Riflessioni

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Approfondimenti
IRC
Inserto redazionale
de IL SEGNO
a cura del Servizio IRC
Informazioni
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SUSSIDIO PER INSEGNANTI DI RELIGIONE
CATTOLICA DELLA DIOCESI DI MILANO
Una scuola costruita col mattone di ciascuno
C
Messaggio
del Santo Padre
per la GMG 2014
Papa Francesco:
essere insegnanti
che educano!
Lettera
dei Genitori AGE
a tutti i Genitori
Mons. Galantino:
basta tagli
alla scuola
arissimi idr,
c’è un appuntamento a cui si stanno preparando tutte le Diocesi Italiane: Roma10
maggio 2014 La Chiesa per la scuola, in Piazza S. Pietro con Papa Francesco.
Il Segretario Generale della Cei, Sua Ecc.za Mons Nunzio Galantino, ha affermato: “Innanzitutto – ha spiegato – essa non può essere impoverita con una sua
riduzione ad una sorta di chiamata alle armi in difesa delle scuole paritarie: queste sono certo nelle nostre preoccupazioni, ma l’appuntamento di maggio intendiamo viverlo come un’opportunità che faccia emergere l’attenzione che la Chiesa pone per i temi della formazione e dell’educazione, per una scuola che è soggetto plurale, articolato, che non può escludere alcuna agenzia educativa.
“Vogliamo che l’evento sia un’esperienza di Chiesa e non di chiesuole”, ha aggiunto, richiamando l’importanza che sulla manifestazione si evitino “appropriazione indebite”, per presentarsi come “realtà unita e sinfonica, lontana da interessi di bottega, consapevole piuttosto dell’urgenza di investire sulla dimensione
formativa come su quella educativa”.
Infine, il Segretario Generale ha sollecitato a superare “l’aggressione ideologica esasperata che si muove attorno alla scuola e che rende faticoso l’emergere del
suo ruolo: quello di essere offerta qualificata di strumenti critici per stare in questo mondo. Ci serve una scuola – ha concluso – in grado di assicurare “risposte
sensate a domande reali: per farlo occorre la capacità di possedere e, quindi, di
trasmettere strumenti critici per abitare questo tempo”.
Introducendo il seminario don Maurizio Viviani – direttore dell’Ufficio Nazionale per l’educazione, la scuola e l’università – ha sottolineato che “l’evento del
10 maggio rappresenta un’occasione privilegiata di mobilitazione popolare nella
forma di una festa di tutti coloro che abitano la scuola”, nell’impegno a fare della scuola stessa “un luogo di crescita umana, spirituale e culturale”.
Quando parliamo di scuola in Italia parliamo di quasi otto milioni gli studenti (di cui 736 mila stranieri e 207 mila con disabilità), accompagnati da 728 mila
docenti: “È un mondo in continua evoluzione, pieno di opportunità e di speranze,
ma anche carico di problemi di diversa natura, a cui si aggiungono quelli del tempo immediatamente successivo, il tempo dell’inserimento nel mondo del lavoro.
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Una risposta a questa emergenza potrebbe venire da progetti integrati tra scuola e lavoro, e da un maggiore interesse politico, sociale e soprattutto culturale per le giovani generazioni”.
E, riassumendo il significato dell’iniziativa del 10 maggio
è questo: “La chiesa è per la scuola, per tutta la scuola, perché la scuola fa parte del bene comune”. Carissimi idr, è per
questa ragione che dal 5 marzo io, il Vicario Episcopale, i
Presidenti delle Associazioni e delle federazione dei Docenti, dei Dirigenti, dei Genitori inizieremo a girare la Diocesi
nelle zone pastorali per mettere al centro la scuola e le per-
Messaggio del
Santo Padre
per la XXIX
Giornata
mondiale della
gioventù 2014
«Beati i poveri in spirito,
perché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5, 3)
Cari giovani,
è impresso nella mia memoria lo straordinario incontro
che abbiamo vissuto a Rio de Janeiro, nella XXVIII Giornata Mondiale della Gioventù: una grande festa della fede e
della fraternità! La brava gente brasiliana ci ha accolto con
le braccia spalancate, come la statua del Cristo Redentore
che dall’alto del Corcovado domina il magnifico scenario della spiaggia di Copacabana. Sulle rive del mare Gesù ha rinnovato la sua chiamata affinché ognuno di noi diventi suo discepolo missionario, lo scopra come il tesoro più prezioso della propria vita e condivida questa ricchezza con gli altri, vicini e lontani, fino alle estreme periferie geografiche ed esistenziali del nostro tempo.
La prossima tappa del pellegrinaggio intercontinentale
dei giovani sarà a Cracovia, nel 2016. Per scandire il nostro
cammino, nei prossimi tre anni vorrei riflettere insieme a
voi sulle Beatitudini evangeliche, che leggiamo nel Vangelo
di san Matteo (5,1-12). Quest’anno inizieremo meditando
sulla prima: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5,3); per il 2015 propongo «Beati i puri di
cuore, perché vedranno Dio» (Mt 5,8); e infine, nel 2016, il
tema sarà «Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia» (Mt 5,7).
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sone che ogni giorno la animano e la fanno vivere con generosità, impegno e professionalità nelle condizioni reali della
scuola oggi. Vi chiedo non solo di essere presenti ma di invitare tanti colleghi, genitori. Non perdiamo l’occasione per
partecipare attivamente alla costruzione della scuola con il
mattone di ciascuno. Sono convinto che noi ci saremo e cercheremo, come sempre, di fare del nostro meglio per il futuro dei nostri ragazzi. A presto! Grazie di cuore.
Don Michele Di Tolve
Responsabile Servizio Irc e Pastorale Scolastica
Arcidiocesi di Milano
1. La forza rivoluzionaria
delle Beatitudini
Ci fa sempre molto bene leggere e meditare le Beatitudini! Gesù le ha proclamate nella sua prima grande predicazione, sulla riva del lago di Galilea. C’era tanta folla e Lui
salì sulla collina, per ammaestrare i suoi discepoli, perciò
quella predica viene chiamata “discorso della montagna”.
Nella Bibbia, il monte è visto come luogo dove Dio si rivela,
e Gesù che predica sulla collina si presenta come maestro divino, come nuovo Mosè. E che cosa comunica? Gesù comunica la via della vita, quella via che Lui stesso percorre, anzi, che Lui stesso è, e la propone come via della vera felicità.
In tutta la sua vita, dalla nascita nella grotta di Betlemme fino alla morte in croce e alla risurrezione, Gesù ha incarnato
le Beatitudini. Tutte le promesse del Regno di Dio si sono
compiute in Lui.
Nel proclamare le Beatitudini Gesù ci invita a seguirlo, a
percorrere con Lui la via dell’amore, la sola che conduce alla vita eterna. Non è una strada facile, ma il Signore ci assicura la sua grazia e non ci lascia mai soli. Povertà, afflizioni,
umiliazioni, lotta per la giustizia, fatiche della conversione
quotidiana, combattimenti per vivere la chiamata alla santità, persecuzioni e tante altre sfide sono presenti nella nostra vita. Ma se apriamo la porta a Gesù, se lasciamo che Lui
sia dentro la nostra storia, se condividiamo con Lui le gioie e
i dolori, sperimenteremo una pace e una gioia che solo Dio,
amore infinito, può dare.
Le Beatitudini di Gesù sono portatrici di una novità rivoluzionaria, di un modello di felicità opposto a quello che di
solito viene comunicato dai media, dal pensiero dominante.
Per la mentalità mondana, è uno scandalo che Dio sia venuto a farsi uno di noi, che sia morto su una croce! Nella logica
di questo mondo, coloro che Gesù proclama beati sono considerati “perdenti”, deboli. Sono esaltati invece il successo
ad ogni costo, il benessere, l’arroganza del potere, l’affermazione di sé a scapito degli altri.
Gesù ci interpella, cari giovani, perché rispondiamo alla
sua proposta di vita, perché decidiamo quale strada vogliamo percorrere per arrivare alla vera gioia. Si tratta di una
grande sfida di fede. Gesù non ha avuto paura di chiedere ai
suoi discepoli se volevano davvero seguirlo o piuttosto andarsene per altre vie (cfr Gv 6,67). E Simone detto Pietro ebbe il coraggio di rispondere: «Signore, da chi andremo? Tu
hai parole di vita eterna» (Gv 6,68). Se saprete anche voi dire “sì” a Gesù, la vostra giovane vita si riempirà di significato, e così sarà feconda.
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2. Il coraggio della felicità
Ma che cosa significa “beati” (in greco makarioi)? Beati
vuol dire felici. Ditemi: voi aspirate davvero alla felicità? In un
tempo in cui si è attratti da tante parvenze di felicità, si rischia
di accontentarsi di poco, di avere un’idea “in piccolo” della vita. Aspirate invece a cose grandi! Allargate i vostri cuori! Come diceva il beato Piergiorgio Frassati, «vivere senza una fede,
senza un patrimonio da difendere, senza sostenere in una lotta continua la verità, non è vivere ma vivacchiare. Noi non
dobbiamo mai vivacchiare, ma vivere» (Lettera a I. Bonini, 27
febbraio 1925). Nel giorno della Beatificazione di Piergiorgio
Frassati, il 20 maggio 1990, Giovanni Paolo II lo chiamò «uomo delle Beatitudini» (Omelia nella S. Messa: AAS 82 [1990],
1518). Se veramente fate emergere le aspirazioni più profonde
del vostro cuore, vi renderete conto che in voi c’è un desiderio
inestinguibile di felicità, e questo vi permetterà di smascherare e respingere le tante offerte “a basso prezzo” che trovate intorno a voi. Quando cerchiamo il successo, il piacere, l’avere in
modo egoistico e ne facciamo degli idoli, possiamo anche provare momenti di ebbrezza, un falso senso di appagamento; ma
alla fine diventiamo schiavi, non siamo mai soddisfatti, siamo
spinti a cercare sempre di più. È molto triste vedere una gioventù “sazia”, ma debole.
San Giovanni scrivendo ai giovani diceva: «Siete forti e la
parola di Dio rimane in voi e avete vinto il Maligno» (1 Gv
2,14). I giovani che scelgono Cristo sono forti, si nutrono della
sua Parola e non si “abbuffano” di altre cose! Abbiate il coraggio di andare contro corrente. Abbiate il coraggio della vera felicità! Dite no alla cultura del provvisorio, della superficialità e
dello scarto, che non vi ritiene in grado di assumere responsabilità e affrontare le grandi sfide della vita!
3. Beati i poveri in spirito…
La prima Beatitudine, tema della prossima Giornata Mondiale della Gioventù, dichiara felici i poveri in spirito, perché a
loro appartiene il Regno dei cieli. In un tempo in cui tante persone soffrono a causa della crisi economica, accostare povertà
e felicità può sembrare fuori luogo. In che senso possiamo concepire la povertà come una benedizione?
Prima di tutto cerchiamo di capire che cosa significa «poveri in spirito». Quando il Figlio di Dio si è fatto uomo, ha scelto
una via di povertà, di spogliazione. Come dice san Paolo nella
Lettera ai Filippesi: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini» (2,5-7). Gesù è Dio che si spoglia della sua gloria. Qui vediamo la scelta di povertà di Dio: da ricco che era, si è fatto povero per arricchirci per mezzo della sua povertà (cfr 2 Cor 8,9).
E’ il mistero che contempliamo nel presepio, vedendo il Figlio
di Dio in una mangiatoia; e poi sulla croce, dove la spogliazione giunge al culmine.
L’aggettivo greco ptochós (povero) non ha un significato soltanto materiale, ma vuol dire “mendicante”. Va legato al concetto ebraico di anawim, i “poveri di Iahweh”, che evoca umiltà, consapevolezza dei propri limiti, della propria condizione esistenziale di povertà. Gli anawim si fidano del Signore,
sanno di dipendere da Lui.
Gesù, come ha ben saputo vedere santa Teresa di Gesù
Bambino, nella sua Incarnazione si presenta come un mendicante, un bisognoso in cerca d’amore. Il Catechismo della
Chiesa Cattolica parla dell’uomo come di un «mendicante di
Dio» (n. 2559) e ci dice che la preghiera è l’incontro della sete
di Dio con la nostra sete (n. 2560).
San Francesco d’Assisi ha compreso molto bene il segreto
della Beatitudine dei poveri in spirito. Infatti, quando Gesù gli
parlò nella persona del lebbroso e nel Crocifisso, egli riconobbe la grandezza di Dio e la propria condizione di umiltà. Nella
sua preghiera il Poverello passava ore a domandare al Signore: «Chi sei tu? Chi sono io?». Si spogliò di una vita agiata e
spensierata per sposare “Madonna Povertà”, per imitare Gesù
e seguire il Vangelo alla lettera. Francesco ha vissuto l’imitazione di Cristo povero e l’amore per i poveri in modo inscindibile, come le due facce di una stessa medaglia.
Voi dunque mi potreste domandare: come possiamo concretamente far sì che questa povertà in spirito si trasformi in stile di vita, incida concretamente nella nostra esistenza? Vi rispondo in tre punti.
Prima di tutto cercate di essere liberi nei confronti delle cose. Il Signore ci chiama a uno stile di vita evangelico segnato
dalla sobrietà, a non cedere alla cultura del consumo. Si tratta
di cercare l’essenzialità, di imparare a spogliarci di tante cose
superflue e inutili che ci soffocano. Distacchiamoci dalla brama di avere, dal denaro idolatrato e poi sprecato. Mettiamo
Gesù al primo posto. Lui ci può liberare dalle idolatrie che ci
rendono schiavi. Fidatevi di Dio, cari giovani! Egli ci conosce,
ci ama e non si dimentica mai di noi. Come provvede ai gigli del
campo (cfr Mt 6,28), non lascerà che ci manchi nulla! Anche
per superare la crisi economica bisogna essere pronti a cambiare stile di vita, a evitare i tanti sprechi. Così come è necessario il coraggio della felicità, ci vuole anche il coraggio della
sobrietà.
In secondo luogo, per vivere questa Beatitudine abbiamo
tutti bisogno di conversione per quanto riguarda i poveri. Dobbiamo prenderci cura di loro, essere sensibili alle loro necessità
spirituali e materiali. A voi giovani affido in modo particolare
il compito di rimettere al centro della cultura umana la solidarietà. Di fronte a vecchie e nuove forme di povertà – la disoccupazione, l’emigrazione, tante dipendenze di vario tipo –, abbiamo il dovere di essere vigilanti e consapevoli, vincendo la
tentazione dell’indifferenza. Pensiamo anche a coloro che non
si sentono amati, non hanno speranza per il futuro, rinunciano a impegnarsi nella vita perché sono scoraggiati, delusi, intimoriti. Dobbiamo imparare a stare con i poveri. Non riempiamoci la bocca di belle parole sui poveri! Incontriamoli, guardiamoli negli occhi, ascoltiamoli. I poveri sono per noi un’occasione concreta di incontrare Cristo stesso, di toccare la sua
carne sofferente.
Ma – e questo è il terzo punto – i poveri non sono soltanto
persone alle quali possiamo dare qualcosa. Anche loro hanno
tanto da offrirci, da insegnarci. Abbiamo tanto da imparare
dalla saggezza dei poveri! Pensate che un santo del secolo XVIII, Benedetto Giuseppe Labre, il quale dormiva per strada a
Roma e viveva delle offerte della gente, era diventato consigliere spirituale di tante persone, tra cui anche nobili e prelati. In un certo senso i poveri sono come maestri per noi. Ci insegnano che una persona non vale per quanto possiede, per
quanto ha sul conto in banca. Un povero, una persona priva di
beni materiali, conserva sempre la sua dignità. I poveri possono insegnarci tanto anche sull’umiltà e la fiducia in Dio. Nella
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parabola del fariseo e del pubblicano (Lc 18,9-14), Gesù presenta quest’ultimo come modello perché è umile e si riconosce
peccatore. Anche la vedova che getta due piccole monete nel tesoro del tempio è esempio della generosità di chi, anche avendo poco o nulla, dona tutto (Lc 21,1-4).
4. ...perché di essi è il Regno dei cieli
Tema centrale nel Vangelo di Gesù è il Regno di Dio. Gesù
è il Regno di Dio in persona, è l’Emmanuele, Dio-con-noi. Ed è
nel cuore dell’uomo che il Regno, la signoria di Dio si stabilisce
e cresce. Il Regno è allo stesso tempo dono e promessa. Ci è già
stato dato in Gesù, ma deve ancora compiersi in pienezza. Perciò ogni giorno preghiamo il Padre: «Venga il tuo regno».
C’è un legame profondo tra povertà ed evangelizzazione,
tra il tema della scorsa Giornata Mondiale della Gioventù «Andate e fate discepoli tutti i popoli» (Mt 28,19) - e quello di
quest’anno: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno
dei cieli» (Mt 5,3). Il Signore vuole una Chiesa povera che evangelizzi i poveri. Quando inviò i Dodici in missione, Gesù
disse loro: «Non procuratevi oro né argento né denaro nelle vostre cinture, né sacca da viaggio, né due tuniche, né sandali, né
bastone, perché chi lavora ha diritto al suo nutrimento» (Mt
10,9-10). La povertà evangelica è condizione fondamentale affinché il Regno di Dio si diffonda. Le gioie più belle e spontanee che ho visto nel corso della mia vita sono quelle di persone
povere che hanno poco a cui aggrapparsi. L’evangelizzazione,
nel nostro tempo, sarà possibile soltanto per contagio di gioia.
Come abbiamo visto, la Beatitudine dei poveri in spirito orienta il nostro rapporto con Dio, con i beni materiali e con i
poveri. Davanti all’esempio e alle parole di Gesù, avvertiamo
quanto abbiamo bisogno di conversione, di far sì che sulla logica dell’avere di più prevalga quella dell’essere di più! I santi
sono coloro che più ci possono aiutare a capire il significato
profondo delle Beatitudini. La canonizzazione di Giovanni
Paolo II nella seconda domenica di Pasqua, in questo senso, è
un evento che riempie il nostro cuore di gioia. Lui sarà il grande patrono delle GMG, di cui è stato l’iniziatore e il trascinatore. E nella comunione dei santi continuerà ad essere per tutti voi un padre e un amico.
Nel prossimo mese di aprile ricorre anche il trentesimo anniversario della consegna ai giovani della Croce del Giubileo
della Redenzione. Proprio a partire da quell’atto simbolico di
Giovanni Paolo II iniziò il grande pellegrinaggio giovanile che
da allora continua ad attraversare i cinque continenti. Molti ricordano le parole con cui il Papa, la domenica di Pasqua del
1984, accompagnò il suo gesto: «Carissimi giovani, al termine
dell’Anno Santo affido a voi il segno stesso di quest’Anno Giubilare: la Croce di Cristo! Portatela nel mondo, come segno dell’amore del Signore Gesù per l’umanità, ed annunciate a tutti
che solo in Cristo morto e risorto c’è salvezza e redenzione».
Cari giovani, il Magnificat, il cantico di Maria, povera in spirito, è anche il canto di chi vive le Beatitudini. La gioia del Vangelo sgorga da un cuore povero, che sa esultare e meravigliarsi per le opere di Dio, come il cuore della Vergine, che tutte le
generazioni chiamano “beata” (cfr Lc 1,48). Lei, la madre dei
poveri e la stella della nuova evangelizzazione, ci aiuti a vivere il Vangelo, a incarnare le Beatitudini nella nostra vita, ad avere il coraggio della felicità.
FRANCESCO
Dal Vaticano, 21 gennaio 2014, memoria di Sant’Agnese, vergine e martire
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Lettera di Papa
Francesco
alle famiglie
Care famiglie,
mi presento alla soglia della vostra casa per parlarvi di un
evento che, come è noto, si svolgerà nel prossimo mese di ottobre in Vaticano. Si tratta dell’Assemblea generale straordinaria del Sinodo dei Vescovi, convocata per discutere sul
tema “Le sfide pastorali sulla famiglia nel contesto dell’evangelizzazione”. Oggi, infatti, la Chiesa è chiamata ad annunciare il Vangelo affrontando anche le nuove urgenze pastorali che riguardano la famiglia.
Questo importante appuntamento coinvolge tutto il Popolo di Dio, Vescovi, sacerdoti, persone consacrate e fedeli
laici delle Chiese particolari del mondo intero, che partecipano attivamente alla sua preparazione con suggerimenti
concreti e con l’apporto indispensabile della preghiera. Il
sostegno della preghiera è quanto mai necessario e significativo specialmente da parte vostra, care famiglie. Infatti,
questa Assemblea sinodale è dedicata in modo speciale a
voi, alla vostra vocazione e missione nella Chiesa e nella società, ai problemi del matrimonio, della vita familiare, dell’educazione dei figli, e al ruolo delle famiglie nella missione della Chiesa. Pertanto vi chiedo di pregare intensamente lo Spirito Santo, affinché illumini i Padri sinodali e li guidi nel loro impegnativo compito. Come sapete, questa Assemblea sinodale straordinaria sarà seguita un anno dopo
da quella ordinaria, che porterà avanti lo stesso tema della
famiglia. E, in tale contesto, nel settembre 2015 si terrà anche l’Incontro Mondiale delle Famiglie a Philadelphia. Preghiamo dunque tutti insieme perché, attraverso questi eventi, la Chiesa compia un vero cammino di discernimento
e adotti i mezzi pastorali adeguati per aiutare le famiglie ad
affrontare le sfide attuali con la luce e la forza che vengono
dal Vangelo.
Vi scrivo questa lettera nel giorno in cui si celebra la festa della Presentazione di Gesù al tempio. L’evangelista Luca narra che la Madonna e san Giuseppe, secondo la Legge
di Mosè, portarono il Bambino al tempio per offrirlo al Signore, e che due anziani, Simeone e Anna, mossi dallo Spirito Santo, andarono loro incontro e riconobbero in Gesù il
Messia (cfr Lc 2,22-38). Simeone lo prese tra le braccia e ringraziò Dio perché finalmente aveva “visto” la salvezza; Anna, malgrado l’età avanzata, trovò nuovo vigore e si mise a
parlare a tutti del Bambino. È un’immagine bella: due giovani genitori e due persone anziane, radunati da Gesù. Davvero Gesù fa incontrare e unisce le generazioni! Egli è la
fonte inesauribile di quell’amore che vince ogni chiusura, ogni solitudine, ogni tristezza. Nel vostro cammino familiare, voi condividete tanti momenti belli: i pasti, il riposo, il lavoro in casa, il divertimento, la preghiera, i viaggi e i pellegrinaggi, le azioni di solidarietà… Tuttavia, se manca l’amore manca la gioia, e l’amore autentico ce lo dona Gesù: ci
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offre la sua Parola, che illumina la nostra strada; ci dà il Pane di vita, che sostiene la fatica quotidiana del nostro cammino.
Care famiglie, la vostra preghiera per il Sinodo dei Vescovi sarà un tesoro prezioso che arricchirà la Chiesa. Vi
ringrazio, e vi chiedo di pregare anche per me, perché possa
servire il Popolo di Dio nella verità e nella carità. La protezione della Beata Vergine Maria e di san Giuseppe accompagni sempre tutti voi e vi aiuti a camminare uniti nell’amore e nel servizio reciproco. Di cuore invoco su ogni famiglia la benedizione del Signore.
Francesco
Festa della Presentazione del Signore- 2 Febbraio 2014
Essere insegnanti
che educano!
Discorso del Santo Padre Francesco
ai partecipanti alla plenaria della Congregazione
per l’educazione cattolica (degli istituti di studi),
Sala Clementina, giovedì 13 febbraio 2014.
Signori Cardinali,
Venerati fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
cari fratelli e sorelle,
rivolgo un particolare benvenuto ai Cardinali e Vescovi
nominati di recente Membri di questa Congregazione, e ringrazio il Cardinale Prefetto per le parole con cui ha introdotto questo incontro.
I temi che avete all’ordine del giorno sono impegnativi,
come l’aggiornamento della Costituzione apostolica Sapientiachristiana, il consolidamento dell’identità delle Università cattoliche e la preparazione degli anniversari che cadranno nel 2015, cioè il 50° della Dichiarazione conciliare
Gravissimum educationis e il 25° della Costituzione apostolica Ex corde Ecclesiae. L’educazione cattolica è una delle
sfide più importanti della Chiesa, impegnata oggi a realizzare la nuova evangelizzazione in un contesto storico e culturale in costante trasformazione. In questa prospettiva
vorrei richiamare la vostra attenzione su tre aspetti.
Il primo aspetto riguarda il valore del dialogo nell’educazione. Di recente, avete sviluppato il tema dell’educazione al dialogo interculturale nella scuola cattolica con la pubblicazione di uno specifico documento. In effetti, le scuole e
le Università cattoliche sono frequentate da molti studenti
non cristiani o anche non credenti. A tutti le istituzioni educative cattoliche offrono una proposta educativa che mira allo sviluppo integrale della persona e che risponde al diritto di tutti di accedere al sapere e alla conoscenza. Ma a
tutti ugualmente sono chiamate ad offrire, con pieno rispetto della libertà di ciascuno e dei metodi propri dell’am-
biente scolastico, la proposta cristiana, cioè Gesù Cristo come senso della vita, del cosmo e della storia.
Gesù iniziò ad annunciare la buona novella nella “Galilea
delle genti”, crocevia di persone diverse per razza, cultura e
religione. Tale contesto assomiglia per certi versi al mondo
di oggi. I profondi cambiamenti che hanno portato al diffondersi sempre più vasto di società multiculturali domandano
a quanti operano nel settore scolastico e universitario di
coinvolgersi in itinerari educativi di confronto e di dialogo,
con una fedeltà coraggiosa e innovativa che sappia far incontrare l’identità cattolica con le diverse “anime” della società multiculturale. Penso con apprezzamento al contributo che offrono gli Istituti religiosi e le altre istituzioni ecclesiali con la fondazione e la gestione di scuole cattoliche in
contesti di accentuato pluralismo culturale e religioso.
Il secondo aspetto riguarda la preparazione qualificata
dei formatori. Non si può improvvisare. Dobbiamo fare seriamente. Nell’incontro che ho avuto con i Superiori Generali, ho sottolineato che oggi l’educazione è rivolta ad una generazione che cambia, e che quindi ogni educatore – e tutta
la Chiesa che è madre educatrice – è chiamato a “cambiare”,
nel senso di saper comunicare con i giovani che ha di fronte.
Vorrei limitarmi a richiamare i lineamenti della figura
dell’educatore e del suo compito specifico. Educare è un atto d’amore, è dare vita. E l’amore è esigente, chiede di impegnare le migliori risorse, di risvegliare la passione e mettersi in cammino con pazienza insieme ai giovani. L’educatore nelle scuole cattoliche dev’essere anzitutto molto competente, qualificato, e al tempo stesso ricco di umanità, capace di stare in mezzo ai giovani con stile pedagogico, per
promuovere la loro crescita umana e spirituale. I giovani
hanno bisogno di qualità dell’insegnamento e insieme di valori, non solo enunciati, ma testimoniati. La coerenza è un
fattore indispensabile nell’educazione dei giovani. Coerenza! Non si può far crescere, non si può educare senza coerenza: coerenza, testimonianza.
Per questo l’educatore ha bisogno egli stesso di una formazione permanente. Occorre dunque investire affinché docenti e dirigenti possano mantenere alta la loro professionalità e anche la loro fede e la forza delle loro motivazioni spirituali. E anche in questa formazione permanente mi permetto di suggerire la necessità dei ritiri e degli esercizi spirituali
per gli educatori. E’ bello fare corsi su questo e quell’argomento, ma anche è necessario fare corsi di esercizi spirituali,
ritiri, per pregare! Perché la coerenza è uno sforzo, ma soprattutto è un dono e una grazia. E dobbiamo chiederla!
Un ultimo aspetto concerne le istituzioni educative, cioè
le scuole e le Università cattoliche ed ecclesiastiche. Il 50°
anniversario della Dichiarazione conciliare, il 25° della Ex
corde Ecclesiae e l’aggiornamento della Sapientiachristiana
ci inducono a riflettere seriamente sulle numerose istituzioni formative sparse in tutto il mondo e sulla loro responsabilità di esprimere una presenza viva del Vangelo nel campo dell’educazione, della scienza e della cultura. Occorre che
le istituzioni accademiche cattoliche non si isolino dal mondo, ma sappiano entrare con coraggio nell’areopago delle
culture attuali e porsi in dialogo, consapevoli del dono che
hanno da offrire a tutti.
Carissimi, quello dell’educazione è un grande cantiere aperto, nel quale la Chiesa è da sempre presente con istituzioni e progetti propri. Oggi occorre incentivare ulteriormente
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questo impegno a tutti i livelli e rinnovare il compito di tutti
i soggetti che vi sono impegnati, nella prospettiva della nuova evangelizzazione. In questo orizzonte vi ringrazio per tutto il vostro lavoro, e invoco per intercessione della Vergine
Maria la costante assistenza dello Spirito Santo su di voi e
sulle vostre iniziative. Vi domando per favore di pregare per
me e per il mio ministero, e di cuore vi benedico. Grazie!
«Per conoscere
Gesù non basta
il catechismo»
voi, per te?’ – a Pietro, soltanto si capisce lungo una strada,
dopo una lunga strada, una strada di grazia e di peccato, una
strada di discepolo. Gesù a Pietro e ai suoi Apostoli non ha
detto ‘Conoscimi!’ ha detto ‘Seguimi!’. E questo seguire Gesù ci fa conoscere Gesù. Seguire Gesù con le nostre virtù, anche con i nostri peccati, ma seguire sempre Gesù.
Non è uno studio di cose che è necessario, ma è una vita
di discepolo”. Ci vuole, insiste Papa Francesco, “un incontro quotidiano con il Signore, tutti i giorni, con le nostre vittorie e le nostre debolezze”. Ma, aggiunge, è anche “un
cammino che noi non possiamo fare da soli”. È necessario
l’intervento dello Spirito Santo: “Conoscere Gesù è un dono del Padre, è Lui che ci fa conoscere Gesù; è un lavoro dello Spirito Santo, che è un grande lavoratore. Non è un sindacalista, è un grande lavoratore e lavora in noi, sempre. Fa
questo lavoro di spiegare il mistero di Gesù e di darci questo senso di Cristo. Guardiamo Gesù, Pietro, gli apostoli e
sentiamo nel nostro cuore questa domanda: ‘Chi sono io
per te?’. E come discepoli chiediamo al Padre che ci dia la
conoscenza di Cristo nello Spirito Santo, ci spieghi questo
mistero”.
Alessandro De Carolis
Gesù si conosce seguendolo, prima che studiandolo. Lo
ha affermato Papa Francesco all’omelia della Messa celebrata il 20 febbraio scorso in Casa Santa Marta. Ogni giorno, ha spiegato, Cristo ci domanda “chi” Lui sia per noi, ma
la risposta è possibile darla vivendo come suoi discepoli.
È una vita da discepolo, più che una vita da studioso, che
permette a un cristiano di conoscere davvero chi sia Gesù
per lui. Un cammino sulle orme del Maestro, dove possono
intrecciarsi testimonianze limpide e anche tradimenti, cadute e nuovi slanci, ma non solo un approccio di tipo intellettuale. Per spiegarlo, Papa Francesco prende a modello
Pietro, che il Vangelo del giorno ritrae contemporaneamente nelle vesti di “coraggioso” testimone – colui che alla domanda di Gesù agli Apostoli: “Chi dite che io sia per voi?”,
afferma: “Tu sei il Cristo” – e subito dopo in quelle di avversario, quando ritiene di dover rimproverare Gesù che ha
appena annunciato di dover soffrire e morire, per poi risorgere. “Tante volte”, osserva il Papa, “Gesù si rivolge a noi e
ci domanda: ‘Ma per te chi sono io?’”, ottenendo “la stessa
risposta di Pietro, quella che abbiamo imparato nel catechismo”. Ma non basta: “Sembra che per rispondere a quella
domanda che noi tutti sentiamo nel cuore – ‘Chi è Gesù per
noi?’ – non è sufficiente quello che noi abbiamo imparato,
studiato nel catechismo, che è importante studiarlo e conoscerlo, ma non è sufficiente.
Per conoscere Gesù è necessario fare il cammino che ha
fatto Pietro: dopo questa umiliazione, Pietro è andato con
Gesù avanti, ha visto i miracoli che Gesù faceva, ha visto il
suo potere, poi ha pagato le tasse, come gli aveva detto Gesù, ha pescato un pesce, tolto una moneta, ha visto tanti miracoli del genere. Ma, a un certo punto, Pietro ha rinnegato
Gesù, ha tradito Gesù, e ha imparato quella tanto difficile
scienza – più che scienza, saggezza – delle lacrime, del pianto”. Pietro, prosegue Papa Francesco, chiede perdono a Gesù e nonostante ciò, dopo la Risurrezione, si sente interrogare per tre volte da Lui sulla spiaggia di Tiberiade, e probabilmente – dice il Papa – nel riaffermare l’amore totale per
il suo Maestro piange e si vergogna nel ricordare i suoi tre
rinnegamenti: “Questa prima domanda – ‘Chi sono io per
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www.vews.va – 20 febbraio 2014
Qual è la
grammatica
di Francesco
per la «Buona
Notizia»
Ciò che colpisce innanzitutto nelle omelie pronunciate
dal cardinal Bergoglio al tempo del suo ministero di arcivescovo di Buenos Aires è constatare come il papa di oggi sia
tutto già qui. A leggere queste pagine, infatti, si avverte immediatamente che le parole, i gesti e i temi che si sono imposti in questo primo scorcio di pontificato del vescovo di
Roma si pongono in un’assoluta linea di continuità con lo
spirito, gli obiettivi e il metodo che hanno caratterizzato gli
anni di Bergoglio alla guida della sua diocesi. Egli continua
di fatto, da pontefice, a essere e ad agire come quando era a
Buenos Aires, e anche se adesso gli orizzonti, le responsabilità e i problemi sono più grandi, l’idea di Chiesa e, prima
ancora, il modo nuovo di «essere Chiesa» che papa Francesco vuole affermare sono gli stessi di allora. […] Questo
cammino ha naturalmente come punto di partenza e meta
d’arrivo Gesù Cristo, la stella fissa che illumina le strade
dell’uomo, spalancando davanti ai suoi passi l’orizzonte di
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una speranza che non delude, perché non si tratta di un concetto metafisico, astratto o dogmatico, bensì di una spe-ranza incarnata: il Dio che si fa uomo e assume su di sé tutto il
peso della caducità degli uomini. È appunto que-sta la speranza che libera e salva, nel segno del Cristo crocifisso, morto e risorto.
Il cuore della meditazione di Bergoglio ruota appunto intorno a questa speranza, e alla gioia tutta pasquale che da
essa promana: sta qui, in fondo, l’es-senza dell’annuncio e
della testimonianza da portare al mondo come «buona notizia». Non però mediante una parola che si specchia in se
stessa, ma che esce da sé e diventa gesto d’incontro, condivisione e servizio alla gente. E ciò corrisponde al modo in cui
il vescovo ha sempre concepito il proprio ministero: quello
di essere in primo luogo - per usare le parole di Gio-vanni
Paolo II - «il sacramento della strada». Ossia il ministero di
chi non resta tra le proprie mura e aspetta, ma si mette in
cammino, andando incontro al popolo affidato alle sue cure,
condividendone le fatiche e le speranze, annunciando e testimoniando il Vangelo di sempre nell’oggi dell’uomo. […]
Ci sono a tal fine mentalità e atteggiamenti che occorre rimuovere per entrare in una diversa logica della convivenza
umana. E Bergoglio li denuncia con lucidità e franchezza,
spesso anche con parole dure e forti, veri e propri pugni nello stomaco della coscienza cristiana. Ci si è assuefatti ad esempio, e si partecipa più che si può, all’insaziabile voracità
del potere e del denaro; si è metabolizzata l’idea che, nella
società di oggi, esistono processi economici e sociali ormai
irreversibili e immodificabili nelle loro ferree regole di mercato. Si resta passivi o indifferenti, o si fa poco, contro la xe-
nofobia, i pregiudizi sociali, lo sfruttamento, la tratta delle
persone, l’espropriazione dei diritti degli ultimi (dai poveri
ai mi-granti). Così, sulla base di queste men-talità e atteggiamenti diffusi, spesso la realtà delle persone non solo viene scavalcata, ma resa irriconoscibile, perché quello che
conta alla fine è soltanto ciò che si produce, realizza, guadagna: per sé. Costi quel che costi: per gli altri. […] L’ostacolo
che impedisce di guardare a questi drammi della povertà e
dell’indifferenza che affliggono il mondo è la non-volontà di
mettersi umilmen-te alla scuola di Gesù, per imparare la
sua grammatica dell’amore, senza la quale si resta sempre
all’alfabeto della vita. Alla fine, infatti, tutto si risolve nella
capacità di amare, senza riserve e senza chiedere nulla in
cambio. E anche su questo punto l’autore svolge meditazioni significative e ad ampio raggio. In realtà, se la vita è costitutivamente orientata all’amore e anzi si realizza soltanto attraverso di esso, perché si fa tanta fatica a trovarlo e a
conservarlo?
La risposta è apparentemente semplice: perché la conquista dell’amore, visto nei suoi fondamenti religiosi, etici e
umani e nella complessità delle sue relazioni individuali e
sociali, è un lento quanto faticoso processo di trasformazione e crescita dell’intera persona. Perciò questo processo, nel
lavorio interiore che comporta tappa per tappa, rappresenta un’autentica avventura, che però è necessario correre, se
si vuol davvero imparare ad amare e quindi realizzare se
stessi, diventando più liberi e responsabili, consapevoli di
ciò che si è e del destino a cui si è chiamati.
Lettera-invito
in vista
dell’iniziativa
“La Chiesa
per la scuola”
Queste e tante altre sfide spesso viste come difficoltà da affrontare più che come stimoli alla crescita e al rinnovamento.
Certo occorrono maggiori risorse materiali per affrontare tanti problemi e cogliere queste opportunità. La crisi economica
degli ultimi anni ha impedito che si potesse intervenire come
si sarebbe voluto e dovuto fare. Ma la crisi della scuola non dipende da fattori soltanto economici. È una crisi più profonda
che chiama in causa la responsabilità di ogni cittadino che si
sente convocato e obbligato a contribuire al bene comune,
tanto più urgente quanto meno avvertito.
Per questo motivo è stato avviato un progetto - La Chiesa
per la scuola - con cui la Chiesa italiana vuole testimoniare la
propria attenzione al mondo della scuola, guardando ad esso
nella sua interezza, scuola pubblica statale e scuola pubblica
paritaria, perché tutti i bambini, i ragazzi e i giovani impegnati nel faticoso ma appassionante percorso della propria
crescita meritano la medesima considerazione.
L’incontro del 10 maggio in piazza San Pietro con
Papa Francesco - al quale esprimiamo sin da ora sincera gratitudine - rappresenta un’occasione privilegiata di mobilitazione popolare nella forma di una festa insieme. Essa manifesterà a tutti, una volta di più, l’interesse e l’azione della
Chiesa per il mondo della scuola, che da Roma ripartirà con
rinnovate motivazioni ed energie.
La scuola, infatti, è un bene di tutti. Come credenti e come
cittadini non possiamo disinteressarcene.
L’annuncio del Vangelo è una proposta intrinsecamente educativa che tende a formare e trasformare le persone parlando alla loro coscienza. Per questo la Chiesa italiana ha voluto dedicare il decennio 2010-2020 all’educazione.
La scuola si trova oggi ad affrontare numerose sfide. La
presenza sempre più numerosa di alunni provenienti da paesi lontani, lo sviluppo rapidissimo delle nuove tecnologie della comunicazione, l’integrazione degli alunni con disabilità
stanno suggerendo alla scuola di ripensare il proprio ambiente di apprendimento e di aggiornare la propria strumentazione didattica.
Giuliano Vigini
Avvenire - 25 febbraio 2014
il Consiglio permanente della Cei
Roma, 28 gennaio 2014, memoria di S. Tommaso d’Agnino
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Scuola
Monsignor
Galantino:
«Basta tagli
alla scuola»
Chi ha a cuore la scuola, tutta la scuola, solo la scuola, senza aggettivi né ideologismi, il 10 maggio in Piazza San Pietro
non potrà mancare. Così come non potranno mancare i genitori che si interessano davvero dei loro figli, i professori che vogliono svolgere bene la propria professione e quanti pensano
che, anche e soprattutto con una scuola all’altezza dei suoi
compiti, potranno essere formati cittadini dotati di spirito critico e dunque immuni dal fascino del primo venditore di fumo
che s ‘ affaccia in tivù o su internet. Il vescovo Nunzio Galantino ne è convinto e riassume così, in questa intervista ad Avvenire, il senso dell’evento annunciato dal cardinale presidente della Cei, Angelo Bagnasco. «Andremo ad ascoltare la voce
del Papa – dice il segretario della Conferenza episcopale italiana –. Non certo a rivendicare finanziamenti per la scuola cattolica». Ma soprattutto, aggiunge, «vogliamo lanciare un segnale politico: la scuola non può essere il bancomat da cui, attraverso i tagli, attingere il denaro da sprecare in altre direzioni».
Eccellenza, qualcuno ha scritto che questa giornata
vedrà scendere in piazza i fedeli per difendere la
scuola cattolica. È proprio così?
Assolutamente no. Innanzitutto sgombriamo il campo da un equivoco che non serve a nessuno. In Italia non c’è una scuola
cattolica e una scuola laica, ma esiste la scuola pubblica statale e la scuola pubblica paritaria. Dunque, il 10 maggio sono invitati tutti coloro che hanno a cuore l’importanza della scuola
per la società e che hanno voglia di liberare la scuola dagli ideologismi. Noi non andremo in piazza San Pietro per dire:
«Vedete quanti siamo? Dateci tutti i soldi che ci spettano». È
vero che lo Stato (e chi non fosse sufficientemente informato)
deve prendere coscienza, una buona volta, del fatto che la scuola pubblica paritaria fa risparmiare 6 miliardi e mezzo e, quando va bene, riceve non più di 500 milioni all’anno. Ma la manifestazione, ripeto, non ha questo scopo.
E allora qual è la sua vera identità?
Andremo in piazza San Pietro per sentirci dire una parola
chiara dal Papa sul tema della scuola. Poiché tutti riconoscono
a Francesco la capacità di dire cose illuminanti e profonde, come Chiesa italiana ci siamo chiesti: «Perché non ascoltare cosa ha da dirci affinché la scuola raggiunga i suoi obiettivi, che
non sono quelli dell’indottrinamento, ma di essere luogo nel
quale formare persone attrezzate criticamente e capaci di progettualità?». Pensiamo infatti che questo sia il momento giusto per ritrovarci e ribadirlo. La scuola non se la passa bene,
anche perché purtroppo i primi tagli che si fanno riguardano
l’educazione.
Quindi, l’invito non è solo ai genitori, agli alunni e ai
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professori delle scuole cattoliche?
L’invito è per tutti, perché la scuola è una. E tutti dobbiamo avere a cuore che raggiunga pienamente il suo scopo. Essa non
può essere luogo per promuovere ideologismi e non è chiamata solo a dare risposte pronte agli studenti. Non è il prêt – à –
porter della vita, ma l’ambiente in cui si offrono gli strumenti
critici necessari per mettere il singolo in condizione di affrontare e di abitare in maniera consapevole e sensata questo mondo. E allora diciamo ai genitori: «Vi interessa il luogo in cui i
vostri figli trascorrono gran parte delle loro giornate? Vi interessa che siano resi capaci di abitare in maniera critica e consapevole il loro tempo? Vi interessa che vengano loro forniti gli
strumenti per non essere preda dell’ultimo avventuriero o
venditore ambulante che va in televisione e dell’ultimo propagandista di talent scout?». E allora la manifestazione del 10
maggio è per voi, come lo è per i professori e per tutto il personale di una scuola che non sia solo un parcheggio di abusivi,
ma abbia la capacità di formare uomini e donne che abitino criticamente la complessità.
Non ci si può nascondere però che un successo numerico della manifestazione sarà interpretato come
un segnale politico...
Se saremo in tanti e se riusciremo ad attirare l’attenzione, anche dei politici, sulla scuola, ben venga. Ma è un segnale politico, lo ripeto, a favore di tutta la scuola. Intendiamoci. Il problema della chiusura delle scuole cattoliche esiste e ne ha parlato anche il cardinale Bagnasco nella sua prolusione al Consiglio permanente della Cei di gennaio. E questo non è un fatto
irrilevante, perché un genitore deve essere libero di scegliere il
luogo in cui suo figlio si forma. Ma non è questo il segnale politico che si intende dare, quanto il far crescere in tutti i fruitori della scuola una visione meno ideologizzata, perché oggi la
malattia mortale della scuola, a destra come a sinistra, è la sua
riduzione a ideologia. Allora, se il 10 maggio, anche grazie alle
parole del Papa, chi ci amministra capirà che abbiamo bisogno
di una scuola libera e capace di formare; e se chi di dovere comprenderà che non si può fare della scuola il bancomat dal quale andare a sottrarre continuamente risorse per poterle sprecare in altri ambiti, noi avremo ottenuto un grande risultato
politico, ma nel senso più nobile del termine, cioè di amore alla polis.
Scuola, lavoro, famiglia e dunque vita sono stati anche i temi del Consiglio permanente. Che cosa è emerso?
È emersa tra noi in modo ancora più netto la consapevolezza
che non si tratta di singoli capitoli di un libro, ma di ambiti collegati e interconnessi che potranno crescere e svilupparsi solo
se li affronteremo con un progetto unico. Prendiamo ad esempio la Giornata della vita. Non riduciamola soltanto a un tema
che riguarda l’inizio e la fine della vita. Sono convinto che questa giornata verrebbe guardata con maggior favore e troverebbe tantissima accoglienza, se cominciassimo a parlare anche
della qualità della vita. Perché è chiaro che dobbiamo preoccuparci degli aborti e dei tentativi più o meno subdoli di far passare l’eutanasia, ma ci preoccupiamo anche della gente che
purtroppo non vive ma sopravvive. Allora, in questa giornata
non dobbiamo tendere solo ad aggiungere anni alla vita, ma vita agli anni. Cioè, appunto, lavorare per la qualità della vita
che è frutto di una scuola seria, di una famiglia sana e di un lavoro dignitoso. Se infatti non lavoriamo in questa direzione,
chiunque potrebbe dire: «Ma perché mettere al mondo i figli,
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se poi non vale la pena di vivere?». E nella qualità della vita c’è
anche la questione lavoro? Sicuramente. E il Consiglio permanente ha detto una cosa interessantissima che tra l’altro ci fa
tornare al tema della scuola. È finito il tempo in cui il lavoro lo
si riceveva per tradizione di famiglia. Oggi serve progettualità.
Ed ecco che una scuola all’altezza del suo compito educativo
deve stimolare la progettualità dei ragazzi. Come si vede tutto
è collegato. E dobbiamo ragionare in virtù di questi collegamenti. Al contrario continueremo a piangere perché si nega la
vita, non si vuole la famiglia, non c’è lavoro e la scuola va male. Invece lo sforzo deve essere quello di mettere insieme queste polarità.
Poco più di un mese fa la sua nomina a segretario generale. Ma continuerà anche ad essere vescovo di
Cassano all’Jonio. Come vive queste due realtà?
Non sono nuovo a queste “pazzie”. Ero parroco e insegnavo all’università. L’ho fatto per 36 anni. A un certo punto ero parroco, insegnavo e guidavo un ufficio della Cei. Questo un po’
mi deriva dalla mia storia familiare, perché appartenendo a
una famiglia numerosa, mio padre non aveva i soldi per tenermi in seminario e allora d’estate mi toccava procurarmi i soldi. Dunque il doppio incarico è un po’ nel mio Dna e sono felice che il Papa abbia acconsentito alla mia esplicita richiesta,
perché l’impegno pastorale diretto mi ha sempre aiutato a
svolgere bene anche gli altri compiti. Spero che questo avvenga anche ora.
L’ora di religione
a scuola
L’ignoranza religiosa, non è un tesoro per nessuno, nemmeno per il non credente, che viene semplicemente esposto ad
una serie di brutte figure. Se poi si considera anche la fuga dalle grandi domande di senso che l’ora di religione offre ai suoi
studenti, ecco che questa mutilazione culturale diventa anche
una mutilazione esistenziale. Pasolini amava dire: ogni domanda lasciata senza risposta finirà prima o poi per colpirci alle spalle. Tutte le famiglie e tutti gli educatori dovrebbero perciò operare in modo da incoraggiare la partecipazione attiva all’ora di religione che la scuola offre.
Spesso, invece, si assiste al fenomeno di giovani che in oratorio svolgono il ruolo di animatori o addirittura di aiuto-catechisti ma a scuola non si avvalgono dell’Irc per avere un’ora
d’impegno in meno. Gli studenti che al contrario hanno scelto
di avvalersi si accorgono di quanto sia preziosa quest’ora per
la loro formazione culturale ed esistenziale, e se ne affezionano così tanto da considerarla la loro materia preferita prolungandone la scelta anche negli anni successivi o invitando alla
partecipazione altri compagni.
Le ultime statistiche parlano di una cifra altissima di avvalentesi in Italia: quasi il 90% per cento degli studenti! Naturalmente la cifra riguarda la media nazionale, e di tutte le
scuole di ogni ordine e grado: dalla scuola per l’infanzia alle superiori. Questo anche grazie alla nostra Costituzione che recepisce il Concordato e di conseguenza “il valore della cultura religiosa” per tutti i cittadini.
Dal canto suo, la Chiesa afferma che “l’insegnamento della
religione cattolica è un servizio educativo a favore delle nuove
generazioni, volto a formare personalità giovanili ricche di interiorità, dotate di forza morale e aperte ai valori della giustizia, della solidarietà e della pace, capaci di usare bene della
propria libertà. Esso intende rispondere alle domande della
persona e offrire la possibilità di conoscere quei valori che sono
essenziali per sua formazione globale” (CEI, Nota Pastorale
del 19.05.91, n.4). Recentemente i nostri pastori hanno affermato che “i giovani domandano di essere felici e chiedono di
coltivare sogni autentici. L’Irc a scuola è in grado di accompagnare lo sviluppo di un progetto di vita, ispirato dalle grandi
domande di senso e aperto alla ricerca della verità e alla felicità” (Messaggio della Presidenza Cei in vista della scelta di avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica nell’anno
scolastico 2013-2014).
“La scuola fa parte propriamente delle strutture civili... Interessa la catechesi nella misura in cui anche le umane istituzioni possono essere ordinate alla salvezza degli uomini e concorrere alla edificazione del Corpo di Cristo” (Il Rinnovamento della Catechesi, CEI, n.154).
L’ora di Religione Cattolica a scuola ha una natura diversa
dall’ora di catechismo svolta in parrocchia; ha infatti come fine la cultura e non la fede. Tuttavia non può esistere fede senza una autentica cultura della fede, senza cioè conoscere i contenuti in cui credere. Quando la Chiesa afferma che anche le
umane istituzioni, come la scuola, concorrono alla salvezza degli uomini, intende che la persona è una realtà tutta intera,
fatta di cuore e ragione, fede e cultura, e pertanto va salvata
integralmente. Anzi, la Chiesa ci dice che “la formazione integrale dell’uomo e del cittadino, mediante l’accesso alla cultura, è la preoccupazione fondamentale” (DB n.154).
Tutta la scuola concorre certamente a questa formazione
integrale della persona, ma l’ora di religione scolastica concorre in modo particolare, in quanto “l’educazione della coscienza religiosa si inserisce in questo contesto come dovere e diritto
della persona umana che aspira alla piena libertà” (DB n.154).
Non può infatti esistere piena libertà senza la conoscenza. Perché si sia pienamente liberi di scegliere, occorre prima conoscere. Perfino il nostro “no” è veramente libero solo dopo aver
conosciuto. Inoltre, la cultura religiosa permette ad ogni cittadino (e non solo ai credenti) di possedere gli strumenti adeguati per la sua completa formazione ed il suo futuro lavoro.
Sono sotto gli occhi di tutti gli strafalcioni commessi quotidianamente da educatori, giornalisti o giuristi, a seguito di una
scarsa cultura religiosa, soprattutto in una terra come la nostra così intrisa di tradizioni, così ricca di arte e letteratura religiosa, e così fondata sui delicati equilibri anche giuridici tra
libertà religiosa e diritto dello Stato. Ecco perché è un grande
controsenso non avvalersi dell’insegnamento di Religione a
scuola: lo studente che non si avvale termina il suo percorso
scolastico con un grave vuoto conoscitivo, che più volte peserà
nella sua vita.
Mimmo Muolo
Avvenire.it - 3 febbraio 2014
Stefano Biavaschi
[email protected]
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Attualità
«Teoria del
gender via da
scuola. Quegli
opuscoli sono
a senso unico»
Bloccare la distribuzione nelle scuole degli opuscoli dell’Unar sull’omofobia che, come spiegato su Avvenire di martedì, oltre a rappresentare l’ennesimo tentativo di introdurre in classe l’ideologia del gender ispirata dalle lobby gay
e Lgbt (lesbiche, gay, bisessuali e transgender), contengono
inaccettabili giudizi sulla religione cattolica. La richiesta al
Governo, arriva da sei senatori del Nuovo Centrodestra
(Carlo Giovanardi, Maurizio Sacconi, Roberto Formigoni,
Luigi Compagna, Federica Chiavaroli e Laura Bianconi),
che hanno presentato un’interpellanza al presidente del
Consiglio, Enrico Letta. Nell’interpellanza, i sei senatori
chiedono di conoscere i motivi per cui l’Unar (l’Ufficio nazionale antidiscriminazione razziale), organismo del Dipartimento Pari opportunità, ha scelto, quale consulente
per la redazione del materiale da diffondere nelle scuole
(elementari, medie e superiori) proprio l’Istituto Beck, «la
cui scuola di pensiero è clamorosamente di parte».
Per trovare conferma di questo giudizio è sufficiente visitare per pochi minuti il sito internet dell’istituto. Alla sezione “Centro studi sull’omosessualità”, oltre a leggere che
«i rapporti omosessuali sono naturali», si trova la seguente
affermazione: «Un pregiudizio diffuso nei Paesi di natura
fortemente religiosa è che il sesso vada fatto solo per avere
bambini. Di conseguenza tutte le altre forme di sesso, non
finalizzate alla procreazione, sono da ritenersi sbagliate».
Con premesse di questo tipo, è chiaro dove vogliano andare
a parare gli estensori del materiale didattico, di cui adesso i
senatori del Ncd chiedono sia bloccata la diffusione.
«Tali giudizi, o meglio pregiudizi - si legge ancora nell’interpellanza - sono stati inseriti nei tre opuscoli con l’ennesima, inaccettabile critica al ruolo educativo della famiglia e
della morale cristiana, confondendo la lotta all’omofobia
con inaccettabili ed offensivi apprezzamenti negativi sul
ruolo di istituti fondamentali nella storia e nella cultura del
nostro Paese».
La manovra di accerchiamento dell’Unar nei confronti
delle scuole, di cui questo degli opuscoli è soltanto la più recente manifestazione, è cominciata circa un anno fa, con la
diffusione della “Strategia nazionale per la prevenzione e il
contrasto delle discriminazioni basate sull’orientamento
sessuale e sull’identità dei genere”. Preparata con la consulenza di ben 29 associazioni di omosessuali e senza nemmeno interpellare realtà associative molto più numerose e
rappresentative della società italiana, come per esempio il
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Forum delle associazioni familiari, la Strategia in questione, dichiarando l’intenzione di contrastare il «bullismo omofobico e transfobico» nelle scuole, in realtà è preoccupata del fatto che «le tematiche Lgbt trovano spazi marginali
nelle aule scolastiche o sono relegate a momenti extra curricolari». Come se fosse una colpa di insegnanti, studenti e
famiglie, non considerare prioritarie le «tematiche Lgbt».
Rivelatrice della strumentalità di queste posizioni, è anche
una recente dichiarazione del presidente di Arcigay Milano,
Marco Mori, che in un’intervista si lamentava delle «pochissime richieste» arrivate dalle scuole, nonostante l’associazione omosessuale si fosse dichiarata pronta a distribuire
a scolari e studenti i kit didattici gratuiti del progetto europeo Raimbow. Proposta che in molte scuole ha, anzi, suscitato l’indignazione di genitori e insegnanti.
Questi interventi, sempre stando alla Strategia targata
Unar - che, è utile ricordare, secondo il Dpcm 11 dicembre
2011 «deve operare in piena autonomia di giudizio ed in
condizione di imparzialità» - dovrebbero «cominciare dagli
asili nido e dalle scuole dell’infanzia». È a partire da qui che
si dovrebbe «costruire un modello educativo» in grado di
«garantire un ambiente scolastico sicuro e friendly» per i
giovani Lgbt. Obiettivo da raggiungere attraverso la formazione di «docenti, dirigenti e alunni» sulle «tematiche Lgbt
e sui temi del bullismo omofobico e transfobico», da affidare, naturalmente, alle stesse associazioni Lgbt di cui deve essere «valorizzato l’expertise». Tra le “materie” di questi corsi di aggiornamento - obbligatori per gli insegnanti e
per i quali la legge “L’istruzione riparte” ha messo a disposizione 10 milioni di euro - ci sono le «nuove realtà familiari,
costituite anche da genitori omosessuali» e «laboratori di
lettura» per arricchire il «glossario Lgbt che consenta un
uso più appropriato del linguaggio». E tutto questo mentre
in Parlamento si sta discutendo una proposta di legge sul
contrasto all’omofobia, che prevede pene severe per coloro
che, in futuro, oseranno ancora sostenere, come per altro dice la stessa Costituzione italiana, che famiglia è soltanto
quella società naturale fondata sul matrimonio tra un uomo
e una donna. E non altro.
Paolo Ferrario
Gender in
classe: mondo
capovolto
Negli opuscoli diffusi nelle scuole
proposte che disorientano e confondono.
«Educare alla diversità a scuola»: tre volumetti prodotti
dal Dipartimento per le Pari opportunità (dipende dalla
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Attualità
presidenza del Consiglio dei ministri), dall’Unar (Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali) e dall’Istituto Beck. È
diretto alle scuole primarie, alle secondarie di primo grado
e a quelle di secondo grado. In teoria dunque tre guide intenzionate a sconfiggere bullismo e discriminazione, garantendo pari diritti a tutti gli studenti. In realtà - a leggerne i
contenuti - una serie di assurdità volte a «instillare» (questo
il termine usato) nei bambini fin dalla tenera età preconcetti contro la famiglia, la genitorialità, la fede religiosa, la
differenza tra un padre e una madre... Al loro posto un relativismo che non lascia scampo ad alcun valore. Il tutto mascherato da rispetto per le diversità (quando invece si cerca
di omologare tutto, raccomandando persino di appiattire la
preferenza nei maschi per il calcio o la Formula 1 rispetto
alle femmine) e per diritto alla propria identità (quando viene negata anche quella di uomo e donna, trattati come pura astrazione).
Ma che uso fare dei tre volumi? Quale il loro effettivo destino? C’è il rischio che la dittatura del gender entri prepotentemente - così come auspicato nel testo - nelle aule dei
nostri figli e ne influenzi pesantemente la crescita armonica? «Dal punto di vista puramente tecnico si tratta di materiali didattici che l’ufficio delle Pari opportunità mette a disposizione di insegnanti e studenti - spiega Roberto Pellegatta, preside dell’Istituto professionale statale “Meroni” di
Lissone (Milano) -, dunque necessita assolutamente del parere concorde di docenti e genitori, come avviene per i libri
di testo e per qualsiasi materiale didattico. Poiché va nelle
mani dei ragazzini, esige obbligatoriamente il parere del
consiglio di classe e la votazione del collegio».
Non tocca al preside proporre tali testi, ma all’insegnante, nella piena libertà di insegnamento prevista dalle norme. «Io sono preside alle superiori - aggiunge -ma mi sono
confrontato anchecon i colleghi delle medie e delle elementari e a nessuno pare materiale appropriato per la scuola:
potrebbe essere adottato solo laddove qualche singolo docente volesse agitare posizioni molto ideologiche e usarlo come strumento di battaglia». L’ufficio delle Pari opportunità,
infatti,presenta i tre volumetti come ausilio contro il bullismo e la discriminazione, «ma nei contenuti è evidente la
battaglia ideologica. Lascia il tempo che trova e io penso che
non valga nemmeno la pena contrastare un’operazione tanto lontana dalla realtà. Ciò che preoccupa invece è che sia
stato prodotto spendendo soldi dell’Unione Europea: era lì
che bisognava contrastare il progetto».
Tutta colpa delle fiabe. «A un bambino è chiaro da subito che, se è maschio, dovrà innamorarsi di una principessa,
se è femmina di un principe. Non gli sono permesse fiabe
con identificazioni diverse». Così si legge nell’introduzione
al volume Educare alla diversità rivolto ai bambini delle elementari. In effetti è vero: sono millenni che gli dei si innamorano delle dee, che i cavalieri combattono per le donzelle, che Cenerentola balla col principe e Biancaneve si risveglia al bacio di un uomo... Siamo tutti cresciuti con queste certezze, e tutto sommato non siamo venuti su male (o
non per questo, comunque). Eppure a leggere l’introduzione alle linee guida per “insegnanti rispettosi delle differenze”, nonché le schede di lavoro da svolgere con i bambini,
tanta omofobia causa confusione mentale tra i piccoli.
«Questi sono gli armi in cui i bambini di solito cominciano a
formarsi un’idea di se stessi e delle persone che li circondano», dunque occorre «incoraggiare la diversità»: spesso i genitori e la scuola sono legati agli «stereotipi» della famiglia
formata da un padre uomo e una mamma donna e «come
risultato molti bambini trascorrono gli anni della scuola elementare senza accenni positivi alle persone lGBT» (lesbiche, gay, bisessuali e transgender). Ma c’è di peggio, avverte il testo: «Nella nostra società si da per scontato che l’orientamento sessuale sia eterosessuale e la famiglia, la scuola, gli amici si aspettano, incoraggiano e facilitano un
orientamento eterosessuale»... Errori magari compiuti in
buona fede, ma proprio per questo ecco pronte le linee guida che rieducano prima gli insegnanti con una serie di esercizi, per poi crescere i bambini nella consapevolezza che i
due generi maschio e femmina sono roba vecchia, così come
il concetto di famiglia (al singolare), di madre e padre e via
andare.
E i due re vissero felici e contenti
Ecco allora le linee guida per i maestri: attraverso la letteratura, il cinema o invitando ospiti gay o trans, dimostrare ai bambini che ci sono «uomini e donne, così come famiglie, diversi» da quello che viene liquidato non come «stereotipo da pubblicità» (a questo è ridotta la famiglia!). Al
bando quindi tutta la letteratura per bambini, dalle fiabe a
Pinocchio, ma anche Bambi o gli Aristogatti (materiale
chiaramente omofobo)? E ancora: «Non usare analogie che
facciano riferimento a una prospettiva eteronormativa»,
cioè che sottintenda anche involontariamente «che l’eterosessualità sia l’orientamento normale»: insomma, vietato
insinuare ad esempio che il re torna a casa dalla regina: «Tale punto di vista può tradursi infatti nell’assunzione che un
bambino da grande si innamorerà di una donna e la sposerà» (gravissimo periglio). Guai poi all’insegnante che si aspetti che gli studenti di sesso maschile siano ad esempio
più interessati «alla Formula 1»: la parola d’ordine è appiattire le differenze, uniformare, negare l’evidenza, incoraggiare le femmine a tirare di pallone e i maschi a parlare
intanto «di cucina o di shopping».
Il maestro è invitato a combattere l’omofobia in modo interdisciplinare, anche nei problemini di aritmetica: «Rosa e
i suoi due papà comprano due lattine, se ogni lattina costa 2
euro quanto hanno speso?». Difficile credere che tutto questo non sia uno scherzo. Incredibili poi le domande-tipo:
«Un pregiudizio diffuso nei Paesi di natura fortemente religiosa è che il sesso vada fatto solo per avere bambini»...
Poiché invece la cosa che conta è il rispetto del partner coinvolto nell’atto sessuale (lo ricordiamo, siamo elle elementari!) «potremmo ribaltare la domanda chiedendoci: i rapporti sessuali eterosessuali sono naturali?». Gradatamente
il mondo è capovolto. Non è chiaro che fine potrebbero fare
a questo punto l’Odissea, con Penelope instancabilmente
donna, moglie e madre, o I Promessi Sposi, biecamente tradizionali (con l’aggravante della fede, visto che il testo colpisce spesso la religiosità come causa di atteggiamenti chiusi e retrogradi). «Visione di film e documentari a tematica omosessuale» completano il quadro, mentre «cartoncini, pastelli, matite colorate» non servono più agli antichi lavoretti di un tempo (ricordate?) ma per cartelloni del tipo «che cosa fa una famiglia quando ci sono due mamme o due papà?».
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Attualità
Per obiettività occorre dire che i passaggi contro il bullismo sono assolutamente condivisibili, ma non si capisce
perché solo in tema di omosessualità: e i bimbi presi di mira perché credenti? Derisi perché vanno a Messa e fanno pure il chierichetto? O quelli disabili? Il ministero della Pari
opportunità non pensa a delle Linee guida per loro? O non
siamo tutti uguali e con pari diritti?
Etero, cioè non normale
Passando alle scuole medie e alle superiori, «coloro che
durante questo periodo di sviluppo si accorgono di essere
gay, lesbiche o bisessuali» si trovano a sostenere sfide «peculiari del loro orientamento», dunque i loro insegnanti devono attrezzarsi perché non basta «essere gay-friendly», è
necessario «essere gay-informed». E su questo modulare
l’insegnamento scolastico. La metodica è sempre quella prevista per le elementari: non proporre mai situazioni in cui si
presume che un uomo ami una donna, due genitori siano
maschio e femmina, il libro o il film presentino come «normale» un rapporto etero anziché come «solo uno dei possibili orientamenti sessuali». E se di nuovo sono ovvie e condivisibili tutte le raccomandazioni contro violenza e bullismo (e
ci mancherebbe pure), il resto è un groviglio di attività e concetti del tutto slegati dalla vita reale e da quella scolastica.
Gli autori dimenticano che qualsiasi problematica di un alunno - etero o omosessuale che sia - da che mondo è mondo
richiede tutta l’esperienza e la capacità introspettiva del docente, mentre qui sembra che esista esclusivamente la sensibilità del ragazzo omosessuale: gli altri possono tranquillamente crescere e maturare imparando che i due sessi sono
un’astrazione, così come la famiglia e tutto ciò che ne consegue (i figli, il matrimonio), che tutto è relativo.
Le attività con i ragazzini delle medie (11-14 anni) vanno
da “Famiglie in tv” (oggi c’è solo l’imbarazzo della scelta, comunque «l’insegnante consiglia Giudice Amy; Modernfamily; Tutto in famiglia... »); a “Il gioco delle associazioni di
parole” («Cosa vi viene in mente quando dico le parole gay,
lesbica, bisessuale, trans?», chiede il prof); al “Gioco dei fatti e delle opinioni”: «Uno studente può dire che due uomini
che fanno l’amore sono disgustosi - queste le istruzioni -. A
quel punto l’insegnante fa notare che questa è un’opinione,
un giudizio personale, derivata dal fatto che siamo poco abituati a questo dal cinema e dalla televisione»: «È un fenomeno che per noi non è stato reso normale», nulla più. Va da
sé che «milioni di bambini crescono con genitori omosessuali» e sono beatissimi, (se ne desume che nozze gay e
adozione di figli sarebbero sacrosanti): «L’impossibilità di
sposarsi può avere un impatto sul benessere dei genitori e
conseguentemente dei figli», altrimenti felicissimi di avere
due papà o due mamme.
Per le superiori il tutto si ripete pressoché identico, e questa sì è un’astrazione, che non tiene conto di quanto un
12enne sia diverso da un 18enne: stessi giochi, stesse attività, persino stessi film proposti. Ad esempio “Kràmpack”
(regia di Cesc Gay, e non è un gioco di parole): «Meo e Dani
sono due ragazzi 16enni che si apprestano a trascorrere le
vacanze insieme. E l’estate della perdita della verginità. I
due in passato avevano condiviso giochi di masturbazione
reciproca...». Se questa è scuola.
Lucia Bellaspiga
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Lettera della
Associazione
Italiana
Genitori della
Lombardia
Milano, 1 marzo 2014
Ai Presidenti dei Consigli di Circolo/Istituto della
Lombardia
Oggetto: Le discriminazioni e la loro prevenzione
Buongiorno,
innanzitutto ci presentiamo: siamo genitori impegnati
nell’AGe, l’Associazione dei Genitori, che opera dal 1968 in
tutta Italia per dare voce ai genitori riguardo all’educazione
dei figli, in famiglia e a scuola.
Vi scriviamo perché ci risulta che anche nella nostra Regione si stia dando attuazione al documento “Strategia
Nazionale per la prevenzione e il contrasto delle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e
sull’identità di genere”.
Questo documento, le cui indicazioni possono essere attuate all’interno di Progetti apparentemente consueti , come la prevenzione del bullismo o altro (i quali a loro volta
possono godere di finanziamenti pubblici), in determinati
contesti è stato utilizzato per introdurre nelle scuole l’ideologia “gender” (*) e le tematiche LGBT (lesbiche, gay, bisessuali e transessuali), talora con esemplificazioni fin troppo concrete e dettagliate.
Come genitori siamo favorevoli ad azioni formative per la
prevenzione di qualsiasi forma di discriminazione, ivi incluse quelle relative agli orientamenti sessuali: i suicidi di giovani, vittime della cattiveria di compagni, o anche solo la loro emarginazione, non possono non colpirci dolorosamente
come genitori.
Purtroppo però, dietro a questi giusti obiettivi, si affacciano anche scopi ben diversi, neppure tanto nascosti, come
quello di “far conoscere nuove realtà familiari, superare il
pregiudizio legato all’orientamento affettivo dei genitori”
(dalla Strategia citata).
Non possiamo accettare che la modalità affettiva dei genitori comunemente conosciuta come base per la famiglia e
la procreazione, sia considerata un “pregiudizio” o comunque sia messa alla pari con altre “modalità”, pur legittime a
livello personale.
L’obiettivo di questa lettera è quello di dare voce alle
molte perplessità delle famiglie coinvolte nei vari progetti e
anche quello di consentire ai Consigli di Circolo e d’Istitu-
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Attualità
to e ai singoli genitori di operare scelte oculate, sapendo
che:
1. Il documento citato non ha alcun valore di legge e non
può quindi essere presentato come un obbligo, a cui le scuole debbano sottostare, di fare corsi agli alunni. Di fatto, esso contiene numerose mancanze e violazioni di diritti e per
questo è stato oggetto di una diffida (18/12/2013) da parte
dell’associazione “Giuristi per la vita”.
2. Il documento è palesemente incompleto perché manca
qualsiasi riferimento alla responsabilità dei genitori, il cui
ruolo nell’educazione, ed in particolare su un tema educativo così importante e delicato, è riconosciuto dalla Costituzione e da tutte le leggi sulla scuola; esso non rispetta neppure la raccomandazione europea, che a questo proposito
recita: “Tali misure dovrebbero tenere conto del diritto dei
genitori di curare l’educazione dei propri figli” (CM/Rec
(2010) 5 del Consiglio d’Europa)
Invitiamo tutti i Presidenti dei CdC/CdI a vigilare ed a
porgere la massima attenzione a questi temi così delicati: è
in gioco infatti il diritto dei genitori, garantito dalla Costituzione, di educare i propri figli (art. 29).
Vi chiediamo infine di distribuire questa lettera agli altri
genitori, per mettere a fuoco queste tematiche e condividere una linea d’azione comune.
L’AGe è a vostra completa disposizione per assistervi o darvi ulteriori informazioni.
Siamo anche disponibili a venire nella vostra scuola per
illustrare il ruolo dei genitori e anche per proporre i nostri
cicli di “Scuola Genitori AGe”. Potete trovare tutti i nostri
recapiti sul sito dell’A.Ge. Nazionale www.age.it alla pagina
“Associazioni locali”.
Augurandoci che questo possa essere l’inizio di una fattiva collaborazione, porgiamo a voi ed a tutti i genitori da voi
rappresentati i nostri più cordiali saluti.
Paolo Ferrentino
Presidente AGe Lombardia
3. L’unica legge che regola i corsi tenuti nella scuola agli
alunni da parte di esterni è quella dei Decreti Delegati (ora
D.Lgs. 297/1994) che, come noto, stabiliscono che essi debbano essere approvati dal Consiglio di Istituto.
Questo è il punto base irrinunciabile: se siete a conoscenza di corsi o incontri su questi temi tenuti agli alunni da
soggetti esterni senza la preventiva approvazione del
CdC/CdI, del Collegio Docenti e dei Consigli di classe, in accordo con la componente dei genitori, vi preghiamo di segnalarcelo con urgenza. L’A.Ge. si farà carico di denunciare
il tutto alle Istituzioni competenti.
4. In una materia così delicata, non può neppure essere
sufficiente un’approvazione formale, magari alla fine della
riunione.
Soprattutto a livello di primo ciclo (infanzia, primaria,
secondaria di 1° grado) il tema deve essere dibattuto a fondo fra i genitori della classe/scuola, o con le loro Associazioni riconosciute, o nei Comitati genitori dove questi esistono,
in modo che il CdC/CdI possa deliberare sapendo qual è il
desiderio della maggioranza dei genitori di quella scuola.
5. I genitori devono conoscere in anticipo i contenuti degli incontri ed anche partecipare alla loro organizzazione, se
lo ritengono opportuno; inoltre devono avere facoltà di chiedere che il loro figlio non vi partecipi, senza alcuna discriminazione che ne consegua.
I genitori devono esigere che per le attività di educazione
affettiva, essendo esse aggiuntive rispetto alle attività curricolari, sia preventivamente recepito il consenso delle singole famiglie.
6. Anche nel caso che l’argomento fosse trattato dai docenti della scuola, riteniamo necessario che i genitori ne siano informati e possano dare il loro contributo.
7. Infine, poiché è prevista la distribuzione gratuita di opuscoli su questi temi, dobbiamo esigere che sia osservata la
disposizione che prevede il consenso preventivo dei rappresentanti dei genitori nei Consigli di classe, interclasse o intersezione, nonché l’approvazione del Consiglio di Circolo/Istituto.
(*) Per quanto abbiamo potuto capire, l’ideologia di genere (gender) nega che esista una identità sessuata oggettiva e
sostiene che l’identità sessuale è il risultato di sovrastrutture culturali e sociali da abbattere.
NB: potete contattare anche il responsabile Marco D’Adda:
[email protected]
«Omologare
i genitori?
Non è solo una
questione
burocratica»
Per Eugenia Scabini, presidente del Comitato
scientifico del Centro di ateneo studi e ricerche
sulla famiglia della Cattolica, la modifica inserita
nei moduli di iscrizione nelle scuole dell’infanzia e
nei nidi, è un «problema culturale».
«È un passo verso l’indistinzione, rendere identici aspetti che sono diversi. Di fronte a casi di bambini in una
certa situazione andranno risolti problemi specifici. Ma
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non capisco perché si inserisca un elemento che ha una
portata culturale ben più ampia, perché questo vuol dire
mettere nell’indistinto il padre e la madre, il paterno e il
materno. È un’operazione culturale molto seria e non può
essere barattata così per una questione burocratica. Allora bisogna avere il coraggio di affrontarla nel suo fondamento. Ritengo che sia una tattica, una piccola furbizia
per raggiungere passo per passo un certo obiettivo».
Eugenia Scabini è presidente del Comitato scientifico
del Centro di ateneo studi e ricerche sulla famiglia dell’Università cattolica e professore a contratto di Psicologia dei legami familiari. E riflette sulla vicenda della modifica della voce padre-madre con genitore-genitore nei
moduli di iscrizione nelle scuole dell’infanzia e dei nidi del
Comune di Milano. Un cambio messo in atto dalla consigliera del Pd Rosaria Iardino con l’appoggio dell’assessore all’Educazione Francesco Cappelli, applicando la delibera sul registro delle unioni civili che tanto aveva fatto
discutere in passato.
Dunque, professoressa Scabini la scelta non può
essere considerata una mera questione di burocrazia...
Queste scelte hanno un’ideologia dietro, perché altrimenti non si capirebbe che si abbia il tempo per fare queste iniziative quando siamo tutti affannati da gravi problemi
urgenti, non solo economici, ma relativi a servizi necessari per la famiglia e per l’infanzia.
Anche perché pare che la questione riguarderebbe non più di 13-14 bambini...
Di fronte a un problema specifico allora si studia una risposta specifica. Non perché c’è questa situazione si rivoluziona tutto, rendendo evanescente il fatto di essere un
padre e una madre: c’è un genitore concreto e specifico con
una funzione che si ha in quanto padre e madre, non genericamente. Sappiamo che in Europa si parla di genitore
A e B; questa milanese sarà una soluzione di compromesso, immagino. Per non arrivare a quella posizione estrema,
si incomincia da questa indistinzione.
Un percorso culturale che suscita dibattito...
Si va verso una posizione nella quale le differenze - che sono dell’umano, proprio del tipo maschio/femmina, uomo/donna, padre/madre - vengono annacquate. Ed è il problema culturale odierno: si annega in un’omologazione generale quando nella realtà invece c’è questa differenza.
Il provvedimento è stato giustificato anche come
applicazione del registro delle unioni civili…
Questo registro delle unioni civili non è così neutro come
viene presentato, ma in realtà ha poi implicazioni che toccano tutti, qualsiasi genitore che iscrive un bambino a
scuola. È diventata una scelta imposta a tutti senza discussione. Questo passaggio non è neanche democraticamente così corretto. Mi pare che la portata vada ben oltre
questo piccolo gruppetto di bambini.
Pino Nardi
www.incrocinews.it – 14 febbraio 2014
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Gender
e la scelta
delle famiglie
La legge 128/2013 contiene una novità sorprendente: a distanza di una ventina d’anni rende obbligatorio l’aggiornamento degli insegnanti e per di più per “l’aumento delle competenze relative all’educazione all’affettività, al rispetto della diversità e alle pari opportunità di genere e al superamento degli stereotipi di genere”.
Se l’obbligatorietà per legge causa problemi ai sindacati,
qualche preoccupazione suscita tra i genitori il coinvolgimento obbligatorio degli insegnanti nell’educazione all’affettività. Sappiamo come l’argomento sia delicato e come coinvolga i valori fondamentali che reggono le diverse convivenze familiari. Se a questo si aggiunge anche la specificità del
“rispetto della diversità, le pari opportunità di genere e il superamento degli stereotipi di genere” la problematica si fa
quanto mai complessa e per certi versi controversa.
Probabilmente la generalità dei genitori condivide la formulazione generale della legge, ma le differenze culturali diventano consistenti quanto si tenti di puntualizzare i contenuti e i comportamenti conseguenti all’educazione all’affettività e al superamento degli stereotipi di genere. Non è né
scontato né facile stabilire quali siano gli stereotipi e quali
siano le convinzioni, tradizionali magari, ma fondate su visioni rispettabili e legittime della vita. Ne consegue che ci si
chieda: Chi saranno gli aggiornatori? Con quali impostazioni
valoriali? Oppure è’garantito il pluralismo culturale e valoriale tra i docenti come tra le associazioni e gli istituti di formazione? Soprattutto i genitori, titolari dell’educazione dei
figli, avranno voce in capitolo per quanto riguarda l’educazione affettiva dei figli?
Purtroppo la Strategia interministeriale per la prevenzione e il contrasto delle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere (2013 -2015) non fa
alcun riferimento al principio che si deve “tener conto del diritto dei genitori di curare l’educazione dei propri figli” affermato dalla nostra Costituzione e ribadito nella stessa raccomandazione europea, a cui fa riferimento la stessa strategia. Sarà compito delle associazioni sensibilizzare i genitori
perché sopperiscano alla carenza della normativa, vigilando
perché non sia prevaricato il loro diritto di scelta educativa
in ordine ai valori fondamentali tra cui ci sono quelli riguardanti l’affettività e la sessualità.
In pratica i genitori possono esigere che per le attività di educazione affettiva, essendo aggiuntiva rispetto alle attività
curricolari, sia preventivamente recepito il consenso dei singoli genitori, come accade per le attività in alternativa all’insegnamento della religione.
Inoltre, in riferimento agli opuscoli, che stanno per essere
distribuiti, possono esigere che sia osservata la disposizione
che prevede il consenso preventivo dei rappresentanti dei genitori nei consigli di classe o della sezione nonché nel Consiglio di istituto ( art. 88 del D.Lgs 297 – 1994). Infatti le istitu-
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zioni democratiche possono proporre, ma non imporre strategie educative o libri da leggere, senza il consenso dei cittadini.
- Anche in riferimento al pluralismo culturale la strategia
interministeriale è gravemente carente, infatti prevedono unicamente che: “ nei corsi di aggiornamento costanti che
rientrino nel Piano nazionale di aggiornamento; … ci sia la
collaborazione con associazioni LGBT (Lesbiche, gay, bisessuali, transessuali), associazioni di categoria e studentesche;
valorizzando l’expertise delle associazioni LGBT in merito alla formazione e sensibilizzazione dei docenti, degli studenti e
delle famiglie, per potersi avvalere delle loro conoscenze”
(Strategia Nazionale gennaio 2013).
Non si fa nessun cenno che possano collaborare anche associazioni di genitori di eterosessuali, quasi che queste non
possano fornire altrettanta “expertise” pienamente legittimata da articoli costituzionali, da leggi e da altre indicazioni
normative.
- Nei prossimi mesi saranno assegnati agli istituti fondi
appositi per corsi di aggiornamento rivolti ai docenti, dove
potranno dare il proprio apporto non solo le associazioni
LGBT ma pure la altre associazioni genitori. Potrebbe riprendere l’esperienza che si protrae da anni in molte scuole
e che vede i genitori intenti a confrontarsi e ad approfondire
problemi educativi negli ambienti scolastici insieme a docenti e studenti.
Giuseppe Richiedei
15 febbraio 2014
Gender
a scuola,
i genitori:
il governo ritiri
la Strategia
«Sono la mamma di un bambino di 10 anni che frequenta
la quinta elementare in una scuola statale di Roma: mi aiuta
a capire quali cambiamenti stanno avvenendo nella scuola all’insaputa delle famiglie?». Questa lettera è giunta nei giorni
scorsi sul tavolo di Roberto Gontero, coordinatore del Forum
delle associazioni dei genitori della scuola (Fonags) e ben rappresenta lo stato d’animo delle famiglie, che si scoprono indifese rispetto all’offensiva delle lobby gay e Lgbt (lesbiche, gay,
bisessuali e transessuali) nelle scuole. Questa mamma dà sfogo al «non poco disagio» creato, a lei e al marito, dalle domande del figlio decenne, di ritorno da una “lezione” su sessualità e omosessualità. «Sia io che mio marito – scrive la
donna – siamo dell’idea che non sia necessario affrontare tali temi con bambini di quinta elementare. E soprattutto siamo indignati perché non ci è stata richiesta alcuna autorizzazione».
Ma chi la doveva richiedere, se la stessa Strategia nazionale messa a punto dall’Unar, cornice istituzionale entro cui
si collocano le iniziative nelle scuole, come questa di Roma, è
stata messa a punto con il contributo di ben 29 associazioni
gay e Lgbt, senza nemmeno coinvolgere il Fonags?
«Il nostro – ricorda Gontero, che è anche presidente dell’Agesc, l’associazione dei genitori della scuola cattolica – è
un organismo consultivo del Ministero dell’Istruzione che,
per legge, deve essere, appunto, consultato. Ci chiedono pareri su tutto, dal bullismo alla didattica digitale, ma su questa questione siamo stati totalmente tenuti all’oscuro. Come
genitori ci siamo sentiti scavalcati».
Il coordinatore del Fonags ha così scritto una lettera all’allora ministro Carrozza, sollecitando l’emanazione di una
circolare urgente alle scuole per chiedere, qualora ci fosse la
necessità di trattare queste tematiche in classe, di farlo solo
dopo aver ricevuto il consenso scritto dei genitori.
«Purtroppo – conclude Gontero – fatti come quello raccontato dalla mamma romana e come i tanti che stanno accadendo in altre parti d’Italia, contribuiscono a frantumare il
patto educativo tra famiglia e scuola, che si fonda sulla fiducia reciproca. Se i genitori, invece, non si fidano più della
scuola, il sistema dell’educazione si avvia verso a propria distruzione. E questo non è accettabile».
La preoccupazione di Gontero è la stessa di Fabrizio Azzolini, presidente nazionale dell’Associazione genitori (Age) e
membro del Fonags, che chiede un ripensamento del governo
circa la Strategia nazionale targata Unar. «Il 5 marzo incontreremo il nuovo ministro Giannini per la presentazione delle linee programmatiche – annuncia Azzolini –. L’auspicio è
che il nuovo corso si annunci diverso dal vecchio, che su queste tematiche non ci ha minimamente tenuto in considerazione. Come si fa ad avere fiducia in uno Stato che tratta così chi, come l’Age, è nella scuola da 46 anni, per dare voce soltanto a una parte ben orientata? Forse dovremmo diventare
gay per ottenere l’attenzione del governo?».
Provocatoria, ma fino a un certo punto, la questione posta
da Azzolini. È bene ricordare, infatti, che, soltanto nel 2013 e
soltanto dall’Unar, le associazioni gay e Lgbt hanno ricevuto
finanziamenti pubblici per 250mila euro.
Sulla «totale espropriazione dei genitori della titolarità
dell’educazione» dei propri figli, torna il presidente del Forum nazionale delle associazioni familiari, Francesco Belletti, ricordando che il diritto-dovere dell’educazione è sancito
dall’articolo 30 della Costituzione. «Ci stupisce – prosegue –
come queste associazioni abbiano avuto libero accesso alla
scuola, senza che le famiglie ne fossero informate. Così si lede il diritto alla cittadinanza attiva dei genitori nella scuola».
Non si stupisce, invece, Simone Pillon, responsabile della
Commissione relazioni familiari e diritti del Forum nazionale e presidente del Forum delle famiglie dell’Umbria, autore
di un vademecum di difesa per le famiglie. «Da noi lavorano
così da anni. Per questo sarebbe bene che il governo ritirasse
la Strategia e si aprisse un nuovo confronto con la presenza,
questa volta, anche delle associazioni familiari».
Paolo Ferrario
Avvenire.it – 25 febbraio 2014
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Perle dei padri
San Giovanni
Crisostomo:
bocca d’oro
e volontà
di ferro
Chi era costui e perché “Crisostomo”? Detto così dai Greci perché, da ottimo predicatore che fu, venne chiamato
“Bocca d’oro”. Visse tra il 345 e il 407. Nativo della grande
Antiochia di Siria, educato nella fede cristiana dalla mamma e vedova Aretusa, dopo un breve periodo da monaco (sospeso per motivi di salute) riceve il battesimo nel 372 e, contro sua voglia, diventa prete. Il suo vescovo Flaviano gli passa il ministero di predicatore, avendone intuito preparazione, doti e carismi. Difatti Giovanni tiene una stupenda serie
di omelie “al popolo antiocheno”, reo di crimini contro l’imperatore Teodosio e minacciato di tremenda rappresaglia
(387); in esse quel predicatore, pur rimproverando la sua
gente, la conforta con la Parola della Bibbia, spiegata in greco e applicata con molta concretezza a quella situazione. Intanto il vescovo rabboniva le truppe imperiali.
La fama di Giovanni si diffonde in oriente e il vescovo di
Costantinopoli, d’accordo con clero, popolo e l’imperatore
Arcadio, lo vuole come successore e, con un subdolo stratagemma, lo fa venire a Costantinopoli e lo fa ordinare vescovo di quella prestigiosa sede (397). Giovanni non voleva, ma
accetta, tra l’entusiasmo del popolo (non così contento fu
Teòfilo, vescovo di Alessandria d’Egitto, che forse aspirava
a quella cattedra e non andava d’accordo con clero e teologi
di Antiochia: essi spiegavano la Bibbia e parlavano di Gesù
in modo diverso dalla linea alessandrina: erano più rispettosi del senso letterale dei testi sacri e della realtà dell’incarnazione del Figlio di Dio).
Temprato da tante vicende piuttosto dolorose, Giovanni
continua la sua predicazione coraggiosa e profonda. Con la
Bibbia nel cuore e sulla “bocca d’oro”, affascina la gente,
specialmente gli uomini che accorrono di sera e applaudono
alle sue pur lunghe omelie (circa 45 minuti, senza altoparlanti!). Ma anche punge i ricchi egoisti, il clero carrieristico
e mondano, lo strapotere dell’imperatrice Eudossia e del
suo ministro Eutropio (che poi, caduto in disgrazia, ricorrerà proprio al vescovo per aiuto).
Ma l’invidia di Teòfilo, l’ira di governanti, di ricchi e di un
certo clero, lo costringono all’esilio in Armenia; il popolo lo
fa ritornare, ma le pene di un nuovo esilio lo portano alla
morte (407). Le sue spoglie mortali, dapprima sepolte a Costantinopoli, dal 1204 sono onorate in S. Pietro in Vaticano.
A lui viene applicato il detto: “Frangar, non flectar= piuttosto mi spezzo, ma non mi piego”.
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Fede e ragione di fronte
alla croce di Cristo
In una omelia alla sua gente: Molti marosi e minacciose tempeste ci sovrastano, ma non abbiamo paura, perché
siamo fondati sulla roccia…La morte? Ma “per me il vivere
è Cristo e il morire un guadagno”…L’esilio? “Del Signore è
la terra e quanto contiene”. La confisca dei beni? “Non abbiamo portato nulla in questa vita e nulla possiamo portarne via”…Non desidero vivere se non per il vostro bene…Dove sono io, là ci siete anche voi; dove siete voi, ci sono anch’io…Anche se siamo distanti, siamo uniti dalla carità…Voi siete i miei concittadini, i miei genitori, i miei fratelli, i miei figli, le mie membra, il mio corpo, la mia luce più
amabile della luce del giorno…
Ottimo studioso e appassionato di san Paolo, a lui si richiama tante volte, come in questo commento a 1 Cor 1: La
croce (di Cristo), nonostante gli uomini, si è affermata in tutto l’universo e ha attirato a sé tutti gli uomini (un po’ esagerato nel suo entusiasmo). Molti hanno tentato di sopprimere il nome del Crocifisso, ma hanno ottenuto l’effetto contrario…I filosofi, i re e, per così dire, tutto il mondo che si
perde in mille faccende, non possono nemmeno immaginare
ciò che dei pubblicani e dei pescatori poterono fare con la
grazia di Dio…Come poteva venire in mente a dodici poveri
uomini e per di più ignoranti di intraprendere una simile opera?...Che fossero paurosi e pusillanimi l’afferma chiaramente chi scrisse la loro vita senza dissimulare nulla e senza nascondere i loro difetti…Come si spiega che tutti loro,
che quando il Cristo era ancora in vita non avevano saputo
resistere a pochi Giudei, poi, lui morto e sepolto e, secondo
gli increduli, non risorto e quindi non in grado nemmeno di
parlare, si schierarono vittoriosamente contro il mondo intero?...Non sarebbe da folli non solo mettersi in simile impresa ma anche solo pensarla? E’ evidente perciò che, se non
lo avessero visto risorto e non avessero avuto una prova inconfutabile della sua potenza, non si sarebbero esposti a tanto rischio.
Questa pagina andrebbe molto bene anche per il problema “fede e ragione” e per una sana apologetica, in aiuto anche a una scuola che educhi a riflettere.
Riti liturgici e vita sociale
Commentando il vangelo di Matteo: Vuoi onorare il corpo di Cristo? Non permettere che sia oggetto di disprezzo nelle sue membra, cioè nei poveri, privi di panni per coprirsi.
Non onorarlo qui in chiesa con stoffe di seta, mentre fuori lo
trascuri quando soffre per il freddo e la nudità...Il Corpo di
Cristo che sta sull’altare non ha bisogno di mantelli ma di
anime pure, mentre quello che sta fuori ha bisogno di molta
cura…Con questo non intendo certo proibirvi di dare doni
alla chiesa, no; ma vi scongiuro di elargire, con questi e prima di questi, l’elemosina…Che vantaggio può avere Cristo
se la mensa del sacrificio è piena di vasi d’oro mentre poi
muore di fame nella persona del povero?...Tu rifiuti di accogliere Cristo nello straniero e adorni invece il pavimento, le
pareti, le colonne e i muri dell’edificio sacro. Attacchi catene
d’argento alle lampade, ma non vai a visitarlo quando lui è
incatenato in carcere…Non chiudere il tuo cuore al fratello
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Riflessioni
che soffre: questi è un tempio vivo più prezioso dell’altro. Simili prediche le ebbe anche il contemporaneo sant’Ambrogio, scandalizzando anche lui certi preti e certi ricchi milanesi.
Predicando sulla coppia biblica di Abramo e Sara in una
società molto maschilista: Questo devono ascoltarlo gli uomini e anche le donne. Le donne perché manifestino la loro
inclinazione verso i mariti e non antepongano nulla alla loro salute; gli uomini affinché abbiano molte benevolenze per
le loro mogli e agiscano in tutto come se fossero un’anima sola e una sola carne. Si ha un vero matrimonio quando fra i
coniugi regna una simile concordia…In questo modo affluiscono a loro molti beni…v’è la pace, regna l’amore e la concordia spirituale; non c’è guerra, non ci sono contese (a parte qualche baruffa), né inimicizia o gelosia…
Verrebbe voglia di andare in Vaticano a venerare questa
“Bocca d’oro”. O no? (1)
Mons. Giovanni Giavini
(1) Per saperne di più cfr. P.F. BEATRICE, I Padri della
Chiesa, Vicenza 2009, cap. XI.
Può uno
studente
di oggi entrare
in dialogo con
un santo morto
più di 1.500
anni fa?
Agostino d’Ippona, ti conobbi nell’età che più di tutte tormentò anche te, la giovinezza delle passioni che ci segna con
le sue esperienze. Mi domando: possiamo il ragazzo che fui
e il giovane che oggi vedo di fronte a me, lo studente dall’altra parte della cattedra, rispecchiarci in un uomo dell’antichità? In te Agostino, gigante del pensiero, ma prima ancora del vissuto umano alla ricerca inquieta della verità. Nascesti a Tagaste, nell’attuale Algeria, perciò oggi, a prima vista, saresti un extracomunitario, una faccia maghrebina tra
le tante. A 17 anni eri già immerso nell’ozio e nella degenerazione morale; avesti una relazione illecita con una giova-
ne donna e diventasti padre di Adeodato, Adeodatus, che
chiamasti così perché lo considerasti un “dono di Dio”.
Eccolo qua, dispiegato attraverso 17 secoli, come un universale idealtipico nel tempo, il profilo del giovane di oggi:
un piccolo dio di se stesso, intrappolato nella finitezza delle
proprie pretese. Monco nella propria imperfezione ma nel
frattempo anelante a qualcosa di infinito. Così eri tu Augustinius, grande retore dotato di un’arte oratoria e sottigliezza psicologica fuori dal comune; entrambi sostenuti da
un inarrestabile bisogno di conoscere.
Tu, un emblema esistenziale nell’odierna crescente sfida
educativa. Perché accanto a tutto il resto, noi come te, da
sempre mentre la viviamo ci poniamo la stessa domanda sul
senso della vita. E perché poi? Perché da allora non è cambiato niente: anche se crede, l’uomo ha necessità di capire.
Anche qui ci hai lasciato un insegnamento memorabile:
«Prega per comprendere».
Su questa esigenza di capire, di spiegare, non si fa che citare quanto dice Pietro nella sua lettera: «Pronti sempre a
rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza
che è in voi». Ed è sacrosanto, ma pochi aggiungono le parole che seguono: «Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e
rispetto, con una retta coscienza». Di questa dolcezza e rispetto, nel loro percorso verso il capire, hanno bisogno anche i ragazzi smarriti in cui ti rivedo oggi, Agostino. Persone che non si vogliono riconoscere negli “adulti” logori che
li circondano e di cui si trascinano le sfiducie; nelle mamme
ossessionate dai tacchi a spillo, nei padri afflitti dal tempo
che passa a cui si oppongono con un patetico tentativo di
fermarlo. Come dargli torto?
Gli incontri nelle scuole
Sono i ragazzi che “educo” in una scuola che si è lasciata
intorpidire dalle pratiche trasmissive che mortificano l’originalità e la differenza, soffocando il confronto e la discussione; i tanti Agostino anonimi che urlano dietro fugaci post lasciati su bacheche virtuali di cui farebbero a meno se solo avessero una credibile alternativa sociale, familiare.
Quando al contrario si dà spazio al confronto si crea relazione. I giovani sperduti nel nichilismo autolesionista sono
i primi che ne avvertono il peso insostenibile. Infatti, non
tutti si sono arresi; come non lo fosti tu. I ragazzi, più dei
grandi, sono stanchi di formule e strategie, di strutture e
contenitori; ricercano sorgenti che spargano acqua fresca
sulle loro anime aride, non perché sterili, ma perché lasciate incolte. C’è in essi, come c’era in te, una domanda di ragioni a cui non si possono dare risposte preconfezionate.
Sono afflitti da conformismo e pessimismo striscianti (camuffati dall’onnipotenza del “subisci l’attimo fuggente”),
nascosti dietro a un gioco di ruoli e maschere da cui nessuno può dirsi estraneo. Ma proprio perché è così, gli Agostino
d’oggi, acuti osservatori ma indolenti nell’azione, rifuggono
da chi non sa creare relazione; da chi non osa provare a tirare fuori il meglio da sé e dagli altri. Da chi non sa fare incontri, da chi non ama fermarsi e salutare, stringere mani e
sorridere con gli occhi, da chi non conosce la luminosità dell’incontro e non è portatore di buone notizie da raccontare.
Il che è faticoso, sia ben chiaro. Di questo si accorgono in
molti, perciò ci provano in pochi.
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Riflessioni
Anche tu cercavi risposte Agostino, con coscienza, come
quando fosti tra i manichei e dicesti: «Fu così che mi imbattei in uomini farneticanti nella loro presunzione, carnali e
parolai. Il loro cuore era vuoto di verità. Ripetevano: “Verità, verità”. E me ne parlavano molto, ma non la possedevano; anzi insegnavano falsità non solo su di Te, che sei la
verità, ma anche sulla essenza del mondo». Tutti rifuggiamo dai falsi maestri, particolarmente i giovani che più degli
adulti li riconoscono a pelle. Gesù dice: «Guardatevi dagli
scribi, che vogliono passeggiare in lunghe vesti e si compiacciono di essere salutati nelle piazze, di avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti; divorano le
case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere. Essi riceveranno una condanna più severa».
Infatti, non si può dare agli altri ciò che noi per primi non
possediamo. In questo senso i ragazzi intuiscono meglio che
“maestri di preghiera” si diventa lungo il calvario della vita. Così deve essere stato anche per te, vescovo d’Ippona.
Anche i tuoi occhi, come i loro, erano stanchi dei proclami
vuoti, ma altrettanto capaci di ravvivarsi davanti a parole di
vita. Che come tali sono sempre gesti di vita, azioni che lasciano un segno indelebile.
Ignazio di Antiochia, nella Lettera a Policarpo di Smirne,
dice: «Se ami i discepoli buoni, non hai merito: piuttosto devi vincere con la bontà i più riottosi. Non si cura ogni ferita
con lo stesso impiastro». Quanto riscontro tutto ciò nei miei
ragazzi! Nel giovane che sono stato e nell’Agostino ribelle
che eri. E per ognuno ci vuole un linguaggio, un approccio
diverso. Perché più che fare qualcosa nella vita, bisogna lasciarsi amare. Ma prima ancora c’è da fare l’incontro con
qualcuno che ci accolga per ciò che siamo, e che poi ci sospinga a dare il meglio di noi. Tu trovasti questo in Ambrogio di Milano: «Mi accolse paternamente, quell’uomo di
Dio». Infatti, solo chi ha esperito un vero percorso umano,
sporcandosi le mani nelle oscurità della vita, può essere un
testimone credibile.
Quale ragazzo, se conoscesse la tua storia, non vibrerebbe delle stesse domande che ti scossero? Eppure tu provieni
da un mondo lontano, fatto di forti trasformazioni, in cui la
religione che l’apostolo Pietro insegnò ai romani cessava di
essere perseguitata, e in breve diventava la sola legale; tanto che presto si giunse a escludere dal palazzo chi non era
cattolico. E si creò un legame col potere temporale di cui avvertiamo ancora le conseguenze.
Un tempo diverso il tuo, ma nonostante questo c’è in te
un’angoscia post moderna, quella dell’uomo contemporaneo, consapevole che con la conversione non c’è la scomparsa del passato, ma che essa è una tappa costante nel cammino di liberazione. Da allora non è cambiato molto. Oggi
come ieri il Tempo (il Krònos del pensiero greco) resta percepito come il mostro che divora i suoi figli, non come un
tempo salvifico (il Kairòs cristiano). E se è così, cos’altro può
restare all’esistenza umana se non il “carpe diem” e la “joie
de vivre”?
Anche tu godesti, Agostino. Del tuo passato dici: «Non
c’era altro allora che mi piacesse di più che amare ed essere
amato, ma non sapevo stare nella misura… La mia anima
era dunque malata, avida di avvilenti contatti con corpi materiali». Quanto hanno in comune i ragazzi di oggi con te!
Anche per questo i giovani sono sempre alla ricerca di gente che li sappia trascinare con entusiasmo. Aiutarli a sfon-
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dare la loro sordità e a intravedere il senso delle cose nel fugace incedere della storia. E che cammino duro devono fare
questi giovani, spesso soli nel deserto delle immagini e dei
suoni festaioli… Un giorno a lezione una studentessa mi dice: «Prof, sa che la pillola anticoncezionale non funziona
sempre? Mia madre me lo ripete sempre…». Ma me ne vengono in mente tanti, ahimè. Come Ruben, il sudamericano
dal collo tatuato e col berretto sempre in testa che dietro la
durezza dei modi nasconde ferite inflitte da una famiglia
frantumata. O Nicola, a cui è stato trasmesso il comandamento “Ognuno nella vita fa quello che vuole”, figlio di una
morale benpensante a cui sfugge il senso della misura e crea
un’inflazione di libertà, che senza un raffronto credibile di
paragone – come il tuo «Ama e fai ciò che vuoi» – finisce per
arruolare nuovi adepti.
La forza dell’amore
Mi chiedo: in chi si potranno rispecchiare i ragazzi? Lo
stesso Gesù domanda: «Quando il Figlio dell’uomo verrà,
troverà la fede sulla terra?». Dove sono i testimoni per queste nuove generazioni di dubbiosi genetici tuttavia assetati
di conoscenza? Mi pare non ce ne siano molti, proprio perché a molti “maestri” d’oggi sfugge la consapevolezza di cosa e come sia la natura profonda dell’essere umano. Mentre
questo, Agostino, l’avevi afferrato bene, quando dell’uomo
dicevi: «Certo che sono abiette anime queste che se ne vanno via, lontano da te, inseguendo i loro amori profani e sudici guadagni di cui riderà il tempo».
Sebbene l’uomo sia uno che sbaglia, oggi c’è questa diffusa convinzione di una creatura che si basta da sé, che si
autodetermina, e che in quanto tale si forgia una morale ad
hoc. È tutto relativo qui, caro Agostino. Quante volte ci
scontriamo coi ragazzi su questi temi! Per poi incontrarci
nel riconoscere che il punto di arrivo di questa mentalità è
caduco, perché lo afferma l’evidenza dei fatti. Eppure sembra avverarsi la profezia dell’antico sofista Protagora:
«L’uomo è la misura di tutte le cose, di quelle che sono in
quanto sono e di quelle che non sono in quanto non sono»,
ed eccone la conseguenza: la libertà umana come capacità di
fare quello che si vuole. E il risultato qual è? Un essere sempre più smarrito nella sua identità frammentata e nei suoi
relativismi sfibranti.
Paradossalmente in questo pare celarsi un aspetto positivo, un tempo propizio per la buona novella. Se infatti da
una parte l’uomo odierno attorno a sé sembra fare deserto,
dall’altra nell’immagine della desolazione circostante emerge una cosa buona: l’uomo finalmente torna a percepirsi
nella sua propria dimensione. Anzi, pare che, facendosi terra bruciata attorno, l’essere post moderno non possa più fare finta di non vedersi e di non sentirsi.
E in questa aridità, imponente come un faro in mezzo alla burrasca, si erge quanto tu, Agostino, ci lasci in eredità
sulla forza dirompente dell’amore: «Ama e fa’ ciò che vuoi;
sia che tu taccia, taci per amore; sia che tu parli, parla per
amore; sia che tu corregga, correggi per amore; sia che perdoni, perdona per amore; sia in te la radice dell’amore, poiché da questa radice non può procedere se non il bene».
Alen Custovic
“Tempi” - 8 dicembre 2013
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Riflessioni
Transumanesimo
prossimo venturo
Le riflessioni etiche di Piero Benvenuti,
uno scienziato fecondamente impegnato
nel dialogo con la teologia.
Piero Benvenuti insegna all’Università di Padova astrofisica delle alte energie, fisica del plasma e storia dell’astronomia ed è stato responsabile scientifico europeo del telescopio spaziale Hubble e presidente dell’Istituto Nazionale
di Astrofisica. Lo presentiamo non tanto per la sua
(riconosciuta) qualità scientifica, sulla quale siamo del tutto incompetenti per formulare qualsiasi giudizio, quanto
per una sua caratteristica specifica. Egli, infatti, è lo scienziato che in Italia si è maggiormente impegnato in un dialogo rigoroso e articolato con la teologia, con esiti editoriali significativi: pensiamo ai suoi confronti col teologo Francesco
Brancate, oppure col biblista Filippo Serafini, o ancora alla
sua collaborazione con la Fondazione vaticana «Scienza e
Fede - STOQ».
Tutto questo ha in Italia il sapore di un evento raro e fin
sospetto, mentre - e lo affermo per esperienza personale - all’estero è del tutto normale, con confronti spesso di alto livello, anche dialettici. Non è mia intenzione ora presentare
i testi del professor Benvenuti sopra evocati, scritti per altro di grande limpidità e persino godibilità anche per un
profano. Vorrei soltanto proporre, da teologo, una riflessione minima e forse ingenua di fronte all’impressionante
massa di informazioni scientifiche che ogni lettore di media
cultura scopre nella sua esperienza quotidiana attraverso
una sequenza terminologica spesso arcigna, come genetica,
mappatura del genoma, diagnosi molecolare, proteine terapeutiche, screening, medicina predittiva e rigenerativa,
biotecnologie, ingegneria genetica e così via.
Mi soffermerò solo su due capitoli di indole generale, piuttosto delicati, dai contorni fluidi e con evidenti ricadute di taglio etico e teologico. Nella cultura contemporanea l’uomo
non è più un passivo osservatore della sua identità strutturale, come accadeva in passato, ma si erige a ri-creatore di se
stesso, modificando la sua natura. In questa linea si colloca
il transumanesimo, elaborato da Julien Huxley in chiave sociale e trasferito negli anni ’80 del secolo scorso in ambito
scientifico con l’apertura di panorami spesso vertiginosi:
pensiamo alle nuove tecniche dell’ingegneria genetica, alla
nano-tecnologia, all’intelligenza artificiale, alla neurofarmacologia, alla crionica, alle interfacce tra mente e macchina,
insomma a quanto viene riassunto nell’acronimo inglese
Grin (Genetics, Robotics, Information Technology, Nanotechnology). Come affermava Robin Hanson, «il transumanesimo è l’idea secondo cui le nuove tecnologie probabilmente
cambieranno il mondo nel prossimo e nel successivo secolo al
punto tale che i nostri discendenti non saranno più, per molti aspetti, umani». Saranno appunto «transumani» e persino
«postumani», comunque «post-darwiniani».
È facile intuire quanto siano roventi le questioni etiche di
fronte a un simile orizzonte, quanto siano reali i rischi di
degenerazione al punto tale che uno dei più netti critici del
transumanesimo, il fondatore della Sun Microsystems Bill
Joy apocalitticamente ha ipotizzato persino un rischio di
autoestinzione del genere umano. Tuttavia quanto sia fremente il desiderio di procedere è verificabile - a livello culturale generale e a titolo esemplificativo - in un ambito meno problematico ma comunque significativo, quello della
medicina estetica. Infatti, negli Usa negli ultimi 15 anni il
numero delle iniezioni di botulino è aumentato del 4mila
per cento e nel solo 2011 la spesa per simili interventi - sempre negli Usa - ha raggiunto la cifra di dieci miliardi di dollari. È evidente che si è di fronte a una “tendenza” inarrestabile e a una costante trasformazione dello stile di vita e dello stesso fenotipo antropologico, almeno esteriore.
Ben più delicati a livello etico sono, invece, le analisi o gli
interventi radicali e profondi sull’essere umano. Si potrebbe qui aprire il complesso capitolo delle neuroscienze cognitive che hanno proposto nuove teorie della mente. I cento
miliardi di neuroni che compongono il nostro cervello, analoghi alle stelle della Via Lattea, rendono questa realtà umana un microcosmo nel quale, però, non si dibattono solo
quesiti fisiologici e biologici, ma affiorano molteplici interrogativi filosofici e teologici. Pensiamo solo alla categoria «anima», alla questione della coscienza e della responsabilità
morale, alla stessa religiosità, al rapporto mente-corpo, con
l’evidente coinvolgimento di altre discipline come l’antropologia, la psicologia, l’etica, il diritto.
Le neuroscienze sono ancora agli albori di un percorso
arduo, l’enorme accumulo dei dati scientifici è spesso sottoposto a ermeneutiche diverse e fin contraddittorie, si aprono tensioni con altri linguaggi e prospettive. La relazione
tra la teologia e la scienza esige in questo ambito un forte
rigore metodologico e la chiarezza delle distinzioni essendo
comune la realtà sottoposta ad analisi, cioè il cervello e la
mente umana. Come scriveva dal punto di vista teologico
Gustave Martelet nel suo saggio Evoluzione e creazione (Jaca Book 2003), «nonostante il cervello raggiunga un punto
culminante nella finezza e nella complessità delle strutture
e del suo funzionamento neurofisiologico, nonostante renda
possibile, con la sua sublimità materiale, gli atti dello spirito, questi rimangono di un altro ordine, senza che però lo
spirito possa liberarsi di ciò che esso non è (ossia del corpo)».
Concludendo, l’autentico scienziato non è colui che sa offrire tutte le risposte, ma colui che sa porre le vere domande, cosciente che il suo compito di verificare e perlustrare la
“scena” della realtà, ossia il fenomeno, non esaurisce tutte
le dimensioni dell’essere, a partire dal suo “fondamento”
che è “meta-fisico”. Proprio per questo dev’essere vivo in lui
- come nel teologo e nel filosofo o nell’artista per il loro campo specifico - lo sforzo di «custodire castamente la sua frontiera», come ammoniva Schelling per la filosofia e la storia.
Si dev’essere consapevoli che la conoscenza umana non è
monodica ma polifonica e polimorfa, perché comprende non
solo la via scientifica e tecnologica ma anche la via estetica
o quella morale, filosofica, spirituale e religiosa.
Non per nulla Max Planck nella sua Conoscenza del mondo fisico non esitava ad affermare che «scienza e religione
non sono in contrasto, ma hanno bisogno l’una dell’altra
per completarsi nella mente di un uomo che pensa seriamarzo 2014
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mente». Si tratta di un dialogo epistemologicamente rispettoso, persino necessario, tant’è vero che Einstein nell’autobiografico Out of My Later Years arrivava a coniare una famosa formula: «La scienza senza la religione è zoppa, la
religione senza la scienza è cieca». E alla fine della sua esistenza, nel 1955 in una sorta di testamento, lasciava nel suo
«Messaggio all’umanità» un appello che credo possiamo ancor oggi riproporre: «Noi scienziati rivolgiamo un appello
come esseri umani rivolti a esseri umani. Ricordate la vostra umanità e dimenticate pure il resto!».
Gianfranco Ravasi
Per saperne di più
A livello generale per il dialogo tra fede e scienza rimandiamo a questi saggi più recenti:
• Piero Benvenuti, In saecula saeculorum. Il tempo della fisica e il tempo dello spirito, Pharus, Livorno (via S. Andrea,
79), pagg 110, € 10,00.
• Francesco Brancate con Piero Benvenuti, Contempla il ciclo e osserva. Un confronto tra teologia e scienza, San Paolo,
Cinisello Balsamo (Mi), pagg. 240, € 18,00.
• Filippo Serafini - Piero Benvenuti, Genesi e Big Bang. Parallele convergenti, Cittadella, Assisi, pagg. 163, € 13,80.
Si veda anche:
• Michael Heller, La scienza e Dio, La Scuola, Brescia, pagg.
175, € 11,00.
• Giuseppe Serio, Scienza e religione. Un dialogo possibile,
Armando, Roma, pagg. 96, € 10,00.
Il sacro alla
riscossa. Ma
l’uomo è solo
«Il vero rischio oggi sta nello sbagliare l’oggetto
della propria adorazione. Spetta ai credenti
ribadire la “differenza” irriducibile che deriva
dall’evento cristologico».
Nella città-mercato, dove la lex mercatoria ha di nuovo
sostituito totalmente ogni lex creaturae l’inettitudine al
fronteggiamento del sacro – della sua forza e del suo pericolo – cresce vistosamente. Il sacro, senza mediazione “del
dio” affidabile, dilaga selvaggiamente fra gli idoli e attira
devozioni da quattro soldi, genera perversione del pathos e
corruzione del logos, nutre indiscriminatamente il nomos e
l’anomia della città. Una giustizia senza affetti incoraggia
affetti senza giustizia. Cresce, nella società in cui l’uomo è
semplicemente esposto a se stesso, la normalità delle situa-
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zioni nelle quali è impossibile salvarsi con la legge e anche
senza legge. Le congiunture del bios e dell’ eros, cioè, sulle
quali non si può legiferare e non si può evitare di farlo: perché non sono suscettibili di contrattazione, non si possono
comprare né vendere, non si possono produrre tecnicamente e riprodurre burocraticamente. Cresce nella società dei
diritti individuali, per altro interamente consegnata alla burocrazia del collettivo, la normale incapacità di riconoscere
ciò a cui è bello consacrarsi e ciò per cui è giusto sacrificarsi. Cresce ovviamente l’ ethos – l’habitus , l’abitudine – a
presidiare la propria esistenza da entrambe le eventualità.
Questo non impedisce affatto al sacro di esercitare la propria ingiunzione in entrambe le direzioni. Per promesse di
godimento o anche per futili motivi, avviene comunque.
Sbagliare consacrazione, sbagliare sacrificio – sbagliare la
giustizia degli affetti in cui ci si consegna – è fonte di svuotamento durevole e di rischio mortale.
«Adorazione – scrive Jean-Luc Nancy – fa pensare a
“prosternazione”. Insidia permanente delle religioni: che si
approfitti della prosternazione per umiliare. Ma la religione
è anche l’unica che apre la possibilità della prosternazione
». Possiamo trascurare il fatto che – ancora una volta – si voglia sottrarre anche qui una figura fondamentale della mediazione religiosa alla sua ispirazione e alla sua invenzione,
per profittarne parassitariamente, mantenendo l’interdetto
sulla religione che l’ha custodita per noi sin qui (e in specie
il cristianesimo). E possiamo senz’altro disporci a prendere
sul serio una delle molte provocazioni a riguardo di ciò che
il cristianesimo stesso può trovare, con maggiore profondità, nella sua stessa memoria. A sua volta, però, il cristianesimo, non dovrà profittare parassitariamente di questo
indiretto riconoscimento, limitandosi a ribadire le sue antiche parole. Il cristianesimo stesso dovrà esporsi al loro impoverimento e alla loro perversione, generati dalla sua cattiva vigilanza nei confronti della propria vulnerabilità. E ristabilire la differenza di Dio. L’essere-agape di Dio è antecedente al sacro, alla sua ingiunzione e al suo interdetto: ne
riscatta la potenza, né limita l’ambivalenza. L’essere-uomo
del Figlio, di quell’antecedente sigilla l’irrevocabilità: non è
conseguenza del sacro, è generazione di Dio, per il riscatto
di ogni generazione umana.
La giustizia delle affezioni implica un’affezione per la
giustizia il cui nome è grazia della fede. L’ethos dell’adorazione di Dio in Spirito e verità comporta verosimilmente,
oggi, una più spregiudicata disposizione del cristianesimo a
riconoscere – dentro le condotte religiose, come anche nell’ambito delle condotte civili – la differenza cristologica della consacrazione e del sacrificio: la verità evangelica della fede – sostanza delle cose sperate e argomento dell’inapparente – porta fin dentro la religione (a fortiori) la lucidità e
il coraggio del discernimento fra l’adorazione (consacrazione e sacrificio) che serve la causa del grosso animale d’oro e
l’omologazione confortevole dei sudditi del mostro mite che
ci consegna al drago, e quella che invece protegge l’umano
che è comune dall’apparente fatalità di un destino che ci impone di sacrificare a Cesare e di consacrarci a Mammona. Il
sonno della ragione senza fede e senza affetti ha già generato tutti i suoi mostri, sacri e profani. E sulla morte di Dio,
senza risveglio e senza redenzione, siamo rimasti in gramaglie anche più del necessario.
Mons. Pierangelo Sequeri
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Riflessioni
Dacci oggi
il nostro cibo
quotidiano
«Dacci oggi il nostro pane quotidiano». Parole che conosciamo tutti, quelle che si trovano esattamente in mezzo alla preghiera più importante. Ma che cos’è il cibo per noi?
Per noi pasciuti di questo Occidente tardo capitalista che gli
alimenti li vediamo dietro pellicole di plastica; tagliuzzati e
precotti, surgelati quando non del tutto pronti da servire in
tavola. Oggi si va di fretta. Chi potrebbe negare l’affermarsi della cultura del fast food? Della logica cronometrica attestata anche in cucina dalla diffusione di apparecchi figli
della velocità come il bollitore elettrico o il microonde.
Scagli la prima pietra chi non ha mai trangugiato un panino in piedi, magari camminando e tenendo d’occhio le
lancette dell’orologio… E cosa mai vorrà dire questo fast
food, letteralmente cibo veloce? Innanzitutto l’espressione
ha in sé una contraddizione logica, perché il cibo ha bisogno di tempo, sia per essere preparato sia per essere consumato.
Lord Northcliffe, magnate dell’editoria inglese, ai suoi
giornalisti profeticamente diceva che per mantenere vivo
l’interesse dei lettori potevano contare su quattro temi invincibili: crimine, amore, denaro, cibo. Ebbene, nonostante
tutti dominino indistintamente nella nostra agenda mediatica, solo l’ultimo dei quattro è un aspetto imprescindibile e
universale dell’esistenza umana.
L’alimentazione odierna l’uomo l’ha conquistata in primis dominando la cottura, che secondo l’antropologo francese Claude Lévi-Strauss è «l’invenzione che ha reso umani
gli umani». La dimensione del cibo si pone a metà strada tra
natura e cultura, tra istinto di sopravvivenza e impalcature
di significati, a volte del tutto patetici. Vengono alla mente
gli inflazionati format televisivi in cui cuochi più o meno improvvisati gareggiano secondo le logiche del fast food, cucinano in tempi strettissimi, mimando però i piatti della nouvelle cuisine. Format dove si dice di tutto ma non si menziona mai che il cibo è e resta un dono. Sottolineatura non
di poco conto.
Con un aneddoto che strizza l’occhio allo sport, potremmo rituffarci in quel torpore del luglio 2006, alla vigilia della finale del Campionato mondiale di calcio: Italia-Francia.
Il commissario tecnico, Marcello Lippi, se ne esce con quel
famoso «Stasera ci sediamo di fronte a una tavola ben imbandita: vincerà chi avrà più fame». E gli Azzurri vinsero
perché ebbero fame. Avere “fame” nella vita e della vita è
molto importante; lo sanno bene gli studenti figli degli immigrati di prima generazione che non di rado raggiungono
profitti scolastici sbaragliando compagni italiani. Lo sanno
gli italiani che emigrano all’estero in cerca di fortuna. Lo
sanno quelli che restano in un sistema sociale sempre più
disorientato.
Che sia il pranzo della domenica, il banchetto di festa o la
più scarna tavola quotidiana, è nella condivisione del cibo
che si riscopre la natura più squisitamente relazionale dell’uomo. Non sarà forse un caso se il momento eucaristico
viene istituito da Gesù proprio durante un banchetto, chissà, magari anche per rammentare di preservare quella convivialità in cui si dialoga, ci si conosce e, facendo ciò, ci si riscopre comunità in cammino. Perché il pane e il vino, il corpo e il sangue si riscoprono tali solo nel vissuto quotidiano
di cui l’alimentazione scandisce i ritmi.
Davanti alla regina al plasma
Certo, è difficile costruire convivialità mangiando in piedi, incalzati dal tempo, o tra le tavole domestiche del nuovo
millennio dove regna indiscussa la regina al plasma. Ne sono consapevoli i manager devoti alla mensa aziendale, dove
più che ritrovare convivialità si discute di strategie vincenti e si studiano le mosse dei concorrenti, ingurgitando qualcosa senza prestare attenzione al gesto. Ma nella ruota del
meccanismo delle priorità c’è anche la madre che, per la
fretta di uscire, nello zaino del figlio prima di mandarlo a
scuola infila una di quelle brioche industriali che se prende
mezz’ora d’aria diventa dura come la pietra, accompagnata
magari con un succo solo al 40 per cento di frutta.
Parlando di cibo è impossibile non accennare all’enorme
spreco che ne facciamo. Gli ultimi dati della Fao dicono che
su una popolazione terrestre di 7 miliardi di persone, produciamo alimenti per 12 miliardi, eppure circa 850 milioni
soffrono la fame. In Italia ogni anno una famiglia media getta 50 chilogrammi di cibo. Non bisogna essere matematici
di professione per fare due più due e capire che c’è qualcosa
che non funziona. E perché mai? Semplicemente perché il
cibo è sacro. Ce lo ricordano i fratelli ebrei e musulmani,
quelli osservanti, i cui ritmi alimentari sono scanditi da tradizioni kosher e halal, dove dalla macellazione al consumo
del cibo tutto viene scandito da indicazioni di ciò che è “adatto” e “lecito”.
Ma noi siamo lontani da tutto ciò; siamo piuttosto vicini
al cosiddetto junk food, “cibo spazzatura” (anche questa è
contraddizione logica), ovvero a tutti quegli alimenti di bassa qualità, ricchi di conservanti, coloranti e sostanze chimiche che proprio bene alla salute non fanno: pop corn, pizza
surgelata, patatine fritte e in busta, wurstel, tramezzini
sganciati dai distributori in cambio di una moneta, bibite
gasate analcoliche e dietetiche e chi più ne ha più ne metta.
Insomma, vale il detto dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei.
Prima digestio fit in ore, ammoniva il moto latino della
scuola medica salernitana, ovvero la prima digestione avviene in bocca. Certo, bisogna vedere però cosa si mette in
bocca…
La costruzione dell’identità
Ma se la fame resta quella di cibo, è anche vero che quest’ultimo è strumentale nel sottolineare le differenze tra
gruppi sociali e culture. L’alimentazione è una voce importante nella costruzione dell’identità personale, “di genere”,
che serve a rafforzare il senso di gruppo. Vengono in mente
i Promessi Sposi, quando fra Cristoforo sale al palazzo di
don Rodrigo per tentare di distoglierlo dal suo progetto su
Lucia. Entrato nella sala, Manzoni racconta: «Don Rodrigo
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Riflessioni
era lì, in capo di tavola… Alla sua destra sedeva quel conte
Attilio suo cugino e, se fa bisogno di dirlo, suo collega di libertinaggio e di soperchieria… A sinistra, e a un altro lato
della tavola, stava, con gran rispetto, il signor podestà, quel
medesimo a cui, in teoria, sarebbe toccato a far giustizia a
Renzo Tramaglino, e a far stare a dovere don Rodrigo. In
faccia al podestà, in atto d’un rispetto il più puro, il più sviscerato, sedeva il nostro dottor Azzeccagarbugli, col naso
più rubicondo del solito…». Insomma, il cibo ridefinisce anche i rapporti di potere.
Troppo spesso ci dimentichiamo che, oltre che funzionale alla sussistenza, l’atto di mangiare è caratterizzato da
una forte componente semantica: il cibo è anche fonte di relazione. Ad esempio, prepararlo in casa è atto d’amore. In
generale, fermarsi a mangiare vuole dire creare occasioni di
dialogo. Perché alimentarsi è anche un processo simbolico.
Come la tavoletta spezzata in due nell’antica Grecia, il sumbolon appunto, permetteva con il combaciare delle due parti di riconoscere i possessori legittimi, così l’alimento è un
continuo rimando a qualcos’altro, a un alterità che sta oltre
noi, da cui comunque dipende la nostra stessa possibilità di
nutrirsi. In altri termini, consumato nel modo più naturale,
il cibo ha in sé una capacità essenziale, che poche altre dimensioni del nostro quotidiano hanno: ci fa riscoprire bisognosi di qualcosa, affamati, non autosufficienti.
Giovani bulimiche o anoressiche, tra i più gravi disturbi
dell’adolescenza, e non solo, ci ricordano che anche i problemi psicologici passano attraverso il cibo; tanto che il semiologo Roland Barthes sentenziò che parlare e mangiare
sono attività inseparabili. In effetti, oggi i nostri stessi ragionamenti sono spesso metaforicamente attanagliati dalla
logica del “cibo veloce”, del pensiero prêt-à-porter, quello istantaneo e immediato, perciò non di rado omologato. Così
in cucina, a una “cottura” lenta che esalti i sapori, si preferisce un approccio da barbecue. E chiunque ne abbia fatto
uno sa quanto sia facile che la carne bruci fuori, restando
cruda all’interno; un po’ come i pensieri dominanti, quelli
per cui bisogna dire qualcosa a ogni costo, magari strillarlo
con slogan da manifesto. Poi vai a vedere cosa c’è dietro e
scopri un vuoto abissale. Carne cruda.
L’insegnamento dei nonni
Ed ecco che è servito un “pensiero del barbecue”, figlio di
una “cucina” conformista, da catena di montaggio; creatura più dell’indifferenza e della pigrizia che della ponderazione e della passione, il cui emblema potrebbe essere
l’hamburger. Ma il pensiero non può essere credibilmente
paragonato all’hamburger, piuttosto la vera attività del
pensiero in cucina verrebbe da paragonarla alle polpette,
che hanno bisogno di tempo per rapprendersi. A questo proposito i frati nel refettorio ci insegnano che si può mangiare senza furia, che è possibile sfamarsi senza ingordigia trasformando ogni boccone in gioia e, perché no, in mite preghiera.
Perché se è vero che in qualche modo siamo anche ciò che
mangiamo, forse bisognerebbe anche ricordarsi dei nostri
nonni che, contadini o impiegati, a un certo punto si fermavano, tiravano in barca i remi, si stiracchiavano e si sedevano da qualche parte e magari mormoravano due parole di
ringraziamento per quel cibo, che non rinunciavano ad in-
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naffiare con del vino, poco ma buono. E lentamente davano
vita al rituale più antico di sempre, mangiare.
Alla luce di quanto detto e dei tempi in cui viviamo, viene alla mente il film Onorevoli, e il grande interprete di
un’epoca, Totò, nel personaggio di Antonio La Trippa, che
parlando di cose “serie” domanda: «A proposito di politica,
ci sarebbe qualche cosarellina da mangiare?».
Alen Custovic
Tratto dalla rivista “Tempi” del 12 Gennaio 2014
Caterina e
l’amicizia civica
Il cardinale Angelo Scola, arcivescovo di Milano,
scrive per le pagine del Sole 24 Ore.
Ogni quarto sabato del mese racconta
quel che «Accade», un fatto di cronaca
visto con gli occhi della fede e con la speranza
di cui il nuovo mondo sa essere portatore.
1. Alla fine degli anni 50 io andavo al liceo in giacca e cravatta, oggi mio nipote ci va in jeans e scarpe d’ordinanza.
Mio padre, superata la trentina (e lavorava già da più di
vent’anni), chiese la mano di mia madre su suggerimento di
un anziano amico delle due famiglie; e il matrimonio resse
felicemente oltre cinquant’anni di vita insieme, nella buona
e nella cattiva sorte. Oggi i ragazzi iniziano, consumano e
concludono le “storie” – come le chiamano loro – esplorando sempre più precocemente il campo degli affetti e della
sessualità, senza che gli adulti quasi se ne accorgano… A
questi ognuno di noi potrebbe aggiungere infiniti altri esempi per documentare il vertiginoso cambiamento dei costumi verificatosi nello spazio di un paio di generazioni.
I costumi individuano la condotta quotidiana di un popolo o di una comunità di persone. Non solo, quindi, la mentalità dominante, ma i comportamenti diffusi, universalmente accettati, divenuti per così dire “normali”. Di fatto esprimono lo stile di vita di una società e, di conseguenza, il
suo grado di civiltà. Hanno a che fare con l’“ethos” di popolo legato a virtù e tradizioni. Di per sé non si può dire se fosse meglio prima o sia meglio adesso. Accade.
Un cambiamento di costumi non coincide, automaticamente, con una corruzione dei costumi. Inoltre in certi momenti, come quello attuale di “meticciato di civiltà”, la storia subisce brusche accelerazioni che impongono mutamenti. E la storia non è in balìa di un Caso anonimo e capriccioso, ma è sorretta da un Padre che ci ama e ci accompagna.
Perciò stiamo davanti a ciò che accade con una sorta di simpatia previa, senza confondere il bene con il male, ma sempre sulle tracce del bene a cui inesorabilmente ogni uomo anela. Una posizione che non lascia mai tranquilli e comodi
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nel già saputo, ma apre continuamente delle domande e segnala urgenze ineludibili.
2. Quali le domande aperte e le improcrastinabili urgenze segnalate dal “caso Caterina”, la ragazza di 25 anni, studente di veterinaria a Bologna, vegetariana e animalista
convinta, colpita da una serie di malattie genetiche rare e viva solo grazie al lavoro dei medici e ai progressi della ricerca scientifica? L’aver messo in rete la propria dolorosa esperienza e l’appassionato sostegno alla sperimentazione,
anche animale, che finora le ha salvato la vita, è bastato a
scatenare sul web un dibattito acceso, dai toni aspri e violenti, fino agli insulti più pesanti: “Mi dicono: “Meglio dieci
topi vivi di te viva”; ma io spero di avervi fatto capire quanto ci tengo a vivere” (Caterina Simonsen).
Prima di ogni altra considerazione circa la legittimità e i
limiti della sperimentazione con animali nel campo della ricerca scientifica, che cosa dice questa riduzione della rete a
ring, in cui assistere a una feroce gara di pugilato tra opinioni, invece che vivere un confronto tra persone?
Dice l’urgenza che diventi costume una virtù già raccomandata da Aristotele: l’amicizia civica. In che cosa consiste? Nell’ascolto dell’esperienza dell’altro, attraverso una
continua ed appassionata comunicazione reciproca. Non mi
stanco di ripetere che, soprattutto in una società plurale e
quindi tendenzialmente conflittuale come la nostra, siamo
chiamati a raccontarci, attraverso un’umile e paziente auto-esposizione per riconoscerci ed incontrarci. Già Hegel diceva che l’attesa fondamentale di un uomo è quella di valere qualcosa per qualcuno. E Papa Francesco non perde occasione per richiamare alla necessità di una cultura dell’incontro, invece che dello scontro o dello scarto.
Il “caso Caterina” domanda con forza amicizia civica come stoffa della nostra convivenza sociale.
3. Come nasce l’amicizia civica, cosa la genera? Come nutre l’umana convivenza?
La domanda riaffiora continuamente soprattutto davanti alle situazioni di maggior sofferenza e disabilità, a tutte le
fragilità della condizione umana.
Inoltre, di fronte alle acute problematiche legate alla teoria dell’evoluzione nelle formulazioni biologiche più avanzate, così come alle ardite rivendicazioni del “cervello etico”
da parte delle neuroscienze, è possibile, senza amicizia civica, affrontare e trovare un accordo tra tutti i soggetti in
campo? E farlo senza falsificare l’esistenza di una dimensione spirituale costitutiva della persona, quella irriducibile
“sporgenza” di cui le civiltà di ogni tempo e latitudine sono
imponente documentazione?
“Eppure – scriveva Karol Wojtyla in Persona e Atto – esiste qualcosa che può essere chiamato esperienza dell’uomo”. Ignorarla fino a negarla impedisce la costruzione di vita buona.
Perché l’amicizia civica diventi costume occorre rispondere all’ineludibile domanda: chi vuol essere l’uomo oggi,
all’inizio del terzo millennio? Un io-in-relazione, che riconosce e coltiva fino in fondo i propri rapporti costitutivi (con
Dio, con il prossimo e con se stesso) o un individuo autonomo ed autoreferenziale fino al narcisismo, mero prodotto
del proprio esperimento?
“Da Il Sole 24 Ore del 25 gennaio 2014”
Educare
in spirito
di famiglia
Educare in spirito di famiglia è l’invito che il Cardinale
Arcivescovo Angelo Scola rivolge alla comunità cristiana,
chiedendo a parrocchie, oratori, associazioni e movimenti di
allearsi e aprirsi ad un confronto ampio, non solo al proprio
interno ma anche nell’ambito del territorio, con tutte le
realtà sociali, scuola, società sportive e culturali, istituzioni
e soprattutto con le persone che svolgono un’azione educativa, incrociando vite e destini di adolescenti e giovani; delle nuove generazioni, dunque.
Educare in spirito di famiglia…
Educare: la prima sottolineatura.
E ricchissimi sono gli spunti di riflessione che ci sono stati offerti dalla Parola di Dio e dalle parole del Cardinal Angelo Scola che abbiamo ascoltato.
Come adulti, nei diversi ruoli che rivestiamo nei confronti dei giovani, dobbiamo riprendere consapevolezza che
siamo educatori; genitori, catechisti, animatori, insegnanti,
comunque educatori che accompagnano i ragazzi condividendo un tratto di strada del loro percorso di vita.
Educatori consapevoli che nulla di ciò che facciamo può
essere casuale perché tutto di noi diventa esempio.
Educatori consapevoli che nessuna delle nostre parole
deve sfuggirci di bocca, ma deve prima passare al vaglio dell’intenzione della mente e del cuore perché siano parole che
aiutano a crescere e costruiscano relazioni significative.
Un atteggiamento incoerente azzera la credibilità e fa
perdere la fiducia; una parola vuota di significato o pesante
nel giudicare, ferisce il cuore e spezza la relazione!
In spirito di famiglia…
La seconda sottolineatura.
Ma qual è lo spirito di famiglia? Lo stile delle relazioni in
famiglia?
In famiglia ci si conosce, ci si rispetta, ci si ascolta, ci si
aiuta, ci si perdona… famiglia è stare insieme, vivere insieme in modo stabile, famiglia è unione, unità.
In questo particolare momento epocale caratterizzato da
frammentazione, individualismo, instabilità, la Sfida Educativa è stare insieme, è fare gruppo tra noi educatori, allearsi in un patto educativo che solo nella sinergia può produrre azioni efficaci.
Essere “comunità educante”, come chiede il Cardinale,
significa coinvolgersi in quanto genitori, educatori, catechisti, insegnanti, allenatori, sacerdoti e religiose e fare comunione tra noi attorno al medesimo valore: la “persona del ragazzo”, animati dalla medesima passione: “educare”.
La “comunità educante” è la parrocchia nelle sue varie figure, cioè tutti coloro che amano Gesù e parlano di Gesù, e
diventano “comunità educante” perché, come in famiglia, si
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conoscono, si incontrano, si parlano, si stimano, si aiutano,
ed insieme elaborano il “progetto educativo” per i loro ragazzi, adolescenti, giovani; “progetto educativo” che tiene
conto dei bisogni di quei ragazzi, con le loro storie, i loro problemi, le loro aspettative, il loro potenziale.
“Progetto educativo” calibrato su misura per quei ragazzi che vivono in quella comunità e non per prototipi di adolescenti e giovani descritti nei saggi di psicologia e nelle indagini sociologiche.
Se, come dice Papa Francesco «i pastori devono sentire
l’odore delle pecore» possiamo dire che l’educatore deve avere nella mente e nel cuore i volti e le storie dei suoi ragazzi
e quando programma una qualsiasi azione educativa (dalla
vita in famiglia al gioco, dalla catechesi alla celebrazione liturgica) la deve fare pensando al modo più adatto per coinvolgerli in quella attività e mettere così in moto un gioioso
cammino di fede dentro il quale, ognuno di loro, possa crescere come persona e incontrare personalmente Gesù per
crescere anche come cristiano.
L’educatore cristiano non è il soggetto primario dell’educare ma un mezzo, uno strumento, un facilitatore nel far incontrare i suoi ragazzi con Gesù.
E lo fa perché avendo lui stesso incontrato il Signore, sa
che il Vero-Unico Bene che può fare ai suoi ragazzi è dare
anche a loro questa straordinaria opportunità…perché la
loro gioia sia grande e la loro vita sia piena.
Scrive S. Ambrogio nel IV secolo dopo Cristo: «L’educazione è impresa per adulti disposti ad una dedizione che dimentica sé stessi. Il bene dei vostri figli sarà quello che loro
sceglieranno: non sognate per loro i vostri desideri. Basterà
che insegnate loro ad amare il bene e guardarsi dal male…non pretendete dunque di disegnare il loro futuro: siate
fieri piuttosto che vadano incontro al domani di slancio anche quando sembrerà che si dimentichino di voi…più dei vostri consigli li aiuterà la stima che hanno di voi e la stima
che voi avete di loro; più di mille raccomandazioni soffocanti saranno aiutati dai gesti che vi videro compiere.
I vostri figli abitino la vostra casa (aggiungo le vostre parrocchie, i vostri oratori, le vostre aule) con quel sano trovarsi bene che mette a proprio agio e incoraggia anche ad uscire di casa, perché mette dentro la fiducia in Dio e il gusto
di vivere bene».
Quanta sorprendente verità pedagogica e quanta sorprendente attualità in queste parole! Scritte più di milleseicento anni fa!
Ma lo sforzo per diventare “comunità educante” non ci
deve spaventare; non significa moltiplicare le iniziative o inventarsi chissà quali strabilianti novità. Significa semplicemente valorizzare quello che già c’è, che già si fa, ma mettendosi insieme, creando sinergia.
Tanti rematori che su una barca remano per loro conto,
fanno una gran fatica, rischiano di contrastarsi a vicenda e
di far girare a vuoto la barca su sé stessa, ma se si coordinano insieme, remando con lo stesso ritmo e nella stessa direzione, fanno meno fatica, la barca tiene la rotta e corre veloce verso la meta.
Consolidato lo stile della “comunità educante” poi, siccome “il campo è il mondo” (e i ragazzi vivono nel mondo e devono essere attrezzati per andare incontro al futuro nel
mondo) la “comunità educante” dovrebbe sentire l’esigenza
di aprirsi a quel mondo che è il territorio nel quale è inseri-
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ta, con tutte le varie proposte educative che il territorio offre.
Certamente la “comunità educante” ha nel suo progetto
educativo la visione cristiana della persona e della vita, ma
anche altre agenzie educative spesso perseguono e trasmettono valori autenticamente umani altrettanto positivi.
Se per primi facciamo il passo per incontrarle, conoscerle, parlare degli stessi ragazzi che ci sono stati affidati, ancora di più renderemo efficace l’azione educativa e inoltre
daremo testimonianza, saremo sale e lievito nel campo che
è il mondo.
A questo punto, come frutto della nostra preghiera e riflessione, potrebbero concretizzarsi almeno un paio di “progetti” magari decanali per conoscerci e per imparare lo stile relazionale dell’incontro, della capacità di stabilire relazioni costruttive di collaborazione perché, è vero che “lavorare insieme” non è facile (e non possiamo correre il rischio
della contro-testimonianza nel campo che è il mondo).
È anche vero che si può imparare “l’arte dell’incontrare”, della collaborazione rispettosa dei diversi ruoli, che sa
costruire e mediare senza perdere la propria identità ma
senza nemmeno sfoderare l’arroganza di chi s’impone ad ogni costo. (Ma di questo se ne può riparlare in un’altra occasione).
Tornando allo spirito di famiglia va detto che lo spirito di
famiglia è soprattutto l’amore!
Come non ricordare a tale proposito il grande educatore
della gioventù: Don Bosco.
E non è una coincidenza che al termine delle giornate dedicate all’educazione la nostra Diocesi accolga la Peregrinazione dell’Urna del santo educatore che dell’amore per i giovani e della loro educazione ha fatto un motivo per spendere la vita fino in fondo e che per questo il Beato Giovanni
Paolo II ha definito il “padre e maestro della gioventù”.
Diceva Don Bosco: «Ricordatevi che educare è cosa del
cuore e che Dio solo né è il padrone e noi non potremmo riuscire a cosa alcuna se Dio non ce ne insegna l’arte e non ce
ne mette in mano le chiavi. Educare è cosa del cuore…chi sa
di essere amato, ama, e chi è amato ottiene tutto soprattutto dai giovani. Se sarete padri dei vostri allievi bisogna che
voi ne abbiate anche il cuore».
Dire che “educare è cosa del cuore” non significa certo
farne una questione sentimentale o sdolcinata.
Nella mia esperienza ho constatato che quando si scava
nel passato di giovani difficili che magari si sono anche cacciati nei guai, quasi sempre si scopre un deserto di affetti, di
cura, di presenza di adulti affidabili.
Chi non ha sperimentato su di sé il calore di un’attenzione premurosa, la tenerezza di un volto amico, la fermezza di
una mano che accompagna e sostiene, chi insomma non ha
incontrato un adulto-educatore più facilmente si smarrisce
e finisce allo sbando.
Vorrei concludere condividendo con voi un pensiero che
si fa preghiera:
“Ti sono riconoscente, Signore, perché nella mia vita ho
avuto la grazia di incontrare educatori magnanimi, e quando sono diventata educatore, a mia volta, è stato per donare, almeno in parte, quanto avevo ricevuto. AMEN”.
Prof.ssa Bianca Mira
Docente di IRC Sec di 2° grado
IST. ISTR. SUP. C.A. DALLA CHIESA - Sesto Calende
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Vigevano,
vuole scappare
da scuola ma
scivola e cade
dalla finestra
Cosa puoi fare se a scuola proprio non ti va di restare, se
tua madre ti pressa, e se non sai più cosa inventarti per andartene via? Allora provi a scappare, in qualche modo, anche dalla finestra. Deve essere stato questo il ragionamento
che ha guidato, ieri mattina intorno alle 8.45, i gesti di una
tredicenne che frequenta la media “Besozzi”, in viale dei
Mille. Per lei, alla fine di questa brut-ta avventura, solo una
distorsione alla caviglia, e tanto spavento.
La ragazzina, che era stata accompagnata a scuola dalla
madre, è entrata come al solito nell’istituto, poi in aula, e ha
lasciato la cartella vicino al banco. Poi ha preso la strada dei
bagni. La mamma aveva voluto accertarsi che arrivasse in
classe, segno che forse qualche for-ma di malessere era già
evidente.
I servizi devono esserle sembrati una specie di oasi, un
luogo in cui rifugiarsi lontano dagli obblighi di interrogazioni, domande, verifiche, dalla vita quotidiana di uno studente. Ma se sulle tue spalle pesa una situazione famigliare
non proprio idilliaca e non ti va di sentirti ripetere sempre
le stesse parole, allora l’unica via di scampo resta la fuga.
Tra le piastrelle bianche e i lavandini tutto le è apparso più
chiaro: uno sguardo fuori, dal secondo piano, un rapido calcolo, e via, si va. La giovane si è calata dal cornicione, tentando un salto su un muretto più in basso, all’altezza di tre
metri. A quell’età qualche volta si guardano ancora i cartoni animati, lanciarsi dalla finestra deve essere sembrata
una soluzione possibile, fattibile. Ma così non è stato: la ragazza è caduta, e si è distorta una caviglia, con una prognosi di qualche decina di giorni. Sul posto sono immediatamente intervenuti i soccorritori, che l’hanno portata al Policlinico San Matteo, da cui è stata dimessa già nel pomeriggio. Le prime indagini effettuate dai carabinieri della stazione di Vigevano hanno subito accertato che non si è trattato di un tentativo di suicidio, ma solo di un episodio che ha
manifestato un disagio legato a dissidi di origine familiare.
Appena dopo l’episodio si sono scatenati, come sempre, i
commenti su Facebook, ma la dinamica dei fatti, confermano gli inquirenti, porta a escludere con certezza l’ipotesi che
la tredicenne volesse togliersi la vita. Alle sue spalle invece
qualche problema con i genitori, in fase di separazione: anche cadere dalla finestra, a volte, serve a mostrare al mondo quanto queste situazioni fanno male, anche ai ragazzini
che guardano ancora i cartoni, qualche volta.
Simona Marchetti
Come nasce
una guerra?
Perché
cominciano
i massacri?
Il racconto
di un ex
pioniere di Tito
Come nasce una guerra? Da cosa originano i massacri, le
distruzioni, gli stupri, le mille umiliazioni cui essa conduce?
Cosa spinge un uomo ad annientarne un altro? Ogni guerra
nasce in un modo proprio, irripetibile. Quella di cui mi sento di parlare con più cognizione di causa è quella che ho vissuto in prima persona, a Mostar, fino alla metà del 1993,
quando da ragazzino sono giunto in Italia come profugo
scappando dalla guerra fratricida della Bosnia ed Erzegovina: 100 mila morti e circa 2 milioni di sfollati, su una nazione che oggi non raggiunge i 4 milioni di abitanti. La guerra
è una bestia a cui non ci si abitua mai, nemmeno ai motivi
che l’hanno scatenata.
Di sicuro però non è un evento che capita dall’oggi al domani. Come il nazismo di Hitler non si strutturò né col Putsch di Monaco né con l’incendio del Reichstag, bensì ancor
prima nel sentire della nazione tedesca, così quella in Bosnia ed Erzegovina non scoppiò in seguito al referendum del
marzo 1992 sull’indipendenza dalla Federazione jugoslava
creata dal maresciallo Tito, perché era già deflagrata nei
cuori del popolo di una nazione eterogenea sorretta dall’illusione della religione laicista di Stato.
Don Giussani diceva: «In verità, se uno non nasce da un
popolo, cioè se non fiorisce da una realtà sociale naturalmente fondata e organicamente identificata, avrà molta difficoltà per raggiungere una completezza dei suoi fattori».
La Bosnia ed Erzegovina non era una realtà organicamente
identificata: crollando l’involucro socialista che artificialmente teneva insieme animi diversi, restava un acuto senso
di smarrimento, di fallimento esacerbato da un tracollo economico rimandato fino all’agonia di un’inflazione assurda, di una disoccupazione e corruzione inconcepibili.
La guerra nasce da un vuoto di senso. Dostoevskij diceva
che «tutta la legge dell’umana esistenza sta in questo: che
l’uomo possa inchinarsi all’infinitamente grande». Ecco, in
Bosnia d’un tratto pareva non restare più niente, nessun simarzo 2014
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stema o ideologia a cui rivolgere l’innata ricerca di assoluto.
Eppure era terra di grandi tradizioni religiose, di secolari
crocevia culturali. All’alba della guerra restavano invece
tanti figli di “babbo natale”, come orfani increduli, cresciuti coi pacchi regalo elargiti alla prole dei dipendenti dalle aziende socialiste (tutte), per mezzo del misterioso signore
vestito di rosso l’ultimo dell’anno, per conto di uno Stato educatore che aveva instillato nelle menti di generazioni i
dettami di una morale intrisa di concetti e princìpi etici altisonanti, ma monchi di sostanza: fratellanza e unità. Inutili perché sempre più privi di testimoni.
Infatti, era passato ormai un decennio da quando la salma di Tito, morto nel 1980, a bordo di un treno aveva attraversato in lungo e in largo la Jugoslavia, quasi un disperato monito all’unità, ricevendo l’ultimo commosso saluto
di una popolazione che inconsciamente presagiva il futuro
di una terra che pochi come lo scrittore Ivo Andric hanno
descritto: «I vizi dovunque generano l’odio, perché consumano e non creano, ma nei paesi come la Bosnia, anche le
virtù spesso parlano e si esprimono attraverso l’odio». Fu il
decennio in cui si gettarono le basi degli orrori che sarebbero seguiti. Il nazionalismo esplose come un’epidemia inarrestabile, alimentato da oscuri personaggi come Slobodan
Milosevic (ma non solo), che iniziarono a cavalcare il malcontento diffuso.
“Profetico” fu il discorso che Milosevic tenne nel 1989, in
occasione del seicentesimo anniversario della storica battaglia della Piana dei Merli (Kosovo Polje), combattuta dall’esercito serbo contro quello ottomano: «L’eroismo del Kosovo ha ispirato la nostra creatività per sei secoli, e ha nutrito
il nostro orgoglio e non ci consente di dimenticare che un
tempo fummo un esercito grande, coraggioso, ed orgoglioso,
uno dei pochi che non si potevano vincere nemmeno nella
sconfitta». Era già lì, anticipata, la lucida follia che avrebbe
guidato le mani insanguinate di tutti gli schieramenti, dando adito a un risentimento che covava dentro da generazioni e generazioni.
incolte avevano coperto “il compagno” di prima; antichi
stemmi razziali issati sui copricapi, aquile, croci e mezzelune, avevano rimpiazzato la stella rossa dei partigiani canonizzata per legge da Tito dopo la vittoria sul nazifascismo.
Quegli uomini infiammati dall’alcol che ribolliva dentro
ventri troppo grossi per quelle divise ancora nuove dell’esercito federale della Jugoslavia ardevano per affermare, ognuno per la sua fazione, una superiorità etnica e morale, fino ad arrivare al genocidio di massa. Erano uomini mediocri, ma la storia insegna che proprio questi sono in grado di
prenderne le redini; la stessa gente che incarnava quella
“banalità del male” raccontata da Hannah Arendt decenni
prima rimuginando sulla brutalità dell’eccidio nazista, dove
il male tra i suoi servitori non ha visto i demoni ma grigi burocrati. Tecnici in grado come pochi di piombare l’esistenza
altrui. Vicini di casa trasformati in carnefici.
Nel nascere di una guerra, e di qualsivoglia spirito d’appartenenza, importantissimi sono i simboli che incarnano le
idee. La Bosnia di inizio anni Novanta era diventata un supermarket della simbologia. Sulla montagna che sovrasta la
città di Mostar, prima della guerra era riportata una gigantesca scritta: «Tito volimo te» (Tito ti amiamo), sostituita
oggi da «BiH volimo te» (Bosnia ed Erzegovina ti amiamo);
un cambiamento paradigmatico del comune sentire.
Così dalle mille varianti di stemmi e fiamme incorniciate
a falce e martello e la mitizzazione dei salvatori della patria,
attraversando un insostenibile vuoto di senso dove anche i
più coriacei precetti comunisti vacillavano, si passò velocemente ai rosari e ai tasbeeh islamici, ai crocefissi e alle mezzelune verdi. Solo che ciondolavano appesi attorno al caricatore dei proiettili, imbrattati sul calcio di un kalashnikov
o sulle fasce che cingevano le fronti di improbabili Rambo.
D’un tratto schiere di neofiti cominciarono a battersi le mani sul petto, ognuno per il suo branco, rimpiazzando il credo marxista con un’adesione di superficie ai nomi di Cristo
e Maometto il Profeta, insultandoli, perché presero ad ammazzare invocando i loro nomi; il tutto veicolato da un linguaggio nuovo, caustico e sdegnoso del passato.
Gli occhi di un bambino
Ma se questa è un’analisi a posteriori, attraverso gli occhi di un fanciullo, la guerra si chiama innanzitutto insicurezza, lo stravolgimento di ogni tipo di relazioni. A cominciare dalla scuola, le cui attività da singhiozzanti si interruppero del tutto, dopo che fu centrata da una delle migliaia
di granate che cominciarono a precipitare incessantemente
dal cielo. Già prima, come tutti i ragazzini che crescendo si
affacciano fuori dal proprio quartiere, sempre più ci spostavamo verso la periferia della città dove comparvero posti di
blocco. Prima la polizia, poi l’esercito regolare e infine paramilitari sinistri dall’accento strano. Non capivamo. Camion e jeep ai lati, carri armati in mezzo alla strada; facce
torve che intimano l’alt, chiedono documenti, scherniscono
chi porta il nome di un’altra fede.
Il tutto in un paese in cui l’unico dogma era quello del
socialismo applicato trasversalmente in ogni ambito della
società. Ma in quei visi feroci, fino a ieri ostentatamente votati agli egualitarismi e tesserati nell’unico partito, che militavano in comizi e spandevano il credo della “fratellanza
e uguaglianza”, non c’era più traccia di tutto ciò. Le barbe
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Le “profezie” della tv
La tv di Stato catalizzava l’audience con sceneggiati che
profetavano la fine della Jugoslavia e per strada ad ogni angolo si raccontavano barzellette che irridevano gli altri. Presto sarebbe crollato tutto sotto il tuono dell’artiglieria pesante e degli inni di battaglia di secoli addietro, che rievocavano antichi eroi epici e una grigia malinconia del “si stava
meglio prima” che cominciò ad attraversare le menti degli
uomini, tanto velocemente che il nazionalismo presto cedette il passo allo sciovinismo puro.
Chi scrive ha incarnato l’ultima generazione dei “pionieri di Tito”, partecipando con tutti i coetanei ad un rito collettivo previsto dal programma scolastico, che consisteva
nel seguente giuramento: «Oggi che divento un pioniere do
la mia parola di pioniere che studierò e lavorerò con impegno, e che sarò un buon compagno; che amerò la nostra patria autogestita la Repubblica Socialista Federale Jugoslava. Che contribuirò nello sviluppo della libertà e della fratellanza e delle idee per le quali ha lottato Tito; che rispet-
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Nel ricordo delle Foibe
terò tutti i popoli del mondo che amano la libertà e la pace».
Nello stesso modo negli anni avevano giurato intere generazioni di pionieri, si erano issate sul copricapo blu la stella rossa e sulle spalle il foulard rosso come il sangue dei partigiani versato per edificare la nuova impalcatura sociale,
proterva quanto evanescente. Ecco, la guerra origina anche
in questo, nel disprezzo del presente.
Ma quali sono i risultati a cui essa ha condotto questo
paese? Oggi la Bosnia è molto cambiata, in peggio. Un’economia collettivista implosa su se stessa, mutata nell’opposto della sua stessa origine: un capitalismo selvaggio che
raccoglie una disoccupazione del 50 per cento. E la guerra?
È solo assopita, perché l’odio o lo sradichi del tutto o ricresce da sé.
Più che pace c’è una tregua apparente, calmierata dalla
forza militare internazionale e dalle sponsorizzazioni dei loro governi. Una nazione in cui sono poche le famiglie che
non piangono un morto, il cui sangue bolle ancora nei vivi
per l’esito del conflitto stesso: una repubblica, la Bosnia ed
Erzegovina, divisa a sua volta in due realtà, la Repubblica
serba e la Federazione croato-musulmana. Un caso unico al
mondo, così complesso nel suo apparato di funzionamento ideato per garantire un equilibrio precario da condannarlo il
più delle volte all’immobilità.
La guerra nasce anche dalla dimenticanza. Nel Levitico
c’è scritto: «Onora la faccia del vecchio». E Israele è da sempre invitato allo Shemà, ad ascoltare. Ma ascoltare si può solo se si fa memoria viva di ciò che ci costituisce. Nella Bosnia
di allora non c’era più niente da onorare e poco in cui credere. Il sistema era fondato su un’illusione ontologica: aveva la pretesa di rivestire lo Stato del potere di creare l’uomo
buono, moralmente integerrimo, esclusivamente per mezzo
della legge. Non aveva fatto i conti con la caratteristica prima dell’uomo: la libertà.
Foibe:
la censura
continua?
tini nel settembre 1943 e dalla primavera del ’45.
La firma del Trattato di pace, imposto all’Italia dai vincitori (che non tennero il minimo conto della «cobelligeranza», delle forze della Resistenza, eccetera) il 10 febbraio
1947, non fu privo di reazioni negative, anche da parte di esponenti antifascisti che vanamente si opposero a quelle
clausole.
Seguì l’esodo di 350 mila italiani dall’Adriatico orientale;
quegli antichi filmati in bianco e nero che mostravano lo
sradicamento violento di radici culturali e socioeconomiche,
e lo spezzamento di famiglie tra giovani che potevano ancora aspirare alla vita e anziani condannati alla non speranza
nel regime comunista slavo, sono state allora interpretate
come testimonianze di fascismo o revanscismo da parte di
quanti non accettavano un’analisi storica articolata di quelle vicende. Un progressivo monopolio ideologico-culturale
assolutizzante fino a controllare la memoria storica e le relative fonti di diffusione, con la complicità opportunistica e
vile di un’intera classe politica, impose il silenzio.
Nelle foibe, testimonianze atroci di pulizia etnica anti-italiana (in cui persero la vita decine di migliaia di italiani),
furono precipitate allora le testimonianze e la memoria dei
reduci, dei sopravvissuti, degli scampati. Achille Occhetto
ha dichiarato pochi giorni fa di aver «appreso del dramma
delle foibe solo dopo la ‘svolta della Bolognina’. Prima non
ne ero mai venuto a conoscenza »; testimone con ciò dello
straordinario successo dell’operazione-silenzio. Occorsero
Dieci anni fa veniva istituito il «Giorno del
Ricordo»: un’occasione storica per rompere la
congiura del silenzio sulle vittime dei titini.
C’è una faziosità atavica nella cultura politica che, comprensibilmente, diventa rancore ottuso al momento in cui
l’accertamento storico-critico investe il Moloch irragionevolmente granitico e violento della ‘vulgata’ resistenziale.
Un’isteria e un’insistenza banalmente provocatoria dell’affronto si risveglia in due circostanze: al ricordo dell’eliminazione, ad opera di partigiani comunisti, dei partigiani cattolici della «Osoppo» a Porzus nel febbraio 1944, uomini colpevoli di difendere territorio e popolazioni italiane dal disegno annessionistico titino; e il ricordo dei massacri degli italiani della Venezia Giulia, Istria, Dalmazia, da parte dei ti-
Il pensiero all’Italia in tempesta
Una tentazione che puntualmente ritorna, anche nell’Italia di oggi “senza nocchiero in gran tempesta” come forse
mai nella sua storia repubblicana. No. Non è possibile insufflare nell’uomo la bontà e il rispetto del prossimo per
mezzo del diritto positivo o di princìpi etici privi di adesione
volontaria. È una tentazione pericolosa che può condurre
molto in basso.
Ma la guerra non è solo quella delle armi. Ce n’è una più
strisciante, subdola perché non dichiarata. È quella che coltiva la cultura del sospetto, della denuncia del prossimo, la
messa alla gogna a priori di ciò che è altro; che crea indifferenza. E non c’è credo, nazionalismo o convinzioni politiche
che tengano davanti al disprezzo dell’altro tanto da volerlo
annientare.
La guerra nella Bosnia ed Erzegovina può essere in questo senso letta come una tragica allegoria della natura umana, perché la guerra ancor prima che sui campi di battaglia
nasce dall’ineducazione e dall’inedia del dialogo vissuto, che
non può che passare dalla famiglia, dalla scuola, dai gruppi
sociali, perché solo in questo modo si concretizza la tensione
verso la vera pace e la riconciliazione di un popolo non resta
un discorso frivolo; perché incarnato nelle persone.
Alen Custovic
Tratto dalla rivista “Tempi” del 23 Ottobre 2013
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70 anni per giungere a riparlarne fuori dai piccoli, riservati
circuiti degli esuli.
Giusto dieci anni fa, il Parlamento votò pressoché all’unanimità la legge 92/2004 che dedicava il 10 febbraio, ricorrenza della firma del Trattato di pace, alla «memoria delle
vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale ». Apparvero timide lapidi di ricordo e qualche via o parco intitolato alle vittime delle foibe; lapidi subito infrante: alto il rischio di ricordare, anche da
semplicissime righe, che l’impianto ideologico costruito e
imposto a difesa dell’indifendibile non poteva consentire di
sbirciare oltre l’epicizzazione comunista, meno che mai accertare fatti tramandati da lapidi e monumenti falsi, medaglie con motivazioni farisaiche, in un sistema complesso di
rigorosa vigilanza ideologica interna e internazionale.
Sperimentato persino dal presidente Napolitano che, coraggiosamente, in occasione del suo primo «Giorno del Ricordo» celebrato da capo dello Stato, ricordò quelle «miriadi di tragedie e di orrori» conseguenti a «un disegno annessionistico slavo», richiamando all’assunzione della «responsabilità dell’aver negato, o teso ad ignorare, la verità». Seguirono reazioni insultanti dell’allora presidente croato Mesic, capace di scorgere in quelle parole «elementi di aperto
razzismo, revisionismo storico e revanscismo politico».
Nient’altro!
Oggi, di fronte all’accettazione diffusa d’una realtà non
più silenziabile (malaugurato crollo del muro di Berlino!),
cambia il metodo: ciò che non è più nascondibile va allora ascritto alle precedenti responsabilità fasciste, talmente gra-
vi e violente da giustificare una reazione slava. Ma se ne sono accorti solo ora? Perché non dirlo nei decenni del silenzio forzoso? Allora è stato silenziato persino l’antifascismo.
Comunque attenzione: che il poi sia determinato da un
prima non cronologico ma causale l’aveva detto anche Nolte, denunciando il nazismo come reazione al comunismo e il
lager come conseguente al gulag. Non ebbe vita facile, ma
può contare ora su un po’ di attardati seguaci. Basta, comunque, col mito degli «italiani brava gente» (anche se occorrerà reinterpretare Nuto Revelli, il quale incautamente
ricordava che in guerra, nell’Unione Sovietica di Beppe Stalin, i soldati tedeschi presi prigionieri venivano fucilati sul
posto, gli italiani avviati ai lavori forzati).
Simone Cristicchi dà vita ad uno spettacolo toccante, dedicato alle speranze estreme e alle vite degli esuli italiani
racchiuse in qualche scatolone ammassato a Trieste nel
«Magazzino 18»; grande pathos e grandi riconoscimenti critici; bene, immediate proposte perché gli venga ritirata la
tessera ad onore dell’Anpi. E allora altrove va in scena Io odio gli italiani, pièce sulla drammatica vita nei campi di
concentramento italiani da Gonars ad Arbe (chissà se anche
sulle testimonianze degli ebrei qui internati?). Iniziative sospette di puntuale opportunismo, utile a creare il «caso» e
dunque a godere di qualche richiamo di cronaca, e di banale prevedibilità, che testimoniano del successo del «Giorno
del Ricordo»; come una lapide infranta: al silenzio lacerato
segue la violenza. Hanno perso.
Pio XI e l’idea
di Chiesa
moderna
dizio sul suo papato risultava molto complesso perché quei
17 anni erano stati particolarmente densi e gravi. Infatti da
quel 6 febbraio 1922 quando al quattordicesimo scrutinio,
dopo un conclave aperto alle ore 18 del 2 febbraio, Achille
Ratti era stato eletto col nome di Pio XI, si era snodato un
pontificato dai profili molteplici.
Dal punto di vista meramente metodologico, si deve riconoscere che nella ricostruzione di quell’itinerario è necessario coinvolgere non soltanto gli storici, ma anche i teologi, gli
esperti di politica e i pastoralisti e persino gli scienziati, se solo si pensa alla costituzione della Pontificia Accademia delle
Scienze il 28 ottobre 1936. Tanto per esemplificare, è facile
risalire col pensiero (nel fluire degli anni antecedenti a quel
10 febbraio 1939) allo straordinario impegno teologico legato alle sue molteplici encicliche, attente a sondare, vagliare e
a giudicare il mutamento epocale che stava consumandosi
nella società e nella cultura.
Ma proprio attorno a quella morte si è raggrumato l’interesse storiografico per gli ultimi suoi atti espliciti e incompiuti. Facile è evocare la reazione di Papa Ratti nei mesi precedenti all’ondata di paganesimo nazista e di antisemitismo
che stava fluendo dalla Germania hitleriana sull’Europa. Il
discorso del 6 settembre 1938 ai pellegrini della radio cattolica belga, all’indomani dei primi provvedimenti razziali fascisti, fu emblematico sia per la passione sia per il messaggio
espresso in quelle parole che sono diventate simboliche: «Noi
siamo della discendenza spirituale di Abramo..., noi siamo
spiritualmente dei semiti». Un pronunciamento di incompatibilità netta del razzismo e dell’antisemitismo con la tradi-
Dalla condanna delle leggi razziali al Concordato
del ’29, l’attenzione di papa Ratti per i mutamenti
che si delineavano in quello scorcio di ’900 ha
posto le basi per una presenza sempre più ampia
del mondo cattolico nella società.
Il 2014 vede aggregarsi una sorta di piccolo grappolo di
commemorazioni attorno alla figura di Pio XI, scandendo
tappe diverse della sua esistenza. Intendiamo subito riferirci
al primo elemento biografico più vicino a noi, il 75° della
morte, avvenuta il 10 febbraio 1939. Egli ora riposa nelle
Grotte Vaticane sotto un monumento funebre dello scultore
Francesco Nagni (1897-1977) che lo rappresenta deposto
nella ieratica fissità sia della salma avvolta nei paramenti
pontificali sia del candore del marmo. In quel momento finale, così come oggi a distanza di tre quarti di secolo, il giu-
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Paolo Simoncelli
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zione cristiana che è radicata nella Bibbia. Come segnala lo
storico Giovanni Miccoli, fu questa «una dimensione di contrapposizione e di rifiuto dell’antisemitismo che è essenzialmente nuova nel magistero ecclesiastico ». A questo poi si
dovrebbe aggiungere la complessa vicenda della progettazione di un’enciclica contro il razzismo e l’antisemitismo, che è
stata oggetto di varie analisi storiografiche riguardo al suo
tormentato processo di elaborazione. Tutto, comunque, ebbe inizio a fine giugno 1938 e quindi alle soglie della data finale che stiamo ora considerando. Infatti fu allora che Pio XI
affidò al gesuita americano John La Farge (1880-1963) il
compito di abbozzare un’enciclica su quell’argomento, esponendogli però già «il tema nelle sue grandi linee, il metodo da
seguire, i principi da osservare». Al di là dell’esito finale e
delle relative discussioni, rimane indubbia la consapevolezza di Papa Ratti nei confronti di un veleno che stava diffondendosi e che egli aveva già per certi versi denunciato nella
precedente e ben nota enciclica Mit brennender Sorge del 14
marzo 1937. Questa, tra le tante del suo magistero, è una
delle eredità che la Chiesa deve continuamente raccogliere e
rendere feconda, anche attraverso il rimando alle Sacre
Scritture anticotestamentarie oltre che nella lotta contro ogni rigurgito razzistico e contro ogni forma di discriminazione e di intolleranza religiosa e sociale. La seconda data che
commemoriamo nel nostro percorso a ritroso nella biografia
del Papa di Desio è l’85° anniversario dei Patti Lateranensi
siglato l’11 febbraio 1929, un evento che è stato oggetto di
un’imponente analisi e che ha ricevuto i più disparati giudizi, ma che continua (sia pure con la revisione del 1984) a essere uno strumento valido nella relazione tra Chiesa e Stato.
Come scriveva Francesco Margiotta Broglio, «grazie al trattato con l’Italia fascista nel 1929 il Papa era riuscito, da una
parte, a chiudere la questione romana - aprendo spazi sempre più grandi per una presenza della Chiesa nella società italiana - , dall’altra, a recuperare, grazie alla pur quasi simbolica sovranità territoriale, una posizione di primo piano
nella comunità internazionale, che dette al papato un’udienza mai conosciuta sia a livello di governi sia di pubbliche
opinioni, e gli consentì di sviluppare ampiamente il sistema
delle rappresentanze diplomatiche ». Pio XI fu un vero artefice nell’azione concordataria e la lista degli accordi è per
molti versi impressionante: oltre a quello con l’Italia, si registrano precedentemente nel 1922 il concordato con la Lettonia, nel 1924 quello con la Baviera, nel 1926 con la Polonia,
nel 1927 quelli con la Lituania e con la Romania, nel 1928
con la Cecoslovacchia, nel 1929 con la Prussia, nel 1932 col
Baden, nel 1933 i concordati austriaco e germanico, nel 1935
con la Iugoslavia. Si devono, poi, aggiungere gli accordi parziali con la Francia nel 1924 e 1926 e col Portogallo e con l’Ecuador nel 1937. È noto che questo regime perdura nella
prassi ‘politica’ della Santa Sede con una sua validità teorica e pratica e ha segnato nei pontificati successivi altre attuazioni e nuove tipologie.
È, tuttavia, altrettanto noto che non sono mancate critiche anche in ambito teologico. Certo è che questo istituto si
colloca all’interno di un discorso molto più ampio e delicato,
quello del rapporto tra fede e politica e tra religione e laicità.
Su questo tema, anch’esso oggetto di ricerche approfondire
e di taglio differente, vorremmo suggerire ora una riflessione essenziale e sintetica di indole metodologica, partendo da
un testo evangelico capitale, in pratica dall’unico pronuncia-
mento politico esplicito di Gesù. Egli viene, infatti, provocato dai suoi avversari a intervenire sulla questione fiscale, ossia sul tributo imperiale da versare da parte dei cittadini dei
territori occupati da Roma, un tema sul quale interverrà anche san Paolo in un passo veramente sorprendente della Lettera ai Romani (13,1-7).
La replica di Cristo ai suoi interlocutori è lapidaria: Tá
Káisaros apódote Káisari kai ta Theoú Theó, «Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio». Si può leggere l’episodio sia nel Vangelo di Matteo (22,15-22), sia in
quello di Marco (12,13-17) o di Luca (20,20-26). Risposta tagliente e a prima vista netta nel tracciare una linea di demarcazione che dovrebbe esorcizzare ogni teocrazia (la shari’a musulmana, per la quale il codice di diritto canonico diventa il codice civile, non è evangelica) e ogni cesaropapismo.
Tuttavia, il discorso è più sofisticato e complesso se si tiene
conto della parabola in azione che Gesù sviluppa attorno a
quella frase. Si delinea un profilo specifico dell’area ‘di Dio’
distinta da quella ‘di Cesare’. Si tratta della tutela della dignità superiore e inalienabile della persona e della sua natura intrinseca: la libertà, le relazioni, l’amore, i grandi valori
etici assoluti della solidarietà, della giustizia, della vita non
possono essere meramente funzionalizzati all’interesse politico-finanziario e piegati esclusivamente alle esigenze delle
strategie del sistema o del mercato. La missione dei profeti
biblici e dello stesso Cristo è stata appunto quella di essere
una sentinella sulla frontiera tra Cesare e Dio, proprio nella
difesa di questi valori. Memorabile è il «Non ti è lecito!» che
Giovanni Battista grida all’arroganza del potere del re Erode Antipa. Martin Luther King nel suo scritto Forza di amare, affermava: «La Chiesa non è la padrona o la serva dello Stato, ma è la sua coscienza.
Gianfranco Ravasi
Eppur si
muove... arriva
la primavera
pedagogica
Ventata di rinnovamento nella giornata di studio regionale per la scuola. L’appuntamento annuale della consulta regionale ecclesiale ha fatto germogliare speranze di innovazione pedagogica. Eminenti rappresentanti della Chiesa e
delle associazioni di insegnanti e genitori hanno profuso a
piene mani il desiderio di cambiamento nel mondo della scuola. Il titolo scelto per la giornata di studio “Etica professionale e impegno educativo dei docenti per una scuola della società civile” identifica l’iniziativa nella direzione di rivisitare
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il ruolo degli attori della scuola e della società civile per una
rinnovata responsabilizzazione della professione docente.
La scuola deve riprendere il suo protagonismo valorizzando l’operato dei suoi componenti all’insegna di un atteggiamento relazionale tra docenti e studenti che sia consapevole dei limiti, delle regole, degli insuccessi, intesi come ripartenze, e del confronto propositivo nel rispetto del ruolo e
della libertà dell’altro, dichiara il prof. G. Galimberti , uno
dei relatori. Si lancia, poi, in un’appassionata disamina di ciò
che è oggi la scuola “caleidoscopio della società” e “presidio
sociale” con le relative contraddizioni, i buchi legislativi, la
farraginosa burocrazia che appiattisce l’etica della professione docente e dei servizi sociali e fornisce indicazioni pedagogiche, frutto della sua personale esperienza, per avviare una
riflessione approfondita tra tutte le agenzie educative con
l’obiettivo di migliorare la qualità della scuola italiana.
I capisaldi del cambiamento? Non certo le riforme, proclama Galimberti. Solo la comprensione del significato culturale ed epistemologico delle discipline e l’azione di formazione dei docenti possono favorire il cambiamento e ridefinire la scala valoriale, relazionale e culturale della scuola, intesa come luogo di sacralità e di condivisione dei saperi.
Di saperi parla anche la relatrice Prof.ssa S. Claris, concepiti come strumenti educativi e sottoposti a processo mediato e a funzione assiologia. Nel triangolo pedagogico, insegnanti, alunni e genitori hanno il compito specifico di relazionarsi tra loro in modo organico per evitare la frammentazione educativa e l’individualismo nella società complessa e
liquida. Bisogna allontanare il rischio dell’io ipertrofico individuale per avviare la stagione dell’io in relazione in una comunità educante che educa in modo integrale e globale.
I segnali educativi di una presa di consapevolezza di un
non più rinviabile cambiamento provengono dalle agenzie educative, dalla ricerca pedagogica , dalla Chiesa, dalle sperimentazioni didattiche provenienti da chi vive con estrema
consapevolezza l’etica di un impegno professionale nell’aula
scolastica, vista come “campo pedagogico”.
E lì si gioca anche la partita della libertà dell’insegnamento dove per evitare il rischio dell’anarchismo del docente, afferma la Claris, bisogna ricostruire le “norme” attraverso un negoziato costante tra i soggetti educanti che porti
alla riscoperta di un’etica della responsabilità, oscurata in
passato dalla burocratizzazione.
La linea comune tra i due relatori è rappresentata dalla
necessità primaria della formazione continua dei docenti che
disegni una “rivoluzione gentile” in campo scolastico e sociale dove la persona sia il centro focale del cambiamento pedagogico. La persona e non l’individuo è, infatti, oggetto di
attenzione da parte di studiosi, operatori scolastici e associazioni di genitori e docenti che insieme reclamano l’avvento
di una primavera pedagogica . I germogli vengono forniti anche dalla CEI Con il libretto “La Chiesa per la scuola” dove
viene delineata un’educazione integrale, mutuata da Maritain, e basata sull’alleanza educativa, la sussidiarietà, l’appartenenza, la formazione e l’apprendimento continuo.
In questo progetto si profila un umanesimo integrale e
un’educazione liberale, come specificato da Mons Stucchi e
da Mons. V. Bonati che aprono le porte ad apprendimenti significativi e globali e alzano il vessillo di una forte identità
del docente all’interno della Comunità educante, ricca di spiritualità, passione, relazioni positive, motivazione e didattiche condivise.
Affascinati
dal nulla si torna
al grado zero
e non ancora reale, tutte le informazioni necessarie a produrre l’esplosione stessa. Se il successivo processo entropico viene fatto regredire fino al grado zero, dove l’entropia è nulla
ma le informazioni ci sono e contengono nel tempo immaginario la totalità delle cose che poi si svilupperanno nel tempo
reale, è come se ci fosse dato di giungere al limite estremo dell’universo (per non dire dell’essere) e poi fare ancora un passo. Un passo a nord del polo nord, per usare la paradossale
metafora di Hawking.
Che cos’è questo? Un salto nel nulla? Un tentativo di costruire, nel cuore stesso del nulla, una postazione da cui osservare il prodursi della realtà, il suo venire alla luce, il suo offrirsi a uno sguardo capace di descriverne perfettamente la
manifestazione? Certo è un salto nel grado zero della realtà.
Diciamo pure: un salto nello zero. E allora perché stupirsi? Lo
zero è un numero. Ma un numero straordinario. Simboleggia
ciò che sta prima dell’uno, ma al tempo stesso contiene l’uno,
se è vero che zero elevato a potenza zero dà uno. Contiene non
solo quel che non è ancora ma addirittura quel che esso nega.
Posto lo zero, è posto anche l’uno. E con l’uno la serie infinita
dei numeri, con i numeri il prima e il dopo, vale a dire il tempo, col tempo la possibilità che le cose siano… Accade con il
numero zero quel che accade con il concetto di nulla: ce ne serviamo per indicare una realtà negativa, realtà che non esiste,
eppure grazie ad essi compiamo operazioni altrimenti impossibili o riusciamo a pensare ciò che diversamente resterebbe
Affermando, come gli è accaduto recentemente, che una
‘teoria unificata dell’universo’ è ormai a portata di mano,
Stephen Hawking ha riproposto quello che per Einstein era
un sogno irrealizzabile, ossia la riunificazione in un solo campo delle forze dell’infinitamente piccolo (forza nucleare e radioattività) e delle forze dell’infinitamente grande (elettromagnetismo e gravità). Lasciamo stare se Hawking abbia ragione o pecchi di ottimismo. Chiediamoci piuttosto da dove
Hawking tragga l’idea che fa da corollario alla sua affermazione: quella per cui tale teoria metterebbe Dio definitivamente fuori gioco.
In altri termini, quel che viene sostenuto da Hawking è che
di Dio non c’è alcun bisogno per spiegare il passaggio dallo stato assolutamente inerziale dell’inizio al big bang. Nulla infatti vieta di pensare che lo stato inerziale contenga già, prima
della sua esplosione, e dunque in un tempo solo immaginario,
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Emanuele Verdura
Presidente provinciale AIMC Milano Monza
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Buone notizie
impensato (l’indeterminazione, la libertà, e così via).
Nondimeno… Se ci limitiamo a considerare lo zero un analogo del nulla, quasi che lo zero fosse in matematica quel
che il nulla è in metafisica, perdiamo di vista la differenza essenziale. Lo zero è qualcosa. È un numero, appunto. Un simbolo. È qualcosa che ha pur sempre a che fare con qualcosa,
anche quando questo qualcosa è una realtà puramente negativa o realtà che sta prima della realtà, come il tempo immaginario che sta prima del tempo reale. Invece il nulla non è
nulla. Posto il nulla, non è posto alcunché.
Mentre lo zero ha a che fare con dei fatti e designa pur sempre uno stato di cose, per esempio lo stato inerziale dell’inizio
che non ha tempo e tuttavia rappresenta la possibilità e anzi
la necessità che il tempo sia, il nulla non designa nulla e so-
prattutto non ha a che fare con dei fatti ma semmai col senso
o col non senso delle cose. Come quando dico: questo non significa nulla. Oppure: il nulla è il senso del tutto. Oppure: Dio
ha tratto il mondo fuori dal nulla. Come intendere queste affermazioni? In un solo modo, se si vuole evitare di cadere nell’assurdo: come affermazioni che non riguardano questo o
quel fatto, né la totalità dei fatti, né l’essere, ma il senso dell’essere. Quando dico che Dio ha tratto il mondo fuori dal nulla, non sto affatto descrivendo il processo che ha innescato il
big bang, cioè una serie di fatti. Al contrario, sto dicendo che
il mondo (magari a torto, ma questo non è qui in discussione)
ha senso, visto che Dio, che poteva abbandonarlo al nulla, lo
ha invece tratto fuori dal nulla e quindi lo ha “salvato”.
Risorse. Nei
nuovi sussidi la
stessa ricerca
di senso
seguendo le linee guida più utilizzate a livello internazionale
per quanto concerne l’accessibilità, è condivisibile con i più
popolari social network. Tra i siti da visitare e consultazione
quello dell’Ufficio catechistico nazionale della Cei diretto da
monsignor Guido Benzi, ricco di segnalazioni sulle attività
dell’ufficio e dei diversi settori a livello nazionale, ma anche le
notizie dalla «rete territoriale» e dalle diocesi.
Su www.chiesacattolica.it/ucn è possibile infatti leggere le
news, accedere alle sezioni «documenti» e «rubriche» in cui sono disponibili i notiziari Ucn online, le info su testi, sussidi e
pubblicazioni. Inoltre dai banner presenti nel sito è possibile
cliccare per andare su www.bibbiaedu.it, www.educat.it e per
seguire tutti i passi necessari per scaricare gratuitamente la
App della Bibbia Cei. In Rete, poi, non mancano realtà come
www.catechista.it oppure su Twitter, la piattaforma di microblogging più utilizzata al mondo, l’esperienza di «Catechista
2.0» che fa della condivisione di esperienze e materiali il suo
punto di forza con un profilo seguito da circa 3mila follower.
E poi ci sono anche siti di riviste e periodici come www.dossier-catechista.it della casa editrice Elledici che dà la possibilità agli utenti di scaricare i sussidi. Infine non mancano spazi virtuali di confronto e interscambio curati da singoli o gruppi di catechisti che hanno privilegiato la strada dei social
network, più immediata e usabile, ai vecchi fogli di collegamento.
Siti, blog, app, pagine fan su Facebook e profili su Twitter
per annunciare la Parola anche in Rete, ma nella consapevolezza che, prima di ogni interazione sul Web, il dialogo, la condivisione e il confronto è da vivere nei rapporti interpersonali. Internet è uno strumento e come tale può aiutare la persona ad abbattere le distanze, i costi e la difficoltà a reperire
informazioni, documenti e sussidi utili a chi nelle diocesi e
nelle parrocchie si occupa di pastorale. Un esempio di eccellenza è il sito www.educat.it, curato dall’Ufficio catechistico
nazionale della Cei, che mette online il catechismo della Chiesa cattolica e i catechismi Cei dei bambini, dei fanciulli, dei ragazzi, dei giovani e degli adulti. Il sito, progettato e realizzato
La ricchezza
è un bene
se aiuta gli altri
La prefazione del Papa al libro del cardinale Müller
«Povera per i poveri. La missione della Chiesa».
Chi di noi non si sente a disagio nell’affrontare anche la
sola parola «povertà»? Ci sono tante forme di povertà: fisi-
Sergio Givone
Vincenzo Grienti
che, economiche, spirituali, sociali, morali. Il mondo occidentale identifica la povertà anzitutto con l’assenza di potere economico ed enfatizza negativamente questo status. Il
suo governo, infatti, si fonda essenzialmente sull’enorme
potere che il denaro ha acquisito oggi, un potere apparentemente superiore a ogni altro. Perciò un’assenza di potere economico significa irrilevanza a livello politico, sociale e persino umano. Chi non possiede denaro, viene considerato solo nella misura in cui può servire ad altri scopi. Ci sono tante povertà, ma la povertà economica è quella che viene guardata con maggior orrore. In questo c’è una grande verità. Il
denaro è uno strumento che in qualche modo - come la proprietà - prolunga e accresce le capacità della libertà umana,
consentendole di operare nel mondo, di agire, di portare
frutto. Di per sé è uno strumento buono, come quasi tutte
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Recensioni
le cose di cui l’uomo dispone: è un mezzo che allarga le nostre possibilità. Tuttavia, questo mezzo può ritorcersi contro l’uomo. Il denaro e il potere economico, infatti, possono essere un mezzo
che allontana l’uomo dall’uomo, confinandolo in un orizzonte egocentrico ed
egoistico.
La stessa parola aramaica che
Gesù utilizza nel Vangelo - mammona ,
cioè tesoro nascosto (cf. Mt 6,24; Lc
16,13) - ce lo fa capire: quando il potere
economico è uno strumento che produce
tesori che si tengono solo per sé, nascondendoli agli altri, esso produce iniquità,
perde la sua originaria valenza positiva.
Anche il termine greco, usato da San
Paolo, nella Lettera ai Filippesi (cf. Fil 2,
6) - arpagmos - rinvia a un bene trattenuto gelosamente per sé, o addirittura al
frutto di ciò che si è rapinato agli altri.
Questo accade quando dei beni vengono
utilizzati da uomini che conoscono la solidarietà solo per la
cerchia - piccola o grande che sia - dei propri conoscenti o
quando si tratta di riceverla, ma non quando si tratta di offrirla. Questo accade quando l’uomo, avendo perso la speranza in un orizzonte trascendente, ha perso anche il gusto
della gratuità, il gusto di fare il bene per la semplice bellezza di farlo (cf. Lc 6,33 ss.).
Quando invece l’uomo è educato a riconoscere la
fondamentale solidarietà che lo lega a tutti gli altri uomini
- questo ci ricorda la Dottrina sociale della Chiesa - allora sa
bene che non può tenere per sé i beni di cui dispone. Quando vive abitualmente nella solidarietà, l’uomo sa che ciò che
nega ad altri e trattiene per sé, prima o poi, si ritorcerà contro di lui. In fondo, a questo allude nel Vangelo Gesù, quando accenna alla ruggine o alla tignola che rovinano le ricchezze possedute egoisticamente (cf. Mt 6,19-20; Lc 12,33).
Invece, quando i beni di cui si dispone sono utilizzati non
solo per i propri bisogni, essi diffondendosi si moltiplicano e
portano spesso un frutto inatteso. Infatti vi è un originale
legame tra profitto e solidarietà, una circolarità feconda fra
guadagno e dono, che il peccato tende a spezzare e offuscare. Compito dei cristiani è riscoprire, vivere e annunciare a
tutti questa preziosa e originaria unità fra profitto e solidarietà. Quanto il mondo contemporaneo ha bisogno di riscoprire questa bella verità! Quanto più accetterà di fare i conti con questo, tanto più diminuiranno anche le povertà economiche che tanto ci affliggono.
Non possiamo però dimenticare che non esistono
solo le povertà legate all’economia. È lo stesso Gesù a ricordarcelo, ammonendoci che la nostra vita non dipende
solo «dai nostri beni» (cf. Lc 12,15). Originariamente l’uomo è povero, è bisognoso e indigente. Quando nasciamo,
per vivere abbiamo bisogno delle cure dei nostri genitori, e
così in ogni epoca e tappa della vita ciascuno di noi non riuscirà mai a liberarsi totalmente dal bisogno e dall’aiuto altrui, non riuscirà mai a strappare da sé il limite dell’impo-
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marzo 2014
tenza davanti a qualcuno o qualcosa.
Anche questa è una condizione che caratterizza il nostro essere «creature»:
non ci siamo fatti da noi stessi e da soli
non possiamo darci tutto ciò di cui abbiamo bisogno. Il leale riconoscimento
di questa verità ci invita a rimanere umili e a praticare con coraggio la solidarietà, come una virtù indispensabile allo
stesso vivere.
In ogni caso, dipendiamo da qualcuno o da qualcosa. Possiamo vivere ciò
come una debilitazione del vivere o come
una possibilità, come una risorsa per fare i conti con un mondo in cui nessuno
può far a meno dell’altro, in cui tutti siamo utili e preziosi per tutti, ciascuno a
suo modo. Non c’è come scoprire questo
che spinge a una prassi responsabile e
responsabilizzante, in vista di un bene
che è allora, davvero, inscindibilmente
personale e comune. È evidente che questa prassi può nascere solo da una nuova mentalità, dalla
conversione ad un nuovo modo di guardarci gli uni con gli
altri! Solo quando l’uomo si concepisce non come un mondo
a sé stante, ma come uno che per sua natura è legato a tutti gli altri, originariamente sentiti come «fratelli», è possibile una prassi sociale in cui il bene comune non rimane parola vuota e astratta!
Quando l’uomo si concepisce così e si educa a vivere
così, l’originaria povertà creaturale non è più sentita come
un handicap , bensì come una risorsa, nella quale ciò che arricchisce ciascuno, e liberamente viene donato, è un bene e
un dono che ricade poi a vantaggio di tutti. Questa è la luce
positiva con cui anche il Vangelo ci invita a guardare alla povertà. Proprio questa luce ci aiuta dunque a comprendere
perché Gesù trasforma questa condizione in una autentica
«beatitudine»: «Beati voi poveri!» (Lc 6,20).
Allora, pur facendo tutto ciò che è in nostro potere e rifuggendo ogni forma di irresponsabile assuefazione alle proprie debolezze, non temiamo di riconoscerci bisognosi e incapaci di darci tutto ciò di cui avremmo bisogno, perché da
soli e con le nostre sole forze non riusciamo a vincere ogni
limite. Non temiamo questo riconoscimento, perché Dio
stesso, in Gesù, si è curvato (cf. Fil 2,8) e si curva su di noi e
sulle nostre povertà per aiutarci e per donarci quei beni che
da soli non potremmo mai avere.
Perciò Gesù elogia i «poveri in spirito» (Mt 5,3), vale a dire coloro che guardano così ai propri bisogni e, bisognosi come sono, si affidano a Dio, non temendo di dipendere da Lui
(cf. Mt 6, 26). Da Dio possiamo infatti avere quel Bene che
nessun limite può fermare, perché Lui è più potente di ogni
limite e ce lo ha dimostrato quando ha vinto la morte! Dio
da ricco che era si è fatto povero (cf. 2 Cor 8,9) per arricchirci con i suoi doni! Egli ci ama, ogni fibra del nostro essere gli è cara, ai suoi occhi ciascuno di noi è unico ed ha un
valore immenso: «Anche i capelli del vostro capo sono tutti
contati... voi valete più di molti passeri» (Lc 12,7).
Corriere.it – 19 febbraio 2014