RASSEGNA STAMPA martedì 9 dicembre 2014 L’ARCI SUI MEDIA INTERESSE ASSOCIAZIONE ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA RAZZISMO E IMMIGRAZIONE SOCIETA’ BENI COMUNI/AMBIENTE INFORMAZIONE CULTURA E SCUOLA ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO IL MANIFESTO AVVENIRE IL FATTO PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA Da Corriere.it del 09/12/14 Giornata dei diritti umani, il parlamento italiano s’impegni contro la tortura di Riccardo Noury Domani, mercoledì 10 dicembre, Giornata internazionale dei diritti umani, saranno trascorsi 30 anni dall’adozione della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura: universalmente ratificata e quasi altrettanto universalmente tradita, come confermano i dati di Amnesty International, che tra il 2009 e il 2014 ha registrato torture e altri maltrattamenti in 141 paesi. Da oltre un quarto di secolo l’Italia ha l’obbligo, avendo ratificato la Convenzione, di dotarsi di una legge che preveda e punisca il reato di tortura. Per 25 anni, i numerosi tentativi di introdurre il reato di tortura nel codice penale (nella foto, una raccolta di firme del 2004) sono stati bloccati da maggioranze parlamentari trasversali, coalizzate intorno a un’asserita difesa dell’operato e della reputazione delle forze di polizia, come se la sola previsione di tale reato – previsto nelle leggi di molte decine di paesi nel mondo – associasse lo stigma della tortura all’intera categoria di pubblici ufficiali. E invece, come ricordano in una lettera aperta al parlamento Enrica Bartesaghi e Lorenzo Guadagnucci, promotori 13 anni fa del Comitato verità e giustizia per Genova, “il reato di tor-tura, in ogni paese demo-cra-tico, è uno stru-mento for-ma-tivo, un punto di rife-ri-mento morale per chi lavora nelle forze dell’ordine. (…) Solo una men-ta-lità distorta, una cul-tura demo-cra-tica debole e invo-luta, può inter-pre-tare l’introduzione del reato di tor-tura come un attacco alle forze dell’ordine. È semmai vero il contrario: le forze dell’ordine saranno tanto più affidabili e credibili, agli occhi dei cittadini, in quanto responsabili e trasparenti nell’ambito di una normativa allineata ai migliori esempi normativi in campo internazionale”. Approvato al Senato il 5 marzo, il disegno di legge sul reato di tortura si trova ora alla Camera. È un testo che, secondo le organizzazioni per i diritti umani, può e dev’essere migliorato. La tortura non è qualificata come reato proprio bensì come reato comune, con l’aggravante nel caso in cui l’autore sia un pubblico ufficiale. Inoltre, il testo non prevede la perseguibilità delle condotte omissive e non contempla un fondo nazionale per le vittime della tortura. Inoltre, l’espressione “atti di violenza” potrebbe dar luogo a interpretazioni secondo le quali la tortura, perché sia qualificata tale, debba essere reiterata in più azioni. Qualcosa già accaduto nel 2004. Domattina alle 10 alla Camera dei Deputati, Amnesty International, Antigone, Arci, Cild e Cittadinanzattiva manifesteranno con un minuto di silenzio alla Camera per chiedere l’approvazione della legge. All’iniziativa, cui hanno aderito numerose organizzazioni e diversi artisti (tra cui Erri De Luca, Massimo Carlotto, Piero Pelù e Alessandro Gassmann), prenderanno parte i parlamentari Anna Rossomando, Daniele Farina, Giulia Sarti, Vittorio Ferraresi, Paolo Beni, Bruno Molea, Luigi Manconi, Gennaro Migliore, Davide Mattiello. Il minuto di silenzio verrà osservato anche in altre città italiane durante iniziative pubbliche. Nell’occasione, Amnesty International Italia effettuerà la consegna di 20.000 firme raccolte da maggio nell’ambito della campagna “Stop alla tortura” e dirette al presidente del 2 Consiglio e ai presidenti di Camera e Senato per chiedere l’introduzione del reato di tortura nel codice penale. http://lepersoneeladignita.corriere.it/2014/12/09/giornata-dei-diritti-umani-il-parlamentoitaliano-simpegni-contro-la-tortura/ Da AgoraMagazine del 05/12/14 Roma / “In silenzio contro la Tortura” ROMA - Le associazioni Cittadinanzattiva, Antigone, Amnesty International ed Arci promuovono, in occasione della Giornata internazionale dei diritti umani, un’iniziativa dal titolo “In silenzio contro la tortura” per chiedere una legge per l’introduzione del reato di tortura. Il 10 dicembre si svolgerà una conferenza stampa alla Camera a cui sono stati invitati i deputati della Commissione Giustizia e tante altre associazioni e verrà osservato un minuto di silenzio. La testata ha dedicato all’argomento una nota, pubblicata sotto il titolo “26 giugno Giornata Mondiale di Solidarietà alle Vittime della Tortura”, nell’edizione del 26 giugno 2011, letta da 1172 internauti, tuttora consultabile al link http://www.agoramagazine.it/agora/26-giugno-Giornata-Mondiale-di. Da Lettera43.it del 08/12/14 NOTE POSITIVE Rifugiati, i centri di accoglienza da imitare Gli immigrati vivono in condizioni dignitose. Seguono corsi di formazione. Fanno volontariato. Da Breno a Todi: dove l'integrazione è riuscita. di Rossana Caviglioli Ci sono zone in Italia, leggasi Tor Sapienza, in cui gli abitanti si adoperano, e scendono in piazza, affinché i centri di accoglienza chiudano. I residenti vedono i rifugiati come invasori e reagiscono di conseguenza. A Roma gli immigrati sono diventati persino un business, come ha rivelato la recente inchiesta Mafia Capitale. Gli ultimi sciagurati su cui lucrare senza remore. Sono realtà che indignano, che fanno pensare che in Italia non ci sia posto per l'ospitalità. Ma il nostro Paese è ricco di esempi di integrazione riuscita, dove richiedenti asilo e residenti convivono senza attriti. ESEMPI DI ECCELLENZA. Uno dei progetti d'eccellenza è a Breno, piccolo paesino della Val Camonica. La struttura, gestita dalla Cooperativa K-Pax, ospita 45 persone, che durante la permanenza imparano un mestiere e seguono corsi di italiano. A Todi i ragazzi possono addirittura partecipare alla produzione di un vino bianco Doc, il Grechetto, e di un rosso Merlot-Sangiovese. È il Progetto Asylon, nato dalla la collaborazione tra Caritas Umbria e Istituto Agrario con il patrocinio dell'Alto Commissariato Onu per i Rifugiati e il sostegno di Libera. «IL SEGRETO? VIVONO IN CONDIZIONI UMANE». «I casi di successo ci sono e sono molti. Tra i progetti gestiti da noi posso citare quello dei 'Girasoli' di Mazzarino, in provincia di Caltanissetta, che ospita una ventina di adolescenti. Oppure Lecce, Rieti, Viterbo, 3 Monterotondo», spiega Valentina Itri, coordinatrice del Numero Verde dell'immigrazione dell'Arci. «Hanno tutti in comune due cose: le persone non vivono ammassate ma in appartamenti, in piccoli gruppi. E possono accedere a corsi di italiano o di formazione, tenuti spesso da persone in grado di parlare la loro lingua madre». 28 MILA DOMANDE D'ASILO IN SEI MESI. Il problema è proprio quello: cercare di riportare a una dimensione umana il flusso di migranti in continuo aumento. Secondo Eurostat nel 2012 le domande di asilo sono state circa 17 mila, nel 2013 quasi 28 mila e solo nei primi sei mesi del 2014 ne sono arrivate almeno altrettante. Una condizione che comunque riguarda solo di una minoranza di chi arriva sulle nostre coste: il Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati (Sprar) si occupa solo di chi non può tornare nel proprio Paese perché perseguitati per motivi di razza, religione, nazionalità, orientamento sessuale o opinioni politiche. LA GERMANIA HA 10 VOLTE I NOSTRI RIFUGIATI. Il numero di rifugiati in Italia, anche se elevato (65 mila nel 2012), è più basso di quello quello della Germania, che ne ha quasi 10 volte tanto, Francia, Regno Unito, Svezia e Paesi Bassi. Da noi a complicare la situazione sono la crisi economica e un sistema di accoglienza poco organico, che rischia di andare in tilt a ogni nuovo sbarco. Per permettere ai richiedenti asilo di vivere in condizioni dignitose, i posto letto garantiti dallo Sprar sono sono stati portati di recente da 3 mila a circa 19 mila e da poco più di un centinato a 3 mila nella sola Roma. L'importante è evitare la ghettizzazione Concentrare più di poche decine di persone in una sola struttura, soprattutto se collocata in una zona periferica già problematica (come è successo a Tor Sapienza), vuol dire, secondo l'Arci, partire col piede sbagliato. Silvia, operatrice della Cooperativa K-Pax, è d'accordo. «I nostri ospiti abitano in piccoli appartamenti, in modo che non si crei un ghetto, e vivono una vita autonoma. Tutti partecipano al corso di italiano e tutti sono impegnati in qualche attività di formazione o di volontariato. E i risultati si vedono». I richiedenti asilo, nei mesi di attesa prima che la loro pratica venga esaminata, non possono allontanarsi né accedere a un lavoro retribuito. Una condizione che può portare rapidamente all'esasperazione. A Breno, come alternativa, K-Pax offre corsi di formazione, dalla lavorazione della pelle, alla cura del verde alla posa di laminati e parquet. E c'è anche un laboratorio teatrale interculturale. «BISOGNA PARLARE ALLA POPOLAZIONE». Problemi con la popolazione locale? «Qualche episodio di intolleranza c'è stato, ma decisamente isolato», continua Silvia. «Ha aiutato anche il grosso lavoro di comunicazione: se spieghi a chi vive sul territorio chi sono i ragazzi che ospitiamo e perché sono arrivati fin qui, l'atteggiamento cambia. Non sono più corpi estranei ma persone». Solo in pochi, comunque, ottenuto lo status di rifugiato, si fermano nella valle. Per molti l'idea fissa è quella di arrivare in Germania o in Svezia, anche se per legge potrebbero farlo solo dopo cinque anni dal riconoscimento. «Il ragionamento è: meglio una vita da clandestino in Germania che una da rifugiato qui. E ciò dice molto della loro condizione». A TODI IL PROGETTO SI AUTOFINANZIA. A Todi è il progetto stesso ad autofinanziarsi: i proventi della vendita del vino Asylon, riconosciuto come eccellente dal ministero dell'Agricoltura e dall'Assoenologi, vengono usati per i corsi di formazione dell'anno successivo. «Siamo partiti nel 2011 con una dozzina di ragazzi, a cui abbiamo offerto dei corsi di formazione dedicati all'interno della nostra fattoria educativa e della cantina sperimentale», spiega Gilberto Santucci, responsabile della fattoria didattica dell’Istituto Agrario Ciuffelli. «Da allora offriamo agli ospiti dello Sprar la possibilità di frequentare corsi 4 semestrali di coltivazione, potatura, produzione vinicola alla fine dei quali si ottiene un attestato». «NON CE L'HANNO CON TE, È LA BUROCRAZIA ITALIANA». Anche qui, in piena campagna umbra, i richiedenti asilo si mescolano senza problemi agli abitanti e agli studenti. L'ostacolo maggiore è la frustrazione dovuta alla lunga attesa prima di ottenere lo status di rifugiato. «Molti dei miei allievi la prendono sul personale, come se fosse uno sgarbo diretto a loro in quanto stranieri», spiega Santucci. «E ogni volta devo rispondere: 'Stai tranquillo, non ce l'hanno con te, te l'assicuro. È semplicemente la burocrazia italiana'». http://www.lettera43.it/fatti/rifugiati-i-centri-di-accoglienza-da-imitare_43675150164.htm Da Repubblica.it (Napoli) del 08/12/14 Cinema Pierrot di Ponticelli, social card cinematografica per i 25 anni del Cineforum Arci Movie di ANNA LAURA DE ROSA Parte l'11 dicembre con un po' di ritardo la 25esima edizione del Cineforum Arci Movie al Cinema Pierrot di Ponticelli che, dopo aver rischiato la chiusura nel 1990, è riuscito a vincere anche la sfida del digitale adeguandosi alle moderne tecnologie. Per festeggiare la resistenza e le nozze d'argento, il cineforum che conta oltre mille soci lancia un'iniziativa sociale: con una card di 30 euro si potranno vedere 25 film da scegliere tra le proposte del Cineforum tradizionale, (giovedì e venerdì con doppia proiezione alle 18 e alle 21), e la rassegna "I lunedì dei Festival" (ogni lunedì alle 21), ovvero una selezione delle migliori pellicole e documentari selezionati dai migliori festival di settore di tutto il mondo. La card dà diritto inoltre alla Tessera Arci Nazionale, al prestito gratuito di oltre seimila titoli raccolti nella Mediateca "Il Monello", alla partecipazione agli eventi e alle attività sociali. L'11 dicembre si inizia con "... E fuori nevica" di Vincenzo Salemme, invitato alla proiezione. Il 25esimo anniversario del Cineforum "testimonia un progetto vero che con passione e determinazione continua a vivere tra mille avversità su un territorio difficile dicono i responsabili - Lo slogan di Arci Movie (La passione del cinema per costruire cultura e solidarietà) si rinnova con queste nozze d'argento che saranno celebrate durante tutto il 2015 con l'ordinaria programmazione e tanti eventi speciali. "Da ormai un quarto di secolo - aggiunge il presidente dell'Associazione Arci Movie Roberto D'Avascio proponiamo con forza una rassegna popolare ed impegnata al cinema Pierrot, che si pone ancora come punto di aggregazione sociale, modello di resistenza civile e culturale e veicolo efficace di promozione del cinema in una parte della città spesso abbandonata e soprattutto senza sale cinematografiche". Scorrendo la programmazione, il 18 e 19 dicembre entrerà in sala "Colpa delle stelle" di Josh Boone, il film campione d'incassi di questa stagione tratto dal romanzo best seller di John Green. Proiezione speciale durante le festività natalizie, domenica 27 dicembre, con il maestro e amico storico di Arci Movie, Mario Martone, che verrà a presentare il suo ultimo lavoro "Il Giovane favoloso" sulla vita di Giacomo Leopardi. A gennaio 2015 le proiezioni riprenderanno l'8 e il 9 con Egoyan di "Fino a prova contraria" e ancora, accontentando un pubblico eterogeneo, "In ordine di sparizione" e "La spia - A most wanted man". Per celebrare la Giornata della memoria, a fine gennaio, Roberto 5 Faenza accompagnerà in sala il suo "Anita B". Subito dopo si tornerà a ridere con la nuova commedia di Alessandro Genovesi "Soap opera" e a godere del vero cinema d'essay con "Ritorno a l'Avana" di Laurent Cantet. Cantet, già a Napoli per la nota rassegna "Venezia a Napoli" di settembre, torna, questa volta, esclusivamente per il pubblico della periferia, il 5 e il 6 febbraio. Sempre a febbraio (il 19 e 20) arriveranno i Manetti Bros per "Song 'e Napule", ancora richiestissimo dal pubblico. Tradizione del Cineforum Arci Movie è infine celebrare la Giornata della donna nel mese di marzo con proiezioni dedicate. Ogni settimana quindi, fino ad aprile, un film. Tra gli atri titoli: "Tutto può cambiare" di John Carney; Alabama Monroe - Una storia d'amore del fiammingo Felix Van Groeningen, nominato agli Oscar 2014 come miglior film straniero; e ancora "Trash" di Stephen Daldry, "Confusi e felici" di Massimiliano Bruno, "Una promessa" di Patrice Leconte. Le pellicole delle ultime 4 date invece saranno scelte dal pubblico in sala. http://napoli.repubblica.it/cronaca/2014/12/08/news/pierrot-102429812/ Da Vita.it del 09/12/14 Giuseppe Di Francesco nuovo presidente Fairtrade Italia di Redazione L'elezione del nuovo presidente del Consorzio del Commercio equo certificato a seguito delle dimissioni presentate dal predecessore Andrea Nicolello-Rossi. L'anno per il commercio equo si chiude con un +20%. Buone le prospettive anche per il 2015 È Giuseppe Di Francesco il nuovo presidente di Fairtrade Italia. La sua elezione a inizio dicembre. Il Consiglio di Amministrazione del Consorzio ha accolto le dimissioni rassegnate nelle scorse settimane da Andrea Nicolello-Rossi sia per la carica di presidente che di Consigliere di Amministrazione, dovute a sopraggiunti impegni personali e professionali, ed eletto il nuovo vertice. Giuseppe Di Francesco, già consigliere in Fairtrade Italia, dirige l’Ufficio Amministrazione della Direzione Nazionale di Arci e dal 2013 siede nel Consiglio di Amministrazione di Banca Etica. La notizia del cambio di vertice arriva a conclusione di un anno molto positivo per il Consorzio, che, in linea con il trend degli ultimi semestri, registra una significativa crescita. Solo nei primi nove mesi del 2014 il valore del venduto dei prodotti del commercio equo certificato ha registrato un aumento del 20%. In una nota di FairTrade si sottolinea come anche le prospettive per il 2015 sono molto interessanti, anno che si preannuncia ricco di attività ed iniziative, specialmente in relazione alla presenza di Fairtrade in Expo2015 come organizzazione della società civile. http://www.vita.it/economia/green-economy/giuseppe-di-francesco-nuovo-presidentefairtrade.html 6 INTERESSE ASSOCIAZIONE del 09/12/14, pag. 15 Parigi-Ustica. Il controprocesso Alessia Magliacane Le recenti aperture del governo francese in favore di una cooperazione giudiziaria con i magistrati italiani sugli eventi che occuparono il cielo di Ustica il 27 giugno 1980 (…) hanno spinto alla costituzione di un comitato per l’accertamento della verità che avesse sede anche a Parigi. Devo qui sottolineare, tuttavia, non soltanto le specificità del comitato parigino, che ovviamente si propone di seguire da vicino le nuove indagini e le reazioni politiche, eventualmente recepite e rilanciate dall’opinione pubblica francese (in fondo si tratta pur sempre di un’operazione di guerra finita in strage per un missile lanciato da un caccia francese e che intendeva, almeno stando alle prime ricostruzioni da verificare, abbattere il presidente o il capo di stato maggiore di un governo strategico nell’area mediterranea, quello libico), ma anche le ragioni di discontinuità con molte analisi che hanno caratterizzato l’impianto politico-ideologico riferito ai fatti di Ustica per 35 anni. Non si tratta, infatti, del solo accertamento della verità, per quanto arduo e scioccante possa essere. Si tratta piuttosto di comprendere finalmente il ruolo dell’Italia, dagli apparati di stato militari ai partiti politici all’opinione pubblica diffusa, evidenziandone una strategia che dall’asservimento atlantico e dalla tolleranza del più grande partito comunista europeo sia fluidamente scivolata verso una privazione progressiva di diritti e garanzie, fondo ideologico e culturale del ritiro irreversibile dello stato dalle sue funzioni democratiche e rappresentative, tentando ovviamente di cogliere (proprio in eventi come quelli di Ustica o di Bologna) la matrice politica dei processi dell’Italia e dell’Europa di oggi. È un compito certo più che ambizioso, lo ammettiamo, ma anche necessario! La verità giudiziaria, così difficilmente raggiungibile, è soltanto una parte minima dei processi che riguardano una molteplicità ancora indistinta di attori (politici, militari, giudiziari, tecnici e burocratici), ai quali bisogna aggiungere i protagonisti non tanto occulti dei depistaggi e delle complicità: da chi abbia soltanto strappato un foglio in un registro, a chi ha manomesso i freni di una vettura o un citofono, a chi abbia alterato la scaletta delle notizie, fino a chi abbia colpevolmente limitato all’ambigua formula di «servizi deviati» una serie di protagonisti così tanto simili al nostro mite vicino di casa. In altri tempi, epoche ben più ricche e promettenti di questa, si sarebbe parlato, almeno per fatti così tragici e gravi, di fare un controprocesso! * l’autrice è la segretaria del comitato Ustica Parigi 7 ESTERI del 09/12/14, pag. 7 Coreografie della disobbedienza americana Giulia D'Agnolo Vallan Stati uniti. Non si placano le proteste per gli omicidi «razziali» e impuniti della polizia. Scontri a Berkeley e Oakland. A New York happening curati nei minimi dettagli che creano disagi senza ricorrere alla violenza. Il sindaco De Blasio: «Il problema esiste ed è nazionale» Sono continuate durante il week end le proteste esplose in molte città d’America in seguito ai verdetti sugli omicidi di Michael Brown e Eric Garner. Ancora essenzialmente pacifiche a New York, dove il pubblico ministero di Brooklyn Kenneth Thompson ha annunciato venerdì la formazione di un gran jury che dovrà decidere se incriminare o meno il poliziotto che ha ucciso Akrai Gurley – un altro afroamericano abbattuto senza ragione nelle scale di casa sua, e seppellito prima del week end. Meno pacifiche a Berkeley e Oakland che, come Ferguson due settimane fa, hanno visto, per la seconda notte consecutiva, violenti scontri tra parte dei manifestanti e le forze dell’ordine. Mentre nelle due città della California settentrionale (Oakland è stata a sua volta teatro, nel 2009, di un altro inspiegabile omicidio compiuto dalla polizia ai danni di un afroamericano, Oscar Grant, rivisitato l’anno scorso nel film Fruitvale) la polizia è ricorsa a lacrimogeni, manganelli e ci sono stati dei feriti, le manifestazioni a New York si sono svolte senza grossi contrasti. Le più spettacolari ed efficaci, sotto forma di die-ins, effettuati all’interno del grande magazzino Macy’s, nell’Apple Store sulla Quinta strada e nell’atrio della Grand Central Station. Strutturati come happening estemporanei in vari punti della città, sono gesti di disobbedienza civile coreografati con attenzione, che creano disturbo ma non durano abbastanza a lungo perché la polizia si senta in dovere di intervenire con la forza. Una lezione questa imparata in seguito alla convention repubblicana del 2004 durante la quale – sotto indicazione dell’amministrazione Bloomberg– gli uomini in blu avevano effettuato arresti di massa, in gran parte “preventivi”, molti dei quali ancora oggi oggetto di cause legali. Meno ostile ai manifestanti del suo predecessore, ma anche molto attento a non “antagonizzare” troppo la polizia, Bill de Blasio è apparso sui talk show nazionali nel week end. Interrogato su cosa pensava della decisione del gran jury riguardo alla morte di Eric Garner, il sindaco si è trincerato dietro a un ambiguo «rispetto per la procedura». Ma ha contrattaccato le accuse di Rudolph Giuliani: se nel giro di pochi giorni incidenti del genere si verificano a New York, Phoenix, Cleveland e Ferguson il problema esiste, ed è di tutto il paese. Non ci sono dubbi che le ultime parole di Eric Garner, I can’t breath, non posso respirare, siano diventate un lamento nazionale, e un lamento che oltre ai canti e ai cartelli delle manifestazioni – nel corso del week end — è apparso anche sulle magliette di alcuni giocatori della NFL e della NBL. Sono entrati nel discorso nazionale, anche la possibilità di istituire telecamere obbligatorie per i poliziotti (ma nemmeno un video esplicito ha aiutato a incriminare gli agenti che hanno ucciso Eric Garner) e la fallibilità di una procedura giudiziaria che coinvolge un corpo teoricamente indipendente come il gran jury, ma che – di fronte alla scelta se incriminare un poliziotto o meno — non produce quasi mai un verdetto a favore. 8 Uno dei rari casi in cui la polizia è stata perseguita criminalmente con successo si è verificato qui a New York, nel 1997, quando il trentenne haitiano Abner Louima, che stava cercando di interrompere una lite scoppiata di fronte a un night club di Brooklyn, è stato arrestato, picchiato selvaggiamente e sodomizzato da alcuni poliziotti. In quell’occasione 7.000 persone avevano marciato sul ponte di Brooklyn, dirette a City Hall. Uno dei cinque agenti coinvolti nell’attacco sta ssontando una sentenza di 30 anni, l’altro di 15. Il pubblico ministero incaricato del caso era Loretta Lynch, che Barack Obama ha appena nominato per sostituire il ministro della giustizia Eric Holder. Louima, che è sopravvissuto alla barbarie dei poliziotti e adesso vive in Florida, ha dato voce ai suoi pensieri su Ferguson e New York, attraverso la scrittrice haitiana Edwige Danticat, nelle pagine del settimanale New Yorker: «Come è possibile che così poco sia cambiato in tutti questi anni? Quello che sta succedendo mi ricorda che le nostre vite continuano a non valere nulla». Intanto, non ci sono segni che l’indignazione provocata nell’intero paese dai casi Brown e Garner possa fermarsi. È prevista per sabato 13 una grande marcia in parecchie città. Ma il centro nevralgico sarà a Washington, dove anche ieri mattina, gruppi di manifestanti protestavano di fronte alla sede del Congresso. Eventi di disobbedienza civile — secondo il modello sparso, non strutturato verticalmente e polifonico di Occupy -, focus group che prendono di mira pratiche precise della polizia come quella delle broken windows, opportunità di addestramento ai die ins e affini sono previsti ovunque. del 09/12/14, pag. 16 Torture Cia, il rapporto che fa paura Oggi il dossier sugli interrogatori dei terroristi di Al Qaeda. Bush si schiera con gli 007 Allerta del Pentagono per possibili attentati. Mobilitati 6 mila marines, anche a Sigonella DAL NOSTRO INVIATO NEW YORK Sedi diplomatiche e unità militari americane messe in stato di massima allerta in tutto il mondo, soprattutto nei Paesi più esposti al terrorismo (6.000 i marines mobilitati, anche Sigonella in allarme), alla vigilia della pubblicazione del rapporto del Senato sull’uso di metodi non convenzionali (cioè forme di tortura) in alcuni interrogatori della Cia dopo le stragi dell’11 settembre 2001. Una volta insediatosi alla Casa Bianca, Barack Obama chiese all’intelligence di non usare più il waterboarding (annegamento simulato) e altre tecniche proibite per estorcere confessioni nell’interrogatorio di sospetti terroristi. Ma non denunciò l’operato del suo predecessore né aprì inchieste. Un’indagine è stata però condotta dalla Commissione di controllo dei servizi segreti del Senato che ha redatto già da mesi un rapporto segreto assai voluminoso: ben 6.300 pagine. Una sintesi di 480 pagine dovrebbe essere resa nota oggi, ma ieri sono state esercitate forti pressione sul presidente del comitato, la senatrice democratica Diane Feinstein, per un ulteriore rinvio della pubblicazione. Un atto che, secondo i repubblicani e anche molti esperti militari, verrà usato da gruppi estremisti per incitare alla violenza contro bersagli americani nel mondo. Il rapporto — sottoscritto solo dalla maggioranza democratica uscente del Senato dove tra 20 giorni si insedierà la nuova assemblea a maggioranza repubblicana — contiene una critica serrata delle tecniche di interrogatori «non convenzionali» usate prima del 2009. Secondo numerose indiscrezioni che hanno cominciato a circolare fin dal marzo scorso, nei suoi interrogatori la Cia avrebbe usato sistemi che sconfinano nella tortura più spesso 9 di quanto fin qui ammesso e senza ottenere risultati significativi dal punto di vista dell’acquisizione di informazioni davvero essenziali per l’attività di intelligence. E avrebbe anche «depistato» il potere politico minimizzando il peso di questi interventi nelle informative fornite al governo e al Parlamento. Il risultato è mettere con le spalle al muro un’Agenzia federale di spionaggio che si è sempre difesa sostenendo di aver informato l’autorità politica e di aver usato tecniche «non convenzionali» solo quando indispensabili per ottenere informazioni che, secondo la Cia, hanno consentito di salvare migliaia di vite umane. Il documento nega che le cose siano andate in questo modo. Ma per i repubblicani, che al Senato si preparerebbero a divulgare un contro-rapporto di minoranza, renderlo noto nel clima attuale è versare benzina sul fuoco. Mike Rogers, presidente della Commissione Intelligence della Camera, ha detto che la sua pubblicazione «porterà violenze e morte». La situazione è tesa e confusa anche perché il tentativo di mettere la presidenza Bush al riparo dalle conseguenze del rapporto, dando tutte le responsabilità alla Cia, è fallito per iniziativa dello stesso ex presidente: messo a conoscenza dei contenuti del documento, George Bush ha detto di condividere tutto quello che è stato fatto dagli uomini del servizio segreto (definiti campioni di patriottismo) per difendere l’America. Obama sembra aver dato comunque via libera alla pubblicazione del rapporto, anche se dal governo potrebbero essere venute indicazioni contrastanti: ieri il suo portavoce Josh Earnest ha detto che da mesi militari e ambasciate si preparano all’evenienza di attacchi dopo la pubblicazione del documento che, evidentemente, viene considerato un atto di trasparenza non più rinviabile. Ma solo venerdì scorso il Segretario di Stato John Kerry avrebbe avvertito la Feinstein che con la sua decisione esporrà a rappresaglie molti americani in giro per il mondo. Ora la senatrice è sola con la sua coscienza. Massimo Gaggi del 09/12/14, pag. 7 Sei detenuti di Guantanamo accolti come rifugiati in Uruguay Geraldina Colotti Americhe. Pepe Mujica a Obama: «Diciamo sì perché siamo contro i sequestri di Stato» Quattro siriani, un tunisino e un palestinese. Sei prigionieri di Guantanamo sono in Uruguay da domenica scorsa come rifugiati. Hanno vissuto nel campo di concentramento statunitense da dodici anni, dal 2002. Una prigione di «Massima sicurezza» — a solo un anno dall’attentato alle Torri gemelle per il quale scattò la guerra di vendetta all’Afghanistan — aperta l’11 gennaio di quell’anno dall’amministrazione Bush all’interno della base navale che si trova sull’isola di Cuba, finalizzata a rinchiudere i «combattenti nemici» catturati in Afghanistan e sospettati di attività eversive. I sei sono stati arrestati come appartenenti alla galassia di al-Qaeda, ma non hanno subìto condanne: «Liberabili perché non ad alto rischio», questo ora il responso sui sei prigionieri secondo le agenzie di intelligence Usa. Per i primi tempi, il governo uruguayano darà loro sostegno economico e li aiuterà a trovare una casa e un lavoro. Ora sono ricoverati in ospedale a causa delle cattive condizioni di salute, dovute ai maltrattamenti e anche al lungo sciopero della fame intrapreso nel campo di prigionia. 10 Ora, l’Uruguay è il primo paese sudamericano, e il secondo in tutta l’America latina, ad aver accolto prigionieri di Guantanamo, dopo la promessa di Obama di chiudere la prigione di Massima sicurezza (ma non la base militare), una promessa mai realizzata. Nel 2012, il Salvador ha ospitato per quasi due anni due musulmani cinesi di etnia uigura, provenienti da Guantanamo. In Uruguay vi sono attualmente tra i 250 e i 300 rifugiati, in maggioranza provenienti dalla Colombia. Secondo un’inchiesta dell’istituto Cifra, il 58% dei cittadini si dichiara contrario a ospitare i detenuti di Guantanamo, mentre il 40% ritiene che la decisione spetti al Parlamento e non al presidente. «Non siamo una succursale di Guantanamo», ha dichiarato Alberto Heber, senatore del Partido Nacional. L’ex tupamaro presidente Pepe Mujica, che a breve passerà il testimone al vincitore delle ultime presidenziali, Tabaré Vazquez, ha annunciato la decisione «umanitaria» nel marzo scorso. E venerdì ha indirizzato una lettera a Barack Obama e al popolo uruguayano. Ha ricordato che il paese è diventato quel che è oggi anche per aver dato asilo «agli anarchici perseguitati ed espulsi da altri paesi che li consideravano terribili terroristi» e ha ribadito la vocazione umanitaria del suo paese, sancita dalla Costituzione: «Abbiamo offerto ospitalità ad alcuni esseri umani che subivano un atroce sequestro a Guantanamo», ha affermato, precisando nuovamente che, avendo conosciuto cosa significa stare dietro le sbarre per 14 anni, non avrebbe imposto la galera ai rifugiati: «Per me — ha detto — se vogliono, possono andarsene anche da domani». Col linguaggio diretto che lo caratterizza, Mujica ha poi precisato: «Abbiamo aiutato Obama a chiudere la vergogna di Guantanamo non perché l’imperialismo yankee sia diventato improvvisamente nostro amico, né in cambio di denaro o vantaggi. Tuttavia — ha aggiunto — non lo abbiamo fatto per niente. In contropartita, chiediamo la fine dell’ingiusto e ingiustificabile blocco contro la nostra repubblica sorella di Cuba, la liberazione dei tre patrioti cubani prigionieri negli Usa da 16 anni e quella di Oscar Lopez Rivera, il settantenne combattente indipendentista portoricano, prigioniero negli Stati uniti da oltre un trentennio». Anche uno dei rifugiati, il trentanovenne siriano Abdelhadi Omar Faraj, fino a ieri il prigioniero 329 di Guantanamo, ha indirizzato una lettera di ringraziamento a Mujica e «al popolo uruguayano» anche a nome degli altri ex detenuti: per spiegare la sua storia e le traversie che lo hanno condotto nel campo di concentramento, l’ultima delle quali quella di essere venduto dai soldati pachistani agli Stati uniti, dietro ricompensa. Tra i prigionieri, c’è anche Mustafa Diyab, che ha denunciato le autorità Usa per aver alimentato a forza i prigionieri di Guantanamo durante il loro lungo sciopero della fame. del 09/12/14, pag. 14 Dagli Usa chiamata alle armi Manlio Dinucci L'arte della guerra. La rubrica settimanale di Manlio Dinucci La Camera dei rappresentanti degli Stati uniti d’America ha adottato quasi all’unanimità (411 voti contro 10) la Risoluzione 758, che «condanna con forza le azioni della Federazione Russa, sotto il presidente Vladimir Putin, per aver attuato una politica di aggressione mirante al dominio politico ed economico di paesi vicini», in particolare l’Ucraina che «la Federazione Russa ha sottoposto a una campagna di aggressione politica, economica e militare allo scopo di stabilire il suo dominio sul paese e cancellare la sua indipendenza». 11 In tal modo la risoluzione cancella tutta la storia della penetrazione Usa/Nato in Ucraina, fino al putsch di piazza Maidan organizzato per suscitare la reazione dei russi di Ucraina e della Federazione Russa, riportando l’Europa a una nuova guerra fredda. La risoluzione chiama quindi il Presidente a fornire al governo ucraino armi, addestramento e intelligence, e contemporaneamente a rivedere «lo stato di prontezza delle forze armate Usa e Nato». Accusando la Russia di violare il Trattato Inf, che nel 1991 ha eliminato in Europa i missili nucleari a gittata intermedia lanciati da terra (tra cui quelli Usa schierati a Comiso), la risoluzione sollecita il Presidente a «rivedere l’utilità del Trattato Inf per gli interessi degli Stati uniti» con la possibilità di «ritirarsi dal Trattato» (non a caso nel momento in cui gli Usa ammodernano le armi nucleari che mantengono in Europa, Italia compresa). La risoluzione sollecita inoltre il Presidente a verificare se ciascun alleato è in grado di contribuire all’«autodifesa collettiva in base all’articolo 5 del Trattato nord-atlantico». Tale articolo, che obbliga tutti i membri dell’Alleanza a intervenire se uno di loro è attaccato, viene esteso di fatto oggi anche all’Ucraina, pur non essendo ancora ufficialmente membro della Nato. Gli alleati vengono direttamente sollecitati, nella risoluzione, a «fornire la loro piena quota di risorse necessarie alla difesa collettiva», cioè ad accrescere la spesa militare in base all’impegno preso di portarla come minimo al 2% del pil. Il che implica per l’Italia un aumento dagli attuali 52 milioni di euro al giorno, secondo i dati ufficiali della Nato (72 secondo il Sipri), a oltre 100 milioni di euro al giorno. Sul piano economico, per «ridurre la capacità della Russia di usare le forniture energetiche quale mezzo di pressione», la risoluzione chiama l’Unione europea a «sostenere le iniziative di diversificazione energetica» intraprese dagli Usa, in particolare «l’aumento delle esportazioni di gas naturale e altri tipi di energia dagli Stati uniti» verso la Ue, l’Ucraina e altri paesi europei. In altre parole, chiama la Ue a rinunciare all’importazione di gas russo (e per questo gli Usa hanno affossato il gasdotto «South Stream») per importare quello liquefatto (tra l’altro molto più caro) fornito dalle multinazionali statunitensi. La risoluzione infine chiama il Presidente a sviluppare una strategia per «produrre e diffondere informazioni in lingua russa in paesi con significativi settori di popolazione che parlano russo», massimizzando l’uso delle emitenti «Voce dell’America» e «Radio Europa Libera/Radio Libertà» attraverso «partnership pubblico-private» con media nazionali. Rilanciando così in Europa l’isterismo propagandistico della guerra fredda. Questo, in sintesi, il contenuto della Risoluzione 758 che, dopo che sarà stata approvata anche dal Senato, diverrà una vera e propria legge per l’attuale e le future amministrazioni. E allo stesso tempo una dichiarazione ufficiale di guerra alla Russia che, attraverso la Nato, riporta l’Europa in prima linea di un nuovo pericoloso confronto militare. del 09/12/14, pag. 8 È Alexander Mora. Identificato un desaparecidos Geraldina Colotti La mattanza di Iguala. Nel Guerrero e in tutto il Paese continua nelle piazze la protesta per i «43 scomparsi» È iniziato ieri a Veracruz, in Messico, il 24° Vertice iberoamericano: per discutere di educazione, cultura e innovazione. Si tratta di un incontro segnato dalla crisi profonda che attraversa il paese a seguito del massacro di Iguala e della scomparsa di 43 studenti. A 12 più di 70 giorni dalla repressione congiunta di narcotrafficanti e polizia, che ha provocato 6 morti e una cinquantina di feriti, gli scomparsi ora risultano 42. Nella giornata di domenica i resti del giovane Alexander Mora, iscritto alla Escuela Normal de Ayotzinapa, sono stati identificati dagli esperti dell’università di Innsbruck, in Austria. Un laboratorio particolarmente attrezzato per le analisi difficili, dove le autorità messicane hanno inviato i frammenti di ossa calcificati, rinvenuti nella discarica di Cucula, vicino a Iguala. La squadra di antropologi forensi argentini, nominata dalle famiglie dei ragazzi, ha dichiarato che la borsa contenente i resti del giovane Alexander Mora era già aperta quando sono arrivati gli esperti e di non poter garantire sull’autenticità dei risultati. Il padre di Mora, un contadino, ha accusato «il governo corrotto e delinquente che impedisce di manifestare, che uccide e tortura», però ha preso atto dell’assassinio del figlio ventenne e ha indetto una veglia in casa, davanti alla foto del giovane. Nello stato del Guerrero, il governatore Rogelio Ortega — che qualche giorno fa i manifestanti hanno costretto a sfilare in una marcia di protesta contro l’impunità — ha decretato tre giorni di lutto e, durante una conferenza stampa, ha osservato un minuto di silenzio «per gli eroi e i martiri di Ayotzinapa». Ortega governa a interim dopo la fuga del suo potente predecessore, Angel Aguirre Rivero, coinvolto nel massacro di Iguala. Secondo le confessioni di alcuni pentiti, arrestati dopo i fatti del 26 settembre, la polizia avrebbe consegnato i 43 ragazzi ai narcotrafficanti dei Guerreros Unidos perché fossero uccisi e attentamente occultati, stavolta bruciati nella discarica di Cucula, dove sono stati trovati resti calcificati. A ordinare la feroce repressione sarebbe stato l’ex sindaco Luis Abarca per impedire una contestazione al comizio della moglie, Maria Pineda Villa, sorella di narcos. E Rivero sarebbe stato al corrente. Sembra così confermata la versione iniziale fornita alla stampa dal procuratore generale Jesus Murillo Karam, che l’ha ripetuta domenica, confermando la detenzione di 70 persone, tra cui 44 poliziotti municipali e assicurando che l’inchiesta andrà avanti «ad ogni costo e senza guardare in faccia nessuno». Nonostante le riforme liberticide varate dal presidente messicano Enrique Peña Nieto per impedire le manifestazioni, le mobilitazioni contro «il crimine di stato» non si fermano in tutto il Paese. Dopo la notizia, per le strade del Messico si sono nuovamente riempite di manifestanti ed è nuovamente risuonato il grido: «Ne mancano 42», e «Fuori Peña Nieto». Il presidente, domenica ha partecipato all’atto di chiusura del Decimo Incontro iberoamericano degli imprenditori, in presenza del re di Spagna, Filippo VI, di alte cariche politiche e rappresentanti delle imprese e delle università. Ha iniziato con l’inviare messaggio di «solidarietà» alla famiglia di Alexander Mora. A Veracruz, dove sono invitati i capi di stato di 22 paesi (19 latinoamericani, più Spagna, Portogallo e Andorra), molte le defezioni, a partire dalla presidente brasiliana Dilma Rousseff e dalla sua omologa argentina Cristina Kirchner. Un preciso segnale di esaurimento del vertice, nato nel 1991 in Messico ma incapace di competere con altri organismi continentali come Celac o Unasur e per questo dilazionato a un incontro ufficiale ogni due anni a partire da ora. Il neoliberista Nieto ha ricevuto l’appoggio del suo omologo spagnolo Mariano Rajoy e l’assicurazione che la Guardia Civil spagnola assisterà il progetto della nuova Gendarmeria. Al vertice ha partecipato anche il presidente venezuelano Nicolas Maduro. Nel 2007, durante il Vertice iberoamericano in Cile, il suo predecessore, Hugo Chavez, venne apostrofato dal re Juan Carlos I di Spagna con la frase «Perché non stai zitto?», perché aveva più volte chiamato fascista l’allora primo ministro spagnolo José Aznar. 13 Del 9/12/2014, pag. 21 “Gli stranieri parlino tedesco a casa” Polemiche per la proposta di legge sugli immigrati dell’Unione cristianosociale, partner di governo della Merkel Il documento suscita indignazione e ironie: “Ma chi fa i controlli?”. Parziale marcia indietro dopo le critiche ANDREA TARQUINI “ Yalla Csu“, oppure “ Yalla Deutschland“ (“ yalla” in arabo vuol dire “avanti”, “andiamo”, “forza”), scrivono a milioni sugli hashtag di protesta per l’ultima trovata populista dell’Unione cristiano-sociale bavarese, il partito al potere da sempre nella ricca Baviera e partner di governo nella Grosse Koalition con la Cdu di Angela Merkel e la socialdemocrazia. Già, perché questa volta i nipotini di Franz-Josef Strauss l’hanno fatta un po’ grossa. Hanno proposto al loro congresso di partito che per legge i migranti, e in generale gli stranieri residenti in Germania, per integrarsi parlino in tedesco anche a casa e in famiglia. Sembra uno scherzo, non lo è: in un documento programmatico congressuale Csu, sotto il titolo “Integrazione attraverso la lingua”, leggiamo la frase: «Chi vuole vivere qui tra noi a lungo, in permanenza, deve essere tenuto in modo vincolante a parlare in tedesco sia nei luoghi pubblici sia in famiglia». Tutti, insomma, i tre milioni di turchi, le centinaia di migliaia di italiani, polacchi, russi, gli olandesi e i belgi in Renania, e chi più ne ha più ne metta. La prima domanda che è venuta spontanea a tutti è — ammesso e non concesso che la regola sia giusta e vada applicate — chi dovrebbe controllarne il rispetto: forse una superpolizia-Grande fratello in grado di intercettare ogni conversazione intima tra le mura domestiche? Il ricordo del tragico passato tedesco, dalla Gestapo alla Stasi. «È una proposta completamente folle», ha detto Yasmin Fahimi, la giovane, integratissima segretario generale di origine turca della Spd. «È roba da vertice mondiale della satira», ha incalzato il capogruppo parlamentare socialdemocratico Thomas Oppermann. Nei ranghi Cdu qualcuno solidarizza con i bavaresi: «Conoscere la lingua è di grande importanza per l’integrazione», afferma Wolfgang Bosbach, portavoce per gli affari interni. Ma è la Cancelliera in persona a bocciare la proposta: «Conoscere il tedesco è parte dell’integrazione — ha detto ieri sera a Colonia — ma il bilinguismo è un vantaggio per i bambini». Tanto che alla fine il capogruppo regionale della Csu, abbozza una marcia indietro: «Dobbiamo lavorare meglio alla formulazione... ». La Linke, la sinistra radicale, spara a zero sul centrodestra. «È già tanto difficile trovare tedeschi che parlano tedesco correttamente, io continuerò a esprimermi col mio accento berlinese», ironizza il leader Gregor Gysi. Negli editoriali dei grandi media si nota come l’iniziativa sia un tentativo della Csu di contendere elettori ai populisti antieuropei Alternative für Deutschland e alla destra anti-islamica di Pegida. Ma in tal modo, avverte la Sueddeutsche Zeitung, gli europei cristiani mostrano al mondo il loro volto peggiore. del 09/12/14, pag. 9 Le bombe elettorali di Netanyahu Medio Oriente. Il governo Netanyahu, come sempre, non ha ammesso e neppure smentito il raid aereo di domenica nei pressi di Damasco. 14 Alcuni parlamentari però accusano il premier di aver ordinato il bombardamento per "motivi elettorali", affermando così la responsabilità di Israele. La Siria chiede sanzioni Onu contro Tel Aviv Mosca chiede spiegazioni a Israele e Damasco e Tehran condannano con forza i raid aerei compiuti domenica dai cacciabombardieri israeliani nei pressi della capitale siriana e sul confine con il Libano. La Siria ha anche chiesto la condanna dell’Onu e sanzioni vere contro Israele. «Questo attacco alla Siria è stato fatto per sollevare il morale dei terroristi che sono stati sconfitti a Nabal, al-Zahraa, Dayr az-Zor, Kobane e nel Qalamoun» dall’esercito governativo, ha commentato ieri il ministro degli esteri siriano, Walid alMuallem, dopo aver incontrato il suo omologo iraniano, Mohammad Javad Zarif. Mentre al Muallem rilasciava queste dichiarazioni, Damasco, dopo mesi di calma relativa, è ripiombata nel pieno della guerra civile. Bombardamenti aerei e di artiglieria e scontri armati hanno scosso ieri la capitale siriana. Colpi di mortaio sparati da forze sunnite ribelli sono caduti in piazza degli Abbasidi, nella parte centro-occidentale di Damasco. Combattimenti tra le forze armate governative, sostenute da combattenti di Hezbollah, e gruppi jihadisti ribelli sono divampati anche a Jawbar mentre l’aviazione governativa ha colpito più volte i sobborghi orientali della capitale. Una fiammata della guerra civile che conferma l’intenzione delle forze ribelli e jihadiste di portare la guerra di nuovo anche a Damasco, nel cuore del territorio centrale della Siria controllato dalle forze lealiste. Il governo Netanyahu non ha commentato le accuse di Damasco. Ha mantenuto la sua posizione abituale: non conferma ma neanche smentisce i raid aerei contro la Siria (l’ultimo risale allo scorso marzo). La responsabilità israeliana in realtà è nota a tutti. Non ammetterla però consente a Tel Aviv di evitare possibili (ma assai improbabili) condanne internazionali per le sue azioni militari. Stavolta però il clima politico interno, particolarmente avvelenato, ha mandato in fumo questa strategia del governo Netanyahu. Yifat Kariv, una deputata del partito “Yesh Atid”, passato all’opposizione dopo l’espulsione dal governo del suo leader, Yair Lapid, ha pubblicamente ipotizzato che i raid aerei contro la Siria siano stati ordinati da Netanyahu nel tentativo di puntellare le sue credenziali in materia di sicurezza, in vista della campagna per le elezioni del 17 marzo. «Netanyahu non riesce a mettere insieme una coalizione di governo alternativa e così ha deciso di alimentare paure e di infiammare il Medio Oriente», ha affermato Kariv. «Signor primo ministro – ha aggiunto — questa volta non funzionerà». Un esponente del Meretz (sinistra sionista), Ilan Gilon, altrettanto pubblicamente si è augurato che l’attacco aereo «non serva al premier per le primarie del Likud», previste il mese prossimo. Da parte sua il deputato laburista Nachman Shai ha detto di sperare che il governo faccia uso delle «esigenze di sicurezza di Israele, per garantirsi la sopravvivenza politica». Naturalmente i media siriani ieri hanno dato ampio risalto alle dichiarazioni di questi politici, giudicandole una ammissione esplicita della responsabilità israeliana nei raid di due giorni fa, nei quali, ha riferito la televisione araba al Arabiya, sarebbero rimasti uccisi due combattenti di Hezbollah. Un giornale israeliano, il Jerusalem Post, ha scritto che i bombardamenti hanno avuto come obiettivo armi pesanti e sofisticate provenienti dall’Iran e destinate ad essere consegnate a Hezbollah. Secondo altre fonti i raid avrebbero preso di mira un carico di missili anti-aerei S-300 di fabbricazione russa, in grado di limitare fortemente la superiorità aerea di Israele nei cieli del Medio Oriente. L’attacco peraltro è avvenuto nel giorno in cui un rapporto delle Nazioni Unite ha rivelato che Israele intrattiene da mesi contatti costanti e regolari con gruppi militanti di ribelli siriani. Le Forze di Disimpegno degli Osservatori delle Nazioni Unite (Undof), dispiegate lungo le linee di armistizio sul Golan, hanno riferito che ufficiali israeliani e miliziani sostenuti dall’estero collaborano direttamente lungo la frontiera siriana negli ultimi 18 mesi. I peacekeeper hanno anche segnalato di aver visto i soldati israeliani aprire il confine e far 15 entrare persone oltre a miliziani e civili siriani feriti che di solito vengono ricoverati negli ospedali di Safed e Nahariya. «L’Undof – si legge nel rapporto — ha visto almeno dieci persone ferite trasportate da uomini armati dell’opposizione (siriana) attraverso la zona del cessate-il-fuoco … E ha anche identificato soldati della parte israeliana mentre consegnavano in territorio siriano due casse a miliziani dell’opposizione siriana armata». Si aggrava nel frattempo l’emergenza umanitaria in Siria. Le Nazioni Unite hanno lanciato ieri a Ginevra un appello di raccolta fondi per 16,4 miliardi di dollari destinati a finanziare l’assistenza umanitaria nel 2015 e non pochi di questi fondi serviranno ad assistere i milioni di profughi siriani che vivono tra Turchia, Libano e Giordania. «Oltre l’80 % di coloro che intendiamo aiutare vive in paesi prigionieri di conflitti», ha denunciato Valerie Amos, Sottosegretario generale dell’Onu per gli affari umanitari. Le crisi nella Repubblica Centrafricana, in Iraq, in Sud Sudan e in Siria perciò rimarranno «priorità umanitarie» nel 2015. A queste si aggiungono anche altre “crisi”, alcune delle quali storiche come quella dei profughi palestinesi. del 09/12/14, pag. 9 «Europei, riconoscete la Palestina come Stato» Michele Giorgio La petizione. Oz, Grossman, Yehoshua e altre 800 personalità della cultura israeliana sfidano il governo Netanyahu In Israele il mondo della cultura e delle scienze, o almeno una parte di esso, sembra procedere in controtendenza rispetto alla linea del governo Netanyahu. 800 personalità – come il premio Nobel Daniel Kahneman, l’ex presidente della Knesset Avraham Burg, l’ex ministro Yossi Sarid e gli scrittori Amos Oz, David Grossman e Avraham Yehoshua — una petizione che chiede ai parlamenti dei Paesi europei di riconoscere la Palestina come Stato. È una presa di posizione che contrasta con quella dell’esecutivo di destra che ha sempre condannato il voto a favore dello Stato di Palestina già espresso da alcuni parlamenti europei. Per il premier Netanyahu questi riconoscimenti non contribuirebbero alla pace. Non la pensano così gli 800 firmatari della petizione che si dicono sicuri che l’unica soluzione possibile al conflitto sia la nascita di uno Stato palestinese in Cisgiordania e Gaza. «Il nostro è un atto di incoraggiamento per il negoziato e per il presidente palestinese Abu Mazen, affinché continui le trattative», ha spiegato Yehoshua. Lo scrittore allo stesso tempo è stato molto chiaro quando ha detto che la petizione rappresenta anche un “no” alla creazione di uno Stato binazionale, per ebrei e palestinesi insieme. Yehoshua in passato si è ripetutamente espresso contro lo “Stato Unico”, ritenuto da non pochi l’unica strada per impedire in futuro un apartheid legalizzato, con un Israele di fatto in controllo dello Stato palestinese, indipendente sulla carta ma senza sovranità reale. Lo scorso 2 dicembre anche il parlamento francese, dopo quelli di Gb, Spagna e Irlanda, ha votato una mozione simbolica per la Palestina come Stato. Il governo svedese invece ha fatto un riconoscimento diretto. Al parlamento italiano è stata presentata una mozione analoga, ma non è ancora noto se e quando sarà sottoposta al voto. mi. gio. 16 del 09/12/14, pag. 9 Così cambia la mappa di tutta la regione Chiara Cruciati Il fronte della guerra al califfato fuoriesce dai territori occupati di Siria e Iraq. Libano, Libia, Iran, Turchia: la battaglia all’Isis è un conflitto per procura dei tanti attori regionali, che trasformerà irrimediabilmente la mappa mediorientale. Ne abbiamo parlato con Salah al Nasrawi, analista e giornalista iracheno. Quali saranno gli sviluppi futuri nella regione? Una divisione definitiva di Siria e Iraq in zone di influenza esterne? Assisteremo ad una divisione di potere tra Iran, Turchia e Usa, una battaglia tra chi controllerà l’Iraq. Washington sta creando un’ingente forza sunnita, 100mila soldati, che cambierà gli equilibri sul terreno. L’esercito iracheno è formato da 85mila soldati, a cui si aggiungono 20-25mila miliziani sciiti (a cui al-Abadi ha promesso lo stipendio). Quindi 100mila militari sciiti, 100mila sunniti e poi i peshmerga. Questa è una divisione reale, parliamo di tre eserciti, tre enclavi definite da linee settarie. Nasceranno tre entità diverse in Iraq, pronte a combattersi, una formula volta alla divisione del paese e non alla sua unificazione: gli Usa lo hanno detto, vogliono un Iraq federato. Ma non mancano dubbi: quando i sunniti avranno il loro esercito, perché dovrebbero piegarsi al governo centrale? Gli iraniani questo lo sanno bene: l’Ayatollah Khamenei la scorsa settimana ha detto che l’ideologia sciita è ovunque in Iraq, Siria, Libano e Yemen; e Nasrallah ha parlato in un incontro con Maliki del tentativo sunnita di creare un fronte ampio di controllo, un’entità che sarà annessa alla Giordania e diventerà l’alternativa allo Stato di Palestina, che accolga i rifugiati palestinesi dai vari paesi arabi. La formula è palese: creare un’entità sunnita separata da quella sciita e alawita. La domanda da porsi è se l’Iran si fermerà a Baghdad o cercherà di prendersi tutto il paese, sostenendo contemporaneamente Assad perché ricontrolli tutta la Siria. Nella regione non è in corso una mera battaglia tra coalizione e Isis, ma un processo di ridefinizione geografico, una nuova mappa del Medio Oriente i cui confini siano ridisegnati in base agli interessi strategici dei vari attori. I risultati li vedremo tra 5–10 anni, ma non ci saranno passi indietro: non vedremo più l’Iraq unito come prima, né vedremo la Siria unita come prima a meno che non si arrivi ad un compromesso storico tra sciiti, sunniti e curdi, una tregua di lungo periodo. L’Iran bombarda l’Isis in Iraq, la Turchia preme per la zona cuscinetto. Quella in atto sembra una guerra tra asse sciita e asse sunnita. Dopo che Phantom iraniani hanno bombardato l’est dell’Iraq, il segretario di Stato Usa Kerry ha definito i raid un fatto positivo perché aiutano a combattere l’Isis. La cooperazione ufficiosa tra Washington e Teheran va avanti da mesi, è il segreto di Pulcinella. Quello che è cambiato è che adesso c’è un video di Al Jazeera che mostra gli aerei in volo: la cooperazione da ufficiosa si è fatta concreta e questo preoccupa i media Usa e Israele, ma non la Casa Bianca. Lo stesso giorno in cui è stato girato il video, un altro video dell’agenzia stampa curda Rudaw ha mostrato per la prima volta pasdaran in Iraq, accanto a peshmerga e milizie sciite irachene. Tutto ciò ci dà il disegno chiaro di quello che l’Iran sta facendo: il corridoio di 160 km dal confine iraniano è ora pulito e può essere utilizzato senza timore di attacchi. È fondamentale dal punto di vista strategico, l’intera zona è aperta all’intervento iraniano che manda già consiglieri militari, truppe e armi. Ora avrà accesso a zone prima non coperte. 17 In questa battaglia geopolitica si infila la Turchia. Ankara cerca da anni di modificare il volto della Siria e risolvere la questione kurda. L’idea di creare un’entità sunnita tra Iraq e Siria la intriga, ma ha una visione diversa: includerla in una più ampia entità kurdo-sunnita, che permetta di neutralizzare i kurdi iracheni e il potere che hanno in campo energetico, da cui non vuole essere dipendente. In Iraq al-Abadi sta effettivamente riformando l’esercito o si tratta solo di operazioni di make-up? Il premier ha tirato fuori la questione dei soldati fantasma come risposta alle richieste Usa. Obama deve giustificare il fallimento in Iraq di fronte all’opinione pubblica e, allo stesso tempo, mandare un messaggio agli sciiti: la necessità di creare una milizia sunnita è figlia delle incapacità delle truppe sciite. Al-Abadi non ha però l’autorità necessaria a riformare le forze armate perché infiltrate da milizie sciite indipendenti, o peggio legate all’ex premier Maliki. Il problema non è il costo in sé, ma che il denaro pagato a queste milizie serve a creare una rete clientelare. Maliki ha comprato fedeltà, ha comprato uomini, per avere sostegno politico e militare. Resta da vedere se al-Abadi è pronto a sacrificare la fedeltà di questi soggetti sull’altare Usa. Sul terreno qual è la ragione di tanto ritardo nella controffensiva governativa? Le forze sciite sono riuscite a disegnare la linea di separazione tra Baghdad e aree sciite da una parte e aree sunnite dall’altra: controllano le vie di collegamento, da Karbala a Kirkuk, e le stanno ripulendo dalla presenza sunnita. Peshmerga e sciiti non vogliono liberare Anbar, area sunnita, per poi vederla consegnare ai sunniti. O Baghdad avrà la garanzia che una volta liberate Anbar e Mosul il potere centrale le potrà controllare o non interverrà. 18 INTERNI del 09/12/14, pag. 12 Italicum, blindati 100 capilista Il voto sulla clausola Calderoli ROMA C’è da scommettere che in pieno ciclone Mafia Capitale il tema delle preferenze, e dei soldi che occorrono a un candidato per ottenerne in quantità, animerà il dibattito sulla legge elettorale che oggi arriva a un giro di boa in commissione, con il voto sull’ordine del giorno del senatore Calderoli. Il premier Matteo Renzi ha anticipato tutti e, davanti all’ennesimo scandalo capitolino (alle Comunali si vota con la preferenza), ha ribadito che, dopo tutto, quella dei «nominati dall’alto» è una garanzia per la legalità: «L’Italicum ci costringe a diventare un partito, indicando un capolista si farà la selezione della classe dirigente senza spartire i posti tra le correnti...». Così il presidente del consiglio manda un messaggio a chi — Ncd e minoranza del Pd — continua a storcere il naso davanti ai nominati dai capi partito: «Con il premio alla lista chi arriva primo avrà 340 deputati. Il partito che vince su 100 collegi indicherà un capolista e questo selezionerà la classe dirigente... La legge elettorale con il meccanismo del collegio (con il capolista bloccato, ndr ) e poi della preferenza ci impone di essere un partito serio». Tradotto, Renzi non intenderebbe retrocedere rispetto alla proposta concordata con gli alleati. Anzi, ora tende la mano a Forza Italia: i collegi non saranno 70 ma 100, consentendo così a Berlusconi di portare alla Camera soltanto i fedelissimi. Oggi in commissione al Senato si vota l’odg Calderoli che prevede una clausola di salvaguardia capace di agganciare l’entrata in vigore dell’Italicum per la Camera alla riforma del bicameralismo paritario. Il ministro Maria Elena Boschi vorrebbe una «data certa» in calce alla clausola per cui il Pd, orientato per il no, attende di esaminare l’ultima stesura del testo Calderoli. Domani, poi, la presidente e relatrice Anna Finocchiaro (Pd) presenterà i suoi emendamenti di sintesi della discussione generale sull’Italicum: soglia unica di accesso al 3%, soglia per ottenere il premio al 40%, premio di lista e non di coalizione, 100 collegi con i capilista bloccati e i rimanenti candidati eletti con le preferenze. Si annuncia tempesta, però, sul tema delle preferenze. Il premier segretario Renzi, paradossalmente rafforzato su questo tema dall’inchiesta Mafia Capitale, conta al Senato sul «soccorso azzurro» di Forza Italia che punta sui «nominati» per non avere sorprese interne. Ma la minoranza del Pd (che prepara molti subemendamenti) non cede perché, come hanno osservato in commissione i bersaniani Miguel Gotor e Maurizio Migliavacca, 10 anni di liste bloccate non hanno poi prodotto tutta questa moralizzazione. Meglio allora, incalza Gotor, «tornare al modello misto del Mattarellum prevedendo un listino nazionale con i nomi bloccati (20 o 30 %) mentre tutti gli altri verrebbero eletti con la preferenza». In parallelo, oggi alla Camera riprendono in commissione le votazioni sulla riforma del bicameralismo. Il ministro Boschi e la minoranza del Pd hanno concordato che verrà alzato ai 3/5 il quorum necessario per eleggere il capo dello Stato. Dino Martirano 19 Del 9/12/2014, pag. 17 “Modifiche solo concordate con Forza Italia” Summit Pd sulle riforme. Il ministro Boschi blocca la protesta della minoranza democratica. Tempi stretti per il sì E Renzi insiste sui capilista bloccati: “Questa legge ci impone di essere un partito serio e di selezionare la classe dirigente” FRANCESCO BEI Il patto del Nazareno resta una parete liscia, impossibile da scalare per la minoranza del Pd. Non sono servite quattro ore di riunione serrata del gruppo Pd in commissione affari costituzionali (in una Montecitorio deserta per la festa dell’Immacolata) per trovare un’intesa tra governo e opposizione interna. «Ogni modifica alla riforma costituzionale - è stato il mantra ripetuto dal ministro Boschi - va concordata preventivamente con Forza Italia. Ci deve essere l’assenso di tutti i contraenti del patto». Contro questo muro è andata a infrangersi la richiesta di poter sottoporre l’Italicum al controllo preventivo della Corte costituzionale. Una possibilità contenuta in un emendamento del dem Andrea Giorgis, che viene ritenuta quasi una provocazione dai pattisti “nazareni”. Boschi ieri ha chiarito che «su questo Forza Italia è nettamente contraria» e quindi la modifica non può passare. Ma la minoranza dem sospetta che sia in realtà Renzi stesso il principale oppositore di una clausola che potrebbe mettere a rischio il nuovo Italicum 2.0 una volta approvato dal Parlamento. Se sul punto principale - il controllo costituzionale preventivo dell’Italicum- la riunione è stata un dialogo tra sordi, su altri temi meno incandescenti si è registrato un leggero ammorbidimento della “prussiana” Boschi. Grazie anche alla mediazione del relatore Emanuele Fiano si è trovato l’accordo per modificare la norma sull’elezione del capo dello Stato, sventolata come una bandiera dallo stesso Pier Luigi Bersani. Scongiurato quindi il rischio che un partito, grazie al premio di maggioranza dell’Italicum, possa eleggersi da solo il presidente della Repubblica. L’intesa interna al Pd stabilisce infatti di innalzare il quorum necessario, portandolo a 2/3 dell’assemblea nelle prime votazioni per poi salire fino ai 3/5 dei componenti. Un altro passettino in avanti verso le ragioni degli oppositori è il superamento del voto bloccato sui disegni di legge del governo. L’esecutivo potrà garantirsi una corsia preferenziale sui suoi progetti, ma il contenuto sarà comunque emendabile dalla Camera. Il vero discrimine politico, evidenziato da D’Attorre, Giorgis, Roberta Agostini e gli altri della minoranza è stato comunque quello del patto con Berlusconi. «Noi - spiega D’Attorre - restiamo dentro i paletti stabiliti dalla direzione Pd. Ma non è possibile irrigidirsi fino al punto di consegnare a Forza Italia un potere di veto esagerato ». Oggi comunque il voto sugli articoli 1 e 2 della riforma non dovrebbe nascondere sorprese. Si tratta della composizione del futuro Senato delle Autonomie e la minoranza si è detta disponibile a ritirare i propri emendamenti, a patto però che in aula l’atteggiamento del governo sia più flessibile sulle questioni ancora aperte. Una su tutte la possibilità di modificare l’articolo 81 della Costituzione, superando l’obbligo del pareggio di bilancio. I bersaniani si deve scontrare tuttavia con la barricata eretta dal ministro Padoan. Se qualche minima concessione ieri c’è stata sulla riforma costituzionale, viceversa sulla legge elettorale Renzi ha blindato l’Italicum. In particolare rivendicando i capolista bloccati, specie dopo lo scandalo di Mafia Capitale. «Indicando un capolista - ha dichiarato davanti ai giovani del Pd - si farà la selezione della classe dirigente senza spartire i posti tra le correnti. La legge elettorale con il meccanismo del collegio e poi delle preferenze ci 20 impone di essere un partito serio». Chiosa Matteo Orfini, uscendo dalla lepoldina dem: «Sono stato il primo a dire che il sistema delle preferenze andava ripensato». del 09/12/14, pag. 1/15 Gli auto inganni dell’Italicum Antonio Floridia Un sistema elettorale non è solo un sistema di regole inscritto all’interno di un assetto istituzionale: è un meccanismo che, nel tradurre i voti in seggi, condiziona anche le aspettative degli attori, le logiche che guidano le loro scelte. E che può orientare anche la futura evoluzione del sistema politico, anche quando — ed è un caso frequente — dal gioco strategico emergono effetti perversi e imprevisti. Nel valutare le possibili ipotesi di riforma, quindi, non esistono solo criteri di costituzionalità da rispettare. Vanno anche prese in considerazione valutazioni che potremmo definire di ragionevolezza politica, valutazioni cioè che si interrogano sugli effetti politici e sistemici che i singoli tasselli di un modello elettorale possono produrre. Da questo punto di vista, non occorre spendere molte parole sulla totale irragionevolezza del sistema delle soglie complessivamente disegnato dalla prima versione dell’Italicum: non è solo il vulnus inferto al principio della rappresentatività che va sottolineato, ma gli effetti distorsivi che ne derivano. Vedremo, nei prossimi giorni, cosa emerge dai lavori parlamentari: sembra chiaro, tuttavia, che ci si sta incamminando sulla via, sempre più tortuosa, di aggiustamenti che, mirando a coprire alcune falle da una parte, molte altre ne aprono, dall’altra. Si prenda ad esempio la soluzione escogitata per accontentare la pretesa berlusconiana di un totale controllo sui propri eletti: la formula ibrida (capolista «bloccato», gli altri candidati mandati al massacro della lotta per le preferenze) condurrebbe ancora ad una camera in gran parte di «nominati», giacché solo il partito che ottiene il premio di maggioranza potrebbe contare su un numero prevalente di eletti scelti dal voto dei cittadini. Per di più, la previsione delle candidature plurime in diverse circoscrizioni (a sua volta resa necessaria dalla assoluta aleatorietà del meccanismo top down di distribuzione territoriale dei seggi) condurrebbe ancora ad una totale subordinazione al gioco post-elettorale delle opzioni. Di fatto, si aprirebbe una durissima concorrenza per la conquista del «secondo posto» utile all’elezione, ma si affiderebbe poi la sorte dei singoli candidati alla scelta discrezionale del capolista pluri-eletto. Come si vede, un gran pasticcio: ma perché si è giunti a questo punto? Si possono individuare due cause fondamentali. In primo luogo, tutto il dibattito sulla riforma elettorale è condizionato negativamente dall’assunzione di un presupposto che è tutt’altro che scontato: dall’idea, cioè, che il sistema adottato dovrebbe consentire — «la sera stessa delle elezioni», come comunemente si dice — l’individuazione di un «vincitore». Ma questo presupposto non è affatto «indiscutibile»: anzi, se si escludono i sistemi presidenziali e semi-presidenziali (nei migliori dei quali, peraltro, agiscono molti altri meccanismi di bilanciamento dei poteri), nessuno tra i sistemi elettorali vigenti nelle democrazie europee garantisce «a priori», e in assoluto, questo esito. Essendo, appunto, democrazie parlamentari vi è sempre uno spazio legittimo per una legittima mediazione politica post-elettorale, che in sé non ha nulla di esecrabile. «Mediazione» sembra essere divenuta una parola impronunciabile (salvo poi, tranquillamente, fare ben altri «patti», più o meno segreti…). Il dibattito italiano ha introiettato una condizione cronica di instabilità e destrutturazione del sistema politico, — una condizione che viene considerata oramai come un dato fisiologico 21 e irreversibile. E l’unica risposta sembra quella di un assetto «direttistico» e plebiscitario della competizione elettorale, assumendo un’opzione (quella dell’«investitura» di un governo, di un leader e di una maggioranza) che non è, e non può essere considerata, come l’unica possibile. E si spacciano per verità indiscutibili delle inferenze del tutto arbitrarie: come quando si proiettano gli ultimi risultati — legati agli effetti di un determinato sistema elettorale — su quelli ipotetici che risulterebbero dall’applicazione di un altro modello, deducendo così la «ingovernabilità», ad esempio, che deriverebbe da un sistema proporzionale. Ma, per l’appunto, si ignora in tal modo che un sistema proporzionale (con una soglia, mettiamo, al 4%) indurrebbe una logica della competizione e incentiverebbe logiche di scelta, negli elettori, assolutamente incomparabili con quelle che prevalgono con i sistemi «a premio». Queste arbitrarie assunzioni si riflettono negativamente sulla discussione sui possibili modelli elettorali da adottare. Sistemi elettorali, ovviamente, ce ne sono tanti e diversi, ma la pre-condizione della loro efficacia sta nella loro coerenza interna. Si può ritenere l’uno o l’altro più adatto alle condizioni specifiche del nostro paese; ma non si può fare una sorta di bricolage, imboccare la via perigliosa di un gioco «combinatorio» tra logiche diverse. Incongruenze e contraddizioni, per questa via, sono inevitabili. E qui entra in gioco il secondo fattore: come mostrano le analisi delle elezioni politiche del 2013 e delle Europee 2014, e come mostrano anche le recenti elezioni regionali, l’elettorato italiano è oggi caratterizzato da un elevatissimo livello di volatilità, che naturalmente prevede pienamente anche l’opzione del non-voto. Ebbene, le riforme elettorali, in genere, come suggerisce la letteratura sull’argomento, sono un gioco strategico in cui intervengono in modo decisivo le aspettative di ciascun attore. Questo, naturalmente, di volta in volta, restringe l’arco delle soluzioni idealmente possibili e costringe ad una mediazione che tenga conto delle opzioni che ciascun attore ritiene di dover adottare. Tuttavia, costituisce una regola prudenziale — e un principio a cui legislatori e politici saggi dovrebbero attenersi — quella di non fare troppo affidamento sulle suggestioni che derivano dagli ultimi sondaggi. E non perché questi, necessariamente, sbaglino: anzi, in questo momento, sembrano proprio concordare sulla estrema volubilità degli umori degli elettori, in presenza di un sistema dei partiti altamente destrutturato. Una regola prudenziale dovrebbe suggerire che una possibile riforma tenga conto di questo sfondo di radicale incertezza e definisca quindi un sistema elettorale quanto più sottratto alle contingenze della vicenda politica. Invece no: si affrontano questi temi, e quelli delle riforme costituzionali, con una faciloneria e una superficialità sconcertanti, con l’occhio rivolto alle convenienze del giorno dopo. Ma questo andazzo non promette nulla di buono, per la nostra democrazia: e quanti ne hanno a cuore le sorti, dovrebbero fare tutto il possibile per fermarlo. del 09/12/14, pag. 13 Nogarin gela i dissidenti: io sto con Grillo Svolta del sindaco di Livorno dopo l’assenza a Parma. Ma Pizzarotti tira dritto: ora un incontro unitario MILANO «Voglio che sia chiaro a chi non lo ha ancora capito che io sto con Beppe senza se e senza ma»: Filippo Nogarin si smarca dalle voci insistenti che lo davano sempre più vicino all’ala critica del Movimento. Il giorno dopo il raduno di Parma (che lo ha visto assente all’ultimo minuto), con un post sul suo profilo Facebook, il sindaco di Livorno chiude le porte ai dissidenti e si riavvicina ai leader Grillo e Casaleggio. «Sento però di 22 dover prendere le distanze da chi in questo momento cammina sulla china dell’ipercritica ad ogni costo», scrive. E manda anche un messaggio — indiretto — a chi ha lasciato i Cinque Stelle, in primis i dimissionari toscani e l’espulso Massimo Artini: «A voi va il mio più forte abbraccio con la speranza che le divisioni adesso chiare potranno un giorno tornare parte di un percorso comune». Le indiscrezioni parlano di quarantott’ore turbolente: sms, telefonate, incontri. Una rete fitta che da Milano passa per Genova e Roma fino ad arrivare a Parma e Livorno. E abbraccia — in modo diverso — i due sindaci. «Non è vero, non ho ricevuto nessun tipo di pressioni», ribatte al Corriere Nogarin. Poi commenta: «Il mio post? È stato un chiarimento netto che va a creare uno spartiacque definitivo». «Molto di quello che si è detto — continua il sindaco labronico — è stato frutto di speculazioni, di situazioni ambigue a cui voglio porre fine». Sulla kermesse di Parma, Nogarin dribbla i giudizi: «A me ha disturbato una cosa: l’incontro verteva sullo statuto cittadino e la democrazia diretta, tutto quello che è stato detto a corredo è stato montato artificiosamente». Ma il giorno dopo l’open day sono proprio i dissidenti a rilanciare la sfida. «È stata una bella giornata formativa in cui si sono vissuti contraddittori — analizza Walter Rizzetto —, una giornata politicamente importante, che ha registrato il volere di tutti di non spaccare il Movimento, ma al tempo stesso ha rilanciato la necessità di un incontro nazionale». Sulla presa di distanze di Nogarin, il deputato scherza e si lascia andare a una battuta: «Deve essergli andato storto qualcosa nelle ultime quarantotto ore...». L’altro grande assente alla manifestazione di domenica, Artini, invece, spiega di aver perso l’incontro per «motivi personali». «Ho rivisto oggi lo streaming — aggiunge —. Bell’evento, soprattutto per le considerazioni venute la mattina sullo statuto e su come è possibile cambiare questo Paese, sia come forza di maggioranza, sia come forza di minoranza non urlatrice, ma sempre responsabile». Le polemiche, però, non si placano. Giuseppe D’Ambrosio attacca i parlamentari che sono andati a Parma: «La porta è sempre aperta e nessuno tiene alcuno sotto ricatto dentro una casa nella quale non ci si ritrova». Il grande protagonista della kermesse, Pizzarotti, non commenta il post di Nogarin. In tv, ospite a Otto e mezzo , ribadisce che «l’incontro non era una chiamata» dei dissidenti, che non si aspetta l’espulsione, che il nome di Grillo sul logo è «un dettaglio», ma anche che «non serve avere paura» delle epurazioni e propone un «raduno» unitario. Intanto, sul blog, Grillo rilancia la battaglia contro l’euro (e David Borrelli, co-presidente del gruppo Efdd al Parlamento Ue, spiega le lotte del M5S al programma tv spagnolo La Tuerka ). Ma la battaglia non sarà solo continentale. Anzi. Nelle prossime settimane in Lombardia dovrebbe essere lanciato un altro referendum, in risposta alla Lega che vorrebbe lo statuto speciale, per proporre l’ampliamento delle deleghe della Regione. Emanuele Buzzi Del 9/12/2014, pag. 18 Salvini a Mosca “Ora mi aspetto un finanziamento da parte di Putin” Il leader leghista: no alle sanzioni anti-russe E gli imprenditori italiani lo applaudono NICOLA LOMBARDOZZI Niente felpa. Per il suo intervento da ospite d’onore a un convegno sull’economia della Duma, il Parlamento della “amica Russia”, Matteo Salvini sceglie un cravattone verde 23 appena più formale. I russi lo guardano con curiosità e ne ascoltano con piacere le dichiarazioni. Ormai è un ospite abituale che, dicono, avrebbe pure conquistato la personale simpatia di Putin dopo un breve incontro di straforo in ottobre a Milano. Salvini ne prevede molti altri: «Mi riceverà presto, forse già in gennaio». Intanto alla Duma raccoglie applausi inevitabili quando ripete la sua avversione alle sanzioni occidentali contro la Russia che «non può essere considerato un nemico ma un alleato con cui riprendere i rapporti commerciali e culturali». Sono applausi dei politici locali, ma anche della delegazione di imprenditori italiani in Russia già pesantemente colpiti dalle sanzioni volute da Usa e Ue e soprattutto dalle «contro sanzioni» decise da Putin soprattutto nel settore agroalimentare. Ed è un piacere per tutti i presenti ascoltare le sue critiche alla Ue che «insiste con sanzioni idiote che andrebbero tolte domani mattina». E che ha ragione solo in un caso: «Quando dice a Renzi che non ha fatto nulla di concreto». Applausi tutti italiani arrivano proprio nei passaggi su Renzi: «Avrebbe dovuto esserci lui qui al posto mio a difendere l’amicizia con Russia». Ai russi comunque Salvini comincia a piacere. Lui lo percepisce e forse aspira a qualcosa di più. Gli domandano se si aspetla ta finanziamenti per la sua Lega e risponde così: «Non cerco regali, ma un prestito conveniente come quello concesso alla Le Pen, lo accetterei volentieri. Lo accetterei da chiunque mi offrisse condizioni migliori di, per esempio, Banca Intesa». Lapsus freudiano o citazione voluta che sia, Banca Intesa ha un senso preciso. Il massimo dirigente di Banca Intesa a Mosca è da anni quell’Antonio Fallico, compagno di scuola di Marcello Dell’Utri e riferimento abituale di Silvio Berlusconi per tutti i suoi investimenti in Russia. Ed è proprio con Silvio Berlusconi che il “Salvini russo”sta giocando la sua personale partita nelle sue visite a Mosca, ormai a cadenza mensile. La solidità dell’amicizia storica tra Putin e il leader di Forza Italia scricchiola già da tempo. A cominciare dalla vicenda del famoso “lettone di Putin” che fece imbestialire il riservato capo del Cremlino fino all’inesorabile declino politico dell’“amico Silvio” protagonista del defunto accordo sul South Stream. Che Salvini miri a sostituire Berlusconi nel cuore di Putin sembra un progetto quasi dichiarato. A chi gliene chiedeva conto ieri, il leader della Lega rispondeva: «Entrambi apprezziamo Putin ma abbiamo canali e approcci separati». Intervistato la scorsa settimana dal magazine economico Vlast (Potere) l’ineffabile Antonio Fallico rispondeva così alla domanda “al posto di Putin, come accoglierebbe la richiesta di amicizia di Salvini?”: “Con molta cautela”. 24 LEGALITA’DEMOCRATICA del 09/12/14, pag. 8 “La gara per gli immigrati è finta Sono io a capo della commissione” Nelle telefonate di Odevaine i nomi di Veltroni (“Ha agganciato il sottosegretario”) e Lupi Grazia Longo Nel sodalizio criminale di Mafia capitale ci sono due imperativi: la pressione sui politici per «oliare le gare degli appalti pubblici» e il coinvolgimento della ’ndrangheta per siglare affari e sostenere campagne elettorali. Va subito chiarito, tuttavia, che i nomi illustri citati nelle intercettazioni - dai ministri Lupi e Alfano e i sottosegretari Menzione e Bubbico, all’ex sindaco di Roma Veltroni e il presidente della Regione Zingaretti - risultano completamente estranei all’inchiesta. Alcuni arrestati li tirano in ballo in diverse circostanze. Come per la questione di un nuovo centro profughi per gli immigrati sbarcati a Lampedusa. C’è chi lo vorrebbe a Mineo, ma la Cupola romana punta a piazza Armerina (Enna). Ecco allora Luca Odevaine (arrestato, ex vice capo di gabinetto di Veltroni), fare il matto, il 15 maggio scorso, per cercare appoggio dal sottosegretario Manzione. Tanto da volerlo farlo contattare anche da Walter Veltroni. Odevaine: «Io mo’ col fatto che ho parlato con Veltroni ieri, ho detto, “Waltrer parlaci pure te, che questo Manzione è persona molto vicina a Renzi… perché Mineo non è compatibile… però c’è la struttura di Piazza Armerina… Io a Manzione glielo sto facendo dire anche da Veltroni». E quando Buzzi chiede ad Odevaine: «A Manzione siete riusciti ad agganciarlo?», l’altro risponde «Sì». Circostanze che non trovano riscontro da parte della procura e dei carabinieri del Ros. Sicuro, invece, il guadagno illecito sui centri profughi per Odevaine. È lui stesso, intercettato, a dichiarare il suo tariffario: «Il pro capite che mi darebbero a me, quindi con 80 persone 1.240 euro al mese, 100 persone 1.500 euro, a 400 sono 18.600 euro, perché più cresce il loro numero più aumenta il loro utile». Dall’esame dei suoi conti correnti segreti, intestati a familiari, emerge il passaggio di 90 mila euro di tangenti. Odevaine è l’uomo che riesce a far ottenere gli appalti per i centri profughi e spiega che occorre trovare alleati importanti. Per lui «è tutto un do ut des». E per convincere Buzzi sul meccanismo delle mazzette, il 3 febbraio scorso, fa riferimento a un appalto che non trova sussistenza nelle indagini: «I Pizzarotti sono impresa importante di Parma, molto amici di Gianni Letta, di Berlusconi. Da quello che ho capito hanno fatto un accordo perché Lupi, il ministro Lupi gli ha sbloccato due o tre appalti grossi…». Sulla gara per gli immigrati, invece, Odevaine assicura: «Il presidente della Commissione lo faccio io… è una gara finta». Senza riscontro è anche l’incontro accennato da Buzzi e Carminati con il viceministro Bubbico. «Dopodomani vedo il capo segreteria Bubbico» dice il primo e l’ex Nar replica: «Bubbico con Alfano non ce sta». Il presidente della Regione Luca Zingaretti viene invece nominato dai due arrestati per associazione mafiosa Fabrizio Testa e Claudio Caldarelli. Quest’ultimo punta a Bioparco dentro Villa Borghese: «Il verde del Bioparco che se riusciamo a pigliassello proprio tutto…». Testa gli spiega: «Non hai capito… me dite è questo… poi lui va da...e quelli sono soldi che partono da… ricordati che passano… non passano dal bilancio 25 cioè…passa sui tertti di Zingaretti». Testa: «Eh sono soldi della presidenza… quindi da là direttamente» e Caldarelli: «Vanno diretti, certo». Poi c’è il capitolo del presunto coinvolgimento delle ’ndrine calabresi a sostegno dell’attività di Carminati, Buzzi e soci. Anche per sostenere la campagna elettorale di Alemanno alle ultime europee? L’ex sindaco era candidato al Sud per il Pdl. E Buzzi, l’11 maggio scorso in una telefonata lo rassicura circa «la possibiltà di portare voti a quest’ultimo grazie agli amici del Sud». L’ex sindaco chiede: «Devo fare delle telefonate? devo fare qualcosa?». Buzzi: «No, no, tranquillo... i nostri amici del Sud ti possono dare una mano». Buzzi poi spiega alla moglie: «Come dai una mano ad Alemanno? Dandogli i nomi di 7-8 mafiosi che c’avemo in cooperativa e gli danno una mano». Si tratta forse di esponenti dela ‘ndragnheta? Del 9/12/2014, pag. 14 Renzi: non lascio Roma ai ladri Il Viminale valuta se intervenire “Toccate pure giunte precedenti” Il ministro dell’Interno: per l’eventuale scioglimento serve prima un giudizio tecnico Oggi vertice Marino-prefetto. Il sindaco incontra il Papa: mi ha detto che prega per la città CARMELO LOPAPA La Capitale sarà «liberata dai ladri», promette Matteo Renzi riscaldando la platea dei giovani dem, pronto ad andare fino in fondo contro la cupola Carminati-Buzzi e le sue infiltrazioni. Ma in fondo vuole andare anche il ministro dell’Interno Alfano, cui compete di valutare l’eventuale invio di ispettori o lo scioglimento. Ignazio Marino è convinto di poter andare avanti, oggi incontrerà il Prefetto, al quale vorrebbe rifiutare l’offerta della scorta. Il premier continua a incalzare sull’affare sporco di Roma. «Non sappiamo se quello che emerge dipinge dei tangentari all’amatriciana o dei mafiosi. Questo lo dirà la magistratura, ma noi non lasceremo Roma in mano ai ladri». Maglioncino rosso, piglio risoluto, l’intervento è assai applaudito dai giovani dell’assemblea dem #Factory365. «Bisogna fare rapidamente i processi, chi è colpevole paghi fino all’ultimo centesimo, non è possibile che in Italia non paghi nessuno — continua — Roma è troppo bella e grande per lasciarla a questa gentaccia». E siccome lo scandalo ha toccato anche il suo partito, promette: «Noi facciamo pulizia al nostro interno e quelli che hanno preso tangenti con noi hanno chiuso». Il presidente e commissario Pd Matteo Orfini non è da meno, «saremo durissimi, il commissariamento durerà finché ce ne sarà bisogno, riusciremo a troncare la cancrena correntizia che ha ridotto così il partito di Roma». Da Forza Italia Giovanni Toti li accusa: «Non potete cavarvela con la difesa d’ufficio di Marino». La situazione è in evoluzione. Lo lascia intendere il ministro Alfano intervistato da Del Debbio su Rete4. «Ho parlato con il Prefetto, che ha studiato le carte. Valuteremo il da farsi ». Compreso lo scioglimento per mafia? «Credo ci debba essere un giudizio tecnico da cui deve nascere la proposta, ma sta emergendo un quadro che investe anche amministrazioni precedenti: quella di Alemanno e anche la precedente». Non la nomina, ma il riferimento, benché vago, sarebbe a quella di Veltroni. Ad Arcore Silvio Berlusconi ha tenuto a rapporto ieri sera lo stato maggiore per cavalcare il caso Mafia Capitale e insistere sullo scioglimento. Due opzioni: raccolta di firme per chiedere le dimissioni o far dimettere i pochi consiglieri 26 forzisti. Non molla l’osso però. Il sindaco racconta di aver sentito Alfano due giorni fa e ieri il prefetto Giuseppe Pecoraro, che incontrerà oggi. «Sono felice se ci saranno ulteriori approfondimenti perché in questo momento è necessario fare pulizia», spiega Marino a chi gli chiede dei risvolti possibili: «Occorre una differenziata per separare i buoni dai cattivi». L’ipotesi scioglimento continua a non prenderla in considerazione: non solo resta, ma pensa già a una ricandidatura per un secondo mandato. Tanto meno vuole far ricorso alla scorta, proposta dalla Prefettura. «Non mi sento in pericolo, ne parlerò ancora con lui, se non ci sono evidenze di un pericolo fisico credo di non averne bisogno». Ieri per strada, da numerosi cittadini, inviti a continuare, a resistere. Ma a segnare la giornata del primo cittadino è stato l’incontro con Papa Francesco, in occasione della deposizione dei fiori all’Immacolata a Piazza di Spagna. «Abbiamo scambiato poche parole — confiderà dopo lui — gli ho detto che sento tutto il peso della responsabilità di queste settimane. Il Santo Padre mi ha incoraggiato e mi ha detto che pregherà per me e per Roma». del 09/12/14, pag. 6 Vertice tra il prefetto e Alfano Escluso lo scioglimento: sì a un esame approfondito ROMA Entro stasera si conoscerà il destino del Campidoglio. Il prefetto Giuseppe Pecoraro è tornato ieri da Napoli e oggi lo attende una lunga giornata con il gruppo di lavoro che ha attivato per analizzare le carte dell’inchiesta su «Mafia Capitale». Sarà lui a riferire al ministro dell’Interno Angelino Alfano sulle misure urgenti da adottare dopo lo scandalo che ha travolto esponenti della criminalità, imprenditori ma soprattutto politici romani, della maggioranza e dell’opposizione, coinvolti nell’indagine della Procura. Il responsabile del Viminale — con il quale oggi Pecoraro avrebbe dovuto avere un incontro — sarebbe favorevole a un accesso agli atti. Alfano ha anche avuto un colloquio con il premier Matteo Renzi per il quale lo scioglimento del Comune, con la nomina di un commissario in attesa di nuove elezioni, sarebbe una soluzione non percorribile. Resta il fatto che il ministro è comunque pronto a ricevere anche una proposta di scioglimento, qualora il parere tecnico del prefetto vada in questa direzione. «Non parteciperò a un vertice al Viminale — conferma lo stesso Pecoraro —, sarò impegnato in una riunione interna con i miei collaboratori che stanno studiando tutte le carte dell’inchiesta, anche quelle nuove degli ultimi giorni. L’accesso agli atti? Non ho ancora deciso». Non confermato anche un incontro in mattinata con il sindaco Ignazio Marino, con il quale nei giorni scorsi c’è stata qualche frizione dopo la proposta del prefetto di rinforzare la scorta al primo cittadino, oggetto di minacce e insulti nelle intercettazioni sul «mondo di mezzo» e sulla banda di Massimo Carminati, e di evitare l’uso della bicicletta. «Non è mica mio padre», era stata la replica di Marino. «Ho parlato con il prefetto, valuteremo il da farsi — ha spiegato sempre Alfano, ospite ieri sera dello speciale di Quinta colonna su Rete4 —. Credo ci sia un giudizio tecnico dal quale deve nascere la proposta di sciogliere la giunta comunale, ma sta emergendo un quadro che investe anche amministrazioni precedenti: quella di Gianni Alemanno e anche la precedente». Per il ministro gli appartenenti al clan «come topi nel formaggio, si annidavano in tutte le forze politiche. Il formaggio era tutto, dalla gestione delle strade ai campi rom. Per quante leggi vengano firmate in Italia, non c’è un livello di consapevolezza tale da sapere che i soldi rubati ti verranno tolti». 27 Rinaldo Frignani del 09/12/14, pag. 4 E ora il Pd teme l’indagine infinita Daniela Preziosi Democrack. Renzi ai Giovani dem: ogni giorno chiederemo che si vada rapidamente ai processi. Il rischio dello stillicidio. Orfini: stroncheremo la cancrena delle correnti. Che nel Pd romano sono dieci Un’ora di discorso alla Factory 365 di Roma, la Leopoldina dei giovani dem, a un anno esatto dalle primarie dell’Immacolata che gli consegnarono a furor di popolo (democratico) la segreteria. Matteo Renzi, maglione rosso al posto della camicia bianca di ordinanza («Succede a stare troppo con Orfini, ma vedrete che al prossimo congresso ci divideremo”», scherza), fa anche un lapsus notevole: dice «Buon compleanno Pd», come se il suo partito fosse nato quando è arrivato lui, e non sei anni prima. Il premier-segretario parla a lungo ma riserva alla vicenda romana poche battute in coda. Preoccupate. «La politica o è grande ideale, passione e bellezza o è miseria», «non lasceremo la Capitale ai ladri. Teniamo pulito perché Roma è troppo grande e bella per lasciarla a gentaccia là fuori». Ma soprattutto rivolge ai giudici un appello quasi accorato: «A me lo sdegno delle prime 48 ore non basta. Ogni giorno chiederemo che si vada rapidamente ai processi, che si facciano le sentenze, che chi è colpevole paghi fino all’ultimo centesimo e all’ultimo giorno, perché non è possibile che in Italia non paghi nessuno». Intanto «chi prende una tangente con noi ha chiuso». Già, ma chi ha preso davvero una tangente? Le indaginisono ancora aperte. E anche quando saranno chiuse la domanda rischia di restare aperta per anni. Ed è un grosso guaio per l’immagine del premier. Renzi ha affidato il dossier Roma a Matteo Orfini, il presidente del partito nel quale ripone la massima fiducia nonostante le divergenze di linea (ieri, per la cronaca, Orfini è stato applauditissimo dai Gd, del resto guidati dal giovane turco Andrea Baldini, anche quando ha ricordato la sua contrarietà al «partito della nazione anche nella declinazione che gli ha dato Reichlin» e quando ha criticato l’azione di governo schierandosi contro il decreto Lupi). Orfini ha preso il dossier molto sul serio. Né potrebbe essere diversamente visto la gravità delle accuse che hanno colpito tre amministratori fin qui indagati, il consigliere comunale Mirko Coratti, quello regionale Eugenio Patané e l’assessore Daniele Ozzimo, tutti di osservanza renziana. Ma il lavoro dei magistrati non è ancora concluso e anzi si aspetta una seconda infornata di arresti o almeno di indagati. Ma non c’è solo — solo si fa per dire — l’inchiesta “Mondo di mezzo2” a preoccupare il Nazareno. Oscurata dai clamori di Mafia Capitale, in questi giorni va avanti il lavoro dei magistrati su Marco Di Stefano, deputato ex consigliere regionale indagato per corruzione, sospettato di aver ricevuto una maxi-tangente in una brutta storia in cui il suo braccio destri è scomparso, forse ucciso. C’è dell’altro: si è chiusa di recente a Rieti l’inchiesta sulle spese pazze della regione dell’era Polverini. Si attendono i rinvii a giudizio, che potrebbero riguardare anche ex consiglieri Pd, la maggior parte dei quali nel frattempo è stata eletti in parlamento, visto che il presidente Zingaretti aveva messo come condizione della sua corsa per la Pisana il «rinnovamento radicale» del gruppo regionale, che infatti fu ripescato quasi per intero nelle liste dell’allora segretario Bersani. La vicenda delle indagini romane rischia di essere uno stillicidio per mesi, forse per anni. 28 In attesa dell’onda giudiziaria, come potrà Orfini «fare pulizia» mantenendo però l’assetto garantista del Pd renziano? Orfini annuncia il pugno di ferro: «Saremo durissimi, cercheremo chi ha sbagliato e cercheremo di capire quali sono i circoli veri e quelli finti, sentiremo uno per uno i nostri iscritti per vedere se sono iscritti veri o finti», ha spiegato ieri a margine di Factory 365. «Stabiliremo regole rigide per i bilanci dei circoli, controlleremo a chi sono intestati i contratto d’affitto, riusciremo a stroncare la cancrena correntizia che ha ridotto così il partito di Roma. Faremo una serie di controlli su un partito che in questa città c’è ed è fatto di tante persone per bene. Vogliamo restituirlo a loro e levarlo a chi un questi anni lo ha sequestrato». Il correntismo spinto nel Pd romano è un dato costitutivo. Gli esperti del Cencelli dem contano un minimo di sette correnti principali, più almeno tre subcorrenti. Un ginepraio in continua scomposizione e ricomposizione di cui è quasi impossibile dare un resoconto aggiornato all’ultimo patto. L’ultima nata è Noidem, area dall’unione di tre sottoaree, quella di Umberto Marroni (già dalemiano), Lorenza Bonaccorsi (capofila dei cosiddetti ‘turborenziani) e del popolare Enrico Gasbarra, di cui fanno parte Daniele Ozzimo e Mirko Coratti (indagati entrambi); al suo battesimo fu chiamato Lorenzo Guerini. Poi c’è l’area Di Stefano (indagato) e Stampete, lettian-renzia; quella dei Giovani turchi, di Tommaso Giuntella e dei consiglieri comunali Gianni Paris o Giulia Tempesta (e dello stesso Orfini, a livello nazionale); l’area vicina al presidente Zingaretti (che però nega vigorosamente di averla); i renziani non nativi come De Luca e Patané (indagato); l’area del sottosegretario Rughetti, Nanni e Grippo; i franceschiniani di Areadem, Melilli e Astorre. Un puzzle che deriva in parte dalla provenienza ma per lo più da patti anche fra diversi, come proprio la neonata Noidem dimostra. «Il Pd in questa città c’è ed è fatto di tante persone per bene», ripete Orfini. Cacciare con ignominia le correnti, dichiararle seppellite con grande spolvero mediatico sarà relativamente facile. Il vero cimento sarebbe smantellare le filiere di piccoli e grandi poteri che irretiscono il lavoro dell’amministrazione. E scommettere che smontate queste il Pd resti ancora in piedi. 29 SOCIETA’ del 09/12/14, pag. 23 Se si spezza il segreto sulle donne che non riconoscono i loro figli Protesta contro la legge che potrebbe togliere l’anonimato Giacomo Galeazzi Pronto chi parla?». «Sono tuo figlio». Scene di un passato che riappare con un colpo di telefono o lo squillo di un campanello. Il Parlamento sta per dare il via libera alla ricerca delle donne che «in anonimato» hanno messo al mondo bimbi. In ballo questioni pesanti: la tutela del segreto del parto, la difesa della salute delle donne, il futuro dei bambini non riconosciuti. Dietro i principi, 90mila italiane che dal 1950 ad oggi hanno partorito avvalendosi del diritto alla segretezza, che potrebbe avere i giorni contati. Una bufera in arrivo. In pratica, all’altro capo del telefono potrebbe esserci presto una persona che, a distanza di anni, vuol conoscere chi gli ha dato la vita. «Mamme segrete» vissute finora nella certezza che nessuno lo avrebbe saputo. La legge, infatti, consente di partorire in ospedale, garantendo le cure sanitarie per sé e per il nascituro, anche nel caso in cui decida di non diventarne formalmente la mamma. Così il neonato viene subito dichiarato adottabile e immediatamente inserito in una famiglia adottiva. Lo Stato le riconosce il diritto alla segretezza del parto: per 100 anni nessuno potrà conoscerne l’identità. Ma nel dicembre 2013 una sentenza della Consulta ha dichiarato illegittima la norma nella parte in cui non consente di verificare in seguito la volontà delle donne di restare anonime. Sono state presentate alla Camera varie proposte di legge, oggi in discussione alla commissione Giustizia che le ha unificate attraverso l’elaborazione di un testo base. Protesta Donata Nova Micucci, presidente dell’Associazione delle famiglie adottive e affidatarie (Anfaa): «La procedura di accesso all’identità della partoriente, nella formulazione del testo base, prevede che il tribunale, su richiesta dei non riconosciuti alla nascita, si attivi per rintracciare la donna». Un dolore che esplode di nuovo. E ciò «senza formalità», cioè senza garanzia del rispetto del suo anonimato. Avendo effetto retroattivo, la nuova norma (se approvata) avrebbe «conseguenze gravi ed irreversibili sul oltre 90mile donne». Per l’Anfaa «il Parlamento non può tradire l’impegno assunto». Ricercare a distanza di decenni queste donne, in mancanza di una loro preventiva rinuncia all’anonimato, mette in pericolo la serenità della vita che, sicure della segretezza garantita, si sono costruite, con gravi ripercussioni su di loro e sui loro familiari, spesso ignari di quanto avvenuto in passato. «Nei confronti delle donne che hanno deciso di non riconoscere il loro nato, nessuno può permettersi di dare giudizi: si tratta di scelte dolorose e sofferte, che tutti dobbiamo rispettare, compresi, per primi gli individui cui hanno dato la vita», sostiene Donata Nova Micucci. Ad allarmare le famiglie adottive e affidatarie sono anche le conseguenze che la nuova norma potrà avere sulle gestanti che in futuro volessero non riconoscere il proprio nascituro. «Lo faranno sapendo che, senza il loro preventivo consenso, potranno essere rintracciate dopo 20 o 30 anni o più? Che ne sarà dei loro piccoli?- si chiede Nova Micucci -. Queste gestanti non andranno più a partorire in ospedale, non avendo garanzie sulla segretezza del parto e aumenteranno gli infanticidi e gli abbandoni dei neonati». Un patto del silenzio. 30 Un’alleanza infranta con «soggetti deboli», donne spesso giovanissime o vittime di stupri o violenze. Lo Stato si è impegnato a tutelarle e ora «il Parlamento, non può tradire quell’impegno». L’Anfaa, insieme ad altre fondazioni, associazioni e onlus raccoglie firme per la «difesa del segreto del parto, della salute delle donne e del futuro dei bambini non riconosciuti». Diritto all’oblio rispetto a un passato che riappare all’improvviso. Salvaguardia di una «intesa » tra lo Stato e le partorienti di ieri, di oggi e di domani. 31 BENI COMUNI/AMBIENTE Da la stampa – Tutto Green del 09/12/14, pag. 1 A Lima il summit sul clima Il mondo cerca un accordo Ma l’intesa Usa-Cina non basta a garantire la salvezza del pianeta Marco Magrini È sempre bene distinguere fra la meteorologia (l’osservazione nel breve periodo) e la climatologia (lo studio nel lungo). Ma la W orld Meteorological Organization – che si occupa di tutte e due – ha annunciato che il 2014 è l’anno più caldo da quando gli umani hanno cominciato a misurare la temperatura media del pianeta Terra. È solo una normale oscillazione meteorologica di breve termine? No, ha risposto l’organizzazione delle Nazioni Unite durante una conferenza stampa a Lima, in Perù: il 2014 è anche il trentottesimo anno consecutivo che registra una temperatura anomala. Sempre verso la parte alta del termometro, ovviamente. Questa informazione potrebbe smuovere i delegati di oltre 170 Paesi riuniti da nove giorni nella capitale peruviana per la Conferenza sui cambiamenti climatici dell’Onu, battezzata Cop 20. Quel numero sta a indicare che da vent’anni pompose delegazioni dei cinque continenti si riuniscono nel tentativo di architettare un cambiamento da un sistema energetico mondiale ancora dipendente dai combustibili fossili, responsabili di un clima compromesso. Ma senza riuscirci. È vero che il processo diplomatico deve scavalcare un’asticella molto alta: l’unanimità. Ma, a voler riassumere questi vent’anni in due parole, l’approccio multilaterale è stato ostacolato dall’unilateralismo americano: gli Stati Uniti, dopo aver firmato il Protocollo di Kyoto senza averlo mai ratificato, si sono sempre opposti a qualsiasi obbligo che non coinvolgesse la Cina. La quale, anche grazie al suo sistema politico centralizzato, ha ammesso che il rischio climatico è reale, ha emanato leggi ambientali sempre più stringenti ed è leader mondiale nelle tecnologie per l’energia pulita. Però pretende che il principio internazionale delle «comuni ma differenziate responsabilità» (le vecchie economie industrializzate emettono CO2 da molto più tempo di quelle giovani) venga rispettato. Da questo punto di vista, il vertice di Lima è cominciato sotto i migliori auspici possibili: due settimane prima, Barack Obama e Xi Jinping si sono dati la mano, promettendo un impegno nel taglio delle emissioni di gas-serra. La Cina toccherà il massimo delle emissioni nel 2030. E gli Usa fra dieci anni emetteranno il 26% in meno (rispetto al 2005). Ma le cose non sono così semplici: quella di Lima è solo una partita di riscaldamento. Il vero match è fissato a Parigi fra un anno, quando, alla Cop 21, si dovrebbe finalmente raggiungere il sospirato accordo globale sulle emissioni-serra. Per l’Unione Europea – che in questa partita gioca il ruolo di centravanti – e anche per l’Onu del «mister» Ban-Ki Moon, quella di Parigi è per il mondo la partita della vita. La stretta di mano Obama-Xi ha ispirato commenti ottimisti sul risultato finale. Ma forse anche un po’ prematuri. Fra la mano destra del presidente americano e quella del presidente cinese c’è una bella differenza. La prima è immobilizzata da un Congresso che, dopo le recenti elezioni di midterm, è interamente in mano al partito repubblicano, sede dei più irriducibili avversari 32 all’idea di un riscaldamento globale causato dell’uomo. La seconda invece, grazie a un sistema politico ben diverso, fa quello che vuole. Ovvero, quello che dice. L’unico commento al tempo stesso ottimista e convincente è quello di Jeffrey Sachs, il direttore dell’Earth Institute della Columbia University. «Anche se la lobby dei combustibili fossili ha finanziato le recenti vittorie repubblicane – ha scritto – l’opinione pubblica americana si preoccupa della propria sopravvivenza e del mondo che lascerà ai figli. La gente ha davanti agli occhi l’uragano Sandy, la siccità record in California, le ondate di caldo senza precedenti, gli allagamenti sulla costa orientale». In altre parole, se cambia il vento dell’opinione pubblica, cambierà anche l’opinione dei politici. Il vertice di Parigi, da molti ritenuto l’ultima spiaggia per placare il riscaldamento del pianeta, è convocato fra appena 12 mesi. Ma la meteorologia del 2014 è soltanto una variazione statistica. Ed è un po’ difficile che la preoccupante climatologia degli ultimi tre decenni cambi all’improvviso il vento dell’opinione pubblica americana, e mondiale. Eppure, potrebbe succedere. Per assurdo, un’altro anno di meteorologia pazza, potrebbe portare il buon senso nella politica climatica. 33 INFORMAZIONE Del 9/12/2014, pag. 1-36 La notizia, oggi, arriva attraverso un mix di vecchi e nuovi “media” Un sistema ibrido integrato, come lo definisce il sondaggio DemosCoop. In cui la distanza tra web e televisione si riduce L’informazione liquida ILVO DIAMANTI L’ATLANTE di Demos dedicato al rapporto fra “Gli italiani e l’informazione”, giunto all’VIII edizione, descrive l’affermarsi di un sistema “ibrido” (per citare una nota definizione di Andrew Chadwick). Dove il ricorso ai new media non esclude i media tradizionali. Ma si traduce in nuove e diverse forme di integrazione. D’altronde, ormai metà dei cittadini si informa ogni giorno attraverso Internet. Il doppio rispetto al 2007 e quasi 10 punti in più di due anni fa. Nell’ultimo anno, invece, la crescita è stata più limitata: 2 punti. Solo la televisione, ormai, supera – ancora largamente – la Rete, come canale di informazione “quotidiana”. Ma la distanza fra la tv e la Rete, dal 2007, si è dimezzata da (circa) 60 ai 30 punti attuali. La radio e, soprattutto, i giornali sono, invece, “consultati” da una quota di persone molto più ridotta – e in continuo calo. Coloro che si informano assiduamente attraverso la Rete sono, mediamente, più giovani e istruiti. Perché per muoversi nella Rete servono abilità “digitale” e capacità di accesso alle informazioni. Anche per questo coloro che si informano quotidianamente solo in Rete (i netinformati) costituiscono una componente limitata: intorno al 6%. Mentre nella maggioranza dei casi (per la precisione: il 44%) Internet viene associato ad altri media. La tv e i giornali, in particolare. Quasi due terzi di coloro che utilizzano Internet, d’altronde, lo fanno per leggere i quotidiani. Che, d’altra parte, prevedono, quasi tutti, edizioni digitali. Ma su Internet, ormai, è possibile accedere anche alle principali reti televisive e radiofoniche. E, reciprocamente, tutti i programmi televisivi e radiofonici sono in comunicazione diretta e continua con Internet. Attraverso i social network. Facebook e Twitter. È la comunicazione ibrida, che ormai coinvolge gran parte degli italiani. L’accesso a Internet, d’altronde, nella maggioranza dei casi, avviene attraverso strumenti “personalizzati”. I tablet e gli smartphone, in primo luogo. Anche per questo si tratta di un incentivo alla partecipazione dei cittadini che vogliono esercitare una funzione critica verso l’azione dei politici. È ciò che ritengono 7 italiani su 10, tra quelli intervistati da Demos. La Rete costituisce, dunque, un canale di “contro-democrazia”, come la definisce Pierre Rosanvallon, volta alla “sorveglianza” politica e istituzionale. Non per caso, i cittadini che utilizzano la Rete in modo ibrido o, meglio ancora, esclusivo, sono, prevalentemente, orientati verso il M5s, che ha fatto della comunicazione digitale un simbolo di democrazia diretta e “senza mediazioni”. Tuttavia, occorre cautela nel celebrare la “libertà” della Rete. Sia perché (come rammenta Evgeny Morozov) è, spesso, sottoposta a interferenze e controlli. Sia perché, la stessa libertà di accesso, rende difficile verificare le informazioni che circolano. Peraltro, come si è detto, il rapporto fra gli italiani e la politica appare ancora largamente “mediato” dalla televisione. Il canale attraverso cui si informano, regolarmente, 8 persone su 10. Peraltro, per il 23% (della popolazione) si tratta del mezzo di informazione (quasi) esclusivo. Queste persone, i “tele-centrici”, sono particolarmente diffuse fra gli elettori più “indecisi”. E ciò rende la tv determinante in campagna elettorale. Per convincere gli elettori che decidono solo alla fine. Peraltro, i “tele-centrici”, secondo le 34 attese, pesano molto nella base di Fi. Gli elettori del M5s, invece, confermano la loro confidenza con i new media e con la Rete. Sono, infatti, più “ibridi”. Mentre sorprende l’ampiezza di elettori (Net)ibridi fra i leghisti. Segnale del cambiamento in atto nella Lega, dopo l’avvento di Salvini. Il Pd, infine, appare il più trasversale, fra i diversi tipi di pubblico. Non era così fino a poco tempo fa. Ma il Pd di Renzi, il Pdr, ha colmato il distacco dai media. Vecchi e nuovi. Tv e Rete. L’atteggiamen- to nei confronti dei Tg conferma queste tendenze – e gli indirizzi degli ultimi anni (in termini di fiducia, non necessariamente di ascolto). I più apprezzati restano i Tg Rai e in particolare il Tg3. Che prevalgono largamente sui Tg Mediaset. Tra i quali, solo il Tg5 presenta un livello di stima elevato. E perfino in crescita, rispetto all’ultimo anno. Mentre le reti All-News, RaiNews 24, Sky Tg24 e lo stesso Tg di La7, sono quelli che hanno aumentato maggiormente il grado di fiducia rispetto al 2009. In particolare i Tg di Sky e, soprattutto, di Rai News 24. Mentre il Tg de La7, nell’ultimo anno, ha perduto qualche punto. D’altra parte, l’intreccio tra politica e media, divenuto inestricabile, nel corso del ventennio berlusconiano lascia ancora tracce evidenti nelle preferenze politiche del pubblico. Che appare maggiormente orientato a destra, nel caso dei Tg delle reti Mediaset. A sinistra, per quel che riguarda le reti Rai. E in particolare il Tg3. Gli elettori della Lega, invece, mostrano maggiore fiducia verso RaiNews 24, il Tg5 e il Tg di Sky. Mentre gli elettori del M5s si fidano, anzitutto, del Tg de La7. Inoltre, del Tg3 e di RaiNews24 (il più “trasversale”, dal punto di vista della percezione degli elettori). I media, comunque, non si limitano a orientare le preferenze degli italiani, ma le rispecchiano. Compresa la stanchezza verso la politica, ben raffigurata da un certo fastidio verso l’informazione tv. E, soprattutto, verso i programmi di approfondimento e dibattito. I talk politici, in particolare, sono considerati troppo confusi e litigiosi da due persone su tre. La stagione della “democrazia del pubblico”, fondata sulla televisione (secondo la nota definizione di Bernard Manin), in Italia, non sembra, dunque, finita. Ma si contamina con la diffusione della Rete. Così delinea la cornice della “democrazia ibrida” del nostro tempo. Abitata da un “cittadino ibrido”, critico e scettico verso la politica e le istituzioni. Del 9/12/2014, pag. 1-37 LA MAPPA. IN CRESCITA I GIOVANI CHE IGNORANO LA TV Italiani sempre più connessi e la Rete vigila sulla politica LUIGI CECCARINI GLI italiani usano sempre più il web, anche per informarsi. E tra quanti navigano in Rete ogni giorno, sette su dieci sono sempre connessi: alwayson con tablet o smartphone. Dall’Osservatorio Demos-Coop dedicato all’uso dei media, vecchi e nuovi, emergono quattro tipi di fruizione mediale. I telecentrici (23%) – quanti si informano ogni giorno solo in tv - sono in calo. Lo stesso avviene per i fruitori tradizionali (28%), coloro cioè che combinano vari mezzi di informazione mainstream (giornali, radio, tv). I net-ibridi (44%), utilizzano quotidianamente sia i new media che qualche fonte old. Infine i net-informati, sono il 6%: usano ogni giorno solo il web, ricorrono anche ad altri media, ma con minor frequenza. Questi due net-citizens si caratterizzano per un profilo ormai noto. Sono più giovani e scolarizzati, di genere maschile, studenti, appartengono ai ceti medi impiegatizi, politicamente sono più orientati verso sinistra. Questi tratti segnano in modo più marcato i net-informati. Dove uno su tre è studente (35%). Il 17% di loro non guarda mai la tv. 35 Inoltre, si riconoscono meno nel classico spazio sinistradestra e più nel M5s. I tele-centrici hanno un’età più avanzata e sono meno scolarizzati. In maggioranza donne (62%). Sette su dieci sono casalinghe o pensionati. I fruitori tradizionali si distinguono invece per avere un’età media, un grado di istruzione più elevato e per l’appartenenza alla classe impiegatizia. Sono meno attratti dal M5s e più dall’astensione. Questi quattro tipi di italiani si rapportano in modo diverso con la politica. La minoranza dei net-informati è la componente più attiva sul web: discute e si informa di politica (57%), posta commenti politici sui Social (26%). Sono seguiti dai net-ibridi (rispettivamente 50% e 18%). Questi due tipi di net-citizens sono più attivi in campagne online. Del resto, essendo in tre casi su quattro always-on diventa naturale informarsi e attivarsi online. Gli altri due gruppi di cittadini, tele-centrici e tradizionali, sono meno partecipativi. Ma l’attivismo dei netinformati e dei net-ibridi si esprime anche offline. Discutono di più di politica nelle cerchie della vita quotidiana. Partecipano maggiormente a manifestazioni politiche convenzionali o di protesta. La minoranza dei net-informati si configura come l’avanguardia impegnata e militante della più ampia componente dei net-ibridi. Più di questi credono nella Rete come luogo di democrazia e libertà di informazione. Ma anche come strumento per una democrazia del monitoraggio. L’87% dei net-informati pensa ad Internet come ad un mezzo di sorveglianza della politica (vs. 79% dei net-ibridi e 70% della media), e soprattutto per tenere il fiato sul collo dei politici nell’attività del governare. del 09/12/14, pag. 1 La ghigliottina di Renzi Norma Rangeri Vogliono soffocare il manifesto. E proprio in un momento fondamentale della nostra storia: l’acquisto della testata. Vogliono cancellare una voce, storica, dell’informazione in Italia. E insieme a noi altre decine e decine di testate giornalistiche, di carta ma anche radio e tv. E questo grazie a una spending review che nel nostro settore è applicata in modo spietato. Una riduzione dei rimborsi per l’editoria era attesa. Ma non in queste dimensioni e soprattutto non con un taglio retroattivo. Non fino al punto di configurarsi come una vera e propria censura politica, come una ghigliottina per tante voci dell’informazione. E invece, se Palazzo Chigi non tornerà sui suoi passi, i peggiori timori si avvereranno: decapitando il fondo dell’editoria, il governo intonerà il de profundis per migliaia di giornalisti, impiegati, operai. Si può discutere su un fondo per l’editoria dato a macchia d’olio, si può perfino eliminare, anche se noi, e non solo noi, abbiamo molti dubbi. Però non si può agire così vigliaccamente. Perché viene dato un colpo basso, proditorio, visto che il taglio si riferisce ai rimborsi per il 2013, appostati nei bilanci già chiusi l’anno scorso. Di conseguenza tantissime testate dovranno portare i libri in tribunale e dichiarare fallimento. È una vera e propria decapitazione di una parte dell’informazione italiana. Si tratta della cancellazione di molte voci con storie diverse ma tutte espressione di una pluralità di punti di vista politici, culturali, sociali destinati a scomparire. Non siamo così miopi da non vedere e così stolti da non sapere che il fondo per l’editoria è stato in anni passati anche un pozzo di denaro dove attingere soldi, per far nascere iniziative editoriali finte, di facciata, utilizzate per altri fini e per arricchire le tasche di faccendieri e imprenditori senza scrupoli. Perché gli editori puri, in Italia, sono una rarità. Anche dietro la voce «cooperative» si sono consumate truffe e ruberie. Però adesso si butta via il bambino con l’acqua sporca. Con due immediate conseguenze: un forte 36 appannamento nel mondo dell’informazione e il licenziamento di centinaia di lavoratori del settore (tipografie, distribuzioni, cartiere) che andranno a ingrossare le già enormi percentuali della disoccupazione. C’è una logica — antidemocratica — in questa scelta del governo che sceglie di chiudere decine di testate in un colpo solo. È invece più difficile da comprendere e da spiegare una decisione presa all’insegna del risparmio delle risorse pubbliche, quando si sa che ne dovranno essere impiegate molte ma molte di più per fronteggiare gli ammortizzatori sociali (mobilità, cassa integrazione, pensionamenti) per i licenziamenti e gli stati di crisi provocati dai tagli. Per farvi capire l’entità del colpo, basta il nostro caso: nel 2012 i liquidatori, che «curavano» le casse del manifesto, hanno ricevuto 2 milioni e 700 mila euro di rimborsi. Per il 2013 alla nostra nuova cooperativa forse ne arriveranno 600mila. Dunque siamo di fronte non già a un micidiale dimezzamento ma alla sparizione di oltre tre quarti dell’intero ammontare per l’anno passato. E questo è un aspetto sul quale vogliamo insistere. Il governo agisce in modo davvero scorretto, perché interviene sul passato, retroattivamente, su rimborsi che centinaia e centinaia di lavoratori aspettano da tempo con ansia, perché in tanti sono senza stipendio. La violenza e la vigliaccheria della decisione è senza precedenti. Per noi, se le cose non cambiano, il contributo falcidiato sarà appena sufficiente a coprire piccola parte dei costi legittimamente già sostenuti. Perciò l’improvviso e inaspettato abbattimento delle risorse pubbliche, proprio mentre siamo impegnati nell’impresa di acquistare la testata, è per «il manifesto» un colpo durissimo. Non vogliamo sospettare che il nostro giornale sia il boccone più ghiotto di questa operazione distruttiva dell’informazione — quale altro giornale nazionale dà tanto spazio alle voci sindacali, politiche, sociali eculturali alternative? — ma come suggeriva un antico navigatore della politica italiana «a sospettare si fa peccato, ma spesso ci si indovina». Eliminare un giornale nazionale che non ama il presidente del consiglio e soprattutto questo governo centro-sinistra-destra, che dopo la chiusura dell’Unità è l’unico a dare voce al malessere del dissenso interno al Pd, che combatte sul fronte dei diritti del lavoro, che considera il liberismo renziano l’ultimo stadio della crisi italiana anziché la sua soluzione, può rappresentare una tentazione, un desiderio non detto. Chiudere il manifesto può essere un obiettivo politico, specialmente se si rafforza. Se, come sta accadendo da mesi, cresce in numero di copie, se al giornale guardano con interesse le anime divise della sinistra di alternativa, le infinite associazioni del territorio, i tanti movimenti sociali, gli intellettuali disinteressati e meno smarriti, le avanguardie sindacali più impegnate, gli impiegati, i lavoratori e le lavoratrici che non si arrendono, gli studenti che sperano in un futuro possibile. Tutto questo si vuole uccidere, per poche briciole di finanziamenti dovuti, e fino al mese di novembre già calcolati nel bilancio dello stato. Tuttavia ai malintenzionati diciamo subito che non sarà facile cancellare il manifesto dal panorama dell’informazione italiana. In quarantaquattro anni di vita abbiamo affrontato decine di tempeste economiche e politiche e abbiamo imparato a combattere contro i colpi bassi del potere. Per questo siamo ancora, come sempre, decisi a vendere cara la pelle. Come sempre, la nostra forza viene dal vostro sostegno, da chi ci segue da sempre come da chi ci legge da poco tempo, dai fondatori del giornale come dalle generazioni degli ultimi quarant’anni. Voi lettrici e lettori siete l’esercito, partecipe e largo, che si batte con noi nella battaglia per riprenderci la testata. E tutti noi adesso abbiamo davanti il compito più difficile: raggiungere l’obiettivo di raccogliere un milione di euro. 37 Mancano poco più di venti giorni e il traguardo è ancora lontano, anche se le vostre donazioni sono straordinarie e costanti da quando, appena un mese fa, abbiamo iniziato la lunga rincorsa verso la meta. Certo, non siamo così bravi da organizzare una cena che in una sera porta un milione e mezzo di euro nelle casse renziane. Però confidiamo in iniziative simili, e chissà se qualche mecenate (ma esistono ancora?) non sia disposto a emettere qualche sostanzioso bonifico. Tuttavia la nostra campagna deve assumere un altro passo: chi vuole continuare a leggere il manifesto deve scegliere adesso. La partita il governo vuole giocarla ora e noi dobbiamo essere in campo al massimo delle nostre forze. Non ci sono tempi supplementari. Intanto preparatevi al 18 dicembre: quel giorno saremo in edicola con un nuovo numero a 20 euro. Come già a novembre, sarà un numero speciale, a colori, con più pagine, dedicato all’anno che ci aspetta, e che vogliamo vivere insieme a voi. Per dare speranza sulla figura del nuovo presidente della Repubblica, per capire come si svilupperà la crisi in Italia e in Europa, per tenere alte le bandiere nell’arcipelago di una sinistra dei mille fiori ma con pochi bravi giardinieri. Sappiamo che la crisi morde la vita di troppe persone, e che vi chiediamo un grande sforzo. Ma se pensate al giornale del 18 dicembre come un regalo, allora forse sarà tutto più leggero. Considerate questo numero del manifesto come un dono di Natale. Se questo avverrà, sarà un segnale importante, perché ci farebbe avvistare il traguardo. Abbonamenti e donazioni sono il carburante di questa straordinaria rincorsa alla nostra testata, ma un successo del manifesto a 20 euro metterebbe solide basi al nostro spericolato e avvincente «salto con l’asta». 38 CULTURA E SCUOLA Del 9/12/2014, pag. 56 I nuovi padroni del libro nascono da alleanze globali. E anche i big italiani guardano a Europa e Usa Risiko e fusioni il Grande Gioco dell’editoria STEFANIA PARMEGGIANI I PRIMI a reagire sono stati i mercati, con il titolo Mondadori schizzato a Piazza Affari. Poi sono cominciate le voci. Non appena il Consiglio di amministrazione ha annunciato la nascita di una nuova società, separando con un taglio netto il destino dei libri da quello dei periodici, gli analisti di Mediobanca e di Kepler Cheuvreux probabilmente hanno sorriso. Da anni sostengono che il nostro mercato dei libri è troppo frammentato per difendersi dalla concorrenza dei player internazionali. Che i grandi gruppi, per resistere alla crisi economica e vincere la scommessa con il digitale, hanno un’unica strada: quella delle alleanze e delle fusioni. Mondadori, che da sola controlla il 27% del mercato italiano — anche con gli altri suoi marchi controllati al 100 per cento, e cioè Einaudi, Piemme, Sperling & Kupfer, Mondadori Education e Mondadori Electa — potrebbe sposarsi con Rcs, arrivando così a una quota del 40%. Oppure cercare una joint venture con Bertelsmann, la multinazionale tedesca che sta creando la più grande concentrazione editoriale della storia. Potrebbe anche scegliere la via più morbida delle aggregazioni industriali, stringendo patti con competitor italiani o con società straniere. Quel che è certo è che non giocherà più da sola. Non può farlo: ai piani alti dell’editoria internazionale è in corso una partita a Risiko che ha il suo cuore in Europa. È qui, dove il libro è nato, che vivono i nuovi signori della carta. Delle cinque “big five” americane solamente Simon & Schuster e HarperCollins sono a stelle e strisce. Le altre tre sono europee: Macmillan è inglese (poi acquisita da un gruppo tedesco), Hachette è francese, Penguin Random House anglo-tedesca. I gruppi che le controllano hanno conquistato gli Stati Uniti e adesso puntano all’America latina e all’Asia. Sfidano i giganti dell’high tech, come Amazon, che rischiano di trasferire il potere da chi produce contenuti culturali a chi li distribuisce. Fanno shopping di etichette, stringono alleanze con il “nemico”, ridisegnano la geografia mondiale dell’editoria. E allungano la loro ombra anche sull’Italia. C’è una data di inizio a tutto questo: 29 ottobre 2012. Il giorno del matrimonio tra Penguin e Random House. La prima, passata alla storia per avere inventato negli anni Trenta i tascabili, romanzi di qualità a sei pence, allora l’equivalente del prezzo di un pacchetto di sigarette, appar- teneva a Pearson, editore inglese che controlla il mercato dei testi scolastici in 80 paesi. La seconda a Bertelsmann, uno dei gruppi mediatici più potenti al mondo. Le due case madri quel giorno annunciano la nascita della Penguin Random House: dodicimila dipendenti in 23 paesi dei cinque continenti ed entrate per più di 3,5 miliardi di dollari, una fabbrica in grado di pubblicare 15mila titoli l’anno e di tenere nella stessa scuderia i grandi signori dei bestseller, da Dan Brown a Khaled Hosseini, da John Green a E. L. James. La fusione dà il via al Grande Gioco mondiale dell’editoria: uno dopo l’altro anche gli altri grandi gruppi cominciano a stringere alleanze, a vendere o a comprare. I primi mesi del 2014, secondo Publisher Weekly , sono uno dei periodi più agitati dall’inizio della crisi economica. Martin Levin, l’intermediario che a maggio cura l’acquisizione da parte della Rowman & Littlefield della casa editrice indipendente inglese Globe Pequot Press, spiega che i piccoli marchi «stanno uscendo dal mercato perché hanno capito che questo è il momento giusto» e che le imprese più grandi ne possono 39 approfittare per raggiungere dimensioni adeguate ai nuovi scenari globali. La tendenza non è quella di espandere il ventaglio di interessi, ma di consolidare quelli in cui sono più forti. Ad aprile Cengage Learning, un editore del Nord America, viene rilevato da Chapter 11 mentre Harper Collins, controllata dalla News Corp di Murdoch, si dà ai romanzi rosa acquisendo la casa editrice Harlequin. Hachette, prima di essere coinvolta nel durissimo braccio di ferro con Amazon, tenta di inglobare il Perseus Books Group. Lo stesso Murdoch, dopo avere fallito l’acquisizione di Penguin, sembra mettere gli occhi sulla Simon & Schuster. L’elenco redatto dalla rivista conta 24 operazioni concluse in sei mesi. Il mercato è di nuovo dinamico e anche in Italia qualcosa comincia a muoversi. Il primo editore a scen- dere in campo è proprio la Mondadori che, costituendo una società di soli libri, mette nero su bianco i suoi obiettivi: «Realizzare una struttura societaria più funzionale al potenziale conseguimento, in un’ottica di sviluppo, di opportunità di partnership e aggregazioni industriali volte allo sfruttamento di economie di scala e di scopo ». Resta il mistero sui futuri soci. In passato le banche d’affari che avevano studiato i matrimoni di settore in Italia si erano sbilanciate su Feltrinelli ed Rcs. Ma la prima è fuori dai giochi anche per la ferma opposizione di Inge Feltrinelli e si muove in altre direzioni, ad esempio alleandosi con Messaggerie italiane per creare un unico grande polo di distribuzione (l’ok dell’Antitrust è di pochi giorni fa). La seconda è tirata per la giacchetta dagli analisti di Mediobanca Securities: «Una partnership consentirebbe di ottenere sinergie significative — hanno dichiarato a Milano finanza — ed eventualmente la newco che si realizzerebbe potrebbe essere aperta a nuovi soci per considerare un processo di quotazione. Vedremmo positivamente una potenziale integrazione con la divisione libri di Rcs». Che non è intoccabile: dopo avere ceduto Flammarion per 251 milioni ad Antoine Gallimard, ha lasciato andare per la sua strada anche Skira, l’editore che alla pubblicazione di cataloghi, monografie d’artista e saggi affianca quella di produzione di mostre. Che sia la principale “indiziata” non significa per forza che debba scomparire tra le braccia di Mondadori, come si è ironizzato su Twitter. Nei dossier che da tempo circolano sulle scrivanie degli amministratori delegati dei grandi gruppi editoriali, si avanzano ipotesi meno drastiche. Gli analisti della PricewaterhouseCoopers (PwC) in uno studio che si proietta fino al 2018, consigliano l’accorpamento di alcuni asset e la cessione di altri non più redditizi. In che modo? Lo studio si limita a mettere in luce le criticità, ma seguendo quel ragionamento si può ipotizzare che Rcs e Mondadori (col suo “pezzo” più pregiato, Einaudi) trarrebbero benefici da una eventuale aggregazione dei marchi scolastici così come dalla vendita delle etichette professionali, uno dei pochi settori in Italia dove i gruppi internazionali, da Pearson a Wolters Kluwer, hanno messo radici. Joint venture internazionali per la narrativa sembrano più complicate. Bertelsmann, che in passato è già stato partner di Mondadori e che ancora oggi è socio nei periodici Focus e Geo tramite la controllata Gruner+ Jahr, sta facendo incetta di case editrici un po’ ovunque. Quando due anni fa è diventato proprietario unico della spagnola Mondadori Random House, liquidando il 50% che era in mano al gruppo di Segrate, ha svelato il suo disegno: conquistare l’America latina. Proposito rafforzato a luglio con l’acquisto del segmento trade del marchio Santillana Ediciones Generales. L’Italia rientra nella campagna acquisti? Difficile dirlo, il nostro mercato ai suoi occhi è molto piccolo, ma è anche vero che il mondo dei libri è attraversato da una rivoluzione dei contenuti: sempre più storie nascono per essere raccontate su più media, l’editore sta diventando produttore di un universo narrativo che racchiude, fin dall’inizio, serie televisive, contenuti web, audio-racconti, film. In questo scenario la Mondadori e Bertelsmann — o altri editori internazionali — potrebbero siglare nuove alleanze. Siamo solo all’inizio, il Risiko è in corso, la mappa mondiale dell’industria del libro non è ancora definita. 40 del 09/12/14, pag. 11 L’immane vittoria dei ricchi Marco Bascetta Pamphlet. "La lotta di classe esiste e l'hanno vinta i ricchi", un saggio di Marco Revelli per Laterza Lo scenario che Marco Revelli ci sottopone in un piccolo volume La lotta di classe esiste e l’hanno vinta i ricchi (Laterza pp. 96, euro 9), non si discosta di molto da quello percorso in lungo e in largo nel monumentale bestseller di Thomas Piketty, Il Capitale nel XXI secolo: uno spaventoso incremento del divario tra i più ricchi e i più poveri, tanto che lo si consideri a livello globale, tra i diversi paesi o all’interno di singoli stati. Divario che non ha smesso di crescere a partire dalla metà degli anni Settanta, dalla fine dei cosiddetti «30 gloriosi» anni che hanno seguito la fine della seconda guerra mondiale. Il fenomeno è da tempo ammesso e certificato da tutti gli organismi internazionali che non mancano di sottolinearne le proporzioni drammatiche. Alla fine del secolo scorso, dopo 25 anni di politiche liberiste, l’1% più ricco della popolazione mondiale riceveva un reddito pari a quello del 57% più povero, risultato che non sembra tuttavia sufficiente a rimetterle in discussione. Tanto è vero che il nuovo secolo non ha affatto invertito la rotta, semmai ha impresso un’accelerazione. Questo vertiginoso aumento della diseguaglianza poggiava e poggia, oltre che su concrete scelte politiche, su una ideologia tra le più dogmatiche che la modernità abbia mai conosciuto. Ed è dunque sugli elementi basici di questa ideologia e sul loro palese attrito con la realtà empirica che Revelli concentra la sua analisi. Le politiche di diminuzione della pressione fiscale sui redditi più elevati, sulla rendita e sui patrimoni maggiori, con il conseguente smantellamento dello stato sociale e contenimento dei livelli salariali si autolegittimavano sostenendo che dall’incremento delle ricchezze più cospicue qualcosa sarebbe «sgocciolato» sulle fasce più povere della popolazione. Che, insomma, dall’arricchimento dei ricchi, tutti, alla fine avrebbero tratto qualche vantaggio. Così recitava la teoria del trickle down. Che, come ogni dogmatica che si rispetti, non mancava di avvalersi delle sue belle espressioni geometriche. In questo caso due eleganti curve, quella di Laffer (professore in una business school negli anni Settanta) e quella di Kuznets (studioso dello sviluppo economico e premio Nobel nel ’71). La prima curva intendeva dimostrare che, oltre un certo tetto, la crescita dell’aliquota fiscale determina una diminuzione del gettito. In altre parole se le tasse sono troppo elevate gli alti redditi o evadono o incrociano le braccia, e lo Stato cessa di incassare. Su quale sia, però, il punto di equilibrio oltre il quale la progressività fiscale diventerebbe dannosa, la «scienza» non si arrischia a sentenziare. Anche perché la progressione è relativa al rapporto con altre fasce di reddito, tutte con la loro soglia di insopportabilità fiscale, oltre la quale l’inattività o il lavoro nero potrebbero rivelarsi una scelta conveniente, soprattutto in società in cui il lavoro autonomo e precario tende a moltiplicarsi sempre di più. Anche tassare eccessivamente i poveri può dunque comportare qualche problema per le casse dello Stato. In ogni modo la teoria del «gocciolamento», nella sua rozzezza apologetica, non teneva in nessun conto quel processo, ormai avanzatissimo, di separazione della ricchezza da qualsivoglia contesto di sviluppo sociale che avrebbe dato luogo al mondo parallelo e impermeabile dei circuiti finanziari, né la tendenza dei mercati a concentrare e drenare, più che ad annaffiare gli strati più deboli della popolazione e la loro capacità di consumo. Una visione gerarchica, quella del trickle-down, buona magari per condizioni da ancien régime o per più recenti regimi clientelari, dove qualche elemosina 41 effettivamente «sgocciolava», ma del tutto inapplicabile alla realtà del capitalismo contemporaneo che la ha palesemente smentita. La seconda curva, quella di Kuntzes ci rassicura invece sul fatto che nel corso dello sviluppo il tasso di diseguaglianza (misurato dall’indice di Gini, il rapporto tra la ricchezza del primo e dell’ultimo percentile) cresce solo in una prima fase, ma poi, raggiunto un punto di massimo squilibrio, tende rapidamente a decrescere. Al culmine dell’ottimismo progressista lo stesso andamento consolatorio verrà attribuito anche al degrado ambientale che, in crescita nelle fasi iniziali dello sviluppo industriale, sarà poi progressivamente ridotto da una innovazione tecnologica sempre più raffinata. Le analisi ad ampio raggio di Piketty e i dati riportati da Revelli dimostrano, invece, che la diseguaglianza continua a crescere a dismisura, tanto che il punto di «massimo squilibrio» previsto dalla curva di Kuntzes potrebbe corrispondere a un grado di barbarie e di oppressione dal quale non vi sarebbe ritorno se non nei termini di una rottura traumatica. Eventualità di fronte alla quale i modelli matematici sono ridotti al silenzio. Ma intanto il capitale «prende tempo». Il problema è che la diseguaglianza, che «sgoccioli» o meno sui più sfavoriti, non è un elemento oggettivo, un fattore neutro o un significato univoco. Ai vertici della gerarchia è considerata un valore, alla sua base, almeno quella non accecata dalla fabbrica delle illusioni, un male. Certo la storia della modernità impedisce di considerare la diseguaglianza come un valore assoluto, di natura, per così dire, eugenetica, ma è anche vero che nel corso dell’ultimo trentennio il valore delle ineguaglianze è diventato sempre meno relativo, sempre più apertamente elogiato, avvalendosi anche del corso fallimentare preso dalle esperienze «egualitarie» di Stato del Novecento. Di qui la coesistenza tra retoriche politiche che denunciano la drammaticità degli squilibri economici e sociali e pratiche politiche che tendono a conservarli, quando non ad accrescerli. Di fronte a questo cupo scenario di devastante sconfitta dell’idea egualitaria, la «lotta di classe» che conferisce il titolo al volume sembra scomparire del tutto al suo interno. Si intende con questo che la «vittoria dei ricchi» coincide con la sua scomparsa? Che la fine della storia non è solo ideologia dominante, ma anche un elemento di realtà? Tanto nel libro di Piketty, quanto nella sintetica analisi di Revelli si ha l’impressione di assistere al passaggio da una «Storia storica» a una «Storia inorganica», la quale nel descrivere senza reticenze il mondo iniquo e devastato prodotto dalla controrivoluzione neoliberista, ne proietta l’implosione verso un punto di «massimo squilibrio» in cui le contraddizioni di sistema non saranno più controllabili, su una curva di Kuntzes che si arresta a metà, smentendo l’ottimismo del suo ideatore. Laddove si produce, per dirla con Robert Kurtz, «il collasso della modernizzazione», la catastrofe dell’economia di mercato. Se è vero che per il capitale la vittoria nello scontro di classe consiste nel decretarne la scomparsa, nella negazione del ruolo storico che esso ha svolto nello sviluppo delle società, è pur vero che la sconfitta non può condurre la controparte alle medesime conclusioni. Che molte armi del passato siano ormai spuntate è una circostanza difficile da negare, ma che spetti ancora alla dimensione della lotta e non a un ravvedimento illuministico da parte del potere imporre una inversione di rotta lo è altrettanto. 42 ECONOMIA E LAVORO del 09/12/14, pag. 2 Francia e Italia, sotto tiro Anna Maria Merlo Eurogruppo a Milano. In primavera nuovo esame per Roma e Parigi, che rischiano multe per debito e deficit eccessivi. La Francia cerca di calmare i toni, dopo le ingiunzioni di Merkel e la secca risposta di Mélenchon: "Chiudi il becco, Frau Merkel". Mercoledì sarà presentata la legge Macron sulle liberalizzazioni, dal lavoro la domenica fino a licenziamenti facili. La Francia cerca di calmare il gioco con Bruxelles – e la Germania – a due giorni dalla presentazione in Consiglio dei ministri della legge Macron, un testo “prenditutto” sulla “crescita e l’attività”, che si propone di liberalizzare su tutti i fronti, dalle professioni regolamentate al lavoro la domenica fino alla facilità di licenziamento. Il governo non ha la maggioranza, il Ps è spaccato, l’ala sinistra minaccia di votare contro: Valls rischia quindi un “incidente” e di dover ricorrere al 49–3, cioè di dover chiedere la fiducia, per far passare la riforma. Questa “riforma” dovrebbe servire per convincere Bruxelles e Berlino che la Francia è “sulla buona strada”, alla pari del Jobs Act italiano. E’ questo il commento del ministro delle finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, che ha cercato di correggere l’intervento di Angela Merkel, domenica su Die Welt, dove la cancelliera ha ricordato che gli sforzi di riforma di Italia e Francia “non sono ancora sufficienti”. Pochi giorni prima, il commissario all’economia, il tedesco Günther Oettinger, aveva violentemente criticato la Francia. Ieri, l’Eurogruppo ha esaminato a Bruxelles i giudizi della Commissione sui bilanci dei 18 paesi della zona euro, resi noti a fine novembre dalla Commissione. Il testo del comunicato finale è stato emendato rispetto a una prima stesura, più dura, per evitare di irritare Parigi: sono suggerite “misure addizionali” da mettere in opera, ma l’Eurogruppo evita di dare delle cifre (una sforzo strutturale “migliorato” fino allo 0,5% del pil per la Francia). Il ministro delle finanze, Michel Sapin, ha affermato ieri che “il principale senso del messaggio di Angela Merkel è che dobbiamo attuare le riforme, aspetta un passaggio all’atto, nulla di più”. Per Sapin, “Merkel non pensa al 2012 o 2013, ma fa soprattutto riferimento al 2003. Quando Parigi e Berlino non hanno rispettato il patto di stabilità, ma poi la Germania si è riformata, mentre la Francia non lo ha fatto”. Sapin ha cercato di riportare un po’ di calma, dopo che domenica Jean-Luc Mélenchon del Front de Gauche ha risposto con un secco tweet all’intervista di Merkel a Die Welt: “Maul zu, Frau Merkel” (chiudi il becco, signora Merkel). Sapin spera che, con la riforma Macron e grazie al ribasso di petrolio e euro (rispetto al dollaro) i conti possano migliorare (ha annunciato la settimana scorsa un deficit al 4,1% nel 2015, un po’ minore del 4,3% inizialmente previsto). Ci sono poi i 600 milioni che Bruxelles dovrebbe restituire alla Francia, che avrebbe versato troppo per il bilancio Ue del 2014. Macron ha persino messo in vendita il 49% dell’aeroporto di Tolosa – decisione che sta scatenando un putiferio – venduta a una società cinese (in alleanza con dei canadesi che l’Fmi ha escluso dai mercati mondiali per malversazioni): in tutto, 300 miseri milioni di euro. In altri termini: la Francia raschia i fondi dei cassetti per trovare dei soldi ed evitare le “sanzioni” di Bruxelles. In ogni caso, Italia e Francia avevano già ottenuto tre mesi di proroga, l’esame della Ue è rimandato alla 43 prossima primavera e solo allora potranno esserci decisioni rispetto a eventuali multe per deficit (Francia) o debito (Italia) eccessivi. La Commissione allenta un po’ l’applicazione degli automatismi del Six Pack e del Two Pack, ma continuerà a lavorare ai fianchi Italia e Francia, perché si pieghino ai diktat del Fiscal Compact. “Misure addizionali sono necessarie” ha ribadito il presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem. L’Eurogruppo di ieri ha anche rimandato una decisione sulla Grecia. Il “piano di aiuti” ad Atene dovrà venire prolungato nella prima parte del 2015. Per versare l’ultima tranche di 1,8 miliardi di euro, la troika chiede nuovi “sforzi” alla Grecia (altri 2–3 miliardi di tagli al bilancio). Una richiesta politicamente insostenibile. La Ue ha paura di Syriza, che sale nei sondaggi. Nessuna decisione neppure per la Tassa sulle transazioni finanziarie (Ttf), che avrebbe dovuto tassare in 11 paesi (tra cui l’Italia) allo 0,1% le transazioni in azioni e allo 0,01 i prodotti derivati. Ormai, la Ttf è quasi sotterrata e i 30 miliardi di euro promessi stanno sfumando: le banche (in primo luogo le francesi) non la vogliono e non c’è più nessun governo che si batta per la sua attuazione. Del 9/12/2014, pag. 6 Eurogruppo all’Italia: “Maggiori sforzi” Padoan: “Non ci chiede manovra extra” I ministri confermano il rinvio a marzo del giudizio sul nostro Paese e su Francia e Belgio. Berlino corregge il tiro: “Rispetto per le vostre riforme” ANDREA BONANNI Italia, Francia e Belgio «devono prendere misure addizionali tempestivamente per affrontare il ‘gap’ evidenziato della Commissione e rispettare l’appropriata convergenza verso l’obiettivo di medio termine e il rispetto della regola del debito». Sono queste le conclusioni dei ministri dell’Eurogruppo, che ieri a Bruxelles hanno convalidato la decisione della Commissione di rinviare a marzo il giudizio sui tre Paesi che sono «a rischio di non rispettare il Patto di Stabilità». Al di là della formula generica, il giudizio su Italia e Francia è però abbastanza diverso. La Francia, che si trova già da anni sotto procedura per deficit eccessivo, e rischia di essere penalizzata con una multa molto salata, deve portare la correzione di bilancio dallo 0,3 attuale allo 0,8 per cento del Pil. Per questo l’Eurogruppo chiede chiaramente a Parigi di adottare «misure aggiuntive per consentire un miglioramento dello sforzo strutturale». L’Italia, che non è sotto procedura per deficit eccessivo ma rischia di entrarvi pur essendo ancora lontana dalla minaccia di multe, presenta anch’essa uno scostamento tra la correzione varata dal governo e quella chiesta dall’Europa. Ma tra Roma e Bruxelles c’è una divergenza sulle cifre. L’eurogruppo ci chiede una correzione dello 0,5 per cento del Pil, a fronte della quale la Commissione calcola che il governo nella Finanziaria abbia fatto uno sforzo pari solo allo 0,1 per cento. Roma invece sostiene che la correzione di bilancio già approvata è dello 0,3 per cento: la differenza rispetto all’obiettivo sarebbe dunque di solo 0,2 punti percentuali. Questo spiega l’estrema prudenza usata dell’Eurogruppo, che sollecita a Roma «misure efficaci che potrebbero essere necessarie per consentire un miglioramento dello sforzo strutturale ». 44 In altre parole, se le previsioni del Tesoro sulla finanziaria si rivelassero esatte, e se le misure già adottate si dimostrassero ancora più «efficaci» del previsto, l’Italia potrebbe evitare una nuova correzione di bilancio. In caso contrario, comunque, lo sforzo richiesto per evitare l’apertura di una procedura di infrazione sarebbe dell’ordine dello 0,2-0,4 del Pil. Mentre tra Roma e Bruxelles proseguono consultazioni febbrili, il commissario agli affari economici Moscovici ha annunciato che a fine gennaio si farà nuovamente il punto della situazione, poco prima delle previsioni economiche d’inverno. Ieri il ministero dell’Economia ha commentato con soddisfazione le conclusioni dell’Eurogruppo. «Dalle indicazioni dell’Eurogruppo non emerge nè l’esi- genza nè la richiesta di una manovra finanziaria aggiuntiva, quanto piuttosto l’esigenza di accelerare l’attuazione delle riforme strutturali con grande determinazione », ha detto il portavoce del ministro. E lo stesso Padoan conferma: «nessuna richiesta di misure aggiuntive: la legge di stabilità 2015 attuata in modo efficace rilancerà economia italiana ». In realtà Bruxelles ha già concesso all’Italia uno sconto ben più sostanzioso rispetto allo sforzo che il Patto di stabilità ci imporrebbe sulla riduzione del debito, con un taglio che si aggirerebbe attorno al 2 per cento. Nel suo comunicato finale, infatti, l’Eurogruppo «riconosce che le circostanze economiche sfavorevoli e l’inflazione molto bassa hanno complicato il raggiungimento del target di riduzione del debito e il pieno rispetto della regole del debito appare molto esigente a questo stadio». Tuttavia l’Europa avverte che «l’alto livello del debito resta una causa di preoccupazione». Ieri anche dalla Germania sono arrivati toni molto più concilianti, dopo l’intervista in cui la cancelliera Merkel aveva definto «insufficienti» gli sforzi di risanamento dell’Italia e della Francia. Entrando in Consiglio, il ministro tedesco delle Finanze, Schauble, ha riconosciuto i progressi compiuti dal governo Renzi: «Se si guarda agli sforzi compiuti nelle ultime settimane, l’Italia ha passato in Parlamento una importante riforma del mercato del lavoro. Stiamo andando tutti nella giusta direzione e anche la stessa Germania deve fare uno sforzo aggiuntivo». Del 9/12/2014, pag. 6 Mancano all’appello 6-7 miliardi ma Roma resta in trincea “Altre misure sarebbero dannose” ALBERTO D’ARGENIO «Se pensano di aprirci la procedura sul debito poi saranno loro, e non noi, ad avere un problema». La linea del governo italiano di fronte all’ennesimo richiamo dell’Unione sui nostri conti pubblici è netta: «Non esiste, noi un’altra manovra non la facciamo, se la scordino, aggraverebbe solo la situazione economica». Questo il pensiero espresso dai più stretti collaboratori di Renzi, da coloro che sono in costante contatto con il premier. E anche se c’è ottimismo sul fatto che alla fine, a marzo, Bruxelles non adotterà la linea dura con Roma, a Palazzo Chigi si affilano le armi per l’eventuale scontro. La dichiarazione sottoscritta dai ministri finanziari della zona euro è minacciosa. Accolgono l’analisi della Commissione europea: l’Italia pur rimanendo sotto il 3% nel rapporto tra deficit e Pil, non ha tagliato sufficientemente il disavanzo con ripercussioni sul debito pubblico, che anziché calare continua a crescere, l’anno prossimo al 133,8%. Una montagna che spaventa i partner Ue e che viola il Fiscal Compact. Non solo, anche 45 l’Eurogruppo, come già la Commissione, non riconosce parte del risanamento messo in campo dalla Legge di Stabilità: secondo il governo l’anno prossimo il deficit strutturale scenderà dello 0,3%, secondo Bruxelles solo dello 0,1%. Questioni di complicatissime metodologie di calcolo che non coincidono. Ma in ballo ci sono il debito che non scende e tanti soldi, con Roma che per rispettare alla lettera le regole potrebbe essere costretta a sborsare fino a 6-7 miliardi. Pena una procedura per il mancato rispetto della regola del debito che imporrebbe al governo abbondanti dosi di austerity e potrebbe sfociare in sanzioni pecuniarie. Per ora l’Italia prende tempo. Non a caso ieri Padoan dal chiuso dell’Eurogruppo twittava: «Nessuna richiesta di misure aggiuntive, la Legge di Stabilità 2015 attuata in modo efficace rilancerà l’economia». Primo, per il Tesoro quando Bruxelles rifarà i calcoli potrebbe avvicinarsi a quello 0,3% di aggiustamento previsto da Roma. Secondo, anche se mancasse qualche decimale, a Via XX Settembre pensano che l’accelerazione sulle riforme già decisa da Renzi potrebbe far crescere il Pil più dello 0,6% previsto, migliorando automaticamente lo stato dei conti. Speranze che però difficilmente si avvereranno in toto. E dunque a marzo probabilmente si andrà allo scontro, come già avvenuto a ottobre e poi ancora a novembre con la decisione di Juncker di rinviare a primavera. Dal Tesoro si limitano a osservare che «una manovra aggiuntiva sarebbe selfdefeating, peggiorerebbe l’economia ». Filippo Taddei, responsabile economico del Pd molto ascoltato da Renzi, lo dice chia- ro e tondo: «Sarebbe del tutto inopportuno mettere di nuovo mano al portafoglio nel 2015». Per ora la strategia contempla l’accelerazione sull’attuazione delle riforme — come già annunciato da Renzi dopo il downgrade di Standard and Poor’s — a partire dai decreti attuativi del Jobs Act. Sarà questa la carta che Renzi e Padoan metteranno sul tavolo di Bruxelles, sperando di chiudere la partita grazie all’avanzamento delle riforme. In caso contrario, se la Commissione si impuntasse sui decimali, sarà scontro. Con il premier pronto ad alzare i toni, come d’altra parte ha già fatto negli ultimi vertici europei quando in roventi bilaterali con Barroso e Van Rompuy — ora sostituiti da Juncker e Tusk alla guida della Commissione e del Consiglio — non ha esitato a minacciare pesantissime ritorsioni contro l’Europa se i conti italiani fossero stati commissariati con successive richieste di manovre monstre. Argomenti che il premier, se necessario, è pronto a usare ancora con i capi delle istituzioni Ue e con la stessa Angela Merkel, che vedrà a quattr’occhi a fine gennaio a Firenze. Alla fine la scelta sarà politica e l’Italia porrà l’Unione e la Germania di fronte a questa scelta: «Volete aprirci una procedura rischiando di far saltare tutto per qualche decimale?». In altri tempi, quando l’austerità regnava a Bruxelles, la strategia sarebbe stata perdente: oggi invece, con la rotta che sta lentamente cambiando, la partita è aperta. del 09/12/14, pag. 3 Ocse: «La crisi mette a rischio la tenuta del sistema previdenziale» Ro. Ci. Pensioni. Ancora una richiesta di riforma del sistema: "Aumentate l'età pensionabile e le tasse sui redditi da pensione" La superiorità della spesa previdenziale rispetto a quelle degli altri Stati europei è sempre stata indicata come l’anomalia del welfare italiano. Su questo sentiero procede, ancora una volta, il pensions outlook 2014 dell’Ocse secondo il quale l’Italia è al primo posto tra i 46 paesi industrializzati per l’incidenza delle pensioni sulle casse statali (il 32%), anche se le ultime riforme favoriscono la sostenibilità finanziaria del sistema. Per invertire la tendenza la ricetta è sempre la stessa: aumentare le tasse sui redditi dei pensionati (secondo l’Istat il 41% non supera i mille euro e non riesce ad arrivare alla fine del mese) e aumentare l’età pensionabile effettiva. Nonostante la riforma Fornero, e i suoi errori catastrofici (vedi gli esodati), l’età media di chi va in pensione in Italia continua a essere bassa: 61,1 anni per gli uomini, 60,5 per le donne, rispetto alla media Ocse rispettivamente del 64,2 e del 63,2 per cento. C’è poi l’invito a aumentare il tasso di partecipazione al mondo del lavoro degli ultra 55enni, che in Italia è aumentato seguendo i ritmi europei. «Aumentare l’età effettiva di pensionamento è una delle riforme che può aiutare i paesi in tempo di crisi, ma sono necessari maggiori sforzi per assistere i lavoratori anziani a trovare e mantenere posti di lavoro». Immancabile è l’appello al ricorso alla previdenza integrativa che è aumentata tra i dipendenti dal 2007, coinvolgendo nei paesi Ocse 12,2 milioni di persone. Il primato italiano nei paesi industriali, in realtà, non è tale da far scattare l’allarme rosso. Lo ammette persino l’Ocse che nel report diffuso ieri ha registrato la crescente sostenibilità del sistema italiano. Le percentuali sono infatti ben diverse: nel 2013 lo Stato ha speso 272,7 miliardi in trattamenti previdenziali. Unico paese dell’area Ocse l’Italia include in questa spesa il pagamento del Tfr, pari all’1,7% del Pil, e quello per i prepensionamenti che in realtà sono ammortizzatori sociali. La spesa pensionistica reale sarebbe dunque inferiore rispetto a quella registrata nel report. La sua incidenza sul Pil scenderebbe al di sotto della media europea (che è del 15,2% nell’UE a 15, del 15% nell’UE a 27), come ha dimostrato il rapporto sullo Stato sociale 2013 curato da Roberto Felice Pizzuti. Nel 2015 la spesa pensionistica italiana arriverà al 14,9% del Pil. Per il futuro, il rapporto si collocherà a un livello del 16% nel quadriennio 2012–2015 per stabilizzarsi al 15,7% entro il 2050. Valori in linea con gli altri paesi, se non inferiori. Anche quest’anno l’Ocse pone il problema della sostenibilità del sistema per quanto riguarda i giovani, sempre più precari e impossibilitati ad entrare nel «mercato del lavoro». Quello che nel frattempo avranno versato non servirà a garantirgli una pensione. Questa è la contraddizione drammatica in cui sopravvivono i sistemi pensionistici. Ai governi viene consigliato di promuovere «campagne di sensibilizzazione per ricostruire la fiducia nei giovani». Per garantire loro una tutela bisogna nuovamente riformare le pensioni. Non nel senso di ricostruire un principio di giustizia sociale, e di inclusione, ma per allungare l’età pensionabile e le tasse a chi una pensione ce l’ha già. La contraddizione verrà aggravata dalla crisi: l’allungamento dell’età pensionabile non amplierà l’occupazione nella popolazione in età attiva dato che la crescita continuerà a restare «anemica», la precarietà diffusa e di massa. Senza contare che questo sistema non garantisce un reddito dignitoso a chi, nonostante tutto, è riuscito ad andare in pensione. 47
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