Qui - Bébert Edizioni

A colpi d'ascia
narrativa
Copyright © Elena Tomaini, gennaio 2013
La presente opera, per volontà dell'editore, è rilasciata nei
termini della licenza Creative Commons Attribuzione – Non
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versione integrale e utile ai fini legali è disponibile alla pagina
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ISBN 978­88­97967­01­9
Seconda edizione, luglio 2013
bébert edizioni, via Piero Gobetti 3, Bologna 40129
Elena Tomaini
Maschere respiratorie
A mio nonno
ROSALY KREN
La mia artista preferita, Rosaly Kren, non era
la preferita di nessuno. Faceva cose troppo in­
centrate su di sé perché qualcuno potesse ri­
cavarne concetti universali, ma alcuni piccoli
teatri la invitavano ancora. La sua ultima per­
formance decise di non pubblicizzarla come si
deve, di tenerla in un teatro abbandonato da
molto tempo, che di artistico manteneva solo le
forme avanguardiste delle tane dei topi, e di
musicale il cigolio delle travi.
Eravamo presenti solo io, qualche passante
incuriosito e qualche barbone. Fuori era inver­
no, lo spettacolo si chiamava Uso e la foto in
locandina inquadrava l'angolo di un tavolo più
all'ombra che alla luce. Lo stesso tavolo era al
centro del palco. Sopra c'erano vari oggetti:
penne, una bottiglia di vino, piume, corde, ac­
cendini, collane, aghi, una spazzola, una pisto­
la e dei timbri.
Rosaly entrò da sinistra e, dopo un inchino
non ricambiato da alcun applauso, andò a se­
dersi sulla poltrona rossa dall'altro lato. Il pun­
to era: usare su di lei qualsiasi cosa scegliessi­
mo dall'ammasso di oggetti, o non scegliere nul­
la, e usare le mani, le labbra, i piedi. Lei non a­
vrebbe detto niente, avrebbe subito tutto, a­
vrebbe fatto quello che volevamo. Io ero im­
pressionato perché era un'esibizione geniale:
non ci voleva alcun talento, ma tutti i coraggi
del mondo. Il primo ad avvicinarsi fu un tizio
che vedevo spesso in giro in città, era famoso
perché era sempre da solo, sembrava immune
da ogni passione. Passò in rassegna gli oggetti
e scelse una piuma. Gliela passò sul viso, sul
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collo, sulle braccia, con una dolcezza infinita
che meritò un incrocio di sguardi, un incre­
sparsi di labbra. Continuò per dieci minuti e
poi tornò a posto dopo averle baciato la mano.
In seguito ci fu uno studente che le ordinò di
scriversi addosso quello che le dettava, ed e­
rano più che altro insulti, ma anche il nome di
una ragazza e dei nomi di fiori, e di nuovo in­
sulti. Lei eseguì.
Poi mi alzo io, salendo i tre scalini guardo
fisso la mia diva che si sta leggendo le braccia
e mi guarda solo dopo, quando gli sono da­
vanti con la pistola in mano. Le dico: «Spara­
ti». Ha dei grandi occhi nocciola, più grandi di
come avessi immaginato guardandoli in foto.
Mi fissano per un intero minuto e io non mi
muovo, il nostro è uno scambio inespressivo.
Dietro le quinte è pieno di gente, ma nessuno
interviene, ne vale la credibilità dell'artista. Le
dico:
«Sono un tuo grande fan ­ le dico. ­ Sparati»
Dal pubblico sale un borbottio. È quel genere
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di suspance che si trova davanti a un film. Tut­
to quello che è dietro uno schermo, sopra un
palco diventa finzione, e sono scuse bellissime
per levarci ogni responsabilità. Forse anche per
me, davanti, c'era una pellicola immortale. Sen­
za staccarmi gli occhi di dosso, prese la pistola
in mano. La rigirò verso il suo stomaco e io
sussultai. Mi chiese:
«Dove?»
Mi stava dando l'opportunità di tornare in­
dietro. Mi stava dando l'opportunità di dire in
aria, fare un applauso e tornare buono al mio
posto. Nella mia testa, mi stavo preparando a
una delusione. Le feci una carezza. La mia ar­
tista aveva i capelli leggermente unti più belli
del mondo. La stavo per fare arrivare in vetta.
«Nella bocca»
Doveva calcolarlo che qualcuno glielo avreb­
be chiesto. Nella mia mente era quello che de­
siderava. Lei sapeva esattamente come colpir­
mi con le sue opere, cosa mi sarebbe piaciuto.
Ormai era in sintonia con le mie voglie, quindi
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doveva valere anche l'opposto. Neanche mi
accorsi che si era messa a ridere, poi a sorri­
dere, poi a piangere. Poi perdeva espressioni,
riducendole alle ondate di sangue che irrora­
vano i campi del suo sottosuolo facciale. Era
parte dell'opera a cui non potevo rinunciare.
Tutta questa suspance carnale. Il cuore prese a
dar voce alle extrasistole, e si trasformò in urla
e grida quando lei prese la pistola e se la ficcò
tra le labbra. Di sicuro fui io ad accelerare il
processo, deglutendo quantità di saliva sem­
pre più densa.
Rosaly Kren era stramazzata al suolo, con un
foro che le usciva da dietro la testa. I capelli
sembravano farci un piccolo sipario. Di per sé,
il corpo era caduto nella forma più brutta e gof­
fa del mondo: le mani rattrappite, le braccia
messe a mo' di tirannosauro, l'espressione spa­
lancata di chi muore soffocato da un sacchetto
di plastica, il culo per aria, le gambe poggia­
vano le ginocchia per terra e poi erano scompo­
ste. Sembrava un feto ingrandito, riempito di
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mazzate da chi non aveva assolutamente senso
del gusto. Ma quello che più mi fece incazzare
fu quella fottuta espressione da soffocato. Po­
teva morire con più impegno, da lei non me lo
sarei mai aspettato una morte di così poco va­
lore. Ma non doveva essere solo la mia impres­
sione, perché anche dal pubblico nessuno ap­
plaudì, e quando mi voltai tutti avevano l'aria
un po' perplessa, con il labbro superiore tirato
su da un lato. Molti stavano riaccendendo il te­
lefonino.
Capii che in qualche modo avevo smasche­
rato un mito, risparmiato alla gente di perdere
tempo dietro una buffona a quattro zampe, ri­
sparmiato loro i soldi per il caffè nell'interval­
lo. Vedendo che molti si stavano mettendo le
sciarpe, dissi «Andiamocene tutti a casa». E
scesi dal palco, dirigendomi verso l'uscita.
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CHIAROSCURALE
Ogni volta che compilo questo genere di li­
sta mi ritrovo a seguire le rughe che ha il legno
del mio tavolo, domandando se davvero questa
sia la cosa giusta da fare. Se i miei avi l'avreb­
bero fatta. Se il tremore della mano smetterà
prima che dimentichi tutti i nomi dei farmaci.
Il tavolo è messo in una posizione strana, è
esattamente davanti alla porta. Un po' come le
casse dei negozi. L'ho messo lì così posso ve­
dere l'ombra di qualcuno che si avvicina, na­
scondere il mio foglietto prezioso con una
mossa degna di superman ed improvvisare una
attività normale. Tipo leggere, ascoltare musi­
ca, pensare al calcio. Insomma le cose che fan­
no tutti i ragazzi di vent'anni. Non che venga a
trovarmi tanta gente ultimamente, con mia
madre chissà dove e papà a bere vino in una
cantina fredda con qualche nuova moglie di
una sera. Per un po' siamo stati con lui, ma
quando sono diventato maggiorenne ci ha piaz­
zato davanti alla vecchia casa dei nonni con
due sacchi pieni della nostra roba e se n'è an­
dato. A tutti gli altri parenti ha detto che è sta­
ta una decisione mia, così nessuno si è mai
preoccupato più di tanto.
Io e mia sorella, che all'epoca aveva quattro
anni, pensava che correre dietro a una mac­
china che se ne stava andando sarebbe servito
a qualcosa. Quello che capii in tre secondi è che
quella sarebbe stata la nostra vita, che non ci
sarebbe stato altro, che ero appena diventato
genitore, che il travaglio non era poi così do­
loroso, bastava fissare un punto davanti a te,
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anche se era meglio se mi concentravo sul­
l'amplificare tutti i miei respiri, battiti, ripro­
duzioni cellulari per non sentire lei che urlava.
Aspettarla tornare dalla sua corsetta sganghe­
rata di riconquista e prenderla per mano. Ac­
cucciarsi davanti a lei, e non dire cazzate.
«Papà è uno stronzo ­ le ho detto. ­ Hai visto
come ci ha lasciati senza nemmeno salire in
casa a prendere un tè?»
È questo che funziona, a quell'età. A quel­
l'età le cose sono invertite. I problemi grandi
non esistono, non sono compresi. Ma se mi di­
struggi il castello di sabbia sei morto.
Questo è quello che le ho detto guardandola
negli occhi, mentre il suo cervello subiva un
trauma infantile e io cercavo di scorgere tra l'i­
ride la segnalazione in rosso di qualche preci­
so punto danneggiato dall'abbandono, in mo­
do da sapere dove agire. Ma il mare rimane blu
anche se in profondità ci sono quaranta cada­
veri di balene squartate e io penso alle pro­
porzioni, alla matematica.
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La prendo e la stringo talmente forte da far­
la respirare male. Se riesco a superare l'effetto
della lontananza con l'effetto della vicinanza,
magari riequilibrio le cose. O magari avrà il
trauma da affetto ossessivo. Che a dirsi sembra
carino.
La prima volta che ebbe una cristi isterica a­
veva appena compiuto cinque anni. La mam­
ma era tornata, ci aveva portato dei regali. A
me una maglia con scritto Sono il maschietto di
casa, a mia sorella delle unghie finte. A distan­
za di mesi ora è di là che tenta di mettergliele,
e mia sorella risponde sbraitando, sbattendo le
mani dappertutto, dicendo che è una cosa stu­
pida e che non le piace il colore. Io sono steso
a letto a fumare una sigaretta, guardavo la mac­
chia di umidità proprio sopra la mia testa e le
dissi che stavo pensando a quanto cavolo di fi­
nezza ha già a quell'età per non sbattere in fac­
cia a mia madre l'abbandono a cui è costretta
ogni volta.
Sopra la mia testa, dico sì, proprio appoggia­
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to alla mia fronte, in questo momento di confi­
denza tra me e il deterioramento della casa c'è
il mio cellulare che vibra da circa dieci minuti.
Diana, Julia, Chiara. Incredibile quante perso­
ne siano rese uguali dalla vibrazione del cellu­
lare. La vibrazione è la vera democrazia. E la
democrazia mi sta vibrando sulla fronte da
mezz'ora.
«Cristo Santo!» dice mia madre sbattendo la
porta della mia stanza. Una cosa che sa fare è
non capire la gravità delle cose che fa. Il mio
momento di intimità con la macchia sul soffit­
to ora è rovinato. Mi prendo il cellulare dalla
fronte e lo stringo. Prima di voltarmi verso mia
madre me lo faccio velocemente passare da­
vanti agli occhi. È il turno di Nora. Nora non
mi chiama spesso.
«Senti, come cazzo cresci quella bambina.
Neanche ascolta sua madre!»
Fa due passi e barcolla, si sistema i boccoli
biondi e con l'altra mano tocca la maglietta che
mi ha regalato mesi fa, rigorosamente buttata
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a caso sul comodino. Liscia il suo tailleur ce­
leste e si siede sul mio letto e avvicinando le
ciglia finte alla mia faccia:
«Devo andarmene per qualche settimana. Ti
conviene portarla dallo psichiatra o finirà per
ammazzarti»
E io stringo forte tra le mani i segni di vita
di Nora. La prima fase da passare per perdere
tutti i sentimenti è circondarsi di persone che
ne hanno troppi. Mia madre se ne va sbatten­
do la porta e io rispondo al cellulare.
Nora dice:
«Finalmente! Mi stavo preoccupando! Va tut­
to bene?»
Premo troppo il telefono all'orecchio, così la
sua voce mi arriva come se la sua bocca fosse
imbavagliata nel cellofan. Le conchiglie ti fan­
no sentire il mare, ma probabilmente la voce di
una sirena avrebbe lo stesso suono. Io rispon­
do «Arrivo tra mezz'ora». E metto giù.
Mi alzo e peso cento chili. Ho lasciato una
sindone di sudore e pieghe schiacciate sulle len­
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zuola e forse mi lascerò dietro una scia invisi­
bile di sudore e pieghe schiacciate per tutto il
percorso che farò. Appoggio una spalla sul
muro vicino alla porta aperta della stanza di
mia sorella e quello che vedo dallo spiraglio
che mi sono concesso è la testiera del letto gial­
la, la sua manina sul cuscino color lavanda e il
comodino con un esercito di scatole e scatoline
di cui fa collezione. Sono tutte cose che trova
in giro per strada, in mezzo alle siepi. Nemme­
no uno di quei covi di batteri è stato comprato.
O lavato. Ogni volta che perde un dentino, io le
nascondo una monetina dentro una qualsiasi
delle scatole che ha in camera. E lei impazzi­
sce, ci impiega ore, a volte non mangia per cer­
care la scatola giusta. Un vero spettacolo da go­
dersi vicino a lei. Ogni scatola sbagliata è pro­
va del tuo impegno. Ogni volta che tua sorella
ti implora di dirle dov'è, è prova del tuo im­
pegno.
E ora la ascolto mentre ancora singhiozza,
reduce da una nuova ferita, da un nuovo trau­
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ma, da una nuova cosa da grandi e penso che
dovrei dedicarle tutto il mio amore. Tutto. Non
tenendolo né per me né per la Nora di turno.
Devo sacrificare. La prima regola per perdere
tutti i sentimenti verso il mondo è circondarsi
di qualcuno che ne ha troppi. Mia sorella, l'u­
nica che potrei ascoltare per ore avere troppi
sentimenti. Troppe delusioni. Troppe tragedie
da bambine. L'unica che con i suoi sogni in­
franti può anestetizzare me verso gli altri ed
elevarsi a mia unica irraggiungibile musa. L'u­
nica che mi interessi amare e deludere.
Quello che mi ci vuole ora è una bella botta
di amarezza prima del mio appuntamento con
Nora. Un minimo di felicità regalato ad altri
sarebbe un minimo di felicità rubata a mia so­
rella. Così calcolo lo spazio che intercorre tra
un suo singhiozzo e un altro, cerco il punto e­
satto in cui inserirmi e, sempre rimanendo
fuori dalla stanza, dico che la bambola che a­
veva lasciato in giardino è stata sbranata da un
cane randagio. I brandelli del suo vestitino, ne
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ho visti un po' tra le rose e i narcisi, ma la fac­
cia è completamente masticata. Il cadavere è
irriconoscibile.
Le dico proprio così: il cadavere è irricono­
scibile. E lei si lascia un po' di silenzio, giusto
un pochino, per realizzare che il suo mondo è
finito ancora di più adesso. Che la sua vita si è
accorciata degli stessi anni che ha già vissuto,
resi adesso inutili, uno spreco di affetto, e sbot­
ta in un urlo che nella mia testa suona come
una nuova melodia, virtuosismi melodici. La
ascolto per due minuti con gli occhi chiusi, il
sorriso accennato e senza saperlo mi lecco i baf­
fi. Quello che dimentico di dirle è che quella
bambola l'ho buttata io al cane.
Adoro mia sorella, ora ancora di più. Ciò che
non adoro è il mondo esterno, che per le pros­
sime due ore sarà Nora.
Mi allontano ed esco. Da fuori si sentono an­
cora le sue grida. Da dentro la macchina si sen­
tono ancora le sue grida. Adoro mia sorella.
Più mi allontano da casa più sento che qual­
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che cosa di invisibile in me, quasi uno strato di
pelle, rimane attaccato ad un amo lontano, o a
delle ditina arcuate sopra cuscini color lavan­
da, e piano si strappa e rimane accasciato co­
me un sacco ai bordi della strada. Un cappotto
che mi aspetterà e che mi teneva più caldo. E
ora sono una persona fredda, glaciale.
Nora abita fuori dal centro, in una casetta a
schiera con i muri rossi. Ha un cane piccolis­
simo e cieco che abbaia per ipotesi ed io oggi
sono un'ipotesi. Lo guardo sbandare in cerca
di una direzione, mentre cerca di ricordarsi do­
ve sono i cespugli e le aiuole per venire da me
e mordermi al meglio. Io cerco di non muover­
mi per non deludere i suoi sforzi. Preparo un
piede in avanti e mi pregusto il morso, poi una
voce dal balcone lo chiama e poi una voce dal
balcone mi chiama.
«Smettila!» Ed è come svegliarsi da un so­
gno. Alzo lo sguardo e c'è lei con una vestaglia
azzurra, con i capelli lunghissimi castani e spet­
tinati e la scolatura troppo ampia per le sue
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piccole punture di zanzara. Dice: «Ciao! Sali!»
E sfoggia un sorrisone. Sorpasso il cane che
si è messo a cuccia e fa finta di non sentirmi,
fa finta di non avermi odiato due minuti fa e
io faccio finta di non averlo voluto addosso. Se
solo mi avesse morso sarebbe stato più facile
concentrarsi su qualcos'altro durante ridicoli
rituali di corteggiamento, capite? Il suo morso
sarebbe stato una membrana impermeabile per
tutti gli attacchi del mondo esterno o le carez­
ze. Capite? Un infortunio per non seguire la le­
zione.
Quando Nora apre la porta, mi accoglie una
folata di profumo alla vaniglia e la sua vesta­
glia arriva a metà coscia. E lei con le ginocchia
ci sa fare, con i piedi nudi ci sa fare.
In questa particolare ora della sera le sue lab­
bra sembrano avere diciotto anni. È struccata e
tende le labbra di diciott'anni che mi dicono:
«Ti aspettavo»
Faccio in tempo a vedere la sua lingua rosa
che batte contro il palato, i suoi dentini piccoli
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e bianchi che fanno da sipario. Danza fino al
divano e mi parla delle sue storie. Io mi siedo
e lei è bella, bellissima. Ma non bella come una
fidanzata, è bella come un quadro, un frutto,
una composizione floreale, la torre di Pisa, nien­
te di realmente amabile.
Nora con le gambe ci sa fare, le accavalla nel
miglior modo possibile e i miei occhi sono un
tunnel che la percorre. Nora con le mani ci sa
fare ma è come se ora mi toccasse un pezzo di
carne con la pelle attaccata. Nora con le labbra
ci sa fare ma è come quando da bambino baci
lo specchio pensando che le labbra altrui sa­
ranno vetro riflettente. È un vetro che poi scen­
de nel collo, che poi vuole spogliarmi.
Io sono lì seduto, fermo, e fisso dritto da­
vanti a me. C'è un mobiletto con sopra delle
cornici e delle foto. Non conosco nessuno di
quei signori. In una c'è anche il cane, quando
ancora ci vedeva. Lo so perché dalla foto mi
guarda dritto negli occhi. Mentre Nora con i
fianchi nudi ci sa fare, io le chiedo come ha
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fatto a perdere la vista. Quando lei risponde
«Sta zitto!», a me viene l'ansia.
D'un tratto ho la capacità drammatica di mia
sorella, penso come lei, penso come una bam­
bina disastrata. Vedo come una bambina disa­
strata. Quando non si vuole una cosa, da bam­
bini, ma anche quando si è un pochino più
grandi, si diventa mistici, si cercano segnali a­
strali che ti impediscono di farla. Tutto diventa
giudice, tutto diventa una persona che borbot­
ta, un'ammonizione. Il cuore ti pulsa in gola
come quando hai detto una bugia e i tuoi co­
minciano ad accorgersene.
Il cane nella foto, lui diventa più grande e
con i colori più saturi. Prende il posto di tutte
le cose sullo sfondo, oscura i colori con la sua
grande ombra gigante. È alle spalle di Nora,
che anche con la lingua ci sa fare, e le oscura i
capelli. Lei porta con sé una scia di afa e io mi
alzo di colpo.
Quando sudi freddo, le gocce scendono più
lente e ti fanno addirittura male, hanno ruote
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chiodate. Più respiro forte, più tutto torna a
suo posto. Il blu lascia il posto ad altre possi­
bilità di colori.
Tutto torna al suo posto, anche la capacità
di movimento dei miei occhi. Vedo Nora sedu­
ta a terra. Il mio gesto improvviso ha evidente­
mente cambiato la confidenza tra noi. La confi­
denza non è a senso unico, può tornare indie­
tro, puoi diventare estraneo in maniera imme­
diata se sbagli una mossa.
Lei ora è nuda, rannicchiata attorno alle sue
ginocchia e con le mani si copre quanto può.
Sta tremando, dice:
«Vattene»
Nella mia mente, che è ancora da bambino,
tutto suona come quando la professoressa ti da
il permesso di uscire prima da scuola. Sa di li­
bertà. Di lei non può più fare niente, ho scon­
fitto tutto quanto.
Mi precipito verso la porta senza neanche
salutarla. Le scale che scendo sono gli arcoba­
leni che portano i cartoni animati in cielo quan­
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do sono felici. La mia euforia passa attraverso
i cuori che spezzo senza accorgermene, mentre
il mio si rinforza. Dimostro la mia capacità di
amare qualcuno solo quando porto qualcun al­
tro ad odiarmi. Sono contento di averti deluso
Nora, richiamami.
Sorpasso il cane cieco che è steso sull'erba, a
stare steso sull'erba non tenta più di mordermi
e io sento tra le vene una sorta di droga che mi
rende diverso da quando sono arrivato. Se ca­
dessi mi sbuccerei il ginocchio. Quando sei
grande non ti sbucci più le ginocchia. E proba­
bilmente riderei un sacco. Salgo in macchina,
brucio gli stop, le precedenze, i semafori, bru­
cio la città. Sto sconfiggendo i draghi che im­
prigionano la principessa. Ogni chilometro è un
drago che si inchina, ogni drago inchinato è la
mia voce che dice “Non ce n'è bisogno, è nor­
male che vada così”.
Allo stesso punto, lo strato di pelle invisibi­
le che mi si era tolto di dosso corre, entra dal
finestrino e mi riavvolge con il migliore salto
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di danza. Perdo il respiro. Per un secondo mi
annega in un'atmosfera di ossigeno rado, di
montagne chilometriche. Sono posseduto di
nuovo da me. Perdo il respiro.
La prima cosa che faccio dopo essere rien­
trato in casa è infilare due dita in gola a mia
sorella, che si è mangiata le unghie finte per
disperazione. Tutte quante. Mentre vomita den­
tro il water le tolgo i capelli dalla faccia senza
particolare cura, tralasciandone alcune ciocche
che il sudore le incolla vicino alla bocca. Una
mia mano basta per coprirle tutta la pancia e
tenerla dritta o spostarla per vedere le varie an­
golazioni di un quadro che un artista con un
minimo di intelligenza avrebbe già dipinto.
La luce è perfetta, lei è perfetta. Non le vedo
gli occhi, vedo le guance arrossate. Ha cinque
anni, ma quel colore ce l'hanno solo gli ubria­
coni di settanta. Ha cinque anni, ma lo sforzo
che fanno questi addominali che ho contro la
mano destra è degno di un culturista esperto.
Aspetto che stia meglio e la stringo a me. La
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stringo forte, giusto per guadagnarmi un altro
colpo di tosse. Controllo che le ciocche di ca­
pelli non siano sporche e, dopo aver visto che
tutto era andato come previsto, dico:
«Stella, sono orgoglioso di te» Concludo con
mille inchini di ci penso io.
Penso che mostrare ai bambini come si vuo­
le che diventino da grandi, magari in un dise­
gno, sia un ottimo metodo di educazione. Così
come vedono le principesse belle e sgargianti
e le prenderanno ad esempio, così vedranno
loro stesse in mezzo a sinfonie di colori pa­
stello. Prenderanno esempio da loro stesse. Da­
ranno l'anima per avere quei colori, o quelle
storie.
Ora ci siamo solo io e la mia scrivania con
un foglio e delle matite. Concentrandomi sul
verde delle scaglie, disegno prima un grosso
serpente con le fauci spalancate. Poi disegno
mia sorella rannicchiata a terra dallo spavento
ed io in mezzo tra i due, che ficco una lunga
spada dritta nel collo del rettile. Con un occhio
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particolare alla definizione dei vari minerali
del burrone, su un foglio ancora più grande
disegno mia sorella che ci cade dentro. Ma per
fortuna ci sono ancora io: riesco a tenderle la
mano e portarla in salvo.
Aumento sempre le dimensioni del foglio u­
nendone prima due, poi tre, poi dieci. Più cre­
scerà, più i pericoli diventeranno grandi. Il
messaggio è: voglio essere protetta da mio fra­
tello. Temporali giganteschi che la spazzereb­
bero via se io non la proteggessi con le mie
grandi spalle. Orchi enormi che l'avrebbero già
cucinata in padella se io non avessi buttato lo­
ro addosso olio bollente. Onde anomale che l'a­
vrebbero inghiottita se io non le avessi fatto da
scudo con il mio corpo. Nora chiama. Venere
chiama. Sonia chiama, Sonia chiama, Sonia
chiama. E io calco la mano. Appena penso che
le mie opere d'arte siano sufficienti, le sistemo
per improvvisare un qualche tipo di presenta­
zione. Un qualche tipo di svolgimento. Un qual­
che tipo di via crucis. Mia sorella si è appena
32
svegliata da quella sua brutta avventura con i
suppellettili da donna e la vedo zompettare
fuori dalla sua stanza, di schiena, a piedi nudi
verso la doccia. E io penso che quando ne u­
scirà sarà bella sveglia.
E penso anche che su qualche documenta­
rio in tv dicevano che le cose viste, studiate, o
ascoltate nelle due ore prima di dormire, si ri­
cordano meglio. Devo agire velocemente, non
posso permettere che dopo la doccia faccia l'er­
rore imperdonabile di uscire in giardino, di fa­
re quello che vuole. Ogni passo in più verso la
libera scelta è un passo in più verso l'indipen­
denza. Ed è troppo piccola per permettersela.
Frugo nel cassetto del vecchio comodino del
nonno, in cantina, poi cucino un hamburger e,
appena chiude l'acqua e si veste, glielo do in
mano e la prego di seguirmi. Le dico che ho
una splendida sorpresa per lei. Che sta per ve­
dere una delle migliori cose che qualcuno le
dedicherà mai. Addenta un pezzo di hambur­
ger e fa una faccia schifata. Le arruffo i capelli
33
e dico di non preoccuparsi, che è solo un con­
dimento nuovo. La faccio accomodare sulle mie
ginocchia e comincio a mostrarle i disegni.
Ho venti minuti per sbrigarmi, il Tavor, il
nonno ce l'aveva in pastiglie e in gocce, lo pren­
deva per calmarsi e ne abusava per dormire.
Si lamentava che in commercio non ce ne fosse
di inalabile. Una volta l'ho provato, sono stato
bene, e ho continuato a provarlo. Ora è il mo­
mento del passaggio, dell'eredità. In quei venti
minuti, mia sorella è felicissima. Applaude, sal­
ta dalla gioia, mi abbraccia fortissimo, studia i
minimi dettagli passando anche due o tre volte
su qualche tratto difficile. Ride. Mi stringe. Urla
di gioia. Sbadiglia. Mi stringe. Urla di gioia.
Sbadiglia. Ride. Sbadiglia. Sbadiglia. Sbadi­
glia. Con il suo collo piegato all'indietro mentre
la porto a letto, mi sento davvero un super eroe
che l'ha appena salvata da un incendio. Il suo
cuoricino che rimbalza più forte dall'emozio­
ne, sotto la copertina del suo bel vestitino rosa
confetto. Sotto la mia più superlativa attenzio­
34
ne. La metto a letto e si rannicchia.
Ho appena compiuto un'opera fenomenale
e mi merito di ricordarla molto molto bene.
Così prendo esempio da lei.
Tiro fuori una bottiglia di vino rosso, tenuta
da un sacco di tempo da parte per qualche oc­
casione speciale che non accade da molto tem­
po. Tra la decima e la tredicesima goccia di Ta­
vor che ci sciolgo dentro, Sonia chiama e io ri­
spondo. Quattordici gocce. Lei dice Aprimi. E
per altre sedici gocce la sento bussare. Per tut­
to il tempo che ci metto a buttare giù il bic­
chiere Sonia bussa più forte. La vista comincia
già ad offuscarsi e, quando vado ad aprire, la
riconosco dagli stessi vestiti di sempre: i jeans
strappati rosso scuro troppo grandi toccano per
terra coprendole metà scarpa, formando un
piccolo strascico dietro i suoi piedi, lei spesso
dice che in questo modo è la sposa della stra­
da; il maglione nero bucato rubato al reparto
oversize che le arriva alle ginocchia, lei spesso
dice che è per contenere il cuore che le si gon­
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fia di gioia quando si fa una dose. Bazzica in­
torno al quartiere dove abito. Ogni tanto gira
qualche voce su di lei, ma ormai non va nean­
che tanto di moda.
Ha veramente sbarellato ed è pronta a fare
qualsiasi cosa per avere dei soldi per una dose,
o qualsiasi cosa giusto per fare qualsiasi cosa.
Ora come ora è evidentemente sotto l'effetto di
qualcosa. I dialoghi si preannunciano brillanti.
Mi tengo la testa con una mano, mi gira tutto,
le dico:
«Fai piano, mia sorella si è appena addor­
mentata» e lei risponde troppo forte:
«Questa cazzo di sorella! Sia ben chiaro –
dice. ­ Le mie stronzate posso risparmiarmele»
Non è qui per fare conversazione, deve pren­
dere un treno tra poche ore e le servono soldi
ma sa che io non ne ho e comincia a pian­gere
perché dice di dover ancora dormire sotto ai
ponti e io non so proprio un cazzo e nessuno
sa proprio un cazzo di quello che succede sot­
to i ponti e continua a piangere. Quello che
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questa ragazza è: una carica di emozioni arti­
ficiali per sempre. Il Tavor agisce già sulla mia
capacità di equilibrio e per non cadere appog­
gio le mani alle sue spalle, la vedo ma non la
guardo, è un cumulo di contorni sbavati, e lei
equivoca. Mi abbraccia stretto stretto. Dice:
«Grazie, sapevo che avresti capito» e comin­
cia a camminare in avanti, stretta a me. E di
conseguenza io all'indietro, tentando di tocca­
re quello che mi aspetta tra un passo, ma il sen­
so del tatto, quello se ne sta per andare. Sonia
continua a camminare con la testa appoggiata
alle mie spalle e io non ho la forza per respin­
gerla. Dice:
«Grazie sapevo che potevo contare su di te
non ti preoccupare pagherò quello che devo
pagare ogni mese o altrimenti troveremo un
accordo... so cucinare e non è necessario che
dormiamo insieme ma mi farebbe piacere qual­
che volta. Io posso prendere la stanza di tua so­
rella e tua sorella la mandiamo per strada tan­
to se sa camminare sa anche cavarsela»
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Quello che questa ragazza è: una marea di
cose importanti e vitali dette senza punteggia­
tura. Io non vedo ma sento benissimo, e quello
che ha detto l'ho ascoltato benissimo. Mi entra
proprio dalle orecchie quel conato di parole che
attraverso speciali meccanismi si trasforma in
rabbia. Divento tutto dita, tutto mani.
Mi volto e spingo lontano Sonia urlandole
qualcosa. Lei è strafatta e vola all'indietro. Con
il braccio urta la bottiglia di vino e lo spande
per terra, ovunque.
Ricordate quando da bambini si è piccoli
stregoni? Vi è mai capitato di diventarlo anche
da grandi, nel dormiveglia, pensare cose spa­
ventose per salvarvi?
Io vedo la macchia allargarsi e nella mia te­
sta il Tavor amplifica i colori. Li fa diventare
color pastello, saturi. Lo stesso colore dei dise­
gni, lo stesso colore che i disegni avrebbero a­
vuto con un finale diverso. In quella macchia
che si allarga c'è mia sorella che è stata man­
giata, picchiata, distrutta, macellata da tutte le
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cose da cui avrei dovuto salvarla. Mi tolgo la
maglietta e corro ad accasciarmi sul pavimen­
to cominciando a strofinare.
Sonia si rialza e mi viene vicino stringendo i
pugni. La guardo e le dico:
«Brutta stronza! Drogata schifosa! Questo è
il sangue di mia sorella non lo vedi? Esci im­
mediatamente!»
Poi mi ritrovo i suoi pugni stretti nella fac­
cia, nel bacino, mi ritrovo tre volte il muro con­
tro la testa, le sue scarpe contro la schiena, e
scoppio a piangere. E forse svengo, ma forse
mi addormento.
Non so quanto tempo sia passato poi. Un
giorno di sicuro. Quello che mi sveglia è un
certo prurito al naso. Sono ancora steso nello
stesso punto dove Sonia mi ha picchiato. Ab­
bracciata a me c'è mia sorella, e uno dei suoi
riccioli puntano dritti verso la mia narice. Il
contrario dei miei disegni. Qui in cucina c'è
altra gente mai vista. Una tizia mai vista, stri­
minzita in un vestito, sta mostrando la boccet­
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ta di Tavor agli agenti, sta facendo fare loro un
tour della bottiglia vuota, della macchia sul
tappeto, e dice
«Povera bambina» mi vede sveglio, mi getta
uno sguardo e tira le labbra.
Come ha fatto Sonia a diventare così elegan­
te giusto per chiamare gli assistenti sociali e
rovinarmi la vita? Si è abbellita imbruttendo
qualcun altro. Dimostra la sua capacità di a­
mare qualcuno solo portando qualcun altro ad
odiarla. Le sue labbra suggeriscono un felice di
averti distrutto. Chiamami. Il seguito lo conoscia­
mo, lo possiamo ben immaginare.
Un'ordinanza restrittiva tiene me e mia so­
rella lontano lontano, e in questa bettola che
divido con ignorabili ragazzi mi arrivavano
sempre più spesso lettere da questa casa­fa­
miglia dove sta crescendo dopo che né nostro
padre né nostra madre né nessuno ha voluto
saperne. Ad ogni lettera, prima di Disturbi di
comportamento, ci sono sempre le parole più
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gravi e sempre più notevoli. Dicono che la pri­
ma cosa che ha imparato a fare è stata rubare
dall'infermeria benzodiazepine di nascosto, di­
ventarne dipendente, e farfugliare che le ser­
vono per vedere in che modo l'avrei protetta.
Visto che non funzionava, che io non torna­
vo, ha cominciato a provarne altri. A collezio­
narli. Per aiutarla nella collezione, compilo li­
ste di improvvise malattie genetiche comuni­
cate da improvvise madri, da cui è sicuramen­
te colpita e che svilupperà presto, e che io stes­
so affermo di aver sviluppato. Prendo questi
stessi medicinali, scrivo agli assistenti sociali, e
ora sto meglio. Poi finisce che io li prenda dav­
vero.
Lei Cresce. Cresce e colleziona anche mine­
rali, film e racconti sulle malattie mentali degli
altri. Ma io penso che ognuno collezioni quel­
lo che vuole. Delle volte mi mandano foto dei
suoi quadri macabri, delle sue sculture maca­
bre. Mi mandano pezzi di foglio scritti di suo
pugno dove scrive, una parola sopra l'altra, O­
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dio ed Amo e poi scrive Tutti.
Terrorizza gli altri bambini dicendo a ciascu­
no che se muore, morirà anche lei. Anche a chi
non conosce. La prima regola per perdere tutti
i sentimenti è circondarsi di gente che ne ha
troppi. E io penso che se fa così è solo perché
mi vuole ancora bene. Un mare di bene.
Mia sorella ora mi arriva a righe di inchio­
stro, mia sorella ora mi arriva in riassunti. Non
mi scrive mai, però dice a tutti che ha un fra­
tello di cui è orgogliosa. Per ogni problema che
mi descrivono, io disegno una soluzione dove
io sono ancora un'opzione. E poi la tengo per
conto mio.
Il mio compagno di stanza mi ha chiesto per­
ché non le spedisco tutti i disegni che faccio, e
io rispondo che non deve permettersi nem­
meno di nominarla. I medici le dicono che è
malata, ma lei dice sempre molto di più.
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