A colpi d'ascia narrativa Copyright © Elena Tomaini, gennaio 2013 La presente opera, per volontà dell'editore, è rilasciata nei termini della licenza Creative Commons Attribuzione – Non Commerciale Condividi Allo Stesso Modo 3.0 Italia, la cui versione integrale e utile ai fini legali è disponibile alla pagina Internet http://creativecommons.org/licenses/byncsa / 3.0 / it / legalcode Contatti: bebertedizioni.wordpress.com twitter.com/bebertedizioni facebook.com/bebertedizioni ISBN 9788897967019 Seconda edizione, luglio 2013 bébert edizioni, via Piero Gobetti 3, Bologna 40129 Elena Tomaini Maschere respiratorie A mio nonno ROSALY KREN La mia artista preferita, Rosaly Kren, non era la preferita di nessuno. Faceva cose troppo in centrate su di sé perché qualcuno potesse ri cavarne concetti universali, ma alcuni piccoli teatri la invitavano ancora. La sua ultima per formance decise di non pubblicizzarla come si deve, di tenerla in un teatro abbandonato da molto tempo, che di artistico manteneva solo le forme avanguardiste delle tane dei topi, e di musicale il cigolio delle travi. Eravamo presenti solo io, qualche passante incuriosito e qualche barbone. Fuori era inver no, lo spettacolo si chiamava Uso e la foto in locandina inquadrava l'angolo di un tavolo più all'ombra che alla luce. Lo stesso tavolo era al centro del palco. Sopra c'erano vari oggetti: penne, una bottiglia di vino, piume, corde, ac cendini, collane, aghi, una spazzola, una pisto la e dei timbri. Rosaly entrò da sinistra e, dopo un inchino non ricambiato da alcun applauso, andò a se dersi sulla poltrona rossa dall'altro lato. Il pun to era: usare su di lei qualsiasi cosa scegliessi mo dall'ammasso di oggetti, o non scegliere nul la, e usare le mani, le labbra, i piedi. Lei non a vrebbe detto niente, avrebbe subito tutto, a vrebbe fatto quello che volevamo. Io ero im pressionato perché era un'esibizione geniale: non ci voleva alcun talento, ma tutti i coraggi del mondo. Il primo ad avvicinarsi fu un tizio che vedevo spesso in giro in città, era famoso perché era sempre da solo, sembrava immune da ogni passione. Passò in rassegna gli oggetti e scelse una piuma. Gliela passò sul viso, sul 9 collo, sulle braccia, con una dolcezza infinita che meritò un incrocio di sguardi, un incre sparsi di labbra. Continuò per dieci minuti e poi tornò a posto dopo averle baciato la mano. In seguito ci fu uno studente che le ordinò di scriversi addosso quello che le dettava, ed e rano più che altro insulti, ma anche il nome di una ragazza e dei nomi di fiori, e di nuovo in sulti. Lei eseguì. Poi mi alzo io, salendo i tre scalini guardo fisso la mia diva che si sta leggendo le braccia e mi guarda solo dopo, quando gli sono da vanti con la pistola in mano. Le dico: «Spara ti». Ha dei grandi occhi nocciola, più grandi di come avessi immaginato guardandoli in foto. Mi fissano per un intero minuto e io non mi muovo, il nostro è uno scambio inespressivo. Dietro le quinte è pieno di gente, ma nessuno interviene, ne vale la credibilità dell'artista. Le dico: «Sono un tuo grande fan le dico. Sparati» Dal pubblico sale un borbottio. È quel genere 10 di suspance che si trova davanti a un film. Tut to quello che è dietro uno schermo, sopra un palco diventa finzione, e sono scuse bellissime per levarci ogni responsabilità. Forse anche per me, davanti, c'era una pellicola immortale. Sen za staccarmi gli occhi di dosso, prese la pistola in mano. La rigirò verso il suo stomaco e io sussultai. Mi chiese: «Dove?» Mi stava dando l'opportunità di tornare in dietro. Mi stava dando l'opportunità di dire in aria, fare un applauso e tornare buono al mio posto. Nella mia testa, mi stavo preparando a una delusione. Le feci una carezza. La mia ar tista aveva i capelli leggermente unti più belli del mondo. La stavo per fare arrivare in vetta. «Nella bocca» Doveva calcolarlo che qualcuno glielo avreb be chiesto. Nella mia mente era quello che de siderava. Lei sapeva esattamente come colpir mi con le sue opere, cosa mi sarebbe piaciuto. Ormai era in sintonia con le mie voglie, quindi 11 doveva valere anche l'opposto. Neanche mi accorsi che si era messa a ridere, poi a sorri dere, poi a piangere. Poi perdeva espressioni, riducendole alle ondate di sangue che irrora vano i campi del suo sottosuolo facciale. Era parte dell'opera a cui non potevo rinunciare. Tutta questa suspance carnale. Il cuore prese a dar voce alle extrasistole, e si trasformò in urla e grida quando lei prese la pistola e se la ficcò tra le labbra. Di sicuro fui io ad accelerare il processo, deglutendo quantità di saliva sem pre più densa. Rosaly Kren era stramazzata al suolo, con un foro che le usciva da dietro la testa. I capelli sembravano farci un piccolo sipario. Di per sé, il corpo era caduto nella forma più brutta e gof fa del mondo: le mani rattrappite, le braccia messe a mo' di tirannosauro, l'espressione spa lancata di chi muore soffocato da un sacchetto di plastica, il culo per aria, le gambe poggia vano le ginocchia per terra e poi erano scompo ste. Sembrava un feto ingrandito, riempito di 12 mazzate da chi non aveva assolutamente senso del gusto. Ma quello che più mi fece incazzare fu quella fottuta espressione da soffocato. Po teva morire con più impegno, da lei non me lo sarei mai aspettato una morte di così poco va lore. Ma non doveva essere solo la mia impres sione, perché anche dal pubblico nessuno ap plaudì, e quando mi voltai tutti avevano l'aria un po' perplessa, con il labbro superiore tirato su da un lato. Molti stavano riaccendendo il te lefonino. Capii che in qualche modo avevo smasche rato un mito, risparmiato alla gente di perdere tempo dietro una buffona a quattro zampe, ri sparmiato loro i soldi per il caffè nell'interval lo. Vedendo che molti si stavano mettendo le sciarpe, dissi «Andiamocene tutti a casa». E scesi dal palco, dirigendomi verso l'uscita. 13 CHIAROSCURALE Ogni volta che compilo questo genere di li sta mi ritrovo a seguire le rughe che ha il legno del mio tavolo, domandando se davvero questa sia la cosa giusta da fare. Se i miei avi l'avreb bero fatta. Se il tremore della mano smetterà prima che dimentichi tutti i nomi dei farmaci. Il tavolo è messo in una posizione strana, è esattamente davanti alla porta. Un po' come le casse dei negozi. L'ho messo lì così posso ve dere l'ombra di qualcuno che si avvicina, na scondere il mio foglietto prezioso con una mossa degna di superman ed improvvisare una attività normale. Tipo leggere, ascoltare musi ca, pensare al calcio. Insomma le cose che fan no tutti i ragazzi di vent'anni. Non che venga a trovarmi tanta gente ultimamente, con mia madre chissà dove e papà a bere vino in una cantina fredda con qualche nuova moglie di una sera. Per un po' siamo stati con lui, ma quando sono diventato maggiorenne ci ha piaz zato davanti alla vecchia casa dei nonni con due sacchi pieni della nostra roba e se n'è an dato. A tutti gli altri parenti ha detto che è sta ta una decisione mia, così nessuno si è mai preoccupato più di tanto. Io e mia sorella, che all'epoca aveva quattro anni, pensava che correre dietro a una mac china che se ne stava andando sarebbe servito a qualcosa. Quello che capii in tre secondi è che quella sarebbe stata la nostra vita, che non ci sarebbe stato altro, che ero appena diventato genitore, che il travaglio non era poi così do loroso, bastava fissare un punto davanti a te, 16 anche se era meglio se mi concentravo sul l'amplificare tutti i miei respiri, battiti, ripro duzioni cellulari per non sentire lei che urlava. Aspettarla tornare dalla sua corsetta sganghe rata di riconquista e prenderla per mano. Ac cucciarsi davanti a lei, e non dire cazzate. «Papà è uno stronzo le ho detto. Hai visto come ci ha lasciati senza nemmeno salire in casa a prendere un tè?» È questo che funziona, a quell'età. A quel l'età le cose sono invertite. I problemi grandi non esistono, non sono compresi. Ma se mi di struggi il castello di sabbia sei morto. Questo è quello che le ho detto guardandola negli occhi, mentre il suo cervello subiva un trauma infantile e io cercavo di scorgere tra l'i ride la segnalazione in rosso di qualche preci so punto danneggiato dall'abbandono, in mo do da sapere dove agire. Ma il mare rimane blu anche se in profondità ci sono quaranta cada veri di balene squartate e io penso alle pro porzioni, alla matematica. 17 La prendo e la stringo talmente forte da far la respirare male. Se riesco a superare l'effetto della lontananza con l'effetto della vicinanza, magari riequilibrio le cose. O magari avrà il trauma da affetto ossessivo. Che a dirsi sembra carino. La prima volta che ebbe una cristi isterica a veva appena compiuto cinque anni. La mam ma era tornata, ci aveva portato dei regali. A me una maglia con scritto Sono il maschietto di casa, a mia sorella delle unghie finte. A distan za di mesi ora è di là che tenta di mettergliele, e mia sorella risponde sbraitando, sbattendo le mani dappertutto, dicendo che è una cosa stu pida e che non le piace il colore. Io sono steso a letto a fumare una sigaretta, guardavo la mac chia di umidità proprio sopra la mia testa e le dissi che stavo pensando a quanto cavolo di fi nezza ha già a quell'età per non sbattere in fac cia a mia madre l'abbandono a cui è costretta ogni volta. Sopra la mia testa, dico sì, proprio appoggia 18 to alla mia fronte, in questo momento di confi denza tra me e il deterioramento della casa c'è il mio cellulare che vibra da circa dieci minuti. Diana, Julia, Chiara. Incredibile quante perso ne siano rese uguali dalla vibrazione del cellu lare. La vibrazione è la vera democrazia. E la democrazia mi sta vibrando sulla fronte da mezz'ora. «Cristo Santo!» dice mia madre sbattendo la porta della mia stanza. Una cosa che sa fare è non capire la gravità delle cose che fa. Il mio momento di intimità con la macchia sul soffit to ora è rovinato. Mi prendo il cellulare dalla fronte e lo stringo. Prima di voltarmi verso mia madre me lo faccio velocemente passare da vanti agli occhi. È il turno di Nora. Nora non mi chiama spesso. «Senti, come cazzo cresci quella bambina. Neanche ascolta sua madre!» Fa due passi e barcolla, si sistema i boccoli biondi e con l'altra mano tocca la maglietta che mi ha regalato mesi fa, rigorosamente buttata 19 a caso sul comodino. Liscia il suo tailleur ce leste e si siede sul mio letto e avvicinando le ciglia finte alla mia faccia: «Devo andarmene per qualche settimana. Ti conviene portarla dallo psichiatra o finirà per ammazzarti» E io stringo forte tra le mani i segni di vita di Nora. La prima fase da passare per perdere tutti i sentimenti è circondarsi di persone che ne hanno troppi. Mia madre se ne va sbatten do la porta e io rispondo al cellulare. Nora dice: «Finalmente! Mi stavo preoccupando! Va tut to bene?» Premo troppo il telefono all'orecchio, così la sua voce mi arriva come se la sua bocca fosse imbavagliata nel cellofan. Le conchiglie ti fan no sentire il mare, ma probabilmente la voce di una sirena avrebbe lo stesso suono. Io rispon do «Arrivo tra mezz'ora». E metto giù. Mi alzo e peso cento chili. Ho lasciato una sindone di sudore e pieghe schiacciate sulle len 20 zuola e forse mi lascerò dietro una scia invisi bile di sudore e pieghe schiacciate per tutto il percorso che farò. Appoggio una spalla sul muro vicino alla porta aperta della stanza di mia sorella e quello che vedo dallo spiraglio che mi sono concesso è la testiera del letto gial la, la sua manina sul cuscino color lavanda e il comodino con un esercito di scatole e scatoline di cui fa collezione. Sono tutte cose che trova in giro per strada, in mezzo alle siepi. Nemme no uno di quei covi di batteri è stato comprato. O lavato. Ogni volta che perde un dentino, io le nascondo una monetina dentro una qualsiasi delle scatole che ha in camera. E lei impazzi sce, ci impiega ore, a volte non mangia per cer care la scatola giusta. Un vero spettacolo da go dersi vicino a lei. Ogni scatola sbagliata è pro va del tuo impegno. Ogni volta che tua sorella ti implora di dirle dov'è, è prova del tuo im pegno. E ora la ascolto mentre ancora singhiozza, reduce da una nuova ferita, da un nuovo trau 21 ma, da una nuova cosa da grandi e penso che dovrei dedicarle tutto il mio amore. Tutto. Non tenendolo né per me né per la Nora di turno. Devo sacrificare. La prima regola per perdere tutti i sentimenti verso il mondo è circondarsi di qualcuno che ne ha troppi. Mia sorella, l'u nica che potrei ascoltare per ore avere troppi sentimenti. Troppe delusioni. Troppe tragedie da bambine. L'unica che con i suoi sogni in franti può anestetizzare me verso gli altri ed elevarsi a mia unica irraggiungibile musa. L'u nica che mi interessi amare e deludere. Quello che mi ci vuole ora è una bella botta di amarezza prima del mio appuntamento con Nora. Un minimo di felicità regalato ad altri sarebbe un minimo di felicità rubata a mia so rella. Così calcolo lo spazio che intercorre tra un suo singhiozzo e un altro, cerco il punto e satto in cui inserirmi e, sempre rimanendo fuori dalla stanza, dico che la bambola che a veva lasciato in giardino è stata sbranata da un cane randagio. I brandelli del suo vestitino, ne 22 ho visti un po' tra le rose e i narcisi, ma la fac cia è completamente masticata. Il cadavere è irriconoscibile. Le dico proprio così: il cadavere è irricono scibile. E lei si lascia un po' di silenzio, giusto un pochino, per realizzare che il suo mondo è finito ancora di più adesso. Che la sua vita si è accorciata degli stessi anni che ha già vissuto, resi adesso inutili, uno spreco di affetto, e sbot ta in un urlo che nella mia testa suona come una nuova melodia, virtuosismi melodici. La ascolto per due minuti con gli occhi chiusi, il sorriso accennato e senza saperlo mi lecco i baf fi. Quello che dimentico di dirle è che quella bambola l'ho buttata io al cane. Adoro mia sorella, ora ancora di più. Ciò che non adoro è il mondo esterno, che per le pros sime due ore sarà Nora. Mi allontano ed esco. Da fuori si sentono an cora le sue grida. Da dentro la macchina si sen tono ancora le sue grida. Adoro mia sorella. Più mi allontano da casa più sento che qual 23 che cosa di invisibile in me, quasi uno strato di pelle, rimane attaccato ad un amo lontano, o a delle ditina arcuate sopra cuscini color lavan da, e piano si strappa e rimane accasciato co me un sacco ai bordi della strada. Un cappotto che mi aspetterà e che mi teneva più caldo. E ora sono una persona fredda, glaciale. Nora abita fuori dal centro, in una casetta a schiera con i muri rossi. Ha un cane piccolis simo e cieco che abbaia per ipotesi ed io oggi sono un'ipotesi. Lo guardo sbandare in cerca di una direzione, mentre cerca di ricordarsi do ve sono i cespugli e le aiuole per venire da me e mordermi al meglio. Io cerco di non muover mi per non deludere i suoi sforzi. Preparo un piede in avanti e mi pregusto il morso, poi una voce dal balcone lo chiama e poi una voce dal balcone mi chiama. «Smettila!» Ed è come svegliarsi da un so gno. Alzo lo sguardo e c'è lei con una vestaglia azzurra, con i capelli lunghissimi castani e spet tinati e la scolatura troppo ampia per le sue 24 piccole punture di zanzara. Dice: «Ciao! Sali!» E sfoggia un sorrisone. Sorpasso il cane che si è messo a cuccia e fa finta di non sentirmi, fa finta di non avermi odiato due minuti fa e io faccio finta di non averlo voluto addosso. Se solo mi avesse morso sarebbe stato più facile concentrarsi su qualcos'altro durante ridicoli rituali di corteggiamento, capite? Il suo morso sarebbe stato una membrana impermeabile per tutti gli attacchi del mondo esterno o le carez ze. Capite? Un infortunio per non seguire la le zione. Quando Nora apre la porta, mi accoglie una folata di profumo alla vaniglia e la sua vesta glia arriva a metà coscia. E lei con le ginocchia ci sa fare, con i piedi nudi ci sa fare. In questa particolare ora della sera le sue lab bra sembrano avere diciotto anni. È struccata e tende le labbra di diciott'anni che mi dicono: «Ti aspettavo» Faccio in tempo a vedere la sua lingua rosa che batte contro il palato, i suoi dentini piccoli 25 e bianchi che fanno da sipario. Danza fino al divano e mi parla delle sue storie. Io mi siedo e lei è bella, bellissima. Ma non bella come una fidanzata, è bella come un quadro, un frutto, una composizione floreale, la torre di Pisa, nien te di realmente amabile. Nora con le gambe ci sa fare, le accavalla nel miglior modo possibile e i miei occhi sono un tunnel che la percorre. Nora con le mani ci sa fare ma è come se ora mi toccasse un pezzo di carne con la pelle attaccata. Nora con le labbra ci sa fare ma è come quando da bambino baci lo specchio pensando che le labbra altrui sa ranno vetro riflettente. È un vetro che poi scen de nel collo, che poi vuole spogliarmi. Io sono lì seduto, fermo, e fisso dritto da vanti a me. C'è un mobiletto con sopra delle cornici e delle foto. Non conosco nessuno di quei signori. In una c'è anche il cane, quando ancora ci vedeva. Lo so perché dalla foto mi guarda dritto negli occhi. Mentre Nora con i fianchi nudi ci sa fare, io le chiedo come ha 26 fatto a perdere la vista. Quando lei risponde «Sta zitto!», a me viene l'ansia. D'un tratto ho la capacità drammatica di mia sorella, penso come lei, penso come una bam bina disastrata. Vedo come una bambina disa strata. Quando non si vuole una cosa, da bam bini, ma anche quando si è un pochino più grandi, si diventa mistici, si cercano segnali a strali che ti impediscono di farla. Tutto diventa giudice, tutto diventa una persona che borbot ta, un'ammonizione. Il cuore ti pulsa in gola come quando hai detto una bugia e i tuoi co minciano ad accorgersene. Il cane nella foto, lui diventa più grande e con i colori più saturi. Prende il posto di tutte le cose sullo sfondo, oscura i colori con la sua grande ombra gigante. È alle spalle di Nora, che anche con la lingua ci sa fare, e le oscura i capelli. Lei porta con sé una scia di afa e io mi alzo di colpo. Quando sudi freddo, le gocce scendono più lente e ti fanno addirittura male, hanno ruote 27 chiodate. Più respiro forte, più tutto torna a suo posto. Il blu lascia il posto ad altre possi bilità di colori. Tutto torna al suo posto, anche la capacità di movimento dei miei occhi. Vedo Nora sedu ta a terra. Il mio gesto improvviso ha evidente mente cambiato la confidenza tra noi. La confi denza non è a senso unico, può tornare indie tro, puoi diventare estraneo in maniera imme diata se sbagli una mossa. Lei ora è nuda, rannicchiata attorno alle sue ginocchia e con le mani si copre quanto può. Sta tremando, dice: «Vattene» Nella mia mente, che è ancora da bambino, tutto suona come quando la professoressa ti da il permesso di uscire prima da scuola. Sa di li bertà. Di lei non può più fare niente, ho scon fitto tutto quanto. Mi precipito verso la porta senza neanche salutarla. Le scale che scendo sono gli arcoba leni che portano i cartoni animati in cielo quan 28 do sono felici. La mia euforia passa attraverso i cuori che spezzo senza accorgermene, mentre il mio si rinforza. Dimostro la mia capacità di amare qualcuno solo quando porto qualcun al tro ad odiarmi. Sono contento di averti deluso Nora, richiamami. Sorpasso il cane cieco che è steso sull'erba, a stare steso sull'erba non tenta più di mordermi e io sento tra le vene una sorta di droga che mi rende diverso da quando sono arrivato. Se ca dessi mi sbuccerei il ginocchio. Quando sei grande non ti sbucci più le ginocchia. E proba bilmente riderei un sacco. Salgo in macchina, brucio gli stop, le precedenze, i semafori, bru cio la città. Sto sconfiggendo i draghi che im prigionano la principessa. Ogni chilometro è un drago che si inchina, ogni drago inchinato è la mia voce che dice “Non ce n'è bisogno, è nor male che vada così”. Allo stesso punto, lo strato di pelle invisibi le che mi si era tolto di dosso corre, entra dal finestrino e mi riavvolge con il migliore salto 29 di danza. Perdo il respiro. Per un secondo mi annega in un'atmosfera di ossigeno rado, di montagne chilometriche. Sono posseduto di nuovo da me. Perdo il respiro. La prima cosa che faccio dopo essere rien trato in casa è infilare due dita in gola a mia sorella, che si è mangiata le unghie finte per disperazione. Tutte quante. Mentre vomita den tro il water le tolgo i capelli dalla faccia senza particolare cura, tralasciandone alcune ciocche che il sudore le incolla vicino alla bocca. Una mia mano basta per coprirle tutta la pancia e tenerla dritta o spostarla per vedere le varie an golazioni di un quadro che un artista con un minimo di intelligenza avrebbe già dipinto. La luce è perfetta, lei è perfetta. Non le vedo gli occhi, vedo le guance arrossate. Ha cinque anni, ma quel colore ce l'hanno solo gli ubria coni di settanta. Ha cinque anni, ma lo sforzo che fanno questi addominali che ho contro la mano destra è degno di un culturista esperto. Aspetto che stia meglio e la stringo a me. La 30 stringo forte, giusto per guadagnarmi un altro colpo di tosse. Controllo che le ciocche di ca pelli non siano sporche e, dopo aver visto che tutto era andato come previsto, dico: «Stella, sono orgoglioso di te» Concludo con mille inchini di ci penso io. Penso che mostrare ai bambini come si vuo le che diventino da grandi, magari in un dise gno, sia un ottimo metodo di educazione. Così come vedono le principesse belle e sgargianti e le prenderanno ad esempio, così vedranno loro stesse in mezzo a sinfonie di colori pa stello. Prenderanno esempio da loro stesse. Da ranno l'anima per avere quei colori, o quelle storie. Ora ci siamo solo io e la mia scrivania con un foglio e delle matite. Concentrandomi sul verde delle scaglie, disegno prima un grosso serpente con le fauci spalancate. Poi disegno mia sorella rannicchiata a terra dallo spavento ed io in mezzo tra i due, che ficco una lunga spada dritta nel collo del rettile. Con un occhio 31 particolare alla definizione dei vari minerali del burrone, su un foglio ancora più grande disegno mia sorella che ci cade dentro. Ma per fortuna ci sono ancora io: riesco a tenderle la mano e portarla in salvo. Aumento sempre le dimensioni del foglio u nendone prima due, poi tre, poi dieci. Più cre scerà, più i pericoli diventeranno grandi. Il messaggio è: voglio essere protetta da mio fra tello. Temporali giganteschi che la spazzereb bero via se io non la proteggessi con le mie grandi spalle. Orchi enormi che l'avrebbero già cucinata in padella se io non avessi buttato lo ro addosso olio bollente. Onde anomale che l'a vrebbero inghiottita se io non le avessi fatto da scudo con il mio corpo. Nora chiama. Venere chiama. Sonia chiama, Sonia chiama, Sonia chiama. E io calco la mano. Appena penso che le mie opere d'arte siano sufficienti, le sistemo per improvvisare un qualche tipo di presenta zione. Un qualche tipo di svolgimento. Un qual che tipo di via crucis. Mia sorella si è appena 32 svegliata da quella sua brutta avventura con i suppellettili da donna e la vedo zompettare fuori dalla sua stanza, di schiena, a piedi nudi verso la doccia. E io penso che quando ne u scirà sarà bella sveglia. E penso anche che su qualche documenta rio in tv dicevano che le cose viste, studiate, o ascoltate nelle due ore prima di dormire, si ri cordano meglio. Devo agire velocemente, non posso permettere che dopo la doccia faccia l'er rore imperdonabile di uscire in giardino, di fa re quello che vuole. Ogni passo in più verso la libera scelta è un passo in più verso l'indipen denza. Ed è troppo piccola per permettersela. Frugo nel cassetto del vecchio comodino del nonno, in cantina, poi cucino un hamburger e, appena chiude l'acqua e si veste, glielo do in mano e la prego di seguirmi. Le dico che ho una splendida sorpresa per lei. Che sta per ve dere una delle migliori cose che qualcuno le dedicherà mai. Addenta un pezzo di hambur ger e fa una faccia schifata. Le arruffo i capelli 33 e dico di non preoccuparsi, che è solo un con dimento nuovo. La faccio accomodare sulle mie ginocchia e comincio a mostrarle i disegni. Ho venti minuti per sbrigarmi, il Tavor, il nonno ce l'aveva in pastiglie e in gocce, lo pren deva per calmarsi e ne abusava per dormire. Si lamentava che in commercio non ce ne fosse di inalabile. Una volta l'ho provato, sono stato bene, e ho continuato a provarlo. Ora è il mo mento del passaggio, dell'eredità. In quei venti minuti, mia sorella è felicissima. Applaude, sal ta dalla gioia, mi abbraccia fortissimo, studia i minimi dettagli passando anche due o tre volte su qualche tratto difficile. Ride. Mi stringe. Urla di gioia. Sbadiglia. Mi stringe. Urla di gioia. Sbadiglia. Ride. Sbadiglia. Sbadiglia. Sbadi glia. Con il suo collo piegato all'indietro mentre la porto a letto, mi sento davvero un super eroe che l'ha appena salvata da un incendio. Il suo cuoricino che rimbalza più forte dall'emozio ne, sotto la copertina del suo bel vestitino rosa confetto. Sotto la mia più superlativa attenzio 34 ne. La metto a letto e si rannicchia. Ho appena compiuto un'opera fenomenale e mi merito di ricordarla molto molto bene. Così prendo esempio da lei. Tiro fuori una bottiglia di vino rosso, tenuta da un sacco di tempo da parte per qualche oc casione speciale che non accade da molto tem po. Tra la decima e la tredicesima goccia di Ta vor che ci sciolgo dentro, Sonia chiama e io ri spondo. Quattordici gocce. Lei dice Aprimi. E per altre sedici gocce la sento bussare. Per tut to il tempo che ci metto a buttare giù il bic chiere Sonia bussa più forte. La vista comincia già ad offuscarsi e, quando vado ad aprire, la riconosco dagli stessi vestiti di sempre: i jeans strappati rosso scuro troppo grandi toccano per terra coprendole metà scarpa, formando un piccolo strascico dietro i suoi piedi, lei spesso dice che in questo modo è la sposa della stra da; il maglione nero bucato rubato al reparto oversize che le arriva alle ginocchia, lei spesso dice che è per contenere il cuore che le si gon 35 fia di gioia quando si fa una dose. Bazzica in torno al quartiere dove abito. Ogni tanto gira qualche voce su di lei, ma ormai non va nean che tanto di moda. Ha veramente sbarellato ed è pronta a fare qualsiasi cosa per avere dei soldi per una dose, o qualsiasi cosa giusto per fare qualsiasi cosa. Ora come ora è evidentemente sotto l'effetto di qualcosa. I dialoghi si preannunciano brillanti. Mi tengo la testa con una mano, mi gira tutto, le dico: «Fai piano, mia sorella si è appena addor mentata» e lei risponde troppo forte: «Questa cazzo di sorella! Sia ben chiaro – dice. Le mie stronzate posso risparmiarmele» Non è qui per fare conversazione, deve pren dere un treno tra poche ore e le servono soldi ma sa che io non ne ho e comincia a piangere perché dice di dover ancora dormire sotto ai ponti e io non so proprio un cazzo e nessuno sa proprio un cazzo di quello che succede sot to i ponti e continua a piangere. Quello che 36 questa ragazza è: una carica di emozioni arti ficiali per sempre. Il Tavor agisce già sulla mia capacità di equilibrio e per non cadere appog gio le mani alle sue spalle, la vedo ma non la guardo, è un cumulo di contorni sbavati, e lei equivoca. Mi abbraccia stretto stretto. Dice: «Grazie, sapevo che avresti capito» e comin cia a camminare in avanti, stretta a me. E di conseguenza io all'indietro, tentando di tocca re quello che mi aspetta tra un passo, ma il sen so del tatto, quello se ne sta per andare. Sonia continua a camminare con la testa appoggiata alle mie spalle e io non ho la forza per respin gerla. Dice: «Grazie sapevo che potevo contare su di te non ti preoccupare pagherò quello che devo pagare ogni mese o altrimenti troveremo un accordo... so cucinare e non è necessario che dormiamo insieme ma mi farebbe piacere qual che volta. Io posso prendere la stanza di tua so rella e tua sorella la mandiamo per strada tan to se sa camminare sa anche cavarsela» 37 Quello che questa ragazza è: una marea di cose importanti e vitali dette senza punteggia tura. Io non vedo ma sento benissimo, e quello che ha detto l'ho ascoltato benissimo. Mi entra proprio dalle orecchie quel conato di parole che attraverso speciali meccanismi si trasforma in rabbia. Divento tutto dita, tutto mani. Mi volto e spingo lontano Sonia urlandole qualcosa. Lei è strafatta e vola all'indietro. Con il braccio urta la bottiglia di vino e lo spande per terra, ovunque. Ricordate quando da bambini si è piccoli stregoni? Vi è mai capitato di diventarlo anche da grandi, nel dormiveglia, pensare cose spa ventose per salvarvi? Io vedo la macchia allargarsi e nella mia te sta il Tavor amplifica i colori. Li fa diventare color pastello, saturi. Lo stesso colore dei dise gni, lo stesso colore che i disegni avrebbero a vuto con un finale diverso. In quella macchia che si allarga c'è mia sorella che è stata man giata, picchiata, distrutta, macellata da tutte le 38 cose da cui avrei dovuto salvarla. Mi tolgo la maglietta e corro ad accasciarmi sul pavimen to cominciando a strofinare. Sonia si rialza e mi viene vicino stringendo i pugni. La guardo e le dico: «Brutta stronza! Drogata schifosa! Questo è il sangue di mia sorella non lo vedi? Esci im mediatamente!» Poi mi ritrovo i suoi pugni stretti nella fac cia, nel bacino, mi ritrovo tre volte il muro con tro la testa, le sue scarpe contro la schiena, e scoppio a piangere. E forse svengo, ma forse mi addormento. Non so quanto tempo sia passato poi. Un giorno di sicuro. Quello che mi sveglia è un certo prurito al naso. Sono ancora steso nello stesso punto dove Sonia mi ha picchiato. Ab bracciata a me c'è mia sorella, e uno dei suoi riccioli puntano dritti verso la mia narice. Il contrario dei miei disegni. Qui in cucina c'è altra gente mai vista. Una tizia mai vista, stri minzita in un vestito, sta mostrando la boccet 39 ta di Tavor agli agenti, sta facendo fare loro un tour della bottiglia vuota, della macchia sul tappeto, e dice «Povera bambina» mi vede sveglio, mi getta uno sguardo e tira le labbra. Come ha fatto Sonia a diventare così elegan te giusto per chiamare gli assistenti sociali e rovinarmi la vita? Si è abbellita imbruttendo qualcun altro. Dimostra la sua capacità di a mare qualcuno solo portando qualcun altro ad odiarla. Le sue labbra suggeriscono un felice di averti distrutto. Chiamami. Il seguito lo conoscia mo, lo possiamo ben immaginare. Un'ordinanza restrittiva tiene me e mia so rella lontano lontano, e in questa bettola che divido con ignorabili ragazzi mi arrivavano sempre più spesso lettere da questa casafa miglia dove sta crescendo dopo che né nostro padre né nostra madre né nessuno ha voluto saperne. Ad ogni lettera, prima di Disturbi di comportamento, ci sono sempre le parole più 40 gravi e sempre più notevoli. Dicono che la pri ma cosa che ha imparato a fare è stata rubare dall'infermeria benzodiazepine di nascosto, di ventarne dipendente, e farfugliare che le ser vono per vedere in che modo l'avrei protetta. Visto che non funzionava, che io non torna vo, ha cominciato a provarne altri. A collezio narli. Per aiutarla nella collezione, compilo li ste di improvvise malattie genetiche comuni cate da improvvise madri, da cui è sicuramen te colpita e che svilupperà presto, e che io stes so affermo di aver sviluppato. Prendo questi stessi medicinali, scrivo agli assistenti sociali, e ora sto meglio. Poi finisce che io li prenda dav vero. Lei Cresce. Cresce e colleziona anche mine rali, film e racconti sulle malattie mentali degli altri. Ma io penso che ognuno collezioni quel lo che vuole. Delle volte mi mandano foto dei suoi quadri macabri, delle sue sculture maca bre. Mi mandano pezzi di foglio scritti di suo pugno dove scrive, una parola sopra l'altra, O 41 dio ed Amo e poi scrive Tutti. Terrorizza gli altri bambini dicendo a ciascu no che se muore, morirà anche lei. Anche a chi non conosce. La prima regola per perdere tutti i sentimenti è circondarsi di gente che ne ha troppi. E io penso che se fa così è solo perché mi vuole ancora bene. Un mare di bene. Mia sorella ora mi arriva a righe di inchio stro, mia sorella ora mi arriva in riassunti. Non mi scrive mai, però dice a tutti che ha un fra tello di cui è orgogliosa. Per ogni problema che mi descrivono, io disegno una soluzione dove io sono ancora un'opzione. E poi la tengo per conto mio. Il mio compagno di stanza mi ha chiesto per ché non le spedisco tutti i disegni che faccio, e io rispondo che non deve permettersi nem meno di nominarla. I medici le dicono che è malata, ma lei dice sempre molto di più. 42
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