N 41 – Anno XXI – Marzo 2015 – Pubblicazione riservata ai soli Soci UN SIGILLO ALLE ARMI Mesi addietro, alla vigilia di un fatidico compleanno, mi pervenne un dono da un amico pugliese, coltivatore dei nostri interessi, che sta dedicando un po’ del suo tempo al riordino di vecchie carte familiari. Il pacchetto conteneva un oggetto e la lettera di accompagnamento si concludeva con l’invito a comunicargli l’esito della identificazione dell’arma gentilizia, sempre che ne fossi venuto a capo. Si tratta di un sigillo da impronta su cera. La sua lunghezza complessiva è di cm. 11,20, di cui cm. 5,40 sono costituiti dalla impugnatura in legno d’ulivo, tornita a rocchetto, sormontata da pomolo, in cui è infitto il fusto esagonale in ferro, cm. 5,80 visibili, terminante in un’ovale (cm. 1,50 x 1,80), costituente la matrice sigillare. Il peso complessivo ammonta a 200 grammi netti. Va da sé che, per leggere quest’ultima, occorre ‘rivoltarla’, riportando a una visione corretta la immagine speculare. La matrice ha forma ovale, bordata da una cordonatura, al cui interno è l’arma. Scudo ovale anch’esso, all’interno di un cartoccio non privo di eleganza, la cui sommità è sormontata da un nastro, i cui estremi si piegano verso il basso, sino a posare sul margine superiore dello scudo. Ben avrebbe potuto ospitare un motto o altra scritta, ma, al pari di qualsiasi timbro o altro ornamento esterno, essi sono assenti. Distinguiamo con chiarezza le figure all’interno e ne risulta la seguente blasonatura, chiaramente orbata di smalti, in mancanza di tratteggi o di altra forma d’indicazione dei colori e dei metalli: Di …, alla colonna di…, cimata da un giglio di … e sostenuta da un leone di … Una certa familiarità con l’araldica meridionale mi indusse a considerare probabile una attribuzione, ma la prudenza in materia non è mai eccessiva e, inoltre, esisteva una qualche difformità, anche se modesta. Per cui, non rimaneva che seguire il ‘protocollo’, che ovviamente prevede, nella specie, verifica e ricerche, da effettuarsi in prima battuta, quando siano disponibili, su dizionari araldici e, in assenza di essi, direttamente sul maggior numero possibile di blasonari, sino al reperimento dello stemma con relativa assegnazione, oppure a un risultato nullo, che è, in certo senso, una risposta pertinente. Esaurita la rassegna in termini significativi, non rimase che la sostanziale conferma della ipotesi che m’era balenata al primo colpo d’occhio: si trattava dello stemma della famiglia CITO. I Cito, per Spreti e Bonazzi, alzavano ad arma: Troncato di rosso e di verde, alla colonna, cimata da un giglio e sostenuta da un leone, il tutto d’oro. Se si volessero pienamente rispettare le regole del blasone, dovrebbe risultare, anzi: Troncato cucito di rosso e di verde, alla colonna, cimata da un giglio e sostenuta da un leone, il tutto d’oro, attraversante sulla partizione. Invece Crollalanza, Noya di Bitetto, l’Annuario della Nobiltà Italiana, il Libro d’Oro della Nobiltà Italiana, Mango di Casalgerardo e Carrelli blasonano il giglio non come cimante, ma come sormontante la colonna o collocato in capo, anche se alcune delle loro raffigurazioni vedono l’estremità inferiore del giglio posare sul capitello. In altre il giglio è nel capo, disassato rispetto alla colonna. L’Elenco storico della nobiltà italiana, pubblicato a cura dell’Ordine di Malta, non presenta blasonature, ma solo (e non per tutte le famiglie) rappresentazioni grafiche a colori, nel caso dei Cito, ove figura anche l’arma di una linea ultrogenita, segue un indirizzo salomonico, perché in un caso il giglio sormonta la colonna e nell’altro vi aderisce, cimandola. Sarebbe il caso di pronunciare il classico non olet, anche se un marmo antico - secentesco, credo - riprodotto e coerentemente blasonato nel sito Nobili Napoletani (con ogni probabilità, presente su un edificio appartenuto alla famiglia), mostra non un troncato, ma un capo, carico del giglio. Il rame, posto in testa alla addizione a de Lellis, espone anch’esso un capo, ma nel testo si legge: Fa per arme questa famiglia un capo partito per mezzo, nella di cui parte inferiore, ch’è rosso, è una Colonna, alla quale stà un Leon rampante in atto di salire in essa, e nella parte superiore, che è turchino (non verde, quindi. E’ inoltre da notare che gli smalti risultano invertiti, per cui il campo risulta di rosso e d’azzurro il capo), stà situato un Giglio d’oro in mezzo, conforme si vede dell’Imprôto di dette Armi. E’ pacifico che, in passato, i confini tra un’arma troncata e quella dotata di un capo fossero tenui e labili, ma una linea orizzontale, sia che attraversasse lo scudo a metà della sua altezza, o che delimitasse il terzo superiore, doveva comunque esserci. Nel caso del nostro sigillo, tale segno di separazione difetta in tutta evidenza. Ma tutto il resto coincide e, 2 allora, viene da chiedersi se, all’origine, tale partizione davvero esistesse e se i Cito – o una loro linea, visto che la famiglia aveva numerose ramificazioni i località differenti, alle volte tutt’altro che prossime – non alzassero talora, invece, uno stemma dal campo ininterrotto da divisioni orizzontali. Altra ipotesi potrebbe essere costituita da un errore dell’incisore, ma è assai meno probabile: ove fosse intervenuta una simile omissione, difficilmente sarebbe sfuggita al committente e l’addizione di una semplice linea non sarebbe stata certo un problema per il bulino, sicuramente abile seppur distratto, dell’esecutore. Questi interrogativi vanno inquadrati, ancora, nella datazione dello strumento, che, per la matrice di ferro, va fatta risalire a un periodo tardo-rinascimentale, in base al suo design e alla foggia della cornice e dei decori dello scudo, mentre il manico ligneo, soggetto a ben maggiore usura, sembra, per i rocchetti, d’età barocca. L’impiego del legno d’ulivo fa pensare al Mezzogiorno e, in particolare, alla Puglia. In questa regione risiede il donatore del sigillo, che, però, ignora se la propria famiglia, tra le più antiche e, un tempo, tra le più numerose del Mezzogiorno, si sia mai direttamente alleata ai Cito. Secondo de Rosis, sarebbero venuti nel Regno al seguito dei Normanni e passati poi a Rossano. Carrelli si limita a riportare che i Cito o Zito già nel 1197 figuravano tra i nobiles cives Capuae e in quella importante città campana divennero eminenti (Scipione, nel 1451, era uno dei 60 senatori di Capua), imparentandosi sin dal Duecento con importanti famiglie del patriziato locale, quali i de Archiepiscopis (poi detti di Capua, gran conti di Altavilla e principi della Riccia, tra le maggiori case del Regno), i delle Vigne, del ceppo medesimo di Pietro, il Gran Cancelliere di Federico II e, alla fine dell’Ottocento – è questa l’ultima notizia posseduta sui Cito o Zito di Capua – con i de Milano. La loro arma era quella del troncato, con leone, colonna e giglio. A proposito dei Cito o Zito, deve dirsi che ne è traccia anche tra la nobiltà di Sicilia, a Palermo, con un Francesco, Giudice del Tribunale del Concistoro, scomparso nel 1782. Aveva sposato Giovanna Campisi e la loro unica figlia, Anna, si era maritata con Scipione di Blasi. Questa famiglia portava ad arma D’argento, a due avambracci al naturale, vestiti di verde, moventi da fianchi dello scudo e tenenti colle mani due ramoscelli dello stesso, accompagnati in capo e punta da tre rose, male ordinate (nella illustrazione a colori, che accompagna tale blasonatura, che, riveduta e corretta, risale a Mango di Casalgerardo, si mutano misteriosamente in ‘rose di giardino), che aveva ad alias quella solita del troncato. Sortino-Trono, peraltro, fa un mero accenno a una famiglia de Citis, nobile di Ragusa, senza dire altro ponendo un punto interrogativo alla voce “arma” Al di là della origine prima dalla Croazia, con memorie dal secolo XI, vantata dai Cito ancor oggi fiorenti, documenti archivistici riportano, tra gli imprestatori di danari a Carlo I d’Angiò nel 1275, Tommaso Cito di Aversa (Spreti pone tra essi anche Pietro Cito, nobile di Bitonto e cita un Antonio Cito, mastro portulano di Salerno, sempre nel Duecento); nel 1302, Giovanni Cito di Corato figura, in qualità di cameriere, tra i cortigiani di Filippo d’Angiò, principe di Taranto, quintogenito di Carlo II lo Zoppo, che s’intitolava imperatore di Costantinopoli. Secondo più fonti, sarebbe stato proprio questo Giovanni, divenuto Maestro Giustiziere di Calabria, a trasferirsi, con la famiglia, a Rossano, dove furono immediatamente aggregati a quella nobiltà. Il 27 giugno 1595, Giovan Bernardino Cito, di Rossano, viene ricevuto per Giustizia nell’Ordine Gerosolimitano, assieme a un altro rossanese di gran casato, Pirro Malena. I quarti di Fra’ Giovanni Bernardino erano, oltre Cito, d’Alessandria, Caponsacco (nobile di Crotone e Rossano) e Britti (nobile di Rossano e patrizio di Cosenza). Giovan Bernardino non lasciò, però, bella fama, in quanto, assieme al suo congiunto Giovan Battista Cito e altri, prese diretta parte all’ omicidio di Fabrizio Toscano, nel corso di una sanguinosa faida, scoppiata all’interno dell’aristocrazia di Rossano nel 1598. I Cito di Rossano si sarebbero estinti di lì a poco, se un Niccolò, figlio di Giovan Andrea, definito da Donnorso vago di viaggiare, verso il 1549, mezzo secolo prima del brutto evento, non si fosse trasferito a Napoli, ove sposò Lucrezia d’Argenzio, nobile di Capua, dando vita alla linea ancora esistente. Tra altri figli ebbe Giovan Paolo, marito di Lucrezia d’Alois, nobile di Caserta, da cui nacque Giovan Alfonso. Quest’ultimo, preoccupato del rischio di decadenza dalla nobiltà di Rossano e, con ogni probabilità, al corrente della imminente - se non di fresco avvenuta - estinzione dei Cito a Rossano rimasti, chiese nel 1605 provvedimento di reintegra nella nobiltà rossanese, che il Sacro Regio Consiglio concesse con decreto del 12 maggio 1607. Aveva preso in moglie Sara Piacenti, che il Donnorso dice di antica famiglia, originaria di Milano. Dei figli, nati da questo matrimonio, Marcantonio, Capitan de’ cavalli nel 1617, fu inviato a presidio delle coste calabresi. Tornatone, si ammalò e morì nella terra di Somma. Il fratello Anacleto studiò, invece, diritto, divenendo Uditore nella Provincia di Principato Ultra. Sposatosi con Diana Pascale, di famiglia patrizia Cosentina (la madre era la spagnola Geronima di Medina del Campo, di eccellente nobiltà), procreò molti figli. Diana, la primogenita, si maritò con Donato Francesco Correale, patrizio di Sorrento; Giuseppe, dottor di leggi, coniugato a Francesca Prato, nobile di Lecce, fu Avvocato Fiscale e R. Uditore della provincia d’Otranto; Giovanni abbracciò il sacerdozio e divenne vescovo di Lettere; il quarto fu Carlo, personaggio di gran rilievo di casa Cito. Nato nel 1636 a Rossano - ove evidentemente la famiglia aveva preso a dimorare con una certa assiduità - si dette anche lui allo studio del diritto, seguendo una tradizione ormai consolidata nei Cito. Amante della cultura, fece parte dell’Accademia degli Spensierati di Rossano e di quella degli Infuriati di Napoli, che vedeva tra gli associati anche Giambattista Vico. Come avvocato, patrocinò con successo i cavalieri di Seggio nella causa intentata dal patriziato napoletano, che deteneva il governo della città, contro il Viceré, il marchese di Astorga, determinato all’abolizione degli antichi privilegi e delle prassi derivanti da abusi. Assieme a Francesco d’Andrea, principe degli avvocati di Napoli, venne chiamato a ricoprire, nel 1675, ruolo di Governatore della Casa della SS. Annunziata, ma entrambi rifiutarono, giacché l’accettazione della carica avrebbe automaticamente comportato la decadenza, per deroga, dalla nobiltà. Nel 1696 fu nominato Consigliere del Sacro Regio Consiglio e, nel 1707, Reggente del Collaterale. Colpito da paralisi, si spense a Napoli nel 1712. Da Anna de Majo, di famiglia patrizia del Seggio di Montagna, aveva avuto dieci figli, tra i quali maggiormente si distinsero Antonio, gesuita, che divenne, a Vienna, confessore dell’imperatrice Amalia, e Baldassarre, che non fu da meno del padre. Nato nel 1695, studiò legge anche lui. Dopo un brillante esordio nell’avvocatura, ottenne nomina di Uditore nei Tribunali Militari, poi di Giudice civile della Gran Corte della Vicaria, nel 1734 Caporuota della stessa Camera per il criminale, Consigliere del Sacro Regio Consiglio l’anno successivo, Avvocato Fiscale della Giunta di Stato nel 1737, quindi Presidente della Sommaria e Presidente del Tribunale della Dogana di Foggia. Nel 1754, unitamente alla nomina a Luogotenente della Sommaria, gli pervenne, dal favore di Tanucci, il titolo di marchese. Divenne Presidente del Sacro Regio Consiglio e della Regia Camera di S. Chiara, don stipendio annuo di ducati 4000, che mantenne sino al 1795. Presiedette nel 1771 la Giunta di Stato nel processo contro i Liberi Muratori e, nel 1794, in quello contro i Giacobini, mandando al patibolo Vitaliani e De Deo. Morì a Napoli nel 1797, a ben 102 anni, ancora - sembra - sveglio di mente. Era celibe e fin dal 1788 aveva refutato il titolo di marchese in favore del nipote Carlo, che, con Regio Assenso, lo incardinò sulle terre di Torrecuso e di Torrepalazzo, da lui possedute. In quello stesso 1788 la famiglia Cito era stata aggregata al patriziato napoletano nel Seggio di Portanova, entrando a far parte, così, della migliore nobiltà del Regno e mettendo a bando le malevoli insinuazioni contenute in uno dei manoscritti Corona, Notizie d‘alcune famiglie… Da quel tempo a oggi, una nutrita serie di prestigiose alleanze matrimoniali con l’alta aristocrazia non soltanto napoletana, ma italiana ed europea, ha aggiunto lustro ulteriore, arricchendo, per successione napoletana, la titolatura della casa. Le nozze di Carlo Cito con Anna Maria Filo3 marino di Rocca d’Aspro, ultima della sua linea, consentì di aggiungere, al cognome Cito quello Filomarin0, con decreto del 1855, e, per successione napoletana. provenienza Filomarino, Pappacoda e de Angelis), ai predetti marchesati di Torrecuso e di Torrepalazzo, oltre al patriziato napolitano, al patriziano beneventano, alla nobiltà di Rossano e a quella di Lucera), i principati di Rocca d’Aspro, di Mesagne e di Bitetto (quest’ultimo refutato al secondogenito di Carlo), il ducato di Perdifumo, i marchesati di Capurso, di Ceglie e di San Chirico e la contea di Castello. I rami ultrogeniti, separatisi prima dell’alleanza Filomarino, non aggiungono, ovviamente, tale cognome e hanno diritto i maschi al titolo di Patrizio napolitano e, maschi e femmine, a quello di nobile di marchesi di Torrecuso. A una di esse diramazioni furono riconosciuti, nel 1900, anche i titoli di duca e di marchese, per successione Roubies du Barry de Nerval, e quello di conte palatino. Cito Filomarino e Cito usano oggi tutti la classica arma del troncato, alla quale i principi di Bitetto aggiungono, a titolo di brisura, due stelle d’oro, di sei raggi, allineate nel capo. I principi di Rocca d’Aspro usarono anche un alias, memoria visiva delle alleanze con i Filomarino e Pappacoda, cioè: Interzato in palo: nel 1°, di verde, a tre bande di rosso, bordate d’argento (FILOMARINO); nel 2°, troncato di rosso e di verde, alla colonna cimata da un giglio, il tutto d’oro (CITO); nel 3°, di nero, al leone d’oro, la coda passata al di sopra della testa e tenuta tra i denti (PAPPACODA). Angelo Scordo Appunti sul Giglio di Firenze Per lo scudo della città di Firenze, che carica nel campo il famoso giglio, sembra che per primitivo fiore abbia avuto un giaggiolo, per la moltitudine di tali fiori presenti nei dintorni della città e nelle varie vallate circostanti, senza notare che lo stesso nome di Florentia, probabilmente, avrà suggerito di prendere, per figura araldica da caricare nello scudo, un fiore. Una leggenda vuole, invece, che Firenze abbia ottenuto per simbolo araldico della città il giglio, per concessione di Carlo Magno, ma ricordiamo che a quei tempi gli scudi araldici ancora non esistevano. Il giglio dell’arme di Firenze in origine era d’argento sul campo di rosso, ma tali smalti 4 vennero alternati dai Guelfi nel 1251, divenendo così lo scudo d’argento al giglio di rosso, quando i Ghibellini vennero cacciati dalla città. Dante ne parla nel suo canto XVI del Paradiso: “Con queste genti vid’io glorioso e giusto il popol suo tanto, che ‘l giglio non era ad asta mai posto o a ritroso, né per division fatto vermiglio”. Il giglio è il più nobile di tutti i fiori che si usano nel blasone, come tra i volatili, invece, è l’aquila, tra i pesci, il delfino e tra i quadrupedi, il leone. Il giglio araldico è diverso da quello che osserviamo in natura e viene rappresentato a tre punte. Araldicamente simboleggia la speranza, l’attesa del bene, la purezza, il candore dell’animo e la chiara fama. Sempre nel simbolismo araldico l’argento, che è lo smalto del campo dello scudo di Firenze, rappresenta la Speranza fra le virtù, la Luna fra i pianeti, il Cancro nei segni zodiacali, giugno fra i mesi, il lunedì fra i giorni della settimana, la perla fra le pietre preziose, l’acqua fra gli elementi, l’infanzia sino a sette anni fra le età dell’uomo, il flemmatico fra i temperamenti, il giglio fra i fiori, il due fra i numeri e se stesso fra i metalli, mentre il rosso, che è lo smalto del giglio, simboleggia la Carità e l’ardire fra le virtù, Marte tra i pianeti, l’Ariete e lo Scorpione nei segni zodiacali, marzo e ottobre fra i mesi, il mercoledì fra i giorni della settimana, lo zaffiro fra le pietre preziose, il fuoco fra gli elementi, l’autunno fra le stagioni, la virilità sino ai cinquanta anni fra le età, il sanguigno fra i temperamenti, la violacciocca ed il garofano fra i fiori, il tre fra i numeri ed il rame fra i metalli. Il giglio di Firenze, poi, figura caricato negli stemmi civici di molti Comuni toscani, assieme ad altre figure araldiche, per ricordare il dominio di Firenze o l’attaccamento delle varie comunità alla comunità madre. Tra questi figurano i Comuni di Borgo a Buggiano, Calenzano, Cavriglia, Certaldo, S. Croce, Castelfiorentino, Dicomano, Dovadola, Firenzuola, S. Godenzo, Massa e Cozzile, Montecatini e Pratovecchio. L’arme di Firenze così si descrive: D’argento al giglio allargato e bottonato di rosso. Giorgio Aldrighetti Attività dei Soci Il nostro consocio Gabriele Reina ha esposto una ventina di grandi tele e tavole in una mostra intitolata “Il Volo del Leone: i leoni di San Marco, dipinti di Gabriele Reina” tenutasi nel Palazzo della Assicurazioni Generali a Trieste dal 19 al 30 gennaio 2015. Complimenti a Gabriele, soprattutto per la sua bravura artistica! I consoci SISA che lo desiderassero possono avere una copia del catalogo della mostra in formato pdf inviando una richiesta a: [email protected] Le Mappe dei Tesori, di cui è il secondo volume, segue infatti il primo dal titolo “Disegnare il territorio di una commenda magistrale. Stupinigi”. Accanto alla Dott.sa Scalon , Chiara Devoti, architetto e ricercatore al Politecnico di Torino, dove svolge l’incarico di docente, che nell’ambito del volume è autrice di saggi di alto valore scientifico e che è stata coautrice del primo volume della collana. Il volume di cui si intende parlare in questa breve e riguarda i possedimenti minori dell’Ordine Mauriziano provenienti dai territori già costituiti come commende dall’Ordine di San Lazzaro, da quelli derivanti da benefici ecclesiastici, da quelli confluiti all’Ordine per donazioni di privati, esclude quindi le grandi commende magistrali oggetto di altro studio. Il volume è teso a ricostruire la rappresentazione di tutta questa grande serie di possedimenti come essa risulta dalla documentazione esistente che si concreta in cabrei, mappe, disegni ed altro materiale. Nella loro introduzione le due autrici scrivono: “Proprio alla ricchezza dei cabrei è dedicato il secondo volume della collana che … si concentra sulla sezione più specificamente figurata e in particolare sulla strepitosa ricognizione in figura che i cabrei appunto rappresentano”. Ma la straordinarietà del lavoro è che accanto alle splendide riproduzioni del territorio si ha una testimonianza della sua trasformazione, e accanto ad esso sono ricordati i tanti tecnici, misuratori, geometri, agrimensori, architetti, ingegneri e i tanti che hanno fatto grande l’Ordine. Il lavoro è articolato in una serie di studi ai quali alle due autrici han fornito la loro collaborazione insigni esponenti della comunità scientifica del Politecnico di Torino. L’opera è sinteticamente presentata dal Commissario e dal Vice Commissario della Fondazione Ordine Mauriziano, dalla Prof.sa Costanza Roggero, coordinatrice del rettorato di ricerca in beni culturali del Politecnico di Torino e dalle due curatrici. Queste schede forniscono il quadro generale nel cui il lavoro si inserisce ed elementi di conoscenza sul tesoro di conoscenza conservato nell’Archivio dell’Ordine. Primo degli studi che compongono il testo è quello della Dott.sa Nicoletta Amateis “Le Commende mauriziane: aspetti istituzionali e funzionali” che fornisce elementi sull’istituzione e regolamentazione delle commende mauriziane, della loro evoluzione e quindi traccia la storia e le vicende di alcune di esse, la più antica delle quali, quella di Santa Maria della Redenzione, risale al 1573 quando Francesco Valperga Masino, governatore di Vercelli chiese il permesso di istituirla. AMG Tenimenti scomparsi. Commende minori dell’Ordine Mauriziano. di Chiara Devoti e Cristina Scalon L’Archivio storico dell’Ordine Mauriziano rappresenta un inestimabile tesoro culturale sul quale le autrici di questo volume, così come dl precedente aprono finestre che ne fanno conoscere la straordinaria ricchezza e bellezza. L’opera è stata curata da Cristina Scalon, la direttrice dell’Archivio Storico dell’Ordine, autrice di numerosi saggi illustrativi tesi a far meglio conoscere l’Archivio Mauriziano, ed impegnata nell’impegnativo lavoro di conservazione, inventarizzazione e valorizzazione di un patrimonio di straordinario valore si inquadra nella collana Cabreo della Commenda Drusiana - 1715 I cabrei e l’immagine del territorio, di Chiara Devoti e Vittorio Defabiani, è il titolo del secondo studio che par5 tendo dall’origine del termine descrive l’impiego della rappresentazione dei terreni con ampi riferimenti anche a quanto avveniva nel resto d’Europa, alla necessità di una revisione periodica dei cabrei soprattutto quando relativi a possedimenti dinastici, a proprietà di ordini religiosi o cavallereschi. La sua importanza è fatta rilevare dalla Dott.sa Paola Sereno che scrive“…il cabreo figurato si fa così misura del reddito e metafora del potere”. Ne’ “Le Commende nei fondi dell’Archivio dell’Ordine Mauriziano” Cristina Scalon fornisce alcuni dati che danno l’idea della complessità e vastità dell’Archivio dell’Ordine anche solo relativamente a questa materia e che per le commende di minore estensione, come quelle di cui l’opera tratta, ammontano a 430 mazzi, oltre 40 volumi o registri e più di 100 documenti iconografici. La documentazione cartografica riguardante tali commende è conservata nel fondo Mappe e Cabrei che riguardano il periodo fra il XVIII e XIX secolo, i primi risalgono in genere al 1715. Chiara Devoti nello studio “Grandi e piccoli cabrei per la conoscenza del patrimonio dell’Ordine: dal territorio all’architettura” fornisce interessantissime notizie sulla gestione del patrimonio, sui provvedimenti e prescrizioni per la conoscienza del tenore della commende, tramite un’azione informativa ed ispettiva che fornisse un quadro dettagliato e preciso del bene. È da questa esigenza che in fin dei conti nasce l’esigenza della rappresentazione che si estrinseca nel cabreo, la cui redazione è espressamente dettata da un ordine magistrale. Documento che fornisce lo stato di ogni commenda con i suoi redditi, la misura dei suoi beni, e l’insieme delle fabbriche in essa esistenti, le loro condizioni ed esigenze di interventi di manutenzione. Da quest’ultimo aspetto la presenza di un legame con l’architettura, con numerosi disegni che ci restituiscono l’immagine di costruzioni facenti parte o costituenti commende. 29 del Torinese, 22 del Cuneese (Saluzzo, Alba-Bra, Cherasco, Fossano), 8 dell’Astigiano, 6 dell’Alessandrino, 8 del Vercellese, 3 del Nizzardo, 3 dell’Italia meridionale (già beni dell’Ordine di San Lazzaro), 1 Sardo. La selezione curata è stata curata da Chiara Devoti che ha redatto le schede con la revisione archivistica di Cristina Scalon. Le fotografie, splendide,sono di Dino Capodiferro, che come ben ha evidenziato nella sua presentazione Costanza Roggero ha condotto la campagna fotografica “con la consueta perizia, disponibilità e capacità di adeguare lo strumento alla varietà e complessità dei documenti”. Sfogliare le pagine di questa parte dell’opera e venire a scoprire veramente un tesoro, ogni pagina presenta rappresentazioni di grande bellezza ed interesse. È quasi impossibile descrivere le sensazioni che suscita anche solo lo sfogliare le pagine del volume, che ad ogni girar di foglio mostra elementi di straordinario interesse, non solo per gli appassionati del bello, dell’architettura, della rappresentazione del territorio nelle su diverse forme, ma anche solo per i cultori dell’araldica per la presenza di numerosissime armi, alcune di famiglie ormai estinte da tempo e che non sempre sono riprodotte correttamente. Mi permetto pertanto di dare un ai soci della SISA il consiglio di passare, magari solo per curiosità e dare un’ occhiata a questo pregevolissimo lavoro Si riportano qui di seguito alcune delle armi che si trovano nel testo per dare un idea della accuratezza della loro fattura Edifici rustici della Commenda di San Domenico, commendatori Zapata e Ardizzone, territorio di Asti, post 1751. Volume Mappe Cabrei di Saluzzo - Archivio Ordine Mauriziano A questa serie di saggi segue la splendida parte del volume dedicato alla schede dei cabrei nel numero di 80 dei quali: 6 Le Guardie del Corpo del Re di Sardegna alla Restaurazione. Arma Ferraris di Mombello Arma Birago di Rovaschia Cabrei di Torino 18 – Commen- Cabrei di Torino 17 – Commenda Ferrary di Settimo Torinese da dei SS Carlo e Ottavio Arma: Morelli di Popolo Cabrei alessandrino e casalese Commenda S. Bernardino Sin dall’epoca del conte Amedeo V (1285-1323) (1285 alla Corte degli allora Contii di Savoia facevano servizio nuclei di alabardieri chiamati a garantire la sicurezza della dimora del sovrano e della sua famiglia. Da allora aveva avuto inizio quella che si può chiamare la Casa Militare alla Corte dei Savoia. Con l’invasione francese del 1798 e la successiva annessione del Piemonte alla Francia, le unità incaricate della sorveglianza al sovrano e alla sue proprietà vennero inglobate in vario modo nella nuova organizorganiz zazione statuale, in Sardegna ove il sovrano si era stabilito era peraltro stata riordinata una compagnia che garantisse il servizio d’ onore e sicurezza. Quando il 12 maggio del 1814, Vittorio Emanuele I sbarcò a Genova, proveniente da Cagliari, per riprendere ripr possesso dei suoi Stati di terraferma che gli venivano restituiti dall’Austria, dopo che ne aveva scacciato i Francesi, e il 20 dello stesso mese entrò in Torino il servizio alla sua persona venne svolto da una cosiddetta Guardia d’onore, formata conn nobili e borghesi di famiglie fra le più facoltose, in buona parte già facenti parte di analoga struttura addetta al principe Borghese. In Sardegna a svolgere il servizio a favore della Regina, Reg era la compagnia delle Guardie del Corpo cui si è detto. detto Gli ufficiali di questa unità erano: *il il marchese Luigi Amat di Sorso, Sorso capitano della compagnia. Il cui grado nell’esercito era di maggior generale, Arma:Pallavicini di S. Remy Cabrei vercellese e biellese Commenda La Margaria Ill volume si può acquistare in Torino presso Archivio Storico Ordine Mauriziano iziano in via Magellano n. 1 al costo di Euro 30. Il primo volume della serie cui nell’opera si fa spesso riferimento è anch’esso in vendita a Euro 30. Se si acquistano ambedue il costo totale è di Euro 50. Si ringrazia la Dott.sa Scalon lon per aver consentito le riproduzioni sopra riportate. ALFS Risposta a un Quesito Araldico Nel numero 28 – Anno XVII – Dicembre 2011 del nostro notiziario vi era un quesito araldico riguardante l’ubicazione di uno stemma di un cavaliere teutonico, Freiherr Jakob von Spaur. Ora, dopo quattro anni, grazie ad Alberto Arcangeli, possiamo dare una risposta se qualcuno fosse ancora interessato: l’arma di trova tra altri stemmi nella Chiesa di San Giorgio a Bolzano, già commenda dell’Ordine Teutonico. Si riproduce iproduce lo stemma qui sotto. Per la blasonatura e l’immagine intero si rimanda al N° 28 del nostri bollettino. AMG Arma Amat: Di rosso al braccio destro armato, movente dal fianco sinistro ed impugnante una spada posta in i palo, il tutto d’argento, con un mare d’argento, fluttuoso d’azzurro, nella punta dello scudo; *il il cav. Antonio Zappata, Zappata tenente, il cui grado nell’ esercito era di colonnello di cavalleria, Arma Zappata: Di rosso a cinque stivaletti scaccati d’argento e di nero, ordinati in decusse; colla bordatura di rosso carica di cinque scudetti, caduno, d’oro alla banda di nero; nero 7 *il marchese Stefano Manca di Villahermosa, cornetta col grado nell’esercito di tenente colonnello di cavalleria, *capitano Giuseppe Ippolito d’Haberes de Sonnaz, che vi era già stato, quale cornetta dal 1789 al 1798, durante l’occupazione francese si era ritirato dal servizio e nel 1813, aveva collaborato con suo fratello, il generale Janus, alla rivolta antifrancese in Savoia Arma Pes di Villamarina: D’azzuro al persico, sradicato, fiorito e fogliato, le radici accostate a due piedi umani recisi, sanguinanti ordinati in fascia a destra e a sinistra del tronco, il tutto al naturale; Arma Gerbaix de Sonnaz:Inquartato: al primo e al quarto alla croce di rosso; al secondo e al terzo: d’azzuro al capo d’argento caricato di tre stelle di rosso ordinate in fascia; *il conte Francesco Sanjust di San Lorenzo, maresciallo d’alloggio, con il grado nell’esercito di capitano. *tenente il marchese Giuseppe Mareste de St. Agneaux, già cornetta in soprannumero nella stessa compagnia nel 1798; già tenente colonnello di cavalleria il 13 gennaio 1815, venne promosso maggior generale, nel 1818 venne dispensato dal servizio, nel 1828 venne nominato da Carlo Felice Grande della Corona; Arma Mareste: D’azzurro a due fasce d’argento, colla banda di rosso attraversante; Arma Sanjust:: Di rosso all’orologio a polvere d’argento. E’ da ricordare a tal proposito che i gradi delle Guardie del Corpo erano diversi da quelli dell’esercito, il capitano delle Guardie in genere era un tenente o un maggior generale, il tenente delle Guardie era un maggior generale o colonnello, una cornetta (sottotenente) delle Guardie era un capitano od un maggiore, il maresciallo d’alloggio delle Guardie un capitano o tenente anziano. La ricostituzione della Casa Militare del sovrano iniziò poco dopo il suo arrivo a Torino, egli diede infatti ordine al conte Giuseppe Ippolito Gerbaix de Sonnaz di ricostituire la 1^ compagnia e al conte Benedetto Piossasco di None la 2^. Le due unità erano tradizionalmente formate, con Savoiardi la 1^ cp., che prendeva il nome di Gentiluo-mini Arcieri a ricordo della prima unità costituita per la sua difesa personale da Amedeo VII: la 2^ era tradizionalmente formata da Piemontesi. Era poi intenzione del sovrano di chiamare a Torino la compagnia sarda, non appena fosse avvenuto il definitivo trasferimento della regina e di costituire una quarta compagnia con personale ligure. La 1^ compagnia, ricostituitasi ufficialmente il 13 giugno 1814, vedeva quali suoi ufficiali: 8 *cornetta il barone Giovanni Battista Michal de la Chambre, già maggiore di cavalleria il 17 gennaio 1815, fu promosso tenente colonnello, fece in seguito un brillante carriera raggiungendo il grado di tenente generale e nel 1830 venne investito dell’Ordine della Santissima Annunziata; Arma Michal: Di verde al gallo ardito, d’argento, beccato ed armato d’oro; marescialli d’alloggio: *il cav. Gabriele de Launay che fece una splendida carriera e fu l’ultimo Viceré di Sardegna *tenente, il marchese Vittorio della Chiesa di Roddi, col grado di maggior generale nell’esercito, anch’egli rimase poco più di un anno nel corpo perché nel novembre del 1815 fu nominato gran maestro della Real Casa; Arma de Launay: D’argento, inquartato da un filetto di nero e nel primo e nel quarto:un decusse contro scanalato di nero; nel nel secondo e nel terzo cinque moscature d’ermellino ordinate in decusse; *Ettore d’Haberes de Sonnaz, quest’ultimo figlio del generale Janus e nipote di Giuseppe Ippolito. Già ufficiale al servizio della Francia, nel 1813, aveva mantenuto i suoi impegni verso quella nazione facendo parte del suo esercito, mentre i suoi familiari si battevano per l’indipendenza della Savoia. Ambedue questi, allora marescialli d’alloggio fecero brillanti carriere, il primo fu l’ultimo Viceré di Sardegna e il secondo venne decorato con l’Ordine Supremo della SS.ma Annunziata. La 2^ compagnia venne ufficialmente ricostituita il 17 giugno 1814, alla ricostituzione i suoi ufficiali erano: *capitano il cav. Benedetto Piossasco di None, che era già stato comandante della 2^ compagnia, in cui aveva servito sin dal 1793 quale capitano in 2^, durante l’occupazione francese, inizialmente era stato trattenuto in servizio e successivamente lasciato libero di rientrare a casa sua. Egli ricevette il nuovo incarico ancora prima venisse ricostituita l’unità, venne infatti nominato capitano delle Guardie del Corpo il 1° maggio 1814. Il 1° gennaio del 1815, venne promosso generale di cavalleria ed il 19 dicembre di quello stesso anno lasciò l’incarico perché nominato Gentiluomo di Camera di S.M. Arma della Chiesa di Roddi: Inquartato: al primo d’argento, al tizzone di nero scorciato, accostato da due tizzoni di verde tutti accesi di rosso; al secondo e al terzo di rosso al cavaliere d’argento armato di tutte pezze; al quarto d’argento a tre pali di rosso con il capo d’oro, carico di un’aquila coronata di nero, sul tutto di della Chiesa; *cornetta, il marchese Anselmo Doria del Maro, colonnello di cavalleria, nel novembre del 1815 venne promosso maggior generale e subentrò a Della Chiesa nel grado di tenente delle Guardie, per divenirne capitano nel 1820; Arma Doria: Troncato d’oro e d’argento, all’aquila di nero, coronata, rostrata ed armata d’oro. *marescialli d’alloggio di questa compagnia erano: il cav. Paolo Saluzzo di Castellar Arma Piossasco: D’argento a nove merle di nero, membrate e rostrate di rosso, tre, tre, due,una e venne sostituito dal marchese Vittorio Seyssel d’Aix, nominato nel novembre del 1815 cavaliere dell’Ordine della SS.ma Annunziata che ricoprì l’incarico sino alla morte nel 1818. Arma Seyssel: Partito, trinciato,troncato e tagliato d’oro e d’azzurro; Arma Saluzzo: D’argento al capo d’azzurro caricato di una corona d’oro; *il marchese Galeazzo Scarampi di Pruney Arma Scarampi: D’oro a cinque pali di rosso; 9 *e il marchese Carlo Morozzo della Rocca *cornetta, il conte Francesco Sanjust di San Lorenzo, già maresciallo d’alloggio della compagnia delle Guardie esistente in Sardegna. Il 18 luglio 1815, si costituì la compagnia genovese Gli ufficiali chiamati a farvi servizio furono: *capitano il conte Agostino Fieschi, già presidente del magistrato di polizia genovese, nominato maggior generale, e insignìto dell’Ordine della SS.ma Annunziata nel 1821 Arma Morozzo: D’oro alla banda di nero, doppio merlata. La 3^ compagnia si trasferì dalla Sardegna a Torino nel corso del 1814, ed era in parte rinnovata rispetto alla costituzione i Cagliari, infatti vi erano: *il capitano, marchese Stefano Manca di Villahermosa, maggior generale nell’esercito, legato da un eccellente rapporto di amicizia con Carlo Felice, fu il consigliere che più spinse il sovrano a confermare Carlo Alberto quale suo successore dopo i moti del 1821, nel 1834, venne nominato Gran Mastro d’artiglieria Arma Fieschi: Bandato d’argento e d’azzurro *tenente, il cav. Giuseppe Bendinelli Negrone, già membro del comitato di guerra e marina dopo la liberazione di Genova dalla dominazione francese, nominato colonnello di cavalleria, nel 1820 venne promosso maggior generale e nel 1824 venne nominato capitano in 2^ della compagnia; *cornetta, nobile Antonio Spinola, già capitano della guardia d’onore a cavallo genovese durante l’occupazione francese e comandante della coorte urbana di Genova, nel 1817, promosso capitano di vascello in 2° e nominato comandante della corvetta Aurora; Arma Manca: Di rosso al braccio, armato, d’argento, movente dal fianco destro dello scudo ed impugnante una spada al naturale, alta, in palo; in punta dello scudo: un elmo d’argento, di fronte semi aperto, ornato di tre penne di struzzo d’azzurro; *tenente, il cav. Francesco Aymerik di Laconi, già ufficiale nel reggimento di Sardegna, gentiluomo di camera del Re, piccolo grande di Corte e comandante della cavalleria miliziana del regno di Sardegna Arma Spinola:: D’oro alla fascia scaccata d’argento e di rosso, sostenente una spina di botte di rosso; *cornetta soprannumeraria, il marchese Domenico Costa del Carretto di Balestrino, tenente colonnello di cavalleria ; Arma Costa: D’azzurro a cinque bande d’oro. Arma Aymerich: Inquartato: al primo e al quarto, inquartato in decusse; al 1° e al 4° d’oro a quattro pali di rosso; al 2° : d’oro all’aquila bicipite di nero coronata dello stesso; al 3° d’argento alla torre d’oro, aperta e finestrata di nero, sormontata da tre bisanti d’argento ordinati in fascia; 10 marescialli d’alloggio erano: *il marchese Giuseppe Salvago, *il nob. Pietro Giustiniani, *il nob. Pietro Franzone *il nob. Alessandro Ferrari. Di questi si ricorda che il marchese Salvago, maggiore di cavalleria, essendo ammalato non poté partire nella notte fra il 22 ed il 23 marzo 1821 per Novara a lui Giuseppe de Sonnaz, che aveva assunto il comando di tutte le Guardie, affidò la responsabilità degli alloggiamenti e degli uomini che sarebbero dovuti restare in sede a salvaguardia dei materiali e dei beni del Corpo. A proposito dei moti del 1821 il Manca di Villahermosa, comandante della 3^ compagnia, che si trovava a Modena di scorta alla delegazione inviata da Carlo Alberto a Carlo Felice per ragguagliarlo sulla concessione della Costituzione, il giorno 25, scrisse ai comandanti di compagnia rimasti a Torino comunicando loro l’ordine di recarsi immediatamente a Novara e porsi agli ordini del conte Sallier de la Tour. Le Guardie del Corpo avevano però preceduto l’esecuzione dell’ordine, in quanto si erano mosse nella notte fra il 22 ed il 23 marzo al seguito di Carlo Alberto, quando questi aveva abbandonato Torino. Questo comportamento fu molto apprezzato dal sovrano e venen particolarmente elogiato dal Conte Thaon de Revel quando venne nominato luogotenente generale il 19 aprile del 1821. ALFS La Redazione ringrazia il Sig. Federico Bona per la concessione all’utilizzo degli stemmi contenuti nei Blasonari Subalpino e Savoiardo e Donna Silvia Aymerich di Laconi per gli stemmi relativi alla compagnia Sarda delle Guardie del Corpo. L’arma di Aimerich, è una delle più di 30 versioni esistenti. L’ARCTIC STAR A quasi 70 anni dalla fine della seconda guerra mondiale, il Regno Unito ha instituito una nuova decorazione per commemorare una delle più importanti campagne di quel conflitto e per premiare i superstiti di coloro che ne presero parte. L’Arctic Starva ad aggiungersi alle 8 stelle che furono emesse nel 1945, subito dopo la fine del conflitto, per riconoscere i sacrifici e l’impegno di quanti, sudditi britannici e cittadini dell’allora Impero britannico (se quest’ultimi hanno avuto un’award dal proprio governo non potrebbero ricevere l’Artic Star), prestarono servizio negli anni di guerra in patria e/o nei teatri più critici in tutto il mondo. L’Arctic Star è destinata a premiare il servizio, di qualunque durata, nel periodo dal 3 settembre all’8 maggio 1945, prestato da coloro che facevano parte degli equipaggi di navi della Royal Navy o della marina mercantile nel Mare Artico (a nord del latitudine 66° 32’), in particolare nei servizi di scorta ai convogli da e per la Russia. L’Artic Star ha una foggia simile alle altre “stelle”, cioè una dimensione di 40mmx40mm, a otto punte, con la parte centrale rotondo recante le parole THE ARTIC STAR e al centro il monogramma di Re Giorgio VI (GRVI) sormontato dalla corona reale. I colori del nastro rispecchiano le tre forze armate e la marina mercantile, mentre il bianco, bordato di nero, rappresenta l’Artico. Nel 2005 si pensava di “onorare” i veterani con un semplice badge o distintivo anziché una medaglia vera e propria. Tale decisione fu annunciato dall’allora primo ministro laborista Tony Blair per segnalare il sessantesimo anniversario della fine dei convogli verso l’Unione Sovietica. Ma, giustamente i veterani hanno espresso il loro disgusto. Ben otto anni sono poi passati e finalmente la stella è stata istituita all’inizio del 2013con l’approvazione della Regina. I primi conferimenti sono stati fatti dall’attuale Primo Ministro britannico, il Conservatore David Cameron, che al numero 10 Downing Street, il 19 marzo 2013, ha consegnato le decorazioni a un gruppo di circa 40 veterani, tutti, ovviamente, arzilli novantenni. Il totale dei potenziali conferimenti a veterani viventi si aggira tra i 200 e i 400. Durante la cerimonia Cameron ha giustamente descritti veterani “un gruppo di eroi” ed ha espresso tutto il suo “orgoglio di poter condividere il momento con un tale gruppo di persone” e che gli “dispiaceva che siano passati 70 anni”. Ricordiamo che il Grande Winston Spencer Churchill ha definito la rotta che i convogli dovevano seguire come “il peggiore viaggio nel mondo”. Tra gli insigniti vi è anche S.A.R. il Principe Filippo, Duca di Edimburgo, il quale partecipò alle missioni di scorta come tenente di vascello a bordo HMS Whelp. È interessante notare che il Principe Filippo già è insignito di: Atlantic Star, Africa Star, Burma Star, Italy Star per il suo servizio sui vari teatri di guerra; con l’Arctic Star raggiungerebbe un totale di 5 stelle, cioè il massimo di cui può essere decorato un singolo individuo. Ricordiamo che le 8 Star istituite dal Regno Unito per le campagne della seconda guerra mondiale sono: 1939-1945 Star: conferita al personale militare che avesse compiuto sei mesi di servizio tra il 1939 e il 1945; Atlantic Star: conferita al personale della Royal Navy per sei mesi di servizio in mare tra il 3 settembre 1939 e l’8 maggio 1945 in Atlantico o nelle acque domestiche. Poteva essere conferita an-che al personale che prestò servizio su convogli per la Russia e per il Sud Atlantico e a personale della marina mercantile e della RAF che prestò servizio sugli stessi teatri. Air Crew Europe Star: conferita al personale di volo della RAF per un periodo di almeno due mesi di servizio tra il 3 settembre 1939 e il 4 giugno 1944, che operava dalle basi del Regno Unito sull’Europa (il conferimento di questa stella fu molto raro e ciò la rende molto costosa sul mercato collezionistico). Africa Star: conferita per partecipazione ad operazioni nel Nord Africa tra il 10 giugno 1940 e il 12 maggio 1943. Pacific Star: conferita per servizio operativo nel teatro del Pacifico tra l’8 dicembre 1941 (entrata in guerra 11 degli USA dopo Pearl Harbour)) e il 15 ago-sto ago 1945 (resa del Giapopone). Burma Star:: conferita per partecipazioni ad operazioni nel teatro dellaBirmania dall’11 dicembre 1941. Italy Star:: conferita per servizio operativo in Italia, Sicilia, Grecia, Jugoslavia, Egeo, isole del Dodecanneso, Dodeca Corsica, Sardegna, Elba tra l’11 giugno 1943 e l’8 maggio 1945. France and Germany Star:: conferita per servizio operativo in Francia, Belgio, Olanda e Germania e altri teatri nord europei, tra il 6 giugno 1944 (giorno dello sbarco in Normandia) e l’8 maggio 1945 (fine delle seconda guerra mondiale in Europa). Un’ulteriore ulteriore riconoscimento è stato istituito in contempocontempo ranea con l’Arctic Star, si tratta di una barretta (clasp) ( con incisa l’iscrizione Bomber Command (Comando BombarBombar dieri), ), riservata a coloro che facevano parte degli equipaggi di volo del Bomber Command e che effettuarono molteplici missioni sull’Europa centrale, e in particolare sulla GermaGerma nia, nel corso dell’intera guerra. L’esigenza di conferire queque sta distinzione è sorta orta dalla necessità di poter concedere un riconoscimento agli equipaggi del Bomber Command che erano stati generalmente considerati di secondo piano rispetto a quelli del FighterCommand (Comando Caccia). La barretta può essere applicata sul nastro delle stelle che gli aventi diritto già detengono. Fonti principali: Gould, R.W., BritishCampaignMedals: Waterloo to the Gulf, Londra, 1972 (ed. 1994) Joslin, E.C., Litherland, A.R., and Simpkin, Simp B.T. (eds), BritishBattles and Medals, Londra, 1988 - “Artic VeteransAngered by Badge”, neThe ne Journal of the Orders and MedalsResearch Society, Society June 2005, Volume 44, NUmber 2 (267), Londra http://www.veterans-uk.info/Eligibility%20Criteria.doc uk.info/Eligibility%20Criteria.doc http://www.bbc.com/news/uk-england-hampshire hampshire21845753 http://webarchive.nationalarchives.gov.uk/20140805133 045/http://www.veterans-uk.info/arctic uk.info/arctic star_index.htm Andrew Martin Garvey e Patrizio Romano Giangreco Sul tutto periodico della SISA riservato ai Soci Direttore Alberico Lo Faso di Serradifalco Comitato redazionale Marco Di Bartolo, Andrew Martin Garvey, Vincenzo Pruiti, Angelo Scordo Testata del periodico di † Salvatorangelo Palmerio Spanu Indirizzi postali Direttore: Piazza Vittorio rio Veneto n. 12 10123 Torino Redattore: Marco Di Bartolo, via IV novembre n. 16 10092 Beinasco (Torino) Sito Internet www.socistara.it Posta elettronica [email protected] [email protected] Segreteria della Società Arch. Gianfranco Rocculi.. Via S. Marco 28 20121 Milano I contributi saranno pubblicati se inviati su supporto ma-gnetico ma in formato word o via e-mail mail ai sopraccitati indirizzi. Quanto pubblicato è responsabilità esclusiva dell’autore e non riflette il punto di vista della Società o della de redazione. Gli scritti verranno pubblicati compatibilmente con le esigenze redazionali ed eveneven tualmente anche in due o più numeri secondo la loro lunghezza. La redazione si riserva la possibilità di apportare qualche modifica ai testi per renderli conformi formi allo stile del periodico. 12
© Copyright 2024 Paperzz