e del decisionismo, che scioglie i vincoli del diritto naturale e della tradizione in nome del nulla normativo, un pensiero totalizzante che trova alimento nella scienza della società (del resto John Stuart Mill avvertiva di questo pericolo, nel saggio On Liberty, proprio con riferimento al pensiero dello scienziato sociale positivista Auguste Comte). Vi è, più evidente in Comte, ma presente anche in molti scienziati sociali neopositivisti, una dimensione totalizzante sotterranea che si manifesta nella forma di disconoscimento del valore degli argomenti degli avversari. Questo disconoscimento deriva dal fatto che la classificazione, nella concezione neopositivista, è generalizzazione della dimensione empirica e statistica senza filtri, cioè senza riduzioni. Un neopositivista deve portarsi nelle classificazioni che adotta tutto ciò che avviene e tutto considerarlo rilevante. E quando è palese che un nuovo fenomeno non si riesce a inserire dentro le vecchie classificazioni (perché questo fenomeno manifesta qualche accidentalità che non si riscontra nei fenomeni già classificati), deve produrre dei nuovi concetti per differenza o antitesi ai precedenti. Solo per fare un esempio, mi riferirei al caso di alcune opere di studiosi italiani di scienza politica (Tarchi, L’Ita lia populista . Da l qua lunquismo a i girotondi , Roma-Bari, Laterza 2003; Mastropaolo A., Antipolitica . All’origine della crisi ita lia na , Napoli, L’Ancora del Mediterraneo, 2000; Mastropaolo A., La mucca pa zza della democra zia . Nuove destre, populismo, a ntipolitica , Torino, Bollati Boringhieri, 2005). Il primo, Tarchi, tratta il tema del populismo e accusa di populismo vari attori politici che hanno concorso al manifestarsi di fenomeni nuovi (a cominciare dai movimenti collettivi per arrivare a Silvio Berlusconi), mentre il secondo definisce espressione di antipolitica gli attori implicati nella stessa serie di fenomeni nuovi. Sia il concetto di populismo che il concetto di antipolitica vengono utilizzati per spiegare ogni nuovo fenomeno che non sia assimilabile alle categorie convenzionalmente concordate e condivise dalla standard view empirista. 105 n.18 / 2007 Quello che i due studiosi, ma anche altri che condividono la stessa impostazione empirista, risolvono con delle attribuzioni di responsabilità agli avversari, o a una parte politica, andrebbe invece affrontato in termini più generali, riconoscendo che vi è, speculare al pensiero totalizzante sotterraneo veicolato dalla cultura del XX secolo, un rifiuto di alcune identità collettive di diventare minoranze di altre maggioranze. Una tendenza che si è manifestata in modo esplosivo nei Balcani, ma che si sta presentando anche (a partire dalla fine della Prima Repubblica, dove ancora il PCI aveva accettato di essere minoranza della maggioranza DC o di centrosinistra) in Paesi come l’Italia. Lo prova la difficoltà della sinistra di riconoscere la vittoria delle destre italiane guidate da Silvio Berlusconi, nel 1994, e nel 2001; e lo prova anche la difficoltà della destra di riconoscere la vittoria della sinistra nel 1996 e, soprattutto, nel 2006. Di chi la responsabilità? Della destra populista (Tarchi) ed espressione di antipolitica (Mastropaolo)? Sì, è vero, non si può dimenticare facilmente il “Non faremo prigionieri!” proferito da Cesare Previti nel 1994! Ma è anche vero che non si può facilmente dimenticare nemmeno il linciaggio morale del primo ministro in carica, Silvio Berlusconi, per un problema di conflitto di interessi dal quale la sinistra non è senza peccato. Insomma, Pettit ci viene a dire che, in un contesto come quello italiano, dove le opposizioni sempre meno accettano di essere minoranze di altrui maggioranze, e dove il conflitto di interessi e la corruzione sembra sempre di più essere prassi costante di governo, non si può fare a meno di ricorrere a un vecchio concetto di libertà: la libertà come non interferenza arbitraria, la libertà come non dominio. Pettit, infatti, ci ricorda che, nei confronti del carattere della legge, il principale vincolo da imporre all’oligarchia che viene posta al comando è la coltivazione della virtù e l’astensione dalla corruzione, perché la corruzione è sempre dominio. È per questo collegamento tra corruzione (mancanza di onestà e virtù) e dominio che questa concezione della libertà si posiziona in modo privilegiato nella dimensione verticale della politica, cioè nella dimensione del rapporto capo/gregari. In questa dimensione, la libertà come non dominio 106 viene garantita dalla costante e assidua vigilanza a che la classe dirigente si mantenga onesta, faccia un ricorso limitato e rispettoso all’uso legittimo della forza, eviti i conflitti di interessi e, soprattutto, adempia alle condizioni più radicali del principio della certezza del diritto (una posizione radicale che è simile, se non identica, a quella teorizzata da Bruno Leoni in Freedom a nd the La w). Infatti, nella concezione di Pettit, la libertà come non dominio presuppone che si privilegi - e qui ricorro a una terminologia proposta da Bruno Leoni, anche se il concetto di regolazione viene da Pettit assunto dal volume Responsive regula tion di I. Ayres e J. Braithwaite, (N. Y., Oxford University Press, 1992) - la dimensione regolativa (dove per regolativo si intende che la regola viene stabilita nella società e fissata nella costituzione così come è raccolta) alla dimensione costitutiva-regolativa (dove la regola viene costituita ex novo, indipendentemente dai precedenti e in base a un disegno ideologico di chi ha il potere di deciderla). La dimensione regolativa sarebbe più presente nella Costituzione degli Stati Uniti, mentre la dimensione costituitiva-regolativa sarebbe più presente nella Costituzione francese. Questo perché questa seconda Costituzione, come ha insegnato Daniel J. Elazar, era espressione di un Grande Disegno (da ciò il costitutivo-regolativo), quel tipo di disegno che, quando basato sulla scienza, si chiama illuministico, e quando si basa sulla forza, viene definito giacobino; invece, la Costituzione U.S.A. è stata ed è solo uno strumento che tutti hanno potuto proficuamente bistrattare, cercando di portarla in tutte le direzioni proprio per utilizzarla a proprio vantaggio, a causa della sua maggiore flessibilità. Ne è seguita una serie di effetti imprevisti che, sia attraverso la stesura degli articoli della Costituzione, sia attraverso l’implementazione che ne è seguita, ha fatto della Costituzione U.S.A. uno dei migliori e più stabili strumenti di garanzia e di democrazia. Questo malgrado le rivoluzioni francese e americana, come riconosce anche Michel Foucault, siano state, agli inizi, identiche nelle intenzioni, in quanto le rivoluzioni sono sempre rivolte di condotta, cioè rivolte contro la condotta della classe dirigente ed abbiano avuto, come suggerisce Pettit, Giuseppe Gangemi entrambe la stessa aspirazione: ottenere la libertà come non dominio. In entrambe le nazioni, conclude Pettit, quest’aspirazione era stata più o meno tradita, anche se è stata più tradita in Francia che in U.S.A. Più precisamente, spiega Pettit, la prima e maggiore crisi della libertà come non dominio è cominciata verso la fine del XVIII secolo, quando si è cominciato a pensare alla libertà in modo meno esigente perché si è pensato che non si potesse concedere la libertà come non dominio ai servitori e alle donne (ciò è successo sia negli Stati Uniti che in Francia, subito dopo le relative rivoluzioni). Solo che, in Francia, il tradimento è stato molto maggiore che negli U.S.A., dove nella concezione della Costituzione e nella prassi di governo, è rimasto qualcosa della concezione prerivoluzionaria di libertà. Questo residuo è l’elemento regolativo della Costituzione U.S.A. Come si vede, l’impostazione di Pettit al tema della libertà non è conciliabile con quella di Isaia Berlin che si basa sulla convinzione che esistano solo due tipi di liberà: la libertà da e la libertà di, cioè la libertà negativa (libertà da ogni interferenza, non solo da quella arbitraria) che si riconosce nel fatto che nessuno interferisce nelle tue attività e la libertà positiva che si consegue con la padronanza di sé, con la capacità di fare. Nel formulare la propria impostazione al tema della libertà, Berlin aveva ripreso Benjamin Constant che aveva distinto le due libertà come libertà degli antichi e libertà dei moderni. Berlin vi vede qualche cosa in più: la libertà negativa, egli dice, si trova in Hobbes, Bentham e Mill, in Montesquieu, Constant e Tocqueville, in Jefferson e Paine; la libertà positiva si trova in Herder, Rousseau, Kant, Fichte, Hegel e Marx, in raggruppamenti religiosi, in pensatori radicali, in ideologi del totalitarismo. In questo senso, Pettit sostiene che la distinzione di Berlin ha reso un cattivo servizio alla riflessione politica. Questo perché la libertà negativa spingerebbe verso l’espansione del privato (attraverso la non interferenza senza distinzione tra quella arbitraria e quella lecita) e la libertà positiva spingerebbe verso l’espansione del pubblico (attraverso la costruzione di un uomo nuovo ideologico). La libertà come non interferenza arbitraria L’ideale prerivoluzionario americano era centrato sulla libertà come non dominio, mentre l’ideale della libertà come non interferenza (senza distinzioni) era sostenuto da coloro che hanno difeso fino all’ultimo gli interessi della corona britannica. La definizione di libertà come non interferenza arbitraria, come non dominio, sarebbe una sintesi delle due libertà di Berlin, una posizione intermedia. Pettit così sintetizza il problema: la libertà negativa si ha con l’assenza di interferenza da parte di altri (p. 32); la libertà positiva aspira ad ottenere la padronanza di sé; la mediazione tra le due precedenti libertà, la libertà come non dominio, implica l’assenza di padronanza da parte di altri; la mediazione tra le due libertà nella versione di Berlin sta nell’avere privilegiato il riferimento all’assenza e non alla presenza e nell’avere considerata centrale la padronanza e non l’interferenza (p. 32). La necessità di distinguere tra interferenza arbitraria e non nasce da vari fatti: 1) io posso essere dominato da qualcuno che, per suo animo gentile, non interferisca effettivamente in alcune delle mie scelte fidando nel fatto che io mi adeguerò per mancanza di alternative; 2) vi può anche essere interferenza senza pretesa di dominio, come quando io interferisco per amore o bontà d’animo e cerco di aiutare altri a realizzare un proprio interesse; 3) vi possono essere anche interferenze non intenzionali, come quella che mi vede occupare l’unico parcheggio libero togliendolo a chi arriva dopo di me; 4) vi sono, infine, le interferenze non arbitrarie, come quella di un genitore che agisce nel nome e nell’interesse dei figli non maturi per affrontare da soli una situazione in cui si siano venuti a cacciare. La libertà come non dominio, inoltre, riguarda i governati perché nasce dal desiderio di non essere arbitrariamente governati e quella come non interferenza (senza distinzioni) riguarda i governanti perché nasce dal desiderio di non avere ostacoli o impedimenti nel governare o dominare. Pettit attribuisce a Machiavelli, che lo avrebbe scritto a proposito dei romani nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, la prima esplicita definizione della libertà come desiderio di non essere governati (p. 38). Questa principio di libertà come desiderio di non essere governati, che produce sicu- 107 n.18 / 2007 rezza, “secondo Machiavelli, può essere garantito meglio in democrazia, ma il pensatore fiorentino è del tutto esplicito nel riconoscere che è possibile ottenere un simile beneficio anche nelle monarchie” (p. 39). Per questa via, si finisce per collegare la libertà come non dominio con il concetto di federalismo antropologico, da me elaborato per spiegare il modello di sviluppo veneto (Gangemi, G., La questione federa lista . Za na rdelli, Ca tta neo e i ca ttolici brescia ni , Torino, Liviana-Utet, 1994). In un passo del suo scritto, Della storia dei feudi, con la quale contrappone la propria concezione del federalismo antropologico al testo La Città di Cattaneo, Zanardelli presenta un aneddoto riferito all’incontro tra Federico Barbarossa in Italia e un uomo che viene definito indipendente, cioè libero, perché, per mantenersi, vive del suo. Esattamente la stessa definizione di Harrington, riferita da Pettit. Per Harrington, infatti, “un uomo che non ha i mezzi per vivere non può che essere servo; ma un uomo che possiede tali mezzi può essere libero” (pp. 44-45). Rientra sempre in questa linea di sviluppo anche il concetto di federalismo di fatto elaborato da Elazar e persino l’esperienza della Kehillah all’interno dei ghetti ebrei (la Kehillah era del resto una delle fonti di ispirazioni implicita del federalismo antropologico veneto dal momento che tre protagonisti di questa esperienza politica erano di origine ebraica: Daniele Manin, Emilio Morpurgo e Luigi Luzzatti). Come era stato intuito da Harrington, e recentemente affermato da Maitland e Nippel, l’obiettivo della libertà come non dominio è quello di vivere con i propri mezzi, non quello di partecipare al governo. In aggiunta a quanto già detto, si può anche sostenere che la libertà come non interferenza (senza distinzioni) si concilia con la concezione élitista della libertà, la concezione secondo la quale si può definire la democrazia come la capacità dei governati di svolgere un ruolo di arbitro tra le contrapposte oligarchie governanti. La libertà come non dominio potrebbe, a sua volta, conciliarsi con la concezione della democrazia deliberativa, la concezione secondo la quale si può definire la democrazia come la capacità dei governanti di svolgere 108 un ruolo di arbitro (garante di logica, etica e diritto naturali) di fronte alla cittadinanza che si rende attiva, cioè partecipa. Infatti, citando Trenchard e Gordon, Pettit sottolinea che “La libertà vera e imparziale è pertanto il diritto di ogni uomo di perseguire i dettami naturali, ragionevoli e religiosi della propria mente” (p. 41). In questo, Pettit non è molto chiaro perché afferma che la libertà negativa è congeniale alla democrazia rappresentativa o maggioritaria, mentre quella positiva è congeniale alla democrazia deliberativa, che egli definisce populista: “La libertà positiva viene interpretata in chiave populista come partecipazione democratica, una simile scelta non richiede particolari giustificazioni: un ideale partecipatorio del genere, infatti, la prospettiva di essere personalmente soggetti alla volontà di tutti non può che apparire ben poco allettante” (pp. 101-2). In questo, Pettit si affianca alla concezione élitista della scienza politica che assimila partecipazione a governo, mentre dovrebbe assimilare la partecipazione ad autogoverno. Infatti, la democrazia rappresentativa o maggioritaria può essere definita come la capacità di svolgere un ruolo di arbitro tra le contrapposte oligarchie governanti che dichiarano essere la propria la migliore soluzione pratica dei problemi generali e dell’agenda di problemi specifici. In un contesto in cui il popolo (il corpo elettorale o, più realisticamente, gli individui-elettori) non riesce più a svolgere il proprio ruolo di arbitro perché non valuta più la realtà, ma viene portato – dai mass media e dalle retoriche imperanti - a valutare provvisori e artificiali spezzoni di realtà, comincia a sentirsi sempre più il bisogno di una diversa concezione della democrazia che viene intesa non più come l’arbitraggio del popolo nei confronti di oligarchie in competizione nella manipolazione della realtà, ma come la richiesta di una realtà che viene direttamente agita dalla cittadinanza di fronte a un’oligarchia di rappresentanti del popolo che svolge il ruolo di arbitro. In questa seconda definizione della democrazia deliberativa, la partecipazione non è governo in quanto è autogoverno, cioè capacità di soddisfare la propria esigenza di fare da sé, di esercitare la propria padronanza di sé. Pettit ritorna sulla svolta operata dalle vittoriose rivoluzioni U.S.A. e francese per sottolineare che Giuseppe Gangemi La libertà come non interferenza arbitraria esse sono espressione di una motivazione che viene poi tradita: “Il crescente impegno a favore della democrazia che si rende visibile a partire dal XVII secolo – la teoria del governo basata sulla convenzione, così come l’ha definita [Maitland] – fosse inizialmente motivato dal desiderio di sottrarre potere arbitrario allo stato, ma che abbia condotto, in conclusione, a una affermazione della democrazia maggioritaria che ha finito per contraddire questa aspirazione originaria” (p. 42). Per quanto riguarda il rapporto tra libertà e legge, la libertà come non dominio sostiene che la libertà viene fondata dalla legge, quando la legge sia stata congegnata in maniera appropriata, cioè rispettando la rule of la w, ovvero la condizione in cui l’impatto della legge è esclusivamente regolativo e non costitutivo-regolativo. Per una maggiore comprensione di quest’affermazione, occorre fare una precisazione di natura linguistica: nella concezione hobbesiana della legge, la costituzione di una legge viene definita come regolazione. In una definizione riportata da Pettit, così Hobbes definisce la libertà ne Il Levia ta no: “La libertà di un suddito consiste, pertanto, solo in quelle cose che il sovrano, nel regolare le sue azioni, ha omesso” (p. 51). In questa citazione, il concetto di regolazione viene utilizzato come sinonimo di produzione di norme (indipendentemente da ogni vincolo, in base alla sola sovranità o, se si vuole, al solo fatto di disporre del monopolio dell’uso legittimo della forza). Secondo una teoria alternativa della regolazione che ha trovato la propria prima formulazione implicita (senza riferimento al termine regolazione) in Vico e Locke e la propria formulazione esplicita (con riferimento al concetto di regolazione derivato dall’uso che ne ha fatto Kant) nelle opere di Rosmini, di Polanyi (sia il noto economista Karl che il fratello chimico e filosofo Michael), di Foucault e di altri, per regolazione si intende quella produzione di norme che arriva alla fine di un processo che ha già affermato come dettami “naturali” (della mente) quei comportamenti che la norma stabilizza. Vi sono, quindi, due diverse concezioni della regolazione: la regolazione adattava che è l’unica basata sulla rule of la w, cioè sul fatto che nessun uomo sia sottomesso ad altri uomini in quanto tutti sono sottomessi alla legge; la costituzione regolativa che non è basata sulla rule of la w in quanto è artificialmente e convenzionalmente costituita da uomini che la impongono ad altri uomini e li costringono a processi di adattamento che sono subiti e costituiscono l’impatto costitutivo della regolazione. La regolazione adattiva si ha quando la legge si adatta, per via evolutiva, agli uomini e la costituzione regolativa si ha quando sono gli uomini a doversi adattare alla legge. Tre concetti, quindi, per una concezione vichiana-kantiana-rosminiana della regolazione: regolazione adattativa, costituzione regolativa e impatto costitutivo (che c’è con la seconda e non c’è con la prima forma di regolazione). Due concetti, invece, per una concezione hobbesiana-hegeliana della regolazione: regolazione tout court (sempre costitutiva) ed impatto di regolazione (sempre elevato). La prima esplicita formulazione della regolazione adattiva la si trova in von Hayek il quale, in alcuni suoi scritti, ha formulato una teoria, poi ripresa e rilanciata da Bruno Leoni, secondo cui “l’interferenza di un certo tipo di legge – una legge prodotta da un determinato processo di evoluzione, una legge che sia per certi aspetti intrinsecamente giustificabile – non sia in verità lesiva della libertà” (citato da Pettit 2000, p. 65, nota 9). Detto in altri termini, abbiamo sempre un impatto della norma sulla società, cioè una modifica della vita quotidiana e delle attività di coloro ai quali la norma si applica: quando questo impatto è minimo, il processo evolutivo che ha portato alla produzione di una norma non implica alcuna forma di dominio (dell’uomo su altri uomini servendosi della legge) e si parla di regolazione; quando questo impatto si fa sentire in forma di interferenza della vita quotidiana e dell’attività, vi è sempre una qualche forma di dominio e la produzione di quella norma non è più il risultato di un processo, bensì è la produzione costitutiva di una convenzione o artificio a cui la società deve adattarsi (in questo caso la produzione di norme è costitutiva e non regolativa). I sostenitori della teoria secondo la quale la libertà è libertà dalla legge (Hobbes) perché la produzione di norme è sempre costitutiva e i sostenitori della teoria secondo la quale la libertà è libertà in 109 n.18 / 2007 virtù della legge (Locke) perché la produzione di norme è o deve essere regolativa, concordano nel definire liberi gli individui che non subiscono interferenza e dominio e nel definire non liberi coloro che subiscono interferenza o dominio. Dove non concordano è quando la situazione che subiscono è di interferenza e non di dominio o viceversa. Nel secondo capitolo viene affrontato il problema di specificare le caratteristiche del dominio. Esse sono tre: 1) la capacità di interferire; 2) l’interferenza arbitraria; 3) l’interferenza che si realizza in cose che l’altro è nella condizione di poter fare. Gli altri tipi di interferenza non hanno a che fare con il dominio. Inoltre, il dominio può variare in estensione e in intensità; in alcuni casi ci può essere dominio in più settori e in alcuni settori il dominio può essere più grave che in altri. Inoltre, può anche darsi che esista un dominio anche laddove questo dominio non viene esercitato effettivamente, ma potrebbe essere esercitato solo se la persona in condizioni di esercitarlo lo volesse. Al contrario, invece, può succedere che qualcuno interferisca sugli altri senza per questo esercitare alcun dominio. Questo contribuisce a fare del concetto di dominio qualcosa che si può constatare solo in corso di azione e non in astratto, in via teorica. Gli effetti del dominio su un individuo sono: 1) l’insicurezza perché l’interferenza arbitraria può scatenarsi in qualsiasi momento; 2) la necessità di dotarsi di una strategia di deferenza e prudenza; 3) la subordinazione alla volontà o arbitrio altrui. Infine, Pettit sostiene che “uno degli insegnamenti più ricorrenti del pensiero repubblicano … è che nel momento in cui lo stato entra in possesso dei mezzi e dei poteri necessari per assolvere in maniera sempre più adeguata il suo ruolo di protettore – nel momento in cui, per esempio, si dota di un esercito, di un corpo di polizia o di un servizio di sicurezza sempre più imponente – diviene esso stesso una minaccia alla libertà come non dominio, una minaccia persino superiore a ogni altra minaccia che esso si propone di eliminare” (p. 130). Nello stesso tempo, però, “la libertà inte- 110 sa come non dominio è definita nei termini della quantità e della qualità della protezione contro gli atti d’interferenza arbitraria di cui il soggetto gode” (p. 134). La contraddizione tra queste due esigenze deriva dal fatto che la libertà come non dominio è un fatto concreto e non teorico ed è, quindi, un fatto che si definisce e si articola all’interno di un contesto concreto e delle visioni della politica che interpretano questo contesto. In altri termini, la libertà come non dominio non è definibile in astratto perché muta le proprie caratteristiche in relazione a ciò che più determina insicurezza in una data situazione e in un dato momento: se lo Stato che interviene troppo o lo Stato che non fornisce abbastanza protezione contro gli atti di interferenza altrui. La conclusione è che quello che può costituire sicurezza per una generazione può essere considerato dominio dalla generazione successiva. Il che implica, tra le altre cose, che la democrazia non può mai dirsi compiuta e che la qualità della democrazia si configura come la capacità di interferire su tutti coloro (i soggetti pericolosi) che hanno la possibilità di interferire sugli altri o su coloro che hanno potere (dai quali ci si deve aspettare più virtù che dagli altri) e come la capacità di fornire sicurezza a chi (i soggetti vulnerabili) non ha possibilità di interferire sugli altri. Tra i soggetti più pericolosi, infine, vanno annoverati coloro che possono esercitare l’abuso pubblico del dominio, più che coloro che possono esercitare l’abuso privato del dominio. Una delle ultime conseguenze della concezione della libertà come non dominio è che può essere considerata superata la contrapposizione tra individualismo e com’unitarismo. Infatti, vi sono fondate ragioni per sostenere che questa concezione della libertà sia conciliabile con il liberalismo e il comunitarismo. Ogni bene individuale derivato dall’esercizio del non dominio “sarà un bene parzialmente comune nella misura in cui non può essere incrementato per uno senza che sia incrementato per qualcuno; sarà un bene pienamente comune nella misura in cui non può essere incrementato per uno senza essere incrementato per tutti” (p. 148). La libertà come non dominio è al contempo un bene sociale e un bene comune. “Godrai pertanto di una condizione di non domi- Giuseppe Gangemi La libertà come non interferenza arbitraria nio solo a patto che tale condizione sia garantita a tutti coloro che, per così dire, appartengono alla tua stessa classe di vulnerabilità” (p. 149). In questo contesto, ha ugualmente senso parlare della libertà di Firenze e della libertà dei fiorentini come della stessa cosa: la libertà di Firenze è la libertà dei fiorentini. Invece, nella concezione di Hobbes, nella concezione della libertà come fatto costitutivo e non regolativo, la libertà di Firenze e la libertà dei fiorentini possono avere seguito percorsi diversi se non addirittura inconciliabili. La seconda parte del volume di Pettit è dedicata a indicare quali sono le istituzioni che possono essere il risultato della concezione della libertà da lui propugnata. La prima istituzione è il linguaggio: il non dominio fornisce un linguaggio adatto a dare voce alle proteste. Una donna o un servo, tipiche categorie sottoposte al dominio del padrone e del capofamiglia, non potrebbero mai descrivere le proprie rivendicazioni in termini di libertà come non interferenza, mentre possono benissimo farlo in termini di libertà come non dominio. Inoltre, la libertà come non dominio poteva trascendere le proprie origini, mentre “la ragione per cui il liberalismo classico fallisce da questo punto di vista è che il linguaggio della non interferenza non riesce ad andare oltre l’ambito di opinioni e interessi cui era legato in origine” (p. 161). Il contrario, invece, per il linguaggio della libertà come non dominio, particolarmente adatti per descrivere la condizione dello schiavo e della donna. Il linguaggio nato per coloro che sono nella condizione di vulnerabilità maggiore, può essere utilizzato anche per coloro che, pur trovandosi nei confronti dello schiavo in una condizione di minore vulnerabilità, sono comunque in condizioni di vulnerabilità nei confronti di altre categorie. Tanto è vero che Pettit esprime la convinzione che il linguaggio di questo tipo di libertà possa essere utilizzato per ridescrivere in chiave repubblicana l’ambientalismo, il femminismo, il socialismo e persino il multiculturalismo. Tuttavia, quello che il concetto di libertà come non dominio riesce meglio di tutto a descrivere è proprio la capacità dello Stato di essere, entro certi limiti, costruttore di libertà ed oltre un certo limite, costruttore di dominio. “Benché lo stato repub- blicano sarà, quindi, tendenzialmente incline ad assumersi un’ampia gamma di responsabilità, è importante non dimenticare che, nel caso in cui oltrepassi un certo limite, è destinato inevitabilmente ad arrogarsi anche un insieme di poteri indipendenti: è destinato, cioè, a diventare a sua volta una presenza dominante” (p. 181). Questo non succede o succede di meno soltanto se lo Stato repubblica si attiva per realizzare politiche che portino a favorire l’autogoverno e l’indipendenza economica. Per questo, una delle politiche più sostenute dai repubblicani è quella di una riforma agraria tesa a garantire che la proprietà della terra non finisca nelle mani di pochi possidenti. L’ultimo capitolo serve a Pettit per descrivere le condizioni in cui un governo repubblicano può ridurre al minimo la propria componente arbitraria. La prima è la rule of la w intesa in senso radicale (solo la legge che viene approvata nel corso di un processo regolativo garantisce una sottomissione alla legge e non agli uomini che la legge hanno voluto). La seconda è la necessità di distribuire i poteri legittimi tra soggetti diversi (il principio della divisione dei poteri stabilito da Montesquieu); la terza è la necessità di rendere la legge relativamente resistente alla volontà della maggioranza (le leggi più importanti non dovrebbero essere cambiate a maggioranza semplice) (pp. 208-9). Citando Shapiro, Pettit sostiene che “la democrazia, secondo l’opinione generale, ha a che fare con il consenso; di norma viene associata in maniera quasi esclusiva all’elezione popolare dei membri del parlamento. Ma, in modo altrettanto legittimo, si può concepire la democrazia alla luce di un modello centrato più sul conflitto e sulla contestazione che sul consenso. Alla luce di questo modello un governo apparirà democratico, rappresenterà cioè una forma di governo sottoposta al controllo popolare, se gli individui, individualmente o collettivamente, godranno permanentemente della possibilità di contestare le decisioni prese dal governo” (p. 223). Infine, la nozione di democrazia rimanda, più che al consenso, all’autonomia e all’autogoverno di un popolo. Per realizzare questo autogoverno, nei limiti del possibile, Pettit sostiene che occorre 111 n.18 / 2007 rispettare tre regole: 1) che il processo decisionale sia condotto in modo tale che sia possibile contestarlo; 2) che non solo vi sia un canale per esprimere dissenso, ma vi sia una arena dove far sentire le proprie contestazioni; 3) che questo spazio di ascolto non sia fine a se stesso, ma sia una premessa per fornire un’adeguata valutazione delle contestazioni e una risposta adeguata. Per queste tre regole, si può sostenere che il governo repubblicano è deliberativo e basa la propria azione politica fondamentale su negoziazione, deliberazione e mobilitazione, con tutti i limiti che questi tre modi: la negoziazione favorisce le persone che hanno più potere negoziale; la deliberazione coloro che hanno più mezzi per far arrivare a tutti la propria voce; la mobilitazione coloro che hanno più possibilità di tenere mobilitati i propri sostenitori (in genere, coloro che fanno parte di partiti organizzati o con posizioni lavorative connesse ad aspettative o a concessioni clientelari). La concezione della libertà come non dominio implica degli assunti impliciti che Pettit, nell’ultima parte, cerca di esplicitare: 1) che si sposti l’attenzione dall’interferenza arbitraria all’interferenza naturale (cioè all’interferenza che è logicamente, eticamente e giuridicamente naturale); 2) che persino il percorso verso la secessione sia obbligatoriamente condotto nel senso di rispettare logica, etica e diritto nel separarsi; 3) che le leggi migliori siano quelle che sono state deliberate da più tempo senza essere state modificate in modo significativo e che il modo migliore di modificare una legge sia quello di aggiustamenti progressivi e graduali; 4) che la sovranità popolare non stia nella rappresentanza, bensì nel diritto di resistenza o, più esattamente, nella capacità di trasformare la classe dirigente in un arbitro nelle condizioni in cui si attiva per partecipare; 5) che sia considerata con pessimismo la possibili- tà che chi acquista posizioni di potere si mantenga incorrotto, mentre assume con ottimismo la naturale disponibilità al bene comune della gente comune (il contrario si può dire per la libertà come non interferenza); 6) che la regolazione sia costruita sull’individuo che rispetta le regole (in questo caso il termine regolazione è usato in modo corretto e l’argomento più forte a favore di questa regolazione è la cosiddetta “forza civilizzatrice dell’ipocrisia” formulata da Elster, ripresa da Habermas e condivisa da Pettit), mentre la libertà come non interferenza presuppone che la regolazione sia costruita sull’individuo deviante (il termine regolazione usato da Pettit, in questo caso, è improprio perché sarebbe più giusto dire che si tratta di produzione di norme in senso costitutivo); 7) che la regolazione sia concepita come un allarme antincendio (ci si affida all’allarme dato dai cittadini), mentre la libertà come non interferenza concepisce la regolazione come un pattugliamento di polizia (ci si affida a una parte autorizzata della società). Il primo modello è meno costoso e non è soggetto a corruzione, mentre il secondo è costoso e può degenerare nella corruzione; 8) una società fondata su buoni costumi e buone leggi in senso regolativo, perché i buoni costumi si affermano attraverso le buone leggi e le buone leggi attraverso i buoni costumi; 9) che il mercato sia concepito come regolato da una mano intangibile (cioè la reputazione e il senso dell’onore) che è tanto più efficace quanto più l’identità di una comunità è forte (il che permette di mettere insieme un liberalismo comunitarista che mette in gioco forme di identità collettive), mentre la concezione liberale tradizionale concepisce il meccanismo del mercato come mano invisibile, cioè come costruito sull’interesse individuale di ciascuno e non sul senso civico diffuso; 10) che la forza della fiducia si sostituisca alla forza della produzione di norme, il capitale sociale agli interessi individuali. [email protected] 112 Mario Quaranta Un momento aureo della cultura a Padova Segno Veneto Padova Carrarese: nuove prospettive storiografiche Oddone Longo (a cura di), Pa dova Ca rra rese (Atti del Convegno, Padova 11-12 dicembre 2003), Il Poligrafo, Padova 2005, pp. 366 € 30.00. L’Accademia Galileiana di Scienze Lettere ed Arti ha pubblicato nella collana “I Poliedri” edita dal Poligrafo di Padova, gli atti del convegno sul “periodo d’oro” della storia padovana, - il periodo carrarese -, su cui peraltro esiste un’ampia letteratura. Silvana Collodo, in I Ca rra resi a Pa dova : signoria e storia della civiltà citta dina , traccia una sintesi della signoria carrarese, dopo un’informazione precisa sui nuovi paradigmi oggi dominanti nella storiografia sul fenomeno delle signorie. Attorno ai Comuni come centri di libertà e conseguentemente la signoria come tirannide o dispotismo si è creato un certo “mitologismo”, che in questi ultmo decenni ha subito un’eclissi. Il dominio dei Carraresi (1318-1405) è analizzato attraverso l’alleanza che si è istituita tra signore e mercanti. In particolare la studiosa, che a tale problema ha dedicato lavori pionieristici, si sofferma sui quarant’anni in cui Francesco il Vecchio esercitò il potere, introducendo nuove modalità di prelievo fiscale, incrementando la manifattura tessile, potenziando le attività della zecca. Di fronte a questi sviluppi e ad altri che si riscontrano nell’ultimo periodo della signoria, governata da Francesco Novello (1390-1405), la Collodo mette in evidenza i limiti di un esercizio del potere, teso “più a contenere la vita associata che a modificarne in profondità i moduli costitutivi”. Padova, con i suoi 40-45.000 abitanti aveva una “posizione di rilievo nella graduatoria quantitativa”, ponendosi al di sopra dello standard medio delle città del tempo. Ma a ciò non corrispondeva un sistema economico adeguato, né l’apporto dello Studio modificò tale situazione. Ma nella seconda metà del Trecento si registra una svolta; “Padova imboccò con decisione la strada della promozione delle attività manifatturiere e in primis dello sviluppo dell’industria tessile”. A integrazione di questa analisi, l’autrice si sofferma a delineare i modi e i tempi in cui si manifestò nei signori una presa di coscienza “dinastica” del loro ruolo nella città e alle conseguenti iniziative che intrapresero. Basterà ricordare “l’ambizioso disegno della fondazione del mausoleo di famiglia”, considerato l’espressione di un tentativo di celebrazione civica. Ma in tale scelta si va oltre, afferma la Collodo, che vi scorge “una dimensione più profonda”, ossia l’intento, da parte di Francesco il Vecchio, di “rappresentare il legame inscindibile che univa la città con la dinastia carrarese: come la città apparteneva al signore, così il signore apparteneva alla città”. Nell’intervento su Signorie venete nel Trecento. Spunti compa ra tivi Gian Maria Varanini ci informa sullo “stato attuale delle ricerca sulle signorie venete”, i cui modelli politici (genesi, sviluppo, eclissi) sono stati alla base di una profonda revisione della 113 n.18 / 2007 storiografia su tale periodo. Revisione da cui parte lo studioso che si sofferma, in modo particolare, sui modi diversi messi in atto dalla signoria scaligera e quella carrarese per “creare e mantenere un consenso sociale robusto”, specie di quelle élite cittadine che hanno consentito stabilità e durata al potere signorile. L’autore si indugia, infine, sugli strumenti culturali e le iniziative che hanno consentito ai signori carraresi, più ancora che agli scaligeri, di avviare una politica di “immagine” come parte integrante di una pratica del potere. Essa fu giocata attraverso strumenti plurimi: dalle medaglie ai libri dei cimiteri, ai diversi livelli della storiografia di corte, e cossì via. In questa attività appare fondamentale, secondo l’autore, “la capacità degli intellettuali della corte carrarese di rielaborare, nella prospettiva della dinastia signorile, la storia della città”. Antonio Rigon affronta un argomento tra i più complessi della storia padovana trecentesca, i rapporti fra la Signoria e l’episcopato di Padova. Fu un rapporto conflittuale, di pacifica convivenza o di reciproco aiuto? L’autore sottoliena che c’è una continuità fra il periodo comunale e quello signorile; il potere politico ebbe “un rapporto stretto e diretto con la Curia pontificia, la quale destina alla sede padovana propri fedeli e collaboratori”, spesso di rango. L’autore sostiene che a differenza di Verona scaligera, la Curia apostolica e i Carraresi concorsero nella scelta dei presuli. In altri termini, ci fu “un saldo legame di fedeltà al papa di Roma”. Così, quando la Chiesa attraversò un periodo molto difficile, il collasso fu evitato proprio dall’intervento dei Carraresi. Andrea Saccoci fornisce un contributo di rilievo sul ruolo della monetazione padovana nel periodo carrarerese, delinenando una mappa delle aree monetarie, che “erano in realtà delle specie di mercati comuni della moneta, sempre contrastati dalla autorità dei vari stati”. L’autore indica le tre distinte fasi della monetazione, individuando le scelte compiute da Francesco il Vecchio nella politica monetaria, volta a dotarsi di monete concorrenziali con le altre valute esistenti nell’area veneta. Giovanni Lorenzoni interviene su Urba nistica ed emergenze a rchitettoniche nella Pa dova ca rra rese; un argomento su cui ha già pubblicato studi di grande rilievo. Nel periodo carrarese, afferma, il sistema di mure 114 cittadine era completato “almeno nei suoi nuclei essenziali”, e fu Ubertino a portarlo definitivamente a termine. Le emergenze architettoniche si incentrano essenzialmente sulla “Reggia carrarese”, che occupava un’area molto estesa, sede dell’abitazione dei Carraresi e del loro governo: “Il tutto era racchiuso da mura che ne delimitavano l’area in modo perentorio: un microcosmo, la reggia, inserito nel macrocosmo della città di Padova”. In conclusione, c’è stata una continuità tra l’organizzazione urbanistica comunale e quella carrarese, con un cambiamento significativo nella localizzazione del centro del potere. Oggi, come è noto, non c’è quasi nulla di quel complesso di edifici, che ebbe un grande significato politico e simbolico. Sul castello carrarese (il “Castello” per antonomasia di Padova) interviene con un ampio saggio Sante Bortolami, la cui costruzione nel periodo di Francesco il Vecchio ubbidì a ragioni difensive. Prima dei Carraresi, fu la “Torre lunga o Torlonga il cardine delle difese urbane ma anche simbolo di una specifica fase della storia cittadina”. L’autore si sofferma sul periodo di Ezzelino da Romano e sul periodo comunale. Per poi rilevare che il complesso fortificato da Francesco il Vecchio si inserì in un contesto pre-esistente portando a compimento “l’integrazione di civita s e suburbia ”, che segnò pressochè definitivamente la forma urbis di Padova. Anche Renzo Fontana interviene sul Castello “dalla svalutazione di un simbolo carrarese al futuro recupero”, rilevando che “la perdita dell’identità originaria del Castello si è protratta fino ai nostri giorni”, tanto che non è presente nella cartografia del Touring Club né nelle mappe della città distribuite dall’Azienda del turismo. Giulio Cattin e Antonio Lovato si occupano della musica e delle dottrine musicali a Padova nel Treccento. Per un secolo, afferma Cattin, le quattro istituzioni fondamentali, comune, cattedrale, monastero, università, sono state centri “nella elaborazione, produzione, copiatura e riflessione su dottrina e prassi musicale”. Lovato sottolinea che agli inizi del Trecento si registra un mutamento nell’approccio alle problematiche della musica, orientato essenzialmente da filosofi, astronomi e medici. In questo modo entrano in scena gli auditores, “che si appropriano del fenomeno musicale in quanto evento sonoro”. Giorgio Ronconi, con L’imma gine dei Ca rra resi nella lettera tura del Mario Quaranta tempo, e Giovanni Gorini con I Ca rra resi dopo i Ca rra resi: forme di sopra vvivenza lettera ria , ci dicono come è veicolata nella letteratura l’immagine dei Carraresi durante e dopo il periodo della Signoria. Un cenno merita il testo breve di Alberto Papafava dei Carraresi - Memorie di fa miglia -, in cui il discendente dei Carraresi ricorda in modo riconoscente la figura di Taddea Ariosti, moglie di Giacomino Papafava, il cui coraggio consentì di garantire la continuità della proprietà che è giuntqa fino ad oggi. Manlio Pastore Stocchi tratta Il modello uma nistico: gli uomini illustri dell’a ntichità , ossia “lo sterminato calendario astrologico nel Palazzo comunale della Ragione e l’imponente serie di trentasei uomini illustri dell’antichità, da Romolo a Traiano, a frescata nella cittadella signorile”. Lo studioso sottolinea il significato di entrambi i cicli, rilevandone una sottesa conflitualità; i modelli di eccellenza, infatti, di indubbia ispirazione umanistica, si contrappongono “all’anonimo catalogo di tipi e destini ordinari del ciclo della ragione”. Per quanto riguarda le vicende culturali di questo periodo, dopo che quelle artistiche sono state rinviate a un successivo convegno, si segnalano tre interventi: Graziella Federici Vescovini su La superiorità della ma tema tica nell’insegna mento scientifico di Bia gio Pela ca ni sotto i Ca rra resi ; Enrico Berti su Astronomia e a strologia da Pietro d’Aba no a Giova nni Dondi dell’Orologio, e Giuseppe Ongaro su La medicina dura nte la signoria dei Ca rra resi . La Federici Vescovini si sofferma sul contributo di Pelacani, operante a Padova dal 1384 al 1411, nel campo della matematica, di cui egli avvertì l’importanza epistemologica decisiva all’interno del sapere, determinata dall’alto grado di certezza che assicurava, e “questa supremazia della certezza della matematica è opposta a quella della fisica e della metafisica”. La matematica, insomma, come scienza regina nell’ambito di una classificazione delle scienze. Enrico Berti si sofferma su un argomento, astronomia e astrologia, in cui permangono tuttora incomprensioni e fraintendimenti, come il contrasto che ci fu nel medioevo, tra cosmologia aristotelica e quella tolemaica. Un posto di grande rilievo ha avuto Pietro d’Abano, il quale difese l’astronomia tolemaica anche dal punto di vista fisico. E che il modello tolemaico Un momento aureo della cultura a Padova non fosse solo un’ipotesi matematica, ma descrivesse una realtà effettiva, è alla base di quel capolavoro teorico (Tra cta tus a stra rii ) e pratico, la costruzione dell’astrario, che fa di Giovanni Dondi dell’Orologio uno dei personaggi più “moderni” del Trecento. Giuseppe Ongaro traccia un quadro della medicina, soffermandosi sul fenomeno della peste che decimò la popolazione nei tre momenti in cui apparve a Padova, 1348, 1362, 1382. In queste congiunture la medicina fallì perché i rimedi messi in atto, di cui ci viene fornita impietosamente una documentazione, non servirono a nulla; inoltre la stessa immagine del medico fu moralmente messa in discussione perché molti si rifiutarono di prestare soccorso. Lo studioso padovano si sofferma poi su alcune figure centrali, come Pietro d’Abano, cui si deve la prima autopsia; tra la fine del Duecento e i primi decenni del Trecento, afferma Ongaro, a Padova c’era un’affermata attività dissettoria. Il suo successore fu Giovanni Santa Sofia, considerato “Monarcha medicinae”, capostipite di una lunga serie di una illustre famiglia di medici, come Iacopo Dondi, medico, astronomo e matematico. In conclusione, nota l’autore, studi recenti hanno smentito un pregiudizio storografico; fin dal Duecento anche Padova aveva un insegnamento di medicina di alto livello. Ci sembra che la novità - metodologica e di ricerca -, cui giungono i diciotto studiosi, su alcuni dei quali ci siamo brevemente intrattenuti, sia stata resa possibile dall’avere tutti tenuto conto del mutamento del paradigma storiografico sul fenomeno delle Signorie, Oggi ha subito un’eclissi il mitologismo dei Comuni come centri di libertà e conseguentemente della Signoria come una forma di tirannide o dispotismo. In queste ricerche sono individuati i motivi di discontinuità ma anche quelli di continuità fra Comune e signoria, che a volte sono solidi e riguardano istituzioni e ceti importanti. È stata indicata l’importanza che ha avuto la politica culturale e di immagine delle signorie nella creazione del consenso di certi ceti e nella legittimazione dello stesso potere. Mario Quaranta 115 n.18 / 2007 Ripensando a Paolo Sarpi Corrado Pin (a cura di), Ripensa ndo Pa olo Sa rpi (Atti del convegno internazionale di studi nel 450° anniversario della nascita di Paolo Sarpi), Appendice iconografica a cura di Camillo Tonini, Ateneo Veneto, Venezia 2006, pp. XV-758 € 35.00. Paolo Sarpi, Istoria dell’Interdetto, a cura di Corrado Pin, introduzione di William Shea, Edizioni THINK ADV, Conselve 2006, pp. XLVIII327, € 25.00. Paolo Sarpi, Della potestà de’ principi , a cura di Nina Cannizzaro con un saggio di Corrado Pin, presentazione di Giancarlo Galan, Regione del Veneto-Marsilio, Venezia 2006, pp. 125, € 13.00. Per la seconda volta l’Ateneo Veneto ha ricordato con un convegno di grande rilievo Paolo Sarpi (già nel 1983 l’Ateneo organizzò un convegno sul servita, integrato da una mostra). Alcuni dei ventidue contributi, usciti ora a stampa in un ponderoso volume, consentono di segnalare le novità storiografiche di interesse generale cui è giunta la ricerca su Sarpi, con interpretazioni delle convinzioni filosofiche, religiose e politiche del servita veneziano molto varie per non dire, a momenti, persino antitetiche. Gino Benzoni, in una fluviale introduzione (anzi A mo’ d’introduzione) cui ci ha abituato in questi ultimi anni, traccia un quadro delle vicende del periodo storico, in cui si colloca l’attività di Sarpi. Anche se “non incattedrato”, di fatto Sarpi – sostiene Benzoni – esercitò l’attività propria di un professore di scienza della politica. Il suo insegnamento della “dottrina dello stato”, dal quale dipende la sua azione a sostegno della Serenissima in qualità di consultore in iure, è da Benzoni sintetizzato in questa formula apertamente provocatoria: “Tutto bene se comanda il principe, tutto male se comanda Roma”. In conclusione, Sarpi “tiene, sempre e comunque, per lo Stato”. Ben diverso l’approccio di Boris Ulianich, che nella relazione su Teologia pa olina in Sa rpi?, proseguendo nei suoi studi sulla figura del servita veneziano iniziati negli anni cinquanta, insiste sulla “centralità fondante della Scrittura, come punto di riferimento ultimo, al quale il Sarpi si appella”. Di fronte al quesito se l’ecclesiologia sia stata utilizzata da Sarpi per dare fondamento a finalità essen- 116 zialmente politiche, o abbia invece una sua propria autonomia, la risposta è netta: tutta l’attività di Sarpi, afferma Ulianich, è fondata sulla “Scrittura e, in particolare, sulle lettere paoline”. In questa prospettiva, “la Istoria del Concilio Tridentino è e resta la massima espressione del Sarpi teologo, perché la dimensione teologica costituisce l’interesse fondamentale che lo muove a redigerla”. In altri termini, non è la teologia instrumentum della politica, ma la politica una “riprova nodale della sua [di Sarpi] visione teologica”. Vittorio Frajese rappresenta, per così dire, l’antiUlianich, confermando, nel contributo Problemi di da ta zione dell’insegna mento esoterico di Sa rpi , la tesi formulata a suo tempo in un lavoro che sollevò un largo dibattito, e cioè che da numerose testimonianze dell’epoca possiamo ricavare l’immagine di un Sarpi scettico e sostenitore di un materialismo atomista. Ugo Tucci ripercorre le vicende economiche e finanziarie dell’epoca di Sarpi, sfatando il tenace pregiudizio storiografico di un presunto declino a cavallo del Cinque e Seicento della Repubblica veneta; e Pacifico M. Branchesi ritorna su alcuni documenti apparsi negli ultimi decenni per delineare la vita e l’attività del frate servita “prima della vita pubblica (15521605)“. Peter Burke lamenta che manchi ancora una interpretazione convincente di Sarpi storico e suggerisce linee di lettura dell’opera sarpiana, in particolare dell’Istoria del concilio tridentino; Giovanni Da Pozzo, dal canto suo, si sofferma su Il problema filologico del testo sa rpia no dell’“Istoria del Concilio Tridentino”, l’opera che ha reso celebre Sarpi in Europa, segnalando i limiti filologici delle edizioni finora pubblicate, da superare in una prossima, e quanto mai necessaria, edizione critica dell’opera fondamentale del padre servita, di cui delinea l’impostazione essenziale. Eleonora Belligni discute i rapporti tra Pa olo Sa rpi, Ma rca ntonio De Dominis e i la titudina ri della prima genera zione. La tesi centrale è che “cristiani come Paolo Sarpi e Marcantonio De Dominis avevano interpretato il concilio come opera di accentramento politico e affermazione di fatto di atteggiamenti corrotti e di errori dottrinali”. Corrado Pin, uno dei maggiori esperti di testi sarpiani, affronta in due interventi alcune questioni importanti. Nel primo compie una disamina di Mario Quaranta alcuni Ma noscritti sa rpia ni: a utogra fi, idiogra fi e a pogra fi (di cui si offre un campionario in fac-simile), mostrando come attraverso l’individuazione delle grafie dei vari amanuensi sarpiani sia possibile non solo individuare nuovi testi del servita, ma fissare con sufficiente approssimazione la datazione di suoi manoscritti. Proprio grazie al ricorso alle grafie si è potuto dimostrare come i manoscritti delle controverse sillogi Pensieri sulla religione e Pensieri medico-mora li vadano collocati non prima, ma dopo l’Interdetto veneziano del 1606; con l’interessante risultato di ridimensionare la tesi di Gaetano Cozzi di una cesura fra il Sarpi politico e quello “privato” dei testi filosofici. Pin pone in evidenza la continuità degli interessi filosofici e religiosi del servita (una tesi sostenuta anche da Frajese) nonostante l’esperienza dell’Interdetto del 1606, aprendo così nuove vie all’individuazione dell’unità del pensiero sarpiano. Nella relazione su Pa olo Sa rpi e la committenza del dopo-interdetto, Pin presenta con ampia e ragionata documentazione un Sarpi fortemente deluso dall’esito dell’Interdetto, avvertendo “quella pace come una sconfitta”. Sarpi infatti, nota con acume Pin, è stato “il teologo che aveva ispirato e dato voce agli ideali della riforma religiosa”; ideali che ora subivano una eclissi. Una delusione non sufficientemente compensata, osserva Pin, dal dato di fatto incontrovertibile che il compromesso raggiunto “non toccava l’aspetto giurisdizionalistico della contesa”. In altri termini, la conclusione del conflitto che aveva interessato tutta l’Europa e dato a Sarpi una figurazione di primo piano, “salvaguardava in pieno le leggi della Serenissima incriminate da Paolo V e le sue prerogative sovrane”, ma non realizzava i progetti che avevano spinto il servita a schierarsi apertamente a fianco della Serenissima contro il papato della Controriforma. Una delle relazioni cruciali è quella di Libero Sosio, che dà una sistemazione organica a un problema da lui affrontato in altri scritti: Pa olo Sa rpi, un fra te della rivoluzione scientifica . Anche se Sarpi non ha pubblicato alcun scritto scientifico, secondo Sosio è legittima l’ipotesi che avesse una preparazione scientifica di prim’ordine e che “possa anche aver dato qualche contributo alle scienze attraverso contatti diretti con alcuni fra i massimi scienziati del tempo”. È noto, infatti, che condusse studi sul barometro, sul magnetismo, sulla rifrazio- Un momento aureo della cultura a Padova ne della luce; che si occupò a varie riprese di medicina e di biologia, con osservazioni originali sull’anatomia dell’occhio, giungendo inoltre a individuare l’esistenza delle valvole delle vene, una delle condizioni che permisero a Harvey di formulare la teoria della circolazione del sangue. Libero Sosio discute con grande competenza il rapporto di Sarpi con Galileo, sottraendosi all’alternativa fra quanti negano qualsiasi influenza di Sarpi sullo scienziato pisano, e chi, invece, sostiene un suo influsso preminente. La tesi di Sosio è che “il cammino di Galileo – dalla critica della fisica aristotelica alla fondazione della nuova scienza del moto – è prefigurato e accompagnato da un’evoluzione simile di Sarpi”. Inoltre, sul problema delle maree i testi ci direbbero, secondo Sosio, che “è più verosimile che la prima idea di questa teoria sia stata concepita da Sarpi”. E il problema delle maree è stato uno dei rovelli di Galileo, protrattosi fino alla vecchiaia. Alla conclusione di questo ampio e documentato saggio Sosio conclude: “Mi pare che fra Paolo possa aver dato un apporto concreto alla genesi della scienza moderna, aiutandoci a capire perché i diciotto anni trascorsi da Galileo a Padova siano stati fra i migliori della sua vita”: una tesi condivisibile. È indubbio che il convegno i cui “atti” abbiamo brevemente commentato, ha fornito elementi che favoriscono una rinnovata conoscenza di aspetti poco frequentati nella pur ampia letteratura critica su Sarpi, e nuovi approfondimenti delle questioni già note. Basterà ricordare, a tale proposito, i contributi di Filippo de Vivo su Paolo Sarpi e la gestione dell’informazione, in cui lo studioso rileva l’uso moderno che Sarpi ha fatto dell’informazione. Claudio Povolo interviene con importanti osservazioni sul non facile rapporto di Sarpi con il diritto veneto, e di Piero Del Negro sui consulti sarpiani, che convincono la classe dirigente veneziana a “inventare” una laurea di Stato, troncando “il cordone ombelicale, che univa gli Studi generali e, al di là di essi, il sapere nelle sue più alte manifestazioni, ai poteri universali dell’Europa medievale, il papa e l’imperatore”. Mario Sangalli indaga i rapporti di Sarpi con i teatini di Bergamo, da cui emerge la sua concezione educativa di stampo antigesuitico; Pasquale Guaragnella fornisce una innovativa lettura della 117 n.18 / 2007 biografia di Fulgenzio Micanzio, la Vita del pa dre Pa olo, ricorrendo agli strumenti della più raffinata critica letteraria; Mario Infelise affronta l’intricatissimo campo delle opere a stampa di Sarpi, tra false indicazioni di luogo, di editori e di librai, tracciando un ampio quadro della fortuna editoriale di Sarpi dentro e fuori d’Italia, che dà la misura della sua proiezione europea. Ma la fortuna di Sarpi non è solo editoriale: aprendo vie nuove alla ricerca, Antonella Barzazi segue lungo tutto il Seicento e oltre il difficile rapporto dell’ordine dei Servi di Maria con l’eredità del suo più grande e imbarazzante figlio; mentre Dorit Raines avvia un’originale ricerca della memoria di Sarpi negli archivi privati del patriziato veneziano. Infine, Giuseppe Trebbi con la consueta finezza passa in rassegna alcune recenti interpretazioni del padre servita, soffermandosi in particolare sull’odierno dibattito circa la religione di Sarpi alla luce dell’edizione critica dei Pensieri e delle recenti edizioni delle sue opere. In conclusione, si può dire che chi vorrà accostarsi e proseguire nella ricerca su questo straordinario personaggio, dovrà ora partire proprio da questi contributi innovativi. Conclude il ricco volume un’Appendice iconografica, curata da Camillo Tonini e realizzata da una équipe di studiosi i quali, valorizzando il patrimonio del Museo, offrono un innovativo contributo sulla fortuna sarpiana nell’Ottocento veneziano. Corrado Pin pubblica ora una vera e propria novità, l’Istoria dell’Interdetto nella redazione che Sarpi preparò nella primavera del 1610, in vista della consegna allo storico francese JacquesAuguste de Thou per la continuazione della sua Historia sui temporis; consegna poi impedita dal Collegio veneziano per motivi di opportunità politica. Nella Nota critica a l testo Corrado Pin dimostra come il codicetto, da lui rinvenuto nel fondo Donà delle Rose (Biblioteca del Museo Civico Correr di Venezia), tutto di mano del copista ordinario di Sarpi fra Marco Fanzano, sia quello preparato per l’invio, poi non avvenuto, a Parigi e rimasto nell’archivio privato – dove ancora attualmente si trova – del doge Leonardo Donà, protagonista del periodo dell’interdetto, protettore di Sarpi e suo strenuo difensore dopo la conclusione della contesa con il papa Paolo V. Nell’Introduzione al volume, William Shea, titolare 118 della cattedra galileiana di Storia della scienza all’Università di Padova, espone le ragioni che fanno di quest’opera un testo centrale nella storia dei rapporti fra Stato e Chiesa. Del papa Paolo V afferma che “impersonava il cattolicesimo autoritario, bramoso di potere temporale”, e che “adoperava la scomunica come strumento di sopraffazione”. Il contrasto fra il Papa e Venezia, dunque, fu essenzialmente di carattere politico e Sarpi ha dato un contributo di grande rilievo a smascherare e confutare le pretese del Papa. Il centenario dell’Interdetto si conclude con il classico “coup de théâtre”. Nina Cannizzaro, docente presso il Bard College nello Stato di New York, studiosa di letteratura del Cinque e Seicento, ha rintracciato presso la Beinecke Library della Yale University un manoscritto della seconda metà del Seicento, copia di un inedito di Sarpi – Della potestà de’ principi –, di cui aveva dato notizia nella biografia sarpiana il Micanzio, ma che era finito quasi subito nel totale silenzio. Si tratta, come già informava il biografo sarpiano, dell’abbozzo dei primi tre capitoli di un’opera che Sarpi aveva progettato di scrivere e che dava “indizio che dovesse esser la più bella e importante composizione che sia mai comparsa al mondo”; di essa – è sempre Micanzio a informarci – Sarpi aveva steso una traccia in 206 “rubriche” (rubriche – e cioè titoletti dei progettati capitoli – anch’esse serbate nel manoscritto di Yale). La studiosa fornisce nell’introduzione una precisa informazione di questo straordinario ritrovamento, tracciando il suo possibile percorso, mentre Corrado Pin, in un ampio saggio, con la proverbiale cautela di expertise di testi sarpiani, dimostra l’autenticità dell’opera, la cui composizione è databile fra il 1610 e il 1611. In quest’opera, Sarpi “sostiene senza tentennamenti le principali tesi assolutistiche” formulate tra Cinque e Seicento, in particolare da Jean Bodin, fino ad anticipare posizioni, secondo Pin, vicine al pensiero di Hobbes e di altri teorici dell’assolutismo regio del pieno Seicento. Un nuovo e intrigante testo, che viene offerto agli studiosi, i quali proprio nel momento in cui forse pensavano di avere concluso il loro lavoro euristico, devono riprenderlo e almeno in parte rivederlo. Mario Quaranta Antonio Vallisneri, medico e naturalista Dario Generali (a cura di), Bibliogra fia delle opere di Antonio Va llisneri , Leo S. Olschki, Firenze 2004, pp. 265 € 27.00 Antonio Vallisneri, Qua derni di osserva zioni , vol. I, a cura di Concetta Pennuto, introd. di Dario Generali, Note biologiche di Andrea Castellani, Leo S. Olschki, Firenze 2004, pp. CVIII-255, € 36.00. Antonio Vallisneri, Migliora menti e correzioni d’a lcune sperienze ed osserva zioni del signor Redi , a cura di Ivano Dal Prete, Note biologiche di Andrea Castellani. Carlo Francesco Cogrossi - Antonio Vallisneri, Nuova idea del ma le conta gioso de’ buoi , a cura di Mauro De Zan, Leo S. Olschki, Firenze 2005, pp. 173, € 18.00. Antonio Vallisneri, Epistola rio 1714-1729, a cura di Dario Generali, Leo S. Olschki, Firenze 2006, CD, pp. XIV-1873, € 50.00. Questi quattro volumi fanno parte di un’audace e meritoria impresa editoriale, che prevede l’edizione nazionale delle opere di Antonio Vallisneri (1661-1730), più di sessanta, distribuite in tre serie: l’edizione dei manoscritti, le opere edite dallo scienziato e il carteggio, che conta più di 12.000 lettere, del quale si è da poco conclusa la pubblicazione delle circa 1600 dell’Epistola rio, e il cui arcchivio elettronico in progress è on-line sul sito internet www.vallisneri.it. Dopo essersi formato a Bologna sotto la direzione di Marcello Malpighi, Vallisneri venne chiamato nel 1700 alla cattedra di medicina pratica (passando successivamente a quella di teorica) nello Studio di Padova, dove ha insegnato per trent’anni. Ha pubblicato, spesso anonimi o con pseudonimi o a nome di allievi, una sterminata serie di saggi, articoli, libri, di cui Dario Generali, coordinatore scientifico dell’iniziativa, ci fornisce una rigorosa bibliografia. Uno strumento imprescindibile per chi si accosta all’opera vallisneriana, che comprende un ampio spettro di argomenti: anatomia comparata, medicina, embriologia, storia naturale, etologia, filosofia, entomologia, geologia. Nel primo volume dei Qua derni di osserva zioni , cui l’autore si dedicò tra il 1694 e il 1701, si trovano notazioni originali che hanno consentito allo scienziato di correggere errori e vere e proprie fal- Un momento aureo della cultura a Padova sità riscontrate nei testi che gli scienziati avevano scritto su vari argomenti. La lettura di questa miniera di dati, fatti, ipotesi, ci permette di comprendere, inoltre, la genesi del pensiero e la pratica scientifica di Vallisneri, frutto di un’intensa attività osservativa e teorica, soprattutto in ambito entomologico. In molte occasioni, Vallisneri non solo fornisce la spiegazione o enuncia ipotesi attendibili relative a fenomeni fino allora sconosciuti, ma falsifica in termini scientificamente rigorosi la tesi della generazione spontanea, e confuta, sulla base del metodo sperimentale di stampo galileiano, l’aristotelismo biologico. E tutto ciò sullo sfondo di una esplicita battaglia per la libertà di pensiero, contrastando le pretese della chiesa controriformistica di controllare l’impresa scientifica. Egli attribuisce, baconianamente, un posto centrale all’osservazione assiduamente ripetuta e rigorosa dei fenomeni di cui la scienza si occupa. Le due opere, Muta menti e Nuova idea , del 1712 e del 1714, rappresentano due momenti fondamentali nell’attività scientifica di Vallisneri (e di Cogrossi). Nella prima affronta un delicato problema, lasciato aperto dal Redi, il quale per primo si impegnò nella confutazione della dottrina della generazione spontanea,che però ammise in alcuni casi particolari, come quello delle galle delle querce e di altri parassiti delle piante, che ritenne generati dalla forza vegetativa delle medesime. Un varco, questo, che consentì allo schieramento avverso di mettere in discussione la legittimità dello stesso metodo sperimentale. Vallisneri, per non compromettere la posizione galileiana, non critica frontalmente Redi ma propone “miglioramenti e correzioni” alle osservazioni e alle conclusioni errate avanzate da quest’ultimo, mettendo in evidenza che l’errore nasce esclusivamente da una applicazione sbagliata del metodo. La Nuova idea riguarda la scoperta della causa del contagio epidemico del 1714, che determinò la morte di oltre un milione e mezzo di bovini in Europa (da noi, soprattutto nella pianura padana). Contro le teorie tradizionali della “costituzione epidemica”, Cogrossi e Vallisneri sostengono l’ipotesi microbica della peste; una teoria che non era ancora sufficientemente corroborata empiricamente, e quindi epistemologicamente incerta. Secondo Cogrossi è legittimo ricorrere a congettu- 119 n.18 / 2007 re che comunque forniscono una spiegazione razionale del fenomeno che, anche se ipotetica e incerta, è pur sempre più convincente di quella tradizionale. Vallisneri aderisce a questa prospettiva interpretativa e teorica, ma non dimentica la necessità di giungere a una conferma empirica da realizzare attraverso il ricorso ad adeguate osservazioni con il microscopio, per individuare e osservare il presunto microrganismo responsabile della malattia dei bovini. Infine, la pubblicazione in due volumi, a cura sempre di Generali, delle lettere vallisneriane del periodo 1679-1713, è ora integrata dal CD in cui è registrato l’epistolario dal 1714 al 1729; un’edizione digitale senza apparato critico e di commento storico, al contrario dei due precedenti volumi, ma che mette a disposizione degli studiosi un materiale imponente da un punto di vista quantitativo, di grande importanza storiografica e che fornisce un notevole aiuto alla ricerca. Già da questi testi emerge nitidamente la figura di Vallisneri, il suo temperamento di battagliero difensore della nuova scienza, del metodo sperimentale scandito nei tre momenti: osservazione, ipotesi, sperimentazione. Sotto il profilo metodologico e sperimentale, egli ha fornito un contributo decisivo per la confutazione della teoria della genesi spontanea degli organismi viventi: “non ammetto - dichiarava - alcuni immaginabili generazioni senza materna semenza”. Elaboratore di un paradigma “forte” del creazionismo, difende la distinzione fra scienza e fede, ma è cauto quando sono coinvolti problemi di ortodossia religiosa, mentre nelle lettere dà aperto sfogo alle sue idee. L’attacco violento che egli muove all’aristotelismo biologico è motivo costante nei suoi scritti, anche se si rende conto che occorre ampliare la polemica contrapponendo al peripatetismo una diversa concezione generale della natura. Egli progetta, perciò, la ricostruzione di ogni anello della “grande catena degli esseri”; consapevole di delineare un’impresa che potrà essere realizzata soltanto con l’apporto di alcune generazioni di studiosi. Un cercatore d'oro di Treviso Da rio De Bortoli, Ja ck Costa . L'epopea del trevisa no che cercò l'oro in Ala ska , e lo trovò, Fra ncoAngeli , Milano 2006, pp. 236, € 15. 120 Attraverso sessant'anni di storia, dal 1868 al 1928, viene raccontata la straordinaria vita di un trevisano partito emigrante dal Veneto per raggiungere l'Alaska. Qui, dopo tremende fatiche e sacrifici, trova l'oro che gli consente di tornare ricco al suo paese. Ma per far riaffiorare questa storia l’autore percorre anche le vicende della famiglia di Jack Costa, dispersa in diversi continenti, intrecciate con i grandi avvenimenti mondiali. Tutto inizia nel Veneto del 1868, due anni dopo l'annessione al Regno d'Italia, quando Giovanni nasce a Costa, frazione di poche case vicina al paese di Pederobba. La sua famiglia, affittuaria di vari terreni, conduceva una vita modesta ma dignitosa in una situazione generale caratterizzata da crescenti difficoltà, dovute anzitutto all'arretratezza dei sistemi colturali e alla crescente pressione di una fiscalità impietosa. In un quadro sempre più fosco, l'unica speranza di una vita migliore sembrava venire ai contadini del tempo dalla prospettiva dell'emigrazione al di là dell'Oceano, soprattutto in Brasile, dove la fine della schiavitù aveva liberato grandi quantità di braccia che dovevano essere immediatamente rimpiazzate. Promettendo un viaggio gratuito, attrezzi da lavoro, proprietà e vantaggi di ogni genere, agenti di emigrazione al servizio dei grandi proprietari terrieri o delle compagnie di navigazione, in accordo con lo Stato brasiliano, percorrevano le campagne venete per convincere la gente a partire. E Giovanni Dalla Costa ne vide molti partire verso un destino di fatiche e sacrifici mai pensando, fino al 1886, che anche alla sua famiglia sarebbe toccato in sorte un tale destino. Fu proprio nell'autunno di quell'anno, infatti, che un incendio distrusse tutto ciò che la sua famiglia aveva: la casa e il raccolto. Il fratello maggiore, Francesco, era sotto le armi, e quindi toccò a lui, appena diciottenne, emigrare in Francia per lavorare nelle miniere e mandare ai suoi qualche risparmio che potesse contribuire alla loro sopravvivenza. Ma dopo due anni, quando ebbe modo di rendersi conto che i suoi sforzi poco valevano per salvare la sua famiglia, Giovanni decise di seguire il suo istinto verso l'avventura, e così si imbarcò a Le Havre e raggiunse la California per partecipare alla corsa all'oro. Vi giunse nel 1888 quando, però, della mitica corsa all'oro iniziata quarant'anni prima non rimaneva altro che la pos- sibilità di trovare impiego in una miniera gestita dalle grandi compagnie minerarie. E così fece, nel vicino stato di Washington, per quattro anni, segnati da due importanti novità: la partenza della sua famiglia per il Brasile nella primavera del 1890 e, poco dopo, l'incontro con il fratello Francesco giunto anche lui in America sulle sue tracce. Ma la vita del salariato stava stretta a Giovanni, che nel 1892 decise di raggiungere Nome, in Alaska, per congiungersi con le avanguardie di una corsa all'oro che avrebbe assunto un carattere di massa cinque anni più tardi, nel 1897. Qui, in condizioni climatiche estreme, in una terra vastissima e vuota, fra alte montagne e fiumi immensi, estati senza buio e inverni senza sole, Giovanni diventa Jack Costa, il cercatore veterano capace di scavare pozzi nel terreno gelato e di affrontare pericolosi viaggi con la slitta trainata dai cani. Prima da solo e dal 1896 con il fratello Francesco, Frank, e il comune amico Felice Pedroni, Felix Pedro, trova varie piccole quantità d'oro e trae buoni guadagni dal commercio. Nel 1899, dopo aver sfruttato un filone piuttosto ricco, ritiene che sia giunto il momento di tornare a casa per farsi una famiglia. Ma nello stato di Washington, dove si ferma al ritorno dai ghiacci, sventuratamente perde tutto il denaro accumulato. Davanti alla scelta fra rientrare in Italia povero com'era partito o riprovare a far fortuna in Alaska, sceglie la seconda opzione, e così ricomincia a scavare e commerciare con in cuore la speranza del grande ritrovamento. Che giunge quattro anni dopo, il 9 aprile del 1903, nella zona dove anche lui, assieme a Felix Pedro, a suo fratello Frank e ad altri compagni di avventura, contribuirà alla nascita di Fairbanks, oggi seconda città alaskana dopo la capitale Anchorage. Questa volta la concessione a monte sul fiume Pedro gli dà la vera fortuna e, nel 1905, gli consente di ritornare ricco nella natia Pederobba dove, nel giro di pochi mesi, acquista case e proprietà, deposita una grossa cifra in monete d'oro presso il Banco di Mutuo Soccorso di Valdobbiadene e si sposa con Rosina Rostolis per ripartire con lei ancora verso l'Alaska in un favoloso viaggio di nozze. Seguono tredici anni di benessere, allietati dalla nascita del primogenito Francesco e di altre quattro figlie; anni in cui Giovanni, profondamente identificato con il mondo rurale in cui era nato, porta avanti la coltivazione delle terre che ha acquistato e la produzione di vino. Ma poi è di nuovo tragedia. Nel 1918, con la disfatta di Caporetto, è costretto a fuggire a Pavia dove rimarrà per un anno e mezzo patendo anche il dolore della morte della figlia maggiore vittima della “spagnola”. Al rientro, l'amara sorpresa: la casa distrutta, trafugate tutte le cose più preziose sepolte in un bauletto alla partenza, sequestrato dall'esercito austriaco il deposito in oro. Nel 1928, Giovanni muore lasciandoci eredi di una storia esemplare, estremamente attuale nonostante siano passati cent'anni, vivida testimonianza della volontà umana di una vita migliore in un mondo allora come oggi percorso da guerre e grandi emigrazioni. [Pietro Bardella] Il modello Veneto Curi, Umberto, a cura di, Il “modello veneto” fra storia e futuro, Poligrafo, Padova, 2007, pp. 153 In questo libro sono pubblicati gli atti del convegno su Il “modello veneto” fra storia e futuro, organizzato dall'Accademia galileiana nel 2005. Il Veneto, in particolare il Nord-Est, ha conosciuto in questi ultimi vent'anni una trasformazione economica così profonda e diffusa, che gli ha consentito di passare da “meridione” del Nord a regionemodello di sviluppo industriale per piccole e medie imprese. Un fenomeno di tali proporzioni ha sollecitato storici e sociologi dell'ultima generazione a operare una radicale revisione dei tradizionali moduli d'interpretazione della storia del Veneto. Carlo Fumian, ad esempio, ha ripercorso le tappe di questa lunga marcia della storiografia nella conoscenza del Veneto e nell'individuazione dei caratteri del suo modello di sviluppo. Modello su cui si è soffermato, in uno dei contributi più innovativi, Giorgio Roverato. Questi storici hanno riletto le vicende politiche venete del secondo dopoguerra, ove un ruolo decisivo ha svolto la politica dei governi diretti dalla Democrazia cristiana, incentrata su una legislazione che protesse, in particolare, gli interessi dei contadini (blocco dei contratti agrari, credito agricolo, ecc,). Ora, l'espanzione capitalistica del dopoguerra ha determinato l'eclissi dell'agricoltura tradizio- 121 n.18 / 2007 nale, ma il mondo contadino veneto non ha conosciuto un progressivo impoverimento come è avvenuto in altre regioni; esso è passato dalle attività agricole a una diffusa piccola-media industria, proprio per l'azione di sostegno dei governi, che ha permesso una riconversione “morbida” dei ceti contadini. Così essi sono diventati piccoli imprenditori o si sono riversati nell'economia dei servizi. Questo fenomeno è stato considerato unico in Italia, ed è stato accompagnato da un processo culturale di laicizzazione della società che ha coinvolto anche ceti di solide tradizioni cattoliche. Umberto Curi, in una delle relazioni storico-critiche più analitiche ha affrontato in termini nuovi la questione dell'identità veneta, diventata ora centrale per una serie di motivi analizzati con cura dallo studioso. Egli è persuaso che la questione dell'identità non debba essere confinata “sul piano riduttivamente culturale”, ma che occorra “farne il motore di una strategia proiettata all'avvenire”. Bruno Anastasia si pone il quesito se il ciclo “virtuoso” del Veneto stia per terminare o quali ostacoli non congiunturali debba superare per procedere ulteriormente. Paolo Biffis sottolinea il rilevante e forse decisivo contributo che la finanza e il credito hanno dato allo sviluppo dell'economia veneta, mentre Giovanni Costa e Ilaria Bettella si sono soffermati sul capitale umano del Veneto tra XX e XXI secolo e, dati alla mano, istituiscono una classificazione delle “persone creative” presenti nei capoluoghi di provincia, nella persuasione che la localizzazione di tali persone sia decisiva nello sviluppo economico di una regione. Francesco Favotto e Paolo Gubitta hanno tracciato l'evoluzione della forma impresa, che nel Veneto ha espresso una vitalità e pervasività eccezionali, con un “forte radicamento territoriale delle reti economiche e sociali che uniscono tali 122 imprese”. Uno sguardo acuto sulla classe politica veneta, in particolare sul personale politico democristiano e comunista ha dato Monica Fioravanzo. La studiosa esprime, infine, un forte scetticismo sulla possibilità che l'impetuoso sviluppo economico del Veneto di questi ultimi decenni possa proseguire. Massimo Carraro ritiene che nel ceto industriale veneto non ci sia una adeguata consapevolezza della nuova condizione che ha creato il processo di globalizzazione alle attività industriali del Veneto. Altri studiosi si sono soffermati su aspetti particolari ma rilevanti: Carlo Gregolin sui cambiamenti nei servizi sanitari e sociali; Mara Manente sul turismo; Paolo Scarpi sui modelli gastronimici; Michele Zanette sulla finanza comunale del Veneto. Questo convegno è riuscito pienamente sia nell'analisi storica che è a monte dell'odierno sviluppo, sia nell'individuazione degli ostacoli che occorre superare per dare continuità a tale sviluppo, sia nell'indicare le prospettive per il futuro. Dalle relazioni su quest'ultimo aspetto della questione veneta emergono come centrali sia la richiesta di una riduzione del fiscalismo da parte dello Stato, sia la necessità di una integrazione dell'area veneta nell'ambito del mercato tedesco, ossia del modello franco-renano di un capitalismo “temperato”, in grado di garantire continuità allo sviluppo. [email protected] Recensioni LibriLibriLibri BRUNO MAIORCA (a cura di), Gra msci sa rdo. Antologia e bibliogra fia 1903-2006, Istituto Gramsci della Sardegna, Cagliari 2007 Non vi sono dubbi che nella formazione degli intellettuali e degli uomini politici italiani la nascita e l’appartenenza a una determinata regione geografica e storica ha un ruolo molto importante. Tutta la letteratura dei sardi su Gramsci e la Sardegna, accuratamente raccolta da Bruno Maiorca, mette in luce degli aspetti decisivi della personalità del pensatore politico sardo. Ma essa ha risposto anche ad altre esigenze di carattere più propriamente partitico e politico. Gramsci era sardo ma è stato anche molto influenzato dal sardismo, ossia da un pensiero politico e da un sentimento popolare fondato sulla reazione nei confronti della politica dello Stato dei Savoia nei confronti della Sardegna, e infine ha sviluppato delle specifiche iniziative politiche nei confronti dei sardi anche quando militava nel partito socialista, e successivamente quando ha diretto quello comunista. Gramsci sardo, sardista, teorico della questione meridionale tre aspetti che si saldano nella sua affermazione relativa alla necessità della creazione di una Repubblica federale degli operai e dei contadini nella lettera del 12 settembre 1923 per la fondazione dell’Unità. Gramsci federalista, dunque? Se si rimuove l’affermazione di Gramsci sul federalismo, è evidente che tutta l’analisi e la ricostruzione del suo intenso rapporto con la Sardegna e con i sardi resta molto incompleta. Il federalismo gramsciano è la conclusione anche della sua interpretazione della questione sarda. Non è affatto vero, come ha sostenuto Claudia Petraccone, che il federalismo di Gramsci abbia “un valore strumentale”. Gramsci non era affatto preoccupato dai fenomeni di opposizione che si sviluppavano nel Meridione mettendo in pericolo l’unità nazionale; ne sottolineava l’acutezza. Che cosa ha gravato negativamente sugli studi e sulle testimonianza di Gramsci sardo e sardista? Anzitutto la mancata informazione del distacco del partito comunista dalla strategia elaborata da Gramsci e conclusa con il congresso di Lione nel 1926, congresso che aveva stabilito come obiettivo politico l’Assemblea repubblicana sulla base degli “operai e contadini”. In secondo luogo l’atteggiamento assunto da Palmiro Togliatti nei confronti del federalismo nel 1945. Nel suo rapporto al V Congresso del Pci del dicembre 1945, Togliatti ha assunto una posizione di principio antifederalista, la quale aveva certo delle motivazioni e delle giustificazioni nel pericolo della disintegrazione dell’Italia e nelle preoccupazioni per il Trattato di pace, ma proprio per il modo in cui è stata assunta, per il suo carattere assoluto, ha pesato negativamente anche nel caso specifico della ricerca e della interpretazione del federalismo di Gramsci. Nel 1919 e nel 1920 Gramsci ha scritto vari articoli dedicati alla Sardegna che hanno accompagnato il suo intervento politico nei confronti dei soldati della brigata Sassari che egli ha ricordato nel suo saggio su Alcuni temi della questione meridiona le. Anche nel caso della Sardegna e del Partito sardo d’azione il suo percorso non è stato semplice. Ancora nelle tesi del congresso di Lione (gennaio 1926) i partiti meridionali dei ceti medi e in particolare quello Sardo d’azione sono indicati come un ostacolo alla realizzazione dell’alleanza fra operai e contadini. Il congresso di Lione non ha affatto risolto la questione del governo operaio e contadino, il nuovo obiettivo indicato da Lenin nel momento del riflusso della rivoluzione a livello mondiale; la formula che consentiva alla classe operaia di uscire dall’isolamento e dalla passività. Le tesi di Lione sono un passo indietro rispetto alla lettera al Comitato esecutivo del PCI del 12 settembre 1923 relativa alla fondazione dell’Unità. La contraddizione fra i due documenti si spiega con gli orientamenti estremistici della maggioranza degli iscritti al partito comunista, ma anche con le incertezze politiche e teoriche dello stesso Gramsci. La parola d’ordine della Repubblica federale è stata rilanciata nell’Appello dell’Internazionale contadina rivolto al V Congresso del Partito sardo d’azione 123 n.18 / 2007 (27 settembre 1925) scritto da Ruggero Grieco, il collaboratore di Gramsci per il lavoro nei confronti dei contadini del Mezzogiorno e delle isole. Grieco ha scritto anche un commento del congresso; è evidente che l’interesse di Greco per la Sardegna rientra nell’ambito dei suggerimenti gramsciani. Nel luglio 1926 Gramsci invia a Emilio Lussu un questionario di sei domande relative alla situazione politica sarda. Il fascismo è già al potere. È molto significativo che Grieco abbia sempre sottolineato la diversità della questione della Sardegna rispetto al Meridione, e nello stesso tempo si sia configurato come il dirigente post-gramsciano che ha ribadito più a lungo la posizione federalista del PCI almeno fino al 1932. Grieco è stato anche l’interlocutore privilegiato del federalista veneto Silvio Trentin, amico di Emilio Lussu durante gli anni dell’emigrazione antifascista. Maiorca ha il merito di aver individuato e raccolto i primi scritti di Gramsci (1903-1913) fino alla lettera inviata a Alfredo Deffenu del Gruppo sardo della Lega antiprotezionista. Oltre a tutti gli scritti dei sardi su Gramsci. Ma che senso ha troncare la pubblicazione degli scritti di Gramsci al 1913? Gli scritti gramsciani di maggiore interesse sulla Sardegna sono quelli successivi. Inoltre gli scritti politici sulla Sardegna per essere comprensibili devono essere accostati ad altri scritti sul fronte unico, sul fascismo, nei quali sono espressi i criteri politici generali in base ai quali Gramsci ha aggiornato e sviluppato il suo modo di affrontare la questione sarda e quella del federalismo. La questione sarda non può essere separata da quella generale dello Stato centralista italiano che Gramsci ha analizzato in modo fino ad ora insuperato. Maiorca dà l’impressione di aver mosso la sua ricerca nell’ambito di un pensiero politico autonomistico sardo, che Gramsci mediante un processo complesso ha superato indicando nel 1923 l’obbiettivo della Repubblica federale degli operai e dei contadini. (Elio Franzin) ALESSANDRO MINELLI (a cura di), Attua lità di Da rwin , Il Poligrafo, Padova 2006, pp. 84,€ 15. I recenti dibattiti sul darwinismo fanno da sfondo a questo libro collettivo originato da una serie di 124 “lezioni” tenute, da parte di specialisti legati all’università patavina, sotto il patrocinio dell’Accademia galileiana. Nel volume, nonostante la non grande mole, sono toccati i problemi più scottanti, direi i punti nevralgici della grande teoria che ha rivoluzionato tanti campi scientifici: una teoria che “è venuta evolvendosi nel tempo rispetto all’iniziale modello darwiniano”, quindi “in continuo divenire, spesso problematica e magari pluralistica, come necessariamente accade per i frutti della ricerca scientifica”. Così afferma Alessandro Minelli nella Presentazione. Dallo stesso Minelli ci viene poi un’essenziale e illuminante esposizione di quel settore nuovo (di cui quest’autore è uno dei maggiori specialisti) che va sotto il nome di evo-devo, abbreviazione di evolutiona ry developmenta l biology (biologia evoluzionistica dello sviluppo), una sintesi tra biologia dello sviluppo (ontogenesi) e biologia evoluzionistica. Se si domanda, ad esempio, perché un animale è fatto proprio in questo modo, si possono dare “due diversi tipi di risposta. Se con tale domanda vogliamo in realtà sapere come una specifica forma è stata realizzata, dobbiamo calarci nella logica della biologia dello sviluppo, e andare in cerca di meccanismi di proliferazione e di differenziamento cellulare, di trascrizione differenziale dei geni, di specificazione e realizzazione di organi. Se invece la nostra domanda sul perché di una forma biologica si riferisce al valore di questa per la sopravvivenza dell’organismo, allora ci dobbiamo spostare nel dominio della biologia evoluzionistica, per vedere come differenze anche piccole (…) possano avere ripercussioni sul successo adattativo”. Un altro intervento alquanto “tecnico”, ma suggestivo, è quello di Andrea Pilastro, il quale ricorda come – oltre alla selezione naturale attraverso competizione diretta dei maschi per il possesso delle femmine – ci fosse già in Darwin una selezione attraverso la “scelta femminile”, rivolta ai maschi forniti di maggiori “ornamenti”. Solo negli ultimi decenni si è giunti a dare un’appropriata spiegazione scientifica, sintetizzata in queste pagine, a questo secondo aspetto, che lasciava scettici molti studiosi. Una vivace descrizione autobiografica di una cospicua serie di ricerche sul campo da parte di un veterano della biologia evoluzionistica ci viene offerta da Bruno Battaglia, con una notevole verve narrativa. Un racconto che dà anche un’idea efficace di questo campo di studi, delle sue difficoltà e vicissitudini. Ravvivate da vis polemica sono le pagine che Gianantonio Danieli dedica alle recenti discussioni tra sostenitori e avversari dell’evoluzionismo, i quali ultimi, curiosamente, sono forti soprattutto negli USA, una società all’avanguardia in campo scientifico, anche in quello specialistico dell’evoluzione, eppure ancora alquanto chiusa sul piano di una cultura scientifica come visione del mondo basata sulle scienze. Tutto ciò affetta particolarmente il campo scolastico. Del resto anche da noi, negli ultimi anni, ci sono stati tentativi di emarginare dall’insegnamento medio la teoria dell’evoluzione. Si sono rimessi in discussione gli stessi pronunciamenti della chiesa che in un messaggio di Giovanni Paolo II alla Pontificia Accademia delle Scienze, del 1996, sembrava aver sostanzialmente accettato il principio evoluzionistico. A dire il vero, oggi, più che escludere questo principio in assoluto, i negatori si sono concentrati sul suo inquadramento, per cui magari può passare un’evoluzione in generale, purché le si dia uno sfondo teleologico legato alla sapienza del creatore e non al “caso” darwinista. Le “evidenze” in favore della trasformazione delle specie stanno dimostrandosi così forti da farla considerare un “dato di fatto”, come osserva Oddone Longo, e non certo un’ipotesi qualsiasi. Ciò che ancora suscita maggiori resistenze è invece il concetto del cosiddetto “disegno intelligente”: un progetto evolutivo delle specie viventi elaborato in qualche modo da una mente superiore intelligente, divina (un discorso che esula dal metodo della scienza, ma che secondo i suoi sostenitori sarebbe richiesto da un’esigenza razionale di spiegare l’estrema complessità dei fenomeni naturali). Ma forse ancor più “difficile da digerire”, a parere di Longo, è la diffusa immagine (neo)darwinista che vede nei viventi (in quanto derivano da mutazioni casuali e cieca selezione naturale) “non già dei protagonisti ma delle comparse passive, del puro materiale, se non propriamente inerte, quasi, sul quale si eserciterebbero gli esperimenti del processo evolutivo stesso”. Un particolare impegno del libro si nota anche nei confronti del problema del rapporto tra l’evoluzione dell’organismo e quella della mente. Gli esseri umani - così Giovanni Felice Azzone sintetizza alcuni recenti risultati delle ricerche su questo pro- blema - sono costruiti “sia come macchine deterministiche mediatori di geni che come sistemi che agiscono come mediatori di memi , gli strumenti della trasmissione culturale fra le generazioni. I membri della specie umana sono in grado di modificare i vincoli dello sviluppo imposti dai geni mediante gli effetti dei memi ”, che costituiscono per così dire le unità di trasmissione culturale. Con la loro attività mentale, fornita di intenziona lità , gli uomini possono in qualche modo scegliere tra gli agenti che influiscono su di essi e sui loro discendenti, condizionando i percorsi evolutivi della società umana e del suo ambiente. Analogo problema quello della responsabilità morale, al cui proposito Giovanni Boniolo pone la cruciale domanda se si possa “naturalizzare” l’etica, nel senso di far dipendere tutti i nostri comportamenti da spinte e leggi naturali, oggetto della biologia evoluzionistica. Per rispondere occorre anzitutto distinguere le “condizioni abilitanti la capacità morale” dai “giudizi morali” propriamente intesi, cioè dalle valutazioni sui propri comportamenti. E su questa base Boniolo sostiene quella che chiama una “naturalizzazione debole dell’etica, ossia solo delle condizioni abilitanti”, intendendo con queste ultime le condizioni neurofisiologiche che permettono un dato sviluppo conoscitivo ed emotivo e una certa serie di istinti che vengono ereditati. Ma oltre a ciò che è istintivo abbiamo i comportamenti “abituali” legati a relazioni culturali ecc.. In conclusione, i comportamenti sono morali perché così valutati da un particolare animale, cioè l’uomo, dotato di capacità morale dovuta al suo stadio evolutivo cerebrale, mentre i comportamenti in sé non sono intrinsecamente morali né immorali). E ciò mi pare che possa anche contribuire a rispondere alle preoccupazioni circa la “passività” dell’uomo rispetto all’evoluzione dei suoi processi più qualificanti. (Ferdinando Bidoni) WILHELM WUNDT, Scritti scelti , a cura di Claudio Tugnoli, Utet, Torino 2006, pp. 927, € 90.00. Il primo volume della collana “Classici della psicologia”, diretta da Umberto Galimberti, pubblica i Linea menti di psicologia e gli Elementi di psico- 125 n.18 / 2007 logia dei popoli tradotti e prefati da Claudio Tugnoli. Due opere di sintesi che illustrano i due campi in cui Wundt (1832-1920) fornì contributi eccezionali, che hanno orientato tre generazioni di studiosi. Il suo programma di ricerca è sorretto da un’idea di fondo: come Auguste Comte con il Corso di filosofia positiva ha dato alla cultura europea un’enciclopedia del sapere scientifico (compresa la sociologia), così Wundt ha inteso costruire un’enciclopedia delle scienze morali (o umane) fondate sulla psicologia. Nel Sistema della filosofia Wundt spiega come l’evoluzione della filosofia ne abbia mutato profondamente il senso e la funzione. La funzione generale della filosofia nell’attuale sistema delle scienze consiste nella connessione delle singole scienze in una visione del mondo e della vita che soddisfi le esigenze dell’intelletto e i bisogni del sentimento. Wundt si richiama esplicitamente a Comte e a Hume quali ispiratori delle due correnti del positivismo moderno alle quali si devono ricondurre le due concezioni fondamentali, che fa della filosofia una scienza generale e la trasforma in una enciclopedia della scienza, e quella che indaga le condizioni generali del conoscere e dell’agire applicando la psicologia empirica. La filosofia deve considerare le scienze come proprio fondamento, non il contrario. Solo se la filosofia poggia sulle scienze potrà evitare ogni preferenza unilaterale di determinati punti di vista scientifici, per i quali non possiede alcuna competenza. Il compito della filosofia, dopo la costituzione delle scienze particolari, non è quello di riproporsi come scienza, ma di ordinare quelle esistenti. La filosofia permette di distinguere tra la matematica, che indaga i propri oggetti esclusivamente in base alle loro proprietà forma li , e le scienze reali, che si suddividono a loro volta in scienze della natura e scienze dello spirito. Wundt precisa che la realtà è una e che le scienze - formali e reali, della natura e dello spirito - si costituiscono per astrazioni successive. Perciò la loro differenza non è un’immediata differenza di oggetti. Le scienze della natura si dividono a loro volta in due ambiti, corrispondenti rispettivamente ai processi fisici e agli oggetti fisici. Il primo obiettivo è di dotare la psicologia di un metodo sperimentale; ciò non significa applicare ad essa il paradigma della meccanica o di altra scienza, come accadrà in seguito, ma usare l’osser- 126 vazione e l’esperimento con il proposito di controllare con rigore le conclusioni cui giunge l’indagine. In questo modo Wundt riteneva di poter superare l’obiezione di Comte circa l’impossibilità di fondare una scienza sull’introspezione; nella prospettiva wundtiana, invece, la scienza risulta “fondata sull’autoanalisi condotta con metodo sperimentale”. Wundt rileva che la psicologia del suo tempo è sostanzialmente rimasta ancorata all’impostazione aristotelica, e critica radicalmente i due modelli, spiritualistico e materialistico, allora dominanti, ciascuno dei quali nasce dalla filosofia di Cartesio e dalla sua separazione di res cogita ns e res extensa . La vita psichica, afferma Wundt, è un fenomeno unitario e complesso; parte da elementi semplici che via via si intrecciano e concrescono insieme. I primi sono la sensazione e la percezione: fenomeni in cui si innervano le sfere del fisico e dello psichico. Egli critica radicalmente lo spiritualismo e il materialismo perché forniscono un modello riduttivo della psicologia, o riconoscendo il primato dell’anima (o mente, o spirito) o riconducendo la coscienza a processi chimici e fisici. La conseguenza è che entrambi negano l’autonomia della psicologia, facendone un’appendice della filosofia o della fisiologia. Data la complessità del “fenomeno coscienza”, due sono le discipline che possono contribuire a farne una scienza: la psicologia evolutiva e quella comparata. La prima ci dice come è evoluta la vita psichica dell’uomo, la seconda descrive le caratteristiche della vita psichica degli animali. Non solo: Wundt allarga il ventaglio delle discipline che possono informarci sullo sviluppo storico della psiche. Impostando storicamente l’analisi dello svolgimento del linguaggio, del mito, della religione, dei costumi, possiamo conoscere l’evoluzione spirituale dell’umanità. Poiché tutti questi fenomeni rientrano nella sfera della psicologia, nasce da ciò l’esigenza di delineare una “psicologia dei popoli”, che con la psicologia scientifica istituisce un rapporto indisgiungibile. Wundt ha dedicato gli ultimi vent’anni della sua attività a raccogliere un enorme materiale confluito nei dieci volumi della sua Psicologia dei popoli (o psicologia sociale). Dopo l’insegnamento di antropologia e psicologia ad Heidelberg nel 1864, Wundt si trasferì a Lipsia, dove, dal 1875, ebbe la cattedra di filosofia, il che lo indusse ad affrontare il problema dei rapporti tra psicologia (come scienza) e filosofia, nell’ambito di un dibattito che interessò tutto il Novecento. Wundt rifiuta la soluzione che considera la psicologia una scienza dello spirito, e quella che la ritiene parte integrante della filosofia. Dopo aver stabilito una netta distinzione tra la funzione esplicativa del sapere e quella pratica, Wundt mantiene ferma l’idea che la psicologia è scienza sperimentale autonoma, anche se le questioni che essa affronta implicano una riflessione di carattere filosofico. Compito della scienza è di fornirci una conoscenza razionale dei fenomeni naturali; ma essa è neutrale, nel senso che i suoi risultati non implicano scelte filosofiche e pratiche; gli eventuali effetti di ricaduta possono certo rivelarsi utili, ma rimangono secondari rispetto alla struttura formale e alle finalità della scienza. Nel sapere scientifico si esaurisce quasi completamente la conoscenza della realtà, e la filosofia, afferma Wundt, è “la scienza generale che deve riunire in un sistema privo di contraddizioni le nozioni generali fornite dalle singole scienze”. Dopo che le scienze hanno raggiunto un alto grado di sviluppo, cambia necessariamente il ruolo della stessa filosofia: essa non può più prescrivere ciò che la scienza deve fare, né fornire un fondamento alla razionalità scientifica. Ciò che le rimane da fare è un compito squisitamente metodologico: rendere coerente l’edificio della scienza, togliendo eventuali contraddizioni, dato che una teoria che abbia al suo interno una contraddizione, non possiede valore conoscitivo alcuno. Come è noto, il modello wundtiano di psicologia ha subito un’eclissi con l’emergere della “psicologia della forma”; ma nelle due opere di questo volume ritroviamo problemi e soluzioni su cui generazioni di psicologi si sono misurati. Uno dei lati più validi del pensiero dello psicologo tedesco consiste nella ricchezza delle argomentazioni che egli sa allestire per polemizzare, in termini pressoché definitivi, nei confronti della concezione speculativa e materialistica della psicologia. Due orientamenti che, in cambio, hanno condizionato la genesi della psicologia italiana: quello speculativo, espresso da Roberto Ardigò (che su Wundt ha lasciato un ampio lavoro inedito), e quello biologico da Giuseppe Sergi. L’analisi wundtiana dei diversi linguaggi (del corpo, dei sordomuti, ecc.) e delle loro caratteristiche peculiari, prelude a una concezione moderna della cultura come un serbatoio di codici linguistici. Sono da segnalare altresì le analisi condotte con acume sugli equivoci logico-linguistici che si presentano in psicologia, equivoci che saranno al centro del pragmatismo di Vailati. Né va sottovalutata la sua analisi della psiche degli animali, l’idea di valutarne il comportamento in analogia con quelli umani, senza cadere in una visione antropomorfica. (L’analogia degli esseri viventi fu sostenuta dalla scuola razionale di Malpighi continuata da Vallisneri). Né è da dimenticare che la distinzione wundtiana tra psicologia come scienza e come filosofia, è stata raccolta, ma diversamente risolta, da alcuni psicologi italiani. Basterà citare la posizione di Vittorio Benussi il quale, in polemica con lo spiritualista Francesco De Sarlo, difese una posizione analoga a quella wundtiana. (Mario Quaranta) [email protected] 127 n.18 / 2007 128
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