nn 4-5 Ottobre 2014 - lareopagoletterario.it

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Sì che abbiamo ben meritato dopo quanto abbiamo “costruito”
E’ SEMPRE PIU’ EMERGENZA PER LA QUESTIONE CLIMATICA
di MICHELE SESSA
Fenomeni metereologici da far
accapponare la pelle, nei mesi primaverili
più belli!
Aprile, maggio, giugno e luglio…da
ricordare. Giove pluvio ed Eolo l’hanno fatta
da padroni.
I fiori e le piante soffrivano…assetate di
sole. E perché?
In cinquant’anni si è perso un quinto della
superficie della foresta amazzonica e la
conseguenza è sempre più tangibile.
L’innalzamento dei mari minaccia tanti
piccoli stati insulari. Il clima va male. Il
riscaldamento globale della terra è più veloce
del previsto.
La CO2 nell’atmosfera è ai massimi
storici. Incombono alluvioni, desertificazioni,
scioglimento dei ghiacciai.
Disastri in tutte le latitudini, disastri
naturali, ambientali…catastrofi!
Coscienza, svegliati! Il mondo va in
frantumi…
L’uomo si ravveda; pensi di più al suo
futuro.
Preziosa è la salute: la salvaguardi.
A che vale il vile denaro senza la salute?
La salute : ATTENZIONE: - l’efficienza
e la prestanza, più necessarie di qualsiasi
altro possesso materiale.
Difendiamole e difendiamoci, osservando
le regole della Natura; onorando la Natura;
perché si comporti poi da Mamma e non da
matrigna! Confortando le nostre esigenze
del buon vivere…
E poi una estate così! Dobbiamo riconoscere che meritiamo proprio quanto continuamente, giorno per giorno, costruiamo.
MEA CULPA, MEA MAXIMA CULPA:
oh, quanto ci sarebbe da fare!
Abbiamo avuto gli occhi chiusi quando i
palazzinari costruivano vicino alle foci dei
fiumi e sulle montagne, disboscando e
cementificando intorno a vulcani attivi e al
Vesuvio. Ora ci lamentiamo per uan estate
bizzarra…
Quanti danni ci siamo creati.
Diceva un geologo amico che oramai “il
sistema idrogeologico in Italia è sclerotico”
Quanti condoni ai palazzinari illegali!
Altro che condoni, ci vorrebbe proprio
altro, proprio ben altro!
Ci lamentiamo del cambiamento climatico
globale? INVENTIAMO pene severe per
adeguarci.
“ UOMINI, VIL RAZZA DANNATA”
CON I RIFIUTI E GLI EGOISMI AVETE INTOSSICATO
E DISTRUTTO LE BELLEZZE DEL MONDO,
NON SOLO L’ESTATE!”
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GALLERIA DEL CONCORSO E DELLA GIORNATA ECOLOGICA
A
A - Con il Premio di Eccellenza
al Prof. Gennaro PIPINO
dell’Università di Lugano
(Svizzera) - 2° da sx, i Premi
Speciali al Magnifico Rettore
dell’Università degli Studi di
Salerno, Prof. Aurelio
TOMMASETTI - 2° da dx, al
Signor Francesco GALDIERI
della Petroli Galdieri e
Autoconcessionaria Fiat - 1° da
sx, e al Dott. Domenico SESSA,
Presidente della BCC di Fisciano
(SA) - 1° da dx.
C
D
B
B - Con i Premiati, il Sig. Sindaco del Comune
Città di Fisciano, Avv. Tommaso AMABILE;
C e D - I Musicisti premiati dall’On.Avv. Tino
IANNUZZI, Vice Presidente della Commissione
Ambiente della Camera dei Deputati.
3
La Scolaresca dell’Istituto Superiore Scientifico
di Baronissi vincitrice del Trofeo della Presidente
della Camera dei Deputati
Una veduta della Cerimonia di premiazione del
XXV Concorso sulla Ecologia
Il Sig. Sindaco della Città di
Fisciano (SA)
consegna la Medaglia
celebrativa
del Signor Presidente
della Repubblica Italiana
Giorgio Napolitano
Con l’AEROPAGO Letterario
a Furore
(costiera Amalfitana)
per la XXV
GIORNATA ECOLOGICA
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Esiste ancora la critica? – E’ oggi penalizzato il valore letterario?
UNO SGUARDO ALLA CRITICA LETTERARIA ITALIANA DEL
NOSTRO TEMPO
di FRANCESCO CAIAZZA
Nel corso dei nostri studi liceali e universitari
di parecchi decenni fa, i docenti ci hanno
insegnato a leggere e approfondire la critica
letteraria per comprendere appieno un’opera
analizzata sotto ogni aspetto. Per la verità, a
quell’epoca attingevamo a fior di critici e studiosi,
che ci avviavano a cogliere il senso letterale e
metaforico, incardinati nell’epoca della
successione dei fatti narrati. Ma, sinceramente,
ci affascinavano anche con un linguaggio e
argomentazioni stringenti, sulla base di una
straordinaria ampiezza di vedute che, a dir poco,
ci coinvolgevano al punto da ritenere condivisibili
le loro dimostrazioni. Questo anche quando
andavano a sconvolgere le nostre convinzioni
consolidate, (quanto a me, ricordo solo che non
mi lasciai sedurre dal giudizio di Benedetto
Croce sul valore oratorio dei Promessi Sposi,
giudizio poi ritrattato: ero, e sono, troppo
“innamorato” di un romanzo straordinariamente
ricco di un fascino unico e inimitabile, nonché
di valori veri ed eterni).
A quell’epoca, mi riferisco all’immediato
secondo dopoguerra, la critica si configurava
come una vera e propria ricerca dello studioso,
sul modello dello scienziato: ci scoprivano
orizzonti sconosciuti, interpretazioni ricche di
fascino, particolari inediti… Il tutto in una visione
d’insieme nella quale confluivano la sensibilità
della componente umana di un autore, la
dimensione storica e quella ambientale in cui si
realizzava.
Non per questo, tuttavia, una valutazione
sostanzialmente personale fosse sufficiente a
“consacrare” definitivamente un lavoro se non
veniva suffragato da diverse voci. Del resto, era
necessario che ai fruitori degli studi della critica
giungesse una valutazione che facesse riferimento
ai valori e ad un’analisi stilistica sostanzialmente
condivisibili, se non proprio condivisi, secondo
studi riconosciuti affidabili e seri dalla cultura
corrente, che altro non è se non il risultato anche
delle mutazioni socio-politiche di una comunità
nazionale. Questo perché l’analisi di un testo
non può mai considerarsi un fenomeno statico,
immobile, perché è il frutto di un’ampia varietà
d’interpretazioni. Del resto, il giudizio critico
altro non è che il risultato di una condizione
sociale, storica, culturale durante la quale si è
formulato, pertanto è soggetto a mutazioni, direi,
fisiologiche. Perciò i risultati di uno studio
dipendono dai modi diversi di approccio ai
fenomeni letterari, per cui nei decenni si sono
succeduti vari aspetti di un’analisi critica di
un’opera letteraria: dal metodo “storico” si passa
a quello idealistico, dal concetto della letteratura
nazionalpopolare a quello della letteratura
sociologica, dal rapporto letteratura e società
alla critica ermetica, fenomenologica,
psicanalitica, stilistica, semiologica.
Intanto, in alternativa allo strutturalismo, che
si fonda su orientamenti sistematici di natura,
definirei, scientifica, si è andata affermando
l’ermeneutica, che si libera dei lacci di un
modello totalizzante, esaltando l’autonomia e la
soggettività del critico, che è fondamentale per
cogliere i veri significati, per nulla standardizzati,
di un lavoro letterario.
Quanto alla critica semiologica, si ritiene che
Cesare Segre rappresenti una delle personalità
di maggiore spicco, in sostanziale sintonia con
Umberto Eco, che ha adottato, a sua volta, la
semiologia come terreno privilegiato delle sue
teorie, contestando i fondamenti ontologici dello
strutturalismo formalistico.
Oggettivamente, non mancano al critico d’oggi,
pur denunciando una sorta di disagio,
un’armoniosa varietà di linguaggio e una
sostanziale originalità espressiva, in quanto egli
soccorre il suo ragionamento con l’apporto di
una componente linguistica, tipica delle
comunicazioni settoriali o specifiche di particolari
ambienti socio-culturali.
Si ha, tuttavia, l’impressione che sia in qualche
modo saltato il concetto che egli debba
ripercorrere il prodotto letterario nel quadro di
un sistema di valori, che riguardano la validità
del soggetto e la comunicazione utilizzata per
trasmetterlo al lettore, fermo restando il diritto
di chi scrive di partire da una sua personale
5
visione, legata alla sua formazione, alla sua
cultura, alle sue idee politiche, morali…, per cui
può
liberamente privilegiare una visione
idealistica, invece che realistica, romantica o
sociologica, stilistica o psicanalitica.
A tal proposito opportunamente Ezio
Raimondi annotava che si dovesse condividere
il concetto che la letteratura “custodisce l’eterno
presente del passato e un critico letterario deve
pensare che un testo non è il passato ma il
presente incarnato in un oggetto fragile ma
individuato”. Quindi, pur essendo la letteratura
un divenire inarrestabile, non bisogna mai
cancellare la tradizione, se non altro per creare
rapporti d’interdipendenza fisiologici tra di loro.
Questo perché egli concepisce l’analisi come
esigenza di indagare in profondità le strutture
di un lavoro, “cogliendone i diversi gradi di
complessità e di ambiguità”. Parte dal
presupposto che ogni lavoro letterario racchiude
un senso non palese che il lettore deve riuscire
a cogliere, ricorrendo a opportuni accorgimenti.
Del resto fino ad un certo
momento storico, il punto di vista di ciascun
critico aveva la sua collocazione in una visione
unitaria, in grado di contemperare l’approccio
personalistico e quello oggettivistico, per il fatto
che si sentiva la necessità di interagire sia che
si partisse dall’indagine nel settore della
semiologia sia che si prendesse in considerazione
lo strutturalismo proveniente dalla cultura
d’oltralpe.
A questo punto, però, mi va di condividere
l’opinione di Cesare Segre: “che la critica
letteraria sia in crisi è da qualche anno che lo si
dice, e alla fine bisogna riconoscerlo, anche se
con molti distinguo”. Prima degli anni Ottanta
era la totalità l’ambizione primaria del critico.
“Ogni nuovo procedimento o punto di vista
trovava il suo posto in un sistema. Oggi la
seduzione della totalità è appassita e ci si può
inoltrare nella foresta letteraria, seguendo sia la
segnaletica ufficiale sia richiami d’altro genere:
l’importante è raggiungere in qualunque modo
una qualche gratificante, o esaltante,
comprensione. La “foresta letteraria” fa pendant
con il “bosco narrativo” delle lezioni americane
di Umberto Eco. Prospetta, poi, qualche
possibilità per uscire fuori dalla crisi, col ritorno
al particolare, sull’esempio dei Paesi più evoluti
d’Europa. A questo punto ci chiediamo: a che
è dovuta la crisi della critica che sembra non
abbia sbocchi, almeno nell’immediato? E’
tangibile un diffuso scetticismo in questa fase,
perché è evidente un disagio, neanche troppo
latente, della critica letteraria, in quanto va
imperversando una dilagante invasione dei diversi
media, che aggiornano con impeccabile
tempestività il loro linguaggio, proponendo la
presenza massiccia delle immagini di grande
efficacia. Da qui il calo dei cultori di questo
settore, che viene confinato a un prodotto di
nicchia, sempre più scarsamente “visitato” dai
tradizionali fruitori, che, tutt’al più possono
accostarsi alle opere di grande spessore, che
fanno bella mostra di sé magari nelle biblioteche
o in occasione delle grandi manifestazioni
culturali.
Da condividere a tal proposito l’osservazione di
Antonio Piromalli, impegnato da tempo a mettere
al centro della sua speculazione lo storicismo e
l’impegno civile, che, affrontando il tema delle
culture “minori” proprie delle masse, critica
l’opportunismo dello studioso manierato che si
schiera dalla parte del potente di turno. Da citare
altresì l’impegno, tra i tanti, di Renato Barilli,
che si è occupato di letteratura contemporanea
e del postmoderno, con particolare riferimento
a quella italiana.
Si aggiunge il calo d’interesse della gran parte
della stampa quotidiana e periodica, anche perché
il ritmo vorticoso della vita la fa concentrare
sulle cronache di natura politica, economica,
sociale, mondana e di costume. A meno che non
si tratti di eventi eclatanti che investono
personaggi di rilievo o colgono aspetti
sorprendenti di attualità. In questi casi più che
un lavoro critico serio, si tratta di uno scoop, di
“rivelazioni scandalistiche” riguardo ad autori
viventi e non. Accantonando le finalità della
critica, la si carica di dotte citazioni, di sfoggio
retorico, di azzardati confronti, che nascondono
lo scopo di autocompiacimento, invece di
sostenerla cogliendo di un testo le vere emozioni,
le sensazioni, i messaggi reconditi, magari anche
voli pindarici.
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Con colpevole indifferenza si tralascia di
offrire all’interessato fruitore un coerente
contributo d’idee, una chiave di lettura di
un’opera. Lo stesso web, che in qualche modo
affronta questioni di carattere letterario, peraltro
molto seguite, non sempre è interessato a portare
il discorso su ragionamenti di un certo livello
culturale, in quanto, non di rado, i protagonisti
fanno solo sfoggio di raffinatezza di linguaggio
fine a se stessa, se non proprio cercano un pretesto
per offrire ai fruitori materia di contrasti violenti
e plateali. Né si riesce a dare respiro a
quell’autentico spirito critico che nulla dà di
scontato a priori, che indaga, approfondisce,
verifica e, al contempo, crea correlazioni,
analogie o contrasti forti con chi, partendo dallo
stesso presupposto, è impegnato a dimostrare il
contrario. Con il logico risultato di poter alla
fine riconoscere la fiacchezza delle proprie
dimostrazioni.
E’ complesso far riscoprire alle nuove
generazioni le funzioni della critica in sé, vista
come attività universale, sociale, indeterminata:
la critica non necessita dei valori della società
per sopravvivere, sono questi ultimi a ricorrere
ad essa per potersi rispecchiare accettandosi o
rifiutandosi. Del resto in una società in cui si
vale per quello che si ha (quanto a beni materiali)
e non per quello che si è (quanto a valori veri e
assoluti), anche la letteratura ha subito un
declassamento rispetto al suo tradizionale ruolo
predominante di acculturazione e di formazione
linguistica, accompagnata a quella umana di
educatrice delle categorie più elevate della
società. Conseguenza inevitabile è stata quella
che è andato svuotandosi il ruolo preponderante
della critica, dal momento che non si offre più
come punto di riferimento sicuro rispetto alla
valutazione del lavoro letterario, che un tempo
individuava gli orientamenti e il gusto del
pubblico per fargli assaporare il fascino dell’arte
dello scrivere.
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Non ci dobbiamo, purtroppo, meravigliare più
di tanto se, analizzando il particolare momento
in cui viviamo, si vada consolidando sempre
più l’idea che la critica stia prendendo una deriva
di carattere pubblicitario, quasi rinunciando ad
una valutazione il più possibile obiettiva e
scrupolosa; si tende a interrogarsi sul proprio
ruolo di critico senza segnalare la scarsa
consistenza di un testo. Come pure si percepisce
la sensazione che venga a mancare quel faro
che potrebbe far luce al critico alle prese con
un mondo convulso e imprevedibile, con una
realtà che si crea e si dissolve senza lasciare
traccia, per cui risulta problematico lo sforzo di
attivare un sistema di analisi testuale, in grado
di fare opera di collegamento come nella
tradizione.
Si ha la sensazione che si sia man mano
assottigliato quel ricco patrimonio di cultura che
si era forgiato sulle esperienze drammatiche dei
due conflitti mondiali, sul ventennio fascista,
sulla guerra fredda, tanto che, anche chi si erge
a difensore della critica classica, si ritrova
disorientato ed estraneo alla nuova concezione
della realtà, per cui si arrende al susseguirsi delle
trasformazioni, disperdendosi su soluzioni
stilistiche senza sbocchi sufficientemente
razionali.
Da qui il consolidarsi di una critica che,
come osserva Ferroni, è o “invadente e
onnivalente, che si sovrappone ai testi turgidi
di blocchi interpretativi, che li misura con
agguerriti parametri tecnici, epistemologici,
ideologici, nella presunzione (non sempre
dichiarata) che ci sia una “verità” superiore, data
dai modelli seguiti dal critico, che possono essere
retorici, linguistici, psicoanalitici, filosofici,
fisiologici e altro ancora”. A questa visione si
oppone la critica “che si affida a eterogenee
divagazioni, che possono essere di tipo personale
e biografico/autobiografico, oppure di tipo
mistico/orfico, sacrale, iniziatico, metaforico”.
Per lui i media hanno un ruolo determinante nel
trasmettere nuovi modi di percezione del
racconto, facendo scomparire ciò che separa,
ciò che è e ciò che appare. I linguaggi che ne
derivano scavalcano a pié pari la tradizione
consolidata nei secoli, in quanto si crogiolano
nella molteplicità dei modelli che vengono
veicolati dalle più svariate forme di diffusione.
In questo quadro il linguaggio si adegua alle
novità, prendendo le forme di una liberatoria
disponibilità per ogni fenomeno culturale che i
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media propongono, sfuggendo, così, alla
tradizionale classicità.
A questo punto sorge il dubbio se in Italia oggi
ci sia realmente quell’insieme di uomini e
d’istituzioni che per il passato hanno assicurato
l’esistenza di una società letteraria, perché
l’attività del critico, di solito subalterna
all’industria editoriale, molto spesso indossa la
veste dell’interesse economico, che viene
soddisfatto da analisi critiche faziose, da
recensioni che abdicano al principio di razionalità
e a quello che era il compito sociale della critica.
Secondo Goffredo Fofi fino agli anni Ottanta
era presente; in seguito, sia le arti in genere, sia
in particolare la letteratura, hanno cambiato
natura: “Vengono vendute come una merce e i
lettori sono ora indotti a considerarla solo come
tale. Sono saltate tutte le funzioni di mediazione:
la critica in primo luogo. … Nessuno si dedica
alla formazione di un pubblico, nessuno si
preoccupa di orientarlo, se non per indirizzarlo
verso i fenomeni di consumo”. E aggiunge che,
anche se la nostra narrativa vive ancora una
stagione positiva ad opera soprattutto di autori
nati negli anni Ottanta “che colgono il terribile
intreccio tra vecchie barbarie e nuove tecnologie”,
tuttavia mancano i supporti alla sopravvivenza
di una società letteraria per l’incuranza delle
istituzioni politiche e dei mezzi d’informazione,
che svolgono “un ruolo nefasto che compiace lo
smaccato individualismo, il narcisismo diffuso…
La critica non esiste più, c’è l’accademia, ma la
critica militante si è eclissata, sono spariti i
recensori, c’è solo la comunicazione
pubblicitaria”.
Purtroppo le esigenze di diversi editori sono
rivolte al libro di successo, quello del momento,
per ragioni economiche. In tal modo viene
penalizzato il valore letterario e artistico
dell’opera. Da qui scaturisce la carenza di una
critica razionale e scrupolosa di un’opera.
Non diversamente ragiona Ermanno Cavazzoni,
per il quale “la critica letteraria oggi è stata
soppiantata dai passaggi in TV: gli editori sono
anche più contenti, la televisione fa vendere di
più”. Severo anche Marco Ciriello: “Una volta
il critico stupiva, segnalava lo scrittore o il
movimento non visto, le idee marginali che
potevano avere una ragione e un seguito, il
romanzo sfuggito al grande editore che negli
anni avrebbe assunto un ruolo, o anche le
ambizioni poetiche… che anticipavano il tempo,
e soprattutto il critico era maniacalmente attento
al linguaggio; chiamato a giudicare lo scrittore,
doveva essere abituato a lavorare sulle sue parole
non a parlare per frasi fatte…”.
Per i critici, come osserva Bàrberi-Squarotti, il
quale afferma l’esistenza di un valore alternativo
della letteratura nella quale sono presenti
particolari simboli, “i testi, di carattere allegorico
e aperto a molteplici interpretazioni, ” sono
caratterizzati da uno “sperimentalismo marcato
e, anche per le soluzioni stilistiche adottate, sono
abbordabili da un largo pubblico di lettori”.
Orbene, questa provvidenziale sorta di maturità
e di oggettività di un settore della critica, potrebbe
far ben sperare per il futuro. Né vorrei tralasciare
una presa di posizione di tanta parte della nostra
critica rispetto ai romanzi anglofoni di genere,
prevalentemente romanzi pop, che tanto successo
stanno riscuotendo tra il pubblico nostrano: una
sorta di scetticismo che si realizza nel catalogare
quella narrativa, come ci ricorda BàrberiSquarotti, “commerciale, di consumo,
d’evasione”.
Vorremmo, a questo punto, poter dire che un
filone della critica pura, quella tradizionale,
comunque faccia sentire in qualche modo la sua
presenza: ma le sarà sufficiente a poter invertire
la rotta, acquistando, così, dignità e, di
conseguenza, autorità per il recupero di quel
ruolo attivo che ricopriva in una società più
equilibrata e culturalmente più dignitosa?
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8
CANTIERI FINTI, SPRECHI E RISCHI PER IL DISSESTO
di DOMENICO SESSA*
L'Italia, Paese a rischio in materia di frane,
alluvioni e allagamenti!!
Lo dicono i fatti di cronaca, lo segnalano le
statistiche…
Il territorio interessato a questo tipo di rischi
è pari quasi al 10 per cento dell'intera superfice
nazionale, e comprende l'81 per cento dei comuni
(6.663): dunque abbiamo bisogno di mettere in
sicurezza un pezzo d'Italia, con opere certe e
non con i soliti cantieri fantasma.
Tanti cantieri finti, che non si aprono mai,
tanti cantieri aperti, ma è solo apparenza e
producono un enorme spreco di soldi.
Tanta la burocrazia da superare in un momento
estremamente critico per tutte le categorie.
Un maxi piano di interventi per l'emergenza,
definiti con un accordo Stato-Regioni tra il 2009
e il 2010 per una spesa complessiva di 3 miliardi
e 395 milioni di euro, dopo quattro anni è finito
così: le opere concluse sono appena il 3,2 per
cento di quelle previste, mentre il 78 per cento
dei cantieri sono fermi. Alla faccia
dell'emergenza!!!!!!!!
Complessivamente, dal 1998 ad oggi le risorse
programmate e non ancora impegnate
ammontano a 2,27 miliardi di euro. Stesso
discorso per i fondi europei stanziati per questo
tipo di opere: la metà sono chiusi nei cassetti,
inutilizzati.
E ci sono ben sette regioni italiane che da 15
anni non riescono a concludere neanche un lavoro
in materia antidissesto.
Ma che cosa blocca le opere? In alcuni casi
mancano i progetti, in altri scarseggiano i tecnici
specializzati.
Poi ci sono i conflitti tra gli enti locali, con
code in tribunale, che pure contribuiscono al
mancato inizio dei lavori.
E ancora: intoppi burocratici e un'alta
conflittualità tra i commissari ad acta nominati
per la singola opera e le amministrazioni locali
che non vogliono mollare la presa sul territorio.
Risultato finale: tutto fermo e rischio
idrogeologico alle stelle. Al punto che a un'Italia
che si sfarina alla prima alluvione, ne corrisponde
un'altra che contabilizza la sua impotenza in
materia di messa in sicurezza.
La mappa dei cantieri finti contro il rischio
per il dissesto idrogeologico infatti è una
fotografia dell'Italia degli sprechi e delle
occasioni perdute.
Di un Paese bloccato, paralizzato
nell'impotenza di non riuscire a spendere i soldi
che pure non mancano mentre il territorio
continua ad essere abbandonato.
Oggi dinanzi alle continue alluvioni che in
questa pazza estate 2014 ha spezzato in due
l’Italia ci sta da riflettere: trombe d’aria, piccoli
tornado, fiumi che esondano in continuazione,
tutto questo quotidianamente in una porzione
dell’Italia del Nord che è stremata da tanto
dissesto e nello stesso tempo continuano gli
sprechi per progettare opere inutili che producono
solo danni sia economici che in materia di
sicurezza, mentre al sud l’alternanza di intensi
acquazzoni e incendi preparano il terreno a nuovi
pericoli in tema di dissesto.
Progettare senza ottenere un risultato non
serve a nulla!!
Le ultime tragedie dovrebbero respingere chi
ci governa ad uscire allo scoperto, per puntare
con decisione a un obiettivo concreto: anticipare
le aperture dei cantieri per contrastare il dissesto
idrogeologico.
Sarebbe una bella sfida da lanciare, come
sistema Paese, senza aspettare la prossima
alluvione o la prossima frana per celebrare
impotenti l'ennesimo lutto nazionale.
Solo dopo la catastrofe tutti si chiedono
perché… chiediamoci perché non preveniamo
le catastrofi con progetti veri, sani e sicuri per
essere tutti in sicurezza, per essere tutti sicuri
che anche una piccola pioggia non ci faccia
venire la tachicardia!
* geologo. Consigliere Reg. dell’Ordine dei
Geologi della Campania
CASA DEI FIORI
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9
ANDREA MANZI – “L’ORMA CHE SCAVO”
SOLITUDINE SCAVATA E URLO “EDUCATO” DI UN
POETA-CITTADINO DALLA VERSATILITÀ NEOBAROCCA
di VINCENZO AVERSANO*
Ho una certa prevenzione di fondo verso gli
artisti troppo modernisti e la esprimo con questa
domanda: i loro corpus poetici sono dotati di
una interna necessità o congruità, intendo quella
che caratterizza gli esseri viventi ma anche le
cosiddette “cose” nel loro strutturato sistema?
Vale a dire: se si cambia nelle composizioni
esibite l’ordine degli addendi o qualche addendo,
il risultato non cambia o cambia (normalmente
in peggio)? Orbene, nella grande poesia (Dante,
Ariosto, Petrarca, Virgilio, ecc.), ove si spostasse
qualche elemento strutturante, salterebbe tutto
l’edificio poetico. Capovolgendo i termini: se si
prendono vocaboli o singole lettere dell’alfabeto
e le si butta a caso su un tavolo, può venir fuori
la Divina Commedia, l’Orlando Furioso,
l’Eneide, altri immortali poemi o anche semplici
ben apprezzabili componimenti? Certo che no,
a mio modesto parere, e dunque non si può
sostenere quale “buona pratica” del poeta (in
versi o in prosa) quella di buttar giù il bisognino
del momento o (che fa lo stesso) aprire il
vocabolario, puntare a caso il dito e scrivere
quel che capita, aiutandosi magari con un
dizionario dei sinonimi… ; ciò dovrebbe valere
per i colori e le linee nella pittura e per gli
elementi strutturanti qualsivoglia forma d’arte,
anche quella “raccolta” dagli oggetti naturali e
basta… E mi sia permesso di manifestare
simpatia a quella donna delle pulizie che, qualche
mese fa, equivocando ha smaltito
nell’<<indifferenziato>> alcune “opere d’arte”
esposte in un museo d‘arte moderna, col candore
e la sapienza dei <<piccoli>>…
Il criterio or ora indicato dovrebbe sempre
fungere da avvertimento per tutti gli artisti, fatti
salvi coloro che abbiano dichiarato prima, in un
manifesto ideologico-teorico, almeno alcuni
principi della propria poetica, ad esempio che
per la loro arte anche l’incrongruo ha un valore
o almeno una funzione precisi. Il che, come
noto, è avvenuto nel caso dei tanti movimenti
succedutisi nel corso della storia dell’arte e della
cultura. Ma una “professione di fede poetica”
non mi risulta fatta dall’autore della silloge in
parola [ANDREA MANZI, L’orma che scavo,
oèdipus edizioni, 2013, con postfazione di E.
Pecora], per cui mi riservo solo un minimo di
cautela, che crescerebbe in diffidenza se fossimo
di fronte a uno sperimentalismo ingiustificato,
in cerca di suoni, di messaggi casuistici e di altre
pur apprezzabili “diavolerie” più o meno
avanguardistiche…. Il nostro a. non può infatti
esser sospettato di “imbrogliare le carte”, giacché
è notoriamente quel che si dice “una buona
penna”, assai rodata, talvolta raffinata e perciò
atta a diversi usi, giornalistico prima di tutto,
ma poi teatrale e francamente poetico, per giunta
non senza sofferenza creativa (p. 41, il mio foglio
bianco/ è il confino che volli): la quarta di
copertina di questa raccolta, d’altronde, informa
che siamo al quarto volume di versi pubblicati.
Comincerei subito a qualificare questa per
ora ultima prova (ma c’è da scommettere che
tale non resterà tra qualche tempo…) come
etico-esistenziale-religiosa, susseguente a
composizioni del passato più dichiaratamente
spinte sul sociale (ad esempio, sulle
problematiche degli extracomunitari o
dell’universo gomorristico), un versante che
pure occhieggia qui tra altri temi o risentimenti
(a p. 55, per esempio: è tempo d’acque scivolose
e inferme:…). Ora però ci si squadernano poesie
più intimisticamente risentite, di solito brevi
(attorno ai 15-20 versi, media ricavata da
un’oscillazione fra piccoli frammenti di 3-4 e
impaginazioni di oltre 50) e senza titolo, che
alla fine l’indice ci dice identificarsi col primo
verso.
Ad orientarci sulla fonte degli stati d’animo
espressi, solo poche volte appare in corsivo una
dedicazione a persone o qualche sostantivo
titolante od altri elementi. Per esempio, getta
luce sul “quid” dell’ispirazione, ma solo fino a
un certo punto (data la genericità del vocabolo),
il titolo iniziale (<<Intrecci>>), quindi la
postfazione di Elio Pecora, con sorpresa senza
una prefazione di chicchessia (il poeta preferisce
offrirsi senza viatico?), e infine una dedicazione
a una donna, cui più strettamente pare legato,
10
stampato in apertura, un “aforisma poetico” –
così mi vien di definirlo – di A. Arnaud. Il Manzi
lo fa suo e perciò val la pena di riportarlo: …
sono colui che ha abolito il periplo idiota
nel/quale si ficca l’atto del generare,/ il periplo
papà-mamma// e il bambino. Col che viene
professata, restando “alla lettera”, una peraltro
accettabile religione dell’amore assoluto in
quanto tale, fuori dagli schemi… Un’idea
“antigenerativa” dell’amore, unicamente puntata
sul rapporto uomo-donna, potente e potenziabile
in sé…
Se si aggiunge che giammai il testo si esalta
in lettere maiuscole, che inoltre mancano segni
di interpunzione (eccetto lineette, anche doppie,
e parentesi quadre, che entrambe non si
chiudono…), che rarissimamente vengono usati
“metri” della tradizione letteraria italiana (due
volte l’orecchio percepisce magnifici
endecasillabi, che sembrano casuali…:
<<spingeva in alto il peso del mio sogno>>, a
p. 25; <<nel rischio calcolato del vangelo>>, a
p. 48), ebbene si evince un atteggiamento di
fondo più dissacrato che dissacrante, come se
l’autore volesse scusarsi col lettore, avvertendolo:
<<Io scrivo come sento ma non pensare che ti
voglia simile a me, non sono esemplare…>>.
Ciò dimostra una non pretenziosità nell’oscurare
talvolta il verso, cosa che gli viene quasi naturale:
questo almeno vien di dire sulla base di una
prima rapida lettura e del breve elenco appena
fatto dei caratteri per così dire “estrinseci”. Essi
non sono semplicemente tali e indubbiamente
fungono da preziosi indicatori di sostanza poetica.
Ce ne vorrebbero altri, in verità almeno per lo
scrivente, che concepisce il recensire come un
atto di umiltà e ancor più “di servizio” al fruitore,
ai fini della “comprensione” del testo, insomma
per poter fornire a chi legge il classico viatico
interpretativo. Il che significa innanzitutto aver
prima capito in proprio, certo con un po’ di
esperienza del “genere letterario” e qualche
conoscenza estetica pregressa, ma soprattutto
con la razionalità e con l’anima… Ma il presente
recensore non ha paura di dichiarare i suoi limiti
ed è per questo che non si allinea a coloro che,
da critici, sovrappongono all’irrazionalità della
poesia esaminata soltanto un loro parto altrettanto
irrazionale e poco chiarificatore, specie quando
si mantengono sul generico; non apprezza molto
quelli che “fanno poesia” sui versi analizzati,
senza preoccuparsi di illuminare i lettori...
E’ appunto su una tale linea che intendo
incamminarmi, precisando subito che
comprendere in profondità questi materiali è
cosa non sempre facile, giacché la poesia di
Manzi, nutrita della personale vicenda
esistenziale-quotidiana e di tante letture a largo
spettro (parla spesso, anche cripticamente, per
bocca di altre voci illustri), presenta più oscurità
che luci sul piano della immediata
decodificabilità; mette cioè a dura prova il
recensore, ove egli intenda collocarsi in sintonia
e, nella migliore delle ipotesi, non voglia scrivere
le solite frasi di maniera, esentandosi
superficialmente dal leggere, rileggere e sentirsi
coinvolti: che sarebbe un’offesa a fronte di un
labirinto di versi, assemblati per di più dentro
un “combinato” corale, in cui ogni pezzo si lega
agli altri, si rincorre, si mischia, si confronta e
finanche si contraddice; poesia davvero intricata
(carattere cui sembra alludere in prima battuta
il titolo “intrecci”), sostanziata da un continuo
autoscatto di vari momenti di un’esperienza di
vita e di un’anima complessa, che non ride e
non gioca mai, ma sembra solo tentar di sognare
e di fatto soffrire perfino sulle piccolissime cose:
poesia che non minimizza nulla, specie della
sofferenza e del dolore.
Versi complessi, dunque, all’apparenza anche
inspiegabilmente assemblati, e di una preziosità
formalmente “barocca”, ma che nel
decorativismo per definizione neutrale
nascondono sconvolgenti ansie della vita.
Restando sul profilo formale, li classificherei
anzi, di massima: antipoesia, antimusica, dalla
forma scabra, stregante da malocchio, e perfino
versi perversi.. Talvolta poesie casuistiche,
effimere.. talvolta coinvolgentI.. altre volte
insterilite da sembrar più loglio che grano,
di GIUSEPPE CAPACCIO
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insomma da lasciar perplessi… Colpisce quasi
sempre l’antilirismo di un dettato che, se a
qualcosa serve, non è certo a comunicare
emozioni rasserenanti. Eppure qualche eccezione
si trova, là dove l’ispirazione si lascia andare
senza masochizzarsi, e si vorrebbe che fosse
sempre così: ed ecco spuntare una perla a p. 24,
nel primo e più comprensibile dei tre brani
proposti, sotto il titolo amori e forre, denso di
struggente desiderio di immedesimazione, anzi
fusione con la propria amata, di marca
assolutamente romantico-ottocentesca, se non
universale.
Ma più che sull’ispirazione a corrente alternata
(il che è fisiologico, d’altra parte), quale allo
scrivente appare, insisterei sul fatto che questa
poesia alla fine non assomiglia né è banalmente
debitrice a nessuna delle possibili e attribuibili
fonti di derivazione, letterarie o non. E’ poesia
tutta-vissuto dell’autore, indubbiamente, e per
questo fortemente originale: vero titolo di merito
formale, di quella forma intrinsecamente e
desanctisianamente legata al contenuto.
Riservandomi per la chiusa altre
considerazioni più sintetiche e possibilmente
stringenti, propongo dal testo alcuni esempi che
potranno confermare, anche interrogativamente,
questa valutazione di fondo e chiarire le
asserzioni già fatte, aggiungendone di nuove. A
p. 11, il <<non so se fu giorno di tregua nell’alta
quota della parola>> si riferisce ai cinque anni
in cui l’autore non aveva scritto poesie? O è il
bisogno e la prospettazione di poesia diversa,
frutto di una corrente di pensiero-sentimento
lasciata liberamente fluire, una sorta di sermo
humilis, se non volutamente straccione?
Sul versante strettamente esistenziale, tra la
vita e la morte si muove l’incipit di p. 14
<<aiutami a non darla per vinta alla vita che
fugge.., dove il prosieguo denuncia uno sconforto
totale.. eppure l’a. non chiede aiuto alla sua
donna ma a un qualcuno/qualcosa che non è né
uomo né donna né altro oggetto o persona. Qui
non ci arrivo: se fosse più esplicito e non “gli
venisse” di coprire troppo i significati, forse
sarebbe meglio.. Eppure, in questo caso la cortina
fumogena non riesce a nascondere l’ipotesi del
(o una corrività al) suicidio…, da cui
contestualmente l’a. si riprende, a p. 16, con
<<l’attimo del pregare scoprì le carte...>>, una
professione più comprensibile, dove si esalta il
valore della preghiera per aborrire <<i mondi
truccati>> e continuare a combattere, nonostante
il terrore del deperimento fisico e psichico e
l’irrealtà delle cose (oggettive o rimuginate) e
del loro stesso ricordo, se questo vuol
tragicamente dire, a p. 15, il <<resta la memoria/
ad illuderci/della realtà dei fantasmi>>.
Lungo questa linea trovo un collegamento, a
p. 25, sempre in regime di semicomprensibilità,
con due splendidi versi (<< un gabbiano con
fame d’aria/spingeva in alto il peso del mio
sogno>>, quest’ultimo già segnalato come raro
endecasillabo inconscio…), dove l’impossibilità
di volare è tanto più frustrante..perché l’a. sa
che <<con i piedi a terra il mondo è scemo>>
(p. 32), versione snobilitata di Schleiermaker:
l’uomo è un mendicante quando pensa, ma è un
dio se sogna. Non a caso, la sofferenza per la
sacralità della vita, dissacrata dalla società, viene
avvertita (pp. 32-33) in una delle poche
composizioni intitolate (inversi percorsi), che è
la sintesi storica del rapporto con la sua donna,
il racconto di un distacco (Via Crucis a ritroso:
<<non torneremo in croce, vero?>>), complicata,
intellettualmente impegnativa, originale. Di cui
un seguito intravedo, a p. 35, nell’ultimo verso
(<< e il nostro segreto peccato>>), indice di una
personalità dimidiata, che non perpreta con
leggerezza atti proibiti dalla “corrente” legge
morale etico-religiosa e soffre comunque per un
problema non definitivamente risolto, pur
sapendo che su questa terra resta quasi
impossibile separare il bene dal male (p. 54).
Un’eco di questa situazione di incontro e distacco
si ritrova in addii, a p. 47, celebrazione di un
rapporto con la donna prima persa e ora
ritrovata….(il titolo sembra, a prima vista,
inappropriato) ma in prospettiva dei domani
immemori d’altare (compagni senza l’ufficialità
del matrimonio?). Come se avesse bisogno della
ufficialità della unione ma senza il coraggio di
dirlo… La consapevolezza di un “andare” senza
fine, con connessa e agognata ricerca di quiete,
non manca comunque altrove (p. 23: <<ci
apparve l’approdo ma era la sponda>>).
Tra i pochi componimenti esplicitamente
dedicati ci sono ancora quello a p. 17 (in morte
di giulio) e quello a p. 19 (a michele sovente),
entrambi “immediatamente” comprensibili. Nel
primo, il momento del trapasso o quello che
subito segue, insomma la descrittiva agonica
diventa quasi macabro racconto, evocante il
terrore della coscienza che si nullifica (il poeta
dice: << l’anima>>) e forse reclama il contraltare
nel bisogno di fede; nel secondo le <<aggrottate
12
parole sulfuree>> (bollose e/o di odore
diabolico?) ritornano e annunciano morte.. e
sottintendono la condivisione del nulla eterno
di Leopardi, di Foscolo, insomma posizioni quasi
ufficiali di esistenzialismo o nihilismo,
confermate a p. 20 nei vocaboli <<nulla>> e
<<noia>> (freddi termini filosofici), quindi
<<nella noia che schiocca>> (stavolta, calda
parola poetica a p. 28), nell’esperienza del
lasciarsi andare (<<mollai gli ormeggi>>, p. 18),
nel <<vuoto che geme>> di una delle liriche più
belle, intestata a amori e forre (p. 24), infine
più esplicitamente e riassuntivamente nella sua
storia amara (p. 26).
Simile ma insieme diversa e particolare è la
composizione, a 27, intitolata a mio padre in
agonia. Comprensibile finalmente, nel suo
tenerissimo alludere alla sala di rianimazione,
ma comunque un po’ camuffata, come se da
figlio avesse paura di chiamare le cose col loro
nome..specie quelle biografiche.. Parole astrali,
fioche e sopra le righe, smorzate, stemperate..
Pudore? Reticenza? gioco intellettualistico o
superiore contemplazione della Croce? In ogni
caso un racconto emozionalmente coinvolgente,
che si completa, a p. 51, in una riflessione
tremenda, da personale apocalisse per un destino
incombente: << la morte è la mia camicia di
seta>>, richiamante oltretutto una sicura nascita
“senza camicia” (nel negativo senso popolare…),
pur <<nel grembo tenero delle nonne nere>> di
p. 22 (fortuna, questa, dei bimbi mediterranei..),
prima fase di quella traiettoria alfa/omega che
tutti ci unifica in una fatale “coincidentia
oppositorum” (penso alla posizione rannicchiata
degli scheletri in tante tombe preistoriche).
Altrove è l’indicibile e l’indecifrabile in prima
battuta (almeno per chi scrive..) a farla da
padrone: parlo di <<il pensiero di averlo dentro>>
(p. 43), con passaggi oscuri e la comparsa della
parola <<orma>>; parlo ad esempio di <<come
arrivarono gli angeli in galilea…>>, a p. 48, un
vero rompicapo di richiami tra sacro e profano,
parto poetico di una personalità complessa, divisa
tra cattolicesimo e laicità (che qui pare emergere
e prevalere in veste spinta, radicale..), che si
pone di fronte a temi sensibili, enucleati tra gli
aggettivi vergine/martire e dal classico adagio
historia magistra vitae, addentrandosi dunque
in questioni difficili, anche teologiche, pare…
Oso chiedermi, in generale, a che pro questo
telaio multiforme, e in particolare cosa voglia
significare uno dei due splendidi endecasillabi
presenti nel testo (<<nel rischio calcolato del
vangelo>>). Razionalmente, grammaticalmente,
lessicalmente e nell’assenza sia di sintassi che
di paratassi, resta altrettanto difficile da capire,
a p. 49, la composizione <<vidi/ sorridi /amato
amai…>>, oscillante tra paura e peccato (la sua
anima <<peccò>>), composizione subito seguita
da <<passato un altro natale>>, dove forse vale
come riferimento alla storia personale la chiusa
(<<nella cenere/ stramazza l’ira di giobbe>>),
a denunciare forse la pazienza a prova di bomba
che ci vuole a sopportare la società così com’è.
Del resto questo poeta-uomo-cittadino vorrebbe
esplodere dopo aver minato (p. 40), ma non ci
riesce nemmeno da poeta dal verso imploso, lui
che a p. 52, nella più breve poesia ( solo tre
versi!) non a caso milita per la pace
interpersonale, esecrando i rancori tra coniugi
separati.
Poche volte si intravede qualche spettacolo
naturale che faccia da sfondo a un (o a un ricordo
di) amore: è il caso di p. 31, <<la luna e ti
amai>>, ben evocativa di un astro sognante nel
suo schizzar, con <<una pelle striata>>, sugli
amanti (visti come <<due mosche bianche>>
che ne provano dolore…), con un rarissimo e
forse unico dialettismo (<<rossa di scuorno>>),
a meno che non sia deformazione del vocabolo
da parte del computer… Sono rari momenti di
lirismo in positivo, piccole enclaves in un mare
di non-sorriso (atteggiamento costante spiegato
forse a p. 53), che fanno il pari con gli schizzi
sul quotidiano-collettivo proposti,
rispettivamente, a p. 42 e 44: il primo è una
definizione del caffè, un poco alla Eduardo, dove
affiorano ricordi di fanciullezza e gioventù:
poesia finalmente comprensibile, descrittiva,
sentenziosa, salvo ammiccamenti al subconscio;
il secondo è una meditazione sul gioco
conflittuale del calcio, esecrabile per come è
inteso e praticato oggi, con tentativo formale di
disporre le parole e le frasi in ordine sparso nel
foglio. Si inserisce in queste tematiche anche
un’autoanalisi (p. 37) dal titolo il mio teatro,
dove l’a. riflette sulle sue varie esperienze di
vita e di lavoro e si fa apprezzare come creatore
di linguaggio (esempio: <<tra le guerre ducettava
il fallo>>) e continua a p. 38, dove la sentenziosità
si fa troppo evanescente, mettendo a dura prova
le mie pur volenterose “antenne” di interprete..
La poesia di Manzi – alla fine ci si deve
convincere – sfugge a qualsiasi semplice
etichetta, vuoi se vista in generale e in sintesi,
13
vuoi se vista all’interno dei singoli pezzi, dove
mai campeggia una sola tematica, senza
accompagnarsi ad altre. L’esempio più lampante
è forse il citato pezzo a p. 55, dove – già sul
piano formale della tecnica – un possibile e
pregevole endecasillabo iniziale (<<è tempo
d’acque scivolose e inferme>>) viene mortificato
con la continuazione del verso dopo due puntini
<<scendono tra i/canali>>. Per il resto, badando
ai contenuti, predomina un paesaggio d’acque
e di pioggia (quando si dice il tornare all’istinto
primigenio memorizzato..), ma sempre con
intrusioni benché minime di colori ed oggetti,
nonché di echi leopardiani (perché no, sia pure
inconsci?), del tipo <<ora è la fine del tempo
lieto che fu…>>, mentre l’insieme oscilla tra
piglio civile e sociale ed esperienza (mal)vissuta
dell’attualità. Che succosa benché infelice pagina,
questa!!
E’ tempo di porre termine al tentativo di
analisi puntuale e difatti quasi chiudo riflettendo
sulla (e immergendomi col cuore nella) ultima
poesia, problematica già nel titolo (risse). Essa
è lunga e articolata in tre pezzi separati da
asterischi, ognuno di argomento diverso: il
macrocosmo a fronte dei conflitti umani e delle
piccinerie, come dire la comparazione tra Giganti
e formicuzze; diventa poi passionale, disegnando
il rapporto dell’a. con l’amore verso la donnaeros; alla fine contiene una esplicita confessione,
quasi inaspettata nella cripticità imperante: l’a.
definisce le sue composizioni come <<poemi di
strada/erotomanie sentimentali a basse dosi:
dicono parole impure…>> (ma conviene a questo
punto che il lettore legga il tutto con
attenzione…), poemi affidati ai suoi occhi, con
funzione di <<delegati lirici>>(quanto conforta
questo aggettivo!.). In definitiva, sono qui
sintetizzati i contenuti della sua solitudine
esistenziale messa in versi, piena di eros e
sentimento insieme, che mi permetto di collegare,
a p. 39, con <<”mi pensai” libraio/ di mie parole
scarne>> (un richiamo “tipografico” anche a p.
34, attraverso << bozze corrette>> in intimità
con l’amata…, altrove dagherrotipi (manie di
uno scrittore..), e a p. 41 con <<la vita è un
bicchiere vuoto>>: legga ancora con attenzione
il lettore, per favore, e vedrà che il “trucco della
Sibilla” (assenza di punteggiatura, per cui nelle
frasi si possono scambiare soggetto e oggetto,
errore in cui certamente sono incorso in questa
mia analisi), non cambia stavolta i significati,
che sono evidenti in ogni caso!
Prima di concludere non si possono non
segnalare due brani: a p. 30 quello riprodotto in
quarta di copertina (<<la solitudine
disciolta…>>), scelta che evidentemente la fa
ritenere emblematica dallo stesso a., solito
creatore di linguaggio, poeta ipermetaforante,
con continui traslati, similitudini, paragoni…,
onde pervenire a risultati che per lui abbiano
importante senso (anche se sostanziato di nonsenso, anche se razionalmente contraddittori?):
qui asfaltare è come raddrizzare le vie storte e
appianare le montagne per renderle percorribili,
nel significato biblico, mi pare.., cioè mostrando
una reazione positiva alle sofferenze.
L’altro brano, a p. 45, impostato nella pagina
a formare una “tela”, come il brano precedente
sul gioco del calcio, inizia con una parola
impegnativa e il seguito assai criptico: <<dio/ è
dio – e dio – ed io/ la vita degli invisibili è
dio…>> e termina con il titolo della raccolta
(<<l’orma che scavo>>, che poco ha a che fare
con le <<inutili orme>> di p. 21). Al lettore
l’obbligo di leggere e rileggere; a me va di
rimarcare, con gusto, <<Il sole uovo fritto ad
agosto/ e alla coque a febbraio>>, che ricorda
estrinsecamente immagini barocche (del padellon
del ciel la gran frittata) mentre il messaggio
fondamentale appare chiaro: dato che
<<“solo”>> è il mio nome, il poeta scava nella
vita, e in questa prova letteraria ha inteso scavare
nella sua solitudine! La sequela, fatta di pensieri
e non-pensieri, <<altalenante coscienza di sé/
logica occasionale>>, disegna un lui che non
ha nemmeno la “fortuna” di essere “nessuno”,
come Ulisse spatriato coi suoi compagni, ma
rimane in solitudine e afflitto da contrasti e
sofferenze…
A p. 46 continua lo stesso discorso poetico,
difficile da seguire e inquadrare per le varie
sollecitazioni messe insieme, tra cui una
posizione tra il diavolo e il buon dio, <<una
terza via- feriale/ quotidiana e stanca via…>>
imboccata. Sacro e profano vengono mischiati,
affiorano dubbi sull’esistenza di Dio ma anche
una sorta di panteismo (<<io te con tutti loro
siamo dio>>, in forza del quale << la verità di
jean paul non è (solo) immaginazione>>. Viene
spontaneo pensare alla condivisione o
celebrazione dell’esistenzialismo sartriano…
Ricapitolando, forse…: poesia dotta, colta,
intrisa di letture di libri e di bagno esperienziale
nel dramma economico, sociale e morale del
mondo circostante fino a scala mondiale.
14
Dovrebbero leggerla tanti poeti “faciloni”: non
farebbero più danni! Poesia non etichettabile,
tutta dell’a. nella parziale indecifrabilità, o,
meglio, in una cifra di amaritudine e di sogno
disteso a terra, una complessità di sentire ai limiti
della normalità, in cui si avverte l’insondabilità
dei confini tra l’essere e l’ente… una parola
illimitata….
Una poesia che poco consola e molto fa
rabbia.. sorretta da implosione costante, un verso
inesploso, una carica umana che desidera una
umanità “come dovrebbe essere” e come
vorrebbe la nobiltà d’animo e l’educazione ai
valori ricevuta dal Manzi. Onirismo senza ali,
sogno bloccato all’alba, disadattamento personale
e sociale, messaggio di palingenesi egoistica ed
altruistica insieme..
In profondità, tuttavia: spirito di libertà
inconculcabile che ha dovuto sottostare a regole
morali e sociali ereditate e formalmente
imperanti. La piatta magia della parola è un
antidoto, sorta di training autogeno, la parola è
una ragione di vita. Ragione di vita è la vita
stessa trasposta, è sostanza spirituale primigenia.
Lo stile: verso difficile, franto e affranto,
raffinato e quasi “neo-barocco”, che rare volte
si concede e si abbandona, in cui ci si ritrova
senza che lo si capisca del tutto razionalmente:
UN URLO EDUCATO di fronte all’abisso! Alla
fine, un tuo simile che ti verrebbe di
abbracciare..perché un poeta-uomo-cittadino che
si sente fraterno e fratello.
* Docente Università degli Studi di Salerno
VERNISSAGE di NICOLA DELLA CORTE
di MICHELE SESSA
Giro e rigiro tra le mani un cortese invito che,
in questo mese di giugno, particolarmente
assetato di sole, s’affollano, per la inaugurazione
della Personale del Pittore Nicola Della Corte.
Campeggia un classico Nudo ed al centro “
Omaggio a Tiziano”.
Tiziano, il Maestro che, giovanissimo, collabora
col Giorgione, ne subisce l’influenza ma che
poi, liberatosi da ogni influsso di scuola, crea la
Sua, ricca di colore su composizioni
monumentali, con il grande slancio del
movimento e l’evidenza grandiosa della
pennellata.
Una Scuola che, con Pale e Ritratti, sarà modello
per i tanti Pittori delle epoche successive.
Quel Nudo raffigurato sul “ cartoncino” è Opera
che, per il cromatismo, la figura, la pennellata
rapida ed intensa, davvero avvicina il Della
Corte al Maestro.
Ancora un rigo più sotto “avverte” che le Opere
esposte sono “ Tra Realismo ed Informale”.
Si sa che il Realismo è schiettamente romantico
e vuole rappresentare la vita così come si
presenta, senza mai cioè essere alterata
dall’ideale: una realtà che ha carattere perenne
ed universale, nello spazio e nel tempo.
Ed ancora l’Informale: opera considerata a sé,
“ sganciata” dalle precedenti esperienze artistiche,
nell’importanza esclusiva della “materia” e del
“ gesto”.
Nell’ora dell’inaugurazione del vernissage le
Tele, disposte magnificamente, si presentano
nella loro magnificenza.
Gli occhi della mente, quelli del cuore e quelli
dell’intelligenza si raccordano: tutto ora è più
chiaro. L’invito è concepito magistralmente,
lapalissianamente… Le “ tre esperienze”
pittoriche che si rifanno al Tiziano, al Realismo,
all’Informale, trovano tutti i giusti riscontri ed
anzi possono senz’altro essere rapportate per
sublimare l’arte pittorica di Nicola Della Corte.
La ricchezza dorata del colore nei prati fioriti,
le grandi composizioni di “ angoli”, lo slancio
del movimento, l’evidenza della magistrale
pennellata nell’importanza della materia e del
limpido gesto pittorico restano sempre reali e
mai alterate dall’ideale.
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15
SVOLAZZI DI PIUMATI, CON LAZZI, NELLA CANZONE
NAPOLETANA
di VINCENZO AVERSANO
A trovare pennuti nelle composizioni
napoletane, dalle più antiche e fino ai giorni
nostri, c’è solo l’imbarazzo della scelta : chi
legge perdoni perciò se la segnalazione riguarderà
solo alcuni casi, per il poco spazio disponibile
e per i motivi di estetica e di significatività che
di volta in volta emergeranno. Menzione primaria
e di eccellenza, come uccello, merita IL
CARDILLO (leggi: Cardellino). Molte le ragioni:
giacchè gli viene riconosciuta come “ patria” la
Campania e Napoli in particolare, dove ancora
persiste in molte famiglie la sua cura in “ caiola”;
perché del suo apprezzatissimo variopinto
piumaggio la macchiolina rossa-sangue sul capo
si lega per tradizione alla generosa beccata
liberatoria delle spine di Cristo; perché canta in
tutte le stagioni dell’anno, come il vero
napoletano; perché soprattutto viene “ chiamato
in causa” in tante canzoni, senza contare che
l’autore di una delle più belle di esse (Core
‘ngrato) si chiamava Salvatore Cardillo…
L’esempio migliore tra le pertinenti canzoni
è LO CARDILLO, dolcissimo canto popolare
rielaborato nell’800, in cui l’innamorato si serve
del pennuto per godere indirettamente dell’odor
di rosa di una “nenna” e delle sue carezze,
desiderate anche a costo della morte, ma altresìparticolare, ahimè, mai notato!- per ordinare
maschilisticamente il “femminicidio” se ella mai
tradirà. E che dire del “ cardillo” della notissima
Reginella, dove la metafora sessuofila è ancora
più pronunciata, benchè nobilitata dalla tradizione
catulliana del passero, “ deliciae meae puellae”?
Su questa linea si segnala, dell’immenso poeta
Salvatore Di Giacomo con musica di E. A. Mario,
anche “Mierolo affurtunato”( 1931), in cui “
l’auciello apprettatore” (= tormentatore) non a
caso evoca “ l’apprettatora”, cioè il busto assai
aderente usato un tempo dalle donne…
Chi voglia dunque ricavare, dalle tante
citazioni possibili, elementi descrittivi di tipo
strettamente ornitologico rimarrà deluso e si
dovrà “ accontentare” di risvolti emozionali
poetici, anche di tipo sgradevole: è il caso della
cornacchia, il cui verso ( crai, crai crai= domani,
domani…) suona indice di sofferenza per il
differimento del concedersi da parte dell’amata,
nel Velardiniello di “ Tu sai che la cornacchia”
e, ancora, in Giandomenico di Nola di “ Madonna
ciaola mia”: ciaola è l’altro nome dello stesso
rapace che porta in campana l’amante… La
metafora si ribalta in Orlando Di Lasso che,
papale papale, scrive: “ Sio fusse ciaolo e tu lo
campanile/ io spisso spisso te vurria montare”…
Ma sono autori del ‘500…
Veniamo al secolo scorso: il dolce canto del
canarino in caiola non manca in “ Pusilleco
addiruso” ( 1904) di E.Murolo- S. Gambardella
(…e nu canario canta ‘na canzona…) e in
“Canzona appassiunata” (1922) di E. A. Mario
( Era comm’’o canario ‘nnammurato/ stu core…),
ma diventa motivo di rimpianto funebre ( Chi
sì…tu si’ ‘a canaria…) per una delle voci più
belle della Napoli che fu (Elvira Donnarumma)
in “Chiove” di L. Bovio- E. Nardella.
Altro esempio di maschilismo mai denunciato,
a fronte di una rondine malvista ome segno di
emancipazione femminile, si trova in
“Rundinella” (1918) di R.Galdieri-G. Spagnolo,
mentre una più leggera e deliziosa “Palummella”
che zompa e vola è altra “misteriosa” creazione
popolare travasata nell’opera buffa; “palummo
e turturella” sostanziano ‘A Canzona d’’a felicità
(E. Murolo- E. Tagliaferri: 1930), per finire a
simbolo di una donna troppo sveglia, la cui vita
finirà in struggente tragedia (Palomma ‘e notte,
di S. Di Giacomo-F. Buongiovanni: 1907).
Per finire, concederemo qualcosa alla
elencazione scientifica, fa simpatia allinearsi al
“pudore” espresso in una “Canzonetta
ornitologica” (sic) del sorprendente E. A. Mario,
scritta per la Piedigrotta del 1913 e intitolata
“Gli uccelli”, citando i seguenti versi: “ oltre i
monachini, beccafichi, cingallegre, cardellini,
lucherini, capinere, merli, tordi, pappagalli, gru,
fringuelli, canarini, quaglie, falchi e rosignoli,
c’è anche un altro uccello/ e propriamente quello/
di cui …non parlerò!...”
16
LE NUOVE RELIGIONI
di LIBERATO LUONGO
Il problema della diffusione delle nuove religioni
è generalmente sottovalutato. Di solito tra la gente
se ne ha una percezione limitata. Eppure il fenomeno
è vasto ed articolato. E’ perfino problematico tentare
il censimento delle innumerevoli proposte attive in
tutto il mondo.
In tale situazione, chi voglia tentare di avere una
qualche conoscenza del fenomeno nel suo complesso,
ha poca speranza di raccapezzarsi, a meno che non
punti a chiudere la miriade di proposte in confini
ben definiti, sulla scorta di precisi criteri interpretativi,
cavandone una serie limitata di gruppi. In tal senso
ho cercato di operare, spinto dalla curiosità di
inquadrare movimenti, come quello dei Testimoni
di Geova, i rappresentanti dei quali si ha spesso la
ventura d’incontrare per la strada o di trovare alla
porta di casa.
Il punto di partenza dell’indagine è stato
l’individuazione di criteri atti a cogliere gli elementi
fondanti delle varie proposte, per assumerli a guida
per la classificazione. Sono stati individuati in quelli
che contraddistinguono un cristiano, cioè il possesso
del senso della religiosità, la consapevolezza di far
parte di una Chiesa, che trova in un Dio personale
le risposte sull’origine e sul futuro del mondo e
dell’uomo ed in Gesù Cristo, partecipe della natura
divina ed umana, il “ mediatore” tra l’uomo ed il
Padre.
Ci si è chiesto: Come si pongono le nuove
religioni rispetto a questi principi? Li accettano
parzialmente o li rigettano totalmente? In alternativa,
ne propongono di diversi?
Il primo incontro è stato con una serie di proposte
riconducibili al Cristianesimo, ma contro la nozione
di Chiesa.
Non risalgono alla Riforma Protestante, ma alle
posizioni di gruppi oltranzisti del XVI secolo, che
definivano la Chiesa di Roma corrotta e non
riformabile, ma da rifondare. Essi, quindi,
professavano discontinuità ecclesiologica e continuità
teologica. Fu l’atteggiamento degli anabattisti, che
oggi caratterizza le correnti pentecostali, attive
soprattutto in Asia, in Africa e in America Latina.
Questi movimenti, sostanzialmente di natura
protestante, non sono da confondere con quelli di
ascendenza cristiana, come i Mormoni e i testimoni
di Geova, a lungo definiti “ sette” dalla Chiesa, che
portano avanti un discorso di rottura totale (
ecclesiologica e teologica) con le radici, attraverso
la proposta di idee e scritture nuove. Ancora diversi
da questi ultimi sono i movimenti di origine cattolica,
che si sono allontanati ( o sono stati rinnegati) dalla
Chiesa, perché seguaci di rivelazioni di presunti
profeti o santoni.
Un secondo gruppo è costituito da quei movimenti
che, assieme alla nozione di Chiesa, rifiutano anche
l’idea che il rapporto tra dio e gli uomini preveda la
figura di un mediatore. La negazione avviene con
modalità diverse rispetto all’Islam e all’Ebraismo e
comporta la riscoperta di culti pagani antichi e più
spesso l’incontro con le religioni orientali, che
dall’inizio del XX secolo, in seguito alla celebrazione
negli Stati Uniti d’America nel 1893 del Parlamento
Mondiale delle Religioni, cominciarono una lenta
opera di penetrazione in Occidente.
In Italia l’attenzione verso i culti indiani, cinesi
e giapponesi si iniziò ancora prima, grazie alle
iniziative della Società Teosofica, fondata nel 1875.
Oggi, la matrice orientale caratterizza in
Occidente centinaia di movimenti. In genere di essi
si legge che sono in declino , ma è esatto dire che
sono in evoluzione, perché interagendo con la nostra
cultura si sono o si vanno modificando. Così è
capitato, per esempio, al Sahaja Yoga, allo Shanti
Gaia ( indiani) e al Sukyo Mahikari giapponese.
Un altro gruppo di movimenti rifiuta il concetto
di un Dio personale. A rigore di logica, quindi, non
dovrebbero essere definiti religiosi, ma lo rivendicano.
Essi perseguono l’autoperfezionamento dell’uomo.
Tra questi movimenti, che hanno avuto incubazione
nel XIX secolo e sviluppo nella seconda metà del
Novecento, è da annoverare la Chiesa di Scientology.
Infine è da ricordare il corposo gruppo di
movimenti che abiurano la nozione di religione e si
rapportano al sacro in forme alternative. Si allude in
particolare al New Age contemporaneo, che non è
un movimento strutturato, ma un insieme di idee,
tendenze, aspirazioni che sconfinano talvolta nel
sacro, come nel caso dello sciamanesimo e della
magia. Quest’ultima, in particolare, dalla fine del
Settecento è uscita dal novero delle esperienze
individuali e, come una lunga serie di movimenti
iniziatici ed esoterici, si è organizzata in forme simili
a quelle dei movimenti religiosi. Si pensa in
particolare a quanti ancora oggi si legano alla
tradizione dei Rosacroce, dei Templari e alla rinascita
della stregoneria, collegata a sua volta col satanismo,
che vede interessati soprattutto i giovani, talvolta
deviati da mode musicali o cinematografiche, o dalle
droghe, e indotti, in casi sporadici all’uso della
violenza.
In rapporto a quest’ultima evenienza, è chiaro
che in nome della libertà religiosa non possono
consumarsi reati, ma neanche la violenza può
giustificare indiscriminatamente leggi repressive.
Una società pluralista sa usare vigilanza e dialogo
per garantire i diritti e colpire gli abusi.
17
IL MESSAGGIO DI PUCCINI
di RENATO AGOSTO
Scrittori, biografi, critici, hanno offerto di lui,
delle sue opere, della sua vita, immagini diverse
nella forma e nel contenuto; ma tutti sono stati
concordi nell’affermare che Puccini è stato tra
i musicisti del nostro tempo il più gradito alle
folle, tra le quali, a novantanni dalla morte,
continua ad esercitare suggestioni ineffabili.
Suggestioni che provengono dal messaggio
umano che Puccini seppe così mirabilmente
indirizzare a chi lo ascolta, poiché l’essenza
della sua Arte è nel dono stesso che la sua musica
fa a ciascuno di noi, spingendo l’ascoltatore,
inconsapevolmente, ad identificarsi con i suoi
personaggi e con i sentimenti che essi
rappresentano.
umana esistenza.
D’ispirazione ben diversa dalla tematica
verdiana, le sue opere non attingono né ad
argomenti eroici, né a grandi eventi storici, ma
egli immerge la sua ispirazione nei sentimenti
semplici, nelle piccole , grandi vicende umane,
nella poesia delle “piccole cose”, conferendo ad
esse, nella trasposizione in musica, una
dimensione universale. Ed è questa dimensione
che ognuno di noi può ritrovare, attraverso l’arte
del Maestro lucchese, una parte di se stesso.
Viene spontaneo ricondurci al mito del
Cantore Orfeo, considerando l’altrettanto magica
trascinazione operata dalla musica pucciniana
verso un mondo impastato di anima e di vita in
un progrediente processo di sensibilizzazione
spirituale in cui si traducono emozioni e squarci
talvolta inesplorati.
Ascoltando Puccini, ad un certo punto non
oggettiviamo più il soggetto che agisce sulla
scena, ma lo trasferiamo nel nostro io ed in tale
introiezione esso continua ad operare in noi in
guisa da essere noi stessi non più spettatori, ma
protagonisti attraverso i moti interiori che la
musica esprime in una dimensione universale
ed oggettiva.
Una siffatta sensazione non è soltanto
un’enfasi momentanea, effetto della suggestione
musicale sull’io, ma è piuttosto un fenomeno
che si manifesta sì a livello dell’inconscio,
tuttavia, pur sempre concreto ed ancorato al
fondo della coscienza individuale, nella quale
ognuno di noi trova un tratto di spiaggia
incorrotto e pulito.
E’ proprio in questo remoto, invisibile angolo
che Puccini riesce ad insinuarsi quasi di soppiatto
seminando granelli di note fatte di speranza e di
sgomento, di dolore e di amore.
La musica di Puccini possiede valori
particolari che aiutano l’uomo a definire la
profondità della propria vita interiore. E’ quasi
come iniziare un discorso con noi stessi, continuo,
pacato e sempre rivolto al sentimento che un
discorso riesce a purificarsi di tante nostre
personali miserie inevitabili tra i tumulti e le
amarezze del nostro vivere quotidiano.
A questo miracolo musicale non è estranea
l’onestà e la sincerità della sua vocazione di
compositore. Può osservarsi già riepilogando le
Puccini possiede “ l’apriti sesamo” che lo
conduce diritto al cuore dello spettatore. Adopera
ed usa il linguaggio che diventa subito familiare,
che conquista e trascina non con il turbine di
verità e morale del gran vento verdiano, ma con
inesplicabile e sottile suggestione, non meno
convincente, attraverso le misteriose vie del
sentimento.
Pasticceria “La Dolce Vita”
Ascoltando Puccini riemerge in noi un
qualcosa di inafferrabile e di indefinibile, magari
una pagina della nostra vita che sembrava perduta
o dimenticata e che invece, come ci accorgiamo,
appartiene anche all’anima universale della
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18
fasi evolutive di un autore che per rinnovamento
fatale a se stesso, non disdegnò di osservare
quanto l’insana età moderna andava rinnovando
nell’arte.
Più forte di qualsiasi altra sollecitazione,
restava in lui la possibilità di cantare il dolore e
l’amore degli uomini senza sottintesi
intellettualistici e polemici, pur non estraniandosi
dall’evolversi dei tempi, ma senza accettare
conversioni di comodo. Anche quando lasciò in
Turandot, ultima sua opera incompiuta, una
drammatica testimonianza dei tempi nostri, lo
fa con sbalorditiva sensibilità e coerenza. La
novità avvertibile nel gioco degli effetti sonori
tra le famiglie degli strumenti tradizionali,
l’incontro risonante di accordi di diverse tonalità
che parrebbero anticipare le fasi sonore delle
ultime avanguardie, non invalidano il
fondamentale atteggiamento sentimentale di
Puccini e non sollecitano la sua fantasia a varcare
i limiti di un’altra concezione del “bello”. Né le
intuizioni di sopraggiunti radicali mutamenti
nella vita degli uomini nella concezione stessa
dell’arte , turbano la sua creativa coerenza
poetica, né la novità orchestrale, che pure
sperimentò nella sua ultima fatica, attenuarono
le caratteristiche sentimentali della sua linea
melodica, anzi quel rapporto drammatico così
avvertito, resta come un documento aperto ed
insieme enigmatico, come il contrasto simbolico
che la fantasia di Puccini nel rispetto del canto
melodico ha lasciato, senza commenti polemici,
alle generazioni più giovani.
Nessuno al pari di lui è stato così attento e
sincero ascoltatore delle proprie voci interiori in
armonizzato accordo con le voci dell’ambiente
circostante.
Per l’ispirazione della musica pucciniana
possiamo anche parlare di un che di fantastico
per cui Puccini e la sua musica sono il lago sulle
cui rive ha stabilito la sua dimora e dove si rifugia
per comporre; il lago casalingo con la sua bellezza
acquosa e grigia che riverbera le carezze della
luna o le pinete nelle quali il vento suscita solfeggi
di mestizia. Il lago Massacciuccoli, dove Puccini
andò ad abitare sin dal settembre del 1881, luogo
d’elezione, osservatorio segreto, un senso più
intimo ai suoi segreti turbamenti : la caccia, la
smania di scorribande solitarie tra i boschi, il
romper la quiete di una natura selvaggia a colpi
di fucile, lo stare in compagnia rumorosa
contrapposto al bisogno di solitudine rosa
dall’angoscia di esser solo. La bellezza profonda
di poter trovare in quella terra le sue misteriose
ragioni creative, il balsamo alla sua infaticabile
inquietudine: popolano quei silenzi fatti di canne,
barchioni, lontani richiami nella notte lacustre,
dell’ossessionante presenza di tanti personaggi
della sua fantasia, disposti ad amare e a soffrire
di una passione senza limiti, fuori delle regole
del comune vivere quotidiano, e per questo
destinati a diventare affettuosamente vicini alle
debolezze ed ai segreti turbamenti dei più. Che
erano poi gli stessi turbamenti di Giacomo
Puccini.
La terra che lo ispirò diventa lui e la sua
musica così, come la sua inquietudine, la sua
travagliata insoddisfazione alla ricerca di
qualcosa di non realizzato, la sua malinconia
velata di presagi di morte e di sfumature soffuse,
diventano i tormenti stessi delle sue creature
d’arte.
Puccini è intimamente convinto di questo suo
immedesimarsi nella creazione quando afferma
che “anche l’arte come la vita è una milizia e
chi dà più sangue riceve più grazie”. Talchè la
sofferenza della creazione si ripaga pienamente
dei successi che seguono, come quando appose
la scritta “rinnegata e felice” al pannello
raffigurante Butterfly, la protagonista dell’opera
da lui amata sopra ogni altra, forse perché con
essa rinnegata e felice soffrì l’insuccesso
compensato poi da più entusiastici trionfi.
La gentilezza garbata e la delicatezza che
sono le qualità intime della sua natura musicale
si rivelano nella cura e nella felicità con la quale
Giacomo Puccini
19
delinea i personaggi femminili. Aspetto
innegabile dell’arte pucciniana è infatti proprio
la femminilità, una femminilità raramente
aggressiva, più spesso languida e dolce che
consente a Puccini di cogliere l’essenza stessa
del cuore di donna nel pianto e nel sorriso, nella
speranza e nella morte con un carico di gioia
melanconica, di tremore e talvolta di
insospettabile forza e drammaticità.
Manon, Mimì, Ciociosan, Tosca, Liù,
autentiche creature quelle del Maestro, creature
che la vibrazione musicale desta dall’immobilità
delle cose passate per offrirle, di volta in volta,
al cuore e all’emozione di coloro per cui furono
create, per testimoniare col canto, il sentimento
che le ispirò e le ha rese immortali. Creature
tutte che, pur nella diversità del segno lirico e
degli aspetti teatrali, si riconoscono legate da un
unico destino d’amore.
E’ proprio questo tema dell’ispirazione
pucciniana che fu puntualizzato ed avvertito
come dominante nella opera del Maestro dai
suoi stessi concittadini che vollero esprimere
nella ingenua e commossa semplicità delle parole
nella lapide posta a suggello della casa natale:
“Noi onoriamo in Giacomo Puccini colui che,
alla domanda che l’universo pone ad ogni
mortale, rispose con la parola: AMORE”.
Pillole di Michele Sessa
ELETTRICITA’: NUOVA ENERGIA DAL MARE
A - Non c’è sviluppo senza energia, né crescita
senza pace e stabilità.
Bene, allora una nuova realtà industriale verrà
dalla inesauribile forza vorticosa del mare.
Saranno sfruttate a dovere le onde e le poderose
correnti del mare. La tecnologia in questi ultimi
anni ha fatto notevoli passi in avanti.
L’energia del mare farà concorrenza al sole e
al vento con forme aerodinamiche sotto il mare
o lungo la costa. Saranno utilizzate forza e
pressione dell’acqua per far girare le turbine.
L’ENEA studia per migliorare e valorizzare
questo nuovo tesoro. Saranno sempre più
perfezionate le macchine che hanno l’aspetto di
camere in cemento. Lo scopo è un mix di
rinnovabili per raggiungere l’indipendenza dalle
fonti fossili.
Efficienza energetica e sicurezza anche nel
limitare al massimo l’impatto del rumore sul
comportamento dei pesci perché il rumore
sottomarino stressa gli animali.
B - ROSETTA E LA COMETA.
Era il 2 Marzo 2004, allorquando fu lanciata
da Kouzon, nella Guyana francese, ROSETTA,
la sonda dell’ Agenzia Spaziale Europea (ASE),
per ravvicinare una cometa, studiarne i segreti,
esplorarne le origini.
Il 6 Agosto 2014, dieci anni dopo, cinque
mesi e quattro giorni di viaggio, cinque giri
intorno al sole e 6.4 miliardi di kilometri percorsi,
Rosetta, la prima sonda nella storia spaziale, ha
avuto l’ incontro ravvicinato con una cometa-la
67P/CHUZYUMOV-GERASIMENAKO, a 405
miliardi di kilometri di distanza dalla terra.
A Novembre il modulo PHILAE atterrerà sul
nucleo della cometa e comincerà una serie di
trivellazioni con l’ Sd2, una sorta di trapano tutto
italiano, per rilevarne la composizione.
Ci si aspettano tante informazioni sulla
formazione del nostro sistema solare.
Intanto già si sa che la temperatura del nucleo
è di 70° sotto zero, cioè più alta di 20-30° di
quanto si presumeva.
Come natura crea,
“MATTEO” gela!
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20
Da BENEVENTO
DUE VITE NELLA GRANDE ARTE
di LORENZO VESSICHELLI
a) Per il fascino della sua parola, forbita e
semplice, scorrevole e comunicativa, lo avremmo
ascoltato per ore.
Solamente chi ha sofferto ed ha superato
tantissimi ostacoli, macerandosi nel dolore,
amando in silenzio, può parlare come Pupi Avati.
E’ l’amore che si confessa nella purezza, che
palpita, si eleva in preghiera, si crogiola nella
fede ed è certo del Dio provvidenziale.
Pupi Avati desiderava realizzarsi come
musicista; studiava assiduamente il clarino ma
notò che sullo stesso strumento, un suo amico,
improvvisava e creava motivi meravigliosi.
Avrebbe voluto strozzarlo ma poi, anima
buona…accettò l’esuberante talento.
Oggi la sua impronta, altamente umana,
rimane impressa nei suoi 48 film, cristallizzati
in vite vissute, avvinghiati a fatti eccezionali, a
margine di sconfitte o di avvenimenti non
comuni.
Una vita variegata e piena di disavventure
quella di Pupi Avati, prove sofferte nella carne,
ma anche fulgide e provvidenziali nell’alternarsi
di figure da Katia Ricciarelli e Maria Angela
Melato a tanti altri artisti scolpiti nei suoi lavori.
Momenti belli e brutti, riferimenti dolorosi e
gioiosi, considerazioni strettamente personali e
crudelmente sociali: i dubbi atroci sull’aborto
della moglie, gli scrupoli religiosi, la serenità
del pensiero, la figura aureolata della mamma
rimasta vedova molto giovane e guida saggia
alla sua carriera…
Il dramma del divorzio nella nostra epoca
neopagana. Pupi Avati aveva detto: “ Avete mai
stretto la mano di un ragazzo allorquando avverte
che i genitori litigano…stanno per lasciarsi?
Quella mano trema perché è della vittima
innocente che ha intuito che la tragedia…va
affrontata. La mente è già sconvolta con genitori
che non si sopportano più, che si odiano”
Pupi Avati riflette e fa riflettere profondamente
quando parla di rapporti tra anziani e bambini,
in entrambi le stesse fragilità e le stesse paure
e l’ellissi che si gioca nella nostra esistenza e
sulle cose quotidiane che sfumano nel surreale…
L’anima di Pupi Avati sempre sospesa
sull’aureo filo dell’amore e della fede!
b) SILVANO PAGLIUCA: una Vita per la
Musica
Palpitante la memoria di una radicata amicizia
nell’amore comune per il teatro e per il
melodramma. Si studiava nei rispettivi Licei, io
al Classico, Silvano allo Scientifico. Silvano
alternava con intelligenza le sue ore di studio
con lezioni di canto. In seguito abbandonerà gli
studi di medicina ed appena ritenne di potersi
esibire partecipò al Concorso Voci Nuove di
Spoleto e fu il trionfo!
Importanti impresari lo invitarono a trasferirsi
a Milano, tempio della Musica e furono anni di
grande preparazione, conoscendo e cantando
con i grandi del momento: Franco Corelli, Mario
del Monaco, Renata Tebaldi, Giulietta Simionato,
Gianni Poggi, Aldo Protti e poi, poi con il grande
Luciano Pavarotti e Mirella Freni, dolcissima,
con i quali a Bologna cantò nei Puritani di bellini,
la Lucia di Lammermoor di Donizzetti, Bohème
e Turandot di Puccini.
Per venti anni ( 1957-1981) Silvano Pagliuca
è stato Basso “ serio”.
Il “ TIMES”, il “ The Irish News” gli hanno
tributato grandi elogi come “ cantante che dà
sollievo”.
Poi i viaggi in Oriente, in Giappone con la
Manon di Massenet insieme al grande soprano
Monserrat Caballè e il baritono Ausensi.
Nel 1977 Pagliuca è a Spoleto per il Festival
dei due mondi, protagonista nell’opera di Nino
Rota su testo di Eduardo De Filippo “ Napoli
Milionaria”.
Nel 1960 alla RAI di Napoli registra Giasone
di Francesco Cavalli.
a Gragnano (Na)
21
Nel 1980 con il grande musicologo e regista
Roberto De Simone portò in scena “ Crispino e
le Comari” dei Fratelli Ricci e poi “La serva
Padrona”, “Livietta e Tracollo” di Pergolesi e
“Flaminio” sempre del Pergolesi.
Grande la soddisfazione di Silvano Pagliuca
per l’esecuzione effettuata nella sala “Nervi”,
alla presenza di Sua santità Giovanni paolo II,
dopo l’attentato del 1981. Fu eseguito L’Oratorio
“L’Ascensione” del Maestro Domenico
Bartolucci, che esprime altamente il Ministero
di Cristo con slanci creativi profondamente
mistici. Con Silvano Pagliuca, il soprano Cecilia
Gasdia, il mezzosoprano Didier Gambardella e
il tenore Bavaglio.
Canta poi nella Messa da Requiem di Verdi
con l’orchestra di Torino e nella “ Petite Messe
Solemnelle” di Rossini nella chiesa di San Zeno
a Verona con Mirella Freni e Lucia Valentini
Terrani , diretti dal M° Bertola in versione
originale ( cioè con due pianoforti ed armonium
(od organo).
Per diversi anni Silvano Pagliuca ha insegnato
presso il Conservatorio di Avellino e poi al
“Nicola Sala” di Benevento (solfeggio e canto).
Le più vive congratulazioni perché vanto del
Sannio e dell’Italia.
La grande Voce di basso brillante e baritono
si è spenta all’età di 81 anni il 24 agosto di
quest’anno a Benevento dove ora riposa.
Pace alla sua grande Anima.
Recensione di MICHELE SESSA
LINA PINTO- ODORE DI LENTISCO BRUCIATO
Se pure frastornata “dai martellanti richiami
di un consumismo sfrenato” LINA PINTO con
ODORE DI LENTISCO BRUCIATO, torna al
mondo umile, contadino, per fornirci un “ritratto”
dell’epoca, alla tavola di una antica comunità,
perché, con saggezza, se ne possano valutare
differenze e qualità!
Ha fiducia negli uomini, l’Autrice, e nei valori
delle loro coscienze e spera di portare una lucecolore e calore- nel grigiore uniforme del mondo
attuale.
Il suo non è mito, cioè un racconto fantastico
rivestito di sacralità, né favola, né saga, cioè
qualcosa di epico di ampio respiro, ma un
semplice racconto di una vicenda unica, povera,
umile, ricca di proteine, di bontà, di fede, dove
tutti sono responsabili del tutto, dove niente
viene sprecato.
La tavola, si sa, resta il luogo che vivifica
e stimola uno dei massimi piaceri ma dove non
sempre può essere servito il piatto prelibato: la
beatitudine!
Talora, gli approcci molteplici alla storia
locale possono fornire una visione d’insieme
della quotidianità umana. Un passato da indagare
in una realtà che ha il potere di rilevare preziosità
uniche, specifiche, altrimenti disperse, affossate,
per cui sono tanti i meriti di chi affonda le sue
ricerche in simili radici.
Lina Pinto con Odore di lentisco bruciato,
offre il suo amore delicato e sofferto che porta
al resuscitamento del passato, già attraverso il
lentisco, elemento mediterraneo, della macchia
sempreverde, profumato di resina, col suo frutto
pieno di olio grasso dal colore gialloverde, dal
sapore aromatico.
Quante poi le provocazioni nei suoi scritti
perchè fortemente teme per l’ambiente, teme
per la natura.
In lei è comprensione, premura, amore.
Voce profonda e riflessiva, quella di Lina
Pinto. Nel passato cerca il bene, il pudore,
l’amore, la gentilezza, la semplicità, la tolleranza
da riportare provocatoriamente nel nostro mondo,
per dare di più ai contemporanei.
Carica di entusiasmo, di attesa, Lina Pinto
“avverte prepotente il bisogno di fornire di quel
mondo un ritratto”
Simpatia…curiosità per ricordi di un
tempo…ceci nel paiolo di coccio…lumachine
appena lesse…il forno per il pane…le
melanzane…il ragù di seppia…funghi di
macchia…la gallina vecchia per il buon brodo…
Tutto una goduria!
E le pasticcelle delle feste natalizie…oh! La
preparazione e la salsiccia…il maiale da
lavorare…le alici, le sarde…le pizze di
Pasqua…vino cuotto e fiche ‘mpaccate e giù
ricette, ricette, tante ricette e modi di preparare
e di cucinare.
Leggere un libro non è sempre un lavoro
forzato ma questo in più diletta e, alla fine, non
ti sei stancato per niente, anzi, addirittura, riprendi
la lettura. Brava, LINA !
22
“I SENTIERI DELLE MOFETE”
PERCORSO geoarcheologico alla scoperta delle “MOFETE e dei
SINKHOLE” della Media ed Alta valle del Sele
di MARZIA SPERA
L’Alta e Media valle del fiume Sele è tra le
aree più interessanti d’Europa dal punto di vista
del paesaggio. Le bellezze che la
contraddistinguono spaziano dalla semplice
osservazione del paesaggio agli aspetti
archeologici – storici e culturali, passando anche
per quelli enogastronomici.
In un contesto simile non poteva mancare un
percorso di divulgazione culturale ad ampio
spettro che potesse abbracciare soprattutto gli
aspetti geologici ed archeologici legati a questa
porzione di territorio dell’Italia Meridionale.
Ecco come il comune di Oliveto Citra (SA)
si inserisce tra i comuni italiani come quello più
interessante per quanto riguarda il degassamento
naturale dal suolo, intendendo con tale
terminologia una miscela di gas naturali ( CO2,
SO2 – Anidride solforosa - H2S - acido solforico, Elio, Metano, Azoto, idrocarburi aromatici ed
altri gas), che risalendo dalle profondità della
Terra trovano, come via preferenziale, faglie e
fratture.
Nel comprensorio comunale di Oliveto Citra
(Sa) sono state riscontrate ben dieci venute di
gas, le cosiddette “Mofete”, con o senza la
presenza di acqua.
Queste “Mofete” costituiscono un sito di
particolare interesse geologico definito “Geosito”.
L’individuazione dei “geositi” offre numerose
opportunità:
o Valorizzazione e conservazione del
patrimonio geologico;
o valorizzazione del territorio comunale e
provinciale;
o integrazione dei dati nella pianificazione
territoriale;
o Potenziamento nell’attrattiva esercitata dal
territorio e quindi dell’offerta turistica;
o Aumento dell’occupazione con la creazione
di guide ambientali (opportunamente formate)
e di personale addetto ai servizi collegati con
questa attività turistico – didattica.
o Potenziamento dell’offerta didattica;
Durante la risalita dalla profondità della Terra
questi gas, possono intercettare la falda acquifera
dando vita spesso a manifestazioni spettacolari
con la formazione di soffioni e/o geyser; in altri
casi il degassamento avviene senza
l’intercettazione della falda, in questi casi si
assiste alla visione sul suolo di zone in assenza
completa di vegetazione (fenomeno causato dal
fatto che questi gas sono letali per la maggior
parte degli esseri viventi fatta eccezione per
alcune specie di batteri) e con forte odore di
zolfo.
Mofeta del TUFARO nel comune di Contursi Terme
Il termine “Mofeta” deriva da Mefite divinità
italica legata alle acque.
Il nome Mefitis è sicuramente osco, con
significato di "colei che fuma nel mezzo" oppure
"colei che si inebria" o ancora - sembra con
maggiore probabilità - "colei che sta nel mezzo”.
A lei veniva attribuito il potere di fare da
tramite tra la vita e la morte e di presenziare agli
scambi.
L’oracolo di Delfi in Grecia, attribuito al Dio
Apollo, (Dio che si propone come tramite tra
ZEUS e gli uomini) era sito proprio vicino ad
una venuta di gas.
Per comprendere il culto della dea Mefite,
occorre partire dai secoli XI-X a. c.., quando gli
23
La freccia indica il percorso
Osci o Ausòni, stanziati a sud dell'Umbria,
con l'espansione Etrusca, spinsero alcune tribù
a muoversi lungo l'Appennino in direzione sud.
E’ lungo questo loro percorso, passando anche
attraverso Oliveto Citra e Contursi (zona del
Tufaro), giungendo fino a Vaglio della Basilicata
(Pz) che gli Osci divenuti, in seguito Hirpini
incontrano:
“Le acque mefitiche”.
Ecco, questo è il luogo di culto della dea
Mefite, divinità ctonia che indica tutte quelle
divinità generalmente femminili legate ai culti
di dèi sotterranei e personificazione di forze
sismiche e/o vulcaniche.
Da sempre immaginata bifronte. Essa è sia
Afrodite che Hera, protettrice della bellezza,
dispensatrice di fecondità, ma anche Persefone,
signora della morte. Lo scenario è il territorio
tra la Campania e la Lucania cioè l’IRPINIA
terra antica di transito e di scambio.
Notizie di scrittori antichi e rinvenimenti
archeologici documentano l'esistenza del culto
alla dea in Irpinia a Rocca San Felice nella Valle
d'Ansanto e a Casalbore, in Lucania a Rossano
di Vaglio e Grumentum, a Casalvieri (in località
Pescarola), a Casalattico (in località San Nazario),
nella Valle di Canneto a Settefrati , al crocevia
fra Molise, Lazio e Abruzzo.
La presenza di Mefite si riscontra, però, anche
fuori dell'area osco-sabellica: a Cremona, a
Lodivecchio, presso Lodi, a Roma - dove sono
attestati un tempio (aedes Mefitis) ed un
boschetto sacro (lucus Mefitis) a lei dedicati
sull'Esquilino fin dal III secolo a.C. - e a Tivoli.
Nella Nostra area d’interesse il culto per la
dea Mefite trova collocazione tra le loc. Casale,
Aia Sofia, S. Sisto, Ponte Mefita e Pistello
Murzio in territorio di Senerchia.
Infatti, come riportato nel testo <<Spigolando
nella valle del Sele - deduzioni storiche di
Damiano Pipino - >> edito da Valsele tipografica
Napoli nel 1981 alle pag. 69 – 73 si trova
testualmente scritto: […] esattamente nel tratto
che va dalla località Casale di Oliveto Citra alla
confluenza del Tanagro con il Sele , in tenimento
di Contursi Terme, lungo le sponde del Fiume
vi sono numerose sorgenti sulfurose che la gente
del posto chiama Mofete, mufete, mefite. Nelle
vicinanze di dette sorgenti sono stati rinvenuti
casualmente ex – voto, quali monete di vario
tipo, vasetti votivi e qualche pendaglio di ambra
rossa. Inoltre, ad Oliveto Citra, nelle vicinanze
della sorgente S. Sisto, non mancano i ruderi di
antiche chiese cristiane: quella di S. Nicola in
loc. Pistello Murzio a confine col tenimento di
Senerchia, e quelle di Santa Maria de Faris alla
località Casale. Presumiamo che questi fatti
trovino un certo collegamento con quelli della
sorgente mefitica di Valle D’Ansanto, della quale,
forse perche meglio conosciuta, per i tempi
antichi si hanno le testimonianze di Cicerone,
Seneca, Virgilio, Plinio, Claudiano e Servio […]
Il culto mefitico venne minato prima dalla
politica di Roma e dopo dal Cristianesimo, quindi
scomparve del tutto durante il IV secolo d.C.
Le tracce di esso vennero cancellate quasi del
tutto dalle successive invasioni barbariche e
dagli stessi fedeli, i quali divenuti cristiani,
abbandonarono e distrussero i templi della dea
Mefite […]. Così costruirono nuove chiese ad
una certa distanza dalle sorgenti mefitiche,
ritenendo che il posto risentisse della
superstizione (Gambino N. Op. cit. pag. 76).
Tuttavia , non potendo cambiare le abitudini
popolari relative alle feste e le celebrazioni,
ebbero l’accortezza di intitolare le nuove chiese
a Santi i cui festeggiamenti coincidevano con le
ricorrenze liturgiche del precedente culto pagano.
(Gambino N. Op. cit. pag. 71).
Queste prime chiese cristiane è probabile che
col passare dei secoli siano state soppiantate da
quella di Santa Maria de Faris in località Casale,
della Madonna della Grazie e con le cappelle
di S. Antonio a “Ponte Mefita” in Contursi Terme
le cui ricorrenze liturgiche sono precedute da
fiere che non sono altro che la continuazione di
antiche manifestazioni pagane. (la fiera di
Piceglie di Oliveto Citra istituita nell’Agosto
del 1768 è il prosieguo della festività pagana.
24
meridionale di M. Ogna a ridosso del piccolo
rilievo calcareo di M.Pruno. Nell’insieme si
allineano lungo la direzione Ovest – Est seguendo
la direzione dei versanti di faglia di M. Pruno e
il piccolo rilievo calcareo su cui sorge l’abitato
di Oliveto Citra. La loro genesi è fortemente
condizionata, da un lato dall’elevato grado di
fatturazione e dall’altro, dall’ipercarsismo
connesso alla risalita di fluidi profondi della
falda termominerale di Contursi.
Purtroppo è risaputo che i terremoti
costituiscono una importante causa di disastri
in tutto il mondo.
La penisola italiana, in particolare, si trova
nella situazione di essere frequentemente soggetta
a sismi di intensità e tipologie variabili in un
larghissimo spettro. In particolare l’area
dell’Appennino Meridionale, considerando la
zona estendendosi dal Molise alla Basilicata, è
stata interessata nel non lontano passato, da forti
eventi sismici, con intensità anche maggiore
del X grado MCS, con aree epicentrali sia nella
regione molisana, che in quella campano-lucana.
L’ultimo forte terremoto, quello del 23 novembre
del 1980 ha causato la morte di circa 3000
persone.
In conclusione: perche le “mofete e isinkhole”
sono oggetto di studi scientifici?
La comprensione del meccanismo di
degassamento del Mantello, il contributo alla
deformazione crostale e alla generazione di
terremoti, è il principale obbiettivo delle Scienze
della Terra nella Nostra Penisola e merita grande
attenzione.
Da tutto ciò ne consegue che il comprensorio
di Oliveto Citra con le sue “MOFETE”
rappresenta un promettente laboratorio naturale
verso una migliore definizione tra variazioni
geochimiche e attività sismica.
D.
CUTINO
CU
Sulla scorta di tutti questi elementi crediamo
si possa affermare che la dea Mefite fu veramente
la maggiore divinità degli Irpini, i quali ne
diffusero il culto in questa valle del Sele durante
la loro discesa in Lucania. Fatto che, oltre tutto,
potrebbe essere confermato da gli ex – voto
rinvenuti vicino alle sorgenti .
[…]Plinio ( Naturalis Historie, II, 30) parlando
dell’ambra riferisce che si usava portarla appesa
al collo per combattere le malattie della gola.
Non è improbabile che in questi posti la
portassero per scongiurare il pericolo dei gas
delle sorgenti mefitiche, che producono appunto
il soffocamento.
Perché “le mofete” sono oggetto di studi
scientifici?
Su scala globale è risaputo che emissioni di
CO2 e di altri gas sono associate a zone
sismicamente attive.
Gas posti in profondità ad alta pressione come
la CO2, possono giocare un importante ruolo
nella genesi dei terremoti attraverso la riduzione
della resistenza di una faglia. Infatti, l’emissione
superficiale dei fluidi può spesso portare
testimonianza dei processi geologici profondi
come quelli sismici.
Tra il degassamento dal suolo, le acque
circolanti, gli sprofondamenti (i cosidetti
Sinkhole) e la sismicità dell’area d’ interresse
esistono forti legami.
Cosa sono i Sinkhole?
[…] Il termine sinkhole (letteralmente
significa “buco sprofondato”) è stato introdotto
per la prima volta da Fairbridge (1968) per
indicare una depressione di forma sub-circolare
dovuta al crollo di piccole cavità carsiche
sotterranee, sinonimo dunque di dolina.
In Italia il termine sinkhole è stato introdotto,
a partire dagli anni novanta, per indicare un tipo
particolare di sprofondamento, con forma subcircolare, ma di genesi incerta che si apre
rapidamente in terreni a granulometria variabile.
Molte sono le pubblicazioni scientifiche
prodotte a tale riguardo. Tra queste, spiccano
per particolare attenzione sulle aree d’interesse,
quelle nelle quali si fa chiaro riferimento ai
Sinkhole presenti sul territorio di Oliveto Citra,
Colliano e Contursi Terme e alla loro genesi.
L’assetto tettonico dell’area è caratterizzato
dall’intersezione di importanti faglie regionali
che identificano la struttura sub triangolare della
Valle del fiume Sele.
I sinkhole si aprono lungo il versante
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