RASSEGNA STAMPA

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giovedì 18 dicembre 2014
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del 18/12/14, pag. 10
Appello: Syriza, cambia la Grecia, cambia
l’Europa
Appello. "Chiediamo a chiunque abbia a cuore la democrazia, la
coesione sociale e la giustizia di sostenere il diritto del popolo greco a
scegliere liberamente il proprio futuro"
La Grecia ha fatto in questi anni da cavia per la cancellazione dello stato sociale e dei
diritti democratici in Europa. I pacchetti di “salvataggio” dei memorandum hanno salvato
solo le banche tedesche ed europee, impoverito la gente e aggravato la disoccupazione
rendendola di massa.
Le conseguenze delle politiche della Troika smentiscono tutte le falsità usate per imporre
l’austerità in Europa. Il Paese è ridotto allo stremo, il popolo ai limiti della sopravvivenza e
in piena emergenza umanitaria e intanto il debito invece di diminuire è alle stelle. In Grecia
le vittime dell’austerità si sono ribellate ai diktat della Troika. I lavoratori senza più diritti e
quelli senza più lavoro, gli studenti, i pensionati, i professionisti, le casalinghe si sono
alleati e hanno dato vita ad una straordinaria resistenza pacifica, democratica e popolare
che è di esempio per tutta l’Europa.
Syriza, il partito della sinistra, ha saputo raccogliere questa grande spinta popolare. Oggi è
in testa in tutti i sondaggi e se, come sembra possibile e probabile, si andrà a votare per il
fallimento dell’attuale coalizione delle grandi intese, Syriza potrà comporre un nuovo
governo. Alexis Tsipras ha un programma chiaro: restare in Europa per cambiare l’Europa.
Il suo governo chiederà una conferenza europea per la ristrutturazione del debito, che
riguarda la maggior parte dei paesi europei; la fine delle politiche di austerità, con
l’abrogazione del fiscal compact; un piano europeo per il lavoro e la salvaguardia
dell’ambiente.
Altro che politica anti-euro e antieuropea, come cercano di descriverla i principali mezzi di
informazione del continente per giustificare l’attacco dei mercati, diffondere paura fra gli
europei, condizionare gli elettori e le elettrici in Grecia e confondere le proposte della
Sinistra con i populismi xenofobi, razzisti e neofascisti. Tsipras si è impegnato a prendere
provvedimenti immediati e sostanziali, cancellando le scelte imposte da Bruxelles,
Francoforte e Berlino, per migliorare da subito le condizioni sociali dei cittadini, come il
ripristino del salario minimo ai livelli prima della crisi e dei contratti collettivi. Il cambio del
governo in Grecia può essere l’inizio per rifondare l’Europa sui valori dei diritti, della
democrazia e della solidarietà.La vittoria di Syriza, e il governo di Tsipras in Grecia
potranno dimostrare che i cittadini possono battere le politiche neoliberiste e le destre che
infettano il nostro continente.
Possono dimostrare, già oggi, che la strada dell’austerità non è ineluttabile, se il voto si
lega alle lotte per i diritti, alla partecipazione popolare e a una nuova dimensione europea
delle coalizioni sociali.
Il nostro impegno, di fronte alla campagna di disinformazione e all’attacco dei mercati
finanziari, è di fare conoscere le vere proposte di Syriza e di sostenere la sua iniziativa. Le
Borse, la finanza, la Troika, con la complicità del sistema mediatico, già mettono in campo
la loro potenza per condizionare il voto greco. Non sarà risparmiato nulla.
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Chiediamo a chiunque abbia a cuore la democrazia, la coesione sociale e la giustizia di
sostenere il diritto del popolo greco a scegliere liberamente il proprio futuro. E’
responsabilità di tutti noi fermare la marcia verso il disastro e cambiare la direzione
dell’Europa, che con le attuali politiche rischia di implodere. È responsabilità di tutti noi
sostenere chi vuole ricostruire l’Europa con i suoi cittadini e le sue cittadine.
Firmatari dell’appello
Maurizio Acerbo, Vittorio Agnoletto, Giorgio Airaudo, Piergiovanni Alleva, Gaetano
Azzariti, Etienne Balibar, Fulvia Bandoli, Andrea Baranes, Riccardo Bellofiore, Marco
Berlinguer, Marco Bersani, Fausto Bertinotti, Piero Bevilacqua, Fabrizio Bocchino,
Raffaella Bolini, Aldo Bonomi, Sergio Brenna, Alberto Burgio, Enrico Calamai, Andrea
Camilleri, Francesco Campanella, Aldo Carra, Luca Casarini, Luciana Castellina, Paolo
Cento, Francesca Chiavacci, Domenico Megu Chionetti, Paolo Ciofi, Pippo Civati, Virgilio
Dastoli, Giuseppe De Marzo, Michele De Palma, Loredana De Petris, Tommaso Di
Francesco, Nicoletta Dosio, Fausto Durante, Anna Falcone, Antonello Falomi, Roberta
Fantozzi, Stefano Fassina, Tommaso Fattori, Thomas Fazi, Luigi Ferrajoli, Gianni Ferrara,
Paolo Ferrero, Goffredo Fofi, Eleonora Forenza, Nicola Fratoianni, Mauro Gallegati,
Luciano Gallino, Francesco Garibaldo, Alfonso Gianni, Paul Ginsborg, Claudio Gnesutta,
Alfiero Grandi, Claudio Grassi, Enrico Grazzini, Fabio Grossi, Leo Gullotta, Antonio
Ingroia, Francesca Koch, Raniero La Valle, Guido Liguori, Loredana Lipperini, Curzio
Maltese, Fiorella Mannoia, Laura Marchetti, Giulio Marcon, Lorenzo Marsili, Stefano
Maruca, Citto Maselli, Ugo Mattei, Giovanni Mazzetti, Sandro Medici, Corradino Mineo,
Filippo Miraglia, Tomaso Montanari, Elena Monticelli, Roberto Morea, Roberto Musacchio,
Grazia Naletto, Olga Nassis, Maso Notarianni, Corrado Oddi, Moni Ovadia, Argiris
Panagopoulos, Luigi Pandolfi, Bruno Papignani, Giorgio Parisi, Valentino Parlato, Valeria
Parrella, Gianpaolo Patta, Livio Pepino, Tonino Perna, Riccardo Petrella, Paolo
Pietrangeli, Paolo Pini, Nicoletta Pirotta, Felice Roberto Pizzuti, Adriano Prosperi,
Alessandra Quarta, Christian Raimo, Norma Rangeri, Ermanno Rea, Marco Revelli,
Claudio Riccio, Rosa Rinaldi, Gianni Rinaldini, Annamaria Rivera, Mimmo Rizzuti, Giulia
Rodano, Stefano Rodotà, Umberto Romagnoli, Roberto Romano, Franco Russo, Mario
Sai, Bia Sarasini, Arturo Scotto, Peppe Servillo, Toni Servillo, Giuliana Sgrena, Assunta
Signorelli, Anna Simone, Barbara Spinelli, Sergio Staino, Gino Strada, Marina Terragni,
Massimo Torelli, Lanfranco Turci, Nicola Vallinoto, Nichi Vendola, Guido Viale, Vincenzo
Vita, Lorenzo Zamponi, Filippo Zolesi, Alberto Zoratti.
Da Redattore Sociale del 17/12/14
Dal gioco alla schiavitù. La dipendenza da
azzardo vista dai giovani videomaker
Si chiama “Quando il gioco si fa duro…” il video vincitore del concorso
“Con l’azzardo non si vince… scommetti sulla creatività”. Lacche
(Libera Radio): “La ludopatia distrugge non solo il giocatore ma anche i
suoi rapporti con gli altri”
BOLOGNA - Si comincia per gioco e si finisce schiavi del gioco. È il senso del concorso
“Con l'azzardo non si vince… scommetti sulla creatività!” conclusosi oggi, 17 dicembre, a
Bologna al Parco della Montagnola dove sono stati premiati i migliori tre video realizzati da
giovani videomaker sul tema dell’azzardo. Venti spot in tutto sul tema della ludopatia, una
dipendenza che in Emilia-Romagna colpisce circa 10mila persone senza distinzioni di
sesso, età o ceto sociale. Ai giovani video maker è stato chiesto di rappresentare il
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demone del gioco e le conseguenze che può avere sulla vita delle persone e sui rispettivi
familiari o amici. Il concorso fa parte di “Associati con chiarezza”, un progetto sostenuto da
Acli, Aics, Ancescao, Anspi, Arci, Auser, Csi, Endas, Uisp, Mcl e Fitel in collaborazione
con la Regione Emilia-Romagna. Il primo premio è andato a “Quando il gioco si fa duro…”
del gruppo Emisfero digitale. “Nel video abbiamo cercato di sottolineare come la
dipendenza dal gioco non nasce all’improvviso – racconta Luigi Zambonelli, regista del
corto – ma si sviluppa lentamente. Giocando con i suoni, i 5 ragazzi hanno raccontato la
storia di un giovane giocatore che davanti a uno schermo passa le ore a inseguire vincite
che non arriveranno mai. E di come lentamente il ragazzo comincia a escludere tutto ciò
che riguarda il mondo esterno. “Una chiamata di un amico che lo invita a uscire di casa, il
bussare alla porta dei genitori preoccupati, il rumore della sigaretta sul posacenere –
continua Luigi – sono solo alcuni dei suoni della vita quotidiana che lentamente vanno
scemando, fino ad arrivare alla scena finale in cui lui indossa delle cuffie per isolarsi del
mondo che lo circonda”.
del 18/12/14, pag. II
Ancora una volta per il manifesto
Luciana Castellina
Cari compagni, è inedito scriversi fra di noi: abbiamo lavorato troppo a lungo assieme per
aver dovuto ricorrere alla corrispondenza per comunicare. Ci si parlava, e basta.
Non è più così da non poco tempo, e per circostanze che per ciascuno di noi sono state
diverse nei tempi e nei modi, ma che hanno in comune analoghe ragioni: l’esser venuto
meno il collettivo di cui tutti ci siamo sentiti parte integrale.
Quel tipo di rapporto probabilmente non si creerà più, per ovvie ragioni generazionali, ma
anche – lo sappiamo tutti – per via delle divisioni, politiche e editoriali, che ci hanno
reciprocamente allontanato in questi ultimi tempi.
Sebbene io abbia ripreso a scrivere sul giornale, non per questo faccio parte del collettivo
che lo fa e ne è responsabile; e che ne porta anche il non irrilevante peso.
Se ora vi scrivo non è per riaprire un dibattito, che certo sarebbe utile ma dovrà avere altri,
più lunghi e impegnativi itinerari che non una missiva come questa.
Se scrivo ora è per un motivo più importante e urgente: la sorte di questo giornale di cui
anche io con altri, alcuni purtroppo defunti, siamo stati fra i fondatori, così come alcuni fra i
più anziani di voi dell’attuale redazione.
Scrivo per dirvi che farò, e cercherò di far fare, quanto è possibile per aiutare l’acquisto
della testata «il manifesto» da parte della nuova cooperativa, che ha avuto il merito di
garantire l’uscita del giornale dopo il fallimento della vecchia cooperativa, e per mobilitare
a questo fine anche i tanti che in questi ultimi anni si sono allontanati — o perché al
giornale non collaborano più, o perché non lo leggono e non lo sentono più come «loro» –
affinché questa storia più che quarantennale non abbia a morire.
Non si tratta solo di preservare un oggetto di antiquariato, e a muovermi non è la nostalgia
(anche se un po’ sì, è stata una bella storia!), ma la attualissima consapevolezza che «il
manifesto» tutt’ora è – ci è – indispensabile. Tanto più in un tempo politico che sentiamo
tutti grave, ma che è anche ricco di nuove energie che di un punto di riferimento, un luogo
di incontro hanno più che mai bisogno per non disperdersi.
Allego bonifico di mille euro.
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LE CAMPAGNE
del 18/12/14, pag. 5
LA CAMPAGNA FIRME
Camusso-Landini-Rodotà a Roma contro il
pareggio
In occasione della giornata nazionale di raccolta firme per la proposta di legge di iniziativa
popolare per l’abrogazione del pareggio di bilancio in Costituzione, oggi a Roma si terrà un
incontro pubblico con Susanna Camusso, segretaria generale Cgil, il costituzionalista
Stefano Rodotà e Maurizio Landini, segretario generale Fiom. Coordina la direttrice del
manifesto Norma Rangeri (ore 17,30, Auditorium via Rieti). L’obiettivo della campagna
«Col pareggio ci perdi», iniziata il 15 ottobre, è quello di consegnare alla Camera almeno
50 mila firme entro il 15 aprile. Intanto si sono formati comitati locali in tutta Italia e sono
già state raccolte migliaia di firme. La proposta di legge prevede non solo la cancellazione
del pareggio di bilancio, ma anche la salvaguardia dei diritti fondamentali nelle scelte di
spesa pubblica e di bilancio dello Stato. All’iniziativa saranno presenti molti dei promotori e
dei sostenitori della campagna.
Del 18/12/2014, pag. XXI RM
APPUNTAMENTI
Col pareggio ci perdi
CANCELLIAMO IL PAREGGIO DI BILANCIO
Alle 17. 30 si terrà l’incontro pubblico per discutere della proposta di legge di iniziativa
popolare.
Con Susanna Camusso, Stefano Rodotà, Maurizio Landini. Auditorium di via Rieti 13.
Da AskaNews del 18/12/14
Stop a pareggio bilancio in Costituzione, oggi
incontro a Roma
Roma, 18 dic. (askanews) - In occasione della giornata nazionale di raccolta firme per la
proposta di legge di iniziativa popolare per l'abrogazione del pareggio di bilancio in
Costituzione - si terrà oggi alle 17.30 a Roma, presso l'auditorium di via Rieti 13, un
incontro pubblico sulla Campagna "Col pareggio ci perdi" con Susanna Camusso,
segretaria generale Cgil, il costituzionalista Stefano Rodotà e Maurizio Landini, segretario
generale Fiom. Coordina la giornalista Norma Rangeri.
L'obiettivo della campagna "Col pareggio ci perdi", iniziata il 15 ottobre, è quello di
consegnare alla Camera almeno 50.000 firme entro il 15 aprile. Intanto, si riferisce in una
nota, si sono formati comitati locali in tutta Italia e sono già state raccolte migliaia di firme.
La proposta di legge prevede non solo la cancellazione del pareggio di bilancio, ma anche
la salvaguardia dei diritti fondamentali nelle scelte di spesa pubblica e di bilancio dello
Stato.
All'iniziativa saranno presenti molti dei promotori e dei sostenitori della campagna.
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del 18/12/14, pag. 6
CITTADINANZA
«Un Paese diverso è possibile?»
Un incontro oggi a Roma
«Un Paese diverso è possibile?». Un incontro pubblico a Roma oggi, giovedì 18 dicembre
alle 16 alla Sala Aldo Moro della Camera dei deputati per fare il punto sull’iter legislativo
della Riforma della cittadinanza. L’incontro è promosso dalla Campagna «L’Italia sono
anch’io», promossa dalle principali organizzazioni sociali impegnate nel campo dei diritti
dei migranti, in occasione della Giornata internazionale dei diritti dei migranti e delle loro
famiglie. Saranno presenti, tra gli altri, la presidente della Camera Laura Boldrini e il
sottosegretario alla presidenza del Consiglio Graziano Delrio.
Da Avvenire del 18/12/14, pag. 12
L'intervento. Migrantes: «Sulla tratta non
abbassare la guardia»
RAFFAELE IARIA
A circa 25 anni dall'adozione, da parte dell'Onu, della Convenzione internazionale per la
tutela dei diritti dei lavoratori migranti e delle loro famiglie, anche in Italia si assiste a una "
crescita" di fenomeni di tratta e di sfruttamento dei lavoratori immigrati, «complice la crisi».
Lo afferma il direttore generale della Fondazione Migrantes, monsignor Giancarlo Perego,
auspicando che la giornata odierna dedicata a questo anniversario ricordi a tutti «la
necessità di tutelare» i lavoratori, anche coloro che provengono da altri Paesi e i circa 2
milioni di lavoratori italiani all'estero. Per il sacerdote «occorre non abbassare la guardia
attorno a gravi fenomeni di tratta nel mondo lavorativo che interessano migliaia di
lavoratori immigrati e su cui lucrano diversi clan mafiosi: Rosarno, Castelvolturno, Prato,
sono nomi di città che ci ricordano ancora oggi questo dramma». Nell'ambito dello
sfruttamento lavorativo, aggiunge il direttore di Migrantes, «si nascondono pieghe che
riguardano il contratto, la retribuzione, il diritto al riposo settimanale soprattutto nel
comparto agricolo e dei servizi, insomma i diritti fondamentali dei lavoratori», E oggi
pomeriggio, in occasione della Giornata, i promotori della Campagna L'Italia sono anch'io,
promossa dalle principali organizzazioni sociali impegnate nel campo dei diritti dei
migranti, organizzano un incontro pubblico alla Camera dei Deputati per richiamare
l'attenzione su due proposte di legge di iniziativa popolare, depositate in Parlamento tre
anni fa, con la raccolta di più di 200mila firme. Il primo testo introduce il diritto di voto alle
elezioni amministrative per gli stranieri residenti da 5 anni. H secondo propone una riforma
della legge sulla cittadinanza, che contiene, tra l'altro, l'introduzione dello ius soli.
All'incontro, dopo i saluti del presidente della Camera Laura Boldrini, interverrà, fra gli altri,
Graziano Delrio, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio.
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Da Redattore Sociale del 18/12/14
Un Paese diverso è possibile? A che punto è
la riforma della legge sulla cittadinanza Incontro pubblico
Data: 18 dicembre 2014
Luogo: Camera dei Deputati, Sala Aldo Moro
Organizzatore: Campagna L’Italia sono anch’io
Comune: Roma
L'incontro della campagna L’Italia sono anch’io, promossa dalle principali organizzazioni
sociali impegnate nel campo dei diritti dei migranti, ha l'obiettivo di "verificare a che punto
è l’iter legislativo della riforma della cittadinanza, data l’urgenza di arrivare al più presto
all’introduzione di regole più giuste e adeguate alle nuove dinamiche che coinvolgono le
nostre comunità".
Da il Salvagente del 18/12/14, pag. 49
Campagne
Firme per una Difesa civile
Punta a raccogliere almeno 50miìa firme entro lo fine di maggio "Un'altra Difesa è
possibile", la campagna, appena avviata per la proposta di legge di iniziativa popolare
"Istituzione e modalità di finanziamento del Dipartimento della Difesa civile, non armata e
nonviolenta". Obiettivo dei promotori è la piena attuazione dell'art. 52 della Costituzione
("sacro dovere della difesa della patria") con l'istituzione di forme di difesa civile e
nonviolenta in coerenza con l'art. 11 della nostra Carta ("ripudio della guerra"), in concreto,
si tratta di comprendere in un dipartimento i Corpi civili di pace e l'Istituto di ricerche sulla
pace e il disarmo prevedendo forme di collaborazione con i dipartimenti della Protezione
civile, dei Vigili del fuoco e della Gioventù e del Servizio civile nazionale.
I promotori sono: Conferenza nazionale enti Servizio civile, Forum nazionale per il Servizio
civile, Rete della pace, Rete italiana per il disarmo, Sbilanciamoci!, Tavolo interventi civili
dì pace.
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ESTERI
del 18/12/14, pag. 1
Prove tecniche di sbloqueo
Roberto Livi
L'AVANA
Cuba-Usa. Storico scambio di «prigionieri» e impegno a riallacciare le
relazioni diplomatiche dopo 52 anni di «bloqueo» statunitense.
Washington ammette: «L’embargo ha fallito, somos todos americanos».
Determinante l’apporto del Vaticano. L’inizio della fine di un’era
In contemporanea, il presidente cubano Raúl Castro e lo statunitense, Barack Obama,
hanno annunciato l’inizio di negoziati per la riapertura di sedi diplomatiche e in prospettiva,
dopo più di cinquant’anni di conflitto, per la ripresa di relazioni diplomatiche piene e la fine
dell’embargo unilateralmente decretato da Washington.
Sempre in contemporanea è stata annunciata la liberazione «per motivi umanitari» del
“contrattista” statunitense di Usaid, il 65enne Alan Gross, condannanto a Cuba nel 2009 a
15 anni di prigione per «sovversione». Da parte loro, gli Usa mettono in libertà , Gerardo
Hernández, Ramón Labañino, Antonio Guerrero, condannati a larghe pene (tra i 20 anni e
l’ergastolo) negli Usa per «spionaggio» e a Cuba definiti «eroi» e «combattenti
dell’antiterrorismo». Due loro compagni, René González e Fernando González, sono
attualmente in libertà a Cuba dopo aver scontato l’intera pena in carceri statunitensi.
Il senso storico di tali misure è stato sottolineato dai media americani – per la Cnn si tratta
«del cambio più profondo della politica Usa nei confronti di Cuba dall’inizio dell’embargo»
nel 1962 — sia da analisti a Cuba. Ma è soprattutto dalle parole dei due presidenti– che
martedì hanno avuto una conversazione telefonica diretta — che si avverte l’inizio della
fine di un’era nelle relazioni tra i due Paesi.
Obama ha ammesso che sia l’embargo, sia le varie iniziative «coperte» per provocare un
cambio di governo a Cuba, sono fallite e che nell’isola il governo socialista ha iniziato una
serie di riforme. Raúl, dal canto suo, ha affermato che da anni il fratello Fidel aveva
chiesto agli Stati Uniti di usare la via del dialogo per risolvere i contenziosi e affrontare le
differenze di vie politiche. Il presidente cubano ha ribadito la piena disponibilità a discutere
di ogni tema, purché il dialogo avvenga su base di uguaglianza e nel rispetto della
sovranità nazionale dell’isola. Ma ha pubblicamente ringraziato Obama, riconoscendone il
merito di aver iniziato una rottura storica nella politica statunitense e soprattutto di sapersi
svincolare dai condizionamenti della potente lobby anticastrista di Miami. Il più giovane dei
Castro, ha ringraziato il Vaticano e lo stesso papa Francesco per l’opera di mediazione in
favore del dialogo, riconoscendo così il peso della Chiesa anche nell’isola, e ha anche
reso grazie ai buoni uffici prestati dal Canada.
Per Cuba è senza dubbio una vittoria. Cinque anni fa Fidel aveva preso un impegno
personale nei confroni dei cubani. «Volveran», ritorneranno, aveva detto riferendosi ai
«cinque eroi» incarcerati negli Usa. Oggi ha mantenuto la sua promessa. Ma ancora di
più, Cuba ha dimostrato che un piccolo popolo può tenere testa a una grande potenza,
anche se questo costa più di cinquant’anni di conflitto e un blocco economico che, come
ha affermato Raúl, ha avuto «costi immensi» per l’isola e ha comportato enormi difficoltà
per i suoi cittadini. Oggi i cubani possono stare a testa alta.
Alan Gross è stato trasportato ieri mattina da un aereo governativo alla base militare di St
Andrew in Maryland. Accompagnato dal senatore Pat Leahy (più volte si era espresso
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contro l’embargo), dal deputato Christopher Van Hollen e dalla moglie Judith Gross. Il
“contrattista” ha trascorso gli ultimi mesi «nell’ospedale militare Finlay all’Avana. Una serie
di personalità americane, ultimo l’ex presidente Bill Clinton, avevano infatti affermato che il
caso Gross costituiva «il principale ostacolo per giungere a un miglioramento delle
relazioni tra Washington e l’Avana» e a «un indebolimento»o alla fine del blocco Usa. A
giugno, dopo la morte della madre di Gross, il governo cubano aveva formalmente
proposto di scambiare Gross con i tre dei «cinque eroi» tutt’ora incarcerati negli Usa.
L’iniziativa cubana era stata apprezzata da una serie di politici americani e sostenuta dal
New York Times.
In queste prese di posizione, ferocemente osteggiate dai gruppi anticastristi cubani di
Miami e dalla loro rappresentanza politica ad altissimo livello, specie nelle file
repubblicane, veniva riconosciuto che non solo era lecito scambiare i prigionieri, ma che
questa decisione avrebbe potuto servire appunto per mettere fine a una politica Usa nei
confronti di Cuba che in più di cinquant’anni non ha dato alcun risultato.
Inoltre veniva riconosciuto un fatto ampiamente provato: la politica di ingerenza e di
governement changing attuata a Cuba dai servizi segreti americani avvalendosi di
istituzioni formalmente umanitarie, come Usaid. Negli ultimi mesi sono rivelati i piani per
mettere in piedi una sorta di Twitter cubano, soprannominato Zunzuneo, di inviare giovani
latinoamericani nell’isola e infine di usare rapper cubani per creare un
movimento,soprattutto giovanile, contro il governo cubano. Tutti tentativi «condotti con
poca professionalità» e falliti.
Anche Gross, secondo fonti cubane, era inserito in questi piani e la sua missione
“umanitaria”, assistere la piccola comunità ebraica cubana, mascherava invece l’ingresso
– illegale — di materiale informatico capace di violare i controlli della sicurezza cubana.
Una palese e illegale ingerenza nella poltica di uno Stato sovrano, sanzionata nel Codice
penale di qualsiasi parte del mondo.
I «cinque eroi» cubani furono condannati per «spionaggio» per aver infiltrato la
«dissidenza» cubano-americana di Miami – i cui leader sono in realtà ispiratori o autori di
attentati terroristici in territorio cubano e contro un jet di linea cubano che costarono decine
di vittime, tra le quali l’italiano Fabio di Celmo. I loro processi furono condotti in Florida
senza che fosse garantita alcuna imparzialità e con alcuni giornalisti americani pagati «per
creare un ambiente ostile» nei confronti dei cinque cubani.
La liberazione di Gross e – come annunciato da Raúl — di una cinquantina di prigionieri
politici, tra i quali vari implicati – secondo fonti ufficiose — in atti di spionaggio e rivelazioni
di segreti di Stato assieme al permesso alla Croce Rossa di accedere alle carceri
dell’isola, rende possibile anche un altro evento storico: il prossimo incontro (in aprile a
Panama) al vertice dell’Organizzazione degli Stati americani di Obama e Raúl Castro. Per
cinquant’anni gli Usa hanno obbligato i latinoamericani a mettere al bando Cuba, ora dopo
una forte pressione della quasi totalità dell’America latina, Raúl potrà tornare e farlo come
protagonista, incontrando e discutendo con Obama.
«Il blocco economico statunitense deve cessare», ha affermato il presidente cubano nel
suo discorso. Questo è l’obiettivo strategico, ma Raúl ha indicato anche i prossimi passi
tattici, già peraltro in discussione, che Obama può compiere in quanto è in suo potere
decidere sull’applicazione della «legge federale» (l’embargo) favorendo così una ripresa di
rapporti diretta in alcuni settori vitali per Cuba: viaggi, telecomunicazioni, invio diretto di
pacchi e di posta dagli Usa all’isola. Nel suo discorso, Obama ha dimostrato di essere
intenzionato a procedere su questa linea.
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Del 18/12/2014, pag. 1-2
Obama-Castro, cade l’ultimo muro “La storia
delle Americhe cambierà”
L’annuncio dopo mezzo secolo di crisi Non esclusa la visita del
presidente Usa Scambio di prigionieri. Ira dei repubblicani
FEDERICO RAMPINI
«Si apre un capitolo nuovo nella storia delle Americhe. Somos todos americanos ».
Barack Obama conclude una crisi durata 53 anni, mentre Raùl Castro parla in simultanea
alla tv cubana. Cade l’ultimo muro della guerra fredda, Washington ristabilisce le relazioni
diplomatiche con “l’isola più odiata”, una spina nel fianco a sole 90 miglia dalle sue coste.
Malgrado la furia della destra repubblicana, inizia a sgretolarsi un embargo di cui il
presidente non vede più le ragioni. Il passaggio finale che consente il disgelo matura
martedì in 45 minuti di colloquio diretto tra Obama e Castro (il primo dialogo a tu per tu tra
i leader dei due paesi da mezzo secolo), con l’aiuto di papa Francesco. Coincide con la
liberazione di 53 detenuti politici cubani e uno scambio di prigionieri.
Obama reduce da sconfitte interne sceglie la politica estera per lasciare un’eredità
“pesante” nella storia. Si conquista un posto negli annali delle relazioni internazionali,
annunciando il ristabilimento delle relazioni con L’Avana che erano state interrotte nel
1961 in seguito alla rivoluzione di Fidel Castro (1959). «Riapertura dell’ambasciata Usa in
tempi stretti», è l’incarico che Obama affida al segretario di Stato John Kerry. Mentre il
portavoce della Casa Bianca non esclude una visita del presidente a Cuba. A Kerry
Obama affida anche la cancellazione di Cuba dalla lista di paesi che sponsorizzano il
terrorismo. Inizia a smantellare l’edificio delle sanzioni, per quella parte che non richiede il
sì del Congresso: più facilità per viaggi e turismo, affari e comunicazioni, carte di credito e
Internet. Le rimesse degli emigrati possono affluire più generose. Con un occhio ai diritti
umani, che sarà più facile sostenere abbattendo il muro dell’isolamento.
La reazione della destra Usa è furibonda. Il presidente della Camera, il repubblicano John
Boehner, definisce la svolta «una concessione insensata ad una dittatura che infierisce sul
suo popolo e trama con i nostri nemici». Marco Rubio, senatore repubblicano della Florida
che è figlio d’immigrati cubani, e potenziale candidato alla nomination presidenziale del
suo partito: «Un altro cedimento a un tiranno».
Obama parte da una constatazione severa e al tempo stesso pragmatica: l’embargo ha
fallito. Ha contribuito a impoverire l’isola, «ma mezzo secolo dopo i comunisti di Castro
sono sempre al potere». Per contro la politica delle sanzioni ha ridotto la capacità
d’influenza degli Stati Uniti, sia nei confronti di Cuba sia verso altri paesi d’America latina.
«A tratti ci siamo isolati nell’emisfero occidentale». Ovvero: gli Stati Uniti si sono messi ai
margini rispetto ad un ampio consenso delle nazioni latinoamericane che non avevano
condiviso la demonizzazione di Castro. L’errore degli Usa ha regalato a Castro un ruolo da
martire e un podio per la sua propaganda. «Non si favoriscono i diritti umani cercando di
far fallire gli Stati, ma dialogando », dice Obama. Tra le aperture concrete, non a caso il
presidente americano mette in prima linea la liberalizzazione degli investimenti nelle
telecom: per portare Internet su un’isola dove solo il 5% della popolazione naviga online.
E’ quello che stava facendo Alan Gross, il 65enne americano che portava tecnologie di
accesso alla Rete, ed era finito in carcere all’Avana cinque anni fa. La sua liberazione, per
ragioni umanitarie, è avvenuta separatamente dagli scambi di prigionieri (tre spie cubane
per una spia americana). Tutto questo pacchetto di accordi è maturato in 18 mesi di
trattative ultra-segrete per lo più condotte in Canada, e un incontro finale tra le due
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delegazioni in Vaticano. Ma anche se i negoziati sono stati protetti dal segreto, la svol- ta
storica era nell’aria da tempo, Obama ci stava lavorando dal suo primo mandato. Ed è
come se la sua sconfitta alle elezioni di midterm avesse improvvisamente “liberato” il
presidente, spingendolo a dare un segno più progressista all’ultimo biennio che gli rimane.
La politica estera è uno dei pochi terreni sui quali il presidente ha un potere quasi
esclusivo, e Obama è deciso a usarlo fino in fondo. Su Cuba, Obama usa anche la sua
autobiografia — è nato pochi mesi dopo la fallita invasione della Baia dei Porci e pochi
mesi prima della crisi dei missili con l’Urss — per segnalare il lungo tempo trascorso da
quelle tensioni della guerra fredda, l’assurdità di restare aggrappati a un passato ormai
remoto. Il New York Times gli dà credito per avere «rimesso in movimento la diplomazia
arrugginita della guerra fredda». Il presidente rivendica con orgoglio la battaglia per i diritti
umani. Ma il metodo era sbagliato, dice, «ha dato un alibi al regime». Fa un paragone con
Cina, Vietnam, altre nazioni dove i diritti dei cittadini non sono rispettati ma coi quali
tuttavia l’America sceglie di avere relazioni aperte. Evoca «le nuove generazioni di cubaniamericani», che non condividono l’approccio dei genitori anti-castristi, roccaforte elettorale
della destra e sostenitori dell’embargo. «Da ora in avanti quando siamo in disaccordo,
sulla democrazia e i diritti umani, lo diremo direttamente. Cuba non cambierà da oggi
all’indomani. Ma diventa più facile per noi appoggiare il cambiamento». Un appuntamento
l’anno prossimo: Cuba e Stati Uniti parteciperanno insieme, per la prima volta, al Summit
of the Americas a Panama, dove si discuterà anche di diritti umani.
Del 18/12/2014, pag. 4
Al ristorante “Versailles” ritrovo degli esuli duri e puri la folla è furiosa e
stupita “Obama sta sbagliando: così Raúl resta al potere per sempre”.
Ma c’è anche chi si emoziona per la svolta
Gli anticastristi scendono in strada “Questo è
un patto con il diavolo”
OMERO CIAI
È COME se all’improvviso, senza avvisare, gli avessero dato un grosso cazzotto sotto il
mento. Di quelli che ti lasciano senza fiato. Barcollanti, sconcertati e vinti. Il vecchio esilio
cubano è stordito. Sulla piazzetta del “Versailles”, lo storico ristorante tempio
dell’anticastrismo puro e duro, c’è una folla allo stesso tempo furiosa e perplessa. Miguel e
Alcibiades, due cubani che lasciarono l’isola ragazzini con i loro genitori negli anni
Sessanta, sollevano cartelli di protesta appena scritti. «È una vergogna », strillano, «quel
maledetto Obama non doveva farci questo. È incredibile, assurdo. Inconcepibile. È un
patto con la dittatura. Va a letto con il diavolo. Così i Castro rimarranno al potere per
sempre». Sulla via, la famosa calle ocho, dove per decenni i cubani in fuga dall’isola di
Fidel hanno trovato accoglienza e asilo, le macchine si fermano, i finestrini si abbassano:
«Che è successo?», chiedono. Poi si fermano dove possono e ingrossano la protesta.
Nonostante il rumors dello scambio incrociato di spie fra Cuba e gli Stati Uniti circolasse
da giorni, nessuno credeva che Obama e Raúl potessero farlo davvero. Sulla stampa di
Miami era tutto un fiorire di articoli contro il New York Times e l’idea che l’embargo
andasse perlomeno alleggerito. Ma quel che più duole è il resto. Il discorso di Obama che,
finalmente, prende atto come mezzo secolo di embargo non sia servito a nulla e apre.
Apre a nuove relazioni diplomatiche, ai viaggi degli americani, ai commerci. Un terremoto
diplomatico che sembra chiudere un’epoca. E che, in qualche modo, riconosce Cuba con
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un Castro al potere. Qualcosa di inaccettabile per l’esilio cubano, ma anche per i
repubblicani, da Bush padre a Marco Rubio. Ma, e va aggiunto subito, i cubani che vivono
in America non sono più un blocco granitico anticastrista. Anzi, molti oggi stanno dalla
parte di Obama. Anche da questa parte dello Stretto della Florida sono stanchi di guerra.
E come ci dice un giovane manager cubano, Manuel: «Qui i contrari alla svolta sono
soltanto quelli che con l’anticastrismo ci hanno lucrato. Quelli che hanno preso e prendono
soldi dal governo americano per combattere il regime di Cuba». Perfino Pablo Alfonso, un
giornalista che per anni dalle colonne del Miami Herald ha seguito l’interminabile conflitto,
è emozionato. Arrivò qui dopo aver trascorso dieci in galera a Cuba perché militava in una
organizzazione di dissidenti cattolici. Ma oggi pensa che l’apertura di Obama sia positiva.
«Un nuovo e necessario inizio». La mossa del presidente americano Barack Obama era
ciò che voleva Raúl. Lo disse subito il presidente cubano. Appena preso il posto del
fratello ammalato nel 2008. Se gli americani vogliono nuove relazioni — disse — devono
farlo ora, con me. Altrimenti sarà peggio. E’ evidente che alla Casa Bianca hanno saputo
cogliere il ramoscello d’ulivo e, soprattutto fidarsi. Fidarsi che non era l’ennesima presa in
giro. Negli anni di Fidel Castro tutto questo sarebbe stato impossibile. Gli Stati Uniti erano
«l’impero» che andava umiliato con ogni mezzo e possibilmente anche sconfitto. Come
accadde nella Baia dei Porci, 1961. Raúl invece è di un’altra pasta. Pensa che per
sopravvivere ha bisogno di rapporti fluidi con Washington non di contrasti ideologici. Vuole
trasformare l’isola in un Paese con una economia capace di sfamare i suoi abitanti, non
costringerli a sacrifici perenni in nome del socialismo. E sicuramente nell’accelerazione di
queste ore hanno avuto un ruolo fondamentale la crisi del petrolio e le conseguenti
difficoltà del Venezuela, Paese dal quale Cuba riceve migliaia di barili di greggio.
«Un errore, un gravissimo errore», insistono Miguel e Alcibiades tremolanti sulla piazzetta
del Versailles: «Obama sta salvando i Castro dal loro abisso».
Del 18/12/2014, pag. 1-6
Così è finita la Guerra Fredda
La storia/Dalla Baia dei porci al “bloqueo” al tramonto di Fidel, lo scontro Usa-Cuba
era da tempo una tragica farsa sulla pelle della gente
L’Isola e gli Yankees 50 anni di folle duello Ma ora Raúl archivia la Revolución
VITTORIO ZUCCONI
La marcia della follia fra Stati Uniti e Cuba che ci portò a poche ore dall’olocausto nucleare
si è fermata ieri sera e ha invertito cammino, quando Barack Obama e Raùl Castro hanno
demolito all’unisono un altro rudere della Guerra Fredda, il muro d’acqua di 140 chilometri
che divide la Florida dall’isola.
È stato necessario grande coraggio da parte di un Obama, che rischia quello che gli
rimane della scarsa popolarità senza incassare nulla e soprattutto da parte di Raùl, per
anni il detestato fratello, il capo della repressione interna, il volto sgradevole dei Castro. È
stato lui a trasformarsi in colui che ha cambiato la storia dell’isola e ha aperto le prime
crepe nella mistica e nella pratica del regime che hanno permesso, con lo scambio di
cosiddette «spie» e con la mediazione del Papa, la svolta sancita oggi. L’erede chiamato a
custodire il patrimonio, è diventato il liquidatore del fallimento, il Gorbaciov del Caribe.
Il «bloqueo», come lo chiamavano i cubani, l’embargo che aveva strangolato Cuba, ma
insieme offerto a Fidel il perfetto paravento dietro il quale nascondere i propri errori e i
fallimenti del socialismo tropicale, si sta sbriciolando. Dalla «Revolución» ormai spenta alla
normalizzazione che i due capi di Stato hanno annunciato in contemporanea, per dare a
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cubani e statunitensi l’impressione di un pareggio dopo una partita durata mezzo secolo, il
tempo, e l’avvicendarsi delle generazioni dei cubani emigrati, hanno mostrato la
insostenibilità. Cade un altro residuato del duello ideologico fra Est e Ovest.
Ma da tempo ormai, e soprattutto da quando nel 2006 era stato operato «El Caballo»,
Fidel, il destriero possente sul quale avevano galoppato le illusioni e i miti rivoluzionari di
generazioni, il dramma dell’embargo voluto da Eisenhower e rafforzato da Kennedy si
stava tramutando in farsa tragica. La presa della minoranza cubana in Florida, a Miami,
nelle «Little Havana», sulla politica elettorale aveva allentato la propria capacità di ricatto
su candidati che dovevano avere il loro voto per arrampicarsi alla Casa Bianca. La terza
generazione, i nipoti dei cubani fuggiti nelle ore successive alla conquista del potere
castrista e inflessibili nel loro odio per quel «criminale », aveva ormai ripreso troppi
rapporti con l’isola madre, o ne aveva perduti troppi, per sognare ancora la
controrivoluzione che avrebbe rovesciato, e possibilmente ucciso, Fidel.
Il palazzone della «Sezione d’Interessi » americani all’Havana, sul Malecon, il lungomare,
diventerà ambasciata ufficiale. L’omino con il kalashnikov in mano che davanti alle finestre
dei funzionari Usa gridava da un murale gigante «Señores Imperialistas ¡No les tenemos
absolutamente ningún miedo!», non abbiamo assolutamente paura di voi, signori
imperialisti, andrà in pensione. Il «Socialismo o muerte », dipinto sui vecchi muri resterà
nel ricordo di nuove generazioni che non hanno, per loro fortuna, dovuto conoscere la
morte. Neppure seguendo le avventure dissennatamente generose del «Che», di Ernesto
Guevara, nelle savane d’Africa e poi nelle foreste andine, inseguendo miraggi di
sollevazioni globali. Rivisto al rovescia, il film di questi 50 anni di una reciproca follia tra
una superpotenza e un’isola nel Mar dei Caraibi è, come tanti documenti storici, una
sequenza surreale, un viaggio nell’assurdo sempre sul filo teso sopra l’abisso. Nel terrore
che l’Havana potesse rappresentare il focolaio di una pandemia comunista in Centro
America violando la Dottrina Monroe di egemonia Usa su quell’emisfero, nel fruscio della
coda di paglia che gli Usa avevano trascinato in una Cuba divenuta appendice della
corruzione mafiosa e della dittatura delle multinazionali nello Stato di Bananas, gli
strateghi e gli interessi economici americani riuscirono a trasformare una rivoluzione
isolata in un fenomeno globale. E a gettare Castro nelle braccia di Mosca. I passaggi di
questo film dell’assurdo, alimentato dalla narrazione affascinante di una rivoluzione
permanente e da miti come quello del medico argentino Ernesto Guevara, sono difficili da
accettare, oggi, mentre Obama e Raùl riconoscono l’inevitabile fine della «Piccola guerra
fredda». Si ripensa increduli ai piani della Cia per uccidere Fidel anche attraverso sicari di
Cosa Nostra, i tentativi di fargli cadere la barba con polveri depilanti e sigari tossici per
distruggere l’icona dell’inarrestabile «barbudo ». Lo sbarco dei mercenari abbandonati
sulla Playa Giron, divenuta poi celebre come la Baia dei Porci, fino alla segreta certezza di
Lyndon Johnson che l’assassino di JFK fosse una marionetta cubana. Tutto questo
sarebbe materiale per un «B Movie», se non lo avessimo visto e vissuto.
Anche quando l’immaginario potenziale rivoluzionario del castrismo, ridotto a elemosinare
per sopravvivere gli aiuti sovietici in cambio dello zucchero e poi il petrolio a prezzi scontati
dall’amico Chavez in Venezuela e ad adottare un Maradona divenuto simbolo della
persecuzione «yanqui», la ostinazione vendicativa della destra repubblicana decisa a
punire il popolo cubano per la loro impudenza hanno condannato Cuba a decenni di inutili
sofferenze. L’Havana semibuia della fine anni ‘80, quando l’elettricità veniva distribuita a
macchia di leopardo lasciando la più grande città del Caribe in un perenne black out, le
corse de bambini lungo il porto che vidi accogliere l’ultimo mercantile sovietico con
alimentari e medicinali inviato da Gorbaciov prima di chiudere definitivamente i rubinetti,
erano i fotogrammi dolorosi di un tramonto e di un inutile tormento.
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Ma mi bastò vedere le folle strabocchevoli che avevano invaso le piazze e le strade per
salutare Giovanni Paolo II nel 1998, nella finzione di una rinata Chiesa cattolica cubana
organizzata con preti importati dall’America Latina, e affiancarle alle tristissime realtà del
turismo sessuale in dollari, della doppia e tripla circolazione di valuta locale, delle lotte per
comperare i «Sacapunta», le 500 Fiat fabbricate in Polonia ribattezzate appunto
«temperamatite». per capire che il tempo delle illusioni era alla fine. E con esso sarebbe
finito anche il senso reale di un embargo che soltanto gli USA fingevano di mantenere,
mentre dall’Europa, dal Canada, dalla Cina, dall’America Latina, da Israele ricominciava il
flusso di investimenti e di finanziamenti e di capitale. Spesso anche americani, arrivati per
vie traverse. Il passo verso la normalizzazione che ieri Obama e Raùl hanno annunciato e
che diventerà inarrestabile nonostante il Congresso americano che s’impunterà, è stato la
conseguenza della fine di un’epoca, del tramonto dei suoi protagonisti e della
constatazione — classica dopo ogni conflitto — della follia. I figli dei «gusanos», dei vermi
che Fidel lasciò partire per disprezzo dal porto di Mariel, i superstiti della traversate degli
stretti della Florida aggrappati a barche di legno di balsa e di copertoni, i «balseros» in
balia delle onde e degli squali, ora guardano ai viaggi di ritorno verso l’isola, per
riprendersi ciò che fu loro e possibilmente anche di altri.
La Cuba commovente, irritante, petulante, inefficiente, ormai anche corruttibile, ma
sempre tenerissima, della «zafra», del taglio della canna, della gioventù invecchiata si
riapre a coloro che l’avevano devastata e costretta a deporre Batista il ladro e tiranno.
Della «Revolución», ora che i fondi di investimento già pronti per spartirsi Cuba hanno
visto ieri le loro quote volare, resterà qualche murale sbiadito dal sole e dalla salsedine,
lungo il Malecon. Il Bloqueo è finito, tutto ricomincia. Riuscirà la Cuba «liberata» a salvare
almeno la propria dignità, pagata tanto cara?
Del 18/12/2014 – pag. 21
Sì dell’Europarlamento alla Palestina
Hamas tolta dalla lista dei terroristi
E da ieri è all’Onu la risoluzione che chiede la fine dell’occupazione
israeliana
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE BRUXELLES Il Parlamento europeo ha approvato
ieri a larga maggioranza una risoluzione che sostiene «in linea di principio» il
riconoscimento dello stato di Palestina, purché la proposta sia legata allo sviluppo dei
colloqui di pace.
Nelle stesse ore, la Corte europea di giustizia ha annullato, «per motivi procedurali», la
decisione del Consiglio Ue di mantenere «Hamas sulla lista europea delle organizzazioni
terroriste».
In un solo giorno, dunque, due decisioni provenienti dal cuore dell’Europa che toccano le
vicende più drammatiche del Medio Oriente, e che già stanno innescando molte
polemiche.
Da Israele, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha definito il voto dell’Europarlamento
«uno sconvolgente esempio dell’ipocrisia europea e un’indicazione che molti nel
continente non hanno imparato nulla dall’Olocausto». Il co-negoziatore della risoluzione e
presidente della commissione Esteri all’Europarlamento, il tedesco Elmar Brok, ha invece
sottolineato che «con questo voto, il Parlamento europeo ha respinto in modo chiaro un
riconoscimento della Palestina senza condizioni, separato dai negoziati di pace». Quanto
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alla sentenza della Corte di giustizia su Hamas, l’Alto rappresentante Ue per la politica
estera, Federica Mogherini, ha rilevato che non dovrebbe essere considerata «una
decisione politica»: i giudici hanno espressamente citato «ragioni procedurali», per
esempio il fatto che le accuse sulle attività di Hamas siano state sostenute spesso da
documentazione reperita su Internet o su giornali, e non da fonti ufficiali o documentate.
Ma naturalmente, è stata la decisione dell’Europarlamento quella che più ha suscitato
attenzione e proteste. La risoluzione era stata redatta da 5 diversi gruppi politici, ed è stata
approvata con questi risultati: 498 voti favorevoli, 88 contrari, 111 astenuti.
Vi si sostiene che il Parlamento europeo appoggia «in linea di principio il riconoscimento
dello Stato palestinese e la soluzione a due Stati, e ritiene che ciò debba andare di pari
passo con lo sviluppo dei colloqui di pace, che occorre far avanzare».
E ancora: l’Europarlamento ribadisce «il proprio fermo sostegno a favore della soluzione a
due Stati basata sui confini del 1967, con Gerusalemme come capitale di entrambi gli Stati
e con uno Stato di Israele sicuro e uno Stato di Palestina indipendente, democratico,
territorialmente contiguo e ca-pace di esistenza autonoma, che vivano fianco a fianco in
condizioni di pace e sicurezza, sulla base del diritto all’autodeterminazione e del pieno
rispetto del diritto internazionale».
I deputati condannano poi «con la massima fermezza» tutti gli atti di terrorismo o di
violenza. E rimarcano «la necessità di consolidare il consenso attorno al governo
dell’Autorità palestinese» invitando «tutte le fazioni palestinesi, compresa Hamas, a
fermare le divisioni interne».
Una parte del testo ribadisce poi che «gli insediamenti israeliani sono illegali ai sensi del
diritto internazionale», chiedendo all’Europa «di diventare un vero e proprio motore nel
processo di pace in Medio Oriente e all’Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue,
Federica Mogherini, di favorire una posizione comune europea per la soluzione del
conflitto».
Per appoggiare gli sforzi della diplomazia, è stata poi deciso di lanciare l’iniziativa
«Parlamentari per la pace», con l’intento di riunire gli eurodeputati e i deputati dei
parlamenti di Israele e Palestina.
Luigi Offeddu
Del 18/12/2014, pag. 19
Ue, voto per la Palestina. Ira d’Israele
A Strasburgo sì al riconoscimento dello Stato. Il Tribunale del Lussemburgo: Hamas
fuori dall’elenco dei terroristi Il premier Netanyahu: “Ecco i pregiudizi degli europei,
non hanno imparato nulla dall’Olocausto”
ANDREA BONANNI
Con 498 voti favorevoli, 88 contrari e 111 astensioni il Parlamento europeo si è dichiarato
ieri per un riconoscimento «in principio» dello Stato palestinese, sottolineando che questo
deve procedere «di pari passo con lo sviluppo di negoziati di pace». L’assemblea
legislativa europea non ha potere decisionale in materia di politica estera, e dunque la
risoluzione approvata non ha conseguenze dirette sull’atteggiamento dei governi europei.
Tuttavia il Parlamento, nello stesso documento, invita l’alto rappresentante per la politica
estera europea, Federica Mogherini, a «facilitare il raggiungimento di una posizione
comune dell’Ue in questo senso» affinché l’Europa possa riprendere un ruolo nel processo
di pace in Medio Oriente. Il voto degli eurodeputati è arrivato poche ore dopo che il
Tribunale dell’Unione europea, a Lussemburgo, aveva annullato la decisione presa dai
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ministri degli esteri dell’Ue nel 2003 di inserire Hamas nella lista delle organizzazioni
terroristiche. Anche in questo caso, la sentenza del Tribunale non ha effetti concreti, in
quanto il gelo dei beni dell’organizzazione palestinese e le varie misure adottate dalla Ue
per isolare Hamas restano in vigore fino alla presentazione della richiesta di appello e fino
alla sentenza definitiva. E sempre nella giornata di ieri i rappresentanti di 126 Paesi che
aderiscono alla Convenzione di Ginevra, riuniti nel capoluogo Svizzero in assenza del
rappresentante israeliano e di quello statunitense, hanno votato all’unanimità una
risoluzione che chiede a Israele di rispettare i diritti dei civili palestinesi. Queste due
decisioni hanno provocato una durissima replica del primo ministro dello Stato ebraico,
Benjamin Netanyahu: «Oggi abbiamo assistito a due esempi del pregiudizio europeo. A
Ginevra si chiede un’inchiesta contro Israele per crimini di guerra, mentre in Lussemburgo
la Corte europea ha rimosso Hamas dalla lista delle organizzazioni terroristiche. Ci sono
troppe persone in Europa, sulla terra dove sono stati massacrati sei milioni di ebrei, che
non hanno imparato nulla». Netanyahu ha chiesto l’immediato reinserimento di Hamas
nella lista nera della Ue. In realtà, come ha spiegato ieri la portavoce dell’Alto
rappresentante Federica Mogherini, la decisione del Tribunale «è una sentenza legale
basata su un vizio di procedura, non una decisione politica» Il Consiglio potrà decidere di
fare appello, e nel frattempo «le misure restrittive restano in atto. Questo significa che la
Ue continua a considerare Hamas un’organizzazione terroristica». La sentenza dei giudici
di Lussemburgo si appella infatti ad un vizio procedurale, in quanto la decisione di mettere
Hamas sulla lista nera sarebbe stata presa «sulla base di accuse ricavate dalla stampa e
da Internet» e non «per fatti esaminati e convalidati da autorità nazionali».
Più rilevante, politicamente, è stato il voto della risoluzione approvata dal Parlamento
europeo, che tra l’altro condanna ancora una volta gli insediamenti dei “coloni” israeliani
nei territori palestinesi. E la rilevanza è data dalla enorme maggioranza che ha condiviso il
documento, presentato con una iniziativa congiunta di popolari, socialisti, liberali, verdi ed
estrema sinistra. In realtà socialisti, verdi e sinistre avrebbero voluto un testo ancora più
duro, che chiedeva ai governi un riconoscimento immediato dello Stato palestinese senza
collegarlo alla ripresa dei negoziati. Il compromesso è stato imposta dai Popolari. «Con
questo voto il Parlamento respinge un riconoscimento incondizionato scollegato dai
negoziati di pace», ha dichiarato Helmar Brok, popolare tedesco e presidente della
Commissione esteri del Parlamento. Anche con le attenuazioni richieste dal Ppe, la
risoluzione è apparsa comunque troppo dura agli eurodeputati di Forza Italia che, pur
aderendo al Ppe, hanno lasciato l’aula al momento della votazione. Il testo ha invece
avuto il sostegno dei deputati del Movimento cinque stelle, mentre i loro compagni del
gruppo euroscettico, i britannici dell’Ukip, si sono opposti sostenendo che il
riconoscimento di uno Stato non rientra nelle competenze dell’Ue.
Il voto del Parlamento europeo arriva dopo la decisione della Svezia di riconoscere lo
Stato palestinese e una serie di voti analoghi, ma non vincolanti, dei parlamenti di Gran
Bretagna, Francia, Irlanda, Spagna e Lussemburgo. Nel testo approvato ieri, gli
eurodeputati esprimono «forte sostegno per la soluzione dei due Stati sulla base delle
frontiere del 1967, con Gerusalemme come capitale dei due Stati», che è proprio l’ipotesi
recentemente respinta dal premier israeliano Netanyahu.
del 18/12/14, pag. 1/3
Un giorno nero per Netanyahu
Luisa Morgantini
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Medio oriente/Ue. Il premier israeliano non trova niente di meglio che
accusare l’Europa - che blandamente riconosce lo Stato di Palestina delle responsabilità dell’Olocausto
Ieri, anche se Kerry ha comunicato ai palestinesi che gli Usa porranno il veto alla loro
richiesta all’Onu di porre un termine all’occupazione israeliana e alla realizzazione dello
Stato di Palestina, per Israele è stata una giornata di fuoco che ha reso furioso, l’«ego
maniaco» (chiamato cosi da un alto dirigente dello Shin Bet, i servizi segreti) Bibi
Netanyahu, che per nascondersi dalle sue attuali responsabilità, dopo Margine protettivo a
Gaza e per l’occupazione e le nuove colonie nei Territori palestinesi, non trova niente di
meglio che accusare l’Europa — che blandamente riconosce lo Stato di Palestina — delle
responsabilità dell’Olocausto.
Ora teme che i ministri del suo governo che vivono nelle colonie, visto che i governi
dell’Ue dichiarano illegali tutte le colonie, potrebbero vedersi rifiutare il visto di entrata in
Europa. A rendere comunque furioso il premier tre fatti. Il primo, che il Parlamento
europeo, considerando che l’Onu ha deciso il 29 Novembre 2012 di accettare la Palestina
con lo status di Osservatore, ribadisce nella risoluzione votata ieri a Strasburgo a grande
maggioranza che i paesi Ue devono trovare un accordo in tal senso e che il Parlamento
europeo «riconosce in principio lo Stato di Palestina che vada di pari passo con lo sviluppo
dei colloqui di pace». Risoluzione di compromesso tra i maggiori gruppi politici alcuni dei
quali, nella sinistra, chiedevano una dichiarazione di riconoscimento senza legami con i
negoziati, formula invece cara alla nostra Alta Rappresentante per le relazioni Estere,
Federica Mogherini.
Quando il giorno prima del voto alcuni parlamentari mi avevano inviato la risoluzione,
memori della mia attività di vicepresidente dell’Europarlamento. Avevo chiesto loro di
presentare almeno un emendamento che togliesse il collegamento con i negoziati. Niente
da fare. Ma, malgrado i limiti, il voto nel linguaggio diplomatico manda un segnale chiaro:
Israele sta tirando troppo la corda ed anche i pavidi paesi europei, costantemente preda
del ricatto israeliano e dalla fedeltà alle alleanze geopolitiche, faticano a continuare ad
essere complici della colonizzazione israeliana ed a permettere ogni tipo di violazione del
diritti umani. Le linee guida per impedire che i prodotti delle colonie si avvalgono delle
facilitazioni previste dagli accordi di associazione tra Ue e Israele, sono un indicatore in
questa direzione. Il secondo motivo di furia per Netanyahu, la decisione della Corte di
Giustizia europea di depennare Hamas anche se per motivi tecnici e procedurali dalla lista
nera delle organizzazioni terroriste, decisione alla quale la nostra Alta Rappresentante
intimidita dalla sfuriata di Netanyahu, ha subito dichiarato che la politica Ue non cambia,
non si libereranno i fondi di Hamas in Europa e si continuerà con il boicottaggio di Hamas
anche se poi nella pratica l’Ue sostiene il governo di Unità nazionale palestinese (FatahHamas)
Terzo motivo di rabbia per «Bibi», l’approvazione alla IV Convenzione di Ginevra
convocata a Ginevra dalla Svizzera, che ha resistito alle pressioni israeliane ed Usa
perché non tenesse l’incontro, dove invece 126 paesi su 196 hanno approvato una
risoluzione che in 10 punti denuncia la costruzione di insediamenti in Cisgiordania ed a
Gerusalemme Est e dichiara: «Tutte le serie violazioni della legge umanitaria
internazionale devono essere indagate e tutti i responsabili devono essere portati davanti
alla giustizia». Segnali di cambiamento, ma troppo lenti per la Palestina dove ogni giorno
vengono uccisi giovani ai checkpoint, e proprio ieri Israele attivava due basi militari nei
territori occupati. Riconoscere lo Stato di Palestina, uno stato che non c’è perché mangiato
dalla colonizzazione, non è la fine dell’occupazione militare, ma è certo un passo positivo.
Nel futuro i palestinesi liberi dall’ occupazione militare potranno decidere se vogliono uno
stato, nessuno stato, due stati sulla Palestina storica. Per adesso la partita è: si riconosca
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lo Stato di Palestina e si attui verso Israele una politica di sanzioni e disinvestimento a
partire dalla sospensione dell’Accordo di Associazione Ue-Israele.
Del 18/12/2014 – pag. 33
Le scuole come covo di nemici ossessione
dell’islam fanatico
Sono anni che i terroristi jihadisti di Boko Haram spargono il terrore nelle scuole della
Nigeria, con attentati che hanno per bersaglio studenti e studentesse giovanissime. «Boko
Haram» significa «l’istruzione occidentale è peccato» e i ragazzini e le ragazzine che
osano prendere un libro che non sia il testo sacro devono essere puniti e annientati senza
pietà.
È difficile capire la logica perversa degli assassini che hanno fatto strage di bambini in una
scuola di Peshawar. Ci sembra qualcosa di mostruoso, di incomprensibile, un’esplosione
di follia. Ma è una follia sorretta da un’implacabile logica fondamentalista. Chi è
ossessionato dalla contaminazione, chi considera corruzione e depravazione la cultura,
l’arte, la musica, il sapere, tutto ciò che non sgorga da un unico dogma vissuto con una
passione totalitaria, non è solo intollerante. È anche un soldato che deve colpire il nemico
ovunque sia annidato per ripulire il mondo da ogni impurità. Le ragazze che come Malala
Yousafzai pretendono in Pakistan di andare a scuola, secondo gli energumeni messi a
guardia della fede sono da sterminare per almeno due ragioni: perché sono donne e
studiando stanno rifiutando perciò un destino di soggezione e di minorità a disposizione
del maschio padrone; e perché frequentano un luogo «immondo» come la scuola, sentina
di ogni vizio: «L’istruzione occidentale è peccato».
«Le donne che leggono sono pericolose», recitava il titolo di una mostra in Francia. Perciò
secondo i proclami del fanatismo integralista «le donne che vanno a scuola sono
pericolosissime». A Kabul i talebani cacciarono e lapidarono le ragazze che frequentavano
le aule scolastiche. In Nigeria le scuole sono oggetto di attentati continui. Dopo la
carneficina in Pakistan anche nello Yemen è stato preso a bersaglio un bus scolastico,
provocando l’uccisione di quindici persone. Chi possiede un libro eretico viene condannato
a morte. Appena preso il potere in Afghanistan i guardiani della fede hanno demolito le
scuole, bruciato le librerie, saccheggiato i musei, fatto a pezzi gli strumenti musicali
simbolo di dissolutezza e di turpitudine, devastato le statue di Budda.
Il furore della tabula rasa non permette che un edificio degli «infedeli» resti in piedi. A
Mosul insieme ai luoghi di culto cristiani sono state messe al bando le scuole. La scuola, in
questa visione apocalittica della purezza integralistica, diventa un pericoloso covo di
pluralismo, confronto, coesistenza di idee diverse. Vengono sempre colpite biblioteche e
scuole perché in questi luoghi non c’è mai un solo libro, un’unica verità ossessivamente
salmodiata, una sola dottrina da inculcare, ma c’è sempre la tentazione della diversità, la
seduzione di un mondo diverso da quello predicato dai sacerdoti dell’uniformità e
dell’intolleranza.
Non c’è più pietà per i bambini, perché si vede nei bambini coinvolti nelle scuole già dei
peccatori da condannare in un rogo di purificazione che è la negazione della vita. Questo
richiamo fondamentalista esercita purtroppo un suo fascino sinistro eppure seducente con
la sua insistenza per le soluzioni crudeli che non ammettono mediazioni, remore, ostacoli
morali.
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La santificazione dell’omicidio è l’altra faccia dell’odio nei confronti della scuola. È la fuga
dalla libertà e dai pesi che essa comporta, così scomoda e lontana dai conforti
dell’obbedienza, del conformismo, dello spirito gregario. Per questo i fanatici hanno
perfettamente chiari che le scuole sono pericolose e che vanno colpite, massacrati gli
studenti, sfigurate le ragazze che le vogliono frequentare.
C’è una bieca ideologia dietro questa follia. Riconoscerne i caratteri non sarà sufficiente
ad arginarne l’azione distruttiva, ma nessun argine sarà possibile senza capire il volto di
questo nemico che non conosce pietà.
del 18/12/14, pag. 7
Tisa, liberalizza tutto, anche i dati personali
Anna Maria Merlo
Wikileaks. Nuove rivelazioni sulla liberalizzazione dei servizi, in corso di
negoziato. I "grandi amici dei servizi" trattano per deregolamentare il
mercato dei dati personali, a tutto vantaggio delle grandi multinazionali
(Usa). Tisa è la punta di lancia del Ttip. La Commissione Ue è contenta e
spera nelle briciole. Ma Google è in difficoltà in Europa, dovrà pagare un
po' di tasse e rispettare il diritto all'oblio?
Tisa sta per Trade in Services Agreement. Si tratta di un cantiere in corso di negoziato,
iniziato nel 2013 tra 23 paesi che si sono autoproclamati “i grandi amici dei servizi”, con
l’intenzione di deregolamentare il settore, dal trasporto marittimo alle telecom, l’ecommercio, i servizi informatici, le consegne a domicilio, fino ai servizi finanziari. Sono
compresi nella trattativa, oggi allargata a 50 stati, anche i servizi pubblici, considerati una
“concorrenza sleale”. Questi “grandi amici dei servizi” trattano al di fuori dei negoziati
multilaterali della Wto, impantanati nel ciclo di Doha che non va avanti, con l’obiettivo di
presentarsi in un secondo momento al resto del mondo con un accordo che sarà più facile
imporre erga omnes. La Ue ha avuto il via libera per parteciparvi, grazie a un voto
dell’Europarlamento, dove hanno votato a favore il Ppe ma anche i social-democratici.
Una nuova rivelazione del team di giornalisti whisle-blowing di Wikileaks arriva adesso a
completare le informazioni già diffuse lo scorso 25 aprile sulla deregulation dei mercati
finanziari: un capitolo della trattativa Tisa riguarda il mercato dei dati, una liberalizzazione
prevista che mette a rischio la protezione della privacy e la sicurezza delle informazioni
personali, al solo vantaggio delle multinazionali. Con l’aggravante, visto dall’Europa, che
nel settore dei dati personali, le corporations al comando sono tutte Usa. Ma la
Commissione, assediata dalle lobbies, è convinta dei vantaggi di Tisa, perché, per
esempio, potrebbe permettere agli europei accedere al trasporto aereo negli Usa.
Intanto, secondo Public Citizen, dai documenti diffusi da Wikileaks risulta che “si vuole
proteggere il vantaggio competitivo degli Usa e il monopolio sulla proprietà intellettuale e
tecnologica”. Nel 2011 è già stato raggiunto un accordo Usa-Ue per abbattere le restrizioni
sul trasferimento di dati tra paesi. Tisa ha la stessa filosofia del Ttip, ne è in effetti la testa
di ponte: l’obiettivo è eliminare tutti i protezionismi residui. La Ue ha firmato un accordo di
liberalizzazione di questo tipo con il Canada, il Ceta, anticipazione del Ttip. Tisa contiene
difatti uno dei principi-chiave del Ttip: il cosiddetto principio di “coordinamento”, che
impedisce a uno stato di imporre una regolazione che potrebbe essere lesiva dei diritti di
un altro firmatario, cioè siamo alla deregulation generalizzata. Nel Wikileaks dello scorso
aprile era venuto alla luce che i negoziati riguardavano la soppressione di alcune
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regolamentazioni della finanza, approvate in seguito agli scossoni della crisi, per evitare
che si riproducesse.
Le rivelazioni sulla liberalizzazione del mercato dei dati arrivano in un momento in cui la
Ue comincia a prendere coscienza dei troppi vantaggi competitivi sfruttati da Google, una
delle corporation più attive che spingono all’approvazione di Tisa. Il 16 dicembre scorso,
Google ha chiuso in Spagna il servizio “attualità” in reazione a una legge che avrebbe
obbligato la multinazionale Usa a pagare per gli articoli pubblicati e rubati ai media locali.
Un analogo braccio di ferro ha avuto luogo in Germania, ma alla fine Google l’ha spuntata:
i giornali locali hanno concesso una licenza gratuita per la pubblicazione dei loro contenuti,
per paura di sparire dal Net. La Francia ha scelto una strada diversa e ha imposto a
Google una contropartita, cioè di contribuire al Fondo per l’innovazione digitale della
stampa (che fa parte del pacchetto degli aiuti pubblici ai media). Google, del resto, in
Europa è oggetto di inchieste per “abuso di posizione dominante” (controlla il 90% del
mercato Ue) e per l’ottimizzazione fiscale, in agenda oggi al Consiglio europeo. Dal 1°
gennaio il pagamento dell’Iva sarà nel paese dell’acquirente, quando viene comprato un
contenuto (film, musica ecc.) su Google, Apple ecc. Inoltre, è ormai previsto lo scambio
automatico di informazioni fiscali, per evitare i tax ruling, la specialità del Lussemburgo.
Google è in conflitto con numerose Autorità nazionali, garanti della privacy, ma in seguito
a una decisione della Corte europea di giustizia, deve rispettare il “diritto all’oblio” su
Internet. Saranno gli stati a gestire la protezione dei dati dei rispettivi cittadini.
del 18/12/14, pag. IV
Mense e cliniche, le trincee di Syriza
Reportage. Cibo e assistenza sanitaria gratuita, attività culturali e
media. Viaggio nelle roccaforti della sinistra radicale greca che ora
vuole governare. Tra farmacie sociali e fabbriche recuperate, cibo ai
poveri e assistenza ai migranti
Angelo Mastrandrea
Nella sala d’attesa della Kifa alle spalle del Municipio di Atene ogni paziente rimane ad
aspettare il suo turno disciplinatamente. C’è chi aspetta di presentare la prescrizione
medica e prendere i farmaci che gli spettano, chi è in fila per una visita odontoiatrica e chi
per una consulenza psicologica. Caterina si occupa di smistare il traffico, indirizzando i
pazienti là dove serve. Snocciola qualche cifra: «Da quando abbiamo aperto, nel gennaio
del 2013, sono state effettuate 2.364 operazioni dentistiche, 5.580 visite, 2.500
medicazioni e una ventina di operazioni ambulatoriali». A prima vista sembra di essere
finiti in un ambulatorio medico come tanti altri, ricavato in un confortevole appartamento
del centro della città. Invece si tratta di una Kifa, un acronimo che indica una clinica e
farmacia sociale. Qui arrivano a farsi visitare o a prendere medicinali, a frotte, gli esclusi
dalla sanità pubblica.
Sedute ad attendere il loro turno, due signore confabulano fra loro, alcuni anziani
rimangono in silenziosa aspettativa. In un angolo, un signore magro, con la barbetta
bianca, ha voglia di parlare. Racconta di essere espatriato al tempo dei colonnelli e, dopo
una vita tra Stati Uniti e Canada, una decina d’anni fa è tornato in Grecia. In tempo per
assistere al crollo. «È normale che siamo andati a finire così, colpa dei governi ma pure
del popolo. Abbiamo vissuto troppo al di sopra delle nostre possibilità e ora rischiamo di
tornare indietro di cinquant’anni», dice.
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La clinica sociale si regge sul volontariato. Ventotto dentisti si alternano gratis, fuori dal
loro orario di lavoro, a garantire cure per tutti, e lo stesso fanno psichiatri, psicologi,
pediatri. Tra i danni più gravi provocati dall’austerità imposta alla Grecia, quelli alla salute
delle persone sono probabilmente i più pesanti. Solo ad Atene hanno chiuso otto ospedali,
mentre la spesa pubblica per la sanità in Grecia è stata ridotta del 25 per cento tra il 2008
e il 2012. L’assicurazione sanitaria è garantita solo a chi lavora e con la disoccupazione
che affligge più di un terzo della popolazione questo è diventato un problema socialmente
devastante. Ecco spiegato perché le cliniche sociali sono affollate come e più di un
qualsiasi ambulatorio privato o pronto soccorso pubblico: nelle Kifa si viene per ritirare
medicine altrimenti troppo costose o per visite specialistiche altrimenti fuori portata dalle
tasche di una fascia di popolazione espulsa dal mondo del lavoro o con redditi ormai da
fame. Su undici milioni di greci, si stima che almeno tre milioni oggi siano senza copertura
sanitaria, quasi uno su quattro. «Ma ci sono anche tanti che, pur avendo la copertura, non
riescono a pagarsi cure specialistiche o le medicine, visto che persino un esame del
sangue arriva a costare un centinaio di euro», spiega Caterina.
Questo spiega il proliferare di forme di autorganizzazione sociale. La rete di mutuo
soccorso è estesa e opera come una sorta di welfare parallelo, spesso clandestino. Oltre
alle cliniche sociali, «ci sono medici che accettano di visitare gratis i pazienti nel loro studio
e altri che fanno piccoli interventi chirurgici. Quando sono necessari esami particolari,
indirizziamo i pazienti in ospedali dove abbiamo dottori amici che li fanno di nascosto». La
situazione è così tragica che alle cliniche sociali si vede davvero di tutto: «Pensa che qui si
sono presentati persino detenuti in manette, accompagnati dalla polizia». E i farmaci? «Ci
arrivano attraverso la rete Solidarity4all, che li raccoglie e poi li smista alle cliniche e
farmacie sociali. Altri ci vengono portati dalla gente. Spesso si tratta di donazioni dei
familiari di persone che muoiono».
Quella che ho sotto gli occhi è una sorta di resistenza silenziosa, sotterranea, che si
affianca e in molti casi ha preso il posto della rivolta di piazza che tra il 2008 e il 2009
incendiò piazza Syntagma e il quartiere di Exarchia, e che di tanto in tanto riesplode con
forza. Come un paio di settimane fa, quando lo sciopero della fame di un giovane
anarchico appena ventunenne, Nikos Romanos, che protestava per l’elementare diritto a
sostenere un esame all’università, ha rischiato di togliere il coperchio a una pentola ancora
in ebollizione.
Attorno al Politecnico ci sono ancora i resti della battaglia. Marmi divelti tutt’attorno ai resti
dell’ingresso sfondato dai tank dei colonnelli, il 17 novembre del 1973, quasi a mantenere
un filo tra la rivolta di allora e quelle di oggi. Negozi sbarrati e un’aria da ribellione «no
future», nonostante i locali della movida giovanile di Exarchia siano frequentati come al
solito. La lapide che ricorda l’uccisione di Alexis Grigoropoulos è circondata di murales, di
tanto in tanto qualcuno passa, sosta, fotografa, lascia una scritta. La strada è stata
reintitolata al giovane ucciso, come la piazza Alimonda di Carlo Giuliani. Alexis aveva 16
anni e si accasciò tra le braccia del suo grande amico Nikos Romanos, la sera dell’8
dicembre del 2008, fulminato dalla pallottola di un poliziotto.
«Quel giorno ha cambiato la storia della Grecia, perché la battaglia di quei giorni ha
costituito il propellente che ha trasformato Syriza, in brevissimo tempo, da un partitino del
3 per cento alla principale forza politica del Paese», sostiene Adamos Zachariades, seduto
davanti al suo computer nella redazione di Epohi, un settimanale di sinistra che, pur
indipendente come la gran parte delle cliniche sociali e delle altre forme di
autorganizzazione greche, costituisce una delle stampelle del partito della sinistra radicale
che terrorizza l’Europa. Zachariades è un notista politico, racconta sorridendo di venire da
uno dei tanti gruppetti della sinistra extraparlamentare confluiti nel ventre di Syriza
(«eravamo non più di duecento, ci chiamavamo Rosa», con un chiaro riferimento a Rosa
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Luxembourg) e insieme riavvolgiamo il nastro degli ultimi dieci anni, per provare a
raccontare l’evoluzione di un modello che dal sociale sale alla politica e non viceversa,
senza tralasciare la cultura e l’informazione. «Le radici di Syriza sono nel movimento
altermondialista. Gli attuali dirigenti si sono formati tutti nei social forum, lì hanno avuto
modo di confrontarsi e stringere relazioni in tutta Europa. Un’intera generazione di greci è
figlia di quella stagione. In seguito, nel 2006 c’è stato un fortissimo movimento
studentesco contro la privatizzazione e Syriza è stato l’unico partito a supportarlo. Ma il
punto di svolta vero è stato la rivolta del 2008», spiega Zachariades. L’uccisione di Alexis
fece da detonatore a un malessere sociale che covava da tempo: quella che scendeva in
strada a scontrarsi con la polizia fu definita da giornali e tv come la «generazione 800
euro». Pochi soldi, maledetti e soprattutto precari, mentre il resto del Paese sprofondava
sotto il peso del debito pubblico, della corruzione e dell’evasione fiscale, e l’Europa non
trovava di meglio che sostenere quelle forze che avevano contribuito a creare tutto ciò.
Sei anni dopo, chi guadagna 800 euro al mese può considerarsi fortunato. Davanti al
ministero dell’Economia mi imbatto in una protesta tutta al femminile. Il palazzo è
tappezzato di striscioni e un gruppetto di donne di mezza età è seduto davanti all’ingresso.
Una di loro fa la maglia ed è la stessa ritratta a muso duro di fronte a un poliziotto, in una
sequenza di foto affisse al muro che testimoniano di uno sgombero. Sono lì da sei mesi,
da quando sono state dismesse perché l’appalto per le pulizie è stato aggiudicato a
un’altra ditta, a costi inferiori. Si definiscono «vittime della deregulation». Chiedo loro
quanto guadagnavano. «Tra i 500 e i 600 euro al mese, dipende dai giorni di lavoro».
Sono state mandate via in 595, per un periodo hanno avuto un sussidio equivalente al 70
per cento del salario, ora più nulla. Domando anche chi le abbia supportate, finora:
«Syriza, il Kke, gli Indipendenti Greci», una formazione politica di centrodestra nata da una
scissione di Nea Democrazia del premier delle larghe intese Antonis Samaras, al quale
hanno tolto il sostegno politico.
Proteste del genere non sono una rarità in Grecia. Il malcontento sociale è esondato dai
giovani costretti a emigrare alla working class, la classe media è stata spazzata via dalla
crisi e il consenso va cercato su questo terreno. Finora, chi è riuscito a trarne giovamento
più di tutti è Syriza, grazie alla lezione appresa, a loro dire, nei social forum dove si sono
formati i quadri dirigenti: orizzontalità nelle decisioni, supporto alle lotte sociali ma senza
bandiere, assistenza materiale e presenza sul territorio. Nel quartiere di Neos Cosmos la
vecchia sede del partito è stata riadattata in mensa per i nuovi poveri: «Non c’era mai
nessuno, venivano solo gli iscritti per qualche riunione», racconta Argyris Panagopoulos,
abitante del quartiere e braccio destro di Alexis Tsipras nelle trasferte italiane (nonché
vecchio amico del manifesto). E allora, via le bandiere e cibo per tutti: a ora di pranzo c’è
la fila per un piatto caldo.
A Nea Philadelphia, quartiere operaio a una quindicina di chilometri dal centro, il
minisindaco di Syriza Aris Vassilopoulos ha trasformato un edificio pubblico in un centro di
assistenza ai bisognosi. Vado a incontrarlo il giorno dell’inaugurazione. Nel giardino c’è
una festa popolare, si solidarizza con cubani e venezuelani venuti fin qui a sostenere
cause internazionaliste, poi tutti a pranzo come a una vecchia Festa dell’Unità.
Vassilopoulos racconta i suoi trascorsi politici, dal G8 di Genova al Forum sociale europeo
di Firenze («ci sembrava la rivoluzione», dice, non capacitandosi di quello che è accaduto
in seguito in Italia), poi passa a elencare i problemi del quartiere, dalla «mafia dei rifiuti»
che gli sta facendo la guerra al tentativo di fermare la speculazione per la costruzione del
nuovo stadio dell’Aek Atene. Infine spiega che, se è vero che il partito ha accolto diversi
transfughi del Pasok e questo fa storcere il naso a molti, la base è invece molto più
intransigente: «Noi siamo molto radicali sulle questioni sociali, le persone votano Syriza
non per ragioni ideologiche ma perché sostengono che la situazione è così grave che non
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possono fare altro». La domanda da un milione di dollari è però cosa accadrà se Syriza
dovesse andare davvero al governo. Vassilopoulos non nasconde un certo timore che il
grande sogno di una «rivoluzione greca» possa evaporare di fronte a una realpolitik fatta
di alleanze politiche difficili da gestire, pressioni finanziarie internazionali e imposizioni di
Bruxelles. Già nella situazione attuale non è semplice gestire un municipio di 35 mila
residenti: «Da quando c’è il Memorandum i trasferimenti del governo sono diminuiti del 70
per cento. Abbiamo meno soldi e contemporaneamente più responsabilità». La soluzione
adottata è ancora una volta l’autorganizzazione. Il Comune ha messo a disposizione la
struttura, il resto lo fanno i volontari. Dafne Tricopoulos è una di questi. Lavora
all’ospedale psichiatrico, guadagna 850 euro al mese “dopo 22 anni di anzianità” e rischia
il licenziamento perché, pur non essendoci il corrispettivo greco della nostra legge
Basaglia, il governo vuole chiudere i manicomi senza sapere che farne dei suoi ospiti. E
nel tempo libero viene alla Solidarity Clinic a dare una mano. Gratis. “Qui c’è molto da
fare, più che in altri quartieri. La chiusura delle fabbriche ha creato molti problemi
psicologici e di depressione agli ex operai», dice. Giorgios Diamantis, che si definisce
ammiratore di Gramsci, vive tutto ciò come un attacco ai lavoratori: «Sia chiaro, per noi
quella che stiamo combattendo è una lotta di classe».
Il quartier generale della sinistra sociale è nella centrale via Akadimia. Al settimo piano di
un palazzo come tanti altri c’è la sede di Solidarity for all, il network dei centri di mutuo
soccorso, delle mense e cliniche social e dei centri di assistenza agli immigrati. In una
stanza sono accatastate scatole di medicinali, un’altra è adibita a studio legale, un’altra
ancora ospita gli attivisti che si occupano del sostegno al movimento cooperativo. Su un
terrazzo dal quale si gode di una panoramica da brivido dello sprawl urbano ateniese sono
poggiate alcune confezioni di sapone liquido prodotte dalla Vio.me di Salonicco, la
fabbrica recuperata di Salonicco definita da Naomi Klein «un segnale di speranza critica»
per l’Europa. Christos Giovannopoulos, uno dei responsabili della campagna, srotola una
mappa dell’Attica sulla quale sono indicate le roccaforti della gauche ateniese: farmacie
sociali, scuole per immigrati, centri sociali. Sono decine, una legenda spiega il nome e
l’attività di ognuna. Ce n’è perfino una che si chiama Lacandona, zapatisti nella giungla
urbana ateniese. «Abbiamo tre linee principali di azione: il cibo con le mense sociali e la
distribuzione di viveri, la sanità con le cliniche e farmacie, e le cooperative», spiega
Giovannopoulos. Solidarity for all aiuta i lavoratori a recuperare le aziende che chiudono:
un fenomeno che è cominciato qualche anno fa alla Vio.me e attorno al quale si sta
strutturando un vero e proprio movimento.
In nome di Poulantzas
Chissà cosa avrebbe detto oggi Nicos Poulantzas se non si fosse lanciato dalla finestra
dell’abitazione di un amico il 3 ottobre 1979 a Parigi, ad appena 43 anni. È quello che si
chiedono all’Università Panteion, in un quartiere di palazzoni che non fanno rimpiangere la
periferia romana. Il Poulantzas Institute, think thank intitolato al filosofo marxista greco
allievo di Louis Althusser, ha organizzato due giorni di dibattito sulla crisi europea, alla
quale partecipano studiosi e attivisti, soprattutto del nord Europa. La crisi greca ha
provocato come effetto collaterale una riscoperta del Gramsci ellenico, che ebbe lo
sguardo lungo sul futuro del continente. Poulantzas aveva già prefigurato un’Europa divisa
tra centro e periferia, con i paesi mediterranei sopraffatti sia dal capitale internazionale che
dalle avide borghesie nazionali. E sembra che ci abbia preso.
L’aspetto culturale non è secondario nel «modello Syriza». «Abbiamo studiato tanto in
questi anni», dice Adamos Zachariades, che snocciola i riferimenti teorici del partitocoalizione che sta rivoluzionando la sinistra europea: da Etienne Balibar a Michel
Foucault, passando per Cornelius Castoriadis e Giorgio Agamben.
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Alexis Tsipras non è nella sede del partito. L’uomo più temuto d’Europa è in campagna
elettorale permanente, impegnato a schivare gli eurosgambetti di Jean Claude Juncker e
le spallate del premier Antonis Samaras. Da quando si è delineata l’ipotesi di un ritorno
anticipato alle urne e dai sondaggi Syriza risulta il primo partito di Grecia, la temperatura
politica del Paese è improvvisamente salita, in misura proporzionale al crollo della Borsa.
Nel quartier generale del partito, in piazza Eleftheria, si denuncia il «terrorismo» delle élite
interne e di quelle europee, le stesse che hanno ridotto il Paese allo stremo e ora
annunciano scenari da Argentina 2001 a partire dal giorno dopo la vittoria dell’uomo che
minaccia di ribaltare il dogma tedesco dell’austerità. «Il problema per Tsipras sarà gestire
la transizione», dice un analista alla tv. Una fase di turbolenza è considerata quasi
inevitabile, «ma noi siamo pronti a tutto», rispondono da Syriza. Dal 2008 per il partito
della sinistra radicale un tempo fratello minore, e acerrimo rivale, dei comunisti del Kke, è
stato un crescendo: gli ultimi sondaggi lo danno, in caso di probabili elezioni anticipate, tra
il 25 e il 28 per cento. La battaglia si combatte nelle piazze e sui media. La galassia Syriza
può contare sul quotidiano Avgì e radio Kokkino, nonché sul settimanale d’area Epohi e su
istituti culturali come il Poulantzas. Ma non basta. Bisogna sfondare sui media mainstream
ed è l’operazione più difficile, anche se qualche breccia si sta aprendo, se è vero che
persino una Bibbia del capitalismo globalizzato come il Financial Times è stata costretta
ad ammettere, sia pur a malincuore ma con onestà, che gli unici ad avere le idee chiare su
come si possa uscire dalla crisi in Europa sono due partiti di fronte ai quali gli alfieri
teutonici dell’ordoliberismo sbuffano come i tori come quando vedono rosso: Syriza,
appunto, e lo spagnolo Podemos.
Altra stampella fondamentale sono le alleanze internazionali. Metà della sfida di Tsipras si
gioca in Europa, e per questo nei convegni di Syriza politici e militanti di Podemos e della
tedesca Linke sono di casa. «Ma c’è un problema: nessuna di queste forze è al potere»,
ricordano in molti., temendo che la sinistra greca possa trovarsi sola al governo, a
sostenere una sfida più grande di lei . Il paradosso è che mentre Syriza è proiettata
all’esterno, consapevole che la battaglia la si vince o si perde tutti insieme, in Europa molti
guardano a Syriza con speranza, sì, ma come spettatori di una partita che si gioca altrove.
Del 18/12/2014, pag. 18
Mosca, code ai bancomat e paura
“Anche Putin non è invincibile”
Choc dopo la mega-svalutazione del rublo: sembrano i tempi di Eltsin
Mark Franchetti*
Improvvisamente Mosca appare molto diversa. I prezzi dei prodotti alimentari aumentano
di giorno in giorno. Così tantissime persone si stanno affrettando a cambiare i loro rubli in
dollari che per la prima volta in oltre un decennio alcune banche hanno finito i dollari. Ieri è
stato segnalato che nella capitale una filiale della banca statale Sberbank aveva finito gli
ultimi 100 dollari, dopo aver iniziato la giornata con almeno 100 mila. Alla radio gli
ascoltatori discutono l’impatto psicologico di una crisi economica che ha dimezzato il
valore del rublo in pochi mesi. Molti raccontano di essere così stressati che hanno smesso
di seguire le notizie e scelgono invece programmi di intrattenimento.
«Brindiamo agli Anni 90!»
«Ho prelevato gli ultimi 3000 rubli dal bancomat. Non potete immaginare lo sguardo di un
uomo dietro di me che voleva anche lui prendere dei soldi», ha scritto un moscovita su
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Twitter. All’inizio dell’anno 3000 rubli valevano 66 euro. Martedì scorso si erano ridotti a
33. «Ho trovato un lavoro a settembre per 750 dollari. Tre mesi dopo ne guadagno 350»,
ha scritto un altro. «Ritorno al futuro. Dopo Capodanno, vi diamo il benvenuto negli Anni
90», ha detto un altro. L’effetto combinato del forte calo dei prezzi del petrolio in tutto il
mondo e delle sanzioni imposte dagli Stati Uniti e dall’Unione europea per la guerra sotto
copertura del Cremlino in Ucraina hanno messo in ginocchio il rublo.
La valuta nel solo giorno di martedì ha perso il 20 per cento. Si è stabilizzata ieri dopo che
il governo russo ha detto che sarebbe intervenuto per difendere la moneta e avrebbe
iniziato a vendere le sue riserve di valuta estera. In seguito all’annuncio dell’intervento si è
assestata a circa 68 sul dollaro.
La drammatica svalutazione del rublo ha fatto rivivere i dolorosi ricordi della crisi
finanziaria russa del 1998, sotto il governo di Boris Eltsin, quando la valuta crollò
spazzando via milioni di risparmi di una vita. Oggi come allora, i russi che se lo possono
permettere stanno comprando frigoriferi, automobili, impianti stereo, macchine fotografiche
e altri prodotti elettronici. Con l’implosione della valuta ci sono brevi momenti in cui tali
prodotti sono relativamente più convenienti che in altri Paesi. E le merci sono viste come
un investimento migliore piuttosto che stare a guardare i propri risparmi che diventano
carta straccia. Lunedì e martedì la moneta si è svalutata così in fretta che la gente,
sbalordita, si riuniva davanti agli uffici di cambio a guardare le cifre che cambiavano ogni
minuto. Un moscovita che ha acquistato un iPad da un rivenditore Apple nel centro di
Mosca ha affermato che nel tempo necessario per configurare il dispositivo nel negozio il
prezzo era salito e le etichette dei prezzi di tutti i prodotti erano state rimosse.
La banca centrale ha risposto alzando al 17 per cento i tassi di interesse, una mossa
d’emergenza che è destinata a peggiorare l’impatto della recessione già prevista dal
governo. «La situazione è critica. Un anno fa nemmeno in un incubo avrei immaginato
quello che sta accadendo ora», ha detto Sergei Shvetsov, vice presidente della Banca
Centrale.
Fine dell’incantesimo
Un commento sul tabloid «Moskovsky Komsomolets», uno dei quotidiani più venduti del
Paese, ha riconosciuto che «Abbiamo perso la sensazione che Putin sia una sorta di
mago in grado di controllare tutto». Il titolo annunciava la fine di «Teflon Putin». Il bilancio
di Stato del 2015 convertito in legge all’inizio di questo mese da Putin (che oggi terrà la
sua conferenza stampa fiume di fine anno) è in grado di raggiungere il pareggio solo con
le medie del petrolio a 100 dollari al barile, ma questo mese il Brent ha segnato 69 dollari
al barile. Per ogni dollaro in meno la Russia perde circa due miliardi di dollari l’anno in
entrate di bilancio. Mikhail Fradkov, il capo del servizio di intelligence estero russo ha
accusato gli Stati Uniti di aver introdotto le sanzioni e attaccato il rublo attraverso la
manipolazione dei prezzi mondiali del petrolio nel tentativo di cacciare Putin. «Questo
desiderio è il segreto di Pulcinella», ha detto recentemente Fradkov: «Nessuno vuole
vedere una Russia forte e indipendente».
I media di Stato, la cui propaganda è insidiosa come ai tempi dell’Unione Sovietica,
tendono sempre di più a incolpare l’Occidente per i problemi economici del Paese. Putin
che potrà legittimamente ricandidarsi nel 2018 e rimanere al potere fino al 2024, quando
avrà 72 anni, deve il suo record di popolarità - ben al di sopra dell’80% - alla stabilità
economica e politica della Russia sotto il suo dominio. I russi lo sostengono anche perché
sentono che ha restituito alla Russia un po’ dello status e del potere che aveva perso con
il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991.
Tempi duri anche per lo Zar
«Questa è la grande prova: che cosa succederà una volta che i russi inizino veramente a
soffrire» ha detto il socio in affari dell’oligarca: «In un primo momento faranno quadrato
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intorno a lui, ma per quanto tempo? Le élite ricche sono già sconvolte per il corso che
Putin ha impresso al Paese, ma sono troppo spaventate per mostrarlo. In questo momento
Putin è forte, ma anche lui inizierà a sentire la pressione se questo casino va avanti. Ci
attendono tempi duri, non solo per i russi, ma anche per Putin».
Del 18/12/2014, pag. 18
Ora l’Europa mette nel mirino gli interessi
russi in Crimea
Anna Zafesova
Nuova ondata di sanzioni per la Russia già traballante sotto i colpi della crisi del rublo.
Domani il vertice Ue – il primo sotto la presidenza di Donald Tusk, che come leader
polacco era stato tra i più duri nei confronti di Mosca sulla crisi ucraina – varerà un nuovo
pacchetto di restrizioni dirette essenzialmente alla Crimea. Secondo le indiscrezioni che
arrivano da Bruxelles, ai cittadini e alle aziende europee sarà vietato partecipare
all’esplorazione di gas e petrolio nella penisola annessa dalla Russia a marzo, e vendere
ai crimeani attrezzature per il trasporto e le comunicazioni. Mosse destinate a confermare
«la politica di non riconoscimento dell’annessione», come recita la bozza della risoluzione,
che promette anche «ulteriori passi se necessario», mentre ribadisce il sostegno anche
economico al governo di Kiev.
Le richieste al Cremlino
Il Cremlino aveva sperato in uno sgretolamento del fronte europeo delle sanzioni. Ma la
crisi economica a Mosca riduce anche la pressione su alcuni governi europei degli
esportatori verso la Russia, e ha prevalso la linea dura: l’Ue chiede a Vladimir Putin di
rispettare pienamente le condizioni della tregua di Minsk, e anche di garantire agli
investigatori l’accesso libero al luogo del disastro del Boeing malese, abbattuto nel luglio
scorso da un missile probabilmente lanciato dai separatisti filo-russi.
Pugno duro di Obama
Le nuove sanzioni europee arrivano in contemporanea a quelle americane, con Barack
Obama che si prepara a firmare l’Ukraine Freedom Act approvato sabato dal Congresso. Il
documento permette alla Casa Bianca di estendere l’embargo già in vigore da marzo a
società russe di esportazione di armi, e soprattutto prende di mira Gazprom, minacciando
di colpire il gigante del metano russo nel caso tagli le forniture a Ucraina, Georgia,
Moldavia o altri Paesi messi sotto pressione da Mosca. Ma nello stesso tempo John Kerry
parla di non meglio precisati «progressi» diplomatici con il suo collega russo Serghey
Lavrov e promette di alleviare l’embargo se il Cremlino rispetterà i patti nell’Est ucraino.
Del 18/12/2014, pag. 21
Marò, rabbia dell’Italia: “Pronti a ogni passo”
Richiamato l’ambasciatore a Delhi Torna in campo l’ipotesi di un
arbitrato internazionale
VINCENZO NIGRO
ROMA .
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Daniele Mancini, l’ambasciatore italiano in India, è stato richiamato in Italia. Rientrerà
presto a Roma «per consultazioni », una forma di protesta contro la sentenza della Corte
suprema indiana che non ha concesso altri permessi ai marò accusati dell’omicidio di due
pescatori. Ma è molto probabile che una volta rientrato, Mancini non ripartirà mai più per
New Delhi: gli è stata assegnata un’altra ambasciata, all’inizio dell’anno prenderà servizio
a Roma alla rappresentanza presso la Santa Sede. Di fatto quindi l’Italia cambia il suo
ambasciatore in India. La mossa, decisa nell’ultimo Consiglio dei ministri gestito da
Federica Mogherini, è stata confermata da Paolo Gentiloni che dopo la sentenza della
Corte suprema dell’altro ieri ha deciso di accelerare nell’operazione di ricompattamento
della squadra che si occupa della questione-marò. Mancini verrà sostituito dall’attuale
ambasciatore in Vietnam, Lorenzo Angeloni.
Ieri Gentiloni è stato due volte alla Camera: al mattino in commissione con la collega
Pinotti, e poi alle 15 per il question time. «L’Italia si riserva di effettuare tutti i passi
necessari», ha precisato il ministro, perché sono in gioco «principi irrinunciabili di sovranità
e diritto interplomatico nazionale», e di fronte a quello «ad un atteggiamento inaccettabile»
delle autorità giudiziarie indiane «l’Italia ha l’obbligo di reagire in modo fermo e unitario».
Tutti i partiti hanno criticato la scelta del giudice indiano che ha negato a Massimiliano
Latorre una estensione del permesso medico concesso in settembre e ha rifiutato anche a
Salvatore Girone una licenza natalizia per ragioni umanitarie. Nonostante il richiamo
dell’ambasciatore, Gentiloni sta attento a non lanciare segnali equivoci a New Delhi. Dice
un di- che «il governo indiano ci aveva fatto capire di non essere contrario alla
concessione di questi permessi per ragioni umanitarie, che sarebbero serviti anche a noi
in Italia per rasserenare il clima. La decisione della magistratura non ha seguito questa
corrente di intesa che c’è fra i due governi».
Per questo Gentiloni precisa che «non vogliamo interrompere le relazioni diplomatiche con
l’India, protestiamo con decisione, ma perché vengano riconosciute le nostre ragioni
dobbiamo mantenere aperti i canali diplomatici». Il responsabile della Farnesina ha anche
precisato che la decisione se fare ricorso all’arbitrato internazionale per la vicenda dei due
marò verrà presa nei «prossimi giorni ». Anche il ministro della Difesa Roberta Pinotti
precisa la sue parole sul fatto che Latorre (colpito da ictus) potrebbe non rientrare in India
nella data prevista: «Deve curarsi, per noi la sua salute è un punto prioritario ». Latorre ha
fatto sapere di aver previsto un intervento chirurgico agli inizi di gennaio.
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INTERNI
del 18/12/14, pag. 6
L’attacco a Chiomonte non fu terrorismo
Mauro Ravarino
No Tav. I quattro imputati condannati per danneggiamento,
fabbricazione e trasporto di armi
Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò, i quattro militanti No Tav arrestati il 9 dicembre del 2013,
non sono terroristi, né lo sono mai stati come invece ha sostenuto, durante il loro
processo, la procura di Torino. Cade così il fardello più pesante, l’accusa più grave nei
confronti del movimento che da anni lotta contro la Torino-Lione: il terrorismo. «Il reato non
sussiste», la Corte d’Assise presieduta da Pietro Capello, ieri, ha, infatti, assolto i quattro
attivisti dall’accusa di aver agito con finalità terroristiche. Li ha, però, condannati – in
riferimento all’assalto al cantiere di Chiomonte del 14 maggio 2013 – a tre anni e mezzo di
carcere ciascuno, per danneggiamento seguito da incendio, fabbricazione e trasporto di
armi (in relazione all’utilizzo di moltov) e violenza a pubblico ufficiale. Delle parti civili, solo
Ltf ha ottenuto il diritto a un indennizzo, che è stato negato all’Avvocatura dello Stato e al
Sap, il sindacato autonomo di polizia che si era costituito parte civile.
Alla lettura del dispositivo, nell’aula bunker delle Vallette, parenti e attivisti No Tav hanno
urlato «libertà», identico coro si è ripetuto fuori dalla struttura, dove un presidio, ha
aspettato l’esito, in pieno stile valsusino con dolci e vin brulé.
Abbracci e lacrime tra gli imputati — Claudio Alberto, 23 anni, Niccolò Blasi, 24 anni,
Mattia Zanotti, 29 anni, Chiara Zenobi, 41 — che prima di lasciare la cella dell’aula bunker,
hanno stretto a lungo le mani dell’avvocato Claudio Novaro, a capo del pool difensivo e
autore di un lavoro certosino.
«L’accusa di terrorismo era manifestamente infondata. È una vittoria su tutta la linea. Era
la pena che auspicavamo. Avevo detto ai miei clienti — ha sottolineato Novaro — che
sotto i 4 anni sarebbe stata una vittoria». I legali, ora, chiederanno i domiciliari per i quattro
militanti di area anarchica, in carcere da oltre un anno, soggetti a un regime di alta
sorveglianza. «Troppo tempo, troppo — ha precisato Nicoletta Dosio, voce storica del
movimento, presente in aula — i ragazzi devono essere subito scarcerati, li vogliamo
liberi».
Soddisfatta a metà per la sentenza: «Certo, poteva andare peggio, ma tre anni e 6 mesi
sono sempre tanti. Non è quindi una vittoria, ma siamo felici che sia stata sconfessato
l’impianto della procura torinese. E sia caduto il reato di terrorismo. La nostra volontà di
giustizia non passa dai tribunali, ma dal conflitto sociale».
I fatti, per i quali la Corte d’Assise di Torino era stata chiamata a decidere, risalgono al
2013, alla notte tra il13 e il 14 maggio, quando un gruppo di persone incappucciate attaccò
il cantiere del cunicolo esplorativo di Chiomonte, in località La Maddalena, provocando
l’incendio un compressore, non lontano dal tunnel esplorativo, dove lavoravano una
dozzina di operai.
I pm Andrea Padalino e Antonio Rinaudo avevano chiesto, per i quattro imputati, nove
anni e mezzo di pena, facendo leva sulle finalità terroristiche, smentite completamente
dalla decisione della Corte. «È una grande giornata perché abbiamo battuto la procura e i
suoi castelli campati in aria» ha detto Alberto Perino, all’inizio dell’assemblea svoltasi in
serata a Bussoleno. «La Procura – ha aggiunto – ha perso due volte perché il tribunale
non si è appiattito sulle idee di Caselli, Padalino, Rinaudo».
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La sentenza ha, invece, molto infastidito il ministro dei Trasporti Maurizio Lupi: «Se non è
associazione con finalità terroristiche incappucciarsi e organizzare l’attacco allo Stato,
qualcuno mi deve spiegare cosa sia. Mi auguro che i pm facciano ricorso in secondo
grado e li ringrazio per il coraggio».
In serata, il movimento si è ritrovato a Bussoleno, nel cuore della Valle, per festeggiare
l’assoluzione dalla gravissima accusa di terrorismo, esprimere disappunto per una
condanna ritenuta comunque alta e soprattutto chiedere la liberazione dei compagni.
Un corteo, aperto dallo striscione «Siamo No Tav, fermarci è impossibile» ha attraversato
le vie del borgo. È stata bloccata l’autostrada del Frejus e poi la statale 25. Presidi anche a
Roma, Milano, Bologna, Brescia e Firenze. Nella giornata è stato oscurato il sito della
procura di Torino, l’attacco informatico è stato rivendicato da Anonymous.
Il Movimento 5 Stelle con i consiglieri regionali Francesca Frediani e Davide Bono auspica
«una rapida liberazione degli attivisti No Tav ancora reclusi». Per Paolo Ferrero,
segretario di Rifondazione, «caduta l’assurda accusa di terrorismo resta una condanna
enorme e puramente repressiva».
del 18/12/14, pag. 1/6
Sentenza No Tav
Dove sono finiti i terroristi?
di Livio Pepino
C’è un giudice a Torino! C’è voluto un anno, un anno – non dimentichiamolo – di carcere
duro in condizioni di isolamento, un anno di massacro mediatico, un anno di repressione
finanche delle idee di chi solidarizzava, un anno di assordante silenzio di gran parte dei
giuristi e degli intellettuali. Ma, alla fine, la Corte di assise di Torino ha detto, senza mezzi
termini, che l’“attacco al cantiere di Chiomonte” del 14 maggio 2013 non ha niente a che
fare con il terrorismo. Sono rimasti i reati (incontestati) di danneggiamento seguito da
incendio e di porto di bottiglie molotov, per cui è stata inflitta una pena tutt’altro che mite.
Ma il nodo centrale – per gli imputati, che rischiavano dieci anni e più di carcere, e per il
Movimento No Tav, criminalizzato da questa vicenda nella sua interezza – era l’attentato
con finalità di terrorismo. Già la Cassazione, il 15 maggio, aveva smontato, nel giudizio
cautelare, l’imputazione. Ma i pubblici ministeri avevano insistito: anche con la richiesta,
nei giorni scorsi, di una nuova misura cautelare con la stessa imputazione nei confronti di
altri tre imputati, regolarmente emessa dal gip. Per questo la sentenza della corte d’assise,
composta – è bene sottolinearlo – anche da giudici popolari (un pezzo di popolo italiano),
è importante.
Il fatto contestato consiste, come noto, in un “assalto” al cantiere della Maddalena
realizzato da una ventina di persone nel corso del quale alcuni componenti del gruppo
avevano incendiato un compressore mentre gli altri ostacolavano l’intervento delle forze di
polizia con il lancio di sassi e di «artifici esplosivi e incendiari». I pubblici ministeri hanno
motivato la contestazione di terrorismo, da un lato, con l’asserita attitudine del gesto a
intimidire la popolazione e/o a costringere i poteri pubblici ad astenersi dalle attività
necessarie per realizzare la nuova linea ferroviaria e, dall’altro, con l’affermata idoneità del
fatto ad arrecare un grave danno al Paese («è indubbio che azioni violente come quella
della notte di maggio arrechino un grave danno al Paese quanto all’immagine – in ambito
europeo – di partner affidabile». Evidente l’evocazione della categoria del terrorismo non
per riconoscere reati contrassegnati da caratteristiche specifiche ma per stigmatizzare fatti
ritenuti di particolare gravità e, per questo, meritevoli di più intensa riprovazione sociale.
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Ché la connotazione terroristica di un atto – secondo il comune sentire e una
giurisprudenza consolidata – ha necessariamente a che fare col sovvertimento dell’assetto
democratico dello Stato e con la destabilizzazione dei pubblici poteri mentre l’affermazione
secondo cui la mancata realizzazione di una linea ferroviaria comporterebbe «un grave
danno per il Paese» e per la «sua immagine di partner europeo affidabile» sfiora il
grottesco. Eppure l’operazione era stata avallata anche dai giudici della cautela e salutata
in termini trionfalistici da tutta la grande stampa. Forse per l’autorevolezza della Procura
torinese, che non aveva mancato di supportare l’iniziativa con termini enfatici che
evocavano addirittura la guerra. Certo per la progressiva caduta nel nostro Paese, con
riferimento al conflitto sociale, della cultura delle garanzie, accompagnata dalla
costruzione, legislativa e giurisprudenziale, di una sorta di diritto penale del nemico in cui
quest’ultimo va perseguito, senza esclusione di colpi, per quel che è più ancora che per le
sue azioni specifiche. A contrastare la deriva sono stati in pochi a fianco del Movimento
No Tav (capace, da parte sua, di reggere lo scontro anche quando è parso che ad essere
messa sul banco degli imputati fosse la stessa opposizione alla linea ferroviaria TorinoLione).
Oggi è intervenuto un segnale nuovo. C’è un giudice a Torino! Un giudice consapevole
che il proprio compito è – secondo una autorevole definizione – «assolvere in assenza di
prove anche quando l’opinione pubblica vuole la condanna e condannare in presenza di
prove anche quando l’opinione pubblica vuole l’assoluzione». Non è poca cosa. Ed è
auspicabile che aiuti a comprendere che quella del Tav è una grande questione politica
irrisolta e non una questione di ordine pubblico.
del 18/12/14, pag. 4
Pd avanti tutta, “anche da soli”
Andrea Colombo
Riforme. Renzi: «Prima la legge elettorale, poi il Colle». Forza Italia
punta i piedi: «No, si voti prima il nuovo capo dello Stato»
La legge elettorale arriverà nell’aula del Senato, salvo improbabilissime sorprese, lunedì
22. Ci arriverà senza relatore e senza che la commissione abbia di fatto neppure iniziato a
votare. L’annuncio ufficiale ancora non c’è: a modificare il calendario dovrà provvedere la
conferenza dei capigruppo di domani, ma la decisione di Matteo Renzi è già presa e la
paralisi dei lavori in commissione, ieri, lo conferma.
Quella del velocista non è una corsa contro il tempo ma, più prosaicamente, contro le
dimissioni del presidente della Repubblica. Quando Napolitano ufficializzerà l’addio i giochi
si congeleranno all’istante. Di conseguenza, come Renzi ha detto ieri mattina ai senatori
democratici riuniti, la riforma deve essere approvata prima dell’elezione del nuovo capo
dello Stato. Fi la pensa all’opposto, e anche loro, gli azzurri, lo hanno detto chiaro, nella
conferenza dei capigruppo della Camera in cui si discutevano i tempi della riforma
costituzionale: «Tutte le riforme vanno posticipate alla nomina del successore» di re
Giorgio.
Renzi non vuole arrivare a quella scadenza con il tavolo della riforma elettorale ancora
aperto per le stesse ragioni per cui invece Berlusconi ci tiene tanto: l’intreccio
aumenterebbe il peso contrattuale degli azzurri. In realtà, diecimila e passa emendamenti,
neppure l’incardinamento in aula il 22 e 23 dicembre, col voto sulle pregiudiziali di
costituzionalità, basterebbe a garantire il varo della legge prima dell’addio di Napolitano,
se questo, come previsto, arrivasse davvero a metà gennaio. Il premier potrebbe invece
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farcela se slittasse a fine gennaio. Forse la scelta di premere l’acceleratore a tavoletta
serve proprio a offrire un argomento al presidente giovane per convincere quello anziano a
posticipare: «Ormai ci siamo, questione di giorni e cosa sono a questo punto due
settimane in più?».
Dietro la fretta del governo sembra naturalmente esserci un motivo in più, oltre alla
necessità di nominare il premio. Ai dubbi di molti dà voce la presidente dei senatori di SelGruppo misto Loredana De Petris: «La forzatura ha una sola spiegazione logica: governo
e Pd vogliono essere pronti a imporre le elezioni anticipate». In realtà potrebbe esserci un
ulteriore calcolo dietro la corsa di Renzi. A metà gennaio potrebbe arrivare un verdetto
negativo europeo sulla manovra italiana: quello sì che metterebbe il premier nelle mani
degli azzurri e moltiplicherebbe esponenzialmente la loro forza contrattuale. Quali che
siano le ragioni che spingono Renzi, di certo la scelta di forzare i tempi è già stata presa.
«Se Fi fa melina, noi andiamo avanti da soli», faceva sapere ieri sera, informalmente ma
con termini netti, la segreteria Pd.
I tempi dell’approvazione della legge non sono il solo scoglio, e forse neppure il più
insidioso. Ci sono altri due motivi di frizione tra Pd e Fi, nessuno dei quali, peraltro,
riguarda il merito della riforma, del quale a nessuno sembra importare più che tanto e
basterebbe questo a dire tutto sullo stato del Paese. Da quel punto di vista, è già tutto o
quasi concluso. I punti deboli sono invece la data in cui l’Italicum entrerebbe in vigore e la
«norma ponte» con la quale si voterebbe se la legislatura naufragasse prima di quella
stessa data. Ieri mattina l’intesa sembrava raggiunta, e Renzi quasi l’aveva anticipata
nell’incontro con i suoi senatori: nessuna norma ponte, né consultellum né mattarellum
(ma è chiaro che se le elezioni diventassero inevitabili, prima di giocarsela a testa o croce,
non si potrebbe fare altro che usare il consultellum) e, quanto alla data di entrata in vigore
dell’Italicum un generico «nel 2016».
Già ma in quale mese del 2016? E’ su questo particolare che l’accordo si è arenato. Renzi
vuole gennaio, Fi giugno o settembre. Non è un particolare: fissare giugno o settembre
vorrebbe dire non poter votare prima del 2017. Su questi due punti, che corrispondono ad
altrettanti emendamenti, non è in corso solo un braccio di ferro tra i soci del Nazareno ma
anche nel gruppo di testa azzurro. Il capo dei senatori Romani è per non cedere:
«Altrimenti non tengo più il gruppo». L’eterno Verdini è di parere opposto: «Perché
impuntarsi? Renzi non ha interesse a fregarci». Sarà proprio Verdini a cercare di risolvere
il guaio, oggi a quattr’occhi con l’amico e concittadino Matteo.
Alla Camera le stesse tensioni si riflettono sul percorso della riforma istituzionale. Gli
emendamenti a disposizione di ogni gruppo sono stati aumentati del 15%, con tempi
contingentati a 80 ore. Ma per Renzi è fondamentale il sì «entro il 31 gennaio», per i
forzisti invece bisognerà attendere il nuovo capo dello Stato.
Del 18/12/2014 – pag. 13
Incontro Lotti-Verdini, parte la trattativa
Berlusconi: no a tecnici dopo Napolitano
ROMA - Il clima è caotico, le guerre sotterranee feroci. E Silvio Berlusconi sta nel mezzo,
infastidito per le «forzature» di Matteo Renzi, preoccupato dall’ipotesi di un voto anticipato,
ma non disposto a far saltare i patti con il premier almeno fino a quando non si arriverà
alla stretta finale sul nuovo capo dello Stato, sul quale «mi aspetto una naturale
convergenza» su una figura che, confida ai suoi, «dovrà essere un politico, di lungo corso,
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esperto e non di provenienza comunista». Ne ha parlato anche ieri sera l’ex premier, alla
cena con i deputati — in un ristorante dalle antiche frequentazioni democristiane, Checco
allo Scapicollo —, ribadendo che Forza Italia «voterà le riforme pur restando
all’opposizione» rispettando un patto del Nazareno «che ci è pesato molto» ma che è
propedeutico all’elezione di un presidente condiviso, se «eviteremo di dividerci». Ma non
ha preso posizioni troppo nette per evitare che le divisioni nel suo partito portino
all’implosione e all’impossibilità di gestione dei gruppi azzurri.
Da una parte infatti si agitano i tanti nemici del patto del Nazareno, che credono — come
Renato Brunetta — che l’abbraccio con Renzi faccia solo danno al partito, o che come
Raffaele Fitto ne fanno un terreno di sfida in vista dei prossimi assetti interni di FI.
Dall’altra parte si muove Denis Verdini, l’uomo della trattativa, che è o almeno si sente
assediato e attaccato dal «cerchio magico» berlusconiano, a partire dalla potente Maria
Rosaria Rossi che ieri, dopo aver detto che FI «è pronta a votare in qualsiasi momento»,
ha assicurato come non ci siano problemi con il collega: «Ma se ci lavoro tutti i giorni
fianco a fianco!».
L’ex coordinatore continua a tessere la tela del rapporto con Renzi sia su riforme e legge
elettorale che sul Quirinale, tanto che ieri — dicono — ha incontrato il plenipotenziario del
premier Renzi Luca Lotti per tenere viva una trattativa che sembra poter saltare da un
momento all’altro. E considera pazzi o incapaci tutti quelli che gli si mettono di traverso
perché «io Silvio lavoro per te, non per me. Se ti va bene, se condividi quello che faccio,
bene. Ma se devo subire la guerriglia continua dei tuoi, allora me ne vado», gli ha detto —
e scritto in una lettera — venerdì scorso per l’ennesima volta. Uno sfogo che fa seguito a
tanti simili e che ha fatto pensare a dimissioni immediate, allo stato escluse anche dopo un
colloquio chiarificatore con Berlusconi. Perché il Cavaliere non può rinunciare a Verdini, e
perché — dice chi parla con entrambi — «Silvio sa che molto si è già portato a casa, dal
rinvio del conflitto di interessi alla modifica della prescrizione non in senso retroattivo, e
molto ancora si può portare...». In attesa di tempi migliori, nei quali Berlusconi sembra
credere: «Quando torno in campo — ha brindato con i suoi — torneranno anche gli
elettori».
Del 18/12/2014, pag. 10
Nuovo patto Renzi-Berlusconi subito l’ok
all’Italicum ma vale da settembre 2016
Tensione Pd-Forza Italia poi il Cavaliere: sì alle riforme La prospettiva
del voto anticipato così slitta al 2017
FRANCESCO BEI
GOFFREDO DE MARCHIS
Un uomo con il bavero alzato esce dalla sede di Forza Italia, martedì sera, percorre 150
metri a piedi e s’infila non visto nel portone secondario di palazzo Chigi. È Denis Verdini,
la sua ultima missione in qualità di “sherpa” di Berlusconi prima di lasciare ogni incarico.
Ad attenderlo al primo piano il braccio destro del premier, Luca Lotti. Renzi, impegnato al
Quirinale per il saluto di Napolitano alle cariche dello Stato, si unirà alla coppia poco dopo.
È in questa riunione, due giorni fa, che viene messo nero su bianco l’accordo finale
sull’Italicum. Quello che porterà Forza Italia a votare la legge elettorale, con buona pace di
Renato Brunetta e dei fittiani, prima dell’elezione del nuovo capo dello Stato. L’intesa c’è.
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Su questa Renzi ha costruito il calendario di gennaio: Italicum 2.0 e riforma costituzionale
entro il 20 gennaio, poi urne aperte per il successore di Napolitano. Senza subire ricatti.
Il nuovo capitolo del Patto del Nazareno si basa su una concessione importante del
premier, che è venuto incontro alla richiesta principale di Berlusconi. Non si tratta di
contenuti, ormai quelli sono stati stabiliti, ma dei tempi di entrata in vigore della nuova
normativa. Dopo una trattativa serrata — con Renzi che non voleva andare oltre giugno
2016 e Verdini che insisteva per il 31 dicembre dello stesso anno — alla fine la stretta di
mano è avvenuta sul 1 settembre 2016. Nella nuova legge sarà scritto che l’Italicum
entrerà in vigore (per la Camera) in quella data. È questa la clausola che mette al riparo
l’ex Cavaliere dal rischio urne anticipate. Di fatto si potrà andare a votare nella primavera
del 2017, non prima. Perché se Renzi volesse far saltare il banco, sarebbe il Consultellum
— cioè il proporzionale puro — la legge che varrebbe per le due Camere.
La strada ormai sembra spianata. E addio al Mattarellum come possibile clausola di
salvaguardia. Si capisce ora che i renziani lo avevano presentato in Commissione solo
come spauracchio per convincere Berlusconi a non alzare troppo il prezzo. Anche la
minoranza dem può dirsi soddisfatta dell’accordo per aver allontanato le urne di due anni.
Lo ammette Maurizio Migliavacca: «Se questa è l’intesa va bene. Questo è un Senato che,
unico caso al mondo, ha deciso di suicidarsi: figuriamoci se faremo ostruzionismo ».
Certo, dentro Forza Italia restano sacche importanti di resistenza. Maurizio Gasparri, in un
corridoio di palazzo Madama, resta scettico: «Verdini ha fatto bene a fissare quel termine
così lontano per l’entrata in vigore dell’Italicum. Il problema è che poi sarà quella la legge
con cui andremo a votare. E tra due anni avremo di nuovo il problema che Salvini non
vorrà fare una lista unica con noi». Ancora più contrario Augusto Minzolini: «Dubito che
Renzi sia diventato improvvisamente misericordioso. Ha capito benissimo che, prima di
arrivare a eleggere il successore di Napolitano, deve allontanare dai grandi elettori la
paura delle elezioni. Altrimenti il primo candidato, persino Prodi, che garantisce di non
portarci a elezioni qua dentro lo votano tutti. Su 1008 votanti ottiene 1009 voti!». Insomma,
la “concessione” di Renzi a Berlusconi sarebbe in realtà una mossa obbligata per potersi
dedicare, essendosi coperto le retrovie, all’altra partita importante, quella del Quirinale.
Ma il nuovo Nazareno 2.0 ormai è la realtà con cui fare i conti. Il patto tiene e abbraccia
anche Angelino Alfano, messo al corrente dal premier degli ultimi sviluppi. Tutti d’accordo?
Non proprio. Roberto Calderoli, che ha inondato l’Italicum di 16mila emendamenti, non si
fida affatto. Vorrebbe che la legge parlasse esplicitamente del Consultellum come lo
strumento da utilizzare in caso di scioglimento anticipa- to. «Se accettano questa clausola
io ritiro domani tutti gli emendamenti », promette il leghista. Boschi e Renzi tuttavia sono
fermi nel non andare oltre. Il Consultellum non sarà menzionato nell’Italicum. Nel governo
sono convinti che non ce ne sia bisogno. «La sentenza della Corte costituzionale che ha
“inventato” la nuova legge proporzionale è di per sé «auto-applicativa». Non c’è bisogno di
alcuna leggina per specificarla, basterebbe un decreto del ministro dell’Interno per gli
adattamenti tecnici. Ormai comunque è fatta. Domani la conferenza dei capigruppo
dovrebbe stabilire, come ha chiesto Renzi, che l’Italicum approdi in aula entro il 7-8
gennaio. Anche senza aver esaminato le tonnellate di emendamenti ostruzionistici di
Calderoli. «È una forzatura», protesta il leghista. Ma da esperto di regolamenti
parlamentari è costretto ad ammettere che «con la tecnica del “canguro” possono saltare
migliaia di modifiche e approvarlo entro il 20 gennaio». A quel punto Renzi avrà fatto
bingo. Quanto alla minoranza dem, che con Miguel Gotor ancora chiede di aumentare la
quota di deputati scelti con le preferenze, dovrà rassegnarsi ai cento capilista bloccati. «Io
sarei anche d’accordo - ha detto ieri il premier all’assemblea dei senatori dem - ma non
possiamo accettare modifiche non concordate con Forza Italia».
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Del 18/12/2014, pag. 15
Grillo manda il direttorio in Sardegna
Lunedì prima missione a Equitalia per i cinque parlamentari alla guida
del partito
Intanto il leader oggi presenta il tour che dovrebbe far nascere
l’internazionale grillina
Francesco Maesano
Come quei calciatori arrivati dal nulla durante il mercato agostano: tanti dubbi, tutto da
dimostrare. Quell’oggetto misterioso che è il direttorio del M5S debutta lunedì mattina a
Cagliari. I cinque deputati scelti alla guida del Movimento si presenteranno davanti alla
sede di Equitalia per chiedere conto delle migliaia di cartelle, a loro avviso irregolari,
emesse in Sardegna.
La prima del direttorio
Ieri, nel rifugio romano dell’hotel Forum, Grillo ha incontrato Carla Ruocco, che
nell’organismo dei cinque ha la delega alle piccole e medie imprese, e la parlamentare
sarda Emanuela Corda. Sul tavolo i dettagli dell’evento di lunedì: il battesimo del direttorio.
«Ci sono troppi punti oscuri che vanno chiariti su questa vicenda dello scandalo notifiche»,
spiega la Corda al termine dell’incontro. «Saremo a Cagliari per dare sostegno a chi
chiede chiarezza, perché è giusto che tutti paghino le tasse ma è anche giusto che tutti
rispettino le regole».
La partecipazione dei parlamentari sarà massiccia: una dozzina di colleghi accompagnerà
in Sardegna i cinque neo-leader. L’officiante sarà sempre lui, Grillo, pronto a sostenere il
coro dei suoi in Sardegna. Ma con la testa rivolta a un palcoscenico più largo, a quel
processo di internazionalizzazione del suo format politico che lo terrà impegnato per tutta
la prima metà del prossimo anno.
Campagna estera
Per iniziare, oggi Grillo vedrà la stampa estera. Un appuntamento off limits per i cronisti
italiani, buono per ribadire qualche concetto come l’addio all’euro e la sfida alle cancellerie
europee per alzare di nuovo la temperatura in vista del tour 2015. È la nuova strategia del
M5S: mentre i parlamentari si faranno portavoce dei problemi legati al territorio, cercando
di strappare a Federico Pizzarotti un po’ del prestigio di cui gode tra gli eletti del M5S a
livello locale, Grillo si farà globetrotter della rivoluzione a cinque stelle, dalla Francia alla
Germania, dagli Stati Uniti alla Grecia. Altro che stanchino.
Del 18/12/2014 – pag. 15
Aperture M5S sul Colle Ma ci sono 40 voti sciolti
tra fuoriusciti e dissidenti
Grillo annuncia le quirinarie e si riserva sorprese
MILANO Le carte sul tavolo: quaranta come il peso potenziale dei voti dei dissidenti e dei
fuoriusciti dal Movimento nella corsa al Quirinale. Tanti sono, o meglio potrebbero essere,
i parlamentari pronti a compiere scelte alternative alla linea dei Cinque Stelle. La conta, tra
espulsioni e addii, segna quota 23 (ex che hanno, però, tra loro posizioni frammentate).
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Ma nel novero rientrano anche gli incerti, ossia quei dissidenti che ancora fanno parte dei
gruppi pentastellati ma che potrebbero lasciare il Movimento: 18-20 deputati e 5-6
senatori. Insomma, circa 25 parlamentari. Una mini truppa che, sommata ai voti degli ex in
grado di coagularsi tra loro, potrebbe toccare, appunto, quota quaranta. E smuovere
diversi equilibri, creando un possibile asse alternativo alle minoranze di Pd e Forza Italia.
O dando vita a scenari imprevedibili: una buona parte di loro, a quanto sembra, sarebbe
disposta anche ad appoggiare Romano Prodi.
Il quadro è complesso — il gruppo potrebbe anche dare un supporto per le riforme — e i
contatti non mancano. Ma le sorprese nella scelta del successore di Giorgio Napolitano
potrebbero non riguardare solo i dissidenti. Anche i fedelissimi sono della partita. «Prima
di tutto sceglieremo i nostri nomi per il Colle», commentano esponenti pentastellati. E poi
aprono spiragli: «Non è escluso che si possa ripetere quello che è successo per la
Consulta: se propongono un nome degno, potremmo appoggiarlo. Ovviamente dopo una
consultazione con la base».
Un’apertura che fa il paio con quanto scrive Manlio Di Stefano: «Un nome onesto e pulito
lo voterebbe il Parlamento intero, un nome fuori dal sistema lo voteremmo volentieri tutti».
E anche Barbara Lezzi conferma: «Siamo pronti a sederci al tavolo con il Pd come
abbiamo fatto per l’elezione del Csm. Noi abbiamo le nostre quirinarie, poi se il Pd ha già
un nome noi lo proporremo ai nostri iscritti». Dopo le quirinarie, quindi, potrebbe anche
esserci una svolta.
Intanto Beppe Grillo è sbarcato a Roma dove oggi terrà una conferenza stampa sul
referendum sull’euro e su argomenti di attualità, in primis l’inchiesta Mafia Capitale (già ieri
il capo politico del M5S ha lanciato una stoccata a Matteo Renzi sul tema). Il leader ha
dribblato i cronisti e non ha commentato l’ultima fuoriuscita, quella di Tommaso Currò. Sul
blog, però, il leader posta un commento — con tanto di foto del deputato siciliano — dal
titolo «La sceneggiata». A corredo, le parole di Federico D’Incà. «Ringrazio Currò per
avere fatto sapere a Renzi in anticipo della sua bella sceneggiata alla Camera, ormai
sembra più facile parlare con il premier che in assemblea — scrive —. Se vi sono altri che
intendono seguirlo nello stesso modo è meglio che lo dicano prima, non accetterò più altri
teatrini ignobili come quello visto ieri». Insomma, la tensione resta alta. Lello Ciampolillo
commenta: «Se qualcuno si innamora dei palazzi vada pure con Renzi». Per il senatore
pugliese questo è «un momento di svolta» per il Movimento, anche se prevede che «non
ci sarà alcuna scissione». Grillo — raccontano i pentastellati — sembra però non curarsi
molto dello strappo di Currò. Il leader ha incontrato a Roma alcuni membri del direttorio —
tra cui Carla Ruocco e Roberto Fico — e altri parlamentari.
Emanuele Buzzi
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LEGALITA’DEMOCRATICA
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Del 18/12/2014 – pag 2
Così la ’ndrangheta voleva mangiarsi i ristoranti di
Expo
I CLAN PUNTAVANO AGLI SPAZI DI RISTORO NEI PADIGLIONI
STRANIERI TRAMITE LA “AREA KITCHEN” DI CRISTIANO SALA
di Davide Vecchi
Milano - Cibo amaro, nell’Expo sul cibo. Uno: la ’ndrangheta, attraverso l’imprenditore
Cristiano Sala, stava tentando di accomodarsi a tavola, mettendo le mani sui ristoranti dei
padiglioni stranieri dell’esposizione universale. Due: una nuova indagine giudiziaria è
aperta sull’appalto per la ristorazione del Padiglione Italia. Tre: trionfa, per il resto, la
trattativa diretta e l’affidamento senza gara. A Eataly di Oscar Farinetti, che gestirà due
grandi padiglioni che ospiteranno 20 ristoranti; e a Cir Food, coop rossa di Reggio Emilia
che proprio oggi annuncerà di aver ottenuto la gestione di tutti gli altri 120 punti ristoro di
Expo, chioschi, fast food, self service e ristoranti. Sì, anche la ’ndrangheta stava cercando
un posto a tavola. Secondo quanto risulta al Fatto quotidiano, la società “Area Kitchen
Catering” era molto attiva in zona Expo: ha fatto diverse proposte di gestione dei ristoranti
interni ad alcuni padiglioni stranieri, tra cui quello di Israele. Chi c’è dietro Area Kitchen
Catering? Cristiano Sala, l’imprenditore arrestato due giorni fa, insieme ad altre 58
persone, nella grande retata contro la cosca Libri-De Stefano- Tegano attiva tra Reggio
Calabria e Milano. Impegnata nel traffico di droga, ma anche in business più raffinati, quali
la ristorazione. Cristiano Sala aveva ereditato dal padre il gruppo “Il maestro di casa”, che
nel 2007 fatturava 35 milioni di euro. Entrato in crisi, aveva chiesto aiuto ai boss. Non era
riuscito a salvarsi dal fallimento, ma i debiti accumulati con gli uomini della cosca, nel
tentativo di salvarsi, lo avevano invece perduto: “Da vittima diventa complice”, scrivono i
magistrati milanesi, e “persona estremamente importante per il sodalizio criminoso”. Tanto
che cerca di ottenere, anche con giochi sporchi, il servizio di catering per lo stadio di San
Siro. Secondo l’ipotesi d’accusa, si mette a disposizione dei fratelli Giulio, Vincenzo e
Domenico Martino, considerati i capi dell’associazione criminale. “Ha bisogno”, dicono,
intercettati, i boss. “Si tappa il naso, questo Cristiano”. Ed entra così nella schiera degli
imprenditori del nord che “da vittime diventano organici alle cosche”.
NELLE CARTE dell’ultima inchiesta milanese sulla ’ndrangheta a Milano non c’è traccia di
Expo, che non è neppure mai citata. Eppure Cristiano Sala stava trattando per entrare in
alcuni padiglioni stranieri, tra cui appunto quello israeliano. Sul padiglione italiano, invece,
sono al lavoro la procura e la Guardia di finanza di Milano, che dopo un articolo del Fatto
quotidiano hanno aperto un’in - chiesta per verificare se è stata corretta la gara che ha
assegnato a Peck l’appalto per la ristorazione, o se invece ha qualche ragione il secondo
arrivato, Piero Sassone della Icif, che è ricorso al Tar e all’Autorità anticorruzione
presieduta da Raffaele Cantone, segnalando alcune presunte irregolarità. Per il resto, il
cibo in Expo arriva a trattativa privata. Quello di “Italy is Eataly”, 8 mila metri quadrati
affidati senza gara a Farinetti, ex venditore di elettrodomestici molto vicino al presidente
del Consiglio Matteo Renzi. Sarà “il più grande ristorante che mente (e pancia umana)
abbia mai pensato”, promette il patron di Eataly, che sceglierà i 120 ristoratori i quali, a
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rotazione, gestiranno i 20 ristoranti, uno per regione, che saranno allestiti all’interno dei
suoi due padiglioni, per offrire al mondo l’esperienza della cucina di tutta Italia. “Su questo
affidamento non abbiamo potere”, spiega Cantone. “È avvenuto prima del 24 giugno 2014,
quando è entrata in campo, per decreto del governo, l’Autorità nazionale anticorruzione.
Sappiamo che Expo può utilizzare poteri in deroga e fare affidamenti diretti”, prosegue
Cantone. “Acqui - siremo i documenti e verificheremo cosa è stato fatto, ma non abbiamo
alcun potere su atti precedenti al nostro arrivo”.
DIVERSO è il caso dell’altro affidamento senza gara, quello – annunciato oggi – per tutta
la ristorazione di Expo, tolti il Palazzo Italia (sotto inchiesta) e i due padiglioni di Eataly
(affidati a Farinetti). Per i 120 punti ristoro disseminati in tutta l’area dell’esposizione
universale sono state bandite due gare, entrambe andate deserte: nessun operatore del
settore ha ritenuto convenienti le condizioni poste da Expo. Allora la società ha avviato un
“dialogo competitivo” con le aziende. “In questo caso, l’Autorità anticorruzione ha seguito
la procedura e ha posto alcuni paletti”, dichiara Cantone. Alla fine Expo spa ha trovato chi
ci sta. La coop Cir Food, che sul suo house organ scrive: “Stiamo scaldando i motori
anche per Expo 2015, con tante speranze, tante apprensioni e tanta voglia di lavorare”,
con “l’orgoglio di essere una cooperativa sana, giovane e ricca di storia”. Cir Food spera di
servire, pur con margini di guadagno molto limitati, circa 26 milioni di pasti ai 24 milioni di
visitatori previsti, con 13 milioni di pasti nei 55 giorni di picco (weekend e festivi), in cui si
stimano 250 mila visitatori al giorno, e altri 13 milioni di pasti nei 129 giorni non di picco,
durante i quali si ipotizzano 90 mila visitatori al giorno. “Dobbiamo misurarci con
scommesse che mettono a dura prova i nostri modelli lavorativi”, ribadisce Cir Food,
“acquisire tante commesse a margine quasi zero e sommarle, sperando di avvicinarci alla
redditività dell’anno precedente”.
Del 18/12/2014, pag. 22
Roma, ecco il libro nero delle mazzette
Mafia Capitale, la contabilità segreta della banda di Carminati: “Con questi soldi ci
compriamo tutto il consiglio comunale” Gli inquirenti: “Sotto la giunta Alemanno la
coop di Buzzi ha triplicato il valore degli appalti”. La sua difesa: “Nessun reato”
MARIA ELENA VINCENZI
FRANCESCO SALVATORE
ROMA . Eccolo il libro nero di Salvatore Buzzi. Pagine e pagine di versamenti fatti a sigle
ai quali i carabinieri del Ros stanno cercando di dare un nome. Due quadernetti, uno nero
e uno rosso, sui quale la segretaria di Buzzi, Nadia Cerrito, annotava tutto quello che il ras
delle cooperative doveva pagare a soci e politici che gli garantivano gli appalti. I primi
lavori con il Comune, scrivono i carabinieri in un’informativa depositata dalla procura al
tribunale del Riesame, sono stati vinti nel 1994. Poi, gli affidamenti sono cresciuti
esponenzialmente. Tra il 2003 e il 2006, con la giunta Veltroni, la cooperativa “29 Giugno”
aveva ottenuto 65 appalti per oltre 3 milioni e, poi, con il sindaco Alemanno, aveva
aumentato ancora il fatturato vincendo 100 gare per 8 milioni di euro.
«LI AGGIORNO E POI LI STRAPPO»
Sono parecchie le conversazioni intercettate dai militari in cui Buzzi e Massimo Carminati
parlano del libro nero. Contrattano sui compensi da dare a funzionari comunali
compiacenti e direttori delle municipalizzate. In quel taccuino vengono registrati anche i
soldi che il ras delle cooperative deve dare al “Cecato”. E, Carminati, che era un uomo di
mondo, il primo agosto nella sede della cooperativa racconta a Buzzi, Paolo Di Ninno,
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Fabrizio Testa e Nadia Cerrito: «No, ma io lo sai che faccio? Io l’aggiorno e poi mi strappo
gli ultimi, capito come? Io prendo, confronto e l’ultimo lo strappo». Un modo, chiosano i
carabinieri nell’informativa del 16 dicembre, per «eliminare evidenti fonti di prova a suo
carico».
«COSÌ LI PAGHIAMO»
La lista di “bocche da sfamare” è lunga. E spesso Buzzi e Carminati si trovano, proprio
come due soci, a discutere dei compensi da consegnare ai pubblici ufficiali. In uno degli
incontri il ras delle cooperative spiega al suo “socio”: «Allora mi servono due e cinque per
la Cicciona, mille e cinque per Coratti (Mirko, ex presidente del consiglio comunale, ndr),
uno per Figurelli (Franco, capo segreteria di Coratti, ndr), mille per il sindaco di
Sant’Oreste , so sette. E se alla Cicciona non glieli do, cinque, sei». La lista dei nomi è
lunga. Buzzi continua: «Eccoli qua questi, questa segnamo Gramazio e l’altro quale era?».
«MI COMPRO TUTTI»
Non sempre le mazzette danno i risultati sperati. Ci sono anche volte in cui la banda paga
persone che non riescono ad accontentarli. Affari a perdere che fanno andare Buzzi e
Carminati su tutte le furie. Il 27 maggio, gli investigatori del Ros registrano una
conversazione tra Buzzi, il suo collaboratore Carlo Guarany e altri due uomini. Buzzi è
seccato, gli affari con l’Ama non vanno come speravano. La colpa, secondo il ras, è di
qualcuno a cui ha dato dei soldi e che ora sta mettendo i bastoni tra le ruote (il soggetto è
ancora da identificare). «Senti allora io fra poco vedo l’amico friz e glielo dico che noi gli
abbiamo dato un po’ di soldi per amicizia... anche perché non ci rappresenta
politicamente, posso dirgli questo? Un “cip per buona volontà”, poi se non gli basta e vuole
diventare pure nemico ci diventasse, non ci frega un cazzo, anche perché con quella cifra
me compro il Consiglio Comunale no, tu che dici? ».
LA CRESTA SUI ROM
Le attenzioni di Carminati e Buzzi, si sa, si erano concentrate anche sui campi nomadi, un
modo sicuro di fare soldi. L’11 aprile Buzzi parla alcuni collaboratori dell’ampliamento del
campo nomadi di Castel Romano.
Il ras vuole mettere le mani su quell’affare e, stando a quanto raccontano lui e i suoi
dipendenti, hanno avuto rassicurazioni dal Comune nella persona di Emanuela Salvatori,
responsabile dell’Ufficio rom. «Quello che dice lei - spiega Caldarelli a Buzzi - è “noi
paghiamo 300 persone e in realtà sono 150”». Buzzi annuisce: lo sa anche lui.
«CARMINATI? UN DIPENDENTE»
Trasferito da qualche giorno in un carcere nel nuorese, il ras delle cooperative ha voluto
partecipare ieri all’udienza del tribunale del Riesame. E ha chiesto di rendere, davanti al
collegio presieduto da Bruno Azzolini e ai pubblici ministeri Giuseppe Cascini, Paolo Ielo e
Luca Tescaroli, spontanee dichiarazioni. «Con Carminati ci eravamo conosciuti in carcere
anni fa. Poi ci siamo rincontrati nel 2012.
Insieme non abbiamo commesso alcun illecito». Il suo difensore, Alessandro Diddi, ha
depositato anche un contratto di lavoro dal quale risulterebbe che Carminati era
dipendente della “29 giugno”, in quanto ex detenuto. Buzzi, accusato di associazione
mafiosa, ha preso le distanze «anche ideologiche », dall’ambiente che ruota attorno alla
figura di Carminati: «Qui non è questione di “Mondo di mezzo” ma di destra e di sinistra. Io
ho vinto appalti con amministrazioni diverse».
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Del 18/12/2014, pag. 22
E in Campidoglio spuntano altri 120 appalti
sospetti
Scontro tra Orfini e il prefetto Pecoraro: “Faccia meno interviste” Bindi
al sindaco: “La mafia ha avuto rapporti politici anche con la sua giunta”
MAURO FAVALE
GIOVANNA VITALE
ROMA . Ci sono quelli sul sociale, quelli sulla gestione del verde in città, quelli che
riguardano l’emergenza abitativa. E poi, soprattutto, gli affidamenti diretti per le cosiddette
“somme urgenze”, le proroghe (ampia- mente utilizzate nel corso degli anni), le procedure
negoziate. In totale, per ora, sono 120 gli appalti sospetti del Campidoglio i cui
incartamenti sono stati consegnati ieri dal sindaco della capitale Ignazio Marino al
presidente dell’Autorità anticorruzione Raffaele Cantone. Una prima tranche sottoposta al
vaglio dell’Anac che potrà, eventualmente, proporre il commissariamento di quelle gare
che risulteranno “inquinate”. Intanto, nell’attesa dei primi risultati, il sindaco continua a
tenere il punto sul fatto che il suo arrivo in Comune, nel giugno 2013, ha segnato lo «stop
al malaffare ». Lo fa anche davanti alla commissione parlamentare an- timafia,
provocando la reazione della sua presidente, Rosy Bindi: «Forse la mafia si è insediata e
ha fatto il salto di qualità con Alemanno ma è innegabile che ha avuto rapporti politici
anche con la sua giunta». «Ma il dato di fatto — replica Marino — è che nessuno della mia
amministrazione è indagato per associazione mafiosa». Mirko Coratti, ex presidente
dell’Aula, e Daniele Ozzimo, ex assessore alla Casa, infatti sono sotto indagine per
corruzione. «Ma chi è indagato per corruzione in un’inchiesta per mafia — ribatte la Bindi
— è comunque un interlocutore e forse il terminale o l’arma impropria che viene
utilizzata». Lo scontro si ferma qui ma non è l’unico nell’ennesima giornata di tensione sul
fronte politico-istituzionale dall’inizio dell’inchiesta su mafia capitale. Sotto accusa finisce
anche il prefetto Giuseppe Pecoraro che in mattinata aveva espresso preoccupazione
«per le conseguenze che ci possono essere. Può venire fuori che ci sia la necessità di uno
scioglimento e questo, ovviamente, non è una cosa che desideriamo». «Immagino che il
prefetto sappia molte cose e probabilmente non può dirle», replica a stretto giro Marino.
L’affondo più pesante, però, è del presidente del Pd, Matteo Orfini: «Tra le tante curiosità
della situazione romana c’è anche quella di avere un prefetto che fa più interviste e
dichiarazioni di Salvini». Un sarcasmo al quale si aggiunge la critica diretta di un altro
parlamentare Dem, Khalid Chaouki: «Il prefetto dovrebbe chiarire a tutti i cittadini qual è
stato il suo ruolo durante gli anni dell’amministrazione Alemanno in materia di gestione
della cosiddetta “emergenza rom”». In serata, telefonata «chiarificatrice» tra Pecoraro e
Orfini.
del 18/12/14, pag. 4
Il commissario Orfini “arresta il prefetto”
Eleonora Martini
Mafia Capitale. Il commissario Orfini: «Troppe interviste». Buzzi rivela:
«Massimo Carminati fu assunto dalla Cooperativa 29 giugno»
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«Nel sociale ci siamo resi conto, guardando i dati, che nel periodo 2007–2013 c’è stato un
aumento statisticamente significativo delle procedure condotte su base negoziale, con
affidamenti diretti, invece che con bandi di gara pubblici». Ignazio Marino non nasconde,
riferendo del contenuto del nuovo dossier che ieri ha consegnato al presidente
dell’Anticorruzione Raffaele Cantone, che non tutti i 120 appalti ritenuti «sospetti» dal pool
di esperti messi al lavoro dall’attuale inquilino del Campidoglio sono da addebitare
all’amministrazione del “nero” Gianni Alemanno, divenuto sindaco nel maggio 2008.
D’altronde, se fossero confermate le ipotesi di accusa della procura di Roma, c’era anche
Luca Odevaine, braccio destro del precedente sindaco Walter Veltroni, tra coloro che nel
«Mondo di sopra» avrebbero intrattenuto rapporti con quello «di sotto».
In mezzo, coloro come Salvatore Buzzi, il presidente della Cooperativa “rossa” 29 giugno,
che ieri, davanti ai giudici del tribunale del Riesame che dovranno decidere se confermare
la sua detenzione in carcere come è avvenuto nei giorni scorsi per altri imputati
dell’inchiesta «Mafia Capitale», ha dichiarato: «Non abbiamo commesso alcun illecito, io
Carminati l’ho incontrato per la prima volta nel 2012». E da quell’anno l’ex Nar sarebbe
diventato «dipendente della Cooperativa 29 Giugno».
A riprova che i rapporti tra loro non avevano «una matrice di natura illecita», il legale di
Buzzi, l’avvocato Alessandro Diddi, ha depositato il contratto di assunzione di Massimo
Carminati. Nella memoria difensiva, inoltre, Diddi cita un’informativa dei Ros che parla di
appalti assegnati alla coop di Buzzi dall’11 maggio 1994. Solo che, anche secondo i
carabinieri, con la giunta di Francesco Rutelli, da Roma Capitale e Ater Buzzi ottiene 11
appalti per un totale di 500 mila euro. Tra il 2003 e il 2006, durante la giunta Veltroni,
Buzzi vince — secondo la memoria difensiva dell’imputato — 65 appalti, per ammontare di
oltre 3 milioni e mezzo di euro. Ma il vero salto si registra sotto la guida del sindaco Gianni
Alemanno, quando le coop riconducibili a Buzzi riescono ad ottenere quasi un centinaio di
gare d’appalto per circa 8 milioni di euro.
E molto si dovrà ancora scavare «nell’area strategica del sociale, che è una delle aree
principalmente oggetto dell’inchiesta», come ha detto il sindaco Marino che ha annunciato
«nelle prossime ore» un «lavoro di affinamento rispetto al lungo e corposo elenco» già
consegnato all’Autorità anticorruzione.
Tra Cantone e Marino c’è collaborazione stretta. Tira invece tutt’altra aria tra il prefetto
Giuseppe Pecoraro e il partito del sindaco. Ieri, dopo l’ultima intervista in cui il prefetto di
Roma parlava di ipotesi di «scioglimento del Comune» e del pericolo che «si possano
ripetere questi fatti», il commissario del Pd romano Matteo Orfini è sbottato: «Il prefetto
che fa più interviste e dichiarazioni di Salvini».
Una «propensione stucchevole», aggiunge il deputato Khalid Chaouki che ricorda come
«Pecoraro venne nominato dal governo Berlusconi il 30 maggio 2008 Commissario
delegato per il superamento dell’emergenza Rom per Roma e il Lazio. Una gestione
secondo procedure d’emergenza, concordata con l’allora ministro dell’interno Maroni e il
sindaco Alemanno, in deroga a tutte le procedure ordinarie e successivamente bocciata
da una sentenza del Consiglio di Stato per “carenza dei presupposti di emergenza”».
«Immagino che il prefetto sappia molte cose ma forse non le può dire», ipotizza Marino.
Ma per Chaouki, Pecoraro «farebbe bene a lavorare in silenzio nella sua importante opera
di verifica interna al Campidoglio e magari anche a spiegarci come sia potuto accadere
che durante la sua gestione siano potute verificarsi speculazioni milionarie gestite da
bande criminali e mafiose ai danni della dignità di rom, rifugiati e tutti i cittadini romani». In
serata, riferiscono fondi dem, tra Orfini e Pecoraro «cordiale» telefonata riparatoria.
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Del 18/12/2014, pag. 14
Palermo, Lo Voi procuratore tra le liti
Il Csm elegge il magistrato che lavorò con Falcone e Borsellino: “Ora
uniti al lavoro”. Battuti Lari e Lo Forte
LIANA MILELLA
Ore drammatiche al Csm, dove il vero protagonista sembra essere il processo sulla
trattativa Stato-mafia, per scegliere il nuovo procuratore di Palermo. Il vice presidente
Giovanni Legnini smentisce «ingerenze esterne», ma lì si parla di un veto dall’alto su
Guido Lo Forte che ha portato ognuno a chiudersi nella sua posizione. Alla fine il Csm si
spacca in tre pezzi, quanti sono i candidati. Con 13 voti vince Franco Lo Voi, ex pm a
Palermo, anni accanto a Falcone e Borsellino, oggi toga italiana all’Aja per Eurojust. Lo
segue con 7 voti il procuratore di Caltanissdetta Sergio Lari. Ultimo, con 5, Lo Forte,
procuratore a Messina, aggiunto a Palermo negli anni di Caselli e dei processi contro
Andreotti. Nomi che fanno la storia dell’antimafia. Sui quali le correnti e i laici si scontrano
da settimane. Ieri il round pubblico rivela la durezza del braccio di ferro. Lui, Lo Voi,
apprende la notizia all’Aja. Ammette: «Sì, sono soddisfatto». Quando va a Palermo?
«Subito, sarò in procura per gli auguri di Natale». Le polemiche? «Conosco bene il Csm, ci
sono stato, lì è normale che gli animi di scaldino. Ma io guardo già al futuro, mi aspetta
una squadra di colleghi validissimi, sono sicuro che faremo un buon lavoro insieme». E gli
sconfitti Lari e Lo Forte? «Sono magistrati di assoluto valore, li chiamerò subito».
Al Csm, però, non sarà facile sanare la spaccatura. È anomalo il fronte per Lo Voi, i 4
togati di Magistratura indipendente, il suo gruppo, i 2 capi della Cassazione, il presidente
Santacroce e il pg Ciani, poi tutti i laici, i 3 del centrodestra e i 4 del centrosinistra. Il vice
Legnini non partecipa al voto, resta «super partes», come reazione al fallimento della
strategia «di ottenere un’ampia maggioranza». Era possibile? Legnini: «Solo una
soluzione poteva garantire un ampio consenso, ma non si è verificata, non per mia
responsabilità ». Non dice il nome, ma si tratta di Lari. Il candidato di Area, la corrente di
sinistra, mentre Unicost fa muro su Lo Forte. Il laico Pd Giuseppe Fanfani tenta un
appello: «Noi laici di centrosinistra ci asteniamo, voi togati non potete coinvolgerci nella
spaccatura». Pausa di 20 minuti. Ultimo tentativo tra Area e Unicost di convergere su un
nome. Dice ai laici Clau- dio Fracassi (Area): «Dateci un indicazione, Lo Forte o Lari, e noi
votiamo». Ma i laici non possono scegliere perché tra loro c’è chi dice che l’unico nome
votabile è Lari, troppo caselliano Lo Forte, troppo protagonista di una stagione sui processi
tra politica e mafia che si vuole superare. A quel punto Unicost chiude e vota Lo Forte.
Dice Luca Palamara: «Lo sosteniamo fino in fondo perché c’è una carriera da rispettare».
Area vota Lari. Dice Legnini: «Qui esce indebolito un meccanismo correntizio che ormai
non regge più. Mi auguro solo che gli sconfitti non facciano ricorso».
Ma gli estremi ci sono tutti. Bastava ascoltare gli interventi furiosi di Ercole Aprile,
Antonello Ardituro e Piergiorno Morosini, tutti di Area. Il primo: «Pupi siamo, diceva
Pirandello... qui c’è il rischio di nominare un pupo, senza le caratteristiche di chi deve
dirigere un ufficio ». Il secondo: «Alcune carriere si fanno al calduccio, altre nelle macchine
blindate, nell’aula bunker, in giro per l’Italia a interrogare i collaboratori, questo hanno fatto
Lo Forte e Lari. Il mio voto è per loro. Chi non lavora per questo si assume una gravissima
responsabilità ». Il terzo: «Serve l’uomo giusto al posto giusto, non una scelta arbitraria.
Sono per Lari, che ha avuto successo per i processi fatti e la gestione dell’ufficio ». Niente
da fare. Vince Lo Voi.
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
del 18/12/14, pag. 6
Niente luce né acqua per gli 800 rom di
Scampìa
Adriana Pollice
NAPOLI
Napoli. La decisione del presidente della municipalità
Lasciati in pieno inverno senza corrente elettrica e senz’acqua. Gli abitanti del campo rom
di via Cupa Perillo, a Scampia, sono diventati l’ossessione della procura di Napoli e del
presidente della municipalità, Angelo Pisani. Era già accaduto che una parte del campo
rimanesse senza servizi in primavera: arrivano le denunce e la magistratura manda le
forze dell’ordine a staccare tutto. Martedì è successo di nuovo: 800 persone, di cui 200
bambini (ma ci sono anche ammalati e donne incinte), sono rimasti al freddo, al buio e con
i rubinetti a secco. Un intervento che non risolve nulla, se non costringerli a creare
derivazioni sempre più precarie. Le forze dell’ordine sono tornate a più riprese anche ieri
per perquisizioni e controlli, attività che si stanno susseguendo con molta frequenza negli
insediamenti del napoletano. Pisani da mesi tuona contro i fumi che salgono dal campo,
ammorbando l’aria: «Lì è tutto abusivo, è vero, ma proprio per questo l’immondizia non
viene raccolta. La comunità rom si tassa per pagare il prelievo dei rifiuti in proprio – spiega
Emma Ferulano, dell’associazione Chi rom… e chi no -. Senza elettricità sono costretti a
cucinare e scaldarsi con i bracieri. E’ persino complicato per i bambini studiare. Sono
decenni che attendo una soluzione che superi la struttura campo».
Dal 2009 giace inapplicato un piano del comune di Napoli, 7,2 milioni di euro già stanziati
(il progetto finale va consegnato entro il prossimo 31 dicembre o andranno persi), per
strutture transitorie socio-assistenziali, cioè altre abitazioni temporanee, per 409 persone
da sistemare in 75 alloggi sottodimensionati. Una goccia nel mare visto che tra Scampia e
Melito vivono in circa 2mila. Ad oggi è stata individuata l’area, una parte del campo di via
Cupa Perillo (la cosiddetta Variante sinistra), ed è iniziato il censimento degli abitanti ma
neppure un mattone è stato messo a terra e non si sa dove andranno le famiglie che
dovranno sgomberare l’area dei lavori. A Pisani neanche questo va bene e, pervaso dallo
stesso furore di un Matteo Salvini, insiste a chiedere «la delocalizzazione degli
insediamenti nomadi in altre aree più idonee e senza problemi», dimenticando che quelli
che definisce nomadi vivono a Scampia da trent’anni, quasi tutti di cittadinanza italiana.
L’impressione è che le elezioni regionali di primavera stiano alimentando un clima antirom.
Il comune di Napoli ha emesso a fine novembre un’ordinanza con cui impone il divieto di
«rovistare nei contenitori della spazzatura, di asportare e trasportare rifiuti di ogni genere
prelevati dai suddetti cassonetti» pena una multa di 500euro: una misura volta a bloccare i
mercatini rom dell’usato intorno alla Stazione centrale. La scorsa settimana la procura di
Napoli aveva inviato a via Cupa Perillo addirittura una ruspa per abbattere una sola
baracca. «Ripristinata la legalità» aveva esultato Pisani che, il 21 novembre, aveva
convocato stampa e residenti nel parlamentino della municipalità per arringarli
sull’argomento rom: «E’ stata una iniziativa che gli si è ritorta contro – racconta Emma -.
Sono arrivate molte realtà da altre parti della città e, insieme ai rom, hanno rivendicato il
diritto all’abitare per tutti. Quello che vogliono sono progetti di housing sociale, invece si
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insiste con forme ibride nonostante gli ingenti fondi stanziati dall’Europa per l’emergenza
nomadi, che si è scelto di non spendere».
I bambini dei campi di Scampia vanno tutti a scuola, un piccolo calo si registra alle medie
ma succede lo stesso per i ragazzi napoletani. Certo, nelle condizioni in cui vivono, è
complicato studiare ma la rete delle associazioni non li lascia soli. Il rapporto con la
comunità napoletana è avviato da anni, grazie anche a progetti come Arrevuoto, con i suoi
laboratori teatrali, o La Kumpania: impresa sociale gastronomica di rom e italiani, avviata
l’anno scorso, che ha recentemente aperto nel quartiere il ristorante italorom Chikù. Ci
saranno anche loro domenica prossima al campo di via Cupa Perillo dove, a partire dalle
10.30, ci sarà un corteo con laboratori e musica: il loro modo di rispondere allo stato che
sa mostrare solo la faccia feroce.
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INFORMAZIONE
del 18/12/14, pag. 5
La bolla dei freelance è esplosa
Roberto Ciccarelli
Quinto rapporto Lsdi: il lavoro autonomo senza diritti è aumentato di 327 volte in 10 anni.
Esplodono le diseguaglianze, diminuiscono i dipendenti, testate tradizionali in crisi
Dieci anni di crisi, pre-pensionamenti e precariato di massa hanno trasformato quella del
giornalista in una professione da freelance sottopagato e senza diritti. Secondo il quinto
rapporto 2013, realizzato da Libertà di stampa diritto all’informazione (Lsdi) su dati forniti
da Casagit, Fnsi, Inpgi e ordine dei giornalisti, è cresciuto il divario tra il lavoro dipendente
e il lavoro autonomo. Il primo resta il più tutelato, il secondo affonda in una zona grigia
dove non è più possibile svolgere una professione a tempo pieno.
La diseguaglianza tra i redditi domina l’industria dell’informazione italiana e coinvolge due
terzi dei giornalisti attivi: pubblicisti e autonomi guadagnano redditi tra il 5,6 e il 6,9 volte in
meno dei colleghi salariati. Questo accade in un panorama dove diminuiscono le
possibilità di lavoro nei quotidiani e periodici, Rai e agenzie stampa, mentre crescono le
posizioni «spurie» da addetti stampa o alle pubbliche relazioni negli enti pubblici e privati.
Nel primo caso, l’occupazione è diminuita dal 2000 dall’83,2% al 64,9% a fine 2013. Nel
secondo è cresciuta dall’8,1% al 16,1%.
Dal 2000 al 2013 il lavoro autonomo ha registrato un boom del 327,7%. Al 31 dicembre
2013 gli iscritti all’«Inpgi 2», la cassa dei freelance, erano 38.988, con un aumento del
7,1% rispetto al 2012 (36.414). Di questi 7.890 hanno un rapporto di lavoro subordinato e
sono iscritti anche all’«Inpgi 1». Alla fine del 2013 gli autonomi «puri» erano 31.098
(+9,5% rispetto al 2012). Un andamento che corrisponde all’aumento degli iscritti all’ordine
113.620, contro i 112.046 dell’ anno precedente. Poco meno della metà sono «attivi».
Il rapporto Lsdi definisce quella dei precari una «bolla» strutturale. L’informazione è una
piramide retta da una moltitudine di senza diritti che svolge, occasionalmente, il lavoro da
giornalista. Sette autonomi su 10, il 68,7%, hanno dichiarato redditi inferiori a 10 mila euro
annui. Sei su dieci (8.673) si sono fermati sotto i 5 mila euro.
La retribuzione media è scesa da 11.278 a 10.941 euro lordi annui. Quella dei Co.co.co —
8.832 euro – è 6,9 volte inferiore, mentre quella del «libero professionista» è 4,7 volte
inferiore. La situazione migliora nelle fasce di reddito superiori tra i 10 e i 25 mila euro,
passate dal 15,9 al 16,7%, mentre quella fra i 25 e i 50 mila è scesa dal 10,1 al 9,4%. Nel
2013 solo 206 freelance hanno sfondato il tetto dei 100 mila euro di reddito. Tutti gli altri
fanno parte di un proletariato dove sono le donne a guadagnare meno (11.466 euro lordi
contro 14.285 degli uomini).
In queste condizioni il lavoro giornalistico si è trasformato da produttore di contenuti in
fornitore di servizi intercambiabili. Il giornalista è costretto a svolgere più attività.
L’esclusività viene meno, mentre il lavoro diventa un’occupazione tra le tante. Questa
situazione incide sullo status dei dipendenti. Le aziende tagliano l’occupazione e
comprimono i loro salari ricorrendo ai contratti di solidarietà e inasprendo le condizioni di
lavoro sugli orari notturni, i festivi o gli accordi integrativi.
In tre anni gli incentivi all’occupazione adottati dall’Inpgi con gli sgravi contributivi alle
imprese hanno prodotto solo 360 nuove assunzioni. Nella prima metà del 2014 sono stati
persi 634 posti senza che ne sia stato creato nessuno. Nel frattempo la disoccupazione
cresciuta del 47,6%; la cassa integrazione del 21,1%, la solidarietà del 51,1%. La
precarietà è un’arma a doppio taglio e ha travolto gli organi di una professione super44
protetta che poco, o nulla, hanno compreso di una condizione che riguarda tutti. Lo
conferma il presidente dell’Inpgi, Andrea Camporese, secondo il quale quella in corso è
«una crisi senza precedenti». L’autosostentamento del sistema è a rischio perché
aumentano i pensionati, diminuiscono i salariati (con redditi che aumentano da 61.180 a
65.903 euro) mentre i freelance lavorano troppo poco per contribuire a sostenere le
speranze di tutti. Per chi, tra loro, riuscirà a chiudere una «carriera» avventurosa ci sarà
una pensione che oggi è in media di mille euro lordi. All’anno.
del 18/12/14, pag. II
La carica dei ventimila per riprenderci il
futuro
Matteo Bartocci
Mi riprendo il manifesto. L'ultima prova si avvicina e l'esito finale è tutto
e soltanto nelle nostre mani. Lasciamo gli altri, i cinici, i contabili, gli
scettici, i delusi, a bocca aperta: partecipate, donate, abbonatevi,
leggeteci in edicola e sul Web. Questo giornale vuole continuare la sua
ricerca. Provare e riprovare. Morto il manifesto non se ne fa un altro
Se il manifesto fosse una fabbrica argentina avremmo le troupe televisive fuori dalla porta.
Per capire come è possibile che in un’epoca in cui i giornali chiudono a centinaia, questo
nostro/vostro quotidiano, comunista, senza padroni, povero di mezzi ma non di spirito,
totalmente autogestito dai lavoratori, è ancora in piedi e, anzi, riesce a crescere e ad
adattarsi in modo originale perfino alla «rivoluzione digitale» che sta sconvolgendo
l’editoria.
Siamo qui perché la comunità del manifesto è forte e determinata. Perché al nostro
temerario «salto con l’asta» per il riacquisto della testata state partecipando in tanti.
Migliaia di persone con iniziative sul territorio e piccoli e grandi bonifici. Siamo certi che
oggi in molti comprerete quest’ultimo numero dal pazzo prezzo di 20 euro. Grandissimo è
il vostro affetto per noi. L’unica benzina nel nostro motore, oltre a un pizzico di integrità e
di competenza.
Siamo al servizio di una sinistra diffusa, resistente, ma delusa da quello che la circonda.
Scettica sul futuro. Scossa nei propri valori. Demonizzata come un mondo da rottamare in
nome di un «nuovo» che alle nostre narici porta il tanfo irresistibile del vecchio. E invece in
Grecia, in Spagna, in Germania, in America Latina, la sinistra esiste. Vince e convince.
Questa nuova cooperativa del manifesto è partita due anni fa come un foglio bianco, una
storia ancora da scrivere. Pochi scommettevano sulla riuscita di questa impresa
garibaldina, partita senza un euro e con un paio di bobine di carta in tipografia, dopo una
divisione politica che ha lasciato cicatrici che oggi speriamo in via di guarigione. Se non
altro in nome di un destino comune: salvare il giornale e riportarlo dove gli compete. Al
centro non solo della sinistra italiana ma anche europea e d’oltre Oceano.
Dobbiamo essere orgogliosi di essere qui. Dovete esserlo anche voi, che oggi avete speso
così tanto per leggerci e condividere questa giornata.
La nostra e vostra diversità è irriducibile alla moda e alle contingenze. Temperata dalla
fatica della politica che tutti noi, in una forma o l’altra, pratichiamo o abbiamo praticato.
Cambiano equipaggi e capitani ma il vascello corsaro uscito dal grande porto del Pci per
incontrare il ’68 solca ancora i mari. Forma originale della politica e quotidiano integro
45
nelle intenzioni e nella gestione. Dichiaratamente dalla parte del torto. Sempre desideroso
di navigare contro vento. Non sempre riuscito ma mai freddo. Eterno incompiuto. Perché è
un corpo vivo, collettivo, che nemmeno una liquidazione e una brutale crisi economica
possono sopprimere.
Arrivati a questo giro di boa natalizio, abbiamo alcune certezze. La campagna non si
ferma: continuerà anche a gennaio. Quando i liquidatori metteranno all’asta la testata noi
ci saremo. Le procedure sembrano andare a rilento ma riteniamo che il traguardo arriverà
nella prima metà del 2015. Come sapete, sulla cifra raccolta finora manteniamo il riserbo
dovuto ma possiamo dire che la campagna sta avendo successo.
I donatori finora sono: 318 con bollettino postale, 1.150 via bonifico e 2.189 con carta di
credito. Se consideriamo come implicita «donazione» anche l’acquisto a 20 euro di questo
numero e del precedente di novembre, superiamo ampiamente le 20mila persone
coinvolte in un mese e mezzo.
E ora si vede bene, come speravamo fin dall’inizio, che i «soli di sinistra» (com’era il
nostro primo slogan di ottobre) non sono affatto soli. Che il cielo è popolato di migliaia di
stelle, ben conosciute come gli artisti che si sono prestati a offrire il volto con noi (altri ne
arriveranno) e meno noti, come testimoniano le migliaia di lettere che pubblichiamo e
leggiamo. Affettuose o critiche ma mai banali.
Siamo a metà percorso. E tutto questo alla resa dei conti potrebbe anche non bastare: per
questo la campagna va avanti, anche negoziando con Banca Etica un prestito che possa
dare fiato al giornale. Stiamo definendo le condizioni migliori per tutelare il manifesto
anche nel futuro. Perché resti un giornale libero e senza padroni com’è sempre stato.
Perché possa davvero vivere altri quarant’anni ed essere letto e fatto da altre generazioni.
Non è semplice. Non è scontato. Anzi, la parola «fine» non è ancora né vicina né lieta.
Grazie al vostro aiuto stiamo lavorando su diversi fronti: sviluppare meglio Le Monde
Diplomatique e Alias, portare a compimento le edizioni digitali iniziate un anno fa,
migliorare forma e sostanza del giornale quotidiano, mettere a fuoco l’iniziativa politica del
2015.
Le vendite in edicola della seconda metà dell’anno sono incoraggianti. A settembre (dati
Ads) il manifesto è stato l’unico quotidiano italiano a crescere e anche a ottobre siamo in
controtendenza rispetto agli altri giornali: +2,7% a fronte di un dato medio del –1,8%.
Calano gli abbonamenti postali (la tempestività della consegna da parte di Poste non è
esattamente «svizzera»), tengono gli abbonamenti coupon, crescono quelli digitali
nonostante siano un po’ più cari della media (con l’Iva al 22% non possiamo permetterci le
promozioni aggressive della “concorrenza”). Crolla ancora, purtroppo, la pubblicità e sarà
questo dal 2015 il primo compito gestionale della cooperativa.
Per essere qui oggi abbiamo lavorato duramente. Abbiamo mantenuto la promessa fatta
nel 2013: portare il giornale a scegliere il proprio destino, non rassegnarsi mai alla
chiusura.
In tutto questo tempo abbiamo incontrato comprensione da parte di fornitori e
collaboratori. Migliaia di lettori ci seguono con affetto. Intellettuali e artisti trovano qui lo
spazio per immaginare il futuro ed elaborare sogni e ferite del presente. Molte associazioni
e organizzazioni della sinistra guardano con speranza per le proprie sfide a questo
burbero manifesto. Il collettivo sta rimarginando le sue cicatrici e abbiamo davvero bisogno
dell’aiuto di tutti, fondatori e ultime leve.
L’esito finale è tutto e soltanto nelle nostre mani: questa lunga rincorsa adesso deve
spiccare il volo. Lasciamo gli altri, i cinici, i contabili, gli scettici, i delusi, a bocca aperta:
partecipate, donate, abbonatevi, leggeteci in edicola e sul Web.
Questo giornale vuole continuare la sua ricerca. Provare e riprovare. Morto il manifesto
non se ne fa un altro.
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Del 18/12/2014, pag. 10
“Tv, la par condicio va riscritta”
Il Consiglio di Stato dà ragione a Fazio contro Brunetta: “Non contano
solo i minuti”
ALDO FONTANAROSA
Brunetta mette sotto accusa Che tempo che fadi Fazio perché, a suo parere, tra settembre
2012 e maggio 2013, ha fatto vedere le facce di un solo partito, o quasi: il Pd. E lo stesso
vizietto avrebbe avuto In ½ ora di Lucia Annunziata. Brunetta vince un primo round davanti
al Garante per le Comunicazioni (l’AgCom) che nel 2013 «ordina» alla Rai di ospitare
esponenti del centrodestra in entrambi i programmi. Il riequilibrio – dicono le delibere 476
e 477 - sarebbe dovuto avvenire con la nuova stagione tv entro un massimo di sei mesi.
Ma la televisione di Stato – difesa dagli avvocati Saverio Sticchi Damiani e Salvatore Lo
Giudice - ricorre alla giustizia amministrativa dove vince sia in primo grado (al Tar) sia ora
davanti al Consiglio di Stato. Che nelle sue sentenze si spinge molto avanti quando critica
il criterio solo quantitativo su cui si fonda l’attuale legge. Secondo i giudici, contare i
secondi assegnati a un politico o a un partito non ha senso perché il dato aritmetico non è
sempre significativo. Il giornalista può anche invitare parlamentari tutti di un colore e
rispettare la par condicio sul piano formale. Ma «pesanti critiche, osservazioni sarcastiche
e domande scomode » avrebbero comunque l’effetto di «peggiorare la percezione di
questi politici da parte dell’opinione pubblica ». La par condicio, nella sostanza, sarebbe
violata. La nuova legislazione, dunque, dovrebbe concentrarsi molto di più sulle «modalità
di conduzione dei programmi ». Non solo. Il Consiglio di Stato afferma che il pluralismo di
un editore (come la Rai) non si può giudicare da una sola trasmissione (soprattutto
quando questa è un misto di comicità e informazione, come Che tempo che fa). Non
bisogna «isolare atomisticamente singoli programmi », quindi Più opportuno è «guardare
semmai al complesso dell’offerta del servizio pubblico».
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CULTURA E SCUOLA
Del 18/12/2014 – pag. 40
Venezia come Roma Un guaio i soldi pubblici
L’effetto oppiaceo delle leggi speciali che cancellano l’identità storica
Come mai i due maggiori episodi di corruzione di questi anni, il Mose e «Mafia Capitale»,
sono accaduti in due città, Roma e Venezia, che tanto hanno in comune: una bellezza
struggente, una storia millenaria, ma anche, da vent’anni in qua, una grande permeabilità
delle proprie istituzioni alla corruzione e al malaffare e leggi speciali che hanno riversato
sulle due città fiumi di denaro pubblico? Pur non ponendosi direttamente questa domanda,
Salvatore Settis ( Se muore Venezia , Einaudi) ci suggerisce una risposta. Questi disastri
accadono quando una città perde la propria memoria e la propria identità. E le perde,
aggiungo io, quando viene sedotta da un fiume di denaro pubblico che, anziché risolverne
i problemi, vi diffonde la corruzione.
A Venezia le aziende alle quali lo Stato aveva incautamente assegnato il monopolio dei
lavori di salvaguardia della laguna hanno poco a poco avvolto la città in una ragnatela che
ha finito per soffocarla. Dall’ «acqua granda» , l’alluvione che il 4 novembre 1966 devastò
la laguna, lo Stato italiano ha trasferito a Venezia un fiume di denaro. Calcolato ai prezzi di
oggi, 18,5 miliardi di euro, quasi il doppio di quanto il governo ha speso quest’anno per
dare 80 euro al mese a dieci milioni di famiglie. A cinquant’anni di distanza, la maggiore
delle opere che dovevano essere realizzate con quei soldi, le paratoie mobili del Mose
appunto, non è ancora stata completata. Nel frattempo di quei 18,5 miliardi circa 2,5
(almeno secondo i calcoli illustrati da Giorgio Barbieri e dal sottoscritto in Corruzione a
norma di legge , Rizzoli) sono finiti in rendite ingiustificate, che hanno alimentato trent’anni
di corruzione. E a Roma, dopo essersi accollato i debiti accumulati fino al 2008, lo Stato,
nei sei anni successivi, ha trasferito alla città altri 3,8 miliardi di euro. Matteo Renzi, il
primo giorno del suo governo, sprecò un’occasione unica. Il Parlamento aveva appena
bocciato il decreto «salva Roma»: bastava non ripresentarlo. Forse la corruzione si
sarebbe arrestata sei mesi prima.
Venezia non fu l’unica città italiana a subire gli effetti dell’alluvione del 1966. I danni
maggiori li subì Firenze, tant’è vero che per cercare di salvare dall’Arno libri e dipinti fu
verso Firenze, non verso Venezia, che partirono migliaia di cittadini da ogni parte d’Italia.
«La mia città si è sempre lamentata del fatto che, dopo l’alluvione, non ha mai avuto i
soldi» ha detto Matteo Renzi. Perché a nessuno è mai venuto in mente di costruire un
Mose sulle sponde dell’Arno per evitare nuove esondazioni? Perché Firenze, pur senza
soldi pubblici e quindi senza corruzione, comunque è sopravvissuta, non peggio di
Venezia?
In tre modi muoiono le città, scrive Settis: «Quando le distrugge un nemico spietato (come
Cartagine, che fu rasa al suolo da Roma nel 146 a. C.); quando un popolo straniero vi si
insedia con la forza, scacciando gli autoctoni e i loro dei (come Tenochtitlán, la capitale
degli Aztechi che i conquistadores spagnoli annientarono nel 1521 per poi costruire sulle
sue rovine Città del Messico); o, infine, quando gli abitanti perdono la memoria di sé e,
senza nemmeno accorgersene, diventano stranieri a se stessi, nemici di se stessi. Questo
fu il caso di Atene, che dopo la gloria della polis classica, dopo i marmi del Partenone, le
sculture di Fidia e le vicende della cultura e della storia segnate da nomi come Eschilo,
Sofocle, Euripide, Pericle, Demostene, Prassitele perse prima l’indipendenza politica
(sotto i Macedoni e poi sotto i Romani) e più tardi l’iniziativa culturale, ma finì col perdere
anche ogni memoria di se stessa. (...) Se mai Venezia dovesse morire, non sarà per la
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crudeltà di un nemico né per l’irruzione di un conquistatore. Sarà soprattutto per oblio di se
stessa. Oblio di sé, per una comunità del nostro tempo, non vuol dire solo dimenticanza
della propria storia né morbida assuefazione alla bellezza, che dandola per scontata la
viva come esangue ornamento cercandovi consolazione. Vuol dire soprattutto la mancata
consapevolezza di qualcosa che è sempre più necessario: il ruolo specifico di ogni città
rispetto alle altre, la sua unicità e diversità, virtù che nessuna città al mondo possiede
quanto Venezia».
Diversamente dagli abitanti di Firenze, ma anche di gran parte delle città italiane,
veneziani e romani sono stati sedotti dal fiume di denaro riversato sulle due città dalle
numerose leggi speciali approvate dal Parlamento a loro favore. E così hanno perduto la
propria identità. Leggi con l’effetto di un oppiaceo che, con rare eccezioni, hanno
cancellato la capacità di una comunità di rendersi conto del disastro in cui veniva
trascinata. Per far spazio alla monocultura di un turismo accattone, i veneziani hanno
abbandonato la loro città. Erano circa 100 mila all’inizio degli anni Ottanta, ai tempi della
prima legge speciale, sono 56 mila oggi. Hanno barattato la loro città per le comode
rendite che si assicuravano consentendo che le loro case e i loro negozi venissero
trasformati in bed and breakfast e rivendite di mascherine. «Nemmeno le attuali 2.400
strutture di accoglienza» scrive Settis riprendendo un articolo di Gian Antonio Stella
pubblicato sul «Corriere della Sera» il 25 gennaio 2014 «bastano ormai a saziarne gli
appetiti: se non si riuscirà a bloccare il nuovo “piano casa” lanciato dalla Regione Veneto,
le strutture ricettive potrebbero arrivare fino a 50.000 nel centro storico, coprendone la più
gran parte».
Per capire il danno arrecato Settis invita a rileggere Harvey W. Corbett, l’architetto che
negli anni fra le due guerre mondiali costruì alcuni dei primi grattacieli di New York. Egli
pensava che le città del futuro, Manhattan in primis , avrebbero dovuto essere modellate
su Venezia: «Ciascuno dei 2.028 isolati di Manhattan è concepito, alla lettera, come
un’isola nella laguna, con una fitta maglia di ponti che le collegano l’una all’altra: un vero
arcipelago metropolitano». Anche nel dibattito degli anni seguenti, ci ricorda ancora Settis,
l’esempio di Venezia torna spesso: «Si parla di un “Ponte dei Sospiri” che attraversi la
49th Street o di colonnati che echeggino Palazzo Ducale, si ripete la metafora delle
strade-canali, dove il flusso delle auto prende il posto delle acque lagunari, si prova a
progettare il Rockefeller Center legando fra loro tre blocks trattati come “isole”, insomma
“alla veneziana”».
Scrive Rem Koolhaas, il curatore della Biennale d’Architettura di quest’anno, in Delirious
New York : «Lo stile di progettazione di Corbett è pianificare attraverso la metafora,
facendo di Manhattan un sistema di solitudini d’ispirazione veneziana». Allude, ci ricorda
Settis, a un celebre aforisma di Nietzsche: «Cento profonde solitudini formano insieme la
città di Venezia — questa è la sua magia. Un’immagine per gli uomini del futuro». Venezia
come immagine, come modello, come metafora. Le visioni del futuro fra ultimo Ottocento e
primo Novecento intrecciano Venezia e i grattacieli, ma non necessariamente li
contrappongono. «Nulla rende l’essenza e la qualità della vita urbana quanto l’incontro di
cento solitudini, ma perché esso venisse inscenato a Manhattan la mediazione metaforica
di Venezia fu un passaggio essenziale». Abbiamo speso 18,5 miliardi per ottenere il bel
risultato di gettare tutto ciò al vento.
È inaudito il danno arrecato dalle leggi speciali. Ma rimane una speranza. Settis conclude
che «Venezia potrà resistere nella sua ineguagliabile forma urbis se saprà costruire
creativamente il proprio destino, calibrando ogni mutamento non sulle aspettative dei
turisti né sulla speculazione immobiliare, ma sul futuro dei propri cittadini». I veneziani
voteranno fra cinque mesi per eleggere un nuovo sindaco. Forse insieme ai cittadini di
Roma. Entrambi, romani e veneziani, hanno l’occasione per risvegliarsi dal torpore in cui
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sono caduti e chiedersi finalmente che futuro vogliono per le loro città. È l’ultima
occasione. Altrimenti si dovrà dar ragione a chi sostiene che il valore di queste città è
troppo grande per affidarne l’amministrazione ai loro cittadini. Meglio affidarle alla società
che ha in appalto i parchi dei divertimenti di Disneyland e che certamente li gestisce con
più lungimiranza di quanto abbiano fatto gli amministratori cui negli anni recenti romani e
veneziani hanno affidato le loro città.
Del 18/12/2014 – pag. 43
La protesta del Piccolo Teatro: leggi ingiuste, si
rischia di morire
Escobar: noi virtuosi esclusi dai benefici fiscali, premiate le fondazioni
liriche
MILANO «Puniti, perché abbiamo i bilanci a posto. Discriminati con il rischio di morire». Da
Milano si leva la voce dei piccoli teatri. L’Art Bonus all’anglosassone, la misura che
consente ai privati di detrarre il 65 per cento delle donazioni in favore di musei, siti
archeologici, archivi, biblioteche, è stata estesa alle fondazioni lirico sinfoniche ma «non
vale per noi, piccole realtà», spiegano Sergio Escobar e Andrée Ruth Shammah, direttori
rispettivamente del Piccolo Teatro e del Teatro Franco Parenti. «Se era assurdo che la
defiscalizzazione delle donazioni private alla cultura fosse confinata ai soli Beni culturali —
dice Sergio Escobar — suona addirittura una beffa che, con un emendamento alla legge di
Stabilità, tale defiscalizzazione venga estesa ad attività di produzione dello spettacolo,
purché in gravissimo, colpevole disavanzo».
Il Piccolo Teatro-Teatro d’Europa mette il bilancio sul tavolo. Pronto ad un confronto: ha
superato i 20 mila abbonamenti e il 12 dicembre il Cda ha approvato all’unanimità il
bilancio di previsione del 2015 e anticipato che «il consuntivo 2014 sarà, come negli ultimi
quindici anni, in perfetto pareggio». «A parte un paio di fondazioni — Scala e Santa
Cecilia, premiate con l’autonomia statutaria — il comparto ch’è destinatario unico di questa
estensione, quello delle 14 fondazioni liriche (più i teatri musicali di tradizione), ha
accumulato, come noto, oltre 390 milioni di euro di “debiti” (senza contare i 125 di aiuti di
Stato aggiuntivi, nel 2014) — prosegue Escobar —. Ebbene l’emendamento di estensione
dell’Art Bonus si applica proprio alle Fondazioni liriche. Vengono escluse le attività
produttive che con responsabilità hanno affrontato le difficoltà economiche del Paese, che
hanno mantenuto il livello di servizio al pubblico, che vengono premiate dagli spettatori (ad
esempio, il Piccolo Teatro ha superato la quota dei 20 mila abbonati, superiore a quella di
molte squadre di calcio) e che hanno garantito da anni il pareggio assoluto di bilancio».
Il direttore del Piccolo Teatro spiega che «queste realtà virtuose si sentono più vicine a
quegli imprenditori, piccoli o grandi, che non hanno esportato la sede legale e fiscale
all’estero, ma affrontano la crisi economica rimboccandosi le maniche per sostenere lo
sforzo di rilancio dell’Italia. Sono questi i soggetti privati ai quali si chiede di concorrere al
sostegno della cultura come elemento di sviluppo del Paese con senso civico che la
politica dovrebbe sostenere con coerenza».
Conclude: «Viene spontaneo rivolgersi a questi privati, chiedendoci con loro se sia più
giusto che investano, se possono, con il beneficio della detraibilità fiscale, in realtà capaci
di produrre impunemente voragini di disavanzi, oppure se non sia più coerente con l’etica
del comune impegno, che dedichino risorse alle strutture produttive sane ma, in netta
contraddizione con quanto avviene in altri Paesi presi a modello, escluse dagli incentivi
50
fiscali». «Chiediamo che si premino le sane gestioni pubbliche e private che producono
con efficienza» gli fa eco Shammah.
A condividere delusione e timori è anche l’assessore alla Cultura di Milano Filippo Del
Corno: «Chiediamo un atto di coraggio al Parlamento, perché il beneficio fiscale sia esteso
davvero a tutte le realtà produttive, per metterle in competizione e perché non passi il
principio che si salva solo chi ha peccato». Il riferimento è «alle tante fondazioni lirico
sinfoniche che hanno accumulato una esposizione debitoria insostenibile. Si pensi al
provvedimento poi ritirato di licenziamento di coro e orchestra all’Opera di Roma».
Paola D’Amico
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ECONOMIA E LAVORO
del 18/12/14, pag. 5
Cgil: bene l’incontro in Sala Verde, ma la
mobilitazione non si ferma
An. Sci.
Il direttivo. Il sindacato fa il punto sullo sciopero generale del 12
dicembre e prepara il confronto di domani con il governo. Restano le
critiche su Jobs Act e legge di stabilità. Intesa con la Uil, ancora difficili
i rapporti con la Cisl
Direttivo della Cgil, ieri, per una valutazione sullo sciopero generale e per discutere
dell’incontro previsto domani nella Sala Verde di Palazzo Chigi. Il governo ha convocato
Cgil, Cisl, Uil e le imprese per discutere del Jobs Act, con l’intenzione, già annunciata dal
premier Matteo Renzi, di varare i decreti delegati comunque in occasione del consiglio dei
ministri della vigilia di Natale.
Per il documento ufficiale del direttivo (approvato con 3 voti contrari) si aspetta oggi, ma
intanto si è saputo che il giudizio sullo sciopero generale è «assolutamente positivo», e
che la mobilitazione non si ferma qui, ma «continua».
«Come il 25 ottobre, quelle del 12 dicembre erano piazze di lavoratori — è la riflessione
della Cgil sullo sciopero della settimana scorsa — Si sono rivisti luoghi di lavoro e
lavoratori che non si vedevano da tempo, e non solo di aziende in crisi. Il senso di
consapevolezza che le piazze hanno sottolineato è la assoluta centralità del lavoro in tutti i
suoi aspetti, cioè nel pieno dei suoi diritti e delle sue tutele, che passa dal contrasto alla
legge delega, e all’importanza dell’affermazione del lavoro come risposta alla crisi».
Segue un’analisi sul contesto economico e la legge di stabilità: il paese, secondo il
sindacato, continua a versare in una crisi profonda senza segnali di ripresa. Tutti gli
indicatori al momento sono negativi, con il tema della deflazione che caratterizzerà i
prossimi tempi. La legge di Stabilità, al netto di qualche modifica positiva da valutare poi
appieno — l’emendamento sui disabili, la questione delle penalizzazioni pensionistiche, la
rivisitazione del taglio ai patronati — continua ad avere una caratteristica depressiva,
delegando al sistema delle imprese l’“invito” a investire, regalando al contempo loro la
possibilità di licenziare.
Per la Cgil «non c’è traccia di politiche di sviluppo: quest’ultimo è affidato alle imprese
mentre, allo stesso tempo, non c’è niente in termini di creazione e di difesa del lavoro».
Quanto al Jobs Act, il contentuto resta ignoto — «è il terzo segreto di Fatima», dicono con
un pizzico di ironia in Corso d’Italia . E sulla convocazione: è «indubitabile che sia il
risultato della mobilitazione: lo dimostra la modalità di annuncio, ovvero da parte del
premier all’assemblea del Pd, all’oscuro anche del ministro del Lavoro. Ma soltanto
venerdì scopriremo il merito dei decreti, così come il valore stesso della convocazione».
L’organizzazione guidata da Susanna Camusso comunque continuerà nella sua iniziativa,
nella «mobilitazione per mettere al centro il lavoro, come sola strategia possibile per uscire
dalla crisi». Quindi per un verso continuerà la sua battaglia sul Jobs Act e per l’altro si
occuperà della gestione del provvedimento sul fronte contrattuale, «per non lasciare solo
nessuno, aprendo un fronte vertenziale con le imprese».
Ma la Cgil non esclude un’iniziativa giudiziaria rispetto alla delega lavoro e non esclude
neanche campagne abrogative, il tutto in una logica confederale. Con la Uil i rapporti
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«continuano a essere positivi», con la possibilità, per stare al Jobs Act, di continuare ad
avere un punto di vista comune, mentre «si riscontrano ancora difficoltà con la Cisl ma non
si rinuncia alla costruzione di un percorso unitario».
del 18/12/14, pag. 5
Confindustria vede rosa, ma disoccupato
Le previsioni per il 2015. Rapporto del centro studi: il Pil torna positivo
l'anno prossimo, ma la disoccupazione continuerà a crescere. La
corruzione ha causato un mancato sviluppo per 300 miliardi: "Serve una
legge che tuteli chi denuncia"
In uscita dalla recessione e pronta per un «graduale recupero». Ma ancora alle prese con
l’emergenza disoccupazione, che continua a salire. E con la lotta alla corruzione, che
frena anche il Pil. L’Italia si avvia così al nuovo anno, secondo l’ultimo rapporto del Centro
studi Confindustria, questa volta dedicato proprio alla «corruzione zavorra per lo
sviluppo», nel momento in cui esplode l’inchiesta Mafia capitale, nella quale la stessa
Confindustria decide che si costituirà parte civile.
Il Pil italiano si appresta a chiudere il 2014 con un calo dello 0,5% ma a risalire nel 2015
con un +0,5% e a proseguire nel 2016 con un +1,1%. Il 2015–2016 si prospetta, quindi,
come «un biennio di graduale recupero per l’Italia». Il Pil, stima sempre il Csc, tornerà
positivo già dal primo trimestre 2015 con un +0,2%. Dati che piacciono al Pd: «Sono
incoraggianti, ci spingono ad andare avanti nella strada intrapresa finora, continuando ad
accelerare sulle riforme», commenta il responsabile Economia, Filippo Taddei.
La cattiva notizia è la disoccupazione ancora a livelli record: nel 2015 il tasso salirà dal
12,7% previsto in media per il 2014 al 12,9%, secondo il Csc, che rivede al rialzo le stime
precedenti (entrambi gli anni erano al 12,5%), mentre scenderà progressivamente nel
2016 con un 12,6% in media d’anno (12,4% nel quarto trimestre). Per il 2014 il tasso di
disoccupazione raggiunge addirittura il 14,2% «se si considera l’utilizzo massiccio della
cig». Una «debolezza», un «deterioramento» del mercato del lavoro che si quantifica in
8,6 milioni di persone a cui manca il lavoro (tra 3,3 milioni di disoccupati a cui si
aggiungono 2,6 milioni di part-time involontari, 1,7 milioni di scoraggiati e quanti sono in
attesa di una risposta, oltre ai Neet).
Ma a pesare sulla crescita è anche un fattore endogeno come la corruzione, considerata
un «vero freno» per il progresso economico e civile. Con un bell’impatto sul Pil: «Se con
Mani pulite l’Italia avesse ridotto la corruzione al livello della Francia (-1 punto)» del
relativo indice, «il Pil sarebbe stato nel 2014 di quasi 300 miliardi in più (circa 5 mila euro a
persona)», considerando questo arco di oltre venti anni, calcola il Centro studi
dell’associazione.
Confindustria, oltre a chiedere di rivedere la disciplina del falso in bilancio indica anche un
«limite storico» italiano, quello di non avere mai attivato meccanismi di tutela dei
dipendenti e imprenditori che denunciano episodi di corruzione, riferendosi ai cosiddetti
whistleblower. Norma che è «molto probabile diventerà parte del testo di legge», afferma il
ministro della Giustizia, Andrea Orlando.
Tornando al fronte economico, Confindustria lancia un avvertimento sulla clausola di
salvaguardia inserita in legge di stabilità (12,8 miliardi di incrementi delle imposte indirette,
lo 0,8% del Pil): «Farebbe ricadere l’economia in recessione. Evitarla è quindi necessario
per stabilizzare il Paese sul ritrovato percorso di crescita».
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Del 18/12/2014, pag. 27
Scontro sui dipendenti delle Province abolite
Comuni e Regioni senza fondi per assumere 20.000 esuberi. Governo
sotto al Senato. Confindustria: ripresa nel 2005
ROBERTO PETRINI
Maratona nella notte per la legge di Stabilità 2015 che oggi dovrebbe approdare in aula al
Senato con l’obiettivo di tornare domenica 21 alla Camera per l’approvazione definitiva.
Dopo il pacchetto di emendamenti del governo che hanno allargato il patto di Stabilità per
le Regioni di un miliardo, ieri in Commissione Bilancio di Palazzo Madama sono stati sciolti
molti degli altri nodi, dall’Irap, ai Fondi pensione, ai forfait per i redditi “minimi”,
all’allentamento della stretta sui patronati. Ma sì è registrato anche un incidente per il
governo che è andato sotto nel voto in Commissione: è stato approvato con un voto di
scarto un emendamento, a firma Luciano Uras (Sel), che stanzia 5 milioni a favore delle
scuole elementari e medie inferiori della Sardegna danneggiate dall'alluvione, su cui
governo e relatore avevano espresso parere contrario.
Intanto arriva il pacchettoterremoti: dopo Catania 1990, entrano in “Finanziaria” Abruzzo,
Emilia Romagna e alluvione di Genova. Le case crollate all’Aquila non dovranno pagare la
Tasi. Salta invece, perché dichiarato non ammissibile, l’emendamento del governo sulla
moratoria per il controllo delle armi sceniche per facilitare le riprese del film «007» a
Roma. Manovra e congiuntura: vede «rosa » per il prossimo biennio la Confindustria, con
Pil in leggera risalita. Ieri è scoppiato il caso dei 20 mila dipendenti delle Province che,
dopo l’abolizione, cioè la perdita di funzioni e di organi elettivi, si troveranno dal prossimo
anno con esuberi di personale. La Stabilità prevede due anni di mobilità e poi l’ingresso
nella disponibilità della pubblica amministrazione: dunque o il trasferimento in altri ambiti
pubblici o il licenziamento. I sindacati Cgil-Cisl-Uil sono sul piede di guerra ma anche
l’Anci, le Province e le Regioni. L’idea del governo è di trasferire 8.000 dipendenti al
ministero del Lavoro e i restanti 12 mila alle Regioni e ai Comuni. L’Anci tuttavia teme che
in prima battuta i dipendenti vengano scaricati sui Comuni e solo successivamente allo
Stato, alle Università, alle agenzie o agli enti pubblici economici. Su tutto regna
l’incertezza sulle risorse per assumere i 20 mila: enti locali e Regioni al momento non
hanno disponibilità. Viene invece risolto il nodo dell’Irap per 1,4 milioni di aziende che non
hanno dipendenti: l’abolizione dall’imponibile del costo del lavoro ha infatti favorito la
maggior parte delle aziende ma non quelle senza dipendenti che al tempo stesso hanno
visto tornare l’aliquota, ridotta prima dell’estate al 3,5 per cento, al livello del 3,9. Soluzione
anche per il problema dei «minini» per le partite Iva che, prima della legge di Stabilità,
avevano un forfait del 5 per cento Irpef sotto i 30 mila euro di ricavi. La “Stabilità” alla
Camera ha portato l’imposta sostitutiva al 15 per cento e ha elevato le soglie per alcune
categorie fino a 40 mila euro. Un emendamento del relatore Santini (Pd), porta la soglia
uguale per tutti a 20 mila euro. Parziale accordo sulla tassazione dei Fondi pensione e le
Casse di previdenza: la tassazione era stata portata dal governo dall’11 al 20 per i Fondi e
dal 20 al 26 per le Casse. Dopo proteste e polemiche scenderà, ma solo nel caso di
investimenti in attività produttive: al 12 per i Fondi e al 20 per le Casse. In tutti gli altri casi
resta uguale, come resta invariato l’aumento della tassazione del Tfr dall’11 al 17 per
cento.
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Del 18/12/2014 – pag. 9
Fondi pensione, «sconto» sulle tasse se
investiranno in opere pubbliche
Jobs act, arriva l’indennizzo minimo (tre mesi) per i licenziamenti
economici
ROMA - Prelievo più basso su fondi pensione e casse previdenziali a condizione che
investano in opere pubbliche. Sterilizzazione dell’aumento dell’Irap per gli autonomi. Meno
tagli al salario di produttività e ai patronati. Al Senato la commissione Bilancio chiude sulla
legge di Stabilità che dovrebbe arrivare in Aula stamattina e essere approvata con fiducia
domani. L’iter dovrebbe concludersi lunedì alla Camera, dove si lavorerà nel fine
settimana. In serata ultimo «incidente»: il governo è stato battuto, passa un emendamento
di Sel che stanzia 5 milioni per le scuole della Sardegna danneggiate dall’alluvione.
Per le casse previdenziali e i fondi pensione che facciano investimenti infrastrutturali,
individuati da un decreto del Tesoro, un credito d’imposta compenserà il previsto
incremento delle tasse sui redditi (dal 20% al 26%) e sul risultato netto maturato dei fondi
pensione (dall’11,5% al 20%). Costo: 80 milioni dal 2016.
Scendono da 150 a 35 i tagli per i patronati e da 238 milioni a 208 quelli al Fondo sgravi
contributivi per i contratti di secondo livello. Esclusi dalle agevolazioni del nuovo regime
dei «minimi» i soggetti con redditi da lavoro, dipendenti e assimilati, prevalenti rispetto ai
redditi oggetto di agevolazione, ad eccezione di coloro per cui la somma di tali redditi non
superi 20 mila euro. Infine una manciata di finanziamenti: 8 milioni agli alluvionati di
Genova, 6,5 all’Unione ciechi, 5 al fondo famiglia per le adozioni internazionali e stop alla
Tasi per le case crollate con il terremoto dell’Aquila.
Intanto il governo ha quasi definito il primo decreto attuativo del Jobs act . Scartata la
richiesta del ministro Giuliano Poletti di un indennizzo minimo pari a sei mesi di stipendio
per i licenziamenti economici, a prescindere dall’anzianità di servizio. La soglia sarà
probabilmente di tre mensilità. Ma nella categoria dei licenziamenti economici, che non
prevede il reintegro, dovrebbero rientrare anche quelli per scarso rendimento.
Sui licenziamenti disciplinari difficile il ricorso all’opzione aziendale, cioè la possibilità per
l’azienda di superare il reintegro del giudice con un indennizzo più alto.
Il reintegro stesso, però, sarà possibile solo se il licenziamento era stato deciso sulla base
di un fatto materiale insussistente e, forse, se l’azienda ne era a conoscenza. Le nuove
regole saranno estese alle aziende sotto i 16 dipendenti, ma con indennizzi dimezzati.
Problemi di copertura per la nuova Aspi, l’ammortizzatore di 24 mesi da estendere ai
collaboratori . La Ragioneria chiede di procedere per gradi.
Antonella Baccaro
Lorenzo Salvia
del 18/12/14, pag. 10
Una nuova moneta fiscale contro la crisi
Enrico Grazzini, Stefano Sylos Labini
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Depressione. Una proposta alternativa (compatibile con i vincoli del
sistema dell’euro), di Luciano Gallino e altri economisti per risollevare
l’economia nazionale
Ce lo insegna J. M. Keynes: per uscire dalla trappola della liquidità occorre creare nuova
domanda. Ma l’Unione Europea e l’euro alimentano austerità e deflazione: dunque occorre
che lo stato italiano crei un nuovo tipo di moneta nazionale.
Il governo di Matteo Renzi cerca, a parole, di rilanciare l’economia dando l’illusione che la
nuova finanziaria sia espansiva: in realtà però Renzi segue i diktat della Commissione Ue.
Quindi taglia il welfare, riduce i costi del lavoro, aumenta le tasse. La crisi dell’euro
potrebbe anche precipitare nella depressione o nel caos. Il problema è che le risorse
produttive (lavoro e capitale) sono fortemente sottoutilizzate perché manca la domanda. I
redditi scendono, la disoccupazione sale, molte aziende chiudono e le banche non fanno
più credito. Ma lo stato non può fare investimenti perché aumenterebbe il debito pubblico.
La Bce cerca in molti modi di dare ossigeno alla moribonda economia europea per salvare
l’euro (e sé stessa). Le banche però non investono nell’economia reale ma nei più
remunerativi titoli finanziari. L’economia quindi non riparte. Occorre allora che lo stato
italiano prenda autonomamente l’iniziativa di creare nuova domanda e nuova moneta
bypassando le banche. E’ necessario riprendere almeno un po’ di sovranità monetaria,
anche per creare le condizioni di un nuovo controllo democratico sull’economia.
Per uscire dalla trappola della liquidità, Biagio Bossone, Luciano Gallino, Marco Cattaneo,
e gli autori di questo articolo hanno lanciato un appello “Risolviamo la crisi dell’Italia:
adesso! Uscire dalla depressione con l’emissione di moneta statale a circolazione interna”.
L’appello, pubblicato sul sito dell’Associazione Paolo Sylos Labini, propone che lo stato
italiano emetta direttamente e gratuitamente a favore dei lavoratori (occupati, disoccupati
e pensionati) e delle imprese dei Certificati di Credito Fiscale (Ccf) ad uso differito che lo
Stato si impegna ad accettare dopo due anni dalla loro emissione per il pagamento di
tasse, contributi, tariffe, multe alla pubblica amministrazione.
Più precisamente, la nostra idea è quella di assegnare gratuitamente circa 70 miliardi di
Ccf ai lavoratori e altri 50 miliardi per finanziare un New Deal di opere pubbliche per la
cura dell’ambiente, per l’occupazione giovanile e femminile, per forme di reddito garantito,
per l’energia verde. Altri 80 miliardi dovrebbero essere distribuiti alle aziende per abbattere
del 18% il costo del lavoro e recuperare il gap competitivo con la Germania, in modo da
mantenere l’equilibrio della bilancia commerciale, aumentare gli investimenti e rilanciare
l’occupazione.
Lo Stato creerebbe fino a 200 miliardi di Ccf in tre anni e cioè una “quasi moneta”
nazionale parallela all’euro. In tal modo aumenterebbe la domanda senza chiedere soldi
sul mercato (espansione del debito). Solo l’emissione massiccia di una nuova moneta
fiscale potrebbe rilanciare l’economia italiana che dall’inizio della crisi ha perso 11 punti di
Pil e ha visto cadere la produzione industriale del 25%. Un disastro di proporzioni inaudite
che a causa della folle politica europea rischia di prolungarsi all’infinito.
Questo piano contrasta l’austerità deflattiva ma resta dentro l’euro. Riteniamo infatti che
un’uscita unilaterale dall’euro, propugnata da economisti come Alberto Bagnai e da forze
politiche come la Lega di Salvini e anche il M5S di Grillo, avrebbe esiti molto pericolosi. La
rottura sarebbe problematica: centinaia di miliardi di euro sono infatti detenuti come valuta
di riserva da tutti i paesi del mondo, come Cina, Russia, India. L’uscita unilaterale dell’Italia
dall’euro sarebbe contrastata da tutti e provocherebbe traumi geopolitici imprevedibili;
inoltre molti cittadini italiani sono contrari all’uscita per il timore di vedere svalutati i loro
risparmi.
Le nostre proposte dunque intendono presentare un’alternativa praticabile per risollevare
l’economia italiana e sono compatibili con i vincoli (iniqui e stupidi) del sistema dell’euro,
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perché la Bce ha il monopolio sull’emissione di moneta corrente ma non sulla creazione di
titoli di stato, come sono i Ccf che proponiamo. Inoltre gli stati europei sono sovrani in
campo fiscale e hanno il diritto di fare sconti fiscali. E i Ccf non costituiscono debito. Quindi
l’emissione di Ccf non infrange i trattati europei anche se siamo coscienti che le resistenze
politiche potrebbero essere fortissime. Dentro (purtroppo!) l’euro, ma oltre l’euro.
Ma come funzionerebbe la nuova moneta? I Ccf sarebbero immediatamente scambiati sul
mercato finanziario come qualunque altro titolo statale. Si creerebbe un mercato in cui, in
cambio di euro, i lavoratori e le aziende in crisi di liquidità cederebbero (a sconto) i Ccf alle
aziende e ai privati che hanno bisogno di crediti fiscali e che hanno la liquidità per
acquistarli. La nuova moneta aumenterebbe subito la capacità di spesa complessiva ma
non genererebbe debito pubblico. Infatti il calo delle entrate pubbliche che si
verificherebbe alla scadenza dei Ccf, grazie al moltiplicatore fiscale verrebbe più che
compensato dall’aumento dei ricavi fiscali prodotto dal forte recupero del Pil generato
dall’aumento della domanda dovuto all’utilizzo dei Ccf. Oggi infatti le risorse produttive
(capitale e lavoro) sono fortemente sottoutilizzate ed esistono quindi ampi margini di
recupero del Pil. Con la crescita del Pil, il deficit e il debito pubblico diventerebbero
sostenibili. E soprattutto aumenterebbe l’occupazione: e questo segnerebbe davvero
l’uscita dalla crisi.
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