1 Sì che abbiamo ben meritato dopo quanto abbiamo “costruito” E’ SEMPRE PIU’ EMERGENZA PER LA QUESTIONE CLIMATICA di MICHELE SESSA Fenomeni metereologici da far accapponare la pelle, nei mesi primaverili più belli! Aprile, maggio, giugno e luglio…da ricordare. Giove pluvio ed Eolo l’hanno fatta da padroni. I fiori e le piante soffrivano…assetate di sole. E perché? In cinquant’anni si è perso un quinto della superficie della foresta amazzonica e la conseguenza è sempre più tangibile. L’innalzamento dei mari minaccia tanti piccoli stati insulari. Il clima va male. Il riscaldamento globale della terra è più veloce del previsto. La CO2 nell’atmosfera è ai massimi storici. Incombono alluvioni, desertificazioni, scioglimento dei ghiacciai. Disastri in tutte le latitudini, disastri naturali, ambientali…catastrofi! Coscienza, svegliati! Il mondo va in frantumi… L’uomo si ravveda; pensi di più al suo futuro. Preziosa è la salute: la salvaguardi. A che vale il vile denaro senza la salute? La salute : ATTENZIONE: - l’efficienza e la prestanza, più necessarie di qualsiasi altro possesso materiale. Difendiamole e difendiamoci, osservando le regole della Natura; onorando la Natura; perché si comporti poi da Mamma e non da matrigna! Confortando le nostre esigenze del buon vivere… E poi una estate così! Dobbiamo riconoscere che meritiamo proprio quanto continuamente, giorno per giorno, costruiamo. MEA CULPA, MEA MAXIMA CULPA: oh, quanto ci sarebbe da fare! Abbiamo avuto gli occhi chiusi quando i palazzinari costruivano vicino alle foci dei fiumi e sulle montagne, disboscando e cementificando intorno a vulcani attivi e al Vesuvio. Ora ci lamentiamo per uan estate bizzarra… Quanti danni ci siamo creati. Diceva un geologo amico che oramai “il sistema idrogeologico in Italia è sclerotico” Quanti condoni ai palazzinari illegali! Altro che condoni, ci vorrebbe proprio altro, proprio ben altro! Ci lamentiamo del cambiamento climatico globale? INVENTIAMO pene severe per adeguarci. “ UOMINI, VIL RAZZA DANNATA” CON I RIFIUTI E GLI EGOISMI AVETE INTOSSICATO E DISTRUTTO LE BELLEZZE DEL MONDO, NON SOLO L’ESTATE!” 2 GALLERIA DEL CONCORSO E DELLA GIORNATA ECOLOGICA A A - Con il Premio di Eccellenza al Prof. Gennaro PIPINO dell’Università di Lugano (Svizzera) - 2° da sx, i Premi Speciali al Magnifico Rettore dell’Università degli Studi di Salerno, Prof. Aurelio TOMMASETTI - 2° da dx, al Signor Francesco GALDIERI della Petroli Galdieri e Autoconcessionaria Fiat - 1° da sx, e al Dott. Domenico SESSA, Presidente della BCC di Fisciano (SA) - 1° da dx. C D B B - Con i Premiati, il Sig. Sindaco del Comune Città di Fisciano, Avv. Tommaso AMABILE; C e D - I Musicisti premiati dall’On.Avv. Tino IANNUZZI, Vice Presidente della Commissione Ambiente della Camera dei Deputati. 3 La Scolaresca dell’Istituto Superiore Scientifico di Baronissi vincitrice del Trofeo della Presidente della Camera dei Deputati Una veduta della Cerimonia di premiazione del XXV Concorso sulla Ecologia Il Sig. Sindaco della Città di Fisciano (SA) consegna la Medaglia celebrativa del Signor Presidente della Repubblica Italiana Giorgio Napolitano Con l’AEROPAGO Letterario a Furore (costiera Amalfitana) per la XXV GIORNATA ECOLOGICA 4 Esiste ancora la critica? – E’ oggi penalizzato il valore letterario? UNO SGUARDO ALLA CRITICA LETTERARIA ITALIANA DEL NOSTRO TEMPO di FRANCESCO CAIAZZA Nel corso dei nostri studi liceali e universitari di parecchi decenni fa, i docenti ci hanno insegnato a leggere e approfondire la critica letteraria per comprendere appieno un’opera analizzata sotto ogni aspetto. Per la verità, a quell’epoca attingevamo a fior di critici e studiosi, che ci avviavano a cogliere il senso letterale e metaforico, incardinati nell’epoca della successione dei fatti narrati. Ma, sinceramente, ci affascinavano anche con un linguaggio e argomentazioni stringenti, sulla base di una straordinaria ampiezza di vedute che, a dir poco, ci coinvolgevano al punto da ritenere condivisibili le loro dimostrazioni. Questo anche quando andavano a sconvolgere le nostre convinzioni consolidate, (quanto a me, ricordo solo che non mi lasciai sedurre dal giudizio di Benedetto Croce sul valore oratorio dei Promessi Sposi, giudizio poi ritrattato: ero, e sono, troppo “innamorato” di un romanzo straordinariamente ricco di un fascino unico e inimitabile, nonché di valori veri ed eterni). A quell’epoca, mi riferisco all’immediato secondo dopoguerra, la critica si configurava come una vera e propria ricerca dello studioso, sul modello dello scienziato: ci scoprivano orizzonti sconosciuti, interpretazioni ricche di fascino, particolari inediti… Il tutto in una visione d’insieme nella quale confluivano la sensibilità della componente umana di un autore, la dimensione storica e quella ambientale in cui si realizzava. Non per questo, tuttavia, una valutazione sostanzialmente personale fosse sufficiente a “consacrare” definitivamente un lavoro se non veniva suffragato da diverse voci. Del resto, era necessario che ai fruitori degli studi della critica giungesse una valutazione che facesse riferimento ai valori e ad un’analisi stilistica sostanzialmente condivisibili, se non proprio condivisi, secondo studi riconosciuti affidabili e seri dalla cultura corrente, che altro non è se non il risultato anche delle mutazioni socio-politiche di una comunità nazionale. Questo perché l’analisi di un testo non può mai considerarsi un fenomeno statico, immobile, perché è il frutto di un’ampia varietà d’interpretazioni. Del resto, il giudizio critico altro non è che il risultato di una condizione sociale, storica, culturale durante la quale si è formulato, pertanto è soggetto a mutazioni, direi, fisiologiche. Perciò i risultati di uno studio dipendono dai modi diversi di approccio ai fenomeni letterari, per cui nei decenni si sono succeduti vari aspetti di un’analisi critica di un’opera letteraria: dal metodo “storico” si passa a quello idealistico, dal concetto della letteratura nazionalpopolare a quello della letteratura sociologica, dal rapporto letteratura e società alla critica ermetica, fenomenologica, psicanalitica, stilistica, semiologica. Intanto, in alternativa allo strutturalismo, che si fonda su orientamenti sistematici di natura, definirei, scientifica, si è andata affermando l’ermeneutica, che si libera dei lacci di un modello totalizzante, esaltando l’autonomia e la soggettività del critico, che è fondamentale per cogliere i veri significati, per nulla standardizzati, di un lavoro letterario. Quanto alla critica semiologica, si ritiene che Cesare Segre rappresenti una delle personalità di maggiore spicco, in sostanziale sintonia con Umberto Eco, che ha adottato, a sua volta, la semiologia come terreno privilegiato delle sue teorie, contestando i fondamenti ontologici dello strutturalismo formalistico. Oggettivamente, non mancano al critico d’oggi, pur denunciando una sorta di disagio, un’armoniosa varietà di linguaggio e una sostanziale originalità espressiva, in quanto egli soccorre il suo ragionamento con l’apporto di una componente linguistica, tipica delle comunicazioni settoriali o specifiche di particolari ambienti socio-culturali. Si ha, tuttavia, l’impressione che sia in qualche modo saltato il concetto che egli debba ripercorrere il prodotto letterario nel quadro di un sistema di valori, che riguardano la validità del soggetto e la comunicazione utilizzata per trasmetterlo al lettore, fermo restando il diritto di chi scrive di partire da una sua personale 5 visione, legata alla sua formazione, alla sua cultura, alle sue idee politiche, morali…, per cui può liberamente privilegiare una visione idealistica, invece che realistica, romantica o sociologica, stilistica o psicanalitica. A tal proposito opportunamente Ezio Raimondi annotava che si dovesse condividere il concetto che la letteratura “custodisce l’eterno presente del passato e un critico letterario deve pensare che un testo non è il passato ma il presente incarnato in un oggetto fragile ma individuato”. Quindi, pur essendo la letteratura un divenire inarrestabile, non bisogna mai cancellare la tradizione, se non altro per creare rapporti d’interdipendenza fisiologici tra di loro. Questo perché egli concepisce l’analisi come esigenza di indagare in profondità le strutture di un lavoro, “cogliendone i diversi gradi di complessità e di ambiguità”. Parte dal presupposto che ogni lavoro letterario racchiude un senso non palese che il lettore deve riuscire a cogliere, ricorrendo a opportuni accorgimenti. Del resto fino ad un certo momento storico, il punto di vista di ciascun critico aveva la sua collocazione in una visione unitaria, in grado di contemperare l’approccio personalistico e quello oggettivistico, per il fatto che si sentiva la necessità di interagire sia che si partisse dall’indagine nel settore della semiologia sia che si prendesse in considerazione lo strutturalismo proveniente dalla cultura d’oltralpe. A questo punto, però, mi va di condividere l’opinione di Cesare Segre: “che la critica letteraria sia in crisi è da qualche anno che lo si dice, e alla fine bisogna riconoscerlo, anche se con molti distinguo”. Prima degli anni Ottanta era la totalità l’ambizione primaria del critico. “Ogni nuovo procedimento o punto di vista trovava il suo posto in un sistema. Oggi la seduzione della totalità è appassita e ci si può inoltrare nella foresta letteraria, seguendo sia la segnaletica ufficiale sia richiami d’altro genere: l’importante è raggiungere in qualunque modo una qualche gratificante, o esaltante, comprensione. La “foresta letteraria” fa pendant con il “bosco narrativo” delle lezioni americane di Umberto Eco. Prospetta, poi, qualche possibilità per uscire fuori dalla crisi, col ritorno al particolare, sull’esempio dei Paesi più evoluti d’Europa. A questo punto ci chiediamo: a che è dovuta la crisi della critica che sembra non abbia sbocchi, almeno nell’immediato? E’ tangibile un diffuso scetticismo in questa fase, perché è evidente un disagio, neanche troppo latente, della critica letteraria, in quanto va imperversando una dilagante invasione dei diversi media, che aggiornano con impeccabile tempestività il loro linguaggio, proponendo la presenza massiccia delle immagini di grande efficacia. Da qui il calo dei cultori di questo settore, che viene confinato a un prodotto di nicchia, sempre più scarsamente “visitato” dai tradizionali fruitori, che, tutt’al più possono accostarsi alle opere di grande spessore, che fanno bella mostra di sé magari nelle biblioteche o in occasione delle grandi manifestazioni culturali. Da condividere a tal proposito l’osservazione di Antonio Piromalli, impegnato da tempo a mettere al centro della sua speculazione lo storicismo e l’impegno civile, che, affrontando il tema delle culture “minori” proprie delle masse, critica l’opportunismo dello studioso manierato che si schiera dalla parte del potente di turno. Da citare altresì l’impegno, tra i tanti, di Renato Barilli, che si è occupato di letteratura contemporanea e del postmoderno, con particolare riferimento a quella italiana. Si aggiunge il calo d’interesse della gran parte della stampa quotidiana e periodica, anche perché il ritmo vorticoso della vita la fa concentrare sulle cronache di natura politica, economica, sociale, mondana e di costume. A meno che non si tratti di eventi eclatanti che investono personaggi di rilievo o colgono aspetti sorprendenti di attualità. In questi casi più che un lavoro critico serio, si tratta di uno scoop, di “rivelazioni scandalistiche” riguardo ad autori viventi e non. Accantonando le finalità della critica, la si carica di dotte citazioni, di sfoggio retorico, di azzardati confronti, che nascondono lo scopo di autocompiacimento, invece di sostenerla cogliendo di un testo le vere emozioni, le sensazioni, i messaggi reconditi, magari anche voli pindarici. Panificio - Biscottificio Roberto Franco Via Ten. Nastri, 29 - LANCUSI (SA) Tel. 089.878271 6 Con colpevole indifferenza si tralascia di offrire all’interessato fruitore un coerente contributo d’idee, una chiave di lettura di un’opera. Lo stesso web, che in qualche modo affronta questioni di carattere letterario, peraltro molto seguite, non sempre è interessato a portare il discorso su ragionamenti di un certo livello culturale, in quanto, non di rado, i protagonisti fanno solo sfoggio di raffinatezza di linguaggio fine a se stessa, se non proprio cercano un pretesto per offrire ai fruitori materia di contrasti violenti e plateali. Né si riesce a dare respiro a quell’autentico spirito critico che nulla dà di scontato a priori, che indaga, approfondisce, verifica e, al contempo, crea correlazioni, analogie o contrasti forti con chi, partendo dallo stesso presupposto, è impegnato a dimostrare il contrario. Con il logico risultato di poter alla fine riconoscere la fiacchezza delle proprie dimostrazioni. E’ complesso far riscoprire alle nuove generazioni le funzioni della critica in sé, vista come attività universale, sociale, indeterminata: la critica non necessita dei valori della società per sopravvivere, sono questi ultimi a ricorrere ad essa per potersi rispecchiare accettandosi o rifiutandosi. Del resto in una società in cui si vale per quello che si ha (quanto a beni materiali) e non per quello che si è (quanto a valori veri e assoluti), anche la letteratura ha subito un declassamento rispetto al suo tradizionale ruolo predominante di acculturazione e di formazione linguistica, accompagnata a quella umana di educatrice delle categorie più elevate della società. Conseguenza inevitabile è stata quella che è andato svuotandosi il ruolo preponderante della critica, dal momento che non si offre più come punto di riferimento sicuro rispetto alla valutazione del lavoro letterario, che un tempo individuava gli orientamenti e il gusto del pubblico per fargli assaporare il fascino dell’arte dello scrivere. Bottega D’Arte CELENTANO (rame, ottone, ferro battuto) di Vittorio Villari Via Ponte don Melillo, loc. Pastenelle, 2 FISCIANO (SA) Non ci dobbiamo, purtroppo, meravigliare più di tanto se, analizzando il particolare momento in cui viviamo, si vada consolidando sempre più l’idea che la critica stia prendendo una deriva di carattere pubblicitario, quasi rinunciando ad una valutazione il più possibile obiettiva e scrupolosa; si tende a interrogarsi sul proprio ruolo di critico senza segnalare la scarsa consistenza di un testo. Come pure si percepisce la sensazione che venga a mancare quel faro che potrebbe far luce al critico alle prese con un mondo convulso e imprevedibile, con una realtà che si crea e si dissolve senza lasciare traccia, per cui risulta problematico lo sforzo di attivare un sistema di analisi testuale, in grado di fare opera di collegamento come nella tradizione. Si ha la sensazione che si sia man mano assottigliato quel ricco patrimonio di cultura che si era forgiato sulle esperienze drammatiche dei due conflitti mondiali, sul ventennio fascista, sulla guerra fredda, tanto che, anche chi si erge a difensore della critica classica, si ritrova disorientato ed estraneo alla nuova concezione della realtà, per cui si arrende al susseguirsi delle trasformazioni, disperdendosi su soluzioni stilistiche senza sbocchi sufficientemente razionali. Da qui il consolidarsi di una critica che, come osserva Ferroni, è o “invadente e onnivalente, che si sovrappone ai testi turgidi di blocchi interpretativi, che li misura con agguerriti parametri tecnici, epistemologici, ideologici, nella presunzione (non sempre dichiarata) che ci sia una “verità” superiore, data dai modelli seguiti dal critico, che possono essere retorici, linguistici, psicoanalitici, filosofici, fisiologici e altro ancora”. A questa visione si oppone la critica “che si affida a eterogenee divagazioni, che possono essere di tipo personale e biografico/autobiografico, oppure di tipo mistico/orfico, sacrale, iniziatico, metaforico”. Per lui i media hanno un ruolo determinante nel trasmettere nuovi modi di percezione del racconto, facendo scomparire ciò che separa, ciò che è e ciò che appare. I linguaggi che ne derivano scavalcano a pié pari la tradizione consolidata nei secoli, in quanto si crogiolano nella molteplicità dei modelli che vengono veicolati dalle più svariate forme di diffusione. In questo quadro il linguaggio si adegua alle novità, prendendo le forme di una liberatoria disponibilità per ogni fenomeno culturale che i 7 media propongono, sfuggendo, così, alla tradizionale classicità. A questo punto sorge il dubbio se in Italia oggi ci sia realmente quell’insieme di uomini e d’istituzioni che per il passato hanno assicurato l’esistenza di una società letteraria, perché l’attività del critico, di solito subalterna all’industria editoriale, molto spesso indossa la veste dell’interesse economico, che viene soddisfatto da analisi critiche faziose, da recensioni che abdicano al principio di razionalità e a quello che era il compito sociale della critica. Secondo Goffredo Fofi fino agli anni Ottanta era presente; in seguito, sia le arti in genere, sia in particolare la letteratura, hanno cambiato natura: “Vengono vendute come una merce e i lettori sono ora indotti a considerarla solo come tale. Sono saltate tutte le funzioni di mediazione: la critica in primo luogo. … Nessuno si dedica alla formazione di un pubblico, nessuno si preoccupa di orientarlo, se non per indirizzarlo verso i fenomeni di consumo”. E aggiunge che, anche se la nostra narrativa vive ancora una stagione positiva ad opera soprattutto di autori nati negli anni Ottanta “che colgono il terribile intreccio tra vecchie barbarie e nuove tecnologie”, tuttavia mancano i supporti alla sopravvivenza di una società letteraria per l’incuranza delle istituzioni politiche e dei mezzi d’informazione, che svolgono “un ruolo nefasto che compiace lo smaccato individualismo, il narcisismo diffuso… La critica non esiste più, c’è l’accademia, ma la critica militante si è eclissata, sono spariti i recensori, c’è solo la comunicazione pubblicitaria”. Purtroppo le esigenze di diversi editori sono rivolte al libro di successo, quello del momento, per ragioni economiche. In tal modo viene penalizzato il valore letterario e artistico dell’opera. Da qui scaturisce la carenza di una critica razionale e scrupolosa di un’opera. Non diversamente ragiona Ermanno Cavazzoni, per il quale “la critica letteraria oggi è stata soppiantata dai passaggi in TV: gli editori sono anche più contenti, la televisione fa vendere di più”. Severo anche Marco Ciriello: “Una volta il critico stupiva, segnalava lo scrittore o il movimento non visto, le idee marginali che potevano avere una ragione e un seguito, il romanzo sfuggito al grande editore che negli anni avrebbe assunto un ruolo, o anche le ambizioni poetiche… che anticipavano il tempo, e soprattutto il critico era maniacalmente attento al linguaggio; chiamato a giudicare lo scrittore, doveva essere abituato a lavorare sulle sue parole non a parlare per frasi fatte…”. Per i critici, come osserva Bàrberi-Squarotti, il quale afferma l’esistenza di un valore alternativo della letteratura nella quale sono presenti particolari simboli, “i testi, di carattere allegorico e aperto a molteplici interpretazioni, ” sono caratterizzati da uno “sperimentalismo marcato e, anche per le soluzioni stilistiche adottate, sono abbordabili da un largo pubblico di lettori”. Orbene, questa provvidenziale sorta di maturità e di oggettività di un settore della critica, potrebbe far ben sperare per il futuro. Né vorrei tralasciare una presa di posizione di tanta parte della nostra critica rispetto ai romanzi anglofoni di genere, prevalentemente romanzi pop, che tanto successo stanno riscuotendo tra il pubblico nostrano: una sorta di scetticismo che si realizza nel catalogare quella narrativa, come ci ricorda BàrberiSquarotti, “commerciale, di consumo, d’evasione”. Vorremmo, a questo punto, poter dire che un filone della critica pura, quella tradizionale, comunque faccia sentire in qualche modo la sua presenza: ma le sarà sufficiente a poter invertire la rotta, acquistando, così, dignità e, di conseguenza, autorità per il recupero di quel ruolo attivo che ricopriva in una società più equilibrata e culturalmente più dignitosa? NEL SOLCO DI UNA TRADIZIONE CASSA RURALE ED ARTIGIANA BANCA DI CREDITO COOPERATIVO DI FISCIANO Corso S. Giovanni Battista Tel. 089.878990 - 089.951166 LANCUSI di FISCIANO (SA) Filiale di MERCATO S. SEVERINO (SA) Via T. Falco, 29 - Tel 089.8431144 Filiale di BRACIGLIANO (SA) Via Donnarumma, 10 - Tel. 081.0018891 Filiale di MONTORO INF. (AV) Via Risorgimento, 6 - Tel. 0825.062646 8 CANTIERI FINTI, SPRECHI E RISCHI PER IL DISSESTO di DOMENICO SESSA* L'Italia, Paese a rischio in materia di frane, alluvioni e allagamenti!! Lo dicono i fatti di cronaca, lo segnalano le statistiche… Il territorio interessato a questo tipo di rischi è pari quasi al 10 per cento dell'intera superfice nazionale, e comprende l'81 per cento dei comuni (6.663): dunque abbiamo bisogno di mettere in sicurezza un pezzo d'Italia, con opere certe e non con i soliti cantieri fantasma. Tanti cantieri finti, che non si aprono mai, tanti cantieri aperti, ma è solo apparenza e producono un enorme spreco di soldi. Tanta la burocrazia da superare in un momento estremamente critico per tutte le categorie. Un maxi piano di interventi per l'emergenza, definiti con un accordo Stato-Regioni tra il 2009 e il 2010 per una spesa complessiva di 3 miliardi e 395 milioni di euro, dopo quattro anni è finito così: le opere concluse sono appena il 3,2 per cento di quelle previste, mentre il 78 per cento dei cantieri sono fermi. Alla faccia dell'emergenza!!!!!!!! Complessivamente, dal 1998 ad oggi le risorse programmate e non ancora impegnate ammontano a 2,27 miliardi di euro. Stesso discorso per i fondi europei stanziati per questo tipo di opere: la metà sono chiusi nei cassetti, inutilizzati. E ci sono ben sette regioni italiane che da 15 anni non riescono a concludere neanche un lavoro in materia antidissesto. Ma che cosa blocca le opere? In alcuni casi mancano i progetti, in altri scarseggiano i tecnici specializzati. Poi ci sono i conflitti tra gli enti locali, con code in tribunale, che pure contribuiscono al mancato inizio dei lavori. E ancora: intoppi burocratici e un'alta conflittualità tra i commissari ad acta nominati per la singola opera e le amministrazioni locali che non vogliono mollare la presa sul territorio. Risultato finale: tutto fermo e rischio idrogeologico alle stelle. Al punto che a un'Italia che si sfarina alla prima alluvione, ne corrisponde un'altra che contabilizza la sua impotenza in materia di messa in sicurezza. La mappa dei cantieri finti contro il rischio per il dissesto idrogeologico infatti è una fotografia dell'Italia degli sprechi e delle occasioni perdute. Di un Paese bloccato, paralizzato nell'impotenza di non riuscire a spendere i soldi che pure non mancano mentre il territorio continua ad essere abbandonato. Oggi dinanzi alle continue alluvioni che in questa pazza estate 2014 ha spezzato in due l’Italia ci sta da riflettere: trombe d’aria, piccoli tornado, fiumi che esondano in continuazione, tutto questo quotidianamente in una porzione dell’Italia del Nord che è stremata da tanto dissesto e nello stesso tempo continuano gli sprechi per progettare opere inutili che producono solo danni sia economici che in materia di sicurezza, mentre al sud l’alternanza di intensi acquazzoni e incendi preparano il terreno a nuovi pericoli in tema di dissesto. Progettare senza ottenere un risultato non serve a nulla!! Le ultime tragedie dovrebbero respingere chi ci governa ad uscire allo scoperto, per puntare con decisione a un obiettivo concreto: anticipare le aperture dei cantieri per contrastare il dissesto idrogeologico. Sarebbe una bella sfida da lanciare, come sistema Paese, senza aspettare la prossima alluvione o la prossima frana per celebrare impotenti l'ennesimo lutto nazionale. Solo dopo la catastrofe tutti si chiedono perché… chiediamoci perché non preveniamo le catastrofi con progetti veri, sani e sicuri per essere tutti in sicurezza, per essere tutti sicuri che anche una piccola pioggia non ci faccia venire la tachicardia! * geologo. Consigliere Reg. dell’Ordine dei Geologi della Campania CASA DEI FIORI di ANTONIO SIMONE FIORI - PIANTE - ADDOBBI Via Del Centenario - LANCUSI Tel. 089.878766 9 ANDREA MANZI – “L’ORMA CHE SCAVO” SOLITUDINE SCAVATA E URLO “EDUCATO” DI UN POETA-CITTADINO DALLA VERSATILITÀ NEOBAROCCA di VINCENZO AVERSANO* Ho una certa prevenzione di fondo verso gli artisti troppo modernisti e la esprimo con questa domanda: i loro corpus poetici sono dotati di una interna necessità o congruità, intendo quella che caratterizza gli esseri viventi ma anche le cosiddette “cose” nel loro strutturato sistema? Vale a dire: se si cambia nelle composizioni esibite l’ordine degli addendi o qualche addendo, il risultato non cambia o cambia (normalmente in peggio)? Orbene, nella grande poesia (Dante, Ariosto, Petrarca, Virgilio, ecc.), ove si spostasse qualche elemento strutturante, salterebbe tutto l’edificio poetico. Capovolgendo i termini: se si prendono vocaboli o singole lettere dell’alfabeto e le si butta a caso su un tavolo, può venir fuori la Divina Commedia, l’Orlando Furioso, l’Eneide, altri immortali poemi o anche semplici ben apprezzabili componimenti? Certo che no, a mio modesto parere, e dunque non si può sostenere quale “buona pratica” del poeta (in versi o in prosa) quella di buttar giù il bisognino del momento o (che fa lo stesso) aprire il vocabolario, puntare a caso il dito e scrivere quel che capita, aiutandosi magari con un dizionario dei sinonimi… ; ciò dovrebbe valere per i colori e le linee nella pittura e per gli elementi strutturanti qualsivoglia forma d’arte, anche quella “raccolta” dagli oggetti naturali e basta… E mi sia permesso di manifestare simpatia a quella donna delle pulizie che, qualche mese fa, equivocando ha smaltito nell’<<indifferenziato>> alcune “opere d’arte” esposte in un museo d‘arte moderna, col candore e la sapienza dei <<piccoli>>… Il criterio or ora indicato dovrebbe sempre fungere da avvertimento per tutti gli artisti, fatti salvi coloro che abbiano dichiarato prima, in un manifesto ideologico-teorico, almeno alcuni principi della propria poetica, ad esempio che per la loro arte anche l’incrongruo ha un valore o almeno una funzione precisi. Il che, come noto, è avvenuto nel caso dei tanti movimenti succedutisi nel corso della storia dell’arte e della cultura. Ma una “professione di fede poetica” non mi risulta fatta dall’autore della silloge in parola [ANDREA MANZI, L’orma che scavo, oèdipus edizioni, 2013, con postfazione di E. Pecora], per cui mi riservo solo un minimo di cautela, che crescerebbe in diffidenza se fossimo di fronte a uno sperimentalismo ingiustificato, in cerca di suoni, di messaggi casuistici e di altre pur apprezzabili “diavolerie” più o meno avanguardistiche…. Il nostro a. non può infatti esser sospettato di “imbrogliare le carte”, giacché è notoriamente quel che si dice “una buona penna”, assai rodata, talvolta raffinata e perciò atta a diversi usi, giornalistico prima di tutto, ma poi teatrale e francamente poetico, per giunta non senza sofferenza creativa (p. 41, il mio foglio bianco/ è il confino che volli): la quarta di copertina di questa raccolta, d’altronde, informa che siamo al quarto volume di versi pubblicati. Comincerei subito a qualificare questa per ora ultima prova (ma c’è da scommettere che tale non resterà tra qualche tempo…) come etico-esistenziale-religiosa, susseguente a composizioni del passato più dichiaratamente spinte sul sociale (ad esempio, sulle problematiche degli extracomunitari o dell’universo gomorristico), un versante che pure occhieggia qui tra altri temi o risentimenti (a p. 55, per esempio: è tempo d’acque scivolose e inferme:…). Ora però ci si squadernano poesie più intimisticamente risentite, di solito brevi (attorno ai 15-20 versi, media ricavata da un’oscillazione fra piccoli frammenti di 3-4 e impaginazioni di oltre 50) e senza titolo, che alla fine l’indice ci dice identificarsi col primo verso. Ad orientarci sulla fonte degli stati d’animo espressi, solo poche volte appare in corsivo una dedicazione a persone o qualche sostantivo titolante od altri elementi. Per esempio, getta luce sul “quid” dell’ispirazione, ma solo fino a un certo punto (data la genericità del vocabolo), il titolo iniziale (<<Intrecci>>), quindi la postfazione di Elio Pecora, con sorpresa senza una prefazione di chicchessia (il poeta preferisce offrirsi senza viatico?), e infine una dedicazione a una donna, cui più strettamente pare legato, 10 stampato in apertura, un “aforisma poetico” – così mi vien di definirlo – di A. Arnaud. Il Manzi lo fa suo e perciò val la pena di riportarlo: … sono colui che ha abolito il periplo idiota nel/quale si ficca l’atto del generare,/ il periplo papà-mamma// e il bambino. Col che viene professata, restando “alla lettera”, una peraltro accettabile religione dell’amore assoluto in quanto tale, fuori dagli schemi… Un’idea “antigenerativa” dell’amore, unicamente puntata sul rapporto uomo-donna, potente e potenziabile in sé… Se si aggiunge che giammai il testo si esalta in lettere maiuscole, che inoltre mancano segni di interpunzione (eccetto lineette, anche doppie, e parentesi quadre, che entrambe non si chiudono…), che rarissimamente vengono usati “metri” della tradizione letteraria italiana (due volte l’orecchio percepisce magnifici endecasillabi, che sembrano casuali…: <<spingeva in alto il peso del mio sogno>>, a p. 25; <<nel rischio calcolato del vangelo>>, a p. 48), ebbene si evince un atteggiamento di fondo più dissacrato che dissacrante, come se l’autore volesse scusarsi col lettore, avvertendolo: <<Io scrivo come sento ma non pensare che ti voglia simile a me, non sono esemplare…>>. Ciò dimostra una non pretenziosità nell’oscurare talvolta il verso, cosa che gli viene quasi naturale: questo almeno vien di dire sulla base di una prima rapida lettura e del breve elenco appena fatto dei caratteri per così dire “estrinseci”. Essi non sono semplicemente tali e indubbiamente fungono da preziosi indicatori di sostanza poetica. Ce ne vorrebbero altri, in verità almeno per lo scrivente, che concepisce il recensire come un atto di umiltà e ancor più “di servizio” al fruitore, ai fini della “comprensione” del testo, insomma per poter fornire a chi legge il classico viatico interpretativo. Il che significa innanzitutto aver prima capito in proprio, certo con un po’ di esperienza del “genere letterario” e qualche conoscenza estetica pregressa, ma soprattutto con la razionalità e con l’anima… Ma il presente recensore non ha paura di dichiarare i suoi limiti ed è per questo che non si allinea a coloro che, da critici, sovrappongono all’irrazionalità della poesia esaminata soltanto un loro parto altrettanto irrazionale e poco chiarificatore, specie quando si mantengono sul generico; non apprezza molto quelli che “fanno poesia” sui versi analizzati, senza preoccuparsi di illuminare i lettori... E’ appunto su una tale linea che intendo incamminarmi, precisando subito che comprendere in profondità questi materiali è cosa non sempre facile, giacché la poesia di Manzi, nutrita della personale vicenda esistenziale-quotidiana e di tante letture a largo spettro (parla spesso, anche cripticamente, per bocca di altre voci illustri), presenta più oscurità che luci sul piano della immediata decodificabilità; mette cioè a dura prova il recensore, ove egli intenda collocarsi in sintonia e, nella migliore delle ipotesi, non voglia scrivere le solite frasi di maniera, esentandosi superficialmente dal leggere, rileggere e sentirsi coinvolti: che sarebbe un’offesa a fronte di un labirinto di versi, assemblati per di più dentro un “combinato” corale, in cui ogni pezzo si lega agli altri, si rincorre, si mischia, si confronta e finanche si contraddice; poesia davvero intricata (carattere cui sembra alludere in prima battuta il titolo “intrecci”), sostanziata da un continuo autoscatto di vari momenti di un’esperienza di vita e di un’anima complessa, che non ride e non gioca mai, ma sembra solo tentar di sognare e di fatto soffrire perfino sulle piccolissime cose: poesia che non minimizza nulla, specie della sofferenza e del dolore. Versi complessi, dunque, all’apparenza anche inspiegabilmente assemblati, e di una preziosità formalmente “barocca”, ma che nel decorativismo per definizione neutrale nascondono sconvolgenti ansie della vita. Restando sul profilo formale, li classificherei anzi, di massima: antipoesia, antimusica, dalla forma scabra, stregante da malocchio, e perfino versi perversi.. Talvolta poesie casuistiche, effimere.. talvolta coinvolgentI.. altre volte insterilite da sembrar più loglio che grano, di GIUSEPPE CAPACCIO Fotolaboratorio digitale e tradizionale Via IV Novembre, 44 LANCUSI (SA) Tel. 089.878575 - 9565009 - Fax 089.878575 Filiali Foto Fast: Salerno - Via Torrione, 141 - Tel. 089.795216 S. Marco di Castellabate - Via C. De Angelis, 19 11 insomma da lasciar perplessi… Colpisce quasi sempre l’antilirismo di un dettato che, se a qualcosa serve, non è certo a comunicare emozioni rasserenanti. Eppure qualche eccezione si trova, là dove l’ispirazione si lascia andare senza masochizzarsi, e si vorrebbe che fosse sempre così: ed ecco spuntare una perla a p. 24, nel primo e più comprensibile dei tre brani proposti, sotto il titolo amori e forre, denso di struggente desiderio di immedesimazione, anzi fusione con la propria amata, di marca assolutamente romantico-ottocentesca, se non universale. Ma più che sull’ispirazione a corrente alternata (il che è fisiologico, d’altra parte), quale allo scrivente appare, insisterei sul fatto che questa poesia alla fine non assomiglia né è banalmente debitrice a nessuna delle possibili e attribuibili fonti di derivazione, letterarie o non. E’ poesia tutta-vissuto dell’autore, indubbiamente, e per questo fortemente originale: vero titolo di merito formale, di quella forma intrinsecamente e desanctisianamente legata al contenuto. Riservandomi per la chiusa altre considerazioni più sintetiche e possibilmente stringenti, propongo dal testo alcuni esempi che potranno confermare, anche interrogativamente, questa valutazione di fondo e chiarire le asserzioni già fatte, aggiungendone di nuove. A p. 11, il <<non so se fu giorno di tregua nell’alta quota della parola>> si riferisce ai cinque anni in cui l’autore non aveva scritto poesie? O è il bisogno e la prospettazione di poesia diversa, frutto di una corrente di pensiero-sentimento lasciata liberamente fluire, una sorta di sermo humilis, se non volutamente straccione? Sul versante strettamente esistenziale, tra la vita e la morte si muove l’incipit di p. 14 <<aiutami a non darla per vinta alla vita che fugge.., dove il prosieguo denuncia uno sconforto totale.. eppure l’a. non chiede aiuto alla sua donna ma a un qualcuno/qualcosa che non è né uomo né donna né altro oggetto o persona. Qui non ci arrivo: se fosse più esplicito e non “gli venisse” di coprire troppo i significati, forse sarebbe meglio.. Eppure, in questo caso la cortina fumogena non riesce a nascondere l’ipotesi del (o una corrività al) suicidio…, da cui contestualmente l’a. si riprende, a p. 16, con <<l’attimo del pregare scoprì le carte...>>, una professione più comprensibile, dove si esalta il valore della preghiera per aborrire <<i mondi truccati>> e continuare a combattere, nonostante il terrore del deperimento fisico e psichico e l’irrealtà delle cose (oggettive o rimuginate) e del loro stesso ricordo, se questo vuol tragicamente dire, a p. 15, il <<resta la memoria/ ad illuderci/della realtà dei fantasmi>>. Lungo questa linea trovo un collegamento, a p. 25, sempre in regime di semicomprensibilità, con due splendidi versi (<< un gabbiano con fame d’aria/spingeva in alto il peso del mio sogno>>, quest’ultimo già segnalato come raro endecasillabo inconscio…), dove l’impossibilità di volare è tanto più frustrante..perché l’a. sa che <<con i piedi a terra il mondo è scemo>> (p. 32), versione snobilitata di Schleiermaker: l’uomo è un mendicante quando pensa, ma è un dio se sogna. Non a caso, la sofferenza per la sacralità della vita, dissacrata dalla società, viene avvertita (pp. 32-33) in una delle poche composizioni intitolate (inversi percorsi), che è la sintesi storica del rapporto con la sua donna, il racconto di un distacco (Via Crucis a ritroso: <<non torneremo in croce, vero?>>), complicata, intellettualmente impegnativa, originale. Di cui un seguito intravedo, a p. 35, nell’ultimo verso (<< e il nostro segreto peccato>>), indice di una personalità dimidiata, che non perpreta con leggerezza atti proibiti dalla “corrente” legge morale etico-religiosa e soffre comunque per un problema non definitivamente risolto, pur sapendo che su questa terra resta quasi impossibile separare il bene dal male (p. 54). Un’eco di questa situazione di incontro e distacco si ritrova in addii, a p. 47, celebrazione di un rapporto con la donna prima persa e ora ritrovata….(il titolo sembra, a prima vista, inappropriato) ma in prospettiva dei domani immemori d’altare (compagni senza l’ufficialità del matrimonio?). Come se avesse bisogno della ufficialità della unione ma senza il coraggio di dirlo… La consapevolezza di un “andare” senza fine, con connessa e agognata ricerca di quiete, non manca comunque altrove (p. 23: <<ci apparve l’approdo ma era la sponda>>). Tra i pochi componimenti esplicitamente dedicati ci sono ancora quello a p. 17 (in morte di giulio) e quello a p. 19 (a michele sovente), entrambi “immediatamente” comprensibili. Nel primo, il momento del trapasso o quello che subito segue, insomma la descrittiva agonica diventa quasi macabro racconto, evocante il terrore della coscienza che si nullifica (il poeta dice: << l’anima>>) e forse reclama il contraltare nel bisogno di fede; nel secondo le <<aggrottate 12 parole sulfuree>> (bollose e/o di odore diabolico?) ritornano e annunciano morte.. e sottintendono la condivisione del nulla eterno di Leopardi, di Foscolo, insomma posizioni quasi ufficiali di esistenzialismo o nihilismo, confermate a p. 20 nei vocaboli <<nulla>> e <<noia>> (freddi termini filosofici), quindi <<nella noia che schiocca>> (stavolta, calda parola poetica a p. 28), nell’esperienza del lasciarsi andare (<<mollai gli ormeggi>>, p. 18), nel <<vuoto che geme>> di una delle liriche più belle, intestata a amori e forre (p. 24), infine più esplicitamente e riassuntivamente nella sua storia amara (p. 26). Simile ma insieme diversa e particolare è la composizione, a 27, intitolata a mio padre in agonia. Comprensibile finalmente, nel suo tenerissimo alludere alla sala di rianimazione, ma comunque un po’ camuffata, come se da figlio avesse paura di chiamare le cose col loro nome..specie quelle biografiche.. Parole astrali, fioche e sopra le righe, smorzate, stemperate.. Pudore? Reticenza? gioco intellettualistico o superiore contemplazione della Croce? In ogni caso un racconto emozionalmente coinvolgente, che si completa, a p. 51, in una riflessione tremenda, da personale apocalisse per un destino incombente: << la morte è la mia camicia di seta>>, richiamante oltretutto una sicura nascita “senza camicia” (nel negativo senso popolare…), pur <<nel grembo tenero delle nonne nere>> di p. 22 (fortuna, questa, dei bimbi mediterranei..), prima fase di quella traiettoria alfa/omega che tutti ci unifica in una fatale “coincidentia oppositorum” (penso alla posizione rannicchiata degli scheletri in tante tombe preistoriche). Altrove è l’indicibile e l’indecifrabile in prima battuta (almeno per chi scrive..) a farla da padrone: parlo di <<il pensiero di averlo dentro>> (p. 43), con passaggi oscuri e la comparsa della parola <<orma>>; parlo ad esempio di <<come arrivarono gli angeli in galilea…>>, a p. 48, un vero rompicapo di richiami tra sacro e profano, parto poetico di una personalità complessa, divisa tra cattolicesimo e laicità (che qui pare emergere e prevalere in veste spinta, radicale..), che si pone di fronte a temi sensibili, enucleati tra gli aggettivi vergine/martire e dal classico adagio historia magistra vitae, addentrandosi dunque in questioni difficili, anche teologiche, pare… Oso chiedermi, in generale, a che pro questo telaio multiforme, e in particolare cosa voglia significare uno dei due splendidi endecasillabi presenti nel testo (<<nel rischio calcolato del vangelo>>). Razionalmente, grammaticalmente, lessicalmente e nell’assenza sia di sintassi che di paratassi, resta altrettanto difficile da capire, a p. 49, la composizione <<vidi/ sorridi /amato amai…>>, oscillante tra paura e peccato (la sua anima <<peccò>>), composizione subito seguita da <<passato un altro natale>>, dove forse vale come riferimento alla storia personale la chiusa (<<nella cenere/ stramazza l’ira di giobbe>>), a denunciare forse la pazienza a prova di bomba che ci vuole a sopportare la società così com’è. Del resto questo poeta-uomo-cittadino vorrebbe esplodere dopo aver minato (p. 40), ma non ci riesce nemmeno da poeta dal verso imploso, lui che a p. 52, nella più breve poesia ( solo tre versi!) non a caso milita per la pace interpersonale, esecrando i rancori tra coniugi separati. Poche volte si intravede qualche spettacolo naturale che faccia da sfondo a un (o a un ricordo di) amore: è il caso di p. 31, <<la luna e ti amai>>, ben evocativa di un astro sognante nel suo schizzar, con <<una pelle striata>>, sugli amanti (visti come <<due mosche bianche>> che ne provano dolore…), con un rarissimo e forse unico dialettismo (<<rossa di scuorno>>), a meno che non sia deformazione del vocabolo da parte del computer… Sono rari momenti di lirismo in positivo, piccole enclaves in un mare di non-sorriso (atteggiamento costante spiegato forse a p. 53), che fanno il pari con gli schizzi sul quotidiano-collettivo proposti, rispettivamente, a p. 42 e 44: il primo è una definizione del caffè, un poco alla Eduardo, dove affiorano ricordi di fanciullezza e gioventù: poesia finalmente comprensibile, descrittiva, sentenziosa, salvo ammiccamenti al subconscio; il secondo è una meditazione sul gioco conflittuale del calcio, esecrabile per come è inteso e praticato oggi, con tentativo formale di disporre le parole e le frasi in ordine sparso nel foglio. Si inserisce in queste tematiche anche un’autoanalisi (p. 37) dal titolo il mio teatro, dove l’a. riflette sulle sue varie esperienze di vita e di lavoro e si fa apprezzare come creatore di linguaggio (esempio: <<tra le guerre ducettava il fallo>>) e continua a p. 38, dove la sentenziosità si fa troppo evanescente, mettendo a dura prova le mie pur volenterose “antenne” di interprete.. La poesia di Manzi – alla fine ci si deve convincere – sfugge a qualsiasi semplice etichetta, vuoi se vista in generale e in sintesi, 13 vuoi se vista all’interno dei singoli pezzi, dove mai campeggia una sola tematica, senza accompagnarsi ad altre. L’esempio più lampante è forse il citato pezzo a p. 55, dove – già sul piano formale della tecnica – un possibile e pregevole endecasillabo iniziale (<<è tempo d’acque scivolose e inferme>>) viene mortificato con la continuazione del verso dopo due puntini <<scendono tra i/canali>>. Per il resto, badando ai contenuti, predomina un paesaggio d’acque e di pioggia (quando si dice il tornare all’istinto primigenio memorizzato..), ma sempre con intrusioni benché minime di colori ed oggetti, nonché di echi leopardiani (perché no, sia pure inconsci?), del tipo <<ora è la fine del tempo lieto che fu…>>, mentre l’insieme oscilla tra piglio civile e sociale ed esperienza (mal)vissuta dell’attualità. Che succosa benché infelice pagina, questa!! E’ tempo di porre termine al tentativo di analisi puntuale e difatti quasi chiudo riflettendo sulla (e immergendomi col cuore nella) ultima poesia, problematica già nel titolo (risse). Essa è lunga e articolata in tre pezzi separati da asterischi, ognuno di argomento diverso: il macrocosmo a fronte dei conflitti umani e delle piccinerie, come dire la comparazione tra Giganti e formicuzze; diventa poi passionale, disegnando il rapporto dell’a. con l’amore verso la donnaeros; alla fine contiene una esplicita confessione, quasi inaspettata nella cripticità imperante: l’a. definisce le sue composizioni come <<poemi di strada/erotomanie sentimentali a basse dosi: dicono parole impure…>> (ma conviene a questo punto che il lettore legga il tutto con attenzione…), poemi affidati ai suoi occhi, con funzione di <<delegati lirici>>(quanto conforta questo aggettivo!.). In definitiva, sono qui sintetizzati i contenuti della sua solitudine esistenziale messa in versi, piena di eros e sentimento insieme, che mi permetto di collegare, a p. 39, con <<”mi pensai” libraio/ di mie parole scarne>> (un richiamo “tipografico” anche a p. 34, attraverso << bozze corrette>> in intimità con l’amata…, altrove dagherrotipi (manie di uno scrittore..), e a p. 41 con <<la vita è un bicchiere vuoto>>: legga ancora con attenzione il lettore, per favore, e vedrà che il “trucco della Sibilla” (assenza di punteggiatura, per cui nelle frasi si possono scambiare soggetto e oggetto, errore in cui certamente sono incorso in questa mia analisi), non cambia stavolta i significati, che sono evidenti in ogni caso! Prima di concludere non si possono non segnalare due brani: a p. 30 quello riprodotto in quarta di copertina (<<la solitudine disciolta…>>), scelta che evidentemente la fa ritenere emblematica dallo stesso a., solito creatore di linguaggio, poeta ipermetaforante, con continui traslati, similitudini, paragoni…, onde pervenire a risultati che per lui abbiano importante senso (anche se sostanziato di nonsenso, anche se razionalmente contraddittori?): qui asfaltare è come raddrizzare le vie storte e appianare le montagne per renderle percorribili, nel significato biblico, mi pare.., cioè mostrando una reazione positiva alle sofferenze. L’altro brano, a p. 45, impostato nella pagina a formare una “tela”, come il brano precedente sul gioco del calcio, inizia con una parola impegnativa e il seguito assai criptico: <<dio/ è dio – e dio – ed io/ la vita degli invisibili è dio…>> e termina con il titolo della raccolta (<<l’orma che scavo>>, che poco ha a che fare con le <<inutili orme>> di p. 21). Al lettore l’obbligo di leggere e rileggere; a me va di rimarcare, con gusto, <<Il sole uovo fritto ad agosto/ e alla coque a febbraio>>, che ricorda estrinsecamente immagini barocche (del padellon del ciel la gran frittata) mentre il messaggio fondamentale appare chiaro: dato che <<“solo”>> è il mio nome, il poeta scava nella vita, e in questa prova letteraria ha inteso scavare nella sua solitudine! La sequela, fatta di pensieri e non-pensieri, <<altalenante coscienza di sé/ logica occasionale>>, disegna un lui che non ha nemmeno la “fortuna” di essere “nessuno”, come Ulisse spatriato coi suoi compagni, ma rimane in solitudine e afflitto da contrasti e sofferenze… A p. 46 continua lo stesso discorso poetico, difficile da seguire e inquadrare per le varie sollecitazioni messe insieme, tra cui una posizione tra il diavolo e il buon dio, <<una terza via- feriale/ quotidiana e stanca via…>> imboccata. Sacro e profano vengono mischiati, affiorano dubbi sull’esistenza di Dio ma anche una sorta di panteismo (<<io te con tutti loro siamo dio>>, in forza del quale << la verità di jean paul non è (solo) immaginazione>>. Viene spontaneo pensare alla condivisione o celebrazione dell’esistenzialismo sartriano… Ricapitolando, forse…: poesia dotta, colta, intrisa di letture di libri e di bagno esperienziale nel dramma economico, sociale e morale del mondo circostante fino a scala mondiale. 14 Dovrebbero leggerla tanti poeti “faciloni”: non farebbero più danni! Poesia non etichettabile, tutta dell’a. nella parziale indecifrabilità, o, meglio, in una cifra di amaritudine e di sogno disteso a terra, una complessità di sentire ai limiti della normalità, in cui si avverte l’insondabilità dei confini tra l’essere e l’ente… una parola illimitata…. Una poesia che poco consola e molto fa rabbia.. sorretta da implosione costante, un verso inesploso, una carica umana che desidera una umanità “come dovrebbe essere” e come vorrebbe la nobiltà d’animo e l’educazione ai valori ricevuta dal Manzi. Onirismo senza ali, sogno bloccato all’alba, disadattamento personale e sociale, messaggio di palingenesi egoistica ed altruistica insieme.. In profondità, tuttavia: spirito di libertà inconculcabile che ha dovuto sottostare a regole morali e sociali ereditate e formalmente imperanti. La piatta magia della parola è un antidoto, sorta di training autogeno, la parola è una ragione di vita. Ragione di vita è la vita stessa trasposta, è sostanza spirituale primigenia. Lo stile: verso difficile, franto e affranto, raffinato e quasi “neo-barocco”, che rare volte si concede e si abbandona, in cui ci si ritrova senza che lo si capisca del tutto razionalmente: UN URLO EDUCATO di fronte all’abisso! Alla fine, un tuo simile che ti verrebbe di abbracciare..perché un poeta-uomo-cittadino che si sente fraterno e fratello. * Docente Università degli Studi di Salerno VERNISSAGE di NICOLA DELLA CORTE di MICHELE SESSA Giro e rigiro tra le mani un cortese invito che, in questo mese di giugno, particolarmente assetato di sole, s’affollano, per la inaugurazione della Personale del Pittore Nicola Della Corte. Campeggia un classico Nudo ed al centro “ Omaggio a Tiziano”. Tiziano, il Maestro che, giovanissimo, collabora col Giorgione, ne subisce l’influenza ma che poi, liberatosi da ogni influsso di scuola, crea la Sua, ricca di colore su composizioni monumentali, con il grande slancio del movimento e l’evidenza grandiosa della pennellata. Una Scuola che, con Pale e Ritratti, sarà modello per i tanti Pittori delle epoche successive. Quel Nudo raffigurato sul “ cartoncino” è Opera che, per il cromatismo, la figura, la pennellata rapida ed intensa, davvero avvicina il Della Corte al Maestro. Ancora un rigo più sotto “avverte” che le Opere esposte sono “ Tra Realismo ed Informale”. Si sa che il Realismo è schiettamente romantico e vuole rappresentare la vita così come si presenta, senza mai cioè essere alterata dall’ideale: una realtà che ha carattere perenne ed universale, nello spazio e nel tempo. Ed ancora l’Informale: opera considerata a sé, “ sganciata” dalle precedenti esperienze artistiche, nell’importanza esclusiva della “materia” e del “ gesto”. Nell’ora dell’inaugurazione del vernissage le Tele, disposte magnificamente, si presentano nella loro magnificenza. Gli occhi della mente, quelli del cuore e quelli dell’intelligenza si raccordano: tutto ora è più chiaro. L’invito è concepito magistralmente, lapalissianamente… Le “ tre esperienze” pittoriche che si rifanno al Tiziano, al Realismo, all’Informale, trovano tutti i giusti riscontri ed anzi possono senz’altro essere rapportate per sublimare l’arte pittorica di Nicola Della Corte. La ricchezza dorata del colore nei prati fioriti, le grandi composizioni di “ angoli”, lo slancio del movimento, l’evidenza della magistrale pennellata nell’importanza della materia e del limpido gesto pittorico restano sempre reali e mai alterate dall’ideale. BISHOP pub Piazza Regina Margherita LANCUSI (SA) - Tel. 347.7122731 15 SVOLAZZI DI PIUMATI, CON LAZZI, NELLA CANZONE NAPOLETANA di VINCENZO AVERSANO A trovare pennuti nelle composizioni napoletane, dalle più antiche e fino ai giorni nostri, c’è solo l’imbarazzo della scelta : chi legge perdoni perciò se la segnalazione riguarderà solo alcuni casi, per il poco spazio disponibile e per i motivi di estetica e di significatività che di volta in volta emergeranno. Menzione primaria e di eccellenza, come uccello, merita IL CARDILLO (leggi: Cardellino). Molte le ragioni: giacchè gli viene riconosciuta come “ patria” la Campania e Napoli in particolare, dove ancora persiste in molte famiglie la sua cura in “ caiola”; perché del suo apprezzatissimo variopinto piumaggio la macchiolina rossa-sangue sul capo si lega per tradizione alla generosa beccata liberatoria delle spine di Cristo; perché canta in tutte le stagioni dell’anno, come il vero napoletano; perché soprattutto viene “ chiamato in causa” in tante canzoni, senza contare che l’autore di una delle più belle di esse (Core ‘ngrato) si chiamava Salvatore Cardillo… L’esempio migliore tra le pertinenti canzoni è LO CARDILLO, dolcissimo canto popolare rielaborato nell’800, in cui l’innamorato si serve del pennuto per godere indirettamente dell’odor di rosa di una “nenna” e delle sue carezze, desiderate anche a costo della morte, ma altresìparticolare, ahimè, mai notato!- per ordinare maschilisticamente il “femminicidio” se ella mai tradirà. E che dire del “ cardillo” della notissima Reginella, dove la metafora sessuofila è ancora più pronunciata, benchè nobilitata dalla tradizione catulliana del passero, “ deliciae meae puellae”? Su questa linea si segnala, dell’immenso poeta Salvatore Di Giacomo con musica di E. A. Mario, anche “Mierolo affurtunato”( 1931), in cui “ l’auciello apprettatore” (= tormentatore) non a caso evoca “ l’apprettatora”, cioè il busto assai aderente usato un tempo dalle donne… Chi voglia dunque ricavare, dalle tante citazioni possibili, elementi descrittivi di tipo strettamente ornitologico rimarrà deluso e si dovrà “ accontentare” di risvolti emozionali poetici, anche di tipo sgradevole: è il caso della cornacchia, il cui verso ( crai, crai crai= domani, domani…) suona indice di sofferenza per il differimento del concedersi da parte dell’amata, nel Velardiniello di “ Tu sai che la cornacchia” e, ancora, in Giandomenico di Nola di “ Madonna ciaola mia”: ciaola è l’altro nome dello stesso rapace che porta in campana l’amante… La metafora si ribalta in Orlando Di Lasso che, papale papale, scrive: “ Sio fusse ciaolo e tu lo campanile/ io spisso spisso te vurria montare”… Ma sono autori del ‘500… Veniamo al secolo scorso: il dolce canto del canarino in caiola non manca in “ Pusilleco addiruso” ( 1904) di E.Murolo- S. Gambardella (…e nu canario canta ‘na canzona…) e in “Canzona appassiunata” (1922) di E. A. Mario ( Era comm’’o canario ‘nnammurato/ stu core…), ma diventa motivo di rimpianto funebre ( Chi sì…tu si’ ‘a canaria…) per una delle voci più belle della Napoli che fu (Elvira Donnarumma) in “Chiove” di L. Bovio- E. Nardella. Altro esempio di maschilismo mai denunciato, a fronte di una rondine malvista ome segno di emancipazione femminile, si trova in “Rundinella” (1918) di R.Galdieri-G. Spagnolo, mentre una più leggera e deliziosa “Palummella” che zompa e vola è altra “misteriosa” creazione popolare travasata nell’opera buffa; “palummo e turturella” sostanziano ‘A Canzona d’’a felicità (E. Murolo- E. Tagliaferri: 1930), per finire a simbolo di una donna troppo sveglia, la cui vita finirà in struggente tragedia (Palomma ‘e notte, di S. Di Giacomo-F. Buongiovanni: 1907). Per finire, concederemo qualcosa alla elencazione scientifica, fa simpatia allinearsi al “pudore” espresso in una “Canzonetta ornitologica” (sic) del sorprendente E. A. Mario, scritta per la Piedigrotta del 1913 e intitolata “Gli uccelli”, citando i seguenti versi: “ oltre i monachini, beccafichi, cingallegre, cardellini, lucherini, capinere, merli, tordi, pappagalli, gru, fringuelli, canarini, quaglie, falchi e rosignoli, c’è anche un altro uccello/ e propriamente quello/ di cui …non parlerò!...” 16 LE NUOVE RELIGIONI di LIBERATO LUONGO Il problema della diffusione delle nuove religioni è generalmente sottovalutato. Di solito tra la gente se ne ha una percezione limitata. Eppure il fenomeno è vasto ed articolato. E’ perfino problematico tentare il censimento delle innumerevoli proposte attive in tutto il mondo. In tale situazione, chi voglia tentare di avere una qualche conoscenza del fenomeno nel suo complesso, ha poca speranza di raccapezzarsi, a meno che non punti a chiudere la miriade di proposte in confini ben definiti, sulla scorta di precisi criteri interpretativi, cavandone una serie limitata di gruppi. In tal senso ho cercato di operare, spinto dalla curiosità di inquadrare movimenti, come quello dei Testimoni di Geova, i rappresentanti dei quali si ha spesso la ventura d’incontrare per la strada o di trovare alla porta di casa. Il punto di partenza dell’indagine è stato l’individuazione di criteri atti a cogliere gli elementi fondanti delle varie proposte, per assumerli a guida per la classificazione. Sono stati individuati in quelli che contraddistinguono un cristiano, cioè il possesso del senso della religiosità, la consapevolezza di far parte di una Chiesa, che trova in un Dio personale le risposte sull’origine e sul futuro del mondo e dell’uomo ed in Gesù Cristo, partecipe della natura divina ed umana, il “ mediatore” tra l’uomo ed il Padre. Ci si è chiesto: Come si pongono le nuove religioni rispetto a questi principi? Li accettano parzialmente o li rigettano totalmente? In alternativa, ne propongono di diversi? Il primo incontro è stato con una serie di proposte riconducibili al Cristianesimo, ma contro la nozione di Chiesa. Non risalgono alla Riforma Protestante, ma alle posizioni di gruppi oltranzisti del XVI secolo, che definivano la Chiesa di Roma corrotta e non riformabile, ma da rifondare. Essi, quindi, professavano discontinuità ecclesiologica e continuità teologica. Fu l’atteggiamento degli anabattisti, che oggi caratterizza le correnti pentecostali, attive soprattutto in Asia, in Africa e in America Latina. Questi movimenti, sostanzialmente di natura protestante, non sono da confondere con quelli di ascendenza cristiana, come i Mormoni e i testimoni di Geova, a lungo definiti “ sette” dalla Chiesa, che portano avanti un discorso di rottura totale ( ecclesiologica e teologica) con le radici, attraverso la proposta di idee e scritture nuove. Ancora diversi da questi ultimi sono i movimenti di origine cattolica, che si sono allontanati ( o sono stati rinnegati) dalla Chiesa, perché seguaci di rivelazioni di presunti profeti o santoni. Un secondo gruppo è costituito da quei movimenti che, assieme alla nozione di Chiesa, rifiutano anche l’idea che il rapporto tra dio e gli uomini preveda la figura di un mediatore. La negazione avviene con modalità diverse rispetto all’Islam e all’Ebraismo e comporta la riscoperta di culti pagani antichi e più spesso l’incontro con le religioni orientali, che dall’inizio del XX secolo, in seguito alla celebrazione negli Stati Uniti d’America nel 1893 del Parlamento Mondiale delle Religioni, cominciarono una lenta opera di penetrazione in Occidente. In Italia l’attenzione verso i culti indiani, cinesi e giapponesi si iniziò ancora prima, grazie alle iniziative della Società Teosofica, fondata nel 1875. Oggi, la matrice orientale caratterizza in Occidente centinaia di movimenti. In genere di essi si legge che sono in declino , ma è esatto dire che sono in evoluzione, perché interagendo con la nostra cultura si sono o si vanno modificando. Così è capitato, per esempio, al Sahaja Yoga, allo Shanti Gaia ( indiani) e al Sukyo Mahikari giapponese. Un altro gruppo di movimenti rifiuta il concetto di un Dio personale. A rigore di logica, quindi, non dovrebbero essere definiti religiosi, ma lo rivendicano. Essi perseguono l’autoperfezionamento dell’uomo. Tra questi movimenti, che hanno avuto incubazione nel XIX secolo e sviluppo nella seconda metà del Novecento, è da annoverare la Chiesa di Scientology. Infine è da ricordare il corposo gruppo di movimenti che abiurano la nozione di religione e si rapportano al sacro in forme alternative. Si allude in particolare al New Age contemporaneo, che non è un movimento strutturato, ma un insieme di idee, tendenze, aspirazioni che sconfinano talvolta nel sacro, come nel caso dello sciamanesimo e della magia. Quest’ultima, in particolare, dalla fine del Settecento è uscita dal novero delle esperienze individuali e, come una lunga serie di movimenti iniziatici ed esoterici, si è organizzata in forme simili a quelle dei movimenti religiosi. Si pensa in particolare a quanti ancora oggi si legano alla tradizione dei Rosacroce, dei Templari e alla rinascita della stregoneria, collegata a sua volta col satanismo, che vede interessati soprattutto i giovani, talvolta deviati da mode musicali o cinematografiche, o dalle droghe, e indotti, in casi sporadici all’uso della violenza. In rapporto a quest’ultima evenienza, è chiaro che in nome della libertà religiosa non possono consumarsi reati, ma neanche la violenza può giustificare indiscriminatamente leggi repressive. Una società pluralista sa usare vigilanza e dialogo per garantire i diritti e colpire gli abusi. 17 IL MESSAGGIO DI PUCCINI di RENATO AGOSTO Scrittori, biografi, critici, hanno offerto di lui, delle sue opere, della sua vita, immagini diverse nella forma e nel contenuto; ma tutti sono stati concordi nell’affermare che Puccini è stato tra i musicisti del nostro tempo il più gradito alle folle, tra le quali, a novantanni dalla morte, continua ad esercitare suggestioni ineffabili. Suggestioni che provengono dal messaggio umano che Puccini seppe così mirabilmente indirizzare a chi lo ascolta, poiché l’essenza della sua Arte è nel dono stesso che la sua musica fa a ciascuno di noi, spingendo l’ascoltatore, inconsapevolmente, ad identificarsi con i suoi personaggi e con i sentimenti che essi rappresentano. umana esistenza. D’ispirazione ben diversa dalla tematica verdiana, le sue opere non attingono né ad argomenti eroici, né a grandi eventi storici, ma egli immerge la sua ispirazione nei sentimenti semplici, nelle piccole , grandi vicende umane, nella poesia delle “piccole cose”, conferendo ad esse, nella trasposizione in musica, una dimensione universale. Ed è questa dimensione che ognuno di noi può ritrovare, attraverso l’arte del Maestro lucchese, una parte di se stesso. Viene spontaneo ricondurci al mito del Cantore Orfeo, considerando l’altrettanto magica trascinazione operata dalla musica pucciniana verso un mondo impastato di anima e di vita in un progrediente processo di sensibilizzazione spirituale in cui si traducono emozioni e squarci talvolta inesplorati. Ascoltando Puccini, ad un certo punto non oggettiviamo più il soggetto che agisce sulla scena, ma lo trasferiamo nel nostro io ed in tale introiezione esso continua ad operare in noi in guisa da essere noi stessi non più spettatori, ma protagonisti attraverso i moti interiori che la musica esprime in una dimensione universale ed oggettiva. Una siffatta sensazione non è soltanto un’enfasi momentanea, effetto della suggestione musicale sull’io, ma è piuttosto un fenomeno che si manifesta sì a livello dell’inconscio, tuttavia, pur sempre concreto ed ancorato al fondo della coscienza individuale, nella quale ognuno di noi trova un tratto di spiaggia incorrotto e pulito. E’ proprio in questo remoto, invisibile angolo che Puccini riesce ad insinuarsi quasi di soppiatto seminando granelli di note fatte di speranza e di sgomento, di dolore e di amore. La musica di Puccini possiede valori particolari che aiutano l’uomo a definire la profondità della propria vita interiore. E’ quasi come iniziare un discorso con noi stessi, continuo, pacato e sempre rivolto al sentimento che un discorso riesce a purificarsi di tante nostre personali miserie inevitabili tra i tumulti e le amarezze del nostro vivere quotidiano. A questo miracolo musicale non è estranea l’onestà e la sincerità della sua vocazione di compositore. Può osservarsi già riepilogando le Puccini possiede “ l’apriti sesamo” che lo conduce diritto al cuore dello spettatore. Adopera ed usa il linguaggio che diventa subito familiare, che conquista e trascina non con il turbine di verità e morale del gran vento verdiano, ma con inesplicabile e sottile suggestione, non meno convincente, attraverso le misteriose vie del sentimento. Pasticceria “La Dolce Vita” Ascoltando Puccini riemerge in noi un qualcosa di inafferrabile e di indefinibile, magari una pagina della nostra vita che sembrava perduta o dimenticata e che invece, come ci accorgiamo, appartiene anche all’anima universale della Via Don Minzoni, 12 - Tel. 089.878153 BARONISSI (SA) Bar - Pasticceria Dolci di produzione propria 18 fasi evolutive di un autore che per rinnovamento fatale a se stesso, non disdegnò di osservare quanto l’insana età moderna andava rinnovando nell’arte. Più forte di qualsiasi altra sollecitazione, restava in lui la possibilità di cantare il dolore e l’amore degli uomini senza sottintesi intellettualistici e polemici, pur non estraniandosi dall’evolversi dei tempi, ma senza accettare conversioni di comodo. Anche quando lasciò in Turandot, ultima sua opera incompiuta, una drammatica testimonianza dei tempi nostri, lo fa con sbalorditiva sensibilità e coerenza. La novità avvertibile nel gioco degli effetti sonori tra le famiglie degli strumenti tradizionali, l’incontro risonante di accordi di diverse tonalità che parrebbero anticipare le fasi sonore delle ultime avanguardie, non invalidano il fondamentale atteggiamento sentimentale di Puccini e non sollecitano la sua fantasia a varcare i limiti di un’altra concezione del “bello”. Né le intuizioni di sopraggiunti radicali mutamenti nella vita degli uomini nella concezione stessa dell’arte , turbano la sua creativa coerenza poetica, né la novità orchestrale, che pure sperimentò nella sua ultima fatica, attenuarono le caratteristiche sentimentali della sua linea melodica, anzi quel rapporto drammatico così avvertito, resta come un documento aperto ed insieme enigmatico, come il contrasto simbolico che la fantasia di Puccini nel rispetto del canto melodico ha lasciato, senza commenti polemici, alle generazioni più giovani. Nessuno al pari di lui è stato così attento e sincero ascoltatore delle proprie voci interiori in armonizzato accordo con le voci dell’ambiente circostante. Per l’ispirazione della musica pucciniana possiamo anche parlare di un che di fantastico per cui Puccini e la sua musica sono il lago sulle cui rive ha stabilito la sua dimora e dove si rifugia per comporre; il lago casalingo con la sua bellezza acquosa e grigia che riverbera le carezze della luna o le pinete nelle quali il vento suscita solfeggi di mestizia. Il lago Massacciuccoli, dove Puccini andò ad abitare sin dal settembre del 1881, luogo d’elezione, osservatorio segreto, un senso più intimo ai suoi segreti turbamenti : la caccia, la smania di scorribande solitarie tra i boschi, il romper la quiete di una natura selvaggia a colpi di fucile, lo stare in compagnia rumorosa contrapposto al bisogno di solitudine rosa dall’angoscia di esser solo. La bellezza profonda di poter trovare in quella terra le sue misteriose ragioni creative, il balsamo alla sua infaticabile inquietudine: popolano quei silenzi fatti di canne, barchioni, lontani richiami nella notte lacustre, dell’ossessionante presenza di tanti personaggi della sua fantasia, disposti ad amare e a soffrire di una passione senza limiti, fuori delle regole del comune vivere quotidiano, e per questo destinati a diventare affettuosamente vicini alle debolezze ed ai segreti turbamenti dei più. Che erano poi gli stessi turbamenti di Giacomo Puccini. La terra che lo ispirò diventa lui e la sua musica così, come la sua inquietudine, la sua travagliata insoddisfazione alla ricerca di qualcosa di non realizzato, la sua malinconia velata di presagi di morte e di sfumature soffuse, diventano i tormenti stessi delle sue creature d’arte. Puccini è intimamente convinto di questo suo immedesimarsi nella creazione quando afferma che “anche l’arte come la vita è una milizia e chi dà più sangue riceve più grazie”. Talchè la sofferenza della creazione si ripaga pienamente dei successi che seguono, come quando appose la scritta “rinnegata e felice” al pannello raffigurante Butterfly, la protagonista dell’opera da lui amata sopra ogni altra, forse perché con essa rinnegata e felice soffrì l’insuccesso compensato poi da più entusiastici trionfi. La gentilezza garbata e la delicatezza che sono le qualità intime della sua natura musicale si rivelano nella cura e nella felicità con la quale Giacomo Puccini 19 delinea i personaggi femminili. Aspetto innegabile dell’arte pucciniana è infatti proprio la femminilità, una femminilità raramente aggressiva, più spesso languida e dolce che consente a Puccini di cogliere l’essenza stessa del cuore di donna nel pianto e nel sorriso, nella speranza e nella morte con un carico di gioia melanconica, di tremore e talvolta di insospettabile forza e drammaticità. Manon, Mimì, Ciociosan, Tosca, Liù, autentiche creature quelle del Maestro, creature che la vibrazione musicale desta dall’immobilità delle cose passate per offrirle, di volta in volta, al cuore e all’emozione di coloro per cui furono create, per testimoniare col canto, il sentimento che le ispirò e le ha rese immortali. Creature tutte che, pur nella diversità del segno lirico e degli aspetti teatrali, si riconoscono legate da un unico destino d’amore. E’ proprio questo tema dell’ispirazione pucciniana che fu puntualizzato ed avvertito come dominante nella opera del Maestro dai suoi stessi concittadini che vollero esprimere nella ingenua e commossa semplicità delle parole nella lapide posta a suggello della casa natale: “Noi onoriamo in Giacomo Puccini colui che, alla domanda che l’universo pone ad ogni mortale, rispose con la parola: AMORE”. Pillole di Michele Sessa ELETTRICITA’: NUOVA ENERGIA DAL MARE A - Non c’è sviluppo senza energia, né crescita senza pace e stabilità. Bene, allora una nuova realtà industriale verrà dalla inesauribile forza vorticosa del mare. Saranno sfruttate a dovere le onde e le poderose correnti del mare. La tecnologia in questi ultimi anni ha fatto notevoli passi in avanti. L’energia del mare farà concorrenza al sole e al vento con forme aerodinamiche sotto il mare o lungo la costa. Saranno utilizzate forza e pressione dell’acqua per far girare le turbine. L’ENEA studia per migliorare e valorizzare questo nuovo tesoro. Saranno sempre più perfezionate le macchine che hanno l’aspetto di camere in cemento. Lo scopo è un mix di rinnovabili per raggiungere l’indipendenza dalle fonti fossili. Efficienza energetica e sicurezza anche nel limitare al massimo l’impatto del rumore sul comportamento dei pesci perché il rumore sottomarino stressa gli animali. B - ROSETTA E LA COMETA. Era il 2 Marzo 2004, allorquando fu lanciata da Kouzon, nella Guyana francese, ROSETTA, la sonda dell’ Agenzia Spaziale Europea (ASE), per ravvicinare una cometa, studiarne i segreti, esplorarne le origini. Il 6 Agosto 2014, dieci anni dopo, cinque mesi e quattro giorni di viaggio, cinque giri intorno al sole e 6.4 miliardi di kilometri percorsi, Rosetta, la prima sonda nella storia spaziale, ha avuto l’ incontro ravvicinato con una cometa-la 67P/CHUZYUMOV-GERASIMENAKO, a 405 miliardi di kilometri di distanza dalla terra. A Novembre il modulo PHILAE atterrerà sul nucleo della cometa e comincerà una serie di trivellazioni con l’ Sd2, una sorta di trapano tutto italiano, per rilevarne la composizione. Ci si aspettano tante informazioni sulla formazione del nostro sistema solare. Intanto già si sa che la temperatura del nucleo è di 70° sotto zero, cioè più alta di 20-30° di quanto si presumeva. Come natura crea, “MATTEO” gela! Specialità Frutta ripiena Via Del Centenario, 126 - Tel. 089.957396 LANCUSI (SA) - ITALY 20 Da BENEVENTO DUE VITE NELLA GRANDE ARTE di LORENZO VESSICHELLI a) Per il fascino della sua parola, forbita e semplice, scorrevole e comunicativa, lo avremmo ascoltato per ore. Solamente chi ha sofferto ed ha superato tantissimi ostacoli, macerandosi nel dolore, amando in silenzio, può parlare come Pupi Avati. E’ l’amore che si confessa nella purezza, che palpita, si eleva in preghiera, si crogiola nella fede ed è certo del Dio provvidenziale. Pupi Avati desiderava realizzarsi come musicista; studiava assiduamente il clarino ma notò che sullo stesso strumento, un suo amico, improvvisava e creava motivi meravigliosi. Avrebbe voluto strozzarlo ma poi, anima buona…accettò l’esuberante talento. Oggi la sua impronta, altamente umana, rimane impressa nei suoi 48 film, cristallizzati in vite vissute, avvinghiati a fatti eccezionali, a margine di sconfitte o di avvenimenti non comuni. Una vita variegata e piena di disavventure quella di Pupi Avati, prove sofferte nella carne, ma anche fulgide e provvidenziali nell’alternarsi di figure da Katia Ricciarelli e Maria Angela Melato a tanti altri artisti scolpiti nei suoi lavori. Momenti belli e brutti, riferimenti dolorosi e gioiosi, considerazioni strettamente personali e crudelmente sociali: i dubbi atroci sull’aborto della moglie, gli scrupoli religiosi, la serenità del pensiero, la figura aureolata della mamma rimasta vedova molto giovane e guida saggia alla sua carriera… Il dramma del divorzio nella nostra epoca neopagana. Pupi Avati aveva detto: “ Avete mai stretto la mano di un ragazzo allorquando avverte che i genitori litigano…stanno per lasciarsi? Quella mano trema perché è della vittima innocente che ha intuito che la tragedia…va affrontata. La mente è già sconvolta con genitori che non si sopportano più, che si odiano” Pupi Avati riflette e fa riflettere profondamente quando parla di rapporti tra anziani e bambini, in entrambi le stesse fragilità e le stesse paure e l’ellissi che si gioca nella nostra esistenza e sulle cose quotidiane che sfumano nel surreale… L’anima di Pupi Avati sempre sospesa sull’aureo filo dell’amore e della fede! b) SILVANO PAGLIUCA: una Vita per la Musica Palpitante la memoria di una radicata amicizia nell’amore comune per il teatro e per il melodramma. Si studiava nei rispettivi Licei, io al Classico, Silvano allo Scientifico. Silvano alternava con intelligenza le sue ore di studio con lezioni di canto. In seguito abbandonerà gli studi di medicina ed appena ritenne di potersi esibire partecipò al Concorso Voci Nuove di Spoleto e fu il trionfo! Importanti impresari lo invitarono a trasferirsi a Milano, tempio della Musica e furono anni di grande preparazione, conoscendo e cantando con i grandi del momento: Franco Corelli, Mario del Monaco, Renata Tebaldi, Giulietta Simionato, Gianni Poggi, Aldo Protti e poi, poi con il grande Luciano Pavarotti e Mirella Freni, dolcissima, con i quali a Bologna cantò nei Puritani di bellini, la Lucia di Lammermoor di Donizzetti, Bohème e Turandot di Puccini. Per venti anni ( 1957-1981) Silvano Pagliuca è stato Basso “ serio”. Il “ TIMES”, il “ The Irish News” gli hanno tributato grandi elogi come “ cantante che dà sollievo”. Poi i viaggi in Oriente, in Giappone con la Manon di Massenet insieme al grande soprano Monserrat Caballè e il baritono Ausensi. Nel 1977 Pagliuca è a Spoleto per il Festival dei due mondi, protagonista nell’opera di Nino Rota su testo di Eduardo De Filippo “ Napoli Milionaria”. Nel 1960 alla RAI di Napoli registra Giasone di Francesco Cavalli. a Gragnano (Na) 21 Nel 1980 con il grande musicologo e regista Roberto De Simone portò in scena “ Crispino e le Comari” dei Fratelli Ricci e poi “La serva Padrona”, “Livietta e Tracollo” di Pergolesi e “Flaminio” sempre del Pergolesi. Grande la soddisfazione di Silvano Pagliuca per l’esecuzione effettuata nella sala “Nervi”, alla presenza di Sua santità Giovanni paolo II, dopo l’attentato del 1981. Fu eseguito L’Oratorio “L’Ascensione” del Maestro Domenico Bartolucci, che esprime altamente il Ministero di Cristo con slanci creativi profondamente mistici. Con Silvano Pagliuca, il soprano Cecilia Gasdia, il mezzosoprano Didier Gambardella e il tenore Bavaglio. Canta poi nella Messa da Requiem di Verdi con l’orchestra di Torino e nella “ Petite Messe Solemnelle” di Rossini nella chiesa di San Zeno a Verona con Mirella Freni e Lucia Valentini Terrani , diretti dal M° Bertola in versione originale ( cioè con due pianoforti ed armonium (od organo). Per diversi anni Silvano Pagliuca ha insegnato presso il Conservatorio di Avellino e poi al “Nicola Sala” di Benevento (solfeggio e canto). Le più vive congratulazioni perché vanto del Sannio e dell’Italia. La grande Voce di basso brillante e baritono si è spenta all’età di 81 anni il 24 agosto di quest’anno a Benevento dove ora riposa. Pace alla sua grande Anima. Recensione di MICHELE SESSA LINA PINTO- ODORE DI LENTISCO BRUCIATO Se pure frastornata “dai martellanti richiami di un consumismo sfrenato” LINA PINTO con ODORE DI LENTISCO BRUCIATO, torna al mondo umile, contadino, per fornirci un “ritratto” dell’epoca, alla tavola di una antica comunità, perché, con saggezza, se ne possano valutare differenze e qualità! Ha fiducia negli uomini, l’Autrice, e nei valori delle loro coscienze e spera di portare una lucecolore e calore- nel grigiore uniforme del mondo attuale. Il suo non è mito, cioè un racconto fantastico rivestito di sacralità, né favola, né saga, cioè qualcosa di epico di ampio respiro, ma un semplice racconto di una vicenda unica, povera, umile, ricca di proteine, di bontà, di fede, dove tutti sono responsabili del tutto, dove niente viene sprecato. La tavola, si sa, resta il luogo che vivifica e stimola uno dei massimi piaceri ma dove non sempre può essere servito il piatto prelibato: la beatitudine! Talora, gli approcci molteplici alla storia locale possono fornire una visione d’insieme della quotidianità umana. Un passato da indagare in una realtà che ha il potere di rilevare preziosità uniche, specifiche, altrimenti disperse, affossate, per cui sono tanti i meriti di chi affonda le sue ricerche in simili radici. Lina Pinto con Odore di lentisco bruciato, offre il suo amore delicato e sofferto che porta al resuscitamento del passato, già attraverso il lentisco, elemento mediterraneo, della macchia sempreverde, profumato di resina, col suo frutto pieno di olio grasso dal colore gialloverde, dal sapore aromatico. Quante poi le provocazioni nei suoi scritti perchè fortemente teme per l’ambiente, teme per la natura. In lei è comprensione, premura, amore. Voce profonda e riflessiva, quella di Lina Pinto. Nel passato cerca il bene, il pudore, l’amore, la gentilezza, la semplicità, la tolleranza da riportare provocatoriamente nel nostro mondo, per dare di più ai contemporanei. Carica di entusiasmo, di attesa, Lina Pinto “avverte prepotente il bisogno di fornire di quel mondo un ritratto” Simpatia…curiosità per ricordi di un tempo…ceci nel paiolo di coccio…lumachine appena lesse…il forno per il pane…le melanzane…il ragù di seppia…funghi di macchia…la gallina vecchia per il buon brodo… Tutto una goduria! E le pasticcelle delle feste natalizie…oh! La preparazione e la salsiccia…il maiale da lavorare…le alici, le sarde…le pizze di Pasqua…vino cuotto e fiche ‘mpaccate e giù ricette, ricette, tante ricette e modi di preparare e di cucinare. Leggere un libro non è sempre un lavoro forzato ma questo in più diletta e, alla fine, non ti sei stancato per niente, anzi, addirittura, riprendi la lettura. Brava, LINA ! 22 “I SENTIERI DELLE MOFETE” PERCORSO geoarcheologico alla scoperta delle “MOFETE e dei SINKHOLE” della Media ed Alta valle del Sele di MARZIA SPERA L’Alta e Media valle del fiume Sele è tra le aree più interessanti d’Europa dal punto di vista del paesaggio. Le bellezze che la contraddistinguono spaziano dalla semplice osservazione del paesaggio agli aspetti archeologici – storici e culturali, passando anche per quelli enogastronomici. In un contesto simile non poteva mancare un percorso di divulgazione culturale ad ampio spettro che potesse abbracciare soprattutto gli aspetti geologici ed archeologici legati a questa porzione di territorio dell’Italia Meridionale. Ecco come il comune di Oliveto Citra (SA) si inserisce tra i comuni italiani come quello più interessante per quanto riguarda il degassamento naturale dal suolo, intendendo con tale terminologia una miscela di gas naturali ( CO2, SO2 – Anidride solforosa - H2S - acido solforico, Elio, Metano, Azoto, idrocarburi aromatici ed altri gas), che risalendo dalle profondità della Terra trovano, come via preferenziale, faglie e fratture. Nel comprensorio comunale di Oliveto Citra (Sa) sono state riscontrate ben dieci venute di gas, le cosiddette “Mofete”, con o senza la presenza di acqua. Queste “Mofete” costituiscono un sito di particolare interesse geologico definito “Geosito”. L’individuazione dei “geositi” offre numerose opportunità: o Valorizzazione e conservazione del patrimonio geologico; o valorizzazione del territorio comunale e provinciale; o integrazione dei dati nella pianificazione territoriale; o Potenziamento nell’attrattiva esercitata dal territorio e quindi dell’offerta turistica; o Aumento dell’occupazione con la creazione di guide ambientali (opportunamente formate) e di personale addetto ai servizi collegati con questa attività turistico – didattica. o Potenziamento dell’offerta didattica; Durante la risalita dalla profondità della Terra questi gas, possono intercettare la falda acquifera dando vita spesso a manifestazioni spettacolari con la formazione di soffioni e/o geyser; in altri casi il degassamento avviene senza l’intercettazione della falda, in questi casi si assiste alla visione sul suolo di zone in assenza completa di vegetazione (fenomeno causato dal fatto che questi gas sono letali per la maggior parte degli esseri viventi fatta eccezione per alcune specie di batteri) e con forte odore di zolfo. Mofeta del TUFARO nel comune di Contursi Terme Il termine “Mofeta” deriva da Mefite divinità italica legata alle acque. Il nome Mefitis è sicuramente osco, con significato di "colei che fuma nel mezzo" oppure "colei che si inebria" o ancora - sembra con maggiore probabilità - "colei che sta nel mezzo”. A lei veniva attribuito il potere di fare da tramite tra la vita e la morte e di presenziare agli scambi. L’oracolo di Delfi in Grecia, attribuito al Dio Apollo, (Dio che si propone come tramite tra ZEUS e gli uomini) era sito proprio vicino ad una venuta di gas. Per comprendere il culto della dea Mefite, occorre partire dai secoli XI-X a. c.., quando gli 23 La freccia indica il percorso Osci o Ausòni, stanziati a sud dell'Umbria, con l'espansione Etrusca, spinsero alcune tribù a muoversi lungo l'Appennino in direzione sud. E’ lungo questo loro percorso, passando anche attraverso Oliveto Citra e Contursi (zona del Tufaro), giungendo fino a Vaglio della Basilicata (Pz) che gli Osci divenuti, in seguito Hirpini incontrano: “Le acque mefitiche”. Ecco, questo è il luogo di culto della dea Mefite, divinità ctonia che indica tutte quelle divinità generalmente femminili legate ai culti di dèi sotterranei e personificazione di forze sismiche e/o vulcaniche. Da sempre immaginata bifronte. Essa è sia Afrodite che Hera, protettrice della bellezza, dispensatrice di fecondità, ma anche Persefone, signora della morte. Lo scenario è il territorio tra la Campania e la Lucania cioè l’IRPINIA terra antica di transito e di scambio. Notizie di scrittori antichi e rinvenimenti archeologici documentano l'esistenza del culto alla dea in Irpinia a Rocca San Felice nella Valle d'Ansanto e a Casalbore, in Lucania a Rossano di Vaglio e Grumentum, a Casalvieri (in località Pescarola), a Casalattico (in località San Nazario), nella Valle di Canneto a Settefrati , al crocevia fra Molise, Lazio e Abruzzo. La presenza di Mefite si riscontra, però, anche fuori dell'area osco-sabellica: a Cremona, a Lodivecchio, presso Lodi, a Roma - dove sono attestati un tempio (aedes Mefitis) ed un boschetto sacro (lucus Mefitis) a lei dedicati sull'Esquilino fin dal III secolo a.C. - e a Tivoli. Nella Nostra area d’interesse il culto per la dea Mefite trova collocazione tra le loc. Casale, Aia Sofia, S. Sisto, Ponte Mefita e Pistello Murzio in territorio di Senerchia. Infatti, come riportato nel testo <<Spigolando nella valle del Sele - deduzioni storiche di Damiano Pipino - >> edito da Valsele tipografica Napoli nel 1981 alle pag. 69 – 73 si trova testualmente scritto: […] esattamente nel tratto che va dalla località Casale di Oliveto Citra alla confluenza del Tanagro con il Sele , in tenimento di Contursi Terme, lungo le sponde del Fiume vi sono numerose sorgenti sulfurose che la gente del posto chiama Mofete, mufete, mefite. Nelle vicinanze di dette sorgenti sono stati rinvenuti casualmente ex – voto, quali monete di vario tipo, vasetti votivi e qualche pendaglio di ambra rossa. Inoltre, ad Oliveto Citra, nelle vicinanze della sorgente S. Sisto, non mancano i ruderi di antiche chiese cristiane: quella di S. Nicola in loc. Pistello Murzio a confine col tenimento di Senerchia, e quelle di Santa Maria de Faris alla località Casale. Presumiamo che questi fatti trovino un certo collegamento con quelli della sorgente mefitica di Valle D’Ansanto, della quale, forse perche meglio conosciuta, per i tempi antichi si hanno le testimonianze di Cicerone, Seneca, Virgilio, Plinio, Claudiano e Servio […] Il culto mefitico venne minato prima dalla politica di Roma e dopo dal Cristianesimo, quindi scomparve del tutto durante il IV secolo d.C. Le tracce di esso vennero cancellate quasi del tutto dalle successive invasioni barbariche e dagli stessi fedeli, i quali divenuti cristiani, abbandonarono e distrussero i templi della dea Mefite […]. Così costruirono nuove chiese ad una certa distanza dalle sorgenti mefitiche, ritenendo che il posto risentisse della superstizione (Gambino N. Op. cit. pag. 76). Tuttavia , non potendo cambiare le abitudini popolari relative alle feste e le celebrazioni, ebbero l’accortezza di intitolare le nuove chiese a Santi i cui festeggiamenti coincidevano con le ricorrenze liturgiche del precedente culto pagano. (Gambino N. Op. cit. pag. 71). Queste prime chiese cristiane è probabile che col passare dei secoli siano state soppiantate da quella di Santa Maria de Faris in località Casale, della Madonna della Grazie e con le cappelle di S. Antonio a “Ponte Mefita” in Contursi Terme le cui ricorrenze liturgiche sono precedute da fiere che non sono altro che la continuazione di antiche manifestazioni pagane. (la fiera di Piceglie di Oliveto Citra istituita nell’Agosto del 1768 è il prosieguo della festività pagana. 24 meridionale di M. Ogna a ridosso del piccolo rilievo calcareo di M.Pruno. Nell’insieme si allineano lungo la direzione Ovest – Est seguendo la direzione dei versanti di faglia di M. Pruno e il piccolo rilievo calcareo su cui sorge l’abitato di Oliveto Citra. La loro genesi è fortemente condizionata, da un lato dall’elevato grado di fatturazione e dall’altro, dall’ipercarsismo connesso alla risalita di fluidi profondi della falda termominerale di Contursi. Purtroppo è risaputo che i terremoti costituiscono una importante causa di disastri in tutto il mondo. La penisola italiana, in particolare, si trova nella situazione di essere frequentemente soggetta a sismi di intensità e tipologie variabili in un larghissimo spettro. In particolare l’area dell’Appennino Meridionale, considerando la zona estendendosi dal Molise alla Basilicata, è stata interessata nel non lontano passato, da forti eventi sismici, con intensità anche maggiore del X grado MCS, con aree epicentrali sia nella regione molisana, che in quella campano-lucana. L’ultimo forte terremoto, quello del 23 novembre del 1980 ha causato la morte di circa 3000 persone. In conclusione: perche le “mofete e isinkhole” sono oggetto di studi scientifici? La comprensione del meccanismo di degassamento del Mantello, il contributo alla deformazione crostale e alla generazione di terremoti, è il principale obbiettivo delle Scienze della Terra nella Nostra Penisola e merita grande attenzione. Da tutto ciò ne consegue che il comprensorio di Oliveto Citra con le sue “MOFETE” rappresenta un promettente laboratorio naturale verso una migliore definizione tra variazioni geochimiche e attività sismica. D. CUTINO CU Sulla scorta di tutti questi elementi crediamo si possa affermare che la dea Mefite fu veramente la maggiore divinità degli Irpini, i quali ne diffusero il culto in questa valle del Sele durante la loro discesa in Lucania. Fatto che, oltre tutto, potrebbe essere confermato da gli ex – voto rinvenuti vicino alle sorgenti . […]Plinio ( Naturalis Historie, II, 30) parlando dell’ambra riferisce che si usava portarla appesa al collo per combattere le malattie della gola. Non è improbabile che in questi posti la portassero per scongiurare il pericolo dei gas delle sorgenti mefitiche, che producono appunto il soffocamento. Perché “le mofete” sono oggetto di studi scientifici? Su scala globale è risaputo che emissioni di CO2 e di altri gas sono associate a zone sismicamente attive. Gas posti in profondità ad alta pressione come la CO2, possono giocare un importante ruolo nella genesi dei terremoti attraverso la riduzione della resistenza di una faglia. Infatti, l’emissione superficiale dei fluidi può spesso portare testimonianza dei processi geologici profondi come quelli sismici. Tra il degassamento dal suolo, le acque circolanti, gli sprofondamenti (i cosidetti Sinkhole) e la sismicità dell’area d’ interresse esistono forti legami. Cosa sono i Sinkhole? […] Il termine sinkhole (letteralmente significa “buco sprofondato”) è stato introdotto per la prima volta da Fairbridge (1968) per indicare una depressione di forma sub-circolare dovuta al crollo di piccole cavità carsiche sotterranee, sinonimo dunque di dolina. In Italia il termine sinkhole è stato introdotto, a partire dagli anni novanta, per indicare un tipo particolare di sprofondamento, con forma subcircolare, ma di genesi incerta che si apre rapidamente in terreni a granulometria variabile. Molte sono le pubblicazioni scientifiche prodotte a tale riguardo. Tra queste, spiccano per particolare attenzione sulle aree d’interesse, quelle nelle quali si fa chiaro riferimento ai Sinkhole presenti sul territorio di Oliveto Citra, Colliano e Contursi Terme e alla loro genesi. L’assetto tettonico dell’area è caratterizzato dall’intersezione di importanti faglie regionali che identificano la struttura sub triangolare della Valle del fiume Sele. I sinkhole si aprono lungo il versante TIN O Sistemi di Pesatura S.r.l. Via Gen. Nastri, 12 - Tel. 089.953494-089.954338 LANCUSI (SA) - ITALY
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