rivista foedus n° 18:rivista foedus n° 1

SOMMARIO
Culture Economie e Territori
Rivista Quadrimestrale
Numero Diciotto, 2007
Borderline
Pag. 03
L’urbanistica e l’ircocervo. Eguaglianza e libertà, coesione e sussidiarietà nel governo
del territorio di Umberto Janin Rivolin
Pag. 09
Per una storia analitica dell’economia politica di Marco Passarella
Pag. 21
Cosmosofia di Santa De Siena
Pag. 51
Giovanni Vailati e Antonio Gramsci: una “quistione di parole” di Irina Di Vora
Focus: Silvio Trentin
Pag. 59
Natura, diritto e territorio ne “La crisi“ di Silvio Trentin di Umberto Vincenti
Pag. 65
Giusnaturalismo e federalismo nella “Crisi del Diritto e dello Stato” di Silvio Trentin
di Elio Franzin
Pag. 75
Ricordo di Silvio Trentin di Giuseppe Gangemi
Il Sestante
Pag. 79
Il serbo-croato: da una lingua che univa a una lingua che divide di Ana Živkovi´c
Pag. 104 La libertà come non interferenza arbitraria: libertà dal dominio e dalla corruzione
di Giuseppe Gangemi
Pag. 113 Un momento aureo della cultura a Padova di Mario Quaranta
LibriLibriLibri
Pag. 123 Recensioni
1
n.18 / 2007
2
Umberto Janin Rivolin
L’urbanistica e l’ircocervo. Eguaglianza e
libertà, coesione e sussidiarietà nel governo
del territorio*
Borderline
Che libera lismo e socia lismo non sia no incompa tibili non dice a ncora nulla
sulle forme e sui modi della loro possibile congiunzione
Norberto Bobbio (1997b, 163)
Per consuetudine istituzionale e tecnica, il piano urbanistico prescrive i diritti di
trasformazione del suolo, ponendo gli obiettivi di giustizia sociale e di libertà
individuale in tendenziale contrapposizione: il primo tende a perseguirsi a discapito del secondo. Ciò lascia supporre che la prospettiva del “socialismo liberale”, fondata invece sull’idea che detti obiettivi siano intrinsecamente connessi,
non sia fra le esperienze riformiste che hanno caratterizzato la tradizione della
pianificazione urbanistica.
Ripartire da tale prospettiva sembra però inevitabile di fronte all’attualità dei problemi di governo del territorio. Ciò è implicitamente suggerito anche dal progetto d’integrazione europea che, attraverso i principi di coesione e di sussidiarietà, ripropone l’esigenza di combinare ragioni di eguaglianza e di libertà nella
trasformazione territoriale.
1. Premessa
La metafora dell’“ircocervo”, animale favoloso per metà capro e per metà cervo,
fu polemicamente evocata da Benedetto Croce per liquidare, come irrealistica,
l’idea del “socialismo liberale”. Questa prospettiva di pensiero, teorizzata da
Carlo Rosselli nel 19301, ha infatti avuto scarsa fortuna. D’altra parte, basata sul
superamento degli aspetti meno convincenti della palingenesi marxista2 e sostenuta, sia pure con accenti diversi nel tempo, da nomi illustri del riformismo internazionale3, essa pone una questione ancora oggi aperta nel dibattito politico e
filosofico: come conciliare, in un contesto economicamente efficiente, la libertà
individuale con la giustizia sociale, intendendosi la seconda come logica estensione della prima.
Sebbene la questione sia al centro dei problemi di governo della città e del territorio, occorre ammettere che neppure il sapere urbanistico, certamente non in
Italia, ha storicamente riconosciuto nel pensiero liberalsocialista un orientamen-
*
Relazione presentata alla
X Conferenza nazionale
della Società italiana degli
urbanisti “Riformismo al
plurale. Urbanistica e
azione pubblica”, Milano
18-19 maggio 2006 (Janin
Rivolin 2007).
1
Le declinazioni assunte
dal pensiero liberalsocialista nel nostro paese sono
molteplici (dal libertarismo sociale di Francesco
Saverio Merlino al liberalsocialismo di Guido
Calogero, al federalismo
di Ernesto Rossi e di
Altiero Spinelli), ma
«…nella storia del pensiero politico italiano quando si parla di “socialismo
liberale” è all’opera di
Rosselli che ci si riferisce»
(Bobbio 1997a, xl-xli).
Come è noto, Rosselli
diede vita con alcuni di
questi autori al movimento antifascista “Giustizia e
Libertà”, poi confluito nel
Partito d’azione.
2
«Il cambiamento di
rotta consiste nell’affermare che il socialismo,
che era da sempre stato
considerato… inscindibile dal marxismo, è con
esso alla fine incompatibile, ed è invece perfettamente compatibile col
3
n.18 / 2007
liberalismo, del quale era
stato considerato per
lunga tradizione… l’antitesi. Il socialismo, inteso
come ideale di libertà non
per i pochi ma per i più,
non solo non è incompatibile col liberalismo, ma
ne è teoricamente la logica conclusione, praticamente e storicamente la
continuazione» (Bobbio
1997a, xxvi).
3
Bobbio (1997b) vi riconduce in particolare le idee
di Mill, Oppenheimer,
Russel e Dewey. Tra i
contemporanei, Rawls e
Sen possono forse considerarsene gli epigoni più
autorevoli.
4
Per queste ragioni l’opinionista britannico Will
Hutton (2003), già coautore con Antony Giddens
di un fortunato volume
sul capitalismo globale,
considera il progetto
europeo assai preferibile
al modello neoliberista di
matrice nordamericana..
5
Rimando, per un compendio critico, a: Janin
Rivolin 2004.
to proficuo. Al contrario, vittima forse inconsapevole dell’ircocervo crociano, l’identità riformista del sapere urbanistico si è costruita nel corso del ‘900 sul presupposto che giustizia sociale e libertà individuale siano opposti tendenzialmente inconciliabili nei processi d’uso e di trasformazione del suolo. Condizionata e
insieme garantita da un contesto istituzionale improntato al paternalismo e al
dirigismo propri della cultura welfarista, l’urbanistica riformista ha generalmente
coltivato l’assunto che solo lo Stato, unico depositario dell’interesse collettivo,
possa realizzare una città giusta e un territorio equilibrato, arginando con il piano
le libertà individuali espresse dai progetti immobiliari. Incoraggiato dal progressismo apparente di tale assunto, il sapere tecnico ha contribuito ad alimentare il
modello istituzionale dell’urbanistica “conformativa”, in base al quale le trasformazioni del suolo devono conformarsi alle prescrizioni del piano.
Del resto, tale modello ha prosperato nel corso del ‘900, sia pure in forme non
identiche, in quasi tutti i paesi occidentali. Le esigenze della ricostruzione postbellica e dell’urbanizzazione fordista hanno reso generalmente conveniente l’adozione di un’urbanistica gerarchica nel postulare le relazioni verticali tra i piani
di scala differente e dirigista nel regolare i rapporti orizzontali all’interno del
piano. Soltanto la crisi del fordismo, l’esplosione della globalizzazione e i conseguenti processi di riorganizzazione spaziale hanno fatto emergere, con evidenza
crescente dagli anni ’70, i limiti del modello, insiti proprio nella difficoltà di conciliare le esigenze, sempre più decisive, di equilibrio sociale e di valorizzazione
delle istanze locali e soggettive di sviluppo.
In un contesto globale caratterizzato dalla difficoltà istituzionale di governare in
modo coordinato le sollecitazioni inferte dal mutamento socioeconomico, il progetto dell’integrazione europea si è imposto all’attenzione internazionale come
risposta “più efficiente ed equa” ai problemi emergenti4. Meno appariscente, ma
interessante in special modo per gli urbanisti, è il ruolo che la UE (pur priva di
qualsiasi potere di determinazione delle trasformazioni del suolo) ha assegnato
al territorio nella realizzazione del progetto comunitario. L’obiettivo della
“coesione”, da una parte, e il principio di “sussidiarietà”, dall’altra, orientano i
processi di governance territoriale in Europa da ormai quasi vent’anni5 proponendo, sotto nuova luce, l’esigenza di combinare ragioni di eguaglianza e di efficienza nelle trasformazioni del suolo. Le aspirazioni “performative” del progetto
comunitario faticano a conciliarsi, tuttavia, col modello dell’urbanistica conformativa, che tuttora prevale nei paesi europei.
Nei paragrafi che seguono, dopo aver chiarito in quali termini coesione e sussidiarietà si rapportano al governo del territorio, si esplorano le loro possibili relazioni con i principi del socialismo liberale. Se ne deduce che l’opportunità di
conciliare libertà individuale e giustizia sociale nei processi territoriali deve comportare l’abbandono dell’urbanistica conformativa.
2. Governo del territorio nell’attualità europea
In un recente articolo ho sostenuto che (a) il perseguimento della “coesione
economica, sociale e territoriale”, tra gli “obiettivi dell’Unione” secondo il nuovo
Trattato costituzionale europeo (art. I-3), richiede l’istituzione di qualche forma
coordinamento fra i sistemi nazionali di pianificazione in Europa; e che (b) il
principio della “sussidiarietà” (art. I-11), di solito invocato a discapito di tale
4
Umberto Janin Rivolin
L’urbanistica e l’ircocervo
richiesta, dovrebbe costituire piuttosto il cardine funzionale del coordinamento
auspicato6.
Considerato che «ridurre il divario tra i livelli di sviluppo delle varie regioni e il
ritardo delle regioni più svantaggiate» (art. III-220) è il fine dichiarato della
coesione, la prima tesi (a) si fonda su ragioni interrelate di:
- efficacia della politica europea, poiché i sistemi nazionali di pianificazione stabiliscono i principi di trasformazione e sviluppo del territorio;
- efficienza del sistema di governo, poiché nessuna interazione è al momento istituita fra politica comunitaria di coesione e sistemi nazionali di pianificazione;
- equità del processo di governance, poiché i sistemi di pianificazione vigenti
nella UE sono attualmente 25 e funzionano secondo modalità differenti.
Le ragioni della seconda tesi (b) sono più complesse e sollevano problemi istituzionali e tecnici relativi alla pianificazione urbanistica, più che alle modalità
d’integrazione comunitaria. Esse, pertanto, esulano dal confronto europeo
(anche se le pratiche di governance territoriale comunitaria offrono più d’un
riscontro in favore) per riguardare, piuttosto, l’esperienza ordinaria di governo
del territorio, nel nostro e in altri paesi della UE.
In breve, posto che la sussidiarietà è principio riconosciuto (non solo dalla UE)7
per affermare modalità “performative” di regolazione in un orizzonte di governance8, su esso dovrebbe imperniarsi anche il funzionamento della pianificazione; la quale, al contrario, promuove la trasformazione del territorio attraverso
modalità “conformative” di regolazione. S’intende con ciò l’impostazione gerarchica delle scale di piano (relazioni verticali), per cui il piano di scala inferiore
deve conformarsi a quello di scala superiore; e soprattutto9 la natura prescrittiva
del rapporto fra strategia e progetti all’interno del piano (relazioni orizzontali),
per cui i progetti devono risultare conformi alla strategia per avere titolo di legittimità al fine della trasformazione10.
Pertanto, la contraddizione che fa problema non è quella, solo apparente, fra
coesione e sussidiarietà ma quella, effettiva, fra regolazione conformativa e performativa, dal momento che il controllo di conformità dei progetti di trasformazione rispetto ai diritti prescritti (e, sia pure in forme meno coercitive, dei piani
locali rispetto al piano centrale) vanifica di fatto, per effetto dei termini giuridici,
il loro controllo di prestazione rispetto agli obiettivi condivisi11.
In sintesi, se la mancanza d’interazione fra politica europea di coesione e sistemi
nazionali di pianificazione rappresenta l’aspetto formale e secondario del problema sollevato, il carattere conformativo tradizionalmente assunto dalla pianificazione urbanistica in Europa ne costituisce l’aspetto sostanziale e prioritario.
3. Sussidiarietà come perfezionamento del “metodo liberale”
Secondo il modello dell’urbanistica conformativa, come si è detto, funzione principale del piano è la prescrizione dei diritti di trasformazione del suolo in base
alla strategia assunta. Ancora di recente, le proposte più progredite (e maggioritarie) di riforma dell’ordinamento urbanistico nel nostro paese non rinunciano,
nel riconoscere l’opportunità di un «piano strutturale non prescrittivo», a riaffermare la necessità di un «piano operativo quinquennale prescrittivo per l’attuazione»12.
Sembra, dunque, che la “sindrome dell’ircocervo” impedisca tuttora al sapere
6
Cfr. Janin Rivolin 2005.
Va richiamato che, malgrado la mancata ratifica
del Trattato costituzionale
europeo, l’obiettivo della
coesione e il principio di
sussidiarietà sono entrambi riconosciuti nei trattati
comunitari vigenti.
7
L’adozione del principio di sussidiarietà da
parte della Comunità
europea fu preparata dal
Parlamento europeo nel
1984 su iniziativa di
Altiero Spinelli. La
Costituzione italiana ha
riconosciuto il principio
di sussidiarietà verticale e
orizzontale (art. 118) con
la riforma del 2001.
8
Cfr. il Libro bianco sulla
Governance europea
(CCE 2001).
9
La gerarchia scalare fra i
piani è una conseguenza
del presupposto ideale
della supremazia dello
Stato sulla società.
10
Con riferimento all’esperienza italiana, si tratta
dell’ordinario funzionamento del piano regolatore generale.
11
Con riferimento all’esperienza italiana ed
europea, si spiegano in
tal modo tanto il ricorso
crescente alle “varianti” di
piano, quanto la più
recente iniziativa di legittimare attraverso un
“piano strategico” (spesso
indefinito quanto a prerogative istituzionali e funzionali) gli obiettivi non
conformi ai diritti di trasformazione prescritti dal
piano regolatore.
12
Così Campos Venuti
(2005a, 4) nel richiamare
i principi della proposta
di riforma urbanistica
5
n.18 / 2007
avanzata dall’Inu nella scorsa legislatura. Cfr. anche:
Campos Venuti 2005b.
13
Rosselli 1997, 100-101.
14
«Per “libertà negativa”
s’intende, nel linguaggio
politico, la situazione in
cui un soggetto ha la possibilità di agire senza essere impedito, o di non
agire senza essere costretto, da altri soggetti. …Per
“libertà positiva” s’intende
…la situazione in cui un
soggetto ha la possibilità
di orientare il proprio
volere verso uno scopo,
di prendere delle decisioni, senza essere determinato dal volere altrui.
Questa forma di libertà si
chiama anche “autodeterminazione” o, ancor più
appropriatamente, “autonomia”... La libertà negativa è una qualifica dell’azione, la libertà positiva è
una qualifica della volontà» (Bobbio 1995, 45-50).
15
Battista 2001, 51.
16
«Contestando il presupposto dello statalismo e
non esaurendosi nella formula liberalista, non rappresenta nemmeno una
formula di compromesso
tra le due teorie, ma esprime una concezione originale» (Battista 2001, 51).
17
Così Ernesto Rossi
(2006, 250), citando
Lionel Robbins, in un articolo del 1954.
18
«Si tratta peraltro di una
difficoltà politica, non di
una difficoltà concettuale.
Che politicamente la
libertà positiva come
autodeterminazione collettiva sia un ideale-limite,
non toglie che sia un
ideale continuamente
riproposto, e che sia lecito considerare un regime
6
urbanistico riformista di condividere il «metodo liberale» suggerito quasi ottant’anni fa da Carlo Rosselli al fine di conciliare, nell’azione di governo, ragioni di
libertà individuale e di giustizia sociale:
“Il metodo liberale vuole che i popoli e le classi, al pari degli individui, si amministrino da sé, con le loro forze, senza interventi coercitivi o paternalistici. La sua
grande virtù pedagogica consiste appunto nell’assicurare un clima che sospinga
tutti gli uomini ad esercitare le loro più alte facoltà, nell’approntare istituti che
inducano a partecipare attivamente alla vita sociale. Esso reca come premessa
fondamentale il principio che la libera persuasione del maggior numero allo stesso modo che è il miglior mezzo per raggiungere la verità, così è il miglior mezzo
per garantire il progresso sociale e assicurare la libertà. …Il riconoscimento del
metodo liberale, la fedeltà al metodo, ecco in che si sostanzia praticamente il
liberalismo politico”13.
Si osserva che il metodo liberale di Rosselli fa riferimento a un’idea di libertà
“positiva”, oltre che “negativa”14, che è invece la sola connaturata al modello dell’urbanistica conformativa. In questo, anticipa il principio di sussidiarietà (orizzontale) il quale, «affermando che lo Stato interviene solo quando l’autonomia
della società risulti inefficace, si contrappone all’idea di una “cittadinanza di mera
partecipazione” e promuove invece “una cittadinanza di azione” in cui è valorizzata la “genialità creativa dei singoli” e delle formazioni sociali»15. Malgrado la
chiara valenza antistatalista e antiassistenzialista, il metodo liberale, così come il
principio di sussidiarietà, non conduce all’ipotesi neoliberale dello “Stato minimo” poiché, «mentre riconosce alla persona il diritto di iniziativa, nel contempo
ne afferma la responsabilità sociale»16.
Il metodo liberale, pertanto, non implica la rinuncia alla pianificazione, ma il
ricorso a «una pianificazione diversa»: volta a «coordinare le attività umane per
mezzo di un complesso di norme impersonali, entro il quale i rapporti che si stabiliscono spontaneamente tra gli individui conducono al bene comune», piuttosto che a «far prescrivere in modo preciso ogni azione, od ogni categoria di azioni»17. Poiché, dunque, lo Stato non è il depositario a priori dell’interesse collettivo e il suo intervento richiede sempre una giustificazione, la «vera difficoltà sta
se mai… nel progettare praticamente una volontà collettiva tale che le decisioni da essa prese siano da accogliersi come la massima espressione di volontà di
ogni singolo»18.
4. Giustizia sociale e coesione in rapporto alla sussidiarietà
Nella prospettiva liberalsocialista, lo Stato coordina i diritti di trasformazione del
suolo non attraverso la prescrizione di “ogni azione o categoria di azioni”, ma
promuovendo progetti di “volontà collettiva” e “norme impersonali” volte al conseguimento del bene comune. La città giusta e il territorio equilibrato derivano,
pertanto, non già dal potere di conformare le libertà individuali alla strategia collettiva, ma dalla capacità di progettare strategie persuasive e norme condivise per
coordinare (promuovere, condizionare o impedire)19 le iniziative di trasformazione.
Dietro il velo della retorica progressista e della presunzione prescrittiva, l’urbanistica odierna non è strutturalmente in grado di garantire obiettivi di giustizia
sociale per il non unico ma fondato motivo che la prevalenza giuridica del con-
Umberto Janin Rivolin
L’urbanistica e l’ircocervo
trollo di conformità delle trasformazioni svincola le indicazioni di piano dall’onere, politico e tecnico, della prova. L’idea, invalsa in tempi più recenti, della
“perequazione urbanistica”20, da un lato offre una soluzione soltanto parziale al
problema, dal momento che può applicarsi ai soli diritti di proprietà interessati
da trasformazioni (non alla cittadinanza interessata dal piano); dall’altro, poiché
si propone come correttivo degli squilibri attesi dalle prescrizioni, è un’ammissione implicita delle contraddizioni del modello conformativo.
Al contrario, liberalismo e sussidiarietà implicano che, al di là di ogni legittimo
obiettivo strategico del piano, la giustizia sociale sia un cardine delle “norme
impersonali” utili a coordinare le iniziative di trasformazione territoriale. In particolare, poiché l’eguaglianza sociale, prima che ideale più o meno condivisibile,
è l’esito fattivo del rapporto dato fra “giustizia retributiva” (rapporti di scambio)
e “giustizia attributiva” (rapporti di convivenza o solidarietà)21, è lecito sostenere
che il suo trattamento debba competere, prima che alla strategia, alla condivisione di regole di compensazione degli interessi (collettivi e individuali) penalizzati dalle trasformazioni territoriali ammesse, a seguito di circostanziato controllo di prestazione, in rapporto alla strategia.
In conclusione, riprendendo i termini del progetto d’integrazione europea, sembra che il principio di sussidiarietà e le finalità di riequilibrio e di solidarietà insiti nell’obiettivo di “coesione economica, sociale e territoriale” costituiscano il
riferimento istituzionale utile a un riordino della pianificazione urbanistica nei
paesi europei nel solco tracciato, agli albori del secolo scorso, dalla prospettiva
del socialismo liberale.
tanto più desiderabile
quanto più vi si avvicina»
(Bobbio 1995, 68).
19
Liberalismo e sussidiarietà, come è chiaro, non
revocano allo Stato la
facoltà di divieto; piuttosto, ne impongono l’obbligo di giustificazione
permanente.
20
Anche la perequazione,
che dispone l’equa distribuzione dei valori immobiliari prodotti dal piano e
degli oneri derivanti dalla
realizzazione degli interventi, è tra i principi della
proposta di riforma sostenuta dall’Inu.
21
Bobbio 1995, 8-16. Cfr.
inoltre: Merlino 2006.
Riferimenti bibliografici
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7
n.18 / 2007
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libertà e i suoi limiti , Laterza, Roma-Bari, pp. 197-205 (or.: 1897).
Rosselli C. (1997), Socia lismo libera le, Einaudi, Torino (or.: Valois, Paris, 1930).
Rossi E. (2006), Dirigismo libera le, in: C. Ocone e N. Urbinati, a cura di, La libertà e i suoi limiti , Laterza, Roma-Bari, pp. 248-252 (or.: 1954).
Umberto Janin Rivolin è professore associato di Tecnica e pianificazione urbanistica al Politecnico di Torino. Ha coordinato di recente, in rappresentanza
dell’Italia, le ricerche europee ESPON (www.espon.eu) 2.3.1 – Application of the
ESDP in the Member States (coordinamento internazionale: Nordregio,
Stoccolma) e 2.3.2 – Governance of territorial and urban policies from EU to
local level (coordinamento internazionale: Università di Valencia). Tra le pubblicazioni: Le politiche territoriali dell’Unione europea (a cura, Franco Angeli, 2000)
e European spatial planning (Franco Angeli, 2004), oltre a vari articoli su riviste
scientifiche internazionali e nazionali.
[email protected].
8
Marco Passarella
Per una storia analitica dell’economia politica
Borderline
Senza dubbio, è meglio getta r via i modi di pensiero sorpa ssa ti che rima nere
a tta cca ti indefinita mente a d essi. Nondimeno, le visite in soffitta possono
riuscir profittevoli, purché non durino troppo a lungo.
(J. A. Schumpeter)
Non appare certo roseo il futuro della Storia del Pensiero Economico1 nell’ambito del sistema accademico italiano. Si tratta, è vero, di una disciplina di studio
ancora vitale e dinamica, tuttora in grado di attrarre nuove generazioni di studiosi. Tuttavia, a dispetto di rare quanto lodevoli eccezioni, essa rimane un insegnamento facoltativo nella grande maggioranza dei corsi di laurea. Fatto assai preoccupante, la SPE è spinta sempre più al margine proprio nelle Facoltà di Economia,
dove fatica a trovare un proprio spazio, stretta tra il successo crescente dei corsi
a zienda listi ed il malcelato fastidio degli economisti teorici e «applicati».
Le ragioni di questa difficoltà sono, ovviamente, più d’una – non ultima la recente «riforma universitaria». Qui, tuttavia, s’intende sottolineare un diverso aspetto, dibattuto anche nel corso dell’annuale convegno ESHET tenutosi nell’aprile
del 2006 a Porto: l’intrinseca debolezza a na litica che caratterizza una parte rilevante dei lavori pubblicati, ancora di recente, sulle principali riviste specializzate
di SPE. Capita, infatti, non di rado, di imbattersi in storie aneddotiche su economisti , ricche di particolari sulla vita pubblica e privata dei protagonisti, ma carenti di contenuto teoretico e analitico. Veri e propri schizzi agiografici che guadagnano in ridondanza di informa zioni ciò che perdono in comprensione. Il risultato di una storia siffatta è in genere quello di far conoscere tutto, ma proprio
tutto, dell’autore considerato tranne… il suo pensiero economico.
Nel migliore dei casi, tale eccedenza (spesso compiaciuta) di erudizione consente una meticolosa ricostruzione dell’ambiente in cui si colloca il singolo economista, al prezzo, però, di metterne in ombra le derivazioni intellettuali e le
possibili interrelazioni teoriche con altri autori. Un esempio, e non certo tra i
peggiori, è la monumentale biografia di Johan Maynard Keynes ad opera di
Robert Skidelsky, in cui la riflessione sulla teoria economica viene affogata in un
mare di informazioni personali, cosicché la ricostruzione cronologica dei fatti
biografici prende il sopravvento sulla ricostruzione logica delle concatenazioni
di pensiero (Skidelsky 1989; 1996; 2000).
Va, però, subito chiarito che non si tratta qui di aprire l’ennesimo, estenuante,
Nota: il saggio pubblicato
in queste pagine è la versione riveduta e corretta
dell’omonimo paper presentato in occasione del
III Convegno Nazionale
Stor.e.p., Lecce 1-3 giugno 2006.
1
D’ora in poi SPE.
9
n.18 / 2007
2
Da allora, il dibattito fra
gli economisti è talvolta
aspro, ma si svolge entro
un quadro di regole e linguaggio standardizzati.
3
La definizione di «classici» coincide con quella di
economia ricardiana,
ossia di sistema teorico e
analitico incentrato sulla
teoria del valore-lavoro,
sulla categoria di sovrappiù e sull’idea di una
società divisa in classi. Per
contro, l’appellativo di
economisti «volgari» viene
riservato da Marx ai teorici dell’ordine spontaneo
del mercato, ossia a quei
«pugilatori a pagamento»
del capitale che producono consenso anziché
scienza (ScrepantiZamagni 2000, p. 151).
10
Methodenstreit. Ciò che si vuole sottolineare è, piuttosto, l’esigenza per lo storico del pensiero economico di riuscire a coniugare determinazione storica e rigore d’analisi, collocando i sistemi teorici (ed i loro modelli analitici) dentro le
cesure storiche che, di volta in volta, ne hanno favorito la nascita e l’affermazione; ovvero la caduta e l’oblio.
***
Chi scrive condivide l’idea che l’economia politica, dopo la rivoluzione del paradigma inaugurata da Hume, Quesnay e Galiani alla metà del secolo diciottesimo e portata a compimento con la Wealth of Nations di Adam Smith (1776), abbia proceduto solamente per rivoluzioni nel paradigma, ossia per «catastrofi epistemologiche»
interne ad un unico paradigma. Che, insomma, «tipizzato l’homo oeconomicus e la
sua logica della scelta, il resto – da Adam Smith a John Nash – se non è stato certamente silenzio, è stato però solo conseguenza» (Gattei 2004, pp. 207-208)2.
La fonda zione epistemologica della scienza economica, che affonda le sue radici nell’Età dei Lumi, riflette lo sconvolgimento/superamento del sistema economico e sociale feudale (o, comunque, pre-capitalistico) indotto dalla progressiva
affermazione della moderna produzione capitalistica manifatturiera (a cui, com’è
noto, fa seguito la diffusione del sistema di fabbrica, caratterizzato dall’impiego
massiccio di macchinari e di capitale fisso). Da allora, il pensiero economico
sembra aver seguito un andamento ciclico «a onde lunghe» in stretta connessione con i mutamenti intervenuti, via via, nel modo di produzione basato sul capitale. Da questo punto di vista, è possibile scorgere almeno quattro successive
metamorfosi nel paradigma, identificabili, rispettivamente, con il pessimismo
agonistico degli economisti classici (pro o a nti ) ricardiani, con l’equilibrismo
meccanicistico dei marginalisti e dell’ortodossia neoclassica, con lo squilibrismo
eterodosso di John Maynard Keynes e Joseph Alois Schumpeter e, da ultimo, con
l’antagonismo polemico di Piero Sraffa, proprio negli anni del consolidamento
della sintesi neoclassica come «situazione classica» per eccellenza. Tre grandi
cicli di rottura e di successiva affermazione delle nuove idee ed un quarto ciclo,
tuttora in corso, che sembra non avere ancora espresso un vera e propria egemonia teorica.
Procedendo con ordine, il primo mutamento nel paradigma della scienza economica coincide, dunque, con la riformulazione della teoria smithiana operata
dagli economisti del XIX secolo, e, in particolare, da David Ricardo. I «classici»,
come li ribattezzerà in seguito Marx, per distinguerli dagli economisti «volgari»3,
si pongono alla ricerca delle leggi immutabili di una Na tura razionale e quindi
pienamente intelligibile dallo scienziato, ma, al tempo stesso, avida e matrigna
con il genere umano. In effetti, se, da un lato, l’idea di Smith di un «ordine naturale» oggettivo, accessibile alla Ra gione, rappresenta la grande eredità
dell’Illuminismo settecentesco, dall’altro, la sfiducia nelle «magnifiche sorti e
progressive» del capitalismo manifestata dagli economisti classici è, con ogni
probabilità, ascrivibile all’influsso della nascente cultura romantica. La malthusiana «legge di popolazione» (secondo cui lo scarto negativo tra il tasso di crescita, aritmetico, delle superfici coltivabili e quello, geometrico, delle nascite,
condanna la classe lavoratrice ad un salario di mera sussistenza), o l’aumento
della rendita fondiaria a scapito del saggio di profitto degli imprenditori-capitalisti (inscritto nella legge dei rendimenti decrescenti dei terreni agricoli, ovvero
nell’esaurimento delle opportunità di investimento di una economia letteralmente pre-destinata allo «stato stazionario»), sono tracce di un «pessimismo agonisti-
Marco Passarella
Per una storia analitica dell’economia politica
co» – per utilizzare un’espressione cara a Sebastiano Timpanaro – che, seppure in
modo difforme, permea le opere di Malthus, Ricardo e Sismondi. Non è un caso,
dunque, che nei classici la componente macro della teoria economica finisca per
prevalere, pur senza mai eliminarla, su quella squisitamente micro. La metodologia degli aggregati dell’economia politica classica rimane infatti saldamente ancorata ad una analisi della produzione, della distribuzione e dello scambio fondata
sulle categorie di classe sociale (intesa come categoria strutturale, non meramente funzionale), di costo di produzione (posto a fondamento di una teoria oggettivista del valore e risolto, in genere, nella quantità di lavoro contenuto nel prodotto) e di sovrappiù (inteso come detrazione, sotto forma di profitto, interesse, rendita o altro, dal prodotto del lavoro). Si tratta di strumenti atti ad affrontare il grande tema dello sviluppo economico: delle sue cause e dei suoi limiti immanenti.
Il secondo mutamento nel paradigma della scienza economica è rappresentato
dalla perentoria quanto improvvisa affermazione, sul finire del secolo XIX, della
dottrina neoclassica, così come espressa nella sintesi magistrale dell’equilibrio
economico genera le di Léon Walras. Nei suoi Elements d’économie politique
pure (1874-77), l’economista francese offre una rappresentazione algebrica,
essenziale ma rigorosa, della configurazione d’equilibrio generale concorrenziale dei quattro mercati caratteristici (dei fattori produttivi, dei beni di consumo,
dei nuovi beni capitali e del risparmio), che rappresenta il maggiore contributo
a (e di ) quella che passerà alla storia come «Rivoluzione Marginalista». Di fatto,
tutti (o quasi) gli sviluppi successivi del pensiero economico del Novecento
prenderanno le mosse, consapevolmente o meno, da questa ma gna cha rta dell’economia «pura». D’ora in avanti, l’economica neoclassica, liberata dalle superstizioni e dai giudizi di valore (wertfrei , secondo l’espressione di Karl Menger),
si affiderà alla matematica come criterio di ragione (intesa come coerenza logicoformale di modelli astratti) e guarderà alle scienze naturali, in particolare alla fisica
teorica, come al proprio paradigma scientifico di riferimento. Una vera e propria
ridefinizione epistemologica della scienza economica che sposta l’attenzione dell’economista dal tema dello sviluppo economico a quello dell’allocazione di risorse scarse tra usi alternativi (secondo la nota definizione di Robbins).
I cardini di tale rivoluzione, che è essenzialmente una rivoluzione contro i cla ssici di Ma rx , possono essere brevemente richiamati. Essi consistono: a) nell’adozione di una teoria soggettivista del valore, secondo cui il valore è sempre
individuale (in quanto fine di un particolare individuo) e soggettivo (ossia scaturisce da un processo di scelta ); b) nella riduzione di tutte le proposizioni relative agli aggregati sociali a proposizioni sul singolo individuo o sulla singola unità
decisionale (secondo i canoni del c.d. individua lismo metodologico); c) nella
rivendicazione della completa a -storicità dell’economica e delle sue leggi; d)
nella simmetria consumatore/imprenditore, con il principio di ma ssimizza zione
vincola ta (dell’utilità, del profitto, ecc.) posto a fondamento dell’intero sistema;
e) infine, nel livello crescente di sofisticazione matematica dei relativi modelli
analitici, a dispetto della estrema semplicità concettuale dell’impianto teorico.
In questo senso, una tappa decisiva nella lunga storia della ortodossia neoclassica è la fondazione nel 1930, ad opera di Karl Menger, del Ma thema tisches
Kolloquium, circolo viennese che può contare sulla partecipazione di studiosi
della statura di Wald, von Neumann e Morgenstern (interessati alle possibili a pplica zioni della matematica ai principali problemi economici del tempo). Va da sé,
che il filone di ricerca inaugurato dal Kolloquium contiene già in nuce quel pas-
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n.18 / 2007
saggio, che pure si realizzerà compiutamente solo alcuni decenni più tardi, da una
ma instrea m economics interessata al system of forces (SOF), ossia all’analisi dei
processi economici generati da forze di mercato (e non) che conducono all’equilibrio economico generale (descritto mediante un sistema di equazioni che consente di calcolarne prezzi e quantità), ad una disciplina che limita il proprio ambito di indagine al system of rela tions (SOR), vale a dire alle condizioni logiche di
esistenza, unicità e stabilità dell’equilibrio (Giocoli 2001; 2003).
Ma è solo a partire dalla fine degli anni sessanta che la matematica (in particolare l’a ssioma tica ), unica disciplina scientifica non sperimentale, si sostituisce alla
fisica come modello di riferimento per la scienza economica neoclassica. La
nozione di equilibrio transita dalla accezione di punto terminale di una dinamica di forze economiche, a quella di mutua e perfetta compatibilità dei piani degli
agenti economici; mentre l’altra nozione neoclassica fondamentale, quella di
ra ziona lità , passa dal tradizionale significato di perseguimento e massimizzazione del self-interest, a quello, odierno, di consistenza e coerenza delle scelte
(e/o delle preferenze). Caposcuola di questa svolta radicale nell’ambito della
visione dominante, nota come «rivoluzione formalista», è l’economista-matematico francese (poi naturalizzato americano) Gérard Debreu. Per l’autore di
Theory of Va lue (1959) l’azione di un individuo può essere descritta da un punto
in uno spazio di n beni, ovvero nello spazio reale dei vettori di dimensione finita, assimilabile (al pari dell’analogo insieme dei prezzi) ad uno spazio euclideo.
Da notare che, in questo contesto, non è nemmeno più possibile parlare di individua lismo metodologico, dato che qui l’individuo, con le sue motivazioni all’azione economica, letteralmente scompa re.
Saranno Keynes e Schumpeter ad elaborare, nei primi decenni del Novecento, le
due grandi alternative teoretiche all’equilibrio economico generale walrasiano e,
più in generale, al corpo dottrinale neoclassico. Nella sua Genera l Theory (1936)
Keynes dimostra scientificamente che un’economia lasciata a sé stessa può «rimanere in una condizione cronica di attività inferiore al normale per un periodo considerevole senza una tendenza decisa verso la ripresa o verso la rovina totale»
(Keynes [1936] 2006). Il nesso causale istituito dalla legge di Say (per la quale, a
livello aggregato, è l’offerta che «crea» la propria domanda) deve perciò essere
rovesciato: sono le decisioni di spesa degli agenti economici che generano la
domanda effettiva aggregata e, tramite questa, determinano il reddito aggregato,
la produzione reale e l’occupazione. Il problema è che le decisioni di investimento (la c.d. «spesa autonoma») dipendono da fattori psicologici imponderabili,
quali lo stato d’animo (gli a nima l spirits) degli imprenditori-investitori o la «preferenza per la liquidità» dei mercati finanziari che dovrebbero mettere a disposizione le risorse monetarie necessarie per l’acquisto dei beni capitali. Il che, ovviamente, rende quanto mai problematico il mantenimento dell’equilibrio ex ante
fra risparmi e investimenti correnti. Come se non bastasse, una seconda fonte di
squilibrio – interna al sistema economico, ma assai discontinua – viene individuata da Schumpeter nell’azione degli imprenditori-innovatori, moderni capitani
d’industria alla perenne ricerca di un’opportunità di profitto, ossia di un reddito
d’impresa positivo (che, invece, è del tutto assente nel modello walrasiano, in cui
l’imprenditore non consegue né gua da gno, né perdita ). Il problema del finanziamento dei necessari investimenti, oltre l’ammontare disponibile di risparmio
corrente, viene risolto dall’imprenditore schumpeteriano mediante il ricorso al
credito bancario. Le banche, infatti, non svolgono il ruolo di semplici intermedia-
12
Marco Passarella
Per una storia analitica dell’economia politica
ri tra risparmiatori e investitori; esse creano liquidità (ossia potere d’acquisto) ex
nihilo. Non stupisce, quindi, che per Schumpeter il credito rappresenti, assieme
allo spirito borghese d’intrapresa, il vero carburante dello sviluppo economico,
inteso come squilibrio positivo del sistema (Schumpeter [1911] 1971).
Ma se gli aspetti più innovativi del pensiero di Schumpeter vengono quasi completamente ignorati negli ambienti accademici del dopoguerra, la prontezza e l’efficacia della risposta neoclassica alla grande eresia keynesiana sono impressionanti. Il lavoro di riassorbimento della Genera l Theory nell’alveo del pensiero
economico dominante, inaugurato da Hicks ad appena pochi mesi di distanza
dalla pubblicazione dell’opera, occuperà gli economisti ma instrea m per almeno
una ventina d’anni, dando origine alla moderna metodologia degli aggregati neokeynesiana (definita anche, più propriamente, «sintesi neoclassica»). Così, già alla
metà del secolo, l’ortodossia economica può contare, oltre che sull’eleganza formale del modello di equilibrio economico generale di Arrow-Debreu-McKenzie e
sulla semplicità analitica del modello di crescita di Solow-Swan, anche sulla versatilità teorica del modello di equilibrio macroeconomico IS-LM di Hicks-Modigliani
(Screpanti-Zamagni 2000, pp. 21, 331). Una geometrica potenza analitica che non
conosce precedenti nella storia della scienza economica.
Il quarto mutamento nel paradigma dell’economia politica coincide con la pubblicazione di Produzione di merci a mezzo di merci (1960) di Piero Sraffa. In
sole centoventi pagine, per di più estremamente avare di riferimenti, l’economista di Cambridge costruisce un sistema simultaneo di equazioni di prezzo in
grado di dare soluzione al problema distributivo senza ricorrere ad alcuna teoria
del valore. Perchè se la teoria marxista del valore-lavoro è, di per sé, irrileva nte
per il calcolo dei prezzi relativi e delle quote distributive, la teoria marginalistica
della distribuzione si mostra affetta da circola rità , potendosi definire il rendimento del fattore capitale soltanto previa conoscenza proprio di quei prezzi relativi (dei beni capitali) che si vorrebbero determinare. Affrancato dalla «metafisica del valore», il sistema mostra allora una «ricardiana» relazione inversa che lega
il saggio di profitto realizzato dai possessori di capitale al salario unitario percepito dai lavoratori. Ne deriva l’impossibilità di stabilire un criterio economico che
determini in modo «oggettivo» o «naturale» la distribuzione del reddito fra i singoli attori economici in base alle loro funzioni , ovvero in proporzione al loro
diverso contributo alla produzione (come invece predicato dalla dottrina neoclassica). Piuttosto, fissata esogenamente una variabile distributiva (salario unitario oppure saggio di profitto) sulla base dei rispettivi rapporti di forza, l’altra
viene determinata in termini residuali simultaneamente ai prezzi. Così, se in filosofia il pensiero del Novecento proclama l’indifferenza di tutti i valori, lasciando
all’individuo migliore di porre il va lore delle cose, analogamente il sistema sraffiano si affida, per chiudersi, al soprassalto della classe sociale capace di imporre
il proprio reddito quale variabile indipendente (Gattei 1994, p. 52). La distribuzione del reddito tra le classi sociali viene in tal modo ridotta a mera contesa
redistributiva, a volontà di potenza e nient’a ltro!
Da quanto è stato detto sino ad ora, dovrebbe risultare con chiarezza che la
causa di tutte le svolte nel paradigma della scienza economica va cercata «nella
trasformazione del concreto storico di riferimento, a cui il ‘concreto di pensiero’
(per dirla con Marx) non può che adeguarsi» (Gattei 2004, p. 208), generando
sistemi teorici e modelli analitici distinti, benché appartenenti allo stesso genere
pa ra digma tico. Ovviamente, le idee, specie le gra ndi idee, per quanto influen-
13
n.18 / 2007
4
Secondo cui, poiché un
aumento della base
monetaria deve risolversi
in una crescita proporzionale del livello dei prezzi,
lasciando invariate le
grandezze reali (produzione e occupazione), in presenza di agenti razionali
qualsiasi sistematica politica monetaria espansiva è
destinata al fallimento.
Del resto, siamo nel bel
mezzo dell’apogeo del
neoconservatorismo thatcheriano e reaganiano.
Ma non va dimenticato
che è proprio con l’affermazione del neomonetarismo che ha luogo quello
spostamento, anche in
ambito macroeconomico,
dal punto di vista SOF
della tradizione (neo)classica ad un punto di vista
più tipicamente SOR –
implicito, ad esempio,
nelle ipotesi di individuo
rappresentativo caratterizzato da aspettative ra-zionali e di mercati in equilibrio in ogni istante di
tempo.
14
zate dalla visione dell’economista, non possono essere considerate un mero
riflesso delle sue convinzioni pre-analitiche. Ma ciò non significa che l’oggetto dell’indagine non venga suggerito in primo luogo dal contesto storico-sociale – l’a mbiente – in cui egli è inserito e dai problemi che concretamente si pongono.
Non sono state, forse, la saturazione dei terreni agricoli inglesi e l’introduzione
delle macchine a stimolare la riflessione sui rendimenti decrescenti della terra e
sulla disoccupazione tecnologica? E se è solo con la definitiva affermazione della
borghesia come classe egemone, anche sul piano politico, che l’attenzione degli
economisti si sposta dalla sfera della produzione a quella dello scambio (in cui fa
la propria comparsa il moderno consuma tore), non è però soltanto con l’incalzare della prima Große Depression (1873-1895) del capitalismo mondiale che si
richiede che venga scientificamente provata l’efficienza del mercato nell’allocazione delle risorse? Ancora: è con lo sviluppo della produzione di massa e l’esplosione della crisi del ventinove che si impone la riflessione sulle imperfezioni
dei mercati e sulla insufficienza della domanda aggregata. Mentre sono il raggiungimento del tetto del pieno impiego e la conseguente ripresa del conflitto di
classe nel secondo dopoguerra ad accendere il dibattito sulla natura antagonistica della distribuzione del reddito.
Al di fuori di questa, pur sintetica, periodizzazione per «svolte nel paradigma»
rimane da segnalare la controrivoluzione dei Chica go Boys, estremo (ma
coerente) punto d’approdo della grande opera di normalizzazione del pensiero
keynesiano realizzata nel corso degli anni ‘40 e ‘50. L’ascesa del Moneta rismo di
Friedman e Phelps ed il successivo trionfo del Neomoneta rismo di Lucas,
Sargent e Wallace, pur essendo espressione di mutamenti rea li intervenuti nelle
economie occidentali – l’avvio di imponenti processi di ristrutturazione capitalistica, gli shock petroliferi e la stagflazione degli anni settanta – non possono tuttavia essere considerati una vera rivoluzione nel paradigma della scienza economica. Se il primo filone di ricerca rappresenta, per così dire, il «lato cattivo» del
sistema teorico neokeynesiano e dei suoi sviluppi successivi, il secondo appare,
piuttosto, come un tentativo – peraltro riuscito – di resta ura zione della vecchia
buona dottrina quantitativista della moneta4.
Nemmeno il Progra mma di Ricerca Austria co o, la più recente, Public Choice
School hanno prodotto una discontinuità paradigmatica nella storia della scienza economica. E ciò malgrado entrambi gli approcci mostrino un non trascurabile margine di alterità teorica rispetto al filone neoclassico più tradizionale.
In effetti, se i lavori degli economisti austriaci fino ai primi anni trenta possono
essere considerati alla stregua di una variante dell’ortodossia marginalista del
decennio precedente, a partire da quel periodo i contributi di Mises ed Hayek si
pongono l’obiettivo dichiarato di spingere la scuola austriaca in una direzione
affatto differente. Sebbene quasi completamente ignorati all’epoca, i lavori di
questi due autori hanno così dato origine al reviva l austriaco dell’ultimo quarto
di secolo, fondando l’a pproccio neoa ustria co alla comprensione del processo
concorrenziale di mercato. Alla base di questo filone di studi c’è l’idea che la
microeconomia neoclassica, di cui l’equilibrio economico generale di Walras
(nella versione di Arrow-Debreau) rappresenta il core, non sia riuscita a fornire
un modello teorico in grado di spiegare ciò che accade realmente nelle economie di mercato. Tale convinzione prende le mosse da due questioni aperte: (a)
l’irrilevanza della modellistica neoclassica che considera il mercato in posizione
di equilibrio in ogni istante di tempo; e (b) la fragilità metodologica implicata dal-
Marco Passarella
Per una storia analitica dell’economia politica
l’ipotesi strumentale che il mercato abbia già raggiunto tale posizione di equilibrio. Ciò che occorre è invece una teoria che offra una spiegazione plausibile di
come, a partire da un dato insieme iniziale di condizioni di non-equilibrio, le tendenze equilibratrici del mercato possano essere messe in moto. Per gli austriaci
l’avvicinamento all’equilibrio è, infatti, un processo sistematico di apprendimento, in cui i partecipanti al mercato acquisiscono progressivamente e reciprocamente una maggiore conoscenza circa le condizioni di domanda e di offerta. Si
tratta, in altri termini, non di negare l’operare della concorrenza in equilibrio
(come impongono di fare i modelli neoclassici, caratterizzati da una concorrenza senza… concorrenza); ma, all’opposto, di riformulare tale nozione in modo
tale da renderla totalmente incompatibile con la categoria di equilibrio (Kirzner
1997; [1973] 1997). Mises parla, a questo proposito, di «concorrenza rivale».
Invero, tale approccio, che rappresenta tutt’altro che un edificio dottrinario
compatto, si trova oggi di fronte ad un dilemma decisivo: l’adozione del «soggettivismo radicale» propugnato dalle nuove generazioni di economisti austriaci,
che impone la ricerca di una razionalità scientifica diversa sia dall’apriorismo dei
vecchi maestri (Menger e, soprattutto, Mises), che dal pur cauto empirismo popperiano di Hayek, da un lato; oppure l’individuazione di limiti al soggettivismo
stesso, storico «cavallo di battaglia» della scuola austriaca, dall’altro (BarrottaRaffaelli 1998). Un’idea, quest’ultima, caldeggiata dagli economisti austriaci, per
così dire, «moderati», tra i quali, in particolare, Israel Kirzner. Il fatto è che le continue estensioni del soggettivismo operate dalla scuola austriaca – pur essendo
coerenti con il nucleo originario del suo programma di ricerca – hanno finito
con il mettere in dubbio non solo la possibilità di giungere alla formulazione di
leggi economiche rigorose, ma la legittimità stessa di una scienza economica teorica , distinta dalla semplice interpreta zione dei fatti economici5.
Quanto al filone della public choice di Buchanan e Tullock, l’idea-cardine è che
le azioni dello Stato possono essere spiegate come esito del comportamento
razionale di individui che perseguono il loro interesse personale, anziché quello
generale, in risposta alle regole del gioco politiche (Stiglitz 2003, p. 164).
Compito dell’economista è dunque quello di individuare una Costituzione, ossia
un sistema condiviso (dunque ottima le) di regole, che informi anche l’azione
dei poteri pubblici alla logica contra ttua lista del mercato. L’intendimento critico circa le potenziali implicazioni interventiste dello schema di equilibrio economico generale è qui evidente: prefigurando un modello concorrenziale ideale
(una sorta di «dover essere») a cui la realtà fattuale deve tendere, la teoria neoclassica tradizionale adombra un ruolo attivo dello Stato tutte le volte che il mercato si rivela incapace di assicurare un’allocazione Pa reto-efficiente delle risorse6
– al punto che si è soliti parlare, a tal riguardo, di «fallimenti del mercato»7. Ma
se si accettano i principi dell’individualismo metodologico, secondo cui alla
società non può essere attribuita alcuna volontà trascendente quella dei singoli
individui, siccome gli individui sono diversi, non esiste alcuna razionalità a priori
del mercato da ripristinare mediante l’intervento dello Stato. Nessun ente collettivo è, infatti, legittimato a sottoporre le decisioni autonome del mercato a correzioni o limitazioni, né tanto meno a proporre misure efficientistiche che dovrebbero ispirare l’azione dell’autorità pubblica. Questo perché nessun ente collettivo
è in grado di determinare il costo-opportunità (il valore che per il singolo individuo ha l’alternativa a cui egli deve rinunciare) sopportato da ogni agente individuale a seguito delle proprie scelte. Perciò, l’attenzione degli economisti deve
5
C’è chi ha parlato, con
riferimento ai neoaustriaci, di «nichilismo teorico»
(Barrotta-Raffaelli 1998).
6
Un mercato è efficiente
in senso paretiano se e
solo se non è possibile
migliorare la condizione
di alcuno degli operatori
senza peggiorare quella di
qualcun altro. Si può
dimostrare che tale definizione descrive un mercato di concorrenza perfetta, in cui ciascuna impresa
(price-taker) sa di non
poter influenzare, con il
proprio comportamento,
il prezzo del prodotto (fissato al costo marginale).
7
Il punto è che nel
mondo concreto la concorrenza tra le imprese è
limitata da molteplici fattori quali la mancanza di
perfetta informazione, l’esistenza di monopoli
naturali, la presenza di
protezioni brevettuali, la
possibilità di comportamento collusivo tra le
imprese, ecc.
15
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8
Dietro il cui apparente
formalismo matematico,
si celano processi storici
reali, economicamente e
politicamente significanti.
Va, peraltro, rilevato che
alla momentanea impasse
della teoria economica
neoclassica prodotta dalla
critica sraffiana (per le sue
implicazioni distributive,
ma anche per l’emergere
del fenomeno del c.d.
«ritorno delle tecniche»,
che spezza il nesso tra
l’intensità capitalistica
della produzione ed il
rapporto tra saggio di
interesse e salario unitario), non ha fatto seguito
alcuna corrispondente
nuova «situazione classica», secondo la nota definizione di Schumpeter.
16
essere spostata dalla valutazione del fine del processo economico alle modalità
con cui vengono effettuate le scelte collettive, dove l’unico criterio di valutazione
ammesso è quello paretiano, ossia il criterio che regola lo scambio.
Anche in questo caso valgono, tuttavia, alcune delle considerazioni già svolte con
riferimento agli sviluppi del pensiero austriaco, talché non pare lecito parlare di
metamorfosi nel paradigma della scienza economica. Piuttosto, con la Public
Choice School «la prospettiva metodologica dell’economia austriaca viene estesa alle attività degli stati, delle burocrazie e dei politici e il fenomeno del fallimento del governo – l’incapacità del governo di conseguire il bene pubblico –
trova una spiegazione» nella scarsa informazione di cui dispone lo Stato in merito alle reazioni del settore privato, nella limitata capacità di controllo dell’apparato burocratico, ovvero nei vincoli imposti dal processo politico (Gray, 1989, p.
77). Come si vede, siamo in presenza di un a ffina mento epistemologico tutto
interno al filone di pensiero neoclassico-austriaco e non di un vero salto paradigmatico (sia pure nel paradigma).
***
Stando così le cose, l’ultimo, ancorché controverso, tentativo di produrre un
mutamento nel paradigma dell’analisi economica rimane quello, incompiuto, di
Piero Sraffa8. Fatto curioso (e significativo) se si pensa che proprio all’economista di Cambridge, già biografo intellettuale di David Ricardo, si deve la dimostrazione della possibilità di coniugare in modo fecondo analisi economica stricto
sensu e ricerca d’archivio. A testimonianza del fatto che le «visite in soffitta» possano rivelarsi assai profittevoli, anche sul piano della elaborazione teorica pura .
Sempre all’eredità teorica di Sraffa è, del resto, riconducibile quel modo di fare
SPE, al tempo stesso, attento «alle sue forme teorematiche» e alle «pressioni dei
momenti storici» (Macchioro 2001, p. 525), diffusosi in Italia negli anni settanta,
«quando studiare le opere di Keynes o di Ricardo non era considerato specializzarsi in SPE ma semplicemente fare buona teoria economica, prevalentemente,
ma non sempre, alternativa alla ma instrea m economics» (Rosselli 2005, p. 9). Un
modo di fare SPE, o, meglio, storia dell’a na lisi economica, oggi messo in discussione tanto dalla riforma universitaria, quanto dalle mode a zienda liste che
nell’ultimo decennio sembrano aver contagiato studenti e atenei. Ma che annovera tra i suoi detrattori una parte non minoritaria degli stessi storici del pensiero economico, magari di prima o di seconda generazione.
Per questi ultimi, la SPE dovrebbe tendere ad un affinamento degli strumenti di
ricerca storiografica propriamente detti, senza curarsi troppo degli aspetti squisitamente analitici. L’approccio di storia dell’a na lisi economica, specie se adottato e praticato da economisti, ancor più se eterodossi , sarebbe invece «troppo
“whig”, troppo influenzato dalla necessità di dimostrare la validità di una teoria
economica a scapito di altre» (Rosselli 2005, p. 3). La SPE potrebbe allora abbandonare senza troppi rimpianti i dipartimenti di scienze economiche per trovare
una diversa, ma più consona, collocazione in quelli di storia, filosofia o giurisprudenza (Rosselli 2005, p. 3), sancendo formalmente il definitivo ritorno degli
economisti-storici al grembo materno.
E, in effetti, se è vero che con la riforma «del 3+2» gli storici del pensiero economico, come, del resto, gli economisti hanno quasi ovunque perso, «hanno
perso ancora di più gli economisti eterodossi-storici» (Rosselli 2005, p. 10), dato
che si sono ridotti gli spazi della SPE proprio come ambito di formazione dei
futuri docenti e ricercatori di discipline economiche. Viene da chiedersi come si
Marco Passarella
Per una storia analitica dell’economia politica
possa diventare buoni economisti, sia pure economisti teorici , senza uno studio
approfondito delle diverse strade seguite dalla scienza economica (che, specie
negli ultimi trent’anni, hanno portato a tentativi di sintesi alternativi, nessuno dei
quali veramente egemone sul piano della teoria positiva ), della loro storia e dei
loro presupposti ideologici (le Welta nscha uungen , direbbe Wilhem Dilthey).
Né, d’altronde, pare possibile fare buona SPE senza un’adeguata padronanza
degli strumenti analitici (la «cassetta degli attrezzi» di cui parlavano la Robinson
e Schumpeter) ed una chiara percezione dei fondamenti pre-analitici dell’economia teorica. Ma tant’è: prima di avere il tempo di porsi tali quesiti, lo studente di discipline economiche – verrebbe da dire, parafrasando un celebre passo
di Joan Robinson – sarà «già diventato professore e così abiti mentali frusti sono
tramandati da una generazione all’altra» (Harcourt 1973, p. 17).
Il rischio è duplice: da un lato, quello di vedere ridotta la SPE a mero esercizio
storiografico, tanto più virtuoso, quanto più distaccato (e dunque quanto più
lontano nel tempo e nello spa zio) dall’«oggetto» d’indagine; dall’altro, che nelle
facoltà di economia, accanto ai «famigerati» corsi di Management, trovino posto
solo la Microeconomia manualistica, una Macroeconomia rigorosamente microfonda ta e l’Econometria. Discipline che contribuiscono «a dare alla scienza economica l’immagine di una scienza naturale, e non di una scienza sociale»
(Longobardi-Lucarelli 2006, p. 5), politicamente significante. Né il fatto che gli
studenti affollino i corsi aziendali mentre rifuggono da quelli di Teoria economica (Rosselli 2005, p. 10), inducendo una riduzione nel grado di ma tema ticizza zione della disciplina (connessa anche alla diminuzione nel numero delle relative ore di insegnamento), può essere considerato di buon auspicio. Tale fenomeno, infatti, non potrà che portare ad un restringimento degli spazi, già angusti, riservati alla decostruzione critica di categorie e strumenti d’analisi della
scienza economica ufficiale. Con un ulteriore assottigliamento dei margini disponibili per lo studio degli approcci teorici eterodossi, come il filone di analisi
neoricardiano o gli altri indirizzi di ricerca postkeynesiani (per non parlare dell’approccio classico-marxista, già da tempo bandito dalle Facoltà di Economia).
Invero, nella storia della scienza economica, a differenza di quanto accade in altri
ambiti di ricerca, non è possibile individuare uno sviluppo teorico unidirezionale e progressivo, in cui l’ultimo anello della catena della Conoscenza contiene in
sé tutti i contributi precedenti. Detto in altri termini, la teoria economica che
assurga allo status di dottrina egemone nell’ambito della comunità accademica
non può considerarsi, per ciò stesso, anche la (o l’unica ) teoria «vera» o «giusta». Non pare, dunque, condivisibile la posizione di chi ritiene che approcci teorici alternativi a quello (ora) dominante debbano essere relegati nelle soffitte
della scienza economica, archiviati come «irrilevanti» o «superati». Perché, se è
vero che una teoria economica è sempre, in ultima istanza, una forma di a utora ppresenta zione della società, quest’ultima non è un monolite, ma l’espressione composita di gruppi o cla ssi di individui portatori di interessi pa rticola ri e,
sovente, conflittua li .
Tutto ciò non implica, ovviamente, che non si dia (o che non sia possibile individuare) una qualche forma di progresso scientifico all’interno di una singola
scuola o di un dato programma di ricerca; né, tanto meno, che si debba rinunciare alla verifica della robustezza e della coerenza logico-formale di ogni teoria economica (sia essa ortodossa o eterodossa, espressa in forma discorsiva o formalizzata, nuova o antica). Ma è, nondimeno, doveroso ricordare che la classe sociale
17
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9
Come dimostrano le
preoccupazioni manifestate di recente da Pasinetti
in merito all’indagine condotta dal C.i.v.r. sullo
stato della ricerca italiana
(cfr. VTR 2001-2003.
Risultati delle valutazioni
dei Panel di Area, gennaio
2006).
10
Il che non significa affatto che l’esposizione diacronica agli studenti, per
successive scuole di pensiero, sia «il modo migliore o l’unico» di insegnare
SPE. In effetti, sovente «è
molto utile e cattura l’attenzione prendere un
problema particolare (la
definizione di disoccupazione, la teoria quantitativa della moneta, il concetto di equilibrio) e far
vedere come un concetto,
che è stato presentato
come self-evident, invece
ab-bia alle spalle una
lunga storia e molte controversie» (Rosselli 2005,
p. 12).
11
Oppure nella forma dell’incrementalismo, che
assimila il progresso
scientifico «all’accrescimento di una palla di
neve che scorresse per la
china di un monte, raccogliendo dell’altra neve e
di cui la superficie rappresenterebbe l’ignoto»
(Pantaleoni 1910, p. 4).
18
di volta in volta dominante, benché giudice esigente della produzione scientifica,
non è, in genere, anche un giudice imparziale. Che, insomma, benché in economia consistenza e robustezza di un sistema teorico costituiscano ceteris pa ribus
importanti condizioni interne per la sua affermazione, più importante è la capacità del sistema di rispondere al desiderio di autorappresentazione del blocco
sociale che lo ha adottato (condizioni esterne). Perché «quando la società ha bisogno di una teoria generale organica e ortodossa, la trova. ... E quando il mercato
non offre un gran che, si prende quello che c’è anche al prezzo del sincretismo e
della debolezza analitica» (Screpanti-Zamagni 2000, p. 30; anche p. 27).
Malgrado ciò, lo spazio per l’analisi dei filoni di studi considerati eterodossi (che
da sempre accompagnano la storia della scienza economica, costituendo, talvolta, un’anticipazione dei suoi sviluppi futuri) subisce da tempo una progressiva
erosione9 e con esso si riduce la possibilità di fare SPE come critica delle teorie
economiche (passate e presenti) e, al contempo, come teoria economica critica . Il che appare tanto più paradossale se si considera la crisi in cui versa, almeno sul versante della teoria positiva, il tradizionale paradigma neoclassico. In
effetti, se di ma instrea m economics si può ancora parlare, ciò è reso possibile
unicamente dalla convergenza della grande maggioranza della comunità accademica sugli aspetti squisitamente norma tivi della teoria economica in chiave merca tista (neoliberista , socia l-liberista o liberista tout court). È, in altri termini,
l’adesione ad un, più o meno, temperato la issez fa ire in politica economica, l’unico vero collante di approcci teorici altrimenti assai differenti, quando non apertamente contrapposti. Basti pensare alla notevole distanza che si frappone, sul
piano dell’analisi positiva, fra «mostri sacri» dell’economica del Novecento quali
Hayek, Friedman o Samuelson.
Ma se questo è il quadro, assai poco incoraggiante, che storici ed economisti critici si trovano a fronteggiare, si fa ancora più pressante l’esigenza di recuperare
uno spazio adeguato per la SPE intesa come decostruzione critica e ricostruzione dia cronica di forme a na litiche differenti, perché storica mente determina te, di uno stesso pa ra digma epistemologico10. Una storia analitica dell’economia politica che eviti, al contempo, sia gli abbagli del continuismo a ssolutista ,
magari nella forma del «precursorismo» per cui tutto è già stato detto e la storia
è ridotta ad eterno ritorno dell’identico11; sia le insidie, non meno perniciose,
del relativismo o, meglio, dell’a na rchismo metodologico, che, al contrario,
postula l’incommensura bilità di sistemi analitici elaborati in momenti storici differenti (Feyerabend [1975] 1991; per una posizione opposta, si veda Blaug
[1968] 1970, pp. 20-21).
È per questo che alla necessità di evitare chiusure settarie della disciplina – ritrovando un dialogo aperto con la storia, la filosofia della scienza e le altre scienze
sociali – deve corrispondere un affinamento della strumentazione logico-matematica dei suoi studiosi. Con l’avvertenza che si tratta pur sempre di storia dell’analisi, in cui la ricostruzione rigorosa delle forme analitiche deve essere, infine,
ricondotta alla determinazione dei processi reali che ne hanno visto la nascita, la
diffusione, la caduta e, magari, la successiva riscoperta. Perché se lo studioso che
sa di teoria può talvolta essere tentato di sostituire elenchi diligenti di nomi, date
e titoli di opere, con riletture analitiche, più o meno fedeli, di un pensiero altrimenti assai frammentato, compito precipuo dell’economista -storico è, nondimeno, quello di fornire «un senso e una direzione» al tutto (Fusco 1996).
Solo così, la SPE – intesa, appunto, come storia analitica dell’economia politica
Marco Passarella
Per una storia analitica dell’economia politica
– può pensare di riguadagnare un ruolo di primo piano nell’ambito del mondo
accademico italiano. Ma, soprattutto, può tornare a rappresentare il terreno sul
quale, per dirlo à la Schumpeter, possono essere svelati e sottoposti a critica i
presupposti ideologici delle teorie economiche. A partire, ovviamente, dall’a rché metafisico delle dottrine economiche di volta in volta dominanti.
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20
Santa De Siena
Cosmosofia
Borderline
“Quale chimera è dunque l’uomo? Quale novità, quale mostro, quale caos,
quale soggetto di contraddizioni, quale prodigio! Giudice di tutte le cose, stupido verme della terra; depositario del vero, cloaca di incertezza e d’errore; gloria e feccia dell’universo. Chi sbroglierà questo ingarbugliamento?” (B. Pascal)
1. Riaprirsi all’interrogazione
Il più esplicito e profondo significato di un testo è racchiuso nella citazione scelta dall’autore all’inizio dell’epigrafe.
Ed è con questa incisiva citazione di Blaise Pascal che Edgar Morin apre il
Prologo al I tomo del V volume de La Méthode, dal titolo L’identità uma na . Un
pensiero articolato in una lunga e complessa doma nda rivolta all’uomo dall’uomo. Il carattere metafisico dell’interrogazione consente all’uomo-filosofo francese di fare affermazioni che suonano come a ttribuzioni , creando una relazione
identitaria tra Ente interrogante ed Ente interrogato. A colpire è la severità del
giudizio, così tagliente, ambiguo, sprezzante, irrevocabile dal quale emerge l’immagine di un Ente soggetto-oggetto dai contorni sfocati, indefinibili e contraddittori, contemporaneamente denigrato ed esaltato, prima eretto a giudice di
tutto e poi precipitato al rango di cloaca. Il linguaggio svela la polimorficità di
un Ente che ha il carattere del mistero, della mostruosità e del prodigio insieme;
del caos, dell’errore e della verità, della forza e della fragilità allo stesso tempo.
Un’identità multipla efficacemente espressa che lascia inalterato nel tempo l’interrogativo antropo-filosofico e irrisolto il mistero della condizione uma na . Così
come permane la forza prorompente evocata dall’angosciante domanda: Chi,
cioè quale uomo, sbroglierà questo inga rbuglia mento?
Un interrogativo che ci pone di fronte ad una metariflessione critica sulla storia
evolutiva della nostra specie, sulle nostre narrazioni, sui modi di svelarci e di
autorappresentarci. Interrogativo che ci impone di rimetterci in gioco, di
destrutturarci e di ripensare la nostra attuale idea di uomo e di uma nità , per
cercare di creare nuove condizioni di pensabilità e soluzioni di vivibilità più pertinenti. Nell’era dell’esplorazione dello spazio e del tempo profondi della nostra
globalizzazione, si avverte ineludibile e cogente il bisogno di reinterroga re questa antica o recente nozione di uomo inserendo la nostra evoluzione storica
21
n.18 / 2007
1
T. PIEVANI, Homo
sapiens ed altre catastrofi,
Meltemi, Roma 2002.
2
E.MORIN, La Méthode
5. L'Humanité de
l'Humanité. Tomo I:
L'identité humaine,
Editions du Seuil, Paris
2001; trad.it.: L'identità
umana, Cortina, Milano
2002, pp 433, 435.
3
T. PIEVANI, Homo
sapiens ed altre catastrofi,
cit. p.25.
22
(siamo apparsi come umanità sul pianeta da appena un milione di anni) nella più
ampia e complessa storia na tura le. La cui storia conosciuta copre poche
migliaia di anni, un intervallo di tempo molto trascurabile, rispetto al tempo profondo della storia biologica della Terra.
Per riesaminare, in modo altrettanto profondo, gli esiti, i prodigi, le mostruosità e gli errori che – nel bene e nel male – hanno segnato la nostra avventura
cognitiva. Interrogandoci sulle scelte e creazioni che hanno reso possibile la
molteplicità di storie, evoluzioni , coevoluzioni e biforca zioni e che dentro la
nostra storia si sono intessute e intrecciate con quelle degli altri esseri, per sviluppare nuclei percettivi capaci di generare una molteplicità di eventi di tra sforma zione attraverso i quali delineare nuove possibilità di scelta, nuove na rra zioni e nuove interpreta zioni . E scoprire anche se effettivamente la storia sia
andata proprio come noi l’abbiamo narrata o se invece altre a noi sconosciute
contingenze, migrazioni e derive l’hanno segnata. Se la storia na tura le della globa lizza zione della specie umana, iniziata da alcuni cespugli di “ominidi” e proseguita con una specie “esploratrice” chiamata Homo sa piens (Pievani 2002),1 si
sia sviluppata proprio come la vulgata evoluzionista l’ha raccontata oppure se,
invece, sia andata diversamente da come speravamo e abbiamo creduto che
fosse. In un certo qual modo la storia umana è assimilabile alla storia del cosmo:
un torrente tumultuoso di crea zioni e di distruzioni, in un miscuglio di ra zionalità organizzatrice, di rumore e furore e di strabilianti atrocità e barbarie.
Questa sublime e terribile identità è incisa in noi come in una sorta di memoria ereditaria, come se il cosmo ci avesse creati a sua immagine (Morin 2002, 433-435)2.
Per cui più che una storia eroica di conquiste, sostiene Telmo Pievani, si potrà
scoprire che la nostra è un “tessuto di fili sottilissimi e multicolori, come una
tra ma di interdipendenze ina spetta te, di rela zioni sconosciute, di ra dici
intreccia te”. Una storia che sarà comunque incompiuta , come incompiuto è il
destino della nostra specie (Pievani 2002, 25)3. Un antico poeta persiano ha paragonato la storia dell’universo ad un gra nde ma noscritto del quale la prima e l’ultima pagina sono andate perdute.
Questa suggestiva ipotesi corrobora la tesi che la complessità non è un artificio
intellettuale, ma una emergenza che nasce dallo sviluppo delle scienze evoluzionistiche, della scienze della mente, della genetica e dalla microbiologia, i cui
risultati si intrecciano con le esplorazioni del tempo e dello spa zio profondi che
la nuova cosmologia sta effettuando in modo interdisciplinare con l’ecologia,
l’archeologia e la paleontologia. Sguardi inediti che impongono approcci nuovi
allo studio della fisica, della biologia, delle scienze della vita ma che permettono
di scrutare e raccontare nuovi scenari di esistenze ignote o estinte, oppure predittive di a ltre ancora possibili. La complessità delle problematiche esige la complessifica zione delle epistemologie e richiede l’abbandono delle consolanti logiche di semplificazione e riduzione, come anche illusori piani armonici e leggi di
uniformità che la tradizione classica ha proposto, per attivare, invece, procedure
investigative capaci di crea re linguaggi, di rigenera re domande e di reinterroga re risposte, evitando come suggerisce Romain Gary, di ridurre l’uma no a ll’uma no.
Pertanto, una prospettiva evoluzionistica che voglia essere veramente non riduzionista e non disgiuntiva ma multidimensiona le e complessa non può restringersi alla sola dimensione umana, ma deve estendere il suo sguardo all’intero
la bora torio terrestre. A questo nostro pianeta, nostro nel senso proprio dell’ap-
Santa De Siena
partenenza e del possesso, di questo sterminato cantiere vivente dove si crea e
si distrugge incessantemente la vita, nel quale nel tempo e nello spazio, si sono
manifestate le costa nti e le va rietà uma ne – individua li, cultura li, socia li. Dal
quale pluriverso nessuna varietà può essere esclusa o subordinata in quanto
tutte le va rietà sono significa tive e tutte le costa nti sono fonda menta li. (Morin
2022, 58-60)4.
R. Rorty sostiene che la filosofia non è lo specchio della na tura , che cioè non ci
sia una necessaria corrispondenza tra logica e realtà. Non è infatti la specula rità
a tracciare la filosofia ecologica di Edgar Morin, quanto piuttosto il dia logo possibile fra le forme della vita e le forme del pensiero. Soltanto la sua dia logica ,
espressione di una razionalità complessa, evolutiva ed ecologica è in grado di
delineare (non di definire) la portata creativa della diversità vivente. Gettando lo
sguardo binocula re la prospettiva evoluzionistica offre pieno diritto di cittadinanza al plura lismo e alla diversità , e può mostrare, così, come la varietà, l’eterogeneità delle forme sia generativa sia della razionalità che della vita. E senza
cedere a facili suggestioni, occorre comprendere come spesso l’una non sia riducibile all’altra e viceversa. Si tratta di due storie complementari e parallele, quelle
delle idee e dei saperi e quella della realtà fenomenica, entrambe ricche e affascinanti, che spesso si sono incontrate e intrecciate, costellate da significative corrispondenze, rotture, discontinuità, contingenze, biforcazioni, derive e ibridazioni.
Senza voler mettere sotto accusa le passate tradizioni o rifiutare l’innegabile progresso che i differenti approcci delle diverse tradizioni del passato hanno elaborato, si può ragionevolmente ritenere che la tendenza a prediligere culturalmente lo schema che associa un modello matematico ad una verifica sperimentale e
a far corrispondere l’universo alle forme di conoscenza elaborate dall’umanità, è
stato predominante ed ha avuto storicamente la sua efficacia. Tuttavia è importante sottolineare come molte prospettive si siano rivelate, di fronte alla complessità, estremamente riduzioniste e che oltre al formalismo matematico altri
schemi sono logicamente possibili e utilizzabili (Ekeland 1991, 58-60)5. Così
come si può ormai assumere definitivamente l’idea che l’acquisizione delle
conoscenze della specie umana non procede per accumulazioni, non è cioè
a dditiva , come si è ritenuto fino a pochi decenni fa, ma è piuttosto moltiplica tiva ; e che percepire la dimensione dell’incertezza nelle conoscenze non può
voler dire accrescere il disagio o lo scoramento, ma sviluppare il nostro desiderio di ri-pensa re e di ri-vivere l’esperienza cosmologica di disgregazione e frammentazione del cosmo che ha segnato la modernità. Anche se la nostra esperienza è resa ancora più drammatica e intensa dal fatto che oggi abbiamo sotto
gli occhi la tra iettoria di sviluppo, siamo cioè più consapevoli delle scelte, delle
conquiste, e anche dei fallimenti pensati e prodotti dalle ricerche scientifiche e
dalle riflessioni filosofiche.
Assumere l’idea che nuove biforca zioni e possibilità crea tive dell’umanità contemporanea sono ancora possibili, ma che esse dipenderanno in modo decisivo
dalle nostre capacità di ascolto e dalla capacità di creare nuovi modelli che non
contrappongano più verità ed errore, mente e natura (Bateson 1984) 6, filosofia
e scienza, mente e corpo, per percepirci, invece, in un’unica biosfera dinamica.
Si delinea la possibile emergenza di una nuova coerenza , di un nuovo sta to
di sta bilità rela tiva della civiltà uma na : interconnesso a quelli a ntecedenti,
ma non loro culmine e completa mento inevita bile e necessa rio. Dopo la sta -
Cosmosofia
4
E. MORIN, La Methode
5, Prologo, cit. p. XVIII.
5
Cfr. I. EKELAND, A caso.
La sorte, la scienza e il
mondo, trad. it., Bollati
Boringhieri, Torino 1991,
pp 58-60.
6
G. BATESON, in Mind
and the Nature, A
Necessary Unity, 1979,
(trad. it.: Mente e Natura,
Adelphi, Milano 1984) ci
insegna che evoluzione e
apprendimento sono due
sistemi profondamente
simili, che occorre esplorare congiuntamente per
ricomporre la frattura tra
Mente e Natura che la
modernità ha creato.
23
n.18 / 2007
7
M. CERUTI, Evoluzione
senza fondamenti,
Laterza, Bari-Roma, 1995,
p. 86.
8
Cfr. E. MORIN, La ragione eretica, in
<<Quaderni razionalisti>> 2/3, 1983; e
E.MORIN, La ragione e le
ragioni, La ragione derazionalizzata, in <<Lettera
internazionale>>1, 1984.
9
Cfr. AA.VV., La crisi della
ragione, a cura di A.
Gargani, Einaudi, Torino
1979.
10
Cfr. R. RORTY, La filosofia dopo la filosofia, trad.
it., Laterza, Roma-Bari
1990.
24
bilità delle civiltà a rca iche rela tiva mente isola te e sepa ra te l’una da ll’a ltra ,
dopo il furore provoca to da l conta tto e da l conflitto fra le civiltà storiche, sa rà
possibile l’emergere di una nuova civiltà pla neta ria in cui il bila ncio penda a
fa vore della plura lità piuttosto che della omogeneità , a fa vore della crea zione
piuttosto che a fa vore dell’elimina zione di ciò che è considera to <<supera to>>, a fa vore della sperimenta zione e della diversifica zione piuttosto che
della sta nda rdizza zione? (Ceruti 1995, 86)7
Essere al plurale
È noto come già Heidegger si sia posto oltre il pensiero meta fisico oblia nte
l’Essere, riproponendo l’interrogativo ontologico a partire dal punto in cui lo
aveva volutamente tralasciato Kant, ritenendolo un percorso impraticabile attraverso la via metafisica. Il pensiero ecologico di Morin, a differenza di Heidegger,
riprende il discorso scegliendo un sentiero che è contemporaneamente fenomenologico ed epistemologico, filosofico e poetico. Un itinerario inesplorato da
Kant, e da Hegel, e neppure da Marx ed Husserl, con il quale egli ridelinea, alla
luce dei risultati dei nuovi saperi e delle rivoluzioni scientifiche contemporanee,
una ri-organizzazione scientifico-filosofica ed ontologica del sapere, non soltanto dell’Essere e del vivente, ma anche della metafisica e della razionalità umana,
liberate dalla artificiosa polarità uma nistica e scientifica . Egli ha sottoposto a
revisione critica la ra ziona lità nella molteplicità delle sue forme, comprese quelle del delirio ra ziona lizza nte, per giungere non ad una sua nichilistica demolizione, ma al suo oltrepa ssa mento. Dove l’oltre non è inteso come il semplice
superamento dialettico del ra ziona le e dell’irra ziona le, nell’ottica di una logica superiorità progressiva ed infinita. Ma, al contrario, dove l’oltre è l’a ltro, cioè
le differenti forme in cui la razionalità umana può manifestarsi; è la possibilità di
esplorare le differenze di una ra gione multipla che le include in sé.
Una ra ziona lità a perta che si lascia pervadere e contaminare dai dubbi e dalle
incertezze senza lasciarsi sopraffare, ma che nel dubbio e con il dubbio, invece,
si arricchisce, rafforza, rianima e rivitalizza e, nello stesso tempo, si rende più
complessa , incerta , preca ria , contingente (Morin 1983; 1984)8. Morin sferra il
colpo di grazia ad una ragione, la cui integrità è stata compromessa nell’orgoglio
e nella presunzione della sua unicità , a ssolutezza e universa lità (Gargani
1979).9
Un processo già avvertito da Nietzsche e Heidegger e che con J. F. Lyotard pone
le premesse di un post-modernismo aperto a nuove possibilità evolutive (Rorty
1990)10. Proprio attivando il gioco delle decostruzioni e ri-costruzioni la ra gione
a perta di Morin ha risemantizzato una nuova epistemologia di ricerca, ridisegnato nuovi scenari di senso, imprimendo così una svolta ra dica le ad un antropocentrismo ed etnocentrismo ingenui, fondati sul modello gra dua lista che l’evoluzionismo darwiniano, con la sua fiducia in un inarrestabile progresso, avevano prefigurato. Creando nuove meta fore evolutive basate sulla rela zione e sulla
reciprocità , ha messo in scacco le meta fore mecca nicistiche e riduzionistiche
basate sulla sepa ra zione e sull’unicità dei sistemi, con le quali si è costruita
un’immagine sociale della natura dopo aver costruito un’immagine della società
come macchina.
Per Heidegger solo l’uomo è un ente singola re, che ha la possibilità di essere
diverso da ciò che è, mentre gli altri enti, come gli animali, vegetali, cose, sono
Santa De Siena
sempre ta li a come sono. Oltre ad essere singola re e ad avere possibilità di progetta rsi il proprio modo di essere, l’uomo è anche sempre in gioco, ed ha l’opportunità di giocare con se stesso e con il proprio destino. Potendo autoprogettarsi, solo dell’uomo può dirsi che ha <<esistenza>>, che ex-siste ed è perciò esposto alla possibilità di realizzarsi a utentica mente o di perdersi nell’ina utenticità . Tutta la struttura fondamentale dell’Esserci è caratterizzata da questa
esistenza assolutamente singolare data dal suo essere-nel-mondo. Solo l’uomo,
che non è dentro il mondo, ma ex-siste, ha molti modi possibili di essere-nelmondo. L’Essere heideggeriano si autoprogetta ed è dominato dalla Cura (con
la C maiuscola), può estendere il suo orizzonte di vita e utilizza re ciò che incontra e, secondo la struttura dell’essere-nel-mondo, avere una duplice possibilità:
quella di perdere ciò che ha di più proprio e cadere nell’anonimato, oppure
a ver-cura di sé e degli a ltri , intendendo qui per altri gli a ltri uomini.
Non c’è alcun dubbio circa la carica problematica nei confronti della soggettività
espressa dal pensiero di Heidegger; come resta indiscusso il suo colpo di forza
ermeneutica e la validità delineata dalla situa zione emotiva e dalla comprensione con le quali si realizza l’Esser-ci umano. Prospettiva che ha aperto la strada al
multicultura lismo e all’idea di una etnicità terrestre.
È però possibile interrogarci sui limiti di una prospettiva esclusivamente a ntropocentrica per riavviare la macchina riflessiva proprio su ciò che appare più
scontato. Rivendicando proprio ciò che Heidegger ci ha insegnato ossia il diritto
all’interrogazione, intesa sia come ri-flessione, sia come media zione.
Per esempio, siamo proprio certi che sia solo l’uomo ad esistere? Certamente è
il solo che può porsi gli interrogativi sul suo destino e, trascendendo se stesso,
autoprogettarsi. Ed è, per quanto sappiamo, il solo che può coniugare i verbi al
futuro, ma non il solo ad anticiparlo al presente. Nella temporaneità, infatti, ogni
singolo si vive il proprio presente nella assoluta certezza dell’incertezza del
domani. Sappiamo però che in ogni essere vivente, dotato di sistema nervoso, si
sviluppano strategie cognitive, volitive e comportamentali con le quali è costantemente messo in gioco il proprio destino (Morin 1988, 41).11
È possibile domandarci, inoltre, quale sia stata, e quale è, la relazione tra il modo
di essere-nel-mondo proprio dell’uomo e quello degli altri esseri o enti?
Dall’ultimazione di Sein und Zeit nel 1927 a oggi è possibile riflettere sulle scelte a nticipa trici della morte che l’angosciata umanità ha fatto nel corso di questo tempo? Possiamo ripensare se sia sempre e solo l’uomo a giocare con il proprio destino o se, con il suo agire egli non definisca i confini delle scelte anche
dei e per gli altri sistemi viventi, mettendo in gioco lo stesso destino del mondo.
Interrogandoci se davanti agli effetti provocati dall’impronta ecologica umana e
alla portata catastrofica delle emergenze ambientali cui assistiamo sia sempre
maiuscola la C della Cura che domina il nostro orizzonte di senso. E ancora,
nella società delle interdipendenze sistemiche, dell’informazione e della comunicazione mediatizzata, del consumismo planetarizzato e della globalizzazione
economica, chiederci quale sia lo spazio della scelta e in che modo si possa
ancora pensare l’a utenticità .
Domandarci se la comprensione emotiva mente situata possa generare a utocomprensione o se nel frattempo non si sia totalmente smarrito il senso stesso
del vivere, teso solo al hic et nunc di ciascuno e che ciò può accadere sia nel
cuore delle grandi metropoli che nei ghetti delle periferie o delle bidonvilles; se
non si riesca a dare conto dei perché di un unico e devastante modello di svi-
Cosmosofia
11
E. MORIN,La Mèthode
II, La vie de la vie,
Editions du Seuil, Paris
1980; trad. it. Il pensiero
ecologico, (parte prima),
Hopefulmonster, Firenze
1988, p. 41. Ogni volta
che valuta una scelta, che
sia quella della via di fuga,
della ricerca del cibo o
della socialità, l’ente animale, sia esso un gatto o
una lepre, mette in atto
una strategia cognitiva di
difesa o d’attacco ed
effettua un’attività di cogito/computo che comporta in sé la possibilità di
vita o di morte. La più
semplice competizione
che si istituisce tra un
predatore e una preda
mette in gioco un sistema
di eco-comunicazione fra
individualità intelligenti in
modo tale da ottenere il
maggior numero di informazioni relative al proprio nemico, eliminando
il rumore, e nello stesso
tempo ingannandolo con
azioni di distrazione e di
disturbo. Un doppio
gioco antagonistico che
sviluppa intelligenza,
astuzia, decifrazione,
decriptazione, investigazione, ipotesi e strategia.
25
n.18 / 2007
12
E. MORIN, La Methode
5, cit., p. 7.
luppo e della necessità della crescita economica ad ogni costo; se il senso del
nulla non sia proiettato ed esteso al tutto e, dentro questo tutto anch’esso nullifica to, l’individuo non riesca ad aprirsi un varco che non è più solo a pertura ,
possibilità , ma spesso diventa soltanto vincolo, limita zione, condiziona mento.
Pur volendo considerare questo il nostro destino, la nostra condizione ontologica, che cosa accadrebbe se quel tutto indecifrabile, di cui non si possono né
dire né pensare i confini, ma che si associa al principio di sopravvivenza del a d
ogni costo, si riducesse e fosse rapportato alla sola propria individuale egoistica
temporalità e, dunque, al breve spazio di vita di ciascuno? Se il rapporto con la
morte diventasse solo quello della mia morte e la mia contingenza mi impedisse di aver cura degli a ltri ?
Heidegger giustamente riteneva che l’essere-per-la -morte aprisse all’autoprogettazione, ma la complessità ci insegna l’ambivalenza cui ogni nozione si presta, le
ambiguità interpretative implicite nelle decisioni, ognuna delle quali sarà ritenuta per sé autentica. E ciò vale sia quando si ha l’ambizione di progettare una
nuova arma letale o una nuova centrale nucleare, sia quando ci si batte per la
difesa dei diritti.
E infine, fino a che punto la voce della coscienza può richiamarci alla moralità e
alla decisione anticipatrice della morte se la morte in questione è la morte termica ? Un sapere questo che apre a nuove consapevolezze e nel contempo a
nuovi conflitti etici. Perché è fuori di dubbio che se c’è morte nel cosmo, non
possiamo sfuggire a questa morte e la morte non è solo “una fa ta lità del nostro
destino biologico, è a nche una fa ta lità ultima del nostro destino fisico” (Morin
2002, 7).12
3. Essere è comunità
13
Cfr.T. PIEVANI, Le
molte nascite dell’umanità, in M. CALLARI-GALLI,
M. CERUTI-T. PIEVANI,
Pensare la diversità,
Meltemi, Roma 1998, p.
88-89.
14
Cfr. R. ESPOSITO,
Communitas. Origine e
destino della comunità,
Einaudi, Torino 1998,
p.XXV.
26
La modernità rappresenta per molti versi l’atto di nascita dell’individua lismo;
storicamente è il momento nel quale l’individuo si è svincolato dal debito che lo
legava agli uomini in un rapporto di reciprocità. Si è così rotta o interrotta l’ambivalenza implicita nel concetto di munus che è sì dono, ma anche obbligo,
beneficio, prestazione. È lo spazio sociale descritto e prescritto da Hobbes che
da un lato ha liberato, emancipato il singolo da ciò che ne minacciava l’identità,
ma dall’altra lo ha separato, atomizzato, scindendolo dagli altri. Questa rottura
non lascia posto ad alcun debito di riconoscenza verso nessuno, neppure verso
la natura, tranne che nei confronti dello Stato, che di per sé ha il carattere dell’astrattezza e della neutralità, ma che poco incide sull’etica comportamentale
dell’individuo e delle sue possibilità. Da quel momento nessun argine pare
opporsi alla mente onnipotente e alla ragione strumentale di quell’essere che
solo una piccola variazione del corredo genetico (Pievani, 1998, 88-89)13 ha reso
egemone, che afferra e prende tutto ciò che ritiene utile attraverso l’estensione
delle sue capacità teoriche, applicando con sistematica precisione la sua etica di
controllo e di dominio.
Al contrario di quanto afferma l’etica cristiana, il prendere pa rte è inteso come
un a ppropria rsi , un fa r proprio. Non a caso Hobbes teorizza la società ca initica nella quale ciò che gli uomini hanno in comune è soltanto la loro uccidibilità genera lizza ta , ossia la capacità di uccidere e di essere uccisi (Esposito 1998,
XXV).14 Sostenendo che la communita s si porta dentro un dono di morte, il filosofo del Leviatano riteneva di poterla mettere in discussione contestandone i
Santa De Siena
fondamenti. Purtroppo, non soltanto in quello sta to di na tura l’essere umano
ha generato a ltri destini di morte, ma anche in quello socia le, in quanto,
ampliando le possibilità della vita ha anche ampliato le possibilità della morte, le
cui cause non sono più legate a quelle originarie, ma sono il frutto delle scelte e
delle interazioni sistemiche prodotte.
Non risparmiando nessuna critica alla modernità, Vandana Shiva ritiene che bisogna andare alle radici proprio di quel pensiero per capire l’ideologia che ha sancito il saccheggio della natura e della Madre-Terra; rileggendo le pagine della
Nuova Atla ntide di F. Bacone, ad esempio, si possono scorgere le anticipazioni
di quelle biotecnologie che stanno oggi sconvolgendo i naturali cicli biologici
(Shiva 2002)15.
L’idea di un comune destino di morte è da sempre presente nella coscienza e nel
pensiero filosofico occidentale. Una volta na ti, affermava Eraclito, vogliono
vivere ed a vere destino di morte, e la scia no figli perché nuove morti si generino. (Eraclito, f. 22 B 20)16 Nel descrivere la condizione umana, più che considerare un male la nascita, il filosofo di Efeso, pare riferirsi alla tensione e all’unità
degli opposti, di un destino umano che è di morte-riproduzione-morte degli
individui, la cui successione soltanto sancisce la permanenza della specie.
Nella stessa cornice di morte-rinascita Morin parla di Comunità di destino nella
quale ciò che ci accomuna non è la salvezza, ma la perdizione. Un destino questo che per Heidegger sta davanti, di fronte a noi, e le modalità di vivere dipendono dalle nostre possibilità di scelta, mentre per Hobbes era una condizione
anteriore, dalla quale affrancarsi e immunizzarsi sciogliendo il legame originario
e istituendone un altro artificiale attraverso il contratto. Per la logica ricorsiva
di Morin, invece, entrambe le condizioni coesistono e il nostro destino di esseri
perduti è sì davanti a noi, ma anche dietro di noi, è la struttura ontologica
dell’Essere.
La sua filosofia di vita e di morte racconta che siamo nati dalla catastrofe, che la
vita sul nostro pianeta nasce dalla morte, dalla deflagrazione e dalla disintegrazione; organizzandosi la vita si nutre di morte e la morte si nutre di vita: vive ciò
che si conserva attraverso la propria autodistruzione. Un destino che sembra
immerso in un tempo profondo, mentre il nostro sistema solare va ineluttabilmente incontro alla morte, e forse si spegnerà o esploderà tra cinque miliardi di
anni. È nella via di mezzo, tra questa fine termica annunciata e l’inizio della vita
planetaria che si situa la nostra storia, iniziata con l’ominizza zione, ed ha la
possibilità di concludersi con la nostra uscita anticipata dalla storia . (Secondo
l’approccio evoluzionistico, infatti, la caratteristica della vita è data dall’attività
prolungata del sistema biogeochimico e non dalle specie individuali che nascono, vivono e muoiono).17
Ma nonostante l’ineluttabile destino, permane la possibilità di scegliere di anticipare o posticipare la sopravvivenza della nostra specie, rispetto alle a ltre storie
evolutive (Rifkin 2000).18 Il destino di perdizione del quale parla Morin, dunque
non solo è davanti a noi, ma nello stesso tempo è anche dietro e dentro di noi,
perché le attuali possibilità di sopravvivenza futura dipendono dal modo in cui
a bitia mo e abbiamo a bita to questo pianeta. Dipende dalle scelte di vita e di
morte, dalle innumerevoli e fantastiche storie di coevoluzione naturale che
abbiamo fin qui contribuito a scrivere e da quelle che intendiamo, per ciò che
resta del nostro futuro cosmico e intergalattico, continuare a scrivere.
Questo formida bile cosmo è lui stesso vota to a lla perdizione. È na to, dunque
Cosmosofia
15
Cfr. V. SHIVA, Terra
Madre, Sopravvivere allo
sviluppo, Utet, Torino
2002.
16
ERACLITO, frammento
22 B 20 (Diogene
Laerzio).
17
Secondo l’approccio
evoluzionistico, infatti, la
caratteristica della vita è
data dall’attività prolungata del sistema biogeochimico e non dalle specie
individuali che nascono,
vivono e muoiono.
18
Cfr. J. RIFKIN, Entropy.
Into the Greenhouse
World, Penguin Putnam
Inc. 1989; trad. it.
Entropia, Baldini &
Castoldi, Milano 2000.
27
n.18 / 2007
19
E. MORIN, A. B. KERN,
Terre-Patrie, Ed. Du Seuil,
Parigi 1993; trad. it.TerraPatria, Cortina Ed., Milano
1994, p. 173.
28
morta le. Si disperde a velocità folle, mentre gli a stri si ta mpona no, esplodono,
implodono. Il nostro Sole, che succede a due a ltri solo defunti, si consumerà .
Tutti i viventi sono getta ti nella vita senza a verlo chiesto, sono promessi a lla
morte senza a verlo desidera to. Vivono fra nulla e nulla , il nulla prima , il
nulla dopo, circonda ti da l nulla dura nte. Non sono solta nto gli individui a
essere perduti, ma presto o ta rdi, l’uma nità , e poi le ultime tra cce di vita , e più
ta rdi la Terra . Anche il mondo va verso la morte, che sia per dispersione genera lizza ta o per ritorno implosivo a ll’origine...Da lla morte di questo mondo
forse na scerà un a ltro mondo, ma a llora il nostro sa rà irrimedia bilmente
morto. Il nostro mondo è vota to a lla perdizione. Sia mo tutti perduti (Morin
1994, 173).19
Con questo Va ngelo della perdizione Morin afferma con forza l’idea che sia mo
tutti perduti . Gli individui, le cose, gli animali, le piante. Ma con il suo tono
assertivo intende, forse, cedere alla tentazione di una ontologia negativa, o la sua
è, soltanto, una metafora viva? Al di là dell’apparente paradosso due ipotesi sono
possibili. Da un lato c’è forse il bisogno, la necessità di “perdersi ”, di vivere cioè
l’esperienza dell’errore e dell’errare per ritrova rsi e della possibilità di riconoscersi infine tutti fratelli. È una prospettiva gradualista che corrisponderebbe allo
schema hegeliano della necessità del negativo nel processo dialettico del divenire. Dall’altra la visione non lineare ma circolare e radicale del tutto muore, l’uomo, la terra, la biosfera, il sole. Questa prospettiva implica però l’idea che dalla
morte nasca la vita. Dalla distruzione del nostro pianeta rinascerà probabilmente, anche se altrove, la vita. C’è perciò la morte ma c’è anche la possibilità virtuale della rinascita. Inoltre, c’è l’idea che la morte come la vita non è solo fisica,
biologica, chimica, è anche esistenziale, sociale, culturale. C’è dunque anche l’idea della trasformazione e della rigenerazione. Errare nel duplice senso di sbagliare, di non cogliere la verità, ma anche di essere viandanti, di vagare, vagabondare alla ricerca di noi stessi e del nostro ra dica mento terrestre.
La presa di coscienza della nostra perdizione, del nostro Da sein, dell’Essere-gettati e dell’Essere-perduti ci fa assumere definitivamente la condizione dell’incertezza e dell’inquietudine, ma allo stesso tempo ci fa scoprire la rela zione poetica con la Terra. Perchè è comunque in questo destino ambiguo, straordinario e
angosciante, preludio forse di nuove aperture, che dobbiamo dibatterci.
Si delinea così la prospettiva di un’estetica ecologica che apre ad un esistenzia lismo ecologico che è anche un’etica, una religione terrena che possa, con il suo
precipitato assiologico, unificare le incertezze evolutive del sistema vivente con
le incertezze cosmiche del pianeta terrestre, e offrire all’interrogazione filosofica
sulla nostra comunità di destino, nuove opportunità e cha nces di vita.
Un ruolo cruciale è dato dal recupero del con-essere, l’essere cum che la nozione di comunità contiene e che la modernità ha spezzato, per ristabilire, ri-lega re la re-la zione, cioè il legame non solo tra gli uomini che le leggi dello Stato
hanno reso immuni dal debito, dall’obbligo di riconoscenza verso il dono della
vita, ma anche tra tutti gli uomini e gli a ltri esseri viventi, senza i quali è impossibile concepire la vita del nostro sistema. Ciò è possibile a lterizza ndo la nostra
comune condizione di destino, rendendola inclusiva delle altre specie e delle
altre organizzazioni viventi, in un’unica biosfera dinamica. Si tratta di preserva re
e conserva re l’intero eco-sistema non nella logica del sa crificio, ma nella logica
del vivente, dello scambio, del munus, della reciprocità dell’Essere.
Santa De Siena
Condividere lo stesso destino di esseri perduti non significa ampliare il vuoto
ra dica le dentro di noi e il vuoto cosmico fuori di noi, significa, per dirla con G.
Bataille, non immunizza rsi dal dono della reciprocità immolando al sacrificio il
cum in nome di una sterile individualità, ma liberare quell’eccedenza di energia
catturata dentro l’ambivalenza della relazione comunitaria. La comunità planetaria non può essere intesa come un nuovo Leviatano esteso all’intero globo, istitutivo di un nuovo ordine o contratto aperto questa volta ai non-umani, ma è
vivere nuovi orizzonti di senso, nella contingenza e nell’ambivalenza delle possibilità date, cioè dona te. È lasciarsi attraversare dal flusso di vita e di morte che ci
possiede quando ci a lteria mo, nel senso che andiamo oltre noi stessi ed esperiamo la nostra apertura entrando in rapporto con lo stesso impulso espropriativo nelle nostra relazione con gli altri. Quando percepiamo un’irresistibile
impressione di perderci e di ritrovarci allo stesso tempo. Dell’essere e del nonessere individuo nella relazione (Esposito 1998, XXXII)20.
Accettare la coevoluzione oltre che la interdipendenza implica il riconoscimento e lo sviluppo di una prospettiva etica che accetti la reciprocità come condizione inevitabile per riscoprire, così, il munus che ci radica nuovamente alla
nostra Terra Ma dre (Shiva 2002).21 Nel mutuo scambio tra ecosistemi ciò che la
natura ci dà è influenzato da ciò che noi dia mo alla natura. Ed è del tutto evidente l’ineguaglianza di questo rapporto: lei ci offre cibo, noi le diamo rifiuti .
Invece, ogni impegno per la vita deve consentire ai modi della vita di fiorire e
rifiorire nuovamente. La nozione di ricchezza è sinonimo di vitalità collettiva e
si riduce a zero se non c’è circolarità, se non è occasione di scambio reciproco.
Lo sca mbio è un regolatore importante della vita sociale ed economica di tutte
le civiltà e di tutti i tempi, ma questo purtroppo non accade oggi nello scambio
con la Natura. In ogni relazione bisogna avere la capacità anche di da re oltre che
di a vere, e ricevere non è un atto materiale e banale, ma un processo di seduzione reciproca e di tra sforma zione intersoggettiva .
Le civiltà del passato avevano un maggiore senso di responsabilità nei confronti
della natura; esse vivevano in rapporto di reciproca relazione con la foresta, con
il mare, con la Terra di cui si aveva cura e si provava timore; l’uomo moderno ha
sviluppato, invece, il suo egoismo preda torio e strumentale su tutto. (Passmore,
1986)22 L’uomo primitivo comprendeva che la vita è dono, è scambio ed anche il
rito e il sacrificio avevano questo significato di scambio simbolico di cui parla
J.Baudrillard. L’uomo moderno ha aspirato al controllo, al potere, al dominio sull’ambiente. Razionalizzando ed economicizzando ogni rapporto con l’altro, con gli
altri, ha ignorato l’insuccesso, lo spreco, la ridondanza creativa che invece la poiesis suppone; liberando il suo impulso possessivo egli ignora così il dono senza contropartita, senza reciprocità, lo scambio come principio di co-creazione.
Per avere una cosciente percezione della natura perversa di questo rapporto è
sufficiente interrogarsi su cosa prendiamo e cosa riceviamo come società umana
oggi dalla biosfera e cosa doniamo, invece, nello sca mbio ecologico con il pianeta: soltanto rifiuti e inquinamento, doni velenosi .
Cosmosofia
20
E. ESPOSITO,
Communitas, cit., p.
XXXII.
21
Cfr. V. SHIVA, Terra
Madre, Sopravvivere allo
sviluppo, cit.
22
Cfr. J. PASSMORE,
Man’s responsability for
nature, Gerald
Duckworth & Co.
Ltd.,London, 1984;
trad.it., La responsabilità
per la natura, Feltrinelli,
Milano 1986.
Come ci ricorda qua lsia si libro di ecologia , la popola zione uma na ha bisogno
di cibo, a cqua , a ria e sosta nze nutritive per crescere, per sostenere l’orga nismo e per riprodursi. I sistemi economici, industria li e tecnologici da noi crea ti richiedono energia , a ria , a cqua e un’enorme va rietà di meta lli, sosta nze
chimiche (molte delle qua li di origine industria le e quindi <<nuove>> per i
29
n.18 / 2007
23
LESTER R. BROWN,
Eco-economy: Building
an Economy for the
Earth, Earth Policy
Institute 2001; trad.it.:
Eco-Economy. Una nuova
economia per la Terra,
Editori Riuniti, Roma
2002, p. 13.
24
A fare emergere le questioni ambientali come un
grande tema delle politiche nazionali e internazionali e a cogliere per
prima la sfida dell’ipotesi
di uno sviluppo sostenibile con carte, documentazioni e progettualità specifiche è stata la
Conferenza su Ambiente
e Sviluppo (UNCED) svoltasi a Rio de Janeiro nel
giugno del 1992, cui ha
fatto seguito la
Conferenza di Aaalorg in
Danimarca nel 1994 con
la quale ebbe inizio la
Campagna Europea Città
Sostenibili.
25
Cfr. G. BOCCHI- M.
CERUTI, (a cura di), La
sfida della
complessità,Feltrinelli,
Milano 1985.
26
H. von FOERSTER,
Attraverso gli occhi dell'altro, Guerini, Milano
1996.
27
Cfr. D. H. MEADOWSD.L.MEADOWS- J.RANDERS-WW.BEHRENS, I
limiti dello sviluppo,
Mondadori, Milano 1972.
30
meta bolismi degli stessi sistemi na tura li) e biologiche che servono a produrre
beni e servizi. Secondo le fonda menta li leggi fisiche i ma teria li e l’energia
impiega ti da lla popola zione non scompa iono; i ma teria li diventa no rifiuti e
inquina mento o vengono ricicla ti mentre l’energia viene dissipa ta come ca lore e diventa non più sfrutta bile. La popola zione tra e quindi ma terie prime e
la ma ggiore pa rte dell’energia da lla Terra a lla qua le restituisce rifiuti e ca lore. Di fa tto si è crea to un flusso continuo che va da lle <<sorgenti>> di ma teria ed energia della terra a i <<serba toi>> della stessa , dove finiscono inquina mento e rifiuti (Lester Brown 2002, 13)23.
Ripensare questo rapporto non può più significare, perciò, riproporre la retorica dello sviluppo sostenibile che dinanzi all’inarrestabile declino ambientale e
alle eco-crisi sconta il clamoroso fallimento dei suoi programmi e vertici che
avrebbero dovuto affrontare il problema non di come rendere “inerti” i rifiuti, ma
di come renderli “fecondi”, nello spirito del dono e dello scambio con l’ambiente24- A fare emergere le questioni ambientali come un grande tema delle politiche nazionali e internazionali e a cogliere per prima la sfida dell’ipotesi di uno
sviluppo sostenibile con carte, documentazioni e progettualità specifiche è stata
la Conferenza su Ambiente e Sviluppo (UNCED) svoltasi a Rio de Janeiro nel giugno del 1992, cui ha fatto seguito la Conferenza di Aa a lorg in Danimarca nel
1994 con la quale ebbe inizio la Ca mpa gna Europea Città Sostenibili.
Dopo la Conferenza di Rio non c’è stata, purtroppo, alcuna integrazione tra le
politiche economiche e gli stati nazionali hanno perduto di vista la prospettiva
globale. Mentre la società sostenibile implica una sfida culturale e politica ai più
alti livelli di complessità che non c’è stata (Bocchi-Ceruti, 1985)25.
Eco-logia ed eco-nomia hanno la stessa radice: eco, ha bita t, ca sa . Governare la
propria casa in maniera proficua significa distribuire le proprie risorse con la
prospettiva rivolta al futuro e nello stesso tempo distribuirle come impegno-perla -vita . Una economia legata agli interessi del presente non solo non è una economia di qualità, ma è anche priva di eticità se non è retta dall’imperativo morale così espresso da Heinz von Foerster: a gisci in modo ta le da a mplia re le possibilità di coloro che verra nno dopo di te (Von Foerster 1996)26.
4. Oltre l’ecocompatibilità
Per sostenibilità o Sviluppo sostenibile si è inteso un modello di sviluppo compatibile tra l’insieme delle relazioni sistemiche determinate dalle attività umane
e la biosfera , costituita dal complesso degli ambienti e delle relazioni tra i viventi in tutte le sue componenti e condizioni fisico-chimiche, biologiche ed ecologiche. Ormai da tempo si è giunti alla consapevolezza dei limiti delle risorse
na tura li ed alla convinzione che il nostro modo di vivere, produrre, consumare, agire, decide nei fatti la velocità del degra do entropico, ossia la velocità con
cui si dissipano le risorse-energie non rinnovabili e, di conseguenza, i tempi di
vita della specie umana e la durata stessa della vita sul nostro pianeta. (Meadows
et alii 1972)27. Dai numerosi rapporti sullo stato di salute del pianeta, apparsi
negli anni Settanta, confrontati con i ritmi accelerati di crescita industriale ed
economica è emerso, con grande evidenza, che ciò che consentirà alla vita
umana di continuare ad essere, agli individui di soddisfare i loro bisogni, di realizzare le proprie progettualità e alle diverse culture di svilupparsi, dipenderà
Santa De Siena
dalla na tura delle rela zioni e intera zioni con l’ambiente, le quali dovrebbero
essere tali da non compromettere irreversibilmente il futuro del contesto biofisico globale. Invece, se pensiamo a quante specie viventi esistenti sul pianeta sono
state conosciute nel corso dell’esplorazione umana (appena un terzo) e a quante ancora ne restano da conoscere, abbiamo una precisa percezione di quanto
resta da esplorare dello spazio profondo planetario (Pievani 2002)28.
Tuttavia il pa ra digma di dominio e di colonizza zione umana fondato sulla
distruzione dei sistemi ecologici del pianeta continua ad essere prevalente. Ad
ogni latitudine continuiamo a devastare gli ambienti e i loro ecosistemi senza
neppure conoscerne i suoi abitanti, animali, piante, organismi e nicchie ecologiche, esattamente come facevano i conquista dores, i pionieri delle esplorazioni
del XV secolo quando sterminavano migliaia di popolazioni indigene senza neppure conoscere la loro lingua. Nei confronti degli a ltri esseri viventi permane la
stessa strategia cognitiva e distruttiva volta al dominio che T. Todorov ha spiegato con lo schema comprendere, prendere, distruggere (Todorov 1985)29. Ogni
tipo di colonizzazione spaziale, cognitiva, affettiva viene perciò compiuta in
nome di una presunta superiore capacità di conoscenze e valori che poi si trasforma in a ssimila zione e distruzione. Conoscere l’Altro, il diverso significa perciò vincerlo per poi a ssimila rlo, includerlo nella storia dell’Io, e infine distruggerlo (Semeraro 2002, 19-42)30.
Di fronte alla crisi globa le (ambientale, energetica, economica e politica) che
sconvolge tutto l’equilibrio biologico e fisico-termodinamico delle risorse terrestri (ritenute a torto inesauribili), della natura (ritenuta a torto un sistema in
grado di riparare a lungo termine i danni) e dell’uomo (ritenuto capace di subire indenne aggressioni di ogni tipo), si è euforicamente pensato che abilità
umane e tecnologie avrebbero dominato gli squilibri planetari (Tiezzi 1991, 13)31.
L’idea guida dello sviluppo sostenibile era quella di un governo globale capace
di integrare gli obiettivi di tutela delle risorse e qualità ambientali con le politiche e le strategie produttive. (Il ricorso al concetto integrato di sostenibilità sembrava inaugurare una stagione di politiche di tipo preventivo che richiedevano
nuovi strumenti conoscitivi, informativi, partecipativi ed economici. La filosofia
era quella di uno sviluppo che si proponeva di soddisfare le esigenze del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future)32.
Mentre la presa di coscienza dei limiti delle sviluppo ha condotto a privilegiare
unilateralmente l’idea di un ambiente come sistema a perto, nell’ottica di un
incremento lineare e indefinito, e allo stesso tempo l’idea, altrettanto unilaterale, del sistema chiuso, ossia della ricerca dell’equilibrio e della conservazione dell’esistente (Ceruti 1998)33. Oggi questa prospettiva dell’equilibrio sostenibile
appare non più sostenibile e profondamente in crisi; un’idea nata nel quadro
delle politiche ecologiche d’emergenza e basata sul principio di a da tta mento
delle specie all’ambiente, secondo una logica della conserva zione che privilegia
una visione evoluzionista e sistemica il cui fine è quello di ricercare equilibrio e
stabilità, in altri termini sopra vvivenza . E solo dopo un decennio che ha visto
letteralmente impazzire il clima e soffocare d’inquinamento il pianeta Terra, con
un aumento della temperatura di quasi mezzo grado, con un crescendo spropositato, per intensità e numero, di eventi metereologici devastanti come inondazioni, uragani, impennate repentine di calore, con vaste aree di siccità che fanno
ipotizzare l’inizio dell’era dell’effetto serra , emergono chiaramente i limiti teorici e pratici di questa prospettiva. Evidenziandosi da qui la necessità di andare
Cosmosofia
28
Cfr.T. PIEVANI, Homo
sapiens e altre catastrofi,
cit.
29
T.TODOROV, La conquista dell’America. Il
problema dell’”altro”,
Einaudi, Torino, 1985.
30
Cfr. A. SEMERARO, Altre
Aurore, I Liberrimi, Lecce
2002, pp. 19-42
31
E. TIEZZI, Il capitombolo di Ulisse, Feltrinelli,
Milano 1991, p. 13.
32
Il ricorso al concetto
integrato di sostenibilità
sembrava inaugurare una
stagione di politiche di
tipo preventivo che
richiedevano nuovi strumenti conoscitivi, informativi, partecipativi ed
economici. La filosofia era
quella di uno sviluppo
che si proponeva di soddisfare le esigenze del
presente senza compromettere la possibilità
delle generazioni future.
33
34
Cfr. M. CERUTI, Pensare
la diversità, cit.
Cfr. M. CERUTI, Pensare
31
n.18 / 2007
la diversità, cit.
35
Cfr. E. MORIN, Il pensiero ecologico, cit.
36
Tra cui le teorie evoluzionistiche, le scienze
della mente, la cibernetica, la teoria dei sistemi, la
teoria dei giochi, la nuova
biologia, la cosmologia, la
teoria degli equilibri punteggiati, la teoria della
complessità del vivente,
ecc..
37
Cfr.T. PIEVANI, Homo
sapiens, cit.
38
Cfr. M. CERUTI,
Evoluzione senza fondamenti, cit.
39
E. MORIN, Il pensiero
ecologizzato, in
<<OIKOS>> 1, 1990.
40
A. SEN, Development as
Freedom, Alfred A.
Knopf, 1999; trad. it.: Lo
sviluppo è libertà, A.
Mondadori, Milano 2000
41
32
E.MORIN, Il pensiero
oltre la concezione di una ecocompa tibilità semplice, intrinsecamente insufficiente a risolvere la complessità dei problemi ecologici. Si tratta ormai di abbandonare la meta fora dell’equilibrio e la meta fora dell’a da tta mento (Ceruti,
1998)34 ed effettuare una svolta culturale e paradigmatica che oltrepassi la visione evoluzionista ed a ntropocentrica per andare verso una concezione coevoluzionista ed eco-sistemica fondata concretamente su una logica del vivente
(Morin 1988)35.
Lo sviluppo di alcune particolari discipline dette Scienze del Ca mbia mento
(Global Change Sciences)36 e le Scienze della Terra stanno ridisegnando una geogra fia del pa esa ggio na tura le del pianeta che permette di comprendere più in
particolare i processi che si generano nei diversi eco-sistemi, facendoci percepire una realtà biologica molto più dinamica e singolare di quanto supposto fino
ad ora, caratterizzata da ramificazioni, sovrapposizioni, evoluzioni e speciazioni.
Più che una concezione a da ttiva , l’insieme delle intera zioni tra uomo e natura
dovrebbe implicare l’idea di una reciprocità crea tiva capace di attivare processua lità ricorsive tese a permettere alla vita e all’intero Sistema vivente o Oikos
di continuare ad evolversi. Si tratta di comprendere, osserva T. Pievani, che l’evoluzione non è una inarrestabile ascesa verso la perfezione, ma è l’esito di una
molteplicità di eventi, di specia zione locali e che la nostra storia evolutiva non è
differente, ma rispecchia quella di altre specie vissute sul pianeta. In uno scenario nel quale la stabilità e l’equilibrio non sono di casa, la contingenza assume lo
stesso ruolo cruciale nella vita evolutiva come nella nostra vita quotidiana
(Pievani 2002)37.
Contrariamente a quanto si è sostenuto fino ad ora la natura non è retta solo da
un ordine fisico produttore di inva ria nza e ripetizione, ma è retta anche da un
disordine vivente produttore di diversità e irregola rità . Dai più recenti studi
delle scienze evoluzionistiche emerge che la ma cchina ecologica non è composta soltanto da atomi e particelle, ma da gruppi di diversità e di esseri viventi
che sviluppano forme estreme di complessità che non escludono conflitti,
distruzioni, predazioni, egocentrismi, come anche forme di cooperazione e complementarità (Ceruti 1995)38. Non c’è pertanto soltanto il determinismo geo-fisico e bio-chimico con i suoi programmi e i suoi vincoli, ma c’è anche tanta imprevedibilità e spontaneità creativa. Ed è proprio dall’insieme sia dell’ordine che del
disordine, della coerenza e dell’instabilità, come della cooperazione e della concorrenza, degli egoismi e delle solidarietà, che si producono spontaneamente le
eco-orga nizza zioni , dotate di qualità superiori o emergenti. Le cui finalità non
sono quelle di mantenere in una condizione stazionaria di equilibrio l’organizzazione sistemica della natura, compreso nel saldo tra le nascite e le morti, quanto
quella di produrre, di crea re da sé, nuove organizzazioni viventi, capaci di generare quella che Morin definisce eco-evoluzione crea trice (Morin 1990).39
Sarebbe un po’ come applicare agli ecosistemi viventi l’a pproccio delle ca pa cità che A. Sen ha teorizzato per l’economia dei sistemi sociali (Sen 2000)40. Ciò
che va ricercato, infatti, non è la stabilità, sempre contingente e tempora nea ,
dettata dai vincoli e dalle possibilità organizzative e sistemiche, ma anche la
ca pa cità di poter costruire nuove stabilità, la ca pa cità di reinventare nuove
riorganizzazioni in conseguenza di nuove disorganizzazioni e speciazioni. A differenza della concezione evoluzionista fisicalista dell’organizzazione biologica,
l’eco-orga nizza zione non soltanto si evolve, ma è capace di evolvere e di riorganizzarsi anche in presenza di eventi perturbatori nuovi e imprevedibili dimo-
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strando capacità di agire in contesti a mbienta li a loro volta evolutivi. Ed è proprio questa capacità co-evolutiva che “consente a lla vita non solta nto di sopra vvivere, ma a nche di sviluppa rsi, o meglio di sviluppa rsi per sopra vvivere”
(Morin 1990)41. In altri termini la relazione che si genera tra gli effetti perturbatori causati dall’azione antropica e l’ambiente, è generalmente causa di disgregazione delle organizzazioni naturali e dei loro equilibri eco-sistemici temporaneamente costituiti. Pertanto una prospettiva di continua crescita dello sviluppo,
quale si è delineata fino ad ora, deve poter rendere possibili le ca pa cità evolutive oltre che rigenerative del sistema vivente non soltanto nel senso della
sopravvivenza, ma anche del suo a uto-sviluppo crea tivo.
ecologizzato, cit. p.37
5. L’apertura cosmica
Il nostro Pianeta ha un’origine cosmica, un complesso biofisico che si è costituito nel momento in cui si è sviluppata la biosfera; la Terra è perciò una tota lità
complessa dominata da un’orga nizza zione vivente emergente da processi fisico-chimici complessi. (È l’idea della Terra come un orga nismo-a mbiente, che
Alfred Latka, padre dell’ecologia teorica, già nel ’25 aveva anticipato rispetto all’ipotesi Gaia di Lovelock, secondo cui ad evolversi non è il singolo organismo o la
singola specie, ma l’intero sistema: la specie e l’a mbiente simultaneamente, in
un rapporto di inseparabile coevoluzione)42. In questo pa rticola re, singola re,
unico sistema a uto-eco-ego-orga nizza tore è radicata la vita . La vita è, per
Morin, una forza organizzatrice bio-fisica in azione nell’atmosfera, una emergenza dalla storia della Terra, e l’uomo un’emergenza dalla storia della vita terrestre. Il pianeta è perciò una organizzazione sponta nea , a utoregola ta , composta da “cicli ricorsivi che sono cicli di vita ma a nche, nello stesso tempo, cicli
di morte.” (Morin 1990, 75)43.
Ciascuno di noi a ppa rtiene alla terra che ci a ppa rtiene e questa consapevolezza non può che farci giungere ad una molteplicità di prese di coscienza del
nostro comune legame relazionale e del bisogno di civilizza re la Terra (Morin
1994)44. Nel senso che l’apprendimento del doppio ra dica mento nel cosmo fisico e nella sfera vivente imporrebbe un ulteriore salto di civiltà, e l’attivazione di
un nuovo processo evolutivo che è anche un duplice gioco: superare il paradigma a ntropocentrico che vede soltanto l’uomo assolutamente al centro dei processi viventi del pianeta e, nello stesso tempo, ra dica re l’uomo alla sua Terra, al
suo sistema di vita, dopo secoli di diaspora, alla sua eco-organizzazione vivente.
La prospettiva ecologica moriniana muove da questa emergente percezione filosofica dell’esistenza; una percezione che rievoca la sensibilità dei primi pensatori greci di fronte alla Physis. Ciò che egli vede e chiama vita è “la tra sforma zione di un ruscella mento fotonico na to da scintilla nti vortici sola ri”, nei
quali“Noi, viventi, e di conseguenza uma ni, figli delle a cque, della terra e del
Sole, sia mo un fuscello se non un feto della dia spora cosmica , briciole dell’esistenza sola re, una minuta germoglia zione dell’esistenza terrena ”(Morin
2002, 5)45. È come dire che l’attività biologica è ontologica, in quanto proprietà
planetaria.
Come non sentire nel suo sguardo profondo una a pertura cosmica ed una
insopprimibile istanza poetica che è anche un inno alla vita? Sia nell’uso del noi
che allarga la prospettiva di comprensione, accomunandoci agli altri sistemi
viventi e alla stessa origine cosmica; sia nel riconoscimento della comune iden-
42
È l’idea della Terra
come un organismoambiente, che Alfred
Latka, padre dell’ecologia
teorica, già nel ’25 aveva
anticipato rispetto all’ipotesi Gaia di Lovelock,
secondo cui ad evolversi
non è il singolo organismo o la singola specie,
ma l’intero sistema: la
specie e l’ambiente simultaneamente, in un rapporto di inseparabile
coevoluzione.
43
44
45
E. MORIN, Il pensiero
ecologizzato, cit. p.75
E. MORIN, Terra-Patria,
cit.
E. MORIN, La Methode
5, cit. p.5
33
n.18 / 2007
46
Cfr. E.MORIN, La
Mèthode. I. La nature de
la nature, Editions du
Seuil, Paris 1977; trad. it.:
Il Metodo, Ordine, disordine organizzazione,
Feltrinelli, Milano 1983;
La Mèthode II, La vie de
la vie, Editions du Seuil,
Paris 1980; trad. it.: Il
pensiero ecologico,
(parte prima),
Hopefulmonster, Firenze
1988; La vita della vita,
(parte seconda)
Feltrinelli, Milano 1987.
47
Cfr.: G. BATESON,
Mente e Natura, cit.
34
tità e appartenenza alla terra della nostra specie; il suo è un invito ad esplorare
le meraviglie di uno spazio profondo per certi aspetti ancora incontaminato, pullulante di biodiversità e va rietà inedite perché sia possibile continuare la favolosa avventura umana della conoscenza. Ma che in primo luogo ci deve permettere di recuperare l’unità spaziale della crosta terrestre e della sua atmosfera, di
quella buccia d’arancia blu intorno alla quale si è sviluppata la vita.
Pensa re ecologica mente significa, infatti, pensa re la diversità , concepire ogni
sistema fisico, biologico, sociale, culturale e noologico quasi come degli esseri
viventi . Sistemi che sono dotati di una propria identità ed a utonomia e risultano capaci di intera gire, comunica re e a utoorga nizza rsi nelle possibilità di
interrelazione date con gli altri sistemi viventi e nelle relazioni di tutti con il loro
ambiente. Ogni manifestazione di vita, dalla più elementare alla più elaborata è
resa possibile dalla comunica zione, dallo sca mbio e dalla reciprocità .
Ciò che sin da Parmenide intendiamo per Essere non è altri che l’a uto-eco-orga nizza zione, ossia l’insieme di tutte le orga nizza zioni di orga nizza zioni di
sistemi di sistemi (Morin, 1883)46. Nessuna forma di vita può essere pensata
senza queste specifiche condizioni di esistenza e di relazione né collocata al di
fuori di tali contesti ecologici. Nessun ente sopravviverebbe a se stesso senza la
possibilità di relazionarsi di volta in volta con proprie modalità organizzative, che
sono sia di a pertura sia di chiusura , con gli altri ecosistemi. Contrariamente al
senso comune, all’interno della Natura non troviamo alcun principio gera rchico
che stabilisca la superiorità di un sistema sull’altro, e se si allarga lo sguardo prospettico all’intera biosfera emerge immediatamente la difficoltà di stabilire relazioni di supremazia tra i diversi sistemi o di ridurre la complessità del vivente soltanto ad alcuni di questi sistemi, per quanto significativi.
L’intera tradizione del pensiero filosofico e scientifico occidentale, da Platone ad
Heidegger, ha invece privilegiato una visione a ntropocentrica con la quale si è
teso a separare, e perciò ad escludere, l’esistenza delle altre specie viventi, ma
soprattutto si è volutamente ignorata e negata la funzione vita le e crea tiva dell’ambiente. Tutte le filosofie uma nistiche sono state centrate esclusivamente sul
problema dell’esistenza e della sopravvivenza di una sola specie, quella uma na .
È il loro linguaggio a svelarne il modello di dominio cognitivo sotteso nel significare, ad esempio, in modo univoco con il termine specie soltanto quella umana.
In Mente e Na tura , Gregory Bateson sostiene che la visione antropocentrica sia
a ntiecologica , sottolineando quanto sia grave epistemologicamente perdere il
senso dell’unità estetica, quella che definisce la struttura che connette (Bateson
1984)47.
Sebbene le filosofie del soggetto di Nietzsche e Freud insieme a quella
dell’Essere di Heidegger abbiano compiuto una svolta sul piano della metafisica, le loro interrogazione partono dall’uomo e si riducono all’uomo. Mentre la
prospettiva teoretica moriniana è centrata non solo ed esclusivamente sulla esistenza dell’uomo, quale sistema di a uto-orga nizza zione in contesti di relazione,
prodotto-produttore di cultura e civiltà, ma amplia lo sguardo alla percezione ed
inclusione dell’intera a uto-eco-orga nizza zione del vivente, concependo tutti i
sistemi in un rapporto di reciproca co-produzione, co-genera zione e co-evoluzione. Viene così riconosciuto il diritto a lla vita di ogni singola esistenza cosmica , nell’intera organizzazione del vivente, nell’intero mondo della vita .
Individuando in tre inscindibili componenti la relazione: uomo-na tura -società .
È interessante sottolineare nella prospettiva ecologica moriniana, l’importanza
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del “trattino” che stabilisce i legami, i nessi, che rilega i termini, che supera le
separazioni; connessione nel duplice senso del rilega re insieme rivelando la
connessione e del rileggere cioè del reinterpreta re.
Superare il dualismo specie/individuo vuol dire, quindi, costruire relazioni di
complessità che non sacrifichino l’individuo, ma guardare alla sopravvivenza e
della specie e della società, intesa anche come ambiente, come biosfera .
Ristabilire l’unione tra e nella riarticolazione delle scissioni, rende possibile
ritessere le reti della vita e dimostrare così che il vero network è proprio quello
vivente. Si può così riattivare anche la riflessione non soltanto sui limiti dello
sviluppo, ma anche sui limiti del conoscere, delle modalità e dell’organizzazione delle conoscenze. Per riaprire il dibattito sul problema del dua lismo che, a
partire da Kant, ha distinto le conoscenze e i saperi, e ribadire l’unità complessa e non più assoluta della razionalità scientifica e filosofica.
Se Nietzsche per certi aspetti, e l’ultimo Heidegger hanno “smaghetizzato” la
metafisica del soggetto, la filosofia di Morin opera una svolta ancora più ra dica le, che va oltre quella compiuta o incompiuta da entrambi, riuscendo ad uscire
dalle secche di una logicità lineare e semplice, per istituire una logica evolutiva
e complessa . La sua a pertura all’a lterità ed alla comprensione dell’a ltro non
riguarda soltanto l’esistenza del diverso, degli a ltri popoli, culture, etnie e civiltà, rese purtroppo dentro più dai processi economici omologanti della globalizzazione che da un’autentica e solidale comprensione. Il suo è un principio di
inclusione che va oltre l’uma no, spostando l’interrogazione filosofica centrata
sulla condizione dell’Essere in quanto ex-sistenza , per aprirsi all’oikos, alla vita
della vita, alla vita delle idee, all’esistenza di tutte le specie, nella molteplicità
della diversità e specificità sociali, culturali, logiche, dei diversi livelli e ordini di
realtà emergenti.
Sia mo figli del cosmo, ma , a ca usa della nostra stessa uma nità , della nostra
cultura , della nostra mente, della nostra coscienza , della nostra a nima , sia mo
divenuti estra nei a questo cosmo da l qua le sia mo na ti e che tutta via ci rima ne segreta mente intimo (...)
Sia mo figli del mondo vivente e a nima le, e tutte le nostre mitologie ha nno sentito la pa rentela e la vicina nza con gli a ltri viventi. Gli uma ni ha nno spesso
venera to degli dei a nima li, i ba mbini trova no del tutto na tura le che gli a nima li delle fa vole, dei ra cconti e dei ca rtoni a nima ti pa rlino e sia no dota ti di
sentimenti uma ni. Ma la nostra identità a nima le è sta ta a lungo ma schera ta
da lla civiltà occidenta le, i cui progressi sono sta ti pa ga ti con una terribile
regressione di coscienza , giungendo fino a considera re gli a nima li come ma cchine e, peggio, come oggetti ma nipola bili a pia cere ... Abbia mo a sservito la
na tura vegeta le e a nima le, a bbia mo pensa to di poter diventa re pa droni e possessori della Terra , se non conquista tori del cosmo, e a bbia mo a ppena scoperto il lega me ma tricia le con la biosfera , senza la qua le non potremmo vivere, e dobbia mo riconoscere la nostra molto fisica e molto biologica identità
terrena . È solo ora che ricomincia mo a prendere coscienza della nostra identità vivente (Morin 2002, 29)48.
48
E. MORIN, La Methode,
5, cit. p.29
Aprirsi al cosmo implica, perciò, l’andare oltre le radici umane per includere
tutte le forme di vita, tutte le esistenze. Significa aprirsi mentalmente ed emotivamente alla comprensione non solo della diversità dell’Essere, ma anche della
35
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49
Non è, infatti, ormai più
pensabile la sola dimensione fisica dell’Essere,
senza anche quella genetica, biologica, psicologica, sociale, mitologica,
culturale, simbolica, economica, sociale, storica,
ecologica.
diversità degli a ltri esseri viventi. Una sensibilità evolutiva potrebbe farci
cogliere, in un futuro non troppo lontano, un relazione di reciprocità anche con
il non-vivente, con le macchine articificiali, i robot che invaderanno la nostra vita
come già hanno fatto i computer, i palmari e tutta la microtecnologia che interagisce con le nostre esistenze. Significa comprendere le metamorfosi dei mutamente antropogenici e apprendere la pluridimensiona lità dell’essere e della
realtà nella quale siamo immersi e che ci immerge: l’a mbiente. Un ambiente che
è anche sempre più impregnato di ipertecnologia e che richiede lo sviluppo di
una ipercultura .
Quella di Morin, a nostro giudizio, va intesa come una duplice apertura. La
prima apertura deriva dal concepire l’Essere umano trinitario, che include in sé
contemporaneamente le istanze di individuo, società e specie; individuo al
tempo stesso singolare e plurale, inclusivo dell’unità e della diversità. (Non è,
infatti, ormai più pensabile la sola dimensione fisica dell’Essere, senza anche
quella genetica, biologica, psicologica, sociale, mitologica, culturale, simbolica,
economica, sociale, storica, ecologica)49. La seconda apertura deriva dall’allargamento dell’orizzonte di significato agli altri enti, alle altre esistenze, alle altre storie, agli altri viventi;, i cui vissuti e destini si intrecciano inestricabilmente con
quello umano e con quello dell’ambiente dentro il comune destino della biosfera e di questa nel cosmo. Secondo una visione ologrammatica che impone di
guardare alla parte, l’umano, come inscritta, radicata in un tutto che è il pianeta terrestre, ma anche di un tutto, l’intero sistema vivente, presente in noi, nella
nostra come nelle altre specie.
La prospettiva ecologica ci impone una nuova concezione evoluzionistica del
cosmo, delle specie, della biosfera, della noosfera, dei sistemi biotici, come
anche una diversa idea di progresso che includa il regresso e di uno sviluppo che
sia eco-sviluppo, prospettando nuovi orizzonti di senso che vanno effettivamente oltre la concezione riduttiva e antropocentrica della modernità. Il suo
andare oltre, però, non segue un percorso semplicemente proiettato in avanti,
ma implica anche un movimento all’indietro, seguendo una logica ricorsiva e
circola re che ci riporta alle origini. La sua è una cosmofilosofia che recupera la
migliore tradizione greca con la quale è pensabile l’Essere totalmente immerso
nella Physis, vivente in una rea ltà tutto dove tutto esiste, nasce muore e diviene.
6. Ecoetnicità ed ecoalterità
50
E. TIEZZI, Il capitombolo di Ulisse, cit., p.37.
36
Tutto ciò naturalmente va inteso sul piano della conoscenza sempre compresa
nell’orizzonte dei significati accessibili all’uomo e che soltanto l’uomo può definire, descrivere e narrare. Quasi a dire che ancora una volta il limite è nel linguaggio e pertanto il punto di vista umano, per quanto esercitato in modo plurale, resta comunque il solo punto di vista. Ciò sarebbe vero se non esistesse la
polifonicità di un concerto suonato a più mani che tocca le note delle differenti sensibilità, culture e conoscenze umane, che moltiplicano, specificano e differenziano più punti di vista possibili sulla complessità del vivente. La natura e
l’uomo, osserva E. Tiezzi, sono entità in continuo e reciproco scambio di informazioni; non essendo mai uguale a se stessa, la natura cambia e cambiando
manda flussi di informazione continui alla mente dell’uomo e questi colloquia ndo modifica e si modifica (Tiezzi 1991, 37)50.
La sfida della complessità pone, dunque, anche la sfida culturale di un’ermeneu-
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tica che si apra a ll’a scolto dell’a ltro e richiede l’evoluzione di sempre maggiori
capacità interpretative per lasciarci attraversare dalla comunicazione e sviluppare l’a scolto dell’a scolto. L’ascolto, dunque, come luogo del riconoscimento dell’altro nel quale si istituisce il suo diritto ad esistere e dal quale soltanto nasce la
vera metacomunicazione. L’apertura a ll’a scolto dell’a scolto è tra sforma zione
reciproca e al contempo innova zione linguistica, scoperta di sé e dell’a ltro,
attenzione alle trasformazioni delle regole del gioco, evoluzione e genesi di
nuove possibilità di dia logo. L’entità multipla che da questo nasce implica il
ripensamento della nostra identità cultura le domina trice e della nostra secolare tendenza all’appropriazione delle identità altrui. Ma implica, nello stesso
tempo, anche un profondo ripensamento dell’a lterità dell’a ltro, delle a ltre
identità , che ci permetta cioè di decidere della nostra a lterità ma anche della
pensabilità dell’altrui a ltruità .
Abbandonare il punto di vista a ntropocentrico non per adottarne uno na tura centrico ricadendo in un esasperato naturalismo che supporrebbe l’unità del
punto di vista, ma sviluppare un nuovo stile cognitivo ed etico capace di interrelare le informazioni e spostare lo sguardo dalle entità biologiche alle loro rela zioni. La conoscenza, infatti, non è soltanto quella del soggetto, ma è inscritta
nel linguaggio delle relazioni e delle reti di informazioni che hanno preceduto la
sua comparsa. La sostituzione della nostra visione monocula re fa emergere una
nuova idea di soggetto che per Morin ha una base trinitaria, ossia genetica , fisiologica e cerebra le, e comporta un doppio principio di esclusione e di inclusione, che ci permette di comprendere sia l’egocentrismo, sia l’intersoggettività ,
che l’a ltruismo (Morin 2002, 274)51.
Occorre, perciò recuperare un altro principio, quello femminile fondato sull’inclusività e sulla crea zione per oltrepa ssa re quello riduzionista maschile fondato sull’esclusione e sulla distruzione (Shiva 2002, 42)52.
Ora, se quanto detto risulta pertinente, appare improbabile la sopravvivenza
della nostra sola specie senza la sopravvivenza delle altre. Allo stato attuale della
nostra planetarizzazione è, invece, necessario ecologizza re la nostra idea di ra dica mento terrestre di specie con le a ltre specie e con l’a mbiente e complessificare sia “il nostro pensiero rela tivo a lla na tura sia il nostro pensiero rela tivo
a lla cultura ” (Morin 1988)53.
Significa aprire alla possibilità di una a lterità che sia tutt’a ltra e tutt’oltre e considerare la natura nella sua complessità sistemica ed eco-(bio)—a ntropo-sociologica e percepire l’oltre nelle sue molteplici accezioni e declinazioni: oltremondano, oltreumano, oltreumanità, per ritrovare l’unità generica ma tricia le
che è insieme genetica e genera trice (Morin 2002, 279)54. Comunque donna, in
quanto generatrice di vita.
Dall’apertura cosmica all’oltreuma nità può emergere una nuova identità plura le e polimorfa dell’umanità la cui ra ziona lità evolutiva e sistemica apre ad un
ra dica mento biologico, sociale e planetario del vivente, ed estende l’interrogativo ontologico all’Essere del vivente, all’Essere e al destino dell’Essere, al destino della biosfera, dell’Oikos, del Cosmo per apprendere a vivere i confini del
ca os (Morin 2002, 279)55.
Se la modernità è stata svolta radicale e apertura all’a ntropos posto al centro del
cosmo, avvio di un nuovo umanesimo, ricerca delle corrispondenze e perdita
irrimediabile del Dio pantocreatore, la post- modernità può essere intesa come
perdita della centralità terrestre, dell’unicità domina trice di una specie, perife-
Cosmosofia
51
E. MORIN, La Methode
5 , cit. p. 274
52
V. SHIVA, Terra-Madre,
cit. p.42
53
E. MORIN, Il pensiero
ecologico, p.130
54
Cfr.: E. MORIN, La
Methode 5, cit.,p.279
55
Cfr.: E. MORIN, La
Methode 5, cit.
37
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56
EMPEDOCLE, Sulla
natura, in DK 31 B
8,9,10,11 – DK 31 B 21,
23.
57
Cfr. G. BATESON,
Mente e Natura, cit.
58
E. MORIN, La Methode,
5, cit., p. 124.
38
rizzazione e apertura al vivente, consapevole coscienza della biodiversità .
L’inizio di una umanità che restituisce il Cosmo al Cosmo.
...il sole che è così sma glia nte a lla vita , ca ldo ovunque, e i corpi che s’immergono eterei nel suo tepore e nella sua bia nca luce; poi la pioggia oscura e tesa ,
che ovunque si distende, ma che genera a nch’essa da lla terra virgulti e a lberi.
Dura nte il dominio dell’Odio, tutto è contorto e in contra sto, mentre qua ndo
(sopra vviene) l’Amore gli elementi che costituiscono tutti gli esseri che furono,
sono e sa ra nno si a ccosta no l’uno a ll’a ltro desidera ndosi, e così si genera no
a lberi, uomini e donne, fiere ed uccelli, e i pesci che vivono nell’a cqua , i numi
eterni ed eccelsi.
Solo quegli elementi esistono, infa tti, diventa ndo corpi di ogni genere, pa ssa ndo gli uni con gli a ltri; questo esiste e questo il mescola rsi tra sforma , come
a vviene con i pittori che dipingono pa reti va riopinte, con competenza e intelligenza , prendendo tinture diverse, mescola ndole a rmoniosa mente in misura
ma ggiore o minore, foggia ndo con esse figure che somiglia no a tutto, costruendo a lberi, uomini e donne, fiere ed uccelli, e con essi i pesci che vivono in
a cqua ed i numi eterni ed eccelsi.
Non inga nna rti, quindi, non pensa re che a ltra sia l’origine dei morta li che
sono a te ma nifesti e che si riproducono a ll’infinito (Empedocle, Sulla na tura )56.
Soltanto concependo l’amore cosmico della vita che si dona, la vita come munus
è possibile superare l’a ssunto a ntiestetico che ci impedisce di vedere le meraviglie dei colori con i quali la Natura partecipa all’unità dinamica del cosmo
(Bateson 1984)57.
L’homo delineato da Morin è, infatti, un individuo complexus, non soltanto un
animale isterico, posseduto dai suoi sogni onniscenti di sa piens-demens, e neppure soltanto fa ber , oeconomicus, prosa icus, ludens, consuma ns, è anche
homo poeticus. Affermando che la vera vita è poetica intende dire che la vita è
poiesis, crea zione che ha in sé il proprio fine. Perciò l’a nda re oltre l’Umanità
vuol significare anche irrigare poeticamente l’Essere nella sua globalità e nella
sua totalità per vivere poetica mente che è vivere per vivere (Morin 2002, 124)58.
Pensare l’uomo e il destino soltanto dell’uomo è fondamentale, ma riduttivo.
Pensare l’Essere-degli-Esseri del cosmo implica complessificare l’idea stessa di
uma nità e saper pensare la vita come evoluzione crea trice (Bergson). Sul piano
del diritto alla vita è la medesima cosa rivendicare il diritto alla sopravvivenza di
un popolo come salvaguardare il Panda o riprodurre in laboratorio una pianta
officinale per salvarli dall’estinzione. Significa comprendere i nessi causali e
casuali che rendono possibile l’esistenza di ogni biodiversità. Implica comprendere che l’uomo non è l’unico abitatore della terra e che non ha alcun diritto sulla
biosfera, che egli non può decidere della morte e della vita di tutti. Può però scegliere di entrare nell’era oltre-uma na e post-uma na oppure di uscire definitivamente dalla storia. Giacché l’alternativa è soltanto tra rela zione o estinzione.
Pensare la biodiversità significa, invece, combattere ogni riduzionismo sociale,
economico, scientifico che distrugge le relazioni sistemiche e rafforza la colonizzazione, e mettere in discussione ogni forma di cecità selettiva . Assumere l’idea
ecologica che l’uomo è na tura e che tutto ciò che noi conosciamo, amiamo,
pensiamo della natura è umano, suggerisce l’idea dell’indispensabilità della natura e l’impossibilità di sostituirne i processi coevolutivi che sostengono la vita.
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Affermare che l’uomo è na tura consente di eliminare una artificiosa congiunzione, una unila tera lità , che ha generato un rapporto gerarchico innaturale.
Confidando in processi a da ttivi , che spezzano le realtà coevolutive, ha accresciuto la sua duplice e ambivalente natura, potenziando la tecnica ha esteso il
suo dominio come un diritto di proprietà assoluta sulla biosfera. Un predominio
sulla Terra -Ma dre esercitato all’insegna del mito del progresso che soltanto la
delicatezza e la sensibilità del linguaggio femminile sanno cogliere:
Il mito di recente crea zione propa ga to da l pensiero ma schile occidenta le si
regge sul sa crificio della na tura , delle donne e del Terzo Mondo. La questione
non è solo l’impoverimento di queste ca tegorie di esclusi: è in gioco l’effettiva
superfluità della na tura e delle culture non industria li e non commercia li.
Conta solo il prezzo di merca to; e poco importa se nel mondo odierno esso è
del tutto svincola to da l va lore rea le (Shiva 2002, 220-221) 59
59
V. SHIVA, Terra-Madre,
cit., p. 220-221.
60
Cfr.. E. MORIN, Il pensiero ecologizzato, in
<<Oikos>>, 1,1990,
Lubrina Editore,
Bergamo.
7. L’uomo è natura
Non si tratta perciò, solo di individuare il limite oltre il quale lo sviluppo non è
più sostenibile o di sopra vvivere a llo sviluppo come propone la Shiva. Ma di
reinterrogarci sul nostro concetto di sviluppo, sul suo limite e sullo sviluppo del
limite. Si tratta di essere molto più critici verso gli stili di vita e la cultura consumistica e rivedere ra dica lmente la relazione tra l’uomo e la na tura , mettendo in discussione le implicazioni e le retroazioni epistemologiche di un paradigma riduzionistico e semplicistico. Con questo paradigma la scienza ha da sempre
considerato lo sviluppo come un processo ina rresta bile e linea re e la crescita
economica come un’avventura continua dalla quale necessariamente conseguiva il progresso sociale e culturale (Morin 1990)60. Ha inoltre prefigurato tutte le
risorse na tura li come illimita te, pertanto a ccessibili e inesa uribili . Gli esiti di
questa prospettiva evoluzionista ci pongono di fronte alla responsabilità di dover
abbandonare la visione euforica di un progresso che non implica il regresso con
i suoi due miti: il primo, quello di considerare la Na tura come un oggetto di
dominio e l’uomo come soggetto dell’universo. L’altro, quello di concepire il progresso come una crescita esponenzia le che vede la scienza o la tecno-scienza
impegnata in una avventura incontrollata verso l’autodistruzione.
Dobbiamo avere perciò un’idea tra gica mente sottosviluppata dello sviluppo
quando pensiamo ad un intervento genetico massiccio sul bios come è quello in
corso; una manipolazione bio-tecnologica che J. Rifkin definisce una nuova
ma trice opera tiva : si sta attuando una straordinaria e gigantesca ricostruzione
della biosfera mediante una seconda genesi concepita in laboratorio. Attraverso
le tecniche del DNA ricombinante, i geni sono diventati ma teria prima e come
tali possono essere comprati, venduti, manipolati e sfruttati per fini economici.
La mappatura del genoma umano accanto alle nuove scoperte nel campo dello
screening genetico, i bio-chip, le terapie genetiche degli ovuli, degli spermatozoi e delle cellule embrionali umane, stanno aprendo la strada “a lla tota le a ltera zione della specie uma na e a lla na scita di una civiltà eugenetica pilota ta
da l commercio” (Rifkin, 1998, 35)61. Quali conseguenze deriveranno dallo sconvolgimento dei programmi genetici non è dato immediatamente di sapere, né di
prevedere. Sappiamo, però, che di fronte all’aggressione dei geni patogeni, il
cosiddetto assalto al sé biologico, il sistema immunitario attiva spontaneamente
61
J. RIFKIN, The Biotech
century, Penguin Putnam
1998; trad. it.: Il secolo
biotech, Il commercio
genetico e l’inizio di una
nuova era, Baldini &
Castoldi, Milano 1998,
p. 35.
39
n.18 / 2007
62
E. MORIN, Il pensiero
ecologico, op.cit.,p.98.
63
Cfr.: M. CERUTI, Il vincolo e la possibilità,
Feltrinelli, Milano, 1986.
64
Cfr.: I. PRIGOGINE, I.
STENGERS, La Nuova
Alleanza,Torino, Einaudi
1981.
40
i meccanismi di difesa. Le scienze cognitive ormai riconoscono questa specifica
funzione del sistema immunitario, le sue capacità cioè di a pprendimento e
memoria ; capacità di natura cognitiva , appunto, e pertanto biologica . Ma perché ciò accada è necessario che ci sia il riconoscimento dei profili molecolari
degli invasori, attivato dai meccanismi di difesa del sè menta le. Senza tale riconoscimento cerebrale o connessione neuronale non c’è alcuna difesa, e di conseguenza non c’è attivazione del sistema immunitario. Si tratta allora di capire
se l’organismo umano o animale o vegetale, in una parola vivente, sarà in grado
di sviluppare tali capacità di decodificazione di agenti “ignoti” modificati artificialmente. Ci si chiede, inoltre, fino a che punto il sistema vivente è capace di
a da tta rsi e di riattivare il proprio sistema di difesa in assenza del riconoscimento, dell’apprendimento e della memoria? Scienziati come R. Thom e I.
Prigogine da tempo sostengono che il modello della mutazione genetica aleatorio è muto di fronte alle innovazioni creatrici di soluzioni, di organi, di specie
di quelle straordinarie e incredibili proprietà emergenti e speciazioni nuove
prodotte dalla vita.
La biologia, le scienze della Terra ci dicono che l’ambiente è costituito da sistemi viventi a uto-eco-orga nizza tori ed a uto-eco-regola tori , ma i programmi
messi in atto dai tecnocratici entrano nel cuore dei sistemi e “spezza no le
retroa zioni regola trici, dila nia no e degra da no le eco-orga nizza zioni ta lvolta fino a lla morte” (Morin 1990, 98)62. È vero che il concetto di evoluzione rinvia a quello di coevoluzione, ma è pur vero che l’adattamento non è un’azione
dell’ambiente sugli organismi, ma una risposta attiva dell’organismo all’interno
di vincoli e le possibilità di cambiamento dipendono dalla varietà delle risposte
e dagli accoppiamenti o interazioni tra sistemi, resi possibili dai vincoli stessi
(Ceruti 1986)63. Perciò spezzare i legami evolutivi e creativi tra gli organismi e i
loro ambienti può significare la fine di ogni risposta a ttiva o a da ttiva e di conseguenza di ogni evoluzione. Ignorare ciò significa non valutare il rischio e le
conseguenze e prevedere che oltre alle risorse anche le risposte adattive possono non essere infinite. La vita non è retta da leggi atemporali e determinate,
ma è immersa nel fluire del tempo. Invece le teorie economiche riduzioniste
ignorano questa categoria considerandolo un’esternalità e pertanto non parte
della natura. Pensare non tenendo conto dell’irreversibilità del tempo significa
non comprendere l’importanza cruciale delle connessioni tra noi e gli altri sistemi, quali parti integranti dei processi coevolutivi (Prigogine-Stengers 1981)64.
Il problema è perciò drammatico: intervenendo in modo massiccio con profonde trasformazioni antropiche, noi mutiamo le condizioni che rendono possibile
la stabilità dell’equilibrio ecosistemico; alterandone gli equilibri, sconvolgiamo la
stabilità e non sappiamo quello che succederà. Siamo già entrati nello sconvolgimento dei cicli delle stagioni, dei cicli climatici, dei cicli biologici. Una nuova
immagine della storia della natura oggi mostra come non ci si possa inserire nei
cicli biologici della natura sconvolgendoli senza saper preservare la stabilità degli
equilibri. L’evoluzione è un processo in cui si creano e si trasformano stati di
equilibrio successivi, mai definitivi, ma sempre precari e in continuo cambiamento, fra i mutamenti degli organismi dettati, da un lato, dalle condizioni storiche, fisiche e ambientali e dall’altro, dalle nuove stabilità dei cicli in cui questi
elementi vengono integrati. Ma questa unità e integrazione degli organismi non
deriva da una conformità ad un piano prodotto da un ingegnere onniscente, né
programmabile in laboratorio; sostiene l’epistemologo Mauro Ceruti che può
Santa De Siena
solo essere paragonato all’opera di un bricoleur , certamente abile, ma pur sempre fallibile (Ceruti 1995, 38)65.
Cosmosofia
65
M. CERUTI, Evoluzione
senza fondamenti,
Laterza, Roma-Bari 1995,
p.38.
8. Sviluppare l’ecodiversità
Secondo Amarthya Sen, premio Nobel dell’economia, c’è un altro modo di intendere lo sviluppo, il quale non è soltanto espansione economica e crescita materiale, ma è soprattutto espansione e crescita delle libertà. Per cui lo sviluppo
deve essere inteso come “sviluppo integra to di espa nsione di libertà sosta nzia li interconnesse l’una con l’a ltra ” (Sen 2000, 24)66. L’idea proposta dalla sua
analisi è quella di miglioramento della qualità della vita per tutti gli esseri; di
superamento delle condizioni di privazione e di miseria, di emancipazione dai
condizionamenti illiberali, ma soprattutto considerare che la libertà è un fine primario, non un mezzo per lo sviluppo.
In quanto sistema a utonomo e a uto-orga nizza to il mercato lo si può effettivamente supporre come in grado di riassorbire le depressioni, domare le reazioni
incontrollate, bloccare o impedire le crisi. Ma oltre che auto-organizzato il sistema economico è anche interconnesso con altri sistemi, inserito cioè in un contesto che è l’ambiente, nel gioco delle interdipendenze. Ciò che, invece, l’economia non sa appredere è proprio quello di dia loga re con gli altri sistemi, dimostrandosi così un sistema chiuso e talvolta opposto all’ambiente, diventando un
sistema incomunica nte e perdendo ogni contatto con il non-economico.
Concependosi a utoreferente e non a uto-eco-sistemico l’economico ha istituito
tutto un apparato di regole a utocentra te, perciò valide solo al suo funzionamento interno. Così la crescita economica è diventata di fatto non soltanto il
motore dell’economia, ma anche il suo strumento regolatore. Gli esiti della mercifica zione pla neta ria sono sotto gli occhi di tutti: disordine nel prezzo delle
materie prime; conflitti per il loro controllo e sfruttamento; carattere artificiale e
precario delle norme monetarie; incapacità a trovare regole ai problemi monetari come il debito enorme dei paesi in via di sviluppo; la piaga delle ecomafie;
la fragilità e le perturbazioni non-economiche; concorrenze specializzate locali;
rottura delle solidarietà. Un insieme di fattori che hanno innescato processi
multiformi di degra da zione del pianeta, ma anche di sofferenza degli stessi
sistemi economici. Tutto ciò in assenza di regolamentazioni capaci di sottoporre
gli attuali processi di globalizzazione sfrenata, capricciosa al controllo politico e
alla legge.
Dinamiche che impongono una riflessione critica e una rivisitazione della nozione di va lore economico oltre che la necessaria distinzione tra crescita e sviluppo (Lester-Brown 2002)67.
Quando si parla di economia ecocompa tibile, perciò, non ci si può ridurre a
risultati, indicatori e ottimizzatori di matrice economicistica, ma far dipendere la
sostenibilità dalla disponibilità a improvvisare, creare e ad impegnarsi per la vitalità e per il rispetto degli altri partners dello scambio sistemico. Si può così adottare il punto di vista della libertà ed essere per un eco-sviluppo che implichi la
cooperazione evolutiva, essere per un’ecologica dell’economia che è anche
un’etica ecologica o etica della reciprocità . Scegliendo il punto di vista ecologico, cioè quello della vita e non quello della morte, si sceglie anche il punto di
vista vivente, antropologico, biologico, sociale, etico oltre che economico. Si può
così meglio comprendere la domanda affatto retorica del testo sancrito che reci-
66
A. SEN, Development
as Freedom, Alfred A.
Knopf, 1999; trad. it.: Lo
sviluppo è libertà, A.
Mondadori, Milano 2000,
p.24.
67
Cfr. LESTER R. BROWN,
Eco-economy: Building
an Economy for the
Earth, cit.
41
n.18 / 2007
68
Cfr. P. SINGER, On
World. The Ethics of
Globalization. Trad. it.:
One World. L’etica della
globalizzazione, Einaudi,
Torino 2003.
69
A. SEN, Sviluppo e
libertà, cit, p.20.
70
Cfr. E. TIEZZI, Tempi
storici. Tempi biologici,
Donzelli, Roma 2001.
42
ta: “fino a che punto l’opulenza può a iuta rci a ottenere quello che voglia mo”?
Un interrogativo che esprime molto bene il limite di una prospettiva che crede
nello sviluppo solo come crescita di un mondo materiale e guarda al successo
sociale come condizione umana. Non si tratta di rifiutare il mercato quale parte
del processo di sviluppo, ma di prendere in esame anche le persistenti forme di
privazione tra i vari segmenti della comunità planetaria che ne restano esclusi.
Perché, per dirla con Polany, l’economia non coincide con il merca to. Nè si
tratta di riaprire la diatriba tra chi inquina e consuma di più e chi cresce demograficamente (Singer 2003)68. Sappiamo, infatti, con A. Sen, che l’illibertà economica pone una persona preda di chi viola altre forme di libertà. Ed è innegabile
che crescita , successo e ricchezza facciano coppia con merce, ca pita le, profitto.
Se la competizione tende a ridurre i costi, le carni agli ormoni, lo sfruttamento
del lavoro minorile, il pollo alla diossina, gli OGM, i rifiuti ne sono il corollario.
Ripensare la relazione ricchezza e successo significa ripensare l’economia classica e andare oltre l’idea del semplice accumulo e depauperamento delle risorse,
e concepire, invece, con Aristotele che la ricchezza non è il fine ultimo dell’uomo. L’utile, allora, non consisterebbe più in ciò che possediamo, ma in ciò che
ci permette di fa re, nella qualità della vita e nelle libertà sostanziali che ci aiutano a conseguire (Sen 2000, 20)69.
Ne consegue che la principale preoccupazione non sarebbe più quella di assicurare un “progresso” ad ogni costo, o una “equità” misurabile, quanto quella di
sviluppare una incessa nte reciprocità intersistemica . Il piacere è dato anche da
ciò che si riesce a da re, dona re alla vita e non soltanto a prendere. Un cambiamento d’approccio consiste nel rendere prioritarie le esigenze biologiche anziché quelle storiche ed economiche. È questa la sfida ecologica dell’a utonomia
e della crea zione: un rimetterci in gioco che pone al centro il principio di generosità e a ltruismo che il nostro pensiero non è educato a riconoscere. Non c’è
certamente alcuna forma di altruismo, nei confronti del mare e dei suoi pesci,
crostacei, molluschi o degli abitanti, nelle immagini della nave Prestige davanti
alle coste della Galizia. Né vengono mai calcolati i costi invisibili delle deforestazioni, del degrado ambientale o le deviazioni dell’acqua dai loro corsi naturali. La diversità degli ecosistemi, la vita degli oceani, la purezza dell’aria, la vitalità delle specie: tutto questo è anche l’a ltro, cui guardare nella rappresentazione
filosofica dell’esistenza.
Perché l’evoluzione è singolare e diversa e perciò occorre apprendere l’arte di
saper spostare lo sguardo e di comprendere che l’a ltro, la biodiversità , la vita ,
sono ricchezza : le vere risorse del pia neta . Nella possibilità di trascendere poeticamente tutto questo consiste la vera sfida dell’umanità che voglia superare se
stessa e apprendere ad abitare poetica mente la terra in modo che vivere ed
essere possa poter significare, come sostiene Mc Harg, sa per disegna re con la
Na tura .
L’ecologia ci insegna la qua lità e il tempo, ed è il tempo a modellare le forme e
le energie delle cose viventi; è il tempo che scrive con le sue leggi e priorità la
storia dell’evoluzione e inscrive la selezione estetica nella selezione biologica
(Tiezzi 2001)70. Siamo, invece, costretti a credere che la drastica perdita di biodiversità, che i comportamenti della nostra specie stanno determinando, minaccia
tutte le altre. Gli scienziati la definiscono la “sesta estinzione di massa”. Ma mentre le precedenti ondate di estinzione note nella lunga storia del pianeta Terra
erano state causate da eventi esterni naturali, quella che si sta preparando è cau-
Santa De Siena
sata soprattutto da un’altra specie vivente, una sola: quella umana. Secondo l’ultimo rapporto del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep) circa11
mila specie di piante e animali oggi viventi sul pianeta potrebbero scomparire
entro i prossimi trent’anni. Di cui 1.130 sono mammiferi e 1.183 specie sono di
uccelli (il 12% di quelle note), e oltre 5.600 specie di piante.
E' una perdita di biodiversità impressionante, massiccia. Il rapporto Geo-3, commissionato dall'Unep ritiene che tra le diverse minacce ambientali, dalla distruzione delle foreste all'inquinamento dell'acqua e dell’aria, allo sfruttamento
eccessivo di risorse naturali, il cambiamento globale del clima che trasforma gli
ecosistemi, quella della perdita di diversità delle specie viventi (biodiversità)
come la minaccia più grave, quella che le somma tutte. La velocità con cui oggi
le specie viventi scompaiono da 1.000 a 10 mila volte più in fretta del normale
ritmo di estinzione naturale, non può che compromettere irreparabilmente,
aggravandone ulteriormente la distruzione, gli habitat naturali, favorendo l'introduzione di specie invasive da una parte all'altra del mondo. C’è, inoltre, uno
stretto rapporto tra la conservazione della diversità dei viventi e la crescente
povertà.71.
Pertanto, anche una visione del progresso più limita to, capace di ridurne l’impatto ambientale, è insufficiente perché sempre fondata su un rapporto economico strumenta le e non crea tivo nell’interazione con l’ambiente. Comunque
basata su un paradigma che guarda alla natura in modo predatorio per essere
espropriata delle sue risorse, irrimediabilmente devastata e compromessa nei
suoi equilibri eco-sistemici , nel suo bios.
È sempre più difficile concepire culturalmente che le ricchezze della na tura
non sono risorse spendibili e che la capacità di attivare risposte a utonome da
parte di ogni sistema vivente può voler dire che possono non necessariamente
essere conformi ai parametri stabiliti per calcolo e perciò imprevedibili; che ci
sono risposte retroa ttive che comportano effetti disastrosi a catena come l’effetto serra o le piogge acide; ed anche risposte non a da tta tive, che implicano cioè
processi di stagnazione e regresso: processi che possono andare dall’entropia
fino alla morte. Sappiamo dalle scienze evolutive che il tempo biologico è un
tempo entropico, riducendo tutto al tempo storico rischiamo di trasformare il
nostro in un destino di competizione verso la catastrofe. Allo stato attuale l’effetto serra e il riscaldamento globale del pianeta hanno un andamento che non
si potrà invertire in tempi brevi. Il fattore tempo è dunque decisivo e, guadagnare anche solo pochi decenni di tempo prezioso, significa poter ancora cogliere un’alternativa, quella tra “sopra vvivenza ed estinzione per buona pa rte della
vita e della civiltà ” (Rifkin 2000, 299)72.
Compreso che non esistendo rimedi tecnologici agli effetti sponta nei della biosfera, la sola soluzione può essere soltanto quella di intervenire da subito nel
rimuovere le cause che innescano i processi entropici. Nè c’è da aspettarsi molto
dal mercato che ha già dimostrato come gli econocra ti non sono capaci di adattare il progresso tecnico agli uomini, ma preferiscono piuttosto adattare gli
uomini al progresso tecnico (Morin 1994)73. Tant’è che nei ultimi due secoli si è
realizzata una vera e propria inversione a da tta tiva . Secondo questa ipotesi non
è più l’uomo ad adattarsi all’ambiente per sopravvivere, ma è l’ambiente a doversi adattare all’attività culturale evolutiva dell’uomo. Nel primo principio era l’uomo ad essersi dovuto adattare all’ambiente; nel secondo vediamo come sia l’ambiente ad adattarsi all’uomo a cercare le proprie risposte comportamentali.
Cosmosofia
71
Gli scienziati la definiscono la “sesta estinzione
di massa”. Ma mentre le
precedenti ondate di
estinzione note nella
lunga storia del pianeta
Terra erano state causate
da eventi esterni naturali,
quella che si sta preparando è causata soprattutto
da un'altra specie vivente,
una sola: quella umana.
Secondo l'ultimo rapporto del Programma delle
Nazioni unite per l'ambiente (Unep) circa11
mila specie di piante e
animali oggi viventi sul
pianeta potrebbero scomparire entro i prossimi
trent'anni Di cui 1.130
sono mammiferi e 1.183
specie sono di uccelli (il
12% di quelle note), e
oltre 5.600 specie di piante. E' una perdita di biodiversità impressionante,
minaccie ambientali, dalla
distruzione delle foreste
all'inquinamento dell'acqua, allo sfruttamento
eccessivo di risorse naturali considera quella sulla
perdita di diversità delle
specie viventi (biodiversità) come la minaccia più
grave, che le somma
tutte. C’è, inoltre uno
stretto rapporto tra la
conservazione della diversità dei viventi e la crescente povertà. La velocità con cui oggi le specie
viventi scompaiono
da1.000 a 10 mila volte
pimassiccia. Il rapporto
Geo-3, commissionato
dall'Unep ritiene che tra
le diverse mù in fretta del
normale ritmo di estinzione naturale, non può che
compromettere aggravando ulteriormente la
distruzione degli habitat
naturali e l'introduzione
di specie invasive da una
parte all'altra del mondo,
oltre all'inquinamento, il
sovrasfruttamento di
43
n.18 / 2007
risorse, il cambiamento
globale del clima che trasforma gli ecosistemi.
72
J. RIFKIN, Entropy. Into
the Greenhouse World,
Penguin Putnam Inc.
1989; trad. it.: Entropia,
Baldini & Castoldi, Milano
2000, p.299.
73
Cfr.E. MORIN, TerraPatria, cit.
74
E. MORIN, Il pensiero
ecologico, Hopeful
Monster, Firenze 1988, p.
100.
75
E. TIEZZI, Il capitombolo di Ulisse, cit., p.90.
76
Cfr. B. MANDELBROT,
Gli oggetti frattali,
Einaudi, Torino 1987.
77
R.MENCHU’, Il mio
sogno di un mondo più
umano, in <<La
Repubblica>>, 23 gennaio 2003.
44
Possiamo ora osare ipotizzare un terzo principio, quello dell’a da tta mento reciproco e della coevoluzione intersistemica .
Bisogna allora lanciare una vera sfida ecologica scoprendo innanzitutto il valore
della coesistenza e non inseguendo i limiti dello sviluppo, ma lo sviluppo del
limite. Si tratta, in altri termini, di apprendere ad a bita re il limite, ricercando
la giusta proporzione tra a ntroposfera e biosfera , ma ciò è possibile solo scegliendo di sviluppare una prospettiva etica che accetti la reciprocità . Senza la
salvaguardia della biodiversità e senza ampliare la sfera dei diritti all’intero pianeta e senza un cambiamento culturale ra dica le, non è possibile assicurare neppure la sopravvivenza per una sola specie. Non è possibile dare un’impronta di
sostenibilità a un mondo in cui rischia di dissolversi ogni forma di coopera tive
globa l community con un’economia regolata solo dalla ma no invisibile del mercato. Più che all’inizio di un ciclo virtuoso sembriamo, infatti, osserva Edgar
Morin, coinvolti in una corsa inferna le fra la degradazione ecologica che produce la nostra degradazione e le soluzioni tecnologiche che si preoccupano “degli
effetti di questi ma li continua ndo però a sviluppa re le loro ca use” (Morin 1988,
100)74.
Senza un radicale ripensamento ecologico dell’economia e senza un miglioramento nella gestione e nella tutela delle risorse naturali lo stesso futuro dell’umanità e delle altre specie ne sarà seriamente compromesso. Il traguardo è quello di una nuova solida rietà orga nizza tiva come ipotesi gestionale del nostro
oikos. Pensare cioè la terra come “luogo geometrico della complessità e dell’entropia nega tiva ” (Tiezzi 1991, 90)75, sapendo che la geometria della natura
è caotica e non può corrispondere al modello euclideo. Le coste, i cristalli, le
galassie, le nuvole non fanno che mostrarci che per entrare nel caos occorre la
geometria dei frattali (Mandelbrot 1987)76.
9. Coevoluzioni
Nel raccontare il suo sogno di un mondo migliore, Rigoberta Menchù osserva
che il mondo ha assistito alla globa lizza zione dei ca pita li e delle comunicazioni, ma non alla globa lizza zione della giustizia , della solida rietà , del rispetto e
della tollera nza , come non ha saputo universalizzare i valori, il rispetto dell’ambiente e della vita. Accade così che “ma ggiore è il benessere e l’opulenza di
a lcuni, ma ggiore è a nche l’insa zia bile vora cità per le risorse che dovrebbero
servire a ga ra ntire a tutti un minimo” (Menchù 2003)77.
È evidente come i conflitti sociali e le controversie ambientali siano destinati ad
aumentare con l’evolversi delle conoscenze e con lo sviluppo globale dei mercati. Una relazione complessa unisce, infatti, i tre sistemi: culturale, economico e
ambientale, ma se non si governano i processi dominati dal neo-liberismo e non
si limita la dittatura tecnocratica, ad essere sconfitta sarà l’umanità intera.
L’ultimo decennio del secolo ventesimo ha rappresentato una svolta epocale che
ha visto l’affermazione e la reiterazione su scala planetaria del modello di sviluppo occidentale fondato, come abbiamo detto, sull’idea acritica della capacità
adattiva e autorigenerativa dell’ambiente, che nel suo traslato socio-economico
diventa capacità di adattamento e di autoregolamentazione del mercato e delle
sue distorsioni all’interno delle società umane. Una sorta di neoevoluzionismo
sociale cui non sfugge neppure chi propone un modello ecocompatibile o ecosostenibile che non tenga conto dell’ambivalenza e della complessità dei pro-
Santa De Siena
cessi, delle azioni e delle retroazioni che si determinano.
Le contraddizioni intrinseche a questo modello di sviluppo politico-economico
sono ormai troppo evidenti per non porre l’urgenza della discussione ra dica le
del paradigma di progresso inaugurato con l’industrializzazione e direttamente
connesso alle origini stesse della modernità, con la scoperta dell’a ltro e con l’espropriazione delle sue risorse, alla formazione dell’economia-mondo della
società-mondo, non sarà sufficiente tentare di aggredire il problema. Si tratta di
ripensarlo nella sua logica antiecologica. Perché i sacerdoti delle banche e delle
istituzioni finanziarie del Nord del pianeta hanno potuto vivere alla grande utilizzando “la ricchezza presa in prestito o ruba ta ” ai popoli del Sud del pianeta,
applicando una forma di capitalismo molto atipica e singolare che considera ”le
risorse na tura li e i poveri elementi non indispensa bili degli ecosistemi ” (Shiva
2002, 222).78
L’ecofilosofia elaborata dal norvegese Arne Naess ha individuato due approcci
possibili alle questioni ambientali e allo sviluppo, uno da lui definito superficia le, l’altro profondo. Con il primo, quello superficiale, ci si può limitare a ridurre
l’inquinamento e a conservarne le risorse; con quello profondo, si deve allargare lo sguardo non solo a ciò che accade nei paesi ricchi, ma anche alle altre aree,
soprattutto a quelle selvagge, che più di ogni altro dovrebbero essere protette,
preservate e valorizzate. Fare questo significa apprendere l’arte di spostare lo
sguardo e non è necessario fondare una nuova etica, secondo J. Passmore, semmai di riscoprire e va lorizza re tutte quelle tradizioni del pianeta che sono state
accantonate, che sono state occultate e rese ingiustamente minoritarie, per dare
forza ai principi morali già esistenti (Passmore 1986)79. Occorre sviluppare nuovi
comportamenti e inventare nuove pratiche di vita che richiedono lo sforzo di
confrontarci con i problemi etici pur sapendo che ogni sviluppo crea tivo porta
con sé necessariamente una distruzione, e che ogni organizzazione è sempre
disorga nizza trice/riorga nizza trice. Così come ogni innova zione trasformatrice è pur sempre una devia nza che da un lato rompe le regolazioni ma, dall’altro, le ricostituisce. Perchè ciò accada occorrono principi, norme e regole per
operare la “deregola zione che permette l’innova zione e sta bilire la regola zione che ma ntiene la tra sforma zione” (Morin 1994, 148)80.
Sarebbe, infatti, mortale continuare a destrutturare senza attivare processi capaci di sviluppare dinamiche aggregatrici. Ciò è possibile soltanto con lo sviluppo
di politiche planetarie coordinate da un potere planetario in grado di regolare le
forze economiche e di affrontare efficacemente i problemi complessi che proprio tali forze, finché resteranno prive di regolamentazione, creano. Di regole
parla anche Z. Bauman, sostenendo che è possibile cambiare questo sviluppo,
solo affrontando di petto la sfida principale del nostro tempo ossia, il bisogno
urgente di sottoporre gli attuali sfrenati, erratici, capricciosi processi di globalizzazione al controllo politico e alla legge (Bauman 2002)81. Ma soprattutto bisogna
essere capaci di sviluppare una coscienza pla neta ria per apprendere ad a bita re e a civilizza re la Terra e sviluppare così un senso di a ppa rtenenza alla nostra
Terra-Patria. Se veramente siamo macchine non-banali possiamo apprendere a
moltiplicare i punti di vista, spostare le domande ed ampliare i contesti e anche
se siamo certamente destinati all’erranza, non per questo siamo “inelutta bilmente conda nna ti a ll’errore, a ll’illusione, a lla fa lsa coscienza ” (Morin 2002,
270)82.
Cosmosofia
78
V. SHIVA, Terra-Madre,
cit., p. 222.
79
J. PASSMORE, La nostra
responsabilità per la natura, cit.
80
E. MORIN,.Terra-Patria,
cit., p.148.
81
Z. BAUMAN, L'umanità
segregata in una discarica,
in <<Il Manifesto>>, 10
ottobre 2002.
82
E. MORIN, La Méthode
5. L'Humanité de
l'Humanité. Tomo I:
L'identité humaine,
Editions du Seuil, Paris
2001; trad.it.: L'identità
umana, Cortina, Milano
2002, p. 270.
45
n.18 / 2007
10. L’Essere-per-la-morte e L’Essere-per-la-vita
83
G. STEINER, Grammars
of Creation. Trad.it.:
Grammatiche della creazione, Garzanti, Milano
2003, p.10.
46
È nel secolo appena concluso che l’uomo ha percepito pienamente che la tragicità della propria condizione dipende quasi interamente da se stesso, dalla sua
crea tività distruttiva . Jean Luc Nancy, ha proposto una tripartizione, teorica e
storica, della nozione di ma le. Dei tre sensi in cui parliamo del male, come sventura , come ma la ttia e come ma le puro e semplice, il primo è quello fatale,
caratteristico dell’antichità; il secondo è quello razionale più specifico del pensiero moderno. Ma oggi si può ormai parlare di male solo in un senso più totale
e ra dica le: i campi di sterminio nazisti non sono né la disgrazia di Edipo, né un
accidente che turba l’ordine razionale del mondo. Sono in molti sensi il male
assoluto, hanno una portata metafisica; sono essi che ci inducono a ripensare al
male sostantivo, e riparlare di una tragicità essenziale della condizione umana.
Pertanto il pessimismo tragico che serpeggia nella nostra cultura ha anche motivazioni più recenti e giustificazioni più attuali dove, divenuta impraticabile la
spiegazione marxiana, tutto sembra dipendere dal modo in cui ha avuto inizio
questa storia con l’ominizzazione; una storia dominata da una specie, quale conseguenza inevitabile – secondo alcuni – della hybris, della tracotanza, caratteristica della tecnica (anzi della Tecnica).
Ed è in questo ta rdo pomeriggio ontologico nel quale “l’inventiva tecnocra tica
risponde a ll’a ppello del disuma no, o rima ne neutra le” (Steiner 2003, 10)83 che
ci poniamo dinanzi alla duplice e angosciante coscienza dell’essere-per-la -morte
e dell’essere-per-la -vita .
Una consapevolezza che può generare due atteggiamenti opposti. Da un lato la
distra zione, la rassegnazione, la fuga, intesa come disimpegno, come morte
della coscienza, sorda al dolore del mondo e ubriacata dai ritmi mediatici, completamente “immersa” e nello stesso tempo “estranea” ai destini del mondo; una
coscienza dissipata nella nullificazione delle merci, che ama perdersi nella deiezione dei consumi. Dove regna l’accettazione della morte quale condizione ontologica dell’Essere, per vivere in un eterno presente che annulla ogni possibilità
di coniugare il futuro. Un’umanità che, dimenticata la grammatica, sia incapace
di fare uso del congiuntivo e delle subordinate ipotetiche. Vivendosi un presente sempre più dilatato, infinito, senza progetto, in cui l’oggi è l’unica prospettiva
senza tempo, senza passato e senza futuro.
Dall’altra la possibilità di abbandonare ogni visione riduzionistica e riattivare l’interrogazione a partire dal vivente, dall’Essere degli Esser-Ci e al destino
dell’Essere e del Vivente, con il quale l’uomo con-divide e con-vive e concorrere alla vita dell’Essere-per-la-vita, in un processo di coevoluzione permanente.
Una prospettiva che può ben definirsi Cosmosofica , quale a more per il cosmo,
che estende il suo abbraccio all’ oikos, alla Physis in una coriginale struttura
ontologica dell’Essere-degli-Esser-ci.
Platone nel Timeo stabiliva un nesso tra bellezza e natura, e narrava che il cosmo
fosse la cosa più bella di tutte. Egli riteneva che la creazione a partire dal ca os
corrispondesse alla causalità più efficiente, il cui scopo non poteva non essere la
bellezza perfetta. Stabiliva così un incontro tra morale e logica, tra morale ed
estetica. Kosmos viene, infatti, da kosmeo, termine dal quale deriviamo il concetto di cosmetico, di unico, di bellezza.
I filosofi greci, infatti, odiavano il nulla , provavano orrore del vuoto, per questo
narravano quelle fiabe della ragione che erano le cosmogonie, che, secondo G.
Santa De Siena
Steiner, erano risposte erotiche alle domande: perché non c’è il niente? Perché
non c’è il ca os? La semantica greca non possedeva i termini per definire il nonnato, l’ex-nihilo, il nulla. Mentre la filosofia moderna concependo soltanto il
pieno, l’esistente, con la sua grammatica ha reso innaturale la radicale negatività
esistenziale. Ma la domanda amara: perché non c’è il niente? ritorna prepotentemente come è ritornato nuovamente presente il caos con i progressi delle
matematiche. E l’interrogativo ontologico acquista una nuova urgenza metafisica e morale, perché investe la natura dell’essere, dell’Essere come dono, quindi
come crea zione (Steiner 2003, 41)84.
Ma dinanzi a noi esseri globalizzati incapaci di provare ex-sta si, stupore, c’è ormai
la prospettiva della fine; siamo sempre più lontani dagli enigmi delle origini. La
morte a cca de, è di tutti, è condizione ontologica ineludibile. Le nostre menti
abilitate a pensare per scenari ci mostrano un futuro prossimo di paesaggi lunari, spettrali, desertici. Fiction e fantascienza creano proiezioni e anticipazioni
inquietanti che dimostrano quanto la nostra fantasia sia ossessionata non più dal
mito della genesi, dalle cosmogonie, quanto dal mito della morte, delle
cosmo(a )gonie.
Dinanzi a nuove possibili biforcazioni, ad eventi accidentali, discontinuità, derive ed ibridazioni solo la presa di coscienza della comune condizione terrestre e
del comune duplice radicamento può farci evolvere verso una oltre-uma nità .
Se la modernità ha sacrificato il cum della relazione tra gli uomini della communita s, istituendo una sorta di immunita s al fine di assicurare la propria sopravvivenza, al prezzo della dissociazione di ogni legame, Morin nel riproporre l’idea
di una Comunità di destino non solo ristabilisce il legame del con-essere che
permette all’umanità di uscire dal vuoto ra dica le nel quale si è venuta a trovare,
ma ad uscire anche dal vuoto cosmico, nel quale si è immersa.
Ponendo al centro il nulla , Morin evoca il suo contrario: la vita . Condizione biologica questa che non appartiene solo all’uomo. Non solo l’uomo, dunque, al
centro della riflessione ontologica dell’esistenza. Non si tratta solo di porre l’interrogativo sul chi è dell’uomo, ma di interrogarsi sulla condizione fondamentale dell’essere-per-la -vita e dell’essere-per-la -morte. È lo spazio per un esistenzialismo cosmico cora ggioso, evolutivo, crea tivo, poietico che ristabilisce il senso
della comunità proprio come la intendeva Hobbes, ossia nel comune rischio di
una comune uccidibilità , fine, declino, estinzione. In cui pur nella consapevolezza della morte cosmica la comunità è assunta come eccedenza energetica
che rinsalda la relazione individuo/società /specie. Nella coscienza della universa le singola re diversità e nella singolare ambivalenza di vita e di morte, per sviluppare così nuove qua lità emergenti capaci di aprire a nuovi giochi evolutivi.
Questo interrogarsi dell’Ente sull’intero mondo della vita rompe definitivamente con la ra ziona lità a ntropofilosofica . L’apertura di Heidegger muove dall’uomo e riconduce l’a lterità all’umano, senza interrogare la nozione di diversità nel
senso del bios, e guarda agli esiti anche nichilisti in termini di “possibilità” e di
“alternativa” sempre per l’uomo e non già per-gli-a ltri esseri viventi. Che è stata
un’innegabile apertura al multiculturalismo, a l plura lismo evolutivo. Ma come è
altrettanto innegabile che oggi è la stessa macchina discorsiva a produrre lo stereotipo della differenza , a garantire questa prospettiva di superiorità cognitiva
che i sociologi chiamano di othering e che sta generando i cosiddetti equivoci
del multicultura lismo. Questo si sta trasformando, infatti, in una delle tante
retoriche possibili nelle quali spesso l’a ltro si muove sempre all’interno di rap-
Cosmosofia
84
G. STEINER,
Grammatiche della creazione, cit., p. 41.
47
n.18 / 2007
85
Cfr.A. MONTUORI, I.
CONTI, From Power to
Partnership. Creating the
Future of Love, Work,
and Community. (Trad.
It.: Dal dominio alla partecipazione, Etas Libri,
Mialno 1997)
presentazioni omologanti dell’a lterità . In altre parole dell’a ltro si danno solo
rappresentazioni a partire dal proprio paradigma culturale dominante e con il
quale si producono storie e na rra zioni. Mentre sappiamo, invece, che ciò che
decide effettivamente la differenza possono essere soltanto le pratiche e le politiche di comunicazione istituite da lle e nelle relazioni. Invece, si immaginano
aperture degli spazi discorsivi volti a decostruire, a svelare con il linguaggio una
volontà dialogante che finisce per tradursi in una incorpora zione dell’alterità, in
un gesto che decide chi decostruisce e chi attiva il procedimento pratico.
Per questo un vero procedimento di decostruzione che non sia di dominio ma
di partecipazione (Montuori-Conti 1997), (tra cui le teorie evoluzionistiche, le
scienze della mente, la cibernetica, la teoria dei sistemi, la teoria dei giochi, la
nuova biologia, la cosmologia, la teoria degli equilibri punteggiati, la teoria della
complessità del vivente, ecc.)85 passa non attraverso lo svelamento dell’altro ma
nella comprensione autentica dell’a ltro come tutt’a ltro. Una comprensione che
come sostengono sia Levinas, sia Derrida, solo la rela zione può istituire e che
nasce dall’incontro con l’altro; un incontro nel quale a bolire la parola per lasciare spazio all’a scolto. Abolire il dominio della parola e a scolta re l’a scolto è un
processo di decostruzione e quindi di creazione differente dal paradigma teologico dell’ermeneutica e che potrebbe essere definito post-decostruttivista , proprio perché rende chiara la consapevolezza di un paradosso: dell’a lterità ra dica le dell’a ltro.
Pertanto se è stato cruciale aver compreso l’oblio dell’Essere cui la svolta meta fisica ha messo capo ora occorre comprendere l’oblio dell’Altro-esser-ci e dare
inizio ad una svolta ecologica . Scoprire e comprendere i molteplici e simultanei
livelli di esistenze presenti nel nostro pluriverso e multiverso e spostare lo
sguardo pia no della specie a quello rotondo della specie e delle specie, per concepire non soltanto un’a ntropo-biosfera , ma anche una bio-eco-a ntropo-biosfera . Provare l’emozione piena dell’Esser-ci, sentendoci con gli altri. Il sentire che
ha la sua radice nel provare sentimento e amare, sofia appunto, nei confronti del
sa pere cosmico. Perché non esiste alcun senso della realtà senza amore, e proprio questo legame, per Simon Weil, è alla radice del bello.
Morin interrogando la nozione di eco apre all’oikos alla ca sa comune del vivente, ad una Cosmofilosofia . Una prospettiva pla neta ria che implica l’idea del
munus, della reciprocità nei confronti di tutti coloro che ci donano la vita .
Ponendoci dinanzi all’essere-per-la -morte e all’essere-per-la -vita egli rimette in
gioco l’a ngoscia e la spera nza . Mostrandoci il nostro essere singola re-plura le ci
apre alla nostra costitutiva a lterità nei confronti di noi stessi, ad una nuova struttura ontologica del con-Essere. Ci insegna a trascendere l’Essere per essere-congli-altri-viventi. Ma questa responsabilità ci obbliga ad una nuova crea zione verso
gli altri, a dare un valore in più al mondo. La sua utopia è una poiesis, e come la
poesia di tutti i tempi ci costringe a progredire. La sola capace di crea re, che ci
rende vivi e desiderosi di rivelazioni.
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50
Irina Annamaria Di Vora
Giovanni Vailati e Antonio Gramsci: una
“quistione di parole”
Borderline
Questo testo è la rela zione letta a l Semina rio
ita lo-bra silia no che si è tenuto a Ma rghera (Vega
Lybra ) il 31 ma ggio 2007, su: “Ripensa re Gra msci.
Scuola a ttiva , forma zione politecnica e ca pita le
socia le nel primo Novecento”. Il Semina rio è sta to
promosso da l Dottora to in scienze della
Cognizione e della forma zione in colla bora zione
con la Ssis e con il Centro di Eccellenza per la
Ricerca Dida ttica e la Forma zione Ava nza ta , e
sotto la direzione del prof. Umberto Ma rgiotta
dell'Università Cà Fosca ri di Venezia . Sul
Semina rio ritorneremo nel prossimo numero.
Nella letteratura gramsciana si cita spesso il giudizio che Gramsci diede del pragmatismo italiano:
“Mi pare di poter dire che la concezione del linguaggio del Vailati e di altri pragmatisti non sia
accettabile: tuttavia pare che essi abbiano sentito
delle esigenze reali e che le abbiano “descritte”
con esattezza approssimativa, anche se non sono
riusciti a impostare i problemi e a darne una soluzione” (Gramsci 1975, p. 1330).
La citazione apparentemente chiude la questione
intorno alla considerazione che Gramsci ebbe del
pragmatismo. Ma, cosa conosceva Gramsci del
pragmatismo? Il curatore dell’edizione Einaudi dei
Qua derni da l ca rcere asserisce che Gramsci
conosceva Il pra gma tismo, di Giovanni Vailati e
Mario Calderoni (Vailati - Calderoni s.d. [1915]).
Viene richiamato anche (ma, dicono i curatori,
forse da fonte indiretta) Il lingua ggio come osta colo a lla elimina zione dei contra sti illusori
(Vailati 1987, p. 111-115), ripubblicato negli Scritti
del filosofo cremasco editi nel 1911, ma che
Gramsci poteva aver letto nella rivista
“Rinnovamento” nel 1908. Non risulta che abbia
avuto sottomano l’edizione degli Scritti di cui
parla, e che fa intendere di voler “rivedere”
(Gramsci 1975, p. 1330). Il termine può lasciare
intendere che Gramsci prima del carcere abbia
consultato gli Scritti . Tra i testi di Giuseppe
Prezzolini quello sicuramente conosciuto è Il lingua ggio come ca usa di errore, edito nel 1904.
Questi i testi e questi i due principali pragmatisti
che egli conosceva.
Ci sono però riferimenti e citazioni sparsi, e, anche
se l’elenco delle ricorrenze non è lungo, esse consentono un raffronto almeno tematico, se non
puntualmente condotto sui testi, tra il pensiero di
Giovanni Vailati e Antonio Gramsci. Inoltre, consente di sfumare l’accezione negativa del giudizio
gramsciano sul pragmatismo e i pragmatisti.
Gramsci parla “di altri pragmatisti”. Chi erano? Nei
Qua derni si nominano Prezzolini e Papini, ma
quest’ultimo non ricorre nei contesti in cui
Gramsci parla di pragmatismo. Resta quindi
Prezzolini. L’accostamento Prezzolini-Vailati, poi, a
noi contemporanei non pare affatto pacifico. È
dato acquisito dalla critica che Vailati fosse con
Mario Calderoni esponente del pragmatismo logico, in contrapposizione con Giuseppe Prezzolini e
Giovanni Papini. Oltretutto Prezzolini rinnegò il
suo pragmatismo nel 1908, di qualunque specie
fosse stato, e, forte del suo nuovo crocianesimo,
rinnegò anche il defunto Vailati nel 1910
(Prezzolini s.d., p. 101); negli anni successivi,
51
n.18 / 2007
quando si accorse che qualcuno ritornava a Vailati
con ammirazione, rinnegò anche il suo stesso rinnegamento. Ma negli anni ‘30 stava appena per
arrivare il primo dei tanti momenti di rivalutazione
di Vailati, e Gramsci sapeva di lui solo quello che la
tradizione gli aveva consegnato, ovvero molto
poco. Non è questa la sede per illustrare le ragioni
per cui Vailati fu dimenticato e bandito dal panorama culturale italiano, ma il suo resta uno dei casi
più strani del Novecento. Laureato in ingegneria
ed in matematica, era uno dei pochissimi intellettuali italiani ad unire solide conoscenze scientifiche ad una profonda cultura filosofica. Parlava
quattro lingue ed aveva rapporti intensi con la
comunità scientifica internazionale.
Vailati era forse l’unico che avrebbe potuto con
cognizione di causa portare avanti il progetto
vagheggiato dai positivisti, i quali, in realtà, parlando di scienza senza conoscerla “determinarono la
sfiducia degli scienziati più avveduti e le critiche
dei filosofi più accorti” e “contribuirono così a quel
divorzio fra scienza e filosofia tanto dannoso per la
nostra cultura” (Garin 1997, p. 8).
La sua critica al positivismo si accompagnò a quella all’idealismo, che allora si stava irrobustendo, e
trovò un palcoscenico nel Leona rdo, testata fondata appunto da Papini e Prezzolini con l’intento di
criticare e scuotere la fiacca attività culturale italiana. La produzione culturale di Vailati è vastissima.
L’articolo citato da Gramsci, Il lingua ggio come
osta colo a lla elimina zione di contra sti illusori, è
un buon punto di partenza per illustrare la concezione vailatiana del linguaggio, nonché per illustrare l’importanza della massima pragmatica ai fini di
un confronto, seppure molto parziale, tra i due
autori.
La massima pragmatica
Il solo fatto di parlare una lingua, dice Vailati, impone al parlante di accettare una grande quantità di
classificazioni e distinzioni di cui non saprebbe
indicare l’origine e il fondamento, dato che esse
sono nate in circostanze differenti da quelle in cui
egli vive. Tali distinzioni e classificazioni condizionano però i nostri tentativi di pensare e parlare con
originalità. La storia delle scienze è ricca di esempi
in tal senso. Basti pensare al ruolo che giocò la
distinzione, irriducibile, tra corpi pesanti e corpi
52
leggeri, “i primi tendenti verso il “basso” e gli altri
tendenti verso l’“alto””, che “fu tra i maggiori ostacoli che si opposero alla scoperta e al riconoscimento delle analogie sussistenti tra il comportamento dei corpi sotto l’azione della pressione
atmosferica e quello dei corpi immersi o galleggianti in un liquido” (Vailati 1987, vol. I, p. 112). Ma
se dalle ricerche fisiche si passa ad esaminare quelle che hanno per oggetto l’uomo, allora diventa
ancora più lampante l’”incompatibilità tra le classificazioni, imposte dal linguaggio comune, e quelle
che man mano vengono a essere riconosciute, dai
singoli investigatori, come meglio rispondenti ai
fatti, o più conformi alle esigenze della ricerca o delle
applicazioni pratiche” (Vailati 1987, vol. I, p. 112).
Socrate e i suoi interlocutori nel Teeteto non fanno
altro che sottoporre a critica le distinzioni e le
identificazioni implicitamente accettate dal linguaggio comune in nome del “diritto di far dipendere la propria adesione ad esse dai risultati di
un’indagine pregiudiziale sul loro grado di coerenza e sui motivi adducibili a giustificazione di esse”
(Vailati 1987, vol. I, p. 112). La scienza e la filosofia
dovrebbero quindi essere ripensate ad ogni successiva generazione, data la resistenza che le associazioni verbali tradizionalmente accettate e date
acriticamente per buone oppongono alla loro revisione. Uno dei dilemmi classici frutto appunto
della difficoltà di un approccio critico al linguaggio
è quello classico che oppone il “credere” al “sapere”, come, dice Vailati, se “ciò che “sappiamo” non
costituisse, in ogni modo, una parte di ciò che
“crediamo” (Vailati 1987, vol. I, p. 115).
L’analisi linguistica appare quindi propedeutica
alla determinazione dei criteri di credenza e condotta. L’ “epurazione” linguistica non è cioè mera
chiarificazione di ciò che si intende con un dato
termine o con un altro. O meglio, non solo. È rinvenimento dei processi che hanno condotto a
quelle distinzioni e a quei concetti: tale rinvenimento ci conduce alla libertà di accettare o rifiutare le distinzioni cui hanno dato luogo, nel caso che
ci paiano inopportuni e non adeguati agli scopi
che noi possiamo avere in vista in una determinata circostanza. Non si tratta di ripensare il linguaggio in vista dei nostri fini immediati, in una prospettiva meramente utilitaristica. Anzi.
Per restare solo ai testi che con ogni probabilità
Gramsci aveva conosciuto, si pensi al testo Il pra g-
Irina Di Vora
ma tismo. L’opera si apre con l’esposizione della
regola metodica di Ch. S. Peirce, che, ripresa da
Vailati, si configura come la “cifra” del pragmatismo logico. Tale regola è sintetizzata così:
“Il solo mezzo di determinare e chiarire il senso di
una asserzione consiste nell’indicare quali esperienze particolari si intende con essa affermare che
si produrranno, o si produrrebbero, date certe circostanze” (Vailati – Calderoni s.d. [1915], p. 20).
A monte, sia detto per inciso, c’è la riflessione di
Berkley, per il quale, termini come “realtà”,
“sostanza”, “materia” non indicano altro che la
“possibilità di sensazioni”, indicano cioè quello
che noi proveremmo in determinate circostanze.
L’essere o l’esistere non è insomma che il “poter
essere” di determinate circostanze.
L’asserzione di Peirce, dicono Vailati e Calderoni, è
stata talvolta proposta da lui nella seguente variante: “Il significato di una concezione consiste nelle
sue conseguenze pratiche” e questo ha dato luogo
ad equivoci, come quello di concepire il pragmatismo come una specie di “utilitarismo” applicato
alla logica; nel vedere in esso, cioè, una dottrina
assumente a criterio della verità o falsità delle credenze, le loro conseguenze più o meno utili, o gradevoli” (Vailati – Calderoni s.d. [1915], p. 21).
La regola metodica di Peirce è lontanissima da tale
prospettiva. Nelle parole di Vailati e Calderoni
“essa non è in sostanza che un invito a tradurre le
nostre affermazioni in una forma nella quale ad
esse possano venire più direttamente e agevolmente applicati, appunto quei criteri di verità e falsità che sono più ‘oggettivi’, meno dipendenti,
cioè da ogni impressione o preferenza individuale;
in una forma, cioè, atta a segnalare nel modo più
chiaro, quali sarebbero gli esperimenti, o le constatazioni, alle quali noi, od altri, potremmo e
dovremmo ricorrere per decidere se, e fino a che
punto, esse siano vere” (Vailati – Calderoni s.d.
[1915], p. 21).
L’unica accezione nella quale è accettabile che il
pragmatismo sia tacciato di avere un carattere “utilitario” è quella per cui può essere conveniente
applicare la massima pragmatica perché aiuta a
scartare questioni inutili o fumose. La questione
non è solo di stabilire quello che si vuole dire, con
una determinata affermazione, ma anche di
“discernere, nelle nostre affermazioni, quella parte
che, implicando delle previsioni, è suscettibile di
Una “quistione di parole”
venire confermata o infirmata da ulteriori esperienze, da quell’altra parte che, riferendosi invece
a qualche nostro stato attuale di coscienza (sensazioni, gusti, apprezzamenti) non può dar luogo a
controversie risolubili con appello a nuovi fatti”
(Vailati – Calderoni s.d. [1915], p. 25).
È il non tener conto di una “norma metodica”
tanto elementare che porta spesso i filosofi “a
impegnarsi in controversie che, in mancanza
appunto di qualunque chiara determinazione della
tesi cui si riferiscono, non possono che prolungarsi indefinitamente ed apparire insolubili o trascendenti la capacità della mente umana (Vailati –
Calderoni s.d. [1915], p. 26).
Ma, per tornare alla massima pragmatica, l’esempio illustre di degenerazione della massima stessa
in un forma di utilitarismo applicato alla logica che
Vailati e Calderoni avevano in mente, era Henry
James, il nome del quale godeva di grande notorietà per il suo Principii di psicologia e la sua particolare varietà di pragmatismo. Di questa forma di
pragmatismo Gramsci parla esplicitamente, condannandola.
A proposito del pragmatismo americano e nella
fattispecie riferendosi a Dewey e James afferma:
“Questa tendenza a concepire la vita come fatto
tecnico, spiega la filosofia americana medesima. Il
pragmatismo esce per l’appunto da questa mentalità che non afferra e non pregia l’astratto”
(Gramsci 1975, p. 516 ), che vuole cioè far presa
immediata sulla realtà piegandola ai proprii fini. A
Gramsci questa pretesa pare volgare, esattamente
come a Vailati e a Calderoni, ma questo non ci consente di segnare un punto di concordanza tra filosofia della prassi e pragmatismo.
Il rinvenimento dei processi che danno luogo alle
distinzioni e alle classificazioni che noi utilizziamo
non è che un caso specifico dell’applicazione della
regola metodica. Il perno attorno alla quale ruota
la regola è il concetto di previsione. La peculiarità
del pragmatismo vailatiano poggia sulla consistenza della massima pragmatica, senza la quale non si
avrebbe previsione fondata, né discorso e condotta coerenti. Ed è la previsione uno dei cardini di
tale filosofia, il concetto attorno al quale ruota l’intera produzione vailatiana e calderoniana. È la previsione a saldare linguaggio e condotta.
53
n.18 / 2007
Storia e previsione
Ed è utilizzando tale metodica che gli scienziati
procedono periodicamente ad una “riaffilatura”
(Vailati 1997, vol. II, p. 91) dei propri ferri del
mestiere, ad un’analisi critica dei mezzi di rappresentazione che utilizzano e dei processi di prova e
di ricerca seguiti. Secondo Vailati la più utile forma
di queste discussioni sarebbe quella che consiste
nel determinare analogie e differenze tra le diverse
scienze, e soprattutto nell’esaminare se e fino a
che punto tali analogie e differenze trovino giustificazione nella natura della materia trattata. Ad
esempio, ha reale motivazione d’esistere la distinzione tra le scienze che hanno come oggetto l’uomo e le scienze cosiddette fisiche o naturali? Per
Vailati non ha alcun senso. Si discute, dice Vailati
nel saggio Sull’a pplica bilità dei concetti di ca usa
ed effetto nelle scienze storiche, intorno alla possibilità o meno dell’esistenza di leggi storiche, nello
stesso senso nel quale si parla di leggi fisiche o chimiche. Ebbene, “una gran parte dei dispareri sembra […] dipendere, più che da altro, dalla mancanza di un concetto sufficientemente chiaro di ciò
che si intende per legge nelle scienze fisiche e matematiche e dalla tendenza ad attribuire alle leggi, da
queste considerate, dei caratteri che esse sono lontane dal possedere (Vailati 1997, vol. II, p. 91).
È un luogo comune contrapporre le regolarità e le
analogie presentate dall’osservazione dei fatti
sociali con le leggi del mondo fisico. Invece è facile dimostrare che anche le cosiddette leggi fisiche
sono soggette ad eccezioni, né più né meno dei
fenomeni sociali. “Quando si dice che l’acqua congela a 0 gradi, si afferma qualche cosa che può
essere vera o falsa a seconda della pressione cui
l’acqua di cui si parla è soggetta. Se anche si fa
entrare questa restrizione nell’enunciazione della
legge, e si dice che l’acqua, alla pressione di 760
mm, congela a 0 gradi, si è ancora lontani dal poter
dire d’aver formulata una legge che non soffra
eccezioni, poiché, (anche senza tener conto della
circostanza che il punto di solidificazione dell’acqua può variare a seconda delle sostanze che essa
contenga in soluzione) è noto come, con certe
precauzioni, si riesca a portare dell’acqua, anche
chimicamente pura, al di sotto di 0 gradi, alla pressione di 760 mm, senza che essa congeli (Vailati
1997, vol. II, p. 91).
54
Quindi a che cosa si riduce tale legge se non a dire
che, date tali o altre, condizioni, si verifica, tranne
i casi in cui ve ne siano altre che non siamo in
grado di determinare con esattezza? Qual è la differenza con le analogie e le regolarità osservate nei
fatti naturali? In secondo luogo, non è nemmeno
chiaro che si intenda con il dire che esse sono
necessarie, a meno che non si pensi che devono
essere vere come lo sono le conclusioni che si possono trarre da premesse vere. In tal caso però non
ci si sottrae alla verifica di quelle premesse che non
possono essere dedotte da altre. La riluttanza ad
ammettere che si potrebbe parlare di leggi storiche sta nel fatto che molti pensano che dare alla
regolarità dei fatti sociali il nome di legge implichi
la svalutazione della volontà umana e della sua
possibilità di modificare il corso degli eventi. Ma
poi in realtà essi, pur ammettendo che vi sono
leggi naturali che impedirebbero in via teorica l’azione umana, non vedono nessuna incompatibilità
tra le leggi dell’idrostatica e il fatto che si possa
deviare il corso di un fiume.
Ciò che una legge asserisce non è che il tale fatto
avverrà o non avverrà, bensì “quali siano i fatti da
cui è accompagnato quando avviene o da cui verrebbe accompagnato nel caso che avvenisse”
(Vailati 1997, vol. II, p. 95).
Ma nei Qua derni il concetto di previsione è fortemente diverso. Gramsci non cita Vailati, ma dice:
“La posizione del problema come una ricerca di
leggi, di linee costanti, regolari, uniformi è legata a
una esigenza, concepita in modo un po’ puerile e
ingenuo, di risolvere perentoriamente il problema
pratico della prevedibilità degli accadimenti storici.
Poiché ‘pare’, per uno strano capovolgimento
delle prospettive, che le scienze naturali diano la
capacità di prevedere l’evoluzione dei processi
naturali, la metodologia storica è stata concepita
‘scientifica’ solo se e in quanto abilita astrattamente a “prevedere” l’avvenire della società.[…] In
realtà si può prevedere scientificamente solo la
lotta, ma non i momenti concreti di essa.
Realmente si ‘prevede’ nella misura in cui si opera,
in cui si applica uno sforzo volontario e quindi si
contribuisce concretamente a creare il risultato
‘preveduto’” (Gramsci 1975, p. 1439).
La previsione, continua poi Gramsci, non è un atto
di conoscenza. E come potrebbe mai esserlo? “Si
conosce ciò che è stato o è, non ciò che sarà, che
Irina Di Vora
è un ‘non esistente’ e quindi inconoscibile per
definizione. Il prevedere è quindi solo un atto pratico […] È necessario impostare esattamente il
problema della prevedibilità degli accadimenti storici per essere in grado di criticare esaurientemente la concezione del causalismo meccanico, per
svuotarla di ogni prestigio scientifico e ridurla a
puro mito” (Gramsci 1975, p. 1404).
Vailati non solo sostiene la possibilità di parlare di
leggi storiche, ma nega con forza che questo implichi la “causalità meccanica” di cui parla Gramsci. La
concezione materialistica della storia secondo
Vailati presenta in modo volgare il pregiudizio per
cui i soli fattori efficaci dello sviluppo e delle trasformazioni sociali sono quelli economici, che fungerebbero come causa, mentre “l’ammettere l’influenza preponderante dei rapporti economici,
nella formazione e nello sviluppo delle singole
specie di attività cui dà luogo la convivenza umana
non implica che queste ultime non possano a loro
volta agire come cause modificatrici della struttura
e della vita stessa economica della società in cui si
manifestano” (Vailati 1997, vol. II, p. 96).
L’errore, dice anche Gramsci, sta nel “concetto
stesso di scienza”, preso di sana pianta dalle scienze naturali. “Se le verità scientifiche fossero definitive, la scienza avrebbe cessato di esistere come
tale, come ricerca, come nuovi esperimenti e l’attività scientifica si ridurrebbe a una divulgazione del
già scoperto. […] Ma se le verità scientifiche non
sono neanche esse definitive e perentorie, anche
la scienza è una categoria storica” (Gramsci 1975,
p. 1456).
Gramsci e Vailati quindi non si accordano sulla
previsione, entrambi vogliono evitare il pericolo
del determinismo meccanico e concordano sulla
non assolutezza (in senso etimologico) delle scienze, ma Vailati estende il concetto di legge anche
alle leggi storiche, dato che neanche le leggi naturali possono essere considerate leggi nel senso
comune del termine, mentre Gramsci, data la storicità delle scienze, nega la possibilità di concepire
leggi storiche. Sono due punti di vista radicalmente differenti. Entrambi restituiscono il profilo delle
scienze come sapere storico, frutto dell’attività
umana che procede costantemente rimettendosi
in discussione, ma Vailati intende in tal modo ribadire il carattere scientifico di ogni attività umana,
mentre Gramsci, del sapere scientifico, esalta la
Una “quistione di parole”
dimensione storica.
Anche gli esiti pedagogici di tale distinzione sono
diversi. Gramsci pensa ad una rivista che promuova la storia della scienza e della tecnica come base
dell’educazione formativa-storica nella nuova
scuola. Vailati, invece, nel suo saggio
Sull’importa nza delle ricerche rela tive a lla storia
delle scienze, sottolinea l’importanza del cosiddetto metodo euristico, “[…] quel metodo cioè d’esposizione e insegnamento nel quale l’allievo o il
lettore arriva a impossessarsi delle cognizioni che
costituiscono un dato ramo di scienza passando
attraverso alle considerazioni che hanno guidato
quelli che sono giunti ad esse per la prima volta.
[…] A nessuno che abbia avuto occasione di trattare in iscuola, davanti a dei giovani, qualunque
soggetto che si riferisca alle parti astratte e teoriche della matematica, può essere sfuggito il rapido cambiamento di tono che subisce l’attenzione
[…] ogniqualvolta l’esposizione lascia luogo a
delle considerazioni d’indole storica” (Vailati 1997,
vol. II, p. 10).
Il linguaggio metaforico e la storicità del linguaggio
Sul rapporto tra Gramsci e i pragmatisti italiani è
da vedere il notevole saggio di Derek Boothman
(2004), al quale chi scrive si dichiara in debito. Qui
si cercherà solamente di indicare la possibilità di
un approfondimento dei temi toccati da
Boothman nel contesto della produzione vailatiana. Importante, perché mette a confronto Vailati e
Gramsci, è anche lo scritto di Aqueci (1998).
Ma la meditazione vailatiana sulla storia della scienza non manca di tornare sulle “quistioni di parole”,
che sono fra le cause costanti degli errori scientifici e filosofici. È importante, dice Vailati, il modo in
cui una dottrina è espressa. Oltre agli inganni linguistici di cui qui si è già parlato,” […] il linguaggio tecnico scientifico non meno del linguaggio
volgare è pieno di frasi ed espressioni metaforiche,
che pur avendo cessato, pel lungo uso, di richiamare l’immagine che suggerivano originariamente,
non hanno perduto la capacità di indurci ad attribuire ai fatti che esse descrivono tutte le proprietà
(corsivo mio) dell’immagine cui si riferiscono”
(Vailati 1997, vol. II, p. 70). La cautela nell’utilizzare le metafore ci riporta quindi alla necessità, di cui
55
n.18 / 2007
si è già parlato, di rivedere costantemente i termini che entrano a far parte del linguaggio che utilizziamo, pena l’attribuzione arbitraria di proprietà
inadeguate ai fatti indagati.
Sul carattere metaforico del linguaggio torna a più
riprese anche Gramsci. Particolarmente significativa questa affermazione: “Il linguaggio, intanto, è
sempre metaforico. Se non si può dire esattamente che ogni discorso è metaforico per rispetto alla
cosa od oggetto materiale e sensibile indicati, […]
si può però dire che il linguaggio attuale è metaforico per rispetto ai significati e al contenuti ideologico che le parole hanno avuto nei precedenti
periodi di civiltà. Un trattato di semantica, quello
di Michel Bréal per esempio, può dare un catalogo
storicamente e criticamente ricostruito delle mutazioni semantiche di determinati gruppi di parole.
Dal non tener conto di tale fatto, e cioè dal non
avere un concetto critico e storicista del fenomeno
linguistico, derivano molti errori sia nel campo
della scienza che nel campo pratico: 1) Un errore
di carattere estetico […] è quello di ritenere
‘belle’ in sé certe espressioni a differenza di altre in
quanto sono metafore cristallizzate; 2) un errore
pratico che ha molti seguaci è quello delle lingue
fisse o universali; 3) una tendenza arbitraria al neolalismo, che nasce dalla quistione posta dal Pareto
del “linguaggio come causa di errore”. Il Pareto,
come i pragmatisti, in quanto credono di aver originato una nuova concezione del mondo […] si
trovano di fronte al fatto che le parole, nell’uso
comune ma anche nell’uso della classe colta e perfino nell’uso di quella sezione di specialisti che
trattano la stessa scienza, continuano a mantenere
il vecchio significato nonostante l’innovazione e
reagiscono. Si reagisce: il Pareto crea un suo dizionario […]; i pragmatisti teorizzano astrattamente
sul linguaggio come causa di errore (vedi libretto
di G. Prezzolini)” (Gramsci 1975, p. 1428).
I tre errori che si rischia di commettere quando
non si tenga conto della natura storica del linguaggio sono strettamente correlati.
Pareto aveva citato in Les systemes socia listes uno
scritto di Vailati (Sulla porta ta logica della cla ssifica zione dei fa tti menta li proposta da l Prof.
Fra nz Brenta no) e il suo monito a fare un uso
accorto del linguaggio comune a causa della sua
ambiguità. Se tra “i pragmatisti” accanto a Pareto
Gramsci annovera anche Vailati, allora tra l’atteg-
56
giamento di Vailati e Pareto sembra esservi solo
una differente reazione al medesimo tipo di disillusione di fronte alla pervicacia delle parole a non
mutare di significato né nel linguaggio dei dotti né
in quello degli incolti. Ma Vailati, se è anche di lui
che Gramsci parla, nello scritto Il lingua ggio come
osta colo a ll’elimina zione dei contra sti illusori
era proprio partito da questo assunto, e la sua
riflessione non era che la dimostrazione della
necessità di procedere ad una verifica preliminare
all’uso automatico ed inconsapevole del linguaggio. Vailati non propone un dizionario nuovo tout
court, ma invita alla revisione continua di quello
vecchio, che può sempre indurci a commettere
errori. Senza contare che Vailati, nella sua recensione a Les systemes socia listes, insinuava che lo
stesso Pareto non “fosse immune affatto dai sofismi e dagli equivoci verbali da lui rimproverati ad
altri. (Vailati 1971, p. 85)”.
Pare quindi plausibile pensare che Gramsci con l’espressione “i pragmatisti” avesse piuttosto in
mente Prezzolini, che poi cita esplicitamente. Il
lingua ggio come ca usa d’errore esce nel 1904: si
tratta di un libretto che contiene tutti i temi fin qui
citati: il linguaggio come causa di errore, le “parole gravide di associazioni multiple” e di metafore,
le difficoltà insormontabili che certi problemi filosofici sollevano” e che potrebbero derivare da tranelli delle parole”. Se da un lato vi si trovano in
nuce alcuni temi che verranno poi sviluppati nel
corso degli anni del “Leonardo”, è evidente che
manca del tutto l’impronta che la regola metodica
della massima pragmatica doveva in futuro conferire alle meditazioni dei pragmatisti sul linguaggio.
Tuttavia lo scritto di Prezzolini ci consente di fare
una importante precisazione.
È vero che il linguaggio può indurci ad errare, ma
sia Gramsci che Vailati propongono un correttivo a
questa sua caratteristica. Gramsci lo indica nella
presa di coscienza della storicità del linguaggio, cui
è impossibile sottrarsi ma che, come si vedrà, è
possibile controllare e addirittura convogliare
verso nuovi fini. Vailati dal canto suo propone di
smontare il meccanismo che anima la metafora e
convertire tale procedura in buona pratica per l’acquisizione futura di conoscenza scientifica. È vero
che il linguaggio può indurci ad errare, ma con la
costante e vigile applicazione pragmatica noi possiamo riuscire a dire anche il vero, il vero che ci è
Irina Di Vora
possibile dire.
Il primo errore citato da Gramsci, quello estetico,
consiste nel considerare il linguaggio come creazione artistica del singolo anziché dell’individuo
come elemento storico. Il linguaggio ha le sue
radici nell’intera comunità sociale. Non è questa la
sede per insistere sulla portata eversiva di tale concezione al tempo di Gramsci.
Il riferimento a Bréal ci consente anzi di aggiungere un’altra elemento al quadro. Vailati aveva pubblicato una recensione proprio a Bréal, intitolata
La psicologia di un diziona rio, dove non solo
teneva conto del fatto fondamentale che le parole
vivono nel tempo le mutazioni semantiche citate
da Gramsci, ma aggiungeva che sarebbe stato
opportuno utilizzare tale opera nelle scuole, “per
affinare in essi [negli alunni] l’attitudine a riconoscere, nella storia e nelle variazioni di significato
delle parole, la traccia delle idee, dei costumi, e dei
modi di pensare e di agire, propri alle generazioni
passate e alle fasi di civiltà da cui la nostra deriva”
(Vailati 1997, vol. III, p. 327). A ciò sembra fare eco,
in perfetta consonanza, questa affermazione di
Gramsci: “Lo studio dell’origine linguistico-culturale di una metafora impiegata per indicare un
concetto o un rapporto nuovamente scoperto,
può aiutare a comprendere meglio il concetto stesso, in quanto esso viene riportato al mondo culturale storicamente determinato, in cui è sorto, così
come è utile per precisare il limite della metafora
stessa, cioè a impedire che essa si materializzi e si
meccanicizzi” (Gramsci 1975, p. 1474).
Gramsci difende in primo luogo la facoltà di produrre nuove ed efficaci metafore in vista dei fini
che la filosofia della prassi si propone, ovvero quello di “riformare intellettualmente e moralmente
strati sociali culturalmente arretrati” e per far questo ammette il ricorso anche a metafore talvolta
“grossolane e violente” nella loro popolarità”
(Gramsci 1975, p. 1474): qui è evidente che a
Gramsci interessano le metafore per il loro fine
pratico.
In secondo luogo a Gramsci interessa chiarire l’uso
metaforico di alcuni termini chiave della sua filosofia, termini che gli sono stati consegnati dalla tradizione e del cui significato si sente chiamato a
rispondere. È il caso, ad esempio, del termine
“immanenza” (Boothman 2004, p. 93).
Ma è possibile togliere al linguaggio il suo caratte-
Una “quistione di parole”
re metaforico? si chiede Gramsci. Impossibile. Il
linguaggio “assume metaforicamente le parole
delle civiltà e culture precedenti”. Gramsci difende
la metafora e ne dà una ragione in termini linguistico-storici perché deve lavorare con il repertorio
linguistico che gli è stato consegnato e che deve
utilizzare per la definizione e messa a punto della
filosofia della prassi. E dall’altro fa della metafora
uno dei cardini su cui ruota la sua “riforma morale
e intellettuale”.
Gramsci e Vailati sembrano qui concordare, nel
ribadire una concezione critica e storicista del linguaggio, ma è interessante notare come tale concordanza ci riporti, di nuovo, ad una diversità di
fondo. In Vailati la riflessione sulla lingua e sulla
sua storicità non esclude affatto l’ipotesi della
costruzione, artificiale, di una lingua internazionale.
L’attenzione per le complesse stratificazioni interne alla lingua, l’attenzione per le metafore, la
dichiarata volontà di svelare i processi che ancorano il linguaggio al sistema di credenze e aspettative in relazione alle quali il linguaggio stesso si
struttura in distinzioni e classificazioni, non impediscono a Vailati di dire: “[…] Sarebbe sempre
praticamente utile e anzi indispensabile l’avere, in
uno schema teorico di lingua internazionale, una
specie di “piano regolatore” ideale per guidare e
accelerare le diverse fasi che ciascuna lingua civile
tende ad attraversare per giungere a una graduale
eliminazione delle differenze che sussistono tra
essa e le altre più affini. […] Dovrebbe essere
riguardata come una delle funzioni più importanti
della scuola quella di propagare e apprendere la
capacità a distinguere, nella lingua che in un paese
vi si parla, le parti che essa ha in comune con le
altre lingue civili, dalle parti che sono invece esclusivamente appartenenti ad essa” (Vailati 1997, vol.
III, p. 413).
Vailati nota che sempre più ci “domina ‘l’internazionalità’”, i figli parlano una lingua che, sia pure di
poco, è più internazionale di quella parlata dai
padri. “La conoscenza di ciò che si potrebbe chiamare la ‘distribuzione geografica’ di ogni parola e
di ogni famiglia di parole della lingua materna,
dovrebbe essere considerata come una parte
essenziale dell’educazione liberale. Si dovrebbe
provocare nelle classi colte di ogni paese, la formazione di una “coscienza filologica” delle imperfezioni e deficienze, lessicali o grammaticali, della lin-
57
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gua ivi parlata, delle direzioni nelle quali essa avrebbe bisogno di essere corretta o migliorata. […], e
soprattutto della possibilità di tali correzioni e
miglioramenti per azione delle iniziative degli individui e dei gruppi sociali più interessati […]
Occorrerebbe reagire contro ogni specie di ‘purismo’ e contro il pregiudizio che le lingue, pel fatto
di essere degli ‘organismi naturali’ non possano
essere modificate artificialmente. Come se le stesse
piante coltivate dall’uomo non ci fornissero appunto esempi di organismi che l’Uomo ha saputo
modificare per adattarli ai suoi bisogni” (Vailati
1997, vol. III, p. 414).
Una lingua costruita artificialmente per Vailati non
contrasta affatto con la sua “naturalità”: è anzi la
nozione di “naturalità” che andrebbe ridiscussa.
Difficile non pensare qui ai progetti di costruzione
di lingue universali, “come le lingue internazionali
a posteriori del XIX secolo” (Eco 1993, p. 8) e ai
tentativi di Peano di fornire agli studiosi non una
nuova lingua, ma un La tino sine flexione che servisse quantomeno agli studiosi per i loro “rapporti
scientifici internazionali” (Eco 1993, p. 347).
Gramsci però, oltre al “secondo errore pratico
delle lingue fisse o universali” di cui parla nell’ampia citazione, scocca nei Qua derni un’altra frecciata ai fautori delle lingue internazionali, quando
parla della creazione di una lingua comune nazionale, ostacolata dalla resistenza delle masse a
“[…] spogliarsi delle abitudini e psicologie particolaristiche. Resistenza stupida determinata dai
fautori fanatici delle lingue internazionali”
(Gramsci 1975, p. 2344).
Gramsci sembra quindi avere delle riserve sulla
costruzione di una lingua internazionale, se non
altro perché i suoi fautori ostacolano quella di una
lingua nazionale. Questo è in effetti uno dei nodi
più importanti della riflessione gramsciana, e non
è questa la sede per insistervi. Qui il problema del
linguaggio metaforico si congiunge con il problema, di cui è parte, della traduzione da una lingua
all’altra e della traduzione tra diversi linguaggi teorici all’interno di una disciplina, di cui si è occupato brillantemente Boothman nel testo già citato.
Concordiamo qui con il giudizio di Boothman, il
quale sfuma notevolmente la connotazione negativa del giudizio di Gramsci sul pragmatismo e i
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pragmatisti: nonostante le riserve nutrite dal pensatore sardo, “sembra che in Gramsci rimanga
qualcosa del loro approccio alla lingua e in particolare sembra che abbia trovato interessanti le teorie di Vailati, altrimenti sarebbe difficile spiegare
come certi suoi passaggi si riflettono nel livello linguistico” (Boothman 2004, 96).
Boothman allude qui alla progressiva scomparsa di
alcuni termini dal lessico gramsciano, conseguente
ad una pulizia linguistica consona con le raccomandazioni dei pragmatisti.
Importa sottolineare come il tema del pragmatismo ricorra in contesti ove compare la trattazione
della metafora e del linguaggio, la discussione
intorno ai quali ci ha consentito di aprire nuovi
campi di confronto tra i due pensatori e di rilevare
alcune differenze di pensiero nonostante l’apparente e pacifica concordanza su un tema quale l’inammissibilità della concezione materialistico
meccanica della storia e di portare alla luce la questione dei differenti esiti cui i due pensatori pervengono una volta riconosciuta la storicità del linguaggio.
Riferimenti bibliografici
Aqueci, F. (1998), “Una semioetica tra Vailati e
Gramsci”, Segno, 194-195, aprile-maggio.
Boothman, D. (2004), Tra ducibilità e processi tra dottivi. Un ca so: A. Gra msci linguista , Guerra
Edizioni, Perugia.
Eco, U. (1993), La ricerca della lingua perfetta
nella cultura europea , Laterza, Roma-Bari.
Garin, E. (1997), Crona che di filosofia ita lia na ,
Laterza, Bari.
Gramsci, A. (1975), Qua derni da l ca rcere,
Einaudi, Torino.
Prezzolini, G. (s.d.), 22 uomini 3 città , Vallecchi,
Firenze.
Vailati (1971), Epistola rio, a cura di G. Lanaro,
Einaudi, Torino.
Vailati G. (1987), Scritti , 3 voll., a cura di M.
Quaranta, Forni, Bologna.
Vailati G. e M. Calderoni (s.d. [1915]), Il pra gma tismo, Carabba, Lanciano.
Umberto Vincenti
Natura, diritto e territorio ne “La crisi“
di Silvio Trentin
Focus: Silvio Trentin
Le ragioni della traduzione italiana de La
cr isi del Dir itto e dello Sta to
Perché Giuseppe Gangemi ha ostinatamente voluto questa traduzione? La risposta sta scritta (dallo
stesso Gangemi) in due successivi articoli apparsi
nella Rivista interna ziona le di filosofia del diritto, il primo nel 2004 (Silvio Trentin, il diritto na tura le e la libertà come a utonomia ), il secondo nel
2005 (Silvio Trentin e Giuseppe Ca pogra ssi: similitudini e differenze).
Attraverso il pensiero del giurista di San Donà
Gangemi vorrebbe avviare un’operazione culturale
ambiziosa, però necessaria (da ‘tentare’ indubbiamente) e, pertanto, meritoria; difficile prevederne
gli esiti e, in certo senso, il pessimismo è d’obbligo
(anche perché non infondato considerato il contesto, dato da certi limiti del pensiero trentiniano e
dalle difficoltà in cui si dibatte il pensiero giuspolitico italiano). Vediamo un poco.
Nell’articolo del 2004 Gangemi dichiara che occorre un’azione volta alla riappropriazione, da parte
della cultura giuspolitica italiana, della sua grande
tradizione: «è colpa - egli scrive - [anche] degli
intellettuali italiani che, negli ultimi sessanta anni,
hanno proceduto per cancellazioni della tradizione di studi politici precedenti […] e hanno chiamato questo intervento – che ha indebolito la
nostra cultura in quanto ha disperso i tesori di cultura che si erano accumulati nel passato – sprovincializzazione, quando è esattamente il suo con-
trario». L’interesse per Trentin nasce così da un’esigenza, diciamo, di tutela della nostra cultura. In
particolare, la lettura de La crisi farebbe balenare,
nel (nostro) tempo di crisi della rappresentatività
politico-democratica, nuovi, e attualissimi, paradigmi di libertà: la libertà come non dominio degli
altri e la libertà come dominio di sé stessi.
Nell’articolo del 2005 Gangemi precisa questa
linea: La crisi contiene, riallacciandosi a quella tradizione, «l’invito all’uso pubblico della ragione
come strumento indispensabile alla costruzione
del federalismo e della democrazia», della democrazia, occorre aggiungere, locale «la cui pratica
[…] è parallela, se non sostitutiva, della democrazia rappresentativa», una «pratica precedente e
indipendente dalla rivoluzione francese». Il riferimento è qui al paradigma della democrazia deliberativa.
Silvio Trentin ci è presentato come un appartenente alla scuola del federalismo antropologico
veneto che vuole lo sviluppo della democrazia
locale: una pratica di autogoverno, di governo dal
basso, di autonomie decisionali organizzate in funzione della coesistenza e coordinamento reciproci.
Egli aveva nella mente l’esperienza dei consorzi di
bonifica del Veneto orientale alla cui organizzazione normativa aveva contribuito da giovane, quale
giurista e avvocato.
Il paradigma fondante è quello di un contrattualismo piuttosto municipale, fondato su una convenzione non di tipo immutabile, di stampo hobbesia-
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no, ma modellata da un diritto naturale in fieri ,
mutante a secondo dello stadio di evoluzione degli
uomini e dei loro ordini associativi.
In questa prospettiva risulta determinante la diade
natura-diritto e così l’interazione tra diritto positivo (dimensione irrinunciabile per qualsiasi attività
di organizzazione) e diritto naturale. Si sostiene
che ne La crisi Trentin avrebbe appunto fornito al
federalismo antropologico l’anima spirituale del
giusnaturalismo: nessuna organizzazione deve
essere funzionale o strumentale, secondo questo
giurista, alla soddisfazione degli appetiti materiali
(economici) che l’uomo avverte, ma al perfezionamento del suo spirito (che deve vincere la materia
e governare l’azione del progresso, a questo punto
spiccatamente spirituale). Ma a quale giusnaturalismo fa riferimento Silvio Trentin?
Per cercare di dare una risposta occorre analizzare
attentamente un capitolo de La crisi , a torto svalutato da Norberto Bobbio, il quinto, significativamente intitolato Diritto positivo e Diritto na tura le.
Fonti e significato del giusnaturalismo trentiniano
Trentin qualifica “diritto di fatto” quello positivamente in vigore nello stato, scritto nelle sue leggi
e applicato dai suoi giudici. Questo diritto, che ci
organizza la vita in societa te, deve avere un fondamento etico, pena la sua crisi e la sua decadenza
(fino a ridursi a “un fantasma”). Un fondamento
etico che, secondo Trentin, è da individuarsi nella
natura umana o, più precisamente, nella natura
ragionevole dell’uomo. Esiste, dunque, un diritto
naturale-razionale sotteso al diritto positivo di cui
il primo dovrebbe valere da fonte ispiratrice di
norme rette e, inoltre, da criterio di riscontro della
rettitudine delle norme effettivamente in vigore. E
una norma non è retta quando non rispetta l’uomo, la sua natura, i suoi diritti innati; quando viola
la pari dignità di tutti i conviventi. Così il vero diritto rappresenta l’esito di una ricerca continua della
migliore organizzazione possibile che gli uomini
sperimentano nel corso della storia guidati dal «filo
sacro della ragione» (Trentin 2006, p. 231). A questo proposito Trentin avverte i cultori del dogmatismo giuridico che, se il diritto non può prescindere dai concetti rappresentativi dei frammenti
della realtà sociale postulanti l’ordine imposto
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dalle norme, questi concetti, però, non sono eterni, ma debbono evolversi in adeguazione al mutamento dei fatti.
Non c’è dubbio che, per Trentin, il Diritto (che egli
appella sempre con la maiuscola) è uno e coincide
con il diritto naturale che, si potrebbe dire, è l’ordinamento della normativa conforme, adeguata,
rispettosa, protettiva, promotrice della persona
umana secondo quella che è la sua natura più
autentica (perché migliore), la quale attinge allo spirito. Sul punto Trentin si ripete tante (troppe) volte,
certamente perché sottesa vi è una preoccupazione,
anzi un’angoscia che più di qualche volta finisce con
l’impadronirsi della sua costruzione, in certo senso,
squilibrandola. Significativa (anche) della matrice
classica di questa opzione metodologica è, anche se
un poco scontata, la citazione (Trentin 2006, p. 240)
dall’Antigone di Sofocle ove si evocano «le leggi non
scritte ed infallibili degli dei».
L’esistenza del diritto naturale è provata, avverte
Trentin, dalla circostanza che solo in grazia di quest’ordine normativo è possibile valutare finalisticamente il diritto positivo o “di fatto” deviato dal
solco naturalistico (che si impone, quale vero
dover essere, innanzi tutto ai facitori di norme,
quelle in concreto vigenti in quanto coattive). Il
che, all’evidenza, sposta l’asse della normatività
dalla forma (una regola è tale se creata in modi
proceduralmente corretti) alla sostanza, cioè ai
contenuti (una regola è tale, è diritto, se giusta).
Non è poco se si pensa che il formalismo giuridico
era in auge ai tempi di Trentin e lo sarà ancora a
lungo nel (secondo) dopoguerra. Incidentalmente
si può così notare come l’accostamento di Trentin
a Capograssi sia (o possa essere) fecondo, alla stessa stregua di quel che Gangemi addita in riferimento al campo della democrazia locale diretta:
infatti, sul terreno, vorrei dire, metodologicamente più importante delle fonti, l’incontro tra Trentin
e Capograssi si rinnova nel sostenerne la pluralità
di contro al monismo kelseniano (la legge statuale). Appunto a p. 275 e s. (dell’edizione curata da
Gangemi) il sandonatese elenca, nell’ordine, la
legge, la consuetudine, il costume, la pratica giudiziaria, la pratica dell’amministrazione pubblica,
l’autorità della dottrina, i precedenti, al limite un
precedente se particolarmente significativo: è all’evidenza il diritto come esperienza giuridica di cui
Capograssi è stato, in Italia, il teorico massimo.
Umberto Vincenti
Natura, diritto e territorio ne “La crisi“ di Silvio Trentin
Se innumerevoli sono, dunque, «i centri generatori del diritto», è da dire che questa è, in certo
senso, una premessa (o una conseguenza) necessaria della concezione trentiniana – che più ora
interessa – della società come composizione coordinata (dal Diritto) delle molteplici autonomie o
Ordini in cui si articola la società stessa e deve
altrettanto articolarsi il potere decisionale a tutti i
livelli: le autonomie sono tutte fonti di produzione
normativa e l’ordinamento generale, a cui sono
affidate la libertà e il progresso, deve tutelarle non
invasivamente. Rispetto a questo contesto monismo e formalismo giuridico restano incompatibili
e vanno pertanto combattuti sul piano innanzi
tutto metodologico.
Conseguentemente, Trentin è fortemente critico
verso giuristi come Romano e Kelsen, perché teme
il neutralismo formalistico indifferente a qualunque contenuto (come il diritto puro di Kelsen). Ma
egli, con qualche contraddizione però, è altrettanto critico verso Savigny perché ha paura dell’abbandonarsi del diritto allo spirito del popolo (il
Volksgeist savigniano). Coerentemente a queste
opzioni culturali, Trentin non ama l’Ottocento e
guarda più al Sei-Settecento: sembra orientato
soprattutto da Rousseau e da Grozio.
Da Rousseau: scrive Trentin che la strutturazione
dello Stato rousseauiana consente «quella regolamentazione dei rapporti sociali che, essa sola, può
soddisfa re le esigenze della natura morale dell’uomo così come ci vengono rivelate dalla ragione»
(Trentin 2006, p. 228). A Trentin dovevano piacere, del ginevrino, la fondazione della libertà sull’idea di autonomia, la visione dell’uomo come
padrone del proprio destino e, appunto, dello
Stato come lo strumento di cura e tutela dell’individuo e come spazio per lo sviluppo del perfezionamento umano (Rousseau introduce appunto “la
capacità di perfezionarsi” all’interno e per virtù del
corpo politico).
Da Grozio: Trentin ne apprezza la valorizzazione di
una verità elementare, «cioè che i doveri e i diritti
degli uomini non sono rinchiusi nei limiti della
legge positiva o della rivelazione, ma poggiano su
determinati attributi universali della persona
umana» (Trentin 2006, p. 246). La natura groziana
è tutt’altro che quella biologica di un Ulpiano (= il
diritto naturale è ciò che la natura ha insegnato a
tutti gli animali): essa si manifesta attraverso la
facoltà più umana di tutte, la ragione, che fonda il
diritto naturale. Trentin traduce quasi Grozio (il
diritto naturale è dicta men recta e ra tionis) quando afferma che il diritto naturale è il «diritto che si
riallaccia alla natura ragionevole dell’uomo»
(Trentin 2006, p. 239).
Il diritto naturale di Trentin non è sovraordinato
alla storia, ma in questa vi resta incarnato: «il diritto naturale – egli scrive – non comporta che un
substrato a carattere universale ed immutabile, che
un nocciolo di principi che stabiliscono le condizioni secondo le quali può operarsi quel giudizio
di valore implicito in ogni norma di Diritto.
Pertanto l’assunzione di questi principi non si
oppone in nessun modo alla varietà inesauribile
delle esigenze che dipendono dal cambiamento
incessante, secondo l’epoca ed il paese, delle condizioni nelle quali evolve l’ambiente sociale»
(Trentin 2006, p. 257).
Ciò pone innanzi tutto la questione dell’identificazione di questo nocciolo di principi eternamente
validi. Si può dire che, per Trentin, il diritto naturale sia funzionale alla tutela della persona umana
nel suo svolgimento storico, nella sua progressione morale attraverso la storia: appunto «il diritto
naturale non può essere la legge della natura
umana che in quanto è la legge del suo indefinito
perfezionamento, dell’evoluzione costante delle
sue facoltà creatrici» (Trentin 2006, p. 256). Si capisce di più l’ammirazione per Rousseau che sosteneva che la natura non “nascit” ex nihilo, essendo,
invece, destinata, non già da Dio ma dal soggetto
politico che vuole costituire l’ordine come quel
luogo in cui ogni individuo trova collocazione adeguata alla sua propria natura: l’itinerario è quello
del perfezionamento progressivo in sintonia con
uno dei principali attributi dell’umano, quello
della perfettibilità (l’altro è la libertà).
Se Rousseau è una delle fonti del naturalismo trentiniano, questo è un naturalismo singolarmente
conforme all’idea di Vico, di un diritto naturale
come «un diritto eterno che corre in tempo»: citando Giorgio Del Vecchio, Trentin ricorda così che
«l’uomo ha già in sé predeterminato il fine, al quale
deve tendere nel suo sviluppo; ed è necessario
nell’esperienza un processo, per il quale egli raggiunga la sua natura e la ‘celebri’, per dirla col Vico,
ossia diventi apparentemente quello che in se
stesso già è» (Trentin 2006, p. 239).
61
n.18 / 2007
Gli Ordini naturali di aggregazione degli
uomini liberi
Il naturalismo di Vico, e (sembrerebbe doversi
pensare) anche quello di Rousseau, non soddisfano tuttavia Trentin quanto ai loro, rispettivi, esiti.
Su Vico disponiamo la testimonianza diretta di
Trentin, il quale valuta che l’auspicio del filosofo,
della costituzione di uno Stato-nazione, auspicio,
in certo senso, necessitato considerata l’epoca
vichiana, «suggella il tramonto delle dottrine pluralistiche e il sorgere e il diffondersi, anche in Italia,
sotto il coperto di un sincero patriottismo, delle
tendenze più pericolosamente statolatriche»
(Trentin 1987, p. 98).
Circa Rousseau, occorre ricordare che questi, se
ammette le “società particolari”, le guarda però
con un certo sospetto giacchè esiste la possibilità
concreta di frequenti conflitti con la società politica (generale): infatti, Rousseau nel Contra tto
socia le (2.1), scrive che «la volontà particolare
tende per sua natura alle preferenze, e la volontà
generale all’uguaglianza». Il che importa la necessità di limitare l’esercizio della “socialità” che si
esprima attraverso le formazioni intermedie, con il
conseguente sacrificio del grado di partecipazione
politica: il pluralismo politico resta così irrimediabilmente fuori dagli orizzonti del ginevrino.
Silvio Trentin ha una visione alquanto diversa, certamente condizionata dalla sua personale esperienza e dall’appropriazione dello Stato da parte
del fascismo. Egli pensa che uno stato a struttura
centralistica più facilmente possa espropriare l’individuo di sé stesso, cioè della sua libertà; e, d’altronde, lo stato centralistico liberal-borghese,
unico interlocutore (e controllore) del cittadino
intraprendente e concorrenziale, finiva, come
avrebbe dimostrato la vicenda storica, con il fornire semplicemente un usbergo a tutto vantaggio dei
più dotati o dei più fortunati, con ciò perpetuando
le diseguaglianze tra gli uomini a cominciare dal
loro (inevitabilmente diverso) livello economico. Il
diritto naturale, id est la naturale aspirazione dell’uomo a realizzarsi liberamente in societa te, tra gli
altri e con gli altri, esige che il singolo non operi
come una monade isolata, ma in cooperazione virtuosa con i suoi simili attraverso la costituzione di
istituzioni o Ordini autonomi, di cui i singoli siano
direttamente partecipi e non meri deleganti.
62
Tramite queste autonomie è assicurato l’obiettivo
della disarticolazione del potere e, dunque, la massima libertà possibile in un sistema giuridico che,
riconosce Trentin, inevitabilmente pone dei vincoli all’azione umana: così gli individui e i gruppi vengono ad essere titolari in pa rtibus del potere e lo
esercitano come naturalmente compete all’uomo
che è padrone di sé stesso, della sua persona, della
sua libertà. Questi uomini liberi in tal guisa cooperanti e cooperativi, esplicando il potere che loro
appartiene, giungono essi stessi alla meta dell’autonomia, «di stabilire positivamente le condizioni
per la costruzione, per la realizzazione del Diritto»
(Trentin 2006, p. 218).
La territorialità degli Ordini
Infine, della questione, nel pensiero giuspolitico di
Silvio Trentin, del legame tra democrazia e territorio ovvero tra libertà e territorio ovvero tra diritto
e territorio. L’opzione metodologico-giuridica in
favore del pluralismo delle fonti del diritto (alla
Capograssi, per intendersi) è preparatoria (dunque, congrua) rispetto all’idea fondante che i «centri di vita collettiva generati dalla collaborazione
spontanea delle attività individuali», gli Ordini o
autonomie anche minime, siano in pa rtibus titolari del potere decisionale e così fonti di produzione
giuridica: poteri, decisioni, diritto assolutamente
condivisi (si direbbe oggi) in quanto «l’origine
delle competenze giuridiche» si colloca «non nella
forza legittimata dal suo uso, ma nel libero consenso, nell’accordo delle volontà» (Trentin 2006,
p. 219).
Ora è evidente che l’auspicata partecipazione di
qualunque cittadino alle istituzioni si può conseguire realisticamente (e pure proficuamente) a
livello locale, cioè sul territorio o sui territori: il
diritto che ne scaturisce, espressione diretta della
natura sociale dell’uomo, è autentico diritto naturale, secondo Trentin, il quale anche attraverso
questo suo insistere sulla spontaneità della partecipazione agli Ordini e della loro incessante produzione normativa adeguatrice (alla progressiva
liberazione o, se si vuole, al progressivo perfezionamento dell’individuo) si dimostra fautore di un
giusnaturalismo che si fa nella storia (indubbiamente secondo la prospettiva vichiana).
Le radici della democrazia occidentale, che radica-
Umberto Vincenti
Natura, diritto e territorio ne “La crisi“ di Silvio Trentin
no, a loro volta, nella tradizione le autonomie trentiniane, stanno appunto in quel «regime inventato
duemila anni fa dalle piccole società cittadine della
Grecia» (Trentin 2006, p. 445) a cui si è ispirato
(oltre le sue dichiarazioni) Silvio Trentin: «è proprio dello spirito latino,» - scrive appunto ne La
crisi (Trentin 2006, p. 303) - «le cui leggi derivano
dalla incomparabile eredità greco-romana, fondare
la conoscenza sulla ragione, tendere incessantemente a trarre, dal mondo empirico delle attività
coscienti, dei valori per quanto possibile fermi ed
immutabili, essere portato a collocare nella natura
umana la fonte di ogni legge sociale, a garantire
alla persona individuale, anche nel mezzo dei flutti più tumultuosi della vita collettiva, gli attributi
inviolabili dell’essere libero e ad organizzare il
potere politico come strumento votato a favorirne
l’indefinito perfezionamento».
Il legame con il territorio emerge con maggiore
chiarezza e incisività in Libera re e Federa re ove lo
stato di domani appare consegnato soprattutto alla
vitalità ‘naturale’ di quelle «collettività territoriali» costituite nelle relazioni «tra le persone che coabitano il territorio ch’esse circoscrivono» - che la territorialità stessa ha condotto, nei secoli, «a differenziarsi nelle manifestazioni delle loro abituali
attività e nella disciplina dei rapporti sociali relativi
al soddisfacimento dei loro più immediati e
costanti bisogni» (Trentin 1987, p. 284).
Questa inevitabile (perché necessitata) territorialità delle autonomie trentiniane, questo attaccamento, questo radicamento al territorio manifestati da Silvio Trentin lo pongono in contraddizione
con quanto egli (incidentalmente) scrive ne La
crisi (Trentin 2006, p. 250 e s.) scagliandosi contro
«quei profeti» che esaltano «la rivincita delle forze
terrene, delle forze telluriche»? Forse no, perché la
dimensione terranea qui esecrata ha matrice ideologica antitetica a quella di Trentin. Ma è pur vero
che il legame tra territorio, confine e diritto è stato
(magnificamente) teorizzato da un giurista come
Carl Schmitt, ne Il nomos della terra (pubblicato
nel 1950, ma la Dottrina della costituzione è del
1928). Ed è ancora vero che, ne La crisi , Trentin
descrive reiteratamente la forma-diritto come tracciata da un limite, da un confine appunto, circoscrivente un territorio etico e giuridico intriso di
politicità umana (e in ciò non è poi così lontano da
Schmitt). Per esempio (Trentin 2006, p. 155 e s.)
egli scrive: «La regola di diritto, in effetti, considera sempre la condotta di un soggetto in rapporto
ad altri soggetti. Essa si definisce come una delimitazione delle competenze individuali. Se il limite
che definisce venisse infranto, ne risulterebbe
un’invasione della sfera di libertà da essa riconosciuta ad ogni soggetto; il potere, di cui il soggetto
è investito per il fatto che la sfera di libertà gli
appartiene, cesserebbe di esistere come potere
giuridico se non comportasse la possibilità di
respingere la trasgressione». Passaggi interessanti
metodicamente, che postulano un’interpretazione
che li chiarisca. Come pure sarebbe da chiarire
quell’affermazione per cui «il legame territoriale
non può più essere sufficiente a qualificare i rapporti tra gli uomini né a differenziare l’esercizio
delle prerogative della loro natura comune»
(Trentin 2006, p. 456): è abbastanza evidente la
contraddizione con l’assoluto rilievo che Trentin
attribuisce agli Ordini autonomi che altro non possono essere se non territoriali.
L’uomo del territorio
In sintesi: lo stato nazionale moderno, secondo il
modello risalente a Hobbes, è per definizione
negatore dell’autonomia dell’individuo e dei suoi
ordini naturali di aggregazione spontaneamente
insorgenti sul territorio; ed esso dovrà pertanto
essere superato disarticolandone il potere monopolisticamente detenuto.
Penso che non sia azzardato concludere sostenendo che (anche) per Trentin il nuovo ordine (o l’evoluzione del vecchio?), certamente la salvezza,
restano affidati all’’uomo del territorio’ che, si
potrebbe aggiungere, avrà la missione di sconfiggere l’’uomo globale’ (o, secondo la potente metafora schmittiana, l’’uomo del mare’): siamo così
catapultati nel dramma della (nostra) modernità.
La crisi di Trentin, di questo professore veneto di
una Regia Università, può, anzi deve, essere tenuta
presente nel laboratorio del pensiero giuspolitico
per quanto si è fin qui osservato, e per quant’altro
si sarebbe potuto osservare e che altri osserverà;
soprattutto, pare a me, perché questo giurista ha
capito che non si possono pensare davvero nuovi
paradigmi giuridici e politici se non vi sia perfetta
padronanza (e rimeditazione) della grande tradizione che ci precede (anche se vi sono delle omis-
63
n.18 / 2007
sioni importanti come per l’opera eccelsa di un
altro veneto, Marsilio da Padova). Trentin se deve
essere accorto negli anni della sofferenza in quanto questo dialogo, questo confronto con la tradizione è del tutto assente nel suo Corso di istituzioni di diritto pubblico degli anni 1923-1926. Tale
è dunque il messaggio di maggior spessore che ci
viene da Silvio Trentin e, traverso di lui, da
Giuseppe Gangemi.
Riferimenti bibliografici
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Foedus, pp. 68-81;
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64
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Rizzi, L. (1997), Libera lismo etico e religione civile in Roussea u , Franco Angeli, Milano;
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Trentin, S. (1926) Corso di istituzioni di diritto
pubblico, Draghi, Padova;
Trentin, S. (1987), Federa lismo e libertà . Scritti
teorici 1935-1943, a cura di N. Bobbio, Marsilio,
Venezia;
Trentin, S. (2006), La crisi del Diritto e dello Sta to,
a cura di G. Gangemi, Ed. Gangemi, Roma.
Umberto Vincenti è professore ordinario di istituzioni di diritto romano all’Università di Padova.
Coordina il laboratorio di metodologia giuridica
La w a nd Argumenta tion .
Sito Web: lawargumentation.giuri.unipd.it
Elio Franzin
Giusnaturalismo e federalismo nella “Crisi del
Diritto e dello Stato” di Silvio Trentin
Focus: Silvio Trentin
La “conver sione” a l feder a lismo
È comprensibile che Oliviero Zuccarini, il federalista fondatore già nel 1921 de “La Critica politica”,
davanti al volume “Stato – Nazione - Federalismo”
abbia definito il passaggio e l’evoluzione di Silvio
Trentin al federalismo avvenuto negli anni Trenta,
una “conversione vera e propria”. Zuccarini citò
nel suo articolo dell’agosto-settembre 1947 della
rinata rivista le parole pesanti che Trentin aveva
usato, nel suo discorso inaugurale “Autonomia –
Autarchia – Decentramento” pronunciato nel
novembre 1924 a Ca’ Foscari, contro il regionalismo e il federalismo. Proprio contro Zuccarini,
Silvio Trentin aveva accademicamente affermato
“l’inoppugnabile concetto della indivisibilità del
potere sovrano dello Stato”. Ed aveva contemporaneamente respinto le tesi relative allo Stato di
Louis Duguit, un giurista francese con le cui teorie
avrebbe fatto poi i conti durante il suo lungo e sofferto esilio francese (Zuccarini 1947, pp. 280-285).
Per la verità se proprio di conversione di Trentin al
federalismo si vuole parlare, sarebbe opportuno
ricordare che alla conversione, avvenuta negli anni
Trenta, Trentin arrivò con dei precedenti autonomistici di teoria e pratica del principio della sussidiarietà piuttosto robusti costituiti dai suoi studi
sulla autonomia comunale, sui consorzi di bonifica, dalla elaborazione dello statuto dell’Istituto
autonomo per la lotta contro la malaria e dalla sua
attività parlamentare e professionale per lo svilup-
po delle piccole e medie industrie, dalla collaborazione con l’Istituto federale di credito per il risorgimento delle Venezie “esempio tipico di self
government regionale”, dalla creazione dell’Ente
di ricostruzione e rinascita agraria delle province di
Venezia e di Treviso (Trentin 1984, pp. 346).
A parte i precedenti decentratori, autonomistici e
comunalistici, la conversione al federalismo di
Trentin fu certamente stimolata non soltanto da
quanto stata accadendo agli inizi degli anni Trenta
nelle repubbliche parlamentari europee ma anche
dal dibattito fra le forze politiche dell’emigrazione
antifascista in Francia proprio in materia di federalismo.
Nell’aprile del 1931 il Partito comunista d’Italia
nelle sue “Tesi e risoluzioni” aveva indicato come
suo obbiettivo quello della Federazione della
Repubbliche Socialiste e Soviettiste d’Italia, costituita da quattro repubbliche: del Nord, del
Mezzogiorno d’Italia, della Sicilia e della Sardegna
assicurando alle minoranze nazionali “il diritto di
disporre di sé stesse fino alla separazione” (Il IV
congresso del Partito comunista 1931, pp. 32-33).
Bisogna però ricordare anche che Palmiro
Togliatti, con il suo rapporto al V congresso nazionale del PCI del 29 dicembre 1945, ha completamente rimosso le dichiarazioni federaliste del congresso precedente dichiarando: ”Non siamo federalisti; siamo contro il federalismo”. Ed aggiungendo: ”Il nostro regionalismo però, e lo diciamo
apertamente, ha dei limiti” (Togliatti 1945, p. 54).
65
n.18 / 2007
Questa affermazione di Togliatti, abbastanza sorprendente in un sedicente leninista legato
all’URSS, uno Stato che si dichiarava federalista,
deve essere inquadrata nell’ambito della difesa
delle frontiere dello Stato italiano che fu l’obbiettivo di tutti i governi di unità nazionale antifascista.
Vi era inoltre una seria preoccupazione che il federalismo potesse giustificare il separatismo siciliano
e sardo di ispirazione reazionaria. Togliatti tuttavia
si dichiarò per l’abolizione dei prefetti e per la loro
sostituzione con funzionari eletti su scala provinciale o regionale.
Nel gennaio 1933 l’organizzazione “Giustizia e
libertà” pubblicò il suo programma nel quale si
affermava, fra l’altro: ”L’organizzazione del nuovo
Stato dovrà basarsi sulle più ampie autonomie. Le
funzioni del governo centrale dovranno limitarsi
alle sole materie che interessano la vita nazionale.
Il principio dell’autonomia è uno dei principi direttivi del movimento rivoluzionario Giustizia e
Libertà” (Quaderni di Giustizia e libertà, 1933).
Emilio Lussu dedicò al federalismo di tipo regionalista ma nettamente antiseparatista un saggio sui
“Quaderni di Giustizia e libertà” del marzo 1933.
Nel luglio dello stesso anno Ruggero Grieco, un
autorevole dirigente del Partito comunista d’Italia,
motivò, in un suo articolo apparso su “Lo Stato
operaio”, il federalismo dei comunisti con “lo
scopo di allargare al massimo la base del potere
futuro degli operai e dei contadini” (Grieco 1966,
pp. 392-401).
Il lungo soggiorno di Lussu ad Auch, una località di
cura per le malattie polmonari, dove Trentin lavorava in una tipografia, ebbe luogo appunto nell’inverno 1933-34. Trentin stava scrivendo l’opera teorica della conversione o della svolta “La crisi del
Diritto e dello Stato”, completata nel 1935 quando
egli aveva 50 anni (Fiori 1985)
Nella prima fase del suo esilio nel sud della Francia
Trentin si era dedicato all’azione politica antifascista ed alla pubblicazione di opere in cui aveva sviluppato la sua analisi dei caratteri dello Stato italiano prefascista e del fascismo.
Pubblica cinque opere: “L’avventura italiana.
Leggende e realtà” (1928); “Le trasformazioni
recenti del diritto italiano. Dalla Carta di Carlo
Alberto alla creazione dello Stato fascista” (1929);
“L’antidemocrazia” (1930); “Alle origini del fascismo” (1931); “Il fascismo a Ginevra” (1932).
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È ancora sostanzialmente un liberale illuminato,
ma certo non liberista, passato su posizioni repubblicane.
La svolta si manifesta nel 1933 con la pubblicazione delle sue “Riflessioni sulla crisi e sulla rivoluzione”, un saggio politico-programmatico.
“La crisi del Diritto e dello Stato” è un’opera che si
colloca invece sul piano della filosofia del diritto. È
rivolta ai giuristi e non ai militanti politici. Ma
risponde anche alla consapevolezza della insufficienza di un programma politico non motivato e
sostenuto sul piano filosofico.
Nelle conclusioni de “La crisi del Diritto e dello
Stato” Trentin si pone come l’interprete dell’autonomia, già affermata come principio direttivo nel
programma di “Giustizia e libertà”. Trentin accetta il programma di “Giustizia e libertà” ma lo sviluppa e lo definisce in modo molto originale.
L’autonomia si realizza, sul piano collettivo,
mediante il federalismo delle basi istituzionali
dello Stato nazionale (Trentin, 2006, 463).
Negli anni successivi, nel suo “Abbozzo” di un
piano di Costituzione, Trentin ha indicato le basi
istituzionali dello Stato federale nei consigli dei
centri di vita collettiva (le opere, le imprese, le
aziende, i Comuni, le Regioni).
Trentin nel capitolo settimo de “La crisi” espone
anche la sua nuova interpretazione del capitalismo
fondata sulle categorie del capitale finanziario, del
monopolio, del capitalismo di Stato, dell’economia diretta o programmata.
Egli era stato un osservatore attento dell’intervento dello Stato nella crisi economica tedesca ma la
sua attenzione è diretta anche alle vicende del
fascismo italiano che nel gennaio 1933 fonda l’IRI
affidandone la direzione al Alberto Beneduce, personalità a lui ben nota anche come partecipante al
congresso regionale delle bonifiche di San Donà di
Piave del marzo 1922. Con la creazione dell’IRI lo
Stato italiano, mediante un grandioso piano di salvataggio delle grandi imprese, assunse sostanzialmente la direzione della vita economica del paese
(Grifone 1971, pp. 104-105).
Con l’opera “La crisi del Diritto e dello Stato”
Trentin affronta il problema dei fondamenti e della
natura del diritto, dei caratteri dello Stato da
costruire dopo la caduta del fascismo. Ma, nel capitolo settimo, dedicato ad “Alcuni aspetti della crisi
del Diritto e dello Stato” riespone la sua interpre-
Elio Franzin
tazione delle contraddizioni della società capitalistica e del rapporto fra i monopoli e lo Stato già
contenuta nelle “Riflessioni”, aggiorna la sua analisi del fascismo dopo la fondazione dell’IRI al
quale dedica anche una lunga nota. L’attenzione di
Trentin è rivolta al discorso di Mussolini del 26
maggio 1934 in cui il dittatore aveva dichiarato di
essere in condizione di introdurre in Italia il capitalismo di Stato, come in effetti stava facendo.
Ai fini della comprensione della nuova fase del
fascismo Trentin, pur non essendo affatto un marxista e neanche un materialista, aderisce ad alcune
analisi e tesi di carattere economico di Lenin contenute nelle opere “L’imperialismo fase suprema
del capitalismo”, di cui sottolinea la profondità,
“Lo sviluppo del capitalismo in Russia”, il
“Contenuto economico del populismo”.
Lenin ha sostenuto la tesi, sulla base di numerose
opere di studiosi tedeschi e inglesi, che dopo il
1870 si è aperta in Europa una nuova fase della storia del capitalismo caratterizzata dal dominio del
capitale finanziario, dalla formazione dei monopoli e dall’abbandono della libera concorrenza.
Trentin nel saggio della sua svolta politica del 1933
“Riflessioni sulla crisi e sulla rivoluzione” dimostra
di conoscere molto bene le opere sulla economia
programmata e in particolare si serve dell’opera di
Otto Ruhle, l’unico socialdemocratico tedesco che
il 20 marzo 1915, assieme a Karl Liebknecht, ha
votato contro il bilancio di guerra.
Ruhle era un marxista eterodosso rispetto ai partiti della sinistra tedesca, nel 1932, con lo pseudonimo di Carl Steuermann pubblicò “La crisi mondiale o verso il capitalismo di Stato” (Steuermann
1932). Ruhle aggiorna le tesi di Lenin sulla nuova
fase della storia del capitalismo sulla base dei suoi
sviluppi in Germania (Liebknecht e Luxemburg
1967, p. XXIII; Ruhle 1972).
Trentin ne accetta sostanzialmente le tesi sulle
cause e sui meccanismi della crisi. Inoltre egli condivide anche l’affermazione di Ruhle sull’esistenza
di vari tipi di passaggio al capitalismo di Stato ma si
differenzia nella descrizione della tipologia dei passaggi. Egli individua tre tipi di capitalismo di Stato,
quello sovietico, quello nazifascista, e un terzo tipo
rispettoso dell’autonomia delle istituzioni di base
che sarà quello della rivoluzione antifascista italiana e verso il quale potrebbe evolversi l’URSS.
Trentin non era un economista. Le sue posizioni in
“Crisi del Diritto e dello Stato” di Silvio Trentin
materia economica dal 1933 fino al 1942, l’anno in
cui scrive “Liberare e federare”, rimangono sostanzialmente immutate. I tre autori a cui fa riferimento sono, fra gli altri, Marx, Lenin, Ruhle.
Agli inizi de “La crisi del Diritto e dello Stato”,
stampata nel 1935 ma con l’ introduzione scritta da
Francois Geny già nel 1934, Trentin si pone orgogliosamente davanti alla crisi internazionale del
Diritto e dello Stato affermando che essa ha coinvolto il mondo dei giuristi caratterizzato sia da una
forte anarchia e diversità dei linguaggi sia dalla
incomprensione dei cambiamenti le quali però
non hanno turbato i fondamenti immanenti del
Diritto. Secondo Trentin, esiste, oltre la crisi, un
processo di accelerazione del movimento democratico che tende a far emergere, anche dal punto
di vista legislativo, l’autonomia dei centri unitari di
coscienza collettiva.
L’autonomia, che è il potere di dare le leggi a se
stessi ed il valore essenziale al quale si richiama
l’individualismo, pone sotto la sua influenza strati
sempre più vasti della vita sociale.
Vi è una notevole diversità fra la valutazione iniziale, da parte di Trentin, della crisi contenuta nel
primo capitolo e quella finale espressa nell’ultimo
capitolo, l’ottavo. Si potrebbe perfino parlare di
due valutazioni diverse, sia pure non contraddittorie, della crisi. La diversità è dovuta in parte al fatto
che Trentin, nella fase iniziale dell’opera, minimizza polemicamente l’importanza della crisi riaffermando orgogliosamente davanti ad essa la validità
delle sue posizioni sulle fonti del diritto, sulla
nozione di esso, sullo Stato, sul diritto sociale e
quello individuale (quelle di un filone del giusnaturalismo che ha come suoi esponenti Hugo
Grotius, Kant, Rousseau ed infine anche Francois
Geny), criticando le posizioni espresse da altre
tendenze filosofiche, e in particolare quella del
positivismo e del formalismo giuridico rappresentata da H. Kelsen.
Trentin nel primo capitolo afferma che la crisi
tocca soltanto le superfetazioni arbitrarie dell’ordinamento giuridico.
È innegabile che nel settimo capitolo, nei paragrafi settimo ed ottavo, della “Crisi” Trentin sposti la
sua analisi dal campo degli orientamenti filosofici
dei giuristi, cioè dalle conseguenze soggettive
della crisi, a quello delle cause oggettive della crisi
e cioè al capitalismo finanziario e di Stato che gli
67
n.18 / 2007
appare come dominante sia i regimi totalitari e
autoritari di massa sia le grandi democrazie parlamentari.
Trentin sottolinea nel capitolo settimo de “La crisi”
la profondità delle osservazioni di Lenin nel suo
“Saggio popolare”, “L’imperialismo come fase
suprema del capitalismo”, un’opera nella quale
Lenin dimostra che dopo il 1873 si è aperta una
nuova fase della storia del capitalismo. L’antico
capitalismo della libera concorrenza si è trasformato nel capitalismo monopolistico e finanziario.
Lenin si serve anche di dati statistici e di pubblicazioni sulla Germania, un paese verso il quale l’attenzione di Trentin era molto alta per varie ragioni, i suoi pregiudizi di interventista, i suoi studi giuridici, la vittoria del nazismo ecc. È certo che nella
evoluzione dalla prima alla seconda analisi e nella
valutazione della crisi hanno avuto un ruolo
importante gli avvenimenti politici ed economici
verificatisi a livello internazionale durante la composizione dell’opera: la crisi degli USA, la repressione antioperaia a Vienna, la nomina di Hitler a
cancelliere in Germania il 30 gennaio 1933, le agitazioni della destra francese, le difficoltà economiche del fascismo italiano.
L’obbiettivo principale de “La crisi del Diritto e
dello Stato” non è ancora l’esposizione del sistema
federalista, che sarà l’oggetto di opere successive,
ma piuttosto la motivazione del fondamento, del
presupposto del federalismo: l’affermazione della
validità della teoria dell’autonomia delle persone,
dei gruppi sociali e degli enti territoriali sulla base
del giusnaturalismo.
Trentin è consapevole che senza la motivazione,
senza il fondamento giusnaturalistico il principio
dell’autonomia è troppo debole davanti allo Stato
monocentrico, accentratore e autoritario.
Il pr incipio dell’a utonomia
Già nel 1933, nel capitolo diciottesimo del suo saggio “Riflessioni sulla crisi e sulla rivoluzione”, che
segna la sua svolta politica, Trentin afferma che il
nuovo ordinamento statale deve essere subordinato al principio dell’autonomia: ”Autonomia del cittadino; autonomia dell’imprenditore; autonomia
dell’azienda; autonomia del sindacato; autonomia
delle collettività territoriali” (Trentin, 1985, p. 212).
Ne “La crisi” la posizione politica è la stessa del sag-
68
gio del 1933 e viene riconfermata, con una citazione molto lunga del capitolo diciottesimo delle
“Riflessioni”, nelle conclusioni contenute nel capitolo finale. Lo stesso brano viene citato nella conclusione d’opera successiva “Stato, Nazione,
Federalismo” (1942).
Trentin vuole evidentemente sottolineare la
coerenza e la continuità delle sue posizioni politiche dal 1933 in poi. Quello della sua coerenza è un
problema al quale egli si mostra molto sensibile
probabilmente in relazione alla notevole modifica
delle posizioni che aveva espresso, negli anni precedenti all’esilio, di esaltazione del ruolo dei
Comuni ma di rifiuto netto delle Regioni.
Nella “Crisi” Trentin ha l’obbiettivo di porre la premessa fondativa del federalismo che è l’affermazione dell’autonomia quale unica ed esclusiva
fonte del diritto.
Il federalismo come posizione politica ha bisogno
di un fondamento e di un sostegno filosofico. È
probabile che Trentin si rendesse conto dell’isolamento sostanziale nel quale si trovava il federalismo sia nel campo delle forze politiche dell’emigrazione antifascista italiana sia nella vita politica e
parlamentare della Francia.
L’autonomia, che è il valore essenziale al quale si
richiama l’individualismo, pone sotto la sua
influenza strati sempre più vasti della vita sociale.
L’autonomia da attributo esclusivo della persona
individuale tende incessantemente a mutarsi in
attributo di ogni essere sociale giunto a realizzare
una propria individualità organica.
Questo allargamento del campo di applicazione
dell’autonomia può essere visto come una grande
rivoluzione che non infrange mai il diritto il quale
ha come scopo la realizzazione della giustizia.
Per questa rivoluzione dell’autonomia che è in
atto, Trentin elabora anche un programma economico e sociale il quale è subordinato, strumentale
rispetto alla realizzazione del principio dell’autonomia. Trentin non è né un positivista né un economicista.
A proposito dell’URSS, Trentin, pur facendo proprie e riproponendo anche per l’Italia le parole
d’ordine della Rivoluzione d’ottobre, afferma nelle
“Riflessioni” che è impossibile transigere con il
metodo della libertà: “perché le esigenze di questo
sono e restano categoriche ed irreduttibili”
(Trentin, 1985, p. 126).
Elio Franzin
Nella “Crisi” aggiunge che: ”a Lenin doveva essere
riservato il compito di fondare lo Stato più rigidamente monocentrico, il più autoritario che mai
l’Europa civilizzata abbia conosciuto” (Trentin
2006, p. 185).
Trentin è perfettamente consapevole delle contraddizioni emerse fra gli obbiettivi della
Rivoluzione d’ottobre e lo Stato sovietico.
Quali sono le fonti del diritto? Il fondamento del
diritto è la natura dell’essere umano il quale è un
essere autonomo che ha dentro di sé la legge morale, postulato della ragione, la quale, secondo Kant,
è il fondamento di ogni legislazione possibile. La
natura umana è un principio. L’esercizio della
ragione da parte dell’essere umano implica l’autonomia cioè il potere di dare le leggi a se stessi.
L’uomo è un essere sociale. La natura umana
impone la riunione degli uomini in società. Questo
è il significato della teoria del contratto sociale elaborata da Rousseau e da Kant.
Secondo Trentin, lo Stato di Rousseau è l’ordinamento esemplare, conforme alla natura ragionevole dell’uomo, in rapporto al quale si deve giudicare ogni ordinamento storico concreto, positivo.
Rousseau si è dibattuto nelle contraddizioni più
aperte ma con la sua opera l’individuo fu elevato
nell’ambiente sociale come una unità che, per sua
natura, rivendica l’autonomia.
Rousseau e Kant sono dunque indicati da Trentin
come i due teorici dell’autonomia, oltre a Grotius
il quale, grazie alla visione profonda, ha individuato alcuni attributi universali della persona umana
ed ha così consentito di concepire il gruppo
umano, la totalità, non come trascendente ma
come immanente rispetto ai suoi membri.
Grotius e i giusnaturalisti del XVII secolo hanno
affermato che i doveri e i diritti degli uomini non
sono rinchiusi nei limiti della legge positiva o della
rivelazione ma sono fondati su determinati attributi universali della persona umana, sulla natura
umana e cioè sull’immanenza dell’essere e quindi
hanno distrutto i fondamenti dell’ordine dello
Stato nazionale.
Il diritto non è soltanto un fatto sociale. Esso è la
realizzazione dell’imperativo supremo che regola il
destino sociale, l’imperativo che obbliga gli uomini a entrare in rapporto fra di loro adeguandosi alle
loro esigenze di natura spirituale.
Le norme mediante le quali il diritto si realizza sto-
“Crisi del Diritto e dello Stato” di Silvio Trentin
ricamente dovrebbero essere caratterizzate dall’elemento essenziale della instaurazione di un regime sociale che è un regime di diritto solo in quanto consacra e garantisce contro qualsiasi attentato
il valore della persona e l’equivalenza dei soggetti.
Come scrive Kant, l’uomo non può essere destinato all’ineguaglianza giuridica poiché è dotato, per
sua natura, di libertà e di ragione.
Ma l’uomo arriva molto lentamente a prendere
coscienza della sua natura ragionevole.
A fianco del Diritto vero qualsiasi norma obbligatoria di fatto si pone come norma di Diritto vero. Il
“Diritto di fatto“, il cosiddetto diritto positivo è soltanto un insieme dei sistemi delle norme sociali in
vigore, in un dato momento storico. Ma il diritto
positivo non ha mai potuto sottrarsi al dominio del
Diritto “vero”, quello rispondente alla natura dell’uomo.
Secondo Trentin, i fattori economici, cioè la proprietà privata, hanno avuto un ruolo nefasto nell’organizzazione della vita sociale.
Non può esservi mai opposizione o contraddizione
fra la morale e il Diritto. Il fondamento della morale
e del diritto è lo stesso. Il Diritto è altrettanto assoluto e immutabile della morale quando è visto come
essa nella sua ragion d’essere immanente. Il Diritto
instaura la giustizia. La giustizia è il principio di
razionalizzazione dell’imperativo etico che è il principio interente al Diritto. È attraverso l’idea della
giustizia che l’uomo raggiunge la nozione del
Diritto. La nozione di uguaglianza nel suo significato generale è alla base del principio della giustizia.
Dal punto di vista della giustizia la società non è di
per sé una realtà morale suscettibile di costituirsi
come principio e di definirsi come fine autonomo.
Questa visione del rapporto fra la giustizia e la
società è il presupposto e il fondamento delle
riforme radicali: la terra ai contadini, le fabbriche
agli operai, le banche e il commercio allo Stato, le
limitazioni della proprietà privata, indicate da
Trentin come obbiettivi della rivoluzione antifascista italiana nelle sue “Riflessioni” del 1933.
La realtà giuridica è una realtà metafisica. Poiché il
valore ha un carattere extratemporale di immanenza, esso si oppone alla realtà empirica. Per
Trentin il concetto di Diritto va stabilito riallacciandolo al dato etico fondamentale grazie al quale
si stabilisce il valore immanente della natura
umana in quanto natura ragionevole.
69
n.18 / 2007
Il Diritto è sostenuto nella vita sociale dall’Ordine
che la cui proiezione nella realtà è lo Stato. Trentin
afferma la necessità dello Stato inteso come:
”l’Ordine degli ordini, l’organizzazione completa,
finita, chiusa, che abbraccia sia gli ordini esistenti
sia quelli che potrebbero esistere, l’autonomia
suprema alla quale si rifanno tutte le autonomie
individuali o collettive” (Trentin 2006, p. 178)
E rifiuta le teorie della società senza Stato ritenendo che l’esigenza dello Stato emerga anche negli
scritti di Marx, Engels, Lenin malgrado le loro ripetute affermazioni a favore dell’estinzione dello
Stato.
Trentin definisce lo Stato anche ordine delle autonomie (Trentin 2006, p. 198).
Lo Sta to monocentr ico, a ccentr a tor e, a utor ita r io
È molto significativo che lo Stato “monocentrico,
accentratore, autoritario”, appena accennato nella
“Crisi”, che è, nelle opere successive, individuato
come la negazione assoluta dello Stato federalista,
emerga in relazione all’URSS vista come Stato
dell’“esercizio autoritario di un potere puramente
politico” (Trentin 2006, p. 187).
Trentin riconosce che certi aspetti fissi e storici
dello Stato borghese sono caduchi come anche la
struttura dello Stato sovietico ma afferma che lo
Stato come “sintesi delle esigenze che condizionano l’esistenza di ogni collettività storica” è eterno.
Lo Stato come tentativo di realizzazione del Diritto
può esistere solo nell’ambito e per la Società. E
quindi esso per non rendersi completamente
estraneo alla Società deve sempre più organizzarsi
come un “ordine delle autonomie”: l’autonomia
collettiva, come l’autonomia individuale, non è
antitesi o negazione dello Stato. Le comunità soggiacenti sono in fondo autonomie istituzionali la
cui esistenza rimane subordinata alla loro integrazione nello Stato. L’autonomia istituzionale è l’elemento costitutivo dello Stato, un ordine da integrare. La ragion d’essere dello Stato si colloca nel
coordinamento di tutti gli ordini mediante il
Diritto e nel Diritto. Se lo Stato cessa di essere l’ordine supremo di integrazione, allora si impone
l’ordine imposto dalla forza che finisce per piegare
alle sue esigenze l’organizzazione statale. Secondo
Trentin, questa è la situazione paradossale dello
70
Stato capitalista “in cui precisamente i poteri giuridici si identificano con i poteri conferiti della disuguaglianza nell’usufruire dei beni economici”
(Trentin 2006, p. 200).
Lo Stato non potrà mai costituirsi come “un vero
ordine di integrazione” finché la disuguaglianza economica resterà la base dei rapporti intersoggettivi.
La crisi del dopoguerra è la crisi dello Stato capitalista dovuta al fatto che il problema dello Stato non
può essere risolto con la sua subordinazione alle
forze sociali dominanti.
Per Trentin “Lo Stato non può essere concepito
che come il regime delle autonomie, cioè come un
regime che, pur conservando circa la sua ragione
d’essere una carattere rigidamente monista, rimane nello stesso tempo essenzialmente pluralista
circa la sua struttura, la sua costituzione organica”
(Trentin 2006, pp. 202-203).
L’organizzazione positiva dello Stato ha come principio ispiratore la democrazia.
Trentin non è un apologeta acritico della democrazia politica parlamentare. Ne vede tutta l’incompletezza e le enormi e costanti contraddizioni.
Egli afferma che ”lo Stato democratico è ben lontano dall’aver realizzato la sua espressione positiva”.
Ogni sforzo di realizzazione integrale dell’ordine
democratico: ”sarà fatalmente votato alla sconfitta,
come è sempre accaduto finora, finché l’integrazione da parte dell’ordine dello Stato della più
grande misura di giustizia egualitaria non si opererà sul piano sociale altrettanto che su quello politico, finché l’uomo non sarà liberato prima di tutto
da ogni potere di dominio economico, da ogni
situazione che permetta l’asservimento di una classe da parte delle altre” (Trentin 2006, p. 223).
La democrazia deve essere completa e quindi politica ma anche sociale.
Il programma di riforme economiche di Trentin
realizza la democrazia economica e sociale.
Il giusna tur a lismo come fonda mento del
feder a lismo
Nel capitolo quinto Trentin affronta finalmente, in
modo organico, la questione del diritto naturale
che è centrale ne “La crisi”. La dottrina del contratto sociale di Rousseau rimane indistruttibile nella
sua portata essenziale. Lo Stato è la sola istituzione
che può soddisfare le esigenze della natura morale
Elio Franzin
dell’uomo come vengono rivelate dalla ragione. Lo
Stato, secondo Rousseau, non sarà mai razionalmente legittimo se non si organizzerà come se
fosse scaturito da un contratto. Il Diritto è la legge
naturale dell’uomo. La ragion d’essere del Diritto è
collocata proprio nella caratteristica della persona
umana di essere depositaria di un valore assoluto.
La ragione del Diritto è al di sopra della ragione
delle leggi. Il fenomeno del Diritto rimane sconosciuto al di fuori del Diritto naturale. “Il diritto
naturale è il Diritto puro e semplice, la legge della
vita sociale che ha la sua fonte nel carattere assoluto del valore che appartiene, per la sua stessa
natura, alla persona umana” (Trentin 2006, p. 238)
Trentin critica gli antichi giusnaturalisti che hanno
confuso la natura metafisica dell’uomo, la sua
natura immanente e ragionevole, con quella fisica.
Il Diritto naturale affiora alla superficie del Diritto
positivo molto lentamente e molto confusamente.
“Lo studio della storia, ben lungi dal dimostrare
l’inconsistenza del Diritto naturale, conduce indiscutibilmente alla constatazione che solo il Diritto
naturale permette di comprendere e di qualificare
il Diritto positivo” (Trentin 2006, p. 244).
Senza il punto di riferimento costituito dal Diritto
naturale non può essere formulato nessun giudizio
sulla giustizia delle leggi umane, sulla loro legittimità. È dai principi del Diritto naturale che si sono
dedotte direttamente le regole classiche del diritto
internazionale e le garanzie costituzionali della
libertà politica. Al di là dei loro limiti, Grotius e i
giusnaturalisti hanno dimostrato che per valutare i
regimi delle società umane bisogna paragonarli con
regole eterne ed immutabili che sono conformi alla
ragione ed alla natura dell’uomo. La persona è il
valore supremo. Ogni diritto positivo postula il
diritto naturale. Trentin, ammiratore di Benedetto
Croce, ne respinge tuttavia l’ironia sul Diritto naturale la cui realizzazione, secondo il filosofo napoletano, comporterebbe la fine della storia. Il Diritto
naturale è la legge del perfezionamento indefinito,
dell’evoluzione costante dell’umanità. Il diritto
naturale comporta: ”un nocciolo di principi che stabiliscono le condizioni secondo le quali può operarsi quel giudizio di valore implicito in ogni norma
di Diritto” (Trentin 2006, p. 257).
Il feticismo della legge, del diritto positivo è stato
un riflesso del feticismo dello Stato monocentrico,
accentratore.
“Crisi del Diritto e dello Stato” di Silvio Trentin
Giuseppe Ga ngemi e i due modelli di feder a lismo
“La crisi del Diritto e dello Stato” è stata pubblicata in italiano soltanto nel 2006 a cura di Giuseppe
Gangemi, il quale è autore anche di una serie di
monografie sui federalisti di alcune importanti
regioni italiane quali, la Sardegna, la Lombardia, il
Veneto, la Sicilia.
Abbiamo già rilevato come “La crisi” sia stata
sostanzialmente esclusa dalle “Opere scelte” di
Trentin precedentemente pubblicate da una commissione di studiosi diretti da Norberto Bobbio,
notissimo ed autorevole sostenitore del pensiero
giuridico di Kelsen molto criticato da Trentin
(Quaranta 2005, p. 77).
È utile ricostruire sommariamente il percorso culturale mediante il quale Gangemi è arrivato fino alla
scoperta e poi alla adesione alla teoria del federalismo di Trentin. Nel gennaio 1996 è sorto, in modo
molto contrastato, il Centro studi sui federalismi
Silvio Trentin di Padova ma la svolta “separatista”
dell’autunno successivo di Umberto Bossi e poi la
sua ombra hanno ostacolato, per anni, tutte le iniziative del Centro padovano. Può essere interessante ricordare come l’on. U. Bossi, uno dei numerosi aderenti al Centro studi, abbia espresso subito
la sua contrarietà alla denominazione del Centro
per il riferimento alla pluralità dei federalismi.
Nel 1994 Gangemi pubblica “La questione federalista Zanardelli, Cattaneo e i cattolici bresciani”. Egli
individua due tipi di federalismo sulla base dei quali
classifica i teorici del federalismo, quello politicoistituzionale, giuridico (che potremmo definire dall’alto o della superbia) e quello antropologico (che
potremmo definire dal basso o dell’umiltà). Il federalismo antropologico si propone di realizzare una
forma di democrazia decentrata che ha come
obbiettivo centrale lo sviluppo economico locale.
Nella valutazione dei due diversi e contrapposti
federalismi, è necessario ricordare sempre che essi si
manifestarono sotto il dominio della legge 20 marzo
1865, n. 2248 che, con i suoi sei decreti allegati, è
una vera e propria legge di fondazione o di rifondazione dello Stato italiano come Stato accentrato.
Nei decenni postunitari i sostenitori del federalismo politico-istituzionale-giuridico sostanzialmente si dedicarono all’agitazione ed alla propaganda
politica mentre invece i sostenitori del federalismo
71
n.18 / 2007
antropologico organizzarono a livello locale banche, cooperative ed altri servizi autofinanziati.
Carlo Cattaneo si colloca fra i federalisti politicoistituzionali il cui ultimo esponente, se vogliamo, è
stato Gianfranco Miglio, l’ispiratore del separatismo bossiano. Il suo federalismo, prima della
insurrezione del 1848, aveva avuto coma obbiettivo l’unificazione di stati non importa se appartenenti alla stessa nazionalità.
Prima del libro di Gangemi, la collocazione di
Cattaneo fra i moderati o meglio la sua subalternità nei confronti del blocco moderato non era mai
stata né affermata con tanta ricchezza di argomentazione da parte di nessun interprete (Gangemi
1994, p. 135). La concezione dell’uomo dei federalisti antropologici ha origine nel pensiero di
Giambattista Vico il cui insegnamento è stato ripreso da Giandomenico Romagnosi maestro sia di
Carlo Cattaneo che di Andrea Zambelli, un docente universitario di Pavia.
Per Gangemi, Cattaneo, anche se è ritenuto generalmente un radicale, concorda sostanzialmente, a
parte la questione del decentramento, con le altre
posizioni fondamentali dei moderati monarchici
sia sulla ricostruzione della storia d’Italia sia sulla
politica economica che ha avuto come obbiettivo
l’industrializzazione del triangolo Torino-MilanoGenova sostenuta dalle risorse di tutto il paese. Il
suo federalismo è fondato su una apologia della
borghesia urbana della Lombardia del periodo
comunale che esclude un ruolo autonomo dei
comuni non-urbani e delle masse popolari delle
campagne. Cattaneo attribuisce alla borghesia di
tutte le regioni italiane, anche quelle del Sud, lo
stesso ruolo di quella lombarda e non affronta il
ruolo della borghesia delle varie città durante i
secoli della crisi italiana dopo la spedizione di
Carlo VIII e quindi ignora Machiavelli. Zanardelli
invece si colloca fra i federalisti antropologici per i
quali il federalismo è una costruzione autonoma
dal basso dei contadini e degli artigiani che devono contare principalmente sulle loro forze.
Alle or igini del feder a lismo a ntr opologico
nel Veneto
Gangemi ha individuato in un allievo di Domenico
Romagnosi, Andrea Zambelli dell’Università di
Pavia, il maestro comune di Zanardelli e di Angelo
72
Messedaglia, veronese, docente all’Università di
Padova, che è stato, a sua volta, il maestro dei
veneti Emilio Morpurgo, Fedele Lampertico, Luigi
Luzzatti. Per una rappresentazione dei rapporti fra
Messedaglia e Luzzatti, si rinvia a Catalano (1965) e
Pecorari (1983).
La collocazione di Luzzatti fra i federalisti antropologici è un contributo originale che Gangemi ha
dato alla interpretazione della figura e del pensiero dell’uomo politico veneziano. Per una comprensione dell’opera di Luzzatti, si rinvia alla
Biblioteca luzzattiana edita dall’Istituto veneto di
scienze, lettere ed arti dove si trovano: a cura di
P.L. Ballini e P. Pecorari, “Luigi Luzzatti e il suo
tempo”; a cura di D. Calabi, “La politica della casa
all’inizio del Novecento”; a cura di P. Pecorari, “La
diffusione del credito e le banche popolari”.
Luzzatti, deputato del collegio di Oderzo
(Treviso), più volte ministro e Capo del governo
nel 1911-12, ha esercitato un’influenza decisiva su
Trentin, come è testimoniato anche dai suoi amici
e come si ricava dai suoi scritti del periodo precedente all’esilio ed anche dalla fitta corrispondenza
(Ronchi 1975, p. 20)
Alcune pubblicazioni di Luzzatti erano presenti
nella biblioteca di Trentin donata dagli eredi alla
Biblioteca del Dipartimento di studi giuridici di Ca’
Foscari ed andata, purtroppo, largamente dispersa. La bibliotecaria S. Franzoso segnala che attualmente sono presenti nella biblioteca citata soltanto 72 volumi della biblioteca di Trentin.
Tre sono i problemi rispetto ai quali Trentin si
pone esplicitamente come il continuatore di
Luzzatti: l’istituzione della cassa nazionale per le
bonifiche, le case popolari, l’Ente di ricostruzione
e rinascita agraria delle province di Venezia e di
Treviso. A questi si aggiunge la lotta contro la malaria. Luzzatti fondò anche l‘Istituto autonomo per la
lotta antimalarica nelle Venezie il cui statuto fu elaborato da Trentin (1984, pp. 50 e nn. 107-108, 119,
128, 176, 263 e 269)
Trentin esalta in Parlamento l’apostolato “geniale e
fervido” di Luzzatti svolto per far approvare la
legge del 1903 sulle cooperative edilizie popolari,
per creare un ente antimalarico all’infuori di ogni
stimolo ufficiale. Gli dedica il saggio molto impegnativo sull’Istituto federale di credito per il risorgimento delle Venezie.
Giustamente Luzzatti affermava di vedere in
Elio Franzin
Trentin il suo successore.
È molto significativa la prima lettera della fitta corrispondenza fra i due uomini politici veneti.
Trentin chiede aiuto per difendere il Consorzio
per l’esercizio del credito agrario come organo
esclusivo delle casse di risparmio e delle banche
popolari contro i tentativi di infiltrazione delle banche speculative come ad esempio il Credito veneto, espressione di ambienti clericali romani e veneti (Piva 1977, pp. 58, 86-87, 231, 242)
Trentin in tutta la sua corrispondenza, che dura dal
settembre 1920 fino al 18 luglio 1926, con il “maestro” Luzzatti, manifesta i suoi sentimenti filiali di
discepolo fedele (nell’Istituto veneto di scienze,
lettere ed arti, Archivio L. Luzzatti, la cartella
Trentin contiene 85 fra lettere e telegrammi).
Le iniziative di Trentin come parlamentare veneto
e come professionista negli anni Venti, prima dell’esilio, si collocano decisamente nell’ambito del
federalismo antropologico.
Con la svolta degli anni Trenta, il pensiero di Trentin
fa un salto di qualità, il suo federalismo antropologico diventa teorico e politico. Egli supera i limiti del
federalismo antropologico schiacciato dal centralismo dello Stato italiano strutturato dalla legge 20
marzo 1865, n. 2248 perché si rende conto che, alla
caduta del fascismo, si porrà il problema della ricostruzione di un nuovo Stato italiano.
Contrariamente alle sue previsioni, in realtà alla
caduta del fascismo si è mantenuto intatto il centralismo del vecchio Stato sabaudo prima e fascista
dopo a parte alcuni cambiamenti marginali.
La conoscenza del pensiero di Vico, di Romagnosi
e dei loro seguaci sia lombardi che veneti, ha consentito a Gangemi di capire l’importanza straordinaria dell’opera di Trentin “La crisi del Diritto e
dello Stato”, di invocarne già nel 1997 la pubblicazione integrale, di denunciare la grave lacuna della
pur meritoria edizione delle Opere scelte
(Gangemi 2000b, pp. 98-100; 2004, pp. 465- 483;
2005, pp. 377-401).
È utile ricordare i giudizi contrastanti o contraddittori pronunciati su “La crisi” prima della decisa
rivalutazione operata da Gangemi.
Nel 1954 N. Bobbio nella sua commemorazione di
Trentin definisce “grandioso” il disegno de “La
crisi” (Bobbio 1954, p. 711)
Nel 1974 ritiene che essa sia una delle opere più
importanti anche se la meno nota, data la sua irre-
“Crisi del Diritto e dello Stato” di Silvio Trentin
peribilità nelle biblioteche italiane (Bobbio 1974,
118-119).
Nel 1987 la definisce ”opera teorica maggiore” ed
aggiunge che in essa il pensiero federalista di
Trentin esce, nella conclusione, “tutto spiegato”
(Bobbio 1987, p. XXVI)
Ma questa ultima affermazione è del tutto infondata. Le tesi fondamentali de “La crisi” sono tre: la
validità del giusnaturalismo come pensiero dell’autonomia della persona, la trasformazione del capitalismo concorrenziale in capitalismo finanziario e
monopolistico, il federalismo come modo di realizzazione sul piano collettivo del principio dell’autonomia.
Ma Trentin non vi enuncia affatto la sua concezione del federalismo. Egli affronta, in modo organico, il problema del federalismo soltanto nell’opera
successiva “Stato, nazione, federalismo” (1940).
Bobbio afferma che: ”l’originalità del pensiero
federalistico di Trentin, o, se vogliamo, la sua caratteristica sta nel muoversi nella direzione del federalismo interno molto più che nel federalismo
esterno” (Bobbio 1987, p.XIII)
Si tratta di una interpretazione molto riduttiva. I
caratteri specifici del federalismo di Trentin devono essere visti nel suo fondamento giusnaturalistico, nella interpretazione del capitalismo come
capitalismo finanziario e monopolistico, nel federalismo come organizzazione che ha come istituzione statale di base il Comune, nella individuazione della contraddizione esistente fra la democrazia
parlamentare e la disuguaglianza economica.
Fino al 1974 il pensiero giuridico e politico di
Trentin è stato quasi completamente ignorato. E
questo è molto significativo per capire il distacco
originario fra Trentin e i membri dell’autodiscioltosi Partito d’azione. Il centro studi e ricerca Silvio
Trentin è nato nel 1974 per l’appassionata iniziativa personale dell’assessore comunale di Jesolo,
Raffaello Zannoner, un personaggio meritevole ma
marginale rispetto alla vita politica e culturale
nazionale. L’ubicazione stessa del centro, che
ancora oggi ha la sua sede a Jesolo, è geograficamente decentrata non soltanto rispetto a Venezia
o a Padova, città universitarie, ma perfino rispetto
a San Donà di Piave luogo di nascita di Trentin.
Moreno Guerrato ha ricostruito, in modo esemplare, le origini del centro nel 1974 (Guerrato
2004, pp. 29-33).
73
n.18 / 2007
Con la scomparsa del secessionismo bossiano, non
è difficile prevedere che la pubblicazione de “La
crisi del Diritto e dello Stato”, a cura di Giuseppe
Gangemi, potrebbe aprire in Italia una nuova fase
non solo della storia della conoscenza e della diffusione del pensiero di Silvio Trentin ma anche del
federalismo.
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pensieri 1911-1926, Edizioni Canova, Treviso
RUHLE, Otto (Carl Steuermann), (1932), La crise
mondia le ou Vers le ca pita lisme d’éta t, Librairie
Gallimard, Paris.
RUHLE, Otto (1972), Il cora ggio dell’utopia ,
Guaraldi editore, Rimini
TOGLIATTI, Palmiro (1946), Rinnova re l’Ita lia ,
Società edirtrice L’Unità, Roma 1946.
TRENTIN, Silvio (1984), Politica e amministrazione
Scritti e discorsi 1916-1926, Marsilio editori,
Venezia.
TRENTIN, Silvio (1985), Antifa scismo e rivoluzione. Scritti e discorsi 1927-1944, Marsilio editori,
Venezia.
TRENTIN, Silvio (2006, La crisi del Diritto e dello
Sta to, Gangemi editore, Roma, 2006.
TRENTIN, Silvio (1984),Politica e a mministra zione. Scritti e discorsi 1916-1926, Marsilio editori,
Venezia.
ZUCCARINI, Oliviero, La rivoluzione federa lista
La conversione di Silvio Trentin, in La critica politica, agosto-settembre 1947, fasc.5, pp. 280-285.
[email protected]
Giuseppe Gangemi
Ricordo di Silvio Trentin
Focus: Silvio Trentin
Silvio Trentin, nato a San Donà di Piave, nel 1885,
e morto prematuramente a Monastier nel 1944, è
stato uno dei primi fuoriusciti del ventennio (lascia
l’Italia nel 1925) ed un importante oratore, anche
in lingua francese, impegnato nella lotta politica
contro i fascismi europei.
Fu anche un grande intellettuale che scrisse libri
importanti. Nel 1935, pubblicò il più importante di
tutti (La crisi del Diritto e dello Stato) che è stato
recentemente edito, in lingua italiana. Altri testi già
noti al pubblico italiano, perché contenuti nella
sua opera omnia, edita per i tipi della Marsilio,
Libera re e Federa re; Le tra sforma zioni recenti
del diritto pubblico ita lia no; Sta to Na zione
Federa lismo (quest’ultima un’opera che meriterebbe di essere stampata, come opera autonoma,
con una nuova presentazione e delle note di commento ai passi più interessanti) e altre.
Fu tra i fondatori, insieme ai fratelli Rosselli, di
Giustizia e Libertà, dove rappresentò, ben presto,
l’ala più radicale e di sinistra. Dal 1936, fu tra gli
organizzatori degli aiuti internazionali alla guerra
del governo spagnolo repubblicano nella lotta contro i fascisti e i generali ribelli. Varie volte si recò in
Spagna dove avrebbe voluto rimanere per svolgere
un ruolo più attivo nella guerra.
Con l’invasione tedesca della Francia fu tra gli
organizzatori della resistenza francese attraverso
un movimento che, nel nome, aveva anche il suo
programma: Libérer et fédérer (da cui anche una
rivista clandestina e il titolo del suo importante
libro).
Poco prima dell’8 settembre del 1943, tornò in
Veneto dove, sempre l’arrivo dei tedeschi lo
costrinse alla clandestinità. Fu tra gli organizzatori
della resistenza in Veneto. Fu, però, fortuitamente
arrestato dai fascisti e i maltrattamenti subiti ne
minarono a tal punto la salute che dalla prigione
uscì solo per finire i suoi giorni in ospedale.
Morì il 12 marzo del 1944. La sua morte privò la
Costituente italiana di un importante apporto
intellettuale e politico.
Fu un federalista. Un grande federalista. Talmente
grande che non ho remore a definirlo più grande
del più noto e magnificato Carlo Cattaneo. La sua
grandezza consiste nel non avere cercato l’affermazione del federalismo attraverso una costituzione formale, ma attraverso la costituzione nella
società e nella vita quotidiana delle basi reali dell’autonomia.
L’autonomia di un popolo, ci suggerisce infatti
Trentin, è basata sulla capacità di disporre delle
proprie risorse che sono risorse finanziarie, ma
anche morali e intellettuali. IL che vuol dire che
l’autonomia di un popolo comincia, ma non si
esaurisce, con l’autonomia del prelievo fiscale (ed
è, quindi, anche federalismo fiscale). Continua,
infatti, anche con la capacità di raccogliere il rispar-
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n.18 / 2007
mio e utilizzarlo per i fini e gli interessi di chi lo
produce, sia esso un territorio o un’associazione in
rete, con la capacità di produrre strategie politiche
di sviluppo sia economico che politico.
Il federalismo di Trentin è un federalismo costruito anche sulle banche, che devono essere banche
che finanziano i progetti che nascono dalle intelligenze nel territorio o in rete, e sulla cooperazione
(cioè sui consorzi, sulle associazioni di volontari,
sulla capacità dei politici di costruire consenso
finalizzato allo sviluppo e non al vantaggio di
pochi) e sulla negoziazione (cioè sulla capacità di
individuare, attraverso la logica, l’etica e il diritto, il
punto di equilibrio, la regola pratica che accontenta il maggior numero di persone, se non può
accontentare tutti).
L’autonomia di un popolo è costruita sull’autonomia delle sue associazioni, delle sue comunità e
delle sue reti. “Padroni in casa propria” vuol dire,
quindi, che in ciascuno dei livelli delle autonomie
(da quello dei piccoli Comuni e dei quartieri delle
grandi città a quello delle Regioni) il popolo o
chiunque chiede di poter partecipare deve ricevere la possibilità di farlo attraverso l’istituzionalizzazione (per ciascuna decisione da prendere) di specifiche pratiche di democrazia diretta. “Padroni in
casa propria” significa che nessuno deve togliere ai
cittadini di Vicenza il diritto di decidere del futuro
della loro città e che questo non deve passare
sopra la testa dei cittadini attraverso accordi internazionali o tra partiti nazionali. “Padroni in casa
propria” vuol dire che a tutti i cittadini vicentini
deve essere fornita la possibilità di esprimere la
loro posizione sul futuro del Dal Molin (e non
solo, ovviamente, scendendo in piazza). “Padroni
in casa propria” vuol dire che, una volta raggiunta,
tra i vicentini, la chiarezza della posizione da tenere, questi negoziano direttamente con il governo
italiano (ma anche con il comando americano, se
necessario) per ottenere, in prima istanza, che la
base non si faccia a Vicenza e, se proprio questo
non è possibile, per ottenere che l’impatto
ambientale temuto sia ridotto al minimo e che i
costi sociali di questo impatto sia pagato da chi
prende la decisione di fare la base e non dai cittadini che non la volevano. “Padroni in casa propria”
vuol dire padroni di decidere del proprio ambiente (per la parte che non danneggia l’ambiente di
altri) e di non farsi espropriare dei diritti sul pro-
76
prio territorio dalla classe politica nazionale e nemmeno da quella locale. Quest’ultima, infatti, applicando a livello locale il metodo accentratore della
classe politica nazionale, tende troppo spesso a
decidere senza consultare i cittadini su tematiche
che toccano la vita o gli interessi dei cittadini.
“Padroni in casa propria” vuol dire che la casa è dei
cittadini tutti e non dei soli politici, né di quelli
nazionali, né di quelli locali che, spesso, hanno
arroganza e tendenze alla prevaricazione simili, se
non identiche, a quella nazionale.
Da tutto questo si evincono due cose:
FEDERALISMO non è SECESSIONE perché FEDERALISMO è NEGOZIAZIONE;
Nel senso che la secessione è tra le possibilità, non
lo si nega, ma è il risultato del fallimento del federalismo, non tutto il federalismo e la negoziazione
va concepita a tutto campo. In tutte le direzioni:
verso il livello superiore di più popoli che condividono identici problemi (per esempio, l’acqua e i
problemi che crea un grande fiume come il Po; la
montagna e chi ci sta oltre quella montagna; il
mare e le potenzialità di sviluppo che crea un
importante mare come l’Adriatico soprattutto
quando gli scavi in corso nel Canale di Suez permetteranno alle più grandi navi del mondo di arrivare dalla Cina e dall’India dentro il Mediterraneo;
etc.) e verso i livelli inferiori delle comunità che
costituiscono il popolo Veneto e le reti che lo
innervano (per esempio, la Regione deve negoziare con i Comuni e le Province, secondo i principi
della sussidiarietà verticale, ma anche con i cittadini e le loro associazioni, le imprese, le associazioni
professionali, etc., secondo i principi della sussidiarietà orizzontale);
FEDERALISMO è un DIVERSO MODO DI GOVERNARE;
Federalismo non è sostituzione di una classe dirigente, magari incapace di o non disponibile a
negoziare, con un’altra che governa allo stesso
modo, ma ha solo il vantaggio di essere più vicina
ai cittadini. Federalismo è un diverso modo di
governare attraverso la partecipazione di tutti, di
tutti quelli che desiderano di farlo. Ed è un modo
di governare a cui bisogna prepararsi e che occorre costruire giorno per giorno. Federalismo non è
il modo di governare dei moderni Dogi chiusi nei
loro palazzi, a contatto solo con i loro amici e con
i loro consulenti che emanano editti alla cui elabo-
Giuseppe Gangemi
razione non è stato invitato nessuno della cosiddetta società civile. Federalismo è convinzione
profonda della maturità del cittadino, dei gruppi
che costituisce, delle sue associazioni delle professionalità che ha saputo costruire nel territorio.
FEDERALISMO è ASCOLTO, DIALOGO e PARTECIPAZIONE. Federalismo è, per sintetizzare tutte
queste cose in una, con il linguaggio geniale di
Silvio Trentin, AUTONOMIA DELLE AUTONOMIE.
Autonomie che cominciano dal livello delle persone, la cui professionalità va rispettata e ascoltata,
continuano con il livello appena superiore delle
reti di relazione cui ogni persona aderisce (reti che
sono legati alle professioni, allo svago o alle tradizioni). Autonomie che si trasformano in un superiore livello di autonomia (in una autonomia delle
autonomie) quando individuano il punto di equilibrio che, rispettando logica, etica e diritto, si istituzionalizza in un contratto formale o anche soltanto in un accordo implicito. Resta fermo il principio che così come ogni persona può appartenere a varie reti e a vari gruppi, allo stesso modo ogni
autonomia (e persino ogni popolo) può unirsi ad
altri popoli in tante autonomie più ampie (la
Padania di cui tanto si parla ma che non esiste
ancora nemmeno nei suoi confini che sono molto
più grandi dell’area del Po, cui il Veneto federalista
crede di appartenere anche se i suoi fiumi non sfociano nel Po e che comprendono popoli che nella
Padania non si riconoscono, vedi i popoli della
cosiddetta Padania inferiore; vedi anche l’eurore-
Ricordo di Silvio Trentin
gione Adria che interessa popoli al di qua e al di là
delle Alpi; vedi l’euroregione Adriatica che interessa i popoli sulle rive dell’Adriatico; vedi tanti altre
possibili autonomie).
Se Federalismo è Autonomia delle Autonomie,
come ci insegna Silvio Trentin, Federalismo non è
Secessione, perché l’autonomia ha senso se è
libertà di scegliersi le proprie alleanze in modo
pragmatico e non precostituito. L’autonomia di un
popolo è libertà di esprimersi verso Ovest come
verso Est, verso Nord come verso Sud, secondo le
proprie convenienze immediate o strategiche e
secondo i propri interessi.
FEDERALISMO è LIBERTA’ di costruirsi non una
sola superiore autonomia, ma tante autonomie in
tante direzioni perché nessuno di noi va in una
sola direzione senza mai voltarsi indietro e senza
formare per poi muoversi verso altre direzioni
sempre seguendo il proprio interesse o i propri
desideri o le proprie utopie.
FEDERALISMO è AUTONOMIA che non consiste
nel chiudersi in casa dichiarando di non avere
bisogno di nessuno, ma è capacità di costruire reti
che, seguendo ogni possibile direzione, diano ad
ognuno (persona, persona in rete o popolo) quella forza di affrontare le sfide che ci pone il futuro
verso cui abbiamo scelto di andare e gli altri che
potranno intralciare o favorire il nostro percorso.
San Donà di Piave,
Domenica 11 marzo 2007
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n.18 / 2007
78
Ana Živkovi´c
Il serbo-croato: da una lingua che univa a una
lingua che divide
Il Sestante
Introduzione
È la scomparsa violenta di un’antica unità culturale? È il naturale affermarsi di identità nazionali finora represse? O la fine forzata di una lingua e cultura comune?
L’omogeneizzazione culturale ha le proprie origini
nell’assimilazione linguistica e la lingua rappresenta
lo spazio identificativo del gruppo di primaria
importanza. Pavle Ivić, il più importante studioso
dei dialetti e della fonologia degli slavi del sud, a tal
proposito, scrisse nella Storia della cultura serba :
la lingua è un prodotto della storia nazionale e lo
strumento essenziale della cultura di ogni popolo;
essa risulta essere il mezzo più economico, diversificato ed appropriato che l’individuo ha a disposizione per partecipare alla vita della sua comunità,
diventando un membro attivo, ricevendone il bagaglio culturale del proprio popolo e modificandolo
secondo le proprie esigenze, in un interscambio
profondo fra sé e il gruppo di appartenenza.
Una disamina del percorso storico della lingua letteraria serba indica che i cambiamenti fondamentali nell’orientamento della cultura serba sono
riflessi non solo nel suo vocabolario e nella sua sintassi, ma anche attraverso gli aspetti morfologici e
fonologici del linguaggio utilizzato dal popolo. Le
diversità che si crearono nella lingua denotano,
oltre all’orientamento verso il mondo occidentale
o orientale, la posizione assunta nelle singole aree
del Paese nel settore religioso o profano, nell’am-
bito delle attività spirituali o intellettuali e nelle
questioni politiche internazionali; le varianti linguistiche rendono visibili le influenze del mondo
bizantino contro quelle dell’Impero russo, del
mondo germanico contro quello francese o quello
anglosassone, oppure la prevaricazione dei sentimenti aristocratici piuttosto che quelli democratici
e populistici.
Per comprendere la complessa situazione
linguistica dei Balcani è di grande rilevanza il libro
Lingue di Ranko Bugarski. Egli in principio precisa
che “nonostante il quadro linguistico descritto
appartenga sotto numerosi aspetti al passato, gli
eventi del presente e le prospettive per il futuro
non possono essere compresi senza l’analisi del
passato linguistico dei territori della ex Jugoslavia.
Quante lingue si parlavano in questa Jugoslavia? A
qualcuno potrebbe sembrare che almeno questo
dato sia conosciuto ed incontestabile; tuttavia non
è così: se si contano soltanto le lingue standard,
esse sono 14, ma se vogliamo aggiungere anche gli
idomi parlati della lingua non standardizzata, questo numero raddopia. Il numero massimo delle lingue autoctone, nel senso che esistono e sono rappresentate su questo territorio già da circa 100
anni, potrebbe essere 27” (Bugarski 2005, 92-93).
Nella Tabella sottostante sono elencate le prime 15
lingue, con il riferimento al numero dei loro parlanti in base al censimento effettuato nel 1981, l’ultimo prima della dissoluzione della Federazione
jugoslava.
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n.18 / 2007
1. serbo-croato
2. sloveno
3. albanese
4. macedone
5. ungherese
6. rom
7. vlacco
8. turco
9. slovacco
10. rumeno
11. bulgaro
12. russino
13. italiano
14. cecco
15. ucraino
16.400.000
1.760.000
1.750.000
1.370.000
410.000
140.000
135.000
82.000
74.000
60.000
37.000
19.000
19.000
16.000
7.000
“Dal punto di vista geo-linguistico, il serbo-croato
occupa larga parte dell’area centrale della
Jugoslavia, mentre le altre lingue circondano tale
area o rappresentano le enclavi all’interno di questo territorio. Dal punto di vista geo-politico, da
una parte esistono il serbo-croato, lo sloveno e il
macedone, quali lingue domestiche, ‘lingue dei
popoli jugoslavi’, mentre tutte le altre lingue si rapportano ad esse in una posizione confinante o in
una situazione di diaspora” (Bugarski 2005, 97).
Relativamente alle espressioni derivanti dalla lingua turca, Ranko Bugarski, ribadendo la sua tesi
principale, ossia che le lingue jugoslave si influenzano l’una con l’altra in diversi modi e con diverse
estensioni, precisa quanto segue: “La Lega linguistica balcanica ha comportato lo sviluppo delle
linee grammaticali uguali. A parte questo si potrebbe aggiungere l’esposizione alle stesse influenze
dall’esterno: la formazione degli stessi tratti sociali, derivanti dalla civilizzazione turca, nei determinati segmenti dei dizionari di tutti i popoli balcanici. I ‘turchismi’ hanno avvicinato le lingue nonostante le loro differenziazioni e hanno reso possibile la reciproca comprensione culturale tra coloro
che utilizzano le singole lingue balcaniche”
(Bugarski 2005, 98).
Le caratteristiche geografiche della lingua si esprimono spesso con la differente formulazione dell’interrogazione “cosa?”. Nell’area di Zagabria si
usa il ‘kaj’, da cui la denominazione del dialetto
‘kajkavo’; in larga parte della costa croata si usa il
‘ča’, da cui la denominazione di ‘čakavo’. Infine in
Serbia, Bosnia ed Erzegovina, Montenegro e in una
80
parte della Croazia prevale lo ‘što’, da cui la denominazione di ‘štokavo’, che è il dialetto più diffuso.
Inoltre, bisogna notare che i dialetti popolari, a differenza delle lingue standard, presentano differenze notevoli. Il dialetto ‘kajkavo’ di Zagabria e della
Croazia nord-occidentale, con una struttura
alquanto vicina alla lingua slovena, svolgeva fino
all’inizio del XIX secolo un ruolo di lingua semiufficiale. Ancora oggi il ‘kajkavo’ è parlato da molti
Croati nelle città di Zagabria, Varaždin, Koprivnica,
Sisak, Karlovac, e nei loro dintorni, come in altri
villaggi della Croazia nord-orientale. Il secondo
conglomerato dialettale, il ‘čakavo’, parlato
nell’Istria e nelle regioni vicine, sulle isole, e nelle
zone litorali della Dalmazia centrale, è probabilmente il relitto di un diasistema medievale, che in
dialettologia, è la rappresentazione unitaria delle
caratteristiche accomunanti due o più sistemi linguistici geneticamente affini e che prima delle
invasioni turche copriva la maggior parte della
Croazia meridionale. L’espansione dello ‘štokavo’
è legata ai processi di assimilazione linguistica
durante il dominio ottomano, quando i dialetti
centrali del diasistema sud slavo, entrati in contatto tra di loro all’intero dell’Impero turco, hanno
creato una certa affinità ‘folcloristica’. Fuori
dall’Impero ottomano, il ‘kajkavo’ ed il ‘čakavo’
riuscirono a sopravvivere in quelle parti della
Croazia che non sono mai cadute in mano ai turchi. A causa degli avvenimenti storici, la regione
‘štokava’ è diventata relativamente omogenea.
Tuttavia, perfino nel caso ‘štokavo’ bisogna tenere
conto del fatto che, si tratta di un insieme di dialetti variabili, parlati su un territorio molto vasto. Il
lessico basilare ‘štokavo’ è abbastanza unito, ma i
fonemi - specialmente il famoso suono paleoslavo
‘jat’ - e il sistema di accentuazione, sono mutevoli.
La scelta deliberata dello ‘štokavo’, come base delle
loro lingue standard, da parte dei serbi e dei croati,
ebbe come risultato l’accostamento delle loro lingue standard e rispondeva ad una strana convergenza delle politiche culturali dei croati e serbi.
Oltre ad alcune finezze della grammatica e della
sintassi, le differenze strettamente linguistiche si
manifestano soprattutto nel lessico tecnico-scientifico, nei neologismi, nei prestiti stranieri, nei riflessi di certi fonemi e in particolare, all’interno dello
‘štokavo’, si individuano tre modi diversi nel riflettere la “jat”, vocale chiave della distinzione
Ana Živkovi´c
Il serbo-croato: da una lingua che univa a una lingua che divide
dialettale slava, ossia la trentaduesima lettera della
versione antica dell’alfabeto cirillico. La jat
rappresenta una vocale lunga originale dello slavo
comune. Generalmente si crede che
rappresentasse il suono /æ:/, che era un riflesso di
un precedente /e:/, /oj/, o /aj/ e trascritto in vari
modi come / /, /ê/, e /ä/. In varie lingue slave
moderne, la jat ha dato origine a diverse vocali e
nei dialetti del continuum serbo-croato, la jat si è
distinta in tre diverse forme: e, (i)je e i, e questo è
diventato uno dei criteri di differenziazione, da cui
deriva la denominazione di ‘varianti linguistiche
ekava, ikava, ijekava’, che spesso viene spiegata
con ‘la divisione dei fratelli in base al latte’ – mlijeko, mliko e mleko. L’uso dell’alfabeto latino prevalentemente, anche se non esclusivamente, in
Croazia, o del cirillico prevalentemente in Serbia e
in Montenegro, è piuttosto una vestura esterna
che influisce solo sull’aspetto visuale, e non sulla
sostanza lessico-grammaticale della lingua ufficiale.
Relativamente a ciò risulta interessante la constatazione di Kovačević: “L’alfabeto serbo è quello cirillico, mentre quello latino non è un alfabeto serbo,
bensì l’alfabeto della lingua serba, perché questa
lingua è oggi scritta, non solo dai serbi, ma anche
dai croati, musulmani e montenegrini, con l’alfabeto latino” (Kovačević 1999, 381).
“Nello stesso modo in cui non può esistere,
precisa Ranko Bugarski, un’obbligatoria coincidenza tra l’alfabeto e la nazionalità, così non dovrebbe
neanche esistere la corrispondenza di una lingua
ad un alfabeto. A sostegno di questa mia affermazione sta il fatto che nel mondo il numero delle lingue non corrisponde al numero degli alfabeti. A
questo punto, se risulta possibile scrivere diverse
lingue con lo stesso alfabeto perché non dovrebbe
valere anche il contrario, che una lingua può utlizzare più alfabeti” (R. Bugarski 1996, 110).
Inquadramento storico
Come i popoli neolatini, anche i popoli e le lingue
slave hanno radici comuni. Nel IX e X secolo le
differenze tra le varie lingue parlate slave erano
pressoché minime, tanto che dal Nord della Russia
fino alle sponde del Mediterraneo si utilizzavano
gli stessi libri liturgici. Dai territori dell’odierna
Russia meridionale, dove gli Slavi erano sottoposti
al dominio dei Goti, sotto la pressione delle tribù
unne, che determinarono il crollo del dominio
gotico, iniziarono i grandi movimenti degli slavi
dalle sedi originarie verso la linea dell’Elba e, a sud,
verso la penisola balcanica, lungo le valli dei grandi fiumi quali il Danubio, la Sava e il Vardar. Tali
migrazioni furono concluse verso il VI-VII secolo e,
in quel periodo, furono già individuabili i tre grandi principali gruppi di lingue slave: l’orientale, l’occidentale e il meridionale. Oggi si distinguono: lo
slavo orientale che comprende il russo, l’ucraino e
il bielorusso e si scrivono con l’alfabeto cirillico;
l’occidentale comprende il polacco, il ceco e lo slovacco che si scrivono con l’alfabeto latino e sono
parlati da popolazioni prevalentemente cattoliche
anche se con minoranze protestanti; il meridionale comprende il bulgaro, il macedone, il serbo, le
lingue dei Paesi ortodossi e quindi scritte prevalentemente col cirillico; i croati e gli sloveni, cattolici, usano, invece, l’alfabeto latino.
La storia della lingua serbo-croata può essere
distinta in due periodi: un primo dominato da una
produzione letteraria prevalentemente religiosa
con la traduzione di testi sacri, scritti ora in
caratteri glagolitici, derivati probabilmente da
grafemi del corsivo medievale greco, a cui venne
dato un disegno ornamentale e appartaneneti
all’alfabeto slavo creato dal missionario san Cirillo,
insieme a suo fratello san Metodio, intorno all’862863 per tradurre la Bibbia e altri testi sacri in antico
slavo ecclesiastico, ora in quelli cirillici, che
giunge, grosso modo, fino al XII secolo. Il secondo
periodo inizia dopo il XIII secolo, quando
cominciano ad apparire testi di carattere profano e
giuridico sia in Croazia che in Serbia.
Lo slavo ecclesiastico (o crkvenoslovenski jezik in
serbo) è considerato lingua letteraria e liturgica
comune degli slavi ortodossi, ossia la lingua liturgica della Chiese ortodosse nazionali bulgara,
macedone, russa e serba, oltre ad altre Chiese
ortodosse dell’area slava. Storicamente questa lingua deriva dall’antico slavo ecclesiastico, adattandone la pronuncia e l’ortografia e rimpiazzando
alcune parole od espressioni antiquate e di significato oscuro con le loro controparti vernacolari. Lo
slavo ecclesiastico, a differenza di quello antico,
cominciò a distanziarsi dalle costruzioni linguistiche proprie della sintassi greca e ad adottare regole slavo-orientali adattandosi alle varianti dialettali
locali seguendo per di più le differenze fonologi-
81
n.18 / 2007
che delle diverse aree. Oltre a queste due lingue,
di cui è possibile trovare testimonianze nella forma
dei testi scritti, bisogna menzionare il paleoslavo,
ossia l’ipotetica lingua comune appartenente alla
famiglia indoeuropea che ha dato origine
successivamente alle moderne lingue slave;
quest’ultima non è una lingua attestata e non
possiede nessun corpus letterario, nè si ha a
disposizione una minima traccia scritta, bensì fu
totalmente ricostruita attraverso gli studi slavistici
comparativi.
Lo slavo ecclesiatico antico così come è stato tramandato dalle antiche traduzioni dei testi sacri,
che furono compiute a partire dal IX secolo con il
processo di evangelizzazione e di culturizzazione
del mondo slavo, fu scritto dapprima in caratteri
glagolitici, inventati dai due apostoli tessalonicensi, Cirillo e Metodio, nel loro dialetto slavo-bulgaro
di Salonicco, prendendo a modello il greco, ma
introducendovi anche caratteri armeni ed ebraici
e, successivamente, in caratteri derivati dall’alfabeto greco e detti ‘cirillici’ dal nome di uno dei due.
Attraverso i secoli, la loro antica lingua comune
paleoslava, scritta con un complicato alfabeto di
origine religiosa - il glagolitico - gradualmente
cominciò a diversificarsi. Pur non rimanendo estraneo alle classi sociali che non lo usavano abitualmente, lo slavo ecclesiastico non riuscì ad imporsi
in tutti i settori. Esistevano, infatti, delle aree dove,
per l’alfabetizzazione, veniva largamente usato il
dialetto: i documenti ufficiali dei sovrani e dei
magnati, oltre ad altri documenti legali, quali i
codici di legge, furono tutti scritti in dialetto.
L’obiettivo fu semplicemente quello di avere leggi
chiare a tutti ed evitare qualsiasi ragione di discussione riguardo alla loro interpretazione.
La comune lingua letteraria e la condivisione dello
stesso alfabeto da parte dei diversi popoli slavi ha
facilitato lo scambio dei lavori letterari e accademici tra questi ambienti sociali, consolidando la partecipazione all’ambiente sociale e culturale
dell’Ortodossia come insieme, che rimase sempre
aperta all’influenza proveniente dalla Grecia
(Storia della cultura serba ).
Molti testi furono, infatti, tradotti dal greco e una
volta tradotti circolavano in tutto il mondo slavoortodosso. La comunità di monaci slava sul monte
Athos era tra i centri di traduzione più noti. Il
monastero serbo Hilandar su Athos fu fondato da
82
Stefan Nemanja, il padre fondatore della dinastia
serba più importante del medioevo. Queste traduzioni hanno continuamente arricchito la Chiesa
serba dal punto di vista letterario e culturale in
generale. Relativamente a ciò, in alcuni studi si
riprese a scrivere quello che fu l’ultimo messaggio
del sovrano serbo Stefan Nemanja al figlio
Rastko–Sveti Sava, che dovette trasmettere le
parole del padre al proprio popolo. ‘È meglio
perdere tutte le battaglie e tutte le guerre che
perdere la propria lingua’. Nei Balcani, questo
messaggio non ha perso di attualità nemmeno
all’epoca moderna.
“Cos’è un popolo se perde la lingua, la terra,
l’anima? Non prendete nella vostra bocca le parole
degli altri – se prendi le parole degli altri, questo
non significa che hai conquistato un popolo, ma
hai sottomesso il tuo popolo agli altri. È meglio
perdere la città più grande della tua terra che non
la parola più piccola del tuo vocabolario.
Riccordati che il nemico ti ha conquistato tanto
quanto è riuscito ad importi le sue parole e a
toglierti le tue. Il popolo che perde le proprie
parole smette di esistere come popolo. Le
infezioni della tua lingua si verificano ai confini del
popolo, nei punti di contatto con un altro popolo,
dove due lingue cominciano a graffiarsi l’un l’altra.
Due popoli possono combattere e possono fare la
pace. Due lingue non potranno mai fare la pace.
Due popoli possono vivere nell’armonia immensa,
ma le loro lingue continueranno sempre a combattere. Dopo la perdita di una battaglia o di una
guerra il popolo sopravvive; dopo la perdita della
lingua il popolo si estingue. L’uomo impara la lingua materna in un’anno e non la dimentica per
tutta la vita; il popolo non la dimentica finché esiste. Quando il nemico distruggerà tutte le fortezze
e penetrerà in tutte le città, non disperarti; ascolta
cosa succede con la lingua; se essa rimane intoccata, non aver paura. Lì dove risuonano le nostre
parole, lì esiste ancora il nostro Stato, indipendentemente da chi lo governi. I sovrani cambiano, gli
Stati periscono, ma la lingua e il popolo
rimangono; le terre conquistate in tal modo un
giorno torneranno alla loro ‘madrepatria
linguistica’. Il popolo è più duraturo di ogni Stato;
prima o poi, quando l’acqua, rappresentata dalla
nostra lingua, supererà le dighe che la dividono, il
popolo si riunirà” (Medić 2001, 86-94).
Ana Živkovi´c
Il serbo-croato: da una lingua che univa a una lingua che divide
Sveti Sava, seguendo le parole del padre, realizzò
l’indipendenza della Chiesa serba, permettendo in
tal modo la comparsa della parola serba. A Sveti
Sava i serbi attribuiscono la genesi della loro indipendenza spirituale, culturale ed accademica.
Per avere la descrizione esaustiva del quadro storico-linguistico dei Balcani, è necessario menzionare
l’influenza russa. Il governo austriaco utilizzò il
popolo serbo per organizzare l’esercito e spesso
urgeva l’accettazione serba dell’unificazione con la
Chiesa di Roma. La gerarchia ecclesiastica serba
cercò di fare resistenza a questo tipo di pressione
e questa rimase pressoché l’unica forma di leadership che il governo austriaco tollerava. Tuttavia,
la Chiesa ortodossa fu limitata nelle sue attività a
causa della mancanza di libri necessari per le liturgie e la preparazione educativa del proprio clero.
Le istituzioni governative austriache hanno intenzionalmente proibito la pubblicazione dei libri in
serbo, ma ben presto questo si rivelò essere stato
per loro un grave errore. La Russia decise, infatti,
di assumersi il ruolo di difensore dell’Ortodossia
serba. Dalla Russia furono importati numerosi libri
e, a partire dal 1726, cominciarono ad arrivare in
Serbia gli accademici russi con il preciso compito
di insegnare al giovane clero serbo la lingua slava
utilizzata dalla Chiesa russa; essa divenne la
variante linguistica ufficiale, mettendo in ombra la
lingua ecclesiastica serba. Ma cambiare la lingua
significava trasformare anche la politica culturale
del Paese: le tendenze principali della cultura
serba continuarono ad essere definite dalla Chiesa
e presero un marcato orientamento verso la
Russia. Indipendentemente dalla volontà e dalle
intenzioni delle autorità ecclesiatiche serbe, nella
seconda metà del XVIII secolo, furono così
introdotte dalla Russia questioni non appartenenti
strettamente al campo religioso: il Paese russo,
aperto nei confronti della cultura europea
dell’Occidente, diventò il principale mediatore
della penetrazione di tradizioni culturali
occidentali nell’ambiente sociale delle classi medie
della Serbia.
Entrambe le parlate slavo-ecclesiastiche, serba e
russa, furono, tuttavia, presto rimosse dalla lingua
parlata del popolo serbo e lo sviluppo si orientò
inarrestabilmente nella direzione della creazione
di una lingua letteraria più vicina al linguaggio
popolare. Nel 1768 un poeta serbo, Zaharija
Orfelin, introdusse nella lingua letteraria serba una
mescolanza del linguaggio religioso e di quello dialettale, conservando uno spazio per i termini di derivazione russa. Questa lingua, denominata lo slavoserbo, risultò molto più familiare alla società serba,
ma ciò nonostante, fu rimossa a causa della sua
caoticità e mancanza di precise regole grammaticali.
In seguito, siccome cominciava a diminuire la
pressione per l’unificazione delle Chiese, i motivi
di disprezzo delle culture degli europei non
ortodossi diminuivano; la classe media iniziava a
crescere, la società e la cultura serba nei territori
austriaci cominciava ad essere secolarizzata. Al
posto del Paese russo, l’Europa diventò il nuovo
modello da seguire (Storia della cultura serba ).
Nel 1783, Dositej Obradović, la figura centrale
della letteratura serba del XVIII secolo, iniziò a
propugnare un nuovo programma linguistico.
Ispirato dalle idee del Illuminismo europeo, seguì
l’approccio utilitaristico nei confronti della lingua
letteraria, che dovette diventare comprensibile
innanzitutto ai lettori. Cercando di impedire che
nella letteratura diminuisse l’uso del dialetto, egli
ha eliminato i termini dello slavo-russo e di quello
ecclesiastico ancora rimasti in uso, che non
avevano un’espressione equivalente nel dialetto
serbo. Così, agli inizi del XIX secolo, rimasero in
Serbia solo due varianti linguistiche: la mescolanza
slavo-serba di Orfelin e il dialetto di Obradović.
L’intera area del serbo-croato fu caratterizzata,
dunque, da una serie di mutamenti linguistici che
ottennero una standardizzazione letteraria solo a
metà del XIX secolo, quando l’unificazione linguistica fu portata al compimento con il progetto,
definito la ‘riforma di Vuk Karadžić’, e con l’imposizione, tramite una Dicharazione del 1861 del
Parlamento croato, della lingua serba e più precisamente del dialetto ‘štokavo’ di Erzegovina orientale come lingua ufficiale in Croazia.
La Serbia, in cui Vuk Karadžić, il riformatore della
lingua e dell’ortografia serba, nacque, faceva parte
ancora dell’Impero Ottomano. Nel 1807 egli partecipò alla prima insurrezione serba, ma il suo fallimento lo costrinse ad emigrare nel 1813 a Vienna,
dove grazie all’aiuto del celebre filologo sloveno
Jernej Kopitar, censore imperiale dei libri slavi e
neoellenici e di Josip Dobrovsky, il ceco fondatore
della filologia slava, iniziò le sue ricerche linguistiche. Dichiarando guerra agli elementi ecclesiatici
83
n.18 / 2007
della lingua slava, nel 1814, egli avviò la riforma
della lingua serba sulla base della lingua popolare.
Karadžić ridusse, le lettere serbe da 46 a 29 e tentò
di fissare le regole della declinazione e della coniugazione, propugnando la necessità di adottare
come lingua letteraria il dialetto ‘štokavo’. Negli
anni seguenti Karadžić viaggiò in Russia, in
Germania, e per quasi tutte le terre slave del sud
nelle quali raccolse materiali per il suo futuro
Vocabolario serbo.
Più tardi, nel 1850, un gruppo di letterati croati e
serbi, o meglio jugoslavi, perché così essi si definivano, tra cui Kukuljević, Demeter, Mažuranić e
Daničić, insieme allo sloveno Miklošič e allo stesso
Karadžić, si incontrò a Vienna e firmò un manifesto
contenente l’invito a tutti gli slavi del sud ad accettare il cosiddetto dialetto meridionale - la variante
ijekava dello štokavo come loro lingua letteraria.
Una breve analisi di questo documento, denominata La Casa Viennese Serbocroata, è stata svolta
da Sinan Gudžević.
Significativo fu il fatto che, al momento della firma
dell’Accordo di Vienna, che fu elaborato in quella
occasione, i partecipanti erano tutti cittadini della
Monarchia d’Austria, essendo nati sul suo territorio, tutti tranne Karadžić, mentre come base della
lingua letteraria suggerirono un dialetto che veniva parlato prevalentemente al di fuori del territorio
della Monarchia.
Il documento riporta anche le ragioni per cui quegli uomini suggerirono “che sarebbe più corretto
accettare lo štokavo meridionale quale loro lingua
letteraria: a) perché la maggior parte della popolazione parla in questo modo, b) perché si avvicina
di più allo slavo antico e quindi anche alle altre lingue slave, c) perché la poesia popolare è scritta e
cantata quasi interamente in tale dialetto, d) perché tale idioma è usato nell’antica letteratura della
Repubblica di Dubrovnik, e) perché la maggioranza dei letterati, di confessione orientale ed occidentale, scrive in tale maniera”.
“All’adozione generalizzata di una lingua comune
per tutti i popoli di Croazia, Bosnia, Serbia e
Montenegro contribuirono attivamente vescovi,
scrittori, professori di tutte le nazionalità in vista
del progresso civile e culturale dell’area” (La Casa
Viennese Serbocroata).
L’Accordo ebbe, tuttavia, un effetto limitato. Gli
sloveni, seguendo l’esempio del loro poeta France
84
Prešeren (1800-1849), non vollero affatto abbandonare la loro lingua; cosa abbastanza logica, data
l’importanza della lingua slovena nella coscienza
etnica del popolo sloveno. Poco dopo anche la
maggior parte dei serbi lasciò perdere l’accordo. Al
posto del dialetto di Vuk, nella seconda metà
dell’Ottocento, il dialetto di Belgrado e della
Serbia centrale trionfò nello Stato serbo.
La ‘riforma di Vuk’ agitò i circoli conservativi in
Serbia, e soprattutto la Chiesa che si impegnava a
mantenere come lingua ufficiale il serbo-slavo, una
lingua letteraria ibrida modellata sulla lingua
liturgica tradizionale e sulla parlata colta delle fasce
urbane, cosiché le sue modifiche furono accettate
dal governo serbo solo nel 1868, cioè quattro anni
dopo la morte del riformatore serbo.
Fino a quel momento nella lingua letteraria ha
predominato il dialetto ‘štokavo-ekavo’, appartenente alle zone nord-orientali di Serbia, anche per
il fatto che i centri culturali, politici ed economici
più importanti si trovavano in quelle regioni.
Nonostante ciò Karadžić scrisse nella sua lingua
materna, ossia nella variante ‘ijekava’, che copriva
le aree della Serbia occidentale, della Bosnia ed
Erzegovina, di Montenegro ed era largamente
utilizzata tra i serbi di Croazia, Slavonia e Dalmazia.
In un certo senso la riforma non fu completa. Gran
parte della Serbia e l’intera Vojvodina, con le loro
tradizioni solidamente radicate, non furono preparate a interscambiare le caratteristiche di ‘ekavo e
ijekavo’, mentre nelle aree dove era parlato ‘ijekavo’ le riforme furono accettate in modo inalterato.
Inoltre, Karadžić, seguendo il principio dello ‘scrivi come parli’ - un grafema per ogni fonema - mise
fuori uso le lettere cirilliche della vecchia lingua
slava, quelle vocali che per uno svilluppo
differenziato creavano dei contrasti tra lo ekavo e
ijekavo. Tuttavia, nel fare ciò, egli rese impossibile
la preservazione della forma grafica unificata e
questo spiega la formazione e la coesistenza di due
versioni della lingua letteraria serba, da cui trae
origine una serie di problemi sia culturali sia
politici, fra i quali una consistente parte deriva dal
fatto che i croati adottarono gradualmente la
variante ijekava di Karadžić come loro lingua letteraria. La lingua che utilizzavano fu, infatti, molto
più vicina a quella della riforma che non alla variante ‘kajkava’, che mantenne a Zagabria lo status di
lingua letteraria croata fino al 1830.
Ana Živkovi´c
Il serbo-croato: da una lingua che univa a una lingua che divide
La riforma di Vuk è servita come esempio e modello, attraverso cui l’Illirismo di Ljudevit Gaj raccolse
intorno a sé quasi tutti gli intellettuali croati per
realizzare l’unità letterario-linguistica del popolo
croato, che precedentemente utilizzava una molteplicità di lingue letterarie regionali. Nello stesso
momento, diventò possibile la loro auto-determinazione nazionale anche in quelle regioni, dove
l’auto-definizione della popolazione seguiva solo
l’appartenenza alle unità regionali del Paese
(Storia della cultura serba )
In uno studio del 1967, Pro e contro Vuk, lo scrittore bosniaco, Meša Selimović, decise di soffermarsi sull’importanza della riforma di Karadžić,
analizzando anche gli aspetti non puramente linguistici. I motivi per cui si accettava o respingeva la
lingua popolare appartenente alla cultura
contadina, prevista dalla riforma di Vuk, sono nei
diversi momenti storici differenti, dimostrando
che il conflitto riguradante la lingua nazionale fu
rinvigorito ogniqualvolta ci si trovava davanti ai
significativi cambiamenti nella nostra vita sociale:
nei primi decenni del XIX secolo l’accettazione o il
rifiuto fanno parte della lotta per la formazione
della nazione e dello Stato indipendente serbo; nel
periodo della europeizzazione e di una
urbanizzazione intensificata della Serbia le tesi di
Vuk furono discusse in realzione alla necessità di
emancipazione della sfera linguistica; nei tempi
nostri, la riforma di Vuk è interpretata in base alle
esperienze spirituali e culturali accumulatesi nel
tempo e in relazione all’indispensabilità di
raggiungere il livello europeo e mondiale, che
richedono una lingua più ricca e dotata di
elasticità, capace di esprimere l’interezza della vita
e del mondo.
Tuttavia, tra coloro che criticarono la variante
linguistica di Vuk, c’è chi, come Jovan Skerlić, nello
studio intitolato Gioventù e la sua letteratura,
attacca in modo manifesto il dogmatismo di Vuk
Karadžić, accusandolo di essere rimasto troppo
lontano dal pensiero occidentale; nel nostro passato culturale Skerlić individua due modi di pensare contrapposti: quello di Vuk e quello di Dositej
Obradović, esprimendosi apertamente a favore di
quest’ultimo. Egli, infatti, afferma che a partire dal
1870, quando cominciarono a diffondersi le idee
razionalistiche, gli spiriti serbi iniziarono a ritornare verso il pensiero di Dositej; ancora oggi l’intera
area culturale si suddivide secondo due linee linguistiche: coloro che seguono l’impostazione di
Dositej Obradović si avvicinano alle idee razionalistiche proprie dell’Occidente, mentre quelli che
preferiscono Vuk Karadžić sostengono idee tradizionaliste proprie del Romanticismo. E ancora
oggi, Obradović sembra più moderno e più vicino
alla nostra realtà.
“L’imporre la lingua popolare quale lingua letteraria, aveva come scopo inevitabile quello di portare
alla rovina lo slavo ecclesiastico, definito quale l’ostacolo nello sviluppo della cultura nazionale,
quale l’intralcio al compimento della formazione
della nazione” (Selimović 2002, 4). Tuttavia, ciò
esprimeva anche la posizione sociale di Vuk, quella
contadino-democratica, comprensibile se si considera che nel periodo storico in cui egli operava, le
masse contadine, specialmente in Serbia, furono le
portatrici delle tendenze liberatrici contro qualsiasi occupazione o repressione in vista di ottenere il
diritto e il riconoscimento di tutto ciò che distingue la nazione – lingua, caratteristiche morali ed
etiche, letteratura. Cosiché sul fronte sociale, politico ed economico, ‘pro o contro Vuk’ rappresentava il confrontarsi tra coloro che detenevano
potere e coloro che volevano ottenerlo.
La conservazione ostinata dello slavo-serbo e dell’antica ortografia ecclesiastica, come d’altronde la
connessione alquanto stretta con la Russia ortodossa, furono una parte importante della politica
nazionale, che di fronte alla costante minaccia dell’espansione austro-ungarica difendeva la fede
nella Russia protettrice dello slavismo, l’organizzazione rigidamente feudale della Chiesa e una lingua artificiale. In tal modo la questione della lingua
e dell’ortografia ebbe un significato politico e fu
fortemente collegata con il destino della nazionalità serba, dove qualsiasi tentativo di rovesciamento
o cambiamento della tradizione fu visto come
un’azione antinazionale e antiortodossa. Allora si
comprende perché la lotta linguistica fu così audace: per il semplice fatto che la lingua ebbe un ruolo
importante nella conservazione o rivoluzione dell’organismo della società (Pro e contro Vuk).
Il serbo-croato nello Stato di Jugoslavia e la
politicizzazione della questione linguistica
La Costituzione jugoslava garantiva a tutti i popoli
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n.18 / 2007
il diritto di parlare e scrivere nella propria lingua.
In realtà, la lingua predominante del partito e dello
Stato, e soprattutto dell’esercito, è stata quella più
diffusa, il serbo-croato (croato-serbo).
L’ex Jugoslavia, uno Stato multietnico, è stata per
lungo, anche se in un modo incompleto, una
nazione in senso funzionale. La sua lunga permanenza nel XX secolo lo doveva anche al fatto che
almeno il 75% della popolazione usava la stessa lingua standard. Era usata come ‘second mother tongue’ anche dalla maggior parte degli sloveni e dei
macedoni. Questo Stato non aveva una sola lingua
ufficiale, ne aveva quattro: serbo, croato, sloveno e
macedone, ma in qualche modo ha sentito di
avere in realtà un’unica lingua e ha cercato di
darne evidenza nel momento in cui ha cercato più
coesione (Bogdanić L.: Serbo, croa to o serbo-croa to? L’uso geopolitico della lingua ). Nell’ex
Jugoslavia il serbo-croato, il macedone e lo sloveno
avevano ufficialmente pari dignità. In ogni istituzione federale documenti e scritte erano in tutte
queste lingue e versioni e negli uffici governativi
ogni documento veniva tradotto anche in albanese, e persino nella variante bosniaca del serbocroato. L’unica istituzione federale ad usare solo il
serbo era l’esercito.
Quindi, almeno formalmente, c’era un grande
rispetto per le varie espressioni linguistiche. Per
quanto riguarda lo status costituzionale della lingua jugoslava, essa fu regolata al livello delle comunità etniche e al livello delle stesse lingue. Nella
Costituzione jugoslava del 1974 si legge: l’art. 264
al comma 1 garantisce l’equiparazione di lingue
dei popoli e quelle delle nazionalità, nonché dei
loro alfabeti. “La legislatura jugoslava riconosceva
tre categorie di comunità: popoli, nazioni e gruppi
etnici. Quindi furono considerate le lingue del
popolo jugoslavo – serbo-croato, sloveno, macedone -, delle nazionalità - albanese, ungherese,
turco, slovacco, romeno, bulgaro, italiano, ceco e
ucraino -, e le lingue dei gruppi etnici. In
Jugoslavia, dunque, non esisteva una lingua ufficiale o statale, ma si proclamava la politica dell’equiparazione linguistica, realizzata e regolata tramite
la gerarchia dell’uso ufficiale della lingua”
(Bugarski 2005, 100-101). “Il distacco tra le dichiarazioni di appartenenza linguistica e quelle di
nazionalità risulta significativo: più di 500.000 cittadini della Jugoslavia non hanno dichiarato la lingua
86
materna che uno si aspeterebbe in base alla loro
appartenenza nazionale” (Bugarski 2005, 95).
Sin dall’inizio, la situazione politica dei Balcani
ebbe un’influenza determinante sull’uso e sul
ruolo della lingua: subito dopo il crollo
dell’Impero asburgico, gli sloveni e i croati si
unirono alla Serbia, dando vita al SHS - Regno dei
Serbi, Croati e Sloveni, divenuto nel 1928 lo Stato
di Jugoslavia.
Nello Stato jugoslavo, il rapportarsi dei serbi e dei
croati nei confronti della lingua letteraria cambiò.
Nel XIX secolo furono i croati quelli che
insistettero sull’idea di unità linguistica, ma non
appena l’unificazione fu raggiunta, si rivelò chiaro
che l’abbiano voluta solamente per risolvere una
serie di problemi che al tempo avevano nel settore
della politica. Essi non avevano intenzione di
costruire e sviluppare uno Stato unitario; il loro
obiettivo era, al contrario, quello di procedere alla
secessione, una volta ottenuta l’unificazione linguistica croata. Ben presto, infatti, i linguisti croati
iniziarono a mettere in evidenza piuttosto le differenze che non le similitudini linguistiche con il
popolo serbo.
Durante l’intero XX secolo la questione linguistica
è stata politicizzata in maniera esasperante; prima
dall’ideologia unitaria della Monarchia che voleva
una Jugoslavia come un’unica tribù con una lingua
condivisa da tutti o dalla maggioranza, e poi con la
fase di conflittualità linguistica, con periodi di
concessioni autonomistiche alle quattro lingue
formalmente riconosciute. Il risultato è che una
lingua come il serbo-croato ha cambiato l’etichetta
della propria denominazione a ogni svolta politica,
alternando fasi di serbo, croato, serbo-croato, ecc.,
anche se nell’ultimo secolo le lingue usate dai
singoli gruppi etnici del popolo sono rimaste
sostanzialmente le stesse. A tal proposito, si giunse
alla constatazione che per il popolo serbo fu
proprio il periodo jugoslavo del regime comunista
quello più disastroso: si scriveva con l’alfabeto
latino e si parlava il serbo-croato. In nome della
fratellanza si cambiarono le parole, si permise
l’infezione.
Uno dei compiti più significativi assunti dai singoli
governi e altre autorità nazionali fu quello di
instaurare ed istituzionalizzare differenze
permanenti tra questi popoli. In mancaza di
diversità nella lingua, fu la religione ad essere il
Ana Živkovi´c
Il serbo-croato: da una lingua che univa a una lingua che divide
primo fattore di differenziazione sociale; ma dall’altra parte furono le stesse comunità religiose in
Croazia, Serbia e Bosnia-Erzegovina che chiesero
una lingua purificata dagli elementi dei vicini
nemici. Nasce perciò il desiderio di avere a che fare
solo con i concittadini ‘omogenei linguisticamente’, considerando amici solo coloro che hanno la
stessa pronuncia e lo stesso accento, perché solo
così è ritenuto possibile creare per i singoli una
tranquillità di tipo psicologico individuale. Si tratta
di un’omogeneità che deve essere solidale e che
porta all’estremo limite le proprie peculiarità per
stabilire definitivamente una netta differenziazione
dalle lingue degli altri. È sicuramente significativo
sottolineare che la situazione linguistica separatista attuale nasce dalla variazione regionale della
medesima lingua in seguito allo sforzo dei poteri
amministrativi nazionali di rendere più marcate le
differenze tra un dialetto e l’altro, coniando termini ipoteticamente più puri etnicamente e quindi
rivelatori della vicinanza con l’etnia croata o quella
serba, giustificando a posteriori una scelta essenzialmente politica (Bogdanić L., Serbo, croa to o
serbo-croa to? L’uso geopolitico della lingua ).
Uno dei presupposti dello Stato jugoslavo, l’ideale
unitario di tutti i popoli slavi del sud, fu proprio
l’unicità della lingua dei serbi e dei croati.
L’assenza di uno Stato che potesse assicurare uno
spazio, dove le questioni politiche relative al ruolo
dello Stato nella creazione di un’identità nazionale
potessero essere discusse, ha fatto sì che non si
formasse una cultura politica uniforme e che le
questioni culturali, tra cui quelle linguistiche, divenissero il luogo privilegiato del confronto politico;
discutere della lingua dei croati e dei serbi non
significa “affrontare una questione accademica o
meramente culturale, ma intervenire in un problema politico e geopolitico di primo ordine”
(Bogdanović 2003, 230).
Nella rivista Republika (01-02/2001) Snježana
Kordić ha pubblicato l’articolo Rigua rdo a lla
denomina zione della lingua da l punto di vista
scientifico, in cui cerca di esaminare i motivi per
cui numerosi linguisti stranieri continuano ad utilizzare la denominazione ‘serbo-croato’. “La linguistica nel mondo non può, a causa dei conflitti
nazionali e politici sud-slavi, cambiare il criterio in
base al quale si decide l’esistenza di un’unica o due
diverse lingue. Kordić definisce il concetto ‘lingua’
in base alla regola seguita già nel XIX secolo: “il
sistema di valutazione determinante per affermare
che sulle basi linguistiche si può parlare di un’unica lingua è la reciproca comprensione: coloro che
parlano diverse varianti della stessa lingua sicuramente non necessitano di un interprete. Questo
criterio rimane allora l’unico conforme alle regole
della linguistica: se capisco quello che dici, allora
tu parli la mia lingua, se non capisco, allora parli
una lingua straniera (criterio scritto nel XIX secolo
da Georg von der Gabelentz, Die
Sprachwissenschaft 1891, 55), concludendo che la
regola della comprensione sia al di sopra di quella
della nazionalità” (Kordić 2001, 237).
Seguendo tale logica Snježana Kordić analizza dunque la problematica della denominazione affermando che: “dopo la disintegrazione della
Jugoslavia ciascuno dei tre Stati nuovi, formatisi
dalle Repubbliche jugoslave in cui si parlava il
‘serbo-croato’, chiama la propria lingua in base alla
propria identità etnica” (Kordić 1997, 3), richiamando all’attenzione “il tentativo compiuto dalla
Croazia di rendere la lingua della parte occidentale della ‘società linguistica serbo-croata’ il più possibile diversa di quella utilizzata nella parte orientale” (Kordić 1997, 18).
La questione della lingua, ovviamente, non è e non
è mai stato soltanto un problema linguistico. È
stato più volte sottolineato che durante i numerosi conflitti e litigi, perpetrati tra i popoli dei
Balcani, la lingua fu sempre rappresentata come
una fra le pietre più dure da superare. ‘I conflitti
riguardanti la lingua non durano da ieri, ma quasi
da due secoli.’ La questione linguistica fu resa problematica perché si basava sulla teoria che valutava
soprattutto le similitudini fra due popoli - i serbi e
i croati, e durante il percorso storico cercava di
ignorare qualsiasi differenziazzione. L’unificazione
delle lingue sud slave sembrò necessaria per assicurare il successo del progetto ‘jugoslavo’. Esso
nacque dalla convinzione, di matrice illuminista,
che, data l’affinità del loro lessico, sarebbero bastate una lingua letteraria e una cultura comune per
far scoprire ai popoli jugoslavi la loro parentela,
fondendoli in uno solo.
Nel 1991, a processo di disgregazione ormai avviato, le domande sulla nazionalità, la lingua e la religione avevano acquistato una valenza politica tale
da diventare lo strumento con cui si intendeva
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n.18 / 2007
misurare i rapporti di forza tra i diversi gruppi. La
violenza nei confronti della lingua, motivata in
modo dominante dalle ragioni politiche e dal dettato di essere diversi a qualsiasi prezzo, iniziò a
rappresentare in realtà un atto di “culturicidio”.
È vero che storicamente i croati hanno sempre
cercato di evidenziare le specificità della loro
lingua, ma è solo in questi ultimi anni, con
l’indipendenza della Croazia e la guerra nell’ex
Jugoslavia, che queste caratterizzazioni hanno
assunto toni così marcati da sconfinare talvolta nel
ridicolo. Nel 1955 sono le parole di Juraj Krnjević,
politico croato (1895-1988), a testimoniare in
modo adatto quelle che furono le conseguenze
della purificazione della lingua croata: “Agli inizi
dello Stato indipendente i croati cominciarono
con la ‘purificazione’ delle parole, soprattutto dal
serbo e dai termini internazionali. Quando adottarono la lingua serba, i croati cercarono sistematicamente di abbrutirla e degradarla. È nota l’antica
tendenza smodata dei croati di cambiare le parole
straniere con quelle ‘croate’. In questo processo
non solo tendono a formare delle parole inappropriate, ma anche con significati del tutto inadatti e
sconosciuti al popolo” (Kostić 1964, 77). “Anche se
si sono impadroniti della lingua serba – del dialetto ‘štokavo-ijekavo’ -, i croati non sono mai riusciti
a ‘collegarsi’ con essa; non hanno mai compreso lo
spirito di questa lingua e non ne hanno mai colto
la vera sostanza. A parte questo, forse per la loro
avversione verso tutto quello che è straniero, non
hanno creato altro che una versione deformata
della lingua serba, rendendola corrotta e incomprensibile al proprio popolo” (Kostić 1964, 88).
Chi ne dibatteva erano gli intellettuali; la gente
comune non si preoccupava seriamente di queste
discussioni. Solo negli ultimi anni la questione
della lingua è diventata un fatto politico,
fomentato come un elemento di identificazione
nazionale. Sul piano della comunicazione
quotidiana la gente è sempre stata in grado di
capirsi, perchè le distanze che intercorrono tra
serbo, croato e bosniaco sono più o meno quelle
esistenti tra l’inglese britannico e quello
americano. Però con il prevalere della funzione
politica della lingua, intesa come strumento di
identificazione nazionale e di rafforzamento dello
Stato, si rende molto più pesante e difficile il clima
culturale in cui la gente vive.
88
Lingua e nazionalismo
Uno degli ideali da perseguire nel nazionalismo
moderno è sicuramente la purità della lingua. Tra
l’altro, è proprio sulle rivendicazioni di carattere
linguistico che si sono basati molti movimenti
indipendentisti e secessionisti ritornati in voga con
il revival etnico contemporaneo. Senza dubbio, la
lingua rappresenta un elemento che sprigiona in
modo alquanto pronunciato i sentimenti di
appartenenza nazionale, fungendo così da potente
amplificatore delle rivendicazioni nazionalistiche;
ma affinché diventi un elemento costitutivo e
determinante, essa deve essere accompagnata da
una cultura e da un patrimonio culturale nazionale
molto solido. Il compito primario di ogni
nazionalismo separatista era, ed è, provare che si
tratta di due lingue diverse.
La ex Jugoslavia è solo un esempio di come le varie
lingue nazionali o forse i dialetti regionali di una
stessa lingua abbiano favorito la formazione delle
diverse cause dei nazionalismi.
All’inizio degli anni ’90, nello spazio jugoslavo, si
diffonde la convinzione che: “alcuni fabbricano
delle parole per utilizzarle come coltelli, altri fabbricano dei coltelli per utilizzarli al posto di parole” (Uglešić 1996, 56). Dubravka Uglešić, la scrittrice croata alla quale l’opinione pubblica attribuì l’etichetta di ‘traditrice nazionale’, scrive che: “È iniziato tutto dalle parole e con parole tutto finirà.
L’intervallo di tempo – segnato da migliaia di
morti, di profughi e di cacciati, da case, vilaggi e
città distrutte - un giorno sarà coperto da queste
stesse parole, che formerano solo un’interpretazione di questa tragedia, intrepretazione storica,
politologica, strategica o culturale, senza rendersi
conto che esse hanno partecipato alla creazione di
tutte queste disgrazie” (Uglešić 1996, 67).
L’area della ex Jugoslavia è caratterizzata da una
specie di nazionalismo linguistico, dovuta allo specifico contesto storico che ha determinato i rapporti tra diversi gruppi etnici. Il consolidamento
delle identità nazionali è avvenuto, quindi, anche
per mezzo della lingua, qualificata come un’importante caratteristica etnica e fattore di identità
collettive. L’appartenenza linguistica e la relativa
connessione con una determinata area geografica
ha dato visibilità alle rivendicazioni territoriali; il
linguaggio e l’accento diventarono, dunque, uno
Ana Živkovi´c
Il serbo-croato: da una lingua che univa a una lingua che divide
tra i più rilevanti fattori di identificazione, in nome
del quale si deve essere disposti a morire e a
uccidere.
Božidar Jakšić, in uno dei suoi studi,
Na ziona lismo e lingua : un’esperienza ba lca nica , cerca di analizzare la correlazione tra la disintegrazione del Paese e quella della lingua unificante
serbo-croata o croato-serba. Egli afferma che l’incrementata divulgazione delle differenze linguistiche, talvolta portate all’esagerazione, è stata una
delle strategie prestabilite per la dissoluzione dello
Stato comune.
A differenza dei numerosi Paesi europei, dove la
lingua ha rappresentato la base della costituzione
della nazione quale comunità politica, nei Balcani,
popolati da una mescolanza confusa e disordinata
di serbi, croati e bošnjaki, è stata l’appartenenza
alle diverse religioni e confessioni che ha determinato la suddivisione nazionale.
In un secondo scritto, Jakšić analizza il processo di
transizione dal totalitarismo jugoslavo titoista
verso i totalitarismi sciovinisti degli Stati formatisi
dopo la dissoluzione (La stra da della Jugosla via :
da l tota lita rismo titoista verso il tota lita rismo
sciovinista ), dove la lotta delle diverse etnie per
ottenere una lingua nazionale particolare ha avuto
un significato molto accentuato, in quanto ha dato
l’opportunità ai numerosi linguisti, e non solo, di
emergere, lasciando isolati quelli che, pur rischiando di essere impopolari, come Dubravko Škiljan di
Zagabria, Ranko Bugarski e Ljubiša Rajić di
Belgrado, sono riusciti a resistere all’ondata del
nazionalismo linguistico. La lingua, il mezzo più
importante per relazionarsi con gli altri, era diventata, come ben notato da Rajić, uno strumento di
identificazione nazionale, trasformandosi progressivemante in un simbolo della nazione, in un limite di divisione. La lingua, trasformata in un linguaggio di guerra, serviva alla preparazione del
conflitto e alla propaganda bellica e il tessuto linguistico unificante della lingua serbo-croata o croato-serba veniva sistematicamente disintegrato.
Con un decreto del governo Tuđman, si iniziò con
l’assoluta purificazione della lingua croata, attraverso la rimozione di tutti i termini stranieri. “La
continua invenzione delle parole che non
esistevano o non venivano più usate da decenni
nel croato corrente prima del 1991, e dunque il
continuo ricorrere a locuzioni che distinguessero il
croato dal serbo e venissero trasmesse al popolo
tramite la televisione e la stampa, è indubbiamente
il particolare più marcante della politica culturale
della presidenza di Franjo Tuđman, presidente
della Croazia dalle libere elezioni del 1990”
(Bogdanić 2003, 233-234). La Croazia ha
accentuato le specificità del croato, ripulendolo da
serbismi e influenze turche, presenti soprattutto in
Bosnia, ma diffuse anche altrove; altrettanto ha
fatto la Serbia, puntando ad una lingua simbolo di
‘compattezza nazionale’. Non di meno hanno fatto
i bosniaco-musulmani, che parlano oramai di una
‘lingua bosniaca’ a sé stante. In Croazia fu rivitalizzato anche il lessico militare, appartenente al
periodo del NDH – Nezavisna Država Hrvatska Stato indipendente di Croazia (1941-1945); tuttavia, ad un certo punto, qualcuno si accorse di
essersi allontanati troppo dal fondamento organico della lingua. A parte questo, se la purificazione
fosse stata portata agli estremi, i linguisti croati
concordavano che questo avrebbe comportato il
rischio di cadere nella finzione; ma se bisogna
‘pulire’ un territorio o una popolazione dagli
elementi estranei, la prima a dover essere liberata
dai termini del nemico, dalle parole straniere, è
proprio la lingua. La storia della civiltà conferma
che il purismo, non solo nel settore linguistico, è
di regola collegato a ideologie e movimenti retrogradativi. Ciò nonostante la lingua croata ufficiale
fu inondata da termini arcaici, evitando i serbismi
e internazionalismi, e soprattutto coniando dei termini mai utilizzati prima dal popolo. La maggior
parte dei cittadini croati si rapportava con ironia e
con un evidente disinteresse verso questa tendenza. L’esame per indovinare quale fra le parole fossero di origine serba e quali croata non sarebbe stato
superato nemmeno da nazionalisti più audaci.
Nell’aspirazione di ogni etnia di ottenere il proprio
Stato e di parlare la propria lingua, che doveva a
tutti i costi differenziarsi dalle altre, a distinguersi
dalla lingua del nemico, le vittime più segnate
diventarono i popoli, in nome dei quali questi tentativi furono compiuti.
Vera Bojić in uno dei suoi studi, La lingua serba :
la ba se della conserva zione di una na zione:
Sosta nza spiritua le, argomenta che tutti gli antichi
popoli culturali – tra cui rientrano sicuramente i
serbi – si sono svilluppati dalle collettività legate
da vincoli linguistici che, fungendo da potente tes-
89
n.18 / 2007
suto collegante, li hanno resi uniti e li hanno conservati durante il percorso storico, nonostante gli
avvenimenti politici, le divisioni e i continui mutamenti dei confini. Quasi in tutti gli antichi popoli
europei – tranne che nei serbi – esiste una forte
coscienza riguardo alla propria appartenenza linguistica, che rappresentasse la base della nascita e
della soppravvivenza della nazione e che quindi
simboleggia un valore nazionale supremo. Vuk
Stefanović Karadžić riteneva che ogni lingua rappresenta l’insieme di pensieri di un popolo, nonché la consapevolezza di sé stesso e del mondo circostante; perciò la lingua raffigura le vedute di un
popolo sul mondo e dal modo di percepire il
mondo, sia quello materiale sia quello spirituale,
dipende anche quella che viene definita la mentalità, ossia le particolarità di un popolo rispetto a
tutti gli altri popoli. L’uomo non può pensare
senza la lingua e quindi il suo pensiero e il suo
modo di esprimersi viene predefinito e guidato
dalla lingua che usa. Molte persone, soprattutto gli
interpreti e i traduttori, spesso hanno notato la
non corrispondenza delle parole di due lingue e
questo deriva dalla diversa percezione del mondo
e dalla non corrispondenza dei concetti che queste
parole definiscono. Tali dissomiglianze tra due lingue non sono casuali e costituiscono un aspetto
importante dell’identità nazionale. La lingua
materna, che Bojić definisce come patrimonio spirituale di un popolo, non è altro che il vincolo
morale o sentimentale che ci lega ai nostri connazionali, indipendentemente da dove essi si trovino.
Non è difficile comprendere che curare la propria
lingua significa curare la propria identità e che questo obiettivo rientra, per questo, tra i compiti primari dello Stato e delle sue istituzioni. E così accade per tutti gli antichi popoli culturali; sfortunatamente i serbi non hanno seguito la stessa strada.
Vera Bojić si chiede a questo punto: si tratta di
noncuranza, ignoranza o intenzionalità? Siamo
testimoni, non solo dell’indifferenza nei confronti
della nostra lingua, ma anche di un’organizzata
azione di offesa altrui molto furba contro quasi
tutti i nostri valori nazionali. Bisogna chiedersi perché il popolo serbo non ha sviluppato la consapevolezza linguistica, quale sostanza di conservazione dell’identità e della sopravvivenza? Il motivo è
che la Serbia rimane ancora una ‘Jugoslavia in
piccolo’, con molte minoranze alloglotte,
90
tradizionalmente molto aperta verso le altre lingue
ma contemporaneamente piuttosto indifferente
verso la propria. Lo studio della grammatica della
lingua materna solo nelle scuole elementari, il
linguaggio caotico utilizzato dai media e la
mancanza di un pratico dizionario monolingue
della lingua nazionale per adesso non permettono
di intravvedere una soluzione alla questione
linguistica serba (“La lingua serba : la ba se della
conserva zione di una na zione: Sosta nza spiritua le”).
È ormai ben noto, e nessuna persona seria potrebbe assumere una posizione contrastante, che, alla
metà del XIX secolo, il popolo croato accettò la
lingua serba, denominandola serbo o croato,
restando fedele alla forma riformata e
grammaticalmente elaborata, che Vuk Karadžić
preparò per il proprio popolo serbo.
È meno conosciuto il fatto, perché non palese e
forse occultato, che i linguisti più noti di quel
periodo, Dobrovsky, Šafarik, Kopitar, Miklošić e in
particolar modo Vuk Karadžić, partendo dal
presupposto dell’unitarietà linguistica, quale
fattore di unificazione degli antichi popoli europei,
ritenessero serbi tutti coloro che appartenevano
alla lingua ‘štokava’, mentre definivano croati
coloro che utilizzavano la lingua ‘čakava’ o
‘kajkava’. Il noto slavista, Pavle Josif Šafarik, nei
suoi studi sulla linguistica attestava che la lingua
serba era parlata in Serbia, Montenegro, Bosnia ed
Erzegovina, Slavonia e in Dalmazia: “Anche per
costui, soltanto le provincie della Croazia, dove era
utilizzato il dialetto ‘kajkavo’ erano indubbiamente
croate. Tuttavia, esiste la tesi di Jernej Kopitar, il
quale riteneva che i croati ‘kajkavi’ erano dei puri
sloveni, mentre veri croati rimanevano solo i croati
‘čakavi’ delle aree costiere. Anch’egli definì tutti gli
‘štokavi’ quali membri del popolo serbo e affermò:
l’area del dialetto serbo si estende dall’Istria,
attraverso la Dalmazia, Krajina croata, Bosnia e
Serbia fino alla Bulgaria e al territoro di Slavonia e
Ungheria meridionale” (Kostić 1964, 7). Lazo
Kostić (1897-1979), uno storico serbo, si è servito
più volte, nel suo libro Il furto della lingua serba ,
di una serie di affermazioni degli autori del XVIIXVIII secolo, che segnano le linee di separazione
geografica dei tre dialetti principali. Esse identificano la lingua croata esclusivamente con il dialetto
‘čakavo’, localizzandolo nella Dalmazia meridiona-
Ana Živkovi´c
Il serbo-croato: da una lingua che univa a una lingua che divide
le e nelle zone croate a nord della Dalmazia. “Il dialetto ‘čakavo’ è lingua croata, mentre quello ‘štokavo’ lingua serba. Il dialetto ‘kajkavo’ rappresenta
solo un dialetto della lingua slava come tale”
(Kostić 1964, 15). Il dialetto ‘štokavo’ veniva utilizzato in Dalmazia settentrionale e in Bosnia e siccome durante il periodo della dominazione ottomana, l’odierna regione croata di Slavonija accolse
un’ondata di ‘nuova’ popolazione, che arrivò dall’altra parte del fiume Sava e utilizzava lo ‘štokavo’,
il dialetto ‘kajkavo’ risultava limitato alla parte
nord-occidentale della Croazia. Tuttavia, “la lingua
della Dalmazia e della Bosnia, escluse le città di
Dubrovnik e Boka, fu successivamente, per motivi
religiosi, denominata ‘croato’, in modo da distinguerla dalle lingue dell’Ortodossia orientale, i
membri della quale sono chiamati serbi” (Kostić
1964, 10-11). Kostić riporta anche che gli elementi
morfologici, sintattici e lessicali della Bosnia, della
Slavonia e di Dubrovnik si distinguono in modo
inequivocabile dal ‘čakavo’ e si identificano con la
lingua serba. Kostić riporta anche gli scritti di
Matija Petar Katančić, professore all’Università di
Budim e prete cattolico, oltre che poeta e archeologo, il quale alla fine del XVIII secolo scrisse: “I
montenegrini, i serbi e i bošnjaki parlano la stessa
lingua dei dalmati, che si differenzia da quella
usata dal resto dei croati” (Kostić 1964, 108).
L’adozione della variante ‘štokava’ da una parte
consistente del popolo croato, differenziandosi
solo in un secondo momento in base all’identità
religiosa, fu il primo passo nella realizzazione della
loro programmata politica linguistica, quale mezzo
di espansione nazionale e territoriale; questa lingua comune ‘serba o croata’ fu il modo più adatto
per oscurare i confini etnici tra i due popoli e per
congiungere alla Croazia quelle parti della popolazione serba che si convertirono al cattolicesimo. Lo
sviluppo successivo della questione linguistica ha
registrato un infinito numero di tentativi dalla
parte croata di dividere la lingua serba di Vuk;
prima introducendo le varianti croato-serbo e
serbo-croato, successivamente quelle occidentaleijekava e orientale-ekava. Questa versione occidentale, che comprendeva, oltre la Croazia, Bosnia
ed Erzegovina, Montenegro e Serbia occidentale,
quindi una parte consistente del popolo serbo, fu
equiparata alla variante croata e contrassegnata
come territorio linguistico croato. Questo esempio
mostra un drastico abuso della lingua per fini
nazional-politici.
L’espansione del territorio linguistico e nazionale
croato, quale fine del programma filologico croato,
fu dunque compiuto a danno del popolo serbo.
Un simile abuso linguistico non è possibile registrare nel percorso storico di nessun altro popolo
e di nessun’altra lingua. Ma cosa hanno fatto i linguisti serbi per evitare l’appropriazione in modo
illecito e la ridefinizione della lingua serba? (Bojić
V., La lingua serba : la ba se della conserva zione
di una na zione: Sosta nza spiritua le).
Nel mondo accademico serbo la denominazione
‘serbo-croato’ della lingua serba fu introdotta
dopo la Seconda Guerra mondiale. I linguisti serbi
di spicco, accettando la divisione della lingua serba
nelle varianti sopra menzionate e accontentando
sempre di più le richieste dei letterati croati, in
parte per il loro compito, in parte per le convinzioni comuniste e internazionaliste, hanno contribuito alla realizzazione del programma linguistico
croato. L’esempio più eclatante dell’azione antinazionale della linguistica serba ufficiale fu l’accettazione indiscussa della proclamazione della lingua
bosniaca a Dayton. Infatti, gli Accordi di Dayton
sono scritti in quattro diverse lingue: inglese, croato-ijekavo e con l’alfabeto latino, bosniaco-ijekavo
e con l’alfabeto latino e serbo – limitato in questo
caso alla sola variante ekava e al solo alfabeto cirillico. Invece di dichiarare apertamente la propria
opposizione o disapprovazione e impedire agli
imperialisti politici internazionali di appropriarsi
della competenza di decidere la questione linguistica dei Balcani, i linguisti serbi rimasero in silenzio e accettarono, prima di tutti gli altri centri linguistici slavi, l’esistenza non solo della lingua croata ma anche di quella bosniaca.
Da questa breve analisi, risulta evidente che le istituzioni accademiche e scientifiche serbe siano guidate da persone senza una coscienza nazionale.
Per questo sono necessarie immediate trasformazioni nel settore accademico del nostro Paese.
Tuttavia, la situazione odierna difficilmente
potrebbe comportare dei cambiamenti positivi: in
cima alla scala sociale si sono insediate persone
che in base alle proprie sbagliate orientazioni prooccidentali agiscono sempre di più in modo da
dannegiare gli interessi e l’identità del nostro
popolo. Mentre i Paesi europei curano con dili-
91
n.18 / 2007
genza la propria cultura e lingua nazionale, in
Serbia si agisce in modo opposto: l’alfabeto nazionale serbo, il cirillico, è quasi del tutto fuori uso,
nonostante la contrarietà delle leggi; l’inondazione
di espressioni inglesi e di traduzioni assurde è
ormai un fatto comune sia nella quotidianità, sia
nei mass media sia nei discorsi dei nostri politici.
L’arena socio-linguistica serbo-croata
Il fatto che distingue immediatamente il serbo e il
croato è che il primo è scritto oltre che in alfabeto
latino anche in cirillico; d’altra parte anche i croati
nel corso del medioevo scrivevano in glagolitico,
variante più complessa del cirillico antico. In realtà
serbo e croato sono la stessa lingua orale trascritta
in due alfabeti. “Se il serbo-croato sia una o due
lingue è rimasta fino ad oggi una questione politica
fra le più dibattute. L’ideale unitario dei popoli
slavi del Sud, la Jugoslavia, poggia sul presupposto
che la lingua dei serbi e dei croati sia una sola.
Nella Dichiarazione sul linguaggio e sull’ortografia
del 1954, più nota come Gli Accordi di Novi Sad,
promossa dagli intellettuali e letterati sia serbi che
croati, si afferma che la lingua popolare dei serbi,
croati e montenegrini è un’unica lingua. Per tale
motivo anche la lingua letteraria che si è sviluppata
basandosi sul comune fondamento linguistico,
intorno ai due centri maggiori, Belgrado e
Zagabria, è un’unica lingua con due diverse
pronunce, la ekava e la ijekava. Per conseguenza, il
compito primario di ogni nazionalismo separatista
era ed è provare che si tratta di due lingue
diversissime” (Bogdanić 2003, 233-234).
Se in Croazia troviamo un’ampia e dettagliata argomentazione demagogica, anche di data alquanto
recente, che spesso riprende lo stile del tradizionale ‘alibismo’ croato, dall’altra parte, in Serbia, a
causa del liberalismo, noncuranza, insofferenza e
fastidio verso ciò che accade al di là del confine, la
questione della linguistica dei Balcani rimane circoscritta entro ambiti accademici ristretti e spesso
non noti al pubblico più largo. È necessaria una
grande precisione nell’esprimersi, perché coloro
che desiderano discreditare qualsiasi sforzo accademico sincero, che non coincide con le loro tesi,
hanno già da tempo elaborato degli schemi per
contrastare quegli argomenti dell’arena socio-linguistica serbo-croata con cui si dimostra la veridi-
92
cità e l’attendibilità della teoria, secondo la quale il
serbo e il croato siano un’unica lingua – la lingua
serba.
Gli avvenimenti dell’arena socio-linguistica serbocroata possono essere seguiti a partire dal momento della comparsa dei croati come nazione; tuttavia, si potrebbe facilmente constatare che la formazione di questa nazione si protrae tuttora grazie
all’assimilazione, spesso dei serbi, e che tale programma, portato avanti dal complesso degli appartenenti all’ordine sacerdotale croato, raggiunse
all’inizio del XX secolo in modo definitivo una condizione equilibrata e duratura. Infatti, il XIX secolo
- il periodo della liberazione dei Balcani occidentali dall’Islam dell’Impero turco, fu visto dal Vaticano
come momento opportuno per l’unificazione dei
cristiani serbo-ortodossi neo-liberati con la Chiesa
romano-cattolica. Nello stesso tempo, Vienna si
prefisse lo stesso fine – includere la Serbia liberata
dall’oppressione ottomana nei territori austriaci; il
culmine di queste tendenze austriache si sarebbe
verificato con la Prima Guerra mondiale, che iniziò
con l’annuncio di guerra di Austria alla Serbia. Per
questo, sia da parte del Vaticano, attraverso
Strossmayer e la sua idea di ‘jugoslavismo’ con il
centro culturale di Zagabria, sia da parte di Vienna,
attraverso le idee di Jernej Kopitar e di Vuk
Karadžić, fu sostenuto il modello di un unico
popolo – ‘serbo-croati’; “stesso popolo che deve
avere la stessa lingua” (“Accordo di Vienna 1850”).
Bisogna mettere in evidenza che tra i croati provinciali–‘kajkavi’, esisteva un reale desiderio
riguardante gli ideali romantici di un unico Paese
slavo (Illiria o Jugoslavia); nell’ambito di quest’idea
ebbe origine il cosiddetto movimento illirico, noto
principalmente per i suoi esperti di linguistica, che
furono talmente dominanti, da far coincidere i due
termini illiristi e linguisti. In base a questo può
essere percepito anche che il fine preminente
degli illiristi fu quello dell’unificazione linguistica
con la Serbia, ossia l’adozione della lingua serba
come lingua ufficiale nella provincia austriaca di
Croazia, che fino a quel momento utilizzava la
lingua tedesca o latina (“In nome della difesa della
lingua serba”).
La discussione sul problema linguistico dei Balcani
di Lazo Kostić, intitolata Il furto della lingua serba
e pubblicata nel 1964, a Baden in Svizzera, inizia
con la crudele constatazione che i croati siano l’u-
Ana Živkovi´c
Il serbo-croato: da una lingua che univa a una lingua che divide
nica nazione nel mondo a non avere una propria
lingua. A tal proposito Kostić richiama l’attenzione
sugli studi etnografici, L’etnogra fia della Turchia
europea , dove si riporta che non esistono due
esperti di slavistica le cui opinioni combacino
riguardo alla questione della composizione del
popolo croato, della sua lingua e della sua distribuzione geografica.
“Prima del rinascimento illirico, lo ‘štokavo’ serbo
non era parlato da nessun croato, ma solo dai serbi
cattolici. Coloro che si erano posti come guide dell’illirismo, non volevano definire, per motivi
politici, la lingua come serba, ma nello stesso
tempo sembrò inappropriato anche di presentarla
come croata; quindi, adottarono un assurdo
metodo di mascheramento, rappresentando se
stessi come membri di un popolo balcanico
scompraso – gli illiri. A loro sembrava opportuno
includere nel fenomeno dell’Illirismo sia croati che
serbi, con la pretesa di dividere in modo definitivo
i serbi cattolici dalla madrepatria” (Kostić 1964, 45).
“Fino al periodo del rinascimento illirico, i croati
non possedevano alcuna lingua letteraria propria e
non era molto chiaro cosa fosse realmente la
‘lingua croata’. Nessun autore slavo giudicava lo
‘štokavo’ come dialetto croato, ma esclusivamente
serbo. I documenti storici testimoniano che, fino
al XVII secolo, tutti gli ‘štokavi’ si definivano serbi,
mentre unicamente i ‘čakavi’ si distinguevano
come croati. Solo nel XVIII secolo, gli autori
cattolici decisero di tentare di offuscare la sostanza
della lingua serba denominandola ‘lingua illirica o
slava’. Dall’altra parte, nel XIX secolo, quando il
rinascimento illirico divenne un sentimento
diffuso, un numero notevole di slavisti europei
cominciò a considerare la lingua croata quale uno
tra i dialetti della lingua serba.Questa spiegazione
sembra quasi del tutto coincidere con la
spiegazione breve e precisa che si trova alla voce
‘lingua serba’ nel Vocabolario italiano di Nicolo
Tommaseo: ‘la lingua serba è uno dei quattro
idiomi, non dialetti dei popoli slavi... si parla in
Bosnia ed Erzegovina, in Dalmazia di Zagorje e in
Serbia. Il dialetto croato, come anche la loro razza,
non sono altro che una degenerazione’” (Kostić
1964, 27). Parlando di Illirismo, è utile rivedere la
storia della popolazione croata e ricordare che “la
situazione linguistica dal 1420 fino a 1797 fu in
Dalmazia completamente trascurata e abbandona-
ta a sé stessa”; non esisteva neanche un istituto
scolastico che insegnasse nella lingua nazionale. ‘Si
volete Dalmati fedeli tenete li ignoranti’, dicevano
i conquistatori. Tuttavia, durante l’era di
Napoleone, in soli 8 anni, nell’intera Dalmazia
furono disseminate più di 50 scuole superiori, ma
tale progresso fu successivamente interotto dall’arrivo in Dalmazia delle autorità austriache.
Alcune fonti rivelano che ancora nel 1870, la regione registrava intorno all’80% di analfabeti (Frano
Ivanišević, Na rodni Preporod u Da lma ciji , tr.it Il
rina scimento na ziona le nella Da lma zia , Split
1932). Nel 1825, furono gli ungheresi ad imporre al
popolo croato la lingua magiara quale lingua
amministrativa ufficiale, costringendoli nel 1835 ad
accettarla anche nelle scuole, con lo scopo ben
preciso di trasformare la Croazia in una provincia
ungherese, mentre gli stessi croati pensavano solo
alla preservazione dell’alfabeto latino, senza preoccuparsi di salvaguardare la loro lingua popolare. Di
fronte al pericolo di una totale estinzione, cominciò a svilupparsi il rinascimento croato (Dučić
2001, 3-4). “Ljudevit Gaj cominciò a dispiacersi per
la situazione miserevole in cui si trovava il linguaggio popolare dei villaggi croati. Scaturì in lui l’idea
della necessità di adottare la lingua letteraria serba,
in quanto una comune lingua parlata avrebbe
riunito le parti della Croazia, perché se nelle isole
si usava il dialetto čakavo e in Zagorje quello kajkavo, il dialetto dei serbi - štokavo fu già in uso sia
nella Dalmazia sia nella Slavonija, entrambe abitate
dalla popolazione serba per secoli. Siccome l’intera letteratura della Dalmazia fu scritta nel dialetto
štokavo serbo, l’adozione di quest’ultimo avrebbe
significato l’annessione della Dalmazia a Croazia,
eludendo la sua unione con lo Stato di Serbia”.
(Dučić 2001, 3).
“Né l’illirismo di Ljudevit Gaj né lo jugoslavismo
rappresentavano un sentimento scaturito da una
solidarietà nazionale o da un movimento irredentistico croato simile a quello serbo e montenegrino
in vista di un futuro Stato da condividere sulle rovine dell’Impero asburgico. Si trattava, al contrario,
della politica di Vienna e di Vaticano, camuffata da
idealismo romantico e nazionale; gli illiri hanno
preso la lingua serba, prima per poter appropriarsi
della letteratura di Dubrovnik, interamente scritta
nello tosavo, e successivamente per impadronirsi
delle canzoni popolari della Bosnia, anch’esse in
93
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štokavo, e pubblicarle a Zagabria senza alcun
pudore quale poesia popolare croata” (Dučić
2001, 9).
Dallo studio politologico di Jovan Dučić, intitolato
L’ideologia jugosla va : la verità sullo ‘jugosla vismo’, si intuisce che i croati non hanno mai attribuito grande importanza allo ‘slavismo’ né hanno
mai espresso fiducia nei confronti dello ‘jugoslavismo’; “essi hanno identificato il primo con
l’Ortodossia russa e il secondo con ‘balcanismo e
orientalismo’, considerando entrambi incompatibili con l’idea croata della cultura, che secondo
loro è l’unica vera cultura, più affine a quella occidentale e di maggioranza cattolica. Nello stesso
modo né lo slavismo né lo jugoslavismo potevano
essere tollerati dal popolo croato che nutriva il
desiderio di rimanere su un ‘continente morale’
separato dalla cultura orientale legata alla Chiesa
orientale” (Dučić 2001, 1).
Per costruire lo Stato jugoslavo, era indispensabile
creare un popolo jugoslavo e dunque fabbricare
una lingua jugoslava, ma i croati rimanevano dal
punto di vista nazionale sempre molto esclusivisti.
Se prendiamo in considerazione i secolari reciprocisentimenti di avversione, la differenza di religione e la diversa mentalità culturale, allora si capisce
che un tale amalgamarsi era impossibile in vista di
un’unione statale (Dučić 2001, 13).
Tra le due guerre mondiali, il politico croato, Milan
Banić scrisse: “i serbi penetrando nelle aree più
occidentali della Croazia e arrecando alla Croazia
del sangue fresco, apportarono alla mentalità
croata un po’ della durezza e dell’attivismo della
serbitù e liberarono la loro anima nazionale
attraverso l’introduzione della lingua parlata e
della canzone popolare serba” (Kostić 1964, 18).
Guidati dal sentimento di ‘unitarietà jugoslava’, i
più importanti intellettuali e scrittori croati, tra i
quali l’illustre Miroslav Krleža, introdussero nel
linguaggio vari ‘serbismi’, simboleggiando con ciò
un più forte legame tra i due popoli; esperienza
che però si limitò solo alla fase iniziale della
costituzione del nuovo Stato, perchè ben presto le
autorità croate, attente alla tutela della propria
identità ed autonomia, cominciarono a far notare il
proprio scontento e gli intellettuali, influenzati
largamente dalla situazione politica, riadottarono,
in segno di protesta, la variante più tipicamente
occidentale del croato-serbo.
94
All’inizio degli anni ’60, soprattutto nei circoli letterari croati, si iniziò con l’aperta e dichiarata negazione dell’esistenza delle due varianti. Con una
sempre maggiore convinzione si difendeva la tesi
di due distinte lingue letterarie. Così, a fianco delle
dichiarazioni ufficiali di ‘una lingua, con due
varianti’, sorgevano dei tentativi di riaffermare le
caratteristiche specifiche del croato come lingua
diversa dal serbo.
In uno dei suoi libri, Božo Ćorić elencò alcuni
principi che i linguisti croati utilizzarono per
dimostrare la distinzione tra le due lingue: 1)
dissoluzione di una coppia lessicale di sinonimi
della lingua serba, attribuendo la prima
espressione allo standard linguistico croato; 2)
dissoluzione di una coppia lessicale della lingua
serba, composta dall’espressione attuale neutrale
e da una arcaica, attribuendo la prima alla lingua
croata; 3) dissoluzione di una coppia lessicale,
composta da una parola domestica e da una
straniera, attribuendo la prima alla lingua croata; 4)
attribuzione della forma linguistica standard di una
parola al croato, mentre la sua variante locale o
colloquiale veniva attribuita al serbo.
Lo stesso Krleža, già nel 1967, propose di far
riconoscere dalla Costituzione l’esistenza della
lingua specificamente croata, intesa come a sé
stante. Dopo la Dichia ra zione sulla denomina zione e la posizione della lingua lettera ria croa ta , sottoscritta dallo stesso Krleža, nel 1969, lo
stesso affermava, nel tentativo di ricondurre alla
calma gli animi che il croato e il serbo sono un’unica lingua, che i croati chiamano croata, mentre i
serbi la chiamano serba. Erano passati molti anni
da quel 1924, quando Krleža dichiarava con una
sottile ironia, sul giornale Književna republika ,
che l’unica differenza tra il serbo e il croato era l’accento, che “un orecchio non serbo-croato difficilmente può distinguere” (Krleža 1924, 4). Uno dei
discepoli di Krleža, Predrag Matvejević, come d’altronde tanti altri intellettuali croati, mise in evidenza che le questioni linguistiche sono una materia politica che richiede tatto e prudenza e che
nelle società multinazionali, quale era quella jugoslava, “la tolleranza linguistica dipendeva dalla natura dei rapporti interpersonali; più quest’ultimi
miglioravano, meno venivano enfatizzate le differenze (Matvejević 1984, 109).
Božidar Jakšić seguì la logica opposta: ogniqualvol-
Ana Živkovi´c
Il serbo-croato: da una lingua che univa a una lingua che divide
ta i rapporti peggioravano le differenze linguistiche venivano accentuate fino all’asurdità.
Nel 1986, all’interno dell’Accademia di Serbia delle
Scienze e delle Arti (SANU), si è svolto il dibattito
riguardo alla corruzione della lingua serba da parte
di elementi non serbi e riguardo alle precise
politiche aggressive intraprese contro di essa. Il
Memora ndum, documento diffuso in via ufficiosa
dall’Accademia, denuncia che “in Croazia il
patrimonio culturale serbo è stato oggetto di
alienazione, usurpazione, noncuranza e disprezzo;
l’uso della lingua soppresso e l’alfabeto cirillico
sempre meno valorizzato da sofisticate ed efficaci
politiche di assimilazione che minano i vincoli
culturali tra i serbo-croati e il resto dei serbi.
Nessun’altra nazione jugoslava è stata privata in
modo così brutale della sua integrità culturale e
spirituale” (Memorandum SANU 1986).
Contemporaneamente, anche gli altri popoli della
ex Jugoslavia esprimevano il risentimento per la
contaminazione della propria lingua. Una pubblicazione del HDZ – Hrvatska Demokratska
Zajednica: ‘Unione Democratica Croata’, partito
politico fondato nel 1989 da alcuni nazionalisti
dissidenti, guidati dal primo Presidente della
Croazia indipendente, Franjo Tuđman, riportò,
infatti, una lista di parole accompagnate da un’analisi, in seguito alla quale questi termini furono
definiti stranieri (in quanto serbi) e ne venne allegato un equivalente croato.
Avvertendo che stava per verificarsi uno di quei
momenti storici, in cui a causa della questione
linguistica viene a spezzarsi il destino di un intero
popolo, nel 1994 Pavle Ivić pubblicò un articolo
intitolato Vuk ha commesso un gra ve errore. In
quell’occasione egli scrisse: “la comune lingua letteraria – ijekava - ha favorevolmente contribuito
all’unificazione dei cattolici nella nazione croata;
ha migliorato, inoltre, le possibilità politiche dei
croati nelle aree in cui i loro interessi venivano a
scontrarsi con quelli serbi: in Bosnia e a
Dubrovnik. A parte questo, l’adozione di una lingua letteraria familiare a quei serbi che vivevano in
Croazia, ha allontanato il pericolo per cui quest’ultimi potessero costituire, in base alla loro specificità linguistica, una qualsiasi autonomia culturale. In
tal modo, si formò un’insolita asimmetria, purtroppo sfavorevole per il popolo serbo: la lingua
letteraria ijekava dei croati, musulmani e della
parte occidentale del popolo serbo e la lingua letteraria ekava nella parte rimanente dei serbi.
Questo offriva ai nazionalisti croati l’opportunità di
affermare che lo ‘ijekavo’ sia croato” (Večernje
Novosti11/4). Per le tesi croate, basta l’affermazione di Sandra Šare che, nel suo libro Come scrivere
per un giorna le, puntualizza: “Lo ‘ijekavo’ non è
l’indicatore di un’identità nazionale, perché comune a tutte le nazioni, che fino alla guerra jugoslava
utilizzavano come lingua standard il serbo-croato:
risulta essere, dunque anche un’autentico dialetto
standard serbo” (Šare 2004, 225).
Miloš Kovačević, professore universitario e noto
linguista serbo, ha cercato di seguire la questione
della lingua serbo-croata, analizzando quali siano
le conseguenze dell’attribuzione di una denominazione problematica quale il ‘serbo-croato’. Egli ha
pubblicato il libro La lingua serba e le lingue
serbe, occupandosi in modo completo della problematica dell’adozione di un determinato nome
della lingua letteraria serba e della ridefinizione di
tale nome nei Paesi nati dopo la dissoluzione dello
Stato di Jugoslavia. Kovačević afferma che il territorio linguistico serbo si divide in una serie di lingue parlate popolar-nazionali più o meno differenti, ma tutte appartenenti al dialetto ‘štokavo’, originariamente serbo, dimostrando che tutti i serbi
sono ‘štokavi’, anche in base alla lingua non letteraria, e che non esistono serbi ‘čakavi’ o ‘kajkavi’.
Dopo l’avvio della cattolicizzazione e dell’islamizzazione, una parte della popolazione ‘štokava’ è
rimasta priva del senso di appartenenza al popolo
serbo e alla relativa collettività linguistica serba.
Costoro si sono congiunti all’ethnicum croato.
Un’altra parte dei serbi, invece, si è allontanata dall’etnicità serba per avvicinarsi a quella bosnjaka.
Per quanto riguarda la denominazione della lingua,
Kovačević spiega che la lingua letteraria serba
odierna ha due sottovarianti, quella ‘zagabrese’ e
quella ‘sarajevica’, che, a causa di una serie di
ragioni socio-linguistiche, modificarono in modo
ingiustificato la struttura linguistica di base, adottando le denominazioni croata e bosniaca. Egli
ritiene che nemmeno la denominazione ‘serbocroato’, pur essendo stata a lungo quella ufficiale,
può essere scientificamente giustificabile, in quanto avrebbe dovuto comprendere una mescolanza
dei linguaggi, delle espressioni e degli accenti ‘štokavi’ e ‘kajkavo-čakavi’, ma siccome essa ha sem-
95
n.18 / 2007
pre avuto come base esclusivamente il dialetto
‘štokavo’ non fu nient’altro che la pura lingua
serba (La lingua serba e le lingue serbe).
I testi di Branislav Brborić, nei libri Sulla rovina
della lingua e Da una lingua a d un’a ltra lingua ,
risultano paradigmatici nel senso che dimostrano
la determinatezza di una nazione, quella croata, di
uscire, a qualsiasi prezzo, da uno Stato ‘non desiderato’ e la capacità difensiva dell’altra nazione,
quella serba, la cui posizione, sia interna sia internazionale, risultava da ogni punto di vista molto
difficoltosa.
Nel mondo slavo non fu un caso che due popoli
usassero un’unica lingua, la stessa lingua letteraria
e la stessa lingua standard. La decisione di creare
una sola lingua per due popoli, in quanto del terzo
e del quarto popolo con la stessa lingua ai tempi
non si poteva ancora parlare, non è stata presa dai
serbi, ma dai croati, che hanno accettato il modello
fondato da Vuk. Un ruolo importante in questa
decisione ha avuto l’anno 1878 e il congresso di
Berlino; fu l’anno in cui Bosnia ed Erzegovina
entrarono a far parte dell’Impero austro-ungarico
e quando diventò evidente che il modello di Vuk
poteva soddisfare la tendenza croata di espandere
la propria influenza e coscienza nazionale nella
Bosnia, estendendo le ambizioni degli strateghi
politici croati di fare della Croazia un Paese guida
nella riorganizzazione della futura Monarchia; 40
anni dopo, quando l’Impero austro-ungarico fu
distrutto e quando fu creato il primo Stato comune
degli slavi del sud, prima con la denominazione
della SHS – Regno dei serbi, croati e sloveni -,
sull’ordine del giorno della politica nazionale
croata fu subito messa la questione della
secessione da questo Stato, ossia la sua
dissoluzione, con un evidente malcontento nei
confronti dell’unità linguistico-letteraria serbocroata, che faceva del nuovo Stato una ‘comunità
comunicativa’. I politici croati erano convinti che
nel caso della dissoluzione dello Stato jugoslavo
sarebbero stati seguiti da tutte quelle aree che nel
frattempo erano state conquistate grazie all’azione
della Chiesa cattolica romana e guidate con saggezza dalla politica linguistica croata. Assieme alla
separazione politica doveva verificarsi anche la
disintegrazione linguistica e la lotta contro la
problematica unità linguistica fu una delle forme
migliori di lotta contro l’unità politica. Le stesse
96
tendenze politiche rimasero, in modo latente o
pubblico, anche dopo il 1945, nella nuova
Jugoslavia, rinnovata sotto la guida del partito
comunista, e a partire dal 1939, governata dal
comunista croato Josip Broz Tito (Da una lingua
a d un’a ltra lingua ). “Colui che si difende, accusato per quello che ha fatto o meno, si ritrova
comunque in una posizione peggiore di colui che
attacca. E colui che nel 1967 – attraverso la lingua
e la politica linguistica – ha dato un duro colpo alle
basi dello Stato comune, ha avuto in realtà le spalle protette dai vertici dello Stato, come le ha avute
nel rendere impossibile qualsiasi autodeterminazione culturale dei serbi in Croazia. Riferendosi a
Tito, Brborić commenta: per ben 35 anni, ai vertici
dello Stato si trovava la persona che poteva fare
praticamente tutto. Egli aveva due capitali: una a
Belgrado, l’altra nei Brioni, l’isola dell’Adriatico
settentrionale. Sembra abbia preferito la seconda”
(Sulla rovina della lingua ).
Un momento importante nel processo del separatismo linguistico croato fu, secondo Brborić, la
Dichia ra zione sulla denomina zione e posizione
della lingua lettera ria croa ta dell’Associazione
dei letterati della Croazia. Il principio della sovranità nazionale e della totale equiparazione dei
diritti comprende anche il diritto di ciascuno dei
popoli della ex Jugoslavia di conservare gli attributi della propria esistenza nazionale e di sviluppare
in sommo grado, non solo la propria sfera economica, ma anche tutte le attività della sfera culturale. Tra questi attributi gioca un ruolo importante la
denominazione della lingua nazionale di cui si
serve il popolo croato, in quanto questo risulta
essere un diritto inalienabile di ogni popolo, indipendentemente dal fatto che si tratti di una base
linguistica che, nella sua variante speciale linguistica o anche nella sua totalità, appartiene ad un altro
popolo, quello serbo. La Dichia ra zione fu naturalmente un documento eminentemente politico,
malgrado nessun organo politico abbia mai deciso
di sostenerla apertemente. Fu valutata come un’azione intenzionalmente nazionalistica, ma senza
vedersi attribuita l’etichetta di sciovinistica. Che
essa rappresentasse l’annuncio di un’impostazione
diversa dello Stato e non soltanto una chiarificazione dei rapporti politici, sarebbe stato dimostrato dai successivi emendamenti su tutte le carte
costituzionali dello Stato federale jugoslavo e dalla
Ana Živkovi´c
Il serbo-croato: da una lingua che univa a una lingua che divide
nascita del movimento nazionalistico di massa,
denominato MASPOKOM; nel 1972 la
Dichia ra zione fu inserita nella Costituzione: la
lingua letteraria croata diventò l’idioma ufficiale
della Croazia.
La reazione più significativa a questa
Dichia ra zione si trova nel documento intitolato
‘Proposte per pensare’, dietro il quale stavano i
pensieri di una quarantina di scrittori serbi, membri dell’Associazione dei letterati di Serbia; esso
però non riuscì a produrre alcun effetto nella sfera
della politica linguistica serba, l’importanza della
quale rimase in Serbia sottovalutata, forse anche
perché si contava troppo sull’eternità della
Jugoslavia multinazionale, nella quale i serbi erano,
a dire il vero, sparsi e male rappresentati – soprattutto quelli in Croazia furono una vittima costante
della politica linguistica croata che ammetteva la
familiarità della loro lingua con quella serba, ma
ciò nonostante non poteva né chiamarsi né ritenersi serbo.
Per complicare ulteriormente la scena linguistica,
etnografica e politica del sud slavo del XX secolo,
l’etnologia di impronta comunista ha ritenuto
doveroso riconoscere i montenegrini quale il
terzo, e nella sua fase più matura anche i musulmani, quale il quarto popolo costitutivo della SFRJ
– Stato Federale Socialista jugoslavo, creando una
nuova fonte di problematiche linguistiche. In
Bosnia ed Erzegovina, prima della dissoluzione
dello Stato unitario, la lingua utilizzata fu
indistintamente denominata come serbo-croato e
fu previsto l’utilizzo di entrambi gli alfabeti cirillico
e latino. Negli anni successivi al conflitto, si sono
andate definendo tre differenti varianti del linguaggio, portando con sé una netta divisione tra
coloro che rimasero fedeli all’alfabeto latino (croato-bosnjaki e bošnjaki) e coloro che utilizzano l’alfabeto cirillico (serbo-bošnjaki).
Scaturisce la tendenza di radicare l’odierna identità
dei bošnjak nelle tradizioni dell’Oriente e
dell’Islam. Essa si esprime in diverse strategie,
come, per esempio, quella della reintroduzione di
espressioni turche e arabe non solo nel linguaggio
quotidiano colloquiale, parlato tradizionalmente
da una parte della popolazione, ma anche in
quello ufficiale.
In una situazione alquanto specifica si trovarono i
bošnjaki-musulmani.
Hanno
desiderato
confermare la loro identità nazionale anche con la
denominazione specifica della loro lingua –
bosniaco. Senahid Halilović, il linguista
musulmano, scrive: “Se i serbi e i croati hanno
rinunciato alla denominazione unica della loro
lingua, risultava arduo aspettarsi che i musulmani
mantenessero una denominazione in cui non era
presente il nome della loro etnia”. Il letterato Alija
Isaković evidenzia che il bosniaco si differenzia dal
serbo e dal croato nella stessa misura in cui gli
ultimi due si differenziano tra di loro. Il problema
sorge dal fatto che il serbo e il croato siano dal
punto di vista linguistico un’unica lingua; tale
problema sarà risolto con l’esagerato uso dei
‘turchismi’ e degli arcaismi. Le differenze devono
essere messe in evidenza. Così, i cittadini di uno
Stato, Bosnia ed Erzegovina, sono divisi in due
entità politiche, Federazione bosniaco-croata e
Repubblica Srpska, ma costretti a parlare tre
lingue, anche se parlano tutti la stessa lingua,
utilizzata in Bosnia anche prima del conflitto.
Queste tre lingue di nuova formazione comunque
confluiscono nella propaganda in una sola lingua –
quella dell’odio.
Ranko Bugarski, con i libri Lingua da lla pa ce a lla
guerra del 1994 e Lingua nella crisi socia le del
1997, in cui ha spesso dedicato attenzione agli
aspetti politici, non ha mai lasciato da parte la linguistica, anche se la maggior parte dei suoi lavori
degli ultimi anni sono dedicati al ruolo che la lingua ha svolto nella dissoluzione della Jugoslavia e
nell’ascesa del nazionalismo, nei conflitti intranazionali e sociali. Bugarski cerca di dimostrare
che la lingua non sia la fondamentale base dell’etnicità. Egli non supporta la comune convinzione
che esista la relazione ‘una lingua–un’etnia–una
nazione?, perché è convinto che tale formulazione
idealizzata e schematica esista molto raramente
nelle realtà statali moderne. Sul tentativo di separatismo linguistico montenegrino dalla lingua
serba, Bugarski dice che, per la sua realizzazione,
manchi del tutto una base linguistica, perché gli
‘ingegneri’ della potenziale lingua montenegrina
cercano di basarsi sugli arcaismi e sui localismi, formando una lingua che non sarebbe altro che la lingua serba con specificità dialettali montenegrine.
La questione della lingua montenegrina rappresenta solo il culmine del processo. Tutte le
argomentazioni a favore di una ‘lingua
97
n.18 / 2007
montenegrina’ sono esclusivamente politiche e
prive di fondamento scientifico. Si tratta più di una
serie di anomalie linguistiche che non di vere e
proprie differenze. Significherebbe quasi che qualsiasi regione della Serbia o della Croazia potrebbe
reclamare l’esistenza di una propria lingua. È ovvio
che i dialetti locali differiscono dalla lingua letteraria, ma questo non risulta sufficiente per la proclamazione di una nuova lingua, nemmeno tenendo
conto della componente nazionale di un tale processo di costruzione. La lingua è una delle componenti della nazionalità, ma non sicuramente necessaria e ancor meno unica. I serbi, i croati, i musulmani e i montenegrini hanno sicuramente una
serie di altre componenti importanti con cui
potranno distinguersi – cultura, territorio, storia
comune (La questione linguistica ).
Si delinenano, dunque, due tesi intrecciate, tra cui
la prima stabilisce che: “La differenziazione qualitativa segue l’appartenenza alla confessione religiosa, simbolizzata anche dai diversi alfabeti e solo
parzialmente dalle cornici statali. Il serbo-croato è
geneticamente e strutturalmente un’unica lingua e
una parte di coloro che la utilizzano la valorizzano
come tale, mentre il resto dei parlanti del serbocroato lo vivono psicologicamente come due o più
lingue, con forti correlazioni etniche, religiose e
culturali” (Bugarski 2005, 13). Si tratta di un’unica
lingua, che ha assunto diverse denominazioni a
causa dell’esistenza nei Balcani di tre confessioni
religiose: serbi–ortodossi, croati–cattolici e
bosniacchi–musulmani. L’insieme di cittadini dei
tre relativi Stati parlano la stessa lingua, il cui fondamento organico è rappresentato dalla lingua dei
serbi dell’Erzegovina orientale, che fu adottata
quale lingua letteraria da Vuk Stefanović Karadžić.
Quest’ultima risulta essere anche la lingua, attraverso la quale si è realizzata l’assimilazione della
città di Dubrovnik latina - l’Erzegovina orientale è
la regione retrostante a Dubrovnik, sulla quale per
secoli gravitò economicamente, e nella quale fu
scritta la letteratura rinascimentale di questa città.
Attraverso gli abitanti di Dubrovnik, dichiaratisi
cattolici, i croati all’inizio del XX secolo, cominciano a pretendere di chiamare questa lingua il croato.
La suddivisione religiosa: i croati cattolici, i serbi
ortodossi, e la diversa storia politica: il nord
austriaco, il sud prima greco e poi turco, la costa
romana e veneziana, oltre ai particolarismi locali,
98
ha determinato la formazione di due diverse tradizioni di lingua scritta. Le differenze più significative rimasero nel lessico: latinismi e germanismi nel
croato; grecismi e turchismi nel serbo. Meno notevoli sono le differenze fonetiche e morfologiche: il
serbo documenta maggiori balcanismi, costruzioni
linguistiche simili a quelle che si ritrovano nelle
diverse lingue dell’area e documentano un
comune substrato balcanico. I serbi, collocati nei
territori più orientali, subirono gli influssi di
Costantinopoli e dell’attuale Bulgaria, e
adottarono infine l’alfabeto cirillico. I croati,
insediati a Ovest, subirono invece l’influsso latino,
adottandone vari riferimenti culturali e l’alfabeto
con alcune varianti fonetiche. “Le differenze tra il
serbo e il croato non sono maggiori di quelle tra
dialetti di una medesima lingua. Si tratta di
diversità dovute al differente sviluppo storico che
la lingua ha avuto in differenti regioni. La lingua
serba è piena di parole di origine turca. Il modo di
parlare dei serbi, croati e musulmani in Bosnia,
specialmente in quelle regioni dove le tre
popolazioni vivevano insieme fino a ieri, è uguale.
È dunque impossibile distinguerli in base al
linguaggio. L’unico modo per determinare se si
tratta di serbi, croati o musulmani è classificarli in
base alla religione” (Bogdanić 2003, 232).
La seconda tesi è quella più tipicamente linguistica: ogni lingua ha un fondamento organico, formato da un substrato etnico, dal cui dialetto si
forma gradualmente una lingua standard. Qual è il
substrato etnico che ha dato origine al dialetto da
cui si sono formate la lingua standard serba, la lingua standard croata e le altre lingue standard dei
Balcani? È il dialetto serbo ‘štokavo’
dell’Erzegovina orientale. Dimostrare che il serbo
e il croato siano la stessa lingua è allo stesso modo
facile e difficile. È difficile perché i linguisti croati,
come Brozović, Babić, Grčević, Nataša Bašić e
Radoslav Katičić hanno ideato una dottrina linguistica propagandistico-demagogica, che si basa su
un’insieme di elementi stilistici artficiosi, creati al
fine di dimostrare la differenziazione del fondamento organico della lingua croata da quello della
lingua serba.
L’analisi più esaustiva della situazione linguistica
post-conflittuale della ex Jugoslavia è data dalla
dispensa di studi Lingua e democratizzazione, che
contiene i testi delle ricerche dei linguisti prove-
Ana Živkovi´c
Il serbo-croato: da una lingua che univa a una lingua che divide
nienti dai territori dell’intero spazio linguistico
serbo-croato, presentate nel 2001, in occasione
della Conferenza internazionale tenutasi a Neum,
in Bosnia ed Erzegovina, e organizzata dall’Istituto
di Lingua di Sarajevo e l’Istituto di studi est-europei e orientali di Oslo (Norvegia).
Nella parte introduttiva del fascicolo gli organizzatori della Conferenza hanno constatato con soddisfazione che “i fini della stessa furono tutti realizzati”, mettendo in evidenza come sia “di grande
importanza il ristabilirsi dei rapporti interrotti tra i
linguisti e le istituzioni linguistiche della ex
Jugoslavia e appurando che gli avvenimenti quali la
Conferenza possono mostrare come il rispetto dei
principi della democratizzazione rappresentano
un modo efficace nella soluzione di numerosi problemi ed incertezze nel campo linguistico, senza
violare i diritti di qualsiasi nazione”.
Di seguito sono riportate alcune delle osservazioni
più significative dei vari linguisti, di cui i primi cercarono di fissare la propria attenzione sulla questione della denominazione delle lingue nei
Balcani e sul ruolo che a riguardo ha avuto la politica, anche in considerazione del fatto che in altre
regioni del mondo si assiste al comune e pacifico
utilizzo, da parte di più popoli, di varianti di una
stessa lingua anche molto diverse tra loro,
chiamate tutte nello stesso modo (vedi l’inglese o
lo spagnolo). La denominazione diventa dunque
un modo per appoggiare, almeno in apparenza,
l’ipotesi dell’esistenza di lingue separate.
Dalibor Brozović, nel suo studio intitolato Le denomina zioni linguistiche nell’a rea centro-sudsla va , ha esposto le motivazioni per cui le qualificazioni ‘lingua serbo-croata’ e ‘lingua standard
serbo-croata’ oggi non sono più accettabili, proponendo di conseguenza due nomi nuovi: ‘lingua
centro-sud-slava’ per la lingua parlata dai bošnjaki,
montenegrini, croati e serbi e per la loro comune
area linguistica, mentre già nel 1970, al posto di
‘lingua standard serbo-croata’, egli indicò come
più appropriata la denominazione ‘il neo-štokavo
standard’, che però funge da modello astratto, le
cui reali concretizzazioni sono rappresentate dagli
“idiomi utilizzati da ciascuna delle quattro nazioni”
(Brozović 2001, 27). Come motivo diinadeguatezza della denominazione doppia come ‘serbo-croato o croato-serbo’ egli indica tre argomenti: 1) tali
nomi sono derivati dagli appellativi delle due sole
nazionalità e perciò risultano trattati con scarso
riguardo i bošnjaki e i montenegrini; 2) tali nomi
possono avere più chiavi d’interpretazione: serbocroato potrebbe significare ‘lingua croata in modo
serbo’ e croato-serbo ‘lingua serba in modo croato’; 3) “tutte queste denominazioni sono compromesse in modo irreversibile dalla politica linguistica di entrambi i periodi jugoslavi, quello della
Monarchia dei serbi, croati e sloveni (SHS) e quello del jugoslavismo comunista” (Brozović 2001,
26), caratterizzati entrambi da sforzi per
l’unificazione linguistica. Al di là della discussione
sui termini da utilizzare o meno, Brozović implicitamente mette in rilievo il suo costrutto teorico
‘unica lingua comune alle quattro nazioni – differenti standard linguistici nazionali’; in base a questo presupposto e seguendo la classificazione
genetico-linguistica, sembra che egli presupponga
l’esistenza di un’unica lingua sud-slava, mentre in
base alla classificazione socio-linguistica si manifestano più lingue standard specifiche.
Sostenendo l’esistenza di una serie di criteri di differenziazione degli idiomi linguistici e appoggiandosi al pensiero di Ranko Bugarski, Miloš
Kovačević, nella ricerca Una lingua o tre lingue ha
concluso che: “non c’è alcun dilemma: si tratta di
una lingua dal punto di vista linguistico, ma di tre
lingue politiche” (Kovačević 2001, 33). “È facilmente dimostrabile che quello che fino a ieri era
chiamato ‘serbo-croato’ non era altro che una
denominazione della lingua serba”, scelta per fini
politici. “E se il ‘serbo-croato’ indicava la denominazione del serbo nel contesto jugoslavo, allora in
base alle regole della deduzione scientifica anche
le odierne denominazioni della lingua ‘croata’ o
‘bošnjaka’ non sono altro che un’ulteriore modo di
chiamare la lingua serba” (Kovačević 2001, 39). La
creazione dei nuovi standard e nuovi nomi ufficiali
non vuol dire che siano nate lingue nuove.
Branislav Brborić ha in sostanza esaminato lo stesso tema dei due precedenti partecipanti della
Conferenza; tuttavia a differenza loro, nella sua
ricerca Trilinguismo e/o bilinguismo, egli ha
seguito un’argomentazione sociolinguistica,
osservando quanto segue: “è vero che continua ad
esistere il monolinguismo standard, ma è un fatto
puramente sociolinguistico che la nostra lingua
[serba] è stata scomposta in tre varianti nazionali,
portate al livello di lingue nazionali, e ciò ha pro-
99
n.18 / 2007
vocato spesso dei giudizi contrastanti relativi alla
questione se si tratti di una o più lingue, sfortunatamente supportati anche dal conflitto armato e
producendo non poca sfiducia reciproca nei parlanti delle tre ‘nuove lingue’” (Brborić 2001, 58).
Le ricerche successive della Dispensa Lingua e
democra tizza zione si sono, invece, concentrate
sul concetto del ‘nazionalismo linguistico’ e sul
bisogno di sottolineare le differenze tra le varianti,
di ‘inventare le proprie tradizioni’, politicizzando
naturalmente le scelte linguistiche
È utile partire dalla considerazione di Josip Lisac,
professore di Zara, contenuta nella ricerca intitolata Il na ziona le negli idiomi sud-sla vi , dove egli ha
analizzato le potenzialità dell’orientamento nazionale nel campo linguistico e le conseguenti divisioni della lingua parlata popolare, da egli definita
‘centro-sud-slava’, giungendo alla conclusione che:
“non raramente si è dimostrato che non esistono
caratteristiche linguistiche che appartengono ad
una sola nazione. Sicuramente esistono alcune
qualità proprie dell’idioma di una sola nazionalità,
ma abitualmente tali qualità non sono presenti in
tutti i dialetti della nazione o nell’intero territorio
nazionale, potendo essere invece facilmente trovate nel linguaggio di un’altra nazionalità” (Lisac
2001, 97).
Milorad Radovanović, nello studio Lingua sta nda rd, le sue va ria nti, sotto-va ria nti e rea lizza zioni urba no-regiona li spiega: “nella teoria linguistica generale è ben noto che le lingue standard possono essere ramificate e scomposte in base ad una
suddivisione territoriale in varianti e quest’ultime
in un’insieme di sotto-varianti. Inoltre, è noto che
nella prassi comunicativa privata e pubblica e nella
realizzazine regionale di una lingua standard, risultano come più importanti gli elementi in base ai
quali si individuano e costruiscono le differenze e
specificità di una lingua. Seguendo questo quadro
teorico, e avendo in mente l’esempio della ex lingua standard ‘serbo-croata’, nonché le sue numerose varianti regionali, può essere spiegato anche
il fenomeno di disintegrazione di una lingua standard in una serie di varianti e i derivanti processi
glotopolitici di promozione di queste varianti a
livello di una serie di lingue standard diversificate”
(Radovanović 2001, 149).
Senza dubbio, risulta molto utile l’impegno di
Radovanović nel distinguere i diversi aspetti e livel-
100
li nelle discussioni linguistiche: a) gli aspetti genetico-storici, b) gli aspetti linguistici e quelli sociolinguistici e c) gli aspetti di comunicazione e quelli simbolici. Nello stesso modo bisogna distinguere
“la linguistica e la glotopolitica, la pianificazione
della lingua e la politica linguistica” (Radovanović
2001, 170). Tuttavia, dal punto di vista socio-linguistico, si potrebbe affermare che, nonostante le
buone basi teoriche, la debolezza del suo discorso
si ritrova nel fatto di non aver preso in considerazione, in modo concreto nell’esempio jugoslavo,
le forze sociali centrifughe che hanno causato la
divisione nazionale della preesistente lingua standard comune.
Al contrario, Dubravko Škiljan, nella ricerca intitolata Le vecchie leggi linguistiche e le nuove minora nze, ha constatato che “già precedentemente
alla dissoluzione statale, specialmente nei membri
istruiti di una determinata comunità linguistica, fu
presente la tendenza a ritenere la lingua una delle
fondamentali identificazioni dell’identità collettiva
nazionale ... cosiché le questioni linguistiche sono
state nei Balcani problemi eminentemente politici”
(Škiljan 2001, 181). Anche nella situazione postconflittuale la politica continuava ad avere il ruolo
predominante. Come conseguenza della guerra
“nella maggior parte dei casi, i cambiamenti demografici hanno comportato l’uniformazione etnica
dei territori” (Škiljan 2001, 180), e “in seguito a
tutte le trasformazioni si creò la necessità di cambiare anche la condizione delle minoranze linguistiche, soprattutto dopo che le nuove politiche linguistiche hanno introdotto delle novità nelle relazioni tra le società linguistiche maggioritarie e
quelle minoritarie” (Škiljan 2001, 182). Il stabilirsi
delle nuove società linguistiche maggioritarie e
minoritarie fu nel nostro caso alquanto particolare,
perché “determinare chi può ritenersi membro di
una minoranza linguistica nel caso croato-serbo si
doveva per forza confrontare con il problema dell’esistenza di un idioma non sufficientemente
diversificato o, secondo alcuni, un idioma dove
addirittura non esiste alcuna differenziazione”
(Škiljan 2001, 187).
Škiljan ha concluso la propria ricerca con la
seguente constatazione: “parlando di minoranze
linguistiche all’interno dell’area croato-serba, tutti
i processi furono indirizzati verso una loro netta
divisione; i membri di tali nuove minoranze lingui-
Ana Živkovi´c
Il serbo-croato: da una lingua che univa a una lingua che divide
stiche si ritrovarono in una situazione schizofrenica segnata dalle attuali costellazioni politiche ed
ideologiche, la cui consegenza finale potrebbe
essere la messa a repentaglio della loro identità
collettiva ed individuale” (Škiljan 2001, 188).
Anche Milorad Pupovac all’inizio dello studio Due
a spetti della situa zione post-moderna della sta nda rdizza zione linguistica , mette in evidenza
quanto la politica e il nazionalismo hanno inciso
sulle numerose suddivisioni territoriali, politiche o
etniche della lingua. “Al centro dell’interesse del
pensiero modernistico si trovano il garantire della
libertà d’espressione, l’esistere di un mezzo adatto
di comunicazione, lo sviluppo dei canali comunicativi pubblici e la formazione dei soggetti e istituzioni che offrono un efficace meccanismo di regolazione e controllo”. Partendo dalla tesi che “la
standardizzazione di una lingua si realizza attraverso quello che Pupovac definisce “il discorso della
nazione - prassi discorsiva” (Pupovac 2001, 195),
egli distingue nettamente il discorso della nazione
e la lingua dello Stato, affermando che “negli ultimi dieci anni, nell’area della ex Jugoslavia, i processi di standardizzazine hanno permesso la realizzazione e la prevalenza del ‘discorso della nazione’
sulla ‘lingua dello Stato’”, (Pupovac 2001, 196); la
lingua diventò così un simbolo della nazione e non
simbolo dello Stato.
Lo studio di Josip Baotić s’intitola La lingua nel
processo di integra zione e disintegra zione della
comunità socia le. Appoggiandosi alle tesi di V.
Gak, che “pose l’attenzione sul fatto che, negli
spazi dell’America come anche in quelli europei,
nonostante i processi di globalizzazione, caratterizzati dalle tendenze integralistiche economiche e
politiche, si manifestano in modo sempre più evidente le tendenze di diversificazione linguisticoculturale”, Baotić afferma: “la dissoluzione dello
standard linguistico dei bošnjaki, montenegrini,
croati e serbi sarebbe accaduta anche senza la disgregazione della loro unità statale. I processi
democratici nei nostri territori hanno permesso
tale evoluzione, causando in una società multinazionale, quale era la nostra, che aveva le basi linguitsiche in un diasistema, la estinzione della
comune lingua standard” (Baotić 2001, 203).
“Secondo me”, prosegue Baotić “la gran parte
delle nostre problematiche linguistiche, come
anche i malintesi e l’allontanamento tra le nazioni,
hanno le proprie origini nel nazionalismo linguistico, fortemente radicato soprattutto negli studi e
negli scritti delle nuove generazioni degli esperti
di grammatica, che affermarono con insistenza che
la lingua rappresenta un’emanazione dello spirito
del popolo, spiegato attraverso la formula semplificata: lingua = popolo, ossia popolo = lingua. Di
conseguenza questo ha avuto diverse interpretazioni, di cui la più significativa risulta quella secondo la quale solamente partendo da una lingua puoi
risalire all’identità nazionale; un popolo o una
nazione sono tali se riescono a mostrare o provare
la propria specificità linguistica” (Baotić 2001,
207). Il processo di affermazione nazionale è stato,
dunque, accompagnato da un imponente sforzo
normativo, finalizzato non solo a descrivere e
normalizzare ciascuno standard ma anche ad
affermarne e a potenziarne le differenze rispetto
agli altri standard successori del serbo-croato.
Baotić prosegue dicendo che negli ultimi anni il
‘nazionalismo linguistico’ dei Balcani diventò un
‘nazionalismo della lingua’, che aveva come compito primario quello di convincere gli individui
“non come dovrebbero scrivere e parlare, ma
come devono scrivere e parlare se sono serbi,
croati o bošnjaki, a chi di loro sia proibito parlare
la lingua serba, croata o bošnjaka, e quali novità
inaugurate dalle rispettive nuove norme linguistiche devono essere introdotte e incorportte nel
proprio idioletto decidendo anche quali parole
delle parlate altrui devono essere riggettate”
(Baotić 2001, 211). Non è un caso che il conflitto
sia stato preparato da un decennio di ‘guerra delle
parole’ per conquistare l’omogeneità nazionale nel
linguaggio ufficiale e pubblico, nei giornali, nelle
stazioni televisive e nelle scuole, per poter poi
passare alla guerra vera.
Nello scritto intitolato Le società democra tiche
a fferma no la diversità , Ljiljana Stančić ha messo
in rilievo in che modo la democratizzazione può
servire a superare le problematiche rilevate dagli
altri autori: “bisogna accettare la diversità linguistica, affermare il diritto alla diversità e alla libertà
individuale, perché soltanto le società democratiche e gli individui liberi possono diventare i portatori di una coscienza che non vuole alcuna supremazia di qualsiasi formula culturologica o etnica”
(Stančić 2001, 215). In tale contesto “le lingue standard, quali simboli e l’incontro delle diversità
101
n.18 / 2007
dovrebbero essere definite in modo oggettivo, per
mezzo di misure linguistiche e sociolinguistiche,
tenendo sempre presente che un idioma standard
ha due funzioni principali, quello comunicativo e
quello simbolico. Questo, tuttavia, significa che la
lingua standard quale valore comunicativo bisogna
sia definita in base alle misurazioni linguistiche,
mentre la sua essenza potrebbe essere trovata in
una dimensione simbolica; in altre parole dal
punto di vista sociolinguistico la lingua deve essere valutata in base all’identità dei suoi utenti, grazie ai quali esiste e grazie ai quali riesce ad essere
una componente dinamica” (Stančić 2001, 215).
Esaminare le motivazioni che, dopo quasi due
secoli di sforzi per l’unificazione linguistica, hanno
condotto al prevalere delle forze centrifughe nei
Paesi slavi meridionali con comune lingua standard neo-štokava significa che, pur partendo dal
fatto che in Jugoslavia, il termine ‘serbo-croato’
indicava più di una semplice comunanza linguistica, è necessario porsi nella mutata realtà politicoculturale e sociolinguistica degli Stati successori
della ex Jugoslavia e cercare di confrontare due
posizioni radicalmente contrapposte: la negazione
di qualsiasi comunanza linguistica sia nell’attualità
sia in prospettiva storica e l’affermazione dell’esistenza di una unica lingua standard serbocroata
realizzata in diverse varianti nazionali. Tra questi
due estremi, si colloca una serie di varie posizioni
con un atteggiamento più cauto, che rivelano la
consapevolezza della complessità della situazione
socio-lingistica attuale senza proporre delle soluzioni ‘rigide’ alla questione linguistica dei Balcani.
La maggior parte dei linguisti, indipendentemente
dalla loro nazionalità, concordano nel riconoscere
una forte funzione simbolica della lingua, soprattutto nell’affermazione dell’identità nazionale o
etnica. Va osservato che molti di loro parlano di un
solo standard monolingistico con diversi centri di
realizzazione concreta e dell’esistenza di una serie
di varianti nazionali, mentre altrettanti si soffermano sulla strumentalizzazione politica e sulla manipolazione della lingua in vista dell’attuazione dei
fini politici unionisti o separatisti.
Accanto alla forte contrapposizione delle posizioni
estreme, emerge una maggioranza preoccupata,
che di fronte alla problematicità formale e
sostanziale della situazione linguistica ex jugoslava
si dichiara consapevole della necessità di dialogo e
102
di riavvicinamento culturale-politico tra coloro,
che pur non volendo più essere confusi con i
propri vicini, non possono negare la quasi totale
comprensibilità reciproca.
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103
Giuseppe Gangemi
La libertà come non interferenza arbitraria:
libertà dal dominio e dalla corruzione Pettit, Philip, Il repubblicanesimo. Una teoria della libertà
e del governo, (Milano, Feltrinelli 2000)
Il Sestante
Quello che vado a presentare viene considerato il
terzo grande libro del neorepubblicanesimo. I precedenti, già presentati in questa rivista, sono: John
Pocock, Il momento ma chia vellia no. Il pensiero
politico fiorentino e la tra dizione repubblica na
a nglosa ssone (in due voll.: Il pensiero politico fiorentino; La “Repubblica ” nel pensiero politico
a nglosa ssone), prima edizione 1975; Quentin
Skinner, Le origini del pensiero politico moderno
(in due voll.: Il Rina scimento; L’età della
Riforma ), prima edizione 1978. La prima edizione
di questo volume di Pettit è del 1997.
I due scritti di Pocock e Skinner sono due ricerche
storiografiche sulla letteratura e presentano il
taglio tipico della ricerca storica; lo scritto di Pettit
è diverso in quanto si presenta soprattutto come
una riflessione teorica. Per questo, qua e là, risulta
meno convincente. Ma vediamo di che cosa esattamente ci parla Pettit.
Egli comincia con il confrontarsi con la definizione
del concetto di libertà; un concetto che intende
come lo strumento attraverso cui conciliare l’individuo come valore intrinsecamente sociale e l’individuo come valore istintivamente soggettivo. Egli
pensa che, per meglio definire la libertà, occorra
distinguere tra l’interferenza per conseguire un
bene comune e l’interferenza arbitraria (pp. 3-4).
Una distinzione di questo genere gli permette di
arrivare alla definizione di libertà come non dominio, cioè ad una condizione nella quale sia possibile
guardare l’autorità diritto negli occhi, faccia a faccia.
104
Mi si permetta di sostenere che questa definizione
di libertà come non dominio ha origine nel primo
grande libro della cultura occidentale, la Bibbia. In
questo libro, che Pettit non cita mai nel suo volume, gli incontri di Mosé con l’Onnipotente sono
descritti come incontri faccia a faccia. Mosè, si
legge nella Bibbia, incontra il Creatore faccia a faccia e ci ragiona, argomentando anche in modo tale
che finisce per convincere il Creatore a cambiare
propositi. L’argomento definitivo di Mosé è che
non è giusto che l’Onnipotente rompa il patto con
la stirpe di Abramo solo perché una minoranza
della stirpe di Abramo, alle pendici del monte
Sinai, lo ha rinnegato come Dio e si è costruito un
idolo d’oro.
Più concretamente, il punto di partenza del concetti di libertà come non dominio, Pettit lo individua nel linguaggio legato al rifiuto di essere dominati che si afferma a Roma nel primo secolo avanti
Cristo (cioè dodici secoli dopo Mosé). Pettit associa il concetto a una tradizione politica che comincia con Cicerone e Sallustio, viene ripresa nella
Firenze del Rinascimento da Machiavelli e viene
rilanciata nel mondo anglosassone da James
Harrington. Pettit ci tiene, inoltre, a sottolineare
che questo concetto di libertà come non interferenza arbitraria (dove la semplice interferenza non
si configura come dominio, ma solo l’interferenza
arbitraria) non è presente solo in questi grandi
autori, che ci sarebbero arrivati per la loro grandezza e per la specificità del loro punto di vista;
Giuseppe Gangemi
questa concezione della libertà esisterebbe e si
sarebbe affermata in tutte le società in cui problematico è sia il rapporto padrone-servo (o schiavo),
sia il rapporto uomo-donna, sia il rapporto padrefiglio. Ecco perché, mi permetto di aggiungere
qualcosa che Pettit non considera: questa concezione della libertà viene elaborata da Mosé e proposta alla società dei figli di Israele in fuga
dall’Egitto. Quella società è, infatti, una società di
schiavi che si sono liberati da un padrone che si
concepiva anche come la divinità suprema vivente.
Non stupisce, quindi, che gli Ebrei impostino il
rapporto tra Dio e il Suo primo profeta come un
rapporto di non dominio, come l’esigenza profonda di una società di individui che non vogliono
avere più alcun padrone, di donne che non vogliono più farsi picchiare, di debitori che non vogliono
che la loro vita dipenda dalla volontà del creditore,
etc. E si può persino arrivare a ipotizzare che la
concezione della libertà come non dominio sia
congeniale anche a una società in cui i cittadini
non vogliono venirsi a trovare a dipendere da
un’assistenza sociale che un burocrate può, arbitrariamente, decidere di negare.
Ma, se questo è vero, se questa è la caratteristica di
questa concezione della libertà, perché sta ritornando di moda proprio adesso, nell’ultimo quarto
del secolo XX, esattamente dopo i “trenta anni gloriosi”? Perché, inoltre, questa vecchia concezione,
apparentemente superata dalla storia, riappare
proprio nelle maggiori democrazie occidentali? La
mia spiegazione è che, a parte la breve parentesi
dei “trenta gloriosi”, il secolo XX è caratterizzato
da un valore eccessivo dato al problema dell’identità collettiva; un problema a cui è stata data, nei
primi venti anni del secolo (fino alla disgregazione
dell’impero austro-ungarico), una provvisoria soluzione attraverso la sicurezza garantita dai confini di
tante nuove nazioni omogenee sul piano etnico o
sul piano culturale. Il XX secolo è caratterizzato
dalla crisi di tutte le soluzioni “austro-ungariche”
adottate in Europa (vedi, per esempio, il caso della
Jugoslavia sgretolatosi tra mille violenze e violazioni dei diritti umani a partire dalla morte di Tito).
Sotto l’onda della globalizzazione, i confini si stanno facendo più fragili verso l’esterno, mentre altri
fattori culturali stanno rendendo sempre meno
La libertà come non interferenza arbitraria
sicure le garanzie di sicurezza interne ai singoli
Paesi. Si sta sviluppando, attraverso lo sviluppo del
convenzionalismo logico e del decisionismo, che
scioglie i vincoli del diritto naturale e della tradizione in nome del nulla normativo, un pensiero
totalizzante che trova alimento nella scienza della
società (del resto John Stuart Mill avvertiva di questo pericolo, nel saggio On Liberty, proprio con
riferimento al pensiero dello scienziato sociale
positivista Auguste Comte).
Vi è, più evidente in Comte, ma presente anche in
molti scienziati sociali neopositivisti, una dimensione totalizzante sotterranea che si manifesta
nella forma di disconoscimento del valore degli
argomenti degli avversari. Questo disconoscimento deriva dal fatto che la classificazione, nella concezione neopositivista, è generalizzazione della
dimensione empirica e statistica senza filtri, cioè
senza riduzioni. Un neopositivista deve portarsi
nelle classificazioni che adotta tutto ciò che avviene e tutto considerarlo rilevante. E quando è palese che un nuovo fenomeno non si riesce a inserire
dentro le vecchie classificazioni (perché questo
fenomeno manifesta qualche accidentalità che non
si riscontra nei fenomeni già classificati), deve produrre dei nuovi concetti per differenza o antitesi ai
precedenti.
Solo per fare un esempio, mi riferirei al caso di
alcune opere di studiosi italiani di scienza politica
(Tarchi, L’Ita lia populista . Da l qua lunquismo a i
girotondi , Roma-Bari, Laterza 2003; Mastropaolo
A., Antipolitica . All’origine della crisi ita lia na ,
Napoli, L’Ancora del Mediterraneo, 2000;
Mastropaolo A., La mucca pa zza della democra zia . Nuove destre, populismo, a ntipolitica ,
Torino, Bollati Boringhieri, 2005). Il primo, Tarchi,
tratta il tema del populismo e accusa di populismo
vari attori politici che hanno concorso al manifestarsi di fenomeni nuovi (a cominciare dai movimenti collettivi per arrivare a Silvio Berlusconi),
mentre il secondo definisce espressione di antipolitica gli attori implicati nella stessa serie di fenomeni nuovi. Sia il concetto di populismo che il
concetto di antipolitica vengono utilizzati per spiegare ogni nuovo fenomeno che non sia assimilabile alle categorie convenzionalmente concordate e
condivise dalla standard view empirista.
105
n.18 / 2007
Quello che i due studiosi, ma anche altri che condividono la stessa impostazione empirista, risolvono con delle attribuzioni di responsabilità agli
avversari, o a una parte politica, andrebbe invece
affrontato in termini più generali, riconoscendo
che vi è, speculare al pensiero totalizzante sotterraneo veicolato dalla cultura del XX secolo, un
rifiuto di alcune identità collettive di diventare
minoranze di altre maggioranze. Una tendenza che
si è manifestata in modo esplosivo nei Balcani, ma
che si sta presentando anche (a partire dalla fine
della Prima Repubblica, dove ancora il PCI aveva
accettato di essere minoranza della maggioranza
DC o di centrosinistra) in Paesi come l’Italia. Lo
prova la difficoltà della sinistra di riconoscere la vittoria delle destre italiane guidate da Silvio
Berlusconi, nel 1994, e nel 2001; e lo prova anche
la difficoltà della destra di riconoscere la vittoria
della sinistra nel 1996 e, soprattutto, nel 2006. Di
chi la responsabilità? Della destra populista
(Tarchi) ed espressione di antipolitica
(Mastropaolo)? Sì, è vero, non si può dimenticare
facilmente il “Non faremo prigionieri!” proferito da
Cesare Previti nel 1994! Ma è anche vero che non
si può facilmente dimenticare nemmeno il linciaggio morale del primo ministro in carica, Silvio
Berlusconi, per un problema di conflitto di interessi dal quale la sinistra non è senza peccato.
Insomma, Pettit ci viene a dire che, in un contesto
come quello italiano, dove le opposizioni sempre
meno accettano di essere minoranze di altrui maggioranze, e dove il conflitto di interessi e la corruzione sembra sempre di più essere prassi costante
di governo, non si può fare a meno di ricorrere a
un vecchio concetto di libertà: la libertà come non
interferenza arbitraria, la libertà come non dominio. Pettit, infatti, ci ricorda che, nei confronti del
carattere della legge, il principale vincolo da
imporre all’oligarchia che viene posta al comando
è la coltivazione della virtù e l’astensione dalla corruzione, perché la corruzione è sempre dominio.
È per questo collegamento tra corruzione (mancanza di onestà e virtù) e dominio che questa concezione della libertà si posiziona in modo privilegiato nella dimensione verticale della politica, cioè
nella dimensione del rapporto capo/gregari. In
questa dimensione, la libertà come non dominio
106
viene garantita dalla costante e assidua vigilanza a
che la classe dirigente si mantenga onesta, faccia
un ricorso limitato e rispettoso all’uso legittimo
della forza, eviti i conflitti di interessi e, soprattutto, adempia alle condizioni più radicali del principio della certezza del diritto (una posizione radicale che è simile, se non identica, a quella teorizzata
da Bruno Leoni in Freedom a nd the La w).
Infatti, nella concezione di Pettit, la libertà come
non dominio presuppone che si privilegi - e qui
ricorro a una terminologia proposta da Bruno
Leoni, anche se il concetto di regolazione viene da
Pettit assunto dal volume Responsive regula tion di
I. Ayres e J. Braithwaite, (N. Y., Oxford University
Press, 1992) - la dimensione regolativa (dove per
regolativo si intende che la regola viene stabilita
nella società e fissata nella costituzione così come
è raccolta) alla dimensione costitutiva-regolativa
(dove la regola viene costituita ex novo, indipendentemente dai precedenti e in base a un disegno
ideologico di chi ha il potere di deciderla).
La dimensione regolativa sarebbe più presente
nella Costituzione degli Stati Uniti, mentre la
dimensione costituitiva-regolativa sarebbe più presente nella Costituzione francese. Questo perché
questa seconda Costituzione, come ha insegnato
Daniel J. Elazar, era espressione di un Grande
Disegno (da ciò il costitutivo-regolativo), quel tipo
di disegno che, quando basato sulla scienza, si
chiama illuministico, e quando si basa sulla forza,
viene definito giacobino; invece, la Costituzione
U.S.A. è stata ed è solo uno strumento che tutti
hanno potuto proficuamente bistrattare, cercando
di portarla in tutte le direzioni proprio per utilizzarla a proprio vantaggio, a causa della sua maggiore flessibilità. Ne è seguita una serie di effetti
imprevisti che, sia attraverso la stesura degli articoli della Costituzione, sia attraverso l’implementazione che ne è seguita, ha fatto della
Costituzione U.S.A. uno dei migliori e più stabili
strumenti di garanzia e di democrazia.
Questo malgrado le rivoluzioni francese e americana, come riconosce anche Michel Foucault, siano
state, agli inizi, identiche nelle intenzioni, in quanto le rivoluzioni sono sempre rivolte di condotta,
cioè rivolte contro la condotta della classe dirigente ed abbiano avuto, come suggerisce Pettit,
Giuseppe Gangemi
entrambe la stessa aspirazione: ottenere la libertà
come non dominio. In entrambe le nazioni, conclude Pettit, quest’aspirazione era stata più o
meno tradita, anche se è stata più tradita in Francia
che in U.S.A.
Più precisamente, spiega Pettit, la prima e maggiore crisi della libertà come non dominio è cominciata verso la fine del XVIII secolo, quando si è
cominciato a pensare alla libertà in modo meno
esigente perché si è pensato che non si potesse
concedere la libertà come non dominio ai servitori e alle donne (ciò è successo sia negli Stati Uniti
che in Francia, subito dopo le relative rivoluzioni).
Solo che, in Francia, il tradimento è stato molto
maggiore che negli U.S.A., dove nella concezione
della Costituzione e nella prassi di governo, è rimasto qualcosa della concezione prerivoluzionaria di
libertà. Questo residuo è l’elemento regolativo
della Costituzione U.S.A.
Come si vede, l’impostazione di Pettit al tema della
libertà non è conciliabile con quella di Isaia Berlin
che si basa sulla convinzione che esistano solo due
tipi di liberà: la libertà da e la libertà di, cioè la
libertà negativa (libertà da ogni interferenza, non
solo da quella arbitraria) che si riconosce nel fatto
che nessuno interferisce nelle tue attività e la libertà positiva che si consegue con la padronanza di
sé, con la capacità di fare.
Nel formulare la propria impostazione al tema
della libertà, Berlin aveva ripreso Benjamin
Constant che aveva distinto le due libertà come
libertà degli antichi e libertà dei moderni. Berlin vi
vede qualche cosa in più: la libertà negativa, egli
dice, si trova in Hobbes, Bentham e Mill, in
Montesquieu, Constant e Tocqueville, in Jefferson
e Paine; la libertà positiva si trova in Herder,
Rousseau, Kant, Fichte, Hegel e Marx, in raggruppamenti religiosi, in pensatori radicali, in ideologi
del totalitarismo.
In questo senso, Pettit sostiene che la distinzione
di Berlin ha reso un cattivo servizio alla riflessione
politica. Questo perché la libertà negativa spingerebbe verso l’espansione del privato (attraverso la
non interferenza senza distinzione tra quella arbitraria e quella lecita) e la libertà positiva spingerebbe verso l’espansione del pubblico (attraverso
la costruzione di un uomo nuovo ideologico).
La libertà come non interferenza arbitraria
L’ideale prerivoluzionario americano era centrato
sulla libertà come non dominio, mentre l’ideale
della libertà come non interferenza (senza distinzioni) era sostenuto da coloro che hanno difeso fino
all’ultimo gli interessi della corona britannica. La
definizione di libertà come non interferenza arbitraria, come non dominio, sarebbe una sintesi delle
due libertà di Berlin, una posizione intermedia.
Pettit così sintetizza il problema: la libertà negativa
si ha con l’assenza di interferenza da parte di altri
(p. 32); la libertà positiva aspira ad ottenere la
padronanza di sé; la mediazione tra le due precedenti libertà, la libertà come non dominio, implica
l’assenza di padronanza da parte di altri; la mediazione tra le due libertà nella versione di Berlin sta
nell’avere privilegiato il riferimento all’assenza e
non alla presenza e nell’avere considerata centrale
la padronanza e non l’interferenza (p. 32).
La necessità di distinguere tra interferenza arbitraria e non nasce da vari fatti: 1) io posso essere
dominato da qualcuno che, per suo animo gentile,
non interferisca effettivamente in alcune delle mie
scelte fidando nel fatto che io mi adeguerò per
mancanza di alternative; 2) vi può anche essere
interferenza senza pretesa di dominio, come quando io interferisco per amore o bontà d’animo e
cerco di aiutare altri a realizzare un proprio interesse; 3) vi possono essere anche interferenze non
intenzionali, come quella che mi vede occupare
l’unico parcheggio libero togliendolo a chi arriva
dopo di me; 4) vi sono, infine, le interferenze non
arbitrarie, come quella di un genitore che agisce
nel nome e nell’interesse dei figli non maturi per
affrontare da soli una situazione in cui si siano
venuti a cacciare.
La libertà come non dominio, inoltre, riguarda i
governati perché nasce dal desiderio di non essere
arbitrariamente governati e quella come non interferenza (senza distinzioni) riguarda i governanti
perché nasce dal desiderio di non avere ostacoli o
impedimenti nel governare o dominare. Pettit
attribuisce a Machiavelli, che lo avrebbe scritto a
proposito dei romani nei Discorsi sopra la prima
deca di Tito Livio, la prima esplicita definizione
della libertà come desiderio di non essere governati (p. 38). Questa principio di libertà come desiderio di non essere governati, che produce sicu-
107
n.18 / 2007
rezza, “secondo Machiavelli, può essere garantito
meglio in democrazia, ma il pensatore fiorentino è
del tutto esplicito nel riconoscere che è possibile
ottenere un simile beneficio anche nelle monarchie” (p. 39).
Per questa via, si finisce per collegare la libertà
come non dominio con il concetto di federalismo
antropologico, da me elaborato per spiegare il
modello di sviluppo veneto (Gangemi, G., La questione federa lista . Za na rdelli, Ca tta neo e i ca ttolici brescia ni , Torino, Liviana-Utet, 1994). In un
passo del suo scritto, Della storia dei feudi, con la
quale contrappone la propria concezione del federalismo antropologico al testo La Città di Cattaneo,
Zanardelli presenta un aneddoto riferito all’incontro tra Federico Barbarossa in Italia e un uomo che
viene definito indipendente, cioè libero, perché, per
mantenersi, vive del suo. Esattamente la stessa definizione di Harrington, riferita da Pettit. Per
Harrington, infatti, “un uomo che non ha i mezzi per
vivere non può che essere servo; ma un uomo che
possiede tali mezzi può essere libero” (pp. 44-45).
Rientra sempre in questa linea di sviluppo anche il
concetto di federalismo di fatto elaborato da Elazar
e persino l’esperienza della Kehillah all’interno dei
ghetti ebrei (la Kehillah era del resto una delle
fonti di ispirazioni implicita del federalismo antropologico veneto dal momento che tre protagonisti
di questa esperienza politica erano di origine
ebraica: Daniele Manin, Emilio Morpurgo e Luigi
Luzzatti).
Come era stato intuito da Harrington, e recentemente affermato da Maitland e Nippel, l’obiettivo
della libertà come non dominio è quello di vivere
con i propri mezzi, non quello di partecipare al
governo.
In aggiunta a quanto già detto, si può anche sostenere che la libertà come non interferenza (senza
distinzioni) si concilia con la concezione élitista
della libertà, la concezione secondo la quale si può
definire la democrazia come la capacità dei governati di svolgere un ruolo di arbitro tra le contrapposte oligarchie governanti. La libertà come non
dominio potrebbe, a sua volta, conciliarsi con la
concezione della democrazia deliberativa, la concezione secondo la quale si può definire la democrazia come la capacità dei governanti di svolgere
108
un ruolo di arbitro (garante di logica, etica e diritto naturali) di fronte alla cittadinanza che si rende
attiva, cioè partecipa. Infatti, citando Trenchard e
Gordon, Pettit sottolinea che “La libertà vera e
imparziale è pertanto il diritto di ogni uomo di perseguire i dettami naturali, ragionevoli e religiosi
della propria mente” (p. 41). In questo, Pettit non
è molto chiaro perché afferma che la libertà negativa è congeniale alla democrazia rappresentativa o
maggioritaria, mentre quella positiva è congeniale
alla democrazia deliberativa, che egli definisce
populista: “La libertà positiva viene interpretata in
chiave populista come partecipazione democratica, una simile scelta non richiede particolari giustificazioni: un ideale partecipatorio del genere, infatti, la prospettiva di essere personalmente soggetti
alla volontà di tutti non può che apparire ben poco
allettante” (pp. 101-2). In questo, Pettit si affianca
alla concezione élitista della scienza politica che
assimila partecipazione a governo, mentre dovrebbe assimilare la partecipazione ad autogoverno.
Infatti, la democrazia rappresentativa o maggioritaria può essere definita come la capacità di svolgere
un ruolo di arbitro tra le contrapposte oligarchie
governanti che dichiarano essere la propria la
migliore soluzione pratica dei problemi generali e
dell’agenda di problemi specifici. In un contesto in
cui il popolo (il corpo elettorale o, più realisticamente, gli individui-elettori) non riesce più a svolgere il proprio ruolo di arbitro perché non valuta
più la realtà, ma viene portato – dai mass media e
dalle retoriche imperanti - a valutare provvisori e
artificiali spezzoni di realtà, comincia a sentirsi
sempre più il bisogno di una diversa concezione
della democrazia che viene intesa non più come
l’arbitraggio del popolo nei confronti di oligarchie
in competizione nella manipolazione della realtà,
ma come la richiesta di una realtà che viene direttamente agita dalla cittadinanza di fronte a un’oligarchia di rappresentanti del popolo che svolge il
ruolo di arbitro. In questa seconda definizione
della democrazia deliberativa, la partecipazione
non è governo in quanto è autogoverno, cioè capacità di soddisfare la propria esigenza di fare da sé,
di esercitare la propria padronanza di sé.
Pettit ritorna sulla svolta operata dalle vittoriose
rivoluzioni U.S.A. e francese per sottolineare che
Giuseppe Gangemi
La libertà come non interferenza arbitraria
esse sono espressione di una motivazione che
viene poi tradita: “Il crescente impegno a favore
della democrazia che si rende visibile a partire dal
XVII secolo – la teoria del governo basata sulla
convenzione, così come l’ha definita [Maitland] –
fosse inizialmente motivato dal desiderio di sottrarre potere arbitrario allo stato, ma che abbia
condotto, in conclusione, a una affermazione della
democrazia maggioritaria che ha finito per contraddire questa aspirazione originaria” (p. 42).
Per quanto riguarda il rapporto tra libertà e legge,
la libertà come non dominio sostiene che la libertà viene fondata dalla legge, quando la legge sia
stata congegnata in maniera appropriata, cioè
rispettando la rule of la w, ovvero la condizione in
cui l’impatto della legge è esclusivamente regolativo e non costitutivo-regolativo.
Per una maggiore comprensione di quest’affermazione, occorre fare una precisazione di natura linguistica: nella concezione hobbesiana della legge,
la costituzione di una legge viene definita come
regolazione. In una definizione riportata da Pettit,
così Hobbes definisce la libertà ne Il Levia ta no:
“La libertà di un suddito consiste, pertanto, solo in
quelle cose che il sovrano, nel regolare le sue azioni, ha omesso” (p. 51). In questa citazione, il concetto di regolazione viene utilizzato come sinonimo di produzione di norme (indipendentemente
da ogni vincolo, in base alla sola sovranità o, se si
vuole, al solo fatto di disporre del monopolio dell’uso legittimo della forza). Secondo una teoria
alternativa della regolazione che ha trovato la propria prima formulazione implicita (senza riferimento al termine regolazione) in Vico e Locke e la
propria formulazione esplicita (con riferimento al
concetto di regolazione derivato dall’uso che ne ha
fatto Kant) nelle opere di Rosmini, di Polanyi (sia il
noto economista Karl che il fratello chimico e filosofo Michael), di Foucault e di altri, per regolazione si intende quella produzione di norme che arriva alla fine di un processo che ha già affermato
come dettami “naturali” (della mente) quei comportamenti che la norma stabilizza.
Vi sono, quindi, due diverse concezioni della regolazione: la regolazione adattava che è l’unica basata sulla rule of la w, cioè sul fatto che nessun uomo
sia sottomesso ad altri uomini in quanto tutti sono
sottomessi alla legge; la costituzione regolativa
che non è basata sulla rule of la w in quanto è artificialmente e convenzionalmente costituita da
uomini che la impongono ad altri uomini e li
costringono a processi di adattamento che sono
subiti e costituiscono l’impatto costitutivo della
regolazione.
La regolazione adattiva si ha quando la legge si
adatta, per via evolutiva, agli uomini e la costituzione regolativa si ha quando sono gli uomini a
doversi adattare alla legge. Tre concetti, quindi,
per una concezione vichiana-kantiana-rosminiana
della regolazione: regolazione adattativa, costituzione regolativa e impatto costitutivo (che c’è con
la seconda e non c’è con la prima forma di regolazione). Due concetti, invece, per una concezione
hobbesiana-hegeliana della regolazione: regolazione tout court (sempre costitutiva) ed impatto di
regolazione (sempre elevato).
La prima esplicita formulazione della regolazione
adattiva la si trova in von Hayek il quale, in alcuni
suoi scritti, ha formulato una teoria, poi ripresa e
rilanciata da Bruno Leoni, secondo cui “l’interferenza di un certo tipo di legge – una legge prodotta da un determinato processo di evoluzione,
una legge che sia per certi aspetti intrinsecamente
giustificabile – non sia in verità lesiva della libertà”
(citato da Pettit 2000, p. 65, nota 9). Detto in altri
termini, abbiamo sempre un impatto della norma
sulla società, cioè una modifica della vita quotidiana e delle attività di coloro ai quali la norma si
applica: quando questo impatto è minimo, il processo evolutivo che ha portato alla produzione di
una norma non implica alcuna forma di dominio
(dell’uomo su altri uomini servendosi della legge)
e si parla di regolazione; quando questo impatto si
fa sentire in forma di interferenza della vita quotidiana e dell’attività, vi è sempre una qualche forma
di dominio e la produzione di quella norma non è
più il risultato di un processo, bensì è la produzione costitutiva di una convenzione o artificio a cui la
società deve adattarsi (in questo caso la produzione di norme è costitutiva e non regolativa).
I sostenitori della teoria secondo la quale la libertà
è libertà dalla legge (Hobbes) perché la produzione di norme è sempre costitutiva e i sostenitori
della teoria secondo la quale la libertà è libertà in
109
n.18 / 2007
virtù della legge (Locke) perché la produzione di
norme è o deve essere regolativa, concordano nel
definire liberi gli individui che non subiscono
interferenza e dominio e nel definire non liberi
coloro che subiscono interferenza o dominio.
Dove non concordano è quando la situazione che
subiscono è di interferenza e non di dominio o
viceversa.
Nel secondo capitolo viene affrontato il problema
di specificare le caratteristiche del dominio. Esse
sono tre:
1) la capacità di interferire;
2) l’interferenza arbitraria;
3) l’interferenza che si realizza in cose che l’altro è
nella condizione di poter fare.
Gli altri tipi di interferenza non hanno a che fare con
il dominio. Inoltre, il dominio può variare in estensione e in intensità; in alcuni casi ci può essere
dominio in più settori e in alcuni settori il dominio
può essere più grave che in altri. Inoltre, può anche
darsi che esista un dominio anche laddove questo
dominio non viene esercitato effettivamente, ma
potrebbe essere esercitato solo se la persona in condizioni di esercitarlo lo volesse. Al contrario, invece,
può succedere che qualcuno interferisca sugli altri
senza per questo esercitare alcun dominio. Questo
contribuisce a fare del concetto di dominio qualcosa che si può constatare solo in corso di azione e
non in astratto, in via teorica.
Gli effetti del dominio su un individuo sono:
1) l’insicurezza perché l’interferenza arbitraria può
scatenarsi in qualsiasi momento;
2) la necessità di dotarsi di una strategia di deferenza e prudenza;
3) la subordinazione alla volontà o arbitrio altrui.
Infine, Pettit sostiene che “uno degli insegnamenti
più ricorrenti del pensiero repubblicano … è che
nel momento in cui lo stato entra in possesso dei
mezzi e dei poteri necessari per assolvere in
maniera sempre più adeguata il suo ruolo di protettore – nel momento in cui, per esempio, si dota
di un esercito, di un corpo di polizia o di un servizio di sicurezza sempre più imponente – diviene
esso stesso una minaccia alla libertà come non
dominio, una minaccia persino superiore a ogni
altra minaccia che esso si propone di eliminare”
(p. 130). Nello stesso tempo, però, “la libertà inte-
110
sa come non dominio è definita nei termini della
quantità e della qualità della protezione contro gli
atti d’interferenza arbitraria di cui il soggetto gode”
(p. 134). La contraddizione tra queste due esigenze deriva dal fatto che la libertà come non dominio
è un fatto concreto e non teorico ed è, quindi, un
fatto che si definisce e si articola all’interno di un
contesto concreto e delle visioni della politica che
interpretano questo contesto. In altri termini, la
libertà come non dominio non è definibile in
astratto perché muta le proprie caratteristiche in
relazione a ciò che più determina insicurezza in
una data situazione e in un dato momento: se lo
Stato che interviene troppo o lo Stato che non fornisce abbastanza protezione contro gli atti di interferenza altrui. La conclusione è che quello che può
costituire sicurezza per una generazione può essere considerato dominio dalla generazione successiva. Il che implica, tra le altre cose, che la democrazia non può mai dirsi compiuta e che la qualità
della democrazia si configura come la capacità di
interferire su tutti coloro (i soggetti pericolosi) che
hanno la possibilità di interferire sugli altri o su
coloro che hanno potere (dai quali ci si deve aspettare più virtù che dagli altri) e come la capacità di
fornire sicurezza a chi (i soggetti vulnerabili) non
ha possibilità di interferire sugli altri. Tra i soggetti
più pericolosi, infine, vanno annoverati coloro che
possono esercitare l’abuso pubblico del dominio,
più che coloro che possono esercitare l’abuso privato del dominio.
Una delle ultime conseguenze della concezione
della libertà come non dominio è che può essere
considerata superata la contrapposizione tra individualismo e com’unitarismo. Infatti, vi sono fondate ragioni per sostenere che questa concezione
della libertà sia conciliabile con il liberalismo e il
comunitarismo. Ogni bene individuale derivato
dall’esercizio del non dominio “sarà un bene parzialmente comune nella misura in cui non può
essere incrementato per uno senza che sia incrementato per qualcuno; sarà un bene pienamente
comune nella misura in cui non può essere incrementato per uno senza essere incrementato per
tutti” (p. 148). La libertà come non dominio è al
contempo un bene sociale e un bene comune.
“Godrai pertanto di una condizione di non domi-
Giuseppe Gangemi
La libertà come non interferenza arbitraria
nio solo a patto che tale condizione sia garantita a
tutti coloro che, per così dire, appartengono alla
tua stessa classe di vulnerabilità” (p. 149). In questo contesto, ha ugualmente senso parlare della
libertà di Firenze e della libertà dei fiorentini come
della stessa cosa: la libertà di Firenze è la libertà dei
fiorentini. Invece, nella concezione di Hobbes,
nella concezione della libertà come fatto costitutivo e non regolativo, la libertà di Firenze e la libertà dei fiorentini possono avere seguito percorsi
diversi se non addirittura inconciliabili.
La seconda parte del volume di Pettit è dedicata a
indicare quali sono le istituzioni che possono essere il risultato della concezione della libertà da lui
propugnata. La prima istituzione è il linguaggio: il
non dominio fornisce un linguaggio adatto a dare
voce alle proteste. Una donna o un servo, tipiche
categorie sottoposte al dominio del padrone e del
capofamiglia, non potrebbero mai descrivere le
proprie rivendicazioni in termini di libertà come
non interferenza, mentre possono benissimo farlo
in termini di libertà come non dominio. Inoltre, la
libertà come non dominio poteva trascendere le
proprie origini, mentre “la ragione per cui il liberalismo classico fallisce da questo punto di vista è
che il linguaggio della non interferenza non riesce
ad andare oltre l’ambito di opinioni e interessi cui
era legato in origine” (p. 161).
Il contrario, invece, per il linguaggio della libertà
come non dominio, particolarmente adatti per
descrivere la condizione dello schiavo e della
donna. Il linguaggio nato per coloro che sono nella
condizione di vulnerabilità maggiore, può essere
utilizzato anche per coloro che, pur trovandosi nei
confronti dello schiavo in una condizione di minore vulnerabilità, sono comunque in condizioni di
vulnerabilità nei confronti di altre categorie. Tanto
è vero che Pettit esprime la convinzione che il linguaggio di questo tipo di libertà possa essere utilizzato per ridescrivere in chiave repubblicana
l’ambientalismo, il femminismo, il socialismo e
persino il multiculturalismo.
Tuttavia, quello che il concetto di libertà come non
dominio riesce meglio di tutto a descrivere è proprio la capacità dello Stato di essere, entro certi
limiti, costruttore di libertà ed oltre un certo limite, costruttore di dominio. “Benché lo stato repub-
blicano sarà, quindi, tendenzialmente incline ad
assumersi un’ampia gamma di responsabilità, è
importante non dimenticare che, nel caso in cui
oltrepassi un certo limite, è destinato inevitabilmente ad arrogarsi anche un insieme di poteri
indipendenti: è destinato, cioè, a diventare a sua
volta una presenza dominante” (p. 181). Questo
non succede o succede di meno soltanto se lo
Stato repubblica si attiva per realizzare politiche
che portino a favorire l’autogoverno e l’indipendenza economica. Per questo, una delle politiche
più sostenute dai repubblicani è quella di una riforma agraria tesa a garantire che la proprietà della
terra non finisca nelle mani di pochi possidenti.
L’ultimo capitolo serve a Pettit per descrivere le
condizioni in cui un governo repubblicano può
ridurre al minimo la propria componente arbitraria. La prima è la rule of la w intesa in senso radicale (solo la legge che viene approvata nel corso di
un processo regolativo garantisce una sottomissione alla legge e non agli uomini che la legge hanno
voluto). La seconda è la necessità di distribuire i
poteri legittimi tra soggetti diversi (il principio
della divisione dei poteri stabilito da
Montesquieu); la terza è la necessità di rendere la
legge relativamente resistente alla volontà della
maggioranza (le leggi più importanti non dovrebbero essere cambiate a maggioranza semplice)
(pp. 208-9).
Citando Shapiro, Pettit sostiene che “la democrazia, secondo l’opinione generale, ha a che fare con
il consenso; di norma viene associata in maniera
quasi esclusiva all’elezione popolare dei membri
del parlamento. Ma, in modo altrettanto legittimo,
si può concepire la democrazia alla luce di un
modello centrato più sul conflitto e sulla contestazione che sul consenso. Alla luce di questo modello un governo apparirà democratico, rappresenterà cioè una forma di governo sottoposta al controllo popolare, se gli individui, individualmente o
collettivamente, godranno permanentemente
della possibilità di contestare le decisioni prese dal
governo” (p. 223).
Infine, la nozione di democrazia rimanda, più che
al consenso, all’autonomia e all’autogoverno di un
popolo. Per realizzare questo autogoverno, nei
limiti del possibile, Pettit sostiene che occorre
111
n.18 / 2007
rispettare tre regole:
1) che il processo decisionale sia condotto in
modo tale che sia possibile contestarlo;
2) che non solo vi sia un canale per esprimere dissenso, ma vi sia una arena dove far sentire le proprie contestazioni;
3) che questo spazio di ascolto non sia fine a se
stesso, ma sia una premessa per fornire un’adeguata valutazione delle contestazioni e una risposta adeguata.
Per queste tre regole, si può sostenere che il
governo repubblicano è deliberativo e basa la propria azione politica fondamentale su negoziazione,
deliberazione e mobilitazione, con tutti i limiti che
questi tre modi: la negoziazione favorisce le persone che hanno più potere negoziale; la deliberazione coloro che hanno più mezzi per far arrivare a
tutti la propria voce; la mobilitazione coloro che
hanno più possibilità di tenere mobilitati i propri
sostenitori (in genere, coloro che fanno parte di
partiti organizzati o con posizioni lavorative connesse ad aspettative o a concessioni clientelari).
La concezione della libertà come non dominio
implica degli assunti impliciti che Pettit, nell’ultima
parte, cerca di esplicitare:
1) che si sposti l’attenzione dall’interferenza arbitraria all’interferenza naturale (cioè all’interferenza
che è logicamente, eticamente e giuridicamente
naturale);
2) che persino il percorso verso la secessione sia
obbligatoriamente condotto nel senso di rispettare logica, etica e diritto nel separarsi;
3) che le leggi migliori siano quelle che sono state
deliberate da più tempo senza essere state modificate in modo significativo e che il modo migliore
di modificare una legge sia quello di aggiustamenti progressivi e graduali;
4) che la sovranità popolare non stia nella rappresentanza, bensì nel diritto di resistenza o, più esattamente, nella capacità di trasformare la classe dirigente in un arbitro nelle condizioni in cui si attiva
per partecipare;
5) che sia considerata con pessimismo la possibili-
tà che chi acquista posizioni di potere si mantenga
incorrotto, mentre assume con ottimismo la naturale disponibilità al bene comune della gente
comune (il contrario si può dire per la libertà
come non interferenza);
6) che la regolazione sia costruita sull’individuo
che rispetta le regole (in questo caso il termine
regolazione è usato in modo corretto e l’argomento più forte a favore di questa regolazione è la
cosiddetta “forza civilizzatrice dell’ipocrisia” formulata da Elster, ripresa da Habermas e condivisa
da Pettit), mentre la libertà come non interferenza
presuppone che la regolazione sia costruita sull’individuo deviante (il termine regolazione usato da
Pettit, in questo caso, è improprio perché sarebbe
più giusto dire che si tratta di produzione di
norme in senso costitutivo);
7) che la regolazione sia concepita come un allarme antincendio (ci si affida all’allarme dato dai cittadini), mentre la libertà come non interferenza
concepisce la regolazione come un pattugliamento di polizia (ci si affida a una parte autorizzata
della società). Il primo modello è meno costoso e
non è soggetto a corruzione, mentre il secondo è
costoso e può degenerare nella corruzione;
8) una società fondata su buoni costumi e buone
leggi in senso regolativo, perché i buoni costumi si
affermano attraverso le buone leggi e le buone
leggi attraverso i buoni costumi;
9) che il mercato sia concepito come regolato da
una mano intangibile (cioè la reputazione e il senso
dell’onore) che è tanto più efficace quanto più l’identità di una comunità è forte (il che permette di
mettere insieme un liberalismo comunitarista che
mette in gioco forme di identità collettive), mentre
la concezione liberale tradizionale concepisce il
meccanismo del mercato come mano invisibile,
cioè come costruito sull’interesse individuale di ciascuno e non sul senso civico diffuso;
10) che la forza della fiducia si sostituisca alla forza
della produzione di norme, il capitale sociale agli
interessi individuali.
[email protected]
112
Mario Quaranta
Un momento aureo della cultura a Padova
Segno Veneto
Padova Carrarese: nuove prospettive storiografiche
Oddone Longo (a cura di), Pa dova Ca rra rese (Atti
del Convegno, Padova 11-12 dicembre 2003), Il
Poligrafo, Padova 2005, pp. 366 € 30.00.
L’Accademia Galileiana di Scienze Lettere ed Arti
ha pubblicato nella collana “I Poliedri” edita dal
Poligrafo di Padova, gli atti del convegno sul
“periodo d’oro” della storia padovana, - il periodo
carrarese -, su cui peraltro esiste un’ampia letteratura. Silvana Collodo, in I Ca rra resi a Pa dova :
signoria e storia della civiltà citta dina , traccia
una sintesi della signoria carrarese, dopo un’informazione precisa sui nuovi paradigmi oggi dominanti nella storiografia sul fenomeno delle signorie. Attorno ai Comuni come centri di libertà e conseguentemente la signoria come tirannide o dispotismo si è creato un certo “mitologismo”, che in
questi ultmo decenni ha subito un’eclissi. Il dominio dei Carraresi (1318-1405) è analizzato attraverso l’alleanza che si è istituita tra signore e mercanti. In particolare la studiosa, che a tale problema ha
dedicato lavori pionieristici, si sofferma sui quarant’anni in cui Francesco il Vecchio esercitò il
potere, introducendo nuove modalità di prelievo
fiscale, incrementando la manifattura tessile,
potenziando le attività della zecca.
Di fronte a questi sviluppi e ad altri che si riscontrano nell’ultimo periodo della signoria, governata
da Francesco Novello (1390-1405), la Collodo
mette in evidenza i limiti di un esercizio del potere, teso “più a contenere la vita associata che a
modificarne in profondità i moduli costitutivi”.
Padova, con i suoi 40-45.000 abitanti aveva una
“posizione di rilievo nella graduatoria quantitativa”, ponendosi al di sopra dello standard medio
delle città del tempo. Ma a ciò non corrispondeva
un sistema economico adeguato, né l’apporto
dello Studio modificò tale situazione. Ma nella
seconda metà del Trecento si registra una svolta;
“Padova imboccò con decisione la strada della promozione delle attività manifatturiere e in primis
dello sviluppo dell’industria tessile”.
A integrazione di questa analisi, l’autrice si sofferma a delineare i modi e i tempi in cui si manifestò
nei signori una presa di coscienza “dinastica” del
loro ruolo nella città e alle conseguenti iniziative
che intrapresero. Basterà ricordare “l’ambizioso
disegno della fondazione del mausoleo di famiglia”, considerato l’espressione di un tentativo di
celebrazione civica. Ma in tale scelta si va oltre,
afferma la Collodo, che vi scorge “una dimensione
più profonda”, ossia l’intento, da parte di
Francesco il Vecchio, di “rappresentare il legame
inscindibile che univa la città con la dinastia carrarese: come la città apparteneva al signore, così il
signore apparteneva alla città”.
Nell’intervento su Signorie venete nel Trecento.
Spunti compa ra tivi Gian Maria Varanini ci informa
sullo “stato attuale delle ricerca sulle signorie venete”, i cui modelli politici (genesi, sviluppo, eclissi)
sono stati alla base di una profonda revisione della
113
n.18 / 2007
storiografia su tale periodo. Revisione da cui parte
lo studioso che si sofferma, in modo particolare,
sui modi diversi messi in atto dalla signoria scaligera e quella carrarese per “creare e mantenere un
consenso sociale robusto”, specie di quelle élite
cittadine che hanno consentito stabilità e durata al
potere signorile.
L’autore si indugia, infine, sugli strumenti culturali
e le iniziative che hanno consentito ai signori carraresi, più ancora che agli scaligeri, di avviare una
politica di “immagine” come parte integrante di
una pratica del potere. Essa fu giocata attraverso
strumenti plurimi: dalle medaglie ai libri dei cimiteri, ai diversi livelli della storiografia di corte, e
cossì via. In questa attività appare fondamentale,
secondo l’autore, “la capacità degli intellettuali
della corte carrarese di rielaborare, nella prospettiva della dinastia signorile, la storia della città”.
Antonio Rigon affronta un argomento tra i più
complessi della storia padovana trecentesca, i rapporti fra la Signoria e l’episcopato di Padova. Fu un
rapporto conflittuale, di pacifica convivenza o di
reciproco aiuto? L’autore sottoliena che c’è una
continuità fra il periodo comunale e quello signorile; il potere politico ebbe “un rapporto stretto e
diretto con la Curia pontificia, la quale destina alla
sede padovana propri fedeli e collaboratori”, spesso di rango. L’autore sostiene che a differenza di
Verona scaligera, la Curia apostolica e i Carraresi
concorsero nella scelta dei presuli. In altri termini,
ci fu “un saldo legame di fedeltà al papa di Roma”.
Così, quando la Chiesa attraversò un periodo
molto difficile, il collasso fu evitato proprio dall’intervento dei Carraresi.
Andrea Saccoci fornisce un contributo di rilievo sul
ruolo della monetazione padovana nel periodo
carrarerese, delinenando una mappa delle aree
monetarie, che “erano in realtà delle specie di mercati comuni della moneta, sempre contrastati dalla
autorità dei vari stati”. L’autore indica le tre distinte fasi della monetazione, individuando le scelte
compiute da Francesco il Vecchio nella politica
monetaria, volta a dotarsi di monete concorrenziali con le altre valute esistenti nell’area veneta.
Giovanni Lorenzoni interviene su Urba nistica ed
emergenze a rchitettoniche nella Pa dova ca rra rese; un argomento su cui ha già pubblicato studi di
grande rilievo.
Nel periodo carrarese, afferma, il sistema di mure
114
cittadine era completato “almeno nei suoi nuclei
essenziali”, e fu Ubertino a portarlo definitivamente a termine. Le emergenze architettoniche si
incentrano essenzialmente sulla “Reggia carrarese”, che occupava un’area molto estesa, sede dell’abitazione dei Carraresi e del loro governo: “Il
tutto era racchiuso da mura che ne delimitavano
l’area in modo perentorio: un microcosmo, la reggia, inserito nel macrocosmo della città di Padova”.
In conclusione, c’è stata una continuità tra l’organizzazione urbanistica comunale e quella carrarese, con un cambiamento significativo nella localizzazione del centro del potere. Oggi, come è noto,
non c’è quasi nulla di quel complesso di edifici, che
ebbe un grande significato politico e simbolico.
Sul castello carrarese (il “Castello” per antonomasia di Padova) interviene con un ampio saggio
Sante Bortolami, la cui costruzione nel periodo di
Francesco il Vecchio ubbidì a ragioni difensive.
Prima dei Carraresi, fu la “Torre lunga o Torlonga
il cardine delle difese urbane ma anche simbolo di
una specifica fase della storia cittadina”. L’autore si
sofferma sul periodo di Ezzelino da Romano e sul
periodo comunale. Per poi rilevare che il complesso fortificato da Francesco il Vecchio si inserì in un
contesto pre-esistente portando a compimento
“l’integrazione di civita s e suburbia ”, che segnò
pressochè definitivamente la forma urbis di
Padova. Anche Renzo Fontana interviene sul
Castello “dalla svalutazione di un simbolo carrarese al futuro recupero”, rilevando che “la perdita
dell’identità originaria del Castello si è protratta
fino ai nostri giorni”, tanto che non è presente
nella cartografia del Touring Club né nelle mappe
della città distribuite dall’Azienda del turismo.
Giulio Cattin e Antonio Lovato si occupano della
musica e delle dottrine musicali a Padova nel
Treccento. Per un secolo, afferma Cattin, le quattro istituzioni fondamentali, comune, cattedrale,
monastero, università, sono state centri “nella elaborazione, produzione, copiatura e riflessione su
dottrina e prassi musicale”. Lovato sottolinea che
agli inizi del Trecento si registra un mutamento
nell’approccio alle problematiche della musica,
orientato essenzialmente da filosofi, astronomi e
medici. In questo modo entrano in scena gli auditores, “che si appropriano del fenomeno musicale
in quanto evento sonoro”. Giorgio Ronconi, con
L’imma gine dei Ca rra resi nella lettera tura del
Mario Quaranta
tempo, e Giovanni Gorini con I Ca rra resi dopo i
Ca rra resi: forme di sopra vvivenza lettera ria , ci
dicono come è veicolata nella letteratura l’immagine dei Carraresi durante e dopo il periodo della
Signoria. Un cenno merita il testo breve di Alberto
Papafava dei Carraresi - Memorie di fa miglia -, in
cui il discendente dei Carraresi ricorda in modo
riconoscente la figura di Taddea Ariosti, moglie di
Giacomino Papafava, il cui coraggio consentì di
garantire la continuità della proprietà che è giuntqa fino ad oggi.
Manlio Pastore Stocchi tratta Il modello uma nistico: gli uomini illustri dell’a ntichità , ossia “lo sterminato calendario astrologico nel Palazzo comunale della Ragione e l’imponente serie di trentasei
uomini illustri dell’antichità, da Romolo a Traiano,
a frescata nella cittadella signorile”. Lo studioso
sottolinea il significato di entrambi i cicli, rilevandone una sottesa conflitualità; i modelli di eccellenza, infatti, di indubbia ispirazione umanistica, si
contrappongono “all’anonimo catalogo di tipi e
destini ordinari del ciclo della ragione”.
Per quanto riguarda le vicende culturali di questo
periodo, dopo che quelle artistiche sono state rinviate a un successivo convegno, si segnalano tre
interventi: Graziella Federici Vescovini su La superiorità della ma tema tica nell’insegna mento
scientifico di Bia gio Pela ca ni sotto i Ca rra resi ;
Enrico Berti su Astronomia e a strologia da Pietro
d’Aba no a Giova nni Dondi dell’Orologio, e
Giuseppe Ongaro su La medicina dura nte la
signoria dei Ca rra resi .
La Federici Vescovini si sofferma sul contributo di
Pelacani, operante a Padova dal 1384 al 1411, nel
campo della matematica, di cui egli avvertì l’importanza epistemologica decisiva all’interno del
sapere, determinata dall’alto grado di certezza che
assicurava, e “questa supremazia della certezza
della matematica è opposta a quella della fisica e
della metafisica”. La matematica, insomma, come
scienza regina nell’ambito di una classificazione
delle scienze. Enrico Berti si sofferma su un argomento, astronomia e astrologia, in cui permangono tuttora incomprensioni e fraintendimenti,
come il contrasto che ci fu nel medioevo, tra
cosmologia aristotelica e quella tolemaica. Un
posto di grande rilievo ha avuto Pietro d’Abano, il
quale difese l’astronomia tolemaica anche dal
punto di vista fisico. E che il modello tolemaico
Un momento aureo della cultura a Padova
non fosse solo un’ipotesi matematica, ma descrivesse una realtà effettiva, è alla base di quel capolavoro teorico (Tra cta tus a stra rii ) e pratico, la
costruzione dell’astrario, che fa di Giovanni Dondi
dell’Orologio uno dei personaggi più “moderni”
del Trecento.
Giuseppe Ongaro traccia un quadro della medicina, soffermandosi sul fenomeno della peste che
decimò la popolazione nei tre momenti in cui
apparve a Padova, 1348, 1362, 1382. In queste congiunture la medicina fallì perché i rimedi messi in
atto, di cui ci viene fornita impietosamente una
documentazione, non servirono a nulla; inoltre la
stessa immagine del medico fu moralmente messa
in discussione perché molti si rifiutarono di prestare soccorso. Lo studioso padovano si sofferma
poi su alcune figure centrali, come Pietro d’Abano,
cui si deve la prima autopsia; tra la fine del
Duecento e i primi decenni del Trecento, afferma
Ongaro, a Padova c’era un’affermata attività dissettoria. Il suo successore fu Giovanni Santa Sofia,
considerato “Monarcha medicinae”, capostipite di
una lunga serie di una illustre famiglia di medici,
come Iacopo Dondi, medico, astronomo e matematico. In conclusione, nota l’autore, studi recenti
hanno smentito un pregiudizio storografico; fin
dal Duecento anche Padova aveva un insegnamento di medicina di alto livello.
Ci sembra che la novità - metodologica e di ricerca
-, cui giungono i diciotto studiosi, su alcuni dei
quali ci siamo brevemente intrattenuti, sia stata
resa possibile dall’avere tutti tenuto conto del
mutamento del paradigma storiografico sul fenomeno delle Signorie, Oggi ha subito un’eclissi il
mitologismo dei Comuni come centri di libertà e
conseguentemente della Signoria come una forma
di tirannide o dispotismo.
In queste ricerche sono individuati i motivi di discontinuità ma anche quelli di continuità fra
Comune e signoria, che a volte sono solidi e
riguardano istituzioni e ceti importanti. È stata
indicata l’importanza che ha avuto la politica culturale e di immagine delle signorie nella creazione
del consenso di certi ceti e nella legittimazione
dello stesso potere.
Mario Quaranta
115
n.18 / 2007
Ripensando a Paolo Sarpi
Corrado Pin (a cura di), Ripensa ndo Pa olo Sa rpi
(Atti del convegno internazionale di studi nel 450°
anniversario della nascita di Paolo Sarpi),
Appendice iconografica a cura di Camillo Tonini,
Ateneo Veneto, Venezia 2006, pp. XV-758 € 35.00.
Paolo Sarpi, Istoria dell’Interdetto, a cura di
Corrado Pin, introduzione di William Shea,
Edizioni THINK ADV, Conselve 2006, pp. XLVIII327, € 25.00. Paolo Sarpi, Della potestà de’ principi , a cura di Nina Cannizzaro con un saggio di
Corrado Pin, presentazione di Giancarlo Galan,
Regione del Veneto-Marsilio, Venezia 2006, pp.
125, € 13.00.
Per la seconda volta l’Ateneo Veneto ha ricordato
con un convegno di grande rilievo Paolo Sarpi (già
nel 1983 l’Ateneo organizzò un convegno sul servita, integrato da una mostra). Alcuni dei ventidue
contributi, usciti ora a stampa in un ponderoso
volume, consentono di segnalare le novità storiografiche di interesse generale cui è giunta la ricerca su Sarpi, con interpretazioni delle convinzioni
filosofiche, religiose e politiche del servita veneziano molto varie per non dire, a momenti, persino
antitetiche.
Gino Benzoni, in una fluviale introduzione (anzi A
mo’ d’introduzione) cui ci ha abituato in questi
ultimi anni, traccia un quadro delle vicende del
periodo storico, in cui si colloca l’attività di Sarpi.
Anche se “non incattedrato”, di fatto Sarpi – sostiene Benzoni – esercitò l’attività propria di un professore di scienza della politica. Il suo insegnamento della “dottrina dello stato”, dal quale dipende la sua azione a sostegno della Serenissima in
qualità di consultore in iure, è da Benzoni sintetizzato in questa formula apertamente provocatoria: “Tutto bene se comanda il principe, tutto male
se comanda Roma”. In conclusione, Sarpi “tiene,
sempre e comunque, per lo Stato”.
Ben diverso l’approccio di Boris Ulianich, che nella
relazione su Teologia pa olina in Sa rpi?, proseguendo nei suoi studi sulla figura del servita veneziano iniziati negli anni cinquanta, insiste sulla
“centralità fondante della Scrittura, come punto di
riferimento ultimo, al quale il Sarpi si appella”. Di
fronte al quesito se l’ecclesiologia sia stata utilizzata da Sarpi per dare fondamento a finalità essen-
116
zialmente politiche, o abbia invece una sua propria
autonomia, la risposta è netta: tutta l’attività di
Sarpi, afferma Ulianich, è fondata sulla “Scrittura e,
in particolare, sulle lettere paoline”. In questa prospettiva, “la Istoria del Concilio Tridentino è e
resta la massima espressione del Sarpi teologo,
perché la dimensione teologica costituisce l’interesse fondamentale che lo muove a redigerla”. In
altri termini, non è la teologia instrumentum della
politica, ma la politica una “riprova nodale della
sua [di Sarpi] visione teologica”.
Vittorio Frajese rappresenta, per così dire, l’antiUlianich, confermando, nel contributo Problemi
di da ta zione dell’insegna mento esoterico di
Sa rpi , la tesi formulata a suo tempo in un lavoro
che sollevò un largo dibattito, e cioè che da numerose testimonianze dell’epoca possiamo ricavare
l’immagine di un Sarpi scettico e sostenitore di un
materialismo atomista. Ugo Tucci ripercorre le
vicende economiche e finanziarie dell’epoca di
Sarpi, sfatando il tenace pregiudizio storiografico
di un presunto declino a cavallo del Cinque e
Seicento della Repubblica veneta; e Pacifico M.
Branchesi ritorna su alcuni documenti apparsi
negli ultimi decenni per delineare la vita e l’attività
del frate servita “prima della vita pubblica (15521605)“.
Peter Burke lamenta che manchi ancora una interpretazione convincente di Sarpi storico e suggerisce linee di lettura dell’opera sarpiana, in particolare dell’Istoria del concilio tridentino; Giovanni
Da Pozzo, dal canto suo, si sofferma su Il problema
filologico del testo sa rpia no dell’“Istoria del
Concilio Tridentino”, l’opera che ha reso celebre
Sarpi in Europa, segnalando i limiti filologici delle
edizioni finora pubblicate, da superare in una prossima, e quanto mai necessaria, edizione critica dell’opera fondamentale del padre servita, di cui delinea l’impostazione essenziale. Eleonora Belligni
discute i rapporti tra Pa olo Sa rpi, Ma rca ntonio
De Dominis e i la titudina ri della prima genera zione. La tesi centrale è che “cristiani come Paolo
Sarpi e Marcantonio De Dominis avevano interpretato il concilio come opera di accentramento politico e affermazione di fatto di atteggiamenti corrotti e di errori dottrinali”.
Corrado Pin, uno dei maggiori esperti di testi sarpiani, affronta in due interventi alcune questioni
importanti. Nel primo compie una disamina di
Mario Quaranta
alcuni Ma noscritti sa rpia ni: a utogra fi, idiogra fi e
a pogra fi (di cui si offre un campionario in fac-simile), mostrando come attraverso l’individuazione
delle grafie dei vari amanuensi sarpiani sia possibile non solo individuare nuovi testi del servita, ma
fissare con sufficiente approssimazione la datazione di suoi manoscritti. Proprio grazie al ricorso alle
grafie si è potuto dimostrare come i manoscritti
delle controverse sillogi Pensieri sulla religione e
Pensieri medico-mora li vadano collocati non
prima, ma dopo l’Interdetto veneziano del 1606;
con l’interessante risultato di ridimensionare la
tesi di Gaetano Cozzi di una cesura fra il Sarpi politico e quello “privato” dei testi filosofici.
Pin pone in evidenza la continuità degli interessi
filosofici e religiosi del servita (una tesi sostenuta
anche da Frajese) nonostante l’esperienza
dell’Interdetto del 1606, aprendo così nuove vie
all’individuazione dell’unità del pensiero sarpiano.
Nella relazione su Pa olo Sa rpi e la committenza
del dopo-interdetto, Pin presenta con ampia e
ragionata documentazione un Sarpi fortemente
deluso dall’esito dell’Interdetto, avvertendo “quella pace come una sconfitta”. Sarpi infatti, nota con
acume Pin, è stato “il teologo che aveva ispirato e
dato voce agli ideali della riforma religiosa”; ideali
che ora subivano una eclissi. Una delusione non
sufficientemente compensata, osserva Pin, dal
dato di fatto incontrovertibile che il compromesso
raggiunto “non toccava l’aspetto giurisdizionalistico della contesa”. In altri termini, la conclusione
del conflitto che aveva interessato tutta l’Europa e
dato a Sarpi una figurazione di primo piano, “salvaguardava in pieno le leggi della Serenissima
incriminate da Paolo V e le sue prerogative sovrane”, ma non realizzava i progetti che avevano spinto il servita a schierarsi apertamente a fianco della
Serenissima contro il papato della Controriforma.
Una delle relazioni cruciali è quella di Libero Sosio,
che dà una sistemazione organica a un problema
da lui affrontato in altri scritti: Pa olo Sa rpi, un
fra te della rivoluzione scientifica . Anche se Sarpi
non ha pubblicato alcun scritto scientifico, secondo Sosio è legittima l’ipotesi che avesse una preparazione scientifica di prim’ordine e che “possa
anche aver dato qualche contributo alle scienze
attraverso contatti diretti con alcuni fra i massimi
scienziati del tempo”. È noto, infatti, che condusse
studi sul barometro, sul magnetismo, sulla rifrazio-
Un momento aureo della cultura a Padova
ne della luce; che si occupò a varie riprese di medicina e di biologia, con osservazioni originali sull’anatomia dell’occhio, giungendo inoltre a individuare l’esistenza delle valvole delle vene, una delle
condizioni che permisero a Harvey di formulare la
teoria della circolazione del sangue.
Libero Sosio discute con grande competenza il
rapporto di Sarpi con Galileo, sottraendosi all’alternativa fra quanti negano qualsiasi influenza di
Sarpi sullo scienziato pisano, e chi, invece, sostiene un suo influsso preminente. La tesi di Sosio è
che “il cammino di Galileo – dalla critica della fisica aristotelica alla fondazione della nuova scienza
del moto – è prefigurato e accompagnato da un’evoluzione simile di Sarpi”. Inoltre, sul problema
delle maree i testi ci direbbero, secondo Sosio, che
“è più verosimile che la prima idea di questa teoria
sia stata concepita da Sarpi”. E il problema delle
maree è stato uno dei rovelli di Galileo, protrattosi fino alla vecchiaia.
Alla conclusione di questo ampio e documentato
saggio Sosio conclude: “Mi pare che fra Paolo
possa aver dato un apporto concreto alla genesi
della scienza moderna, aiutandoci a capire perché i diciotto anni trascorsi da Galileo a Padova
siano stati fra i migliori della sua vita”: una tesi
condivisibile. È indubbio che il convegno i cui
“atti” abbiamo brevemente commentato, ha fornito elementi che favoriscono una rinnovata
conoscenza di aspetti poco frequentati nella pur
ampia letteratura critica su Sarpi, e nuovi approfondimenti delle questioni già note. Basterà ricordare, a tale proposito, i contributi di Filippo de
Vivo su Paolo Sarpi e la gestione dell’informazione, in cui lo studioso rileva l’uso moderno che
Sarpi ha fatto dell’informazione. Claudio Povolo
interviene con importanti osservazioni sul non
facile rapporto di Sarpi con il diritto veneto, e di
Piero Del Negro sui consulti sarpiani, che convincono la classe dirigente veneziana a “inventare”
una laurea di Stato, troncando “il cordone ombelicale, che univa gli Studi generali e, al di là di essi,
il sapere nelle sue più alte manifestazioni, ai poteri universali dell’Europa medievale, il papa e l’imperatore”.
Mario Sangalli indaga i rapporti di Sarpi con i teatini di Bergamo, da cui emerge la sua concezione
educativa di stampo antigesuitico; Pasquale
Guaragnella fornisce una innovativa lettura della
117
n.18 / 2007
biografia di Fulgenzio Micanzio, la Vita del pa dre
Pa olo, ricorrendo agli strumenti della più raffinata
critica letteraria; Mario Infelise affronta l’intricatissimo campo delle opere a stampa di Sarpi, tra false
indicazioni di luogo, di editori e di librai, tracciando un ampio quadro della fortuna editoriale di
Sarpi dentro e fuori d’Italia, che dà la misura della
sua proiezione europea. Ma la fortuna di Sarpi non
è solo editoriale: aprendo vie nuove alla ricerca,
Antonella Barzazi segue lungo tutto il Seicento e
oltre il difficile rapporto dell’ordine dei Servi di
Maria con l’eredità del suo più grande e imbarazzante figlio; mentre Dorit Raines avvia un’originale
ricerca della memoria di Sarpi negli archivi privati
del patriziato veneziano.
Infine, Giuseppe Trebbi con la consueta finezza
passa in rassegna alcune recenti interpretazioni
del padre servita, soffermandosi in particolare
sull’odierno dibattito circa la religione di Sarpi
alla luce dell’edizione critica dei Pensieri e delle
recenti edizioni delle sue opere. In conclusione,
si può dire che chi vorrà accostarsi e proseguire
nella ricerca su questo straordinario personaggio,
dovrà ora partire proprio da questi contributi
innovativi. Conclude il ricco volume
un’Appendice iconografica, curata da Camillo
Tonini e realizzata da una équipe di studiosi i
quali, valorizzando il patrimonio del Museo,
offrono un innovativo contributo sulla fortuna
sarpiana nell’Ottocento veneziano.
Corrado Pin pubblica ora una vera e propria novità, l’Istoria dell’Interdetto nella redazione che
Sarpi preparò nella primavera del 1610, in vista
della consegna allo storico francese JacquesAuguste de Thou per la continuazione della sua
Historia sui temporis; consegna poi impedita dal
Collegio veneziano per motivi di opportunità politica. Nella Nota critica a l testo Corrado Pin dimostra come il codicetto, da lui rinvenuto nel fondo
Donà delle Rose (Biblioteca del Museo Civico
Correr di Venezia), tutto di mano del copista ordinario di Sarpi fra Marco Fanzano, sia quello preparato per l’invio, poi non avvenuto, a Parigi e rimasto nell’archivio privato – dove ancora attualmente si trova – del doge Leonardo Donà, protagonista del periodo dell’interdetto, protettore di Sarpi
e suo strenuo difensore dopo la conclusione della
contesa con il papa Paolo V.
Nell’Introduzione al volume, William Shea, titolare
118
della cattedra galileiana di Storia della scienza
all’Università di Padova, espone le ragioni che
fanno di quest’opera un testo centrale nella storia
dei rapporti fra Stato e Chiesa. Del papa Paolo V
afferma che “impersonava il cattolicesimo autoritario, bramoso di potere temporale”, e che “adoperava la scomunica come strumento di sopraffazione”. Il contrasto fra il Papa e Venezia, dunque, fu
essenzialmente di carattere politico e Sarpi ha dato
un contributo di grande rilievo a smascherare e
confutare le pretese del Papa.
Il centenario dell’Interdetto si conclude con il classico “coup de théâtre”. Nina Cannizzaro, docente
presso il Bard College nello Stato di New York, studiosa di letteratura del Cinque e Seicento, ha rintracciato presso la Beinecke Library della Yale
University un manoscritto della seconda metà del
Seicento, copia di un inedito di Sarpi – Della potestà de’ principi –, di cui aveva dato notizia nella
biografia sarpiana il Micanzio, ma che era finito
quasi subito nel totale silenzio. Si tratta, come già
informava il biografo sarpiano, dell’abbozzo dei
primi tre capitoli di un’opera che Sarpi aveva progettato di scrivere e che dava “indizio che dovesse
esser la più bella e importante composizione che
sia mai comparsa al mondo”; di essa – è sempre
Micanzio a informarci – Sarpi aveva steso una traccia in 206 “rubriche” (rubriche – e cioè titoletti dei
progettati capitoli – anch’esse serbate nel manoscritto di Yale).
La studiosa fornisce nell’introduzione una precisa
informazione di questo straordinario ritrovamento, tracciando il suo possibile percorso, mentre
Corrado Pin, in un ampio saggio, con la proverbiale cautela di expertise di testi sarpiani, dimostra
l’autenticità dell’opera, la cui composizione è databile fra il 1610 e il 1611. In quest’opera, Sarpi
“sostiene senza tentennamenti le principali tesi
assolutistiche” formulate tra Cinque e Seicento, in
particolare da Jean Bodin, fino ad anticipare posizioni, secondo Pin, vicine al pensiero di Hobbes e
di altri teorici dell’assolutismo regio del pieno
Seicento. Un nuovo e intrigante testo, che viene
offerto agli studiosi, i quali proprio nel momento
in cui forse pensavano di avere concluso il loro
lavoro euristico, devono riprenderlo e almeno in
parte rivederlo.
Mario Quaranta
Antonio Vallisneri, medico e naturalista
Dario Generali (a cura di), Bibliogra fia delle opere
di Antonio Va llisneri , Leo S. Olschki, Firenze
2004, pp. 265 € 27.00
Antonio Vallisneri, Qua derni di osserva zioni , vol.
I, a cura di Concetta Pennuto, introd. di Dario
Generali, Note biologiche di Andrea Castellani, Leo
S. Olschki, Firenze 2004, pp. CVIII-255, € 36.00.
Antonio Vallisneri, Migliora menti e correzioni
d’a lcune sperienze ed osserva zioni del signor
Redi , a cura di Ivano Dal Prete, Note biologiche di
Andrea Castellani.
Carlo Francesco Cogrossi - Antonio Vallisneri,
Nuova idea del ma le conta gioso de’ buoi , a cura
di Mauro De Zan, Leo S. Olschki, Firenze 2005, pp.
173, € 18.00.
Antonio Vallisneri, Epistola rio 1714-1729, a cura di
Dario Generali, Leo S. Olschki, Firenze 2006, CD,
pp. XIV-1873, € 50.00.
Questi quattro volumi fanno parte di un’audace e
meritoria impresa editoriale, che prevede l’edizione nazionale delle opere di Antonio Vallisneri
(1661-1730), più di sessanta, distribuite in tre
serie: l’edizione dei manoscritti, le opere edite
dallo scienziato e il carteggio, che conta più di
12.000 lettere, del quale si è da poco conclusa la
pubblicazione delle circa 1600 dell’Epistola rio, e il
cui arcchivio elettronico in progress è on-line sul
sito internet www.vallisneri.it.
Dopo essersi formato a Bologna sotto la direzione
di Marcello Malpighi, Vallisneri venne chiamato nel
1700 alla cattedra di medicina pratica (passando
successivamente a quella di teorica) nello Studio di
Padova, dove ha insegnato per trent’anni. Ha pubblicato, spesso anonimi o con pseudonimi o a
nome di allievi, una sterminata serie di saggi, articoli, libri, di cui Dario Generali, coordinatore
scientifico dell’iniziativa, ci fornisce una rigorosa
bibliografia. Uno strumento imprescindibile per
chi si accosta all’opera vallisneriana, che comprende un ampio spettro di argomenti: anatomia comparata, medicina, embriologia, storia naturale, etologia, filosofia, entomologia, geologia.
Nel primo volume dei Qua derni di osserva zioni ,
cui l’autore si dedicò tra il 1694 e il 1701, si trovano notazioni originali che hanno consentito allo
scienziato di correggere errori e vere e proprie fal-
Un momento aureo della cultura a Padova
sità riscontrate nei testi che gli scienziati avevano
scritto su vari argomenti. La lettura di questa
miniera di dati, fatti, ipotesi, ci permette di comprendere, inoltre, la genesi del pensiero e la pratica scientifica di Vallisneri, frutto di un’intensa attività osservativa e teorica, soprattutto in ambito
entomologico.
In molte occasioni, Vallisneri non solo fornisce la
spiegazione o enuncia ipotesi attendibili relative a
fenomeni fino allora sconosciuti, ma falsifica in termini scientificamente rigorosi la tesi della generazione spontanea, e confuta, sulla base del metodo
sperimentale di stampo galileiano, l’aristotelismo
biologico. E tutto ciò sullo sfondo di una esplicita
battaglia per la libertà di pensiero, contrastando le
pretese della chiesa controriformistica di controllare l’impresa scientifica.
Egli attribuisce, baconianamente, un posto centrale all’osservazione assiduamente ripetuta e rigorosa dei fenomeni di cui la scienza si occupa. Le due
opere, Muta menti e Nuova idea , del 1712 e del
1714, rappresentano due momenti fondamentali
nell’attività scientifica di Vallisneri (e di Cogrossi).
Nella prima affronta un delicato problema, lasciato
aperto dal Redi, il quale per primo si impegnò
nella confutazione della dottrina della generazione
spontanea,che però ammise in alcuni casi particolari, come quello delle galle delle querce e di altri
parassiti delle piante, che ritenne generati dalla
forza vegetativa delle medesime. Un varco, questo,
che consentì allo schieramento avverso di mettere
in discussione la legittimità dello stesso metodo
sperimentale. Vallisneri, per non compromettere
la posizione galileiana, non critica frontalmente
Redi ma propone “miglioramenti e correzioni” alle
osservazioni e alle conclusioni errate avanzate da
quest’ultimo, mettendo in evidenza che l’errore
nasce esclusivamente da una applicazione sbagliata del metodo.
La Nuova idea riguarda la scoperta della causa del
contagio epidemico del 1714, che determinò la
morte di oltre un milione e mezzo di bovini in
Europa (da noi, soprattutto nella pianura padana).
Contro le teorie tradizionali della “costituzione
epidemica”, Cogrossi e Vallisneri sostengono l’ipotesi microbica della peste; una teoria che non era
ancora sufficientemente corroborata empiricamente, e quindi epistemologicamente incerta.
Secondo Cogrossi è legittimo ricorrere a congettu-
119
n.18 / 2007
re che comunque forniscono una spiegazione
razionale del fenomeno che, anche se ipotetica e
incerta, è pur sempre più convincente di quella
tradizionale. Vallisneri aderisce a questa prospettiva interpretativa e teorica, ma non dimentica la
necessità di giungere a una conferma empirica da
realizzare attraverso il ricorso ad adeguate osservazioni con il microscopio, per individuare e osservare il presunto microrganismo responsabile della
malattia dei bovini.
Infine, la pubblicazione in due volumi, a cura sempre di Generali, delle lettere vallisneriane del
periodo 1679-1713, è ora integrata dal CD in cui è
registrato l’epistolario dal 1714 al 1729; un’edizione digitale senza apparato critico e di commento
storico, al contrario dei due precedenti volumi, ma
che mette a disposizione degli studiosi un materiale imponente da un punto di vista quantitativo,
di grande importanza storiografica e che fornisce
un notevole aiuto alla ricerca.
Già da questi testi emerge nitidamente la figura di
Vallisneri, il suo temperamento di battagliero
difensore della nuova scienza, del metodo sperimentale scandito nei tre momenti: osservazione,
ipotesi, sperimentazione. Sotto il profilo metodologico e sperimentale, egli ha fornito un contributo decisivo per la confutazione della teoria della
genesi spontanea degli organismi viventi: “non
ammetto - dichiarava - alcuni immaginabili generazioni senza materna semenza”. Elaboratore di un
paradigma “forte” del creazionismo, difende la
distinzione fra scienza e fede, ma è cauto quando
sono coinvolti problemi di ortodossia religiosa,
mentre nelle lettere dà aperto sfogo alle sue idee.
L’attacco violento che egli muove all’aristotelismo
biologico è motivo costante nei suoi scritti, anche
se si rende conto che occorre ampliare la polemica contrapponendo al peripatetismo una diversa
concezione generale della natura. Egli progetta,
perciò, la ricostruzione di ogni anello della “grande catena degli esseri”; consapevole di delineare
un’impresa che potrà essere realizzata soltanto
con l’apporto di alcune generazioni di studiosi.
Un cercatore d'oro di Treviso
Da rio De Bortoli, Ja ck Costa . L'epopea del trevisa no che cercò l'oro in Ala ska , e lo trovò,
Fra ncoAngeli , Milano 2006, pp. 236, € 15.
120
Attraverso sessant'anni di storia, dal 1868 al 1928,
viene raccontata la straordinaria vita di un trevisano partito emigrante dal Veneto per raggiungere
l'Alaska. Qui, dopo tremende fatiche e sacrifici,
trova l'oro che gli consente di tornare ricco al suo
paese. Ma per far riaffiorare questa storia l’autore
percorre anche le vicende della famiglia di Jack
Costa, dispersa in diversi continenti, intrecciate
con i grandi avvenimenti mondiali. Tutto inizia nel
Veneto del 1868, due anni dopo l'annessione al
Regno d'Italia, quando Giovanni nasce a Costa, frazione di poche case vicina al paese di Pederobba.
La sua famiglia, affittuaria di vari terreni, conduceva una vita modesta ma dignitosa in una situazione
generale caratterizzata da crescenti difficoltà,
dovute anzitutto all'arretratezza dei sistemi colturali e alla crescente pressione di una fiscalità impietosa. In un quadro sempre più fosco, l'unica speranza di una vita migliore sembrava venire ai contadini del tempo dalla prospettiva dell'emigrazione
al di là dell'Oceano, soprattutto in Brasile, dove la
fine della schiavitù aveva liberato grandi quantità di
braccia che dovevano essere immediatamente rimpiazzate.
Promettendo un viaggio gratuito, attrezzi da lavoro, proprietà e vantaggi di ogni genere, agenti di
emigrazione al servizio dei grandi proprietari terrieri o delle compagnie di navigazione, in accordo
con lo Stato brasiliano, percorrevano le campagne
venete per convincere la gente a partire. E
Giovanni Dalla Costa ne vide molti partire verso un
destino di fatiche e sacrifici mai pensando, fino al
1886, che anche alla sua famiglia sarebbe toccato
in sorte un tale destino. Fu proprio nell'autunno di
quell'anno, infatti, che un incendio distrusse tutto
ciò che la sua famiglia aveva: la casa e il raccolto.
Il fratello maggiore, Francesco, era sotto le armi, e
quindi toccò a lui, appena diciottenne, emigrare in
Francia per lavorare nelle miniere e mandare ai
suoi qualche risparmio che potesse contribuire alla
loro sopravvivenza. Ma dopo due anni, quando
ebbe modo di rendersi conto che i suoi sforzi poco
valevano per salvare la sua famiglia, Giovanni decise di seguire il suo istinto verso l'avventura, e così
si imbarcò a Le Havre e raggiunse la California per
partecipare alla corsa all'oro. Vi giunse nel 1888
quando, però, della mitica corsa all'oro iniziata
quarant'anni prima non rimaneva altro che la pos-
sibilità di trovare impiego in una miniera gestita
dalle grandi compagnie minerarie. E così fece, nel
vicino stato di Washington, per quattro anni,
segnati da due importanti novità: la partenza della
sua famiglia per il Brasile nella primavera del 1890
e, poco dopo, l'incontro con il fratello Francesco
giunto anche lui in America sulle sue tracce.
Ma la vita del salariato stava stretta a Giovanni, che
nel 1892 decise di raggiungere Nome, in Alaska,
per congiungersi con le avanguardie di una corsa
all'oro che avrebbe assunto un carattere di massa
cinque anni più tardi, nel 1897. Qui, in condizioni
climatiche estreme, in una terra vastissima e vuota,
fra alte montagne e fiumi immensi, estati senza
buio e inverni senza sole, Giovanni diventa Jack
Costa, il cercatore veterano capace di scavare pozzi
nel terreno gelato e di affrontare pericolosi viaggi
con la slitta trainata dai cani. Prima da solo e dal
1896 con il fratello Francesco, Frank, e il comune
amico Felice Pedroni, Felix Pedro, trova varie piccole quantità d'oro e trae buoni guadagni dal commercio.
Nel 1899, dopo aver sfruttato un filone piuttosto
ricco, ritiene che sia giunto il momento di tornare
a casa per farsi una famiglia. Ma nello stato di
Washington, dove si ferma al ritorno dai ghiacci,
sventuratamente perde tutto il denaro accumulato. Davanti alla scelta fra rientrare in Italia povero
com'era partito o riprovare a far fortuna in Alaska,
sceglie la seconda opzione, e così ricomincia a scavare e commerciare con in cuore la speranza del
grande ritrovamento. Che giunge quattro anni
dopo, il 9 aprile del 1903, nella zona dove anche
lui, assieme a Felix Pedro, a suo fratello Frank e ad
altri compagni di avventura, contribuirà alla nascita di Fairbanks, oggi seconda città alaskana dopo la
capitale Anchorage.
Questa volta la concessione a monte sul fiume
Pedro gli dà la vera fortuna e, nel 1905, gli consente di ritornare ricco nella natia Pederobba dove,
nel giro di pochi mesi, acquista case e proprietà,
deposita una grossa cifra in monete d'oro presso il
Banco di Mutuo Soccorso di Valdobbiadene e si
sposa con Rosina Rostolis per ripartire con lei
ancora verso l'Alaska in un favoloso viaggio di
nozze. Seguono tredici anni di benessere, allietati
dalla nascita del primogenito Francesco e di altre
quattro figlie; anni in cui Giovanni, profondamente identificato con il mondo rurale in cui era nato,
porta avanti la coltivazione delle terre che ha
acquistato e la produzione di vino. Ma poi è di
nuovo tragedia. Nel 1918, con la disfatta di
Caporetto, è costretto a fuggire a Pavia dove rimarrà per un anno e mezzo patendo anche il dolore
della morte della figlia maggiore vittima della “spagnola”. Al rientro, l'amara sorpresa: la casa distrutta, trafugate tutte le cose più preziose sepolte in
un bauletto alla partenza, sequestrato dall'esercito
austriaco il deposito in oro. Nel 1928, Giovanni
muore lasciandoci eredi di una storia esemplare,
estremamente attuale nonostante siano passati
cent'anni, vivida testimonianza della volontà
umana di una vita migliore in un mondo allora
come oggi percorso da guerre e grandi emigrazioni.
[Pietro Bardella]
Il modello Veneto
Curi, Umberto, a cura di, Il “modello veneto” fra
storia e futuro, Poligrafo, Padova, 2007, pp. 153
In questo libro sono pubblicati gli atti del convegno su Il “modello veneto” fra storia e futuro,
organizzato dall'Accademia galileiana nel 2005. Il
Veneto, in particolare il Nord-Est, ha conosciuto in
questi ultimi vent'anni una trasformazione economica così profonda e diffusa, che gli ha consentito
di passare da “meridione” del Nord a regionemodello di sviluppo industriale per piccole e
medie imprese. Un fenomeno di tali proporzioni
ha sollecitato storici e sociologi dell'ultima generazione a operare una radicale revisione dei tradizionali moduli d'interpretazione della storia del
Veneto. Carlo Fumian, ad esempio, ha ripercorso
le tappe di questa lunga marcia della storiografia
nella conoscenza del Veneto e nell'individuazione
dei caratteri del suo modello di sviluppo. Modello
su cui si è soffermato, in uno dei contributi più
innovativi, Giorgio Roverato.
Questi storici hanno riletto le vicende politiche
venete del secondo dopoguerra, ove un ruolo decisivo ha svolto la politica dei governi diretti dalla
Democrazia cristiana, incentrata su una legislazione
che protesse, in particolare, gli interessi dei contadini (blocco dei contratti agrari, credito agricolo,
ecc,). Ora, l'espanzione capitalistica del dopoguerra ha determinato l'eclissi dell'agricoltura tradizio-
121
n.18 / 2007
nale, ma il mondo contadino veneto non ha conosciuto un progressivo impoverimento come è
avvenuto in altre regioni; esso è passato dalle attività agricole a una diffusa piccola-media industria,
proprio per l'azione di sostegno dei governi, che
ha permesso una riconversione “morbida” dei ceti
contadini. Così essi sono diventati piccoli imprenditori o si sono riversati nell'economia dei servizi.
Questo fenomeno è stato considerato unico in
Italia, ed è stato accompagnato da un processo culturale di laicizzazione della società che ha coinvolto anche ceti di solide tradizioni cattoliche.
Umberto Curi, in una delle relazioni storico-critiche più analitiche ha affrontato in termini nuovi la
questione dell'identità veneta, diventata ora centrale per una serie di motivi analizzati con cura
dallo studioso. Egli è persuaso che la questione
dell'identità non debba essere confinata “sul piano
riduttivamente culturale”, ma che occorra “farne il
motore di una strategia proiettata all'avvenire”.
Bruno Anastasia si pone il quesito se il ciclo “virtuoso” del Veneto stia per terminare o quali ostacoli non congiunturali debba superare per procedere ulteriormente. Paolo Biffis sottolinea il rilevante e forse decisivo contributo che la finanza e il
credito hanno dato allo sviluppo dell'economia
veneta, mentre Giovanni Costa e Ilaria Bettella si
sono soffermati sul capitale umano del Veneto tra
XX e XXI secolo e, dati alla mano, istituiscono una
classificazione delle “persone creative” presenti
nei capoluoghi di provincia, nella persuasione che
la localizzazione di tali persone sia decisiva nello
sviluppo economico di una regione.
Francesco Favotto e Paolo Gubitta hanno tracciato l'evoluzione della forma impresa, che nel
Veneto ha espresso una vitalità e pervasività eccezionali, con un “forte radicamento territoriale
delle reti economiche e sociali che uniscono tali
122
imprese”. Uno sguardo acuto sulla classe politica
veneta, in particolare sul personale politico democristiano e comunista ha dato Monica Fioravanzo.
La studiosa esprime, infine, un forte scetticismo
sulla possibilità che l'impetuoso sviluppo economico del Veneto di questi ultimi decenni possa
proseguire. Massimo Carraro ritiene che nel ceto
industriale veneto non ci sia una adeguata consapevolezza della nuova condizione che ha creato il
processo di globalizzazione alle attività industriali
del Veneto. Altri studiosi si sono soffermati su
aspetti particolari ma rilevanti: Carlo Gregolin sui
cambiamenti nei servizi sanitari e sociali; Mara
Manente sul turismo; Paolo Scarpi sui modelli
gastronimici; Michele Zanette sulla finanza comunale del Veneto. Questo convegno è riuscito pienamente sia nell'analisi storica che è a monte dell'odierno sviluppo, sia nell'individuazione degli
ostacoli che occorre superare per dare continuità
a tale sviluppo, sia nell'indicare le prospettive per
il futuro. Dalle relazioni su quest'ultimo aspetto
della questione veneta emergono come centrali
sia la richiesta di una riduzione del fiscalismo da
parte dello Stato, sia la necessità di una integrazione dell'area veneta nell'ambito del mercato
tedesco, ossia del modello franco-renano di un
capitalismo “temperato”, in grado di garantire
continuità allo sviluppo.
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Recensioni
LibriLibriLibri
BRUNO MAIORCA (a cura di), Gra msci sa rdo.
Antologia e bibliogra fia 1903-2006, Istituto
Gramsci della Sardegna, Cagliari 2007
Non vi sono dubbi che nella formazione degli intellettuali e degli uomini politici italiani la nascita e
l’appartenenza a una determinata regione geografica e storica ha un ruolo molto importante. Tutta
la letteratura dei sardi su Gramsci e la Sardegna,
accuratamente raccolta da Bruno Maiorca, mette
in luce degli aspetti decisivi della personalità del
pensatore politico sardo. Ma essa ha risposto
anche ad altre esigenze di carattere più propriamente partitico e politico. Gramsci era sardo ma è
stato anche molto influenzato dal sardismo, ossia
da un pensiero politico e da un sentimento popolare fondato sulla reazione nei confronti della politica dello Stato dei Savoia nei confronti della
Sardegna, e infine ha sviluppato delle specifiche
iniziative politiche nei confronti dei sardi anche
quando militava nel partito socialista, e successivamente quando ha diretto quello comunista.
Gramsci sardo, sardista, teorico della questione
meridionale tre aspetti che si saldano nella sua
affermazione relativa alla necessità della creazione
di una Repubblica federale degli operai e dei contadini nella lettera del 12 settembre 1923 per la
fondazione dell’Unità. Gramsci federalista, dunque? Se si rimuove l’affermazione di Gramsci sul
federalismo, è evidente che tutta l’analisi e la ricostruzione del suo intenso rapporto con la
Sardegna e con i sardi resta molto incompleta. Il
federalismo gramsciano è la conclusione anche
della sua interpretazione della questione sarda.
Non è affatto vero, come ha sostenuto Claudia
Petraccone, che il federalismo di Gramsci abbia
“un valore strumentale”. Gramsci non era affatto
preoccupato dai fenomeni di opposizione che si
sviluppavano nel Meridione mettendo in pericolo
l’unità nazionale; ne sottolineava l’acutezza.
Che cosa ha gravato negativamente sugli studi e
sulle testimonianza di Gramsci sardo e sardista?
Anzitutto la mancata informazione del distacco del
partito comunista dalla strategia elaborata da
Gramsci e conclusa con il congresso di Lione nel
1926, congresso che aveva stabilito come obiettivo
politico l’Assemblea repubblicana sulla base degli
“operai e contadini”. In secondo luogo l’atteggiamento assunto da Palmiro Togliatti nei confronti
del federalismo nel 1945. Nel suo rapporto al V
Congresso del Pci del dicembre 1945, Togliatti ha
assunto una posizione di principio antifederalista,
la quale aveva certo delle motivazioni e delle giustificazioni nel pericolo della disintegrazione
dell’Italia e nelle preoccupazioni per il Trattato di
pace, ma proprio per il modo in cui è stata assunta, per il suo carattere assoluto, ha pesato negativamente anche nel caso specifico della ricerca e
della interpretazione del federalismo di Gramsci.
Nel 1919 e nel 1920 Gramsci ha scritto vari articoli
dedicati alla Sardegna che hanno accompagnato il
suo intervento politico nei confronti dei soldati
della brigata Sassari che egli ha ricordato nel suo
saggio su Alcuni temi della questione meridiona le. Anche nel caso della Sardegna e del Partito
sardo d’azione il suo percorso non è stato semplice. Ancora nelle tesi del congresso di Lione (gennaio 1926) i partiti meridionali dei ceti medi e in
particolare quello Sardo d’azione sono indicati
come un ostacolo alla realizzazione dell’alleanza
fra operai e contadini. Il congresso di Lione non ha
affatto risolto la questione del governo operaio e
contadino, il nuovo obiettivo indicato da Lenin nel
momento del riflusso della rivoluzione a livello
mondiale; la formula che consentiva alla classe
operaia di uscire dall’isolamento e dalla passività.
Le tesi di Lione sono un passo indietro rispetto alla
lettera al Comitato esecutivo del PCI del 12 settembre 1923 relativa alla fondazione dell’Unità. La
contraddizione fra i due documenti si spiega con gli
orientamenti estremistici della maggioranza degli
iscritti al partito comunista, ma anche con le incertezze politiche e teoriche dello stesso Gramsci. La
parola d’ordine della Repubblica federale è stata
rilanciata nell’Appello dell’Internazionale contadina
rivolto al V Congresso del Partito sardo d’azione
123
n.18 / 2007
(27 settembre 1925) scritto da Ruggero Grieco, il
collaboratore di Gramsci per il lavoro nei confronti
dei contadini del Mezzogiorno e delle isole. Grieco
ha scritto anche un commento del congresso; è evidente che l’interesse di Greco per la Sardegna rientra nell’ambito dei suggerimenti gramsciani.
Nel luglio 1926 Gramsci invia a Emilio Lussu un
questionario di sei domande relative alla situazione politica sarda. Il fascismo è già al potere. È
molto significativo che Grieco abbia sempre sottolineato la diversità della questione della Sardegna
rispetto al Meridione, e nello stesso tempo si sia
configurato come il dirigente post-gramsciano che
ha ribadito più a lungo la posizione federalista del
PCI almeno fino al 1932. Grieco è stato anche l’interlocutore privilegiato del federalista veneto
Silvio Trentin, amico di Emilio Lussu durante gli
anni dell’emigrazione antifascista.
Maiorca ha il merito di aver individuato e raccolto i
primi scritti di Gramsci (1903-1913) fino alla lettera inviata a Alfredo Deffenu del Gruppo sardo della
Lega antiprotezionista. Oltre a tutti gli scritti dei
sardi su Gramsci. Ma che senso ha troncare la pubblicazione degli scritti di Gramsci al 1913? Gli scritti gramsciani di maggiore interesse sulla Sardegna
sono quelli successivi. Inoltre gli scritti politici sulla
Sardegna per essere comprensibili devono essere
accostati ad altri scritti sul fronte unico, sul fascismo, nei quali sono espressi i criteri politici generali in base ai quali Gramsci ha aggiornato e sviluppato il suo modo di affrontare la questione sarda e
quella del federalismo. La questione sarda non può
essere separata da quella generale dello Stato centralista italiano che Gramsci ha analizzato in modo
fino ad ora insuperato. Maiorca dà l’impressione di
aver mosso la sua ricerca nell’ambito di un pensiero politico autonomistico sardo, che Gramsci
mediante un processo complesso ha superato indicando nel 1923 l’obbiettivo della Repubblica federale degli operai e dei contadini.
(Elio Franzin)
ALESSANDRO MINELLI (a cura di), Attua lità di
Da rwin , Il Poligrafo, Padova 2006, pp. 84,€ 15.
I recenti dibattiti sul darwinismo fanno da sfondo a
questo libro collettivo originato da una serie di
124
“lezioni” tenute, da parte di specialisti legati all’università patavina, sotto il patrocinio dell’Accademia
galileiana.
Nel volume, nonostante la non grande mole, sono
toccati i problemi più scottanti, direi i punti nevralgici della grande teoria che ha rivoluzionato tanti
campi scientifici: una teoria che “è venuta evolvendosi nel tempo rispetto all’iniziale modello darwiniano”, quindi “in continuo divenire, spesso problematica e magari pluralistica, come necessariamente accade per i frutti della ricerca scientifica”.
Così afferma Alessandro Minelli nella Presentazione.
Dallo stesso Minelli ci viene poi un’essenziale e illuminante esposizione di quel settore nuovo (di cui
quest’autore è uno dei maggiori specialisti) che va
sotto il nome di evo-devo, abbreviazione di evolutiona ry developmenta l biology (biologia evoluzionistica dello sviluppo), una sintesi tra biologia
dello sviluppo (ontogenesi) e biologia evoluzionistica. Se si domanda, ad esempio, perché un animale è fatto proprio in questo modo, si possono
dare “due diversi tipi di risposta. Se con tale
domanda vogliamo in realtà sapere come una specifica forma è stata realizzata, dobbiamo calarci
nella logica della biologia dello sviluppo, e andare
in cerca di meccanismi di proliferazione e di differenziamento cellulare, di trascrizione differenziale
dei geni, di specificazione e realizzazione di organi.
Se invece la nostra domanda sul perché di una
forma biologica si riferisce al valore di questa per la
sopravvivenza dell’organismo, allora ci dobbiamo
spostare nel dominio della biologia evoluzionistica,
per vedere come differenze anche piccole (…) possano avere ripercussioni sul successo adattativo”.
Un altro intervento alquanto “tecnico”, ma suggestivo, è quello di Andrea Pilastro, il quale ricorda
come – oltre alla selezione naturale attraverso
competizione diretta dei maschi per il possesso
delle femmine – ci fosse già in Darwin una selezione attraverso la “scelta femminile”, rivolta ai
maschi forniti di maggiori “ornamenti”. Solo negli
ultimi decenni si è giunti a dare un’appropriata
spiegazione scientifica, sintetizzata in queste pagine, a questo secondo aspetto, che lasciava scettici
molti studiosi. Una vivace descrizione autobiografica di una cospicua serie di ricerche sul campo da
parte di un veterano della biologia evoluzionistica
ci viene offerta da Bruno Battaglia, con una notevole verve narrativa. Un racconto che dà anche
un’idea efficace di questo campo di studi, delle sue
difficoltà e vicissitudini.
Ravvivate da vis polemica sono le pagine che
Gianantonio Danieli dedica alle recenti discussioni
tra sostenitori e avversari dell’evoluzionismo, i
quali ultimi, curiosamente, sono forti soprattutto
negli USA, una società all’avanguardia in campo
scientifico, anche in quello specialistico dell’evoluzione, eppure ancora alquanto chiusa sul piano di
una cultura scientifica come visione del mondo
basata sulle scienze. Tutto ciò affetta particolarmente il campo scolastico. Del resto anche da noi,
negli ultimi anni, ci sono stati tentativi di emarginare dall’insegnamento medio la teoria dell’evoluzione. Si sono rimessi in discussione gli stessi pronunciamenti della chiesa che in un messaggio di
Giovanni Paolo II alla Pontificia Accademia delle
Scienze, del 1996, sembrava aver sostanzialmente
accettato il principio evoluzionistico.
A dire il vero, oggi, più che escludere questo principio in assoluto, i negatori si sono concentrati sul
suo inquadramento, per cui magari può passare
un’evoluzione in generale, purché le si dia uno
sfondo teleologico legato alla sapienza del creatore e non al “caso” darwinista. Le “evidenze” in favore della trasformazione delle specie stanno dimostrandosi così forti da farla considerare un “dato di
fatto”, come osserva Oddone Longo, e non certo
un’ipotesi qualsiasi. Ciò che ancora suscita maggiori resistenze è invece il concetto del cosiddetto
“disegno intelligente”: un progetto evolutivo delle
specie viventi elaborato in qualche modo da una
mente superiore intelligente, divina (un discorso
che esula dal metodo della scienza, ma che secondo i suoi sostenitori sarebbe richiesto da un’esigenza razionale di spiegare l’estrema complessità
dei fenomeni naturali). Ma forse ancor più “difficile da digerire”, a parere di Longo, è la diffusa
immagine (neo)darwinista che vede nei viventi (in
quanto derivano da mutazioni casuali e cieca selezione naturale) “non già dei protagonisti ma delle
comparse passive, del puro materiale, se non propriamente inerte, quasi, sul quale si eserciterebbero gli esperimenti del processo evolutivo stesso”.
Un particolare impegno del libro si nota anche nei
confronti del problema del rapporto tra l’evoluzione dell’organismo e quella della mente. Gli esseri
umani - così Giovanni Felice Azzone sintetizza
alcuni recenti risultati delle ricerche su questo pro-
blema - sono costruiti “sia come macchine deterministiche mediatori di geni che come sistemi che
agiscono come mediatori di memi , gli strumenti
della trasmissione culturale fra le generazioni. I
membri della specie umana sono in grado di modificare i vincoli dello sviluppo imposti dai geni
mediante gli effetti dei memi ”, che costituiscono
per così dire le unità di trasmissione culturale. Con
la loro attività mentale, fornita di intenziona lità ,
gli uomini possono in qualche modo scegliere tra
gli agenti che influiscono su di essi e sui loro
discendenti, condizionando i percorsi evolutivi
della società umana e del suo ambiente.
Analogo problema quello della responsabilità
morale, al cui proposito Giovanni Boniolo pone la
cruciale domanda se si possa “naturalizzare” l’etica, nel senso di far dipendere tutti i nostri comportamenti da spinte e leggi naturali, oggetto della
biologia evoluzionistica. Per rispondere occorre
anzitutto distinguere le “condizioni abilitanti la
capacità morale” dai “giudizi morali” propriamente
intesi, cioè dalle valutazioni sui propri comportamenti. E su questa base Boniolo sostiene quella
che chiama una “naturalizzazione debole dell’etica, ossia solo delle condizioni abilitanti”, intendendo con queste ultime le condizioni neurofisiologiche che permettono un dato sviluppo conoscitivo
ed emotivo e una certa serie di istinti che vengono
ereditati. Ma oltre a ciò che è istintivo abbiamo i
comportamenti “abituali” legati a relazioni culturali ecc.. In conclusione, i comportamenti sono
morali perché così valutati da un particolare animale, cioè l’uomo, dotato di capacità morale dovuta al suo stadio evolutivo cerebrale, mentre i comportamenti in sé non sono intrinsecamente morali
né immorali). E ciò mi pare che possa anche contribuire a rispondere alle preoccupazioni circa la
“passività” dell’uomo rispetto all’evoluzione dei
suoi processi più qualificanti.
(Ferdinando Bidoni)
WILHELM WUNDT, Scritti scelti , a cura di Claudio
Tugnoli, Utet, Torino 2006, pp. 927, € 90.00.
Il primo volume della collana “Classici della psicologia”, diretta da Umberto Galimberti, pubblica i
Linea menti di psicologia e gli Elementi di psico-
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n.18 / 2007
logia dei popoli tradotti e prefati da Claudio
Tugnoli. Due opere di sintesi che illustrano i due
campi in cui Wundt (1832-1920) fornì contributi
eccezionali, che hanno orientato tre generazioni di
studiosi. Il suo programma di ricerca è sorretto da
un’idea di fondo: come Auguste Comte con il
Corso di filosofia positiva ha dato alla cultura
europea un’enciclopedia del sapere scientifico
(compresa la sociologia), così Wundt ha inteso
costruire un’enciclopedia delle scienze morali (o
umane) fondate sulla psicologia.
Nel Sistema della filosofia Wundt spiega come l’evoluzione della filosofia ne abbia mutato profondamente il senso e la funzione. La funzione generale della filosofia nell’attuale sistema delle scienze
consiste nella connessione delle singole scienze in
una visione del mondo e della vita che soddisfi le
esigenze dell’intelletto e i bisogni del sentimento.
Wundt si richiama esplicitamente a Comte e a
Hume quali ispiratori delle due correnti del positivismo moderno alle quali si devono ricondurre le
due concezioni fondamentali, che fa della filosofia
una scienza generale e la trasforma in una enciclopedia della scienza, e quella che indaga le condizioni generali del conoscere e dell’agire applicando la psicologia empirica. La filosofia deve considerare le scienze come proprio fondamento, non il
contrario. Solo se la filosofia poggia sulle scienze
potrà evitare ogni preferenza unilaterale di determinati punti di vista scientifici, per i quali non possiede alcuna competenza. Il compito della filosofia,
dopo la costituzione delle scienze particolari, non
è quello di riproporsi come scienza, ma di ordinare quelle esistenti. La filosofia permette di distinguere tra la matematica, che indaga i propri oggetti esclusivamente in base alle loro proprietà forma li , e le scienze reali, che si suddividono a loro
volta in scienze della natura e scienze dello spirito.
Wundt precisa che la realtà è una e che le scienze
- formali e reali, della natura e dello spirito - si
costituiscono per astrazioni successive. Perciò la
loro differenza non è un’immediata differenza di
oggetti. Le scienze della natura si dividono a loro
volta in due ambiti, corrispondenti rispettivamente ai processi fisici e agli oggetti fisici.
Il primo obiettivo è di dotare la psicologia di un
metodo sperimentale; ciò non significa applicare
ad essa il paradigma della meccanica o di altra
scienza, come accadrà in seguito, ma usare l’osser-
126
vazione e l’esperimento con il proposito di controllare con rigore le conclusioni cui giunge l’indagine. In questo modo Wundt riteneva di poter
superare l’obiezione di Comte circa l’impossibilità
di fondare una scienza sull’introspezione; nella
prospettiva wundtiana, invece, la scienza risulta
“fondata sull’autoanalisi condotta con metodo sperimentale”. Wundt rileva che la psicologia del suo
tempo è sostanzialmente rimasta ancorata all’impostazione aristotelica, e critica radicalmente i due
modelli, spiritualistico e materialistico, allora
dominanti, ciascuno dei quali nasce dalla filosofia
di Cartesio e dalla sua separazione di res cogita ns
e res extensa . La vita psichica, afferma Wundt, è un
fenomeno unitario e complesso; parte da elementi semplici che via via si intrecciano e concrescono
insieme. I primi sono la sensazione e la percezione: fenomeni in cui si innervano le sfere del fisico
e dello psichico. Egli critica radicalmente lo spiritualismo e il materialismo perché forniscono un
modello riduttivo della psicologia, o riconoscendo
il primato dell’anima (o mente, o spirito) o riconducendo la coscienza a processi chimici e fisici. La
conseguenza è che entrambi negano l’autonomia
della psicologia, facendone un’appendice della
filosofia o della fisiologia.
Data la complessità del “fenomeno coscienza”, due
sono le discipline che possono contribuire a farne
una scienza: la psicologia evolutiva e quella comparata. La prima ci dice come è evoluta la vita psichica dell’uomo, la seconda descrive le caratteristiche della vita psichica degli animali. Non solo:
Wundt allarga il ventaglio delle discipline che possono informarci sullo sviluppo storico della psiche.
Impostando storicamente l’analisi dello svolgimento del linguaggio, del mito, della religione, dei
costumi, possiamo conoscere l’evoluzione spirituale dell’umanità. Poiché tutti questi fenomeni
rientrano nella sfera della psicologia, nasce da ciò
l’esigenza di delineare una “psicologia dei popoli”,
che con la psicologia scientifica istituisce un rapporto indisgiungibile. Wundt ha dedicato gli ultimi
vent’anni della sua attività a raccogliere un enorme
materiale confluito nei dieci volumi della sua
Psicologia dei popoli (o psicologia sociale).
Dopo l’insegnamento di antropologia e psicologia
ad Heidelberg nel 1864, Wundt si trasferì a Lipsia,
dove, dal 1875, ebbe la cattedra di filosofia, il che
lo indusse ad affrontare il problema dei rapporti
tra psicologia (come scienza) e filosofia, nell’ambito di un dibattito che interessò tutto il Novecento.
Wundt rifiuta la soluzione che considera la psicologia una scienza dello spirito, e quella che la ritiene parte integrante della filosofia. Dopo aver stabilito una netta distinzione tra la funzione esplicativa
del sapere e quella pratica, Wundt mantiene ferma
l’idea che la psicologia è scienza sperimentale
autonoma, anche se le questioni che essa affronta
implicano una riflessione di carattere filosofico.
Compito della scienza è di fornirci una conoscenza
razionale dei fenomeni naturali; ma essa è neutrale, nel senso che i suoi risultati non implicano scelte filosofiche e pratiche; gli eventuali effetti di ricaduta possono certo rivelarsi utili, ma rimangono
secondari rispetto alla struttura formale e alle finalità della scienza. Nel sapere scientifico si esaurisce
quasi completamente la conoscenza della realtà, e
la filosofia, afferma Wundt, è “la scienza generale
che deve riunire in un sistema privo di contraddizioni le nozioni generali fornite dalle singole scienze”. Dopo che le scienze hanno raggiunto un alto
grado di sviluppo, cambia necessariamente il ruolo
della stessa filosofia: essa non può più prescrivere
ciò che la scienza deve fare, né fornire un fondamento alla razionalità scientifica. Ciò che le rimane
da fare è un compito squisitamente metodologico:
rendere coerente l’edificio della scienza, togliendo
eventuali contraddizioni, dato che una teoria che
abbia al suo interno una contraddizione, non possiede valore conoscitivo alcuno.
Come è noto, il modello wundtiano di psicologia
ha subito un’eclissi con l’emergere della “psicologia della forma”; ma nelle due opere di questo
volume ritroviamo problemi e soluzioni su cui
generazioni di psicologi si sono misurati. Uno dei
lati più validi del pensiero dello psicologo tedesco
consiste nella ricchezza delle argomentazioni che
egli sa allestire per polemizzare, in termini pressoché definitivi, nei confronti della concezione speculativa e materialistica della psicologia. Due
orientamenti che, in cambio, hanno condizionato
la genesi della psicologia italiana: quello speculativo, espresso da Roberto Ardigò (che su Wundt ha
lasciato un ampio lavoro inedito), e quello biologico da Giuseppe Sergi.
L’analisi wundtiana dei diversi linguaggi (del
corpo, dei sordomuti, ecc.) e delle loro caratteristiche peculiari, prelude a una concezione moderna della cultura come un serbatoio di codici linguistici. Sono da segnalare altresì le analisi condotte con acume sugli equivoci logico-linguistici che si
presentano in psicologia, equivoci che saranno al
centro del pragmatismo di Vailati. Né va sottovalutata la sua analisi della psiche degli animali, l’idea
di valutarne il comportamento in analogia con
quelli umani, senza cadere in una visione antropomorfica. (L’analogia degli esseri viventi fu sostenuta dalla scuola razionale di Malpighi continuata da
Vallisneri). Né è da dimenticare che la distinzione
wundtiana tra psicologia come scienza e come filosofia, è stata raccolta, ma diversamente risolta, da
alcuni psicologi italiani. Basterà citare la posizione
di Vittorio Benussi il quale, in polemica con lo spiritualista Francesco De Sarlo, difese una posizione
analoga a quella wundtiana.
(Mario Quaranta)
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