la domenica DI REPUBBLICA DOMENICA 21 SETTEMBRE 2014 NUMERO 498 Cult La copertina. Elogio della fatica nell’era della comodità Straparlando. Andreose, ricordi di un “uomo del libro” La poesia. La fame nera del proletario József Nibali Ho voluto la bicicletta UN “PICCOLO” VINCENZO NIBALI CON LA SUA PRIMA BICI DA CORSA LUNGO LO STRETTO Ha vinto Vuelta, Giro e Tour. Ora pedala sui Mondiali “Sono ancora il ragazzino che sognava una bandana” GIANNI MURA CHIASSO (SVIZZERA) RRIVA in ritardo di pochi minuti, A Vincenzo Nibali, e si scusa. Meglio qui che a Parigi, gli dico. Colpa della lavatrice, si è guastata, dice lui. Apprendo così che in Svizzera nei condomini non possono tenere la lavatrice in casa, ma nel seminterrato, e ogni famiglia deve rispettare i turni di lavaggio prefissati. Il ritardo, però, mi ha permesso di fare il punto su alcune cose con i suoi manager, Alex e Johnny Carera. È nel loro ufficio, vicino alla stazione ferroviaria, che si svolge l’intervista. Nibali è con loro dal 2003, da quand’era un giovane promettente (medaglia di bronzo ai Mondiali Juniores contro il tempo, a Zol- der). Hanno in scuderia molti altri ciclisti, tra cui Fabio Aru. Con la Astana, la sua squadra, Nibali ha ancora due anni di contratto e con Aru nessun problema di coesistenza. Chiedo se la vittoria al Tour de France, sedici anni dopo Pantani, abbia portato richieste di pubblicità. Sì, dicono i Carera, per ora hanno sottoscritto un accordo con Oakley (occhiali). «Ma ci sono molte altre proposte, nessuna da aziende italiane: tutte da aziende straniere che hanno interessi in Italia. Compagnie aeree, orologi, banche. Valuteremo con calma. Unica condizione è non toccare gli interessi dell’Astana, cioè supermercati, motori, acque minerali, gas, petrolio». E poi arriva Nibali, t-shirt e jeans, e parte la prima domanda al capitano della Nazionale ai Mondiali di Ponferrada in Spagna, in programma da oggi fino alla corsa regina L’attualità Mia sorella l’ultra ortodossa La storia Ritorno a Marzabotto Spettacoli Inedite Evacuazioni da Skiantos L’incontro Stephen King “Alzheimer che paura” di domenica prossima, quella su strada a squadre. Dopo il Tour, è cambiato qualcosa intorno a te? «Forse sono un po’ più riconosciuto e considerato. Prima, mentre mi allenavo sulle strade del Canton Ticino, mi salutavano due o tre persone». E adesso? «Cinque o sei. Sono aumentati gli inviti, gli impegni, le feste. Sono stato una settimana in Kazakistan». E poi dove nessuno ti aspettava, a fine agosto, al funerale di Alfredo Martini, il grande ct azzurro. «Ero appena tornato dal Kazakistan e Michele Pallini, il mio massaggiatore, mi dice che Alfredo è agli ultimi, che devo sbrigarmi se voglio fargli un saluto. Era pomeriggio. Ci vado domattina, ho detto a Michele. Ma alle undici di sera mi ha chiamato per dirmi che Martini era morto. Così ho aspettato il funerale. Mi hanno chiesto di portare la bara ma ho detto di no, non volevo mettermi al centro dell’attenzione ma solo salutarlo. Nel ciclismo, Martini era il papà di tutti. Bastava parlarci una volta per capirlo. E le sue parole ti restavano dentro, non era uno che parlava tanto per parlare». Dopo il Tour, è cambiato qualcosa dentro di te? «Nulla, assolutamente nulla. Sono rimasto quello di prima, anche se la soddisfazione, quando ripenso al gradino più alto del podio, a Parigi, è tanta. Ma non posso dormirci sopra. Sono un professionista che non ha smesso di sognare». >SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 21 SETTEMBRE 2014 La copertina. Vincenzo Nibali “Prima per strada mi riconoscevano in due o tre, ora in cinque o sei”.Da “teppistello” di Messina a conquistatore di Parigi il lungo viaggio del ciclista che amava Pantani ma ricorda Gimondi FOTO DI ROBERTO E LUCA BETTINI Sì, sono il campione della porta accanto Identikit Vittorie Record NOME VINCENZO COGNOME NIBALI ANNI 30 NATO A MESSINA ALTEZZA 180 CM PESO 64 KG SOPRANNOME LO SQUALO DELLO STRETTO STATO CIVILE SPOSATO CON RACHELE E PADRE DI EMMA SQUADRA ASTANA PRO TEAM 2007 GIRO DI TOSCANA 2008 GIRO DEL TRENTINO 2009 GIRO DELL’APPENNINO 2010 GIRO DI SLOVENIA E VUELTA 2012 TIRRENO-ADRIATICO 2013 TIRRENO-ADRIATICO E GIRO D’ITALIA 2014 TOUR DE FRANCE È UNO DEI SEI ITALIANI AD AVER VINTO SIA GIRO D’ITALIA CHE TOUR DE FRANCE GLI ALTRI SONO FAUSTO COPPI GINO BARTALI GASTONE NENCINI FELICE GIMONDI MARCO PANTANI È UNO DEI DUE ITALIANI, CON FELICE GIMONDI, AD AVER CONQUISTATO LA TRIPLA CORONA, CIOÈ LA VITTORIA IN CARRIERA DI GIRO, TOUR E VUELTA. GLI ALTRI SONO EDDIE MERCKX BERNARD HINAULT JACQUES ANQUETIL ALBERTO CONTADOR 36 la Repubblica DOMENICA 21 SETTEMBRE 2014 DA BAMBINO UN’IMMAGINE DI VINCENZO A DUE ANNI <SEGUE DALLA COPERTINA GIANNI MURA O NOTATO che la parola sogno ricorre spesso nelle tue dichiarazioni. Sai cosa mi disse tanti anni fa Martini quando gli chiesi le prime tre parole che gli venivano in mente a nominare il ciclismo? Dignità, libertà, speranza. «Sottoscrivo. Per me sogno e speranza sono parenti. È aspettare che succeda qualcosa. Vincere, visto il mestiere che faccio. Ma voi dovete tener conto di una cosa non secondaria: che io per vincere devo staccare tutti, perché non ho sprint. Per questo credo di assomigliare di più a Gimondi che a Pantani, uno scalatore puro che in salita faceva il vuoto». Cosa pensi della riapertura dell’inchiesta sulla morte di Pantani? «Che può essere una minima consolazione per la famiglia di Marco, ma non so a quali conclusioni potrà arrivare. Io preferisco ricordare Pantani da vincitore, con la bandana. Anch’io come tanti ragazzini di Messina andavo in bici con la bandana». Sei entrato nel cosiddetto club della Tripla Corona (Giro, Tour e Vuelta). Gli altri sono Gimondi, Merckx, Anquetil, Hinault e Contador. Non ti gira un po’ la testa? «So che loro hanno vinto molto più di me e so di non aver rubato nulla a nessuno. So che cercherò di vincere altre corse, per esempio il Giro. Mi sento in debito coi tifosi italiani. Ma anche altre corse. La Liegi-Bastogne-Liegi è come una lisca in gola, per me, e il Lombardia mi piace molto e posso vincerlo, se non corro da cavallo pazzo come ho fatto in passato». A proposito di rubare, Hinault ha definito ladro il ciclista dopato, perché toglie il pane (il risultato e relativi guadagni) a chi corre solo con le sue gambe. Al Tour, forse per via della maglia Astana, ogni giorno ti chiedevano del doping, e tu hai sempre risposto con una calma che molti tuoi colleghi non avrebbero avuto. «La mia calma è quella di chi non ha nulla da nascondere. Per me parla la mia carriera. Sono salito un gradino alla volta. Tutto quello che ho vinto è frutto di sacrifici, fatica, forza di gambe e di testa. Orgoglio, anche. Ho la testa dura, non mi arrendo facilmente». Mai pensato di smettere? «Forse una volta sola, da allievo. Mi annoiava allenarmi da solo». E tuo padre ti convinse a continuare con una sberla? «No, quella volta no. Anzi, fu bravo a scovare nel quartiere qualcuno che mi accompagnasse nelle uscite. In gruppo era più bello, ci si fermava per una partita a biliardino, o un bagno a Torre Faro, o una granita con la panna. Si andava sul colle di San Rito, ai laghi di Ganzirri». Altre volte tuo padre te le ha suonate? «Parecchie volte. Ero un teppistello. Facevo il contrario di quello che mi chiedevano. Magari mio padre mi diceva di dare un’occhiata in negozio finché non fosse tornato ma appena svoltava l’angolo, me ne andavo». E quando ti segò la bici in tre pezzi che avevi fatto? «Era per una nota in pagella, me la ricordo: “Litiga violentemente coi compagni di classe all’uscita di scuola” e stiamo parlando delle medie. Avevo tre o quattro compagni con cui era facile litigare, perché provocavano. Ma poi papà la bici l’ha saldata». H PRIMI SPRINT SULLA SUA PRIMA BICI DA CORSA 37 CON PAPÀ IN BRACCIO AL PADRE SALVATORE COL FRATELLO IN BICI CON ANTONIO, A SINISTRA Sembra che la bici sia stata una vocazione precoce. «È come se mio nonno mi avesse dato un casco, mio padre infilato il calzoncini da corridore e mia madre la maglia. I miei avevano una videoteca coi primi superotto, i vhs. Ho visto documentari su Moser e Saronni, su Gimondi, risalendo fino a Coppi e Bartali. Cos’altro potevo fare se non il ciclista?». Hai mai provato altri sport? «A scuola non ero male nella corsa campestre, ma anche a pallamano. Il professore di ginnastica era patito di pallamano e a quella ci faceva giocare, non a basket o a volley. Il calcio l’ho provato per pochi giorni, nel Peloro, un satellite del Messina, quando avevo undici anni. Ma non mi sembrava così divertente prendere i calci negli stinchi, così ho detto all’istruttore che preferivo il ciclismo. E lui m’ha detto che sarei diventato un morto di fame, perché in Italia i soldi si fanno col pallone». Abbastanza vero, con qualche eccezione. Quanta importanza dai ai soldi? In una tua intervista a un mensile ho letto che sai di poterti permettere di comprare una Ferrari ma non hai difficoltà a salire su un tram. «I soldi hanno la loro importanza ma non bisogna farsene un’ossessione. Io e tanti altri che da ragazzini hanno scelto la bici non siamo stati spinti dall’idea del guadagno. E qui torno al sogno. Senza quella molla non sarei partito a sedici anni da Messina e ringrazio i miei perché non mi hanno ostacolato. Non dico fermato, perché fermarmi era impossibile: stavo inseguendo un sogno e quel sogno mi ha spostato da Messina a Mastromarco». È stata dura? «Il primo anno sì. In bus fino a Empoli, scuola, rapido pranzo preparato dal fratello di un dirigente. Noi lo chiamavamo il fattore, ma factotum sarebbe stato più giusto. Poi allenamento in bici, studio, cena e nanna presto». Noi chi? «Con me c’era un altro ragazzo siciliano, Carmelo Materia, ma non ha retto l’impatto con la scuola. Io invece mi sono diplomato ragioniere al Leonardo da Vinci, ultimo anno da studente serale. Ma dopo quel primo anno le cose sono andate molto meglio, mi ha preso in casa la famiglia di un dirigente e mi ha trattato come un figlio, e non è un modo di dire. Mi hanno anche aiutato a superare un momento difficile. Da junior ero campione d’Italia e avevo vinto quindici corse, da dilettante manco mezza. Mi sorpassava gente che la stagione prima battevo regolarmente. Non ho pensato di smettere, ma ero giù, dopo una domenica ancora a bocca asciutta mi è scappato da piangere sull’ammiraglia. E Franceschi mi ha consolato: vedrai che le cose cambieranno. Infatti, sono state fermate due o tre squadre diciamo così sospette e io ho vinto sei corse di fila. È un caso, secondo te?». Direi di no. «Appunto. Allora, tornando al doping, neanche a me fa piacere essere svegliato alle 6.30 per un prelievo di sangue, ma lo accetto perché questi controlli fanno parte del mestiere. Ti dico di più: da quando l’antidoping funziona più seriamente, con maglie più strette, io lo considero un mio alleato, non certo un ostacolo o una trappola». Dal Tour, quando ormai avevi vinto, ho scritto che tu non saresti mai diventato un personaggio. Sei normale, serio, non fai polemiche, non frequenti assiduamente i social network, non hai bandane né tatuaggi, non vai in discoteca, insomma non sei pop. «In questo senso, mi sta bene. Preciso che in discoteca non ci vado perché mi piace la musica ma non mi piace ballare, e poi gli orari delle discoteche saranno compatibili con quelli dei calciatori, forse, ma non con quelli dei ciclisti. Non sono pop, ma popolare sto diventando e ci tengo. Se non ci fosse il pubblico degli appassionati, e sono tantissimi, il ciclismo non esisterebbe. È uno sport che si fa in mezzo alla gente, con la gente, per la gente». È per il fatto della gente che hai dichiarato simpatie, passate, per Grillo? «Sì, perché un anno fa andava in mezzo alla gente, come fa il sindaco di Messina, ma poi mi ha molto deluso quando in videoconferenza ha praticamente rifiutato ogni dialogo con Renzi». Come vivi le cose d’Italia dal Canton Ticino? «Forse non lo sai, ma qui abitano 110mila italiani, in larga parte calabresi, come quelli del ristorante qui all’angolo, e siciliani, come il macellaio di Viganello, la frazione di Lugano dove ho casa». Ti sei mai posto il problema di poter essere considerato un esempio? «No. Io faccio quello che volevo fare da ragazzino, sono fortunato. Lo faccio, credo, con molta serietà e onestà. Posso vincere tanto o poco, ma vado a letto con la coscienza posto. E non sta a me dire se sono un esempio o no, sarebbe andare oltre le righe». A volte si direbbe che ci siano due Vincenzo Nibali. Uno tutto slancio e istinto, l’altro che si appisola in auto dall’albergo alla partenza e dall’arrivo all’albergo. «I tempi di recupero sono la mia salvezza. La tensione, prima o dopo la tappa, non la conosco, sono refrattario. Non consumo energie nervose. Come va, va». Per certi versi sei antico. Armstrong imparava il Tour a memoria, ha fatto due volte la Madeleine in un giorno perché la prima non s’era piaciuto, e non so quante volte l’Alpe d’Huez. Idem le cronometro. Tu dell’ultimo Tour hai visto prima solo i tratti di pavé intorno all’Isla, dove hai rifilato due minuti e mezzo a Contador. Nibali ride: «Vuoi sapere la verità? Martinelli voleva fare una seconda ricognizione, io gli ho detto che una bastava e avanzava. Posso usare un linguaggio volgare?». Puoi. «Per me, sono seghe mentali queste di imparare un percorso a memoria». Ma adesso parliamo ugualmente di percorsi: c’è una salita che ami particolarmente? «La salita è fatica, come si fa ad amare una salita? Posso dire che la più dura su cui ho pedalato è lo Zoncolan, poi il Mortirolo. Scenograficamente, belli lo Stelvio e la Bonnette. Per gli arrivi, visto che da ragazzino guadagnavo qualche soldo facendo fotografie alle corse, sceglierei Plan de Corones o la Plances des Belles Filles, dove chi vince lo vedi solo all’ultimo e sembra sputato dalla terra». Rovescio la domanda, visto che sei un ottimo discesista: c’è una discesa che senti più tua? «Non mi piacciono le discese con molti tornanti, preferisco quelle tecniche con curve veloci. Una discesa mi è rimasta impressa. A Monterosso Almo, in provincia di Ragusa, c’è un lungo dirizzone dove si arriva a 105/110 all’ora senza pedalare, cambio bloccato sul 52x16. L’ho fatta da allievo. Se frenavi gli altri andavano via. E allora non freni e non pensi alla paura. Basta tenere la bici dritta e lasciarsi andare giù, non è difficile». Hai un colore preferito? «Il blu. Molte delle mie maglie avevano questo colore. Dalla prima, il Gs Fratelli Marchetta, blu bianco rossa, alla Mastromarco, gialla e blu. Quell’Astana è azzurra, ma più blu che azzurra è quella della Nazionale, la più importante. E credo che amare il blu sia naturale per chi è nato sul mare di Messina. Più che portarlo addosso, io il blu lo porto dentro». PRIME VITTORIE SUL TRAGUARDO DA JUNIORES PRIMO TOUR CON LA MOGLIE RACHELE E LA FIGLIA EMMA A PARIGI © RIPRODUZIONE RISERVATA la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 21 SETTEMBRE 2014 38 L’attualità. Yiddish style 1/3 GLI EBREI ULTRAORTODOSSI SONO UN TERZO DELLA POPOLAZIONE ISRAELIANA E TG AR KERET D ICIANNOVE ANNI FA, in una saletta per matrimoni di Bnei Brak, CONTRASTO morì la mia sorella maggiore; e ora vive nel quartiere più ortodosso di Gerusalemme. Ho passato uno degli ultimi weekend a casa sua. Era il primo Shabbat che trascorrevo là. Vado spesso a trovarla verso la metà della settimana, ma quel mese, con tutto il lavoro che avevo e i viaggi all’estero, o ci andavo sabato o niente. «Sta’ attento», disse mia moglie mentre uscivo. «Non sei più tanto in forma, sai. Vedi di non farti convincere a diventare religioso o chissà cosa». Le risposi che non doveva preoccuparsi di nulla. Quando si tratta di religione, io non ho proprio nessun Dio. Quando sono sicuro di me non ho bisogno di nessuno, e quando mi sento di merda e dentro mi si apre questo grosso buco vuoto, so solo che non c’è mai stato un dio capace di riempirlo, e non ci sarà mai. Così, anche se cento rabbini evangelizzatori pregassero per la mia anima perduta, non servirebbe a niente. Io non ho alcun Dio, ma mia sorella sì, e le voglio bene, così cerco di mostrarGli un po’ di rispetto. Il periodo in cui mia sorella stava scoprendo la religione fu il più deprimente nella storia della musica pop israeliana. Era appena finita la guerra del Libano, e nessuno era dell’umore giusto per i motivetti allegri. Ma poi, anche tutte quelle ballate dedicate a soldati belli e giovani che erano morti nel fiore degli anni cominciavano a darci sui nervi. La gente voleva canzoni malinconiche, ma non quelle che facevano un cancan su una guerra brutta e pusillanime che tutti stavano cercando di dimenticare. Che è il motivo per cui improvvisamente nacque un nuovo genere: il lamento funebre per un amico che è diventato religioso. Queste canzoni descrivevano sempre un amico intimo o una ragazza sexy che erano stati la ragione di vita della o del cantante, quando tutt’a un tratto era successo qualcosa di terribile ed erano diventati ortodossi. L’amico si faceva crescere la barba e pregava in continuazione, la bella ragazza era coperta da capo a piedi e non voleva avere più niente a che fare col cantante immusonito. I giovani ascoltavano queste canzoni e scuotevano cupamente la testa. La guerra del Libano aveva portato via così tanti dei loro amici che l’ultima cosa che volevano, tutti, era vedere gli altri sparire per sempre in qualche scuola talmudica nel quartiere più degradato di Gerusalemme. Non era solo il mondo della musica che stava scoprendo gli ebrei rinati. Erano roba grossa per tutti i media. Ogni talk show aveva un posto fisso o per un’ex celebrità diventata religiosa che si sentiva in dovere di raccontare a tutti come non avesse proprio alcun rimpianto per la propria dissolutezza, o per l’ex amico di un noto rinato che rivelava quanto l’amico fosse cambiato da quando era diventato religioso e come non potevi più nemmeno rivolgergli la parola. Anch’io. Dal giorno in cui mia sorella fece il grande passo nella direzione della Divina Provvidenza, io diventai una specie di celebrità locale. Vicini che non mi avevano mai neanche rivolto la parola si fermavano, solo per stringermi energicamente la mano e porgermi le loro condoglianze. Hipster adolescenti tutti vestiti di nero veniva- 6 NELLA COMUNITÀ HASSIDIM OGNI DONNA HA IN MEDIA 6 FIGLI A TESTA “Diciannove anni fa morì, adesso ha undici figli” Cosa succede se uno scrittore (ateo) israeliano improvvisamente si ritrova un’hassidim in casa Mia sorella l’ultraortodossa LE FOTO SCENE DI VITA QUOTIDIANA NEL QUARTIERE MEA SHEARIM DI GERUSALEMME: PER STRADA, A SCUOLA, A UN MATRIMONIO E NEL NEGOZIO DI UN VENDITORE DI CAPPELLI. SOTTO, MANIFESTAZIONE DI EBREI ULTRAORTODOSSI no a darmi affettuosamente un cinque prima di entrare nel taxi che li avrebbe portati in qualche discoteca di Tel Aviv. E poi abbassavano il vetro del finestrino per urlarmi il loro dispiacere per la vicenda di mia sorella. Se i rabbini avessero preso una ragazza brutta, si sarebbero anche rassegnati; ma portarsi via una bella donna come lei: che spreco! Intanto, la mia compianta sorella studiava in un seminario femminile di Gerusalemme. Era venuta a trovarci quasi ogni settimana, e sembrava felice. Se c’era una settimana in cui non poteva venire, andavamo noi a trovarla. Allora io avevo quindici anni, e sentivo terribilmente la sua mancanza. Non l’avevo vista molto spesso nemmeno quando faceva il servizio militare, prima di diventare religiosa, come istruttore di artiglieria nel sud del paese, ma allora, per qualche motivo, mi era mancata di meno. Ogni volta che ci incontravamo la studiavo atten- tamente, cercando di capire in che modo era cambiata. Avevano forse sostituito la luce che aveva negli occhi, il sorriso? Parlavamo tra noi come sempre. Lei continuava a raccontarmi le storie buffe che aveva inventato apposta per me, e mi aiutava a fare i compiti di matematica. Ma mio cugino Gili, che apparteneva alla sezione giovanile del Movimento Contro la Coercizione Religiosa e la sapeva lunga sui rabbini e tutto, mi diceva che era solo questione di tempo. Non avevano ancora finito di lavarle il cervello, ma appena l’avessero fatto lei si sarebbe messa a parlare yiddish, e loro le avrebbero rasato la testa, e lei si sarebbe sposata con un tipo sudato, flaccido e repellente che le avrebbe proibito di vedermi. Poteva volerci ancora un anno o due, meglio che mi preparassi, perché una volta maritata forse avrebbe continuato a respirare, ma dal nostro punto di vista sarebbe stata come se fosse morta. la Repubblica DOMENICA 21 SETTEMBRE 2014 1 MLD GLI ULTRAORTODOSSI “COSTANO” A ISRAELE 1 MILIARDO DI DOLLARI L’ANNO Diciannove anni fa, in una saletta per matrimoni di Bnei Brak, la mia sorella maggiore morì, e ora vive nel quartiere più ortodosso di Gerusalemme. Ha un marito, studente di una yeshiva, proprio come aveva promesso Gili. Non è né sudato né flaccido né repellente, e in realtà sembra contento ogni volta che mio fratello o io li andiamo a trovare. Gili allora, circa vent’anni fa, mi garantì che mia sorella avrebbe avuto orde di figli, e che ogni volta che io li avessi sentiti parlare yiddish come se vivessero in un desolato shtetl dell’Europa orientale mi sarebbe venuta voglia di piangere. Anche su questo argomento aveva ragione solo a metà, perché mia sorella ha veramente un mucchio di bambini, l’uno più carino dell’altro, ma quando parlano yiddish mi vien solo da sorridere. Mentre entro nella casa di mia sorella, meno di un’ora prima di Shabbat, i bambini mi salutano all’unisono col loro «come mi chiamo?», una tradizione che ha avuto inizio dopo che una volta li confusi tra loro. Considerando che mia sorella ha undici figli, e che ognuno di essi ha un doppio nome, come hanno di solito gli hassidim il mio errore era sicuramente perdonabile. Il fatto che tutti i ragazzi sono vestiti nello stesso modo e dotati di coppie identiche di riccioli laterali costituisce una notevole attenuante. Ma tutti loro, da Shlomo-Nachman in giù, vogliono ancora essere sicuri che il loro strano zio abbia le idee abbastanza chiare, e dia il regalo giusto al nipote giusto. Mia madre sospetta che non sia ancora finita; perciò, tra un anno o due, a Dio piacendo, ci sarà un altro doppio nome da imparare a memoria. Dopo che ebbi fatto l’appello con pieno successo, mi venne offerto un bicchiere di cola strettamente kosher mentre mia sorella, che non mi vedeva da molto, voleva sapere cos’avevo combinato. È molto contenta quando le dico che me la passo bene, ma poiché il mondo in cui vivo io è per lei un mondo frivolo, non ha un vero interesse per i particolari. Il fatto che mia sorella non leggerà mai uno dei miei racconti mi dispiace ma il fatto che io non osservo lo Shabbat e non mangio kosher a lei dispiace ancora di più. Un giorno ho scritto un libro per bambini e l’ho dedicato ai miei nipoti. Nel contratto, la casa editrice accettava che l’illustratore preparasse una copia speciale dove tutti gli uomini avrebbero avuto yarmulke (il copricapo, ndt)e riccioli laterali, mentre L’AUTORE ETGAR KERET È UNO SCRITTORE, REGISTA E SCENEGGIATORE ISRAELIANO. LA SUA ULTIMA RACCOLTA DI RACCONTI, I SETTE ANNI BUONI DA CUI È TRATTO QUESTO TESTO, USCIRÀ IN ITALIA PER FELTRINELLI NELL’APRILE 2015 15 MLN È INTORNO AI 15 MILIONI DI DOLLARI IL GIRO D’AFFARI DEI TIPICI CAPPELLI FA B I O S C U T O H GERUSALEMME ASSIDIM. Gli ebrei ultraortodossi vivono nella più totale osservanza degli scritti religiosi seguendo gli stili di vita dei loro antenati dell’Europa orientale. Se le frange più estremiste non riconoscono lo Stato d’Israele, la comunità nel suo complesso oggi rappresenta un terzo della popolazione israeliana. Percentuale destinata a crescere. Gli hassidim vivono volontariamente in un ghetto perché il loro desiderio è la separazione sociale dagli altri ebrei per non esporsi a stili di vita non adeguati. MEA SHEARIM. È il nome del quartiere di Gerusalemme in cui abitano esclusivamente hassidim. In queste settimane tutte le notti fino alle prime luci dell’alba le sinagoghe del quartiere aprono le porte ai fedeli per le tradizionali preghiere che si protrarranno fino allo Yom Kippur, il sacro Giorno dell’Espiazione che segna l’inzio dell’anno ebraico che, secondo il nostro calendario, quest’anno cade il 4 ottobre. Entrare a Mea Shearim è come passare in un altro mondo viaggiando indietro nel tempo, dentro un romanzo russo abitato dai personaggi di Tolstoj e Dostoevskij. PRIVILEGI. Gli hassidim possono rinviare il servizio militare e ottengono sussidi per famiglie e scuole. È altissima, dunque, la percentuale di “mantenuti” che dedica tutto il tempo allo studio delle scritture e all’osservanza delle leggi sacre. Un’usanza solo israeliana: gli hassidim di tutto il mondo lavorano (passeggiare a Brooklyn per credere). La popolazione laica israeliana da sempre mal tollera questi privilegi che costano alla comunità un miliardo di dollari l’anno in termini di forza lavoro sottratta all’economia. Mea Shearim istruzioni per usi e costumi 39 CAPPELLI. Insieme alla barba e alle treccine, il cappello nero a falde larghe è il segno (maschile) più caratteristico della comunità. Sembrano tutti uguali, in realtà ce ne sono almeno cento modelli: oltre alle varie consistenze del feltro, ci sono dieci tipi di tesa, quattro di finiture della bordatura, otto tipi di fascia e sei misure di altezza della testa. SESSO. La segregazione sessuale all’interno della comunità è molto rigida tanto che in alcuni quartieri le compagnie pubbliche dei trasporti hanno dovuto istituire bus con ingressi separati: gli uomini salgono e siedono davanti e le donne dietro. Per i “timorati” anche smartphone e pc, “turbando” i più giovani, possono essere altrettanto pericolosi. SHABBAT. La neve caduta su Gerusalemme nell’inverno del 2012 divise i rabbini. Essendo nevicato all’alba di venerdì, il sabato i bambini potevano giocare con le palle di neve fatte il venerdì prima del tramonto? Alla fine concordarono: sì, ma solo astenendosi poi dallo scrollare giacche, cappotti e cappelli. Del resto per il vero “timorato” anche premere il pulsante dell’ascensore di sabato è considerato un lavoro: ragion per cui in tutti gli alberghi e in numerosi condomini d’Israele ci sono gli ascensori “per lo shabbat”: dal tramonto del venerdì sera a quello del sabato si fermano automaticamente ad ogni piano. © RIPRODUZIONE RISERVATA le sottane e le maniche delle donne sarebbero state abbastanza lunghe per essere considerate modeste. Ma alla fine anche questa versione fu respinta dal rabbino di mia sorella. Il libro raccontava la storia di un padre che scappa con un circo. Deve averla considerata troppo audace, e io ho dovuto riportare la versione “kosher” del libro a Tel Aviv. Fino a circa dieci anni fa, quando finalmente mi sposai, la parte più dura del nostro rapporto fu che la mia ragazza non poteva accompagnarmi nei giorni in cui andavo a trovare mia sorella. Per essere proprio sincero, dovrei dire che nei nove anni che abbiamo passato insieme ci siamo sposati dozzine di volte con cerimonie di ogni genere inventate da noi: con un bacio sul naso in un ristorante di pesce a Giaffa, scambiandoci abbracci in un fatiscente albergo di Varsavia, facendo il bagno nudi sulla spiaggia di Haifa e persino dividendoci un uovo Kinder sul treno Amsterdam-Berlino. Solo che, disgraziatamente, nessuna di queste cerimonie è riconosciuta dai rabbini o dallo Stato. Sicché, quando andavo a trovare mia sorella e famiglia, la mia ragazza doveva sempre aspettarmi in un caffè o in un parco. M’imbarazzava, ma lei capì la situazione e l’accettò. Diciannove anni fa, in una saletta per matrimoni di Bnei Brak, la mia sorella maggiore morì, e ora vive nel quartiere più ortodosso di Gerusalemme. Allora c’era una ragazza che amavo da morire, ma che non mi amava. Ricordo che due settimane dopo le nozze andai a trovare mia sorella a Gerusalemme. Volevo che pregasse perché quella ragazza e io potessimo stare insieme. A tal punto era arrivata la mia disperazione. Mia sorella restò in silenzio per un minuto e poi mi spiegò che non poteva farlo. Perché, se lei avesse pregato e poi quella ragazza e io ci fossimo messi insieme e la nostra vita insieme fosse diventata un inferno, lei si sarebbe sentita terribilmente in colpa. «Pregherò, invece, che tu possa incontrare una persona con cui essere felice», disse, e mi rivolse un sorriso che cercava di essere consolante. «Pregherò per te ogni giorno. Lo prometto». Capivo che avrebbe voluto abbracciarmi e mi dispiaceva che non le fosse consentito, o forse me lo stavo solo immaginando. Dieci anni dopo incontrai mia moglie, e stare con lei mi rese davvero felice. Chi ha detto che le preghiere non vengono esaudite? (Traduzione di Vincenzo Mantovani) © RIPRODUZIONE RISERVATA la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 21 SETTEMBRE 2014 40 L’anniversario. 1944-2014 tu, quanti?». Come ogni anno davanti a questo altare sbrecciato ci si rinfresca la memoria: «Io cinque, e tu?», «Io sette». Non sono i figli. Neppure i nipoti. Sono i morti ammazzati. I passi di Tina van da soli, fra questi ruderi. Da settanta dei suoi ottantasei anni viene a trovarli, i suoi fantasmi, su questo calvario di settecentosettanta cristi in croce che si chiama Monte Sole, nome splendente di una storia buia. Gli italiani la conoscono, ammesso che la ricordino ancora, come “la strage di Marzabotto”, ma a Marzabotto non accadde quasi niente, quel 29 settembre1944. «E M I C H EL E SM AR G I AS S I MARZABOTTO (BOLOGNA) “Per i tedeschi non eravamo persone ma bestie, piante, polvere” «Marzabotto è il paese dove ogni anno mettono i banchi di mortadella e i politici pronunciano il loro bla-bla di circostanza», mormora Tina, «i nostri morti sono quassù». Passeggiamo sullo sterrato verso Casaglia. Sui pendii galleggiano i ruderi di sasso delle case bruciate, delle chiese fatte esplodere coi fedeli dentro. «La nostra Pompei», scrive un vecchio partigiano, Francesco Berti Arnoaldi. Com’è vero. Una colata di lava sanguigna seppellì tutto, qui, lasciando la pace disabitata delle pietre. «Ecco, qui spararono alla Vittoria, perché non voleva camminare, era paralitica... Questa croce di ferro... Qui fucilarono don Ubaldo Marchionni». Sull’altare, come Thomas Becket. Aveva appena ingoiato tutte le ostie consacrate, per proteggere col suo corpo almeno Cristo. Un cagnolino da tartufi guizza da chissà dove, cerca il padrone. «Qualcosa di vivo, finalmente... Solo le lumache fanno compagnia ai morti». Furono centoquindici massacri che in una settimana fecero il grande massacro. È un trekking, oggi, il golgota dei contadini. Prendi la mappa giù al centro visitatori, tra boyscout in gita e famigliole al picnic, calchi i passi delle SS di Walter Reder, 16esima PanzergrenadierDivision, vieni su dalla valle del Setta o da quella del Reno, su su fino al crinale, e ogni cento passi trovi una lapide, una croce. «Qui sono morti tre dei miei cinque: zia Maria, le cugine Dirce e Marisa». Tina Lera Bugané non c’era, nei giorni dell’apocalisse. Abitava a Serravalle Scrivia, Alessandria, con papà che costruiva la prima autostrada d’Italia. Una lontananza che le è pesata, che sublimò vent’anni dopo, diventata redattrice di riviste, romanzando le storie di famiglia in un libro, Sole nero a Casaglia. «Pensi che eravamo noi, là, ad aver paura, dicevano: gli Alleati sbarcano in Liguria, arriva la guerra...». E i parenti rimasti qui le scrivevano preoccupati: «Torna da noi... Qui sei al sicuro...». Sì, certo, sull’Appennino bolognese il fronte vero era vicino. Linea Gotica. Gli americani poco più su. Lampi nel cielo di notte. Bombe sulla ferrovia. Ma come immaginare l’inimmaginabile, visto che i tedeschi già da mesi bussavano alle porte, cercando i partigiani, e «a donne, bambini e vecchi non avevano mai fatto nulla». Quel giorno, invece, qualcuno capì che il vento era cambiato. «Ma questo glielo racconta mio cugino Lillo. Lui c’era. Aveva quattordici anni». Scendiamo a Gardelletta. Lillo Bugané è appena tornato a casa dalla dialisi. È un po’ frastornato, ma ricorda tutto. «Si vedeva il fumo. I tedeschi ven- norevole di Dio”, il monaco che riconsacrò Monte Sole. Ci sono poche vecchie croci di ferro. Qualcuna mostra ancora i fori dei proiettili. «Volevano uccidere anche i morti...». Sono fori bassi. Ad altezza di bambino. «Volevo tornare a cercare la mamma», si riprende Lillo, «lì in quel mucchio di morti. Ma i tedeschi non se ne andavano. Ho girato due giorni nei boschi. Poi ho preso un camion che andava a Firenze», piange ancora. Sì, Lillo, basta, basta così. «Forse, fossero scappati tutti nei boschi... disperdendosi, come Lillo...», si chiede Tina. «Ma credevano nell’inviolabilità della Chiesa. Rimasero tutti assieme e facilitarono il lavoro ai tedeschi». Scrisse con triste sintesi una delle sentenze dei processi del dopoguerra: “Rimase chi credeva di essere protetto dalla propria debolezza”. O magari dai partigiani. Ma loro avevano già perso la partita, fin dalla mattina. All’alba i tedeschi avevano sorpreso e ammazzato a Cadotto il Lupo, il capo della brigata Stella Rossa. Qualcuno dice: avevano fatto festa la sera prima, erano certi che gli americani stessero arrivando, che fosse ormai finita. Chissà. Di certo, in quei giorni non ci fu nessun vero combattimento. Solo massacro, che i partigiani ormai sbandati guardarono attoniti dalla cima di Monte Sole, poche centinaia di metri più su di Casaglia, impreparati e impotenti di fronte a una guerra fatta così. Perché non fecero un tentativo disperato? È la domanda che da settant’anni infiamma le polemiche fra le due narrazioni rivali del martirio, quella partigiana-comunista che rivendica la lotta impari, e quella cattolica che li accusa di aver attirato l’ira dei tedeschi per poi lasciar sola la popolazione coi suoi sacerdoti. Ma ormai si sa, che cosa vennero a fare i tedeschi. Di andare a stanare ribelli armati uno per uno, nei boschi, sul loro terreno, non avevano la minima intenzione. Il piano di Reder era chiaro, lucido, razionale. Era “guerra sterminazionista”, come l’hanno definita gli storici Luca Baldissara e Paolo Pezzino nel libro Il massacro. L’ordine era: fare terra bruciata attorno ai partigiani. Case, cibo, persone, distruggere tutto. L’obiettivo, primario e anzi unico, erano i civili. Tutti i civili indifferentemente. Il massacro di Monte Sole non fu un’eruzione inspiegabile di bestialità, di “male assoluto”, non fu un crudele inutile irrazionale supplemento alla guerra: era la guerra. Era la guerra ai civili, la guerra inventata dal Novecento, la guerra che non punta a sconfiggere il nemico, vuole annientarlo, la stessa guerra che continua a seminare, nel mondo, anche oggi, la domanda agghiacciante: «E tu, quanti?». A Monte Sole niente follia disumana, ma genocidio militarmente pianificato. Auschwitz sull’Appennino. La lapide nel sacrario, giù a Marzabotto, celebra le vittime «dell’amor di patria», ma di quale patria erano mai patrioti i settecentosettanta abitanti di questa prua di rocce e boschi, mondo di storia lenta, di uova sotto la cenere e mele sotto il letto? Vittime senza neppure la ricompensa dell’eroismo, scrive Tina nel suo romanzo, «morirono l’uno sull’altro, senza nessun motivo che li inorgoglisse per il sacrificio», senza nomi di condottieri o di ideali da gridare, solo quelli di figli, sorelle e madri. Testimoni rovesciarono al processo cataratte di episodi atroci, stupri, sevizie indicibili, un groviglio di terribili verità e mitologie dell’orrore che gli storici fanno ancora fatica a dipanare. Ma basterebbe dire: duecentosedici bambini. Una delle lapidi riporta «Ferretti Annamaria, di mesi uno». Come può un uomo, Tina? «I tedeschi erano ragazzi, sì, avevano madri, sorelle, forse figli. Ma per loro quelle erano persone. Razza dominatrice del mondo. Noi no, per loro eravamo bestiame, piante, polvere». Andiamo a trovare nonno Mingòn. Lo ammazzarono a Cerpiano, un chilometro oltre il crinale. I tedeschi lo trovarono seduto sulla panca di legno che aveva scavato in un tronco. Prima di sparargli, il soldato del Reich gli tolse dal taschino l’orologio d’oro, orgoglio di una vita, e glielo fece dondolare davanti agli occhi, ridendo. Ecco, fra gli sterpi, la chiesa distrutta con le bombe a mano con quarantanove persone dentro. «Zia Amelia cercò di uscire dall’inferno, la falciarono sulla soglia». Vide tutto Antonietta Benni, la maestra della scuolina degli sfollati, che si salvò fingendosi morta fra i cadaveri, e salvò due bambini tappando loro la bocca. «Lasciarono lì la zia per due giorni. I maiali le mangiarono la testa». Come riesce a raccontarlo, Tina? Esita. «Vede, quando Reder ci chiese la grazia, a noi sopravvissuti, disse che doveva rivedere la madre inferma prima che morisse». Tina è una dolce signora, una nonna da libri d’infanzia. Sospira: «Lei capisce, vero? Perdonare sarebbe stato disumano». Tina saluta in silenzio i suoi spiriti, è un saluto speciale, «non so quante altre volte potrò tornare». Risaliamo la mulattiera verso Casaglia. Ha piovuto tutta la notte, proprio come settant’anni fa. La macchina scivola, s’impantana. Il salvatore che ci trascina fuori col suo fuoristrada mormora con disapprovazione: «i morti, bisogna lasciarli in pace». Ritorno a Marzabotto gon su, bruciano le case!», i suoi occhi chiari li vedono ancora. Scappare, ma dove? Dove si è abituati ad andare, tutte le domeniche: lungo il sentiero medievale dell’Enfialugo, quello coi cippi antichi, su fino a Casaglia, alla chiesa parrocchiale di San Michele. Il 29 settembre è il suo giorno, il giorno dell’angelo custode, ci custodirà. Una cappella di pochi metri quadri, bastano poche decine di persone per stiparla, «in chiesa non ci faranno nulla». Ma Lillo ha paura, mica di morire, no, «paura che i tedeschi mi prendano per portarmi in Germania». E allora, la mamma gli grida dal sagrato «Lillo vieni dentro!» ma lui in un secondo prende la decisione, «mi volto indietro e corro nel bosco», la voce gli si rompe, «io sono vivo perché ho disobbedito a mia madre». Nascosto fra querce e larici, vede tutto. La pattuglia che scardina la porta della chiesa, fa uscire tutti facendo il verso beffardo che si fa ai maiali, «brrr! brrr!», la colonna di donne vecchi bambini avviata verso il cimitero, appena cento metri, ecco, saltano anche i cancelli del camposanto, tutti in fila lungo il muro, la mitragliatrice montata, i colpi... Lillo non va più avanti, ora piange come il ragazzino terrorizzato che era. Eccolo, il cimitero di Casaglia. C’è la tomba di don Giuseppe Dossetti, “l’o- © RIPRODUZIONE RISERVATA la Repubblica DOMENICA 21 SETTEMBRE 2014 41 LE IMMAGINI QUI ACCANTO TRE SCORCI DI MONTE SOLE, NEI PRESSI DI MARZABOTTO, APPENNINO BOLOGNESE, DOVE IL 29 SETTEMBRE 1944 I SOLDATI NAZISTI UCCISERO 770 CIVILI. LE IMMAGINI SONO STATE SCATTATE DA ROBERTO CIMATTI, DIRETTORE DELLA FOTOGRAFIA NEL FILM DI GIORGIO DIRITTI “L’UOMO CHE VERRÀ”. NELL’ALTRA PAGINA, TINA LERA BUGANÉ SUI LUOGHI DELLA STRAGE IN CUI HA PERSO CINQUE FAMILIARI Cambia solo la lingua GIORGIO DIRITTI FOTO DI ROBERTO CIMATTI Q UANTO è distante Marzabotto? Settant’anni…? Settanta miglia prima che lo scafista butti a mare i suoi naviganti “clandestini,” settanta giorni di prigionia prima che il combattente rivendichi la gloria di esporre al mondo la morte per decapitazione del suo prigioniero inerme, settanta bombe, settanta razzi prima che una, due, tre cadano sulla scuola, nel mercato, prima di vedere i brandelli di sangue come a Casaglia o Cerpiano. È molto vicina la stage di Marzabotto, ha cambiato lingua, territorio, ma poco altro nello scempio di vita altrui che certi uomini continuano a fare. Nello scempio di un società evoluta dove la ricchezza si fonda anche sul mercato delle armi, sullo sfruttamento dei simili, sulla schiavitù, e dove il confine dello spettacolo televisivo mischia ogni sera la realtà drammatica e violenta a quella effimera della pubblicità. Il pianto cammina ancora sui sentieri di Monte Sole nell’animo di chi c’era o di chi ha ascoltato la voce di chi c’era. Credo sia fondamentale nella vita un giorno andare lì. La memoria è il più importante patrimonio da difendere. E forse un giorno, finalmente, il progresso non sarà solo un nuovo oggetto tecnologico ma il bene per l’umanità. L’autore nel 2009 ha diretto il film L’uomo che verrà sulla strage di Marzabotto © RIPRODUZIONE RISERVATA la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 21 SETTEMBRE 2014 42 Spettacoli. Punk Quando l’impegno diventò moda arrivarono loro, troppo intelligenti per non essere considerati demenziali Un cd e due inediti restituiscono ora il senso della band di Freak Antoni E di quegli anni perduti per sempre MICHELE SERRA TUPIDO È CHI LO STUPIDO FA”, diceva la mamma a Forrest Gump per rassicurarlo sui suoi problemi neurologici. Intendeva dire, la brava donna, che comportarsi bene rimette tutto a posto, salda ogni debito. È comportarsi male che espone alla severità del giudizio, al rimprovero sociale, alla caduta. E Forrest, nella sua vittoriosa cavalcata negli States del secondo Novecento, si comporterà benissimo, diventando lo stupido più intelligente e fortunato d’America. Chissà che cosa avrebbe detto, quella giudiziosa e amorevole mamma, degli Skiantos e del rock demenziale, l’esatto contrario del suo Forrest, ovvero l’intelligenza che sceglie programmaticamente di “fare la stupida”, individuando nella demenza ben temperata la sola forma irriducibile di libertà dal sussiego intellettuale e dalle mode artistiche, comprese quelle del proprio campo (che in quegli anni, nella musica italiana, erano la canzone impegnata e il rock “politico”). A pochi mesi dalla morte di Roberto Freak Antoni, che degli Skiantos fu il motore artistico, torna in circolazione il cd Doppia dose, registrato nel ‘99 con molti illustri contributi (Dalla, Carboni, Shapiro, Bersani, Banda Osiris, Branduardi, Roversi-Blady, Gang, Villotti e molti altri amici e complici della band). Il chitarrista Dandy Bestia (al secolo Fabio Testoni) e il discografico storico della band, Oderso Rubini, hanno provveduto ad arricchirlo con due brani inediti, Evacuazioni e Fuck that kunt. Ma già nel ‘99, quando il disco fu concepito, nonostante contenesse per metà nuove canzoni aveva il sapore del tributo a una stagione irripetibile e tramontata, gli anni Settanta/Ottanta nel loro inconfondibile specifico bolognese. Oggi è trascorso abbastanza tempo per provare a capire, degli Skiantos e di quegli anni, qualcosa di più ragionato e sedimentato. L’ascolto di Doppia dose espone a una forma particolare di spleen, composto per metà da un’inevitabile nostalgia per la creatività di quel periodo al tempo stesso “nero” e fulgido; per l’altra metà da un sentimento doloroso, di privazione e quasi di rimprovero per i tanti che se ne sono andati o che hanno interrotto il loro cammino artistico. Nella frenesia esperienziale del periodo, in quelle giovinezze convulse, la droga ebbe un ruolo micidiale, portandosi via più di quanto aveva elargito come equivoca ispiratrice. Viene da chiedersi quanto di meglio e di più duraturo avrebbe potuto lasciare, quella generazione, senza quel veleno in vena, quel nemico in testa. Essere disposti a tutto pur di non crescere conformisti o piegati: era questo il patto “di generazione” che animava quella Bologna, che aveva nel Dams il suo brodo di coltura e per gli interi anni Ottanta si trovò a esercitare un primato artistico fenomenale, nella musica, nel fumetto d’arte, nella letteratura, nella satira, con una presenza di artisti così varia che è impossibile tentare di nominarli senza dimenticare qualcuno. Diciamo solo Pazienza, Cavazzoni, Dalla, Tondelli, Lolli, Palandri, Celati, Guccini, Benni, il Gran Pavese al completo, i Gaz Nevada e gli Skiantos tanto per descrivere, molto approssimativamente, varietà e qualità delle voci disponibili, molte delle quali, grazie alla natura sostanzialmente “piccola” e provinciale di Bologna, in forte promiscuità tra loro e con l’irrequieto mondo studentesco. Dentro quella vasta corrente gli Skiantos (come, per altri versi, fecero in politica gli Indiani Metropolitani) erano già “decadenti”, cioè intuivano e incarnavano un presagio di inutilità. Post-politici in anni ancora intrisi di politica fino al parossismo, Freak Antoni e i suoi amici non ebbero rapporti facili né con la critica né con il pubblico. “Fare gli stupidi”, quando le avanguardie politico-intellettuali parlavano come Deleuze e Guattari anche se non li avevano letti, era piuttosto sacrilego, il demenziale e il goliardico erano in perenne rischio di confusione, non era così ovvio per nessuno capire che gli Skiantos si rifugiavano nel nonsenso perché anche “l’impegno”, fino a pochi anni prima una ventata nuova, stava diventano canone, maniera, obbligo. “Fate largo all’avanguardia/ siete un pubblico di merda!” (due dei versi più memorabili ed esilaranti degli Skiantos) è in questo senso la sintesi perfetta di una poetica ambigua a qualunque costo, perché ogni disambiguazione è una maschera e una condanna. Quei due versi sono satira dell’avanguardia e della sua spocchia, ma al tempo stesso satira del pubblico e della sua passività. Non c’è scampo, non c’è una parte “sana e salva”, non c’è una parte “giusta”. Gli Skiantos “facevano gli stupidi” per mettere in scena un’intelligenza senza sboc- “S chi, costretta al travestimento, a buttarla in vacca, a buttarla in farsa. La rivendicazione di estraneità al mondo degli adulti tocca, con il movimento del ‘77, il suo apice più drammatico. Roberto Freak Antoni era una delle persone più gentili e meno arroganti che io abbia mai conosciuto, gli sarebbe stato impossibile dare al suo rifiuto di crescere una veste aggressiva. Se Andrea Pazienza incarnava la via “maledetta” all’arte di quegli anni, con i suoi interni bolognesi così stonati, disordinati, hard, con la sua adolescenza allucinata e geniale procrastinata fino alla morte precoce (aveva trentadue anni!), Freak fu il suo alter ego: la faccia tonda (somigliava a Charlie Brown), da eterno bambino, il sorriso mite, l’umorismo travolgente gli suggerirono di essere un non-adulto in maniera più malinconica e morbida, se posso dire: più astuta. Rimane il dubbio, che esprimo per affetto e stima nei suoi confronti, che Freak come tanti altri di quel milieu davvero fenomenale che fu la Bologna degli anni Ottanta, avrebbero potuto lasciarci qualcosa di più, e forse molto di più, se “crescere” non li avesse spaventati così tanto, e se quella città fosse meno mammona e tortellinesca, infine castrante con i suoi figli migliori. Oggi Bologna, culturalmente parlando, è un centinaio di anni luce al di sotto di quello che fu. Vive di ricordi. Come se si sentisse estranea. In uno dei due inediti di Doppia dose, il testo (bellissimo) di Freak accenna, pochi mesi prima di andarsene, una possibile ricostruzione dei fatti: “Questa vita è il sogno di dio/ non è certo il tuo e il mio”. Sentirsi estranei, appunto. © RIPRODUZIONE RISERVATA Chiedi chi erano gli Skiantos IL CD SOPRA: “DECOLLAGE” (CONCEPT BY FREAK ANTONI, FOTO DI CARLO COPPITZ). A SINISTRA, LA COPERTINA DI “DOPPIA DOSE REPRINT”, DOPPIO CD PIENO DI OSPITI DA LUCIO DALLA A MICHELE SERRA CHE NEL ’99 DECLAMA UN SUO TESTO. IN USCITA A FINE MESE la Repubblica DOMENICA 21 SETTEMBRE 2014 43 Fate largo all’avanguardia LU C A VA LT O RTA ETTANTAMILA PERSONE IN PIEDI: pugno chiuso su L’internazionale reinterpretata dagli Area. È il 14 giugno del 1979, Arena di Milano, tributo a Demetrio Stratos. Ci sono Finardi, Guccini, Venditti, Vecchioni, Banco, PFM. Ci sono anche gli Skiantos. Alieni. Salgono sul palco senza strumenti: «Noi siamo gli Skiantos. Non siamo cantautori ma poeti metropolitani». Fischi. Applausi. Il pubblico è diviso. È avanguardia? Loro lo rivendicano nel pezzo più celebre, salutato da lanci di ortaggi: «Largo all’avanguardia, siete un pubblico di merda». È l’iconoclastia del punk, nella versione italiana inventata dagli Skiantos: il famoso “rock demenziale”. Che in realtà è una cosa serissima perché segna una cesura con il mondo dei cantautori, dissacrandolo. Ma Freak Antoni è rimasto uno dei grandi misconosciuti, derubricato dai media a macchietta. Lui e gli Skiantos sono stati molto di più: l’incarnazione più alta di un movimento che ha scosso il mondo della musica e non solo. Purtroppo, parafrasando il titolo di un suo celebre libro, «non c’è gusto in Italia ad essere intelligenti». S © RIPRODUZIONE RISERVATA LE IMMAGINI IL “SANTINO” REALIZZATO DAGLI SKIANTOS PER IL CONCERTO BOLOGNESE DI PATTI SMITH (9 SETTEMBRE 1979). DALL’ALTO VERSO IL BASSO: ORIGINALE DI UNA CANZONE E RIVISTE ANNI ’80. DA SINISTRA A DESTRA: TUTTE LE FACCE DI “FREAK” ANTONI. LA PENULTIMA È DI ANDREA PAZIENZA, SUO GRANDE AMICO L’inedito alta dalle nuvole/ Cavalca le metafore/ Se ti senti fragile/ Investi sull’inutile/ Non morire nell’intentato/ Non finire annientato/ Che almeno tu possa dire c’ho provato, ma non è bastato/ Nulla da dire, niente da fare/ figli di un tempo così banale/ Anche dormire non può bastare/ Non procreare qui c’è bisogno di EVACUARE Se la vita è faticosa/ una cambiale onerosa/ tutto pesante e volubile/ ad un ritmo insostenibile/ Oltre ogni sballo/ Alla ricerca del vero bello/ eccitazione che ti spiazza/ e porta via ogni tristezza/ Divorando l’esistenza a morsi/ È poi difficile digerirla/ Questa vita è il sogno di dio/ Non è certo il tuo o il mio/ Nulla da dire, niente da fare/ figli di un tempo così banale/ Anche dormire non può bastare/ Qui c’è bisogno di/ Qui c’è bisogno di/ Qui c’è bisogno di EVACUARE EVACUARE/ Festeggiare/ Galleggiare/ Fornicare/ Intorpidire/ Perdonare/ Bordeggiare/ Galleggiare/ Navigare/ Perdonare qui c’è bisogno di… S “EVACUAZIONI”, UNO DEI DUE BRANI INEDITI PUBBLICATI N OCCASIONE DELLA RISTAMPA DELL’ALBUM “DOPPIA DOSE” la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 21 SETTEMBRE 2014 44 Next. Makers 2005 2007 ARDUINO STAMPANTE 3D MASSIMO BANZI INVENTA LA SCHEDA ELETTRONICA MICROPROGRAMMABILE OPENSOURCE PER LA ROBOTIZZAZIONE. UTILE PER CREARE RAPIDAMENTE PROTOTIPI ENRICO DINI INVENTA UN SISTEMA DI STAMPA TRIDIMENSIONALE DI OGGETTI FISICI DI GRANDI DIMENSIONI (USANDO GRANULI E NON POLVERI O INCHIOSTRO) 2005 2005 CYBERHAND ACCELEROMETRO REALIZZATA DALL’ARTSLAB DELLA SCUOLA SUPERIORE SANT’ANNA DI PISA LA MANO ROBOTICA CON SENSORI TATTILI. PER RIDARE IL “TOCCO UMANO” A CHI HA PERSO GLI ARTI LA STMICROELECTRONICS (AGRATE BRIANZA) PRODUCE PER NINTENDO UN MICROSISTEMA ELETTROMECCANICO INTEGRATO IN FORMA MINIATURIZZATA 1990 1992 TV DIGITALE MP3 IL PRIMO PROGRAMMA T IN DIGITALE È IL MONDIALE DI CALCIO ITALIA 90 TRASMESSO DALLA RAI: UN PASSO IMPORTANTE VERSO LA TELEVISIONE AD ALTA DEFINIZIONE L’INGEGNERE TORINESE LEONARDO CHIARIGLIONE DEFINISCE LO STANDARD PER LA COMPRESSIONE DIGITALE DEI FILE AUDIO, DOPO AVER BREVETTATO ANCHE MPEG-1 E MPEG-2 1990 1971 TELEPASS INTEL 4004 LA FONDAZIONE MARCONI CON OLIVETTI E GIUGIARO DESIGN PROGETTANO IL SISTEMA DI RISCOSSIONE AUTOMATICA DEL PEDAGGIO AUTOSTRADALE FEDERICO FAGGIN INVENTA PER INTEL IL PRIMO MICROPROCESSORE MONOLITICO (CONTENUTO IN UN SOLO CIRCUITO INTEGRATO) A ESSERE COMMERCIALIZZATO Eureka,Italia JA I ME D’A L E SSA NDRO In una mostra mezzo secolo di successi hi-tech. Per scoprire che siamo ancora inventori INQUANTA anni di innovazione e altri cinquanta ancora tutti da costruire. Cercando di trovare un punto d’incontro fra il prima e il dopo. È quel che racconterà “Make in Italy”, la mostra che debutta alla “Maker Faire” di Roma venerdì 3 ottobre. Una storia fatta dai successi dell’hi-tech nato nel nostro Paese, dalle occasioni perse nel corso del tempo, da quelle che abbiamo oggi e che ci aspettano domani. Dalla P101 della Olivetti, il primo personal computer mostrato al pubblico nel 1964, all’Hyper Search ideato da Massimo Marchiori nel 1997 e poi diventato la base del motore di ricerca di Google. Fino ad Arduino, la scheda elettronica open source tanto amata dal movimento dei maker, e a iCub, il robot bambino sviluppato all’Istituto Italiano di Tecnologia. Ma dietro questi casi celebri ce ne sono altri, meno conosciuti dal grande pubblico, che messi in fila uno dopo l’altro ricordano come e perché abbiamo sempre detto la nostra anche quando non sembrava. E anche quando, è capitato spesso, qualcun altro ne ha tratto vantaggio. «L’occasione è l’anniversario del lancio del primo personal computer a New York da parte della Olivetti», racconta Andrea Granelli, curatore della mostra con un lungo passato nel mondo dell’innovazione e delle telecomunicazioni. «La nostra idea è che l’Italia ha sempre giocato un ruolo importante sia dopo sia prima della azienda di Ivrea. Basti pensare al telefono di Antonio Meucci o al telegrafo di Guglielmo Marconi. È una continuità che si snoda fra oggetti, prototipi, software, installazioni». Realizzata da Make in Italy Cdb onlus (fondata da Massimo Banzi, Carlo De Benedetti e Riccardo Luna), quella ospitata all’Auditorium di Roma fino al 5 ottobre e poi in giro per l’Italia sarà anche una mostra di concetti e di idee. La prima poesia generata al 1964 computer da Nanni Balestrini, ad esempio, daP101 ta addirittura 1962; oppure la linguistica computazionale di Roberto Busa, gesuita che ha laPIERGIORGIO PEROTTO CREA vorato con Ibm. Sempre inseguendo quel filo PER OLIVETTI IL PRIMO rosso di cui parla Granelli. PERSONAL COMPUTER «È vero, l’innovazione in Italia ha una sua conAL MONDO: È IL PADRE DEI tinuità anche se spesso si è trattato di un perCALCOLATORI COMMERCIALI, corso sotterraneo», conferma Marco Casolino, DIGITALE E PROGRAMMABILE, primo ricercatore all’Istituto nazionale di fisica PICCOLO ED ECONOMICO nucleare di Roma e al Riken di Tokyo. Uno di quei cervelli che non è in fuga ma vive fra due C la Repubblica DOMENICA 21 SETTEMBRE 2014 ICUB 45 La sindrome del saprei ma non posso 2009 ICUB GIORGIO METTA (ISTITUTO ITALIANO DI TECNOLOGIA) DÀ ALLA LUCE UN ROBOT ANDROIDE CON DIMENSIONI DI UN BAMBINO DI TRE ANNI: È ALTO 1 METRO E 4 CENTIMETRI E PESA 22 KG RI CCA RDO L UNA ORA di superare la sindrome di Meucci. Di considerarci un paese di grandi inventori, spesso geniali, ma isolati, non supportati e quindi in un certo senso sconfitti. Come accaduto al grande fiorentino che non poté brevettare l’invenzione del telefono. O al matematico Massimo Marchiori che anni dopo intuì quello che sarebbe stato l’algoritmo di Google, ma quando tornò in Italia, dopo averlo presentato in California, si sentì negare la richiesta di fondi per sviluppare l’idea perché la sua università preferiva finanziare una ricerca sulla storia della metallurgia. È successo, ma i fatti di questi cinquant’anni, dalla Programma 101 (il primo personal) ad Arduino (la piattaforma elettronica low cost più diffusa del mondo) ci raccontano un’altra storia. Siamo un paese migliore di quello che ci siamo raccontati: il microprocessore — che ha davvero cambiato la storia della tecnologia — porta la firma del veneto Federico Faggin; e se è vero che Faggin l’ha inventato lavorando alla Intel in California e quando ha provato a tornare ha subito rifatto le valigie, i MEMS che stanno nei nostri smartphone e nelle console dei videogiochi sono frutto del lavoro del team di Bruno Murari, alla ST Microelectronics di Agrate Brianza. Queste storie ci parlano di un nuovo made in Italy, anzi di un Make in Italy, perché si basa sulla cultura dei makers: fai-da-te, sfidando le convenzioni, credendo nell’innovazione. È 1997 HYPER SEARCH MASSIMO MARCHIORI CREA L’ALGORITMO PER UN MOTORE DI RICERCA CHE SI BASA ANCHE SULLA RELAZIONE TRA LA SINGOLA PAGINA E IL RESTO DEL WEB: È L’IDEA DI GOOGLE 1994 GIORNALE WEB IL 31 LUGLIO 1994 L’UNIONE SARDA È IL PRIMO QUOTIDIANO IN EUROPA AD ANDARE ONLINE CON UN SITO CHE RIASSUME LA PRIMA PAGINA DEL GIORNALE 1969 VALENTINE ETTORE SOTTSASS DISEGNA PER OLIVETTI UN MODELLO DI MACCHINA PER SCRIVERE PORTATILE CHE AVRÀ ENORME SUCCESSO INTERNAZIONALE © RIPRODUZIONE RISERVATA 1967 MUSICA PER PC PIETRO GROSSI DEL CONSERVATORIO DI FIRENZE SVILUPPA LA PRIMA PARTITURA MUSICALE ESEGUIBILE DA UN COMPUTER CON TRASDUTTORI SONORI mondi diversi potendo guardare l’Italia da più angolazioni. «Quando non abbiamo inventato più computer, perché era diventato impossibile per noi competere in quel mercato, ci sono state realtà nei campi più disparati che hanno fatto cose eccellenti. Nell’aerospaziale mi viene in mente ad esempio la Thales AleniaSpace, poi comprata dai francesi. In quello dell’animazione la Digital Video di Roma, la stessa che ha creato Toonz, software usato fra gli altri dallo Studio Ghibli di Hayao Miyazaki. E sono solo due esempi fra tanti». Sarebbe sciocco però negare che le occasioni perse sono state tante, troppe. Altrimenti diventerebbe impossibile spiegare come mai fra i colossi del web e dell’hi-tech non si parla italiano. Il mancato sfruttamento commerciale di uno standard come l’mp3 inventato da Leonardo Chiariglione è fra i casi più discussi, ma anche l’Hyper Search di Marchiori e la storia di Video On Line, provider all’avanguardia nato a Cagliari nel 1994 per volontà dell’editore Nicola Grauso e che aveva come braccio destro proprio Andrea Granelli. Grazie ai legami con il centro di ricerche CRS4 guidato da Carlo Rubbia, che era stato direttore del Cern dove lo stesso World Wide Web è nato, L’Unione Sarda nel marzo 1994 fu il primo giornale in Europa ad andare online. Poi Video On Line naufragò per i progetti pionieristici ma troppo faraonici di Grauso e finì nelle mani di Telecom. «Un altro filo rosso fra passato e futuro potrebbe essere la cultura aziendale della Olivetti dei tempi d’oro», ipotizza David Bevilacqua, vice presidente della Cisco. «Quella fatta di responsabilizzazione e valorizzazione dei dipendenti, assenza di gerarchie, difesa della creatività. Tutti concetti oggi comuni nella Silicon Valley e fra i maker, ma che la Olivetti mise in pratica oltre mezzo secolo fa». La Cisco, multi- nazionale americana da anni fra le migliori aziende nelle quali lavorare secondo Fortune e il Great Place to Work Insitute, è fra le più “olivettiane”. «Si tratta della stessa cultura propria delle realtà più innovative in Italia. Questo non significa che in tutte le startup ci sia quello spirito, ma che il modello Olivetti è quello che oggi potrebbe vincere da noi e che spesso vince all’estero». Insomma, abbiamo perso il primo treno di Internet malgrado siamo diventati grandi consumatori di contenuti digitali, siamo indietro nelle infrastrutture, nelle collaborazioni LA MOSTRA DEBUTTA VENERDÌ 3 OTTOBRE ALL’AUDITORIUM PARCO DELLA MUSICA DI ROMA ALL’INTERNO DI “MAKER FAIRE” LA MOSTRA “MAKE IN ITALY” SU 50 ANNI DI INVENZIONI CHE ANDRÀ POI IN GIRO PER L’ITALIA fra aziende e ci sono poche contaminazioni fra industria, università, ricerca. Ma le rivoluzioni e le sfide che ci attendono sono tante, basti pensare al cosiddetto “Internet delle cose”, e facendo della gestione del personale una scienza esatta mirata a motivare ben al di là del pura retribuzione potremmo ancora farcela. O almeno è questo che sperano a Make in Italy. A tal punto che, legandosi al Programma 2015 del ministero dell’Istruzione, chiederanno agli studenti italiani di immaginare un’altra P101. Qualcosa cioè che possa cambiare il mondo. Come fece la Olivetti cinquant’anni fa. © RIPRODUZIONE RISERVATA la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 21 SETTEMBRE 2014 46 Sapori. Di razza UN VINO ELEGANTE MA DIFFICILE. NON A CASO NATO TRA SCALPITANTI ZOLLE MINERALI. MA GRAZIE A QUESTO CARATTERACCIO, IL “BAROLO IRPINO” ORA È PRONTO PER SFIDARE ANCHE I GRANDI DI FRANCIA 8 bottiglie per otto piatti Vigna Macchia dei Goti 2009 ANTONIO CAGGIANO Strutturato e complesso, colore granata intenso, vanta un ampio spettro aromatico, in cui spiccano vaniglia e liquirizia. L’abbinamento è classico: arrosti e selvaggina Prezzo: da 29 euro Cilento Aglianico Donnaluna 2011 DE CONCILIIS Quasi 15 gradi d’alcol per il rosso forte e scanzonato assemblato con una piccola percentuale (10%) di Primitivo Con i fusilli al ragù di carne Il biologico In controtendenza con la superficie viticola totale, scesa di quasi 10mila ettari nell’ultimo anno, la viticoltura biologica è in crescita continua I dati usciti nei giorni scorsi le assegnano una percentuale del 10%, record storico per l’agricoltura italiana. Regioni più virtuose: Sicilia, Puglia, Toscana Rosso Prezzo: da 12 euro Irpinia Aglianico Gioviano 2009 Il CANCELLIERE Coltivazione biologica per le vigne situate nelle contrade Iampenne e Chianzano: niente lieviti, filtrazione né chiarifica Con il ragù di maiale L’appuntamento Partenza dall’antico convento di Santa Maria al Prato di Radda in Chianti, per il “Gran Fondo del Gallo Nero”, gara ciclistica in programma oggi tra le colline dello storico marchio toscano Due i percorsi, per cicloturisti e professionisti. In palio un premio speciale: l’equivalente in vino del peso del vincitore Re Aglianico. La fiaba del purosangue ribelle che da secoli attraversa il Sud LICIA GRANELLO Prezzo: da 10 euro Satyricon 2010 TECCE Eucalipto e tabacco nel bouquet del vino affascinante e coraggioso, la cui etichetta è infarcita di no (lieviti, enzimi, colla arabica, chiarifiche) Si gusta con il pecorino di fossa Il design Sgabelli a forma di tappo e tavolini come coperchi di botte: si veste di design il riciclo dei tappi di sughero Una produzione (Livingcap, Vicenza) che per il Politecnico di Milano “fissa” oltre 30 kg di CO2 per oggetto. Il sughero raccolto viene assemblato solo con materiali naturali Un bicchiere di Aglianico per accompagnare l’arrosto di manzo in crosta di patate con funghi trifolati Prezzo: da 18 euro D ICONO CHE SIA IL BAROLO DEL SUD, ugualmente elegante, rapinoso e allergico all’istituto della pronta beva. Una creatura enologica per nulla semplice, roba per esperte mani contadine, nasi sapienti e palati eruditi. Perché l’Aglianico è come un purosangue, che non sai mai fin dove spingerti a domare. Può disegnare un arco armonico fra testa e collo, chiudendo il profilo come un cavallo ammaestrato, e un attimo dopo impennarsi, ribelle per noia o cattivo polso del cavaliere. Non a caso, la sua terra è terra vulcanica. Non proprio l’antro della fattucchiera Amelia di disneyana memoria, ma comunque le zolle scalpitanti e minerali che abitano le alture dell’Irpinia. Dove l’Aglianico dà il meglio di sé, con tanto di ventennale Docg dedicata, l’unica a bacca rossa della Campania: si chiama Taurasi, come il nome di uno dei diciassette comuni avellinesi autorizzati alla produzione, fortunatissimi al di là del numero scaramantico, se solo per questo rosso profondo è stata coniata la definizione che lo assimila al re dei vini (o vino da re). Non solo una questione di terra, ma anche di aria e acqua: detesta caldo e siccità, la vite che resiste (quasi) impavida a iodio e peronospora, le pesti della vigna, permettendo di ridurre al minimo — o addirittura azzerare — gli interventi chimici. Spigolosa eppure malleabile, se è vero che scollinando tra Beneventano (Aglianico del Vulture Supe- Massico). Per anni, inseguendo i miti di muscolarità e riore Docg), Basilicata (Aglianico del Taburno Docg) e giovanilismo, molti vignaioli hanno costretto i vini a diMolise, e spingendosi poi giù fino alla Puglia — dove do- svelarsi prima di essere pronti. Proprio come il fratello mina la doc Castel del Monte — sa adattarsi quanto ba- langarolo, invece, l’Aglianico incarna l’elogio della lensta a metter radici e rendersi preziosa nelle produzioni tezza, a partire dalla maturazione: pur senza chiamarvinicole della zona. Una robustezza genetica millenaria: si Nebbiolo (l’uva-madre del Barolo) ha bisogno di rabl’uva approdata in Meridione grazie ai Greci con il nome brividire per concedersi alla forbice dei raccoglitori. Ordi Ellenikon (la doppia elle venne mutata in “gl” dalla fo- ganizzate una gita sulla dorsale campana nelle prossinetica spagnola, durante la dominazione aragonese del me settimane e andate a visitare le aziende che aderiXV secolo), infatti, ha attraversato la storia della viti- scono a ”Cantine aperte in vendemmia” (Movimento coltura, risplendendo fin dai tempi dei Romani, che l’a- Turismo del Vino): tra un’insalata col pane cafone e un vevano adottata per realizzare il mitico Falerno, esem- bicchiere di buon vecchio Aglianico, l’autunno sarà pio di doc ante litteram, capace di associare solidamen- davvero magico. te per la prima volta vino e territorio (le falde del monte © RIPRODUZIONE RISERVATA la Repubblica DOMENICA 21 SETTEMBRE 2014 Taurasi Perillo 2006 Richiama il profumo di timo e pepe nero, il rosso elegante e profondo, ottenuto grazie a rese bassissime (40 quintali di uva per ettaro), che ben accompagna la cacciagione Prezzo: da 24 euro Taurasi Riserva La Loggia del Cavaliere 2007 CAVALIER PEPE Uve coltivate in collina, terra argillosa, affinamento lunghissimo (sei anni) Gran compagno dei formaggi vaccini stagionati Prezzo: da 29 euro Taurasi Riserva Radici Mastroberardino 2007 Trenta mesi in barriques francesi per l’Aglianico ricco di note balsamiche e sentori di frutti rossi maturi, perfetto con l’agnello alla brace La ricetta Prezzo: da 23 euro Maialino al profumo di alloro con riduzione di Taurasi INGREDIENTI P 4 600 . DI CAPOCOLLO DI MAIALE; 4 PATATE; 100 G. IO EXTRAVERGINE RAV ; 2 EPERONI ALL’ACETO; 4 FOGLIE DI ALLORO; ARANCE E LIMONE PER LA : 1 OTTIGLIA DI TAURASI; 1 SCALOGNO; 100 . 2 I ALLORO; SALE E PEPE; 1 CUCCHIAINO DI MAIZENA ER PERSONE G DI OL ECE P RIDUZIONE B G DI BURRO FOGLIE D n un tegame di rame, rosolare il capocollo tagliato in 4 pezzi, aggiungere il profumo di alloro, sale e pepe. Continuare in forno a 80°C per due ore. Tagliare i peperoni a fettine sottili e saltarli in pochissimo olio, alloro e una leggera grattugiata di agrumi. Per la riduzione: sciogliere il burro, aggiungendo lo scalogno tritato, l’alloro e la maizena. Versare il Taurasi e girare con un frustino, continuando la cottura a fuoco lento finchè si riduce di ¼. Aggiungere un filo d’olio, sale e pepe. Lessare le patate, schiacciarle con una forchetta insieme a un cucchiaio di olio, sale e pepe. Disporre una cucchiaiata di patate nel piatto, adagiare il pezzo di maialino, mettere sopra i peperoni e infine un filo di riduzione di Taurasi. Decorare con una foglia di alloro. I LE CHEF ASSISTITE DAI TRE FRATELLI (IN SALA E IN CANTINA) LINA E MARIA LUISA FISCHETTI GUIDANO LA CUCINA DI “OASIS SAPORI ANTICHI” A VALLESACCARDA, AVELLINO, CONIUGANDO TRADIZIONE, MATERIE PRIME E TALENTO, COME NELLA RICETTA IDEATA PER I LETTORI DI REPUBBLICA Kleos 2011 LUIGI MAFFINI Fruttato e leggermente speziato, l’Aglianico in purezza in arrivo dai vigneti di Castellabate e Giungano, piacevolissimo con pasta fatta in casa (lagana), ceci e baccalà 47 Infine una notte riuscimmo a domarlo LUIGI MOIO NCROCIAI da vicino la prima volta l’Aglianico in una gelida serata del dicembre 1993. Ero a Taurasi, in Irpinia, da alcuni amici vignaioli, che trasformavano i loro pochi grappoli in vino essenzialmente per autoconsumo. In quel periodo vivevo in Francia e lavoravo presso un laboratorio di ricerca della Borgogna specializzato sull’aroma del vino, e lì ebbi modo di scoprire la magia dei grandi vini francesi. L’Aglianico che mi ritrovai di fronte era completamente diverso dai vini che amavo. Era aspro, con tannini troppo astringenti e amari, con odori pungenti e penetranti e rughe evolutive precoci, che conferivano al vino una colorazione rosso-arancio molto spinta. Non sapevo come descrivere quei vini ai miei amici che si aspettavano dei commenti tecnici e cercavano nei miei occhi una speranza. Non potevo dire loro quello che pensavo, sarebbe stato inutile e poi non volevo demoralizzarli. Mi resi conto, però, dello straordinario potenziale del vitigno e dissi che probabilmente da quell’uva si poteva ottenere un grande vino. Tuttavia, c’era da lavorare duro, domare il suo incontenibile vigore, che lo rendeva selvatico e impediva una completa espressione del suo fantastico potenziale olfattivo e gustativo. Da quella sera d’inverno non ho più lasciato l’Aglianico. Ritornai in Francia con quell’uva nella testa e col desiderio di entrare nei suoi segreti più intimi. E così nel 1994, al mio rientro definitivo in Italia, cominciai a studiarne la chimica e la biochimica. Sono stati anni intensi e memorabili, vissuti fianco a fianco con tanti amici vignaioli, lavorando duramente per rafforzare espressione, territorialità e competitività internazionale. Sentivo però forte il bisogno di trasformare quell’uva in prima persona, con le mie idee e il mio amore per questa terra. Finalmente, nel 2001 è nato Quintodecimo, un fazzoletto di terra immerso nella verde Irpinia, dove mia moglie Laura e io abbiamo realizzato il sogno di vivere nella vigna di Aglianico da noi piantata. Un giardino dove ogni pianta è curata con l’obiettivo di dar vita a vini che siano purissima espressione dei crus di origine. A Quintodecimo oggi si producono tre vini rossi con Aglianico in purezza: il Taurasi Riserva docg Vigna Quintodecimo, il Taurasi Riserva docg Vigna grande Cerzito e l’Irpinia doc Terra D’Eclano. Il sogno di questo grande vino del Sud continua. I L’autore, docente di enologia all’Università Federico II di Napoli, è considerato la massima autorità in materia di Aglianico © RIPRODUZIONE RISERVATA Prezzo: da 12 euro la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 21 SETTEMBRE 2014 48 L’incontro. Mostri sacri IL TERRORE PIÙ GRANDE LO PROVAI A DODICI ANNI GUARDANDO I DIABOLICI QUANDO UN UOMO, SOTT’ACQUA, PARE MORTO E DI COLPO APRE GLI OCCHI: COMPLETAMENTE BIANCHI. MA CHI MAI OGGI SI SPAVENTEREBBE DAVANTI A UNA SCENA COSÌ? È uno degli scrittori più ricchi e prolifici di sempre, uno da un paio di best seller all’anno (l’ultimo è in dirittura d’arrivo) “buttando giù dieci pagine al giorno, Natale escluso”. Lui ammette: “Ho scritto tanto, è vero, ma sempre su cose che conosco”. A cominciare dalla paura. Che però non è solo quella che lui stesso infligge al mondo: “Cinque anni fa per un incidente quasi mortale ho temuto di non poter più riprendere a lavorare. E se Preziose, la Chester’s Mill inchiodata sotto la cupola di vetro in The Dome. Tutti “doppi” di fantasia, sperimentati ricalchi geografici e sociali, ogni volta vetridel meglio e del peggio d’America. Io sono come gli abitanti di quei luoghi. Reoggi un restringimento della re- nagolare, abitudinario, ripetitivo. Dieci pagine al giorno, ogni giorno dell’anno, Natale escluso. Uno-due libri all’anno». Il nuovo, primo di una trilogia in uscita in Italia a fine settembre per Sperling&Kupfer, è Mr Mercedes, storia di uno che tina potrebbe rendermi cieco. progetta una strage «simile a quella della maratona di Boston» chiosa lo scrittore. «La mia immaginazione un po’ tormentata non è conseguenza di traumi o infantili. Sono stato un bambino del tutto normale. E sono un adulto Voglio dire che i veri mostri sono sofferenze in nulla diverso dagli altri: pensi, sposato da quarantasei anni con la stessa donna, Tabitha, e padre di tre giovani impagabili». Non va esattamente a braccetto l’America, che esce spesso malconcia dalle sue pagine: «La guardo dal mio nella realtà. E si chiamano can- con punto di vista di Democratico e con la necessaria distanza critica. Ma l’America è il mio mondo, il paese di cui adoro il diffuso senso della famiglia, e i paesaggi: stringi stringi, rimango uno che viene dalla campagna. Ci sono però anche aspetcro e Alzheimer” ti che detesto e che non smetto di combattere: la circolazione delle armi da fuo- Stephen King M AR I O SER EN EL LI N I PARIGI ACCHÈ PAURA: vampiri, fantasmi, demoni, zombie, lupi mannari, tutte le forze del male calamitate da mezzo secolo nei suoi libri e negli incubi dei suoi lettori non sono niente rispetto all’inquietudine per quell’intrico muscolare che affianca lo scrittore nei suoi spostamenti a Parigi. Per raggiungere lo studio 134 di Radio France il tragitto è breve, ma l’ombra della guardia del corpo è lunga e, in ascensore, larga e montagnosa. È come trovarsi incastrati in una pagina di Stephen King e non sapere come uscirne. Lui è gaio, scodinzolante, pronto all’aneddoto. La sera prima, davanti a duemila spettatori, si è divertito a mettere tutti sull’attenti davanti al brivido: «A me il buio fa un po’ paura. E a voi? Sapete che, secondo uno studio delle compagnie assicurative americane, il cinque per cento della gente dimentica di chiudere la porta di casa? Occhio quando rientrate nel buio della vostra camera. Mentre siete qui, qualcuno si è forse infilato sotto il vostro letto? O nella doccia, cosa assai più frequente secondo le statistiche. A proposito ora che uscite, una volta in macchina, date una sbirciatina al retrovisore…». King gioca. Anche con il persecutore di turno, temporanea versionestampa della micidiale fan di Misery, che lo sta sequestrando non per fargli cambiare finali di bestseller ma per farsi spiegare, lungo i corridoi infiniti alla Overlook, la ricetta: quella d’uno scrittore di sessantasette anni che nell’arco di cinquantatré romanzi e centosessanta racconti (anche sotto pseudonimo: Richard Bachman), dall’esordio con Carrie nel ‘74 all’ultimo Doctor Sleep, si è via via elevato agli occhi di tutti da fabbricante dozzinale di romanzi da stazione o di genere a figura maggiore nella letteratura Usa, con gli invidiabili record di trecento milioni di copie vendute in trentadue lingue e almeno cento adattamenti su piccolo e grande schermo. «Nessun patto con il diavolo. Solo con me stesso. Ho scritto tanto, ma solo su quel che conosco. Le mie storie, anche se fantastiche, nascono dalla realtà minuscola della cittadina in cui abito, anzi, dal mio M I MIEI LIBRI SONO AUTOBIOGRAFICI QUANTO ALLA MIA DIPENDENZA DA ALCOL E DROGA MA NON SONO MAI STATO VIOLENTO E NON HO MAI PICCHIATO I MIEI FIGLI. È SEMPRE L’IMMAGINAZIONE A PREVALERE vicinato, provinciale e pettegolo». Jeans sdruciti, stivali, t-shirt, Stephen King, americano qualunque ha la semplicità sicura di chi non ha nulla da nascondere. Il suo pianeta oscuro, come raccontava già in Autobiografia di un mestiere, si forma ogni volta nella banale luce quotidiana del suo quartiere, assunto a campionario universale: «Lei non conosce Bangor, nordest America, abeti e rocce del Maine? Se ha letto i miei libri la conosce, e molto bene: è la grigia Derry, la città di It, è la Haven di Colorado Kid e Le creature del buio, la Castle Rock di Cujo, La zona morta, Co- co, che ho attaccato in Guns, il temperamento militaresco, la cieca devozione al denaro. Tassatemi, cazzo! si intitolava l’editoriale che scrissi sul Daily Beast due anni fa sollecitando il fisco a una maggiore severità con i Paperoni d’America. Quella volta sì che devo aver fatto davvero paura a qualcuno». Con tutto l’horror in circolazione, nei libri, nei film, nella realtà, è diventato più difficile sfornare situazioni da brivido? «Sì. Quando, ancora giovane, vidi per la prima volta il film di Brian De Palma tratto da Carrie, mi ricordo che alla sequenza finale d’una mano che di colpo esce dalla tomba c’è stato in sala un soprassalto collettivo. Ma poi tanti film hanno copiato quella scena... chi mai oggi ne sarebbe impressionato? Anche nel cinema siamo al riciclaggio continuo, alla catena di montaggio della paura. Abbiamo perso l’innocenza della sorpresa. Il mio più grande terrore lo provai a dodici anni: la sequenza della vasca in I diabolici di Clouzot, dove un uomo, sott’acqua, pare morto e, d’improvviso, apre gli occhi. Occhi completamente bianchi». Ha provato grandi paure anche da adulto? «Ho subìto cinque anni fa un incidente quasi mortale, a pochi passi da casa: ho temuto, per mesi, di non poter più riprendere a scrivere e a vivere. Oggi s’addensano altre ombre: un restringimento della retina che potrebbe portarmi alla cecità. I veri mostri sono nella realtà. Si chiamano cancro, Alzheimer. Sono questi i miei veri terrori: perdere la vista o la memoria, azzerare lo sguardo o il cervello. Libri e film dell’orrore hanno ridotto a metafora le nostre minacce quotidiane, trasponendo in game fantasy le sfide reali che ci aspettano: Alien, per esempio, dove la creatura spaventosa che esce dalle viscere delle vittime è l’incombente mistero che viveva da sempre dentro il nostro corpo, la malattia che non avevamo mai guardato in faccia e ora ci sbava addosso il nostro destino». Nei romanzi di King rivivono spesso i suoi drammi privati. In Shining e in Doctor Sleep l’alcolismo e la droga, da cui si è liberato: «Sì, sono autobiografici quanto alla mia passata dipendenza. Ma non sono mai stato violento, non ho mai picchiato i miei figli. In qualsiasi scritto, anche autobiografico, è sempre l’immaginazione a prevalere». Per la regia di Shining se l’era presa con Stanley Kubrick. Il sequel, Doctor Sleep, è una sua personale rivincita, una riappropriazione? «Trovo straordinari tutti i film di Kubrick, ma Shining iberna il romanzo, che era TROVO STRAORDINARI TUTTI I FILM DI KUBRICK, MA SHINING IBERNA IL ROMANZO: JACK NICHOLSON È PAZZO SIN DALL’INIZIO, PARE APPENA USCITO DA QUALCUNO VOLÒ SUL NIDO DEL CUCULO uno studio di carattere, d’un uomo malato che cerca d’esser forte e fallisce. Nel film, invece, Jack Nicholson è pazzo sin dall’inizio, pare appena uscito da Qualcuno volò sul nido del cuculo. Si sa, un film è come un figlio che si manda a scuola. Il genitore si augura il meglio, ma perde il controllo diretto». L’hanno definita la prima popstar della letteratura Usa, per lo stile ma anche perché è un abile chitarrista. Come interagisce la musica nella sua pratica di scrittore? «La saga di La torre nera è vicina a una playlist, intrisa di cultura pop, gli Stones, ZZ Top… La musica mi accende le immagini, dà pepe alla storia. La torre nera è nata dalla musica: in una sala di cinema, dalla colonna sonora di Ennio Morricone per Il buono, il brutto e il cattivo». Che cosa l’attira del soprannaturale? «Mi diverte, mi piacciono i fantasmi, tutto quel che ci dà la pelle d’oca. Ma la paura non mi basta: il mio proposito è di trasmettere emozioni, stabilire un legame intimo, profondo con il lettore. E, una volta messo in moto un evento particolare, desidero vedere e descrivere “come va a finire”. Che mai succederà se qualcuno scivola nel cervello altrui, come in Shining o in Doctor Sleep? Non è più questione di soprannaturale, ma di osservazione della natura umana. È questo, alla fine, il lavoro di ogni scrittore: non molto lontano dall’immaginazione infantile, ultima oasi di libertà prima dell’integrazione nella routine sociale. Scrittori, cineasti, artisti godono del privilegio di rimanere bambini per tutta la vita: autorizzati a una perpetua ora di ricreazione! Delegati al gioco per conto di quanti non ne hanno più il tempo, la voglia o la possibilità. Per questo supplemento d’infanzia siamo persino superpagati quando chiunque l’accetterebbe gratis». © RIPRODUZIONE RISERVATA
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