RASSEGNA STAMPA

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martedì 9 dicembre 2014
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Da Corriere.it del 09/12/14
Giornata dei diritti umani, il parlamento
italiano s’impegni contro la tortura
di Riccardo Noury
Domani, mercoledì 10 dicembre, Giornata internazionale dei diritti umani, saranno
trascorsi 30 anni dall’adozione della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura:
universalmente ratificata e quasi altrettanto universalmente tradita, come confermano i dati
di Amnesty International, che tra il 2009 e il 2014 ha registrato torture e altri
maltrattamenti in 141 paesi.
Da oltre un quarto di secolo l’Italia ha l’obbligo, avendo ratificato la Convenzione, di dotarsi
di una legge che preveda e punisca il reato di tortura.
Per 25 anni, i numerosi tentativi di introdurre il reato di tortura nel codice penale (nella foto,
una raccolta di firme del 2004) sono stati bloccati da maggioranze parlamentari trasversali,
coalizzate intorno a un’asserita difesa dell’operato e della reputazione delle forze di
polizia, come se la sola previsione di tale reato – previsto nelle leggi di molte decine di
paesi nel mondo – associasse lo stigma della tortura all’intera categoria di pubblici ufficiali.
E invece, come ricordano in una lettera aperta al parlamento Enrica Bartesaghi e Lorenzo
Guadagnucci, promotori 13 anni fa del Comitato verità e giustizia per Genova, “il reato di
tor-tura, in ogni paese demo-cra-tico, è uno stru-mento for-ma-tivo, un punto di
rife-ri-mento morale per chi lavora nelle forze dell’ordine. (…) Solo una men-ta-lità
distorta, una cul-tura demo-cra-tica debole e invo-luta, può inter-pre-tare l’introduzione del
reato di tor-tura come un attacco alle forze dell’ordine. È semmai vero il contrario: le forze
dell’ordine saranno tanto più affidabili e credibili, agli occhi dei cittadini, in quanto
responsabili e trasparenti nell’ambito di una normativa allineata ai migliori esempi
normativi in campo internazionale”.
Approvato al Senato il 5 marzo, il disegno di legge sul reato di tortura si trova ora alla
Camera. È un testo che, secondo le organizzazioni per i diritti umani, può e dev’essere
migliorato.
La tortura non è qualificata come reato proprio bensì come reato comune, con
l’aggravante nel caso in cui l’autore sia un pubblico ufficiale. Inoltre, il testo non prevede la
perseguibilità delle condotte omissive e non contempla un fondo nazionale per le vittime
della tortura. Inoltre, l’espressione “atti di violenza” potrebbe dar luogo a interpretazioni
secondo le quali la tortura, perché sia qualificata tale, debba essere reiterata in più azioni.
Qualcosa già accaduto nel 2004.
Domattina alle 10 alla Camera dei Deputati, Amnesty International, Antigone, Arci, Cild e
Cittadinanzattiva manifesteranno con un minuto di silenzio alla Camera per chiedere
l’approvazione della legge. All’iniziativa, cui hanno aderito numerose organizzazioni e
diversi artisti (tra cui Erri De Luca, Massimo Carlotto, Piero Pelù e Alessandro Gassmann),
prenderanno parte i parlamentari Anna Rossomando, Daniele Farina, Giulia Sarti, Vittorio
Ferraresi, Paolo Beni, Bruno Molea, Luigi Manconi, Gennaro Migliore, Davide Mattiello.
Il minuto di silenzio verrà osservato anche in altre città italiane durante iniziative pubbliche.
Nell’occasione, Amnesty International Italia effettuerà la consegna di 20.000 firme raccolte
da maggio nell’ambito della campagna “Stop alla tortura” e dirette al presidente del
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Consiglio e ai presidenti di Camera e Senato per chiedere l’introduzione del reato di
tortura nel codice penale.
http://lepersoneeladignita.corriere.it/2014/12/09/giornata-dei-diritti-umani-il-parlamentoitaliano-simpegni-contro-la-tortura/
Da AgoraMagazine del 05/12/14
Roma / “In silenzio contro la Tortura”
ROMA - Le associazioni Cittadinanzattiva, Antigone, Amnesty International ed Arci
promuovono, in occasione della Giornata internazionale dei diritti umani, un’iniziativa dal
titolo “In silenzio contro la tortura” per chiedere una legge per l’introduzione del reato di
tortura.
Il 10 dicembre si svolgerà una conferenza stampa alla Camera a cui sono stati invitati i
deputati della Commissione Giustizia e tante altre associazioni e verrà osservato un
minuto di silenzio.
La testata ha dedicato all’argomento una nota, pubblicata sotto il titolo “26 giugno Giornata Mondiale di Solidarietà alle Vittime della Tortura”, nell’edizione del 26 giugno
2011, letta da 1172 internauti, tuttora consultabile al link
http://www.agoramagazine.it/agora/26-giugno-Giornata-Mondiale-di.
Da Lettera43.it del 08/12/14
NOTE POSITIVE
Rifugiati, i centri di accoglienza da imitare
Gli immigrati vivono in condizioni dignitose. Seguono corsi di
formazione. Fanno volontariato. Da Breno a Todi: dove l'integrazione è
riuscita.
di Rossana Caviglioli
Ci sono zone in Italia, leggasi Tor Sapienza, in cui gli abitanti si adoperano, e scendono in
piazza, affinché i centri di accoglienza chiudano. I residenti vedono i rifugiati come invasori
e reagiscono di conseguenza.
A Roma gli immigrati sono diventati persino un business, come ha rivelato la recente
inchiesta Mafia Capitale. Gli ultimi sciagurati su cui lucrare senza remore.
Sono realtà che indignano, che fanno pensare che in Italia non ci sia posto per l'ospitalità.
Ma il nostro Paese è ricco di esempi di integrazione riuscita, dove richiedenti asilo e
residenti convivono senza attriti.
ESEMPI DI ECCELLENZA. Uno dei progetti d'eccellenza è a Breno, piccolo paesino della
Val Camonica.
La struttura, gestita dalla Cooperativa K-Pax, ospita 45 persone, che durante la
permanenza imparano un mestiere e seguono corsi di italiano. A Todi i ragazzi possono
addirittura partecipare alla produzione di un vino bianco Doc, il Grechetto, e di un rosso
Merlot-Sangiovese. È il Progetto Asylon, nato dalla la collaborazione tra Caritas Umbria e
Istituto Agrario con il patrocinio dell'Alto Commissariato Onu per i Rifugiati e il sostegno di
Libera.
«IL SEGRETO? VIVONO IN CONDIZIONI UMANE». «I casi di successo ci sono e sono
molti. Tra i progetti gestiti da noi posso citare quello dei 'Girasoli' di Mazzarino, in provincia
di Caltanissetta, che ospita una ventina di adolescenti. Oppure Lecce, Rieti, Viterbo,
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Monterotondo», spiega Valentina Itri, coordinatrice del Numero Verde dell'immigrazione
dell'Arci.
«Hanno tutti in comune due cose: le persone non vivono ammassate ma in appartamenti,
in piccoli gruppi. E possono accedere a corsi di italiano o di formazione, tenuti spesso da
persone in grado di parlare la loro lingua madre».
28 MILA DOMANDE D'ASILO IN SEI MESI. Il problema è proprio quello: cercare di
riportare a una dimensione umana il flusso di migranti in continuo aumento.
Secondo Eurostat nel 2012 le domande di asilo sono state circa 17 mila, nel 2013 quasi
28 mila e solo nei primi sei mesi del 2014 ne sono arrivate almeno altrettante. Una
condizione che comunque riguarda solo di una minoranza di chi arriva sulle nostre coste: il
Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati (Sprar) si occupa solo di chi non
può tornare nel proprio Paese perché perseguitati per motivi di razza, religione,
nazionalità, orientamento sessuale o opinioni politiche.
LA GERMANIA HA 10 VOLTE I NOSTRI RIFUGIATI. Il numero di rifugiati in Italia, anche
se elevato (65 mila nel 2012), è più basso di quello quello della Germania, che ne ha quasi
10 volte tanto, Francia, Regno Unito, Svezia e Paesi Bassi.
Da noi a complicare la situazione sono la crisi economica e un sistema di accoglienza
poco organico, che rischia di andare in tilt a ogni nuovo sbarco.
Per permettere ai richiedenti asilo di vivere in condizioni dignitose, i posto letto garantiti
dallo Sprar sono sono stati portati di recente da 3 mila a circa 19 mila e da poco più di un
centinato a 3 mila nella sola Roma.
L'importante è evitare la ghettizzazione
Concentrare più di poche decine di persone in una sola struttura, soprattutto se collocata
in una zona periferica già problematica (come è successo a Tor Sapienza), vuol dire,
secondo l'Arci, partire col piede sbagliato.
Silvia, operatrice della Cooperativa K-Pax, è d'accordo. «I nostri ospiti abitano in piccoli
appartamenti, in modo che non si crei un ghetto, e vivono una vita autonoma. Tutti
partecipano al corso di italiano e tutti sono impegnati in qualche attività di formazione o di
volontariato. E i risultati si vedono».
I richiedenti asilo, nei mesi di attesa prima che la loro pratica venga esaminata, non
possono allontanarsi né accedere a un lavoro retribuito. Una condizione che può portare
rapidamente all'esasperazione. A Breno, come alternativa, K-Pax offre corsi di formazione,
dalla lavorazione della pelle, alla cura del verde alla posa di laminati e parquet. E c'è
anche un laboratorio teatrale interculturale.
«BISOGNA PARLARE ALLA POPOLAZIONE». Problemi con la popolazione locale?
«Qualche episodio di intolleranza c'è stato, ma decisamente isolato», continua Silvia. «Ha
aiutato anche il grosso lavoro di comunicazione: se spieghi a chi vive sul territorio chi sono
i ragazzi che ospitiamo e perché sono arrivati fin qui, l'atteggiamento cambia. Non sono
più corpi estranei ma persone».
Solo in pochi, comunque, ottenuto lo status di rifugiato, si fermano nella valle. Per molti
l'idea fissa è quella di arrivare in Germania o in Svezia, anche se per legge potrebbero
farlo solo dopo cinque anni dal riconoscimento. «Il ragionamento è: meglio una vita da
clandestino in Germania che una da rifugiato qui. E ciò dice molto della loro condizione».
A TODI IL PROGETTO SI AUTOFINANZIA. A Todi è il progetto stesso ad autofinanziarsi:
i proventi della vendita del vino Asylon, riconosciuto come eccellente dal ministero
dell'Agricoltura e dall'Assoenologi, vengono usati per i corsi di formazione dell'anno
successivo. «Siamo partiti nel 2011 con una dozzina di ragazzi, a cui abbiamo offerto dei
corsi di formazione dedicati all'interno della nostra fattoria educativa e della cantina
sperimentale», spiega Gilberto Santucci, responsabile della fattoria didattica dell’Istituto
Agrario Ciuffelli. «Da allora offriamo agli ospiti dello Sprar la possibilità di frequentare corsi
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semestrali di coltivazione, potatura, produzione vinicola alla fine dei quali si ottiene un
attestato».
«NON CE L'HANNO CON TE, È LA BUROCRAZIA ITALIANA». Anche qui, in piena
campagna umbra, i richiedenti asilo si mescolano senza problemi agli abitanti e agli
studenti. L'ostacolo maggiore è la frustrazione dovuta alla lunga attesa prima di ottenere lo
status di rifugiato.
«Molti dei miei allievi la prendono sul personale, come se fosse uno sgarbo diretto a loro in
quanto stranieri», spiega Santucci. «E ogni volta devo rispondere: 'Stai tranquillo, non ce
l'hanno con te, te l'assicuro. È semplicemente la burocrazia italiana'».
http://www.lettera43.it/fatti/rifugiati-i-centri-di-accoglienza-da-imitare_43675150164.htm
Da Repubblica.it (Napoli) del 08/12/14
Cinema Pierrot di Ponticelli, social card
cinematografica per i 25 anni del Cineforum
Arci Movie
di ANNA LAURA DE ROSA
Parte l'11 dicembre con un po' di ritardo la 25esima edizione del Cineforum Arci Movie al
Cinema Pierrot di Ponticelli che, dopo aver rischiato la chiusura nel 1990, è riuscito a
vincere anche la sfida del digitale adeguandosi alle moderne tecnologie. Per festeggiare la
resistenza e le nozze d'argento, il cineforum che conta oltre mille soci lancia un'iniziativa
sociale: con una card di 30 euro si potranno vedere 25 film da scegliere tra le proposte del
Cineforum tradizionale, (giovedì e venerdì con doppia proiezione alle 18 e alle 21), e la
rassegna "I lunedì dei Festival" (ogni lunedì alle 21), ovvero una selezione delle migliori
pellicole e documentari selezionati dai migliori festival di settore di tutto il mondo. La card
dà diritto inoltre alla Tessera Arci Nazionale, al prestito gratuito di oltre seimila titoli raccolti
nella Mediateca "Il Monello", alla partecipazione agli eventi e alle attività sociali.
L'11 dicembre si inizia con "... E fuori nevica" di Vincenzo Salemme, invitato alla
proiezione. Il 25esimo anniversario del Cineforum "testimonia un progetto vero che con
passione e determinazione continua a vivere tra mille avversità su un territorio difficile dicono i responsabili - Lo slogan di Arci Movie (La passione del cinema per costruire
cultura e solidarietà) si rinnova con queste nozze d'argento che saranno celebrate
durante tutto il 2015 con l'ordinaria programmazione e tanti eventi speciali. "Da ormai un
quarto di secolo - aggiunge il presidente dell'Associazione Arci Movie Roberto D'Avascio proponiamo con forza una rassegna popolare ed impegnata al cinema Pierrot, che si pone
ancora come punto di aggregazione sociale, modello di resistenza civile e culturale e
veicolo efficace di promozione del cinema in una parte della città spesso abbandonata e
soprattutto senza sale cinematografiche".
Scorrendo la programmazione, il 18 e 19 dicembre entrerà in sala "Colpa delle stelle" di
Josh Boone, il film campione d'incassi di questa stagione tratto dal romanzo best seller di
John Green. Proiezione speciale durante le festività natalizie, domenica 27 dicembre, con
il maestro e amico storico di Arci Movie, Mario Martone, che verrà a presentare il suo
ultimo lavoro "Il Giovane favoloso" sulla vita di Giacomo Leopardi.
A gennaio 2015 le proiezioni riprenderanno l'8 e il 9 con Egoyan di "Fino a prova contraria"
e ancora, accontentando un pubblico eterogeneo, "In ordine di sparizione" e "La spia - A
most wanted man". Per celebrare la Giornata della memoria, a fine gennaio, Roberto
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Faenza accompagnerà in sala il suo "Anita B". Subito dopo si tornerà a ridere con la
nuova commedia di Alessandro Genovesi "Soap opera" e a godere del vero cinema
d'essay con "Ritorno a l'Avana" di Laurent Cantet. Cantet, già a Napoli per la nota
rassegna "Venezia a Napoli" di settembre, torna, questa volta, esclusivamente per il
pubblico della periferia, il 5 e il 6 febbraio.
Sempre a febbraio (il 19 e 20) arriveranno i Manetti Bros per "Song 'e Napule", ancora
richiestissimo dal pubblico. Tradizione del Cineforum Arci Movie è infine celebrare la
Giornata della donna nel mese di marzo con proiezioni
dedicate. Ogni settimana quindi, fino ad aprile, un film. Tra gli atri titoli: "Tutto può
cambiare" di John Carney; Alabama Monroe - Una storia d'amore del fiammingo Felix
Van Groeningen, nominato agli Oscar 2014 come miglior film straniero; e ancora "Trash"
di Stephen Daldry, "Confusi e felici" di Massimiliano Bruno, "Una promessa" di Patrice
Leconte. Le pellicole delle ultime 4 date invece saranno scelte dal pubblico in sala.
http://napoli.repubblica.it/cronaca/2014/12/08/news/pierrot-102429812/
Da Vita.it del 09/12/14
Giuseppe Di Francesco nuovo presidente
Fairtrade Italia
di Redazione
L'elezione del nuovo presidente del Consorzio del Commercio equo certificato a seguito
delle dimissioni presentate dal predecessore Andrea Nicolello-Rossi. L'anno per il
commercio equo si chiude con un +20%. Buone le prospettive anche per il 2015
È Giuseppe Di Francesco il nuovo presidente di Fairtrade Italia. La sua elezione a inizio
dicembre. Il Consiglio di Amministrazione del Consorzio ha accolto le dimissioni
rassegnate nelle scorse settimane da Andrea Nicolello-Rossi sia per la carica di
presidente che di Consigliere di Amministrazione, dovute a sopraggiunti impegni personali
e professionali, ed eletto il nuovo vertice.
Giuseppe Di Francesco, già consigliere in Fairtrade Italia, dirige l’Ufficio Amministrazione
della Direzione Nazionale di Arci e dal 2013 siede nel Consiglio di Amministrazione di
Banca Etica.
La notizia del cambio di vertice arriva a conclusione di un anno molto positivo per il
Consorzio, che, in linea con il trend degli ultimi semestri, registra una significativa crescita.
Solo nei primi nove mesi del 2014 il valore del venduto dei prodotti del commercio equo
certificato ha registrato un aumento del 20%. In una nota di FairTrade si sottolinea come
anche le prospettive per il 2015 sono molto interessanti, anno che si preannuncia ricco di
attività ed iniziative, specialmente in relazione alla presenza di Fairtrade in Expo2015
come organizzazione della società civile.
http://www.vita.it/economia/green-economy/giuseppe-di-francesco-nuovo-presidentefairtrade.html
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INTERESSE ASSOCIAZIONE
del 09/12/14, pag. 15
Parigi-Ustica. Il controprocesso
Alessia Magliacane
Le recenti aperture del governo francese in favore di una cooperazione giudiziaria con i
magistrati italiani sugli eventi che occuparono il cielo di Ustica il 27 giugno 1980 (…)
hanno spinto alla costituzione di un comitato per l’accertamento della verità che avesse
sede anche a Parigi.
Devo qui sottolineare, tuttavia, non soltanto le specificità del comitato parigino, che
ovviamente si propone di seguire da vicino le nuove indagini e le reazioni politiche,
eventualmente recepite e rilanciate dall’opinione pubblica francese (in fondo si tratta pur
sempre di un’operazione di guerra finita in strage per un missile lanciato da un caccia
francese e che intendeva, almeno stando alle prime ricostruzioni da verificare, abbattere il
presidente o il capo di stato maggiore di un governo strategico nell’area mediterranea,
quello libico), ma anche le ragioni di discontinuità con molte analisi che hanno
caratterizzato l’impianto politico-ideologico riferito ai fatti di Ustica per 35 anni.
Non si tratta, infatti, del solo accertamento della verità, per quanto arduo e scioccante
possa essere. Si tratta piuttosto di comprendere finalmente il ruolo dell’Italia, dagli apparati
di stato militari ai partiti politici all’opinione pubblica diffusa, evidenziandone una strategia
che dall’asservimento atlantico e dalla tolleranza del più grande partito comunista europeo
sia fluidamente scivolata verso una privazione progressiva di diritti e garanzie, fondo
ideologico e culturale del ritiro irreversibile dello stato dalle sue funzioni democratiche e
rappresentative, tentando ovviamente di cogliere (proprio in eventi come quelli di Ustica o
di Bologna) la matrice politica dei processi dell’Italia e dell’Europa di oggi.
È un compito certo più che ambizioso, lo ammettiamo, ma anche necessario! La verità
giudiziaria, così difficilmente raggiungibile, è soltanto una parte minima dei processi che
riguardano una molteplicità ancora indistinta di attori (politici, militari, giudiziari, tecnici e
burocratici), ai quali bisogna aggiungere i protagonisti non tanto occulti dei depistaggi e
delle complicità: da chi abbia soltanto strappato un foglio in un registro, a chi ha
manomesso i freni di una vettura o un citofono, a chi abbia alterato la scaletta delle notizie,
fino a chi abbia colpevolmente limitato all’ambigua formula di «servizi deviati» una serie di
protagonisti così tanto simili al nostro mite vicino di casa.
In altri tempi, epoche ben più ricche e promettenti di questa, si sarebbe parlato, almeno
per fatti così tragici e gravi, di fare un controprocesso!
* l’autrice è la segretaria del comitato Ustica Parigi
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ESTERI
del 09/12/14, pag. 7
Coreografie della disobbedienza americana
Giulia D'Agnolo Vallan
Stati uniti. Non si placano le proteste per gli omicidi «razziali» e impuniti
della polizia. Scontri a Berkeley e Oakland. A New York happening
curati nei minimi dettagli che creano disagi senza ricorrere alla violenza.
Il sindaco De Blasio: «Il problema esiste ed è nazionale»
Sono continuate durante il week end le proteste esplose in molte città d’America in seguito
ai verdetti sugli omicidi di Michael Brown e Eric Garner. Ancora essenzialmente pacifiche
a New York, dove il pubblico ministero di Brooklyn Kenneth Thompson ha annunciato
venerdì la formazione di un gran jury che dovrà decidere se incriminare o meno il poliziotto
che ha ucciso Akrai Gurley – un altro afroamericano abbattuto senza ragione nelle scale di
casa sua, e seppellito prima del week end. Meno pacifiche a Berkeley e Oakland che,
come Ferguson due settimane fa, hanno visto, per la seconda notte consecutiva, violenti
scontri tra parte dei manifestanti e le forze dell’ordine.
Mentre nelle due città della California settentrionale (Oakland è stata a sua volta teatro,
nel 2009, di un altro inspiegabile omicidio compiuto dalla polizia ai danni di un
afroamericano, Oscar Grant, rivisitato l’anno scorso nel film Fruitvale) la polizia è ricorsa a
lacrimogeni, manganelli e ci sono stati dei feriti, le manifestazioni a New York si sono
svolte senza grossi contrasti. Le più spettacolari ed efficaci, sotto forma di die-ins,
effettuati all’interno del grande magazzino Macy’s, nell’Apple Store sulla Quinta strada e
nell’atrio della Grand Central Station.
Strutturati come happening estemporanei in vari punti della città, sono gesti di
disobbedienza civile coreografati con attenzione, che creano disturbo ma non durano
abbastanza a lungo perché la polizia si senta in dovere di intervenire con la forza. Una
lezione questa imparata in seguito alla convention repubblicana del 2004 durante la quale
– sotto indicazione dell’amministrazione Bloomberg– gli uomini in blu avevano effettuato
arresti di massa, in gran parte “preventivi”, molti dei quali ancora oggi oggetto di cause
legali.
Meno ostile ai manifestanti del suo predecessore, ma anche molto attento a non
“antagonizzare” troppo la polizia, Bill de Blasio è apparso sui talk show nazionali nel week
end. Interrogato su cosa pensava della decisione del gran jury riguardo alla morte di Eric
Garner, il sindaco si è trincerato dietro a un ambiguo «rispetto per la procedura». Ma ha
contrattaccato le accuse di Rudolph Giuliani: se nel giro di pochi giorni incidenti del genere
si verificano a New York, Phoenix, Cleveland e Ferguson il problema esiste, ed è di tutto il
paese.
Non ci sono dubbi che le ultime parole di Eric Garner, I can’t breath, non posso respirare,
siano diventate un lamento nazionale, e un lamento che oltre ai canti e ai cartelli delle
manifestazioni – nel corso del week end — è apparso anche sulle magliette di alcuni
giocatori della NFL e della NBL.
Sono entrati nel discorso nazionale, anche la possibilità di istituire telecamere obbligatorie
per i poliziotti (ma nemmeno un video esplicito ha aiutato a incriminare gli agenti che
hanno ucciso Eric Garner) e la fallibilità di una procedura giudiziaria che coinvolge un
corpo teoricamente indipendente come il gran jury, ma che – di fronte alla scelta se
incriminare un poliziotto o meno — non produce quasi mai un verdetto a favore.
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Uno dei rari casi in cui la polizia è stata perseguita criminalmente con successo si è
verificato qui a New York, nel 1997, quando il trentenne haitiano Abner Louima, che stava
cercando di interrompere una lite scoppiata di fronte a un night club di Brooklyn, è stato
arrestato, picchiato selvaggiamente e sodomizzato da alcuni poliziotti. In quell’occasione
7.000 persone avevano marciato sul ponte di Brooklyn, dirette a City Hall. Uno dei cinque
agenti coinvolti nell’attacco sta ssontando una sentenza di 30 anni, l’altro di 15. Il pubblico
ministero incaricato del caso era Loretta Lynch, che Barack Obama ha appena nominato
per sostituire il ministro della giustizia Eric Holder. Louima, che è sopravvissuto alla
barbarie dei poliziotti e adesso vive in Florida, ha dato voce ai suoi pensieri su Ferguson e
New York, attraverso la scrittrice haitiana Edwige Danticat, nelle pagine del settimanale
New Yorker: «Come è possibile che così poco sia cambiato in tutti questi anni? Quello che
sta succedendo mi ricorda che le nostre vite continuano a non valere nulla».
Intanto, non ci sono segni che l’indignazione provocata nell’intero paese dai casi Brown e
Garner possa fermarsi. È prevista per sabato 13 una grande marcia in parecchie città. Ma
il centro nevralgico sarà a Washington, dove anche ieri mattina, gruppi di manifestanti
protestavano di fronte alla sede del Congresso. Eventi di disobbedienza civile — secondo
il modello sparso, non strutturato verticalmente e polifonico di Occupy -, focus group che
prendono di mira pratiche precise della polizia come quella delle broken windows,
opportunità di addestramento ai die ins e affini sono previsti ovunque.
del 09/12/14, pag. 16
Torture Cia, il rapporto che fa paura
Oggi il dossier sugli interrogatori dei terroristi di Al Qaeda. Bush si
schiera con gli 007 Allerta del Pentagono per possibili attentati.
Mobilitati 6 mila marines, anche a Sigonella
DAL NOSTRO INVIATO NEW YORK Sedi diplomatiche e unità militari americane messe
in stato di massima allerta in tutto il mondo, soprattutto nei Paesi più esposti al terrorismo
(6.000 i marines mobilitati, anche Sigonella in allarme), alla vigilia della pubblicazione del
rapporto del Senato sull’uso di metodi non convenzionali (cioè forme di tortura) in alcuni
interrogatori della Cia dopo le stragi dell’11 settembre 2001. Una volta insediatosi alla
Casa Bianca, Barack Obama chiese all’intelligence di non usare più il waterboarding
(annegamento simulato) e altre tecniche proibite per estorcere confessioni
nell’interrogatorio di sospetti terroristi. Ma non denunciò l’operato del suo predecessore né
aprì inchieste.
Un’indagine è stata però condotta dalla Commissione di controllo dei servizi segreti del
Senato che ha redatto già da mesi un rapporto segreto assai voluminoso: ben 6.300
pagine. Una sintesi di 480 pagine dovrebbe essere resa nota oggi, ma ieri sono state
esercitate forti pressione sul presidente del comitato, la senatrice democratica Diane
Feinstein, per un ulteriore rinvio della pubblicazione.
Un atto che, secondo i repubblicani e anche molti esperti militari, verrà usato da gruppi
estremisti per incitare alla violenza contro bersagli americani nel mondo.
Il rapporto — sottoscritto solo dalla maggioranza democratica uscente del Senato dove tra
20 giorni si insedierà la nuova assemblea a maggioranza repubblicana — contiene una
critica serrata delle tecniche di interrogatori «non convenzionali» usate prima del 2009.
Secondo numerose indiscrezioni che hanno cominciato a circolare fin dal marzo scorso,
nei suoi interrogatori la Cia avrebbe usato sistemi che sconfinano nella tortura più spesso
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di quanto fin qui ammesso e senza ottenere risultati significativi dal punto di vista
dell’acquisizione di informazioni davvero essenziali per l’attività di intelligence. E avrebbe
anche «depistato» il potere politico minimizzando il peso di questi interventi nelle
informative fornite al governo e al Parlamento.
Il risultato è mettere con le spalle al muro un’Agenzia federale di spionaggio che si è
sempre difesa sostenendo di aver informato l’autorità politica e di aver usato tecniche
«non convenzionali» solo quando indispensabili per ottenere informazioni che, secondo la
Cia, hanno consentito di salvare migliaia di vite umane.
Il documento nega che le cose siano andate in questo modo. Ma per i repubblicani, che al
Senato si preparerebbero a divulgare un contro-rapporto di minoranza, renderlo noto nel
clima attuale è versare benzina sul fuoco. Mike Rogers, presidente della Commissione
Intelligence della Camera, ha detto che la sua pubblicazione «porterà violenze e morte».
La situazione è tesa e confusa anche perché il tentativo di mettere la presidenza Bush al
riparo dalle conseguenze del rapporto, dando tutte le responsabilità alla Cia, è fallito per
iniziativa dello stesso ex presidente: messo a conoscenza dei contenuti del documento,
George Bush ha detto di condividere tutto quello che è stato fatto dagli uomini del servizio
segreto (definiti campioni di patriottismo) per difendere l’America.
Obama sembra aver dato comunque via libera alla pubblicazione del rapporto, anche se
dal governo potrebbero essere venute indicazioni contrastanti: ieri il suo portavoce Josh
Earnest ha detto che da mesi militari e ambasciate si preparano all’evenienza di attacchi
dopo la pubblicazione del documento che, evidentemente, viene considerato un atto di
trasparenza non più rinviabile. Ma solo venerdì scorso il Segretario di Stato John Kerry
avrebbe avvertito la Feinstein che con la sua decisione esporrà a rappresaglie molti
americani in giro per il mondo. Ora la senatrice è sola con la sua coscienza.
Massimo Gaggi
del 09/12/14, pag. 7
Sei detenuti di Guantanamo accolti come
rifugiati in Uruguay
Geraldina Colotti
Americhe. Pepe Mujica a Obama: «Diciamo sì perché siamo contro i
sequestri di Stato»
Quattro siriani, un tunisino e un palestinese. Sei prigionieri di Guantanamo sono in
Uruguay da domenica scorsa come rifugiati. Hanno vissuto nel campo di concentramento
statunitense da dodici anni, dal 2002. Una prigione di «Massima sicurezza» — a solo un
anno dall’attentato alle Torri gemelle per il quale scattò la guerra di vendetta
all’Afghanistan — aperta l’11 gennaio di quell’anno dall’amministrazione Bush all’interno
della base navale che si trova sull’isola di Cuba, finalizzata a rinchiudere i «combattenti
nemici» catturati in Afghanistan e sospettati di attività eversive.
I sei sono stati arrestati come appartenenti alla galassia di al-Qaeda, ma non hanno subìto
condanne: «Liberabili perché non ad alto rischio», questo ora il responso sui sei prigionieri
secondo le agenzie di intelligence Usa. Per i primi tempi, il governo uruguayano darà loro
sostegno economico e li aiuterà a trovare una casa e un lavoro. Ora sono ricoverati in
ospedale a causa delle cattive condizioni di salute, dovute ai maltrattamenti e anche al
lungo sciopero della fame intrapreso nel campo di prigionia.
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Ora, l’Uruguay è il primo paese sudamericano, e il secondo in tutta l’America latina, ad
aver accolto prigionieri di Guantanamo, dopo la promessa di Obama di chiudere la
prigione di Massima sicurezza (ma non la base militare), una promessa mai realizzata. Nel
2012, il Salvador ha ospitato per quasi due anni due musulmani cinesi di etnia uigura,
provenienti da Guantanamo. In Uruguay vi sono attualmente tra i 250 e i 300 rifugiati, in
maggioranza provenienti dalla Colombia. Secondo un’inchiesta dell’istituto Cifra, il 58% dei
cittadini si dichiara contrario a ospitare i detenuti di Guantanamo, mentre il 40% ritiene che
la decisione spetti al Parlamento e non al presidente. «Non siamo una succursale di
Guantanamo», ha dichiarato Alberto Heber, senatore del Partido Nacional. L’ex tupamaro
presidente Pepe Mujica, che a breve passerà il testimone al vincitore delle ultime
presidenziali, Tabaré Vazquez, ha annunciato la decisione «umanitaria» nel marzo scorso.
E venerdì ha indirizzato una lettera a Barack Obama e al popolo uruguayano. Ha ricordato
che il paese è diventato quel che è oggi anche per aver dato asilo «agli anarchici
perseguitati ed espulsi da altri paesi che li consideravano terribili terroristi» e ha ribadito la
vocazione umanitaria del suo paese, sancita dalla Costituzione: «Abbiamo offerto
ospitalità ad alcuni esseri umani che subivano un atroce sequestro a Guantanamo», ha
affermato, precisando nuovamente che, avendo conosciuto cosa significa stare dietro le
sbarre per 14 anni, non avrebbe imposto la galera ai rifugiati: «Per me — ha detto — se
vogliono, possono andarsene anche da domani».
Col linguaggio diretto che lo caratterizza, Mujica ha poi precisato: «Abbiamo aiutato
Obama a chiudere la vergogna di Guantanamo non perché l’imperialismo yankee sia
diventato improvvisamente nostro amico, né in cambio di denaro o vantaggi. Tuttavia —
ha aggiunto — non lo abbiamo fatto per niente. In contropartita, chiediamo la fine
dell’ingiusto e ingiustificabile blocco contro la nostra repubblica sorella di Cuba, la
liberazione dei tre patrioti cubani prigionieri negli Usa da 16 anni e quella di Oscar Lopez
Rivera, il settantenne combattente indipendentista portoricano, prigioniero negli Stati uniti
da oltre un trentennio».
Anche uno dei rifugiati, il trentanovenne siriano Abdelhadi Omar Faraj, fino a ieri il
prigioniero 329 di Guantanamo, ha indirizzato una lettera di ringraziamento a Mujica e «al
popolo uruguayano» anche a nome degli altri ex detenuti: per spiegare la sua storia e le
traversie che lo hanno condotto nel campo di concentramento, l’ultima delle quali quella di
essere venduto dai soldati pachistani agli Stati uniti, dietro ricompensa. Tra i prigionieri, c’è
anche Mustafa Diyab, che ha denunciato le autorità Usa per aver alimentato a forza i
prigionieri di Guantanamo durante il loro lungo sciopero della fame.
del 09/12/14, pag. 14
Dagli Usa chiamata alle armi
Manlio Dinucci
L'arte della guerra. La rubrica settimanale di Manlio Dinucci
La Camera dei rappresentanti degli Stati uniti d’America ha adottato quasi all’unanimità
(411 voti contro 10) la Risoluzione 758, che «condanna con forza le azioni della
Federazione Russa, sotto il presidente Vladimir Putin, per aver attuato una politica di
aggressione mirante al dominio politico ed economico di paesi vicini», in particolare
l’Ucraina che «la Federazione Russa ha sottoposto a una campagna di aggressione
politica, economica e militare allo scopo di stabilire il suo dominio sul paese e cancellare la
sua indipendenza».
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In tal modo la risoluzione cancella tutta la storia della penetrazione Usa/Nato in Ucraina,
fino al putsch di piazza Maidan organizzato per suscitare la reazione dei russi di Ucraina e
della Federazione Russa, riportando l’Europa a una nuova guerra fredda. La risoluzione
chiama quindi il Presidente a fornire al governo ucraino armi, addestramento e
intelligence, e contemporaneamente a rivedere «lo stato di prontezza delle forze armate
Usa e Nato».
Accusando la Russia di violare il Trattato Inf, che nel 1991 ha eliminato in Europa i missili
nucleari a gittata intermedia lanciati da terra (tra cui quelli Usa schierati a Comiso), la
risoluzione sollecita il Presidente a «rivedere l’utilità del Trattato Inf per gli interessi degli
Stati uniti» con la possibilità di «ritirarsi dal Trattato» (non a caso nel momento in cui gli
Usa ammodernano le armi nucleari che mantengono in Europa, Italia compresa). La
risoluzione sollecita inoltre il Presidente a verificare se ciascun alleato è in grado di
contribuire all’«autodifesa collettiva in base all’articolo 5 del Trattato nord-atlantico».
Tale articolo, che obbliga tutti i membri dell’Alleanza a intervenire se uno di loro è
attaccato, viene esteso di fatto oggi anche all’Ucraina, pur non essendo ancora
ufficialmente membro della Nato. Gli alleati vengono direttamente sollecitati, nella
risoluzione, a «fornire la loro piena quota di risorse necessarie alla difesa collettiva», cioè
ad accrescere la spesa militare in base all’impegno preso di portarla come minimo al 2%
del pil. Il che implica per l’Italia un aumento dagli attuali 52 milioni di euro al giorno,
secondo i dati ufficiali della Nato (72 secondo il Sipri), a oltre 100 milioni di euro al giorno.
Sul piano economico, per «ridurre la capacità della Russia di usare le forniture energetiche
quale mezzo di pressione», la risoluzione chiama l’Unione europea a «sostenere le
iniziative di diversificazione energetica» intraprese dagli Usa, in particolare «l’aumento
delle esportazioni di gas naturale e altri tipi di energia dagli Stati uniti» verso la Ue,
l’Ucraina e altri paesi europei. In altre parole, chiama la Ue a rinunciare all’importazione di
gas russo (e per questo gli Usa hanno affossato il gasdotto «South Stream») per importare
quello liquefatto (tra l’altro molto più caro) fornito dalle multinazionali statunitensi.
La risoluzione infine chiama il Presidente a sviluppare una strategia per «produrre e
diffondere informazioni in lingua russa in paesi con significativi settori di popolazione che
parlano russo», massimizzando l’uso delle emitenti «Voce dell’America» e «Radio Europa
Libera/Radio Libertà» attraverso «partnership pubblico-private» con media nazionali.
Rilanciando così in Europa l’isterismo propagandistico della guerra fredda.
Questo, in sintesi, il contenuto della Risoluzione 758 che, dopo che sarà stata approvata
anche dal Senato, diverrà una vera e propria legge per l’attuale e le future
amministrazioni. E allo stesso tempo una dichiarazione ufficiale di guerra alla Russia che,
attraverso la Nato, riporta l’Europa in prima linea di un nuovo pericoloso confronto militare.
del 09/12/14, pag. 8
È Alexander Mora. Identificato un
desaparecidos
Geraldina Colotti
La mattanza di Iguala. Nel Guerrero e in tutto il Paese continua nelle
piazze la protesta per i «43 scomparsi»
È iniziato ieri a Veracruz, in Messico, il 24° Vertice iberoamericano: per discutere di
educazione, cultura e innovazione. Si tratta di un incontro segnato dalla crisi profonda che
attraversa il paese a seguito del massacro di Iguala e della scomparsa di 43 studenti. A
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più di 70 giorni dalla repressione congiunta di narcotrafficanti e polizia, che ha provocato 6
morti e una cinquantina di feriti, gli scomparsi ora risultano 42.
Nella giornata di domenica i resti del giovane Alexander Mora, iscritto alla Escuela Normal
de Ayotzinapa, sono stati identificati dagli esperti dell’università di Innsbruck, in Austria. Un
laboratorio particolarmente attrezzato per le analisi difficili, dove le autorità messicane
hanno inviato i frammenti di ossa calcificati, rinvenuti nella discarica di Cucula, vicino a
Iguala. La squadra di antropologi forensi argentini, nominata dalle famiglie dei ragazzi, ha
dichiarato che la borsa contenente i resti del giovane Alexander Mora era già aperta
quando sono arrivati gli esperti e di non poter garantire sull’autenticità dei risultati. Il padre
di Mora, un contadino, ha accusato «il governo corrotto e delinquente che impedisce di
manifestare, che uccide e tortura», però ha preso atto dell’assassinio del figlio ventenne e
ha indetto una veglia in casa, davanti alla foto del giovane.
Nello stato del Guerrero, il governatore Rogelio Ortega — che qualche giorno fa i
manifestanti hanno costretto a sfilare in una marcia di protesta contro l’impunità — ha
decretato tre giorni di lutto e, durante una conferenza stampa, ha osservato un minuto di
silenzio «per gli eroi e i martiri di Ayotzinapa». Ortega governa a interim dopo la fuga del
suo potente predecessore, Angel Aguirre Rivero, coinvolto nel massacro di Iguala.
Secondo le confessioni di alcuni pentiti, arrestati dopo i fatti del 26 settembre, la polizia
avrebbe consegnato i 43 ragazzi ai narcotrafficanti dei Guerreros Unidos perché fossero
uccisi e attentamente occultati, stavolta bruciati nella discarica di Cucula, dove sono stati
trovati resti calcificati.
A ordinare la feroce repressione sarebbe stato l’ex sindaco Luis Abarca per impedire una
contestazione al comizio della moglie, Maria Pineda Villa, sorella di narcos. E Rivero
sarebbe stato al corrente. Sembra così confermata la versione iniziale fornita alla stampa
dal procuratore generale Jesus Murillo Karam, che l’ha ripetuta domenica, confermando la
detenzione di 70 persone, tra cui 44 poliziotti municipali e assicurando che l’inchiesta
andrà avanti «ad ogni costo e senza guardare in faccia nessuno». Nonostante le riforme
liberticide varate dal presidente messicano Enrique Peña Nieto per impedire le
manifestazioni, le mobilitazioni contro «il crimine di stato» non si fermano in tutto il Paese.
Dopo la notizia, per le strade del Messico si sono nuovamente riempite di manifestanti ed
è nuovamente risuonato il grido: «Ne mancano 42», e «Fuori Peña Nieto».
Il presidente, domenica ha partecipato all’atto di chiusura del Decimo Incontro
iberoamericano degli imprenditori, in presenza del re di Spagna, Filippo VI, di alte cariche
politiche e rappresentanti delle imprese e delle università. Ha iniziato con l’inviare
messaggio di «solidarietà» alla famiglia di Alexander Mora. A Veracruz, dove sono invitati i
capi di stato di 22 paesi (19 latinoamericani, più Spagna, Portogallo e Andorra), molte le
defezioni, a partire dalla presidente brasiliana Dilma Rousseff e dalla sua omologa
argentina Cristina Kirchner.
Un preciso segnale di esaurimento del vertice, nato nel 1991 in Messico ma incapace di
competere con altri organismi continentali come Celac o Unasur e per questo dilazionato a
un incontro ufficiale ogni due anni a partire da ora. Il neoliberista Nieto ha ricevuto
l’appoggio del suo omologo spagnolo Mariano Rajoy e l’assicurazione che la Guardia Civil
spagnola assisterà il progetto della nuova Gendarmeria. Al vertice ha partecipato anche il
presidente venezuelano Nicolas Maduro. Nel 2007, durante il Vertice iberoamericano in
Cile, il suo predecessore, Hugo Chavez, venne apostrofato dal re Juan Carlos I di Spagna
con la frase «Perché non stai zitto?», perché aveva più volte chiamato fascista l’allora
primo ministro spagnolo José Aznar.
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Del 9/12/2014, pag. 21
“Gli stranieri parlino tedesco a casa”
Polemiche per la proposta di legge sugli immigrati dell’Unione cristianosociale, partner di governo della Merkel Il documento suscita
indignazione e ironie: “Ma chi fa i controlli?”. Parziale marcia indietro
dopo le critiche
ANDREA TARQUINI
“ Yalla Csu“, oppure “ Yalla Deutschland“ (“ yalla” in arabo vuol dire “avanti”, “andiamo”,
“forza”), scrivono a milioni sugli hashtag di protesta per l’ultima trovata populista
dell’Unione cristiano-sociale bavarese, il partito al potere da sempre nella ricca Baviera e
partner di governo nella Grosse Koalition con la Cdu di Angela Merkel e la
socialdemocrazia. Già, perché questa volta i nipotini di Franz-Josef Strauss l’hanno fatta
un po’ grossa. Hanno proposto al loro congresso di partito che per legge i migranti, e in
generale gli stranieri residenti in Germania, per integrarsi parlino in tedesco anche a casa
e in famiglia. Sembra uno scherzo, non lo è: in un documento programmatico
congressuale Csu, sotto il titolo “Integrazione attraverso la lingua”, leggiamo la frase: «Chi
vuole vivere qui tra noi a lungo, in permanenza, deve essere tenuto in modo vincolante a
parlare in tedesco sia nei luoghi pubblici sia in famiglia». Tutti, insomma, i tre milioni di
turchi, le centinaia di migliaia di italiani, polacchi, russi, gli olandesi e i belgi in Renania, e
chi più ne ha più ne metta. La prima domanda che è venuta spontanea a tutti è —
ammesso e non concesso che la regola sia giusta e vada applicate — chi dovrebbe
controllarne il rispetto: forse una superpolizia-Grande fratello in grado di intercettare ogni
conversazione intima tra le mura domestiche? Il ricordo del tragico passato tedesco, dalla
Gestapo alla Stasi.
«È una proposta completamente folle», ha detto Yasmin Fahimi, la giovane, integratissima
segretario generale di origine turca della Spd. «È roba da vertice mondiale della satira»,
ha incalzato il capogruppo parlamentare socialdemocratico Thomas Oppermann. Nei
ranghi Cdu qualcuno solidarizza con i bavaresi: «Conoscere la lingua è di grande
importanza per l’integrazione», afferma Wolfgang Bosbach, portavoce per gli affari interni.
Ma è la Cancelliera in persona a bocciare la proposta: «Conoscere il tedesco è parte
dell’integrazione — ha detto ieri sera a Colonia — ma il bilinguismo è un vantaggio per i
bambini». Tanto che alla fine il capogruppo regionale della Csu, abbozza una marcia
indietro: «Dobbiamo lavorare meglio alla formulazione... ».
La Linke, la sinistra radicale, spara a zero sul centrodestra. «È già tanto difficile trovare
tedeschi che parlano tedesco correttamente, io continuerò a esprimermi col mio accento
berlinese», ironizza il leader Gregor Gysi. Negli editoriali dei grandi media si nota come
l’iniziativa sia un tentativo della Csu di contendere elettori ai populisti antieuropei
Alternative für Deutschland e alla destra anti-islamica di Pegida. Ma in tal modo, avverte la
Sueddeutsche Zeitung, gli europei cristiani mostrano al mondo il loro volto peggiore.
del 09/12/14, pag. 9
Le bombe elettorali di Netanyahu
Medio Oriente. Il governo Netanyahu, come sempre, non ha ammesso e
neppure smentito il raid aereo di domenica nei pressi di Damasco.
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Alcuni parlamentari però accusano il premier di aver ordinato il
bombardamento per "motivi elettorali", affermando così la
responsabilità di Israele. La Siria chiede sanzioni Onu contro Tel Aviv
Mosca chiede spiegazioni a Israele e Damasco e Tehran condannano con forza i raid
aerei compiuti domenica dai cacciabombardieri israeliani nei pressi della capitale siriana e
sul confine con il Libano. La Siria ha anche chiesto la condanna dell’Onu e sanzioni vere
contro Israele. «Questo attacco alla Siria è stato fatto per sollevare il morale dei terroristi
che sono stati sconfitti a Nabal, al-Zahraa, Dayr az-Zor, Kobane e nel Qalamoun»
dall’esercito governativo, ha commentato ieri il ministro degli esteri siriano, Walid alMuallem, dopo aver incontrato il suo omologo iraniano, Mohammad Javad Zarif. Mentre al
Muallem rilasciava queste dichiarazioni, Damasco, dopo mesi di calma relativa, è
ripiombata nel pieno della guerra civile. Bombardamenti aerei e di artiglieria e scontri
armati hanno scosso ieri la capitale siriana. Colpi di mortaio sparati da forze sunnite ribelli
sono caduti in piazza degli Abbasidi, nella parte centro-occidentale di Damasco.
Combattimenti tra le forze armate governative, sostenute da combattenti di Hezbollah, e
gruppi jihadisti ribelli sono divampati anche a Jawbar mentre l’aviazione governativa ha
colpito più volte i sobborghi orientali della capitale. Una fiammata della guerra civile che
conferma l’intenzione delle forze ribelli e jihadiste di portare la guerra di nuovo anche a
Damasco, nel cuore del territorio centrale della Siria controllato dalle forze lealiste.
Il governo Netanyahu non ha commentato le accuse di Damasco. Ha mantenuto la sua
posizione abituale: non conferma ma neanche smentisce i raid aerei contro la Siria
(l’ultimo risale allo scorso marzo). La responsabilità israeliana in realtà è nota a tutti. Non
ammetterla però consente a Tel Aviv di evitare possibili (ma assai improbabili) condanne
internazionali per le sue azioni militari. Stavolta però il clima politico interno,
particolarmente avvelenato, ha mandato in fumo questa strategia del governo Netanyahu.
Yifat Kariv, una deputata del partito “Yesh Atid”, passato all’opposizione dopo l’espulsione
dal governo del suo leader, Yair Lapid, ha pubblicamente ipotizzato che i raid aerei contro
la Siria siano stati ordinati da Netanyahu nel tentativo di puntellare le sue credenziali in
materia di sicurezza, in vista della campagna per le elezioni del 17 marzo. «Netanyahu
non riesce a mettere insieme una coalizione di governo alternativa e così ha deciso di
alimentare paure e di infiammare il Medio Oriente», ha affermato Kariv. «Signor primo
ministro – ha aggiunto — questa volta non funzionerà». Un esponente del Meretz (sinistra
sionista), Ilan Gilon, altrettanto pubblicamente si è augurato che l’attacco aereo «non
serva al premier per le primarie del Likud», previste il mese prossimo. Da parte sua il
deputato laburista Nachman Shai ha detto di sperare che il governo faccia uso delle
«esigenze di sicurezza di Israele, per garantirsi la sopravvivenza politica». Naturalmente i
media siriani ieri hanno dato ampio risalto alle dichiarazioni di questi politici, giudicandole
una ammissione esplicita della responsabilità israeliana nei raid di due giorni fa, nei quali,
ha riferito la televisione araba al Arabiya, sarebbero rimasti uccisi due combattenti di
Hezbollah. Un giornale israeliano, il Jerusalem Post, ha scritto che i bombardamenti hanno
avuto come obiettivo armi pesanti e sofisticate provenienti dall’Iran e destinate ad essere
consegnate a Hezbollah. Secondo altre fonti i raid avrebbero preso di mira un carico di
missili anti-aerei S-300 di fabbricazione russa, in grado di limitare fortemente la superiorità
aerea di Israele nei cieli del Medio Oriente.
L’attacco peraltro è avvenuto nel giorno in cui un rapporto delle Nazioni Unite ha rivelato
che Israele intrattiene da mesi contatti costanti e regolari con gruppi militanti di ribelli
siriani. Le Forze di Disimpegno degli Osservatori delle Nazioni Unite (Undof), dispiegate
lungo le linee di armistizio sul Golan, hanno riferito che ufficiali israeliani e miliziani
sostenuti dall’estero collaborano direttamente lungo la frontiera siriana negli ultimi 18 mesi.
I peacekeeper hanno anche segnalato di aver visto i soldati israeliani aprire il confine e far
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entrare persone oltre a miliziani e civili siriani feriti che di solito vengono ricoverati negli
ospedali di Safed e Nahariya. «L’Undof – si legge nel rapporto — ha visto almeno dieci
persone ferite trasportate da uomini armati dell’opposizione (siriana) attraverso la zona del
cessate-il-fuoco … E ha anche identificato soldati della parte israeliana mentre
consegnavano in territorio siriano due casse a miliziani dell’opposizione siriana armata».
Si aggrava nel frattempo l’emergenza umanitaria in Siria. Le Nazioni Unite hanno lanciato
ieri a Ginevra un appello di raccolta fondi per 16,4 miliardi di dollari destinati a finanziare
l’assistenza umanitaria nel 2015 e non pochi di questi fondi serviranno ad assistere i
milioni di profughi siriani che vivono tra Turchia, Libano e Giordania. «Oltre l’80 % di coloro
che intendiamo aiutare vive in paesi prigionieri di conflitti», ha denunciato Valerie Amos,
Sottosegretario generale dell’Onu per gli affari umanitari. Le crisi nella Repubblica
Centrafricana, in Iraq, in Sud Sudan e in Siria perciò rimarranno «priorità umanitarie» nel
2015. A queste si aggiungono anche altre “crisi”, alcune delle quali storiche come quella
dei profughi palestinesi.
del 09/12/14, pag. 9
«Europei, riconoscete la Palestina come
Stato»
Michele Giorgio
La petizione. Oz, Grossman, Yehoshua e altre 800 personalità della
cultura israeliana sfidano il governo Netanyahu
In Israele il mondo della cultura e delle scienze, o almeno una parte di esso, sembra
procedere in controtendenza rispetto alla linea del governo Netanyahu. 800 personalità –
come il premio Nobel Daniel Kahneman, l’ex presidente della Knesset Avraham Burg, l’ex
ministro Yossi Sarid e gli scrittori Amos Oz, David Grossman e Avraham Yehoshua — una
petizione che chiede ai parlamenti dei Paesi europei di riconoscere la Palestina come
Stato.
È una presa di posizione che contrasta con quella dell’esecutivo di destra che ha sempre
condannato il voto a favore dello Stato di Palestina già espresso da alcuni parlamenti
europei.
Per il premier Netanyahu questi riconoscimenti non contribuirebbero alla pace. Non la
pensano così gli 800 firmatari della petizione che si dicono sicuri che l’unica soluzione
possibile al conflitto sia la nascita di uno Stato palestinese in Cisgiordania e Gaza. «Il
nostro è un atto di incoraggiamento per il negoziato e per il presidente palestinese Abu
Mazen, affinché continui le trattative», ha spiegato Yehoshua. Lo scrittore allo stesso
tempo è stato molto chiaro quando ha detto che la petizione rappresenta anche un “no”
alla creazione di uno Stato binazionale, per ebrei e palestinesi insieme. Yehoshua in
passato si è ripetutamente espresso contro lo “Stato Unico”, ritenuto da non pochi l’unica
strada per impedire in futuro un apartheid legalizzato, con un Israele di fatto in controllo
dello Stato palestinese, indipendente sulla carta ma senza sovranità reale.
Lo scorso 2 dicembre anche il parlamento francese, dopo quelli di Gb, Spagna e Irlanda,
ha votato una mozione simbolica per la Palestina come Stato. Il governo svedese invece
ha fatto un riconoscimento diretto. Al parlamento italiano è stata presentata una mozione
analoga, ma non è ancora noto se e quando sarà sottoposta al voto. mi. gio.
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del 09/12/14, pag. 9
Così cambia la mappa di tutta la regione
Chiara Cruciati
Il fronte della guerra al califfato fuoriesce dai territori occupati di Siria e Iraq. Libano, Libia,
Iran, Turchia: la battaglia all’Isis è un conflitto per procura dei tanti attori regionali, che
trasformerà irrimediabilmente la mappa mediorientale. Ne abbiamo parlato con Salah al
Nasrawi, analista e giornalista iracheno.
Quali saranno gli sviluppi futuri nella regione? Una divisione definitiva di Siria e Iraq
in zone di influenza esterne?
Assisteremo ad una divisione di potere tra Iran, Turchia e Usa, una battaglia tra chi
controllerà l’Iraq. Washington sta creando un’ingente forza sunnita, 100mila soldati, che
cambierà gli equilibri sul terreno. L’esercito iracheno è formato da 85mila soldati, a cui si
aggiungono 20-25mila miliziani sciiti (a cui al-Abadi ha promesso lo stipendio). Quindi
100mila militari sciiti, 100mila sunniti e poi i peshmerga. Questa è una divisione reale,
parliamo di tre eserciti, tre enclavi definite da linee settarie.
Nasceranno tre entità diverse in Iraq, pronte a combattersi, una formula volta alla divisione
del paese e non alla sua unificazione: gli Usa lo hanno detto, vogliono un Iraq federato.
Ma non mancano dubbi: quando i sunniti avranno il loro esercito, perché dovrebbero
piegarsi al governo centrale?
Gli iraniani questo lo sanno bene: l’Ayatollah Khamenei la scorsa settimana ha detto che
l’ideologia sciita è ovunque in Iraq, Siria, Libano e Yemen; e Nasrallah ha parlato in un
incontro con Maliki del tentativo sunnita di creare un fronte ampio di controllo, un’entità
che sarà annessa alla Giordania e diventerà l’alternativa allo Stato di Palestina, che
accolga i rifugiati palestinesi dai vari paesi arabi. La formula è palese: creare un’entità
sunnita separata da quella sciita e alawita. La domanda da porsi è se l’Iran si fermerà a
Baghdad o cercherà di prendersi tutto il paese, sostenendo contemporaneamente Assad
perché ricontrolli tutta la Siria.
Nella regione non è in corso una mera battaglia tra coalizione e Isis, ma un processo di
ridefinizione geografico, una nuova mappa del Medio Oriente i cui confini siano ridisegnati
in base agli interessi strategici dei vari attori.
I risultati li vedremo tra 5–10 anni, ma non ci saranno passi indietro: non vedremo più l’Iraq
unito come prima, né vedremo la Siria unita come prima a meno che non si arrivi ad un
compromesso storico tra sciiti, sunniti e curdi, una tregua di lungo periodo.
L’Iran bombarda l’Isis in Iraq, la Turchia preme per la zona cuscinetto. Quella in atto
sembra una guerra tra asse sciita e asse sunnita.
Dopo che Phantom iraniani hanno bombardato l’est dell’Iraq, il segretario di Stato Usa
Kerry ha definito i raid un fatto positivo perché aiutano a combattere l’Isis. La
cooperazione ufficiosa tra Washington e Teheran va avanti da mesi, è il segreto di
Pulcinella. Quello che è cambiato è che adesso c’è un video di Al Jazeera che mostra gli
aerei in volo: la cooperazione da ufficiosa si è fatta concreta e questo preoccupa i media
Usa e Israele, ma non la Casa Bianca.
Lo stesso giorno in cui è stato girato il video, un altro video dell’agenzia stampa curda
Rudaw ha mostrato per la prima volta pasdaran in Iraq, accanto a peshmerga e milizie
sciite irachene. Tutto ciò ci dà il disegno chiaro di quello che l’Iran sta facendo: il corridoio
di 160 km dal confine iraniano è ora pulito e può essere utilizzato senza timore di attacchi.
È fondamentale dal punto di vista strategico, l’intera zona è aperta all’intervento iraniano
che manda già consiglieri militari, truppe e armi. Ora avrà accesso a zone prima non
coperte.
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In questa battaglia geopolitica si infila la Turchia. Ankara cerca da anni di modificare il
volto della Siria e risolvere la questione kurda. L’idea di creare un’entità sunnita tra Iraq e
Siria la intriga, ma ha una visione diversa: includerla in una più ampia entità kurdo-sunnita,
che permetta di neutralizzare i kurdi iracheni e il potere che hanno in campo energetico,
da cui non vuole essere dipendente.
In Iraq al-Abadi sta effettivamente riformando l’esercito o si tratta solo di operazioni
di make-up?
Il premier ha tirato fuori la questione dei soldati fantasma come risposta alle richieste Usa.
Obama deve giustificare il fallimento in Iraq di fronte all’opinione pubblica e, allo stesso
tempo, mandare un messaggio agli sciiti: la necessità di creare una milizia sunnita è figlia
delle incapacità delle truppe sciite.
Al-Abadi non ha però l’autorità necessaria a riformare le forze armate perché infiltrate da
milizie sciite indipendenti, o peggio legate all’ex premier Maliki. Il problema non è il costo
in sé, ma che il denaro pagato a queste milizie serve a creare una rete clientelare. Maliki
ha comprato fedeltà, ha comprato uomini, per avere sostegno politico e militare. Resta da
vedere se al-Abadi è pronto a sacrificare la fedeltà di questi soggetti sull’altare Usa.
Sul terreno qual è la ragione di tanto ritardo nella controffensiva governativa?
Le forze sciite sono riuscite a disegnare la linea di separazione tra Baghdad e aree sciite
da una parte e aree sunnite dall’altra: controllano le vie di collegamento, da Karbala a
Kirkuk, e le stanno ripulendo dalla presenza sunnita. Peshmerga e sciiti non vogliono
liberare Anbar, area sunnita, per poi vederla consegnare ai sunniti. O Baghdad avrà la
garanzia che una volta liberate Anbar e Mosul il potere centrale le potrà controllare o non
interverrà.
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INTERNI
del 09/12/14, pag. 12
Italicum, blindati 100 capilista Il voto sulla
clausola Calderoli
ROMA C’è da scommettere che in pieno ciclone Mafia Capitale il tema delle preferenze, e
dei soldi che occorrono a un candidato per ottenerne in quantità, animerà il dibattito sulla
legge elettorale che oggi arriva a un giro di boa in commissione, con il voto sull’ordine del
giorno del senatore Calderoli. Il premier Matteo Renzi ha anticipato tutti e, davanti
all’ennesimo scandalo capitolino (alle Comunali si vota con la preferenza), ha ribadito che,
dopo tutto, quella dei «nominati dall’alto» è una garanzia per la legalità: «L’Italicum ci
costringe a diventare un partito, indicando un capolista si farà la selezione della classe
dirigente senza spartire i posti tra le correnti...».
Così il presidente del consiglio manda un messaggio a chi — Ncd e minoranza del Pd —
continua a storcere il naso davanti ai nominati dai capi partito: «Con il premio alla lista chi
arriva primo avrà 340 deputati. Il partito che vince su 100 collegi indicherà un capolista e
questo selezionerà la classe dirigente... La legge elettorale con il meccanismo del collegio
(con il capolista bloccato, ndr ) e poi della preferenza ci impone di essere un partito serio».
Tradotto, Renzi non intenderebbe retrocedere rispetto alla proposta concordata con gli
alleati. Anzi, ora tende la mano a Forza Italia: i collegi non saranno 70 ma 100,
consentendo così a Berlusconi di portare alla Camera soltanto i fedelissimi.
Oggi in commissione al Senato si vota l’odg Calderoli che prevede una clausola di
salvaguardia capace di agganciare l’entrata in vigore dell’Italicum per la Camera alla
riforma del bicameralismo paritario. Il ministro Maria Elena Boschi vorrebbe una «data
certa» in calce alla clausola per cui il Pd, orientato per il no, attende di esaminare l’ultima
stesura del testo Calderoli.
Domani, poi, la presidente e relatrice Anna Finocchiaro (Pd) presenterà i suoi
emendamenti di sintesi della discussione generale sull’Italicum: soglia unica di accesso al
3%, soglia per ottenere il premio al 40%, premio di lista e non di coalizione, 100 collegi
con i capilista bloccati e i rimanenti candidati eletti con le preferenze.
Si annuncia tempesta, però, sul tema delle preferenze. Il premier segretario Renzi,
paradossalmente rafforzato su questo tema dall’inchiesta Mafia Capitale, conta al Senato
sul «soccorso azzurro» di Forza Italia che punta sui «nominati» per non avere sorprese
interne. Ma la minoranza del Pd (che prepara molti subemendamenti) non cede perché,
come hanno osservato in commissione i bersaniani Miguel Gotor e Maurizio Migliavacca,
10 anni di liste bloccate non hanno poi prodotto tutta questa moralizzazione. Meglio allora,
incalza Gotor, «tornare al modello misto del Mattarellum prevedendo un listino nazionale
con i nomi bloccati (20 o 30 %) mentre tutti gli altri verrebbero eletti con la preferenza».
In parallelo, oggi alla Camera riprendono in commissione le votazioni sulla riforma del
bicameralismo. Il ministro Boschi e la minoranza del Pd hanno concordato che verrà
alzato ai 3/5 il quorum necessario per eleggere il capo dello Stato.
Dino Martirano
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Del 9/12/2014, pag. 17
“Modifiche solo concordate con Forza Italia”
Summit Pd sulle riforme. Il ministro Boschi blocca la protesta della
minoranza democratica. Tempi stretti per il sì E Renzi insiste sui
capilista bloccati: “Questa legge ci impone di essere un partito serio e
di selezionare la classe dirigente”
FRANCESCO BEI
Il patto del Nazareno resta una parete liscia, impossibile da scalare per la minoranza del
Pd. Non sono servite quattro ore di riunione serrata del gruppo Pd in commissione affari
costituzionali (in una Montecitorio deserta per la festa dell’Immacolata) per trovare
un’intesa tra governo e opposizione interna. «Ogni modifica alla riforma costituzionale - è
stato il mantra ripetuto dal ministro Boschi - va concordata preventivamente con Forza
Italia. Ci deve essere l’assenso di tutti i contraenti del patto».
Contro questo muro è andata a infrangersi la richiesta di poter sottoporre l’Italicum al
controllo preventivo della Corte costituzionale. Una possibilità contenuta in un
emendamento del dem Andrea Giorgis, che viene ritenuta quasi una provocazione dai
pattisti “nazareni”. Boschi ieri ha chiarito che «su questo Forza Italia è nettamente
contraria» e quindi la modifica non può passare. Ma la minoranza dem sospetta che sia in
realtà Renzi stesso il principale oppositore di una clausola che potrebbe mettere a rischio
il nuovo Italicum 2.0 una volta approvato dal Parlamento.
Se sul punto principale - il controllo costituzionale preventivo dell’Italicum- la riunione è
stata un dialogo tra sordi, su altri temi meno incandescenti si è registrato un leggero
ammorbidimento della “prussiana” Boschi. Grazie anche alla mediazione del relatore
Emanuele Fiano si è trovato l’accordo per modificare la norma sull’elezione del capo dello
Stato, sventolata come una bandiera dallo stesso Pier Luigi Bersani. Scongiurato quindi il
rischio che un partito, grazie al premio di maggioranza dell’Italicum, possa eleggersi da
solo il presidente della Repubblica. L’intesa interna al Pd stabilisce infatti di innalzare il
quorum necessario, portandolo a 2/3 dell’assemblea nelle prime votazioni per poi salire
fino ai 3/5 dei componenti. Un altro passettino in avanti verso le ragioni degli oppositori è il
superamento del voto bloccato sui disegni di legge del governo. L’esecutivo potrà
garantirsi una corsia preferenziale sui suoi progetti, ma il contenuto sarà comunque
emendabile dalla Camera. Il vero discrimine politico, evidenziato da D’Attorre, Giorgis,
Roberta Agostini e gli altri della minoranza è stato comunque quello del patto con
Berlusconi. «Noi - spiega D’Attorre - restiamo dentro i paletti stabiliti dalla direzione Pd. Ma
non è possibile irrigidirsi fino al punto di consegnare a Forza Italia un potere di veto
esagerato ». Oggi comunque il voto sugli articoli 1 e 2 della riforma non dovrebbe
nascondere sorprese. Si tratta della composizione del futuro Senato delle Autonomie e la
minoranza si è detta disponibile a ritirare i propri emendamenti, a patto però che in aula
l’atteggiamento del governo sia più flessibile sulle questioni ancora aperte. Una su tutte la
possibilità di modificare l’articolo 81 della Costituzione, superando l’obbligo del pareggio di
bilancio. I bersaniani si deve scontrare tuttavia con la barricata eretta dal ministro Padoan.
Se qualche minima concessione ieri c’è stata sulla riforma costituzionale, viceversa sulla
legge elettorale Renzi ha blindato l’Italicum. In particolare rivendicando i capolista bloccati,
specie dopo lo scandalo di Mafia Capitale. «Indicando un capolista - ha dichiarato davanti
ai giovani del Pd - si farà la selezione della classe dirigente senza spartire i posti tra le
correnti. La legge elettorale con il meccanismo del collegio e poi delle preferenze ci
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impone di essere un partito serio». Chiosa Matteo Orfini, uscendo dalla lepoldina dem:
«Sono stato il primo a dire che il sistema delle preferenze andava ripensato».
del 09/12/14, pag. 1/15
Gli auto inganni dell’Italicum
Antonio Floridia
Un sistema elettorale non è solo un sistema di regole inscritto all’interno di un assetto
istituzionale: è un meccanismo che, nel tradurre i voti in seggi, condiziona anche le
aspettative degli attori, le logiche che guidano le loro scelte. E che può orientare anche la
futura evoluzione del sistema politico, anche quando — ed è un caso frequente — dal
gioco strategico emergono effetti perversi e imprevisti. Nel valutare le possibili ipotesi di
riforma, quindi, non esistono solo criteri di costituzionalità da rispettare. Vanno anche
prese in considerazione valutazioni che potremmo definire di ragionevolezza politica,
valutazioni cioè che si interrogano sugli effetti politici e sistemici che i singoli tasselli di un
modello elettorale possono produrre. Da questo punto di vista, non occorre spendere
molte parole sulla totale irragionevolezza del sistema delle soglie complessivamente
disegnato dalla prima versione dell’Italicum: non è solo il vulnus inferto al principio della
rappresentatività che va sottolineato, ma gli effetti distorsivi che ne derivano.
Vedremo, nei prossimi giorni, cosa emerge dai lavori parlamentari: sembra chiaro, tuttavia,
che ci si sta incamminando sulla via, sempre più tortuosa, di aggiustamenti che, mirando a
coprire alcune falle da una parte, molte altre ne aprono, dall’altra.
Si prenda ad esempio la soluzione escogitata per accontentare la pretesa berlusconiana di
un totale controllo sui propri eletti: la formula ibrida (capolista «bloccato», gli altri candidati
mandati al massacro della lotta per le preferenze) condurrebbe ancora ad una camera in
gran parte di «nominati», giacché solo il partito che ottiene il premio di maggioranza
potrebbe contare su un numero prevalente di eletti scelti dal voto dei cittadini. Per di più, la
previsione delle candidature plurime in diverse circoscrizioni (a sua volta resa necessaria
dalla assoluta aleatorietà del meccanismo top down di distribuzione territoriale dei seggi)
condurrebbe ancora ad una totale subordinazione al gioco post-elettorale delle opzioni. Di
fatto, si aprirebbe una durissima concorrenza per la conquista del «secondo posto» utile
all’elezione, ma si affiderebbe poi la sorte dei singoli candidati alla scelta discrezionale del
capolista pluri-eletto.
Come si vede, un gran pasticcio: ma perché si è giunti a questo punto? Si possono
individuare due cause fondamentali.
In primo luogo, tutto il dibattito sulla riforma elettorale è condizionato negativamente
dall’assunzione di un presupposto che è tutt’altro che scontato: dall’idea, cioè, che il
sistema adottato dovrebbe consentire — «la sera stessa delle elezioni», come
comunemente si dice — l’individuazione di un «vincitore». Ma questo presupposto non è
affatto «indiscutibile»: anzi, se si escludono i sistemi presidenziali e semi-presidenziali (nei
migliori dei quali, peraltro, agiscono molti altri meccanismi di bilanciamento dei poteri),
nessuno tra i sistemi elettorali vigenti nelle democrazie europee garantisce «a priori», e in
assoluto, questo esito. Essendo, appunto, democrazie parlamentari vi è sempre uno
spazio legittimo per una legittima mediazione politica post-elettorale, che in sé non ha
nulla di esecrabile. «Mediazione» sembra essere divenuta una parola impronunciabile
(salvo poi, tranquillamente, fare ben altri «patti», più o meno segreti…).
Il dibattito italiano ha introiettato una condizione cronica di instabilità e destrutturazione del
sistema politico, — una condizione che viene considerata oramai come un dato fisiologico
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e irreversibile. E l’unica risposta sembra quella di un assetto «direttistico» e plebiscitario
della competizione elettorale, assumendo un’opzione (quella dell’«investitura» di un
governo, di un leader e di una maggioranza) che non è, e non può essere considerata,
come l’unica possibile. E si spacciano per verità indiscutibili delle inferenze del tutto
arbitrarie: come quando si proiettano gli ultimi risultati — legati agli effetti di un determinato
sistema elettorale — su quelli ipotetici che risulterebbero dall’applicazione di un altro
modello, deducendo così la «ingovernabilità», ad esempio, che deriverebbe da un sistema
proporzionale. Ma, per l’appunto, si ignora in tal modo che un sistema proporzionale (con
una soglia, mettiamo, al 4%) indurrebbe una logica della competizione e incentiverebbe
logiche di scelta, negli elettori, assolutamente incomparabili con quelle che prevalgono con
i sistemi «a premio».
Queste arbitrarie assunzioni si riflettono negativamente sulla discussione sui possibili
modelli elettorali da adottare. Sistemi elettorali, ovviamente, ce ne sono tanti e diversi, ma
la pre-condizione della loro efficacia sta nella loro coerenza interna. Si può ritenere l’uno o
l’altro più adatto alle condizioni specifiche del nostro paese; ma non si può fare una sorta
di bricolage, imboccare la via perigliosa di un gioco «combinatorio» tra logiche diverse.
Incongruenze e contraddizioni, per questa via, sono inevitabili.
E qui entra in gioco il secondo fattore: come mostrano le analisi delle elezioni politiche del
2013 e delle Europee 2014, e come mostrano anche le recenti elezioni regionali,
l’elettorato italiano è oggi caratterizzato da un elevatissimo livello di volatilità, che
naturalmente prevede pienamente anche l’opzione del non-voto. Ebbene, le riforme
elettorali, in genere, come suggerisce la letteratura sull’argomento, sono un gioco
strategico in cui intervengono in modo decisivo le aspettative di ciascun attore. Questo,
naturalmente, di volta in volta, restringe l’arco delle soluzioni idealmente possibili e
costringe ad una mediazione che tenga conto delle opzioni che ciascun attore ritiene di
dover adottare. Tuttavia, costituisce una regola prudenziale — e un principio a cui
legislatori e politici saggi dovrebbero attenersi — quella di non fare troppo affidamento
sulle suggestioni che derivano dagli ultimi sondaggi. E non perché questi,
necessariamente, sbaglino: anzi, in questo momento, sembrano proprio concordare sulla
estrema volubilità degli umori degli elettori, in presenza di un sistema dei partiti altamente
destrutturato. Una regola prudenziale dovrebbe suggerire che una possibile riforma tenga
conto di questo sfondo di radicale incertezza e definisca quindi un sistema elettorale
quanto più sottratto alle contingenze della vicenda politica. Invece no: si affrontano questi
temi, e quelli delle riforme costituzionali, con una faciloneria e una superficialità
sconcertanti, con l’occhio rivolto alle convenienze del giorno dopo. Ma questo andazzo
non promette nulla di buono, per la nostra democrazia: e quanti ne hanno a cuore le sorti,
dovrebbero fare tutto il possibile per fermarlo.
del 09/12/14, pag. 13
Nogarin gela i dissidenti: io sto con Grillo
Svolta del sindaco di Livorno dopo l’assenza a Parma. Ma Pizzarotti tira
dritto: ora un incontro unitario
MILANO «Voglio che sia chiaro a chi non lo ha ancora capito che io sto con Beppe senza
se e senza ma»: Filippo Nogarin si smarca dalle voci insistenti che lo davano sempre più
vicino all’ala critica del Movimento. Il giorno dopo il raduno di Parma (che lo ha visto
assente all’ultimo minuto), con un post sul suo profilo Facebook, il sindaco di Livorno
chiude le porte ai dissidenti e si riavvicina ai leader Grillo e Casaleggio. «Sento però di
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dover prendere le distanze da chi in questo momento cammina sulla china dell’ipercritica
ad ogni costo», scrive. E manda anche un messaggio — indiretto — a chi ha lasciato i
Cinque Stelle, in primis i dimissionari toscani e l’espulso Massimo Artini: «A voi va il mio
più forte abbraccio con la speranza che le divisioni adesso chiare potranno un giorno
tornare parte di un percorso comune».
Le indiscrezioni parlano di quarantott’ore turbolente: sms, telefonate, incontri. Una rete fitta
che da Milano passa per Genova e Roma fino ad arrivare a Parma e Livorno. E abbraccia
— in modo diverso — i due sindaci. «Non è vero, non ho ricevuto nessun tipo di
pressioni», ribatte al Corriere Nogarin. Poi commenta: «Il mio post? È stato un chiarimento
netto che va a creare uno spartiacque definitivo». «Molto di quello che si è detto —
continua il sindaco labronico — è stato frutto di speculazioni, di situazioni ambigue a cui
voglio porre fine». Sulla kermesse di Parma, Nogarin dribbla i giudizi: «A me ha disturbato
una cosa: l’incontro verteva sullo statuto cittadino e la democrazia diretta, tutto quello che
è stato detto a corredo è stato montato artificiosamente».
Ma il giorno dopo l’open day sono proprio i dissidenti a rilanciare la sfida. «È stata una
bella giornata formativa in cui si sono vissuti contraddittori — analizza Walter Rizzetto —,
una giornata politicamente importante, che ha registrato il volere di tutti di non spaccare il
Movimento, ma al tempo stesso ha rilanciato la necessità di un incontro nazionale». Sulla
presa di distanze di Nogarin, il deputato scherza e si lascia andare a una battuta: «Deve
essergli andato storto qualcosa nelle ultime quarantotto ore...».
L’altro grande assente alla manifestazione di domenica, Artini, invece, spiega di aver
perso l’incontro per «motivi personali». «Ho rivisto oggi lo streaming — aggiunge —.
Bell’evento, soprattutto per le considerazioni venute la mattina sullo statuto e su come è
possibile cambiare questo Paese, sia come forza di maggioranza, sia come forza di
minoranza non urlatrice, ma sempre responsabile». Le polemiche, però, non si placano.
Giuseppe D’Ambrosio attacca i parlamentari che sono andati a Parma: «La porta è
sempre aperta e nessuno tiene alcuno sotto ricatto dentro una casa nella quale non ci si
ritrova». Il grande protagonista della kermesse, Pizzarotti, non commenta il post di
Nogarin. In tv, ospite a Otto e mezzo , ribadisce che «l’incontro non era una chiamata» dei
dissidenti, che non si aspetta l’espulsione, che il nome di Grillo sul logo è «un dettaglio»,
ma anche che «non serve avere paura» delle epurazioni e propone un «raduno» unitario.
Intanto, sul blog, Grillo rilancia la battaglia contro l’euro (e David Borrelli, co-presidente del
gruppo Efdd al Parlamento Ue, spiega le lotte del M5S al programma tv spagnolo La
Tuerka ). Ma la battaglia non sarà solo continentale. Anzi. Nelle prossime settimane in
Lombardia dovrebbe essere lanciato un altro referendum, in risposta alla Lega che
vorrebbe lo statuto speciale, per proporre l’ampliamento delle deleghe della Regione.
Emanuele Buzzi
Del 9/12/2014, pag. 18
Salvini a Mosca “Ora mi aspetto un
finanziamento da parte di Putin”
Il leader leghista: no alle sanzioni anti-russe E gli imprenditori italiani lo
applaudono
NICOLA LOMBARDOZZI
Niente felpa. Per il suo intervento da ospite d’onore a un convegno sull’economia della
Duma, il Parlamento della “amica Russia”, Matteo Salvini sceglie un cravattone verde
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appena più formale. I russi lo guardano con curiosità e ne ascoltano con piacere le
dichiarazioni. Ormai è un ospite abituale che, dicono, avrebbe pure conquistato la
personale simpatia di Putin dopo un breve incontro di straforo in ottobre a Milano. Salvini
ne prevede molti altri: «Mi riceverà presto, forse già in gennaio». Intanto alla Duma
raccoglie applausi inevitabili quando ripete la sua avversione alle sanzioni occidentali
contro la Russia che «non può essere considerato un nemico ma un alleato con cui
riprendere i rapporti commerciali e culturali». Sono applausi dei politici locali, ma anche
della delegazione di imprenditori italiani in Russia già pesantemente colpiti dalle sanzioni
volute da Usa e Ue e soprattutto dalle «contro sanzioni» decise da Putin soprattutto nel
settore agroalimentare. Ed è un piacere per tutti i presenti ascoltare le sue critiche alla Ue
che «insiste con sanzioni idiote che andrebbero tolte domani mattina». E che ha ragione
solo in un caso: «Quando dice a Renzi che non ha fatto nulla di concreto». Applausi tutti
italiani arrivano proprio nei passaggi su Renzi: «Avrebbe dovuto esserci lui qui al posto
mio a difendere l’amicizia con Russia». Ai russi comunque Salvini comincia a piacere. Lui
lo percepisce e forse aspira a qualcosa di più. Gli domandano se si aspetla ta
finanziamenti per la sua Lega e risponde così: «Non cerco regali, ma un prestito
conveniente come quello concesso alla Le Pen, lo accetterei volentieri. Lo accetterei da
chiunque mi offrisse condizioni migliori di, per esempio, Banca Intesa». Lapsus freudiano
o citazione voluta che sia, Banca Intesa ha un senso preciso. Il massimo dirigente di
Banca Intesa a Mosca è da anni quell’Antonio Fallico, compagno di scuola di Marcello
Dell’Utri e riferimento abituale di Silvio Berlusconi per tutti i suoi investimenti in Russia. Ed
è proprio con Silvio Berlusconi che il “Salvini russo”sta giocando la sua personale partita
nelle sue visite a Mosca, ormai a cadenza mensile. La solidità dell’amicizia storica tra
Putin e il leader di Forza Italia scricchiola già da tempo. A cominciare dalla vicenda del
famoso “lettone di Putin” che fece imbestialire il riservato capo del Cremlino fino
all’inesorabile declino politico dell’“amico Silvio” protagonista del defunto accordo sul
South Stream. Che Salvini miri a sostituire Berlusconi nel cuore di Putin sembra un
progetto quasi dichiarato. A chi gliene chiedeva conto ieri, il leader della Lega rispondeva:
«Entrambi apprezziamo Putin ma abbiamo canali e approcci separati». Intervistato la
scorsa settimana dal magazine economico Vlast (Potere) l’ineffabile Antonio Fallico
rispondeva così alla domanda “al posto di Putin, come accoglierebbe la richiesta di
amicizia di Salvini?”: “Con molta cautela”.
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LEGALITA’DEMOCRATICA
del 09/12/14, pag. 8
“La gara per gli immigrati è finta
Sono io a capo della commissione”
Nelle telefonate di Odevaine i nomi di Veltroni (“Ha agganciato il
sottosegretario”) e Lupi
Grazia Longo
Nel sodalizio criminale di Mafia capitale ci sono due imperativi: la pressione sui politici per
«oliare le gare degli appalti pubblici» e il coinvolgimento della ’ndrangheta per siglare affari
e sostenere campagne elettorali.
Va subito chiarito, tuttavia, che i nomi illustri citati nelle intercettazioni - dai ministri Lupi e
Alfano e i sottosegretari Menzione e Bubbico, all’ex sindaco di Roma Veltroni e il
presidente della Regione Zingaretti - risultano completamente estranei all’inchiesta. Alcuni
arrestati li tirano in ballo in diverse circostanze.
Come per la questione di un nuovo centro profughi per gli immigrati sbarcati a
Lampedusa. C’è chi lo vorrebbe a Mineo, ma la Cupola romana punta a piazza Armerina
(Enna). Ecco allora Luca Odevaine (arrestato, ex vice capo di gabinetto di Veltroni), fare il
matto, il 15 maggio scorso, per cercare appoggio dal sottosegretario Manzione. Tanto da
volerlo farlo contattare anche da Walter Veltroni. Odevaine: «Io mo’ col fatto che ho
parlato con Veltroni ieri, ho detto, “Waltrer parlaci pure te, che questo Manzione è persona
molto vicina a Renzi… perché Mineo non è compatibile… però c’è la struttura di Piazza
Armerina… Io a Manzione glielo sto facendo dire anche da Veltroni».
E quando Buzzi chiede ad Odevaine: «A Manzione siete riusciti ad agganciarlo?», l’altro
risponde «Sì». Circostanze che non trovano riscontro da parte della procura e dei
carabinieri del Ros. Sicuro, invece, il guadagno illecito sui centri profughi per Odevaine. È
lui stesso, intercettato, a dichiarare il suo tariffario: «Il pro capite che mi darebbero a me,
quindi con 80 persone 1.240 euro al mese, 100 persone 1.500 euro, a 400 sono 18.600
euro, perché più cresce il loro numero più aumenta il loro utile». Dall’esame dei suoi conti
correnti segreti, intestati a familiari, emerge il passaggio di 90 mila euro di tangenti.
Odevaine è l’uomo che riesce a far ottenere gli appalti per i centri profughi e spiega che
occorre trovare alleati importanti. Per lui «è tutto un do ut des». E per convincere Buzzi sul
meccanismo delle mazzette, il 3 febbraio scorso, fa riferimento a un appalto che non trova
sussistenza nelle indagini: «I Pizzarotti sono impresa importante di Parma, molto amici di
Gianni Letta, di Berlusconi. Da quello che ho capito hanno fatto un accordo perché Lupi, il
ministro Lupi gli ha sbloccato due o tre appalti grossi…».
Sulla gara per gli immigrati, invece, Odevaine assicura: «Il presidente della Commissione
lo faccio io… è una gara finta». Senza riscontro è anche l’incontro accennato da Buzzi e
Carminati con il viceministro Bubbico. «Dopodomani vedo il capo segreteria Bubbico» dice
il primo e l’ex Nar replica: «Bubbico con Alfano non ce sta».
Il presidente della Regione Luca Zingaretti viene invece nominato dai due arrestati per
associazione mafiosa Fabrizio Testa e Claudio Caldarelli. Quest’ultimo punta a Bioparco
dentro Villa Borghese: «Il verde del Bioparco che se riusciamo a pigliassello proprio
tutto…». Testa gli spiega: «Non hai capito… me dite è questo… poi lui va da...e quelli
sono soldi che partono da… ricordati che passano… non passano dal bilancio
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cioè…passa sui tertti di Zingaretti». Testa: «Eh sono soldi della presidenza… quindi da là
direttamente» e Caldarelli: «Vanno diretti, certo».
Poi c’è il capitolo del presunto coinvolgimento delle ’ndrine calabresi a sostegno
dell’attività di Carminati, Buzzi e soci. Anche per sostenere la campagna elettorale di
Alemanno alle ultime europee? L’ex sindaco era candidato al Sud per il Pdl. E Buzzi, l’11
maggio scorso in una telefonata lo rassicura circa «la possibiltà di portare voti a
quest’ultimo grazie agli amici del Sud». L’ex sindaco chiede: «Devo fare delle telefonate?
devo fare qualcosa?». Buzzi: «No, no, tranquillo... i nostri amici del Sud ti possono dare
una mano». Buzzi poi spiega alla moglie: «Come dai una mano ad Alemanno? Dandogli i
nomi di 7-8 mafiosi che c’avemo in cooperativa e gli danno una mano». Si tratta forse di
esponenti dela ‘ndragnheta?
Del 9/12/2014, pag. 14
Renzi: non lascio Roma ai ladri
Il Viminale valuta se intervenire “Toccate pure
giunte precedenti”
Il ministro dell’Interno: per l’eventuale scioglimento serve prima un
giudizio tecnico Oggi vertice Marino-prefetto. Il sindaco incontra il
Papa: mi ha detto che prega per la città
CARMELO LOPAPA
La Capitale sarà «liberata dai ladri», promette Matteo Renzi riscaldando la platea dei
giovani dem, pronto ad andare fino in fondo contro la cupola Carminati-Buzzi e le sue
infiltrazioni. Ma in fondo vuole andare anche il ministro dell’Interno Alfano, cui compete di
valutare l’eventuale invio di ispettori o lo scioglimento. Ignazio Marino è convinto di poter
andare avanti, oggi incontrerà il Prefetto, al quale vorrebbe rifiutare l’offerta della scorta.
Il premier continua a incalzare sull’affare sporco di Roma. «Non sappiamo se quello che
emerge dipinge dei tangentari all’amatriciana o dei mafiosi. Questo lo dirà la magistratura,
ma noi non lasceremo Roma in mano ai ladri». Maglioncino rosso, piglio risoluto,
l’intervento è assai applaudito dai giovani dell’assemblea dem #Factory365. «Bisogna fare
rapidamente i processi, chi è colpevole paghi fino all’ultimo centesimo, non è possibile che
in Italia non paghi nessuno — continua — Roma è troppo bella e grande per lasciarla a
questa gentaccia». E siccome lo scandalo ha toccato anche il suo partito, promette: «Noi
facciamo pulizia al nostro interno e quelli che hanno preso tangenti con noi hanno chiuso».
Il presidente e commissario Pd Matteo Orfini non è da meno, «saremo durissimi, il
commissariamento durerà finché ce ne sarà bisogno, riusciremo a troncare la cancrena
correntizia che ha ridotto così il partito di Roma». Da Forza Italia Giovanni Toti li accusa:
«Non potete cavarvela con la difesa d’ufficio di Marino». La situazione è in evoluzione. Lo
lascia intendere il ministro Alfano intervistato da Del Debbio su Rete4. «Ho parlato con il
Prefetto, che ha studiato le carte. Valuteremo il da farsi ». Compreso lo scioglimento per
mafia? «Credo ci debba essere un giudizio tecnico da cui deve nascere la proposta, ma
sta emergendo un quadro che investe anche amministrazioni precedenti: quella di
Alemanno e anche la precedente». Non la nomina, ma il riferimento, benché vago,
sarebbe a quella di Veltroni. Ad Arcore Silvio Berlusconi ha tenuto a rapporto ieri sera lo
stato maggiore per cavalcare il caso Mafia Capitale e insistere sullo scioglimento. Due
opzioni: raccolta di firme per chiedere le dimissioni o far dimettere i pochi consiglieri
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forzisti. Non molla l’osso però. Il sindaco racconta di aver sentito Alfano due giorni fa e ieri
il prefetto Giuseppe Pecoraro, che incontrerà oggi. «Sono felice se ci saranno ulteriori
approfondimenti perché in questo momento è necessario fare pulizia», spiega Marino a chi
gli chiede dei risvolti possibili: «Occorre una differenziata per separare i buoni dai cattivi».
L’ipotesi scioglimento continua a non prenderla in considerazione: non solo resta, ma
pensa già a una ricandidatura per un secondo mandato. Tanto meno vuole far ricorso alla
scorta, proposta dalla Prefettura. «Non mi sento in pericolo, ne parlerò ancora con lui, se
non ci sono evidenze di un pericolo fisico credo di non averne bisogno». Ieri per strada, da
numerosi cittadini, inviti a continuare, a resistere. Ma a segnare la giornata del primo
cittadino è stato l’incontro con Papa Francesco, in occasione della deposizione dei fiori
all’Immacolata a Piazza di Spagna. «Abbiamo scambiato poche parole — confiderà dopo
lui — gli ho detto che sento tutto il peso della responsabilità di queste settimane. Il Santo
Padre mi ha incoraggiato e mi ha detto che pregherà per me e per Roma».
del 09/12/14, pag. 6
Vertice tra il prefetto e Alfano Escluso lo
scioglimento: sì a un esame approfondito
ROMA Entro stasera si conoscerà il destino del Campidoglio. Il prefetto Giuseppe
Pecoraro è tornato ieri da Napoli e oggi lo attende una lunga giornata con il gruppo di
lavoro che ha attivato per analizzare le carte dell’inchiesta su «Mafia Capitale». Sarà lui a
riferire al ministro dell’Interno Angelino Alfano sulle misure urgenti da adottare dopo lo
scandalo che ha travolto esponenti della criminalità, imprenditori ma soprattutto politici
romani, della maggioranza e dell’opposizione, coinvolti nell’indagine della Procura. Il
responsabile del Viminale — con il quale oggi Pecoraro avrebbe dovuto avere un incontro
— sarebbe favorevole a un accesso agli atti.
Alfano ha anche avuto un colloquio con il premier Matteo Renzi per il quale lo scioglimento
del Comune, con la nomina di un commissario in attesa di nuove elezioni, sarebbe una
soluzione non percorribile. Resta il fatto che il ministro è comunque pronto a ricevere
anche una proposta di scioglimento, qualora il parere tecnico del prefetto vada in questa
direzione.
«Non parteciperò a un vertice al Viminale — conferma lo stesso Pecoraro —, sarò
impegnato in una riunione interna con i miei collaboratori che stanno studiando tutte le
carte dell’inchiesta, anche quelle nuove degli ultimi giorni. L’accesso agli atti? Non ho
ancora deciso». Non confermato anche un incontro in mattinata con il sindaco Ignazio
Marino, con il quale nei giorni scorsi c’è stata qualche frizione dopo la proposta del
prefetto di rinforzare la scorta al primo cittadino, oggetto di minacce e insulti nelle
intercettazioni sul «mondo di mezzo» e sulla banda di Massimo Carminati, e di evitare
l’uso della bicicletta. «Non è mica mio padre», era stata la replica di Marino.
«Ho parlato con il prefetto, valuteremo il da farsi — ha spiegato sempre Alfano, ospite ieri
sera dello speciale di Quinta colonna su Rete4 —. Credo ci sia un giudizio tecnico dal
quale deve nascere la proposta di sciogliere la giunta comunale, ma sta emergendo un
quadro che investe anche amministrazioni precedenti: quella di Gianni Alemanno e anche
la precedente». Per il ministro gli appartenenti al clan «come topi nel formaggio, si
annidavano in tutte le forze politiche. Il formaggio era tutto, dalla gestione delle strade ai
campi rom. Per quante leggi vengano firmate in Italia, non c’è un livello di consapevolezza
tale da sapere che i soldi rubati ti verranno tolti».
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Rinaldo Frignani
del 09/12/14, pag. 4
E ora il Pd teme l’indagine infinita
Daniela Preziosi
Democrack. Renzi ai Giovani dem: ogni giorno chiederemo che si vada
rapidamente ai processi. Il rischio dello stillicidio. Orfini: stroncheremo
la cancrena delle correnti. Che nel Pd romano sono dieci
Un’ora di discorso alla Factory 365 di Roma, la Leopoldina dei giovani dem, a un anno
esatto dalle primarie dell’Immacolata che gli consegnarono a furor di popolo (democratico)
la segreteria. Matteo Renzi, maglione rosso al posto della camicia bianca di ordinanza
(«Succede a stare troppo con Orfini, ma vedrete che al prossimo congresso ci
divideremo”», scherza), fa anche un lapsus notevole: dice «Buon compleanno Pd», come
se il suo partito fosse nato quando è arrivato lui, e non sei anni prima. Il premier-segretario
parla a lungo ma riserva alla vicenda romana poche battute in coda. Preoccupate. «La
politica o è grande ideale, passione e bellezza o è miseria», «non lasceremo la Capitale ai
ladri. Teniamo pulito perché Roma è troppo grande e bella per lasciarla a gentaccia là
fuori». Ma soprattutto rivolge ai giudici un appello quasi accorato: «A me lo sdegno delle
prime 48 ore non basta. Ogni giorno chiederemo che si vada rapidamente ai processi, che
si facciano le sentenze, che chi è colpevole paghi fino all’ultimo centesimo e all’ultimo
giorno, perché non è possibile che in Italia non paghi nessuno». Intanto «chi prende una
tangente con noi ha chiuso». Già, ma chi ha preso davvero una tangente? Le indaginisono
ancora aperte. E anche quando saranno chiuse la domanda rischia di restare aperta per
anni.
Ed è un grosso guaio per l’immagine del premier. Renzi ha affidato il dossier Roma a
Matteo Orfini, il presidente del partito nel quale ripone la massima fiducia nonostante le
divergenze di linea (ieri, per la cronaca, Orfini è stato applauditissimo dai Gd, del resto
guidati dal giovane turco Andrea Baldini, anche quando ha ricordato la sua contrarietà al
«partito della nazione anche nella declinazione che gli ha dato Reichlin» e quando ha
criticato l’azione di governo schierandosi contro il decreto Lupi). Orfini ha preso il dossier
molto sul serio. Né potrebbe essere diversamente visto la gravità delle accuse che hanno
colpito tre amministratori fin qui indagati, il consigliere comunale Mirko Coratti, quello
regionale Eugenio Patané e l’assessore Daniele Ozzimo, tutti di osservanza renziana. Ma
il lavoro dei magistrati non è ancora concluso e anzi si aspetta una seconda infornata di
arresti o almeno di indagati.
Ma non c’è solo — solo si fa per dire — l’inchiesta “Mondo di mezzo2” a preoccupare il
Nazareno. Oscurata dai clamori di Mafia Capitale, in questi giorni va avanti il lavoro dei
magistrati su Marco Di Stefano, deputato ex consigliere regionale indagato per corruzione,
sospettato di aver ricevuto una maxi-tangente in una brutta storia in cui il suo braccio
destri è scomparso, forse ucciso. C’è dell’altro: si è chiusa di recente a Rieti l’inchiesta
sulle spese pazze della regione dell’era Polverini. Si attendono i rinvii a giudizio, che
potrebbero riguardare anche ex consiglieri Pd, la maggior parte dei quali nel frattempo è
stata eletti in parlamento, visto che il presidente Zingaretti aveva messo come condizione
della sua corsa per la Pisana il «rinnovamento radicale» del gruppo regionale, che infatti fu
ripescato quasi per intero nelle liste dell’allora segretario Bersani. La vicenda delle indagini
romane rischia di essere uno stillicidio per mesi, forse per anni.
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In attesa dell’onda giudiziaria, come potrà Orfini «fare pulizia» mantenendo però l’assetto
garantista del Pd renziano? Orfini annuncia il pugno di ferro: «Saremo durissimi,
cercheremo chi ha sbagliato e cercheremo di capire quali sono i circoli veri e quelli finti,
sentiremo uno per uno i nostri iscritti per vedere se sono iscritti veri o finti», ha spiegato
ieri a margine di Factory 365. «Stabiliremo regole rigide per i bilanci dei circoli,
controlleremo a chi sono intestati i contratto d’affitto, riusciremo a stroncare la cancrena
correntizia che ha ridotto così il partito di Roma. Faremo una serie di controlli su un partito
che in questa città c’è ed è fatto di tante persone per bene. Vogliamo restituirlo a loro e
levarlo a chi un questi anni lo ha sequestrato».
Il correntismo spinto nel Pd romano è un dato costitutivo. Gli esperti del Cencelli dem
contano un minimo di sette correnti principali, più almeno tre subcorrenti. Un ginepraio in
continua scomposizione e ricomposizione di cui è quasi impossibile dare un resoconto
aggiornato all’ultimo patto. L’ultima nata è Noidem, area dall’unione di tre sottoaree, quella
di Umberto Marroni (già dalemiano), Lorenza Bonaccorsi (capofila dei cosiddetti
‘turborenziani) e del popolare Enrico Gasbarra, di cui fanno parte Daniele Ozzimo e Mirko
Coratti (indagati entrambi); al suo battesimo fu chiamato Lorenzo Guerini. Poi c’è l’area Di
Stefano (indagato) e Stampete, lettian-renzia; quella dei Giovani turchi, di Tommaso
Giuntella e dei consiglieri comunali Gianni Paris o Giulia Tempesta (e dello stesso Orfini, a
livello nazionale); l’area vicina al presidente Zingaretti (che però nega vigorosamente di
averla); i renziani non nativi come De Luca e Patané (indagato); l’area del sottosegretario
Rughetti, Nanni e Grippo; i franceschiniani di Areadem, Melilli e Astorre. Un puzzle che
deriva in parte dalla provenienza ma per lo più da patti anche fra diversi, come proprio la
neonata Noidem dimostra. «Il Pd in questa città c’è ed è fatto di tante persone per bene»,
ripete Orfini. Cacciare con ignominia le correnti, dichiararle seppellite con grande spolvero
mediatico sarà relativamente facile. Il vero cimento sarebbe smantellare le filiere di piccoli
e grandi poteri che irretiscono il lavoro dell’amministrazione. E scommettere che smontate
queste il Pd resti ancora in piedi.
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SOCIETA’
del 09/12/14, pag. 23
Se si spezza il segreto sulle donne che non
riconoscono i loro figli
Protesta contro la legge che potrebbe togliere l’anonimato
Giacomo Galeazzi
Pronto chi parla?». «Sono tuo figlio». Scene di un passato che riappare con un colpo di
telefono o lo squillo di un campanello. Il Parlamento sta per dare il via libera alla ricerca
delle donne che «in anonimato» hanno messo al mondo bimbi. In ballo questioni pesanti:
la tutela del segreto del parto, la difesa della salute delle donne, il futuro dei bambini non
riconosciuti. Dietro i principi, 90mila italiane che dal 1950 ad oggi hanno partorito
avvalendosi del diritto alla segretezza, che potrebbe avere i giorni contati. Una bufera in
arrivo.
In pratica, all’altro capo del telefono potrebbe esserci presto una persona che, a distanza
di anni, vuol conoscere chi gli ha dato la vita. «Mamme segrete» vissute finora nella
certezza che nessuno lo avrebbe saputo. La legge, infatti, consente di partorire in
ospedale, garantendo le cure sanitarie per sé e per il nascituro, anche nel caso in cui
decida di non diventarne formalmente la mamma. Così il neonato viene subito dichiarato
adottabile e immediatamente inserito in una famiglia adottiva.
Lo Stato le riconosce il diritto alla segretezza del parto: per 100 anni nessuno potrà
conoscerne l’identità. Ma nel dicembre 2013 una sentenza della Consulta ha dichiarato
illegittima la norma nella parte in cui non consente di verificare in seguito la volontà delle
donne di restare anonime. Sono state presentate alla Camera varie proposte di legge,
oggi in discussione alla commissione Giustizia che le ha unificate attraverso l’elaborazione
di un testo base. Protesta Donata Nova Micucci, presidente dell’Associazione delle
famiglie adottive e affidatarie (Anfaa): «La procedura di accesso all’identità della
partoriente, nella formulazione del testo base, prevede che il tribunale, su richiesta dei non
riconosciuti alla nascita, si attivi per rintracciare la donna». Un dolore che esplode di
nuovo.
E ciò «senza formalità», cioè senza garanzia del rispetto del suo anonimato. Avendo
effetto retroattivo, la nuova norma (se approvata) avrebbe «conseguenze gravi ed
irreversibili sul oltre 90mile donne». Per l’Anfaa «il Parlamento non può tradire l’impegno
assunto». Ricercare a distanza di decenni queste donne, in mancanza di una loro
preventiva rinuncia all’anonimato, mette in pericolo la serenità della vita che, sicure della
segretezza garantita, si sono costruite, con gravi ripercussioni su di loro e sui loro familiari,
spesso ignari di quanto avvenuto in passato.
«Nei confronti delle donne che hanno deciso di non riconoscere il loro nato, nessuno può
permettersi di dare giudizi: si tratta di scelte dolorose e sofferte, che tutti dobbiamo
rispettare, compresi, per primi gli individui cui hanno dato la vita», sostiene Donata Nova
Micucci. Ad allarmare le famiglie adottive e affidatarie sono anche le conseguenze che la
nuova norma potrà avere sulle gestanti che in futuro volessero non riconoscere il proprio
nascituro. «Lo faranno sapendo che, senza il loro preventivo consenso, potranno essere
rintracciate dopo 20 o 30 anni o più? Che ne sarà dei loro piccoli?- si chiede Nova Micucci
-. Queste gestanti non andranno più a partorire in ospedale, non avendo garanzie sulla
segretezza del parto e aumenteranno gli infanticidi e gli abbandoni dei neonati». Un patto
del silenzio.
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Un’alleanza infranta con «soggetti deboli», donne spesso giovanissime o vittime di stupri o
violenze. Lo Stato si è impegnato a tutelarle e ora «il Parlamento, non può tradire
quell’impegno». L’Anfaa, insieme ad altre fondazioni, associazioni e onlus raccoglie firme
per la «difesa del segreto del parto, della salute delle donne e del futuro dei bambini non
riconosciuti». Diritto all’oblio rispetto a un passato che riappare all’improvviso.
Salvaguardia di una «intesa » tra lo Stato e le partorienti di ieri, di oggi e di domani.
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BENI COMUNI/AMBIENTE
Da la stampa – Tutto Green del 09/12/14, pag. 1
A Lima il summit sul clima
Il mondo cerca un accordo
Ma l’intesa Usa-Cina non basta a garantire la salvezza del pianeta
Marco Magrini
È sempre bene distinguere fra la meteorologia (l’osservazione nel breve periodo) e la
climatologia (lo studio nel lungo). Ma la W
orld Meteorological Organization – che si occupa di tutte e due – ha annunciato che il
2014 è l’anno più caldo da quando gli umani hanno cominciato a misurare la temperatura
media del pianeta Terra. È solo una normale oscillazione meteorologica di breve termine?
No, ha risposto l’organizzazione delle Nazioni Unite durante una conferenza stampa a
Lima, in Perù: il 2014 è anche il trentottesimo anno consecutivo che registra una
temperatura anomala. Sempre verso la parte alta del termometro, ovviamente.
Questa informazione potrebbe smuovere i delegati di oltre 170 Paesi riuniti da nove giorni
nella capitale peruviana per la Conferenza sui cambiamenti climatici dell’Onu, battezzata
Cop 20. Quel numero sta a indicare che da vent’anni pompose delegazioni dei cinque
continenti si riuniscono nel tentativo di architettare un cambiamento da un sistema
energetico mondiale ancora dipendente dai combustibili fossili, responsabili di un clima
compromesso. Ma senza riuscirci.
È vero che il processo diplomatico deve scavalcare un’asticella molto alta: l’unanimità. Ma,
a voler riassumere questi vent’anni in due parole, l’approccio multilaterale è stato
ostacolato dall’unilateralismo americano: gli Stati Uniti, dopo aver firmato il Protocollo di
Kyoto senza averlo mai ratificato, si sono sempre opposti a qualsiasi obbligo che non
coinvolgesse la Cina. La quale, anche grazie al suo sistema politico centralizzato, ha
ammesso che il rischio climatico è reale, ha emanato leggi ambientali sempre più
stringenti ed è leader mondiale nelle tecnologie per l’energia pulita. Però pretende che il
principio internazionale delle «comuni ma differenziate responsabilità» (le vecchie
economie industrializzate emettono CO2
da molto più tempo di quelle giovani) venga rispettato.
Da questo punto di vista, il vertice di Lima è cominciato sotto i migliori auspici possibili:
due settimane prima, Barack Obama e Xi Jinping si sono dati la mano, promettendo un
impegno nel taglio delle emissioni di gas-serra. La Cina toccherà il massimo delle
emissioni nel 2030. E gli Usa fra dieci anni emetteranno il 26% in meno (rispetto al 2005).
Ma le cose non sono così semplici: quella di Lima è solo una partita di riscaldamento. Il
vero match è fissato a Parigi fra un anno, quando, alla Cop 21, si dovrebbe finalmente
raggiungere il sospirato accordo globale sulle emissioni-serra. Per l’Unione Europea – che
in questa partita gioca il ruolo di centravanti – e anche per l’Onu del «mister» Ban-Ki
Moon, quella di Parigi è per il mondo la partita della vita.
La stretta di mano Obama-Xi ha ispirato commenti ottimisti sul risultato finale. Ma forse
anche un po’ prematuri.
Fra la mano destra del presidente americano e quella del presidente cinese c’è una bella
differenza. La prima è immobilizzata da un Congresso che, dopo le recenti elezioni di
midterm, è interamente in mano al partito repubblicano, sede dei più irriducibili avversari
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all’idea di un riscaldamento globale causato dell’uomo. La seconda invece, grazie a un
sistema politico ben diverso, fa quello che vuole. Ovvero, quello che dice.
L’unico commento al tempo stesso ottimista e convincente è quello di Jeffrey Sachs, il
direttore dell’Earth Institute della Columbia University. «Anche se la lobby dei combustibili
fossili ha finanziato le recenti vittorie repubblicane – ha scritto – l’opinione pubblica
americana si preoccupa della propria sopravvivenza e del mondo che lascerà ai figli. La
gente ha davanti agli occhi l’uragano Sandy, la siccità record in California, le ondate di
caldo senza precedenti, gli allagamenti sulla costa orientale». In altre parole, se cambia il
vento dell’opinione pubblica, cambierà anche l’opinione dei politici.
Il vertice di Parigi, da molti ritenuto l’ultima spiaggia per placare il riscaldamento del
pianeta, è convocato fra appena 12 mesi. Ma la meteorologia del 2014 è soltanto una
variazione statistica. Ed è un po’ difficile che la preoccupante climatologia degli ultimi tre
decenni cambi all’improvviso il vento dell’opinione pubblica americana, e mondiale.
Eppure, potrebbe succedere. Per assurdo, un’altro anno di meteorologia pazza, potrebbe
portare il buon senso nella politica climatica.
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INFORMAZIONE
Del 9/12/2014, pag. 1-36
La notizia, oggi, arriva attraverso un mix di vecchi e nuovi “media”
Un sistema ibrido integrato, come lo definisce il sondaggio DemosCoop. In cui la distanza tra web e televisione si riduce
L’informazione liquida
ILVO DIAMANTI
L’ATLANTE di Demos dedicato al rapporto fra “Gli italiani e l’informazione”, giunto all’VIII
edizione, descrive l’affermarsi di un sistema “ibrido” (per citare una nota definizione di
Andrew Chadwick). Dove il ricorso ai new media non esclude i media tradizionali. Ma si
traduce in nuove e diverse forme di integrazione. D’altronde, ormai metà dei cittadini si
informa ogni giorno attraverso Internet. Il doppio rispetto al 2007 e quasi 10 punti in più di
due anni fa. Nell’ultimo anno, invece, la crescita è stata più limitata: 2 punti. Solo la
televisione, ormai, supera – ancora largamente – la Rete, come canale di informazione
“quotidiana”. Ma la distanza fra la tv e la Rete, dal 2007, si è dimezzata da (circa) 60 ai 30
punti attuali. La radio e, soprattutto, i giornali sono, invece, “consultati” da una quota di
persone molto più ridotta – e in continuo calo.
Coloro che si informano assiduamente attraverso la Rete sono, mediamente, più giovani e
istruiti. Perché per muoversi nella Rete servono abilità “digitale” e capacità di accesso alle
informazioni. Anche per questo coloro che si informano quotidianamente solo in Rete (i
netinformati) costituiscono una componente limitata: intorno al 6%. Mentre nella
maggioranza dei casi (per la precisione: il 44%) Internet viene associato ad altri media. La
tv e i giornali, in particolare. Quasi due terzi di coloro che utilizzano Internet, d’altronde, lo
fanno per leggere i quotidiani. Che, d’altra parte, prevedono, quasi tutti, edizioni digitali.
Ma su Internet, ormai, è possibile accedere anche alle principali reti televisive e
radiofoniche. E, reciprocamente, tutti i programmi televisivi e radiofonici sono in
comunicazione diretta e continua con Internet. Attraverso i social network. Facebook e
Twitter. È la comunicazione ibrida, che ormai coinvolge gran parte degli italiani. L’accesso
a Internet, d’altronde, nella maggioranza dei casi, avviene attraverso strumenti
“personalizzati”. I tablet e gli smartphone, in primo luogo. Anche per questo si tratta di un
incentivo alla partecipazione dei cittadini che vogliono esercitare una funzione critica verso
l’azione dei politici. È ciò che ritengono 7 italiani su 10, tra quelli intervistati da Demos. La
Rete costituisce, dunque, un canale di “contro-democrazia”, come la definisce Pierre
Rosanvallon, volta alla “sorveglianza” politica e istituzionale. Non per caso, i cittadini che
utilizzano la Rete in modo ibrido o, meglio ancora, esclusivo, sono, prevalentemente,
orientati verso il M5s, che ha fatto della comunicazione digitale un simbolo di democrazia
diretta e “senza mediazioni”. Tuttavia, occorre cautela nel celebrare la “libertà” della Rete.
Sia perché (come rammenta Evgeny Morozov) è, spesso, sottoposta a interferenze e
controlli. Sia perché, la stessa libertà di accesso, rende difficile verificare le informazioni
che circolano. Peraltro, come si è detto, il rapporto fra gli italiani e la politica appare ancora
largamente “mediato” dalla televisione. Il canale attraverso cui si informano, regolarmente,
8 persone su 10. Peraltro, per il 23% (della popolazione) si tratta del mezzo di
informazione (quasi) esclusivo. Queste persone, i “tele-centrici”, sono particolarmente
diffuse fra gli elettori più “indecisi”. E ciò rende la tv determinante in campagna elettorale.
Per convincere gli elettori che decidono solo alla fine. Peraltro, i “tele-centrici”, secondo le
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attese, pesano molto nella base di Fi. Gli elettori del M5s, invece, confermano la loro
confidenza con i new media e con la Rete. Sono, infatti, più “ibridi”. Mentre sorprende
l’ampiezza di elettori (Net)ibridi fra i leghisti. Segnale del cambiamento in atto nella Lega,
dopo l’avvento di Salvini. Il Pd, infine, appare il più trasversale, fra i diversi tipi di pubblico.
Non era così fino a poco tempo fa. Ma il Pd di Renzi, il Pdr, ha colmato il distacco dai
media. Vecchi e nuovi. Tv e Rete. L’atteggiamen- to nei confronti dei Tg conferma queste
tendenze – e gli indirizzi degli ultimi anni (in termini di fiducia, non necessariamente di
ascolto). I più apprezzati restano i Tg Rai e in particolare il Tg3. Che prevalgono
largamente sui Tg Mediaset. Tra i quali, solo il Tg5 presenta un livello di stima elevato. E
perfino in crescita, rispetto all’ultimo anno. Mentre le reti All-News, RaiNews 24, Sky Tg24
e lo stesso Tg di La7, sono quelli che hanno aumentato maggiormente il grado di fiducia
rispetto al 2009. In particolare i Tg di Sky e, soprattutto, di Rai News 24. Mentre il Tg de
La7, nell’ultimo anno, ha perduto qualche punto.
D’altra parte, l’intreccio tra politica e media, divenuto inestricabile, nel corso del ventennio
berlusconiano lascia ancora tracce evidenti nelle preferenze politiche del pubblico. Che
appare maggiormente orientato a destra, nel caso dei Tg delle reti Mediaset. A sinistra,
per quel che riguarda le reti Rai. E in particolare il Tg3. Gli elettori della Lega, invece,
mostrano maggiore fiducia verso RaiNews 24, il Tg5 e il Tg di Sky. Mentre gli elettori del
M5s si fidano, anzitutto, del Tg de La7. Inoltre, del Tg3 e di RaiNews24 (il più
“trasversale”, dal punto di vista della percezione degli elettori). I media, comunque, non si
limitano a orientare le preferenze degli italiani, ma le rispecchiano. Compresa la
stanchezza verso la politica, ben raffigurata da un certo fastidio verso l’informazione tv. E,
soprattutto, verso i programmi di approfondimento e dibattito. I talk politici, in particolare,
sono considerati troppo confusi e litigiosi da due persone su tre.
La stagione della “democrazia del pubblico”, fondata sulla televisione (secondo la nota
definizione di Bernard Manin), in Italia, non sembra, dunque, finita. Ma si contamina con la
diffusione della Rete. Così delinea la cornice della “democrazia ibrida” del nostro tempo.
Abitata da un “cittadino ibrido”, critico e scettico verso la politica e le istituzioni.
Del 9/12/2014, pag. 1-37
LA MAPPA. IN CRESCITA I GIOVANI CHE IGNORANO LA TV
Italiani sempre più connessi e la Rete vigila
sulla politica
LUIGI CECCARINI
GLI italiani usano sempre più il web, anche per informarsi. E tra quanti navigano in Rete
ogni giorno, sette su dieci sono sempre connessi: alwayson con tablet o smartphone.
Dall’Osservatorio Demos-Coop dedicato all’uso dei media, vecchi e nuovi, emergono
quattro tipi di fruizione mediale. I telecentrici (23%) – quanti si informano ogni giorno solo
in tv - sono in calo. Lo stesso avviene per i fruitori tradizionali (28%), coloro cioè che
combinano vari mezzi di informazione mainstream (giornali, radio, tv). I net-ibridi (44%),
utilizzano quotidianamente sia i new media che qualche fonte old. Infine i net-informati,
sono il 6%: usano ogni giorno solo il web, ricorrono anche ad altri media, ma con minor
frequenza. Questi due net-citizens si caratterizzano per un profilo ormai noto. Sono più
giovani e scolarizzati, di genere maschile, studenti, appartengono ai ceti medi impiegatizi,
politicamente sono più orientati verso sinistra. Questi tratti segnano in modo più marcato i
net-informati. Dove uno su tre è studente (35%). Il 17% di loro non guarda mai la tv.
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Inoltre, si riconoscono meno nel classico spazio sinistradestra e più nel M5s. I tele-centrici
hanno un’età più avanzata e sono meno scolarizzati. In maggioranza donne (62%). Sette
su dieci sono casalinghe o pensionati. I fruitori tradizionali si distinguono invece per avere
un’età media, un grado di istruzione più elevato e per l’appartenenza alla classe
impiegatizia. Sono meno attratti dal M5s e più dall’astensione.
Questi quattro tipi di italiani si rapportano in modo diverso con la politica. La minoranza dei
net-informati è la componente più attiva sul web: discute e si informa di politica (57%),
posta commenti politici sui Social (26%). Sono seguiti dai net-ibridi (rispettivamente 50% e
18%). Questi due tipi di net-citizens sono più attivi in campagne online. Del resto, essendo
in tre casi su quattro always-on diventa naturale informarsi e attivarsi online. Gli altri due
gruppi di cittadini, tele-centrici e tradizionali, sono meno partecipativi. Ma l’attivismo dei
netinformati e dei net-ibridi si esprime anche offline. Discutono di più di politica nelle
cerchie della vita quotidiana. Partecipano maggiormente a manifestazioni politiche
convenzionali o di protesta. La minoranza dei net-informati si configura come
l’avanguardia impegnata e militante della più ampia componente dei net-ibridi. Più di
questi credono nella Rete come luogo di democrazia e libertà di informazione. Ma anche
come strumento per una democrazia del monitoraggio. L’87% dei net-informati pensa ad
Internet come ad un mezzo di sorveglianza della politica (vs. 79% dei net-ibridi e 70%
della media), e soprattutto per tenere il fiato sul collo dei politici nell’attività del governare.
del 09/12/14, pag. 1
La ghigliottina di Renzi
Norma Rangeri
Vogliono soffocare il manifesto. E proprio in un momento fondamentale della nostra storia:
l’acquisto della testata. Vogliono cancellare una voce, storica, dell’informazione in Italia. E
insieme a noi altre decine e decine di testate giornalistiche, di carta ma anche radio e tv. E
questo grazie a una spending review che nel nostro settore è applicata in modo spietato.
Una riduzione dei rimborsi per l’editoria era attesa. Ma non in queste dimensioni e
soprattutto non con un taglio retroattivo. Non fino al punto di configurarsi come una vera e
propria censura politica, come una ghigliottina per tante voci dell’informazione.
E invece, se Palazzo Chigi non tornerà sui suoi passi, i peggiori timori si avvereranno:
decapitando il fondo dell’editoria, il governo intonerà il de profundis per migliaia di
giornalisti, impiegati, operai. Si può discutere su un fondo per l’editoria dato a macchia
d’olio, si può perfino eliminare, anche se noi, e non solo noi, abbiamo molti dubbi. Però
non si può agire così vigliaccamente. Perché viene dato un colpo basso, proditorio, visto
che il taglio si riferisce ai rimborsi per il 2013, appostati nei bilanci già chiusi l’anno scorso.
Di conseguenza tantissime testate dovranno portare i libri in tribunale e dichiarare
fallimento.
È una vera e propria decapitazione di una parte dell’informazione italiana. Si tratta della
cancellazione di molte voci con storie diverse ma tutte espressione di una pluralità di punti
di vista politici, culturali, sociali destinati a scomparire.
Non siamo così miopi da non vedere e così stolti da non sapere che il fondo per l’editoria è
stato in anni passati anche un pozzo di denaro dove attingere soldi, per far nascere
iniziative editoriali finte, di facciata, utilizzate per altri fini e per arricchire le tasche di
faccendieri e imprenditori senza scrupoli. Perché gli editori puri, in Italia, sono una rarità.
Anche dietro la voce «cooperative» si sono consumate truffe e ruberie. Però adesso si
butta via il bambino con l’acqua sporca. Con due immediate conseguenze: un forte
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appannamento nel mondo dell’informazione e il licenziamento di centinaia di lavoratori del
settore (tipografie, distribuzioni, cartiere) che andranno a ingrossare le già enormi
percentuali della disoccupazione.
C’è una logica — antidemocratica — in questa scelta del governo che sceglie di chiudere
decine di testate in un colpo solo.
È invece più difficile da comprendere e da spiegare una decisione presa all’insegna del
risparmio delle risorse pubbliche, quando si sa che ne dovranno essere impiegate molte
ma molte di più per fronteggiare gli ammortizzatori sociali (mobilità, cassa integrazione,
pensionamenti) per i licenziamenti e gli stati di crisi provocati dai tagli.
Per farvi capire l’entità del colpo, basta il nostro caso: nel 2012 i liquidatori, che
«curavano» le casse del manifesto, hanno ricevuto 2 milioni e 700 mila euro di rimborsi.
Per il 2013 alla nostra nuova cooperativa forse ne arriveranno 600mila. Dunque siamo di
fronte non già a un micidiale dimezzamento ma alla sparizione di oltre tre quarti dell’intero
ammontare per l’anno passato.
E questo è un aspetto sul quale vogliamo insistere. Il governo agisce in modo davvero
scorretto, perché interviene sul passato, retroattivamente, su rimborsi che centinaia e
centinaia di lavoratori aspettano da tempo con ansia, perché in tanti sono senza stipendio.
La violenza e la vigliaccheria della decisione è senza precedenti.
Per noi, se le cose non cambiano, il contributo falcidiato sarà appena sufficiente a coprire
piccola parte dei costi legittimamente già sostenuti. Perciò l’improvviso e inaspettato
abbattimento delle risorse pubbliche, proprio mentre siamo impegnati nell’impresa di
acquistare la testata, è per «il manifesto» un colpo durissimo. Non vogliamo sospettare
che il nostro giornale sia il boccone più ghiotto di questa operazione distruttiva
dell’informazione — quale altro giornale nazionale dà tanto spazio alle voci sindacali,
politiche, sociali eculturali alternative? — ma come suggeriva un antico navigatore della
politica italiana «a sospettare si fa peccato, ma spesso ci si indovina».
Eliminare un giornale nazionale che non ama il presidente del consiglio e soprattutto
questo governo centro-sinistra-destra, che dopo la chiusura dell’Unità è l’unico a dare
voce al malessere del dissenso interno al Pd, che combatte sul fronte dei diritti del lavoro,
che considera il liberismo renziano l’ultimo stadio della crisi italiana anziché la sua
soluzione, può rappresentare una tentazione, un desiderio non detto.
Chiudere il manifesto può essere un obiettivo politico, specialmente se si rafforza. Se,
come sta accadendo da mesi, cresce in numero di copie, se al giornale guardano con
interesse le anime divise della sinistra di alternativa, le infinite associazioni del territorio, i
tanti movimenti sociali, gli intellettuali disinteressati e meno smarriti, le avanguardie
sindacali più impegnate, gli impiegati, i lavoratori e le lavoratrici che non si arrendono, gli
studenti che sperano in un futuro possibile.
Tutto questo si vuole uccidere, per poche briciole di finanziamenti dovuti, e fino al mese di
novembre già calcolati nel bilancio dello stato. Tuttavia ai malintenzionati diciamo subito
che non sarà facile cancellare il manifesto dal panorama dell’informazione italiana.
In quarantaquattro anni di vita abbiamo affrontato decine di tempeste economiche e
politiche e abbiamo imparato a combattere contro i colpi bassi del potere.
Per questo siamo ancora, come sempre, decisi a vendere cara la pelle. Come sempre, la
nostra forza viene dal vostro sostegno, da chi ci segue da sempre come da chi ci legge da
poco tempo, dai fondatori del giornale come dalle generazioni degli ultimi quarant’anni.
Voi lettrici e lettori siete l’esercito, partecipe e largo, che si batte con noi nella battaglia per
riprenderci la testata. E tutti noi adesso abbiamo davanti il compito più difficile:
raggiungere l’obiettivo di raccogliere un milione di euro.
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Mancano poco più di venti giorni e il traguardo è ancora lontano, anche se le vostre
donazioni sono straordinarie e costanti da quando, appena un mese fa, abbiamo iniziato la
lunga rincorsa verso la meta.
Certo, non siamo così bravi da organizzare una cena che in una sera porta un milione e
mezzo di euro nelle casse renziane. Però confidiamo in iniziative simili, e chissà se
qualche mecenate (ma esistono ancora?) non sia disposto a emettere qualche
sostanzioso bonifico.
Tuttavia la nostra campagna deve assumere un altro passo: chi vuole continuare a
leggere il manifesto deve scegliere adesso. La partita il governo vuole giocarla ora e noi
dobbiamo essere in campo al massimo delle nostre forze.
Non ci sono tempi supplementari.
Intanto preparatevi al 18 dicembre: quel giorno saremo in edicola con un nuovo numero a
20 euro. Come già a novembre, sarà un numero speciale, a colori, con più pagine,
dedicato all’anno che ci aspetta, e che vogliamo vivere insieme a voi. Per dare speranza
sulla figura del nuovo presidente della Repubblica, per capire come si svilupperà la crisi in
Italia e in Europa, per tenere alte le bandiere nell’arcipelago di una sinistra dei mille fiori
ma con pochi bravi giardinieri.
Sappiamo che la crisi morde la vita di troppe persone, e che vi chiediamo un grande
sforzo.
Ma se pensate al giornale del 18 dicembre come un regalo, allora forse sarà tutto più
leggero. Considerate questo numero del manifesto come un dono di Natale. Se questo
avverrà, sarà un segnale importante, perché ci farebbe avvistare il traguardo.
Abbonamenti e donazioni sono il carburante di questa straordinaria rincorsa alla nostra
testata, ma un successo del manifesto a 20 euro metterebbe solide basi al nostro
spericolato e avvincente «salto con l’asta».
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CULTURA E SCUOLA
Del 9/12/2014, pag. 56
I nuovi padroni del libro nascono da alleanze globali. E anche i big
italiani guardano a Europa e Usa
Risiko e fusioni il Grande Gioco dell’editoria
STEFANIA PARMEGGIANI
I PRIMI a reagire sono stati i mercati, con il titolo Mondadori schizzato a Piazza Affari. Poi
sono cominciate le voci. Non appena il Consiglio di amministrazione ha annunciato la
nascita di una nuova società, separando con un taglio netto il destino dei libri da quello dei
periodici, gli analisti di Mediobanca e di Kepler Cheuvreux probabilmente hanno sorriso.
Da anni sostengono che il nostro mercato dei libri è troppo frammentato per difendersi
dalla concorrenza dei player internazionali. Che i grandi gruppi, per resistere alla crisi
economica e vincere la scommessa con il digitale, hanno un’unica strada: quella delle
alleanze e delle fusioni. Mondadori, che da sola controlla il 27% del mercato italiano —
anche con gli altri suoi marchi controllati al 100 per cento, e cioè Einaudi, Piemme,
Sperling & Kupfer, Mondadori Education e Mondadori Electa — potrebbe sposarsi con
Rcs, arrivando così a una quota del 40%.
Oppure cercare una joint venture con Bertelsmann, la multinazionale tedesca che sta
creando la più grande concentrazione editoriale della storia. Potrebbe anche scegliere la
via più morbida delle aggregazioni industriali, stringendo patti con competitor italiani o con
società straniere. Quel che è certo è che non giocherà più da sola. Non può farlo: ai piani
alti dell’editoria internazionale è in corso una partita a Risiko che ha il suo cuore in Europa.
È qui, dove il libro è nato, che vivono i nuovi signori della carta. Delle cinque “big five”
americane solamente Simon & Schuster e HarperCollins sono a stelle e strisce. Le altre
tre sono europee: Macmillan è inglese (poi acquisita da un gruppo tedesco), Hachette è
francese, Penguin Random House anglo-tedesca. I gruppi che le controllano hanno
conquistato gli Stati Uniti e adesso puntano all’America latina e all’Asia. Sfidano i giganti
dell’high tech, come Amazon, che rischiano di trasferire il potere da chi produce contenuti
culturali a chi li distribuisce. Fanno shopping di etichette, stringono alleanze con il
“nemico”, ridisegnano la geografia mondiale dell’editoria. E allungano la loro ombra anche
sull’Italia. C’è una data di inizio a tutto questo: 29 ottobre 2012. Il giorno del matrimonio tra
Penguin e Random House. La prima, passata alla storia per avere inventato negli anni
Trenta i tascabili, romanzi di qualità a sei pence, allora l’equivalente del prezzo di un
pacchetto di sigarette, appar- teneva a Pearson, editore inglese che controlla il mercato
dei testi scolastici in 80 paesi. La seconda a Bertelsmann, uno dei gruppi mediatici più
potenti al mondo. Le due case madri quel giorno annunciano la nascita della Penguin
Random House: dodicimila dipendenti in 23 paesi dei cinque continenti ed entrate per più
di 3,5 miliardi di dollari, una fabbrica in grado di pubblicare 15mila titoli l’anno e di tenere
nella stessa scuderia i grandi signori dei bestseller, da Dan Brown a Khaled Hosseini, da
John Green a E. L. James. La fusione dà il via al Grande Gioco mondiale dell’editoria: uno
dopo l’altro anche gli altri grandi gruppi cominciano a stringere alleanze, a vendere o a
comprare. I primi mesi del 2014, secondo Publisher Weekly , sono uno dei periodi più
agitati dall’inizio della crisi economica. Martin Levin, l’intermediario che a maggio cura
l’acquisizione da parte della Rowman & Littlefield della casa editrice indipendente inglese
Globe Pequot Press, spiega che i piccoli marchi «stanno uscendo dal mercato perché
hanno capito che questo è il momento giusto» e che le imprese più grandi ne possono
39
approfittare per raggiungere dimensioni adeguate ai nuovi scenari globali. La tendenza
non è quella di espandere il ventaglio di interessi, ma di consolidare quelli in cui sono più
forti. Ad aprile Cengage Learning, un editore del Nord America, viene rilevato da Chapter
11 mentre Harper Collins, controllata dalla News Corp di Murdoch, si dà ai romanzi rosa
acquisendo la casa editrice Harlequin. Hachette, prima di essere coinvolta nel durissimo
braccio di ferro con Amazon, tenta di inglobare il Perseus Books Group. Lo stesso
Murdoch, dopo avere fallito l’acquisizione di Penguin, sembra mettere gli occhi sulla
Simon & Schuster. L’elenco redatto dalla rivista conta 24 operazioni concluse in sei mesi.
Il mercato è di nuovo dinamico e anche in Italia qualcosa comincia a muoversi. Il primo
editore a scen- dere in campo è proprio la Mondadori che, costituendo una società di soli
libri, mette nero su bianco i suoi obiettivi: «Realizzare una struttura societaria più
funzionale al potenziale conseguimento, in un’ottica di sviluppo, di opportunità di
partnership e aggregazioni industriali volte allo sfruttamento di economie di scala e di
scopo ». Resta il mistero sui futuri soci. In passato le banche d’affari che avevano studiato
i matrimoni di settore in Italia si erano sbilanciate su Feltrinelli ed Rcs. Ma la prima è fuori
dai giochi anche per la ferma opposizione di Inge Feltrinelli e si muove in altre direzioni, ad
esempio alleandosi con Messaggerie italiane per creare un unico grande polo di
distribuzione (l’ok dell’Antitrust è di pochi giorni fa). La seconda è tirata per la giacchetta
dagli analisti di Mediobanca Securities: «Una partnership consentirebbe di ottenere
sinergie significative — hanno dichiarato a Milano finanza — ed eventualmente la newco
che si realizzerebbe potrebbe essere aperta a nuovi soci per considerare un processo di
quotazione. Vedremmo positivamente una potenziale integrazione con la divisione libri di
Rcs». Che non è intoccabile: dopo avere ceduto Flammarion per 251 milioni ad Antoine
Gallimard, ha lasciato andare per la sua strada anche Skira, l’editore che alla
pubblicazione di cataloghi, monografie d’artista e saggi affianca quella di produzione di
mostre. Che sia la principale “indiziata” non significa per forza che debba scomparire tra le
braccia di Mondadori, come si è ironizzato su Twitter. Nei dossier che da tempo circolano
sulle scrivanie degli amministratori delegati dei grandi gruppi editoriali, si avanzano ipotesi
meno drastiche. Gli analisti della PricewaterhouseCoopers (PwC) in uno studio che si
proietta fino al 2018, consigliano l’accorpamento di alcuni asset e la cessione di altri non
più redditizi. In che modo? Lo studio si limita a mettere in luce le criticità, ma seguendo
quel ragionamento si può ipotizzare che Rcs e Mondadori (col suo “pezzo” più pregiato,
Einaudi) trarrebbero benefici da una eventuale aggregazione dei marchi scolastici così
come dalla vendita delle etichette professionali, uno dei pochi settori in Italia dove i gruppi
internazionali, da Pearson a Wolters Kluwer, hanno messo radici. Joint venture
internazionali per la narrativa sembrano più complicate. Bertelsmann, che in passato è già
stato partner di Mondadori e che ancora oggi è socio nei periodici Focus e Geo tramite la
controllata Gruner+ Jahr, sta facendo incetta di case editrici un po’ ovunque. Quando due
anni fa è diventato proprietario unico della spagnola Mondadori Random House,
liquidando il 50% che era in mano al gruppo di Segrate, ha svelato il suo disegno:
conquistare l’America latina. Proposito rafforzato a luglio con l’acquisto del segmento trade
del marchio Santillana Ediciones Generales. L’Italia rientra nella campagna acquisti?
Difficile dirlo, il nostro mercato ai suoi occhi è molto piccolo, ma è anche vero che il mondo
dei libri è attraversato da una rivoluzione dei contenuti: sempre più storie nascono per
essere raccontate su più media, l’editore sta diventando produttore di un universo
narrativo che racchiude, fin dall’inizio, serie televisive, contenuti web, audio-racconti, film.
In questo scenario la Mondadori e Bertelsmann — o altri editori internazionali —
potrebbero siglare nuove alleanze. Siamo solo all’inizio, il Risiko è in corso, la mappa
mondiale dell’industria del libro non è ancora definita.
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del 09/12/14, pag. 11
L’immane vittoria dei ricchi
Marco Bascetta
Pamphlet. "La lotta di classe esiste e l'hanno vinta i ricchi", un saggio di
Marco Revelli per Laterza
Lo scenario che Marco Revelli ci sottopone in un piccolo volume La lotta di classe esiste e
l’hanno vinta i ricchi (Laterza pp. 96, euro 9), non si discosta di molto da quello percorso in
lungo e in largo nel monumentale bestseller di Thomas Piketty, Il Capitale nel XXI secolo:
uno spaventoso incremento del divario tra i più ricchi e i più poveri, tanto che lo si
consideri a livello globale, tra i diversi paesi o all’interno di singoli stati. Divario che non ha
smesso di crescere a partire dalla metà degli anni Settanta, dalla fine dei cosiddetti «30
gloriosi» anni che hanno seguito la fine della seconda guerra mondiale. Il fenomeno è da
tempo ammesso e certificato da tutti gli organismi internazionali che non mancano di
sottolinearne le proporzioni drammatiche. Alla fine del secolo scorso, dopo 25 anni di
politiche liberiste, l’1% più ricco della popolazione mondiale riceveva un reddito pari a
quello del 57% più povero, risultato che non sembra tuttavia sufficiente a rimetterle in
discussione. Tanto è vero che il nuovo secolo non ha affatto invertito la rotta, semmai ha
impresso un’accelerazione.
Questo vertiginoso aumento della diseguaglianza poggiava e poggia, oltre che su concrete
scelte politiche, su una ideologia tra le più dogmatiche che la modernità abbia mai
conosciuto. Ed è dunque sugli elementi basici di questa ideologia e sul loro palese attrito
con la realtà empirica che Revelli concentra la sua analisi. Le politiche di diminuzione della
pressione fiscale sui redditi più elevati, sulla rendita e sui patrimoni maggiori, con il
conseguente smantellamento dello stato sociale e contenimento dei livelli salariali si
autolegittimavano sostenendo che dall’incremento delle ricchezze più cospicue qualcosa
sarebbe «sgocciolato» sulle fasce più povere della popolazione. Che, insomma,
dall’arricchimento dei ricchi, tutti, alla fine avrebbero tratto qualche vantaggio. Così
recitava la teoria del trickle down. Che, come ogni dogmatica che si rispetti, non mancava
di avvalersi delle sue belle espressioni geometriche. In questo caso due eleganti curve,
quella di Laffer (professore in una business school negli anni Settanta) e quella di Kuznets
(studioso dello sviluppo economico e premio Nobel nel ’71).
La prima curva intendeva dimostrare che, oltre un certo tetto, la crescita dell’aliquota
fiscale determina una diminuzione del gettito. In altre parole se le tasse sono troppo
elevate gli alti redditi o evadono o incrociano le braccia, e lo Stato cessa di incassare. Su
quale sia, però, il punto di equilibrio oltre il quale la progressività fiscale diventerebbe
dannosa, la «scienza» non si arrischia a sentenziare. Anche perché la progressione è
relativa al rapporto con altre fasce di reddito, tutte con la loro soglia di insopportabilità
fiscale, oltre la quale l’inattività o il lavoro nero potrebbero rivelarsi una scelta conveniente,
soprattutto in società in cui il lavoro autonomo e precario tende a moltiplicarsi sempre di
più. Anche tassare eccessivamente i poveri può dunque comportare qualche problema per
le casse dello Stato. In ogni modo la teoria del «gocciolamento», nella sua rozzezza
apologetica, non teneva in nessun conto quel processo, ormai avanzatissimo, di
separazione della ricchezza da qualsivoglia contesto di sviluppo sociale che avrebbe dato
luogo al mondo parallelo e impermeabile dei circuiti finanziari, né la tendenza dei mercati a
concentrare e drenare, più che ad annaffiare gli strati più deboli della popolazione e la loro
capacità di consumo. Una visione gerarchica, quella del trickle-down, buona magari per
condizioni da ancien régime o per più recenti regimi clientelari, dove qualche elemosina
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effettivamente «sgocciolava», ma del tutto inapplicabile alla realtà del capitalismo
contemporaneo che la ha palesemente smentita.
La seconda curva, quella di Kuntzes ci rassicura invece sul fatto che nel corso dello
sviluppo il tasso di diseguaglianza (misurato dall’indice di Gini, il rapporto tra la ricchezza
del primo e dell’ultimo percentile) cresce solo in una prima fase, ma poi, raggiunto un
punto di massimo squilibrio, tende rapidamente a decrescere. Al culmine dell’ottimismo
progressista lo stesso andamento consolatorio verrà attribuito anche al degrado
ambientale che, in crescita nelle fasi iniziali dello sviluppo industriale, sarà poi
progressivamente ridotto da una innovazione tecnologica sempre più raffinata. Le analisi
ad ampio raggio di Piketty e i dati riportati da Revelli dimostrano, invece, che la
diseguaglianza continua a crescere a dismisura, tanto che il punto di «massimo squilibrio»
previsto dalla curva di Kuntzes potrebbe corrispondere a un grado di barbarie e di
oppressione dal quale non vi sarebbe ritorno se non nei termini di una rottura traumatica.
Eventualità di fronte alla quale i modelli matematici sono ridotti al silenzio. Ma intanto il
capitale «prende tempo».
Il problema è che la diseguaglianza, che «sgoccioli» o meno sui più sfavoriti, non è un
elemento oggettivo, un fattore neutro o un significato univoco. Ai vertici della gerarchia è
considerata un valore, alla sua base, almeno quella non accecata dalla fabbrica delle
illusioni, un male. Certo la storia della modernità impedisce di considerare la
diseguaglianza come un valore assoluto, di natura, per così dire, eugenetica, ma è anche
vero che nel corso dell’ultimo trentennio il valore delle ineguaglianze è diventato sempre
meno relativo, sempre più apertamente elogiato, avvalendosi anche del corso fallimentare
preso dalle esperienze «egualitarie» di Stato del Novecento. Di qui la coesistenza tra
retoriche politiche che denunciano la drammaticità degli squilibri economici e sociali e
pratiche politiche che tendono a conservarli, quando non ad accrescerli.
Di fronte a questo cupo scenario di devastante sconfitta dell’idea egualitaria, la «lotta di
classe» che conferisce il titolo al volume sembra scomparire del tutto al suo interno. Si
intende con questo che la «vittoria dei ricchi» coincide con la sua scomparsa? Che la fine
della storia non è solo ideologia dominante, ma anche un elemento di realtà? Tanto nel
libro di Piketty, quanto nella sintetica analisi di Revelli si ha l’impressione di assistere al
passaggio da una «Storia storica» a una «Storia inorganica», la quale nel descrivere
senza reticenze il mondo iniquo e devastato prodotto dalla controrivoluzione neoliberista,
ne proietta l’implosione verso un punto di «massimo squilibrio» in cui le contraddizioni di
sistema non saranno più controllabili, su una curva di Kuntzes che si arresta a metà,
smentendo l’ottimismo del suo ideatore. Laddove si produce, per dirla con Robert Kurtz, «il
collasso della modernizzazione», la catastrofe dell’economia di mercato. Se è vero che
per il capitale la vittoria nello scontro di classe consiste nel decretarne la scomparsa, nella
negazione del ruolo storico che esso ha svolto nello sviluppo delle società, è pur vero che
la sconfitta non può condurre la controparte alle medesime conclusioni. Che molte armi
del passato siano ormai spuntate è una circostanza difficile da negare, ma che spetti
ancora alla dimensione della lotta e non a un ravvedimento illuministico da parte del
potere imporre una inversione di rotta lo è altrettanto.
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ECONOMIA E LAVORO
del 09/12/14, pag. 2
Francia e Italia, sotto tiro
Anna Maria Merlo
Eurogruppo a Milano. In primavera nuovo esame per Roma e Parigi, che
rischiano multe per debito e deficit eccessivi. La Francia cerca di
calmare i toni, dopo le ingiunzioni di Merkel e la secca risposta di
Mélenchon: "Chiudi il becco, Frau Merkel". Mercoledì sarà presentata la
legge Macron sulle liberalizzazioni, dal lavoro la domenica fino a
licenziamenti facili.
La Francia cerca di calmare il gioco con Bruxelles – e la Germania – a due giorni dalla
presentazione in Consiglio dei ministri della legge Macron, un testo “prenditutto” sulla
“crescita e l’attività”, che si propone di liberalizzare su tutti i fronti, dalle professioni
regolamentate al lavoro la domenica fino alla facilità di licenziamento. Il governo non ha la
maggioranza, il Ps è spaccato, l’ala sinistra minaccia di votare contro: Valls rischia quindi
un “incidente” e di dover ricorrere al 49–3, cioè di dover chiedere la fiducia, per far passare
la riforma. Questa “riforma” dovrebbe servire per convincere Bruxelles e Berlino che la
Francia è “sulla buona strada”, alla pari del Jobs Act italiano. E’ questo il commento del
ministro delle finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, che ha cercato di correggere
l’intervento di Angela Merkel, domenica su Die Welt, dove la cancelliera ha ricordato che
gli sforzi di riforma di Italia e Francia “non sono ancora sufficienti”. Pochi giorni prima, il
commissario all’economia, il tedesco Günther Oettinger, aveva violentemente criticato la
Francia.
Ieri, l’Eurogruppo ha esaminato a Bruxelles i giudizi della Commissione sui bilanci dei 18
paesi della zona euro, resi noti a fine novembre dalla Commissione. Il testo del
comunicato finale è stato emendato rispetto a una prima stesura, più dura, per evitare di
irritare Parigi: sono suggerite “misure addizionali” da mettere in opera, ma l’Eurogruppo
evita di dare delle cifre (una sforzo strutturale “migliorato” fino allo 0,5% del pil per la
Francia). Il ministro delle finanze, Michel Sapin, ha affermato ieri che “il principale senso
del messaggio di Angela Merkel è che dobbiamo attuare le riforme, aspetta un passaggio
all’atto, nulla di più”. Per Sapin, “Merkel non pensa al 2012 o 2013, ma fa soprattutto
riferimento al 2003. Quando Parigi e Berlino non hanno rispettato il patto di stabilità, ma
poi la Germania si è riformata, mentre la Francia non lo ha fatto”. Sapin ha cercato di
riportare un po’ di calma, dopo che domenica Jean-Luc Mélenchon del Front de Gauche
ha risposto con un secco tweet all’intervista di Merkel a Die Welt: “Maul zu, Frau Merkel”
(chiudi il becco, signora Merkel). Sapin spera che, con la riforma Macron e grazie al
ribasso di petrolio e euro (rispetto al dollaro) i conti possano migliorare (ha annunciato la
settimana scorsa un deficit al 4,1% nel 2015, un po’ minore del 4,3% inizialmente
previsto). Ci sono poi i 600 milioni che Bruxelles dovrebbe restituire alla Francia, che
avrebbe versato troppo per il bilancio Ue del 2014. Macron ha persino messo in vendita il
49% dell’aeroporto di Tolosa – decisione che sta scatenando un putiferio – venduta a una
società cinese (in alleanza con dei canadesi che l’Fmi ha escluso dai mercati mondiali per
malversazioni): in tutto, 300 miseri milioni di euro. In altri termini: la Francia raschia i fondi
dei cassetti per trovare dei soldi ed evitare le “sanzioni” di Bruxelles. In ogni caso, Italia e
Francia avevano già ottenuto tre mesi di proroga, l’esame della Ue è rimandato alla
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prossima primavera e solo allora potranno esserci decisioni rispetto a eventuali multe per
deficit (Francia) o debito (Italia) eccessivi. La Commissione allenta un po’ l’applicazione
degli automatismi del Six Pack e del Two Pack, ma continuerà a lavorare ai fianchi Italia e
Francia, perché si pieghino ai diktat del Fiscal Compact. “Misure addizionali sono
necessarie” ha ribadito il presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem.
L’Eurogruppo di ieri ha anche rimandato una decisione sulla Grecia. Il “piano di aiuti” ad
Atene dovrà venire prolungato nella prima parte del 2015. Per versare l’ultima tranche di
1,8 miliardi di euro, la troika chiede nuovi “sforzi” alla Grecia (altri 2–3 miliardi di tagli al
bilancio). Una richiesta politicamente insostenibile. La Ue ha paura di Syriza, che sale nei
sondaggi.
Nessuna decisione neppure per la Tassa sulle transazioni finanziarie (Ttf), che avrebbe
dovuto tassare in 11 paesi (tra cui l’Italia) allo 0,1% le transazioni in azioni e allo 0,01 i
prodotti derivati. Ormai, la Ttf è quasi sotterrata e i 30 miliardi di euro promessi stanno
sfumando: le banche (in primo luogo le francesi) non la vogliono e non c’è più nessun
governo che si batta per la sua attuazione.
Del 9/12/2014, pag. 6
Eurogruppo all’Italia: “Maggiori sforzi”
Padoan: “Non ci chiede manovra extra”
I ministri confermano il rinvio a marzo del giudizio sul nostro Paese e su
Francia e Belgio. Berlino corregge il tiro: “Rispetto per le vostre
riforme”
ANDREA BONANNI
Italia, Francia e Belgio «devono prendere misure addizionali tempestivamente per
affrontare il ‘gap’ evidenziato della Commissione e rispettare l’appropriata convergenza
verso l’obiettivo di medio termine e il rispetto della regola del debito». Sono queste le
conclusioni dei ministri dell’Eurogruppo, che ieri a Bruxelles hanno convalidato la
decisione della Commissione di rinviare a marzo il giudizio sui tre Paesi che sono «a
rischio di non rispettare il Patto di Stabilità».
Al di là della formula generica, il giudizio su Italia e Francia è però abbastanza diverso. La
Francia, che si trova già da anni sotto procedura per deficit eccessivo, e rischia di essere
penalizzata con una multa molto salata, deve portare la correzione di bilancio dallo 0,3
attuale allo 0,8 per cento del Pil. Per questo l’Eurogruppo chiede chiaramente a Parigi di
adottare «misure aggiuntive per consentire un miglioramento dello sforzo strutturale».
L’Italia, che non è sotto procedura per deficit eccessivo ma rischia di entrarvi pur essendo
ancora lontana dalla minaccia di multe, presenta anch’essa uno scostamento tra la
correzione varata dal governo e quella chiesta dall’Europa. Ma tra Roma e Bruxelles c’è
una divergenza sulle cifre. L’eurogruppo ci chiede una correzione dello 0,5 per cento del
Pil, a fronte della quale la Commissione calcola che il governo nella Finanziaria abbia fatto
uno sforzo pari solo allo 0,1 per cento. Roma invece sostiene che la correzione di bilancio
già approvata è dello 0,3 per cento: la differenza rispetto all’obiettivo sarebbe dunque di
solo 0,2 punti percentuali. Questo spiega l’estrema prudenza usata dell’Eurogruppo, che
sollecita a Roma «misure efficaci che potrebbero essere necessarie per consentire un
miglioramento dello sforzo strutturale ».
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In altre parole, se le previsioni del Tesoro sulla finanziaria si rivelassero esatte, e se le
misure già adottate si dimostrassero ancora più «efficaci» del previsto, l’Italia potrebbe
evitare una nuova correzione di bilancio. In caso contrario, comunque, lo sforzo richiesto
per evitare l’apertura di una procedura di infrazione sarebbe dell’ordine dello 0,2-0,4 del
Pil. Mentre tra Roma e Bruxelles proseguono consultazioni febbrili, il commissario agli
affari economici Moscovici ha annunciato che a fine gennaio si farà nuovamente il punto
della situazione, poco prima delle previsioni economiche d’inverno.
Ieri il ministero dell’Economia ha commentato con soddisfazione le conclusioni
dell’Eurogruppo. «Dalle indicazioni dell’Eurogruppo non emerge nè l’esi- genza nè la
richiesta di una manovra finanziaria aggiuntiva, quanto piuttosto l’esigenza di accelerare
l’attuazione delle riforme strutturali con grande determinazione », ha detto il portavoce del
ministro. E lo stesso Padoan conferma: «nessuna richiesta di misure aggiuntive: la legge
di stabilità 2015 attuata in modo efficace rilancerà economia italiana ».
In realtà Bruxelles ha già concesso all’Italia uno sconto ben più sostanzioso rispetto allo
sforzo che il Patto di stabilità ci imporrebbe sulla riduzione del debito, con un taglio che si
aggirerebbe attorno al 2 per cento. Nel suo comunicato finale, infatti, l’Eurogruppo
«riconosce che le circostanze economiche sfavorevoli e l’inflazione molto bassa hanno
complicato il raggiungimento del target di riduzione del debito e il pieno rispetto della
regole del debito appare molto esigente a questo stadio». Tuttavia l’Europa avverte che
«l’alto livello del debito resta una causa di preoccupazione».
Ieri anche dalla Germania sono arrivati toni molto più concilianti, dopo l’intervista in cui la
cancelliera Merkel aveva definto «insufficienti» gli sforzi di risanamento dell’Italia e della
Francia. Entrando in Consiglio, il ministro tedesco delle Finanze, Schauble, ha
riconosciuto i progressi compiuti dal governo Renzi: «Se si guarda agli sforzi compiuti
nelle ultime settimane, l’Italia ha passato in Parlamento una importante riforma del
mercato del lavoro. Stiamo andando tutti nella giusta direzione e anche la stessa
Germania deve fare uno sforzo aggiuntivo».
Del 9/12/2014, pag. 6
Mancano all’appello 6-7 miliardi ma Roma
resta in trincea “Altre misure sarebbero
dannose”
ALBERTO D’ARGENIO
«Se pensano di aprirci la procedura sul debito poi saranno loro, e non noi, ad avere un
problema». La linea del governo italiano di fronte all’ennesimo richiamo dell’Unione sui
nostri conti pubblici è netta: «Non esiste, noi un’altra manovra non la facciamo, se la
scordino, aggraverebbe solo la situazione economica». Questo il pensiero espresso dai
più stretti collaboratori di Renzi, da coloro che sono in costante contatto con il premier. E
anche se c’è ottimismo sul fatto che alla fine, a marzo, Bruxelles non adotterà la linea dura
con Roma, a Palazzo Chigi si affilano le armi per l’eventuale scontro.
La dichiarazione sottoscritta dai ministri finanziari della zona euro è minacciosa.
Accolgono l’analisi della Commissione europea: l’Italia pur rimanendo sotto il 3% nel
rapporto tra deficit e Pil, non ha tagliato sufficientemente il disavanzo con ripercussioni sul
debito pubblico, che anziché calare continua a crescere, l’anno prossimo al 133,8%. Una
montagna che spaventa i partner Ue e che viola il Fiscal Compact. Non solo, anche
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l’Eurogruppo, come già la Commissione, non riconosce parte del risanamento messo in
campo dalla Legge di Stabilità: secondo il governo l’anno prossimo il deficit strutturale
scenderà dello 0,3%, secondo Bruxelles solo dello 0,1%. Questioni di complicatissime
metodologie di calcolo che non coincidono. Ma in ballo ci sono il debito che non scende e
tanti soldi, con Roma che per rispettare alla lettera le regole potrebbe essere costretta a
sborsare fino a 6-7 miliardi. Pena una procedura per il mancato rispetto della regola del
debito che imporrebbe al governo abbondanti dosi di austerity e potrebbe sfociare in
sanzioni pecuniarie. Per ora l’Italia prende tempo. Non a caso ieri Padoan dal chiuso
dell’Eurogruppo twittava: «Nessuna richiesta di misure aggiuntive, la Legge di Stabilità
2015 attuata in modo efficace rilancerà l’economia». Primo, per il Tesoro quando Bruxelles
rifarà i calcoli potrebbe avvicinarsi a quello 0,3% di aggiustamento previsto da Roma.
Secondo, anche se mancasse qualche decimale, a Via XX Settembre pensano che
l’accelerazione sulle riforme già decisa da Renzi potrebbe far crescere il Pil più dello 0,6%
previsto, migliorando automaticamente lo stato dei conti. Speranze che però difficilmente
si avvereranno in toto. E dunque a marzo probabilmente si andrà allo scontro, come già
avvenuto a ottobre e poi ancora a novembre con la decisione di Juncker di rinviare a
primavera. Dal Tesoro si limitano a osservare che «una manovra aggiuntiva sarebbe selfdefeating, peggiorerebbe l’economia ». Filippo Taddei, responsabile economico del Pd
molto ascoltato da Renzi, lo dice chia- ro e tondo: «Sarebbe del tutto inopportuno mettere
di nuovo mano al portafoglio nel 2015». Per ora la strategia contempla l’accelerazione
sull’attuazione delle riforme — come già annunciato da Renzi dopo il downgrade di
Standard and Poor’s — a partire dai decreti attuativi del Jobs Act. Sarà questa la carta che
Renzi e Padoan metteranno sul tavolo di Bruxelles, sperando di chiudere la partita grazie
all’avanzamento delle riforme. In caso contrario, se la Commissione si impuntasse sui
decimali, sarà scontro. Con il premier pronto ad alzare i toni, come d’altra parte ha già
fatto negli ultimi vertici europei quando in roventi bilaterali con Barroso e Van Rompuy —
ora sostituiti da Juncker e Tusk alla guida della Commissione e del Consiglio — non ha
esitato a minacciare pesantissime ritorsioni contro l’Europa se i conti italiani fossero stati
commissariati con successive richieste di manovre monstre. Argomenti che il premier, se
necessario, è pronto a usare ancora con i capi delle istituzioni Ue e con la stessa Angela
Merkel, che vedrà a quattr’occhi a fine gennaio a Firenze. Alla fine la scelta sarà politica e
l’Italia porrà l’Unione e la Germania di fronte a questa scelta: «Volete aprirci una
procedura rischiando di far saltare tutto per qualche decimale?». In altri tempi, quando
l’austerità regnava a Bruxelles, la strategia sarebbe stata perdente: oggi invece, con la
rotta che sta lentamente cambiando, la partita è aperta.
del 09/12/14, pag. 3
Ocse: «La crisi mette a rischio la tenuta del
sistema previdenziale»
Ro. Ci.
Pensioni. Ancora una richiesta di riforma del sistema: "Aumentate l'età
pensionabile e le tasse sui redditi da pensione"
La superiorità della spesa previdenziale rispetto a quelle degli altri Stati europei è sempre
stata indicata come l’anomalia del welfare italiano. Su questo sentiero procede, ancora
una volta, il pensions outlook 2014 dell’Ocse secondo il quale l’Italia è al primo posto tra i
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paesi industrializzati per l’incidenza delle pensioni sulle casse statali (il 32%), anche se le
ultime riforme favoriscono la sostenibilità finanziaria del sistema.
Per invertire la tendenza la ricetta è sempre la stessa: aumentare le tasse sui redditi dei
pensionati (secondo l’Istat il 41% non supera i mille euro e non riesce ad arrivare alla fine
del mese) e aumentare l’età pensionabile effettiva. Nonostante la riforma Fornero, e i suoi
errori catastrofici (vedi gli esodati), l’età media di chi va in pensione in Italia continua a
essere bassa: 61,1 anni per gli uomini, 60,5 per le donne, rispetto alla media Ocse
rispettivamente del 64,2 e del 63,2 per cento. C’è poi l’invito a aumentare il tasso di
partecipazione al mondo del lavoro degli ultra 55enni, che in Italia è aumentato seguendo i
ritmi europei. «Aumentare l’età effettiva di pensionamento è una delle riforme che può
aiutare i paesi in tempo di crisi, ma sono necessari maggiori sforzi per assistere i lavoratori
anziani a trovare e mantenere posti di lavoro». Immancabile è l’appello al ricorso alla
previdenza integrativa che è aumentata tra i dipendenti dal 2007, coinvolgendo nei paesi
Ocse 12,2 milioni di persone.
Il primato italiano nei paesi industriali, in realtà, non è tale da far scattare l’allarme rosso.
Lo ammette persino l’Ocse che nel report diffuso ieri ha registrato la crescente sostenibilità
del sistema italiano. Le percentuali sono infatti ben diverse: nel 2013 lo Stato ha speso
272,7 miliardi in trattamenti previdenziali. Unico paese dell’area Ocse l’Italia include in
questa spesa il pagamento del Tfr, pari all’1,7% del Pil, e quello per i prepensionamenti
che in realtà sono ammortizzatori sociali. La spesa pensionistica reale sarebbe dunque
inferiore rispetto a quella registrata nel report. La sua incidenza sul Pil scenderebbe al di
sotto della media europea (che è del 15,2% nell’UE a 15, del 15% nell’UE a 27), come ha
dimostrato il rapporto sullo Stato sociale 2013 curato da Roberto Felice Pizzuti.
Nel 2015 la spesa pensionistica italiana arriverà al 14,9% del Pil. Per il futuro, il rapporto si
collocherà a un livello del 16% nel quadriennio 2012–2015 per stabilizzarsi al 15,7% entro
il 2050. Valori in linea con gli altri paesi, se non inferiori. Anche quest’anno l’Ocse pone il
problema della sostenibilità del sistema per quanto riguarda i giovani, sempre più precari e
impossibilitati ad entrare nel «mercato del lavoro». Quello che nel frattempo avranno
versato non servirà a garantirgli una pensione. Questa è la contraddizione drammatica in
cui sopravvivono i sistemi pensionistici. Ai governi viene consigliato di promuovere
«campagne di sensibilizzazione per ricostruire la fiducia nei giovani».
Per garantire loro una tutela bisogna nuovamente riformare le pensioni. Non nel senso di
ricostruire un principio di giustizia sociale, e di inclusione, ma per allungare l’età
pensionabile e le tasse a chi una pensione ce l’ha già. La contraddizione verrà aggravata
dalla crisi: l’allungamento dell’età pensionabile non amplierà l’occupazione nella
popolazione in età attiva dato che la crescita continuerà a restare «anemica», la precarietà
diffusa e di massa. Senza contare che questo sistema non garantisce un reddito dignitoso
a chi, nonostante tutto, è riuscito ad andare in pensione.
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