Ermes Maria Ronchi Euro 15,00 (i.i.) Ermes Maria Ronchi Prima delle sorgenti Le omelie qui proposte nascono con la nostalgia di una “sorgente” che colmi ancora le profondità dell’esistenza. Esse derivano dalla trascrizione delle omelie tenute in San Carlo al Corso, a Milano, nelle liturgie festive comunitarie, ne ripropongono il tono discorsivo e piano, il contesto liturgico e celebrativo. Loro scopo non è altro che quello di ridestare un’attenzione gioiosa per la Parola, affinché ciascuno possa sentire nascere dentro di sé, qualche volta, la gioia di un canto: il canto di una sorgente. Prima delle sorgenti Omelie dell’anno A Ermes M. Ronchi, nato nel 1947 in Friuli, è frate dell’Ordine dei Servi di Maria. Ha compiuto gli studi a Roma e a Parigi all’Institut Catholique e alla Sorbonne. Attualmente vive nel convento di San Carlo al Corso a Milano e vi dirige in particolare l’attività del centro culturale Corsia dei Servi, fondato nell’immediato dopoguerra da David Maria Turoldo e Camillo de Piaz. È autore di varie opere spirituali fra cui Il canto del pane. Meditazioni sul Padre nostro (riedito nel 2002); Dieci cammelli inginocchiati. Variazioni sulla preghiera; Dietro i mormorii dell’arpa; Bibbia e pietà mariana; Ha fatto risplendere la vita; Le case di Maria; La bellezza tua voglio cantare. Ermes Maria Ronchi Prima delle sorgenti Omelie dell’anno A Servitium © copyright 2007 - 2010 1 rist. Servitium editrice www.servitium.it Gruppo Editoriale Viator srl c.so Indipendenza, 14 - 20129 Milano tel. 02.89695983 - fax 02.75281743 e-mail: [email protected] In copertina: Paul Klee, Paesaggio oceanico (part.), 1929 PRESENTAZIONE L’immagine che dà il titolo a questa raccolta di omelie per l’anno A è mutuata dal libro biblico dei Proverbi (8, 24-25): quando non esistevano gli abissi, quando ancora non vi erano le sorgenti cariche d’acqua, prima che fossero fissate le basi dei monti, prima delle colline, io sono stata generata. La metafora della sorgente contiene il fiorire dell’origine, racconta vita che sgorga, porta in sé come una allegria dell’essere. Sullo sfondo, il Signore del tempo e delle cose è immaginato come sorgente delle sorgenti, in un tempo che è prima del tempo, vita della vita, colui che presiede a ogni nascita. Le omelie che qui sono proposte nascono con questa nostalgia di una sorgente che colmi ancora le profondità dell’esistenza. Forse in qualche passaggio sarà possibile percepire l’eco di un Salmo del pellegrinaggio: 5 E guidando le danze canteranno: «In te sono tutte le mie sorgenti» (Sal 87, 7). Credere, dice il Salmo, è partire in pellegrinaggio verso il luogo delle sorgenti, fino a poter affermare: «Le mie fonti sono in te». Questo luogo sorgivo di vita è, per il credente, la sacra Scrittura, quando la contemplazione della Parola dona accesso al volto di Dio, anzi al cuore di Dio, secondo la bella espressione di Gregorio Magno: Disce cor Dei a verbis Dei. Impara il cuore di Dio dalle parole di Dio. Oltre il cuore di Dio è inutile andare, oltre non ci sono né strade, né orizzonti, né stelle. Queste meditazioni evangeliche sono sostenute da un convincimento e una speranza: io vivo delle mie sorgenti. Come un albero che vive delle sue radici, come la luce che vive del sole, così io vivo se ritorno umilmente e tenacemente alla parola di Dio, fonte amorosa di gioia e di canto (D.M. Turoldo). In essa è la sapienza del vivere, sapienza sulla vita e sulla morte, sull’amore e sul dolore, sul cuore dell’uomo e sul viaggio della storia. Prima delle sorgenti, delle mie sorgenti. Prima che la mia esistenza prenda corso, direzione, decisioni, qualcuno veglia sugli inizi, sui germogli, sui primi passi, qualcuno mi fa nascere. Di lui io vivo. Più Dio equivale a più io. Mio compito è prendermi cura, custodire le mie sorgenti, dedicare tempo e passione alla parola di Dio, non lasciare appassire la tensione e la ricerca. Infatti, quando ascolto senza attenzione, in breve sento che mi sono tolti non solo la capacità di capire, ma anche il desiderio stesso di ascoltare. 6 I testi qui raccolti sono la trascrizione delle omelie tenute in San Carlo al Corso, a Milano, nelle liturgie festive comunitarie, ne ripropongono il tono discorsivo e piano, il contesto liturgico e celebrativo. Loro scopo non è altro che quello di ridestare un’attenzione gioiosa per la Parola, affinché ciascuno possa sentire nascere dentro di sé, qualche volta, la gioia di un canto: il canto di una sorgente. 7 Avvento e Natale I DOMENICA D’AVVENTO Vegliate e state pronti. (Mt 24, 37-44) Un Vangelo, oggi, in questo inizio del tempo di Avvento, senza alcun segno di gioia. Eppure queste immagini mi parlano di una forza segreta e profonda, di una energia che non è violenza, ma esito sicuro della storia, estuario ineluttabile, futuro che non tradisce. È la certezza che l’esistenza non va verso un caos, un oceano di buio, ma verso un incontro, che l’esistenza ha un significato che è di liberazione; ha un progetto, condotto da colui che è chiamato “il forte”, “il potente”, che ha l’imperium sulle sue spalle, come dicono le antifone di Avvento. Allora queste immagini non parlano di violenza, bensì di passione. La passione di Dio per noi, sue creature, genera il futuro. Molti hanno fatto l’esperienza di Dio quasi fosse un’esperienza di violazione. Lo ricorda Geremia: «Mi hai sedotto, Signore, mi hai fatto forza e hai prevalso, e io sentivo come un fuoco ardente chiuso dentro le mie ossa» (Ger 20, 7-9). La fortuna, il dono, l’emozione di sentire qualche volta la presa di Dio sulla nostra vita! Ma come una 11 presa forte, che mette a soqquadro la vita, invece di questo nostro cristianesimo debole, crepuscolare, opaco, che ha separato fede e vita, che non sa testimoniare, dove la gioia di credere sembra risiedere nella qualità dei dubbi, anziché nella forza di Dio. La fortuna e la gioia di sperimentare «un Dio sensibile al cuore», come dice Pascal. Quella forza, «l’unica che fa partire», come dicevano gli anacoreti del deserto, addirittura quella forza che ti fa «benedire le belve nell’arena del martirio», come scrive Ignazio di Antiochia in quelle sue lettere piene di divina follia. Di questa forza parla oggi Gesù, forza non di violenza ma di passione, che viene e apre una falla di luce nel nostro cielo chiuso. Invece i nostri sono ancora i giorni di Noè, quando gli uomini «mangiavano e bevevano, prendevano moglie e marito» (Mt 24, 38). Ma che facevano di male? Erano impegnati a vivere. Infatti Gesù non elenca peccati o ingiustizie, parla di troppo quotidiano, di solo quotidiano. Non di eccessi o dissolutezze, solo di una vita indifferente all’essenziale. Una vita senza profezia, senza mistero. L’Avvento è tempo di profeti, di quel loro vedere non ciò che accadrà domani o dopodomani o in un altro tempo, ma ciò che già accade in un’altra dimensione, in un’altra profondità del vivere. I giorni di Noè sono i giorni dell’assenza di Dio, sono i miei giorni, quando mi aggrappo solo all’elenco elementare dei bisogni e non so più sognare; quando mi accontento della superficie delle cose e non so più mostrare che il segreto della mia vita è oltre me. I giorni di Noè sono i nostri giorni, quando plachiamo la nostra fame di cielo con piccoli o grandi bocconi di terra. Allora il Figlio dell’uomo verrà co- 12 me un ladro, verrà come sorpresa, e ti metterà a soqquadro la vita. Queste non sono immagini di morte o di vita diminuita. Dobbiamo capirle bene. Il Signore verrà a rubarti tutto ciò che non è essenziale, lasciandoti povero, perché tu metta il cuore e il futuro non nelle cose, non nel denaro. Ladro di cose è Dio per restituirti all’essenziale, per lasciarti povero e nudo, nel riconoscimento della tua umanità spoglia e pura, quella che viene prima di qualsiasi distinzione di cultura, di razza, di etnia, di religione, per restituirti alla verità e alla semplicità delle relazioni, per restituirti al primato creativo che è dell’amore, non delle cose. Per dirti che lui è nulla fra le cose – Dio è nulla fra le cose –, che tu di niente hai bisogno se non di essere te stesso, non di due tuniche, non di borsa o di denari (cf. Mt 10, 10), proprio come i discepoli. Per dirti che hai bisogno solo di una vocazione, di uno scopo grande, di domani ricchi di pace e di parola, e di un amico su cui appoggiare il cuore. Per dirti che tanto più sarai vicino a Dio, quanto più scenderai nel tuo essere uomo, quanto più ti calerai nella tua umanità originaria, perfetta; perché perfezione dell’uomo non è l’accumulo di cose, ma la sottrazione di tutto ciò che non è immagine di Dio. L’aveva già detto con altre parole un profeta dimenticato, Simeone, quando gli fu presentato il bambino Gesù nel tempio: «Egli è qui come rovina, contraddizione, risurrezione» (Lc 2, 34). Allora vorrei pregare: Sii per me rovina e risurrezione, Signore; non lasciarmi mai nell’indifferenza, nella falsa pace. 13 Cristo, mia dolce rovina, che rovini la vita insufficiente, la mia vita morente, il mio mondo di maschere e bugie, che rovini questa vita illusa. Contraddicimi, Signore, contraddici i miei pensieri con i tuoi pensieri, contraddici le scelte di comodo, le sicurezze del Narciso che è in me. Contraddici l’immagine falsa che ho di te e i miei piccoli amori. Vieni come una breccia, un varco verso orizzonti più grandi, come falla di luce che si insinua dentro le mie ombre. E sii la mia risurrezione, Signore. Quando credo che per me sia finita, quando ho il vuoto dentro e il buio davanti agli occhi, sii risurrezione dopo il fallimento facile, dopo la fedeltà mancata, dopo un’umiliazione bruciante, e risorgi con le cose che amavo e credevo finite. Rovina, contraddizione, risurrezione. Sono tre parole che danno respiro alla vita. Tutto intorno a me dice: Accontentati; prendi ciò che ti serve; sii più forte, più furbo degli altri; fa’ come ai tempi di Noè. E invece Gesù dice: Non accontentarti, non vivere senza mistero; la gioia è nel dare; sii perfetto come il Padre. Un’ultima riflessione sulla frase di Paolo: «indossiamo le armi della luce» (Rm 13, 12). Paolo non dice quali armi possiede la luce, ma ci consegna l’immagine simbolica, poetica, di una luce “armata”: armata di orizzonti, di mete, di sicurezza, di strade che non vanno verso il nulla; la notte è armata di luce, di stelle; la luce è armata di incontri, perché 14 permette l’incontro senza paure, trasparente, solare, fiducioso. La fede è un’offerta di solarità. Armiamoci di questa luce, che ci rende persone di incontri, persone semplici e luminose, con i nostri occhi come lampade, che non solo vedono la luce là dov’è, ma la proiettano là dove essi si posano. Uomini armati di luce, che ascoltano il profeta: Casa di Giacobbe, vieni, camminiamo nella luce del Signore (Is 2, 5). Uomini che ripetono: Camminerò seguendo te, Signore, luce della vita. 15 II DOMENICA D’AVVENTO Giovanni il Battista predicava: Convertitevi! (Mt 3, 1-12) La prima parola, che apre oggi la profezia di Giovanni il Battista, è: «Convertitevi!». La prima parola, quella che aprirà la lieta novella di Gesù Cristo, è: «Convertitevi!». E continuano tutti e due: «perché il regno dei cieli è vicino». Allora, la parola sorgiva, la parola generante tutto il messaggio di Gesù è: «Convertitevi!». E non è rivolta ai lontani, ai pagani, agli empi, ma ai buoni, a coloro che hanno fame della Parola e vanno nel deserto da Giovanni, a coloro che riempiono le sinagoghe e vanno ad ascoltare il Signore Gesù. Parola che è per me, oggi: «Convertiti!». Letteralmente mi dice: Cambia mente, cambia modo di pensare, cambia il cuore, cambia il modo di sentire la vita, le persone, i valori, Dio stesso. Se io non penso, non mi convertirò mai. Se non mi accorgo di come agisco, o reagisco, chi applaudo, che cosa adoro..., non mi convertirò mai. Una vita superficiale, distratta, che non si guarda dentro, non si convertirà. 16 E devo cominciare la mia conversione a partire dall’idea di Dio che mi sono fatto, perché in nome di Dio si può diventare fanatici, intolleranti, profeti di sventure; in nome di Dio si è arrivati a seminare morte, a fare guerre, a stuprare. Dobbiamo convertirci dal Dio della legge al Dio della grazia, al Dio di Gesù Cristo. Questo è il nostro imperativo: cambiare mentalità. Per me che penso che questo mondo avanzi solo per calcoli e furbizie e rapporti di forza, dove è più importante apparire che essere, per me che ho annullato il senso di colpa e l’ho sostituito col senso di vergogna, dove non conta più ciò che ho fatto ma se gli altri lo vengono a sapere... Per questa mentalità viene il fuoco, e l’acqua e il deserto, e tutti i simboli di purificazione, con la forza che brucia la pula, ma per far apparire il grano buono. «Convertitevi!», continua l’annuncio, «perché il regno di Dio è vicino». E la seconda parte dell’annuncio è ancora più consolante: «Dio è vicino». La sua ira, evocata da Giovanni, l’ira di Dio non è mai contro di noi, ma contro il nostro male; non contro di noi, ma contro le nostre ombre. È lotta contro il nostro male perché ci fa male. Quando Dio si adira, l’uomo è salvo, perché viene il suo difensore. Muore il peccato, e il peccatore vive. «Dio è vicino»: questa è la lieta notizia. Vicinissimo a te come pensiero nuovo che germoglia, come sentimento nuovo, come speranza. E la speranza è questa sproporzione tra ciò che ci è promesso – «il lupo e l’agnello dimoreranno insieme» (cf. Is 11, 6) – e ciò che teniamo tra le mani. Ma Gesù è vicino come lotta contro il male, vicino come deserto, cioè come riduzione di tutto ciò che nel- 17 la nostra vita è effimero, superfluo, inessenziale; perché troppe cose ingombrano la mente, appesantiscono il cuore, profanano il silenzio interiore dove può risuonare la speranza. Vicino è il regno di Dio come fuoco. E di alimento ha bisogno il fuoco: la pula, i fuscelli, i rami secchi, quest’albero senza frutto che è la mia vita. Vicino è il regno di Dio come acqua che fa ripartire la vita e i germogli e le primavere. Ma poi, soprattutto, Dio è vicino come Gesù Cristo. Paolo ha scritto qualcosa di sconvolgente, oggi, nella Lettera ai Romani: ogni volta che la riascolto, mi sento bene e mi sento male al tempo stesso. Dice così: «Cristo si è fatto nostro servitore». Che cosa potevamo sperare di più? Cosa potevamo volere di più di un Dio che si fa servitore? Cosa c’è di più vicino, di più impastato con noi, del Lógos dentro la nostra carne? La vera distanza dell’uno dall’altro, dell’uomo dall’uomo, non è la lontananza, ma l’essere sopra gli altri. E Gesù si è fatto servitore, si è messo ai piedi degli uomini: questa è la massima vicinanza di Dio. Questo è il commovente Signore, e anche il preoccupante Signore. Allora comincio a capire cosa significhi “conversione”. Allora ritorna la prima parola del profeta e del vangelo: «Convertitevi!». Ora capisco qualcosa di più, ed è sempre Paolo che mi spiega cos’è la conversione: avere verso gli altri i sentimenti di Gesù Cristo. Egli scrive: «Dio vi conceda di avere gli uni verso gli altri gli stessi sentimenti ad esempio di Cristo Gesù» (Rm 15, 5). Allora evangelizzare i sentimenti si può, evangelizzare la nostra zona interiore di durezza, di caos, di ombre si può, dando 18 respiro ai sentimenti di Cristo, non approvando gli altri sentimenti, fino ad accogliere la divina follia di un Dio servitore, la divina follia del servizio. Continua Paolo: «Accoglietevi gli uni gli altri», non lasciate sola nessuna creatura, inquieta, fragile, bisognosa d’essere salvata dalla solitudine e dalla disperazione. Accoglietevi, compatitevi, cercate non quello che vi divide, ma quello che vi unisce e vi fa essere più solidali e quindi più umani. Quello che ci fa essere un po’ più custodi di ogni speranza, servitori di ogni vita. Conversione, allora, è qualcosa di Cristo in me, qualcosa di Cristo servitore in me. Il peccato, lo sappiamo, non è trasgredire le regole, ma trasgredire un sogno grande come quello di Gesù, bello come quello di Isaia. La grandezza del Battista è tragica: attende un Messia che non verrà! Attende un Dio armato di scure e di fuoco, una tempesta di vento che spazzi via come fuscelli i peccatori. Invece Gesù viene come un re mite, commensale di peccatori, agnello esperto di perdono, servitore. Ma le immagini forti che Giovanni usa non sono semplicemente una minaccia, sono molto di più. Egli afferma che Dio viene al centro della vita, non ai margini, che tocca la radice del vivere, che sostiene l’albero forte che è l’uomo. Dio ha a che fare con la mia vita, con il centro della mia vita. Là dove sono le mie radici, là dove nascono violenza e pace, là dov’è la forza e la decisione, dov’è il mio fuoco e l’alta temperatura del vivere, là viene il Signore, non solo come risorsa quando non ho più risorse, non solo quando non ce la faccio più. Viene come “forza della mia forza” nelle cose belle, viene nella passione d’amore, nella fedeltà al dovere, 19 nel mio progettare i giorni e il mondo; viene come perseveranza, come energia e costanza nella sproporzione tra ciò che ho promesso e ciò che ho fra le mani. Dio non è una dimensione marginale, ma centrale del vivere. E allora è acqua, fuoco e radice. Questo significa: «vi battezzerà in Spirito santo e fuoco» (Mt 3, 11); significa: è vicino alla tua radice. Fino a che sarà tutto in tutti, tutto in me. Allora, in questo tempo d’Avvento, io affido il mio futuro a chi sa darmi speranza. Speranza me la dà un Dio mio servitore. Allora affido di nuovo il mio futuro a Isaia, seminatore di sogni; lo affido a Giovanni, radice e fuoco; lo affido a Dio servitore della vita: lui ha già varcato la soglia, lui è vicino. Talmente vicino che per vederlo devo chinarmi ai piedi di ogni mio fratello. E quando proveremo di nuovo la gioia di qualcuno che varca ancora la nostra soglia, allora vedremo fiorire, almeno un po’, tutti i nostri deserti. 20 III DOMENICA D’AVVENTO Sei tu o dobbiamo attenderne un altro? (Mt 11, 2-11) Giovanni è il profeta che si fa domanda, che attende risposta. Profeta imprigionato, che fa tacere le proprie parole e si fa ascolto: «Sei tu?». Perché l’atteso, Gesù, non corrisponde alla sua attesa; non è quel turbine di vento e di fuoco che lui aveva annunciato. Allora il profeta non riduce il Messia a ciò che egli sa del Messia. Non dà risposte, ma si fa domanda che apre il presente alla novità di Dio. Per me che riduco Gesù Cristo a ciò che io penso di lui, per me che riduco Dio alle mie idee su di lui, per me il più grande tra i nati di donna si fa profeta dell’esistenza, maestro di ogni uomo che si apre. «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attendere un altro?» Gesù dà una risposta, ma delicata, che crea gioia e al tempo stesso lascia liberi. Risponde non con affermazioni ma con gesti, non con dichiarazioni ma con segni, gli stessi preannunciati da Isaia, gli stessi cantati dal Salmo 146, segni belli e poveri, luminosi e deboli. Perché, se è vero che attorno a Gesù qualche cieco ha riacquistato la vista, milioni sono quelli che non ve- 21 dono; per qualcuno che è ritornato in vita, la storia non risponde: continua a moltiplicare i cimiteri. E se è vero che Dio ha scelto i poveri, la turba dei poveri Lazzari si è fatta infinita. «Sei tu, allora, o dobbiamo aspettare ancora?» Eppure un inizio basta a Gesù. Un seme d’umanità nuova basta a Giovanni. La speranza basta alla fede: perché noi tutti avanziamo nella vita per la forza prodigiosa della speranza, non per la forza di qualche miracolo. I segni che vengono riferiti a Giovanni sono il seme di un futuro appena seminato. La realtà di oggi, seria e grave, è però trascinata in avanti dalla speranza per domani, quando, come dice Isaia, «fuggiranno tristezza e pianto» (35, 10). Allora il miracolo più grande è quello del seme, il miracolo paziente del contadino, come dice la Lettera di san Giacomo (5, 7-10). Non pensiamo di ottenere da Gesù risposte che cancellino ogni dubbio. Nella fede ci sarà sempre tanta chiarezza quanta serve a camminare, e tanta oscurità quanta basta per dubitare. Ma il Signore non vuole offrirci l’evidenza, quella che abbaglia e si impone. Si preoccupa, invece, di offrire i segni della sua presenza, che ciascuno, in piena libertà, in piena responsabilità, è chiamato a interpretare e a vivere. «Sei tu colui che deve venire?» E Gesù risponde: Guardate i prodigi che avvengono sotto i vostri occhi. Ma quali miracoli? Noi non li vediamo. Non ci pare che i ciechi vedano, che gli zoppi camminino, eppure... Ci sono talmente tanti miracoli, che la vita è seminata di speranza. Sempre. Lo vedo, il miracolo, nella madre che torna a vivere dopo che la morte le ha rubato un figlio; lo vedo quan- 22 do una famiglia riesce a perdonare e il perdono disarma la vendetta; vedo il miracolo quando qualcuno, ferito dalla vita, con il cuore lacerato, riesce ad amare di nuovo. Sono miracoli velati da una specie di pudore, non si impongono sui palcoscenici della cronaca. E poi ci sono quelli di un numero sterminato di persone convinte di non fare nulla di straordinario, ma che compiono semplicemente quello che è giusto, secondo la legge interiore della pietà e della fraternità. Sono persone che, come Gesù, passano nel mondo facendo del bene a tutti quelli che in qualche modo sono ciechi o sordi o lebbrosi, o addirittura come spenti, senza più fiducia nella vita. Se solo avessimo occhi sufficienti a vedere ciò che la presenza di Gesù continua a compiere! «I ciechi vedono.» Cristo è il custode della mia luce, con lui vengo alla luce. È lui la luce della vita: mi fa vedere in profondità, in lontananza, in trasparenza; mi apre gli occhi del cuore. «Gli zoppi camminano.» Io sono caduto sette volte, ma mi sono rialzato otto volte, e non è stato per la mia forza. Con lui so di star camminando verso casa. Lui è il vento, io la vela. E la mia vita non è arrivare, ma ripartire ogni giorno; non è raccogliere, ma seminare a ogni stagione. «I lebbrosi sono mondati.» E la lebbra è la malattia che mi ha separato dagli altri, che ha deformato le mie relazioni, e ora ritrovo con Gesù Cristo la verità dei miei rapporti, ritrovo la semplicità degli sguardi. «I sordi odono.» Mi ha parlato al cuore, quante volte! Mi ha sedotto ancora, e io mi sono rimesso in ascolto della sua parola, delle sue promesse, non delle mie attese. 23 «I morti risuscitano.» Mi pareva che per me non ci fosse più niente da fare, niente da sperare, niente da attendere, che a nessuno importasse niente di me; e invece un fascio di luce è entrato nella mia tomba, un’oasi è apparsa nel mio deserto, una mano ha afferrato la mia. «I poveri sono evangelizzati.» Dio non fa leva sui potenti della terra, ma sui suoi amici che fanno spazio a lui, i pacificati dentro, che diventano a loro volta pacificatori. Con questi occhi guardava Maria di Nazaret quando cantava: ha compiuto meraviglie la sua destra: ha fatto dei miei giorni un tempo di prodigi, ha fatto della mia vita un luogo di stupore. Allora ripetiamo con Isaia: «Dite agli smarriti di cuore: “Coraggio!”» (35, 4). Con Giacomo ripetiamo: «Rinfrancate i vostri cuori!» (5, 8). Cuore smarrito, cuore indebolito, profeta imprigionato. Ma se mi faccio ascolto dell’altro, il cuore si rinfranca: «Sei tu?». Giovanni è il maestro che mi apre il cuore; è il più grande, non una canna sbattuta dal vento delle proprie suggestioni, ma una canna che nulla smuove se non il grande vento di Dio. Per tre volte Gesù domanda: «Che cosa siete andati a vedere nel deserto?». E usa ancora questo verbo “vedere”, e non “imparare” o “ascoltare” o “meditare”. “Vedere”, perché Giovanni è segno, è gesto, è opera, è un corpo segnato, inciso, marchiato dalla passione per Dio. Giovanni è una fede diventata carne. Vedono un maestro di vita, il cui palazzo è il deserto, vedono un 24 forte che nessun vento muove se non il respiro di Dio, uno cui per vivere bastano Dio e il quasi nulla. Forse noi cristiani non siamo più credibili perché non siamo così, perché siamo una fede senza corpo, che non dà concretezza alla parola di Dio, siamo una canna che si piega a tutto, ci accalchiamo davanti ai palazzi dei potenti per cogliere qualche briciola di potere. Eppure anche per noi c’è una beatitudine: «Beato chi non si scandalizza di me» (Mt 11, 6). Beato chi accetta la gioia e la fatica del credere. Beato chi non aspetta l’evidenza ma la speranza. Beato chi accetta la fede come luce e come strada mai conclusa. Beato chi è capace, anche dalla prigione del dolore, come Giovanni, di occuparsi non di sé ma di Dio e dei poveri – ed è il miracolo più grande –, capace di ripartire dietro a Cristo, piccolo e fortissimo seme, nostra speranza che torna, ritorna e vive nel cuore di ogni uomo che si apre. 25 IV DOMENICA D’AVVENTO Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria. (Mt 1, 18-24) Il Vangelo di oggi ci propone un racconto di annunciazione diverso da quello che siamo abituati ad ascoltare. Il destinatario dell’annuncio non è Maria, come leggiamo nel Vangelo di Luca, ma Giuseppe, suo sposo. Utilizzando una frase di Simone Weil, potremmo quasi dare questo titolo al brano evangelico di Matteo: «Giuseppe, ovvero come capire che “la vita del credente è comprensibile solo se in lui c’è qualcosa di incomprensibile”», un di più, un sogno, un angelo, un amore immeritato, vita da altrove, Dio. È quanto è capitato anche a Maria che, dice Matteo, «si trovò incinta»: sorpresa assoluta della creatura che arriva a concepire l’inconcepibile, il proprio Creatore. Giuseppe è l’uomo innamorato: decide di lasciare la fidanzata, per rispetto non per sospetto, e non vuole denunciarla pubblicamente; continua a pensare a lei, insoddisfatto della decisione, a lei presente perfino nei suoi sogni; la prende infine con sé, preferendo Maria alla propria discendenza, scegliendo l’amore invece della generazione. Grandezza umana di Giuseppe, 26 radice segreta della verginità della coppia di Nazaret: è possibile amare senza possedere. Giuseppe è l’uomo dei sogni: il carpentiere è anche il sognatore, mani indurite dal lavoro e cuore intenerito dall’amore e dai sogni. Ognuno agisce in base a ciò che ha dentro, e che nel sonno emerge in libertà: l’uomo giusto ha i sogni stessi di Dio; dal sogno trae radici ogni vita; nel sonno della parola umana si risveglia la parola di Dio; nel silenzio nascono angeli. Giuseppe è l’uomo di fede, che vorrebbe sottrarsi al mistero, ma che poi ascolta e mette in pratica; uomo concreto, dà il nome a colui che è il Nome; fa sua la prima parola con cui da sempre Dio si rivolge all’uomo: «Non temere», risposta alla prima parola con cui Adamo si rivolge a Dio: «Ho avuto paura» (Gen 3, 10). «Non temere»: la paura, principio di ogni fuga, è il contrario della fede, del matrimonio, della paternità. Giuseppe non ascolta la paura, diventa vero padre di Gesù, anche se non ne è il genitore. Generare un figlio è facile, ma essergli padre e madre, amarlo, farlo crescere, farlo felice, insegnargli il mestiere di uomo, questa è tutta un’altra avventura. Bastano pochi istanti per diventare genitore, ma padri e madri lo si diventa nel corso di tutta la vita. Giuseppe è la figura di ogni uomo «troppo grande per bastare a se stesso» (B. Pascal); si tiene aperto al mistero, ma mostra anche tutte le nostre resistenze ad aprirci a ciò che è più grande di noi. Per lui vale davvero il primato dell’amore: accogliere Maria e il dono che lei porta; lasciare che la Parola risvegli nel profondo quel sogno segreto che è lo stesso di Dio; non temere le cose grandi; accogliere non le parole delle nostre paure ma quelle che vengono da Dio. 27 Dopo i dubbi e i sogni, dopo angeli e trepidazioni, dopo una dura prova, Giuseppe «la prese con sé». Come Maria, anch’egli scava spazio nel suo cuore per accogliere il bambino estraneo, così insolito. E Maria entra nella casa del sognatore, lascia la casa di suo padre per affidarsi a un altro, in un cammino di comunione che la porterà a costruire una nuova casa, un comune destino. Amare, voce del verbo morire, voce del verbo vivere, che significa dare e mai prendere, che significa amare per primo, amare in perdita, amare senza contare. Che significa, come voleva il giusto Giuseppe, togliersi di mezzo quando si rischia di compromettere la pace di una casa, di non rispettare il destino dell’altro. Scomparire quando ci si accorge di poter rovinare la missione o la vocazione dell’altro, o di destabilizzarlo emotivamente. Ma che significa anche scegliere l’amore che dona e che non prende. Forse nella certezza non detta che ogni evento d’amore è sempre decretato dal cielo. Che Dio provvede al cuore dell’uomo perché non sia solo. Maria lascia la casa del sì detto a Dio e va nella casa del sì detto a un uomo, ci va da donna innamorata, ama il suo uomo con cuore di carne, in tenerezza e castità. Maria è la donna del sì, ma il suo primo sì l’ha detto a Giuseppe, l’angelo la trova già promessa, già legata, già innamorata. Nel Vangelo di Luca, come abbiamo ricordato, l’annunciazione è fatta a Maria; secondo il Vangelo di Matteo l’annunciazione è invece fatta a Giuseppe. Se sovrapponiamo i due Vangeli, scopriamo che in realtà l’annuncio è fatto alla coppia, la vocazione è rivolta allo sposo e alla sposa insieme, dentro il matrimonio. 28 Dio parla a tutti e due, al giusto e alla vergine innamorati. Opera i suoi fatti più straordinari, lavora per un mondo nuovo dentro la coppia, protagonista della vita nuova e protagonista dell’amore. Lavora dentro le famiglie, dentro le nostre case, nel dialogo, nel dramma, nella crisi, nei dubbi, negli slanci di una coppia già formata, laddove si creano quelle oasi di verità e di amore che sono come il collaudo del Regno, piccole oasi per contendere il cuore al deserto. Dio non ruba spazio alla famiglia, non rompe la coppia, chiede e cerca questo doppio sì, un sì che diventa creativo proprio perché è condiviso, in cui si sommano due cuori, molti sogni e moltissimo lavoro. La comunione è una forza creativa, perché la coppia è molto più che la somma di due solitudini, è l’immagine di Dio. Non è l’uomo, non è la donna l’immagine di Dio. Immagine e somiglianza, riflesso del volto del Creatore, è la coppia: «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò» (Gen 1, 27-28). La coppia, custode dell’immagine, la coppia con il suo amore e la sua capacità di dono, la coppia cui è affidata la vita, la coppia senza il cui coraggio neanche Dio avrebbe dei figli, la coppia maschio e femmina è la destinataria della prima benedizione biblica. La coppia è benedizione per il mondo. Non solo immagine del Creatore, ma di più, è immagine della Trinità, di un Dio il cui mistero vibra di un infinito movimento d’amore, che è in se stesso scambio, reciprocità, dono, comunione, vita che dà vita. E la casa è il luogo della buona battaglia dell’amore. La mia casa è il luogo dove Dio si fa prossimo, si fa vicino, perché Dio parla prima di tutto attraverso i 29 volti delle persone che ci ha messo accanto, ci guarda prima di tutto con lo sguardo delle persone che vivono accanto a noi. Dio ci benedice ponendoci accanto persone di luce, persone buone, e talvolta – per i più forti tra noi – ci benedice ponendoci accanto persone che hanno bisogno, un enorme bisogno di noi. In ognuna delle nostre case egli invia angeli, come in quella di Maria; invia sogni e progetti, come in quella di Giuseppe. I nostri primi annunciatori sono coloro che vivono con noi, messaggeri dell’invisibile, annunciatori dell’infinito. Dio manda angeli in ogni casa, affidati al nostro amore. 30 NATALE DEL SIGNORE In principio era il Verbo. E il Verbo si fece carne. (Gv 1, 1-18) È un Vangelo immenso, quello che abbiamo appena ascoltato, che ci vieta pensieri piccoli. In principio era il Verbo, e il Verbo era Dio. E il Verbo si fece carne. E ha dato a ciascuno il potere di diventare figli di Dio. Colui che ha riempito il cielo con miliardi di galassie, l’inventore dell’universo, si fa piccolo e ricomincia da Betlemme. Ci deve essere qualcosa di vero in tutto ciò. Colui che ha separato la luce dalle tenebre, il firmamento dalla terra, si fa inchiodare su di una croce. Ci deve essere qualcosa di vero. Se della storia di Dio i vertici sono una mangiatoia e una croce, questa nostra fede non ha altra spiegazione che Dio e le sue vie impossibili all’uomo. Nessuna invenzione da parte dell’uomo avrebbe osato. A Betlemme non c’è nessuna illusione, nessun raggiro, nessuna menzogna. Lo garantiscono una man- 31 giatoia e una croce. E Dio è là dove la ragione si scandalizza, dove la natura si ribella, dove io non vorrei mai essere. Con Simone Weil, mistica del secolo scorso, amo ripetere che «la vita del cristiano è comprensibile solo se in essa c’è qualcosa di incomprensibile», una vertigine, un sogno, una vergine incinta di Dio, un presepio, una croce, voli di angeli. Ma il miracolo grande è che Dio non plasma più l’uomo nuovo con polvere del suolo, come in principio, nell’Eden, per Adamo, ma che si fa lui stesso polvere plasmata, vaso fragile d’argilla e non più vasaio, bambino di Betlemme. E se io dovrò piangere, anche lui imparerà a piangere. E se io devo morire, anche lui ha gustato l’orrore della morte. Solo un Dio poteva imboccare queste strade. E solo gli umili gli credono, lieti che Dio sia così libero e così stupefacente, da preferire ciò che l’uomo emargina. Il prodigio più grande è che Dio ama ciò che è umile. Dio nell’umiltà: ecco la parola rivoluzionaria, l’appassionata parola del Natale. La grande ruota della storia aveva sempre girato nella stessa direzione: dal piccolo verso il grande, il meno a servizio del più, che non è altro che la legge del più forte. Quando Gesù è nato, la grande ruota della storia per un attimo si è fermata. Poi qualcosa ha cominciato a girare al contrario; o meglio, nel senso vero della storia. «Viene nel mondo la luce vera» (Gv 1, 9): da Dio verso l’uomo, dal grande verso il piccolo, da una città verso la stalla, i re Magi verso il Bambino, il forte a servizio del debole. Natale è l’inizio del capovolgimento totale, di un nuovo ordinamento di tutte le cose. Natale è il giudizio 32 del mondo. E la sua redenzione. Dice che la storia non appartiene a chi fa sfoggio di forza o di denaro. Quella è solo una storia perdente. La storia vera è l’opera di chi si colloca là dove nessuno vorrebbe essere, nell’umiltà del servizio, nell’insignificanza solo apparente della bontà, nel silenzio degli uomini di buona volontà. Maria, incinta di Gesù, l’aveva anticipato nel suo canto: «Ha rovesciato i violenti, ha innalzato i deboli. Chi si fida della ricchezza sarà a mani vuote e a cuore vuoto. Chi si fida della bontà possederà la terra». È il bambino Gesù dentro la mangiatoia a compiere il giudizio e la redenzione del mondo. A chi accetta di avvicinarsi a lui, accade qualcosa. Recarci davanti a quella che non è neppure una culla, ci trasforma. Chi di noi celebrerà bene il Natale? Chi depone davanti a quel bambino ogni arroganza, ogni distanza, e riscopre la volontà d’amore. Chi di noi celebrerà bene il Natale? Chi non esporta morte ma comunione, chi accoglie Dio nella sua carne. Perché Dio viene nella vita, accade nella concretezza dei miei gesti, deve abitare i miei occhi. E lo sguardo allora si fa tenero, attento. Deve abitare il mio udito, perché io ascolti con il cuore. Deve abitare la mia bocca, perché io dica parole di bene e sappia benedire la vita e le creature. Deve abitare le mie mani, perché si aprano, si stendano a donare pace, ad asciugare lacrime, a vestire ignudi, a spezzare ingiustizie. La grandezza d’ognuno di noi dipende da chi l’abita. Vera grandezza è essere abitati da Dio. E se ha voluto nascere in una stalla, non si scandalizzerà di me, dello sporco che è in me, abiterà le mie miserie, il nodo di povertà e di sole che so di essere, e che egli trasformerà. 33 Perché ora è il tempo del mio natale. Capisco che Cristo nasce perché io nasca. La nascita di Gesù vuole, domanda la mia nascita, che io nasca diverso e nuovo, che nasca dallo Spirito di Dio, che nasca così piccolo e libero da essere incapace di aggredire, di odiare, di minacciare. Che io nasca così umile e ingenuo da pensare con il cuore. Certo, non è facile il Natale. È il giudizio del mondo. E tutti conosciamo un popolo o una famiglia o almeno una persona che piangerà perché è tradita, perché è sola, perché è stata sfiorata dall’angelo della morte. Non è facile il Natale. Tutta la violenza del mon-do contraddice gli angeli di Betlemme, contraddice il loro canto: «Pace in terra». La mia fede talvolta domanda: E se fosse tutto un’illusione creata dal bambino che è in noi? Se fossimo rimandati a Dio solo dalla paura e dal disastro della storia? Ma è Dio che è rimbalzato fino a noi. È un altro il movimento del mondo. C’è in me l’uomo disincantato che ritiene il Natale una festa ormai pagana, che ha visto le stelle cadere e svuotarsi il cielo. E tuttavia c’è un bambino in me, e gli parli di Dio e lui lo sente respirare. Gli dici che è Natale, e lui vede un volo di angeli che aprono il cielo. Ma soprattutto c’è ancora in me un uomo di buona volontà, che ha volontà di cose buone, che ha volontà di perseverare nell’amore e nella giustizia e che prega così: Mio Dio, mio Dio bambino, povero come l’amore, piccolo come un piccolo d’uomo, mio Dio bambino umile come la paglia dove sei nato, mio piccolo Dio che impari a vivere da uomo, ad aver fame e freddo, ma che ci mostri gli occhi di Dio, e l’umiltà di Dio. 34 Mio Dio incapace di difenderti e di aggredire, mio Dio che come un bambino altro non sai fare che chiedere e donare amore, insegnaci che non c’è altro senso, che non c’è destino, non c’è futuro se non diventare come te. 35 I DOMENICA DOPO NATALE LA SANTA FAMIGLIA Prendi con te il bambino e sua madre e fuggi in Egitto. (Mt 2, 13-15.19-23) È nato un bambino: vuole respirare la vita e invece intorno a lui i re emanano morte. Il racconto di Matteo mostra che il Verbo non solo si è fatto fragile carne di bambino, ma carne minacciata, accerchiata, aggredita, esposta a tutte le forze cieche che rendono angosciosa la vita degli uomini. È il Natale che continua: Dio che si incarna ancora di più, ancora più a fondo, nella carne dell’insicurezza, dell’angoscia, dell’affanno. Perché Dio comanda di fuggire senza garantire un futuro, senza segnare la strada e la data del ritorno? Perché permette che suo Figlio sia perseguitato e fuggiasco? L’amore non protegge ma espone. «Fuggi in Egitto!» Ma l’Egitto non è salvezza, è schiavitù per Israele. Ed ecco Gesù rifare il viaggio del suo popolo, scendere e risalire dalla morte che è l’Egitto. Dio interviene, ma non come ci saremmo aspettati. Interviene, come dice Isaia, diventando «mia forza e mio canto» (12, 2). Ecco: i re ordiscono stragi, Giu- 36 seppe sogna. Un granello di sogno caduto dentro gli ingranaggi della storia, eppure capace di modificarne il corso. Erode invia soldati e uccide, ma qualcosa sventa i suoi piani. Dio non manda soldati né giustizieri, ma un angelo dentro l’umile via del sogno. L’angelo ha un compito, e non è quello di evitare l’esilio, ma di dare forza a Giuseppe perché non si arrenda al deserto, non si arrenda alla paura, non si rassegni all’esilio e germogli speranza. «Mia forza e mio canto è il Signore.» Ma che forza ha un sogno? È molto particolare il modo di sognare di Giuseppe: egli non vede, ma sente. Non vede immagini o figure, solamente sente una parola. Un sogno di parole. È quello che è concesso anche a noi: il Signore viene con la sua parola dentro questa nostra storia di violenze, viene come forza per camminare, come forza per stringere a sé la madre e il bambino, come forza per ricominciare a sperare. Dio cammina per queste strade con i suoi angeli, Dio cammina accanto alle mie paure con la sua parola, Dio cammina con quell’uomo buono, con quella donna e con quel bambino, con i milioni di rifugiati e insieme con chi dà loro soccorso, con un sogno di parole, un sogno di vangelo. Non so quanta fatica, non so quale avvenire è riservato: so solamente che il Signore è con me quando dono fiducia e speranza a chi è minacciato dai faraoni e dagli Erodi di questo mondo. «Giuseppe, destatosi, prese con sé il bambino e sua madre nella notte e fuggì in Egitto.» Un Dio che fugge nella notte! Giuseppe si affida, a lui basta sapere che anche dentro la fuga e l’esilio e la notte c’è un filo rosso che ci riannoda a Dio. Perché Dio non salva dalla soffe- 37 renza ma nella sofferenza, Dio non salva dalla morte ma nella morte, non salva dalla persecuzione ma nella persecuzione. E la fede è la certezza che anche dentro la cronaca più nera è custodita una profezia che un giorno si compirà. E «ciò che tarda avverrà» (Ab 2, 3). Un giorno Erode muore, muore il re sanguinario e pauroso, muore il re che aveva paura di un bambino. E l’angelo ritorna, ritorna la parola. Oggi nel racconto di Matteo l’angelo parla per tre volte e una quarta volta aveva detto in sogno a Giuseppe: «Non temere di prendere con te Maria, tua sposa» (Mt 1, 20). A noi, che vorremmo sapere tutto e subito, e vedere molto lontano anche l’ultimo orizzonte, queste piccole rivelazioni, queste profezie di corto futuro, questi angeli, che diremmo figli di un cielo minore, vengono a dire che la parola di Dio ha tanta luce quanta serve al primo passo, tanta forza quanta basta a metterci in cammino, quanta serve alla prima notte, quanta basta alla partenza. Come Abramo, che si mette in cammino al lume delle stelle e non sa il punto di arrivo; come i Magi che si mettono in viaggio con gli occhi fissi nel cielo e sbaglieranno strade e perderanno la stella. Mi sento come san Giovanni della Croce, quando scrive: «Io sono un pellegrino senza strada ma tenacemente in cammino». E Dio è luce. I quattro sogni di Giuseppe sono sogni brevi, piccole rivelazioni, e attorno è sempre notte. Tutto un avvenire rimane nascosto, ma «mia forza e mio canto è il Signore» e so che a ogni tappa, a ogni passo l’angelo e la voce e il sogno e il vangelo si rinnoveranno a indicarmi che esiste un progetto. Nel Vangelo di oggi è rappresentato il dramma di tutti: il re contro il bambino, il buono colpito dal mal- 38 vagio, il bene è perdente. Ebbene, io so che nel mondo comandano i più forti e i più violenti, so che Erode siede sempre sul suo trono di morte e di paure, so che la vita sarà sempre un’avventura di pericoli, di strade, di rifugi e di sogni, ma so che dietro a tutto questo c’è un filo rosso il cui capo è saldo nella mano di Dio. Vedo che il denaro comanda il mondo, ma so che non è il denaro il senso del mondo, che non è il denaro la via della vita. So che tutto tende a separare gli uomini, a sciogliere anche quel nodo germinale della vita che è la famiglia, ma so che Dio viene come forza perché Giuseppe possa stringere forte a sé il bambino e sua madre. So che Dio viene come canto che nasce proprio in quell’abbraccio forte. Dio viene come gioia e canto che sgorga dentro lo stringersi amoroso delle vite, nei nostri affetti, nelle nostre famiglie. Giuseppe il giusto rappresenta tutti i giusti della terra, tutti quelli che, prendendo su di sé delle vite, vivono l’amore familiare senza enumerare le fatiche, senza contare le paure; tutti quelli che in silenzio capiscono dove si cela l’istinto di morte e si allontanano da quel luogo e da quelle persone, tutti quelli che senza proclami e senza ricompense, in silenzio, fanno ciò che devono fare, tutti coloro che sanno che la loro missione nel mondo è custodire delle vite con la loro vita. E così fanno: concreti e insieme sognatori, inermi eppure più forti di ogni faraone; perché con loro cammina il Signore, «mia forza e mio canto» anche dentro la nostra storia lacerata che partorisce morte. Ma se guardiamo bene, non c’è solo la storia di Erode. C’è un’altra storia nascosta, la storia di Giuseppe, la storia di uomini buoni, sconosciuti, che dan- 39 no spazio ai sogni che salvano, che mettono mani e cuore a difesa di chi è minacciato dagli Erodi del nostro tempo, che pensano amore e bellezza, che stringono il nodo degli affetti. Come credenti, forse noi non siamo ottimisti, ma abbiamo speranza. Ottimista è chi sorride a vuoto e dice che tutto va bene. E sbaglia, perché non è così. Pieno di speranza è invece chi sa che il capo del filo della storia è saldo nelle mani di Dio, e che il viaggio va verso casa anche se passa per l’Egitto. Io ho speranza perché credo nella parola di Dio più ancora che nella sua realizzazione, come facevano i profeti; io ho speranza perché amo la parola di Dio più ancora della risposta degli uomini. Ho speranza perché credo in una nuova legge scritta nella carne di un bambino inerme, perseguitato, e scritta in tutti coloro che vogliono diventare tanto sognatori da preferire l’amore al potere, da preferire la pace alla vittoria. È questa la forza dei deboli, la sola forza invincibile. «Mia forza e mio canto è il Signore»: una profezia è custodita anche dentro la cronaca più nera. 40 OTTAVO GIORNO DEL NATALE SANTA MARIA MADRE DI DIO Dio ci benedica con la luce del suo volto. (Nm 6, 22-27; Lc 2, 16-21) Le prime parole della sacra Scrittura, in questo inizio d’anno, sono un piccolo tesoro di consolazione e di forza. Dio comanda ad Aronne, ai suoi figli e ai sacerdoti di sempre, a ogni credente: «Voi benedirete gli Israeliti!». Voglio tenere per me questo comando come un piccolo lume sempre acceso: tu benedirai. Se ho un compito da svolgere, una missione da realizzare, è quella di benedire, cioè di trovare e dire parole buone, scoprire e dire il bene della vita, il bene dell’uomo, il bene dei giorni. Io cercherò di benedire, anche se altre parole urgono dentro. E potessimo benedirci in ogni famiglia, per quanto sia difficile, in ogni comunità, benedirci con le parole, con i pensieri, dire all’altro che mi è vicino: «Io ti benedico, tu sei benedizione di Dio per me». Dio stesso ordina le parole, quelle e non altre. E sono parole bellissime: «Ti benedica il Signore e ti protegga, faccia brillare il suo volto su di te. Il Signore illumini per te il suo volto». Immaginare, ed è solo un 41 aiuto per la nostra povera mente, immaginare che Dio abbia un volto luminoso, significa affermare che Dio ha un cuore di luce, che in lui non c’è ombra, che per nessuno ci sarà la notte per sempre. Auguro a tutti voi, sorelle e fratelli, di scoprire in quest’anno che viene un Dio luminoso, un Dio solare, ricco non di troni e di poteri, ma il cui più vero tabernacolo è la luminosità di un volto; un Dio che fa festa per il figlio pentito (Lc 15, 6.9.23-24), il Dio dalle grandi braccia e dal volto di luce. Nel salmo responsoriale abbiamo cantato: «Il Signore ci benedica con la luce del suo volto». La benedizione di Dio non è né ricchezza, né salute, né successo, né fortuna, ma molto semplicemente, molto profondamente, è la luce, quella luce interiore, spirituale, la luce per scegliere, la luce da gustare. La preghiera sui doni, durante l’offertorio, lo dirà in altri termini: «Ogni bontà e ogni bellezza, o Dio, da te cominciano e sono da te portate a compimento». Bontà e bellezza servono per conquistare la luce. Infatti un volto luminoso, quando lo incontriamo, ci parla subito di una vita buona e bella. L’augurio che Dio rivolge a ciascuno, oggi – parola intima, delicata –, è di scoprire il suo volto luminoso. E poi a nostra volta di diventare persone luminose, seguendo bontà e bellezza, e di vivere accanto – ecco l’augurio grande che mi permetto di rivolgere a voi – a persone luminose, nella nostra famiglia, nelle comunità, nei luoghi di lavoro. Vi auguro la fortuna di vivere accanto a persone luminose, che sono la benedizione di un Dio a sua volta luminoso. Dio ti benedice ponendoti accanto persone dal volto e dal cuore pieni di luce, che sanno vivere bontà e bellezza. 42 Continua ancora la benedizione così: «Il Signore ti sia propizio». Dicono gli esegeti che questa espressione indica il chinarsi di Dio, l’avvicinarsi del Signore, il suo curvarsi amoroso su di te. «Rivolga a te il suo volto.» Che cosa ci riserverà l’anno che viene? Non lo so. Non conosco le sorprese, belle o tristi, che incontreremo, non so il lamento, il dubbio, il perché. Di una cosa sono certo: il Signore si chinerà su di me. Potrò andare lontano, prevedere fatiche nuove, ma potrò affrontare tutto ciò che verrà perché Dio si curverà su di me, sarà il mio arco di cielo, sarà il mio confine, sarà la mia luce. Non so che cosa sarà di me; so solamente che Dio si chinerà su di me. Curvo su di me perché non gli sfugga un solo sospiro, perché non vada perduto alcun tremore. E io gli dirò: «Non ti lascerò se non mi avrai benedetto» (Gen 32, 27). Siamo qui a ripetere le parole di Giacobbe che lotta con l’angelo: «Non ti lascerò se non mi avrai benedetto». Siamo qui a ripetere l’insistenza della vedova del Vangelo (Lc 18, 1-6), ci teniamo stretti a Dio finché non ci benedica, non per strappare qualcosa che gli costa concederci, ma perché Dio ha desiderio del nostro desiderio, Dio desidera che abbiamo desiderio di lui. Non conosciamo più la lotta con l’angelo (cf. Gen 32, 25ss) e ci pare di avere solo diritti. Anche della misericordia di Dio abbiamo diritto. Ma il dramma è che non ne abbiamo più desiderio e non ci fermiamo ad accoglierla. «Io non ti lascerò andare», non uscirò da questo luogo, Signore, «se non mi avrai benedetto», perché ho bisogno della tua benedizione, un bisogno che mi fa soffrire. «Non ti lascerò in pace, non ti lascerò an- 43 dare, non ti lascerò tranquillo finché non mi avrai benedetto.» Sapessimo riscoprire l’insistenza, la perseveranza, la lotta con l’angelo nell’orazione. Solo dopo questa lotta staremo bene, noi e Dio. Solo lottando staremo in pace, noi e Dio. Così termina la benedizione di Aronne: «Il Signore ti conceda pace». Pace è innanzitutto il contrario della paura. Pace è il bambino in braccio a sua madre. La parola che gli Ebrei usano è shalom, ricchissima di senso, che non indica solo la fine delle guerre, ma indica gioia, armonia, giustizia, qualcosa che si diffonde nell’intera vita della società a partire da Dio e da me. Qualcosa che ti fa responsabile d’altri. Il modo per avere pace, per abitare il mondo con pace, ci è indicato dal Vangelo, nella via di santa Maria e nella via dei pastori. «Maria conservava e meditava nel cuore» (Lc 2, 19) tutto ciò che era accaduto. La storia di un figlio è scritta prima di tutto nel cuore di sua madre. Conservare è qualcosa che tutti possiamo fare. Conservare è il verbo che salva il passato, che salva la gratitudine e il gesto e la parola buona che ieri abbiamo ricevuto. Meditare salva il presente e dà profondità al domani. Prepariamoci anche noi ad accogliere l’anno nuovo, il futuro di Dio, e a conservare ciò che abbiamo vissuto. Oggi, giorno aperto sul futuro, conserviamo e meditiamo le nostre annunciazioni, le nostre fecondità, le nostre verginità riconquistate. Conserviamo e meditiamo tutte le ragioni della speranza in un Dio che si chinerà su di noi giorno dopo giorno, dicendo per il passato: “Grazie” e per il futuro: “Sì, Signore!”. E poi benedicendoci l’un l’altro e insieme benedicendo Dio. 44 La seconda via è quella dei pastori, che «tornano lodando e glorificando e testimoniando». Di fronte all’annuncio del Natale, allora, dimentichiamo tutta la liturgia laica che presiede a questi giorni: alberi e regali, luminarie e auguri. Dimentichiamo per conservare ciò che vale, per meditare su ciò che conta, con la capacità degli abitanti di Betlemme e dei pastori di stupirci della fede, e con il dono di riuscire a stupire qualcuno raccontando del cielo che si è fatto vicino, raccontando il volto di Dio imparando a benedire. E come oggi ricomincia il grande ciclo dell’anno, così noi ricominciamo da capo la nostra avventura, con fiducia verso figli più felici, verso meno buio, meno fango, meno sangue. Buon anno, allora, a ciascuno, ma buono della bontà di Dio, bello della sua luce. «Dio ti benedica con la sua luce, faccia risplendere su di te il suo volto, si curvi su di te e ti dia vita.» Amen. 45 II DOMENICA DOPO NATALE E il Verbo si fece carne. (Gv 1, 1-18) È questa una delle pagine in cui immergerci quando cerchiamo il senso del tutto. Immergerci, ascoltare, abbandonarci. Qui non c’è la spiegazione, ma la Verità. Noi che cerchiamo l’evidenza delle cose, troviamo qui un Dio che non offre l’evidenza, ma offre se stesso. Non è teoria, non è riflessione, non è teologia. Questa è la pagina più alta della mistica cristiana. E ogni volta che l’ascolto, trovo un passaggio che fa nascere un’emozione particolare. Una parola si fa strada e risuona più in profondità. Nel preparare questa nostra liturgia, oggi, sono stato colpito da questa frase: «In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini». Se Dio non è, io non sono. «In lui era la vita.» Se io vivo, se io sono uomo, lo sono perché in lui era la vita e la vita è scesa fino a me, è entrata in me. Anch’io piccola incarnazione di Dio. Anch’io tempo aperto sull’eternità. Il mistero dell’incarnazione ha il suo culmine in Gesù Cristo, ma è mistero di sempre, di tutti, di me e di te che ascolti. Tu sei incarnazione della vita di Dio, di Dio 46 stesso. È il senso del cosmo, il senso del tempo, il senso dell’uomo, il senso di Dio. Cristo non è venuto a portare un elenco di verità, ma è venuto a portare se stesso, a portare vita, vita da vivere, vita che sia luce. Che cos’è la vita? Ognuno può dare una risposta diversa, una definizione personale: lo scienziato, il medico, la madre incinta, il poeta... Ciascuno dirà la sua parte di verità. Gesù dice: «Io sono la vita» (Gv 14, 6). «In lui era la vita.» La vita che è l’abbreviarsi dell’infinito in un perimetro di carne, che è l’abbreviarsi dell’eterno nell’istante, del fiume di fuoco nella scintilla. L’umanità dell’uomo, la diversità radicale dell’uomo rispetto alle altre creature, ciò che fa che non siamo più il primate evoluto che eravamo, non si spiega a partire dalla nostra appartenenza al mondo animale, ma a partire dal mondo divino. Ciò che fa l’uomo “umano” è il respiro di Dio e l’immagine di Dio in lui. «Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza» (Gen 1, 26). L’uomo è immagine di Dio. Non affinamento dell’animale, ma diversità che viene dalla divinità. Essere umani e avere la vita di Dio è la stessa cosa. La vita di Dio è l’umanità dell’uomo. L’uomo è uomo per quella luce: «In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini». Di tutti gli uomini. Fraternità radicale. Un monaco cristiano in India diceva: «Alla domanda “Dov’è il tuo Dio?” il bambino cristiano risponde indicando la chiesa, o indicando il Crocifisso. Il bambino indù abbassa gli occhi e congiunge le mani». Certo, è molto parziale la risposta, non è quella del catechismo; ma anche quella del bambino indù è molto parziale. Dio abita in me, ma anche intorno a me, in ogni creatura umana, in ogni carne, nella vittima e perfino 47 nel carnefice. Splende in un piccolo giorno, splende in mezzo a grandi tenebre. A cominciare dalle mie, dal cuore d’ombra che cerco di capire e di trasformare. «Venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto. A quanti però l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio.» Il senso ultimo della storia è diventare figli di Dio. E Giovanni, subito dopo, aggiunge: «i quali non da sangue... ma da Dio stesso sono stati generati». Allora, non solo siamo fatti da Dio, non solo creati da Dio, ma generati da lui. Questo io sono: non solo creato, ma generato. Ogni seme genera secondo la sua specie (cf. Gen 1, 11), e noi siamo seme di Dio, generati secondo la specie di Dio. Portiamo in noi la divinità, lo specifico di Dio. E sono le stesse parole che ripetiamo nel Credo a proposito di Gesù Cristo: «generato, non creato, della stessa sostanza del Padre». È il mistero dell’incarnazione che si dilata, che si espande, che coinvolge ciascuno, che porta me dentro la Trinità. «A quanti l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio.» Il potere di diventare figli. Io posso accettare o no questa strada, posso dire sì o dire no a questo percorso: è una potenzialità che dipende da me, se accolgo o no quella vita. L’uomo diventa ciò che accoglie in sé. Se accogli vanità, diventerai vuoto; se accogli tutto, diventerai confuso e disarmonico. Se accogli disordine, creerai disordine attorno a te. Se invece accogli la Parola, tu diventi la Parola che ascolti; se accogli pace, trasmetterai pace. Perché l’uomo diventa ciò che lo abita. E vera grandezza è essere abitati da Cristo; e poi: seguire la sua vita, quella che lui ha vissuto, i suoi gesti, i suoi sentimenti. Preferire quelli che lui preferiva, rifiutare le cose che lui rifiutava. E non è mai stata la debolezza ciò che ha rifiutato, 48 non si è mai scagliato contro la fragilità, perché non sono queste le tenebre dell’uomo. Ciò che condannava, che rifiutava, sono sempre stati l’ipocrisia e la falsità dei pii e dei potenti, l’inganno e la violenza possibili a ciascuno. Le sue parole sono il racconto di Dio. E se io vivo qualcosa della vita di Gesù, anch’io divento una sillaba del racconto di Dio. Perché lui è qui e non cessa di lavorare dentro di me e dentro ogni persona: lui è qui e genera ancora vita. Per questo rimane in noi il gusto dell’impossibile, riacceso da un Dio cui diciamo talvolta: «Ma non è possibile che tu ci sia in mezzo a tutto questo male, in mezzo a tutta questa distruzione, in mezzo a tutta questa morte...». Il dolore innocente è da sempre la più grande contestazione a Dio. E lui risponde a me e a chiunque crede in lui: «Sei tu il figlio mio cui affido la luce nei giorni della tenebra». Nelle circostanze tragiche in cui viviamo è a noi che il Signore dice: «A te io affido l’amore che dona, l’amore che soccorre. L’amore che fa ripartire la vita è affidato a te, figlio, anche quando sembra impossibile». La pace impossibile, eppur possibile, è compito tuo. Gli angeli nella Bibbia vengono solo per indicare questo: che l’impossibile è diventato ora possibile. E Maria chiede con la sua prima parola nel Vangelo: «Come è possibile?» (Lc 1, 34). E l’ultima parola dell’angelo, quando se ne parte da lei, è: «Nulla è impossibile a Dio» (Lc 1, 37). E la vergine sarà madre. Dio sarà uomo. Quell’uomo sarà crocifisso. Quel crocifisso risorgerà. Io posso essere figlio di Dio. Tutto ci conferma, è vero, nel nostro vivere quotidiano, che siamo creature fragili come l’erba (cf. Sal 49 90, 5-6). Ma dentro di noi c’è una luce custodita in un guscio d’argilla. L’impensabile avviene con la sua parola che genera vita, amore, solidarietà, speranza, che genera la vita stessa di Dio in noi. Uno solo è il Padre e noi siamo tutti fratelli. Abbiamo la vita stessa di Dio in noi. Questa è la profondità del Natale. Oltre, c’è solo il roveto dalla fiamma inestinguibile di Dio (cf. Es 3, 2) che è dal principio, che è per sempre. 50 EPIFANIA DEL SIGNORE Siamo venuti dall’oriente per adorare il re. (Mt 2, 1-12) Natale è tutto un germinare di segni: come segno Maria ha un angelo, Giuseppe un sogno, i pastori un bambino avvolto in fasce, ai Magi basta una stella. Perfino Erode ha un segno: sono tre viaggiatori dall’oriente, culla della vita. C’è un segno per tutti, tutti sono chiamati. C’è una stella per tutti, ogni giorno. Spesso si tratta di piccoli segni, più spesso ancora si tratta di persone. Vivono accanto a noi come epifanie di bontà, sono incarnazioni viventi del vangelo! E non sappiamo leggerle, come accadeva in Giudea duemila anni fa. Il Vangelo racconta come sia possibile anche per noi compiere il viaggio della luce e della gioia: «Al vedere di nuovo la stella i Magi furono presi da grandissima gioia». Quella stella brillava per tutti, ma non tutti sapevano leggerla. Loro, i Magi, sapevano che bisogna innanzitutto alzare lo sguardo, bisogna cioè credere che la realtà non è solo ciò che si vede, che il mondo è più grande di quello che io tocco, che la terra è fatta anche di cielo. Questa è la prima tappa: per camminare bene 51 dentro questo mondo che pulsa e vibra e palpita di segni, dobbiamo alzare lo sguardo, non avere gli occhi a terra, seguire la voce dei profeti che sempre ci dicono: Alza il capo e guarda! Seconda tappa: mettersi in cammino dietro a una luce che cammina. Mettersi in strada, cercare sempre, sapendo che cercare è già trovare: «Tu non mi cercheresti se non mi avessi già trovato» (sant’Agostino). I Magi vedono molte cose in quella stella. È una stella con molte stelle dentro: un bambino, un re, un Dio. «Siamo venuti per adorarlo.» Ecco il desiderio di Dio: Dio ha desiderio che noi abbiamo desiderio di lui. Dio non è un dovere, è un desiderio. Per questo i Magi viaggiano per anni, «fissando gli abissi del cielo fino a bruciarsi gli occhi del cuore» (D.M. Turoldo). Terza tappa: interrogare la Parola. Ci sono i professionisti a Gerusalemme, ma non colgono la luce. Leggono la Parola, ma non si mettono in strada, non ci credono davvero. Possiedono i libri, si sentono padroni del libro. Invece, nessuno è padrone delle stelle. La stella è simbolo alto di Dio, dello Spirito, del fuoco, del vento che soffia dove vuole, sugli abissi del cielo e del cuore. Nessuno è padrone delle stelle, dei segni di Dio. Per questo gli scribi leggono la Bibbia ma non la Parola: perché la Bibbia non è la Parola, è la scrittura della Parola. Il Vangelo non è il Verbo, è la scrittura del Verbo. E può succedere anche a noi, che frequentiamo il Vangelo, ciò che accadeva agli scribi di Gerusalemme: di non essere colmati di luce e di gioia. Il Vangelo contrappone il libero viaggio e la cerchia murata di Gerusalemme, i cercatori di stelle e i cercatori di parole, gli scribi che sanno tutto ma che si muovono solo per andare a corte a far sfoggio di cultura. 52 Per loro Dio non è una passione in grado di farli partire. I Magi invece hanno poche conoscenze, ma potenti desideri. E mentre gli scribi offrono citazioni, essi portano doni. Ma il dono più bello, il più grande, è il loro stesso viaggio lungo due anni, è il loro lungo desiderio. Questo è il grande dono che anche noi possiamo offrire a Dio: la fame e la sete di lui. Della nostra sete Dio ha sete. Quarta tappa: bisogna prostrarsi e adorare e donare, seguire un cuore bambino che scambia doni con un ridente cuore di bimbo. I doni non li hanno dati a Erode per ingraziarselo, li hanno conservati per il bambino. Vero dono è il lungo cercare e la sequela della luce. E poi i Magi ritornano al loro paese. «Per un’altra strada»: infatti ormai la via della vita cambierà, passano nel mondo come per una strada più sicura, non più facile. Ora sono quelli che sanno la via. Perché hanno visto l’infinito in un bambino. Allora anche noi, cercatori – come i Magi – della carne di Cristo, potremo capovolgere la ricerca di Erode e ridare bellezza e verginità alle sue parole: «Andate e informatevi accuratamente del bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere». Parole che vorrei ripetere all’amico, al teologo, alla monaca di clausura, al poeta, allo scienziato, al prete, al bambino abbandonato, al volontario, al mendicante: Hai trovato il Bambino? Ti prego, cerca ancora accuratamente nei libri, nell’arte, nella storia, nel cuore delle cose, cerca in fondo alla speranza. Cerca ancora con cura, fissando gli abissi del cielo e poi gli abissi del cuore. E tu, amico che sai, dimmi come l’hai trovato, dov’è la sua casa, quale stella hai seguito, fammelo sentire vivo 53 e vero, fammelo sentire vicino, perché anch’io venga ad adorarlo, con i miei piccoli doni, con la grande fierezza dell’amore. È una gioia pensare oggi che Dio è di tutti. Che nessuno è padrone delle stelle! I Magi erano pagani, venivano da un oriente misterioso, patria delle religioni più diverse, culla della vita. Vengono a dire che Dio appartiene a tutta l’umanità e che lo cercano l’intelligenza e il cuore di ogni uomo, la sapienza e la cultura di ogni popolo. È il Dio di chi crede e di chi non ce la fa a credere, dei cristiani e degli islamici, di chi è regolarmente sposato e di chi ha subìto la lacerazione dell’amore, di chi è solo e di chi vive insieme a un amato, di me e di chi non è della mia idea politica. È il Dio di tutti e per tutti fa sorgere una stella, per chiunque lo cerchi con cuore sincero. «Abbiamo visto la sua stella e siamo venuti...» Ma per noi, oggi, quella stella dov’è? Giovanni, nel prologo del suo Vangelo, afferma: «In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini». Cristo è il luogo della vita, e la vita è la stella degli uomini, indica la rotta. Allora seguirò le lacrime e le domande d’aiuto di ogni vivente; seguirò gli abissi di dolore e i miracoli della carità di oggi; e poi seguirò le ricerche spirituali, culturali, artistiche dell’uomo contemporaneo, le sue conquiste scientifiche e sociali; seguirò, mi appassionerò alla storia dell’uomo, tutta. Poi valuterò e manterrò ciò che è buono, vedendovi la vera stella cometa che accende ancora i nostri cieli e indica la via. L’uomo è la stella. Se non ti apri all’uomo, non vedrai nessuna stella. Dio non è il Dio degli scribi, ma della carne che spera, ama, soffre. C’è più verità in un solo grido di dolore che in interi trattati di filosofia. 54 Perché Dio è la fiamma delle cose, l’anima della storia, stella in fondo al cuore. Di tutti. Dio parla nella vita. I Magi sono i santi più nostri, gente dal cuore inquieto e incamminato. Senza strada, eppure tenacemente in cammino. Inquieta sembra perfino la stella finché non raggiunge la casa dov’è il Signore. I Magi sono i santi più nostri perché sono i lontani, i confusi, perché il loro cammino è pieno di errori, come il nostro: giungono nella città sbagliata, smarriscono la stella, cercano il Bambino presso l’uccisore di bambini, cercano un re e trovano un Dio. Ma il loro cammino è pieno anche dell’infinita pazienza di ricominciare, e così consolano me e il mio cammino spirituale accidentato, assicurandomi che il dramma non sono gli errori, ma arrendersi agli errori. I Magi sono i santi più nostri perché camminano con i piedi per terra ma con gli occhi fissi nel cielo, legano il loro andare e venire sulla terra e fra le persone a una stella, a un ideale alto e puro, a un senso che è oltre, a quel frammento di cielo che compone, come parte essenziale, la terra e la storia. I Magi sono i santi più nostri perché ci ripetono che l’esistenza non è statica ma estatica: è uscire da sé, dai piccoli perimetri del sangue, verso il grande giro delle stelle, dal cortile di casa verso la patria grande che è il mondo intero. 55 BATTESIMO DEL SIGNORE Gesù uscì dall’acqua: ed ecco, si aprirono i cieli. (Mt 3, 13-17) Finito il tempo del Natale, già ci avviamo verso la Pasqua. E il battesimo di Gesù contiene il destino di Gesù, la sua vocazione. Fino a ieri abbiamo sentito il racconto di come è nato, da chi è nato, dove. Oggi il Vangelo ci racconta per che cosa Gesù è nato. Il battesimo è il suo mandato, l’investitura: «Questi è il figlio mio prediletto». Questo sarà: il somigliantissimo al Padre. Il suo volto è rivelazione del volto d’amore di Dio. E sarà anche il volto ultimo dell’uomo, così come Dio l’ha pensato e desiderato. Le altre due letture di oggi completano l’identità di Cristo: «Ecco il mio servo» dice Isaia. Servitore di Dio, e della vita: «Ecco uno che passa nel mondo facendo solo del bene» dice Pietro «e guarendo ogni vita». La missione di Cristo è delineata con tre tocchi: figlio di Dio, fratello di ogni uomo, servitore della vita. È la vocazione di ogni credente, assunta con il battesimo. Questo è l’uomo che Dio vuole, che plasma e riplasma come il vasaio fa con la creta, con infinita pazienza e speranza, che è descritto nella prima lettura 56 con una delle pagine più consolanti e impegnative della Bibbia. Mi colpiscono tre serie di “non” di Isaia. La prima dice: «Non griderà, non alzerà il tono, non farà udire in piazza la sua voce». Dio non vuole sopraffare nessuno. Non vuol far tacere nessuno, né coprire il rumore o il brusio della piazza e tanto meno il dolce rumore della vita. Non seguirà strategie di potenza: non lo farà Cristo, non lo farò io cristiano. E poi la seconda serie di “non” di Isaia: «Non spezzerà il bastone incrinato, non spegnerà la lanterna morente». Dio non castiga se la nostra fiamma è debole (e lo è sempre), ma la fa diventare luminosa. Se la tua vita si sta spezzando, se sei a pezzi, Dio non finisce di rompere, lui si fa medico e guaritore. Per lui un uomo non è mai perduto, non è mai finito; un peccatore non è mai condannato per sempre. La dolce mania di Dio è sperare nell’uomo. La sua passione è guarire la vita. Perché l’uomo non coincide con la sua malattia, l’uomo non si identifica con il suo peccato. Dice Gesù all’adultera: «Non ti condanno; d’ora in avanti non peccare più». Non incrinare la tua vita, non scegliere le cose che danno la morte, non spegnere la tua luce interna. L’uomo non coincide con la sua debolezza, ma con le sue potenzialità, con il seme di luce che il battesimo ha posto in lui. Il peccato, il mio e quello di chi mi è accanto, non rivela la verità dell’uomo. Il male non è rivelatore, mai. Perché noi siamo più grandi del nostro peccato. Infine la terza serie di “non”: «Proclamerà il diritto con fermezza; non si abbatterà, non verrà meno». Ecco l’uomo secondo Dio, ecco il Cristo mai arreso pro- 57 clamatore del diritto, soprattutto di quello degli umili, degli oppressi, delle vite incrinate, delle fiamme deboli. Non spezzerà il debole, certo, ma nemmeno lui si spezzerà; non verrà meno fino a che non avrà stabilito il diritto sulla terra. Eccolo, l’uomo forte non nel gridare condanne, ma forte nel difendere giustizia e diritto, come Cristo che «indurì il suo volto» mettendosi in marcia verso Gerusalemme (cf. Lc 9, 51). È il volto duro che significa il volto forte nella misericordia, inflessibile nella bontà, inscalfibile nel perdono, implacabile nell’amore. Se così cercheremo di essere, mai arresi cercatori di Dio e servitori dell’uomo, allora anche su di noi verrà una voce a ripetere le parole risuonate al Giordano: «Tu sei il mio figlio; di più: sei il mio preferito; di più: tu sai darmi gioia, in te mi compiaccio». Ma quale gioia gli può venire da questo tizzone fumoso, quale emozione gli può regalare questa canna sempre sul punto di rompersi? Questo bastone inutile cosa può dare a Dio? È solo l’amore immotivato che spiega queste parole: «Tu sei il mio prediletto». E ognuno è il figlio preferito, perché l’amore preferisce ciascuno. Gesù lo dice nel discorso d’addio (Gv 13): «Sappiano, Padre, che li hai amati come hai amato me». Dio ama me come ha amato Gesù, con quella stessa intensità, con la medesima emozione, con l’identica speranza. «Sappiano che li hai amati come hai amato me.» E con in più tutte le delusioni di cui io sono causa, con la gioia con cui amava Gesù, con un dolore che non conosceva, perché io sono amore e dolore di Dio, dolore prediletto, amato quanto Gesù. Lo so: fiamma smorta, canna spezzata, ma prediletta. Unica come Gesù, insostituibile come Gesù, prefe- 58 rita quanto Gesù. E allora si apre il cielo su Cristo, ma si è aperto su ciascuno di noi, si apre come si aprono le braccia all’amico, all’amato, al povero. E la canna che io sono non viene spezzata, ma è il cielo che viene squarciato sotto l’urgenza dell’amore di Dio, sotto l’impazienza di Adamo, sotto l’assedio dei poveri, e nessuno lo richiuderà più. Questo è Gesù: figlio di un cielo lacerato e d’una Vergine intatta; albero con le radici piantate nel profondo del cielo e della terra. E questo è l’uomo, con doppie radici. Così come nasce dalle acque materne e dall’acqua dello Spirito. Questo indica il quadro posto a fianco dell’altare: Gesù ha i piedi nell’acqua del Giordano, acqua della vita, dell’umano, di questo fiume che ci porta tutti. Sopra di lui l’acqua che sta per essere versata sul suo capo, è acqua striata di luce, covata dalla colomba dello Spirito di Dio. A dire che non è diminuendo l’umano che facciamo spazio a Dio, ma accogliendolo come seme di luce ulteriore, di vita più alta. «Tu sei il mio figlio»: ti affido al rischio di essere te stesso, ma con dentro il soffio di Dio, con il respiro che viene dal cielo come colomba e si posa su di te e ti avvolge e a poco a poco ti modella, ti trasforma pensieri, affetti, progetti, speranze. Secondo la legge dolce, esigente, rasserenante e robusta del vero amore. Allora il nostro agire nel mondo può cambiare: diventa prolungamento dell’agire di Dio. Io faccio ciò che Dio fa, perché figlio è solo colui che assomiglia al padre, che agisce come il padre, che prolunga la presenza del padre. Allora ti prende una nostalgia, un desiderio di fare qualcosa che assomigli a ciò che è detto di Gesù: «passò nel mondo facendo del bene»; passò nel mondo guarendo la vita da ogni suo male. 59 È la sintesi ultima, essenziale, struggente, bellissima della vicenda di Cristo, ma anche della vicenda di ciascuno di noi, di chiunque voglia, come lui, passare nel mondo facendo del bene, passare nel mondo guarendo attorno il male di vivere, guarendo la solitudine e la tristezza e l’abbandono, guarendo l’ingiustizia e prendendosi cura di qualche vita debole. Forse di guarire non siamo capaci, ma di prenderci cura sì, donando, amando, perdonando, toccando la ricchezza delle persone con gratitudine, toccando la loro povertà con compassione. Allora saremo anche noi figli di Dio, figli della terra e figli di un cielo lacerato. Lacerato per amore. 60 Quaresima e Pasqua I DOMENICA DI QUARESIMA Non di solo pane vivrà l’uomo. (Mt 4, 1-11) Ogni anno il tempo di Quaresima inizia con le tre tentazioni. Esse sono la massima espressione dell’intelligenza umana più sottile: non propongono delitti, sangue, violenza, guerra, orrore. Queste cose sappiamo riconoscerle, tentiamo perfino di sfuggirle. Ma con il Vangelo delle tentazioni andiamo là dove esse nascono, dov’è la loro radice, dove sono allevate e nutrite dal nostro cuore d’ombra, il nostro cuore sbagliato. Le tentazioni più pericolose sono quelle che propongono, come a Gesù, di accontentarci di questa nostra storia, di non sognare qualcosa d’altro, di non cercare dalle parti dell’assoluto. Pietre o pane? Tutta la vita è qui: è la tentazione ad essere soltanto uomo. Il diavolo, il più intelligente tra gli spiriti, dice a Gesù: «Non sognare! Vedi queste pietre? Cambiale in pane. Gli uomini hanno bisogno di pane e di miracoli, hanno bisogno di capi. Assicuragli questo e saranno tutti dalla tua parte. Non vedi il piacere che hanno di ricevere il pane e, ancor più, di riceverlo dalle mani di qualcuno invece di guadagnarlo?». 63 Ma Gesù, anziché impossessarsi della libertà degli uomini con il pane e il miracolo – come tanti, troppi, hanno fatto lungo tutta la storia –, ha moltiplicato la libertà. Alla nostra tentazione di ridurre tutto a denaro, a quantità, a beni materiali e a cose, egli oppone la fame di più vita. Esce dall’alternativa “pietre o pane?”, e rilancia il senso vero della vita. «Non di solo pane vive l’uomo.» Anzi, di solo pane l’uomo muore. L’uomo vive «di ciò che viene dalla bocca di Dio». Bellissima questa parola! L’uomo vive di Dio: dalla bocca di Dio son venuti la luce, il cosmo, le creature, Cristo, il vangelo. L’uomo vive di Dio e di creature, vive della contemplazione delle pietre del mondo, vive di quella Parola che affascina e che consola, che sola colma le profondità della vita. Tu, io, ogni creatura siamo venuti dalla bocca di Dio. Il respiro di ogni Adamo è il respiro stesso di Dio. Di Dio e di te io vivo. Tuttavia – come dicono quei versi di padre Turoldo – «che sono inganni io lo so / eppure so che non potrò non ingannarmi ancora», inseguendo il solo pane. E il diavolo continua: «Vuoi cambiare il corso della storia facendoti servo, cioè con niente, senza mezzi, senza il potere? Non funzionerà, il mondo ha dei problemi, tu devi risolverli. A cosa serve la croce? Quali problemi del mondo ha risolto la croce? Cosa se ne fa il mondo di una croce? Non sarà salvo per una croce in più. Prenditi il potere, con quello risolverai i problemi». Ma Gesù sa che il potere è un sole ingannatore. Il faraone non libererà mai i suoi schiavi. L’uomo deve essere come Cristo, servo di tutti ma senza alcun padrone. Il male del mondo non sarà tolto a forza di miracoli, né a colpi di leggi, ma cambiando il cuore, mettendolo da- 64 vanti a Dio, esponendolo alla sua luce perché sia contagiato dalla sublime follia della croce. Continua il diavolo: «Buttati! Facci vedere un volo di angeli. Adopera i miracoli. Lo sai, gli uomini non cercano Dio, ma i suoi miracoli; non cercano la grazia, ma le grazie. Gli uomini non cercano nient’altro che doni, e non l’Unico che per loro si doni». E Gesù risponde: «Non tentare Dio. Io so che il Signore sarà presente; quando starò per cadere sarà là, ma lo sarà a modo suo, come lui vorrà, non come io vorrei. E non per evitarmi la caduta ma per aiutarmi a ripartire». «E voi, piccolo gregge» dice a noi «camminerete nella vita non per la forza di miracoli improvvisi, ma per il prodigio di un Dio che è forza dentro la vostra forza, speranza dentro la vostra speranza.» Gesù mostra a ciascuno come si attraversino le tentazioni. Queste sono necessarie, non si evitano, non si eludono: si attraversano. «Togliete la tentazione e nessuno si salverà» diceva l’abate Antonio, il padre dei monaci. Perché, se togli la tentazione, finisce la libertà, finisce la possibilità di scegliere: è l’uomo stesso che finisce. La tentazione è sempre una scelta tra due amori, una scelta tra due seduzioni. Vivere è scegliere. Quella che leggiamo nel Vangelo di oggi è la tentazione di essere solo ciò che sei, di non trascenderti, di non sforzarti, di non sognare. Per questo Gesù, alla proposta del diavolo, risponde sempre con una controproposta, con il rilancio di una frase presa dalla Bibbia, riscoprendo un valore, un ideale, un amore da ridire a se stessi, a cui darsi. Gesù si oppone alla tentazione proprio sfidandola. «Di’ che queste pietre diventino pane.» E il pane è un bene, il pane è un valore inequivocabile. Gesù rispon- 65 de opponendo fame dell’anima a fame del corpo: «Non sono mendicante di pane, ma di cielo». Gesù risponde offrendo più vita: «Non di solo pane vivrà l’uomo». Il pane è buono, ma più buona è la parola. Il pane dà vita, ma più vita viene dalla bocca di Dio. Anche per noi vale lo stesso metodo. Non tanto il tener duro, l’arroccarsi, la forza di volontà che – lo sappiamo – non resiste a lungo; più di tutto conta evangelizzare di nuovo noi stessi, ridirci gli ideali, sentire ancora il fascino di Cristo, ancora capace, come per i discepoli di Emmaus, di rubarci il cuore: «Non ci bruciava forse il cuore per strada, mentre ci spiegava la vita e la Parola e le Scritture?» (Lc 24, 32). Allora io so che di fronte alla tentazione la forza non è in me, ma in Dio. Mi appello alla forza che ha il vangelo, alla presa che ha il vangelo su di me. Non conta la mia forza, ma la forza con cui la parola di Dio mi ha preso. Uso la forza di Dio per attraversare le tentazioni, uso la sua capacità di sedurmi ancora. Gesù, per tre volte tentato, risponde tre volte convocando Dio accanto a sé: la bocca di Dio, l’adorazione di Dio, il non tentare Dio. Perché Dio è la roccia, l’àncora, la radice, il sole su cui far conto, su cui far forza, su cui poggiare, in cui fiorire. Un Dio da adorare, da ascoltare, un Dio che riempie le anfore vuote del cuore. Per questo siamo qui, per avere tanto pane quanto basta a un intero deserto. E poi faremo ciò che dice il profeta Isaia: «Dividi il tuo pane, introduci in casa il povero, vesti il fratello che vedi nudo; allora la tua luce sorgerà come l’aurora, la tua ferita si rimarginerà subito» (Is 58, 7-8). E vedendo te – dice ancora il profeta – vedranno la gloria del Signore. Togli di mezzo a 66 te l’oppressione, il puntare il dito; offri il pane e brillerà fra le tenebre la tua luce e le tue ombre diventeranno un sole. Illumina altri e ti illuminerai. Ecco il nostro programma di Quaresima: guarisci altri e guarirà la tua piaga, offri il tuo pane e la tua fame sarà saziata, affaticati per altri e troverai riposo, dona ai poveri e sarai ricco. E vedere uno che agisce così, vedere te quando fai così, sarà vedere la gloria di Dio camminare nel mondo: Davanti a te camminerà la giustizia, dietro di te danzerà la gloria del Signore. 67 II DOMENICA DI QUARESIMA Il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. (Mt 17, 1-9) Gesù si trasfigura «su un alto monte» forse perché sul monte si posa il primo raggio di sole e vi indugia l’ultimo, perché il giorno vi è più lungo e la notte più corta: il monte è il luogo della luce. Anche Mosè ed Elia sono uomini del monte, hanno scalato l’Oreb per vedere il Signore. Compaiono ora sul Tabor e conversano con Gesù: perché ascoltare Gesù equivale a vedere Dio. Mosè ed Elia, la legge e i profeti, l’intera sacra Scrittura, hanno così raggiunto la loro meta. Anche la mia meta è la trasfigurazione, con il punto di partenza e quello di arrivo indicati da due parole pronunciate lassù. La prima è rivolta ai discepoli, cioè a tutti noi: «È il mio Figlio. Ascoltate lui!». Così inizia la trasfigurazione: chi lo ascolta diventa come lui. Ascoltarlo significa essere trasformati; la Parola chiama, fa esistere, guarisce, cambia il cuore, rafforza, fa fiorire la vita, la rende bella. La seconda parola viene dall’esperienza di Pietro e di tutti i discepoli: «È bello per noi stare qui»: qui sul Tabor, nella luce, e anche 68 qui ai piedi del monte, dove la Parola ha posto la sua tenda. «È bello stare qui»: su questa terra che è gravida di luce, dentro questa umanità che si va trasfigurando. È bello essere uomini: non è la tristezza la mia verità immediata. È bello essere di Cristo, che è luce da luce, come dice il Credo. E se Cristo è in me, anch’io sono in qualche misura luce da luce. L’intera esistenza altro non è che la gioia e la fatica di liberare tutta la luce sepolta in noi. Paolo oggi scrive al suo amico Timoteo una frase di emozionante bellezza: «Cristo Gesù ha fatto risplendere la vita». Gesù ha fatto splendida l’esistenza, non solo il suo volto e le sue vesti, non solo il futuro o i desideri, ma la vita qui e adesso, la vita di tutti, la vita segreta di ogni creatura. Ha riacceso la fiamma delle cose, ha fatto risplendere l’amore, ha dato splendore agli incontri e bellezza alle vite, sogni nuovi e bellissime canzoni al nostro sangue. «E i sensi sono divine tastiere» (D.M. Turoldo) che provano gli accordi di una sinfonia che parla di alleanza gioiosa con tutto ciò che vive. Se di questa domenica potessimo portare con noi una parola, sia questa: «Il Signore ha fatto risplendere la vita». Ripeterla come un’eco di speranza e di bontà: la trasfigurazione è già iniziata; nelle vene del mondo già corrono frantumi di stelle. E seminare i segni della bontà e della luce, seminare occhi nuovi che sappiano vedere e ringraziare e imitare le creature che sono buone e luminose, che hanno passione di giustizia e che danno la vita. E beati coloro che hanno il coraggio di essere ingenuamente luminosi nello sguardo, nel giudizio, nel sorriso. Davvero allora «è bello per noi stare qui», accanto a loro. 69 È bello essere uomini, e non solo sul Tabor, ma su questa terra, che è bella, in questa umanità dove germina luce, in questa creazione che è gravida di luce. «È bello!»: prima parola di Dio quando guarda le sue creature, prima parola dell’uomo nel giorno della nuova creazione, sul monte della luce: è bello vivere qui. La terra è tutta una tenda di luce! C’è nella storia una corrente segreta, un filo d’oro che lega insieme tutti gli eventi in un senso positivo. Infatti tutta la creazione geme nelle doglie del parto, geme e attende: tutta la creazione è gravida di luce. E l’uomo è come un’icona dipinta, ma su di un fondo d’oro, luminoso e prezioso e positivo, che è la nostra somiglianza con Dio. Allora la nostra vocazione è la gioia e la fatica di liberare tutta la bellezza che Dio ha posto in noi, di liberare tutta la luce che, come figli di Dio, è sepolta in noi. Cammino ascendente e liberante! Le prime due domeniche di Quaresima, la domenica delle tentazioni e quella della luce, ci dicono che noi siamo questa alternanza di tenebra e luce, di ombra e di sole. Ma anche che la storia del male dentro di noi non è mai separata dalla storia del bene, così come la storia della passione è la stessa della risurrezione, e la morte non è mai separata dalla vita, o il tempo dall’eterno: tutto è una sola cosa. In cammino, però, come una linea ascendente, che avanza, senza ritorno. In principio c’è la tentazione, alla fine un volto di sole e di luce. Il grande cammino va dall’ombra alla trasfigurazione, dal deserto al monte. Il Padre parla solo due volte, al Giordano e al Tabor, e ha una sola parola: «Questi è mio Figlio. Ascoltatelo!». Il Padre è voce, Gesù è parola e volto del Pa- 70 dre rivolto ai fratelli. Chi lo ascolta diventa come lui, figlio e volto di Dio, volto e occhi di luce. La trasfigurazione inizia così. 71 III DOMENICA DI QUARESIMA L’acqua che io darò diventerà sorgente che zampilla per la vita eterna. (Gv 4, 5-42) Al pozzo di Sicar Gesù si prende cura del destino di una donna, della sua carne e della sua eternità. Vorrei meditare e gustare con voi ciò che Cristo fa nascere, germinare e lievitare attorno alla sua persona, ai suoi gesti e alle sue parole, come una continua natività. «Come mai tu, che sei Giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?» Gesù fa nascere per prima cosa la fine delle barriere, la libertà. C’è una barriera tra Giudei e Samaritani, e disprezzo reciproco. E Gesù la apre e libera il dialogo. C’è una barriera tra i rabbi di Israele e le donne: la donna non poteva essere discepola. E Gesù apre, crea libertà: quella donna diventa più che discepola, diventa una profetessa, un apostolo. C’è una barriera tra uomo e donna, un sospetto, una paura: i discepoli, ritornati, «si meravigliarono che stesse a discorrere con una donna». E Gesù apre le chiusure, fa respirare, mette aria nuova, fa nascere relazioni libere e leggere. Ma la cosa più bella è che Gesù fa nascere il mistero di Dio dentro la samaritana passando per il suo mi- 72 stero di donna. Non c’è via di accesso migliore allo spazio di Dio che lo spazio del cuore. Il Signore delle nascite presiede alla nascita di una donna nuova e rivela quella donna a se stessa, passando per il suo cuore, perché nulla rivela il mistero dell’uomo quanto il mistero dell’amore. Ed è per una storia di amore che Gesù arriva alla dimensione nuova di quella donna: «Va’ a chiamare colui che ami, la persona del tuo cuore». È così che nasce una nuova donna: «Mi ha detto tutto ciò che ho fatto, mi ha detto tutto di me, mi ha letto nel cuore, mi ha detto ciò che sono davvero». Gesù è colui che dice tutto di te, che fa nascere la totalità prima disgregata in frammenti, quel tutto che non sai vedere. E mi rivela a me stesso, ma non come condanna, bensì come scoperta; non come giudizio, ma come verità della mia vita: è la sua parola che spiega il tutto di me. Gesù non giudica la donna, non la condanna, non la umilia. La fa nascere, e lei abbandona la brocca come fosse un vecchio vestito, una vecchia storia, una vecchia vita lasciata sull’orlo del pozzo; corre in città e ferma tutti per strada: «C’è uno che fa nascere e rinascere, c’è uno che dice tutto ciò che è il tuo cuore». Ma prima ancora le aveva detto: «L’acqua che io darò diventerà sorgente che zampilla per la vita eterna». E la donna aveva risposto: «Signore, dammi di quest’acqua». Gesù ha fatto nascere sete di cielo, fame di eternità. «Donna di Samaria», le dice, «non vivere solo per i tuoi bisogni, che sono molti, è vero: fame, sete, amori, un po’ di religiosità; perché quando avrai soddisfatto questi tuoi bisogni fondamentali, non hai che un po’ d’acqua in una brocca, presto finita, sempre insufficiente.» 73 Tuttavia Gesù non dice, come certi predicatori che hanno fretta di disamorarci del mondo, di spoetizzare la vita: «Fame, sete, bisogni, queste cose materiali, queste gioie fanno male, non giovano a niente, sono cattive, rovinano la vita». No, Gesù non nega le brevi gioie della strada. Dice solo che non bastano, che non sono il tutto di te, che c’è un verdetto di insufficienza su tutti i pozzi umani, perché è stato lui a darci un cuore più grande e più largo di tutte le creature messe insieme. Gesù va verso quel pozzo segreto che è il cuore della persona, perché al segreto di una persona si accede solo attraverso il mistero dell’amore. L’uomo è un enigma in cui entra solo chi ha trovato la rivelazione dell’amore. E Gesù va verso il pozzo segreto che è il cuore di quella donna e lì attinge vita. Apre il pozzo e fa nascere una sorgente che sgorga, che zampilla vita: nasce dentro la donna il canto di una sorgente. È un’immagine bellissima: la sorgente è acqua che esce, che zampilla, che va, che è più di ciò che basta alla mia sete: è acqua per gli altri. La donna, che prendeva quanto serviva alla sua sete e alla sua fame, diventa ora tutt’altra creatura, diventa colei che dona, colei che placa la sua sete placando la sete d’altri, colei che si illumina quando illumina altri, colei che riceve gioia donando gioia. Infatti lascia la brocca, corre, chiama, annuncia, testimonia, profetizza. E attorno a lei nasce la prima comunità di discepoli samaritani. Gesù, creatore di nascite perenni, sorgente di natività continue. Gesù che fa nascere una comunità, fa nascere discepoli, adoratori nuovi in spirito e verità. Il proliferare di nascite, il moltiplicarsi di natività! E ancora continua: «Levate i vostri occhi e guardate. Mancano quattro mesi alla mietitura e le messi già bion- 74 deggiano. Nasce l’estate. Guardate bene, guardate in alto». Il futuro è già qui, intravisto almeno con gli occhi del cuore. Alzate gli occhi: la messe sta maturando. Perché non sapete vedere tutto ciò che di bello accade, tutta la comunione che inizia, tutti i cuori che diventano nuovi, tutte le sorgenti che si dischiudono? Perché non sapete vedere tutto l’amore che accade e che fa maturare le messi del mondo? Non vivete a occhi bassi! Davvero Gesù è il creatore di un mondo nuovo. Anche dentro i discepoli, che tornano e gli dicono: «Rabbì, mangia», egli fa nascere qualcosa di nuovo: «Ho un altro cibo». Gesù spalanca il desiderio e la fame, li spalanca su Dio: fare la sua volontà è ciò che nutre la vita, è ciò che fa maturare il mondo e apre le barriere. Gesù ha un’opera da compiere, ed è la sua passione, la sua morte. La croce, però, è il luogo dell’amore totale: e questo amore alimenta la vita. Se non abbiamo amore, passione, donazione, la vita si stanca subito, si disidrata, appassisce dentro. Solo l’amore alimenta le profondità del nostro essere: «Mio cibo è l’amore. Mio pane è fare la volontà di colui che mi ha mandato». Va al pozzo la donna di Samaria come mendicante d’acqua e ne ritorna come mendicante di cielo. Va con una brocca e ne ritorna con una sorgente. Come la samaritana, possiamo anche noi dimenticare la brocca, questa vita angusta che contiene così poco, questa vita piccola e opaca, e correre a raccontare di un Signore che fa nascere, capace di dirmi tutto quello che ho nel cuore, capace di farmi alzare gli occhi, capace di far nascere in me un mendicante di cielo, e poi un’estate colma di frutti. Capace di far nascere tra le mie mani il canto di una sorgente. 75 IV DOMENICA DI QUARESIMA Va’ a lavarti nella piscina di Siloe. Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva. (Gv 9, 1-41) Il Vangelo racconta la conquista di uno sguardo nuovo da parte di un cieco. Nella seconda lettura Paolo ci assicura che ora siamo «luce nel Signore». La parte centrale del racconto di Giovanni è tutto un turbinio di risposte, un agitarsi traboccante di parole, mentre Gesù, dopo un gesto iniziale carico di simboli e di tenerezza, scompare, lasciando la scena alla dialettica degli altri, tutti a difendersi, ad attaccare, a parlare senza sosta e senza gioia. No, Gesù non ha nulla da spartire con un mondo fatto di parole e di teorie. Egli è la “compassione”, non la spiegazione. Luce della vita è la compassione, non la dialettica più acuta. Il cieco dalla nascita, infatti, non cerca la spiegazione della sua disgrazia; cerca compassione e mani che lo tocchino e qualcuno che sugli occhi spenti metta qualcosa di proprio, con quella minima liturgia di mani, di fango, di saliva, di cura. Cerca condivisione, non dimostrazione. Alla fine del racconto Gesù ritorna dal cieco, che di lui sapeva solo il suono delle prime parole e il tocco 76 delle mani. «Tu credi?» «È colui che parla con te.» «Io credo, Signore!» In queste semplici parole passa il segreto della vita. Anche il nostro è un mondo di parole e di sofismi: chi ha ragione, chi ha torto, la mia tesi contro la tua; e come i farisei, nessuno prova pena per gli occhi vuoti del cieco; nessuno si entusiasma per i nuovi occhi illuminati. Siamo burocrati delle idee, analfabeti del cuore. Vediamo in televisione, in questi giorni, sangue e morte e forse, invece di compassione, cerchiamo subito accuse o contraccuse, non muoviamo un dito: solo si muovono parole di accusa e di giustificazione. Per teorizzare il mondo dimentichiamo la vita. È un mondo cieco. Gesù esce, non ci sta. Il Vangelo oggi ci chiede di guarire, di conquistare una vista nuova, di conquistare un volto raggiante, di diventare luce nel Signore. Com’è possibile? Pensiamo al racconto del libro dell’Esodo in cui si dice che il viso di Mosè era raggiante perché «aveva conversato con il Signore» (cf. Es 34, 28-35). Parlare con Dio rende luminosi, la preghiera apre le porte della luce che viene e si condensa e si rapprende, rimane impigliata nel volto e nel cuore dell’orante. Anche le parole di colui che prega sono come bagnate di luce. Nella Seconda lettera ai Corinzi Paolo dice che contemplando il Signore, riflettendo la sua gloria, veniamo trasformati in quella stessa immagine (2Cor 3, 1718). Contemplare il Signore trasforma; pregare ci trasfigura in immagine del Signore. Il dialogo con Dio porta luce. L’uomo diventa ciò che contempla; l’uomo diventa ciò che ama, ciò cui guarda con gli occhi del cuore, l’uomo diventa ciò che prega. Ecco che allora 77 possiamo davvero dire, come ci suggerisce la seconda lettura di oggi, che siamo «luce nel Signore». Contemplando Dio veniamo trasformati in Dio. La strada della luce passa per due verbi: “conversare” con Dio, come ha fatto Mosè; “contemplare” il volto di Dio, come ci dice Paolo. Come eco, le parole del Salmo 34: «Guardate a lui e sarete raggianti e non avrete più volti oscuri». Il segreto di un volto raggiante, luminoso, risiede nella conversazione con Dio, nella contemplazione di Cristo, nel guardare a lui con occhi vivi, come quelli donati al cieco del Vangelo. E forse, in questo tempo di Quaresima, dovremmo tutti, io per primo, “perdere” un po’ di più del nostro tempo per guardare a lui, per lasciarci guardare da lui, per ascoltare lui, per contemplare lui. Di modo che traspaia un po’ di cielo dal fondo del nostro essere. Ma io sarò raggiante per una terza strada. Non quando avrò trovato risposte chiare agli enigmi del vivere, ma quando compirò le opere della luce. Dice Gesù: «Compite le opere della luce finché dura il giorno» (Gv 9, 4). Che significa: il giorno durerà, la luce brillerà se noi compiremo le opere di Dio. La luce durerà fino a che i figli dell’uomo saranno costruttori delle opere di Cristo, costruttori di ciò che più manca: una luce amante, gesti amanti. La Quaresima è un tempo particolarmente dedicato alla carità. Perché non basta lo sguardo di Cristo pieno di stupore e di pietà; ci vogliono le mani di Cristo, piene di attenzione e di tenerezza. E se non incontriamo dei ciechi, almeno i poveri li incontriamo. Almeno ricordarci il colore degli occhi, almeno guardarli. 78 E poi fare che le mani possano fiorire in gesti di partecipazione. Quante volte ho visto spegnersi occhi intelligenti e acutissimi, che dicevano di vedere e prevedere perfino la storia del futuro. Erano acuti, erano pensosi; erano acuti, ma non raggianti di luce interiore e amante. Perché si vede bene solo con il cuore; e quando le mani si posano sui poveri, come ha fatto Gesù. Lo sappiamo tutti: basta una lacrima e diventiamo come ciechi, un grumo di dolore nella nostra giornata e non capiamo più niente. Basta una lacrima, e i contorni delle cose si spengono; basta un evento doloroso in famiglia, e la strada, che ci sembrava facile e diritta, diventa un labirinto senza uscita. Basta un dolore, e il cielo diventa nero e la fede si svuota e dolgono di desolazione le fibre più intime del cuore. La vista va conquistata, gli occhi che portano lontano sono “dono” e “conquista”. Sono dono quando accetto che sia Dio a rivelarmi le ragioni e la bellezza segreta di ogni cosa; e accetto la sua voce di abisso e di vertice. Sono conquista quando converso con Dio e contemplo il volto del Crocifisso e faccio le opere di Cristo. Allora saremo raggianti e non avremo più volti oscuri. Così si conquista la vista e si diventa luce: frequentando la luce del vangelo, frequentando il cielo di Dio che sono i poveri. Lì vedremo anche noi fiorire il miracolo della luce, vedremo Cristo, fiore di luce nel nostro deserto. 79 V DOMENICA DI QUARESIMA Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! (Gv 11, 1-45) Dolcemente, come si fa con gli amici, le sorelle rimproverano Gesù: «Se tu fossi stato qui, nostro fratello non sarebbe morto». Le loro parole introducono un primo, grande tema: quello del ritardo di Dio. Che è la regola dell’amicizia di Dio per me, non la regola della sua indifferenza. Con il suo ritardo Gesù vuole spiegare qualcosa di nuovo. Egli non è venuto a modificare i ritmi della vita e della morte del corpo, non è venuto a modificare il decorso delle malattie, a ritardare indefinitamente il momento del morire, ma a dare un senso nuovo sia alla morte sia alla vita. E il senso nuovo è questo: non morirai per sempre, non morirai in eterno. La morte è una parentesi d’ombra per poi venir fuori di nuovo nel sole: «Lazzaro, vieni fuori!». È uscire alla presenza di Dio, alla folla degli amici. Resta, tuttavia, il Dio “in ritardo” davanti alle tragedie, davanti alla guerra, davanti a ogni morte. Come i Giudei, anche noi diciamo: Non potevi far sì che non morisse il mio familiare, il mio amico, quel bambino in- 80 nocente? Ebbene, il ritardo di Gesù ci dice che egli non è venuto perché l’uomo non muoia, non è venuto per togliere la morte, il cui mistero inquietante rimane; non per l’esenzione dalla morte è venuto, ma per la risurrezione. E per riempire la vita di ciò che dura oltre la morte, di cose che resistano oltre l’ultima frontiera. Ed ecco un secondo atteggiamento del Signore Gesù, oggi: il suo piangere, il suo turbarsi. Quel commuoversi profondamente che è come una ribellione, la stessa che anche noi proviamo di fronte a certe morti, a tutte, forse, le morti. Non è giusto! È uno dei gridi che più spesso si alzano a contestare Dio: non è giusto! La rabbia dell’uomo di fronte alla morte, l’ultimo nemico, è grido, è preghiera, è ribellione: tutto nello stesso tempo. Anche Gesù si ribella alla morte. È la stupenda arroganza dell’amore che non accetta la morte dell’amico. Amore fino alle lacrime. Pagina piena di lacrime, quella di Lazzaro: piangono Marta e Maria, piangono i Giudei, piange anche Gesù. Quello che mi interessa oggi sono proprio le lacrime di Gesù, perché è questa la salvezza: il pianto di Dio. Dio piange per me; io non morirò per sempre, e questo per il suo amore che non accetta di finire. Le sue lacrime sono la sua dichiarazione di amore. Ognuno di noi è Lazzaro: malato e amato. Sono io l’amico che egli non accetta di veder finire nel nulla della morte, perché la morte mette in gioco la credibilità di Dio: la morte spoglia Dio dei suoi tesori, dei suoi gioielli, lo deruba dei suoi figli, ma non per sempre. Quante volte io sono morto, quante volte mi sono addormentato! Era finito l’olio della lampada e la luce si era spenta, finita la voglia di amare, forse finita per- 81 fino la voglia di vivere, finito l’interesse per Dio e per le cose grandi. E poi un seme ha cominciato a germogliare, non so da dove, non so perché, una pietra si è mossa, è entrato un raggio di sole, un grido di amico ha percosso il silenzio, delle lacrime hanno bagnato le bende e ho cominciato a rivivere. E ciò accade! E accadrà ancora per palesi, pubbliche, sconvolgenti ragioni di amore. Dio piange per il suo amico: io sono quell’amico. E la risurrezione è possibile per le lacrime di Dio. Abitato dall’amore di Dio, io sono già abitato dalla risurrezione. Il terzo atteggiamento di Gesù che mi emoziona è il suo unire coraggio e paura: un nodo di sentimenti così umano, così vero! Ha paura come ogni coraggioso. Da pochi giorni ha lasciato Gerusalemme perché i Giudei volevano catturarlo e ucciderlo; ha seguito il suo cuore d’uomo, è riparato al sicuro al di là del Giordano. Ma ora è convocato dall’amicizia. Ora trova il coraggio dell’amicizia, un coraggio che contagia, per una volta almeno, pure Tommaso e gli altri: «Andiamo anche noi a morire con lui!». E Gesù mostra cosa significa vivere una vita dedicata, che qualcosa conta più di me, e che non vale la pena vivere se qualcosa non vale più della mia vita. Mostra cosa significhi una vita dedicata: a una persona, a una causa, e dimenticarsi per essa, e mettere in gioco la vita, e dare tutto per un tesoro nascosto. Io sono quel tesoro nascosto, io sono Lazzaro, è per me che Gesù mette a repentaglio la sua vita. Ecco, allora, l’ultimo grande messaggio del Vangelo di Lazzaro: «Se credi, vedrai la gloria di Dio». Gloria di Dio non è il miracolo, è l’uomo vivente; gloria di Dio è la vita che riprende a scorrere, gloria e legge di 82 Dio è che l’uomo viva; la vita dell’uomo è così importante da spingerlo a rischiare la sua stessa vita. Per me Gesù perde la sua vita! Allora il nostro compito, di noi discepoli di Gesù, è ripetere la sua vita perché in noi si ripeta la sua risurrezione: la sua vita piena di coraggio, di dedizione, di amicizia, di lacrime. «Io sono la risurrezione e la vita.» Noi sappiamo cos’è la vita, ne facciamo esperienza: vita fatta di pane e di miracolo, fatta di argilla e di amore. Vita è respirare, ridere, amare, gioire, lottare, vincere, perdere ma ricominciare, cadere sette volte ma rialzarsi otto volte. E questo è opera sua. La vita è emozione, poesia, dramma, stanchezza, sogno, croce. Noi sappiamo che cos’è la vita, ma sappiamo chi è Gesù che dice: «Io sono la vita»? Lui è tutte queste cose, tutto ciò che conosciamo della vita; ma poi è anche altro: «Io sono risurrezione». Ed è questo che ci spinge all’ascesa, che smuove la pietra, che ci spinge come Lazzaro fuori dalle nostre grotte murate, che scioglie, che manda avanti, che mette in ciascuno di noi ciò che ha messo in Lazzaro: la capacità di uscire, di andare. «Vieni fuori! Scioglietelo e lasciatelo andare.» Ed ecco tre verbi bellissimi: esci, sciogliti e va’. Verbi di vita e di futuro: va’ verso più libertà, verso più coscienza, più amicizia, verso una vita dedicata. E questo perché lui è in me: via vivente e nuova. Certo, il ritardo di Dio pesa, pesa fino allo scandalo; eppure credo nel sole anche quando non splende, credo nell’amore anche quando non mi è dato, credo in Dio anche quando tace. Perché, se il volto di Dio è quello di Gesù, se il nome di Dio è “amico”, il mio nome è “amato per sempre”. 83 DOMENICA DELLE PALME Se sei figlio di Dio, scendi dalla croce! (Mt 26, 14-27, 66) Abbiamo ascoltato il lungo racconto della passione del Signore Gesù trasmessoci dal Vangelo di Matteo. Occhi e cuore sono con lui sulla via dolorosa, ai piedi della croce; le sue parole risuonano nel nostro intimo, il suo alto grido lacera il silenzio. Vi propongo solo qualche parola, per aiutarci a riascoltare quel grido, a non perderne l’eco profonda: a quel grido è legata la nostra vita. È la terra intera che risuona in quel grido: ed è un grido di nostalgia, la profonda malinconia del paradiso perduto, del Dio perduto, dell’amore e della pace perduti. La terra, con i suoi cardi e le sue spine, con le sue primule e i sempreverdi e le sue stelle e, ogni tanto, la sua tenerezza, ma solo ogni tanto e furtivamente. E la sua crudeltà spesso, troppo spesso, e le sue lacrime e i suoi singhiozzi. Un giorno Dio non lo ha più sopportato. Dio non ha più potuto trattenersi. E allora ha impugnato il seme di Adamo e si è messo a gridare insieme ai suoi figli lo stesso grido di nostalgia, radicato nell’angoscia, 84 radicato nel sangue e nell’amore, e si è incarnato. Ed è salito sulla croce. Solo per essere con me e come me. Solo perché io possa essere con lui e come lui. Essere in croce è ciò che Dio deve nel suo amore all’uomo che è in croce. L’amore conosce molti doveri, ma il primo di questi doveri è di essere con l’amato. Solo un Dio sale sulla croce, ed entra nella morte perché nella morte entra ogni suo amato. Qualsiasi altro gesto ci avrebbe confermati in una falsa idea di Dio. Solo la croce toglie ogni dubbio. Qualunque uomo, qualunque re, se potesse, scenderebbe dalla croce. Solo un Dio non scende dal legno. La croce è l’abisso dove Dio diviene l’amante, genesi perfetta di Dio fra gli uomini. Questo dicono le prime parole pronunciate sul mondo dopo la morte di Gesù: «Davvero costui era Figlio di Dio!». L’atto di fede nasce dalla croce: No, credere a Pasqua non è giusta fede: troppo bello sei a Pasqua! Fede vera è al venerdì santo quando Tu non c’eri Lassù! Quando non un’eco risponde al tuo alto grido (D.M. Turoldo). Essenza del cristianesimo è la contemplazione del volto del Dio crocifisso (C.M. Martini). 85 Entriamo, con questa settimana, nei giorni del nostro destino, i giorni della “vendetta di Dio”: quando Dio si vendica di tutta la lontananza, di tutta l’indifferenza, di tutta la separazione, inventando la croce che solleva la terra, cha abbassa il cielo, che raccoglie i quattro orizzonti, crocevia di tutte le nostre strade disperse. Le braccia di Gesù, inchiodate e distese in un abbraccio che non può più rinnegarsi, sono le porte dell’Eden spalancate per sempre, sono cuore dilatato fino a lacerarsi molto prima del colpo di lancia, sono accoglienza di ogni creatura, alleanza con tutto ciò che vive: genesi dell’uomo in Dio. Perché l’amato nasce dalle ferite del cuore di chi lo ama. L’uomo nasce dal cuore trafitto del suo Creatore. E capisce che la vita non è possesso o rapina, ma dono di sé; che Dio e la vita sono dono reciproco di sé. Allora la croce è davvero la gloria di Dio, l’ora gloriosa della vita. 86 DOMENICA DI PASQUA Entrò anche l’altro discepolo, e vide e credette. (Gv 20, 1-9) Quel sabato che precedette la Pasqua fu diverso da tutti gli altri. Le donne di Galilea in segreto preparavano aromi, ma era buio nel cuore. Anche la Madre attendeva in silenzio. È il sabato del silenzio di Dio. Così per me, seduto in faccia al sepolcro. Ma viene il terzo giorno, e una mattina o una sera, o forse meglio ancora una notte, a una svolta della strada, o in un giardino, o nel silenzio della mia stanza, l’incontro avverrà, sarà come e quando lui vorrà. A me basta desiderare, e fare memoria, e aspettare. E lo riconoscerò, come le donne, grazie a due segni che non ingannano: un timore sacro, una trepidazione da croce e da amante, ma che non è paura, e poi una gioia che dilaga dentro, umile e forte. Lo riconoscerò come l’apostolo Giovanni, che «vide e credette». E correrò come Maria di Magdala, come le altre donne, ad annunciarlo, «con timore e gioia grande». A dirlo con la vita: Cristo è vivo. A me non basta sapere che Cristo è morto, una croce in più tra i tanti patiboli della terra; io devo sapere se 87 Cristo è risorto. «Ciò che fa credere è la croce, ma ciò in cui crediamo è la vittoria della croce» (B. Pascal). Questa la scommessa della mia fede: Gesù è vivo, oggi. Mentre chi non crede dirà: No, per me Gesù non è più vivo. La differenza è tutta qui. Perché, come scrive il filosofo Max Horkheimer, «dobbiamo rifiutarci di accettare una realtà in cui il carnefice abbia in eterno ragione sulla sua vittima». Il futuro non appartiene alla violenza. Questo è il senso profondo della Pasqua per la nostra storia, dove la risurrezione di Cristo non è mai separata dalla nostra risurrezione. Prima di risorgere egli «è disceso agli inferi», nel fondo oscuro della storia e della materia, per darle energia e direzione verso la luce, l’amore, la libertà. Se io comincio a pensare che nelle profondità della materia e della mia carne, nelle parti più oscure del mio essere, egli è disceso per illuminare e trasfigurare, per risuscitare amore e bellezza, allora anch’io partecipo della risurrezione di Cristo che risorge per l’eternità dal fondo del mio essere, energia che ascende, germe di vita, vita germinante. Pasqua è la festa dei macigni rotolati via dall’imboccatura del cuore e dell’anima. E ne usciamo pronti alla primavera di rapporti nuovi, trascinati in alto dal Cristo risorgente. «Non mi toccare» dice però Gesù a Maria di Magdala. Si tocca per possedere, per stringere, come non ci fosse altro. «Non mi toccare», perché non è finito qui il duello: questo mattino, questo giardino è solo l’avvio. La festa del raccolto sarà solo per dopo, per molto dopo, quando Dio asciugherà ogni lacrima e non ci sarà più né morte, né lutto, né lamento, perché le cose di prima sono passate, e Cristo sarà tutto in tutti. 88 Nel racconto della risurrezione del Vangelo di Matteo Gesù ordina alle donne: «Andate ad annunziare ai miei fratelli...». Chi incontra Cristo corre a comunicare la fine delle lacrime: bisogna andare, troppi attendono; non restare nel tuo giardino privato, tra angeli lucenti e parole consolatrici. Ma annuncia: Gesù è vivo. E allora nel cuore del dolore, in prossimità della morte, dentro il sole nero dell’abbandono, questo è l’annuncio di Pasqua: rimane, continua, è più forte la potenza dell’amore. Anche se non ho niente, svuotato dalla tristezza, mani inchiodate, rimane la potenza dell’amore. In un luogo che non conosco, sorgente delle mie sorgenti, cielo del mio cielo, terra profonda delle mie radici, luce oltre l’orizzonte, rimane la potenza dell’amore. Cristo è vivo. Noi, testimoni del Vivente e non impauriti custodi di un sepolcro, noi uomini tesi alla vita, diciamo: «Questo è il giorno che ha fatto il Signore» (Sal 118, 24). Chi è triste in questo giorno commette peccato. 89 II DOMENICA DI PASQUA Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani. (Gv 20, 19-31) Otto giorni dopo le porte erano ancora chiuse. Eppure i discepoli avevano visto il Signore, avevano ricevuto lo Spirito; ma le porte erano ancora chiuse! Lento è il cuore degli apostoli. Come il mio. E non riescono neppure a convincere uno di loro, Tommaso, che il Signore era tornato dai morti. La povertà delle nostre parole, che non riescono a testimoniare, a dire, a convincere nessuno; la nostra incapacità di trasmettere la fede! Eppure avevano visto; avevano sentito: «Pace a voi!»; avevano gioito. E Gesù entra a porte chiuse. Nonostante le mie durezze e il mio cuore lento, Gesù viene. Nonostante le mie resistenze e gli ostacoli, Gesù viene. E mi conforta il pensare che non si ferma davanti alle nostre porte chiuse. Viene portando una parola di pace. I discepoli erano chiusi in casa per paura dei Giudei, ma forse anche, o soprattutto, per paura di se stessi, della loro viltà, di come si erano comportati nella notte del tradimento e della cattura di Gesù. Bloccati dalla delusione verso se stessi: Non siamo in grado, 90 non siamo degni, non ce la facciamo... A queste paure profonde Gesù dice la parola di pace: Non aver paura delle tue ferite! Nelle mani di Tommaso, avide di toccare, ci sono tutte le nostre mani. L’apostolo traccia un percorso di fede in cui possiamo tutti riconoscerci, percorso segnato da oscurità, da dubbi, dal bisogno di qualche prova, di un segno, almeno. Ed ecco il segno: «Venne Gesù a porte chiuse, stette in mezzo a loro e disse: “Pace a voi!”. E rivolgendosi a Tommaso disse...». Mi emoziona Gesù attento ai dubbi dei suoi amici, come è stato attento alle lacrime di Maria nel giardino della risurrezione: «Donna, perché piangi?». Egli viene non per essere adorato e servito dai suoi, ma, prima ancora, per andare in cerca di una pecorella smarrita nel piccolo gregge degli Undici. E lascia gli altri dieci al sicuro, si fa avanti, si propone, si avvicina, tende le mani: «Tommaso, guarda, metti qua il tuo dito, tendi la mano, mettila dentro questo squarcio». È da questo che Tommaso riconosce che il Risorto è proprio quel Gesù che lui conosceva bene. Lo riconosce da come si propone. E io so che così farà anche con me, nei giorni del dubbio, nei giorni in cui credere è solamente desiderio di credere. Gesù capisce la fatica di Tommaso e la sua voglia di credere, ed è lui che si fa vicino, che viene. Solo la mano del Risorto, con quel foro dei chiodi, segno di una fedeltà senza pentimento, può gettare un ponte tra il desiderio dell’uomo e la visione di Dio. Alla fine Tommaso si arrende, ma non al toccare. Il Vangelo non dice che abbia toccato il corpo del Risorto. Si arrende a quella voce, a quella parola, a quel Ge- 91 sù che ha riconosciuto da come parla, da come agisce. Si arrende alla pace, primo dono che da otto giorni accompagna il Risorto. La pace, primo dono cantato dagli angeli alla nascita del Verbo a Betlemme, primo dono che i discepoli, inviati due a due, porteranno in ogni casa. La pace sta all’inizio del vangelo, all’inizio della risurrezione, all’inizio della missione della Chiesa. «Pace a voi!»: non è un augurio, non è una promessa, ma un’affermazione: la pace è qui, è dentro di voi, è iniziata. E viene da Dio. Perché «se in noi non è pace, non daremo pace, se in noi non è ordine, non creeremo ordine» (G. Vannucci). La pace è una voce silenziosa, non grida, non si impone; si propone, come il Risorto: con piccoli segni umili, un brivido nell’anima, una gioia che cresce, sogni senza più lacrime. L’amore ha scritto il suo racconto sul corpo di Gesù con l’alfabeto delle ferite, indelebili ormai, come l’amore. C’è un foro nelle mani del Risorto, dove il dito di Tommaso può entrare; un colpo di lancia nel fianco, dove tutta la mano può entrare. Pensavamo che la risurrezione avrebbe rimarginato le piaghe; e invece sono qui, aperte fino all’ultimo giorno dell’ultimo uomo. Perché Gesù sa, con gli occhi semplici del figlio piccolo, di un bambino, che il male dell’uomo può essere guarito solo portandolo, può essere cambiato solo subendolo, può essere trasfigurato solo lasciandosene sfigurare. Il corpo glorioso del Signore Gesù può essere tale solo se non si rimarginano le piaghe del Crocifisso. È il giudice giudicato, il buon samaritano assalito e sanguinante, il pastore che è anche l’agnello immolato. Questa è la prima e l’ultima parola del cristianesimo: l’amore disarmato e disarmante il nemico. 92 Tommaso non crede al Risorto, eppure rimane con gli altri, li ascolta, li contesta, interagisce con loro. Anche noi possiamo stare, nella comunità cristiana, con tutti i nostri dubbi, con la nostra fatica a credere: dobbiamo starci. È nella comunità, non altrove, il luogo della fede. Chi è debole non si senta escluso: venga, resti, altri lo porteranno, altri saranno testimoni, interpreti, saranno memoria viva, paziente di segni e di pace. Così farà anche per me: verrà, se insisto a sperare, verrà; già viene la sua pace. La lentezza a credere di tutti i testimoni della Pasqua, delle donne che, addirittura, per paura non dissero nulla a nessuno (cf. Mc 16, 8); la fatica di Maria di Magdala, di Pietro, degli Undici, di Tommaso, dei due di Emmaus, il loro lungo dubitare e cercare mi confortano, perché mi salvano dai due estremi di quella tenaglia che sembra stritolare l’uomo d’oggi: da un lato l’indifferenza religiosa senza páthos e senza ricerca; dall’altro il tremendo fondamentalismo, senza il dubbio benefico della domanda, del fanatismo che è solo páthos senza ricerca e senza domande. La resa di Tommaso si esprime con una professione di fede bellissima: «Mio Signore e mio Dio!». In essa è riassunta tutta l’esperienza pasquale. Mio Signore! Questo titolo dice che il Gesù dalla morte fallimentare è ora il vincitore. È innalzato, ma porta le ferite del giustiziato. Il Crocifisso è risorto, ma il Risorto è il crocifisso, colui che ha finito i suoi giorni sulla croce. La Pasqua ci rimanda alla croce: la croce è la sostanza vivente della vita del Risorto. La donazione di sé è la sostanza del Risorto, per sempre. La Pasqua senza la croce è vuota: senza quel Gesù, sarebbe un mito di rinascita come ce ne sono infiniti 93 nella storia. E la croce senza la Pasqua è cieca, senza direzione e sbocco: sarebbe uno dei milioni di patiboli che gli uomini hanno inventato per colpire gli oppositori, per sacrificare uno o un popolo intero come fosse incarnazione del male, il capro espiatorio, del cui sangue è imbevuta tutta la terra, sotto ogni cielo. La Pasqua senza la croce è vuota, la croce senza la Pasqua è cieca. Croce e risurrezione sono inestricabilmente unite; e lo mostrano le piaghe del Risorto. A me che ancora voglio vedere il Signore, che ancora voglio toccarlo, è data una sola risposta: Gesù. La nostra visione è l’ascolto, come è stato per i profeti; la nostra visione è la lettura, come è stato per tutti i discepoli. La lettura e l’ascolto del Vangelo, della vicenda di Gesù! Quella vicenda accaduta sotto Ponzio Pilato, nell’oscura provincia di Palestina, lascia quella terra e naufraga nel cielo, naufraga nel cuore, raggiunge l’eterno di Dio, l’“in principio” delle cose. E così come Tommaso anch’io dirò: Mio Signore e mio Dio! Io so di Dio solo ciò che so di te, Signore crocifisso e risorto. Io so di Dio solo ciò che so di te, Signore dalle mani inchiodate, che torni a tendere verso di me, verso i miei dubbi. Per due volte Tommaso ripete quel piccolo aggettivo “mio” – “mio” Signore e “mio” Dio –, piccola parola che cambia tutto, che non dice il possesso avido di qualcuno, ma l’esperienza che quella vita fa parte della tua vita. Non è un teologo che parla: egli direbbe “Dio”, non “mio Dio”. Solo il credente dice “mio Dio”. E qui parla l’amata del Cantico dei cantici: «Il mio amato è per me e io sono per lui» (6, 3), parla uno che vede in quella figura, piagata e risorta, ciò che lo fa vivere, che gli ha di nuovo rubato il cuore; vede la par- 94 te migliore della vita, vede le sue cose più care, la sua sete e la sua pace. Mio Signore e mio Dio: “mio”, come lo è il cuore – e, senza, non sarei; “mio”, come lo è il respiro – e, senza, non vivrei. 95 III DOMENICA DI PASQUA Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi? (Lc 24, 13-35) Dalla vita vuota all’accensione del cuore. Ecco il percorso tracciato oggi da due parole: quella di Pietro che ci esorta ad essere liberi dalla vita vuota di prima (cf. 1Pt 1, 18) e ci indica che cosa attendere da Dio: una vita in pienezza; e quella di Cleopa e del suo compagno: «Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?» (Lc 24, 32). Dalla vita vuota all’accensione del cuore. Il Vangelo di Emmaus racconta il nostro pellegrinaggio, il nostro oscillare tra questi due poli. C’è un discepolo senza nome, che cammina con Cleopa. Gli voglio dare il mio nome. Sono io quando deluso, ferito, tentato di tirare i remi in barca, mi sento spento. Oggi vediamo svolgersi il nostro percorso come una grande liturgia in tre tappe. Il primo momento di questa liturgia è quello della strada. Due camminatori sconsolati, tristemente incamminati oltre la città, oltre quel sogno finito nel san- 96 gue: sono espressione di tutte le crisi di fede, di tutte le delusioni, di quando sentiamo che i dubbi sono maggioranza e Dio ci sembra il grande assente. Ma la loro fortuna è comunque di essere in due, di fare strada insieme, di guardare nella stessa direzione, di avere lo stesso dolore: così sono già oltre la solitudine. Sono due, già capaci di accogliersi l’un l’altro, già disposti ad accogliere altri. Ed ecco che uno sconosciuto si accosta a loro, sono una piccola comunità che si allarga, che crea comunità più grande. Quante volte noi pensiamo che il Signore l’abbiamo lasciato nelle nostre chiese, che sulle strade del mondo siamo soli. Invece Gesù cammina con noi, nel nostro pellegrinaggio, spesso sconosciuto. Chiede di fare un pezzo di strada, un pezzo di vita con te, forse sta già facendo vita e strada con te, forse con il volto di un familiare, di un amico, di un collega. Il Signore cammina sulle strade del mondo perché il suo cielo sono gli uomini. Egli abita i passi dei cercatori, cammina al fianco di ciascuno di noi. Ad essere precisi, non dobbiamo attenderlo: egli ci ha già preceduti; non dobbiamo raggiungerlo: si è già unito a noi; non dobbiamo cercarlo: è lui in cerca di noi. E i due «si fermarono, col volto triste». Fermati anche tu, anche e soprattutto quando sei triste, non restare chiuso nel tuo dolore; fermati accanto a qualcuno. Accompagnati ad altri, interessati ad altri, illumina altri e ti illuminerai. Fermati accanto: la tristezza cederà al dialogo. Lascia che altri si appoggino alla tua vita. Ed ecco come ci si appoggia alla vita dell’altro: comunicando la propria speranza. «Noi speravamo...» La liturgia della strada è la liturgia della speranza. I due discepoli raccontano di Gesù, ne parlano con no- 97 stalgia, dicono amore e delusione: «Noi speravamo tanto!». Dicono una storia capita male, un amore sfociato nel fallimento, nell’illusione, perché hanno visto solo la superficie dei fatti, hanno visto solo la corteccia degli eventi. Ecco, allora, il secondo momento del pellegrinaggio, la seconda liturgia, quella della parola. Gesù comincia a leggere il dolore di Dio e la vita degli uomini, e spezza la corteccia dei fatti, penetra dentro lo scandalo. Senza la parola di Dio si fa solo della cronaca, la si enfatizza senza cogliere il senso profondo delle cose. Da qualche parte c’è un senso, e Gesù lo rivela. L’anima dei due camminatori comincia a rasserenarsi ed essi scoprono una verità immensa: c’è la mano di Dio, posata proprio là dove sembra impossibile; c’è la mano di Dio, posata proprio là dove sembra assurdo; c’è la mano di Dio, così nascosta da sembrare assente, ma che tesse il filo d’oro dentro la tela del mondo. Noi dimentichiamo qualcosa: più la mano di Dio è nascosta, più è potente; più la mano di Dio è silenziosa e non appariscente, più è efficace. Perché l’assenza di Dio è una più ardente presenza. Semplicemente Dio è oltre: oltre il freddo della tomba, oltre il freddo della storia, oltre il dolore e le illusioni. La svolta del racconto di Emmaus, la svolta del cuore avviene qui, attorno alla croce, come ogni svolta decisiva della nostra esistenza. Sono le croci che segnano i tornanti della nostra vita, le croci che recano, però, il senso proveniente dall’unica croce e dall’unica risurrezione. La croce è l’unica parola da ascoltare. Per questo Gesù spiega sostanzialmente solo questo ai discepoli. È la parola definitiva che devo custodire, consegnare, scrutare, capire, pregare. 98 Allora il cuore comincia ad ardere. Dove tutto si ferma, lì Dio riparte. Questo ardore del cuore, questo calore dell’anima, quella sua voce o la voce di un suo figlio o il gemito del creato o un amico o un profeta o un amore riaccendono la vita dentro di noi. La cosa di cui più sono grato al Signore è il dono intermittente e favoloso di un cuore acceso. E viene poi il terzo momento, la liturgia della casa o il canto del pane: «lo riconobbero allo spezzare del pane». Da questo gesto, che indica donazione, si riconosce il Cristo, dalla croce e dal pane, da una vita che si occupa di altre vite, dal gesto che indica soccorso alla fame, come prima sulla strada era soccorso alla solitudine e alla tristezza. «Lo riconobbero allo spezzare del pane», allo spezzare qualcosa di proprio per gli altri, perché questo è il cuore del vangelo. Spezzare il pane o il tempo o un vaso di profumo, come a Betania, e condividere poi cammino e speranza e solitudine. Emmaus è il racconto di una liturgia, delle nostre liturgie, di quelle che celebriamo in chiesa e nel mondo, con la vita e la sua grandezza, e la sua potenza di rivelazione. Questi i tre momenti: camminare con amici e sconosciuti, fermarsi a condividere speranza e tristezza: questa è la liturgia della strada. E poi la liturgia della Parola, la scoperta, la lettura più profonda del senso delle cose, l’amore per il Vangelo. Infine il pane spezzato come soccorso ai fratelli, come simbolo minimo di vita donata. In questo pellegrinaggio della fede di cosa abbiamo bisogno? Di tre cose: una strada, qualche compagno di viaggio e la parola di Dio. Eppure queste tre cose 99 non bastano. Non basta conoscere il Vangelo per riconoscere Gesù. Non basta dedicarsi corpo e anima all’altro, né ripetere meccanicamente alla domenica il gesto dell’ultima cena, se manca il calore dell’amore. Senza amare, anche solo un po’, Gesù Cristo, è impossibile vederlo. Tutto il brano del Vangelo oggi è percorso da questo amore in tutte le sue sfaccettature. È di lui che i due discepoli parlano nelle due ore di cammino da Gerusalemme a Emmaus; è per lui che sono tristi; per cose dette su di lui sono sconvolti. E quando lui parla, arde loro il cuore nel petto. Lui vogliono trattenere quando scende la sera, perché solo l’amore conosce, solo l’amore vede. Questo è il dono di Emmaus. E l’augurio che rivolgo a ciascuno è quello di avere il dono favoloso del cuore acceso, anche se di tanto in tanto, anche se raramente. E il dono di trovare nel Vangelo ancora una parola capace di rubarci il cuore. E poi il dono di trovare qualcuno lungo la strada, qualcuno che ci parli di Dio e della vita in modo che ascoltarlo sia rimanere accesi. E sarà sufficiente a ripartire, anche se attorno è notte, a ripartire con il sole dentro, verso un annuncio di gioia: «Il Signore è veramente risorto, è qui, è la mia strada, cammina al ritmo del mio cuore». 100 IV DOMENICA DI PASQUA Sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza. (Gv 10, 1-10) In una piccola parola è sintetizzato ciò che oppone Gesù, il pastore vero, a tutti gli altri, ciò che rende incompatibili il pastore e il ladro. La parola immensa e breve è “vita”. «Sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza.» Cuore del vangelo. Parola indimenticabile. Vocazione di Dio e vocazione dell’uomo. All’esatto opposto, il ladro viene per rubare, uccidere, umiliare la vita, distruggerla. Ecco la grande alternativa di tutta la storia umana: le cose che fanno vivere, le cose che fanno morire; da un lato i servitori della vita, dall’altro i servitori della morte. Oggi il vangelo della vita assicura che unica è la vocazione di tutte le creature: avere la vita in pienezza. Se c’è un filo rosso che lega insieme tutta la Bibbia, è la parola “vita”. Conquista mai sufficiente, dono sempre minacciato. Già dal primo uomo, dalla prima donna, cui il serpente promette: «No! Non morirete; anzi, avrete vita come Dio»; ad Abramo, che chiede un figlio in cui la 101 sua vita continui; ai Salmi, che ripetono un’unica supplica: «Fa’ che io viva! Salva la mia vita! Fammi camminare sui campi della vita! Non farmi scendere nella tomba!». Il fondamento di tutti i comandamenti è questo: «Hai davanti a te la vita e la morte. Scegli!». Così inizia la legge di Mosè. Ma capiamo che questo non è un ordine. Sentiamo Dio che supplica e implora e prega: «Scegli la vita!». Di questa parola sono ricolmi i canti, i lamenti, le cetre dei salmisti, le città assediate, le donne sterili, Giobbe e il piccolo profeta Giona, che si adira con Dio perché non distrugge Ninive, perché non è anche lui come tutti, ladro che ruba, distrugge, uccide, ma è invece il pastore buono per i centoventimila della città che ancora non sanno distinguere la destra dalla sinistra, e ha pietà perfino dei tanti animali di Ninive (cf. Gn 4, 11). Giona si adira con Dio perché è pastore di vita! Cosa contiene la parola “vita”? È tutto ciò che possiamo pensare per riempire questo suono, tutto ciò che possiamo desiderare come meta. Vita è respiro, forza, salute, bellezza, amore, relazioni, gioia, libertà, pace. Vita è una parola che deborda, che tracima continuamente. Non ci interessa un divino che non faccia anche fiorire l’umano. Che cosa significa acquisire fede? È acquisire bellezza della vita, comprendere che è bello vivere, è bello sposarsi, è bello avere figli, è bello essere frate, suora, è bello prendersi cura di qualcuno, e avere amici, e progettare, e partire ogni giorno, e seminare a ogni stagione, e gustare lo stupore di essere vivi. Perché? Perché la vita va verso un esito positivo, ver- 102 so una liberazione, verso uno sbocco luminoso, nel tempo e nell’eterno. «Io sono la porta», dice Gesù, per entrare nei campi della vita. Cosa significa passare quella porta? Attraversare la porta che è Cristo significa guardare attraverso i suoi occhi, conquistare il suo modo di pensare, così diverso dal nostro, per cui è beato il povero, non il ricco, chi dona e non chi accumula, è beato il perseguitato e non il persecutore, chi piange e non chi ride, il non violento e non il più forte. Passare attraverso Cristo è come cambiare rotta, è indirizzare la prua del cuore verso le cose che lui amava: amore, libertà, coraggio, dimenticarsi, perdonare, dare tutto fino alla fine, con tutto il cuore. La seconda parola che mi interroga nel Vangelo di oggi è quella con cui si chiude il brano: «abbiano la vita in abbondanza». Non solo la vita necessaria, non solo l’indispensabile, non solo quel respiro, quel minimo senza il quale la vita non è vita, ma la vita esuberante, magnifica, eccessiva, vita che rompe gli argini e sconfina, uno scialo di vita. Così è nella Bibbia: manna non per un giorno ma per quarant’anni nel deserto, pane per cinquemila persone, carezza per i bambini, pelle di primavera per dieci lebbrosi, pietra rotolata via per Lazzaro, cento fratelli, vaso di nardo prezioso in casa di Simone. Dio non intende rispondere ai tuoi bisogni essenziali: questo lo farà la politica, l’intelligenza, la tecnica. Egli è il Dio dei talenti da moltiplicare, il Dio del seme generoso, il Dio del centuplo. Dio sa di avere immesso nei solchi della storia un seme che tenacemente, implacabilmente, salirà a spezzare la crosta arida della nostra e di tutte le epoche, 103 per riportarvi profezia di pace e di primavera, estati di moltiplicazioni, autunni di frutti saporosi. E in più l’eternità per tutto ciò che di più bello e di più forte hai nel cuore. Non solo: ultima vocazione degli uomini è diventare figli di Dio. E non c’è parola che abbia più vita dentro: diventare figli, i quali non da sangue, non da carne, ma da Dio sono nati (cf. Gv 1, 13). Diventare ciò che già siamo: figli; cioè nascere ancora con la vita di Dio dentro. E quando sento vuote le anfore della mia esistenza – e so quanto rapidamente si svuotano –, le porterò ai piedi della sorgente che è Dio, le metterò ai piedi della Parola, ai piedi del pane, ai piedi della preghiera, e chiederò a lui di riempire le anfore vuote. E lui verrà portando la sua stessa vita, lui verrà portando la sua luce, la sua forza, la pace, la gioia, la sicurezza, donando se stesso. Dio non può dare nulla di meno di se stesso, ma dandoci se stesso ci dà tutto: vita in abbondanza. L’ha detto un giorno Gesù: «Io sono la vita» (Gv 14, 6). Oltre questo non si può andare, oltre è inutile andare. Il cristianesimo è esperienza di vita, di comunione, di scambio, viaggio da vita a vita, migrazione di vita; calice che trabocca, che discende da Dio verso noi e, qualche volta almeno, sale da noi verso Dio. Trabocca da noi verso gli altri. Vorrei concludere con una preghiera: Tu sei la mia vita. Tu sei quelle mani dalle quali nulla mi potrà separare, nemmeno la morte, tanto meno la morte, piccola soglia di tenebra da attraversare per passare all’altro sole. E ripeto a me stesso: aggrappati forte al cuore che non ti lascerà cadere. Mai. 104 V DOMENICA DI PASQUA Io sono la via, la verità e la vita. (Gv 14, 1-12) «Vi porterò con me, perché siate anche voi dove sono io.» La prima immagine che il Vangelo disegna oggi è quella di una casa. C’è un luogo in principio a tutto, un luogo caldo, familiare, che mi appartiene, una casa il cui segreto basta a confortare il cuore. «Non sia turbato il vostro cuore» (Gv 14, 1): lì abita qualcuno che ha desiderio di noi, nostalgia di noi, che non sa immaginarsi senza di noi e ci vuole con sé. Perché l’amore conosce molti doveri, ma il primo è di essere insieme con l’amato. Il primo dovere è di non restare separati: «Perché siate anche voi dove sono io» (v. 3). E nulla «potrà mai separarci dall’amore di Dio» (Rm 8, 39). Tommaso dice a Gesù: «Signore, non sappiamo dov’è questa casa: come ci si arriva?». Gesù risponde: «Io sono la via, la verità e la vita». Tre parole in crescendo. «Io sono la via» di accesso a Dio, la via di casa. Non c’è allora una strada da percorrere, ma una persona, se così si può dire, da percorrere. Percorrere Cristo vuol dire ripercorrere la sua vita con la mia vi- 105 ta: compiere i suoi gesti, preferire le persone che lui preferiva, opporsi a ciò cui lui si opponeva, rinnovare le sue scelte, muoversi soltanto in quella direzione, perché altrimenti non arrivi là dov’è la tua casa. Anche Mosè chiese a Dio un giorno: «Fammi vedere il tuo volto». E Dio acconsentì. Lo prese e lo pose in una cavità della roccia. E mentre passava davanti a Mosè, gli coprì gli occhi con la sua mano. Mosè poté vedere Dio solo dopo che era passato; poté vedere Dio solo di spalle, quando era già andato oltre (Es 33, 2023). Ciò significa che l’unico modo per vedere Dio è seguirlo, andare dietro a lui, percorrere le sue strade. «Io sono la verità.» Svelamento del volto di Dio e del volto dell’uomo. La verità, allora, non è mai una nozione o un’idea o un sistema di pensiero, ma una persona, e il suo muoversi libero e regale fra le cose. La verità che Gesù ha portato è che Dio è amore e che la sua tenerezza passa per le nostre mani. Se la verità è una parola, le sillabe di questa parola sono i gesti e i detti di Gesù, energia che sa scheggiare le corazze più dure, che fa fiorire la corteccia triste dei nostri giorni. «Il cristianesimo» scrive François Mauriac «non è un sistema di pensiero o un rituale. Non è altro che una storia e una vita, un’esperienza.» «Io sono la vita.» Nel crescendo delle sue affermazioni Gesù dichiara: «La vita sono io, io che muoio per amore, che muoio e che risorgo. Io sono la vita!». Parole enormi, che nessuna spiegazione può esaurire, che potremmo sintetizzare così: Cristo non toglie nulla e dà tutto. Parole davanti alle quali provo paura. Parole che indicano che il mistero dell’uomo si spiega solo con il mistero di Dio. Dicono che la mia vita si capisce solo con la vita di Dio. Significano che nella mia 106 esistenza c’è una proporzione: più Dio equivale a più io. Più vangelo entra nella mia vita, più io vivo. Fino a dire, ed è l’estremo: Se Dio non è, io non sono. Il mistero dell’uomo si capisce solo con il mistero di Dio, perché ciò che fa di me un uomo è l’immagine di Dio in me. La mia umanità è la divinità di Dio in me. «Io sono la vita.» E ci aiutano le parole della mistica Caterina da Siena, che dice: «Tu ci dai te stesso, e dandoci te stesso ci dai tutto». Noi cerchiamo, è vero, i doni della vita, cerchiamo salute, longevità, benessere, cerchiamo i doni, non il donatore. E invece Dio non può dare nulla di meno di se stesso. E dandoci se stesso ci dà tutto. Il Dio che non toglie nulla e che dà tutto. La cosa più grande e più seria che il cristianesimo propone è la vita stessa di Dio in noi. È lo Spirito che si fa creta perché la creta di Adamo si faccia spirito. È il Verbo che si fa carne perché ogni carne si faccia verbo di Dio. Di fronte a parole così grandi interviene Filippo. È bello che gli apostoli chiedano, vogliano capire. Egli dice: «Mostraci il Padre e ci basta». Parole grandi e al tempo stesso parole sbagliate. Grande è la seconda parte, che anche santa Teresa d’Avila ripeteva: «Solo Dio basta». A noi, invece, mai nulla che basti tra le cose create. E neppure Dio ci basta. Neppure Dio ci interessa a tal punto da riempire la vita. Perché non conosciamo più quella tangibile fame, quella nostalgia che fa dire a Filippo: Mi basta vederti! Eppure la storia è piena di uomini e donne che hanno mostrato come Dio basti. Oh, se ci bastasse davvero! Se avessimo questa fame di cielo! Ed ecco la parte che Gesù contesta: «Mostraci il Padre». Eppure i Salmi sono pieni della stessa invoca- 107 zione: «Mostraci il tuo volto. Fammi vedere il tuo volto. Il tuo volto, Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto» (Sal 27, 8; 31, 17; 69, 18). Il Cantico dei cantici è tutto percorso da questi occhi insaziati. Ma io non voglio vederlo. Io ringrazio il Padre perché è un Dio nascosto, un Dio velato. Questa è la garanzia della mia libertà. Se Dio fosse visibile, qui e ora, al nostro fianco, chi si muoverebbe più? Quale possibilità di scelta, quale libertà avremmo? Nessuna. E la storia si esaurirebbe. Un Dio visibile e inevitabile che si impone, non lo si ama; lo si può solo ubbidire e temere, certo. Ma uno che si impossessa delle nostre vite non suscita stupore e canto, forse ubbidienza. Dio invece preferisce essere amato e cantato piuttosto che temuto da questi piccoli, meschini, paurosi e coraggiosi figli che noi siamo. Per questo è un Dio nascosto. Eppure, quando vedremo il suo volto, ci sembrerà – e sarà motivo di stupore grande – di averlo già incontrato, già conosciuto. Ma quando mai l’abbiamo visto? La risposta è nelle parole di Gesù: «Filippo, da tanto tempo sono con voi... Ricordati: chi ha visto me ha visto il Padre». È Gesù lo svelamento di Dio. E io so di Dio Padre quanto so di Gesù. Qui, come ha detto il cardinal Martini, c’è l’essenza del cristianesimo: la contemplazione del volto del Dio crocifisso. Il vertice della storia di Gesù è la sua croce; nostro compito è contemplare il volto del Crocifisso. Come vedere Gesù? Come i grandi veggenti, come i profeti, che hanno la visione della parola di Dio, non del suo volto. Per noi il vedere si cambia in ascoltare. Per noi la visione diventa ascolto. 108 E allora, come vedere Gesù? Aggrappandoci a ogni parola del Vangelo, a ogni gesto, a ogni parabola gustata granello per granello. E poi vederlo aggrappandoci ai poveri, come i sette diaconi di Gerusalemme, aggrappandoci alla Parola, come gli apostoli, senza trascurare né la preghiera né il servizio, senza mai banalizzare la fame degli uomini, senza mai tacere l’annuncio di Dio. E mai opponendo un amore a un altro, mai trascurando un amore in nome di un altro amore. E anche noi, come Filippo, anche noi cercatori del volto di Cristo, sentiamo la sua risposta: «Non cercatemi in un qualche luogo, ma là dove amo e sono amato» (J. Maritain). Ecco la mia casa: là dove amo e dove sono amato. Non c’è per noi altra visione che l’amore e l’ascolto. «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio»; beati coloro che hanno il cuore tanto limpido da vedere tracce di Dio dovunque, nelle costellazioni e nell’occhio di un bambino, nel gemito e nel giubilo di ogni creatura sotto il sole, nella fame e nell’amore e nel punto più misterioso e più alto del cosmo, la croce. Contemplazione del Dio crocifisso, e poi del Crocifisso risorto, nella luce del mattino di Pasqua, dove la vita diventa eterna. 109 VI DOMENICA DI PASQUA Se mi amate, osserverete i miei comandamenti. (Gv 14, 15-21) «Se mi amate...» Con questo verbo, il più importante del nostro vocabolario, che circondiamo di tanto pudore e delle attese più alte, Gesù entra nei nostri sentimenti più intimi, e vuole abitare in essi. Per la prima volta chiede ai discepoli di essere amato. Finora aveva detto: «Amerai Dio, amerai il prossimo tuo»; ora aggiunge se stesso come destinatario d’amore. Ed è la pretesa più alta. Ciò che domanda non è un gesto o delle parole, ma essere in quel luogo da cui tutto ha origine, da cui tutto parte, in cui tutto si decide e che tutte le religioni chiamano “il cuore”. La fede non è semplicemente un fatto razionale. Gesù chiede spazi, spazi anche di cuore, gli spazi della relazione. «Se mi amate.» Entra nel nostro luogo più importante e più intimo, e lo fa con estrema delicatezza, perché tutto si tiene alla prima parola: “se”. «Se mi amate.» Un punto di partenza così umile, così fragile, così libero, così fiducioso, così paziente: «Se mi ami, allora osserverai i miei comandamenti». 110 Ecco l’umiltà di Dio, eterna attesa che il figlio ritorni verso casa. E, notiamo, Gesù non dice: «devi osservare». Non si tratta di un ordine, di un comandamento in più, ma di una constatazione: «allora osserverai», come se fosse naturale, quasi un automatismo del cuore, come un frutto maturo e semplice. «Osserverai i comandamenti», quelli che cambiano la storia, perché l’amore cambia la storia. L’amore per i nemici capovolge la storia. L’amore per i poveri contesta la storia. Gesù rivendica amore, ma non per sé soltanto. Amore e comandamenti, amore per sé e per la storia. E non dice quale sia il contenuto dei comandamenti. Certo non parla del Decalogo, non parla delle “dieci parole”, delle “tavole della legge”. Parla di «comandamenti miei», con l’accento posto su quel “miei”, in alternativa a tutte le altre parole. Il comandamento di Gesù è lui stesso. La sua vita rivela il senso delle sue parole: la vita di Gesù è il racconto di Dio e dell’uomo. La vita di Gesù è rivelazione di verità. Allora dice: Se mi ami, tu vivrai come me. L’amore cambia la vita. Non è un vago sentimento, misto di fascino e di intimismo, quello che Gesù propone, ma un fare: Se ami, non potrai ferire, tradire, derubare, violare, deridere, restare indifferente. Forse sant’Agostino ha trovato in questo l’ispirazione per dire: «Ama e poi fa’ quello che vuoi». Se ami, non potrai che soccorrere, accogliere, benedire. E questo per una legge interiore ben più esigente di qualsiasi legge esterna. Solo la mistica infatti può rendere l’etica feconda, anzi possibile, per il cristiano. Altri avranno princìpi diversi: i laici partiranno da altri presupposti, ma io riparto da Cristo e dal suo modo di liberare, dal suo modo di aiutare a nascere, di 111 porre l’enfasi sulle cose che nascono e mai su quelle che muoiono. E lo ripete anche oggi: «Perché io vivo e voi vivrete». Piccola frase che rende conto della mia speranza. Nella seconda lettura Pietro esorta i cristiani ad adorare nel cuore e poi a rendere ragione a chiunque della speranza che è in loro. Ecco l’appello: rendi conto non di leggi o di divieti, ma di ciò che speri per questo mondo, per questo uomo, di ciò cui collabori, del fatto che metti mani e cuore alla costruzione di un mondo altro, di un uomo altro. La speranza non è qualcosa legato all’incerto esito delle cose; non è un’incerta letizia che dice: speriamo che mi vada bene. La carne della speranza è la fede. Nei quattro Vangeli non ricorre mai il termine “speranza”. Perché gli apostoli non sperano: vivono della presenza ardente di Cristo; la speranza inizia con la sua ascensione, con il suo corpo assente. Speranza è l’attesa che l’assenza divenga presenza. Rendere conto della speranza per me significa, allora, rendere conto di Cristo, della sua carne e dei suoi sogni, del fatto che non siamo orfani, e che anzi noi lo vediamo. «Voi mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete.» Cristo non si dimostra, si mostra con la vita: una vita che sia come la sua, una vita buona, bella e felice. Ma questo, continua Pietro, «sia fatto con dolcezza e rispetto». Dolcezza e rispetto: due atteggiamenti che dovrebbero dar forma a tutte le nostre relazioni, a tutte, sempre. Racchiudono la novità dello stare insieme nuovo, cui non interessa sopraffare ma testimoniare, nell’interesse attento per la persona, per ogni persona. «Con dolcezza e rispetto»: sono le parole dell’amore che inizia, dell’amore puro, vorrei dire, dell’amore bambino. 112 E, infine, l’ultima parola del Vangelo di oggi: «Non vi lascerò orfani». “Orfano” è parola legata all’esperienza della morte, ma Gesù è enfasi della vita e della nascita. La sua passione è di unirsi all’uomo, e per sette volte nei sette versetti del brano ha ripetuto il suo bisogno di unirsi a me, a ognuno. Ed è ripetuto oggi il verbo più importante della mistica cristiana: “essere in”. Tutta la fatica dell’anima è quella di passare dall’essere accanto, presso, vicino, insieme, all’“essere in” Dio, dentro, immersi, uniti, intimi. Per sette volte Gesù ripete la sua passione di unirsi all’uomo, la sua passione di comunione. Che è passione di far vivere: «e voi vivrete». Perché chi ama prova il bisogno gioioso di dare vita, di far vivere: «Io vivo e voi vivrete». Questa è la ragione della nostra speranza; questa passione di far vivere muove e spiega tutta l’avventura di Cristo: «Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10, 10). Parole enormi, che nessuna spiegazione può esaurire o recintare. «Io vivo e voi vivrete.» Una vita buona, bella, felice. Non siete orfani, perché la mia vita ormai è in voi. Non è da conquistare, né da raggiungere. È già data, è dentro, è forte. «Io vivo e voi vivrete.» Il mondo va verso un esito positivo e non verso il vuoto del nulla. Io so che appartengo a un Dio vivo, e queste parole mi fanno dolce e fortissima compagnia. Io appartengo a un Dio vivo e non a un gregge il cui pastore è la morte. «Io vivo e voi vivrete.» Per sempre. 113 ASCENSIONE DEL SIGNORE Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo. (Mt 28, 16-20) Fidarci di un corpo assente, fidarci di ciò che gli occhi non vedono, fidarci di una voce. Io sto con la voce. Continuo a starci. Queste parole di dentro, che senti cantare, riaccendere, farti cuore. E sei capace ancora di scommettere sull’invisibile: «Io sono con voi tutti i giorni». Con l’ascensione inizia la nostalgia del cielo. E lo mostrano gli apostoli: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?» (At 1, 11). Dice il profeta, facendosi voce di noi cercatori: «Piango con occhi stanchi di guardare in alto» (Is 38, 14). È inutile inseguire quel volto. È impossibile ormai toccare quel corpo. È finito il tempo degli incontri e dei nomi, quando egli diceva: «Pietro!», «Maria!», «Tommaso!», nomi pronunciati con desiderio e trepidazione; finito il tempo del pane e del pesce condivisi attorno allo stesso fuoco. Gli apostoli sono rimasti soli. La Chiesa nasce da un corpo assente. È la nostra esperienza. Ma l’invisibilità non significa assenza: il Signore non è andato più lontano, ma, paradossalmente, più vicino di prima. Se 114 prima era “insieme” con i discepoli, ora sarà “dentro” di loro. Il corpo di Gesù era anche un limite, un ostacolo: solo pochi poterono vederlo e toccarlo, pochi udirono la sua voce e furono chiamati da lui per nome. Ora, con l’ascensione, con il corpo assente, avviene il grande passaggio: dal vangelo di Palestina alla storia universale; dal corpo di Gesù di Nazaret alla sua presenza in tutte le cose, in tutti gli uomini, in tutti i giorni. Come intuire il mistero dello Sconosciuto accanto e dentro di noi? Tenta di dirlo san Paolo con una frase della Lettera agli Efesini: «Cristo è colui che si realizza interamente in tutte le cose» (1, 23). Cristo è la pienezza di ogni cosa che esiste. Cristo è il nostro futuro. Ma ancor di più: Cristo è il futuro di ogni cosa. Diceva Teilhard de Chardin: Egli è il punto omega dell’evoluzione del cosmo, è la pienezza della materia, e il divino traspare dal fondo di ogni essere. Il mio cristianesimo è la certezza forte e inebriante che in tutti i giorni, in tutte le cose Cristo è presente, forza di ascensione del cosmo. La forza, come ha detto Gesù agli apostoli: «Riceverete la forza dallo Spirito santo» (At 1, 8). Non solo in me o in te, non solo in ogni uomo, non solo in ogni creatura, ma Cristo è presente in tutte le cose: nel rigore della pietra, nel canto segreto delle costellazioni, per un nuovo cielo, per una nuova terra. Tutti i giorni e tutte le cose sono ora messaggeri di Dio; tutti i giorni e tutte le cose sono angeli di storia sacra, vangeli di rivelazione. Allora Gesù non è andato lontano, non è oltre i cieli: è andato avanti e nel profondo. E chiama a pienez- 115 za il tempo e le cose. Come pregava padre Vannucci: «Donaci la certezza forte e inebriante che nel cuore di ogni essere tu sei Amore e Luce crescenti». C’è un aggettivo oggi che prorompe e dal Vangelo e da Paolo, ed è “tutto”: Andate in tutto il mondo, a tutte le genti, annunciate tutto ciò che vi ho detto. Ecco, tutto il potere è mio. Io sarò con voi tutti i giorni. Cristo è colui che si realizza pienamente in tutte le cose. C’è un sapore di totalità, un sapore di infinito, una pretesa di assoluto. È finalmente il superamento dei limiti di luogo, di materia, di tempo. Si apre la dimensione del Cristo cosmico, sparpagliato per tutta l’umanità, seminato in tutte le cose, presente dovunque. Questa è l’ascensione: Cristo è andato nel profondo, fino a che sarà «tutto in tutti» (Col 3, 11). Se tu hai imparato a vedere, l’ascensione ti propone il secondo compito: «Voi sarete miei testimoni» (At 1, 8). Il testimone è colui che diventa trasparenza limpida, fedele, serena, dell’amore di Cristo. Siamo noi la visibilità di Cristo. Lo siamo non moltiplicando azioni, ma diventando trasparenza, «illimpidendo il cuore» (D.M. Montagna). È questo l’altro nome della santità: Non guardate me, guardate attraverso me. Quando, per esempio, uno si sentirà, si accorgerà di essere da noi accolto, compreso, perdonato, incoraggiato; quando si sentirà toccato da uno sguardo di dolce e limpida pietà, in quel momento potrà intravedere, attraverso noi, qualcosa di assoluto e di divino. Le ultime parole di Gesù, oggi, sono la sintesi della nostra missione: «Battezzate le nazioni, insegnate a vivere ciò che ho comandato». E “battezzare” significa ben più del rito di versare un po’ d’acqua sul capo delle persone; significa: Immergete ogni uomo in Dio, fa- 116 telo entrare, che si lasci sommergere dentro la vita di Dio, in quella linfa vitale, in comunione con il Padre, il Figlio, lo Spirito. Entrare in Dio, ed è l’essenza della mistica, l’essenza della fede. E poi: Insegnate a osservare. Ma che cosa ha comandato Cristo, se non proprio ciò che non si può comandare: l’amore? Il suo comando è: Immergete ogni uomo in Dio; insegnategli l’amore. Qui è tutto il vangelo, tutto l’uomo, tutta la storia. Grandi parole ci affida oggi la liturgia: «Sarò con voi tutti i giorni; sarò la pienezza di tutte le cose». «Tutti i giorni» è nel cuore di me che parlo, nel cuore di te che ascolti, nel cuore del credente, ma anche nel cuore distratto, anche nel cuore che si sente spento. Vicinissimo a te è Dio, più intimo a te di te stesso. E poi è dentro tutte le cose. La terra è, allora, un immenso santuario, un immenso cielo. E la parola di Dio è seminata come lievito dentro ogni cosa. Il Signore, io non devo raggiungerlo: è già qui; è lui che è venuto. Il Signore, non devo conquistarlo: è già dentro; è lui che si è dato e che rimane. Mentre tutto passa, lui rimane: «Sarò con voi tutti i giorni, fino alla fine del tempo». 117 DOMENICA DI PENTECOSTE Ricevete lo Spirito santo. (Gv 20, 19-23) La Pentecoste non appartiene a ieri. Non è un ricordo di cui facciamo memoria, la cui eco sfuma col passare degli anni. Al contrario, è sempre attuale, si rinnova a ogni istante. L’azione dello Spirito, invece di intiepidirsi, si fa sempre più insistente, più pressante, più personale. La Bibbia è un libro pieno di vento e di strade. E così sono anche i racconti della Pentecoste, pieni di strade che convergono a Gerusalemme e che poi ripartono. Pieni di un vento impetuoso e di un respiro leggero. E la mia vita, la mia vita di cristiano, è piena di strade e di vento come la Bibbia, come la Pentecoste? Che cosa porta nella mia vita lo Spirito santo? Rileggiamo un brano antico di millenni. Quando il profeta Samuele va a ungere e consacrare Saul, il primo re di Israele, pronuncia queste parole: «Lo spirito del Signore ti investirà e tu farai il profeta. Sarai trasformato in un altro uomo. Allora fa’ pure quello che vorrai, perché Dio sarà con te» (1Sam 10, 6-7). 118 Ecco l’azione dello Spirito santo: «ti investirà», verbo che esprime energia, un prevalere di un’altra vita nella tua vita. Non viene come bianca colomba in volo mite e delicato. È quasi un’aquila che rapisce e porta con sé sulle cime. È l’esperienza di Geremia: «Mi hai sedotto, Signore; mi hai fatto forza e hai prevalso... Nel mio cuore c’era come un fuoco ardente; io cercavo di contenerlo ma non potevo» (Ger 20, 7.9). Da qui nasce il secondo momento dell’azione dello Spirito: «Tu farai il profeta». E lo dice a ciascuno. Amos, il povero pecoraio di Tekoa, che non pensava minimamente a fare il profeta, ammette: «Il leone ruggisce: chi non avrà paura? Il Signore ha parlato: chi può non profetare?» (Am 3, 8). Perché nessuno che abbia ascoltato anche una sola parola di Dio, in pienezza di cuore, può esimersi dall’essere profeta. Il che significa diventare custode di quella parola, seminatore di quella parola, anche minima, anche solo una sillaba, fosse pure solo un semplice grido. Il profeta è bocca di Dio e bocca dei poveri. Perché ricorda Dio agli uomini e poi fa memoria degli uomini presso Dio. È colui che dice: Il segreto della mia vita è oltre me. Profeta è chi racconta nella nostra lingua le grandi opere di Dio (cf. At 2, 11). Racconta Dio, ma nella lingua dell’uomo. Lo Spirito instancabilmente fa diventare tua lingua la parola di Dio, tua passione, tuo cuore, tuo respiro. Racconta la parola di Dio con le parole più belle e più care a ciascuno. E quale uomo non sente come suo il Discorso della montagna, che parla di lealtà, di misericordia, di lacrime, di onestà, di pace, della forza dei poveri, di fine delle violenze? 119 Lo Spirito parla la lingua di ciascuno, fa rinascere nel cuore le parole che a tutti sono più care. E cara a ognuno diventa la stessa parola di Dio. E Samuele aggiunge il terzo gradino: «Sarai trasformato in un altro uomo». Grande verbo: tu puoi diventare altra creatura. E la vita si apre, traccia strade, scioglie legami. Un altro uomo, un’altra donna: questo crea lo Spirito, dando nuovi orizzonti, nuovi punti di riferimento, nuovi amori, un’altra comprensione del mondo, un nuovo stile di vita. Ad esempio, vivere noi più semplicemente perché altri, più poveri, possano semplicemente vivere. Allora sarai “altro”. Dentro questo sistema di valori, sarai spina nel fianco di chi si adegua, di chi è omologato. Sarai un altro uomo: «Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me» (Gal 2, 20). Allora senti la grande rivelazione: tu uomo, tu donna, sei altro da ciò che credi di essere; tu non sei i tuoi difetti, non sei la tua stanchezza, non la tua fatica. Lui ci abita. Allora le nostre debolezze non diventano subito fatali. Le nostre piaghe interiori non sono senza guarigione. Questo perché Dio sarà con te. Ecco la quarta azione dello Spirito santo. «Ma il Signore è con noi, sì o no?» (Es 17, 7): è l’angosciata domanda che attraversa l’esodo e il cammino di Israele nel deserto. Sì, Dio è con te. È il primo annuncio dell’angelo a Maria, è l’ultima parola di Gesù quando se ne va: «Io sono con voi tutti i giorni fino al consumarsi del tempo» (Mt 28, 20). Quando se ne va non più lontano ma solo più in profondità. “Solitudine impossibile” è la quarta azione dello Spirito santo. Nella profezia di Samuele abbiamo infine una parola che ci è molto cara: «Farai come vorrai»; perché 120 intrecciate alle tue forze ci sono sempre quelle di Dio, innestata nelle tue ombre c’è sempre la luce di Dio. «Farai come vorrai», tu, uomo adulto, autonomo, profumato di nuova dignità; e Dio sarà con te, non per impartire ordini che tu devi eseguire, ma per inventare con te la lingua dell’uomo, quella che ognuno sente vera, sente sua, “la mia lingua” di festa e di dolore, di stanchezza e di forza, con cui poter annunciare le grandi cose di Dio. Ognuno è chiamato a saper raccontare le opere grandi del Signore: è il nostro compito di profeti. Raccontare Dio agli uomini, come fanno gli apostoli, è, ci ricorda Paolo, più grande dello stesso parlare a Dio attraverso parole arcane (cf. 1Cor 14, 1-3). Questo accadeva nella Chiesa primitiva. Ebbene, dice Paolo, chi parla in lingue non parla agli uomini, ma a Dio. Chi invece profetizza parla agli uomini e li edifica, li conforta, li rafforza. Noi siamo qui per imparare a parlare agli uomini e a raccontare le cose di Dio, per aprirci ancora allo Spirito, che conosce gli ostacoli che continuamente inventiamo contro di lui. Ma Dio si ripropone con umile risolutezza, come dice Samuele, per fare di te un altro uomo, per fare di te un libero profeta. E noi siamo qui per riconoscerlo presente non solo in ogni fratello, ma – di più – in ogni creatura, nel cuore di tutti gli esseri, nel profondo di ogni vita. Lo Spirito è qui, effusione ardente della vita di Dio. Lo Spirito è qui, mite e possente energia, perché ogni uomo sia più che un uomo, perché ogni uomo assomigli al suo Creatore e sia profeta. E insieme con il suo Signore inventi strade nuove nel sole, che ci portino gli uni verso gli altri e insieme verso Dio. 121 DOMENICA DELLA TRINITÀ Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio. (Gv 3, 16-18) Nella Trinità è la sapienza del vivere, perché il dogma della Trinità non è un elaborato mentale, difficile al punto da far scomunicare i cristiani tra loro, com’è successo in passato. Non è un distillato freddo di pensiero, dove si cerca di far coincidere il tre e l’uno, ma è sorgente di sapienza del vivere. «Ho capito» dice san Gregorio di Nissa «che i concetti creano idoli, solo lo stupore coglie qualcosa.» Stupore davanti al mistero. «Cosa è mai questo figlio dell’uomo / che tu abbia di lui tale cura?» (Sal 8, 5), che coglie qualcosa della bellezza di Dio e dell’uomo? La Trinità è rivelazione del segreto del vivere: quella sapienza custodita nel cuore di Dio e nella vicenda terrena di Gesù, sapienza sulla nascita, sulla vita, sulla morte, sull’amore. Il dogma della Trinità mi dice che Dio non è in se stesso solitudine ma comunione, che l’oceano della sua essenza vibra di un infinito movimento di comunione. Allora «un solo Dio in tre Persone» rimane una formula difficile, ma diventa liberante perché mi assicura 122 che in Dio esiste comunione, reciprocità, scambio, incontro. Se il nostro Dio non fosse in se stesso questo bisogno di relazione, di dono reciproco, di incontro, vale a dire di Trinità, sarebbe il Dio distratto, che basta a se stesso. Invece Dio è estasi, cioè un uscire da sé in cerca di oggetti d’amore. Dio è esodo in cerca di un popolo, anche se si tratta di un popolo dalla testa dura (cf. Es 34, 9), del quale farsi compagno di viaggio, farsi ristoro dentro l’arsura estrema del deserto. Le tre letture di oggi non parlano esplicitamente della Trinità, non danno di essa una definizione ma un’esperienza. La Trinità non è un concetto da capire, ma una manifestazione da accogliere come il segreto del vivere. Quando nell’“in principio” Dio dice: «Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza», l’immagine di cui parla non è quella del Creatore, non è neppure quella dello Spirito che aleggia sulle acque, non è neppure quella del Verbo eterno di Dio, per mezzo del quale tutto fu fatto, ma è tutte queste cose insieme. È la Trinità. È la relazione come cuore dell’essenza di Dio. Allora l’uomo non è creato a immagine di Dio, ma – cosa più stupefacente – è creato a immagine della Trinità. Come Dio è unico nelle tre Persone, così l’uomo è unico in tutte le persone del mondo (Gregorio di Nissa). Questo è il fondamento della dignità e dell’uguaglianza di tutte le creature umane. La Trinità, allora, non è un concetto da capire, ma una manifestazione da accogliere, una rivelazione dell’uomo. Dio scende verso gli uomini; e tutta la Bibbia è memoria dell’esodo di Dio alla ricerca dell’uomo, fino a 123 mettersi a camminare con lui, sullo stesso cammino, lungo la stessa strada, a guidarlo verso un esito buono. Ecco allora la manifestazione di Dio sul Sinai, nella prima lettura: «Il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà» (Es 34, 46). Eppure non basta. Mosè, il grande amico di Dio, prega così: «Che il Signore cammini in mezzo a noi, venga in mezzo alla sua gente. Non resti sul monte, guida alta e lontana, ma scenda e si perda in mezzo al calpestio del popolo. Che il Signore rallenti il suo passo per farsi anima e coraggio di ogni passo lento. Tu, Signore, sei misericordioso e pietoso, lento all’ira, pronto alla grazia. Lo sappiamo, ma devi esserlo qui, in mezzo a noi, a fianco di ciascuno, qui vicino, qui perduto, qui rallentato come è lento il nostro cuore». Allora succederà che il mondo e l’uomo racconteranno la storia di Dio, le opere di Dio. Tutta la Scrittura ci assicura che nel calpestio del popolo, nella polvere dei sentieri, lo Spirito continua ad accendere profeti e orizzonti; il Padre accorda il suo passo al ritmo del nostro, il Figlio è salvezza che ci cammina a fianco. «Vieni fra noi» prega Mosè. Non chiede Dio per sé. Cosa se ne farebbe Mosè di un Dio solo per lui? Lo chiede per il popolo, questo corpo che cresce e poi si spezza e poi ricomincia il sogno della comunione. Difficile sogno, ma inevitabile, se vogliamo essere l’immagine della Trinità. La fede ci assicura che è Dio che discende. Sta a noi accoglierlo. Egli discende e rallenta e si impolvera della polvere delle strade di Palestina, di tutte le nostre strade. «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio.» Questi è disceso, ancora discende, «perché 124 chiunque crede abbia la vita». Sono queste le parole sorgive, iniziali: «Dio ha tanto amato il mondo». Da lì viene l’incarnazione, e la croce, e il Cristo seminato in tutte le creature come lievito, come gemma, come sale, come luce, come energia, come legame. Da lì viene che il mondo diventa racconto di Dio. Da lì viene il fatto che il mio nome è amato per sempre. Ognuno di noi porta questo nome: “amato per sempre”. E il mondo è amato, la terra è amata. E se egli ha amato il mondo, anch’io devo amare questa terra, i suoi spazi, i suoi figli, i suoi giorni. Terra amata. Se non c’è amore, nessuna cattedra può dire Dio, nessun pulpito. È lo stesso amore interno alla Trinità che si espande, ci raggiunge, ci abbraccia e poi dilaga. Legame delle vite. Tra poco, nel momento più santo della messa, è proprio questo che il sacerdote invocherà: «Fa’ che diventiamo sulla terra un solo corpo, un solo spirito, un solo cuore, che diventiamo immagine della Trinità». Tutto si tiene dentro questa energia di comunione, dentro questa passione di unità. L’uomo esiste in una corrente di vita. Esiste attraverso gli altri, insieme con gli altri, incamminati insieme verso un Padre che è fonte della vita, verso un Figlio che ci innamora ancora, verso uno Spirito che accende di comunione tutte le nostre solitudini. 125 DOMENICA DEL CORPO E SANGUE DEL SIGNORE Chi mangia di questo pane vivrà in eterno. (Gv 6, 51-58) Tutto il Vangelo di oggi va e viene tra due sole parole: il “pane” e la “vita”, mangiare e vivere; e sullo sfondo il deserto della prima lettura, il luogo della fame, della sete, degli scorpioni, dei serpenti, della paura di non farcela (Dt 8, 2-3.14-16). Mangiare e vivere. Vita, canto supremo dell’essere; vivere, grido ultimo di ogni preghiera, di ogni Salmo. Vivere per sempre, vertigine della nostra speranza. Ma oggi ci domandiamo: vivere? Le risposte sono molte. Io vivo di persone; mi fanno vivere le persone, dall’amore che mi ha concepito, agli incontri di ogni giorno, a sguardi che aprono oceani, o semplicemente quando mi accorgo che a qualcuno importa qualcosa di me e della mia vita. Che cosa mi fa vivere ancora? Le doti, i desideri e le passioni, la vocazione, tutti quei germi di vita che la mano viva del Creatore ha messo dentro di me e che devono fiorire in pienezza. Io vivo soprattutto delle mie sorgenti, come un fiume che vive se vivono perenni le sue fonti; come un albero stretto alle sue radici. 126 Nella prima lettura Mosè dice: «L’uomo non vive di solo pane». Anzi, di solo pane l’uomo muore. «Ma vive di quanto esce dalla bocca di Dio» (Dt 8, 3). Questa è la sorgente! Dalla bocca di Dio vengono parole, ma, molto di più, vengono parole che creano luce, acqua, terra, vento. «Dio disse: Sia la luce. E la luce fu» (Gen 1, 3). Viene il cosmo dalla bocca di Dio, viene l’alito di vita che fa di un grumo di terra una persona vivente. Dalla bocca di Dio vengono i miei fratelli, che sono parola di Dio, annuncio di Dio, respiro di Dio. Dalla bocca di Dio viene il bacio d’amore con cui inizia e finisce ogni vita. Secondo la tradizione ebraica, l’ultimo respiro dell’uomo è un bacio con cui Dio riprende il suo soffio. È quanto cantava anche David M. Turoldo in Mie notti con Qohelet: [...] Ma è con il bacio che Egli il suo respiro di nuovo si prende: il respiro che alitando bocca a bocca ti rese «persona vivens», lassù... Da quella vetta dunque inizia la grande Contesa e Morte con Amore convive. E tu hai solo una scelta: aspirare il suo alito con la stessa passione... E allora, che fare? Ci viene in aiuto la prima lettura: «Ricordati di tutto il cammino che il Signore ti ha fatto percorrere». Ricordati, cioè, delle tue sorgenti, da dove sei partito, perché tu vivi di Dio. Ricordati! Perché dimenticare è la radice di tutti i mali, di tutti i peccati. 127 Ricordati del cammino, del viaggio, del continuo salire, del crescere, del fiorire della tua vita. Ricordati di quando nel deserto pensavi di non farcela da solo, e non incontravi che sabbia e pietre, senza prodigi. Ricordati che essere uomo con Dio è il contrario del naufragio e dello smarrimento fra le dune. Ricordati del vento della strada, di quanto era bello aver l’anima affaticata dal richiamo di cose lontane; della manna, scesa all’improvviso, quando non l’aspettavi più. Credo che, se ricordiamo, tutti potremo raccontare il nostro viaggio nella vita, non soltanto gli scorpioni o i serpenti, ma l’acqua scaturita un giorno all’improvviso quando credevamo di non farcela. Quand’eravamo tristi o disperati, ecco che dal cielo è arrivato qualcosa, una forza, un amore, un amico, un canto. Improvvisi squarci si sono aperti a ricordarci che non viviamo da soli, chiusi nel cerchio spesso tragico di noi stessi e dei nostri problemi, ma che c’è un amore che assedia i confini della storia e crea sorprese. Tutta la liturgia è fare memoria di eventi che da passati diventano presenti: non vuote commemorazioni, ma dialogo con le mie sorgenti, con la mia vita profonda. Ricordati dell’amore: questa è garanzia di futuro. Nella tenda della vita che ogni giorno è smontata e riparte, come nell’esodo, io ricordo le sorgenti. Ricordati dell’amore. E l’eucaristia è fare memoria della sorgente, dell’amore di Cristo che nemmeno il suo corpo ha tenuto per sé: «Prendete e mangiate». Neanche il suo sangue ha tenuto per sé: «Prendete e bevete». Neppure la sua vita: «Io sarò con te tutti i giorni, fino al consumarsi del tempo». Allora io ricordo che se sono sopravvissuto, se non sono diventato io stesso un deserto arido e inospitale, 128 se non sono diventato terra spenta, lo devo a un Altro: io vivo di Dio. Ricordare è allora dialogare con la mia storia, rimanere in contatto con la mia sorgente. A ogni messa, con in mano quel piccolo pane, con nel cuore un episodio santo di cui è piena la mia vita, dialogare senza fine, come Israele di fronte alla manna sconosciuta, domandare: «Man hu: che cos’è?» (Es 16, 15). È Dio che percorre i miei deserti, in cerca della mia fame e della mia sete. È la mia sorgente: qui sono le mie fonti. Con quel piccolo pane in mano mi domando ancora: «Man hu: che cos’è?». È Gesù Cristo, colui che accende fame d’altro per chi è sazio di solo pane. «Che cos’è?» È lui che vive donandosi, a me che vivo di pane e di miracolo, che vivo di doni. E andiamo alla comunione, a ogni messa, camminiamo distratti verso l’altare, distratti nella vita, eppure Cristo non si nega. Io sono inaffidabile, eppure Dio non si nega. Io tendo la mano nel segno del mendicante, nel segno dell’affamato. Tende la mano chi non ce la fa da solo, chi ha bisogno della medicina e del sole, chi non ce la fa a vivere senza le sue sorgenti, senza ciò che viene da fuori e dall’alto. E Cristo non si nega. L’ostia non sa di niente, eppure, per un istante almeno, mi affaccio sull’enormità di ciò che mi sta accadendo: sono colmo di Dio e non riesco a dire parole e credo di non dover neppure dirle, e poi «gli sono note prima ancora che mi salgano alle labbra» (Sal 139, 4). Quando ho fatto la comunione, mi accorgo che non ho doni, né primizie, né progetti nuovi, né cose grandi da offrire: sono solo un uomo con la sua storia accidentata, ma dentro qualcosa si apre perché si depositi l’orma lieve di Dio, lieve come l’ostia. 129 E Dio mi abita. Quel che appare incredibile, è che Dio si accontenta del groviglio di paure, del nodo di desideri che io sono. Gli vado bene anche solo per questo abbozzo di comunione. Perciò cerco di spremere pensieri, preghiere e sentimenti da dedicargli. Ma quanto poco esce dalle pieghe dure dell’anima! Finisco per dedicargli il silenzio. Come se dicessi: «Eccomi, non ho nulla degno di un Dio. E tu dovresti lasciarmi, se sei così grande. Tu dovresti andartene, Signore». Ma lui non mi ha mai lasciato. Non siamo mai stati lasciati. E quando usciremo di chiesa e ritroveremo il sole e la città, quel sole si poserà sul viso come una carezza, come il ricordo delle nostre sorgenti e la certezza che mai più saremo lasciati. Perché Dio vuole divenire corpo per l’uomo, fino a che l’umanità diventi il corpo di Dio, fino a che Cristo sia tutto in tutti (cf. Col 3, 11). E questo, solo questo è il Regno. 130 Tempo ordinario II DOMENICA Ecco colui che toglie il peccato del mondo! (Gv 1, 29-34) «Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo!» Sulle rive del Giordano Giovanni ha lanciato queste parole folgoranti, e a ogni eucaristia noi le rilanciamo verso i cieli e verso il fuoco: «Ecco l’agnello di Dio». Cioè, ecco l’animale dei sacrifici, ecco il piccolo animale, il sangue sparso, il fuoco e la carne, il grido innocente che riempie ogni sera il tempio di Gerusalemme, ecco la vittima che si sacrifica, colui che toglie il peccato. Ma di che cosa è vittima Gesù? È la vittima dell’ira di Dio? È vittima della sete di giustizia di Dio, che si placa solo vedendo il sangue dei sacrificati? Isaia già aveva detto a nome di Dio: «Io non bevo il sangue dei sacrifici, io non mangio la carne dei tuoi agnelli» (cf. Is 1, 11), per dire che Dio non vuole vittime, che Dio non chiede sacrifici. È invece lui che si sacrifica per noi. Per dire che Dio non chiede che il fuoco sacro distrugga qualcosa per lui nel tempio, ma è lui stesso che si getta nel fuoco del dolore, nel fuoco che arde per noi. 133 Di che cosa è allora vittima l’agnello di Dio, che cosa provoca l’olocausto di Dio? È il peccato. Una parola enorme, una realtà enorme. Il peccato è ciò che ha dato morte al Figlio di Dio; peccato è ciò che continua a dare morte, ancora oggi, ai figli di Dio. Peccato è ciò che dà morte. La morte è entrata nel mondo con il primo peccato di Adamo, e il primo uomo nato sulla terra, il primo nato da donna, ha nome Caino, cioè colui che ha dato morte a suo fratello, e da allora la violenza possiede la terra. Gesù, che ha parlato d’amore come nessuno e ha osato dire parole folli, aggiunge: «Ama i tuoi nemici, porgi l’altra guancia, beati gli inermi, non c’è amore più grande che dare la vita». Ha sfidato la violenza, signora della terra, con l’amore. E la violenza non l’ha potuto sopportare: l’unico uomo che era libero, l’unico uomo che non le doveva niente. E ha convocato i suoi figli e ha ucciso l’agnello, il mite, l’uomo della tenerezza. Gesù è l’ultima vittima della violenza, perché non ci siano più vittime. Doveva essere l’ultimo ucciso, perché nessuno sia più ucciso. Gesù smaschera la violenza che dà la morte, e nel nome dell’amore attraversa l’olocausto e risorge, per dire che l’amore è vincente. Questa è la certezza, questa è la fede pura di ogni discepolo di Gesù. Giovanni diceva parole folgoranti sul Giordano. Diceva: «Ecco la morte di Dio perché non ci sia più morte», e noi possiamo solo affacciarci ai bordi di questo abisso. Giovanni usa il verbo al presente. Dice: «Colui che toglie il peccato»; non un verbo al futuro, nella speranza, non al passato come un fatto concluso, ma al presente: ecco colui che continua, colui che instancabilmente continua a togliere, a portare via, a raschiare 134 via, adesso ancora, il peccato. Contemporaneo è Cristo a me, contemporaneo al mio peccato. E questo verbo al presente significa che Dio non è stanco: il presente è la non stanchezza di Dio. Tu sapessi, o Dio, cosa mi costi in rimorsi e quanto io a te costi per grazia! Che la gara non si interrompa: io a pentirmi, tu a usarmi pietà. Tu sai che nulla di questi inganni mi soddisfa; che sono inganni lo so, e tutti e due sappiamo che non posso non ingannarmi (D.M. Turoldo). E cosa fare, allora, dentro questi inganni? Perché, come è possibile che tutti sappiamo quali sono i comandamenti, che tutti li accettiamo, che nessuno li contesta, eppure continuiamo a infrangerli tutti i giorni? Per capire cos’è il peccato devo capire che cos’è la fede: perché il peccato è l’esatto contrario della fede. Quando Dio viene a “contestare”, a “litigare” con il suo popolo, per usare una parola magnifica dei profeti, la sua accusa è sempre questa: Tu non credi, tu non hai fede, hai abbandonato me, sorgente di acqua viva, e ti sei fatto cisterne screpolate, che non trattengono l’acqua, che non trattengono vita. Peccare significa allora non accettare la tenerezza di Dio. Questo Dio che in Gesù si mostra l’amico del nostro pellegrinaggio, un Dio interessato alla gioia degli uomini, un Dio capace di dimenticarsi dietro una pecora smarrita, dietro un bambino, dietro a un’adultera, capace di perdersi dietro a un mendicante, capace d’amare fino a morire, fino a risorgere. Peccare significa non accettare la tenerezza di Dio; volere un altro Dio: il Dio della forza, della paura, dei castighi, un Dio che dona infelicità all’uomo. Ecco invece l’agnello di Dio, colui che si sacrifica per te, che 135 toglie via la paura di Dio, che toglie il peccato di una fede sbagliata, in un Dio sbagliato. Peccare significa non accettare la tenerezza di Dio che avvolge me, che avvolge mio fratello e ogni creatura. La tenerezza di Dio vuole che ogni uomo fiorisca, e solo chi è amato fiorisce, e il comandamento dirà: Ama, perché tutto intorno a te fiorisca. La tenerezza di Dio vuole che l’uomo cresca, e le sue leggi sono leggi per la crescita dell’uomo. Allora credere nella tenerezza di Dio significa non peccare contro la crescita della vita e accogliere le sue leggi di crescita. Nel Vangelo il peccato è presente, e tuttavia è assente. Gesù ci parla di peccato solo per dirci: È perdonato, è tolto via, o almeno è perdonabile, sempre. Allora il cristiano non deve annunciare il peccato, annunciare condanne, levare alto il vessillo della condanna, ma deve proporre la fede. Non piangerà sul fatto che oggi sembra perso il senso del peccato: tutto questo è sterile. Noi abbiamo una sola cosa da fare: testimoniare il positivo della fede, una misericordia che non si arrende, un Dio amante della vita. Diventare testimoni della luce, liberi da ciò che uccide, liberi per Dio e per guarire la vita attorno a noi. 136 III DOMENICA Vi farò pescatori di uomini. (Mt 4, 12-23) È la nostra storia, questa, che inizia fra terra e acqua, fra reti e spiagge, e mi ricorda una celebre definizione dell’uomo: «Un essere nato dal mare, che cammina sulla terra e che vorrebbe volare». L’uomo, perenne disertore dai limiti, dalle frontiere fissate. E Gesù è l’uomo di frontiera. Tutto inizia in riva a un lago, in quella frontiera fra terra e acqua, dove acqua e terra si confondono l’una nell’altra, come all’origine della vita, come nella Genesi: tutto inizia in quella frontiera che sa di vento, di vele spiegate, di viaggi, di partenze al soffio del vento che non ha dimora, su di un’acqua che non è dimora. È qui che Gesù inizia il suo ministero. E viene a cancellare le frontiere, viene a mettere moto dentro l’immobile. Gesù Cristo, l’uomo di frontiera, nel Vangelo non farà altro che misurarsi con le situazioni limite, con i casi estremi, i casi di amore e morte, di violenza e di tenerezza, i casi di sterilità e di fecondità, di festa e di dolore. 137 Non è un uomo tranquillo, Gesù, come la frontiera non è luogo di tranquillità. Egli è un inquietatore che vuole liberarci da questa stregoneria della quiete, della falsa pace, dell’accontentarci del minimo, di quei due o tre comandamenti più eclatanti; dal vivere senza mistero. Noi siamo questo strano uomo che è a proprio agio solo nelle terre di frontiera, cioè là dove si progettano le nuove architetture del futuro, là dove ci sono improvvisi problemi, là dove c’è bisogno di drizzare i segni della liberazione concreta degli uomini. La Chiesa nasce là, sulle rive di un lago, da Simone e da Andrea, in un luogo dove tutto sa di partenze e di incontri, di navigazione, dove il porto è l’alfa e l’omega di un viaggio, dove si può incontrare il futuro; e questo per dirci che il senso della nostra vita è di essere uomini di frontiera, attraversati dagli altri, abitati dagli altri, terra di approdo, molo di partenza per tanti altri fratelli. C’è una legge in psicologia che dice così: «La persona inizia a esistere come persona quando inizia a guardarsi con gli occhi di qualcun altro, quando scopre che le sue azioni hanno effetti sugli altri e sul futuro, quando legge negli occhi degli altri se stessa». Veniamo alla luce sconosciuti a noi stessi e ci conosciamo nel gioco degli altri. Sentirsi guardati... E nel Vangelo di oggi Gesù passa e guarda, e quattro uomini si sentono guardati, anzi, iniziano a guardare se stessi con lo sguardo, con l’intuizione di Gesù, e si scoprono diversi. Allora c’è una rivelazione delle proprie capacità, cioè dell’esistenza e del futuro propri. Lo sguardo di Gesù dice: «Tu puoi avere una vita moltiplicata». Come ha detto Isaia: «Hai moltiplicato la vita, hai moltiplicato la gioia» (9, 2). 138 Ecco l’alternativa: o guardarsi con gli occhi degli altri o guardarsi con gli occhi di Dio. L’alternativa è tra la moda e il vangelo. Perché lo sguardo degli altri, della massa, crea la moda: si fa ciò che fanno tutti, si dicono le parole che dicono tutti. Lo sguardo di Dio ti fa esistere: ti fa persona. La gente dice: tu devi; Dio dice: tu puoi. Guardiamoci allora con gli occhi di Dio e ci scopriremo diversi. Gesù disse loro: «Seguitemi, vi farò pescatori di uomini». Di uomini: quello strano animale che è nato dal mare, che cammina sulla terra e che vorrebbe volare. Cioè li tirerete fuori dall’invisibile, dal fondo del mare, da sotto le acque, per farli camminare, per aiutarli a volare. Sarete per gli uomini dei rivelatori di un nuovo modo di vivere, avranno una vita moltiplicata. Fatevi cercatori di uomini, come se cercaste tesori: il vostro tesoro è l’uomo. «E Gesù predicava il regno di Dio», cioè che Dio è il significato ultimo di questo mondo, che Dio interverrà presto e risanerà dalle fondamenta la creazione. Pregare: «Venga il tuo regno» vuol dire attivare negli uomini le speranze più radicali e credere che il fine della storia sarà felice e affermare che il peso dell’utopia è più grande della pesantezza del presente. È affermare che nell’uomo c’è un eccesso di desiderio, che nulla di queste situazioni concrete potrà accontentare; è invocare un cuore di creatori, capaci di porre mano e anima alla costruzione dell’uomo nuovo, quell’uomo che cammina, ma che sta per incominciare a volare. I pescatori di Galilea ci hanno tirati fuori dal fondo del mare; ora non basta, ora noi abbiamo bisogno, lo dico con le parole di Turoldo, abbiamo bisogno di Gesù, «il solo pastore che nei cieli ci fa camminare». 139 Gesù annunciava la buona novella, cioè annunciava l’amore. L’amore non dà una spiegazione dell’universo, non dà una giustificazione dell’operato umano, non fa sorgere scienziati, né giudici, né guaritori: l’amore non spiega niente, l’amore non giustifica niente, ma rilancia il movimento della vita: «I ciechi ritrovano la vista, i sordi l’udito, i morti la vita». L’amore rilancia il movimento della vita. L’amore è un abisso, non una spiegazione; è profondità che rivela attorno a noi altre profondità e ci dona capacità di volare. L’amore prende tutto ciò che è stato per impastarlo di nuovo, per togliergli quei germi che sono vecchiaia e morte. L’amore suscita l’improbabile, l’impossibile, il prodigio per il quale l’uomo scopre di essere prigioniero dell’implacabile amore di Dio, dolcemente implacabile: fortunato prigioniero. Gesù andava per città e villaggi, predicando e curando ogni dolore: Gesù, l’uomo che non si appartiene, che vuole guarire la vita; e con lui ognuno di noi è Andrea e Simone, ognuno è chiamato ad essere generatore e rivelatore di uomini che vogliono volare, curando ogni dolore, perché nella vita ci sono forse mali inguaribili, ma nessuno è incurabile. Forse nessun dolore guarisce per opera nostra, ma ogni dolore può essere curato e alleggerito dalle mani delicate del cuore. Quanta sofferenza dell’anima c’è nelle strade della nostra città! La sofferenza dell’anima viene dal “malamore”, dal non sapere più amare bene. Quanta sofferenza dell’anima nelle strade della città! Ma ogni strada del mondo è Galilea, e allora oggi, con Cristo, ognuno di noi – uomo di frontiera, crocevia del bene – è uomo che sa prendersi cura della vita degli uomini e prendersi cura anche dei sogni di Dio. 140 IV DOMENICA Beati i poveri, i miti, i puri, i misericordiosi. (Mt 5, 1-12) È un Vangelo che ogni volta ci fa pensosi. Perché ci coinvolgono emotivamente queste parole, anche se non riusciamo a capirle fino in fondo, anche se ci lasciano disarmati, anche se talvolta di fronte ad esse ci sentiamo perduti? Il primo motivo è questa litania che scandisce per nove volte la parola “beati”. È il tema della felicità che ci affascina. Questo è un Vangelo che ci assicura che il senso della vita è davvero ricerca di felicità. E lo vuole Dio. Un secondo motivo è che le nove strade proposte da Gesù hanno, in qualche modo, conquistato la nostra fiducia: le sentiamo vere e affidabili. Diamo loro il nostro consenso, per quanto difficili ci risultino. Non un consenso di tipo razionale, ma che viene da un sentire profondo, radicato nella radice più pura del cuore. Queste parole, poi, non sono legate ai precetti fondamentali; non sono riferite ai comandamenti «non uccidere, non rubare, onora tuo padre e tua madre...». Non sono un’ingiunzione o un dovere, ma sono la lieta notizia, l’annuncio gioioso che Dio regala vita a chi 141 produce amore. E se uno si fa carico della felicità di qualcuno, il Padre si fa carico della sua felicità. Gesù lancia una proposta e una sfida capaci di cambiare radicalmente la vita intera. Il Signore ha un debole per i poveri, per gli ‘anawîm, gli umili, i miti, i piccoli. Il Signore non è imparziale, ha un debole per i deboli, ha scelto ciò che nel mondo è stolto, debole, disprezzato, non nobile, e lo ha scelto per ridurre a nulla le cose che sono, cioè per cambiare la logica di questo mondo (cf. 1Cor 1, 26-31). Le beatitudini suggeriscono allora, per prima cosa, un atteggiamento contemplativo. E se le accogli, la loro logica ti cambia il cuore. Sono esse il cuore nuovo dell’uomo nuovo sognato da sempre, da tutti i profeti. Sono rivelazione della bellezza del cuore di Dio. Se Dio è anche lui povero, cioè mendicante d’amore, se è il ricco che si fa povero per fare noi ricchi, allora è bello entrare in questa povertà che arricchisce. Se Dio è mite, è bello essere dolci e teneri come lui. Se Dio ha un cuore grande e la sua misura è perdonare senza misura, allora è bello seguirlo, per inventare con lui il miracolo della pace. E si riaccende in noi la nostalgia prepotente di un mondo fatto di bontà, di non violenza, di giustizia, di pace; la nostalgia di un altro modo di essere uomini. Ascolto le nove beatitudini e mi guardo dentro. Io sono così, diviso in nove parti. Ognuno di noi è diviso in queste nove parti, che fanno la sua storia, che insieme formano l’ultimo volto. Se voglio essere uomo completo, uomo vero, se voglio felicità da condividere, devo comporre insieme, a uno a uno, tutti questi frammenti. Le nove beatitudini sono anche una serie di segni, quasi di sintomi, che Gesù mette a disposizione dei 142 suoi discepoli; sono i sintomi grazie ai quali ciascuno di noi può riconoscere che la buona notizia del vangelo lo ha veramente raggiunto. Le beatitudini che ci colpiscono di più sono quelle che si esprimono con un bruciante contrasto: «Beati i poveri, beati gli afflitti, beati i perseguitati...». E il fascino delle beatitudini viene dalla tensione tra presente e futuro, dalla riserva di speranza che le abita, dall’escatologia che già appare in loro. Esse introducono un misterioso capovolgimento per l’uomo, un capovolgimento che consiste nel passare dall’avere all’essere, e poi ancora dall’essere al dare, dall’avere per sé all’essere per gli altri. E se afferro la dinamica di questo guado, che è importantissima per l’uomo, allora posso raggiungere il segreto di Dio e, insieme, il vero segreto dell’uomo: donare. «Gesù, da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà» (2Cor 8, 9). Gesù invita i suoi discepoli a farsi come lui, a fare di ciò che hanno un sacramento di comunione. Allora saranno beati due gruppi di poveri: quelli che lo sono per cause storiche e sociali sono beati perché qualcuno si prenderà cura di loro, facendosi prolungamento della mano di Dio; e coloro che per scelta si faranno poveri donando saranno beati perché «vi è più gioia nel dare che nel ricevere» (At 20, 35). Sono detti beati i poveri, non la povertà. Sono beati gli uomini, non le situazioni. Dio è con i poveri contro la povertà; Dio è dalla parte di chi piange, ma non dalla parte del dolore. «Beati gli afflitti» dice la seconda beatitudine, la più paradossale; felice chi è triste, felice chi non è felice. Ma non perché la felicità consi- 143 sta nel pianto, ma perché c’è un cambiamento: «In piedi, voi che piangete, avanti: Dio cammina con voi, asciuga lacrime, apre futuro, conforta». E un angelo misterioso dice a chiunque piange: «Il Signore è con te», come ha detto a Maria nell’annunciazione. Dio è con te, nel riflesso più profondo delle tue lacrime, per moltiplicare il coraggio. Nella tempesta è al tuo fianco, forza della tua forza. Come per i discepoli, colti di notte dalla burrasca sul lago: lui è lì, nella forza dei rematori che non abbandonano i remi, nelle braccia del timoniere perché sia saldo il timone, negli occhi della vedetta che scruta la riva, che cerca l’aurora. È al tuo fianco come conforto, colui che dà forza alla tua forza. Gli uomini delle beatitudini sono i veri amici del genere umano: essi tracciano le nove strade su cui deve avanzare il mondo, le sole strade che assicurano il futuro a questa nostra terra. Perché se c’è un’amicizia per chi è costretto alla guerra, è il costruttore di pace che la offre, gratuitamente. Se c’è amicizia possibile per i calpestati della terra, è negli affamati di giustizia che risiede. Se c’è amicizia vera perfino per il ricco, è nel povero che non vuole competere, che non vuole avere ma solo donare. Se c’è un’amicizia per me, cercatore di Dio e cercatore d’amore, io la posso trovare presso i puri di cuore, coloro che hanno un cuore fanciullo, non infido, non pronto a vendersi; presso i misericordiosi che troveranno misericordia. Bellissima quest’ultima parola: i misericordiosi sono gli unici che nel futuro troveranno ciò che hanno già, la misericordia, qualcosa che si porta con sé per sempre; bagaglio per il viaggio eterno, equipaggiamento per tutta la lunghezza del tempo e per l’eterni- 144 tà è la misericordia, che unisce questo e l’altro mondo, questa terra e la nuova terra. Gli uomini delle beatitudini sono la benedizione di Dio per la terra. Il profeta Isaia direbbe di loro: «La gloria del Signore li segue». Se sei povero, mite, perseguitato, misericordioso, puro, i passi di Dio sono sui tuoi passi. La gloria del Signore cammina dietro a te, sulla tua strada tu porti il Signore: è questa la benedizione. Il Signore viene dietro a te, viene come pane, come luce, come libertà e felicità; dietro a te, quasi prigioniero delle tue mani buone, quasi prigioniero del tuo cuore buono. Cammina il Signore. 145 V DOMENICA Voi siete il sale della terra... Voi siete la luce del mondo. (Mt 5, 13-16) Dio è luce. Ma oggi il Vangelo dice: Anche l’uomo è luce, luce custodita in un guscio d’argilla. Per questo d’istinto cerca la luce e, trovatala, se ne inebria. Il sale è ciò che ascende dalla massa del mare rispondendo al luminoso appello del sole. Così anche il discepolo ascende, rispondendo all’attrazione dell’infinita luce divina. Ma se mi guardo bene dentro, io non sono luce, non sono sale. So di non esserlo. Eppure la parola di Gesù me lo assicura. Egli si aspetta da noi una presa di coscienza di quello che siamo in profondità, per grazia, nel mistero dell’immagine che portiamo dentro. Come se volesse dirci: Non fermarti alla superficie di te stesso, cerca in profondità, sotto gli strati delle parole banali, delle occupazioni distratte, dei gesti ripetitivi; rimuovi tutto ciò che ostruisce il cammino verso la cella segreta del cuore: là troverai una lucerna accesa, una manciata di sale. Perché tu sei, nonostante tutto, sale della terra; nonostante tutto, luce del mondo. Per pura grazia. E questa consapevolezza è una conquista grande; non un vanto, ma una responsabilità. 146 Dalla parola di Dio oggi mi pare di poter estrarre tre vie verso la luce. La prima via è la profezia di Isaia: «Spezza il tuo pane», parola così asciutta, concreta, semplicissima. «Spezza il tuo pane.» Ed è tutto un incalzare di verbi: «Introduci in casa... vesti chi è nudo, non distogliere gli occhi dalla tua gente. Allora la tua luce sorgerà come l’aurora, la tua ferita si rimarginerà in fretta». E senti l’impazienza di Dio, l’impazienza di Adamo, l’impazienza dell’aurora e del corpo che ha fame e ferite e fretta di pane e di salute. La luce attraverso il pane. Guarisci altri e guarirà la tua ferita, illumina altri e ti illuminerai. Perché chi guarda solo a se stesso non s’illumina mai. E chi distoglie gli occhi dalla gente che è sua, sempre, perché tutti sono dei nostri, non diventerà mai un uomo radioso. Ma c’è una tentazione: quella di credere di avere troppe ombre in me per dedicarmi agli altri, di essere insipido e povero, di avere troppi peccati che gemono come ferite aperte. I profeti però ripetono: Non preoccuparti delle tue ombre o delle tue malattie, ma della città, della tua gente, dove c’è fame e sofferenza; allora guarirai, allora ti illuminerai. Perché siamo tutti dei malati, però capaci di dare salute. Siamo tutti feriti, però capaci di essere guaritori. Non restare curvo sulle tue storie e sulle tue sconfitte, ma illumina altri e ti illuminerai, guarisci altri e guarirà presto la tua vita. Nessuno ha troppi difetti o è troppo debole o troppo piccolo per potersi esentare dall’impegno gioioso di dare luce e sapore alla vita d’altri. E questo inizia «spezzando il tuo pane». Nessuno è troppo piccolo per potersi esimere dall’impegno di trasmettere il sapore e lo splendore di 147 Dio. E il più delle volte lo facciamo senza saperlo. È possibile non gustare nulla di Dio eppure diffonderlo tra gli altri, senza accorgercene. Dio agisce così: quante volte l’ho visto! Può succedere che si brancoli nel dubbio e nella notte e di essere luce per qualcuno, con una parola o un gesto che non so da dove vengano. Dio agisce così. Qui inizia la seconda via della luce, quella indicata da san Paolo: «Io non ho voluto sapere nient’altro che Cristo, e questi crocifisso» (1Cor 2, 1-5). Nucleo incandescente della nostra fede. Questo è il sale della storia, cioè il sapore e il senso, ciò che impedisce alla terra di corrompersi, ciò che preserva e conserva la storia. Perché salvare vuol dire conservare: oltre l’istante, oltre il tempo, oltre la disgregazione, oltre la decomposizione. Come fa il sale, che è come una piccola salvezza quotidiana sulle cose, una piccola eternità che fa durare le cose e le conserva buone. «Io nulla voglio sapere se non Cristo crocifisso»: la luce attraverso la croce. Sapere Cristo. “Sapere” è molto più che “conoscere”: è avere il sapore di Cristo. E accade quando Cristo, come sale, è disciolto dentro di me; quando, come pane, mi penetra in tutte le fibre della vita e diventa mia parola, mio gesto, mio cuore. Cristo dentro, croce dentro: la sua parola come spada di luce, dove si consuma la notte, come sale sul pane. Un uomo non può guardare il sole senza che il suo volto ne sia illuminato. I custodi della luce hanno certamente un segreto, ma esso non sta in misteriose profondità, non risiede nella loro forza di volontà. Sono gli amici di Dio. A loro interessa non ciò che pensano gli uomini, ma ciò che pensa Dio. Si possono riconoscere, se si è appena un poco attenti. 148 Sì, ci sono volti abitati da Dio, perché non ci si espone giorno dopo giorno allo sguardo dell’infinita tenerezza senza riceverne una qualche insolita bellezza. Sono volti che irradiano la luce senza saperlo: ci basta vederli. È l’eloquenza dei gesti, dell’accoglienza, dei sorrisi e delle lacrime, e capisco che Dio c’è, Dio è luce, e il tuo cuore ti dirà che tu sei fatto per la luce. E poi la terza via della luce. Dice Gesù: «Voi siete la luce», non io o tu, ma voi. Quando un io e un tu s’incontrano generando un noi, allora diventiamo luce. Una parabola ebraica dice che ogni uomo viene al mondo con una piccola fiammella sulla fronte, che non si vede se non con il cuore, e che è come una stella che gli cammina davanti. Quando due uomini si incontrano, le loro due stelle si fondono e si ravvivano – ognuna dà e prende energia dall’altra – come due ceppi di legno posti insieme sulla brace. L’incontro genera luce. Quando, invece, un uomo per molto tempo resta privo di incontri, solo, la stella che gli splendeva in fronte piano piano si affievolisce, fino a che si spegne. E l’uomo va, senza più stella che gli cammini davanti. La nostra luce vive di comunione, di incontri, di condivisione. Ma in ogni essere vivente c’è al tempo stesso un cuore di tenebra e un cuore di luce. Io riassumo in me il cuore di luce del mondo quando divento, come in questo momento nella liturgia, voce della terra, quando sono «la creazione che ama e adora» (D.M. Turoldo), perché c’è anche una terra che odia e bestemmia. Nella liturgia, nell’eucaristia, nella preghiera, io divento maturazione del seme di luce deposto in tutte le cose. In realtà, noi non siamo luce ma lucerna, piccolo recipiente di terra; lampada che deve essere accesa 149 spezzando il pane, diventando alleanza con tutto ciò che vive. Io che sono una piccola lucerna, non mi devo preoccupare di illuminare. Alla lucerna basta bruciare: bruciando illumina. A noi basti avere un cuore ardente. Non preoccupiamoci di quanti riusciamo a illuminare. Non conta essere visibili o rilevanti, essere guardati o ignorati, ma essere luce, custodita in questa conchiglia di fango; a noi basti spezzare il pane ed esporci alla luce di Cristo; a noi basti fare alleanza con ogni creatura. E saremo semplicemente noi stessi, un cuore di luce, e riusciremo semplicemente a vivere accesi. 150 VI DOMENICA Se il tuo occhio ti è occasione di scandalo, cavalo, e gettalo via da te. (Mt 5, 17-37) Un altro dei Vangeli impossibili. Vangelo da Dio e non da uomini. Vangelo che noi mai avremmo osato scrivere. E di fronte a queste parole esigenti e forti, sento l’autore del libro del Siracide dire: «Essere fedele dipende dal tuo buon volere». Ma sento anche che da solo non ce la farò mai. Eppure una parte di me continua irriducibile a ripetere: il Vangelo è facile; so che essere cristiano è facile. So che Gesù non convoca degli eroi nel suo regno, che non solo uomini di fuoco e sangue, non solo asceti inflessibili potranno varcare la soglia della sua casa e del suo cuore. «Se il tuo occhio ti è di scandalo, cavalo, e gettalo via da te; se la tua mano ti è di scandalo, tagliala e gettala via da te.» Ed è lo stesso Gesù che altrove dirà: «Il mio giogo è soave, il mio carico è leggero» (Mt 11, 30). Un altro dei Vangeli impossibili, e osservarlo ed essere fedele non dipende solo dal mio buon volere. Chi potrà osservare queste parole, se è vero che anche solo uno sguardo è già adulterio, che la rabbia è già omi- 151 cidio? Quando forse qui e ora la chiesa dovrebbe svuotarsi perché tutti ci siamo ricordati che qualcuno ha qualcosa contro di noi, e prima dell’altare della chiesa viene l’altare del fratello, e là devo recarmi prima, per riconciliarmi. Eppure essere cristiano è facile. Perché non si tratta di sostituire una legge antica con una nuova legge più esigente; perché il Vangelo non è una super-morale, non è neanche la migliore morale possibile, non è moltiplicare esigenze, impegni e paure, moltiplicare occhi che dall’alto ci scrutano. Altrimenti Gesù avrebbe solo moltiplicato le occasioni di peccato e i sensi di colpa e il dilagare delle infelicità, avrebbe disseminato di trappole più astute i nostri sentieri già difficili. Il Vangelo è un’altra cosa: è dilatazione di vita, è la rivelazione che Dio è amore; come lui, io vivo perché amo. «Stendi la tua mano verso la vita» dice il libro del Siracide (15, 16). «Io sono la vita» dice Gesù. E poi: «Stendi la mano verso il foro dei chiodi, verso lo squarcio del costato» (Gv 20, 27). Stendi la mano verso il luogo dell’amore ferito, verso il luogo del cuore. «Davanti agli uomini stanno la vita e la morte; a ognuno sarà dato ciò che a lui piacerà» (Sir 15, 17). Ciò che amerai ti sarà dato! E noi spesso abbiamo dentro questo istinto di morte. Amiamo ciò che ci fa male. «Insegnaci ad amare la vita»: questa dovrebbe essere la nostra preghiera. Ed è solo nel Vangelo che impariamo ad amare ciò che ci fa bene; nel Vangelo, che è il luogo della vita. Quando incontrerò il Signore, vorrei solo che mi dicesse, prendendomi per mano: «Vieni, figlio, ora non ti farai più male!». Finalmente, non ci faremo più male. Perché la legge è sempre questo, è solo questo: 152 rivelazione di ciò che costituisce l’uomo, oppure di ciò che lo distrugge in umanità. Se hai steso la tua mano e hai toccato la vita, quella vita che dentro di noi ci assedia, dolcemente implacabile, si dilata. Il Vangelo è il luogo della vita. «Ciò che le nostre mani hanno toccato del Verbo della vita, questo trasmettiamo» dirà Giovanni (1Gv 1, 1-3). Non illudiamoci, non c’è morale possibile senza una qualche mistica. Non c’è etica possibile senza mistica autentica, perché è solo il fare di Dio che genera il fare dell’uomo. Il nome nuovo dell’obbedienza, allora, è “sintonia”. Riempirsi di Dio, riempirsi di vita e poi lasciarla defluire verso l’esterno, verso gli altri. I cinque comandi di oggi, i cinque esempi del Vangelo, non sono una nuova definizione dei limiti o dei divieti. Queste, che sono le pagine più inquietanti del Vangelo, sono anche quelle più umane, perché qui ritroviamo la radice della vita buona. Qui impariamo a “respirare” con Cristo. La vita buona la troviamo seguendo le due direzioni che Gesù propone oggi: la linea del cuore e la linea della persona. Agli antichi fu detto: «Tu non ucciderai»; ma Gesù dice: «Chiunque si adira», cioè chiunque lascia bruciare intelligenza e pietà dentro il rancore, «è già omicida. Chi guarda per possedere è già adultero nel cuore». Ecco la linea del cuore, così umana. San Giovanni, proseguendo su questo principio, farà un’affermazione colossale: «Chi non ama suo fratello è omicida» (1Gv 3, 15). Cioè: chi non ama uccide. E, dentro di te, non amare è già un lento morire. Gesù parla di “compimento della legge” in questo senso: risale dal non uccidere alla radice prima, a ciò che genera la morte o la vita. 153 «Ma io vi dico: Non giurate affatto; il vostro dire sia sì, sì; no, no.» Per rinforzare ciò che dici puoi solo aggiungere la stessa parola, non altre parole. Altrimenti la tua parola non basta, e non basterà mai. Dal divieto del giuramento Gesù arriva al divieto della menzogna. Porta a compimento, sulla linea del cuore, tutte le conseguenze già implicite nella legge antica. E poi la linea della persona. «Se tu guardi una donna per desiderarla...» Non dice semplicemente: Se tu desideri una donna; se tu, donna, desideri un uomo. Il desiderio è un servitore indocile, è un sentimento selvatico. Dice: «Chi guarda per desiderare» e vuol dire: Se tu guardi solo il suo corpo desiderabile, allora tu pecchi contro la sua persona. Allora il tuo sguardo è opaco, vede solo l’immagine, la forma, il corpo; e tu allora sei un adultero, nel senso esatto di questa parola: tu falsifichi, tu inquini, tu impoverisci la persona. Sprechi il tuo occhio e sprechi il suo corpo. Perché riduci a cosa (oggetto di cupidigia) la persona, che invece è abisso, oceano, cielo, profondità irripetibile. Pecchi non contro la legge, ma contro la profondità e la completezza della persona. E ci succede come al cieco di Betsaida, che Gesù guarisce e poi verifica la guarigione domandandogli: Che cosa vedi? E il cieco risponde: Vedo uomini come alberi che camminano. Cioè, vedo uomini come cose, vedo uomini come corpi, come tronchi: vedo solo delle apparenze. Allora Gesù interviene di nuovo e guarisce quello sguardo senza profondità, perché possa dire: Ora sì, non vedo più corpi che camminano, ora vedo persone che camminano, anzi, di più, vedo icone che camminano (cf. Mc 8, 22ss). Icone di Dio. Perché questo è mio fratello, questo è mia sorella: un’icona che cammina. Se tu guardi per possede- 154 re, se vedi solo un corpo da desiderare, tu stai adulterando l’assoluto della persona, che è icona di Dio. Cinque casi presenta Gesù oggi: l’omicidio, l’adulterio, il ripudio, il giuramento e il rito liturgico. Ma è un unico salto di qualità quello che propone: passare dalla legge alla persona, mettere la persona prima della liturgia, prima del sabato, prima della legge, come ha fatto per l’adultera che doveva morire secondo la legge (cf. Gv 8, 3-11). Un unico salto di qualità propone Gesù: il ritorno al cuore, là dove nascono i grandi “perché” delle azioni, là dove le azioni trovano senso e orientamento. Allora potremo ripetere la parola di Gesù: Mia legge è che l’uomo viva, che viva una vita piena, libera da inganno e da violenza. E questa legge è tutta la mia vita, questa legge è tutta la mia gioia. Ma chi ci darà il coraggio di osare? Siamo qui, crocifissi ai nostri desideri, lacerati tra desiderio di cielo e desiderio di terra. Una mano si stende verso la vita, una mano va dove si trova la morte. Allora cos’è che mi frena, cos’è che mi impedisce di buttarmi, con tutto me stesso, sulle regole del cielo? Perché questo desiderio di terra, perché il nostro passaggio quaggiù fra gli alberi e le stelle diventa patimento e non mi consente il volo verso la pienezza di me stesso? Come fare? Io non so la risposta, ma so che da solo non ce la faccio. Io cerco solo di non sminuire Dio, di non rimpicciolirlo sulla misura delle mie paure, delle mie ritrosie. Ritorni a parlare alto e solenne, ritorni a parlare umile e delicato, e tu sperimenterai il rischio vasto di prenderlo in parola. Lo dico con le parole di Tagore, una poesia-preghiera adatta proprio ai Vangeli impossibili: 155 Non andare via, Signore, quando trovi chiusa la porta del mio cuore, abbattila ed entra, non andare via, Signore. Quando le corde della mia chitarra dimenticano il tuo nome, ti prego, aspetta, non andare via, Signore. Quando il tuo richiamo non rompe il mio sonno, folgorami con il tuo dolore, non andare via, Signore. Quando faccio sedere altri sul tuo trono, o re della mia vita, non andare via, Signore. 156 VII DOMENICA Amate i vostri nemici. (Mt 5, 38-48) In queste domeniche il Vangelo ci propone la lettura del Discorso della montagna. Gesù si ritirava spesso sul monte: lo annotano tutti gli evangelisti, era una caratteristica del Maestro che si era impressa nella memoria dei suoi. Con questa scelta Gesù segna uno stacco dall’orizzonte quotidiano, e lo fa talvolta per l’intimità orante con il Padre («congedata la folla, salì sul monte, solo, a pregare»: Mt 14, 23), talvolta per chiamare alla sequela («salì poi sul monte, chiamò a sé quelli che egli volle ed essi andarono da lui»: Mc 3, 13). La montagna è anche la cornice, il fondale del discorso più celebre di Gesù, il primo dei cinque discorsi in cui Matteo ordina l’architettura del suo Vangelo (capp. 5-7). Mauriac diceva: «Chi non ha mai letto il discorso della montagna non è in grado di sapere cosa sia il cristianesimo». Al Sinai di Mosè l’evangelista Matteo sostituisce il monte della Galilea. Gesù è il nuovo Mosè, e la legge nuova è connessa all’antica, ma la porta oltre, la porta a pienezza: «Avete inteso che fu detto agli antichi: 157 “Non uccidere”. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello...». Il grande principio di Gesù è il ritorno al cuore, là dove nascono i perché e il senso delle nostre azioni. Il cuore, secondo la Bibbia, è la porta della vita. Gesù propone la linea del cuore, così radicale e così umana: custodisci con ogni cura il tuo cuore, perché esso è la porta della vita, la porta della luce. Il cardinal Martini amava ripetere che quello della montagna è il discorso proponibile a tutti, accessibile a ogni uomo, credente o non credente, a chiunque si sente toccato dalla legge del cuore. Legge che è la misura alta della vita. Il corpo – diceva sant’Agostino – sale mutando di luogo; il cuore sale mutando di desiderio. «Amerai i tuoi nemici.» Amerai, tu per primo, non per rispondere a un amore, ma per anticiparlo. Amerai senza aspettarti null’altro che l’amore stesso. Amerai perfino l’inamabile. Come fa Dio. In maniera unilaterale. Nell’equilibrio del dare e dell’avere, nell’illusorio pareggio contabile dell’amore, Gesù introduce il disequilibrio: Date! Magnificamente, dissennatamente date; pregate, porgete, benedite, prestate, fate: per primi, in perdita, ad amici e nemici. Se tutti amassero i loro nemici, non ci sarebbero più nemici. Se tutti porgessero l’altra guancia, non ci sarebbero più guance da colpire. La logica della rappresaglia invece non fa che raddoppiare la violenza. «Porgi l’altra guancia»: abbassa le difese, sii disarmato, non incutere paura, mostra che non hai nulla da difendere, neppure te stesso, e l’altro capirà l’assurdo di esserti nemico. «Porgi l’altra guancia» non indica la passività morbosa di chi non sa reagire, ma una preci- 158 sa iniziativa: non chiudere, riallaccia tu la relazione, fa’ tu per primo un primo passo, perdonando, ricominciando, amando senza aspettare d’essere riamato. Amore fattivo, quello di Gesù, amore di mani, di tuniche, di prestiti, di verbi concreti. Amore non c’è senza un “fare”. Amare i nemici non è moltiplicazione di emozioni e di sensazioni, ma di gesti operativi. Certo, è molto bello amare quelli che ci amano: riempie la vita. Ma c’è più della vita presente, c’è un mondo nuovo da creare, un sogno di Dio da realizzare, oltre l’eterna illusione del “dare” e dell’“avere”. All’inizio Dio disse a Caino: «Cosa hai fatto di tuo fratello Abele?». Nell’ultimo giorno dirà ad Abele: «Cosa hai fatto di tuo fratello Caino?» (N.A. Berdjaev). Abele risorgerà non per la vendetta, ma per custodire Caino. La terra sarà nuova quando le vittime si prenderanno cura dei carnefici. Fino a cambiarne il cuore: perché l’amore è “ricreatore”. Quando Abele si farà prossimo al suo uccisore, allora il regno di Dio sarà davvero prossimo a ogni cuore d’uomo. Tutto, attorno e dentro di noi, dice: «Fuggi da Caino! Allontanalo!». Poi viene Gesù e dice: «Amate i vostri nemici. Avvicinatevi!». E capovolge la paura in custodia amorosa. Perché la paura non libera dal male. Quando Abele oserà farsi prossimo al suo uccisore, allora non ci saranno più nemici. Vangelo da Dio, e non da uomo, Vangelo “impossibile”. Eppure Gesù non convoca eroi nel suo regno, o uomini di fuoco e roccia, o asceti implacabili: convoca ogni uomo vero. Infatti: «Ciò che volete per voi, fatelo voi agli altri». Prodigiosa contrazione della legge: ultima istanza del comandamento è il tuo desiderio. Scopri ciò che più desideri per te e fallo per gli altri. 159 Tutta la legge di Dio la imparerò, la saprò attraverso ciò che amo: ama il prossimo come ami te stesso. Se non ti ami, non saprai amare nessuno, saprai solo prendere e possedere e difenderti. Prodigiosa semplificazione: dal tuo desiderio imparerai cosa fare. Ciò che desidero per me è proprio questo: voglio essere amato, e che qualcuno mi benedica perché esisto, e che si preghi per me; voglio essere disarmato dal perdono di chi mi porge l’altra guancia, e che mi sia reso bene per male, e poter contare sul mantello o sul prestito di un amico; voglio che si abbia fiducia in me e mi si perdoni in anticipo; che mi si diano i mezzi per dare il meglio di me; che mi si incoraggi e si abbia in stima ciò che ho di buono e come cosa di poco conto ciò che ho di cattivo; che si rispettino i miei segreti e non mi si tratti mai da inferiore. Questo voglio per me, questo cercherò di dare agli altri. Sarà il cammino della mia perfezione. Legge che allarga il cuore, verità dell’uomo e verità di Dio. 160 VIII DOMENICA Nessuno può servire a due padroni. (Mt 6, 24-34) Nelle letture di oggi risuonano espressioni che ci consolano: «Anche se vi fosse una donna che si dimentica di suo figlio, io invece non ti dimenticherò mai» (Is 49, 15). Mai. Parola di Dio. E poi: «Non affannatevi di quello che mangerete o berrete... La vita forse non vale più del cibo? Il Padre vostro celeste sa che ne avete bisogno» (Mt 6, 25.32). Il Padre lo sa, e si prende cura dei suoi figli, come e più di quanto non si curi degli uccelli del cielo, dell’erba e dei gigli del campo. Da dove vengono, allora, le preoccupazioni che attanagliano la nostra vita, le preoccupazioni che ci agitano nella veglia e nel sonno, che tengono come sotto una cappa di nebbia l’orizzonte del cielo, che ci impediscono addirittura di sollevare lo sguardo, presi come siamo dagli affanni insensati del piccolo cerchio quotidiano? Non sarà che siamo davvero, come dice il Vangelo di oggi, «gente di poca fede»? Ma cosa vuol dire “avere fede”? Oggi siamo invitati a guardarci nello specchio profondo dell’anima. Dove pongo la mia consistenza? 161 Dove poggio il piede? Su quali coordinate ho organizzato la vita? O, per usare il termine del Vangelo, a chi “servo”? Perché nel Vangelo di oggi troviamo anche parole che ci inquietano: «Non potete servire a Dio e a mammona». Non possiamo servire a Dio e al denaro. Non possiamo pensare di “aggiustare” in qualche modo questi due elementi contrapposti e assoluti, come se fosse possibile trovare una via di mezzo in cui possono coesistere. Dio e il denaro si presentano come due vie, una alternativa all’altra, come due padroni che nessuno può servire nello stesso tempo: «o odierà l’uno e amerà l’altro; o preferirà l’uno e disprezzerà l’altro». Non c’è via di mezzo. Servi Dio o il denaro? L’anelito che anima la tua vita è l’essere o l’avere? Cerchi il regno di Dio e la sua giustizia o il tuo orizzonte è determinato dalle “cose”? La fede, quella di cui ci parla Gesù, quella vera che dà verità al nostro esistere, ci libera dalla schiavitù delle cose, dalla febbre delle cose, dall’idolatria delle cose. Allora ci appoggiamo al Padre celeste, sapendo che per lui contiamo molto di più degli uccelli del cielo e dell’erba dei campi, anzi, contiamo di più di quanto un figlio conti per sua madre. Infinito amore. Tu non sarai mai dimenticato. Non siamo invitati al disprezzo delle cose, ma a liberarci dall’affanno delle cose. Le cose non sono l’obiettivo della nostra vita, non sono la molla che ci spinge a operare: non sono le cose, non è il denaro che dà consistenza al nostro essere. In fondo, è ciò che ci dice la prima beatitudine: «Beati i poveri in spirito» (Mt 5, 3), beati coloro che pongono il cuore al di là delle cose. Perché ci possono essere poveri che hanno 162 il cuore dentro le cose: non possiedono denaro, ma il denaro resta il loro padrone; servono al denaro, a mammona: sul denaro fondano la vita, le cose sono lo scopo della loro esistenza. Non siamo invitati al disprezzo delle cose. Anzi, come conclude il Vangelo di oggi, «tutte queste cose vi saranno date in aggiunta». Cioè riavremo le cose, ma in tutt’altra luce; i beni della terra riacquisteranno la libera e gioiosa ebbrezza di doni di Dio per l’uomo, riacquisteranno una nuova verginità e una nuova innocenza; non saranno più barriere di divisione tra uomo e uomo, non saranno più oggetto di contesa e di contrasto, non allontaneranno fratello da fratello, ma saranno il libero diffondersi dell’amore del Padre, dati in aggiunta a chi cercherà “prima” il regno di Dio e la sua giustizia, a chi porrà in Dio il proprio cuore, a chi servirà Dio come suo unico padrone. Allora potremo diventare anche noi, come dice Paolo, «amministratori dei misteri di Dio» (1Cor 4, 1), amministratori fedeli dei doni ricevuti, dispensatori di luce e di gioia, ministri della vita abbondante, rigogliosa, gratuita, libera come gli uccelli del cielo, profumata e festosa come i gigli del campo. Dio o mammona, Dio o il denaro. Nelle parole di Gesù si tratta di due assoluti: e non si possono avere due assoluti, due ragioni ultime della vita. E uno è in opposizione all’altro. Dobbiamo scegliere il “padrone” a cui vogliamo servire: il Padre rivelatoci da Gesù, il Padre che ci ama più di quanto una madre ami il figlio, o la “disonesta ricchezza”, che inaridisce il cuore, che ci imprigiona in un orizzonte di morte, di sterilità, di non senso: perdendo anche il senso gioioso e gratuito delle cose. Al regno di Dio e alla sua giustizia le 163 cose sono date in aggiunta, in una visione trasfigurata, liberata, verso dimensioni che sono più grandi dei sogni più grandi che l’uomo può sognare. Ecco lo specchio profondo dentro il quale siamo invitati a guardarci. Per non correre invano e non smarrire il traguardo a cui aneliamo. Liberi e fiduciosi, come gli uccelli del cielo e i gigli dei campi, ancora più amati come un tesoro prezioso. Perché del nostro tesoro si compiace il cuore del Padre. Anche per lui – come per noi – dov’è il tesoro, lì è il cuore (cf. Mt 6, 21). 164 IX DOMENICA Non chiunque mi dice: «Signore, Signore», entrerà nel regno dei cieli. (Mt 7, 21-27) «Aprici, Signore, siamo i tuoi!» E quella voce che risponde: «Non vi conosco». Una sottile angoscia coglie tutti noi, i praticanti, i fedeli di ieri e di oggi, che parliamo tanto di Dio, celebriamo belle liturgie, studiamo il Vangelo. «È tutta la vita che cerco di conoscerti e sei tu che ora non mi riconosci?» “Conoscere” è un termine esplosivo della Bibbia, indica non un fatto teorico o mentale, ma l’incontro totale, evoca la liturgia dei corpi dell’uomo e della donna che si amano, e dice condivisione, comunione, generazione. Conosce solo chi ha innestato la propria esistenza nell’esistenza d’altri. Conosce la fede non chi impara una dottrina alternativa alle altre dottrine, ma chi impara e ripete una relazione radicalmente diversa con la vita, con il mondo, con Dio, con il corpo, con i poveri, perfino con i fiori del campo. Che cos’è “conoscere” Cristo? È un’attenta comunione di comportamenti, secondo il grande principio biblico della imitatio Dei, l’imitazione di Dio. La sua 165 voce mi dirà: «Ti conosco», solo se le mie parole sono l’eco delle sue, se prolungo i suoi gesti, se faccio le sue scelte. Il Dio dell’accoglienza cercherà in me tracce di accoglienza; il Dio della comunione cercherà in me semi di comunione, e pane condiviso, e trovandoli spalancherà la porta. Allora sarò riconosciuto come figlio della luce, se molto sole è entrato dentro di me. Sulla soglia dell’eterno, l’amore cerca in te qualcosa in cui specchiarsi. E se Dio riconosce in noi, almeno germinante, un riflesso del suo amore, dirà: «Vi conosco». Anzi diremo, noi e lui, dalle due parti della soglia: «Sì, ci conosciamo, come Padre e come figlio, come sorgente e goccia che sgorga, come sole e come raggio». Quanta gente straordinaria è lasciata fuori! Sono profeti con parole di fuoco, liberatori da demoni, facitori di miracoli! Ma sono queste le cose chieste da Gesù, le cose che contano, quelle da cui ci conoscono come suoi discepoli? No. Il Padre ama invece la normalità di un’esistenza che cerca di credere nell’amore. E di metterlo in pratica. Nella parabola delle due case, la differenza tra quella che rimane salda e quella che va in rovina è tutta in un verbo solo: mettere in pratica o non mettere in pratica le parole ascoltate. Non nella fede o nell’ortodossia, non nella liturgia; la differenza non è nell’ascoltare o nel celebrare, ma nel “fare” la Parola. Solo così Gesù può essere chiamato, con verità, “Signore”; non di una costruzione mentale, ma Signore della vita quotidiana. Costruisce sulla roccia chi pone a fondamento del proprio agire la regola dell’amore, nelle piccole cose di ogni giorno, a coesione del vivere. Costruisce un futuro inaffidabile chi invece edifica sulla sabbia del 166 proprio io, e verrà sepolto proprio da ciò che ha costruito per vivere. Chi mette insieme pesanti fardelli per caricarli sulle spalle degli altri, senza smuoverli nemmeno con un dito, è lontano dalla roccia. Chi fa le sue opere per richiamare l’attenzione della gente, lavora sulla sabbia. Chi chiude il regno dei cieli in faccia agli uomini per mancanza di misericordia, non sente la roccia. Chi giura per l’oro del tempio e non per il tempio, non ha ancora buttato via le trenta monete d’argento del tradimento, affonda nella sabbia. Chi paga le piccole decime e trascura la giustizia, la misericordia e la fedeltà, ha abbandonato la roccia. Chi lava il piatto dall’esterno, mentre dentro è pieno di rapina e di menzogna, fa posto solo alla sabbia. 167 X DOMENICA Sono venuto a chiamare i peccatori. (Mt 9, 9-13) «Seguimi!» Parola assoluta, sciolta da tutto, senza un perché. In realtà due parole: «Segui me». Due sole parole sospese come in un vuoto di vertigine. Nessuna spiegazione prima, nessuna dopo, se non uno sguardo del Signore: «Gesù, passando, vide...». Ma l’occhio va dove il cuore l’ha preceduto. Tutti nella città erano sfilati davanti a quell’uomo; tutti l’avevano visto esattore delle tasse, doppiamente detestato perché riscuote le tasse (nessuno le paga volentieri) e perché le riscuote per gli occupanti romani (ed è ancora peggio). Ma lo sguardo di Gesù ha qualcosa di diverso. Il suo sguardo è l’organo del cuore, la manifestazione di un cuore di luce. Tutti ricordiamo il bellissimo quadro del Caravaggio, La vocazione di Matteo, in San Luigi dei Francesi a Roma, in cui lo sguardo di Gesù è come un fascio di luce che solleva Matteo dall’ombra. «Ed egli si alzò.» Tutti lasciavano qualcosa a quel banco. Ora è Matteo che lascia il banco e tutto ciò che gli altri vi avevano lasciato. E mentre prima la gente 168 veniva da lui, ora è lui che si alza e va; risale come controcorrente il fiume delle cose umane, che da sempre va nella direzione del denaro, da sempre va secondo le leggi del denaro. La strada di Cristo porta altrove: «Seguimi!». Matteo entra in un altro sistema, in un’altra logica, e va, come se andasse contromano. E mentre prima altri andavano da lui, ora è lui che va dietro un Altro. Davvero la sua vita è cambiata da queste due parole: Segui me. Seguire significa camminare dietro qualcuno, fare strada insieme, stare vicino, molto vicino; è il coraggio di andare senza neppure chiedere dove ci porterà, senza sapere qual è la meta. Io non conosco la strada, ma conosco colui che ha detto: «Io sono la strada» (Gv 14, 6) e tutto ciò che fa è strada; e tutto ciò che dice è sentiero, sentiero assoluto: «Tu mi insegnerai il sentiero della vita» (Sal 16, 11). La seconda parola è: Segui me. Lui è l’orizzonte ultimo. Oltre lui è inutile andare. Oltre il Cristo c’è il nulla per noi. L’essenza del cristianesimo non è una dottrina o una rivelazione, ma la persona di Gesù. E Matteo si converte per un incontro, non per un ragionamento. Un incontro con la persona di Gesù e poi con la sua vita buona, bella e felice, che può fare buona, bella e felice la mia vita. Mi piace il giovane rabbi di Galilea, perché nessuno ha detto «Io» come l’ha detto lui, con questa forza, con questa pretesa. È la coscienza del suo essere unico che mi apre, perché l’uomo non può seguire un altro uomo, non deve, ma solo Dio e la sua vita: Segui me. Non ci sono promesse, non ci sono ragionamenti: solo queste parole senza perché. Eppure proprio questa mancanza di ragioni indica la vera ragione del disce- 169 polo. La vera ragione è racchiusa in un pronome personale. È questo Gesù che dice: «Io». Seguire lui, però, non è imitarlo; seguire Cristo non è prenderlo ad esempio. È molto di più. Lo vediamo dal seguito del racconto di oggi. Gesù siede a mensa e sopraggiungono e siedono con lui molti pubblicani e peccatori. E tutto ciò che accade è comunione. L’offerta del Signore è comunione di vita, non è domanda di imitazione. Per prima cosa è offerta di comunione. L’errore occulto, il veleno occulto della fede è far coincidere la grazia di Cristo con il suo esempio e non col dono della sua persona. La grazia di Cristo è nel dono della sua persona (sant’Agostino). Se la grazia è nell’esempio, ciò che io ricevo – alla fine dei miei sforzi di imitazione di Gesù – è solo il salario della mia bravura, non il suo dono. Gesù ha offerto il boccone a Giuda che lo tradisce, ha dato il pane a Pietro che lo rinnega, agli altri che lo abbandonano; lo dà a noi anche oggi. Per partecipare degnamente alla comunione, non ci è chiesto di essere giusti ma di riconoscere i nostri peccati. E ci accostiamo alla comunione dicendo: «Signore, io non sono degno». Se fossi degno, non andrei a ricevere il suo dono, ma solo il salario della mia fatica. La casa di Matteo va riempiendosi di festa, di volti, di amici. Dimenticato il banco triste delle tasse, ora è il tempo delle tavole imbandite. Ma non è tanto la casa, quanto la vita di Matteo (e di ogni discepolo che va riempiendosi di volti, di amici, di festa) che diventa vita buona, bella e felice. E mi viene da pregare così: «Signore, donaci una fede che non perda mai il senso della festa». 170 Gesù mangia con i peccatori. Forse qualcuno si convertirà, forse nessuno, forse molti: ma chi lo farà, si convertirà perché chiamato. E chiamato quando era ancora peccatore. Gesù mangia con me e mi assicura che la mia guarigione non è nei miei digiuni per lui, ma nel suo mangiare con me. Lui mi guarisce fermandosi a casa mia. La sua vicinanza è medicina; il condividere vita, pane, festa, strada, amici, comunione è un contagio di luce. «Sono venuto a chiamare i peccatori», dice, i piccoli, i poveri, i prigionieri, coloro che da soli non ce la fanno, che non sono all’altezza, ma che scoprono un Dio più grande del loro cuore. Dio non si merita, si accoglie. Se pensi di meritare la comunione, sei ancora seduto al banco delle imposte, ancora a ragionare in termini di dare e avere, e riduci l’amore di Dio a un mercimonio, a un amore mercenario. Gesù non cerca in me il giusto, l’uomo giusto che non so se riuscirò mai ad essere. Cerca quella debolezza che è in me radicale, originaria, fontale, fatale. Vuole impadronirsi della mia debolezza profonda, quella che è a monte di tutti i miei peccati. E lì vuole incarnarsi come lievito, come sole, come fuoco, come spirito dentro la creta, come pace nella tempesta. Allora scopro la mia beatitudine: «Beati i deboli». Ad essi Gesù ripete come a Paolo: «Ti basta la mia grazia». A lui dico: «Quando sono debole, è allora che sono forte» (2Cor 12, 9-10), perché m’appoggio alla tua forza. Certo, questo non basta, perché potrebbe dare spazio a un lasciarsi andare, all’ignavia. Dobbiamo ricordare Matteo che si alza, lascia, segue e si converte. 171 Se Matteo avesse guardato solo a se stesso, non si sarebbe mosso. Avrebbe detto: Non sono degno, non sono capace. Ma chi guarda solo a se stesso non si illumina mai. Matteo guarda a quel gorgo di sole che è lo sguardo di Gesù, che lo solleva dal vortice d’ombra in cui è, e si alza e segue quella luce. Il peccatore è chiamato a conversione. Scrive Paolo: «Dove abbondò il peccato, lì sovrabbondò la grazia» (Rm 5, 20). Ebbene, il peccato è un’opportunità per incontrare il Signore. Beata debolezza che meritò un così grande redentore! Ma: «Vuoi restare nel peccato perché abbondi la grazia? Assurdo!» (Rm 6, 1). Se Matteo potesse rispondere alle nostre domande, forse direbbe che si è girato verso Gesù perché ha veduto Gesù fermarsi e girarsi dalla sua parte. Direbbe che si è convertito perché ha visto Dio convertirsi all’uomo, anzi convertirsi a lui peccatore. Allora oggi mi godo anch’io la festa dei molti peccatori in casa di Matteo, quella casa riempita di volti e di amici; godo la festa di chi ha scoperto un Dio più grande del proprio cuore. Un Dio che in tutti i profeti e in tutti i silenzi dell’anima ripete: «Io voglio l’amore e non il sacrificio» (Os 6, 6). Voglio l’amore. 172 XI DOMENICA Il regno dei cieli è vicino. (Mt 9, 36-10, 8) «Gesù, vedendo le folle, ne sentì compassione.» È un termine di una carica bellissima: Gesù, intenerito al cuore, prova dolore per il dolore del mondo. E che cosa offre immediatamente a queste folle? Non rivelazioni divine, non direttive morali, non affermazioni: offre la sua pietà. Inaugura il ministero della compassione. Ed è a quel ministero che convoca i Dodici: «La messe è molta, ma gli operai sono pochi. Pregate che il padrone mandi operai per la sua messe». La molta messe di cui parla Gesù, cos’è? Forse lo sterminato accampamento degli uomini? No. Gesù ha visto una folla di persone che lo incalza, una folla stanca, sfinita, senza pastore. La molta messe di cui parla Gesù è allora una messe di stanchezza, un raccolto di lacrime, una vendemmia di dolore. A questa messe Gesù invia i Dodici e affida loro una missione straordinaria: non quella di interpretare in modo nuovo la legge antica, neppure quella di essere maestri o sacerdoti. Egli affida loro il ministero della compassione, li fa operai di un lavoro che descrive con sei verbi: predi- 173 cate, guarite, risuscitate, sanate, liberate e donate. C’è il ministero della predicazione e c’è il ministero della pietà, ma nel rapporto di 1 a 5. L’opera di coloro che sono chiamati alla messe è per prima cosa la pietà, da esercitare in gesti concreti; non una sensazione, ma una serie di gesti: cinque opere che mostrano il Dio vicino, il Regno vicino. Perché Dio non si dimostra, si mostra: non a parole, ma con la vita. Quando sentiamo le parole di Gesù: «Pregate il padrone della messe perché mandi operai nella sua messe», noi le interpretiamo come un invito a pregare per le vocazioni sacerdotali o religiose; ma questo è riduttivo. È invece molto di più: è chiedere a Dio che mandi me come operaio della compassione, che mandi me come lavoratore della pietà, che mandi me con un cuore di carne a mangiare pane di pianto con chi piange (cf. Sal 80, 6), a bere il calice di sofferenza con chi soffre, a lottare contro il male con chi lotta perché il male non vinca. Mandi me, con mani che sanno sorreggere e accarezzare, asciugare lacrime e trasmettere forza. Il ministero della compassione non è insegnato in nessuna scuola teologica. Quando vengono ordinati i sacerdoti novelli, ricevono ruoli importanti, compiti e poteri bellissimi; ma non ricevono il dono della compassione. Questo “si impara” solo stando accanto al Signore, solo guardando la folla che preme, solo sapendo vedere questa messe di dolore, queste spighe di stanchezza, che maturano continuamente. E lasciandosi chiamare. Secondo un detto ebraico, il più grande predicatore è il cuore: il cuore della compassione per l’uomo e per Dio. Perché tu puoi parlare di vangelo in modo 174 convincente solo se esso ti ha preso il cuore, solo se ti ha vinto e convinto, se ne sei stato sedotto, conquistato: se ti sei arreso. Credo che molti, troppi, me compreso, siamo stanchi di dire Dio: voglio sentirlo, voglio farne esperienza vitale. Cerco il Dio sensibile al cuore; altrimenti saremo sempre fra stanchezze e smarrimenti, saremo sempre “gente senza”, come dice Gesù: «erano come pecore senza pastore». I Dodici scelti da Gesù diventano, invece, “i chiamati a sé”, “i chiamati vicino”, gente con un centro, con un gruppo, con un calore e una missione: i campi del mondo dove smarrirsi, ma smarrirsi in altro modo: dietro la bussola del cuore. Loro pastore è un cuore di compassione. Un cuore di compassione e una parola, l’annuncio bello da portare: «Il regno di Dio è vicino». Che vuol dire: Dio è vicino, Dio è con te con amore. O, come ha detto con altre parole la prima lettura, parole che Mosè deve dire a ciascuno (e tutti abbiamo il medesimo incarico): «Io vi ho sollevati su ali di aquila e vi ho fatti venire a me» (Es 19, 2-6). È Dio stesso che ti porta fino a sé e guida i tuoi passi anche quando vai nella valle oscura (cf. Sal 23, 4), pastore buono che porta le tue insicurezze: Dio come un dono di ali. Povero di tutto, Gesù non ha voluto essere povero di compagni: settantadue discepoli, dodici apostoli, un gruppo fedele di donne, infiniti altri disposti a condividere la polvere della strada e la compassione del cuore. E dà loro il potere di guarire, camminando verso un tesoro terribile di lacrime, che il mondo contiene, di cui trabocca. Dà a noi il potere di farci prossimo a ogni uo- 175 mo, ed è questo che dà inizio alla guarigione: se ti fai prossimo. Gesù mette un potere in mani fragili come le nostre, che intrecciano insieme storie luminose e storie penose, esempi di speranza e gesti di viltà. E ora si rivolge a me, alla mia fragilità: sono io il chiamato. Il Signore attende la mia risposta, se accetto anch’io, per me, il ministero della compassione. Qualche volta forse ho saputo rispondere, almeno un po’, ed è stato quando ho sentito Qualcuno che mi portava in alto e lontano, che mi sollevava su ali di aquila. Bellissima immagine. L’inviato è povero: un bastone per appoggiarvi la stanchezza, i sandali per andare e ancora andare. Non ha borsa né denaro, ma ha un cuore di compassione e ali d’aquila. Io non ho niente, ma ho un supplemento d’ali, una strada che porta verso il cielo, e una strada verso le croci della terra. Gesù andava predicando la vicinanza di Dio e curando ogni malattia, ogni povertà, ogni dolore. Questa è anche la missione che affida a noi: annunciare che Dio è vicino a chiunque ha il cuore ferito; esistere per Dio, e guarire la vita. Non attraverso i miracoli, ma col prenderci cura di essa: perché ci sono mali inguaribili, ci sono ferite insanabili, ma nessuna, nessuna che non possa essere lenita, curata, alleviata, condivisa, alleggerita. Come Cristo, ogni suo discepolo diventa crocevia di finito e d’infinito, di piedi impolverati e di ali d’aquila. Uomo di compassione e di ali, che si lascia sollevare verso Dio, portare verso gli altri, che sa prendersi cura di greggi e di messi, di dolori e di ali, che sa prendersi cura anche della compassione di Dio verso ogni suo figlio stanco e perduto. 176 Riascoltando, allora, i nomi dei dodici apostoli, oggi dirò: «Eccomi, Signore, manda me». Come il profeta che prova dolore per il dolore di Dio, come Isaia che si prende cura del patire di Dio, oggi anch’io dirò: «Eccomi, Signore, manda me». 177 XII DOMENICA Non abbiate timore: voi valete più di molti passeri! (Mt 10, 26-33) «Voi valete più di molti passeri!» Voi avete il nido nelle mani di Dio! Ogni volta, di fronte a queste parole, provo paura e dolcezza insieme: la paura di non capire un Dio che si prende cura dei passeri, che osserva il loro volo, e poi si perde nella conta amorosa dei capelli in capo. Immagini della Provvidenza, immagini dolci. Eppure i passeri continuano a cadere, gli innocenti a morire e i bambini ad essere venduti e abbattuti appena spiccato il volo. «Non temete, non abbiate paura, non abbiate timore.» Per tre volte Gesù rassicura i suoi. E la Bibbia trabocca di quest’annuncio, per bocca di angeli, di profeti, di re. Per 365 volte è ripetuta questa parola, quasi una a ogni risveglio, quasi fosse il pane del coraggio quotidiano, per ogni giorno dell’anno. Dio rassicura i suoi. Ma sullo sfondo si staglia un quadro di persecuzioni, di corpi uccisi, di trame nell’ombra, di voli spezzati. Il Signore sa bene che abbiamo paura e ne abbiamo motivo. Sa che anche la paura fa parte della fede: è inestricabile da essa. 178 Abbiamo paura e fede così come le ha avute Gesù, annodate, nell’orto degli ulivi. E io ho fede in un Gesù che ha avuto paura. La sua fede che suda sangue è la mia. Quella sera, le vene riempite d’angoscia nel suo corpo, paura nel sangue, sangue nel sudore: ma non si è lasciato guidare dalla paura. Alla fine si è abbandonato nelle mani del Padre: «Sia fatto come tu vuoi» (Lc 22, 42). «Non abbiate timore» significa allora: Non decidete delle vostre vite in nome della paura, perché Dio fa per te ciò che nessuno mai ha fatto, ciò che nessuno farà mai: ti conta tutti i capelli in capo. Per dire che tu vali per lui, che ogni più piccola parte di te è preziosa per lui, che ogni fibra del tuo corpo conta per lui. E dirlo sui tetti, dirlo nella luce: Tu vali per Dio, tu vali più di molti passeri, tu vali più di quanto pensi, più di quanto speri; tu vali di più. «Non temete, dunque: neppure un passero cadrà a terra senza che il Padre vostro lo voglia.» Ma allora è Dio che fa cadere? È Dio che abbatte? È lui che spezza le ali, che vuole la morte? No. Noi abbiamo tradotto questo passo affrettatamente, forse sull’eco di certi facili proverbi che dicono, ad esempio: «Non si muove foglia che Dio non voglia». Ma il Vangelo non dice questo. Anzi, letteralmente, assicura che neppure un passero cadrà a terra senza Dio. Non è evocato il volere di Dio, ma il fatto che Dio è lì, che il passero caduto non sarà solo, non cadrà fuori dalle mani di Dio. Dio sarà coinvolto nel suo dolore, sarà lì con lui. Nulla accade nell’assenza di Dio, all’insaputa di Dio. Nulla accade “fuori dalle mani di Dio”, e non “senza che Dio lo voglia”. Molte, troppe cose accado- 179 no nel mondo contro il volere di Dio. Ogni odio accade senza che il Padre lo voglia. Ogni guerra. Nulla accade “senza Dio”. Egli partecipa, si china su di me. Intreccia la sua speranza con la mia, il suo respiro con il mio respiro. Ma noi vorremmo chiedergli di più, affidare di più a lui l’esito di questi brevi voli che sono le nostre vite. Dio non è la discriminante tra la salute e la malattia. Egli si colloca tra disperazione e fiducia. Il suo paese, il luogo in cui egli agisce, non sono le cellule dell’organismo, ma le fibre della paura, dove si annida quella che Giobbe chiama «la bestia del canneto» (cf. Gb 40, 21). Dio sta nel riflesso più profondo delle nostre lacrime, per moltiplicare il coraggio. Non uccide gli uccisori dei corpi; dice che qualcosa vale più del corpo. Ripete a me e a te: Il corpo non è la vita. Tu non sei il tuo corpo. Eppure di questo corpo, che vale così poco, neanche un capello andrà perduto. Sì, è vero: i passeri e i capelli contati da Dio hanno da attraversare la morte. Ma nulla andrà perduto: Dio salva. E “salvare” vuol dire “conservare”. Tutto sarà conservato: ogni fibra, ogni capello, ogni filo d’erba, ogni passero, ogni bicchiere d’acqua fresca (cf. Mt 10, 42). Tutto ritroveremo in Dio. Nulla andrà perduto. Gesù mi insegna a proclamare la speranza; non solo: a gridare il diritto a che mi sia restituito fino all’ultimo capello di quel corpo che ha sofferto e testimoniato che la vita appartiene solo a Dio. Perché io credo nella risurrezione della carne. Gesù mi insegna a rivendicare il diritto a che mi sia restituita fino all’ultima persona che ha costruito il mio mondo di affetti e di valori, di calore e di forza. 180 Gesù mi insegna a gridare nella luce che per lui nulla è troppo piccolo e insignificante di ciò che è nell’uomo, a gridare nella luce che nulla vi è di autenticamente umano che non trovi eco nel cuore di Dio. Ma l’immagine dei passeri e dei capelli contati, di queste creature effimere e fragili, eppure enumerate a una a una da Dio, mi riporta alla mente e al cuore un’altra serie di riflessioni. Penso ai più fragili tra i fratelli, agli anziani, agli ammalati, agli handicappati, che non possono più lavorare, che non possono più produrre, che si sentono inutili e deboli. E proprio a loro Gesù dice: «Non temere: tu vali di più. Anche se la tua vita fosse solo come quella di un passero o fragile come un capello, tu vali di più, perché esisti, vivi, sei amato e Dio si intreccia con la tua vita». Signore, ho combinato poco nella mia esistenza e adesso non riesco più a combinare niente. E lui risponde: Tu vali di più, non perché produci, non perché lavori, ti affermi o hai successo o realizzi, ma perché sei, esisti gratuitamente come i passeri, debolmente come i capelli, e in te c’è il respiro di Dio. Dove tu finisci, comincia Dio. Noi siamo come un’isola. Quando la percorri e ti pare di aver finito il cammino, ti accorgi che quella spiaggia, che ti pareva la fine dell’isola, è invece l’inizio dell’oceano. Ti accorgi che la fine della terra coincide con l’inizio del mare; che la conclusione della vita è il principio dell’eternità; che là dove l’uomo finisce comincia l’Altro. La fine dell’uomo coincide con l’inizio di Dio. Comunione di lacrime e di luce: nulla accadrà senza Dio. «Temete piuttosto chi ha il potere di far perire l’anima.» L’anima è vulnerabile; l’anima è una fiamma 181 che devo ravvivare. L’anima muore di superficialità, di indifferenza, di culto dell’immagine; l’anima muore quando sei ipocrita, quando ti metti a disanimare gli altri intorno a te, a togliere anima e coraggio, quando ti metti a demolire, a diffondere calunnie, a deridere gli ideali. È il disamore che fa morire. «Noi sappiamo d’essere passati dalla morte alla vita perché amiamo i fratelli» dice san Giovanni (1Gv 3, 14). Ma quanti compiono il cammino inverso, quanti passano dalla vita alla morte perché vivono nel disamore! A noi, condizionati da tanti falsi miti, dai potenti di turno, dalle paure interiori, giunge oggi quest’appello di libertà: «Non temete! Siate come passeri che hanno il nido nelle mani di Dio». Dalle sue mani spicchiamo il volo. In esse comunque cadremo, perché niente accade al di fuori di Dio. Dalle mani di Dio, il porto più bello e forte da cui salpare, riprenderà il nostro ultimo volo verso l’eternità. Esso è già iniziato, perché là dove l’uomo finisce, inizia il Signore. 182 XIII DOMENICA Chi ama il padre più di me non è degno di me. (Mt 10, 37-42) Un ritornello pensoso oggi nel Vangelo, che suona così: «Non è degno di me», ripetuto per tre volte. E io, allora, come posso dire di essere degno? Se guardo a ciò che sono riuscito a fare, alla realtà quotidiana, pesante e stanca, al cuore che davanti a Dio spesso non decolla, allora io non sono degno, Signore. Se guardo a ciò che vorrei essere e fare e trasmettere, allora sento di avere una speranza ancora; allora, come Paolo, dico: «Amo Cristo, mia vita: per me infatti il vivere è Cristo» (cf. Fil 1, 21); «Amo Cristo, mia vita, perché lui per primo mi ha amato e ha dato se stesso per me» (cf. Gal 2, 20). Alla sua passione per me rispondo con la mia passione per lui, perché sono stato conquistato e anch’io corro per conquistarlo. E niente, lo sappiamo bene, fa amare qualcuno come il sapersi amato da lui. Certo, se guardo la mia vita, per i risultati raggiunti davanti a Dio dico: «Signore, non sono degno». Se leggo la mia vita come un desiderio, un progetto, una 183 meta, allora voglio, un giorno, riuscire ad amare il mio Signore più di tutto, con tutto il cuore. Ad essere degno non aspiro: è cosa troppo grande. Ripeterò sempre le parole che diciamo prima della comunione: «Signore, non sono degno, ma una tua parola basterà per salvarmi. Di’ soltanto una parola». E la parola che egli dice è questa: «Ti do la mia vita: ecco qui il mio corpo, il mio sangue, la croce, l’amore. Sono qui, mi faccio cireneo della tua vita, cireneo della tua croce, lievito del tuo pane». Allora diventa davvero possibile ripetere le parole di Paolo: «Ti amo, Cristo, mia vita». Amare, secondo il Vangelo, non è una sensazione in gara con altre sensazioni, non è un affetto fra gli altri. Gesù non instaura una competizione nel cuore, perché sa che da questa non uscirebbe vincitore se non presso pochi eroi o santi, gente dal cuore in fiamme. Noi tutti sappiamo bene che il mondo non coincide con il cerchio della famiglia. Inserendo la croce, Gesù mi dice: «Prendi su di te una seconda vita, prendi su di te un destino come il mio». Ecco, allora, il conflitto: da un lato l’umano e le sue cose, dall’altro un Nazareno e la sua croce. C’è un destino ordinario nella famiglia, e questo ti fa figlio degno della vita; ma c’è un destino ulteriore, che ti fa degno di Cristo. Incontrare un amore sulla terra è destino ordinario, ma destino straordinario dell’essere umano è incontrare seduttori non umani, è incontrare la seduzione di Dio. Da un lato la mia vita, la mia gente, le mie cose e il desiderio di ricondurre tutto al frammento, all’attimo, alla dignità di esseri umani, soltanto umani e basta, con tutta la bellezza e la caducità che questo comporta. Dall’altro lato le co- 184 se che non si vedono, l’eternità, Dio, la casa grande che è il mondo. È un bellissimo conflitto, eterno, tra il canto del sangue che già basta a illuminare la vita e la voce della trascendenza che abita il nostro cuore, inquieto finché non riposa in Dio. Il segreto della mia vita è oltre me. Ed è quello che Gesù dodicenne dice ai suoi: «Non sapevate che io devo interessarmi delle cose del Padre mio?» (Lc 2, 49). Il verbo più usato oggi da Gesù è “accogliere”. L’accoglienza fa fiorire la vita. Anche accogliere la causa di Cristo moltiplica la vita: «Chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà». Perdere la vita non significa qui il martirio del sangue: una vita si perde come si perde un tesoro, donandola. Noi possediamo veramente solo ciò che abbiamo donato ad altri. Come la donna di Sunem di cui parla la prima lettura (2Re 4, 8-11.14-16), che dona al profeta Eliseo piccole porzioni di vita, piccole cose: un letto, un tavolo, una sedia, una lampada, e riceverà in cambio una vita intera, un figlio. «Chi avrà dato la propria vita per causa mia, la troverà.» Gesù parla di una causa per cui vivere e per cui morire, qualcosa che valga più della mia stessa vita. Chi ama davvero sperimenta che l’amato vale di più della sua stessa vita. Lo può dire ogni madre, lo dice Dio stesso, che ha amato il mondo fino a dare suo Figlio (Gv 3, 16). Dio ci ama più della sua stessa vita. Eternamente altro non fa che considerare l’uomo più importante di se stesso. Signore, io sono quell’uomo e sono un uomo grato! E imparo che anche per l’uomo il vero dramma non è la croce o il martirio. Il vero dramma è non ave- 185 re niente, non avere nessuno per cui valga la pena abbracciare la croce e dare la vita. Infine, a noi, forse spaventati dalle esigenze di Cristo, spaventati dall’impegno di dare la vita, di avere una causa che valga più di noi stessi, Gesù aggiunge una frase dolcissima: «Chi avrà dato anche solo un bicchiere d’acqua fresca non perderà il premio». La croce e un bicchiere d’acqua, il dare tutta la vita e il dare quasi niente. Sono i due estremi di uno stesso movimento: dare qualcosa, un po’, tutto. Dare, perché nel vangelo il verbo “amare” si traduce con il verbo “dare”. «Un bicchiere d’acqua» dice Gesù. Un gesto così piccolo che anche l’ultimo degli uomini, anche il più povero può compiere. E tuttavia un gesto non banale, un gesto vivo, significato da quell’aggettivo che Gesù aggiunge, così evangelico: «fresca». Acqua fresca deve essere, vale a dire l’acqua buona per la grande calura, cercata con attenzione alla sete dell’altro, procurata con cura, l’acqua migliore che hai, quasi un’acqua affettuosa, con dentro l’eco del cuore. Dare la vita, dare un bicchiere d’acqua fresca: ecco la stupenda pedagogia di Cristo. Nulla è troppo piccolo per il vangelo, nulla vi è di autenticamente umano che non trovi eco nel cielo. Perché l’uomo guarda le apparenze, Dio guarda il cuore (1Sam 16, 7). E se c’è cuore, tutto il vangelo può davvero essere racchiuso in un bicchiere d’acqua fresca. Perché l’uomo vale quanto vale il suo cuore. La mia vita vale quanto vale il mio amore. 186 XIV DOMENICA Imparate da me, che sono mite e umile di cuore. (Mt 11, 25-30) «Ti benedico, o Padre.» Un verbo bellissimo e raro, oggi. Il Battista è stato incarcerato, in Galilea crescono intorno a Gesù rifiuto e ostilità, i tanti miracoli che ha compiuto a Cafarnao e a Betsaida non smuovono i cuori, non servono a niente. Nel pieno della crisi, in Galilea, Gesù passa improvvisamente dai rimproveri – «Guai a te, Corazin! Guai a te, Betsaida!» (Mt 11, 21) – a una sorta di incanto davanti ai piccoli, ai suoi. «Ti benedico, Padre, perché queste cose le hai rivelate ai piccoli.» I piccoli: di essi è pieno il regno dei cieli, di essi è pieno il vangelo. Dio ha delle preferenze, non è neutrale. Ce lo assicura anche santa Maria nel Magnificat: «Ha guardato alla povertà della sua serva... solleva i miseri, colma di pane gli affamati» (Lc 1, 48ss). È la logica delle beatitudini: beati i poveri, i piangenti, i perseguitati, gli inermi. Dio sceglie coloro che nessuno sceglie, scommette su coloro sui quali la storia non scommette, sceglie ciò che nel mondo è debole, per confondere ciò che è forte (1Cor 1, 27). 187 «Quando gli uomini dicono: “perduto”, Dio dice: “trovato”; quando dicono: “condannato”, egli dice: “salvato”; quando dicono: “abbietto”, Dio esclama: “beato!”» (D. Bonhoeffer). In questa direzione deve andare la nostra attenzione, la cura, la preoccupazione. Dobbiamo agire come agisce Dio nella storia, mettendo cuore e mani a servizio dei piccoli. E chissà che, per imparare anche noi di nuovo a benedire il mondo e il Padre, non dobbiamo rivolgerci alla cattedra dei piccoli. Dobbiamo distogliere gli occhi da grandi e potenti e imparare a guardare i bambini e la gente da poco e il loro cuore vero. E lì potremo ancora trovare motivi per benedire, ragioni ancora perché il lamento non prevalga mai sullo stupore. La cattedra dei piccoli. E per entrare nel mistero di Dio vale di più un’ora passata ad addossarsi il mondo e la sofferenza di uno di questi piccoli che da soli non ce la fanno, che non anni di studi di teologia. Per conoscere l’anima profonda che fa respirare anche la pietra, per conoscere il mistero delle persone e la fiamma delle cose, bisogna accostarle come i piccoli, con stupore, con mani che non vogliono prendere, ma solo accarezzare. Nel brano di oggi Gesù parla di cose rivelate, di conoscenza, di fatti che riguardano pensiero e mente; ma poi, ciò che è offerto alla fine del brano è tutt’altro rispetto alla conoscenza e alla rivelazione delle cose su Dio: «Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Imparate da me e troverete ristoro». Ci è offerta l’unica cosa che conta davvero, che manca, e non è intelligenza o sapienza, né virtù; l’unica cosa che il cuore cerca, l’unica che Gesù non inse- 188 gna, ma trasmette e riversa su chi gli è vicino: il ristoro, il riposo dell’anima, il conforto per un cuore ferito. Gesù non viene, allora, con obblighi e divieti; viene recando una coppa colma di pace. Gesù non porta precetti nuovi, ma una promessa: il regno di Dio è iniziato, è pace e gioia nello Spirito. «Attraverso il riposo e la pace del vostro cuore, migliaia attorno a voi saranno salvati, troveranno ristoro» (A. Louf). «Imparate da me, che sono mite e umile di cuore.» Ristoro dell’esistenza è un amore umile, un cuore mite, una creatura in pace, senza violenza e senza presunzione, che diffonde un senso di ristoro nell’arsura del vivere. E la nostra vita si rinfranca accanto ad essa. «Imparate dal mio cuore...» Cristo si impara imparandone il cuore, cioè il modo di amare. A vivere s’impara. La pace si impara. La pienezza della vita si può imparare. E il vangelo è la pienezza dell’umano: per questo mi interessa. E la scuola è la vita di Gesù, e nella sua vita, in particolare, il suo modo di amare, il cuore. L’amore infatti non è un maestro fra gli altri maestri, è “il” maestro della vita. Inizia, allora, il discepolato del cuore, per noi, discepoli sapienti e intelligenti, ma che corriamo il rischio di restare degli analfabeti del cuore. Perché Dio non è un concetto, non è il vertice della sapienza: Dio è il cuore dolce e forte della vita. Dice Gesù: «Prendete su di voi il mio giogo. Il mio giogo è dolce e il mio carico leggero». Giogo è parola non moderna, stridente per la nostra sensibilità. Come può il giogo essere un ideale per l’uomo moderno, geloso di ogni più piccola porzione di libertà, l’uomo che nell’ultimo secolo ha lottato proprio per scrollarsi di dosso tutti i gioghi? 189 Nel linguaggio della Bibbia “giogo” indica la legge di Mosè (cf. Ne 9, 29). «Prendete su di voi la mia legge» dice Gesù. È una legge dolce, leggera. Aggettivi inusuali nel Vangelo, oggi. Gesù ha riassunto la legge nel comandamento nuovo dell’amore: amore forte, amore-giogo. Ma, attenzione: amare Dio con tutto il cuore non è cristiano; anche ebrei e musulmani hanno da amare Dio con tutto il cuore (Dt 6, 5). Tu amerai il Dio di Gesù Cristo, il Padre che lui solo conosce e che ci ha rivelato. «Prendete il mio giogo.» Amare il prossimo come se stessi non è ancora cristiano: è ancora Antico Testamento, è cosa da scribi. Tu amerai il prossimo tuo non come te stesso, ma come Gesù Cristo lo ama, fino a dare la tua vita. Perché non c’è amore più grande e l’altro vale più di te. Non sono io la misura dell’amore al prossimo: imparerò, invece, dal cuore di Cristo. Io non so neppure quale Dio amare o adorare: imparerò dalla vita di Cristo. «Prendete su di voi il mio giogo», perché nessuno conosce il Padre se non il Figlio. E io vicino al Figlio. Allora non amerò un Dio: amerò il Padre di Gesù Cristo, lo amerò come figlio. Non amerò il prossimo come me stesso: lo amerò col cuore mite e umile dell’unico che è Figlio e fratello. Anch’io figlio nel Figlio, fratello nel fratello. 190 XV DOMENICA Il seminatore uscì a seminare. (Mt 13, 1-23) «Il seminatore uscì a seminare.» Già solo questa frase vibra di gioia e di profezia, è colma di promesse e di mietiture, presagio di pane e di fame saziata. Ancora adesso Dio esce a seminare, e diffonde le sue parabole, i suoi germi di vita a piene mani, e le strade del mondo e dell’anima esultano. Perché Dio appare ancora come il fecondatore infaticabile delle nostre vite. Dio non è il mietitore che valuta e pesa il raccolto, ma è il seminatore: mano che dona, forza che sostiene, giorno che inizia, voce che risveglia. Questa parabola contiene la certezza forte che domani io sarò più vivo di oggi, per merito della seminagione di Dio, dei suoi semi di vita, della vita di Dio che abita la più piccola delle sue parole, e che non mi lascerà, che «non tornerà indietro senza aver portato frutto», come assicura la profezia di Isaia (55, 11). La parabola che Gesù racconta ha altri due attori oltre al seminatore: il seme e il terreno. E io so che per tre volte, come dice il racconto, il terreno è sterile, sassoso, non accogliente. Per infinite volte, come dice la 191 mia esperienza, non rispondo al Signore. Poi accade che una volta rispondo, con il trenta, il sessanta, forse il cento per uno. Ecco la grande proposta di fiducia: verrà il frutto, il piccolo seme avrà il sopravvento. Contro tutti i rovi e tutte le spine, contro tutti i sassi, c’è sempre una terra che accoglie e che fiorisce. E anche se la risposta per tre volte, per tante volte, è negativa, alla fine spunterà il germoglio. È un atto di fede: anche quando vediamo il mondo scosso da atti di violenza incomprensibili e assurdi. Ma il punto centrale della parabola di oggi sta nel fatto che la vita, così vigorosa, di Dio può essere bloccata da me, dal mio terreno. E quante volte ho fermato il corso del miracolo! Io che sono strada, io che sono campo di pietre e sassi, io che sono groviglio di spine, io che sono cuore calpestato, superficie di pietra, io che coltivo spine nel cuore e radici di veleno... Spiegando la parabola, Gesù indica tre modi di sbagliare tutto il rapporto con la vita, o con la vita di Dio, che poi è la stessa cosa: perché il sacro e il reale coincidono. Gesù riflette su tre immagini, propone tre simboli per indicare tre errori da evitare. Il primo errore lo compie chi è strada, e non “comprende” la parola; chi è strada aperta a tutte le avventure, chi non si ferma mai: chi non sosta in silenzio e ascolto non può capire. Chi corre sempre è derubato del senso profondo del mistero, derubato della fame di infinito che costituisce la nostra dignità. Chi corre sempre è derubato: vengono gli uccelli, viene il maligno, e derubano, perché egli non si ferma per capire; perché la parola di Dio non è ovvia, perché il vangelo non è scontato: chiede tempo e cuore. 192 La parola di Dio chiede un minuto di passione, lavoro, attenzione, intelligenza, una sosta per dare del tempo a Dio, lungo quella strada sulla quale ci pare di essere sempre in ritardo. E forse acceleriamo il nostro andare dietro a voci di illusione. Dice il Signore: Guarda che ti sarà tolto anche quello che credi di avere. A chi non si ferma per capire il vangelo sarà tolta la comprensione del vangelo e perfino il desiderio stesso di capire. Il secondo motivo di fallimento che Gesù propone oggi è il cuore poco profondo, un terreno di sassi, dove non c’è molta terra, dove – dice ancora – c’è una gioia immediata ma che non regge alla prima difficoltà. Appena giunge un dolore, la parola resta bruciata. Gioia e dolore sono quegli eterni sentimenti che si disputano il cuore dell’uomo. Accoglie con gioia e abbandona al primo dolore: così fa il cristiano adolescente che è in me, il cristiano infantile che vive di gratificazioni e rifugge da ciò che costa. Il secondo errore è quello del cuore che vive in questo pendolo superficiale di sensazioni immediate. Il terzo motivo di fallimento è l’inganno di una vita sbagliata, la spina – dice Gesù – degli affari, degli interessi, delle preoccupazioni, della carriera, che soffoca le altre presenze, soffoca gli altri attorno a noi: non li vediamo più. Soffoca Dio dentro di noi. La ricchezza è una spina nella carne del mondo, una spina perenne nella storia dell’uomo, ed è anche una spina nella tua vita. E non dà nessun frutto reale, solo inganno, e produce guerra e sangue, produce aridità e non nutre nessuno. Il nostro compito è diventare terreno profondo, che si apre alla potenza di Dio. E forse la domenica è 193 quel momento in cui la mia strada si arresta, in cui sgomberiamo il cuore dalla superficialità dei sentimenti immediati e facili, in cui troviamo, almeno per un po’, un cuore senza spine, un cuore non più derubato, dove non è più calpestato quel bisogno di infinito che costituisce la nostra dignità. Mi piace questo Gesù che racconta in parabole. «Il seminatore uscì a seminare» e il mondo è gravido di vita. La parabola fa parlare la vita. La vita non è vuota, non è assenza: c’è qualcosa di Dio nella vita. Se avessimo occhi per guardare la vita, se avessimo la profondità degli occhi di Gesù, anche noi in questa vita comporremmo parabole, racconteremmo di Dio con parabole e poesia, come faceva Gesù. «Il seminatore uscì a seminare»: oggi, questa mattina, adesso esce ancora a seminare; ed è grande questo Dio seminatore: è grande perché crede nella bontà e nella forza della Parola più ancora che nei frutti. Crede nella Parola più ancora che nei risultati della Parola: è la Parola che è vera, non gli esiti. Egli mi chiama a un atto di fede purissima, a credere nel vangelo più ancora che nei risultati visibili del vangelo, a credere che la parola di Dio trasforma la terra anche quando non ne vedo i frutti. Mi chiama a credere nella sua promessa più ancora che nella realizzazione della promessa. Questo atto di fede gioiosa e forte, oggi, il Vangelo propone. Io non ho bisogno di verifiche, ho solo bisogno di grandi campi da seminare e di un cuore non derubato; ho bisogno di un Dio seminatore. E ancora le strade del mondo potranno esultare di vita. 194 XVI DOMENICA Vuoi che andiamo a raccogliere la zizzania? (Mt 13, 24-30) Grandi domande percorrono la parabola del buon grano e della zizzania: Da dove viene il male? Chi è il nemico che nella notte semina la zizzania? Come dobbiamo opporci al male? Dice il Signore: C’è un campo che è la terra, che è l’uomo (“Adamo” infatti ha una radice che significa “terra”); siamo invitati, allora, a entrare in noi stessi, nel nostro santuario fatto di ombra e di luce, nel nostro cuore, dove intrecciano le loro radici, talvolta in modo inestricabile, il bene e il male. Il campo è anche la famiglia: tu credi di aver educato cristianamente i tuoi figli, ma poi arriva il giorno in cui qualcuno di essi non mette più piede in chiesa e si dichiara ateo. Fortuna se qualcuno è capace di dirti una parola di conforto: tu non sei responsabile, tu hai seminato bene, ma poi è passato il nemico... «Vuoi che andiamo a strappare la zizzania?» chiedono gli operai al padrone. La risposta è perentoria: «No! Rischiate di strappare via anche il buon grano». L’uomo violento che è in noi dice: Strappa subito da 195 te, intorno a te, ciò che è cattivo, immaturo, puerile. Il Signore risponde: No! Abbi pazienza, non agire con violenza. Il nostro spirito è capace di grandi cose solo se ha grandi passioni positive, non se ha grandi reazioni; solo se ha grandi desideri, non grandi paure; se ha grande virtù, non se è senza difetti. Io non posso strappare da me le passioni per diventare un santo: diventerei un eunuco. La santità non è assenza di passioni, ma è una passione convertita. La parabola racconta due sguardi: quello dei servi, che vede soprattutto le erbacce, e quello del Signore, che si fissa sul buon grano. Noi non ci vediamo bene quando si tratta del cuore dell’uomo, e più particolarmente del nostro. Siamo chiamati tutti a conquistare lo sguardo positivo del Creatore: uno sguardo giusto “si conquista”. Dice oggi il Signore: La tua preoccupazione deve essere il buon grano; la zizzania viene dopo. In te il male non è originario: è un parassita, è secondario. Tu pensa innanzitutto al buon grano. La nostra coscienza chiara e sincera deve saper vedere ciò che di vitale, di bello, di promettente Dio ha seminato in noi, e far sì che porti frutto, e contare e ricontare i nostri talenti d’oro. Questo è il vero esame di coscienza: guardarci con gli occhi di Dio, e poi agire con il suo stile, quando per vincere le tenebre della notte egli accende il suo giorno; quando per far fiorire la steppa, anche solo per una breve stagione, egli sparge infiniti semi di vita; quando per far lievitare la massa inerte e immobile egli immette un pizzico di lievito. Ciascuno di noi deve adottare verso se stesso questa medesima attività germinale, positiva, solare, gloriosa, vitale. Preoccupiamoci prima di tutto non dei 196 difetti, delle debolezze che mordono la nostra vita, ma di nutrire un amore grande, di avere ideali forti, di coltivare venerazione profonda per le forze di bontà, di attenzione, di misericordia, di accoglienza, di libertà, di giustizia, di pace che Dio ha seminato dentro di noi. Facciamo che esse erompano in tutta la loro forza, in tutta la loro bellezza, in tutta la loro carica vitale, e vedremo le tenebre diradarsi e la zizzania senza più terreno. E tutto il nostro essere fiorirà nella luce, come dice l’ultima, bellissima frase del Vangelo di oggi: «allora i giusti splenderanno come il sole» (v. 43). Dobbiamo conquistare lo sguardo di Dio. Gli occhi dei suoi figli, Dio li vuole pieni di dolce speranza. Allora guardo gli altri come li guarda Dio. Guardo mio marito, mio figlio, mia moglie, mio fratello, il mio collaboratore, e cerco spighe di buon grano, certo che ci sono, in qualsiasi creatura. Cerco il positivo in ognuno, positivo che viene da Dio. E capisco che solo il positivo di una persona mi dice la verità di lei: solo il bene rivela l’uomo. Il peccato, la zizzania non è verità, è parassita, è nemica, non è rivelatrice della verità dell’uomo. Eppure si tratta di una situazione scomoda, perché c’è una competizione nel cuore tra grano e zizzania, e la spiga rischia di essere soffocata. Non è confortevole sentirsi soffocare. Intervengono, allora, la parabola del piccolo seme e quella del lievito, e dicono che – anche se invisibile, anche se nascosto – il seme del Regno è più forte e farà lievitare il mondo intero; e lo farà per l’onnipotenza della Parola: sia che tu dorma, sia che tu vegli, di giorno e di notte, germoglia e porta frutto. Questa è la dolce speranza. Possiamo quindi amare noi stessi, ma solo con lo sguardo di Dio, cioè venerare la parte luminosa del cuore, perché viene da Dio. Allora 197 possiamo, come dice la prima lettura, imparare che «il giusto deve amare gli uomini» (Sap 12, 19). Ma io amo gli uomini? Sono “amico del genere umano”? O sento gli altri ostili, nemici, concorrenti, pericolosi? Mi domando: Come faccio ad amare una creatura piena di difetti, che è come un campo di erbacce? Eppure lo posso fare, se conquisto lo sguardo di Dio. «Il giusto deve amare gli uomini»: amare è venerare l’orma viva di Dio, il positivo, la spiga immancabile, la spiga certa, il granellino implacabile, il lievito inflessibile, il granello di senapa irresistibile e tenace. Il nostro lavoro religioso è solo questo: portare a maturazione il buon grano che Dio ha seminato in noi. La nostra missione religiosa è far sì che maturi negli altri, in coloro che mi sono affidati, ogni germe buono che Dio ha seminato con ostinazione e speranza. Ecco il centro delle nostre preoccupazioni religiose. Il centro sia non il peccato, non il difetto, non l’oscurità, non la zizzania, ma il positivo, il luminoso, il buon grano, il giardino. Perché Dio creò l’uomo e lo pose in un giardino (cf. Gen 2, 15), non in una steppa, non in un campo di erbacce. Il giardino indica la migliore delle possibilità, e nessuno di noi è privo di un giardino, perché la mano di Dio è la mano del Vivente. Ciò che è stato vero per il primo Adamo, è vero ancora per ogni Adamo. Allora, cosa cerca il vangelo in me? Qual è il suo sapore di fondo? Forse l’attenzione al peccato, alla colpa, un orizzonte di zizzania, di ombre? O non piuttosto moltiplicazione di spighe e di pane, acqua viva, vino di Cana, mietiture fiduciose, un regno di pace, amore crescente? Il vangelo cerca in me, per prima cosa, non l’assenza di difetti, che mai ci sarà, ma la fe- 198 condità del frutto buono. La morale del vangelo è la morale del frutto buono. Allora non sono chiamato a sradicare, ma a piantare; non a giudicare la notte, ma ad accendere il mattino. E anche l’ultimo giudizio, il giudizio finale di Dio su ciascuno di noi, avrà come argomento non la zizzania, non il lato oscuro della mia esistenza, non le erbacce; Dio non guarderà al peccato commesso, ma al bene fatto, al buon grano giunto a maturazione, alla pasta lievitata. Quel giorno il Signore dirà: Ho avuto fame, freddo, paura; avevo deserti dentro di me, e tu mi hai dato pane e amicizia, tu hai risvegliato la vita, tu hai asciugato una lacrima (cf. Mt 25, 31ss). Hai messo vento nelle mie vele. Perché, agli occhi di Dio, il bene pesa più del male, e una spiga di buon grano conta più di tutta la zizzania della terra. 199 XVII DOMENICA Il regno dei cieli è simile a un tesoro. (Mt 13, 44-52) Il Vangelo oggi è chiuso tra due parentesi formate dalla stessa parola “tesoro”. Nel primo versetto: «Il regno dei cieli è simile a un tesoro», e poi nell’ultimo: «Il padrone di casa estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche». Un contadino e un discepolo trovano tesori. E questo Vangelo si rivolge a me, che ancora non ho dato tutto, la totalità di me stesso, per rapire la perla unica al mondo; a me che, però, posso e voglio ancora farlo, questo Vangelo grida: «Un tesoro ti attende». Gesù afferma, anche in giorni duri e crudeli come i nostri, che l’esito della storia sarà felice, comunque felice, nonostante tutto felice. Afferma che nell’uomo è posto un eccesso di desiderio, che nessuna cosa creata o quotidiana potrà esaurire, ma solo qualcosa o qualcuno che viene da altrove. Il regno dei cieli è come un tesoro. Il regno dei cieli è il mondo come Dio lo vuole, l’uomo come Dio lo sogna. Allora seguire Cristo e i suoi sogni non è un discorso di mortificazione, ma di moltiplicazione: lasciare tutto, ma per trovare tutto moltiplicato. 200 “Tesoro”: parola così rara per dire Dio. Parola delle favole, degli innamorati, dei romanzi; parola di vangelo, parola che è oltre il quotidiano perché fa nuova la vita, contiene tutte le speranze, rilancia tutti i desideri. Questo fa il vangelo, questo fa il Signore con noi. La religione come tesoro significa che la fede è il contrario dell’abitudine e della paura. Il cristianesimo come tesoro significa che prima di tutto la fede non è rinuncia, non è diminuzione, non è mortificazione. Nulla di tutto questo per Gesù. Il cristianesimo è trovare un tesoro, trovare la pienezza di vita. Allora vivere vuol dire diventare mai arresi cercatori di tesori. E lo Spirito santo è questo soffio divino che fa nascere i cercatori d’oro. Vorrei dirti grazie, Signore Gesù, maestro del cuore, per aver parlato così, per averci detto che tu, Signore, sei come un tesoro: sei, cioè, il contrario delle cose banali, delle cose superflue, il contrario di una vita qualunque. Tesoro è moltiplicazione di vita, di progetti, di possibilità. Allora ti ringrazio, Signore, perché con te la vita non è mai quotidiana, mai banale. Con te la vita è sorpresa, incanto, orizzonte, caduta e risurrezione; è altre vite dentro la mia vita; è ricevere un supplemento d’ali per camminare, per correre, per volare, e mai da solo, verso più libertà, più amore, verso più coscienza. Noi non avanziamo nella vita a colpi di volontà, ma solo per scoperta di tesori, perché là dov’è il tuo tesoro, là corre felice il tuo cuore; noi avanziamo nella vita per passione di cose belle e forti, come mercanti che cercano le perle più belle, mercanti che mai s’accontentano. Noi avanziamo nella vita per riserve di gioia, che si esauriscono, certo, ma che qualcuno, uomo o 201 Dio, amore o tesoro, seme o spiga, si incarica di colmare sempre di nuovo, ogni giorno. Il regno dei cieli è come un tesoro che fa lieta la vita: Dio in me, pienezza d’umano, vita bella, estasi della storia, pace e forza. Non ci interessa un divino che non faccia fiorire l’umano, perché Cristo è venuto a portare la vita in pienezza (cf. Gv 10, 10). Allora lascio tutto, ma per avere tutto. Vendo tutto, ma per guadagnare tutto. Nella prima lettura, Salomone, nella sua preghiera così bella, così intensa, domanda in dono «un cuore docile», letteralmente, in ebraico, «un cuore che ascolta». Salomone domanda qualcosa così importante da sorprendere e incantare il Signore. Il tesoro, la perla preziosa per Salomone e per il Signore è un cuore che ascolta. Nel Vangelo di Matteo è riportata un’altra parola di Gesù che ci aiuta a capire meglio la qualità di questo “tesoro”: «L’uomo buono trae fuori il bene dal buon tesoro del suo cuore» (12, 35). Questa è la ricchezza vera dell’uomo: un cuore buono. L’uomo non vale per la sua intelligenza, non per la sua forza: vale quanto vale il suo cuore. Il tesoro nascosto, il tesoro possibile e vicino è il cuore. Con queste due caratteristiche: un cuore che ascolta e un cuore buono. Tutto posso vendere per acquistare un cuore così. Allora il campo da dissodare sono io stesso; in me è nascosto il mio tesoro. «Il regno di Dio è dentro di voi»: nel cuore, che è la porta del divino. “Tesoro” è qualcosa che ti cambia la vita, ma non c’è nulla di esterno all’uomo che entrando in lui possa cambiargli la vita; solo ciò che esce dal cuore dell’uomo è in grado di far risplendere la vita, di incantare 202 l’esistenza. E incantare di nuovo la vita significa acquisire la certezza che è bello vivere, che quella di Gesù è la vita buona, bella e felice che anche noi vogliamo vivere; significa ritrovare la certezza che vivere ha un senso e che tutto va verso un esito buono, positivo, luminoso, che Dio darà eternità a tutto ciò che di più bello portiamo nel cuore. “Cuore” – per novecento volte ritorna questo termine nella sacra Scrittura – è la parte dell’uomo più evocata. Non è solo la sede dei sentimenti, ma il luogo in cui si decide per la vita o per la morte, dove si sceglie il bene o il male: è l’uomo intero nella sua essenza più intima. L’ultimo versetto del brano di oggi afferma: «Ogni discepolo del regno dei cieli è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche». Il tesoro del discepolo è dentro di lui; il suo intimo, il suo cuore si illumina di altre due caratteristiche: è antico e nuovo. Estrarre cose antiche indica un cuore che non dimentica, un cuore memore di cose belle vissute, di doni e di angeli, di oasi e di deserti. Come santa Maria, che conservava e custodiva tutto ciò che le era accaduto (cf. Lc 2, 19.51) e lo meditava in un cuore ricco di storia e di grazia. La mia storia è un tesoro. Estrarre cose nuove indica un cuore creativo e cercatore, che non ripete ma inventa, che traccia strade nuove, che canta un canto nuovo. Se tu raggiungi un cuore che ascolta, un cuore buono, forte della sua storia e creativo, allora hai trovato davvero il tesoro segreto del vivere. Donami, Signore, «un cuore che ascolta». Dono immenso, da chiedere sempre: per ascoltare Dio e il 203 grido di Abele, il grido di tutti gli innocenti uccisi, il grido del sangue che riempie la terra, per ascoltare cielo e terra, angeli e parabole, per ascoltare la bellezza e la cattedra dei piccoli, i miei familiari e lo sconosciuto. Donami, Signore, «un cuore buono», che sappia capire e curare gli orrori che genera chi non ha più bontà. Il Signore dice a Salomone: la vita vera inizia quando smetti di inseguire longevità, ricchezza, la morte dei nemici e incominci a cercare un cuore antico e nuovo, un cuore che ascolta. Chiedilo per te, per le persone che ti sono più care, per ascoltare Dio e la terra, per ascoltare l’altro e il cielo. Allora matureranno tesori attorno a te. 204 XVIII DOMENICA Date loro voi stessi da mangiare. (Mt 14, 13-21) Una sera, al tramonto, sulla riva del lago, donne e bambini e cinquemila uomini. Che cosa li ha fatti uscire a piedi dalla città e camminare fino a quel luogo deserto? Che cosa li ha poi trattenuti lì, lontano da casa, fino a sera, incuranti del deserto e della notte? Sono le mani di Gesù che risanano i malati, sono le sue parole che guariscono il cuore, perché solo lui sa dire le parole proprie della vita. È la profezia di Isaia che si compie: «Venite a me, ascoltate e vivrete» (55, 3). Ascoltarlo è riscoprire la vita. Questa è l’esperienza dei cinquemila, delle donne e dei bambini, dei malati: sono andati da lui, ascoltano e vivono, ascoltano e brucia il cuore, ascoltano e risplende la vita. Ai cinquemila Gesù non offre idee, insegnamenti; per prima cosa offre la comunione con lui, lo stare con lui, offre se stesso. La grazia vera è la persona di Cristo, più ancora delle sue parole: lui è il pane, corpo spezzato per noi. Vorrei tanto essere anch’io uno dei cinquemila cui è concessa questa esperienza eccezionale: seguire Cri- 205 sto senza calcolare nulla, seguirlo senza impaurirmi di nulla. Stare in comunione: e la notte del deserto profumerà di pane. E sentire che più vivo di così non sarò mai, che più vivo di così, lontano da Dio, non potrò mai essere. Li invidio, i cinquemila, non per il miracolo dei pani e dei pesci, ma per la seduzione che hanno provato, più forte di ogni paura. Questo è l’inizio dei miracoli. I discepoli, uomini pratici, preoccupati per quella gente, dicono a Gesù: «Congeda la folla perché vada a comprarsi da mangiare nei paesi vicini». Se non la congeda lui, non se ne andrà spontaneamente. Ma Gesù non manda via, non ha mai mandato via nessuno. «Mandali via. Se aspetti ancora, non troveranno più niente da comprare»: è bello questo preoccuparsi dei discepoli, ma più bello ancora è Gesù che «prova compassione». Anzi, letteralmente, Matteo dice che «fu preso alle viscere per loro». Preso alle viscere, dice: «Date loro voi stessi da mangiare». “Comprare” dicono gli apostoli; “dare” dice Gesù. Se vuoi qualcosa, devi pagarlo, devi comprarlo. È la logica del mondo, logica comune e corretta. Non c’è nulla di scandaloso, ma nemmeno nulla di grande in questa logica, dove trionfa l’eterna illusione dell’equilibrio: devi pagare per avere. Gesù introduce il suo disequilibrio, introduce il suo verbo: «Date voi stessi da mangiare». Non: «vendete, barattate o prestate», ma semplicemente, regalmente, radicalmente, dissennatamente: «date». E sul principio dell’economia comincia a sovrapporsi un altro principio: dare senza aspettarsi il contraccambio, dare per primi, dare in perdita, dare gratuitamente. Ed è ciò che Cristo ha fatto dando la sua vita. 206 Che diritto hanno i cinquemila? L’unico loro diritto è la fame. L’unico titolo per ricevere è la loro povertà. Davanti a Dio io non ho alcun merito se non il mio bisogno. «Di nulla mi vanterò se non della mia debolezza» (2Cor 12, 5). Beata debolezza! Orgoglioso sono solamente della mia fame di vita. Il mio nome è “creatura che ha bisogno”. Ed è sufficiente. Torna il profeta Isaia a dire: «Chi non ha denaro venga ugualmente. Mangiate senza denaro vino e latte». Mi bastano la tua sete e la tua fame, dice il Signore. E mi chiedo: Io, di che cosa ho fame? Cosa desidero veramente per me? Ho fame di amore per me e per gli altri? Fame di Dio per me e per gli altri? Fame di giustizia, fame di felicità per me e per gli altri? O, al contrario, ho fame solo di prendere e comperare? Oppure ho anche fame di dare? Allora il vangelo diventa non semplicemente ciò che sazia la fame, ma diventa il nostro affamatore; ci insegna la vera fame, fame di cielo, fame di cose grandi. Ci sono molti miracoli in questo racconto: il primo è quello della folla che, scesa la notte nel deserto, non se ne va. C’è poi il secondo miracolo, dei cinque pani e due pesci che qualcuno mette nelle mani di Gesù, fidandosi, senza calcolare, senza trattenere qualcosa per sé. È poco, ma è tutta la sua cena. È poco, eppure quello che sono, quel poco che ho va bene al Signore. È pure sovrabbondante se ricevuto e dato con mano di figlio. È poco: cinque pani, due pesci, eppure bastano, secondo una misteriosa regola divina. Quando il “mio” pane diventa il “nostro” pane, allora comincia a scaturire il miracolo. La fame, invece, comincia quando io tengo stretto il mio pane, quando lo tengo solo per me, quando 207 l’Occidente sazio tiene il suo pane e i suoi beni solo per sé. Solo il pane condiviso è pane di Dio. Perché contiene la fede, la compassione per l’altro, contiene amore e coraggio e il fidarsi di quella parola: Date voi per primi, date in perdita, gratuitamente. A noi, che quotidianamente preghiamo: «Dacci oggi il nostro pane», il Signore risponde: «Date il vostro pane». «Dacci», noi invochiamo. «Date», invoca lui. «Date» e accadrà il miracolo della moltiplicazione. Uno slogan in voga nel mondo anglosassone suona così: «Vivere io più semplicemente perché altri possano semplicemente vivere». Vivere io più semplicemente, con meno esigenze, con meno spese, perché altri possano semplicemente sopravvivere. Unica strada è limitare il pullulare impudico del superfluo, di patrimoni spesi per ciò che non sazia. Poi il Signore Gesù prende il pane, lo dà ai discepoli, e i discepoli alla folla. I discepoli offrono quanto hanno ricevuto. Quel pane è Cristo. Essi hanno ricevuto Cristo e lo trasmettono a tutti i fratelli: donne, bambini, uomini, a quelli che contano e a quelli che non contano. «Lo diede ai discepoli ed essi lo diedero alla folla.» In queste poche parole è riassunta la missione intera della Chiesa: dare Cristo alla folla, cioè a tutti. È la mia, la vostra missione, senza badare a titoli di merito che non sia “il bisogno di Dio”. Infine il quarto miracolo, l’abbondanza tipica di Dio, quasi l’eccesso: «raccolsero gli avanzi in dodici ceste». Una per ogni tribù, una per ogni mese; tutti mangiano e ne rimane per tutti e per sempre. “Raccogliere”, perché nulla dev’essere sprecato, nulla del dono che noi rappresentiamo gli uni per gli altri: i figli, dono per i genitori; il fratello, dono per il fratello; lo 208 sposo, dono per la sposa; l’amico, pane per l’amico. Nulla deve andare perduto del dono che tu sei, del pane che tu sei per la vita d’altri. E l’ultima riflessione, oggi, è per il passo sublime di Paolo: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo?». Nulla, «né angeli né demoni, né vita né morte, né presente né futuro, nulla potrà mai separarci dall’amore di Dio». Sono inseparabile dall’amore. “Nulla”, “mai”: due parole assolute, totali, perfette. E c’è la totalità della creazione convocata; ci sono lo spazio e il tempo convocati come testimoni: “nulla”, “mai”. Se c’è qualcosa di eterno in noi, è l’essere amati da Dio. “Inseparabili dall’amore”: questo è il nostro nome. Senza mio o nostro merito. È lui, non sono io. Nulla potrà mai spezzare o lacerare il suo legame d’amore con noi. Solo la mia libertà. Indivisibile da me è l’amore. È una delle parole bibliche che amo di più, che confortano la vita, che danno forza, una forza esultante, libera e gioiosa: nulla mai mi separerà dall’amore di Dio. 209 XIX DOMENICA Uomo di poca fede, perché hai dubitato? (Mt 14, 22-33) Gesù dapprima assente, poi come un fantasma sul mare, poi come voce che incoraggia, infine mano salda che ti afferra. C’è nel Vangelo di oggi un crescendo di esperienza di Dio dentro una liturgia cosmica di onde, di vento, di notte e di abissi spalancati, simbolo della nostra esistenza, storia delle nostre paure, dei miracoli invocati e apparentemente senza risposta. Gesù dapprima è assente. È salito sul monte, solo, a pregare, mentre i discepoli sono sul lago in burrasca a remare. Solamente verso la fine della notte, solo alla quarta veglia – quella che va dalle tre alle sei del mattino –, solo allora venne verso i suoi camminando sul mare. E noi vorremmo, noi invochiamo: «Vieni subito, Signore! Vieni ai primi accenni di paura, vieni al primo annuncio di sofferenza». Ma Gesù non ha fretta. Non l’ha avuta neppure per soccorrere il suo amico Lazzaro che stava morendo: ha aspettato tre giorni. Ora aspetta tre turni di guardia nella notte. Aspetterà tre giorni perfino per risorgere. Divina pedagogia della fede! 210 E ci pare di essere abbandonati, soli con le nostre sole forze, ad affrontare le burrasche della vita. Quante volte abbiamo sentito che nessuna preghiera, volata via verso il cielo, era tornata indietro a portarci una risposta, un accenno, almeno, di miracolo! Eppure un cristiano non può mai dire: «Io da solo con le mie sole forze», perché intrecciata alla mia forza c’è sempre la forza di Dio, radice delle mie radici. Infatti Gesù è già con i discepoli, da subito. Egli è la sorgente della forza dei rematori, che non si arrendono al vento contrario; è nella tenacia del timoniere, che regge il timone nonostante le onde furiose; è nel coraggio di tutti, è negli occhi di tutti fissi a oriente: «Sentinella, quanto manca della notte?» (Is 21, 11). E la barca, simbolo di me, del mio mondo e della vita, di me e della mia fede, intanto avanza, non per il morire del vento, non perché finiscono i problemi, ma per il miracolo umile dei rematori che non si arrendono e sostengono ciascuno la speranza dell’altro. E vanno con il vento contrario. Primo prodigio: Dio non agisce al posto nostro, non ci toglie dalle tempeste, ma ci sostiene dentro le burrasche della vita. «Signore, se sei tu, comanda che io venga da te sulle acque» dice Pietro. E alla parola del Signore: «Vieni!» Pietro scende nelle onde, senza più riparo, forte solo dell’eco di quella parola: «Coraggio, vieni!». Pietro domanda due cose: una giusta e una sbagliata. Chiede di andare verso il Signore. Domanda assoluta, domanda perfetta: «che io venga da te»; domanda da ripetere quotidianamente. Poi chiede di andarci camminando sulle acque, e questa è la parte sbagliata. Tu, Pietro, andrai verso il Signore, ma in tutt’altro modo. Tu lo seguirai, ma non sedotto dal suo camminare 211 sulle acque, bensì dal suo camminare verso il Calvario. Andrai dietro a colui che sa far tacere non solo il vento e il mare, ma dietro a colui che sa far tacere tutto ciò che non è amore. Andrai verso colui che si fa prossimo, che si fa samaritano nella polvere di tutti i nostri sentieri, e non sul luccichio di acque miracolose. «E venne da Gesù» dice il Vangelo. Pietro cammina sulle acque perché guarda a lui, non ha occhi che per quel volto, visibile anche nella notte. Poi però inizia ad affondare perché guarda il vento: «vedendo il grande vento ebbe paura». Pietro guarda al Signore e alla sua parola: «Coraggio, vieni!», e cammina sul mare, attraversa i problemi. Poi guarda al mare, alle onde, alle difficoltà, e inizia la discesa nella paura. È il racconto della nostra fede messa alla prova. È il racconto dei tre momenti che si intrecciano nel cuore: fede, guardo al Signore e mi pare di poter affrontare qualsiasi cosa; dubbio, guardo ai miei problemi e dico: «Non ce la farò mai! La mano di Dio è troppo lontana»; poi la salvezza, quando Pietro grida: «Signore salvami!». Grido di fede, di paura, grido di morente, di ladro sulla croce (Lc 23, 43): «Signore salvami!». Io ringrazio Pietro per questo suo umanissimo oscillare tra fede e paura, per questo suo andare tra miracoli e abissi, per questo suo grido: «Signore salvami!». Ora so che qualsiasi mio dubbio può essere redento, anche da una sola invocazione, gridata nella notte, gridata nella tempesta o nella paura, gridata nel vento, come Pietro, gridata sulla croce, come il ladro pentito. Io non cerco miracoli, ma la tentazione è sempre questa. Certo, il Signore compie prodigi, ma – come dice san Giovanni della Croce – li fa malvolentieri. 212 Non cerco miracoli, ma il calore semplice della sua mano che non mi lascerà cadere. Non cerco l’onnipotenza di Dio, ma il soccorso della sua parola, che è sorgente misteriosa di cammino, quella parola che dice: «Coraggio, vieni!». «Signore, affondo!»: Pietro sta dubitando e affonda. Ma Pietro sta affondando e crede: «Signore salvami!». Dubbio e paura, fede e invocazione. Mi piace tanto questo apostolo, questo pescatore che ringrazio, uomo d’acqua e di roccia, come dice Gesù. Mi piace per questo suo umanissimo oscillare tra fede grande e insensata, che lo spinge fuori della barca, nell’acqua, e la sua fede piccola. È proprio là che il Signore Gesù ci raggiunge, al centro della nostra debole fede. Ci raggiunge e non punta il dito per accusarci, ma stende la mano per afferrarci. Forse abbiamo tutti provato un principio di affondamento, abbiamo tutti vissuto una discesa nelle acque della disperazione. E forse lì, proprio lì, abbiamo trovato il coraggio di gridare a lui, senza nessun merito, senza se e senza ma, il coraggio di affidarci completamente. E quante volte siamo stati tirati fuori! Gesù viene ancora in aiuto a chiunque è sorpreso al largo, a chiunque è catturato dalla tempesta, a chiunque stia affondando. Lo invochiamo, e lui verrà. Ma verso la fine della notte. E sembra non avere fretta. Lui verrà, ma dopo la lunga lotta con le onde, lui sì camminando sul mare, camminando sulla morte. Verrà, dentro la nostra poca fede, a salvarci da tutti i naufragi. E la piccola barca di canne, che è il nostro cuore, avanzerà verso la fine della notte, dove il grido diventa abbraccio tra l’uomo e il suo Dio. 213 XX DOMENICA Donna, davvero grande è la tua fede! (Mt 15, 21-28) Pochi personaggi del Vangelo sono simpatici come questa donna, pochi così invidiabili: perché è madre, perché non prega per se stessa, perché ha immaginazione e parole sorprendenti, perché non si arrende ai silenzi o al rifiuto di Gesù, ma intuisce sotto il suo no l’impazienza di dire sì. Una donna pagana, che non conosce Jahvé, che serve Baal e Astarte, è dichiarata «donna di grande fede». In che cosa consiste la grandezza di questa fede? Non tanto nella sua perseveranza, nell’andar dietro a Gesù e al suo gruppo gridando, ma nel credere che Dio è più attento alla felicità dei suoi figli che non ai loro atti di fede. Crede che Dio considera la salute di una ragazza cananea più importante che non l’essere rettamente adorato o glorificato. Crede che la gloria di Dio è l’uomo vivente, l’uomo guarito, una ragazza felice, una madre abbracciata alla carne della sua carne finalmente risanata. Questa donna non ha la fede dei teologi, ma quella delle madri che soffrono. Conosce Dio dal di dentro e 214 capisce che per lui conta sì che l’uomo creda, ma più ancora che l’uomo viva. Crede che il diritto supremo davanti a Dio ci è dato dalla sofferenza, non dalla fedeltà. Crede che in ogni uomo Dio dimentica se stesso e i suoi diritti, che eternamente altro non fa che considerare ogni uomo più importante di se stesso. Grande è la fede di questa donna! E ora capisco che grande è ancora la fede in questo mondo, dentro e fuori la Chiesa, perché grande è sulla terra il numero delle madri di Tiro e Sidone, che non sanno il Credo ma sanno il cuore di Dio. E lo sanno dal di dentro. Non conoscono il nome di Jahvé, ma ne conoscono il cuore. Grande è, allora, la fede sulla terra. Le madri sanno che se un figlio soffre, per questa semplice, nuda ragione Dio si fa vicino. Lui è il “Dio per te”: appartiene al dolore, appartiene ai dolenti del mondo. Davanti a Dio possiamo vantare un diritto, uno solo: quello che viene dal patire e dal bisogno. La sofferenza viene prima di ogni religione, di ogni intelligenza, di ogni appartenenza. Non ci sono più ebrei o palestinesi, non ci sono russi o ceceni, gente del nord o gente del sud, non ci sono figli e cagnolini. Dove c’è dolore, lì c’è tutta la pietà di Dio. Può sembrare una briciola, può sembrare poca cosa la compassione di Dio, ma le briciole di Dio sono grandi come Dio stesso. Perché Dio non può dare nulla di meno di se stesso. E, dandoci se stesso, ci dà tutto. Questo Dio ora si rivolge a noi, al nostro modo di stare nel mondo. E ci dice che non ci sono figli di Dio e cagnolini: tutti sono dei nostri, sia gli stranieri che quelli di casa; tutti fratelli, in una sola casa comune. Tutto questo diventa consolazione per noi, per me: perché nel giorno in cui avremo poca fede, nel giorno 215 in cui saremo sopraffatti dal dolore, quando la sofferenza sarà così forte da impedirci perfino di pregare, quando verrà, dal fondo dell’essere, solo una parola: «Ho paura, aiutami, sto affondando», se neppure quello potrò dire e parlerà solo il muto grido del dolore, la muta paura della carne, in quel momento Dio si fa vicino come pane per i figli, come pane per i cagnolini, come briciole per ogni cucciolo d’uomo. E sono contento, perché so che allora non importerà più merito o demerito; Dio non conterà i miei peccati, conterà solo a una a una tutte le mie lacrime, e queste riporrà nei suoi otri misteriosi. Immenso archivio di lacrime e non di peccati è il cuore di Dio! E il giudizio ultimo sarà l’apertura di questi immensi forzieri di fede e di dolore. Perché Dio non conta i peccati: conta le lacrime. E l’avrò vicino, il Dio che pena nel cuore di ogni figlio, che in ognuno porta speranza per domani, inizio di risurrezione, che porta se stesso e la dolcezza dell’abbraccio di quella madre cananea e di quella sua figlia guarita. Il venire di Dio è pieno di abbracci. Anche per Pietro, nel Vangelo della scorsa domenica: il grido di aiuto è diventato abbraccio sulle acque del lago. La svolta nel racconto evangelico di oggi è segnata da una frase: «anche i cuccioli sotto la tavola mangiano le briciole cadute ai loro padroni». La donna cananea sembra dire: Non puoi fare delle briciole di miracolo, delle briciole di prodigio, per questi cani di pagani? Proprio la coscienza della donna straniera e pagana, di essere là a cercare solo delle briciole, a cercare pane perduto, è ciò che commuove Gesù. Se noi riuscissimo ad applicare questa frase al nostro mondo, al nostro presente di fame e di festa, di 216 vacanze e di miseria che morde sul ferragosto, alla fiumana di madri cananee che implorano briciole per i loro cuccioli, stritolati dal demone della fame e della malattia, allora capiremmo che cos’è il Regno, cos’è la nuova terra: dono, ma anche nostra conquista. Il mondo domanda a noi, discepoli di Gesù di Nazaret: Fate anche voi dei segni, fate dei piccolissimi segni, delle briciole di miracolo per noi, i cagnolini della terra. Una briciola di comunione, di condivisione, di carità. Allora la terra sarà la patria grande, la casa comune, tante volte sognata e descritta dai migliori uomini del nostro tempo, immagine che ci offre oggi il Vangelo: una casa, una tavola ricca di pane, gente seduta a mensa, una corona di figli, briciole, e cuccioli non più affamati. Quest’immagine, nata dall’amore di una madre, si è fatta strada verso il cuore di Cristo. Lasciamo che cammini anche verso il nostro intimo. E mettiamo in cima a tutto non i nostri diritti, ma il diritto del dolore, il diritto della fame, diritti che pesano più di tutte le identità religiose o le appartenenze. Mettiamo in cima a tutto il dovere della pietà e della giustizia. E ricordiamo che la pietà di Dio viene sempre a smuovere la nostra giustizia. Forse viene a guarire, forse a sfamare, ma certamente a versare le sue lacrime nelle nostre lacrime, a versare la sua speranza dentro i giorni della nostra sconfitta, a trasformare tutti quelli che consideriamo cagnolini in figli. Allora lui, da sotto la tavola, li solleverà, li metterà sopra il candeliere, perché anch’essi siano come occhi di luce attorno alla mensa del pane e della fraternità. 217 XXI DOMENICA La gente chi dice che sia il Figlio dell’uomo? (Mt 16, 13-20) «La gente chi dice che sia il Figlio dell’uomo?» E la risposta della gente è bella e, al tempo stesso, sbagliata: Dicono che sei un profeta, voce di Dio e suo respiro, con parole di fuoco e di luce, come Elia, oppure una creatura che nessun vento smuove, come il Battista. E Gesù pone la seconda domanda, diretta: «Voi chi dite che io sia?». Anzi, la domanda è preceduta da un “ma” – un dé avversativo nel testo greco: «Ma voi» –, come se i Dodici fossero di un altro mondo, come se le loro parole dovessero essere controcorrente. Cristina Campo scrive: «Ci sono due mondi: io sono dell’altro». Come lei il cristiano, il discepolo dovrebbe ripetere le stesse parole: Ci sono due sistemi: io sono dell’altro. «Ma voi chi dite che io sia?»: come se i discepoli non dovessero mai omologarsi al pensiero dominante, mai parlare per sentito dire. E mi pare di sentire una terza domanda, che so, che sento diretta a me: «Ma tu chi dici che io sia?». È una di quelle pagine dalle quali vorrei fuggire, perché mi addossa al muro, mi preme: Tu chi dici che io sia? 218 La vera domanda è sempre “chi?”, mai “che cosa?”. Riguarda sempre l’uomo, mai le cose. Gesù non chiede: Cosa avete imparato da me? Qual è la parola che più vi ha colpito? Non dice: Fatemi un riassunto del mio insegnamento, ma: «Io chi sono per te?». Il cristianesimo è un rapporto personale con Cristo, e le parole più vere sono sempre al singolare, mai parole d’altri. E se il cristianesimo è un rapporto personale con Cristo, il mio rapporto con lui com’è? Do tempo e cuore al rapporto con il Signore? Perché sappiamo che perfino le strade che conducono alle case dei nostri amici, se non sono battute, se non le frequentiamo, dopo un po’ di tempo diventano piene di rovi, di spine, di nebbie. Secondo la mistica dell’islam ci sono nel Corano novantanove nomi di Dio, ma egli ha cento nomi e il centesimo, il nome segreto, quello che solo tu puoi pronunciare, è il “tuo” nome di Dio, il nome che gli dà il tuo amore, il tuo segreto tra te e l’Amato; porta il tuo sapore di Dio. È quello che oggi ci è chiesto. Lasciamo da parte le risposte imparate, lasciamo da parte le formule, per quanto siano sicure. La risposta vera è solo tua, al singolare. Tu con il tuo cuore, con la tua fatica, con la tua gioia e il tuo peccato, tu cosa dici di Gesù Cristo? Qui non servono libri o catechismi, non servono studi o letture, ma ciascuno, che sia uscito dalle mani di Dio, ciascuno dissetato alle fonti di Dio, ciascuno inciso un giorno dalla spada a due tagli della sua parola (cf. Eb 4, 12), ciascuno, caduto e risorto, deve dare la sua risposta. E anch’io ci provo e riprovo. E oggi voglio dire: Tu sei per me un “crocifisso amore”. L’amore ha scritto il suo racconto sul corpo di Cristo, e l’ha scritto con il 219 linguaggio delle ferite, incancellabili come l’amore. La lieta notizia è il volto del Dio crocifisso per me. Crocifisso amore. E allora so che l’unico luogo dove non c’è inganno è la croce. Cristo non inganna: che inganno può nascondere uno che morirà d’amore e di dolore per te? Uno che non ruba niente e ti dona tutto? Un altro nome voglio darti: “disarmato amore”, che mai sei entrato nei palazzi dei re, che mai hai convocato attorno a te eserciti, e in questo mondo di forti, dove la ragione è della forza, hai detto: «Beati i miti, gli inermi, i pacificatori: voi siete la sola forza invincibile» (Mt 5, 1-12). E un altro ancora: “inseparato amore”, perché nulla mai ci separerà dall’amore di Cristo, né angeli né demoni, né il cielo né l’abisso, nulla mai ci separerà dall’amore (cf. Rm 8, 39). “Nulla”, “mai”. Due parole assolute, perfette, totali: inseparabile sono dal tuo amore. Ed è la grande pace: è la mia forza. Crocifisso amore. Disarmato amore. Inseparato amore. E un quarto nome vorrei darti, per dire cosa tu sia per me, cosa ho sentito o solo sfiorato di te. Per me tu sei “vita”. «Per me il vivere è Cristo» (Fil 1, 21). E non è per la sua dottrina, per il suo insegnamento, perché Gesù non è il Vangelo, non è solo la Parola: «In lui era la vita» (Gv 1, 4). «In lui siamo, viviamo e respiriamo» (At 17, 28). Non mi basta l’ascolto, non mi basta dire parole sulla Parola: voglio essere in Cristo, innestato, connesso a lui come tralcio nella vite, respirarlo. E tutti noi possiamo cercare di dare un nome a ciò che desideriamo che Cristo sia per noi. I due simboli del Vangelo di oggi sono la chiave e la roccia. I successori di Pietro sono roccia nella misura in cui ancora riescono a trasmettere Cristo, a dire chi 220 sia questo tesoro, questo bene per l’intera umanità, che porta il futuro del mondo e la radice del mondo. Essi sono roccia per la storia nella misura in cui mostrano che Dio è vivo fra noi, crocifisso amore, disarmato amore, inseparato amore. Ma ogni discepolo è roccia e chiave, che apre agli altri le porte belle di Dio, che apre la casa grande del Padre. Scrive in una poesia Alda Merini: Mi guardano negli occhi e rimangono estatici perché capiscono che io ti ho visto ti ho sentito e che qualche volta almeno ti ho anche tradito. Vorrei che si potesse vedere negli occhi dei discepoli che qualcosa di Cristo è stato visto, toccato, sentito, almeno sfiorato. E allora anche noi potremo essere roccia e chiave: roccia, non perché non abbiamo mai ceduto, non abbiamo mai tradito, ma perché ancora ritorniamo ad essere chiave che apre alla presenza di Dio, che apre le porte belle di Dio. Allora, tu chi dici che io sia? Ma dire non basta, perché la vita non è ciò che si dice della vita, ma ciò che si vive della vita. E Cristo non è ciò che dico di lui, ma ciò che vivo di lui. Non una dottrina, non una morale. Il cristianesimo è un rapporto unico, personale con il mio Signore, con lui disarmato amore, crocifisso amore, inseparato amore. Il cristianesimo è una persona. Cercherò di amarlo come lui mi ama. Ma so già che non ci riuscirò mai; eppure tutta la mia vita sarà provarci, e poi riprovarci ancora. Per sua grazia. 221 XXII DOMENICA Pietro, tu mi sei di scandalo. (Mt 16, 21-27) Nel Vangelo di domenica scorsa Pietro confessava Gesù come Figlio di Dio; oggi Gesù sconfessa Pietro. E Pietro, da bocca di Dio, diventa quasi bocca di satana: «Via da me, satana! Tu non pensi come Dio, ma come gli uomini». Con questo brano Matteo ci conduce allo spartiacque di tutto il suo Vangelo: terminano i giorni dell’insegnamento, dell’itineranza libera e felice sulle strade di Palestina, e inizia il grande racconto della passione, morte e risurrezione. «Gesù cominciò a dire apertamente che doveva molto soffrire e venire ucciso.» Cominciò a dire... Questo nuovo inizio dice che il centro della storia umana ora sarà il volto di un Dio crocifisso. Questo è lo scandalo del cristianesimo, la follia (cf. 1Cor 1, 23); a questo si oppone Pietro. Accettare Gesù come messia e come salvatore è ancora ammissibile, ma che il messia debba terminare la sua vita con una morte orrenda, ecco, questo è davvero inammissibile! Non solo. Ma anche i suoi dovranno prendere la propria croce. Allora satana e Pietro e noi ripetiamo a 222 Gesù: Ma tu vuoi mettere a posto le cose facendoti servo, vuoi salvare questa storia che sta naufragando lasciandoti uccidere? Non servirà. Il mondo ha dei problemi: bisogna risolverli! Hanno lacrime: bisogna asciugarle! E tu pensi di risolvere i problemi finendo in croce? Sei un illuso. La storia non sa che farsene di un crocifisso in più fra i milioni di crocifissi della storia. Non capiranno mai. Se invece, per farti capire, per mettere a posto le cose, usi il potere, il denaro, il miracolo, la sacralità, allora risolverai i problemi. È proprio questo che Gesù rifiuta. In fondo è la stessa tentazione che ha rifiutato all’inizio, nel deserto, e che ora di nuovo rifiuta scegliendo il servizio, la misericordia, la povertà di spirito, la fame di giustizia, il cuore limpido, il costruire pace, la mitezza, la croce. Gesù sa che non sarà mai il potere a risolvere le lacrime del mondo o il peccato di ciascuno. Sarà invece la divina follia dell’amore. Perché l’amore – questo è il punto di partenza – è sempre un crocifisso amore. L’amore rende dipendenti, deboli, ti espropria della tua vita, ti fa dire: Sei tu il centro della mia vita. Io vivo per te. La tua vita prima della mia. Che cos’è la croce di Cristo, se non l’affermazione alta che Dio ama altri più della propria vita? Che Dio altro non fa che eternamente considerare ogni uomo, considerare me, più importante di se stesso? «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio» (Gv 3, 16), da darlo alla croce. La croce è il segnale massimo lanciato da Dio alla storia, all’uomo; è il punto ultimo in cui tutto si incrocia: le vie del cielo, le vie del cuore, le vie della terra, vertice dell’umanità. Altrove dirà: «Non c’è amore più grande che dare la vita per coloro che si amano» (Gv 15, 13). 223 E per noi, per i discepoli, che cos’è la croce? Per capire bene che cos’è la mia croce, forse basta sostituire la parola “croce” con la parola “amore”: Se qualcuno vuol venire con me, prenda su di sé tutto l’amore di cui è capace e insieme camminiamo. La croce del discepolo, la nostra, non sono i disappunti quotidiani, le fatiche, le contrarietà o le malattie; queste sono cose solo da sopportare. La croce vera, dice Gesù, è da prendere, è da scegliere, non da sopportare; da scegliere come riassunto di un destino e di un amore. Gesù vuol dirci: Prendi su di te il giogo dell’amore. Ricordati che chi vive solo per sé, muore; ricordati che il vero dramma dell’uomo non è morire, ma non avere nulla per cui morire, non avere una causa per cui valga la pena dare la vita. Ricordati che anche tu devi guarire la vita attorno a te, guarire il male di vivere; ricordati che tu sei responsabile di una porzione di mondo, che hai l’obbligo di cimentarti per farlo lievitare, per plasmarlo; ricordati che non si vive di solo pane, anzi, di solo pane si muore. Ricordati che hai un’anima e che essa è in te il respiro di Dio; che il respiro di Dio vale più di tutto il mondo. Ricordati che nel tuo cuore c’è un fuoco acceso e non puoi contenerlo (cf. Ger 20, 9): è il respiro stesso di Dio. Tutti, io per primo, abbiamo paura del dolore, della sofferenza; però almeno vorrei non aver paura di amare. Quanti oggi hanno paura di amare! Quanti temono i rapporti seri, coinvolgenti, impegnativi, e questo perché temono l’amore crocifisso! Meglio allora tessere rapporti leggeri, provvisori, occasionali, e mantenere l’illusione della libertà. E poi, quando appare la croce – ma l’amore è sempre crocifisso –, ognuno riprende la sua strada. È la paura di amare! 224 La mentalità di questo mondo sembra suggerirci: Per non dover soffrire, cancella l’amore serio dalla tua vita. Gesù invece dice: Per la bellezza dell’amore, non aver paura di soffrire. Ecco l’alternativa: «Non conformatevi alla mentalità di questo mondo», dice Paolo, ma adeguatevi a Cristo (cf. Rm 12, 2), che ripete: Per avere l’amore, vinci la paura della sofferenza. Non conformatevi al mondo così com’è, ripete Paolo, ai suoi valori, miti, piccolezze. E forse noi cerchiamo di non adeguarci, perché il mondo così com’è non ci piace; ma che cosa facciamo per sollevarlo? Vorrei lasciare alla vostra riflessione una frase incisiva di Albert Einstein: Il dramma del mondo non è che alcuni fanno il male, ma che la grande maggioranza non si oppone al male, e fa finta di non vedere. Siamo di questa maggioranza: il mondo non ci piace, eppure ci adeguiamo. Ma non c’è pace se dimentico che ho un’anima e che essa è in me il respiro di Dio. Non c’è pace perché questo respiro vale più di tutto il mondo, e senza di esso sarei niente: guadagnerei il mondo, ma perderei me stesso. Non c’è pace se ci conformiamo, non c’è pace se il nostro destino non supera noi stessi. L’ha detto Gesù: «Siate perfetti come il Padre, siate misericordiosi come il Padre, amatevi come io vi ho amato, così in terra come in cielo». Allora si apre il più grande orizzonte; per noi vale: come il cielo, come il Cristo, come il Padre. Questo è prendere la croce, croce di luce, spina di luce che fa rifiorire la rosa del mondo. 225 XXIII DOMENICA Se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello. (Mt 18, 15-20) Dice il profeta Ezechiele: Ti ho fatto sentinella, custode, voce per i tuoi fratelli. Dice Paolo: Avete un solo debito da versare ognuno nelle mani e nel cuore dell’altro, quello di un amore reciproco. Mai senza l’altro. L’uomo non può essere uomo senza l’altro, tanto meno il cristiano può essere tale senza l’altro. Ma c’è di più. In una società di competizione, il cristiano è diverso: è custode, debitore, intercessore degli altri. Non un pretendente, ma un debitore grato, che restituisce amore: verso i genitori, verso gli amici, verso coloro che ti fanno vivere solo, o soprattutto, perché ti vogliono bene. In una società dove è acquisito ormai che l’uomo è un essere sociale, il credente dice che questo non basta, che dove due o tre sono riuniti nel nome di Cristo, lì c’è Cristo stesso, Dio seminato nei solchi dell’umanità. Quando due o tre pregano; certamente, ma non solo: quando vivono secondo Dio, allora Dio è lì. Perché la vita non è vuota, perché c’è una presenza. Quando due o tre si guardano con pietà e verità, lì c’è Dio. 226 Quando un uomo dice alla sua donna: Tu sei carne della mia carne, vita della mia vita (cf. Gen 2, 23), lì c’è Dio, cuore del loro cuore, nodo degli amori, legame delle vite. Quando un genitore e un figlio si guardano e si ascoltano con amore, lì c’è Dio. Quando l’amico paga all’amico il debito del reciproco affetto, lì c’è Cristo, l’uomo perfetto, il fine della storia umana, punto focale dei desideri, gioia di ogni cuore, pienezza delle aspirazioni, forza che ti fa partire, energia che ti mette in cammino verso tuo fratello. Ed ecco il tema del Vangelo: «Se tuo fratello commette una colpa, tu va’ e ammoniscilo»: “tu” esci, prendi il sentiero, bussa alla sua porta. Dio è una strada che ci porta, che ci spinge gli uni verso gli altri. Se tuo fratello sbaglia, “tu” va’, che significa “tu” avvicinati, “tu” cammina verso di lui. Ma che cosa mi autorizza a intervenire nella vita dell’altro? Non la verità, non il fatto che io credo di essere nel vero, non la certezza di avere cose importanti o buone da dare. Ciò che mi autorizza a intervenire nella vita dell’altro è solo questa parola: “fratello”. Solo se porti il peso e la gioia dell’altro, se ne conosci le lacrime, le speranze, solo se ne sei fratello, sei autorizzato a intervenire. Ciò che ci autorizza non è la verità che crediamo di possedere, ma la fraternità che tentiamo di vivere. Dice Paolo: I cristiani sono coloro che «fanno la verità nell’amore» (Ef 4, 15). E questo è importantissimo: sono coloro che fanno la verità nell’amore, cioè coloro che non separano mai verità e amore. Per non farli morire entrambi. Perché la verità e l’amore non possono esistere separati. La verità senza amore porta a tutti i conflitti, alle guerre di religione, ai “sacri ma- 227 celli”, ai roghi. «Mettere la verità prima della persona è l’essenza della bestemmia» dice Simone Weil. D’altro canto, l’amore senza verità è sterile, perché è amore per caso, amore occasionale, fortuito, senza progetto né futuro. «Se il fratello ti ascolta, avrai guadagnato tuo fratello.» Questo verbo è stupendo: “guadagnare” un fratello. Il fratello è un guadagno, un tesoro per te e per il mondo, un talento, una ricchezza per Dio e per la terra. Per questo un celebre detto ebraico assicura: «Chi salva un solo uomo, salva il mondo intero». Una parola luminosa dice Paolo ai cristiani di Roma: il debito della vita, il debito di esistere si paga con l’amore: «Non abbiate altro debito con nessuno, se non il debito di un amore reciproco» (Rm 13, 8). Questa parola luminosa dice che io devo restituire amore al mondo, che io devo pagare un debito agli uomini. Tutto sulla terra si paga col denaro; solo il senso della vita si paga con l’amore. Allora sentiamoci debitori, oggi, nei confronti dei genitori, nei confronti degli amici, di quanti ci vogliono bene e per questo ci fanno vivere, debitori verso coloro che ci hanno insegnato la vita, forse addirittura salvato la vita, come, ad esempio, dei medici, o dei semplici operai. E poi debitori verso Dio. È dalla coscienza del debito che nasce il canto, la lode, il Magnificat. Noi non siamo dei pretendenti, non siamo coloro cui tutto è dovuto e che ripetono che gli altri devono dar loro stima, rispetto, servizio, amore. E questo in famiglia, nel campo del lavoro... Noi spesso gridiamo: Ho il diritto di essere amato. E invece no: tu hai il dovere di essere amabile e di restituire amore. 228 Noi non siamo dei pretendenti, ma dei debitori grati. E questo è il primo atteggiamento della comunione dentro la mia casa, dentro la mia famiglia, dentro la mia comunità, persino nel rapporto con Dio. La comunione cresce per la coscienza di essere debitori e non pretendenti. L’elenco dei debiti che ho verso molti è l’elenco di motivi di gioia. E cresce la comunione anche a partire da ciò che ha detto il profeta Ezechiele: noi tutti siamo responsabili della vita e della morte di nostro fratello. A Dio che gli chiede dov’è Abele, Caino risponde: «Sono forse io il custode di mio fratello?» (Gen 4, 9). Ebbene, la risposta è chiara: «Sì, tu sei il custode». Tutta la Bibbia risponde: «Sì, tu sei il custode di tuo fratello». Ezechiele dice: «Tu sei sentinella di tuo fratello». Marguerite Yourcenar, una scrittrice moderna, dice: «Ogni essere che ha vissuto l’avventura umana, sono io». E Terenzio, scrittore romano del ii secolo a.C., afferma: «Io sono uomo e nulla di quanto è umano mi è estraneo». Ci aiutino anche queste grandi persone a camminare sulle strade della comunione. Un ultimo pensiero. Dice Gesù: «Ciò che legherete sulla terra... ciò che scioglierete sulla terra, sarà legato o sciolto anche nei cieli» (Mt 18, 18). Questo potere, che non è conferito alla gerarchia o ai preti, ma è di tutti i credenti, è il potere di creare comunione o separazione. E significa: ciò che avrete riunito attorno a voi, le persone, gli affetti, le speranze, lo ritroverete unito nel cielo; e ciò che avrete liberato attorno a voi, energie, vita, audacia, sorrisi, non sarà più dimenticato, lo ritroverete liberato per sempre nel cielo. «Ciò che scioglierete», allora: come lui che ha sciolto Lazzaro dalle bende della morte; «ciò che leghere- 229 te»: come lui che ha legato a sé uomini e donne capaci di scommettere sull’invisibile; ciò che scioglierete avrà libertà per sempre, ciò che legherete avrà comunione per sempre. Perché Dio dona eternità a tutto ciò che di più bello hai seminato nel mondo. 230 XXIV DOMENICA Quante volte dovrò perdonare al mio fratello? (Mt 18, 21-35) «Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette», cioè sempre. L’unica misura del perdono è perdonare senza misura. Perché vivere il vangelo di Gesù non è spostare un po’ più in alto gli obiettivi delle nostre azioni, spostare un po’ più avanti i paletti della morale, del bene e del male..., ma è la lieta notizia che l’amore di Dio non ha misura. Perché devo perdonare? Perché devo rimettere il debito? Perché cancellare l’offesa di mio fratello? La risposta è molto semplice: perché così fa Dio; perché il Regno è acquisire per me il cuore di Dio e poi immetterlo nelle mie relazioni. Gesù lo dice con la parabola dei due debitori. Il primo doveva una cifra iperbolica al suo signore, qualcosa come il bilancio di una città: un debito insolvibile. «Allora il servo, gettatosi a terra, lo supplicava...» e il re provò compassione. Il re non è il modello di chi fa rispettare la legge o la giustizia. Non è il campione del diritto. È invece un modello di compassione, del “patire insieme”. Sente 231 come suo il dolore del servo, l’angoscia della schiavitù. Il dolore del servo viene a contare più del suo diritto. Il dolore pesa più dell’oro. Qui ci è mostrato il modo regale, il modo divino di esistere. E per noi subito s’apre l’alternativa: o acquisire un cuore regale o mantenere un cuore servile come quello del grande debitore perdonato che, «appena uscito», trovò un servo come lui. «Appena uscito»: non una settimana dopo, non il giorno dopo, non un’ora dopo. «Appena uscito», ancora immerso in una gioia insperata, appena liberato, appena restituito al futuro e alla famiglia. Appena dopo aver fatto l’esperienza di come sia un cuore di re, «presolo per il collo, lo strangolava gridando: “Dammi i miei centesimi”», lui perdonato di miliardi! Quale forza di male c’è in noi! È incredibile: per fare il bene noi riusciamo ad esprimere una forza equivalente a dieci; per fare il male, quando gridano dentro cattiveria e odio, riusciamo ad esprimere una forza equivalente a mille! Questo è il modo servile di esistere, di noi servi di mammona, servi di poco o molto denaro, anziché servitori dei fratelli. Eppure, questo servo che strangola l’altro servo non fa nulla che non sia suo diritto fare: giustizia voleva che fosse pagato. I debiti vanno onorati. È giusto e spietato, al tempo stesso onesto e cattivo. Com’è facile essere onesti e cattivi! Così noi, giusti e cattivi, esigiamo spesso ciò che ci spetta, spietatamente, bravissimi a far scendere in campo tutti i nostri diritti, abilissimi prestigiatori nel far scomparire i nostri doveri. L’uomo moderno passa nel mondo come un grande narciso che dice o pensa: “Tutti mi devono qualcosa: mio marito, mia moglie, i miei genitori, i miei figli mi de- 232 vono dare... La scuola, la società, il padrone, il dipendente, lo Stato, tutti mi devono dare...”. E invece no. Io non sono nel mondo un creditore, ma un debitore. La famiglia, gli amici, la società mi hanno dato quanto io non potrò mai restituire in tutta la vita. Io non sono un esattore, ma uno che restituisce: ho ricevuto amore e restituisco amore; ho ricevuto pietà e restituisco pietà. Non passo nel mondo come un predatore della vita, ma come un servitore della vita. E imparo dal cuore compassionato del re a passare dall’amore che prende all’amore che dona, ad amare in perdita, a passare dal cuore servile a un cuore regale. Perché il dolore di un compagno di umanità conta più di cento denari, più di diecimila talenti; più del mio diritto conta il suo dolore o la sua paura. Ci insegni il Signore a passare dal narcisismo al servizio! Grande è l’insegnamento della parabola: il diritto non basta per essere uomini. La giustizia non basta per fare l’uomo nuovo. Anzi, il diritto e la giustizia da soli possono diventare il massimo dell’ingiustizia. L’estrema giustizia (ridammi i miei centesimi) può contenere la massima offesa all’uomo. «Occhio per occhio, dente per dente», debito per debito: è la linea della giustizia. Sulla linea dell’equivalenza Gesù propone quella della non equivalenza tra bene e male, del disequilibrio che nasce dalla pietà. «Il re fu preso alle viscere» scrive Matteo (18, 27), che riporta alla fine le sue parole: «Non dovevi forse anche tu aver pietà di lui, così come io ho avuto pietà di te?» (v. 33). Perché perdonare? Perché così fa Dio. Per acquisire il cuore di Dio, per acquisire questo divino disordine dentro i rapporti ordinati del dare e dell’avere. 233 Ma come faccio a provare pietà per chi mi ha offeso? Il peccato contro di me – lo sento – mi crea dentro un legame doloroso, continua a girarmi nella testa, mi imprigiona insieme con l’altro, mi lega a lui in un desiderio di vendetta e di male. E se a un’offesa io rispondo con una controffesa, se riscuoto il mio debito, raddoppio il legame doloroso tra me e l’altro. Anziché annullare il debito, aggiungo un nuovo sentiero di male, stringo un nuovo laccio, fino a creare una rete, un labirinto impraticabile, fino all’immagine violenta della parabola (le mani di un uomo sul collo di un altro uomo), fino al carcere, evocato ben tre volte in pochi versetti. La nostra logica, le nostre misure di offesa e controffesa creano solo reciproche prigioni, un universo di concentrazione di legami maligni, un mondo imprigionato. Perdonare, invece, significa sciogliere questo nodo, significa – come dice il verbo greco aphíemi – lasciare andare, lasciare libero, troncare i tentacoli e le corde che ci annodano malignamente in una reciprocità di debiti. Assolvere significa sciogliere e dare libertà. La nostra logica ci imprigiona in un labirinto di legami. Occorre qualcosa di illogico: il perdono, fino a settanta volte sette, fino a una misura che si prende gioco dei nostri numeri e della nostra logica. Infine, e così si chiude la parabola: «Così il Padre mio celeste farà a ciascuno di voi se non perdonerete di cuore al vostro fratello». Cos’è “perdonare di cuore”? Noi perdoniamo, certo, ma in un angolo della memoria conserviamo un po’ di rancore; noi perdoniamo, ma in un angolo dell’anima conserviamo ostilità per quella persona, non ci fidiamo più. È difficilissimo perdonare di cuore. Perché significa scommettere ancora sull’uomo, ma per atto di fede, 234 non per atto d’istinto. Bisogna dare credito all’altro: non in base al suo passato, ma puntando sul suo futuro; non per un atto di intelligenza, ma per un atto di speranza; non perché sia vicino o probabile il suo ravvedimento, ma perché Dio fa così. Per Cristo, il bene possibile che io posso compiere da qui in avanti conta di più del peccato presente, conta molto di più di tutto il male passato. Per questo Dio perdona, perché il tuo futuro conta di più. “Perdono” – áphesis – non indica una sensazione, ma un movimento; evoca il salpare della nave, lo scoccare della freccia, il partire della carovana, il varcare le soglie della prigione, le porte della città. Il perdono libera il mondo. Il perdono libera me. Così il sacramento della confessione non è qualcosa che riguarda il passato, ma qualcosa che riguarda il futuro. Dio perdona come chi ti sospinge nel futuro. Dio perdona come un liberatore. Dio ti fa salpare verso albe intatte, come il vento dello Spirito che gonfia le vele: un supplemento di energia che rilancia la vita. 235 XXV DOMENICA Amico, sei invidioso perché io sono buono? (Mt 20, 1-16) Finalmente un Dio che non è “padrone”, nemmeno il migliore dei padroni. È un’altra cosa. Oggi il Vangelo ci parla ancora di un Dio che compie cose folli, gratuite, insensate, utopiche, che crea una vertigine nei normali pensieri, che trasgredisce le leggi dello scambio normale tra uomini. Il gruppo dei lavoratori contesta e si trova lanciato in un’avventura sconosciuta: «Io sono buono». Questo è il di più della storia, l’estasi della storia. E contestano; e sono tristi gli operai che hanno lavorato fin dal mattino, perché pensano che tutto sia dovuto ai meriti. Ebbene, Dio non si merita, Dio si accoglie. Dio non è un contabile. Non ha un cuore di mercante, né un cuore di padrone. Dio è ricchezza in cerca della nostra povertà: egli ama in perdita, dona senza esigere il contraccambio, ama per creare felicità. Anche l’amore non si merita: si accoglie, con stupore e gratitudine. Dio dice nella prima lettura: «I miei pensieri non sono i vostri pensieri» (Is 55, 8), il mio stile non è il vostro stile. 236 Il nostro Dio è diverso: chiama al suo banchetto gli ultimi, i barboni, gli zingari; ti dice di dare a chi sai che non potrà restituire (cf. Lc 14, 12ss); preferisce gli spiccioli della vedova ai milioni dei ricchi (cf. Mc 12, 41ss). È un trasgressore delle leggi del buon senso, perfino delle leggi della giustizia. La bontà di Dio va oltre la giustizia. L’amore non è giusto, è un’altra cosa. La giustizia non basta per essere uomini. Tanto meno basta per essere Dio. Ecco come i piani di Dio sorpassano i piani degli uomini, anche i piani puliti, accettabili, giusti, come è giusto pagare ciascuno secondo il proprio lavoro. Dio è diverso, ma è diversa pienezza. Mai un Dio che calcola o sottrae, ma un Dio che aggiunge continuamente un di più. Dice Paolo nella Lettera ai Filippesi: «Desidero salpare dal mio corpo per essere con Cristo; però è più necessario per voi ch’io rimanga» (1, 23). C’è qualcosa che spinge Paolo a rinunciare alla sua pienezza, alla sua realizzazione personale, qualcosa di più importante ancora: trasmettere il vangelo, e con esso le vie per la felice convivenza degli uomini. Qualcosa che lo fa uscire dagli interessi personali, dai circuiti individuali; perché, quando Dio seduce l’uomo, lo conduce fuori, crea per lui grandi oggetti d’amore, lo fa uscire da sé. Dio ti vieta di far ruotare tutto attorno a te stesso, per far entrare te nella sua orbita. «Per me vivere è Cristo» (Fil 1, 21). Frase stupenda. Quanto me ne sento lontano! Perché per me vivere è godere, viaggiare, amare, essere sano. «Per me vivere è Cristo.» Per me vivere è realizzare me stesso, tutti i miei talenti, e aiutare qualcuno attorno a me, i miei figli, a fare lo stesso. Non basta. 237 «Per me vivere è Cristo.» Per me vivere è realizzare qualcosa di importante, che rimanga, con le mie forze; lavorare bene e vedermelo riconosciuto e ricompensato. «Per me vivere è Cristo»: cioè conquistare la statura e lo stile di Cristo, essere uomo nuovo per una nuova terra, trasparenza della luce sepolta in me, trasparenza dei pensieri di Dio, delle vie di Dio, il Dio sovrastante quanto il cielo sovrasta la terra, quanto la croce, quanto il dono sovrasta la corta logica dell’equilibrio. Dell’equilibrato amore. Il Vangelo di oggi ci sovrasta. Istintivamente mi sento solidale con gli operai della prima ora, che contestano: non è giusto dare la medesima paga a chi lavora molto e a chi lavora soltanto un’ora. Non è giusto. Non è giusto, se al centro di tutto metto il denaro e le leggi dell’economia. È vero: non è giusto. Ma se mi lascio provocare da questa parabola, se, come Dio, al centro metto non il denaro, ma l’uomo; non la produttività, ma la persona; se metto al centro quell’uomo concreto, quello delle cinque del pomeriggio, un bracciante senza terra, disoccupato, con i figli che hanno fame, che aspettano la sua paga per far tacere il gemito del ventre affamato, allora non posso mormorare contro chi intende assicurare la vita d’altri oltre alla mia. Ma c’è una seconda via per uscire dall’istintiva solidarietà con gli operai della prima ora. La parabola ci invita a conquistare lo sguardo di Dio. Se l’operaio dell’ultima ora io lo guardo con bontà, se lo vedo cioè come un amico e non come un rivale, se lo guardo come mio fratello e non come un avversario, allora gioisco con lui della paga insperata, non mi sento defrau- 238 dato, mi rallegro con il mio amico, faccio festa con mio fratello e ci sentiamo entrambi più ricchi. Questione di bontà. Che, impietosamente, mette a nudo la grettezza del nostro cuore. Io mi sento impoverito se un altro riceve quanto me, mi sento umiliato e defraudato se qualcuno è reso uguale a me; io che voglio essere sempre “uno della prima ora”, superiore agli altri, io che non godo del bene che si diffonde, che non so gioire della fortuna toccata ad altri. Lo sappiamo bene: è più facile partecipare alla sofferenza o al dolore di una persona che non alla sua gioia. Ci vuole un cuore più puro. E c’è una terza via per uscire dall’istintiva solidarietà con quelli della prima ora: lo sconcerto verso l’agire di Dio dipende dal posto che io mi attribuisco in questa parabola. Se io ritengo di essere lavoratore instancabile della prima ora, cristiano esemplare, uno che dà a Dio impegno e fatica, che pretende perché – penso – Dio e la sua benevolenza si devono meritare, allora posso essere urtato dalla larghezza di Dio. Così facevano i farisei. Se invece con umiltà, con verità, mi metto tra gli operai dell’ultima ora, tra i «servi inutili e senza pretese» (Lc 17, 10), accanto ai peccatori, con Maddalena e il buon ladrone, se conto non sui miei meriti ma sulla bontà di Dio, allora la parabola mi rivela il segreto della speranza: Dio è buono. Il segreto della speranza: «Ti dispiace che io sia buono?» chiede il padrone a quelli che più hanno faticato. «Ti dispiace?» No, Signore, non mi dispiace, perché quell’operaio dell’ultima ora sono io, un po’ ozioso, un po’ bisognoso. Non mi dispiace, perché spesso, troppo spesso, non ho la forza di portare il peso della giornata e del caldo e dei miei problemi. Vie- 239 ni a cercarmi, anche se si è fatto tardi, anche se è l’ultima ora. No, non mi dispiace che tu sia buono, anzi! Sono felice di avere un Dio così, un Dio che urge contro le meschine pareti del mio cuore fariseo, che urge contro il balbettio amaro della mia anima, perché diventi finalmente la lingua luminosa di Dio. 240 XXVI DOMENICA Va’ oggi a lavorare nella vigna. (Mt 21, 28-32) «Un uomo aveva due figli», e si potrebbe tradurre così: un uomo aveva due cuori. Ognuno di noi ha in sé un cuore diviso, un cuore che dice “sì” e uno che dice “no”, un cuore che dice e poi si contraddice. Anche Paolo sapeva di avere un cuore così, quando afferma: «Io faccio quello che non vorrei, mentre quello che vorrei fare non riesco a farlo» (cf. Rm 7, 15). Anche il salmista ha un cuore così, quando prega – ed è per me una delle preghiere più commoventi – nel Salmo 51: «Signore, unifica il mio cuore», fallo uno, che io non abbia un cuore diviso, che io non abbia due cuori in lotta tra loro: donami un cuore integro. Il cuore, che è la porta degli dèi, diceva Aristotele. Abbiamo tutti queste due anime rappresentate dai due fratelli: quella delle parole e quella dei fatti. L’anima dell’apparire, del sembrare, e quella dell’essere. L’anima del fingere per gli altri e quella del fare anche se nessuno vede. Il primo figlio, quello che dice “sì” e poi non fa, sono io quando gioco a fare il personaggio, quando agi- 241 sco per accattivarmi stima o simpatia, e tutto è una piccola o grande commedia. “Personaggio” sono io quando mi lascio manovrare come un burattino dai fili della vanità, dell’aver successo, del sembrare. “Persona” è invece colui che è sempre se stesso in pubblico e in privato, da solo e con gli altri, nel dire e nel fare. Il grande lavoro che tutti dobbiamo compiere, il grande lavoro sui nostri due cuori è unificarli passando da “personaggio” a “persona”. In realtà i due fratelli della parabola sono uguali, hanno la stessa immagine del padre: il padre è uno che impartisce ordini, un padre-padrone cui o sottomettersi o ribellarsi. Questa è l’immagine, che oltretutto allontana tra loro i due fratelli: non si troveranno mai insieme. Questo padre separa. Allora devo cambiare la mia idea su di lui; ma come fare? È questa la prima conversione. Io non voglio essere né ribelle né servile; oltre la ribellione e oltre la sottomissione io voglio scoprire, posso scoprire con Gesù che il Padre è amore e libertà. Che sia libertà lo scopre il secondo figlio, quello che dice: «No, non ci vado». È migliore dell’altro, pensa almeno che Dio rispetterà la libertà, che può non andare senza essere per questo rifiutato o punito. L’altro che dice “sì” e non va è messo peggio, considera il padre come un padrone e lo inganna perché ha paura di lui. Neppure intuisce che ci possa essere libertà. La menzogna è così, è sempre omicida, toglie all’uomo la libertà, toglie all’uomo ciò che lo fa uomo, toglie il cuore. La menzogna è omicida! Che il Padre sia amore lo fa poi capire Gesù, proseguendo con una delle parole più dure e più consolanti che egli abbia mai detto ai suoi interlocutori. La pa- 242 rola dura e consolante è questa: «I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio». Perché essi sono come il secondo figlio, hanno detto “no”, la loro vita era sciupata, ma poi hanno creduto a Giovanni. Dura la frase! Perché a noi, quelli del “sì”, quelli che ci sentiamo vicini, che diciamo «Signore, Signore», noi dalle parole belle, noi dalle molte preghiere, siamo detti “i senza conversione”. Ma è consolante questa parola, perché in Dio non c’è ombra di condanna: solo la promessa di una vita totalmente rinnovata per tutti. Dio ha fiducia sempre in ogni uomo, Dio crede anche nelle prostitute e crede in noi, sempre, nonostante tutti i nostri errori, nonostante i nostri ritardi nel dire quel “sì” che lui attende. Nessuno è perduto per sempre! Io credo in Dio perché Dio crede in me, do fiducia a colui che mi dà fiducia, mi inginocchio davanti a lui perché lui per primo si è inginocchiato, in Gesù, ai nostri piedi: nel primo giorno con la carne bambina e indifesa di Gesù, nell’ultima sera con la lavanda dei piedi. Dio crede in noi, sempre! Allora posso cominciare la mia conversione. Dio non è un dovere: è amore e libertà. Per dovere nessuno potrà mai amare. Io sono qui con i miei due cuori a cercare di convertirmi da Dio come dovere a Dio come desiderio, perché la vita non si muove per imposizioni, per coercizioni, per ordini da eseguire, ma si muove per una passione; e la passione nasce da una bellezza: la bellezza di Dio così come lo mostra Gesù. Non si illude Gesù. Conosce bene come siamo fatti; non esiste un terzo figlio illusorio, un terzo figlio utopico, quello che dice “sì” come il primo e poi fa come il secondo. Io non sono il figlio che Dio ha sogna- 243 to, io non sono il figlio che lui avrebbe voluto; ma Gesù mi dice: Non temere. La tua vita è fatta di svolte, di passaggi, non è un sentiero dritto e lineare; la tua vita non è una lunga strada nel sole. Io lo so bene. I miei sentieri si aggrovigliano, si spezzano e poi riprendono, ritornano su se stessi e poi vengono rilanciati ancora in avanti; allora capisco quello che Gesù vuole dire. La storia di ciascuno di noi è fatta di conversioni, di cambiamenti di direzione, e io lo posso ancora fare, posso ancora ogni giorno cambiare direzione alla mia vita e approfondirla; e lo posso fare perché Dio ha fiducia anche nelle prostitute, ha fiducia in me. La mia conversione, allora, è un cammino laborioso e mai concluso, un lungo cammino per diventare da servo figlio, da ribelle figlio: convertirsi è, nel Vangelo di Matteo, riconoscersi figlio e vivere da fratello. Un ultimo messaggio in questa piccola parabola. Il valore grande, il valore ultimo è la vigna, il giardino, il frutto possibile, il grappolo maturo. Ciò che Dio domanda non è semplicemente l’obbedienza o la fatica, ma di lavorare per una fecondità della terra. La morale evangelica è la morale del frutto, non quella dello sforzo fine a se stesso. «Dai loro frutti li riconoscerete» (Mt 7, 16). Vite fruttuose o vite sterili: ecco l’alternativa! Queste sono le due scelte opposte fatte dai due figli. C’è qualcosa che conta più dell’obbedienza: hai davanti a te la vita o la morte, scegli! Il problema non è obbedire o disobbedire, ma, come dice il profeta Ezechiele nella prima lettura, «far vivere se stessi o far morire se stessi». La differenza è tra chi vive una vita inutile, sterile, che non serve a nessuno se non alle proprie voglie, e chi trasforma una porzione di deser- 244 to in vigna e la polvere in vendemmia e la propria famiglia in un frammento del sogno di Dio. Anche se nessuno se ne accorge, anche lavando in segreto i piedi di coloro che ci sono affidati, anche lavorando nella propria casa. Quanti lavoratori segreti ci sono nella vigna di Dio! Perfino quelli che apparivano perduti, come le prostitute. Il problema non è semplicemente dire “sì” o dire “no” a un Dio padrone, ma il fatto che le parole di Dio sono rivelazione della strada che costruisce l’uomo in umanità. Operare secondo Dio è costruire l’uomo in umanità, non operare secondo Dio è distruggere l’uomo in umanità. Siamo figli che si stanno convertendo al volto del Dio bello, che conquistano – come dice oggi Paolo – «gli stessi sentimenti di Cristo», che imparano dal Crocifisso cosa sia il patire per me di un Dio appassionato di me. Questa intuizione di Paolo è il programma di tutta la mia vita: avere gli stessi sentimenti di Cristo. Allora l’amore e il vino nuovo nasceranno da tante, da tutte le nostre piccole vigne segrete, là dove tu e io ci impegniamo a rendere meno arida la terra, a rendere meno soli gli uomini, a rendere meno contraddittorio il nostro cuore. 245 XXVII DOMENICA Darà la vigna ad altri vignaioli. (Mt 21, 33-43) Isaia intona oggi il canto dell’amore deluso: «Canterò per il mio diletto il mio cantico d’amore per la sua vigna». Vigna d’uva selvatica in Isaia, vendemmia di sangue nel Vangelo di Matteo: è la domenica delle delusioni di Dio. La parabola racconta l’amore deluso di chi ha piantato la vigna, l’ha cinta come un abbraccio, vi ha scavato un tino, alzato una torre per difenderla, e poi se n’è addirittura andato. Emigra altrove, il signore della vigna, per dare a noi tutti la piena libertà di essere noi stessi. È l’assenza di Dio che garantisce la nostra libertà. La parabola racconta un amore deluso, ma racconta soprattutto una passione che nessuna delusione può spegnere, che non si arrende, che prende sempre nuovi sviluppi, che non è mai a corto di meraviglie. E ricomincia, dopo ogni rifiuto, ad assediare il mio cuore con nuovi profeti, con nuovi servitori, con il figlio, e poi ancora con le pietre scartate, i più poveri, fino alla fine, quando il Regno sarà tolto e dato a un popolo che lo farà fruttificare. Poi, forse, inizierà di nuo- 246 vo la conta della speranza e della delusione! Così è il nostro Dio: in lui il lamento non prevale mai sulla speranza. La parabola non è solo amara: alla fine Dio vince, l’amore vince. Per ogni contadino la vigna è il campo preferito. Se vado nei miei ricordi, tra tutti i campi della mia famiglia davvero la vigna era la più amata. Di essa si parla in casa, si devia sulla strada del ritorno per poterla solo attraversare, e la vendemmia è il lavoro più gioioso dell’anno. Vigna e passione di Dio è la mia vita. E il mio scopo è portare frutto, il mio rischio è la sterilità. Il senso della mia vita e la mia felicità si giocano fra sterilità e fecondità. Non è il lavoro, il sacrificio, l’osservanza delle regole che fanno grande e utile una vita, ma il frutto buono, concreto, reale, succoso, il bicchiere d’acqua fresca, la lacrima asciugata, la parola che consola davvero, lo sguardo che scende nel profondo, un po’ di strada fatta con chi te lo ha chiesto perché ha paura. La morale evangelica è la morale del frutto, non semplicemente del peccato evitato. Infatti, chi non dà frutto sarà tagliato e gettato via, come un tralcio inutile, come una vita inutile. Il grande rischio è vivere una vita sterile. Perché il vendemmiatore viene; viene non solo nell’ultimo giorno, ma viene ogni giorno, viene nelle persone che cercano pane, vangelo, giustizia, che cercano un po’ di coraggio per andare avanti. Cosa trovano in noi? Vino buono o aceto aspro? Vigna e delusione di Dio è la mia vita. Alla fine della parabola c’è un monito grave: il Regno ci sarà tolto. Parole da ascoltare, ciascuno e tutti insieme e questa società intera. Sono le parole che 247 Giovanni nell’Apocalisse rivolge alla Chiesa di Efeso: «Se non porterai frutto, il candelabro ti sarà tolto!» (cf. 2, 5). Noi rischiamo di perdere la luce, rischiamo che si spenga la nostra lucerna. Rischio della Chiesa, di me, del nostro mondo è una vita spenta. Ma c’è di più. La parabola dell’amore deluso non si conclude con un fallimento. Tra Dio e l’uomo le sconfitte servono soltanto a far meglio risaltare l’amore di Dio. Lo vediamo in Gesù, che alla fine del brano pone una domanda: «Cosa farà il padrone della vigna?». La soluzione proposta dai Giudei è logica: ancora sangue, nuovi vignaioli, nuovi tributi. Come se non fosse successo nulla! Riprende il ciclo immutabile del dare e dell’avere. E tutto torna come prima. La loro idea di giustizia è solo riportare le cose un passo indietro, ritornare a prima del male, mantenendo però intatto il “sistema vigna”, dove c’è un padrone, ci sono dei lavoratori, c’è un reddito da dividere, un contratto da onorare. Ma Gesù non è d’accordo. Egli fa appello alla Scrittura e dice: «Non avete mai letto...?». Fa appello alla Scrittura per uscire proprio da questa logica, perché con questo sistema ci sarà sempre violenza nella vigna e figli uccisi e lavoratori condannati. E il Figlio e la croce sarebbero venuti invano. Gesù introduce a questo punto la novità propria del vangelo: Dio non spreca la storia in vendette, non sprecherà l’eternità in vendette. Il suo regno è una casa nuova la cui pietra angolare è Cristo, una vigna nuova dove la vite vera è Cristo. Con un’immagine molto bella Lanza del Vasto ha scritto: «L’arca aveva una vigna per vela». L’arca, che è l’umanità, questa nostra storia che naviga sulle acque 248 di ininterrotti diluvi, avanza sospinta da una vela nuova in cui soffia il vento di Dio, una vela che è una vigna, che è Cristo, la vite vera su cui tutti siamo innestati. E cresce la vela con il crescere di Cristo in tutti gli uomini. E avanza la storia. In me deve fruttificare il seme di Cristo e crescerà la vela dell’arca. «Il regno di Dio sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare.» Gesù ci accompagna, allora, fuori dall’idea di avere sempre un debito da pagare a Dio, il grande esattore delle tasse dell’anima, il padrone esigente! Parla di frutto e non più di raccolti da restituire. Il Regno «sarà dato», ed è un verbo nuovo, diverso. La vigna non è più affidata, è donata. E il frutto che la vigna matura non è un debito da restituire, ma dono, maturità, bellezza, crescita del mondo, è uomo nuovo, pienezza della creazione, gioia della vigna. Il problema ultimo non è pagare o no il tributo al padrone, ma portare frutto. La vigna sarà data a chi saprà riempire di frutti il mondo. Il mondo appartiene a chi lo rende migliore, la terra appartiene a chi la fa fiorire, la vigna è di colui che fa maturare grappoli pieni di sole e di miele. Da padrone, Dio diventa donatore. Il Regno è per voi. Lo annuncia Gesù nella sinagoga di Nazaret: il Regno è per voi prigionieri, ciechi, oppressi. Lo annuncia sul monte delle beatitudini: il Regno è per voi poveri; voi miti erediterete la terra. Dio dimentica se stesso, e il suo obiettivo è una terra di figli e non più di servi. Il suo obiettivo è una terra di figli che vivono da fratelli, una terra che produca i frutti che Isaia ha enumerato: «Aspettavo giustizia, attendevo rettitudine, non più grida di oppressi, non più sangue». Il frutto che il padrone attende non è rivolto al suo interesse, 249 ma riguarda il volto dei suoi figli: un volto non più umiliato, non più schiacciato. Il frutto che il padrone attende è che la vite vera, che è Cristo, cresca fino a diventare la vigna del mondo. Il Regno nuovo è Cristo roccia, vite, vino di festa. Su di lui mi fondo, in lui mi innesto, di lui mi disseto. Cresco di lui. «Per me vivere è Cristo!» (Fil 1, 21). Perché il mondo non è mio, ma a me è dato perché io lo renda migliore e faccia crescere vigne come vele per l’arca della storia, e vi faccia crescere Cristo, frutto saporoso, che conforta la vita, che ci fa navigare verso la terra sognata da Isaia, dove i figli vivono da fratelli. 250 XXVIII DOMENICA Tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze. (Mt 22, 1-14) Tutto comincia con un dono, ed è la regola suprema della creazione. In principio non c’è quello che io devo fare per Dio, ma ciò che Dio fa per me: ha preparato il banchetto. Immeritato dono. Tutto è pronto, venite! In principio è il dono. E poi l’invito: che non è un obbligo, non un comando o un dovere, e che ti dichiara libero, di una libertà totale e drammatica. Drammatica per te, perché puoi scegliere la morte, ma drammatica anche per Dio. Noi uomini siamo il rischio di Dio. Il dramma di Dio è la sala vuota, la reggia senza canti, il rischio di chiese vuote e senza canto: il Dio del pane e del vino che nessuno vuole e nessuno gusta, il Dio della parola che nessuno ascolta, questo Dio a rischio di fronte alla libertà e al cuore dell’uomo. Ma in questa parabola ci sono molte sorprese. Voglio elencarne alcune che mi danno commozione. Per due domeniche Gesù ha parlato con l’immagine della vigna, oggi invece parla di un banchetto. Il regno di Dio non è solo vigna, cioè lavoro e fatica e im- 251 pegno, ma è anche il banchetto, cioè un’offerta di gioia, di solarità, un progetto di vita buona, bella e felice. Il regno di Dio porta con sé la gioia di vivere, il godimento di esistere. E questo piacere di vivere, provato con gratitudine e senza narcisismo, è ciò che Dio ha in mente per me. Allora l’immagine del banchetto ci insegna che dobbiamo gustare la vita. Come Gesù: un rabbi che amava i banchetti. Nell’ultimo giorno – dice una tradizione ebraica – la seconda delle due domande che Dio porrà a ciascuno è questa: «Perché hai permesso che andassero sprecate le cose buone che ho messo davanti a te? Perché non hai goduto di tutta la bontà e bellezza che io ho posto sul tuo cammino?». Un’altra sorpresa gioiosa viene dalla tenacia del re, dalla sua insistenza: egli manda i servi una prima volta, poi manda altri servi, e una terza volta ancora, e li manda per strade e crocicchi a raccogliere tutti, buoni e cattivi. Ha un sogno questo re: la sala colma! Ed è un Dio che non si scoraggia, che non si perde d’animo. E se io oppongo un ostacolo al suo sogno, se gli invitati rifiutano, egli allarga l’invito, dilata il sogno, apre nuove vie. Noi, di fronte a un ostacolo, ci arrendiamo, cambiamo progetto. Dio no, egli non disarma, ma apre, allarga, inventa nuove comunioni. E se le case si chiudono, egli apre strade lungo le siepi. Dio non fallisce. Perché Dio non ha bisogno di gente che lo serva, ma ha bisogno lui di servire. Dio non è in cerca di chi faccia qualcosa per lui, ma di chi gli lasci fare qualcosa, di chi lo lasci essere servitore della vita, di chi lo lasci essere Dio: di gente che si lasci amare da lui, che si lasci fare lieta. E se c’è qualcosa che autorizza Dio a proporsi, e poi a riproporsi, e poi a farlo ancora un’al- 252 tra volta, è il fatto che Dio conforta la vita e la fa lieta e forte. Se io vado alla comunione e mi metto in fila con tanti, buoni e cattivi, io buono e cattivo al tempo stesso, perché lo faccio? Solo perché lui mi ha chiamato! È Dio che vuole fare comunione con me, non sono io che voglio e non voglio. Non vado a “prendere” la comunione per me, vado ad “accogliere”. Alla comunione io vado per fare la sua volontà, non la mia. E allora so bene che non sarò mai degno, sono soltanto un uomo dei crocicchi, uno delle strade, uno di quei tanti buoni e cattivi scovati alla fine dai servi (chi di loro è degno?), ma accolgo l’invito e lascio che Dio sia Dio, gli consento di essere il Dio della comunione, il Dio del dono, gli permetto di essere Padre, accolgo questo Dio che è Dio soltanto quando dona, quando si dona. Dopo la parte di Dio viene però la nostra parte. La parabola inizia con la reggia senza festa, con la sala vuota, e termina con un dramma: «Gettatelo fuori!». La parabola mi dice, con le sue parole dure, che è possibile fallire la vita, è possibile fare scelte di morte, sbagliare l’esistenza. A ognuno è posta una condizione: il vestito di nozze. L’uomo che non l’ha indossato non è peggiore degli altri; in quella sala buoni e cattivi si confondono, ma lui, appunto, non si confonde con gli altri, non ha fatto in modo di essere in comunione con gli altri. È solo, isolato, non porta il suo contributo di bellezza alla liturgia gioiosa delle nozze. Ha la stessa mentalità di quelli che hanno rifiutato l’invito: è lì come se fosse altrove. Forse quell’uomo non ha creduto alla festa, non crede possibile che un re inviti davvero a palazzo straccioni e poveracci, giusti e peccatori. Un re non fa 253 così, pensa: chiama i suoi pari, chiama i potenti. Un re esige e pretende, il re prende e non dona. È il dramma dell’uomo che si è sbagliato su Dio. Perché sbagliarci su Dio è una tragedia, è il peggio che ci possa capitare. Diceva padre Turoldo: Perché poi ci sbagliamo sul mondo, sulla storia, sugli altri, su noi stessi. Se ti sbagli su Dio, ti sbagli poi anche sull’uomo, perché l’uomo altro non è che immagine e somiglianza di Dio. Qual è, allora, l’abito da indossare per non fallire la vita? Quando siamo stati battezzati, ci è stato fatto dono di una veste bianca e il sacerdote ha detto così: «Caro bambino, ti sei rivestito di Cristo!». E tutto il resto della vita sarà indossare Cristo, indossare la sua vita. Il mio compito di cristiano è passare la vita a rivestirmi di Cristo, ad avere i suoi sentimenti, a nutrirmi delle sue parole, a pensare i suoi pensieri, a seminare sulla terra i suoi gesti. A respirare Cristo. Allora farò l’esperienza bellissima di Paolo, che abbiamo ascoltato nella seconda lettura: «Tutto posso in colui che mi dà la forza». Dio non dà la soluzione dei problemi, ma dà la forza per affrontarli. Dio non garantisce la salute o la ricchezza, ma assicura la forza nella malattia. Dio non dona l’abbondanza, ma fa nascere la forza della condivisione. Come lui, il cristiano è chiamato non a fornire pane, ma lievito, vale a dire non il prodotto finale, ma forza: forza di ispirazione, di dilatazione, di ascensione. Con un Dio così, che mi dà la forza, io sento germogliare speranza. «Tutto posso in colui che mi dà la forza»: non mi toglie la notte, ma mi dà occhi che bu- 254 cano le tenebre; non cancella le tempeste dalla mia vita, ma mi fornisce forza perché io continui a remare, a reggere forte il timone. C’è un banchetto per alcuni sulla terra, ma è anche vero che per troppi c’è una mensa di lacrime, un pane di pianto, calici solo di dolore. Cosa fare? Paolo indica una via: «Avete fatto bene a prendere parte alla mia tribolazione». Il banchetto sognato da Isaia suppone che noi tutti prendiamo parte alla tribolazione di molti. Ci doni il Signore il coraggio tenace del re della parabola, la sua ostinazione nel sogno, accenda la sorpresa di avere un Dio così: che ha a cuore la gioia dei suoi figli, che ama la gioia, che dà la forza. 255 XXIX DOMENICA Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio. (Mt 22, 15-21) In questa domenica il Signore Gesù con una frase lapidaria dice: «Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio». E come Cesare cerca la propria immagine su una moneta, così Dio cerca la propria immagine nella nostra anima. Domandiamoci se abbiamo disprezzato l’immagine di Dio in noi, se la nostra vita è sempre secondo il vangelo del Signore, contro la superficialità, contro il disimpegno. Cesare e Dio. Gesù si confronta con le due più grandi passioni pubbliche: la religione e la politica. Cesare e Dio, materia e spirito, terra e cielo, il tempio e la città: sono i due poli, infinite volte ripetuti, di ogni vita alta, che non voglia essere banale; l’eterno incrociarsi di tutti i bisogni e di tutti i desideri. Nel punto di intersezione c’è il cristiano, che cerca la sintesi di queste due passioni, quasi una croce composta dall’esistere orizzontale, che è l’abbraccio verso il prossimo, e dall’esistere verticale, che è il cammino verso Dio e verso il profondo. Ancora adesso, per ciascuno, materia e spirito compongono i due bracci del- 256 la croce su cui esistiamo, noi sintesi di due alleanze crocifisse, di due amori. Vengono da Gesù farisei ed erodiani, coloro che sono abili dialettici e cercano di porre domande senza uscita, domande le cui risposte scatenino passioni e odi, e creino nemici: «È lecito o no pagare le tasse a Roma?». Gesù aveva fra i suoi discepoli guerriglieri anti-romani, come Simone Zelota, e insieme aveva chiamato dei collaborazionisti dei Romani, come Matteo, che riscuoteva le tasse per Cesare. Ecco la grande scommessa di Gesù: lo scandalo della comunione. Com’era sua abitudine, Gesù non risponde alla domanda, ma allarga il problema. Se anche noi potessimo avere fra le mani quella moneta romana, capiremmo molto di più. Sulla moneta era scritto “al divino Cesare” o “al Dio Cesare”. Proprio questa sintesi pericolosa Gesù vuol fare esplodere: Cesare non è Dio. Dice Gesù: Restituite a Cesare, alla politica, il valore, la dignità, i mezzi della politica, e lasciate a Dio il valore di Dio. A Cesare vadano le cose, a Dio vadano le persone. Forse intende dire: date alla materia ciò che è della materia, ma soprattutto allo spirito quello che è dello spirito. La persona non appartiene al potere, l’uomo è di Dio. L’uomo è quasi come una moneta su cui è riprodotta l’immagine di Dio. E Gesù usa una parola che non vuol dire solo “date”, ma più precisamente “restituite”. Perché nulla di ciò che hai è tuo. Perché di nulla sei padrone, se non di un dono che viene da prima di te e va oltre te: ciò che sei viene da Dio e viene da Cesare, nel senso grande della società, della storia. Esistere non è un diritto, prima ancora è un debito. Sei in debito verso Dio e verso gli altri, sei in debito 257 verso i tuoi genitori, verso la scuola, verso gli amici, verso chi ti ama, sei in debito verso il lavoro e la fatica di innumerevoli uomini che ora lavorano perché tu possa essere qui, nutrito, vestito, al coperto, udendo e vedendo. Un tessuto di debiti è la nostra vita. Restituisci ciò che hai avuto: in cultura, in istruzione, in salute, in protezione. L’avere e il dare delle eterne alleanze, l’avere e il dare delle eterne comunioni, perché senza avere e dare non esiste alleanza possibile, non esiste Stato possibile, non esiste religione possibile. E come restituire? Pagando il tuo tributo, certo, ma facendo qualcosa che serva a qualcuno: paga il tuo tributo alla fame spezzando il pane. Dare a Cesare, alla società, al mondo ciò che è suo: tu non puoi essere sazio, se tutti gli uomini non sono un po’ sazi; tu non puoi essere felice, se tutti gli uomini non sono, un po’ almeno, felici; nessuno può essere perfettamente libero, finché non sono liberi tutti. Dare a Dio i talenti, ma moltiplicati; dare la gratitudine, restituire a Dio la sua immagine velata e lucente in noi, e poi dare la gioia di vivere, l’umile piacere di esistere della creatura che dice: Ho amato il tuo mondo; hai fatto bene tutte le cose; è bello vivere questa vita: la mia vita e poi la grande, innumerevole vita della creazione. «Restituite a Dio ciò che è di Dio» significa: riscopri l’impronta di Dio in tutte le cose, ricordati che sei immagine di Dio. Non vivere senza mistero, rendi grazie per il miracolo dell’esistere. Ricordati che sei mistero, crocevia di finito e di infinito, crocifisso alla croce di due amori, Dio e il prossimo. Ricordati che sei polvere, ricordati che sei immagine di Dio. 258 «Restituite a Dio ciò che è di Dio.» Parola che dice a Cesare: Non appropriarti dell’uomo. L’uomo è cosa di un Altro. Cosa di Dio. A me dice: Non iscrivere appartenenze nel cuore che non siano a Dio. Libero e ribelle a ogni tentazione di possesso, ripeti a Cesare: Io non ti appartengo. Io, come talento che porta coniata l’effigie di Dio, devo restituire niente di meno di me stesso, ma soltanto a lui. Cesare e Dio. Diaconia e profezia. Servizio alla città degli uomini, incontro con il cielo. Questo è oggi e sempre il vangelo dei cristiani. 259 XXX DOMENICA Amerai con tutto il cuore. (Mt 22, 34-40) «Qual è il più grande comandamento?» «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente.» Per tre volte Gesù ripete l’appello alla totalità. Perché amore mediocre è negazione dell’amore. Appello all’impossibile. Perché l’uomo ama di tanto in tanto: solo Dio ama con tutto il cuore. Ripete parole antiche e note, ma aggiunge: «Il secondo comandamento è simile al primo». “Amerai il prossimo” è simile ad “amerai Dio”. Il prossimo è simile a Dio. Questo è lo scandalo, la grande rivoluzione portata dal vangelo e sottolineata da Gesù: «Ogni volta che avete fatto qualcosa a uno dei miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25, 40). «Ama Dio con tutto il cuore.» Eppure, resta ancora del cuore per amare il marito, la moglie, il figlio, l’amico, il prossimo e, per i discepoli veri, perfino il nemico. Dio non ruba il cuore, anzi lo moltiplica. Perché lo ha fatto lui più grande di tutte le cose create messe insieme. 260 Il dottore della legge domanda un comandamento, Gesù risponde con due inviti. Perché l’amore non si comanda, non si impone; è impossibile obbligare ad amare. Impossibile è l’amore obbligato. Forse il dottore chiedeva qualcosa da fare, qualcosa da non fare: una legge chiara e rassicurante, e Gesù risponde con una proposta molto più esigente, profonda, totale, che parte in tutte le direzioni e che non si concluderà mai. Di fronte ad essa nessuno potrà mai dire: Io sono a posto. Nessuno potrà mai dire: La mia coscienza di cristiano non mi rimprovera nulla. Gesù sconvolge la morale facile, anche se apparentemente rigorosa, ma in fondo superficiale, del fariseo, di me fariseo, e mi introduce in un altro ordine di cose, con un comando nuovo, possibile solo se il cuore è fatto radicalmente nuovo, solo se lui vorrà allargarci il cuore, cambiare il cuore di pietra in cuore di carne (cf. Ez 11, 19-20), come cantiamo nel Salmo: «Osserverò la tua parola, Signore, purché tu voglia allargarmi il cuore» (Sal 119, 32). Il cuore largo viene subito evocato da Gesù, che offre tre direzioni, tre oggetti d’amore: ama il tuo Signore, ama il tuo prossimo, come ami te stesso. È un terzo comandamento sempre dimenticato: perché se non ami te stesso, non sarai capace di amare nessuno, saprai solo prendere e possedere, fuggire o violare, senza gioia né gratitudine. Ama te stesso come intessuto di doni, come orma di Dio, frammento del suo sogno; ama te stesso con l’umiltà di santa Maria, che canta: «Il Signore ha fatto in me cose meravigliose» (Lc 1, 49); guàrdati in trasparenza come un piccolo miracolo, come un unico prodigio. 261 Nostro orizzonte è questo cuore plurale, a più voci, in cui «l’amore di Dio è come la melodia principale, il canto fermo, attorno al quale può dispiegarsi il contrappunto degli altri amori. E nasce così la polifonia della vita» (D. Bonhoeffer). «Ama Dio con tutto il cuore» non significa «ama lui solamente», ma «amalo senza mezze misure, senza mediocrità». Allo stesso modo «amerai con tutto il cuore» il tuo amico, il tuo familiare, lo amerai senza calcolo e senza inganno. Il rischio di un vangelo mal compreso è di farci smarrire la polifonia dell’esistenza, di farci trascurare la vita in pienezza, di impoverirci. Invece «abbiamo bisogno, tutti, di molto amore per vivere bene» (J. Maritain). Ma si può comandare un sentimento? Rispondiamo subito “no”: l’amore o è spontaneo o non è autentico. Eppure una forte parola di Paolo ci ricorda: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù» (Fil 2, 5). Questa parola mi dice che io posso evangelizzare il mio intimo, che posso approvare o disapprovare ciò che nasce in me; che in me c’è tutto: orma di Dio e traccia del male, che io posso accogliere o rifiutare; che io posso lavorare il mio cuore e dargli forma. Ad amare si impara imparando i sentimenti di Cristo. Egli, pur essendo Dio, si fece simile agli uomini, si fece piccolo, si fece prossimo. Impariamo, allora, per prima cosa a farci piccoli, a diventare prossimo. Il contrario dell’amore non è l’odio, ma l’indifferenza. L’odio spesso non è che una variante impazzita dell’amore. L’indifferenza invece riduce a nulla l’altro: non lo vedi neppure, non esiste più, non t’accorgi di lui. Nessuno ha il diritto di ridurre a nulla un uomo. L’indifferenza avvelena la terra, 262 ruba vita agli altri, uccide e lascia morire; è la linfa segreta del male: segreta, non eclatante come certi eventi clamorosi di odio, ma molto più subdola e sottile; permea la nostra vita e la gela progressivamente. «Amerai» significa non sarai mai indifferente! L’altro ti deve importare: l’uomo importa. Non separiamo i due comandamenti. Non credere che basti amare Dio: lo facevano anche i farisei nel tempio di Gerusalemme. Non puoi amare Dio e disprezzare l’uomo: lo fanno i fondamentalisti... Il prossimo ha corpo, voce, cuore “simili” a Dio. L’ha detto Gesù. Ma non credere che basti amare il prossimo dicendo: «Io mi impegno per i poveri, per la pace, la giustizia: questo è il mio modo di pregare. Dio è solo qui». Certo, Dio è lì, nei piccoli, ma è anche l’alfa e l’omega del mondo, è l’eternità della vita, è l’unico che cambia il cuore, l’unico che salva dal male me e mio fratello, è l’Altro che viene perché il mondo sia altro da quello che è, sia totalmente diverso. Io mi fondo solo su un assoluto, mi affido solo a un assoluto. Non separiamo i due comandamenti. Dice sant’Agostino: «Nessuno si sottragga a un amore in nome di un altro amore». Ad essi noi siamo crocifissi, come ai due bracci della nostra croce, come alla nostra risurrezione. Così avremo in noi gli stessi sentimenti, la stessa passione che era in Cristo Gesù. E saremo amici di tutto ciò che vive sotto il sole, di tutto ciò che vive oltre il tempo, amici del genere umano e amici di un Dio che dona eternità all’amore e a tutto ciò che di più bello portiamo nel cuore. 263 XXXI DOMENICA Non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno. (Mt 23, 1-12) Sono io di quelli che «dicono e non fanno»? Ad esser sincero, sì: dico e non faccio. Infinita è la distanza tra la parola che proclamo e la mia vita. Dice Gesù: «Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei» ed io, un po’ scriba e un po’ fariseo, da questa cattedra dico e non faccio. Il Vangelo di oggi brucia. La parola di Dio oggi è durissima verso noi sacerdoti, noi preti; brucia le labbra di noi che diciamo e non facciamo. Il profeta Malachia ha proclamato: «Guai a voi, sacerdoti, verrà una maledizione su di voi». Durissimo esame di coscienza: «Se non mi ascoltate, cambierò in maledizione le vostre benedizioni». È un esame di coscienza per tutti noi, popolo cristiano. E una soluzione Gesù la propone in questi termini: «Fate quello che dicono, perché viene da Dio; non fate quello che fanno, perché viene solo da loro». Ci soccorre Paolo con la bellissima espressione di chiusura del brano di oggi: «La parola di Dio opera in voi che credete» (1Ts 2, 13): agisce, lavora dentro, se- 264 mina, sradica, illumina già solo per il fatto di averle dato ascolto. La parola opera in te, edifica, accende fuochi, traccia strade, salva. Lo dice Gesù: «Voi siete salvi per la parola che avete ascoltato». Sulla parola di Dio non mi posso sbagliare, perché – dice il profeta – in questo caso «tu, sacerdote, profani l’alleanza, profani Dio stesso». È un esame durissimo quello della parola di Dio, oggi, perché nessuno è esente dall’incoerenza tra il dire e il fare. E ciò è conseguenza di un progetto troppo alto. Gesù ha detto: «Siate perfetti come il Padre» (Mt 5, 48). L’incoerenza è effetto di una debolezza che egli conosce bene, e che Paolo sintetizzava così: «Faccio quello che non vorrei e quello che vorrei fare non riesco a farlo» (Rm 7, 15). Eppure, verso la debolezza Gesù si è sempre mostrato premuroso, come il vasaio che, se il vaso non è riuscito, non lo butta via, ma riplasma l’argilla, la lavora di nuovo; come il pastore che si carica sulle spalle la pecora che si era perduta; come al pozzo di Samaria, quando offre acqua viva alla donna dai molti amori e dalla grande sete. La severità di Gesù non è rivolta alla nostra debolezza, non è rivolta alla distanza tra il dire e il fare. Noi non saremo giudicati sull’aver raggiunto o no l’ideale – perché nessuno sarà perfetto come Dio –, ma se verso l’ideale avremo camminato con lealtà, con l’infinita pazienza di ricominciare, con la fatica di ripartire dopo ogni caduta. La severità di Gesù colpisce l’ipocrisia, non la debolezza. Gli ipocriti dicono: «Io dico cose giuste, quindi sono nel giusto. Io dico, quindi sono. Io faccio il prete, quindi sono uomo di Dio». 265 Ipocrita è il moralista che indurisce la legge per gli altri; e più è severo con gli altri, più si sente vicino a Dio. Lega pesi enormi sulle spalle degli altri, e si scandalizza se sotto quel peso gli altri si perdono, ma si guarda bene dal caricarsi il peso, ad esempio, della donna che è stata tradita e derisa e abbandonata, o il peso dell’uomo solo che non ce la fa a vivere senza una qualche forma di amore e che dice: C’è così poco amore per me, che io lo prendo là dove lo trovo. Paolo oggi dice: «Avrei voluto darvi la mia vita». L’ipocrita dice: «Vi ho dato la legge, sono a posto». Io non temo l’incoerenza di chi non ce la fa, di chi è ancora lontano dalla statura di Cristo. Temo invece l’ipocrisia di chi non cammina più, di chi non ha un progetto e giustifica tutto questo. Nell’esame di coscienza che oggi propone, Gesù elenca tre errori che svuotano la vita e ti allontanano da te stesso. Il primo, l’abbiamo visto, è l’ipocrisia; il secondo è la vanità. Dice Gesù: «Tutto fanno per essere ammirati», per essere applauditi. Conta ciò che gli altri vedono di me. Io sono solo l’immagine di me, sempre più estraneo a me stesso. Mi angoscia o mi esalta ciò che gli altri dicono di me. E vivo una vita indiretta, di riflesso e di echi, vanità che rende vuoto l’intimo. Il terzo errore che Gesù denuncia è il gusto del potere, di farsi chiamare maestro. Ho forse bisogno anch’io di abbassare qualcuno per sentirmi superiore? Ho bisogno di far chinare delle teste per sentirmi grande? Ho bisogno di essere severo per illudermi giusto? Il Vangelo ci offre altre tre regole per la pienezza di vita: l’agire nascosto invece dell’apparire: «Chiuditi nella tua camera e il Padre tuo che vede nel segreto ti ascolterà» (Mt 6, 6). Chiede la semplicità invece della 266 doppiezza, e soprattutto il servizio invece del potere: «Il più grande comandamento» abbiamo ascoltato nel Vangelo domenica scorsa «è: “tu amerai”». «Il più grande tra voi» ci dice Gesù oggi «è colui che serve», colui che traduce l’amore nella divina follia del servizio. Il folle in Cristo è ormai il più intelligente. Follia e stoltezza della croce, del servizio, paradosso del vangelo, ma di cui c’è immenso bisogno. Diceva uno scrittore non credente, Leonardo Sciascia: «Io ho bisogno che i cristiani ogni tanto accarezzino il mondo contropelo, se non possono rovesciare i potenti dai troni». Almeno questo. Ed è la strada contromano scelta da Gesù. Dio non tiene il mondo ai suoi piedi: è lui ai piedi di tutti. Dio non è il padrone dei padroni, ma il servitore che in Gesù lava i piedi ai suoi discepoli. Dio non è il signore della vita: è di più e meglio, il servo di ogni vita. I grandi del mondo si costruiscono troni di morte. Dio non ha troni, si cinge di un asciugamano e vorrebbe fasciare tutte le ferite della terra. Dio come un servitore, che non esige ma sostiene, che non pretende per sé ma si prende cura, che non rivendica diritti ma risponde ai bisogni. Servitore ineguagliabile. E se una gerarchia nella Chiesa deve sussistere, sarà rovesciata rispetto alle norme della società terrena: «Voi siete tutti fratelli». Ma non basta: sarà di nuovo rovesciata da Cristo, che si è fatto da nostro fratello servitore di tutti. Gesù cambia la radice del potere, la capovolge al sole, all’aria, e rivela che ogni uomo è capace di potere solo se è capace di servizio. Sia questa parola – “servizio” – il nome nuovo della storia, il nome segreto della civiltà. 267 XXXII DOMENICA Ecco lo sposo, andategli incontro! (Mt 25, 1-13) Una parola lega oggi insieme, come un filo d’oro, le tre letture. Questa parola è: “andare incontro”. La sapienza va incontro a chi la cerca (prima lettura); noi andremo incontro al Signore quando verrà la morte (seconda lettura); e poi, nel Vangelo, le dieci ragazze escono nella notte per andare incontro allo sposo. Il regno dei cieli, il mondo come Dio lo vuole, la terra di Dio è simile a della gente che esce per andare incontro. Il regno dei cieli è simile a un incontro. Tutti noi conosciamo lo splendore dell’incontro di due persone che si amano. Questa nostra vita, appassionata e amara, è uscire per andare incontro, perché qualcuno manca. A noi pare che ci manchino delle cose; in realtà, se ascoltiamo profondamente la nostra vita, ci accorgiamo che sempre ci manca qualcuno, non qualcosa. Andare incontro a questo Dio che viene come uno sposo, che viene nella notte, che viene come saggezza del vivere; uscire, perché la vita non è restare nel proprio spazio chiuso: la vita è affrontare spazi aperti. 268 La vita del cristiano non è arredare con eleganza, con raffinatezza e con gusto, il proprio piccolo angolo, il proprio nido, il mio privato. È invece andare incontro, è “fare dei passi verso”, è abbattere distanze e solitudini. I cristiani sono inventori di strade che conducono gli uni verso gli altri e insieme ci conducono verso Dio; i cristiani sono gente di incontri, che sanno vivere gli incontri con gli occhi e il cuore aperti. Il regno dei cieli è come della gente che va incontro e che prende con sé la sua lampada. Come queste donne nella notte, queste dieci piccole luci nella notte, questo bucare la tenebra, almeno per un breve spazio. Il regno dei cieli è così: è simile a dieci piccole luci nella notte. È simile, il regno dei cieli, a una notte che sta per essere trafitta da tante piccole luci. Sono piccole, e fanno luce sufficiente solo per un primo passo, e tutt’intorno è notte, ma a ogni passo la luce ti accompagna e si rinnova, anche se l’orizzonte è un orizzonte di tenebra. Noi cristiani dobbiamo essere così, dentro la notte del mondo: essere presenze luminose; non esperti di notte, ma esperti di luce; non scrutatori di tenebra, ma scrutatori d’aurora. Nel pessimismo, nella delusione, nella stanchezza, in quell’aria di scoraggiamento e di sfascio che ha preso tutta questa nostra stagione civile, noi dovremmo essere gente che sa e che osa parlare del giorno che viene, del sole. Non esperti d’ombra, non gente che misura la tenebra, il negativo, il marcio, lo scandalo, ma soprattutto gente che si impegna a portare una piccola luce: perché il mondo cambia se noi cambiamo. Testimoni della luce, come è detto di Giovanni Battista (cf. Gv 1, 7-8). 269 A noi, custodi della speranza, a noi è rivolta la domanda che leggiamo nel libro del profeta Isaia: «Sentinella, quanto manca della notte?» (21, 11). A noi è chiesto dal mondo di annunciare il giorno. Cinque di quelle dieci ragazze non presero con sé olio sufficiente; la loro luce si è spenta. La loro presenza si dissolve nella notte. Perché la tua vita o è presenza luminosa o non è nulla; o noi siamo presenze luminose o non siamo. Il nostro rischio è di dissolverci nella notte, perché o porti luce o muori. Siamo anche noi vergini stolte, amanti delle sciocchezze, quando ci diamo gli obiettivi e poi non adoperiamo i mezzi concreti per realizzarli; siamo stolti quando restiamo naufraghi in quel mare di parole che separa il dire dal fare; siamo stolti quando ci interessiamo a ciò che è di fuori, a ciò che va dalla pelle in fuori, anziché a ciò che va dalla pelle verso dentro, quando siamo gente dell’apparire e non dell’essere. Stolti sono quelli che vivono di solo pane, che si credono solo corpo, che monetizzano la vita, che trasformano i loro sogni in denaro; stolti sono quelli dell’immediato, del tutto e subito, dell’attimo fuggente. Non hanno la pazienza della vita, non hanno il gusto della conquista e non avranno mai il gusto della vita. Vergini stolte sono quelli che confidano in ciò che possiedono o credono di possedere, e che per amare aspettano di essere amati, e non hanno il coraggio di lanciarsi. Questi non sanno vivere accesi! Perché due sono gli inviti della parabola di oggi: l’invito all’incontro e poi l’invito a vivere accesi, come lampade. Alla fine la parabola è tutta in questa alternativa: una vita spenta, una vita accesa. Le cinque vergini sagge si identificano con le loro lampade: ciascu- 270 na è una persona-lampada, luminosa e illuminante. E come si fa per vivere accesi? Io conosco tre risposte. La prima risposta viene dalla parabola di oggi. Per vivere accesi è necessario essere uomini e donne dell’incontro, che sanno andare incontro, coprire distanze, lacerare solitudini. La seconda risposta viene da Isaia quando dice: «Illumina altri e ti illuminerai, guarisci la ferita d’altri e la tua piaga guarirà presto» (Is 58). La terza risposta è offerta da un bellissimo Salmo: «Guardate a Dio e sarete raggianti, guardate a lui e non avrete più volti oscuri» (34, 6), perché chi guarda solo a se stesso non si illumina mai; chi guarda a Dio diventa raggiante. Uno che sa inventare incontri diventa persona-lampada, luminosa e illuminante. E che cos’è l’olio della lampada? Secondo i rabbini, è il simbolo delle opere buone, che accendono la notte, che permettono di vivere accesi. È vano rivolgersi ad altri – «dateci del vostro olio» –, perché ognuno di noi risponde in proprio, per la propria saggezza e per la propria follia, per il bene e per il male. E poi: «Tutte si addormentarono», stolte e sapienti, prudenti e superficiali. Perché la fatica del vivere, la fatica del credere, di attraversare la notte, ha portato tutti noi a momenti di abbandono, a sonnolenza, a peccati. Il problema non è tanto resistere al sonno; forse per un po’, solamente per un po’, ce la facciamo. Il vero problema è risvegliarci alla voce di mezzanotte, risvegliarci al grido che indica lo sposo, ravvivare il cuore e andare ancora. Questa parabola è consolante. È vero, ci sono le vergini stolte, ma è vero, soprattutto, che c’è sempre 271 una voce che ci risveglia. Non importa se ti addormenti, se sei stanco, se l’attesa è lunga, se il tuo cristianesimo sembra appassire; c’è sempre una voce che ti risveglia; allora ravvivi il cuore e vai; perché Dio non sta lì pronto a coglierci in fallo, Dio non è lì per sorprenderci in flagrante, in peccato: Dio è una voce che ti risveglia. E il nostro mondo, la nostra vita, i nostri incontri sono ricchi di possibilità, di possibili venute, di possibili incontri, di possibili voci. Il tempo è ricco. Basta avere occhi e orecchi sufficienti. Basta avere un cuore sufficiente. Questo è il regalo di Gesù: un cuore davvero, finalmente, sufficiente a far sbocciare incontri e fiori di luce dentro qualsiasi notte. 272 XXXIII DOMENICA Bene, servo buono e fedele... prendi parte alla gioia del tuo padrone. (Mt 25, 14-30) Questa parabola è la sintesi delle due forze opposte di cui si nutre ogni vita: l’emozione e la disciplina. L’emozione è quel capitale di partenza, quel paradiso terrestre in cui ogni Adamo è collocato. È il talento donato, le capacità, l’intuizione, è l’amore come fioritura spontanea, fiore selvaggio delle nostre strade. Poi interviene la disciplina, il lavoro paziente e intelligente di Adamo, che il Signore ha posto in un giardino perché lo custodisse e lo coltivasse. Di emozione e disciplina, di queste due forze opposte, si nutre la vita. Di queste due forze si nutre ogni arte, ogni esistenza, ogni unione che voglia ribellarsi alla banalità e all’invasione del vuoto. Oggi, in una civiltà dell’emozione senza disciplina, dove l’imperativo è provare emozioni, dove è vero e importante ciò che regala emozioni sempre più intense, oggi il Vangelo dei talenti dice che questo splendido capitale va lavorato e regolato, perché non rimanga un assoluto cieco e sterile, ma si ponga a servizio di valori e di obiettivi. 273 In quale servo mi riconosco? Nei primi due, quelli che lavorano il loro capitale, il loro splendido dono: e vedono il mondo, gli uomini, il tutto come un dono iniziale che progredisce, un giardino incompiuto che deve crescere e fiorire? Oppure mi riconosco nel terzo servo, quello che non fa progredire niente, un Adamo che non coltiva più il suo giardino, l’uomo sedotto dal minimo, uomo inutile al futuro? Il cuore segreto delle cose è un appello a crescere; una spirale d’amore crescente è l’energia cercata. Come per il campo arato che non può restituire in estate solo il seme che ha ricevuto, come fa il servo della paura, così per noi, tra semina e mietitura, il nostro ruolo è la moltiplicazione. Pena il non senso della vita. Il terzo servo ha un cuore malato, assente, senza desiderio. È un esule della creazione, esiliato e inutile. Perché noi siamo a immagine del Dio creatore, che sparge a piene mani i suoi germi di luce e di vita, con magnifica esuberanza. Il terzo servo non crea più: solo conserva. Ed è troppo poco. Perché il mondo e il cuore non ci sono dati come cose da conservare, come fragili miracoli che possono rompersi fra le mani, ma il mondo e il cuore devono ascendere gloriosamente verso il loro punto “omega”, verso la fioritura. Non siamo dei conservatori di cose preziose e minacciate, ma siamo dei creatori di opere nuove, servitori della forza lievitante nascosta dentro tutto ciò che vive. Solo così la nostra vita non sarà inutile al divenire comune. Così è per i primi due servi, perché nella loro mente non c’è un rendiconto che incombe e turba i sonni, ma c’è una vita che urge e chiede di essere aiutata a crescere. Vocazione nostra è di essere emozionati e di- 274 sciplinati artefici di creazione; il nostro incarico, che è poi il nostro vanto, è di lasciare il mondo un po’ più bello di come l’abbiamo trovato. C’è nel Vangelo tutta una teologia del seme, del lievito, del germoglio, della gemma, di inizi come doni pieni di grazia. A noi tocca il cammino, gli itinerari fatti con emozione e disciplina, a noi tocca l’estate odorosa di frutti. Dio è la primavera del cosmo: a noi il compito di creare l’estate, l’estate dei frutti. Il mondo è un giardino incompiuto ma incamminato. In quest’ottica positiva, luminosa, noi e il mondo siamo un fascio di possibilità, di gemme che stanno per fiorire. Ciò che io posso fare è solo una goccia nell’oceano, ma è questa goccia che dà senso alla mia vita (madre Teresa di Calcutta). La parabola dei talenti è il poema della creatività, senza voli retorici, perché nessuno di questi tre servi crede di poter salvare il mondo. Tutto invece odora di casa, di viti e di olivi o, come nella prima lettura, di lana, di fusi, di lavoro e di attesa. La parabola dei talenti è una lieta notizia contro la paura, perché la paura non è creativa, rende conservatori ed è sterile. Quante volte abbiamo rinunciato a vincere solo per la paura di finire sconfitti! Così il modo più semplice, il modo più sicuro per non arrivare da nessuna parte è quello di rinunciare a partire. Paura. Ma Dio non è un padrone che rivuole indietro i suoi talenti. Il terzo servo non ha capito che il capitale guadagnato sarebbe stato per lui, non per il padrone, che quel talento era una forma di comunione, di adozione. Il padrone non vuole per sé i dieci talenti: essi restano ai servi fedeli. A sua volta anche lui agisce come 275 i servi, anche lui li moltiplica, dicendo: «Sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto». Non è una restituzione, è un rilancio: e questa spirale d’amore crescente è il nome segreto di tutto ciò che vive. Noi non viviamo per restituire a Dio i suoi doni. Questi invece diventano fermento, seme di altri doni, lievito che solleva, orizzonte che si dilata. Gioiosa pedagogia di vita! E poi io non sarò giudicato sulla quantità di frutto portato, ma sulla verità di questo frutto, sulla sua aderenza e coerenza alla mia verità, ai miei cinque o due o uno o mezzo talento. La felicità non è figlia della quantità di talenti, e colui che consegna dieci non è più bravo di quello che ne consegna quattro. Non c’è tirannia della quantità, non c’è capitalismo, non c’è concorrenza. Qualsiasi sia il lavoro che fai, se sei professore universitario o pensionato o casalinga, non conta ciò che fai, conta come lo fai, aderendo alla verità del tuo talento. Non c’è un dieci ideale da raggiungere: c’è da camminare con fedeltà a te stesso, emozionato e disciplinato servo della vita, vero della verità tracciata in te da Dio. Infine i talenti che abbiamo ricevuto non sono solo dentro di noi. Ogni creatura che incontro è un dono inviatomi dalla provvidenza. Ognuno è talento di Dio per gli altri. Come talento io ho ricevuto te! Lo può dire lo sposo alla sposa, lo può dire l’amico all’amico: Sei tu il mio talento! Poterlo dire a qualcuno, poterlo dire a molti: Sei tu il mio talento! Per passare dalla liturgia della chiesa, finalmente, alla liturgia della vita. 276 XXXIV DOMENICA CRISTO RE Ogni volta che avete fatto queste cose... l’avete fatto a me. (Mt 25, 31-46) Termina oggi l’anno liturgico e le finestre si aprono sulle cose ultime: «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno dei miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me». Il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, ma è già venuto nelle lacrime, nella fame, nella sete. Verrà nella sua gloria, ma già è qui nella fraternità con i più piccoli. Dio è nei cieli, diciamo, ma i cieli di Dio sono nel povero. Anzi, il povero è il cielo di Dio, e in quel cielo inatteso avviene ora l’incontro con lui, avverrà un giorno il giudizio. Quando la tua mano tocca un povero, quando tocca un sofferente, le tue dita stanno sfiorando il cielo di Dio. Perché Gesù è là, nel posto dove noi non vorremmo mai essere. È là, nelle persone che incarnano non i tuoi sogni o la tua invidia, ma che incarnano le tue paure e la tua fragilità. È in quelli che non incarnano la felicità raggiunta, ma il dolore di vivere e tutta la speranza. Il Vangelo di Matteo ci assicura che entreremo nel cielo solo se saremo entrati nella vita e nella casa di chi 277 soffre. Il giudizio di Dio, atto ultimo e supremo, non sarà rivolto alla nostra persona, ma ai nostri poveri, cioè alla porzione di lacrime, di piccoli, di stranieri, di sofferenti che è stata affidata a ciascuno. Il giudizio di Dio non riguarderà la nostra persona, ma le nostre relazioni. Dio giudicherà non guardando me, ma guardando attorno a me, guardando se qualcuno è stato da me consolato, se qualcuno ha ricevuto da me speranza e forza per continuare il cammino, e pane e acqua e coraggio per oggi e per domani. È vero, a nessuno di noi è chiesto di compiere miracoli, ma di prenderci cura; non di guarire i sofferenti, ma di visitarli. E penso a tante case dove si ha cura di un anziano, dove un malato è accudito con tenerezza e senza clamori, dove si dà speranza a una persona tradita, abbandonata, separata, a un figlio handicappato. A volte a prezzo di umile e silenzioso eroismo. Lì il giudizio è già scritto: «Venite, benedetti!». La cosa per me affascinante, quando penso alle cose ultime, è che Dio non ci giudicherà in base alle nostre debolezze, ma in base al bene che avremo fatto o non fatto. Giudicherà non la nostra debolezza, ma soltanto la nostra forza. Io non temo la mia debolezza davanti a Dio, temo la mia indifferenza in questa vita. È la grandezza della nostra fede; l’argomento del contendere storico con Dio in realtà non è il peccato: è il bene. Perché misura dell’uomo, misura di Dio, misura della storia è il bene. Il nostro futuro, il nostro cielo, il nostro paradiso, il nostro avvenire è generato dal bene che io, tu, noi abbiamo donato al Lazzaro infinito, al Lazzaro innumerevole della terra. Allora Dio non sarà mai colui che ti coglie in fallo in un momento di debolezza, non è colui che ti condanna 278 se non ce la fai a vivere in un modo più alto, ma è colui che ti giudica in base alle cose migliori della tua vita. Non misura le tue debolezze, ma la tua bontà. È divinamente, stupendamente truccato il giudizio di Dio, perché argomento del giudizio non sarà la tua vita, ma le cose buone della tua vita. Per questo dobbiamo temere soprattutto le mani vuote! Per le mani sporche ci sarà il perdono: basta inginocchiarsi; ma per le mani vuote unica risposta è il nulla di una vita spenta. Un peccato si redime, ma chi redime una vita di rifiuti, chi redime una vita di indifferenza? Gli archivi di Dio non sono pieni di peccati custoditi per essere tirati fuori nell’ultimo giorno: sono perdonati, annullati, non esistono più, sono niente. Gli archivi di Dio sono invece pieni di gesti di bontà, di lacrime raccolte e asciugate. Il povero di cui parla oggi il Vangelo è colui che viaggia ai limiti dell’esistenza. E se lo guardi, ti senti naufragare. Il povero, per la sua fragilità, ti obbliga a confrontarti con le cose estreme, con la morte. Quella foresta di poveri che ci avvolge ci ricorda l’estrema vulnerabilità di tutta la vita. E ci fanno più umili, ci fanno affidare alla fede-fiducia. Maestri di fede sono i poveri, c’è una cattedra dei poveri; e se li guardo e li ascolto, mi dicono, esattamente come il Vangelo di oggi, questo: che la vera differenza non è fra l’essere e l’avere, ma tra il viversi nell’abbandono, come gettati via, consegnati soltanto alle cure del proprio io, oppure il sapersi accolti e ospitati, vestiti e nutriti, affidati alle cure e alle sollecitudini di un altro. Io non sono un essere gettato nell’esistenza come una pietra che qualcuno si è buttato dietro le spalle. Io esisto invece perché sono raccolto, c’è un venire verso 279 di me, sono accolto in una casa ospitale, in una terra promessa da qualcuno, che è attesa, attesa amorosa, attenta, ospitale. Nient’altro che attesa eternamente aperta! Festa del Signore Gesù re dell’universo; ma un re strano, un re pastore, un re che va in cerca e che vuole insegnarci a essere, anche noi, pastori di qualche solitudine, tutti pastori di un nostro minimo gregge. Un re tenero, perché, se leggendo il profeta Ezechiele, nella prima lettura, al posto di quella parola generica “pecore” io metto il mio nome, quei verbi così commoventi diventano: «Egli va in cerca di me, riconduce me all’ovile, fascerà me, si prenderà cura di me, pascerà con giustizia proprio me». Un re pastore, un re dei fratelli più piccoli, un re che dimentica se stesso, un re crocifisso che muore ostinatamente amando. Ezechiele ci parla di Dio con il nome di “pastore”: nella Bibbia sempre i nomi di Dio sono degli imperativi per l’uomo. Quando sento, nel capitolo 34 dell’Esodo, che Dio è «misericordioso e pietoso, lento all’ira e grande nell’amore», questo significa che io devo essere misericordioso e pietoso come lui, che ogni uomo sarà lento all’ira e grande nell’amore come lui. I nomi di Dio nella Bibbia sono sempre degli imperativi per noi. Così il nome di “pastore”, così il nome di “padre”: e tu sarai padre per l’affamato, l’assetato, il nudo, il prigioniero; sarai pastore per l’ultimo agnello del gregge. Nella Bibbia non è Dio che è descritto in termini umani, ma l’uomo è detto in termini divini; non è Dio che è antropomorfo, ma è l’uomo che è teomorfo, che ha la forma di Dio, che cresce e si misura con la statura di Cristo, con i nomi di Dio. E si fa somigliante a co- 280 lui che è il somigliantissimo al Padre. La rivelazione di Dio è diventata norma di vita. E tuttavia il cristianesimo non si riduce a fare del bene. Non occorreva Gesù per questo, non occorreva la croce: bastava un cuore buono, il cuore buono di tanti uomini. La fede deve restare scandalosa: Dio si trova sempre di nuovo in mezzo alla sofferenza su questa terra. Ma io sono al lavoro perché diminuiscano sempre più i volti dei crocifissi. La fede deve restare scandalosa anche per l’intelligenza e sfidarci. Io credo nella risurrezione della carne, in una tunica di bellezza e di luce che è sotto la tunica di pelle di Adamo. Credo nella vita eterna, nell’istante che brilla nell’eterno e nell’eterno che si insinua nell’istante. Credo che questo ci possa aiutare ad essere seriamente cristiani, per avere ancora la forza di annunciare e credere, di credere e invocare: «La morte sarà vinta e Dio sarà tutto in tutti». Crederlo e invocarlo, crederlo e goderne, gioire per questa fede scandalosa: «Dio sarà tutto in tutti, sarà tutto in me, senza più la morte, per sempre». Amen. 281 Solennità e feste IMMACOLATA CONCEZIONE DELLA BEATA VERGINE MARIA (8 dicembre) Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te. (Lc 1, 26-38) Secondo un’antica tradizione rabbinica, l’Adamo delle origini era in principio rivestito di luce, e fu solo con il peccato che la luce venne ricoperta dalla pelle dell’uomo; ma è ancora dentro, nascosta. Fu così che la tunica di bellezza che ricopriva Adamo divenne la tunica di pelle. Quando verrà il Messia, la pelle cederà nuovamente il posto alla luce dell’inizio e il nuovo Adamo sarà l’Adamo di luce. A questa tradizione rabbinica si riferisce forse Paolo quando esorta i cristiani con quella immagine così bella: «Indossate le armi della luce» (Rm 13, 12). Forse conosce il racconto anche Giovanni, che nell’Apocalisse parla di «una donna vestita di sole», vestita di luce (12, 1). Ebbene, l’Immacolata, la donna senza peccato, è proprio questo: la breccia della luce, la porta della bellezza sepolta dentro ogni uomo. La nostra missione, la nostra vocazione è, allora, liberare la luce che Dio ha posto in ciascuno e che il nostro vivere superficiale o sbagliato continua a nascondere. Ogni uomo è un custode della luce, luce custodita in un guscio d’argilla. 285 La festa dell’Immacolata, che significa letteralmente “preservata immune da ogni macchia di peccato originale”, è la festa di una donna, ma in lei anche di ogni donna e di ogni uomo. È la festa del sogno di Dio per ogni suo figlio; festa delle radici sante dell’umanità, che nella loro origine sono pure, scintille luminose del grande braciere della vita, che nella sua origine è puro. Le letture di oggi ci aiutano a fare questo collegamento. La prima ci mostra il primo uomo: è la storia di un tesoro perduto, di una luce smarrita. Nel Vangelo appare una donna nuova, la ragazza di Nazaret, in cui inizia il progetto nuovo di Dio. Nella lettera di Paolo entrano in scena tutti gli uomini, chiamati ad essere santi e immacolati, a entrare tutti nel progetto nuovo di Dio. Memoria, storia e profezia. E noi siamo qui a nutrirci di questi tre elementi e della luce sepolta in Adamo. Ma con Maria, breccia della luce, comincia a trasparire quello che deve essere il nuovo Adamo. Con lei appare nel mondo una creatura che è solo bontà, una mano incapace di colpire, una parola incapace di ferire, una innocenza minacciata eppure vittoriosa, un gesto che non racchiude alcuna ambiguità, uno sguardo che non perde mai l’innocenza del suo brillare, un cuore senza divisioni, una verginità senza rimpianti, una maternità non possessiva, una sposa che ama in castità e tenerezza totali. La creazione, allora, può ripartire, perché vergine di nuovo. La festa della donna senza peccato ci richiama anche a un altro ordine di riflessioni: ci ricorda la forza distruttiva e misteriosa del male in ogni vita. Maria però è il segnale che il male non è vincente, che la sua forza devastante si arresta. Il racconto della Genesi lo 286 dice con parole che ogni volta riescono a confortare la speranza: «Porrò inimicizia tra te, serpente, e la donna. Tu le insidierai il calcagno». Il male può minacciare, può ferire l’umanità, ma solamente ferirla. Solo dietro di te è il male: ti colpirà alle spalle, ti insegue, ma è solo un passato che ritorna; non è davanti a te, non ingombra la strada, non occupa l’orizzonte. Non è il tuo futuro. Il male è come in ritardo su di te: per questo «ti insidierà il calcagno». Ma la stirpe della donna gli schiaccerà la testa. L’umanità riuscirà un giorno a schiacciare quello che sembrava invincibile. La vittoria è dell’uomo. Il bene è più forte, nonostante tutto il male che vediamo occupare il nostro sguardo e parte del nostro cuore. La vittoria è dell’uomo. Il bene è più forte del male. Allora l’uomo, proteso in avanti, ha un anticipo, ha un vantaggio sul male, perché ha dentro di sé una tunica di luce e non di tenebra; ha dentro di sé l’immagine di Dio e non quella del serpente. Ha davanti a sé un mondo che merita amore e non un baratro avvelenato. Certo, la sproporzione tra la vittoria promessa e ciò che abbiamo oggi fra le mani è il nome della speranza. È il tempo della speranza. Ricorda: solo dietro di te è il male e insidia il tuo calcagno. E questo ritardo del male, per grazia di Dio, sarà un ritardo eterno. Oggi, allora, è la festa delle nostre radici e del nostro futuro, perché ciò che è accaduto in Maria accade in ciascuno; perché ogni dogma suo è lezione per la nostra fede. Le radici dell’umanità sono sante; il nostro futuro è una terra senza veleno di morte. Noi siamo tra questi due estremi, impauriti dalla santità, attratti dal peccato e dalla mediocrità. 287 In questo tempo d’Avvento l’Immacolata è come l’aurora del Natale. Entrambe le feste ci parlano di un Dio che si rivela spogliandosi di potenza e rivestendosi di umanità, che si rivela negli inizi della vita, nella generazione. Dio è generazione: egli è là dove la vita celebra la sua festa. Ed è Natale. Ed è l’Immacolata. I primi capitoli dei Vangeli di Matteo, di Luca e di Giovanni sono intessuti di nascite. La storia è scandita dal ritmo del generare. Ed è storia sacra, per dirci che Dio crea ancora, ma crea generando; che entra nella storia e la cambia generando vite, non con i miracoli, ma con i suoi figli. Cambia la storia non con prodigi, ma con i suoi amici. Viene non sulle ali dei cherubini, ma nel grido vittorioso del bambino che nasce. E poi Dio fa spazio all’uomo. Il Verbo fa spazio alla carne. Ed è l’uomo che assume col suo passo, col suo ritmo, la fragile luce che gli è affidata, e la porta a maturità. L’angelo dice a Maria: «Chaîre. Sii lieta! Sii felice!». Il tuo nome è: “Amata per sempre”. Un angelo viene ancora a ripetere per ciascuno: Tu sei amato. Dio ti ha scelto prima della creazione del mondo. Dio ti ha scelto quando non eri che una perla di sangue e di luce. Allora vorrei pregare così: Io sono come un bambino, Signore: da solo non saprei vivere. Sei tu che mi fai esistere. Ma sapermi amato da te: questo è il senso. Sono come un bambino appena nato: che cosa posso fare per meritarmi l’amore? Cosa posso offrire di mio? Eppure sono amato, immeritatamente. Cosa posso fare, allora? 288 A mia volta ripetere a chi incontro, con la semplicità di chi vuol confidare un incanto: «Ascolta, Dio riempie la tua vita; rallegrati, anche tu sei amato per sempre. Abbi fiducia: sei un mistero di peccato e di bellezza, ma sei un amato mistero, dove ancora accade il miracolo della salvezza». 289 SANTO STEFANO (26 dicembre) Chi persevererà sino alla fine sarà salvato. (Mt 10, 17-22) Ieri un angelo diceva: «Vi annuncio una grande gioia: è nato un uomo». E oggi, il primo giorno dopo Natale, la voce di quell’uomo dice: «Guardatevi dagli uomini, perché vi consegneranno ai tribunali e vi flagelleranno a morte: fratello contro fratello, padre contro figlio e figlio contro padre». È saggia la liturgia, di una saggezza incredibile. Ti toglie le illusioni. Puoi commuoverti davanti al bambino Gesù, ma ricorda, non illuderti, c’è subito il dolore. Anche le ss si commuovevano la notte di Natale, cantando Stille Nacht, ma il giorno di santo Stefano riaccendevano i forni. Vuole dirti la liturgia: non disperare nel dolore, c’è anche la gioia, come la notte e il giorno intrecciati insieme a scandire il tempo della vita. Però non illuderti nella gioia: c’è subito il dolore. Ecco, il cielo risuona ancora di canti, ma già la Chiesa si veste di sangue. Eppure non è l’uccisione di Stefano che noi oggi celebriamo, non l’ultimo atto di una vita, ma una vita intera; perché io non sono un eroe, non mi sento così coraggioso e volitivo, così ca- 290 pace di dominare la paura, di scommettere sui cieli aperti. Se noi celebrassimo solo queste cose di Stefano, potremmo anche provare ammirazione per lui e per tutte le altre grandi figure della storia. Ma la forza di seduzione che io cerco, la capacità di conquistarmi risiede altrove, nei toni più sommessi della sua vita. Lì anch’io posso seguirlo. Da dove nasce il fascino della sua santità? Stefano amava i piccoli della comunità. È il primo dei sette diaconi scelti dagli apostoli per servire alle mense, per soccorrere le vedove con i loro bambini, per toccare il pane con amore e moltiplicarlo per chiunque avesse fame. Si è messo dalla parte dei poveri, si è fatto debole con i deboli, è stato ferito dalle loro ferite (cf. At 6, 1-8). Stefano amava servire. Qualcuno gli deve aver parlato della bellezza dell’amore, e lui si è abbandonato a questa forza, senza calcolare più nulla, con quella stupenda e grande irrazionalità che è propria dei bambini e degli innamorati. C’è un eroismo quotidiano, se lo sappiamo vedere, nascosto in una costellazione di piccoli fatti di cronaca. È l’eroismo della tenerezza, per esempio. E noi, che sappiamo vedere la violenza, che è la forza del male, non sappiamo vedere la pietà e il servizio, che sono la forza del bene, la forza più vicina al cuore dell’essere. Stefano amava la parola di Dio. Perché non fosse trascurata, offre le sue mani. E davanti al sommo sacerdote fa una lettura bellissima e limpida di tutta la storia sacra. Aveva dentro di sé questi libri di luce. Santità è questo: non trascurare la parola di Dio. Il nostro peccato è l’indifferenza, la noncuranza della sacra Scrittura. Se avremo a cuore la Scrittura, allora sarà vera la parola di Gesù: «Non preoccupatevi di cosa 291 dovrete dire per testimoniare di me, perché vi sarà suggerito in quel momento» (Mt 10, 19). È lo Spirito che parlerà in voi, lo Spirito che vi ha occupato l’anima e illuminato il cuore quando avete aperto con perseveranza quei testi. Stefano si lascia portare dallo Spirito: allora può dire parole che non sono degli uomini, ma che appartengono al vocabolario di Dio: «Signore, non imputare loro questo peccato». E poi vorrei avere gli occhi di Stefano, quando dice: «Ecco, io contemplo i cieli aperti». Vedere l’invisibile, e vedendo sognare, andare oltre la realtà, intuire ciò che ancora rimane nascosto. Noi entreremo nel Regno se prima saremo capaci di vederlo, se prima l’avremo desiderato, con gli occhi incantati di un bambino, con la freschezza di uno sguardo che non si arresta al mondo degli adulti, che non crede che la realtà sia solo quella che si vede, ma si apre verso le cose ultime, verso il cielo. È il cielo che mantiene aperto il futuro, il cammino, la storia della terra. La liturgia di ieri era celebrata attorno a una grotta. Quella di oggi ci porta da tutt’altra parte, ci porta alla liturgia celebrata in tante grotte del mondo: chiese senza immagini e senza vetrate, cattedrali senza cupole, ma con muri di dolore, con liturgie di pianti. È un mondo, questo, che uccide i suoi figli. Ma non è possibile che esista un altro modo per vivere insieme, un modo che non sia quello di uccidersi, di fuggirsi, di odiare ed essere odiati? Sì, un altro modo c’è: è quello di Gesù, quello di Stefano, che non ha fatto altro che riprodurre, nella sua vita e nella sua morte, la vita e la morte del Maestro. Come Stefano ha avuto l’audacia della morte per Cristo perché prima viveva di lui, così noi siamo chia- 292 mati a morire per Cristo nell’audacia della vita, a percorrere la stessa via, non tanto facendo appello agli sforzi di volontà, ma a quella pace interiore che viene in chi ha scoperto la vera luce della vita. È la pace di cui godono i bambini e i santi, che obbediscono a un progetto di vita che ha il volto del Padre, il volto della tenerezza e della bontà e della luce e del servizio coraggioso. Gli occhi di Stefano: «Ho visto i cieli aperti»! Non siamo più abituati a scrutare il cielo, tanto meno in città. Vediamo le nostre luminarie e ci bastano, le nostre stelle artificiali, contempliamo ciò che brilla di fragile luce. Se fossimo capaci di guardare in alto, di entrare in un ordine di pensieri più vasto e interrogare il mistero e il domani e il profondo, vedremmo ancora una volta che il Signore non abita in cielo: il Signore ha posto la sua tenda in mezzo a noi, nello sterminato accampamento degli uomini e nel piccolo accampamento della mia casa. La buona novella del Natale non può essere separata dalla buona novella della Pasqua. La mangiatoia e la croce: questo ci ricorda la liturgia, oggi. Noi siamo portatori di vita, ma portatori di vita e portatori di morte si affrontano ancora sulla terra. Da che parte ci poniamo? Da quella dei portatori di vita, di coloro che vogliono servire e non comandare, condividere il pane e non accumulare, prendersi cura di qualche piccolo, prendersi cura della parola di Dio e delle vittime di un mondo che vogliono diverso. Io amo questo mondo, ma lo voglio diverso, un mondo dove non ci sia più bisogno di martiri, dove non ci sia più la gloria del martirio ma quella del servizio, dove non è più versato il sangue, dove si spegne 293 il grido di Abele. Perché, se alcune cause valgono il mio sangue, nessuna causa mai vale il sangue di mio fratello. Alla fine ci sarà la corona di giustizia «per coloro che attendono con amore» (2Tm 4, 8). Non si tratta di amore emotivo e sentimentale, ma di amore fatto di pane, di mani, di una attesa operosa. Attendiamo, allora, con amore. Questo sia l’impegno del Natale. Cristo è venuto, ma ci chiede di essere coloro che attendono con amore. 294 ANNUNCIAZIONE DEL SIGNORE (25 marzo) Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te. (Lc 1, 26-38) È, questo, un Vangelo pieno di parole che non riusciamo a recintare, che dicono più di tutto quello che possiamo dire. Eppure, riascoltandolo ancora una volta, mi sembra che tutto avvenga nel silenzio, senza testimoni. Le voci degli angeli non fanno rumore: una donna, una giovane donna, e l’incredibile annuncio. Non ci sono altre voci, se non questo parlare stupefatto dell’angelo e della donna, senza testimoni, in questa intimità che vorrei tanto recuperare per me: io e il Signore, in questo parlarsi; tu e Dio, in questa intimità. L’annuncio a Maria non avviene nel tempio, ma nella casa, e indica l’eterna preferenza di Dio. A Davide, che vuole dargli lo spazio di un tempio, Dio risponde che preferisce lo spazio dei pascoli, dei greggi in cammino, delle generazioni, della storia degli uomini, delle mille storie degli uomini. Lo spazio delle strade: «Sono stato con te dovunque sei andato» (2Sam 7, 9) dice a Davide, a ciascuno. Su tutte le mie strade lo posso incontrare; per quante strade io percorra, per quanto lontano io vada, dovunque io vada, sempre è con me. 295 Nella carne di Maria, nel suo grembo, Dio accade. Ed è così che vuole accadere, nella storia di ciascuno, nella nostra carne, cioè nella nostra vita, nella nostra casa, sulle strade che noi percorriamo. Il tempio amato da Dio è la carne della vita. «Un corpo mi hai preparato» abbiamo ascoltato nella Lettera agli Ebrei. Ora sta a noi offrire a Dio la carne della nostra storia. L’angelo dice innanzitutto a Maria: «Chaîre, sii lieta, gioisci, rallegrati!». L’angelo che viene da Dio non dice: Fa’ questo, inginocchiati, ascolta, prega... Semplicemente: «Gioisci!». Il primo annuncio, il primo vangelo è lieta notizia e precede qualunque tua risposta. Il primo vangelo è: «Tu sei piena di grazia, Maria!». È per noi questa parola: Tu sei amato teneramente, gratuitamente, per sempre. Il nome di Maria, allora, è “amata per sempre”. E la sua funzione nella Chiesa è ricordare, nel suo stesso nome, quest’amore che dà gioia. «Il Signore è con te»: questo il nome di Dio! Io sono colui che è con te, che è qui. E quando il Signore Gesù lascerà la terra, ripeterà con la sua ultima parola la prima parola dell’angelo: «Io sarò con voi sempre, fino al consumarsi del tempo» (cf. Mt 28, 20). Il nome di Dio è: Io sono con te. Il nome dell’uomo è: Eccomi. E aggiunge l’angelo: «Non temere, Maria», non temere se Dio non prende le strade dell’evidenza, della potenza, del clamore, della grandezza apparente; non temere, se Dio l’Altissimo si nasconderà in un piccolo essere umano, in una perla di luce e di sangue, nascosta dentro di te. Non temere le nuove strade di Dio, così lontane dalla scena, dalle luci, dalle emozioni solenni del tempio; non temere questo Dio bambino che verrà solo se tu lo vuoi, che vivrà solo se tu lo ami. 296 Maria, Dio vivrà per il tuo amore. Ed è ciò che dice a ogni madre. Tutti noi viviamo per l’amore di una madre. Ma l’angelo ripete a ciascuno: Dio vivrà oggi nel mondo per il tuo amore. Tocca a noi, oggi, aiutare Dio ad essere vivo nel nostro mondo, nella nostra storia, ad essere presente e significativo, ad essere forte e incisiva presenza. Dio vivrà per il nostro amore. «Non temere, Maria.» Per 365 volte ritornano nella Bibbia queste parole: «Non temere!». Quasi un invito per ogni giorno dell’anno, per ogni anno della vita, quasi pane quotidiano per il cammino del cuore. Infine l’angelo dice: «La potenza dell’Altissimo scenderà su di te». Si distende e riempie di vita la vita. E a ciascuno ripete: La casa di Dio è la vita. Dio abita la tua vita e la trasforma. Lascia che la Parola diventi carne, cioè diventi corpo, muova le tue mani, muova i tuoi gesti, muova i tuoi piedi e i tuoi occhi in modo nuovo, in un modo legato alla pace, alla giustizia, alla mitezza, alla misericordia. Dio è nella nostra vita come capacità di credere, di sperare, di amare, di servire. Lascia che Dio trasformi i tuoi gesti e tu possa dire le parole più vere, e inventare i gesti più buoni. Con Simone Weil credo che «la vita del credente è comprensibile solo se in lui c’è qualcosa di incomprensibile», solo se in noi c’è un di più di ciò che è l’uomo: un sogno, un angelo, Dio, un amore e una gioia immotivati, una vita da altrove, come nel grembo di Maria; solo se in noi c’è qualcosa di cui dichiararci “servi”. «Sono la serva del Signore» significa che c’è un progetto più grande di me, c’è qualcosa che vale più della mia vita; il mio amore vale più della mia vita, di esso sono servo. Non appartengo solo al mio sogno, ai miei progetti: appartengo al sogno e al progetto di Dio. 297 E vorrei pregare così, con la devozione di chi vede in lei l’immagine luminosa che conduce i nostri passi: Santa Maria, donna dell’annunciazione, noi ti riconosciamo come specchio lucente della nostra comune vocazione. La tua chiamata è la nostra: una proposta nuziale, una proposta feconda dentro il grembo sterile della storia: far nascere di nuovo la vita. O sposa, sedotta per prima dal bacio dello Spirito, o sposa che lo hai riamato per prima, ottieni ogni giorno al nostro cuore la verginità necessaria per risvegliarci alla meraviglia della divina seduzione. L’angelo ancora è mandato a ogni vergine, a ogni cuore puro, a ogni cuore libero, per annunciare che solo questo genera vita per il mondo: un amore puro e libero. L’angelo ancora attraversa favolose distanze per ripetere a ciascuno le parole più belle: Sii felice; il tuo nome è “amato per sempre”; tu sei casa di Dio. Dio riempie, da ora e per sempre, la tua vita. 298 SANTI PIETRO E PAOLO APOSTOLI (29 giugno) Voi chi dite che io sia? (Mt 16, 13-19) La regione di Cesarea di Filippo, là dove sono le sorgenti del Giordano, è forse la più bella di tutta la Palestina. Ho avuto la fortuna di recarmi in quel luogo qualche anno fa e per me è stata davvero una delle esperienze emotivamente più forti. Si tratta di una regione dove la gente ha sentito parlare del Signore, conosce i profeti, ma è anche un po’ ai margini. «La gente chi dice che sia il Figlio dell’uomo?» Ed ecco la risposta, bella ma al tempo stesso sbagliata: dicono che sei un profeta, una creatura di fuoco e di luce, come Elia, una creatura di forza e di vento, come il Battista; dicono che sei un profeta, cioè voce di Dio e suo respiro. Gesù va oltre, fa una seconda domanda. Sa bene che la verità non risiede in ciò che pensa la gente, nei sondaggi d’opinione. Dice: «Voi chi dite che io sia?». Anzi, la domanda è preceduta da un “ma”, da una contrapposizione: Ma voi cosa dite? Voi che mi seguite da anni, che ascoltate tutte le mie parole, che mi avete visto sorridere, piangere, respirare, moltiplicare il pane... 299 «Voi.» Come se i Dodici fossero di un altro mondo, e le loro parole controcorrente; come se i discepoli non dovessero mai omologarsi al sistema, mai parlare per sentito dire. Dice la poetessa Cristina Campo: «Ci sono due mondi: io sono dell’altro». Il cristiano, il discepolo, dovrebbe dire così: Ci sono due mondi, due sistemi: io sono dell’altro. Ma tu, tu invece, chi dici che io sia? Perché le parole più vere sono sempre al singolare. Tu, con la tua mente, con la tua forza, con il tuo cuore; tu con il tuo peccato, cosa dici di Dio? E ci aiuta padre Turoldo in una sua mirabile poesia: Come dire chi tu sia, Signore? Sei il fuoco che mi divora. Sei il mio ininterrotto rimorso. Sei la gioia mattinale del mondo. Ma sei anche la follia che mi guarda con occhi muti per tutta questa notte che perdura sul mondo, per il Regno che ancora non viene tu, venuto come se non fossi venuto. Tu chi dici che io sia? Per rispondere non serve ricorrere a libri o a catechismi. Ognuno che abbia inseguito Dio, che abbia contestato, litigato con Dio, ognuno che abbia una volta sola assaporato l’amore, o sia stato sfiorato dall’ala severa della morte, deve dare la sua risposta, costruita solo con la vita, non con le parole, con formule: Tu sei il Figlio di Dio, che mostra chi è Dio. E continuerà il Vangelo, dicendo anche a me, come a Pietro: Beato te, felice te: la tua vita ha trovato! «E su questa pietra edificherò la mia chiesa.» Pietro è la roccia nella misura in cui riesce a dire chi è Cri- 300 sto, tesoro, bene per tutta l’umanità. Pietro è roccia per la Chiesa e per tutta la storia nella misura in cui ripete che Dio si è donato in Cristo, che Dio è amore, che la sua casa è ogni uomo; che Cristo, crocifisso, è ora vivo, primo del grande pellegrinaggio verso la vita che è la vicenda umana. Questa è la fede-roccia, il primato di Pietro che edifica la Chiesa, che edifica la nostra storia e la mia casa. Come Pietro, anch’io posso diventare roccia e chiave. Posso essere roccia che dà sicurezza, stabilità, senso anche ad altri; chiave che apre le porte belle di Dio, che apre le porte belle della vita in pienezza, che è pace, gioia, luce, energia, per sempre. «Tu chi dici che io sia?» Ma dire non basta: siamo specialisti di facili parole. La vita non è ciò che si dice della vita, ma ciò che si vive della vita. E Gesù Cristo per me non è ciò che io dico di lui, in una formula esatta, ma ciò che vivo di lui, in una vita esatta; ciò che vivo del suo crocifisso amore, di quella croce dove tutto è scritto in lettere di sangue e di fuoco, in lettere di amore e di dolore, le uniche che non ingannano. Riascoltiamo allora la domanda: «Ma tu», dimenticando gli altri, «tu chi dici che io sia?». La mia vita cosa dice di Cristo? La mia esistenza di oggi cosa ha realizzato di Cristo? Custodiamo con cura la forza di questa domanda. Più che offrire risposte, Dio fornisce domande che incalzano la vita e la risvegliano. Non le nostre risposte ma le sue domande fanno crescere la fede. 301 ASSUNZIONE DELLA VERGINE MARIA (15 agosto) Il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore. (Lc 1, 39-56) La festa di santa Maria assunta in cielo non ci parla semplicemente di una donna, per quanto grande, ma parla di tutta la Chiesa. Perché le verità che riguardano Maria sono l’alfabeto della nostra vita. La festa di oggi afferma che la Chiesa porta in sé il futuro del mondo, anticipato dalla Vergine Maria. E perciò mostra a ciascuno di noi la via verso il futuro. Ed è un futuro buono. Lo dice con un’immagine solare il libro dell’Apocalisse, la prima lettura: «Nel cielo apparve un segno grandioso: una donna vestita di sole, coronata di stelle». È l’immagine del nostro futuro, umanità di luce pur attraverso la lotta, umanità che dischiude frutti buoni. Lo dice il cantico del Magnificat, con un Dio che innalza, solleva, riempie, abbatte e crea una terra nuova, un’architettura del mondo fatta di giustizia e di bontà. Anche Paolo parla di un futuro buono, nella seconda lettura, dove Cristo è il primo risorto di una immensa carovana che ci comprende tutti (cf. 1Cor 15, 20) e tutti riceveremo vita e l’ultimo nemico sarà annientato. 302 Come credenti, portiamo in noi la forza di questo futuro, come un seme di fuoco, come un seme di luce. Ognuno, come credente, porta in sé il futuro del mondo. E se molte cose nella nostra storia attuale sembrano contraddire la speranza, per noi, come per i profeti, la parola di Dio è più vera della sua realizzazione. Noi amiamo le promesse di Dio più della loro attuazione, come faceva Abramo. Egli crede nella terra promessa anche se, quando muore, ha solamente acquistato tanta terra quanta basta a scavarvi una tomba; anche se, quando muore, della innumerevole discendenza promessa – «Avrai più figli che stelle in cielo» (cf. Gen 15, 5) – ha accanto a sé soltanto Isacco, il piccolo seme. Abramo crede alle promesse di Dio più che alla loro realizzazione. La festa dell’Assunta ci aiuta ad acquisire fede, acquisire la bellezza del vivere, credere che è bello vivere, è bello amare, è bello sposarsi e avere figli, è bello essere frate o suora. È bello perché il mondo va verso uno sbocco positivo e luminoso, verso un esito forte e grande, qui nel tempo e poi in una vita che non avrà più fine. Santa Maria, la donna umile che veniva dalla periferia del mondo di allora, ha attraversato per prima il mondo di sempre, le frontiere del cielo. Come dice padre Turoldo: Vieni e vai per gli spazi a noi invalicabili, anello d’oro del tempo e dell’eterno, anello che rilega, collega, unisce il tempo e l’eterno, l’uno nell’altro, senza soluzione di continuità. 303 Lei ci insegna a vivere sulla terra con quella parte di cielo che la compone. La fede di Maria è la nostra, è ciò che tiene insieme il lavoro quotidiano e le cose eterne, le realtà penultime di una vita semplice e le realtà ultime, il non vedere e il non capire, e poi la luce improvvisa che rivela il senso: la morte come esperienza devastante e poi la speranza della risurrezione. Dobbiamo anche noi intrecciare queste due dimensioni: la semplicità fedele alla propria vocazione durante l’esistenza terrena e l’attesa di approdare a quel mare immenso di luce, dove saremo sempre con il Signore e con quanti abbiamo amato. Mantenere uniti in noi i due capi dell’esistenza: la perseveranza fedele giorno per giorno e la speranza tenace di un incontro che, come diceva il poeta francese Mallarmé, «non sarà inginocchiarsi al trono di un imperatore immortale, ma sarà baciare tremando la sorgente vergine dell’universo». Maria è colei che ha dato carne a Dio sulla terra, colei che è carne di donna in paradiso. Con il suo corpo è in cielo. E questo significa che ogni giornata di Maria, vissuta nel silenzio e nel lavoro, ogni ora trascorsa tra le attività della casa, nella pazienza fedele, tutte le gioie e le sofferenze, tutte le notti oscure della sua vita e la speranza indomita, tutto è entrato nell’eternità. Gesù l’ha detto con un’immagine fortissima: «Nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto» (Mt 10, 30). E così sarà anche per noi. «Io credo nella risurrezione della carne» diremo tra qualche istante. E se questo sembra così difficile, oggi, se per molti la vita eterna sembra essere per nulla attraente, sappiamo che nel destino di questo corpo è iscritto lo stesso destino dell’anima. Perché l’uomo è uno. E oggi è la fe- 304 sta dell’unità dell’uomo, del destino glorioso del corpo uguale al destino glorioso dell’anima. Oggi ogni uomo, obbediente e fedele, canta all’intera salvezza in anima e corpo. Questo corpo, questa realtà così fragile e sublime, così cara, così sofferente, sacramento d’amore, strumento talvolta di violenza, questo corpo in cui sentiamo la densità della gioia, in cui soffriamo la profondità del dolore, diventerà, dopo l’ultimo viaggio, porta aperta alla comunione, divina tastiera per una melodia che nessuno ha ancora saputo trarre, diventerà trasparenza di cristallo, sacramento dell’incontro perfetto. Oggi la Chiesa intona il canto del valore del corpo. E se una vita vale poco, niente vale quanto una vita. Un antico testo cristiano, la Lettera a Diogneto, consiglia al credente: «Ogni giorno fermati a contemplare il volto dei santi». Santi che ci incontrano, che incrociamo nella vita, santi che vivono forse nella nostra casa. Contempliamo oggi, però, il volto di santa Maria, certi che l’uomo diventa ciò che contempla, che ciascuno di noi diventa ciò che guarda con amore, ciascuno diventa ciò che ama. Santa Maria, la donna vestita di sole, la donna generante vita, la donna mai arresa in lotta con il drago, la donna del più grande viaggio, fa scendere fino a noi, fino alle nostre case, una benedizione di speranza, consolante, su tutto ciò che rappresenta il nostro “male di vivere”; una benedizione sugli anni che passano, sulle tenerezze negate, sulle solitudini patite, sui figli che sbagliano, sul decadimento di questo nostro corpo, sulla corruzione della morte, sulla lotta contro il nostro piccolo o grande drago rosso, che ci insidia ma che non vincerà, perché la bellezza è più forte della violenza. 305 L’Assunta è allora la festa della nostra comune migrazione verso la vita. Come abbiamo cantato nel salmo responsoriale, nella versione di padre Turoldo: «Ora lei viene dal re e la seguono / amiche vergini in danze di gioia». Siamo noi, l’umanità intera, che avanza verso la reggia. Siamo umanità ferita, dolente, eppure incamminata; siamo umanità caduta, eppure incamminata, umanità che ben conosce il tradimento e la crisi della fede, ma che non si arrende, perché ama con la stessa intensità il cielo e la terra, perché sa che è deposto dentro ciascuno l’anello d’oro che lega insieme il tempo e l’eterno. 306 TUTTI I SANTI (1 novembre) Beati i poveri in spirito... beati gli afflitti... beati i miti... (Mt 5, 1-12) Non ci stanchiamo mai di ascoltare queste parole, il manifesto più stravolgente e contromano che si possa immaginare. Oggi è la festa della comunione, dei santi e dei peccatori che si tengono per mano, nell’immenso pellegrinare verso la vita. È la fede in cui siamo stati battezzati: «Credo nella comunione dei santi». Credo, cioè, nel Vangelo che abbiamo appena udito, credo nella comunione dei poveri, dei costruttori di pace, dei misericordiosi, dei perseguitati, nella forza dei puri; nella comunione dei miti, i soli che trasformeranno la terra. Nella carovana comune della storia, i buoni, i giusti, i limpidi, coloro che più hanno sofferto conducono gli altri, li trascinano in avanti e in alto. Lo vediamo nelle nostre famiglie, nella comunità religiosa, nella storia profonda del mondo: chi ha il cuore più limpido indica la strada, chi ha molto pianto vede più lontano, chi è più misericordioso aiuta a ripartire. È la festa, oggi, non dei singoli santi, ma della loro comunione, di questo fiume che è l’umanità e che por- 307 ta fango e perle, detriti e pagliuzze d’oro. La comunione mi dice che in ognuno c’è l’orma di ognuno, che le scelte di ogni uomo influiscono su tutti gli altri uomini. In me c’è qualcosa – e non è orgoglio, perché ciascuno lo può dire –, in me c’è qualcosa di san Francesco, di Gandhi, qualcosa di Teresa e di Edith Stein, in ognuno c’è l’orma di ognuno. E la mia forza è nella comunione con chi è più forte di me, la mia purezza è nella comunione con chi ha avuto occhi più limpidi dei miei, come Maria di Nazaret. Oggi, dentro il nome della festa, ci sono tutti i nomi, dentro la cornice ci sono tutti i volti. E io e voi possiamo dare il nome di santo a persone che abbiamo conosciuto, a chi ci ha insegnato ad amare. Ognuno ha i suoi santi come ognuno ha i suoi defunti, “suoi” perché parte della sua vita, delle sue scoperte, delle crocifissioni, delle risurrezioni. Festa della santità corale, dove i singoli volti si fondono a creare un’unica forza come unica è stata la loro ragione di esistere. La ragione era questa: non hanno vissuto per se stessi. A partire da sé ma non per sé, non hanno vissuto senza mistero. I santi, allora, sono i veri amici del genere umano: perché, se c’è amicizia per chi è precipitato nella guerra, è il costruttore di pace che la offre gratuitamente; se c’è un’amicizia e una forza per gli umiliati e i bastonati dalla vita, è in coloro che hanno fame e sete di giustizia che la possono trovare; se c’è amicizia vera perfino per l’avido e per il ricco, è nel povero che non vuole competere con lui in nessun campo; se l’uomo dal cuore contorto trova un’amicizia, non sarà mai in coloro che gli sono simili, bensì in coloro che gli sono diversi e che hanno occhi tanto limpidi 308 da vedere tracce di bontà e di amore, da vedere le tracce di Dio dovunque. Gli uomini delle beatitudini sono gli amici della terra. Beati i miti perché erediteranno la terra, perché soltanto ai miti, ai non violenti, è affidato il futuro della terra; perfino la possibilità stessa che ci sia un futuro è solo nella fine della violenza. E la storia si aggrappa ai santi per non ritornare indietro, si aggrappa alle beatitudini per non cadere in basso. Ebbene, il Vangelo di oggi, regola della santità, sembra evocare cose di tutti i giorni, una trama di situazioni comuni, fatiche, speranze, lacrime: nostro pane quotidiano. A significare che fra le nove c’è la tua beatitudine, quella scritta e pensata per te, quella che è la tua missione, che tu devi identificare e vivere. In quell’elenco ci siamo tutti: i poveri, i miti, i misericordiosi, i piangenti, gli incompresi, quelli dagli occhi puri, che non contano niente agli occhi impuri e avidi del mondo, ma che sono capaci di posare una carezza sul fondo dell’anima, sono capaci di regalarti un’emozione profonda e vera. E c’è la santità delle lacrime, di coloro che molto hanno pianto, che sono il tesoro di Dio, che riempiono gli archivi immensi di Dio. E c’è un’ultima ragione per amare questa festa: è un’occasione per guardare al futuro senza paure e senza sconforto, perché «un giorno noi saremo simili a lui» (1Gv 3, 2). I santi sono i somiglianti a Dio. Domani ci raccoglieremo a meditare sulla morte di tanti amici e familiari, anche sulla nostra morte, e a cercare una comunione più forte della morte, a cercare la comunione dei santi. Ma il motivo di speranza è questo: non è la santità degli eroi che ci è chiesta, non 309 è la santità degli uomini duri e puri. Gesù non convoca eroi nel suo regno, ma uomini veri e donne vere. Non si rivolge ai più forti o ai migliori tra noi, ma a peccatori e pubblicani, a rocce che poi si sono sbriciolate, a gente dalla spada facile e dalla bugia pronta, a una donna che aveva sette demoni, a cuori non ancora puri, a pescatori che non sanno leggere: si rivolge a gente come me. Il paradiso non è pieno di santi, ma è pieno di peccatori perdonati, di gente come me. Il grande filosofo Paul Ricoeur scrive: «La speranza viene a noi vestita di stracci perché noi le confezioniamo un abito nuovo!»; e mi conforta questa parola: la santità viene a noi in piccole briciole. Mi conforta come quel racconto dei chassidim che dice così: Erano partiti nell’inverno i veri credenti, in lunga carovana, per cercare le porte del cielo, perché era giunta la lieta notizia che il Messia era arrivato e aveva costruito la nuova Gerusalemme. Una lunga carovana nera nella neve. E quando dopo giorni e giorni arrivarono alle porte della nuova Sion, uomini pii e donne miti, rabbini dai volti dolci e severi, Dio vide che tutti avevano una strana cosa appesa alla cintura. E chiese ai suoi angeli: «Cosa portano alla cintura tutti questi camminatori?». Gli angeli andarono, videro e riferirono: «Signore, quelle cose alla cintura sono piccole fiasche di acquavite, perché ha fatto troppo freddo quest’inverno». E il Signore, all’udire questo, sorrise e disse: «Fateli entrare e non togliete loro le fiasche di acquavite!». Perché Dio non disprezza la nostra fatica, non deride le brevi gioie della strada, e quando lo incontreremo anche a noi dirà: «Venite, benedetti, con tutto ciò che vi ha aiutato a vivere, entrate con tutto ciò che vi ha sostenuti nell’inverno dei vostri sconforti». 310 E se non avremo niente da offrire quel giorno, porteremo almeno con noi la nostalgia della santità, l’averla cercata con cadute e ripartenze in tanti freddi inverni, innamorati di una bellezza spirituale mai raggiunta e già perduta. Porteremo una speranza vestita forse ancora di stracci. Se non avremo altro da portare, offriremo quel giorno il desiderio che ci ha fatto soffrire e gioire. E sentiremo le parole più belle, quelle che sogno di udire: «Vieni, figlio benedetto: hai tentato di amare, perciò sei mio figlio. Vieni: il tuo desiderio di santità era già santità, il tuo desiderio di amore era già amore!». 311 INDICE presentazione 5 Avvento e Natale I domenica d’Avvento II domenica d’Avvento III domenica d’Avvento IV domenica d’Avvento Natale del Signore domenica dopo Natale: la santa famiglia Ottavo giorno del Natale: santa Maria madre di Dio II domenica dopo Natale Epifania del Signore Battesimo del Signore I 11 16 21 26 31 36 41 46 51 56 Quaresima e Pasqua I domenica di Quaresima II domenica di Quaresima III domenica di Quaresima IV domenica di Quaresima V domenica di Quaresima Domenica delle palme Domenica di Pasqua 63 68 72 76 80 84 87 II domenica di Pasqua III domenica di Pasqua IV domenica di Pasqua V domenica di Pasqua VI domenica di Pasqua Ascensione del Signore Domenica di Pentecoste Domenica della Trinità Domenica del corpo e sangue del Signore 90 96 101 105 110 114 118 122 126 Tempo ordinario II domenica III domenica IV domenica V domenica VI domenica VII domenica VIII domenica IX domenica X domenica XI domenica XII domenica XIII domenica XIV domenica XV domenica XVI domenica XVII domenica XVIII domenica XIX domenica XX domenica XXI domenica XXII domenica XXIII domenica XXIV domenica XXV domenica XXVI domenica XXVII domenica XXVIII domenica XXIX domenica 133 137 141 146 151 157 161 165 168 173 178 183 187 191 195 200 205 210 214 218 222 226 231 236 241 246 251 256 XXX domenica XXXI domenica XXXII domenica XXXIII domenica XXXIV domenica: Cristo re 260 264 268 273 277 Solennità e feste Immacolata concezione della beata vergine Maria Santo Stefano Annunciazione del Signore Santi Pietro e Paolo apostoli Assunzione della vergine Maria Tutti i santi 285 290 295 299 302 307 Ermes Maria Ronchi Ermes Maria Ronchi Prima delle sorgenti Le omelie qui proposte nascono con la nostalgia di una “sorgente” che colmi ancora le profondità dell’esistenza. Esse derivano dalla trascrizione delle omelie tenute in San Carlo al Corso, a Milano, nelle liturgie festive comunitarie, ne ripropongono il tono discorsivo e piano, il contesto liturgico e celebrativo. Loro scopo non è altro che quello di ridestare un’attenzione gioiosa per la Parola, affinché ciascuno possa sentire nascere dentro di sé, qualche volta, la gioia di un canto: il canto di una sorgente. Prima delle sorgenti Omelie dell’anno A
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