NARCISO E BOCCADORO HERMANN HESSE HERMANN HESSE NARCISO E BOCCADORO Traduzione di C. Baseggio, Prima edizione: Berlino 1930, Prima edizione italiana: Milano 1933. INDICE CAPITOLO I 5 CAPITOLO II 13 CAPITOLO III 21 CAPITOLO IV 29 CAPITOLO V 39 CAPITOLO VI 48 CAPITOLO VII 57 CAPITOLO VIII 66 CAPITOLO IX 83 CAPITOLO X 94 CAPITOLO XI 104 CAPITOLO XII 116 CAPITOLO XIII 126 CAPITOLO XIV 138 CAPITOLO XV 149 CAPITOLO XVI 159 CAPITOLO XVII 169 CAPITOLO XVIII 179 CAPITOLO XIX 189 CAPITOLO XX 197 CAPITOLO I Davanti all'arco d'ingresso, retto da colonnette gemelle, del convento di Mariabronn, sul margine della strada c'era un castagno, un solitario figlio del Sud, che un pellegrino aveva riportato da Roma in tempi lontani, un nobile castagno dal tronco vigoroso; la cerchia dei suoi rami si chinava dolcemente sopra la strada, respirava libera e ampia nel vento; in primavera, quando intorno tutto era già verde e anche i noci del monastero mettevano già le loro foglioline rossicce, esso faceva attendere ancora a lungo le sue fronde, poi quando le notti eran più brevi, irradiava di tra il fogliame la sua fioritura esotica, d'un verde bianchiccio e languido, dal profumo aspro e intenso, pieno di richiami, quasi opprimente; e in ottobre, quando l'altra frutta era già raccolta e il vino nei tini, lasciava cadere al vento d'autunno i frutti spinosi dalla corona ingiallita: non tutti gli anni maturavano; per essi s'azzuffavano i ragazzi del convento, e il sottopriore Gregorio, oriundo del mezzodì, li arrostiva in camera sua sul fuoco del camino. Esotico e delicato, il bell'albero faceva stormir la sua chioma sopra l'ingresso del convento, ospite sensibile e facilmente infreddolito, originario d'altra zona, misteriosamente imparentato con le agili colonnette gemelle del portale e con la decorazione in pietra degli archi delle finestre, dei cornicioni e dei pilastri, amato da chi aveva sangue latino nelle vene e guardato con curiosità, come uno straniero, dalla gente del luogo. Sotto l'albero esotico eran già passate parecchie generazioni di scolari: le loro lavagnette sotto il braccio, chiacchierando, ridendo, giocando, litigando, scalzi o calzati secondo la stagione, un fiore in bocca, una noce fra i denti o una palla di neve in mano. Ne venivan sempre di nuovi: ogni paio d'anni erano altri visi; i più s'assomigliavano: biondi e ricciuti. Parecchi rimanevano, diventavano novizi, diventavano monaci, ricevevano la tonsura, portavano tonaca e cordone, leggevano libri, istruivano i ragazzi, invecchiavano, morivano. Altri, terminati gli anni di scuola, venivano ricondotti a casa dai genitori: in castelli feudali, in dimore di commercianti e d'artigiani, correvano il mondo, dediti ai loro passatempi e alle loro professioni; ritornavano qualche volta in visita al convento, fatti uomini portavano i loro figlioletti come scolari ai padri, sostavano un poco a guardar sorridenti e pensierosi il castagno, si perdevano di nuovo. Nelle celle e nelle sale del monastero, fra le pesanti arcate rotonde delle finestre e le doppie svelte colonne di pietra rossa, si viveva, s'insegnava, si studiava, si amministrava, si governava; arti e scienze d'ogni genere, pie e mondane, chiare ed oscure, erano là coltivate e passavano in retaggio di generazione in generazione. Si scrivevano e commentavano libri, si meditavano sistemi, si raccoglievano opere di scrittori antichi, si miniavano mano-scritti, si coltivava la fede del popolo, si sorrideva della fede del popolo. Dottrina e religiosità, semplicità e scaltrezza, sapienza dei Vangeli e sapienza dei greci, magia bianca e nera, tutto aveva la sua fioritura, per tutto c'era posto: per l'isolamento e per la penitenza come per la vita socievole e per il benessere; il prevalere di questa o quella tendenza dipendeva dalla persona dell'abate in carica e dalla corrente dominante del tempo. In alcuni periodi il convento era rinomato e frequentato per i suoi esorcisti e conoscitori di demoni, in altri per la sua musica eccellente, ora per un santo padre che praticava guarigioni e miracoli, e ora per i suoi intingoli di luccio e per i suoi pasticci di fegato di cervo: ogni cosa aveva la sua epoca. E nella schiera dei monaci e degli scolari, di quelli pii e di quelli tiepidi, degli astinenti e dei prosperosi, fra i tanti che venivano, vivevano e morivano, c'era sempre stato questo o quell'individuo singolare, che tutti amavano o che tutti temevano, uno eletto, `del quale si continuava a parlare a lungo, quando i suoi contemporanei eran già dimenticati. Anche in quel momento c'erano nel monastero di Mariabronn due personalità singolari: un vecchio e un giovane. Fra i molti frati che sciamavano per i dormitori, per le chiese e per le aule scolastiche, due ce n'erano di cui tutti parlavano, a cui tutti guardavano: L'abate Daniele, il vecchio, e l'allievo Narciso, il giovane, che aveva cominciato da poco il noviziato, ma per le sue doti particolari, contro ogni tradizione, era già impiegato come insegnante, specialmente di greco. Questi due, L'abate e il novizio, avevano autorità nel convento, attiravano l'attenzione e la curiosità erano ammirati, invidiati e in segreto anche calunniati. L'abate era generalmente amato, non aveva nemici; tutto in lui era bontà, semplicità, umiltà. Solo gli eruditi del convento mescolavano al loro affetto un pò di degnazione, poiché l'abate Daniele poteva essere un santo, ma certo un dotto non era. Egli possedeva quella semplicità che è saggezza, ma il suo latino era modesto, e il greco non lo sapeva affatto. Quei pochi che all'occasione sorridevano della semplicità dell'abate erano tanto più incantati di Narciso, il fanciullo prodigio, il bel giovane dal greco elegante, dall'inappuntabile contegno cavalleresco, dallo sguardo calmo e penetrante di pensatore, dalle labbra severe e ben disegnate. Gli eruditi amavano in lui la straordinaria conoscenza del greco, quasi tutti la nobiltà e la finezza; molti ne erano innamorati Ma la sua taciturnità, il suo dominio sopra se stesso, le sue maniere eccessivamente compiute urtavano taluni. Abate e novizio portavano ciascuno a modo suo il destino dell'eletto, ciascuno a modo suo dominava e soffriva. Sentivano fra loro un'affinità e un'attrazione reciproca più forte che verso tutti gli altri ospiti del convento; e tuttavia non riuscivano ad avvicinarsi, a scaldarsi l'uno accanto all'altro. L'abate trattava il giovane con la massima sollecitudine, col massimo riguardo, aveva cura di lui come di un fratello eccezionale, delicato, forse precocemente maturo, forse esposto a pericoli. Il giovane accoglieva con atteggiamento irreprensibile ogni ordine, ogni consiglio, ogni elogio dell'abate, non contraddiceva mai, non si mostrava mai indispettito, e se era vero il giudizio dell'abate su di lui, se il suo unico difetto era l'orgoglio, sapeva nasconderlo meravigliosamente. Non si poteva dir nulla contro di lui: era perfetto, era superiore a tutti. Ma pochi gli diventavano amici davvero, tranne gli eruditi; la sua distinzione lo circondava come un'atmosfera di gelo. --Narciso,--gli disse un giorno l'abate dopo una confessione, -devo dichiararmi colpevole di un giudizio severo a tuo riguardo. Ti ho ritenuto spesso orgoglioso e forse ti ho fatto torto. Sei molto solo, mio giovane fratello, sei isolato, hai ammiratori, ma non amici. Io vorrei aver occasione di biasimarti qualche volta, ma non c'è motivo. Vorrei che tu fossi qualche volta scortese, come lo sono facilmente i giovani della tua età. Tu non lo sei mai. Qualche volta sono preoccupato per te, Narciso. Il giovane alzò i suoi occhi scuri in viso all'abate. --Io desidero molto, reverendo padre, di non darvi preoccupazioni. Può essere ch'io sia orgoglioso, reverendo padre. Vi prego, punitemi. A volte sento io stesso il desiderio di punirmi. Mandatemi in un eremitaggio, padre, o fatemi compiere servizi umili. -- Tanto per una cosa quanto per l'altra sei troppo giovane, caro fratello, -- disse l'abate. --Inoltre hai attitudini eccellenti per le lingue e per la speculazione, figliolo; sarebbe uno sprecare questi doni divini, se io volessi im-porti dei servizi umili. Probabilmente diventerai un maestro e uno scienziato. Non lo desideri anche tu? -- Perdonate, padre, non mi rendo conto con tanta precisione dei miei desideri. Le scienze mi daranno sempre piacere: come potrebbe essere altrimenti? Ma non credo che esse debbano diventare il mio unico campo. Non sono sempre i desideri a determinare il destino e la missione di un uomo: ci può essere qualcos'altro, di predestinato. L'abate ascoltava, facendosi serio. Tuttavia un sorriso illuminava il suo volto canuto, mentre diceva: --Per quel tanto che ho imparato a conoscere gli uomini, incliniamo tutti, specialmente in gioventù, a confondere la provvidenza coi nostri desideri. Ma poiché tu credi di conoscere fin d'ora la tua destinazione, dimmi, a che cosa credi di essere destinato? Narciso socchiuse gli occhi scuri, che scomparvero sotto le lunghe ciglia nere. Tacque. --Parla, figliolo, -- ammonì l'abate dopo aver atteso a lungo. A voce bassa, con lo sguardo chino, Narciso cominciò a parlare. --Credo di sapere, reverendo padre, che innanzi tutto sono destinato alla vita claustrale. Diventerò, credo, monaco, sacerdote, sottopriore e forse abate. Non lo credo perché lo desideri. Il mio desiderio non mira a cariche. Ma mi verranno imposte. Rimasero a lungo silenziosi. -- Perché hai questa convinzione? -- domandò esitando il vegliardo. --Quale tua particolarità, oltre alla dottrina, ti dà questa convinzione? -- La particolarità, -- rispose Narciso lentamente, -di possedere un'intuizione dell'indole e della vocazione degli uomini; non solo della mia, ma anche di quella degli altri. Questa proprietà mi costringe a servire gli altri, do-minandoli. Se non fossi nato per la vita monastica, dovrei diventare un giudice o un uomo di stato. -- Può darsi,--assentì l'abate.--Hai già sperimentato codesta tua capacità di conoscere gli uomini e il loro destino ? -- L'ho sperimentata. --Sei disposto a darmi un esempio? --Sono disposto. --Bene. Poiché non vorrei penetrare nei segreti dei nostri fratelli a loro insaputa, vuoi dirmi che cosa credi di sapere sul conto mio, sul conto del tuo abate Daniele? Narciso alzò le palpebre e guardò l'abate negli occhi. --Lo comandate, reverendo padre? -- Lo comando. -- Mi è penoso parlare, padre. --Anche a me è penoso, mio giovane fratello, costringerti a parlare. Tuttavia lo faccio. Parla! Narciso chinò il capo e mormorò: --E poco quello che so di voi, venerato padre. So che siete un servo di Dio, il quale preferirebbe custodir le capre o suonare la campanella in un eremo e ascoltar la confessione dei contadini, anziché dirigere un grande convento. So che avete un amore particolare per la santa Madre di Dio e che a lei di preferenza rivolgete le vostre preghiere. Talvolta pregate, perché le scienze greche e le altre che si coltivano in questo monastero non rechino turbamento e pericolo alle anime di coloro che vi sono affidati. Talvolta pregate, perché non vi scappi la pazienza col sottopriore Gregorio. Talvolta pregate che vi sia concessa una fine serena. E sarete esaudito, credo, e avrete una fine serena. Nel piccolo parlatorio dell'abate si fece silenzio. Finalmente il vegliardo parlò. -Sei un sognatore e hai delle visioni,--disse con benevolenza.--Anche le visioni pie e buone possono ingannare; non fidartene, come neppur io me ne fido... Sapresti vedere, o fratello sognatore, che cosa penso in cuor mio a questo proposito? -- Posso vedere, padre, che pensate molto benevolmente in proposito. Pensate: " Questo giovane scolaro corre qualche pericolo, ha delle visioni, forse ha meditato troppo. Potrei imporgli una penitenza, che non gli farà male. Ma quella stessa penitenza la imporrò anche a me "... Ecco quello che pensate ora. L'abate si alzò. Sorridendo fece cenno al novizio di congedarsi. --Va bene, --disse. --Non prender troppo sul serio le tue visioni, giovane fratello. Dio richiede qualcos'altro da noi, che aver delle visioni. Ammettiamo che tu abbia lusingato un vecchio, promettendogli una morte benigna. Ammettiamo che il vecchio abbia per un momento ascoltato volentieri questa promessa, Ora basta. Reciterai un rosario, domani dopo la prima messa: lo reciterai con umiltà e devozione, non superficialmente, e io farò altrettanto. Ora va, Narciso, abbiamo chiacchierato abbastanza. Un'altra volta l'abate Daniele dovette comporre un dissidio fra il più giovane dei padri insegnanti e Narciso, perché non potevano accordarsi su di un punto del pro-gramma didattico: Narciso insisteva con molto calore sulla necessità d'introdurre nell'insegnamento alcuni muta-menti, che sapeva anche giustificare con ragioni convincenti; ma padre Lorenzo, per una specie di gelosia, non voleva acconsentire, e a ogni nuova discussione seguivano giorni di silenzio imbronciato, finché Narciso, sentendo di aver ragione, ritornava sull'argomento. Finalmente padre Lorenzo, un pò offeso, disse: --Ebbene, Narciso, faccia-mola finita con questa discussione. Tu sai che spetterebbe a me decidere e non a te; tu non sei mio collega, ma mio assistente e devi uniformarti alla mia volontà. Ma poiché dai tanta importanza alla cosa e io ti sono bensì superiore per autorità ma non per sapere e per ingegno, non voglio prendere io stesso la decisione; esporremo la questione al nostro padre abate e lasceremo decidere a lui. Così fecero, e padre Daniele ascoltò con paziente benevolenza la disputa dei due eruditi sulla loro concezione dell'insegnamento della grammatica. Quando ebbero esposto minutamente e motivato ciascuno le proprie idee, il vecchio li guardò sereno, scuotendo un poco la testa canuta, e disse: -- Cari fratelli, voi non pensate certo che io di queste cose m'intenda tanto quanto voi. E lodevole da parte di Narciso che la scuola gli stia così a cuore e ch'egli aspiri a migliorare i programmi d'insegnamento. Ma se il suo superiore è di un'altra opinione, Narciso deve tacere e ubbidire, e tutti i miglioramenti della scuola non compenserebbero il danno, se per causa loro l'ordine e l'obbedienza venissero turbati in questa casa. Biasimo Narciso di non aver saputo cedere. E a tutti e due, miei giovani dotti, auguro che non vi manchino mai superiori più ignoranti di voi; non c'è nulla di meglio contro l'orgoglio--. Con questo scherzo bonario li congedò. Ma non dimenticò nei giorni seguenti di tener d'occhio i due insegnanti, per vedere se si fosse ristabilito fra loro un buon accordo. Or avvenne che un viso nuovo fece la sua comparsa nel convento, dove di visi se ne vedevan giungere e partire tanti: e il nuovo ospite non era di quelli che passano inosservati e si dimenticano presto. Era un ragazzo, che suo padre aveva già annunciato da tempo e che un giorno di primavera arrivò per studiare alia scuola del convento. Padre e figlio legarono i cavalli al castagno e dal portale si fece loro incontro il frate portinaio. Il ragazzo guardò su all'albero ancora brullo.--Un albero come questo, -- disse, -- non l'ho mai veduto. Un bell'albero, strano! Mi piacerebbe sapere come si chiama. Il padre, un signore maturo, dal volto preoccupato e un pò contratto, non si curò delle parole del figlio. Ma il portinaio, al quale il ragazzo piacque subito molto, soddisfece la sua curiosità. Il ragazzo lo ringraziò gentilmente, gli diede la mano e disse: --Io mi chiamo Boccadoro e debbo venire a scuola qui --. Il frate sorrise, cordiale, e precedette i nuovi arrivati sotto il portale e su per la grande scalinata di pietra. Boccadoro entrò senza sgomento nel monastero: sentiva di aver incontrato già due esseri di cui poteva farsi amico, L'albero e il portiere. I visitatori furono ricevuti prima dal padre direttore della scuola, e verso sera anche dall'abate. All'uno e all'altro il padre di Boccadoro, funzionario imperiale, presentò suo figlio; fu invitato a rimanere qualche tempo ospite del convento, ma accolse l'invito solo per una notte, dichiarando di dover ripartire l'indomani. Offerse al convento uno dei suoi due cavalli, e il dono fu accettato. La conversazione coi monaci si svolse cortese e fredda; ma tanto l'abate quanto il direttore guardarono subito con simpatia quel bel ragazzo fine, che taceva con deferenza. Il giorno seguente lasciarono partire senza rammarico il padre, e trattennero volentieri il figlio. Boccadoro fu presentato ai maestri e gli fu assegnato un letto nel dormitorio degli scolari. Quando il padre ripartì sul suo cavallo, egli lo salutò rispettoso e col viso rattristato, poi rimase immobile a seguirlo con gli occhi, fin che scomparve fra il granaio e il mulino sotto lo stretto portone ad arco del cortile esterno del convento. Allora si voltò e una lacrima gli luccicava sulle lunghe ciglia bionde; lo accolse subito il portiere, battendogli affettuosamente la mano sulla spalla. -- Signorino,--disse a mò di conforto,--non devi esser triste. Quasi tutti in principio hanno un pò di nostalgia per il babbo, per la mamma, per i fratelli. Ma vedrai: si vive anche qui, e tutt'altro che male. -- Grazie, frate portinaio, -- rispose il ragazzo. -- Io non ho né fratelli né mamma, ho solo il babbo. --In compenso trovi qui compagni, dottrina, musica, nuovi giochi che non conosci ancora, e una cosa e l'altra, vedrai. E quando hai bisogno di qualcuno che ti voglia bene, vieni da me. Boccadoro lo guardò sorridendo. -- Oh, vi ringrazio molto! E se volete farmi un piacere, mostratemi subito, vi prego, dov'è il nostro cavallino, che mio padre ha lasciato qui. Vorrei salutarlo e vedere se sta bene anche lui. Il portinaio lo accompagnò tosto nella stalla presso il granaio. Nella penombra tiepida c'era un forte odor di cavalli, di sterco e d'orzo, e in uno dei reparti Boccadoro trovò il sauro che l'aveva portato fin lì. Il cavallo aveva già riconosciuto il padroncino e tendeva la testa verso di lui; il ragazzo mise le braccia intorno al collo dell'animale, accostò la guancia alla sua fronte larga e chiazzata di bianco, L'accarezzò affettuosamente e gli sussurrò all'orecchio: -- Buon giorno, Bless, cavallino mio, mio bravo; stai be-ne? Mi vuoi bene ancora? Hai anche tu da mangiare? Pensi anche tu a casa? Bless, piccolo, caro, che bella cosa che tu sia rimasto qui! Verrò spesso a trovarti, a vedere di te--. Tolse dal risvolto della manica un pezzo di pa-ne che aveva messo da parte a colazione, lo sbriciolò e lo diede da mangiare al cavallo. Poi salutò Bless e seguì il portiere attraverso il cortile, vasto come la piazza del mercato di una grande città e piantato in parte a tigli. All'ingresso interno ringraziò il frate e gli diede la mano, ma poi s'accorse di aver dimenticato la strada che conduceva alla sua aula e che gli avevano mostrata il giorno prima: rise un poco, arrossì e pregò il portiere di guidarlo; quegli acconsentì volentieri. Entrò allora nella classe, dove una dozzina di ragazzi e giovinetti stavan seduti nei banchi, e l'assistente Narciso si voltò verso di lui. --Sono Boccadoro, -- disse, -- il nuovo scolaro. Narciso salutò brevemente, senza sorridere: gl'indicò un posto nel banco posteriore e proseguì la lezione. Boccadoro sedette. Era stupito di trovare un insegnante così giovane, maggiore di lui di pochi anni appena, era stupito e lieto di trovare questo giovane maestro così bello, così distinto, così serio e insieme così attraente e amabile. Il portinaio era stato gentile con lui, L'abate l'aveva accolto tanto benevolmente, là nella stalla c'era Bless, un pezzetto di patria: ed ecco ora questo maestro straordinariamente giovane, serio come un erudito, e fine come un principe, con una voce così dominata, fredda, positiva, avvincente Pieno di gratitudine, Boccadoro diede ascolto a quello di cui si parlava, senza tuttavia comprendere subito. Provò un senso di benessere. Era arrivato in mezzo a gente buona ed amabile, ed era pronto ad amarla e a fare di tutto per guadagnarsene l'amicizia. Il mattino, a letto, appena desto, s'era sentito oppresso, ed era ancora stanco del lungo viaggio, e alla partenza del padre aveva pianto un poco. Ma ormai tutto andava bene; era contento. Continuava ad osservare il giovane maestro, compiacendosi della sua figura diritta e slanciata, del suo occhio freddo e lampeggiante, delle sue labbra energiche che spiccavan le sillabe con precisa chiarezza, della sua voce alata, instancabile. Ma quando la lezione fu terminata e gli scolari si alzarono chiassosi, Boccadoro sussultò e s'accorse un pò confuso di aver dormito. E non fu il solo ad accorgersene, anche i suoi vicini di banco l'avevano notato ed avevan passato la parola agli altri. Non appena il giovane maestro ebbe lasciato l'aula, i compagni presero a tirare e urtare Boccadoro da tutte le parti. --Dormito abbastanza? -- domandò uno, sogghignando. --Uno scolaro scelto!--motteggiò un altro.--Ne verrà fuori un bel luminare della Chiesa. S'addormenta come un tasso proprio alla prima lezione! --Mettetelo a letto, il piccolo,--propose uno; e lo afferrarono per le braccia e per le gambe per portarlo via fra le risa generali. Svegliato da tanto strepito, Boccadoro andò sulle furie; cominciò a dibattersi cercando di liberarsi; ricevette cazzotti e infine fu lasciato cadere, mentre uno lo tratteneva ancora per un piede. Si liberò da questo con uno strattone, si gettò sul primo che gli capitò e impegnò subito con lui una lotta violenta. Il suo avversario era un pezzo di ragazzo e tutti stettero ad osservare il duello con avida curiosità. Quando videro che Boccadoro non soccombeva e assestava dei buoni pugni al colosso, molti fra i compagni gli furono subito amici, prima ancora ch'egli conoscesse uno di loro per nome Ma a un tratto tutti si dispersero precipitosamente; erano appena scomparsi che entrava padre Martino, il direttore, e si trovava di fronte all'unico ragazzo rimasto. Lo guardò stupito, gli occhi azzurri del fanciullo brillavano confusi nel viso acceso e un pò pesto. --Bè, che ti è accaduto?--domandò.--Tu sei Boccadoro, no? Ti hanno fatto qualcosa, quei furfanti? --Oh no, -rispose il ragazzo, -L'ho messo fuori combattimento. --Chi poi? --Non so. Non conosco ancora nessuno. Uno ha fatto la lotta con me. --Ah? Ha cominciato lui? --Non so. No, credo d'aver cominciato io. Mi hanno canzonato, e io sono andato in collera. --Bravo, cominci bene, ragazzo mio! Tieni a mente: se tu fai a pugni ancora una volta qui in classe, sarai punito. Ed ora spicciati a venire a cena, avanti! Sorridendo, seguì con lo sguardo Boccadoro, che correva confuso e cercava, strada facendo, di ravviarsi con le dita i biondissimi capelli scompigliati. Boccadoro era persuaso che la prima azione della sua vita di convento fosse stata una sciocchezza molto sconveniente; e quando cercò e raggiunse i suoi compagni a cena, si sentiva alquanto mortificato. Invece fu accolto con rispetto e cordialità, si riconciliò cavallerescamente col suo nemico, e si sentì subito benvenuto in quella cerchia. INDEX CAPITOLO II Pur essendo in buoni rapporti con tutti, Boccadoro stentò a trovare un vero amico; fra i suoi compagni non c'era nessuno al quale si sentisse affine o che destasse in lui una particolare simpatia. Gli altri poi erano sorpresi che l'energico pugilatore nel quale avevano creduto di trovare un piacevole attaccabrighe fosse invece un collega molto pacifico, che pareva aspirare soprattutto alla gloria di scolaro modello. C'erano due uomini nel convento, che attiravano il cuore di Boccadoro, che gli piacevano, che occupavano i suoi pensieri e per i quali sentiva ammirazione, affetto e rispetto: L'abate Daniele e l'assistente Narciso. L'abate Daniele gli sembrava quasi un santo: la sua semplicità e la sua bontà, il suo sguardo chiaro e pieno di sollecitudine il suo modo di comandare e di governare, umile come se prestasse un servizio, i suoi gesti calmi e buoni tutto questo lo attirava straordinariamente. Avrebbe desiderato diventare il servitore personale di quel sant'uomo, stargli sempre vicino, ubbidiente e servizievole, e offrire a lui come tributo costante tutto il suo giovanile ardore di devozione, e imparare da lui una vita pura, nobile, santa. Poiché Boccadoro aveva intenzione non solo di terminare la scuola, ma di rimanere possibilmente in convento per sempre e di con-sacrare la sua vita a Dio; questa era la sua volontà, questo era il desiderio e il comando di suo padre, e questo certo era destinato e chiesto anche da Dio. Nessuno pareva accorgersene guardando quel bel ragazzo fiorente, eppure su di lui gravava una tara, una tara d'origine, un segreto compito d'espiazione e di sacrificio. Anche l'abate non se n'accorgeva, quantunque il padre di Boccadoro gli avesse fatto alcune allusioni ed espresso chiaramente il desiderio che suo figlio rimanesse in quel convento per sempre. Pareva che qualche macchia segreta oscurasse la nascita di Boccadoro, che qualche colpa taciuta richiedesse espiazione. Ma il padre era piaciuto poco all'abate, il quale alle parole di lui e alla sua aria d'importanza aveva contrapposto una cortese freddezza, senza dare gran peso alle sue allusioni. L'altro che aveva destato l'affetto di Boccadoro possedeva occhio più acuto e intuito più penetrante, ma si teneva riserbato. Narciso aveva subito compreso quale magnifico uccello d'oro gli fosse volato incontro. Solitario com'era nella sua superiorità, aveva subito sentito in Boccadoro L'anima affine, benché sembrasse il suo opposto in tutto. Se Narciso era scuro e magro, Boccadoro era radioso e florido. Se Narciso sembrava un pensatore e un analizzatore, Boccadoro sembrava un sognatore e un'anima di fanciullo. Ma c'era al di sopra dei contrasti qualcosa che li accomunava: entrambi erano nature superiori, entrambi si distinguevano dagli altri per doti e caratteristiche palesi, entrambi avevano ricevuto un monito particolare dal destino. Narciso s'interessava vivamente a quella giovane anima, di cui aveva subito riconosciuto l'indole e la sorte. Boccadoro ammirava ardentemente quel suo maestro bello e dall'intelligenza superiore. Ma Boccadoro era timido; per guadagnarsi le simpatie di Narciso non trovava altro modo che sforzarsi fino all'estenuazione d'essere uno scolaro attento e docile. E non lo tratteneva soltanto la timidezza. Lo tratteneva anche il senso che Narciso fosse un pericolo per lui. Egli non poteva avere per ideale e per modello il buono ed umile abate e insieme il saputo, dotto, perspicace Narciso. E nondimeno tendeva con tutte le forze spirituali della sua giovinezza a questi due ideali, inconciliabili. Spesso ne soffriva. A volte, nei primi mesi della sua vita scolastica, si sentiva il cuore così turbato e combattuto fra opposti affetti, che gli veniva una gran tentazione di fuggire o di sfogare con i compagni il suo tormento e la sua collera interiore. Spesso bastava una piccola can-zonatura o l'insolenza di un compagno per farlo montare improvvisamente ui così buono, su tutte le furie, e solo con uno sforzo estremo riusciva a contenersi e a voltar le spalle in silenzio, con gli occhi chiusi, pallido come un cencio Allora andava a cercare nella stalla il cavallo Bless, appoggiava il capo sul suo collo, lo baciava, piangeva accanto a lui. A poco a poco la sua sofferenza crebbe e divenne palese. Le sue guance s'allungavano, spesso il suo sguardo era spento: il suo riso, a tutti caro, si faceva sempre meno frequente. Non sapeva egli stesso quel che gli succedeva. Desiderava e voleva sinceramente essere un bravo scolaro venir ammesso presto al noviziato e diventar poi un pio e tranquillo fratello dei padri; era convinto che tutte le sue forze e le sue doti tendessero a questa meta placida e pia e non conosceva altre aspirazioni. Perciò gli sembrava strano e triste che questa meta semplice e bella fosse così difficile da raggiungere. Com'era stupito e scoraggiato, nel constatare talvolta in se stesso tendenze e stati d'animo riprovevoli: distrazione e svogliatezza nello studio, sogni e fantasie o sonnolenza durante le lezioni, ribellione e anti-patia verso il maestro di latino, permalosità e irosa impazienza con i compagni! Ma ciò che lo turbava di più era che il suo affetto per Narciso non riuscisse a conciliarsi con l'affetto per l'abate Daniele. Intanto qualche volta gli pareva di sentire con intima certezza che anche Narciso gli voleva bene, s'interessava a lui, lo sorvegliava. Narciso pensava infatti al ragazzo più assai che questi non sospettasse. Desiderava farselo amico, presentiva in quel giovinetto bello, caro, radioso, il suo opposto e il suo complemento; avrebbe voluto attirarlo a sé, guidarlo, illummarlo, accrescere le sue forze e portarle a fioritura. Ma si tratteneva per diverse ragioni, e di quasi tutte si rendeva conto. In primo luogo lo legava e lo frenava l'orrore per quegli insegnanti e quei monaci, che non di rado s'innamoravano di scolari o di novizi. Egli stesso aveva sentito più volte con ripugnanza sopra di sé cupidi occhi di uomini attempati Più volte aveva opposto alle loro gentilezze e alle loro moine una tacita difesa. Ora li comprendeva meglio... anch'egli sentiva la tentazione d'innamorarsi del bel Boccadoro, di provocare il suo riso simpatico, di passare affettuosamente la mano fra i suoi chiari capelli biondi. Ma non l'avrebbe mai fatto, mai. Inoltre in qualità dl assistente con funzioni di insegnante, ma senza la relatlva carica ed autorità, era abituato a comportarsi, di fronte a quei ragazzi di pochi anni minori di lui, come se fosse maggiore di vent'anni: era abituato ad astenersi severamente da ogni preferenza per chicchessia e ad imporsi una particolare giustizia e sollecitudine verso quelli che gli erano antipatici. Egli serviva lo spirito, allo spirito dedicava la sua vita austera, e solo nei momenti di minor vigilanza si permetteva la compiacenza dell'orgoglio, del saper meglio e dell'essere più intelligente degli altri. No, per quanta seduzione avesse per lui un'amicizia con Boccadoro, essa era un pericolo e non doveva intaccare il nucleo della sua vita. Il nucleo e il senso della sua vita erano di servire lo spirito, il verbo, erano di guidare con tranquilla superiorità i suoi scolari - e non solo i suoi scolari - ad alte mete spirituali, rinunciando al proprio interesse. Da più d'un anno ormai Boccadoro era scolaro del convento di Mariabronn, sotto i tigli del cortile e sotto il bel castagno, già cento volte aveva giocato coi camerati, a rincorrersi, al pallone, ai briganti, a lanciar palle di neve; era venuta la primavera, ma Boccadoro si sentiva stanco e debole, spesso gli doleva il capo, e a scuola faceva fatica a star desto e attento. Una sera gli si avvicinò Adolfo, quello scolaro con cui il primo incontro era stato uno scambio di pugni e insieme al quale quell'inverno aveva cominciato a studiare Euclide. Era l'ora di ricreazione dopo cena, in cui era permesso giocare nei dormitori, chiacchierare nelle aule e anche passeggiare nel cortile esterno del convento. --Boccadoro,--gli disse Adolfo, mentre lo trascinava giù per le scale, -- voglio raccontarti una cosa, una cosa allegra. Ma tu sei uno scolaro modello e vuoi certo diventar vescovo.. dammi prima la tua parola che sarai solidale e non mi denuncerai ai maestri. Boccadoro diede senz'altro la sua parola. C'era un onore di convento e c'era un onore di scolari: talvolta si trovavano in conflitto, egli lo sapeva bene, ma, come sempre, le leggi non scritte erano più forti di quelle scritte, e Boccadoro non si sarebbe mai sottratto, fin tanto ch'era scolaro, alle leggi e ai concetti d'onore della scolaresca. Adolfo lo trascinò fuori dal portale sotto gli alberi, e gli bisbigliò che c'era un gruppetto di buoni e arditi compagni, al quale egli apparteneva, che avevano raccolto dalle generazioni passate l'usanza di ricordarsi qualche volta che non erano monaci e di uscire una sera dal convento per recarsi al villaggio. Era un divertimento e un'avventura, a cui un ragazzo che si rispetti non doveva sottrarsi; nella notte sarebbero ritornati. --Ma allora il portone è chiuso,--obiettò Boccadoro. Certo, era chiuso, e questo appunto costituiva il divertimento. Ma sapevano rientrare da vie segrete senza farsi vedere; non era la prima volta. Boccadoro ricordò. La frase " andare al villaggio " era già arrivata al suo orecchio; con quelle parole s'intendeva una scappata notturna degli allievi, in cerca di segreti piaceri ed avventure d'ogni genere ed era severamente proibita e punita dalla regola del convento. Boccadoro si sgomentò. " Andare al villaggio " era peccato, era proibito. Ma egli comprendeva benissimo che appunto per questo, fra <ragazzi che si rispettano ", poteva far parte dell'onore di uno scolaro l'affrontare il pericolo, e che era segno di una certa distinzione essere invitato a quell'avventura. Avrebbe preferito dir di no, tornare indietro e correre a letto. Era tanto stanco e non si sentiva bene, aveva avuto mal di capo tutto il pomeriggio. Ma si vergognava un poco davanti a Adolfo. E chissà, forse là fuori, nell'avventura, c'era qualcosa di bello e di nuovo, qualcosa che poteva far dimenticare il dolor di capo, il torpore ed ogni sorta di malessere. Era una scappata nel mondo, furtiva e proibita, è vero, non troppo gloriosa, ma forse una liberazione, un'esperienza. Nicchiò un poco, mentre Adolfo faceva di tutto per persuaderlo, poi a un tratto scoppiò a ridere e disse di sì. Si dileguarono inosservati sotto i tigli nell'ampio cortile già buio, il cui portone esterno a quell'ora era chiuso. Il compagno lo condusse nel mulino del convento, dove nel crepuscolo e nel continuo fragore delle ruote era facile in-trufolarsi senza farsi udire né vedere. Da una finestra passarono, già in piena oscurità, su di un umido e sdrucciolevole deposito d'assi di legno, ne portarono via una, che dovettero gettare sopra il torrente per passare dall'altra parte. Ed eccoli fuori sulla strada maestra, che riluceva scialba e scompariva nel bosco nero. Tutto questo era eccitante e misterioso e piacque molto al ragazzo. Al margine del bosco stava già un compagno, Corrado, e dopo una buona attesa ne giunse a gran passi un altro, il lungo Everardo. Marciarono così in quattro attraverso il bosco; sopra di loro si levavano frusciando gli uccelli notturni, qualche stella si mostrava umida e lucente fra le nubi quiete. Corrado chiacchierava e faceva dello spirito, gli altri univano di tanto in tanto le loro risate, ma la notte alitava sopra di loro solenne e inquietante, accelerando il ritmo dei loro cuori. Di là dal bosco raggiunsero in un'oretta il villaggio. Tutto pareva già addormentato; i bassi comignoli emergeva-no più chiari dai cupi costoloni della travatura: non una luce brillava. Adolfo precedeva; strisciarono silenziosi attorno ad alcune case, scavalcarono una siepe, si trovarono in un giardino, calpestarono la terra molle delle aiuole, incespicarono in alcuni gradini e si fermarono al muro di una casa. Adolfo bussò ad un'imposta, aspettò, bussò ancora; dentro si udì del rumore e subito s'accese una luce, L'imposta s'aperse e l'uno dietro l'altro entrarono in una cucina dal nero camino e dal pavimento di terracotta. Sul focolare c'era una piccola lampada ad olio e sull'esiguo lucignolo ardeva una debole fiamma vacillante. Una serva di contadini, magra, diede la mano ai giovani invadenti, e dietro di lei uscì dall'oscurità una fanciullina dalle lunghe trecce scure. Adolfo aveva portato dei doni; una mezza pagnotta di pan bianco del convento e qualcos'altro in un sacchetto di carta: Boccadoro immaginò che fosse un pò d'incenso rubato o di cera da candele o qualcosa di simile. La ragazzina dalle trecce uscì senza lume, a tastoni, dalla porta, rimase via a lungo, poi ritornò con un boccale di terracotta grigia a fiori azzurri, che porse a Corrado. Egli bevve e passò il bicchiere agli altri, che seguirono il suo esempio: era forte mosto di sidro. Alla minuscola fiamma della lampada sedettero, le due ragazze sopra duri sgabelli e intorno a loro, per terra, gli scolari. Parlavano a voce bassa, bevendo di quando in quando il mosto; Adolfo e Corrado tenevano la conversazione Ogni tanto uno s'alzava e accarezzava i capelli e la nuca della ragazza magra, le sussurrava parole all'orecchio; la piccola rimaneva impassibile. Forse, pensò Boccadoro, la grande era la serva e la graziosa piccola la figlia di casa. Del resto, era indifferente, non gli importava nulla, poiché non sarebbe mai più ritornato lì. La scappata furtiva e la passeggiata notturna attraverso il bosco erano state belle: qualcosa d'inconsueto, di eccitante, di misterioso, ma senza pericoli. Era bensì proibito, ma la trasgressione del divieto non opprimeva troppo la coscienza. Quello invece che accadeva lì, quella visita notturna alle ragazze, era cosa più che proibita, egli lo sentiva, era peccato. Per gli altri forse anche questo non rappresentava che una piccola marachella, ma per lui no; a lui, che si sapeva destinato alla vita monastica e all'ascesi, non era permesso di giocare con le ragazze. No, non sarebbe più tornato. Ma il suo cuore batteva forte e inquieto nella penombra della misera cucina. I suoi compagni facevano gli eroi davanti alle ragazze e si davano importanza, intercalando alla conversazione frasi latine. Tutti e tre pareva godessero le grazie della servetta; le si avvicinavano di quando in quando con le loro piccole goffe moine, di cui la più tenera era un timido bacio. Pareva che sapessero esattamente ciò ch'era loro permesso in quel luogo. E poiché tutta la conversazione doveva svolgersi in tono di bisbiglio, la scena aveva in verità qualche cosa di comico; ma Boccadoro non lo sentiva. Se ne stava rannicchiato per terra, con lo sguardo fisso nella fiammella del lumino sospeso, senza pronunciare una parola. Talvolta, guardando di traverso con una certa avidità, afferrava una delle tenerezze che gli altri si scambiavano. Poi fissava rigido dinanzi a sé. Avrebbe preferito non guardar altro che la piccola dalle trecce ma questo appunto proibiva a se stesso. Ogni volta pero che la sua volontà cedeva e il suo sguardo, sviandosi, andava a posarsi sul dolce viso silenzioso della fanciulla, trovava immancabilmente gli occhi scuri di lei che lo fissavano co-me affascinati. Era passata forse un'ora - Boccadoro non aveva mai Vissuto un'ora così lunga - le parole e le tenerezze degli scolari erano esaurite; si fece silenzio e seguì un certo imbarazzo. Everardo cominciò a sbadigliare. Allora la ragazza maggiore li invitò a partire. Tutti s'alzarono, tutti le diedero la mano, Boccadoro per ultimo. Poi tutti diedero la mano alla piccola, Boccadoro per ultimo. Poi Corrado saltò per primo dalla finestra, lo seguirono Everardo e Adolfo. Quando anche Boccadoro stava scavalcando, si sentì trattenere da una mano sulla spalla: Non poté fermarsi; solo quando fu fuori e in piedi si voltò esitante. Dalla finestra si sporgeva la piccola dalle trecce. -- Boccadoro! -- sussurrò. Egli rimase immobile. --Verrai ancora? --domandò lei. La sua voce timida era come un soffio. . Boccadoro scosse il capo. Ella stese le mani, gli prese la testa, egli sentì sulle sue tempie il calore di quelle piccole mani. Ella si sporse in fuori finché i suoi occhi scuri si trovarono proprio vicini a quelli di lui. -- Vieni ancora! -- sussurrò: e la sua bocca sfiorò la bocca di lui in un bacio infantile. Egli corse in fretta dietro gli altri, attraversò il giardinetto, inciampò nelle aiuole, fiutò odor di terra umida e di concime, si graffiò una mano contro un cespuglio di ro-se, s'arrampicò sulla siepe e via di galoppo fuori del villaggio, verso il bosco. "Mai più!" diceva imperiosa la sua volontà. "Domani ancora!" supplicava il cuore singhiozzante. Nessuno incontrò i nottambuli, che ritornarono indisturbati a Mariabronn, attraverso il torrente, il mulino, la piazza dei tigli, e per vie segrete, di tettoia in tettoia, rientrarono dalle finestre bifore nel convento e nel dormitorio. Alla mattina il lungo Everardo dovette essere svegliato coi pugni, tanto pesante era il suo sonno. Tutti furono puntuali alla prima messa, alla colazione, in classe; ma Boccadoro aveva così brutta cera, che padre Martino gli domandò se fosse malato. Adolfo gli gettò un'occhiata ammonitrice ed egli disse che non aveva nulla. Ma alla lezione di greco, verso mezzogiorno, Narciso non gli tolse gli occhi di dosso. Anch'egli s'accorse che Boccadoro era malato, ma non disse nulla e l'osservò attentamente. Finita lezione, lo chiamò a sé. Per non attirar l'attenzione degli scolari, lo mandò con un incarico in biblioteca. Là lo seguì. --Boccadoro,--disse,--posso aiutarti? Vedo che sei angustiato. Forse sei malato. Allora ti mettiamo a letto, ti mandiamo una minestrina da malati e un bicchiere di vi-no. Oggi non hai testa per il greco. Attese a lungo una risposta. Il ragazzo lo guardava, pallido, con gli occhi smarriti, chinava il capo, lo rialzava, contraeva le labbra, voleva parlare, non poteva. A un tratto cadde da un lato, appoggiò il capo su di un leggio, fra le due piccole teste d'angelo in legno di quercia che l'ornavano da una parte e dall'altra, e scoppiò in un tal pianto, che Narciso si sentì imbarazzato e distolse un momento lo sguardo, prima di sollevare il ragazzo singhiozzante. --Ma sì,--disse in un tono così affettuoso come Boccadoro non l'aveva mai udito parlare, -- ma sì, ammise, piangi pure, dopo starai meglio. Qua, siedi, non c'è bisogno che tu parli. Vedo che non ne puoi più; forse hai faticato tutta mattina a tenerti su, a non lasciar scorgere nulla; sei stato molto bravo. Ora piangi pure; è il meglio che tu possa fare. No? Già finito? Già in piedi? Bene, allora andiamo in infermeria, ti metterai a letto e questa sera starai molto meglio. Vieni! Lo condusse, evitando le aule, in una camera per gli ammalati, gl'indicò uno dei due letti vuoti, e, mentre Boccadoro cominciava docilmente a svestirsi, uscì per annunciare al direttore che il ragazzo era malato. Ordinò anche, che aveva promesso, una minestrina, e un bicchiere di vino aromatico; questi due beni, molto usati in convento, erano assai graditi dalla maggior parte dei malati di poco conto. Boccadoro, disteso sul letto, cercava di rimettersi dal suo smarrimento. Un'ora prima forse avrebbe saputo spiegarsi quale fosse la causa di una così indicibile stanchezza quale tremenda tensione dell'animo gli rendesse la testa vuota e gli facesse bruciar gli occhi. Era lo sforzo violento, rinnovato ad ogni istante e ad ogni istante fallito, di dimenticare la sera precedente... o meglio non la sera, non la folle e bella scappata dal convento chiuso, non la passeggiata nel bosco né lo sdrucciolevole ponticello di fortuna sul nero torrente del mulino, o l'uscire e l'entrare scavalcando siepi e finestre, ma unicamente quel momento presso la finestra scura della cucina, il respiro e le parole della fanciulla, il contatto delle sue mani, il bacio delle sue labbra. Ma ora s'era aggiunto qualcosa di nuovo, un nuovo sgomento, una nuova esperienza. Narciso s'era occupato di lui, Narciso gli voleva bene, Narciso gli aveva dimostrato premura... quel giovane così fine, distinto, intelligente, dalla bocca sottile e lievemente beffarda! E lui, lui davanti a quell'essere superiore s'era lasciato andare, s'era mostrato confuso, balbettante, singhiozzante! Invece di cattivarselo con le armi più nobili, col greco, con la filosofia, con l'eroismo dello spirito e la dignità dello stoicismo, s'era acca-sciato dinanzi a lui, debole da far pietà! Non se lo sarebbe mai perdonato, non avrebbe più potuto guardare Narciso negli occhi senza arrossire. Ma il pianto aveva allentato la grande tensione; il silenzio della camera solitaria e il buon letto facevano bene, la disperazione aveva perduto una buona metà della sua forza. Dopo un'oretta entrò un frate inserviente, recando una minestra di farina, un pezzetto di pan bianco e un bicchierino di vin rosso, che gli scolari solevano ricevere solo nei giorni di festa. Boccadoro mangiò e bevette: vuotò il piatto a metà, lo allontanò, ricominciò a pensare, ma la testa non funzionava; riprese il piatto, ingoiò qualche altra cucchiaiata. E quando un pò più tardi la porta s'aperse piano ed entrò Narciso per vedere il malato, questi giaceva immerso nel sonno e le sue guance erano riornate rosee. Narciso l'osservò a lungo, con affetto, con curiosità indagatrice ed anche con un pò d'invidia. Vide che Boccadoro non era malato; L'indomani non sarebbe stato più necessario mandargli del vino. Ma sentì anche che il ghiaccio era rotto, che sarebbero diventati amici. Quel giorno era stato Boccadoro ad aver bisogno di lui, dei suoi servigi. Un'altra volta forse egli stesso sarebbe stato debole e avrebbe avuto bisogno di un aiuto, di un affetto. E da quel ragazzo avrebbe potuto accettarlo, quando fosse venuto il momento. INDEX CAPITOLO III Strana amicizia fu quella che s'iniziò fra Narciso e Boccadoro; piaceva a pochi, e talvolta pareva dispiacesse a loro stessi. Narciso, il pensatore, ebbe da principio la parte più difficile. Per lui tutto era spirito, anche l'amore; non gli era dato abbandonarsi spensieratamente ad un'attrazione. In quell'amicizia egli era lo spirito reggente, e per molto tempo fu il solo a riconoscerne con chiarezza il destino, la portata e il significato. Per molto tempo in pieno affetto egli rimase solitario; sapeva che non sarebbe riuscito a possedere davvero l'amico se non dopo averlo condotto al-la conoscenza. Fervido e ardente, Boccadoro s'abbandonava alla nuova vita come per gioco, senza rendersi conto di nulla; cosciente e responsabile, Narciso accettava l'alto destino. Per Boccadoro fu innanzi tutto una liberazione e una guarigione. Il suo giovanile bisogno d'amore era stato potentemente destato dalla vista e dal bacio di una graziosa fanciulla, e soffocato subito senza speranza. Poiché in fondo all'anima egli sentiva che tutto il sogno della sua vita fino a quel giorno, tutto quello in cui aveva creduto a cui si riteneva destinato e chiamato, era stato compro-messo alla radice dallo sguardo di quegli occhi scuri. Destinato dal padre alla vita monastica, disposto con tutta la sua volontà ad accettarla, proteso col fervore del primo slancio giovanile verso un pio ideale di eroismo ascetico, egli aveva sentito in modo irresistibile, al primo incontro fugace, al primo appello che la vita aveva rivolto ai suoi sensi, al primo saluto del sesso femminino, che lì stava il suo nemico e il suo demone, che la donna era il suo pericolo. Ed ecco il destino porgergli una salvezza, ecco nel momento più grave venirgli incontro quell'amicizia e offrire al suo desiderio un giardino rigoglioso, al suo culto un nuovo altare. Qui gli era permesso di amare, gli era permesso di darsi senza peccato, di donare il suo cuore ad un amico ammirato, maggiore e più saggio di lui, di trasformare e di spiritualizzare le fiamme pericolose dei sensi in nobili fuochi d'offerta. Ma subito nella primavera di quest'amicizia egli si trovò ad urtare in ostacoli strani, in freddezze inattese ed enigmatiche, in esigenze che lo sgomentavano. Perché egli era ben lungi dal considerare l'amico come il suo contrapposto. Gli pareva che bastasse l'amore, la dedizione sincera, per fare di due esseri uno solo, per cancellare le differenze, per superare i contrasti. Ma com'era austero e sicuro, com'era chiaro e inesorabile quel Narciso! Pareva ch'egli non conoscesse né desiderasse un innocente abbandono reciproco, un cammino comune e grato sul terreno dell'amicizia. Pareva ch'egli ignorasse e non ammettesse vie senza meta, vagabondaggi sognanti. Aveva bensì mostrato la sua sollecitudine per Boccadoro, quando questi sembrava malato, e lo aiutava e lo consigliava fedelmente in tutte le cose di scuola e di studio, gli spiegava difficili passi di libri, lo illuminava nel campo della grammatica, della logica, della teologia; ma non sembrava mai soddisfatto dell'amico e d'accordo con lui, spesso sembrava perfino che lo deridesse un poco, che non lo prendesse sul serio. Boccadoro sentiva bene che non si trattava di semplice pedanteria di maestro, di un'ostentazione di superiorità da parte del più anziano e del più assennato; sentiva che c'era qualcosa d'altro, qualcosa di più profondo, di più importante. Ma non riusciva ad afferrarlo, e la sua amicizia lo rendeva spesso triste e perplesso. In realtà Narciso conosceva perfettamente l'amico, non era cieco alla sua fiorente bellezza, alla sua forza naturale, alla sua rigogliosa pienezza di vita. Non era affatto un maestro pedante, che volesse nutrir di greco una giovane anima fervida e rispondere con la logica ad un amore innocente Piuttosto amava troppo il biondo giovinetto, e per lui questo era un pericolo, perché amare per lui non era uno stato naturale, ma un miracolo. A lui non era lecito innamorarsi appagarsi della vista gradevole di quei begli occhi, della vicinanza di quella biondezza luminosa e florida; egli non doveva permettere al suo amore d'indugiare anche un solo momento nei sensi. Poiché se Boccadoro si sentiva destinato a diventar monaco ed asceta e a tendere per tutta la vita verso la santità, Narciso era veramente destinato a quella vita. A lui era permesso d'amare in una forma sola, nella più elevata. Del resto, alla vocazione di Boccadoro per la vita ascetica Narciso non credeva. Egli aveva una singolare capacità di leggere nell'animo degli uomini e in questo caso, amando, leggeva con tanta maggior chiarezza. Vedeva la natura di Boccadoro e, malgrado fosse l'opposto della sua, la comprendeva a fondo, perché ne era l'altra metà, la metà perduta. Vedeva questa natura racchiusa entro una dura corazza d'immaginazioni, di errori d'educazione, di parole paterne, e da tempo intuiva tutto il segreto, non complicato, di quella giovane vita. Il suo compito gli era chiaro: svelare questo segreto a colui che lo portava in sé, liberarlo dalla sua corazza, restituirgli la sua vera natura. Sarebbe stato difficile, e la cosa più penosa era che ciò gli sarebbe forse costato la perdita dell'amico. Il cammino per accostarsi alla meta fu di una lentezza estrema. Passarono mesi, prima che fosse possibile anche solo attaccare seriamente il discorso e giungere ad una discussione sostanziale. Tanto eran lontani l'uno dall'altro, non ostante tutta la loro amicizia, tanto era ampio l'arco teso fra di loro! Un veggente e un cieco: così cammina-vano a fianco; e se il cieco ignorava la sua cecità, il sollievo era solo suo. La prima breccia fu aperta da Narciso, quando cercò d'indagare la vicenda che aveva spinto, in un'ora di debolezza, il ragazzo sconvolto verso di lui. L'indagine fu meno difficile di quel che avesse pensato. Boccadoro sentiva da un pezzo il bisogno di confessare l'esperienza di quella notte; ma non c'era nessuno, fuorché l'abate, in cui avesse abbastanza confidenza, e l'abate non era il suo confessore. Quando dunque Narciso, in un momento che gli parve favorevole, ricordò all'amico quell'inizio della loro unione ed accennò lievemente al segreto, L'altro disse senza ambagi: --Peccato, che tu non abbia ancora ricevuto gli ordini e non possa ancora confessare; mi sarei liberato volentieri di quella faccenda in confessione ed avrei accettato volentieri una penitenza. Ma al mio confessore non sono stato capace di dirla. Prudente e scaltro, Narciso continuò a indagare; la traccia era trovata. --Ricordi anche tu,--provò a dire,--quella mattina che sembravi malato; non l'hai dimenticata, poiché allora siamo diventati amici. Io ho dovuto ripensarci spesso. Forse non te n'accorgesti, ma io allora rimasi veramente imbarazzato. --Tu imbarazzato? -- esclamò l'amico incredulo. -Ma l'imbarazzato ero io! Ero io che stavo lì senza riuscire a metter fuori una parola e inghiottivo saliva, fin che scoppiai a piangere come un bambino! Vergogna, ne arrossisco ancora oggi; credevo che non sarei più stato capace di comparire ai tuoi occhi. Lasciarmi vedere da te così miseramente debole! Narciso procedette tastando. --Capisco, -- disse, -- che sia stata per te una cosa spiacevole. Un pezzo di ragazzo gagliardo come te, piangere davanti a un amico, maestro per giunta: non era degno della tua natura. Ebbene, io allora ti ritenni proprio malato. Anche un Aristotele, se è sconvolto dalla febbre, può comportarsi in modo strano. Invece non eri affatto malato! Non c'era ombra di febbre! E di questo ti vergogni. Nessuno si vergogna di lasciarsi vincere da una febbre, nevvero? Ti vergogni, perché avevi ceduto a qualcos'altro, perché qualcos'altro ti aveva sopraffatto. Era avvenuta dunque una cosa molto strana? Boccadoro esitò un poco, poi disse lentamente: -- Sì, era avvenuta una cosa strana. Ammettiamo che tu sia il mio confessore; una volta bisogna pur che la dica! A capo chino raccontò all'amico la storia di quella notte. Narciso osservò sorridendo: --E vero, " andare al villaggio " è una cosa proibita. Ma tante cose proibite si fanno e poi ci si ride sopra, oppure si confessano e tutto è finito e uno non ci pensa più. Perché non avresti dovuto commettere anche tu, come quasi ogni scolaro, co-deste sciocchezze? E poi così grave? Boccadoro proruppe adirato, senza ritegno: --Parli proprio come un maestro di scuola! Sai benissimo di che si tratta! Naturalmente non vedo un gran peccato nel burlarsi una volta tanto delle regole del convento e nel partecipare a una scappata da scolari, per quanto anche questo non sia precisamente un esercizio preparatorio alla vita monastica. --Alt! -- esclamò Narciso severo. -- Non sai, amico mio, che per molti pii padri proprio questi esercizi furono necessari? Non sai che una vita di libertinaggio può essere una delle vie più brevi per giungere ad una vita di santo. --Ah, sta zitto!--protestò Boccadoro.--Volevo dire: non era quel tantino di disubbidienza che opprimeva la mia coscienza. Era qualcos'altro. Era ia ragazza. Era un sentimento che non so descriverti! Sentivo che se avessi ceduto a quell'adescamento, se avessi solo steso la mano per toccare la ragazza, non avrei più potuto tornare indietro, che allora il peccato mi avrebbe inghiottito come la bocca dell'inferno e non mi avrebbe più restituito. E addio bei sogni, addio virtù, addio amore di Dio e del Bene! Narciso fece un cenno del capo, sopra pensiero. --L'amore di Dio,--disse lentamente, cercando le parole,--non è sempre una cosa sola con l'amore del Bene. Ah, se fosse così semplice! Ciò che è bene, lo sappiamo, sta nei comandamenti. Ma Dio non è solo nei comandamenti, caro; questi non sono che la più piccola parte di lui. Tu puoi attenerti ai comandamenti ed essere lontanissimo da Dio. --Ma non mi capisci? --gemette Boccadoro. --Certo che ti capisco. Tu senti nella donna, nel sesso la quintessenza di ciò che chiami " mondo " e <peccato ". Di tutti gli altri peccati o ti senti incapace, o ti pare che se li commettessi non ti opprimerebbero tanto, li potresti confessare e riparare. Solo quel peccato, no! --Ecco, proprio così sento. --Vedi che ti capisco. E non hai tutti i torti: la storia di Eva e del serpente non è in verità una favola oziosa. Eppure non hai ragione, caro. Avresti ragione, se fossi l'abate Daniele o il tuo patrono, san Crisostomo, se fossi un vescovo o un sacerdote o anche solo un piccolo semplice monaco. Ma tu non sei nulla di tutto questo. Sei uno scolaro, e se anche hai il desiderio di rimanere per sempre in convento, o se tuo padre ha questo desiderio per te, non hai però fatto ancora alcun voto, non hai preso ancora nessun ordine. Se oggi o domani fossi sedotto da una bella ragazza e cedessi alla tentazione, non romperesti nessun giuramento, non violeresti nessun voto. --Non un voto scritto! --esclamò Boccadoro eccitato. -- Ma un voto non scritto, il più sacro che io porti in me. Non puoi capire che ciò che vale forse per altri, per me non vale? Neppur tu hai preso gli ordini, neppur tu hai fatto un voto, ma non ti permetteresti mai di toccare una donna! O m'inganno? Non sei così? Non sei quello che io ti credevo? Non hai forse fatto anche tu da un pezzo in cuor tuo il giuramento non ancor prestato a parole davanti ai superiori, e non ti senti legato da questo per sempre? Non sei dunque simile a me? --No, Boccadoro, non sono simile a te, non come tu credi. E vero che anch'io porto in cuore un voto inespresso, in questo hai ragione. Ma simile a te non sono affatto. Ti dico oggi una parola, di cui ti rammenterai un giorno. Ti dico: la nostra amicizia non ha altro scopo e altro senso che quello di mostrarti come tu sia completamente dissimile da me! Boccadoro rimase sconcertato: Narciso aveva parlato con uno sguardo e con un tono che non ammettevano contraddizione. Tacque. Ma perché Narciso pronunciava quelle parole? Perché il voto inespresso di Narciso doveva essere più sacro del suo? L'amico non lo prendeva dunque sul serio, vedeva in lui soltanto un fanciullo? I turbamenti e le tristezze di quella singolare amicizia ricominciavano. Narciso non aveva più dubbi sulla natura del segreto di Boccadoro Eva, la madre primigenia, vi era celata. Ma com'era possibile che in un giovane così bello, sano e fiorente, il risveglio del sesso urtasse contro un'ostilità tanto accanita? Ci doveva essere un demone all'opera, un nemico segreto, ch'era riuscito a scindere quella magnifica natura e a metterla in contrasto con i suoi istinti. Ebbene, il demone doveva esser trovato, evocato, messo in luce: poi l'avrebbero vinto. Intanto Boccadoro era sempre più evitato e lasciato in disparte dai compagni, o meglio essi si sentivano abbandonati e in certo modo traditi da lui. Nessuno vedeva di buon occhio la sua amicizia con Narciso. I maligni la screditavano come contro natura, ed erano specialmente quelli innamorati di uno dei due giovani. Ma anche gli altri, per i quali era evidente che non si poteva sospettare una colpa in quella relazione, scuotevano il capo. Nessuno voleva concedere a quei due di essere amici; pareva che unendosi fra di loro essi si fossero orgogliosamente isolati dagli altri, come aristocratici per i quali gli altri fossero d'un livello troppo inferiore; e ciò non era collegiale, non era claustrale, non era cristiano. All'orecchio dell'abate Daniele giunsero voci, accuse, calunnie. In oltre quarant'anni di vita claustrale egli aveva assistito a molte amicizie fra giovani: facevano parte del quadro del convento, erano un grazioso supplemento, a volte un passatempo, a volte un pericolo. L'abate si man-tenne in disparte, con gli occhi aperti, ma senza immischiarsi. Un'amicizia così fervida e così esclusiva era una cosa rara, certo non scevra di pericolo, ma, poiché egli non dubitava un istante della sua purezza, lasciava che gh eventi seguissero il loro corso. Se Narciso non si fosse trovato in una posizione d'eccezione fra scolari e insegnanti, L'abate non avrebbe esitato a ordinare una separazione fra i due. Non era bene per Boccadoro staccarsi dai compagni, mantenendo stretti rapporti esclusivamente con uno maggiore di lui, con un maestro. Ma era giusto che Narciso, il giovane eccezionale dalle doti straordinarie, che gli altri insegnanti consideravano spiritualmente pari a loro, anzi superiore, venisse rimosso dalla sua carriera privilegiata e privato dell'attività didattica? Se non avesse fatto buona prova come maestro, se la sua amicizia l'avesse indotto a qualche trascuratezza e parzialità, L'abate lo avrebbe immediatamente richiamato. Ma non esisteva nulla contro di lui, nulla fuorché voci, fuorché la gelosa diffidenza degli altri. Inoltre l'abate sapeva delle singolari attitudini di Narciso a penetrare e conoscere gli uomini. Non sopravvalutava queste doti, forse un pò presuntuose, altre gli sarebbero state più gradite nel giovane; ma non dubitava che questi avesse riscontrato nello scolaro Boccadoro una individualità d'eccezione, e che lo conoscesse molto meglio di lui e di qualsiasi altro. In lui, abate, Boccadoro non aveva suscitato altra impressione, a parte la grazia seducente della sua persona, che quella di un certo zelo prematuro perfino un pò saccente, con cui già allora, ch'era semplice ospite e scolaro, pareva si sentisse membro del convento e già quasi confratello. L'abate non credeva di dover temere che Narciso favorisse ed eccitasse ancor più quello zelo commovente, ma im-maturo. Piuttosto c'era da temere per Boccadoro che l'amico gli comunicasse una certa presunzione spirituale e un certo orgoglio di erudito; ma, dato lo scolaro, il pericolo non sembrava grande; si poteva aspettare. Se pensava quanto era più semplice, più pacifico e più comodo per un rettore dirigere individui mediocri invece che nature grandi e forti, doveva sospirare e sorridere insieme. No, non voleva lasciarsi prendere lui pure dalla diffidenza, non voleva mostrarsi sconoscente per il privilegio di aver affidate alle sue cure due nature di eccezione. Narciso rifletteva molto sul conto dell'amico. La sua particolare capacità di comprendere e sentire l'indole e la destinazione degli uomini lo aveva illuminato da un pezzo sulla natura di Boccadoro. Tutto ciò che vi era di vitale e di radioso in questo giovane parlava chiaro: egli portava tutti i segni di un uomo forte, riccamente dotato nei sensi e nell'anima, forse di un artista, in ogni caso di un individuo straordinariamente capace di amare, il cui destino e la cui felicità consistevano nell'essere infiammabile e nel sapersi donare. Perché dunque questa creatura d'amore, quest'uomo dai sensi fini e ricchi, che poteva sentire ed amare con tanta intensità il profumo d'un fiore, un sole mattutino, un cavallo, un volo d'uccello, una musica, perché dunque aveva la mania d'essere un sacerdote dello spirito, un asceta? Narciso si stillava il cervello in cerca d'una spiegazione. Sapeva che il padre di Boccadoro aveva favorito questa mania. Ma poteva averla suscitata? Con quale incantesimo aveva stregato il figlio, perché questi credesse ad una destinazione e ad un dovere simile? Che uomo poteva essere quel padre? Per quanto egli avesse portato più volte con intenzione il discorso su di lui, e Boccadoro ne avesse parlato non poco, Narciso non riusciva ad immaginarsi questo padre, non riusciva a vederlo. Non era cosa strana e sospetta? Quando Boccadoro parlava di una trota pescata da ragazzo, quando descriveva una farfalla, imitava un grido d'uccello, raccontava di un compagno, di un cane o di un mendicante, Si presentavano immagini, si vedeva qualche cosa. Quando parlava di suo padre, non si vedeva nulla. No, se questo padre fosse stato davvero una figura così importante, potente, dominante nella vita di Boccadoro, egli lo avrebbe saputo descrivere in altro modo, avrebbe saputo offrire altre immagini di lui! A Narciso questo padre non ispirava molta fiducia, non gli piaceva; talvolta dubitava persino che fosse veramente il padre di Boccadoro. Era un idolo vuoto Ma donde attingeva tanta potenza? Come aveva potuto riempire l'anima di Boccadoro di sogni, ch'erano così estranei alla sua natura intima? Anche Boccadoro si lambiccava il cervello. Per quanto si sentisse sicuro dell'affetto cordiale del suo amico, aveva pur sempre il senso penoso di non essere preso abbastanza sul serio da lui, di essere sempre trattato un pò come un bambino. E che significava l'insistenza dell'amico nel fargli intendere che non era simile a lui? Questo travaglio del pensiero non esauriva tuttavia le giornate di Boccadoro Egli non era capace di stillarsi a lungo il cervello. C'era altro da fare durante la lunga giornata. Spesso andava ad appiattarsi accanto al frate portinaio, con cui era in ottimi rapporti. Riusciva sempre con le preghiere e con l'astuzia a procurarsi l'occasione di cavalcare un'ora o due sul suo Bless, ed era molto benvoluto dai pochi vicini del convento, specialmente dali; spesso col garzone di quest'ultimo appostava la lontra, oppure cuocevano focacce con la farina fine dei prelati, che Boccadoro riconosceva ad occhi chiusi fra tutte le altre qualità di farina, solo dall'odore. Pur stando molto insieme con Narciso, gli rimanevano parecchie ore da dedicare alle sue vecchie abitudini e ai suoi piaceri. Anche i servizi divini erano per lui il più delle volte una gioia; cantava volentieri nel coro degli scolari, recitava volentieri un rosario davanti ad un altare preferito, ascoltava il bel latino solenne della messa, vedeva nelle nubi d'incenso luccicare l'oro degli arredi e degli ornamenti e sulle colonne le placide e venerande figure dei santi, gli evangelisti con gli animali e sant'Jacopo col cappello e la bisaccia da pellegrino. Da queste figure di pietra e di legno si sentiva attratto amava pensarle in misterioso rapporto con la sua persona, come una specie di padrini immortali e onniscienti, di pro-tettori, di guide della sua vita. Così sentiva un amore e una dolce relazione segreta con le colonne e i capitelli delle finestre e delle porte, con gli ornamenti degli altari, con quei tondini e quelle corone ben profilate, con quei fiori e quelle foglie lussureggianti, che spuntavan fuori dalla pietra delle colonne e s'intrecciavano, così parlanti ed espressive. Gli pareva un mistero intimo e prezioso, che oltre alla natura, alle sue piante e ai suoi animali ci fosse anche questa seconda natura, silenziosa, fatta dagli uomini, queste figure umane, questi animali, queste piante di pietra e di legno. Non di rado passava una delle sue ore libere a riprodurre sulla carta tali figure e teste d'animali e fasci di foglie, e talvolta cercava di disegnare anche dal vero fiori, cavalli, volti umani. E amava molto i canti liturgici, specialmente gli inni a Maria. Gli piaceva il ritmo severo e fermo di questi canti, il ripetersi delle loro invocazioni e delle loro esaltazioni. Seguiva adorando il loro significato sublime, oppure, dimenticando il senso, amava le misure solenni di quei versi e si lasciava invadere tutto da essi, dai suoni profondi e prolungati, dalle vocali piene e sonore, dai ritornelli pii. In fondo al cuore non amava l'erudizione, la grammatica e la logica, quantunque avessero anch'esse la loro bellezza; amava di più il mondo d'immagini e di suoni della liturgia. Di tanto in tanto interrompeva anche per qualche momento quello stato di freddezza che lo separava ormai dai suoi compagni. A lungo andare lo irritava e lo annoiava sentirsi attorno degli estranei; ed ora riusciva a far ridere un vicino di banco imbronciato, ora a far chiacchierare un vicino di letto taciturno, e per un pò di tempo si sforzava di essere cordiale e riguadagnava un paio d'occhi, un paio di visi, un paio di cuori. Due volte con questi riavvicinamenti ottenne, contro ogni sua intenzione, di essere di nuovo invitato ad " andare al villaggio ". Sussultò e si ritirò immediatamente. No, non andava più al villaggio; era riuscito a dimenticare la fanciulla dalle trecce, a non pensarci più o quasi più. INDEX CAPITOLO IV I tentativi di Narciso per scoprire il segreto di Boccadoro erano rimasti per molto tempo senza effetto. Per molto tempo egli si era sforzato apparentemente invano di destare quell'anima, d'insegnarle il linguaggio con cui il suo segreto avrebbe potuto comunicarsi. Quello che l'amico gli aveva raccontato della sua origine e della sua casa, non aveva dato nessuna immagine concreta. C'era l'ombra amorfa di un padre rispettato, e poi la leggenda di una madre già da tempo scomparsa o morta, di cui altro non era rimasto che un nome scialbo. A poco a poco Narciso, esperto di legger nelle anime, aveva riconosciuto nell'amico uno di quegli individui, per i quali un tratto della loro vita è andato perduto e che sotto la pressione di una sventura o di un incantesimo sono stati costretti a dimenticare una parte del loro passato. Egli comprese che in questo caso il semplice interrogare ed istruire non serviva a nulla; s'accorse anche di aver creduto troppo nel potere della ragione, e di aver detto molte cose invano. Ma non era rimasto vano l'affetto che lo legava all'amico, non vana la consuetudine dello star molto insieme. Nonostante la profonda differenza delle loro nature, avevano imparato molto l'uno dall'altro, a poco a poco era nato fra loro, accanto al linguaggio della ragione, un linguaggio d'anime e di cenni, così come fra due residenze può correre una strada maestra per le vetture e per i cavalieri, ma accanto si formano tante altre piccole vie laterali: viottoli per i bimbi che giocano, sentieri nascosti per innamorati, stradelline appena visibili di cani e di gatti. A poco a poco l'animata fantasia di Boccadoro s'era insinuata per magiche vie nei pensieri dell'amico e nel loro linguaggio; e questi dal canto suo aveva imparato a comprendere e a sentire, senza parole, molta parte della natura di Boccadoro. Maturavano lentamente, nella luce dell'amore, nuovi vincoli fra anima ed anima; le parole vennero dopo. Così un giorno - era vacanza e i due amici stavano insieme nella biblioteca - s'intavolò fra loro, inatteso da entrambi, un discorso che li portò a un tratto nel cuore della loro amicizia e la illuminò di nuove luci. Avevano parlato dell'astrologia, che nel convento non si studiava, anzi era proibita, e Narciso aveva detto che essa era un tentativo di mettere ordine e sistema nelle molte e diverse specie di uomini, di destini, di vocazioni. Boccadoro interruppe: --Tu parli sempre delle diversità... a poco a poco mi sono convinto che questa è la tua specialità. Quando parli della grande differenza che c'è ad esempio fra te e me, mi par sempre ch'essa non consista in altro che nella tua singolare mania di trovar differenze! Narciso: -- Certo, tu cogli proprio nel segno. E così! Per te le differenze non hanno molta importanza, a me invece sembrano l'unica cosa importante. Io sono per natura un erudito, la mia vocazione è la scienza E scienza altro appunto non è, per citare le tue parole, che la mania di trovar differenze. Non si potrebbe designare meglio la sua essenza. Per noi uomini di scienza nulla è importante se non lo stabilire delle diversità: scienza significa arte di distinguere. Trovare ad esempio in ogni uomo le caratteristiche che lo distinguono dagli altri significa conoscerlo. Boccadoro: -- Va bene. Uno ha delle scarpe da contadino ed è un contadino, un altro ha una corona in capo ed è un re. Certo sono differenze. Ma le vedono anche i bambini pur senza tutta la vostra scienza. Narciso: --Ma se tanto il contadino quanto il re indossano vesti d'oro, il bambino non li distingue più. Boccadoro: -- Neppur la scienza. Narciso: -- Forse sì. Essa non è certo più intelligente del bambino, te lo concedo, ma è più paziente; non rileva soltanto le caratteristiche più grossolane. Boccadoro: -- Anche un bambino intelligente riconoscerà il re dallo sguardo o dal portamento. Insomma voi eruditi siete orgogliosi e ci giudicate sempre più stupidi di voi; si può essere molto intelligenti anche senza tutta la vostra scienza. Narciso: -- Mi fa piacere che tu cominci a comprendere questo. Fra poco comprenderai allora altresì che io non penso all'intelligenza quando parlo della differenza fra te e me. Non dico: tu sei più intelligente o più stupido, migliore o peggiore. Dico soltanto: sei diverso. Boccadoro: -- Questo si capisce. Ma tu non parli solo di differenze di caratteristiche, parli anche spesso di differenze di destino, di vocazione. Perché ad esempio tu dovresti avere una vocazione diversa dalla mia? Sei un cristiano come me, sei deciso come me a scegliere la vita monastica, sei figlio come me del buon Padre che sta in cielo. La nostra meta è la stessa: la beatitudine eterna. La nostra destinazione è la stessa: il ritorno a Dio. Narciso: --Benissimo. Nel trattato della dogmatica certo un uomo è esattamente uguale all'altro, ma nella vita no. A me pare: il discepolo prediletto del Redentore, sul petto del quale egli riposava, e quell'altro discepolo che lo tradì... quei due non avevano forse la stessa vocazione? Boccadoro: -- Sei un sofista, Narciso! Per questa via non ci avviciniamo. Narciso: -- Per nessuna via ci avviciniamo. Boccadoro: --Non dir così! Narciso: -- Parlo sul serio. Non è il nostro compito quello d'avvicinarci, così come non s'avvicinano fra loro il sole e la luna, o il mare e la terra. Noi due, caro amico, siamo il sole e la luna, siamo il mare e la terra. La nostra meta non è di trasformarci l'uno nell'altro, ma di conoscerci l'un l'altro e d'imparar a vedere ed a rispettare nell'altro ciò ch'egli è: il nostro opposto e il nostro complemento. Boccadoro, colpito, teneva il capo chino: il suo volto s'era fatto triste. Finalmente disse: -- per questo che tante volte non prendi sul serio i miei pensieri? Narciso esitò un poco a rispondere. Poi disse con voce chiara e dura: --E per questo. Devi abituarti, caro Boccadoro, a che io prenda sul serio soltanto te stesso. Credimi, io prendo sul serio ogni suono della tua voce, ogni gesto, ogni sorriso tuo. Ma i tuoi pensieri, li prendo meno sul serio. Prendo sul serio quello che riconosco in te di essenziale e di necessario. Perché vuoi che presti particolare attenzione proprio ai tuoi pensieri, quando hai tante altre doti? Boccadoro sorrise con amarezza.--Lo dicevo bene, che mi hai sempre considerato soltanto un bambino! Narciso insistette: --Una parte dei tuoi pensieri li considero infantili. Ricorda quel che dicevamo dianzi: un fanciullo intelligente non è di necessità più sciocco di un erudito. Ma se il fanciullo vuol parlare di scienza con l'erudito, questi non lo prende sul serio. Boccadoro esclamò con impeto: --Anche quando non parlo di scienza tu sorridi di me! Tutta la mia religiosità, ad esempio, i miei sforzi per progredire negli studi, la mia aspirazione alla vita monastica, per te non sono altro che fanciullaggini! Narciso lo guardò, grave: -- lo ti prendo sul serio quando sei Boccadoro. Ma tu non sei sempre Boccadoro. Io non mi auguro altro se non che tu divenga Boccadoro in tutto e per tutto. Tu non sei un erudito, tu non sei un monaco... per far un erudito e un monaco basta una stoffa meno preziosa della tua. Tu credi che ti giudichi troppo poco erudito, troppo poco logico, o troppo poco pio. No, per me sei troppo poco te stesso. Boccadoro s'era ritirato da quel colloquio stupito e persino offeso, ma pochi giorni dopo mostrò egli stesso il desiderio di continuarlo. Questa volta Narciso riuscì a dargli, della differenza fra le loro nature, un'immagine ch'egli poté comprendere meglio. Narciso aveva parlato con calore, sentiva l'amico più aperto, quel giorno, e più pronto ad accogliere le sue parole: sentiva di far presa su di lui. E si lasciò indurre dal successo a dire più di quel che fosse nelle sue intenzioni, si lasciò trasportare dalle sue stesse parole. --Vedi, -- disse, -- c'è un punto solo in cui ti sono superiore: io sono sveglio, mentre tu lo sei soltanto a mezzo, anzi a volte dormi del tutto. Per me, sveglio è chi conosce con l'intelletto e con la coscienza se stesso, le proprie forze intime e irrazionali, i propri istinti e le proprie debolezze, e sa tenerne conto. Questo tu devi imparare: ecco il senso che può esserci per te nell'avermi incontrato. In te, Boccadoro, lo spirito e la natura, la coscienza e il mondo dei sogni sono lontanissimi fra loro. Hai dimenticato la tua infanzia, e dalle profondità della tua anima essa ti cerca. Ti farà soffrire finché non le avrai dato ascolto... Basta! Nell'essere sveglio, ripeto, sono più forte di te, in questo ti sono superiore e ti posso aiutare; in tutto il resto, caro, sei tu superiore a me... o meglio lo sarai non appena avrai trovato te stesso. Boccadoro aveva ascoltato con stupore, ma alle parole " hai dimenticato la tua infanzia " aveva sussultato come colpito da una freccia. Narciso, che per abitudine, mentre parlava, spesso teneva a lungo chiusi gli occhi o li fissava innanzi a sé, come se in tal modo trovasse meglio le parole, non s'era accorto di nulla. Non aveva veduto il volto dell'amico contrarsi improvvisamente e come avvizzirsi. -- Superiore.. io a te! --balbettò Boccadoro tanto per dir qualcosa; era come irrigidito. --Certo, -- continuò Narciso. -- Le nature come la tua, dotate di sensi forti e delicati, gli ispirati, i sognatori, i poeti, gli amanti sono quasi sempre superiori a noi uomini di pensiero. La vostra origine è materna. Voi vivete nella pienezza, a voi è data la forza dell'amore e della esperienza viva Noi spirituali, che pur sembriamo spesso guidarvi e dirigervi, non viviamo nella pienezza, viviamo nell'aridità. A voi appartiene la ricchezza della vita, a voi il succo dei frutti, a voi il giardino dell'amore, il bel paese dell'arte. La vostra patria è la terra, la nostra è l'idea. Il vostro pericolo è di affogare nel mondo dei sensi, il nostro è di asfissiare nel vuoto. Tu sei un artista, io un pensatore. Tu dormi sul petto della madre, io veglio nel deserto. A me splende il sole, a te la luna e le stelle, i tuoi sogni sono di fanciulle, i miei di ragazzi... Boccadoro aveva ascoltato con gli occhi spalancati, mentre Narciso parlava in una specie d'inebbriamento oratorio. Molte delle sue parole l'avevano colpito come spade; alle ultime impallidì, chiuse gli occhi, e, quando Narciso se n'accorse e lo interrogò spaventato, rispose pallidissimo, con la voce spenta: --Mi è capitato una volta di acca-sciarmi e di piangere davanti a te... ricordi? Non deve ripetersi, non me lo perdonerei mai... e neppure a te! Ora va via subito e lasciami solo, mi hai detto parole terribili. Narciso era costernato. S'era lasciato trasportare dalle sue parole, aveva avuto la sensazione di parlare meglio del solito. E s'accorgeva con stupore che qualcuna di queste parole aveva scosso profondamente l'amico, che in qualche punto egli aveva toccato sul vivo Gli rincresceva di lasciarlo solo in quel momento; esitò qualche secondo, ma la fronte corrugata di Boccadoro gli impose d'uscire, e corse via confuso, per concedere all'amico la solitudine di cui aveva bisogno. Questa volta la tensione dell'animo di Boccadoro non si risolse in lacrime. Con la sensazione di essere ferito profondamente e senza speranza, come se l'amico gli avesse inferto a un tratto un pugnale nel petto, rimase immobile, col respiro affannoso, col cuore mortalmente oppresso, pallido come un cadavere, con le mani inerti. Era la stessa angoscia d'allora, solo di qualche grado più intensa, era lo stesso senso di soffocamento interiore, L'impressione di dover vedere qualcosa di terribile, di assolutamente insopportabile. Ma nessun singhiozzo liberatore lo aiutò questa volta a superare l'angoscia. Santa Madre di Dio, che era mai? Era avvenuto qualcosa? L'avevano ammazzato? Aveva egli ucciso? Che cosa era stato detto di terribile? Respirava a stento, come un avvelenato: aveva una sensazione quasi straziante di dover liberarsi da qualcosa di micidiale, che stava in fondo al suo essere. Coi movimenti di uno che nuoti, si lanciò fuori della stanza, fuggì incosciente negli angoli più tranquilli e più deserti del convento, per corridoi e scale, finché uscì fuori all'aperto. Era giunto nel rifugio più interno del monastero, nel chiostro; sopra le poche aiuole verdi splendeva luminoso il cielo, un profumo di rose attraversava in dolci e lente ondate l'aria umida e fresca emanante dalla pietra. Narciso, senza immaginarlo, aveva fatto in quell'ora ciò che da tempo era la meta dei suoi desideri: aveva chiamato per nome il demone che possedeva il suo amico, lo aveva colto. Qualcuna delle sue parole aveva toccato nel cuore di Boccadoro il segreto, ch'era si era alzato in un impeto di dolore selvaggio. Narciso s'aggirò per il convento in cerca dell'amico, ma non lo trovò. Boccadoro stava sotto una delle pesanti arcate, che dai corridoi mettevano nel giardinetto del chiostro; dall'alto di ciascuna delle colonne tre teste di pietra, teste di cani - o di lupi, lo fissavano con gli occhi spalancati. La ferita E gli straziava l'anima. senza trovare una via verso la luce verso la ragione. Un'angoscia mortale gli stringeva la gola e lo stomaco. Alzando meccanicamente lo sguardo, vide sopra di sé uno dei capitelli con le tre teste d'animali, e subito ebbe l'impressione che i tre mostri fossero nelle sue viscere, coi loro occhi fissi, e gli abbaiassero dentro. "Ora devo morire," sentì rabbrividendo. E subito dopo, tremante d'angoscia: "Ora perdo la ragione, ora le bestiacce mi mangiano". Con un sussulto cadde ai piedi della colonna; la sofferenza era troppo grande, aveva raggiunto il limite estremo. Lo avvolse un deliquio; il viso infossato sul petto, si perdette nei desiderati meandri del non essere. L'abate Daniele aveva avuto una giornata poco piacevole: due dei monaci anziani erano andati da lui, eccitati, litigando e accusandosi a vicenda, furenti l'un contro l'altro per il ripetersi di vecchie e futili gelosie. Egli li aveva ascoltati, fin troppo a lungo, li aveva ammoniti, ma senza effetto, infine li aveva congedati severamente, imponendo a ciascuno una penitenza abbastanza dura; ma in cuore gli era rimasto il senso che l'opera sua era stata vana. Esausto, s'era ritirato nella cappella della chiesa inferiore, aveva pregato, s'era rialzato senza trovare ristoro. Poi, attratto dalla mite fragranza delle rose, era entrato un momento nel chiostro per aspirarne il profumo. E lì trovò lo scolaro Boccadoro, svenuto sull'impiantito. Lo guardò con tristezza, spaventato dal pallore esangue di quel volto di solito fiorente di giovinezza. Cattiva giornata davvero, ci mancava ancor questo! Tentò di sollevare il ragazzo, ma il peso era troppo grave per le sue forze. E il vecchio se n'andò sospirando, chiamò due frati più giovani, perché lo portassero su, e mandò insieme a loro padre Anselmo, esperto in medicina. Intanto fece cercare Narciso, che fu presto trovato e si presentò. --Sai già? --gli domandò. --Di Boccadoro? Sì, reverendo padre, ho sentito or ora che è ammalato o che gli è capitato un accidente: lo hanno portato su a braccia. --Sì, L'ho trovato io nel chiostro, dove veramente non aveva nulla da cercare. Non gli è capitato nessun accidente, è svenuto. La cosa non mi piace. Mi sembra che tu debba in qualche modo esserne a parte: è il tuo intimo. Perciò ti ho fatto chiamare. Parla. Narciso, dominando come sempre il suo contegno e le sue parole, riferì brevemente il colloquio con Boccadoro e l'impressione violenta, inattesa, che quegli ne aveva ricevuta. L'abate scosse il capo, non senza un certo malcontento. -- Sono curiosi colloqui! -- disse, sforzandosi di rimaner calmo. -- Il discorso che mi hai riferito si potrebbe chiamare una violazione dell'anima altrui; è un discorso direi, da padre spirituale. Ma tu non sei il padre spirituale di Boccadoro. Tu non hai nemmeno cura d'anime, non sei ancora stato ordinato sacerdote. Come mai assumi con uno scolaro il tono del direttore di coscienza e gli parli di cose che riguardano solo quest'ultimo? Le conseguenze, come vedi, sono state cattive. -- Le conseguenze, -- rispose Narciso in tono mite, ma risoluto, -- non le conosciamo ancora, reverendo padre. Io sono rimasto un pò spaventato per l'effetto violento del nostro colloquio ma non dubito che le conseguenze saranno buone per Boccadoro. -- Lo vedremo. Ma ora parliamo del tuo operato. Che cosa ti ha indotto a tenere a Boccadoro simili discorsi? -- Come sapete, egli è mio amico. Ho una speciale simpatia per lui e credo di comprenderlo molto bene. Voi dite che io gli ho parlato come un padre spirituale; no, non ho voluto arrogarmi nessuna autorità di questo genere, ho creduto soltanto di conoscerlo meglio di quanto egli si conosca. L'abate alzò le spalle. --Lo so che questa è la tua specialità. Speriamo che tu non abbia provocato nulla di male... E malato, Boccadoro? Voglio dire, ha qualche disturbo? E cagionevole? Dorme male? Non mangia? Ha qualche sofferenza? --No, fino ad oggi era sano. Sano di corpo --E nel resto? --Nell'anima è malato, non c'è dubbio. Sapete ch'egli è nell'età in cui cominciano le lotte con l'istinto sessuale. --Lo so. Ha diciassette anni? --Ne ha diciotto. --Diciotto. Già. Abbastanza tardi. Ma queste lotte sono cosa naturale, attraverso cui passano tutti. Non si può chiamarlo per questo malato nell'anima. --No, reverendo padre, per questo solo no. Ma Boccadoro era già malato prima, già da tempo, perciò queste lotte sono per lui più pericolose che per altri. Egli soffre, credo, perché ha dimenticato una parte del suo passato. --Ah? E quale parte? --Sua madre e tutto quello che si riferisce a lei. Non ne so nulla neppur io; so soltanto che là dev'essere l'origine della sua malattia. Boccadoro probabilmente non sa altro di sua madre, se non che l'ha perduta presto. Ma si ha l'impressione che si vergogni di lei. Eppure da lei deve aver ereditato la maggior parte delle sue doti, poiché quello che dice di suo padre non ce lo fa apparir tale da avere un figlio così bello, così ben dotato e originale. Tutto questo non mi è stato riferito, lo arguisco da indizi. L'abate, il quale da principio aveva sorriso fra sé di quei discorsi, che gli parevano saccenti e presuntuosi, e a cui tutta la faccenda riusciva molesta e penosa, cominciò a riflettere. Ripensò al padre di Boccadoro, a quell'uomo un pò affettato, che non ispirava troppa fiducia, e, forzando la memoria, ricordò anche a un tratto come egli avesse parlato a proposito della moglie. Aveva detto ch'era stato da lei disonorato, che gli era scappata, e ch'egli si era sforzato di soffocare nel figlioletto il ricordo materno e i vizi che dalla madre poteva aver ereditati. Vi era riuscito: e il ragazzo si dichiarava disposto, per espiare i falli della mamma, a offrire la sua vita a Dio. Narciso non era mai piaciuto così poco all'abate come in quel momento. E tuttavia... come aveva indovinato bene, quel ruminatore di pensieri, come sembrava conoscer bene davvero Boccadoro! Infine, interrogato ancora su ciò ch'era avvenuto quel giorno, Narciso disse: -- Non era nelle mie intenzioni provocare la scossa violenta, che oggi ha sopraffatto Boccadoro. Io gli ho osservato ch'egli non conosce se stesso, che ha dimenticato la sua infanzia e sua madre. Qualcuna delle mie parole deve averlo colpito, dev'essere penetrata nella tenebra, contro la quale lotto già da tanto tempo. Era come esanimato, mi guardava, quasi non conoscesse più né me né se stesso. Io gli dissi tante volte che dormiva, che non era desto del tutto. Ora è stato svegliato, non ne dubito. Narciso fu congedato, senza ammonizione, ma col divieto, per il momento, di visitare il malato. Intanto padre Anselmo aveva fatto coricare lo svenuto su di un letto e s'era seduto al suo capezzale. Non gli parve consigliabile richiamarlo bruscamente alla coscienza con mezzi violenti. L'aspetto del ragazzo non prometteva nulla di buono. Il vecchio dal volto rugoso e bonario lo guardava benevolmente. Per il momento si limitò a sentirgli il polso e ad ascoltare il cuore. Certo, pensò, il ragazzo aveva mangiato qualche porcheria, del sale d'acetosella o qualche altra sciocchezza; eran cose che capitavano. La lingua non si poteva vedere. Egli voleva bene a Boccadoro, ma non poteva soffrire il suo amico, quel maestro troppo giovane e precoce. Ecco ora i frutti di una simile amicizia: certo Narciso aveva la sua parte di colpa in questa corbelleria. Che bisogno aveva un ragazzo così sano, dagli occhi chiari, un così caro e schietto figlio della natura, di mettersi insieme con quell'erudito orgoglioso, con quel grammatico, per cui il suo greco era più importante di tutto ciò ch'è vivo al mondo? Quando dopo parecchio tempo la porta s'aprì ed entrò L'abate, il padre era ancora seduto, con lo sguardo fisso sul volto del ragazzo privo di sensi. Che volto simpatico, giovane, ingenuo! E dovergli ora star accanto per soccorrerlo, e forse non potere! Certo la causa poteva essere una colica: avrebbe prescritto del vino caldo, forse del rabarbaro. Ma più guardava quel viso verdastro e contratto, più i suoi sospetti prendevano un'altra piega, più preoccupante Padre Anselmo aveva esperienza. Più d'una volta nel corso della sua lunga vita gli era capitato di vedere degli ossessi. Esitava a formulare il sospetto perfino in cuor suo. Avrebbe atteso, sorvegliato. Ma, pensava con irritazione se quel povero ragazzo era stato davvero stregato, non dovevano cercar lontano il colpevole: e questi l'avrebbe vista brutta ! L'abate s'avvicinò, guardò il malato, gli sollevò piano una palpebra. --Si può destarlo? -- domandò. --Vorrei aspettare ancora. Il cuore è sano. Non bisogna lasciargli avvicinare nessuno. --C'è pericolo? --Non credo. Nessuna ferita, nessuna traccia di colpi o di caduta. E svenuto: forse è stata una colica. I dolori molto forti fanno perdere i sensi. Se fosse un avvelena-mento, verrebbe la febbre. No, si risveglierà e rimarrà in vita. --Non potrebbe derivare da una scossa morale? --Non dico di no. Si sa qualcosa? Ha avuto forse un forte spavento? Un annuncio di morte? Una disputa violenta, un'offesa? Allora tutto sarebbe spiegato. --Non sappiamo. Badate che nessuno lo avvicini. Vi prego di rimanere finché è desto. Se peggiorasse, chiama-temi, foss'anche di notte. Prima di uscire il vegliardo si chinò ancora una volta sul malato; pensò a suo padre, pensò al giorno in cui gli avevano condotto quel bel ragazzo biondo e sereno, che tutti avevano subito preso a benvolere. Anche a lui aveva fatto un'ottima impressione. Ma Narciso aveva ragione: quel figliolo non assomigliava proprio in nulla a suo padre! Ah, quante preoccupazioni dappertutto! Com'è insufficiente tutta la nostra opera! Non aveva forse egli stesso trascurato in qualche modo quel povero ragazzo? Gli aveva dato il confessore adatto? Era giusto che nessuno in convento conoscesse bene quello scolaro quanto Narciso? E poteva giovargli questo amico, che faceva ancora il noviziato, che non era ancor frate né aveva ricevuto gli ordini e le cui idee ostentavano tutte una superiorità così sgradevole, quasi ostile? Dio sa se anche Narciso non aveva avuto da tempo un trattamento sbagliato? Dio sa se dietro la maschera dell'obbedienza egli non celava del male, se non era forse un pagano? E di quel che i due giovani sarebbero diventati un giorno, era responsabile anche lui. Quando Boccadoro rinvenne, era buio. Sentiva la testa vuota e aveva le vertigini. Sentiva di essere in un letto, ma non sapeva dove e non stette neppure a pensarci: gli era indifferente. Ma dov'era stato? Di dove veniva? Da qual mondo strano di esperienze? Era stato altrove, molto lontano, aveva visto qualcosa, qualcosa di straordinario di splendido, di terribile e d'indimenticabile... e tuttavia aveva dimenticato. Ma dove? Che cos'era spuntato là davanti a lui, così grande, così doloroso, così delizioso, e poi di nuovo scomparso? Tese l'orecchio verso il fondo della sua anima, là dove qualcosa si era sprigionato in quel giorno, dove qualcosa era avvenuto... che cosa? Un confuso groviglio d'immagini gli turbinò davanti, vide delle teste di cani, tre teste di cani, ed aspirò il profumo delle rose. Oh, com'era stato male! Chiuse gli occhi. Si riaddormentò. Si svegliò di nuovo e, mentre il mondo dei sogni si dileguava rapidamente, vide, ritrovò l'immagine e trasalì come per una voluttà dolorosa. Vide: era diventato veggente. Vide Lei. Vide la grande, radiosa figura dalla bocca fiorente, dai fulgidi capelli. Vide sua madre. Al tempo stesso credette di udire una voce: " Hai dimenticato la tua infanzia ". Di chi era quella voce? Tese l'orecchio, pensò, trovò, Era Narciso. Narciso? E in un attimo, con un colpo brusco, tutto ritornò presente: ricordò, seppe. Oh! mamma, mamma! Montagne di macerie, mari d'oblio erano rimossi, scomparsi; con superbi occhi azzurri e luminosi la Perduta lo guardò di nuovo, L'ineffabilmente Amata. Padre Anselmo, che s'era assopito nella poltrona accanto al letto, si destò. Udì il malato muoversi, respirare. S'alzò cauto. --Chi c'è? -- domandò Boccadoro. -- Sono io, non aver paura. Faccio luce. Accese la piccola lampada sospesa e il chiarore si diffuse sopra il suo volto rugoso e benevolo. --Sono malato? -- domandò il giovane. -- Sei svenuto, figliolo mio. Dammi la mano, sentiamo il polso. Come ti senti? --Bene. Grazie, padre Anselmo. Siete molto buono. Non mi sento più nulla, sono solo stanco. --Certo sarai stanco. Presto ti riaddormenterai; prima bevi un sorso di vino caldo, è qui pronto. Vuotiamo insieme un bicchiere, ragazzo mio. Alla nostra buona amicizia! Aveva avuto cura di tener pronto, entro un recipiente d'acqua calda, un boccaletto di vino bollito con aromi. --Abbiamo dormito un bel pezzetto tutti e due! -disse ridendo il medico. --Un bravo infermiere, penserai, che non sa tenersi desto! Via, siamo uomini. Ora, piccino, beviamo un pò di questo filtro magico; nulla di più delizioso che una piccola bevuta di nascosto nella notte. Dunque, salute! Boccadoro rise. toccò il bicchiere e assaggiò. Il vino caldo era drogato con cannella e garofano e addolcito con lo zucchero; egli non ne aveva mai bevuto. Gli venne in mente che già una volta era stato malato e allora s'era occupato di lui Narciso; questa volta era padre Anselmo a prestargli le sue cure. La cosa gli piacque molto, era gradevolissimo e curioso essere lì in letto, alla luce di quella lampadina, e bere col vecchio padre un bicchiere di dolce vino caldo nel cuor della notte. --Hai dolor di ventre? -- domandò il vecchio. --No. --Tò, pensavo che dovessi avere una colica, Boccadoro. Allora non è questo. Mostra la lingua. E bella: una volta di più il vostro vecchio Anselmo non ha capito nulla. Domani resti a letto tranquillo, poi vengo io e ti visito. E il tuo vino l'hai già finito? Così, ti faccia buon pro! Lasciami vedere se ce n'è ancora. Per un mezzo bicchiere ciascuno basta, se ce lo dividiamo con equità... Ci hai procurato un bello spavento, Boccadoro! Disteso là nel chiostro come un cadaverino! Davvero non hai mal di ventre? Risero e si divisero onestamente il resto del vino aromatico; padre Anselmo disse le sue barzellette, mentre Boccadoro lo guardava riconoscente e divertito, con gli occhi ritornati chiari. Poi il vecchio andò a coricarsi. Boccadoro rimase sveglio ancora un poco; pian piano le immagini risalirono dal fondo della sua anima, rifiammeggiarono le parole dell'amico, riapparve la donna bionda e radiosa, la madre; e la visione lo percorse tutto come un vento caldo, come una nube di vita, di ardore, di tenerezza e di monito profondo. O mamma ! Come, come aveva potuto dimenticarla? INDEX CAPITOLO V Fino allora Boccadoro aveva saputo qualcosa di sua madre, ma solo dai racconti altrui; L'immagine di lei gli era sfuggita e del poco che credeva di saperne aveva taciuto a Narciso la massima parte. La mamma era cosa di cui non si doveva parlare, di cui ci si vergognava. Era stata una ballerina, una bella e selvaggia creatura, d'origine distinta, ma pagana e non buona; il padre di Boccadoro l'aveva raccolta, così raccontava, dalla miseria e dalla vergogna, nel dubbio che fosse pagana, L'aveva fatta battezzare e istruire nella religione; L'aveva sposata e ridotta una donna per bene. Sennonché dopo alcuni anni di mansuetudine e di vita regolare si era risvegliato in lei il ricordo delle sue antiche arti ed abitudini ed ella aveva cominciato a dar scandalo, a sedurre uomini, a rimaner fuori di casa giornate e settimane intere; aveva acquistato fama di strega e infine, dopo essere stata più volte raggiunta e riportata a casa dal marito, era scomparsa per sempre. La sua fama rimase viva ancora per qualche tempo, fama cattiva, guizzante come la coda di una cometa, poi si spense. Suo marito si rimise lentamente da quegli anni d'inquietudine, di spavento, di vergogna, di continue sorprese, e invece della moglie mal riuscita, prese a educare il figlioletto, somigliantissimo alla madre nella figura e nel volto; rimase profondamente contristato, diventò bi-gotto e coltivò in Boccadoro la convinzione ch'egli dovesse offrire la sua vita a Dio per espiare le colpe materne. Questo era press'a poco ciò che il padre soleva raccontare della moglie scomparsa, benché non amasse parlarne; e qualche allusione in proposito aveva fatto anche all'abate nell'affidargli il figlio. Tutto ciò era noto anche a Boccadoro come un'orribile leggenda ma egli aveva imparato ad allontanarla da sé, quasi a dimenticarla. Aveva poi dimenticato e perduto del tutto l'immagine vera della madre, quella che non nasceva dai racconti del padre e del servi o dalle voci oscure e cattive intorno a lei, ma che costituiva il suo ricordo personale: la madre, quale era stata realmente per lui nella vita. Ed ecco ora risorgere quell'immagine, L'astro dei suoi primi anni. --E incomprensibile come avessi potuto dimenticarla, --disse un giorno all'amico.--Io non ho mai amato nessuno in vita mia come mia madre, così incondizionata-mente, così ardentemente, non ho mai venerato e ammirato nessuno come lei; rappresentava per me il sole e la luna. Dio sa come fu possibile offuscare nella mia anima quell'immagine radiosa e trasformarla a poco a poco in quella strega cattiva, pallida, diafana, ch'ella era per mio padre e fu durante tanti anni per me. Narciso aveva finito da poco il suo noviziato e aveva preso l'abito. Il suo contegno verso Boccadoro s'era singolarmente mutato. Boccadoro, che prima aveva spesso respinto i cenni e i moniti dell'amico come una molesta pretesa di saperne di più e di volerlo migliorare dopo il grande avvenimento era pieno di stupita ammirazione per la sua sapienza. Quante parole di lui s'erano avverate co-me profezie! Come gli aveva visto in fondo all'animo quello scrutatore inquietante, come aveva indovinato il segreto della sua vita, la sua ferita nascosta! Con quanta intelligenza lo aveva guarito! Il giovane sembrava guarito davvero. Non solo quello Svenimento non aveva avuto cattive conseguenze, ma si era come dileguato anche quel certo che di non schietto, dl non serio, di saccente, che si notava prima nella personalità di Boccadoro, quel prematuro monachismo, quel credersi obbligato a servir Dio proprio in convento. Il glovane sembrava diventato più giovane e al tempo stesso più maturo, da quando aveva trovato se stesso. Tutto ciò egli doveva a Narciso. Ma Narciso da qualche tempo teneva con l'amico un contegno singolarmente cauto; lo guardava con grande modestia, senza più alcun senso di superiorità, senza più volerlo ammaestrare, mentre l'altro aveva tanta ammirazione per lui. Vedeva Boccadoro nutrito da fonti misteriose, di forze che a lui erano estranee; egli aveva potuto favorire il loro sviluppo, ma non gli era dato di partecipare ad esse. Vedeva con gioia l'amico liberarsi dalla sua guida, e pur talvolta era triste. Sentiva di essere un gradino superato, una scorza che si butta via; vedeva avvicinarsi la fine di quell'amicizia, ch'era stata tanto per lui. Sapeva sempre sul conto di Boccadoro più di quel che ne sapesse Boccadoro stesso; poiché se questi aveva ritrovato la sua anima ed era pronto a seguirne l'appello, non presentiva ancora dove essa l'avrebbe condotto; Narciso lo presentiva ed era impotente; la via del suo beniamino conduceva in paesi, su cui egli non avrebbe mai posto il piede. La passione di Boccadoro per le scienze era molto di-minuita. Anche la sua smania di disputa nei colloqui con l'amico era passata; si vergognava ripensando a certe loro conversazioni d'un tempo. Intanto in Narciso sia col compimento del noviziato, sia in seguito alle vicende con Boccadoro, s'era destato un bisogno di vita ritirata, di ascesi, di esercizi spirituali, una tendenza ai digiuni e alle lunghe orazioni, alle confessioni frequenti, alle penitenze volontarie; e Boccadoro poteva capire questa tendenza, poteva quasi dividerla. Dopo la guarigione il suo istinto s'era molto affinato; pur non sapendo ancor nulla delle sue mete future, sentiva con una chiarezza sicura, spesso inquietante, che il suo destino si stava preparando, che un certo periodo d'innocenza e di tranquillità ben protetta era ormai passato per lui e che tutto in lui era teso e pronto Spesso il presentimento era delizioso, lo teneva sveglio metà della notte, come un dolce innamoramento; spesso anche era cupo e profondamente angoscioso. La madre era ritornata a lui, colei ch'era da tanto tempo perduta, ed era una grande felicità. Ma dove lo conduceva il suo richiamo allettatore? Nell'incerto, in una rete di seduzioni, nell'angustia, forse nella morte. Indubbiamente non lo conduceva nella sicurezza placida e silente di una cella monastica, nella comunità di un chiostro per tutta la vita; il suo appello non aveva nulla di comune con quei comandamenti paterni, che per tanto tempo egli aveva scambiato per suoi propri desideri. Questo sentimento, spesso forte, angoscioso e scottante come una violenta sensazione fisica, alimentava la religiosità di Boccadoro. Ed egli sfogava la piena della sua passione, ch'era tutta un anelito verso sua madre, in lunghe preghiere alla santa Madre di Dio. Spesso però le orazioni si perdevano di nuovo in sogni, sogni splendidi e strani, di giorno, in una specie di dormiveglia, sogni di lei, a cui tutti i suoi sensi partecipavano. E lo avvolgeva allora il profumo di quel mondo materno che guardava misterioso con occhi d'enigma e d'amore, che mormorava profondo come il mare e come il paradiso, che vezzeggiando balbettava suoni senza senso, o meglio traboccanti di senso e lusinganti come carezze, che aveva sapor di zucchero e di sale, che sfiorava con serica chioma le labbra e gli occhi anelanti. E non solo tutti gli incanti erano nella madre, non solo il dolce sguardo azzurro dell'amore, il sorriso soave promettente felicità, la carezza del conforto; in lei, sotto veli di grazia erano anche ogni orrore e ogni tenebra, ogni brama, ogni colpa, ogni miseria, ogni nascita e ogni legge. Il giovane sprofondava in questi sogni, in queste trame a mille fili dei suoi sensi animati. Non solo risorgeva in essi con tutto il suo fascino il passato diletto: infanzia e amor materno, radioso e aureo mattino di vita, ma s'ergeva anche minaccioso e promettente, allettante e pericoloso, L'avvenire. A volte quei sogni, in cui la madre, la Madonna e l'amante eran tutt'uno, gli apparivano poi co-me orrendi delitti e sacrilegi, come peccati mortali ine-spiabili; altre volte trovava in essi ogni redenzione, ogni armonia. La vita lo fissava piena di mistero, mondo tenebroso e imperscrutabile, selva aspra e spinosa, irta di fantastici pericoli... ma eran misteri della madre, venivano da lei, conducevano a lei, erano il piccolo cerchio scuro, piccolo abisso minaccioso entro il suo occhio fulgido. Molta infanzia obliata riaffiorava in questi sogni materni; da profondità infinite e perdute sbocciavano i fiorellini del ricordo, splendevan lucenti, olezzavan presaghi: ricordi di sentimenti, forse di esperienze, forse di sogni dell’età infantile. Talvolta si sognava di pesci, che nuotavano verso di lui neri e argentei, freddi e lucidi, gli entravano nel corpo, lo attraversavano e venivano da un mondo più bello, messaggeri di liete novelle di felicità poi scomparivano come guizzanti fantasmi, non c'eran più e invece di un messaggio avevano portato nuovi misteri. Spesso sognava pesci che nuotavano e uccelli che volavano, ed ogni pesce od uccello era una sua creatura, dipendeva da lui, docile, come il suo respiro, raggiava da lui come uno sguardo, come un pensiero, e ritornava a lui. Spesso sognava un giardino, un giardino incantato, con alberi favolosi, fiori giganteschi, grotte azzurre cupe e profonde; fra l'erbe occhieggiavano pupille scintillanti d'animali sconosciuti, sui rami strisciavano viscidi e nervosi serpenti; dai tralci e dai cespugli pendevano bacche enormi, umide e brillanti, che a coglierle gli si gonfiavano nella mano e spandevano un succo caldo come sangue, oppure avevano occhi e li movevano con astuto languore; s'appoggiava ad un albero tastando, afferrava un ramo e vedeva, sentiva fra il ramo e il tronco un incresparsi aggrovigliato e folto di peli, come quelli che s'annidano nella cavità d'una ascella. Una volta sognò di se stesso, o del santo di cui portava il nome, sognò di Crisostomo dalla bocca d'oro; e dalla bocca d'oro uscivan parole e le parole erano uccellini sciamanti, che volavano via a stormi agitando l'ali. Una volta sognò d'essere adulto, ma seduto per terra come un bimbo: aveva dinanzi dell'argilla e come un bimbo la impastava foggiando figure: un cavallino, un toro, un ometto, una donnina. Il gioco lo divertiva, e a quegli animali e a quegli uomini faceva delle parti geni-tali ridicolmente grandi: in sogno gli pareva una cosa molto spiritosa. Poi si stancò e camminò oltre; ma sentì dietro di sé qualcosa che viveva, qualcosa di grande e di silenzioso che s'avvicinava; si voltò e con profondo stupore, con spavento, ma non senza gioia, vide che le sue piccole figure d'argilla eran diventate grandi e vive. Come enormi e muti giganti gli passaron di fianco e continuarono la loro marcia, ingrandendo sempre, giganteschi e silenziosi, e inoltrandosi nel mondo, alti come torri. In questo mondo di sogni Boccadoro viveva più che in quello della realtà. Il mondo reale (aula scolastica, cortile del convento, biblioteca, dormitorio e cappella) non era che una superficie, una sottile membrana tremante sopra il mondo trascendente delle immagini e dei sogni. Un nulla bastava a forare questa membrana sottile: qualcosa di misterioso nel suono di una parola greca in mezzo ad un'arida lezione un'ondata di profumo dalla bisaccia in cui padre Anselmo raccoglieva erbe per i suoi studi botanici, la vista d'un tralcio di pietra che spuntava dal capitello della colonna d'un arco di finestra... bastavano questi piccoli stimoli per forare la membrana della realtà e per scatenare, dietro la placida aridità di questa, il tumulto d'abissi, di fiumane e di vie lattee, che s'agitava in quel mondo immaginario dell'anima. Una iniziale latina diventava il volto olezzante della madre, un tono prolungato nell'Ave diventava la porta del paradiso, una lettera greca si trasformava in un cavallo in corsa, in un serpente che s'inalbera e poi striscia via quieto in mezzo ai fiori: ed ecco già ritornare al suo posto l'arida pagina della grammatica . Boccadoro parlava raramente di questo suo mondo di sogni; solo poche volte ne fece cenno a Narciso. --lo credo, -- gli disse un giorno, -- che un petalo di fiore o un vermiciattolo sul nostro cammino dica e con-tenga molto più di tutti i libri dell'intera biblioteca. Con le lettere e con le parole non si può dir nulla. Talvolta scrivo una lettera greca, un thera o un omega, e girando appena un pochino la penna vedo la lettera che guizza e un pesce, ml ricorda in un attimo tutti i ruscelli e i fiumi del mondo, tutto ciò ch'esiste di fresco è di umido l'oceano di Omero e l'acqua su cui camminava Pietro, oppure la lettera diventa un uccello, mette la coda, rizza le penne, si gonfia, ride, vola via.. Ebbene, Narciso, tu non dai molta importanza a lettere di questo genere, vero? Ma io ti dico: con esse Dio scrisse il mondo. -- Do loro molta importanza, -- disse Narciso con tristezza. -Sono lettere magiche: con esse si possono scongiurare tutti i demoni. Certo, per l'uso delle scienze non vanno. Lo spirito ama ciò che è saldo, formato, vuole poter essere sicuro dei suoi segni, ama ciò che è, non ciò che diviene, il reale e non il possibile. Non tollera che un omega diventi un serpente o un uccello Lo spirito non può vivere nella natura, ma solo di fronte ad essa, come suo contrapposto. Mi credi ora, Boccadoro, che tu non diverrai mai un erudito? Oh sì, Boccadoro lo credeva da un pezzo, era perfettamente d'accordo. --Non ho più affatto il ticchio di aspirare al vostro spirito, - disse quasi ridendo.--Mi avviene con lo spirito e con la dottrina presso a poco come m'è avvenuto con mio padre: credevo di amarlo molto, di essere simile a lui, giuravo su quello che diceva. Ma non appena mia madre fu di nuovo presente alla mia anima, tornai a sapere ciò che è davvero l'amore, e di fronte all'immagine di lei quella di mio padre divenne a un tratto piccina, triste, quasi ingrata. Ed ora io tendo a considerare paterno, contrario e ostile alla madre, tutto ciò che è spirituale, e lo disprezzo un poco. Parlava scherzando, ma non riuscì a rasserenare il volto triste dell'amico. Narciso lo guardava in silenzio, il suo sguardo era come una carezza. Poi disse: -- Ti capisco bene. Ora non abbiamo più bisogno di disputare; tu ti sei svegliato e ora hai anche riconosciuto la differenza fra te e me, la differenza fra origini materne e paterne, fra anima e spirito. E presto riconoscerai anche che la tua vita in convento, che la tua aspirazione a una vita monastica era un errore, una trovata di tuo padre, il quale voleva con ciò purificare la memoria di tua madre o anche solo vendicarsi di lei. O credi ancora che la tua vocazione sia di rimanere tutta la vita in un chiostro? Boccadoro osservava pensieroso le mani del suo amico, quelle mani aristocratiche, rigide e pur delicate, magre e bianche. Nessuno poteva mettere in dubbio che fossero mani d'asceta e di scienziato. --Non so, -- disse con quella voce cantante, un pò lenta, che gli era venuta da qualche tempo e che indugiava a lungo su ogni suono.--Non so davvero. Tu giudichi un pò severamente mio padre. Egli non ha avuto la vita facile. Ma forse hai ragione anche in questo. Sono qui da più di tre anni e non è ancora venuto a trovarmi. Spera che io rimanga qui per sempre. Forse sarebbe il meglio, L'ho sempre desiderato anch'io. Ma oggi non so più che cosa veramente voglia e desideri. Prima tutto era semplice, semplice come le lettere dell'alfabeto nel libro di lettura. Ora nulla più è semplice, neppur le lettere. Tutto ha acquistato più significati e più volti. Non so che sarà di me, non posso pensare ora a queste cose. --E non devi nemmeno, -- soggiunse Narciso. -- Si vedrà bene dove conduce la tua strada. Ha cominciato a riportarti verso tua madre e ti avvicinerà ancor più a lei. Quanto poi a tuo padre, non lo giudico troppo severamente. Vorresti ritornare da lui? --No, Narciso, no certo. Altrimenti lo farei appena terminata la scuola, o già ora. Poiché se non devo diventare uno scienziato, di latino, greco e matematica ho già studiato abbastanza. No, non voglio ritornare da mio padre.. . Guardò pensieroso davanti a sé e a un tratto esclamò: -- Ma come fai tu a dirmi sempre delle parole, o a rivolgermi delle domande che m'illuminano e mi rendono chiaro a me stesso? Anche ora è stata la tua domanda, se vorrei ritornare da mio padre, a farmi improvvisamente sentire che non voglio. Come fai? Sembra che tu sappia tutto. Spesso mi hai detto, sul conto tuo e mio, parole che al momento non ho compreso affatto e che poi hanno acquistato tanta importanza per me! Sei stato tu a chiamare materna la mia origine, a scoprire che io ero sotto un incantesimo e avevo dimenticato la mia infanzia! Chi t'ha appreso a conoscere gli uomini così bene? Non posso impararlo anch'io? Narciso scosse il capo sorridendo. --No, caro, tu non puoi. Ci sono uomini che possono Imparare molte cose, ma tu non sei di quelli. Tu non sarai mai uno studioso. E a che scopo del resto? Non ne hai bisogno. Tu hai altre doti. Sei più ricco di me e sei anche più debole; tu avrai una strada più bella e più difficile della mia. Talvolta non volevi capirmi, spesso t'impennavi come un puledro, non fu sempre facile con te, e dovetti anche farti del male. Dovetti destarti, perché dormivi. Anche quando ti ricordai tua madre, questo a tutta prima ti fece male, molto male, e ti trovarono per terra come morto nel chiostro. Era necessario... No, non carezzarmi i capelli! Lascia stare! Non posso sopportarlo. --Dunque io non posso imparare nulla? Rimarrò sempre ignorante, come un bambino? --Ci saranno altri, da cui potrai imparare. Quello che potevi imparare da me, o bambino, è finito. --Oh no!--esclamò Boccadoro.--Non siamo diventati amici per questo! Che amicizia sarebbe, se dopo un breve periodo di tempo avesse raggiunto il suo scopo e potesse cessare senz'altro? Ne hai dunque abbastanza di me? Ti son forse venuto in uggia? Narciso passeggiava concitato in su e in giù, con gli occhi a terra; poi si fermò davanti all'amico. --Lascia andare, -- disse con dolcezza, -- sai bene che non mi sei venuto in uggia. Lo guardò esitante, poi riprese a passeggiare avanti e indietro, s'arrestò un'altra volta e fissò Boccadoro, con lo sguardo fermo nel volto duro e scarno. E con voce sommessa, ma ferma e dura, disse: -- Ascolta, Boccadoro! La nostra amicizia è stata buona; ha avuto uno scopo e l'ha raggiunto, ti ha destato. Io spero che non sia finita; spero che si rinnoverà ancora e sempre e condurrà a nuove mete. Per il momento una meta non c'è. La tua è incerta, io non posso né guidarti né accompagnarti verso di essa. Interroga tua madre, interroga la sua immagine, ascoltala! La mia meta invece non è incerta, è quinel convento, mi chiama a ogni ora. Io posso essere tuo amico, ma non posso essere innamorato. Sono monaco, ho fatto il voto. Prima di essere consacrato mi farò esonerare per molte settimane dall'insegnamento e ml ritirerò a fare esercizi e astinenza. In questo periodo non parlerò di cose del mondo, neanche con te. Boccadoro capì. Disse con tristezza -- Farai dunque quello che avrei fatto anch'io, se fossi entrato nell'ordine per sempre. E quando avrai terminato gli esercizi, quando avrai digiunato e pregato e vegliato abbastanza... quale sarà poi la tua meta? -- Lo sai, -- rispose Narciso. --Va bene. Fra qualche anno sarai primo maestro, forse anche già direttore di scuola. Migliorerai l'istruzione, ingrandirai la biblioteca. Forse scriverai libri anche tu? No? Ebbene, no. Ma dove sarà la meta? Narciso sorrise appena. -- La meta? Forse morirò direttore di scuola, o abate, o vescovo. E indifferente. La meta è questa: mettermi sempre là dove io possa servir meglio, dove la mia indole, la mia qualità, le mie doti trovino il terreno migliore, il più largo campo d'azione. Non c'è altra meta. Boccadoro: -- Non c'è altra meta per un monaco? Narciso: -- Oh sì, ce ne sono Per un monaco può essere scopo della vita studiar l'ebraico, commentare Aristotele, o decorare la chiesa del convento, o ritirarsi a meditare, o cento altre cose. Per me queste non sono me-te. Io non voglio né accrescere la ricchezza del convento, né riformare l'Ordine o la Chiesa. Io voglio nei limiti delle mie possibilità servire lo spirito, così come lo intendo lo, null'altro. Non è una meta? Boccadoro meditò a lungo la risposta. --Hai ragione, -- disse. -- Ti sono stato molto di ostacolo nel cammino che ti conduce alla meta ? -- D'ostacolo? O Boccadoro, nessuno mi ha aiutato più di te Mi hai presentato delle difficoltà, ma io non sono nemico delle difficoltà. Ho imparato da esse, in parte le ho superate. Boccadoro lo interruppe, quasi scherzando: -- Le hai superate in un modo curioso! Ma dimmi un pò: quando mi hai aiutato, guidato, liberato, quando hai risanato la mia anima... hai servito davvero lo spirito? Forse hai sottratto al convento un novizio zelante e volonteroso, e hai creato allo spirito un avversario, uno che farà e crederà e Si sforzerà di raggiungere proprio il contrario di quello che tu giudichi buono! --Perché no? -- disse Narciso con serietà profonda. --Amico mio, mi conosci ancora così poco! Ho distrutto forse in te un futuro monaco e in compenso ti ho aperto una via per un destino non comune. Se anche domani tu dessi fuoco a tutto il nostro convento o proclamassi nel mondo qualche pazza dottrina eterodossa, io non mi pentirei neppure un momento di averti aiutato a trovare quella via. Posò affettuosamente le mani sulle spalle dell'amico. --Vedi, piccolo Boccadoro, la mia meta comprende anche questo: divenga io maestro o abate, confessore o altro, non vorrei mai trovarmi nella condizione d'incontrare un uomo forte, valente e singolare, e di non comprenderlo dl non saperlo aiutare a schiudersi, a prosperare. E ti dico ancora: qualunque cosa avvenga di te e di me, comunque si svolga la nostra vita, non accadrà mai che, nel momento in cui mi chiami seriamente e senta d'aver bisogno di me, ml trovi sordo al tuo appello. Mai! Suonavano come parole d'addio ed era infatti quasi una pregustazione del congedo. Boccadoro, osservando l'amico che gli stava dinnanzi, il volto risoluto, L'occhio fisso a una meta, ebbe la sensazione precisa che ormai non eran più f ratelli, camera pari: che le loro vie si erano già separate. Quel giovane che gli stava dinanzi non era un sognatore in attesa di un appello del destino; era un monaco, si era impegnato, apparteneva a un ordinamento e a un dovere preciso, era un servo e un soldato dell'Ordine, della Chiesa, dello Spirito. Egli invece - la cosa gli era diventata ormai chiara - non apparteneva a quel mondo, egli era senza patria, lo attendeva un mondo sconosciuto. Così era capitato un giorno anche a sua madre. Aveva abbandonato la casa e il focolare, il marito e il figlio, la comunità e l'ordine, il dovere e l'onore, e s'era lanciata alla ventura; forse da un pezzo era naufragata. Ella non aveva avuto una meta, come non ne aveva lui. Le mete eran riservate ad altri, a lui no. Oh, come Narciso aveva visto bene tutto questo già da tanto tempo, come aveva avuto ragione! Poco dopo quel giorno Narciso era come scomparso, sembrava divenuto a un tratto invisibile. Un altro maestro impartiva le sue lezioni, il suo leggio in biblioteca rimaneva vuoto. C'era ancora, non era invisibile-del tutto, a volte si poteva scorgerlo attraversare il chiostro, a volte si poteva udirlo mormorar preghiere in una delle cappelle, inginocchiato sul pavimento di pietra; si sapeva che aveva iniziato i grandi esercizi, che digiunava e nella notte s'alzava tre volte a pregare. C'era ancora, eppure era passato in un altro mondo; si poteva vederlo, di ra-do, ma non raggiungerlo, non aver nulla di comune con lui, non parlargli. Boccadoro sapeva: Narciso sarebbe ricomparso, avrebbe ripreso il suo posto di lavoro, il suo seggio in refettorio, avrebbe ricominciato a parlare... ma del passato non sarebbe ritornato nulla, Narciso non gli avrebbe appartenuto più. Meditando questi pensieri, si rendeva conto anche di un'altra cosa: che solo in virtù di Narciso egli aveva apprezzato e amato il convento e la vita monastica, la grammatica e la logica, lo studio e lo spirito. Lo aveva allettato il suo esempio: diventare come Narciso era stato il suo ideale. C'era, è vero, anche l'abate, anche lui egli aveva venerato, amato, anche in lui aveva visto un esempio sublime. Ma gli altri, i maestri, i compagni, il dormitorio, il refettorio, la scuola, gli esercizi, i servizi divini, tutto il convento... senza Narciso non gll importava più nulla. Che faceva ancora lì? Aspettava: rimaneva sotto il tetto del convento come un viandante indeciso si ferma, quando piove, sotto un tetto od un albero, solo per aspettare, solo come ospite, solo per timore dell'inospitalità di una terra straniera. La vita di Boccadoro in quel periodo non era più che un indugiare e un prender congedo. Visitava tutti i luoghi che gli erano diventati cari o che avevano un significato per lui. S'accorgeva con singolare sorpresa come pochi fossero gli uomini e i volti dai quali gli riuscisse penoso staccarsi C'era Narciso, c'era il vecchio abate Daniele, ed anche il caro e buon padre Anselmo, e forse anche il gioviale portiere e l'allegro vicino, il mugnaio... ma anche questi erano già diventati quasi irreali. Più penoso gli sarebbe stato prender congedo dalla grande Madonna di pietra nella cappella, dagli apostoli del portale. Si fermava a lungo davanti a loro, ed anche davanti ai begli intagli del coro, al pozzo nel chiostro, alla colonna con le tre teste d'animali; s'appoggiava ai tigli del cortile, al grande castagno. Tutto questo un giorno sarebbe stato per lui un ricordo, un piccolo libro illustrato nel cuore. Già allora, mentre ci viveva ancora in mezzo, cominciava a sfuggirgli, perdeva di realtà, diventava fantasma, si trasformava in passato. Con padre Anselmo, che se lo teneva volentieri al fianco, andava in cerca d'erbe, presso il mugnaio del convento osservava il lavoro dei garzoni e si lasciava talvolta invitar a bere un bicchier di vino e a mangiar pesci fritti; ma tutto era già estraneo e quasi un ricordo. Così come il suo amico Narciso s'aggirava bensì nel crepuscolo della chiesa e viveva nella cella della penitenza, ma per lui era diventato un'ombra, tutto quello che gli stava intorno non aveva più realtà, sapeva d'autunno e di passato. Di vivo e di reale non c'era più nulla fuorché la sua vita interiore, il battito ansioso del cuore, il doloroso pun-golo della nostalgia, le delizie e le angosce dei suoi sogni. A loro apparteneva, a loro s'abbandonava. In piena lettura o in pieno studio, in mezzo ai suoi compagni di scuola, egli poteva immergersi in se stesso e dimenticar tutto abbandonandosi alle correnti e alle voci della sua anima che lo trasportavano lontano, in pozzi profondi pieni di cupe melodie, in abissi variopinti pieni di favolose avventure, dove i suoni risonavano tutti come la voce della madre, dove i mille occhi eran tutti gli occhi della madre. INDEX CAPITOLO VI Un giorno padre Anselmo chiamò Boccadoro nella sua farmacia, il grazioso sempliciario deliziosamente profuma-to. Boccadoro era pratico del luogo. Il padre gli mostrò una pianta seccata, ben custodita fra due fogli di carta e gli domandò se la conoscesse e se sapesse descrivere esattamente come si presentava fuori nei campi. Sì, Boccadoro sapeva: si chiamava erba di san Giovanni. Dovette descriverne minutamente tutte le caratteristiche. Il vecchio monaco fu soddisfatto e diede al giovane l'incarico di raccogliere nel pomeriggio un bel fascio di quell'erba, indicandogli i luoghi dove cresceva di preferenza. --In compenso guadagni un pomeriggio di vacanza, mio caro; credo che non avrai nulla in contrario e che non ci perderai nulla. Anche la conoscenza della natura è una scienza, non soltanto la vostra insulsa grammatica. Boccadoro fu molto riconoscente per il graditissimo incarico di erborizzare un paio d'ore, invece di starsene seduto sui banchi della scuola. Perché la gioia fosse completa, ottenne dal frate stalliere il cavallo Bless, e subito dopo la mensa andò a prendere nella stalla l'animale, che lo salutò festosamente, montò in sella e partì al trotto, felice, nella giornata calda e luminosa. Cavalcò un'oretta o più senza meta, godendo l'aria e il profumo dei campi, e sopra tutto la gioia del cavalcare, poi si ricordò del suo compito e cercò uno dei posti che padre Anselmo gli aveva descritti. Ivi sotto un acero ombroso legò il cavallo, chiacchierò con lui, gli diede del pane, poi si mise alla ricerca delle piante. Alcuni tratti di campo eran tenuti in maggese, coperti di erbacce d'ogni genere; piccole piante stente di papavero, con gli ultimi fiori pallidi e già molte capsule di semi mature, spuntavano in mezzo a rami secchi di vecce, a cicoria azzurra e rigogliosa e a poligono scolorito; qualche mucchio di ciottoli ammonticchiato fra un campo e l'altro era abitato da lucertole, ed ecco i primi arbusti gialli e fioriti dell'erba di san Giovanni. Boccadoro cominciò a coglierli. Quando n'ebbe in mano un bel fascio, sedette sulle pietre a riposare. Faceva caldo ed egli volgeva lo sguardo con desiderio all'oscurità ombrosa di un bosco lontano, ma non voleva scostarsi troppo dalle sue piante e dal cavallo, che, di lì dov'era, poteva scorgere ancora. Rimase seduto sui ciottoli caldi, si tenne quieto quieto per veder ricomparire le lucertole fuggite, annusò l'erba di san Giovanni e guardò contro luce le foglioline per osservarne i cento minuscoli trafori. Curioso! pensò; in ciascuna delle mille piccole foglioline è trapunto questo minuscolo firmamento, fine come un ricamo! Curioso e incomprensibile tutto, le lucertole, le piante, anche le pietre, tutto! Padre Anselmo, che aveva per lui tanta simpatia, non poteva andare ormai più a cogliersi l'erba di san Giovanni; aveva le gambe malate, e certi giorni non poteva muoversi: la sua arte medica non era in grado di guarirlo. Forse sarebbe morto presto e le erbe avrebbero continuato a profumare, ma il vecchio padre non ci sarebbe stato più. Forse invece sarebbe vissuto ancora a lungo, dieci, vent'anni, e avrebbe avuto sempre i suoi capelli bianchi e radi e quel curiosi fasci di rughe intorno agli occhi, ma di lui, Boccadoro, che sarebbe stato fra venti anni? Ah come tutto era incomprensibile e triste in fondo, anche se era bello! Non si sapeva nulla. Si viveva, si vagava sulla terra, si cavalcava per i boschi, e tante cose guardavano così provocanti e promettenti e ispiratrici di desiderio: una stella serotina, una campanula azzurra, un lago verde di canne, L'occhio di un uomo o di una mucca, e a volte era come se qualcosa di non mai veduto e pur da tanto tempo agognato dovesse avvenire a un tratto e un velo cadere; ma poi tutto passava e non avveniva nulla e l'enigma non era risolto e il segreto incanto non era rotto e infine si diventava vecchi e si appariva scaltriti come padre Anselmo o saggi come l'abate Daniele e forse non si sapeva ancora nulla e si aspettava sempre, con l'orecchio teso. Raccolse un guscio di chiocciola vuoto, che tinnì lievemente fra i ciottoli, tutto caldo dal sole. Boccadoro contemplò assorto le curve della conchiglia, la spirale intaccata, il capriccioso assottigliamento della coroncina, la cavità vuota coi suoi riflessi madreperlacei. Chiuse gli occhi per sentire le forme solo col tocco delle dita; era una sua vecchia abitudine, un suo gioco favorito. Girando la chiocciola fra le dita sciolte, la tastava, carezzandone le forme, senza premere, incantato dalla meraviglia della struttura, dalla magia del corporeo. Questa, pensava come in sogno, era una delle deficienze della scuola e della dottrina: una tendenza dello spirito pareva quella di vedere e rappresentare tutto come se fosse piano e avesse solo due dimensioni. Gli sembrava che ciò designasse in certo modo una insufficienza e una mancanza di valore di tutta la facoltà intellettuale, ma non seppe fissare più oltre il pensiero: la chiocciola gli sfuggì dalle dita, ed egli si sentì stanco e assonnato. Con la testa piegata sulle sue erbe, che appassendo cominciavano a diffondere un profumo sempre più intenso, s'addormentò al sole. Sulle sue scarpe correvano le lucertole, sulle sue ginocchia avvizzivano le piante sotto l'acero Bless impaziente attendeva. Dal bosco lontano s'avanzava qualcuno: una giovane donna con un vestito azzurro stinto, un fazzoletto rosso legato intorno ai capelli neri, un viso abbronzato dal sole estivo. La donna s'avvicinava, un fascio d'erbe in mano, un piccolo garofano selvatico rosso vivo in bocca. Vide il giovane seduto, L'osservò a lungo di lontano, curiosa e diffidente, s'accorse che dormiva, s'avvicinò cauta sui bruni piedi nudi, si fermò proprio davanti a Boccadoro e lo esaminò La sua diffidenza sparì: il bel ragazzo dormente non mostrava nulla di pericoloso, le piaceva molto... come mai era capitato lì sui maggesi? Vide sorridendo che aveva colto fiori: eran già quasi appassiti. Boccadoro aprì gli occhi, ritornando da foreste di sogno. La sua testa era appoggiata mollemente sul grembo di una donna, nei suoi occhi assonnati e stupiti guardavan da vicino altri occhi, caldi e bruni. Non si spaventò, non c'era pericolo, dai due astri caldi e bruni scendeva una luce benigna. La donna allora sorrise al suo sguardo attonito, sorrise affettuosa, e lentamente cominciò a sorridere anche lui. Sulle sue labbra sorridenti scese la bocca di lei, si salutarono con un dolce bacio, che richiamò improvviso a Boccadoro il ricordo di quella sera nel villaggio e della fanciulletta dalle trecce. Ma il bacio non finiva. La bocca della donna indugiava sulla sua, continuava il gioco, stuzzicando, adescando, finché afferrò le labbra di lui con bramosa violenza e gli scosse il sangue, destandolo fin nel profondo. Nel gioco lungo e muto la donna bruna ammaestro a poco a poco il ragazzo e si diede a lui, lo lasciò cercare e trovare, lo fece ardere e placò il suo ardore. La breve incantevole beatitudine dell'amore s'inarcò sopra di lui, s'accese come una vampa d'oro, declinò e si spense. Egli giacque con gli occhi chiusi, la testa abbandonata in seno alla donna. Non una parola era stata pro-nunciata. La donna stette quieta, gli carezzò i capelli, lo lasclò ritornare a poco a poco in sé. Finalmente egli aprì. --Tu! -- disse. -- Tu! Chi sei? --Sono la Lisa, --rispose. --Lisa, -- ripeté lui, gustando il nome. -- Lisa sei cara. Ella avvicinò la bocca al suo orecchio e vi sussurrò -- Dì, è stata la prima volta? Prima di me non hai ancor voluto bene a nessuna? Egli scosse il capo. Poi a un tratto balzò in piedi, gettò uno sguardo intorno a sé, sui campi e in cielo. --Oh, -- esclamò, --il sole è già basso. Debbo tornare indietro. --E dove? --Al convento, da padre Anselmo. --A Mariabronn? Sei di là? Non vuoi dunque rimanere con me? --Mi piacerebbe molto. --E rimani allora! --No sarebbe scorretto. --Vivi dunque al convento? --Sì, sono scolaro. Ma non ci voglio più restare. Posso venir da te, Lisa? Dove abiti, dove stai di casa? --Non abito in nessun luogo, tesoro. Ma non vorresti dirmi il tuo nome?... Ah, Boccadoro ti chiami? Dammi ancora un bacio, piccolo Boccadoro, e poi va pure. --Non abiti in nessun luogo? E dove dormi allora? --Se vuoi, con te nel bosco o sul fieno. Vieni stanotte? --Oh, sì! Dove? Dove ti trovo? --Sai fare il grido di una civettina? --Non ho mai provato. --Prova! Egli provò. Ella rise, soddisfatta. --Allora stanotte esci dal convento e fa questo grido, io sarò nelle vicinanze. Ti piaccio dunque, piccolo Boccadoro, bambinello mio? --Ah, mi piaci molto, Lisa. Verrò Addio, ora debbo andare. Boccadoro giunse al convento nel crepuscolo, sul cavallo fumante. Fu lieto di trovare padre Anselmo molto affaccendato, perché a un frate che s'era divertito a guazzare scalzo nel ruscello era entrato un COCCIO nel piede. Ora si trattava di trovare Narciso. Interrogò uno dei frati che servivano nel refettorio. No, gli dissero, Narciso non veniva a cena, era giorno di digiuno per lui e in quel momento probabilmente dormiva, perché di notte osservava le vigilie. Boccadoro corse. Durante i lunghi esercizi il suo amico dormiva in una delle celle per i penitenti nell'interno del convento. Senza riflettere un attimo egli corse là. Origliò alla porta: non si udiva nulla. Entrò piano. Era severamente proibito, ma in quel momento non importava. Sullo stretto giaciglio era disteso Narciso. Nella luce crepuscolare somigliava a un morto, così coricato come era sul dorso, rigido, il volto pallido e affilato, le braccia incrociate sul petto: ma non dormiva e aveva gli occhi aperti. Guardò Boccadoro in silenzio, senza un rimprovero, ma senza muoversi ed evidentemente così assorto in un altro tempo e in un altro mondo, che faticò a riconoscere l'amico ed a comprendere le sue parole. --Narciso! Perdonami, perdonami, caro; se ti disturbo, non è per un capriccio. So che tu non dovresti parlare con me in questo momento, ma fallo ugualmente, te ne prego. Narciso ritornò in sé, batté un momento le palpebre, come se facesse uno sforzo per svegliarsi. -- E necessario? --domandò con voce spenta. --Sì, è necessario. Vengo per dirti addio. --Allora è necessario. Non voglio che tu sia venuto invano. Qua, siediti accanto a me. C'è un quarto d'ora di tempo, poi comincia la prima vigilia. S'era drizzato a sedere, sparuto, sul nudo tavolaccio; Boccadoro gli si mise vicino. -- Perdonami! --disse, sentendosi rimorder la coscienza. La cella, il misero giaciglio, il volto di Narciso estenuato dalle veglie e dalle penitenze, il suo sguardo semi-assente, tutto gli mostrava chiaramente quanto egli sto-nasse in quel luogo. --Non c'è nulla da perdonare. Non farti riguardo per me, io sto bene. Vuoi prendere congedo, dici? Vai via dunque? --Vado, oggi stesso. Ah non posso raccontartelo! Tutto si è deciso così all'improvviso! --C'è qui tuo padre, o un suo messaggio? -- No, nulla. La vita stessa è venuta a me. Me ne va-do, senza padre, senza permesso. Ti faccio disonore, Narciso, scappo. Narciso chinò gli occhi sulle proprie dita lunghe e bianche, che uscivano affilate e spettrali dalle maniche della tonaca. Non nel volto, severo ed esausto, ma nella voce si poteva indovinare un sorriso, mentre diceva: --Abbiamo pochissimo tempo, caro. Dl' solo il necessario e dillo con chiarezza e brevità... O debbo dirtelo io, quel che ti è capitato? -- Dillo, -- pregò Boccadoro. -- Sei innamorato, piccolo mio, hai conosciuto una donna. --Come fai a sapere anche questo? --Me lo faciliti tu stesso. Il tuo stato, amico, ha tutte le caratteristiche di quel genere di ebbrezza, che si chiama innamoramento. Ma ora parla, ti prego. Boccadoro appoggiò timidamente la mano sulla spalla dell’amico. --Ormai l'hai detto. Ma questa volta non l'hai detto bene, Narciso, non è esatto. E tutt'altra cosa. Ero fuori nei campi e dormivo sotto la canicola, quando mi svegliai e mi trovai con la testa sulle ginocchia di una bella donna; sentii subito che mia madre era venuta per por-tarmi con sé. Non che io abbia preso questa donna per mia madre: aveva gli occhi castani scuri e i capelli neri, mentre mia madre era bionda come me e aveva tutt'altro aspetto. Ma pure era lei, era il suo appello, era un messaggio suo. Uscita come dai sogni del mio cuore, ecco a un tratto una bella donna straniera, che mi tiene il capo in grembo e mi sorride come un fiore ed è tanto affettuosa con me: al primo suo bacio mi sentii struggere e provai una sofferenza strana. Tutta la mia nostalgia, tutti i miei sogni, ogni mia dolce ansia, ogni segreto in me assopito si destò, e tutto fu trasformato, incantato: tutto aveva acquistato un senso. Mi ha insegnato che cos'è una donna e qual è il suo mistero. In una mezz'ora mi ha reso di parecchi anni più maturo. Ora so molte cose. Anche di questo mi sono reso conto a un tratto: che non posso rimanere più in questa casa, neppur un giorno. Me ne vado appena vien notte. Narciso ascoltò e fece un cenno affermativo. --è venuto all'improvviso, -- disse, -- ma è press'a poco quello che io m'aspettavo. Penserò molto a te. Mi mancherai, amico. Posso fare qualche cosa per te? --Se ti è possibile, dl' una parola al nostro abate, che non mi condanni del tutto. E l'unico nel convento, oltre a te, il cui giudizio non mi sia indifferente. Lui e tu. --Lo so... Hai qualche altro desiderio? --Una preghiera, sì. Se penserai a me in seguito, prega qualche volta per me! E... grazie! --Di che, Boccadoro? -- Della tua amicizia, della tua pazienza, di tutto. Anche di avermi ascoltato oggi, che pur è penoso per te. Anche di non aver tentato di trattenermi. --Com'era possibile che ti volessi trattenere? Sai qual è il mio pensiero... Ma dove andrai, Boccadoro? Hai una meta? Vai da quella donna? --Vado con lei, sì. Una meta non l'ho. E una straniera, una vagabonda, a quanto pare, forse una zingara. -- Bene Ma dimmi, caro, sai che il tuo cammino insieme con lei sarà forse brevissimo? Non dovresti far troppo assegnamento, credo, su quella donna. Può aver dei parenti, un marito; chissà come verrai accolto! Boccadoro si appoggiò all'amico. --Lo so, -- disse, -- quantunque finora non ci abbia ancor pensato. Te l'ho già detto: una meta non l'ho. Anche quella donna, ch'è stata tanto affettuosa con me, non è la mia meta. Vado da lei, ma non vado per lei. Vado, perché devo, perché una voce mi chiama. Tacque e sospirò, e rimasero così seduti, L'uno appoggiato all'altro, tristi e pur felici nel sentimento della loro amicizia indistruttibile. Poi Boccadoro continuò: -- Non devi credere che io sia del tutto cieco e ignaro. No. Vado volentieri, perché sento ch'è necessario e perché oggi ho avuto una così meravigliosa esperienza. Ma non m'immagino certo di correre incontro soltanto alla felicità e al piacere. Penso che il cammino sarà difficile. Ma sarà anche bello, spero. E tanto bello appartenere a una donna, darsi a lei! Non rider di me, se par sciocco quello che dico. Ma vedi: amare una donna, darsi a lei, avvolgerla tutta in sé e sentirsi avvolti da lei, non è la stessa cosa che tu chiami " essere innamorati ", e che un pochino schernisci. Non è da schernire. Per me è la via che conduce alla vita, al senso della vita... Ah, Narciso, debbo lasciarti! Ti ringrazio di avermi sacrificato oggi un poco del tuo sonno. Mi fa tanta pena staccarmi da te! --Non affliggere il tuo cuore e il mio! Non ti dimenticherò mai. Ritornerai: te ne prego, ti aspetto. Se un giorno dovessi trovarti a mal partito, vieni da me o chiama-mi... Addio, Boccadoro, Dio sia con te! Si era alzato. Boccadoro lo abbracciò. Conoscendo la ritrosia dell'amico per le tenerezze, non lo baciò, gli carezzò soltanto le mani. La notte calava: Narciso chiuse la cella dietro di sé e s'avviò alla chiesa: i suoi sandali risonavano sull'impiantito. Boccadoro seguì con occhio affettuoso la figura allampanata fino in capo al corridoio, dove scomparve come un'ombra, inghiottita dalla tenebra della porta che metteva nella chiesa, assorbita e reclamata da esercizi, da doveri e da virtù. Oh, com'era curioso, com'era infinitamente strano, confuso e sconcertante tutto questo! Venire dall'amico col cuore traboccante, con tutta l'effervescenza dell'ebbrezza d'amore, proprio nell'ora in cui egli, assorto in meditazioni, consumato dai digiuni, e dalle veglie, crocefiggeva e sacrificava la sua gioventù, il suo cuore, i suoi sensi, e si sottoponeva alla più severa scuola d'obbedienza, per servire soltanto lo spirito e diventare veramente ver-bili vini! Narciso era là disteso, spossato e spento, con il volto pallido e le mani dimagrite, un morto a vederlo; eppure come aveva accolto subito l'amico, con la mente chiara e il gesto affettuoso, e all'innamorato, che aveva ancora indosso il profumo di una donna, aveva prestato l'orecchio e sacrificato lo scarso riposo fra due penitenze! Strano e meravigliosamente bello era che ci fosse anche questo genere d'amore, così disinteressato, così spiritualizzato. Come diverso da quell'altro amore, là, sul campo inondato di sole, quel gioco dei sensi ebbro e irresponsabile! Eppure l'uno e l'altro erano amore. Ah, ed ora Narciso era scomparso, dopo avergli mostrato ancora una volta in quell'ultima ora, e chiaramente, come erano diversi l'uno dall'altro, come non si assomigliavano. Narciso stava prostrato davanti all'altare sulle ginocchia stanche, preparato e purificato per una notte di preghiera e di contemplazione, in cui non gli erano concesse più di due ore di riposo e di sonno, mentre lui, Boccadoro, fuggiva per trovare in qualche luogo sotto gli alberi la sua Lisa e ripetere con lei quei giochi dolci e bruti! Narciso avrebbe saputo dire cose interessanti in proposito. Ebbene: lui, Boccadoro, non era Narciso. A lui non spettava indagare questi intricati enigmi belli e terribili, e dir su di essi cose importanti. A lui non spettava altro che proseguire per le sue folli vie alla ventura. A lui non spettava altro che darsi ed amare, amare l'amico orante nella chiesa notturna, non meno della bella donna giovane e ardente che lo attendeva. Quando, col cuore agitato da mille sentimenti in lotta, s'allontanò furtivo sotto i tigli del cortile cercando l'uscita attraverso il mulino, non poté far a meno di sorridere all'improvviso ricordo della sera in cui per la stessa via segreta aveva lasciato il convento insieme a Corrado, per " andare al villaggio ". Con quanta agitazione e segreta paura s'era indotto allora alla piccola scappata proibita! Ed ecco che ormai s'allontanava per sempre, seguendo vie ben più proibite e pericolose, e non aveva paura, non pensava al portiere né all'abate né ai maestri. Questa volta non c'erano assi presso il torrentello; dovette passare senza ponte. Si spogliò e gettò i vestiti sull'altra sponda, quindi scese nell'acqua fredda che gli saliva fino al petto e attraversò a guado la forte corrente. Mentre dall'altra parte si rivestiva, i suoi pensieri tornarono a Narciso. Sentì con chiarezza umiliante che in quel momento egli faceva precisamente ciò che l'altro aveva preveduto e a cui l'aveva condotto. Rivide con straordinaria lucidità quel Narciso saggio e un pò beffardo che lo aveva sentito dire tante sciocchezze; quello che in un'ora grave, facendolo soffrire, gli aveva aperto gli occhi. Alcune delle parole che Narciso gli aveva dette allora gli risonarono distintamente all'orecchio: "Tu dormi sul petto della madre, io veglio nel deserto. I tuoi sogni sono di fanciulle, i miei di ragazzi". Il suo cuore rabbrividì un attimo, era così terribilmente solo, lì nella notte! Dietro di lui stava il convento: appena una parvenza di patria, ma pur cara per lunga consuetudine! Sentì però anche un'altra cosa: che ormai Narciso non era più per lui la guida ammonitrice e sapiente il risvegliatore. Ormai sentiva di aver varcato la soglia di un paese, in cui avrebbe trovato da sé la sua vita, in cui nessun Narciso poteva guidarlo più. Fu lieto di questa nuova coscienza; era stato penoso e umiliante per lui il ricordo di quel periodo di soggezione! Ormai era veggente non era più un fanciullo e uno scolaro. Come faceva be-ne questo sentimento! Eppure... com'era doloroso prender congedo! Sapere l'amico inginocchiato nella chiesa non potergli dare nulla, non poterlo aiutare, essere qualcosa per lui! E per tanto tempo, forse per sempre esser separato da lui, non saperne nulla, non udir più la sua voce, non veder più il suo occhio nobile e bello! Si strappò di là e seguì il viottolo sassoso. Quando si fu allontanato d'un centinaio di passi dalle mura del convento, si fermò, prese fiato e lanciò meglio che poté Il grido della civetta Un grido uguale rispose, giù per il torrente, da lontano. "Ci chiamiamo come gli animali," non poté far a me-no di pensare: e ricordò l'ora d'amore passata nel pomeriggio; solo allora si rese conto che fra lui e Lisa non erano state scambiate parole che da ultimo, alla fine delle loro tenerezze, e anche allora pochissime e insignificanti. Che lunghi colloqui invece aveva avuto con Narciso! Ma ormai, così gli parve, era entrato in un mondo dove non si parlava, dove ci si attirava l'un l'altro col grido della civetta, dove le parole non avevano significato. Era contento, non aveva più bisogno di parole o di pensieri, solo di Lisa aveva bisogno, di quel palpare e frugar cieco e muto, di quello struggimento anelante... Lisa era là. Già gli veniva incontro dal bosco. Egli stese le mani per sentirla, le tastò con tenerezza il capo, i capelli, il collo e la nuca, la vita snella e le anche ro-buste. La cinse con un braccio e continuò il cammino con lei senza parlare, senza domandare: dove? Ella procedeva sicura nella foresta notturna, sì ch'egli le stava al fianco a fatica; pareva ci vedesse nel buio come una volpe o una martora; camminava senza urtare, senza inciampare Egli si lasciava condurre, nella notte, nel bosco, nel paese cieco e misterioso, senza parole, senza pensieri. Non pensava più, neppure al convento abbandonato, neppure a Narciso. Percorsero silenziosi un tratto di selva buia, a volte sopra un morbido cuscino di musco, a volte su dure coste di radici; a volte fra rade chiome d'albero brillava sopra di loro il cielo sereno, a volte era tenebra fitta; gli battevan sul volto i rami dei cespugli, i rovi gli trattenevan le vesti. Ella sapeva cavarsela sempre, di rado si fermava, di rado indugiava. Dopo un lungo tratto giunsero fra alcuni pini isolati e distanti gli uni dagli altri; il pallido cielo notturno si stendeva libero e vasto, il bosco era finito, una valle prativa li accolse, con un dolce profumo di fieno. Passarono a guado un piccolo ruscello che scorreva tacito; lì all'aperto il silenzio era ancora più intenso che nella foresta: non più fruscii di cespugli, non più guizzi d'animali notturni, non più scricchiolio di legni secchi. Presso un grosso fastello di fieno Lisa si fermò. --Restiamo qui--disse. Sedettero entrambi sul fieno, tirando finalmente il fiato e godendo il riposo, perché erano un pò stanchi. Si coricarono, ascoltarono il silenzio, sentirono le loro fronti asciugarsi e i loro volti rinfrescarsi a poco a poco. Boccadoro se ne stava rannicchiato, gustando quella gradevole sensazione di stanchezza, piegava e stendeva le ginocchia per gioco, aspirava in lunghe boccate la notte e l'aroma del fieno, non pensava né al passato né all'avvenire solo a grado a grado si lasciò attirare e ammaliare dal profumo e dal calore della sua bella e rispose via via alle carezze delle sue mani e sentì felice ch'ella cominciava a infiammarsi e gli si stringeva sempre più vicina No, qui non c'era bisogno di parole né di pensiero. Egli sentiva chiaramente tutto ciò ch'era bello e importante, la forza della giovinezza e la bellezza semplice e sana di un corpo di donna, il suo scaldarsi e il suo fremere di desiderio; sentiva anche chiaramente che questa volta ella voleva essere amata in un modo diverso dalla prima, che non voleva sedurlo e istruirlo, ma aspettare il suo attacco e la sua brama. In silenzio si lasciò percorrere tutto da quelle correnti, sentì felice il divampar tacito e lento del fuoco che s'era acceso in loro e che faceva del loro piccolo giaciglio il centro palpitante e ardente di tutta la notte silenziosa. Quando si chinò sul volto di Lisa e cominciò a baciare nel buio le sue labbra, vide a un tratto gli occhi e la fronte di lei rilucere in un mite chiarore osservò stupito e s'accorse che la luce crepuscolare si diffondeva e s'intensificava. Allora comprese e si voltò: dal margine dei boschi neri ed immensi saliva la luna. Vide la luce bianca e dolce spandersi meravigliosamente sulla fronte e sulle gote, sul collo chiaro e florido della donna, e mormorò incantato: -- Come sei bella! Ella sorrise come di un dono; egli si drizzò a sedere le scostò delicatamente la veste dal collo, l'aiutò a liberarsene, finché le spalle e il seno brillarono nel fresco chiaror lunare. Con gli occhi e con le labbra seguì estasiato le ombre delicate, contemplando e baciando; vinta dal fascino, ella rimaneva immobile, con lo sguardo chino e un'espressione solenne, come se in quel momento la sua bellezza si rivelasse per la prima volta anche a lei. INDEX CAPITOLO VII Mentre nella campagna l'aria si faceva fresca e d'ora in ora la luna saliva più alta, gli amanti riposavano sul loro giaciglio dolcemente illuminato, perduti nei loro giochi, e insieme s'assopivano e s'addormentavano, e al risveglio si volgevano di nuovo l'uno all'altro, riaccendendosi e riallacciandosi, poi s'addormentavano di nuovo. Dopo l'ultimo amplesso giacquero esausti; Lisa, affondata nel fieno respirava penosamente, Boccadoro, supino, fissava immobile il pallido cielo lunare; saliva dall'anima d'entrambi la grande tristezza, alla quale trovarono rifugio nel sonno. Dormirono profondamente, disperatamente, dormirono con avidità, come se fosse per l'ultima volta, come se fossero condannati a essere poi svegli in eterno e dovessero in quelle ore raccogliere in sé tutto il sonno dell'universo. Destandosi, Boccadoro vide Lisa intenta a ravviarsi i capelli neri. La guardò, distratto e ancora in dormiveglia. --Sei già desta? -- disse infine. Ella si voltò di scatto, come spaventata. --Debbo andarmene ora, -- disse un pò oppressa e imbarazzata.-Non volevo svegliarti. --Ma ora sono sveglio. Dobbiamo già incamminarci. Abbiamo forse una patria? -- Io no, -- disse Lisa. -- Ma tu appartieni al convento. --Non appartengo più al convento, sono come te, so-no solo e non ho meta. Verrò con te, si capisce. Ella guardò da un lato. --Boccadoro tu non puoi venire con me. Io devo andare da mio marito; mi batterà perché sono rimasta fuori la notte. Gli dirò che mi sono smarrita. Ma naturalmente non lo crederà. In quel momento Boccadoro ricordò che Narciso gliel’aveva predetto. Ed era proprio così. S'alzò e le diede la mano. --Ho sbagliato i miei conti, -- disse, -- avevo creduto che saremmo rimasti insieme... Ma davvero volevi lasciarmi dormire e scappar via senza dirmi addio? --Ah, credevo che saresti andato in collera e che forse mi avresti battuta. Che mi batta mio marito, si sa, è giusto. Ma non volevo prender busse anche da te. Egli trattenne la sua mano. --Lisa,--disse,--io non ti batterò né oggi né mai. Non vorresti rimanere con me invece che con tuo marito, se egli ti dà le busse? Ella diede uno strappone per liberarsi la mano. --No, no, no, --gridò con voce piagnucolosa. E poiché Boccadoro sentì che il cuore della donna anelava a staccarsi da lui e ch'ella preferiva ricever percosse dall'altro che da lui buone parole, lasciò andare la mano; ella cominciò a piangere. Ma intanto si mise a correre. Con le mani sugli occhi lacrimosi, corse via. Egli non disse più nulla e la seguì con lo sguardo. Gli faceva pena vederla fuggire così sui prati falciati, chiamata e attirata da qualche potenza, da una potenza sconosciuta, che gli diede parecchio da pensare. Gli faceva pena, ma anche per se stesso sentiva un poco pietà; non aveva avuto fortuna, a quanto pareva; eccolo lì solo e un pò intontito, abbandonato, piantato in asso. E intanto era ancora stanco e avido di sonno, non si era mai sentito così esausto. C'era tempo anche più tardi di sentirsi infelice. E già s'era riaddormentato. Non ritornò a se stesso che quando il sole già alto gli bruciò le membra. Ormai aveva riposato; s'alzò in fretta, corse al ruscello, si lavò e bevve. Molti ricordi allora gli affollarono la mente, molte immagini di quella notte d'amore, molte sensazioni tenere e deliziose lo avvolsero del loro profumo come fiori esotici. E vi ripensava mentre inizia-va gagliardo la sua marcia, e risentiva tutto, gustava, odorava, tastava tutto ancora, ancora. Quanti sogni la bruna donna straniera gli aveva tradotto in realtà, quante gemme aveva fatto sbocciare, quanti desideri ardenti aveva placati e quanti ne aveva destati! Davanti a lui si stendevano campi e lande, maggesi inariditi e boschi cupi; forse al di là c'erano cascine e mulini, forse un villaggio, una città. Per la prima volta il mondo gli si apriva dinanzi, in attesa, pronto ad accoglierlo, a fargli del bene e a fargli del male. Egli non era più uno scolaro che vede il mondo dalla finestra, il suo cammino non era più una passeggiata che finisce immancabilmente nel ritorno. Il grande mondo era finalmente diventato reale, egli era una parte di esso, in esso stava il suo destino; cielo e clima del mondo eran cielo e clima suoi. Ed egli era piccolo nel grande universo e correva, piccolo come una lepre, come un insetto, attraverso il suo azzurro e il suo verde infinito. Non più campana che chiamasse alla levata, all'entrata in chiesa, alla lezione, alla mensa! Oh, come aveva fame! Una mezza pagnotta di pan d'orzo, una scodella di latte, una minestra di farina... magici ricordi! Il suo stomaco s'era destato come un lupo. Passò accanto ad un campo di grano: le spighe eran quasi mature, le sgranò con le dita e coi denti, masticò con avidità i piccoli chicchi lubrici ne colse ancora, se ne riempì le tasche. Poi trovò de;le nocciole ancora molto verdi e addentò con gioia i gusci, schiantandoli; anche di queste fece provvista. Ricominciava la foresta, una pineta interrotta da querce e da frassini; c'eran mirtilli in quantità; qui sostò, mangiò, si rinfrescò. Fra l'erba rada e dura del bosco spuntavano campanule azzurre; farfalle brune e lucenti s'alzavano a volo e scomparivano capricciose a zig-zag. In un bosco simile aveva abitato santa Genoveffa. La sua storia gli era sempre piaciuta. Oh, come l'avrebbe incontrata volentieri! Oppure ci poteva essere nel bosco qualche eremo, con un vecchio padre barbuto in una caverna o in una capanna di corteccia. Forse in quel bosco abitavano anche i carbonai; li avrebbe salutati volentieri. Ci potevano essere perfino dei briganti, a lui non avrebbero fatto nulla. Sarebbe stato bello incontrare un essere umano, chiunque fosse. Ma lo sapeva bene: forse poteva camminare a lungo nel bosco, tutto quel giorno e poi l indomani e poi più giorni ancora, senza incontrare nessuno. Anche questo bisognava accettare, se era destino. Non si poteva pensar molto, bisognava lasciar venire ogni cosa come voleva. Udì il batter d'un picchio e tentò di sorprenderlo; do-po essersi affaticato a lungo invano, finalmente riuscì ad avvistarlo e stette per qualche tempo a osservarlo, mentre solitario, attaccato a un tronco, lo martellava muovendo avanti e indietro la testina operosa. Peccato non poter parlare con gli animali! Sarebbe stato bello chiamare il picchio e dirgli qualche parola gentile e forse apprendere qualche cosa della sua vita fra gli alberi, del suo lavoro, della sua gioia. Oh, potersi trasformare! Gli venne in mente che tante volte nelle ore d'ozio aveva disegnato e tracciato col gesso figure sulla sua lavagna, fiori, foglie, alberi, animali, teste umane. E spesso aveva giocato a lungo così, creando, come un piccolo dio, creature secondo la sua volontà: nel calice d'un fiore aveva disegnato gli occhi e una bocca, ad un ciuffo di foglie che spuntavano fuori da un ramo aveva dato forma di dita, in cima ad un albero aveva messo una testa. E in questo gioco aveva passato spesso ore felici, incantato, incantatore, tracciando linee e lasciandosi sorprendere egli stesso da quel che ne usciva: la foglia d'un albero, il muso d'un pesce, la coda d'una volpe, il sopracciglio d'un uomo. Oh, pensava, potersi trasformare come si trasforma-vano allora le linee disegnate per gioco sulla sua tavoletta! Boccadoro sarebbe diventato così volentieri un picchio, forse per un giorno, forse per un mese: avrebbe abitato sulle cime, sarebbe corso su per i tronchi lisci, avrebbe picchiato col becco forte nella corteccia, facendosi puntello con le penne della coda, avrebbe parlato il linguaggio dei picchi e tratto tante buone cose dalla corteccia. Come sonava dolce e vigoroso il martellar del picchio nel legno risonante! Molti animali si trovarono sul cammino di Boccadoro. Incontrò lepri, che al suo avvicinarsi sbucavano a un tratto dal fogliame, lo fissavano, poi via di corsa con le orecchie abbassate e un chiaror di pelo sotto la coda. In una piccola radura trovò una lunga serpe, che non fuggì: non era viva, c'era soltanto la sua pelle vuota; egli la raccolse e l'osservò: un bel disegno grigio e marrone correva sul dorso e i raggi del sole la traversavano; era sottile come una ragnatela. Vide merli neri col becco giallo, che guardavano fisso, concentrando gli occhi neri rotondi e impauriti, e fuggivano radendo terra. Pettirossi e fringuelli volavano in quantità. A un certo punto nel bosco c'era una buca, una pozza piena d'acqua verde e densa, sulla quale correvano alla rinfusa, affaccendati e come ossessi, ragni dalle gambe lunghe, che parevano intenti a un gioco incomprensibile; e sopra si li-bravano alcune libellule con l'ali d'un azzurro cupo. E una volta, già verso sera, vide qualcosa... o meglio non vide nulla fuorché un agitarsi e un grufolar tra il fogliame, udì uno schiantar di rami, uno sguazzar nella terra umida e un grosso animale dalla corporatura pesante correr via quasi invisibile, frangendo la sterpaglia: forse un cervo, forse una scrofa, non sapeva. Rimase a lungo immobile, ansante per lo spavento, seguì con l'orecchio, agitato, la corsa dell'animale e restò un pezzo in ascolto col batticuore, dopo che tutto era tornato quieto. Non trovò modo d'uscire dalla foresta, dovette pernottarvi. Mentre si cercava un giaciglio e si fabbricava un letto di musco, si sforzava d'immaginare che sarebbe avvenuto, se non avesse più trovato una via d'uscita dai boschi e avesse dovuto rimaner dentro per sempre. E pensò che sarebbe stata una grande disgrazia. Viver di bacche era possibile e anche dormire sul musco: inoltre sarebbe certo riuscito a fabbricarsi una capanna, forse anche a far fuoco. Ma restar sempre e poi sempre solo e abitare fra gli alberi che dormono silenziosi e vivere fra gli animali che fuggono e con cui non si può parlare, doveva essere insopportabilmente triste. Non vedere anima viva, non dir buongiorno e buonanotte a nessuno, non poter guardare nel viso e negli occhi di un proprio simile, non contemplar più donne e fanciulle, non sentire più un bacio, non abbandonarsi più al delizioso gioco segreto delle labbra e delle membra, oh, era inconcepibile! Se questo fosse stato il suo destino, pensava avrebbe tentato di diventare un animale, un orso o un cervo, sia pur rinunciando alla beatitudine eterna. Essere un orso e amare un'orsa non sarebbe poi male, molto meglio per lo meno che conservare ragione, linguaggio e tutto il resto, e con ciò passar la vita solo e triste e senz'amore. Nel suo letto di musco, prima d'addormentarsi, ascoltava curioso e inquieto i mille rumori notturni, misteriosi e incomprensibili della foresta. Erano ormai i suoi camerati, doveva viver con loro, abituarsi a loro, con loro misurarsi e andar d'accordo; apparteneva ormai alla famiglia delle volpi e dei caprioli, degli abeti e dei pini, con loro doveva vivere, con loro dividere l'aria e il sole e aspettare il giorno e patir la fame, essere insomma loro ospite. Poi s'addormentò e sognò bestie e uomini: egli era un orso, che divorava Lisa fra baci e carezze. Nel cuor della notte si svegliò spaventato, non sapeva perché: sentiva un'angoscia infinita e ne cercò a lungo la ragione, turbato. Gli venne in mente che quel giorno e il giorno innanzi aveva dimenticato la preghiera della sera. S'alzò, s'inginocchiò presso il giaciglio e recitò due volte la sua orazione, per quel giorno e per quello precedente. Poco dopo era riaddormentato. Al mattino si guardò intorno nel bosco, stupito: aveva dimenticato dov'era. La paura della foresta incominciò a scemare, con nuova gioia s'affidò a quella vita, pur continuando a camminare e regolandosi col sole. Una volta giunse in un tratto di selva perfettamente piano, con pochi alberi a basso fusto; gli altri eran tutti grossi abeti bianchi, annosi e diritti. Dopo aver marciato un poco fra quelle colonne, gli vennero in mente le colonne della grande chiesa del convento, di quella chiesa sotto il cui portale nero aveva visto scomparire il suo amico Narciso... Quanto tempo era passato? Proprio due giorni soltanto? Solo dopo due giorni e due notti giunse in capo alla foresta. Riconobbe con gioia i segni della vicinanza umana: terra coltivata, strisce di campo a segala e ad avena, prati attraversati qua e là da stretti sentieri per breve tratto visibili. Boccadoro colse della segala e la masticò; la campagna lavorata lo guardava sorridente, tutto gli faceva un'impressione umana e cordiale dopo il lungo andare per la selva incolta: il sentierino, l'avena i fiordalisi sfioriti e sbiancati. Finalmente avrebbe riveduto gli uomini. Dopo un'oretta passò vicino ad un campo, sul ciglio era drizzata una croce: s'inginocchiò e pregò. svoltando dalla sporgenza di un colle si trovò all'improvviso davanti a un tiglio ombroso, udì estasiato la melodia d'una fontana, che da un tubo di legno versava la sua acqua entro un lungo trogolo pure di legno; bevette l'acqua fresca, squisita, e vide con gioia spuntar su dai sambuchi, che avevan già le bacche scure, alcuni tetti di paglia. Ma più di tutti questi segni amichevoli, lo commosse il muggito di una mucca, che gli sonò all'orecchio dolce, caldo e ospitale come un saluto e un benvenuto. S'avvicinò esplorando alla capanna dalla quale era partito il muggito. Davanti alla porta di casa sedeva nella polvere un ragazzetto dai capelli rossicci e dagli occhi celesti, con accanto un vaso di terracotta pieno d'acqua: e con la polvere e con l'acqua faceva una pasta, che già aveva inzaccherato le sue gambe nude. Serio e felice, premeva quella poltiglia fra le mani, la guardava colar fuori dalle dita, ne faceva delle palle e per impastare e plasmare s'aiutava anche col mento. --Buongiorno, piccolo,--disse Boccadoro cordialmente. Ma il bambino, appena levati gli occhi e scorto uno straniero, spalancò la boccuccia, contrasse il visetto ton-do e strillando si precipitò carponi nella capanna. Boccadoro lo seguì nella cucina; era così buia che a lui, che veniva dalla luce viva del mezzodì, da principio non riuscì di scorgere nulla. A ogni buon conto fece un saluto cortese, ma non ebbe risposta; a poco a poco però sopra gli strilli del bimbo spaventato si fece udire una tenue voce senile, che cercava di consolare il piccolo. Infine si alzò nell'ombra e s:avvicinò una vecchietta, che, riparan-dosi gli occhi con la mano, osservò l'ospite. -- Salute, mamma, -- disse Boccadoro, -- e che tutti i santi benedicano la tua faccia buona; son tre giorni che non vedo un viso umano. La vecchietta guardava melensa, con occhi presbiti. --Che vuoi?--domandò incerta. Boccadoro le diede la mano e carezzò un poco la sua. -- Salutarti voglio, nonnina, e riposare un tantino e aiutarti ad accendere il fuoco. Se mi vuoi dare un pezzo di pane, non lo rifiuto, ma non c'è fretta per questo. Vide una panca di legno addossata alla parete e sedette, mentre la vecchia tagliava una fetta di pane per il bambino, che guardava ora lo straniero con curiosa attenzione pronto però ad ogni istante a piangere e a correr via. La vecchia tagliò un'altra fetta della pagnotta e la portò a Boccadoro. --Grazie mille,--disse questi.--Dio ti compenserà. --Hai lo stomaco vuoto? -- domandò la donna. --Questo no, è pieno di mirtilli. --Bè, mangia allora! Da dove vieni? --Da Mariabronn, dal convento. -- Sei un prete? -- Questo no. Uno scolaro. In viaggio. Ella lo guardò fra tonta e canzonatoria e scosse un po-co la testa sul collo magro e rugoso. Lo lasciò masticare un paio di bocconi e riportò fuori il piccolo al sole. Poi tornò, curiosa, e domandò: -- Sai qualche novità? --Non un gran che. Conosci padre Anselmo? --No, che c'è di lui? -- E malato. --Malato? deve morire? - Non so. Ha male alle gambe. Non può camminar - Deve morire? --Non so, forse. --Bè, lascialo morire. Io devo cuocere la minestra. Aiutami a tagliare trucioli. -- Gli diede un ciocco d'abete asciugato per bene sul focolare, e un coltello. Egli le tagliò trucioli quanti ne volle e stette a guardare, mentre ella li metteva nella cenere e si chinava sopra e s'affannava a somare, finché prendevano fuoco; poi accatastò secondo un suo ordine segreto e preciso legni d'abete e di faggio, il fuoco divampò luminoso sul focolare aperto, ella mise sulle fiamme una grande pentola nera, che, appesa ad una catena fuligginosa, penzolava dalla cappa del camino. Boccadoro, dietro suo ordine, andò ad attinger acqua alla fontana, spannò la scodella del latte, sedette di nuovo nella penombra fumosa e stette a guardare il gioco delle fiamme, sopra le quali appariva e spariva nel rosso bagliore il viso rugoso ed ossuto della vecchia; intanto udiva dietro un assito la mucca che frugava e tirava colpi nella greppia. Gli piaceva molto. Il tiglio, la fontana, il guizzar delle fiamme sotto la pentola, lo sbuffare e il ruminar della mucca e i suoi colpi contro la parete, la stanza semibuia con la tavola e la panca, L'affaccendarsi della vecchietta, tutto questo era bello e buono sapeva di cibo e di pace, di esseri umani e di calore, dii patria. Anche due capre c'erano, e la donna gli disse che dietro avevano anche un porcile; e la vecchia era la nonna del contadino e la bisnonna del piccolo. Questi si chiamava Kuno, di tanto in tanto entrava in cucina e, benché non dicesse una parola e guardasse un pò impaurito, non piangeva mai. Venne il contadino con sua moglie; furono molto stupiti di trovare uno straniero in casa. Il contadino stava già per gridare e, diffidente, trasse il giovane per un braccio sulla porta, per vedere il suo volto alla luce del giorno; ma poi rise, gli batté benevolo la mano sulla spalla e lo invitò a mangiare. Sedettero e ciascuno intinse il suo pane nella comune scodella di latte, finché il latte diminuì e il contadino vuotò il resto. Boccadoro domandò se poteva rimanere fino all'indomani e dormire sotto il loro tetto. No, rispose l'uomo, perché non c'era posto, ma fuori c'era ancora tanto fieno dappertutto, avrebbe trovato certo un giaciglio. La contadina aveva il piccolo accanto e non partecipava alla conversazione, ma durante il pasto i suoi occhi curiosi presero possesso del giovane straniero. I capelli e lo sguardo di lui le avevano fatto subito impressione, poi osservò con piacere il suo collo bianco e fine, le sue mani distinte e lisce e i loro movimenti agili e armoniosi. Come era bello e aristocratico quello straniero, e così giovane! Ma quello che più l'attirava e la innamorava era la voce di lui, quella voce giovane e maschia, che cantava misteriosamente, che irradiava calore, che seduceva blanda, che sonava come una carezza. Avrebbe voluto sentire quella voce ancora per un pezzo. Dopo mangiato, il contadino s'affaccendò nella stalla; Boccadoro era uscito dalla casa, s'era lavato le mani al-la fontana e sedeva sul bordo basso, rinfrescandosi e ascoltando l'acqua. Era indeciso; non aveva più nulla da cercare lì, eppure gli rincresceva di doversene andare. Allora venne fuori la contadina con un secchio in mano, lo mise sotto lo zampillo, finché traboccò. Disse a mezza vo-ce: --Se stasera sei ancora qui vicino, ti porterò da mangiare Laggiù, dietro quel lungo campo d'orzo, c'è del fieno, che raccoglieranno solo domani. Vuoi fermarti là? Egli le guardò il viso lentigginoso, vide le sue braccia forti afferrare il secchio, sentì lo sguardo caldo dei suoi grandi occhi chiari. Le sorrise e accennò di sì. Già ella se n'andava col secchio pieno e scompariva nel buio della porta. Egli rimase seduto, grato e contento, ascoltando l'acqua corrente. Un pò più tardi entrò nella cucina, cercò il contadino, diede la mano a lui e alla nonna e ringraziò. C'era odor di fuoco nella capanna, di fuliggine e di latte. Poc'anzi era per lui ancora un asilo, un focolare domestico, e già ridiventava terra straniera. Salutò e uscì. Al di là delle capanne trovò una cappella e vicino un bel boschetto, un gruppo di forti querce annose, sotto le quali l'erba era bassa. Rimase lì all'ombra, passeggiando in su e in giù fra i grossi tronchi. Strana cosa, pensava, eran le donne e l'amore; non avevan bisogno davvero di parole. Alla contadina n'era occorsa una sola per indicargli il luogo dell'appuntamento, tutto il resto non l'aveva detto con parole. E con che allora? Con gli occhi, sì, e con un certo suono nella voce un pò velata e con qualche altra cosa ancora, con un profumo forse, con una emanazione delicata e sottile della pelle, dalla quale uomini e donne riconoscono subito la reciproca brama. Curioso: era una specie di delicato linguaggio segreto; e come l'aveva imparato presto! Si rallegrava pensando al-la sera, si domandava con curiosità come sarebbe stata quella donna alta e bionda, che sguardi, che toni, che membra, che doti, che baci avrebbe avuto... Certo tutt'altri che Lisa. Dov'era in quel momento la Lisa, coi suoi capelli neri e lisci, con la sua pelle bruna, con i suoi brevi sospiri? L'aveva picchiata il marito? Pensava ancora a lui? Aveva già trovato un nuovo amante com'egli aveva trovato una nuova donna? Come tutto andava veloce, e da ogni parte si trovava la felicità, come tutto era bello e caldo e stranamente fugace! Era peccato, era adulterio; poc'anzi si sarebbe lasciato uccidere piuttosto che commettere un peccato simile. Ed ecco la seconda donna che egli attendeva, e la sua coscienza era tranquilla. Cioè, tranquilla forse no; ma non l'adulterio, non la voluttà di quando in quando la turbavano e la opprime-vano. Era qualcos'altro, non sapeva definirlo con un no-me. Era il sentimento di una colpa che non si è commessa, ma che si è portata al mondo con la nascita. Forse era questo ciò che nella teologia si chiamava peccato originale? Poteva darsi. Sì, la vita stessa portava con sé qualcosa come una colpa... perché, altrimenti, un essere così puro e così sapiente come Narciso si sarebbe sotto-posto a penitenze come un condannato? E perché egli stesso, Boccadoro, avrebbe dovuto sentire in qualche segreto recesso della sua anima questa colpa? Non era forse felice? Non era giovane e sano, non era libero come l'uccello nell'aria? Non lo amavano le donne, non era bello sentire di poter dare loro come amante lo stesso profondo piacere ch'egli provava? E perché allora non era felice del tutto? Perché nella sua giovane felicità, come nella virtù e nella saggezza di Narciso, doveva insinuarsi di quando in quando questa strana sofferenza, quest'ansia sommessa, questo rammarico per la transitorietà umana? Perché doveva tante volte tormentarsi il cervello a forza di pensare, pur sapendo di non essere un pensatore? Eppure era bello vivere. Colse nell'erba un fiorellino violetto, lo avvicinò all'occhio, guardò entro il piccolo calice, dove scorrevano vene e vivevano minuscoli sottilissimi organi; come nel grembo di una donna o nel cervello di un pensatore, fremeva la vita tremava la gioia. Oh, perché non si sapeva proprio nulla? Perché non si poteva parlare con quel fiore? Ma se neppure due uomini riuscivano a parlarsi davvero, e ci voleva già per questo un caso fortunato, una particolare amicizia e disposizione! No, era fortuna che l'amore non avesse bisogno di parole, altrimenti sarebbe stato pieno di malintesi e di pazzie. Ah, come l'occhio di Lisa, socchiuso nella pienezza della voluttà, era quasi franto e non mostrava più che un pò di bianco nel taglio delle palpebre convulse... mille parole di dotti e di poeti non sarebbero riuscite ad esprimerlo! Nulla, nulla si poteva esprimere, escogitare e tuttavia si aveva sempre in sé il bisogno prepotente di parlare, L'eterno impulso a pensare! Osservò con quanta grazia e con quanta intelligenza le foglie della piantina erano ordinate intorno allo stelo. I versi di Virgilio eran belli, egli li amava; ma più d'uno non aveva neppur la metà della chiarezza e della sapienza dell'ingegnosa bellezza di quella spirale, secondo cui le minuscole foglioline si ordinavano su per lo stelo. Quale godimento, quale felicità, che opera incantevole, nobile, ingegnosa, se un uomo fosse stato capace di creare un solo fiore come quello! Ma nessuno era capace, nessun eroe e nessun imperatore, nessun papa e nessun santo. Quando il sole calò, si mise in cammino per cercare il luogo indicato dalla contadina. Là aspettò. Era bello aspettare così, sapendo che una donna era in istrada e non recava altro che amore. Ella giunse con un panno di lino, in cui aveva avvolto un grosso pezzo di pane e una fetta di lardo. Lo snodò e glielo mise davanti. --Per te, --disse.--Mangia! --Dopo, --rispose lui. --Non ho fame di pane, ho fame di te Oh, mostra ciò che mi hai portato di bello! Molto di bello gli aveva portato: labbra forti e asse-tate, denti forti e brillanti, braccia forti, arrossate dal so-le; ma sotto il collo e giù per la persona era bianca e tenera. Parole ne sapeva poche, ma in fondo alla sua gola cantava una musica dolce e allettatrice; e quando sentì sul suo corpo le mani di lui, mani delicate, affettuose e sensibili, qualor non aveva mai conosciute, la sua pelle rabbrividì e nella sua gola si modulò un suono come quello di un gatto che fa le fusa. Sapeva pochi giochi, me-no i Lisa, ma era meravigliosamente vigorosa, stringeva come se volesse spezzare il collo al suo amante. Era un amore infantile e cupido, semplice e, malgrado tutta la forza, ancora pudico; Boccadoro fu felice con lei. Poi ella se n'andò sospirando, si staccò con pena, non poteva rimanere. Boccadoro restò solo, felice e triste insieme. Solo più tardi si ricordò del pane e del lardo e mangiò in solitudine; era già notte alta. INDEX CAPITOLO VIII Boccadoro aveva già camminato a lungo, di rado per-nottando due volte nello stesso luogo, dappertutto desiderato e favorito dalle donne, abbronzato dal sole, dimagrito dal vagabondaggio e dalla scarsità del cibo. Molte donne l'avevano lasciato all'alba e alcune se n'erano andate piangendo; più d'una volta egli aveva pensato: "Perché nessuna rimane con me? Perché, se mi amano e per una notte d'amore violano la fede coniugale... perché ritornano subito tutte ai loro mariti, dai quali spesso te-mono d'esser picchiate?". Nessuna l'aveva pregato sul serio di rimanere, nessuna l'aveva mai pregato di prenderla seco ed era stata pronta per amore a dividere con lui le gioie e le angustie della vita errabonda. Veramente egli non aveva rivolto a nessuna quell'invito, a nessuna aveva suggerito quell'idea; se interrogava il suo cuore, vedeva che la libertà gli era cara e non ricordava una donna amata, di cui avesse sentito ancora la nostalgia fra le braccia di quella che le era succeduta. E tuttavia gli riusciva strano e un poco triste che l'amore si mostrasse sempre così fugace, quello delle donne come il suo, e con la stessa rapidità con cui divampava fosse anche sazio. Era giusto questo? Era così sempre e dappertutto? O dipendeva da lui, forse era nella sua natura che le donne lo desiderassero e lo trovassero bello, ma non aspirassero ad altra comunanza con lui che non fosse quella breve e senza parole di una notte nel fieno o sul musco? Era perché viveva da vagabondo e i sedentari provavano orrore per la vita dei senza-patria? O dipendeva proprio solo da lui, dalla sua persona, che le donne lo desiderassero come una bella bambola, ma poi ritornassero ai loro uomini, anche se là le attendevano le busse? Non si stancava d'imparar dalle donne. Più l'attiravano le fanciulle, le giovanissime, che non avevano ancora marito e non sapevano nulla; di esse poteva innamorarsi con ardore; ma erano quasi sempre irraggiungibili, così amate, timide e ben protette! Ma imparava volentieri anche dalle donne. Ognuna gli lasciava qualcosa, un gesto, un modo di baciare, un gioco speciale una particolare maniera di darsi o di difendersi. Boccadoro accondiscendeva a tutto, era insaziabile e docile come un bimbo, aperto a ogni seduzione: e per questo appunto seducente egli stesso. La sua bellezza da sola non sarebbe bastata a condurgli così facilmente le donne, era quel suo candore infantile, quella sua innocenza curiosa della brama, quell'essere aperto e meravigliosamente pronto a ciò che una donna poteva desiderare da lui. Senza saperlo, egli era presso ogni donna amata proprio così come essa lo desiderava e lo sognava, con l'una delicato e paziente nell'attesa, con l'altra impetuoso e intraprendente, ora ingenuo come un ragazzo iniziato per la prima volta, ora esperto. Era pronto al gioco e alla lotta, al sospiro e al riso, al pudore e alla spudoratezza; non faceva nulla a una donna ch'ella non bramasse, nulla ch'ella non provocasse da lui. Questo era ciò che ogni donna dai sensi accorti intuiva subito in Boccadoro, questo lo rendeva il suo beniamino. Egli intanto imparava. In breve non imparò solo molte qualità e molte arti d'amore, accogliendo in sé le esperienze di molte amanti. Imparò anche a vedere le donne nella loro varietà, a sentirle, a tastarle, a odorarle: acquistò un orecchio finissimo per ogni sorta di voce e più d'una volta dal suo semplice suono sapeva indovinare con sicurezza il genere della donna e la sua capacità d'amare. Con sempre nuovo rapimento contemplava gli infiniti modi diversi come una testa poteva reggersi sul collo, una capigliatura staccarsi dalla fronte, una rotula muoversi entro il ginocchio. Al buio, ad occhi chiusi, col tatto delicato delle dita imparava a distinguere una chioma femminile o una qualità di pelle o di pelurie dall'altra. Cominciò per tempo ad accorgersi che forse il senso del suo vagabondaggio stava proprio in questo, che forse egli era sospinto da una donna all'altra appunto perché potesse Imparare a esercitare con sempre maggior finezza, varietà e profondità, questa capacità di conoscere e di distinguere. Forse era questo il suo destino: imparare a conoscere le donne e l'amore in mille modi e in mille forme diverse fino alla perfezione, così come taluni musicisti sanno sonare non un solo strumento, ma tre, quattro, molti. A quale scopo ciò dovesse servire, dove conducesse, certo non sapeva; sentiva solo di essere in cammino. Se per il latino e per la logica aveva certe attitudini - non però doti rare, singolari e sorprendenti - per l'amore, per il gioco con le donne era eccezionalmente dotato; qui imparava senza fatica, qui non dimenticava nulla, qui le esperienze si accumulavano e si ordinavano da sé. Un giorno, quando già da un anno o due vagava per il mondo, Boccadoro giunse al castello di un agiato cavaliere, che aveva due figlie giovani e belle. Era il principio d'autunno, presto le notti sarebbero diventate fredde; nell'autunno e nell'inverno passati aveva fatto la sua esperienza, e non senza preoccupazione pensava ai mesi venturi, nell'inverno la vita del vagabondo era dura. Chiese cibo e asilo per la notte. Fu accolto cortesemente, e quando il cavaliere udì che lo straniero aveva studiato e sapeva il greco, lo fece passare dalla tavola dei servi alla sua e lo trattò quasi come suo pari. Le due figlie tenevano gli occhi bassi: la maggiore aveva diciotto anni, la minore sedici appena: Lidia e Giulia. Il giorno dopo Boccadoro voleva proseguire: non c'era per lui nessuna speranza di poter conquistare una di quelle belle e bionde damigelle, e altre donne, per cui rimanere, non se ne vedevano. Ma dopo la prima colazione il cavaliere lo prese da parte e lo condusse in una stanza, ch'egli si era arredata per scopi speciali. Il vecchio parlò con modestia al giovane della sua passione per la dottrina e per i libri, gli mostrò un piccolo cofano pieno di scritti, da lui raccolti, uno scrittoio che s'era fatto costruire e una provvista di bella carta e pergamena. Questo bravo cavaliere era stato a scuola in gioventù: poi, come Boccadoro venne a sapere a poco a poco, si era dato tutto alla vita guerresca e mondana, finché, gravemente malato, un avvertimento divino l'aveva indotto a unirsi a una schiera di pellegrini e ad espiare così la sua gioventù peccaminosa. Era andato a Roma e perfino a Costantinopoli, al ritorno aveva trovato il padre morto e la casa vuota, vi aveva fissato la sua dimora, s'era sposato, aveva perduto la moglie e allevato le figliole, e, poiché ormai cominciava la vecchiaia, s'era accinto a scrivere una relazione del suo pellegrinaggio. Aveva già messo insieme parecchi capitoli, ma - confessò al giovane - Il suo latino era molto deficiente e lo inceppa-va ad ogni passo Offerse dunque a Boccadoro un abito nuovo e libero asilo, se voleva correggergli in bella copia ciò che aveva scritto fino allora, e poi aiutarlo a continuare. Era autunno: Boccadoro sapeva quel che ciò significava per un vagabondo. Anche l'abito nuovo era assai desiderabile. Ma sopra tutto piacque al giovane la prospettiva di rimanere ancora a lungo nella stessa casa con le due belle sorelle. Accettò senza esitare. Dopo pochi giorni la dispensiera del castello doveva aprire l'arma-dio delle stoffe; trovarono un bel panno marrone, con CUI fecero confezionare un abito ed un berretto per Boccadoro. Veramente il cavaliere aveva pensato al nero, ad una specie di veste da magister, ma il suo ospite non ne volle sapere e riuscì a dissuaderlo. Venne fuori così un grazioso costume, un pò da paggio e un pò da cacciatore, che gli stava benissimo Anche col latino non andò male. Rilessero insieme ciò ch'era stato scritto fino allora, e Boccadoro non solo corresse i molti vocaboli inesatti ed errati, ma qua e là trasformò anche le brevi frasi impacciate in eleganti periodi latini, con solide costruzioni e una perfetta consecutio temporum. Procurò così un gran godimento al cavaliere, che non gli era avaro di lodi. Ogni giorno passavano almeno due ore a quel lavoro. Nel castello - una specie di grande masseria fortificata Boccadoro trovò più d'un passatempo: prese parte alla caccia e dal cacciatore Enrico imparò a tirar con la balestra, fece amicizia coi cani e poté cavalcare a suo piacimento. Di rado lo si vedeva solo; o parlava con un cane o con un cavallo, oppure col cacciatore Enrico o con la dispensiera Lea, una grossa vecchia che aveva una voce maschile e una gran voglia di ridere e di scherzare, o infine col guardiano dei cani o con un pastore. Con la moglie del mugnaio, che abitava vicinissima, non sarebbe stato difficile fare all'amore, ma egli si teneva riserbato e faceva l'ingenuo. Delle due figlie del cavaliere era entusiasta. La minore era la più bella, ma così sdegnosa che non diceva quasi una parola con Boccadoro. Egli trattava ambedue col massimo riguardo ed ossequio, ma l'una e l'altra sentivano la sua vicinanza come una corte assidua. La più giovane si chiudeva tutta, fiera per timidezza. La maggiore, Lidia, aveva trovato con lui un tono speciale, fra rispettoso e canzonatorio, e lo trattava come una bestia rara d'erudito, rivolgendogli molte domande curiose, informandosi della vita del convento, ma sempre con un fare da gran dama superiore e un pò beffarda. Egli accondiscendeva a tutto; trattava Lidia come una dama, Giulia come una monachella, e quando, dopo cena, riusciva con la sua conversazione a trattenere le fanciulle a tavola un pò più a lungo del solito, o quando Lidia in cortile o in giardino gli rivolgeva talvolta la parola e si permetteva qualche piccolo scherzo, era contento e sentiva d'aver fatto un progresso. In quell'autunno le foglie indugiarono a lungo sugli alti frassini del cortile, in giardino rimasero fioriti a lungo gli asteri e le rose. Un giorno arrivò una visita; giunsero a cavallo un signore di un possedimento vicino, con sua moglie ed un palafreniere; la giornata mite li aveva indotti ad una gita più lunga del consueto e così erano arrivati fin là e chiedevano alloggio per la notte. Furono accolti molto cortesemente e subito il letto di Boccadoro fu trasportato dalla camera dei forestieri nello studio, la camera fu messa in ordine per i visitatori, vennero ammazzati alcuni polli e cercati pesci al mulino. Boccadoro partecipò con gioia al festoso trambusto e subito s'accorse d'attirare l'attenzione della signora straniera. La vo-ce e qualcosa nello sguardo di lei gli avevano appena n-velato la sua compiacenza e la sua brama, che egli notò anche, con crescente attenzione, operarsi un mutamento in Lidia: diventò chiusa e taciturna e cominciò a osservare lui e la dama. Quando durante la cena festosa il piede della signora prese a giocare sotto la tavola col piede di Boccadoro, egli rimase incantato non tanto di quel gioco quanto dell'ansia cupa e silenziosa, con cui Lidia lo seguiva con occhi curiosi e fiammeggianti. Infine egli lasciò cadere con intenzione un coltello per terra, si chinò sotto la tavola e sfiorò con una carezza il piede e la gamba della dama: vide Lidia impallidire e mordersi le labbra; continuò a raccontare aneddoti di convento e sentì che la straniera più che le storie ascoltava intensamente la sua voce insinuante. Anche gli altri stavano attenti, il suo padrone con benevolenza, L'ospite con volto impassibile, ma toccato anch'egli dal fuoco che ardeva nel giovane. Lidia non l'aveva mai udito parlare cosi: era come sbocciato, c'era un fremito di voluttà nell' aria, I suoi occhi brillavano, nella sua voce cantava la felicita, implorava l'amore. Le tre donne lo sentivano, ciascuna in modo diverso: la piccola Giulia con violenta riluttanza e resistenza; la moglie del cavaliere con soddisfazione raggiante; Lidia con un doloroso tumulto del cuore, che ondeggiava fra l'intimo desiderio, una blanda resistenza e la più viva gelosia, e che le allungava il volto e le faceva ardere gli occhi. Boccadoro sentiva tutte queste ondate che rifluivano a lui come risposte segrete alle sue seduzioni; i pensieri d'amore, di dedizione, di resistenza, di lotta reciproca gli volavano intorno come uccelli. Dopo cena Giulia si ritirò; era già notte avanzata, con la sua candela nel candeliere di terracotta lasciò il terrazzo, fredda come una piccola monaca. Gli altri rimasero ancora un'ora, e mentre i due signori parlavano del raccolto, dell'imperatore e del vescovo, Lidia ascoltava tutta accesa, un negligente chiacchierio, a proposito di nulla, fra Boccadoro e la dama, e vedeva intessersi fra i suoi fili lenti una fitta e dolce rete di domande e di risposte, di sguardi, di accenti, di piccoli gesti, ciascuno dei quali era carico di significato e rovente di ardore. La fanciulla aspirava l'atmosfera con avidità e insieme con orrore, e, quando scorgeva o intuiva che il ginocchio di Boccadoro sfiorava sotto la tavola quello della straniera, sentlva il contatto sul suo proprio corpo e sussultava. Poi non dormì, e per metà della notte stette in ascolto col batticuore, convinta che i due si sarebbero trovati insieme. Completò nella sua immaginazione quello che a loro era vietato, li vide abbracciati, udì i loro baci, e tremò persino d'agitazione, temendo e desiderando al tempo stesso che il cavaliere ingannato sorprendesse gli amanti e trafiggesse col suo pugnale il cuore di quell'abominevole Boccadoro. La mattina seguente il cielo era coperto, sofffiavan vento umido, e l'ospite, respingendo ogni invito di rimanere più a lungo, insistette per partire subito. Lidia era presente quando gli ospiti salirono a cavallo, strinse loro la mano, disse parole d'addio: ma non sapeva quel che faceva, tutti i suoi sensi erano concentrati nello sguardo con cui osservò la dama posare il piede, mentre monta-va in sella, fra le mani di Boccadoro, e la destra di lui, larga e ferma, afferrare la scarpa e stringere per un momento con forza il piede della donna. Partiti gli ospiti, Boccadoro dovette ritirarsi nello studio a lavorare. Dopo una mezz'ora udì risonare In basso la voce imperiosa di Lidia e condurre innanzi un cavallo; il cavaliere s'affacciò alla finestra e guardò giù sorridendo e scuotendo la testa; poi entrambi seguirono con lo sguardo Lidia, mentre usciva a cavallo dal cortile. Quel giorno il loro latino non avanzò di molto; Boccadoro era distratto; il suo signore, benevolo, lo congedò prima del solito. Sceso nel cortile, uscì inosservato sul suo cavallo, incontro al vento d'autunno fresco ed umido, nella campagna scolorita, serrando sempre più il trotto, sentì il cavallo scaldarsi sotto di sé e il suo stesso sangue info-carsi. Per campi di stoppie e di maggese, per la landa e per tratti di palude coperti di canne e setoloni, cavalcò respirando a pieni polmoni nella giornata grigia, traversando vallette di ontani e pinete imporrite, poi di nuovo sulla landa bruna e deserta. Sulla cresta alta di un colle, nitida contro il cielo nuvoloso color di cenere, scoperse la figura di Lidia, eretta sopra il cavallo che trottava lento. Egli si lanciò verso di lei; appena ella si vide inseguita, spronò il suo cavallo e si diede alla fuga. Ora scompariva, ora riappariva con capelli al vento, Egli le dava la caccia come ad una preda, e gli rideva il cuore, mentre con piccoli gridi affettuosi eccitava il cavallo, con occhi sereni coglieva a volo le caratteristiche del paesaggio, i campi acquattati, i boschetti di ontani, i gruppi d'aceri, le rive fangose degli stagni; ma poi riconduceva lo sguardo alla sua meta, alla bella fuggitiva. Presto l'avrebbe raggiunta. Quando Lidia lo sentì vicino, rinunciò alla fuga e mi-se il cavallo al passo. Non si voltò verso l'inseguitore. Fiera, apparentemente indifferente, continuò a cavalcare come se nulla fosse stato, come se fosse sola. Egli spinse il cavallo accanto al suo e i due animali proseguirono tranquilli l'uno di fianco all'altro, ma cavalli e cavalieri erano riscaldati dalla corsa. --Lidia! chiamò sottovoce. Ella non diede risposta. --Lidia! Ella rimase muta. --Com'era bello, Lidia, vederti cavalcare da lontano I tuoi capelli volavano dietro di te come una saetta d'o ro. Com'era bello! Ah, che meraviglia che tu sia fuggita da me! Così ho veduto per la prima volta che mi vuoi un pò di bene. Non lo sapevo, ancora ieri sera ero in dubbio. Solo quando hai cercato di sfuggirmi, L'ho capito a un tratto Bella, cara, devi essere stanca, smontiamo! Balzo rapido dal cavallo e nello stesso istante afferrò le redini di lei, perché non gli scappasse un'altra volta. Ella lo guardò pallidissima e, quand'egli la depose a terra, scoppiò in lacrime. Con ogni riguardo egli la condusse qualche passo avanti, la fece sedere sull'erba inaridita e le s'inginocchiò accanto. Ella lottava coi singhiozzi, lottava energicamente, finché riuscì a dominarli. -- Ah, come sei cattivo!--cominciò, quando poté parlare. Riusciva a stento a metter fuori le parole. --Sono così cattivo? -- Sei un seduttore di donne, Boccadoro. Lasciami dimenticare quello che mi hai detto dianzi erano parole impertinenti, a te non s'addice di parlarmi così. Come puoi credere che io ti voglia bene ? Dimentichiamo questo! Ma come posso dimenticare ciò che ho dovuto vedere ieri sera? --Ieri sera? E che cos'hai veduto? --Ah, non far così, non mentire così! Era orribile e impudente quello che facevi con quella signora davanti ai miei occhi! Non hai vergogna? Perfino la gamba le accarezza sotto la tavola, sotto la nostra tavola! Davanti a me, davanti ai miei occhi! E ora che quella se n'è andata, vieni a tender la{ci a me! Non sai davvero che co-sa sia la vergogna, Già da un pò Boccadoro si era pentito delle parole che le aveva dette prima di farla scender da cavallo. Che sciocchezza era stata! Le parole non erano necessarie nell'amore, avrebbe dovuto tacere. Non disse più nulla. Rimase inginocchiato davanti a lei, e, poiché lo sguardo con cui ella lo fissava era così bello e infelice, il dolore di lei gli si comunicò; anch'egli sentì che c'era qualcosa di cui dolersi. Ma non ostante tutto ciò ch'ella aveva detto, egli vedeva nel suo occhio l'amore; e anche la sofferenza che le contraeva le labbra era amore. Egli credeva al suo occhio più che alle sue parole. Ma Lidia aveva atteso una risposta. Poiché non venne, le sue labbra si fecero ancor più sdegnose; lo guardò con gli occhi umidi e ripeté: --Non hai dunque proprio pudore? -- Perdona, -- rispose lui umile, -- noi parliamo ora di cose di cui non si dovrebbe parlare. E colpa mia, perdonami! Tu domandi se non ho pudore. Sì, certo ne ho. Ma ti voglio bene, vedi, e l'amore non conosce pudore. Non essere in collera! Pareva quasi ch'ella non udisse. Immobile, faceva quella bocca amara e fissava lo sguardo lontano, come se fosse sola. Egli non si era mai trovato in una situazione simile. Dipendeva dall'aver parlato. Appoggiò dolcemente il volto sul ginocchio di lei e il contatto gli fece subito bene. Ma era un pò perplesso e triste e anch'ella continuava ad apparire triste: sedeva immobile, taceva e guardava lontano. Quanto imbarazzo, quanta mestizia! Ma il ginocchio accolse benevolo la sua guancia, non lo respinse. E il suo volto rimase, con gli occhi chiusi, su quel ginocchio, la cui forma nobile e al-lungata gli s'impresse dentro a poco a poco. Boccadoro pensava con gioia e commozione alla corrispondenza che esisteva fra la forma elegante e giovanile del ginocchio di Lidia e le unghie, belle, fortemente arcuate delle sue dita. Riconoscente si strinse a quel ginocchio, lasciò che la sua guancia e la sua bocca parlassero con lui. Allora sentì la mano di lei posarsi timida e lieve come una piuma sopra i suoi capelli. Cara mano! pensò mentre sentiva sul suo caPo la carezza delicata, infantile. Egli r aveva già più volte osservato e ammirato quella mano, la conosceva quasi come la propria, conosceva le dita lunghe e agili dalle unghie lunghe rosee e ben arcuate. In quel momento le dita lunghe e tenere parlavano timide con le ciocche dei suoi capelli. Il loro linguaggio era infantile e trepido, ma era amore. Riconoscente, egli affondò il capo in quella mano, ne sentì la palma con la nuca, con le guance. Allora ella disse: --E ora d'andare! Egli sollevò il capo, la guardò teneramente, baciò con dolcezza le sue dita sottili. --Ti prego, alzati, -- disse lei, -- dobbiamo andare a casa. Egli obbedì subito, si alzarono, salirono sui loro cavalli, partirono. Il cuore di Boccadoro era al colmo della felicità. Co-me era bella Lidia, così infantilmente pura e delicata! Non l'aveva ancora baciata, eppure gli pareva d'aver ricevuto un dono ed era tutto pieno di lei. Andarono di galoppo, e solo quand'erano già quasi a casa e stavano per entrare nel cortile ella esclamò sgomenta: -- Non avremmo dovuto arrivare tutti e due insieme. Che sciocchi. E all'ultimo istante, mentre scendevano dai cavalli e già accorreva un garzone di stalla, sussurrò all'orecchio di Boccadoro, rapida e ardente: --Dimmi se stanotte sei stato presso quella donna! -- Egli scosse ripetutamente la testa e s'accinse a toglier le redini dal suo cavallo. Nel pomeriggio, quando il padre fu uscito, ella comparve nello studio. --E proprio vero? -- domandò subito con passione; ed egli capì immediatamente ciò che intendeva. --Perché allora hai giocato con lei, così vergognosa-mente, e l'hai fatta innamorare? --Tutto era diretto a te,--diss'egli.--Credimi, avrei preferito mille volte carezzare il tuo piede che il suo. Ma il tuo piede non è mai venuto a me sotto la tavola, non mi hai domandato se ti voglio bene. --Mi vuoi bene davvero, Boccadoro? --Oh sì! --Ma come andrà a finire? --Non lo so, Lidia. E neppur me ne curo. Sono felice di amarti... Come andrà a finire? Io non Cl penso. Sono contento quando ti vedo cavalcare e quando sento la tua voce e quando le tue dita mi accarezzano i capelli. Sarò contento quando ti potrò baciare. --Si può baciare solo la propria sposa, Boccadoro. Non ci hai mai pensato? --No, non ci ho mai pensato. E perché dovrei? Tu sai come me che non puoi diventare mia sposa. --E così. E poiché tu non puoi diventare mio marito e rimanere sempre con me, hai fatto molto male a parlarmi d'amore. Hai forse creduto di potermi sedurre? --Non ho creduto e pensato nulla, Lidia; io penso in genere molto meno di quel che tu creda. Non desidero altro se non che tu mi voglia baciare. Parliamo troppo. Gli amanti non parlano. Io credo che non mi vuoi bene. -- Stamattina hai detto il contrario. -- E tu hai fatto il contrario! -- Io ? Che vuoi dire ? -- Prima di tutto sei scappata di galoppo quando mi hai visto giungere. Allora io ho creduto che tu mi amassi. Poi non hai potuto fare a meno di piangere, e io ho creduto che fosse perché mi volessi bene. Poi, quando la mia testa era appoggiata al tuo ginocchio, mi hai ac-carezzato, e io ho creduto che fosse amore. Ma ora non dimostri di volermi bene. --Io non sono come la donna di cui ieri accarezzavi il piede; tu sembri abituato a donne di quella fatta. --No, grazie a Dio, tu sei molto più bella e più fine di lei. - Non voglio dir questo. - Oh, ma è così. Sai tu come sei bella? --Ho uno specchio. --Ci hai mai veduto la tua fronte, Lidia, e poi le spalle, e poi le unghie, e poi le ginocchia? E hai veduto co-me tutto questo si assomiglia ed è in armonia, come tutto ha la stessa forma, una forma lunga, distesa, definita e molto slanciata? L'hai veduto? --Come parli! Veramente non l'ho mai veduto, ma ora che lo dici so ciò che intendi. Senti, sei un gran seduttore, ora tenti di rendermi vana. -- Peccato, non riesco proprio a contentarti. Ma perché debbo tenerci a renderti vana ? Sei bella e vorrei mostrarti che te ne sono grato, Tu mi costringi a dirtelo a parole; potrei dirtelo mille volte meglio che con le parole. A parole non ti posso dar nulla. A parole non posso neppure imparar nulla da te, né tu da me. --E che cosa dovrei imparare da te? --Io da te, Lidia, e tu da me. Ma non vuoi. Tu vuoi amare solo colui di cui sarai sposa. Egli riderà, quando vedrà che non hai imparato nulla, neppure a baciare. --Ah, nel baciare dunque vorresti istruirmi, signor magister? Egli le sorrise. Se anche le sue parole non gli piacevano, poteva tuttavia sentire dietro quel tono saputo, un po violento e artificioso, la sua verginità che, assalita dalla concupiscenza, se ne difendeva con sgomento. Egli non rispose più. Le sorrise, cattivò con gli occhi lo sguardo inquieto di lei, mentr'ella non senza resistenza cedeva al fascino, avvicinò lentamente il proprio volto al suo, finché le labbra si toccarono. Sfiorò lieve la bocca di lei, che rispose con un piccolo bacio infantile e poi s'aperse come in doloroso stupore, quand'egli non le permise di staccarsi. Con dolce insistenza egli seguì la bocca che fuggiva, finché questa ritornò esitante verso di lui; e, senza violenza, insegnò alla fanciulla ammaliata come si riceve e come si dà un bacio, finché ella, esausta, lasciò cadere Il VISO sulla sua spalla. Egli non la scosse, aspirò felice il profumo dei suoi folti capelli biondi, le mormorò all'orecchio parole tenere e consolanti e in quel momento si rammentò del giorno in cui, scolaro ignaro, era stato iniziato al mistero dalla zingara Lisa. Come erano neri i suoi capelli, com'era bruna la sua pelle e come bruciava il sole, e l'erba vizza di san Giovanni come odorava! Quanto tempo era passato, da quale lontananza gli ribalenava davanti! Com'era appassito presto ciò che poc'anzi fioriva ancora ! Lidia si drizzò lentamente, col viso trasformato, i suoi occhi innamorati lo guardavano grandi e seri. --Lasciami andare, Boccadoro, -- disse, --sono stata tanto tempo con te. Oh, caro, caro! Ogni giorno trovarono la loro ora segreta, e Boccadoro Si lasciava guidare interamente dall'amante: quell'amore di fanciulla lo rendeva meravigliosamente felice e lo commoveva. Talvolta per un'ora intera ella non voleva far altro che tenere le mani di lui nelle sue e guardarlo negli occhi, poi si congedava con un bacio infantile. Altre volte baciava con abbandono, insaziabile, ma non tollerava di essere toccata. Una volta, arrossendo intensamente e con uno sforzo su se stessa, nel desiderio di procurargli una grande gioia gli lasciò contemplare un seno; lo estrasse timida dalla veste; quand'egli, in ginocchio, L'ebbe ba-ciato, lo ricoperse con cura, sempre rossa fino ai capelli. Parlavano anche, ma in un modo nuovo, non più come il primo giorno; inventavano nomi l'uno per l'altro, ella gli raccontava volentieri della sua infanzia, dei suoi sogni e dei suoi giochi. Spesso parlava anche di quel loro amore, che le sembrava ingiusto, poiché egli non poteva sposarla; ne parlava triste e rassegnata e adornava il suo amore col segreto di quella tristezza come un velo nero. Per la prima volta Boccadoro si sentiva non solo desiderato, ma amato da una donna. Un giorno Lidia disse: --Sei tanto bello e sembri tanto sereno, ma in fondo ai tuoi occhi non c'è serenità, c'è solo tristezza; come se i tuoi occhi sapessero che la felicità non esiste, che ogni cosa bella e cara non rimane a lungo presso di noi. Tu hai gli occhi più belli che ci possano essere e i più tristi. Credo che sia perché non hai patria. Sei venuto a me dai boschi, un giorno riprenderai il tuo cammino e tornerai a dormire sul musco e a vagare per il mondo... Ma la mia patria dov'è? Quando partirai, avrò bensì ancora un padre e una sorella, una camera ed una finestra, dove sedere pensando a te; ma una vera patria non l'avrò più. Egli la lasciava dire, a volte sorrideva, a volte rimaneva turbato. Non la consolava mai con parole, solo con lievi carezze, tenendo la testa di lei sul suo petto e mormorando sommesso magici suoni vuoti di senso, come quelli che le nutrici mormorano ai bimbi per acquetarli, quando piangono. Un giorno Lidia disse: -- Vorrei un pò sapere, Boccadoro, che cos'avverrà di te; tante volte ci penso. Non avrai una vita comune né facile. Ah, pur che ti vada bene! Qualche volta penso che dovresti diventar poeta, uno che ha soglli e visioni e sa esprimerli bene. Ah, tu girerai tutto il mondo, e tutte le donne ti ameranno, ma tu resterai solo. Ritorna piuttosto al convento dall'amico di cui mi hai raccontato tante cose! Io pregherò per te, perché tu non debba un giorno morire solo nel bosco. Così parlava talvolta, seria e pensosa, gli occhi smarriti. Ma poi sapeva ridere ancora e cavalcare con lui per la campagna nell'autunno avanzato, o proporgli indovinelli scherzosi e tempestarlo di fronde secche e di ghiande lucenti. Una sera Boccadoro era nel suo letto, in attesa del sonno. Il suo cuore era greve: greve e forte gli pulsava nel petto, con una sensazione dolce e dolorosa, traboccante d'amore, traboccante di tristezza e di perplessità. Sentiva il vento novembrino scuotere il tetto; era ormai abituato ad aspettare a lungo prima che giungesse il sonno. Recitava fra sé, come soleva ogni sera, un inno a Maria: Tota pulchra es, Maria Et macula originalis non es in te. Tu laetitia Israel, Tu advocata peccatorum! L'inno penetrava nella sua anima con la sua musica placida, mentre fuori cantava il vento, cantava del peregrinar senza pace, della foresta, dell'autunno, della vita dei vagabondi. Egli pensava a Lidia e pensava a Narciso e a sua madre; gonfio ed oppresso era il suo cuore inquieto. A un tratto sussultò e sbarrò gli occhi incredulo: la porta della camera s'era aperta, nel buio entrava una figura avvolta in una lunga camicia bianca, entrava silenziosa Lidia, a piedi nudi sull'impiantito, chiudeva piano la porta e si metteva a sedere sul suo letto. --Lidia -- bisbigliò lui, -- colombina mia, mio fiorellino bianco! Lidia, che fai? --Vengo da te, -- rispose, -- solo per un momento. Voglio vedere una volta come sta nel suo lettino il mio Boccadoro, il mio cuor d'oro. Si coricò accanto a lui e rimasero in silenzio, mentre i loro cuori battevano forte. Ella si lasciò baciare, lasciò che le mani di lui giocassero ammirate con le sue membra: di più non era permesso. Dopo un poco allontano dolcemente da sé quelle mani, lo baciò sugli occhi, si alzò tacita e sparì. La porta cigolò, nell'armatura del tetto il vento scricchiolava. Tutto era pieno di magia, di mistero, di ansietà, di promessa, di minaccia. Boccadoro non sapeva quel che pensasse o facesse. Quando dopo un assopimento inquieto si ridestò, il suo guanciale era bagnato di lacrime. Ritornò dopo alcuni giorni, il dolce fantasma bianco, e rimase presso di lui un quarto d'ora, come la prima volta. Cinta dalle sue braccia, gli sussurrava all'orecchio: aveva tante cose da dire, che le facevano pena. Egli l'ascoltava affettuoso, sostenendo il corpo di lei col braccio sinistro e carezzandole con la destra le ginocchia. -- Mio Boccadoro, --diss'ella con voce smorzata e con la bocca sulla guancia di lui, -- è così triste che io non possa diventare mai tua! Non durerà più a lungo la nostra piccola felicità, il nostro piccolo segreto. Giulia ha già qualche sospetto, presto mi costringerà a rivelarglielo. Oppure se n'accorgerà il babbo. Se egli mi trovasse qui vicino a te, mio uccellino d'oro, la tua Lidia la vedrebbe brutta; se ne rimarrebbe con gli occhi pieni di lacrime a guardar su verso gli alberi e vedrebbe il suo diletto, appeso là in alto, ciondolare al vento. Ah, senti, fuggi piuttosto, fuggi subito, prima che mio padre ti faccia legare e impiccare. Ho già visto impiccare un uomo, un ladro. Non voglio veder te, fuggi piuttosto e dimenticami; pur che tu non debba morire. Doruccio, che gli uccelli non vengano a beccare i tuoi occhi azzurri! Ma no, mio tesoro, non devi andartene... ah, che farò se mi lasci sola? --Non vuoi venire con me, Lidia? Fuggiamo insieme, il mondo è grande! -- Sarebbe molto bello, -- disse lei con voce dolente, -- ah, tanto bello percorrere con te il mondo intero! Ma non posso. Non posso dormire nel bosco e vivere da vagabonda e avere fili di paglia nei capelli; non posso. E non posso nemmeno disonorare mio padre... No, non dir nulla, non sono immaginazioni. Non posso! Non sarei capace come non potrei mangiare in un piatto sudicio o dormire nel letto di un lebbroso. Ahimè, a noi è vietato tutto ciò che sarebbe buono e bello, noi due siamo nati per soffrire. Doruccio, mio povero piccolo, dovrò finire col vederti impiccato. Ed io, io verrò rinchiusa e poi mandata in un convento. Mio caro, devi lasciarmi e tornar a dormire con le zingare e con le contadine. Ah, va, va prima che ti prendano e ti leghino! Non saremo mai felici, mai. Egli le sfiorava lieve le ginocchia e tentando una delicata e intima carezza chiedeva: --Fiorellino mio, potremmo essere tanto felici! Non me lo permetti? Ella respinse la mano di lui, senza indignazione ma con forza, e si scostò un poco. --No, -- disse, --- no, questo non ti è permesso. A me è proibito. Tu, piccolo zingaro, forse non lo capisci. Io faccio male, sono una ragazza cattiva, io reco disonore a tutta la casa. Ma in qualche segreto recesso della mia anima sono ancora fiera, e là nessuno può entrare. Devi lasciarmi questo, altrimenti non potrò più venire qui in camera tua. Egli non avrebbe mai trasgredito un divieto, un desiderio, un cenno suo. Era meravigliato egli stesso di quanto potere ella avesse su di lui. Ma soffriva. I suoi sensi restavano inappagati e il suo cuore si ribellava spesso con violenza a quella soggezione. Talvolta si sforzava di liberarsi. Talvolta faceva la corte con ricercata galanteria alla piccola Giulia; e del resto era assolutamente necessario mantenere buoni rapporti con questa persona importante, ingannandola fin dov'era possibile. Curiosa l'impressione che gli faceva questa Giulia, che ora aveva l'ingenuità di una bambina e ora pareva onnisciente! Senza dubbio era più bella di Lidia, era di una bellezza non comune, e questa, unita con quella sua ingenuità infantile un pò saccente, aveva per Boccadoro una grande attrattiva: spesso era vivamente innamorato di Giulia. E proprio da questa forte attrattiva che la sorella esercitava sui suoi sensi, egli riconosceva spesso con stupore la differenza fra la brama e l'amore. Da principio aveva guardato le due sorelle con gli stessi occhi, entrambe gli erano parse appetibili, ma Giulia più bella e più seducente; ad entrambe senza distinzione aveva fatto la corte, da entrambe non aveva tolto gli occhi di dosso. Ma poi quale potere aveva acquistato Lidia su di lui! Ormai egli l'amava tanto, da rinunciare per amore perfino a possederla interamente. L'anima della fanciulla gli si era rivelata e gli era diventata cara: nell'infantilità, nella tenerezza, nell'inclinazione alla tristezza pareva simile alla sua; spesso era profondamente stupito e incantato nel constatare come quell'anima corrispondesse al corpo che l'ospitava; qualunque cosa Lidia facesse, qualunque desiderio o giudizio esprimesse, la sua parola e l'atteggiamento della sua anima erano perfettamente improntati al taglio dei suoi occhi e alla forma delle sue dita! Questi momenti, in cui egli credeva di scorgere le forme fondamentali e le leggi secondo cui era plasmato l'essere di Lidia, anima e corpo, avevano spesso suscitato in Boccadoro il desiderio di fissare e riprodurre qualcosa di quella figura; e aveva tentato di disegnare a memoria, con tratti di penna, sopra foglietti che teneva ben celati, il profilo della sua testa, la linea delle sue sopracciglia, la sua mano, il suo ginocchio. Con Giulia la situazione s'era fatta un pò critica. Evidentemente ella intuiva l'ondata d'amore in cui nuotava la sorella maggiore, e i suoi sensi si volgevano pieni di curiosità e di desiderio a quel paradiso, senza che il suo intelletto caparbio volesse ammetterlo. A Boccadoro mostrava una freddezza e un'avversione esagerata, ma nei momenti d'oblio poteva guardarlo con ammirazione e cupida curiosità. Con Lidia era spesso molto affettuosa, talvolta andava perfino a trovarla nel letto e respirava allora con segreta avidità nella zona dell'amore e del sesso, sfiorando maliziosa il mistero proibito e vagheggiato. Altre volte invece lasciava capire in modo quasi offensivo che sapeva del fallo segreto di Lidia e lo disprezzava. Provocante e perturbatrice, la bella e capricciosa creatura guizzava fra i due amanti come una fiamma irrequieta; nei sogni avidi gustava furtivamente della loro intimità, ora si fingeva ignara, ora lasciava scorgere una pericolosa con- sapevolezza; in brevissimo tempo s'era trasformata da una bambina in una potenza. Chi ne soffriva di più era Lidia; Boccadoro, fuorché ai pasti, vedeva di rado la piccola. Lidia inoltre non poteva non accorgersi che Boccadoro non era insensibile alle grazie di Giulia, talvolta vedeva lo sguardo di lui posarsi sulla sorella con un godimento pieno d'ammirazione non osava dir nulla, tutto era così scabroso, così pericoloso! Specialmente non bisognava contrariare e offendere Giulia; ah, ogni giorno ed ogni ora. -il loro amore poteva essere scoperto e la loro felicità, così difficile e inquieta. avere una fine, forse terribile. A volte Boccadoro si meravigliava di non essersene andato da un pezzo. Era difficile vivere così come viveva allora: amato, ma senza speranza, né di una felicità per-messa e durevole, né di quei facili appagamenti, a cui erano stati fino allora abituati i suoi desideri amorosi; con gli istinti sempre eccitati e affamati, ma non mai placati, e per di più in continuo pericolo. Perché rimaneva lì e sopportava tutto, tutte quelle complicazioni e quei sentimenti aggrovigliati ? Non erano sentimenti, esperienze e stati d'animo da sedentari, da legittimi, da gente amante delle stanze riscaldate? Non aveva egli il diritto del vagabondo senza esigenze, di sottrarsi a quelle complicate delicatezze e di ridersene? Sì, aveva questo diritto, ed era un pazzo a cercare lì una specie di patria e a pagarla con tante sofferenze, con tanti imbarazzi. E tuttavia lo faceva e soffriva, soffriva volentieri, e in cuor suo si sentiva felice. Era sciocco e diffficile, complicato e faticoso vivere in quel modo, eppure era una meraviglia! Meravigliosa era la tristezza cupa e pur bella di quell'amore, la sua follia senza speranza; belle quelle notti insonni, con la mente agitata e col cuore oppresso; bello e delizioso tutto, come l'espressione dolorosa delle labbra di Lidia, come il suono perduto, rassegnato della sua voce, quando parlava del suo amore e della sua ansia. In poche settimane quell'espressione di dolore s'era diffusa sul suo volto giovanile, e gli era diventata consueta; Boccadoro avrebbe tanto voluto ritrarre le linee di quel volto; e sentiva che anch'egli in quelle poche settimane era diventato diverso e più uomo: non più saggio di prima, ma più esperto; non più felice, ma più maturo e più ricco nell'anima. Non era più un ragazzo. Con la sua voce dolce e smarrita Lidia gli diceva: -Non devi esser triste, non devi esserlo per causa mia; io vorrei solo farti lieto e vederti felice. Perdonami d'averti reso triste, d'averti comunicato la mia ansia e la mia pena! Di notte faccio sogni così strani! Cammino sempre in un deserto, così vasto e così tetro che non so dire; cammino e cammino e ti cerco, ma tu non ci sei e io so che ti ho perduto e che sempre, sempre dovrò andare così, sola. Poi, quando mi sveglio, penso: oh gioia! oh meraviglia! egli è qui, lo vedrò ancora, forse per qualche settimana, forse per qualche giorno, non importa, ma è ancora qui! Una mattina Boccadoro si destò nel suo letto poco dopo l'alba e rimase un pezzo a meditare, mentre ancora gli aleggiavano intorno, sconnesse, le immagini d'un sogno. Aveva sognato di sua madre e di Narciso: vedeva ancora distintamente le due figure. Quando si fu liberato dalle fila del sogno, lo colpì una luce strana, un chiarore nuovo, che entrava dalla stretta apertura della finestra. Balzò in piedi e corse al davanzale: vide questo il tetto della scuderia, L'ingresso del cortile e tutta la campagna fuori risplender bianchi azzurrognoli nel manto della prima neve dell'anno. Lo colpì il contrasto fra l'inquietudine del suo cuore e la placida rassegnazione del mondo invernale: come campi e boschi, colli e lande s'abbandonavano tranquilli, con mansuetudine commovente, al sole al vento, alla pioggia, alla siccità, alla neve; con che dolce e bella pazienza aceri e frassini portavano il loro carico invernale! Non era possibile divèntar come loro, imparare da loro? Uscì pensieroso nel cortile, guazzò nella neve, la tastò con le mani, passò nel giardino e guardò di là dalla siepe imbiancata, ai rosai curvi sotto l'insolito peso. A colazione mangiarono una minestra di farina; tutti parlavano della prima neve, tutti, anche le ragazze erano già state fuori. Quell'anno la neve giungeva tardi, era già vicino Natale. Il cavaliere raccontava dei paesi del Sud, dove la neve non cadeva mai. Ma ciò che doveva rendere indimenticabile a Boccadoro quel primo giorno d'inverno accadde quando già s'era fatta notte da un pezzo. Le due sorelle quel giorno avevano avuto un litigio, di cui Boccadoro non sapeva nulla. La notte, quando tutta la casa fu immersa nel silenzio e nella tenebra, Lidia venne da lui come al solito, gli si mise accanto senza dir parola e gli appoggiò la testa sul petto, per sentir battere il suo cuore e per attinger conforto dalla sua vicinanza. Era turbata e inquieta, temeva che Giulia la tradisse, ma non sapeva decidersi a parlarne al suo diletto e a metterlo in ansia. Giaceva così silenziosa sul cuore di lui, lo udiva sussurrare di tanto in tanto qualche parolina affettuosa e sentiva la sua mano fra i capelli. Ma a un tratto - non era ancor passato molto tempo - ella sussultò atterrita e si drizzò a sedere con gli occhi sbarrati Anche Boccadoro si spaventò non poco, quando vide aprirsi la porta della camera ed entrare una figura, che nello sgomento non riconobbe subito. Solo quando l'apparizione fu vicina al letto e si chinò sopra. di esso, vide col cuore oppresso che era Giulia. Ella scivolò fuori da un mantello, gettato sopra la semplice camicia, e lo lasciò cadere in terra Con un gemito, come se avesse ricevuto una coltellata, Lidia ricadde indietro, aggrappandosi a Boccadoro. Giulia, con un tono di scherno e di gioia maligna, ma con voce malsicura, disse: -- Non mi piace restare in camera così sola. O mi prendete con voi e stiamo a letto in tre, o vado a svegliare il babbo. -- Ma sì, vieni pure, -- disse Boccadoro gettando indietro la coperta. --Altrimenti ti gelano i piedi. -- Ella salì sul lettino stretto ed egli riuscì a farle un pò di posto a stento, perché Lidia aveva affondato il viso nel cuscino e giaceva immobile. Alfine furono coricati tutti e tre, Boccadoro con una fanciulla per parte, e per un momento egli non poté esimersi dal pensare quanto quella situazione, solo poco tempo prima, avrebbe corrisposto ai suoi desideri. Con una strana inquietudine, ma con segreta voluttà, sentiva il contatto dei fianchi di Giulia. -- Dovevo pur vedere una volta, -- ricominciò lei, -come si sta nel tuo letto, che mia sorella visita tanto volentieri. Boccadoro per acquetarla le sfiorò i capelli con la guancia e con mano lieve le carezzò le anche e le ginocchia, come si fa con un gattino; ed ella s'abbandonò tacita e curiosa a quella mano tentatrice, avvinta e raccolta ne sentì il fascino, non oppose resistenza. Intanto però, durante questa specie di scongiuro, egli si preoccupava di Lidia, le mormorava all'orecchio le consuete, sommesse note d'amore, inducendola così a poco a poco a sollevare almeno il viso e a volgerlo verso di lui. Allora, senza far rumore, le baciò la bocca e gli occhi, mentre dall'altra parte la sua mano teneva la sorella sotto l'incantesimo, e la coscienza di quanto fosse penosa e bizzarra tutta la situazione cresceva in lui fino a diventare insopportabile. Quella mano gl'insegnava tante cose! Mentre faceva conoscenza con le belle membra di Giulia, immobili nelL'attesa, egli sentiva per la prima volta non solo la bellezza senza speranza del suo amore per Lidia, ma anche il lato ridicolo di esso. Egli avrebbe dovuto, così gli pareva mentre con le labbra sfiorava Lidia e con là mano Giulia, avrebbe dovuto costringere Lidia a darglisi, oppure proseguire per il suo cammino. Amarla e rinunciare a lei era stata un'assurdità e un'ingiustizia. --Cuor mio, --le sussurrò all'orecchio, --noi soffriamo delle pene inutili. Come potremmo esser felici tutti e tre! Facciamo dunque quello che vuole il nostro sangue! Ella si ritrasse con orrore e la brama di lui cercò rifugio presso la sorella; questa, lusingata dalla sua mano, rispose con un lungo sospiro tremante di voluttà. A quel sospiro, il cuore di Lidia si contrasse di gelosia come se vi avessero stillato dentro veleno. Ella si rizzò a un tratto, gettò via le coperte, balzò in piedi ed esclamò: -Giulia, andiamo! Giulia trasalì; la violenza incauta di quel grido, che poteva tradirli tutti, bastò a mostrarle il pericolo; s'alzò in silenzio. Ma Boccadoro, offeso e deluso in tutti i suoi istinti, L'abbracciò in fretta, la baciò e le sussurrò con ardore: -Domani, Giulia, domani! Lidia attendeva ritta e scalza, mentre le dita dei piedi le si contraevano per il freddo sul pavimento di pietra. Raccolse da terra il mantello di Giulia e glielo avvolse intorno alle spalle, con un gesto umile e sofferente, che malgrado l'oscurità non sfuggì all'altra, la commosse e la conciliò. Le due sorelle guizzarono via dalla camera, tacite e furtive. Boccadoro le seguì con l'orecchio, combattuto da opposti sentimenti, e respirò quando la casa risprofondò nel silenzio. Così i tre giovani, dopo essere stati insieme in una situazione strana e contro natura. si ritrovarono soli e pensosi; giacché anche le due sorelle, raggiunta la loro camera, non si sentirono di venire ad una spiegazione, ma rimasero sveglie ciascuna nel suo letto, silenziose e sdegnose. Pareva che uno spirito di sventura e di contraddizione, che il demone dell'assurdità, dell'isolamento e dello smarrimento si fosse impadronito della casa. Boccadoro s'addormentò solo dopo mezzanotte, Giulia verso il mattino. Lidia rimase desta ed angustiata finché la luce scialba del giorno si diffuse sopra la neve. Tosto s'alzò, si vestì, s'inginocchio davanti al suo piccolo Redentore di legno e pregò a lungo; appena udì sulle scale il passo di suo padre, uscì e gli chiese un colloquio. Senza tentar di distinguere fra la preoccupazione per la virtù adolescente di Giulia e la propria gelosia, s'era risolta a por fine ad ogni cosa. Boccadoro e Giulia dormivano ancora, che già il cavaliere sapeva tutto ciò che Lidia aveva creduto di comunicargli. Della partecipazione di Giulia all'avventura non aveva detto nulla. Quando Boccadoro si presentò nello studio all'ora consueta, vide che il cavaliere, di solito intento alle sue scritture, in scarpe da casa e abito di feltro, s'era messo gli stivali, la giubba ed aveva cinto la spada; capì subito di che si trattava. --Mettiti il berretto,--disse il cavaliere,--debbo fare un giro con te. Boccadoro prese dal chiodo il berretto e seguì il suo signore giù per le scale, attraverso il cortile e fuori del portone. Le loro suole scricchiolavano sulla neve lievemente gelata, in cielo indugiava ancora l'aurora. Il cavaliere precedeva in silenzio, il giovane seguiva, volgendo più volte gli occhi indietro verso il castello, verso la finestra della sua camera, verso il tetto ripido, coperto di neve, finché tutto scomparve e non poté scorgere più nulla. Mai più avrebbe riveduto quel tetto e quelle finestre, mai più quello studio e quella camera da letto, mai più le due sorelle. Da tempo s'era abituato all'idea di una partenza improvvisa, tuttavia il cuore gli si stringeva dolorosamente. Quel distacco gli riusciva amaro, gli faceva male. Camminarono così per un'ora, il signore davanti, entrambi senza parlare. Boccadoro cominciò a pensare al suo destino. Il cavaliere era armato, forse lo avrebbe ucciso. Ma egli non ci credeva. Il pericolo era minimo; non aveva che da scappare e il vecchio sarebbe rimasto là con la sua spada, senza poter far nulla. No, la sua vita non era in pericolo. Ma quell'andare così in silenzio dietro quell'uomo solenne e offeso, quell'esser condotto via così, senza una parola, gli diventava di passo in passo più penoso. Finalmente il cavaliere s'arrestò. --Ora continuerai solo,--disse con voce spezzata,-sempre in questa direzione, e riprenderai la tua vita di vagabondo, alla quale eri già abituato. Se dovessi un giorno ricomparire nelle vicinanze della mia casa, saresti ucciso. Non voglio vendicarmi; avrei dovuto essere più prudente e non lasciare un uomo così giovane a contatto con le mie figliole. Ma se tu osassi ritornare, la tua vita sarebbe perduta. E ora va, che Dio ti perdoni! Rimase così, e nella luce scialba del mattino nevoso il suo viso incorniciato dalla barba grigia sembrava spento. Rimase come un fantasma e non si mosse, fin che Boccadoro fu scomparso dietro la cresta del primo colle. I bagliori rosati nel cielo nuvoloso erano svaniti; il sole non spuntò, cominciò a nevicare lentamente a piccoli fiocchi esitanti. INDEX CAPITOLO IX Boccadoro conosceva la regione, percorsa tante volte a cavallo: sapeva ch-di là dalla palude gelata c'era un granaio del cavaliere, e più oltre una casa colonica, dove era conosciuto; in uno di questi due luoghi avrebbe potuto sostare e pernottare. Per dopo avrebbe provveduto il domani. A poco a poco lo riprendeva quel senso della libertà e della terra straniera, a cui da qualche tempo s'era disabituato. Molto allettante non era, la terra straniera, in quella giornata d'inverno gelida e accigliata, sapeva di stento, di fame, di tribolazione, e tuttavia dalla sua vastità, dalla sua grandezza ed inesorabile asperità veniva al cuore viziato e sconvolto di Boccadoro un suono ras-sicurante e quasi di conforto. Camminò finché fu stanco. ``Ho ormai finito d'andare a cavallo" pensò. Oh, mondo immenso! La neve cadeva rada, lontano i dossi selvosi e le nubi si confondevano in un solo grigiore; regnava un silenzio immobile e infinito, fino in capo all'universo. Che n'era mai di Lidia, di quel povero timido cuore? Gli faceva tanta pena; pensava a lei con tenerezza, mentre, seduto in mezzo alla palude deserta, sostava sotto un frassino brullo e solitario. Infine il freddo lo cacciò via; s'alzò con le gambe irrigidite, le costrinse a poco a poco ad un passo di marcia; la scarsa luce della giornata fosca pareva già declinare. Nella lunga corsa per la campagna deserta gli vennero meno i pensieri. Non era più il caso di pensare o di col-tivar sentimenti, per quanto dolci e belli fossero; bisognava mantener caldo il corpo, raggiungere un asilo per la notte, sopravvivere in quel freddo inospitale, come una martora o una volpe, e possibilmente non morire subito lì nell'aperta campagna; tutto il resto non era importante. Credette d'udire in lontananza uno scalpitar di cavallo e si guardò attorno stupito. Possibile che lo inseguissero? Afferrò il piccolo coltello da caccia che teneva in tasca e preparò aperto il fodero di legno. In quel momento scorse il cavaliere e riconobbe da lontano un cavallo della stalla del suo signore, che puntava ostinatamente su di lui. Fuggire sarebbe stato inutile, rimase dunque in attesa, senza vera e propria paura, ma con ansiosa curiosità e con un certo batticuore. Un'idea fulminea gli traversò la mente: "Se riuscissi ad uccidere questo cavaliere, sarei un signore avrei un cavallo e mi sentirei padrone del mondo!". Ma quando nel cavaliere riconobbe il giovane stalliere Gianni con quegli occhi azzurri chiari come l'acqua e con quei viso di buon ragazzo impacciato, non poté fare a meno dl ridere; per ammazzare quel caro e buon figliolone, bisognava avere un cuore di sasso! Lo salutò con cordialità e salutò anche affettuosamente il cavallo Annibale che lo riconobbe subito; gli accarezzò il collo umido e caldo. -- Dove vai, Gianni? -- domandò. -- Da te, -- rise il ragazzo coi denti brillanti. -- Hai già fatto un bel pezzo di strada! Ecco, non posso fermarmi, debbo solo salutarti e consegnarti questo. -- Salutarmi da parte di chi? -- Della signorina Lidia. Una bella giornata ci hai procurato, magister Boccadoro! Sono contento di essermela svignata per un poco. Ma il signore non deve accorgersi che sono uscito, e con questa commissione! Mi costerebbe la testa! Prendi dunque! Gli porse un pacchetto, che Boccadoro ritirò. -- Dì, Gianni, non hai in tasca per caso un pezzo di pane? Dammelo! --Pane? Una crosta debbo avercela ancora.-- Si frugò nelle tasche e ne cavò fuori un pezzo di pan nero. Poi fece per ripartire. --E che cosa fa la signorina? -- domandò Boccadoro. --Non ti ha incaricato di nulla? Non hai una letterina? --Nulla. L'ho veduta un momento solo. Temporale in casa, sai; il signore corre in su e in giù, come re Saul. Dunque, ho da consegnarti codesto pacchetto, null'altro. Debbo tornare indietro. -- Senti ancora un momento solo! Tu, Gianni, non potresti cedermi il tuo coltello da caccia ? Io ne ho uno piccolo. Se vengono i lupi, o che so io... sarebbe meglio che avessi in mano qualcosa di solido. Ma di questo Gianni non volle assolutamente sapere. Gli rincresceva moltissimo che potesse capitar qualcosa a magister Boccadoro, ma il suo coltello, no, non lo avrebbe ceduto mai, neanche per denaro, neanche in cambio d'un altro, oh no, glielo avesse chiesto perfino santa Genoveffa! Ecco, e ora doveva andare, e gli augurava buona fortuna, e gli rincresceva tanto. Si strinsero la mano, il ragazzo ripartì a cavallo, Boccadoro lo seguì con gli occhi e con una strana sensazione di dolore al cuore. Poi sciolse l'involto, rallegrandosi della bella cinghia di cuoio con cui era legato. Dentro trovò un giubbetto a maglia di lana grigia e forte, evidentemente un lavoro che Lidia aveva fatto per lui; e, ben avvolto nella lana, c'era anche qualcosa di duro, un pezzo di prosciutto, e nel prosciutto era aperta una piccola fessura, in cui stava un ducato d'oro lucente. Di scritto nulla. Boccadoro rimase lì nella neve, coi doni di Lidia in mano, perplesso, poi si tolse la giacca e s'infilò il giubbetto di lana: teneva un bel caldo gradevole. Rimise in fretta la giacca, nascose la moneta d'oro nella tasca più sicura, si allacciò la cinghia intorno e continuò il suo cammino attraverso i campi; era ora di raggiungere un luogo di sosta, si sentiva stanco. Ma dal contadino non voleva andare, sebbene là avrebbe avuto più caldo e certo anche del latte; non aveva voglia di chiacchierare e di essere interrogato. Passò la notte nel granaio e il mattino per tempo riprese la marcia, sospinto dal freddo e dal vento gelido. Per molte notti sognò il cavaliere e la sua spada e le due sorelle; per molti giorni la solitudine e la tristezza gli oppressero il cuore. Una delle notti seguenti trovò asilo in un villaggio presso poveri contadini, che non avevano pane ma una zuppa di miglio. Qui l'aspettavano nuove esperienze. La contadina di cui era ospite partorì nella notte e Boccadoro assistette: eran corsi a chiamarlo sul suo pagliericcio, perché prestasse aiuto; in realtà non trovò altro da fare che tener il lume mentre la levatrice s'affaccendava. Era la prima volta ch'egli assisteva ad un parto; fissava con occhi ardenti e stupiti il volto della donna e si sentì arricchito a un tratto di una nuova esperienza. Ciò che scorse in quel volto di partoriente parve almeno a lui degno del più vivo interesse. Alla luce della fiaccola di pinastro, mentre osservava con grande curiosità il volto della donna in preda alle doglie, ebbe una rivelazione inattesa: le linee di quel volto contratto che gridava erano ben poco dissimili da quelle ch'egli aveva viste in altri volti di donne nel momento dell'ebbrezza d'amore! L'espressione della grande sofferenza nel volto umano era più violenta e più sfigurante che l'espressione di un grande godimento... ma in fondo non era diversa: lo stesso contrarsi in una specie di smorfia, lo stesso accendersi e spegnersi. Questa rivelazione, che dolore e piacere potessero essere simili come fratelli, lo sorprese in modo strano, senza che ne comprendesse il perché. Qualcos'altro ancora gli capitò in quel villaggio. Per amor di una vicina, incontrata la mattina dopo la notte del parto e che rispose subito all'interrogazione dei suoi occhi innamorati, rimase un'altra notte nel villaggio e rese felice la donna, poiché era la prima volta dopo tanto tempo, dopo tutti gli amori eccitanti delle ultime settimane e le loro delusioni, che il suo istinto si trovava di nuovo appagato. Quell'indugio condusse a una nuova vicenda; perché il giorno seguente nello stesso villaggio incontrò un compagno, un perticone avventuroso di nome Vittore, dall'aspetto fra il prete e il brigante, che lo salutò con squarci di latino e si presentò per un goliardo vagante, quantunque l'età dello studente l'avesse passata da un pezzo. Quest'uomo dalla barbetta aguzza salutò dunque Boccadoro con una certa cordialità e con quel gaio spirito del vagabondo, che conquistò subito il giovane camerata. Alla sua domanda dove fosse stato scolaro e qual meta avesse il suo viaggio, il curioso fratello esclamò: --Di accademie ne ho frequentate abbastanza, per l'anima mia poveretta; sono stato a Colonia ed a Parigi, e sulla metafisica della salsiccia di fegato poche volte furono dette cose così sostanziali come le esposi io nella mia tesi di laurea a Leida. Da allora, amica, corro come un misero porco per le terre tedesche, con la cara anima torturata da fame e sete incommensurabili; sono chiamato lo spauracchio dei contadini, e la mia professione è d'insegnare il latino alle donne giovani e di far passare per incanto le salsicce dal camino nel mio ventre. La mia meta è il letto della moglie del sindaco, e, se non sarò mangiato prima dalle cornacchie, difficilmente mi sarà risparmiato l'obbligo di dedicarmi alla fastidiosa carriera dell'arcivescovo. Ma è meglio, mio piccolo collega, vivere giorno per giorno, e in fin dei conti un arrosto di lepre non s'è mai sentito così bene come nel mio povero stomaco. Il re di Boemia è mio fratello, e il padre di noi tutti nutre lui come me; il più però lo lascia fare a me, e l'altro ieri, spietato come sono i padri, voleva adoperarmi malamente per salvare la vita a un lupo semi-affamato. Se non avessi ammazzato la belva, signor collega, non ti sarebbe mai toccato l'onore di fare la mia simpatica conoscenza. In saecula saeculorum, amen. Boccadoro, ancora poco avvezzo a quell'allegria disperata e al latino dei goliardi vaganti, aveva una certa paura di quel lungo tanghero ispido e delle risate poco gradevoli con cui accompagnava i propri scherzi; tuttavia c'era in quel vagabondo indurito alle fatiche qualcosa che gli piaceva; e si lasciò facilmente persuadere a continuare il cammino insieme, perché, vera o sballata che fosse la storia del lupo ammazzato, in ogni caso in due si era più forti e c'era meno da temere. Ma prima di proseguire, frate Vittore voleva parlar latino coi contadini, come diceva lui, e prese alloggio nella modesta casa d'uno di loro. Egli non faceva come aveva fatto fino allora Boccadoro nelle sue peregrinazioni, quand'era stato ospite nei casolari o nei villaggi; egli girava di capanna in capanna, attaccava discorso con ogni donna, ficcava il naso in ogni stalla e in ogni cucina e non pareva disposto a lasciar la borgata prima che ciascuna casa gli avesse pagato il suo tributo. Raccontava ai contadini della guerra in Italia e cantava presso il focolare la canzone della battaglia di Pavia, raccomandava alle nonne rimedi contro la gotta e contro la caduta dei denti, pareva che sapesse tutto, che fosse stato dappertutto, e intanto si riempiva la camicia sopra la cintura, fino a farla scoppiare, di pezzi di pane, di noci, di fette di pera regalate. Boccadoro lo guardava stupito compiere instancabile la sua campagna e ora spa-ventare la gente, ora conquistarla con le lusinghe, far lo spaccone per sbalordire, storpiar latino e atteggiarsi a scienziato, impressionare con un linguaggio pittoresco e impudente da ciurmatore, e, intanto che raccontava o spacciava discorsi eruditi, registrarsi con gli occhi acuti e vigili ogni volto, ogni cassetto che si apriva, ogni scodella e ogni pagnotta. Boccadoro s'accorgeva ch'era un vagabondo navigato e scaltrito, un uomo che aveva molto veduto e vissuto, che aveva patito la fame e il freddo e nella dura lotta per una misera vita pericolante s'era fatto accorto e sfrontato. Tali dunque diventavano quelli che vivevano a lungo da vagabondi, sarebbe un giorno divenuto anch'egli così? L'indomani si misero in cammino e per la prima volta Boccadoro sperimentò il vagabondaggio in due. Dopo tre giorni di marcia in comune, aveva imparato diverse cose da Vittore. L'abitudine divenuta istinto di riferir tutto ai tre grandi bisogni del vagabondo.- assicurarsi contro il pericolo della vita, trovare un asilo per la notte e procurarsi il cibo - aveva insegnato molte cose a quell'uomo che girava il mondo da tanti anni. Riconoscere la vicinanza di abitazioni umane dai segni meno appariscenti, anche d'inverno, anche di notte, ed esplorare palmo a palmo ogni angolo di bosco e di campagna in cerca di un luogo adatto per sostare o per dormire, fiutare istantaneamente, appena varcata la soglia di una stanza, il grado di benessere o di miseria del proprietario, come pure il grado del suo buon cuore, o della sua curiosità, o della sua paura: eran tutte arti in cui Vittore era diventato maestro. E così istruiva spesso il suo giovane compagno Un giorno questi gli rispose che a lui non piaceva avvicinarsi alla gente con riflessione così calcolata e che, sebbene non conoscesse tutte quelle arti, poche volte alla sua preghiera cortese gli era stato negato il diritto d'ospitalità; il lungo Vittore si mise a ridere e gli disse in tono bonario: -- Vedi, piccolo Boccadoro, a te può darsi che vada bene, sei giovane, bello e hai un aspetto così innocente, ch'è un ottimo biglietto d'alloggio. Piaci alle donne, e gli uomini pensano: << O Dio, costui è innocuo, costui non fa male a nessuno! ". Ma guarda, fratellino, che si diventa vecchi, che sulla faccia da bambino cresce la barba e si formano le rughe, che i pantaloni si lacerano, e all'improvviSo ci s'accorge d'essere ospiti brutti e sgraditi, e invece della giovinezza e dell'innocenza non parla più dagli occhi che la fame: allora uno dev'essersi indurito e aver imparato qualcosa dal mondo, altrimenti ben presto giace sul letamaio e i cani gli orinano addosso. Del resto, non mi pare che tu sia destinato a girovagare un pezzo, hai mani troppo fini e riccioli troppo belli, tornerai ad appiattarti in qualche luogo dove si vive più comoda-mente, in un dolce e tiepido talamo, o in un bel conventino grasso, o in uno studio ben riscaldato. Vesti anche abiti così eleganti, che ti si potrebbe prendere per un giovane gentiluomo. E ridendo sempre, passò la mano sui vestiti di Boccadoro; questi la sentì cercare e tastare su tutte le tasche e le cuciture; si ritrasse, pensando al suo ducato. Raccontò del soggiorno in casa del cavaliere e come avesse guadagnato il bell'abito-scrivendo latino. Ma Vittore volle sapere perché aveva lasciato un nido così caldo proprio nel cuore del rigido inverno, e Boccadoro, non abituato a mentire, gli narrò un poco delle due figlie del cavaliere. Scoppiò allora il primo dissidio fra i due compagni. Vittore dichiarava che Boccadoro era stato un asino senza pari ad andarsene così e ad abbandonare il castello con le ragazze al buon Dio. Bisognava rimediare, ci avrebbe pensato lui. Avrebbero ricercato il castello, naturalmente Boccadoro non doveva farsi vedere, ma lasciasse pur provvedere a lui. Bastava che scrivesse una letterina a Lidia, così e così, e con questa egli, Vittore, sarebbe andato al castello e, per le ferite del Redentore, non ne sarebbe uscito senza portar fuori qualcosa di denaro e di viveri. E via dicendo. Boccadoro protestò e finì con l'andar sulle furie; si rifiutò di ascoltare una parola di più su quell'argomento o di rivelare al compagno il nome del cavaliere e la via per arrivare a lui. Vittore, vedendolo così adirato, tornò a ridere e prese un fare bonario. --Bè, -- disse, -- non romperti i denti! lo ti dico solo che ci lasci sfuggire un buon bottino, ragazzo mio, e questo in verità non è molto gentile e collegiale da parte tua. Ma tu non vuoi, basta, tu sei un nobiluomo, ritornerai a cavallo nel tuo castello e ti sposerai la signorina! Ragazzo, quante nobili sciocchezze hai per la testa! Bè, andiamo pure avanti e geliamoci le dita dei piedi! Boccadoro rimase di cattivo umore e taciturno fino a sera, ma, poiché in quel giorno non avevano trovato alcuna abitazione o traccia d'uomo, fu grato a Vittore quando lo vide cercare un posto per passar la notte e costruire fra due tronchi sul margine del bosco una specie di riparo allestendo un giaciglio di rami d'abete accatastati. Mangiarono pane e formaggio dalle tasche piene di Vittore, Boccadoro si vergognò della sua collera e si mostrò gentile e servizievole; offerse al compagno la sua giacca di lana per la notte e stabilirono insieme di far la guardia a turno, per via degli animali; e Boccadoro volle vegliare per primo, mentre l'altro si coricava sui rami d'abete. Rimase a lungo appoggiato a un tronco di pino, senza muoversi, per non impedire all'altro di addormentarsi. Poi cominciò a camminare in su e in giù, perché aveva freddo. E percorse così distanze sempre maggiori, mentre vedeva le cime degli abeti puntarsi aguzze contro il cielo pallido e sentiva con solennità e con un poco d'inquietudine il silenzio profondo della notte invernale e il battito solitario del suo cuore caldo e vivo nella quiete fredda e muta; poi, ritornando senza far rumore, ascoltava il respiro del compagno dormiente. Più forte che mai lo penetrò il sentimento del vagabondo, che non ha costruito mura di case, di castelli o di conventi fra sé e la grande paura, che cammina solo soletto per il mondo incomprensibile ed ostile, solo fra le stelle fredde e beffarde, fra gli animali in agguato, fra gli alberi pazienti e fermi. No, pensava, egli non sarebbe mai diventato come Vittore, anche se avesse continuato per un pezzo la vita del girovago. Quel modo di difendersi dall'ignoto spaventoso non avrebbe potuto impararlo, né quell'insinuarsi astuto e furtivo, e neppure quel genere di buffoneria chiassosa e sfacciata, quell'allegria disperata e parolaia del fanfarone. Forse quell'uomo accorto e sfrontato aveva ragione, forse Boccadoro non sarebbe diventato mai del tutto simile a lui, un vero e proprio giramondo, e un giorno si sarebbe rincantucciato entro delle mura. E tuttavia sarebbe rimasto sempre senza patria e senza meta, non si sarebbe sentito mai veramente protetto e sicuro, il mondo lo avrebbe sempre circondato con la sua bellezza enigmatica e inquietante, sempre egli avrebbe dovuto tender l'orecchio a quel silenzio, in mezzo al quale il battito del cuore era così timido e fragile. Poche stelle si scorge-vano in cielo; non un alito di vento; ma in alto le nubi parevano agitate. Dopo parecchio tempo Vittore si svegliò - egli non aveva voluto destarlo - e lo chiamò. --Vieni, -- gridò, -- ora devi dormire tu, altrimenti domani non sei in gamba. Boccadoro ubbidì, si coricò sul giaciglio e chiuse gli occhi. Era stanco, ma non dormì: lo tenevano desto i pensieri, e oltre ai pensieri un senso che non confessava a se stesso, un senso d'inquietudine e di diffidenza, che gl'ispirava il suo compagno. Gli pareva incomprensibile di aver potuto parlare di Lidia a quell'uomo rozzo dal riso sguaiato, a quel burlone, a quello sfacciato mendicante! Era irritato contro di lui e contro se stesso e andava pensando al modo e all'occasione migliori di separarsi da lui. Doveva però essersi un poco assopito, perché sussultò sorpreso nel sentire su di sé le mani di Vittore, che gli tastavano caute i vestiti. In una tasca aveva il suo coltello, nell'altra il ducato; Vittore avrebbe senza dubbio rubato l'uno e l'altro, se li avesse trovati. Egli finse di dormire, si girò e rigirò come in preda al sonno, agitò le braccia e Vittore si ritirò. Boccadoro rimase irritatissimo contro di lui e decise di lasciarlo l'indomani. Ma quando, forse un'ora dopo, Vittore si chinò di nuovo sopra Boccadoro e ricominciò a tastare, quegli divenne freddo dall'ira. Senza muoversi aprì gli occhi e disse con disprezzo: - Vattene ora, qui non c'è nulla da rubare. Nello spavento del sentirsi apostrofato, il ladro afferrò il collo di Boccadoro e cominciò a stringere. Poiché questi si difendeva e si ribellava, L'altro strinse più forte, inginocchiandoglisi sul petto. Boccadoro, che non poteva più respirare, si dibatteva violentemente con tutto il corpo, ma, non riuscendo a liberarsi, fu colto a un tratto dal terrore della morte, che lo rese chiaro ed accorto. Mise la mano in tasca, estrasse, mentre l'altro continuava a stringere, il piccolo coltello da caccia e lo inferse bruscamente e alla cieca, più volte, nell'individuo inginocchiato sopra di lui. Dopo un momento le mani di Vittore si al-lentarono, Boccadoro respirò e tirando il fiato profondamente, assaporò la sua vita salva Cercò allora d'alzarsi e il lungo corpo del compagno s abbatté su di lui floscio e molle, con un terribile gemito, mentre il suo sangue inondava il volto di Boccadoro. Allora finalmente questi riuscì a levarsi in piedi. E nella grigia luce notturna vide il lungo compagno stramazzato al suolo; quando fece per toccarlo, le sue dita guazzarono nel sangue. Gli alzò il capo, ma esso ricadde pesante e molle come un sacco. Dal petto e dal collo continuava a grondar sangue, dalla bocca la vita se ne andava in gemiti vaghi, sempre più fiochi. "Ora ho ammazzato un uomo" pensò Boccadoro: e continuò a ripeterselo, mentre, inginocchiato sul morente, vedeva diffonderglisi sul volto il pallore. -- Cara Madre di Dio, ora l'ho ucciso, -- sentì la sua voce mormorare. Improvvisamente gli divenne insopportabile rimanere in quel luogo. Raccolse il suo coltello, lo asciugò nella maglia che l'altro indossava e ch'era stata lavorata-dalle mani di Lidia per il suo diletto, lo ripose nel fodero di legno, quindi in tasca, balzò in piedi e corse via con quanta forza aveva nei garretti. La morte dell'allegro goliardo gli pesava sull'anima; appena fu giorno, si lavò via con la neve, rabbrividendo, tutto il sangue che aveva versato e vagò ancora un giorno e una notte senza meta e in preda all'angoscia. Ma infine la sofferenza del corpo lo scosse e pose termine al suo pentimento affannoso. Sperduto nella regione deserta e sepolta sotto la neve, senza tetto, senza via, senza cibo e quasi senza sonno, egli si trovò in grave angustia: la fame urlava nel suo corpo come una belva feroce; più d'una volta si gettò per terra esausto in mezzo alla campagna, chiuse gli occhi e si diede perduto, non aveva più altro desiderio che di addormentarsi e morire nella neve. Ma poi si sentiva di nuovo sospinto innanzi e correva avido e disperato in cerca della vita, e nella miseria più penosa lo ristorava e lo inebriava la forza insensata e selvaggia di chi non vuol morire, la straordinaria potenza del puro e semplice istinto della vita. Dal ginepro coperto di neve coglieva con le mani livide dal gelo le piccole bacche inaridite e masticava quel cibo crudo e amaro, mescolato con gli aghi degli abeti; aveva un sapore aspro ed eccitante; poi ingoiava neve a manate per placar la sete. Ansante, soffiandosi sulle mani irrigidite, sedeva in cima a un colle per una breve sosta e scrutava avido da ogni parte: nulla si vedeva fuor che landa e selva, nessuna traccia d'uomo. Qualche cornacchia volava sopra di lui, egli le seguiva con lo sguardo irato. No, non dovevano averlo in pasto, no, fin tanto che un resto di forza gli rimaneva nelle gambe e una scintilla di calore nel sangue. S'alzava e riprendeva la gara inesorabile con la morte. Correva e correva e nella febbre dell'esaurimento e dell'ultimo sforzo strani pensieri s'impossessavano di lui; teneva folli dialoghi con se stesso, ora taciti, ora ad alta voce Parlava con Vittore l'ucciso, gli parlava aspro e beffardo! " Bè, o astuto fratello, come va? Ti splende la luna attraverso alle budella giovanotto, ti tiran le orecchie le volpi? Dici d'aver ucciso un lupo? Gli hai morsicato la gola o gli hai strappato la coda eh? Volevi rubare il mio ducato, vecchio ingordo! Ma guarda un pò, il piccolo Boccadoro ti ha sorpreso, eh vecchio mio, e ti ha fatto solletico alle costole? E avevi ancora tutti i sacchi pieni di pane, di salsiccia e di formaggio, porco, mangione! " Simili discorsi scherzosi sputava e abbaiava per conto suo, ingiuriava il morto, trionfava di lui, lo scherniva per essersi lasciata ammazzare, il babbeo, lo stupido spaccone! Ma poi i suoi pensieri ed i suoi discorsi s'allontanavano dal povero e lungo Vittore. E si vedeva davanti Giulia, la bella piccola Giulia, così come l'aveva lasciata quella notte; le gridava un'infinità di parole tenere e cercava di sedurla con moine insensate e spudorate: che venisse da lui, che si lasciasse cadere la camicina, che salisse con lui in cielo, un'ora ancora prima della morte, un momentino prima ch'egli crepasse miseramente. Parlava, supplichevole e provocante, coi piccoli seni di lei, con le sue gambe, con la peluria bionda e crespa sotto le sue ascelle. Poi, mentre procedeva rigido e inciampando nell'erica secca e coperta di neve, ebbro di sofferenza, trionfante grazie al divampare a sprazzi della bramosia di vivere, ricominciava a bisbigliare; e allora parlava con Narciso e gli comunicava le sue nuove idee, la sua nuova sapienza, i suoi scherzi. " Hai paura, Narciso, " gli diceva " hai orrore, hai veduto qualcosa? Sì, reverendo, il mondo è pieno di morte, pieno di morte; essa sta su ogni siepe, dietro ogni albero e non vi giova costruir mura e dormitori e cappelle e chiese, essa guarda dentro dalla finestra e ride e conosce perfettamente ciascuno di voi, nel cuor della notte la sentite ridere dietro le vostre finestre e pronunciare i vostri nomi Cantate pure i vostri salmi e bruciate per bene le candele sull'altare e recitate i vostri vespri e i vostri mattutini e raccogliete erbe nel laboratorio e raccogliete libri nella biblioteca! Digiuni, amico? Ti privi del sonno? Ti aiuterà ben lei, madonna Morte, e ti priverà di tutto, fino alle ossa. Corri, carissimo, corri in fretta, là sul campo c'è il babau, corri e tieni bene insieme le ossa, vogliono staccarsi, non rimarranno con noi Ah, le nostre povere ossa! Ah, la nostra povera gola e il nostro stomaco! Ah, quel povero briciolo di cervello che abbiamo sotto il cranio! Tutto se n'andrà, tutto al diavolo, sull'albero stanno le cornacchie, le brutte tonache nere. " Per un pezzo il misero errante non seppe più dove andasse, dove fosse, che dicesse, se giacesse per terra o stesse in piedi. Cadeva sui cespugli, correva contro gli alberi, precipitava nella neve e fra le spine. Ma l'istinto in lui era forte e lo spingeva avanti, continuamente, nella sua fuga cieca. Quando stramazzò per l'ultima volta e rimase disteso per terra, era nello stesso piccolo villaggio dove alcuni giorni prima aveva incontrato il goliardo vagante, dove di notte aveva tenuto la fiaccola di pinastro sopra la donna partoriente. Là rimase disteso e la gente accorse e fece circolo intorno e chiacchierò; egli non udiva più nulla. La donna che gli aveva concesso il suo amore lo riconobbe e si spaventò vedendolo in quello stato, ebbe compassione di lui, lasciò gridare il marito e trascinò Boccadoro mezzo morto nella stalla. Non passò molto tempo che Boccadoro fu di nuovo in gamba e pronto a riprendere il cammino. Il calore della stalla, il sonno, e il latte di capra, che la donna gli portava da bere, gli ridiedero la coscienza e il vigore; solo che tutto quanto gli era capitato in quegli ultimi tempi si era come allontanato in un passato remoto. La marcia con Vittore, la notte fredda e paurosa nel bosco sotto quegli abeti, la lotta terribile sul giaciglio, la morte spaventosa del compagno, i giorni e le notti di freddo, di fame e di delirio, tutto era ormai lontano, quasi dimenticato; ma dimenticato non era, solo superato, solo passato. Qualcosa rimaneva che non si poteva esprimere, qualcosa di terribile e anche di prezioso, qualcosa di sprofondato ma d'inobliabile, un'esperienza, un gusto sulla lingua, un cerchio intorno al cuore. In due anni appena egli aveva conosciuto sino in fondo la gioia e il dolore della vita vagabonda: la solitudine, la libertà, L'ansioso tender l'orecchio ai rumori della foresta e degli animali, L'amore girovago e infedele, L'amarezza spesso mortale degli stenti. Per giornate intere era stato ospite dei campi estivi, giornate e settimane aveva passato nella foresta, giornate nella ne-ve, giornate nell'attesa paurosa della morte e nella vicinanza della morte, e di tutte queste esperienze la più forte, la più strana era stata quella di difendersi contro la morte, di sapersi piccolo, misero e minacciato, eppure di sentire in sé nell'ultima lotta disperata quella forza bella e terribile, quella meravigliosa tenacità della vita. Questo aveva lasciato un'eco, questo gli era rimasto scritto nel cuore, come i gesti e le espressioni della voluttà, ch'eran così simili a quelli di una partoriente e di un morente. Come aveva gridato e contratto il viso quella partoriente, e com'era stramazzato il compagno Vittore, versando a fiotti il suo sangue, così rapido e silenzioso! Oh, ed egli stesso come aveva sentito la morte in agguato intorno a sé nei giorni di fame, e che male gli aveva fatto la fame, e che freddo aveva avuto, che freddo! E come aveva lottato contro la morte, che colpi le aveva dato, con quale angoscia e con quale irata voluttà s'era difeso! Gli pareva che dopo queste esperienze non ci fosse più gran che da imparare. Con Narciso avrebbe forse potuto parlarne, con nessun altro. Quando Boccadoro, sul suo pagliericcio nella stalla, ritornò per la prima volta completamente in sé, s'accorse che non aveva più il ducato in tasca. L'aveva forse perduto nella marcia spaventosa, barcollante e quasi incosciente dell'ultima giornata di fame? Ci pensò e ripensò a lungo. Quel ducato gli era caro, non voleva darlo perduto. Il denaro per lui non aveva molta importanza, egli non ne conosceva quasi il valore. Ma quella moneta d'oro gli era preziosa per due ragioni. Era l'unico regalo di Lidia che gli fosse rimasto, perché la giacca di lana era là con Vittore nella foresta, inzuppata di sangue. E poi era stata proprio quella moneta d'oro ch'egli non aveva voluto lasciarsi rubare, per essa si era difeso contro Vittore, per essa, posto alle strette, lo aveva ucciso. Se ora il ducato era perduto, tutta l'avventura di quella notte orrenda perdeva in certo modo ogni senso e ogni valore. Dopo aver riflettuto a lungo, fece le sue confidenze alla contadina. -- Cristina, -- le sussurrò, -- io avevo in tasca una moneta d'oro ed ora non c'è più. --Ah, te ne sei accorto? --fece lei con un sorriso singolarmente affettuoso e furbo insieme; egli ne rimase così incantato, che non ostante la debolezza le gettò le braccia al collo. --Che curioso ragazzo sei mai, -- disse la donna con tenerezza,-così intelligente e fine, e al tempo stesso così stupido! Si gira il mondo con un ducato sciolto nella tasca aperta? O bambino, caro pazzerello! La tua moneta d'oro la trovai io, appena ti ebbi coricato qui sulla paglia. -- Tu? E dov'è ora? --Cercala, --rispose quella ridendo; e lo lasciò cercare davvero un bel pò, prima di mostrargli il punto della giacca dove glielo aveva solidamente cucito. Aggiunse una buona dose di consigli materni, ch'egli s'affrettò a dimenticare; ma non dimenticò quel servizio d'amore e quel sorriso furbo e bonario nel volto di contadina. Fece di tutto per mostrarle la sua gratitudine, e, quando dopo breve tempo fu di nuovo in grado di marciare e volle riprendere il cammino, ella lo trattenne, perché in quei giorni cambiava la luna e certo il tempo si sarebbe fatto più mite. Così avvenne. Quand'egli ripartì, la neve giaceva sul suolo grigia e malata, L'aria era pregna d'umidità, in alto si sentiva gemere il vento australe. INDEX CAPITOLO X Il ghiaccio ricominciò a spingere i fiumi in basso, sotto le foglie morte tornarono ad olezzar le viole, Boccadoro riprese la sua corsa in mezzo all'alternarsi vivace delle stagioni, si riempì gli occhi insaziabili di boschi di monti e di nubi, camminò di casolare in casolare, di villaggio in villaggio, di donna in donna, più d'una volta nella sera fresca sedette col cuore oppresso e triste ai piedi d'una finestra illuminata, il cui rosso bagliore irradiava, dolce e irraggiungibile per lui, tutto ciò che poteva esservi sulla terra di felicità, di calore domestico, di pace. Tutto si ripeteva ciò ch'egli credeva ormai di conoscere bene, eppure tutto a ogni ritorno appariva diverso: il lungo vagare per campi e lande o per strade sassose, il dormire d'estate nella foresta, il gironzolar nei villaggi dietro le schiere delle giovanette, che tenendosi per mano ritornavano a casa dopo aver voltato il fieno o colto i luppoli, il primo brivido dell'autunno, i primi freddi cattivi... tutto ritornava, una volta, due volte, e il nastro variopinto scorreva davanti ai suoi occhi infinito. Molte piogge e molte nevi eran cadute su Boccadoro, quando un giorno, salito su per un bosco di faggi diradato ma già verde di tenere gemme, dall'alto della cresta di un monte vide stendersi dinanzi a sé un nuovo paesaggio, che rallegrò i suoi occhi e suscitò nel suo cuore un'ondata di presentimenti, di desideri e di speranze. Da giorni egli si sapeva vicino a questa regione e l'aspettava; in quell'ora meridiana essa lo sorprese e ciò che l'occhio raccolse in quel primo incontro confermò e rafforzò le sue aspettative. Fra i tronchi grigi e i rami lievemente ondeggianti vide giù una valle bruna e verde, in mezzo alla quale luccicava vitreo e azzurrognolo un grande fiume Ormai, egli lo sapeva, era finito per un pezzo quel girovagare senza strade per regioni tutte landa, foresta e solitudine, dove solo di rado si poteva incontrare un casolare o un piccolo povero villaggio. Laggiù scorreva il fiume e lo fiancheggiava una delle strade più belle e più celebri della Germania, laggiù c'era un paese ricco e ubertoso, là navigavano zattere e barche e la strada conduceva a bei villaggi, castelli, conventi e ricche città, e chi voleva poteva viaggiare per giorni e settimane su quella strada, senza temere ch'essa si perdesse a un tratto, come le misere straducole di campagna, in una selva o in un'umida palude. Veniva qualcosa di nuovo e Boccadoro se ne rallegrò. Già la sera di quel giorno era in un bel villaggio, sulla strada maestra tra il fiume e i rossi vigneti; le graziose travature delle case a comignolo eran dipinte di rosso, c'erano portoni d'ingresso a volta e viottoli di pietra in scalinata, una fucina gettava sulla strada rosso baglior di fuoco e sonori rintocchi d'incudine. Il nuovo arrivato si aggirò curioso in ogni via e in ogni angolo, fiutò alle porte delle cantine l'odor di botti e di vino e sulla riva del fiume il profumo fresco dell'acqua che sa di pesce, osservò la casa di Dio e il camposanto e non mancò di guardarsi attorno in cerca d'un buon granaio, dove salire eventualmente per la notte. Prima però volle provare a chieder cibo nella casa parrocchiale. Trovò un parroco grassotto, con la testa rossa, che lo interrogò e al quale, con alcune omissioni e con un pò di fantasia, egli raccontò la sua vita; dopo di che fu accolto gentilmente, nutrito di buon cibo e di buon vino, e dovette passar la sera in lunghi conversari col sacerdote. Il giorno dopo continuò il suo viaggio sulla strada che seguiva il fiume. Vide zattere e barconi, raggiunse veicoli, alcuni lo raccolsero per un tratto, e le giornate primaverili fuggivano rapide e fitte d'immagini, L'ospitavano villaggi e cittadine, sorridevano donne dietro siepi e giardini o, inginocchiate sulla terra bruna, attendevano alla piantagione, e a sera cantavano fanciulle per le strade dei villaggi. In un mulino una servetta gli piacque tanto, che rimase due giorni sul luogo a farle la corte. Ella rideva e chiacchierava volentieri e a lui pareva che la più bella cosa sarebbe stata diventar garzone mugnaio e rimanere sempre là. Sedeva coi pescatori, aiutava i carrettieri a dar da mangiare ai cavalli ed a strigliarli, riceveva in compenso pane e carne e il permesso di viaggiare con loro. Dopo tanta solitudine quel mondo socievole di gente che viaggiava, dopo tanto meditar fra sé e sé quella serenità in mezzo a uomini loquaci e soddisfatti, dopo tanta indigenza quel saziarsi ogni giorno di cibo abbondante, gli faceva bene, e si lasciava portar volentieri da quell'onda lieta. Essa lo prendeva con sé, e più s'avvicinava alla città vescovile più la strada si faceva popolosa ed allegra. Un giorno ch'era in un villaggio, sull'imbrunire andò a fare una passeggiata in riva al fiume, sotto gli alberi già coperti di foglie. L'acqua scorreva calma e maestosa, sotto le radici delle piante rumoreggiava e gemeva la corrente, su dal colle sorgeva la luna, gettando luci sul fiume ed ombre sotto gli alberi. Trovò una ragazza seduta che piangeva: aveva litigato con l'innamorato, che se n'era andato, lasciandola sola. Boccadoro le si sedette accanto e ascoltò i suoi lagni, le accarezzò la mano, le raccontò della foresta e dei caprioli, la consolò un poco, riuscì a farla sorridere, finché ella accettò anche un bacio. Ma a questo punto ritornò l'amato bene a cercarla; si era calmato e pentito del litigio. Appena vide Boccadoro seduto accanto alla ragazza, si lanciò su di lui coi pugni tesi e quegli ebbe da fare a difendersi; finalmente però Boccadoro mise l'avversarlo fuori combattimento e il giovanotto corse al villaggio imprecando; la ragazza era scappata da un pezzo. Boccadoro, che non aveva troppa fiducia nella pace, lascio in asso il suo asilo notturno e proseguì il cammino per metà della notte al chiaro di luna, in un mondo di argento e di silenzio, contento, lieto delle sue gambe ro-buste, fin che la rugiada gli lavò via dalle scarpe la polvere bianca ed egli, stanco a un tratto, si coricò sotto l'albero più vicino e s'addormentò. Era giorno da un pezzo, quando lo svegliò un solletico sul volto, assonnato, vi passò sopra la mano e si riaddormentò; poco dopo fu di nuovo svegliato dallo stesso solletico; era una ragazza di contadini, che lo guardava e lo stuzzicava con la punta dl un salciuolo. Egli s'alzò barcollando, si sorrisero ed ella lo condusse in una rimessa, dove si poteva dormir meglio. Lì dormirono un poco l'uno accanto all'altra, poi ella corse via e ritornò con un secchiello di latte, ancora caldo della mucca. Egli le donò un nastro azzurro per i capelli, che aveva trovato poco prima lungo la strada e s'era messo in tasca, si baciarono ancora una volta, poi egli ripartì. La ragazza si chiamava Francesca; gli rincrebbe d'abbandonarla. La sera di quel giorno trovò asilo in un convento; la mattina assistette alla messa; il cuore gli si gonfiò stranamente di mille ricordi, L'aria fredda della pietra, spirante dalle volte, sapeva di patria e lo commoveva, come il rumore dei sandali sugl'impiantiti. Finita la messa e fattosi silenzio nella chiesa del convento, Boccadoro rimase in ginocchio, con una strana agitazione in cuore; di notte aveva fatto molti sogni. Sentiva il desiderio di sgravarsi in qualche modo del suo passato, di mutar vita in qualche modo, non sapeva perché; forse lo commoveva solo il ricordo di Mariabronn e della sua gioventù pia. Sentì il bisogno di confessarsi e di purificarsi; aveva tanti piccoli peccati, tanti piccoli vizi, ma più grave di tutto gli pesava sulla coscienza la morte di Vittore, perito per ma-no sua. Trovò un padre e gli fece la sua confessione, parlò di questo e di quello, ma sopra tutto delle coltellate nel collo e nella schiena del povero Vittore, Oh, da quanto tempo non si confessava! Il numero e la gravità dei suoi peccati gli parevano notevoli, era pronto ad accettare una severa penitenza. Ma il confessore pareva conoscere la vita del vagabondo; non inorridì, ascoltò tranquillo, biasimò e ammonì serio e benevolo, senza pensare a condanna. Boccadoro s'alzò alleggerito, recitò all'altare le orazioni prescrittegli dal padre e già stava per lasciare la chiesa, quando un raggio di sole penetrò dalla finestra nel tempio; egli lo seguì con lo sguardo e vide allora in una cappella laterale una figura, che gli parlò e lo attirò straordinariamente; si volse ad essa con occhi innamorati e la contemplò con devota e profonda commozione. Era una Madre di Dio in legno; la delicata soavità con cui stava china, il modo come il manto azzurro le cadeva giù dalle spalle esili, com'ella stendeva la mano fine e virginea, come gli occhi brillavano e la bella fronte s'incurvava sopra una bocca dolorosa, tutto questo era così vivo, così bello, profondo e animato, come gli pareva di non aver veduto mai. Non si saziava di contemplare quella bocca, quel movimento dolce e affettuoso del collo. Gli pareva di vedere là realizzato qualcosa che già tante e tante volte aveva veduto nei sogni e nei presentimenti, a cui tante e tante volte aveva anelato. Si voltava per andarsene, ma poi era costretto a tornare indietro. Quando finalmente volle andare davvero, si trovò alle spalle il padre, da cui s'era confessato. --Ti sembra bella? --domandò amichevolmente. --Ineffabilmente bella, -- rispose Boccadoro. --Molti lo dicono, -- disse il sacerdote. -- Altri invece sostengono che non è una vera Madre di Dio, che è troppo moderna e mondana e che tutto è esagerato e non è vero Si sentono molte dispute in proposito. A te piace dunque, sono contento. Si trova solo da un anno nella nostra chiesa, L'ha donata un benefattore del nostro convento fatta da maestro Nicola. --Maestro Nicola? Chi è, dov'è? Lo conoscete? Oh, vi prego, ditemi qualcosa di lui! Dev'essere un uomo meravigliosamente dotato chi sa creare un'opera simile. --Non so molto di lui. intagliatore in legno nella nostra città vescovile, a una giornata di viaggio da qui, e ha gran fama come artista. Gli artisti di solito non sono santi, e anch'egli probabilmente non lo è, ma un uomo dotato e di grande ingegno, certo. Io l'ho veduto qualche volta... --Oh, L'avete veduto! Oh, che aspetto ha? --Figlio mio, mi sembri addirittura entusiasta di lui. Ebbene, va a cercarlo e portagli un saluto di padre Bonifacio. Boccadoro ringraziò con effusione. Il padre se n'andò sorridendo, egli invece rimase ancora a lungo davanti a quella figura misteriosa, il cui petto sembrava respirasse e nel cui volto c'erano insieme tanto dolore e tanta dolcezza, ch'egli si sentiva stringere il cuore. Uscì dalla chiesa trasformato, i suoi passi lo portarono in un mondo completamente mutato. Dal momento in cui aveva ammirato la dolce e santa figura di legno, Boccadoro possedeva quello che non aveva posseduto mai, che tante volte aveva deriso negli altri, oppure invidiato: una meta! Aveva una meta e forse l'avrebbe raggiunta, e allora forse tutta la sua vita dissoluta avrebbe acquistato un alto significato e un valore. Questo nuovo sentimento lo penetrava di gioia e di timore e gli dava ali ai piedi. La bella e allegra strada maestra su cui camminava non era più quello ch'era stata il giorno innanzi, un teatro festoso ed una comoda dimora, non era più che una strada, la via che conduceva alla città, la via che conduceva al maestro. Egli correva impaziente. Giunse prima ancora di sera, vide spiccar le torri dietro le mura, vide stemmi scolpiti ed insegne dipinte sopra la porta, entrò col cuore palpitante, senza quasi badare al chiasso e al lieto tumulto delle strade, ai cavalieri in sella, ai carri e alle carrozze. Cavalieri e cocchi, città e vescovo non gl'importavano. Alla prima persona che incontrò sotto la porta domandò dove abitava maestro Nicola, e rimase molto deluso che quella non ne sapesse nulla. Giunse in una piazza circondata di case fastose, molte delle quali eran dipinte od ornate di decorazioni plastiche. Sopra la porta d'una di esse stava grande e pomposa la figura di un lanzichenecco, a colori forti e brillanti. Non era bella come la figura che aveva veduto in quella chiesa di convento, ma aveva un certo atteggiamento e un modo di gonfiare i polpacci e di sporgere innanzi il mento barbuto, che Boccadoro pensò potesse essere dello stesso maestro. Entrò nella casa, bussò a diverse porte, salì scale... finalmente s'imbatté in un signore vestito di velluto con risvolti di pelliccia e gli domandò dove poteva trovare maestro Nicola. Che mai voleva da lui? domandò il signore di rimando; e Boccadoro riuscì a stento a dominarsi e a rispondere solo che aveva una commissione da fargli. Il signore gli disse allora il nome della via dove abitava il maestro, e quando Boccadoro, a forza di domandare, riuscì a trovarla, s'era fatta notte. Affannato ma felice, si fermò dinanzi alla casa del maestro, guardò su alle finestre e poco mancò che non corresse dentro. Ma gli venne in mente ch'era già tardi, ch'egli era tutto su-dato e impolverato dalla marcia della giornata, si dominò e attese Ma rimase ancora a lungo davanti alla casa. Vide una finestra illuminarsi e, proprio quando si voltava per andarsene, scorse una figura che s'avvicinava al davanzale, una bellissima fanciulla bionda, coi capelli illuminati dalla luce mite della lampada che pendeva dietro di lei. La mattina dopo, quando la città si ridestò e ricominciarono i suoi mille rumori, Boccadoro si lavò viso e mani, nel convento dov'era stato ospite quella notte, si scosse la polvere dai vestiti e dalle scarpe, ricercò la via del maestro e bussò al portone di casa. Venne una domestica, che non voleva introdurlo subito, ma egli riuscì a intenerire la vecchia, finchè ella lo condusse dentro. In una piccola sala, ch'era la sua officina, stava il maestro in grembiule da lavoro: un uomo alto e barbuto, che a Boccadoro parve avere quaranta o cinquant'anni. Egli guardò il forestiero con gli occhi azzurri chiari e penetranti e domandò brevemente che cosa desiderasse. Boccadoro riferì il saluto del padre Bonifacio. --Nient'altro? -- Maestro, -- disse Boccadoro col fiato oppresso, -ho visto là nel convento la vostra Madonna. Ah non guardatemi così arcigno; null'altro che amore e venerazione mi conducono da voi. Io non sono pauroso, ho vissuto a lungo da vagabondo, ho sperimentato la foresta, la neve e la fame, non c'è uomo di cui possa aver paura. Ma di voi ho paura. Oh, ho un desiderio solo e grande che mi riempie il cuore così da farmi male. -- Che sorta di desiderio? --Vorrei diventare vostro scolaro e imparare da voi. -- Non sei il solo, giovanotto, ad avere questo desiderio. Ma a me non piace tenere apprendisti e due aiutanti li ho già. Da dove vieni tu, e chi sono i tuoi genitori? --Non ho genitori, non vengo da nessun luogo. Fui scolaro in un convento, dove imparai il latino e il greco poi scappai, e per anni ed anni ho girato il mondo, fino a oggi. --E perché pensi di diventare un intagliatore? Hai già provato a far qualcosa di simile? Hai dei disegni? -- Ho fatto molti disegni, ma non li ho più. Vi posso però dire perché vorrei imparare quest'arte. Mi sono fatto molte idee, ho visto molti volti e molte figure, ci ho ripensato a lungo e alcun: di questi pensieri hanno continuato a tormentarmi e non mi hanno lasciato pace. Sono rimasto colpito nell'osservare come in una figura ritorni sempre in tutte le sue parti una certa forma, una certa linea, come una fronte corrisponda al ginocchio, una spalla all'anca, e come tutto questo in fondo sia una cosa sola con l'essenza e con l'anima dell'uomo, che ha quel dato ginocchio, quella data spalla e quella fronte. E un'altra cosa mi ha colpito, me n'accorsi una notte in cui dovetti prestar aiuto presso una partoriente: che la massima sofferenza e la suprema voluttà hanno un'espressione perfettamente simile. Il maestro guardò lo straniero con occhio penetrante. --Sai quello che dici? -- Sì, maestro, lo so. Proprio questo fu ciò che trovai espresso con mio sommo incanto e stupore nella vostra Madonna; per questo sono venuto. Oh, su quel viso bello e soave c'è tanto dolore, ma quel dolore s'è trasformato al tempo stesso in pura felicità e in sorriso. Quando vidi quel volto, passò come una vampata nelle mie membra, tutti i miei pensieri e i miei sogni di tanti anni mi apparvero confermati e all'improvviso non furon più vani, io seppi a un tratto quello che dovevo fare e dove dovevo andare. Caro maestro Nicola, vi prego con tutto il cuore, lasciatemi imparare da voi! Nicola, senza mutare l'espressione arcigna del volto, aveva ascoltato attentamente. --Giovanotto,--disse,--tu sai parlare d'arte in mo-do sorprendente, e mi stupisce anche che alla tua età tu possa dire tante cose sulla voluttà e sulla sofferenza. Mi piacerebbe discorrere una sera con te di queste cose davanti a un bicchier di vino. Ma vedi: scambiare conversazioni piacevoli e intelligenti non è lo stesso che vivere e lavorare insieme un paio d'anni. Questa è un'officina e qui si lavora, non si chiacchiera; qui non importa ciò che uno ha meditato e sa dire, importa solo ciò che uno sa fare con le sue mani. Mi pare che le tue intenzioni siano serie, perciò non voglio mandarti via così senz'altro. Vediamo se sai fare qualche cosa. Hai già plasmato con la creta o con la cera? Boccadoro pensò subito a un sogno di molto tempo prima, in cui aveva impastato con la creta delle figurine, che poi s'erano alzate ed eran diventate giganti. Ma non ne disse nulla e dichiarò che non s'era mai provato in simili lavori. Bene. Allora disegnerai qualche cosa. Là c'è una tavola, vedi, della carta e del carbone. Siediti e disegna; non aver fretta; puoi rimanere fino a mezzogiorno o anche fino a sera. Forse allora potrò vedere quali sono le tue attitudini. Ecco, ora abbiamo parlato abbastanza; io vado al mio lavoro, tu va al tuo. Boccadoro sedette sulla seggiola che Nicola gli aveva indicata, davanti alla tavola da disegno. Non s'affrettò, prima stette ad aspettare, quieto come uno scolaro timido, osservando con affettuosa curiosità il maestro, che gli volgeva quasi le spalle e continuava a lavorare a una figurina di creta. Guardava attentamente quell'uomo che, nella testa severa e già un pò incanutita e nelle mani d'artefice, dure ma nobili e vive, possedeva così meravigliose forze magiche. Aveva un aspetto diverso da quello che Boccadoro s'era immaginato; più vecchio, più modesto, più freddo, molto meno raggiante e cattivante, e nient'affatto felice. Lo sguardo scrutatore, inesorabilmente acuto, era rivolto in quel momento al suo lavoro, e Boccadoro, liberato da esso, poteva abbracciare la figura del maestro in ogni suo particolare. Quell'uomo, pensava, avrebbe potuto essere anche uno scienziato, uno studioso taciturno e austero, dedicatosi a un'opera che molti suoi predecessori avevano iniziata e ch'egli doveva un giorno lasciare ai suoi posteri, un'opera tenace, duratura, infinita, in cui eran raccolti il lavoro e la dedizione di molte generazioni. Questo almeno era ciò che l'osservatore leggeva nella testa del maestro; molta pazienza, molto studio e riflessione, molta modestia e conoscenza del dubbio valore d'ogni lavoro umano vi stavano scritti, ma anche fede nel proprio compito. Il linguaggio delle mani invece era diverso: fra esse e la testa c'era un contrasto. Quelle mani s'affonda-vano nella creta che plasmavano, con dita ferme ma sensibilissime, trattavano l'argilla come le mani di un amante trattano la donna amata che gli s'abbandona: innamorate, piene di un sentimento delicato e vibrante, bramose, senza tuttavia far distinzione fra il prendere e il dare, cupide e pie al tempo stesso, e sicure, magistrali, come per antichissima e profonda esperienza. Boccadoro osservava rapito e ammirato quelle mani benedette. Avrebbe volentieri disegnato il maestro, se non ci fosse stato quel contrasto fra il volto e le mani, che lo paralizzava. Dopo ch'ebbe contemplato per un'ora buona l'artista che lavorava dinanzi a lui, cercando d'indagarne il mistero, un'altra immagine cominciò a delinearsi nella sua anima e diventar visibile, L'immagine dell'uomo ch'egli conosceva meglio di tutti, che aveva molto amato e profondamente ammirato; e quest'immagine era tutta d'un pezzo, senza contraddizioni, quantunque avesse anch'essa varietà di tratti e rivelasse molte lotte. Era l'immagine del suo amico Narciso. Sempre più si concretava in unità e pienezza sempre più chiara si manifestava la legge intima di quell'essere amato: la nobile testa foggiata dallo spirito, la bella bocca serrata e l'occhio un pò triste resi energici e aristocratici dall'assoluta dedizione allo spirito, le spalle esili, il collo lungo, le mani delicate e fini, animate dalla lotta per spiritualizzarsi. Da allora, da quando s'era staccato dal convento, non aveva mai visto l'amico con tanta chiarezza, non aveva mai posseduto in sé così completa l'immagine di lui. Come in sogno, senza volontà, eppure animato da una preparazione e da una necessità intima, Boccadoro cominciò a disegnare cauto, delineò con dita amorose e rispettose la figura che aveva in cuore, e dimenticò il maestro, se stesso e il luogo dov'era. Non s'accorse che la luce nella stanza si spostava a poco a poco, che il maestro gli gettava di tanto in tanto un'occhiata. Come un atto di offerta eseguiva il compito che gli era toccato, che il suo cuore gli aveva imposto: innalzare l'immagine dell'amico e conservarla così, come viveva in quel momento nella sua anima. Senza farci sopra dei pensieri, sentiva l'opera sua come il pagamento di un debito, come un ringraziamento. Nicola s'avvicinò alla tavola da disegno, dicendo: --E mezzogiorno; io vado a tavola, puoi venire con me. Lascia vedere... hai disegnato qualche cosa? Si mise dietro a Boccadoro e gettò lo sguardo sul grande foglio disegnato, poi, spingendo il giovane da una parte, lo prese con cura fra le mani esperte. Boccadoro s'era destato dal suo sogno e fissava il maestro con ansiosa aspettativa. Questi era là, col disegno fra le mani, e l'osservava attentamente con lo sguardo acuto dei suoi chiari occhi azzurri e severi. --Chi è questo che hai disegnato? -- domandò dopo qualche tempo. --E il mio amico, un giovane monaco ed erudito. Bene, lavati le mani, là in cortile c'è la fontana. Poi andiamo a mangiare. I miei aiutanti non sono qui, lavorano altrove. Boccadoro ubbidì, trovò il cortile e la fontana, si lavò le mani e chissà che cosa avrebbe dato per conoscere i pensieri del maestro. Quando ritornò, questi era uscito; lo udì affaccendarsi nella stanza accanto; poi ricomparve, s'era lavato anche lui e invece del grembiule indossava una bella giubba di panno, che gli dava un aspetto maestoso e solenne. Precedette Boccadoro su per una scala con la balaustra di noce, le cui colonnette portavano piccole teste d'angelo scolpite; attraversò un atrio pieno di statue antiche e moderne ed entrò in una bella stanza col pavimento, le pareti e il soffitto di legno duro; nell'angolo della finestra c'era una tavola apparecchiata. Entrò di corsa una giovinetta che Boccadoro riconobbe: era la bella fanciulla della sera prima. --Elisabetta, -- disse il maestro, -- devi mettere un posto di più, ho condotto un ospite. E... veramente il suo nome non lo so ancora. Boccadoro lo disse. --Boccadoro, dunque. Possiamo mangiare? -- Subito, babbo. La fanciulla mise un piatto, uscì e ritornò poco dopo con la domestica che portava il pranzo: carne di maiale, lenticchie e pan bianco. Durante il pasto il padre parlò di questo e di quello con la fanciulla, Boccadoro rimase silenzioso, mangiò un poco e si sentì malsicuro ed oppresso. La ragazza gli piaceva molto: era una bella figura imponente, alta quasi come suo padre, ma se ne stava tutta pudica e inaccessibile come in una campana di vetro e non rivolgeva né una parola né uno sguardo al forestiero. Dopo mangiato il maestro disse: -- Io voglio riposare ancora mezz'ora. Tu va nell'officina o fa un giretto fuori, poi parleremo di quella faccenda. Boccadoro salutò e uscì. Era passata un'ora e più da che il maestro aveva visto il suo disegno, e non ne aveva ancora detto una parola. E dover aspettare ancora mezz'ora! Bè, non c'era niente da fare, aspettò. Non andò nell'officina, non voleva rivedere il suo disegno in quel momento. Scese in cortile, sedette sulla vasca della fontana e stette a guardare il filo d'acqua che scorreva ininterrottamente dalla canna e cadeva nella profonda vasca di pietra, sollevando minuscole onde e portando seco continuamente un poco d'aria, che continuamente ripullulava dal fondo alla superficie in bianche perle. Nello specchio scuro della fontana vide la propria immagine e pensò che quel Boccadoro che lo guardava dall'acqua non era più da un pezzo il Boccadoro del convento o quello di Lidia e neppur più il Boccadoro delle foreste. Pensò che ogni uomo corre senza posa e si trasforma e infine si dissolve, mentre la sua immagine creata dall'artista rimane sempre immutabilmente la stessa. Forse, pensò, la radice d'ogni arte, e fors'anche d'ogni spirito, è la paura della morte. Noi la temiamo, abbiamo orrore della caducità, vediamo con tristezza i fiori appassire e le foglie cadere e sentiamo nel nostro cuore la certezza che anche noi siamo caduchi e presto avvizziremo. Se dunque come artisti creiamo figure o come pensatori cerchiamo leggi e formuliamo pensieri, lo facciamo per salvare qualche cosa della grande danza macabra, per stabilire qualche cosa che abbia una durata più lunga di noi stessi. La donna che ha servito di modello al maestro per la sua bella Madre di Dio è forse già avvizzita o morta, e presto sarà morto anche lui; altri abiteranno nella sua casa, altri mangeranno alla sua tavola... ma la sua opera rimarrà, nella tacita chiesa del convento brillerà ancora dopo cent'anni e più e resterà sempre bella e sorriderà sempre con la stessa bocca, che è così fiorente e triste insieme. Udì il maestro che scendeva la scala e corse nell'officina. Maestro Nicola passeggiò in su e in giù, guardò più volte il disegno di Boccadoro, si fermò infine alla finestra e disse col suo fare un pò esitante ed asciutto: -- Da noi l'usanza è che un apprendista studi per lo meno quattro anni e che suo padre paghi al maestro una somma per l'insegnamento. Poiché fece una pausa, Boccadoro pensò che il maestro temesse di non ricever denaro da lui. Immediatamente trasse di tasca il suo coltello, tagliò la cucitura intorno al ducato nascosto e lo cavò fuori. Nicola lo guardò stupito e, quando Boccadoro gli porse la moneta, si mise a ridere. --Ah, questo intendevi? --disse ridendo.--No, giovanotto puoi tenere il tuo denaro. Ascoltami. Ti ho detto qual è l'usanza per gli apprendisti nella nostra corporazione. Ma né io sono un maestro comune, né tu un apprendista comune. Questi sogliono cominciare la loro scuola a tredici, quattordici o al massimo quindici anni, e la metà del tempo che passano presso il maestro debbono servire come garzoni e far da bidelli. Ma tu sei già un giovanotto e per l'età potresti da un pezzo essere lavorante e anche già maestro. Un apprendista con la barba nella nostra corporazione non s'è ancor veduto. E poi t'ho già detto che io non voglio tenere apprendisti in casa. Tu non mi sembri del resto uno che si lasci dar ordini e mandare in giro. L'impazienza di Boccadoro era giunta al colmo, ciascuna delle parole assennate del maestro lo metteva alla tortura e gli sembrava terribilmente noiosa e pedante. Gridò con veemenza: -Perché mi dite tutto questo, se non avete alcuna intenzione di prendermi alla vostra scuola? Il maestro continuò impassibile nel tono di prima: -Io ho riflettuto per un'ora sulla tua richiesta, adesso anche tu devi avere la pazienza di ascoltarmi. Ho visto il tuo disegno. Ha dei difetti ma, non ostante questi, è bello. Se non lo fosse, ti avrei regalato un mezzo fiorino e ti avrei congedato e dimenticato. Del disegno non voglio dire di più. Vorrei aiutarti a diventare un artista, forse ci sei destinato. Ma apprendista non puoi ormai più diventare. E chi non è stato apprendista e non ha compiuto i suoi anni di scuola, nella nostra corporazione non può neppure diventare lavorante e maestro. Questo ti sia detto prima. Ma un tentativo puoi farlo. Se ti è possibile rimanere qualche tempo qui in città, puoi venire da me e imparare qualche cosa. Senza impegno e senza contratto, puoi andartene quando vuoi. Puoi rompere nella mia officina un paio di coltelli da intaglio e rovinare un paio di ceppi, e se si vedrà che non sei un intagliatore ti volgerai ad altro. Sei contento? Boccadoro aveva ascoltato confuso e commosso. --Vi ringrazio di cuore, -- esclamò. -- Sono vagabondo e saprò cavarmela qui in città come fuori nei boschi. Capisco che non vogliate prendervi cure e responsabilità per me come per uno scolaretto. Ritengo gran fortuna poter imparare da voi. Vi ringrazio di cuore di volermelo concedere. INDEX CAPITOLO XI Nuove immagini circondarono Boccadoro nella città e una nuova vita cominciò per lui. Come la regione e la città lo avevano accolto gaie, seducenti e rigogliose, così lo accolse la nuova vita, piena di letizia e di promesse. Se anche il fondo di tristezza e di sapere della sua anima rimaneva intatto, alla superficie la vita giocava per lui in tutti i suoi colori. Cominciò per Boccadoro il periodo più lieto e più puro. Di fuori gli veniva incontro la ricca città vescovile con tutte le sue arti, le sue donne, con mille giochi e mille visioni gradite; di dentro la sua natura d'artista, destandosi, gli donava nuovi sentimenti e nuove speranze. Con l'aiuto del maestro trovò alloggio nella casa di un doratore sulla piazza del mercato del pesce, e dal maestro e dal doratore imparò l'arte di trattare il legno e il gesso, i colori, la vernice e l'orpello. Boccadoro non era di quegli artisti infelici, che pur possedendo alte doti non trovano mai i mezzi buoni per manifestarle. Ci sono infatti di quelli, a cui è dato sentire con profondità e intensità la bellezza del mondo e portare nella loro anima immagini nobili e sublimi, ma che non trovano la via di estrinsecare queste immagini e di comunicarle per la gioia degli altri. Boccadoro non soffriva di questa deficienza. Gli riusciva facile e lo divertiva adoperare le mani e apprendere le abilità del mestiere, così come gli riusciva facile nelle ore serali imparare da alcuni compagni a sonare il liuto e a danzare la domenica sulle piazze dei villaggi. Imparava con facilità, gli veniva naturale. Certo nell'intaglio doveva mettere tutto il suo impegno e incontrava difficoltà e delusioni e talvolta gli capitava di rovinare un bel pezzo di legno e di tagliarsi le dita con energia. Ma superò presto i principi e acquistò destrezza. Spesso però il maestro era malcontento di lui e gli diceva: -- Fortuna che non sei mio apprendista o lavorante, Boccadoro. Fortuna che sappiamo che vieni dalla strada e dai boschi e che un giorno ci ritornerai. Chi non sapesse che non sei un cittadino e un artigiano, bensì un vagabondo e un fannullone, potrebbe facilmente aver la tentazione di pretendere da te quello che ogni maestro pretende dai suoi dipendenti. Tu sei un ottimo lavoratore, se hai la luna buona. Ma la settimana scorsa sei andato a zonzo due giorni. Ieri nell'officina del cortile, dove dovevi ripulire i due angeli, hai dormito metà della giornata. Aveva ragione di rimproverarlo così e Boccadoro lo ascoltava in silenzio, senza giustificarsi. Sapeva egli stesso di non essere un uomo diligente, del quale ci si potesse fidare. Fin tanto che un lavoro lo interessava, gli imponeva compiti difficili o gli dava la coscienza e la gioia della sua capacità, era un lavoratore zelante. Ma al pesante lavoro manuale si sottoponeva malvolentieri e quegli altri lavori non difficili, ma richiedenti tempo e diligenza, che fanno pur parte del mestiere e voglion essere eseguiti con costanza e pazienza, gli erano spesso insopportabili. Egli stesso a volte se ne meravigliava. Eran bastati quei pochi anni di vagabondaggio a renderlo pigro e incostante? Era l'eredità di sua madre che cresceva in lui e prendeva il sopravvento? O dov'era la deficienza ? Ricordava benissimo i suoi primi anni in convento quand'era un ottimo e diligente scolaro. Perché allora si applicava con tanta pazienza, mentre ora non ne aveva più, perché era riuscito a dedicarsi con instancabile zelo alla sintassi latina e a imparare tutti quegli simboli greci, che in fondo al cuore non gl'importavano proprio nulla? Ci pensava spesso. Era stato l'amore allora a temprarlo e a dargli ali; il suo studio altro non era stato se non uno sforzo costante per cattivarsi l'animo di Narciso, giacché l'affetto di lui non si poteva conquistare che attraverso la stima e l'approvazione. Allora per una occhiata d'approvazione dell'amato maestro poteva affaticarsi per ore, per giornate intere. Poi la meta agognata era stata raggiunta. Narciso era diventato suo amico e, cosa strana, proprio il dotto Narciso gli aveva mostrato la sua inettitudine a diventar scienziato e aveva evocato in lui l'immagine della madre perduta. Invece della dottrina, della vita claustrale e della virtù, i potenti istinti originari della sua natura s'erano impadroniti di lui: sesso, amor di donne, bisogno d'indipendenza, spirito vagabondo. Infine aveva visto quella figura di Maria scolpita dal maestro, aveva scoperto in sé un artista, si era messo su di una nuova via ed era ritornato sedentario. Ed ora? Dove conduceva la sua strada? Donde venivano gli ostacoli? Per il momento non poteva riconoscerlo. Solo questo poteva capire: che ammirava bensì maestro Nicola, ma non lo amava come un tempo aveva amato Narciso, talvolta anzi si compiaceva di deluderlo e d'indispettirlo. Ciò dipendeva a parer suo dal dissidio che riscontrava nella personalità del maestro. Le figure create dalle mani di Nicola, le migliori per lo meno, erano per Boccadoro modelli venerati, ma il maestro in se stesso non era un modello per lui. Accanto all'artista che aveva scolpito quella Madonna dalla bocca più bella e più dolorosa che si potesse immaginare, accanto al veggente e al sapiente, le cui mani sapevano trasformare per incanto in figure visibili presentimenti ed esperienze profonde, vi era in maestro Nicola un altro uomo: un padre di famiglia e un maestro di corporazione un pò rigido e meticoloso, un vedovo, che viveva silenzioso e dimesso nella sua casa tranquilla con la figlia e con una brutta servente, un uomo che resisteva energicamente ai più forti istinti di Boccadoro e che si era adagiato in una vita quieta, moderata, regolarissima e decorosa. Quantunque Boccadoro onorasse il suo maestro e non si permettesse d'interrogare altri sul conto di lui o di giudicarlo in faccia ad altri, in capo a un anno egli sapeva fino al minimo particolare tutto quello che si poteva sapere di Nicola. Questo maestro era per lui una persona importante, amata e altrettanto odiata, che non gli lasciava requie; e lo scolaro penetrava con amore e con diffidenza, con curiosità sempre desta, nei segreti dell'indole e della vita di lui. Vedeva che egli non teneva in casa né apprendisti né lavoranti, benché ci fosse abbastanza spazio. Vedeva che usciva solo di rado e di rado invitava ospiti a casa sua. Osservava che nutriva per la sua bella figliola un affetto commovente e geloso e cercava di tenerla nascosta a tutti. Sapeva anche che dietro la severa e precoce astinenza del vedovo c'erano ancora in gioco istinti vivi e che, quando un incarico di fuori lo costringeva a mettersi in viaggio, poche giornate potevano talvolta trasformarlo e ringiovanirlo in mo-do strano. E una volta aveva anche osservato che Nicola, in una cittadina straniera dove ponevano in opera un pulpito scolpito, una sera aveva visitato di nascosto una prostituta, e poi per parecchi giorni era rimasto inquieto e di cattivo umore. Con l'andar del tempo oltre a questa curiosità c'era qualcos'altro che tratteneva Boccadoro in casa del maestro e gli dava da fare. Era la bella figliola, Elisabetta, che gli piaceva molto. Riusciva di rado a vederla; ella non entrava mai nell'officina ed egli non sapeva capire se la sua ritrosia di fronte agli uomini le fosse solo imposta dal padre, o se corrispondesse anche alla sua natura. Non poteva far a meno di notare che il maestro non l'aveva più invitato a tavola e che cercava d'osta-colargli ogni incontro con lei. Elisabetta era una fanciulla molto preziosa e custodita, lo vedeva bene, e per un amore senza nozze non c'era speranza; chi poi volesse sposarla doveva innanzi tutto esser figlio di buona famiglia, membro di una delle corporazioni superiori e possibilmente posseder anche denaro e una casa. La bellezza di Elisabetta, così diversa da quella delle donne vagabonde e delle contadine, aveva attirato fin dal primo giorno l'attenzione di Boccadoro. C'era qualcosa in lei che ancora gli era rimasto ignoto, qualcosa di strano, che lo attraeva violentemente, ma gl'ispirava al tempo stesso diffidenza e perfino dispetto: una grande calma ed innocenza, un'onestà e una purezza, che non eran tuttavia ingenuità; dietro tutta la sua cortesia e il suo decoro si celava una certa freddezza, un orgoglio, per cui quell'innocenza non lo commoveva e non lo disarmava (egli non sarebbe mai stato capace di sedurre una bambina), ma anzi lo eccitava e lo provocava. Non appena la figura di lei gli divenne un poco familiare come immagine intima, sentì il desiderio di rappresentarla, ma non com'era allora, bensì coi tratti ridesti, sensibili e sofferenti, non una piccola vergine ma una Maddalena. Talvolta la sua brama avrebbe voluto vedere quel volto calmo, bello e immobile, contrarsi e sfogliarsi, sia nella voluttà, sia nella sofferenza, e rivelare così il suo segreto. Vi era poi un altro volto, che dimorava nella sua anima ma non gli apparteneva del tutto, un volto ch'egli desiderava ardentemente di riuscir a cogliere e rappresentare da artista, ma che continuamente gli sfuggiva e gli si velava. Era il volto della madre. Già da tempo esso non era più quello che gli era ricomparso un giorno dalle perdute profondità della memoria dopo i colloqui con Narciso. Nelle giornate di vagabondaggio, nelle notti d'amore, nei momenti di nostalgia, nei momenti di pericolo e di vicinanza della morte il volto della madre si era a poco a poco trasformato e arricchito, era diventato più profondo e più vario; non era più l'immagine della propria madre, ma dai tratti e dai colori di questa si era svolta a poco a poco un'immagine materna impersona-le, L'immagine di un'Eva, di una madre dell'umanità. Co-me maestro Nicola in alcune Madonne aveva rappresentato l'immagine della Madre di Dio addolorata con una perfezione ed una forza espressiva che a Boccadoro parevano insuperabili, così egli stesso sperava di raffigurare un giorno, quando fosse più maturo e più sicuro della sua capacità, L'immagine della madre del mondo, Eva, quale egli la portava nel cuore come la cosa più sacra, più antica e più amata. Ma questa immagine intima, che un tempo era stata solo il ricordo della madre sua e del suo amore per lei, continuava a trasformarsi e ad arricchirsi. In essa si erano impressi i tratti della zingara Lisa, di Lidia, la figlia del cavaliere, e molti altri volti di donna; e non solo i volti delle donne amate avevano cooperato a trasformare quell'immagine originaria e a darle tratti nuovi, ma anche ogni emozione, ogni esperienza ed ogni avventura. Questa figura infatti, se un giorno fosse riuscito a renderla visibile, non doveva rappresentare una donna particolare, ma la vita stessa come madre primigenia. Spesso credeva di vederla, talvolta gli appariva in sogno. Ma di questo volto d'Eva e di quello che doveva esprimere egli non avrebbe saputo dir altro, se non che doveva mostrare la voluttà della vita nella sua intima parentela col dolore e con la morte. Nel corso di un anno Boccadoro aveva imparato molto. Nel disegno aveva raggiunto presto una grande sicurezza e oltre all'intaglio Nicola gli faceva talvolta provare anche a modellar la creta. La sua prima opera riuscita fu appunto una statuetta di creta alta due buone spanne: la figura graziosa e seducente della piccola Giulia, della sorella di Lidia. Il maestro lodò il lavoro, ma non esaudì il desiderio espresso da Boccadoro di farla fondere in metallo; la figura gli sembrava troppo impudica e mondana, perché egli volesse farle da padrino. Poi cominciò il lavoro intorno alla statua di Narciso; Boccadoro la eseguì in legno sotto le spoglie del discepolo Giovanni, perché, se riusciva, Nicola voleva metterla in un gruppo della crocefissione, che gli era stato ordinato e al quale lavoravano da tempo esclusivamente i suoi due aiutanti, per lasciare poi al maestro l'ultimo tocco. Boccadoro lavorava alla figura di Narciso con grande amore; in questo lavoro ritrovava se stesso, la sua natura d'artista e ]a sua anima, ogni volta ch'era uscito di carreggiata, e non avveniva di rado: amori, feste da ballo, bicchierate coi compagni, gioco di dadi e anche risse frequenti lo travolgevano così che per uno o più giorni egli disertava l'officina, oppure lavorava distratto e a malincuore. Ma al suo apostolo Giovanni, la cui figura amata e pensosa gli usciva dal legno sempre più pura, egli lavorava solo nelle ore in cui si sentiva preparato, con dedizione e umiltà. In queste ore non era né lieto né triste, non pensava né alla gioia né alla caducità della vita; gli ritornava in cuore quel sentimento di rispetto puro e luminoso, col quale un tempo si era dato all'amico, lieto di lasciarsi guidare da lui. Non era Boccadoro che crea-va una figura di sua propria volontà; era l'altro piuttosto, era Narciso che si serviva delle mani dell'artista per uscire dalla transitorietà e mutabilità della vita e per rappresentare l'immagine pura del suo essere. Così, Boccadoro sentiva talvolta con un brivido, nascevano le vere opere. Così era nata la Madonna indimenticabile del maestro, che più d'una domenica egli era tornato a visitare nel convento. Così, in questo modo sacro e misterioso, erano nate le due o tre statue antiche più belle, che il maestro aveva su nel vestibolo. Così sarebbe nata un giorno anche quell'immagine, quell'altra, quell'unica, per lui più misteriosa e più veneranda ancora, L'immagine della madre dell'umanità. Oh, se dalle mani dell'uomo uscissero solo di queste opere d'arte, immagini sante, necessarie, non profanate da una volontà e da una vanità! Ma non era così, egli lo sapeva da un pezzo. Si potevano creare anche altre figure, cose graziose e squisite, fatte con grande maestria, gioia degli amatori d'arte, ornamento delle chiese e delle sale di consiglio... belle cose certo, ma non sacre, non vere immagini dell'anima. Egli conosceva parecchie di queste opere, che con tutta la loro grazia d'invenzione e malgrado tutta la cura dell'esecuzione non erano in fondo che giochi. E non solo di Nicola e di altri maestri; con sua propria confusione e tristezza, nel suo cuore stesso, nelle sue stesse mani egli aveva sentito come un artista possa mettere al mondo simili cose graziose per il piacere della propria abilità, per vanità, per trastullo. La prima volta che si rese conto di questo si sentì desolatamente triste. Ah, per fare graziose figurine d'angeli o altri giochetti, sian pur carini, non valeva la pena di essere artisti. Per altri forse, per artigiani, per cittadini, per anime tranquille e soddisfatte poteva anche valer la pena, ma per lui no. Per lui arte ed artisti non valevan nulla, se non ardevano come il sole e non avevano la potenza delle tempeste, se non portavano che piacere, gradimento, piccola felicità. Egli cercava altro. Dorare con lucente orpello una corona di Maria elegante come un merletto non era lavoro per lui, anche se ben pagato. Perché maestro Nicola prendeva tutte queste commissioni? Perché si teneva due aiutanti? Perché stava ad ascoltare per ore ed ore, con le misure in mano, quei sena-tori e quei preposti, quando gli ordinavano un portale o un pulpito? Per due ragioni, due ragioni meschine: perché teneva a essere l'artista celebre e coperto di commissioni e perché voleva accumular denaro, denaro non per grandi imprese o grandi piaceri, ma denaro per sua figlia, ch'era già da un pezzo una fanciulla ricca, denaro per il corredo di lei, per colletti di pizzo e vesti di broccato, per un letto matrimoniale in noce, pieno di coperte e di lenzuola preziose! Come se la bella ragazza non potesse sperimentare l'amore altrettanto bene in un fienile qualsiasi! In quelle ore di meditazione s'agitava profondo in Boccadoro il sangue della madre, L'orgoglio e il disprezzo del vagabondo per i sedentari e i possidenti. A volte il mestiere e il maestro gli erano odiosi come i fagiolini col filo, spesso era sul punto di scappare. Anche il maestro s'era già pentito più d'una volta e amaramente di aver aderito alla preghiera - di quel giovanotto dal carattere difficile, su cui non si poteva far conto e che aveva messo a dura prova la sua pazienza. Ciò ch'era venuto a sapere del tenore di vita di Boccadoro, della sua indifferenza per il denaro e per la proprietà, della sua prodigalità, dei suoi molti amori, delle sue risse frequenti, non poteva indurlo a maggior mitezza: s'era preso in casa uno zingaro, un compagno infido. Inoltre non gli era sfuggito con che occhi quel vagabondo guardasse sua figlia Elisabetta. Se tuttavia esercitava con lui maggior pazienza di quel che gli fosse agevole, non lo faceva per senso di dovere o per imbarazzo; ma per amore dell'apostolo Giovanni, che vedeva nascere sotto i suoi occhi. Con un sentimento di amore e di affinità spirituale che non confessava del tutto a se stesso, il maestro osservava quello zingaro, venuto a lui dai boschi, scolpire a poco a poco, capricciosamente ma con tenacia infallibile, su quel primo disegno così commovente e così bello malgrado la sua inesperienza, grazie al quale allora egli l'aveva tenuto presso di sé, la figura in legno del discepolo. Non ostante tutti i capricci e le interruzioni, un giorno essa sarebbe giunta a compimento, il maestro non ne dubitava, e allora sarebbe stata un'opera quale nessuno dei suoi lavoranti avrebbe mai potuto fare, quale poche volte riesce anche ai grandi maestri. Per quante cose egli disapprovasse nel suo scolaro, per quanti rimproveri gli rivolgesse, per quanto fosse spesso furente contro di lui, del suo Giovanni non gli diceva mai una parola. Quel resto di grazia adolescente e d'ingenuità fanciullesca, che aveva attirato a Boccadoro tante simpatie, era andato a poco a poco perdendosi negli ultimi anni. Egli era diventato un bell'uomo forte, molto ambito dalle donne, poco amato dagli uomini. Anche il suo animo, il suo aspetto intimo, si era molto mutato, da quando Narciso l'aveva destato dal dolce sonno dei suoi anni di convento, da quando l'avevano plasmato il mondo e la vita vagabonda. Il grazioso scolaro mite e benvoluto da tutti, pio e servizievole, s'era trasformato da tempo in tutt'altro uomo. Narciso l'aveva destato, le donne lo avevan reso sapiente, il vagabondaggio gli aveva fatto perder le grazie della prima giovinezza. Amici non ne aveva, il suo cuore apparteneva alle donne. Queste potevano conquistarlo facilmente, bastava uno sguardo di desiderio. Era difficile ch'egli sapesse resistere a una donna; rispondeva alla minima seduzione. E sebbene avesse un senso molto delicato della bellezza e amasse sopra tutto le fanciulle giovanissime, nello sboccio della loro primavera, si lasciava tuttavia commuovere e sedurre anche dalle donne meno belle e non più giovani. Nelle sale da ballo rimaneva talvolta accanto ad una ragazza matura e sco-raggiata, che nessuno voleva e che lo conquistava per le vie della compassione non solo, ma anche di una curiosità sempre desta. E appena cominciava a darsi ad una donna - fosse per settimane o soltanto per qualche ora - essa diventava bella per lui ed egli le si dava tutto. L'esperienza gli aveva insegnato che ogni donna è bella e può donare felicità, che quella meno appariscente e di-sprezzata dagli uomini è capace di un ardore e di una dedizione inaudite, che quella sfiorita è ricca di una tenerezza dolce e malinconica più che materna, che ogni donna ha il suo segreto e il suo fascino, la cui rivelazione può render felici. In questo tutte le donne erano, uguali. Ogni mancanza di giovinezza e di bellezza era compensata da qualche atteggiamento particolare. Certo non tutte potevano tenerlo avvinto per un'ugual durata di tempo. Verso la più giovane e la più bella egli non era di un'ombra più affettuoso o più grato che verso la brutta, non amava mai a metà. Ma c'erano donne che cominciavano veramente ad avvincerlo dopo tre o dopo dieci notti d'amore, e altre che già dopo la prima volta erano esaurite e dimenticate. Amore e voluttà gli parevano l'unica cosa che potesse davvero scaldare la vita, e darle un valore. L'ambizione gli era sconosciuta, per lui un vescovo o un mendicante valevano lo stesso; anche il guadagno e la proprietà non riuscivano ad interessarlo; li disprezzava, non avrebbe mai fatto per essi il minimo sacrificio e gettava via spensieratamente il denaro, che in certi periodi guadagnava in abbondanza. L'amore delle donne, il gioco dei sessi stava per lui in cima a tutto e il fondo della sua frequente tendenza alla malinconia e al disgusto aveva origine nell'esperienza di quanto sia instabile e fugace la voluttà. L'accendersi repentino e incantevole del piacere amoroso, il suo breve ardere appassionato, il suo rapido spegnersi: ecco ciò che per lui conteneva il nocciolo di ogni esperienza, ciò che diventava per lui l'immagine di ogni delizia e di ogni dolore della vita. A quella tristezza e al brivido provocato dalla fugacità del piacere egli poteva abbandonarsi con la stessa dedizione che all'amore, e anche quella malinconia era amore. Come l'estasi d'amore nel momento della sua massima tensione e felicità è sicura di dover scomparire e morire l'istante appresso, co-sì l'intima solitudine e l'abbandono alla tristezza eran sicuri d'essere a un tratto inghiottiti dal desiderio, da un nuovo volgersi al lato luminoso della vita. Morte e voluttà erano una cosa sola. La madre della vita si poteva chiamare amore o piacere, si poteva chiamare anche tomba e corruzione. La madre era Eva, era la fonte della felicità e la fonte della morte, generava eternamente, uccideva eternamente, in lei amore e crudeltà erano una cosa sola, e più egli portava in sé la sua figura, più essa diventava per lui un simbolo sacro. Egli sapeva, non con le parole e con la coscienza, ma con la voce più profonda del sangue, che la sua vita conduceva alla madre, al-la voluttà e alla morte. Il lato paterno della vita, lo spirito, la volontà non erano la sua patria. Quella era la patria di Narciso, e solo allora Boccadoro comprendeva a fondo le parole dell'amico e vedeva in lui il proprio contrapposto e questo appunto voleva rappresentare e rendere visibile nella sua figura di Giovanni. Si poteva sentire fino alle lacrime la nostalgia di Narciso, si poteva sognare meravigliosamente di lui... ma raggiungerlo, diventare come lui, non si poteva. Con un senso misterioso Boccadoro presentiva anche il segreto della sua natura d'artista, del suo profondo amore per l'arte e a volte del suo odio violento contro di es-sa. Intuiva, senza pensiero, col sentimento, in molteplici immagini, che l'arte era un'unione del mondo paterno e materno, dello spirito e del sangue; poteva cominciare nella sfera più sensuale e condurlo in quella più astratta, o anche prender le mosse in un puro mondo d'idee e finire nella carne più sanguigna. Tutte quelle opere d'ar-te, ch'erano veramente sublimi e non solo bei giochetti di prestigiatore, quelle che erano pregne dell'eterno mistero, per esempio quella Madonna del maestro, tutte le opere genuine e indubbie di un artista avevano questo duplice aspetto pericoloso e sorridente, questo carattere maschile e femminile, questo insieme d'istinto e di pura spiritualità Ma più di tutte la Madre Eva avrebbe mostrato un giorno questo doppio volto, se un giorno egli fosse riuscito a rappresentarla. Nell'arte e nell'essere artista stava per Boccadoro la possibilità di una conciliazione dei suoi contrasti più profondi, oppure di una figurazione simbolica splendida e sempre nuova del dissidio della sua natura, Ma l'arte non era un puro dono, non si poteva avere per niente, costava moltissimo, esigeva sacrifici. Per più di tre anni Boccadoro le aveva sacrificato ciò ch'egli conosceva di più alto e di più indispensabile accanto alla voluttà dell'amore: la libertà. L'essere libero, il vagare nell'infinito, L'arbitrio della vita . errabonda, la solitudine e l'indipendenza, tutto questo egli aveva gettato da sé. Gli altri potevano giudicarlo capriccioso insubordinato e prepotente, quando talvolta abbandonava infuriato l'officina e il lavoro: per lui quella vita era una schiavitù, che spesso lo amareggiava fino a diventargli insopportabile. Non al maestro egli doveva ubbidire, né all'avvenire, né al bisogno, ma all'arte. L'arte, questa dea apparentemente così spirituale aveva d'uopo di tante cose futili! Di un tetto sopra il capo, di strumenti, di legni, di creta, di colori, di oro: esigeva lavoro e pazienza. Ad essa egli aveva sacrificato la libertà selvaggia dei boschi, L'ebbrezza dello spazio, l'aspra voluttà del pericolo, L'orgoglio della miseria e doveva rinnovare continuamente il sacrificio, con la goia strozzata e la bava alla bocca. Ritrovava una parte di ciò che sacrificava, e si vendi-cava un poco della schiavitù di quella vita ordinata e sedentaria, in alcune avventure che si collegavano con l'amore, nelle risse coi rivali. Tutta l'impetuosità frenata, tutta la forza repressa della sua natura si sfogava da quella valvola; egli divenne un noto e temuto rissaiolo. In istrada per recarsi da una ragazza o di ritorno dal ballo, essere assalito a un tratto in un viottolo scuro, ricevere un paio di bastonate, rivoltarsi fulmineo e passare dalla difesa all'attacco, stringere ansando il nemico boccheggiante, mettergli il pugno sotto il mento, prenderlo per i capelli o afferrarlo energicamente alla gola, era cosa che gli piaceva moltissimo e guariva per un pò di tempo i suoi umori tetri. E piaceva anche alle donne. Tutto ciò riempiva le sue giornate e tutto aveva anche un senso, fin che durava il lavoro intorno al discepolo Giovanni. Questo si protrasse a lungo e gli ultimi tocchi delicati alla modellazione del volto e delle mani furono da-ti in un raccoglimento paziente e solenne. Portò a termine il suo lavoro in uno stanzino per il deposito dei legni dietro l'officina dei lavoranti. Venne finalmente la mattina in cui la figura fu pronta. Boccadoro prese una scopa, spazzò con cura lo stanzino, tolse delicatamente col pennello l'ultima polvere di legno dai capelli del suo Giovanni e rimase a lungo davanti ad esso, un'ora e più, in-vaso dal sentimento solenne di un avvenimento grande e raro, che poteva forse ripetersi ancora una volta nella sua vita, ma forse poteva anche rimanere unico. Un uo-mo nel giorno delle sue nozze o in cui venga armato cavaliere, una donna dopo il primo parto deve sentire qualcosa di simile agitarsi nel suo cuore, un'alta consacra-zione, una serietà profonda e insieme già il timore segreto di quel momento, in cui anche quest'esperienza unica e sublime sia vissuta, passata, classificata ed inghiottita dal corso normale della vita. Immobile guardava l'amico Narciso, la guida dei suoi anni giovanili, lì davanti a lui, con la testa alta in ascolto, nella veste del bel discepolo favorito, con un'espressione di calma, di dedizione e di pietà ch'era come il germoglio d'un sorriso. A quel volto bello, pio e spirituale, a quella figura slanciata, quasi librata, a quelle mani lunghe, levate in un pio gesto di grazia, il dolore e la morte non erano ignoti, quantunque fossero pieni di giovinezza e di musica intima; ma ignoti erano loro la disperazione, il disordine, la rivolta. Lieta o triste che fosse l'anima dietro quei nobili lineamenti, era intonata a purezza, non tollerava dissonanze. Boccadoro, immobile, osservava l'opera sua. La contemplazione, cominciata come un'adorazione al monumento della sua prima giovinezza e della sua amicizia, finì con una tempesta di ansie e di pensieri gravi. Ecco lì la sua opera: il bel discepolo sarebbe rimasto e la sua fioritura delicata non avrebbe mai avuto fine. Egli invece, che l'aveva creato, doveva ormai prender congedo dalla propria opera, già l'indomani essa non gli apparterrebbe più, non aspetterebbe più le sue mani, non crescerebbe e fiorirebbe più sotto di esse, non sarebbe più per lui rifugio, conforto e senso della vita. Egli rimaneva vuoto. E gli pareva che il meglio sarebbe stato prender congedo quel giorno stesso non solo dal suo Giovanni, ma anche dal maestro, dalla città e dall'arte. Egli non aveva più nulla da fare in quel luogo; non c'erano immagini nella sua anima, che potesse rappresentare. La vagheggiata immagine delle immagini, la figura della Madre degli uomini non gli era ancora raggiungibile, e per lungo tempo. Doveva rimettersi a lustrare figurine d'angelo, o a intagliare ornamenti? Si strappò di là e passò nell'officina del maestro. Entrò piano e rimase sulla soglia, finché Nicola lo vide e lo chiamò.--Che c'è Boccadoro? -- La mia statua è finita. Potreste forse venir un momento a guardarla prima d'andare a tavola. --Volentieri, vengo subito. Passarono insieme nello stanzino, lasciando la porta aperta perché ci fosse più luce. Nicola non aveva visto la figura da parecchio tempo e aveva lasciato lavorare Boccadoro senza disturbarlo. Ora osservava l'opera con silenziosa attenzione, e il suo volto chiuso si faceva bello e luminoso: Boccadoro vide i suoi occhi azzurri e severi diventare sereni. -- Bene, -- disse il maestro. -- Molto bene. E la tua prova d'esame, Boccadoro: ora hai finito d'imparare. Mostrerò la tua figura a quelli della corporazione e chiederò che ti diano un diploma di maestro: L'hai meritato. Boccadoro dava poca importanza alla corporazione, ma sapeva quale elogio significassero le parole del maestro, e ne fu lieto. Nicola, rigirando lentamente intorno alla statua del Giovanni, disse con un sospiro: -- Questa figura è piena di religiosità e di chiarezza, è seria, ma ricca di felicità e di pace. Si direbbe fatta da un uomo che ha in cuore molta luce, molta serenità. Boccadoro sorrise. -- Sapete che in questa figura io non ho rappresenta-to me stesso, ma il mio più caro amico. Egli vi ha portato la chiarezza e la pace, non io. Non sono stato io a creare quell'immagine, egli me l'ha messa nell'anima. --Può darsi, --disse Nicola.--E un mistero, in che modo nasca una figura come questa. Io non sono precisamente umile, ma debbo dire: ho fatto molte opere che sono di gran lunga inferiori alla tua, non per arte e per accuratezza, ma per verità. Via, lo sai tu stesso, un'opera simile non si ripete. E un mistero. --Sì, -- disse Boccadoro, -- quando ebbi terminata la figura e la guardai, pensai fra me: un'opera come questa non ti riuscirà una seconda volta. Perciò, maestro, credo che presto ritornerò alla vita del vagabondo. Nicola lo guardò stupito e malcontento. --Ne riparleremo. Il lavoro per te dovrebbe cominciare proprio ora, non è questo davvero il momento di scappare. Ma per oggi fai vacanza, e a mezzogiorno sarai mio ospite. A mezzogiorno Boccadoro arrivò, pettinato e lavato, con l'abito della festa. Questa volta sapeva quanta importanza avesse e che raro favore fosse un invito alla mensa del maestro. Ma, mentre saliva la scala che conduceva al vestibolo tutto adorno di statue, era ben lungi dal sentire in sé il rispetto e la timida gioia dell'altra volta, quando era entrato col batticuore in quelle belle stanze silenziose. Anche Elisabetta era elegante, con una catena ornata di pietre preziose intorno al collo; e a tavola, oltre al carpione e al vino, ci fu un'altra sorpresa: il maestro gli regalò un borsellino di cuoio con due monete d'oro: il suo compenso per la statua eseguita. Questa volta egli non rimase muto, mentre padre e figlia chiacchieravano fra loro. Entrambi gli rivolgevano la parola e fu fatto un brindisi. Gli occhi di Boccadoro non stavano oziosi; coglieva l'occasione per osservare attentamente la bella ragazza dal viso aristocratico e un poco altero, e i suoi sguardi non dissimulavano quanto gli piacesse. Ella si mostrava gentile con lui, senza però arrossire, né riscaldarsi, e ciò lo lasciava deluso. Egli tornava a sentir vivo il desiderio di costringere quel bel volto immobile a parlare e a rivelare il suo segreto. Dopo tavola ringraziò, rimase un poco ad ammirare le sculture in legno del vestibolo, poi passò il pomeriggio a zonzo per la città, indeciso e sfaccendato. Era stato molto onorato dal maestro, oltre ogni aspettativa. Perché ciò non lo rendeva lieto? Perché tutto quell'onore sapeva così poco di festa per lui? Gli venne un'ispirazione e la seguì: prese a nolo un cavallo e si diresse verso il convento, dove un giorno aveva visto per la prima volta l'opera del maestro e udito il nome di lui. Eran passati due anni e gli pareva un tempo infinito. Nella chiesa del convento visitò e contemplò la Madre di Dio, che ancora una volta lo soggiogò e lo rapì; era più bella del suo Giovanni, pari per profondità intima e misteriosa, ma superiore per arte, per libero slancio etereo. Egli scorgeva ora nell'opera particolari che solo l'artista vede, movimenti lievi e delicati nella veste, arditezze nella formazione delle lunghe mani e delle dita, fini accorgimenti nello sfruttare le accidentalità nella struttura del legno... tutte queste bellezze non erano nulla in confronto dell'insieme, della semplicità e sincerità della visione ma esistevano ed erano molto belle, e anche nell'artista più ispirato eran possibili solo quando conoscesse a fondo il suo mestiere. Per raggiungere di questi effetti, uno doveva avere non soltanto l'anima ricca d'immagini, ma anche gli occhi e le mani meravigliosamente addestrati ed esercitati. Forse valeva dunque la pena di metter tutta la propria vita al servizio dell'arte, a prezzo della libertà, a prezzo delle grandi esperienze, pur di riuscir a produrre qualcosa di così bello, non solo vissuto, contemplato e concepito in amore, ma anche eseguito con sicura maestria fin nell'ultimo particolare? Era una grande questione. Boccadoro ritornò in città a notte tarda col cavallo stanco. C'era ancora aperta un'osteria: mangiò del pane e bevette del vino, poi salì nella sua camera in piazza del mercato del pesce; era in disaccordo con se stesso, pieno di domande, pieno di dubbi. INDEX CAPITOLO XII Il giorno dopo Boccadoro non seppe decidersi ad andare all'officina. Come già in tante altre giornate di cattivo umore, camminò a zonzo per la città. Vide le donne e le ragazze che andavano al mercato, sostò specialmente presso la fontana, osservando i mercanti di pesce e le loro donne vigorose, mentre offrivano in vendita e decantavano la loro merce, mentre estraevano dai loro tini i pesci freddi e argentei, alcuni dei quali s'arrendevano quieti alla morte, con la bocca dolorosamente aperta e gli occhi d'oro fissi in un'espressione d'angoscia, altri invece si ribellavano furenti e disperati. Come già tante volte, lo prendeva una viva compassione per quelle bestie e una triste indignazione contro gli uomini; perché questi erano così ottusi e rozzi e inconcepibilmente stolti e miopi, perché tutti quanti non vedevano nulla, né i pescatori né le pescivendole né i compratori che tiravan sul prezzo; perché non vedevano quelle bocche, quegli occhi spaventati a morte e quelle code che si dibattevano violentemente, non vedevano quella tremenda lotta disperata e vana, quell'insopportabile trasformazione dei misteriosi animali così meravigliosamente belli che rabbrividivano nell'ultimo lieve tremito sulla pelle morente e poi giacevano morti e spenti, lunghi e tirati, miseri pezzi di carne per la tavola del ghiottone soddisfatto? Nulla vedevano questi uomini, nulla sapevano e osservavano, nulla parlava loro! Che importava se un povero grazioso animale s'irrigidiva sotto i loro occhi, o se un maestro rendeva visibile in un volto santo la speranza, tutta la nobiltà, tutto il dolore e tutta la cupa, stringente angoscia della vita umana, fino a darne il brivido?... Nulla vedevano, nulla li commoveva! Tutti erano soddisfatti o affaccendati, avevano interesse, avevano fretta, gridavano, ridevano, si ruttavano in faccia, facevan chiasso, facevan dello spirito, urlavano per due soldi, e tutti stavano bene, tutti erano in regola, soddisfattissimi di sé e del mondo. Porci erano, ah, molto peggio, molto più sozzi dei porci! Anch'egli, è vero, era stato spesso in mezzo a loro e s'era sentito contento fra i suoi simili e aveva fatto la corte alle ragazze e aveva mangiato ridendo senza orrore i pesci arrostiti. Ma poi sempre, talora tutt'a un tratto come per incanto, la gioia e la tranquillità l'avevano abbandonato e quell'illusione grassa e corpacciuta era caduta dal suo spirito, quella soddisfazione di sé, quell'importanza e quella calma stagnante dell'anima, e s'era sentito trascinar via nella solitudine e nella fantasticheria tormentata, spinto alla vita vagabonda, alla contemplazione del dolore, della morte, dell'incertezza d'ogni attività, costretto a fissar gli occhi nell'abisso. Talvolta allora da quel suo disperato abbandono alla visione dell'assurdo e del pauroso gli era sbocciata una gioia improvvisa, un innamoramento appassionato, la voglia di cantare una bella canzone o di disegnare; oppure, odorando un fiore, giocando con un gatto, gli era tornato l'accordo ingenuo con la vita. Anche questa volta sarebbe tornato, domani o dopodomani, e il mondo sarebbe stato di nuovo buono e meraviglioso: fino a quando non ritornasse un'altra volta la tristezza, la fantasticheria tormentosa, L'amore opprimente e senza speranza per i pesci moribondi, per i fiori che appassiscono, L'orrore per il quieto vivere degli uomini, sozzo ed ottuso, per il loro star a bocca aperta e non vedere. In questi momenti il suo pensiero riandava sempre con penosa curiosità e con angoscia profonda a Vittore, al goliardo vagante, a cui un giorno aveva piantato il coltello fra le costole e che aveva abbandonato, coperto di sangue, sui rami d'abete; e pensava e ripensava che mai poteva esser avvenuto di quel Vittore: se gli animali l'avevano divorato del tutto, o se qualcosa di lui era rimasto. Sì, rimaste eran certo le ossa e forse qualche ciuffo di capelli. E le ossa... che avverrebbe di loro, quanto tempo dovrebbe passare, decenni o solo anni, prima che anch'esse perdessero la loro forma e diventassero terra? Ecco, in quel momento, mentre guardava i pesci con compassione e la gente del mercato con disgusto il cuore gonfio d'inquieta tristezza e di amara ostilità per il mondo e per se stesso, doveva pensare a Vittore. Forse era stato trovato e sepolto? E se ciò era avvenuto... l a sua carne s'era ormai staccata tutta dalle ossa, tutto era ormai putrefatto, tutto avevano divorato i vermi? C'erano ancora capelli sul suo cranio e sopracciglia sopra le sue orbite? E della vita di Vittore, ch'era pur stata piena d'avventure e di storie, e del gioco fantastico dei suoi scherzi e delle sue curiose barzellette... che n'era rimasto? Oltre ai pochi ricordi che conservava di lui il suo ucci-sore, sopravviveva ancora qualcosa di quell'esistenza umana, che pure non era stata delle più comuni? C'era ancora un Vittore nei sogni delle donne che l'avevano amato? Ah, tutto probabilmente finito e dileguato! E questa era la sorte di tutti e di tutto, fiorire in fretta ed in fretta appassire: poi cadeva sopra la neve. Che magnifico rigoglio c'era stato in lui stesso, Boccadoro, quando pochi anni prima era giunto in quella città, con l'anima piena d'aspirazioni artistiche e di timida e profonda venerazione per il maestro Nicola! E che cosa era rimasto di tutto questo? Nulla, nulla più di quanto rimanesse della lunga figura di brigante del povero Vittore. Se allora qualcuno gli avesse detto che sarebbe venuto un giorno in cui Nicola lo avrebbe riconosciuto suo pari e avrebbe chiesto per lui alla corporazione il diploma di maestro, egli avrebbe creduto di aver fra le mani tutta la felicità del mondo. Ed ecco che questo non era ormai più che un fiore avvizzito, una cosa arida e senza gioia. Mentre era immerso in questi pensieri, Boccadoro, ebbe all'improvviso una visione. Fu un momento solo, il lampeggiar d'un baleno: vide il volto della Madre primigenia, chino sopra l'abisso della vita, con un sorriso vago e uno sguardo bello e crudele, lo vide sorridere alle na-scite, alle morti, ai fiori, alle foglie crepitanti dell'autunno, sorridere all'arte sorridere alla putrefazione. Tutto aveva lo stesso valore per la Madre dei viventi sopra tutto vagava, come la luna, il suo sorriso inquietante, a lei era altrettanto caro Boccadoro con le sue malinconiche meditazioni quanto il carpione morente sul selciato del mercato dei pesci, era altrettanto cara la superba e fredda signorina Elisabetta quanto le ossa, disperse nella foresta, di quel Vittore che un giorno gli avrebbe rubato tanto volentieri il suo ducato. Già il lampo s'era spento e il misterioso volto della Madre era scomparso. Ma il suo bagliore scialbo guizzava ancora in fondo all'anima di Boccadoro, e un'ondata di vita, di dolore, di opprimente nostalgia tumultuava nel suo cuore. No, no, egli non voleva la felicità e la sazietà degli altri, dei compratori di pesce, dei cittadini, della gente affaccendata. Che il diavolo li portasse! Ah, quel viso pallido e balenante, quella bocca piena, matura, d'estate avanzata, sulle cui labbra grevi era passato come una folata di vento e come un raggio di luna quell'indefinibile sorriso di morte! Boccadoro andò a casa del maestro: era verso mezzogiorno, attese fin che udì Nicola lasciar il lavoro e lavar-si le mani. Allora entrò da lui. -- Permettetemi di dirvi due parole, maestro: posso farlo mentre vi lavate le mani e indossate la giubba. Ho sete d'una boccata di verità, vorrei dirvi qualcosa che forse ora so dire e poi non più. Mi trovo in uno stato, in cui bisogna che parli con qualcuno, e voi siete il solo che forse mi può capire. Non parlo all'uomo che possiede un'officina famosa e riceve onorevoli incarichi da città e da conventi e ha due assistenti e una casa bella e ricca. Parlo al maestro che ha fatto quella Madonna laggiù nel chiostro, la più bella figura che io conosca. Quest'uomo io ho amato e venerato, diventar suo pari mi sembrava la meta più alta di questa terra. Ora ho creato anch'io una figura, il Giovanni, non l'ho saputa fa-re così perfetta come la vostra Madre di Dio, ma insomma è quel che è. Non ne ho un'altra da fare, non c'è nessuna immagine che mi chiami, che mi costringa a rappresentarla. O meglio, ce n'è una, una sacra immagine lontana, che un giorno dovrò, ma che oggi non posso ancora rappresentare. Per riuscirvi debbo vivere ancora molto e arricchirmi d'altre esperienze. Forse potrò fra tre, quattro anni, o fra dieci, o più tardi ancora, o anche mai. Ma fino a quel momento, maestro, non voglio esercitar il mestiere e verniciar figure e intagliar pulpiti e condurre una vita d'artigiano nell'officina e guadagnar denaro e diventar simile a tutti gli artigiani; non voglio questo, io voglio vivere e girovagare, sentire l'estate e l'inverno, guardare il mondo, sperimentare la sua bellezza e il suo orrore. Io voglio soffrire la fame e la sete e voglio dimenticarmi, liberarmi di tutto quello che ho vissuto e imparato qui da voi. Desidererei bensì di poter fa-re un giorno qualcosa di così profondamente commovente come la vostra Madre di Dio... ma diventare co-me voi, vivere come voi vivete non voglio. Il maestro che s'era lavato e asciugato le mani, si voltò verso Boccadoro e lo guardò. Il suo volto era severo, ma non in collera. -- Tu hai parlato, -- disse, -- e io ho ascoltato. Basta così. Non ti aspetto al lavoro, quantunque ci sia molto da fare. Non ti considero come un mio aiutante: tu hai bisogno di libertà. Vorrei discutere di alcune cose con te, caro Boccadoro: non ora, fra qualche giorno; intanto puoi passare il tempo come ti pare. Vedi, io sono molto più vecchio di te e ho parecchie esperienze. Penso in un altro modo, ma ti capisco e so quello che intendi. Fra un pò di giorni ti farò chiamare. Parleremo del tuo avvenire: ho diversi progetti. Fino allora abbi pazienza! So bene quel che si prova quando si è terminata un'opera che stava a cuore, conosco codesto senso di vuoto. Passa, credimi. Boccadoro se n'andò insoddisfatto. Il maestro era ben intenzionato verso di lui, ma come poteva aiutarlo? Egli conosceva un punto del fiume, dove l'acqua non era alta e scorreva sopra un fondo pieno di rottami e di rifiuti; dalle case del sobborgo dei pescatori vi gettavano dentro ogni sorta d'immondizie. Si recò là, sedette sul muro di sponda e guardò giù nell'acqua. Egli amava molto l'acqua, ogni acqua lo attraeva. E guardando di lassù, attraverso la corrente cristallina, il fondo cupo e indistinto, si vedevan qua e là luccicare e scintillare, con un baglior d'oro smorzato e suggestivo, cose irriconoscibili, forse un vecchio coccio di piatto, o una falce storta gettata via, o un tegolo smaltato, talvolta poteva essere anche uno di quei pesci che vivono nella melma, un grosso capitone od una lasca, che si voltolava laggiù e riceveva per un attimo sulle chiare pinne del ventre e sulle scaglie un raggio di luce... non si poteva mai riconoscere con precisione di che si trattasse, ma aveva sempre un fascino magico e suggestivo quel subitaneo e smorzato scintillar d'aurei tesori, immersi nel fondo umido e nero. Simili a questo piccolo mistero dell'acqua gli pareva che fossero tutti i misteri veri, tutte le immagini reali dell'anima: non avevano contorno, non avevano forma, la lasciavano solo presentire come una bella possibilità lontana, erano velati ed ambigui. Come là nella penombra della verde profondità fluviale brillava col guizzo d'un baleno qualcosa d'indefinibile fra l'oro e l'argento, un nulla e pur ricco delle più liete promesse, così il profilo vago d'un uomo, veduto di scorcio, poteva talvolta annunciare qualcosa d'infinitamente bello o d'immensa-mente triste; oppure come nella notte sotto un carro da trasporto pendeva una lanterna e proiettava sui muri le ombre giganti e gigantesche dei raggi delle ruote, questo gioco d'ombre poteva per la durata d'un minuto esser pieno di visioni, d'avvenimenti e di storie come tutto Virgilio. Della stessa stoffa magica e irreale eran tessuti i sogni notturni, un nulla che conteneva in sé tutte le immagini del mondo, un'acqua nel cui cristallo stavano le forme di tutti gli uomini, di tutti gli animali, degli angeli e dei demoni, come possibilità sempre deste. Boccadoro si sprofondò di nuovo in quel gioco, fissò perdutamente il fiume che scorreva, vide tremare sul fondo bagliori informi, immaginò corone regali e bianche spalle di donne. Una volta, a Mariabronn, si rammentava d'aver veduto nelle lettere latine e greche simili forme di sogno, simili trasfigurazioni magiche; non ne aveva parlato con Narciso allora ? Ah, quando era stato, quante centinaia d'anni addietro? Ah, Narciso! Per veder lui, per parlare un'ora con lui, per tenere la sua ma-no, per udire la sua voce calma e saggia, avrebbe dato volentieri i suoi due ducati d'oro. Ma perché queste cose erano così belle, questo rilucer d'oro sotto l'acqua, queste ombre e queste intuizioni, tutte queste visioni irreali e fatate... perché erano così ineffabilmente belle e davano tanta felicità, se erano proprio il contrario di ciò che di bello può fare un artista? Giacché, se la bellezza di quelle cose indefinibili era senza forma e stava soltanto nel mistero, nelle opere dell'arte avveniva precisamente il contrario, esse eran tutte forma, parlavano perfettamente chiaro. Nulla era più inesorabilmente chiaro e definito della linea di una testa o di una bocca disegnata o scolpita nel legno. Con una precisione matematica egli avrebbe saputo riprodurre in un disegno il labbro inferiore o le palpebre della Madonna di Nicola; là non c'era nulla d'indefinito, d'illusorio, d'evanescente. Boccadoro s'abbandonava tutto a queste riflessioni. Non riusciva a spiegarsi come fosse possibile che quanto si poteva pensare di più determinato e di più formato agisse sull'anima allo stesso modo come ciò che v'era di più inafferrabile e di più informe. Una cosa però gli si rivelò in questa meditazione: perché tante opere d'arte inappuntabili e ben fatte non gli piacessero e, non ostante una certa bellezza, gli riuscissero noiose quasi odiose. Officine, chiese e palazzi erano pieni di queste opere insopportabili, egli stesso aveva lavorato ad alcune di esse. Davano una delusione profonda, perché mancava loro l'essenziale: il mistero. Questo era ciò che avevano in comune il sogno e l'opera d'arte più perfetta: il mistero. Boccadoro pensava ancora: un mistero è appunto quello che io amo, che io inseguo, che più volte ho veduto balenarmi dinanzi e che, se mi sarà possibile un giorno, vorrei rappresentare da artista e costringere a rivelarsi. E la figura della grande generatrice, della Madre primigenia: e il suo mistero non sta, come quello di un'altra figura, in questa o quella singolarità, in una particolare pienezza o magrezza, solidità od eleganza, forza o grazia, bensì nell'aver riuniti in sé e pacificati i più grandi contrasti, altrimenti inconciliabili nel mondo: nascita e morte, bontà e crudeltà, vita e annientamento. Se io avessi escogitato da me questa figura, se fosse solo un gioco del mio pensiero o un ambizioso desiderio d'artista, poco importerebbe, io potrei capire le sue manchevolezze e dimenticarla. Ma la Madre primigenia non è un pensiero, perché l'ho inventata io, L'ho veduta! Essa vive in me, L'ho ripetutamente incontrata. La presentii la prima volta, quando in un villaggio, una notte d'inverno, dovetti tenere il lume sopra il letto di una contadina partoriente: allora l'immagine cominciò a vivere in me. Spesso è stata lontana e perduta, lungo tempo, ma poi a un tratto mi ribalena davanti, anche oggi. L'immagine della mia propria madre, un tempo la più cara per me, si è completamente trasformata in questa nuova e vi sta dentro come il nocciolo in una ciliegia. Sentiva poi chiaramente la sua situazione attuale, innanzi a una decisione. Non meno d'allora, quando aveva detto addio a Narciso e al convento, si trovava su di una via importante: la via verso la Madre. Forse un giorno dalla Madre sarebbe uscita una figura plasmata e a tutti visibile, un'opera delle sue mani. Forse là stava la meta, là era celato il senso della sua vita. Forse; non lo sapeva. Ma una cosa sapeva: seguire la Madre, essere in cammino verso di lei, attratto, chiamato da lei, era bene, era vita. Forse non avrebbe mai saputo rappresentare la sua immagine, forse sarebbe rimasta sempre sogno, presentimento, attrattiva, aureo balenio di un sacro mistero. Ebbene, in ogni caso egli doveva seguirla, a lei doveva affidare il suo destino, era lei la sua stella. Ed ecco che la decisione s'era fatta imminente, tutto era diventato chiaro. L'arte era una bella cosa, ma non era una dea né una meta, non lo era per lui; non l'arte egli doveva seguire, solo il richiamo della Madre. A che poteva giovare render sempre più abili le sue dita? In maestro Nicola si poteva vedere dove ciò conducesse. Conduceva alla gloria e alla fama, al denaro e alla vita sedentaria, e a un inaridimento e intristimento di quei sensi interiori, ai quali soltanto è accessibile il mistero. Conduceva alla fattura di leggiadri e preziosi trastulli, a ricchi altari e pulpiti d'ogni sorta, a immagini di san Seba-stiano e a testine d'angelo graziosamente ricciute, quattro talleri al pezzo. Oh, L'oro nell'occhio d'un carpione e la delicata, sottile peluria argentea sull'orlo di un'ala di farfalla erano infinitamente più belli, più vivi, più deliziosi di tutta una sala piena di quelle opere d'arte. Un ragazzo scendeva cantando per la strada in riva al fiume; talvolta il suo canto ammutoliva ed egli addentava un grosso pezzo di pan bianco, che aveva in mano. Boccadoro lo vide e gli chiese un pezzetto del suo pane, ne trasse fuori con due dita un pò di mollica e ne formò delle pallottole. Sporgendosi dal parapetto, gettò nell'acqua lentamente l'una dopo l'altra le palline di pane, le vide affondare chiare nell'acqua scura, le vide circondate da teste di pesci accorsi in fretta a sciami, poi scomparire in una di quelle bocche. A una a una le vide affondare e scomparire, con viva soddisfazione. Poi sentì fame e andò a cercare una delle sue belle, che serviva in casa d'un macellaio e ch'egli chiamava " signora delle salsicce e dei prosciutti ". Col fischio consueto l'attirò al-la finestra della cucina; aveva intenzione di farsi dare da lei qualche cosa da mangiare, intascarla e consumarla poi di là dal fiume, in uno di quei vigneti la cui terra rossa e pingue splendeva così viva sotto i pampini rigogliosi e dove in primavera fiorivano i piccoli giacinti azzurri dal delicato profumo della frutta a nocciolo. Ma pareva che fosse il giorno delle decisioni e delle intuizioni profonde. Quando Caterina comparve alla finestra e sorrise dal viso sodo e un pò rozzo, quando già egli tendeva la mano per darle il consueto segnale, all'improvviso si rammentò di tutte le altre volte ch'era stato lì così ad aspettare. E con una chiarezza tediosa vide in precedenza tutto quello che sarebbe avvenuto nei momenti successivi: come ella avrebbe riconosciuto il suo segnale e si sarebbe ritratta, per ricomparire poco dopo al-la porta di servizio, con in mano della carne affumicata che egli avrebbe preso, accarezzando un poco la ragazza e stringendola a sé, com'ella s'aspettava... e gli parve a un tratto infinitamente stupido e brutto quel provocare ancora una volta tutto un succedersi meccanico di cose già vissute e rappresentarvi la solita parte: ricever la salsiccia, sentirsi premer contro il petto quel seno robusto e premerlo a sua volta un poco in cambio del dono. A un tratto credette di scorgere nel volto buono e rozzo di lei un'espressione di consuetudine priva d'anima, nel suo sorriso cordiale qualcosa che aveva visto troppo spesso, qualcosa di meccanico, senza mistero indegno di lui. Non descrisse fino in fondo il gesto abituale con la mano, sul volto si gelò il sorriso. L'amava egli ancora, la desiderava sul serio? No, già troppe volte era stato Iì, troppe volte aveva veduto quel sorriso sempre uguale e l'aveva ricambiato senza l'impulso del cuore. Ciò che il giorno innanzi. avrebbe ancora potuto fare spensieratamente, a un tratto non gli era più possibile. La ragazza era ancora alla finestra a guardare, ed egli aveva già voltato le spalle ed era scomparso in fondo al vicolo, deciso a non mostrarsi mai più. Accarezzasse un altro quel seno! Mangiasse un altro quelle buone salsicce! Quanto si divorava e si dissipava ogni giorno in quella pingue città soddisfatta! Com'eran pigri viziati, schifiltosi quei grassi cittadini, per i quali ogni giorno s'ammazzavano tanti maiali e tanti vitelli e si tiravan su dal fiume tanti poveri e bei pesci! Ed egli stesso... come s'era viziato e guastato anche lui, com'era diventato schifosamente simile a quei pingui cittadini! In giro per il mondo, nella campagna coperta di neve, una prugna secca o una crosta di pan vecchio erano ben più appetitose che lì nel benessere tutto il pranzo di una corporazione. O vita errabonda, o libertà, o landa rischiarata dalla luna, o traccia d'animali cautamente osservata nell'erba umida e grigia del mattino! Lì in città, presso i sedentari, tutto riusciva così facile e costava così poco, perfino l'amore. A un tratto ne aveva abbastanza, ci sputava sopra. La vita lì aveva perduto il suo significato, era un osso senza midollo. Era stata bella e aveva avuto un senso fin che il maestro era stato un modello, Elisabetta una principessa; era stata sopportabile, fin ch'egli aveva lavorato al suo Giovanni. Ormai era finita, il profumo s'era dileguato, il fiorellino era appassito. Con un'ondata violenta lo afferrò il sentimento della caducità, che tante volte poteva tormentarlo così profondamente e così profondamente inebriarlo. Tutto sfioriva presto, presto era esaurito ogni piacere e nulla rimaneva fuor che ossa e polvere. Ma no, una cosa rimaneva: la Madre eterna, antichissima ed eternamente giovane, col sorriso d'amore triste e crudele. La rivedeva a momenti: gigantesca con le stelle nei capelli, seduta a sognare sul margine del mondo, coglieva giocando con la mano un fiore dopo l'altro, una vita dopo l'altra e lentamente li lasciava cadere nell'abisso senza fondo. In quei giorni, mentre Boccadoro vedeva impallidire dietro di sé un tratto di vita sfiorito e vagava per la regione familiare in una triste ebbrezza d'addio, maestro Nicola si dava gran pena per provvedere al suo avvenire e per rendere sedentario per sempre quell'ospite inquieto. Persuase la corporazione ad assegnare a Boccadoro il diploma di maestro e meditò il progetto di legarlo durevolmente a sé non come subalterno ma come collaboratore, di discutere e d eseguire con lui tutte le grandi commissioni che riceveva e di associarlo al loro reddito. Forse era un rischio, anche per Elisabetta, poiché naturalmente il giovane sarebbe diventato presto suo genero. Ma una figura come il Giovanni anche il migliore di tutti gli assistenti assoldati da Nicola non l'avrebbe mai saputa fare, ed egli stesso diventava vecchio e le sue ispirazioni e la sua forza creatrice impoverivano; né egli voleva vedere la sua celebre officina decadere ad una volgare industria manuale. Sarebbe stato difficile con quel Boccadoro; ma bisognava osare. Così il maestro faceva accuratamente i suoi calcoli. Avrebbe fatto restaurare e ingrandire per Boccadoro la parte posteriore dell'officina, gli avrebbe messo in ordine la stanza sotto tetto, gli avrebbe regalato anche dei bei vestiti nuovi per il suo ricevimento nella corporazione. Chiese poi con cautela l'opinione di Elisabetta, che da quel pranzo in poi s'aspettava qualcosa di simile. E guarda, Elisabetta non era contraria. Se il giovanotto era costretto a fissare la sua dimora e se il maestro voleva, ella era contenta. Anche qui dunque nessun ostacolo. E se maestro Nicola e la professione non erano ancora riusciti del tutto a domare quello zingaro, Elisabetta avrebbe saputo compiere l'opera. Così tutte le fila eran tirate e l'esca appesa dietro il laccio per accalappiare l'uccello. E un giorno Boccadoro, che non s'era più lasciato vedere, fu mandato a chiamare e invitato di nuovo a mensa. Ricomparve spazzolato e pettinato, sedette di nuovo nella bella stanza un pò troppo solenne, toccò di nuovo il bicchiere col maestro e con la figliola del maestro, finché questa si allontanò e Nicola venne fuori col suo progetto e con la sua proposta. --Mi hai inteso, --aggiunse alle sue sorprendenti comunicazioni,--e non ho bisogno di dirti che non s'è mai dato che un giovane, senza neppur aver assolto il periodo di scuola prescritto, sia diventato così presto maestro e abbia trovato subito il nido caldo. La tua fortuna è fatta, Boccadoro. Boccadoro guardava il suo maestro, meravigliato e col cuore oppresso; allontanò da sé il bicchiere, ancora semi-pieno. S'era atteso che Nicola lo rimproverasse un poco per i giorni trascorsi in ozio e poi gli proponesse di rimaner con lui come assistente. Ecco invece come stavano le cose. Si sentiva triste e imbarazzato di sedere così di fronte a quell'uomo. Non trovò subito una risposta. Il maestro, con un volto già un pò teso e deluso nel non veder subito accettata con gioia e con umiltà la sua o norevole offerta, s'alzò dicendo: --Dunque la mia proposta ti giunge inattesa, forse prima vuoi pensarci su. Mi spiace un poco, avevo creduto di procurarti una gran gioia. Ma per conto mio, prenditi pur tempo per riflettere. --Maestro, -- disse Boccadoro, cercando a fatica le parole, -non abbiatevene a male! Vi ringrazio con tutto il cuore della vostra benevolenza e vi ringrazio ancor più della pazienza con cui m'avete trattato come scolaro. Non dimenticherò mai quale debito ho verso di voi. Ma non ho bisogno di tempo per riflettere, mi sono già deciso da un pezzo. -- Deciso a che? --Era già cosa stabilita in me prima che accettassi il vostro invito e che avessi la minima idea delle vostre onorevoli offerte. Io non rimango più qui, torno a girare il mondo. Nicola impallidì e lo guardò con occhi cupi. --Maestro, -- supplicò Boccadoro, -- credetemi, non voglio offendervi! Vi ho detto la mia decisione. Non si può più mutare. Debbo andarmene, debbo viaggiare, debbo ritrovare la libertà. Permettete che vi ringrazi ancora una volta di cuore, e separiamoci da amici. Con le lacrime agli occhi, gli tese la mano. Nicola non la prese; s'era sbiancato in volto e cominciò a camminare in su e in giù per la stanza, sempre più rapidamente; i suoi passi rintronavano dalla collera. Boccadoro non l'aveva mai veduto così. Poi il maestro s'arrestò a un tratto, si dominò con un terribile sforzo e, senza guardare Boccadoro, sibilò fra i denti:.--Bene, allora va! Ma va subito! Che non ti riveda più, affinché io non faccia e non dica qualche cosa, di cui potrei pentirmi un giorno. Va! Boccadoro gli tese ancora la mano. Il maestro fece l'atto di sputarci sopra. Allora Boccadoro, ch'era pure diventato pallido, voltò le spalle, uscì piano dalla stanza. fuori si mise il berretto, scivolò giù dalla scala lasciando scorrer la mano sulle teste scolpite delle colonnette, da basso entrò nella piccola officina del cortile, rimase un poco davanti al suo Giovanni per prender congedo, e lasciò la casa con un'amarezza in cuore, più profonda di quella provata, un giorno, nel lasciare il castello del cavaliere e la povera Lidia. "Se non altro è stata una cosa rapida! Se non altro non si son dette parole inutili!" Questo era l'unico pensiero che lo confortava, mentre varcava la soglia per uscire, e la strada e la città lo guardavano a un tratto con quel volto mutato ed estraneo, che prendono le cose consuete quando il nostro cuore ha detto loro addio. Si volse a guardare la porta di quella casa... era ormai la porta di una casa straniera e chiusa per lui. Giunto nella sua camera, Boccadoro cominciò i preparativi per la partenza. Veramente non c'era molto da preparare; non c'era altro da fare che prender congedo. Appeso alla parete era un quadro dipinto da lui, una dolce Madonna; intorno c'eran cose che gli appartenevano: un cappello della festa, un paio di scarpe da ballo, un ro-tolo di disegni, un piccolo liuto, una serie di figurine di creta plasmate da lui, alcuni regali delle sue belle: un mazzo di fiori artificiali, un bicchiere color rosso rubino, un vecchio panforte indurito in forma di cuore ed altre simili bazzecole, ognuna delle quali aveva il suo significato e la sua storia e gli era stata cara; ormai era tutta cianfrusaglia importuna, poiché nulla gli era consentito di portare con sé. Poté almeno barattare col padrone di casa il bicchiere color rubino contro un forte e buon coltello da caccia, che affilò sulla cote in cortile; sbriciolò il panforte e lo diede in pasto ai polli del cortile vicino, I regalò la Madonna alla padrona di casa e n'ebbe in cambio un dono utile: un vecchio sacco da viaggio in cuoio e un'abbondante provianda per il viaggio. Nel sacco mise alcune camicie che possedeva e qualche disegno più piccolo rotolato intorno a un pezzo di manico di. scopa, poi le provvigioni. Il resto della roba dovette rimaner là. C'erano parecchie donne nella città, da cui sarebbe stato conveniente prender commiato; presso una di queste aveva dormito ancora la notte innanzi, senza dirle nulla dei suoi progetti. Sì, c'era sempre qualcosa che s'attaccava alle calcagna, quando uno voleva mettersi in viaggio. Non bisognava darvi importanza. Egli non disse addio a nessuno, fuorché alla gente di casa. Lo fece sera, per poter partire all'alba. Tuttavia al mattino qualcuno s'era alzato, che, mentr'egli stava per lasciar la casa senza far rumore, lo ir vitò in cucina a bere una zuppa di latte. Era la figli di casa, una bambina di quindici anni, una creatura quiete e malaticcia con dei begli occhi, ma con un difetto a: L'articolazione del femore, che la faceva zoppicare. Si chiamava Maria. Con un viso affaticato dalla veglia, pallidissima, ma vestita e ravviata con cura, gli servì in cucina del latte caldo e del pane, e pareva molto triste pe la sua partenza. Egli la ringraziò e nel dirle addio la ba ciò pietoso sulla bocca sottile. Devotamente, con gli chi chiusi. ella ricevette il bacio. INDEX CAPITOLO XIII Nei primi tempi del suo nuovo vagabondaggio, nella prima avida ebbrezza della riconquistata libertà, Boccadoro dovette tornar ad imparare la vita senza patria e senza tempo del giramondo. Non soggetti ad alcuno, dipendenti solo dalle vicende dell'atmosfera e della stagione, senza una meta dinanzi a sé, senza un tetto sopra di sé, in possesso di nulla, esposti a tutti gli eventi, i vagabondi conducono la loro vita semplice e coraggiosa, misera e forte. Sono i figli di Adamo, dell'uomo cacciato dal Paradiso, e sono i fratelli degli animali, degl'innocenti. Dalla mano del cielo prendono ora per ora ciò che vien loro dato: sole, pioggia, nebbia, neve, caldo e freddo, benessere e indigenza; per loro non esiste il tempo, la storia, non esiste una mira, e neppur quell'idolo dello sviluppo e del progresso, nel quale credono così disperatamente quelli che hanno una casa. Un vagabondo può essere delicato o rozzo, ingegnoso o melenso, coraggioso o pauroso, ma nel cuore è sempre un fanciullo, vive sempre come al primo giorno, avanti l'inizio di ogni storia universale, e la sua vita sarà sempre guidata da pochi, semplici istinti e bisogni. Può essere intelligente o sciocco; avere coscienza profonda della fragilità e caducità d'ogni vita, della povertà e ansietà con cui ogni essere porta il suo tantino di sangue caldo attraverso il ghiaccio degli spazi, o solo seguire puerilmente e avidamente i comandi del suo povero stomaco... sempre egli è il contrapposto e il nemico del possidente e del sedentario, che lo odia, lo disprezza e lo teme, perché non vuole che gli si rammenti tutto questo: la fugacità d'ogni esistenza, il continuo avvizzire d'ogni vita, la morte gelida e inesorabile, che riempie intorno a noi l'universo. La semplicità fanciullesca della vita girovaga, la sua origine materna, il suo staccarsi dalla legge e dallo spirito, il suo abbandonarsi al destino, la vicinanza segreta e costante della morte, avevano preso da un pezzo l'anima di Boccadoro imprimendole il loro marchio profondo. Ma in lui albergavano anche lo spirito e la volontà egli era un artista, e ciò rendeva la sua vita più ricca e più difficile. Solo la scissione e il contrasto rendono ricca e fiorente una vita. Che sarebbero la ragione e la temperanza senza la conoscenza dell'ebbrezza, che sarebbe il piacere dei sensi, se dietro di esso non stesse la morte e che sarebbe l'amore senza l'eterna mortale ostilità dei sessi? Estate e autunno declinarono, vennero i mesi magri in cui Boccadoro tirò innanzi fra gli stenti, per poi camminare inebriato nella dolce primavera olezzante; le stagioni passavano così rapidamente e l'alto sole estivo ritornava ogni volta a declinare. Un anno succedeva all'altro e Boccadoro pareva aver dimenticato che ci fosse altro sulla terra fuorché fame ed amore e quella corsa tacita e inquietante delle stagioni; pareva ch'egli fosse completamente sprofondato nel materno mondo primitivo degli istinti. Ma in ogni sogno, in ogni sosta pensierosa con lo sguardo aperto sulle valli fiorite e sfiorite, egli era tutto contemplazione, era artista, soffriva del tormentoso desiderio di scongiurare con lo spirito l'incantevole non-senso della vita che passa, e di trasformarlo in senso. Un giorno Boccadoro, che dopo l'avventura cruenta con Vittore aveva sempre vagato da solo, s'incontrò in un compagno, che gli si unì senza quasi ch'egli se ne accorgesse e di cui non si liberò per un pezzo. Questo non era però del genere di Vittore; era un uomo ancor giovane, in veste e cappello da pellegrino, che si chiamava Roberto e aveva la sua residenza sul lago di Costanza. Figlio d'artigiani, era andato per qualche tempo a scuola dai monaci di San Gallo e fin da ragazzo s'era messo in testa di compiere un pellegrinaggio a Roma; aveva continuato ad accarezzare questo pensiero, fin che aveva colto la prima occasione di attuarlo. Questa occasione era stata la morte del padre, nella cui officina egli aveva lavorato fino allora da falegname. Appena il vecchio fu sotto terra, Roberto dichiarò a sua madre e a sua sorella che nulla poteva trattenerlo dall'intraprendere subito il pellegrinaggio a Roma, per appagare il suo impulso e per espiare i peccati suoi e di suo padre Invano le donne piansero, invano lo rampognarono, egli fu irremovibile, e invece di provvedere alla madre e alla sorella si mise in viaggio senza la benedizione dell'una e fra le irate invettive dell'altra. Lo spingeva innanzi tutto la voglia di girare il mondo, a cui s'univa una specie di religiosità superficiale, cioè una tendenza a dimorare in vicinanza di chiese e d'istituzioni ecclesiastiche, una passione per il servizio divino, per i battesimi, i funerali, le messe, L'incenso e la fiamma delle candele. Sapeva un pò di latino, ma non era la dottrina la meta delle sue aspirazioni infantili, bensì la contemplazione e l'esaltazione tranquilla all'ombra della volta d'una chiesa. Da ragazzo era stato chierico ed aveva servito messa con passione. Boccadoro non lo prendeva molto sul serio, ma aveva una certa simpatia per lui, si sentiva un poco affine nell'istintiva tendenza al vagabondaggio e a correr terre straniere. Roberto dunque era partito contento ed era giunto anche a Roma; aveva chiesto l'ospitalità d'innumere-voli conventi e parrocchie, aveva contemplato le Alpi e il Mezzogiorno, e a Roma s'era sentito perfettamente a suo agio fra tutte quelle chiese e quelle istituzioni pie, aveva ascoltato centinaia di messe e fatto devozioni nei luoghi più celebri e più sacri e ricevuto sacramenti e respirato più incenso di quel che fosse necessario per i suoi piccoli peccati di gioventù e per quelli di suo padre. Era rimasto via un anno e più, e, quando infine era tornato alla casetta paterna, non era stato certo ricevuto come il figliol prodigo: la sorella nel frattempo s'era assunta tutti i doveri e i diritti domestici, aveva preso a servizio e poi sposato un bravo garzone falegname e governava così perfettamente la casa e l'officina che il reduce, dopo un breve soggiorno, si riconobbe del tutto superfluo, e, quando poco dopo parlò di nuovo d'andarsene e di viaggiare, nessuno lo invitò a rimanere. Egli non se ne crucciò, si fece dare dalla madre qualche quattrino, tornò a indossare la veste del pellegrino e iniziò un nuovo pellegrinaggio senza meta attraverso la Germania, viandante fra laico ed ecclesiastico. Gli tintinnavano addosso medaglie di rame, ricordo di noti luoghi di pellegrinaggio, e rosari consacrati. Così s'imbatté in Boccadoro, camminò un giorno con lui, con lui scambiò le esperienze del vagabondo, si smarrì nella cittadina più vicina, lo incontrò ancora qua e là e finì col rimanergli a fianco, compagno di viaggio pacifico e servizievole. Boccadoro gli piaceva molto; cercava di cattivarselo con piccoli servigi; ammirava il suo sapere, la sua audacia, il suo spirito e amava la sua salute, la sua forza e la sua sincerità. Si abituarono l'uno all'altro, poiché anche Boccadoro aveva un buon carattere. Una cosa sola non tollerava: quando era colto dalla sua tristezza o dalle sue fantasticherie, taceva ostinatamente e neppure guardava l'altro, come se non esistesse; allora non si poteva chiacchierare, né interrogare, né consolare: bisognava lasciarlo fare e tacere. Roberto l'aveva imparato presto. Da quando s'era accorto che Boccadoro sapeva a memoria una quantità di versi latini e di canti, da quando lo aveva sentito analizzare davanti al portale d'una cattedrale le statue in pietra, da quando l'aveva veduto disegnare con la matita rossa, a grandi e rapidi tratti, delle figure in grandezza naturale su di un muro liscio, presso il quale essi riposavano, egli considerava il suo compagno un prediletto da Dio e quasi un mago. Roberto s'accorse poi che Boccadoro era anche un beniamino delle donne e che ne conquistava parecchie con un'occhiata e con un sorriso; ciò gli piaceva meno, ma non poteva esimersi dall'ammirarlo. Il loro viaggio fu interrotto un giorno in modo inatteso. Giunti in vicinanza d'un villaggio, furono accolti da un gruppetto di contadini armati di randelli, stanghe e correggiati; e il capo gridò loro da lontano di ritornare subito sui loro passi e di andarsene senza lasciarsi più vedere, al diavolo, altrimenti li avrebbero ammazzati. Mentre Boccadoro si fermava, desideroso di sapere che cosa ci fosse, una sassata lo colpiva al petto. Si voltò in cerca di Roberto, ma questi se l'era data a gambe come un ossesso. I contadini avanzavano minacciosi, e a Boccadoro non rimase altro da fare che seguire a passo più lento il fuggiasco. Roberto lo aspettava tremante sotto un crocefisso che sorgeva in mezzo alla campagna. Sei scappato come un eroe! --disse ridendo Boccadoro. --Ma che cos'hanno nei loro testoni quegli zotici? C'è forse la guerra? Mettono guardie armate davanti al loro nido e non vogliono lasciar entrare nessuno! Mi fa meraviglia; che cosa ci può esser sotto? Né l'uno né l'altro lo sapeva. Solo il mattino seguente in una masseria isolata fecero alcune esperienze, cominciarono a indovinare il mistero. Questa masseria, composta di capanna, stalla e granaio e circondata da un cortile verdeggiante d'erba alta e con molti alberi da frutta, giaceva stranamente silenziosa e addormentata: non una voce umana, non un passo, non un grido di bimbo, non un affilar di falce, nulla s'udiva; nella corte c'era sull'erba una mucca che muggiva; si capiva ch'era ora di mun-gerla. S'avvicinarono alla casa, bussarono alla porta, non ottennero risposta; andarono verso la stalla, era aperta e vuota; andarono al granaio, sul cui tetto di paglia luccicava al sole il musco verde chiaro: anche là non trovarono anima viva. Ritornarono alla casa, meravigliati e colpiti dalla desolata solitudine di quella dimora; batterono ancora coi pugni contro la porta: di nuovo nessuna risposta. Boccadoro provò ad aprire e trovò con stupore che la porta non era chiusa; la spinse verso l'interno ed entrò nella stanza buia. -Buongiorno, -- gridò forte. --Non c'è nessuno?--Ma tutto restò silenzioso. Roberto era rimasto davanti alla porta. Curioso, Boccadoro s'inoltrò. Nella capanna c'era cattivo odore, un odore strano e ripugnante. Il focolare era pieno di cenere, egli vi soffiò dentro; sul fondo, nei ciocchi carbonizzati covavano ancora le scintille. Allora nella penombra vide qualcuno sul sedile di fondo del camino; qualcuno era là seduto e dormiva; pareva una vecchia. Gridare non serviva a nulla, la casa sembrava incantata. Toccò amichevolmente sulla spalla la donna seduta, ella non si mosse; s'accorse allora ch'era avvolta in una ragnatela, coi fili in parte fissati ai capelli e alle ginocchia. "Costei è morta" pensò Boccadoro con un lieve brivido; e per convincersi s'affaccendò intorno al fuoco, attizzò e soffiò, fin che si levò una fiamma ed egli poté accendere una lunga scheggia di legno. Con questa illuminò il volto della donna seduta. Vide sotto i capelli grigi un cadaverico viso violaceo con un occhio aperto che luccicava vuoto e plumbeo. La donna era morta lì, seduta sulla seggiola. Via, non si poteva più soccorrerla. Con la scheggia ardente in mano Boccadoro continuò a cercare, e nella stessa stanza, sulla soglia che metteva nella camera posteriore, trovò disteso un altro cadavere un ragazzo di forse otto o nove anni, col volto gonfio e sfigurato, vestito della sola camicia. Giaceva col ventre sulla traversa, e le due mani facevan dei piccoli pugni stretti ed irati. "Questo è il secondo" pensò Boccadoro come in un brutto sogno andò avanti, nella retrocamera le imposte qui erano aperte e la luce del giorno entrava chiara. Egli spense con precauzione la sua fiaccola e calpestò le scintille sul pavimento. C'erano tre letti. Uno era vuoto, sotto il lenzuolo grigio e ruvido spuntava la paglia. Nel secondo era disteso un altro corpo, un uomo con la barba, rigido, sul dorso, con la testa appoggiata indietro e il mento e la barba volti all'insù; doveva essere il contadino. Il suo viso infossato riluceva scialbo nei colori inconsueti della morte, un braccio pendeva fino a terra, dove giaceva rovesciata una brocca di terracotta; L'acqua sparsa, non ancora del tutto assorbita dal suolo, era corsa verso una conca, nella quale rimaneva ancora una piccola pozza. Nell'altro letto giaceva, tutt'avviluppata e sepolta nel lenzuolo e nella ruvida coperta, una donna grande e robusta; il suo volto era affondato nel letto, i capelli ruvidi e biondi come paglia brillavano nella luce chiara. Accanto a lei e con lei abbracciata, come presa e strozzata nel lenzuolo sconvolto, giaceva una giovinetta bionda come la madre, con macchie grigio azzurre sul volto cadaverico. Lo sguardo di Boccadoro andava da un morto all'altro. Nel volto della fanciulla, quantunque già molto sfigurato, c'era ancora una traccia dello spavento disperato della morte. Nella nuca e nei capelli della madre, che s'era avvoltolata tutta così violentemente nel giaciglio, si leggeva il furore, L'angoscia, un'appassionata volontà di fuga. Specialmente la chioma indomita non poteva assolutamente rassegnarsi alla morte. Nel volto del contadino c'era fierezza e tetro dolore; si vedeva ch'era morto con pena, ma con virile dignità; il suo viso barbuto si profilava nell'aria rigido e fermo, come quello d'un guerriero disteso sul campo di battaglia. Quest'atteggiamento calmo e fiero nella sua rigidità, un pò sdegnato, era bello; certo non era stato meschino e codardo un uomo che aveva ricevuto la morte a quel modo. Ma commovente era il piccolo cadavere del fanciullo, prono sul ventre attraverso la soglia; il suo volto non diceva nulla, ma la sua posizione lì sull'uscio e i suoi piccoli pugni stretti rivelavano molto: un dolore smarrito, un disperato difendersi contro sofferenze inaudite. Proprio vicino al suo capo c'era un foro praticato nella porta. Boccadoro osservava tutto attentamente. Senza dubbio l'aspetto della capanna era orrendo e il puzzo di cadavere nauseava; eppure tutto questo aveva per Boccadoro una forza profonda d'attrazione, tutto era pregno di grandiosità e di destino, così vero, così non simulato; qualcosa in tutto questo cattivava il suo amore e gli penetrava nell'anima. Fuori, intanto, Roberto cominciava a gridare impaziente e inquieto. Boccadoro aveva simpatia per Roberto, ma in quel momento pensava quanto quell'uomo vivo fosse meschino nella sua paura, nella sua curiosità, in tutta la sua puerilità, a paragone dei morti. Non gli rispose; si diede tutto alla contemplazione dei morti, con quella strana mescolanza d'interesse cordiale e di fredda osservazione, che hanno gli artisti. Guardava attentamente le figure giacenti e anche quella seduta, le teste, le mani, L'atteggiamento in cui s'erano irrigidite. Che silenzio in quella capanna incantata! Che odore strano e terribile! Com'era triste e spettrale quella piccola dimora umana, in cui covava ancora sul camino un resto di fuoco, abitata da cadaveri, tutta pervasa dalla morte! Presto a quelle tacite figure la carne sarebbe caduta dalle guance e i topi avrebbero roso loro le dita. Quello che gli altri compivano nella bara e nella tomba, ben nascosti ed invisibili, L'ultima funzione e la più misera, la decomposizione e la putrefazione, quei cinque la compivano lì in casa, nelle loro stanze, alla luce del giorno, con la porta aperta, in-curanti, senza pudori, senza ripari. Boccadoro aveva già visto più di un cadavere, ma un'immagine simile del lavoro inesorabile della morte non l'aveva mai incontrata. E se la fissò profondamente nell'anima. Finalmente le grida di Roberto fuori della porta lo disturbarono: uscì. Il compagno lo guardò inquieto. --Che c'è? -- domandò piano, con la voce tremante di paura. -Non c'è dunque nessuno in casa? Oh, che occhi fai! Ma parla! Boccadoro lo misurò con una fredda occhiata. --Entra e guardati attorno, è una curiosa casa colonica. Dopo mungeremo la bella mucca che è là. Avanti! Roberto entrò incerto nella capanna, andò difilato al focolare, scoprì la vecchia seduta e appena s'accorse ch'era morta gettò un urlo. Tornò indietro di corsa con gli occhi sbarrati. --Per amor di Dio! C'è una donna morta seduta al camino. Che vuol dire? Perché non c'è nessuno vicino a lei? Perché non la seppelliscono? Oh, Dio! Si sente già il fetore. Boccadoro sorrise. --Sei un grande eroe, Roberto; ma sei tornato indietro troppo presto. Una vecchia morta, quando è seduta così su di una seggiola, è certo uno spettacolo strano; ma se vai avanti due passi, puoi vedere cose ancora più strane. I cadaveri sono cinque, Roberto. Sui letti ne sono distesi tre, e un ragazzino giace morto attraverso la soglia. Tutti sono morti. L'intera famiglia è là irrigidita, la casa è spopolata. Ecco perché nessuno ha munto la mucca. L'altro lo guardò inorridito, poi a un tratto gridò con voce soffocata: -- Oh, adesso capisco anche i contadini, che ieri non vollero lasciarci entrare nel loro villaggio. Oh Dio, ora tutto mi si spiega. E la peste! Per la mia povera anima, è la peste, Boccadoro! E tu sei stato tanto tempo là dentro, e magari hai toccato i morti! Via, non avvicinarti a me, certo sei infetto. Mi rincresce, Boccadoro, ma io debbo andarmene, non posso rimanere accanto a te. Stava già per darsela a gambe, ma fu trattenuto per la falda del suo mantello di pellegrino. Boccadoro lo guardò severo con un muto rimprovero e lo tenne inesorabilmente stretto, mentre quegli si dibatteva e si ribellava. -- Ragazzo mio, -- disse in tono fra amichevole e beffardo, -sei più intelligente di quel che si crederebbe; forse hai ragione. Ebbene, lo sapremo alla prossima masseria o al villaggio. probabile che in questa regione ci sia la peste. Vedremo se noi riusciremo a cavarcela. Ma lasciarti scappare, piccolo Roberto, non posso. Guarda, io sono un uomo compassionevole, il mio cuore è troppo tenero; e se penso che tu potresti aver preso là dentro il contagio e qualora io ti lasciassi andare tu ti butteresti per terra in qualche campo a morire, così tutto solo, e nessuno ti chiuderebbe gli occhi e nessuno ti farebbe una tomba e ti getterebbe un pò di terra... no, caro amico, la pietà mi stringe la gola. Dunque sta attento e mettiti bene in mente quello che dico, non intendo ripeterlo: noi due siamo nello stesso pericolo, può toccare a te o a me. Rimarremo dunque insieme; o periremo tutti e due, o sfuggiremo a questa maledetta peste. Se tu ti ammalerai e morirai, sarai sepolto da me, puoi star sicuro. E se sarò io a morire, allora fa quello che vuoi, seppelliscimi o svignatela, per me fa lo stesso. Ma prima, caro, non si scappa, tienitelo bene a mente! Avremo bisogno l'uno dell'altro. E ora lingua in bocca! Non voglio udir nulla; cerca un secchio da qualche parte nella stalla, che possiamo finalmente mungere la mucca. Così avvenne; e da quel momento Boccadoro comandò e Roberto ubbidì, e fu bene per tutti e due. Roberto non tentò più di fuggire. Disse solo in tono conciliante: -Per un attimo ebbi paura di te. Il tuo volto non mi piacque, quando uscisti da quella casa di morti. Credetti che ti fossi preso la peste. Ma se anche non è la peste, il tuo volto è cambiato. Era così terribile quello che vedesti là dentro? -- Non era terribile, -- disse Boccadoro esitando. -Non vidi là dentro nulla fuorché quello che aspetta me, te e tutti, anche se non prendiamo la peste. Proseguendo il loro cammino s'imbatterono presto dappertutto nella morte nera, che regnava nel paese. Parecchi villaggi non lasciavano entrare i forestieri; in altri essi potevano camminare indisturbati per tutte le strade. Molti casolari erano abbandonati, molti morti non sepolti imputridivano sui campi o nelle stanze. Nelle stalle muggivano le mucche affamate o non munte, oppure il bestiame correva selvaggio per la campagna. Essi munsero e diedero da mangiare a più d'una mucca e d'una capra, ammazzarono e arrostirono sul margine del bosco capretti e porcellini, bevvero vino e mosto preso in cantine ormai senza padrone. Avevano una buona vita, regnava l'abbondanza. Ma non la gustavano che a metà. Roberto viveva nella paura costante della peste, e alla vista dei cadaveri si sentiva male, spesso era tutto scombussolato dal terrore; credeva continuamente d'aver preso il contagio, teneva a lungo la testa e le mani nel fumo dei loro fuochi da bivacco (ciò era ritenuto salutare), perfin nel sonno si tastava il corpo per sentire se non ci fossero bubboni sulle gambe, sulle braccia, sotto le ascelle. Boccadoro a volte lo sgridava, a volte lo scherniva. Non divideva la sua paura e neppure la sua ripugnanza; andava attento e cupo per il paese della morte, terribilmente attratto dallo spettacolo di quel grandioso morire, L'anima piena di quel grande autunno, il cuore gonfio del canto della falce mietitrice. Talvolta gli riappariva l'immagine dell'eterna Madre, viso pallido e gigantesco con occhi di Medusa, con un sorriso grave, pieno di dolore e di morte. Un giorno arrivarono ad una piccola città fortificata dalla porta un baluardo dell'altezza delle case correva tutt'intorno alla cinta, ma nessuna guardia stava lassù e nessuna vigilava la porta aperta. Roberto si rifiutò d'entrare e scongiurò anche il compagno di non farlo. In quel mentre udirono una campana e dalla porta della città uscì un sacerdote con una croce in mano, seguito da tre carri, due tirati da cavalli ed uno da una coppia di buoi; erano carichi di cadaveri. Un paio d'inservienti avvolti in strani mantelli, coi cappucci calati sopra il viso, correvano accanto, spronando gli animali. Roberto, pallido in volto, si dileguò; Boccadoro seguì a breve distanza i carri funebri; avanzarono qualche centinaio di passi, ed ecco non già un camposanto, ma una buca scavata in mezzo alla landa deserta, profonda non più di tre vangate, ma grande come una sala. Boccadoro si fermò e vide gl'inservienti tirar giù i morti dai carri con pertiche e anghiere e ammucchiarli nella grande buca; il sacerdote mormorando vi fece sopra il segno della croce e se n'andò; i becchini allora accesero da tutte le parti di quella tomba a fior di terra grandi fuochi e senza far parola ritornarono di corsa in città, nessuno si curò di coprire la fossa. Boccadoro guardò dentro; potevan esservi cinquanta o più cadaveri gettati l'uno sull'altro, molti dei quali nudi. Qua e là un braccio o una gamba sporgevan rigidi contro il cielo, quasi in atto d'accusa; una camicia fluttuava lieve al vento. Quando Boccadoro tornò presso Roberto, questi lo supplicò in ginocchio di proseguire al più presto il loro cammino. Aveva ben ragione di supplicare: nello sguardo assente di Boccadoro egli scorgeva quella fissità assorta, quell'inclinazione alle visioni orrende, quella terribile curiosità, che gli eran già fin troppo note. Non riuscì a trattenere l'amico. Boccadoro, solo s'avviò verso la città. Entrò per la porta incustodita, e, mentre udiva il suo passo risonare sul selciato, gli tornavano alla memoria tante altre cittadine e tante porte per cui era passato, e ricordava le grida dei bimbi, i giochi dei ragazzi, i litigi delle donne, il martellar dei fabbri sulle incudini sonore, il fragore dei carri e tanti altri rumori, delicati ed aspri, che intrecciati alla rinfusa come in una rete annunciavano la varietà del lavoro, delle occupazioni, della gioia, della socievolezza umana. Lì invece, sotto quella porta aperta, in quella via solitaria, non un suono, non un riso, non un grido; tutto giaceva irrigidito in un silenzio di morte, nel quale la melodia chiacchierina d'una fontana zampillante sonava già troppo forte, quasi chiassosa. Dietro una finestra aperta si vedeva un fornaio in mezzo alle sue pagnotte e ai suoi panini; Boccadoro indicò uno di questi e il fornaio glielo spinse fuori con precauzione sopra un infornapane, attese che l'altro gli mettesse il denaro sulla pala, poi chiuse il suo finestrino, indispettito ma senza proteste, quando vide lo straniero addentare il panino e andar oltre senza pagare. Sui davanzali di una bella casa c'era una fila di vasi di terracotta, che un tempo erano stati fioriti e ormai apparivano vuoti, con qualche foglia secca spiovente. Da un'altra casa uscivano singhiozzi e grida lamentose di bambini. Ma nella strada attigua Boccadoro vide dietro una finestra una graziosa fanciulla che si pettinava; stette a contemplarla fin che quella sentì il suo sguardo ed a sua volta guardò giù, arrossì e, poiché egli le sorrideva amichevolmente, anche sul volto acceso di lei passò lento e languido un sorriso. --Quasi pettinata? --le gridò. Ella sporse il volto luminoso e sorridente dal vano della finestra. --Non ancora malata? --domandò lui, ed ella scosse il capo. -Allora vieni con me fuori da questa città di morte, andiamo nei boschi e avremo una buona vita. Ella interrogò con gli occhi. -- Non pensarci su troppo, parlo sul serio -- gridò Boccadoro.-Sei in casa di babbo e mamma, o a servizio da estranei?... Da estranei dunque. Allora vieni, bimba cara; lascia morire i vecchi, noi siamo giovani e sani e vogliamo passarcela bene ancora un pò. Vieni, brunetta, dico sul serio. Ella lo esaminò, esitante, stupita. Egli proseguì a passi lenti, bighellonò per una strada deserta, poi per un'altra e tornò indietro pian piano. La fanciulla stava ancora alla finestra, sporta in fuori, e fu lieta di vederlo ritornare. Gli fece cenno: egli continuò lentamente il suo cammino e poco dopo ella lo raggiunse, prima ancora d'arrivare alla porta, con un piccolo fardello in mano e un fazzoletto rosso intorno al capo. --Come ti chiami? --le domandò Boccadoro. --Lena. Vengo con te. Oh, è così brutto qui in città! Muoiono tutti. Via, via! Poco lontano dalla porta Roberto, di cattivo umore, stava rannicchiato per terra. All'arrivo di Boccadoro balzò in piedi e spalancò tanto d'occhi alla vista della ragazza. Questa volta non si arrese subito, protestò, fece scene. Che si portasse fuori una persona da quella maledetta tana appestata e che si pretendesse da lui di tollerare una simile compagnia era più che una pazzia, era un tentar Dio, ed egli si rifiutava, non restava più insieme, la sua pazienza era al termine. Boccadoro lo lasciò imprecare e protestare, fin che si acquetò. --Bene,--disse,--ce n'hai cantate abbastanza. Adesso verrai con noi e sarai contento di avere una compagnia così graziosa. Si chiama Lena e resta con me. Ma ti voglio dare anche una gioia, Roberto, ascolta: per un pò di tempo vogliamo vivere in pace e in buona salute e star lontani dalla pestilenza. Ci cercheremo un bel posticino con una capanna vuota o ce ne costruiremo una da noi, io e Lena saremo il padrone e la padrona di casa e tu sarai il nostro amico e vivrai con noi. Vogliamo avere un tantino di vita serena e piacevole. D'accordo? Oh sì, Roberto era pienamente d'accordo. Purché non si pretendesse da lui che desse la mano a Lena o toccasse le sue vesti... --No -- disse Boccadoro, --questo non si pretende. Ti è anzi severamente proibito di mettere un dito addosso a Lena. Che non ti passi neppur per la mente! Marciarono così in tre, dapprima in silenzio; poi a poco a poco la ragazza cominciò a parlare, a esprimere la sua gioia di rivedere il cielo, gli alberi e i prati: era stato così orribile là dentro, nella città appestata, da non dirsi. E cominciò a raccontare e a liberarsi l'animo delle immagini tristi e mostruose, che le era toccato vedere. Narrò diverse storie, brutte storie; la piccola città doveva essere un inferno. Dei due medici uno era morto, l'altro andava soltanto dai ricchi e in molte case i morti imputridivano, perché nessuno li andava a prendere; in altre i becchini rubavano, crapulavano, bordellavano e spesso insieme coi cadaveri tiravan fuori dai letti anche i malati ancora in vita e li gettavano sui carri da boia e poi insieme coi morti giù nelle fosse. Tante cose orrende aveva da raccontare; nessuno la interrompeva. Roberto ascoltava inorridito e avido, Boccadoro rimaneva silenzioso e indifferente, lasciava che tutto quell'orrore si riversasse e non diceva nulla. E che mai si poteva dire? Infine Lena si stancò, il fiume di parole s'inaridì. Allora Boccadoro si mise a camminare più adagio e prese a cantare sommesso una canzone di molte strofe, e a ogni strofa la sua voce si faceva più piena; Lena cominciò a sorridere e Roberto ascoltò con piacere e meraviglia: fin allora non aveva mai udito Boccadoro cantare. Tutto sapeva fare quel Boccadoro! Eccolo che ora camminava e cantava, quell'uomo eccezionale! Cantava con arte e perfettamente intonato, ma in sordina. Già alla seconda canzone Lena prese ad accompagnarlo a mezza voce, poi a voce spiegata. S'avvicinava la sera; lontano, oltre la landa, si stendevano i boschi neri e, dietro quelli, basse montagne azzurre, che diventavano sempre più azzurre, come per l'intensificarsi di una luce interiore. Ora lieto, ora solenne, il canto accompagnava il ritmo dei loro passi. --Come sei contento oggi! -- disse Roberto. --Sì, sono contento oggi, è naturale, ho trovato una compagnia così carina! Ah Lena, che bella cosa che i becchini ti abbiano lasciata per me! Domani troveremo la nostra casetta e ce la passeremo bene e saremo felici che la nostra carne e le nostre ossa stiano ancora così bene insieme. Lena, hai già visto qualche volta in autunno nei boschi quel fungo grosso, che piace tanto alle lumache e che si può mangiare? --Certo, -- rise lei, -- L'ho visto tante volte. --I tuoi capelli hanno lo stesso color bruno, Lena. Ed anche lo stesso buon profumo. Cantiamo ancora qualche cosa? O forse hai fame? Nella mia bisaccia c'è ancora qualcosa di buono. Il giorno seguente trovarono quello che cercavano. In un boschetto di betulle c'era una capanna di tronchi greggi, costruita forse un tempo da spaccalegna o da cacciatori. Era vuota; la porta si lasciò forzare e anche a Roberto la capanna parve comoda e la regione sana. Cammin facendo avevano incontrato delle capre che giravano senza pastore, e ne avevano presa una con loro. --Su, Roberto, -- disse Boccadoro, -- se anche non sei carpentiere, una volta però lavoravi da falegname. Noi vogliamo abitar qui, tu devi fabbricare nel nostro castello una parete divisoria, in modo che abbiamo due camere, una per Lena e per me, L'altra per te e per la capra. Da mangiare non c'è più gran che: oggi dobbiamo contentarci di latte di capra, tanto o poco che sia. Tu costruisci dunque la parete e noi due prepariamo il giaciglio per tutti. Domani poi andrò in cerca di cibo. Tutti si misero subito al lavoro. Boccadoro e Lena si diedero a cercar paglia, felci e musco per il giaciglio, e Roberto affilò il suo coltello su un ciottolo, per tagliare piccoli tronchi e fabbricare la parete. Ma non poté finire in un giorno e la sera andò a dormire all'aperto. Boccadoro trovò in Lena una cara compagna, timida e inesperta, ma tutt'amore. Se la prese dolcemente fra le braccia e vegliò ancora a lungo ascoltando il battito del suo cuore, quand'ella stanca e sazia s'era già addormentata da un pezzo. Aspirò il profumo dei suoi capelli bruni, e mentre si stringeva a lei pensava a quella gran fossa a fior di terra, in cui quei diavoli mascherati avevano rovesciato tutti i loro carri pieni di cadaveri. Bella era la vita, bella e fugace la felicità, bella e presto appassita la giovinezza ! La parete divisoria della capanna divenne assai carina, e alla fine vi lavorarono tutti e tre. Roberto voleva mostrare la sua abilità e parlava con molto zelo di tutto ciò che avrebbe voluto costruire, se avesse avuto un banco per piallare, arnesi, squadra e chiodi. Siccome non aveva che il suo coltello e le sue mani, si contentò di tagliare una dozzina di piccoli tronchi di betulla e ne fece un solido e greggio steccato infisso nel suolo della capanna. Gli spazi intermedi dovevano essere riempiti da un graticcio di ginestre. Ciò richiese del tempo, ma divenne bello e pittoresco: tutti vi collaborarono. Intanto Lena doveva andare a cercar bacche e badare alla capra; Boccadoro faceva piccole escursioni per esplorare la regione, per trovar cibo, e portava a casa dai dintorni ora una cosa ora l'altra. Nelle vicinanze non c'era anima viva, e di ciò era soddisfatto specialmente Roberto: si era sicuri tanto dal contagio quanto dai nemici; ma il guaio era che si trovava pochissimo da mangiare. Non molto lontano c'era una casupola di contadini abbandonata, questa volta senza morti dentro, e Boccadoro propose di sceglierla come quartiere invece della loro capanna di tronchi d'albero; ma Roberto si rifiutò inorridito e vide anche di malocchio che Boccadoro entrasse in quella casa vuota; ogni cosa che egli portò di là dovette essere affumicata e lavata, prima che Roberto la toccasse. Non era molto ciò che Boccadoro aveva trovato: due sgabelli, un secchio per il latte, qualche vaso di terracotta, una scure; e un giorno prese due polli che fuggivano per la campagna. Lena era innamorata e felice, e tutti e tre si divertivano a lavorare intorno alla loro piccola dimora ed a renderla ogni giorno un pochino più bella. Il pane mancava: in compenso presero un'altra capra e trovarono anche un campicello di rape. Un giorno passava dopo l'altro, la parete intrecciata era finita, i giacigli furono perfezionati e fu costruito un focolare. Non lontano scorreva un ruscello dall'acqua chiara e dolce. Spesso lavorando cantavano. Un giorno che bevevano insieme il loro latte e vanta-vano la loro vita domestica, Lena disse a un tratto come in sogno: --Che sarà poi, quando verrà l'inverno? Nessuno diede risposta. Roberto rise, Boccadoro guardò innanzi a sé in modo strano. A poco a poco Lena s'accorse che nessuno pensava all'inverno, che nessuno pensava sul serio a rimanere tanto tempo nello stesso luogo, che quella loro casa non era una fissa dimora, ch'ella si trovava insieme a dei vagabondi. Chinò la testa. Allora Boccadoro le disse in tono scherzoso e incoraggiante, come a una bambina: -- Tu sei figlia di contadini, Lena, quelli sono molto previdenti. Non aver paura, ritornerai a casa quando sarà finita questa pestilenza, che non durerà poi in eterno. Allora andrai dai tuoi genitori o da chi altri hai, o ritornerai a servire in città e avrai il tuo pane. Ma adesso è ancora estate e dappertutto nella regione si muore; qui invece è bello e stiamo bene. Perciò restiamo qui, fin tanto che ci piace. -- E poi? -- gridò Lena con veemenza. -- Poi tutto è finito? E tu te n'andrai? Ed io? Boccadoro le afferrò la treccia e gliela tirò un poco.-Sciocchina, -- disse, -- hai già dimenticato i beccamorti e le case deserte e la gran buca fuori porta, dove ardono i fuochi? Devi esser lieta di non giacere là in quella fossa, e che non ti cada la pioggia sulla camicina. Devi pensare che sei sfuggita, che hai ancora nelle membra la tua cara vita, che puoi ancora ridere e cantare. Ella non era ancora soddisfatta. --Ma io non voglio andarmene, --gemette, --e non voglio lasciarti andare, no. Non si può esser contenti, quando si sa che presto tutto sarà finito! Boccadoro rispose ancora, affettuoso, ma con un tono di celata minaccia nella voce: --Su questo, piccola Lena, si son già rotti la testa tutti i saggi e tutti i santi. Non c'è una felicità che duri a lungo. Ma se quello che abbiamo ora non ti basta e non ti dà più gioia, io appicco il fuoco in questo stesso istante alla capanna, e ciascuno di noi se ne va per la sua strada. Stà buona, Lena, abbiamo parlato abbastanza. Così rimasero le cose. Ella s'arrese, ma un'ombra era caduta sulla sua gioia. INDEX CAPITOLO XIV Prima ancora che l'estate fosse sfiorita del tutto, la vita nella capanna ebbe la sua fine, diversa da quella che avevano pensato. Un giorno Boccadoro s'aggirava per la regione con una fionda, nella speranza di acchiappare una pernice o altra selvaggina, perché il cibo s'era fatto alquanto scarso. Lena raccoglieva bacche poco lontano e ogni tanto Boccadoro rasentava il bosco dov'ella si trovava e di là dal cespuglio vedeva sporgere fuori il suo capo dalla camicia di lino sul collo bruno, o l'udiva cantare; una volta assaggiò qualche bacca vicino a lei, poi girovagò più lontano e per un pò di tempo non la vide più. Pensava a lei, fra tenero e irritato, perché ella era tornata a parlare dell'autunno e dell'avvenire, dicendo che si credeva incinta e che non voleva lasciarlo partire. "Presto tutto finirà," pensava Boccadoro, "presto sarà ora di troncare, ed io mi metterò in cammino da solo e lascerò indietro anche Roberto; voglio far in modo di ritornare per l'inizio dell'inverno alla grande città, da maestro Nicola; passerò là l'inverno e nella primavera ventura mi comprerò un buon paio di scarpe nuove, e via, tirerò avanti fin che arriverò al nostro convento di Mariabronn e potrò salutare Narciso; saranno ben dieci anni che non lo vedo. Debbo rivederlo, foss'anche solo per un giorno o due." Un suono inconsueto lo destò dai suoi pensieri, e alL'improvviso s'accorse che pensieri e desideri l'avevano tratto assai lontano. Tese l'orecchio: quel suono angoscioso si ripeté, egli credette di riconoscere la voce di Lena e la seguì, quantunque non gli piacesse essere chiamato. In breve fu abbastanza vicino: sì, era Lena, e gridava il suo nome come se si trovasse in grande pericolo. Egli affrettò la corsa, sempre ancora un pò irritato, ma al ripetersi di quelle grida la compassione e l'ansia presero in lui il sopravvento. Quando infine riuscì a vederla, ella era seduta o inginocchiata in mezzo alla landa, con la camicia tutta stracciata, e gridando lottava con un uomo, che voleva farle violenza. A lunghi balzi Boccadoro s'avvicinò, e tutta L'irritazione, L'inquietudine e la tristezza che erano in lui si sfogarono in una collera furente contro l'attentatore straniero. Lo sorprese mentre stava per abbattere completamente Lena contro il suolo, il petto nudo di lei sanguinava: lo straniero, cupido, la teneva attanagliata. Boccadoro si gettò su di lui, con mani furenti, e gli strinse la gola magra e muscolosa, coperta di una barba lanuta, serrando con voluttà, fin che l'altro lasciò andare la ragazza e gli rimase floscio fra le mani; continuando a stringere, Boccadoro lo trascinò per un pezzo sul terreno, privo dl forze e quasi esamine, fino ad alcune rocce grigie che sporgevano nude dal suolo. Qui sollevò il vinto con tutto il suo peso, due, tre volte, e gli fece batter la testa contro le rocce angolose. Poi scagliò via il corpo con la nuca spezzata; la sua collera non era ancor sazia, avrebbe voluto continuare a maltrattarlo. Lena guardava raggiante. Il suo petto sanguinava, ella tremava ancora in tutto il corpo e respirava affannosa-mente, ma s'era subito messa in piedi e guardava con occhi rapiti, pieni di voluttà e d'ammirazione, il suo forte amante, che trascinava l'intruso, lo strozzava, gli rompeva la nuca e scagliava il cadavere lungi da sé. Eccolo là per terra come un serpente ammazzato, floscio e contorto, il suo viso grigio dalla barba arruffata e dai radi capelli penzolava miseramente rovesciato all'indietro. Lena si drizzò giubilante e cadde sul cuore di Boccadoro, ma impallidì a un tratto: lo spavento le tremava ancora nelle membra si sentì male e cadde esausta fra i mirtilli. Poco dopo però poté ritornare con Boccadoro alla capanna. Egli le lavò il petto graffiato; una mammella aveva anche un morso di quel mostro. Roberto, molto impressionato dall'avventura, chiese con avidità i particolari della lotta. --Rotto la nuca, dici? Grandioso! Boccadoro, c'è di che temerti! Ma Boccadoro non aveva voglia di parlarne oltre: il suo furore era sbollito, e nell'allontanarsi dal morto egli non aveva potuto far a meno di pensare a quel povero brigante d'un Vittore: era dunque il secondo uomo che moriva per mano sua. Per liberarsi di Roberto, disse: -Ora potresti fare qualche cosa anche tu. Va laggiù e cerca di portar via il cadavere. Se è troppo faticoso fargli una buca, gettalo giù nello stagno, oppure coprilo bene di terra e di pietre --. Ma Roberto rifiutò: non voleva aver a che fare con cadaveri; non si sa mai, potevano avere indosso il veleno della peste. Lena si era coricata nella capanna. Il morso al petto le doleva, presto però si sentì meglio, si alzò, attizzò il fuoco e fece bollire il latte per la cena; era di ottimo umore, ma fu mandata a letto presto. Ubbidì come un agnello, tanta era la sua ammirazione per Boccadoro. Questi si mostrava taciturno e cupo; Roberto, che conosceva quegli stati d'animo, lo lasciò in pace. Quando più tardi Boccadoro andò nel suo pagliericcio, si chinò verso Lena, in ascolto. Dormiva. Egli si sentiva inquieto, pensava a Vittore, provava un'ansia, un desiderio di riprendere la vita del vagabondo; intuiva che il gioco della vita domestica era finito. Ma una cosa specialmente gli dava da riflettere. Aveva colto lo sguardo di Lena, mentr'egli squassava e gettava lontano il cadavere di quell'individuo, uno sguardo singolare, e sentiva che non lo avrebbe più dimenticato; in quegli occhi sbarrati, inorriditi e rapiti, era balenato un raggio di fierezza e di trionfo, una gioia profonda e appassionatamente partecipe alla vendetta e all'uccisione, quale egli non aveva mai veduta né immaginata in un volto di donna. Senza quello sguardo, pensava, forse un giorno, col passar degli anni, egli avrebbe dimenticato il volto di Lena. Ma quello sguardo aveva reso grande, bello e terribile il suo viso di ragazza campagnola. Da mesi gli occhi di Boccadoro non avevano colto nulla, che gli desse il lampo del desiderio: "Bisognerebbe disegnarlo!". A quello sguardo egli aveva risentito il desiderio guizzare dentro di sé, con una specie di sgomento. Non potendo dormire, finì per alzarsi ed uscire dalla capanna. Era fresco, una lieve brezza giocava fra le betulle. Egli camminò su e giù nell'oscurità, poi sedette su di una pietra e s'immerse in pensieri di una tristezza profonda. Sentiva pena per Vittore, sentiva pena per l'uomo che aveva ammazzato quel giorno, sentiva pena per la perduta innocenza dell'anima sua. Per questo era fuggito dal convento, aveva abbandonato Narciso, aveva offeso maestro Nicola e rinunciato alla bella Elisabetta... per accamparsi poi in una landa e aspettare al varco gli animali vagabondi, e per uccidere là fra le pietre quel povero diavolo? Aveva un senso tutto questo, valeva la pena d'esser vissuto? Il cuore gli si stringeva per l'assurdità e per il disprezzo di se stesso. Si lasciò cadere indietro e rimase là supino, con gli occhi fissi nella scialba nuvolaglia notturna, finché nella fissità prolungata i suoi pensieri svanirono; non sapeva più se fissasse le nubi del cielo o il suo torbido mondo interiore. A un tratto, nell'istante in cui s'addormentava dolcemente sulla pietra, fra il rincorrersi delle nubi guizzò come un lampo un volto grande e pallido, il volto di Eva; aveva lo sguardo greve e velato, ma all'improvviso spalancò gli occhi, grandi occhi pieni di voluttà e avidi di sangue. Boccadoro dormì fin che lo bagnò la rugiada. Il giorno dopo Lena era malata. La fecero star a letto. Ci fu molto da fare: Roberto la mattina aveva incontrato nel boschetto due pecore che, alla sua vista, erano subito fuggite. Corse a chiamare Boccadoro e cacciarono più di mezza giornata, fin che ne catturarono una, quando verso sera ritornarono a casa con la bestia, erano molto stanchi. Lena si sentiva male. Boccadoro la esaminò, la tastò e trovò i bubboni della peste. Non disse nulla ma Roberto, appena sentì che Lena era ancora malata, fu colto dal sospetto e non rimase nella capanna. Disse che si sarebbe cercato fuori un posto per dormire e che prendeva la capra con sé: anch'essa poteva contrarre il male. --E vattene al diavolo!--gli gridò Boccadoro furente. -- Non ti voglio più rivedere. -- Afferrò la capra e la tirò dalla sua parte dietro la parete di ginestre. Roberto si dileguò senza rumore, senza capra, sentendosi male dalla paura: paura della peste, paura di Boccadoro, paura della solitudine e della notte. Si coricò in vicinanza della capanna. Boccadoro disse a Lena: --lo resto con te, non preoccuparti. Guarirai. Ella scosse il capo. --Stà in guardia, caro, di non prendere la malattia anche tu; non devi venirmi così vicino. Non affannarti a con-solarmi. Devo morire, e preferisco morire, piuttosto che vedere un giorno il tuo giaciglio vuoto e sapere che mi hai abbandonata. Tutte le mattine mi svegliavo con questo pensiero e con questo timore. No, preferisco morire. L'indomani stava già male. Boccadoro le aveva dato di tanto in tanto un sorso d'acqua, e negl'intervalli aveva dormito qualche ora. Al primo albeggiare riconobbe nel volto di lei i chiari segni della morte vicina: era già appassito e frollo. Egli uscì un momento dalla capanna per prender aria e guardare il cielo. Sul margine del bosco qualche tronco rosso e contorto di pinastro era già illuminato dal sole; L'aria era fresca e buona, le colline lontane non si discernevano ancora nella nuvolaglia mattutina. Egli camminò per un tratto, distese le membra stanche e respirò profondo. Il mondo era bello in quel triste mattino. Presto sarebbe ricominciata la vita vagabonda. Bisognava prender congedo. Dal bosco lo chiamò Roberto. Andava meglio? Se non si trattava di peste, egli sarebbe rimasto. Boccadoro non doveva essere in collera con lui, intanto egli aveva custodito la pecora. --Va al diavolo tu e la tua pecora!--gli gridò Boccadoro.--Lena muore e ho preso il contagio anch'io. Quest'ultima era una bugia; la disse per liberarsi dell'altro. Per quanto quel Roberto potesse essere un buon diavolo, Boccadoro ne aveva abbastanza; troppo vile e troppo meschino, troppo in contrasto con quell'epoca grandiosa di sconvolgimenti e di fato. Roberto si dileguò e non ritornò più. Il sole sorse luminoso. Quando Boccadoro tornò presso Lena, ella dormiva. Anch'egli s'addormentò di nuovo e vide in sogno il suo cavallo d'un tempo, Bless, e il bel castagno del convento; gli pareva di riguardare indietro, da una lontananza infinita e deserta, ad una dolce patria perduta; e quando si destò, sulla barba bionda che gli copriva le guance scorrevan due lacrime. Udì Lena che parlava con voce fioca; credette che lo chiamasse e si rizzò sul giaciglio, ma ella non parlava a nessuno, balbettava solo parole fra sé e sé, parole di tenerezza e d'invettiva; rise un attimo, poi cominciò a sospirare profondamente ed a singhiozzare, e a poco a poco ridivenne quieta. Boccadoro s'alzò, si chinò sopra quel volto già sfigurato, il suo occhio seguì con amara curiosità le linee che si contraevano e si confondevano così miseramente sotto il soffio bruciante della morte. Cara Lena, gridò il suo cuore, cara bambina buona, vuoi già lasciarmi anche tu? Ne hai già abbastanza di me? Sarebbe fuggito volentieri. Vagare, vagare, marciare, respirare, stancarsi, vedere nuove immagini gli avrebbe fatto bene, avrebbe forse sollevato il suo abbattimento profondo. Ma non poteva, non gli era possibile lasciar lì quella creatura sola a morire. Osava appena uscire un pochino ogni due ore, per respirare aria fresca. Siccome Lena non prendeva più latte, ne beveva lui a sazietà, non c'era nient'altro da mangiare. Qualche volta portava fuori anche la capra, perché mangiasse, bevesse acqua e si muovesse. Poi ritornava presso Lena, le mormorava parole affettuose, fissava immobile il suo volto e assisteva sconfortato, ma attento, al suo morire. Ella era cosciente, ogni tanto dormiva, e quando si destava non apriva più gli occhi che a metà, le sue palpebre erano stanche e afflosciate. Intorno agli occhi ed al naso la fanciulla appariva d'ora in ora più vecchia, sul collo fresco e giovane c'era un viso di nonna che avvizziva rapidamente. Solo di rado pronunciava una parola, diceva " Boccadoro " o " caro ", e cercava d'inumidir con la lingua le labbra gonfie e bluastre. Allora egli le dava qualche goccia d'acqua. Nella notte seguente Lena morì. Morì senza lamento: un breve sussulto, poi il respiro s'arrestò e un brivido le percorse la pelle: a quella vista Boccadoro si sentì gonfiare il cuore, e gli vennero in mente i pesci morenti, che tante volte aveva veduti e compianti in piazza del mercato: così si spegnevano anch'essi, con un moto convulso e con un lieve brivido doloroso, che correva sulla loro pelle portandone via lo splendore e la vita. Rimase ancora un poco in ginocchio accanto a Lena, poi uscì all'aperto e sedette fra i cespugli d'erica. Gli venne in mente la capra, tornò dentro, la prese con sé, e la bestia, dopo aver cercato un poco attorno, si distese per terra. Egli le si coricò vicino, con la testa sul suo fianco, e dormì fino all'alba. Allora entrò per l'ultima volta nella capanna, dietro la parete intrecciata, e per l'ultima volta guardò il povero viso della morta. Gli ripugnava lasciarla così. Uscì, raccolse qualche bracciata di legna secca e di sterpi, gettò tutto nella capanna e appiccò il fuoco. Non prese fuori nulla, tranne l'acciarino. In un attimo la parete di ginestra secca divampò. Egli rimase fuori a guardare, col viso arroventato dal fuoco, fin che tutto il tetto fu in fiamme e le prime travi precipitarono. La capra saltava impaurita e gemente. Sarebbe stato logico uccidere l'animale, arrostirne un pezzo e mangiare, per acquistar forza sul punto di mettersi in cammino. Ma non gli fu possibile; spinse la capra nella landa e se ne andò. Il fumo dell'incendio lo seguì fin dentro il bosco. Non aveva mai iniziato una peregrinazione con tanto sconforto. Ma ciò che l'aspettava era peggio ancora di quanto si fosse immaginato. Cominciò alle prime masserie e ai primi villaggi e continuò, sempre più terribile quanto più avanzava. Tutta la regione, tutto il vasto paese stava sotto un nembo di morte, sotto un velo d'orrore, d'angoscia, di ottenebramento degli spiriti; e il peggio non erano le case deserte, i cani da guardia morti di fame e imputriditi alla catena, i morti rimasti insepolti, i bambini mendicanti, le tombe in massa davanti alle città. Il peggio erano i vivi, che sembrava avessero perduto occhi e anima sotto il peso dello spavento e dell'ansia della morte. Dappertutto il viandante udiva e vedeva cose strane ed orrende. Genitori che avevano abbandonato i figli colti dal male, mariti che avevano abbandonato le mogli. I monatti e gli sbirri d'ospedale dominavano come carnefici, predavano nelle case lasciate vuote dalla morte, a loro capriccio ora lasciavano i cadaveri insepolti, ora strappavano dai letti i vivi prima che avessero esalato l'ultimo respiro e li gettavano sui carri funebri. Fuggiaschi vagavano solitari, abbrutiti, evitando ogni contatto con gli uomini, cacciati dalla paura della morte. Altri si riunivano in una gioia di vivere eccitata e sgomenta, tenevano orge e celebra-ii vano feste da ballo e d'amore, in cui la morte sonava la viola. Altri, trascurati nella persona, piangenti o imprecanti, con gli occhi smarriti, stavano accovacciati davanti ai cimiteri o alle loro case spopolate. E peggio di tutto: ognuno cercava per quell'insopportabile calamità un capro espiatorio, ognuno affermava di conoscere gli scellerati ch'erano i colpevoli e malvagi promotori della pestilenza. Uomini diabolici, si diceva, provvedevano con gioia maligna alla propagazione della strage, prendendo il veleno dai cadaveri degli appestati e fregandolo sui muri e sulle maniglie delle porte, o avvelenando le fontane e il bestiame. Chi cadeva in sospetto di compiere tale mostruosità era perduto se, avvisato in tempo, non riusciva a fuggire; era punito con la morte dalla giustizia o dalla plebe. Inoltre i ricchi davano la colpa ai poveri e vice-versa, oppure si diceva che i colpevoli erano gli ebrei o i latini o i medici. In una città Boccadoro, col cuore indignato, vide ardere tutta la via degli ebrei, una casa dopo l'altra, mentre intorno il popolo urlava e i fuggiaschi atterriti venivano ricacciati nel fuoco con la forza delle armi. Nella follia della paura e dell'esasperazione, dappertutto si uccidevano, si bruciavano e si torturavano innocenti. Boccadoro assisteva con furore e disgusto: il mondo pareva sovvertito e avvelenato, pareva che non esistessero più gioia, innocenza e amore sulla terra. A volte si rifugiava nelle feste turbolente di chi voleva godere la vita. Dappertutto sonava la viola della morte; egli imparò presto a conoscerne il suono; a volte prendeva parte a quei festini disperati, a volte sonava anch'egli il liuto o ballava alla luce delle torce a vento, nelle notti febbrili. Paura non ne sentiva. Una volta aveva provato l'ansia della morte, in quella notte d'inverno sotto gli abeti, mentre le dita di Vittore gli stringevano la gola, e anche in altre due giornate del suo vagabondaggio, nella neve e nella fame. Quella era una morte con cui si poteva combattere, da cui ci si poteva difendere, ed egli si era difeso, con le mani e i piedi tremanti, con lo stomaco vuoto, con le membra esauste; si era difeso, aveva vinto, era sfuggito. Ma con la morte causata dalla peste non si poteva lottare bisognava lasciarla infuriare ed arrendersi, e Boccadoro si era arreso da un pezzo. Non aveva paura, sembrava che non gl'importasse più nulla della vita, da quando aveva lasciato Lena nella capanna ardente, da quando avanzava giorno per giorno nel paese devastato dalla morte. Ma una straordinaria curiosità lo spingeva e lo teneva desto; era instancabile nel contemplare la grande mietitrice, nell’ascoltare il canto della caducità; non si tirava mai da parte, sempre lo afferrava la stessa tacita passione d'essere presente e di camminare con gli occhi aperti attraverso l'inferno. Mangiava pane ammuffito nelle case spopolate, cantava e trincava nelle orge folli, coglieva il fiore del piacere presto appassito, guardava negli occhi fissi ed ebbri delle donne, guardava negli occhi fissi e melensi degli ubriachi, guardava negli occhi che si spegnevano dei morenti, amava le donne disperate e febbricitanti, per un piatto di minestra aiutava a portar via i morti, per pochi quattrini aiutava a gettar terra sopra i cadaveri nudi. Tetro e selvaggio s'era fatto il mondo, la morte cantava urlando la sua canzone, Boccadoro ascoltava con l'orecchio teso, con passione ardente. La sua meta era la città di maestro Nicola, là lo chiamava la voce del suo cuore. Lunga era la via e piena di morte, di avvizzimento e di strage. Egli avanzava triste, inebriato dal canto funebre, tutto proteso verso il dolore urlante del mondo, triste e pur ardente, coi sensi aperti. In un convento vide un affresco recente e dovette contemplarlo a lungo. C'era dipinta su di una parete la danza macabra: la morte pallida e ossuta portava via ballando gli uomini dalla vita, il re, il vescovo, L'abate, il conte, il cavaliere, il medico, il contadino, il lanzichenecco, tutti prendeva con sé, e dei musicanti scheletriti accompagna-vano la danza sonando su ossa cave. Gli occhi curiosi di Boccadoro assorbirono profondamente quella visione. Un ignoto collega aveva tratto l'insegnamento da quello ch'egli aveva visto della morte nera e gridava squillante all'orecchio degli uomini la predica amara del dover morire. Il quadro era buono, era una buona predica, quel collega sconosciuto non aveva visto e fissato male la cosa, dalla sua figurazione truce usciva un suono d'ossa e d'orrore. E tuttavia non era quello che egli, Boccadoro, aveva veduto e vissuto. Lì era dipinta la necessità della morte, severa e inesorabile. Ma Boccadoro avrebbe desiderato un'altra rappresentazione; in lui il canto selvaggio della morte sonava diverso, non severo e macabro, ma dolce e seducente, come un richiamo alla patria, materno. Là dove la morte protendeva la sua mano nella vita, non echeggiava solo un grido stridulo e guerriero, ma anche un suono profondo e amoroso, un suono pieno, autunnale, e vicino alla morte il lumino della vita ardeva più chiaro e più fervido. Ad altri la morte poteva apparire come un guerriero, un giudice o un carnefice, come un padre severo: per lui la morte era anche una madre e un'amante, il suo appello era un richiamo d'amore, il suo contatto un brivido d'amore. Quando Boccadoro riprese il suo cammino, dopo aver contemplato il dipinto della danza macabra, una forza nuova lo attirava verso il maestro e verso la creazione. Ma dappertutto erano soste, nuove immagini e nuove esperienze; con le narici vibranti egli aspirava l'aria di morte; dappertutto la compassione o la curiosità gli chiedevano un'ora, un giorno. Per tre giorni ebbe con sé un contadinello piagnucolante, lo portò per ore ed ore sulle spalle: un cosino mezz'affamato di cinque o sei anni, che gli diede molto da fare e di cui stentò a liberarsi. Finalmente glielo prese la moglie di un carbonaio, a cui era morto il marito e che voleva avere ancora intorno a sé qualche cosa di vivo. Per diversi giorni lo accompagnò un cane senza padrone, che mangiava nella sua mano e lo scaldava nel sonno; ma un mattino scomparve. Ciò rincrebbe a Boccadoro: si era abituato a parlare con quel cane; per mezz'ora di seguito gli rivolgeva discorsi e fantasticherie sulla malvagità degli uomini, sull'esistenza di Dio, sull'arte, sul seno e sulle anche d'una giovane figlia di cavaliere di nome Giulia, che aveva conosciuta in gioventù. Perché naturalmente nel suo pellegrinaggio attraverso la morte Boccadoro era diventato un pochino pazzo: tutti nel territorio colpito dalla peste erano un poco pazzi e molti lo erano del tutto. Un pochino pazza era forse anche la giovane ebrea Rebecca, la bella fanciulla dai capelli neri e dagli occhi ardenti, con la quale s'attardò due giorni. La trovò nella campagna davanti ad una piccola città, accovacciata presso un mucchio di macerie carbonizzate; urlava, si batteva il volto e si strappava i neri capelli. Boccadoro ebbe compassione di quei capelli così belli, e afferrò quelle mani infuriate, le tenne ferme, parlò alla fanciulla e s'accorse allora che anche il viso e la persona erano bellissimi. Ella piangeva perché suo padre era stato bruciato e ridotto in cenere insieme ad altri quattordici ebrei, per ordine dell'autorità; ella era riuscita a fuggire, ma poi era ritornata disperata e s'accusava di non essersi fatta bruciare insieme al padre. Con molta pazienza egli le tenne ferme le mani convulse, le parlò con dolcezza, le mormorò espressioni di pietà protettrice, le offerse aiuto. Ella gli chiese di aiutarla a seppellire suo padre ed allora raccolsero tutte le ossa traendole dalla cenere ancor calda e le portarono in un luogo nascosto in mezzo ai campi, dove le coprirono di terra. Intanto s'era fatta sera e Boccadoro cercò un posto per dormire, preparò alla fanciulla un giaciglio in un boschetto di querce, le promise di vegliare, e la sentì piangere ancora e singhiozzare, fin che si fu addormentata. Allora dormì un poco anche lui e alla mattina cominciò la sua corte. Le disse che non poteva rimanere così sola, che l'avrebbero riconosciuta per ebrea e uccisa, o che qualche dissoluto vagabondo l'avrebbe maltrattata, e che nella foresta c'erano lupi e zingari. Egli invece l'avrebbe presa con sé e protetta dai lupi e dagli uomini, perché gli faceva pena e le voleva molto bene: egli aveva gli occhi aperti e sapeva che cos'è la bellezza, e non avrebbe mai tollerato che quelle dolci palpebre intelligenti e quelle belle spalle fossero divorate dagli animali o arse sul rogo. Ella lo ascoltò cupa, poi balzò in piedi e fuggì. Egli dovette rincorrerla e tenerla stretta, prima di poter proseguire. --Rebecca, -- disse, -- vedi bene che non ho cattive intenzioni verso di te. Ora sei afflitta, pensi a tuo padre, non vuoi saperne d'amore. Ma domani o dopodomani o più tardi io t'interrogherò di nuovo; fino allora ti proteggerò, ti porterò da mangiare e non ti toccherò. Sii triste fin che è necessario. Con me potrai esser triste o lieta, potrai fare sempre e soltanto ciò che ti darà piacere. Ma eran tutte parole dette al vento. Ella non voleva far nulla che desse piacere - affermava tetra e furente voleva fare ciò che dà dolore, mai più avrebbe pensato a qualcosa che potesse somigliare alla gioia, e quanto più presto l'avrebbe divorata il lupo, tanto meglio per lei. Egli doveva andarsene, non c'era nulla da fare, avevan già parlato troppo. --Ascolta, -- disse Boccadoro, -- non vedi che dappertutto è la morte, che in tutte le case e le città si muore, che tutto è pieno d'angoscia? Anche il furore di quegli uomini stolti, che hanno bruciato tuo padre, altro non è se non miseria e disperazione, se non conseguenza di una sofferenza troppo grande. Guarda, presto la morte prenderà anche noi ed anche noi imputridiremo nei campi e con le nostre ossa giocherà la talpa. Lascia che prima viviamo ancora un poco e ci vogliamo bene. Ah, sarebbe un tal peccato per il tuo collo bianco, per il tuo piccolo piede! Cara bella fanciulla, vieni con me, non ti toccherò, voglio solo vederti e provvedere a te. Supplicò ancora a lungo e a un tratto sentì egli stesso quanto fosse inutile cercare di conquistarla con parole e ragionamenti. Tacque e la guardò triste: il volto fiero e regale di lei era rigido di ripulsa. --Ecco come siete, -- disse infine Rebecca con voce piena d'odio e di disprezzo, -- ecco come siete voi cristiani! Prima aiuti una figlia a seppellir suo padre che la tua gente ha assassinato e di cui l'unghia dell'ultimo dito vale più di te, e subito dopo la ragazza dev'esser tua e far con te all'amore. Ecco come siete! A tutta prima pensai che forse tu eri un uomo buono. Ma come potevi esser buono? Ah, siete dei porci! Mentre parlava così, Boccadoro vedeva ardere nei suoi occhi, dietro l'odio, qualcosa che lo commoveva e lo confondeva e gli penetrava nel cuore. Vedeva nei suoi occhi la morte, ma non il dover morire, bensì il voler morire, il diritto di morire, la tacita dedizione e obbedienza all'appello della madre della terra. --Rebecca,--disse,--forse hai ragione. Io non sono un uomo buono, quantunque verso di te le mie intenzioni fossero buone. Perdonami. Solo ora ti ho compresa. Toltosi il berretto, la salutò profondamente come una principessa e se n'andò col cuore oppresso; doveva lasciarla perire. Rimase a lungo turbato, non aveva voglia di parlare con nessuno. Per quanto poco si assomigliassero, quella fiera e povera fanciulla israelita gli ricordava in certo modo Lidia, la figlia del cavaliere. Amare donne come quelle era fonte di dolore. Ma per qualche tempo gli parve di non aver mai amato altre che queste due, la povera, inquieta Lidia e l'ombrosa, amara israelita. Per parecchi giorni ancora pensò alla focosa fanciulla dai capelli neri, e per parecchie notti sognò la bellezza slanciata e ardente del suo corpo, che pareva destinato alla felicità e alla prosperità ed era invece già votato alla morte. Oh, perché quelle labbra e quel seno dovevano diventar preda dei " porci " e imputridire nei campi? Non c'era qualche potenza, qualche magia, per salvare questi fiori preziosi? Sì, c'era una magia: far sì che continuassero a vivere nella sua anima, dar loro forma e conservarli così. Egli sentiva con sgomento e con entusiasmo la sua anima piena d'immagini, sentiva che quel lungo peregrinare attraverso il paese della morte l'aveva tutta popolata di figure. Tanta ricchezza gli gonfiava il cuore ed egli sentiva un desiderio invincibile di raccogliersi su di essa, di darle sfogo, di trasformarla in immagini dura-ture. E continuava il suo cammino con impulso sempre più avido e fervente, sempre con gli occhi aperti e coi sensi curiosi, ma con un appassionato desiderio di carta e stilo, di creta e legno, di officina e di lavoro. L'estate era passata. Molti assicuravano che con l'autunno o col principio dell'inverno, la pestilenza sarebbe cessata. Era un autunno senza gioia. Boccadoro attraversava regioni, in cui non c'era più nessuno per coglier la frutta che cadeva dagli alberi e marciva nell'erba; in altri luoghi orde di gente inselvatichita, proveniente dalle città in barbare escursioni, la saccheggiava e la sperperava. Boccadoro s'avvicinava a poco a poco alla sua meta e in quell'ultimo tempo lo coglieva spesso il timore di poter prendere ancora la peste e di dover morire in qualche stalla. E non voleva più morire, prima d'aver gustato la felicità d'essere ancora in un'officina e di dedicarsi alla creazione artistica. Per la prima volta in vita sua il mondo gli pareva troppo vasto, la terra germanica troppo grande. Nessuna graziosa piccola città poteva più allettarlo a sostare, nessuna graziosa contadinella lo tratteneva più a lungo di una notte. Ma una volta passò davanti ad una chiesa, sotto il cui portale stavano entro nicchie profonde, sorrette da colon-nine ornamentali, molte statue in pietra di epoca antichissima, figure d'angeli, apostoli e martiri, come ne aveva già vedute altre volte; anche nel suo convento di Mariabronn c'erano parecchie statue di quel genere. Un tempo, da giovinetto, le aveva contemplate con piacere, ma senza passione; gli parevano belle e maestose, ma un pò troppo solenni e un pò rigide e antiquate. Più tardi, quando alla fine della sua prima grande peregrinazione era stato tanto commosso e rapito da quella dolce e triste Madonna di maestro Nicola, quelle figure di pietra solenni ed arcaiche gli erano parse troppo pesanti, rigide e straniere, le aveva contemplate con un certo altero disprezzo e nella nuova maniera del suo maestro aveva veduto un'arte molto più viva, più intima e più animata. Ora che ritornava dal mondo con l'anima piena d'immagini, segnata dalle cicatrici e dalle tracce di avventure e di esperienze violente, con un doloroso e appassionato desiderio di raccoglimento e di nuova creazione, quelle figure antiche ed austere commovevano a un tratto il suo cuore con straordinaria potenza. Stava devotamente dinanzi a quelle statue venerande, in cui viveva ancora il cuore di un'epoca da lungo tempo trascorsa, e le angosce e le estasi di generazioni scomparse da un pezzo, irrigidite nella pietra, sfidavano ancora da secoli la caducità. Nel suo cuore inselvatichito sorgeva tremante e umile il sentimento della venerazione e un orrore per la sua vita sciupata e consumata. Fece quello che da gran tempo non faceva, cercò un confessionale, per confessarsi e per farsi punire. Ma se nella chiesa c'erano confessionali, in nessuno si trovava un prete; erano morti, giacevano all'ospedale, erano fuggiti, temevano il contagio. La chiesa era deserta, i passi di Boccadoro risonavano cupi sotto la volta di pietra. Egli s'inginocchiò davanti ad uno dei confessionali vuoti, chiuse gli occhi e mormorò dentro la grata: --Buon Dio, vedi ciò ch'è avvenuto di me. Ritorno dal mondo e sono diventato un uomo cattivo ed inutile, ho sprecato i miei anni di gioventù come un dissipatore, ben poco si è salvato. Ho ucciso, ho rubato, ho fornicato, ho vissuto in ozio e mangiato il pane degli altri. Buon Dio, perché ci hai creati così, perché ci conduci per vie simili? Non siamo noi tuoi figli? Il Figlio tuo non è morto per noi? Non ci sono santi e angeli per giudicarci? O sono tutte belle storie inventate, che si raccontano ai bambini e di cui ridono i preti stessi? Io ho perduto la fiducia in te, Padre, hai creato male il mondo, lo tieni in ordine male. Ho veduto case e strade piene di morti, ho veduto ricchi barricarsi nelle loro case o fuggire, e i poveri lasciare i loro fratelli insepolti, e gli uni diventare sospetti agli altri e ammazzare gli ebrei come bestie. Ho veduto tanti innocenti soffrire e perire e tanti malvagi nuotare nel benessere. Ci hai dunque del tutto dimenticati e abbandonati, la tua creazione t'è venuta in uggia, vuoi lasciarci andare tutti alla malora? Sospirando uscì dall'alto portale e vide le statue di pietra silenziose, angeli e santi, magri ed alti nei rigidi drappeggi delle loro vesti, immobili, irraggiungibili, sovrumani e pur creati da mano umana e da spirito umano. Stavano lassù nelle loro nicchie ristrette, severi e sordi, inaccessibili a preghiere e a domande, eppure erano un infinito conforto, erano una vittoria trionfante sulla morte e sulla disperazione, nella loro maestà e nella loro bellezza sopravviventi all'estinguersi di una generazione umana do-po l'altra. Ah, se ci fosse stata là anche la bella ebrea Rebecca e la povera Lena arsa insieme alla capanna e la povera Lidia e maestro Nicola! Ma un giorno ci sarebbero stati e avrebbero avuto vita duratura, egli stesso li avrebbe presentati, e le loro figure, che in quel momento significavano per lui amore e tormento, ansia e passione, si sarebbero erette un giorno davanti ai posteri, senza nome e senza storia, pacati e taciti simboli della vita umana. INDEX CAPITOLO XV Finalmente la meta fu raggiunta e Boccadoro entrò nelL'ambita città per la medesima porta per cui un giorno, tanti anni prima, era passato la prima volta in cerca del suo maestro. Già per strada mentre si avvicinava alla città vescovile, parecchie notizie l'avevano raggiunto; sapeva che anche là c'era stata la peste e forse vi regnava ancora, gli avevano raccontato di disordini e di rivolte popolari, e che un governatore imperiale era venuto per mettere ordine, per dare leggi eccezionali e proteggere la proprietà e la vita dei cittadini. Perché il vescovo aveva lasciato la città appena scoppiata la peste e risiedeva lontano in uno dei suoi castelli in campagna. Di tutte queste notizie il viandante si era interessato poco. Purché ci fosse ancora la città, con le officine in cui egli voleva lavorare! Tutto il resto non gli importava. Quando arrivò, L'epidemia era spenta, si aspettava il ritorno del vescovo e ci si rallegrava della partenza del governatore e della ripresa della pacifica vita normale. Quando Boccadoro rivide la città, un'ondata di ricordi, un senso di ritrovar la sua patria, quale non aveva mai provato prima, gli gonfiò il cuore, e per dominarsi contrasse il volto in una maschera di severità inconsueta. Oh, c'era ancora tutto: le porte, le belle fontane, il vecchio campanile massiccio della cattedrale e quello nuovo e slanciato della chiesa di Santa Maria, le campane sonore di San Lorenzo, la grande piazza luminosa del mercato! Oh, che gioia che tutto questo lo avesse aspettato! Non aveva sognato un giorno, cammin facendo, di arrivar lì e di trovar tutto straniero e mutato, parte distrutto e in rovina, parte irriconoscibile per nuove costruzioni e per strani segni spiacevoli ? Aveva le lacrime agli occhi, mentre camminava per le strade e riconosceva le case a una a una. In fin dei conti non erano invidiabili i sedentari nelle loro belle case sicure, nella loro pacifica vita borghese, nel loro sentimento tranquillante e fortificante di avere una patria, di essere a casa propria nella stanza e nell'officina, fra moglie e figli, servitù e vicini? Era tardo pomeriggio e dalla parte della strada illuminata dal sole le case, le insegne delle osterie e delle corporazioni, le porte scolpite e i vasi di hori splendevano nel raggio caldo, e nulla faceva pensare che anche in quella città avessero regnato la furia della morte e la folle paura degli uomini. Fresco, verde e azzurro chiaro scorreva sotto le volte sonore del ponte il fiume lucente; Boccadoro sedette un momento sul parapetto dell'argine: sotto guizzavano ancora nel verde cristallo le ombre scure dei pesci, o stavano immobili coi musi rivolti contro la corrente; ancora scintillava qua e là nel crepuscolo del fondo quel tenue bagliore d'oro, che promette tanto e favorisce i sogni. Ciò accadeva anche in altre acque, anche altri ponti ed altre città eran belli a vedere, e tuttavia gli pareva di non aver più visto e sentito da tanto tempo nulla di simile. Passarono due garzoni di macellaio, che spingevano ridendo un vitello, e scambiarono occhiate e scherzi con una ragazza, che raccoglieva il bucato in una pergola sopra di loro. Come tutto passava presto! Poco tempo innanzi bruciavano ancora i fuochi della peste e infierivano i terribili monatti; ed ecco che la vita riprendeva il suo corso, si rideva e si scherzava; a lui capitava lo stesso: eccolo lì seduto, entusiasta di rivedere ogni cosa, riconoscente, tenero perfino verso i sedentari, come se non ci fossero state né miseria né morte, né una Lena né una principessa israelita. S'alzò sorridendo e proseguì; solo quando s'avvicinò alla strada di maestro Nicola e ripercorse quel cammino, che un tempo aveva fatto ogni giorno per un anno intero recandosi al lavoro, il suo cuore cominciò a sentirsi oppresso e inquieto. Affrettò il passo; voleva presentarsi quel giorno stesso al maestro e aver notizie, non era più il caso di differire, gli sarebbe parso addirittura impossibile aspettare fino all’indomani. Il maestro sarebbe stato ancora in collera con lui? Era passato tanto tempo, non poteva più avere importanza; e se anche lo fosse stato, egli avrebbe placato la sua collera. Purché il maestro fosse ancora là, lui e la sua officina, poi tutto sarebbe andato bene. In fretta, come se all'ultimo momento potesse perdere ancora qualcosa, s'avvicinò alla casa ben nota, afferrò la maniglia della porta e sussultò, trovandola chiusa. Era forse un cattivo segno? Una volta non avveniva mai che quella porta fosse tenuta chiusa in pieno giorno. Lasciò cadere il battaglio con strepito e aspettò. Di colpo gli era entrata una grande ansia in cuore. Venne la stessa vecchia servente che l'aveva ricevuto al suo primo ingresso in quella casa. Non era diventata più brutta, ma più vecchia e più sgarbata; non riconobbe Boccadoro. Con voce ansiosa egli chiese del maestro. Ella lo guardò inebetita e diffidente. --Maestro? Qui non c'è nessun maestro. Andate pure giovanotto. Non si riceve nessuno. Voleva cacciarlo fuori dalla porta: egli la prese per un braccio e le gridò: --Ma parla dunque, Margherita in nome di Dio! Io sono Boccadoro, non mi conosci debbo andare da maestro Nicola. Negli occhi presbiti e semispenti non brillò alcun segno di benvenuto. -Qui non c'è più nessun maestro Nicola, -disse respingendolo;--quello è morto. Andatevene, io non posso star qui a chiacchierare. Boccadoro che sentiva crollare tutto dentro di sé, spinse da una parte la vecchia, che gli corse dietro gridando, e si precipitò per il corridoio buio verso l'officina. Era chiusa. Seguito dalla vecchia, che protestava e inveiva, corse su per la scala, vide nella penombra del noto vestibolo le statue che Nicola aveva raccolte. Chiamò a voce alta la signorina Elisabetta. La porta della stanza s'aprì e comparve Elisabetta; quando, solo alla seconda occhiata, egli la riconobbe si sentì stringere il cuore. Se già tutto in quella casa, dal momento in cui aveva trovato con spavento la porta chiusa, appariva spettrale e incantato come in un sogno angoscioso, alla vista di Elisabetta un vero brivido gli percorse la schiena. Della bella e superba Elisabetta era rimasta una ragazza spaurita e curva, con un viso giallo e malaticcio, in un vestito nero e disadorno, con lo sguardo incerto e l'atteggiamento inquieto. -- Perdonate, -- fece lui, -- Margherita non voleva lasciarmi entrare. Non mi riconoscete? Ma sono Boccadoro. Ah, ditemi: è proprio vero che vostro padre è morto ? Dallo sguardo di lei capì che in quel momento lo riconosceva e vide anche subito ch'egli non doveva aver lasciato buon ricordo di sé. --Ah, siete Boccadoro? -- disse; e nella voce di lei egli riconobbe qualcosa della fierezza d'un tempo. -- Vi siete affaticato a salire per nulla. Mio padre è morto. --E l'officina? -- gli uscì dal petto. --L'officina? E chiusa. Se cercate lavoro, dovete andare altrove. Egli cercò di dominarsi. -- Signorina Elisabetta, -- disse cortesemente, -- io non cerco lavoro, volevo solo salutare il maestro e voi. Sono molto addolorato di dover udire questo! Vedo che avete passato dei giorni gravi. Se uno scolaro riconoscente di vostro padre può rendervi qualche servigio, ditelo, sarebbe una gioia per me. Ah, signorina Elisabetta, mi si spezza il cuore a trovarvi così... così immersa nel dolore. Ella si ritirò dietro la porta della stanza. --Grazie, -- disse esitante, -- non potete più render nessun servigio a lui e neppure a me. Margherita vi condurrà fuori. La voce risonava dura, fra irata e timorosa. Egli sentì che, se avesse avuto coraggio, lo avrebbe cacciato fuori con un'ingiuria. Già era sceso in istrada, già la vecchia aveva sbarrato dietro di lui la porta di casa e messo i chiavistelli. Udì ancora il colpo secco dei catenacci, che gli sonò all'orecchio come la chiusura del coperchio di una bara. Ritornò a passi lenti in riva al fiume e sedette di nuovo sul muro nel posto d'un tempo. Il sole era tramontato, dall'acqua saliva un alito freddo, fredda era la pietra sulla quale sedeva. La via che fiancheggiava il fiume s'era fatta silenziosa, contro i pilastri del ponte mormorava la corrente, cupo appariva il fondo, nessun bagliore d'oro luccicava più. "Oh" pensava "se ora cadessi giù dal mu-ro e scomparissi nel fiume!" Il mondo era di nuovo pieno di morte. Passò un'ora e il crepuscolo era diventato notte. Finalmente poteva piangere. Stava seduto e piangeva, le gocce calde gli cadevano sulle mani e sulle ginocchia. Piangeva per il maestro morto, piangeva per la perduta bellezza di Elisabetta, piangeva per Lena per Roberto, per la fanciulla ebrea, per la sua propria giovinezza appassita e sciupata. Più tardi entrò in un'osteria, dove una volta trincava spesso coi compagni. L'ostessa lo riconobbe; egli le chiese un pezzo di pane, ella glielo diede e gli offerse insieme gentilmente anche un bicchier di vino. Egli non riuscì a ingoiare né il pane né il vino. Sopra una panca dell'osteria dormì la notte. L'ostessa lo svegliò il mattino, egli ringraziò e se n'andò; per via mangiò il suo pezzo di pane. Andò in piazza del mercato: là c'era la casa in cui una volta aveva la sua camera. Accanto alla fontana alcune pescivendole offrivano la loro merce viva; egli guardò dentro i barili i begli animali lucenti. Tante volte li aveva visti in passato, e gli tornò alla mente che spesso aveva avuto compassione di loro e s'era sentito acceso d'ira contro le pescivendole e i compratori. Una volta, ricordava in un'altra mattina s'era aggirato per quella piazza am-mirando e compiangendo i pesci ed era stato molto triste: quanto tempo era passato da allora e quant'acqua sotto i ponti! Era stato molto triste, se ne rammentava be-ne, ma non sapeva perché. Era proprio così: anche le cose tristi passavano, anche i dolori e le disperazioni, come le gioie, impallidivano, perdevano la loro profondità e il loro valore, fin che veniva un momento in cui non ci si poteva più ricordare che cos'era stato a far tanto male. Anche i dolori sfiorivano e appassivano. Anche il suo dolore di quel giorno sarebbe dunque appassito e divenuto insignificante, anche la sua disperazione per la morte del maestro, che se n'era andato in collera con lui. E perché non gli era più aperta un'officina, dove gustare la felicità della creazione e scaricare dall'anima il peso delle immagini? Sì, senza dubbio, anche questa sofferenza, anche l'amarezza di diventare vecchio e stanco, anche questa avrebbe dimenticato. Nulla aveva consistenza, neppure il dolore. Mentre fissava i pesci, tutto assorto in questi pensieri, udì una voce sommessa pronunciare affettuosamente il suo nome. -- Boccadoro, -- chiamava timida; e voltandosi, egli vide una giovinetta delicata e patita, ma con grandi occhi scuri. Non la conosceva. -- Boccadoro! Sei proprio tu? -- disse la timida voce. -- Da quando sei tornato in città? Non mi conosci più? Sono Maria. Ma egli non la conosceva. Dovette raccontargli che era la figlia dei suoi padroni di casa d'un tempo e che un giorno, in quell'alba prima della sua partenza, gli aveva fatto scaldare una tazza di latte in cucina. Arrossì, mentre raccontava. Sì, era Maria, era la bimba esile dal femore malato, che allora s'era presa cura di lui con tanta timida tenerezza. Ora egli ricordava tutto: Maria lo aveva aspettato nel mattino freddo e s'era mostrata così triste della sua partenza, gli aveva fatto scaldare il latte ed egli le aveva dato un bacio, che ella aveva ricevuto con tacita solennità, come un sacramento. Non aveva più pensato a lei. Allora era una bimba. Ora s'era fatta alta, aveva dei bellissimi occhi, ma zoppicava sempre e appariva un pò emaciata. Le diede la mano. Gli faceva piacere che qualcuno in quella città lo conoscesse ancora e gli volesse bene. Maria lo condusse con sé, egli non oppose quasi resistenza. Dovette pranzare a mezzogiorno coi genitori di lei, nella stanza dove pendeva ancora dalla parete il suo quadro e sul bordo del camino spiccava il suo bicchiere color rubino; fu invitato a rimanere qualche giorno, erano tanto lieti di rivederlo. Qui apprese ciò ch'era avvenuto in casa del suo maestro. Nicola non era morto di peste, ma la bella Elisabetta aveva preso il contagio ed era stata gravissima; suo padre l'aveva curata fino a logorarsi, ed era morto prima ancora ch'ella fosse del tutto guarita. Fu salvata, ma la sua bellezza se n'era andata per sempre. --L'officina è vuota, -- disse il padrone di casa, -e per un bravo intagliatore ci sarebbe lì un bel nido pronto e denaro a sufficienza. Pensaci, Boccadoro! La ragazza non direbbe di no. Non ha più da scegliere. Venne anche a sapere diversi particolari dell'epoca della peste: che la plebe aveva prima incendiato un ospedale e poi assalito e saccheggiato alcune case di ricchi; che per un pò di tempo, essendo fuggito il vescovo, non c'eran più stati né ordine né sicurezza in città. Allora l'imperatore, che si trovava in quel momento nelle vicinanze, aveva mandato un governatore, il conte Enrico. Un uomo energico senza dubbio; coi suoi pochi cavalieri e soldati aveva ristabilito l'ordine nella città. Ma ormai era tempo che quel regime cessasse; si aspettava il ritorno del vescovo. Il conte aveva preteso molto dai cittadini e anche della sua concubina se n'aveva abbastanza, dell'Agnese quella era una birba matricolata! Bè, presto se ne sarebbero andati. Il Consiglio comunale era arcistufo di aver alle costole, invece del suo buon vescovo un cortigiano e un guerriero come quello, un favorito dell'imperatore, che riceveva continuamente ambasciate e delegazioni come un principe. Poi anche l'ospite fu interrogato sulle sue avventure.-Ah!--disse egli con tristezza,--non parliamo di queste. Ho camminato e camminato e dappertutto c'era la pestilenza e intorno giacevano i morti, e dappertutto la gente era impazzita e malvagia per paura. Io sono rimasto in vita, forse un giorno tutto questo sarà dimenticato. Ora ritorno e il mio maestro è morto! Lasciatemi qui un paio di giorni a riposare, poi riprenderò il mio cammino. Non rimase per riposare. Rimase perché era deluso e indeciso, perché il ricordo di tempi più felici gli rendeva cara quella città, e perché l'amore della povera Maria gli faceva bene. Egli non poteva ricambiarlo, non poteva darle altro che amicizia e compassione; ma quella sua adorazione tacita e umile lo riscaldava. Più di tutto poi lo tratteneva in quel luogo il bisogno ardente di ridiventare artista, anche senza officina, anche solo con dei ripieghi. Per un paio di giorni Boccadoro non fece altro che disegnare. Maria gli aveva procurato carta e penna ed egli sedeva nella sua camera e disegnava per ore ed ore e riempiva i grandi fogli, ora con figure scarabocchiate in fretta, ora con altre delicate e curate amorosamente, e così lasciava che il libro delle immagini, che gli riempivano l'animo, passasse da questo sulla carta. Disegnò molte volte il viso di Lena, con quel suo sorriso pieno di soddisfazione d'amore e di voluttà di sangue, che le aveva veduto dopo la morte del vagabondo, e anche come gli era apparso nell'ultima notte, già sul punto di disfarsi nell'informe, nel ritorno alla terra. Disegnò un contadinello, che un giorno aveva visto morto, disteso sulla soglia della camera dei suoi genitori, coi piccoli pugni serrati. Disegnò un carro pieno di cadaveri, tirato a stento da tre ronzini, e di fianco gli sgherri con le lunghe stanghe, con gli occhi biechi che sbirciavano dalle fessure delle maschere nere. Disegnò più volte Rebecca, la fanciulla ebrea dagli occhi neri e dalla figura slanciata, la sua bocca sottile e fiera, il suo volto pieno di dolore e d'indignazione, il suo corpo giovane e bello che pareva fatto per l'amore, la sua bocca altera e amara. Disegnò se stesso come viandante, amante, fuggiasco dalla morte mietitrice, ballerino nelle orge degli affamati di vita durante la peste. Chino ed assorto sopra la carta bianca, schizzò il viso fermo e orgoglioso della signorina Elisabetta, come l'aveva conosciuta un tempo, la smorfia della vecchia serva Margherita, il volto amato e temuto di maestro Nicola. Più di una volta anche abbozzò con tratti lievi e presaghi una grande figura femminile, la Madre della terra, seduta con le mani in grembo e un barlume di sorriso nel volto sotto gli occhi tristi. Questo fluire d'immagini, questo sentimento vibrante nella mano che disegnava, questo dominio che egli acquistava sulle proprie visioni gli faceva un bene infinito. In pochi giorni riempì dei suoi disegni tutti i fogli che Maria gli aveva procurati. Dall'ultimo tagliò via un pezzo e vi disegnò chiaro, a tratti sobri, il viso di Maria, coi suoi begli occhi e nella bocca un'espressione di rinuncia. Glielo donò. Disegnando aveva sciolto e liberato la sua anima da quel senso di pesantezza, d'ingorgo, di eccessiva pienezza che l'opprimeva. Fin tanto che disegnava, non sapeva dov'era, il suo mondo non consisteva d'altro che della tavola, della carta bianca e, la sera, della candela. Poi si destò, si rammentò delle avventure più recenti: vide dinanzi a sé, inesorabile, la ripresa della vita errabonda e cominciò a vagare per la città, col cuore stranamente diviso fra il senso di rivedere e quello di prender congedo. In uno di questi giri incontrò una donna, la cui vista diede a tutti i suoi sentimenti sconvolti un nuovo centro. Era una donna a cavallo, alta e biondissima, con occhi azzurri curiosi e un pò freddi, membra solide ed energiche e un viso arido, spirante gioia di godimento e di potenza, sicurezza di sé e curiosità dei sensi all'erta. Si ergeva sul cavallo bruno un pò altera e imperiosa abituata al comando, ma non chiusa e in atteggiamento difensivo: sotto i suoi occhi un pò freddi vibravano narici mobili, aperte a tutti i profumi del mondo, e la bocca grande e carnosa sembrava fatta per prendere e per dare. Nell'istante in cui Boccadoro la vide, si destò viva in lui la brama di misurarsi con quella donna superba. Conquistarla gli parve un nobile scopo e rompersi il collo per raggiungerla non gli sarebbe sembrata una brutta morte. Sentì subito che quella bionda leonessa era sua pari, ricca di sensi e d'anima, accessibile a tutte le tempeste, delicata e selvaggia, esperta di passioni per antica eredità di sangue. Passò a cavallo, egli la seguì con lo sguardo: fra la chioma bionda e ricciuta e il colletto di velluto azzurro verde spuntare una nuca salda, forte e fiera, ma avvolta della più tenera pelle infantile. Gli parve la donna più bella che avesse mai veduta. Egli voleva stringer quella nuca nelle sue mani e strappare a quegli occhi il loro freddo segreto azzurro. Non gli fu difficile informarsi chi fosse. Seppe subito che abitava nel castello ed era Agnese l'amante del governatore; non se ne stupì, avrebbe potuto essere l'imperatrice in persona. Si fermò presso la vasca di una fontana e cercò nell'acqua la sua immagine. S'accordava con quella della bionda signora come una sorella ma era troppo incolta. Immediatamente andò a cercare un barbiere che conosceva, e con belle parole lo indusse a tagliargli barba e capelli e a pettinarlo per bene. L'inseguimento durò due giorni. Agnese usciva dal castello e il biondo straniero stava al portone e la guardava negli occhi, ammirato. Agnese cavalcava intorno al bastione e di fra gli ontani sbucava lo straniero. Agnese era dall'orefice e all'uscir dall'officina incontrava lo straniero. Ella lo fulminava un istante coi suoi occhi imperiosi mentre un lieve tremito le palpitava intorno alle narici La mattina dopo, ritrovandolo pronto alla sua prima uscita a cavallo, gli lanciò la sua sfida con un sorriso. Egli vide anche il conte, il governatore era un uomo imponente e ardito, da prender sul serio, ma aveva già del grigio fra i capelli e delle preoccupazioni sul volto, Boccadoro si sentiva superiore. Quei due giorni lo resero felice; raggiava di giovinezza riconquistata. Era bello mostrarsi a quella donna e sfidarla a battaglia. Era bello perdere la propria libertà per quella bellezza. Bella ed eccitante era la sensazione di mettere la propria vita su quell'unico dado. La mattina del terzo giorno Agnese uscì a cavallo dal portone del castello, accompagnata da un palafreniere. I suoi occhi cercarono subito il corteggiatore, smaniosi di lotta e un pò inquieti. Bene, era là. Ella mandò via il servo con una commissione e proseguì sola a passo lento; uscì dalla porta inferiore che metteva sul ponte e lo attraversò. Allora soltanto guardò indietro. Vide che lo straniero la seguiva. Sulla strada che conduceva alla chiesa di San Vito, meta di pellegrinaggi, in quell'epoca quasi deserta, lo aspettò. Dovette aspettare una mezz'ora: lo straniero camminava adagio, non voleva arrivare trafe-lato. Giunse fresco e sorridente, in bocca un ramoscello con una coccola di rosa canina. Ella era scesa da cavallo e, legato l'animale, stava appoggiata all'edera che s'ar-rampicava sul muro, guardando alla volta dell'inseguitore. Egli si fermò davanti a lei, gli occhi negli occhi, e si tolse il berretto. -- Perché mi corri dietro?--domandò lei.--Che vuoi da me? -- Oh, -- fece Boccadoro, -- preferirei molto regalarti qualche cosa piuttosto che riceverla da te. Vorrei offrirti in dono me stesso, bella signora; fa di me ciò che vuoi. -- Bene, voglio vedere che cosa si può fare di te. Ma se hai pensato di poter cogliere qui fuori un fiorellino senza pericolo, ti sei ingannato. Io posso amare solo uomini che sanno al bisogno arrischiare la loro vita. ---Non hai che da comandarmi. Ella si tolse lentamente dal collo una catenella d'oro e gliela consegnò. --Come ti chiami? -- Boccadoro. -- Bene, Boccadoro; proverò di che oro è la tua bocca. Ascoltami bene: verso sera tu verrai al castello e mostrerai questa catena, dicendo che l'hai trovata. Ma non deve uscire dalle tue mani, desidero riaverla da te. Verrai così come sei, ti prendano pure per un mendicante. Se qualcuno della servitù ti apostroferà insolentemente, rimarrai tranquillo. Devi sapere che io ho solo due persone sicure nel castello: il palafreniere Max e la mia cameriera Berta. Devi raggiungere uno dei due e farti introdurre da me. Con tutti gli altri del castello, compreso il conte, sii cauto: sono nemici. Sei avvisato. Può costarti la vita. Gli stese la mano; egli la prese sorridendo, la baciò delicatamente, la sfiorò lieve con la guancia. Poi intascò la catena e se n'andò, scendendo lungo il fiume verso la città. I vigneti erano già spogli, dagli alberi volavano via le foglie ad una ad una. Boccadoro guardò giù la città, che gli apparve seducente e arnica scosse il capo sorridendo. Solo pochi giorni prima egli era così triste, triste perfino che anche il dolore e la sofferenza fossero caduchi Ed ecco che in realtà sofferenza e dolore erano già passati, staccati da lui come dal ramo le foglie d'oro. Gli pareva che l'amore non gli avesse mai sorriso così luminoso come da quella donna, la cui alta figura, la cui bionda e lieta floridezza gli ricordavano l'immagine di sua madre, così come l'aveva portata in cuore da ragazzo a Mariabronn. Solo due giorni prima egli non avrebbe creduto possibile che il mondo gli potesse sorridere ancora con tanta letizia, ch'egli potesse ancora sentirsi correre nel sangue con tanta pienezza e tanto impeto il flutto della vita, della gioia, della giovinezza. Che felicità essere ancora vivo! che in tutti quei mesi tremendi la morte l'avesse risparmiato! La sera si recò al castello. Nel cortile c'era molta animazione, si dissellavano cavalli, correvano messi: un piccolo corteo di sacerdoti e di dignitari della Chiesa veniva introdotto dai servi per la porta interna su per lo scalone. Boccadoro voleva seguirli, il portiere lo trattenne. Egli trasse fuori la catena d'oro e disse che aveva l'ordine di non consegnarla a nessuno fuorché alla signora o alla sua cameriera. Lo fecero accompagnare da un servo, e dovette aspettare a lungo nei corridoi. Finalmente comparve una donna svelta e graziosa, che passandogli accanto domandò piano: --Siete Boccadoro? --egli fece segno di seguirla: scomparve in silenzio dietro una porta, ricomparve dopo poco e gli accennò d'entrare. Egli si trovò in una piccola stanza, in cui c'era un forte sentore di pelliccia e di dolci profumi; dalle pareti pendevano vestiti e mantelli, su supporti di legno stavano cappelli femminili e in una cassetta aperta ogni sorta di calzature. Lì rimase ad attendere una buona mezz'ora, fiutando i vestiti profumati, accarezzando le pellicce e sorridendo curioso di tutte le belle cose che gli pendevano intorno. Finalmente la porta interna s'aprì e comparve non più la cameriera, ma Agnese stessa, in un vestito azzurro chiaro, guarnito al collo di pelliccia bianca. S'avanzò lenta verso di lui, passo passo, guardandolo seria coi suoi freddi occhi azzurri. --Hai dovuto aspettare,--disse piano. --Credo che ora siamo sicuri. C'è una delegazione di sacerdoti dal conte, egli pranza con loro e avrà certo ancora lunghe trattative: le sedute coi preti durano sempre molto. Quest'ora è per te e per me. Sii benvenuto, Boccadoro. Si chinò verso di lui, le belle labbra piene di desiderio s'avvicinarono alle sue; e i due si salutarono in silenzio nel primo bacio. Egli passò lentamente la sua mano intorno al collo di lei. Ella lo condusse nella sua camera da letto, alta e tutta illuminata da candele. Su di una tavola era preparata una cena; sedettero, ella gli offerse premurosamente pane, burro e un pò di carne e gli versò vin bianco in un bel bicchiere azzurrognolo. Mangiarono e bevettero entrambi dallo stesso calice, le loro mani giocarono insieme, come per provarsi. --Di dove sei volato giù,--domandò lei,--mio bell'uccello? Sei un guerriero, o un musico, o solo un povero vagabondo? --Sono tutto quello che vuoi tu,--rise egli sommesso, --sono tuo. Sono un musico, se vuoi, e tu sei il mio dolce liuto; e se metto le dita intorno al tuo collo e suono su di te, sentiamo cantare gli angeli. Vieni, cuor mio, non sono qui per mangiare i tuoi buoni pasticcini e per bere il tuo buon vino bianco, sono venuto solo per te. Le scostò delicatamente dal collo la pelliccia bianca e le vesti dal corpo, con mano adulatrice. Fuori cortigiani e preti potevano tenere tutti i loro consigli, e i servi camminar quatti quatti, e la falce sottile della luna scomparire completamente dietro gli alberi: gli amanti non ne sapevano nulla. Per loro fioriva il paradiso; attratti l'una verso l'altro e insieme abbracciati, si perdevano nella sua notte profumata, vedevano spuntare nella penombra i fiori bianchi dei suoi misteri, coglievano con mani tenere e grate i suoi frutti agognati. Il musico non aveva mai sonato un liuto come quello, il liuto non aveva mai vibrato sotto dita così forti ed esperte. --Boccadoro,--bisbigliava lei con ardore al suo orecchio, -- oh, che mago sei! Da te, mio dolce pesciolino d'oro, vorrei avere un figlio. E più ancora vorrei morire di te. Succhiami, caro, struggimi, uccidimi! In fondo alla gola di Boccadoro tremava un mormorio di felicità, mentre vedeva fondersi e affievolirsi la durezza di quegli occhi freddi. Nella profondità di quegli occhi passava come un fremito di tenerezza e di morte, che si spegneva come il brivido argenteo sulla pelle di un pesce morente, con un pallido baglior d'oro simile a quel magico balenar di scintille in fondo al fiume. Sembrava a Boccadoro che tutta la felicità possibile per un essere umano affluisse a lui in quel momento. Subito dopo, mentr'ella giaceva tremante con gli occhi chiusi, egli s'alzò piano e si vestì. Le disse all'orecchio con un sorriso: -- Mio bel tesoro, ti lascio. Non ho voglia di morire, non ho voglia di essere ucciso dal conte. Prima desidero far felice ancora una volta te e me, come lo siamo stati oggi. Ancora una volta te e me, come lo siamo stati oggi. Ancora una volta, ancora molte volte! Ella rimase distesa in silenzio, finché fu vestito. Allora egli la coperse piano e le baciò gli occhi. --Boccadoro, -- disse Agnese, --oh, perché devi andartene? Torna domani! Se c'è pericolo, ti faccio avvertire. Torna, torna domani! Tirò il cordone di un campanello. Sulla porta dello spogliatoio la cameriera ricevette Boccadoro e lo condusse fuori del castello. Egli le avrebbe dato volentieri una moneta d'oro; per un momento si vergognò della sua povertà. Verso mezzanotte. era in piazza del mercato del pesce e guardava su alla sua casa. Era tardi, nessuno più sarebbe stato sveglio, probabilmente avrebbe dovuto passare la notte fuori. Con sua meraviglia trovò la porta di casa aperta. Scivolò dentro e la chiuse dietro di sé. Per andare in camera sua doveva passare dalla cucina. Qui c'era luce. Accanto ad una minuscola lampada a olio Maria stava seduta davanti alla tavola. S'era appena appisolata, dopo aver atteso due, tre ore. Al suo entrare sussultò e balzò in piedi. --Oh, -- disse Boccadoro, -- Maria, sei ancora alzata ? --Sono alzata,--rispose lei.--Altrimenti avresti trovato chiusa la porta. --Mi rincresce, Maria, che tu abbia aspettato. S'è fatto così tardi! Non essere in collera con me! --Non sono mai in collera con te, Boccadoro. Sono solo un pò triste. --Non devi essere triste. E perché triste? --Ah, Boccadoro, vorrei tanto essere sana e bella e forte. Allora tu non dovresti andare di notte in case straniere ad amare altre donne. Allora rimarresti anche qualche volta vicino a me e mi vorresti un pò di bene. Nella sua voce dolce non sonava alcuna speranza, alcuna animosità, solo tristezza. Egli le stava accanto imbarazzato, sentiva pietà, non sapeva dir nulla. Con mano cauta le prese la testa e le carezzò i capelli; ella rimase immobile, rabbrividì sotto la sua mano, pianse un poco, poi si drizzò e disse timidamente: --Va a letto ora, Boccadoro. Ho detto delle sciocchezze, ero così assonnata! Buona notte. INDEX CAPITOLO XVI Boccadoro passò una giornata di felice impazienza sui colli. Se avesse avuto un cavallo, sarebbe andato al convento a trovare la bella Madonna del suo maestro: sentiva un gran desiderio di vederla ancora, e poi gli pareva d'essersi sognato, quella notte, di maestro Nicola. Ebbene, un'altra volta! Quella felicità d'amore con Agnese sarebbe forse durata poco, forse sarebbe finita male... ma in quel momento era in pieno sboccio, egli non doveva lasciarsene sfuggir nulla. Quel giorno non voleva veder nessuno, non voleva esser distratto. Avrebbe passato la mite giornata d'autunno fuori, sotto gli alberi e sotto le nubi. Disse a Maria che aveva intenzione di fare una passeggiata in campagna e sarebbe probabilmente ritornato tardi, la pregò di dargli un bel pezzo di pane e di non aspettarlo la sera. Ella non rispose nulla, gli riempì la bisaccia di pane e di mele, gli passò la spazzola sul vestito logoro, di cui già il primo giorno aveva rattoppato i buchi, e lo lasciò partire. Passò dall'altra parte del fiume e prese a salire su per le ripide gradinate a traverso i vigneti deserti, poi si per-dette nel bosco e non s'arrestò fin ch'ebbe raggiunto l'ultima cresta. Là il sole splendeva tiepido in mezzo ai tronchi degli alberi brulli; ai suoi passi i merli fuggivano nella macchia, s'accovacciavano timidi, guardando dal fitto dei rami con occhi neri lucenti, e in basso scorreva il fiume con un ampio arco azzurro e la città appariva piccola come un giocattolo; di lassù non si sentiva più nessun suono, fuorché le campane nelle ore di preghiera. C'erano lassù piccole valli e tumuli ricoperti d'erba, avanzi di antichi templi pagani, forse fortificazioni, forse tombe. Egli sedette su uno di questi tumuli; la crepitante erba d'autunno offriva un sedile asciutto e l'occhio dominava tutta l'ampia valle e di là dal fiume le colline e le montagne, catene dietro catene, fin dove cielo e monti s'incontravano in un gioco di luci azzurrognole e non si distinguevano più. Tutto questo vasto paese, più oltre ancora di dove l'occhio potesse giungere, egli l'aveva percorso a piedi; tutte queste regioni, che ormai si perdevano nella lontananza e nel ricordo, erano state un giorno vicine e presenti. In quei boschi egli aveva dormito cento volte, mangiato mirtilli, patito la fame e il freddo; su quelle creste di montagne e strisce di landa aveva camminato, lieto e triste, fresco di forze e stanco. In qualche punto di quella lontananza, oltre l'orizzonte, giacevano le ossa bruciate della buona Lena, altrove continuava forse la sua marcia vagabonda il compagno Roberto, se non l'aveva colto la peste; in qualche luogo laggiù giaceva l'ucciso Vittore, e in qualche altro luogo, lontano e incantato, il convento della sua adolescenza; da una parte sorgeva il castello del cavaliere dalle belle figliole, dall'altra correva misera e inseguita la povera Rebecca, o era perita. Tutti questi luoghi dispersi, lande e boschi, città e villaggi, castelli e conventi, tutte queste persone, vive o morte che fossero, esistevano dentro di lui, unite fra loro, nel suo ricordo, nel suo amore, nel suo pentimento, nella sua nostalgia. E se il giorno dopo la morte avesse colto anche lui, tutto questo si sarebbe di nuovo disperso, dileguato, tutto il suo libro di figure, così pieno di donne e d'amore, di mattini estivi e di notti invernali! Oh, doveva affrettarsi ancora a fare qualcosa, a creare e a lasciare dietro di sé qualcosa che gli sopravvivesse. Di tutta la sua vita, delle sue peregrinazioni, di tutti gli anni trascorsi dal giorno in cui s'era lanciato nel mondo, poco frutto era rimasto. Eran rimaste quelle due o tre figure, da lui foggiate una volta nell'officina, specialmente l'apostolo Giovanni, e poi quel libro d'immagini, quel mondo irreale che viveva nella sua mente, il mondo bello e doloroso dei ricordi. Sarebbe riuscito a salvare qualcosa di questo mondo intimo e a tradurlo nell'esterno ? O avrebbe continuato sempre ad andare così: sempre nuove città, nuovi paesi, nuove donne, nuove vicende, nuove immagini, L'una sopra l'altra, di cui non portava con sé che questa inquieta, traboccante pienezza del cuore, tanto bella quanto tormentosa? Era una cosa terribile essere burlati così dalla vita, c'era da riderne e da piangerne! O si viveva lasciando giocare i propri sensi, succhiando perdutamente al petto dell'antica Madre Eva: e allora si gustavano bensì piaceri sublimi, ma nulla salvava dalla caducità; si era allora come un fungo nel bosco, oggi rigoglioso e di colori vivaci, domani marcito. Oppure si cercava di difendersi, ci si chiudeva nell'officina e ci si sforzava di costruire un monumento alla vita fugace: e allora bisognava rinunciare alla vita, allora non si era più che strumenti, allora si serviva bensì l'immortalità, ma intanto ci s'inaridiva e si perdeva la libertà, la pienezza, la gioia della vita. Così era avvenuto a maestro Nicola. Ah, eppure tutta questa vita aveva un senso soltanto se l'uno e l'altro scopo si potevano raggiungere, se non c'era questa scissione provocata da un arido aut aut! Creare, ma non a prezzo della vita! Vivere, ma senza rinunciare alla nobiltà della creazione! Non era dunque possibile? Forse c'erano uomini a cui era possibile. Forse c'erano mariti e padri di famiglia, che serbando la fedeltà non perdevano il piacere dei sensi? Forse c'erano sedentari, a cui la mancanza di libertà e di pericolo non faceva ina-ridire il cuore? Forse. Egli non ne aveva visti ancora. Pareva che tutta l'esistenza fosse basata sulla duplicità, sul contrasto: donna o uomo, vagabondo o borghesuccio, uomo d'intelletto o di sentimento; aspirare ed espirare insieme, essere uomo e donna, conciliare libertà ed ordine, istinto e spirito, non era possibile; bisognava sempre pagare l'una cosa con la perdita dell'altra e sempre l'una era altrettanto importante e desiderabile quanto l'altra! Le donne forse avevano in questo la via più facile. In loro la natura aveva fatto in modo che il piacere portasse da sé il suo frutto e che dalla felicità dell'amore nascesse il figlio. Nell'uomo in luogo di questa semplice fecondità c'era l'eterna aspirazione. Il Dio che aveva creato tutto questo era dunque cattivo od ostile, rideva forse con gioia maligna della sua propria creazione? No, non poteva essere cattivo, se aveva creato i caprioli e i cervi, i pesci e gli uccelli, il bosco, i fiori, le stagioni. Ma c'era una scissione nella sua creazione, sia che questa fosse mal riuscita e imperfetta, sia che Dio lasciando nell'esistenza umana tale lacuna e tale aspirazione insoddisfatta avesse intenzioni sue particolari, sia che ciò fosse il seme del nemico, il peccato originale. Ma perché quest'aspirazione insoddisfatta doveva esser peccato? Non nasceva da essa tutto ciò che di bello e di santo l'uomo aveva creato e reso a Dio come un'offerta di gratitudine? Oppresso da questi pensieri, Boccadoro volse lo sguardo sulla città, cercò il mercato grande e quello del pesce, i ponti, le chiese, il municipio. Ed ecco anche il castello il superbo vescovado, in cui allora governava Agnese, la sua bella amante regale, dall'aspetto tanto orgoglioso eppure così abbandonata e immemore di sé nell'amore. Pensò a lei con gioia, con gioia e con riconoscenza ricordò la notte trascorsa. Per vivere la felicità di quella notte per saper rendere così felice quella donna meravigliosa era stata necessaria tutta la sua vita, tutto l'ammaestramento delle donne, tutto il suo vagabondaggio, la sua miseria, le notti passate a errar nella neve, L'amicizia e la dimestichezza con gli animali, i fiori, gli alberi, le acque, i pesci le farfalle. Ci volevano i sensi affinati nella voluttà e nei pericolo, la vita senza patria, tutto il mondo d'immagini accumulate in tanti anni nel suo spirito. Fin tanto che la sua vita era un giardino in cui sbocciavano fiori magici come Agnese, egli non aveva il diritto di lamentarsi. Passò tutta la giornata sulle alture carezzate dall'autunno, camminando, sostando, mangiando pane, pensando ad Agnese e alla sera. Al calar della notte era di nuovo in città e s'avvicinava al castello. L'aria s'era fatta fresca e le case guardavano con gli occhi rossi e quieti delle loro finestre; gli venne incontro una piccola schiera di ragazzi che cantavano, portando in cima a bacchette delle rape incavate, in cui avevano intagliato delle facce e infisso candele accese. La piccola mascherata recava un profumo d'inverno, e, sorridendo, Boccadoro la seguì con lo sguardo. S'aggirò a lungo davanti al castello. La delegazione dei preti era sempre là, ora a una finestra ora all'altra si vedeva comparire un sacerdote. Finalmente egli riuscì a insinuarsi nell'interno e a trovare Berta, la cameriera. Fu di nuovo nascosto nello spogliatoio, fin che comparve Agnese e lo introdusse affettuosamente in camera sua. Il bel volto era affettuoso, ma non lieto. Agnese era triste, preoccupata, inquieta. Boccadoro dovette darsi molta pena per rasserenarla un poco. Lentamente, sotto i suoi baci e le sue parole d'amore, ella acquistò un pò di fiducia. --Tu sai essere tanto caro, -- disse riconoscente. -Hai note così profonde nella tua gola, uccello mio, quando sei affettuoso e tubi e chiacchieri. Ti voglio bene, Boccadoro. Ma se fossimo lontani di qui! Qui non mi piace più; del resto fra poco sarà finita, il conte è già richiamato, presto ritornerà quello stupido vescovo. Il conte oggi è irritato i preti l'hanno infastidito. Ah, Boccadoro, che tu non gli capiti sott'occhio! Non vivresti un'ora di più. Ho tanta paura per te. Nella memoria di Boccadoro risalivano suoni quasi estinti... non aveva egli già udito una volta, tanto tempo addietro, questa canzone? Così gli aveva parlato Lidia un giorno, con lo stesso amore ansioso, con la stessa tenerezza triste. Così era venuta di notte in camera sua, piena d'amore e d'inquietudine, preoccupata, agitata dalle immagini spaventose della paura. Egli ascoltava volentieri la canzone della tenerezza ansiosa. Che sarebbe l'amore senza la necessità di nascondersi? Che sarebbe l'amore senza pericolo? Attirò a sé Agnese con dolcezza, L'accarezzò, le tenne la mano, le mormorò all'orecchio sommesse lusinghe, le ba-ciò le sopracciglia. Era commosso e rapito di vederla così inquieta e preoccupata per lui. Ella riceveva le sue carezze riconoscente, quasi umile, si stringeva a lui piena d'amore, ma non si rasserenava. E a un tratto sussultò bruscamente: si udì chiudere una porta vicina e rapidi passi s'avvicinarono alla camera. --Per amor di Dio, è lui, --gridò Agnese disperata, --è il conte. Presto, per lo spogliatoio puoi fuggire. Presto! Non tradirmi! Già l'aveva spinto nello stanzino attiguo, dov'egli si trovò solo; tastò esitante nel buio. Udì dall'altra parte il conte, che parlava forte con Agnese. Cercò a tentoni fra gli abiti la porta d'uscita; avanzava un piede dopo l'altro senza far rumore. Eccolo alla porta che metteva nel corridoio; fece per aprirla piano. Solo allora, trovandola chiusa dall'esterno, anch'egli si spaventò e il suo cuore cominciò a battere con dolorosa violenza. Poteva essere che, per un caso disgraziato, qualcuno avesse chiuso quella porta dopo la sua venuta. Ma non ci credeva. Era caduto in una trappola, era perduto; qualcuno doveva averlo visto quando s'era insinuato là dentro. Gli sarebbe costato la testa. Mentre stava tremante nel buio, gli vennero in mente le parole di congedo d'Agnese: "Non tradirmi!". No, non l'avrebbe tradita. Il suo cuore martellava, ma la decisione gli diede forza; strinse i denti in atto di sfida. Tutto questo era avvenuto in pochi minuti. La porta della camera d'Agnese s'aperse ed entrò il conte, con un candeliere nella sinistra e la spada sguainata nella destra. Nello stesso istante Boccadoro con rapida mossa afferrò alcuni dei vestiti e dei mantelli che pendevano intorno a lui e li prese sul braccio. Dovevano crederlo un ladro, forse era una scappatoia. Il conte l'aveva visto subito. S'avvicinò lentamente. --Chi siamo? Che facciamo qui? Rispondere, o colpisco. --Perdonate, -- mormorò Boccadoro, -- sono un povero uomo e voi siete così ricchi! Restituisco tutto quello che ho preso, signore, vedete! E depose i mantelli per terra. --Ah, hai rubato dunque! Non sei stato furbo ad arrischiar la vita per un mantello vecchio. Sei un cittadino? --No, signore, sono un vagabondo. Sono un pover'uomo, sarete indulgente... --Smettila! Vorrei un pò sapere se eri così sfacciato da voler importunare la signora. Ma poiché sarai impiccato lo stesso, non abbiamo bisogno d'indagarlo. Basta il furto. Bussò con forza contro la porta chiusa, gridando: -Siete costì! Aprite! La porta fu aperta dall'esterno: tre sgherri erano pronti con le lame sguainate. --Legatelo bene, -- gridò il conte con voce stridente di scherno e di arroganza.--un vagabondo che ha rubato. Mettetelo al sicuro e domattina all'alba impiccate il furfante alla forca. A Boccadoro furono legate le mani, senza ch'egli si difendesse. Così fu condotto via per il lungo corridoio, giù per le scale, attraverso il cortile interno; un servo precedeva con una torcia a vento. Davanti alla porta rotonda di una cantina, guarnita di ferro, gli sgherri si fermarono. Discussero fra loro e inveirono: mancava la chiave della porta. Una guardia prese la torcia, il servo corse indietro in cerca della chiave. Così rimasero, i tre uomini armati e quello legato, in attesa davanti alla porta. Lo sgherro che teneva il lume l'accostò curioso al volto del prigioniero. In quel momento passavano due sacerdoti dei tanti che erano ospiti al castello; venivano dalla cappella e si fermarono davanti al gruppoentrambi osservarono attentamente quella scena notturna: le tre guardie, L'uomo legato, là in piedi, in attesa. Boccadoro non guardava né i sacerdoti, né le sue guardie. Non poteva veder nulla, fuorché la luce tremolante che gli tenevano proprio davanti al viso e che lo abbagliava. E dietro la luce, in una penombra piena d'orrore, vedeva qualcosa ancora, qualcosa d'informe, di grande, di spettrale: L'abisso, la fine, la morte. Stava con gli occhi fissi, senza vedere e udir nulla. Uno dei sacerdoti bisbigliò con premura qualche parola alle guardie. Quando udì che l'uomo doveva morire ed era un ladro, domandò se aveva avuto un confessore. No, fu risposto, era stato colto in flagrante. --Allora,--disse il sacerdote,--domattina avanti la prima messa verrò io da lui coi Santi Sacramenti e ascolterò la confessione. Voi mi siete garanti che non sarà condotto via prima. Col signor conte parlerò io oggi stesso. Quest'uomo sarà un ladro; ma ha diritto come ogni cristiano al confessore e ai sacramenti. Le guardie non osarono far obiezioni. Conoscevano il sacerdote: era uno dei dignitari della delegazione, lo avevano visto più d'una volta alla tavola del conte. E poi, perché non concedere la confessione al povero vagabondo? I sacerdoti s'allontanarono. Boccadoro era sempre immobile con gli occhi fissi. Finalmente arrivò il servo con le chiavi e aprì. Il prigioniero fu introdotto in una cantina a volta e scese i pochi gradini inciampando e vacillando. C'erano intorno un paio di seggiole a tre gambe senza spalliera e una tavola; era il locale che precedeva la cantina dove tenevano il vino. Accostarono alla tavola un seggiolino e dissero a Boccadoro di sedere. --Domani all'alba verrà un prete, potrai ancora confessarti, -gli disse una delle guardie. Poi uscirono e chiusero con cura la porta pesante. -- Lasciami qui il lume, camerata, -- pregò Boccadoro. --No, fratellino, potresti combinare qualche malanno. Andrà anche così Sii bravo e rassegnati. E poi quanto dura acceso un lume come questo? Fra un'ora sarebbe spento. Buona notte. Eccolo solo nel buio, seduto sul seggiolino con la testa appoggiata sulla tavola. Era brutto sedere così: i legacci ai polsi gli facevano male, tuttavia di queste sensazioni si rese conto solo più tardi. Da principio rimase seduto là con la testa sulla tavola come su di un ceppo; sentiva ii bisogno di fare col corpo e con i sensi quello ch'era imposto allora al suo cuore: arrendersi all'inevitabile, rassegnarsi a dover morire. Rimase così un'eternità, angosciosamente piegato, tentando di accettare il destino incombente, di respirarlo di comprenderlo, di saziarsene. Era sera, cominciava la notte e la fine di quella notte avrebbe portato anche la sua fine. Questo doveva cercar di comprendere. Domani non vivrà più. Sara la Impiccato, sarà una cosa su cui si poseranno gli uccelli a beccare, sarà quello che era maestro Nicola, quello che era Lena nella capanna arsa, quello che erano tutti coloro ch'egli aveva veduti distesi nelle case deva-state dalla morte e sui convogli zeppi di cadaveri. Non era facile comprendere questo e capacitarsene. Era addirittura impossibile. C'erano troppe cose, da cui non si era staccato ancora, da cui non aveva ancora preso congedo. Le ore di quella notte gli erano date appunto per questo. Doveva prender congedo dalla bella Agnese, non avrebbe mai più veduto la sua figura alta, la sua chioma luminosa, i suoi freddi occhi azzurri, mai più l'affievolirsi e il tremare dell'orgoglio in quegli occhi, mai più la dolce peluria d'oro sulla sua pelle profumata. Addio occhi azzurri, addio bocca umida e fremente! E aveva sperato di baciarla ancora tante volte! Oh, quel giorno stesso, sui colli, al sole del tardo autunno, come aveva pensato a lei, com'era stato suo, come l'aveva desiderata! Ma anche dai colli doveva prender congedo, dal sole, dal cielo azzurro cosparso di nuvole bianche, dagli alberi e dai boschi, dalla vita errabonda, dalle ore del giorno e dalle stagioni dell'anno. In quel momento forse Maria era ancora alzata, la povera Maria dai buoni occhi affettuosi e dall'andatura zoppicante, e aspettava seduta e s'addormentava nella sua cucina e si risvegliava e nessun Boccadoro tornava più a casa. Ah, la carta e il lapis, e la speranza in tutte quelle figure che voleva creare ancora! Finito, finito! E la speranza di riveder Narciso, il caro apostolo Giovanni, anche a questa doveva rinunciare! E dalle sue proprie mani doveva prender congedo, dai suoi propri occhi, dalla fame e dalla sete, da cibo e bevanda, dall'amore, dal suono del suo liuto, dal sonno e dalla veglia, da tutto. L'indomani un uccello volava per l'aria e Boccadoro non lo vedeva più, una fanciulla cantava alla finestra ed egli non l'udiva più, il fiume continuava a scorrere e i pesci scuri a guizzar dentro, muti, soffiava il vento spazzando le foglie gialle sul terreno, brillava il sole, il cielo stellato, i giovani andavano a ballare, un primo spruzzo di neve imbiancava le montagne lontane... e tutto andava avanti, tutti gli alberi proietta-vano la loro ombra, tutti gli uomini guardavano con occhi lieti o tristi, e i cani abbaiavano, e le mucche muggivano nelle stalle dei villaggi; e tutto senza di lui, nulla gli apparteneva più, egli era strappato da tutto. Fiutò il profumo mattutino della landa, gustò il dolce vino giovane e le giovani noci dure; un ricordo, un ri-flesso luminoso di tutto il mondo variopinto passò come un lampo nel suo cuore oppresso, tutta la bella vita tumultuosa brillò ancora una volta attraverso i suoi sensi in una luce di tramonto e d'addio, egli si contrasse nel prorompere della sofferenza e sentì sgorgare a una a una le lacrime dagli occhi. S'abbandonò singhiozzando a quell'ondata violenta di pianto, affranto si diede tutto in balia di quel dolore infinito. Oh, valli e monti boscosi, ruscelli nella verde ombra degli ontani, fanciulle, sere di luna sui ponti, o bel mondo radioso d'immagini, come ti posso asciare! Giaceva piangente sulla tavola come un fanciullo sconsolato. Dall'angoscia del suo cuore salì un sospiro, un semplice appello lamentoso: "O mamma, o mamma!". E mentre pronunciava il magico nome, gli rispondeva un'immagine dalla profondità dei suoi ricordi, L'immagine della madre. Non era la figura materna dei suoi pensieri e dei suoi sogni d'artista, era l'immagine della mamma sua, bella e viva come non l'aveva più veduta dai tempi del convento. A lei rivolse il suo lamento, a lei il suo pianto per quel dolore insopportabile di dover morire; a lei s'abbandonò, a lei, nelle sue mani materne, rese il bosco, il sole gli occhi, le mani, tutto il suo essere e la sua vita. Fra le lacrime s'addormentò; la prostrazione e il sonno lo accolsero maternamente nelle loro braccia. Dormì un'ora o due e fu sottratto all'angoscia. Svegliatosi, sentì dolori violenti. I polsi legati gli bruciavano, fitte dolorose gli attraversavano la schiena e la nuca. Si drizzò a fatica, ritornò in sé, riconobbe la sua posizione. Intorno a lui era buio fitto, non sapeva quanto tempo avesse dormito, non sapeva quante ore gli rimanessero ancora da vivere. Forse fra un minuto sarebbero venuti a portarlo via, per morire. Allora si rammentò che gli avevano promesso un sacerdote. Egli non credeva che i Sacramenti di costui gli potessero giovar molto. Non sapeva se anche la più completa assoluzione e remissione dei peccati avrebbe potuto condurlo in paradiso. Non sapeva se ci fosse un paradiso e un Padre celeste e un giudizio divio e un'eternità. Di queste cose aveva perduto da un pezzo ogni certezza. Ma ci fosse o non ci fosse un'eternità, egli non la desiderava, egli non voleva altro che questa vita incerta, fugace, questo respiro, questo sentirsi bene nella propria pelle, non voleva altro che vivere, S'alzò furente, barcollò tentoni nell'oscurità fino al muro, s'appoggiò con tutta la persona alla parete e cominciò a riflettere. Ci doveva pur essere una salvezza! Forse il sacerdote era la salvezza, forse poteva convincersi della sua innocenza, metter una buona parola per lui, o aiutarlo a ottenere una proroga o a fuggire? Si sprofondò sempre più in questi pensieri. E se questo non riusciva, non voleva ancora rinunciare, la partita non poteva ancora essere perduta. Avrebbe dunque tentato innanzi tutto di cattivarsi il sacerdote, avrebbe fatto ogni sforzo per ammaliarlo, per riscaldarlo, per convincerlo, per lusingarlo. Il sacerdote era l'unica carta buona nella sua partita, tutte le altre possibilità erano sogni. Ad ogni modo ci potevan sempre essere dei casi, delle combinazioni; al boia poteva venire una colica, la forca poteva rompersi, si poteva presentare una possibilità di fuga, prima inconcepibile. In tutti i casi Boccadoro si rifiutava di morire; aveva tentato invano di adattarsi a questa sorte e di accettarla, non c'era riuscito. Si sarebbe difeso, avrebbe lottato fino all'ultimo, avrebbe dato lo sgambetto alla guardia, si sarebbe lanciato a corsa gettando a terra il boia avrebbe difeso la sua vita fino all'ultimo istante con ogni goccia del suo sangue... Oh, se avesse potuto indurre il prete a sciogliergli le mani! Sarebbe stato un gran passo innanzi. Intanto senza badare alle sofferenze, cercava di lavorare coi denti intorno alle funi. Con uno sforzo furioso riuscì dopo un tempo terribilmente lungo a ottenere che gli sembrassero un poco allentate. Stava ansante nella notte della sua prigione, le braccia e le mani gonfie gli facevano male. Quando riprese fiato, strisciò tastando lungo il muro, esplorò passo passo la parete umida della cantina in cerca di qualche canto sporgente. Allora gli vennero in mente i gradini, nei quali aveva inciampato entrando in quella prigione. Cercò e li trovò. Inginocchia-tosi, tentò di logorare la corda fregandola contro uno degli spigoli di pietra dei gradini. Fu un'impresa difficile, invece della corda si fregavano sulla pietra le nocche delle sue mani, e gli bruciavano come fuoco; sentiva scorrere il sangue. Ma non cedette. Quando fra la porta e la soglia già si scorgeva un filo sottilissimo di grigia luce mattutina, aveva raggiunto il suo scopo. La corda si era logorata, egli riuscì a scioglierla, ebbe le mani libere! Ma poi non poteva quasi muovere un dito, le mani erano gonfia-te e paralizzate e le braccia, fino alle spalle, rigide e con-tratte in uno spasimo. Dovette costringerle all'esercizio, al movimento, perché il sangue tornasse a scorrervi. Ormai aveva un piano, che gli sembrava buono. Se non avesse potuto ottenere che il prete l'aiutasse, allora, pur che lo lasciassero un attimo solo con lui, L'avrebbe ucciso. Con una seggiola sarebbe riuscito. Strozzarlo non poteva, non aveva forza sufficiente nelle mani e nelle braccia. Dunque ucciderlo, indossare in fretta la Sua veste sacerdotale e con essa fuggire! Prima che gli altri trovassero il cadavere, egli doveva esser fuori dal castello e poi correre, correre! Maria l'avrebbe lasciato entrare di nascosto. Doveva tentare. Era possibile. Boccadoro non aveva mai osservato, atteso, agognato, eppur temuto tanto l'alba come in quell'ora. Tremante di tensione e di risolutezza, guardava con l'occhio di cacciatore l'esigua fessura di luce sotto la porta rischiararsi a poco a poco. Ritornò presso la tavola e si esercitò a star accoccolato sullo sgabello con le mani fra le ginocchia, in modo che non si potesse scorgere subito la mancanza delle funi. Da quando le sue mani erano libere, non credeva più alla morte. Era deciso a spuntarla, dovesse andare a rotoli anche tutto il mondo. Era deciso a vivere, ad ogni costo. Le sue narici tremavano nella brama di libertà e di vita. E chi sa, forse gli sarebbero venuti in aiuto dal di fuori? Agnese era una donna e il suo potere non arrivava lontano, forse neppure il suo coraggio; era possibile ch'ella lo abbandonasse al suo destino. Ma lo amava, forse poteva anche fare qualcosa. Forse fuori strisciava furtiva la cameriera Berta... e non c'era anche un palafreniere, di cui ella credeva di potersi fidare? E se nessuno compariva, se non gli davano nessun segnale, ebbene, allora avrebbe eseguito il suo piano. Se falliva, avrebbe ucciso con la sedia i guardiani, due o tre o quanti fossero. Di un vantaggio era sicuro: i suoi occhi si erano abituati all'oscurità, ormai nella penombra indovinava e riconosceva forme e misure, mentre gli altri da principio sarebbero stati completamente ciechi. Accoccolato davanti alla tavola, febbricitante, pensava e ripensava ciò che doveva dire al sacerdote per guadagnarsi il suo aiuto, perché bisognava cominciare da questo. Intanto osservava con avidità il crescer moderato della luce nella fessura. Il momento, che poche ore innanzi aveva tanto temuto, era diventato meta dei suoi desideri più ardenti; non poteva quasi più aspettare, la terribile tensione si faceva a lungo andare insopportabile. Poi le sue forze, la sua attenzione, la sua risolutezza e vigilanza sarebbero a poco a poco scemate. Il guardiano col sacerdote doveva venir presto, finch'era ancora viva questa esaltazione, questa decisa volontà di salvezza. Finalmente il mondo fuori si destò, finalmente il nemico s'avvicinò. Risonarono passi sul selciato del cortile, la chiave fu introdotta e girata nella toppa, ciascuno di questi suoni dopo il lungo silenzio di morte echeggiò come un tuono. La porta pesante s'aperse un poco, lentamente, stridendo sui cardini. Entrò un sacerdote senz'accompagnamento, senza guardie. Entrò solo, reggendo un doppiere con due candele. Tutto succedeva diversamente da come il prigioniero si era immaginato. E che strana commozione! Il sacerdote, dietro il quale mani invisibili avevano richiuso la porta, indossava l'abito del convento di Mariabronn, L'abito ben noto e familiare, quale avevano indossato un giorno l'abate Daniele, padre Anselmo e padre Martino! Quella vista gli diede uno strano colpo al cuore, dovette distogliere gli occhi. L'apparizione di quell'abito monacale pareva una buona promessa, un buon segno. Ma forse non c'era ugualmente altra via d'uscita che l'assassinio, Strinse i denti. Gli sarebbe stato molto difficile uccider quel frate. INDEX CAPITOLO XVII --Sia lodato Gesù Cristo, -- disse il padre deponen-do il candeliere sulla tavola. Boccadoro rispose a mezza voce, con gli occhi fissi per terra. Il sacerdote taceva. Aspettava e taceva, fino a che Boccadoro, inquieto, alzò gli occhi indagatori sull'uomo che gli stava dinanzi. Quest'uomo, s'accorse allora con sua confusione, non portava solo l'abito dei padri di Mariabronn, ma anche le insegne della carica di abate. Guardò l'abate in faccia. Era un viso scarno, dal taglio netto e marcato, dalle labbra sottilissime. Era un viso ch'egli conosceva. Pareva plasmato dallo spirito e dalla volontà: Boccadoro lo guardava ammaliato. Con mano incerta afferrò il candeliere e lo avvicinò a quel vi-so straniero, per potervi scorgere gli occhi. Li vide, e il candeliere gli tremò nella mano, mentre lo rimetteva sulla tavola. --Narciso! -- mormorò in tono quasi impercettibile. Tutto cominciò a turbinare intorno a lui. --Sì, Boccadoro, una volta ero Narciso, ma già da molto tempo ho deposto quel nome, forse te ne sei dimenticato. Dal giorno della mia vestizione mi chiamo Giovanni. Boccadoro era scosso fino in fondo al cuore. Tutto il mondo s'era mutato a un tratto, e il crollo improvviso della sua tensione sovrumana minacciava di soffocarlo; tremava e un senso di vertigine gli dava l'impressione che la sua testa fosse una bolla vuota, il suo stomaco si contraeva. Dietro gli occhi sentiva un bruciore, come un impeto di pianto. Singhiozzare e cadere in deliquio fra le lacrime: tutto in lui tendeva in quel momento a un tal abbandono. Ma dalla profondità dei ricordi dell'adolescenza, evocati dalla vista di Narciso, salì un monito: una volta, da ragazzo, egli aveva pianto e s'era lasciato andare davanti a quel volto bello e severo, a quegli occhi scuri e onniscienti. Ciò non doveva più ripetersi. Come un fantasma, nel momento più singolare della sua vita, quel Narciso gli ricompariva dinanzi, probabilmente per salvargli la vita,,. ed egli doveva un'altra volta scoppiare in singhiozzi o cadere in deliquio dinanzi a lui? No, no, no. Si trattenne. Frenò il suo cuore, fece violenza al suo stomaco, scacciò la vertigine dalla testa. Non doveva mostrare in quel momento la sua debolezza. Con voce artificiosamente dominata riuscì a dire: -Devi permettermi di chiamarti ancora Narciso. --Chiamami così, caro. E non vuoi darmi la mano? Boccadoro fece un nuovo sforzo su se stesso. Con un tono un pò fanciullescamente arrogante e lievemente beffardo, a cui soleva ricorrere qualche volta negli anni di scuola, mise fuori la sua risposta. -- Scusa, Narciso, -- disse freddo, ostentando una certa indifferenza a ogni cosa. --Vedo che sei diventato abate. Io invece sono sempre un vagabondo. E poi il nostro colloquio, per quanto gradito mi sia, non potrà durare a lungo. Perché vedi, Narciso, io sono condannato alla forca e fra un'ora o anche prima sarò probabilmente impiccato. Te lo dico solo per chiarirti la situazione. Il volto di Narciso rimase impassibile. Quel tantino di millanteria fanciullesca nel contegno dell'amico lo divertiva moltissimo e insieme lo commoveva. Ma comprendeva e approvava in cuor suo la fierezza che si celava là sotto e che impediva a Boccadoro di cadergli sul petto piangendo, Veramente anch'egli s'era immaginato diverso il loro incontro, ma era ben disposto ad assecondare quella piccola commedia. Nulla avrebbe giovato di più a Boccadoro pc-r riconquistare subito il cuore dell'amico. -- Sicuro, -- disse fingendosi anch'egli indifferente. -Del resto quanto alla forca ti posso tranquillare. Sei graziato Ho l'incarico di comunicartelo e di condurti con me. Perché qui in città non puoi rimanere. Avremo dunque tempo sufficiente per raccontarci tante cose. Ma dì un pò: vuoi darmi la mano ora? Si diedero la mano e se la tennero stretta a lungo, profondamente commossi; ma nelle loro parole il riserbo e la commedia durarono ancora per un poco. --Bene, Narciso, lasceremo dunque questo poco onorevole asilo, e io mi unirò al tuo seguito. Ritorni a Mariabronn? Sì? Benissimo. E come? A cavallo? Ottima-mente. Bisognerà dunque trovare un cavallo anche per me. --Lo troveremo, e partiremo fra due ore. Oh, ma che mani hai! Per amor di Dio, tutte scorticate, gonfie e sanguinanti! O Boccadoro, come ti hanno trattato! --Lascia andare, Narciso. Io stesso me le sono ridotte così. Ero legato e dovevo liberarmi. Ti dico io che non fu facile. Tu del resto sei stato molto coraggioso ad entrare da me così senza scorta. --Perché coraggioso? Non c'era nessun pericolo. --Oh, c'era solo il piccolo pericolo di essere ucciso da me. Cioè, il mio progetto era questo. M'era stato detto che sarebbe venuto un sacerdote. Io l'avrei ammazzato e sarei fuggito nelle sue vesti. Un bel piano. --Non volevi morire dunque? Volevi difenderti? --Certo volevo. Che proprio tu saresti stato il sacerdote, questo non potevo naturalmente immaginarlo. --Ad ogni modo, -- disse Narciso con qualche esita-zione,--era veramente un bruttissimo piano. Avresti potuto davvero uccidere un sacerdote, che fosse venuto a te come confessore? -- Te no, Narciso, no certo, e forse neppure uno dei tuoi padri, se avesse portato la tonaca di Mariabronn. Ma un altro sacerdote qualsiasi, oh sì, puoi esserne sicuro. A un tratto la sua voce divenne triste e cupa. --Non sarebbe stato il primo uomo, che avrei ucciso. Tacquero. Provavano entrambi un senso di pena. --Bene, di queste cose, -- disse Narciso con voce fredda, -parleremo più tardi. Potrai farmi un giorno la tua confessione, se vorrai. Oppure raccontarmi così semplicemente della tua vita. Anch'io ho diverse cose da raccontarti. E me ne rallegro. Vogliamo andare? --Un momento ancora, Narciso! Mi è venuta in mente una cosa: che già una volta ti ho chiamato Giovanni. --Non ti capisco. --No, è naturale. Non sai ancora nulla. Parecchi an-ni fa ti ho dato una volta il nome di Giovanni, e ti rimarrà per sempre. Devi sapere che sono stato scultore e intagliatore di figure, e intendo ridiventarlo. E la miglior figura che abbia scolpito allora, un giovane di grandezza naturale, in legno, è la tua immagine, ma non si chiama Narciso, si chiama Giovanni., L'apostolo Giovanni sotto la croce. S'alzò e andò alla porta. --Hai dunque pensato ancora a me?--domandò Narciso sottovoce. Altrettanto sottovoce Boccadoro rispose: --Oh sì, Narciso, ho pensato a te. Sempre, sempre. Spinse con forza la porta pesante, la luce scialba del mattino entrò. Non dissero più nulla. Narciso lo condusse con sé nella camera in cui era ospitato. Un giovane monaco che l'accompagnava era intento a preparare i bagagli per il viaggio. Boccadoro ricevette da mangiare, le sue mani furono lavate e in parte fasciate. Poco dopo vennero condotti i cavalli. Mentre salivano in sella, Boccadoro disse: -- Ho ancora una preghiera. Prendiamo la via che passa dal mercato del pesce, avrei là qualcosa ancora da sbrigare. Partirono e Boccadoro guardò a tutte le finestre del castello, se a una per caso non si vedesse Agnese. Non riuscì a scorgerla. Cavalcarono per il mercato del pesce; Maria era stata molto in pena per lui. Egli si congedò da lei e dai suoi genitori, ringraziò mille volte, promise di ritornare un giorno e partì. Maria rimase sotto la porta di casa fin che i cavalieri furono scomparsi. Poi rientrò a passo lento, zoppicando. Cavalcavano in quattro: Narciso, Boccadoro, il giovane monaco e un palafreniere armato. --Ti ricordi ancora del mio cavallino Bless, -- domandò Boccadoro, -- ch'era nella stalla del vostro convento? --Certo. Non lo troverai più e probabilmente non ti aspettavi neppure di rivederlo. Sette od otto anni fa dovemmo ammazzarlo. --E te ne ricordi? --Oh sì, mi ricordo. Boccadoro non si rattristò della morte del piccolo Bless. Gli fece piacere che Narciso ne fosse così ben informato, egli che non si era mai curato degli animali e certo non aveva mai conosciuto per nome nessun altro cavallo del convento. Ciò gli fece molto piacere. --Ti parrà ridicolo, -- ricominciò, -- che il primo essere del vostro convento di cui ho chiesto sia stato il povero cavallino. Non è gentile da parte mia. Veramente volevo chiedere di tutt'altro, innanzi tutto del nostro abate Daniele. Ma potevo immaginarmi che è morto, poiché tu sei il suo successore. E volevo evitare di parlare per prima cosa di morti. In questo momento non vedo di buon occhio la morte, per causa della notte passata, e anche per causa della peste, di cui ho veduto troppo. Ma ormai ci siamo; e una volta bisogna pur parlarne. Dimmi quando è morto l'abate Daniele, che io veneravo molto. E dimmi anche se i padri Anselmo e Martino sono ancora in vita. Sono preparato al peggio. Ma sono contento che la peste abbia almeno risparmiato te. Veramente non ho mai pensato che tu potessi esser morto, ho creduto fermamente che ci saremmo rivisti. Ma la fe-de può ingannare, ne ho fatto l'esperienza purtroppo. Anche il' mio maestro Nicola, L'intagliatore in legno, non potevo figurarmelo morto, ero sicuro di ritrovarlo e di lavorare di nuovo con lui. Eppure era morto, quando ritornai. --E presto raccontato, -- disse Narciso. -- L'abate Daniele è morto già otto anni fa, senza malattia né sofferenze. Io non sono il suo successore, sono abate solo da un anno. Il suo successore fu padre Martino, una volta nostro direttore di scuola; egli morì l'anno scorso, non ancora settantenne. Anche padre Anselmo non è più in vita. Ti voleva bene, parlava ancora spesso di te. Negli ultimi tempi non poteva più camminare e lo stare a letto era per lui un grande tormento; morì d'idropisia. Sicuro, e la peste venne anche da noi, ne sono morti molti. Non ne parliamo! Hai altre domande da rivolgermi? -- Certo, molte. Innanzitutto: come mai sei venuto qui, nella residenza del vescovo e dal governatore? -- E una storia lunga e ti annoierebbe; si tratta di po-litica. Il conte è un favorito dell'imperatore e in molte cose il suo plenipotenziario; ora in questo momento ci so-no parecchie questioni da appianare fra l'imperatore e il nostro ordine. Questo mi ha assegnato a una delegazione, che doveva svolgere trattative col conte. Il risultato è stato minimo. Tacque, e Boccadoro non chiese oltre. Non c'era del resto nessun bisogno che sapesse che la sera innanzi, quando Narciso aveva chiesto al conte la vita di Boccadoro, questa vita aveva dovuto esser pagata al duro governatore con alcune concessioni. Continuavano a cavalcare; Boccadoro si sentì presto stanco; si teneva in sella a fatica. Dopo un bel pò Narciso domandò: -- E vero che eri stato arrestato per furto? Il conte dichiarò che ti eri introdotto nel castello e nelle stanze interne e là avevi rubato. Boccadoro rise. -- Sì, c'era veramente tutta l'apparenza che fossi un ladro. Ma io avevo un convegno con l'amante del conte; senza dubbio egli sapeva anche questo. Mi stupisce molto che mi abbia lasciato andare. -- Eh, s'è mostrato trattabile. Non riuscirono a percorrere il tratto di cammino pro-gettato per la giornata. Boccadoro era troppo sfinito, le sue mani non potevano più tenere le briglie. Presero quartiere in un villaggio; egli fu messo a letto, ebbe un pò di febbre e rimase coricato anche il giorno seguente, ma poi poté proseguire. E quando poco dopo le sue mani furono guarite, cominciò a godere molto di quel viaggio a cavallo. Da quanto tempo non cavalcava! Si sentì rivive-re, ritornò giovane e vivace; a volte faceva gare di galoppo col palafreniere e nei momenti d'espansione assediava l'amico Narciso di cento domande impazienti. Narciso lo accontentava calmo, ma lieto; era di nuovo affascinato da Boccadoro, amava le sue domande così irruenti, così infantili, così piene d'illimitata fiducia nello spirito e nella saggezza dell'amico. --Una domanda, Narciso: avete bruciato anche voi qualche volta gli ebrei? --Bruciato gli ebrei? E come? Non ci sono ebrei da noi. -- E vero. Ma dimmi: saresti capace tu di bruciare degli ebrei? Puoi immaginarti possibile un caso simile? --No, perché dovrei farlo? Mi credi un fanatico? --Comprendimi Narciso! Voglio dire: puoi pensare che in qualche caso sapresti dare l'ordine di uccidere degli ebrei, oppure il tuo consenso? Tanti duchi, borgomastri, vescovi e altre autorità hanno dato di questi ordini. --lo non darei un ordine di questo genere. Ma posso pensare al caso che mi toccasse di assistere a una tale crudeltà e di tollerarla. --La tollereresti dunque? -- Certo, se non avessi il potere d'impedirla. Tu hai assistito qualche volta ad un rogo di ebrei, Boccadoro? --Ah, sì. -- Ebbene, L'hai impedito?... No?... Vedi. Boccadoro raccontò minutamente la storia di Rebecca, e nel racconto si riscaldò, si appassionò. --Ebbene, -- concluse con veemenza, -- che mondo è questo, in cui dobbiamo vivere? Non è un inferno? Non è rivoltante e mostruoso? --Certo. Il mondo è così. -- Ah! --esclamò Boccadoro con ira.--E quante volte in passato mi affermasti che il mondo è divino, che è una grande armonia di sfere nel cui centro troneggia il Creatore, e che tutto ciò che esiste è buono, e così via. Dicevi che questo si trovava in Aristotele o in san Tomaso. Sono ansioso di sentire come spieghi questa contraddizione. Narciso rise. --- La tua memoria è stupefacente, eppure ti ha un pò ingannato lo ho sempre venerato la perfezione del Creatore, ma non mai della creazione. Non ho mai negato il male nel mondo. Che la vita sulla terra sia armonica e giusta e che l'uomo sia buono, questo, mio caro, nessun vero pensatore l'ha mai affermato. Che invece i sentimenti e le aspirazioni del cuore umano siano cattivi, è espresso nella Sacra Scrittura e lo vediamo confermato ogni giorno. -- Benissimo. Vedo finalmente come la pensate voi eruditi. L'uomo dunque è malvagio, e la vita sulla terra è piena di volgarità e di sconcezza, questo lo concedete. Ma dietro, nei vostri pensieri e nei vostri trattati, esistono la giustizia e la perfezione. Ci sono, si possono dimostrare, solo non se ne f a alcun uso. -- Hai accumulato molto rancore contro noi teologi, caro amico! Ma non sei ancora diventato un pensatore; tu getti tutto alla rinfusa. Dovrai imparare ancora qualche cosa. Ma perché dici che non facciamo nessun uso dell'idea della giustizia? Lo facciamo ogni giorno e ogni ora. Io, per esempio, sono abate e ho un convento da dirigere, e in esso ci sono altrettante imperfezioni e colpe quante se ne incontrano fuori nel mondo. Tuttavia noi contrapponiamo sempre e costantemente al peccato originale l'idea della giustizia e cerchiamo di misurare con essa la nostra vita imperfetta e di correggere il male e di metterci in rapporto costante con Dio. --Oh sì, Narciso. Non voglio dire di te e che tu non sia un buon abate. Ma penso a Rebecca, agli ebrei arsi, alle tombe in massa, a quel gran morire, alle strade e alle stanze dove giacevano fetenti i cadaveri degli appestati, a tutto quello spaventoso deserto, ai fanciulli de-relitti rimasti soli al mondo, ai cani di guardia morti di fame alle loro catene... e quando penso a tutto questo e rivedo innanzi a me queste immagini, il cuore mi fa male e mi pare che le nostre mamme ci abbiano generati in un mondo disperatamente crudele e diabolico, e che sarebbe meglio non l'avessero fatto e Dio non avesse creato questo mondo orrendo, e che il Redentore non si fosse fatto crocifiggere per esso invano. Narciso fece all'amico un cenno di affettuosa approvazione. -- Hai perfettamente ragione, -- disse con calore, -sfogati pure, dimmi tutto. Ma in una cosa t'inganni: tu credi che tutto questo che dici sia pensiero. No, sono sentimenti! Sono i sentimenti di un uomo preoccupato dall'orrore dell'esistenza. Ma non dimenticare che a questi sentimenti tristi e disperati se ne, contrappongono ben altri! Quando sul tuo cavallo tu provi un senso di benessere, attraversando una bella regione, o quando, con una certa leggerezza, t'introduci di sera nel castello per fare la corte all'amante del conte, allora il mondo ti appare tutto diverso, e le case appestate e gli ebrei bruciati non t'impediscono punto di cercare il tuo piacere. Non è così? --Certo, è così. Poiché il mondo è così pieno di morte e d'orrore, io cerco continuamente di confortare il mio cuore e di cogliere i bei fiori che sbocciano in mezzo a questo inferno. Trovo piacere e dimentico per un'ora l'orrore. Ma non per questo esso cessa d'esistere. -- Hai detto molto bene. Dunque tu ti trovi nel mondo circondato di morte e d'orrore e per sfuggire ad es-so cerchi il piacere, Ma il piacere non dura e ti rilascia poi nel deserto. -- Sì, proprio così. --Così avviene alla maggior parte degli uomini, ma pochi lo sentono con la tua forza e con la tua veemenza, e pochi hanno il bisogno di rendersi conto di questi sentimenti, Ma dimmi un pò: oltre a questa disperata alternativa fra il piacere e l'orrore, fra la gioia di vivere e il senso della morte.,. oltre a questo, non hai sperimentato qualche altra via? --Oh sì, certo. Ho provato la via dell'arte. Ti ho già detto che fra l'altro sono diventato anche artista. Un giorno, eran forse tre anni che vivevo fuori nel mondo e quasi sempre vagabondando, trovai in una chiesa di convento una Madonna di legno; era così bella e la sua vista mi colpì tanto, che chiesi del maestro che l'aveva fatta e lo cercai. Lo trovai: era un maestro celebre; divenni suo scolaro e lavorai alcuni anni con lui. -- Di questo mi racconterai ancora in seguito. Ma quale fu per te il frutto, il significato dell'arte? --Fu il superamento della caducità. Vidi che della farsa e della danza macabra della vita umana qualcosa rimaneva e durava: le opere d'arte. Certo anch'esse un giorno o l'altro passano, bruciano o si rovinano o vengono distrutte. Ma a ogni modo durano parecchie generazioni e formano al di là del momento un quieto regno d'immagini e di cose sacre. Collaborare a questo mi pare un be-ne e un conforto, perché è quasi un rendere eterno ciò ch'è transitorio. --Questo mi piace molto Boccadoro. Spero che tu farai altre belle opere; io ho grande fiducia nella tua forza e spero che sarai per un pezzo mio ospite a Mariabronn e mi permetterai di allestirti un'officina; da molto tempo il nostro convento non ha più un artista. Io credo però che con la tua definizione tu non hai esaurito ciò che vi è di meraviglioso nell'arte. Credo che l'arte non consiste solo nello strappare alla morte e portar a più lunga durata, con la pietra, col legno e coi colori, qualcosa che esiste ma è mortale. Io ho veduto più di un'opera d'arte, certi santi e certe Madonne, che non credo siano solo fedeli riproduzioni in un singolo essere umano, vissuto un giorno, di cui l'artista ha conservato le forme o i colori. --Hai ragione, -- esclamò Boccadoro con fervore, -non avrei creduto che tu conoscessi l'arte così a fondò! L'immagine originaria di una buona opera d'arte non è una figura reale, viva, quantunque questa possa esserne l'occasione determinante. L'immagine originaria non è carne e sangue, è spirituale. E un'immagine che ha la sua dimora nell'anima dell'artista. Anche in me, Narciso, vivono di queste immagini, che spero di rappresentare e di mostrarti un giorno. --Magnifico! Ora, mio caro, senza saperlo, tu ti sei addentrato nella filosofia e hai espresso uno dei suoi misteri. --Ti prendi gioco di me. --Oh no! Tu hai parlato d'immagini originarie, d'immagini dunque che non esistono in nessun luogo fuorché nello spirito creatore, ma che possono essere attuate e re-se visibili nella materia. Molto prima che una figura artistica diventi visibile e acquisti realtà, essa esiste come immagine nell'anima dell'artista! Questa immagine originaria è esattamente ciò che gli antichi filosofi chiamano " idea ". --Sì, questo mi sembra convincente. --Ebbene, riconoscendo l'esistenza delle idee e delle immagini originarie tu entri nel mondo spirituale, nel nostro mondo di filosofi e di teologi, e ammetti che fra la confusione e i dolori di quel campo di battaglia che è la vita, in questa danza macabra senza fine e senza senso dell'esistenza corporea, esiste lo spirito creatore. Vedi, a questo spirito in te io mi sono sempre rivolto, da quando, ragazzo, ti avvicinasti a me. Questo spirito in te non è quello di un pensatore, è quello di un artista. Ma è spirito, ed esso ti mostrerà la via per uscire dal torbido garbuglio della vita dei sensi, dalla eterna alternativa fra piacere e disperazione. Ah, mio caro, sono felice di aver udito da te questa confessione. L'ho aspettata... da allora, da quando tu abbandonasti il tuo maestro Narciso e trovasti il coraggio di essere te stesso. Ora possiamo esser di nuovo amici. In quel momento parve a Boccadoro che la sua vita avesse acquistato un senso, come se egli la guardasse dall'alto e ne vedesse chiaramente le tre grandi tappe: la dipendenza da Narciso, la liberazione - il periodo della vita libera e vagabonda - e il ritorno, il riposo, L'inizio della maturità e del raccolto. La visione si dileguò. Ma egli aveva trovato finalmente con Narciso il rapporto che gli conveniva, non più di dipendenza, ma di libertà e di reciprocità. Poteva ormai essere ospite di quello spirito superiore senza umiltà, poiché l'altro aveva riconosciuto in lui il suo pari, il creatore. Mostrarsi a Narciso, rendergli visibile nelle opere il proprio mondo interiore era ormai il sogno che carezzava con gioia e desiderio crescente durante quel viaggio. Ma talvolta gli venivano anche degli scrupoli. -- Narciso, -- ammoniva, -- io temo che tu non sappia chi porti con te nel tuo convento. Io non sono un monaco e non voglio nemmeno diventarlo. Conosco i tre grandi voti, e alla povertà mi adatto volentieri, ma non amo né la castità né l'ubbidienza; queste virtù non mi sembrano neppure veramente virili. E quanto a religiosità, non è rimasto più nulla in me, da anni non mi confesso, non prego e non mi comunico. Narciso non si scompose. -- Si direbbe che sei diventato un pagano. Ma per questo non abbiamo timori. Non c'è bisogno che tu ti vanti più dei tuoi molti peccati. Hai condotto la solita vita mondana, hai guardato i porci co-me il figliol prodigo, non sai più che cosa siano la legge e l'ordine. Certo diventeresti un pessimo monaco, ma io non t'invito affatto a entrare nell'ordine; t'invito solo a essere nostro ospite e ad allestirti una officina nel nostro convento. E un'altra cosa: non dimenticare che allora, nei nostri anni d'adolescenza, fui io a destarti e a lasciarti avventurare nella vita del mondo. Bene o male che ne sia derivato, insieme con te sono responsabile io. Voglio vedere quel che sei diventato; me lo mostrerai nelle parole, nella vita, nelle tue opere. Quando l'avrai mostrato, e qualora io riconoscessi che la nostra casa non è luogo per te, sarò il primo a pregarti di lasciarla un'altra volta. Boccadoro era pieno d'ammirazione ogni volta che il suo amico parlava così, che si mostrava nella sua funzione d'abate, con quella sicurezza tranquilla e con quella sfumatura di scherno per la gente e per la vita del mondo; perché allora gli si rivelava quello che Narciso era diventato: un uomo. Un uomo dello spirito senza dubbio e della Chiesa, dalle mani delicate e dal volto di erudito, ma un uomo pieno di sicurezza e di coraggio, un condottiero, uno che assumeva le sue responsabilità. Quest'uomo, Narciso, non era più il giovane d'allora, non era più il dolce e fervido discepolo Giovanni, e questo nuovo Narciso, virile e cavalleresco, Boccadoro voleva rappresentare con le sue mani. Molte figure l'aspettavano: Narciso, L'abate Daniele, il padre Anselmo, il maestro Nicola, la bella Rebecca, la bella Agnese e tanti altri ancora, amici e nemici, vivi e morti. No, egli non voleva diventare un frate, né pio né erudito, voleva creare opere; e che l'asilo della sua giovinezza diventasse l'asilo delle sue opere lo rendeva felice. Cavalcavano nella frescura dell'autunno avanzato e, un mattino che gli alberi brulli erano ricoperti di brina, attraversarono un paese vasto e ondulato con paludi rossicce e deserte, le cui lunghe linee di colli apparvero a Boccadoro come uno strano e noto richiamo; venne un bosco d'alti frassini, e un torrente, e un antico granaio, al-la cui vista il cuore di Boccadoro cominciò a dolere di lieta ansietà; riconobbe i colli che un giorno aveva per-corsi a cavallo con Lidia, la figlia del cavaliere, e la landa che un giorno, scacciato e profondamente triste, aveva attraversato allontanandosi sotto la neve fine. Spuntarono i gruppi di ontani e il mulino e il castello; con una strana sofferenza egli riconobbe la finestra dello studio in cui allora, nei tempi leggendari della giovinezza, aveva udito il cavaliere raccontare del suo pellegrinaggio ed aveva dovuto correggergli il suo latino. Entrarono nel cortile, era una delle stazioni prestabilite del loro viaggio. Boccadoro pregò l'abate di non pronunciare il suo nome in quel luogo e di lasciarlo mangiare insieme al palafreniere con la servitù. Così avvenne. Nessun vecchio cavaliere, nessuna Lidia c'era più, ma ancora qualcuno dei cacciatori e dei servi, e nella casa viveva e governava una bellissima, superba e dispotica gentildonna Giulia, a fianco di un consorte. Ella appariva tuttora meravigliosamente bella, bella e un pò cattiva: né da lei né dalla servitù Boccadoro venne riconosciuto. Dopo uno spuntino, nel crepuscolo sgattaiolò in giardino, guardò di là dalla siepe le aiuole già invernali, s'avvicinò pian piano alla porta della stalla e sbirciò i cavalli ch'eran dentro. Dormì sulla paglia col palafreniere, e il peso dei ricordi gli gravava sul petto; si destò più volte. Che vita smembrata e infeconda aveva dietro di sé, ricca d'immagini splendide, ma tutta in pezzi, così povera di valore, così povera d'amore! La mattina partendo guardò su, ansioso, alle finestre, se per caso non scorgesse ancora una volta Giulia. Così poco prima s'era guardato attorno nel cortile del vescovado, per vedere se Agnese si mostrasse ancora una volta. Ella non era comparsa e neppure Giulia si mostrò più. Così era stata tutta la sua vita: prender congedo, fuggire, esser dimenticato, rimanere a mani vuote e col cuore gelato. Questa impressione lo seguì tutto il giorno; egli non disse una parola, cu-po in sella, con la testa china. Narciso lo lasciò stare. Ormai s'avvicinavano alla meta e dopo qualche giorno la raggiunsero. Poco prima che la torre e i tetti del convento divenissero visibili, attraversarono quei maggesi sassosi, dov'egli un giorno - oh, da quanto tempo! aveva cercato l'erba di san Giovanni per padre Anselmo, e la zingara Lisa aveva fatto di lui un uomo. Finalmente entrarono sotto il portone di Mariabronn e scesero da cavallo sotto il castagno del mezzogiorno. Boccadoro sfiorò dolcemente il tronco e si chinò verso uno dei ricci spinosi e spaccati, che giacevano bruni e secchi sul terreno. INDEX CAPITOLO XVIII I primi giorni Boccadoro abitò nel convento stesso, in una delle celle per gli ospiti. Poi, dietro sua preghiera, fu alloggiato in uno degli edifici d'amministrazione che circondavano il grande cortile come una piazza del mercato, di fronte alla fucina. Il fascino delle cose che rivedeva lo prese con tanta violenza, ch'egli stesso a volte se ne meravigliava. Nessuno lo conosceva fuorch`é l'abate, nessuno sapeva chi fosse; gli uomini del convento, frati e laici, vivevano in un ordine rigido e laborioso e lo lasciavano in pace. Ma lo conoscevano gli alberi del cortile, lo conoscevano i portali e le finestre, il mulino e la sua ruota, le piastrelle dei corridoi, i roseti avvizziti nel chiostro, i nidi delle cicogne sul granaio e sul refettorio. Da ogni angolo gli alitava incontro dolce e commovente il passato, la sua prima giovinezza; amore lo spingeva a rivedere tutto, a risentire tutti i suoni, il rintocco del vespro e lo scampanio domenicale, il gorgoglio dello scuro torrente del mulino fra gli stretti argini muscosi, il rumore dei sandali sull'impiantito, il tintinnio serale del mazzo di chiavi, quando il frate portiere andava a chiudere. Accanto alle cu-nette di pietra, in cui cadeva l'acqua piovana dal tetto del refettorio dei laici, crescevano ancora le stesse piccole erbe, e il vecchio melo nel giardino della fucina stendeva ancora i suoi grandi rami contorti. Ma più di tutto lo commoveva la campanella della scuola, la vista degli scolari quando nell'ora di ricreazione scendevano le scale e si lanciavano schiamazzando nel cortile. Com'erano giovani e sempliciotti e graziosi i loro visi fanciulleschi... Era stato davvero anche lui così giovane, così goffo, così grazioso e puerile? Ma oltre a questo ben noto convento egli ne ritrovava uno quasi sconosciuto; già nei primi giorni gli balzò all'occhio, acquistò sempre più importanza per lui e solo a poco a poco si congiunse con quello già conosciuto. Poiché, se nulla di nuovo si era aggiunto, se tutto era rimasto uguale come nei suoi anni di scuola, come cento e più anni prima, egli non lo vedeva più con gli occhi dello scolaro. Vedeva e sentiva le proporzioni degli edifici, le volte della chiesa, le vecchie pitture, le statue di pietra e di legno sugli altari, nei portali, e sebbene non vedesse nulla che non fosse già stato al suo posto anche allora, solo ora capiva la bellezza di queste cose e lo spirito che le aveva create. Vedeva l'antica Madonna di pietra nella cappella superiore; anche da ragazzo gli piaceva e l'aveva disegnata, ma solo ora la vedeva con occhi svegli e s'accorgeva ch'era un opera meravigliosa, che anche col suo migliore e più riuscito lavoro egli non avrebbe mai potuto superare. E di queste cose meravigliose ce n'eran parecchie, e ciascuna non stava a sé e non era un caso, ma proveniva dal medesimo spirito e stava in mezzo alle vecchie mura, fra le colonne e le volte, come nella sua dimora naturale. Quello che in un paio di secoli era stato costruito, scolpito, dipinto, vissuto, pensato e insegnato in quel luogo, era di un'origine sola, di un solo spirito e s'accordava insieme come i rami di un albero. In mezzo a questo mondo, a questa unità potente e tranquilla, Boccadoro si sentiva molto piccolo, sopra tutto quando vedeva l'abate Giovanni, il suo amico Narciso, governare e regnare in quell'ordine grandioso e pur placido e sereno. Per quanta differenza di persona ci fosse fra il dotto abate Giovanni dalle labbra sottili e il semplice bonario abate Daniele, ciascuno di loro serviva però la stessa unità, lo stesso pensiero, lo stesso ordine, e da questo otteneva la sua dignità, a questo sacrificava la sua persona. Ciò li rendeva simili, come l'abito che vestiva entrambi. In mezzo a questo suo convento Narciso diventava agli occhi di Boccadoro di una grandezza inquietante, quantunque il suo atteggiamento verso di lui fosse quello di un buon camerata e di un ospite cordiale. Ben presto Boccadoro non osava quasi più dargli del tu e chiamarlo " Narciso ". -- Senti, abate Giovanni, -- gli disse una volta, -- a poco a poco dovrò pure abituarmi al tuo nuovo nome. Debbo dirti che qui da voi mi trovo benissimo, avrei quasi voglia di farti una confessione generale e di pregarti, dopo la penitenza, d'accogliermi come frate laico. Ma ve-di, allora la nostra amicizia sarebbe finita, tu saresti l'abate e io il frate laico. D'altra parte vivere così accanto a te e vedere il tuo lavoro e non essere e non fare nulla io stesso, è cosa che non sopporto più a lungo. Vorrei lavorare anch'io e mostrarti quello che sono e che so fare, affinché tu possa vedere se è valsa la pena di salvarmi dalla forca. -- Questo mi fa piacere, -- disse Narciso formulando le sue parole con più precisione ancora del solito. -Puoi cominciare quando vuoi ad allestirti la tua officina io darò subito ordine al fabbro e al falegname di mettersi a tua disposizione. Serviti pure di tutto il materiale di lavoro che si può raccogliere qui sul posto. Per quello che bisogna far venire da fuori a mezzo dei carrettieri, prepara una lista. E ora ascolta quello che io penso di te e delle tue intenzioni. Devi concedermi un pò di tempo per esprimermi: io sono un erudito e vorrei tentare di presentarti la cosa coi mezzi che mi offre il mio mondo di pensiero non ho altro linguaggio che questo. Dunque seguimi ancora una volta, come facevi con tanta pazienza quando eri ragazzo. --Tenterò di seguirti. Parla pure. --Ricordati che già ai nostri tempi di scuola io ti dissi più volte che ti ritenevo un artista. Allora mi pareva che tu potessi diventare un poeta; avevi nel leggere e nello scrivere una certa avversione per i concetti astratti e prediligevi nel linguaggio le parole e i suoni che avevano qualità poetiche sensibili, parole dunque con cui ci si potesse rappresentare qualche cosa. Boccadoro interruppe: --Scusa, ma i concetti e le astrazioni che tu preferisci non sono anch'essi rappresentazioni, immagini? o per pensare ti occorrono e ti piacciono proprio le parole con cui non ci si può rappresentare nulla? Si può forse pensare senza rappresentarsi qualche cosa? -- Fai bene a domandare! Ma certo si può pensare senza rappresentazioni! Il pensiero non ha proprio nulla a che fare con le rappresentazioni. Esso non si compie in immagini, ma in concetti e in forme. Proprio là dove cessano le immagini comincia la filosofia. Questo era appunto l'oggetto delle nostre dispute frequenti, quando eravamo giovani: per te il mondo consisteva d'immagini, per me di concetti. Ti dissi sempre che non eri fatto per diventare un pensatore, ma aggiunsi anche che questa non era una deficienza, che in compenso tu eri un dominatore nel campo delle immagini. Stà attento, ti spiegherò. Se allora invece di lanciarti nel mondo tu fossi diventato un pensatore, avresti potuto provocare qualche guaio. Saresti cioè diventato un mistico. I mistici sono, per dirla in breve e un pò grossolanamente, quei pensatori che non sanno staccarsi dalle rappresentazioni, quindi non sono per nulla pensatori. Sono artisti segreti: poeti senza versi, pittori senza pennello musicisti senza note. Ci sono fra loro spiriti nobili e altamente dotati, ma sono tutti, senza eccezione, degli uomini infelici. Tu avresti potuto diventare uno di questi. Invece, grazie a Dio, sei diventato un artista, padrone del mondo delle immagini, dove puoi essere creatore e signore, mentre come pensatore saresti rimasto ad un grado d'insufficienza. --Temo, -- disse Boccadoro, --che non riuscirò mai a farmi un'idea del tuo mondo di pensiero, dove si pensa senza immagini. --Ma sì, ci riuscirai subito. Ascolta: il pensatore cerca di conoscere e di rappresentare l'essenza del mondo con la logica. Egli sa che il nostro intelletto e il suo strumento, la logica, sono imperfetti, così come un artista intelligente sa benissimo che i suoi pennelli o scalpelli non potranno mai esprimere perfettamente l'essenza radiosa di un angelo o di un santo. Tuttavia tentano entrambi, il pensatore come l'artista, a loro modo. Non possono e non debbono fare altrimenti. Perché quando un uomo cerca di attuarsi con le doti che la natura gli ha date, fa ciò che può fare di più alto ed esclusivamente assennato. Perciò una volta ti ripetevo sempre: non cercar d'imitare il pensatore o l'asceta, ma sii te stesso, cerca di attuare te stesso! --Ti capisco così a metà. Ma che cosa significa propriamente: attuarsi? -- E un concetto filosofico, non posso esprimerlo altrimenti. Per noi scolari di Aristotele e di san Tomaso il più alto di tutti i concetti è: L'essere perfetto. L'essere perfetto è Dio. Tutto quello che c'è d'altro è solo a mezzo, è parziale, è in divenire, è mescolato, consiste di possibilità. Dio invece non è eterogeneo, è una cosa sola, non ha possibilità, è tutto realtà. Ma noi siamo transitori, noi siamo esseri che divengono, noi siamo possibilità, per noi non c'è perfezione, non c'è l'essere completo. Quando però pro-cediamo dalla potenza all'azione, dalla possibilità all'attuazione, partecipiamo al vero essere, siamo di un grado più simili al perfetto e al divino. Questo significa: attuarsi. Tu devi conoscere questo processo dalla tua propria esperienza. Tu sei artista e hai creato più di una statua. Quando una di queste figure ti è veramente riuscita, quando tu hai liberato l'immagine di un uomo dalle contingenze e l'hai ridotta ad una forma pura, allora tu hai, come artista, attuato quell'immagine umana. -- Ho capito. --Tu mi vedi, o amico Boccadoro, in un luogo e in un ufficio, in cui è reso facile in certo modo alla mia natura attuarsi. Mi vedi vivere in una comunità e in una tradizione, che mi corrispondono e mi aiutano. Un convento non è un paradiso, è pieno d'imperfezione, tuttavia una vita claustrale condotta decorosamente è per uomini della mia indole infinitamente più feconda di progresso che non la vita mondana. Non voglio parlare del lato morale, ma anche solo praticamente il pensiero puro, che io ho il compito di esercitare e d'insegnare, richiede una certa protezione dal mondo. Quindi per me, qui nella nostra casa, è stato molto più facile attuarmi di quello che non sia stato per te. Che malgrado ciò tu abbia trovato una via e sia diventato un artista, suscita tutta la mia ammirazione. Perché il tuo cammino è stato ben più difficile. Boccadoro arrossì d'imbarazzo per quella lode, ed anche di gioia. Per sviare il discorso, interruppe l'amico: --La maggior parte di quello che volevi dire sono riuscito a capirlo. Ma una cosa ancora non mi vuol entrare in testa: quello che tu chiami " il pensiero puro " il tuo così detto pensare senza immagini e operare con parole. con cui non si può rappresentarsi nulla. -- Bene, puoi spiegartelo con un esempio. Pensa alla matematica! Quali rappresentazioni contengono i numeri? O i segni pie meno? Che immagini contiene un'equazione? Nessuna! Quando tu risolvi un problema aritmetico o algebrico, non ti aiuta nessuna rappresentazione, tu eseguisci un compito formale entro forme di pensiero che hai apprese. -- E vero, Narciso. Se mi scrivi davanti una serie di numeri e di segni, io posso cavarmela senza nessuna rappresentazione, posso lasciarmi guidare dal pie dal me-no, dai quadrati, dalle parentesi e così via, e posso risolvere il problema. Cioè: lo potevo una volta, oggi non ne sarei più capace. Ma non posso immaginarmi che il risolvere simili problemi formali abbia altro valore che quello di un'esercitazione intellettuale per scolari. Imparare a calcolare è una bellissima cosa. Ma mi parrebbe assurdo e puerile che un uomo passasse la sua vita chino sopra simili problemi aritmetici, a coprire eternamente la carta di serie numeriche. --T'inganni, Boccadoro. Tu immagini che questo zelante calcolatore risolva sempre nuovi problemi scolastici, impostigli da un maestro. Ma egli può porsi i problemi anche da sé, essi possono sorgere in lui come forze impellenti. Bisogna aver calcolato e misurato matematica-mente più di uno spazio reale e fittizio, prima che ci si possa arrischiare come pensatori al problema dello spazio. --Va bene. Ma anche il problema dello spazio, come puro problema di pensiero, non mi sembra in realtà l'oggetto intorno a cui un uomo debba prodigare il suo lavoro e i suoi anni. La parola " spazio " per me non è nulla, non è degna di un pensiero, fin che io non mi rap-presento con essa uno spazio reale, per esempio lo spazio stellato; osservare e misurare questo mi pare senza dubbio un compito non indegno. Narciso interruppe sorridendo: -- Tu vuoi dire che non tieni alcun conto del pensiero, bensì dell'applicazione del pensiero al mondo pratico e visibile. Ti posso rispondere: le occasioni di applicare il nostro pensiero e la volontà di farlo non mancano affatto. Il pensatore Narciso, ad esempio, ha applicato cento volte i risultati del suo pensiero, tanto sul suo amico Boccadoro, quanto su ciascuno dei suoi monaci, e lo fa ad ogni ora. Ma come potrebbe " applicare " qualche cosa, se non l'avesse prima imparata ed esercitata? Anche l'artista esercita continuamente il suo occhio e la sua fantasia, e noi approviamo tale esercizio, anche se questo non rivela i suoi effetti che in poche opere reali. Tu non puoi disprezzare il pensiero come tale ed approvare la sua " applicazione "! La contraddizione è chiara. Dunque lasciami pensare in pace e giudica il mio pensiero dai suoi effetti, così come io giudicherò la tua arte dalle tue opere. Tu ora sei inquieto ed eccitato, perché fra te e le tue opere ci sono ancora degli ostacoli. Allontanali, cercati o fabbricati un'officina e mettiti al lavoro! Molti problemi si risolveranno allora da sé. Boccadoro non desiderava niente di meglio. Trovò un locale accanto al portone del cortile, che in quel momento era vuoto e s'adattava bene ad officina. Ordinò al falegname una tavola da disegno e altri arnesi, di cui gli diede lo schizzo preciso. Stese una lista degli oggetti che i carrettieri del convento dovevano portargli a poco a poco dalle città vicine, una lunga lista. Esaminò dal falegname e nel bosco tutte le provviste di legna tagliata e scelse per sé alcuni pezzi, che fece portare l'uno dopo l'altro nel prato dietro le sua officina, dove li collocò all'asciutto, costruendovi sopra con le proprie mani una tettoia. Ebbe poi molto da fare anche col fabbro, il cui figliolo, un giovane sognatore, fu da lui affascinato e conquistato. Con lui passava mezze giornate alla fucina, all'incudine, al trogolo per tuffare il ferro rovente, all'affilatoio; là mettevano tutti i coltelli da intaglio, curvi e diritti, gli scalpelli, i succhielli e i raschietti, ch'egli adoperava per la lavorazione del legno. Eric, il figlio del fabbro, giovane di circa vent'anni, divenne l'amico di Boccadoro, lo aiutava dappertutto, pieno di fervido interesse e di curiosità. Boccadoro gli promise d'insegnargli a sonare il liuto, cosa ch'egli desiderava vivamente, poi gli avrebbe fatto provare anche l'intaglio. Quando talvolta, nel convento e accanto a Narciso, Boccadoro si sentiva inutile e oppresso, poteva rianimarsi con Eric, che lo amava timidamente ed aveva per lui una venerazione infinita. Spesso Eric lo pregava di raccontargli di maestro Nicola e della città vescovile; qualche volta Boccadoro lo faceva volentieri e poi si meravigliava a un tratto di trovarsi lì seduto, come un vecchio, a raccontare di viaggi e di vicende del passato, mentre la sua vita doveva cominciare proprio allora. Nessuno poteva accorgersi che negli ultimi tempi egli era profondamente mutato e invecchiato oltre i suoi an-ni: non l'avevano conosciuto prima. Le miserie della vita instabile ed errabonda l'avevano forse già logorato, ma poi la pestilenza e i suoi molti orrori e infine la prigionia nel castello del conte e quella notte orrenda nella cantina lo avevano scosso nelle fibre più intime, lasciando qualche traccia: peli grigi nella barba bionda, rughe sottili sul volto, periodi d'insonnia, e a volte in fondo al cuore una certa stanchezza, un illanguidimento del piacere e della curiosità, un senso grigio e tiepido di sazietà. Nei preparativi del lavoro, nelle conversazioni con Eric nel trafficare dal fabbro e dal falegname, si sgelava, si animava; tutti lo ammiravano e gli volevano bene, ma fra una attività e l'altra non di rado rimaneva seduto per mezz'ore e per ore intere, stanco, sorridente e trasognato, in preda all'apatia e all'indifferenza. Una questione molto importante per lui era con quale soggetto dovesse cominciare il suo lavoro. La prima opera che voleva eseguire, con la quale intendeva pagare l'ospitalità del convento, non doveva essere un'opera casuale da esporsi in un luogo qualsiasi per curiosità, doveva, co-me le antiche opere del convento, diventare una parte della sua costruzione e della sua vita. Gli sarebbe piaciuto sopra tutto fare un altare o anche un pulpito, ma non ce n'era né il bisogno né il posto. Trovò invece dell'altro. Nel refettorio dei padri c'era una nicchia elevata, in cui, durante i pasti, soleva leggere un frate giovane. Questa nicchia non aveva ornamenti. Boccadoro decise di rivestire l'accesso al leggio e il leggio stesso di una decorazione in legno simile a quella di un pulpito, con figure a bassorilievo e alcune quasi isolate. Comunicò il progetto all'abate, che lo approvò e mostrò di gradirlo molto. Quando finalmente il lavoro poté cominciare - cadeva la neve ed era già passato Natale-la vita di Boccadoro prese un nuovo aspetto. Per il convento era come scomparso, nessuno lo vedeva più, non aspettava più la schiera degli scolari alla fine delle lezioni, non vagava più nel bosco, non camminava più nel chiostro. Prendeva i suoi pasti dal mugnaio, che non era più quello ch'egli era andato a trovare tante volte da ragazzo. E nella sua officina non lasciava entrare nessuno, fuorché il suo aiutante Eric; e anche questi in certi giorni non gli sentiva dire una parola. Per la sua prima opera, la tribuna per i lettori, aveva escogitato dopo lunghe riflessioni questo progetto: delle due parti che la costituivano, L'una doveva rappresentare il mondo, L'altra la parola divina. La parte inferiore, la scala, che usciva da un forte tronco di quercia e girava intorno ad esso, doveva rappresentare la creazione, immagini della natura e della semplice vita dei patriarchi. La parte superiore, il parapetto, avrebbe portato le statue dei quattro evangelisti. A uno di questi voleva dare la figura del defunto abate Daniele, a un altro quella del defunto padre Martino, suo successore, e nella figura di Luca voleva immortalare il suo maestro Nicola. S'imbatté in gravi difficoltà, più gravi di quanto non avesse pensato. Gli diedero preoccupazioni, ma erano dolci preoccupazioni. Egli faceva la corte alla sua opera con disperato entusiasmo, come a una donna ritrosa, lottava con essa, ora irritato ed ora tenero, come un pescatore all'amo lotta con un gran luccio; ogni ostacolo lo ammaestrava e affinava i suoi sensi. Dimenticò tutto il resto, dimenticò il convento, dimenticò quasi Narciso. Questi veniva qualche volta a trovarlo, ma egli non gli mostrava che disegni. In compenso Boccadoro lo sorprese un giorno col pregarlo di voler ascoltare la sua confessione. --Non mi son saputo decidere finora, --disse,--mi sembrava di essere troppo piccino, mi sentivo già abbastanza umiliato davanti a te. Ora va meglio, ora ho il mio lavoro e non sono più una nullità. E dal momento che vi-vo in un convento, vorrei conformarmi all'ordine. Si sentiva all'altezza dell'ora e non voleva aspettare più a lungo. Nella vita contemplativa delle prime settimane, nel rivedere e nel ricordare tutte le cose della sua gioventù, e anche nei racconti che Eric gli chiedeva, la visione della sua vita passata aveva acquistato un certo ordine e una certa chiarezza. Narciso lo accolse alla confessione senz'alcuna solennità: essa durò circa due ore. L'abate ascoltò con volto impassibile le avventure, le sofferenze, le colpe del suo amico; pose diverse domande, non interruppe mai e ascoltò impassibile anche quella parte della confessione, in cui Boccadoro dichiarava la scomparsa della sua fede nella giustizia e nella bontà di Dio. Fu colpito da parecchie confessioni del penitente; vedeva com'egli era stato scosso e spaventato, come talvolta era stato vicino alla perdi-zione. Poi doveva tornar a sorridere, commosso dall'ingenuità dell'amico rimasto fanciullo, poiché lo trovava preoccupato e pentito per certi pensieri irreligiosi, che in confronto ai suoi propri dubbi e agli abissi del suo pensiero erano veramente innocenti. Con meraviglia, anzi con delusione di Boccadoro, il confessore non attribuì una gravità eccessiva ai suoi peccati veri e propri, lo ammonì e lo punì invece senza indulgenza per aver trascurato di pregare, di confessarsi e di comunicarsi. Gli impose come penitenza di vivere ca-sto e moderato per quattro settimane prima di ricevere la comunione, di ascoltare ogni mattina la prima messa e di recitare ogni sera tre Pater noster e un inno a Maria. Poi gli disse: --Ti ammonisco e ti prego di non prendere alla leggera questa penitenza. Non so se tu conosca ancora esattamente il testo della messa. Devi seguirlo parola per parola e abbandonarti tutto al suo significato. Oggi stesso reciterò con te il Pater noster e alcuni inni e ti accennerò a quali parole e a quali significati tu debba rivolgere particolarmente la tua attenzione. Non devi pronunciare e ascoltare le parole sacre come si pronunciano e si ascoltano le parole umane. Ogni volta che ti sorprendi a ripetere quelle parole come un organetto, e ciò avverrà più spesso di quel che tu non creda, ricordati di questa ora e del mio ammonimento, ricomincia da capo e recitale e falle entrare nel tuo cuore come io t'indicherò. Fosse un caso fortunato, o avesse la psicologia dell'abate tanta profondità, fatto sta che da questa confessione e da questa penitenza derivò per Boccadoro un periodo di soddisfazione e di pace, che lo rese profondamente felice. Fra le tensioni, le preoccupazioni e le soddisfazioni del suo lavoro, ogni mattina ed ogni sera, nei facili esercizi spirituali ch'eseguiva coscienziosamente, egli si sentiva liberato dalle agitazioni della giornata e rinviato con tutto il suo essere a un ordine superiore, che lo strappava alla pericolosa solitudine di colui che crea, facendolo rientrare qual figlio nel regno di Dio. Se a superare la lotta per la creazione della sua opera egli doveva esser solo e ad essa doveva dare tutta la passione dei suoi sensi e della sua anima, L'ora della devozione lo riconduceva sempre ad uno stato d'innocenza. Durante il lavoro fumava spesso per ira e per impazienza, a volte si estasiava fino alla voluttà, ma negli esercizi di pietà si tuffava come in un'acqua fresca e profonda, che gli lavava via l'orgoglio dell'entusiasmo come pure l'orgoglio della disperazione. Non sempre riusciva. Talvolta alla sera, dopo ore di lavoro febbrile, non trovava la quiete e il raccoglimento, dimenticava gli esercizi, e spesso, quando si sforzava di concentrarsi, lo impediva e lo tormentava il pensiero che in fin dei conti il recitar preghiere era un affannarsi puerile per un Dio che non esisteva affatto, o che per lo me-no non poteva aiutarlo. Se ne dolse con l'amico. --Continua,--disse Narciso; --hai promesso e devi mantenere. Non devi star a pensar se Dio ascolta la tua preghiera, o se il Dio che ti piace di raffigurarti esista o meno. Non devi neppure preoccuparti se le tue pratiche siano puerili. In confronto di colui al quale si rivolgono le nostre preghiere, tutte le nostre azioni sono puerili. Tu devi assolutamente inibirti durante l'esercizio questi sciocchi pensieri da bambino. Devi recitare il tuo Pater noster e il tuo inno a Maria abbandonandoti tutto alle loro parole e riempiendoti di esse, così come, quando canti o suoni il liuto, non insegui nessun saggio pensiero, nessuna speculazione, ma eseguisci una nota e un movimento dopo l'altro con la maggior purezza e perfezione possibili. Mentre si canta, non si pensa se il canto sia utile o no: si canta. Così devi pregare. E di nuovo riusciva. Di nuovo il suo " io " teso e avido si smorzava nell'ordine immenso, di nuovo le parole venerabili passavano su di lui e attraverso lui come stelle L'abate notò con grande soddisfazione che Boccadoro, scaduto il termine del periodo di penitenza e ricevuti i Sacramenti, continuò per settimane e mesi i suoi esercizi quotidiani Intanto la sua opera procedeva. Dal sostegno massiccio della scala a chiocciola usciva un piccolo mondo di figure, di piante, di animali e di uomini, nel centro un padre Noè fra pampini e grappoli, un libro illustrato, un inno di gloria alla creazione e alla sua bellezza, libero nel gioco artistico, ma guidato da un ordine e da una disciplina segreta. Durante tutti quei mesi nessuno vide l'opera fuorché Eric, che aveva il permesso di dare una mano e non carezzava altro pensiero di quello di poter dlventare un artista. In certi giorni neppure a lui era lecito entrare nell'officina. Altre volte invece Boccadoro si occupava di lui, gl'insegnava, lo lasciava provare, lieto di avere un fedele e uno scolaro. Quando l'opera fosse terminata e riuscita, pensava di richiedere il giovane a suo padre e d'istruirlo come assistente fisso. Alle figure degli evangelisti lavorava nei suoi giorni migliori, quando tutto era in armonia e nessun dubbio l'oscurava. La figura che gli pareva riuscisse meglio era quella a cui dava I tratti dell'abate Daniele; L'amava molto, dal viso di essa raggiava innocenza e bontà. Della figura di maestro Nicola era meno soddisfatto, quantunque Eric l'ammirasse più delle altre. Essa rivelava dissidio e tristezza, sembrava piena d'alti progetti di creazione e insieme di una disperata certezza della vanità d'ogni creazione, piena di rimpianto per un'unità e un'innocenza perdute. Quando l'abate Daniele fu terminato, Boccadoro ordinò ad Eric di far pulizia nell'officina. Velò di panni il resto dell'opera e mise in luce solo quella figura. Poi andò da Narciso, ed essendo questi occupato aspettò pazientemente fino al giorno dopo. Nell'ora del mezzodì condusse l'amico nella sua officina davanti alla statua. Narciso ristette e contemplò. Contemplò senza fretta, con l'attenzione e la cura dello scienziato. Boccadoro stava dietro di lui, in silenzio, e cercava di dominare il tumulto del suo cuore. "Oh," pensò, "se ora uno di noi non regge alla prova, è un gran male. Se la mia opera non è abbastanza buona o se egli non sa comprenderla, tutto il mio lavoro qui ha perduto il suo valore. Avrei dovuto aspettare ancora." I minuti gli parevano ore; pensò a quella volta che maestro Nicola aveva tenuto in mano il suo primo disegno. Strinse l'una contro l'altra le mani umide e ardenti di tensione. Narciso si voltò verso di lui, e subito egli si sentì liberato. Vide nel volto affilato dell'amico rifiorire qualcosa, che non vi fioriva più dagli anni della fanciullezza: un sorriso, un sorriso quasi timido in quel volto tutto spirito e volontà, un sorriso d'amore e d'abbandono, una scintilla, come se la solitudine e la fierezza di quel volto fossero per un istante squarciate e da esso non trasparisse più altro che un cuore pieno d'amore. --Boccadoro,--disse Narciso pianissimo, pesando anche in quel momento le parole, --tu non ti aspetti certo da me che diventi a un tratto un conoscitore d'arte. Non lo sono, lo sai. Della tua arte non saprei dire nulla, che non ti sembri ridicolo. Ma lasciami dirti una cosa sola: alla prima occhiata ho riconosciuto in questo apostolo il nostro abate Daniele, e non lui soltanto, ma anche tutto quello ch'egli allora rappresentava per noi: la dignità, la bontà, la semplicità. Come il povero padre Daniele stava davanti alla nostra venerazione giovanile, così egli sta ancora qui davanti a me e con lui tutto ciò che allora ci era sacro e ciò che ci rende indimenticabile quell'epoca. Con questa visione tu mi hai fatto un gran dono, amico mio: non soltanto mi hai reso il nostro abate Daniele, mi hai rivelato per la prima volta tutto te stesso. Ora so chi sei. Non ne parliamo più, non ne ho il diritto. O Boccadoro benedetta quest'ora! Nel grande locale si fece silenzio. Boccadoro vide che il suo amico era commosso in fondo al cuore. Un imbarazzo gli strozzava il respiro. -- Bene, -- disse brevemente, -- sono contento. Ma, forse, è ora che tu vada a tavola. INDEX CAPITOLO XIX Boccadoro lavorò a quell'opera due anni, e nel secondo anno Eric gli fu affidato come vero e proprio scolaro Nell' intaglio della scala Boccadoro compose un piccolo paradiso, raffigurò con intenso piacere un delizioso groviglio d'alberi, di foglie e d'erbe, con uccelli fra i rami, e da ogni parte sbucavano teste e corpi di animali. In mezzo a questo placido, rigoglioso giardino primordiale rappresento alcune scene della vita dei patriarchi. Di rado questa solerte attività subiva un'interruzione. Di rado veniva un giorno, in cui il lavoro gli era impossibile, in cui un senso d'inquietudine e di sazietà glielo rendeva fastidioso. Allora assegnava un compito allo scolaro e faceva una passeggiata o una cavalcata in campagna, respirando nel bosco il profumo che gli ricordava la libertà e la vita vagabonda; cercava qua o là una ragazza di contadini, o andava a caccia e se ne stava per ore e ore coricato nel verde, fissando la volta formata dalle chiome degli alberi o il rigoglio selvaggio delle felci e delle ginestre. Non rimaneva mai lontano più d'un giorno o due. Poi ritornava all’opera con nuova passione, intagliava con voluttà le piante che germogliavan rigogliose sotto le sue dita ricavava dal legno con mano lieve e delicata le teste umane scolpiva una bocca dal taglio vigoroso, un occhio, una barba crespa. Oltre a Eric, solo Narciso conosceva l'opera e veniva spesso nell'officina, che qualche volta diventava per lui il luogo più gradito del convento. Osservava con gioia e stupore. Lì fioriva quello che l'amico aveva portato un giorno nel suo inquieto e fiero cuore di fanciullo, cresceva e fioriva una creazione, un piccolo mondo zampillante: un gioco forse, ma certo non meno buono del gioco della logica, della grammatica e della teologia. Una volta Narciso disse pensieroso: -- Imparo molto da te, Boccadoro. Comincio a comprendere che cos'è l'arte. Prima mi pareva che, in confronto col pensiero e con la scienza, non fosse da prendere troppo sul serio. Pensavo press'a poco così: poiché l'uomo è una dubbia mescolanza di spirito e di materia, poiché lo spirito gli schiude la conoscenza dell'eterno, mentre la materia lo trascina in basso e lo incatena a ciò ch'è transitorio, egli dovrebbe cercare di staccarsi dai sensi e di entrare nel mondo spirituale, per elevare la sua vita e darle un significato. Affermavo bensì di apprezzare altamente l'arte, per consuetudine, ma in realtà ero superbo e la guardavo dall'alto in basso. Ora soltanto vedo quante vie ci sono per giungere alla conoscenza, e quella dello spirito non è l'unica e forse neppur la migliore. E la mia vita, certo: e rimarrò in essa. Ma ti vedo per la via opposta, la via dei sensi, cogliere il mistero dell'essere altrettanto profondamente, ed esprimerlo con molta più vivezza di quel che lo possano la maggior parte dei pensatori. --Capisci ora,--disse Boccadoro,--che io non posso intendere che cosa significhi pensare senza rappresentazioni. -- L'ho capito da un pezzo. Il nostro pensare è un continuo astrarre, un prescindere dal mondo sensibile, un tentativo di costruzione d'un mondo puramente spirituale. Tu invece cogli nel cuore ciò che vi è di più instabile e mortale e riveli il senso del mondo proprio in quello ch'è transitorio. Tu non prescindi da questo, ti dai tutto ad esso, e per questa tua dedizione esso diventa ciò che vi è di più alto: il simbolo dell'eterno. Noi pensatori cerchiamo di avvicinarci a Dio staccando il mondo da lui. Tu ti avvicini a lui amando e ricreando la sua creazione. Sono entrambe opere umane e inadeguate, ma l'arte è più innocente. --Non so, Narciso. Voi pensatori e teologi però mi pare riusciate meglio a spuntarla con la vita, a difendervi dalla disperazione. Io non t'invidio più da un pezzo, amico mio, per la tua scienza, ma t'invidio per la tua tranquillità, per la tua equanimità, per la tua pace. --Non dovresti invidiarmi, Boccadoro. Non c'è una pa-ce così come tu la intendi. C'è la pace, senza dubbio, ma non una pace che alberghi durevolmente in noi e non ci abbandoni più. C'è solo una pace che si conquista continuamente con lotte senza tregua, e tale conquista dev'essere rinnovata giorno per giorno. Tu non mi vedi lottare, non conosci le mie battaglie nello studio e neppur quelle nella cella delle preghiere. E bene che tu non le conosca. Tu vedi solo che io sono soggetto meno di te agli umori variabili e credi che ciò sia pace. Ma è lotta, è lotta e sacrificio, come ogni vera vita, come anche la tua. --Non discutiamo. Neppur tu vedi tutte le mie lotte. E non so se puoi capire quello che io sento in cuore al-L'idea che presto quest'opera sarà finita. La si porta via, la si mette a posto, mi si fa qualche elogio, e poi io ritorno in un'officina vuota e nuda, triste per tutto quello che nella mia opera non mi è riuscito e che voialtri non potete affatto vedere; e la mia anima è vuota e spogliata, come l'officina. --Può darsi, -- disse Narciso, -- e nessuno di noi è in grado di comprendere l'altro sinc in fondo. Ma questo hanno in comune tutti gli uomini di buona volontà: che le nostre opere finiscono per lasciarci umiliati, che dobbiamo sempre ricominciare da capo, che l'offerta dev'essere rinnovata. Qualche settimana dopo il grande lavoro di Boccadoro era finito e posto in opera. Si ripeté quello che già gli era toccato tanto tempo prima: la sua opera passò in possesso degli altri, fu contemplata, giudicata, lodata, egli ricevette encomi e onori; ma il suo cuore e la sua officina rimasero vuoti; non sapeva più se l'opera valesse il sacrificio. Il giorno dello scoprimento era invitato a tavola dai padri: c'era banchetto, festeggiato col vino più vecchio del convento. Boccadoro inghiottì il buon pesce e la selvaggina, e più del vin vecchio lo riscaldarono l'interessamento e la gioia con cui Narciso salutò la sua opera e gli onori che gli furono tributati. Un nuovo lavoro desiderato e ordinato dall'abate era già abbozzato, un altare per la cappella di Maria a Neu-zell, che apparteneva al convento e dove officiava un padre di Mariabronn. Per questo altare Boccadoro voleva fare una statua di Maria e immortalare in essa una delle figure indimenticabili della sua giovinezza, Lidia, la bella e timorosa figlia del cavaliere. Nel resto quest'incarico non aveva molta importanza per lui, ma gli sembrava l'occasione buona per far fare a Eric la sua prova di aiutante. Se Eric si mostrava all'altezza del compito, egli avrebbe avuto in lui per sempre un buon collaboratore, il quale poteva sostituirlo e lasciarlo libero per quei lavori che soli gli stavano ancora a cuore. Scelse con Eric il legname per l'altare e glielo fece preparare. Spesso Boccadoro lo lasciava solo, aveva ripreso il suo girovagare e le lunghe passeggiate nei boschi; una volta che rimase via parecchi giorni Eric ne informò l'abate e anche questi temette un poco che Boccadoro potesse essersene andato per sempre. Ma ritornò, lavorò una settimana alla figura di Lidia, poi ricominciò a vagare. Era preoccupato; da quando aveva terminato il grande lavoro, la sua vita era in disordine: trascurava la prima messa, si sentiva profondamente inquieto e scontento. Pensava molto a maestro Nicola, e se egli stesso non sarebbe diventato presto come lui, diligente e virtuoso e abile, ma non più libero, non più giovane. Una piccola avventura recente gli aveva dato da pensare. Nelle sue scorri-bande aveva trovato una giovane contadina di nome Francesca, che gli piaceva molto, e si era dato ogni pena per ammaliarla, usando tutte le sue antiche arti di seduzione. La ragazza ascoltava volentieri le sue chiacchiere, rideva divertita ai suoi scherzi, ma respingeva le sue seduzioni, e per la prima volta egli sentì che a una donna giovane egli appariva vecchio. Non ci era andato più, ma non aveva dimenticato. Francesca aveva ragione; era diventato un altro, lo sentiva egli stesso; e non erano quei pochi capelli precocemente grigi e quel pò di rughe intorno agli occhi, era qualcosa di più nel suo essere, nel suo animo; si sentiva vecchio, si sentiva divenuto simile in modo inquietante a maestro Nicola. Osservava se stesso sdegnosamente e scrollava le spalle con disprezzo aveva perduto la libertà, era diventato sedentario: non più aquila e lepre, ma animale domestico. Quando girovagava, più che nuovi cammini e nuova libertà cercava il profumo del passato, il ricordo delle sue peregrinazioni d'un tempo; la sua ricerca era piena di nostalgia e di diffidenza, come l'annusar di un cane in cerca di una traccia perduta. E quando era stato fuori un giorno o due ed era andato un poco a zonzo in vacanza, un impulso irresistibile lo richiamava indietro, la coscienza lo rimordeva, sentiva che l'officina l'aspettava, ch'egli aveva una responsabilità per l'altare cominciato, per il legno preparato, per l'aiutante Eric. Non era più libero, non era più giovane. Fece allora un fermo proponimento: quando fosse terminata la Lidia-Maria avrebbe intrapreso un viaggio, avrebbe ritentato la vita del vagabondo. Non era bene vivere così a lungo in un convento, e con soli uomini. Per monaci poteva esser bene, ma non per lui. Con gli uomini si potevano fare discorsi belli e saggi; essi avevano comprensione per il lavoro di un artista; ma tutto il resto, le chiacchiere, le tenerezze, il gioco, L'amore, il beato ozio senza pensieri tutto questo non prosperava fra gli uomini; per questo ci volevano donne, vita all'aperto senza meta, e sempre nuove immagini. Tutto lì intorno a lui era un poco grigio e serio, un poco grave e maschile, ed egli aveva subito il contagio, gli era penetrato nel sangue. Il pensiero del viaggio lo consolava, attendeva brava-mente al suo lavoro per esser libero più presto. E mentre a poco a poco la figura di Lidia gli usciva dal legno, mentre dalle nobili ginocchia di quella egli faceva scendere le pieghe severe della veste, lo rapiva una gioia intima e dolorosa, si sentiva malinconicamente innamorato di quell'immagine, di quella bella e timida figura di fanciulla, del ricordo d'allora, del suo primo amore, dei suoi primi viaggi, della sua gioventù. Lavorava con devozione all'immagine delicata, la sentiva una cosa sola con ciò che v'era di meglio in lui, con la sua giovinezza, con le sue più dolci memorie. Era una felicità per lui scolpire quel collo chino, quella bocca triste e affettuosa, quelle mani nobili, le dita lunghe, le estremità ben arcuate delle unghie. Anche Eric contemplava la figura ogni volta che poteva, con ammirazione e con rispettoso amore. Quando fu quasi terminata, la mostrò all'abate. Narciso disse: --Questa è la tua opera più bella, caro, non abbiamo nulla in tutto il convento che le stia a pari. Debbo confessarti che in questi ultimi mesi sono stato qualche volta preoccupato per te. Ti vedevo inquieto e sofferente, e quando scomparivi e rimanevi assente più di un giorno pensavo talora con ansia: forse non torna più. E invece hai fatto questa statua meravigliosa! Sono contento e sono fiero di te! --Sì, -- disse Boccadoro, -- la statua è riuscita proprio bene. Ma ora ascoltami, Narciso! Perché questa figura riuscisse bene, era necessaria tutta la mia giovinezza, la mia vita vagabonda i miei innamoramenti, i miei corteggiamenti alle donne. Questo è il pozzo a cui ho attinto. Il pozzo sarà presto vuoto, il cuore mi s'inaridisce. Terminerò questa Maria e poi prenderò congedo per un bel pò di tempo non so per quanto, e ricercherò la mia giovinezza e tutto quello che una volta mi fu così caro. Puoi tu capirlo?... Bene. Sai ch'ero qui tuo ospite e non ho mai preso compensi per il mio lavoro... --Te li ho offerti più volte -- interruppe Narciso. --Sì, e ora li accetto. Mi farò fare nuovi abiti e quando saranno pronti ti chiederò un cavallo e qualche tallero, poi partirò per il mondo. Non dir nulla, Narciso, e non rattristarti. Non è che qui non mi piaccia, in nessun altro luogo potrei aver di meglio. Si tratta d'altro. Esaudirai il mio desiderio? Poche parole furono scambiate ancora sull'argomento. Boccadoro si fece fare un semplice abito da cavaliere e un paio di stivali, e mentre s'avvicinava l'estate portò a termine la figura di Maria, come se fosse l'ultima sua opera con cura affettuosa diede l'ultimo tocco alle mani, al voito, ai capelli. Poteva perfino sembrare ch'egli pro-crastinasse la partenza, come se si lasciasse volentieri trattenere ancora da quegli ultimi delicati lavori intorno alla sua statua. Passava un giorno dopo l'altro ed egli aveva ancora sempre qualche cosa da accomodare. Narciso, quantunque il distacco imminente gli riuscisse penoso, talvolta sorrideva un poco dell'innamoramento di Boccadoro e della sua incapacità a staccarsi dalla figura di Maria. Ma un giorno Boccadoro lo sorprese, recandosi a un tratto da lui per congedarsi. Aveva preso la sua decisione nella notte. Nel suo abito nuovo, con un nuovo berretto, venne da Narciso a prender commiato. Già qualche tempo prima si era confessato e comunicato: ora veniva a dire addio e a ricevere la benedizione per il viaggio. Il distacco riuscì penoso a entrambi; Boccadoro si mostrò più brusco e più calmo di quel che non fosse in cuore. --Ti rivedrò? -- domandò Narciso. -- Oh sì: se il tuo bel cavallo non mi romperà il collo, mi rivedrai certamente. Altrimenti non ci sarebbe più nessuno a chiamarti Narciso e a darti preoccupazioni. Puoi star sicuro Non dimenticare di tenere un occhio su Eric. E che nessuno mi tocchi la mia figura! Essa rimarrà nella mia camera, come ho detto, e la chiave non deve uscire dalla tua mano. --Sei contento d'intraprendere questo viaggio? Boccadoro strizzò gli occhi. -- Ecco, sOno stato contento, è già qualche cosa. Ma ora che debbo partire, mi sembra meno allegro di quel che si potrebbe credere. Tu riderai di me, ma la separa-zione non mi riesce punto facile e questo attaccamento non mi piace. E come una malattia: le persone giovani e sane non l'hanno. Anche maestro Nicola era così. Ah non facciamo chiacchiere inutili! Benedicimi, caro, voglio partire. E se n'andò sul suo cavallo. Narciso pensava molto all'amico, era in ansia per lui e ne aveva la nostalgia. Gli sarebbe ritornato un giorno l'uccello fuggito, il caro spensierato? Quell'uomo singolare e difetto aveva ripreso la sua vita tortuosa e senza volontà, girava di nuovo il mondo, avido e curioso, seguendo i SUOI oscuri e forti istinti, tempestoso e insaziabile: un grande fanciullo. Che Dio sia con lui, ch'egli ritorni sano e salvo! Ora volava di nuovo qua e là come una farfalla, peccava di nuovo, seduceva le donne assecondava le sue voglie; forse gli capitava ancora di uccidere, cadeva in pericolo e in prigione, e vi periva. Quante ansie dava quel ragazzo biondo, che si doleva d'invecchiare e guardava con occhi così infantili! Come bisognava star inquieti per lui! E tuttavia Narciso, in cuor suo, era contento dell'amico. In fondo gli piaceva molto che quel ragazzo baldanzoso fosse così difficile da domare, che avesse simili grilli, che fosse scappato un'altra volta e un'altra volta si rompesse le corna. Ogni giorno in qualche ora i pensieri dell'abate ritornavano all'amico, con affetto e nostalgia, con riconoscenza, con ansia, talvolta anche con qualche scrupolo e qualche rimprovero a se stesso. Non avrebbe forse dovuto rivelare maggiormente all'amico quanto egli lo amasse, come non lo desiderasse diverso, come fosse diventato ricco in grazia sua e della sua arte? Gli aveva detto poco, troppo poco forse... Chi sa allora se non l'avrebbe potuto trattenere? Egli però non era diventato solo più ricco, per merito di Boccadoro: era anche diventato più povero: più povero e più debole, e certo era bene che non l'avesse mostrato all'amico. Il mondo in cui viveva ed aveva la sua patria, il suo mondo, la sua vita claustrale, il suo ufficio, la sua dottrina, L'edificio così ben organizzato dei suoi pensieri, erano stati spesso scossi e resi incerti dall'amico. Senza dubbio, dal punto di vista del convento, della ragione e della morale, la vita dell'abate era migliore, più giusta, più costante, più ordinata e più esemplare, era una vita di ordine e di servizio rigoroso, un sacrificio continuo, uno sforzo sempre nuovo verso la chiarezza e la giustizia, era molto più pura e più buona che la vita di un artista, di un vagabondo e di un seduttore di donne. Ma da un punto di vista più alto, dal punto di vista di Dio, L'ordine e la disciplina di una vita esemplare, la rinuncia al mondo e alla felicità dei sensi, la lontananza dal fango e dal sangue, il ritiro nella filosofia e nella devozione, erano davvero meglio che la vita di Boccadoro? L'uomo era davvero creato per condurre una vita regolata, di CUI ogni ora e ogni azione fossero annunciate dalla campana che chiama alla preghiera? L'uomo era davvero creato per studiare Aristotele e Tomaso d'Aquino, per sapere il greco, per mortificare i propri sensi e per fuggire il mondo? Non era egli creato da Dio con sensi e istinti, con oscurità sanguigne, con la capacità del peccato, del piacere, della disperazione? Intorno a queste domande s'aggiravano i pensieri dell'abate quando eran volti al suo amico. Sì, e forse non era soltanto più ingenuo e più umano condurre una vita come quella di Boccadoro; in fin dei conti era forse anche più coraggioso e più grande affidarsi alla corrente crudele e tumultuosa, commetter peccati e prender su di sé le loro amare conseguenze, anziché condurre una vita pulita in disparte dal mondo, con le mani lavate, e formarsi un bel giardino di pensieri pieno d'armonia, e camminare senza peccato fra le aiuole ben protette. Era forse più difficile, più valoroso e più nobile camminare con le scarpe logore per i boschi e per le strade maestre, soffrire il sole e la pioggia, la fame e la miseria, giocare coi piaceri dei sensi e pagarli con le sofferenze. In ogni caso Boccadoro gli aveva mostrato che un uomo destinato all'alto può scendere molto giù nel groviglio ebbro e sanguinoso della vita e insozzarsi di molta polvere e di sangue, senza tuttavia diventare meschino e volgare senza uccidere in sé il divino; gli aveva mostrato che poteva errare per profondi ottenebramenti, senza che nel sa-crario della sua anima si spegnessero la luce divina e la forza creatrice. Narciso aveva guardato in fondo alla vita disordinata del suo amico, e né il suo affetto né la sua stima per lui erano diminuiti. Oh no, e da quando aveva visto uscire dalle mani macchiate di Boccadoro quelle figure meravigliosamente vive nella loro placidità trasfigurate dalla forma e dall'ordine interiori, quei volti profondi illuminati dall'anima, quelle piante e quei fiori innocenti, quelle mani supplici o benedette, tutti quegli atteggiamenti arditi o soavi, fieri o sacri, da allora egli sapeva che in quel cuore incostante di artista e di seduttore c'era una pienezza di luce e di grazia divina. A lui era stato facile, nei loro colloqui, apparire superiore all'amico, contrapporre alla sua passione la propria disciplina e l'ordine dei propri pensieri. Ma ogni piccolo atteggiamento d'una figura di Boccadoro, ogni occhio, ogni bocca, ogni tralcio e ogni piega di veste non era più reale, più viva e più insostituibile di tutto quello che poteva dare un pensatore? Questo artista, dal cuore pieno di contrasti e di miserie, non aveva creato per un numero infinito di uomini, presenti e futuri, dei simboli della loro miseria e della loro aspirazione, delle figure, a cui potevano rivolgersi la devozione e la venerazione, L'angoscia e la nostalgia d'infinite creature, e trovare in esse conforto, appoggio e incoraggiamento? Narciso ricordava, sorridendo con malinconia, tutte le scene in cui, dalla prima giovinezza in poi, aveva guidato e ammaestrato l'amico. Questi aveva accettato con gratitudine, riconoscendo sempre la sua superiorità e la sua guida. E poi in silenzio aveva presentato le opere create dalla tempesta e dalla sofferenza della sua vita sferzata: non parole, non teorie, non spiegazioni, non ammonimenti, ma vita vera ed elevata. Com'era povero egli stesso, L'abate, in confronto, col suo sapere, con la sua disciplina claustrale, con la sua dialettica! Queste erano le questioni, intorno a cui s'aggiravano i SUOI pensieri. Come tanti anni prima egli aveva influito sulla giovinezza di Boccadoro, scuotendola e ammonendola, ed aveva posto la vita di lui su di un nuovo piano, così l'amico dopo il suo ritorno gli aveva dato da fare, lo aveva scosso e costretto ad esaminare se stesso e a dubitare. Era suo pari; nulla gli aveva dato Narciso, ch'egli non gli avesse reso e moltiplicato. L'amico lontano gli lasciò tempo per le sue meditazioni. Le settimane passavano, il castagno era fiorito da un pezzo, le foglie dei faggi, d'un verde tenero e lattiginoso, erano diventate scure e dure, le cicogne avevano covato da un pezzo sulla torre del portone ed eran loro nati i piccoli, a cui avevano insegnato a volare. Quanto più Boccadoro rimaneva assente, tanto più Narciso sentiva quello che l'amico era stato per lui. Nel convento l'abate aveva alcuni padri scienziati, un conoscitore di Platone, un eccellente grammatico, uno o due sottili teologi. Aveva fra i monaci alcune anime fedeli e rette, che facevano sul serio. Ma non aveva nessuno come lui, nessuno con cui si potesse veramente misurare. Questo bene insostituibile gliel'aveva dato solo Boccadoro. Esserne di nuovo privato gli riusciva penoso. Pensava all'assente con nostalgia. Spesso andava nell'officina, incoraggiava l'assistente Eric, che continuava a lavorare all'altare e aspettava ansiosa-mente il ritorno del suo maestro. Talvolta l'abate apriva la camera di Boccadoro, dove c'era la statua di Maria, sollevava cautamente il panno che la copriva e s'indugiava a contemplarla. Nulla sapeva della sua origine: Boccadoro non gli aveva mai raccontato la storia di Lidia. Ma egli sentiva tutto, capiva che quella figura di fanciulla aveva vissuto a lungo nel cuore del suo amico. Forse egli l'aveva sedotta, forse ingannata e abbandonata. Ma l'aveva portata con sé e custodita nella sua anima, più fedele che il migliore dei mariti, finché, forse dopo molti anni da che non l'aveva più veduta, aveva scolpito quella bella e commovente figura di fanciulla, racchiudendo nel suo viso, nel suo atteggiamento, nelle sue mani, tutta la tenerezza, L'ammirazione e la nostalgia di un amante. Anche nelle statue della tribuna per la lettura, nel refettorio, egli leggeva diversi episodi della storia del suo amico. Era la storia di un vagabondo e di un uomo d'istinto, di un senza patria e senza fede, ma ciò ch'era rimasto lì era tutto buono e fedele, era pieno di amore vivo. Come era misteriosa quella vita, come scorrevano torbide e travolgenti le sue correnti, e com'erano nobili e limpidi i risultati! Narciso lottava. Si dominava, non veniva meno ai compiti della sua carriera, non trascurava nulla del suo servizio rigoroso. Ma soffriva della perdita e soffriva di constatare quanto il suo cuore, che pur avrebbe dovuto appartenere soltanto a Dio e al suo ufficio, fosse affezionato a quell'amico. INDEX CAPITOLO XX L'estate passava: papaveri e fiordalisi, nigelle ed asteri avvizzivano e scomparivano, le rane diventavano silenziose nella peschiera, le cicogne volavano alte e si preparavano alla partenza. Allora ritornò Boccadoro! Arrivò un pomeriggio sotto una pioggia fine, e non entrò nel convento, andò direttamente dalla porta alla sua officina. Era a piedi, senza cavallo. Eric si spaventò, quando lo vide entrare. Lo riconobbe bensì alla prima occhiata e il suo cuore esultò incontro a lui, ma gli parve che colui che era tornato fosse tutt'altro uomo: un falso Boccadoro, di molti anni più vecchio, con un volto semispento, grigio e terreo, con lineamenti cascanti, malati e sofferenti, in cui però non stava scritto un dolore, ma piuttosto un sorriso, un sorriso bonario, paziente, vecchio. Camminava a stento, si trascinava, sembrava malato e molto stanco. Questo Boccadoro strano e mutato, guardò il suo giovane aiutante negli occhi, con un'espressione singolare. Non fece gran caso del proprio ritorno pareva che venisse dalla camera attigua e fosse stato lì poco prima. Diede la mano senza dir nulla: non un saluto, non una domanda, non un racconto. Disse solo: --Devo dormire--. Pareva terribilmente stanco. Mandò via Eric ed entrò in camera sua, accanto all'officina. Qui si tolse il berretto e lo lasciò cadere, si tolse le scarpe e s'avvicinò al letto. In fondo alla stanza vide la sua Madonna sotto i panni; le fece un cenno, ma non andò a scoprirla e a salutarla. Invece si trascinò fino alla finestrina, vide fuori Eric che attendeva costernato e gli gridò: -- Eric, non c'è bisogno che tu dica a nessuno che sono arrivato. Sono molto stanco C'è tempo fino a domani. Poi si coricò vestito sul letto. Dopo un poco, non avendo ancora trovato il sonno, s'alzò, s'avvicinò pesantemente alla parete, dov'era appeso un piccolo specchio, e vi si guardò. Osservò attentamente quel Boccadoro che lo guardava: un Boccadoro stanco, un uomo invecchiato e avvizzito, con la barba molto incanutita. Un uomo vecchio e alquanto trascurato lo guardava dal piccolo specchio torbido, un volto ben noto, ma divenuto estraneo; pareva che non fosse veramente presente, che quasi nulla ormai gl'importasse. Gli ricordava questo o quel volto conosciuto in passato, un pò maestro Nicola, un pò il vecchio cavaliere che un giorno gli aveva fatto confezionare un vestito da paggio, un pò anche il san Giacomo ch'era in chiesa, il vecchio san Giacomo con la barba, che appariva così antico e grigio sotto il suo cappello da pellegrino, ma pur sereno e buono. Nel volto che lo specchio gli presentava leggeva attentamente, come se gli fosse premuto di sapere qualcosa di quello straniero. Gli fece un cenno e lo riconobbe: sì, era proprio lui, corrispondeva al sentimento ch'egli aveva di se stesso. Dal viaggio era tornato un vecchio molto stanco e diventato un poco ottuso, un uomo sparuto, che non faceva certo bella figura, e tuttavia non gli era punto antipatico, anzi gli piaceva: aveva nel volto qualcosa che il bel Boccadoro di un tempo non aveva avuto, in tutta quella stanchezza e decadenza c'era un tratto di contentezza, oppure di equilibrio interiore. Rise un poco fra sé e vide ridere anche l'immagine dello specchio: un bel tipo aveva riportato a casa dal viaggio! Ben abbronzato ritornava dalla sua breve cavalcata, e non solo ci aveva lasciato il suo cavallo, la sua borsa da viaggio e i suoi talleri, qualcos'altro gli era andato perduto e l'aveva abbandonato: la giovinezza, la salute, la fiducia in se stesso, il rosso sulle guance e la forza nello sguardo. Tuttavia quell'immagine gli piaceva: quel povero diavolo vecchio e debole lì nello specchio gli era più caro del Boccadoro ch'egli era stato per tanto tempo. Era più vecchio, più debole, più miserando, ma era più innocente, più contento, più trattabile. Rise e abbassò una delle palpebre divenute rugose. Poi si rimise sul letto e finalmente s'addormentò. Il giorno dopo era seduto in camera sua, chino sopra la tavola, e tentava di disegnare un poco, quando venne a trovarlo Narciso. Si fermò sulla porta, dicendo: -- Mi hanno riferito che sei tornato. Dio sia ringraziato, sono tanto contento. Poiché non sei venuto a cercarmi, vengo io da te. Ti disturbo nel tuo lavoro? S'avvicinò. Boccadoro si sollevò dal suo foglio e gli stese la mano. Quantunque Eric l'avesse preparato, la vista dell'amico spaventò l'abate sino in fondo al cuore. L'altro gli sorrise affettuosamente. -- Sì, sono di nuovo qui, Ti saluto, Narciso, non ci vediamo da un pezzo. Perdonami di non essere ancora venuto a trovarti. Narciso lo guardò negli occhi. Anch'egli vide non solo l'aspetto miseramente avvizzito e spento di quel volto, ma anche quell'altra espressione strana e simpatica di equilibrio, d'indifferenza persino, di rassegnazione e di senile bonarietà. Esperto nella lettura dei visi umani, vide anche che quel Boccadoro così straniato e mutato non era del tutto presente, che la sua anima si era allontanata di molto dalla realtà e camminava sulle vie del sogno, oppure si trovava già alla porta che conduce nell'aldilà. --Sei malato? -- domandò cauto. --Sì, sono anche malato. Mi ammalai già all'inizio del mio viaggio, già nei primi giorni. Ma tu capisci che non volevo tornare indietro subito. Avreste riso di me, se mi aveste veduto ricomparire così presto e togliermi già i miei stivali di cavaliere. No, questo non mi piaceva. An-dai avanti, girai ancora un pochino: mi vergognavo che il viaggio mi fosse riuscito male. Ero stato uno spaccone. Insomma, mi vergognavo. Ebbene, tu capisci, vero? sei un uomo così intelligente! Scusa, hai domandato qualche cosa? Mi par d'essere stregato, dimentico continuamente quello di cui si sta parlando. Ma a proposito di mia madre, facesti bene allora. Fu una gran sofferenza, ma... Il mormorio si spense in un sorriso. --Ti faremo guarire, Boccadoro, non ti lasceremo man-car nulla. Ma perché non ritornare subito, quando cominciasti a star male? Davanti a noi non è proprio il caso che tu ti vergogni. Avresti dovuto ritornare subito. Boccadoro rise. -- Sì, adesso mi ricordo. Non mi sentivo di ritornare così senz'altro. Sarebbe stata una vergogna. Ma ora sono venuto. Ora sto di nuovo bene. -- Hai avuto molte sofferenze ? -- Sofferenze? Sì, abbastanza. Ma vedi, le sofferenze sono una bellissima cosa, mi hanno ricondotto alla ragione. Ora non mi vergogno più, nemmeno di fronte a te. Allora, quando mi venisti a trovare nella prigione per salvarmi la vita, allora sì dovetti stringere i denti, perché mi vergognavo davanti a te. Ora è tutto passato. Narciso pose una mano sul braccio di lui: subito egli tacque e chiuse gli occhi sorridendo. S'addormentò placidamente. L'abate uscì costernato e corse a chiamare il medico del convento, padre Antonio, perché visitasse il malato. Quando ritornarono, Boccadoro dormiva seduto alla sua tavola da disegno. Lo portarono a letto, e il medico rimase presso di lui. Lo trovò malato senza speranza. Lo trasportarono in una delle camere destinate agli ammalati, e gli assegnarono Eric come infermiere fisso. Tutta la storia del suo ultimo viaggio non venne mai in luce. Egli raccontò qualche particolare, qualche altro si poté indovinare. Spesso giaceva insensibile, talvolta aveva la febbre e delirava, tal altra era cosciente e allora veniva subito chiamato Narciso, al quale quegli ultimi colloqui con Boccadoro stavano molto a cuore. Alcuni frammenti dei racconti e delle confessioni di Boccadoro furono tramandati da Narciso, altri da Eric. -- Quando cominciarono le sofferenze? Ancora in principio del mio viaggio. Cavalcavo nella foresta e precipitai col cavallo in un torrente; rimasi tutta la notte nell'acqua fredda. Là dentro, dove mi ruppi le costole, là cominciarono i miei dolori. Allora non ero ancora molto lontano di qui, ma non volevo tornare indietro: era puerile, lo so, ma pensavo che la cosa dovesse parer comica. Continuai dunque a cavalcare, e quando non potei più, perché mi faceva troppo male, vendetti il cavallino; poi giacqui a lungo in un ospedale. Ora rimango qui, Narciso, ho finito di cavalcare. Ho finito di girare il mondo. Ho finito di ballare e di amar le donne. Ah, se non fosse così, sarei stato via ancora un pezzo, ancora anni ed anni. Ma quando m'avvidi che fuori, nel mondo, non c'era più gioia per me, pensai: prima di morire voglio disegnare ancora un poco e fare un paio di statue; qualche piacere si vuol pure averlo. Narciso gli disse: -- Sono così contento che tu sia ritornato! Mi sei mancato tanto, ho pensato a te ogni giorno e spesso avevo paura che tu non volessi ritornare più. Boccadoro scosse la testa: -- Via, la perdita non sarebbe stata grande. Narciso, a cui bruciava il cuore di dolore e di affetto si chinò lentamente verso di lui e fece quello che in tanti anni della loro amicizia non aveva mai fatto, sfiorò con le sue labbra i capelli e la fronte di Boccadoro. Questi s'accorse di ciò che accadeva, prima con stupore, poi con commozione. -- Boccadoro, -- gli sussurrò l'amico all'orecchio, -perdonami di non avertelo saputo dire prima. Avrei dovuto dirtelo allora, quando venni a cercarti nella tua prigione, nella residenza del vescovo, o quando vidi le tue prime figure, o qualche altra volta. Lascia che te lo dica oggi quanto ti voglio bene, quanto tu sei stato sempre per me, come hai arricchito la mia vita. Per te non avrà molta importanza. Tu sei abituato all'amore, esso non è nulla di strano per te, sei stato amato e viziato da tante donne. Per me è un'altra cosa. La mia vita è stata povera d'amore, mi è mancato il meglio. Il nostro abate Daniele mi diceva un giorno ch'io gli sembravo orgoglioso: forse aveva ragione, lo non sono ingiusto verso gli uomini, mi sforzo di essere giusto e paziente con loro, ma non li ho mai amati. Di due eruditi che ci siano nel convento, il più erudito mi è più caro; a un debole scienziato non ho mai potuto voler bene, passando sopra alla sua debolezza. Se tuttavia so che cos'è l'amore, è per merito tuo. Te ho potuto amare, te solo fra gli uomini. Tu non puoi misurare ciò che significhi. Significa la sorgente in un deserto, L'albero fiorito in un terreno selvaggio. A te solo debbo che il mio cuore non sia inaridito, che sia rimasto in me un punto accessibile alla grazia. Boccadoro sorrise lieto e un pò imbarazzato. Con la voce calma e sommessa che aveva nelle ore di lucidità disse: -- Quando mi avevi liberato dalla forca e ritor-navamo al convento, io ti chiesi notizie del mio cavallo Bless e tu me le desti. Allora vidi che tu, che di solito non distingui quasi nemmeno un cavallo dall'altro, ti eri interessato del cavallino Bless. Compresi che l'avevi fatto per me e ne fui molto lieto. Ora vedo ch'era proprio così e che mi vuoi bene davvero. Anch'io ti ho sempre voluto bene, Narciso: la metà della mia vita è stata uno sforzo continuo per guadagnarsi l'animo tuo. Sapevo che anche tu avevi dell'affetto per me, ma non avrei mai sperato che me lo dicessi un giorno, uomo superbo! Ora me l'hai detto, in questo momento in cui non ho più nient'altro, in cui la vita errabonda e la libertà, il mondo e le donne mi hanno lasciato in asso. L'accetto, te ne ringrazio. La Lidia-Madonna era nella camera e guardava. --Pensi sempre a morire? -- domandò Narciso. -- Sì, ci penso, e penso a quello ch'è diventata la mia vita. Quand'ero giovinetto e ancora tuo scolaro, avevo il desiderio di diventare una persona spirituale come te. Tu mi hai mostrato che non era la mia vocazione. Allora mi sono gettato dall'altra parte della vita, quella dei sensi, e le donne mi hanno aiutato a trovar lì il mio piacere: sono così volonterose e avide! Ma non vorrei parlar di loro con disprezzo e neppure del piacere sensuale; sono stato spesso molto felice. E ho avuto anche la fortuna di sperimentare come la sensualità possa venir animata. Di qui nasce l'arte. Ma ora le due fiamme sono spente. Non ho più la felicità bruta della voluttà... e non l'avrei nemmeno se le donne mi corressero dietro ancora. E anche creare opere d'arte non è più il mio desiderio; di statue ne ho fatte abbastanza, non è il numero che conta. Perciò è ora per me di morire. Sono pronto e curioso della morte. -- Perché curioso? -- domandò Narciso. -- Mah, è forse un pò sciocco da parte mia. Eppure sono davvero curioso. Non dell'aldilà, Narciso, di questo mi do poco pensiero e, se mi è lecito dirlo apertamente non ci credo più. Non c'è un aldilà. L'albero disseccato è morto per sempre, L'uccello assiderato non torna più in vita e così pure l'uomo quando è morto. Si può pensare a lui per qualche tempo, dopo che se n'è andato, ma anche questo non dura a lungo. No, sono curioso della morte, perché la mia fede o il mio sogno è sempre di essere in cammino verso mia madre. Spero che la morte sia una grande felicità, una felicità grande come quella del primo appagamento dell'amore. Non posso staccarmi dal pensiero che, invece della morte armata di falce, sarà mia madre a riprendermi con sé e a ricondurmi nel nulla e nell'innocenza. In una delle sue ultime visite, dopo parecchi giorni che Boccadoro non parlava più, Narciso lo trovò di nuovo sveglio e loquace. -- Padre Antonio pensa che tu devi avere spesso grandi sofferenze. Come fai, Boccadoro, a sopportarle con tanta tranquillità? Mi sembra che ora tu abbia trovato la pace. -- Intendi la pace con Dio? No, questa non l'ho trovata. Non voglio far pace con lui. Egli ha creato male il mondo, non c'è bisogno che noi lo esaltiamo, e anche a lui importerà poco che io lo esalti o no. Ha creato male il mondo. Ma con le sofferenze nel mio petto ho fatto la pace, questo è vero. Prima non sapevo sopportar bene i dolori, e, quantunque talvolta fossi del parere che la morte mi sarebbe stata lieve, era un errore. Quando dovevo morire sul serio, quella notte nella prigione del conte Enrico, ne ebbi la rivelazione: non potevo assolutamente morire ero ancora troppo forte e troppo indomito, avrebbero dovuto ammazzare due volte ogni membro del mio corpo. Ma ora è un'altra cosa. Parlare lo stancava, la sua voce s'affievoliva. Narciso lo pregò di aversi riguardo. --No,--insisté,--voglio raccontarlo. Prima mi sarei vergognato a dirtelo. Dovrai ridere. Quel giorno che salii sul mio cavallo e partii di qui, non fu proprio senza uno scopo. Avevo sentito dire che il conte Enrico era ancora nel paese e con lui la sua amante, Agnese. Ebbene, questo non ti sembra importante, e neppure a me oggi sembra importante. Ma allora la notizia mi bruciò sul vivo, non pensai più che ad Agnese; era la più bella donna che avessi conosciuta e amata, volevo rivederla, volevo essere felice ancora una volta con lei. Dopo una settimana di cavalcate, la trovai. Là, in quell'ora, avvenne la mia trasformazione. Trovai dunque Agnese: non era meno bella d'un tempo ed ebbi anche occasione di mostrarmi a lei e di parlarle. E pensa, Narciso; non voleva più saperne di me! Ero diventato troppo vecchio per lei, non ero più abbastanza bello e gaio, non si riprometteva più nulla da me. Con ciò il mio viaggio era propriamente finito. Con-tlnuai a cavalcare; non volevo ritornare da voi così deluso e ridicolo, e, mentre cavalcavo così, la forza, la giovinezza, il senno mi avevano già abbandonato, poiché precipitai col mio cavallo in una gola e in un torrente, mi ruppi le costole e rimasi nell'acqua. Allora per la prima volta conobbi le vere sofferenze. Cadendo sentii subito spez-zarsi qualcosa dentro il mio petto e quello spezarsi mi fece piacere, lo sentii volentieri, ne fui contento. Rimasi nell'acqua e compresi che dovevo morire, ma tutto era diverso da allora quand'ero nella prigione. Non avevo nulla in contrario, la morte non mi pareva più un male. Sentii quei dolori violenti, che da allora ho riavuti spesso, ed ebbi un sogno o una visione, come vuoi chiamarla. Ero là disteso e il petto mi bruciava dolorosamente ed io volevo difendermi e gridare, ma a un tratto udii una voce che rideva, una voce che non avevo più udita dalla mia infanzia. Era la voce di mia madre, una voce femminile profonda, piena di voluttà e d'amore. E allora vidi ch'era lei, che mia madre era presso di me e mi aveva sul suo grembo e mi apriva il petto e affondava le sue dita fra le mie costole, per liberarne il cuore. Quando vidi e compresi questo, non sentii più male. Anche ora, quando i dolori mi ritornano, non sono dolori, non sono nemici; sono le dita della madre, che mi prendono fuori il cuore. Ella è zelante nell'opera sua. Talvolta preme e geme, co-me in voluttà. Talvolta ride e mormora suoni teneri. Talvolta non è accanto a me, ma su in cielo: io vedo fra le nubi il suo volto, grande come una nube, là essa vaga e sorride con tristezzA, e il suo triste sorriso mi sugge il cuore dal petto. Tornava sempre a parlare di lei, della madre. --Ricordi ancora? -- domandò uno degli ultimi giorni. --Una volta avevo dimenticato mia madre, ma tu la rievocasti. Anche allora mi fece molto male, come se fauci di belve mi divorassero le viscere. Allora eravamo ancora giovinetti, eravamo dei bei ragazz. Ma già allora la madre mi aveva chiamato e io dovetti seguirla. Ella è dappertutto. Era la zingara Lisa, era la bella Madonna di maestro Nicola, era la vita, L'amore, la voluttà, era anche l'angoscia, la fame, L'istinto. Ora è la morte, ha le sue dita nel mio petto. --Non parlar troppo, caro,--pregò Narciso,--aspetta fino a domani. Boccadoro lo guardò negli occhi col suo sorriso, con quel sorriso nuovo che aveva riportato dal suo viaggio, che appariva così vecchio e malato e a volte sembrava un pò ebete, a volte era tutto luce di bontà e di saggezza. --Mio caro, -- bisbigliò, -- non posso aspettare fino a domani. Debbo prender congedo da te e come congedo debbo dirti ancora tutto. Ascoltami un momento ancora. Volevo raccontarti della madre, che mi tiene le dita strette intorno al cuore. Da molti anni, creare una figura della madre è stato il mio sogno più caro e più misterioso, era per me la più santa di tutte le immagini, me la portai sempre in cuore, una figura piena d'amore e piena di mistero. Ancora poco tempo fa mi sarebbe stato insopportabile il pensiero di dover morire senza aver realizzto questo mio sogno; tutta la mia vita mi sarebbe apparsa inutile. Ed ora guarda che strano destino: invece d'esser le mie mani a formarla e plasmarla, è lei a formare ed a plasmare me. Ha le sue mani intorno al mio cuore e lo stacca dal mio corpo e mi svuota; mi ha allettato a morire, e con me muore anche il mio sogno, la bella figura, L'immagine della grande Eva-Madre. La vedo ancora e, se avessi forza nelle mani, potrei darle forma. Ma essa non vuole, non vuole che io renda visibile il suo mistero. Preferisce che io muoia. Muoio volentieri: essa mi rende facile il trapasso. Narciso ascoltava costernato quelle parole e dovette chi-narsi fin sul volto dell'amico per poter afferrarle ancora. Alcune gli giunsero indistinte, altre chiare, ma il loro significato gli rimase nascosto. Poi il malato spalancò gli occhi ancora una volta e fissò a lungo il viso dell'amico. Con gli occhi prese congedo da lui. E con un movimento, quasi tentasse di scuotere la testa, sussurrò: --Ma come vuoi morire un giorno, Narciso, se non hai una madre? Senza madre non si può amare. Senza madre non si può morire. Ciò che mormorò ancora in seguito non fu più comprensibile. Le due ultime giornate Narciso rimase seduto al suo letto giorno e notte, e lo guardò spegnersi. Le ultime parole di Boccadoro gli bruciavano nel cuore come fuoco. INDEX
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