CaTaLOGO - Laboratorio Immagine Donna

CaTALOGO
Direzione del Festival
Paola Paoli
Maresa D’Arcangelo
Redazione catalogo
Maresa D’Arcangelo
Marinella Tucci
Traduzioni
Janina Casetti
Sandra Bonciolini
Tatiana Fedotova
Anna Stryjecka
Segreteria
Isabella Mancini
Coordinamento eventi
Federica Rossi
Grafica
Andrea Magagnato
Logistica
David Gori
Sito web
Ozan Kamiloglu
Manifesto
Gianni Dorigo
Mostra Manifesti
Liceo Artistico L.B. Alberti di Firenze
Raimondo Vacca
Progetto Scuole Affetti Speciali
Maresa D’Arcangelo
Alessandra Vannoni
Sottotitoli
Concetta De Libero
Marjo Pakkola
Aikapro
50 Giorni di Cinema Internazionale a Firenze
Coordinamento dei Festival
Sveva Fedeli
Ufficio stampa
Elisabetta Vagaggini
Coordinamento sala Odeon
Camilla Toschi
Coordinamento proiezioni
Emilio Bagnasco
INDICE
p.5
editoriali
p.9
I FILM
p.61
Volver in Mostra: i Manifesti raccontano il Festival di Cinema e Donne di Firenze
p.62
Regina Pessoa e Abi Feijó: i giganti portoghesi dell’animazione
p.66
I mondi animati di Elena Petkevich
p.68
Enti, sponsor e partner
p.70
ringraziamenti
Stella Targetti
Cristina Scaletti
Ho fatto un esperimento. Sono andata su google e ho
scritto “donna 35 anni”. A parte la carrellata di foto di
donne, i primi tre risultati sono stati: “35 anni: sentimentalmente parlando una donna è finita?”; “Secondo
voi una donna a 35 anni inizia ad essere vecchia?”; “35
anni, donna e single: aiuto!!!”. Fortunatamente il quarto risultato è “Noi donne, meglio a 35 anni che a 20”!
Al di là delle battute, mi sembra che perfino un piccolo esperimento come questo dica qualcosa su come
viene attualmente definito – e in parte, ahinoi, anche
autodefinito – il ruolo delle donne nella società. Ma,
nella realtà, oggi una donna a 35 anni è e fa altre cento
cose oltre alla sua vita sentimentale e alla cura del suo
aspetto: lavora, ha passioni e interessi extralavoro, è
madre, entra in un rapporto diverso con i propri genitori
che iniziano a invecchiare...
Suona banale dirlo, ma – soprattutto in Italia – purtroppo non lo è.
Per questo sono così importanti appuntamenti come il
Festival Internazionale di Cinema e Donne, che nei suoi
35 anni di vita (tanti auguri!) ha dato ospitalità e risalto
allo sguardo femminile sul mondo. Uno sguardo che, a
volerlo seguire, porta in posti molto diversi dai clichè di
ieri e di oggi sulle donne.
Buona visione a tutti.
Questa edizione della 50 giorni di Cinema Internazionale a Firenze si apre con Cinema e Donne. Una scelta
precisa, perché anche noi vogliamo dare il nostro contributo fatto di immagini e testimonianze alla battaglia
contro la violenza sulle donne.
Come ogni anno, da 35 anni, il festival regala al pubblico un’offerta originale e di spessore, che affronta
temi delicati con sensibilità e attenzione all’attualità.
In un anno tragico, segnato da un crescere di episodi
di violenza e intolleranza, si fa sempre più evidente
la necessità di una rivoluzione culturale. E attraverso
il cinema e la sua potenza comunicativa ed emotiva
possiamo partire da nuove riflessioni e dare un serio
contributo alla battaglia contro ogni forma di sopruso
e violenza, renderci più responsabili e in grado di agire
con maggior coscienza sulla realtà.
Vicepresidente - Regione Toscana
Assessore Cultura, Turismo e Commercio - Regione Toscana
Un grazie di cuore quindi a Cinema e Donne
Auguro a tutti voi buona visione
editoriali
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Cristina Giachi
Stefania Ippoliti
Il Sigillo della Pace è caro a questa amministrazione.
Non si tratta soltanto di un riconoscimento la cui storia
ha origini lontane nel tempo e profondamente radicate nell’identità della nostra città come luogo di pace
universale, ma anche di un modo per onorare il lavoro
di tante autrici cinematografiche che instancabilmente
affrontano nelle loro opere temi cruciali per una società che voglia essere, oltre che dirsi, costruttrice e
promotrice di pace, di cultura civica, di umanità. Il Sigillo della Pace non conosce delimitazioni territoriali o
tematiche, purché le premiate abbiano dedicato le loro
opere alla testimonianza di situazioni di guerra, razzismo, oppressione sessista, e di un modo per superare
queste criticità e i conflitti che ne derivano attraverso
l’incontro delle culture, la conoscenza reciproca. Il Sigillo si affida alla prospettiva femminile perché è nato
in un tempo nel quale era necessario valorizzare e far
emergere tale prospettiva nel contesto di una cultura
sempre fortemente schiacciata sull’orizzonte maschile.
Ci piacerebbe poter dire che questo bisogno non è più
attuale, ma non è così. La scelta del cinema, poi, dipende dal fatto che si tratta di una forma d’arte che bene
si adatta a descrivere tutte le diversità; e la trattazione
poetica dei tanti film premiati negli anni ha consentito
di proporre anche ai cittadini più giovani, agli studenti,
temi socialmente complessi, ma indispensabili da affrontare come la segregazione femminile, l’oggettivazione del corpo delle donne, il femminicidio. Crediamo
fortemente in questo linguaggio per parlare ai giovani,
sempre più bisognosi di un’attenta educazione emotiva
e sentimentale. Questo è un tempo che troppo spesso
suggerisce la dimensione dell’analfabetismo affettivo,
e il cinema è una delle forme di espressione privilegiate per sperare di far crescere il numero dei cuori
pensanti tra i nostri cittadini.
Quest’anno la “50 Giorni” celebra la donna: proprio in
un momento nel quale si moltiplicano in modo sempre
più preoccupante e insistente i casi di violenza sulle
donne, la rassegna vuole dare il proprio contributo per
far sì che tutto ciò si fermi. L’idea nasce infatti dalla necessità, diffusamente avvertita, di contribuire ad alzare
il livello di attenzione della società riguardo alle continue violenze che le donne subiscono in tutto il mondo e
dalla consapevolezza che la cultura è lo strumento più
importante perché questo avvenga.
Non a caso ad inaugurare la rassegna quest’anno è
stato il Festival Internazionale di Cinema e Donne, che
da 35 anni valorizza le attrici, le registe e le produttrici
che hanno fatto grande il cinema di tutti i tempi. Donne che hanno affermato con determinazione il proprio
ruolo nella società e nel cinema, alimentando il rispetto dell’opinione pubblica per ciò che la donna è e può
esprimere. Le ideatrici del festival, Paola Paoli e Maresa D’Arcangelo, sono un modello di energia perseverante e costruttiva che nel corso di tutti questi anni ha
contribuito a coltivare un’idea di donna complessa e
significativa come effettivamente è nella realtà; Paola
e Maresa hanno fatto sì che migliaia di spettatori che
hanno frequentato il festival assimilassero questa idea
di profondo rispetto. La cultura e il rispetto vanno di
pari passo ed è senz’altro necessario proseguire questo cammino fatto di impegno, di svago e di felicità
condivisa che è la cifra del Festival di Cinema e Donne.
Assessore al Turismo, Europa, Università, Ricerca, Politiche
Giovanili, Pari Opportunità - Comune di Firenze
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editoriali
Responsabile Mediateca e Area Cinema - Fondazione Sistema
Toscana
Niente nasce dal niente e anche il nuovo protagonismo
delle donne, nel cinema degli ultimi decenni, a cavallo
tra due secoli, che vede entrare nel mestiere un numero considerevole di registe in ogni parte del globo,
arriva da lontano.
Alla fine degli anni ‘70 s’instaura una nuova relazione
tra cinema e donne, che si presenta subito con delle
caratteristiche molto moderne, anticipatrici di tendenze future. La prima è la consapevolezza della centralità
delle comunicazioni di massa e dell’immagine e quindi
del ruolo del cinema e delle donne, che in questo grande cambiamento, vogliono starci dentro con la propria
diversa storia.
C’è una comunità internazionale, diremmo oggi una
community, che non accetta le regole del cinema dei
padri e ne ricerca altre. Si tratta di un movimento di
autrici-spettatrici che rivendica visibilità e spazi per le
donne, innanzi tutto, ma anche una nuova creatività
nelle storie e nei linguaggi.
Dagli Stati Uniti alla Germania, passando per la Francia e l’Italia, insomma l’Europa, si presenta ovunque
con la stessa forza collettiva dei gruppi che nascono
dal movimento femminista e mixano estetica e politica,
con le parole d’ordine: soggettività, sguardo, sperimentazione.
Questo noi, che confligge con la solitudine dell’artista,
ma che lega benissimo con la coralità del fare cinema
e con la pratica del vedere e fare insieme, agisce già
secondo la pratica della rete.
La community, infatti, crea alcuni Festival, tra cui il
nostro, che subito interagiscono, come luoghi in cui
si sperimenta questo rapporto tra autrici, spettatrici e
spettatori, per far crescere il dialogo e il confronto con
pubblico e critica, un posto in cui la donna è al centro
di un nodo problematico e non più soltanto un oggetto
di piacere visivo. Un processo che s’immagina, come in
effetti è ed è stato, di lungo corso e che necessita di
riferimenti e di azione nel tempo e nello spazio.
In primo luogo, ovviamente, guarda al lavoro di più generazioni di avanguardie.
Non necessariamente e solo i film degli anni Sessanta,
da cui nasce il cinema moderno e neppure solo quello
degli anni Settanta, antiautoritari e sovversivi.
Fin dall’inizio, lo sguardo del Festival è attento al Novecento del cinema e alla trasmissione della memoria
femminile tra le generazioni.
Riscopre e rimette in circolo le pioniere del cinema internazionale, da Matilde Landeta in Messico, Esfir Sub
in Urss, Maria Luisa Bemberg in Argentina, almeno una
importante in ogni cinematografia, in tutto il pianeta, di
cui i dizionari riportano, quando va bene, appena brevi
note.
Indaga per decenni: gli anni ’20, ad esempio, che videro
l’emersione di una donna nuova, la garçonne con gonna
e capelli corti e il lavoro corrosivo dei surrealisti, che la
francese Germaine Dulac raccontò in celebri film.
Riporta alla luce lo spessore sociale e culturale dell’immagine femminile attraverso una genealogia di attrici
emblematiche, a partire dalla danese Asta Nielsen, la
grande diva del Nord negli anni ‘10, fino a Mariangela
Melato, accomunate da una stessa figura essenziale e
tutta occhi.
Nel cinema italiano, internazionalmente rilevante fino
alla prima guerra mondiale, si ritrovano le dive del
muto, prima di tutte Lyda Borelli e insieme la sapienza
artigianale di alcune autrici dimenticate, tra cui Elvira
Notari, che con la complicità del marito Nicola e del
figlio Gennariello, crea dei mélo napoletani che diventano grandi successi di pubblico nell’America del Sud.
In Europa, l’era della sperimentazione degli anni ’70 e
‘80 ha due nomi: Chantal Akerman e Margherite Duras,
che firmano film di culto, come Jeanne Dielman e India
editoriali
7
Song, ma anche Coline Serreau, con la commedia sociale Tre uomini e una culla e Margarethe Von Trotta
con il suo approccio nuovo alla storia della Germania:
Anni di piombo. In Italia, Lina Wertmüller, la commedia
Film d’amore e d’anarchia, Liliana Cavani, Giovanna
Gagliardo. Il film di Muzzi Loffredo Occhio nero, occhio biondo, occhio felino. Per la prima volta appare
una nuova generazione di registe: Francesca Archibugi,
Cristina Comencini, Francesca Comencini, Fiorella Infascelli, Wilma Labate, Barbara Barni, Liliana Ginanneschi, Antonietta De Lillo, Roberta Torre, Emanuela
Piovano, Anna Negri, Alina Marazzi, Isabella Sandri,
Daria Menozzi, Elisabetta Lodoli, Cinzia Th Torrini già
realizzano primi film promettenti. Annabella Miscuglio
trova la sua cifra tra documentazione e sperimentazione, Rosalia Polizzi esordisce nella finzione.
Storia del cinema, storia delle donne e storia di genere s’intrecciano in percorsi innovativi, ridisegnando la
mappa del cinema come luogo di scoperte, ma anche di
sacrosante rivendicazioni, perché il numero delle registe e delle donne che fanno cinema, in tutto il mondo,
è ancora molto basso, come ben si vede nella selezione
delle grandi competizioni di Cannes e Venezia.
Il Festival guarda ad Est con la passione di andare oltre i muri delle convenzioni politico-geografiche: Marta
Mészàros e Lana Gogoberidze ma anche Kira Muratova e Leida Lajus, tutte maestre della grande tradizione
russa e poi ungherese, ucraina, estone, georgiana, polacca, ceca e slovacca.
Ma anche a Sud: Africa del Nord e Sub Sahariana, la
Spagna e l’America Latina, dove affiorano talenti internazionali come Moufida Tlatli, Fanta Regina Nacro,
Maria Novaro.
Gli anni 90’ e i primi anni del secolo sono dominati dai
veli dell’Iran, con una pleiade di autrici di cui Rakhshan
Bani Etemad è la punta di diamante, ancora oggi. Ma
a poco a poco diventa più interessante la Turchia, che
sforna ogni anno nuove registe e sicuramente il Marocco di tante autrici. Anche il Libano ha la sua maestra
del cinema che è Jocelyne Saab.
Oggi, come ieri, c’interessa attraversare i confini invi8
editoriali
sibili che dividono gli uomini dalle donne, ma anche
la montagna e la città: Séverine Cornamusaz, o il passaggio tra vita e morte, in una casa e in un giardino
polacco: Dorota Kedzierzawska; certo anche quelli
che separano e uniscono il Marocco all’Europa: Farida
Benlyazid e Kadija Leclere (Sigillo della Pace 2013).
Quelli tra povertà e ricchezza della politica e della
società di Dominique Cabrera e quelli tra vecchiaia e
giovinezza di Fabiana Sargentini. Nel film di Marion
Hansel l’on the road tra Belgio e Francia, ancora tra
città e montagna, dà spiegazioni sul senso della maturità nella relazione tra donna e uomo e la commedia
ceca di Marie Polednáková, deve trovare un altrove per
mettere in scena la stessa conquista ed è ancora il Marocco. Iveta Gròfovà situa nella città di Aš, al confine
tra Repubblica Ceca e Slovacca, molto vicina alla ricca
Germania, il sogno e la realtà delle giovani donne di
ora di lavorare dignitosamente dopo il diploma. Helga
Reidemeister, tra le più importanti documentariste tedesche, negli ultimi anni oltrepassa molte frontiere per
arrivare al cuore della tragedia della vita quotidiana
in Afghanistan. Attraversare i confini anche materiali
dell’immaginazione è la specialità di Regina Pessoa,
la regina portoghese dell’animazione mondiale. Infine,
Nadia El Fani, Sigillo della Pace 2013, nella sua sfida
alla malattia e all’integralismo in cui è caduta la sua
Tunisia, ricorda la lezione di Victor Hugo: “Sono vivi
solo quelli che lottano”.
Paola Paoli
Maresa D’Arcangelo
Direzione Festival Internazionale di Cinema e Donne
I FILM
A tavola si cresce
Italia/Germania, 2012/2013, digitale col., 40’
Regia: Sveva Fedeli
Progetto esecutivo: Giovanna Malavolti, Antje Bostelman
Consulenza pedagogica e testi: Penny Ritscher
Coordinamento pedagogico servizi educativi alla prima infanzia del Comune di Firenze
Produzione: Comune di Firenze, FST Mediateca, KLAX Berlino.
Il pranzo educativo al Nido è un esempio di convivenza civile.
Il rito della tavola è parte della nostra cultura e deve essere
custodito e tramandato.
Il tema del film è cosa si mangia e come si mangia e l’esperienza formativa proposta aiuta ad instaurare un rapporto
sano e piacevole con la tavola. Perché ciò avvenga, occorre
una regia educativa della situazione pranzo, bisogna essere
consapevoli della complessità di questo momento e della sua
potenziale ricchezza esperienziale dichiara la pedagogista
Penny Ritscher consulente per il progetto del video. Il film è
composto da una selezione di esempi, con l’intenzione di offrire un modello di riferimento, traccia utile per la definizione
del Pranzo al nido nelle Linee guida per i Servizi educativi alla
prima infanzia del Comune di Firenze e per i servizi educativi
della KLAX di Berlino.
SVEVA FEDELI
Sveva Fedeli, fiorentina, è laureata al DAMS. Autrice di cortometraggi didattici, documentazione e video arte. Nel 1984
inizia a collaborare con il Comune di Firenze per il settore formazione del personale degli Asili Nido. Utilizza le sue competenze nell’audiovisivo per realizzare strumenti innovativi per i
professionisti della cura e della crescita di bambini da 0 a 3
anni. Produce I bambini e l’acquaticità, Il gioco Euristico e A
tavola si cresce.
i film
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Anfang Juni
GIUGNO è IN ARRIVO - Germania, 2012, 16 mm col., 11’
Regia, sceneggiatura e montaggio: Kerstin Neuwirth
Fotografia: Simon Rittmeier
Interpreti: Asja Holl, Irina Potapenko, Ingrid Neuwirth, Jürgen Sarkiss
Produzione: Academy of Media Arts Cologne
Tra il sogno e la realtà: un eterno ricordo.
I gesti antichi del lavoro nei campi. Un tempo sospeso tra
il verde di erba e acqua. Le mele cadute galleggiano nello
stagno e un’inquietudine, leggera come la foschia, aleggia
su persone e cose. In un quadro forte e ricco di atmosfera,
Kerstin Neuwirth crea un misterioso microcosmo. Donne di
generazioni diverse si muovono mute in un ampio giardino. Si
sente solo il suono della natura. Che relazione c’è tra i presenti, come è entrato l’uomo? È possibile uscirne?
La regista volutamente tiene lo spettatore alla distanza necessaria per lasciare spazio all’interpretazione di ciascuno.
12
i film
Kerstin Neuwirth
Kerstin Neuwirth è nata nel 1986 a Wolfsberg in Austria. Nel
2006 si diploma in Product-Industrialdesign presso Höheren
Technischen Bundeslehranstalt for Arts and Design di Graz.
Studia Storia dell’Arte all’Università di Vienna e dal 2008
all’Academy of Media Arts di Colonia.
Filmografia
Hotel Uschi (cortometraggio, 2011); Bird Control (cortometraggio, 2012); Anfang Juni (cortometraggio, 2012).
Až do mesta Aš
Fino alla città di Aš - Repubblica Ceca/Slovacchia, 2012, DCP col., 84’
Regia: Iveta Grófová
Sceneggiatura: Iveta Grófová, Marek Lešcák
Fotografia: Viera Baciková
Montaggio: Maroš Šlapeta
Musica: Matej Hlavác
Interpreti: Dorota Billá, Silvia Halušicová, Robin Horký
Produzione: Protos Productions, Endorfilm Punkchart
Aš è una cittadina industriale non distante da Praga. Siamo a poca distanza dal confine con la
Germania. L’industria tessile impiega anche ragazze e donne che provengono di paesi vicini.
Tra queste arriva Dorotka, originaria dalla Slovacchia orientale dove ha un ragazzo a cui vuol
bene ma dove non riesce a trovare un lavoro decente. Pensa di costruirsi una nuova vita fatta
di dignità e moderato benessere lavorando in fabbrica come sarta. Una delle sue compagne,
Silvia, le fa conoscere un altro aspetto della vita di Aš quello degli uomini tedeschi che vengono in città in cerca di compagnia per divertirsi senza spendere troppo.
Ho vissuto ad Aš dopo il diploma in questo ambiente e volevo far capire perché le giovani donne fanno compromessi con i loro valori e dimenticano i sogni. Per me era importante
cogliere nel modo più autentico possibile le motivazioni che spingono una ragazza a scelte
dure, apparentemente amorali. Con Viera Bacikova, la mia direttrice della fotografia, avevamo
lavorato a dei documentari e pensavamo di trattare questo soggetto nello stesso modo,
facendone, appunto, un documentario. Presto, però mi sono resa conto di cosa era importante
per me: volevo parlare di una ragazza in particolare, non fare discorsi generici, mostrare come
poteva cambiare la sua vita in determinate circostanze. Era tutto troppo intimo e, se volevo
raccontare questa storia, dovevo passare per la fiction pur cercando di mantenere uno sguardo
naturalista che fosse il più vicino possibile allo stile documentario.
Iveta Grófová
Iveta Grófová
Iveta Grófová (Trencín, 1980)
si è diplomata presso la facoltà di Film d’animazione (2004)
e Film documentario (2009)
dell’Accademia di arti dello
spettacolo VSMU di Bratislava. Ha girato cortometraggi
documentari, un cortometraggio animato. Až do mesta Aš è
il suo primo lungometraggio di
finzione ed è stato presentato
all’International Film Festival
di Karlovy Vary 2012 nella
sezione in concorso East of
the West.
Filmografia
Aspon, že tak (Perlomeno,
2003); Bolo nas 11 (Eravamo
in 11, 2004); Politika kvality (La
politica della qualità, 2005);
Nazdar particka (Addio partito,
2005); Gastarbeiteri (Lavoratori
stranieri, 2007); Až do mesta
Aš (Fino alla città di Aš, 2012)
i film
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Ça ne peut pas continuer comme ça!
Francia, 2012, digitale col., 95’
Regia: Dominique Cabrera
Sceneggiatura: Dominique Cabrera, Olivier Gorce
Montaggio: Marc Daquin
Interpreti: Aurélien Recoing, Sylvia Bergé, Serge Bagdassarian, Denis Podalydès, Jean-Baptiste Malartre, Gilles David, Muriel Mayette, JulieMarie Parmentier, Bakary Sangaré, Nâzim Boudjenah, Suliane Brahim, Félicien Juttner, Stéphane Varupenne, Eliott Jenicot, Frédérique Lantieri
Produzione: France 2, M.F.P., Comédie-Française
Premio Gilda attrice a Sylvia Bergé
Motivazione
Splendida figlia d’arte e “attrice societaria” dell’immensa
Comédie-Française, felicemente ed entusiasticamente coinvolta nel ruolo di moglie del Presidente della Repubblica francese dalla regista Dominique Cabrera.
Commedia fantapolitica in cui il Presidente della Repubblica
Francese decide di realizzare le riforme più avanzate possibili per mettere fine a sfruttamento e povertà nel suo paese.
Non è impazzito, soltanto sa di essere gravemente malato e
di non aver molto tempo da vivere quindi osa fare quello che
ritiene giusto senza farsi condizionare da nulla e nessuno.
Ma non ha più la forza di agire in prima persona e deve, per
questo, cercare una controfigura. Gli suggeriscono un attore
della Comédie-Française, Vincent, un tipo poco coraggioso e
abituato a interpretare ruoli di secondo piano. L’attore inizia
in modo ingenuamente professionale poi entra nella parte a
tal punto da fare e determinare scelte. Grande offerta di attori di teatro poco visti al cinema, tutti membri della gloriosa
Comédie-Française, che dal 1680 fa da specchio alla società
e al potere in Francia. L’idea del film, come l’autrice stessa
dichiara, deve qualcosa a Il Grande dittatore di Chaplin. C’è un
sosia che prende il posto di un uomo di Stato e si rende conto,
un po’ per volta, che la condizione privilegiata in cui si trova e
soprattutto l’accesso ai media gli permettono di modificare in
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i film
qualche modo l’ordine delle cose. Chaplin, però, di fronte alla
tragedia usa i toni della farsa che volge al finale in idealismo.
Cabrera affronta la mediocrità e la debolezza della politica
contemporanea, sa che c’è più da riflettere che da ridere ma
non rinuncia all’ironia e la seconda parte del film è addirittura
commovente. Rimette la politica al centro del discorso e denuncia con chiarezza come la maggior parte delle ‘politiche’
siano oggi più al servizio degli interessi della finanza che al
servizio dei popoli. Utilizza così la bella metafora dell’attore
che getta la maschera e riprende il controllo - il potere? - sulla
sua vita (il suo corpo, la sua voce) e si assume la responsabilità di quello che dice.
La favola dunque ci parla del ruolo fondamentale che hanno
(o dovrebbero avere) intellettuali ed artisti nella richiesta di
un ordine politico e sociale più giusto e della possibilità della
ribellione, degli ideali, forse dell’utopia. Con grande senso del
ritmo e raffinatezza di testi Cabrera torna all’energia militante
dispiegata nel bel film politico del 1999 su scioperi e scioperanti Nadia et les hippopotames.
Finalmente un film dove il Presidente della Repubblica decide
di aumentare i salari minimi e le pensioni sociali del 20% e
di adottare delle misure radicali per mettere fine alla miseria,
mandando al diavolo le agenzie di rating...
Adeline Lamberbourg
Dominique Cabrera
Dominique Cabrera è nata in Algeria ed è arrivata in Francia nel
1962. Studia Lettere Moderne all’Università e poi si diploma
presso l’IDHEC nel 1977. Lavora come montatrice nelle emittenti regionali di FR3 e allo stesso tempo, segue corsi di teatro.
Il primo documentario, del 1981 è Je droit à la parole, uno
sguardo su come si organizzano gli affittuari in una città di
transito, alla periferia parigina. Di seguito, altri documentari che l’hanno fatta conoscere per il suo sguardo originale
sulla vita sociale, come Chronique d’une banlieue ordinaire,
Une poste à la Courneuve o anche Rester las-bas, in cui approccia uno suoi temi chiave: i legami tra la Francia e l’Algeria, attraverso il ritorno di quelli che sono rimasti laggiù.
Per Dominique Cabrera non esiste una frontiera tra il documentario e la finzione. Realizza in questo senso, nel 1995,
il documentario Demain et encore demain, un film autobiografico, diario di una cineasta in preda a dubbi e angosce,
che uscirà solo nel 1998. Nel 1996 dirige Claude Brasseur in
L’autre coté de la mer, il suo primo lungometraggio a soggetto, un film nostalgico e largamente autobiografico, sulla
perdita di radici di una comunità di pied-noirs algerini. Nel
1999 gira Nadia et les hippopotames, protagonista Ariane
Ascaride, sugli scioperi francesi dell’inverno 1995, presentato a Cannes nella sezione Un Certain Regard. Nel 2001
gira Le lait de la tendresse humaine con Marlyne Canto e
nel 2004 Folle embellie.
Filmografia
Je droit à la parole (1981); L’air d’aimer (1985); La politique
du pire (1987); Ici là-bas (1988); Un balcon au Val Fourré
(1990); Chronique d’une banlieue ordinaire (1992); Rester
las-bas (1992); Traverser le jardin (1993); Rêves de ville
(1993); Réjane dans la Tour (1993); Une poste à la Courneuve (1994); L’autre côte de la mer (1996); Demain et encore
demain (1998); Nadia et les hippopotames (1999); Le lait de
la tendresse humaine (2001); Folle embellie (2004); Quand la
ville mord (2009); Ranger les photos (2009); Ça ne peut pas
continuer comme ça (2012); Ô Heureux Jours (2013).
Quando ho incontrato Dominique Cabrera avevo appena visto
il suo film Le lait de la tendresse humaine che mi aveva sconvolto. L’argomento di questo film era molto delicato e il rischio
era di cadere nel pathos o nel sentimentalismo di cattivo genere. Non soltanto la regista ha evitato queste trappole ma è
anche riuscita a dotare il film di uno humor caustico. Ho amato
il suo modo di guardare le donne. In Ça ne peut pas continuer
comme ça!, i personaggi femminili erano meno determinanti.
Le ho detto che avrei voluto assumere il ruolo della moglie del
presidente ma mi auguravo che lei non rimanesse una semplice vittima del complotto previsto dalla sceneggiatura iniziale.
Dominique ha semplicemente cambiato il senso di una frase
permettendo a questo personaggio di evolversi, di ribellarsi
più chiaramente contro il ruolo di bella statuina nel quale il
protocollo la imprigionava, di prendere in mano il suo destino
e divenirne infine padrona. È il personaggio che finisce per tirare le fila della vicenda riuscendo ad avere la meglio su quelli
che credono di essere i padroni del gioco. Dominique mi ha
dato con questo ruolo, la possibilità di recitare su una larga
gamma di registri: dall’emozione alla collera passando per la
commedia. Davvero un bel regalo per l’attrice che sono, abituata al modo di recitare in teatro. Con lei ritrovo il piacere di
passare da uno stile all’altro, cosa che facciamo senza sosta
alla Comédie Française…
Sylvia Bergé
Sylvia Bergé, nota biografica
Figlia di Georges Descrières, Doyen della Comédie-Française,
e dell’attrice Geneviève Brunet, Sylvia Bergé è anche figlioccia
di Jacques Charon. Decide di consacrare la sua vita al teatro
dopo studi di lingue, canto e disegno. Entra, nel 1982, al Conservatorio Nazionale Superiore d’Arte Drammatica di Parigi.
Recita per Jean-Louis Barrault et Philippe Adrien prima di essere ingaggiata dalla Comédie-Française per interpretare Elena in La guerra di Troia non si farà messa in scena da Raymond
Gérôme e l’anno dopo è Eliante nel Misantropo messo in scena da Simon Eine. Da allora le sue interpretazioni di classici e
contemporanei sotto la direzione di prestigiosi registi non si
contano. Entrata nella Comédie-Française il primo dicembre
1988, Sylvia Bergé ne diviene, nel 1998, la 496ª sociétaire.
Attrice, ma anche artista lirica recita, oltre che nella ComédieFrançaise, anche in altri numerosi teatri. Prende parte ad importanti festival musicali. Partecipa a letture ed eventi legati
alla letteratura e al canto.
i film
15
Coeur Animal
Svizzera/Francia, 2009, 35 mm col., 90’
Regia: Séverine Cornamusaz
Sceneggiatura: Marcel Beaulieu e Séverine Cornamusaz
Fotografia: Carlo Varini
Montaggio: Daniel Gibel
Musica: Evgueni Galperine
Interpreti: Olivier Rabourdin, Camille Japy, Antonio Buil, Alexandra Karamisaris
Produzione: P.S. Productions, ADR Productions
Paul è un pastore duro e chiuso come le rocce del paesaggio
alpino, peraltro bellissimo, dove alleva il suo gregge. Ama la
natura e i suoi animali che capisce e cura con attenta sensibilità. Capisce di meno le necessità e i desideri di Rosine, sua
moglie, che divide con lui il letto e la solitudine dell’alpeggio
in quota. Da lei si aspetta figli, lavoro indefesso e obbedienza
assoluta. Non accetta che possa ammalarsi e non eseguire i
suoi compiti ma non può fare a meno di prendere un lavorante
che la sostituisca quando lei non più aiutarlo. Il nuovo arrivato
si chiama Eusebio ed è spagnolo. È forte e duro anche lui ma
non pensa solo al lavoro, e il suo modo di fare impone un confronto con un altro modello maschile più complesso e comunicativo che fa intuire a Rosine ma anche al Paul la possibilità di
altre modalità di relazione. Rosine lascia l’alpeggio e torna in
città. Paul deve iniziare un percorso arduo e incerto, mettere
in crisi il suo universo di arcaici valori, riconoscere i suoi limiti
e imparare i gesti del rispetto e dell’amore.
Note di regia
Mi interessano particolarmente, personaggi senza maschera
sociale perché permettono di rivelare in modo brutale e diretto la realtà dei rapporti di odio e d’amore che si stabiliscono
all’interno di una coppia. Il personaggio di Paul, la sua brutalità, il suo funzionamento arcaico, permette di mettere a fuoco
questo meccanismo che, alla fine, è universale.
L’atmosfera del film presenta una costante densità drammatica ma questo non esclude l’umorismo che è importante e
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i film
spesso salvifico e costruttivo. Paul e Eusebio hanno entrambi
un rapporto particolare con la lingua francese: Paul con la sua
immensa paura delle emozioni utilizza per organizzare i suoi
ragionamenti un francese di base proprio terra terra, ed Eusebio, date le sue origini spagnole, parla un francese esotico.
Questo contrasto così come le differenze culturali provoca
situazioni comiche. Ma questo umorismo può anche diventare
aspro quando Paul non riesce a stabilire una relazione con la
realtà che lo circonda e rimane prigioniero della sua follia.
Paul è capace di un umorismo crudele che dirige verso una
vittima potenziale.
Il décor del film, il paesaggio e quello che contiene, è un alpeggio montano, selvaggio, duro, capace di far da cassa di
risonanza ai sentimenti che attraversano i personaggi. Questo
mi ha permesso di spingermi molto in là. In più questo posto
aveva anche un sapore un po’ western, paesaggio sontuoso
ma certo non da cartolina con un clima dai rapidi cambiamenti
che lo rendeva instabile e in qualche maniera faceva pensare
alle origini del mondo… Mi sono ben guardata dal cliché della montagna Svizzera: uno chalet di legno con i gerani al balcone e in secondo piano tre mucche che brucano serenamente
l’erba. Nel film gli edifici sono di pietra e si potrebbe essere in
qualsiasi altro luogo, magari in Slovenia. Ho cercato di fare un
lavoro di astrazione creando un’oscillazione costante tra naturalismo e falso naturalismo… Per quel che mi riguarda sono
davvero vissuta in alta montagna con i miei nonni ma le cose
sono cambiate moltissimo. Io ricordavo gesti regali di falci che
tagliano l’erba e sono piombata in una realtà in cui si fa tutto con le tecnologie e quindi niente
a che vedere con le immagini di paradisi perduti. Per gli attori ho preferito lo choc.
Arrivati dalla città li ho immediatamente portati al pascolo delle mucche: immersione totale. Li
ho fatti incontrare con la gente della montagna cercando di avvicinarli a questo universo. Sul
set avevamo anche un contadino del posto per verificare che i gesti fossero giusti.
Non ho mai creduto per un solo istante al binomio boia-vittima. Paul non è abbastanza “sofisticato” per essere “perverso” nella sua violenza. È un handicappato emozionale che non ha mai
imparato a stare con gli altri. Si capisce di più con gli animali. Rosine certamente è più sottile
ma possiamo immaginare che anche lei sia fuggita dal suo ambiente di origine. All’inizio deve
esserci stata una storia d’amore, forse un colpo di fulmine. Penso che Paul e Rosine abbiano
vissuto un momento bello della loro vita ma quando inizia il film sono una coppia disfunzionale.
La relazione tra i due si deteriora perché Paul è disorientato da ciò che non controlla. Quando le
cose sfuggono al suo controllo diventa violento. Non possiede gli strumenti per adattarsi alle
situazioni affettive e umane… All’inizio Paul sembra proprio un mostro, impossibile da amare
eppure il punto di vista che ho scelto per il film è unicamente il suo. Mi rendo conto che non
si può fare a meno di rifiutare quasi tutto quello che fa. Poi però si comincia ad avvertire la
sua sofferenza profonda. Un po’ per volta lo scopo del film è quello di farlo amare almeno un
po’. Non mi piacciono i personaggi “lisci”, semplici, preferisco quelli rugosi, primitivi, anche se
certo non trascorrerei il mio tempo con Paul.
L’origine del film è un libro che s’intitola Rapport aux bêtes di Noëlle Revaz. Ma anche una storia di famiglia che mi ha raccontato mia madre e che riguardava i suoi genitori. Tutto accadeva
in montagna negli anni ’60 e avevo sempre desiderato di realizzare un film su questo argomento. Questa storia continuava a girarmi in testa quando sono incappata nel libro di Revaz. Alla
seconda pagina ero già innamorata del personaggio di Paul. L’universo della vicenda era molto
simile a quello della mia storia di famiglia e io, ingenuamente ho pensato che, per un primo
film, fosse meglio adattare un libro che mettere giù una sceneggiatura su cinque anni con
dei bambini che crescono. Poi ho capito che avevo scelto un libro inadattabile di una qualità
eminentemente letteraria, il linguaggio particolare creato per il personaggio di Paul. Me ne
sono accorta poco per volta e adesso direi che ho creato una sceneggiatura liberamente ispirata al libro, praticamente un’altra sceneggiatura. Non volevo proprio fare un film letterario,
era il cuore di Paul che mi interessava. Per fortuna avevo altre motivazioni, diverse da quella
di adattare un libro, altrimenti avrei gettato la spugna. L’elemento misterioso è questa mia
nonna, la madre di mia madre che non ho mai conosciuto. A volte ho l’impressione di portare il
suo lutto. Lei è là, mi segue. D’altra parte è a lei che ho dedicato questo film, e Rosine, il mio
personaggio femminile, porta il suo nome.
Séverine Cornamusaz
Séverine Cornamusaz
Séverine Cornamusaz è
nata nel 1975 a Losanna.
Diplomata alla Scuola di
Fotografia di Vevey. Fà il
suo apprendistato alla New
York Film Academy grazie
a un master di regia a Varsavia, con Andrzej Wajda.
Dal 1996 al 2005, ha diretto
alcuni cortometraggi e ha
lavorato come montatrice.
Coeur animal è il suo primo
lungometraggio a soggetto e
risale al 2009. Ha ricevuto il
Premio del Cinema Svizzero
Quartz 2010 per miglior film
e miglior attore e altri premi
in festival internazionali. Il
suo nuovo film Cyanure è
uscito nelle sale in Svizzera
e in Canada a febbraio del
2013.
Filmografia
Inside (cortometraggio, 1996);
Intrusions (cortometraggio,
1997); Family bondage (cortometraggio, 1998); La moto
de ma mere (cortometraggio, 2003); Crossing paths
(cortometraggio, 2006); Coeur animal (2009); Cyanure
(2013).
i film
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Consuelo
Colombia, 2012, HD col., 15’
Regia e sceneggiatura: Natalia Helena Morales Herrera
Fotografia: Cristian Poloche Gil
Montaggio: Ginés Velázquez
Musica: Camilo Pineda, Fabián González
Interpreti: Consuelo Coronado, Luz Helena Herrera, María Gloria Arias
Vedove in Colombia, preghiere, cimitero e fiori, ma anche
lavoro, arte, canto, parola e condivisione. La morte fa parte
della vita. Omaggio alle “miracolose” donne di Fusagasugá
che giorno dopo giorno crescono i propri figli, sole.
18
i film
Natalia Helena Morales Herrera
Natalia Helena Morales Herrera è attrice e regista colombiana, nata a Fusagasugá Cundinamarca 29 anni fa. La sua
formazione come attrice inizia nella Casa del Teatro Nazionale
di Bogotà, continua poi avendo come illustri maestri: Rubén
Di Pietro, Vilma Sánchez e Andrea Castaño. Si trasferisce a
Buenos Aires per studiare Cinema presso la Escuela Nacional
de Experimentación y Realización cinematográfica (ENERC).
Nella capitale argentina, lavora due anni per Canal MTV Latinoamérica e realizza la sua prima regia teatrale, la commedia
Ciclodiética. Il suo lavoro con la comunità colombiana inizia
nel 2011 con il gruppo artistico AMCA, associazione di donne
colombiane in Argentina con cui scrive e dirige tre opere su tre
diverse regioni del paese: Rosas, Tomates y Folklore, Arrullos
para Soñar e Oro. Con il suo primo cortometraggio, Consuelo,
ha partecipato a festival cinematografici in Cile, Messico, Colombia, Spagna, Argentina e Italia.
Cyanure
Svizzera/Canada, 2013, 105’
Regia: Séverine Cornamusaz
Sceneggiatura: Marcel Beaulieu, Séverine Cornamusaz
Fotografia: Carlo Varini, Montaggio: Daniel Gibel
Musica: Luc Sicard
Interpreti: Alexandre Etzlinger, Roy Dupuis, Sabine Timoteo, Ludivine Geschworner, Christophe Sermet,
Thierry Jorand, Marco Calamandrei, Lionel Frésard, Isabelle Caillat, Michel Demierre
Produzione: P.S. Productions.
l rapporto tra padri figli e la trasmissione di valori e modelli di comportamento sono al centro di questo film. Temi forti e importanti
per Séverine Cornamusaz che sembra prediligere il confronto con
figure maschili borderline per impostare i suoi teoremi. Questa volta c’è un figlio che, per la prima volta, incontra suo padre appena
uscito di prigione. Fa il possibile attirare l’attenzione dell’uomo che
all’inizio non lo considera granché. L’incontro avviene ed è pericoloso. Achille ha 13 anni è vissuto da solo con la madre, adora
i manga e i film d’azione e ha fatto del padre il suo eroe. Inoltre
spera che con l’arrivo del potente gangster la famiglia torni unita.
Scoprirà la vera natura di questo padre idealizzato e ne prenderà
le distanze. È il passaggio di quella che Conrad chiamava “linea
d’ombra” che segna la fine dell’adolescenza e l’inizio della vita
adulta. Il padre non sarà più il suo eroe, né un modello da ammirare e imitare ma accetterà di amarlo per quello che è, sbagli e
debolezze comprese.
Note di regia
L’idea di Cyanure nasce da un libro di fotografie sull’ambiente
carcerario in Belgio. Accanto a ogni immagine una leggenda, una
storia. Una di queste mi ha particolarmente colpito. Era la cella di
un plurirecidivo. La sua storia, piuttosto sconvolgente. L’uomo che
non sopportava più il carcere aveva chiesto al figlio di trovargli
una dose di cianuro. Il ragazzo avrebbe dovuto darne la metà a
un grosso cane. Se il cane fosse morto l’altra metà l’avrebbe consegnata a suo padre. Questa richiesta disperata era, ovviamente, il punto di arrivo del film. Bisognava inventare l’inizio. Paul, il
protagonista di Coeur Animal, e Joe, protagonista di Cyanure, si
assomigliano. Joe è più vivace ma anche lui taciturno. Mi piacciono i personaggi semplici senza maschera sociale, senza filtri,
poco borghesi, impulsivi, mi sembrano più cinematografici. Questi
due uomini in fondo sono vicini a certi personaggi di film degli anni
Settanta (Taxi Driver, Il padrino) dei bruti che possono farsi amare
dallo spettatore. Per Coeur Animal mi ci sono voluti dieci anni di
lavoro per avvicinarmi al risultato che cercavo. Per Cyanure sceneggiatura e realizzazione sono state rapide. D’altra parte questa
volta non partivo da un libro ma da una suggestione reale e, per
inventare una storia, non hai alcun problema di “lealtà verso l’autore”. Quando mi chiedono come mai c’è nel film un’irruzione di
animazioni manga rispondo sempre con una battuta: c’erano pochi
soldi e da un certo punto di vista è vero che gli effetti speciali
di tipo hollywoodiano costano un sacco di soldi. Ma in realtà i
manga corrispondono ad un aspetto della vita di Achille il figlio
adolescente di Joe che divora manga, ama i film di azione, e sogna avventure movimentate. Così con la fantasia distrugge Alexis
il nuovo amico della mamma, riducendolo in cenere. Proprio una
situazione da manga. A proposito di fantasmi e omicidi è vero anche che Achille “uccide” l’idea che si era creato del padre. Ma in
modo positivo alla fine accetta i problemi e i deficit di suo padre e
decide che si può amare anche così, naturalmente in questo modo
è libero dal dovere di obbedirgli sempre.
Séverine Cornamusaz
Biografia e filmografia dell’autrice a pag.17
i film
19
Dresden
USA, 2013, DVD col., 5’
Regia, fotografia, montaggio: Tahnee Gehm
Sceneggiatura: Tahnee Gehm, Cliff Hines
Musica: Cliff Hines.
Il terribile bombardamento di Dresda, i cui orrori sono indicibili, proposto in un’animazione appunto senza parole. Memoria
della tragedia e monito per quanti, con scarsa consapevolezza
e nulla coscienza, ripropongono la normalità della guerra.
20
i film
Tahnee Gehm
Tahnee Gehm, autrice di film d’animazione vanta una ricca
esperianza da illustratrice. Ancora studente, ha realizzato due
film animati, illustrato libri per bambini e altre publicazioni.
Designer di numerosi siti web e marchi industriali. Si è laureata nel 2012 in Character Animation.
Drops
Italia, 2012, col., 7’
Regia, sceneggiatura e montaggio: Emanuela Mascherini
Fotografia: Alan Colins
Musica: Giulia Mazzoni
Interpreti: Emanuela Mascherini, Lexy Marsh, Luigi Campi
Produzione: Drops’ Film.
Un rubinetto rivela che ci
sono cose che non riesci a
confessare neanche a te
stesso. La surreale e divertente vicenda che capita a
una coppia di giovani a New
York.
Emanuela Mascherini
Emanuela Mascherini è nata a Firenze e vive tra Roma e Firenze. È attrice e autrice. Nel 2005 si diploma
in recitazione presso il Centro sperimentale di cinematografia e nel 2007 si laurea in Scienze Politiche
con indirizzo media e comunicazione. Nel 2012 consegue un Master in digital filmaking presso il NYFA
di New York. Fin da adolescente lavora come attrice in teatro, televisione e cinema, tra le esperienze
più importanti si ricordano: il film da protagonista Ombre di Tessa Bernardi, il docufilm I gabbiani, da un
adattamento de Il gabbiano di Cechov, per la regia di Francesca Archibugi, i film Cenci in Cina di Marco
Limberti, Dieci ragazze di Tessa Bernardi, le fiction Raccontami, Il mostro di Antonello Grimaldi, Provaci
ancora prof di Tiziana Aristarco.
Al suo percorso di recitazione si affianca da alcuni anni quello di scrittrice. La sua produzione artistica e
narrativa si caratterizza per l’attenzione e la ricerca espressiva sull’identità femmile e il rapporto uomodonna. Questi alcuni titoli: Non ci casco più! (ed. Kowalski-Feltrinelli 2012); Memorie del cuscino (ed.
Castelvecchi 2009); Glass ceiling, oltre il soffitto di vetro. Professionalità femminili nel cinema italiano
(ed. Edimond 2009); Un pittore senza tempo (pubblicato in Storie da legare di Ascanio Celestini, ed. Della
Meridiana 2008).
In ambito cinematografico, il suo primo cortometraggio è Nerofuori con Francesco Baccini. Offline, il suo
secondo corto, fa parte di un percorso di ricerca sul rapporto uomo-donna. Luna semprestorta, un corto
“no budget” racconta il punto di vista femminile ai tempi della crisi. Recentemente ha girato Dinamite, un
documentario di ricerca sulle povertà estreme. I suoi lavori, in ogni ambito, sono stai mostrati e premiati
in numerosi festival.
Filmografia
Nerofuori (cortometraggio, 2008); Offline (cortometraggio, 2009); Luna semprestorta (cortometraggio,
2011); La formazione teatrale (documentario, 2012); Drops (cortometraggio, 2012); Dinamite (documentario, 2012).
i film
21
En la casa, la cama y la calle
Nicaragua/Canada, 2013, HDV col., 35’
Regia e sceneggiatura: Liz Miller
Montaggio: Liz Miller, Julian Ballester, Augusto Blandón
Fotografia: Liz Miller, Deborah Vanslet
Musica: Ricardo Wheelock, Katia Cardenal
Interpreti: le componenti del gruppo Puntos de Encuentro
Produzione: Red Lizard Media.
Dal Nicaragua, un piccolo paese con una storia rivoluzionaria,
viene una irresistibile, ambiziosa e seguitissima serie TV. Il documetario En la casa, la cama y la calle segue un vivace gruppo
di donne, Puntos de Encuentro, che lavora per mettere fine alla
violenza sulle donne in casa, nel letto e per le strade, attraverso
una potente miscela di grande pubblico televisivo e comunità
organizzata.
Creata da donne e mandata in onda da una televisione commerciale, la serie Contracorriente ha raggiunto milioni di telespettatori in molti paesi del centroamerica e dell’area caraibica ed
è al centro di una campagna di prevenzione contro il crescente
fenomeno del traffico e dello sfruttamento sessuale.
En la casa, la cama y la calle segue Tamara che, alla sua prima
esperienza di attrice, interpreta il ruolo di Jessica, un’adolescente che rimane intrappolata nella rete della prostituzione.
Ora, portavoce nazionale del problema, Tamara indaga la complessità del suo ruolo sullo schermo e nella sua vita. Bismarck,
l’attore carismatico che interpreta il ‘magnaccia’, condivide le
motivazioni del progetto e crede che la presa di coscienza del
problema da parte dei ragazzi sia determinante; Silvia Elena,
che nel telefilm interpreta la parte di una donna vittima di incesto e madre di Jessica, lavora instancabilmente per indurre le
giovani vittime a rompere il silenzio.
Cronaca di un progetto che si sviluppa su tre anni, En la casa, la
cama y la calle ha dietro le quinte un team visionario di soggettisti, attori e produttori che “fa la televisione non per andare a
Hollywood ma per fare la differenza”.
22
i film
Liz Miller
Liz Miller è una documentarista esperta in Comunicazione. I
suoi film e i progetti multimediali su temi sociali d’attualità,
come la privatizzazione dell’acqua, i migranti e i diritti delle
donne, offrono nuove e importanti prospettive per movimenti
e mass media. È da sempre interessata a nuove forme di collaborazione fra comunità e media, a nuovi modi di mettere
in relazione storie personali e grandi problematiche sociali.
Le sue opere hanno vinto molti premi, sono state parte di
programmi di educazione e proiettati in scuole e università
in vari paesi. Liz Miller insegna Comunicazione audiovisiva
all’Università Concordia di Montreal. Per gruppi, organizzazioni di donne e organizzazioni per i diritti umani, tiene lezioni di
produzione video, di narrazione digitale e l’uso dei mezzi di
comunicazione. Ha vissuto per anni in Centro e Sud America
e continua a collaborare con vari gruppi di donne e altre organizzazioni nel continente latinoamericano.
Filmografia
W.O.M.E.N. Women’s Observer Mission, Nicaragan Elections (documentario, 1997); Just Here (documentario, 1998); Parkville Portraits (documentario, 2000); Novela, Novela (documentario, 2002);
Yanar Mohammed: Defending the Rights of Women in Iraq (documentario, 2004); The Water Front (documentario, 2007); Roots
to Rap With (documentario, 2010); The First Door (documentario,
2011); On Tour (documentario, 2012); All I Remember (documentario, 2013); En la casa, la cama y la calle (documentario, 2013).
Film d’amore e d’anarchia
Ovvero: Stamattina alle 10 in via dei Fiori nella nota casa di tolleranza...
Per ricordare Mariangela Melato
Italia/Francia, 1973, 35 mm col., 125’
Regia e sceneggiatura: Lina Wertmüller
Fotografia: Giuseppe Rotunno
Montaggio: Franco Fraticelli
Musica: Nino Rota, Carlo Savina
Interpreti: Giancarlo Giannini, Mariangela Melato, Lina Polito, Eros Pagni, Pina Cei, Elena Fiore, Isa Danieli, Giuliana Calandra, Anna Bonaiuto
Produzione: Euro International Films, Labrador Films.
Omaggio a Mariangela Melato giovane e lunare negli abiti degli anni ‘30 e nell’Italia colorata e un po’ Far West con cui Lina
Wertmuller conquistò i critici americani sazi del neorealismo
bianco e nero e dei soliloqui dell’incomunicabilità. Un’Italia
piena di anarchici baffuti che abitano nei bordelli preparando
attentati. Giancarlo Giannini è Tunin in contadino lombardo
che vuole uccidere Benito Mussolini. Mariangela Melato è
una prostituta amica degli anarchici. Il mattino prescelto per
l’attentato Tunin si sveglia tardi e vede i carabinieri entrati
nella casa chiusa per un controllo. Si crede scoperto e spara.
Lo arrestano e, in prigione, lo picchiano a morte. Ai giornali
raccontano che si è suicidato.
24
i film
Dichiarazioni di Mariangela Melato.
Festival Amazzoni e Sirene. Firenze 2008
Diciamo che il nostro cinema è stato grande, quando ha avuto
al centro delle grandissime figure di attrice, non occorre che
ricordi adesso Anna Magnani che è stata accantonata perché era troppa (troppo grande, troppo brava, troppo presente,
troppo importante).
Mamma Roma è Pasolini ma anche Anna Magnani, Roma città aperta è Rossellini ma anche Anna Magnani come Senso
di Visconti è Alida Valli. Il cinema di Bolognini senza Claudia
Cardinale probabilmente non ce lo ricorderemmo, Monica
Vitti è Antonioni. Il nostro cinema si è perduto quando ha
perso l’amore per le donne (io credo) è diventato più piccolo,
più claustrofobico, meno comunicativo perché le donne sullo schermo, e penso all’ultimo film che racconta la tragedia
dell’Afganistan Viaggio a Kandahar di Makhmalbaf, le donne
sullo schermo raccontano la storia come la vive la gente. La
storia di chi la subisce e non la fa, di chi non usa le armi ma
le riceve addosso. Racconta la violenza delle armi e delle religioni di cui le prime vittime sono le donne. Perché la gente si
riconosca nello schermo c’è bisogno di una donna che raccolga tutto questo nel suo corpo, nel suo viso, in se stessa, nel
suo modo di raccontare. Il nostro cinema e non so perché, da
un po’ di tempo in qua, sembra che abbia paura, paura della
storia, paura della politica, paura delle donne...
Mariangela Melato
Lina Wertmüller
Una vera e propria gloria nazionale del teatro e del cinema. Il
suo volto asimmetrico, ma sbarazzino, sensuale, anche ironico, superbo, ma antico, la sua passione e il suo talento hanno
segnato un periodo importante del cinema italiano.
Mariangela Melato nasce a Milano il 19 settembre del 1941. I
primi successi teatrali arrivano nel 1968 con l’Orlando furioso,
di Luca Ronconi, la sua affermazione definitiva pochi anni più
tardi con Alleluia brava gente (1971) anche se prima aveva
collaborato con Dario Fo e Luchino Visconti. Affronta interpretazioni e personaggi di grande impegno e nel cinema ha modo
di alternare, in modo pregevole, ruoli drammatici con altri più
classici. Ha lavorato con diversi grandi registi e tra i suoi film
ricordiamo La classe operaia va in paradiso (1971, di Elio Petri); Todo modo (1976, di Elio Petri); Di che segno sei? (1975,
di Sergio Corbucci, con Paolo Villaggio, Adriano Celentano,
Renato Pozzetto, Alberto Sordi); Caro Michele (1976, di Mario
Monicelli); Oggetti smarriti (1979, Giorgio Molteni) e Segreti segreti (1985, Giuseppe Bertolucci); fino a Film d’amore e
d’anarchia (1973) e Travolti da un insolito destino nell’azzurro
mare d’agosto (1974), di Lina Wertmüller, ma anche Casotto
(1977) e Mortacci (1988), di Sergio Citti.
A partire dagli anni ‘90 il suo curriculum annovera diverse
fiction televisive tra cui Scandalo (1990) e L’avvocato delle
donne (1997).
L’impegno teatrale di Mariangela Melato continua negli anni
con, ad esempio, Chi ha paura di Virginia Woolf? (2005), Nora
alla prova, adattamento di Casa di Bambola di Ibsen diretto
da Ronconi nel 2010, fino all’ultima prova al Teatro Stabile
di Genova, nel 2011, per la regia di Massimo Luconi, con Il
dolore, di Marguerite Duras.
Iscrittasi ai corsi di regia dell’Accademia Pietro Sharoff nel 1951,
dopo un’intensa attività di sceneggiatrice, dialoghista e regista (per
il teatro di burattini di Signorelli, il cabaret, la commedia musicale di
Garinei e Giovannini e la televisione, realizzando tra l’altro la regia
della trasmissione Canzonissima), dopo avere esordito come aiuto
regista di Fellini in 8 1/2 (collabora anche alla sceneggiatura), nel
1963 realizza un film d’autrice, I basilischi, tenera satira dei giovani
delle province del sud, apprezzato sia in Italia sia all’estero, che
ottenne la Vela d’argento e il premio Fipresci al Festival di Locarno nel 1963 e il premio della giuria dei giovani al Rencontres del
Films pour la jeunesse. Con Nino Manfredi, gira nel 1965 Questa
volta parliamo di uomini, vincitore della Maschera d’argento. Negli
stessi anni diresse per la televisione Il giornalino di Gian Burrasca,
adattamento dal romanzo di Vamba che fu subito un grande successo di pubblico, e due commedie musicali con Rita Pavone, sotto lo
pseudonimo di George H. Brown, Rita la zanzara e Non stuzzicate
la zanzara. Ottiene grande fama negli anni Settanta scrivendo e
dirigendo una serie di straordinarie commedie: Mimì metallurgico
ferito nell’onore (1972), Film d’amore e d’anarchia (1973), Travolti
da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto (1974), Pasqualino
settebellezze (1975), interpretati da Giancarlo Giannini e Mariangela Melato, che caratterizzano subito il modo particolare di fare regia della Wertmüller che predilige toni grotteschi e stravaganti ma
anche affilata critica sociale. Seguono: Sotto... sotto... strapazzato
da anomala passione (1984), Un complicato intrigo di donne, vicoli
e delitti (1985), Notte d’estate con profilo greco, occhi a mandorla e
odore di basilico (1986), In una notte di chiaro di luna (1989), Io speriamo che me la cavo (1992), Ferdinando e Carolina (1999). Dal 1988
al 1993 è stata commissario straordinario del Centro sperimentale
di cinematografia. Nel 1996 dal romanzo di Danilo Rea ha realizzato
Ninfa plebea e Metalmeccanico e parrucchiera in un turbine di sesso e politica, sul tema sempre presente nei suoi lavori del conflitto
di classe, tra un operaio comunista e una parrucchiera leghista.
i film
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Frontieras
Marocco, 2013, 35 mm col., 110’
Regia e sceneggiatura: Farida Benlyazid
Fotografia: Kamal Derkaoui
Montaggio: Fatema Benbrhim
Musica: Moncef Adyel
Interpreti: Romina Sanchez, Ismail Aboulkanater, Mohammed Marouazi, Amal Bouftah, Mohamed Bassou, Mly Mhammed Alaou
Produzione: Cinetelema.
Maite si reca a Laayoune dove Dahmane la sta aspettando
per girare un documentario sul Sahara marocchino. Maite
scopre però che la realtà non corrisponde affatto a ciò che si
era immaginata. Crede che Dahmane voglia influenzare il suo
lavoro e decide di abbandonare il suo progetto. Al momento
della sua partenza incontra delle persone di un’organizzazione
non governativa che si recano nel deserto. Si unisce a loro e
da quel momento comincia un’avventura che, tra documentario e finzione, cattura la magia del deserto, scoprendo la
bellezza dei suoi paesaggi e la ricchezza delle sue tradizioni.
Note di regia
All’improvviso mentre mi recavo al festival di Nouakchott tre anni
fa ho desiderato realizzare un film sul deserto e sulla sua cultura essenzialmente orale. La poesia, il canto e la musica sono
importantissime nella vita dei nomadi. Sono andata a Laâyoune
per cercare l’ispirazione. Pensavo di girare un’epopea del Sahara.
Arrivata laggiù mi sono trovata di fronte ad una realtà di cui nessuno capiva niente. Io, invece volevo proprio capire. Così è nato
Houdoud oua houdoud che vuol dire Frontiere e frontiere. Da qui
il titolo Frontieras che, più o meno va bene sia in francese che in
spagnolo dato che il Sahara, come il nord del Marocco era diviso tra Spagna e Francia. D’altra parte, quando ero bambina per
andare da Tangeri, città internazionale a Casablanca occorreva
un passaporto per attraversare le frontiere imposte dalla Spagna
quando si usciva e, al ritorno, attraversare la frontiera imposta dalla Francia dopo Larache, ad Arbauoa.
Farida Benlyazid
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i film
Farida Benlyazid
Regista, sceneggiatrice e giornalista marocchina, Farida
Benlyazid è nata a Tangeri nel 1948. Si laurea in Regia cinematografica presso Ècole Supérieure d’Ètudes Cinématographiques nel 1976. L’anno successivo frequenta stages di cinema a
Parigi e rientra in Marocco alla fine degli anni ‘80. È produttrice
del film Une brèche dans le mur di Jillali Ferhati nel 1978 e
sceneggiatrice del film dello stesso Ferhati Poupées de roseaux
(1980). Il suo debutto alla regia è nel 1979 con Identité de femme. Come giornalista collabora con varie testate internazionali
come Le Libéral, El Mundo, Autrement e Kantara. Nel 1988 gira
il suo primo lungometraggio di finzione, Une porte sur le ciel.
Nel 1991 fonda una società di produzione la Tingitania Films.
Faryda Benlyazid nei suoi film racconta il Marocco attraverso la
storia delle sue donne, la sua lunga attività comprende numerosi documentari e alcuni telefilm.
Filmografia
Identités de femme (1979); Une porte sur le ciel (1988); Aminata Traoré, une femme du Sahel (1993); Contra bande (1994);
Sur la terrasse (1995); Cinq films pour cent ans (1995); Kaïd
Ensa (1999); Nia taghleb (telefilm, 2000); El Boukma (telefilm,
2001); Casablanca Casablanca (2002); Juanita de Tanger. La
chienne de vie de Junita Narboni (2005); Casanayda! (2007);
Koul Ouahed ou Ryou (2012); Frontieras (2013).
Girls who Smoke
USA, 2012, HD col., 15’
Regia: Tawny Foskett
Sceneggiaura: Garlon Farrell
Fotografia: Sanne Kurz
Montaggio: Jef Tayler
Musica: Lucas Van Lenten, Lila Nelson
Interpreti: Kristin Tayler, Loren Lockwood.
Questo cortometraggio rovescia una convenzione narrativa
e cinematografica consolidata che colloca le donne sicure
in casa, in pericolo fuori. Qui, invece, le protagoniste si
incontrano per strada. Escono rispettivamente da un’auto
e da una casa infelici e arrabbiate. Nelle strade di periferia
che percorrono, lungo i binari del treno e sulle scale di una
casa, probabilmente disabitata, si scambiano comprensione
e interesse reciproco: stanno bene insieme. Nelle case
la mancanza di comunicazione e la solitudine hanno il
sopravvento. L’evasione dura il momento di una sigaretta o al
massimo di un pacchetto di sigarette.
Girls who Smoke è ispirato ad un programma radiofonico dal
titolo This American Life.
Tawny Foskett
Tawny Foskett inizia la sua carriera studiando e lavorando
come attrice e ballerina negli anni ‘90. Inizia gli studi di cinematografia nel 2001 presso la Humboldt State University e si
laurea in regia nel 2006 all’Australian’s Victorian College of
the Arts. Rientra a New York nel 2007 e attualmente dirige il
Beekman Theatre.
Filmografia
Annie & Mary: Reflection on the Railroad (cortometraggio,
2003); Lost Almost (cortometraggio, 2005); Three parts (cortometraggio, 2006); Whole Pieces (cortometraggio, 2006);
A Second Chance (cortometraggio, 2009); Girls who Smoke
(cortometraggio, 2012);
i film
27
Goliarda sapienza: l’arte di una vita
Italia, 2002, Beta SP, 30’
Regia: Manuela Vigorita
Scrittura: Loredana Rotondo
Produzione: Rai Educational.
Il documentario, prodotto da Rai Educational nell’ambito della
serie Vuoti di memoria, è stato uno dei primi lavori che ha riattraversato e presentato al pubblico la rocambolesca e intensa
vita di Goliarda Sapienza. Dai suoi esordi teatrali all’esperienza di attrice cinematografica, passando per la sua irriverenza
intellettuale fino ad approdare alla vocazione di scrittrice.
Goliarda Sapienza nasce nel 1924 a Catania da una famiglia
socialista anarchica. La madre, Maria Giudice, fu la prima donna
a dirigere la Camera del lavoro di Torino, il padre, Giuseppe Sapienza, un avvocato sindacalista nella Sicilia prefascista. Muore a
Gaeta dove amava stare a lungo sulla spiaggia a guardare il mare.
La sua è stata una vita movimentata: dal successo come attrice
negli anni ‘40 all’abbandono della carriera per un’intensa attività
di scrittura, dalle vicende giudiziarie che l’avevano portata in carcere a Rebibbia - dove è nato il libro L’università di Rebibbia - e
verso la fine della sua vita all’insegnamento al Centro Sperimentale di Cinematografia.
Il suo libro più importante L’arte della gioia, frutto del lavoro di
un decennio (1967/76), ha avuto una storia editoriale di rifiuti
a causa del suo contenuto considerato immorale e scandaloso
per la mentalità di quei tempi, fino a trovare ascolto e accoglienza nei circuiti editoriali alternativi. Nessuna meraviglia,
poiché la storia, il personaggio, l’uso stesso della lingua agiscono come un’onda d’urto contro stereotipi e ipocrisia.
28
i film
Manuela Vigorita
È nata a Roma nel 1965. Si laurea in Lettere e Filosofia presso l’Università di Roma “La Sapienza” col massimo dei voti. È
regista e autrice di numerosi documentari e cortometraggi. Le
sue regie televisive, per lo più per Rai Educational e Rai International, sono spesso dedicate a figure dimenticate del passato,
come Amelia Rosselli: La Rissa degli Angeli (2002); Goliarda
Sapienza: Larte di una vita (2002); Annibale Ruccello: Le rose
del noir (2005); Aldo Capitini: Il coraggio della non violenza
(2005); Cristina Campo: L’imperdonabile (2007). Il suo lavoro, Io,
Primo Carnera (2006), riattraversa la vicenda umana del pugile:
dall’infanzia friulana ai primi anni da giovane emigrato in Francia; dagli inizi della carriera pugilistica alla conquista nel 1933,
negli Stati Uniti, del campionato del mondo dei pesi massimi,
fino al declino. Autrice di testi per spettacoli multimediali, nel
2003 pubblica il libro Viva (Tilda Fem).
Filmografia
La mia guerra (cortometraggio, 2002); Quasi ineffabile. Una
femminsta alla Rai (documentario, 2004); Ottomarzo 2007
(cortometraggio, 2007); L’amore che non scordo, storie di comuni maestre (documentario, 2008); La politica del desiderio
(co-regia con Flaminia Cardini, 2010); L’oro di Torvaianica (documentario, 2011).
Loredana Rotondo
È autrice di trasmissioni radio e tv per la RAI dal 1969 al 1996, e
poi capo struttura di Rai International e Rai Educational.
Laureata in Scienze Politiche a Bari, sua città natale, poi borsista Fulbrigth alla State University of New York-Rockfeller
Foundation. Sin dal suo arrivo in Rai indaga il rinnovamento
dei format e l’uso possibile delle nuove tecnologie dal punto
di vista della “libertà femminile da liberare” convinta che la
cultura della comunicazione di massa chieda maggiore attenzione e riflessione condivisa sul portato – simbolico e politico
– delle immagini. Il suo interesse per le nuove tecnologie e le
modalità della comunicazione, condiviso con alcune altre donne
dell’impegno femminista dai primi anni ’70 al presente, è stato la scommessa e l’occasione per misurarsi con le condizioni
della professione e i limiti posti dalle politiche aziendali, come
racconta nel video Quasi ineffabile. Una femminista alla Rai realizzato nel 2004. Il suo impegno professionale e di ricerca l’ha
portata a realizzare, all’interno della struttura Rai, un gruppo di
lavoro molto speciale, segnato dall’intreccio di relazioni femminili ed un’attenzione particolare alle storie passate e presenti
delle donne: il primo esteso progetto di simbolico femminile
realizzato in Rai. Per la rubrica Vuoti di Memoria di Rai Educational nel 2002 progetta e realizza 15 ritratti di donne e uomini
singolari. Tra i tanti segnaliamo Goliarda Sapienza. L’arte di una
vita e Alzare il cielo. Ritratto di Carla Lonzi con la regie sapienti
e amorose di Manuela Vigorita e Gianna Mazzini.
i film
29
Good Night
Regno Unito, 2012, HDCAM col., 24’
Regia e sceneggiatura: Muriel d’Ansembourg
Fotografia: Arturo Vasquez
Montaggio: Una Gunjak
Musica: Jody K. Jenkins
Interpreti: Anna Hogarth, Rosie Day, Jay Taylor, Dave Macrae, Michael Stevenson
Produzione: Blindeye Films, London Film School.
Rachel e Chloe sono stufe di essere banali quattordicenni innocenti. Basta essere ragazzine, è ora di vivere. Decidono di
uscire di nascosto, con abiti decisamente da adulte emanando
una sensualità che loro stesse conoscono appena. Ed è così
che entrano in nuovi territori e il confine tra giochi innocenti e
seducenti incontri pericolosi comincia a confondersi...
Muriel d’Ansembourg
Muriel d’Ansembourg vive tra New York, Amsterdam e Londra.
Ha conseguito la laurea in Sceneggiatura in Olanda e, più di
recente, si è laureata in Regia presso la London Film School. Ha
scritto e diretto premiati cortometraggi e documentari presentati in molti festival in tutto il mondo.
Durante i suoi studi alla London Film School, ha deciso di rivolgere il suo lavoro verso le problematiche legate ad adolescenza
e pre-adolescenza. Good Night, infatti, è il suo film di diploma che ha ricevuto, tra gli altri, il Premio della Giuria al Palm
Springs International Short Film Festival. Attualmente sta scrivendo la prima sceneggiatura di un lungometraggio a soggetto,
nel frattempo continuerà a scrivere e dirigere cortometraggi per
affinare le sue capacità professionali.
Filmografia
Just Another Day (cortometraggio, 2007); Capturing Space
(documentario, 2008); Play (cortometraggio, 2008); Good Night
(cortometraggio, 2012).
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i film
In guerra senza uccidere
Italia, 2012, Digitale col., 90’
Regia e sceneggiatura: Ornella Grassi
Riprese: Emiliano Madiai, Tommaso Cimò
Montaggio: Ornella Grassi, Emiliano Madiai
Voci fuori campo: Ornella Grassi, Gianni Esposito - Testimonianza di Giorgio Grassi (classe 1922)
Organizzazione generale: Elisa Favilli
Produzione: Fondazione Sistema Toscana
Un particolarissimo racconto di guerra. Un obiettore di
coscienza, ante litteram, formatosi alla scuola del fascismo
che educava Balilla e Giovani Italiani a un destino di guerrieri,
trova in sé le ragioni per non uccidere. Attraversa illeso
l’inferno di fuoco e di ghiaccio della campagna italo tedesca
contro la Russia e la successiva, micidiale ritirata.
Un documentario in cui il “cosiddetto” nemico non è mai tale,
ma un essere umano come un altro... un ragazzo come te e
non lo uccidi né ti uccide. Gli sguardi, a volte, contano più
delle ideologie e degli ordini. Un atto di accusa contro tutte
le guerre.
Ci sono cose della mia infanzia che non riesco a dimenticare.
Mio padre che racconta della Russia, della guerra, di vite
sprecate, di come un ragazzo di 19 anni si trovi di fronte a
sofferenza, sgomento, fame, gelo.
Perché questa è la verità della guerra: la guerra è strazio,
esplosione del male.
Eppure lui è riuscito a conservare la propria dignità di uomo. È
tornato. Tornato a piedi dalla Russia. È uno scampato in tutti i
sensi. Scampato perché il caso lo ha fatto trovare più avanti o
più indietro nella ritirata, perché si era soffermato in un’isba
piuttosto che in un’altra. Ma è anche uno scampato dall’odio,
dalla violenza. Non dai ricordi...
Ornella Grassi
Ornella Grassi
Ornella Grassi è laureata in Lingue all’Università di Firenze. Inizia a lavorare in RAI all’età di cinque anni, in trasmissioni radiofoniche per bambini, diventando in seguito una delle principali
interpreti radiofoniche italiane. Sempre per la radio, è ideatrice,
attrice e regista di Femminile plurale, una serie di 13 puntate
sceneggiate da opere letterarie. Parallelamente alla radio, ha
una brillante attività televisiva al fianco di grandi attori e in ruoli
da protagonista. La tv tedesca Sudwestfunk, la sceglie per una
serie di undici telefilm. In teatro lavora a fianco di Lilla Brignone, Nora Ricci, Giancarlo Giannini, Gianmaria Volonté, tra gli
altri. È stata protagonista con Dacia Maraini alla Biennale di
Venezia nel ’74 dell’opera teatrale La donna perfetta che tante
polemiche scatenò sul tema dell’aborto. Tra le ultime produzioni
il monologo Bagheria di Dacia Maraini, e L’Estrosa abbondanza
di Anne Sexton per i quali è autrice della riscrittura teatrale.
Per il cinema lavora con Cinzia Torrini (La colpevole), con
Francesca Archibugi (Con gli occhi chiusi) con Sergio Bertossa
(Artemisia Gentileschi), Reality News di Salvatore Vitiello e
sempre per il cinema lavora come doppiatrice. Esegue doppiaggi di cartoni animati, presta la voce per mostre, corsi di
lingua, letture di poesie, cd e brani letterari, è anche la voce
off in sevizi giornalistici. Ideatrice e docente del primo corso
italiano ed europeo per la formazione di attori speaker e registi radiofonici non vedenti finanziato dalla Regione Toscana
con il FSE. In guerra senza uccidere è la sua prima personalissima esperienza col documentario.
i film
31
In vino veritas
Repubblica Ceca, 2012, Digitale, col., 10’
Regia, sceneggiatura e animazione: Aneta Kýrová Žabková
Montaggio: Ludek Hudec
Musica: Ivan Doležálek
Produzione: FAMU.
La foto di tre giovani amiche. Poi le stesse dopo venticinque
anni da quello scatto. Tre donne fanno il punto sui risultati
raggiunti nel tempo trascorso. Graffiante umorismo in un’animazione della gloriosa scuola di cinema FAMU di Praga.
32
i film
Aneta Kýrová Žabková
Filmografia
Nic nového pod sluncem (cortometraggio, 2007); Dobré jitro
pane Upíre (cortometraggio, 2007); Chybicka se vloudí (cortometraggio, 2008); In vino veritas (cortometraggio, 2012).
Intervista con Cecilia Mangini
Italia, 2012, digitale col., 23’
Regia: Matilde Gagliardo
Cecilia Mangini racconta ragioni e segreti della realizzazione
del film La torta in cielo girato assieme al marito Lino Del Fra,
dal romanzo di Gianni Rodari. Operazione eversiva, ancora
capace di entusiasmare piccoli e grandi. Il documentario è
stato girato dopo la proiezione del film La torta in cielo per
gli scolari delle scuole primarie fiorentine, al Cinema Odeon
il 3 dicembre 2012. Invitata d’onore del Festival di Cinema
e Donne, Cecilia Mangini è stata accolta, al suo arrivo nel
cinema Odeon, da un concerto dalla banda musicale La
Polverosa dell’Istituto Comprensivo Verdi.
Matilde Gagliardo
Matilde Gagliardo, nata a Palermo, vive e lavora a Firenze.
Storica dell’arte del Rinascimento, ha scritto saggi sull’iconografia delle Sibille e delle Età del mondo, è autrice di
documentari e di video. Ha realizzato numerose interviste a
personaggi italiani e stranieri, videoclip musicali, video ritratti, backstage. Ha filmato performances, concerti, spettacoli
teatrali, trasmissioni radiofoniche.
Filmografia
Ritratti (2005/2013); Nello studio di Grisha. Colm Tóibín
(2005); Improvvisazione (2005, videoclip); Isolamento (2005,
videoclip); Dietro le quinte di Viaggio segreto un film di Roberto Andò (2007); L’infanzia di Orlandino. Antonio Pasqualino
e l’Opera dei pupi (2007); Il tajine di Irène (2007); ‘Io clown te
down’ e altri spettacoli di Bobo Rondelli (2007); Paolo Virzì e
Bobo Rondelli dietro le quinte de L’uomo che aveva picchiato
la testa (2009); Riprese delle Registrazioni e del Backstage
della Trasmissione Radiofonica Il Dottor Djembe (2010); Monicelli a Cesena (2011); Intervisa a Cecilia Mangini (2012);
Appunti per un Documentario. L’Aquila 13 Marzo 2012 (in
produzione).
i film
33
Kader
Germania, 2013, 16 mm col., 13’
Regia, sceneggiatura e montaggio: Esin (Büyükyıldırım) Özbanazi
Fotografia: Piotr Rosołowski
Musica: David von Ilsemann
Animazione della sabbia: Pengyu Huang
Interpreti: Zeynep Özerol, Özlem Öksüz
Produzione: Kunsthochschule für Medien Köln.
Premio del pubblico Anna Magnani
miglior cortometraggio (Giuria Junior)
Motivazione
Kader mette in scena, con sensibilità e fantasia, una storia
giovane e mediterranea. Apprezzabili, la costruzione della
storia, le animazioni, e l’atmosfera evocativa.
Una ragazza si reca a casa di una donna anziana che legge
il futuro nei fondi del caffè. La donna racconta la storia allarmante di una giovane veggente che perde la giovinezza
per aver voluto conoscere il proprio futuro. La ragazza vuole
comunque sapere cosa il fondo del caffè ha in serbo per lei.
Dalla tazzina rovesciata cominciano a emergere visi e immagini che prendono vita.…
34
i film
Esin Özbanazi
Esin Özbanazi è nata a Istanbul nel 1978. Si è laureata prima
all’Università di Ankara, Dipartimento di Radio, Cinema e Televisione e poi alla Facoltà di Media Arts dell’Università di Colonia, Dipartimento di Media Design. Attualmene vive a Colonia
dove lavora come freelance, media desiger e giornalista. I suoi
film brevi sono stati premiati in numerosi festival del cortometraggio.
Filmografia
Terk-i Diyar (cortometraggio, 2000); Zamanın 3 Hali (cortometraggio, 2000); Hocam (documentario, 2001); Çalıntı Hikayeler
(cortometraggio, 2002); Yorumsuz (cortometraggio, 2003); Bir
Varmıs – Bir Yokmus (cortometraggio, 2003); 18 Parallel (documentario, 2007); Kader (cortometraggio, 2013).
Ma l’amor mio non muore
Italia, 2013, b/n, 90’
Regia: Mario Caserini
Sceneggiatura: Emiliano Bonetti, Giovanni Monleone
Fotografia: Angelo Scalenghe
Interpreti: Lyda Borelli, Mario Bonnard, Vittorio Rossi Pianelli, Emilio Petacci, Camillo De Riso, Gian Paolo Rosmino, Dante Cappelli, Maria Caserini
Produzione: Gloria Film.
Nel Granducato di Wallenstein ai primi del Novecento vive
una bella ragazza di nome Elsa Holbein, figlia del capo di
Stato Maggiore colonnello Julius Holbein. Costui si uccide
perché accusato ingiustamente di tradimento, in quanto è
stato derubato dei suoi piani strategici da Moise Stahr.
Elsa sconvolta dalla morte del padre, si allontana e si rifugia
in Riviera, dove calca le scene come cantante e pianista con lo
pseudonimo di Diana Cadouleur e ottiene notevole successo
ritrovando la serenità. Nel pieno del suo successo la ragazza
conosce il Principe Massimiliano e, da subito, i due si innamorano.
Durante una gita in battello sul lago di Locarno, la coppia incontra
Moise Stahr che, riconosciuta la donna e venendo da essa
respinto, per ripicca diffonde nel Granducato notizie false sulla
condotta del Principe Massimiliano, appena ristabilitosi dopo una
grave malattia. Il Granduca di Wallenstein fa richiamare in patria
il principe e i due giovani si separano. Il Principe Massimiliano
cerca ugualmente Elsa, riesce a trovarla in teatro, ma troppo
tardi: la ragazza è morta per aver assunto del veleno.
Note di critica
Fra le poche certezze relative al cinema italiano realizzato
negli anni dieci del novecento c’è quella che Ma l’amor
mio non muore di Mario Caserini con Lyda Borelli ha dato
origine, nel 1913, al divismo italiano. Fenomeno declinato
al femminile, impregnato di decadentismo, diffuso dai
pochi canali mediali dell’epoca - giornali, riviste, fotografie,
locandine, cartoline postali - ma paragonabile, anche a
livello sistemico, solo a quello parallelamente sviluppato
nell’industria cinematografica americana.
Il film, un melodramma di forte impianto teatrale e dal linguaggio
visibilmente arcaico, dominato da una presenza femminile che
definisce il proprio vivere in base all’amare in modo travolgente
e al mostrarsi sulle scene, ebbe ampia diffusione e risonanza,
nonostante la casa produttrice Gloria fosse una piccola e
neonata impresa torinese. Con questa pellicola Lyda Borelli,
acclamata giovane attrice del teatro di prosa, riscosse un
successo personale non paragonabile a quello, pure notevole,
precedentemente conquistato sulle tavole del palcoscenico in
grandi compagnie primarie, fra cui quella di Eleonora Duse.
Divenne una popolarissima icona liberty e interpretò altri tredici
film (fino al 1918) lasciando memoria di sé anche nella lingua
italiana: “borellismo” significò atteggiarsi come lei, furono
definite “borelline” le imitatrici delle sue pose languide e sfinite
accompagnate dall’esibizione di abiti confezionati con strati di
velo impalpabile per lasciar libero il corpo di muoversi.
A cent’anni dalla realizzazione del film la Cineteca di Bologna,
in collaborazione con la Fondazione Cineteca Italiana e il Museo
del Cinema di Torino, ha ricostruito Ma l’amor mio non muore
a partire da una copia composta da sei bobine (nella versione
italiana il film fu distribuito in due versioni, una da sei e una
da sette atti, mentre all’estero una di cinque) cui sono state
integrate didascalie mancanti e alcune scene fra cui il bacio
in barca nel finale censurato in Italia. La nuova versione viene
proposta con accompagnamento musicale dal vivo (Marina
Longo, pianoforte, Paola Saponara, flauto).
Cristina jandelli
i film
35
Mario Caserini
Mario Caserini, figlio di Oreste e di Isabella Rosati, cresce in
una famiglia piccolo-borghese. Dopo una breve e poco nota
parentesi teatrale, inizia a lavorare per il cinema presso la
Alberini & Santoni, prima manifattura romana, divenuta poi
Cines. Caserini inizia la sua carriera come aiuto regista del
francese Gaston Velle. Il primo film da regista è II romanzo di
un Pierrot (1906). Nel 1907 diviene direttore artistico della Cines, e da quel momento orienta la produzione verso il genere
storico-letterario. Tra il 1909 e il 1910 furono girati alcuni dei
suoi film di maggior successo come Anita Garibaldi, Beatrice
Cenci, Dramma medievale, Giovanna d’Arco, L’innamorato, La
dama di Monserau, La gerla di papà Martin, Macbeth, Otello,
Wanda Soldanieri e altri. Nel 1911 passa all’Ambrosio Film di
Torino, assieme ai suoi collaboratori. Nello stesso anno sposa
Maria Gasparini, attrice e ballerina conosciuta cinque anni
prima. Nella casa torinese i suoi film di maggior rilievo furono
Mater dolorosa, Parsifal e Sigfrido. Appena due anni dopo
passa dall’Ambrosio alla Gloria Films, della quale fu uno dei
soci fondatori e direttore artistico. Nel 1913 dirige quello che
è ritenuto il film più significativo della sua carriera, Ma l’amor
mio non muore con protagonisti Lyda Borelli e Mario Bonnard.
Torna all’Ambrosio nel 1914, ma l’anno seguente fonda una
propria casa di produzione, la Caserini Films, per la quale dirige solo due film La pantomima della morte e Ma l’amor tuo
mi redime (1915). Dal 1916 fino alla morte, lavora nuovamente
alla Cines, e gira circa una ventina di film di successo tra cui
Amore che uccide, Dramma di una notte, La vita e la morte,
Passano gli anni, Sfinge e Tragedia senza lacrime.
Filmografia
Il romanzo di un Pierrot (1906); Otello (1906); Garibaldi
(1907); Il fornaretto di Venezia (1907); Romeo e Giulietta
(1908); Leggenda medievale (1908); Giovanna d’Arco (1908);
L’abbandonata (1908); Amleto (cortometraggio, 1908); Wanda Soldanieri (1909); I tre moschettieri (1909); La signora
de Monsoro (1909); Parsifal (1909); Marco Visconti (1909);
Macbeth (1909); L’innominato (1909); La gerla di papà Martin
(1909); Beatrice Cenci (1909); Amleto (1910); Lucrezia Borgia
(1910); Jane Eyre (1910); Giovanna la pazza (1910); Federico
Barbarossa (1910); Cola di Rienzo (1910); Messalina (1910); Il
Cid (1910); Catilina (1910); Anita Garibaldi (1910); L’amorino’
(1910); Amleto (1910); Giovanni dalle Bande Nere (1910); L’ultimo dei Frontignac (1911); Mademoiselle de Scudery (1911);
36
i film
Antigone (1911); Sigfrido (1912); Santarellina (1912); La ribalta (1912); Il pellegrino (1912); Parsifal (1912); I mille (1912);
Mater dolorosa (1912); Dante e Beatrice (1912); Arabian Infamy (1912); Il treno degli spettri (1913); Nerone e Agrippina
(1913); Ma l’amor mio non muore (1913); Florette e Patapon
(1913); Gli ultimi giorni di Pompei (1913); Nidia la cieca (1914);
La gorgona (1914); La pantomima della morte (1915); Monna
Vanna (1915); La vida y la muerte (1916); L’amor tuo mi redime
(1916); Madame Tallien (1916); Fiore d’autunno (1916); Come
quel giorno (1916); Amor enemigo (1916); Amore che uccide
(1916); La divetta del reggimento (1916); Chi mi darà l’oblio
senza morte? (1917); L’ombra (1917); Il filo della vita (1917);
Resurrezione (1917); La signora Arlecchino (1918); Il dramma di una notte a Calcutta (1918); Primerose (1919); Capitan
Fracassa (1919); Fior d’amore (1920); Las delicias del campo
(1920).
Mac book Pro
Italia 2013, col, Digitale, 15’
I.I.S.S. Pietro Calamandrei di Sesto Fiorentino- Classe IV A Linguistico, coordinamento progetto didattico: Sara Renda
Regia, montaggio e didattica del linguaggio cinematografico: Vincenzo Buonfiglio
Soggetto: tratto dalla novella omonima di Lucrezia Bernacchi
Adattamento e sceneggiatura: Vincenzo Buonfiglio e Patrizia Di Virgilio con la collaborazione di Silvia Bensi
Segreteria generale: Anna Bindi,
Assistenza sul set:Lucrezia Bernacchi,Eleonora Crezzini, Alice Giorgeschi
Costumi e trucco:Noemi Di Napoli, Ilaria Medani, Ilaria Ricci
Scenografia: Elisa Di giovanni, Chiara Boanini, Giulia Marchi
Assistenza presa diretta:Virginia Taiti
Riprese, backstage e foto: Lucrezia Bernacchi, Giulia Marchi, Ilaria Ricci
Interpreti: Elisa Boccardi (Alice), Simona Silvestro (Bea), Silvia Bensi (Mamma), Patrizia Naldi (La signora in rosso), Marco Alessandrini,
Lucrezia Bernacchi, Chiara Boanini, Elisa Di Giovanni, Alice Giorgeschi, Giulia Marchi.
Produzione: Laboratorio Video per le scuole della Provincia di Firenze. (Istituto Agrario via delle Cascine 11).
Produttori esecutivi: Francesco Panichi e Silvia Bensi (Diritto allo Studio - Progetti educativi e rete scolastica Provincia di Firenze)
PREMIO ECCELLENZA DIDATTICA PER I LINGUAGGI AUDIOVISIVI
Motivazione
Per la capacità di trarre una sceneggiatura ben articolata da un bel racconto della studentessa dell’Istituto Calamandrei
Lucrezia Bernacchi. Per aver efficacemente percorso tutte le tappe del ciclo produttivo di un’opera audiovisiva ottenendo un
brillante risultato. Per aver affrontato, con umorismo e serietà, un tema complesso come quello della comunicazione tra figli e
genitori e del corretto uso delle nuove tecnologie.
PREMIO MIGLIOR PERCORSO DIDATTICO 2012/2013
Per il programma Affetti Speciali proiezioni e incontri per le scuole realizzato nell’ambito del Festival di Cinema e Donne di
Firenze in collaborazione con Unicoop Firenze, sono state premiate le classi V A e V B della Scuola Primaria D.Gabbrielli di
Scandicci per la realizzazione del miglior percorso didattico in relazione al film La torta in cielo di Lino Del Fra.
La pellicola è stata proiettata per i più giovani durante la scorsa edizione del Festival dalla sceneggiatrice e illustre
documentarista Cecilia Mangini. Hanno collaborato all’evento Mediateca Regionale Toscana, Provincia di Firenze, Unicoop
Toscana e Giardino dei Ciliegi.
Motivazione
Per l’originalità nell’ideazione, la costanza dell’impegno e i molteplici e multiformi elaborati prodotti. Studenti e docenti hanno
anche fatto buon uso delle indicazioni artistico-didattiche di Gianni Rodari.
i film
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Même pas mal
Tunisia, 2012, HD Cam col., 66’
Regia: Nadia El Fani, Alina Isabel Pérez
Fotografia: Alina Isabel Pérez, Dominique Lapierre, Nadia El Fani, Fatma Cherif
Montaggio: Jeremy Leroux
Produzione: K’ien Production, TV5 Monde.
Premio Sigillo della Pace per il film documentario
Nadia El Fani
Motivazione
Per il coraggio di aver condiviso con il più largo numero possibile
di persone, attraverso il cinema, la sua duplice battaglia per la vita
contro la malattia e la violenza oscurantista che nega cittadinanza e
diritti alle donne. Per il talento grazie al quale, mirabilmente, mette
in relazione, una storia privata con gli avvenimenti e gli scontri sui
temi fondamentali della laicità e della libertà di pensiero e di azione
che hanno caratterizzato la storia recente della Tunisia e di tutta
l’Africa mediterranea. Nadia El Fani pratica un particolarissimo stile di documentazione sociale coinvolgente, personale, antiretorico,
spesso ironico, e molto efficace nel diffondere informazioni e speranze, aprendo varchi attraverso i quali superare i muri del silenzio
e della paura.
È nata nel 1960 a Parigi da padre tunisino e madre francese.
Nel 1982 è stagista nella troupe
del film di Schatzberg Besoin
d’amour, quindi assistente di
Polanski, Arcady, Bouzid, Goupil,
Zeffirelli. Nel 1990 realizza il primo cortometraggio e fonda la società di Produzione Z’yeux Noirs
Movies in Tunisia. La sua lunga
carriera di filmmaker, impegnata
nel movimento femminista e progressista tunisino conta ad oggi
una sola, ma originale, incursione
nel cinema di finzione, Bedwin
hacker. Per il futuro ha però in
progetto altri due lungometraggi
di finzione: Aziza ne sait plus ce
qu’elle dit e Frankaouis. Poi un
nuovo documentario sulla doppia
nazionalità, Harissa et moutarde.
Note di regia
È tutta una questione di cellule: cellule di crisi, cellule tumorali,
cellule nervose della materia grigia, cellule terroristiche, celle
della prigione, dell’informazione, certe cellule si moltiplicano in
modo anarchico, altre in misura più ordinata, a volte cellule più
aggressive attendono nell’ombra il momento più opportuno per
attaccare. [...] La battaglia contro il tumore è stata vinta, ma
le metastasi nella società tunisina sono sempre più diffuse e
minacciano di averla vinta su un corpo sociale che ha isole di
resistenza e dissidenza civile ancora molto forti.
Nadia El Fani
38
i film
Filmografia
Pour le plasir (cortometraggio,
1990); Fifty-fifty mon amour
(cortometraggio, 1992); Tanitez moi (documentario, 1993);
Du cote des femmes leaders
(documentario, 1993); Tant
qu’il y aura de la pelloche (cortometraggio, 1998); Bedwin
hacker (2002); Unissez-vous, il
n’est jamais trop tard! (cortometraggio, 2005); Ouled Lenin
(documentario, 2007); Laïcité,
inch’Allah! (2011); Nos seins,
nos armes (2012); Même pas
mal (2012).
Alina Isabel Pérez
È nata nel 1975. I suoi campi
di attività sono la fotografia
e le arti plastiche. Même pas
mal è il suo primo film.
Non ho mai visto il mare
Italia, 2013, digitale col., 10’
Regia, ideazione e testo: Matilde Tortora
Montaggio: Orazio Garofalo.
Un film breve sul ricordo di una rincorsa, muta, accelerata,
reiterata quanto basta poi a divenire adulto: la ricerca da
parte di chi è stato bambino, di chi è bambino oggi, di quanto
gli è spesso con arbitrio negato, l’insanabile malinconia
dell’alluce del suo piede destro, checché ne dicano gli altri,
e a volte finanche molto di più. Un cigno di plastica, una
madre oberata e imprevisti compagni: “Io vedevo/sulla tolda
prendere/un bagno di Sole,/era del tutto solo./In altre ore
giocava a schacchi/col suo canuto vicino di casa.”
MATILDE TORTORA
Matilde Tortora, regista e storica del cinema, nota per i suoi
studi e le ricerche di cinema che ha condotto e pubblicato
anche fuori dai confini nazionali. Insignita nel 2000 del Premio della Cultura della Presidenza del Consiglio dei Ministri,
è stata più volte chiamata a far parte di Giurie di Festival di
Cinema Internazionali. Nel 2011 ha ideato e realizzato il film
breve Il Sole con l’alchèrmes sui 150 anni dell’Unità d’Italia,
nel 2012 il secondo cortometraggio Alla ricerca della scarpa
perduta. Autrice, tra l’altro, dei libri Viaggi nell’animazione.
Interventi e testimonianze sul mondo animato. Da Émile
Reynaud a Second Life, che raccoglie testimonianze di autori
internazionali dell’animazione e nel 2010 Le donne nel cinema
d’animazione. È membro della Cinémathèque Française e dirige fin dagli inizi il Premio Internazionale Simona Gesmundo
Corti d’animazione.
i film
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Non lo so ancora
Italia, 2013, RedCam, 83’
Regia: Fabiana Sargentini
Soggetto: Fabiana Sargentini, Morando Morandini
Sceneggiatura: Fabiana Sargentini, Carlo Pizzati con la collaborazione di Morando Morandini
Fotografia: Simone Pierini
Montaggio: Fabio Nunziata
Musica: Nicola Campogrande
Interpreti: Donatella Finocchiaro, Giulio Brogi, Orietta Notari, Pierluigi Pasino, Alessandra Frabetti
Produzione: Settembrini Film Srl..
Giulia ed Ettore non hanno niente in comune quando si incontrano per caso nel parcheggio di un ospedale dove sono
appena andati a fare analisi. Sempre per una serie di coincidenze finiranno per aspettare insieme il risultato nella località
balneare dove si trovano. Nella più classica unità di tempo e
di spazio, un giorno un luogo, nasce un rapporto delicato e
prezioso fatto di sfumature, di umori cangianti ed emozioni
accennate. Anche il clima condensa le sue possibilità in una
giornata, dal mare che invita a bagnarsi all’acquazzone autunnale. Due persone sole aspettano un appuntamento con
il destino, cercando di non guardare l’orologio, e trovano il
modo di offrirsi leggerezza, buonumore e protezione reciproca contro la paura. Levanto, filmato con amore, è il terzo
protagonista della storia: una stazione climatica sul punto di
chiudere la stagione, gli stabilimenti, gli ombrelloni ridotti di
numero, pochi villeggianti sparuti rimasti a gustarsi gli ultimi
scampoli di vacanze. Un piccolo paese che sta per cambiare,
dopo i fasti dell’estate si prepara a tornare a una versione
più moderata: si torna alla morigeratezza dell’inverno, alla
rigidità del freddo, alla noia del cielo grigio e di un mare che
incute timore invece di attirare nelle sue brame azzurre. Vicoli,
palazzetti, il lungomare, la spiaggia sono tutti luoghi che raccontano, insieme agli attori, l’avvicinamento di due solitudini,
i silenzi, la conoscenza reciproca, il motore che manda avanti
la breve storia di un incontro. Bell’esordio nel lungometraggio
che omaggia alla lontana anche l’indimenticabile Clèo dalle cinque alle sette di Agnes Varda. Protagonista Donatella
40
i film
Finocchiaro, assieme ad Aldo Brogi. Il poliedrico Morando
Morandini partecipa sia al soggetto che alla sceneggiatura.
I costumi sono di Lia Morandini.
Note di regia
Non lo so ancora è un film su come un incontro casuale può
cambiare la vita. Qualche anno fa ho incontrato Morando
Morandini. Era il direttore del festival di Bellaria e il mio documentario Sono incinta vinse il primo premio del concorso.
L’incontro con quest’uomo di cinema, che conosceva così tanti
film da racchiuderli in un dizionario, molto in là con gli anni allora stava per varcare la soglia degli ottanta – è stato per
me incredibile ed imprevedibile. Non mi era mai capitato di riconoscermi a prima vista con qualcuno di così lontano da me:
dal primo sguardo la sintonia, al di là delle evidenti differenze,
era immediata. Un mentore, un padre buono, un compagno
vissuto in un lasso temporale sbagliato, un marito in un’altra
reincarnazione? Non lo so ancora, non l’ho ancora capito. Ma
è certo che capirsi, conoscersi, scambiarsi tra due generazioni
così distanti come le nostre è qualcosa che ha lasciato subito
un segno profondo, qualcosa che ha cambiato l’assetto e la
direzione della mia vita, da quel momento in poi. È nata forte
in me l’urgenza di raccontare questo incontro (un’amicizia a
prima vista, come la chiama lui).
Questa storia contiene una ricca gamma di temi: la vecchiaia,
il tempo che passa e porta con sé cambiamenti ineluttabili e
invincibili, l’amore tra un uomo e una donna, la possibilità e
la scelta di mettere al mondo dei figli, l’avvicinarsi della fine
dell’esistenza. Tutto questo si agita nella vita dei protagonisti
messi a raffronto in stati d’animo diversi eppure vicini, accomunati nella distanza, sospesi in un’attesa di verità che forse,
da soli, non sarebbero in grado di affrontare…
Nel film c’è un’altalena continua di toni e di ruoli: l’anziano
ironico e distaccato urta contro una sorta di romanticismo
ingenuo della giovane donna; l’uomo, alle volte paterno, possiede anche la fragilità di un bambino; lei, forse infertile nella
vita, è materna e protettiva nei confronti di un uomo come
non lo è mai stata prima; lo scherzo e il gioco li fa volare da
una dimensione all’altra, piacevolmente leggeri nelle nuove
ali di cera, di cui andare fieri ma da tenere a debita distanza
dal sole. È estate ma è anche autunno, si è giovani anche a
ottant’anni suonati, si può soffrire il freddo anche sotto un
sole cocente…
Venendo dal mondo dei documentari, mi piacerebbe che il film
fosse visto come uno spiare per caso, senza essere visti, due
passanti che s’incontrano, si scontrano e poi si salutano, forse
per non rincontrarsi mai, in un giorno della loro vita. Vorrei
che il pubblico si sentisse partecipe, un po’ intruso un po’ voyeur, di una storia privata, ma al tempo stesso comune: sullo
schermo ci sono Ettore e Giulia ma potremmo essere anche
un po’ noi.
Fabiana Sargentini
FABIANA SARGENTINI
Fabiana Sargentini nasce a Roma nel 1969. Dal 1988 al 1997 collabora con la galleria d’arte contemporanea L’Attico di Roma come
curatrice. Dopo la laurea in Lettere (Storia e Critica del Cinema) con
una tesi su Robert Altman, lavora come assistente e aiuto regia nel
cinema e nella pubblicità. Nel 1998 partecipa al Sacher Festival di
Nanni Moretti con il cortometraggio in Super8 Se perdo te, autobiografico racconto tragicomico della fine di una storia d’amore. Da
allora ha realizzato altri cortometraggi, che hanno percorso le vie
dei festival, e documentari musicali e d’arte per canali satellitari.
Nei primi mesi del 2003 gira il documentario d’arte Tutto su mio padre Fabio Sargentini, ritratto familiare e professionale del gallerista
romano, vincitore del primo premio “miglior biografia d’artista” al
Pieve di Cadore Art Film Festival 2004. Il documentario Sono incinta
(presentato per la prima volta al Torino Film Festival 2003) ha vinto
il Bellaria Film Festival 2004 ed è stato mandato in onda per DOC3
su RaiTre. Il successivo Di madre in figlia (presentato al Torino Film
Festival 2004 e al Festival dei Popoli 2004) ha vinto Sguardi Altrove
Festival di Cinema Femminile a Milano, nel febbraio 2005 e, per il
secondo anno consecutivo, il Bellaria Film Festival 2005. Nel dicembre 2004 riceve l’ABO, premio per la produzione documentaristica,
da parte di Achille Bonito Oliva. Ciro e Priscilla, in concorso al Torino Film Festival 2005, ha vinto il premio speciale della giuria. Nel
luglio 2006 vince il secondo premio al festival CineMadeinLazio.
Nell’autunno-inverno 2005-2006 ha realizzato La sicurezza è vita,
un documentario sulla sicurezza nei posti di lavoro per l’Enel, intervistando operai di tutt’Italia vittime di infortuni. Due puntate monografiche dedicate ai suoi lavori de La 25ª ora sono andate in onda
su La7 nel febbraio 2007. Da un soggetto scritto a quattro mani con
Morando Morandini, per il quale nel 2008 ha ricevuto dal Ministero
per i Beni e le Attività Culturali il finanziamento allo sviluppo della
sceneggiatura del suo primo lungometraggio dal titolo Non lo so
ancora. Località delle riprese: la riviera ligure di levante.
Filmografia
Mani (cortometraggio, 1994); Lo sgarro (cortometraggio, 1996);
Viso (cortometraggio, 1997); Se perdo te (cortometraggio, 1998); Il
matrimonio può attendere (cortometraggio, 1999); Il cerchio che si
chiude (cortometraggio, 2000); Notte israeliana all’Argentina (documentario, 2000); Ho perso il treno (cortometraggio, 2001); SitarGuitar (documentario, 2002); Tutto su mio padre Fabio Sargentini
(documentario, 2003);Sono incinta (documentario, 2003); Di madre
in figlia (documentario, 2004); Ciro e Priscilla (documentario, 2005);
La sicurezza è vita (documentario, 2006); Non lo so ancora (2013).
i film
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Nos seins, nos armes
Francia, 2012, Beta Num col., 66’
Regia: Nadia El Fani, Caroline Fourest
Produzione: Nilaya Productions.
Sì, sono proprio loro le famosissime Femen a seno nudo
contro dittature, guerre, ingiustizie e altri mali endemici
del patriarcato che raccontano la genesi di un movimento
ormai difficile da definire per
diffusione e influenza. Due
le caratteristiche fondamentali: la nonviolenza e l’uso
del corpo esibito e utilizzato
come mezzo di comunicazione immediata e dirompente.
Hanno fatto del loro corpo
un’arma. Molte hanno preso
spunto da loro, dalle migliaia di donne sulle spiagge
australiane nude a formare
il simbolo della pace contro
la guerra in Iraq alle ragazze
arabe che rischiano grosso
su Facebook alle Pussy Riot
russe.
Caroline Fourest
Nadia El Fani
È nata nel 1975 a Aix-en-provence. Saggista, giornalista,
scenografa e regista, è cofondatrice e redattrice capo
della rivista ProChoix (femminista, antirazzista, laica)
dal 1997. Attraverso articoli
e inchieste, si è specializzata
nello studio dei movimenti
estremisti e in particolare integralisti. Un tema sul quale
sta lavorando da 14 anni.
È nata nel 1960 a Parigi da padre tunisino e madre francese.
Nel 1982 è stagista nella troupe
del film di Schatzberg Besoin
d’amour, quindi assistente di
Polanski, Arcady, Bouzid, Goupil,
Zeffirelli. Nel 1990 realizza il primo cortometraggio e fonda la società di Produzione Z’yeux Noirs
Movies in Tunisia. La sua lunga
carriera di filmmaker, impegnata
nel movimento femminista e progressista tunisino conta ad oggi
una sola, ma originale, incursione
nel cinema di finzione, Bedwin
hacker. Per il futuro ha però in
progetto altri due lungometraggi
di finzione: Aziza ne sait plus ce
qu’elle dit e Frankaouis. Poi un
nuovo documentario sulla doppia
nazionalità, Harissa et moutarde.
Filmografia
Pour le plasir (cortometraggio,
1990); Fifty-fifty mon amour
42
i film
(cortometraggio, 1992); Tanitez moi (documentario, 1993);
Du cote des femmes leaders
(documentario, 1993); Tant
qu’il y aura de la pelloche (cortometraggio, 1998); Bedwin
hacker (2002); Unissez-vous, il
n’est jamais trop tard! (cortometraggio, 2005); Ouled Lenin
(documentario, 2007); Laïcité,
inch’Allah! (2011); Nos seins,
nos armes (2012); Même pas
mal (2012).
Ouled Lenine
Figli di Lenin - Francia/Tunisia, 2007, 81’
Regia e sceneggiatura: Nadia El Fani
Fotografia: Paul Wattebled
Montaggio: Thierry Simonnet
Musica: Jean Ferrat, Claude Nougaro, Marcel Mouloudji, Georges Moustaki.
Ma chi erano i Figli di Lenin, i comunisti tunisini? Servi dell’Unione Sovietica o spiriti liberi e rivoluzionari? Quali erano i loro
rapporti con il socialismo panarabo di Nasser? In tempi di risorgenti nazionalismi ed identità religiose forti e politicizzate Nadia
El Fani, prima della cosiddetta “primavera araba” ricerca i giovani comunisti di un tempo, e li convince a parlare nonostante
i rischi della dittatura. Come ci riesce? Partendo da suo padre che è stato uno di loro e che non ha mai rinnegato i suoi ideali
giovanili.
È un racconto molto personale, la storia del partito comunista tunisino e il ritratto delle persone che lo animarono dagli anni
Cinquanta agli anni Ottanta. Pone la questione della loro eredità. Le convinzioni e le speranze di una generazione militante,
laica, un episodio politico della Tunisia quasi sconosciuto. Chi erano i ragazzi che a 20 anni lottavano per l’indipendenza della
Tunisia quando tutti i sogni sembravano possibili? Hanno atteso con troppa prudenza che il paese fosse maturo, o il tempo è
volato troppo in fretta per i loro sogni? Un emozionante confronto padre-figlia nelle vie di Sousse o in casa a Sidi Bou Said.
Eppure tutto era cominciato così bene: l’Indipendenza, l’emancipazione delle donne, lo sviluppo... Era un tempo in cui
musulmani, ebrei, cristiani, atei, uomini e donne indifferentemente, vivevano insieme, lottavano insieme per un mondo migliore
fatto di tolleranza, di uguaglianza e di passione.
Avevo dieci anni e non posso dire che sia stato il momento migliore della mia vita...
Nella Tunisia indipendente di Bourguiba ma che entrava già nell’era della disillusione, siamo stati pochi a condividere il segreto
dell’appartenenza: figli e figlie di comunisti... Ssssh!
Nadia El Fani
i film
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O šunce
Il prosciutto - Repubblica Ceca, 2012, Digitale, col., 6’
Regia, sceneggiatura, fotografia e musica: Eliška Chytková
Montaggio: Libor Nemeškal
Produzione: FMK UTB Zlín.
Immaginate cosa può succedere se il più famoso spirito maligno, il diavolo in persona, approfitta di una momentanea
distrazione dello Spirito del Bene per prendere la vita del
mondo. Animazione scatenata e divertente di un’allieva della
Facoltà di Multimedia e Comunicazione dell’Università di Zlín.
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i film
Eliška Chytková
Eliška Chytková, nata nel 1988, si è laureata in Comunicazione
Multimediale presso la Tomas Bata University di Zlín nella Repubblica Ceca. O šunce è il suo primo cortometraggio.
Pora umierać
TEMPO DI MORIRE - Polonia, 2007, 35 mm b/n, 104’
Regia e sceneggiatura: Dorota Kedzierzawska
Fotografia: Artur Reinhart
Montaggio: Dorota Kedzierzawska, Artur Reinhart
Musica: Wlodzimierz Pawlik
Intepreti: Danuta Szaflarska, Krzysztof, Patrycja Szewczyk, Kamil Bitau, Robert Tomaszewski, Małgorzata Rozniatowska
Produzione: Tandem Taren-To, Kid Film, TVP S. A.
Una casa di legno antica e molto bella nascosta tra gli alberi
di un giardino che da troppo tempo nessuno cura. Le tracce
della storia, quella con l’iniziale maiuscola e quella con la s
minuscola molto più importante per le persone che l’hanno
vissuta: ricordi di felicità lontane, vittorie e sconfitte e un
presente non facile da decifrare. L’ultimo inquilino se ne va
e la casa ritorna finalmente alla sua padrona, una donna
molto anziana, portamento elegante, sguardo disincantato e
intelligente. Unica compagnia e discreto confidente un cane,
anzi una cagna di media taglia, capace di capire qualsiasi
cosa l’amica si aspetti da lei e risolvere situazioni difficili. Ha
un nome poco canino, Filadelfia.
Attorno un figlio gaglioffo, una nipote viziata e consumista e
un pericoloso speculatore che ha messo gli occhi sulla casa.
Una bellissima (e molto premiata) prova d’attrice, un assolo
per Danuta Szaflarska, la più famosa attrice polacca del
dopoguerra, diretta magnificamente da Dorota Kedzierzawska
e filmata in uno splendido bianco e nero.
Note di regia
Pora umierać è un monodramma ispirato da una persona
speciale, e per lei, appositamente, scritto. Danuta Szaflarska
non è solamente un’attrice brillante, ma anche una persona
particolarmente affascinante. Da almeno 15 anni pensavo di
scrivere una sceneggiatura per Danuta, dalla prima volta che
ci incontrammo sul set di Diably, diably. [...]
Oltre alla protagonista, ovviamente, anche la casa gioca un
ruolo importante nel film. Il terzo punto focale della narrazione
è il cane. L’ho inserito nella sceneggiatura perché odio i
monologhi interiori e la mia protagonista parla davvero tanto,
allora il cane diventa il suo interlocutore, unico coinquilino,
amico e custode. Da queste conversazioni si capisce come
Aniela percepisce la realtà, come guarda la realtà con un
sorriso ironico, lo stesso sorriso che utilizza per vincere la
solitudine. [...] Da subito sapevamo che il film sarebbe stato
in bianco e nero, così come volevamo che la narrazione fosse
sobria in modo che niente disturbasse la semplicità dei rituali
quotidiani della nostra eroina. Guardando le vecchie foto
di famiglia, in bianco e nero, automaticamente indugiamo,
esaminiamo i volti, le persone, gli ambienti con lentezza, con
una maggiore attenzione come se da queste foto emanasse
una specie di potere magico, la nostalgia. Volevamo far vivere
agli spettatori questo genere di “pausa” e solo con il bianco e
nero potevamo riuscirci. [...]
Soprattutto Danuta Szaflarska è la più grande attrice del
cinema polacco del dopoguerra, a partire dai primi due
film interpretati dopo il 1945: Zakazane piosenki e Skarb. A
dispetto della sua età, è nata nel 1915, è ancora piena di
energia e continua a calcare le scene di cinema e teatro.
Dorota Kedzierzawska
i film
45
Danuta Szaflarska
Riferendosi a Danuta Szaflarska Erwin Axer scrive: Danuta era sempre aperta alla vita. Ma oggi, quando si occupa del teatro, si vede che tutto ciò contiene la verità.
Ogni suo ruolo brilla come un cristallo. Lavorare con lei
è il massimo piacere per un regista. Lei è come un diapason, che permette di giudicare la purezza del suono
dell’intera orchestra.
La pura naturalezza, La Repubblica n.52,
24-30 dicembre 1999
Dorota Kedzierzawska
Dorota Kedzierzawska è nata a Łódz nel 1957. Figlia della regista
Jadwiga Kedzierzawska, specializzata in film per bambini, Dorota
fin da piccola segue la madre sul set e nel 1972 è attrice in un suo
film, Ucieczka-wycieczka. Dal 1976 al 1978 studia Lettere all’Università di Łódz e nel 1981 si laurea in Regia presso la PWSFTviT
Film School di Łódz. Studia poi Regia per due anni al VGIK di Mosca. Inizia la sua carriera negli anni ‘80 come assistente alla regia
sui set della madre.
Tutti i film di Dorota Kedzierzawska possono definirsi noncommerciali, di produzione indipendente. I personaggi dei
suoi film vivono ai margini della società, sono poveri, soli,
in difficoltà. Cercano amore, aiuto e umana comprensione.
Per Kedzierzawska questa è una scelta di coscienza. Il lessico cinematografico di Dorota Kedzierzawska è unico, ogni
particolare è costruito con cura, ogni cosa sul set, le luci i
colori, i gesti, gli sguardi fino al make-up degli attori. Riesce
a creare un’atmosfera speciale per ogni film e con tutti i suoi
personaggi.
Filmografia
Agnieszka (1981); Jajko (1982); Poczatek (1983); Sosnowiec
(1984); Gucia (1985); Koniec swiata (1988); Diabły, diabły
(1991); Wrony (1994); Nic (1998); Jestem (2005); Pora
umierać(2007); Jutro bedzie lepiej (2010).
Mi osservo oggi e rivedo la bambina che ero quando correvo scalza attraverso la campagna, cosa mi è rimasto di lei?
Tutto. L’amore per la natura, il carattere, l’indipendenza...
Dalla natia Kosarzysk si trasferisce a Nowy Sacz. Qui, al
ginnasio, l’insegnante di pittura che conduce anche il laboratorio teatrale della scuola le affida il ruolo di Michas
nell’opera di Słowacki intitolata Horsztynski. Così a dodici
anni, nel 1927, Danuta Szaflarska calca per le prima volta
le tavole di un improvvisato palcoscenico e s’innamora
della recitazione. Negli anni 1936-1939 studia all’Istituto
Statale D’Arte Teatrale. La scuola di Zelwerowicz mi ha
insegnato la professione afferma dopo anni. Tutta la sua
generazione è segnata, in Polonia, dall’esperienza dalla II
guerra mondiale. La memoria del periodo degli stermini
accompagna tutta la vita dell’attrice ed è la fonte della
sua forza della sua arte a partire dal primo film uscito nel
dopoguerra ed intitolato Le canzoni proibite (1946) fino ai
ruoli eccellenti degli ultimi anni - moglie del dottore ne
L’addio a Maria (1993) e la signora Tabori in un spettacolo
televisivo Il coraggio di mia madre (2002). Danuta è una
dama d’altri tempi, porta in sé splendori dei tempi passati
e grande modernità – afferma Artur Reinhart, il direttore
della fotografia del film Tempo di morire. La cinepresa, in
linea di massima, non si muove, tutto il peso della storia è
affidato all’attrice. I mezzi plastici sono ridotti al minimo,
l’immagine è in bianco e nero, così com’è il mondo dei
valori della Danuta Szaflarska, che indicano con chiarezza
la linea che separa il bene dal male. Nel “vecchio fulgore”
possiamo comprendere la grande competenza professionale ma anche l’adesione ad un sistema di valori umani.
Per quanto riguarda la modernità è significativo che la
Szaflarska non ha mai rappresentato, con la sua arte, un
modello tradizionale. Piuttosto è sempre stata percepita,
anche dai giovani, come una maestra di modernità. Forse
ciò accade perche lavorare nel cinema esige un rinnovamento continuo. Oppure è dovuto alla sua straordinaria
capacità di osservare la gente e il corso degli eventi, alla
innata curiosità del mondo unita alla gioia di vivere. Mi
sembra di non essere mai cresciuta, e perciò come una
bambina posso gioire della vita – dice l’attrice.
Paweł Smolis, Il Giornale
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i film
Stacja kolejowa Krasne-Busk
Stazione ferroviaria di Krasne-Busk - Polonia, 2012, Digitale col., 60’
Ideazione e coordinamento: Sławomira Walczewska, Alina Doboszewska
Storie ascoltate e filmate da: Jessica Bock, Halyna Bodnar, Alina Doboszewska, Tetyana Dzyadevych, Tekla Fodor,
Małgorzata, Goliszewka, Gelinada Grinczenko, Irina Konchenkova, Agnieszka Król, Grazyna Kubica, Olena Kułak, Magdalena
Kwiecieska, Lena Lytovka, Olga Łaniewska, Lilija Musichina, Helena Szczodry, Sławomira Walczewska, Dorothee Walka,
Meike Walka
Montaggio: Małgorzata, Goliszewka, Agnieszka Król
Musica: Lena Selyanina.
Krasne, snodo ferroviario delle deportazioni - Indagine storica
sulle deportazioni nell’Ucraina Occidentale è un progetto di
storia ideato e realizzato da organizzazioni non governative
di tre paesi: la Dobra Wola Foundation, in collaborazione con
la Women Foundation (Cracovia, Polonia), la International
School of Equal Opportunities (Kyiv, Ucraina), e la Jugendwerk
der AWO Württemberg (Stuttgart, Germania) in partnership
con MONAliesA e.V. (Leipzig, Germania).
Nel 2010, grazie ad un altro progetto realizzato in comune
dalle stesse O.N.G., un team di ricercatrici aveva incontrato
gruppo di abitanti della città di Krasne, che erano stati
deportati in Siberia e dopo la guerra nuovamente deportati
nella Polonia occidentale, nel villaggio di Jugów (prima della
guerra Hausdorf) nella Bassa Slesia. Dalle interviste registrate
in quella occasione era nato un documentario, intitolato come
lo stesso progetto del 2010, Memoria e Oblio.
Nel 2012 per il nuovo progetto Krasne - Busk nodo ferroviario
delle deportazioni un gruppo di 12 ricercatrici ha visitato i
villaggi di Krasne e Busk, nell’Ucraina Occidentale, per capire
cosa è rimasto di quegli eventi così tragici, nella memoria
degli attuali abitanti del luogo. Il piccolo villaggio di Krasne,
a 40 chilometri da Lviv, nell’Ucraina Occidentale, prima
della Seconda Guerra Mondiale apparteneva alla Polonia.
La maggior parte dei suoi abitanti erano ucraini ma c’erano
anche polacchi, ebrei e qualche tedesco. Durante la guerra i
polacchi sono stati, in parte, deportati in Siberia dalle autorità
sovietiche (NKVD) mentre altri furono spostati nella Polonia
occidentale dopo il 1945. Nelle loro case sono andati a vivere
ucraini provenienti da deportazioni dalla Polonia Occidentale
e altri con altre storie e radici. I cittadini ebrei furono uccisi
o mandati nei campi di concentramento nazisti mentre i
tedeschi dovettero fuggire alla fine della Guerra.
La stazione dei treni di Krasne era diventata il punto in cui si
dipartivano e si incrociavano i cammini di queste deportazioni
di polacchi, tedeschi, ebrei e ucraini.
L’impostazione della ricerca mirava a far emergere il punto
di vista delle donne che erano state testimoni di quegli
avvenimenti. Avevano ancora memoria di quei polacchi,
ebrei e tedeschi che abitavano prima in quel luogo? E cosa
ricordavano delle deportazioni, delle fughe? Come sono
riusciti gli ucraini a ricostruirsi una nuova vita durante il
periodo dell’Unione Sovietica? Qual è stata e qual è la
consapevolezza degli avvenimenti trascorsi? Quante e
quali tracce del passato multiculturale rimangono ancora?
La metodologia utilizzata dalle ricercatrici è stata quella
dell’intervista registrata su supporto digitale. Il risultato di
tutto questo lavoro è sintetizzato in questo documentario di
un’ora.
i film
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Sławomira Walczewska
Alina Doboszewska
È nata il 25 giugno 1960 a Czestochowa. Attivista femminista
e sociale, filosofa, giornalista, saggista, traduttruce, edittrice.
Si laurea in Filosofia (1985) presso l’Università Jagellonica
di Cracovia. Negli anni 1986-1990 ha conseguito il dottorato
presso l’Istituto di Filosofia dell’Università Jagellonica. Negli
anni 1992-1997 ha studiato presso la Scuola di dottorato di
Scienze Sociali dell’ Istituto di Filosofia e Sociologia dell’Accademia Polacca delle Scienze a Varsavia, conclusa con il
saggio Signori, cavalieri e femministe: discorso sull’ emancipazione femminile in Polonia, poi pubblicato e tradotto in
varie lingue e molto premiato. Ha ricevuto borse di studio
presso le Università di Friburgo (1985), di Bonn (1993) e l’Istituto di Scienze Umane di Vienna (1995). Attiva nei Gender
Studies presso Università di Varsavia (1997), Università Jagellonica di Cracovia (2001) e Accademia Femminista EFKA
(2002-2004). È giornalista e redattrice di varie riviste. Attiva
nel movimento delle donne polacco dagli anni ‘80, organizza
incontri e coordina progetti. È membro fondatore della Rete
delle Donne Wschód-Zachód (Est-Ovest, 1991). Membro dei
consigli di amministrazione di diverse organizzazioni tra le
quali: il Centro dei Diritti delle Donne, Il Laboratorio per tutti
gli esseri, la LGBT Foundation, la Fondazione per una cultura
della tolleranza.
Alina Doboszewska ha studiato teatro e storia dell’arte presso
l’Università di Cracovia. Ha pubblicato saggi ed articoli inerenti alla storia dell’arte e alla storia della letteratura. Attiva
nella cooperazione internazionale attraverso le organizzazioni
non governative si occupa, in particolare, di storia orale e di
metodologia dell’indagine biografica per la formazione e la
ricerca.
Specializzata in progetti cooperativi polacco-ukraini è presidente della Fondazione Dobra Wola. Ha realizzato scambi di
giovani e laboratori teatrali nell’ambito del programma europeo Youth in Action. Ha preso parte al progetto europeo European Biographies. Biographical Approach in Adult Education,
2009–2011 che sperimentava la storia orale e l’approccio biografico allo studio del passato per l’educazione degli adulti. A
questo progetto, realizzato sempre con il sostegno della UE,
partecipavano partner italiani, tedeschi, austriaci e turchi. Dal
2010 è stata coordinatrice del progetto Memoria e Oblio, da
cui ha origine il film Stacja kolejowa Krasne-Busk.
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i film
Le sac de farine
Belgio/Tunisia/Marocco, 2012, DCP col., 92’
Regia: Kadija Leclere
Sceneggiatura: Kadija Leclere, Pierre Olivier Mornas
Fotografia: Gilles Porte, Philippe Guilbert
Montaggio: Virginie Messiaen, Ludo Troch
Musica: Christophe Vervoort
Interpreti: Hafsia Herzi, Hiam Abbass, Mehdi Dehbi, Rania Mellouli, Smain Fairouze, Souad Saber, Hassan Foulane
Produzione: La Cie Cinématographique, Sahara Productions, Tchin Tchin Productions.
Premio Sigillo della Pace per il film lungometraggio a soggetto
Kadija Leclere
Motivazione
Per aver portato sullo schermo una tematica di grande rilievo, quella dei nuovi cittadini
europei, cresciuti tra due culture, due lingue e due tradizioni, che devono riuscire ad elaborare
una sintesi positiva del loro duplice bagaglio esistenziale. Questo percorso di formazione
e di scelta, molto complesso e difficile, è narrato con sensibilità, maestria e chiarezza da
Kadija Leclere in un film fortemente autobiografico. Molto sincero e coinvolgente, lascia,
ed è un pregio, parecchie domande senza risposta e ci avvicina ad un Marocco dell’anima e
della famiglia lontano dalle immagini convenzionali del turismo e dei tanti film a diffusione
planetaria girati nel paese. Una menzione speciale per le bravissime attrici che interpretano
il personaggio protagonista: Rania Mellouli (Sarah bambina) e Hafsia Herzi (Sarah adulta).
Kadija Leclere ha iniziato la
carriera prima come attrice,
poi come direttore del casting.
È sempre stata affascinata dal
cinema e spinta dalla necessità di raccontare le proprie
storie. Ha autoprodotto il suo
primo cortometraggio, Camille, nel 2002 cui sono seguiti
Sarah (2007) e La Pelota de
Laine (2010). Le Sac de Farine
(2012) è il suo primo lungometraggio.
Nota di regia
Desideravo raccontare la differenza attraverso una bella storia di confronto tra due culture. Ho
avuto l’immenso privilegio di guardare il mondo attraverso lo sguardo di Sarah. Un po’ come
quando, da bambini, si fantastica di essere un topolino per conoscere dall’interno le vicende
della vita altrui. Mi spiego meglio: ho avuto “la fortuna” di vivere una parte di questa storia,
di essere rapita e segregata per due anni quattro mesi e dieci giorni. E davvero per fortuna
ne sono venuta fuori. Sono potuta tornare a scuola, ho imparato a leggere e a scrivere, ho
scoperto la letteratura. Ho incontrato il mondo del teatro e poi quello del cinema, gli ambienti
in cui adesso lavoro. Credo, con questo film di aver dovuto alleggerire me stessa da quel peso,
in modo positivo. Naturalmente volevo anche parlare di famiglia, un tema che mi sta molto a
cuore. Dedico questo film a tutte le ragazze che non hanno potuto scegliere se tornare o no in
Europa e per loro voglio far conoscere questa storia.
Kadija Leclere
i film
49
Shattered - Afghanistan.
How Can I Dream of Peace?
Germania, 2013, Digitale,col., 73’
Regia: Helga Reidemeister
Fotografia e riprese: Lars Barthel
Produzione: Basis-Film Verleih Berlin.
Come possono gli afghani sopravvivere in un paese costantemente
in guerra? E che futuro sognano per la loro vita? Shattered - Afghanistan ci avvicina agli invalidi di guerra, alla loro impressionante
tenacia e volontà di vivere. L’italiano Alberto Cairo presta il suo aiuto
a tutti i feriti, senza discriminazioni. Bambini, donne e uomini che
vengono da ogni parte del paese, procura loro protesi e sedie a rotelle e offre loro nuove prospettive di vita. La clinica ortopedica di Cairo
a Kabul, fondata con l’aiuto della Croce Rossa Internazionale, è diventata un’istituzione per l’intero paese conosciuta in tutto il mondo.
Mettendo insieme singoli frammenti, il film ci racconta di persone
che non hanno permesso che la distruzione della guerra li vincesse.
Nel Museo Nazionale di Kabul, abbiamo visto archeologi afghani
che cercano di ricomporre le opere d’arte distrutte dai talebani. I
loro tentativi sembrano surreali. Le scene di strada della città distrutta ci lasciano confusi, divisi tra la curiosità e l’orrore. La miseria
di più di trenta anni di guerra ci si mostra dolorosamente. Ma c’è
un luogo di speranza e di assistenza in cui il nostro orrore è temperato da un sentimento di sorpresa. Qui ci si prende cura di uomini,
donne e bambini che hanno perso gli arti. Arrivano corpi dilaniati
e la miseria fisica delle amputazioni e delle cicatrici incombe. Eppure nel centro ortopedico, il cuore della Croce Rossa a Kabul, c’è
un’atmosfera cordiale, allegra, anche piena di speranza e vivacità.
Alberto Cairo, il capo della clinica, pensa che sia un miracolo quando un giovane ragazzo, Sher Achmad, torna di nuovo alla sua vita.
Accompagniamo Sher Achmad nel viaggio di ritorno al suo piccolo
villaggio nel sud dell’Afghanistan, al confine con il Pakistan.
Helga Reidemeister
50
i film
Helga Reidemeister
Helga Reidemeister è nata ad Halle nel 1940. Dopo le scuole a Colonia ha
studiato Arte all’Università di Berlino e lavorato come restauratrice. Attivista
nel movimento studentesco, ha lavorato nel sociale a Maerkisches Viertel
nell’interland berlinese. Nel 1973 ha iniziato gli studi alla German Academy
of Film end Television (dffb) a Berlino e girato i primi due film, entrambi con
gli abitanti di Maerkisches Viertel. Il suo film di laurea Von wegen Schicksal,
ritratto di una madre che si ribella al suo ruolo nella società, ha vinto il
German Film Award e suscitato molto interesse per il film documentario
in Germania. I suoi film, pluripremiati in molti festival internazionali, sono
caratterizzati da un costante impegno politico, dalla denuncia dei precari
equilibri del potere e da come politica, potere, ingiustizia, guerra, bisogno
e disagio influenzino le vite delle persone, in particolare delle donne. Impressionata dalla “guerra al terrore” che punisce l’Afghanistan con milioni di
bombe a grappolo e mine anti-uomo, Helga Reidemeister decide di partire
alla ricerca di rapporti umani credibili e di menti lucide nonostante il panico
generale causato dalla situazione internazionale. Da allora, dal 2002 al 2012
Reidemeister è tornata molte volte in Afghanistan e da questi viaggi ha riportato storie, incontri, emozioni custoditi in una trilogia di documentari sul
tempestoso paese asiatico di cui Shattered è l’ultimo atto. Almeno per ora.
Filmografia
Wohnste sozial, haste Qual (1971); Der jekaufte Traum (1977); Von
wegen Schicksal (1979); Mit starrem Blick aufs Geld (1983); Drehort
Berlin (1987); Aufrecht gehen, Rudi Dutschke-Spuren (1988); Im Glanze dieses Glueckes (1990); Rodina heisst Heimat (1992); Frauen in
schwarz (1997); Lichter aus dem Hintergrund (1998); Im leben bleiben
(1999); Gotteszell (2001); Texas Kabul (2004); War and Love in Kabul
(2009); Shattered - Afghanistan. How Can I Dream of Peace? (2013).
Il sole a scacchi:
racconti dalla fortezza
Italia, 2013, Digitale col., 15’
Regia, ideazione e testi: Sara Barbanera
Riprese e montaggio: Oronzo Cagnazzo
Produzione: Unicoop Firenze, Sicrea.
Premio del pubblico Alida Valli miglior cortometraggio
(Giuria Senior)
Motivazione
Il sole a scacchi fa conoscere un’esperienza di assoluta
avanguardia nel panorama carcerario italiano. Permette
allo spettatore di avvicinarsi, in modo diretto e immediato,
ai protagonisti delle “cene galeotte” del carcere di Volterra,
registrandone opinioni ed emozioni.
Questi protagonisti sono gli ideatori delle “cene”, quelli
che le sostengono, i responsabili e gli operatori carcerari, i
detenuti che le animano e coloro che partecipano a questi
appuntamenti superando stereotipi e pregiudizi.
Non soltanto un’esperienza indimenticabile, non soltanto
solidarietà, non soltanto dimostrazione esemplare di un
carcere italiano simbolo di umanità
Le “cene galeotte” sono una delle molte attività d’avanguardia
che caratterizzano il carcere di Volterra. In cinque anni
diecimila persone sono entrate in carcere partecipando al
progetto che vede cuochi di fama e detenuti lavorare fianco
a fianco.
Sara Barbanera
Sara Barbanera è nata a Foligno nel 1977. Dopo le scuole superiori si trasferisce a Roma, dove, nel 2001, si laurea in Scienze
della Comunicazione presso l’Università La Sapienza.
Dal 2001 è giornalista pubblicista, con numerose collaborazioni
attive con la cronaca umbra de Il Messaggero e altri periodici
locali. Dopo la laurea, ha diverse esperienze di lavoro a Roma,
in Umbria e all’estero. Dal 2004 si trasferisce a Firenze per lavorare con Unicoop. Dal 2011 è direttore responsabile dell’Informatore Unicoop Firenze, responsabile di produzione della
trasmissione tv e web Informacoop e della produzione video
dell’ufficio Comunicazione Istituzionale di Unicoop Firenze.
Per l’Ufficio Comunicazione ha curato alcuni prodotti editoriali
cartacei e video su numerosi argomenti e gli allestimenti di mostre presso le gallerie commerciali dei punti vendita di Unicoop
Firenze. Dal 2009 studia Sviluppo Economico e Cooperazione
Internazionale all’Università di Firenze. Scrive racconti e poesie.
Una sua poesia sul tema della violenza sulle donne è stata utilizzata come soggetto per il cortometraggio Donne, danno prodotto nel 2013 nell’ambito delle attività della Scuola di Cinema
“Anna Magnani” di Prato.
i film
51
La tendresse
Belgio/Francia/Germania, 2013, col., 78’
Regia e sceneggiatura: Marion Hänsel
Fotografia: Jan Vancaillie
Montaggio: Michèle Hubinon
Musica: René-Marc Bini
Interpreti: Olivier Gourmet, Marilyne Canto, Adrien Jolivet, Margaux Chatellier, Sergi Lopez
Produzione: Man Films Productions, ASAP Films, Neue Pegasos Filmproduktion.
Un ragazzo in vacanza con gli amici ha un grave incidente di
sci. Chiama i genitori che lo aiutino e riportino in città lui e
l’auto che, per il momento, non è in grado di guidare. Frans e
Lisa si mettono in viaggio, devono arrivare da Bruxelles alle
Alpi. Partono insieme ma con un po’ di imbarazzo perché sono
separati da quindici anni. Per due giorni sono di nuovo vicini
come un tempo e devono fare i conti con sentimenti e ricordi.
Rancore? Gelosia? Un po’, ma anche una forma di amicizia e
intimità che assomiglia all’amore.
Note di regia
Volevo scrivere una storia semplice, lineare, della durata di
due giorni, una storia per parlare di gente come voi e me,
adulti piuttosto contenti della loro vita, che però, proprio come
noi, qualche volta provano delle piccole sofferenze e magari
anche qualche dolore più profondo. Volevo anche parlare delle
relazioni genitori/figli ma con humor, senza affrontare il tema
della crisi intergenerazionale. Ho visto un sacco di film che
raccontano crisi famigliari e la maggior parte di questi finisce
male. Uomini e donne che dopo essersi amati, dopo aver avuto dei figli insieme, una volta separati cominciano ad odiarsi,
si fanno del male oppure non si parlano neanche più. A me
tutto ciò è sempre sembrato strano. Come si fa a commettere
errori di questo genere? Come può l’amore trasformarsi in un
sentimento di segno così diverso? D’altra parte non ricordo
d’aver visto nessun film in cui un divorzio finisce serenamente,
la coppia continua ad avere reciproca stima, aiutarsi e mantie-
52
i film
ne un buon rapporto.
Il mio lavoro come regista si è prevalentemente basato su
adattamenti di opere letterarie che mi rassicurano perché
posso appoggiarmi a lavori che già esistono. Qualche anno
fa, invece, ho scritto una sceneggiatura originale Sur la terre
comme au ciel e anche Nuages, lettres à mon fils un lavoro poetico costruito su delle lettere, non una vera e propria
sceneggiatura.
Per scrivere La tendresse ho sperimentato una nuova formula
composta da commedia romantica e road-movie. La vicenda
si svolge durante il viaggio in macchina di una coppia e il paesaggio, la natura rivestono un ruolo importante. Girare in una
macchina non è semplice perché non puoi stabilire nessuna
distanza con le persone che filmi e alla fine si possono fare
solo pochi movimenti. Si crea una vera e propria prossimità
fisica con gli attori determinata dallo spazio ristretto che puoi
utilizzare all’interno di una macchina. Ho usato colori chiari e
gioiosi come il rosso della giacca a vento, il verde degli alberi
in primavera, la neve bianca e il cielo blu. Ho alternato primi
piani dei visi, mani sul volante, sigarette e accendini. Ho anche inserito qualche ripresa aerea dell’auto in autostrada e
sulle montagne. Per questo tipo di riprese mi sono ispirata ad
un film russo che amo Silent Souls di Aleksei Fedorchenko.
Anche la scelta dell’edificio che ospita i ragazzi che sono andati a sciare, nelle alpi francesi, non è stata casuale. È un
posto particolarissimo, costruito negli anni ’70 dall’architetto Marcel Breurer tutto in cemento con una pista da pattini
centrale e scale metalliche che collegano i differenti livelli.
Ci sono statue di Picasso, Vasarely e Dubuffet. Oggi somiglia
più che altro ad un UFO. Non c’è niente di caldo nei materiali
usati, niente chalet di legno né il solito piccolo villaggio della
Savoia con la chiesa al centro. Stranamente il contrasto con
il triste e grigio cemento fa emergere la bellezza delle montagne e della natura circostante.
Marion Hänsel
Marion Hänsel
Marion Hänsel è scrittrice, regista, produttrice e attrice. Ha
recitato in vari teatri d’avanguardia a Bruxelles prima di iniziare la carriera di regista di cortometraggi e lungometraggi.
Eletta “Donna dell’anno” in Belgio nel 1987, fa parte di quella
generazione di registi che hanno contribuito a rendere universale il cinema belga. Cresciuta ad Anversa, si è trasferita
prima a New York, poi a Parigi. Il suo primo cortometraggio è
Palaver e risale al 1969. Il primo lungometraggio, Le Lit (1982)
è tratto da un romanzo di Dominique Rollin. Marion Hänsel è
la prima regista belga a ricevere il Leone d’argento al Festival di Venezia con il film Dust (1985), tratto dal romanzo del
sudafricano J.M. Coetzee (che riceverà il premio Nobel per
la letteratura nel 2003). Nel 1987, ha diretto The Wedding
Barbaro, un adattamento del libro di Yann Queffelec. Nel 2006
ha diretto Sounds of Sand, girato nel deserto di Gibuti. Black
Ocean è ambientato su una nave della Marina francese nel
Pacifico.
Filmografia
Palaver (1969); Le Lit (1982); Dust (1985); The Wedding Barbaro (1987); Between the Devil and the Deep Blue Sea (1995);
Hell (2005); Sounds of Sand (2006); Black Ocean; La tendresse
(2013).
i film
53
Wanda
USA, 1970, 35 mm col., 102’
Restaurato da UCLA Film e Film & Television Archive. Restauro finanziato da Gucci e The Film Foundation
Regia e sceneggiatura: Barbara Loden
Fotografia: Nicholas Proferes
Montaggio: Barbara Loden, Nicholas Proferes
Interpreti: Barbara Loden, Dorothy Shupenes, Frank Jourdano, Michael Higgins, Peter Shupenes, Valerie Manches, Jerome Thier, Marian Thier
Produzione: Foundation for Filmakers.
Restauro dell’unico e miracoloso film diretto e interpretato
da Barbara Loden la bella e sfortunata moglie di Elia Kazan, attrice di teatro e cinema. Tutti avevano riconosciuto
Marilyn Monroe nella sua interpretazione in Dopo la caduta
di Arthur Miller. Non si era trattato solo di una prodezza da
Actor’s Studio. Era una condivisione di esperienze e attitudine esistenziale. Quando nel 1970 Barbara Loden gira Wanda
nello stile libero e povero del cinema indipendente delinea
un personaggio commovente e indimenticabile, una giovane
donna in crisi che abbandona casa e bambini, cercando, a suo
rischio, di riconnettersi con una realtà che la esclude e svaluta
a priori. Un’interpretazione straordinaria ma anche la messa a
nudo dei rapporti di forza, violenti e implacabili da cui nasce
il disagio femminile.
54
i film
barbara loden
Barbara Loden, attrice e regista statunitense. Ex modella, dalla fine degli anni ’50 ottiene piccole parti a Broadway. Elia
Kazan la scopre durante un’audizione per il suo Fango sulle
stelle (1960) e le offre un breve ruolo, per poi affidarle un personaggio complesso in Splendore nell’erba (1961). Continua
a recitare in teatro, in particolare si ricorda la sua interpretazione di Marilyn Monroe nell’opera teatrale di Arthur Miller,
Dopo la caduta. Vince un Tony nel ’64. Nel 1968 sposa Kazan e
scompare dai palcoscenici così come dagli schermi. Nel 1970
torna al pubblico in veste di regista, sceneggiatrice e interprete di Wanda che a Venezia vinse il Premio Internazionale
della Critica nel 1971. Scoraggiata da Kazan, che non ha stima
delle sue doti, avvia un nuovo progetto di regia nel 1980, ma
tragicamente muore di cancro a soli 48 anni.
Quattro “fermo immagine” da Wanda
Prima immagine. Una figurina bianca con una grande testa
attraversa il paesaggio sconvolto della Pennsylvania mineraria. Sembra di essere sulla luna tra crateri e materiali scuri
di riporto. Quasi ti aspetti gli astronauti con i caschi e le tute
spaziali. È anche effetto del chiaroscuro un po’ sgranato tra
abiti e paesaggio. Le televisione aveva diffuso così le immagini dei primi passi umani sulla luna. Non siamo, però, sulla
luna, ci sono scavatrici e grossi camion che fanno manovra
nella polvere di carbone. Incontriamo così Wanda/Barbara
Loden. Sembra un’apparizione inquietante e un po’ magica.
Decisamente fuori luogo. Una donna con i bigodini sotto un
fazzoletto bianco vestita e calzata in un modo disadatto ad
affrontare la durezza del paesaggio attraversato, che non è
una campagna ma neanche uno spazio ordinato, organizzato
per la vita come anche una brutta periferia può essere. Non
è pulito, non è curato anzi porta come ferite, le tracce/stigma
dell’attività umana.
Il film è già iniziato. Sappiamo che Wanda ha abbandonato
marito e bambini, non sono capace con i bambini e nemmeno
con la casa. Però porta,obbediente, i bigodini che le fanno la
testa così grande in distanza.
È di troppo anche a casa della sorella dove ha trovato temporaneo rifugio. Anche li ci sono bambini da accudire e un marito
cui rendere conto di chi si ospita in casa Lui mi odia perché
sto qui. In tribunale il marito la accusa di abbandono del tetto
coniugale e ha fretta di risposarsi con la giovane donna che
ora si prende cura dei bambini. Lei non si difende, vuole solo
tagliar corto: Se lui vuole il divorzio, dateglielo! Perde il lavoro, in fabbrica, le annunciano il licenziamento perché è troppo
lenta per gli standard di produzione. Anche stavolta nessuna
difesa e, apparentemente, nessun rimpianto. A questo punto,
senza lavoro, casa, famiglia, non resta che la strada, partire
in autostop senza una meta precisa. Il viaggio, elemento fondante della letteratura e del cinema americano, al femminile,
non funziona affatto. C’è anche un corrispettivo dello zaino dei
road movies ispirati alla beat generation: la grande borsa che
dovrebbe contenere quello che la donna ha deciso di portare
via dalla precedente vita. Ma si direbbe che non contenga
nulla di utile dato che niente ne viene estratto. Comunque il
poco denaro che contiene svanirà, rubato in un cinema dove
Wanda si è addormentata. Per i personaggi maschili il viaggio
è certamente (ma non sempre) una cesura con un vecchio tipo
di vita, però, contiene la promessa di nuove forme e possibilità di relazione. Si affronta con determinazione e scelta come
affermazione del proprio punto di vista. Per Wanda il punto
di vista è sempre quello degli altri, che la guardano anche se
non la “vedono” per davvero (questo non significa che non ne
possano fare comunque un oggetto sessuale) anche in senso
propriamente cinematografico lei non ha prospettiva, sguardo
e desiderio tranne che in pochissime occasioni.
Se un uomo parte dal suo mondo ne raggiunge un altro. Ma
che succede se una donna decide di fuggire dal ruolo che le
è stato assegnato dalla società? Marion Meade, nella sua
recensione al film, scrive efficacemente E adesso Barbara
Loden arriva al cuore del problema che è “dove puoi andare
se rifiuti la sola vita che la società ti permette? Quando una
donna guadagna la sua libertà, poi che se ne fa? dove può
andare? La risposta è: niente e da nessuna parte”. Si direbbe
un’affermazione ben poco costruttiva e così fu interpretata dal
movimento delle donne che di lì a poco sarebbe nato riservando ai linguaggi visivi e, in primis al cinema, un’attenzione
particolare. Si volevano eroine, o anche (prevalentemente)
antieroine che facessero riferimento ad un “mondo comune
delle donne”e da questo prendessero forza per la rivolta e il
cambiamento. Per Barbara Loden tutto questo non esisteva,
era davvero una pioniera senza modelli. Personalità come
Maya Deren o Germaine Dulac erano da lei lontanissime per
tempo e formazione. Non le sono utili nemmeno i modelli del
New American Cinema che in quel momento si affermava.
Si tiene ben lontana da New York e San Francisco, gira tra
i film
55
Pennsylvania e Connecticut, stati non poi così ricchi di glamour cinematografico. Certo non si allontana troppo da una
delle case di Elia Kazan, e questo economicamente significa
parecchio, ma la scelta corrisponde bene anche al desiderio di
location non saturate dall’immaginario hollywoodiano.
Piuttosto riprende modi e stilemi del documentarismo politico,
indipendente per definizione. Una piccolissima squadra: quattro persone, la macchina da presa 16millimetri in mano a Nicholas T. Proferes, collaboratore di Pennebaker ma in proprio
documentarista sensibile ed impegnato. Il suo lavoro più noto
e premiato (Free at Last) è dedicato a Martin Luther King di cui
seguì e filmò l’ultima campagna attraverso gli States prima
che lo uccidessero a Memphis. Riprese sempre molto vicine
agli attori, camera a mano, nessun copione ma grande libertà
di improvvisazione e, tranne che per il ruolo di Mr Dennis e,
naturalmente, per quello di Wanda, attori non professionisti.
Tutto questo costituisce precisamente la forza del film. Loden non accetta per Wanda la definizione di “mentalmente
disturbata” che molti critici le attribuiscono con grande superficialità.
Ammettendo una profonda identificazione con il personaggio
afferma, Non è Wanda ad essere sbagliata, è sbagliato il
mondo intorno a lei. Dunque non sceglie la rivolta prometeica
di un individuo che vince o muore ma descrive con partecipazione interna e grande capacità di comunicazione una condizione che non può essere cambiata da un singolo e neanche
da uno solo dei sessi ma necessita di un grande sforzo collettivo, di una presa di coscienza che riguarda uomini e donne. La sua strepitosa interpretazione (ed è davvero tutta sua
perché nessuno le dice cosa e come fare) è la commovente
testimonianza di una condivisa Linea di condotta femminile
che attraversa classi e condizioni sociali fino a comprendere
icone del divismo come Marilyn Monroe.
Wanda applica con metodo la resistenza passiva alle traversie e alle aggressioni che la colpiscono.
Cerca di attutire i colpi dicendo che non fanno male, sorridendo quando non ce n’è ragione sempre cercando di disturbare
il meno possibile, disposta anche all’invisibilità per essere
accettata. Quando il datore di lavoro la licenzia e poi le gira le
spalle continuando a fare le sue cose, senza neanche salutarla, lei se ne va dicendo: Grazie! Da non dimenticare che l’idea
del film nasce da una vicenda di cronaca nera in cui una ragazza (la vera Wanda Goronski), dopo una rapina finita male,
aveva ringraziato il giudice che la condannava a venti anni
di galera. Perché questo episodio era sembrato a Loden così
interessante? Certamente per quello che riguarda il controllo
56
i film
dell’ansia. La vera Wanda trovava nel carcere, la fine della
tensione che certamente aveva caratterizzato la sua vita sino
ad allora e probabilmente anche il sollievo di non essere stata
uccisa durante la rapina. Loden, però, pone l’ansia, o la paura
di essere scoperte, se vogliamo cambiare nome al sintomo,
come conseguenza inevitabile della strategia della passività
che fa vivere la condizione femminile in perpetua anestesia.
Parlando della propria esperienza dice Ci sono in me molta
sofferenza e rabbia repressa, proprio come in Wanda. In un
film di Chantal Akermann, un film di qualche anno successivo,
Jeanne Dielman, 23, Quai du Commerce, 1080 Bruxelles si
mette in scena la strategia opposta, quella della perfezione
irreprensibile nell’organizzazione di una casalinga di Bruxelles Alla fine una frattura casuale nella ripetizione quotidiana
degli avvenimenti porta la protagonista, altrettanto alienata e
spaventata di Wanda, a compiere un omicidio.
Seconda immagine. Un’auto parcheggiata nel solito nulla.
Un uomo in piedi sul tetto dell’auto, agita le braccia per scacciare o affrontare qualcosa che non vediamo ma di cui sentiamo il ronzio. Grande suggestione visiva di un gesto gratuito e
non immediatamente comprensibile. Ancora per associazione spontanea: Don Chisciotte che affronta i mulini a vento,
ma non con la prosopopea del personaggio di Cervantes che
corre entusiasta verso il disastro. La scena nasce per caso.
Lo sappiamo da Proferes che lo racconta in un’intervista. Al
margine del campo in cui stavano girando c’erano un uomo
e un bambino intenti a far volare un areoplanino giocattolo
teleguidato. Barbara Loden li vede e chiede al fidato collaboratore e operatore se poteva farne qualcosa. Il risultato segna
il momento di massima sintonia tra i due che sono diventati
una coppia anche se lei lo chiama Mr. Dennis e lui non smette
mai di ricordarle la sua inadeguatezza. Chi non ha soldi non
vale niente. Hai dei capelli tremendi e via brontolando. D’altra
parte è stata lei a cercare di entrare in contatto con l’uomo
incontrato in un bar. Sfortunatamente lui non era lì solo per
un caffè o un bicchiere di birra ma per vuotare la cassa e,
quando escono insieme, la donna ha indubbiamente accettato
un ruolo di complice. Quanto alle armi, che non preoccupano
Wanda, c’è il racconto di Elia Kazan che riferisce dell’ambiente working class da cui la Loden proveniva e di come il padre
e i fratelli uscissero con le pistole anche per andare al bar la
sera. Certo tutto quello che sappiamo della regista lo raccontano gli uomini della sua vita, di lei parla solo questo film che,
però, dice tanto, anche che la peggiore violenza non è quella
delle armi, almeno non la sola.
Terza immagine. Wanda con indosso il vestitino corto bianco e un’acconciatura/cuffia di fiori bianchi in testa. Sembra un
abito da sposa ma non lo è. È l’inizio della fine, Wanda ha finalmente abiti nuovi ma serviranno per una rapina in banca, il
colpo grosso che Mr Dennis ha progettato per risolvere la propria esistenza ed anche per dimostrare a suo padre di essere
capace di arricchirsi, in un modo o nell’altro, come il sogno
americano comanda. Anzi con l’intento di sembrare la coppia
più normale del mondo lei potrebbe simulare l’attesa di un
bambino con un cuscino infilato sotto gli abiti. Wanda e Mr
Dennis sono ai perfetti antipodi di Bonnie e Clyde. Non sono
belli e dannati e soprattutto non sono assolutamente tagliati
per il rischioso mestiere del rapinatore. Mr Dennis ha deciso
di rapire il direttore della banca per farsene scudo durante
la rapina ma resta spiazzato dalla decisa reazione dell’uomo,
che lo metterebbe ko se l’incapace Wanda non raccogliesse e
impugnasse prontamente una pistola caduta a terra.
Gli abiti sono importanti in questo film anche se non sono costati molto. Li ha prevalentemente procurati il solito Proferes
e ciascuno poteva adattarli o proporre integrazioni con altri
capi. Però gli abiti di Michael Higgins/Mr Dennis provengono
dal guardaroba di Elia Kazan. Sono abiti smessi che Loden
ha recuperato e suggeriscono qualcosa. Non è difficile vedere
nella preparazione della rapina la scena primaria del cinema:
quella tra il regista e la sua attrice. Lui scrive il copione, appunta tempi e fasi del crimine poi fa imparare a memoria la
parte all’attrice. Per lei è tutto difficile ma lui la chiama per
la prima volta per nome e le dice che può farcela. Li vediamo
nello specchio. Lei è seduta, lui è alle sue spalle fiducioso e
burattinaio contemporaneamente.
bigui del non detto femminile, della repressione senza parole
che facilmente volge in depressione. Rompe le dighe di questa condizione cui è ancora spesso negata o impossibile la parola e lascia fluire libere le immagini che permettono l’avvio
della riflessione e del discorso.
Barbara Loden ha deciso di modificare significativamente la
conclusione della storia di Wanda Goronski non facendo arrestare il suo personaggio. Non ha voluto concederle questo
momento faustiano e probabilmente spettacolare. Wanda
non è riuscita, neanche questa volta, a svolgere bene il compito che le era stato assegnato. Non arriva in tempo per partecipare alla rapina e quando arriva Mr Dennis è già morto.
Noi sappiamo che non è colpa sua e che Mr. Dennis non ha
disinnescato l’allarme della banca, ma lei non lo sa. D’altra
parte il piccolo gangster aveva probabilmente messo in conto
il suicidio in caso di fallimento preferendo la morte a un nuovo
arresto. Così Wanda si ritrova nelle stesse condizioni in cui
l’avevamo trovata all’inizio del film: non ha denaro, non ha un
lavoro, non ha un compagno. Un poliziotto riconosce ad istinto
la preda facile ma questa volta si sbaglia: Wanda reagisce,
urla, si batte e fugge via. Come in una favola attraversa il
bosco (un giardino alberato?) e semina il lupo. La storia è finita. Perfettamente anonima e perfettamente simile alle donne
che incontra e che la invitano, lasciamo Wanda ad ascoltare
musica in un locale popolare.
C’era una canzone di Phil Ochs che Joan Baez cantava in quegli anni. Si intitolava, se ricordo bene, There but for Fortune e
il ritornello diceva: Ascoltami ragazzo e ti dimostrerò perchè
è soltanto per un caso che, al suo posto, non ci siamo tu o io.
Maresa D’Arcangelo
Quarta immagine: Wanda tra le braccia di un poliziotto. Lui
sembra molto più grande di lei, il colore chiaro della camicia
“spara” aumentando il volume del braccio. Non è minaccioso,
anzi sembra volerla proteggere da un pericolo o dalle brutte
cose che potrebbe vedere se andasse oltre.
Occhi stretti nello sforzo di guardare lontano e bocca imbronciata di una bambina che sta per piangere. Ma non piangerà.
Non può permettersi di perdere il controllo o meglio in lei
scatta automaticamente il meccanismo che associa pericolo
e impassibilità. Dicono sia un riflesso dell’antichissimo “cervello rettile” che, ad esempio durante incidenti d’auto o eventi
traumatici d’altro genere, salva alcuni da reazioni scomposte
e fatali o perde altri immobilizzandoli e impedendo loro di fuggire prontamente.
Di certo Loden si avventura coraggiosamente nei territori am-
i film
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Women’s Police Station
Germania/India, 2012, HD col., 64’
Regia, sceneggiatura e fotografia: Ulrike Mothes
Montaggio: Ujjwal Utkarsh
Musica: Martin Hirsch
Produzione: Bauhaus University (Weimar).
I casi di stupro a Nuova Delhi all’inizio del 2013 hanno riportato all’attenzione delle pubbliche coscienze il problema dei diritti violati delle donne indiane. Ancora oggi i feti di sesso
femminile vengono forzatamente abortiti, le donne subiscono violenza e abusi all’interno del
matrimonio, o vengono sfegiate col fuoco salvo poi mascherare l’accaduto con un comune
incidente domestico.
Il governo, per proteggere le donne dalle discriminazioni, ha istituito delle stazioni di polizia
femminili, i cui agenti sono esclusivamente donne.
Da quando le 31 poliziotte della stazione di polizia di Bangalore sono entrate in servizio, non si
sono solo dovute occupare di redimere le liti familiari, ma anche hanno dovuto difendere il loro
ruolo da mariti e suoceri che non riconoscono la loro autorità.
A Shakunthala, la divisa da poliziotto è sempre sembrata irresistibile. Bhagia sogna ancora i
bei vecchi tempi in cui andava a caccia di borseggiatori nel Bazar. Racconta con rispetto le liti
familiari di cui è testimone ogni giorno. Sarojamma è la poliziotta capo ed è incaricata delle
indagini. Tocca a lei tenere sotto controllo la folla in attesa e anche far rispettare la disciplina
alle sue sottoposte. Nessun caso legale però riesce a distrarla dai suoi rituali religiosi cui
attende con zelo assistita dalle colleghe. Un’unica grande sala e una veranda nel mezzo del
traffico caotico della città, questa è la sede della stazione di polizia femminile di Bangalore.
Qui Shakunthala, Bhagia ,Sarojamma e le altre portano avanti il loro lavoro e raccolgono le
denunce delle donne. Nella loro routine quotidiana si occupano di casi di violenza sulle donne
e crimini legati alla dote. Qui le donne vittime di soprusi hanno la possibilità di raccontare e
denunciare le discriminazioni subite libere dall’umiliante sguardo dell’autorità maschile. Nei
loro Sari color cachi, le poliziotte rappresentano un’autorità difficile da accettare per gli uomini
indiani. D’altro canto, in quanto figlie e mogli a loro volta, le agenti, vivono le stesse dinamiche
di potere delle donne che cercano il loro aiuto.
Il film assume come proprie speranze e paure delle donne che lottano per il riconoscimento
dei loro diritti. L’osservazione delle poliziotte rivela diverse sfaccettature di un inusuale lavoro
di polizia.
58
i film
Ulrike Mothes
Ulrike Mothes, regista e
docente universitaria. Tra il
2007 e il 2010 ha insegnato
nel Film Department della
Srishti School of Art, Design
and Technology di Bangalore
in India dove ha anche realizzato alcuni video. Attualmente è assistente unversitaria
presso la Bauhaus University
di Weimar. Durante i suoi
studi di Dottorato ha approfondito il genere docu-fiction
in India. Women’s Police
Station è il suo primo primo
lungometraggio a soggetto.
You kiss like devil
Líbáš jako d’ábel - Baci come un diavolo - Repubblica Ceca/Slovacchia, 2012, 35 mm col., 113’
Regia e sceneggiatura: Marie Polednáková
Fotografia: Vladimír Smutný
Montaggio: Adam Dvorák
Interpreti: Kamila Magálová, Eva Holubová, Oldrich Kaiser, Jirí Bartoška, Nela Boudová, Jirí Langmajer
Produzione: Falcon.
Della più famosa autrice di commedie della Repubblica Ceca l’ultimo film, incentrato sulle
nuove relazioni d’amore. I risultati sono dolci e amari a fasi alterne. Quando sembra che
il caos prevalga, lo sguardo ironico della regista tiene tutto sotto controllo, guidando lo
spettatore verso una “divertita saggezza”. Baci come un diavolo è la seconda parte di un
dittico dedicato alle relazioni amorose di fascia senior. Nella prima parte Baci come un
Dio (Líbáš jako Buh) si prendeva atto che, al giro di boa dei 50 anni, si può essere travolti
dall’amore e di conseguenza sconvolgere il tranquillo tran tran della propria esistenza, ma
anche le vite di parecchi altri. Con un occhio ai cambiamenti della società un altro al lato
comico che questi “amorosi sconvolgimenti” comportano. Tutto molto praghese, serio il tema
ma molto divertente lo svolgimento e di grande successo. Questo secondo exploit delle due
coppie di attori predilette dalla Polednáková accentua le caratteristiche da situation comedy
esportando, però, il famoso umor nero ceco nell’assolato panorama del Marocco. I due
protagonisti, Helena (Kamila Magálová) e František (Oldrich Kaiser) hanno entrambi divorziato
dai loro partner, sono quindi liberi di dedicarsi alla loro nuova, reciproca passione. Solo che
ciascuno di loro ha, ormai, le sue abitudini alle quali non intende rinunciare e soprattutto una
famiglia ben contenta di rovinare i primi, preziosi, momenti di vita in comune della nuova
coppia. Bohunka, (ex moglie di František interpretata Eva Holubová) non si dà pace di essere
sola e abbandonata e Karel, (ex marito di Helena interpretato da Jirí Bartoška) prende in giro,
appena può, i due piccioncini. Banalità e incomprensioni minacciano l’idillio. Dunque la nuova
coppia decide di sottrarsi all’influenza pericolosa degli ex fuggendo in un luogo non troppo
facilmente raggiungibile, il romantico ed esotico Marocco. Qui, però, i piccoli guai praghesi
diventano tragedie e, per risolverli, quali sono le persone più fidate alle quali ci si può sempre
rivolgere? Ma naturalmente i vecchi partners che fanno subito ben più di quanto loro richiesto,
prendono l’aereo e rientrano prontamente in gioco.
Marie Polednáková
Marie Polednáková è nata nel 1941
a Strakonice nell’allora Cecoslovacchia. È sceneggiatrice, regista
e produttrice. Si è laureata presso
la Academy of Performing Arts di
Praga nel 1970. Dal 1961 al 1983
ha lavorato per la televisione cecoslovacca, prima come assistente
alla regia, poi come sceneggiatrice
e regista. Nel 1990 è tra i fondatori
di FTV Premiere che ha ottenuto la
prima licenza per la radiodiffusione
televisiva privata nella Repubblica
Ceca. Dal 1994 lavora con lo studio
di produzione Premiere Studio.
Filmografia
Hlinený vozícek (1973); Otevrený
kruh (TV, 1973); Královské usínání
(TV, 1974); Jak vytrhnout velrybe
stolicku (1977); Jak dostat tatínka do polepšovny (1978); Kotva u
prívozu (TV, 1980); S tebou me baví
svet (1982); Zkrocení zlého muže
(1987); Dva lidi v ZOO (1990); Jak se
krotí krokodýli (2006); Líbáš jako Buh
(2009); Líbáš jako d’ábel (2012).
i film
59
La regina della commedia Marie Poledňáková
Marie Polednáková sta al cinema ceco come Lina Wertmüller
sta al cinema italiano. Tutti conoscono i suoi film e ne citano
le battute. Perché il gusto di ridere sulle tragicommedie della
vita quotidiana fa parte della tradizione alta della cultura ceca
come pure della speculare cultura popolare fatta di battute
agrodolci e autoironiche. Il centro attorno al quale ruotano
tutti i suoi film è il nodo dei legami familiari e la critica alla
banalità dei comportamenti superficiali e abitudinari che perpetuano gli stereotipi. Ha realizzato commedie e film tv che
hanno seguito, negli anni, l’evoluzione del modello familiare
e spesso parlato di padri e figli come in Con te il mondo mi
diverte, probabilmente il suo lavoro più noto, in cui tre padri
devono rinunciare al loro viaggio annuale per soli uomini perché le mogli gli hanno affibbiano i figli da badare, compreso
un lattante.
Mi è sempre piaciuto mettere in scena i bambini, anzi è causa
loro che sono diventata regista. Scrivevo sceneggiature e per
me andava benissimo. Sono diventata regista per necessità.
Sapevo che la regia comportava un sacco di stress ma non volevo che altri rovinassero il mio lavoro. Non che non ci fossero
buoni registi ma non sapevano girare con i bambini e quindi
ho deciso che dovevo dirigere i miei film.
D’altra parte anche l’approdo al cinema come professione
non è stato lineare né pianificato. Piuttosto è in buona parte determinato dalle vicende storiche del suo paese. Marie
Polednáková, allora Maria Jandová è entrata giovanissima in
fabbrica per ottenere uno stato sociale che le permettesse di
iscriversi all’università.
Infatti una famiglia dell’alta borghesia con tra i parenti un
senatore della prima repubblica, un deputato nazionalsocialista e un padre professore di economia erano, allora, gravi
ostacoli al progetto di frequentare la Facoltà di chimica come
la ragazza desiderava fare. Ma il destino non prevedeva per
Marie le pareti tranquille di un laboratorio. Ballerina appassionata vince un concorso per Miss Charlestone e incontra
il musicologo Ivan Polednák di dieci anni più grande di lei
che sposa. Grazie a questo incontro entra nell’ambiente degli artisti e uno di loro, lo scrittore Jaroslav Dietl, le offre
un lavoro in televisione come assistente di scena. Per circa
venti anni lavora il televisione in vari ruoli, soprattutto come
sceneggiatrice, nel frattempo studia regia all’Accademia
Teatrale di Praga e si laurea. Passa alla regia e ha un figlio,
Petr, la cui crescita è fonte di ispirazione per molte situazioni
proposte poi sullo schermo. Dal 1983 inizia a lavorare presso i famosi Studi Cinematografici Barrandov, allora di Stato.
Dopo il grande cambiamento di sistema Marie Polednáková
60
i film
diviene proprietaria di parte delle azioni degli Studi cinematografici Barrandov che, come fece anche il collega
Jiri Menzel, vende per investire il ricavato in una nuova
impresa, la FTV Premiere, ottenendo una delle prime licenze per le televisioni private. Mantiene in parte questa
nuova personalità di imprenditrice come co-proprietaria
di Premiere Studio ma non rinuncia a realizzare le sue
commedie familiari. La coppia dei nuovi film Baci come
un dio e Baci come un diavolo ha lasciato piuttosto fredda la critica. L’accoglienza del pubblico, invece è stata
calorosa e i doppi Baci sono stati campioni di incassi. La
regina della commedia può ancora contare sulla fedeltà
dei suoi sudditi.
Maresa D’Arcangelo
Corridoio delle Carrozze di Palazzo Medici Riccardi
Appartamento - Via Ginori 14
Fin dall’inizio, negli anni ’70, il visual scelto per ogni edizione
del festival di cinema e donne si lega al titolo-tema dell’anno:
L’occhio negato, ad esempio, parla, oggi più di ieri, di quel
clima di ribellione e rabbia delle donne ma anche della loro
volontà di affermare il proprio mondo nel cinema.
Così i manifesti offrono una chiave di lettura del momento
storico, sociale e politico, l’aria del tempo in cui collocare i
film e le registe che si avvicendano, raccontando le loro storie
dai diversi paesi di provenienza.
Questo approccio nasce dalla convinzione che per entrare
nella densità del nuovo sguardo che le registe portano nel
cinema internazionale, sia necessario munirsi di strumenti
figurativi e concettuali più ampi di quelli legati alla forza comunicativa delle immagini e alla loro intrinseca bellezza.
Certo, i manifesti sono belli, alcuni anche molto, ma non era
solo questo l’intento.
Alcuni sono firmati da grafici noti in Toscana, altri da artisti
noti o emergenti, altri da studenti brillanti come Caterina
Masseini, allora allieva del Liceo Artistico Leon Battista Alberti di Firenze. Poco importa. A tutti abbiamo chiesto d’interpretare un tema che ci pareva riflettere il senso di quello
che si costruiva anno dopo anno, come memoria del cinema e
delle donne nel presente: Archivi visivi della memoria, per citare un altro titolo degli anni ’80. Come anche Il cinema delle
isole e La casa e il mondo, rispettivamente dedicati all’ingresso sulla scena del cinema mondiale delle registe australiane e
canadesi, ne dicono anche l’insularità e la modalità.
Così come Il granito e l’arcobaleno e La distanza delle cose
vicine, raccontano la Nouvelle Vague tedesca e francese delle
registe, ma danno anche elementi per la percezione di questa
presenza nel panorama del cinema internazionale.
E se la La rosa dei venti allude ai cambiamenti indotti dalla
mondializzazione in questo secolo, Amazzoni e sirene e Corpo
a cuore, descrivono i modi in cui le registe affrontano i nuovi
e antichi problemi.
Ma il valore aggiunto di questa mostra è nella sua realizzazione, affidata ad una squadra di giovani talenti del Liceo
Artistico, guidati di loro insegnanti. Una collaborazione importante per la storia del nostro Festival, che nelle sinergie e nella
formazione crede molto e ringrazia di cuore tutto il gruppo di
lavoro, studenti e professori, la Dirigente Scolastica Laura Simonini e la Provincia di Firenze.
Laboratorio Immagine Donna
Regina Pessoa e Abi Feijó:
i giganti portoghesi dell’animazione
os Salteadores
Fado Lusitano
a noite
Ciclo vicioso
i fuorilegge
Portogallo, 1993, 35 mm col., 14’
Animazione-disegno su carta con
matita in grafite.
Portogallo, 1995, 35 mm col., 6’
Animazione-decoupage.
LA NOTTE
Portogallo, 1996, 35 mm col., 7’
Animazione-pittura e scultura su
lastre di gesso.
CIRCOLO VIZIOSO
Portogallo, 1999, Betacam b/n,
23’’
Regia: Abi Feijó
Animazione: Tânia Anaya,
Laura Carvalhosá, Filipe Moreira
da Silva, Maria Moreira da Silva,
Lino Dias, Graça Gomes, João
Pedro Gomes, Raquel Morais,
Clídio Nóbio, Regina Pessoa, Zé
Carlos Pinto, José Miguel Ribeiro
Fotografia: Pedro Serrazina,
Martín Koscielniak
Musica: Manuel Tentugal
Produzione: Filmógrafo.
I fuorilegge del titolo sono
i repubblicani spagnoli che
sconfitti nella Guerra Civile
del loro paese cercarono rifugio sui monti nel nord del
Portogallo. Vennero considerati da alcuni dei banditi, altri
li nascosero dalla polizia di
Salazar. Nel film, ambientato
nel 1950, si discute sull’identità di un gruppo di uomini
uccisi anni prima. Impossibile
dimenticare la Storia.
62
Regia e fotografia: Abi Feijó
Sceneggiatura: Abi Feijó, Oscar
Branco, Luisa Mareante, Pedro
Serrazina, Teresa Feijó, Clídio
Nóbio, Maria Moreira da Silva
Animazione: Abi Feijó, Regina
Pessoa, Filipe Moreira da Silva,
Graça Gomes, João Carlos Feitas, José Carlos Pinto
Voce narrante: Mário Viegas
Musica: Manuel Tentugal
Produzione: Filmógrafo
Un poetico atto d’amore per
il Portogallo, malinconico e
appassionato come la sua
musica.
Regia e animazione: Regina
Pessoa
Montaggio: Abi Feijó, Regina
Pessoa
Musica: Tentugal
Voce narrante: Maria Povoa
da Cruz
Produzione: Filmgrafo, RTP.
L’incomunicabilità tra una
madre e la sua bambina. È
un’opera al tempo stesso
poetica e minuziosa, che racconta le paure e i silenzi della bambina, di notte. Oscuro
come la notte è ogni luogo
abitato dalla solitudine.
Regina Pessoa e Abi Feijó: i giganti portoghesi dell’animazione
Regia e animazione: Regina
Pessoa, Abi Feijó, Pedro Ferrazina
Una campagna pubblicitaria
contro in fumo, realizzata su
commissione per Glaxo Wellcome.
CLANDESTINO
Odisseia nas Imagens
Portogallo/Canada, 2000, 35
mm col., 8’
Animazione con sabbia.
Odissea per immagini
Portogallo, 2001, 35 mm b/n, 35’’
Regia: Abi Feijó
Animazione: Abi Feijó, Regina
Pessoa
Montaggio: Saguenail Regina
Guimaraes
Voci narranti: Jorge Mota,
João Cardoso, Jorge Vasques,
João Pedro Vaz
Musica: Manuel Tentugal
Produzione: Filmógrafo, French
Animation Studio of National
Film Board, RTP.
La vigilia di Natale, da un
vecchio cargo scende a terra
furtivamente un passeggero
clandestino. La libertà gli
viene regalata da un ufficiale che lo scopre ma lo lascia
andare. Un regalo di natale?
Regia e animazione: Regina
Pessoa
Sigla di apertura del Festival
Odisseia nas Imagens (Porto
2001)
História trágica
com final feliz
Bergamo Film
Meeting
Storia tragica con lieto fine
Portogallo/Canada/Francia, 2005,
35 mm b/n, 8’
Animazione-raschiatura su carta
dipinta.
Portogallo, 2012, 4’
Regia e animazione: Regina
Pessoa, Sylvie Leonard, Laurent
Repiton
Sceneggiatura: Regina Pessoa
Monatggio: Hervé Guichard
Musica: Normand Roger
Voce narrante: Manuela Azevedo, Alina Lowhenson
Produzione: MC, ICAM, ARTE
France, Centre National de la
Cinématographie, RTP.
Regia e animazione: Regina
Pessoa e Abi Feijó
Girato durante il Bergamo
Film Meeting del 2011.
Il desiderio di omologazione può essere per qualcuno
l’obiettivo della vita, fingere
e nascondere le proprie differenze. Altri, gioiosamente
le rivendicano. Caratterizzato
da un disegno duro, definito
da dense linee nere, il film ci
racconta ancora di una bambina speciale
Regina Pessoa e Abi Feijó: i giganti portoghesi dell’animazione
63
Kali o pequeno
vampiro
Kali, il piccolo vampiro
Portogallo/Canada/Francia,
2012, digitale b/n, 9’
Regia, animazione e sceneggiatura: Regina Pessoa
Produzione: Ciclope Filmes,
ONF, Folimage.
Un ragazzo particolare alle
prese con le sue paure. Come
un raggio di luce sparisce per
un po’ nell’oscurità, in attesa
di trovare una sua collocazione.
Regina Pessoa
Abi Feijó
È nata a Coimbra nel 1969 e
nel 1998 si laurea in Pittura
alla Scuola di Belle Arti di
Porto. Frequenta vari studi di
animazione e dal 1992 lavora
presso lo studio Filmógrafo con Abi Feijó, regista e
presidente della Casa da
Animação di Porto, con cui
è coautrice di Ciclo Vicioso
(1996) e Estrelas de Natal
(1998). Utilizza con coraggio la tecnica dell’incisione
e della pittura su lastre di
gesso che richiede tempi lunghissimi anche solo per pochi
minuti di film. Il suo primo
film da sola, A Noite (1999),
vince numerosi premi in tutta
Europa. Sei anni dopo, termina História Tragica com
Final Feliz (2005) che vince,
tra gli altri, il prestigioso
Annecy Cristal per il miglior
cortometraggio agli Annecy
Awards 2006. Kali, o Pequeno Vampiro chiude la trilogia
dell’infanzia nel 2012. Oggi
Regina Pessoa è una delle
figure più rappresentative del
nuovo cinema d’animazione
mondiale.
Álvaro Graça de Castro Feijó
è nato a Braga il 18 luglio
del 1956. Ha studiato Arte
grafica e disegno alla Scuola Superiore di Belle Arti a
Porto. Durante gli studi ha
frequentato vari atelier di
animazione tra i quali quelli
organizzati dall’Office National du Film du Canada sotto
la guida di Pierre Hébert. Qui
ha realizzato il suo primo
film d’animazione, Oh que
Calma! Nel 1978 ha fondato
il Filmógrafo - Estúdio de Cinema de Animação di Porto.
Accanto a una brillantissima
e molto premiata carriera di
animatore e regista, Abi Feijó
si è dedicato all’insegnamento universitario e alla formazione di giovani animatori. Ha
creato a Porto l’Associazione
culturale Casa da Animação
e la casa di produzione Ciclope Filmes, Unipessoal Lda.
Filmografia
Ciclo vicioso (co-diretto con
Abi Feijó e Pedro Ferrazina,
1996); Estrelas de Natal (codiretto con Abi Feijó, 1998);
A noite (1999); Odisseia nas
imagens (2001); História
trágica com final feliz (2005);
Kali o pequeno vampiro
(2012).
64
Regina Pessoa e Abi Feijó: i giganti portoghesi dell’animazione
Filmografia
Oh que calma! (cortometraggio, 1986); A noite saiu à Rua
(cortometraggio, 1988); Os
Salteadores (cortometraggio,
1993); Fado Lusitano (cortometraggio 1994); Clandestino
(cortometraggio, 2000).
Charlie Chaplin, per me, era “cioccolata”
Sono cresciuta in un piccolo villaggio del Portogallo negli anni
Settanta, senza televisione e cinema, molto lontana da ogni
genere di immagine in movimento. Dovevamo quindi riempire
questo vuoto con qualcosa di diverso: con l’immaginazione.
La mia sorella maggiore mi portò in una biblioteca ambulante
(con il sostegno della Fondazione Gulbelkian), alla quale si era
iscritta senza il permesso di nostro padre, che pensava che i
libri dovessero provenire solo dalla scuola. Prima che io imparassi a leggere, mia sorella leggeva spesso per me.
Presto appresi a riconoscere storie nel piccolo mondo attorno
a me, nella gente comune, le cui vite segrete erano piene di
tragedia e poesia allo stesso tempo.
E poi, naturalmente, c’era lo zio Tomás, che per me è stato una
figura formativa. Sempre in completo e cappello, teneva la
contabilità per mio nonno e mi portava a fare passeggiate in
campagna, raccogliendo frutti col suo coltellino e raccontandomi di alberi, erbe, clima. Diceva “Tuo zio Tomás è un pazzo
sentimentale!”. Avevo solo otto anni e lo trovavo affascinante. Era un tipo solitario che non riusciva a dormire la notte e
andava a trovare le galline nel pollaio. Accendeva la torcia e
con la sua luce svegliava i polli, che cominciavano a saltellare
tutt’attorno…Come rideva! E poi preparava per me giocattoli
e dolci, creandoli da bolle di sapone. Ma, cosa ancora più importante, insegnava a noi nipoti a disegnare: eravamo molto
poveri, non possedevamo matite né carta, quindi usavamo
il carbone sulle pareti bianche e sulle porte della casa della
nonna: nero su bianco. Lo zio Tomás disegnava enorme facce
e noi cercavamo di copiarle. Diceva “No, non così, dovete trovare la proporzione tra gli occhi e la bocca”. Lui creava visi e
cercava di dar loro espressione, poi sbottava a ridere forte…
E così ho imparato che si può crescere in diversi modi, che
si può essere buffi e teneri discreti ed eccentrici, anonimi e
straordinari allo stesso tempo.
Un giorno, nel mio piccolo villaggio senza cinema e televisione, apparve un uomo misterioso su una macchina con un
proiettore. Diceva che serviva a mostrare film e si stabilì nella
sala comunale, proprio vicino casa mia. Era gratis e l’intero
villaggio andava a vedere. Il film che mostrava era in bianco
e nero, come gli enormi visi disegnati dallo zio Tomás. C’era
una casa in bilico sul bordo di un dirupo, poi il protagonista
mangiava i suoi stivali con un tale gusto che io dissi a mia
sorella “È cioccolata!”. Avevo quattro anni. Fu il primo film
che vidi e non lo dimenticherò mai. In seguito scoprii che era
Charlie Chaplin e il film La febbre dell’oro: una buona introduzione al cinema!
Regina Pessoa
Me, animation and life – Regina Pessoa in Le donne nel cinema d’animazione
Matilde Tortora, Ed. Tunué, Latina, 2010, pp. 115, 116
Regina Pessoa e Abi Feijó: i giganti portoghesi dell’animazione
65
I mondi animati di Elena Petkevich
Fairy Tales
of an Old Piano
Once upon a
Christmas eve…
Snow White
and Red Rose
Bielorussia, 2011, Digitale
col., 13’
Bielorussia, 2010, Digitale col,
10’
Bielorussia, 2009, Digitale col., 6’
Regia: Elena Petkevich
Sceneggiatura: Irina Margolina
Produzione: National Film
Studio BelarusFilm.
Regia: Elena Petkevich
Produzione: National Film Studio BelarusFilm.
Della Bielorussia una meravigliosa storia ispirata alla
vita e l’opera di J.S. Bach.
Anche una riflessione sull’incomprensione che spesso circonda il genio e sul mistero,
forse divino, dell’ispirazione.
66
Un gatto, dei bambini e degli
adulti nella magica notte di
Natale.
I mondi animati di Elena Petkevich
Regia: Elena Petkevich
Sceneggiatura: Dmitry Yakutovich
Animazione: Elena Lapotko,
Dmitry Zhukov, A. Sidorov
Produzione: National Film Studio BelarusFilm.
La fiaba del principe orso e
delle due bambine poeticamente reinterpretata.
The magic store
Bielorussia, 2006,Digitale
col., 11’
Regia: Elena Petkevich
Sceneggiatura: Dmitry
Yakutovich
Animazione: O. Korshakevich,
Vitaly Bobrovsky
Musica: V. Sukhodolov
Produzione: National Film
Studio BelarusFilm.
Sotto la neve si possono fare
strani incontri. Può apparire
anche un negozio che vende
sogni.
Note di regia
Sono cresciuta in una piccola città bielorussa, Grodno, sul
fiume Neman. Quando ho finito la scuola sognavo di fare la
scultrice ma avevo anche iniziato i miei studi presso il Dipartimento di Architettura. Poi ho lavorato come architetto a
Minsk per alcuni anni. Contemporaneamente scrivevo racconti, poesie e disegnavo molto. Alla fine, la vita mi ha portato a
Mosca e sono entrata al VGIK dove ho studiato sceneggiatura,
regia e animazione (tra i miei professori Fiodor Khitruk e Jury
Norshtain), però il film di diploma, Lafertovskaya Makovnitsa,
l’ho realizzato, nel 1986, con Belarusfilm. […] Non ho mai
pensato agli spettatori potenziali del mio lavoro. Vivo dentro
le mie storie che diventano film. Mi innamoro dei miei personaggi. Quel che trovo di più eccitante è creare composizioni
inusuali, immagini sorprendenti che conferiscano forza visiva
alla storia. Quando ho la fortuna di trovarle e farle vivere sullo
schermo, a questo punto penso si stabilisca il contatto con lo
spettatore... L’anima non ha età. Io spero, con le mie storie e
immagini di arrivare all’anima dello spettatore. [...] Durante gli
ultimi cinque anni ho anche insegnato presso il Dipartimento
di Animazione dell’Accademia d’Arte Bielorussa di Minsk.
Questa primavera si sono diplomati otto giovani registi con
i loro otto primi film. Mi sembra un ottimo risultato e ne sono
felice. Spero che continuino a fare film e a fare entrare l’aria
fresca della loro creatività. Mi capita, spesso, di lavorare con
giovani artisti. Per molti di loro i miei film hanno segnato il
debutto nell’animazione. Poi qualcuno è diventato a sua volta
regista, o ha messo su famiglia o è emigrato in altri paesi. Lavorare bene insieme ad altri arricchisce molto i risultati che si
ottengono. Sono davvero fortunata ad avere accanto persone
piene di talento, energia e passione per la vita.
Elena Petkevich
Elena Petkevich è nata a Orel, in Russia. Nel 1974 si è laureata in Architettura. Dal 1982 al 1984 ha frequentato la Scuola superiore di Sceneggiatura e Regia al WGIK di Mosca e
nel 1986 si è laureata in Regia cinematografica. Dal 1979 è
direttore della sezione Cinema d’animazione del Film Studio
BelarusFilm.
Filmografia
Lafertovskaya Makovnitsa (1986); Moon (1993); Fairy tales of
Wood (1997); Optimus Mundus. Golden Leaf (1998); A Ruff
and a Sparrow (2000); A Song for a Canary (2002); The Magic
Shop (2006); The Tales of Old Piano (2009) Once upon a Christmas eve… (2010); Fairy Tales of an Old Piano (2011); Snow
White and Scarlet Flower (2012).
Da un’intervista di Isabella Mancini - ottobre 2013
I mondi animati di Elena Petkevich
67
Palazzo Coppini
Centro studi e incontri internazionali
Firenze
Via del Giglio, 10
www.palazzocoppini.org - [email protected]
partner del
XXXV FESTIVAL INTERNAZIONALE DI CINEMA E DONNE
In collaborazione con:
Consolato Onorario della Repubblica Ceca
per la Toscana
Con il supporto di:
Life Beyond Tourism ®
HOTEL PITTI PALACE al PONTE VECCHIO
Centro Congressi al Duomo
FIRENZE
Palazzo Coppini
International Meeting and Study Centre
Florence
IL GIARDINO DEI CILIEGI
Piazza Lorenzo Ghiberti
50122 - Florence - Italy
tel. +39 055 234 3885
+39 055 234 3885
e-mail: [email protected]
RINGRAZIAMENTI
Ginevra Di Marco
Francesco Magnalli
Morando Morandini
Gianni Dorigo
Achille Normanno
Olga Branzovska
Paolo Crescente
Mario Giannone
Alessandro Bernardi, Università degli Studi di Firenze
Ester Carla De Miro D’Ajeta, Università degli Studi di Genova
Cristina Jandelli, Università degli Studi di Firenze
Isabelle Mallez, direttrice dell’Institut Français Firenze
Heiner Roland, direttore del Deutsches Institut Florenz
Marcin Robert Wyrembelski, Università degli Studi di Firenze
Laura Simonini, dirigente scolastica Liceo Artistico Leon Battista Alberti
di Firenze
Raimondo Vacca, docente Liceo Artistico Leon Battista Alberti di Firenze
Giacomo D’Agostino, dirigente scolastico, ITIS-IPSIA Leonardo da Vinci
di Firenze
Attilio Valeri, docente ITIS-IPSIA Leonardo da Vinci di Firenze
Giovani Di Fede, Assessore alla Pubblica Istruzione Provincia di Firenze
Silvia Bensi, Provincia di Firenze
Marusca Mani, Provincia di Firenze
Antonella Ierardi, Provincia di Firenze
Cineteca Nazionale – Centro Sperimentale di Cinematografia
Cineteca di Bologna
UCLA Film e Film & Television Archive
Gucci
The Film Foundation
Jan Bradác, Falcon Film
Daniela Hurábová. Czech Film Center
Hanna Horner, doc&film
Marina Mazzotti, Festival International de Films de Femmes de Créteil
70
ringraziamenti
Console della Repubblica della Bielorussia a Firenze, Marco Bacci
Julia Sawizkie e Alessia Sawizkie (Culture and Education
Development Fund, Belarus)
Ambasciata della Repubblica Ceca in Italia
S.E. l’Ambasciatore della Repubblica Ceca a Roma
Giovanna Dani Del Bianco, Console onoraria della Repubblica Ceca a Firenze
Aranka Myslivcová, ARCA – Florencie, Amici della Repubblica Ceca
Associati, Firenze
Michaela Zackova Rossi
Ambasciata del Regno del Marocco in Italia
S.E. l’Ambasciatore del Regno del Marocco in Italia
Sidi Mohammed Fadel Dadi, Ministro plenipotenziario
Istituto Polacco di Roma
Pawel Stasikowski, Direttore
Elzbieta Wykretowicz, Vicedirettrice
Marta Sputowska, Media & cinema
Maria Gratkowska Scarlini, Associazione Italo Polacca in Toscana
Ambasciata del Portogallo in Italia
S.E. l’Ambasciatore del Portogallo a Roma
Isabella Padellaro, Settore cultura
Ambasciata della Repubblica Slovacca in Italia
S.E. l’Ambasciatrice della Repubblica Slovacca a Roma
Monika Cechovicová Carta, Affari culturali, Istituto Slovacco di Roma
Ambasciata della Svizzera in Italia
S.E. l’Ambasciatore della Svizzera in Italia
Ruth Theus Baldassarre, responsabile Cultura, scienza e media
Maria Chiara Donvito, Addetta alle relazioni pubbliche
Un particolare ringraziamento a tutto il personale del cinema Odeon
e alla FST Mediateca Regionale.
Via Vittorio Emanuele II, 303 50134 - Firenze
Tel: +39 0554288054 Fax: +39 0554486908
e-mail: [email protected]
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