scarica PDF - Ruralpini

TRANSUMANZA E PENSIONATICO NELLE ALPI FRIULANE
IN ETÀ MODERNA: VALIDITÀ E LIMITI
di Mauro Ambrosoli
INTRODUZIONE
Nell’area veneto-friulana le problematiche connesse alla transumanza ed al pensionatico, la
forma pratica che ne regolava il funzionamento, sono state trattate nelle sue forme di massima da
Andrea Gloria (1854), Massimo Petrocchi (1950), Marino Berengo (1956), Liliana Morassi (1982, 1992)
e toccata infine anche da Michele Simonetto (2001) e da Danilo Gasparini, che tiene conto della
ricca documentazione degli estimi trevigiani (2001). La questione è nota nelle sue linee di massima
e si collega al tema generale della dissoluzione della proprietà collettiva nell’Europa del Settecento, al contrasto tra la conduzione individuale delle risorse agrosilvopastorali e le servitù comunitarie. Si trattò di un profondo movimento di trasformazione socio economica e giuridica che prese
forme abbastanza diverse secondo la situazione locale e le soluzioni politiche proposte dalla classe
dirigente, che rese sempre più limitata, fino ad abolirla completamente, la consistenza regionale
delle proprietà collettive ed avvantaggiando la proprietà individuale della terra. Dobbiamo vedere il
problema della transumanza nell’area friulana tenendo presente il confronto con le soluzioni giuridiche che si andavano realizzando in altre regioni europee. Il pensionatico agiva come interfaccia
legale della transumanza nell’area friulana, che regolava l’allevamento delle pecore e dei bovini,
ma soprattutto delle prime, tra l’alpeggio estivo ed il pascolo invernale, e funzionava in poste di
pascolo definite dalla consuetudine e dal diritto di stabilire queste poste, e successivamente regolati dalla legislazione della Serenissima. Il pensionatico friulano si differenziava dalle altre aree venete e lombarde a causa della situazione feudale in Friuli.
In questa sede vorrei cogliere l’occasione per presentare un aggiornamento del problema tenendo presenti i temi messi in evidenza da ricerche recenti condotte nell’archivio dei Provveditori
ai Beni Inculti e Deputati all’Agricoltura per il Friuli presso l’Archivio di Stato di Venezia.
LO
STATO DELLA QUESTIONE DAL PRIMO SEICENTO AL
1750
Il contrasto tra proprietà privata e beni comunali e comuni è sempre stato elevato in Friuli: al
momento della cosiddetta dedizione di Udine a Venezia (1420) i veneziani si accorsero della grande
quantità di beni feudali in tutta la regione («omnis fere feudalis») ai quali si aggiungevano le grandi
estensioni di beni collettivi, boschi, pascoli e paludi. Questa condizione rimase tale fino alla metà
del Seicento, quando la pressione finanziaria causata dalla guerra di Candia spinse il senato veneziano a privatizzare i comunali e contemporaneamente allargando le maglie del ristretto patriziato
veneziano concedendo titoli nobiliari e accessione al Libro d’Oro della nobiltà veneziana a coloro,
che versarono 100.000 ducati nelle casse della repubblica. Tra 1646 e 1727 le massicce vendite di
comunali del territorio friulano ridussero la cifra a cui erano stati stimati i beni comunali di ettari
132.147 (che non comprendevano i beni comunali di Latisana e Belgrado, assieme a moltissimi co-
STUDI SULLA
TRANSUMANZA E L’ALPEGGIO
1 (2006)
munali della Carnia, che non furono mai misurati), a 78.483 ettari, come furono valutati alla fine
del Settecento i comunali friulani. In questa situazione esplosero le secolari tensioni che si erano
accumulate nella società friulana, polarizzata tra gli interessi che si giovavano della legislazione
scritta, che portava a difendere la proprietà privata. Dall’altra parte le consuetudini e lo stato di
fatto avevano allargato e confuso lo sfruttamento dei beni collettivi. In mancanza di più precise
descrizioni e rappresentazioni cartografiche, diciamo subito che i diritti di uso e le consuetudini
seguirono le variazioni dell’ambiente, coltivato e selvatico, bosco, pascolo e palude, e non garantivano assolutamente la destinazione originale del suolo. Pascolo e arativo, pascolo e bosco rimasero
fortemente concorrenziali. Gli Statuti della Patria del Friuli, raccolti dai Patriarchi e ripresi e riconfermati da Venezia nel 1429 prevedevano pene per coloro, che pascolavano nei terreni altrui
(Rubrica LXIII).1 Al pascolo era lasciata la montagna, attaccata sia dalla lenta ma continua ricrescita
del bosco, sia dalla riduzione dei pascoli in coltivi. Il Senato vietò in diverse occasioni formalmente
di arare, zappare, ‘svegrare’ i monti: ad esempio il 20 febbraio 1598, il 2 gennaio 1654, il 2 settembre 1665.
I pastori tesini furono una costante nelle terre friulane e si trovano indicazioni della loro presenza nei registri parrocchiali fin dal 1368, quando il vescovo di Concordia concesse l’ingresso nei
pascoli della Mensa vescovile tra Cordovado e San Giovanni di Casarsa. Nel Quattrocento i giusdicenti di Valvasone locavano i prati di Fratta, Frattuzza e Mocumbergo. Nel 1424 e 1455 sono ricordati
nuovamente i pastori di Tesino e di Tramonti, che pascolavano abusivamente in territorio friulano.2
Importanti documenti coevi sono stati utilizzati da Danilo Gasparini: nel Quattrocento i pastori tesini presenti nell’area di Conegliano e Feltre arrivavano da Tesino e Primiero seguendo la Valsugana
passando da Castelfranco e dalla Chiusa di Quero per il Feltrino.3 Probabilmente anche indagini accurate negli archivi delle famiglie dei giusdicenti friulani potrebbero fornire qualche indicazione
supplementare a quelle utilissime trovate a suo tempo da Sante Fregolent nei registri parrocchiali
della Bassa Pordenonese. I percorsi della transumanza invernale da Asiago prendevano due strade
una verso Verona ed Isola della Scala ed un’altra verso Monselice e Padova. Una terza via prendevano i pastori passando intorno al Grappa verso Portogruaro e Casso, da dove entravano in Friuli. La
monticazione estiva partiva dal padovano per raggiungere Pordenone e la Bassa friulana, Spilimbergo, Codroipo, Udine, Palmanova, Cividale.
Alcuni contributi presentati in questo stesso volume ci spingono a credere che alla presenza dei
pastori tesini si unisse quella di altri gruppi tradizionalmente impegnati nel commercio della lana e
nelle attività laniere. Tra i molti lombardi in Friuli, i bergamaschi rappresentarono un gruppo sociale attivo e di successo imprenditoriale notevole: la carriera della famiglia Caselli è particolarmente
illuminante delle connessioni tra settore formale ed informale della società ed economia friulana in
antico regime. Originari di Bariano, attivi mercanti lanieri immigrati ad Udine nei primissimi anni
del Seicento che acquistarono un titolo di nobiltà grazie al contributo concesso alla Repubblica al
tempo della guerra di Candia e divennero proprietari fondiari acquistando case e beni comunali nei
decenni successivi.4 Anche i documenti citati da Sante Fregolent, nascite e matrimoni di tesini provenienti dai Sette Comuni immigrati nel Pordenonese,5 sono da vedersi piuttosto nella direzione
dell’emigrazione di nuclei familiari, forse uno stadio successivo a quello dell’emigrazione stagionale
praticata durante la transumanza.
I pastori tesini riapparvero verso la metà del Seicento. Ad esempio a Brazzacco, feudo dei Brazzà nella pianura friulana, dal 1660 si stabilirono dei contratti per lo sfruttamento delle poste feudali
con pastori provenienti dall’altopiano di Asiago. Nello steso feudo, durante il lungo periodo dal 1495
al 1657 per il quale esiste una documentazione, i pastori provenivano dalla Carnia. Quando sorsero
problemi con la popolazione locale per lo sconfinamento degli animali e di asinelli, allora i pastori
2
AMBROSOLI
carnici che avevano occupato fino a quella data le poste delle pecore di Brazzacco si spostarono nel
comune limitrofo di Fontanabona, feudo dei Mantica.6
Sollecitato dall’ufficio della Contadinanza,7 a cui fecero appello i comuni che videro ridursi la
possibilità di allevamento e privati dei beni comunali dei quali fino a quel momento avevano goduto, il Senato veneto il 31 gennaio 1670 emise una prima legge con cui tentava un regolamento dello
spostamento degli animali: tra 16 marzo, San Ellero, e il 23 aprile, San Giorgio, i pastori non potevano trattenere le greggi nelle poste, che erano riservate ai soli legittimi proprietari.8 L’editto fu
pubblicato dal luogotenente solo nel 1673 in contemporanea con la nuova edizione a stampa degli
Statuti della Patria. Il 30 giugno 1671 si comandava di
«lasciar uso dei pascoli a benefizio degli animali specialmente bovini.”9
Questo non risolse la questione perché i possessori delle poste pretendevano di usufruire di questo diritto dal primo novembre fino al 23 aprile, San Giorgio, dell’anno successivo. Per conto suo la
Contadinanza proponeva di limitare il periodo della posta dal 25 novembre, Santa Caterina, al 25
marzo, l’Annunciazione. Nell’agosto 1676 il Senato, in pieno collegio si noti bene, non si espresse
sul periodo della posta, ma solo sul numero delle pecore. L’anno precedente nel vicino distretto di
Conegliano passava un parere, ‘diffuso’ successivamente anche nella provincia del Friuli che l’uso
del pascolo «trattatasi di legge salica»(sic) ed andava dal San Martino al San Giorgio dell’anno successivo, con l’unica limitazione che i pastori non potevano condurre le bestie al pascolo nei campi
arati, negli orti e giardini chiusi e vicini alle case. La versione a stampa degli Statuti della Patria
pubblicata nel 1673 traduceva e confermava quanto sopra, estendendo i regolamenti ai danni causati da
«li uomini di qualche villa (che) andavano in qualche Pustota a pascolar»(cap. 81).
«Che non possa esser ridotto in Pasco il bene di particolari persone» (cap. 146).
In quello stesso torno di tempo il Senato veneto il 12 febbraio 1671, 3 agosto 1676, 11 gennaio
1684, vietava
«[...] l’uso del pascolo nei beni arativi e prativi altrui [...] dopo il giorno di San Giorgio sino al taglio delle erbe a
pena di £ 50 per caduna volta».
Una legislazione fondamentalmente garantista, come diremmo al giorno d’oggi, che difendendo
i diritti dei proprietari e possessori, si sforzava anche di difendere l’interesse comune, per l’allevamento del bestiame da lavoro bovino, che abbisognava di spazi maggiori per trovare il suo nutrimento.
Questi divieti furono ripresi anche dal Luogotenente10 della Patria (2 giugno 1682, 1 marzo 1683,
16 agosto 1700) e ripetuti fino al 1730. Nell’interesse della Patria egli ordinò ai pastori
«[...] Tesini Esteri11 [...] la proibizione di introdurre animali a pascolare in questa Patria [...] o altri benché sudditi
(di) introdurre animali pecorini a pascolare in altri lochi che quelli ove i Signori Giusdicenti12 hanno diritto di Posta
fino al numero prescritto di 30 per foco di lista [...] in pena di Ducati 50 [...] [che] molti Particolari e Communi
fanno lecito tenere nelle ville del piano di questa Patria maggior numero d’animali pecorini del limitato dalle Leggi
[rimangono le cifre indicate sopra e condanna alla pena] [...] per caduna volta per gli animali pecorini che entrano
3
STUDI SULLA
TRANSUMANZA E L’ALPEGGIO
1 (2006)
nei campi arativi e vidigati».13
I Tesini dei Sette Comuni non fecero attendere a lungo la loro risposta e il 12 gennaio1684 con
una ducale data in Venezia gli abitanti dei Sette Comuni furono dichiarati «sudditi»e quindi abilitati
ad introdurre le proprie pecore nelle poste friulane, rispettando il numero di trenta per fuoco di
lista. Da questa data iniziava un lungo contenzioso tra pastori montani, terrieri, sudditi e stranieri
che peggiorò decisamente fino all’epizoozia del 1759, la peggiore tra le molte che colpirono i bestiami della regione veneta friulana nel Settecento.
Con scarna precisione, il Procuratore fiscale Pietro Cargnelic aveva descritto nel 1788 tutta la
problematica che si era creata intorno alla gestione dei pascoli nel Friuli di Sei e Settecento.14 Malgrado, gli abusi che si erano consolidati, non mancavano mai tra gli amministratori veneziani coloro,
che si sforzavano di fare rispettare la consuetudine nell’interesse di tutte le parti interessate, repubblica, comuni, singoli operatori, come avvenne ancora l’8 ottobre 1751. I comuni della Patria
dovevano notificare al Luogotenente la quantità delle terre lavorate e la loro qualità (seminativo
asciutto, irriguo, erborato, prato, palude, bosco), aggiungendovi il numero degli animali grossi
(manzi, cavalli, armenti) e minuti (ovini, caprini, castrati) ed infine il totale delle semine. In questa
maniera si calcolava il fuoco di lista, ovvero l’imponibile fiscale sui beni immobili e mobili di ogni
capofamiglia:15 per ogni fuoco di lista calcolato sull’imponibile di tutto il comune erano permesse 30
pecore per comune concesse al possessore della posta. Non era chiaro dove queste dovessero essere
allevate: sul territorio del comune di residenza oppure in giro sui comunali altrui affidate ad un
pastore. In seguito l’8 giugno 1765 i V Savi alla Mercanzia emisero una ‘terminazione’ con cui si
sforzarono di regolare la pratica del pensionatico, ritenuto responsabile dell’impoverimento dei
suoli friulani e di essere un ostacolo all’allevamento dei bovini.
La terminazione fu approvata dal Senato. La terminazione del 1765 divenne la legge quadro del
pensionatico ed avrebbe dovuto regolare la transumanza escludendo le «pecore forestiere»e le
«pecore montane»dall’uso delle poste e che queste dovessero essere riservate alle «pecore terriere»dei proprietari della regione, lasciando libere le rive, cammini e strade pubbliche per il trasferimento delle greggi. Era anche stabilito che i pastori non potessero entrare nelle poste prima del 30
settembre, San Michele, e rimanervi fino al San Giorgio dell’anno successivo, con il divieto di entrare nei campi arati dal 25 marzo sino al 23 aprile.16 Fu anche annullato il privilegio che i pastori dei
Sette Comuni presumevano di avere, cioè una prelazione nelle affittanze delle poste: le loro greggi,
invece, furono considerate ultime dopo le terriere e le montane. Vista oggi la terminazione dei V
Savi alla Mercanzia sembra una buona legge: si sforzava di selezionare la razza delle pecore da lana,
nell’interesse dei manifatturieri, e permetteva alle greggi di lasciare i ricchissimi depositi sui terreni impoveriti. Da questa data fino alla fine della repubblica, però, assistiamo alla progressiva incapacità delle autorità, sia a Venezia sia a Udine, di fare rispettare i numerosi atti di governo con cui
le diverse magistrature veneziane si sforzarono di regolare la pratica ed i suoi abusi. In conclusione
alla fine degli anni ottanta, la pratica più comune era quella di vietare alle pecore straniere l’ingresso alle poste, ed il periodo effettivamente utilizzato dai pastori era tra il San Martino e il San
Giorgio dell’anno successivo. Ma non mancavano ancora comuni che senza avere legittimo titolo si
accordavano con pastori di montagna e facevano entrare le greggi nei beni privati, una pratica che
la Terminazione del 1765 rendeva illegittima. Infine, in alcuni comuni i coltivatori locali erano rimasti senza pascolo per allevare i bovini da lavoro e di conseguenza si vietava l’introduzione delle pecore nelle poste a loro riservate.
Gli attori che agivano su questa scena non erano solo i pastori terrieri e montani (friulani del
paese e della montagna) ma a costoro si aggiungevano i pastori forestieri della valle dell’Adige, i
4
AMBROSOLI
comuni, i giusdicenti (cioè i feudatari che amministravano la giustizia nei loro feudi) e tutti i contrastanti interessi di costoro stravolgevano la semplicità delle normative degli Statuti della Patria.
Intorno ai percorsi legittimi che provvedevano alla monticazione si erano moltiplicati abusi di ogni
tipo che avevano trasformato tutto il sistema della transumanza tra pianura e montagne in un’area
di illegalità diffusa tra 1680 e 1780, causa di danneggiamenti delle proprietà individuali, di espropri
di fatto dei beni comunali da parte dei giusidicenti e dei loro associati nel pascolo delle pecore. Il
risultato più evidente della appropriazione delle poste delle pecore (più di 900 in tutta la regione)
era che su 138 comuni friulani solo undici possedevano ancora poste di pecore (150), il resto (750)
era spartito tra la nobiltà e la chiesa.17 Un totale di 9.840 pecore che legalmente erano caricate
nelle poste della regione era così ripartito: 1.253 pecore ai comuni, 3.049 alla Chiesa, 5.538 alla
nobiltà. I grandi signori della chiesa, il vescovo di Concordia, l’abate di Sesto, l’arcivescovo di Udine, l’abate di Sumaga erano i più ricchi assieme ai conti della Frattina,di Valvasone, Zoppolo, Prodolone, Torre, Caporiacco, Aviano, Pers, ai Savorgnan di Brazza ed altri che nemmeno gli avvocati
fiscali della repubblica a Udine e Cividale riuscirono ad individuare. Il numero di ovini presenti su
tutto il territorio friulano ammontava a 88.000 capi nel 1766 e 99.000 capi nel 1790: questa cifra da
una parte conferma il successo della politica di controllo e sviluppo del pascolo e del patrimonio
animale della repubblica, dall’altra parte conferma che gli ovini legittimamente caricabili sulle
poste erano assai inferiori ed alla fine prevalse l’interesse dei mercanti e dei manifatturieri contro
gli agricoltori.18
Esiste una stretta concordanza tra questo periodo, 1670-1730, e gli anni in cui secondo Walter
Panciera si realizzarono nel difficile comparto del lanificio veneto le prime manifestazioni di quella
reazione alla crisi che aveva caratterizzato il primo Seicento.19 Allo stesso modo nella fase successiva, che arriverà fino alla caduta della Repubblica, i problemi della transumanza vanno visti in relazione della ripresa del settore laniero, vivace soprattutto dopo il 1760, stimolato dalla crescita dei
consumi che finì per aumentare a dismisura il patrimonio degli ovini su aree montane e pedemontane danneggiando boschi e arativi. I percorsi e la pratica della transumanza degli ovini finirono per
competere su un territorio ampio, in aperta concorrenza con lo spazio riservato all’agricoltura ed
all’allevamento dei bovini e per scontrarsi con quei gruppi di interessi locali che avevano goduto dei
beni comunali e dei diritti di posta garantiti ai giusdicenti e agli uomini cui erano stati affittati.
LE
PROPOSTE DELL’ACCADEMIA
AGRARIA DI UDINE
Dal 1758 l’Accademia Agraria di Udine ed i suoi personaggi più carismatici, Antonio Zanon e il
conte Fabio Asquini, avevano indirizzato il dibattito economico e politico sui rapporti tra agricoltura
e manifattura e le cause della crisi economica della Repubblica. La discussione sulle vicende friulane divenne centrale a tutta la politica economica della Repubblica, soprattutto dopo la carestia del
1764, quando l’aumento della produzione cerealicola divenne il cardine per sostenere tutta la ripresa.20 In questa prospettiva si deve inserire la questione della transumanza nella regione: da una parte il pascolo sconsiderato portava all’erosione della montagna, il calpestio delle greggi transumanti
alla perdita di suolo agrario in pianura e a danneggiamenti nelle proprietà private, dall’altra la scarsezza di fertilizzante abbassava la resa cerealicola e necessitava di una soluzione complessiva.
Nel 1768 a Pietro Arduino, fratello di Giovanni appena eletto Deputato all’Agricoltura, fu attribuito l’incarico in Senato di presentare un riparto della coltivazione per 70.000 campi nelle valli
veronesi: si pensava che la trasformazione dei pascoli irrigui non paludosi in risaia asciutta potesse
produrre anche quel rigetto di erbe necessarie al pascolo e provvedere così all’aumento delle bestie
5
STUDI SULLA
TRANSUMANZA E L’ALPEGGIO
1 (2006)
bovine. Pastorizia contro agricoltura, beni collettivi contro proprietà privata, ovini contro bovini,
pascolo contro bosco: i problemi non mancavano, la situazione era talmente complessa che la politica veneziana di accontentare tutti non bastava più. Seppur lentamente, la questione del pensionatico rimase al centro della discussione e nel corso del 1769 si decisero vari provvedimenti: il 30 marzo i Provveditori ai beni inculti ripresero i divieti già ricordati, fatti dal Senato nel corso del secolo
precedente di «arare, zappare, svegrare i monti», dato alle stampe il 12 aprile e pubblicato una
seconda volta il 10 marzo 1788. Non ostante i Provveditori avessero tenuto presente i decreti del
Senato dei secoli precedenti, fu preso in considerazione anche il decreto contemporaneo di Maria
Teresa d’Austria che il 30 dicembre 1768 intendeva risolvere
«la confusione dei bestiami cornuti… (e) ben anche mettere ordine l’economia di campagna per mezzo di maggior
cultura».
In buona sostanza l’imperatrice ordinava che si misurassero tutti i pascoli comunali nel lasso di
un anno, che la loro valutazione fiscale fosse ripartita a metà tra la quota a lei spettante e tra coloro, che effettivamente utilizzavano i fondi, lasciando libere le comunità di scegliere le modalità di
questo pagamento. Vietava altresì l’abuso dell’uso comune dei prati e delle campagne in primavera
ed autunno, lasciando al possessore dell’erba il diritto di raccoglierla, ed infine ordinava la sostituzione delle staccionate di legno con siepi vive.21 L’individualismo agrario si andava diffondendosi
rapidamente nella seconda metà del Settecento in tutta l’Europa occidentale a spese dei beni collettivi o comuni, che stavano perdendo rapidamente quelle caratteristiche di uso comune che li
avevano mantenuti in vita.22
La gestione della transumanza, organizzata su spazi legittimamente riservati al passaggio ed
all’alpeggio delle mandrie che si spostavano stagionalmente dalla pianura alla montagna, si confondeva con la pratica del pensionatico, che si fondava sull’uso della cosiddetta ‘erba morta’. Gli arativi e i pascoli comuni non potevano essere chiusi per permettere il pascolo alle bestie bovine ed
ovini del comune dal giorno di Santa Caterina, 25 novembre, a quello di San Marco, 25 aprile. In
realtà al diritto degli abitanti di usufruire della ricrescita spontanea dell’erba dopo il raccolto del
grano si aggiungeva il diritto, reale od usurpato, dei giusdicenti ed i diritti di coloro che avevano
affittato questi diritti, di fare entrare nel territorio comunale greggi ed armenti di passaggio. La
situazione era talmente compromessa che anche un gran nome della feudalità friulana, Mario Savorgnano, conte di Belgrado aveva emesso un’ordinanza a stampa che vietava espressamente la pratica
«…di mandare al pascolo ne’ campi arativi e prati chiusi in detta villa… fare ciò nei soli campi suoi proprij oppure ne
Beni Comunali e nelle strade riservate ad uso e benefizio comune»(Flambro, 14 Dicembre 1770).23
Nei primi anni Settanta le Accademie Agrarie venete raccolsero le risposte e le Informazioni ai
quesiti posti dai Deputati all’Agricoltura.24 Tra queste le lettere di Fabio Asquini, scritte tra 1770 e
1774 ai Deputati gettano ancora oggi molta luce sulla pratica della transumanza. Il pascolo ad erba
morta sopra gli arativi non seminati e sugli argini era la pratica che rendeva possibile lo spostamento delle greggi nel loro viaggio verso gli alpeggi. Poiché l’arativo era spesso vitato, gli ovini di passaggio danneggiavano liberamente viti e alberi da frutto; il calpestio degli animali produceva danni
enormi al suolo agrario, la produzione foraggiera era limitata ad un solo taglio e di conseguenza si
riducevano i raccolti di cereali e di uva. Il conte Asquini consigliava quindi di seguire l’esempio d’Inghilterra, Svizzera e Francia, dove sempre più frequentemente era stato abolito il pascolo vago
(vaine pâture) e ricordava l’esempio della regione francese della Champagne, dove era stato aboli-
6
AMBROSOLI
to nel 1769.25 Poneva l’accento sul fatto che solo la prima erba, tagliata perfino in agosto, era utilizzata per l’allevamento visto che nella pratica dopo lo sfalcio dell’erba in aprile, lo jus pascolandi
permetteva il pascolo fino al maggio dell’anno successivo ed oltre. Asquini insisteva ad informare i
Provveditori che la pratica del pascolo vago non era la tradizione della regione friulana: in tempi
assai più antichi, il 1352, il 1544 ed il 1652 la città di Udine aveva vietato il pascolo ad erba morta.26 In un’altra occasione Asquini ricordava che le
«Poste delle pecore da questi nostri signori castellani sono state introdotte con abuso delle prime clausole delle loro
antiche prerogative… Quelli che non trovano ostacoli… li fanno valere (cioè sfruttano i beni pubblici)… altri han
dovuto dichiarare di lasciare intatti i beni che non sono loro, riservandosi di conceder i pascoli sopra le loro proprie
terre[…]».
Dubitava infine che si sarebbe trovata qualche investitura antica delle poste delle pecore e consigliava la necessità di una legge abrogativa del pensionatico.27 In altre lettere ai Provveditori sosteneva che era meglio seguire l’esempio svizzero e passare all’allevamento in stalla e che non esisteva soluzione migliore della chiusura dei prati. Simili i problemi della regione limitrofa, il Bellunese,
mentre nel Feltrino il pensionatico non si era mai praticato e di questa sua assenza si erano avvantaggiati tutti.28 In quegli anni qualche comune e vicinia friulana faceva valere degli accordi locali
per vietare gli abusi, non senza causare lunghe liti legali.
Anche se si tratta di un comune del vicentino, è esemplare la causa che aveva opposto il comune di Montecchio Precalcino ai fratelli Zanfardini: l’8 ottobre 1771 la sentenza aveva confermato
che costoro potessero continuare nella pratica di irrigare le seconde erbe sottraendole così al pascolo di tutti: la causa era iniziata nel lontano 1703 quando i capifamiglia sostennero che il pascolo
spettasse al comune e che la trasformazione del pascolo in prato irriguo privatizzasse di fatto il
pascolo. Non ostante la sentenza favorevole ai fratelli Zanfardini, gli uomini del comune continuarono a manifestare la loro opposizione a questi prati irrigui che impedivano sia il pascolo che il taglio
delle seconde erbe (16 ottobre 1772).29
La repressione degli abusi indubbiamente colpì gli interessi degli abitanti dei Sette Comuni, che
immediatamente nel 1768 e 1769 presentarono nuovamente una supplica al Senato perché si erano
sentiti defraudati dei diritti consuetudinari sia nell’uso delle poste delle pecore sia del pascolo detto ad erba morta. In realtà tutta la discussione contro il pensionatico cercava di favorire la ripresa
dell’allevamento bovino che si fondava su progetti di utilità pubblica estremamente interessanti. A
tal proposito nel 1783 l’Accademia di Agricoltura di Udine premiava la memoria di Giovan Battista
Flamia che rispondeva al quesito proposto dai Deputati all’agricoltura:
«Quali provvidenze e quali allettamenti […] A persuadere li Pastori Montani a stazionare fuori delle pianure anche
nell’inverno con le loro pecore alimentate nelle stalle […] E quali premi… potessero condurre i possessori o comunisti a rimettere a prato ed a bosco li terreni svegrati[ …]».30
Il punto di partenza anche per il Flamia era la terminazione del 1765. I pastori dei monti friulani
che discendevano alle pianure erano pochi (perché si accontentavano di qualche pascolo che trovavano libero a novembre), mentre i pastori dei Sette Comuni, più numerosi, non avevano interesse
ad andare nelle poste friulane fino alla metà di marzo. Da quella data, 1765, anche i pastori dei
Sette Comuni non arrivavano più in massa come nei decenni precedenti, ma avevano iniziato a preferire l’allevamento in stalla. Per coloro che avevano interesse a scendere in pianura a novembre,
bisognava tener conto che mentre i calcoli padronali valutavano ad uno scudo all’anno il frutto di
7
STUDI SULLA
TRANSUMANZA E L’ALPEGGIO
1 (2006)
una pecora a netto delle spese, per i pastori il valore di una pecora raddoppiava nel giro di un anno.
A questo diverso calcolo si poteva rispondere soltanto favorendo la stabulazione e lo sviluppo dei
prati artificiali, come stava succedendo in molte regioni europee che avevano affrontato lo stesso
problema in quei decenni. Si poteva aggirare il problema vietando greggi al di sopra 40 o 50 pecore
per i pastori della transumanza e lasciare libero di tenere quante pecore voleva il pastore stanziale.
Ad esempio i pastori delle greggi del Canale del Ferro, ricco di pascoli fertili non scendevano mai a
valle, contenti del proprio. Lo stesso si poteva dire della Carnia, che esportava fieni e lo stesso di
coloro che miglioravano il raccolto del fieno con le foglie ammollate nel sale. Questo era il progetto di Flamia, nelle sue linee di massima.
L’ufficio della Contadinanza, riunito ad Udine nel gennaio 1784, faceva notare che i vantaggi dei
giusdicenti nel governo del pensionatico si limitavano a poco formaggio ricevuto come regalia, mentre i comuni o giusidicenti, proprietari delle poste, dalla presenza delle greggi ricavavano ‘la grassa’
importantissima nella coltivazione dei terreni sterili. Nell’ottobre 1785 Filippo Nani, luogotenente
ad Udine scriveva che i villici usavano come pascolo i fondi di tutti dai primi di agosto fino al 23
aprile dell’anno successivo, disturbando la crescita delle prime erbe e la produzione delle seconde
in agosto. La scarsezza dei fieni limitava soprattutto il numero dei bovini. Nei mesi di luglio e agosto del 1785 le vicinie di Porros, San Giovanni presso Casarsa, Susan, Vision di Torre, Villa di Varano,
Zuoppolo, ed il Minor Consiglio di Gemona votarono all’unanimità il divieto di pascolare sui beni
«non propri» e limitarono il pascolo ai beni affittati, ai pascoli comuni e alle strade. E nel 1786 nella sua relazione al Senato, il luogotenente ricordò che la tutela dei prati era già stabilita dagli Statuti della Patria, e che la Contadinanza il 12 febbraio 1786 presentò ricorso contro il pascolo libero;
a questa richiesta si associarono 52 vicinie friulane.31 Il significato delle prime sette votazioni è assai rilevante, quando è messo a confronto con i proclami a stampa e con le lamentele ufficiali: alle
delibere delle vicinie partecipavano tutti i capifamiglia, quindi non erano rappresentate le voci dei
pastori tesini e dei feudatari. I limiti che furono imposti al pascolo transumante non impedivano il
passaggio delle mandrie e delle greggi verso gli alpeggi, ma cercavano di limitare i peggiori abusi,
probabilmente connessi dai residenti che introducevano un numero superiore ai 30 capi permessi
per fuoco di lista. Di fronte alle vicinie riunite, le voci discordanti si fecero sentire assai raramente
Seguiamo ora la causa per il possesso del Monte Giaveada ed i diritti di pascolo connessi. Il Monte Giaveada o Aveada, confinante con il monte Mesnon, tra i comuni di Ampezzo e Forni di Sotto e
Forni di Sopra, lungo la strada che da Tolmezzo sale in Cadore, fu acquistato in toto da Forni di
Sotto il 31 maggio 1732. Non ostante la vendita recente, gli abitanti di Ampezzo forti della consuetudine, continuarono ad invadere il pascolo con i loro animali. In tempi precedenti un certo Leonardo Polo tra il 1690 e il 1699 acquistò una fratta del monte predetto dai fratelli Polentarutto di Sauris di Sopra, a questo aggiunse un’altra porzione del monte acquistata dal Magnifico Comune di Sauris ed una terza parte da un certo Osvaldo Nassinera per un totale di 1200 ducati, con patto di retrovendita a favore del comune di Forni. Il patto di retrovendita nascondeva in genere un prestito
garantito da un bene immobile e questo spiega la presenza del comune di Forni come locatario ancora cento anni dopo. Alla fine di questa operazione a Leonardo Polo fu riconosciuto il ‘dominio o
padronanza’ con la clausola che al comune di Forni di Sotto rimaneva il diritto di
«goder, usufruire, pascolare e far pascolare come piacerà a detto Magnifico Comune».
I Polo continuarono nel legittimo sfruttamento (in realtà una locazione perpetua) del Monte fino
al 31 agosto1796, quando Giovan Battista si vide contestato il possesso dall’Avogaria veneziana e
dal luogotenente Angelo Giustinian che rappresentava il governo veneziano in Friuli. Giovan Battista
8
AMBROSOLI
Polo chiamò in causa il Comune di Forni che ripropose la questione all’autorità veneziana non bastando le sovrane disposizioni del 15 marzo e 31 maggio 1787 e 23 marzo 1791 per risolvere la questione ormai complicata in cui sia Giovan Battista Polo che gli ampezzani rivendicavano la legittimità dello sfruttamento del pascolo del monte Aveada in località Minutti e Rapponi. Il Polo si sentiva
privato di un diritto ereditato a fine Seicento, gli ampezzani sostenevano che le località Minutti e
Rapponi non facevano parte del Monte Aveada venduto al comune di Forni nel 1732, ma del Monte
Mervon (altrimenti detto Mernon, Menzon o Bernon) che apparteneva al territorio di Ampezzo secondo un documento del 1528. Infine, il comune di Forni doveva tutelare i diritti del Polo suo affittuario ed esercitare diritto di rappresaglia nei confronti del bestiame degli ampezzani.32 L’autorità
veneziana faceva notare che il provvedimento del 1787 aveva vietato il pascolo d’erba morta dopo
la raccolta dei fieni e che era quindi vietato sia il pascolo d’erba viva che d’erba morta sopra i fondi
non propri. Inoltre il Monte in questione non dava raccolta di fieno e che infine il pascolo promiscuo
non era contemplato nel decreto in questione. In ogni caso il decreto del 1787 aveva fatto rifiorire
l’allevamento bovino in Friuli e quindi aveva provato la bontà della difesa dei diritti di proprietà.
Che nei decenni della seconda metà del Settecento le montagne friulane, come quelle venete,
sostenessero ovini e bovini in numero assai superiore a quello che i pascoli naturali potessero sopportare per capacità foraggiera era una lamentela costante rivolta alle autorità e ripetuta dalla
classe dirigente veneziana. Era difficile provvedere in quanto i diritti di proprietà, possesso, affitto
erano reali e divisi tra individui ed istituzioni che li condividevano con molti. Ad esempio il 17 aprile
1753 il comune di Candido, proprietario del Monte dallo steso nome, cedette il beneficio di pascolo
dello stesso monte anche ad alcune famiglie del limitrofo comune di San Nicolò con il titolo di consorti. Da questa cessione seguì un eccessivo carico di animali sul Monte da parte degli abitanti di
San Candido, che avendo sborsato denaro contante per questo diritto evidentemente ne volevano
approfittare.33 Di queste liti è pieno l’archivio della magistratura preposta ai confini della repubblica.
Questo tipo di vertenze uscivano dallo specifico e toccavano i termini generali dell’applicazione
dei decreti sull’abolizione del pascolo ad erba morta tenendo conto anche delle liti che insorgevano
tra altri comuni. I deputati, procuratori e provveditori Thoma Corner, Zuanne Fornesini, Angelo
Morosini, P.P. Boldini, Francesco Vendramin, interrogati a proposito del Monte Giaveada, si chiedevano giustamente che la questione non riguardasse chi aveva diritto al pascolo, ma
«come potrà decidersi nel Foro civile il diritto de Possessori dei Pascoli in Friuli che dalla legge venne abolito?»
Così suggerivano per aggirare la questione
«che venga conciliato il modo per la via delle consuete intelligenze menzionate dalla legge 1762, 1 aprile del Serenissimo Maggior Consiglio, onde sieno abbolite tali giudicarie pendenti (cioè cancellare i processi in corso, N.d.A.) di
possessorio de’ pascoli del Friuli quando sia costante la Pubblica volontà di processare materia di Stato.»34
In altre parole i magistrati chiamati ad esprimere un parere sull’esecuzione dei decreti, consci
dei contrastanti interessi delle parti, volevano limitare la giurisdizione dei tribunali civili affinché i
giudici civili non sovvertissero la legislazione, materia di Stato. Il Proclama dei Deputati all’agricoltura per il Friuli del 1791, riprendeva quello del 15 marzo 1787, che permetteva
«ad ogni possessore il sacro diritto di libera e assoluta proprietà»
9
STUDI SULLA
TRANSUMANZA E L’ALPEGGIO
1 (2006)
e chiariva senza ombra di dubbio che
«tutti i campi che si trovano a prato […] abbiano a rimanere a tale prodotto escluso […] di svegrarli o rivolgerli ad
altro frutto»
e continuava permettendo soltanto lo scasso dei prati necessario per la rotazione agricola, provvedendo a sostituirne altrettanti nuovi di pari estensione. Il capitolo XI prevedeva permessi e pene
per i trasgressori ed il capitolo XIII prometteva un premio per i proprietari che avrebbero chiuso i
propri prati, con fosse e siepi.35
Con duecento anni di ritardo la classe dirigente veneziana aveva definitivamente optato per una
politica agraria decisamente tarelliana: cioè la difesa della media proprietà coltivatrice in grado di
capitalizzare il ruolo positivo dell’allevamento bovino all’interno dell’azienda agraria per favorire
rotazioni colturali e rese cerealicole.36
RIASSUNTO
La questione è nota nelle sue linee di massima e si collega al tema generale della dissoluzione della proprietà
collettiva nell’Europa del Settecento, che si fondava sul contrasto tra la conduzione individuale delle risorse agrosilvopastorali e le servitù comunitarie. Il pensionatico friulano si differenziava dalle altre aree venete e lombarde a
causa della situazione feudale del Friuli. Pascolo e arativo, pascolo e bosco rimasero fortemente concorrenziali per
tutto l’Ottocento. Nell’economia regionale al pascolo era lasciata la montagna, attaccata sia dalla lenta ma continua ricrescita del bosco, sia dalla riduzione dei pascoli in coltivi. Un totale di 9.840 pecore che legalmente erano
caricate nelle poste della regione nella seconda metà del Settecento era così ripartito: 1.253 pecore ai comuni,
3.049 alla Chiesa, 5.538 alla nobiltà. La gestione della transumanza, organizzata su spazi legittimamente riservati al
passaggio ed all’alpeggio delle mandrie che si spostavano stagionalmente dalla pianura alla montagna, si confondeva con la pratica del pensionatico, che si fondava sull’uso della cosiddetta ‘erba morta’. Agli ovini e bovini che
erano portati al pascolo legalmente si aggiungevano quelli che venivano ‘caricati’sulle ‘alpi’ grazie ad accordi tra
privati e tra usufruttuari bei beni collettivi, in diverse forme di abuso tacitamente tollerato in tutta la montagna
friulana. La repressione degli abusi indubbiamente colpì gli interessi dei pastori provenienti dai Sette Comuni, che
nel 1768 e 1769 presentarono una supplica al Senato perché si erano sentiti defraudati dei diritti consuetudinari sia
nell’uso delle poste delle pecore sia del pascolo detto ad erba morta. La scarsezza dei fieni limitava soprattutto il
numero dei bovini ed il Senato veneziano cercò di porre rimedio a questa debolezza strutturale tenendo presente le
soluzioni messe in pratica in Austria da Maria Teresa, senza riuscire a scalfire l’intreccio di interessi locali nella
gestione del pensionatico.
ABSTRACT
TRANSHUMANCE AND PENSIONATICO IN THE FRIULI ALPS DURING MODER AGE. FORCE AND WEAKNESS. Transhumance
in Friuli (regionally known as pensionatico) shared many common problems of the dissolution of common
lands in Western Europe. The system provided plots of pasturelands in each village (poste delle pecore),
which were located yearly to shepherds who brought in flocks of sheep on the wav to reach rnountain
10
AMBROSOLI
pastures in the summer. However, this traditional practice developed into a major problem because foreign sheep remained in the region throughout the winter and early spring and consumed fodder otherwise available to working cattle. The lay aristocracy and major religious institutions rented to
outsiders those pasture rights, which had been expropriated from local villagers from 1645 and earlier. Between 1670 and 1730 a new wave of shepherds coming mainly from the Asiago highlands
brought to the region an increasing number of sheep that reduced the chance to raise cattle: between
1780 and 1790 there were about 80 to 90.000 sheep against the 9.000 that could be put legally into the
posts. From 1760s the Agrarian Academy of Udine recommended enclosures to overcome the misuse of
common lands. The Venetian law of 1787 provided some regulation of the problem and successfully favoured the raising of working cattle in Friuli.
NOTE
1. A. Godessi e E. Orlando, (a cura di) 1998. Costituzioni della Patria del Friuli.
2. P.C. Bigotti, 1998, p.44: che cita la ricerca di S. Fregolent, 1984, Uomini e territorio della Bassa Pordenonese. I pastori
cosiddetti ‘tesini’ venivano dalla Valsugana e da Girano: in realtà con lo stesso nome si indicarono tutti i pastori ‘foresti’ cioè
non originari della Patria (vedi più avanti in questo stesso volume il contributo di D. Ramazzo, pp.), perfino i pastori sardi che
per ultimi presero il posto dei pastori locali verso il 1980 (Cfr. S. Fregolent, 1984, p.152).
3. D. Gasparini, 2001, p. 30.
4. M. Ronga 1997 e 1998; Battistella, 1911.
5. S. Fregolent, 1988. pp. 144-49.
6. F. Bulligan, 2004, pp. 43
7. L’istituzione che rappresentava i contadini nel Friuli moderno, istituita dal governo veneziano dopo l’occupazione della
regione da parte di Massimiliano I per bilanciare lo strapotere della nobiltà. Non partecipava alle riunioni del Parlamento di
Udine, ma aveva una sua Casa di rappresentanza e funzionari.
8. Fondamentale per ricostruire questa complessa vicenda è la relazione scritta al luogotenente di Udine da parte dell’avvocato fiscale Pietro Cargnelic di Udine, in Archivio di Stato di Venezia (d’ora in avanti ASV), Provveditori beni inculti. Deputati
all’agricoltura: busta 28, cc nn., s.d. ma ottobre 1788. Una risposta simile fu preparata anche dall’avvocato fiscale Nicolò Andrea Foramiti di Cvidale il 27 ottobre 1788.
9. ASV, Provveditori ai beni inculti. Deputati all’agricoltura: busta 26, Fascicolo Pascoli in Friuli, Proclami a stampa.
10. Il luogotenente era il funzionario amministrativo di grado più elevato nell’amministrazione veneziana nella Terraferma suddita: amministrava la giustizia ed aveva le funzioni di comandante militare.
11. I pastori stranieri da distinguere dai tesini dei Sette Comuni.
12. I titolari di feudi che esercitavano l’amministrazione della giustizia nelle cause di prima istanza nei propri feudi.
13. ASV, ivi, Udine 8 aprile 1764 e successive.
14. Cfr. retro nota 7.
15. Ivi, b. 27, cc. 24-25.
16. Ivi, c. 2 e b. 28 relazione Cargnelic.
17. La posta delle pecore era definita come il diritto «di pascolar ad erba morta che non fa danno ad alcuno nell’inverno
cioè da Santa Caterina sino a San Marco, quando inizia a spuntar l’erba in questo paese» (1754).
18. L. Morassi, 1997, p. 210.
19. W. Panciera, 1996, pp. 69-176.
20. La bibliografia sull’Accademia Agraria di Udine, su Zanon ed Asquini è abbastanza estesa, ricordiamo qui L. Cargnelutti e
G.P. Gri, 1982; L. Morassi, 1982 ed ora anche M. Simonetto , 2001, passim.
21. ASV, Provv Beni incult e Dep Agr, b. 26, c.12r.
22. E’ impossibile indicare qui anche solo una parte della bibliografia in tema dell’individualismo agrario. Per il Friuli mi
limito ad indicare: F. Bianco, 1994.
23. Ivi, b. 27, c.13. Sui Savorgnan cfr. L. Casella, 2003.
24. Ivi, proclami a stampa, passim.
25. Sulla questione cfr. in generale M. Bloch, 1973 (1931); G. Lefebvre, 1959; P. Goubert, 1982.
26. Ivi, cc.2-10r; cfr. anche Morassi L., 1982, pp. 59-62.
27. Ivi, c. 23.
28. Ivi, cc. 11-13 Belluno 28 maggio 1772, 18-19 Feltre, 21 marzo 1772, 25-27v Udine, 14 aprile1774, per gli accademici di
11
STUDI SULLA
TRANSUMANZA E L’ALPEGGIO
1 (2006)
Belluno e Feltre, cfr. M. Simonetto, pp. 120-22, 204-205. Rimandiamo ad altra occasione la discussione di tutto il materiale qui
raccolto.
29. Ivi, cc. 25-26.
30. Cfr. L. Morassi, 1982, pp. 123-43.
31. ASV, b 26, Proclami a stampa: 14 agosto 1776; fascicolo di cc. non numerate..
32. Il comune di Forni presentò a sua volta una dichiarazione del 1605 che il Monte Ceviada juxta la montagna di Bernon
(Vernon) fosse nei confini di Forni di Sotto, ASV, Deputati all’agricoltura, b. 26, f. 9.
33. Ivi, ff. 49 ss., 71 ss.
34. Ivi, f. 7, 8, 170-71.
35. Ivi, pp. 127-54: Proclama a stampa. Dati dal Magistrato dei Beni Inculti e Deputati sopra l’agricoltura, 24 aprile 1790,
Benedetto Civran, Niccolò M. Tiepolo, Zuan Francesco Raspi, Stefano Valmarana, 30 marzo 1791 approvato dall’Ecc. mo Senato.
36. Su questi problemi cfr. M. Simonetto, pp. 29, 51, 76n, 78n, 80, 134, 141, 196, 309, 325, 364-65.
BIBLIOGRAFIA
BATTISTELLA A., 1911. I lombardi in Friuli in: «Archivio storico lombardo». Estratto dall'Archivio
storico lombardo, Anno XXXVII, 28, Milano.
BERENGO M., 1956. La società veneta alla fine del Settecento. Ricerche storiche, Sansoni, Firenze.
BIANCO F., 1994. Terre del Friuli. Formazione del paesaggio agrario tra xvi e xviii secolo, Cierre, Verona.
BIGOTTI P. C., 1998. Per una storia del lupo nel Friuli occidentale di antico regime, in: «La
Loggia», n.s., 1, pp. 43-47.
BLOCH M., 1973. I caratteri generali della storia rurale francese, Einaudi, Torino (ed. orig. Parigi-Oslo,1931).
BULLIGAN F., 2004. Pastori carnici a Fontanabona e Brazzacco, in: «Metodi e ricerche», n. s.,
XXIII, 1, pp. 39-50.
CARGNELUTTI L., GRI G.P. (a cura di), 1982. Lettere a Fabio Asquini: (1762-1769)/A. Zanon; trascrizione, note al testo e indici a cura di Liliana Cargnelutti ; saggio introduttivo di G. P. Gri, Ribis,
Udine.
CASELLA L., 2003, I Savorgnan. La famiglia e le opportunità del potere (sec. XV-XVIII), Bulzoni,
Roma.
FREGOLENT S., 1984, Uomini e territorio della Bassa Pordenonese, Tesi di laurea discussa presso
la facoltà di Scienze Politiche, Università di Torino, a.a. 1983-1984, relatore prof. R. Davico.
GASPARINI D., 2001, «Pecore di montagna… poste di pianura: allevamento ovino e agricoltura
nelle terre trevigiane in età moderna» in: Gardi A., Knapton M., Rurale F., Montagna e pianura.
Scambi e interazioni nell’area padana in età moderna, Forum, Udine, pp. 19-38.
GLORIA A., 1856, Dell’agricoltura nel Padovano, Sicca, Padova.
GODESSI A., ORLANDO, E. (a cura di) 1998. Costituzioni della Patria del Friuli nel volgarizzamento di Pietro Capretto del 1484 e nell’edizione latina del 1565, con un saggio introduttivo di G. Zordan, Corpus Statutorum delle Venezie, Viella, Venezia.
GOUBERT, P., 1982. Beauvais et le Beauvaisis de 1600 a 1730: contribution a l'histoire sociale de
la France du 17e siecle, EHESS, Paris.
LEFEBVRE, G., 1959. Les paysans du nord pendant la révolution française, Laterza, Bari.
Morassi, L., 1982. Tradizione e ‘nuova agricoltura’. La Società d’agricoltura pratica di Udine
(1762-1797), Ribis, Udine.
MORASSI, L., 1997. Storia della società friulana: 1420-1797. Economia e società in Friuli, Casa-
12
AMBROSOLI
massima, Udine.
PANCIERA W., 1996. L’arte matrice. I lanifici della repubblica di Venezia nei secoli XVII e XVIII,
Ed. Canova, Treviso.
PETROCCHI, M., 1950. Il tramonto della Repubblica di Venezia e l’assolutismo illuminato, Deputazione di Storia Patria, Venezia.
RONGA M., 1997. La famiglia Caiselli. Tesi di laurea discussa presso la Facoltà di Lettere, Università degli Studi di Udine, relatore prof. M. Ambrosoli.
Eadem, 1998. La famiglia Caiselli. Successi commerciali e realizzazioni fondiarie, in: «Ce fastu» Rivista della Società filologica Friulana, LXXIV,2.
SIMONETTO, M., 2001. I lumi nelle campagne. Accademie e agricoltura nella Repubblica di Venezia 1768-1797, Edizioni Fondazione Benetton Studi e Ricerche/Canova, Treviso.
STEFANUTTI A., 2006. Saggi di storia friulana, a cura di L. Caselle e M. Knapton, Forum, Udine.
13