Giampaolo Azzoni, Etica e comunicazione della Corporate

Giampaolo Azzoni, Etica e comunicazione della Corporate Social Responsibility.
Testo pubblicato (con lievi variazioni) in: Emanuele Invernizzi / Stefania Romenti (eds.),
Relazioni pubbliche e Corporate Communication. 2.: La gestione dei servizi specializzati, Milano,
McGraw-Hill, 2012, pp. 29-66.
1. L’IMPORTANZA DELLA CSR PER UN PROFESSIONISTA DELLE RP
• CSR e RP: identità o opposizione?
• Le definizioni della Commissione Europea (2001 e 2011)
• CSR: non solo rispetto del diritto,...
• ... non solo filantropia
• ... non solo Cause Related Marketing
• ... non solo Business Ethics
2. EVOLUZIONE DELLA CSR E SUA PROBLEMATICITÀ
• Attualità della questione etica: il “Giuramento del MBA di Harvard”
• Le virtù civiche territoriali
• La concezione istituzionale dell’impresa
• La dottrina sociale della Chiesa cattolica
• Le anticipazioni italiane (Olivetti ed Eni)
• Il dibattito attuale sulla CSR e le principali critiche che le vengono mosse
3. IL MANAGEMENT DELLA CSR
• CSR e modello di impresa “stakeholder-based”
• I ritorni della CSR
• Dalla CSR alla CSV (M. Porter e M.R. Kramer)
• Sostenibilità come contenuto della CSR; i “Dow Jones Sustainability Indexes”
• Stakeholder Engagement come metodo della CSR
• Un modello per la mappatura degli stakeholder: il Credo di J&J
• Il ruolo del professionista di RP
4. STRUMENTI PER LA CSR
• Modalità e strumenti per il coinvolgimento degli stakeholder
• Volontariato d’impresa
• Il bilancio sociale come strumento di comunicazione
• Lo standard GRI e le nuove frontiere del bilancio integrato
• Corporate governante e CSR
• Rilevanza del D.lgs. 231/2001
• Codici etici e codici di condotta
• Certificazione e linee-guida internazionali
• Adesione al “Global Compact”
5. CONCLUSIONI
1
1. L’IMPORTANZA DELLA CSR PER UN PROFESSIONISTA DELLE RP
•
•
•
•
•
•
CSR e RP: identità o opposizione?
Le definizioni della Commissione Europea (2001 e 2011)
CSR: non solo rispetto del diritto,...
... non solo filantropia
... non solo Cause Related Marketing
... non solo Business Ethics
• CSR E RP: IDENTITÀ O OPPOSIZIONE?
La Corporate Social Responsibility (CSR) o, in italiano, Responsabilità sociale d’impresa (RSI),
indica un approccio strategico ed una serie di pratiche delle organizzazioni finalizzate a due
obiettivi principali. Il primo è di natura preventiva (o riparativa) e consiste nel farsi carico delle
esternalità negative, cioè di quegli effetti dannosi che accompagnano attività peraltro lecite come ad
esempio, per un’impresa industriale, la produzione di rifiuti, la riduzione delle risorse naturali o le
varie forme di inquinamento. Il secondo obiettivo non è semplicemente preventivo, ma, piuttosto,
generativo e riguarda la consapevolezza della dimensione anche sociale di ogni organizzazione sia
al proprio interno verso i dipendenti, sia all’esterno verso la comunità e le istituzioni, e, pertanto, la
ricerca di partnership in una logica di vantaggio reciproco anche su tematiche non riconducibili ad
un immediato scambio economico.
Il rapporto tra CSR e relazioni pubbliche rappresenta uno snodo fondamentale: da esso dipende la
serietà di come CSR e RP vengono attuate e quindi la loro rilevanza per il management di
un’organizzazione.
Una prima soluzione che, purtroppo, s’è data, e continua a darsi, è quella che vede la CSR come una
semplice cosmesi, qualcosa che non riguarda la sostanza ma solo la superficie: l’organizzazione non
si impegna realmente a prevenire le esternalità negative o a realizzare positive collaborazioni con i
soggetti del contesto in cui essa opera, ma è interessata solo ad apparire come impegnata in tali
direzioni. A questa fenomenologia appartiene il c.d. “greenwashing” che si ha quando un’impresa
vuole essere percepita come responsabile sul fronte della salvaguardia ambientale senza però che vi
siano significativi comportamenti coerenti. Il termine ‘greenwashing’ venne coniato negli USA per
quegli alberghi che invitavano i clienti a riutilizzare gli asciugami con argomentazioni ecologiste,
ma che, in realtà, come fu provato, avevano l’unico obiettivo di aumentare i profitti. Da allora molti
sono stati i casi analoghi denunciati: Greenpeace ha un sito Internet a ciò dedicato1 e, ancora più
interessante, l’Università dell’Oregon ha promosso il “Greenwashing Index” attraverso cui sono
stati documentati e valutati molti casi di falso impegno per l’ambiente.2 A ciò si deve aggiungere
che alcune grandi aziende coinvolte in gravi scandali (come l’americana Enron fallita nel 20013)
erano campioni della CSR dichiarata e non attuata. Pratiche di questo tipo hanno nuociuto
gravemente alla CSR e continuano ad alimentare lo scetticismo sulla possibilità che un’impresa
consideri la responsabilità sociale come un reale impegno strategico. Ma, per quanto ci interessa
maggiormente, va anche detto che attività come il greenwashing si basano essenzialmente sulla
comunicazione: advertising, ma anche, e in misura significativa, RP. La comunicazione viene cioè
degradata a tecnica di mistificazione violando così doveri di etica professionale, ma soprattutto non
svolgendo alcun autentico ruolo manageriale. Possiamo dunque affermare che una cattiva CSR, cioè
una CSR solo di facciata, si basa su cattive RP costituendo un circolo vizioso in cui l’una e le altre
1
http://stopgreenwash.org/
http://www.greenwashingindex.com/
3 Sul caso Enron è da consigliarsi il bel documentario di Alex Gibney: Enron: The Smartest Guys in the Room. Su CSR
e RP, un altro documentario (fortemente critico) da vedersi è The Corporation del 2003, diretto da Mark Achbar e
Jennifer Abbott e tratto dall'omonimo libro di Joel Bakan.
2
2
si alimentano e, insieme, danneggiano non solo chi fa buona CSR e buone RP, ma anche quella
stessa organizzazione che s’illude di raggiungere i propri obiettivi con facili scorciatoie.
Da queste esperienze negative s’è sviluppata una certa diffidenza sul ruolo che la comunicazione e,
più specificamente, le RP possono svolgere a sostegno della CSR. Alcuni hanno così contrapposto
le “cose” che una corretta CSR dovrebbe realizzare alle “parole” che di quelle cose sarebbero solo
apparenza o addirittura tradimento. Non è forse un caso che anche il più qualificato salone italiano
della responsabilità sociale si chiami “Dal dire al fare”4, quasi a indicare che il “fare” (positivo) si
contrappone al “dire” (negativo). In realtà, come le esperienze più avanzate confermano, le RP sono
necessarie alla definizione e attuazione di una strategia di responsabilità sociale. Anzi, si può
senz’altro affermare che CSR e RP hanno forti elementi di identità sia sul piano metodologico che
su quello delle rispettive finalità. Soprattutto quando la CSR si pone obiettivi non solo preventivi,
ma anche generativi, da attuarsi insieme ai vari soggetti sociali coinvolti, è indispensabile la
professionalità del relatore pubblico. Infatti, secondo la recente e autorevole definizione proposta
dalla PRSA, le RP sono esattamente “un processo strategico di comunicazione che costruisce
relazioni reciprocamente vantaggiose tra le organizzazioni ed i loro pubblici”.5 Sulla stessa linea
sono le definizioni che fanno riferimento alla “licenza sociale di operare”.
Dunque, l’insieme di competenze relative alla identificazione di stakeholder, tematiche critiche,
strumenti e modalità di coinvolgimento vengono nella CSR mutuate dalle RP. Una CSR senza RP
sarebbe priva non solo della comunicazione, ma anche del proprio specifico impianto progettuale.
Infine, va anche detto che, per converso, le RP senza CSR sarebbero molto deboli: nello scenario
contemporaneo caratterizzato da una crescente trasparenza che consente di verificare la credibilità
degli impegni assunti, la comunicazione di un’organizzazione deve potersi basare su comportamenti
coerenti.
La stretta connessione tra RP e CSR è affermata dagli “Accordi di Stoccolma”, l’importante
documento risultato della collaborazione tra i leader della professione e dell’accademia di ogni
continente, approvati dal “World Public Relations Forum” a Stoccolma, il 15 giugno 2010 e recepiti
dalla Ferpi. Infatti, secondo gli “Accordi di Stoccolma”, la sostenibilità (che, nel glossario del
documento, è considerata un sinonimo di CSR) è addirittura considerata l’area prioritaria per le RP
di cui attraversa tutte le attività (dalla comunicazione interna ed esterna alla governance e al
management).
• LE DEFINIZIONI DELLA COMMISSIONE EUROPEA (2001 E 2011)
Le forti affinità tra RP e CSR emergono anche dalla lettura delle definizioni ufficiali di CSR.6
Per un decennio la definizione di CSR più influente - e come tale ripresa nei documenti di
moltissime organizzazioni - è stata quella fornita dalla “Commissione delle Comunità Europee” nel
“Libro verde” presentato nel 2001 ed intitolato “Promuovere un quadro europeo per la
responsabilità sociale delle imprese”. Secondo tale documento, la CSR è “l’integrazione volontaria
delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese nelle loro operazioni commerciali
[business operations] e nei loro rapporti con le parti interessate [stakeholders]”. Vorrei sottolineare
che in tale definizione si mettevano in evidenza tre elementi ancora validi:
• la volontarietà della CSR: “essere socialmente responsabili significa non solo soddisfare
pienamente gli obblighi giuridici applicabili, ma anche andare al di là investendo “di più”
nel capitale umano, nell’ambiente e nei rapporti con le altre parti interessate”;
4
http://www.daldirealfare.eu
La definizione è stata proposta nel marzo 2012 dalla “Public Relations Society of America” dopo una campagna di
coinvolgimento e ascolto della Rete in collaborazione con la “Global Alliance for Public Relations and Communication
Management”.
6
Una aggiornata introduzione alla CSR è il libro a cura di Piercarlo Maggiolini, Ciò che è bene per la società è bene
per l’impresa: una rivisitazione di teorie e prassi della Responsabilità Sociale d’Impresa, Milano, Franco Angeli, 2012.
3
5
•
•
l’integrazione della CSR nell’insieme delle normali attività di business: “le imprese devono
integrare la loro responsabilità sociale nella gestione quotidiana della totalità della catena
produttiva”;
il rilievo delle relazioni con gli stakeholder interni ed esterni: “la responsabilità sociale delle
imprese si estende al di là del perimetro dell’impresa, integrando la comunità locale e
coinvolge, oltre ai lavoratori dipendenti e agli azionisti, un ampio ventaglio di parti
interessate [stakeholders]: partner commerciali e fornitori, clienti, poteri pubblici e ONG che
rappresentano la comunità locale e l’ambiente”.
INSERIRE: Figura 1.: Gli stakeholder di Roche Diagnostics (Rapporto di sostenibilità 2010)
A distanza di dieci anni, la “Commissione Europea” è intervenuta nuovamente con un’importante
comunicazione dedicata ad una strategia rinnovata dell’UE in materia di responsabilità sociale (25
ottobre 2011). In tale documento, la Commissione propone un’aggiornata definizione della CSR nei
termini assai sintetici, ma efficaci, di “responsabilità delle imprese per il loro impatto sulla società”.
Tale responsabilità ha come suo strumento fondamentale la previsione di un “processo per integrare
le questioni sociali, ambientali, etiche, i diritti umani e le sollecitazioni dei consumatori” nella
strategia d’impresa e ha come suo obiettivo principale la creazione di “valore condiviso” tra gli
azionisti e i vari stakeholder. Dunque, al centro della CSR vi sono, secondo la “Commissione
Europea”, due concetti centrali anche per le RP: coinvolgimento (engagement) e valore condiviso
(shared value).
Venendo alle singole tematiche più importanti, secondo la “Commissione Europea”, la CSR copre
“le prassi in materia di diritti umani, lavoro e occupazione (quali formazione, diversità, parità di
genere nonché salute e benessere dei lavoratori), le questioni ambientali (per esempio la
biodiversità, i cambiamenti climatici, l’efficacia delle risorse, l’analisi del ciclo di vita e la
prevenzione dell’inquinamento) nonché la lotta alla corruzione, [...] il coinvolgimento e lo sviluppo
delle collettività, l’integrazione delle persone disabili e gli interessi dei consumatori, compresa la
privacy, [...] la catena di approvvigionamento e la divulgazione di informazioni non finanziarie”.
In tale prospettiva, la CSR è nell’interesse sia delle imprese, sia dell’intera società in cui esse
operano: in particolare, le imprese possono trarre benefici riguardo a questioni critiche quali
“gestione del rischio, riduzione dei costi, accesso al capitale, relazioni con i clienti, gestione delle
risorse umane e capacità di innovazione”, oltre che “sviluppo di nuovi mercati” e “opportunità di
crescita”. E, come conseguenza ulteriore di programmi di CSR, le imprese possono rafforzare
quello che è anche il prodotto auspicato di molti programmi di RP: il capitale di fiducia in loro
riposto da dipendenti, consumatori e cittadini.
• CSR: NON SOLO RISPETTO DEL DIRITTO,...
Abbiamo già detto che la CSR non è solo rispetto del diritto: un’impresa che voglia essere
socialmente responsabile deve ovviamente rispettare le norme giuridiche che per essa valgono, ma
ciò non esaurisce il suo impegno a ridurre le esternalità negative derivanti dalle sue attività e a
ricercare modalità di collaborazione con i suoi stakeholder. Questa precisazione è particolarmente
rilevante se riferita a quei paesi del Sud del mondo o dell’Estremo oriente in cui abbiamo
ordinamenti per i quali sono ancora lecite pratiche che contrastano con il rispetto della persona
umana e dell’ambiente naturale, si pensi a legislazioni sul lavoro che consentano l’impiego di
minori in attività nocive alla loro salute o a normative ambientali che tollerino gravi forme di
inquinamento. In questi casi, l’impresa multinazionale è tenuta a comportamenti che siano il più
possibili coerenti con quelli adottati nei più rigorosi paesi occidentali e in ogni caso deve rispettare
quelle linee-guida internazionali che, anche se formalmente prive di un pieno valore giuridico (c.d.
‘Soft Law’), identificano standard di comportamenti socialmente responsabili: i dieci principî del
4
“Global Compact” delle Nazioni Unite (su cui dirà nel paragrafo finale), le “Linee Guida
dell’OCSE destinate alle imprese multinazionali”, la “Dichiarazione tripartita di principi relativi alle
imprese multinazionali e la politica sociale” dell’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL) e i
“Principî guida su business e diritti umani” delle Nazioni Unite. Sul piano comunicazionale va
sempre ricordato che la narrativa di un soggetto deve essere innanzitutto coerente: così grandi
campagne contro certe imprese (si pensi a Nike o, più recentemente, ad Apple) sono state basate
sulla denuncia di gravi differenze di trattamento dei lavoratori in Cina rispetto agli USA. Dunque,
rispettare il diritto è condizione necessaria, ma non sufficiente perché un’organizzazione sia
socialmente responsabile.
• ... NON SOLO FILANTROPIA
La filantropia è un’attività assai meritoria, ma non può essere confusa, come spesso accade
soprattutto nei paesi anglosassoni, con la CSR. È un dato assai significativo delle nostre società
contemporanee che le donazioni private stanno assumendo una grande importanza in molti ambiti
sociali: dalla sanità all’istruzione, dalla ricerca al sostegno dei più deboli, dalla tutela della natura a
quella dei beni storico-artistici. Uomini dello spettacolo (si pensi a Michael Jackson che sosteneva
ben 39 organizzazioni di volontariato), ma anche imprenditori e manager si segnalano per un forte
impegno filantropico. Ad es. la “Bill & Melinda Gates Foundation” svolge un’opera straordinaria:
solo nel campo della salute investe ogni anno 800 milioni di dollari, una cifra analoga a quella
dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che però, all’interno delle Nazioni Unite, è finanziata da
quasi 200 nazioni.
Dunque sarebbe assai auspicabile che anche in Europa e, in particolare in Italia, crescesse
ulteriormente l’importanza della filantropia grazie alla generosità di coloro che nella vita hanno
potuto accumulare più ricchezze. Ma la filantropia, anche se può senz’altro contribuire a connotare
positivamente un manager o un’impresa, non è CSR in quanto è separata dalla normale attività di
business non essendo integrata nei processi aziendali caratteristici. Ecco che, anche da un punto di
vista formale, spesso non è riferita all’azienda, ma piuttosto ad una fondazione autonoma. Questo
non esclude che, soprattutto quando le risorse siano aziendali (c.d. “corporate giving”), vadano
ricercate le opportune sinergie in termini di ritorno sul brand e sulla percezione dei vari stakeholder.
• ... NON SOLO CAUSE RELATED MARKETING
La CSR non è nemmeno solo Cause Related Marketing (CRM) anche se di essa può essere uno
strumento significativo. Il CRM è infatti “un’azione di marketing in cui imprese e organizzazioni
non-profit formano una partnership al fine di promuovere un’immagine, un prodotto o un servizio
traendone reciprocamente beneficio”.7
Il caso forse paradigmatico in Italia è quello di “Dash Missione Bontà - Ospedale Amico” dove
Procter & Gamble” (titolare del marchio Dash) ha realizzato una collaborazione con l’ABIO
(“Associazione per il Bambino in Ospedale”), l’AIL (“Associazione Italiana contro le LeucemieLinfomi-Mieloma”) e altre associazioni di volontariato con lo scopo di realizzare, nelle strutture
ospedaliere italiane, ambienti costituiti da uno arredamento studiato per accogliere i bambini in un
mondo che possa parlare il loro linguaggio. Come si legge nel database di “Sodalitas”, la raccolta
dei fondi si è realizzata con una modalità di partecipazione semplice e immediata: sulle confezioni
di Dash i consumatori hanno trovato un “Buono della Solidarietà” del valore complessivo di 1 euro;
per ogni buono presentato alla cassa, i clienti hanno ottenuto uno sconto pari a 50 centesimi
7
Sodalitas, Cause Related Marketing: codice di comportamento, 2004.
5
attivando una donazione automatica da parte di Dash dei restanti 50 centesimi al progetto. I risultati
sono stati notevoli ed hanno consentito di realizzare 55 sale giochi negli ospedali di tutta Italia.
Da segnalare poi, anche per la durata (iniziato nel 1992 e tuttora in corso) e per l’entità delle risorse
raccolte, il progetto di BNL per Telethon: uno dei maggiori progetti di fund raising in Europa in cui
“BNL Gruppo BNP Paribas” si impegna nella raccolta di fondi, tutto l’anno e con tutti i canali, a
favore della Fondazione Telethon che sostiene la ricerca scientifica sulle malattie genetiche,
trascurate dai grandi investimenti pubblici e privati.
A differenza della filantropia, il CRM possiede due caratteristiche proprie della CSR: la partnership
e il mutuo beneficio. Anche il CRM si realizza correttamente quando vi è una “relazione paritetica
in cui entrambe le parti abbiano lo stesso peso” e quando vi è “un vantaggio commisurabile per
entrambi i partner: tra gli obiettivi di marketing dell’impresa e la mission della organizzazione nonprofit deve esserci equità secondo criteri di valutazione definiti con chiarezza e in anticipo”.8
La CSR non può però realizzarsi solo attraverso il CRM proprio per il carattere settoriale di
quest’ultimo e, quindi, per il fatto che non riguardi l’insieme dei processi e delle attività aziendali.
• ... NON SOLO BUSINESS ETHICS
Nonostante l’emergenza etica che – come esamineremo meglio nel paragrafo successivo –
dall’inizio degli anni ‘90 del secolo scorso ripetutamente appare in tutti i paesi dell’Occidente, la
CSR non va identificata nemmeno con la business ethics, o etica degli affari, anche se in qualche
misura la ricomprende. Infatti, in un’organizzazione socialmente responsabile i manager e, più in
generale, tutte le persone che vi operano sono tenuti alla correttezza ed integrità dei loro
comportamenti. A tale fine, nell’ultimo decennio, si sono diffusi documenti quali i “codici etici”
che intendono rafforzare le modalità di auto-regolazione oltre che la riflessività dei manager
riguardo a decisioni che potrebbero essere problematiche. Dunque, senza dubbio, la CSR è
inseparabile dall’eticità del management e, reciprocamente, le aziende che si segnalano per la loro
irresponsabilità sociale sono solitamente guidate da manager senza scrupoli.
Si può dire, dunque, che una consapevolezza etica sia il presupposto per l’adozione di strategie di
CSR (e spesso sono originate proprio dalla particolare sensibilità di un imprenditore o di un
amministratore delegato), ma si può dire altresì che un’azienda sia realmente etica quando,
attraverso la CSR, le buone pratiche non si basino solo sulla buona volontà dei singoli, ma siano
incorporate nelle modalità di governance e nei relativi meccanismi operativi. Anche in questo caso
la comunicazione dovrà essere orientata a mettere in rilievo la coerenza tra intenzioni dichiarate e
comportamenti agiti; infatti troppo spesso gli strumenti della business ethics (e in primis i codici
etici) hanno un ruolo assai limitato nella vita delle organizzazioni.9
8
Sodalitas, Cause Related Marketing: codice di comportamento, 2004.
Una radicale (e credo anche eccessiva) critica all’utilizzo dei codici etici è effettuata da Guido Rossi, L’equivoco
dell’etica degli affari e dei codici etici, in: Il conflitto epidemico, Milano, Adelphi, 2003, pp. 113-143.
6
9
2. EVOLUZIONE DELLA CSR E SUA PROBLEMATICITÀ
•
•
•
•
•
•
Attualità della questione etica: il “Giuramento del MBA di Harvard”
Le virtù civiche territoriali
La concezione istituzionale dell’impresa
La dottrina sociale della Chiesa cattolica
Le anticipazioni italiane (Olivetti ed Eni)
Il dibattito attuale sulla CSR e le principali critiche che le vengono mosse
•
ATTUALITÀ DELLA QUESTIONE ETICA: IL “GIURAMENTO DEL MBA DI HARVARD”
I rapporti tra etica ed economia sono sempre stati problematici. Almeno dai tempi di Platone il
giudizio sul mercato è stato ambivalente: da un lato si vedeva in esso lo strumento per rispondere ai
bisogni umani e anche il momento genetico della stessa società politica (agorá significava in greco
sia il luogo degli scambi, sia la piazza dell’assemblea cittadina), dall’altro lato, però, le ricchezze
che il mercato consentiva di accumulare erano viste come un elemento di corruzione e di
disgregazione. Con la nascita della moderna impresa capitalistica, questa ambivalenza si acuisce
ulteriormente: il giudizio positivo sullo straordinario progresso nelle condizioni di vita si
accompagna a radicali critiche delle forti diseguaglianze di reddito tra persone e tra nazioni, oltre
che dell’impatto devastante dell’industria sull’ambiente naturale. In un certo senso, la responsabilità
sociale è proprio il tentativo di superare la contraddizione tra effetti positivi ed effetti negativi del
fare impresa coinvolgendo direttamente chi quegli effetti negativi subisce.
A partire dagli anni ‘90 del secolo scorso, ma con una forte intensificazione a partire dal 2000, ai
tradizionali motivi di critica dell’impresa capitalistica si è aggiunta prepotentemente la questione
etica. Negli USA esemplare è stata la vicenda della Enron, una grande azienda dell’energia (era al
7° posto tra le multinazionali americane) che nel 2001 improvvisamente fallì quando emersero le
truffe contabili commesse dai suoi amministratori, trascinando nella sua rovina la “Arthur
Andersen” una delle più grandi e prestigiose società di consulenza e revisione mondiali (faceva
parte delle celebri “big five”). Fu così grave l’impatto del fallimento di Enron che il Presidente
George W. Bush nel luglio 2002 fece un celebre (e ancora attuale) discorso a Wall Street davanti ad
un grande pannello con la scritta “Corporate Responsibility”. Riguardo all’Italia merita di essere
menzionato il caso, in qualche modo analogo anche se in scala minore, di Parmalat: un’azienda con
significative eccellenze, ma che fu costretta al fallimento nel 2003 a seguito dei comportamenti
fraudolenti del suo vertice.
Va detto che per il professionista delle relazioni pubbliche la questione etica determina una
difficoltà ulteriore nell’occuparsi di CSR in quanto si tratta spesso di superare pregiudizi contro la
credibilità in generale della voce delle imprese, ma va anche ribadito che occuparsi di CSR è il
modo più adeguato per superare quei pregiudizi che condizionano la credibilità dell’intera
comunicazione aziendale.
Da alcune parti ad essere messa sotto accusa è la stessa formazione dei manager che sarebbe
orientata solo al profitto di breve periodo trascurando gli effetti sociali delle decisioni assunte e, in
prospettiva, minando la capacità delle stesse imprese di generare profitti. Una reazione emblematica
a tali critiche è stata quella promossa da alcuni studenti al termine del celebre MBA dell’Università
di Harvard: impegnarsi a comportamenti etici attraverso un giuramento solenne (sul modello di
quanto i medici hanno da sempre fatto seguendo gli impegni che Ippocrate aveva fissato già nel IV
secolo a. C.). Il “New York Times” con grande efficacia così titolò l’articolo che ne riferiva: “A
Promise to Be Ethical in an Era of Immorality”10.
10
“The New York Times”, 30 maggio 2009.
7
Molti termini e concetti del giuramento sono in sintonia con la CSR: l’obiettivo del manager è visto
nel servizio ad un bene maggiore di quello conseguibile da un singolo soggetto e da realizzarsi
invece attraverso l’aggregazione di “persone e risorse in modo tale da creare un valore che nessuno
possa creare da solo”. A tale fine si intende adottare una prospettiva “di lungo termine” nel comune
interesse dell’impresa e della società in cui essa opera. Tra i numerosi impegni assunti vi sono: la
salvaguardia degli interessi degli azionisti insieme a quelli dei colleghi, dei clienti e dell’intera
società; la comunicazione accurata ed onesta dei risultati e dei rischi della propria azienda; la
volontà fattiva per una prosperità economica e sociale sostenibile a livello mondiale.
A testimoniare dell’attualità delle ragioni che hanno portato gli studenti di Harvard a pronunciare un
giuramento al termine del loro MBA vi è la diffusione in numerose università di iniziative analoghe
e la nascita di un vero e proprio piccolo movimento d’opinione.11
•
LE VIRTÙ CIVICHE TERRITORIALI
Già all’inizio degli anni ‘70 del secolo scorso si sviluppò un vivace dibattito (che tuttora prosegue)
sul contenuto della responsabilità sociale d’impresa. Ma è solo 20 anni dopo che assistiamo ad una
crescita esponenziale sia dell’interesse degli studiosi, sia degli investimenti e dei programmi da
parte di sempre più numerose organizzazioni, oltre il campione iniziale di alcune grandi
multinazionali, fino ad arrivare attorno al 2000 ad una compiuta articolazione di aree d’intervento,
problematiche e strumenti gestionali in una forte connessione con le relazioni pubbliche. Anche le
più evolute strategie di CSR dei nostri giorni hanno però radici molto più antiche della sua
tematizzazione specifica: come ne Il borghese gentiluomo di Molière, Monsieur Jourdain scopre di
parlare in prosa senza saperlo, così anche in epoche lontane si è discusso e praticato la
responsabilità sociale senza sapere che fosse tale. Ricordare tali antichi precedenti non ha una
funzione solo storiografica, ma riprendere valori, linguaggi, esperienze che possono arricchire
significativamente il contributo del comunicatore e la stessa risoluzione di problemi operativi.
Una prima radice è particolarmente rilevante per gli italiani e fa riferimento alle cosiddette virtù
civiche territoriali. Come ha documentato Robert D. Putnam, in un fondamentale studio
comparativo delle regioni italiane12, vi è una correlazione stretta tra lo sviluppo economico e la
presenza di una comunità civica: le imprese crescono se operano in un ambiente sociale in cui vi
sono forti legami orizzontali, partecipazione attiva alla vita comune, vitalità dell’associazionismo e
interesse per la politica locale. Secondo Putnam il diverso sviluppo che caratterizza le varie aree
dell’Italia si spiega principalmente con il fatto che le diverse storie istituzionali hanno abituato i
cittadini all’impegno (come all’epoca dei Comuni) o alla passività (come nelle grandi monarchie
dell’Italia meridionale o nello Stato della Chiesa).
La CSR con l’importanza che assegna alle comunità locali di riferimento si connette a questa
importante tradizione e contribuisce al rafforzamento del c.d. “capitale sociale”, cioè l’insieme di
reti di reciproco supporto e relazioni di fiducia che creano benefici diretti alle persone, alle
istituzioni e alle imprese. Tale contributo è particolarmente significativo perché, come lo stesso
Putnam documentò in una successiva ricerca13, l’epoca post-moderna nella quale viviamo
indebolisce i legami tradizionali a favore di un forte individualismo e di una grande fluidità sociale;
il titolo originale di questo secondo lavoro di Putnam si intitola, con grande efficacia, Bowling
alone a indicare il fenomeno, che assumeva valore di metafora, della trasformazione di un gioco che
si faceva con gli amici in un’occupazione solitaria.
11
Cfr. Max Anderson / Peter Escher, The MBA Oath: Setting a Higher Standard for Business Leaders, Portfolio, 2010.
Robert D. Putnam (con Robert Leonardi e Raffaella Y. Nanetti), La tradizione civica nelle regioni italiane, Milano,
Mondadori, 1993.
13
Robert D. Putnam, Capitale sociale e individualismo: crisi e rinascita della cultura civica in America, Bologna, il
Mulino, 2004.
8
12
•
LA CONCEZIONE ISTITUZIONALE DELL’IMPRESA
Dopo le virtù civiche territoriali, una seconda radice della CSR di grande rilievo per le relazioni
pubbliche è rappresentata dal c.d. istituzionalismo, la concezione economica e giuridica
dell’impresa secondo la quale essa è molto di più di una rete di contratti che impegnano solo
riguardo a quanto esplicitamente convenuto e per il tempo in essi previsto. Così, per una persona
che vi lavori, un’impresa non è solo una controparte contrattuale, analoga alle controparti di molti
contratti stipulati per la varie esigenze della vita, ma è quasi sempre una realtà ad elevato spessore
esistenziale: un intreccio di vite, ciascuna con il proprio progetto ed i propri bisogni, che nel lavoro
vedono la modalità spesso principale per realizzare quel progetto e soddisfare quei bisogni. E
quindi, nella prospettiva istituzionale, la ragione d’essere di un’impresa non è riducibile alla
massimizzazione del profitto per gli azionisti o alla remunerazione dei lavoratori (analogamente ad
un investimento finanziario che si esaurisce in una transazione monetaria), ma comprende la
missione più ampiamente sociale per la quale quell’impresa opera. A tale proposito, in una celebre
questione giuridica dell’inizio del secolo scorso relativa ad una società che si occupava della
navigazione sul Reno (il “Norddeutscher Lloyd”), un amministratore della medesima società valutò
che lo scopo di garantire la navigazione sul Reno fosse superiore persino a quello di distribuire un
utile agli azionisti.14 Oggi, nella prospettiva della CSR, è ragionevole ritenere che il ruolo svolto
almeno da alcune aziende abbia oggettive valenze pubbliche con ricadute interne ed esterne
all’azienda stessa. E, pertanto, soprattutto in alcune scelte strategiche, devono essere valutati anche
gli interessi di quelle persone e di quei soggetti che pur non avendo un titolo giuridico che li tuteli
sono comunque meritevoli di attenzione in base alla realtà dei fatti e alla storia di relazioni
intercorse: ad esempio, per un’impresa socialmente responsabile le decisioni di localizzazione delle
attività produttive non sono mai valutate con il solo metro del ritorno economico di breve periodo.
In base a quanto s’è detto sulle virtù civiche territoriali (la prima radice della CSR) e
sull’istituzionalismo (la seconda radice), si può affermare che la considerazione integrale dell’agire
d’impresa, che non separa economia ed etica, ma anzi le tratta come strettamente connesse,
appartiene pienamente ad una tradizione continentale europea e italiana. Se è vero, infatti, che
l’attuale attenzione all’etica in campo manageriale si deve al successo di temi di apparente origine
anglosassone, è altresì vero che in Italia ed in una buona parte dell’Europa continentale v’è una
lunghissima storia in cui si è ricercata la valorizzazione del nesso tra economia ed etica. È una storia
che inizia con il proto-capitalismo delle città rinascimentali ed arriva fino alle concezioni
dell’impresa proprie dell’istituzionalismo passando per significative teorizzazioni concettuali come
quelle dell’idealismo storicista di Hegel che assegna al lavoro un ruolo centrale nella costruzione di
una società etica.
•
LA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA CATTOLICA
Nel contesto sopra delineato va, infine, ricordata la dottrina sociale della Chiesa cattolica i cui temi
e il cui lessico continuano ad esercitare una significativa influenza al punto che possiamo vedere in
essa la terza delle grandi radici storiche della CSR.
È, infatti, almeno dal 1891 quando papa Leone XIII emanò la storica Lettera enciclica Rerum
Novarum che la Chiesa riserva un’attenzione specifica al tema. Così nel vigente Compendio della
dottrina sociale si legge che oltre alla “funzione tipicamente economica, l’impresa svolge anche una
funzione sociale, creando opportunità d’incontro, di collaborazione, di valorizzazione delle capacità
delle persone coinvolte” e che pertanto “la dimensione economica è condizione per il
14
Cfr. Alberto Asquini, I battelli del Reno, in: “Rivista delle società”, 4 (1959), pp. 617-633.
9
raggiungimento di obiettivi non solo economici, ma anche sociali e morali, da perseguire
congiuntamente” (§ 338).
Ampio spazio alla CSR e addirittura alla teoria degli stakeholder è dedicato nella enciclica di papa
Benedetto XVI Caritas in Veritate (2009) in cui si afferma che “si sta dilatando la consapevolezza
circa la necessità di una più ampia “responsabilità sociale” dell’impresa”, precisando che “anche se
le impostazioni etiche che guidano oggi il dibattito sulla responsabilità sociale dell’impresa non
sono tutte accettabili secondo la prospettiva della dottrina sociale della Chiesa, è un fatto che si va
sempre più diffondendo il convincimento in base al quale la gestione dell’impresa non può tenere
conto degli interessi dei soli proprietari della stessa, ma deve anche farsi carico di tutte le altre
categorie di soggetti che contribuiscono alla vita dell’impresa: i lavoratori, i clienti, i fornitori dei
vari fattori di produzione, la comunità di riferimento” (§ 40).
•
LE ANTICIPAZIONI ITALIANE (OLIVETTI ED ENI)
In contatto con le radici sopra delineate, anche in Italia vi sono stati casi di importanti imprese che
hanno anticipato di decenni l’attenzione verso la responsabilità sociale d’impresa.
Merita innanzitutto di essere ricordata la Olivetti, l’industria con base ad Ivrea, che, soprattutto
sotto la conduzione di Adriano Olivetti, negli anni ‘50 del secolo scorso, diede vita ad uno
straordinario esperimento di integrazione tra cultura umanistica e cultura scientifica (si pensi
all’eccellenza del design di alcune macchine per scrivere o calcolatrici), con avanzatissime
attuazioni sul piano dell’organizzazione del lavoro, della partecipazione e del benessere dei
lavoratori, oltre che nei rapporti con il territorio. La Olivetti si impegnò quindi nella realizzazione di
moderni spazi di lavoro, ma anche mense, case per i dipendenti ed asili. Il concetto centrale che
guidava Adriano Olivetti era quello che volle anche come nome per il suo movimento politico:
‘Comunità’; e l’azienda da lui diretta si impegnava proprio nel farsi carico dello sviluppo
complessivo della comunità in cui operava. Purtroppo questo importante progetto venne interrotto
dalla morte prematura e improvvisa del suo visionario ideatore.
Circa negli stessi anni della Olivetti, un’esperienza assai simile si realizzava nell’ENI guidata da
Enrico Mattei. Per l’ENI gli obiettivi prioritari erano la salvaguardia dell’interesse nazionale nel
campo energetico, ma anche un modo di fare impresa che fosse occasione di formazione e crescita
integrale della persona: un comune come San Donato Milanese si sviluppò, secondo un disegno
razionale, attorno all’ENI e ai bisogni dei suoi dipendenti. Da segnalare anche l’avvio di modalità di
relazione con i paesi produttori di idrocarburi ispirate a logiche di partnership di medio-lungo
periodo che anticiparono di decenni le migliori pratiche di sostenibilità. Purtroppo, come nel caso di
Olivetti, anche la vita di Enrico Mattei fu improvvisamente stroncata, con l’aggravante di una morte
avvenuta in circostanze che restano misteriose. Però l’ENI seppe proseguire oltre Mattei e resta una
delle aziende più avanzate nel campo della responsabilità sociale a livello internazionale.
•
IL DIBATTITO ATTUALE SULLA CSR E LE PRINCIPALI CRITICHE CHE LE VENGONO
MOSSE
Nonostante una prestigiosa tradizione e nonostante l’adozione da parte di sempre più
organizzazioni, la CSR resta oggetto di critiche che, seppure minoritarie, devono essere
attentamente valutate dal professionista di RP in quanto possono condizionare significativamente
l’efficacia del suo operato.
Innanzitutto, la CSR è stata criticata in quanto rappresenterebbe una diversione dagli scopi
istituzionali di un’impresa che dovrebbero limitarsi alla massimizzazione dei profitti nel rispetto
delle leggi e dei contratti. Tale genere di obiezione, seppure ancora presente, soprattutto in ambito
10
anglosassone, ha perso di capacità persuasiva da quando sono emersi i vantaggi che, almeno in
alcuni settori, la CSR produce proprio agli azionisti in termini di valore dell’investimento effettuato.
Ancora forte è invece l’accusa di ipocrisia che viene rivolta alle aziende che sembrano utilizzare la
CSR non come reale impegno, ma come tecnica di greenwashing: è fondamentale, dunque, che la
comunicazione metta l’enfasi sulla coerenza tra le parole ed i fatti privilegiando sempre il
coinvolgimento degli stakeholder piuttosto che strumenti di advertising istituzionale o di supporto
diretto al marketing.
Ristrette, ma comunque presenti, sono anche le critiche alla CSR che potremmo definire di
“sinistra”. È curioso che Renato Curcio, il fondatore del gruppo terroristico delle “Brigate Rosse”
abbia scritto un libro contro “le suggestioni e le ambiguità della responsabilità sociale d’impresa”.
Ma lo stesso Guido Rossi, uno dei più importanti avvocati d’affari italiani, ha in molte occasioni
messo in guardia contro l’utilizzo di categorie etiche nel business. Comune a tali critiche è l’idea
che la CSR sia strumentale alla riduzione di impegno dello Stato nella risoluzione dei problemi
sociali ed ambientali costituendo quindi una modalità di neo-liberismo che, sotto le apparenze di un
maggiore ruolo delle imprese, si traduce in realtà in una loro maggiore discrezionalità a favore dei
loro interessi e contro quelli degli stakeholder. In questa prospettiva, si colloca anche il celebre
contributo di Robert B. Reich, già ministro del lavoro quando era Presidente degli USA il
democratico Bill Clinton, secondo cui “chiedere alle singole aziende di essere socialmente
responsabili è un surrogato della politica: una distrazione di massa dai problemi morali”, “un
diversivo dalla necessità di norme che bilancino gli interessi dei consumatori e degli investitori con
quelli del resto della società”.15
Vi sono poi anche critiche alla CSR che potremmo definire “terzomondiste” (cioè in nome dei paesi
del c.d. “Terzo mondo”) secondo cui essa rappresenterebbe una sorta di imperialismo culturale
dell’Occidente e, soprattutto, avrebbe un rilevante effetto negativo di natura protezionistica in
quanto, definendo standard eccessivamente elevanti per un’economia in fase di sviluppo, ridurrebbe
le esportazioni e le possibilità di collaborazione tra aziende di paesi poveri e paesi ricchi.
Come si diceva, è importante che il professionista di RP sia consapevole delle obiezioni che
potrebbero essere sollevate contro programmi di CSR e quindi deve potere fare leva sulla credibilità
dell’organizzazione e sulla trasparenza nei rapporti con gli stakeholder. Va detto altresì che molte
delle critiche sopra ricordate sono spesso viziate da un grave pregiudizio riguardo la natura delle
imprese che, sia da “destra” che da “sinistra”, viene a torto identificata nella sola funzione
economica, dimenticando così le vitali dimensioni di socialità interna ed esterna.
15
Robert B. Reich, Supercapitalismo: come cambia l’economia globale e i rischi per la democrazia, Roma, Fazi, 2008,
p. 217 e p. 228.
11
3. IL MANAGEMENT DELLA CSR
•
•
•
•
•
•
•
CSR e modello di impresa “stakeholder-based”
I ritorni della CSR
Dalla CSR alla CSV (M. Porter e M.R. Kramer)
Sostenibilità come contenuto della CSR; i “Dow Jones Sustainability Indexes”
Stakeholder Engagement come metodo della CSR
Un modello per la mappatura degli stakeholder: il Credo di J&J
Il ruolo del professionista di RP
•
CSR E MODELLO DI IMPRESA “STAKEHOLDER-BASED”
La diffusione della CSR è un tutt’uno con l’importanza assunta da un concetto che è centrale nei
modelli avanzati di RP: il concetto di stakeholder. Se prendiamo un testo emblematico per come
oggi sono intese le RP, quale è quello degli “Accordi di Stoccolma”, vediamo l’importanza e la
frequenza (29 volte in una dozzina di pagine!) con cui esso è citato. La diffusione del concetto di
stakeholder nelle teorie manageriali risale a R. Edward Freeman che definì ‘stakeholder’ come
“qualsiasi gruppo o individuo che influenza o è influenzato dal raggiungimento degli obiettivi
dell’organizzazione”.16 Questo nucleo di significato resta in tutte le più raffinate definizioni che
sono seguite. Gli stakeholder, pertanto, non sono semplici pubblici (che, come tali, potrebbero
essere anche privi di un reale interesse ad entrare in una autentica relazione comunicativa), ma quei
soggetti che hanno un potere di influenzamento su una determinata organizzazione e/o subiscono
l’influenza della stessa organizzazione. Quasi tutti gli stakeholder hanno, in proporzioni variabili,
sia la dimensione attiva che quella passiva dell’influenzamento; ad esempio, i decisori pubblici
hanno prevalentemente la prima, mentre i dipendenti un mix equilibrato di entrambe.
INSERIRE Figura 2: Stakeholder che sono influenzati e stakeholder che possono influenzare
le attività del Gruppo Fiat (Bilancio di sostenibilità 2010. Responsabilità economica, sociale e
ambientale)
Il grande successo del termine ‘stakeholder’ si deve anche alla sua fonica opposizione con i termini
che in inglese designano gli azionisti: stockholder e shareholder. La CSR fa riferimento a un
modello di impresa “stakeholder-based” secondo cui essa non risponde solo agli stockholder (o
shareholder), ma a tutti quei soggetti che sono portatori di interessi socialmente legittimi; così il
grado con cui un’impresa fa propria una strategia di CSR può essere significativamente misurato dal
grado con cui sono coinvolti gli stakeholder. E nuovamente emerge l’importanza delle RP per la
CSR in quanto - come recitano gli “Accordi di Stoccolma” - il professionista di relazioni pubbliche
coinvolge gli stakeholder affinché contribuiscano alla definizione e all’attuazione dei programmi di
sostenibilità interpretando le loro aspettative e declinandole in investimenti economici, sociali e
ambientali che assicurino un valore reale per l’organizzazione e per la società nel suo insieme.
Il modello di impresa “stakeholder-based” si contrappone a un modello più tradizionale secondo cui
titolari del diritto ad essere ascoltati sono solo gli shareholder e gli altri soggetti con i quali vi è un
formale contratto giuridico (e negli stretti limiti di quel contratto). A questo secondo orientamento
può essere ascritta la posizione del Premio Nobel per Economia del 1976, Milton Friedman,
secondo cui “v’è una e una sola responsabilità sociale dell’impresa: usare le proprie risorse e
impegnarsi in attività finalizzate ad incrementare i propri profitti al livello massimo possibile
16
R. Edward Freeman, Strategic Management: A Stakeholder Approach, Pitman, 1984.
12
consentito dal rimanere all’interno delle regole del gioco, il che significa impegnarsi in una
competizione aperta e libera senza inganno o frode”.17
Come s’è visto sopra, il modello di impresa “stakeholder-based” ha avuto la propria origine
nell’Europa continentale, ma si è progressivamente esteso anche ai paesi anglosassoni (inizialmente
diffidenti verso la CSR). Emblematica di tale estensione è la rilevanza che il concetto di stakeholder
ebbe nel programma del New Labour di Tony Blair (primo ministro britannico dal 1997 al 2007).
Proprio in un suo celebre discorso, pronunciato a Singapore nel 1996, Blair prospettò le
caratteristiche di una “stakeholder economy” come parte di una “stakeholder society”. L’obiettivo
polemico di Blair era, da un lato, la visione del partito conservatore risalente a Margareth Thatcher
(la celebre “Lady di ferro”, primo ministro dal 1979 al 1990) e, dall’altro, la “vecchia” ideologia
laburista: Blair, seguendo le indicazioni di Anthony Giddens (che di lì a poco sarebbe diventato
Direttore della London School of Economics), proponeva una “terza via”, né liberista né socialista,
che costruisse relazioni di fiducia tra i diversi soggetti economici e sociali per la costruzione di
benefici comuni. Cioè Blair e Giddens cercarono, almeno a livello di intenzioni, di trasferire
all’economia di un intero Paese l’obiettivo strategico proprio della CSR consistente nel puntare alla
realizzazione di partnership tra l’impresa e i suoi stakeholder oltre gli opposti modelli del governo
dei soli azionisti o di soggetti estranei alla proprietà formale (es. i lavoratori o le istituzioni
politiche).
•
I RITORNI DELLA CSR
Ogni attività manageriale non può sottrarsi alla misurazione dei risultati e, quindi, alla valutazione
del ritorno degli investimenti. Sotto questo profilo la CSR condivide problematicità analoghe a
quelle che si ritrovano in aree come la gestione delle risorse umane o le relazioni pubbliche dove è
più complesso, rispetto a funzioni come la produzione o lo stesso advertising, determinare il nesso
tra gli investimenti e i loro effetti. Si tratta pertanto di una questione da sempre viva e che non è
stata ancora completamente risolta. Proprio l’incertezza in ordine ad una valutazione precisa dei
benefici prodotti dalla CSR è ciò che ancora rallenta una sua diffusione nelle piccole e medie
imprese.
In oltre 20 anni di esperienze si può affermare che, a livello macro, la CSR rafforza l’impresa in
almeno quattro aree:
• verso i dipendenti, aumentando il senso di appartenenza e la motivazione di quelli attuali
oltre all’attrattività per quelli potenziali;
• verso il mercato, migliorando le connotazioni positive del brand (elemento importante in
diversi settori in cui ciò influenza in modo determinante le scelte dei consumatori);
• verso le istituzioni, le comunità locali e, in generale, l’ambiente sociale esterno, rafforzando
la “licenza di operare” e predisponendo gli interlocutori ad un ascolto attivo delle richieste
aziendali;
• verso gli investitori, favorendo l’accesso al credito grazie al privilegiamento di una
sostenibilità di medio-lungo periodo oltre che alla possibilità di ricorrere alle risorse della
finanza etica.
Più analiticamente, la società inglese AccountAbility identifica i seguenti vantaggi potenziali di una
CSR basata sul coinvolgimento degli stakeholder:
• condurre ad uno sviluppo sociale più equo e sostenibile dando a chi ha il diritto di essere
ascoltato l’opportunità di essere coinvolto nei processi decisionali;
• permettere una migliore gestione del rischio e accrescere la reputazione;
17
Milton Friedman, Social Responsibility of Business is to Increase Its Profits. In: “New York Times Magazine”,
September 13, 1970, pp. 122-126.
13
• tenere conto dell’insieme delle risorse (conoscenza, persone, disponibilità economica e
tecnologica) per risolvere problemi e raggiungere obiettivi che non possono essere
perseguiti dalle singole organizzazioni;
• permettere la comprensione in profondità dell’ambiente in cui opera l’impresa, compresi gli
sviluppi del mercato e l’identificazione di nuove opportunità strategiche;
• consentire alle imprese di imparare dagli stakeholder, ottenendo risultati nei prodotti e
miglioramenti nei processi;
• informare, educare e influenzare i portatori di interessi e l’ambiente esterno perché
migliorino i loro processi decisionali e le azioni che hanno un impatto sull’impresa e sulla
società; costruire la fiducia tra un’impresa e i suoi stakeholder.
INSERIRE: Figura 3: Modello Pirelli di stakeholder engagement: massimizzazione del flusso
di valore dell’azienda verso i portatori d’interesse e viceversa (Bilancio Sostenibilità 2011)
La tendenza emergente è pertanto quella di concepire la CSR non tanto come un’autonoma voce di
budget che deve garantire un certo ritorno, ma piuttosto come una modalità di operare che deve
caratterizzare tutte le attività dell’azienda e tutte le persone che vi lavorano. Quindi dovranno
prevedersi specifiche misurazioni per programmi speciali che si affiancano al normale business (si
pensi ad interventi di sostegno a determinati progetti della comunità locale), ma nella grande
maggioranza dei casi la CSR dovrà essere incorporata nei normali processi aziendali (ad es.,
gestione delle risorse umane, ambiente e sicurezza, rapporti con i fornitori,...). In questa prospettiva,
la CSR non è un’ulteriore funzione nell’organizzazione, ma il modo con cui l’organizzazione opera
verso i suoi stakeholder interni ed esterni.
In estrema sintesi, la CSR diventa uno strumento competitivo per le imprese che vogliono essere
leader all’interno, sul mercato, verso l’ambiente sociale e gli investitori.
•
DALLA CSR ALLA CSV (M. PORTER E M.R. KRAMER)
L’approccio che non separa la responsabilità sociale dalla più ampia strategia d’impresa (nella sua
articolazione di processi e funzioni) è quello che contraddistingue l’interessante proposta formulata
da Michael E. Porter e Mark R. Kramer.18 Proprio per evidenziare questo aspetto, Porter e Kramer
hanno esplicitamente sostituito l’acronimo CSR con CSV (“Creating Shared Value”), creare valore
condiviso, e quindi marcare nettamente la distanza da attività meritorie (quali la filantropia o il
cause related marketing che a volte sono state associate alla CSR), ma che non toccano l’operatività
dell’impresa nel suo insieme.
Porter e Kramer definiscono il concetto di valore condiviso come “l’insieme delle politiche e delle
pratiche operative che rafforzano la competitività di un’azienda migliorando nello stesso tempo le
condizioni economiche e sociali delle comunità in cui opera”, ciò implica focalizzarsi
“sull’identificazione e sull’espansione delle connessioni tra progresso economico e progresso
sociale”. Dunque, “l’obiettivo delle imprese va ridefinito intorno alla creazione di valore, e non
intorno al profitto in quanto tale”. Il presupposto è che il contesto sociale e le esternalità negative
possano danneggiare i risultati dell’azienda, mentre, al contrario, cercare “di risolvere i problemi
sociali può migliorare la redditività e la produttività aziendale”. In questa prospettiva, si supera
l’idea, tipica dell’approccio neo-classico in economia, secondo cui vi sarebbe un trade-off tra
impegno dell’impresa per il sociale e ritorno degli investimenti: in realtà non è vero che se le
18
Michael E. Porter e Mark R. Kramer, Creating Shared Value: Redefining Capitalism and the Role of the Corporation
in Society, in “Harvard Business Review”, gennaio-febbraio 2011. Cfr. FSG, Creating Shared Value: A How-to Guide
for the New Corporate (R)evolution, 2011. Una prima presentazione dell’idea di valore condiviso era stata sviluppata da
Michael E. Porter e Mark R. Kramer in un articolo pubblicato sul numero di gennaio-febbraio 2007 di “Harvard
Business Review” intitolato The Link Between Competitive Advantage and Corporate Social Responsibility.
14
imprese portano un vantaggio agli stakeholder, con ciò diminuiscono i loro profitti e quindi gli utili
da distribuire agli azionisti. Un esempio di Porter e Kramer è quello di un programma di benessere
per i dipendenti: “la società in generale ne trae beneficio perché i collaboratori e i loro famigliari
stanno meglio, e l’azienda minimizza l’assenteismo e le perdite di produttività”.
INSERIRE: Figura 4: La piramide della creazione di valore condiviso in Nestlé (Nestlé
Creating Shared Value Report 2011)
Pertanto, secondo Porter e Kramer, è un comportamento sanamente egoistico che dovrebbe guidare
le imprese a ricercare la creazione di valore condiviso in quando da esso dipende la stessa
massimizzazione dei profitti. Questa è la ragion per cui “un numero sempre maggiore di imprese
note per il loro approccio pragmatico al business – come Google, IBM, Intel, Johnson & Johnson,
Nestlé, Unilever e Wal-Mart – hanno cominciato ad avviare iniziative basate sul valore condiviso”.
Molto significativa è poi la considerazione secondo cui non tutti i profitti sono uguali,
contrariamente a quanto si ritiene “nella visione ristretta e di breve termine dei mercati finanziari e
in gran parte del pensiero manageriale”: infatti i profitti “che coinvolgono una finalità sociale
rappresentano una forma più elevata di capitalismo, che metterà la società in condizione di
progredire più rapidamente, consentendo nello stesso tempo alle imprese di crescere ancora di più”.
L’adozione di tali logiche imprenditoriali e manageriali porta ad una ristrutturazione dell’intera
azienda secondo tre approcci fondamentali: riconcepire prodotti e mercati (ad es. promuovendo
prodotti coerenti con le regole di un’alimentazione corretta o costruendo un’offerta per consumatori
a basso reddito o altrimenti svantaggiati); ridefinire la produttività nella catena del valore (ad es.
migliorando l’efficienza attraverso una maggiore attenzione a fattori quali “l’igiene, la sicurezza, la
performance ambientale e la ritenzione e lo sviluppo delle capacità dei dipendenti”); costruire
cluster di supporto nelle comunità in cui opera l’azienda (cioè favorendo tutti quegli elementi del
contesto esterno che condizionano in modo determinante il successo dell’impresa: istituzioni
pubbliche, sistema giuridico, enti accademici, associazioni imprenditoriali, organismi certificatori,
scuole, università,...).
INSERIRE: Figura 5: La recezione in Snam dell’approccio di Porter e Kramer alla creazione
di valore condiviso (Bilancio di sostenibilità 2011)
La proposta di Porter e Kramer è particolarmente importante per un professionista di RP perché
colloca la creazione di valore condiviso al centro della strategia d’impresa e quindi conferisce un
ruolo determinante ai processi di costruzione e sviluppo delle relazioni con gli stakeholder interni
ed esterni.
Un bell’esempio italiano di creazione di valore condiviso è il progetto “Al mare in treno” realizzato
dagli albergatori di Rimini e Riccione in collaborazione con Trenitalia.19 Gli albergatori offrono il
rimborso del biglietto ferroviario di andata per chi effettua un soggiorno di almeno una settimana in
mezza pensione o pensione completa, ed il rimborso anche del ritorno per chi si fermi due
settimane. Il risultato più evidente è stato, oltre ad una significativa sensibilizzazione sui temi della
mobilità sostenibile, la riduzione del traffico automobilistico nelle località interessate e, quindi,
minori emissioni di anidride carbonica e maggiore qualità di vita di cittadini e turisti.
Mentre un caso sempre italiano di prodotti che vengono riconcepiti in modo da soddisfare esigenze
dei consumatori meno avvantaggiati è l’offerta proposta da Ikea di “Cucine ad elevata
accessibilità”20, destinate a famiglie con persone che presentano ridotte possibilità di movimento
19
Il progetto “Al mare in treno” ha vinto il premio “Sodalitas Social Award” 2012 nella categoria “Migliore iniziativa a
favore dell’ambiente”.
20
Il progetto “Cucine ad elevata accessibilità” ha vinto il premio “Sodalitas Social Award” 2011 nella categoria
“Migliore iniziativa nell’ambito del mercato”.
15
(disabili, anziani, etc.), senza che gli specifici accorgimenti tecnici incrementino il prezzo finale del
prodotto.
• SOSTENIBILITÀ COME CONTENUTO DELLA CSR; I “DOW JONES SUSTAINABILITY
INDEXES”
Se volessimo dare una definizione di CSR utile al professionista di RP, potremmo indicare questi
tre elementi:
• essa è sostenibilità, riguardo ai contenuti;
• coinvolgimento degli stakeholder, riguardo al metodo;
• costruzione di valore condiviso, riguardo alle finalità strategiche.
Il concetto di sostenibilità s’è diffuso a seguito del Rapporto “Our Common Future” prodotto nel
1987 dalla “Commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo” (WCED), allora presieduta dalla
norvegese Gro Harlem Brundtland (da cui anche il nome di “Rapporto Brundtland”). La definizione
lì contenuta è quella ancora oggi più diffusa e presente nei documenti delle imprese di tutto il
mondo: è sostenibile lo sviluppo quando “soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la
possibilità delle generazioni future di soddisfare i loro propri bisogni”. Su questa linea vi è la
brillante sintesi di Hau Lee (Stanford Business School) secondo cui sostenibilità è “assicurarsi che
oggi stiamo usando risorse che non pregiudicheranno le risorse di domani”.
Dunque, inizialmente, il concetto di sostenibilità aveva una forte connotazione di rispetto
dell’ambiente naturale nella consapevolezza della finitezza delle sue risorse, ma anche in una
prospettiva virtuosa di superamento del modello dei “limiti dello sviluppo” che considerava come
rivali obiettivi economici ed obiettivi ecologici.
Nell’ultimo decennio, con lo sviluppo della CSR, la sostenibilità s’è arricchita di altre due
dimensioni: la sostenibilità economica e la sostenibilità sociale (in senso stretto). Con una celebre
sigla, si usa dire che la sostenibilità si riferisce a tre “P”: planet, profit e people. Così anche per gli
“Accordi di Stoccolma” (approvati dal World Public Relations Forum nel 2010) la sostenibilità di
un’organizzazione “si radica nel delicato equilibrio fra le sue necessità di oggi e il coerente
perseguimento delle necessità future, imperniate anche sulle diverse e specifiche dimensioni
economiche, sociali e ambientali” e sta ad indicare “politiche e programmi che assicurano
l’esistenza economica, ambientale e sociale dell’organizzazione al di là del breve-medio termine”.
Ad esempio, essere sostenibili dal punto di vista economico significa anche non distribuire tutti gli
utili agli azionisti, ma riservarne una parte a quegli investimenti che consentiranno di poter
realizzare altri utili nel medio-lungo periodo.
Il senso di sostenibilità come triplice responsabilità economica, ambientale e sociale è quello
recepito dalla famiglia di indici Dow Jones chiamata “Dow Jones Sustainability Indexes” (DJSI) e
che raccoglie una selezione estremamente qualificata di aziende impegnate nella CSR. Il processo
di ammissione è molto severo ed è effettuato dalla società svizzera SAM (“Sustainable Asset
Management”) utilizzando numerosi indicatori costantemente aggiornati in modo da fornire la
migliore articolazione della sostenibilità. Le imprese poi sono valutate annualmente con grande
attenzione e se non raggiungono gli standard richiesti, sia assoluti che comparativi, vengono escluse
dagli indici (cosa che comunque non ha impedito l’accendersi di una vasta discussione attorno
all’effettiva credibilità di tali valutazioni quando, nel 2010, BP, la grande multinazionale petrolifera
presente nel DJSI, è stata protagonista dell’esplosione di una piattaforma petrolifera nel Golfo del
Messico che ha provocato un grave disastro ambientale).
Per la dimensione economica vengono analizzati aspetti quali la corporate governance, la gestione
del rischio, il codice etico e le procedure anti-corruzione, la catena di fornitura, le pratiche di
marketing, il processo di innovazione. Per la dimensione ambientale si considerano gli indicatorichiave (KPI) di performance ambientale e di utilizzo delle risorse naturali, le modalità di
16
rendicontazione specifica, la strategia per i cambiamenti climatici e per la riduzione delle emissioni,
l’efficienza energetica. Infine, nella dimensione sociale sono considerati elementi quali lo sviluppo
e la gestione del capitale umano, la capacità di attrarre e trattenere talenti, la salute e la sicurezza sul
lavoro, il rispetto della equità di trattamento, gli investimenti nell’ambiente esterno e la filantropia,
la rendicontazione sociale.
INSERIRE: Figura 6: Approccio operativo Pirelli alla generazione di valore sostenibile
(Bilancio Sostenibilità 2011)
Nel 2012 le aziende italiane nel DJSI sono per numero sotto la media europea, ma vi sono
comunque alcune prestigiose presenze (che ottengono lusinghieri piazzamenti) quali Atlantia, Enel,
Eni, Fiat, Finmeccanica, Italcementi, Pirelli, Snam, Telecom e Terna.
• STAKEHOLDER ENGAGEMENT COME METODO DELLA CSR
La CSR se, riguardo ai contenuti, è sostenibilità, dal punto di vista del metodo manageriale, è
coinvolgimento degli stakeholder. Questo significa che un eventuale programma per la riduzione di
esternalità negative (ad es. i rifiuti), progettato e attuato senza il coinvolgimento degli stakeholder, è
azione che potrà essere anche meritoria, ma non rientra nella responsabilità sociale d’impresa.
L’idea presupposta è che non si possa creare valore condiviso unilateralmente proprio perché, su un
piano strettamente tecnico, l’azienda non può possedere tutte le conoscenze necessarie.
Dunque, come s’è detto, le RP, in quanto disciplina specificamente dedicata allo sviluppo delle
relazioni con gli stakeholder, non si collocano a valle del processo di CSR con funzione di mera
comunicazione dei risultati conseguiti, ma ne costituiscono l’impianto manageriale.
Una guida molto utile al coinvolgimento degli stakeholder, all’interno di una strategia di
responsabilità sociale, è quella prodotta da AccountAbility, una società inglese con sedi in diversi
paesi del mondo, e che si caratterizza come standard internazionale, coerente anche con i
meccanismi di rendicontazione GRI (“Global Reporting Initiative”).
Secondo la prospettiva di AccountAbility, il coinvolgimento degli stakeholder è giunto alla sua
“terza generazione” in cui non si limita a rispondere a specifiche problematiche esterne (prima
generazione) o a gestire in modo sistematico i rischi e a comprendere gli interlocutori-chiave
(seconda generazione), ma ricerca un coinvolgimento strategico ed integrato per la creazione di un
vantaggio competitivo sostenibile. A tale fine, sono previste cinque fasi che possono essere così
sinteticamente presentate (rinviando ai documenti di AccountAbility per eventuali
approfondimenti21):
(i.) definizione di un primo orientamento strategico: valutazione delle connessioni tra obiettivi
dell’impresa e interessi degli stakeholder, individuazione delle tematiche rilevanti, prima mappatura
e messa in priorità;
(ii.) analisi e pianificazione: selezione degli stakeholder, scelta delle modalità del loro
coinvolgimento, costruzione di un piano operativo basato su quelle tematiche e quegli stakeholder
risultati maggiormente critici;
(iii.) rafforzamento delle capacità di coinvolgimento: questa fase è particolarmente innovativa in
quanto si preoccupa di sviluppare all’interno, ma anche di potenziare negli stakeholder, quanto è
necessario per una collaborazione efficace in termini di strumenti, conoscenze e abilità;
(iv.) attuazione del coinvolgimento attraverso i metodi e gli strumenti più funzionali agli obiettivi;
(v.) rendicontazione e revisione in vista di una ulteriore e più efficace implementazione.
21
Si segnala in particolare un ottimo Manuale prodotto da AccountAbility di cui è disponibile anche una traduzione
italiana.
17
Il principio fondamentale attorno a cui ruota l’intero processo è quello di inclusività, almeno nel
senso minimale di riconoscimento di un diritto degli stakeholder ad essere ascoltati e ad essere
destinatari di periodiche rendicontazioni.
INSERIRE: Figura 7: Matrice di materialità in Intesa San Paolo (Stakeholder Engagement in
Intesa San Paolo, 2010)
Uno strumento importante (e utilizzato da un grande numero di organizzazioni) per la messa in
priorità delle varie tematiche su cui coinvolgere gli stakeholder, è la cosiddetta matrice di rilevanza
o di materialità (utilizzando il calco della parola inglese ‘materiality’). Su uno dei due assi (ad es.
quello verticale delle ordinate) si indica l’importanza della tematica per l’attuazione degli obiettivi
strategici dell’impresa, mentre sull’altro asse (ad es. quello orizzontale delle ascisse) si indica
l’importanza della tematica per la media ponderata degli stakeholder (o per ciascuno di essi):
saranno ovviamente da privilegiarsi quelle tematiche che risulteranno in alto a destra nella matrice,
cioè di elevato interesse sia per l’impresa che per gli stakeholder.
•
UN MODELLO PER LA MAPPATURA DEGLI STAKEHOLDER: IL CREDO DI J&J
S’è detto che la diffusione nel mondo manageriale del termine ‘stakeholder’ risale agli anni ‘80 del
secolo scorso anche a seguito del contributo teorico di R. Edward Freeman, ma va detto che vi sono
state importanti esperienze che, con diverso lessico, hanno anticipato un modello di impresa che
coinvolge i soggetti interni ed esterni nella costruzione di un valore condiviso.
In particolare, un’articolata mappatura di quelli che sarebbero stati chiamati stakeholder e dei loro
interessi è presente in quello che forse è il più influente e fortunato documento mai realizzato da
un’azienda: l’Our Credo che Johnson & Johnson adottò nel 1948 e che, con poche variazioni, è
tutt’ora vigente. Si tratta di una sola pagina di testo in cui J&J enumera gli impegni che assume nei
confronti dei suoi vari interlocutori. Al di là della grande importanza avuta per l’azienda che l’ha
prodotto, il Credo ha costituito il modello insuperato per la redazione di centinaia di altri documenti
strategici quali missioni, visioni, carte dei principî e, come tale, assume una specifica importanza
per il comunicatore professionale.
I quattro gruppi di responsabilità individuati da J&J hanno fatto scuola ed hanno costituito
l’ossatura di molte successive mappature degli stakeholder (anche quelle recentissime di grandi
aziende):
• responsabilità verso chi utilizza i prodotti ed i servizi dell’azienda;
• responsabilità verso i dipendenti;
• responsabilità verso le comunità locali e l’intera comunità mondiale;
• responsabilità verso gli azionisti.
L’ordine non è ovviamente casuale ed è significativo che la responsabilità verso gli azionisti sia
indicata per ultima nella convinzione che, come recita il testo, “l’attività economica deve generare
un giusto profitto”, ma altresì occorre garantire una sostenibilità nel lungo periodo e quindi
“sperimentare nuove idee, sviluppare la ricerca, introdurre programmi innovativi, [..] acquistare
nuove attrezzature, creare nuovi stabilimenti e lanciare nuovi prodotti”. Molto interessante è anche
l’idea secondo cui il guadagno degli azionisti sarà una conseguenza diretta dell’operare in modo
responsabile verso gli altri soggetti.
La forza del Credo è stata messa alla prova in quello che è ancora il caso paradigmatico (e più
studiato) di crisis management. La vicenda risale al 1982 quando vennero manomesse con un
veleno (da persone che rimasero sconosciute) delle capsule del farmaco più venduto di J&J (il
Tylenol) che erano già sugli scaffali dei negozi. Morirono sette persone nell’area di Chigago.
Nonostante un’indagine avesse subito provato che il sabotaggio non fosse in alcun modo da
attribuire al personale di J&J e nonostante non vi fosse alcun dovere giuridico, il vertice di J&J
18
decise, basandosi esplicitamente sul Credo, di ritirare in tutto il mondo tutte le confezioni di
prodotto (indipendentemente dal nome commerciale che esso aveva) subendo perdite per oltre 100
milioni di dollari. Dunque il vertice di J&J ha utilizzato il Credo come motivazione delle sue
decisioni sopportando, almeno nell’immediato, delle ingenti perdite economiche a cui J&J non
sarebbe stata giuridicamente tenuta. Il Credo ha consentito una decisione che ha risolto la crisi con
costi elevati, ma in tempi brevi e, soprattutto, con la riaffermazione di una forte identità aziendale.
In altri termini, s’è creata una storia in cui J&J è la protagonista positiva. È noto che non tutte le
aziende in circostanze simili si sono comportate come J&J. Classico è il confronto con quanto fece
Bristol-Myers in un caso analogo: ritirò le compresse nella sola zona degli USA in cui si era
verificato l’incidente (e non in tutto il mondo, come invece aveva fatto J&J).
• IL RUOLO DEL PROFESSIONISTA DI RP
Le competenze proprie delle relazioni pubbliche sono dunque imprescindibili per una strategia di
CSR e in un modo assai diverso da quello secondo cui ogni programma d’impresa richiede il
supporto della comunicazione. Infatti, RP e CSR in buona parte si sovrappongono.
Questa è la prospettiva enunciata anche dagli “Accordi di Stoccolma” (approvati dal “World Public
Relations Forum” e recepiti dalla Ferpi). secondo cui “l’organizzazione comunicativa rivendica la
sua leadership interpretando la sostenibilità [qui sinonimo di CSR] come opportunità trasformativa,
in una continua rendicontazione agli stakeholder delle proprie politiche e dei propri comportamenti
economici, ambientali e sociali, rafforzandone la posizione competitiva”. In questa frase così densa
sono da sottolineare tre importanti concetti:
• organizzazione comunicativa: la CSR è la modalità con cui costruisce la propria leadership
quella organizzazione in cui la comunicazione non è solo una funzione di staff, ma una
competenza diffusa, e in cui le RP svolgono un ruolo strategico;
• opportunità trasformativa: attraverso le CSR si stabiliscono relazioni con gli stakeholder in
cui l’organizzazione modifica - analogamente alle tesi sopra viste di Porter e Kramer - i propri
processi, prodotti ed approcci al mercato, oltre alle modalità di collaborazione con istituzioni
e comunità locali; dunque, attraverso la CSR, le RP diventato una leva fondamentale di
innovazione e change management;
• posizione competitiva: la CSR è un modo di articolare la strategia d’impresa e non
semplicemente un’attività di supporto; pertanto le RP non si misurano solo con i tradizionali
obiettivi della reputazione, ma rafforzano il loro ruolo di funzione direttamente connessa al
business.
Sempre all’interno degli “Accordi di Stoccolma” sono indicati i quattro compiti principali di un
professionista di RP per la realizzazione di una strategia di CSR.
Innanzitutto, in primo luogo, “coinvolge e impegna gli stakeholder affinché contribuiscano alla
definizione e all’attuazione delle politiche e dei programmi di sostenibilità [intesa sempre come
sinonimo di CSR] dell’organizzazione”: è da notare che gli stakeholder dovrebbero partecipare non
solo nella fase di implementazione, ma anche in quella di progettazione, ciò non tanto (o non solo)
in nome di determinati valori etici, quanto per massimizzare la creazione di valore condiviso e,
quindi, l’utile della stessa organizzazione.
In secondo luogo, il professionista di RP “interpreta le aspettative sociali declinandole in
investimenti economici, sociali e ambientali che assicurino un valore reale per l’organizzazione e
per la società nel suo insieme”, cioè utilizza le sua tipiche competenze di lettura del contesto e di
ascolto degli stakeholder per individuare aree di intervento in cui realizzare progetti che siano utili
per tutti i soggetti coinvolti.
In terzo luogo, il professionista di RP “assicura la partecipazione degli stakeholder alla
identificazione delle informazioni da mettere a loro disposizione con modalità trasparenti,
verificabili e autentiche”: anche in questo caso abbiamo un coinvolgimento degli stakeholder che
19
non li limita al ruolo di destinatari di comunicazioni dedicate, ma li vede orientare la stessa
preliminare selezione dei contenuti.
Infine, in quarto luogo, il professionista di RP “promuove e sostiene l’obiettivo di raggiungere una
rendicontazione unica, continua e multicanale che integri i comportamenti economici, finanziari,
patrimoniali, sociali e ambientale dell’organizzazione”: la prospettiva è quella di contribuire alla
costruzione di un processo (più che un prodotto) tale da fornire un quadro in costante evoluzione di
tutti i principali dati in cui si articola la triplice responsabilità di una organizzazione così che gli
stakeholder esterni, ma anche la stessa dirigenza e tutti i dipendenti, abbiano gli elementi utili per
correggere eventuali decisioni assunte e programmare nuove iniziative. Ciò che oggi si avvicina
maggiormente a questa importante funzione è il bilancio integrato, di cui si dirà in un paragrafo
successivo.
20
4. STRUMENTI PER LA CSR
•
•
•
•
•
•
•
•
•
Modalità e strumenti per il coinvolgimento degli stakeholder
Volontariato d’impresa
Il bilancio sociale come strumento di comunicazione
Lo standard GRI e le nuove frontiere del bilancio integrato
Corporate governante e CSR
Rilevanza del D.lgs. 231/2001
Codici etici e codici di condotta
Certificazione e linee-guida internazionali
Adesione al “Global Compact”
• MODALITÀ E STRUMENTI PER IL COINVOLGIMENTO DEGLI STAKEHOLDER
L’intera gamma di modalità e strumenti di comunicazione può essere utilizzata per il
coinvolgimento degli stakeholder. La scelta dovrà essere guidata, oltre che da ovvie considerazioni
di budget, dall’obiettivo specifico del coinvolgimento e dalla tipologia dello stakeholder: anche a
tale fine sono determinanti le competenze specifiche del professionista di relazioni pubbliche. Ad
esempio, l’ascolto può realizzarsi attraverso incontri personali, forum e focus-group. Mentre
l’informazione può servirsi di report, documenti mirati, conferenze, presentazioni pubbliche.
Attraverso Internet poi è possibile uno sviluppo in continuo dei processi di ascolto e informazione.
Ciò che va sottolineato è che nei processi di CSR la scelta di modalità e strumenti non può essere
unilateralmente effettuata dall’azienda, ma deve il più possibile tenere conto delle esigenze degli
stakeholder a cui, pertanto, andrebbero esplicitamente richieste indicazioni in merito.
INSERIRE: Figura 8: Modalità di coinvolgimento degli stakeholder in Coca-Cola Enterprises
(Corporate Responsibility and Sustainability Report 2010).
L’area in cui attualmente è maggiore l’innovazione di modalità e strumenti è quella relativa al
coinvolgimento in senso stretto. Il Web 2.0 con lo sviluppo dei social media ha offerto
l’infrastruttura ideale per realizzare una forte interattività tra l’organizzazione ed i suoi stakeholder
anche attraverso la possibilità di definire spazi di relazioni dedicati e relativamente riservati. Ma
sono le stesse metodologie di confronto e deliberazione che stanno evolvendo verso modelli sempre
più efficaci. In tale direzione, la frontiera più avanzata è rappresentata dal c.d. “Consensus
Decision-Making” che costituisce un approccio al processo decisionale basato sull’inclusione, la
cooperazione e la tendenziale simmetria dei soggetti che vi intervengono.
Ma l’efficacia di modalità e strumenti dipende anche dalla capacità degli stakeholder di partecipare
in modo attivo. Da qui un’importante e non scontata indicazione pratica: l’organizzazione deve
poter mettere gli stakeholder in condizione di sostenere il coinvolgimento sia in termini di risorse
che di competenze. Ad esempio, potrà prevedere corsi di formazione o forme di volontariato
d’impresa finalizzate a rafforzare il management di un’associazione rappresentativa degli
stakeholder: il c.d. empowerment degli stakeholder è il modo più efficace per costituire i
presupposti della creazione di valore condiviso. Più in generale, è da ricordarsi la bella
provocazione di Paolo D’Anselmi secondo cui le imprese che vogliono essere socialmente
responsabili devono considerare anche lo “stakeholder ignoto”, cioè “ difendere chi non è in grado
di farlo, chi non ha voce, chi ha un interesse in ballo ma non lo sa”.22
22
Cfr. Paolo D’Anselmi (ed.), CSR: la forza del contro-esempio, “Communitas”, n. 39 (2009); Values and Stakeholders
in an Era of Social Responsibility: Cut-Throat Competition?, Palgrave Macmillan, 2011.
21
• VOLONTARIATO D’IMPRESA
Il volontariato d’impresa è uno strumento di impegno verso il sociale che, a seconda delle modalità
con cui è realizzato, può rientrare nella filantropia o nella CSR intesa nel senso più proprio di
coinvolgimento degli stakeholder per la ricerca di un valore condiviso. Infatti, attraverso il
volontariato d’impresa, i dipendenti partecipano, con il supporto dell’azienda, ad iniziative e
progetti di organizzazioni non-profit.
Un esempio è il programma “World of Difference (WoD)” lanciato da Vodafone Group e
sviluppato a livello locale dalla Fondazione Vodafone Italia. Lo scopo del programma è trasferire
competenze al settore non-profit attraverso il distacco temporaneo di dipendenti (o clienti) che
vengono retribuiti da Vodafone. Ciò si traduce in un vantaggio immediato per le associazioni
destinatarie in quanto consente loro di migliorare il management o di risolvere problemi tecnici, ma
procura un beneficio anche all’azienda in termini di crescita professionale delle persone coinvolte e
di rafforzamento delle relazioni con le comunità locali e il mondo del terzo settore.
Molto interessante anche il progetto sviluppato da Terna, in collaborazione con l’organizzazione
umanitaria COOPI, per portare l’elettricità in un villaggio delle Ande, in Bolivia, a 3.800 m. di
altitudine e promuovere lo sviluppo sostenibile, l’artigianato e la salute della popolazione locale. In
particolare, i dipendenti di Terna hanno direttamente contribuito a progettare e costruire una linea
elettrica di 37 kilometri all’interno di un programma quadriennale che include la donazione del loro
tempo di lavoro, materiale e know-how sulla trasmissione di energia.
A livello internazionale, è da segnalare il network, a cui partecipa l’italiana “Sodalitas”, costituitosi
attorno a “ENGAGE”, la campagna di sostegno al volontariato d’impresa lanciata nel 2002
dall’“International Business Leaders Forum” (IBLF) e da “Business in the Community” (BITC).
• IL BILANCIO SOCIALE COME STRUMENTO DI COMUNICAZIONE
Si può dire che presso alcuni uomini d’impresa particolarmente all’avanguardia già nel secondo
dopoguerra era avvertita l’importanza del bilancio come strumento di comunicazione. Infatti, nel
1954 per volontà di Roberto Tremelloni, futuro Ministro delle Finanze e allora presidente dell’IPR
(Istituto per le Relazioni Pubbliche) fu istituito l’Oscar di Bilancio. Ma è solo negli anni ‘80 che
questo premio, rilevato da Ferpi, inizia ad acquisire l’interesse che ora gode. La comunicazione
finanziaria è stata, infatti, per lungo tempo materia per i soli specialisti in cui dominava la
componente tecnica e anche la scarsa trasparenza.
La CSR ha contribuito ad un ulteriore salto di qualità nella costruzione dei bilanci in quanto ha
favorito la progressiva integrazione dei dati finanziari tipici con altri elementi conoscitivi riguardo
alla prestazione complessiva dell’organizzazione.
All’inizio si trattava per lo più di informazioni connesse agli impatti sull’ambiente (emissioni
inquinanti, utilizzo delle risorse naturali, gestione dei rifiuti, risk management,…) che venivano
raccolte in un report specifico solitamente denominato ‘bilancio ambientale’.
Quindi si sono gradualmente aggiunti dati relativi all’impatto sulle persone interne all’azienda
(politiche delle risorse umane, formazione, sicurezza sul lavoro, clima interno,…) e sulle comunità
locali (partnership con stakeholder esterni, sostegno allo sviluppo, filantropia,…). Pertanto, a partire
dai primi anni ‘90, si sono diffusi i c.d. ‘bilanci sociali’ che rendicontano sia l’impatto
sull’ambiente, sia quello sul sociale interno ed esterno.
Qualche anno dopo, la rendicontazione inizia a coprire anche la sostenibilità economica
completando il profilo di responsabilità sociale nei suoi tre caratteristici ambiti (“triple-bottonline”). A segnare questa evoluzione è significativo che l’Oscar di Bilancio nel 1992 abbia istituito il
“Premio Speciale Bilancio Ambientale”, nel 1995 il “Premio Speciale Bilancio Sociale” e nel 2001
il “Premio Speciale Bilancio di Sostenibilità” che assorbiva i primi due.
22
Va chiarito però che non sempre il nome del bilancio corrisponde al suo contenuto: vi possono
essere bilanci che si definiscono “di sostenibilità”, ma che in realtà trattano solo tematiche
ambientali, così come vi sono molti altri nomi utilizzati (ad es., ‘bilancio di cittadinanza’ o ‘bilancio
socio-ambientale’).
Ad oggi il più significativo osservatorio internazionale relativo alle varie forme di bilanci connessi
alla responsabilità sociale è costituito da “CorporateRegister.com”: ne raccoglie molte migliaia
provenienti da quasi tutti i paesi del mondo. Dal 2007 “CorporateRegister.com” attribuisce,
attraverso una votazione pubblica via Internet, i “CR Reporting Awards” (CRRA) che individuano
utilissimi benchmark che possono essere presi come modello dal professionista di RP. In
particolare, si premiano nove categorie: migliore bilancio assoluto; migliore primo bilancio;
migliore bilancio di piccola-media impresa; miglior bilancio integrato; copertura del tema delle
emissioni di anidride carbonica; creatività nella comunicazione; importanza e rilevanza dei
contenuti; apertura e onestà anche sugli aspetti critici; modalità della certificazione esterna.
Come emerge facilmente dai vincitori dei “CR Reporting Awards”, i bilanci connessi alla
responsabilità sociale presentano una grande varietà tipologica oltre che una significativa diversità
nelle scelte tecniche adottate (anche sotto il profilo più strettamente comunicazionale), ma hanno
tutti in comune i tratti della concretezza, della dialogicità e della tensione al miglioramento. A tale
fine, un ruolo importante gioca la pubblicazione in Internet che è spesso vista come una modalità
per dare continuità alla rendicontazione, piuttosto che la passiva pubblicazione di un file PDF.
Cioè, almeno nei casi migliori, si tratta di strumenti di lavoro finalizzati a costruire realmente un
valore condiviso tra l’organizzazione ed i suoi stakeholder. L’epoca delle pesanti e costose brochure
dedicate, in modo contraddittorio, all’impegno ambientale è irrimediabilmente finita.
• LO STANDARD GRI E LE NUOVE FRONTIERE DEL BILANCIO INTEGRATO
Esiste un solo standard mondiale per la realizzazione di un bilancio di responsabilità sociale (o
‘bilancio di sostenibilità’ in senso stretto) ed è quello predisposto da “Global Reporting Initiative”
(GRI), un’organizzazione non-profit dedicata alle tematiche della sostenibilità, costituita con il
sostegno delle Nazioni Unite e avente la sede del proprio segretariato ad Amsterdam. Anche se non
esiste alcun obbligo di seguire le linee-guida GRI, un numero sempre crescente di organizzazioni le
fa proprie perché costituiscono un ottimo riferimento operativo e inoltre sono coerenti con i requisiti
dei “Dow Jones Sustainability Indexes” (DJSI) e altri schemi di lavoro per la CSR (come quello
visto sopra di AccountAbility per il coinvolgimento degli stakeholder).
Dal punto di vista delle RP, è significativo che, secondo il modello GRI, lo scopo principale di una
rendicontazione sociale sia quello di “contribuire al dialogo continuo con gli stakeholder” nella
consapevolezza che “le aziende non operano in isolamento e che la loro esistenza nel tempo, cioè la
loro sostenibilità, dipende dal riconoscimento del loro radicamento in un contesto sociale più
ampio”. In questa direzione, “il reporting di sostenibilità è un processo e uno strumento vivo che,
pertanto, non inizia né si conclude con la pubblicazione di un documento in formato cartaceo o
elettronico”: l’“integrated reporting” (processo) non va confuso con il mero “integrated report”
(prodotto).
Per quanto riguarda la definizione dei contenuti, lo standard GRI si basa su quattro principî:
• materialità (o rilevanza): è il criterio già sopra ricordato secondo cui “le informazioni
contenute in un report devono riferirsi agli argomenti e agli indicatori che riflettono gli
impatti significativi economici, ambientali e sociali, o che potrebbero influenzare in modo
sostanziale le valutazioni e le decisioni degli stakeholder”;
• inclusività degli stakeholder: “l’organizzazione dovrà identificare i propri stakeholder e
spiegare nel report in che modo ha risposto alle loro ragionevoli aspettative e ai loro
interessi”, ma dovrà anche coinvolgere gli stakeholder nello stesso processo di reporting ad
esempio condividendone contenuti e modalità;
23
contesto di sostenibilità: “il report deve illustrare la performance dell’organizzazione con
riferimento al più ampio tema della sostenibilità”, cioè al “modo in cui un’organizzazione
contribuisce [...] al miglioramento o al peggioramento delle condizioni economiche,
ambientali e sociali” anche in una dimensione strategica e prospettica;
• completezza: i contenuti del bilancio “devono essere sufficienti a riflettere gli impatti
economici, ambientali e sociali significativi e a permettere agli stakeholder di valutare la
performance dell’organizzazione nel periodo di rendicontazione”.
Lo standard GRI si basa poi su sei principî al fine di garantire la qualità dei contenuti (la quale deve
essere sempre commisurata alle esigenze degli stakeholder):
• equilibrio: “il report deve riflettere gli aspetti positivi e negativi della performance di
un’organizzazione al fine di permettere una valutazione ragionata della performance nel suo
complesso”;
• comparabilità: “è necessario che le informazioni incluse nel report siano presentate in modo
tale da permettere agli stakeholder di analizzare i cambiamenti della performance
dell’organizzazione nel corso del tempo e da permettere l’analisi comparativa rispetto ad
altre organizzazioni”;
• accuratezza: “le informazioni incluse nel report dovranno essere sufficientemente accurate e
dettagliate affinché gli stakeholder possano valutare la performance dell’organizzazione”;
• tempestività: “il reporting avviene a cadenza regolare e gli stakeholder sono informati
tempestivamente al fine di poter prendere decisioni fondate”;
• chiarezza: “le informazioni devono essere presentate in modo comprensibile e accessibile
agli stakeholder che utilizzano il report”;
• reliability: gli stakeholder devono potere contare sul fatto che le informazioni contenute nel
bilancio possono essere verificate anche da soggetti terzi;
Nello standard GRI i contenuti più caratteristici sono classificati in base a una ottantina di indicatori
di performance (KPI) raccolti in tre insiemi (coerentemente con i contenuti della sostenibilità):
indicatori di performance economica, ambientale e sociale.
I contenuti del report devono poi avere una certificazione (“assurance”) interna attraverso l’utilizzo
dei sistemi di audit propri dell’organizzazione, ma si raccomanda anche una certificazione esterna
da parte di società specializzate, panel di stakeholder o altri team di esperti, in modo da avere una
valutazione il più possibile oggettiva sulla veridicità dei dati presentati e la scelta generale dei
contenuti.
La frontiera più avanzata della rendicontazione sociale è il suo inserimento nella tradizionale
informazione sui dati finanziari così da costituire un bilancio integrato (c.d. “One Report”). Il SudAfrica ha recepito addirittura nel suo diritto tale tendenza così che i bilanci delle aziende quotate
allo “Johannesburg Stock Exchange” devono avere almeno una sezione dedicata alla sostenibilità. Il
bilancio integrato non è però la semplice unione di dati finanziari e dati di sostenibilità, ma
l’evidenziazione delle loro connessioni finalizzate ad una strategia di massimizzazione dei valori
economici e di quelli sociali. Alcune aziende come Novo Nordisk hanno decisamente adottato tale
impostazione. Questa è anche la prospettiva degli “Accordi di Stoccolma” (approvati dal World
Public Relations Forum nel 2010). E secondo i due esperti Robert Eccles e Michael Krzus è proprio
il responsabile della comunicazione la persona meglio posizionata per avviare il processo che
conduce all’integrated reporting.23
Nel 2010 è stato costituito, all’interno dell’Oscar di Bilancio, il Gruppo dedicato al bilancio
integrato con l’obiettivo di costituire un osservatorio italiano sul reporting integrato che abbia un
compito non solamente di monitoraggio, ma che svolga anche un ruolo propositivo perché questa
modalità possa diffondersi in Italia. A livello internazionale, il punto di riferimento più autorevole è
rappresentato da “The International Integrated Reporting Council” (‘the IIRC’) presieduto da
•
23
Robert Eccles e Michael Krzus, One Report: Integrated Reporting for a Sustainable Strategy, John Wiley & Sons,
2010.
24
Mervyn King, il grande esperto sud-africano che è stato anche direttore del GRI (“Global Reporting
Initiative”) e dal 2011 ne è presidente onorario.
Una grande opportunità di utilizzare il bilancio integrato come strumento di relazione tra l’azienda
ed i suoi stakeholder è connessa all’evoluzione delle tecnologie informatiche e di rappresentazione
dei dati. In questa prospettiva, deve essere menzionato l’XBRL (acronimo di “eXtensible Business
Reporting Language”), un linguaggio basato su XML, che si candida ad abbattere le barriere,
sintattiche e semantiche tra chi produce le informazioni finanziarie e chi a vario titolo le utilizza.
Resta che, almeno fino ad oggi, l’autonomo bilancio sociale mantiene una sua utilità e così molte
organizzazioni lo continuano a produrre anche quando integrano il bilancio finanziario con dati
relativi alla CSR.
• CORPORATE GOVERNANTE E CSR
L’inclusività degli stakeholder, se coerentemente sviluppata, si estende anche alla governance
dell’organizzazione. Questa è la prospettiva dell’importante “King Report III”, il terzo rapporto
sulla corporate governance elaborato da un comitato guidato da Mervyn King con la collaborazione
di numerosi esperti di varie discipline manageriali.24 Sopratutto il capitolo 8. del “King Report III”
è importante per il professionista delle RP; esso è intitolato “Governing Stakeholder Relationships”
a significare che le relazioni con gli stakeholder attengono alla responsabilità di chi governa
l’impresa, cioè il Consiglio di Amministrazione, prima ancora che i manager.
Secondo il “King Report III” due sono i modelli di governance che tengono conto delle legittime
attese degli stakeholder. Il primo modello è quello dell’“azionista illuminato” (che rievoca nel nome
il “dispotismo illuminato” dei secoli XVIII e XIX) in cui il soddisfacimento degli stakeholder è
strumentale agli interessi degli azionisti e si giustifica solo nella misura in cui contribuisce a
salvaguardare tali interessi. Il secondo modello è quella della vera e propria inclusione degli
stakeholder i cui interessi devono essere considerati dal CdA non con il solo metro delle valutazioni
degli azionisti, ma sulla base di quale sia il “best interest” dell’impresa. Nel secondo modello,
dunque, gli azionisti non hanno una precedenza a priori sugli stakeholder, anche se devono
ovviamente avere un equo ritorno ai loro investimenti, secondo logiche assai simili a quelle che
erano nel Credo di J&J visto sopra. È interessante che il “best interest” di un’impresa sia inteso dal
“King Report III” come sostenibilità e cittadinanza responsabile.
Nel modello della inclusione degli stakeholder, le RP giocano un ruolo fondamentale non solo
perché, come si legge sempre nel “King Report III”, una comunicazione trasparente ed efficace con
gli stakeholder è essenziale per costruire e mantenere rapporti basati sulla fiducia, ma anche perché
l’intero processo di inclusione degli stakeholder si sviluppa secondo la logica delle RP più avanzate.
• RILEVANZA DEL D.LGS. 231/2001
Come s’è visto, la CSR considera l’impresa nella sua unitarietà come soggetto responsabile sotto i
tre ambiti della sostenibilità economica, ambientale e sociale. È molto significativo che una
concezione analoga sia stata fatta propria dal D.lgs. 231/2001, vale a dire da quella che è divenuta
di gran lunga la più importante legge italiana di diritto penale commerciale.
Il D.lgs. 231/2001 ha rappresentato un’autentica rivoluzione nell’ordinamento giuridico italiano in
quanto per la prima volta ha affermato che nel caso di reato possa subirne le conseguenze giuridiche
negative non solo l’autore, ma anche l’impresa entro cui l’autore operava se essa ha omesso di porre
in essere adeguate modalità di prevenzione. Così, ad es., se il direttore generale commette un reato
di corruzione a vantaggio della sua impresa a risponderne sarà anche l’impresa a meno che essa non
24
Il “King Report III” è stato tradotto in italiano e pubblicato dall’editore Codice nel 2009.
25
provi di avere adottato un adeguato modello organizzativo idoneo a prevenire reati della specie di
quello verificatosi e di avere previsto l’istituzione di un organismo dotato di autonomi poteri
(“Comitato di Controllo”) con il compito di vigilare sul funzionamento e l’osservanza di tale
modello.
Gli effetti sull’impresa possono essere molto gravi. Sono previste sanzioni pecuniarie il cui importo
è fissato sulla base delle condizioni economiche e patrimoniali dell’ente allo scopo di assicurare
l’efficacia della sanzione. Ma sono previste anche sanzioni interdittive come l’interdizione
dall’esercizio dell’attività o il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione o anche il
divieto di pubblicizzare beni o servizi.
Il D.lgs. 231/2001 afferma dunque una concezione dell’impresa in cui ciascuno è direttamente
coinvolto nella condivisione effettiva dei valori della legalità con la minaccia altrimenti di dovere
rispondere anche dei comportamenti scorretti altrui. Dunque, la CSR va nella direzione di costruire
un autentico “scudo protettivo” per l’impresa in modo che imputabili per eventuali reati siano solo
le persone che li abbiano commessi eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e di
gestione. E, correlativamente, proprio l’effettiva conformità al D.lgs. 231/2001 potrebbe essere
l’occasione per la definizione, ove non vi fosse ancora, di una vera e propria strategia di CSR.
• CODICI ETICI E CODICI DI CONDOTTA
Come s’è detto sopra, l’adozione di un adeguato ed effettivo modello organizzativo rappresenta lo
strumento principale che un’azienda deve possedere per non subire le conseguenze di reati
commessi da persone che agiscono in suo nome. È da segnalare che, secondo l’art 6 del D.lgs.
231/2001, “i modelli di organizzazione e di gestione possono essere adottati [...] sulla base di codici
di comportamento redatti dalle associazioni rappresentative degli enti”, cioè sulla base di quelli che
spesso vengono definiti come “codici etici” in quanto manifestazione dell’autonomia normativa
propria delle categorie o degli ordini professionali.
Un ruolo ancora più significativo è assegnato ai codici etici dalla legislazione degli USA il cui
fondamentale “Sarbanes-Oxley Act” (la c.d. “SOX”, la legge del 2002 emanata a seguito del “caso
Enron” e di altri gravi scandali) alla sezione 406 obbliga le società quotate a rendere noto se
abbiano adottato un codice etico per i propri direttori finanziari e, in caso negativo, a giustificare i
motivi della mancata adozione, precisando che per ‘codice etico’ si deve intendere un complesso di
regole dirette a prevenire ogni condotta illecita nonché a promuovere, tra l’altro, una gestione
finanziaria onesta e trasparente che tenga in debita considerazione eventuali conflitti di interesse.
Negli ultimi anni i codici etici hanno assunto quindi un importante rilievo giuridico con contenuti
normativi precisi, assai distanti dalle iniziali dichiarazioni di principî e valori. Alcune aziende
mantengono comunque anche un documento che corrisponde ai “vecchi” codici etici (diffusi prima
di leggi quali il D.lgs. 231/2001 o la “SOX”) e che si rivolge a tutti i dipendenti indicando i
comportamenti attesi soprattutto nelle situazioni dilemmatiche. A tale fine a volte si utilizza anche
un secondo termine (soprattutto ‘codice di condotta’), ma non vi è alcuna standardizzazione
lessicale e, pertanto, l’espressione ‘codice etico’ si può riferire sia ad un testo con forti
caratteristiche normative di tipo tecnico, sia a più generali principî di correttezza sul lavoro, sia a
tutte le soluzioni intermedie tra questi due casi estremi.
INSERIRE: Figura 9: Codice etico, Codice di condotta e altre fonti della corporate
governance in Italcementi (Sustainable Development Report, 2009)
Qualunque sia il suo contenuto specifico, il codice etico deve essere efficace e cioè deve orientare i
comportamenti e le decisioni di chi opera nell’organizzazione. Il professionista della comunicazione
ha dunque un compito fondamentale nella creazione di una cultura etica diffusa. Infatti, spetta a lui
sia intervenire (più di quanto finora gli sia stato mediamente richiesto) nella redazione del codice
26
etico (ancora troppo spesso respingente per lo stile aridamente tecnico), sia contribuire a definire le
modalità di comunicazione e coinvolgimento dei dipendenti oltre che di tutti gli altri soggetti
interessati (come ad esempio i fornitori).
Come esempio di un progetto integrato per il rafforzamento di una cultura della legalità, si segnala
il “Piano per la prevenzione dei rischi criminali”25 di Italcementi Group che prevede, in stretta
sinergia con le Istituzioni, una qualificazione di affidabilità per i fornitori (in essere e potenziali),
necessaria a verificare l’eventuale presenza di indici di rischio di infiltrazione criminale. Tale piano
è stato applicato in sei Regioni (Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e Lombardia) ed ha
portato ad escludere o sospendere il 5% dei fornitori.
• CERTIFICAZIONE E LINEE-GUIDA INTERNAZIONALI
Si può dire che l’intervento di soggetti terzi anche con funzioni di verifica e controllo sia intrinseco
ai processi di CSR nei quali l’organizzazione è chiamata a praticare la massima inclusività
possibile.
Però, ad oggi, sul piano formale una valutazione integrale esterna della CSR si ha solo nel caso di
ammissione e permanenza nei “Dow Jones Sustainability Indexes” (DJSI) dove sono compresi in
modo analitico gli indicatori più rilevanti della triplice responsabilità economica, ambientale e
sociale. Tutte le altre modalità di controllo coprono aspetti importanti ma parziali della CSR, come
nel caso della verifica esterna del bilancio di sostenibilità raccomandata dal modello GRI.
In questa prospettiva sono coerenti con specifici profili della sostenibilità alcuni standard (oggetto
di possibile certificazione) emanati dall’ISO (“International Organization for Standardization”) il
cui membro italiano è l’UNI (“Ente Nazionale Italiano di Unificazione”). Innanzitutto vanno
ricordate le due principali norme tecniche relative alla gestione per la qualità: “ISO 9001” e “ISO
9004”, in particolare quest’ultima riserva un grande rilievo al soddisfacimento bilanciato delle
attese degli stakeholder e al rispetto per il contesto dell’organizzazione visto come condizione
necessaria di successo durevole. Quindi va menzionata l’importante norma “ISO 14001” in tema di
gestione degli impatti sull’ambiente (rifiuti, emissioni, inquinamento luminoso,...).
Riguardo alla salute e sicurezza dei lavoratori va ricordata la norma tecnica “OHSAS 18001”
emanata dal Gruppo BSI (“British Standards Institution”) nel 1999 e rivista nel 2007.
Per quanto attiene l’insieme delle tematiche connesse alle condizioni di lavoro, il processo di audit e
certificazione relativo è quello previsto dallo standard “SA8000” (dove ‘SA’ sta ‘Social
Accountability’) prodotto dal CEP (“Council of Economical Priorities”), poi divenuto SAI (“Social
Accountability International”), una organizzazione non governativa multi-stakeholder la cui
missione è promuovere i diritti umani dei lavoratori. Una prima versione di SA8000 è stata emanata
nel 1997, poi rivista nel 2001 e ancora nel 2008. Alla fine del 2011 erano 2919 le aziende certificate
in tutto il mondo di cui un numero molto elevato, quasi un terzo (31%), in Italia grazie anche al
sostegno della Regione Toscana che ha previsto incentivi finalizzati a tale scopo all’interno
dell’interessante progetto “Fabrica Ethica”. Altri paesi in cui si hanno numeri significativi di
aziende certificate “SA8000” sono India, Cina e Romania, mentre sono pressoché assenti i paesi
anglosassoni e del Nord Europa. Le aree coperte da “SA8000” sono 9: lavoro infantile, lavoro
forzato, salute e sicurezza, libertà di associazione e diritto alla contrattazione collettiva,
discriminazione, procedure disciplinari, orario di lavoro, remunerazione, sistemi di gestione. Si
tratta di tematiche rilevanti per paesi come l’India o la Cina, ma che per l’Italia iterano obblighi già
previsti dal diritto, ad eccezione dell’ultimo punto (“sistemi di gestione”) che comporta l’adozione
di processi di coinvolgimento degli stakeholder e impegno al miglioramento continuo.
In tema di standard internazionali, la novità più importante è costituita dall’emanazione nel 2010,
dopo molti anni di lavoro ed un articolato processo di consultazione, delle linee-guida “ISO 26000”
25
Il “Piano per la prevenzione dei rischi criminali” di Italcementi Group ha vinto il premio “Sodalitas Social Award”
2012 nella categoria “Migliore iniziativa nell’ambito del mercato”.
27
che intendono costituire un riferimento complessivo per la “corporate responsibility”26, anche se la
conformità ad esse non potrà essere oggetto di certificazione (data la loro natura di raccomandazioni
piuttosto che di norme tecniche in senso stretto). “ISO 26000” considera sette aree della “corporate
responsibility”: governance dell’organizzazione; diritti umani; rapporti e condizioni di lavoro;
ambiente; corrette prassi gestionali; aspetti specifici relativi ai consumatori; coinvolgimento e
sviluppo della comunità. Da notare, infine, una forte coerenza tra le linee-guida “ISO 26000” e lo
standard GRI per i bilanci di sostenibilità.
• ADESIONE AL “GLOBAL COMPACT”
Lo “United Nations Global Compact” (UNGC) è senza dubbio il framework a cui più spesso fanno
riferimento le organizzazioni di tutto il mondo impegnate in programmi di CSR. Si tratta
dell’iniziativa promossa, nel 1999, dall’allora Segretario Generale delle Nazioni Unite Kofi Annan
(e ufficialmente lanciata il 26 luglio 2000) con l’obiettivo di coinvolgere direttamente le imprese
nell’attuazione di una serie di principî finalizzati ad “un’economia globale più inclusiva e più
sostenibile”. Tali principî sono attualmente dieci e riguardano un’assunzione di impegno in quattro
aree (diritti umani, lavoro, ambiente e lotta alla corruzione). In molti bilanci sociali le attività di
sostenibilità vengono classificate in modo da evidenziare gli specifici contributi alla loro attuazione.
In collaborazione con Deloitte è stato poi prodotto lo “UNGC Management Model”: una guida per
le imprese nel definire, implementare, misurare e comunicare la strategia di sostenibilità
dell’azienda basata sui dieci principî del Global Compact.
In occasione del secondo “Global Compact Leaders Summit” nel 2007 è stata adottata la
“Dichiarazione di Ginevra” sulla responsabilità sociale; e in occasione del Summit di New York del
2010 è stato prodotto il “Blueprint for Corporate Sustainability Leadership” che identifica i criteri di
leadership coerenti con i dieci principî.
L’adesione allo UNGC è assai semplice. Una volta aderito, le aziende sono tenute a redigere
annualmente e a condividere con i propri stakeholder una comunicazione annuale con il rendiconto
delle azioni intraprese e i risultati ottenuti nell’implementazione dei dieci principî. Nel caso in cui
ciò non avvenga, le aziende vengono inizialmente etichettate come “non comunicanti” e dopo un
anno escluse (“delisted”): nel 2012 sono 197 le organizzazioni italiane in regola con tale obbligo.
Sono previste poi delle associazioni a livello di singola nazione (in Italia è il “Global Compact
Network Italia”) per diffondere la conoscenza dello UNGC e, soprattutto, la sua effettiva
applicazione attraverso l’individuazione di soluzioni pratiche e innovative.
26
“ISO 26000” utilizza l’espressione ‘corporate responsibility’ al posto di ‘corporate social responsibility’ a significare
che essa non si limita agli aspetti strettamente sociali.
28
5. CONCLUSIONI
Da quanto si è detto credo che sia emerso come CSR e relazioni pubbliche abbiano avuto
un’evoluzione assai simile.
La CSR si è inizialmente caratterizzata come attività in sé meritoria, inserita in prestigiose
tradizioni culturali, ma lontana dall’operatività caratteristica del settore di business e molto
condizionata da quanto la proprietà o il vertice dell’azienda si riconoscessero in certi valori di
solidarietà ed impegno sociale. Questa è la ragione per cui Porter e Kramer hanno addirittura
proposto di non usare più il nome ‘CSR’ e sostituirlo con ‘CSV’ (“Creating Shared Value”).
Analogamente le relazioni pubbliche sono state per molto tempo un’importante funzione aziendale,
ma associata a dimensioni prevalentemente esterne o, addirittura, esteriori. Così, ad esempio,
Giuseppe Roggero presentava questa definizione in un celebre e fortunato manuale di 30 anni
orsono: “Le R.P. consistono in quel complesso di attività e di iniziative – in massima parte
comunicazioni – che un organismo svolge e persegue per fornire di sé un’immagine positiva allo
scopo di assicurarsi il favore e la simpatia del pubblico in generale o di pubblici particolari”.27
Sembra un’epoca lontanissima!
Ora CSR e RP non sono più alla periferia delle organizzazioni, ma ne sono al centro della strategia.
La CSR è andata oltre la filantropia o il cause related marketing per impattare tutti i processi
dell’impresa secondo la logica della tripla responsabilità (economica, ambientale e sociale). Le RP
non sono più limitate ai pur sempre fondamentali compiti di ufficio stampa o realizzazione di
eventi, ma si candidano al governo dell’insieme delle relazioni interne ed esterne in una stretta
connessione con gli obiettivi di business.
Ma l’analogia tra CSR e RP non è solo riguardo alla loro parallela evoluzione.
Come si è cercato di mostrare nelle pagine precedenti, CSR e RP si sovrappongono per una buona
loro parte. Innanzitutto, condividono la loro principale metodologia di management, vale a dire il
coinvolgimento degli stakeholder, che è per entrambe elemento imprescindibile di lavoro. Da qui
anche una serie di strumenti tecnici comuni (si pensi alla mappatura delle issues nella matrice di
materialità o alle molteplici modalità di ascolto e comunicazione). Ma soprattutto condividono la
loro missione ultima che è quella di sviluppare relazioni positive che portino a vantaggi comuni per
l’organizzazione e gli stakeholder in una prospettiva non limitata al breve periodo.
Pertanto, il professionista di relazioni pubbliche è chiamato necessariamente a fornire il suo
contributo alla CSR per gli aspetti connessi alle sue competenze professionali più tipiche e sempre
di importanza decisiva, come l’efficacia comunicazionale dei vari media adottati (ad esempio, gli
attuali bilanci sociali hanno grandi margini di miglioramento). Ma la CSR ha bisogno delle RP
anche per l’articolazione dell’intera strategia che troppo spesso risulta ancora caratterizzata da un
forte divario tra l’intenzione del dialogo e la pratica del monologo.
Questo non significa ovviamente che la CSR possa confluire nelle RP: vi sono moltissimi aspetti
tecnici (si pensi alle problematiche ambientali) che non possono essere ridotti alla comunicazione
anche intesa nel senso più ampio. Occorre piuttosto mettere CSR e RP in condizione di essere due
funzioni che remano insieme sulla stessa barca.
A tale proposito vorrei concludere con un’immagine: mi piace pensare a CSR e RP come le due ali
di un’organizzazione che è insieme più efficiente e più giusta, più profittevole e più sociale, più
radicata nel presente e più aperta al futuro.
FINE
27
Giuseppe Roggero (ed.), Le relazioni pubbliche, Milano, Franco Angeli, 1983, p. 12.
29
Figura 1.: Gli stakeholder di Roche Diagnostics (Rapporto di sostenibilità 2010)
In:
a pagina 13 di
http://www.roche.it/fmfiles/re7143001/Rapporto_RespSoc_2010_MedRes.pdf
30
Figura 2: Stakeholder che sono influenzati e stakeholder che possono influenzare le attività
del Gruppo Fiat (Bilancio di sostenibilità 2010. Responsabilità economica, sociale e ambientale)
In:
a pagina 8 di
http://www.fiatspa.com/it-IT/investor_relations/sustainability/FiatDocuments/2011/Bilancio_Sostenibilita_IT_2010.pdf
31
Figura 3: Modello Pirelli di stakeholder engagement: massimizzazione del flusso di valore
dell’azienda verso i portatori d’interesse e viceversa (Bilancio Sostenibilità 2011)
In:
a pagina 30 di
http://www.pirelli.com/mediaObject/corporate/documents/common/bilancio2011/Book_VOL_C_Bilancio_di_Sostenibilita_2012_05_10/original/Book_VOL_C_Bilancio_di_Sostenibilita_2012_05_10.pdf
32
Figura 4: La piramide della creazione di valore condiviso in Nestlé (Nestlé Creating Shared
Value Report 2011)
In:
a pagina 4 di
http://www.nestle.com/Common/NestleDocuments/Documents/Library/Documents/Corporate_Social_Responsibility/2011-CSVReport.pdf
33
Figura 5: La recezione in Snam dell’approccio di Porter e Kramer alla creazione di valore
condiviso (Bilancio di sostenibilità 2011)
In:
a pagina 31 di
http://www.snam.it/export/sites/snam/repository/file/investor_relations/bilanci_relazioni/bilanci_annuali/2012/bilancio_di_sostenibilita_2011.pdf
34
Figura 6: Approccio operativo Pirelli alla generazione di valore sostenibile (Bilancio
Sostenibilità 2011)
In:
a pagina 29 di
http://www.pirelli.com/mediaObject/corporate/documents/common/bilancio2011/Book_VOL_C_Bilancio_di_Sostenibilita_2012_05_10/original/Book_VOL_C_Bilancio_di_Sostenibilita_2012_05_10.pdf
35
Figura 7: Matrice di materialità in Intesa San Paolo (Stakeholder Engagement in Intesa San
Paolo, 2010)
In:
a pagina 27 di
http://www.group.intesasanpaolo.com/scriptIsir0/si09/contentData/view/Stakeholder_engagement_2010.pdf?id=CNT-04-0000000053B50&ct=application/pdf
36
Figura 8: Modalità di coinvolgimento degli stakeholder in Coca-Cola Enterprises (Corporate
Responsibility and Sustainability Report 2010).
In:
a pagina 10 di
http://www.cokecce.com/assets/uploaded_files/CCE_CRS_Report_2010-2011_1.pdf
37
Figura 9: Codice etico, Codice di condotta e altre fonti della corporate governance in
Italcementi (Sustainable Development Report, 2009)
In:
a pagina 8 di
http://www.italcementi.it/NR/rdonlyres/DF186923-0676-49C6-91D7-98F9B9994091/0/sdReport2009italiano.pdf
38