RASSEGNA STAMPA giovedì 18 dicembre 2014 L’ARCI SUI MEDIA INTERESSE ASSOCIAZIONE ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA RAZZISMO E IMMIGRAZIONE SOCIETA’ BENI COMUNI/AMBIENTE INFORMAZIONE CULTURA E SCUOLA ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO IL MANIFESTO AVVENIRE IL FATTO PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA del 18/12/14, pag. 10 Appello: Syriza, cambia la Grecia, cambia l’Europa Appello. "Chiediamo a chiunque abbia a cuore la democrazia, la coesione sociale e la giustizia di sostenere il diritto del popolo greco a scegliere liberamente il proprio futuro" La Grecia ha fatto in questi anni da cavia per la cancellazione dello stato sociale e dei diritti democratici in Europa. I pacchetti di “salvataggio” dei memorandum hanno salvato solo le banche tedesche ed europee, impoverito la gente e aggravato la disoccupazione rendendola di massa. Le conseguenze delle politiche della Troika smentiscono tutte le falsità usate per imporre l’austerità in Europa. Il Paese è ridotto allo stremo, il popolo ai limiti della sopravvivenza e in piena emergenza umanitaria e intanto il debito invece di diminuire è alle stelle. In Grecia le vittime dell’austerità si sono ribellate ai diktat della Troika. I lavoratori senza più diritti e quelli senza più lavoro, gli studenti, i pensionati, i professionisti, le casalinghe si sono alleati e hanno dato vita ad una straordinaria resistenza pacifica, democratica e popolare che è di esempio per tutta l’Europa. Syriza, il partito della sinistra, ha saputo raccogliere questa grande spinta popolare. Oggi è in testa in tutti i sondaggi e se, come sembra possibile e probabile, si andrà a votare per il fallimento dell’attuale coalizione delle grandi intese, Syriza potrà comporre un nuovo governo. Alexis Tsipras ha un programma chiaro: restare in Europa per cambiare l’Europa. Il suo governo chiederà una conferenza europea per la ristrutturazione del debito, che riguarda la maggior parte dei paesi europei; la fine delle politiche di austerità, con l’abrogazione del fiscal compact; un piano europeo per il lavoro e la salvaguardia dell’ambiente. Altro che politica anti-euro e antieuropea, come cercano di descriverla i principali mezzi di informazione del continente per giustificare l’attacco dei mercati, diffondere paura fra gli europei, condizionare gli elettori e le elettrici in Grecia e confondere le proposte della Sinistra con i populismi xenofobi, razzisti e neofascisti. Tsipras si è impegnato a prendere provvedimenti immediati e sostanziali, cancellando le scelte imposte da Bruxelles, Francoforte e Berlino, per migliorare da subito le condizioni sociali dei cittadini, come il ripristino del salario minimo ai livelli prima della crisi e dei contratti collettivi. Il cambio del governo in Grecia può essere l’inizio per rifondare l’Europa sui valori dei diritti, della democrazia e della solidarietà.La vittoria di Syriza, e il governo di Tsipras in Grecia potranno dimostrare che i cittadini possono battere le politiche neoliberiste e le destre che infettano il nostro continente. Possono dimostrare, già oggi, che la strada dell’austerità non è ineluttabile, se il voto si lega alle lotte per i diritti, alla partecipazione popolare e a una nuova dimensione europea delle coalizioni sociali. Il nostro impegno, di fronte alla campagna di disinformazione e all’attacco dei mercati finanziari, è di fare conoscere le vere proposte di Syriza e di sostenere la sua iniziativa. Le Borse, la finanza, la Troika, con la complicità del sistema mediatico, già mettono in campo la loro potenza per condizionare il voto greco. Non sarà risparmiato nulla. 2 Chiediamo a chiunque abbia a cuore la democrazia, la coesione sociale e la giustizia di sostenere il diritto del popolo greco a scegliere liberamente il proprio futuro. E’ responsabilità di tutti noi fermare la marcia verso il disastro e cambiare la direzione dell’Europa, che con le attuali politiche rischia di implodere. È responsabilità di tutti noi sostenere chi vuole ricostruire l’Europa con i suoi cittadini e le sue cittadine. Firmatari dell’appello Maurizio Acerbo, Vittorio Agnoletto, Giorgio Airaudo, Piergiovanni Alleva, Gaetano Azzariti, Etienne Balibar, Fulvia Bandoli, Andrea Baranes, Riccardo Bellofiore, Marco Berlinguer, Marco Bersani, Fausto Bertinotti, Piero Bevilacqua, Fabrizio Bocchino, Raffaella Bolini, Aldo Bonomi, Sergio Brenna, Alberto Burgio, Enrico Calamai, Andrea Camilleri, Francesco Campanella, Aldo Carra, Luca Casarini, Luciana Castellina, Paolo Cento, Francesca Chiavacci, Domenico Megu Chionetti, Paolo Ciofi, Pippo Civati, Virgilio Dastoli, Giuseppe De Marzo, Michele De Palma, Loredana De Petris, Tommaso Di Francesco, Nicoletta Dosio, Fausto Durante, Anna Falcone, Antonello Falomi, Roberta Fantozzi, Stefano Fassina, Tommaso Fattori, Thomas Fazi, Luigi Ferrajoli, Gianni Ferrara, Paolo Ferrero, Goffredo Fofi, Eleonora Forenza, Nicola Fratoianni, Mauro Gallegati, Luciano Gallino, Francesco Garibaldo, Alfonso Gianni, Paul Ginsborg, Claudio Gnesutta, Alfiero Grandi, Claudio Grassi, Enrico Grazzini, Fabio Grossi, Leo Gullotta, Antonio Ingroia, Francesca Koch, Raniero La Valle, Guido Liguori, Loredana Lipperini, Curzio Maltese, Fiorella Mannoia, Laura Marchetti, Giulio Marcon, Lorenzo Marsili, Stefano Maruca, Citto Maselli, Ugo Mattei, Giovanni Mazzetti, Sandro Medici, Corradino Mineo, Filippo Miraglia, Tomaso Montanari, Elena Monticelli, Roberto Morea, Roberto Musacchio, Grazia Naletto, Olga Nassis, Maso Notarianni, Corrado Oddi, Moni Ovadia, Argiris Panagopoulos, Luigi Pandolfi, Bruno Papignani, Giorgio Parisi, Valentino Parlato, Valeria Parrella, Gianpaolo Patta, Livio Pepino, Tonino Perna, Riccardo Petrella, Paolo Pietrangeli, Paolo Pini, Nicoletta Pirotta, Felice Roberto Pizzuti, Adriano Prosperi, Alessandra Quarta, Christian Raimo, Norma Rangeri, Ermanno Rea, Marco Revelli, Claudio Riccio, Rosa Rinaldi, Gianni Rinaldini, Annamaria Rivera, Mimmo Rizzuti, Giulia Rodano, Stefano Rodotà, Umberto Romagnoli, Roberto Romano, Franco Russo, Mario Sai, Bia Sarasini, Arturo Scotto, Peppe Servillo, Toni Servillo, Giuliana Sgrena, Assunta Signorelli, Anna Simone, Barbara Spinelli, Sergio Staino, Gino Strada, Marina Terragni, Massimo Torelli, Lanfranco Turci, Nicola Vallinoto, Nichi Vendola, Guido Viale, Vincenzo Vita, Lorenzo Zamponi, Filippo Zolesi, Alberto Zoratti. Da Redattore Sociale del 17/12/14 Dal gioco alla schiavitù. La dipendenza da azzardo vista dai giovani videomaker Si chiama “Quando il gioco si fa duro…” il video vincitore del concorso “Con l’azzardo non si vince… scommetti sulla creatività”. Lacche (Libera Radio): “La ludopatia distrugge non solo il giocatore ma anche i suoi rapporti con gli altri” BOLOGNA - Si comincia per gioco e si finisce schiavi del gioco. È il senso del concorso “Con l'azzardo non si vince… scommetti sulla creatività!” conclusosi oggi, 17 dicembre, a Bologna al Parco della Montagnola dove sono stati premiati i migliori tre video realizzati da giovani videomaker sul tema dell’azzardo. Venti spot in tutto sul tema della ludopatia, una dipendenza che in Emilia-Romagna colpisce circa 10mila persone senza distinzioni di sesso, età o ceto sociale. Ai giovani video maker è stato chiesto di rappresentare il 3 demone del gioco e le conseguenze che può avere sulla vita delle persone e sui rispettivi familiari o amici. Il concorso fa parte di “Associati con chiarezza”, un progetto sostenuto da Acli, Aics, Ancescao, Anspi, Arci, Auser, Csi, Endas, Uisp, Mcl e Fitel in collaborazione con la Regione Emilia-Romagna. Il primo premio è andato a “Quando il gioco si fa duro…” del gruppo Emisfero digitale. “Nel video abbiamo cercato di sottolineare come la dipendenza dal gioco non nasce all’improvviso – racconta Luigi Zambonelli, regista del corto – ma si sviluppa lentamente. Giocando con i suoni, i 5 ragazzi hanno raccontato la storia di un giovane giocatore che davanti a uno schermo passa le ore a inseguire vincite che non arriveranno mai. E di come lentamente il ragazzo comincia a escludere tutto ciò che riguarda il mondo esterno. “Una chiamata di un amico che lo invita a uscire di casa, il bussare alla porta dei genitori preoccupati, il rumore della sigaretta sul posacenere – continua Luigi – sono solo alcuni dei suoni della vita quotidiana che lentamente vanno scemando, fino ad arrivare alla scena finale in cui lui indossa delle cuffie per isolarsi del mondo che lo circonda”. del 18/12/14, pag. II Ancora una volta per il manifesto Luciana Castellina Cari compagni, è inedito scriversi fra di noi: abbiamo lavorato troppo a lungo assieme per aver dovuto ricorrere alla corrispondenza per comunicare. Ci si parlava, e basta. Non è più così da non poco tempo, e per circostanze che per ciascuno di noi sono state diverse nei tempi e nei modi, ma che hanno in comune analoghe ragioni: l’esser venuto meno il collettivo di cui tutti ci siamo sentiti parte integrale. Quel tipo di rapporto probabilmente non si creerà più, per ovvie ragioni generazionali, ma anche – lo sappiamo tutti – per via delle divisioni, politiche e editoriali, che ci hanno reciprocamente allontanato in questi ultimi tempi. Sebbene io abbia ripreso a scrivere sul giornale, non per questo faccio parte del collettivo che lo fa e ne è responsabile; e che ne porta anche il non irrilevante peso. Se ora vi scrivo non è per riaprire un dibattito, che certo sarebbe utile ma dovrà avere altri, più lunghi e impegnativi itinerari che non una missiva come questa. Se scrivo ora è per un motivo più importante e urgente: la sorte di questo giornale di cui anche io con altri, alcuni purtroppo defunti, siamo stati fra i fondatori, così come alcuni fra i più anziani di voi dell’attuale redazione. Scrivo per dirvi che farò, e cercherò di far fare, quanto è possibile per aiutare l’acquisto della testata «il manifesto» da parte della nuova cooperativa, che ha avuto il merito di garantire l’uscita del giornale dopo il fallimento della vecchia cooperativa, e per mobilitare a questo fine anche i tanti che in questi ultimi anni si sono allontanati — o perché al giornale non collaborano più, o perché non lo leggono e non lo sentono più come «loro» – affinché questa storia più che quarantennale non abbia a morire. Non si tratta solo di preservare un oggetto di antiquariato, e a muovermi non è la nostalgia (anche se un po’ sì, è stata una bella storia!), ma la attualissima consapevolezza che «il manifesto» tutt’ora è – ci è – indispensabile. Tanto più in un tempo politico che sentiamo tutti grave, ma che è anche ricco di nuove energie che di un punto di riferimento, un luogo di incontro hanno più che mai bisogno per non disperdersi. Allego bonifico di mille euro. 4 LE CAMPAGNE del 18/12/14, pag. 5 LA CAMPAGNA FIRME Camusso-Landini-Rodotà a Roma contro il pareggio In occasione della giornata nazionale di raccolta firme per la proposta di legge di iniziativa popolare per l’abrogazione del pareggio di bilancio in Costituzione, oggi a Roma si terrà un incontro pubblico con Susanna Camusso, segretaria generale Cgil, il costituzionalista Stefano Rodotà e Maurizio Landini, segretario generale Fiom. Coordina la direttrice del manifesto Norma Rangeri (ore 17,30, Auditorium via Rieti). L’obiettivo della campagna «Col pareggio ci perdi», iniziata il 15 ottobre, è quello di consegnare alla Camera almeno 50 mila firme entro il 15 aprile. Intanto si sono formati comitati locali in tutta Italia e sono già state raccolte migliaia di firme. La proposta di legge prevede non solo la cancellazione del pareggio di bilancio, ma anche la salvaguardia dei diritti fondamentali nelle scelte di spesa pubblica e di bilancio dello Stato. All’iniziativa saranno presenti molti dei promotori e dei sostenitori della campagna. Del 18/12/2014, pag. XXI RM APPUNTAMENTI Col pareggio ci perdi CANCELLIAMO IL PAREGGIO DI BILANCIO Alle 17. 30 si terrà l’incontro pubblico per discutere della proposta di legge di iniziativa popolare. Con Susanna Camusso, Stefano Rodotà, Maurizio Landini. Auditorium di via Rieti 13. Da AskaNews del 18/12/14 Stop a pareggio bilancio in Costituzione, oggi incontro a Roma Roma, 18 dic. (askanews) - In occasione della giornata nazionale di raccolta firme per la proposta di legge di iniziativa popolare per l'abrogazione del pareggio di bilancio in Costituzione - si terrà oggi alle 17.30 a Roma, presso l'auditorium di via Rieti 13, un incontro pubblico sulla Campagna "Col pareggio ci perdi" con Susanna Camusso, segretaria generale Cgil, il costituzionalista Stefano Rodotà e Maurizio Landini, segretario generale Fiom. Coordina la giornalista Norma Rangeri. L'obiettivo della campagna "Col pareggio ci perdi", iniziata il 15 ottobre, è quello di consegnare alla Camera almeno 50.000 firme entro il 15 aprile. Intanto, si riferisce in una nota, si sono formati comitati locali in tutta Italia e sono già state raccolte migliaia di firme. La proposta di legge prevede non solo la cancellazione del pareggio di bilancio, ma anche la salvaguardia dei diritti fondamentali nelle scelte di spesa pubblica e di bilancio dello Stato. All'iniziativa saranno presenti molti dei promotori e dei sostenitori della campagna. 5 del 18/12/14, pag. 6 CITTADINANZA «Un Paese diverso è possibile?» Un incontro oggi a Roma «Un Paese diverso è possibile?». Un incontro pubblico a Roma oggi, giovedì 18 dicembre alle 16 alla Sala Aldo Moro della Camera dei deputati per fare il punto sull’iter legislativo della Riforma della cittadinanza. L’incontro è promosso dalla Campagna «L’Italia sono anch’io», promossa dalle principali organizzazioni sociali impegnate nel campo dei diritti dei migranti, in occasione della Giornata internazionale dei diritti dei migranti e delle loro famiglie. Saranno presenti, tra gli altri, la presidente della Camera Laura Boldrini e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Graziano Delrio. Da Avvenire del 18/12/14, pag. 12 L'intervento. Migrantes: «Sulla tratta non abbassare la guardia» RAFFAELE IARIA A circa 25 anni dall'adozione, da parte dell'Onu, della Convenzione internazionale per la tutela dei diritti dei lavoratori migranti e delle loro famiglie, anche in Italia si assiste a una " crescita" di fenomeni di tratta e di sfruttamento dei lavoratori immigrati, «complice la crisi». Lo afferma il direttore generale della Fondazione Migrantes, monsignor Giancarlo Perego, auspicando che la giornata odierna dedicata a questo anniversario ricordi a tutti «la necessità di tutelare» i lavoratori, anche coloro che provengono da altri Paesi e i circa 2 milioni di lavoratori italiani all'estero. Per il sacerdote «occorre non abbassare la guardia attorno a gravi fenomeni di tratta nel mondo lavorativo che interessano migliaia di lavoratori immigrati e su cui lucrano diversi clan mafiosi: Rosarno, Castelvolturno, Prato, sono nomi di città che ci ricordano ancora oggi questo dramma». Nell'ambito dello sfruttamento lavorativo, aggiunge il direttore di Migrantes, «si nascondono pieghe che riguardano il contratto, la retribuzione, il diritto al riposo settimanale soprattutto nel comparto agricolo e dei servizi, insomma i diritti fondamentali dei lavoratori», E oggi pomeriggio, in occasione della Giornata, i promotori della Campagna L'Italia sono anch'io, promossa dalle principali organizzazioni sociali impegnate nel campo dei diritti dei migranti, organizzano un incontro pubblico alla Camera dei Deputati per richiamare l'attenzione su due proposte di legge di iniziativa popolare, depositate in Parlamento tre anni fa, con la raccolta di più di 200mila firme. Il primo testo introduce il diritto di voto alle elezioni amministrative per gli stranieri residenti da 5 anni. H secondo propone una riforma della legge sulla cittadinanza, che contiene, tra l'altro, l'introduzione dello ius soli. All'incontro, dopo i saluti del presidente della Camera Laura Boldrini, interverrà, fra gli altri, Graziano Delrio, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. 6 Da Redattore Sociale del 18/12/14 Un Paese diverso è possibile? A che punto è la riforma della legge sulla cittadinanza Incontro pubblico Data: 18 dicembre 2014 Luogo: Camera dei Deputati, Sala Aldo Moro Organizzatore: Campagna L’Italia sono anch’io Comune: Roma L'incontro della campagna L’Italia sono anch’io, promossa dalle principali organizzazioni sociali impegnate nel campo dei diritti dei migranti, ha l'obiettivo di "verificare a che punto è l’iter legislativo della riforma della cittadinanza, data l’urgenza di arrivare al più presto all’introduzione di regole più giuste e adeguate alle nuove dinamiche che coinvolgono le nostre comunità". Da il Salvagente del 18/12/14, pag. 49 Campagne Firme per una Difesa civile Punta a raccogliere almeno 50miìa firme entro lo fine di maggio "Un'altra Difesa è possibile", la campagna, appena avviata per la proposta di legge di iniziativa popolare "Istituzione e modalità di finanziamento del Dipartimento della Difesa civile, non armata e nonviolenta". Obiettivo dei promotori è la piena attuazione dell'art. 52 della Costituzione ("sacro dovere della difesa della patria") con l'istituzione di forme di difesa civile e nonviolenta in coerenza con l'art. 11 della nostra Carta ("ripudio della guerra"), in concreto, si tratta di comprendere in un dipartimento i Corpi civili di pace e l'Istituto di ricerche sulla pace e il disarmo prevedendo forme di collaborazione con i dipartimenti della Protezione civile, dei Vigili del fuoco e della Gioventù e del Servizio civile nazionale. I promotori sono: Conferenza nazionale enti Servizio civile, Forum nazionale per il Servizio civile, Rete della pace, Rete italiana per il disarmo, Sbilanciamoci!, Tavolo interventi civili dì pace. 7 ESTERI del 18/12/14, pag. 1 Prove tecniche di sbloqueo Roberto Livi L'AVANA Cuba-Usa. Storico scambio di «prigionieri» e impegno a riallacciare le relazioni diplomatiche dopo 52 anni di «bloqueo» statunitense. Washington ammette: «L’embargo ha fallito, somos todos americanos». Determinante l’apporto del Vaticano. L’inizio della fine di un’era In contemporanea, il presidente cubano Raúl Castro e lo statunitense, Barack Obama, hanno annunciato l’inizio di negoziati per la riapertura di sedi diplomatiche e in prospettiva, dopo più di cinquant’anni di conflitto, per la ripresa di relazioni diplomatiche piene e la fine dell’embargo unilateralmente decretato da Washington. Sempre in contemporanea è stata annunciata la liberazione «per motivi umanitari» del “contrattista” statunitense di Usaid, il 65enne Alan Gross, condannanto a Cuba nel 2009 a 15 anni di prigione per «sovversione». Da parte loro, gli Usa mettono in libertà , Gerardo Hernández, Ramón Labañino, Antonio Guerrero, condannati a larghe pene (tra i 20 anni e l’ergastolo) negli Usa per «spionaggio» e a Cuba definiti «eroi» e «combattenti dell’antiterrorismo». Due loro compagni, René González e Fernando González, sono attualmente in libertà a Cuba dopo aver scontato l’intera pena in carceri statunitensi. Il senso storico di tali misure è stato sottolineato dai media americani – per la Cnn si tratta «del cambio più profondo della politica Usa nei confronti di Cuba dall’inizio dell’embargo» nel 1962 — sia da analisti a Cuba. Ma è soprattutto dalle parole dei due presidenti– che martedì hanno avuto una conversazione telefonica diretta — che si avverte l’inizio della fine di un’era nelle relazioni tra i due Paesi. Obama ha ammesso che sia l’embargo, sia le varie iniziative «coperte» per provocare un cambio di governo a Cuba, sono fallite e che nell’isola il governo socialista ha iniziato una serie di riforme. Raúl, dal canto suo, ha affermato che da anni il fratello Fidel aveva chiesto agli Stati Uniti di usare la via del dialogo per risolvere i contenziosi e affrontare le differenze di vie politiche. Il presidente cubano ha ribadito la piena disponibilità a discutere di ogni tema, purché il dialogo avvenga su base di uguaglianza e nel rispetto della sovranità nazionale dell’isola. Ma ha pubblicamente ringraziato Obama, riconoscendone il merito di aver iniziato una rottura storica nella politica statunitense e soprattutto di sapersi svincolare dai condizionamenti della potente lobby anticastrista di Miami. Il più giovane dei Castro, ha ringraziato il Vaticano e lo stesso papa Francesco per l’opera di mediazione in favore del dialogo, riconoscendo così il peso della Chiesa anche nell’isola, e ha anche reso grazie ai buoni uffici prestati dal Canada. Per Cuba è senza dubbio una vittoria. Cinque anni fa Fidel aveva preso un impegno personale nei confroni dei cubani. «Volveran», ritorneranno, aveva detto riferendosi ai «cinque eroi» incarcerati negli Usa. Oggi ha mantenuto la sua promessa. Ma ancora di più, Cuba ha dimostrato che un piccolo popolo può tenere testa a una grande potenza, anche se questo costa più di cinquant’anni di conflitto e un blocco economico che, come ha affermato Raúl, ha avuto «costi immensi» per l’isola e ha comportato enormi difficoltà per i suoi cittadini. Oggi i cubani possono stare a testa alta. Alan Gross è stato trasportato ieri mattina da un aereo governativo alla base militare di St Andrew in Maryland. Accompagnato dal senatore Pat Leahy (più volte si era espresso 8 contro l’embargo), dal deputato Christopher Van Hollen e dalla moglie Judith Gross. Il “contrattista” ha trascorso gli ultimi mesi «nell’ospedale militare Finlay all’Avana. Una serie di personalità americane, ultimo l’ex presidente Bill Clinton, avevano infatti affermato che il caso Gross costituiva «il principale ostacolo per giungere a un miglioramento delle relazioni tra Washington e l’Avana» e a «un indebolimento»o alla fine del blocco Usa. A giugno, dopo la morte della madre di Gross, il governo cubano aveva formalmente proposto di scambiare Gross con i tre dei «cinque eroi» tutt’ora incarcerati negli Usa. L’iniziativa cubana era stata apprezzata da una serie di politici americani e sostenuta dal New York Times. In queste prese di posizione, ferocemente osteggiate dai gruppi anticastristi cubani di Miami e dalla loro rappresentanza politica ad altissimo livello, specie nelle file repubblicane, veniva riconosciuto che non solo era lecito scambiare i prigionieri, ma che questa decisione avrebbe potuto servire appunto per mettere fine a una politica Usa nei confronti di Cuba che in più di cinquant’anni non ha dato alcun risultato. Inoltre veniva riconosciuto un fatto ampiamente provato: la politica di ingerenza e di governement changing attuata a Cuba dai servizi segreti americani avvalendosi di istituzioni formalmente umanitarie, come Usaid. Negli ultimi mesi sono rivelati i piani per mettere in piedi una sorta di Twitter cubano, soprannominato Zunzuneo, di inviare giovani latinoamericani nell’isola e infine di usare rapper cubani per creare un movimento,soprattutto giovanile, contro il governo cubano. Tutti tentativi «condotti con poca professionalità» e falliti. Anche Gross, secondo fonti cubane, era inserito in questi piani e la sua missione “umanitaria”, assistere la piccola comunità ebraica cubana, mascherava invece l’ingresso – illegale — di materiale informatico capace di violare i controlli della sicurezza cubana. Una palese e illegale ingerenza nella poltica di uno Stato sovrano, sanzionata nel Codice penale di qualsiasi parte del mondo. I «cinque eroi» cubani furono condannati per «spionaggio» per aver infiltrato la «dissidenza» cubano-americana di Miami – i cui leader sono in realtà ispiratori o autori di attentati terroristici in territorio cubano e contro un jet di linea cubano che costarono decine di vittime, tra le quali l’italiano Fabio di Celmo. I loro processi furono condotti in Florida senza che fosse garantita alcuna imparzialità e con alcuni giornalisti americani pagati «per creare un ambiente ostile» nei confronti dei cinque cubani. La liberazione di Gross e – come annunciato da Raúl — di una cinquantina di prigionieri politici, tra i quali vari implicati – secondo fonti ufficiose — in atti di spionaggio e rivelazioni di segreti di Stato assieme al permesso alla Croce Rossa di accedere alle carceri dell’isola, rende possibile anche un altro evento storico: il prossimo incontro (in aprile a Panama) al vertice dell’Organizzazione degli Stati americani di Obama e Raúl Castro. Per cinquant’anni gli Usa hanno obbligato i latinoamericani a mettere al bando Cuba, ora dopo una forte pressione della quasi totalità dell’America latina, Raúl potrà tornare e farlo come protagonista, incontrando e discutendo con Obama. «Il blocco economico statunitense deve cessare», ha affermato il presidente cubano nel suo discorso. Questo è l’obiettivo strategico, ma Raúl ha indicato anche i prossimi passi tattici, già peraltro in discussione, che Obama può compiere in quanto è in suo potere decidere sull’applicazione della «legge federale» (l’embargo) favorendo così una ripresa di rapporti diretta in alcuni settori vitali per Cuba: viaggi, telecomunicazioni, invio diretto di pacchi e di posta dagli Usa all’isola. Nel suo discorso, Obama ha dimostrato di essere intenzionato a procedere su questa linea. 9 Del 18/12/2014, pag. 1-2 Obama-Castro, cade l’ultimo muro “La storia delle Americhe cambierà” L’annuncio dopo mezzo secolo di crisi Non esclusa la visita del presidente Usa Scambio di prigionieri. Ira dei repubblicani FEDERICO RAMPINI «Si apre un capitolo nuovo nella storia delle Americhe. Somos todos americanos ». Barack Obama conclude una crisi durata 53 anni, mentre Raùl Castro parla in simultanea alla tv cubana. Cade l’ultimo muro della guerra fredda, Washington ristabilisce le relazioni diplomatiche con “l’isola più odiata”, una spina nel fianco a sole 90 miglia dalle sue coste. Malgrado la furia della destra repubblicana, inizia a sgretolarsi un embargo di cui il presidente non vede più le ragioni. Il passaggio finale che consente il disgelo matura martedì in 45 minuti di colloquio diretto tra Obama e Castro (il primo dialogo a tu per tu tra i leader dei due paesi da mezzo secolo), con l’aiuto di papa Francesco. Coincide con la liberazione di 53 detenuti politici cubani e uno scambio di prigionieri. Obama reduce da sconfitte interne sceglie la politica estera per lasciare un’eredità “pesante” nella storia. Si conquista un posto negli annali delle relazioni internazionali, annunciando il ristabilimento delle relazioni con L’Avana che erano state interrotte nel 1961 in seguito alla rivoluzione di Fidel Castro (1959). «Riapertura dell’ambasciata Usa in tempi stretti», è l’incarico che Obama affida al segretario di Stato John Kerry. Mentre il portavoce della Casa Bianca non esclude una visita del presidente a Cuba. A Kerry Obama affida anche la cancellazione di Cuba dalla lista di paesi che sponsorizzano il terrorismo. Inizia a smantellare l’edificio delle sanzioni, per quella parte che non richiede il sì del Congresso: più facilità per viaggi e turismo, affari e comunicazioni, carte di credito e Internet. Le rimesse degli emigrati possono affluire più generose. Con un occhio ai diritti umani, che sarà più facile sostenere abbattendo il muro dell’isolamento. La reazione della destra Usa è furibonda. Il presidente della Camera, il repubblicano John Boehner, definisce la svolta «una concessione insensata ad una dittatura che infierisce sul suo popolo e trama con i nostri nemici». Marco Rubio, senatore repubblicano della Florida che è figlio d’immigrati cubani, e potenziale candidato alla nomination presidenziale del suo partito: «Un altro cedimento a un tiranno». Obama parte da una constatazione severa e al tempo stesso pragmatica: l’embargo ha fallito. Ha contribuito a impoverire l’isola, «ma mezzo secolo dopo i comunisti di Castro sono sempre al potere». Per contro la politica delle sanzioni ha ridotto la capacità d’influenza degli Stati Uniti, sia nei confronti di Cuba sia verso altri paesi d’America latina. «A tratti ci siamo isolati nell’emisfero occidentale». Ovvero: gli Stati Uniti si sono messi ai margini rispetto ad un ampio consenso delle nazioni latinoamericane che non avevano condiviso la demonizzazione di Castro. L’errore degli Usa ha regalato a Castro un ruolo da martire e un podio per la sua propaganda. «Non si favoriscono i diritti umani cercando di far fallire gli Stati, ma dialogando », dice Obama. Tra le aperture concrete, non a caso il presidente americano mette in prima linea la liberalizzazione degli investimenti nelle telecom: per portare Internet su un’isola dove solo il 5% della popolazione naviga online. E’ quello che stava facendo Alan Gross, il 65enne americano che portava tecnologie di accesso alla Rete, ed era finito in carcere all’Avana cinque anni fa. La sua liberazione, per ragioni umanitarie, è avvenuta separatamente dagli scambi di prigionieri (tre spie cubane per una spia americana). Tutto questo pacchetto di accordi è maturato in 18 mesi di trattative ultra-segrete per lo più condotte in Canada, e un incontro finale tra le due 10 delegazioni in Vaticano. Ma anche se i negoziati sono stati protetti dal segreto, la svol- ta storica era nell’aria da tempo, Obama ci stava lavorando dal suo primo mandato. Ed è come se la sua sconfitta alle elezioni di midterm avesse improvvisamente “liberato” il presidente, spingendolo a dare un segno più progressista all’ultimo biennio che gli rimane. La politica estera è uno dei pochi terreni sui quali il presidente ha un potere quasi esclusivo, e Obama è deciso a usarlo fino in fondo. Su Cuba, Obama usa anche la sua autobiografia — è nato pochi mesi dopo la fallita invasione della Baia dei Porci e pochi mesi prima della crisi dei missili con l’Urss — per segnalare il lungo tempo trascorso da quelle tensioni della guerra fredda, l’assurdità di restare aggrappati a un passato ormai remoto. Il New York Times gli dà credito per avere «rimesso in movimento la diplomazia arrugginita della guerra fredda». Il presidente rivendica con orgoglio la battaglia per i diritti umani. Ma il metodo era sbagliato, dice, «ha dato un alibi al regime». Fa un paragone con Cina, Vietnam, altre nazioni dove i diritti dei cittadini non sono rispettati ma coi quali tuttavia l’America sceglie di avere relazioni aperte. Evoca «le nuove generazioni di cubaniamericani», che non condividono l’approccio dei genitori anti-castristi, roccaforte elettorale della destra e sostenitori dell’embargo. «Da ora in avanti quando siamo in disaccordo, sulla democrazia e i diritti umani, lo diremo direttamente. Cuba non cambierà da oggi all’indomani. Ma diventa più facile per noi appoggiare il cambiamento». Un appuntamento l’anno prossimo: Cuba e Stati Uniti parteciperanno insieme, per la prima volta, al Summit of the Americas a Panama, dove si discuterà anche di diritti umani. Del 18/12/2014, pag. 4 Al ristorante “Versailles” ritrovo degli esuli duri e puri la folla è furiosa e stupita “Obama sta sbagliando: così Raúl resta al potere per sempre”. Ma c’è anche chi si emoziona per la svolta Gli anticastristi scendono in strada “Questo è un patto con il diavolo” OMERO CIAI È COME se all’improvviso, senza avvisare, gli avessero dato un grosso cazzotto sotto il mento. Di quelli che ti lasciano senza fiato. Barcollanti, sconcertati e vinti. Il vecchio esilio cubano è stordito. Sulla piazzetta del “Versailles”, lo storico ristorante tempio dell’anticastrismo puro e duro, c’è una folla allo stesso tempo furiosa e perplessa. Miguel e Alcibiades, due cubani che lasciarono l’isola ragazzini con i loro genitori negli anni Sessanta, sollevano cartelli di protesta appena scritti. «È una vergogna », strillano, «quel maledetto Obama non doveva farci questo. È incredibile, assurdo. Inconcepibile. È un patto con la dittatura. Va a letto con il diavolo. Così i Castro rimarranno al potere per sempre». Sulla via, la famosa calle ocho, dove per decenni i cubani in fuga dall’isola di Fidel hanno trovato accoglienza e asilo, le macchine si fermano, i finestrini si abbassano: «Che è successo?», chiedono. Poi si fermano dove possono e ingrossano la protesta. Nonostante il rumors dello scambio incrociato di spie fra Cuba e gli Stati Uniti circolasse da giorni, nessuno credeva che Obama e Raúl potessero farlo davvero. Sulla stampa di Miami era tutto un fiorire di articoli contro il New York Times e l’idea che l’embargo andasse perlomeno alleggerito. Ma quel che più duole è il resto. Il discorso di Obama che, finalmente, prende atto come mezzo secolo di embargo non sia servito a nulla e apre. Apre a nuove relazioni diplomatiche, ai viaggi degli americani, ai commerci. Un terremoto diplomatico che sembra chiudere un’epoca. E che, in qualche modo, riconosce Cuba con 11 un Castro al potere. Qualcosa di inaccettabile per l’esilio cubano, ma anche per i repubblicani, da Bush padre a Marco Rubio. Ma, e va aggiunto subito, i cubani che vivono in America non sono più un blocco granitico anticastrista. Anzi, molti oggi stanno dalla parte di Obama. Anche da questa parte dello Stretto della Florida sono stanchi di guerra. E come ci dice un giovane manager cubano, Manuel: «Qui i contrari alla svolta sono soltanto quelli che con l’anticastrismo ci hanno lucrato. Quelli che hanno preso e prendono soldi dal governo americano per combattere il regime di Cuba». Perfino Pablo Alfonso, un giornalista che per anni dalle colonne del Miami Herald ha seguito l’interminabile conflitto, è emozionato. Arrivò qui dopo aver trascorso dieci in galera a Cuba perché militava in una organizzazione di dissidenti cattolici. Ma oggi pensa che l’apertura di Obama sia positiva. «Un nuovo e necessario inizio». La mossa del presidente americano Barack Obama era ciò che voleva Raúl. Lo disse subito il presidente cubano. Appena preso il posto del fratello ammalato nel 2008. Se gli americani vogliono nuove relazioni — disse — devono farlo ora, con me. Altrimenti sarà peggio. E’ evidente che alla Casa Bianca hanno saputo cogliere il ramoscello d’ulivo e, soprattutto fidarsi. Fidarsi che non era l’ennesima presa in giro. Negli anni di Fidel Castro tutto questo sarebbe stato impossibile. Gli Stati Uniti erano «l’impero» che andava umiliato con ogni mezzo e possibilmente anche sconfitto. Come accadde nella Baia dei Porci, 1961. Raúl invece è di un’altra pasta. Pensa che per sopravvivere ha bisogno di rapporti fluidi con Washington non di contrasti ideologici. Vuole trasformare l’isola in un Paese con una economia capace di sfamare i suoi abitanti, non costringerli a sacrifici perenni in nome del socialismo. E sicuramente nell’accelerazione di queste ore hanno avuto un ruolo fondamentale la crisi del petrolio e le conseguenti difficoltà del Venezuela, Paese dal quale Cuba riceve migliaia di barili di greggio. «Un errore, un gravissimo errore», insistono Miguel e Alcibiades tremolanti sulla piazzetta del Versailles: «Obama sta salvando i Castro dal loro abisso». Del 18/12/2014, pag. 1-6 Così è finita la Guerra Fredda La storia/Dalla Baia dei porci al “bloqueo” al tramonto di Fidel, lo scontro Usa-Cuba era da tempo una tragica farsa sulla pelle della gente L’Isola e gli Yankees 50 anni di folle duello Ma ora Raúl archivia la Revolución VITTORIO ZUCCONI La marcia della follia fra Stati Uniti e Cuba che ci portò a poche ore dall’olocausto nucleare si è fermata ieri sera e ha invertito cammino, quando Barack Obama e Raùl Castro hanno demolito all’unisono un altro rudere della Guerra Fredda, il muro d’acqua di 140 chilometri che divide la Florida dall’isola. È stato necessario grande coraggio da parte di un Obama, che rischia quello che gli rimane della scarsa popolarità senza incassare nulla e soprattutto da parte di Raùl, per anni il detestato fratello, il capo della repressione interna, il volto sgradevole dei Castro. È stato lui a trasformarsi in colui che ha cambiato la storia dell’isola e ha aperto le prime crepe nella mistica e nella pratica del regime che hanno permesso, con lo scambio di cosiddette «spie» e con la mediazione del Papa, la svolta sancita oggi. L’erede chiamato a custodire il patrimonio, è diventato il liquidatore del fallimento, il Gorbaciov del Caribe. Il «bloqueo», come lo chiamavano i cubani, l’embargo che aveva strangolato Cuba, ma insieme offerto a Fidel il perfetto paravento dietro il quale nascondere i propri errori e i fallimenti del socialismo tropicale, si sta sbriciolando. Dalla «Revolución» ormai spenta alla normalizzazione che i due capi di Stato hanno annunciato in contemporanea, per dare a 12 cubani e statunitensi l’impressione di un pareggio dopo una partita durata mezzo secolo, il tempo, e l’avvicendarsi delle generazioni dei cubani emigrati, hanno mostrato la insostenibilità. Cade un altro residuato del duello ideologico fra Est e Ovest. Ma da tempo ormai, e soprattutto da quando nel 2006 era stato operato «El Caballo», Fidel, il destriero possente sul quale avevano galoppato le illusioni e i miti rivoluzionari di generazioni, il dramma dell’embargo voluto da Eisenhower e rafforzato da Kennedy si stava tramutando in farsa tragica. La presa della minoranza cubana in Florida, a Miami, nelle «Little Havana», sulla politica elettorale aveva allentato la propria capacità di ricatto su candidati che dovevano avere il loro voto per arrampicarsi alla Casa Bianca. La terza generazione, i nipoti dei cubani fuggiti nelle ore successive alla conquista del potere castrista e inflessibili nel loro odio per quel «criminale », aveva ormai ripreso troppi rapporti con l’isola madre, o ne aveva perduti troppi, per sognare ancora la controrivoluzione che avrebbe rovesciato, e possibilmente ucciso, Fidel. Il palazzone della «Sezione d’Interessi » americani all’Havana, sul Malecon, il lungomare, diventerà ambasciata ufficiale. L’omino con il kalashnikov in mano che davanti alle finestre dei funzionari Usa gridava da un murale gigante «Señores Imperialistas ¡No les tenemos absolutamente ningún miedo!», non abbiamo assolutamente paura di voi, signori imperialisti, andrà in pensione. Il «Socialismo o muerte », dipinto sui vecchi muri resterà nel ricordo di nuove generazioni che non hanno, per loro fortuna, dovuto conoscere la morte. Neppure seguendo le avventure dissennatamente generose del «Che», di Ernesto Guevara, nelle savane d’Africa e poi nelle foreste andine, inseguendo miraggi di sollevazioni globali. Rivisto al rovescia, il film di questi 50 anni di una reciproca follia tra una superpotenza e un’isola nel Mar dei Caraibi è, come tanti documenti storici, una sequenza surreale, un viaggio nell’assurdo sempre sul filo teso sopra l’abisso. Nel terrore che l’Havana potesse rappresentare il focolaio di una pandemia comunista in Centro America violando la Dottrina Monroe di egemonia Usa su quell’emisfero, nel fruscio della coda di paglia che gli Usa avevano trascinato in una Cuba divenuta appendice della corruzione mafiosa e della dittatura delle multinazionali nello Stato di Bananas, gli strateghi e gli interessi economici americani riuscirono a trasformare una rivoluzione isolata in un fenomeno globale. E a gettare Castro nelle braccia di Mosca. I passaggi di questo film dell’assurdo, alimentato dalla narrazione affascinante di una rivoluzione permanente e da miti come quello del medico argentino Ernesto Guevara, sono difficili da accettare, oggi, mentre Obama e Raùl riconoscono l’inevitabile fine della «Piccola guerra fredda». Si ripensa increduli ai piani della Cia per uccidere Fidel anche attraverso sicari di Cosa Nostra, i tentativi di fargli cadere la barba con polveri depilanti e sigari tossici per distruggere l’icona dell’inarrestabile «barbudo ». Lo sbarco dei mercenari abbandonati sulla Playa Giron, divenuta poi celebre come la Baia dei Porci, fino alla segreta certezza di Lyndon Johnson che l’assassino di JFK fosse una marionetta cubana. Tutto questo sarebbe materiale per un «B Movie», se non lo avessimo visto e vissuto. Anche quando l’immaginario potenziale rivoluzionario del castrismo, ridotto a elemosinare per sopravvivere gli aiuti sovietici in cambio dello zucchero e poi il petrolio a prezzi scontati dall’amico Chavez in Venezuela e ad adottare un Maradona divenuto simbolo della persecuzione «yanqui», la ostinazione vendicativa della destra repubblicana decisa a punire il popolo cubano per la loro impudenza hanno condannato Cuba a decenni di inutili sofferenze. L’Havana semibuia della fine anni ‘80, quando l’elettricità veniva distribuita a macchia di leopardo lasciando la più grande città del Caribe in un perenne black out, le corse de bambini lungo il porto che vidi accogliere l’ultimo mercantile sovietico con alimentari e medicinali inviato da Gorbaciov prima di chiudere definitivamente i rubinetti, erano i fotogrammi dolorosi di un tramonto e di un inutile tormento. 13 Ma mi bastò vedere le folle strabocchevoli che avevano invaso le piazze e le strade per salutare Giovanni Paolo II nel 1998, nella finzione di una rinata Chiesa cattolica cubana organizzata con preti importati dall’America Latina, e affiancarle alle tristissime realtà del turismo sessuale in dollari, della doppia e tripla circolazione di valuta locale, delle lotte per comperare i «Sacapunta», le 500 Fiat fabbricate in Polonia ribattezzate appunto «temperamatite». per capire che il tempo delle illusioni era alla fine. E con esso sarebbe finito anche il senso reale di un embargo che soltanto gli USA fingevano di mantenere, mentre dall’Europa, dal Canada, dalla Cina, dall’America Latina, da Israele ricominciava il flusso di investimenti e di finanziamenti e di capitale. Spesso anche americani, arrivati per vie traverse. Il passo verso la normalizzazione che ieri Obama e Raùl hanno annunciato e che diventerà inarrestabile nonostante il Congresso americano che s’impunterà, è stato la conseguenza della fine di un’epoca, del tramonto dei suoi protagonisti e della constatazione — classica dopo ogni conflitto — della follia. I figli dei «gusanos», dei vermi che Fidel lasciò partire per disprezzo dal porto di Mariel, i superstiti della traversate degli stretti della Florida aggrappati a barche di legno di balsa e di copertoni, i «balseros» in balia delle onde e degli squali, ora guardano ai viaggi di ritorno verso l’isola, per riprendersi ciò che fu loro e possibilmente anche di altri. La Cuba commovente, irritante, petulante, inefficiente, ormai anche corruttibile, ma sempre tenerissima, della «zafra», del taglio della canna, della gioventù invecchiata si riapre a coloro che l’avevano devastata e costretta a deporre Batista il ladro e tiranno. Della «Revolución», ora che i fondi di investimento già pronti per spartirsi Cuba hanno visto ieri le loro quote volare, resterà qualche murale sbiadito dal sole e dalla salsedine, lungo il Malecon. Il Bloqueo è finito, tutto ricomincia. Riuscirà la Cuba «liberata» a salvare almeno la propria dignità, pagata tanto cara? Del 18/12/2014 – pag. 21 Sì dell’Europarlamento alla Palestina Hamas tolta dalla lista dei terroristi E da ieri è all’Onu la risoluzione che chiede la fine dell’occupazione israeliana DAL NOSTRO CORRISPONDENTE BRUXELLES Il Parlamento europeo ha approvato ieri a larga maggioranza una risoluzione che sostiene «in linea di principio» il riconoscimento dello stato di Palestina, purché la proposta sia legata allo sviluppo dei colloqui di pace. Nelle stesse ore, la Corte europea di giustizia ha annullato, «per motivi procedurali», la decisione del Consiglio Ue di mantenere «Hamas sulla lista europea delle organizzazioni terroriste». In un solo giorno, dunque, due decisioni provenienti dal cuore dell’Europa che toccano le vicende più drammatiche del Medio Oriente, e che già stanno innescando molte polemiche. Da Israele, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha definito il voto dell’Europarlamento «uno sconvolgente esempio dell’ipocrisia europea e un’indicazione che molti nel continente non hanno imparato nulla dall’Olocausto». Il co-negoziatore della risoluzione e presidente della commissione Esteri all’Europarlamento, il tedesco Elmar Brok, ha invece sottolineato che «con questo voto, il Parlamento europeo ha respinto in modo chiaro un riconoscimento della Palestina senza condizioni, separato dai negoziati di pace». Quanto 14 alla sentenza della Corte di giustizia su Hamas, l’Alto rappresentante Ue per la politica estera, Federica Mogherini, ha rilevato che non dovrebbe essere considerata «una decisione politica»: i giudici hanno espressamente citato «ragioni procedurali», per esempio il fatto che le accuse sulle attività di Hamas siano state sostenute spesso da documentazione reperita su Internet o su giornali, e non da fonti ufficiali o documentate. Ma naturalmente, è stata la decisione dell’Europarlamento quella che più ha suscitato attenzione e proteste. La risoluzione era stata redatta da 5 diversi gruppi politici, ed è stata approvata con questi risultati: 498 voti favorevoli, 88 contrari, 111 astenuti. Vi si sostiene che il Parlamento europeo appoggia «in linea di principio il riconoscimento dello Stato palestinese e la soluzione a due Stati, e ritiene che ciò debba andare di pari passo con lo sviluppo dei colloqui di pace, che occorre far avanzare». E ancora: l’Europarlamento ribadisce «il proprio fermo sostegno a favore della soluzione a due Stati basata sui confini del 1967, con Gerusalemme come capitale di entrambi gli Stati e con uno Stato di Israele sicuro e uno Stato di Palestina indipendente, democratico, territorialmente contiguo e ca-pace di esistenza autonoma, che vivano fianco a fianco in condizioni di pace e sicurezza, sulla base del diritto all’autodeterminazione e del pieno rispetto del diritto internazionale». I deputati condannano poi «con la massima fermezza» tutti gli atti di terrorismo o di violenza. E rimarcano «la necessità di consolidare il consenso attorno al governo dell’Autorità palestinese» invitando «tutte le fazioni palestinesi, compresa Hamas, a fermare le divisioni interne». Una parte del testo ribadisce poi che «gli insediamenti israeliani sono illegali ai sensi del diritto internazionale», chiedendo all’Europa «di diventare un vero e proprio motore nel processo di pace in Medio Oriente e all’Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue, Federica Mogherini, di favorire una posizione comune europea per la soluzione del conflitto». Per appoggiare gli sforzi della diplomazia, è stata poi deciso di lanciare l’iniziativa «Parlamentari per la pace», con l’intento di riunire gli eurodeputati e i deputati dei parlamenti di Israele e Palestina. Luigi Offeddu Del 18/12/2014, pag. 19 Ue, voto per la Palestina. Ira d’Israele A Strasburgo sì al riconoscimento dello Stato. Il Tribunale del Lussemburgo: Hamas fuori dall’elenco dei terroristi Il premier Netanyahu: “Ecco i pregiudizi degli europei, non hanno imparato nulla dall’Olocausto” ANDREA BONANNI Con 498 voti favorevoli, 88 contrari e 111 astensioni il Parlamento europeo si è dichiarato ieri per un riconoscimento «in principio» dello Stato palestinese, sottolineando che questo deve procedere «di pari passo con lo sviluppo di negoziati di pace». L’assemblea legislativa europea non ha potere decisionale in materia di politica estera, e dunque la risoluzione approvata non ha conseguenze dirette sull’atteggiamento dei governi europei. Tuttavia il Parlamento, nello stesso documento, invita l’alto rappresentante per la politica estera europea, Federica Mogherini, a «facilitare il raggiungimento di una posizione comune dell’Ue in questo senso» affinché l’Europa possa riprendere un ruolo nel processo di pace in Medio Oriente. Il voto degli eurodeputati è arrivato poche ore dopo che il Tribunale dell’Unione europea, a Lussemburgo, aveva annullato la decisione presa dai 15 ministri degli esteri dell’Ue nel 2003 di inserire Hamas nella lista delle organizzazioni terroristiche. Anche in questo caso, la sentenza del Tribunale non ha effetti concreti, in quanto il gelo dei beni dell’organizzazione palestinese e le varie misure adottate dalla Ue per isolare Hamas restano in vigore fino alla presentazione della richiesta di appello e fino alla sentenza definitiva. E sempre nella giornata di ieri i rappresentanti di 126 Paesi che aderiscono alla Convenzione di Ginevra, riuniti nel capoluogo Svizzero in assenza del rappresentante israeliano e di quello statunitense, hanno votato all’unanimità una risoluzione che chiede a Israele di rispettare i diritti dei civili palestinesi. Queste due decisioni hanno provocato una durissima replica del primo ministro dello Stato ebraico, Benjamin Netanyahu: «Oggi abbiamo assistito a due esempi del pregiudizio europeo. A Ginevra si chiede un’inchiesta contro Israele per crimini di guerra, mentre in Lussemburgo la Corte europea ha rimosso Hamas dalla lista delle organizzazioni terroristiche. Ci sono troppe persone in Europa, sulla terra dove sono stati massacrati sei milioni di ebrei, che non hanno imparato nulla». Netanyahu ha chiesto l’immediato reinserimento di Hamas nella lista nera della Ue. In realtà, come ha spiegato ieri la portavoce dell’Alto rappresentante Federica Mogherini, la decisione del Tribunale «è una sentenza legale basata su un vizio di procedura, non una decisione politica» Il Consiglio potrà decidere di fare appello, e nel frattempo «le misure restrittive restano in atto. Questo significa che la Ue continua a considerare Hamas un’organizzazione terroristica». La sentenza dei giudici di Lussemburgo si appella infatti ad un vizio procedurale, in quanto la decisione di mettere Hamas sulla lista nera sarebbe stata presa «sulla base di accuse ricavate dalla stampa e da Internet» e non «per fatti esaminati e convalidati da autorità nazionali». Più rilevante, politicamente, è stato il voto della risoluzione approvata dal Parlamento europeo, che tra l’altro condanna ancora una volta gli insediamenti dei “coloni” israeliani nei territori palestinesi. E la rilevanza è data dalla enorme maggioranza che ha condiviso il documento, presentato con una iniziativa congiunta di popolari, socialisti, liberali, verdi ed estrema sinistra. In realtà socialisti, verdi e sinistre avrebbero voluto un testo ancora più duro, che chiedeva ai governi un riconoscimento immediato dello Stato palestinese senza collegarlo alla ripresa dei negoziati. Il compromesso è stato imposta dai Popolari. «Con questo voto il Parlamento respinge un riconoscimento incondizionato scollegato dai negoziati di pace», ha dichiarato Helmar Brok, popolare tedesco e presidente della Commissione esteri del Parlamento. Anche con le attenuazioni richieste dal Ppe, la risoluzione è apparsa comunque troppo dura agli eurodeputati di Forza Italia che, pur aderendo al Ppe, hanno lasciato l’aula al momento della votazione. Il testo ha invece avuto il sostegno dei deputati del Movimento cinque stelle, mentre i loro compagni del gruppo euroscettico, i britannici dell’Ukip, si sono opposti sostenendo che il riconoscimento di uno Stato non rientra nelle competenze dell’Ue. Il voto del Parlamento europeo arriva dopo la decisione della Svezia di riconoscere lo Stato palestinese e una serie di voti analoghi, ma non vincolanti, dei parlamenti di Gran Bretagna, Francia, Irlanda, Spagna e Lussemburgo. Nel testo approvato ieri, gli eurodeputati esprimono «forte sostegno per la soluzione dei due Stati sulla base delle frontiere del 1967, con Gerusalemme come capitale dei due Stati», che è proprio l’ipotesi recentemente respinta dal premier israeliano Netanyahu. del 18/12/14, pag. 1/3 Un giorno nero per Netanyahu Luisa Morgantini 16 Medio oriente/Ue. Il premier israeliano non trova niente di meglio che accusare l’Europa - che blandamente riconosce lo Stato di Palestina delle responsabilità dell’Olocausto Ieri, anche se Kerry ha comunicato ai palestinesi che gli Usa porranno il veto alla loro richiesta all’Onu di porre un termine all’occupazione israeliana e alla realizzazione dello Stato di Palestina, per Israele è stata una giornata di fuoco che ha reso furioso, l’«ego maniaco» (chiamato cosi da un alto dirigente dello Shin Bet, i servizi segreti) Bibi Netanyahu, che per nascondersi dalle sue attuali responsabilità, dopo Margine protettivo a Gaza e per l’occupazione e le nuove colonie nei Territori palestinesi, non trova niente di meglio che accusare l’Europa — che blandamente riconosce lo Stato di Palestina — delle responsabilità dell’Olocausto. Ora teme che i ministri del suo governo che vivono nelle colonie, visto che i governi dell’Ue dichiarano illegali tutte le colonie, potrebbero vedersi rifiutare il visto di entrata in Europa. A rendere comunque furioso il premier tre fatti. Il primo, che il Parlamento europeo, considerando che l’Onu ha deciso il 29 Novembre 2012 di accettare la Palestina con lo status di Osservatore, ribadisce nella risoluzione votata ieri a Strasburgo a grande maggioranza che i paesi Ue devono trovare un accordo in tal senso e che il Parlamento europeo «riconosce in principio lo Stato di Palestina che vada di pari passo con lo sviluppo dei colloqui di pace». Risoluzione di compromesso tra i maggiori gruppi politici alcuni dei quali, nella sinistra, chiedevano una dichiarazione di riconoscimento senza legami con i negoziati, formula invece cara alla nostra Alta Rappresentante per le relazioni Estere, Federica Mogherini. Quando il giorno prima del voto alcuni parlamentari mi avevano inviato la risoluzione, memori della mia attività di vicepresidente dell’Europarlamento. Avevo chiesto loro di presentare almeno un emendamento che togliesse il collegamento con i negoziati. Niente da fare. Ma, malgrado i limiti, il voto nel linguaggio diplomatico manda un segnale chiaro: Israele sta tirando troppo la corda ed anche i pavidi paesi europei, costantemente preda del ricatto israeliano e dalla fedeltà alle alleanze geopolitiche, faticano a continuare ad essere complici della colonizzazione israeliana ed a permettere ogni tipo di violazione del diritti umani. Le linee guida per impedire che i prodotti delle colonie si avvalgono delle facilitazioni previste dagli accordi di associazione tra Ue e Israele, sono un indicatore in questa direzione. Il secondo motivo di furia per Netanyahu, la decisione della Corte di Giustizia europea di depennare Hamas anche se per motivi tecnici e procedurali dalla lista nera delle organizzazioni terroriste, decisione alla quale la nostra Alta Rappresentante intimidita dalla sfuriata di Netanyahu, ha subito dichiarato che la politica Ue non cambia, non si libereranno i fondi di Hamas in Europa e si continuerà con il boicottaggio di Hamas anche se poi nella pratica l’Ue sostiene il governo di Unità nazionale palestinese (FatahHamas) Terzo motivo di rabbia per «Bibi», l’approvazione alla IV Convenzione di Ginevra convocata a Ginevra dalla Svizzera, che ha resistito alle pressioni israeliane ed Usa perché non tenesse l’incontro, dove invece 126 paesi su 196 hanno approvato una risoluzione che in 10 punti denuncia la costruzione di insediamenti in Cisgiordania ed a Gerusalemme Est e dichiara: «Tutte le serie violazioni della legge umanitaria internazionale devono essere indagate e tutti i responsabili devono essere portati davanti alla giustizia». Segnali di cambiamento, ma troppo lenti per la Palestina dove ogni giorno vengono uccisi giovani ai checkpoint, e proprio ieri Israele attivava due basi militari nei territori occupati. Riconoscere lo Stato di Palestina, uno stato che non c’è perché mangiato dalla colonizzazione, non è la fine dell’occupazione militare, ma è certo un passo positivo. Nel futuro i palestinesi liberi dall’ occupazione militare potranno decidere se vogliono uno stato, nessuno stato, due stati sulla Palestina storica. Per adesso la partita è: si riconosca 17 lo Stato di Palestina e si attui verso Israele una politica di sanzioni e disinvestimento a partire dalla sospensione dell’Accordo di Associazione Ue-Israele. Del 18/12/2014 – pag. 33 Le scuole come covo di nemici ossessione dell’islam fanatico Sono anni che i terroristi jihadisti di Boko Haram spargono il terrore nelle scuole della Nigeria, con attentati che hanno per bersaglio studenti e studentesse giovanissime. «Boko Haram» significa «l’istruzione occidentale è peccato» e i ragazzini e le ragazzine che osano prendere un libro che non sia il testo sacro devono essere puniti e annientati senza pietà. È difficile capire la logica perversa degli assassini che hanno fatto strage di bambini in una scuola di Peshawar. Ci sembra qualcosa di mostruoso, di incomprensibile, un’esplosione di follia. Ma è una follia sorretta da un’implacabile logica fondamentalista. Chi è ossessionato dalla contaminazione, chi considera corruzione e depravazione la cultura, l’arte, la musica, il sapere, tutto ciò che non sgorga da un unico dogma vissuto con una passione totalitaria, non è solo intollerante. È anche un soldato che deve colpire il nemico ovunque sia annidato per ripulire il mondo da ogni impurità. Le ragazze che come Malala Yousafzai pretendono in Pakistan di andare a scuola, secondo gli energumeni messi a guardia della fede sono da sterminare per almeno due ragioni: perché sono donne e studiando stanno rifiutando perciò un destino di soggezione e di minorità a disposizione del maschio padrone; e perché frequentano un luogo «immondo» come la scuola, sentina di ogni vizio: «L’istruzione occidentale è peccato». «Le donne che leggono sono pericolose», recitava il titolo di una mostra in Francia. Perciò secondo i proclami del fanatismo integralista «le donne che vanno a scuola sono pericolosissime». A Kabul i talebani cacciarono e lapidarono le ragazze che frequentavano le aule scolastiche. In Nigeria le scuole sono oggetto di attentati continui. Dopo la carneficina in Pakistan anche nello Yemen è stato preso a bersaglio un bus scolastico, provocando l’uccisione di quindici persone. Chi possiede un libro eretico viene condannato a morte. Appena preso il potere in Afghanistan i guardiani della fede hanno demolito le scuole, bruciato le librerie, saccheggiato i musei, fatto a pezzi gli strumenti musicali simbolo di dissolutezza e di turpitudine, devastato le statue di Budda. Il furore della tabula rasa non permette che un edificio degli «infedeli» resti in piedi. A Mosul insieme ai luoghi di culto cristiani sono state messe al bando le scuole. La scuola, in questa visione apocalittica della purezza integralistica, diventa un pericoloso covo di pluralismo, confronto, coesistenza di idee diverse. Vengono sempre colpite biblioteche e scuole perché in questi luoghi non c’è mai un solo libro, un’unica verità ossessivamente salmodiata, una sola dottrina da inculcare, ma c’è sempre la tentazione della diversità, la seduzione di un mondo diverso da quello predicato dai sacerdoti dell’uniformità e dell’intolleranza. Non c’è più pietà per i bambini, perché si vede nei bambini coinvolti nelle scuole già dei peccatori da condannare in un rogo di purificazione che è la negazione della vita. Questo richiamo fondamentalista esercita purtroppo un suo fascino sinistro eppure seducente con la sua insistenza per le soluzioni crudeli che non ammettono mediazioni, remore, ostacoli morali. 18 La santificazione dell’omicidio è l’altra faccia dell’odio nei confronti della scuola. È la fuga dalla libertà e dai pesi che essa comporta, così scomoda e lontana dai conforti dell’obbedienza, del conformismo, dello spirito gregario. Per questo i fanatici hanno perfettamente chiari che le scuole sono pericolose e che vanno colpite, massacrati gli studenti, sfigurate le ragazze che le vogliono frequentare. C’è una bieca ideologia dietro questa follia. Riconoscerne i caratteri non sarà sufficiente ad arginarne l’azione distruttiva, ma nessun argine sarà possibile senza capire il volto di questo nemico che non conosce pietà. del 18/12/14, pag. 7 Tisa, liberalizza tutto, anche i dati personali Anna Maria Merlo Wikileaks. Nuove rivelazioni sulla liberalizzazione dei servizi, in corso di negoziato. I "grandi amici dei servizi" trattano per deregolamentare il mercato dei dati personali, a tutto vantaggio delle grandi multinazionali (Usa). Tisa è la punta di lancia del Ttip. La Commissione Ue è contenta e spera nelle briciole. Ma Google è in difficoltà in Europa, dovrà pagare un po' di tasse e rispettare il diritto all'oblio? Tisa sta per Trade in Services Agreement. Si tratta di un cantiere in corso di negoziato, iniziato nel 2013 tra 23 paesi che si sono autoproclamati “i grandi amici dei servizi”, con l’intenzione di deregolamentare il settore, dal trasporto marittimo alle telecom, l’ecommercio, i servizi informatici, le consegne a domicilio, fino ai servizi finanziari. Sono compresi nella trattativa, oggi allargata a 50 stati, anche i servizi pubblici, considerati una “concorrenza sleale”. Questi “grandi amici dei servizi” trattano al di fuori dei negoziati multilaterali della Wto, impantanati nel ciclo di Doha che non va avanti, con l’obiettivo di presentarsi in un secondo momento al resto del mondo con un accordo che sarà più facile imporre erga omnes. La Ue ha avuto il via libera per parteciparvi, grazie a un voto dell’Europarlamento, dove hanno votato a favore il Ppe ma anche i social-democratici. Una nuova rivelazione del team di giornalisti whisle-blowing di Wikileaks arriva adesso a completare le informazioni già diffuse lo scorso 25 aprile sulla deregulation dei mercati finanziari: un capitolo della trattativa Tisa riguarda il mercato dei dati, una liberalizzazione prevista che mette a rischio la protezione della privacy e la sicurezza delle informazioni personali, al solo vantaggio delle multinazionali. Con l’aggravante, visto dall’Europa, che nel settore dei dati personali, le corporations al comando sono tutte Usa. Ma la Commissione, assediata dalle lobbies, è convinta dei vantaggi di Tisa, perché, per esempio, potrebbe permettere agli europei accedere al trasporto aereo negli Usa. Intanto, secondo Public Citizen, dai documenti diffusi da Wikileaks risulta che “si vuole proteggere il vantaggio competitivo degli Usa e il monopolio sulla proprietà intellettuale e tecnologica”. Nel 2011 è già stato raggiunto un accordo Usa-Ue per abbattere le restrizioni sul trasferimento di dati tra paesi. Tisa ha la stessa filosofia del Ttip, ne è in effetti la testa di ponte: l’obiettivo è eliminare tutti i protezionismi residui. La Ue ha firmato un accordo di liberalizzazione di questo tipo con il Canada, il Ceta, anticipazione del Ttip. Tisa contiene difatti uno dei principi-chiave del Ttip: il cosiddetto principio di “coordinamento”, che impedisce a uno stato di imporre una regolazione che potrebbe essere lesiva dei diritti di un altro firmatario, cioè siamo alla deregulation generalizzata. Nel Wikileaks dello scorso aprile era venuto alla luce che i negoziati riguardavano la soppressione di alcune 19 regolamentazioni della finanza, approvate in seguito agli scossoni della crisi, per evitare che si riproducesse. Le rivelazioni sulla liberalizzazione del mercato dei dati arrivano in un momento in cui la Ue comincia a prendere coscienza dei troppi vantaggi competitivi sfruttati da Google, una delle corporation più attive che spingono all’approvazione di Tisa. Il 16 dicembre scorso, Google ha chiuso in Spagna il servizio “attualità” in reazione a una legge che avrebbe obbligato la multinazionale Usa a pagare per gli articoli pubblicati e rubati ai media locali. Un analogo braccio di ferro ha avuto luogo in Germania, ma alla fine Google l’ha spuntata: i giornali locali hanno concesso una licenza gratuita per la pubblicazione dei loro contenuti, per paura di sparire dal Net. La Francia ha scelto una strada diversa e ha imposto a Google una contropartita, cioè di contribuire al Fondo per l’innovazione digitale della stampa (che fa parte del pacchetto degli aiuti pubblici ai media). Google, del resto, in Europa è oggetto di inchieste per “abuso di posizione dominante” (controlla il 90% del mercato Ue) e per l’ottimizzazione fiscale, in agenda oggi al Consiglio europeo. Dal 1° gennaio il pagamento dell’Iva sarà nel paese dell’acquirente, quando viene comprato un contenuto (film, musica ecc.) su Google, Apple ecc. Inoltre, è ormai previsto lo scambio automatico di informazioni fiscali, per evitare i tax ruling, la specialità del Lussemburgo. Google è in conflitto con numerose Autorità nazionali, garanti della privacy, ma in seguito a una decisione della Corte europea di giustizia, deve rispettare il “diritto all’oblio” su Internet. Saranno gli stati a gestire la protezione dei dati dei rispettivi cittadini. del 18/12/14, pag. IV Mense e cliniche, le trincee di Syriza Reportage. Cibo e assistenza sanitaria gratuita, attività culturali e media. Viaggio nelle roccaforti della sinistra radicale greca che ora vuole governare. Tra farmacie sociali e fabbriche recuperate, cibo ai poveri e assistenza ai migranti Angelo Mastrandrea Nella sala d’attesa della Kifa alle spalle del Municipio di Atene ogni paziente rimane ad aspettare il suo turno disciplinatamente. C’è chi aspetta di presentare la prescrizione medica e prendere i farmaci che gli spettano, chi è in fila per una visita odontoiatrica e chi per una consulenza psicologica. Caterina si occupa di smistare il traffico, indirizzando i pazienti là dove serve. Snocciola qualche cifra: «Da quando abbiamo aperto, nel gennaio del 2013, sono state effettuate 2.364 operazioni dentistiche, 5.580 visite, 2.500 medicazioni e una ventina di operazioni ambulatoriali». A prima vista sembra di essere finiti in un ambulatorio medico come tanti altri, ricavato in un confortevole appartamento del centro della città. Invece si tratta di una Kifa, un acronimo che indica una clinica e farmacia sociale. Qui arrivano a farsi visitare o a prendere medicinali, a frotte, gli esclusi dalla sanità pubblica. Sedute ad attendere il loro turno, due signore confabulano fra loro, alcuni anziani rimangono in silenziosa aspettativa. In un angolo, un signore magro, con la barbetta bianca, ha voglia di parlare. Racconta di essere espatriato al tempo dei colonnelli e, dopo una vita tra Stati Uniti e Canada, una decina d’anni fa è tornato in Grecia. In tempo per assistere al crollo. «È normale che siamo andati a finire così, colpa dei governi ma pure del popolo. Abbiamo vissuto troppo al di sopra delle nostre possibilità e ora rischiamo di tornare indietro di cinquant’anni», dice. 20 La clinica sociale si regge sul volontariato. Ventotto dentisti si alternano gratis, fuori dal loro orario di lavoro, a garantire cure per tutti, e lo stesso fanno psichiatri, psicologi, pediatri. Tra i danni più gravi provocati dall’austerità imposta alla Grecia, quelli alla salute delle persone sono probabilmente i più pesanti. Solo ad Atene hanno chiuso otto ospedali, mentre la spesa pubblica per la sanità in Grecia è stata ridotta del 25 per cento tra il 2008 e il 2012. L’assicurazione sanitaria è garantita solo a chi lavora e con la disoccupazione che affligge più di un terzo della popolazione questo è diventato un problema socialmente devastante. Ecco spiegato perché le cliniche sociali sono affollate come e più di un qualsiasi ambulatorio privato o pronto soccorso pubblico: nelle Kifa si viene per ritirare medicine altrimenti troppo costose o per visite specialistiche altrimenti fuori portata dalle tasche di una fascia di popolazione espulsa dal mondo del lavoro o con redditi ormai da fame. Su undici milioni di greci, si stima che almeno tre milioni oggi siano senza copertura sanitaria, quasi uno su quattro. «Ma ci sono anche tanti che, pur avendo la copertura, non riescono a pagarsi cure specialistiche o le medicine, visto che persino un esame del sangue arriva a costare un centinaio di euro», spiega Caterina. Questo spiega il proliferare di forme di autorganizzazione sociale. La rete di mutuo soccorso è estesa e opera come una sorta di welfare parallelo, spesso clandestino. Oltre alle cliniche sociali, «ci sono medici che accettano di visitare gratis i pazienti nel loro studio e altri che fanno piccoli interventi chirurgici. Quando sono necessari esami particolari, indirizziamo i pazienti in ospedali dove abbiamo dottori amici che li fanno di nascosto». La situazione è così tragica che alle cliniche sociali si vede davvero di tutto: «Pensa che qui si sono presentati persino detenuti in manette, accompagnati dalla polizia». E i farmaci? «Ci arrivano attraverso la rete Solidarity4all, che li raccoglie e poi li smista alle cliniche e farmacie sociali. Altri ci vengono portati dalla gente. Spesso si tratta di donazioni dei familiari di persone che muoiono». Quella che ho sotto gli occhi è una sorta di resistenza silenziosa, sotterranea, che si affianca e in molti casi ha preso il posto della rivolta di piazza che tra il 2008 e il 2009 incendiò piazza Syntagma e il quartiere di Exarchia, e che di tanto in tanto riesplode con forza. Come un paio di settimane fa, quando lo sciopero della fame di un giovane anarchico appena ventunenne, Nikos Romanos, che protestava per l’elementare diritto a sostenere un esame all’università, ha rischiato di togliere il coperchio a una pentola ancora in ebollizione. Attorno al Politecnico ci sono ancora i resti della battaglia. Marmi divelti tutt’attorno ai resti dell’ingresso sfondato dai tank dei colonnelli, il 17 novembre del 1973, quasi a mantenere un filo tra la rivolta di allora e quelle di oggi. Negozi sbarrati e un’aria da ribellione «no future», nonostante i locali della movida giovanile di Exarchia siano frequentati come al solito. La lapide che ricorda l’uccisione di Alexis Grigoropoulos è circondata di murales, di tanto in tanto qualcuno passa, sosta, fotografa, lascia una scritta. La strada è stata reintitolata al giovane ucciso, come la piazza Alimonda di Carlo Giuliani. Alexis aveva 16 anni e si accasciò tra le braccia del suo grande amico Nikos Romanos, la sera dell’8 dicembre del 2008, fulminato dalla pallottola di un poliziotto. «Quel giorno ha cambiato la storia della Grecia, perché la battaglia di quei giorni ha costituito il propellente che ha trasformato Syriza, in brevissimo tempo, da un partitino del 3 per cento alla principale forza politica del Paese», sostiene Adamos Zachariades, seduto davanti al suo computer nella redazione di Epohi, un settimanale di sinistra che, pur indipendente come la gran parte delle cliniche sociali e delle altre forme di autorganizzazione greche, costituisce una delle stampelle del partito della sinistra radicale che terrorizza l’Europa. Zachariades è un notista politico, racconta sorridendo di venire da uno dei tanti gruppetti della sinistra extraparlamentare confluiti nel ventre di Syriza («eravamo non più di duecento, ci chiamavamo Rosa», con un chiaro riferimento a Rosa 21 Luxembourg) e insieme riavvolgiamo il nastro degli ultimi dieci anni, per provare a raccontare l’evoluzione di un modello che dal sociale sale alla politica e non viceversa, senza tralasciare la cultura e l’informazione. «Le radici di Syriza sono nel movimento altermondialista. Gli attuali dirigenti si sono formati tutti nei social forum, lì hanno avuto modo di confrontarsi e stringere relazioni in tutta Europa. Un’intera generazione di greci è figlia di quella stagione. In seguito, nel 2006 c’è stato un fortissimo movimento studentesco contro la privatizzazione e Syriza è stato l’unico partito a supportarlo. Ma il punto di svolta vero è stato la rivolta del 2008», spiega Zachariades. L’uccisione di Alexis fece da detonatore a un malessere sociale che covava da tempo: quella che scendeva in strada a scontrarsi con la polizia fu definita da giornali e tv come la «generazione 800 euro». Pochi soldi, maledetti e soprattutto precari, mentre il resto del Paese sprofondava sotto il peso del debito pubblico, della corruzione e dell’evasione fiscale, e l’Europa non trovava di meglio che sostenere quelle forze che avevano contribuito a creare tutto ciò. Sei anni dopo, chi guadagna 800 euro al mese può considerarsi fortunato. Davanti al ministero dell’Economia mi imbatto in una protesta tutta al femminile. Il palazzo è tappezzato di striscioni e un gruppetto di donne di mezza età è seduto davanti all’ingresso. Una di loro fa la maglia ed è la stessa ritratta a muso duro di fronte a un poliziotto, in una sequenza di foto affisse al muro che testimoniano di uno sgombero. Sono lì da sei mesi, da quando sono state dismesse perché l’appalto per le pulizie è stato aggiudicato a un’altra ditta, a costi inferiori. Si definiscono «vittime della deregulation». Chiedo loro quanto guadagnavano. «Tra i 500 e i 600 euro al mese, dipende dai giorni di lavoro». Sono state mandate via in 595, per un periodo hanno avuto un sussidio equivalente al 70 per cento del salario, ora più nulla. Domando anche chi le abbia supportate, finora: «Syriza, il Kke, gli Indipendenti Greci», una formazione politica di centrodestra nata da una scissione di Nea Democrazia del premier delle larghe intese Antonis Samaras, al quale hanno tolto il sostegno politico. Proteste del genere non sono una rarità in Grecia. Il malcontento sociale è esondato dai giovani costretti a emigrare alla working class, la classe media è stata spazzata via dalla crisi e il consenso va cercato su questo terreno. Finora, chi è riuscito a trarne giovamento più di tutti è Syriza, grazie alla lezione appresa, a loro dire, nei social forum dove si sono formati i quadri dirigenti: orizzontalità nelle decisioni, supporto alle lotte sociali ma senza bandiere, assistenza materiale e presenza sul territorio. Nel quartiere di Neos Cosmos la vecchia sede del partito è stata riadattata in mensa per i nuovi poveri: «Non c’era mai nessuno, venivano solo gli iscritti per qualche riunione», racconta Argyris Panagopoulos, abitante del quartiere e braccio destro di Alexis Tsipras nelle trasferte italiane (nonché vecchio amico del manifesto). E allora, via le bandiere e cibo per tutti: a ora di pranzo c’è la fila per un piatto caldo. A Nea Philadelphia, quartiere operaio a una quindicina di chilometri dal centro, il minisindaco di Syriza Aris Vassilopoulos ha trasformato un edificio pubblico in un centro di assistenza ai bisognosi. Vado a incontrarlo il giorno dell’inaugurazione. Nel giardino c’è una festa popolare, si solidarizza con cubani e venezuelani venuti fin qui a sostenere cause internazionaliste, poi tutti a pranzo come a una vecchia Festa dell’Unità. Vassilopoulos racconta i suoi trascorsi politici, dal G8 di Genova al Forum sociale europeo di Firenze («ci sembrava la rivoluzione», dice, non capacitandosi di quello che è accaduto in seguito in Italia), poi passa a elencare i problemi del quartiere, dalla «mafia dei rifiuti» che gli sta facendo la guerra al tentativo di fermare la speculazione per la costruzione del nuovo stadio dell’Aek Atene. Infine spiega che, se è vero che il partito ha accolto diversi transfughi del Pasok e questo fa storcere il naso a molti, la base è invece molto più intransigente: «Noi siamo molto radicali sulle questioni sociali, le persone votano Syriza non per ragioni ideologiche ma perché sostengono che la situazione è così grave che non 22 possono fare altro». La domanda da un milione di dollari è però cosa accadrà se Syriza dovesse andare davvero al governo. Vassilopoulos non nasconde un certo timore che il grande sogno di una «rivoluzione greca» possa evaporare di fronte a una realpolitik fatta di alleanze politiche difficili da gestire, pressioni finanziarie internazionali e imposizioni di Bruxelles. Già nella situazione attuale non è semplice gestire un municipio di 35 mila residenti: «Da quando c’è il Memorandum i trasferimenti del governo sono diminuiti del 70 per cento. Abbiamo meno soldi e contemporaneamente più responsabilità». La soluzione adottata è ancora una volta l’autorganizzazione. Il Comune ha messo a disposizione la struttura, il resto lo fanno i volontari. Dafne Tricopoulos è una di questi. Lavora all’ospedale psichiatrico, guadagna 850 euro al mese “dopo 22 anni di anzianità” e rischia il licenziamento perché, pur non essendoci il corrispettivo greco della nostra legge Basaglia, il governo vuole chiudere i manicomi senza sapere che farne dei suoi ospiti. E nel tempo libero viene alla Solidarity Clinic a dare una mano. Gratis. “Qui c’è molto da fare, più che in altri quartieri. La chiusura delle fabbriche ha creato molti problemi psicologici e di depressione agli ex operai», dice. Giorgios Diamantis, che si definisce ammiratore di Gramsci, vive tutto ciò come un attacco ai lavoratori: «Sia chiaro, per noi quella che stiamo combattendo è una lotta di classe». Il quartier generale della sinistra sociale è nella centrale via Akadimia. Al settimo piano di un palazzo come tanti altri c’è la sede di Solidarity for all, il network dei centri di mutuo soccorso, delle mense e cliniche social e dei centri di assistenza agli immigrati. In una stanza sono accatastate scatole di medicinali, un’altra è adibita a studio legale, un’altra ancora ospita gli attivisti che si occupano del sostegno al movimento cooperativo. Su un terrazzo dal quale si gode di una panoramica da brivido dello sprawl urbano ateniese sono poggiate alcune confezioni di sapone liquido prodotte dalla Vio.me di Salonicco, la fabbrica recuperata di Salonicco definita da Naomi Klein «un segnale di speranza critica» per l’Europa. Christos Giovannopoulos, uno dei responsabili della campagna, srotola una mappa dell’Attica sulla quale sono indicate le roccaforti della gauche ateniese: farmacie sociali, scuole per immigrati, centri sociali. Sono decine, una legenda spiega il nome e l’attività di ognuna. Ce n’è perfino una che si chiama Lacandona, zapatisti nella giungla urbana ateniese. «Abbiamo tre linee principali di azione: il cibo con le mense sociali e la distribuzione di viveri, la sanità con le cliniche e farmacie, e le cooperative», spiega Giovannopoulos. Solidarity for all aiuta i lavoratori a recuperare le aziende che chiudono: un fenomeno che è cominciato qualche anno fa alla Vio.me e attorno al quale si sta strutturando un vero e proprio movimento. In nome di Poulantzas Chissà cosa avrebbe detto oggi Nicos Poulantzas se non si fosse lanciato dalla finestra dell’abitazione di un amico il 3 ottobre 1979 a Parigi, ad appena 43 anni. È quello che si chiedono all’Università Panteion, in un quartiere di palazzoni che non fanno rimpiangere la periferia romana. Il Poulantzas Institute, think thank intitolato al filosofo marxista greco allievo di Louis Althusser, ha organizzato due giorni di dibattito sulla crisi europea, alla quale partecipano studiosi e attivisti, soprattutto del nord Europa. La crisi greca ha provocato come effetto collaterale una riscoperta del Gramsci ellenico, che ebbe lo sguardo lungo sul futuro del continente. Poulantzas aveva già prefigurato un’Europa divisa tra centro e periferia, con i paesi mediterranei sopraffatti sia dal capitale internazionale che dalle avide borghesie nazionali. E sembra che ci abbia preso. L’aspetto culturale non è secondario nel «modello Syriza». «Abbiamo studiato tanto in questi anni», dice Adamos Zachariades, che snocciola i riferimenti teorici del partitocoalizione che sta rivoluzionando la sinistra europea: da Etienne Balibar a Michel Foucault, passando per Cornelius Castoriadis e Giorgio Agamben. 23 Alexis Tsipras non è nella sede del partito. L’uomo più temuto d’Europa è in campagna elettorale permanente, impegnato a schivare gli eurosgambetti di Jean Claude Juncker e le spallate del premier Antonis Samaras. Da quando si è delineata l’ipotesi di un ritorno anticipato alle urne e dai sondaggi Syriza risulta il primo partito di Grecia, la temperatura politica del Paese è improvvisamente salita, in misura proporzionale al crollo della Borsa. Nel quartier generale del partito, in piazza Eleftheria, si denuncia il «terrorismo» delle élite interne e di quelle europee, le stesse che hanno ridotto il Paese allo stremo e ora annunciano scenari da Argentina 2001 a partire dal giorno dopo la vittoria dell’uomo che minaccia di ribaltare il dogma tedesco dell’austerità. «Il problema per Tsipras sarà gestire la transizione», dice un analista alla tv. Una fase di turbolenza è considerata quasi inevitabile, «ma noi siamo pronti a tutto», rispondono da Syriza. Dal 2008 per il partito della sinistra radicale un tempo fratello minore, e acerrimo rivale, dei comunisti del Kke, è stato un crescendo: gli ultimi sondaggi lo danno, in caso di probabili elezioni anticipate, tra il 25 e il 28 per cento. La battaglia si combatte nelle piazze e sui media. La galassia Syriza può contare sul quotidiano Avgì e radio Kokkino, nonché sul settimanale d’area Epohi e su istituti culturali come il Poulantzas. Ma non basta. Bisogna sfondare sui media mainstream ed è l’operazione più difficile, anche se qualche breccia si sta aprendo, se è vero che persino una Bibbia del capitalismo globalizzato come il Financial Times è stata costretta ad ammettere, sia pur a malincuore ma con onestà, che gli unici ad avere le idee chiare su come si possa uscire dalla crisi in Europa sono due partiti di fronte ai quali gli alfieri teutonici dell’ordoliberismo sbuffano come i tori come quando vedono rosso: Syriza, appunto, e lo spagnolo Podemos. Altra stampella fondamentale sono le alleanze internazionali. Metà della sfida di Tsipras si gioca in Europa, e per questo nei convegni di Syriza politici e militanti di Podemos e della tedesca Linke sono di casa. «Ma c’è un problema: nessuna di queste forze è al potere», ricordano in molti., temendo che la sinistra greca possa trovarsi sola al governo, a sostenere una sfida più grande di lei . Il paradosso è che mentre Syriza è proiettata all’esterno, consapevole che la battaglia la si vince o si perde tutti insieme, in Europa molti guardano a Syriza con speranza, sì, ma come spettatori di una partita che si gioca altrove. Del 18/12/2014, pag. 18 Mosca, code ai bancomat e paura “Anche Putin non è invincibile” Choc dopo la mega-svalutazione del rublo: sembrano i tempi di Eltsin Mark Franchetti* Improvvisamente Mosca appare molto diversa. I prezzi dei prodotti alimentari aumentano di giorno in giorno. Così tantissime persone si stanno affrettando a cambiare i loro rubli in dollari che per la prima volta in oltre un decennio alcune banche hanno finito i dollari. Ieri è stato segnalato che nella capitale una filiale della banca statale Sberbank aveva finito gli ultimi 100 dollari, dopo aver iniziato la giornata con almeno 100 mila. Alla radio gli ascoltatori discutono l’impatto psicologico di una crisi economica che ha dimezzato il valore del rublo in pochi mesi. Molti raccontano di essere così stressati che hanno smesso di seguire le notizie e scelgono invece programmi di intrattenimento. «Brindiamo agli Anni 90!» «Ho prelevato gli ultimi 3000 rubli dal bancomat. Non potete immaginare lo sguardo di un uomo dietro di me che voleva anche lui prendere dei soldi», ha scritto un moscovita su 24 Twitter. All’inizio dell’anno 3000 rubli valevano 66 euro. Martedì scorso si erano ridotti a 33. «Ho trovato un lavoro a settembre per 750 dollari. Tre mesi dopo ne guadagno 350», ha scritto un altro. «Ritorno al futuro. Dopo Capodanno, vi diamo il benvenuto negli Anni 90», ha detto un altro. L’effetto combinato del forte calo dei prezzi del petrolio in tutto il mondo e delle sanzioni imposte dagli Stati Uniti e dall’Unione europea per la guerra sotto copertura del Cremlino in Ucraina hanno messo in ginocchio il rublo. La valuta nel solo giorno di martedì ha perso il 20 per cento. Si è stabilizzata ieri dopo che il governo russo ha detto che sarebbe intervenuto per difendere la moneta e avrebbe iniziato a vendere le sue riserve di valuta estera. In seguito all’annuncio dell’intervento si è assestata a circa 68 sul dollaro. La drammatica svalutazione del rublo ha fatto rivivere i dolorosi ricordi della crisi finanziaria russa del 1998, sotto il governo di Boris Eltsin, quando la valuta crollò spazzando via milioni di risparmi di una vita. Oggi come allora, i russi che se lo possono permettere stanno comprando frigoriferi, automobili, impianti stereo, macchine fotografiche e altri prodotti elettronici. Con l’implosione della valuta ci sono brevi momenti in cui tali prodotti sono relativamente più convenienti che in altri Paesi. E le merci sono viste come un investimento migliore piuttosto che stare a guardare i propri risparmi che diventano carta straccia. Lunedì e martedì la moneta si è svalutata così in fretta che la gente, sbalordita, si riuniva davanti agli uffici di cambio a guardare le cifre che cambiavano ogni minuto. Un moscovita che ha acquistato un iPad da un rivenditore Apple nel centro di Mosca ha affermato che nel tempo necessario per configurare il dispositivo nel negozio il prezzo era salito e le etichette dei prezzi di tutti i prodotti erano state rimosse. La banca centrale ha risposto alzando al 17 per cento i tassi di interesse, una mossa d’emergenza che è destinata a peggiorare l’impatto della recessione già prevista dal governo. «La situazione è critica. Un anno fa nemmeno in un incubo avrei immaginato quello che sta accadendo ora», ha detto Sergei Shvetsov, vice presidente della Banca Centrale. Fine dell’incantesimo Un commento sul tabloid «Moskovsky Komsomolets», uno dei quotidiani più venduti del Paese, ha riconosciuto che «Abbiamo perso la sensazione che Putin sia una sorta di mago in grado di controllare tutto». Il titolo annunciava la fine di «Teflon Putin». Il bilancio di Stato del 2015 convertito in legge all’inizio di questo mese da Putin (che oggi terrà la sua conferenza stampa fiume di fine anno) è in grado di raggiungere il pareggio solo con le medie del petrolio a 100 dollari al barile, ma questo mese il Brent ha segnato 69 dollari al barile. Per ogni dollaro in meno la Russia perde circa due miliardi di dollari l’anno in entrate di bilancio. Mikhail Fradkov, il capo del servizio di intelligence estero russo ha accusato gli Stati Uniti di aver introdotto le sanzioni e attaccato il rublo attraverso la manipolazione dei prezzi mondiali del petrolio nel tentativo di cacciare Putin. «Questo desiderio è il segreto di Pulcinella», ha detto recentemente Fradkov: «Nessuno vuole vedere una Russia forte e indipendente». I media di Stato, la cui propaganda è insidiosa come ai tempi dell’Unione Sovietica, tendono sempre di più a incolpare l’Occidente per i problemi economici del Paese. Putin che potrà legittimamente ricandidarsi nel 2018 e rimanere al potere fino al 2024, quando avrà 72 anni, deve il suo record di popolarità - ben al di sopra dell’80% - alla stabilità economica e politica della Russia sotto il suo dominio. I russi lo sostengono anche perché sentono che ha restituito alla Russia un po’ dello status e del potere che aveva perso con il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991. Tempi duri anche per lo Zar «Questa è la grande prova: che cosa succederà una volta che i russi inizino veramente a soffrire» ha detto il socio in affari dell’oligarca: «In un primo momento faranno quadrato 25 intorno a lui, ma per quanto tempo? Le élite ricche sono già sconvolte per il corso che Putin ha impresso al Paese, ma sono troppo spaventate per mostrarlo. In questo momento Putin è forte, ma anche lui inizierà a sentire la pressione se questo casino va avanti. Ci attendono tempi duri, non solo per i russi, ma anche per Putin». Del 18/12/2014, pag. 18 Ora l’Europa mette nel mirino gli interessi russi in Crimea Anna Zafesova Nuova ondata di sanzioni per la Russia già traballante sotto i colpi della crisi del rublo. Domani il vertice Ue – il primo sotto la presidenza di Donald Tusk, che come leader polacco era stato tra i più duri nei confronti di Mosca sulla crisi ucraina – varerà un nuovo pacchetto di restrizioni dirette essenzialmente alla Crimea. Secondo le indiscrezioni che arrivano da Bruxelles, ai cittadini e alle aziende europee sarà vietato partecipare all’esplorazione di gas e petrolio nella penisola annessa dalla Russia a marzo, e vendere ai crimeani attrezzature per il trasporto e le comunicazioni. Mosse destinate a confermare «la politica di non riconoscimento dell’annessione», come recita la bozza della risoluzione, che promette anche «ulteriori passi se necessario», mentre ribadisce il sostegno anche economico al governo di Kiev. Le richieste al Cremlino Il Cremlino aveva sperato in uno sgretolamento del fronte europeo delle sanzioni. Ma la crisi economica a Mosca riduce anche la pressione su alcuni governi europei degli esportatori verso la Russia, e ha prevalso la linea dura: l’Ue chiede a Vladimir Putin di rispettare pienamente le condizioni della tregua di Minsk, e anche di garantire agli investigatori l’accesso libero al luogo del disastro del Boeing malese, abbattuto nel luglio scorso da un missile probabilmente lanciato dai separatisti filo-russi. Pugno duro di Obama Le nuove sanzioni europee arrivano in contemporanea a quelle americane, con Barack Obama che si prepara a firmare l’Ukraine Freedom Act approvato sabato dal Congresso. Il documento permette alla Casa Bianca di estendere l’embargo già in vigore da marzo a società russe di esportazione di armi, e soprattutto prende di mira Gazprom, minacciando di colpire il gigante del metano russo nel caso tagli le forniture a Ucraina, Georgia, Moldavia o altri Paesi messi sotto pressione da Mosca. Ma nello stesso tempo John Kerry parla di non meglio precisati «progressi» diplomatici con il suo collega russo Serghey Lavrov e promette di alleviare l’embargo se il Cremlino rispetterà i patti nell’Est ucraino. Del 18/12/2014, pag. 21 Marò, rabbia dell’Italia: “Pronti a ogni passo” Richiamato l’ambasciatore a Delhi Torna in campo l’ipotesi di un arbitrato internazionale VINCENZO NIGRO ROMA . 26 Daniele Mancini, l’ambasciatore italiano in India, è stato richiamato in Italia. Rientrerà presto a Roma «per consultazioni », una forma di protesta contro la sentenza della Corte suprema indiana che non ha concesso altri permessi ai marò accusati dell’omicidio di due pescatori. Ma è molto probabile che una volta rientrato, Mancini non ripartirà mai più per New Delhi: gli è stata assegnata un’altra ambasciata, all’inizio dell’anno prenderà servizio a Roma alla rappresentanza presso la Santa Sede. Di fatto quindi l’Italia cambia il suo ambasciatore in India. La mossa, decisa nell’ultimo Consiglio dei ministri gestito da Federica Mogherini, è stata confermata da Paolo Gentiloni che dopo la sentenza della Corte suprema dell’altro ieri ha deciso di accelerare nell’operazione di ricompattamento della squadra che si occupa della questione-marò. Mancini verrà sostituito dall’attuale ambasciatore in Vietnam, Lorenzo Angeloni. Ieri Gentiloni è stato due volte alla Camera: al mattino in commissione con la collega Pinotti, e poi alle 15 per il question time. «L’Italia si riserva di effettuare tutti i passi necessari», ha precisato il ministro, perché sono in gioco «principi irrinunciabili di sovranità e diritto interplomatico nazionale», e di fronte a quello «ad un atteggiamento inaccettabile» delle autorità giudiziarie indiane «l’Italia ha l’obbligo di reagire in modo fermo e unitario». Tutti i partiti hanno criticato la scelta del giudice indiano che ha negato a Massimiliano Latorre una estensione del permesso medico concesso in settembre e ha rifiutato anche a Salvatore Girone una licenza natalizia per ragioni umanitarie. Nonostante il richiamo dell’ambasciatore, Gentiloni sta attento a non lanciare segnali equivoci a New Delhi. Dice un di- che «il governo indiano ci aveva fatto capire di non essere contrario alla concessione di questi permessi per ragioni umanitarie, che sarebbero serviti anche a noi in Italia per rasserenare il clima. La decisione della magistratura non ha seguito questa corrente di intesa che c’è fra i due governi». Per questo Gentiloni precisa che «non vogliamo interrompere le relazioni diplomatiche con l’India, protestiamo con decisione, ma perché vengano riconosciute le nostre ragioni dobbiamo mantenere aperti i canali diplomatici». Il responsabile della Farnesina ha anche precisato che la decisione se fare ricorso all’arbitrato internazionale per la vicenda dei due marò verrà presa nei «prossimi giorni ». Anche il ministro della Difesa Roberta Pinotti precisa la sue parole sul fatto che Latorre (colpito da ictus) potrebbe non rientrare in India nella data prevista: «Deve curarsi, per noi la sua salute è un punto prioritario ». Latorre ha fatto sapere di aver previsto un intervento chirurgico agli inizi di gennaio. 27 INTERNI del 18/12/14, pag. 6 L’attacco a Chiomonte non fu terrorismo Mauro Ravarino No Tav. I quattro imputati condannati per danneggiamento, fabbricazione e trasporto di armi Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò, i quattro militanti No Tav arrestati il 9 dicembre del 2013, non sono terroristi, né lo sono mai stati come invece ha sostenuto, durante il loro processo, la procura di Torino. Cade così il fardello più pesante, l’accusa più grave nei confronti del movimento che da anni lotta contro la Torino-Lione: il terrorismo. «Il reato non sussiste», la Corte d’Assise presieduta da Pietro Capello, ieri, ha, infatti, assolto i quattro attivisti dall’accusa di aver agito con finalità terroristiche. Li ha, però, condannati – in riferimento all’assalto al cantiere di Chiomonte del 14 maggio 2013 – a tre anni e mezzo di carcere ciascuno, per danneggiamento seguito da incendio, fabbricazione e trasporto di armi (in relazione all’utilizzo di moltov) e violenza a pubblico ufficiale. Delle parti civili, solo Ltf ha ottenuto il diritto a un indennizzo, che è stato negato all’Avvocatura dello Stato e al Sap, il sindacato autonomo di polizia che si era costituito parte civile. Alla lettura del dispositivo, nell’aula bunker delle Vallette, parenti e attivisti No Tav hanno urlato «libertà», identico coro si è ripetuto fuori dalla struttura, dove un presidio, ha aspettato l’esito, in pieno stile valsusino con dolci e vin brulé. Abbracci e lacrime tra gli imputati — Claudio Alberto, 23 anni, Niccolò Blasi, 24 anni, Mattia Zanotti, 29 anni, Chiara Zenobi, 41 — che prima di lasciare la cella dell’aula bunker, hanno stretto a lungo le mani dell’avvocato Claudio Novaro, a capo del pool difensivo e autore di un lavoro certosino. «L’accusa di terrorismo era manifestamente infondata. È una vittoria su tutta la linea. Era la pena che auspicavamo. Avevo detto ai miei clienti — ha sottolineato Novaro — che sotto i 4 anni sarebbe stata una vittoria». I legali, ora, chiederanno i domiciliari per i quattro militanti di area anarchica, in carcere da oltre un anno, soggetti a un regime di alta sorveglianza. «Troppo tempo, troppo — ha precisato Nicoletta Dosio, voce storica del movimento, presente in aula — i ragazzi devono essere subito scarcerati, li vogliamo liberi». Soddisfatta a metà per la sentenza: «Certo, poteva andare peggio, ma tre anni e 6 mesi sono sempre tanti. Non è quindi una vittoria, ma siamo felici che sia stata sconfessato l’impianto della procura torinese. E sia caduto il reato di terrorismo. La nostra volontà di giustizia non passa dai tribunali, ma dal conflitto sociale». I fatti, per i quali la Corte d’Assise di Torino era stata chiamata a decidere, risalgono al 2013, alla notte tra il13 e il 14 maggio, quando un gruppo di persone incappucciate attaccò il cantiere del cunicolo esplorativo di Chiomonte, in località La Maddalena, provocando l’incendio un compressore, non lontano dal tunnel esplorativo, dove lavoravano una dozzina di operai. I pm Andrea Padalino e Antonio Rinaudo avevano chiesto, per i quattro imputati, nove anni e mezzo di pena, facendo leva sulle finalità terroristiche, smentite completamente dalla decisione della Corte. «È una grande giornata perché abbiamo battuto la procura e i suoi castelli campati in aria» ha detto Alberto Perino, all’inizio dell’assemblea svoltasi in serata a Bussoleno. «La Procura – ha aggiunto – ha perso due volte perché il tribunale non si è appiattito sulle idee di Caselli, Padalino, Rinaudo». 28 La sentenza ha, invece, molto infastidito il ministro dei Trasporti Maurizio Lupi: «Se non è associazione con finalità terroristiche incappucciarsi e organizzare l’attacco allo Stato, qualcuno mi deve spiegare cosa sia. Mi auguro che i pm facciano ricorso in secondo grado e li ringrazio per il coraggio». In serata, il movimento si è ritrovato a Bussoleno, nel cuore della Valle, per festeggiare l’assoluzione dalla gravissima accusa di terrorismo, esprimere disappunto per una condanna ritenuta comunque alta e soprattutto chiedere la liberazione dei compagni. Un corteo, aperto dallo striscione «Siamo No Tav, fermarci è impossibile» ha attraversato le vie del borgo. È stata bloccata l’autostrada del Frejus e poi la statale 25. Presidi anche a Roma, Milano, Bologna, Brescia e Firenze. Nella giornata è stato oscurato il sito della procura di Torino, l’attacco informatico è stato rivendicato da Anonymous. Il Movimento 5 Stelle con i consiglieri regionali Francesca Frediani e Davide Bono auspica «una rapida liberazione degli attivisti No Tav ancora reclusi». Per Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione, «caduta l’assurda accusa di terrorismo resta una condanna enorme e puramente repressiva». del 18/12/14, pag. 1/6 Sentenza No Tav Dove sono finiti i terroristi? di Livio Pepino C’è un giudice a Torino! C’è voluto un anno, un anno – non dimentichiamolo – di carcere duro in condizioni di isolamento, un anno di massacro mediatico, un anno di repressione finanche delle idee di chi solidarizzava, un anno di assordante silenzio di gran parte dei giuristi e degli intellettuali. Ma, alla fine, la Corte di assise di Torino ha detto, senza mezzi termini, che l’“attacco al cantiere di Chiomonte” del 14 maggio 2013 non ha niente a che fare con il terrorismo. Sono rimasti i reati (incontestati) di danneggiamento seguito da incendio e di porto di bottiglie molotov, per cui è stata inflitta una pena tutt’altro che mite. Ma il nodo centrale – per gli imputati, che rischiavano dieci anni e più di carcere, e per il Movimento No Tav, criminalizzato da questa vicenda nella sua interezza – era l’attentato con finalità di terrorismo. Già la Cassazione, il 15 maggio, aveva smontato, nel giudizio cautelare, l’imputazione. Ma i pubblici ministeri avevano insistito: anche con la richiesta, nei giorni scorsi, di una nuova misura cautelare con la stessa imputazione nei confronti di altri tre imputati, regolarmente emessa dal gip. Per questo la sentenza della corte d’assise, composta – è bene sottolinearlo – anche da giudici popolari (un pezzo di popolo italiano), è importante. Il fatto contestato consiste, come noto, in un “assalto” al cantiere della Maddalena realizzato da una ventina di persone nel corso del quale alcuni componenti del gruppo avevano incendiato un compressore mentre gli altri ostacolavano l’intervento delle forze di polizia con il lancio di sassi e di «artifici esplosivi e incendiari». I pubblici ministeri hanno motivato la contestazione di terrorismo, da un lato, con l’asserita attitudine del gesto a intimidire la popolazione e/o a costringere i poteri pubblici ad astenersi dalle attività necessarie per realizzare la nuova linea ferroviaria e, dall’altro, con l’affermata idoneità del fatto ad arrecare un grave danno al Paese («è indubbio che azioni violente come quella della notte di maggio arrechino un grave danno al Paese quanto all’immagine – in ambito europeo – di partner affidabile». Evidente l’evocazione della categoria del terrorismo non per riconoscere reati contrassegnati da caratteristiche specifiche ma per stigmatizzare fatti ritenuti di particolare gravità e, per questo, meritevoli di più intensa riprovazione sociale. 29 Ché la connotazione terroristica di un atto – secondo il comune sentire e una giurisprudenza consolidata – ha necessariamente a che fare col sovvertimento dell’assetto democratico dello Stato e con la destabilizzazione dei pubblici poteri mentre l’affermazione secondo cui la mancata realizzazione di una linea ferroviaria comporterebbe «un grave danno per il Paese» e per la «sua immagine di partner europeo affidabile» sfiora il grottesco. Eppure l’operazione era stata avallata anche dai giudici della cautela e salutata in termini trionfalistici da tutta la grande stampa. Forse per l’autorevolezza della Procura torinese, che non aveva mancato di supportare l’iniziativa con termini enfatici che evocavano addirittura la guerra. Certo per la progressiva caduta nel nostro Paese, con riferimento al conflitto sociale, della cultura delle garanzie, accompagnata dalla costruzione, legislativa e giurisprudenziale, di una sorta di diritto penale del nemico in cui quest’ultimo va perseguito, senza esclusione di colpi, per quel che è più ancora che per le sue azioni specifiche. A contrastare la deriva sono stati in pochi a fianco del Movimento No Tav (capace, da parte sua, di reggere lo scontro anche quando è parso che ad essere messa sul banco degli imputati fosse la stessa opposizione alla linea ferroviaria TorinoLione). Oggi è intervenuto un segnale nuovo. C’è un giudice a Torino! Un giudice consapevole che il proprio compito è – secondo una autorevole definizione – «assolvere in assenza di prove anche quando l’opinione pubblica vuole la condanna e condannare in presenza di prove anche quando l’opinione pubblica vuole l’assoluzione». Non è poca cosa. Ed è auspicabile che aiuti a comprendere che quella del Tav è una grande questione politica irrisolta e non una questione di ordine pubblico. del 18/12/14, pag. 4 Pd avanti tutta, “anche da soli” Andrea Colombo Riforme. Renzi: «Prima la legge elettorale, poi il Colle». Forza Italia punta i piedi: «No, si voti prima il nuovo capo dello Stato» La legge elettorale arriverà nell’aula del Senato, salvo improbabilissime sorprese, lunedì 22. Ci arriverà senza relatore e senza che la commissione abbia di fatto neppure iniziato a votare. L’annuncio ufficiale ancora non c’è: a modificare il calendario dovrà provvedere la conferenza dei capigruppo di domani, ma la decisione di Matteo Renzi è già presa e la paralisi dei lavori in commissione, ieri, lo conferma. Quella del velocista non è una corsa contro il tempo ma, più prosaicamente, contro le dimissioni del presidente della Repubblica. Quando Napolitano ufficializzerà l’addio i giochi si congeleranno all’istante. Di conseguenza, come Renzi ha detto ieri mattina ai senatori democratici riuniti, la riforma deve essere approvata prima dell’elezione del nuovo capo dello Stato. Fi la pensa all’opposto, e anche loro, gli azzurri, lo hanno detto chiaro, nella conferenza dei capigruppo della Camera in cui si discutevano i tempi della riforma costituzionale: «Tutte le riforme vanno posticipate alla nomina del successore» di re Giorgio. Renzi non vuole arrivare a quella scadenza con il tavolo della riforma elettorale ancora aperto per le stesse ragioni per cui invece Berlusconi ci tiene tanto: l’intreccio aumenterebbe il peso contrattuale degli azzurri. In realtà, diecimila e passa emendamenti, neppure l’incardinamento in aula il 22 e 23 dicembre, col voto sulle pregiudiziali di costituzionalità, basterebbe a garantire il varo della legge prima dell’addio di Napolitano, se questo, come previsto, arrivasse davvero a metà gennaio. Il premier potrebbe invece 30 farcela se slittasse a fine gennaio. Forse la scelta di premere l’acceleratore a tavoletta serve proprio a offrire un argomento al presidente giovane per convincere quello anziano a posticipare: «Ormai ci siamo, questione di giorni e cosa sono a questo punto due settimane in più?». Dietro la fretta del governo sembra naturalmente esserci un motivo in più, oltre alla necessità di nominare il premio. Ai dubbi di molti dà voce la presidente dei senatori di SelGruppo misto Loredana De Petris: «La forzatura ha una sola spiegazione logica: governo e Pd vogliono essere pronti a imporre le elezioni anticipate». In realtà potrebbe esserci un ulteriore calcolo dietro la corsa di Renzi. A metà gennaio potrebbe arrivare un verdetto negativo europeo sulla manovra italiana: quello sì che metterebbe il premier nelle mani degli azzurri e moltiplicherebbe esponenzialmente la loro forza contrattuale. Quali che siano le ragioni che spingono Renzi, di certo la scelta di forzare i tempi è già stata presa. «Se Fi fa melina, noi andiamo avanti da soli», faceva sapere ieri sera, informalmente ma con termini netti, la segreteria Pd. I tempi dell’approvazione della legge non sono il solo scoglio, e forse neppure il più insidioso. Ci sono altri due motivi di frizione tra Pd e Fi, nessuno dei quali, peraltro, riguarda il merito della riforma, del quale a nessuno sembra importare più che tanto e basterebbe questo a dire tutto sullo stato del Paese. Da quel punto di vista, è già tutto o quasi concluso. I punti deboli sono invece la data in cui l’Italicum entrerebbe in vigore e la «norma ponte» con la quale si voterebbe se la legislatura naufragasse prima di quella stessa data. Ieri mattina l’intesa sembrava raggiunta, e Renzi quasi l’aveva anticipata nell’incontro con i suoi senatori: nessuna norma ponte, né consultellum né mattarellum (ma è chiaro che se le elezioni diventassero inevitabili, prima di giocarsela a testa o croce, non si potrebbe fare altro che usare il consultellum) e, quanto alla data di entrata in vigore dell’Italicum un generico «nel 2016». Già ma in quale mese del 2016? E’ su questo particolare che l’accordo si è arenato. Renzi vuole gennaio, Fi giugno o settembre. Non è un particolare: fissare giugno o settembre vorrebbe dire non poter votare prima del 2017. Su questi due punti, che corrispondono ad altrettanti emendamenti, non è in corso solo un braccio di ferro tra i soci del Nazareno ma anche nel gruppo di testa azzurro. Il capo dei senatori Romani è per non cedere: «Altrimenti non tengo più il gruppo». L’eterno Verdini è di parere opposto: «Perché impuntarsi? Renzi non ha interesse a fregarci». Sarà proprio Verdini a cercare di risolvere il guaio, oggi a quattr’occhi con l’amico e concittadino Matteo. Alla Camera le stesse tensioni si riflettono sul percorso della riforma istituzionale. Gli emendamenti a disposizione di ogni gruppo sono stati aumentati del 15%, con tempi contingentati a 80 ore. Ma per Renzi è fondamentale il sì «entro il 31 gennaio», per i forzisti invece bisognerà attendere il nuovo capo dello Stato. Del 18/12/2014 – pag. 13 Incontro Lotti-Verdini, parte la trattativa Berlusconi: no a tecnici dopo Napolitano ROMA - Il clima è caotico, le guerre sotterranee feroci. E Silvio Berlusconi sta nel mezzo, infastidito per le «forzature» di Matteo Renzi, preoccupato dall’ipotesi di un voto anticipato, ma non disposto a far saltare i patti con il premier almeno fino a quando non si arriverà alla stretta finale sul nuovo capo dello Stato, sul quale «mi aspetto una naturale convergenza» su una figura che, confida ai suoi, «dovrà essere un politico, di lungo corso, 31 esperto e non di provenienza comunista». Ne ha parlato anche ieri sera l’ex premier, alla cena con i deputati — in un ristorante dalle antiche frequentazioni democristiane, Checco allo Scapicollo —, ribadendo che Forza Italia «voterà le riforme pur restando all’opposizione» rispettando un patto del Nazareno «che ci è pesato molto» ma che è propedeutico all’elezione di un presidente condiviso, se «eviteremo di dividerci». Ma non ha preso posizioni troppo nette per evitare che le divisioni nel suo partito portino all’implosione e all’impossibilità di gestione dei gruppi azzurri. Da una parte infatti si agitano i tanti nemici del patto del Nazareno, che credono — come Renato Brunetta — che l’abbraccio con Renzi faccia solo danno al partito, o che come Raffaele Fitto ne fanno un terreno di sfida in vista dei prossimi assetti interni di FI. Dall’altra parte si muove Denis Verdini, l’uomo della trattativa, che è o almeno si sente assediato e attaccato dal «cerchio magico» berlusconiano, a partire dalla potente Maria Rosaria Rossi che ieri, dopo aver detto che FI «è pronta a votare in qualsiasi momento», ha assicurato come non ci siano problemi con il collega: «Ma se ci lavoro tutti i giorni fianco a fianco!». L’ex coordinatore continua a tessere la tela del rapporto con Renzi sia su riforme e legge elettorale che sul Quirinale, tanto che ieri — dicono — ha incontrato il plenipotenziario del premier Renzi Luca Lotti per tenere viva una trattativa che sembra poter saltare da un momento all’altro. E considera pazzi o incapaci tutti quelli che gli si mettono di traverso perché «io Silvio lavoro per te, non per me. Se ti va bene, se condividi quello che faccio, bene. Ma se devo subire la guerriglia continua dei tuoi, allora me ne vado», gli ha detto — e scritto in una lettera — venerdì scorso per l’ennesima volta. Uno sfogo che fa seguito a tanti simili e che ha fatto pensare a dimissioni immediate, allo stato escluse anche dopo un colloquio chiarificatore con Berlusconi. Perché il Cavaliere non può rinunciare a Verdini, e perché — dice chi parla con entrambi — «Silvio sa che molto si è già portato a casa, dal rinvio del conflitto di interessi alla modifica della prescrizione non in senso retroattivo, e molto ancora si può portare...». In attesa di tempi migliori, nei quali Berlusconi sembra credere: «Quando torno in campo — ha brindato con i suoi — torneranno anche gli elettori». Del 18/12/2014, pag. 10 Nuovo patto Renzi-Berlusconi subito l’ok all’Italicum ma vale da settembre 2016 Tensione Pd-Forza Italia poi il Cavaliere: sì alle riforme La prospettiva del voto anticipato così slitta al 2017 FRANCESCO BEI GOFFREDO DE MARCHIS Un uomo con il bavero alzato esce dalla sede di Forza Italia, martedì sera, percorre 150 metri a piedi e s’infila non visto nel portone secondario di palazzo Chigi. È Denis Verdini, la sua ultima missione in qualità di “sherpa” di Berlusconi prima di lasciare ogni incarico. Ad attenderlo al primo piano il braccio destro del premier, Luca Lotti. Renzi, impegnato al Quirinale per il saluto di Napolitano alle cariche dello Stato, si unirà alla coppia poco dopo. È in questa riunione, due giorni fa, che viene messo nero su bianco l’accordo finale sull’Italicum. Quello che porterà Forza Italia a votare la legge elettorale, con buona pace di Renato Brunetta e dei fittiani, prima dell’elezione del nuovo capo dello Stato. L’intesa c’è. 32 Su questa Renzi ha costruito il calendario di gennaio: Italicum 2.0 e riforma costituzionale entro il 20 gennaio, poi urne aperte per il successore di Napolitano. Senza subire ricatti. Il nuovo capitolo del Patto del Nazareno si basa su una concessione importante del premier, che è venuto incontro alla richiesta principale di Berlusconi. Non si tratta di contenuti, ormai quelli sono stati stabiliti, ma dei tempi di entrata in vigore della nuova normativa. Dopo una trattativa serrata — con Renzi che non voleva andare oltre giugno 2016 e Verdini che insisteva per il 31 dicembre dello stesso anno — alla fine la stretta di mano è avvenuta sul 1 settembre 2016. Nella nuova legge sarà scritto che l’Italicum entrerà in vigore (per la Camera) in quella data. È questa la clausola che mette al riparo l’ex Cavaliere dal rischio urne anticipate. Di fatto si potrà andare a votare nella primavera del 2017, non prima. Perché se Renzi volesse far saltare il banco, sarebbe il Consultellum — cioè il proporzionale puro — la legge che varrebbe per le due Camere. La strada ormai sembra spianata. E addio al Mattarellum come possibile clausola di salvaguardia. Si capisce ora che i renziani lo avevano presentato in Commissione solo come spauracchio per convincere Berlusconi a non alzare troppo il prezzo. Anche la minoranza dem può dirsi soddisfatta dell’accordo per aver allontanato le urne di due anni. Lo ammette Maurizio Migliavacca: «Se questa è l’intesa va bene. Questo è un Senato che, unico caso al mondo, ha deciso di suicidarsi: figuriamoci se faremo ostruzionismo ». Certo, dentro Forza Italia restano sacche importanti di resistenza. Maurizio Gasparri, in un corridoio di palazzo Madama, resta scettico: «Verdini ha fatto bene a fissare quel termine così lontano per l’entrata in vigore dell’Italicum. Il problema è che poi sarà quella la legge con cui andremo a votare. E tra due anni avremo di nuovo il problema che Salvini non vorrà fare una lista unica con noi». Ancora più contrario Augusto Minzolini: «Dubito che Renzi sia diventato improvvisamente misericordioso. Ha capito benissimo che, prima di arrivare a eleggere il successore di Napolitano, deve allontanare dai grandi elettori la paura delle elezioni. Altrimenti il primo candidato, persino Prodi, che garantisce di non portarci a elezioni qua dentro lo votano tutti. Su 1008 votanti ottiene 1009 voti!». Insomma, la “concessione” di Renzi a Berlusconi sarebbe in realtà una mossa obbligata per potersi dedicare, essendosi coperto le retrovie, all’altra partita importante, quella del Quirinale. Ma il nuovo Nazareno 2.0 ormai è la realtà con cui fare i conti. Il patto tiene e abbraccia anche Angelino Alfano, messo al corrente dal premier degli ultimi sviluppi. Tutti d’accordo? Non proprio. Roberto Calderoli, che ha inondato l’Italicum di 16mila emendamenti, non si fida affatto. Vorrebbe che la legge parlasse esplicitamente del Consultellum come lo strumento da utilizzare in caso di scioglimento anticipa- to. «Se accettano questa clausola io ritiro domani tutti gli emendamenti », promette il leghista. Boschi e Renzi tuttavia sono fermi nel non andare oltre. Il Consultellum non sarà menzionato nell’Italicum. Nel governo sono convinti che non ce ne sia bisogno. «La sentenza della Corte costituzionale che ha “inventato” la nuova legge proporzionale è di per sé «auto-applicativa». Non c’è bisogno di alcuna leggina per specificarla, basterebbe un decreto del ministro dell’Interno per gli adattamenti tecnici. Ormai comunque è fatta. Domani la conferenza dei capigruppo dovrebbe stabilire, come ha chiesto Renzi, che l’Italicum approdi in aula entro il 7-8 gennaio. Anche senza aver esaminato le tonnellate di emendamenti ostruzionistici di Calderoli. «È una forzatura», protesta il leghista. Ma da esperto di regolamenti parlamentari è costretto ad ammettere che «con la tecnica del “canguro” possono saltare migliaia di modifiche e approvarlo entro il 20 gennaio». A quel punto Renzi avrà fatto bingo. Quanto alla minoranza dem, che con Miguel Gotor ancora chiede di aumentare la quota di deputati scelti con le preferenze, dovrà rassegnarsi ai cento capilista bloccati. «Io sarei anche d’accordo - ha detto ieri il premier all’assemblea dei senatori dem - ma non possiamo accettare modifiche non concordate con Forza Italia». 33 Del 18/12/2014, pag. 15 Grillo manda il direttorio in Sardegna Lunedì prima missione a Equitalia per i cinque parlamentari alla guida del partito Intanto il leader oggi presenta il tour che dovrebbe far nascere l’internazionale grillina Francesco Maesano Come quei calciatori arrivati dal nulla durante il mercato agostano: tanti dubbi, tutto da dimostrare. Quell’oggetto misterioso che è il direttorio del M5S debutta lunedì mattina a Cagliari. I cinque deputati scelti alla guida del Movimento si presenteranno davanti alla sede di Equitalia per chiedere conto delle migliaia di cartelle, a loro avviso irregolari, emesse in Sardegna. La prima del direttorio Ieri, nel rifugio romano dell’hotel Forum, Grillo ha incontrato Carla Ruocco, che nell’organismo dei cinque ha la delega alle piccole e medie imprese, e la parlamentare sarda Emanuela Corda. Sul tavolo i dettagli dell’evento di lunedì: il battesimo del direttorio. «Ci sono troppi punti oscuri che vanno chiariti su questa vicenda dello scandalo notifiche», spiega la Corda al termine dell’incontro. «Saremo a Cagliari per dare sostegno a chi chiede chiarezza, perché è giusto che tutti paghino le tasse ma è anche giusto che tutti rispettino le regole». La partecipazione dei parlamentari sarà massiccia: una dozzina di colleghi accompagnerà in Sardegna i cinque neo-leader. L’officiante sarà sempre lui, Grillo, pronto a sostenere il coro dei suoi in Sardegna. Ma con la testa rivolta a un palcoscenico più largo, a quel processo di internazionalizzazione del suo format politico che lo terrà impegnato per tutta la prima metà del prossimo anno. Campagna estera Per iniziare, oggi Grillo vedrà la stampa estera. Un appuntamento off limits per i cronisti italiani, buono per ribadire qualche concetto come l’addio all’euro e la sfida alle cancellerie europee per alzare di nuovo la temperatura in vista del tour 2015. È la nuova strategia del M5S: mentre i parlamentari si faranno portavoce dei problemi legati al territorio, cercando di strappare a Federico Pizzarotti un po’ del prestigio di cui gode tra gli eletti del M5S a livello locale, Grillo si farà globetrotter della rivoluzione a cinque stelle, dalla Francia alla Germania, dagli Stati Uniti alla Grecia. Altro che stanchino. Del 18/12/2014 – pag. 15 Aperture M5S sul Colle Ma ci sono 40 voti sciolti tra fuoriusciti e dissidenti Grillo annuncia le quirinarie e si riserva sorprese MILANO Le carte sul tavolo: quaranta come il peso potenziale dei voti dei dissidenti e dei fuoriusciti dal Movimento nella corsa al Quirinale. Tanti sono, o meglio potrebbero essere, i parlamentari pronti a compiere scelte alternative alla linea dei Cinque Stelle. La conta, tra espulsioni e addii, segna quota 23 (ex che hanno, però, tra loro posizioni frammentate). 34 Ma nel novero rientrano anche gli incerti, ossia quei dissidenti che ancora fanno parte dei gruppi pentastellati ma che potrebbero lasciare il Movimento: 18-20 deputati e 5-6 senatori. Insomma, circa 25 parlamentari. Una mini truppa che, sommata ai voti degli ex in grado di coagularsi tra loro, potrebbe toccare, appunto, quota quaranta. E smuovere diversi equilibri, creando un possibile asse alternativo alle minoranze di Pd e Forza Italia. O dando vita a scenari imprevedibili: una buona parte di loro, a quanto sembra, sarebbe disposta anche ad appoggiare Romano Prodi. Il quadro è complesso — il gruppo potrebbe anche dare un supporto per le riforme — e i contatti non mancano. Ma le sorprese nella scelta del successore di Giorgio Napolitano potrebbero non riguardare solo i dissidenti. Anche i fedelissimi sono della partita. «Prima di tutto sceglieremo i nostri nomi per il Colle», commentano esponenti pentastellati. E poi aprono spiragli: «Non è escluso che si possa ripetere quello che è successo per la Consulta: se propongono un nome degno, potremmo appoggiarlo. Ovviamente dopo una consultazione con la base». Un’apertura che fa il paio con quanto scrive Manlio Di Stefano: «Un nome onesto e pulito lo voterebbe il Parlamento intero, un nome fuori dal sistema lo voteremmo volentieri tutti». E anche Barbara Lezzi conferma: «Siamo pronti a sederci al tavolo con il Pd come abbiamo fatto per l’elezione del Csm. Noi abbiamo le nostre quirinarie, poi se il Pd ha già un nome noi lo proporremo ai nostri iscritti». Dopo le quirinarie, quindi, potrebbe anche esserci una svolta. Intanto Beppe Grillo è sbarcato a Roma dove oggi terrà una conferenza stampa sul referendum sull’euro e su argomenti di attualità, in primis l’inchiesta Mafia Capitale (già ieri il capo politico del M5S ha lanciato una stoccata a Matteo Renzi sul tema). Il leader ha dribblato i cronisti e non ha commentato l’ultima fuoriuscita, quella di Tommaso Currò. Sul blog, però, il leader posta un commento — con tanto di foto del deputato siciliano — dal titolo «La sceneggiata». A corredo, le parole di Federico D’Incà. «Ringrazio Currò per avere fatto sapere a Renzi in anticipo della sua bella sceneggiata alla Camera, ormai sembra più facile parlare con il premier che in assemblea — scrive —. Se vi sono altri che intendono seguirlo nello stesso modo è meglio che lo dicano prima, non accetterò più altri teatrini ignobili come quello visto ieri». Insomma, la tensione resta alta. Lello Ciampolillo commenta: «Se qualcuno si innamora dei palazzi vada pure con Renzi». Per il senatore pugliese questo è «un momento di svolta» per il Movimento, anche se prevede che «non ci sarà alcuna scissione». Grillo — raccontano i pentastellati — sembra però non curarsi molto dello strappo di Currò. Il leader ha incontrato a Roma alcuni membri del direttorio — tra cui Carla Ruocco e Roberto Fico — e altri parlamentari. Emanuele Buzzi 35 LEGALITA’DEMOCRATICA . Del 18/12/2014 – pag 2 Così la ’ndrangheta voleva mangiarsi i ristoranti di Expo I CLAN PUNTAVANO AGLI SPAZI DI RISTORO NEI PADIGLIONI STRANIERI TRAMITE LA “AREA KITCHEN” DI CRISTIANO SALA di Davide Vecchi Milano - Cibo amaro, nell’Expo sul cibo. Uno: la ’ndrangheta, attraverso l’imprenditore Cristiano Sala, stava tentando di accomodarsi a tavola, mettendo le mani sui ristoranti dei padiglioni stranieri dell’esposizione universale. Due: una nuova indagine giudiziaria è aperta sull’appalto per la ristorazione del Padiglione Italia. Tre: trionfa, per il resto, la trattativa diretta e l’affidamento senza gara. A Eataly di Oscar Farinetti, che gestirà due grandi padiglioni che ospiteranno 20 ristoranti; e a Cir Food, coop rossa di Reggio Emilia che proprio oggi annuncerà di aver ottenuto la gestione di tutti gli altri 120 punti ristoro di Expo, chioschi, fast food, self service e ristoranti. Sì, anche la ’ndrangheta stava cercando un posto a tavola. Secondo quanto risulta al Fatto quotidiano, la società “Area Kitchen Catering” era molto attiva in zona Expo: ha fatto diverse proposte di gestione dei ristoranti interni ad alcuni padiglioni stranieri, tra cui quello di Israele. Chi c’è dietro Area Kitchen Catering? Cristiano Sala, l’imprenditore arrestato due giorni fa, insieme ad altre 58 persone, nella grande retata contro la cosca Libri-De Stefano- Tegano attiva tra Reggio Calabria e Milano. Impegnata nel traffico di droga, ma anche in business più raffinati, quali la ristorazione. Cristiano Sala aveva ereditato dal padre il gruppo “Il maestro di casa”, che nel 2007 fatturava 35 milioni di euro. Entrato in crisi, aveva chiesto aiuto ai boss. Non era riuscito a salvarsi dal fallimento, ma i debiti accumulati con gli uomini della cosca, nel tentativo di salvarsi, lo avevano invece perduto: “Da vittima diventa complice”, scrivono i magistrati milanesi, e “persona estremamente importante per il sodalizio criminoso”. Tanto che cerca di ottenere, anche con giochi sporchi, il servizio di catering per lo stadio di San Siro. Secondo l’ipotesi d’accusa, si mette a disposizione dei fratelli Giulio, Vincenzo e Domenico Martino, considerati i capi dell’associazione criminale. “Ha bisogno”, dicono, intercettati, i boss. “Si tappa il naso, questo Cristiano”. Ed entra così nella schiera degli imprenditori del nord che “da vittime diventano organici alle cosche”. NELLE CARTE dell’ultima inchiesta milanese sulla ’ndrangheta a Milano non c’è traccia di Expo, che non è neppure mai citata. Eppure Cristiano Sala stava trattando per entrare in alcuni padiglioni stranieri, tra cui appunto quello israeliano. Sul padiglione italiano, invece, sono al lavoro la procura e la Guardia di finanza di Milano, che dopo un articolo del Fatto quotidiano hanno aperto un’in - chiesta per verificare se è stata corretta la gara che ha assegnato a Peck l’appalto per la ristorazione, o se invece ha qualche ragione il secondo arrivato, Piero Sassone della Icif, che è ricorso al Tar e all’Autorità anticorruzione presieduta da Raffaele Cantone, segnalando alcune presunte irregolarità. Per il resto, il cibo in Expo arriva a trattativa privata. Quello di “Italy is Eataly”, 8 mila metri quadrati affidati senza gara a Farinetti, ex venditore di elettrodomestici molto vicino al presidente del Consiglio Matteo Renzi. Sarà “il più grande ristorante che mente (e pancia umana) abbia mai pensato”, promette il patron di Eataly, che sceglierà i 120 ristoratori i quali, a 36 rotazione, gestiranno i 20 ristoranti, uno per regione, che saranno allestiti all’interno dei suoi due padiglioni, per offrire al mondo l’esperienza della cucina di tutta Italia. “Su questo affidamento non abbiamo potere”, spiega Cantone. “È avvenuto prima del 24 giugno 2014, quando è entrata in campo, per decreto del governo, l’Autorità nazionale anticorruzione. Sappiamo che Expo può utilizzare poteri in deroga e fare affidamenti diretti”, prosegue Cantone. “Acqui - siremo i documenti e verificheremo cosa è stato fatto, ma non abbiamo alcun potere su atti precedenti al nostro arrivo”. DIVERSO è il caso dell’altro affidamento senza gara, quello – annunciato oggi – per tutta la ristorazione di Expo, tolti il Palazzo Italia (sotto inchiesta) e i due padiglioni di Eataly (affidati a Farinetti). Per i 120 punti ristoro disseminati in tutta l’area dell’esposizione universale sono state bandite due gare, entrambe andate deserte: nessun operatore del settore ha ritenuto convenienti le condizioni poste da Expo. Allora la società ha avviato un “dialogo competitivo” con le aziende. “In questo caso, l’Autorità anticorruzione ha seguito la procedura e ha posto alcuni paletti”, dichiara Cantone. Alla fine Expo spa ha trovato chi ci sta. La coop Cir Food, che sul suo house organ scrive: “Stiamo scaldando i motori anche per Expo 2015, con tante speranze, tante apprensioni e tanta voglia di lavorare”, con “l’orgoglio di essere una cooperativa sana, giovane e ricca di storia”. Cir Food spera di servire, pur con margini di guadagno molto limitati, circa 26 milioni di pasti ai 24 milioni di visitatori previsti, con 13 milioni di pasti nei 55 giorni di picco (weekend e festivi), in cui si stimano 250 mila visitatori al giorno, e altri 13 milioni di pasti nei 129 giorni non di picco, durante i quali si ipotizzano 90 mila visitatori al giorno. “Dobbiamo misurarci con scommesse che mettono a dura prova i nostri modelli lavorativi”, ribadisce Cir Food, “acquisire tante commesse a margine quasi zero e sommarle, sperando di avvicinarci alla redditività dell’anno precedente”. Del 18/12/2014, pag. 22 Roma, ecco il libro nero delle mazzette Mafia Capitale, la contabilità segreta della banda di Carminati: “Con questi soldi ci compriamo tutto il consiglio comunale” Gli inquirenti: “Sotto la giunta Alemanno la coop di Buzzi ha triplicato il valore degli appalti”. La sua difesa: “Nessun reato” MARIA ELENA VINCENZI FRANCESCO SALVATORE ROMA . Eccolo il libro nero di Salvatore Buzzi. Pagine e pagine di versamenti fatti a sigle ai quali i carabinieri del Ros stanno cercando di dare un nome. Due quadernetti, uno nero e uno rosso, sui quale la segretaria di Buzzi, Nadia Cerrito, annotava tutto quello che il ras delle cooperative doveva pagare a soci e politici che gli garantivano gli appalti. I primi lavori con il Comune, scrivono i carabinieri in un’informativa depositata dalla procura al tribunale del Riesame, sono stati vinti nel 1994. Poi, gli affidamenti sono cresciuti esponenzialmente. Tra il 2003 e il 2006, con la giunta Veltroni, la cooperativa “29 Giugno” aveva ottenuto 65 appalti per oltre 3 milioni e, poi, con il sindaco Alemanno, aveva aumentato ancora il fatturato vincendo 100 gare per 8 milioni di euro. «LI AGGIORNO E POI LI STRAPPO» Sono parecchie le conversazioni intercettate dai militari in cui Buzzi e Massimo Carminati parlano del libro nero. Contrattano sui compensi da dare a funzionari comunali compiacenti e direttori delle municipalizzate. In quel taccuino vengono registrati anche i soldi che il ras delle cooperative deve dare al “Cecato”. E, Carminati, che era un uomo di mondo, il primo agosto nella sede della cooperativa racconta a Buzzi, Paolo Di Ninno, 37 Fabrizio Testa e Nadia Cerrito: «No, ma io lo sai che faccio? Io l’aggiorno e poi mi strappo gli ultimi, capito come? Io prendo, confronto e l’ultimo lo strappo». Un modo, chiosano i carabinieri nell’informativa del 16 dicembre, per «eliminare evidenti fonti di prova a suo carico». «COSÌ LI PAGHIAMO» La lista di “bocche da sfamare” è lunga. E spesso Buzzi e Carminati si trovano, proprio come due soci, a discutere dei compensi da consegnare ai pubblici ufficiali. In uno degli incontri il ras delle cooperative spiega al suo “socio”: «Allora mi servono due e cinque per la Cicciona, mille e cinque per Coratti (Mirko, ex presidente del consiglio comunale, ndr), uno per Figurelli (Franco, capo segreteria di Coratti, ndr), mille per il sindaco di Sant’Oreste , so sette. E se alla Cicciona non glieli do, cinque, sei». La lista dei nomi è lunga. Buzzi continua: «Eccoli qua questi, questa segnamo Gramazio e l’altro quale era?». «MI COMPRO TUTTI» Non sempre le mazzette danno i risultati sperati. Ci sono anche volte in cui la banda paga persone che non riescono ad accontentarli. Affari a perdere che fanno andare Buzzi e Carminati su tutte le furie. Il 27 maggio, gli investigatori del Ros registrano una conversazione tra Buzzi, il suo collaboratore Carlo Guarany e altri due uomini. Buzzi è seccato, gli affari con l’Ama non vanno come speravano. La colpa, secondo il ras, è di qualcuno a cui ha dato dei soldi e che ora sta mettendo i bastoni tra le ruote (il soggetto è ancora da identificare). «Senti allora io fra poco vedo l’amico friz e glielo dico che noi gli abbiamo dato un po’ di soldi per amicizia... anche perché non ci rappresenta politicamente, posso dirgli questo? Un “cip per buona volontà”, poi se non gli basta e vuole diventare pure nemico ci diventasse, non ci frega un cazzo, anche perché con quella cifra me compro il Consiglio Comunale no, tu che dici? ». LA CRESTA SUI ROM Le attenzioni di Carminati e Buzzi, si sa, si erano concentrate anche sui campi nomadi, un modo sicuro di fare soldi. L’11 aprile Buzzi parla alcuni collaboratori dell’ampliamento del campo nomadi di Castel Romano. Il ras vuole mettere le mani su quell’affare e, stando a quanto raccontano lui e i suoi dipendenti, hanno avuto rassicurazioni dal Comune nella persona di Emanuela Salvatori, responsabile dell’Ufficio rom. «Quello che dice lei - spiega Caldarelli a Buzzi - è “noi paghiamo 300 persone e in realtà sono 150”». Buzzi annuisce: lo sa anche lui. «CARMINATI? UN DIPENDENTE» Trasferito da qualche giorno in un carcere nel nuorese, il ras delle cooperative ha voluto partecipare ieri all’udienza del tribunale del Riesame. E ha chiesto di rendere, davanti al collegio presieduto da Bruno Azzolini e ai pubblici ministeri Giuseppe Cascini, Paolo Ielo e Luca Tescaroli, spontanee dichiarazioni. «Con Carminati ci eravamo conosciuti in carcere anni fa. Poi ci siamo rincontrati nel 2012. Insieme non abbiamo commesso alcun illecito». Il suo difensore, Alessandro Diddi, ha depositato anche un contratto di lavoro dal quale risulterebbe che Carminati era dipendente della “29 giugno”, in quanto ex detenuto. Buzzi, accusato di associazione mafiosa, ha preso le distanze «anche ideologiche », dall’ambiente che ruota attorno alla figura di Carminati: «Qui non è questione di “Mondo di mezzo” ma di destra e di sinistra. Io ho vinto appalti con amministrazioni diverse». 38 Del 18/12/2014, pag. 22 E in Campidoglio spuntano altri 120 appalti sospetti Scontro tra Orfini e il prefetto Pecoraro: “Faccia meno interviste” Bindi al sindaco: “La mafia ha avuto rapporti politici anche con la sua giunta” MAURO FAVALE GIOVANNA VITALE ROMA . Ci sono quelli sul sociale, quelli sulla gestione del verde in città, quelli che riguardano l’emergenza abitativa. E poi, soprattutto, gli affidamenti diretti per le cosiddette “somme urgenze”, le proroghe (ampia- mente utilizzate nel corso degli anni), le procedure negoziate. In totale, per ora, sono 120 gli appalti sospetti del Campidoglio i cui incartamenti sono stati consegnati ieri dal sindaco della capitale Ignazio Marino al presidente dell’Autorità anticorruzione Raffaele Cantone. Una prima tranche sottoposta al vaglio dell’Anac che potrà, eventualmente, proporre il commissariamento di quelle gare che risulteranno “inquinate”. Intanto, nell’attesa dei primi risultati, il sindaco continua a tenere il punto sul fatto che il suo arrivo in Comune, nel giugno 2013, ha segnato lo «stop al malaffare ». Lo fa anche davanti alla commissione parlamentare an- timafia, provocando la reazione della sua presidente, Rosy Bindi: «Forse la mafia si è insediata e ha fatto il salto di qualità con Alemanno ma è innegabile che ha avuto rapporti politici anche con la sua giunta». «Ma il dato di fatto — replica Marino — è che nessuno della mia amministrazione è indagato per associazione mafiosa». Mirko Coratti, ex presidente dell’Aula, e Daniele Ozzimo, ex assessore alla Casa, infatti sono sotto indagine per corruzione. «Ma chi è indagato per corruzione in un’inchiesta per mafia — ribatte la Bindi — è comunque un interlocutore e forse il terminale o l’arma impropria che viene utilizzata». Lo scontro si ferma qui ma non è l’unico nell’ennesima giornata di tensione sul fronte politico-istituzionale dall’inizio dell’inchiesta su mafia capitale. Sotto accusa finisce anche il prefetto Giuseppe Pecoraro che in mattinata aveva espresso preoccupazione «per le conseguenze che ci possono essere. Può venire fuori che ci sia la necessità di uno scioglimento e questo, ovviamente, non è una cosa che desideriamo». «Immagino che il prefetto sappia molte cose e probabilmente non può dirle», replica a stretto giro Marino. L’affondo più pesante, però, è del presidente del Pd, Matteo Orfini: «Tra le tante curiosità della situazione romana c’è anche quella di avere un prefetto che fa più interviste e dichiarazioni di Salvini». Un sarcasmo al quale si aggiunge la critica diretta di un altro parlamentare Dem, Khalid Chaouki: «Il prefetto dovrebbe chiarire a tutti i cittadini qual è stato il suo ruolo durante gli anni dell’amministrazione Alemanno in materia di gestione della cosiddetta “emergenza rom”». In serata, telefonata «chiarificatrice» tra Pecoraro e Orfini. del 18/12/14, pag. 4 Il commissario Orfini “arresta il prefetto” Eleonora Martini Mafia Capitale. Il commissario Orfini: «Troppe interviste». Buzzi rivela: «Massimo Carminati fu assunto dalla Cooperativa 29 giugno» 39 «Nel sociale ci siamo resi conto, guardando i dati, che nel periodo 2007–2013 c’è stato un aumento statisticamente significativo delle procedure condotte su base negoziale, con affidamenti diretti, invece che con bandi di gara pubblici». Ignazio Marino non nasconde, riferendo del contenuto del nuovo dossier che ieri ha consegnato al presidente dell’Anticorruzione Raffaele Cantone, che non tutti i 120 appalti ritenuti «sospetti» dal pool di esperti messi al lavoro dall’attuale inquilino del Campidoglio sono da addebitare all’amministrazione del “nero” Gianni Alemanno, divenuto sindaco nel maggio 2008. D’altronde, se fossero confermate le ipotesi di accusa della procura di Roma, c’era anche Luca Odevaine, braccio destro del precedente sindaco Walter Veltroni, tra coloro che nel «Mondo di sopra» avrebbero intrattenuto rapporti con quello «di sotto». In mezzo, coloro come Salvatore Buzzi, il presidente della Cooperativa “rossa” 29 giugno, che ieri, davanti ai giudici del tribunale del Riesame che dovranno decidere se confermare la sua detenzione in carcere come è avvenuto nei giorni scorsi per altri imputati dell’inchiesta «Mafia Capitale», ha dichiarato: «Non abbiamo commesso alcun illecito, io Carminati l’ho incontrato per la prima volta nel 2012». E da quell’anno l’ex Nar sarebbe diventato «dipendente della Cooperativa 29 Giugno». A riprova che i rapporti tra loro non avevano «una matrice di natura illecita», il legale di Buzzi, l’avvocato Alessandro Diddi, ha depositato il contratto di assunzione di Massimo Carminati. Nella memoria difensiva, inoltre, Diddi cita un’informativa dei Ros che parla di appalti assegnati alla coop di Buzzi dall’11 maggio 1994. Solo che, anche secondo i carabinieri, con la giunta di Francesco Rutelli, da Roma Capitale e Ater Buzzi ottiene 11 appalti per un totale di 500 mila euro. Tra il 2003 e il 2006, durante la giunta Veltroni, Buzzi vince — secondo la memoria difensiva dell’imputato — 65 appalti, per ammontare di oltre 3 milioni e mezzo di euro. Ma il vero salto si registra sotto la guida del sindaco Gianni Alemanno, quando le coop riconducibili a Buzzi riescono ad ottenere quasi un centinaio di gare d’appalto per circa 8 milioni di euro. E molto si dovrà ancora scavare «nell’area strategica del sociale, che è una delle aree principalmente oggetto dell’inchiesta», come ha detto il sindaco Marino che ha annunciato «nelle prossime ore» un «lavoro di affinamento rispetto al lungo e corposo elenco» già consegnato all’Autorità anticorruzione. Tra Cantone e Marino c’è collaborazione stretta. Tira invece tutt’altra aria tra il prefetto Giuseppe Pecoraro e il partito del sindaco. Ieri, dopo l’ultima intervista in cui il prefetto di Roma parlava di ipotesi di «scioglimento del Comune» e del pericolo che «si possano ripetere questi fatti», il commissario del Pd romano Matteo Orfini è sbottato: «Il prefetto che fa più interviste e dichiarazioni di Salvini». Una «propensione stucchevole», aggiunge il deputato Khalid Chaouki che ricorda come «Pecoraro venne nominato dal governo Berlusconi il 30 maggio 2008 Commissario delegato per il superamento dell’emergenza Rom per Roma e il Lazio. Una gestione secondo procedure d’emergenza, concordata con l’allora ministro dell’interno Maroni e il sindaco Alemanno, in deroga a tutte le procedure ordinarie e successivamente bocciata da una sentenza del Consiglio di Stato per “carenza dei presupposti di emergenza”». «Immagino che il prefetto sappia molte cose ma forse non le può dire», ipotizza Marino. Ma per Chaouki, Pecoraro «farebbe bene a lavorare in silenzio nella sua importante opera di verifica interna al Campidoglio e magari anche a spiegarci come sia potuto accadere che durante la sua gestione siano potute verificarsi speculazioni milionarie gestite da bande criminali e mafiose ai danni della dignità di rom, rifugiati e tutti i cittadini romani». In serata, riferiscono fondi dem, tra Orfini e Pecoraro «cordiale» telefonata riparatoria. 40 Del 18/12/2014, pag. 14 Palermo, Lo Voi procuratore tra le liti Il Csm elegge il magistrato che lavorò con Falcone e Borsellino: “Ora uniti al lavoro”. Battuti Lari e Lo Forte LIANA MILELLA Ore drammatiche al Csm, dove il vero protagonista sembra essere il processo sulla trattativa Stato-mafia, per scegliere il nuovo procuratore di Palermo. Il vice presidente Giovanni Legnini smentisce «ingerenze esterne», ma lì si parla di un veto dall’alto su Guido Lo Forte che ha portato ognuno a chiudersi nella sua posizione. Alla fine il Csm si spacca in tre pezzi, quanti sono i candidati. Con 13 voti vince Franco Lo Voi, ex pm a Palermo, anni accanto a Falcone e Borsellino, oggi toga italiana all’Aja per Eurojust. Lo segue con 7 voti il procuratore di Caltanissdetta Sergio Lari. Ultimo, con 5, Lo Forte, procuratore a Messina, aggiunto a Palermo negli anni di Caselli e dei processi contro Andreotti. Nomi che fanno la storia dell’antimafia. Sui quali le correnti e i laici si scontrano da settimane. Ieri il round pubblico rivela la durezza del braccio di ferro. Lui, Lo Voi, apprende la notizia all’Aja. Ammette: «Sì, sono soddisfatto». Quando va a Palermo? «Subito, sarò in procura per gli auguri di Natale». Le polemiche? «Conosco bene il Csm, ci sono stato, lì è normale che gli animi di scaldino. Ma io guardo già al futuro, mi aspetta una squadra di colleghi validissimi, sono sicuro che faremo un buon lavoro insieme». E gli sconfitti Lari e Lo Forte? «Sono magistrati di assoluto valore, li chiamerò subito». Al Csm, però, non sarà facile sanare la spaccatura. È anomalo il fronte per Lo Voi, i 4 togati di Magistratura indipendente, il suo gruppo, i 2 capi della Cassazione, il presidente Santacroce e il pg Ciani, poi tutti i laici, i 3 del centrodestra e i 4 del centrosinistra. Il vice Legnini non partecipa al voto, resta «super partes», come reazione al fallimento della strategia «di ottenere un’ampia maggioranza». Era possibile? Legnini: «Solo una soluzione poteva garantire un ampio consenso, ma non si è verificata, non per mia responsabilità ». Non dice il nome, ma si tratta di Lari. Il candidato di Area, la corrente di sinistra, mentre Unicost fa muro su Lo Forte. Il laico Pd Giuseppe Fanfani tenta un appello: «Noi laici di centrosinistra ci asteniamo, voi togati non potete coinvolgerci nella spaccatura». Pausa di 20 minuti. Ultimo tentativo tra Area e Unicost di convergere su un nome. Dice ai laici Clau- dio Fracassi (Area): «Dateci un indicazione, Lo Forte o Lari, e noi votiamo». Ma i laici non possono scegliere perché tra loro c’è chi dice che l’unico nome votabile è Lari, troppo caselliano Lo Forte, troppo protagonista di una stagione sui processi tra politica e mafia che si vuole superare. A quel punto Unicost chiude e vota Lo Forte. Dice Luca Palamara: «Lo sosteniamo fino in fondo perché c’è una carriera da rispettare». Area vota Lari. Dice Legnini: «Qui esce indebolito un meccanismo correntizio che ormai non regge più. Mi auguro solo che gli sconfitti non facciano ricorso». Ma gli estremi ci sono tutti. Bastava ascoltare gli interventi furiosi di Ercole Aprile, Antonello Ardituro e Piergiorno Morosini, tutti di Area. Il primo: «Pupi siamo, diceva Pirandello... qui c’è il rischio di nominare un pupo, senza le caratteristiche di chi deve dirigere un ufficio ». Il secondo: «Alcune carriere si fanno al calduccio, altre nelle macchine blindate, nell’aula bunker, in giro per l’Italia a interrogare i collaboratori, questo hanno fatto Lo Forte e Lari. Il mio voto è per loro. Chi non lavora per questo si assume una gravissima responsabilità ». Il terzo: «Serve l’uomo giusto al posto giusto, non una scelta arbitraria. Sono per Lari, che ha avuto successo per i processi fatti e la gestione dell’ufficio ». Niente da fare. Vince Lo Voi. 41 RAZZISMO E IMMIGRAZIONE del 18/12/14, pag. 6 Niente luce né acqua per gli 800 rom di Scampìa Adriana Pollice NAPOLI Napoli. La decisione del presidente della municipalità Lasciati in pieno inverno senza corrente elettrica e senz’acqua. Gli abitanti del campo rom di via Cupa Perillo, a Scampia, sono diventati l’ossessione della procura di Napoli e del presidente della municipalità, Angelo Pisani. Era già accaduto che una parte del campo rimanesse senza servizi in primavera: arrivano le denunce e la magistratura manda le forze dell’ordine a staccare tutto. Martedì è successo di nuovo: 800 persone, di cui 200 bambini (ma ci sono anche ammalati e donne incinte), sono rimasti al freddo, al buio e con i rubinetti a secco. Un intervento che non risolve nulla, se non costringerli a creare derivazioni sempre più precarie. Le forze dell’ordine sono tornate a più riprese anche ieri per perquisizioni e controlli, attività che si stanno susseguendo con molta frequenza negli insediamenti del napoletano. Pisani da mesi tuona contro i fumi che salgono dal campo, ammorbando l’aria: «Lì è tutto abusivo, è vero, ma proprio per questo l’immondizia non viene raccolta. La comunità rom si tassa per pagare il prelievo dei rifiuti in proprio – spiega Emma Ferulano, dell’associazione Chi rom… e chi no -. Senza elettricità sono costretti a cucinare e scaldarsi con i bracieri. E’ persino complicato per i bambini studiare. Sono decenni che attendo una soluzione che superi la struttura campo». Dal 2009 giace inapplicato un piano del comune di Napoli, 7,2 milioni di euro già stanziati (il progetto finale va consegnato entro il prossimo 31 dicembre o andranno persi), per strutture transitorie socio-assistenziali, cioè altre abitazioni temporanee, per 409 persone da sistemare in 75 alloggi sottodimensionati. Una goccia nel mare visto che tra Scampia e Melito vivono in circa 2mila. Ad oggi è stata individuata l’area, una parte del campo di via Cupa Perillo (la cosiddetta Variante sinistra), ed è iniziato il censimento degli abitanti ma neppure un mattone è stato messo a terra e non si sa dove andranno le famiglie che dovranno sgomberare l’area dei lavori. A Pisani neanche questo va bene e, pervaso dallo stesso furore di un Matteo Salvini, insiste a chiedere «la delocalizzazione degli insediamenti nomadi in altre aree più idonee e senza problemi», dimenticando che quelli che definisce nomadi vivono a Scampia da trent’anni, quasi tutti di cittadinanza italiana. L’impressione è che le elezioni regionali di primavera stiano alimentando un clima antirom. Il comune di Napoli ha emesso a fine novembre un’ordinanza con cui impone il divieto di «rovistare nei contenitori della spazzatura, di asportare e trasportare rifiuti di ogni genere prelevati dai suddetti cassonetti» pena una multa di 500euro: una misura volta a bloccare i mercatini rom dell’usato intorno alla Stazione centrale. La scorsa settimana la procura di Napoli aveva inviato a via Cupa Perillo addirittura una ruspa per abbattere una sola baracca. «Ripristinata la legalità» aveva esultato Pisani che, il 21 novembre, aveva convocato stampa e residenti nel parlamentino della municipalità per arringarli sull’argomento rom: «E’ stata una iniziativa che gli si è ritorta contro – racconta Emma -. Sono arrivate molte realtà da altre parti della città e, insieme ai rom, hanno rivendicato il diritto all’abitare per tutti. Quello che vogliono sono progetti di housing sociale, invece si 42 insiste con forme ibride nonostante gli ingenti fondi stanziati dall’Europa per l’emergenza nomadi, che si è scelto di non spendere». I bambini dei campi di Scampia vanno tutti a scuola, un piccolo calo si registra alle medie ma succede lo stesso per i ragazzi napoletani. Certo, nelle condizioni in cui vivono, è complicato studiare ma la rete delle associazioni non li lascia soli. Il rapporto con la comunità napoletana è avviato da anni, grazie anche a progetti come Arrevuoto, con i suoi laboratori teatrali, o La Kumpania: impresa sociale gastronomica di rom e italiani, avviata l’anno scorso, che ha recentemente aperto nel quartiere il ristorante italorom Chikù. Ci saranno anche loro domenica prossima al campo di via Cupa Perillo dove, a partire dalle 10.30, ci sarà un corteo con laboratori e musica: il loro modo di rispondere allo stato che sa mostrare solo la faccia feroce. 43 INFORMAZIONE del 18/12/14, pag. 5 La bolla dei freelance è esplosa Roberto Ciccarelli Quinto rapporto Lsdi: il lavoro autonomo senza diritti è aumentato di 327 volte in 10 anni. Esplodono le diseguaglianze, diminuiscono i dipendenti, testate tradizionali in crisi Dieci anni di crisi, pre-pensionamenti e precariato di massa hanno trasformato quella del giornalista in una professione da freelance sottopagato e senza diritti. Secondo il quinto rapporto 2013, realizzato da Libertà di stampa diritto all’informazione (Lsdi) su dati forniti da Casagit, Fnsi, Inpgi e ordine dei giornalisti, è cresciuto il divario tra il lavoro dipendente e il lavoro autonomo. Il primo resta il più tutelato, il secondo affonda in una zona grigia dove non è più possibile svolgere una professione a tempo pieno. La diseguaglianza tra i redditi domina l’industria dell’informazione italiana e coinvolge due terzi dei giornalisti attivi: pubblicisti e autonomi guadagnano redditi tra il 5,6 e il 6,9 volte in meno dei colleghi salariati. Questo accade in un panorama dove diminuiscono le possibilità di lavoro nei quotidiani e periodici, Rai e agenzie stampa, mentre crescono le posizioni «spurie» da addetti stampa o alle pubbliche relazioni negli enti pubblici e privati. Nel primo caso, l’occupazione è diminuita dal 2000 dall’83,2% al 64,9% a fine 2013. Nel secondo è cresciuta dall’8,1% al 16,1%. Dal 2000 al 2013 il lavoro autonomo ha registrato un boom del 327,7%. Al 31 dicembre 2013 gli iscritti all’«Inpgi 2», la cassa dei freelance, erano 38.988, con un aumento del 7,1% rispetto al 2012 (36.414). Di questi 7.890 hanno un rapporto di lavoro subordinato e sono iscritti anche all’«Inpgi 1». Alla fine del 2013 gli autonomi «puri» erano 31.098 (+9,5% rispetto al 2012). Un andamento che corrisponde all’aumento degli iscritti all’ordine 113.620, contro i 112.046 dell’ anno precedente. Poco meno della metà sono «attivi». Il rapporto Lsdi definisce quella dei precari una «bolla» strutturale. L’informazione è una piramide retta da una moltitudine di senza diritti che svolge, occasionalmente, il lavoro da giornalista. Sette autonomi su 10, il 68,7%, hanno dichiarato redditi inferiori a 10 mila euro annui. Sei su dieci (8.673) si sono fermati sotto i 5 mila euro. La retribuzione media è scesa da 11.278 a 10.941 euro lordi annui. Quella dei Co.co.co — 8.832 euro – è 6,9 volte inferiore, mentre quella del «libero professionista» è 4,7 volte inferiore. La situazione migliora nelle fasce di reddito superiori tra i 10 e i 25 mila euro, passate dal 15,9 al 16,7%, mentre quella fra i 25 e i 50 mila è scesa dal 10,1 al 9,4%. Nel 2013 solo 206 freelance hanno sfondato il tetto dei 100 mila euro di reddito. Tutti gli altri fanno parte di un proletariato dove sono le donne a guadagnare meno (11.466 euro lordi contro 14.285 degli uomini). In queste condizioni il lavoro giornalistico si è trasformato da produttore di contenuti in fornitore di servizi intercambiabili. Il giornalista è costretto a svolgere più attività. L’esclusività viene meno, mentre il lavoro diventa un’occupazione tra le tante. Questa situazione incide sullo status dei dipendenti. Le aziende tagliano l’occupazione e comprimono i loro salari ricorrendo ai contratti di solidarietà e inasprendo le condizioni di lavoro sugli orari notturni, i festivi o gli accordi integrativi. In tre anni gli incentivi all’occupazione adottati dall’Inpgi con gli sgravi contributivi alle imprese hanno prodotto solo 360 nuove assunzioni. Nella prima metà del 2014 sono stati persi 634 posti senza che ne sia stato creato nessuno. Nel frattempo la disoccupazione cresciuta del 47,6%; la cassa integrazione del 21,1%, la solidarietà del 51,1%. La precarietà è un’arma a doppio taglio e ha travolto gli organi di una professione super44 protetta che poco, o nulla, hanno compreso di una condizione che riguarda tutti. Lo conferma il presidente dell’Inpgi, Andrea Camporese, secondo il quale quella in corso è «una crisi senza precedenti». L’autosostentamento del sistema è a rischio perché aumentano i pensionati, diminuiscono i salariati (con redditi che aumentano da 61.180 a 65.903 euro) mentre i freelance lavorano troppo poco per contribuire a sostenere le speranze di tutti. Per chi, tra loro, riuscirà a chiudere una «carriera» avventurosa ci sarà una pensione che oggi è in media di mille euro lordi. All’anno. del 18/12/14, pag. II La carica dei ventimila per riprenderci il futuro Matteo Bartocci Mi riprendo il manifesto. L'ultima prova si avvicina e l'esito finale è tutto e soltanto nelle nostre mani. Lasciamo gli altri, i cinici, i contabili, gli scettici, i delusi, a bocca aperta: partecipate, donate, abbonatevi, leggeteci in edicola e sul Web. Questo giornale vuole continuare la sua ricerca. Provare e riprovare. Morto il manifesto non se ne fa un altro Se il manifesto fosse una fabbrica argentina avremmo le troupe televisive fuori dalla porta. Per capire come è possibile che in un’epoca in cui i giornali chiudono a centinaia, questo nostro/vostro quotidiano, comunista, senza padroni, povero di mezzi ma non di spirito, totalmente autogestito dai lavoratori, è ancora in piedi e, anzi, riesce a crescere e ad adattarsi in modo originale perfino alla «rivoluzione digitale» che sta sconvolgendo l’editoria. Siamo qui perché la comunità del manifesto è forte e determinata. Perché al nostro temerario «salto con l’asta» per il riacquisto della testata state partecipando in tanti. Migliaia di persone con iniziative sul territorio e piccoli e grandi bonifici. Siamo certi che oggi in molti comprerete quest’ultimo numero dal pazzo prezzo di 20 euro. Grandissimo è il vostro affetto per noi. L’unica benzina nel nostro motore, oltre a un pizzico di integrità e di competenza. Siamo al servizio di una sinistra diffusa, resistente, ma delusa da quello che la circonda. Scettica sul futuro. Scossa nei propri valori. Demonizzata come un mondo da rottamare in nome di un «nuovo» che alle nostre narici porta il tanfo irresistibile del vecchio. E invece in Grecia, in Spagna, in Germania, in America Latina, la sinistra esiste. Vince e convince. Questa nuova cooperativa del manifesto è partita due anni fa come un foglio bianco, una storia ancora da scrivere. Pochi scommettevano sulla riuscita di questa impresa garibaldina, partita senza un euro e con un paio di bobine di carta in tipografia, dopo una divisione politica che ha lasciato cicatrici che oggi speriamo in via di guarigione. Se non altro in nome di un destino comune: salvare il giornale e riportarlo dove gli compete. Al centro non solo della sinistra italiana ma anche europea e d’oltre Oceano. Dobbiamo essere orgogliosi di essere qui. Dovete esserlo anche voi, che oggi avete speso così tanto per leggerci e condividere questa giornata. La nostra e vostra diversità è irriducibile alla moda e alle contingenze. Temperata dalla fatica della politica che tutti noi, in una forma o l’altra, pratichiamo o abbiamo praticato. Cambiano equipaggi e capitani ma il vascello corsaro uscito dal grande porto del Pci per incontrare il ’68 solca ancora i mari. Forma originale della politica e quotidiano integro 45 nelle intenzioni e nella gestione. Dichiaratamente dalla parte del torto. Sempre desideroso di navigare contro vento. Non sempre riuscito ma mai freddo. Eterno incompiuto. Perché è un corpo vivo, collettivo, che nemmeno una liquidazione e una brutale crisi economica possono sopprimere. Arrivati a questo giro di boa natalizio, abbiamo alcune certezze. La campagna non si ferma: continuerà anche a gennaio. Quando i liquidatori metteranno all’asta la testata noi ci saremo. Le procedure sembrano andare a rilento ma riteniamo che il traguardo arriverà nella prima metà del 2015. Come sapete, sulla cifra raccolta finora manteniamo il riserbo dovuto ma possiamo dire che la campagna sta avendo successo. I donatori finora sono: 318 con bollettino postale, 1.150 via bonifico e 2.189 con carta di credito. Se consideriamo come implicita «donazione» anche l’acquisto a 20 euro di questo numero e del precedente di novembre, superiamo ampiamente le 20mila persone coinvolte in un mese e mezzo. E ora si vede bene, come speravamo fin dall’inizio, che i «soli di sinistra» (com’era il nostro primo slogan di ottobre) non sono affatto soli. Che il cielo è popolato di migliaia di stelle, ben conosciute come gli artisti che si sono prestati a offrire il volto con noi (altri ne arriveranno) e meno noti, come testimoniano le migliaia di lettere che pubblichiamo e leggiamo. Affettuose o critiche ma mai banali. Siamo a metà percorso. E tutto questo alla resa dei conti potrebbe anche non bastare: per questo la campagna va avanti, anche negoziando con Banca Etica un prestito che possa dare fiato al giornale. Stiamo definendo le condizioni migliori per tutelare il manifesto anche nel futuro. Perché resti un giornale libero e senza padroni com’è sempre stato. Perché possa davvero vivere altri quarant’anni ed essere letto e fatto da altre generazioni. Non è semplice. Non è scontato. Anzi, la parola «fine» non è ancora né vicina né lieta. Grazie al vostro aiuto stiamo lavorando su diversi fronti: sviluppare meglio Le Monde Diplomatique e Alias, portare a compimento le edizioni digitali iniziate un anno fa, migliorare forma e sostanza del giornale quotidiano, mettere a fuoco l’iniziativa politica del 2015. Le vendite in edicola della seconda metà dell’anno sono incoraggianti. A settembre (dati Ads) il manifesto è stato l’unico quotidiano italiano a crescere e anche a ottobre siamo in controtendenza rispetto agli altri giornali: +2,7% a fronte di un dato medio del –1,8%. Calano gli abbonamenti postali (la tempestività della consegna da parte di Poste non è esattamente «svizzera»), tengono gli abbonamenti coupon, crescono quelli digitali nonostante siano un po’ più cari della media (con l’Iva al 22% non possiamo permetterci le promozioni aggressive della “concorrenza”). Crolla ancora, purtroppo, la pubblicità e sarà questo dal 2015 il primo compito gestionale della cooperativa. Per essere qui oggi abbiamo lavorato duramente. Abbiamo mantenuto la promessa fatta nel 2013: portare il giornale a scegliere il proprio destino, non rassegnarsi mai alla chiusura. In tutto questo tempo abbiamo incontrato comprensione da parte di fornitori e collaboratori. Migliaia di lettori ci seguono con affetto. Intellettuali e artisti trovano qui lo spazio per immaginare il futuro ed elaborare sogni e ferite del presente. Molte associazioni e organizzazioni della sinistra guardano con speranza per le proprie sfide a questo burbero manifesto. Il collettivo sta rimarginando le sue cicatrici e abbiamo davvero bisogno dell’aiuto di tutti, fondatori e ultime leve. L’esito finale è tutto e soltanto nelle nostre mani: questa lunga rincorsa adesso deve spiccare il volo. Lasciamo gli altri, i cinici, i contabili, gli scettici, i delusi, a bocca aperta: partecipate, donate, abbonatevi, leggeteci in edicola e sul Web. Questo giornale vuole continuare la sua ricerca. Provare e riprovare. Morto il manifesto non se ne fa un altro. 46 Del 18/12/2014, pag. 10 “Tv, la par condicio va riscritta” Il Consiglio di Stato dà ragione a Fazio contro Brunetta: “Non contano solo i minuti” ALDO FONTANAROSA Brunetta mette sotto accusa Che tempo che fadi Fazio perché, a suo parere, tra settembre 2012 e maggio 2013, ha fatto vedere le facce di un solo partito, o quasi: il Pd. E lo stesso vizietto avrebbe avuto In ½ ora di Lucia Annunziata. Brunetta vince un primo round davanti al Garante per le Comunicazioni (l’AgCom) che nel 2013 «ordina» alla Rai di ospitare esponenti del centrodestra in entrambi i programmi. Il riequilibrio – dicono le delibere 476 e 477 - sarebbe dovuto avvenire con la nuova stagione tv entro un massimo di sei mesi. Ma la televisione di Stato – difesa dagli avvocati Saverio Sticchi Damiani e Salvatore Lo Giudice - ricorre alla giustizia amministrativa dove vince sia in primo grado (al Tar) sia ora davanti al Consiglio di Stato. Che nelle sue sentenze si spinge molto avanti quando critica il criterio solo quantitativo su cui si fonda l’attuale legge. Secondo i giudici, contare i secondi assegnati a un politico o a un partito non ha senso perché il dato aritmetico non è sempre significativo. Il giornalista può anche invitare parlamentari tutti di un colore e rispettare la par condicio sul piano formale. Ma «pesanti critiche, osservazioni sarcastiche e domande scomode » avrebbero comunque l’effetto di «peggiorare la percezione di questi politici da parte dell’opinione pubblica ». La par condicio, nella sostanza, sarebbe violata. La nuova legislazione, dunque, dovrebbe concentrarsi molto di più sulle «modalità di conduzione dei programmi ». Non solo. Il Consiglio di Stato afferma che il pluralismo di un editore (come la Rai) non si può giudicare da una sola trasmissione (soprattutto quando questa è un misto di comicità e informazione, come Che tempo che fa). Non bisogna «isolare atomisticamente singoli programmi », quindi Più opportuno è «guardare semmai al complesso dell’offerta del servizio pubblico». 47 CULTURA E SCUOLA Del 18/12/2014 – pag. 40 Venezia come Roma Un guaio i soldi pubblici L’effetto oppiaceo delle leggi speciali che cancellano l’identità storica Come mai i due maggiori episodi di corruzione di questi anni, il Mose e «Mafia Capitale», sono accaduti in due città, Roma e Venezia, che tanto hanno in comune: una bellezza struggente, una storia millenaria, ma anche, da vent’anni in qua, una grande permeabilità delle proprie istituzioni alla corruzione e al malaffare e leggi speciali che hanno riversato sulle due città fiumi di denaro pubblico? Pur non ponendosi direttamente questa domanda, Salvatore Settis ( Se muore Venezia , Einaudi) ci suggerisce una risposta. Questi disastri accadono quando una città perde la propria memoria e la propria identità. E le perde, aggiungo io, quando viene sedotta da un fiume di denaro pubblico che, anziché risolverne i problemi, vi diffonde la corruzione. A Venezia le aziende alle quali lo Stato aveva incautamente assegnato il monopolio dei lavori di salvaguardia della laguna hanno poco a poco avvolto la città in una ragnatela che ha finito per soffocarla. Dall’ «acqua granda» , l’alluvione che il 4 novembre 1966 devastò la laguna, lo Stato italiano ha trasferito a Venezia un fiume di denaro. Calcolato ai prezzi di oggi, 18,5 miliardi di euro, quasi il doppio di quanto il governo ha speso quest’anno per dare 80 euro al mese a dieci milioni di famiglie. A cinquant’anni di distanza, la maggiore delle opere che dovevano essere realizzate con quei soldi, le paratoie mobili del Mose appunto, non è ancora stata completata. Nel frattempo di quei 18,5 miliardi circa 2,5 (almeno secondo i calcoli illustrati da Giorgio Barbieri e dal sottoscritto in Corruzione a norma di legge , Rizzoli) sono finiti in rendite ingiustificate, che hanno alimentato trent’anni di corruzione. E a Roma, dopo essersi accollato i debiti accumulati fino al 2008, lo Stato, nei sei anni successivi, ha trasferito alla città altri 3,8 miliardi di euro. Matteo Renzi, il primo giorno del suo governo, sprecò un’occasione unica. Il Parlamento aveva appena bocciato il decreto «salva Roma»: bastava non ripresentarlo. Forse la corruzione si sarebbe arrestata sei mesi prima. Venezia non fu l’unica città italiana a subire gli effetti dell’alluvione del 1966. I danni maggiori li subì Firenze, tant’è vero che per cercare di salvare dall’Arno libri e dipinti fu verso Firenze, non verso Venezia, che partirono migliaia di cittadini da ogni parte d’Italia. «La mia città si è sempre lamentata del fatto che, dopo l’alluvione, non ha mai avuto i soldi» ha detto Matteo Renzi. Perché a nessuno è mai venuto in mente di costruire un Mose sulle sponde dell’Arno per evitare nuove esondazioni? Perché Firenze, pur senza soldi pubblici e quindi senza corruzione, comunque è sopravvissuta, non peggio di Venezia? In tre modi muoiono le città, scrive Settis: «Quando le distrugge un nemico spietato (come Cartagine, che fu rasa al suolo da Roma nel 146 a. C.); quando un popolo straniero vi si insedia con la forza, scacciando gli autoctoni e i loro dei (come Tenochtitlán, la capitale degli Aztechi che i conquistadores spagnoli annientarono nel 1521 per poi costruire sulle sue rovine Città del Messico); o, infine, quando gli abitanti perdono la memoria di sé e, senza nemmeno accorgersene, diventano stranieri a se stessi, nemici di se stessi. Questo fu il caso di Atene, che dopo la gloria della polis classica, dopo i marmi del Partenone, le sculture di Fidia e le vicende della cultura e della storia segnate da nomi come Eschilo, Sofocle, Euripide, Pericle, Demostene, Prassitele perse prima l’indipendenza politica (sotto i Macedoni e poi sotto i Romani) e più tardi l’iniziativa culturale, ma finì col perdere anche ogni memoria di se stessa. (...) Se mai Venezia dovesse morire, non sarà per la 48 crudeltà di un nemico né per l’irruzione di un conquistatore. Sarà soprattutto per oblio di se stessa. Oblio di sé, per una comunità del nostro tempo, non vuol dire solo dimenticanza della propria storia né morbida assuefazione alla bellezza, che dandola per scontata la viva come esangue ornamento cercandovi consolazione. Vuol dire soprattutto la mancata consapevolezza di qualcosa che è sempre più necessario: il ruolo specifico di ogni città rispetto alle altre, la sua unicità e diversità, virtù che nessuna città al mondo possiede quanto Venezia». Diversamente dagli abitanti di Firenze, ma anche di gran parte delle città italiane, veneziani e romani sono stati sedotti dal fiume di denaro riversato sulle due città dalle numerose leggi speciali approvate dal Parlamento a loro favore. E così hanno perduto la propria identità. Leggi con l’effetto di un oppiaceo che, con rare eccezioni, hanno cancellato la capacità di una comunità di rendersi conto del disastro in cui veniva trascinata. Per far spazio alla monocultura di un turismo accattone, i veneziani hanno abbandonato la loro città. Erano circa 100 mila all’inizio degli anni Ottanta, ai tempi della prima legge speciale, sono 56 mila oggi. Hanno barattato la loro città per le comode rendite che si assicuravano consentendo che le loro case e i loro negozi venissero trasformati in bed and breakfast e rivendite di mascherine. «Nemmeno le attuali 2.400 strutture di accoglienza» scrive Settis riprendendo un articolo di Gian Antonio Stella pubblicato sul «Corriere della Sera» il 25 gennaio 2014 «bastano ormai a saziarne gli appetiti: se non si riuscirà a bloccare il nuovo “piano casa” lanciato dalla Regione Veneto, le strutture ricettive potrebbero arrivare fino a 50.000 nel centro storico, coprendone la più gran parte». Per capire il danno arrecato Settis invita a rileggere Harvey W. Corbett, l’architetto che negli anni fra le due guerre mondiali costruì alcuni dei primi grattacieli di New York. Egli pensava che le città del futuro, Manhattan in primis , avrebbero dovuto essere modellate su Venezia: «Ciascuno dei 2.028 isolati di Manhattan è concepito, alla lettera, come un’isola nella laguna, con una fitta maglia di ponti che le collegano l’una all’altra: un vero arcipelago metropolitano». Anche nel dibattito degli anni seguenti, ci ricorda ancora Settis, l’esempio di Venezia torna spesso: «Si parla di un “Ponte dei Sospiri” che attraversi la 49th Street o di colonnati che echeggino Palazzo Ducale, si ripete la metafora delle strade-canali, dove il flusso delle auto prende il posto delle acque lagunari, si prova a progettare il Rockefeller Center legando fra loro tre blocks trattati come “isole”, insomma “alla veneziana”». Scrive Rem Koolhaas, il curatore della Biennale d’Architettura di quest’anno, in Delirious New York : «Lo stile di progettazione di Corbett è pianificare attraverso la metafora, facendo di Manhattan un sistema di solitudini d’ispirazione veneziana». Allude, ci ricorda Settis, a un celebre aforisma di Nietzsche: «Cento profonde solitudini formano insieme la città di Venezia — questa è la sua magia. Un’immagine per gli uomini del futuro». Venezia come immagine, come modello, come metafora. Le visioni del futuro fra ultimo Ottocento e primo Novecento intrecciano Venezia e i grattacieli, ma non necessariamente li contrappongono. «Nulla rende l’essenza e la qualità della vita urbana quanto l’incontro di cento solitudini, ma perché esso venisse inscenato a Manhattan la mediazione metaforica di Venezia fu un passaggio essenziale». Abbiamo speso 18,5 miliardi per ottenere il bel risultato di gettare tutto ciò al vento. È inaudito il danno arrecato dalle leggi speciali. Ma rimane una speranza. Settis conclude che «Venezia potrà resistere nella sua ineguagliabile forma urbis se saprà costruire creativamente il proprio destino, calibrando ogni mutamento non sulle aspettative dei turisti né sulla speculazione immobiliare, ma sul futuro dei propri cittadini». I veneziani voteranno fra cinque mesi per eleggere un nuovo sindaco. Forse insieme ai cittadini di Roma. Entrambi, romani e veneziani, hanno l’occasione per risvegliarsi dal torpore in cui 49 sono caduti e chiedersi finalmente che futuro vogliono per le loro città. È l’ultima occasione. Altrimenti si dovrà dar ragione a chi sostiene che il valore di queste città è troppo grande per affidarne l’amministrazione ai loro cittadini. Meglio affidarle alla società che ha in appalto i parchi dei divertimenti di Disneyland e che certamente li gestisce con più lungimiranza di quanto abbiano fatto gli amministratori cui negli anni recenti romani e veneziani hanno affidato le loro città. Del 18/12/2014 – pag. 43 La protesta del Piccolo Teatro: leggi ingiuste, si rischia di morire Escobar: noi virtuosi esclusi dai benefici fiscali, premiate le fondazioni liriche MILANO «Puniti, perché abbiamo i bilanci a posto. Discriminati con il rischio di morire». Da Milano si leva la voce dei piccoli teatri. L’Art Bonus all’anglosassone, la misura che consente ai privati di detrarre il 65 per cento delle donazioni in favore di musei, siti archeologici, archivi, biblioteche, è stata estesa alle fondazioni lirico sinfoniche ma «non vale per noi, piccole realtà», spiegano Sergio Escobar e Andrée Ruth Shammah, direttori rispettivamente del Piccolo Teatro e del Teatro Franco Parenti. «Se era assurdo che la defiscalizzazione delle donazioni private alla cultura fosse confinata ai soli Beni culturali — dice Sergio Escobar — suona addirittura una beffa che, con un emendamento alla legge di Stabilità, tale defiscalizzazione venga estesa ad attività di produzione dello spettacolo, purché in gravissimo, colpevole disavanzo». Il Piccolo Teatro-Teatro d’Europa mette il bilancio sul tavolo. Pronto ad un confronto: ha superato i 20 mila abbonamenti e il 12 dicembre il Cda ha approvato all’unanimità il bilancio di previsione del 2015 e anticipato che «il consuntivo 2014 sarà, come negli ultimi quindici anni, in perfetto pareggio». «A parte un paio di fondazioni — Scala e Santa Cecilia, premiate con l’autonomia statutaria — il comparto ch’è destinatario unico di questa estensione, quello delle 14 fondazioni liriche (più i teatri musicali di tradizione), ha accumulato, come noto, oltre 390 milioni di euro di “debiti” (senza contare i 125 di aiuti di Stato aggiuntivi, nel 2014) — prosegue Escobar —. Ebbene l’emendamento di estensione dell’Art Bonus si applica proprio alle Fondazioni liriche. Vengono escluse le attività produttive che con responsabilità hanno affrontato le difficoltà economiche del Paese, che hanno mantenuto il livello di servizio al pubblico, che vengono premiate dagli spettatori (ad esempio, il Piccolo Teatro ha superato la quota dei 20 mila abbonati, superiore a quella di molte squadre di calcio) e che hanno garantito da anni il pareggio assoluto di bilancio». Il direttore del Piccolo Teatro spiega che «queste realtà virtuose si sentono più vicine a quegli imprenditori, piccoli o grandi, che non hanno esportato la sede legale e fiscale all’estero, ma affrontano la crisi economica rimboccandosi le maniche per sostenere lo sforzo di rilancio dell’Italia. Sono questi i soggetti privati ai quali si chiede di concorrere al sostegno della cultura come elemento di sviluppo del Paese con senso civico che la politica dovrebbe sostenere con coerenza». Conclude: «Viene spontaneo rivolgersi a questi privati, chiedendoci con loro se sia più giusto che investano, se possono, con il beneficio della detraibilità fiscale, in realtà capaci di produrre impunemente voragini di disavanzi, oppure se non sia più coerente con l’etica del comune impegno, che dedichino risorse alle strutture produttive sane ma, in netta contraddizione con quanto avviene in altri Paesi presi a modello, escluse dagli incentivi 50 fiscali». «Chiediamo che si premino le sane gestioni pubbliche e private che producono con efficienza» gli fa eco Shammah. A condividere delusione e timori è anche l’assessore alla Cultura di Milano Filippo Del Corno: «Chiediamo un atto di coraggio al Parlamento, perché il beneficio fiscale sia esteso davvero a tutte le realtà produttive, per metterle in competizione e perché non passi il principio che si salva solo chi ha peccato». Il riferimento è «alle tante fondazioni lirico sinfoniche che hanno accumulato una esposizione debitoria insostenibile. Si pensi al provvedimento poi ritirato di licenziamento di coro e orchestra all’Opera di Roma». Paola D’Amico 51 ECONOMIA E LAVORO del 18/12/14, pag. 5 Cgil: bene l’incontro in Sala Verde, ma la mobilitazione non si ferma An. Sci. Il direttivo. Il sindacato fa il punto sullo sciopero generale del 12 dicembre e prepara il confronto di domani con il governo. Restano le critiche su Jobs Act e legge di stabilità. Intesa con la Uil, ancora difficili i rapporti con la Cisl Direttivo della Cgil, ieri, per una valutazione sullo sciopero generale e per discutere dell’incontro previsto domani nella Sala Verde di Palazzo Chigi. Il governo ha convocato Cgil, Cisl, Uil e le imprese per discutere del Jobs Act, con l’intenzione, già annunciata dal premier Matteo Renzi, di varare i decreti delegati comunque in occasione del consiglio dei ministri della vigilia di Natale. Per il documento ufficiale del direttivo (approvato con 3 voti contrari) si aspetta oggi, ma intanto si è saputo che il giudizio sullo sciopero generale è «assolutamente positivo», e che la mobilitazione non si ferma qui, ma «continua». «Come il 25 ottobre, quelle del 12 dicembre erano piazze di lavoratori — è la riflessione della Cgil sullo sciopero della settimana scorsa — Si sono rivisti luoghi di lavoro e lavoratori che non si vedevano da tempo, e non solo di aziende in crisi. Il senso di consapevolezza che le piazze hanno sottolineato è la assoluta centralità del lavoro in tutti i suoi aspetti, cioè nel pieno dei suoi diritti e delle sue tutele, che passa dal contrasto alla legge delega, e all’importanza dell’affermazione del lavoro come risposta alla crisi». Segue un’analisi sul contesto economico e la legge di stabilità: il paese, secondo il sindacato, continua a versare in una crisi profonda senza segnali di ripresa. Tutti gli indicatori al momento sono negativi, con il tema della deflazione che caratterizzerà i prossimi tempi. La legge di Stabilità, al netto di qualche modifica positiva da valutare poi appieno — l’emendamento sui disabili, la questione delle penalizzazioni pensionistiche, la rivisitazione del taglio ai patronati — continua ad avere una caratteristica depressiva, delegando al sistema delle imprese l’“invito” a investire, regalando al contempo loro la possibilità di licenziare. Per la Cgil «non c’è traccia di politiche di sviluppo: quest’ultimo è affidato alle imprese mentre, allo stesso tempo, non c’è niente in termini di creazione e di difesa del lavoro». Quanto al Jobs Act, il contentuto resta ignoto — «è il terzo segreto di Fatima», dicono con un pizzico di ironia in Corso d’Italia . E sulla convocazione: è «indubitabile che sia il risultato della mobilitazione: lo dimostra la modalità di annuncio, ovvero da parte del premier all’assemblea del Pd, all’oscuro anche del ministro del Lavoro. Ma soltanto venerdì scopriremo il merito dei decreti, così come il valore stesso della convocazione». L’organizzazione guidata da Susanna Camusso comunque continuerà nella sua iniziativa, nella «mobilitazione per mettere al centro il lavoro, come sola strategia possibile per uscire dalla crisi». Quindi per un verso continuerà la sua battaglia sul Jobs Act e per l’altro si occuperà della gestione del provvedimento sul fronte contrattuale, «per non lasciare solo nessuno, aprendo un fronte vertenziale con le imprese». Ma la Cgil non esclude un’iniziativa giudiziaria rispetto alla delega lavoro e non esclude neanche campagne abrogative, il tutto in una logica confederale. Con la Uil i rapporti 52 «continuano a essere positivi», con la possibilità, per stare al Jobs Act, di continuare ad avere un punto di vista comune, mentre «si riscontrano ancora difficoltà con la Cisl ma non si rinuncia alla costruzione di un percorso unitario». del 18/12/14, pag. 5 Confindustria vede rosa, ma disoccupato Le previsioni per il 2015. Rapporto del centro studi: il Pil torna positivo l'anno prossimo, ma la disoccupazione continuerà a crescere. La corruzione ha causato un mancato sviluppo per 300 miliardi: "Serve una legge che tuteli chi denuncia" In uscita dalla recessione e pronta per un «graduale recupero». Ma ancora alle prese con l’emergenza disoccupazione, che continua a salire. E con la lotta alla corruzione, che frena anche il Pil. L’Italia si avvia così al nuovo anno, secondo l’ultimo rapporto del Centro studi Confindustria, questa volta dedicato proprio alla «corruzione zavorra per lo sviluppo», nel momento in cui esplode l’inchiesta Mafia capitale, nella quale la stessa Confindustria decide che si costituirà parte civile. Il Pil italiano si appresta a chiudere il 2014 con un calo dello 0,5% ma a risalire nel 2015 con un +0,5% e a proseguire nel 2016 con un +1,1%. Il 2015–2016 si prospetta, quindi, come «un biennio di graduale recupero per l’Italia». Il Pil, stima sempre il Csc, tornerà positivo già dal primo trimestre 2015 con un +0,2%. Dati che piacciono al Pd: «Sono incoraggianti, ci spingono ad andare avanti nella strada intrapresa finora, continuando ad accelerare sulle riforme», commenta il responsabile Economia, Filippo Taddei. La cattiva notizia è la disoccupazione ancora a livelli record: nel 2015 il tasso salirà dal 12,7% previsto in media per il 2014 al 12,9%, secondo il Csc, che rivede al rialzo le stime precedenti (entrambi gli anni erano al 12,5%), mentre scenderà progressivamente nel 2016 con un 12,6% in media d’anno (12,4% nel quarto trimestre). Per il 2014 il tasso di disoccupazione raggiunge addirittura il 14,2% «se si considera l’utilizzo massiccio della cig». Una «debolezza», un «deterioramento» del mercato del lavoro che si quantifica in 8,6 milioni di persone a cui manca il lavoro (tra 3,3 milioni di disoccupati a cui si aggiungono 2,6 milioni di part-time involontari, 1,7 milioni di scoraggiati e quanti sono in attesa di una risposta, oltre ai Neet). Ma a pesare sulla crescita è anche un fattore endogeno come la corruzione, considerata un «vero freno» per il progresso economico e civile. Con un bell’impatto sul Pil: «Se con Mani pulite l’Italia avesse ridotto la corruzione al livello della Francia (-1 punto)» del relativo indice, «il Pil sarebbe stato nel 2014 di quasi 300 miliardi in più (circa 5 mila euro a persona)», considerando questo arco di oltre venti anni, calcola il Centro studi dell’associazione. Confindustria, oltre a chiedere di rivedere la disciplina del falso in bilancio indica anche un «limite storico» italiano, quello di non avere mai attivato meccanismi di tutela dei dipendenti e imprenditori che denunciano episodi di corruzione, riferendosi ai cosiddetti whistleblower. Norma che è «molto probabile diventerà parte del testo di legge», afferma il ministro della Giustizia, Andrea Orlando. Tornando al fronte economico, Confindustria lancia un avvertimento sulla clausola di salvaguardia inserita in legge di stabilità (12,8 miliardi di incrementi delle imposte indirette, lo 0,8% del Pil): «Farebbe ricadere l’economia in recessione. Evitarla è quindi necessario per stabilizzare il Paese sul ritrovato percorso di crescita». 53 Del 18/12/2014, pag. 27 Scontro sui dipendenti delle Province abolite Comuni e Regioni senza fondi per assumere 20.000 esuberi. Governo sotto al Senato. Confindustria: ripresa nel 2005 ROBERTO PETRINI Maratona nella notte per la legge di Stabilità 2015 che oggi dovrebbe approdare in aula al Senato con l’obiettivo di tornare domenica 21 alla Camera per l’approvazione definitiva. Dopo il pacchetto di emendamenti del governo che hanno allargato il patto di Stabilità per le Regioni di un miliardo, ieri in Commissione Bilancio di Palazzo Madama sono stati sciolti molti degli altri nodi, dall’Irap, ai Fondi pensione, ai forfait per i redditi “minimi”, all’allentamento della stretta sui patronati. Ma sì è registrato anche un incidente per il governo che è andato sotto nel voto in Commissione: è stato approvato con un voto di scarto un emendamento, a firma Luciano Uras (Sel), che stanzia 5 milioni a favore delle scuole elementari e medie inferiori della Sardegna danneggiate dall'alluvione, su cui governo e relatore avevano espresso parere contrario. Intanto arriva il pacchettoterremoti: dopo Catania 1990, entrano in “Finanziaria” Abruzzo, Emilia Romagna e alluvione di Genova. Le case crollate all’Aquila non dovranno pagare la Tasi. Salta invece, perché dichiarato non ammissibile, l’emendamento del governo sulla moratoria per il controllo delle armi sceniche per facilitare le riprese del film «007» a Roma. Manovra e congiuntura: vede «rosa » per il prossimo biennio la Confindustria, con Pil in leggera risalita. Ieri è scoppiato il caso dei 20 mila dipendenti delle Province che, dopo l’abolizione, cioè la perdita di funzioni e di organi elettivi, si troveranno dal prossimo anno con esuberi di personale. La Stabilità prevede due anni di mobilità e poi l’ingresso nella disponibilità della pubblica amministrazione: dunque o il trasferimento in altri ambiti pubblici o il licenziamento. I sindacati Cgil-Cisl-Uil sono sul piede di guerra ma anche l’Anci, le Province e le Regioni. L’idea del governo è di trasferire 8.000 dipendenti al ministero del Lavoro e i restanti 12 mila alle Regioni e ai Comuni. L’Anci tuttavia teme che in prima battuta i dipendenti vengano scaricati sui Comuni e solo successivamente allo Stato, alle Università, alle agenzie o agli enti pubblici economici. Su tutto regna l’incertezza sulle risorse per assumere i 20 mila: enti locali e Regioni al momento non hanno disponibilità. Viene invece risolto il nodo dell’Irap per 1,4 milioni di aziende che non hanno dipendenti: l’abolizione dall’imponibile del costo del lavoro ha infatti favorito la maggior parte delle aziende ma non quelle senza dipendenti che al tempo stesso hanno visto tornare l’aliquota, ridotta prima dell’estate al 3,5 per cento, al livello del 3,9. Soluzione anche per il problema dei «minini» per le partite Iva che, prima della legge di Stabilità, avevano un forfait del 5 per cento Irpef sotto i 30 mila euro di ricavi. La “Stabilità” alla Camera ha portato l’imposta sostitutiva al 15 per cento e ha elevato le soglie per alcune categorie fino a 40 mila euro. Un emendamento del relatore Santini (Pd), porta la soglia uguale per tutti a 20 mila euro. Parziale accordo sulla tassazione dei Fondi pensione e le Casse di previdenza: la tassazione era stata portata dal governo dall’11 al 20 per i Fondi e dal 20 al 26 per le Casse. Dopo proteste e polemiche scenderà, ma solo nel caso di investimenti in attività produttive: al 12 per i Fondi e al 20 per le Casse. In tutti gli altri casi resta uguale, come resta invariato l’aumento della tassazione del Tfr dall’11 al 17 per cento. 54 Del 18/12/2014 – pag. 9 Fondi pensione, «sconto» sulle tasse se investiranno in opere pubbliche Jobs act, arriva l’indennizzo minimo (tre mesi) per i licenziamenti economici ROMA - Prelievo più basso su fondi pensione e casse previdenziali a condizione che investano in opere pubbliche. Sterilizzazione dell’aumento dell’Irap per gli autonomi. Meno tagli al salario di produttività e ai patronati. Al Senato la commissione Bilancio chiude sulla legge di Stabilità che dovrebbe arrivare in Aula stamattina e essere approvata con fiducia domani. L’iter dovrebbe concludersi lunedì alla Camera, dove si lavorerà nel fine settimana. In serata ultimo «incidente»: il governo è stato battuto, passa un emendamento di Sel che stanzia 5 milioni per le scuole della Sardegna danneggiate dall’alluvione. Per le casse previdenziali e i fondi pensione che facciano investimenti infrastrutturali, individuati da un decreto del Tesoro, un credito d’imposta compenserà il previsto incremento delle tasse sui redditi (dal 20% al 26%) e sul risultato netto maturato dei fondi pensione (dall’11,5% al 20%). Costo: 80 milioni dal 2016. Scendono da 150 a 35 i tagli per i patronati e da 238 milioni a 208 quelli al Fondo sgravi contributivi per i contratti di secondo livello. Esclusi dalle agevolazioni del nuovo regime dei «minimi» i soggetti con redditi da lavoro, dipendenti e assimilati, prevalenti rispetto ai redditi oggetto di agevolazione, ad eccezione di coloro per cui la somma di tali redditi non superi 20 mila euro. Infine una manciata di finanziamenti: 8 milioni agli alluvionati di Genova, 6,5 all’Unione ciechi, 5 al fondo famiglia per le adozioni internazionali e stop alla Tasi per le case crollate con il terremoto dell’Aquila. Intanto il governo ha quasi definito il primo decreto attuativo del Jobs act . Scartata la richiesta del ministro Giuliano Poletti di un indennizzo minimo pari a sei mesi di stipendio per i licenziamenti economici, a prescindere dall’anzianità di servizio. La soglia sarà probabilmente di tre mensilità. Ma nella categoria dei licenziamenti economici, che non prevede il reintegro, dovrebbero rientrare anche quelli per scarso rendimento. Sui licenziamenti disciplinari difficile il ricorso all’opzione aziendale, cioè la possibilità per l’azienda di superare il reintegro del giudice con un indennizzo più alto. Il reintegro stesso, però, sarà possibile solo se il licenziamento era stato deciso sulla base di un fatto materiale insussistente e, forse, se l’azienda ne era a conoscenza. Le nuove regole saranno estese alle aziende sotto i 16 dipendenti, ma con indennizzi dimezzati. Problemi di copertura per la nuova Aspi, l’ammortizzatore di 24 mesi da estendere ai collaboratori . La Ragioneria chiede di procedere per gradi. Antonella Baccaro Lorenzo Salvia del 18/12/14, pag. 10 Una nuova moneta fiscale contro la crisi Enrico Grazzini, Stefano Sylos Labini 55 Depressione. Una proposta alternativa (compatibile con i vincoli del sistema dell’euro), di Luciano Gallino e altri economisti per risollevare l’economia nazionale Ce lo insegna J. M. Keynes: per uscire dalla trappola della liquidità occorre creare nuova domanda. Ma l’Unione Europea e l’euro alimentano austerità e deflazione: dunque occorre che lo stato italiano crei un nuovo tipo di moneta nazionale. Il governo di Matteo Renzi cerca, a parole, di rilanciare l’economia dando l’illusione che la nuova finanziaria sia espansiva: in realtà però Renzi segue i diktat della Commissione Ue. Quindi taglia il welfare, riduce i costi del lavoro, aumenta le tasse. La crisi dell’euro potrebbe anche precipitare nella depressione o nel caos. Il problema è che le risorse produttive (lavoro e capitale) sono fortemente sottoutilizzate perché manca la domanda. I redditi scendono, la disoccupazione sale, molte aziende chiudono e le banche non fanno più credito. Ma lo stato non può fare investimenti perché aumenterebbe il debito pubblico. La Bce cerca in molti modi di dare ossigeno alla moribonda economia europea per salvare l’euro (e sé stessa). Le banche però non investono nell’economia reale ma nei più remunerativi titoli finanziari. L’economia quindi non riparte. Occorre allora che lo stato italiano prenda autonomamente l’iniziativa di creare nuova domanda e nuova moneta bypassando le banche. E’ necessario riprendere almeno un po’ di sovranità monetaria, anche per creare le condizioni di un nuovo controllo democratico sull’economia. Per uscire dalla trappola della liquidità, Biagio Bossone, Luciano Gallino, Marco Cattaneo, e gli autori di questo articolo hanno lanciato un appello “Risolviamo la crisi dell’Italia: adesso! Uscire dalla depressione con l’emissione di moneta statale a circolazione interna”. L’appello, pubblicato sul sito dell’Associazione Paolo Sylos Labini, propone che lo stato italiano emetta direttamente e gratuitamente a favore dei lavoratori (occupati, disoccupati e pensionati) e delle imprese dei Certificati di Credito Fiscale (Ccf) ad uso differito che lo Stato si impegna ad accettare dopo due anni dalla loro emissione per il pagamento di tasse, contributi, tariffe, multe alla pubblica amministrazione. Più precisamente, la nostra idea è quella di assegnare gratuitamente circa 70 miliardi di Ccf ai lavoratori e altri 50 miliardi per finanziare un New Deal di opere pubbliche per la cura dell’ambiente, per l’occupazione giovanile e femminile, per forme di reddito garantito, per l’energia verde. Altri 80 miliardi dovrebbero essere distribuiti alle aziende per abbattere del 18% il costo del lavoro e recuperare il gap competitivo con la Germania, in modo da mantenere l’equilibrio della bilancia commerciale, aumentare gli investimenti e rilanciare l’occupazione. Lo Stato creerebbe fino a 200 miliardi di Ccf in tre anni e cioè una “quasi moneta” nazionale parallela all’euro. In tal modo aumenterebbe la domanda senza chiedere soldi sul mercato (espansione del debito). Solo l’emissione massiccia di una nuova moneta fiscale potrebbe rilanciare l’economia italiana che dall’inizio della crisi ha perso 11 punti di Pil e ha visto cadere la produzione industriale del 25%. Un disastro di proporzioni inaudite che a causa della folle politica europea rischia di prolungarsi all’infinito. Questo piano contrasta l’austerità deflattiva ma resta dentro l’euro. Riteniamo infatti che un’uscita unilaterale dall’euro, propugnata da economisti come Alberto Bagnai e da forze politiche come la Lega di Salvini e anche il M5S di Grillo, avrebbe esiti molto pericolosi. La rottura sarebbe problematica: centinaia di miliardi di euro sono infatti detenuti come valuta di riserva da tutti i paesi del mondo, come Cina, Russia, India. L’uscita unilaterale dell’Italia dall’euro sarebbe contrastata da tutti e provocherebbe traumi geopolitici imprevedibili; inoltre molti cittadini italiani sono contrari all’uscita per il timore di vedere svalutati i loro risparmi. Le nostre proposte dunque intendono presentare un’alternativa praticabile per risollevare l’economia italiana e sono compatibili con i vincoli (iniqui e stupidi) del sistema dell’euro, 56 perché la Bce ha il monopolio sull’emissione di moneta corrente ma non sulla creazione di titoli di stato, come sono i Ccf che proponiamo. Inoltre gli stati europei sono sovrani in campo fiscale e hanno il diritto di fare sconti fiscali. E i Ccf non costituiscono debito. Quindi l’emissione di Ccf non infrange i trattati europei anche se siamo coscienti che le resistenze politiche potrebbero essere fortissime. Dentro (purtroppo!) l’euro, ma oltre l’euro. Ma come funzionerebbe la nuova moneta? I Ccf sarebbero immediatamente scambiati sul mercato finanziario come qualunque altro titolo statale. Si creerebbe un mercato in cui, in cambio di euro, i lavoratori e le aziende in crisi di liquidità cederebbero (a sconto) i Ccf alle aziende e ai privati che hanno bisogno di crediti fiscali e che hanno la liquidità per acquistarli. La nuova moneta aumenterebbe subito la capacità di spesa complessiva ma non genererebbe debito pubblico. Infatti il calo delle entrate pubbliche che si verificherebbe alla scadenza dei Ccf, grazie al moltiplicatore fiscale verrebbe più che compensato dall’aumento dei ricavi fiscali prodotto dal forte recupero del Pil generato dall’aumento della domanda dovuto all’utilizzo dei Ccf. Oggi infatti le risorse produttive (capitale e lavoro) sono fortemente sottoutilizzate ed esistono quindi ampi margini di recupero del Pil. Con la crescita del Pil, il deficit e il debito pubblico diventerebbero sostenibili. E soprattutto aumenterebbe l’occupazione: e questo segnerebbe davvero l’uscita dalla crisi. 57
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