GM CANTARELLA, Il sole e la luna. La rivoluzione di Gregorio VII

CAPITOLO VIII: RIFORMA “GREGORIANA” E LOTTA PER LE INVESTITURE – UNA SVOLTA
§ 59: Acquisizioni storiografiche
Bibliografia: G. M. CANTARELLA, Il sole e la luna. La rivoluzione di Gregorio VII papa
1073-1085, Roma – Bari 2005; G. MICCOLI, Chiesa gregoriana. Ricerche sulla riforma del
secolo XI, Roma 1999; una sintesi sulla riforma, discutibile ma acuta, in H. FUHRMANN,
Gregorio VII, “riforma gregoriana” e lotta per le investiture, in Storia dei papi, e cura di
M. Greschat e E. Guerriero, Cinisello B. 1994, 210-213.
Bisogna superare anzitutto la vecchia ma ancor diffusa visione della riforma gregoriana
come scontro tra due mondi sostanzialmente opposti, ciascuno dei quali poi è valutato
positivamente o negativamente a seconda delle ideologie di partenza. I gregoriani non erano
l’unico e ultimo resto di una Chiesa tutta degenerata e corrotta, di un episcopato ormai
totalmente succube della corona imperiale tedesca e degli altri monarchi, come pretende una
certa storiografia ecclesiastica del passato; e neppure erano i rigidi assertori di una Chiesa
monastica e monarchica, che impose il celibato ecclesiastico, riesumandolo (forse) da
vecchie e disusate leggi o (più probabilmente) inventandolo di sana pianta per evitare che la
struttura ecclesiastica avesse danni economici dall’ereditarietà dei benefici ecclesiastici, e
così inventandosi tutto un nuovo diritto canonico papista per apriorismo o malcelata sete di
potere, come si esprime un certo teologare con poche attenzioni filologiche o posizioni più o
meno ideologiche di varie storiografie.
La riforma, la volevano molti, vescovi sia del campo gregoriano che del campo imperiale.
Wiberto o Guiberto di Ravenna, per un buon numero di anni papa imperiale col nome di
Clemente III, non era semplicemente il prelato ambizioso e rapace che approfitta del
discredito gettato dal campo imperiale su Gregorio VII per occupare il suo seggio papale,
ma un vescovo colto e capace e impegnato a portare avanti, anche lui, principi e idee di
“riforma”, come ad esempio la vita comune dei canonici di Ravenna. I vescovi tedeschi
erano per lo più figure culturalmente adeguate e moralmente ineccepibili. Uno degli esempi
possibili è Burcardo, vescovo “imperiale” di Worms attorno all’anno mille: pastore zelante,
scrittore, raccoglie i dati fondamentali della normativa canonica e pastorale, compreso un
“penitenziale” non certo lassista. Nel Regnum Italiae non mancavano vescovi meno capaci e
più corrotti, ma nel campo imperiale ci saranno anche personaggi sinceramente preoccupati
di superare il mercimonio dei benefici ecclesiastici che tutti, allora, definivano simonia. Se
142
nella corte di Enrico IV di Franconia c’erano ministri e consiglieri oggettivamente
compromessi con una gestione “politica” e anche ben poco regolare dei beni e delle cariche
ecclesiastiche, una parte non secondaria dell’episcopato, sia tra i favorevoli alla posizione
papale che tra quelli vicini all’impero, percepiva che una riforma era necessaria.
Ciò, ovviamente, non significa che non ci fossero le condizioni e i motivi per quella “lite”
che fu la lotta per le investiture, e da cui prende latino nome una preziosa raccolta moderna
di scritti imperiali e gregoriani del periodo: i libelli de lite. Il motivo dello scontro, a
posteriori, è evidente, e anche a quel tempo divenne progressivamente più chiaro con il
protrarsi delle polemiche. Gli imperiali volevano la riforma ma intendevano restare
all’interno del quadro del Reichskirchensystem, struttura imprescindibile, secondo loro,
della vita ecclesiale. I gregoriani scelsero per logica interna dell’impegno di riforma di
prescindere dal sistema della Chiesa imperiale, individuando proprio nello stretto legame tra
potere politico territoriale e struttura ecclesiastica il nocciolo che creava le condizioni per lo
slittamento nella simonia e nel concubinato del clero. In sintesi, questo fu l’oggetto del
contendere. Ma anch’esso si chiarì poco a poco, progressivamente, e non senza
ripensamenti dell’uno o dell’altro attore del dramma: ci possono sconcertare alcuni passaggi
di campo, che gli ex amici definivano, com’è ovvio, tradimento. Ma se ne coglie spesso il
significato proprio all’interno di due gruppi che, almeno a parole, ma non solo,
proclamavano entrambi il bisogno di riforma della Chiesa.
Aggiungiamo ancora che all’interno dello stesso gruppo “gregoriano” non sono mancate
posizioni differenti, e non solo riguardo a sfumature. E questo ha portato a drammatici
scontri, a rotture, a “tradimenti” veri o apparenti. Spesso i “gregoriani”, pur essendo decisi,
quando se ne delineò il contorno, a rifiutare le investiture laicali, si dividevano sulla
possibilità o meno di collaborare o almeno di entrare in dialogo con la corte imperiale e i
suoi vescovi. Si tratta, quindi, di uno scenario di grande complessità; e, di conseguenza,
anche di grande interesse.
Ma, verrebbe da dire, se l’episcopato era, in fondo, così determinato per la riforma, allora ce
n’era poi così bisogno? I testi di entrambe le parti, lo stesso movimento popolare della
pataria contro il clero concubinario e simoniaco, provano che in realtà di riforma c’era
bisogno. Perfino, come si diceva sopra, alcuni elementi del papato tuscolano avevano
ripreso il diritto canonico occidentale sul celibato ecclesiastico per proclamare che
bisognava rimetterlo in vigore. Se una parte non marginale dell’episcopato era desiderosa di
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riforma, probabilmente gran parte del clero soprattutto nelle campagne era invece in
condizioni morali e culturali deprimenti1. E sistemi di assegnazione di cariche e benefici
ecclesiastici sbrigativi e a base di denaro contante erano diventati la normalità, se non
dovunque, in larghe parti della Chiesa occidentale. Aree importanti di monachesimo erano
state riformate, ma anche qui c’erano abbazie potenti e ricche o conventi di canonichesse di
vita piuttosto rilassata o compromessa coi giochi di potere locali, talvolta squallidi o
violenti.
Mentre con Enrico III l’episcopato di Germania e Italia è generalmente di buona qualità, la
situazione inizia a mostrare qualche segno di decadimento col figlio Enrico IV, salito
bambino al trono: durante la sua minore età emergono casi di simonia in Germania (FM 8,
53s), e da adulto avrà, come vedremo, pochi scrupoli in questo campo.
Un’altra acquisizione della più recente storiografia, in fecondo contatto con le discipline
storiche laiche, inserisce la riforma della Chiesa occidentale in un contesto di ripresa
anzitutto demografica, e quindi economica e colonizzatrice, che, con qualche avvisaglia già
nel secolo X, diviene trend ampio e percepito nei decenni dopo il mille, non senza un
influsso climatico, almeno così sembra: tra il 1000 e il 1300 si arriva a popolare la
Groenlandia, che attualmente smentisce il nome di “isola verde” che gli fu dato dagli
scandinavi che la raggiunsero; e la vite attecchiva in Gran Bretagna, cosa che oggi non
avviene più… Lo slancio demografico produce importanti cambiamenti economici, con la
fine o la marginalizzazione del fenomeno schiavistico, l’emergere di un mondo di
“cavalieri” nobili in cerca di un ruolo, la ripresa della vita urbana in varie parti d’Europa. Il
contadino occidentale bonifica nuove terre, nel mondo di boschi e paludi dove finora era
sopravvissuto (quanto sono diffusi in Italia i nomi di Ronco, Villanova, Castelnuovo; ma
termini analoghi si offrono nella toponomastica di tutta Europa)2. Dunque l’Europa
occidentale è in pieno slancio, e questo impulso di crescita ed espansione raggiunge anche
la Chiesa, spingendola ad affrontare nuovi problemi, a individuare e sopprimere cause di
inerzia, a intraprendere progetti di larga portata, come furono le crociate, che, come diremo
a suo luogo, in questo slancio vanno lette.
1
Non mancava neppure chi presumeva di avere un’elaborazione teologica o pezze d’appoggio canoniche al matrimonio
del clero, come quei canonici della Chiesa di Laus che Pier Damiani incontra verso il 1059 e che come tauri furentes lo
aggrediscono mettendogli davanti i testi di uno sconosciuto sinodo: si vedano le epistole* (PL 145, 402. 685*).
2
Il termine Ronco significa terra bonificata di recente. Nel vecchio e utilissimo annuario del Touring del 1951 conto
almeno 111 luoghi italiani sicuramente riconducibili a questo termine.
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La Chiesa dunque partecipa di questo slancio, lo fa proprio in qualche modo, o per certi
aspetti prova a canalizzarlo, e a offrire un senso o dei sensi culturalmente significativi.
§ 60: Prima fase – i papi “tedeschi”
Bibliografia: FM 7, 97-115; J 4, 326-333; 459-467; L 385-401; GV 139-149; P 69-72; HC
4, 859-861; EP 2, 150-166.
La riforma convenzionalmente si intitola “gregoriana” con riferimento a Gregorio VII, che
però fu, come papa, quasi più un simbolo della riforma: sicuramente ne fu uno dei
protagonisti più rilevanti, ma non fu certo l’iniziatore, benché la sua figura si inizi a vedere
proprio dalle prime battute del processo storico che cercheremo di descrivere. La “riforma”
inizia ben prima. Che cos’è la riforma gregoriana? Per dare una prima e limitata definizione,
è il momento in cui le linee di riforma già presenti nella compagine ecclesiale vanno “alla
testa”, cioè giungono a influenzare il governo del pontificato romano e, attraverso l’impulso
che esso si assume, sono diffuse sistematicamente in tutta l’Europa occidentale, e in questo
modo diventano condizioni dello “slancio”, ossia della condivisione, da parte delle
comunità ecclesiali, del movimento espansivo dell’occidente europeo. Si tratta di esperienze
rinnovatrici presenti nel mondo monastico (vedi capitolo 6), sia nell’ampio mondo
cluniacense che nelle variegate realtà raggiunte dai riformatori “lorenesi”, sia nei fermenti
dei vari ambiti eremitici; ma anche di dibattiti sul versante teologico e su quello canonistico,
che da tempo dibattono di “simonia” e di “nicolaismo”, non a caso termini desunti dagli
scritti del Nuovo Testamento.
Guardando questo processo nel suo ampio arco temporale, potremmo dire dal 1046 al 1122
per segnare due termini definiti da avvenimenti formali (un sinodo e un “concordato”), si
può anticipare un dato interpretativo che si può collocare nel fenomeno ricorrente nella
storia umana e si chiama eterogenesi dei fini. La riforma nasce all’interno del
Reichskirchensystem, da prelati assolutamente legati a questa struttura, ma per una sorta di
logica interna finirà per sovvertirlo e portare a una sua sostanziale liquidazione.
Alla fine del § 38 si accennava alla contesa tra tre pretendenti al seggio papale. Il papa
tuscolano Benedetto IX, nipote dei suoi due predecessori, ma figura, sembra, ben più
spregiudicata di loro, o per lo meno fin troppo legata a interessi e disegni particolaristici,
alla politica spicciola delle fazioni rimane, finì per scontrarsi con nuclei importanti del
potere cittadino. La famiglia rivale, i Crescenzi, gli contrappose come antipapa il vescovo
145
Giovanni di Sabina, che prese il nome di Silvestro III, che per qualche tempo riuscì a
cacciare il rivale da Roma, ma fu costretto poi a fuggire, forse anche alla corte imperiale
costantinopolitana, con cui i Crescenzi avevano sempre mantenuto contatti. Una parte del
clero romano, portatrice di istanze riformatrici e capeggiata dal presbitero Giovanni
Graziano, riuscì a convincere Benedetto a ritirarsi, ma il papa tuscolano pose come
condizione che gli venisse rifuso quanto speso nell’elezione a papa. Giovanni e i suoi amici
raccolsero con una colletta il denaro necessario e ottennero le dimissioni di Benedetto. Alla
successiva elezione fu papa proprio il presbitero Giovanni, che prese il nome di Gregorio
VI. Siamo nel 1045. Il ritorno in Roma di Silvestro III provocò scontri e contestazioni e la
discesa in Italia del re di Germania Enrico III, che nel 1046 convocò a Sutri un sinodo di
vescovi tedeschi (della sua corte) e italiani. Non è chiaro quel che avvenne al sinodo:
certamente Silvestro fu condannato, l’abdicazione di Benedetto fu confermata ma Gregorio
VI fu accusato di simonia. Non si sa se si dimise da se stesso o fu deposto, le fonti coeve si
dividono “equamente” tra queste due letture, comunque fu inviato in esilio in Germania
dove morì poco dopo in fama di santità. L’accompagnava il giovane Ildebrando, del clero
romano, futuro Gregorio VII.
Azzerata così la situazione – peraltro Benedetto tentò più tardi di rivendicare il suo diritto a
esser papa – Enrico III faceva procedere all’elezione di un nuovo vescovo di Roma nella
persona di Switger (Suitgero), vescovo di Bamberg, che prese il nome di Clemente II, primo
di una lunga serie di papi con questo ordinale, che quindi sceglievano nomi inusuali e riferiti
a figure antiche del papato.
Quali furono i motivi dell’intervento imperiale in Italia? Certamente la situazione di
disordine in Roma aveva richiamato l’imperatore, ma probabilmente non vi è in Enrico un
vero anelito di riforma: sconfitti o in grave difficoltà i suoi alleati tuscolani, ormai incapaci
di gestire la situazione in città, il re germanico prova a governare direttamente il mondo
romano tramite suoi vescovi3.
Il pontificato di Clemente II fu breve, ma più ancora lo sarà quello del successore, Poppo
vescovo di Brixen, ossia Damaso II, che morì nel giro di un paio di settimane dall’entrata in
Roma, nell’estate del 1048. Al suo posto, Enrico designava al seggio romano un suo
3
Cfr. FM 7, 103.
146
parente, prelato di nobilissima famiglia e vescovo di Toul in Lotaringia (Lorena, ora
francese), Bruno (o Brunone), che scelse il nome di Leone IX4.
Un dato interessante e, a quanto sembra, confermato dalle fonti fu la scelta del giovane
candidato di entrare in Roma come un pellegrino e di chiedere al clero e al popolo romano
la conferma dell’elezione, per tornare alla più antica tradizione canonica. Evitando di
sovraccaricare questo gesto di chissà quale progetto di distacco dalla Chiesa “imperiale”,
sembra tuttavia che Bruno-Leone IX avesse una piena consapevolezza dell’indipendenza e
autonomia del diritto canonico in generale e delle elezioni ecclesiastiche in particolare: pare
che idee di tipo “gelasiano” fossero diffuse nell’ambiente di formazione di Bruno.
Con Leone IX e col suo pontificato relativamente più lungo dei precedenti (1048-1054) e
sicuramente ben più intenso ed incisivo, si cominciano a notare nella vita della curia romana
segni importanti di novità. Un sintomo, come spesso avviene, è dato dalle modalità della
cultura scritta e della confezione dei documenti: la cancelleria pontificia abbandona la antica
e incomprensibile scrittura “curiale romana” e il tradizionale papiro per passare alla
pergamena e a una forma documentaria con importanti analogie rispetto alle cancellerie
imperiali nella tipologia dei documenti, nei caratteri di scrittura, nei segni di
autenticazione5. Ciò significa che il personale è cambiato, e la antica e resistente struttura
del patriarchium romano, corporazione gelosa e tradizionalista che reclutava e formava gli
alti funzionari papali tra la nobiltà laziale, è stata sostituita da altri.
Da dove proviene questo nuovo personale? Nella corte di Leone IX sono innestati (l’uso di
questo termine non è casuale) uomini provenienti dai monasteri legati alla riforma lorenese
e da altri centri religiosi di fervida vita. D’altronde, Bruno era stato vescovo in Lorena,
aveva chiesto l’aiuto di Guglielmo di Volpiano (§ 47) per riformare alcuni monasteri nella
sua diocesi, e si era portato dietro i suoi uomini, che furono progressivamente collocati nei
nodi strategici della curia. Si tratta di Umberto, monaco di Moyenmoutier, consacrato
vescovo di Silva Candida; di Federico, fratello del duca di Lorena, non monaco ma
canonico a Liegi, ora cancelliere del vescovo di Roma; di Ugo Candidus (“il Bianco”),
4
Ricerche recenti mostrano come fosse uso delle famiglie nobili non solo designare alcuni dei loro figli alla carriera
ecclesiastica, ma assegnare fin dal battesimo a questi futuri chierici alcuni nomi “tipici”, e sembra che Bruno fosse di
questi, così come Adalberone, nome portato da sette membri di tre generazioni della stessa famiglia, tutti vescovi tra
Metz, Reims, Verdun, Laon e Treviri, mentre i fratelli, duchi e conti, portavano nomi come Federico, Gozlino,
Goffredo, Teodorico (Thierry)…cfr. HC 4 (ed. fr.) 807.
5
Per chi fosse interessato si veda Th. FRENZ, I documenti pontifici nel medioevo e nell’età moderna, città del Vaticano
1989, 18ss; P. RABIKAUSKAS, Diplometica pontificia. Praelectionum lineamenta, Roma 1980, 35-66, Acta pontificum,
collegit I. Battelli, (Exempla scripturarum, 3), 5-9; cfr. J IV 367ss.
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monaco di Rémiremont, incardinato in un titulus presbiterale romano; ma anche di Pietro
Damiani, ravennate e legato all’eremitismo di Romualdo, più tardi vescovo di Ostia (e
quindi, per tradizione, consacratore dei nuovi papi), e del giovane Ildebrando, toscano
d’origine, fatto abate (riformatore) di San Paolo fuori le mura. Si annuncia qui un uso che
farà storia, giungendo fino ai giorni nostri. Il clero “cardinalis” di Roma, ossia vescovi
suburbicari, presbiteri e diaconi, passano da un ruolo più strettamente liturgico che li
caratterizzava nell’età precedente, quando il potere effettivo era gestito dalle figure del
protonotarius, del primicerius, del vestararius e degli scriniarii, a un impegno di tipo
teologico, giuridico, ma anche diplomatico. E questi “cardinali” non sono scelti
esclusivamente tra il clero romano, ma sempre più formano un collegio di provenienza e
formazione internazionale. Non dev’esser stato agevole per Leone IX mettere in atto questo
innesto: abbiamo poche, ma significative tracce di ostilità e ribellione da parte del mondo
“romano de Roma” così abilmente detronizzato…
Il papa, formato alla corte imperiale germanica, non solo assume abitudini di produzione
documentaria di quell’ambiente, ma per certi aspetti plasma la propria immagine e
l’immagine della curia romana su di essa. Leone IX è un papa… mobile. Si mette in viaggio
per presiedere sinodi riformatori, come l’imperatore si spostava per presiedere i suoi
“placiti” e le sue “diete” sul territorio. Questa non è un’assoluta novità: alcuni pontefici del
secolo precedente si erano recati a Ravenna o a Pavia per guidare sinodi, senza poi
riesumare i papi che varcavano le alpi per chiedere aiuto ai monarchi carolingi. Però Leone
interpreta questo ruolo con intensità più marcata e produce un’inusitata percezione di
presenza e prestigio del papa: d’altronde gli imperatori più importanti avevano costruito così
il loro potere, con una presenza costante ed efficace sul territorio. I sinodi presieduti da
Leone IX o dai suoi legati, i “cardinali” di cui sopra si parlava, non creano un nuovo diritto
canonico, ma riprendono e ribadiscono costantemente le normative della tradizione.
In questa fase l’impegno di riforma opera soprattutto contro il nicolaismo, arrivando a
prescrivere al popolo cristiano il boicottaggio liturgico del clero concubinario, e
condannando alla schiavitù a favore della Chiesa le donne conviventi coi sacerdoti; e contro
la simonia. In questo contesto emerge il problema della validità dei sacramenti conferiti dal
clero simoniaco, una questione che assume presto un andamento angoscioso, vista la
diffusione del fenomeno. Umberto di Silva Candida è per la non validità, Pier Damiani
invece, sviluppando le idee degli scritti formosiani di Auxilius e Vulgarius, afferma la
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validità, e la sua tesi alla fine prevale. Ma tutti sono concordi: la simonia e il nicolaismo non
sono solo abusi morali e disciplinari, bensì vere e proprie eresie teologiche.
§ 61: la rottura con Costantinopoli del 1054. Una sintesi sui quattro papi tedeschi.
Bibliografia: FM 7, 117-160; J 4, 524-548; L 398-401; GV 218-221; HC 4, 862-863 (sulla
chiesa bizantina di questo periodo vedere anche HC 5, 33-60).
In questo torno di tempo, due entità geopolitiche nuove si affacciano sullo scenario italiano
ed europeo: i Normanni del sud Italia e il ducato di Toscana. In una realtà critica come
l’Italia meridionale, da sempre luogo di scontro tra i bizantini e il ducato longobardo di
Benevento, dove poi si erano fatti strada i saraceni occupanti della Sicilia e chiamati a volte
come mercenari negli scontri locali, dai tempi della presenza italiana di Ottone I e dei suoi
discendenti la situazione s’era fatta anche più complessa. Non erano mancati scontri militari
tra tedeschi e greci, la rivendicazione di Costantinopoli a amministrare le diocesi
ecclesiastiche, il rifiuto bizantino a riconoscere l’imperatore tedesco, i rapporti di alleanza
tradizionale tra Crescenzi di Roma, città costiere tirreniche, corte di Bisanzio. Apparsi da
principio, sembra, come pellegrini nel Gargano, i primi normanni rimasero nel sud della
penisola come mercenari al soldo delle potenze locali (d’altronde la guardia Varega era il
corpo scelto di Costantinopoli) e progressivamente ampliarono il loro potere, soppiantando
con la loro forza militare e con l’assoluta mancanza di scrupoli Bizantini e Longobardi. La
loro espansione è motivo di preoccupazione per Leone IX, tanto più che Benevento, con il
piccolo territorio che rimaneva sotto il controllo della città, si era “data” al pontefice per
difendersi dall’aggressiva crudeltà normanna. Il governatore bizantino della Puglia, Argiro,
media un’alleanza tra il papa, il cugino del papa, Enrico III, e i bizantini in funzione
antinormanna. Ma Argiro ha un rivale politico a Costantinopoli, nella persona del patriarca,
Michele Kerullarios (“Cerulario”). Oltre a posizioni opposte tra Michele e Argiro nel
delicato gioco dell’aristocrazia di corte bizantina, può darsi che il patriarca temesse che una
rinnovata alleanza con Roma gli avrebbe tolto quell’ampia autonomia ecclesiastica, che
ormai Costantinopoli riteneva di avere per i pochi contatti con Roma6.
Chi era Michele Cerulario? La chiesa greca venera come santo questo patriarca dotto e
autoritario. Figlio di una famiglia senatoriale, implicato in un tentativo di colpo di stato, fu
costretto a entrare in monastero e si dedicò alla carriera ecclesiastica. In questo periodo
149
nella Chiesa di Costantinopoli si delinea sempre più il gruppo di alti funzionari ecclesiastici,
provenienti da famiglie dei notabili, guidati dal “chartophylax”, tra cui spesso gli imperatori
scelgono i loro ministri. Michele diventa patriarca nel 1043. Nell’instabilità dinastica tra
l’esaurimento della dinastia macedone e l’avvento della famiglia dei Comneni, i titolari del
seggio costantinopolitano svolgono un ruolo di garanti della legittimità. Michele rivela
ambizioni più ampie di influenza politica sull’imperatore e sulla corte.
Il patriarca, per sabotare il lavoro diplomatico del rivale Argiro, a Costantinopoli fa
circolare voci contro i “latini” e muove il vescovo teologo di Ochrida nei Balcani, Leone,
per scatenare una dura polemica teologica contro Roma, riesumando tutto l’arsenale già
accumulato nei dotti trattati di Fozio: gli usi liturgici latini, l’eresia del Filioque… A
Costantinopoli si arriva a chiudere d’autorità le chiese delle comunità latine (i commercianti
di Venezia, Amalfi…) e gruppi di fanatici compiono atti di vandalismo contro l’eucaristia
“azzima” dei latini. Da Roma arrivano le dure confutazioni e controaccuse del più valente
teologo di Leone IX, Umberto di Silva Candida, che trova nei greci ben novanta eresie
diverse, tra cui, ovviamente, il nicolaismo.
Su richiesta dell’imperatore Costantino IX Monomachos, una delegazione romana
capeggiata da Umberto – forse non la persona più adatta dal punto di vista diplomatico – si
reca a Costantinopoli col duplice mandato di perfezionare l’alleanza antinormanna e di
chiarire i problemi teologici tra le due sedi formalmente in comunione dopo la chiusura
della crisi foziana. La delegazione fu accolta cordialmente dall’imperatore, che cercò di
mediare, ma dal patriarca con assoluta freddezza e reciproche ripicche7.
Nel frattempo i normanni abilmente impedirono il congiungimento tra le truppe reclutate e
condotte personalmente da Leone IX in attesa dei rinforzi imperiali e i soldati bizantini di
Argiro. In una battaglia a Civita, nei dintorni dell’antica Canne, Leone IX fu sconfitto e
preso prigioniero, e poco dopo la stessa sorte toccò ad Argiro. Poche settimane dopo, il papa
morì, ancora prigioniero dei normanni.
Tra Michele Cerulario e Umberto di Silva Candida, a Costantinopoli, era esplosa una
durissima polemica, che si concludeva con la scomunica comminata da Umberto a nome del
papa contro il patriarca e scenograficamente deposta sull’altare di Santa Sofia, dopo di che
6
Così almeno si ipotizza in FM 7, 146-147.
Cit. J IV 536 (H.-G. Beck): “I Romani non si sentirono convenientemente onorati, mentre il patriarca deplorò di non
esser stato salutato secondo le prescrizioni del protocollo. La scena si concluse con la muta consegna della lettera
7
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la delegazione romana lasciava Bisanzio e Michele emetteva una contro-scomunica. Ma il
papa “scomunicante” era già morto: Umberto ne era a conoscenza? Come è noto, le due
scomuniche furono tolte nel dicembre 1965, in occasione della chiusura del concilio
Vaticano II e dell’incontro tra il successore di Leone IX, papa Paolo VI, e quello di
Michele, il patriarca Athenagoras. La rottura del 1054 fu completamente ignorata dalla
storiografia bizantina, come un fatto del tutto irrilevante: c’era stato ben altro, se non nella
violenza verbale, nell’articolazione degli scontri tra Roma e Costantinopoli.
La conclusione della vicenda personale di Michele Cerulario è significativa per molti
aspetti. Nel 1055 Costantino IX muore, e il potere viene gestito dalla moglie Teodora,
ultima superstite della dinastia macedone. L’anno dopo l’imperatrice muore, passando il
potere a un alto funzionario della burocrazia (Michele IV Stratiotikos). I militari, emarginati
dal potere, si ribellano, con la guida di Isacco Comneno. Michele Cerulario scioglie i sudditi
dal giuramento di fedeltà a Michele VI e contribuisce in maniera sostanziale alla vittoria di
Isacco. Rivendicando a più riprese sul nuovo imperatore il suo ruolo, Michele Cerulario finì
per compromettere il suo rapporto con la corte, fu arrestato nel 1058 e morì in carcere.
Uomo di potere fino in fondo, fu l’unico dei patriarchi di questo periodo che volle superare
il ruolo di garante della legittimità per tentare una gestione più diretta della politica. I suoi
successori (Costantino Licude 1059-1063; Giovanni Xifilino 1064-1075), provenienti dalla
burocrazia patriarcale, dotti e esperti, si affiancheranno al consolidarsi del potere dei
Comneni.
Non dimentichiamo intanto l’altra entità che andava prendendo forza nello scacchiere
italiano. L’antico territorio longobardo della Tuscia o Toscana era stato unificato e
organizzato da Adalberto Atto, capostipite di una dinastia nobiliare che prende il nome da
uno dei castelli posseduti dalla famiglia, Canossa, in val d’Enza (RE) ora ridotto a rovina, e
con una presenza militare ed economica anche oltre il versante tirrenico dell’appennino,
fino a Reggio, Mantova e la grande abbazia di San Benedetto del Polirone. Bonifacio di
Toscana aveva ulteriormente sviluppato la potenza del ducato. La moglie Beatrice, rimasta
vedova con una sola figlia, Matilde, si era risposata con Goffredo “il Barbuto”, duca di
Lorena e fratello di Federico, cancelliere della curia romana. Questa alleanza matrimoniale
tra Toscana e Lorena suscitò l’ostilità di Enrico III, peraltro parente di Goffredo. Per
pontificia, che – scritta ancora da Umberto – non era adatta a dissipare le paure del patriarca timoroso che l’alleanza
politica potesse compromettere la sua autorità sulla chiesa bizantina…”.
151
conseguenza Federico aveva lasciato la cancelleria romana e si era ritirato a Monte Cassino.
Alla morte di Enrico III (1056), l’imperatrice vedova, tutrice del piccolo Enrico, aveva
accettato la situazione in Toscana e si era alleata con Goffredo e Beatrice. Intanto (1054) era
divenuto papa, dopo la morte di Leone IX, il vescovo di Eichstätt, Gebehard, col nome di
Vittore II. Chiamato come tutore del giovanissimo principe, Vittore II trascorse i tre anni del
suo breve pontificato per lo più in Germania.
Gli undici anni (1046-1057) dei cosiddetti papi tedeschi, non i primi provenienti da quel
mondo8, si può dire che diedero l’avvio alla riforma gregoriana. Sostanzialmente queste
figure si mantennero fedeli al Reichskirchensystem e si mossero in stretto contatto con la
corte di Enrico III di Franconia, da cui, peraltro, provenivano. Ma l’innesto, sul modello
della riforma monastica lorenese, di personale nuovo nella curia romana fu una delle scelte
più rilevanti e incisive sul lungo periodo, anche grazie alla notevole qualità e all’abilità di
questi monaci a rimanere in sella anche quando Roma non era più controllata e protetta
dalla potente personalità di Enrico. In questo periodo la riforma non si ferma a proclami
disciplinari ma inizia ad articolare una teologia, che affronta la questione della validità dei
sacramenti, quella del primato romano, e altre.
In questi anni si apre lo scisma del 1054. E’ evidente che, come più sopra si diceva, oltre
che per motivi politici contingenti, la separazione così eclatante avviene per lo scontro tra
l’oikonomìa del politico Michele Cerulario e di tutta la Chiesa bizantina del tempo, e
l’akribèia dei monaci-cardinali che stanno avviando con decisione e cultura teologica la
riforma occidentale. Proviamo a immaginare un Umberto di Silva Candida, che sta lottando
strenuamente in Occidente contro il matrimonio del clero, e che in Oriente trova un clero
uxorato. Di fronte a questo shock, e a una possibile rivendicazione da parte degli
antiriformisti delle tradizioni orientali, a nulla può valere la considerazione che Oriente ed
Occidente hanno per secoli vissuto uniti pur in questa differenza disciplinare. E d’altronde,
le ostie consacrate delle chiese latine, calpestate dai teppisti dei bassifondi e degli ippodromi
costantinopolitani, erano anch’esse segno di tentativi di omologazione di tradizioni
diverse… La scomunica, sostanzialmente trascurata dall’Oriente, forse anche
giuridicamente invalida, sembrava riparabile, e i contatti tra Roma e Bisanzio, pur nella
consapevolezza che c’era una ferita aperta da riparare, continuarono fino alle crociate.
152
§ 62: seconda fase – i papi “toscani”
Bibliografia: FM 8, 19-67; J 4, 468-478; HC 5, 61-70; EP 2, 166-188
In realtà, dei tre papi che qui chiamiamo toscani, nessuno era originario dell’antico ducato
di Tuscia: Stefano IX (1057-1058) era lorenese, Niccolò II (1059-1061) borgognone e
Alessandro II (1061-1073) milanese. Praticamente per tutto il periodo governato da questi
tre pontefici riformisti, legati in vario modo alla dinastia dei Canossa e da essa appoggiati,
la sede romana era contesa da figure concorrenziali, in altri termini, più tradizionali, da
antipapi. Non è dunque un caso o una particolare passione per il diritto canonico il fatto che
in questo periodo si delinea una normativa sempre più precisa per l’elezione del vescovo di
Roma, che, insieme all’ostinata lotta per continuare le linee di riforma contro simonia e
nicolaismo, sarà il portato principale di questo quindicennio.
Alla morte di Vittore II, la situazione politica dell’impero e del Regnum Italiae è quanto mai
instabile: il figlio del defunto Enrico III è un bambino, il potere in Germania è gestito
sostanzialmente dalla regina madre, Agnese; i normanni premono sempre più pesantemente
sui domini del Patrimonium Petri e la nobiltà romana, depotenziata nelle sue pretese da
Leone IX ma non liquidata completamente, accenna a rialzare la testa.
I cardinali riformatori, ossia il gruppo dirigente di origine monastica “innestato” in Roma
soprattutto da Leone IX, cercano l’appoggio in Goffredo di Lorena e Toscana, scegliendo di
eleggere Federico di Monte Cassino, suo fratello, che prende il nome di Stefano IX. Nel suo
breve pontificato si accentua la scelta di inviare legati papali a presiedere sinodi o a
intervenire in altro modo nelle aree più calde dell’Italia e dell’Europa: sono cardinali del
gruppo riformatore, come Pier Damiani o Ildebrando, che svolgono un ruolo di diffusione
delle linee giuridiche e pastorali di una riforma in cui la sede Romana si sente sempre più
protagonista.
Alcuni legati, tra i più prestigiosi, sono ripetutamente inviati da Stefano IX e dai suoi
successori in Lombardia e soprattutto a Milano. La potente ed estesa arcidiocesi, che nella
prima metà dell’XI secolo aveva visto il consolidamento del potere vescovile sulla città e
sui punti strategici del territorio per opera della determinante figura dell’arcivescovo
Ariberto d’Intimiano, era scossa da disordini per gli scontri tra l’establishment nobiliare e
8
Prima di loro c’era stato il papa di Ottone III, Gregorio V. Dopo di loro e il lorenese Stefano XI, di cui si parlerà tra
poco, se non si vuol considerare tedesco Adriano VI, che era fiammingo e di appartenenza imperiale, nel XVI secolo, si
153
dell’alto clero – i capitanei cioè le famiglie nobili che amministravano cariche e rendite
diocesane e i cardinales, i chierici di curia “discendenti” della parte di clero esiliata a
Genova al tempo dell’invasione longobarda – da un lato, e il movimento della Pataria
dall’altro. Il termine “pàtari” o patarini, originariamente dispregiativo (probabilmente
significava “straccioni” o “stracciaroli”), era stato assunto da questi gruppi come insegna di
riforma e di purezza della fede. Guidati da un nobile di secondo livello, Landolfo, cui
succederà il fratello Erlembaldo, e da un diacono, Arialdo, i patarini rappresentavano
l’istanza di riforma della Chiesa dalla diffusa simonia e dalle inestricabili connessioni di
potere tra la curia arcivescovile e l’alta nobiltà. Sicuramente una parte importante del
movimento era composta dai valvassori, cioè dalla piccola nobiltà – di lontana origine dagli
arimanni longobardi? – esclusa dalle cariche cittadine e vescovili. Anche a partire dai
canoni di alcuni sinodi riformisti dei tempi di Leone IX, i patarini mettevano in atto una
vera e propria azione di boicottaggio attivo nei confronti dei chierici simoniaci, non solo
invitando la gente a disertare le celebrazioni dei preti “corrotti” ma intervenendo anche armi
in pugno, con conseguenti risse spesso violente. La sede romana tenta, con un certo
successo, di assumere la guida del movimento tramite i legati, mentre i metodi della Pataria
si diffondono per tutto il nord Italia.
Sempre nel breve pontificato di Stefano IX viene eletto vescovo della diocesi suburbicaria
di Ostia l’eremita e teologo riformatore Pier Damiani. Per antica tradizione, il vescovo di
Ostia era colui che consacrava vescovo il papa eletto, dunque il gruppo riformista conquista
un ruolo chiave in uno dei passaggi dell’elezione papale, emarginando ulteriormente l’antica
nobiltà clericale di Roma.
Stefano IX si ammala improvvisamente mentre è in viaggio verso il fratello Goffredo, e in
fin di vita chiede ai cardinali di attendere Ildebrando, inviato come legato in Germania,
prima di procedere all’elezione. Non sappiamo veramente quale fosse il mandato
dell’ambasceria tedesca di Ildebrando, ma gli storici recenti, in particolare Ovidio Capitani,
affermano che comunque il disegno di Stefano era quello di ricomporre in unità i riformisti,
la corte germanica e il ducato toscano contro l’aristocrazia romana (Tuscolani, Crescenzi,
conti di Galeria). La quale alla morte di Stefano si coalizza e, mentre i riformisti attendono
il rientro di Ildebrando, mette in piedi un’elezione come ai vecchi tempi del secolo X e
converge sul candidato portato avanti dai conti di Tusculum, il vescovo Giovanni di
arriva a Benedetto XVI…
154
Velletri, che prende il nome di Benedetto X. I cardinali riformatori si spostano a Siena, in
Tuscia, e all’arrivo di Ildebrando eleggono il borgognone Gerardo, vescovo di Firenze, che
prende il nome, ricco di risonanze storiche, di Niccolò II. In questa occasione si stabilisce
una più precisa normativa elettorale. I cardinali vescovi, cioè i titolari delle sedi
suburbicarie, si accorderanno nell’individuazione del nuovo papa, che sarà sottoposto a
conferma da parte degli altri cardinali (presbiteri e diaconi) e poi acclamato “dal clero e dal
popolo”. L’elezione in caso di necessità potrà esser svolta anche fuori di Roma, e alla
presenza anche solo di una rappresentanza del populus romanus. A partire dalla sua
elezione, anche se non ancora consacrato vescovo, il nuovo papa avrà pienezza di poteri. Si
riconosce anche l’honor dovuto all’imperatore, secondo la tradizione dei tempi di Carlo
magno e di Ottone I, riaffermata da Enrico III, ma non chiarita nella sua rilevanza.
In questa normativa per l’elezione papale – solo due secoli dopo si potrà usare il termine
conclave, come vedremo – si riconosce il bisogno di sottrarre la nomina papale al potere
della nobiltà romana, garantendo maggior velocità di individuazione del candidato e
maggior continuità del lavoro di riforma. Non si vuol però arrivare alla rottura con il potere
imperiale, che tuttavia in quel momento è pressoché fuori gioco per la minore età di Enrico
IV.
Anche Niccolò avrà un pontificato breve. La figura dell’antipapa Benedetto sarà presto
marginale grazie all’inedita alleanza tra il papato, la Toscana e il potere crescente dei
Normanni, mediata dall’abate di Monte Cassino, Desiderio, in funzione della sconfitta
militare della nobiltà romana che appoggiava l’antipapa. In questo momento i Normanni, da
spina nel fianco del papa, diventano preziosi – anche se talvolta infidi e crudeli – alleati, e
sono riconosciuti in un sinodo a Melfi quali vassalli della sede apostolica.
Niccolò II per la prima volta ordina la proibizione per i chierici di ricevere l’investitura per
titoli di chiese secondarie da laici, ovviamente nobili proprietari. L’uso, invalso da tempo e
legato ai diritti che le famiglie di fondatori si arrogavano nella nomina del chierico
dell’ecclesia del villaggio, in analogia all’investitura del mugnaio, del ferrarius o della
guardia campestre, sottraeva questi chierici, spesso ignoranti e concubinari, al controllo
episcopale e era uno degli spazi abituali di mercimonio delle cariche ecclesiastiche. Ma la
155
scelta di Niccolò è il primo segnale che dice un innalzamento del livello della riforma, dai
sintomi alle cause sociali9.
Anche alla morte di Niccolò avvengono due elezioni concorrenziali. La cancelleria del
Regnum Italiae, guidata dal parmense Viberto, poi arcivescovo di Ravenna, a nome
dell’imperatrice madre Agnese, guida i vescovi filoimperiali del nord Italia in una stretta
alleanza con la nobiltà romana e fa eleggere Cadalo, vescovo di Parma e già titolare nella
cancelleria, che, come è noto, è il vivaio per le nomine episcopali imperiali sia in Italia che
in Germania: Cadalo prende il nome di Onorio II. L’operazione è condotta anche per
sciogliere la sede papale dall’alleanza con i normanni, nemici dei tedeschi e concorrenti del
potere imperiale nell’egemonia del sud Italia. I cardinali riformatori, guidati ancora una
volta da Pier Damiani e da Ildebrando, eleggono il vescovo di Lucca, Anselmo da Baggio,
vicino al movimento patarinico e al ducato toscano, che prende il nome di Alessandro II. La
contrapposizione tra i due eletti è da principio nettamente favorevole al colto e potente
Cadalo, ma in Germania un colpo di stato contro la regina vedova, guidato dall’arcivescovo
di Köln, Anno, interrompe la politica antinormanna e dà via libera al papato riformista di
Alessandro II, attraverso una serie di passaggi complessi in cui sembra che i vescovi
tedeschi, anche su richiesta di Pier Damiani, abbiano una sorta di diritto d’arbitrato in nome
dell’imperatore fanciullo, suscitando però le reazioni del papa e di Ildebrando. A un sinodo
convocato a Mantova Alessandro II abilmente disinnescherà eventuali precedenti giuridici
troppo favorevoli alla corte imperiale germanica.
In questo periodo, mentre il movimento popolare per la riforma prende piede in tutto il nord
Italia, altri scenari europei vengono raggiunti dall’impegno per la lotta alla corruzione nella
Chiesa. In particolare, è la Chiesa inglese tra le più compromesse col potere locale dilaniato
da lotte dinastiche. Il normanno di Normandia Guglielmo, che sarà detto il conquistatore,
rivendica contro gli ultimi avanzi delle vecchie stirpi anglosassoni la successione al trono
inglese, e per la sua fortunata campagna del 1066 riceve il vessillo di San Pietro quale
insegna di appoggio da parte del papato. Vinta la resistenza della nobiltà anglosassone ad
Hastings, Guglielmo nomina alla sede primaziale di Canterbury l’abate del monastero
normanno di Bec, Lanfranco, di origini lombarde, convinto riformista, studioso di vaglia e
maestro dell’aostano Anselmo, che gli succederà a Bec e poi a Canterbury.
9
Sui meccanismi e sulle conseguenze delle investiture laicali si veda FM 7, 233-263, preciso e ricco di esempi.
156
Attorno al 1070 Enrico IV raggiunge la maggiore età e prende in mano direttamente il
potere, riprendendo la politica di egemonia italiana della madre e controllando in modo
stretto e con atteggiamenti effettivamente simoniaci le diocesi della Germania e del Regnum
Italiae. Lo scontro tra papato e impero ha come punto d’accensione ancora una volta la
grande e potente arcidiocesi ambrosiana. Enrico nomina a vescovo un suo fedele, Goffredo,
mentre la Pataria alla presenza dei legati papali nomina un suo candidato. Lo scontro porta
alla scomunica, da parte di Alessandro II che ben conosce la situazione, di cinque
consiglieri di Enrico per il Regnum Italiae come simoniaci. La lotta è ancora aperta quando
Alessandro muore a Roma, nel 1073.
Al di là dei singoli fatti, comunque significativi di legami europei della sede romana e di
tendenze che via via si rivelano, va notata, nel quindicennio dei papi “toscani”, la
stabilizzazione di due strutture, formali se si vuole, ma determinanti in questa fase. Il
controllo dell’elezione papale da parte dell’episcopato riformista, con una progressiva
sottrazione all’influenza della nobiltà romana e della corte imperiale, congiunto con l’invio
di legati che a nome del papa presiedono sinodi ed elezioni episcopali in tutta Europa, sono
due segni evidenti di un modo nuovo di consapevolezza ed esercizio del primato romano. E’
una Chiesa più gerarchica, più clericale certamente, più svincolata, d’altra parte, dai giochi
del potere aristocratico e imperiale. E’ una Chiesa saldamente guidata da vescovi di origine
spesso monastica, improntata all’achribèia, cioè alla riforma, che decide di condurre da sé
le alleanze anche politiche con la dinastia di Canossa o coi Normanni del nordovest della
Francia o del meridione d’Italia. Questa Chiesa romana ma ormai europea è in rotta di
collisione con il Reichskirchensystem.
Si colloca probabilmente in questo periodo un aspetto interessante e poco noto finora della
riforma. Nella Roma “riconquistata” dai papi riformisti contro Cadalo vengono prodotte
copie complete dei libri biblici (la cosiddetta bibliotheca, cioè un unico codice che raccoglie
tutti i libri del canonici, sia del Vecchio che del Nuovo Testamento), in formato molto
grande, con una decorazione sobria, con una scrittura senza impronte localistiche in modo
che chiunque, in Europa, potesse utilizzarle senza difficoltà. Sono quelle che gli studiosi del
ramo chiamano Bibbie atlantiche. Si incarna in esse un evidente progetto di rilancio della
lectio secondo i dettami della regola benedettina, troppo spesso trascurati nei monasteri, ma
anche di accesso all’intero corpus biblico per il clero secolare. Le bibbie “riformiste” si
diffondono in tutta Europa, a volte riprodotte e regalate da vescovi e abati che si
157
schiereranno sempre fedelmente dalla parte del papato riformatore (Gebhard di Salzburg,
Altmann di Passau) e da prelati che operano per la riforma ma a un certo punto, come
vedremo, passeranno al partito imperiale, come Federico di Ginevra e Ermenfried di Sion10.
§ 63: Ildebrando-Gregorio VII, l’attacco al cuore del sistema
Bibliografia: FM 8, 75-223; J 4, 479-500; L 427-445; GV 294-336; HC 5, 70-85; 131-136;
P 73-79; EP 2, 188-217
Dal 1046, quando accompagnò l’esiliato Gregorio VI in Germania, Ildebrando “di Soana”,
nato quindi nel cuore della Tuscia, monaco, ma non si sa in quale monastero inizialmente
abbia preso i voti, e sicuramente non cluniacense, è personaggio di rilievo in curia
riformista, rispettato, non sempre amato (dallo stesso Pier Damiani, che un po’ lo teme…),
autorevole e noto per la sua vita religiosa profonda e rigorosa. Nel 1073 ha una
venticinquennale esperienza di riforma, di amministrazione, di legazioni in Francia,
Germania e Italia, di elezioni papali. Mentre si svolgono i funerali di Alessandro II,
Ildebrando viene acclamato a furor di popolo e intronizzato a successore: un’elezione
anomala (che gli sarà rimproverata), poi peraltro, sembra, confermata secondo le procedure
il giorno successivo. Gregorio VII non comunica la sua elezione al giovane imperatore, che
a livello giuridico è, di fatto se non formalmente, scomunicato perché non ha allontanato i
consiglieri censurati da Alessandro II, e che politicamente non può intervenire in Italia
perché impegnato a sedare una rivolta del ducato di Sassonia. Anche Gregorio, nonostante il
prestigio e l’appoggio della città di Roma, di Matilde di Canossa e del partito riformista,
non è nelle condizioni migliori per operare. La nobiltà romana gli è ostile, i rapporti coi
normanni si sono guastati a motivo delle scorrerie banditesche che essi portano avanti, la
pataria milanese sta perdendo lo slancio iniziale. Viberto, arcivescovo di Ravenna, guida
con abilità il partito dei vescovi filoimperiali del nord Italia, che, come si diceva, non manca
di personalità che affermano il bisogno di riforma, ma in collaborazione con l’impero.
Chi è Gregorio VII? La sua complessa figura è una delle più controverse della storia del
papato, soprattutto nella storiografia degli ultimi due secoli: infamato dagli studiosi di
origine protestante e germanica per motivi ideologici, denigrato come un despota dagli
10
Si veda l’interessantissimo articolo di E. CONDELLO, La Bibbia al tempo della riforma gregoriana. Le Bibbie
atlantiche, in Forme e modelli della traduzione manoscritta della Bibbia, a cura di P. Cherubini, Città del Vaticano
2005, 347-372.
158
anticlericali del mondo latino, esaltato dagli storici “ultramontani” come il campione di un
papato infallibile e martire.
Ildebrando è anzitutto un buon teologo e un buon canonista, senza particolari originalità,
fedele alla teologia militante dei suoi predecessori riformisti e alla tradizione giuridica
romana, con le tipiche accentuazioni di questa fase. E’ soprattutto un abile amministratore, e
questo fu il ruolo principale da lui svolto prima di essere papa. Ben addentro ai meccanismi
romani, Ildebrando compie un’opera di riordino ed elencazione delle proprietà della Chiesa
romana, da tempo passate sotto il controllo dell’aristocrazia locale, e si impegna a fondo per
la fine delle cariche tradizionali e lucrative del patriarchium, segnate dalla simonia e
baluardo tradizionale dei tuscolani.
E’ in questo quadro culturale che gli studiosi recenti collocano il misterioso dictatus papae,
una sorta di masso erratico inserito nel registro della corrispondenza del papa. Già il titolo è
un’espressione di notevole equivocità: si può tradurre in molti modi diversi. Il contenuto
sembra un elenco di titoli di una collezione canonica: una raccolta da compilare, secondo lo
stile del tempo, a partire dai canoni della Chiesa antica, per volontà del papa? La
storiografia seria ha ormai abbandonato l’idea, purtroppo ancora diffusa, di un Gregorio VII
che si inventa degli obiettivi assolutistici o si propone di decretare ex novo una costituzione
pontificia verticistica, se non in preda a una sorta di delirio di onnipotenza. Il Dictatus
papae è, probabilmente, l’indice di una compilazione progettata, e mai attuata per chissà
quali ragioni, per raccogliere il diritto tradizionale e più puro rispetto all’influsso dei “laici”
nella Chiesa, quasi un tentativo di sintetizzare il diritto elettorale e amministrativo
originario. Oppure, come altri affermano, sarebbe una sorta di dottrina teologico-spirituale
che supera il diritto tradizionale, ponendo il papa quale garante del buon funzionamento
delle strutture ecclesiali e della retta fede11. Questo tentativo è guidato da un’ispirazione
spirituale molto forte in Gregorio VII, ma anch’essa non originale: qualcuno l’ha definita la
mistica di Pietro, il santo del potere delle chiavi, la cui santità è partecipata “quasi
sacramentalmente” al papa. Da cui, ovviamente, l’importanza del “nascere” del papa, la sua
nomina e tutta la ritualità che l’accompagna, come una sorta di continuazione di Pietro in
terra, pur nella caducità delle persone che siedono sulla cattedra di Pietro.
Uno degli strumenti preferiti da Gregorio VII per portare avanti la riforma sarà, oltre
all’invio dei legati, la convocazione regolare, ogni anno, dei cosiddetti “sinodi quaresimali
159
romani”. Un uso antico, probabilmente in parte decaduto nel secolo X, anche se qua e là
riemerge, che Ildebrando riattiva, chiamando i vescovi del centro Italia e il clero romano a
partecipare all’impegno di riforma. Nei sinodi quaresimali si riprende l’intervento
riformistico, dapprima con prudenza, e in un successivo crescendo che ha di mira le
investiture ecclesiastiche da parte dei laici. Anche qui Gregorio VII non fa altro che
continuare l’intuizione di Niccolò II, quasi quindici anni prima: ma questo è l’attacco
frontale al nodo politico-ecclesiastico di fondo, l’attacco al cuore del sistema.
Nel 1075 Enrico IV, sistemate (apparentemente, come vedremo) le questioni tedesche,
riprende il suo interventismo nello scenario italiano. Anzitutto decide di chiudere la
controversia sull’episcopato milanese nominando un suo uomo, Tedaldo. In seguito giunge
alla nomina dei due vescovi di Fermo e di Spoleto, terre rivendicate dall’imperatore ma da
sempre vescovadi sotto il controllo del primate romano e in zone considerate di competenza
anche politica del vescovo di Roma: un vero atto provocatorio. Nel natale del 1075
Gregorio scampa per un soffio a un attentato da parte di un personaggio della burocrazia
cittadina, Cencio de Prefecto.
I successivi dodici mesi, dal gennaio 1076 al gennaio 1077, vedranno eventi significativi
nello scontro, ormai aperto, tra papa e imperatore. All’inizio del 1076, in un sinodo a
Worms, i vescovi dell’impero e del Regnum Italiae, guidati da Viberto, pur tra molti dubbi
si sottraggono dall’obbedienza di Ildebrando. Gregorio reagisce scomunicando in un sinodo
pasquale romano l’imperatore. Contemporaneamente a Tribur12 i nobili tedeschi oppositori
di Enrico, ossia i duchi di Sassonia, Svevia, Baviera e Carinzia, si riuniscono e, cogliendo
l’occasione della scomunica papale, si ribellano a Enrico. In autunno il papa si mette in
cammino per raggiungere la Germania, dove vuole guidare personalmente un sinodo.
Enrico, alle strette per la ribellione dei duchi, fortunosamente si sottrae al combattimento,
evita la nemica Baviera e il Brennero e passa le Alpi in Savoia con l’appoggio della
contessa Adelaide di Savoia e Susa, sua suocera. Gregorio è a Mantova, sulla via del
Brennero, quando giunge la notizia dell’arrivo dell’imperatore, e per sicurezza retrocede a
Canossa, protetto dall’alleata e figlia spirituale Matilde.
Canossa, in val d’Enza, 28 gennaio 1077, in un inverno, pare, particolarmente gelido. Da tre
giorni un penitente scalzo, vestito di sola lana e senza pelliccia, trascorre il tempo in
11
Si vedano le diverse posizioni sintetizzate in DP 203-204.
160
preghiera e in ginocchio davanti alle mura del castello accuratamente vigilate dai soldati
della contessa Matilde. Dentro il castello, il papa è attorniato dalla contessa sua alleata,
dall’abate Ugo di Cluny e dalla contessa Adelaide, che intercedono per il povero pellegrino,
Enrico, re di Germania, scomunicato. Gregorio subordina ogni disegno e ogni
considerazione politica alla sostanza religiosa: è un sacerdote, anzi è il vescovo insignito del
potere di legare e sciogliere, davanti a un penitente. E lo assolve. Errore politico clamoroso
si rivelerà questa scelta tutta spirituale, che permette a Enrico di ricuperare una legittimità e
di tornare in Germania a combattere i suoi nemici interni; ma sarà anche, l’assoluzione di
Canossa, la simbolica fine della teologia “imperiale”, che pretende che il monarca
dell’impero di Carlo magno abbia una sorta di delega o rappresentanza divina.
Gli avversari tedeschi di Enrico eleggono comunque un anti-re, Rodolfo di Svevia, e
Gregorio pretende, inascoltato, di emettere una sentenza definitiva sulla legittimità del
detentore del trono tedesco. Da qui viene una seconda scomunica per Enrico, che però ormai
è politicamente il più forte. I vescovi suoi fedeli, in un sinodo non molto numeroso (circa
trenta presuli) a Brixen (1080), affermano l’illegittimità dell’elezione a papa del “falso
monaco” Ildebrando e procedono alla nomina a vescovo di Roma di Viberto, che prende il
nome di Clemente III. I gregoriani hanno tra le loro file dei presuli tedeschi, soprattutto
nell’area Salisburgo-Costanza-Passau e in Lorena. Con l’appoggio delle truppe tedesche
Viberto prende Roma nel 1084 e finalmente incorona Enrico imperatore, mentre Gregorio è
asserragliato in Castel S. Angelo. Viberto e Enrico sono costretti alla fuga da Roma per
l’arrivo dei Normanni che liberano Gregorio ma a prezzo di violenze crudeli sulla città, per
cui papa e Normanni se ne vanno tra le maledizioni del popolo. Un anno dopo Gregorio
muore, a Salerno. Pare abbia concluso la vita con una sentenza di sapore biblico: “Ho amato
la giustizia e odiato l’iniquità; per questo muoio in esilio”.
“In troppi campi Gregorio dimostrò di essere più avanti del proprio tempo”, afferma il
Fuhrmann13. Da un punto di vista politico il suo pontificato, dopo aver inferto colpi
sorprendentemente efficaci al potere di Enrico, finì in un clamoroso insuccesso, e rischiò di
mettere in crisi gli spazi di manovra del gruppo riformatore attorno a lui. Ma in fondo
Gregorio VII fu un fallito di successo. La sua ispirazione totalmente religiosa, che veniva
prima della sua esperienza amministrativa e diplomatica, è la chiave per comprendere le sue
12
Tribur oggi è un piccolo villaggio nei dintorni di Feuchtwangen, ai confini tra Baviera e Baden-Württemberg, più o
meno a metà strada tra Stoccarda e Norimberga.
161
scelte e l’efficacia di lungo periodo, innegabile, del suo pontificato. Un paragone ardito e
discutibile può stare tra Gregorio e Pio IX: entrambi pastori prima che sovrani, entrambi
concludono l’esistenza in condizioni critiche, entrambi avranno un più ampio futuro della
loro vita. La mistica di Pietro è la bussola che guida questo monaco, e anzitutto essa è il
tradizionale potere delle chiavi, quello della scomunica e dell’assoluzione.
§ 64: Worms, l’attuazione del possibile.
Bibliografia: FM 8, 225-246; 275-388; 405-576; J 4, 501-521; GV 336-358; HC 5, 85-97;
105-136; P 79-83; EP 2, 217-261
Urbano II. Sembrò, per qualche tempo, che la figura di Viberto-Clemente III potesse in
qualche modo vedere la convergenza tra filogregoriani e antigregoriani. Gli stessi cardinali
gregoriani ci misero quasi un anno (1085-1086) per riunirsi e designare un successore a
Gregorio. I riformatori del partito gregoriano non avrebbero potuto accettare di riconoscere
Viberto, pena l’automatica accettazione dell’idea che Ildebrando non fosse mai stato papa. I
riformatori anti-imperiani elessero finalmente a Roma l’anziano abate di Monte Cassino,
Desiderio, che però per mesi (Roma maggio 1086 – Capua marzo 1087) rifiutò di
riconoscere l’elezione a motivo delle tensioni tra normanni, longobardi, Matilde e partito
cardinalizio gregoriano, e solo dopo aver ottenuto una situazione di unità del fronte
riformista e davanti all’evidente pericolo che i Vibertini prevalessero, assunse il nome di
Vittore III e per pochi mesi guidò il partito gregoriano.
Alcuni mesi dopo la sua morte (settembre 1087 – marzo 1088) fu eletto Odo (Eudes), già
priore di Cluny e vescovo di Ostia, legato di Gregorio in Germania nel 1084-85, che si
chiamò Urbano II: siamo nel 1088. Di origine francese, fedele all’eredità gregoriana ma
abile diplomatico, Urbano ereditava una situazione precaria, apparentemente marginale:
Viberto controlla Roma ed è riconosciuto dall’imperatore e dalla maggioranza dei vescovi
della Germania e dell’Italia del nord. Urbano, dopo aver consolidato le adesioni nel
meridione d’Italia e aver occupato l’isola Tiberina, con l’aiuto dei normanni, può ricuperare
Roma (giugno 1089). Decide però di non fermarsi nella sede papale, e riprende la scelta di
Leone IX e Gregorio VII di muoversi verso nord per presiedere sinodi riformatori. Nel 1094
è a Piacenza per uno di questi appuntamenti, dove viene raggiunto da alcuni ambasciatori
dell’imperatore bizantino Alessio Comneno, che descrivono lo stato precario dell’impero
13
Storia dei papi, cit., 224.
162
cristiano e le minacce vissute dai pellegrini verso Gerusalemme, e propongono un’alleanza.
Pochi mesi dopo, nel 1095, a Clermont, sempre durante un sinodo, in cui si riafferma a
chiare lettere il rifiuto delle investiture laicali, inizierà l’avventura delle crociate, di cui
parleremo. Ma già possiamo anticipare che il sinodo di Clermont è già in segno che Urbano
ha assunto la guida della cristianità, molto più che Enrico IV e il suo papa.
Urbano II si appoggia politicamente al re di Francia. Anche nella nazione francese non
mancavano gravi problemi di investiture laicali a cariche ecclesiastiche, di simonia e
nicolaismo, ma si poteva tentare di avere un rapporto migliore con il sovrano, rispetto a
quello ormai compromesso con l’imperatore germanico. Con Urbano si ha, in certo senso, il
primo segnale di un rapporto che avrà un grande futuro, quello tra Roma e la Francia.
Questa manovra e l’indebolimento politico di Enrico porterà alla progressiva emarginazione
di Viberto-Clemente III, che morirà un anno dopo Urbano (1099-1100), non riconciliato ma
ormai ininfluente. Urbano per tutto il suo pontificato afferma di essere pedisequus di
Gregorio VII, anche se alcuni gregoriani “duri e puri” gli rimprovereranno a più riprese di
essere meno deciso. In realtà l’obiettivo perseguito è quello di risolvere lo scisma, con
pazienza, abilità diplomatica in modo da isolare Enrico rispetto agli stati europei (Francia,
Inghilterra), uso delle dispense per temperare le normative gregoriane che non vengono mai
ammorbidite. Sarà il lungo pontificato di Urbano a creare le condizioni per la chiusura del
conflitto. In questi anni il tema delle investiture ai benefici ecclesiali da parte dei poteri laici
sarà individuato definitivamente, da entrambe le parti, come il tema strutturale della
contesa.
Pasquale II. A successore di Urbano è eletto un monaco probabilmente originario della
Romagna, che prende il nome di Pasquale II (1099-1118). Al vecchio Enrico IV si ribella il
figlio, anch’egli di nome Enrico (V), inizialmente postosi a paladino della riforma
ecclesiastica. Ma, assunto definitivamente il potere dopo la rinuncia del padre, in realtà si
rivelerà deciso continuatore del Reichskirchensystem. Intanto nella Francia alleata dei papi,
grazie ad alcune esperienze concrete e alla teorizzazione del teologo e canonista Ivo di
Chartres, si delinea una possibile soluzione alla questione. A vescovi e abati è possibile
attribuire, da parte della corona, competenze politico-amministrative, ma con una
distinzione di ruoli e conseguenti differenziazioni di simboli. Il pastorale e l’anello sarà
consegnato dal metropolita o analoga autorità ecclesiastica, lo scettro dal re o dal suo
rappresentante. Resta da decidere come si procede all’elezione.
163
Anche in Inghilterra la tematica del rapporto tra potere politico e reltà ecclesiastica balza in
primo piano. Enrico, figlio di Guglielmo il conquistatore e fondatore della dinastia che sarà
chiamata dei Plantageneti, continua la politica di controllo delle sedi episcopali già attuata
con disinvoltura dai predecessori e arginata da Lanfranco di Canterbury e dal suo successore
alla sede primaziale di Britannia, Anselmo d’Aosta, che era stato costretto all’esilio. Sia
Lanfranco che Anselmo portavano avanti questo scontro col potere come condizione per la
riforma della Chiesa anglonormanna, dove il concubinato del clero era ampiamente tollerato
come la simonia, e dove pare fossero doffuse tra alcuni chierici pratiche di sodomia (FM 8,
429). Anselmo, richiamato da Enrico, rifiutò di sottomettersi all’omaggio feudale al re,
richiamandosi alle norme romane di riforma. Di nuovo Anselmo fu cacciato dall’Inghilterra,
e nel 1105 il papa scomunicò il re e i suoi funzionari, e costrinse Enrico ad accordarsi con
Anselmo: il re rinunciava a consegnare pastorale e anello ai vescovi, però questi dovevano
comunque offrire al monarca un corpo di truppe prima dell’investitura (dieta di Londra,
1107).
In Francia e Inghilterra si delinea insomma una distinzione tra ministero ecclesiale e beni e
poteri temporali ad esso collegati. Sarà questa distinzione, anche se non totale separazione, a
trionfare a Worms, non senza un passaggio che potremmo considerare una sorta di fallito
esperimento utopico.
Nel 1111 Enrico scende in Italia per farsi incoronare. Nelle complesse trattative per
giungere all’incoronazione, non intende perdere il controllo dei poteri che in Germania e
nord Italia sono connessi alle cattedre episcopali. Allora il papa e il futuro imperatore
giungono a un compromesso, mantenuto segreto: d’ora in avanti i vescovi dell’impero non
avranno più l’investitura imperiale ma restituiranno al monarca anche i poteri delegati sul
territorio14. All’atto dell’incoronazione il patto viene reso noto e l’episcopato reagisce
negativamente, a quel punto con un colpo di mano Enrico V prende prigioniero Pasquale e
si allontana da Roma. Due mesi dopo, rilascia papa e cardinali a seguito di un trattato:
l’imperatore continuerà a conferire anello e pastorale, ma dopo l’elezione canonica e prima
dell’ordinazione. In realtà lo scontro continua, perché l’imperatore pretende di controllare le
elezioni episcopali. Ma progressivamente il partito riformatore, tenendo fermo il rifiuto di
14
Non è detto che questo significasse una totale perdita di potere da parte dei vescovi investiti di diritti “regali”:
secondo il Cantarella (DP 230-231), in realtà, Pasquale concedeva a Enrico di recuperare tutti i diritti pubblici
dell’impero e di ridistribuirli, probabilmente agli stessi vescovi e abati. Ma questi ultimi compresero bene il rischio e
rifiutarono l’accordo, alla cui elaborazione non avevano peraltro partecipato.
164
investitura ecclesiastica da parte dell’imperatore o degli altri aristocratici, apre una
disponibilità a discutere con la corte sui diritti “regali” collegati alle cariche ecclesiastiche.
Worms 1122 e il “I concilio lateranense”. Durante il governo del successore di Pasquale
II, Gelasio II (1118-1119), Roma ridiviene inquieta per gli scontri fra le fazioni
aristocratiche dei Frangipane e dei Pierleoni15, che si appropriano dell’una e dell’altra delle
case-forti e dei quartieri della Roma medievale. Gelasio è costretto a fuggire dalla città e a
rifugiarsi a Cluny, mentre in Roma viene eletto un antipapa filoimperiale (Gregorio VIII,
1118-1121)16. A Gelasio succede Callisto II, di famiglia comitale borgognona, e appoggiato
fortemente dalla corona capetingia. Nel frattempo Enrico V è in difficoltà per lo schierarsi
dei vescovi tedeschi dalla parte del papa (dieta di Goslar 1120). L’imperatore intavola
trattative che sfociano nel cosiddetto concordato di Worms, stipulato nel 1122 e sanzionato
dal concilio lateranense dell’anno successivo. La soluzione raggiunta a Worms è un
compromesso tra le parti, basato su una duplice distinzione, simbolica e geografica. A
livello di simboli, si realizzava nell’impero quella separazione già ottenuta in Francia e
Inghilterra: il ministero ecclesiale era rappresentato dall’anello e dal pastorale, e veniva
conferito solo dall’autorità ecclesiastica a seguito di regolare elezione canonica. Lo scettro,
segno delle “regalie”, cioè del potere politico delegato, era attribuito dall’imperatore. Inoltre
in Germania il conferimento dello scettro deve avvenire subito dopo l’elezione canonica e
prima della consacrazione e quindi del segno di anello e pastorale, e quindi l’imperatore ha
una maggior influenza sull’elezione episcopale, che avviene in presenza dell’imperatore o
dei suoi missi. In Borgogna e Italia, invece, lo scettro sarà concesso dall’imperatore entro
sei mesi dopo il rito di consacrazione, il che, ovviamente, è sintomo di maggior autonomia
della nomina dei vescovi.
Il concordato di Worms è, l’abbiamo detto, un compromesso. Non è la separazione tra
potere episcopale e potere politico, probabilmente irrealizzabile in quei secoli. E’
l’attuazione del possibile, un ridimensionamento dell’influenza dell’aristocrazia laica sulla
vita della Chiesa occidentale che non arriva all’espulsione e a dipanare completamente
l’intreccio, ma che permette il ripristino della regolarità di elezioni canoniche e la nomina di
vescovi ben decisi a far prevalere la riforma contro la simonia e il concubinato dei sacerdoti.
E’ altresì significativo che il trattato di Worms sia confermato da un sinodo lateranense,
15
Il capostipite di questi, un finanziere di origini ebraiche, Pietro di Leone, si era fatto battezzare.
165
erede e continuatore dei “sinodi quaresimali” della Chiesa romana ma riconosciuto dalla
tradizione canonica occidentale, a partire dal XVI secolo, come “concilio ecumenico”, il
nono secondo il conteggio latino, il primo del secondo millennio. Gregorio VII aveva
ripristinato i sinodi lateranensi, prima di lui Leone IX aveva fatto dei sinodi lo strumento
principale della riforma, dopo di lui Urbano II aveva saldato la tradizione romana con quella
francese dei sinodi di pace: ormai il concilio è l’assemblea della christianitas convocata,
presieduta e guidata dal papa. Il pontefice e la sua sede romana sono ormai completamente
autonomi dall’intervento imperiale: ricordiamo che meno di un secolo prima di Worms,
Enrico III aveva disposto del destino di coloro che rivendicavano la legittimità della loro
elezione come papi. Come osserva Giovanni Miccoli (EP 2, 253), con e dopo Worms Roma
è definitivamente il punto chiave dell’indipendenza della Chiesa dai poteri politici.
§ 65: una teologia militante.
Bibliografia: FM 8, 247-273; 13, 45-96; J 4, 601-610; L 477-487
Nei paragrafi precedenti abbiamo incontrato figure che sono note nei sereni ambiti della
filosofia e della teologia: Lanfranco di Bec, Desiderio di Monte Cassino, Anselmo d’Aosta,
ma anche Pier Damiani. Forse non ci immagineremmo che un pensatore acuto e mistico
come Anselmo sia stato per anni impegnato tra il governo episcopale e l’esilio per lo
scontro col suo re. Ma in questi decenni si può parlare davvero di una teologia militante,
inestricabilmente collegata con i dibattiti politico-ecclesiastici ma soprattutto con le
questioni pastorali del loro tempo.
In questo tempo giungono a maturazione processi di raccolta di principi e leggi canoniche.
Sono le compilazioni cosiddette “pre-grazianee”, cioè precedenti al decretum Gratiani di
cui parleremo successivamente. Da più parti, in varie zone dell’Europa occidentale, si sente
il bisogno di raccogliere, riordinare, organizzare la sparsa e spesso trascurata legislazione
canonica, prodotta dai sinodi antichi, dalle decretali papali (e dalle imitazioni “isidoriane”),
dalle decine e decine di sinodi nazionali e riformatori dei secoli precedenti. Che c’entra la
teologia col diritto canonico?, diremmo noi moderni, condizionati dalle rigide distinzioni
dell’organizzazione illuministico-seminaristica degli studi clericali da Christian Wolff e
Franz Stefan Rautenstrauch in avanti. In realtà queste operazioni che diedero origine al
16
Si tratta di Maurizio, arcivescovo di Braga in Portogallo, appoggiato dai Frangipane. Era una figura talmente poco
significativa che i romani, con il loro noto stile, lo soprannominarono Burdinus, asinello.
166
diritto canonico del secondo millennio erano animate da un’intenzione radicalmente
teologica e pastorale: si trattava di ritornare a una Chiesa pura, originaria, strutturata e
guidata secondo le più antiche e limpide tradizioni. Il movimento riformatore gregoriano fu
pieno di teologi che misero mano a nuove compilazioni canoniche: da Anselmo di Lucca al
“cardinale” Deusdedit, da Bonizone di Sutri a Ivo di Chartres, e forse perfino Umberto di
Silvacandida si diede da fare per una raccolta del genere. Non si trattava di un “nuovo”
diritto canonico, ma di raccolte impostate in maniera innovativa e con l’utilizzo di fonti
dimenticate o trascurate, o talvolta – ma ne erano inconsapevoli i compilatori – anche
contraffatte, come per le pseudo-isidoriane o per una parte del materiale antifoziano, non a
caso utilizzato in contesto antigreco o di approfondimento della questione del primato
papale.
A questo proposito, molta enfasi spesso viene data a quest’epoca come al momento
dell’affermazione di un “papato” assolutisticamente travalicante i limiti del “primato” del
primo millennio. Le semplificazioni spesso correnti vanno riviste. La teologia militante dei
riformatori è il pensiero di una Chiesa, e di una chiesa romana, intanto sovrannazionale, di
cui erano gli esponenti; di una Chiesa gerarchica sì, come si è visto sopra e come Congar
bene mostra, con tendenze sicuramente più clericali, per contrasto con una struttura politica
e aristocratica, dove i laici erano l’imperatore e la sua corte (e non i giovani di Azione
Cattolica…); ma di una gerarchia che non si esaurisce affatto nel papa (e nei suoi legati), ma
è costituita dai metropoliti e dai vescovi, canonicamente eletti, e convocati nei sinodi.
Dal punto di vista normativo, il papa è centro e criterio di discernimento, ma anche questo
non se lo sono certo inventato i gregoriani. Si accettano nelle raccolte le norme “non in
contrasto” con la decretazione romana, anche sinodale. Quando però si tratta di scegliere tra
norma e norma, scatta un accurato lavoro in cui entrano la “nuova” dialettica razionale e la
filologia.
Ovviamente la teologia non si esaurisce nelle compilazioni canonistiche. Si sono citati sopra
i libelli de lite: geniale titolo contemporaneo (tre volumi appartenenti ai Monumenta
Germaniae Historica, gigantesca opera editoriale del XIX-XX secolo) che raccoglie gli
scritti dei pensatori di parte gregoriana e di origine imperiale, da Pier Damiani a Bonizone
di Sutri, da Guido di Ferrara a Benzone di Alba, da Umberto di Silvacandida a Ivo di
Chartres. Si tratta di testi che stanno a cavallo tra quella che oggi chiameremmo
ecclesiologia, la politica, e la teologia sacramentaria. C’era la questione della validità dei
167
sacramenti dei simoniaci e quella del ruolo dell’imperatore nella Chiesa. Il cosiddetto
Anonimo Normanno o Anonimo di York arriva ad affermare l’origine umana del primato
pontificio e la rappresentanza di Cristo da parte di tutti i vescovi, una posizione estrema che
non ebbe seguaci. Tra gli scrittori di parte gregoriana si nota la compresenza di posizioni
teocratiche anch’esse estreme e di posizioni più moderate, che si rifanno al dualismo dei
poteri, ecclesiale e politico, già teorizzato da papa Gelasio I nel V secolo17. I testi della
discussione che per decenni animò lo studio dei pensatori delle due parti in causa
interessano sia la teologia che la storia delle dottrine politiche.
Nel contesto dell’impegno a imporre la riforma ad ogni costo, anche attraverso i metodi
coattivi della pataria, e delle paci e tregue di Dio, emerge l’elaborazione di origine
agostiniana portata avanti da Anselmo di Lucca sulla possibilità della guerra difensiva e
dell’utilizzo del potere di coercizione per far rispettare le leggi ecclesiastiche.
In questo periodo di sviluppo della teologia dei sacramenti, si radica nella pastorale e nella
spiritualità la ripresa dei dibattiti sull’eucaristia con Berengario di Tours: si trattò di un
approfondimento di quelle linee tra realismo e simbolismo eucaristico già intraviste in età
carolingia (§ 42).
Concludiamo queste poche righe destinate a collocare il dibattito teologico di quel tempo
nel suo autentico contesto ecclesiale, con un cenno, minimo rispetto all’importanza del
personaggio, di Anselmo d’Aosta, abate del monastero normanno di Le Bec e arcivescovo
di Canterbury. Étienne Gilson, con l’acutezza che lo caratterizza sempre, afferma che in lui,
come in ogni pensatore del medio evo, “lo stato sta alla Chiesa come la filosofia sta alla
teologia e come la natura sta alla grazia”18. Si tratta dunque di un profondo intreccio, mai
veramente dualistico, in cui il primo membro è, in qualche modo, necessario al secondo, ma
sempre subordinato. Lo stato non può giungere al suo compimento senza l’apporto
determinante della Chiesa, come la ragione umana è compiuta dalla (e ha la profonda
esigenza della) teologia e come la natura non è residuale, ma senza la grazia vivrebbe un
totale “senso d’irrisolto”… Tale ispirazione guida il pensiero di Anselmo, che si potrebbe,
forse un po’ semplicisticamente ricondurre a un percorso dalla ragione alla fede di nuovo
alla ragione, anche nelle sue scelte pastorali in cui fronteggia a viso aperto re Enrico I.
17
18
Cfr. DS 347.
GILSON, Histoire…, 254.
168
§ 66: sintesi e spunti di approfondimento.
Cfr. HC 5, 97-103 (da generare un paragrafo sulla curia romana)
La riforma gregoriana, che indubitabilmente impronta di sé la vita della Chiesa d’occidente
nel secondo millennio, nasce da una duplice ispirazione: spirituale e pastorale. La prima
istanza è certamente riconducibile al mondo monastico, che come sempre è il sensore più
attento alle esigenze di fedeltà percepite rispetto all’originario cristiano, ma non si esaurisce
in esso: basti l’esempio della Pataria lombarda, che con il monachesimo non sembra aver
addentellati nel suo sorgere, a mostrare che la spiritualità del movimento “gregoriano” non è
una “mentalità da monaci”. E anche i vescovi che, in un partito o nell’altro, propongono
scelte di riforma non provengono solo dai chiostri.
L’altra istanza della riforma è pastorale, e la stessa diffusione delle linee gregoriane in tutta
Europa assume dimensioni apparentemente “canonistiche” e realmente di costruzione
quotidiana della vita ecclesiale19. Si trattò, quindi, di rivedere le strutture ecclesiastiche e il
loro concreto funzionamento, sia per rispettare quanto si sentiva di autenticamente
evangelico e cristiano contro ogni corruzione morale, sia per mettere le comunità in
condizione di operare per la diffusione del messaggio verso il mondo rurale e anche
cittadino, ora che i centri urbani dànno prova di nuova vitalità. Non è un caso che sia una
città come Milano a vedere i più violenti scontri tra i partiti. Il Reichskirchensystem, così
come era stabilito nell’Europa imperiale nel secolo X e XI, e le analoghe strutturazioni
presenti in Francia, Inghilterra e così via, sembrò a molti ormai inadeguato e anzi
penalizzante a fronte dell’espansione del cristianesimo e delle esigenze della pastorale: un
peso che condizionava in peggio il clero rurale, il ruolo dei vescovi, la chiesa romana. Dalla
riforma scaturisce un nuovo stile pastorale, una profonda trasformazione della curia romana
e delle sue modalità di azione, la nascita del “collegio cardinalizio”, un nuovo modo di
gestire i sinodi sul territorio e quindi di interagire tra vescovi.
In questo contesto si delinea un nuovo ruolo del vescovo di Roma, che il dibattito
storiografico ha chiarito, tenendo conto che si tratta di un’evoluzione con dati di effettiva
novità e aspetti di continuità rispetto agli ultimi secoli del primo millennio cristiano. Il
papato con Worms conclude quasi otto decenni “di lotta e di governo”, di esperienze
tragiche e di successi non effimeri, suggellando la continuità “gregoriana” delle elezioni
169
pontificie. Roma ha visto profonde evoluzioni nella struttura dell’antico patriarchium: se le
lotte interne della nobiltà terriera del Lazio non smettono di influire sulla vita della città, il
collegio dei cardinali ha assunto una forma, un modus operandi, una consapevolezza che
offrono maggior strutturazione, continuità e una libertà di movimento di una certa ampiezza.
Il papa pellegrino e presidente, direttamente o per intervento dei legati, dei snodi di riforma
di tutta Europa è riconosciuto come la guida, colui che “struttura attivamente” lo slancio di
evangelizzazione (che per molti aspetti è inestricabilmente anche espansione) della
cristianità occidentale. La Chiesa latina accentua l’impronta gerarchica e clericale,
emarginando – non totalmente ma significativamente – i laici dell’aristocrazia dalle
decisioni interne; questo sembra comportare un processo di desacralizzazione del potere
politico, con la sconfitta della teologia imperiale. Si può discutere se questo percorso, oltre
ad avere in nuce le linee teocratiche che si svilupperanno più avanti, sia stato un passaggio
determinante verso la laicità del rapporto tra religione e potere politico che è, a detta di
molti, uno dei caratteri dell’occidente europeo.
La riforma gregoriana e le vicende della seconda metà dell’XI secolo sono temi di ampio
dibattito tra gli storici. Come spunti di approfondimento suggeriamo la lettura dei saggi di
A. Paravicini Bagliani sulle tematiche simboliche del primato romano, come l’uso delle
insegne imperiali, la crescente attenzione alla vita e alla morte del papa, al delicato
passaggio “caotico” tra la fine terrena di un vescovo di Roma e l’elezione del suo
successore, al binomio tra apostolicità e fragilità-transitorietà nella persona del papa. E’
altresì interessante prendere in esame i punti di vista diversi tra oriente ed occidente
riguardo allo scontro tra Umberto di Silvacandida e Michele Cerulario e all’effettiva
importanza della data del 1054 come periodizzante. Infine si possono confrontare le
differenti, per certi aspetti opposte letture date al pontificato di Pasquale II e dei patti
intercorsi nel 1111 tra il papa e Enrico V: utopia di una Chiesa povera e senza potere
(scuola dell’università Cattolica di Milano, con P. Zerbi; G. Miccoli in EP 2, 229) o abili
tentativi di equilibrio diplomatico (G. M. Cantarella)?
19
Si veda ad esempio il recente saggio di J. M. SOTO RÁBANOS, La práctica de la pastoral en la Península Ibérica
(siglos XI-XII), in La pastorale della Chiesa in Occidente dall’età ottoniana al concilio lateranense IV, Milano 2004,
251-297.
170
CAPITOLO IX –“NORMALIZZAZIONE” DELLO SLANCIO: L’ETÀ DI BERNARDO
§ 67: Lo scisma papale del 1130, sintomo di normalizzazione
Bibliografia: FM 9/1, 55-93; J 5/1, 5-14; GV 424-432; HC 5, 180-194; P 83-85; EP 2, 261272
Per comprendere come sia stato possibile che, pochi anni dopo il concordato di Worms e il I
concilio lateranense, la sede romana abbia attraversato una crisi di notevole gravità, bisogna
tener presenti vari fattori.
Anzitutto il collegio dei cardinali ha un’importanza ormai consolidata, visibile nella
produzione documentaria di questi decenni, in cui i titolari delle diverse cariche
sottoscrivono col papa i documenti più importanti, ossia le costituzioni apostoliche. Tutti i
ruoli chiave della curia romana, in questo periodo criticata duramente da Gerhoh di
Reichersberg, sono nelle mani dei cardinali, un gruppo di chierici di provenienza
internazionale e nominati direttamente e unicamente dal papa. In particolare la legislazione
sulle elezioni pontificie e gli usi ormai consolidati da decenni di governo riformista mettono
in rilievo due elementi: il ruolo determinante dei sette cardinali vescovi delle diocesi
“suburbicarie”20 e il momento cruciale della morte del vescovo di Roma. A questo riguardo
va sottolineato che nei decenni di lotta tra riformisti e imperiali le elezioni avevano ricevuto
una normativa ma in continua evoluzione e adattamento, ed erano state esercitate in
situazioni di emergenza, fino ad arrivare a nomine papali fuori Roma, a acclamazioni e così
via. Dunque le leggi sulla scelta del nuovo papa non si erano ancora consolidate, si
intrecciavano con tradizioni liturgiche anch’esse in evoluzione, e il momento di vacanza
manteneva un significato critico.
In secondo luogo era entrata nel collegio cardinalizio, durante i pontificati di Callisto II
(1119-1124), borgognone, e di Onorio II (1124-1130), bolognese, una nuova generazione di
cardinali. Si trattava di francesi e italiani del nord, per lo più non monaci ma canonici
regolari, cioè provenienti da un mondo religioso diverso e nuovo rispetto a quello che aveva
avviato e difeso la riforma gregoriana. La leadership di questo gruppo era di Aymeric,
francese, cancelliere della curia romana, forse egli stesso canonico regolare. Si potrebbe dire
20
In questo periodo le sette sedi suburbicarie sono: Ostia, Albano, Velletri, Silvacandida, Labicum/Gabii, Porto,
Praeneste (Palestrina): cfr. FM 7, 164. Più tardi Sabina si sostituirà a Velletri e al posto di Gabii si avrà Tusculum
(Frascati): HC 5, 98. Attualmente le sedi suburbicarie sono: Albano, Palestrina, Frascati, Sabina e Poggio Mirteto,
Velletri e Segni, Porto e Santa Rufina (che ha assorbito Silvacandida) e Ostia.
171
che l’ispirazione dei “nuovi riformisti” fosse quella di passare da una situazione di
emergenza, necessaria per imporre la riforma ma ormai inutile, alla condizione normale e
tradizionale della gestione del potere ecclesiastico, rimesso nelle mani dei vescovi, ormai
tutti coinvolti nell’impegno di riforma. I “nuovi riformisti” erano naturalmente alleati dei
Frangipane, nobili romani filo-imperiali. Rimaneva però nel collegio il partito dei vecchi
gregoriani, per lo più monaci provenienti dal centro e sud Italia (Monte Cassino) e da
Cluny, entrati nella curia durante il lungo pontificato di Pasquale II, legati alle modalità
emergenziali che a suo tempo avevano resistito alle pressioni di Enrico IV e Enrico V. I
“vecchi gregoriani” erano vicino alla fazione nobiliare dei Pierleoni. Si noti che in questo
periodo si colloca il passaggio più critico della storia medievale di Cluny, con l’elezione e
poi la rimozione dell’abate Ponzio di Melgueil (1109-1122: cfr. § 46): segnale che le grandi
querce della riforma monastica cominciavano a invecchiare…
Già l’elezione papale del 1124 fu segnata da tensioni e momenti di grande incertezza, e
dalla contrapposizione dei due partiti e delle rispettive fazioni aristocratiche romane, con un
compromesso in extremis sul nome di Lamberto di Ostia, non a caso il principale dei
cardinali vescovi, in precedenza membro di una congregazione di canonici regolari.
Nel 1130 le vicende si succedono a ritmo concitato. Onorio è ormai morente, e i due partiti
per intervento di Aymeric si accordano per un procedimento che nel diritto medievale si
chiamava “per compromesso”. L’accordo era che solo dopo la sepoltura di Onorio si
sarebbe riunita una commissione ristretta di otto cardinali, rappresentanti delle due fazioni,
in una delle case-forti controllate dai Frangipane, per esprimere il nuovo papa in tempi brevi
per evitare scontri nelle strade cittadine. Onorio II moriva nella notte tra il 13 e il 14
febbraio. Aymeric per timore degli interventi dei Pierleoni tentava il colpo di mano: in
quella notte stessa faceva seppellire Onorio, radunava immediatamente “gran parte” della
commissione ristretta, cioè tutti i suoi e la minoranza degli altri, e faceva eleggere Gregorio
Papareschi, che prese il nome di Innocenzo II. Il mattino successivo i “vecchi gregoriani”,
scoperta la vicenda, riuscivano a radunare la maggioranza dei cardinali e a far eleggere il
leader della loro corrente, Pietro Pierleone, Anacleto II. Quest’ultimo prese presto il
controllo della città di Roma, scacciando il rivale. Anche Milano si schiera con Anacleto,
invece con Innocenzo progressivamente si alleano l’impero, alleato dei Frangipane, e la
Francia, da cui proviene Aymeric. Un ulteriore sponsor di Innocenzo sarà l’ascoltatissimo
Bernardo di Chiaravalle. Lo scisma dura otto anni, fino alla morte di Anacleto. I due rivali,
172
per aver dalla loro parte i normanni in ascesa, offrono privilegi a Ruggero II, che, giocando
abilmente sui due tavoli, uscirà dallo “scisma innocenziano” con il titolo di re e con una
forma di delega papale per le questioni ecclesiastiche della Sicilia che sarà il primo seme di
quell’interessante realtà giuridica che prese il nome di “monarchia sicula” e che durò fin
dopo l’unità d’Italia nel XIX secolo. Il concilio lateranense del 1139, secondo per
l’enumerazione latina dei concili ecumenici, sanzionerà la fine dello scisma e la vittoria dei
“nuovi riformisti”.
La crisi dello “scisma innocenziano” vede il prevalere del gruppo dei più giovani e quindi
dell’idea di ritorno alla normalità dopo i ferventi decenni della lotta con l’impero. La guida
della Chiesa torna ai vescovi e agli arcivescovi, e si punta a buoni rapporti coi governi, in
particolare con l’impero germanico. E’, in fondo, la vittoria della Chiesa di Aymeric, di
Bernardo e di Norberto di Xanten, fondatore dei premonstratensi e arcivescovo di
Magdeburgo: una Chiesa meno legata al piccolo mondo riformista centro-italiano, più
universale, più cosciente del cambiamento dei rapporti sociali. In fondo, i grandi gruppi
monastici come Cluny facevano parte integrante dei sistema feudale, che in quei decenni
cominciava ad andare in crisi. Dopo lo scisma innocenziano la normativa sull’elezione
papale fa un passo avanti: bisogna rispettare rigidamente gli usi sulla celebrazione funebre e
la sepoltura del papa prima di iniziare i procedimenti di elezione; una attenzione che
progressivamente si cristallizzerà nei riti dei cosiddetti “novendiali”, tutt’ora in uso.
In tutto questo, non va dimenticato un altro elemento: Roma, con i suoi aspetti originali ma
anche con le analogie rispetto alle città del nord e centro Italia in pieno sviluppo economico
e istituzionale, ridiventa inquieta, teatro di scontro tra fazioni e clan familiari. Tuttavia
Paradossalmente il prestigio del papato usciva rafforzato dallo scisma. Riservando un
posto centrale alla cura animarum, alla formazione del clero, alla spiritualità esigente
dei canonici regolari e dei premonstratensi, i progetti riformatori di Innocenzo II
presupponevano un legame più forte tra un papato consapevole della sua forza e le
tensioni profonde di una società cristiana in cui si stavano realizzando profondi
mutamenti. Per portare a termine la sua opera di riforma, Innocenzo II aveva bisogno
di una curia più centralizzata, internazionale e meno romana (A. Paravicini Bagliani
in HC 5, 193).
173
§ 68: l’età di Bernardo, quindici anni di accordo tra papato e impero (1138-1153)
Bibliografia: FM 9/1, 93-136; J 5/1, 33-49; GV 432-437; HC 5, 194-199; P 85; EP 2, 272286
A Innocenzo II, morto nel 1143 succedono i due brevi governi di Celestino II e Lucio II, poi
un cistercense, figlio spirituale di Bernardo, Eugenio III (1145-1153). Dal 1138 al 1152 è
imperatore Corrado III, nipote di Enrico V e fondatore della dinastia degli Svevi (come
diciamo in Italia) ossia Hohenstaufen (secondo la tradizione storica tedesca). Forse è
esagerato affermare che si tratta dell’unico quindicennio di pieno accordo tra Roma e
l’impero, ma poco ci manca: nel 1152 a Corrado succede il figlio, Federico I, detto
Barbarossa, e dunque presto si aprirà un nuovo contenzioso. Segnale dell’apice dell’armonia
tra regni e Chiesa occidentale, ma anche della fragilità dell’equilibrio, sarà la cosiddetta
seconda crociata, o crociata dei re, che parte con le migliori condizioni e si trasformerà in un
pesante fallimento, ma se ne parlerà più oltre. Qui la citiamo come l’espressione di una sorta
di utopia, incarnata da Bernardo: tutti i regni dell’Europa, uniti nella difesa della fede,
accorrono in aiuto dei domini crociati, sotto la guida del papa.
Al di là e al di sotto dei buoni rapporti tra papato e impero, papato e regni di Francia e
Inghilterra, non mancano tensioni che emergeranno in maniera sconvolgente nel futuro. In
Italia, del nord e del centro, lo spazio lasciato libero da Corrado, più interessato a
stabilizzare il suo potere oltralpe, viene occupato dalle città, in pieno sviluppo economico.
Queste si appropriano di diritti e poteri statali, come ad esempio il battere moneta;
cominciano a emarginare i vescovi dal potere, quei vescovi attorno a cui s’era formata
quella classe di laici collaboratori e vicedomini che era la stessa classe dirigente dei liberi
comuni; e gareggiano tra loro in lotte economiche che degenerano in vere e proprie guerre.
A Roma stessa scatta un processo di istituzionalizzazione della città: ritorna il senato, che si
sente erede dell’antico e repubblicano senatus populusque. Attorno al 1143 un canonico di
posizioni teologiche e politiche estreme, Arnaldo da Brescia, scacciato dalla sua città per la
sua predicazione pauperistica, dopo una fuga in Francia, Svizzera e Boemia, guida il
movimento contro il potere del papa. Nel 1155 sarà consegnato a Federico I, che lo metterà
al rogo.
Se Roma è in buoni rapporti con Corrado III, la Francia e l’Inghilterra, l’Italia del sud, pur
formalmente sottomessa la dominio feudale del papa ha assunto una struttura unitaria e
indipendente sotto il dominio dei normanni, che oltre a costituire un’entità economicamente
174
prospera, ad aver liquidato definitivamente gli ultimi resti del dominio arabo sulla Sicilia e a
assorbire i domini cittadini sul Tirreno, puntava a territori che il papato considerava parte
integrante del Patrimonium Petri e giocava sullo scacchiere europeo e mediterraneo
attraverso i legami di sangue con i re d’Inghilterra e i principi di Antiochia.
La curia romana, ormai un organismo internazionale e centralizzante, avoca a sé sempre più
questioni, in particolare tutte quelle connesse con le esenzioni monastiche, suscitando le
reazioni del già citato Gerhoh, del geniale Giovanni di Salisbury e dello stesso Bernardo di
Chiaravalle.
§ 69: gli spazi del monachesimo e della vita religiosa
Bibliografia: FM 8, 577-623; 9/1, 15-53; 137-176; 347-396; J 4, 584-600; 5, 15-32; L 456477; GV 636-662; HC 5, 151-175; 360-396; P 92-114; J. LECLERCQ, Bernardo di
Chiaravalle, Milano 1992; Gr. PENCO, Il monachesimo, 123-144; nelle pagine seguenti un
vasto quadro del monachesimo medievale (145-215).
Collochiamo qui notizie e interpretazioni riguardanti alcuni filoni di vita consacrata, che,
spesso nati qualche decennio prima, in questo periodo vedono il massimo dello sviluppo e
dell’influenza sulla Chiesa occidentale di questo tempo. La vita monastica e forme analoghe
in questo periodo conserva una sorta di grande leadership sulla cristianità latina. Per un
secolo, da Gregorio VII (1073) a Adriano IV (1159) pressoché tutti i vescovi di Roma
provengono dal monastero o dal convento di canonici regolari, via via coinvolgendo le
realtà più “in voga” a seconda dei periodi: da Monte Cassino a Cluny a Cîteaux. E’, questo,
anche un periodo di evoluzione di forme, dalla ripresa della regola benedettina in una sorta
di “ideale” originario con i cistercensi, al sorgere del modello della “vita apostolica”, allo
stabilizzarsi delle forme semieremitiche della certosa. E saranno le realtà che sorgono da
questa evoluzione, o continua ricerca di una “forma” di vita cristiana totalizzante, che
stanno dietro il passaggio dalla riforma militante dell’età gregoriana capace di liquidare il
Reichskirchensystem con scelte radicali, alla seconda riforma, strutturale e morale,
consolidata e diffusa capillarmente dai nuovi ordini religiosi.
I cistercensi. La partenza di Cîteaux non è del tutto chiarita nel suo emergere: sembra di
scorgervi l’opera di un abate benedettino in cerca di una vita più essenziale, Roberto di
Molesme, poi costretto a riprendere la guida della sua abbazia, e di tre suoi seguaci,
Alberico, Roberto e Stefano (Harding, di origine inglese quest’ultimo), che nel 1098 si
175
stabilirono in un luogo abbandonato e paludoso, feudo del duca di Borgogna. Era Cîteaux,
nome che sembra derivare da cistels, canne palustri. Quel che è certo è che le origini del
Novum Monasterium non erano un’iniziativa signorile, e che il primo gruppo, dopo un
primo periodo di entusiasmo, stava per esaurirsi e sarebbe finito in un fallimento se non
fosse arrivato un giovane nobile, Bernardo, con una schiera di parenti e amici come lui in
cerca di una vita monastica estrema e povera. Quattro sembrano essere le caratteristiche del
fenomeno cistercense: la rinuncia dell’esenzione monastica, la strutturazione tramite la
Charta charitatis, lo sviluppo della realtà dei conversi e il ritorno a un certo tipo di
“originale” benedettino. Vediamo in dettaglio.
-
Originariamente, e in maniera differente e contrapposta a Cluny e a una linea di tendenza
che andava diffondendosi, i cistercensi non chiedevano il privilegio dell’esenzione
monastica ma sceglievano di restare legati e sottomessi al vescovo del luogo: segno che
l’episcopato era già stato toccato dalla riforma e la poteva garantire; più tardi, peraltrro,
anche Cîteaux scelse la strada dell’esenzione, per mantenere unita una struttura che s’era
diffusa in tutta Europa con uno sviluppo enorme.
-
La Charta charitatis era la normativa che andava completando la regola benedettina
soprattutto per quel che riguardava i rapporti tra i monasteri, ed è caratterizzata da una
centralizzazione flessibile. Da Cîteaux erano nate quattro abbazie: Clairvaux, La Ferté,
Pontigny, Morimond, tutte in Borgogna. Queste cinque prime case erano le “matrici” da
cui tutte le altre abbazie erano “figliate” e si sentivano dipendenti, collegandosi a volte
tramite lo stesso nome, come Chiaravalle Milanese e Chiaravalle della Colomba (PR) a
Clairvaux, o come Morimondo (MI) a Morimond. Gli abati delle abbazie madri
annualmente svolgevano visite ai monasteri figli, e frequentemente convocavano capitoli
generali con la presenza dei superiori e dei rappresentanti delle abbazie dipendenti. Il
sistema aveva qualche somiglianza, ma una minor rigidezza rispetto a quello
cluniacense, e permetteva contatti frequenti e un veloce passaggio di notizie e interventi.
-
I cistercensi rifiutarono di accogliere “oblati”, cioè bambini e adolescenti inviati dalle
famiglie in monastero per la formazione scolastica e spesso legati per sempre, con una
vocazione che oggi ci sembrerebbe forzata ma che allora era normale, al monastero. Le
abbazie, per antica tradizione, erano dunque popolate da sciami di ragazzini, e
investivano forze notevoli nel lavoro pedagogico. I cistercensi per secoli evitarono
questa impostazione. Invece scelsero di sviluppare la presenza di un altro gruppo, quello
176
dei “conversi”. Non si tratta, a quanto pare, di un’invenzione cistercense, ma certo in
questi monasteri “bianchi”21 questo gruppo assunse un’importanza determinante. I
conversi erano giovani o adulti provenienti da famiglie del popolo, illetterati e quindi
incapaci di cantare l’ufficio – i piccoli “oblati” benedettini, per contro, erano formati fin
da adolescenti a questo compito. Avevano obblighi di preghiera semplificati, consistenti
in ripetute recitazioni del Pater Noster. Insieme a questa preghiera semplice, i conversi
si occupavano direttamente della bonifica e della conduzione delle terre affidate al
monastero, e spesso svilupparono competenze tecniche notevolissime riguardanti, ad
esempio, la canalizzazione delle acque e la costruzione di argini. Il lavoro agricolo,
condotto direttamente dai monaci, era impostato in modo da non bonificare
completamente le terre assegnate ma di lasciare degli spazi incolti (il che farà dei
cistercensi i maggiori proprietari di foreste d’Europa e quindi di legname per travature di
grandi costruzioni e per la cantieristica navale), quasi un anticipo di quel che oggi si
chiamerebbe sviluppo sostenibile. E creò il sistema delle “grange” (grange, in francese,
significa granaio), basi avanzate dove i monaci risiedevano durante il tempo del raccolto,
in condizioni di continuare comunque la vita regolare.
-
Ma lo scopo finale del movimento nato a Cîteaux era il ritorno all’ideale monastico
benedettino. Quindi i cistercensi cercano luoghi solitari e abbandonati come paludi,
foreste e deserti, vivono una vita povera, abbandonano le comodità del vestito e le
mitigazioni della dieta, semplificano la liturgia dalle superfetazioni cluniacensi e
ritornano alla lectio, e tutti i monaci devono dedicarsi anche al lavoro manuale nei
campi. Meno curato sarà l’impegno alla copiatura dei manoscritti. Alcuni autori
cistercensi, Bernardo su tutti, avranno un ottimo livello culturale; ma le biblioteche dei
monasteri bianchi saranno spesso ridotte al minimo indispensabile. Le chiese devono
essere povere e senza decorazioni. La colonizzazione dei luoghi abbandonati ha come
ideale la costruzione di una piccola “città di Dio”, un anticipo della nuova Gerusalemme
in terra, visibile anche nella struttura e nelle proporzioni del monastero.
Presto i cistercensi, oltre a passare al sistema dell’esenzione monastica, finiranno per non
coltivare più direttamente le terre ma a limitarsi a sovraintendere il lavoro dei campi.
Intanto, in uno slancio che attraversa tutto il secolo XII, i monasteri “bianchi” aggrediranno
21
I cistercensi si dicono anche benedettini bianchi per il colore delle vesti, di lana grezza non tinta, mentre il colore
tradizionale delle vesti dei benedettini era il nero.
177
molte zone spopolate d’Europa, riformeranno monasteri in decadenza, contribuiranno in
maniera determinante alla cristianizzazione del nord e dell’est dell’Europa e, più in
generale, al consolidamento della cristianizzazione in territorio rurale22. In generale,
manterranno sempre buoni rapporti coi governanti, dai duchi di Borgogna agli imperatori
Staufen, ai re di Portogallo che su faranno seppellire sempre in una loro abbazia.
Canonici regolari. Anche questi gruppi nascono spesso prima dei decenni dello scisma
innocenziano, tant’è vero che ne saranno protagonisti23. Come quello di Cîteaux, il
movimento della vita canonicale regolare nasce dal basso, non da iniziative
dell’aristocrazia. Forse i primi focolai si collocano nell’Italia centrosettentrionale, anche se
il grande sviluppo sarà nei paesi dell’impero. L’ideale, come s’è già detto sopra, è quello
della “vita apostolica”: chierici, spesso sacerdoti, che scelgono di vivere come gli apostoli,
facendo vita comune in luoghi solitari, vivendo la povertà, e dedicandosi alla predicazione,
quindi alla vita pastorale diretta. Generalmente i “conventi” di canonici regolari sono in
buoni rapporti e collaborazione pastorale coi vescovi, in particolare con i grandi vescovi
principi dell’impero. Lo stesso fondatore di una di queste congregazioni, Norberto di
Xanten, che crea i Premonstratensi (dal luogo della prima casa, Prémontré, tra la Francia e il
Belgio), diverrà arcivescovo di Magdeburg. Dopo Worms le congregazioni di canonici
regolari conoscono un grande sviluppo, cercando di armonizzare vita contemplativa e
impegno di predicazione e di vita pastorale, talvolta assumendosi la cura di parrocchie
rurali, pur continuando a far vita comune. In vari casi subentrano ai capitoli cattedrali. La
vita religiosa è normata dalla “regola di sant’Agostino”. Canonici regolari e ordini
cavallereschi, spesso simili o apparentati tra loro, gestiscono luoghi di passaggio dei
pellegrini, soprattutto sul cammino di Santiago.
La congregazione più importante e più diffusa è quella dei premonstratensi24, che
progressivamente vedrà un’accentuazione della vita contemplativa e, grazie alla
moltiplicazione delle sue case, in analogia con i legami di centralizzazione flessibile dei
cistercensi, si strutturerà in province, sistema che sarà riprodotto dagli ordini mendicanti nei
secoli successivi. Ai premonstratensi si affiancherà una congregazione di canonichesse
regolari.
22
Si vedano le carte n° 52-53 dell’Atlante di storia della Chiesa
Sui primi esempi di canonici regolari (Bernardo d’Aosta, Antoniti, Lateranensi, Ivo di Chartres) si può vedere I.
GOBRY, L’Europa di Cluny, Roma 1999, 266-276.
24
Si veda la carta n° 54 dell’Atlante di storia della Chiesa.
23
178
Meno noti dei cistercensi, i canonici regolari sono significativi in questo arco storico per
l’apporto specifico alla cultura ecclesiale (oltre che per il progresso nell’arte di produzione
della birra): sarà una congregazione di canonici regolari, non grande ma di eccellenza,
quella di Saint Victor a Parigi, uno dei luoghi determinanti per la nascita della teologia
“scolastica”. Inoltre, mentre in questo periodo solo Eugenio III proviene dai cistercensi, tutti
i papi da Onorio II a Adriano IV, meno due tra cui proprio Eugenio, provengono
sicuramente da congregazioni di canonici. Gli studi comparativi sulle regole e i
“costumieri” delle diverse congregazioni mostrano un’osmosi normativa e di scelte tra le
varie congregazioni di canonici regolari e riforme monastiche, in particolare cistercensi.
Altri aspetti della vita consacrata del XII secolo; Bernardo, una figura “sintetica”. E’
in questo periodo, in concomitanza con le crociate ma anche con la reconquista della
penisola iberica e con la penetrazione del cristianesimo nei paesi baltici, che sorgono i
cosiddetti ordini cavallereschi. Questi, si può dire, si distinguono progressivamente da
congregazioni di frati ospitalieri, ma in realtà il ceppo di origine è comune. Si tratta, cioè, di
gruppi di religiosi non sacerdoti, a volte provenienti dalla nobiltà guerriera, altre volte dalla
borghesia cittadina, che si dedicano alla gestione di “ospitali”, cioè luoghi di cura dei
malati, di ospitalità di pellegrini, di poveri, di convalescenti. A volte, come gli antoniti, si
specializzano per alcune malattie; altri si stabiliscono presso ponti di particolare traffico
dove si occupano dell’accoglienza dei pellegrini e della manutenzione delle delicate
infrastrutture. Tra loro può esserci un sacerdote che fa da cappellano. Generalmente questi
gruppi seguono la regola agostiniana. Solo qualche volta varie case si legano tra loro con
un’organizzazione più complessa, in molto casi il gruppo di una casa rimane indipendente, e
spesso questo porta a una rapida degenerazione rispetto all’ideale primitivo.
Da simili strutture sorte a Gerusalemme sorgono i cavalieri teutonici, gli ospitalieri di San
Giovanni e i cavalieri del Santo Sepolcro. I Templari, anch’essi originariamente un gruppo
di nobili dedicati all’ospitalità e alla difesa dei pellegrini con base dove si credeva che fosse
il tempio di Salomone, ricevono un’apposita regola scritta per loro da Bernardo di
Chiaravalle. S’è visto sopra che i teutonici si dedicheranno alla “crociata” evangelizzatrice
nei paesi baltici, giovanniti e templari formeranno il nerbo della cavalleria nei domini
crociati di Terra Santa, temuti e odiati dai musulmani, mentre nella penisola iberica si
formeranno gli ordini di Calatrava e di Alcántara, e altri minori.
179
Pressoché ogni movimento religioso sorto nei secoli XI e XII vede la presenza di donne
accanto agli uomini: Prémontré avrà i suoi conventi di canonichesse, Cîteaux una
congregazione di monache; nasceranno ancora congregazioni con monasteri doppi, come
Sempringham in Inghilterra, anche se talvolta alcune fondazioni si trasformeranno col
passare del tempo in istituzioni esclusivamente femminili. Anche gli ordini cavallereschi e i
gruppi “ospitalieri avranno il loro versante di monache.
Come s’è visto sopra, e si vedrà anche nel prossimo capitolo, Bernardo di Chiaravalle è, per
certi aspetti, onnipresente. Monaco ma uomo d’azione, si calcola che abbia trascorso due
terzi della sua vita fuori dal monastero. Non è il fondatore dei cistercensi, ma senza la sua
presenza e la sua formidabile opera di diffusione e di reclutamento vocazionale, il suo
ordine non sarebbe stato quello che fu. Ma, per certi aspetti, anche la storia di quei decenni
del XII secolo sarebbe stata diversa.
La sua visione della vita monastica è una scelta rigorosa dell’ascesi, anche al di là della
saggia moderazione di Benedetto. Per questo, il “giovane” Bernardo scatena polemiche
contro la grande e vecchia Cluny, colpevole di aver riempito le chiese di decorazioni inutili
e ricche, di vestire i suoi monaci di pellicce, di abbondare nel cibo; anche se, almeno in
parte, arriverà a moderare alcune punte della sua polemica. Ma le due interpretazioni, quella
cluniacense e quella cistercense, della regola benedettina effettivamente sono in tanti aspetti
opposte tra loro.
Ma Bernardo è anche il mistico cantore dell’amore divino, con il suo ampio commento al
Cantico dei Cantici; e il libro biblico dell’amore sarà uno dei campi di esegesi e omiletica
del mondo cistercense: una risposta all’ideale dell’amore cortese che andava diffondendosi?
Certo, è possibile, visto che, tra l’altro, Bernardo veniva da quella jeunesse dorée
aristocratica che vive il suo apogeo nell’Europa in pieno cambiamento dei secoli XI-XIII.
Infine Bernardo è giudicato dagli storici come l’ultimo difensore, insieme a Otloh di
Sant’Emmeran e Manegold di Lautenbach, della teologia come sacra Pagina, commento
amorevole e mistico delle Scritture, di ambiente tipicamente monastico, in contrasto con il
diffondersi della teologia come dialettica, la teologia delle scuole e delle città, di Abelardo e
di Gilbert de la Porrée. La sua polemica contro la vana filosofia porterà al culmine la
resistenza già iniziata da Pier Damiani.
In sintesi, si può dire che questi ordini religiosi, svincolati dalla struttura feudale ormai in
condizioni critiche, condurranno la riforma dell’XI secolo dallo stato di emergenza alla
180
penetrazione capillare, accompagneranno la colonizzazione di vaste zone d’Europa in
seguito al boom demografico, avranno un ruolo determinante nella stabilizzazione delle
immagini e dei contenuti cristiani in quel lungo processo “dalla conquista alla conversione”
che s’è cercato di descrivere al capitolo VII. Per la prima volta, nascono congregazioni a
dimensione europea, dopo Cluny, ma con una strutturazione altrettanto centralizzata e
ordinata, ma decisamente più flessibile.
All’interno della spiritualità cistercense, gli studiosi intravedono già la “riscoperta
dell’individuo”. Anche questo aspetto, insieme alla novità di congregazioni organizzate e al
diffondersi, tramite e canonici regolari, dell’ideale della “vita apostolica”, saranno
condizioni necessarie per la nascita, nei decenni successivi, dei cosiddetti “ordini
mendicanti”.
§ 70: sorgenti spirituali e culturali dell’arte romanica
Bibliografia FM 9/1, 215-232; L 401-404; GV 283-293; P 200-205
La storia dell’arte, soprattutto nell’insegnamento delle materie teologiche, deve liberarsi da
una vecchia anche se brillante concezione descrittiva e autoreferenziale, quale è quella che
generazioni di liceali, compreso chi scrive, si son trovati a studiare sul manuale (peraltro
caratteristico per alcune “cantonate” clamorose) di Giulio Carlo Argan, e passare
decisamente a una scientificità basata sullo studio del contesto e su una sana filologia. Senza
pretendere neppur lontanamente di fare un trattato completo, si vuol qui dare qualche spunto
di queste connessioni tra l’arte religiosa dei secoli XI-XII e il contesto storico ecclesiale. Si
tratta, di decennio in decennio, di forme espressive portatrici di una mentalità, di alcune
scelte spirituali, scaturite da incontri di realtà talvolta differenti e lontane nelle loro origini,
volute da committenze coscienti di proposte e di legami religiosi, sociali, politici. Insomma,
è un’arte “radicata”. Guardare alla facciata del duomo di Lucca significa ammirarne
bellezza e proporzioni ma anche ricollegarsi alla riforma gregoriana, ad Anselmo da
Baggio-Alessandro II, ai pellegrini che passavano dalla città del Volto Santo diretti verso
Roma, sulla direttrice principale della via Francigena.
Sembra anzitutto di poter dire che l’espansione demografica, la colonizzazione di nuove
terre verso est, la ripresa della vita cittadina in diverse zone d’Europa, la diffusione del
Cristianesimo in Scandinavia, Boemia, Ungheria, Polonia, una situazione economica in
miglioramento abbiano creato le condizioni per la costruzione o la ristrutturazione di molte
181
chiese: è in questo quadro che si può collocare la celeberrima e già citata frase del cronista
Rodolfo il Glabro sul manto bianco di chiese che ricopre l’Europa dopo l’anno mille. Non
può essere un caso fortuito che abbiamo poche, significative ma numericamente limitate
testimonianze dell’arte e dell’architettura carolingia e post-carolingia, mentre il romanico ha
lasciato tracce molto più consistenti. Non è improbabile che in vari casi si sia passati da
edifici di costruzione più precaria ed economica, per lo più di legno, a strutture meglio
edificate, di materiali più ricchi e resistenti, con decorazioni e arredamento più variati. E’
l’età di Cluny, del culto che genera edifici persino sfarzosi, e la reazione cistercense di
essenzialità è un contrappunto non meno ammirevole sul versante estetico (romanico
borgognone). Ancora in questo quadro espansivo della popolazione e del cristianesimo nelle
campagne va collocato l’emergere nel nord Italia a livello documentario e monumentale del
fenomeno delle pievi.
Dunque, per usare dei termini economici, in questi secoli sorge un’importante domanda di
edilizia e architettura sacra, con una committenza varia (monasteri, vescovi, comunità
cittadine, villaggi rurali, famiglie nobiliari) e dotata di risorse economiche sufficienti.
L’offerta, cioè artisti e maestranze, non partiva dal nulla. Vi era la tradizione architettonica
preesistente, preromanica o carolingia che dir si voglia, ma soprattutto tardoantica, visibile
in tutta l’Europa già romana, in antiche rovine o in edifici ancora in piedi e utilizzati25. Il
fenomeno del reimpiego di materiali dell’arte e dell’architettura classica negli edifici
cristiani, così diffuso, non va letto soltanto come risparmio di forze e di risorse economiche
in un’epoca povera, ma anche come cosciente e spesso simbolico processo di
riappropriazione di “cose” belle e preziose da parte del mondo cristiano.
Ma oltre a questi esempi classici, come sempre ritenuti un vertice da conservare e rilanciare,
come avviene coi testi dei padri della Chiesa, l’arte e l’architettura di questo periodo
partono da una linea di continuità figurativa, quella delle immagini spesso riprese da esempi
anch’essi tardoantichi, ma poi sviluppate in direzioni evolutive, e che hanno nelle miniature
librarie lo spazio di maggior persistenza ed esemplarità. E’ necessario qui uno sforzo di
comprensione. Si potrebbe dire che ogni epoca abbia la sua “arte di riferimento”. Ad
esempio nel barocco l’architettura (e per certi aspetti la musica) è, in certo senso, la forma
che ispira le altre forme: scultura, pittura, immagini a stampa sono spesso architetture. Oggi
182
è forse la grafica pubblicitaria e virtuale che ispira l’immaginario televisivo, i video
musicali, gli “affreschi” metropolitani dei writers. C’è poi tutto in processo di influssi
reciproci e di contaminazioni di difficile e affascinante districazione. L’arte di riferimento
per i secoli dal VII in avanti è spesso la miniatura che decorava i libri, e che ispira i cicli di
affreschi e di mosaici con il loro andamento narrativo, o l’intreccio, il nodo e la geometria
che passa dalla tradizione libraria insulare, che ha uno dei suoi esempi più alti nel book of
Kells, un meraviglioso evangeliario, datato approssimativamente all’800, costruito
nell’abbazia di Iona26. In questo senso, l’arte romanica dell’occidente sembra marcare un
passaggio proprio dalla geometria astratta dell’intreccio27 alla narrazione delle “storie” (di
Cristo, dei santi, dell’Antico Testamento…) già anunciata dai “Libri carolini” e differente
dalla struttura evocativa dell’arte greca orientale.
Insieme agli esempi tardoantichi e all’immaginario miniaturistico, l’arte che noi chiamiamo
romanica si basa su alcune continuità tecniche che risalgono alla tarda antichità e che
continuano ad essere coltivate in maestranze apparentemente indotte ma custodi gelose di
competenze determinanti. Se è vero, come afferma Bognetti*, che è significativo che in
italiano il termine “casa”, che è latino volgare e tardo, soppianta il termine antico domus,
perché casa nei documenti longobardi significa capanna e designa le povere abitazioni di
arimanni e contadini, domus invece è la casa di pietra o mattoni col tetto a regola d’arte che
nessuno si poteva più permettere e sapeva più fare, è altrettanto vero che in zone del nord
Italia in cui i bizantini più a lungo avevano resistito all’invasione longobarda esistevano
gruppi di magistri, capomastri oggi si direbbe, che erano ancora capaci di costruire volte
secondo la tradizione romana: è questa la radice dei cosiddetti “maestri comacini”.
In questo insieme di condizioni favorevoli dal punto di vista della domanda, delle risorse,
degli interscambi culturali, delle competenze tecniche e delle ispirazioni artistiche, si
inserisce la riforma del secolo XI, con una capacità di incidenza superiore a quanto spesso si
sa oggi. Papato, vescovi e monaci riformatori dànno un’impronta all’arte e all’architettura
romanica in almeno due direzioni. Anzitutto, una celebrazione della liturgia “romana”, già
diffusa dovunque dai capitolari carolingi e ora ripresa e purificata secondo modelli più
25
Il caso di Roma è emblematico, ed era davanti agli occhi dei tanti pellegrini: si veda A. FRASCHETTI, La conversione
da Roma pagana a Roma cristiana, Roma-Bari 1999; L. BIANCHI, Ad limina Petri. Spazio e memoria della Roma
cristiana, Roma 1999.
26
B. MEEHAN, Le livre de Kells, Paris 1995 (ed. originale, London 1994).
27
Su cui le brevi e interessantissime pagine dal già citato H.-I. MARROU, Decadenza romana o tarda antichità? III-VI
secolo, Milano 1978, 137-139.
183
rigorosi, aveva bisogno di spazi adeguati. In secondo luogo, in epoca di spostamenti e di
pellegrinaggi, costruire e decorare in un certo modo, secondo alcuni modelli, significava
aderire a un’impostazione, proclamare un’appartenenza: a Cluny, a Cîteaux… a Roma! Si
veda il caso di Lucca, con i due Anselmo, zio e nipote, vescovi nel secolo XI (il primo
divenne, come si diceva, papa Alessandro II)28.
L’arte romanica è dunque arte di incontri e di contaminazioni, arte di luoghi di sosta e di
pellegrinaggio, in cui ogni chiesa è un nodo di una rete più ampia di contatti e di riferimenti.
In essa si innesterà, con un ulteriore apporto di temi e di prodotti, il ricordo del Santo
Sepolcro che i crociati riporteranno in Europa e che vorranno in vari modi riprodurre, come
ad esempio a Bologna, nella chiesa omonima.
§ 71: spunti di approfondimento storiografico
Consigliamo di seguire la produzione di saggi sulla spiritualità laicale di questo periodo, un
campo di studi ampliato da André Vauchez e dalla sua scuola. L’autore francese parla di
“emergenza del laicato nella Chiesa” per i secoli XI-XIII, un laicato (e una santità)
differente rispetto al laicato aristocratico che dominava le investiture, combattuto da
Gregorio VII e dai suoi affini. Anche la spiritualità femminile è un campo di astudio di
notevole interesse.
Classico invece, ma ancora ricco di spunti, è lo scontro nel campo teologico tra i fautori
della teologia come Sacra Pagina, lettura e commento spirituale della Scrittura, e i
sostenitori della teologia costruita sulla dialettica, quindi sull’apporto della filosofia,
soprattutto ma non soltanto aristotelica: normalmente si contrappone Bernardo di
Chiaravalle a Abelardo e a Gilbert de la Porrée. Si vedano le ormai datate ma sempre
stimolanti pagine sulla coerenza (filosofica!) della mistica cistercense di Étienne Gilson in
Lo spirito della filosofia medievale, uno dei libri che hanno contribuito alla conversione del
maestro spirituale Thomas Merton.
28
Si vedano le ottime pagine sintetiche sull’ideologia del “neoantico” di Cl. BARACCHINI, Le arti figurative, in Lucca, a
cura di M. T. Filieri, (I luoghi della fede), Milano 1999, 41-42.
184
CAPITOLO X: IL FENOMENO CROCIATO NELLO SLANCIO DEL CRISTIANESIMO
OCCIDENTALE
Bibliografia generale del capitolo: FM 8, 67-74; 388-404; 632-644; 9/1, 249-262; J 4, 574583; 5/1, 50-56; 109-117; 164-188; 216-222; 405-412; L 445-455; GV 358-397 (397-423
sulla Reconquista iberica); HC 5, 288-303; 636-670; P 87-92; St. RUNCIMAN, Storia della
Crociate, 2 volumi, Torino 1993; D. M. NICOL, Venezia e Bisanzio, Milano 1990; J.
PHILLIPS, Le prime crociate, Cinisello B. 2004; brevi sintesi, con qualche strumento utile:
G. TATE, Le crociate. Cronache dall’oriente, s. l. 1994; B. HAMILTON, Le crociate,
Cinisello B. 2003.
Riteniamo che debba essere chiaro che la riforma cosiddetta gregoriana è causa e sintomo
insieme di un più ampio slancio che coinvolse tutto il mondo cristiano soprattutto
occidentale. Non si comprende la riforma senza l’espansione del cristianesimo verso i nuovi
popoli, il sorgere e il diffondersi di ordini religiosi e case monastiche, la colonizzazione
delle nuove terre, la crescita del mondo cittadino, lo sviluppo culturale e artistico. Senza
cadere nel determinismo marxista, in cui le strutture economiche (e demografiche) sono la
vera e unica radice di tutto, è innegabile che tutti questi fattori si influenzino a vicenda
creando le condizioni per un vero slancio del mondo cristiano occidentale in varie direzioni,
uno slancio che supera il calo di livello di motivazione, morale e culturale che aveva
accompagnato la diffusione del cristianesimo nelle zone rurali del X secolo. In altri termini,
la riforma non fu un’ideologia unilaterale di un gruppo di monaci tendenzialmente fanatici,
ma una coerente e efficace risposta alle dinamiche che in quegli anni attraversavano il
vecchio continente.
In questo quadro vanno collocate e trovano un senso le “crociate”. Totalmente dimenticate
da testi di studio generali anche recentissimi29, ma vagliate da una storiografia, soprattutto
anglosassone, tutt’ora in pieno lavoro e ricca di spunti nuovi, le crociate sono un ampio
fenomeno che, partendo da radici individuabili già nel X secolo, giungeranno, a livello di
evocazione ma anche di attività militari, fino al XVII e XVIII secolo. Non si troverà qui di
seguito l’analisi dell’ormai superata enumerazione “dalla prima all’ottava crociata”30: è
ormai accertato che a partire dalla prima spedizione del 1096-1099, che chiameremo ancora
“prima crociata”, fu un flusso pressoché continuo di piccole e grandi spedizioni, alcune
29
Si rilevi la completa assenza del tema in Cl. AZZARA e A. M. RAPETTI, La Chiesa nel Medioevo, Bologna 2009.
185
delle quali solennemente “bollate” e predicate universalmente, altre iniziative più limitate.
Si cercherà qui di darne un sunto e in’interpretazione dentro il quadro del grande slancio del
cristianesimo occidentale.
§ 72: una partenza sorprendente
Premesse. Il movimento dei pellegrini occidentali verso la “Terra santa”, che ha radici nel
cristianesimo antico, non si era mai interrotto, anche dopo la conquista islamica di
Gerusalemme nel secolo VII. Come tutti i percorsi di pellegrinaggio, il viaggio a
Gerusalemme assume nel medioevo una qualità penitenziale. Dunque non ci si deve
immaginare che non si avessero se non lontane notizie di questi luoghi. Ricordiamo che in
età carolingia esistevano monasteri “franchi” in Terra santa, e fu lì che i monaci greci
compresero che l’uso latino aveva introdotto il filioque nell’intoccabile credo nicenocostantinopolitano.
Tuttavia una serie di circostanze segnarono il secolo XI di una maggior problematicità dei
pellegrinaggi. Tra il 1004 e il 1014 il sovrano di quell’area del medio Oriente, il califfo
Hakim, che era figlio di una cristiana, scatenò un’inedita (per il regime islamico di quei
secoli) persecuzione contro i cristiani, fino a ordinare nel 1009 la distruzione del santo
Sepolcro. Nel 1014 si calcolano a trentamila le chiese cristiane danneggiate o distrutte. Le
persecuzioni furono anche contro gli ebrei. Ispirato dal suo consigliere Darazi, Hakim
proclamò la sua divinità nel 1016, e contemporaneamente cessò di perseguitare i cristiani e
rivolse la sua aggressività contro i correligionari che non accettavano la sua svolta religiosa.
Nel 1021 Hakim scomparve, probabilmente assassinato dalla sua stessa famiglia, mentre
Darazi si rifugiò nelle montagne del Libano, fondando una setta (i “drusi”), che attendono il
ritorno di Hakim come messia.
Successivamente, attorno alla metà del secolo XI, tutta l’area tra l’Anatolia orientale e la
Siria si trovò in una situazione di frammentazione politica: in diverse zone, stirpi turche
islamizzate, in particolare i selgiuchidi, soppiantarono gli arabi nel controllo del potere, e
premettero sull’impero bizantino, i cui ultimi eredi della rinascenza macedone di Basilio I
sono sconfitti in una importante battaglia a Manzikert, vicino al lago di Van, nel 1071. In
questa situazione frammentata, in cui tra l’altro entrano in gioco anche le rivalità tra le due
30
Se ne veda, per capire vecchi riferimenti, la cronologia in G. TATE, Le crociate. Cronache dall’oriente, s. l. 1994,
178-180.
186
grandi scuole islamiche, gli sciiti e i sunniti, i pellegrinaggi diventano molto insicurib e
pericolosi, e chi torna racconta epopee penosissime.
La dinastia bizantina che prende il potere dopo Manzikert, quella dei Comneni, nella
persona di Alessio I, imperatore dal 1081 al 1118, progetta una riconquista dell’Anatolia,
facendo leva sulla frammentazione degli avversari islamici. L’esercito di Alessio, com’è
ormai tradizionale a Bisanzio dopo che l’efficiente sistema dei “temi” del settimo secolo era
andato in disuso, era formato in gran parte da mercenari peceneghi (stirpe proveniente dalle
steppe asiatiche) e vareghi (scandinavi). Nulla di strano, dunque, se Alessio attorno al 1090
per mettere in piedi una campagna militare pensi a reclutare mercenari in Occidente.
Proprio nella parte occidentale della cristianità in questo periodo vanno rilevati interessanti
segni nella mentalità, che creano le condizioni di quella che sarà la crociata.
Anzitutto, la tradizione morale del cristianesimo antico aveva rifiutato decisamente la guerra
e l’uso della violenza. Quando però il cristianesimo, sia in occidente che in oriente, diviene
la religione del principe e della stato, deve cercare di dare ragione all’uso della forza.
Nell’oriente bizantino, la guerra è e rimane un male, necessario, e la sua gestione è posta nei
termini dell’oikonomia: si mantiene il principio del “non uccidere”, si è indulgenti con
governanti e militari (che poi in tarda età passeranno gli ultimi anni in preghiera e penitenza
in qualche monastero…). Questa visione risente del fatto che l’impero è la continuazione
del dominio romano-cristiano tardoantico, in cui la questione dell’uso della forza era stato
risolto pressoché allo stesso modo. In occidente, la cristianizzazione delle stirpi minoritarie
ma dominanti dei popoli germanici, che han preso il potere grazie alle loro capacità militari,
la visione della guerra come male, pur da tollerare, è meno incisiva.
Con le esperienze della tregua Dei e della pax Dei inizia a diffondersi una mentalità che
vede la possibilità della lotta armata contro i nemici della pace, che sono anche i nemici di
Dio, ossia i violatori delle tregue, gli invasori infedeli di Spagna e Sicilia, fino ai nemici
della riforma, con i vessilli di San Pietro concessi dal papa a Guglielmo il conquistatore e ai
leader della pataria milanese: combattere, pur se una realtà da limitare, diviene un’attività
che, in certi casi, è utile e perfino meritoria. Cosciente o inconscio, in questa visione della
violenza può entrare un tentativo di canalizzare le abitudini militari di Franchi, Longobardi
e Normanni.
Comunque spesso questi aristocratici armati erano coinvolti in operazioni di potere e in lotte
contro vicini scomodi contrassegnate dalla crudeltà. Come s’è visto per un caso locale già
187
più volte citato, non mancava chi, preso da resipiscenza, domandava penitenza per i suoi
gravi peccati e si trovava “condannato” a un pellegrinaggio, magari in Terra santa, anche se
disarmato e indifeso.
Qua e là, e del tutto indipendenti da inesistenti paure dell’anno mille, sono presenti idee
escatologiche: la fine del mondo si avvicina, quindi i cristiani sono in un tempo di urgenza
per la remissione dei peccati e per la diffusione del Vangelo.
A queste linee, più o meno marcate, di mentalità, si mescolano componenti più immediate,
di tipo politico-sociale, che contribuiranno all’innesco della prima crociata. Fino al 1002 il
condottiero musulmano Al Mansur minaccia e colpisce duramente gli stati cristiani del nord
della Spagna. Ma nel 1085 i cristiani, contando sulla debolezza dei Reyes de Taifas
musulmani31, ricuperano l’antica capitale visigota Toledo, con l’aiuto di cavalieri franchi,
che cresceranno nell’appoggio alla Reconquista dal 1086 in avanti32.
Anche i successi nel mediterraneo centrale sembra possano aver contribuito a dare
all’occidente l’impressione di poter colpire i nemici musulmani: i normanni avevano
riconquistato Palermo e Mazara nel 1072, Agrigento, nel 1086, e avevano scacciato gli
ultimi resti del dominio islamico dall’isola nel 1093. Contemporaneamente (1087) Le città
di Genova, Pisa e Amalfi, alleate con Roma, avevano inferto duri colpi ai pirati nordafricani
che avevano le loro basi in Tunisia.
Si discute molto, nella recente storiografia, su un tema di tipo economico sociale un tempo
sottolineato nell’origine delle crociate. La diffusione del maggiorascato tra le famiglie
aristocratiche nel regno franco e in Germania, per evitare che i patrimoni e i diritti delle
famiglie si frammentassero, dava origine a un gruppo sociale, quello dei “cavalieri” di
origine nobiliare ma con speranze ereditarie minime, che si sarebbe tentato di riversare nella
guerra per il ricupero dei luoghi santi, anche con la speranza di costituirsi un nuovo
patrimonio in Oriente. Gli studi recenti, senza poter del tutto smentire anche questa
componente, visto che alcuni gruppi di figli cadetti effettivamente si stabilizzeranno in
Terra santa dando origine all’aristocrazia franca crociata, affermano che nella maggior parte
dei casi questi cavalieri torneranno nei loro territori d’origine. Anzi, la presenza di reti
31
Reyes de Taifas è un termine dispregiativo di questi piccoli domini musulmani in cui era frammentata la peniso0la
iberica, e siglifica “re degli uccellini”, come dire re da burla.
32
In questo periodo i regni cristiani del nord della penisola iberica attuano un’opera di ripopolamento cristiano delle
zone della Castiglia riconquistate ma spopolate, anche con l’apporto di coloni franchi: pare che la Sierra de Francia in
diocesi di Salamanca, in piena regione di Castilla y León, derivi il nome da questa colonizzazione. Si veda la carta n° 60
dell’Atlante di storia della Chiesa
188
familiari tra le varie ondate di crociati nei due secoli di esistenza degli stati franchi
d’outremer, fa pensare che partire per la crociata fosse una sorta di tirocinio, temporaneo e
codificato, in molte stirpi nobiliari: come dire che a un certo punto della giovinezza, un
periodo di servizio militare in Terra santa era parte dell’iter di formazione (e magari era un
modo per ottenere il perdono dei “peccati di gioventù”), dopo di che si tornava in Europa.
Probabilmente una parte di coloro che, figli di nobili ma con poche speranze di carriera in
patria, si dedicavano all’oriente e alla crociata, erano le reclute degli ordini cavallereschi, di
cui sopra (§ 69), abbiamo parlato.
Tra Piacenza e Clermont. Ritorniamo a uno dei papi protagonisti della riforma dell’XI
secolo, Urbano II, ossia Eudes di Ostia. Dopo aver ricuperato Roma, Urbano, riprendendo
gli usi dei primi papi riformatori, in particolare Leone IX e Gregorio VII, si mette in viaggio
verso nord, e celebra sinodi riformatori lungo il suo cammino. Nel 1095 è a Piacenza e sta
guidano una di queste assemblee ecclesiastiche di riforma. Ivi è contattato da ambasciatori
di Alessio, che presentano un quadro tragico della situazione in medio Oriente e chiedono al
papa di contribuire a reclutare mercenari per aiutare il loro imperatore e rendere più sicuri i
pellegrinaggi. E’ quasi certo che questi legati bizantini promettessero a nome del loro
basileus di giungere alla definitiva conclusione delle tensioni e delle separazioni tra le
chiese di Roma e Costantinopoli.
Il progetto si fa più chiaro nell’itinerario di Urbano quando, varcate le Alpi, fa tappa nel suo
antico monastero di Cluny: probabilmente raccoglie ulteriori notizie dalla Spagna e dai
pellegrini che facevano tappa nelle case dell’ordine riformato borgognone. Nel novembre
del 1095, Urbano II convoca un sinodo di vescovi a Clermont, nel centro della Francia. Il 27
di quel mese si raduna un grande convegno di nobili voluto dal papa. Ascoltiamo la sempre
vivace narrazione del vecchio Runciman:
Noi possiamo sapere soltanto approssimativamente che cosa Urbano disse in realtà.
Sembra che abbia cominciato il discorso descrivendo ai suoi ascoltatori la necessità
di aiutare i loro fratelli d’Oriente: la cristianità orientale aveva invocato aiuto perché i
turchi stavano avanzando nel cuore delle terre cristiane, maltrattando gli abitanti e
profanandone i santuari. Però egli non parlò soltanto della Romania, cioè di Bisanzio,
ma mise anche in rilievo il particolare carattere sacro di Gerusalemme e descrisse le
sofferenze dei pellegrini che vi si recavano. Terminato il suo fosco quadro, lanciò il
189
suo grande appello: la cristianità occidentale si metta in marcia per soccorrere
l’Oriente; ricchi e poveri dovrebbero ugualmente partire, dovrebbero smetterla di
trucidarsi a vicenda e combattere invece una guerra giusta, compiendo l’opera di Dio;
e Dio li avrebbe guidati. Chi fosse morto in battaglia avrebbe ricevuto l’assoluzione e
la remissione dei peccati. Qui la vita era miserabile e malvagia, con uomini che si
logoravano fino a rovinare i propri corpi e le proprie anime; qui erano poveri e
infelici, là sarebbero stati felici e ricchi e veri amici di Dio. Non doveva esservi
indugio: si preparassero a partire quando fosse giunta l’estate, con Dio per loro guida.
Urbano parlò con fervore e con tutta l’arte di un grande oratore e la risposta fu
immediata e straordinaria. Grida di “Deus le volt” – “Dio lo vuole” – interruppero il
discorso. Il papa aveva a malapena finito di parlare quando il vescovo di Le Puy si
alzò dal suo seggio e, inginocchiatosi davanti al trono, chiese che gli fosse permesso
di unirsi alla santa spedizione; a centinaia si accalcarono per seguire il suo esempio.
Poi il cardinale Gregorio cadde in ginocchio e ripeté ad alta voce il Confiteor e tutto
l’immenso uditorio gli fece eco. Terminata la preghiera, Urbano si alzò ancora una
volta, pronunciò l’assoluzione e invitò i suoi ascoltatori a tornarsene a casa33.
Il contesto di sinodo riformatore e insieme di concilio per sancire una pace di Dio e di
celebrazione penitenziale è visibilissimo e mostra quanti legami ideali avesse quella
proclamazione. E’ davvero una miccia che si accende, a partire da varie componenti.
Secondo il Phillips, negli ascoltatori di Urbano II l’ideale di unire la chiesa d’Oriente e
quella d’Occidente non era particolarmente rilevante. Lo era certamente di più in Urbano
stesso.
Conseguenze imprevedibili. Non è dato sapere, e non è poi rilevante da un punto di vista
storico, se Urbano II prevedesse il successo del suo appello. Un gran numero di cavalieri, in
quell’inverno, prende la croce, sotto la guida di alcuni “secondi figli” (Ugo di Vermandois,
fratello del re di Francia; Boemondo di Taranto, fratello del re normanno), feudatari di
medio-alto livello (Roberto, duca di Normandia; Raimondo di Saint Gilles, signore feudale
della Provenza) o di importanti figure alla corte imperiale che vivevano un momento di
minor fortuna, come Goffredo di Bouillon, duca di Lorena. Ma mentre nobili e cavalieri
organizzano la loro spedizione, sistemano gli affari in vista della partenza, si dànno
190
appuntamento, nasce quasi spontaneamente un’ondata popolare. All’origine un predicatore
e asceta, Pierre detto “l’ermite” (l’eremita), al cui seguito si muovono uomini e donne
soprattutto di classi popolari, con la guida, oltre che del mistico e ingenuo eremita, di alcuni
nobili e qualche poco-di-buono. Il movimento popolare francese suscitò per contagio un
analogo flusso nella valle del Reno: tutti vogliono partire per conquistare il sepolcro di
Cristo e combattere i nemici della croce… e in attesa di scontrarsi coi musulmani, si
allenano alla lotta contro dei nemici più vicini, parimenti non cristiani e odiati perché
prestatori di denaro: gli ebrei delle città renane. E’ il primo episodio significativo di pogrom
antisemita del medioevo: i vescovi cercano di difendere le famiglie ebraiche, molte vengono
trucidate, qualcuno cerca di salvarsi convertendosi sbrigativamente al cristianesimo. La
“crociata tedesca” e i gruppi di Pietro l’eremita cercano di raggiungere Costantinopoli, a
prezzo di devastazioni e saccheggi: la maggioranza viene dispersa con la forza dal re
d’Ungheria.
Quali erano i moventi di questo fenomeno, che si riproporrà in varie forme nei secoli
successivi, come ad esempio la crociata dei bambini francesi e tedeschi del 1212?
Probabilmente si ha un inestricabile intreccio tra motivi religiosi soprattutto penitenziali e
sogni di conquista e di benessere. Vauchez sottolinea la dimensione escatologica, con
dimensioni e tematiche innovative rispetto alle attese precedenti34.
Alessio Comneno, che si aspettava un buon contingente di disciplinati mercenari
occidentali, vide arrivare prima i resti della crociata popolare, e li traghettò in tempi
brevissimi di là dal Bosforo, dove furono ulteriormente decimati in una incauta battaglia
contro le avanguardie turche. Poi, un esercito superiore ai suoi calcoli e alle sue capacità di
contenimento, poco disciplinato per la mancanza di un capo vero e proprio, se si eccettua
Ademaro di Monteil, vescovo di Le Puy, già cavaliere poi passato alla vocazione
ecclesiastica, legato del papa, riformatore e caritatevole, molto rispettoso dei vescovi
ortodossi; tra l’altro, in questo corpo militare con una preparazione approssimativa e grandi
problemi di approvvigionamento, una componente importante era data dai normanni del
meridione d’Italia, nemici storici e acerrimi di Bisanzio.
Da Costantinopoli a Gerusalemme via Antiochia: 1096-1099. Il problema del rapporto
tra l’imperatore bizantino e i capi crociati fu provvisoriamente risolto con un giuramento
33
RUNCIMAN, Storia delle Crociate, I, 94-95.
191
simile a quello feudale, a cui, volenti o nolenti, i condottieri franchi si assoggettarono,
tranne Raimondo di Saint Gilles, che poi si rivelò il più leale verso Alessio. Il patto tra
Bisanzio e crociati era che ogni terra e città già appartenute a Bisanzio sarebbero state
restituite all’imperatore, il quale a sua colta si impegnava a sostenere la spedizione con un
corpo di genieri ed esploratori guidati da un ottimo ufficiale e particolarmente utili per
muoversi in luoghi che ai franchi erano del tutto sconosciuti.
Dopo aver assorbito al suo interno gli ultimi avanzi della crociata popolare, compreso Pietro
l’eremita, l’esercito crociato compie una impresa travolgente in tutta l’Anatolia,
conquistandosi una sorta di fama di invincibilità. Ma nel terribile assedio d’Antiochia
sull’Oronte (1097-1098), e nel momento critico in cui, conquistata la città grazie a un
tradimento, i crociati furono a loro volta assediati dalle forze musulmane alleate, l’alleanza
coi bizantini finì. Boemondo rivelò le sue ambizioni e, essendo stato il primo a issare il suo
vessillo sulla città, non volle cederla; d’altra parte Alessio, avendo avuto notizie disastrose
della condizione dei crociati, li diede per spacciati e non mandò truppe in loro aiuto. Infine
Ademaro, l’unico punto di equilibrio della dirigenza crociata, morì a Antiochia, in piena
estate, probabilmente di tifo. Si costituisce il principato d’Antiochia, sotto il controllo dei
normanni di Sicilia, mentre un altro gruppo, con l’appoggio dei nobili e della popolazione
cristiana Armena, conquista Edessa. Sono i primi due nuclei dei domini crociati d’outremer.
Gli altri crociati scendono lungo la costa mediterranea e nelle valli dell’entroterra e
all’inizio dell’estate 1099 si trovano davanti a Gerusalemme, in possesso dei Fatimidi
d’Egitto, che avevano apprestato le loro difese e interrato o inquinato i pozzi circostanti.
L’assedio della città santa, dal 7 giugno al 14 luglio 1099, nel caldo di quei luoghi, fu
durissimo. Solo l’arrivo di legname dal mare recato dai genovesi permise di costruire
macchine d’assedio che alla fine diedero modo di penetrare in città, dove i crociati
perpetrarono un crudele massacro di tutta la popolazione musulmana ed ebraica35.
§ 73: i regni crociati
34
A. VAUCHEZ, Le componenti escatologiche dell’idea di crociata, in A. VAUCHEZ, Santi, profeti e visionari. Il
soprannaturale nel medioevo, Bologna 2000, 97-109.
35
“Il massacro di Gerusalemme impressionò profondamente tutto il mondo. Nessuno può dire quante siano state le
vittime, ma la città venne svuotata dei suoi abitanti musulmani ed ebrei. Anche molti cristiani rimasero inorriditi di ciò
che era stato fatto; e fra i musulmani che erano stati disposti fino a quel momento ad accettare i franchi come un nuovo
fattore nella ingarbugliata situazione politica dell’epoca, ci fu da allora in poi la netta determinazione che gli occidentali
dovevano essere cacciati. Quella sanguinosa dimostrazione di fanatismo cristiano risuscitò il fanatismo dell’Islam”:
RUNCIMAN, Storia delle Crociate, I, 248.
192
Secondo i principi della struttura di potere europea, si formarono con la prima crociata un
regno di Gerusalemme, che formalmente, ma senza troppo successo, avrebbe dovuto
coordinare le altre entità: il principato di Antiochia, le contee di Tripoli (Libano) e di
Edessa. Si può comprendere tra i regni crociati anche Cipro, nonché il regno della Piccola
Armenia, in Cilicia, in cui, come a Edessa, la nobiltà armena e quella franca si mescolarono
tramite matrimoni, grazie alla comune fede cristiana36. Il primo titolare di Gerusalemme, il
duca di Lorena Geoffroy de Bouillon (Goffredo da Buglione, come diciamo noi italiani sulla
scorta del poema di Torquato Tasso), non volle chiamarsi re ma Advocatus Sancti Sepulcri.
Il suo fratello e successore, Baldovino di Edessa, prese il titolo di re.
Che cosa fu Outremer, come venivano definiti i domini crociati nella cultura francese? Fu
anzitutto un ambiente di cultura splendida, sostenuta da un circuito economico prospero, in
cui le città marinare italiane, soprattutto Genova e Venezia, non mancarono di inserirsi. I
legami con l’occidente non vennero mai meno, anche per le parentele familiari che univano,
ad esempio, i normanni d’Antiochia a quelli di Puglia e Sicilia, i lorenesi di Gerusalemme a
quelli del ducato, e così via. Per questo ci si deve immaginare un continuo afflusso di
gruppi, a volte di corpi importanti, di militari armati che, via terra ma soprattutto via mare,
giungevano in Oriente per fare il loro pellegrinaggio, incidere con la spada una croce nelle
pietre del Santo Sepolcro, e combattere i musulmani alle frontiere, opportunamente munite
di castelli, che furono determinanti nell’evoluzione dell’architettura militare in occidente.
Questi coscienti legami generano, ad ogni shock in Terra santa, una convocazione solenne
di una nuova crociata. La caduta di Edessa nel dicembre 1144 accese la cosiddetta seconda
crociata, predicata da Bernardo di Chiaravalle (1147-1149). La rovinosa sconfitta dei
crociati in Galilea, ai corni di Hattin, nel 1187, ad opera del curdo Salah-ad-din, che aveva
unificato tutte le forze musulmane in medio oriente contro i crociati, la prigionia del re di
Gerusalemme e la caduta della città santa, diedero il motivo della terza crociata, con il
meglio dei capi di stato europei impegnati direttamente: l’imperatore Federico I Barbarossa,
che muore annegato in Anatolia, il re di Francia Filippo Augusto e il re d’Inghilterra
Riccardo Cuor di Leone.
Nonostante questi progetti ambiziosi e con grande spiegamento di forze, i regni latini
crociati, dopo il momento di massima espansione subito successivo alla I crociata, videro
progressivamente erose le conquiste, e Gerusalemme, perduta dopo i corni di Hattin, non fu
36
Si veda la cartina annessa, nonché la carta n° 60 dell’Atlante di storia della Chiesa
193
più recuperata. La struttura di queste entità è debole, per la distanza rispetto all’occidente,
per l’ostilità di Bisanzio, per la ripresa politica e militare araba incarnata soprattutto da
Saladino, per la fragilità di queste dinastie aristocratiche franche insediate in Terra santa: gli
uomini, spesso fiaccati dal clima, sopravvivevano meno delle donne, e spesso il trono di
Gerusalemme fu retto da regine vedove. Inoltre le “assise” della nobiltà franca erano
determinanti rispetto alla forza della corona, e tendevano alla frammentazione dei poteri.
Gli aristocratici e i coloni franchi insediati stabilmente in Outremer, ben consapevoli di
essere minoranza sparsa sul territorio37, avevano costruito una situazione di convivenza con
le popolazioni preesistenti, sia cristiane che musulmane, soprattutto di contadini che erano
stati sottomessi e che erano necessari per la conduzione delle terre; gestivano con prudenza
e astuzia la complessa realtà politica, puntando a mettere gli uni contro gli altri i diversi
potentati arabi, curdi, turchi, tutti musulmani ma divisi da sanguinose rivalità; e miravano a
utilizzare le nuove forze militari provenienti dall’occidente soprattutto come arma di
pressione diplomatica. Invece i crociati che arrivavano con le diverse ondate dall’Europa
restavano scandalizzati che gli europei trapiantati tollerassero le moschee per la popolazione
musulmana e pretendevano di andare subito all’assalto degli infedeli, generando quella
classica reazione di compattezza che si crea tra i musulmani quando vengono aggrediti
dall’esterno.
Lentamente erosi nelle loro conquiste, i crociati terranno teste di ponte lungo le coste fino
alla caduta dell’ultima città, San Giovanni d’Acri, a nord di Haifa, nel 1291: è sorprendente
come queste fragili strutture statali, così dislocate rispetto ai paesi occidentali che avevano
inviato i loro temuti cavalieri, siano riuscite a resistere quasi due secoli.
Dal punto di vista ecclesiastico, gli stati crociati portavano non solo al confronto tra
cristianesimo e islam, ma anche a un incontro tra il cattolicesimo occidentale uscito dalle
vicende della riforma e le diverse chiese cristiane di queste terre: i melchiti facevano
riferimento a Costantinopoli e all’ortodossia incarnata dall’imperatore cristiano, ma in Siria
e a Gerusalemme c’erano importanti comunità giacobite e anche gruppi copti, entrambi in
opposizione all’antico concilio di Calcedonia (451); inoltre in Cilicia e nel territorio di
Edessa avevano un ampio potere le comunità armene; e nella contea di Tripoli la
maggioranza era cristiana maronita. All’inizio, fino alla conquista di Gerusalemme del
1099, i rapporti tra i latini e le comunità soprattutto greche sono improntati al reciproco
194
rispetto. In questo atteggiamento il protagonista fu Ademaro di Le Puy, forse memore del
progetto di fare delle crociate l’occasione per sanare le ferite tra chiesa d’oriente e
d’occidente. Durante la prima crociata non furono perpetrate violenze e pressioni contro i
vescovi greci, che furono sempre lasciati ai loro posti e che a volte si erano rivelati alleati
preziosi dei latini, come anche gli armeni. Per i nuovi venuti furono fondate nuove sedi
episcopali, come Ramleh, città araba completamente evacuata e non sede di un vescovo
greco. Ademaro era morto a Antiochia, il suo successore, Daimberto di Pisa, raggiunse
Gerusalemme nel dicembre 1099. A questo punto la politica ecclesiastica crociata cambia: il
patriarca greco di Antiochia viene rimosso e al suo posto si colloca un chierico latino. La
rottura tra i regni crociati e Bisanzio, che li vedrà sempre come traditori e scomodi vicini, e
la presenza di gruppi latini fanatici anti-greci, porterà a una serie di scontri tra le comunità
greche, soprattutto i chierici e i monaci, e i conquistatori occidentali. Tra la popolazione
cristiana e i nuovi arrivati si creeranno ben presto legami anche matrimoniali. Alla fine
dell’esperienza crociata, e fino ai giorni nostri, resterà una comunità autoctona di rito latino,
in Palestina ma anche nell’attuale Turchia, ennesima tessera nel variegato mosaico cristiano
di quei luoghi.
§ 74: la crociata del 1204 e la conquista latina di Costantinopoli
Molto più costosa e incisiva dal punto di vista dei rapporti tra cristiani latini e greci sarà la
cosiddetta quarta crociata, che a parere di chi scrive (e di altri ben più qualificati) segna la
vera rottura tra Roma e Bisanzio, dal punto di vista ecclesiastico. Il papa Innocenzo III, di
cui avremo molte occasioni di parlare, promuove un vasto disegno di riconquista della Terra
santa, dopo più di dieci anni dalla caduta di Gerusalemme. Il piano iniziale, che sarà tipico
delle spedizioni del XIII secolo, è quello di puntare verso l’Egitto, “ventre molle” del
dominio musulmano, per poi raggiungere con le armi, o ottenere per via di trattative, la
Palestina. I crociati, come spesso avviene, sono cavalieri di origine fiamminga, il che
conferma ampiamente le letture recenti di una “tradizione” crociata in molte famiglie nobili
dell’alta Lorena. Ma il problema è sempre quello del viaggio, molto costoso e fattibile solo
per via di mare. Le potenze marinare italiane hanno i loro punti di riferimento e i loro
interessi: Genova soprattutto nel Mar Nero, Venezia a Bisanzio e nell’Adriatico, con
37
Riassunto degli studi recenti sull’insediamento europeo in Terra santa in PHILLIPS, Le prime crociate, 69-85.
195
vecchie e diuturne ruggini verso gli ormai deboli imperatori d’oriente38. La città lagunare è
coinvolta per il trasporto dei crociati e all’insaputa del papa stipula un trattato molto costoso
con Bonifacio del Monferrato, comandante della spedizione e amico dell’imperatore
germanico Filippo di Svevia. Alla corte di quest’ultimo si è rifugiato un pretendente al trono
bizantino, Alessio Angelo, cognato di Filippo. Alessio propone di riportarlo a Bisanzio,
installarlo sul trono, per poi avere il suo appoggio per la crociata. I ben informati veneziani,
guidati dal doge Enrico Dandolo, hanno interesse a irrobustire la loro presenza a
Costantinopoli, e quindi aderiscono al progetto, e anzi il doge prende la croce. Nella
navigazione, essendo finiti i soldi dei crociati per il nolo delle navi, i veneziani chiedono
loro di conquistare Zara in compenso del viaggio: la conquista della città dalmata, degno
preludio di questa strana crociata, suscita l’ira di Innocenzo III e la conseguente scomunica
dei veneziani. A Zara prende corpo definitivamente il disegno di puntare su Costantinopoli,
sempre all’insaputa del papa, a partire dalle promesse di Alessio Angelo di pagare tutti i
debiti e di sanare lo scisma tra greci e latini.
Costantinopoli si arrende ai cavalieri crociati e ai veneziani senza grosse perdite, in fondo si
trattava dell’ennesimo colpo di stato che rimuoveva un imperatore e ne metteva un altro. A
fronte di questa nuova situazione, Innocenzo III, vedendo la possibilità di riconciliare la
chiesa greca e di proseguire la crociata, sana provvisoriamente la scomunica veneziana. Ma
Alessio non mantiene le promesse verso i sempre più inquieti crociati, finché una rivolta
popolare ostile agli occidentali lo uccide. I crociati allora conquistano e saccheggiano
crudelmente Costantinopoli, spartendosi l’impero coi veneziani: il doge da allora porterà il
titolo di “signore dei tre ottavi dell’impero d’Oriente” (quartae partis et dimidiae totius
imperii Romaniae Dominator)39. Baldovino di Fiandra è eletto imperatore dell’impero latino
di Costantinopoli e Tommaso Morosini di Venezia è il nuovo patriarca. Da quel momento in
avanti, nei territori sotto il controllo dei “latini” (Fiamminghi, Veneziani, poi Genovesi,
Catalani, Francesi…) si attua una sistematica sostituzione di vescovi latini ai greci
preesistenti. La violenza della conquista, l’atteggiamento sprezzante dei conquistatori e
38
Nel 1182, uno dei tanti colpi di stato che si succedevano a Costantinopoli aveva portato al potere Andronico I
Comneno, sull’onda di un movimento xenofobo che massacrò in quell’occasione gli occidentali residenti in città,
soprattutto pisani e genovesi, compreso il cardinale Giovanni, legato papale. Detronizzato nel 1185, Andronico fu
sostituito da Isacco II Angelo, a sua volta abbattuto, accecato e imprigionato dal fratello minore, Alessio III, nel 1195. Il
figlio di Isacco II, Alessio, fuggì in occidente, come si dice più avanti nel testo.
39
Sulla spartizione dell’impero bizantino si veda la carta n. 60 dell’Atlante di storia della Chiesa.
196
soprattutto questo disconoscimento della gerarchia greca crea una profonda offesa nel
cristianesimo orientale verso i franchi.
Innocenzo III al momento della conquista riceve notizie positive e inizialmente approva,
poi, con un quadro più completo degli avvenimenti, condanna duramente la crociata. Alla
fine accetterà la remissione della scomunica attuata dai suoi legati per la crociata e
l’elezione del Morosini.
L’impero latino d’oriente durerà, nella frammentazione e tra gli stenti, per quasi
sessant’anni, quando i nobili bizantini rifugiatisi a Nicea riprenderanno la capitale (1261):
qualcuno ha definito l’impero latino una realtà che “non poteva vivere e non riusciva a
morire”. Di fatto non mancava di interessi e dinamiche vitali: gli affari di Veneziani,
Genovesi e Catalani, il grano del mar Nero, il pepe e le spezie… La lotta tra l’impero latino
e i transfughi greci dell’impero di Nicea, dell’impero di Trebisonda e del despotato
dell’Epiro, le lotte interne tra veneziani, genovesi e altri conquistatori portarono al definitivo
indebolimento del baluardo cristiano verso i turchi, proprio nel momento in cui ai
Selgiuchidi si sostituivano gli Osmani o Ottomani (in Asia minore dal 1243). Ma soprattutto
con la crociata del 1204 si creò un diffuso odio popolare greco contro i latini, così che ogni
tentativo di riunione tra Roma e Costantinopoli, voluto da gruppi aristocratici per motivi
religiosi e politici, era boicottato con durezza dalla popolazione e dai monaci.
§ 75: per un bilancio del fenomeno crociato; spunti di approfondimento storiografico
Una storiografia autentica, dopo aver enucleato le vicende e delineato le connessioni, deve
pervenire a un giudizio, che non è un giudizio morale ma cerca di mostrare l’efficacia o
inefficacia delle libere scelte degli uomini, protagonisti di vicende e fenomeni, efficacia o
inefficacia che si misurano col metro storico della capacità delle scelte di reggere
all’impatto del contesto e di promuovere un ideale o una vita sociale. Talvolta ci sono scelte
immediatamente perdenti che poi rivelano una interessante efficacia, ad esempio le
posizioni di Gregorio VII, e viceversa. Questo non è, appunto, un giudizio morale, anche se,
in una concezione non deterministica e non caotica della storia dell’uomo, una buona scelta
dal punto di vista storico sarà apparentata con un buon principio di umanità, e per un
credente anche con un buon principio di morale religiosa40.
40
Dire, come fa talvolta anche qualche teologo cattolico, che la storia la fanno i vincitori, significa avere o una
concezione deterministica, in cui meccanismi che superano la libertà umana decidono delle sorti, e gli storiografi non
197
Quale giudizio dare sulle crociate? Il dibattito storiografico è ampio e di estremo interesse.
Senza voler esaurire tutti gli aspetti, ancora molto magmatici, della discussione, ci sembra
anzitutto di dover rimuovere concezioni estremistiche e inadeguate a dare conto delle
vicende e della documentazione. La crociata non volle essere una guerra di religione: non si
trattava di annientare l’islam o di convertire più o meno forzatamente i musulmani, ma di
difendere l’impero cristiano; più tardi gli stati crociati, e di permettere ai pellegrini e ai
cristiani di Terra santa di praticare il loro culto. Più tardi nacquero progetti missionari verso
l’islam, proprio a partire dalla crociata: dai tentativi francescani al grande disegno di Ramon
Llull (Raimondo Lullo) nel XIV secolo. Dall’altra parte, chi brillantemente descrive la
crociata come un pellegrinaggio in grande stile, con una piccola deroga per quanto
riguardava l’uso delle armi, e che casualmente o quasi quelle armi finì per usarle eccome,
impoverisce profondamente la lettura dei documenti e una sana visione dell’intelligenza
degli uomini dell’XI-XIII secolo41. Guerra giusta, ma non guerra santa: distinzione sottile,
forse discutibile, ma l’interpretazione storica è fatta di distinzioni. E non guerra di
colonizzazione: non è il caso di mettere in atto anacronismi proiettando su un fenomeno del
XII secolo quel che l’Europa ha fatto nel XIX secolo. Sembra di poter dire che nel suo
sorgere e nei suoi sviluppi di due secoli, il fenomeno crociato nasceva da un movimento
religioso penitenziale, quello dei pellegrinaggi e della Tregua Dei, che volle inserirsi,
abbastanza coscientemente nei suoi leaders come Urbano II, nella mentalità militare del
tempo, quasi un trapianto genetico che voleva usare per una buona causa le risorse e gli
istinti dell’aristocrazia europea. Appunto, guerra “giusta”, non Jihad.
Sembra di poter rintracciare nei promotori del concilio di Clermont tre finalità chiari:
rendere sicuri i pellegrinaggi verso oriente; unire l’impero d’oriente e quello d’occidente, la
chiesa greca e quella latina; vivere un’esperienza unitaria, superando tensioni e rivalità.
fanno che sanzionare la vittoria di questi meccanismi; oppure una concezione in cui il caso è sovrano nelle vicende, e in
fondo oggi casualmente riteniamo che Gregorio VII abbia vinto, a posteriori, la lotta contro il Reichskirchensystem,
mentre avrebbe potuto prevalere Clemente III e la sua concezione, e oggi lo riterremmo papa a tutti gli effetti.
Casualmente…
41
Franco Cardini, noto e fortunato storico italiano delle crociate, scrive che “fin dall’impresa del 1096-1099, se non
esisteva ancora la crociata c’erano però i ‘crociati’, o meglio i cruce signati: erano tutti i pellegrini che, armati o no,
avevano risposto all’appello lanciato a Clermont da Urbano II e per questo portavano, cucito o ricamato sulla veste, il
simbolo della croce. Tale simbolo non era se non un signum peregrinationis al pari, per esempio, della conchiglia per i
pellegrini di Santiago de Compostela. Solo più tardi, in prospettiva, e in modo relativamente lento, il pellegrinaggio
armato verso la Terrasanta – armato in deroga alla prassi ordinaria del pellegrinaggio, e considerate le condizioni in cui
si svolgeva – sarebbe divenuto passagium” (Fr. CARDINI, cit. in TATE, Le crociate, 131). Basta rileggere quanto si può
dare per certo del discorso di Urbano II a Clermont (§ 72) per aver dei dubbi sull’utilità interpretativa dei criteri di
Cardini.
198
Queste finalità, come grandi criteri promotori, ritornano, in varia misura, nei documenti che
nei secoli promuovono le diverse “crociate”.
Indubbiamente il fenomeno crociato ebbe molti aspetti di lunga durata nella storia
d’occidente: promosse interscambi culturali e artistici di estremo interesse, ebbe riflessi
economici e commerciali rilevanti, generò contatti missionari ed ecumenici. Dalla crociata
nacque una particolare attenzione, nella spiritualità medievale e moderna, per l’umanità di
Cristo. Fu insomma uno dei segni più importanti dello slancio dell’occidente, cogliendo e
sintetizzando il movimento penitenziale, il movimento caritativo (ordini cavallereschi e
ospedali fondati in Europa dai crociati), l’impulso di evangelizzazione verso est. Ma
storicamente il fenomeno crociato fu un fallimento. Alla fine, ci sentiamo di condividere il
giudizio, per certi aspetti unilaterale, formulato più di mezzo secolo fa da Steven Runciman:
lui storico del mondo bizantino e tendenzialmente simpatizzante per Bisanzio, accentua
forse troppo i toni. Ma il confronto tra gli intenti e gli esiti è abbastanza chiaro: se le
crociate vollero rendere sicuri i pellegrinaggi, non solo non ottenne durevolmente il risultato
ma accrebbe i risentimenti islamici, che durano fino ad oggi, come mostrano i video di
addestramento dei fanatici fondamentalisti, che vestono come “crociati” i manichini
bersaglio. Se le crociate intendevano unire il cattolicesimo latino e l’ortodossia greca, la
quarta crociata, in fondo coerente con molti aspetti del fenomeno, ne provocò la più dura e
diffusa spaccatura. Se infine la crociata voleva essere un movimento unitario europeo, finì
per sottolineare le divisioni interne, per diventare palestra per le rivalità dei nascenti “stati
nazionali”, i quali finiranno per distruggere alcune realtà sovranazionali nate dalle crocuate,
come ad esempio i cavalieri templari, combattuti fino alla fine da Filippo il Bello di Francia.
Insomma, il trapianto genetico si risolse in un rigetto. Solo nella penisola iberica in qualche
modo ebbe un esito stabile, ma lì la reconquista partì prima, e con motivazioni differenti,
rispetto alla crociata, e fu un fenomeno in buona parte indipendente, anche se un certo
spirito di crociata aleggia ancora nel cattolicesimo iberico, e fu la base ideologica del
franchismo.
Il dibattito è ricco e aperto, e ha prodotto anche una abbondante filmografia, talvolta
storicamente interessante. Si può approfondire quale fu il significato storico dell’evento di
Clermont, e come nacque e si trasformò il concetto di indulgenza42. Ci sono studi di grande
42
Cfr. ad esempio J 4, 577-578.
199
rilievo sul sorgere e sull’evolversi dell’idea di crociata: si vedano i titoli citati da A.
Vauchez nel suo articolo sull’escatologia sottesa alla prima crociata.
200
CAPITOLO XI: L’ETÀ DEI PROFESSORI
§ 76: perché “l’età dei professori”?
Bibliografia: FM 13, 97-100; GV 759-781; P 205-201; É. GILSON, Lo spirito della filosofia
medioevale, Brescia 1964; M. D. CHENU, La teologia nel Medio Evo. La teologia nel XII
secolo, Milano 1972
Al 1122, cioè all’epoca del concordato di Worms, era papa un nobile vescovo, Callisto II,
successore di un monaco di Montecassino, Gelasio II. Meno di 40 anni dopo, nel 1159, sarà
eletto papa, col nome di Alessandro III, Rolando, probabilmente senese, professore (quasi
certamente di teologia, forse non di diritto) dell’università degli studi bolognese. Il papato
non è tutta la Chiesa, ma questo confronto è sintomo di un modo diverso, trasformato.
Alcune linee di forza, nate nel contesto della riforma o sviluppatesi da essa, crescono e
improntano la vita della Chiesa occidentale. Vediamole sinteticamente.
Il vescovo di Roma ha assunto la guida spirituale dell’occidente, ne è diventato il fulcro
unitario, superando ormai il ruolo dell’imperatore. A Clermont un papa eletto fuori da
Roma, da un gruppo di cardinali fuggiaschi, come rivale del potente e colto VibertoClemente III, lancia un appello ascoltato dalla nobiltà di mezza Europa (e dai vescovi, non
dimentichiamolo) per un’impresa di proporzioni inedite: è uno dei primi e più evidenti segni
di un’epoca nuova. E’ un papato che ha pagato direttamente il prezzo del suo ruolo, un
papato itinerante non si inventa dal nulla, l’itineranza non è sempre fatta di sinodi di
successo, è anche spesso esilio. E’ un papato con un orizzonte internazionale, anche grazie
al personale di curia proveniente dalle realtà più vivaci dell’Europa occidentale. Nei secoli
XI-XIII non si vedranno solo papi tedeschi e (molti) francesi e borgognoni, ma anche il solo
papa (finora) inglese, Adriano IV – Nicola Breakspear, e il solo papa (finora) portoghese,
Giovanni XXI – Pietro “Ispano”; e papi cistercensi, canonici regolari, domenicani… Tutti,
ovviamente, provenienti dalla curia, realtà sempre contestata ma più libera dalle secche
localistiche, che pure continueranno a influire e a rendere inquieta la città del vescovo,
scossa dai tentativi di autonomia di tipo comunale e dalle rivalità tra le famiglie
aristocratiche.
Contemporaneamente, e a partire dai grandi teorici della riforma, come Pier Damiani e
Umberto di Silvacandida, la teologia militante si fa sempre più matura. La riflessione
teologica entra in dibattito serrato con la dialettica sempre più coltivata dagli studi delle
201
artes liberales, con la politica e le sue ideologie di supporto, ma anche con l’antidialettica di
origine monastica, che intende ancorare la teologia alla meditazione orante della Sacra
Pagina. I teologi sono attrezzati con le più recenti risorse del pensiero, ma militano in prima
fila sul fronte della riforma. Mentre Pier Damiani, e poi Manegold di Lautenbach e
Bernardo rifiutano la dialettica, Anselmo, non meno monaco, vescovo resistente di fronte al
governo regio inglese a costo dell’esilio, apre la strada all’uso della dialettica in teologia.
Anche dopo l’esaurirsi delle tematiche riformistiche, come quella del ruolo e dei limiti dei
laici (nobili) nella Chiesa, o la questione della validità dei sacramenti amministrati da un
chierico simoniaco, la teologia continuerà a essere militante e a prendere posizione riguardo
alle tematiche urgenti: quelle dell’economia, con il dibattito sul prestito ad interesse e con i
dubbi sulla liceità del commercio in un’età di sviluppo dei commerci e della circolazione
monetaria; quelle della politica, con gli interventi nella lotta tra papato e impero, con la
rivendicazione del potere dei vescovi; quelle dell’evangelizzazione, così che Tommaso
d’Aquino scrive una summa contra gentiles e il già citato Raimondo Lullo progetta ponti
verso le grandi religioni; quelle della vita interna della Chiesa, con le lotte serrate tra clero
diocesano e ordini mendicanti…
Non è solo la teologia a far uso delle risorse antiche riscoperte in occidente grazie agli
apporti della cultura araba filtrati da Spagna, Sicilia e Terrasanta. Non è una novità che la
cultura si faccia “sulle spalle dei giganti”, ma spesso sono nuove alcune delle fonti antiche:
nel X secolo è ritornato in auge l’uso del cursus della prosa classica; nella matematica,.
nelle scienze, nella medicina si ritrovano testi aristotelici e di altri greci, o si prendono tra le
mani gli studi arabi; la storiografia sceglie una cosciente imitazione dei grandi storici latini;
il diritto romano, coltivato nelle antiche nicchie romagnole, si diffonde nello studio
giuridico e politico delle corti e delle università europee; si riprendono le letture dei padri
della Chiesa, che sono la base dell’interpretazione biblica; e l’artigianato virtuoso e locale di
comacini e cosmati si diffonde al di là delle brevi radure in cui era nato, e in tanti, nel
viaggio verso la crociata, ammirano i mosaici greco-normanni di Monreale, i castelli e le
chiese costruite dagli europei d’Outremer, le meraviglie bizantine custodite a Venezia.
Per usare un concetto tipico dell’economia politica di impianto marxista, che rende l’idea, in
Europa è avvenuta una sorta di accumulazione primaria di risorse, ma si tratta di beni
intellettuali e culturali. Le regole canoniche antiche sono state riscoperte, rimesse in auge,
confrontate, e se ne sono prodotte altre, grazie alla documentazione romana e ai sinodi
202
riformatori. Le questioni concrete hanno generato sentenze morali, sul commercio e sul
matrimonio, sull’uso delle armi e sull’amministrazione della giustizia. Le varie chiese si
sono confrontate sugli usi penitenziali e sulle diverse tradizioni liturgiche. C’è stato un
ampio dibattito sui sacramenti, sul sacramento dell’ordine dalla questione formosiana alla
simonia e al nicolaismo, sull’eucaristia e sul suo significato. C’è un patrimonio di pensiero
specificamente ecclesiale, e più ampiamente di cultura anche “profana”, da ordinare,
armonizzare, adattare a un mondo in piena evoluzione, e insegnare. La Glossa ordinaria,
ormai giunta al culmine dello sviluppo, aveva aperto la strada. Il Decretum Gratiani, nato
nell’insegnamento a Bologna, in realtà si chiama Concordantia discordantium canonum, e il
titolo dice esattamente la necessità di un lavoro di confronto e superamento delle apparenti
(o reali) contraddizioni tra normative sorte in mille anni di vita ecclesiale e in contesti
profondamente differenti. Pietro “Lombardo” raccoglie le Sententiae teologiche e morali
che saranno commentate nell’insegnamento, sempre nell’ottica del concordare,
armonizzare, sintetizzare. Ci si avvia al prodotto culminante, la summa. Il luogo di queste
operazioni di scelta, ordine, priorità non è più il chiostro del monastero, è la scuola cittadina
che sta trasformandosi in una corporazione, cioè in una universitas.
Il mondo in cui la Chiesa si muove è una realtà in pieno cambiamento. Non è qui il caso di
entrare nel dettaglio del dibattito sul movimento economico europeo dei secoli XI-XIII, e
certamente alcune enfasi del passato hanno bisogno di un giusto ridimensionamento. Però è
innegabile l’espansione demografica che richiede nuove terre da coltivare, quindi
espansione verso est, ricolonizzazione della penisola iberica, diminuzione delle foreste e
bonifica delle paludi. Anche il commercio si sviluppa, con le spezie e i tessuti dell’oriente,
l’ambra e le pellicce del Baltico, il grano delle pianure orientali caricato nel mar Nero.
L’asse dell’attenzione, in alcune zone strategiche dell’Europa, passa dalla campagna alla
città: la pianura padana e il centro Italia, i cui “lombardi” diverranno commercianti e
banchieri in tutto l’occidente; i porti delle repubbliche marinare e della potente e ricca
Sicilia; i centri commerciali e tessili alle foci dei grandi fiumi germanici, nelle Fiandre, i
porti baltici e del mare del Nord che si uniscono nella lega Anseatica. Le città, come gli
uomini d’affari, si uniscono tra loro in società, una questione determinante sarà quella di chi
ha il diritto di battere moneta, schiavitù e servitù della gleba diventano un problema. La
nobiltà del territorio rurale entra talvolta in conflitto, e talaltra si inserisce, in questi mondi
cittadini, dove ai “magnati” aristocratici si affiancano i “populares”, la borghesia pronta a
203
prendere le armi per difendere gli interessi della città, capace di un rischio che non è più
quello del cavaliere in guerra, ma quello del commerciante sulla strada e sul mare43. Come
giustamente sottolinea Vauchez, perfino nella santità trovano posto i borghesi, gli artigiani
come Omobono Tucenghi di Cremona. Ma in questi mondi potrebbe trovar spazio anche
l’eresia. E’ un mondo che cambia e che la Chiesa affronta con il pensiero e con l’azione
pastorale.
La vittoria della riforma, come sembra essere un dato comune a tutta la storiografia, fu
vittoria della Chiesa gerarchica contro l’investitura laicale. Fu un’immagine di Chiesa a
prevalere, per certi aspetti unilaterale, ma in contrapposizione a un potere aristocratico che
era divenuto sistema. Ma questa gerarchia è più collegiale che verticistica, o, se vogliamo,
vede dei vertici potenti ma affiancati a collegi da cui non si può prescindere. E non è un
caso che al compimento di questa riforma, nella prima metà del XII secolo, contribuirono
dei canonici regolari, istituzione quant’altre mai segnata dalla collegialità. Nella riforma ci
fu la vittoria del collegio cardinalizio, che progressivamente assunse delle forme, un ruolo,
un riconoscimento. Nelle diocesi trovarono o ritrovarono un ruolo determinante i collegi
capitolari, che nelle città divennero sempre più il luogo di sintesi tra il potere vescovile, il
clero, le famiglie notabili e i gruppi sociali emergenti. Nel potere cittadino stavano
avvenendo analoghi fenomeni di associazione e di gestione collegiale della cosa pubblica.
La stessa universitas studiorum, come abbiamo detto, si costituisce come corporazione.
Poco a poco, la coesistenza di realtà di vertice e di esigenze collegiali/corporative porterà a
tensioni, talvolta feconde, talaltra conflittuali, fino agli scontri tra facoltà delle arti e facoltà
di teologia nelle università, all’emarginazione del vescovo dal potere cittadino nei comuni
italiani, ai lunghi conclavi del secolo XIII.
Lo scenario in cui la realtà ecclesiale si muove non è più un mondo di foreste e paludi in cui
qua e là si aprono delle radure: è un orizzonte veramente europeo, connesso dal Portogallo
all’Armenia e da Uppsala a Salerno, con interscambi che vengono alla luce attraverso segni
interessanti e tracce inattese44. In questo mondo, le figura di sintesi, come e forse più che
papi come Innocenzo III o imperatori come Federico II di Svevia, sono frati domenicani
come Tommaso d’Aquino, che nasce a Roccasecca in Ciociaria e trascorre i momenti più
43
Cit. E. POWER, Vita nel medioevo, Torino 1999, 37-80 (sulla figura di Marco Polo).
E’ affascinante, ad esempio, lo studio di Fr. D’AIUTO, Il libro dei vangeli fra Bisanzio e l’oriente: riflessioni per l’età
mediobizantina, in Forme e modelli della tradizione manoscritta della Bibbia, a cura di P. Cherubini, Città del Vaticano
2005, 309-345, in cui si mostrano interscambi tra ambienti greci, siriaci, armeni, georgiani e perfino con l’occidente.
44
204
importanti della sua vita a Parigi; o un professore di Bologna come Graziano; o Guglielmo
Durand, vescovo di Mende, autore del Rationale divinorum officiorum, una sorta di summa
simbolica e liturgica, che sarà uno dei testi più stampati in età moderna, subito dopo la
Bibbia.
§ 77: Chiesa, cultura e teologia nei secoli XII e XIII – la situazione di partenza
Bibliografia: FM 10, 443-503; 13, 97-100; L 477-487; J 4, 601-610; 5/1, 57-75; GV 781783; 821-827; HC 5, 412-417; CHENU, La teologia nel Medio evo…
S’è già detto, qui sopra ma anche nei capitoli precedenti, che l’elaborazione esegetica,
canonistica, morale e teologica nei secoli che potremmo definire dell’alto medioevo (VIIIX) aveva prodotto una grande quantità di materiale. Per certi aspetti, anche per le figure che
avevano contribuito a queste indicazioni e per le vicende che avevano richiesto da esse una
chiarezza, si trattava di affermazioni ritenute normative, o per lo meno di grande valore. Era
stata una Chiesa di santi a pensare e a scrivere tutto questo! Ma, appunto, si sentiva anche
l’esigenza di dare un ordine, di ritrovare delle priorità.
Quanto veniva dalla cultura classico-cristiana continuava ad essere presente nello studio, a
fornire strumenti di elaborazione, ed era rivestito della stima che era emersa già nei secoli
precedenti. Gli scritti di Boezio, ad esempio, erano le linee guida della logica e della
dialettica: e si trattava di un utilizzo di Aristotele a forte impronta platonica. Grazie alle
traduzioni e agli studi dell’età carolingia (Giovanni Scoto Erigena), era molto diffuso lo
pseudo-Dionigi, rivestito di autorità apostolica, e dunque, anche qui, scorreva linfa
platonica. Tra i padri della Chiesa, letti, commentati, trascritti e raccolti nelle glosse alla
Scrittura, prevaleva su tutti Agostino, pressoché onnipresente. Dunque si direbbe, da una
parte, una prevalenza, in Occidente, del platonismo e della “scuola” alessandrina dei primi
secoli, ma con qualche riferimento non marginale al letteralismo antiocheno, e con
importanti differenze tra i vari “platonismi” o forse, per meglio dire, “agostinismi”
dell’Occidente. In questo quadri va collocato il dibattito, ormai vecchio di vari decenni ma
sempre interessante da ascoltare, tra De Lubac che legge tutta l’esegesi (e la teologia)
medievale come sviluppo dell’esegesi spirituale a partire ma al di là della lettera, e Beryl
Smalley che ritrova il filo dell’attenzione alla lettera e alla veritas judaica come sensibilità
soggiacente a una parte consistente dello studio medievale della Scrittura.
205
Gli spazi della cultura, fino al secolo XI, erano stati soprattutto i monasteri, anche se non si
può ridurre tutta la cultura di quel tempo esclusivamente al mondo monastico. Certo le
abbazie benedettine che segnavano il paesaggio di tutto l’occidente, spesso sorte col
contributo di quei monaci-pellegrini-missionari insulari che facevano della cultura uno
strumento di evangelizzazione, avevano dato un apporto immenso. Si trattava di una cultura
che partiva dalle scuole per i piccoli oblati, ed era indubitabilmente segnata dal ritmo
liturgico e dalla pratica della lectio. Lo studio della Scrittura era dunque in funzione della
contemplazione, l’esegesi allegorico-simbolica connetteva la Bibbia alla ritualità, e per
imparare l’abbicì si usavano i salmi. L’impegno scolastico, secondo le migliori tradizioni
insulari, aveva una cura particolare per la lingua latina e per la retorica, utile per le omelie.
E’ chiaro che il platonismo e Agostino si inquadravano molto bene in questo mondo fondato
sul pensiero simbolico, il cui prodotto “di vertice” non poteva che essere il commento al
Cantico dei cantici, dove si sviluppava al massimo la lettura allegorica-spirituale.
Molti storici del pensiero vedono in Bernardo l’ultimo, altissimo esponente della teologia
della Sacra Pagina. Poi la storia insegna che le cose non finiscono di colpo. Certo, salvo
alcuni pensatori come Guglielmo di Saint Thierry e Isacco della Stella (+ 1169), il mondo
cistercense investirà un po’ meno sulla cultura libraria e un po’ più sulla cultura tecnica, non
certo da disprezzare. E soprattutto smettono di accogliere i piccoli oblati e di fare dei
monasteri-scuole. E il mondo benedettino non si esaurisce nel fenomeno cistercense: pochi
contemporanei conoscono la qualità dell’esegesi e l’ispirazione profondamente
contemplativa di un teologo “tradizionale” come Ruperto, abate del monastero “nero” di
Deutz, sulla riva destra del Reno davanti a Colonia.
Contemporaneamente, le scuole capitolari delle città, con l’apporto dei “canonici regolari”,
avviano una linea innovativa, anche se non del tutto nuova. I chiostri cittadini dei canonici,
come Saint Victor a Parigi, sono spazi culturali differenti dagli antichi monasteri. Vi si fa
scuola, ma non più al modo in cui si istruivano i piccoli “oblati”. Sono ormai adolescenti e
giovani, spesso ma non sempre e non tutti avviati alla carriera ecclesiastica secolare, a
essere allievi di queste scuole, che mai peraltro erano cessate del tutto: si pensi a Reims,
dove erano stati scholastici prima Gerberto, poi Bruno di Colonia.
§ 78: la “rinascita” del secolo XII
206
Bibliografia: FM 13, 100-206; J 5/1, 129-139; L 541-544; GV 759-783; HC 5, 417-433;
CHENU, La teologia nel Medio evo…, in particolare 23-57
Parlando del già citato esegeta e teologo Ruperto di Deutz, Henri de Lubac afferma:
Ruperto non ha aperto nuove vie all’intelligenza come S. Anselmo o come Pietro
Abelardo; né come S. Bernardo, alla spiritualità. Egli non è stato toccato, come
Guglielmo di Saint-Thierry, dalla grazia di Cîteaux, che allora ringiovaniva il mondo.
Non ha anticipato le tecniche del pensiero come quel dialettico profondo e
dimenticato che fu Gilberto de la Porrée. Non ha realizzato, come Ugo di San
Vittore, l’equilibrio di una sintesi originale, un po’ artificiosa e perciò fragile, ma
ricca e misurata… Nel cielo teologico di quella meravigliosa epoca egli vi brilla
ugualmente, settima “pietra preziosa”, settimo candelabro d’oro… Egli merita di
rimanere associato nel nostro ricordo con costoro, in compagnia di questi grandi
testimoni dello Spirito, “viri spirituales, qui sunt luminaria mundi”45
e in nota enumera “altri astri d’un grande splendore” nella stessa epoca: Bernardo di
Chartres, Guglielmo di Conches, Guigo il certosino, Anselmo di Laon, Pietro Venerabile,
Sugero di Saint Denis, e con loro “non sarebbe difficile completare la dozzina”.
Ci sono momenti della storia del pensiero in cui sembra che una misteriosa alchimia o una
fortunata congiunzione di astri produca quasi simultaneamente non poche personalità di
qualità intellettuale superiore. Non è detto che i loro risultati siano il vertice di una certa
fase: a volte, come in questo caso, gli “astri” del secolo XII per certi aspetti anticipano, per
altri pongono le condizioni o preparano il materiale per un ulteriore salto di qualità che loro
sfugge.
Ovviamente, con quel pizzico di sano illuminismo che non guasta, non possiamo credere né
ad alchimie né ad astrologie. Cerchiamo brevemente, invece, di delineare i caratteri della
cultura intellettuale e specificamente teologica del XII secolo. Si tratta, anzitutto, di un
tempo di compresenze: insieme ai tradizionali luoghi di elaborazione della cultura, che
erano i monasteri, si affacciano, come già accennato, “nuovi” luoghi (che poi del tutto nuovi
non sono)come la scuola capitolare e poi l’università con la suo nuova organizzazione
corporativa con forte interfaccia sociale e col meccanismo, sconosciuto nel monastero, della
207
cooptazione. Compresenza anche di diverse domande culturali: quelle tradizionali,
monastiche e pastorali, e quelle delle facoltà delle arti, della medicina, perfino domande
provenienti dal mondo laicale. Metodi diversi si affiancano: continua la lectio biblica, che
resterà come uno dei pilastri della formazione teologica anche nell’università del XIII
secolo, ma ad essa si affianca la quaestio, il percorso dialettico “lanciato” con successo di
pubblico da Abelardo. Infine il sottosuolo di una serie di dibattiti rispecchia la competizione
tra monaci e canonici, che già si è rivelata nello “scisma innocenziano” del 1130. Sono
compresenze che svelano insieme intrecci e tensioni, identità e differenze, connessioni di
temi e tradizioni e letture diverse e talvolta conflittuali delle connessioni stesse. Non a caso
qualcuno ha scritto che i creatori della scolastica furono Anselmo e Abelardo: figure,
mentalità, vocazioni e biografie tra loro diversissime.
Queste compresenze in rapporto dinamico sono chiamate ad affrontare quelli che potremmo
chiamare i temi del giorno.
Anzitutto, bisogna continuare ad elaborare una teologia della Chiesa che esprima
l’autoconsapevolezza maturata nella lotta contro il potere politico nell’età precedente e nel
cammino secolare dell’espansione evagelizzatrice: non sarà una “ecclesiologia” così come
oggi la vediamo e come inizia a delinearsi tra la fine del XIV e la metà del XV secolo, ma
sarà un insieme di temi giuridici, sacramentali e morali mai disgiunti dalle loro radici
scritturistiche e teologiche. Infatti uno dei filoni più rilevanti della produzione del pensieri
credente del secolo XII sarà l’elaborazione compiuta della teologia dei sacramenti, luoghi
ormai consapevolmente irrinunciabili della struttura istituzionale ecclesiale (ordine e
plenitudo potestatis), della pastorale (eucaristia, confessione), della vita morale (matrimonio
al tempo dell’amor cortese).
Anche l’esperienza del “mondo” ha una più forte consistenza e propone tematiche inedite.
La conquista di nuove terre, alcune soluzioni tecniche, una maggior fiducia dell’uomo
dentro la natura, non più vista come realtà minacciosa ma come spazio di sviluppo e di
conquista, stavano lentamente producendo una nuova mentalità. La città coi suoi artigiani, i
suoi “corpi” sociali e le nuove modalità di scambio di prodotti sono uno scenario in
crescita46. E’ forse discutibile, e andrebbe approfondito, che la “sconfitta” del laicato
aristocratico e la vittoria di una Chiesa “gerarchica” abbia offerto comunque al laicato, forse
45
46
H. DE LUBAC, Esegesi medievale, 414-415.
C. M. CIPOLLA, Storia economica dell’Europa pre-indistriale, Bologna 1980, 163-225.
208
al “nuovo” laicato della città, uno spazio di autonomia, di impegno “nel mondo”. Comunque
nello stesso mondo clericale emergono i “saeculares”, coloro che vivono nel mondo:
vescovi, capitoli, canonici regolari, e più tardi ordini mendicanti.
A livello di coscienza collettiva si assiste al diffondersi del senso della “storia”, che si
connette alle letture degli storici antichi e produce la proliferazione di cronache, ormai non
più solo monastiche, e di letture teologiche della storia, come il De victoria Verbi Dei del
già citato Ruperto di Deutz, paragonabile, come incisività nel medio evo, al De civitate Dei
di Agostino e al Discorso sulla storia universale di Bossuet nelle loro rispettive epoche47. Il
lungo “scisma” tra papato e impero, un vero shock a fronte degli ideali di armonia vissuti
dagli uomini di cultura, così come il ricupere di Gerusalemme e poi la sua ricaduta nelle
mani dei musulmani, fini alle ondate devastanti delle orde tartariche nel XIII secolo
ponevano continuamente il problema del senso della storia e delle catastrofi che in essa si
intravedevano, e del rapporto tra gli avvenimenti contemporanei e la dimensione
escatologica. Già il dotto canonico Gerhoh di Reichersberg, figura di grande interesse della
seconda metà del XII secolo, scrive De quarta vigilia noctis, preannunciando la conclusione
di questo mondo malvagio e facendo di Gregorio VII la prima sentinella della quarta veglia.
Alla fine dello stesso XII secolo le speculazioni di Gioacchino da Fiore, abate calabrese, che
secondo De Lubac sovverte profondamente l’equilibrio dei “sensi della Scrittura”,
porteranno all’estremo la sitematizzazione delle visioni escatologiche, e saranno destinate a
una lunga fortuna per tutto il secolo successivo.
Alcuni autori recenti insistono molto sulla riscoperta dell’individuo a quest’epoca, i cui
maestri sarebbero da ritrovare nella spiritualità cistercense e nella conseguente esigenza di
dare conto delle esperienze mistiche.
Due cammini culturali, ora in simbiosi ora in tensione, in ogni singolo autore del tempo
presenti in modi, forme, misure variabili, affrontano questi temi della comunità dei cristiani,
dell’esperienza del saeculum, del senso della storia, dell’emersione dell’individuo. Si tratta
della mentalità simbolica e della strumentazione dialettica. Gli autori antichi e i padri della
Chiesa restano le letture di partenza per chiarire ed elaborare i temi dell’attualità, le
curiosità e gli interessi nuovi.
Accenniamo molto rapidamente a qualche esempio degli sviluppi del pensiero del XII
secolo, in cui emergono queste tematiche “all’ordine del giorno”. Riccardo di San Vittore,
209
canonico regolare, elabora una teologia sacramentaria basata sulla distinzione e sul rapporto
tra res e sacramentum che avrà una lunga fortuna. La scuola di Chartres mette in campo il
tema del microcosmo e del macrocosmo: il mondo è concepito come un tutto, e l’uomo, nel
mondo, ne rappresenta quasi la sintesi, e riflette questa totalità e completezza. Alcuni grandi
teologi e uomini del clero sviluppano interessi e ricerche nel campo della medicina, della
fisica e dell’ottica, con ardite connessioni nel campo biblico-teologico. E’ di grande
interesse questa considerazione sintetica, ormai vecchia di mezzo secolo ma probabilmente
mai sfruttata nella sua potenzialità, dello Chenu:
I “nomi divini” sono un caso eminente di queste analogie metaforiche: i nomi biblici,
fuoco, luce, leone, re, non le proprietà trascendentali in termini d’essenza…
Spontaneo e tradizionale l’uso dei nomi metaforici diverrà l’oggetto di una coscienza
critica che l’ingresso della metafisica dionisiana porterà di colpo ad un grado elevato
di analisi. E’ in questa prospettiva che bisogna seguire lo sviluppo di quelle che
vengono chiamate le prove dell’esistenza di Dio. Il trattato ne viene costituito nella
seconda metà del secolo e tende a non usare che analisi concettuali della ragione
metafisica; tuttavia conserva ancora il piano, immaginativo e biblico, della
conoscenza metaforica. Così avviene ad esempio, ed è un caso fra molti, nella solida
e gustosa elevazione sulla natura, “libro” e “figura” di Dio, che leggiamo annessa ad
Didascalicon di Ugo da san Vittore48
Abelardo sviluppa una scienza psicologica del soggetto umano, che è anche una
antropologia teologica.
Nel frattempo si registra il cosiddetto “secondo ingresso” di Aristotele in occidente, di cui
tanto han discusso gli storici della filosofia. Gli scritti del fondatore della scuola peripatetica
non erano totalmente sconosciuti nell’Europa medievale, soprattutto filtrati attraverso
Boezio. Ora giungono testi che non erano presenti nella vecchia tradizione occidentale, con
tutta la predisposizione alla venerazione dell’antico che faceva parte della mentalità
comune. Dalla Spagna, dove Aristotele era arrivato con la filosofia araba, vennero la
Metafisica, la Fisica, il De Coelo e il De Anima e altri testi. Più tardi, nel secolo XIII
47
48
DE LUBAC, Esegesi medievale, 393.
CHENU, La teologia nel Medio evo…, 183.
210
avanzato, si diffonderanno anche i testi etici. Inizialmente alcuni di questi scritti giunsero
con le glosse e le aggiunte di Ibn Rushd, in occidente noto come Averroé, vissuto tra
Spagna e Marocco (1126-1198), esponente di un accentuato razionalismo filosofico
musulmano49. Spesso le glosse erano indistinguibili dal testo aristotelico, e quindi offrivano
alla venerazione occidentale affermazioni di una direzione razionalistica sconcertante. La
sfida aristotelica, tra la fine del XII secolo e il successivo, fu una vera crisi di
acculturazione, “una delle crisi più profonde della storia del pensiero” (L. Geymonat).
Immaginiamo anche il contesto concreto: gli studenti vivono il gusto e l’entusiasmo di una
dialettica che rischia continuamente di discutere, per esercizio, le più profonde e inconcusse
verità, con tutta la vivacità del mondo adolescenziale; la facoltà delle “arti”, dove questi
testi diventano pane quotidiano, nella dialettica ma anche nella medicina e nell’astronomia,
contesta il primato della teologia e cerca di rendersi autonoma nei giochi di potere e di
equilibrio delle nascenti corporazioni degli studi. Non mancherà, soprattutto nei monasteri,
una reazione antidialettica e antifilosofica.
Ma la riduzione tutta italicofascista della filosofia a storia della filosofia, e le carenze negli
studi dell’ambito della storia del pensiero accentuano questa ondata aristotelica come fatto
determinante delle vicende culturali del XII e XIII secolo, e rischiano di dimenticare altri
fattori, non meno rilevanti nell’ambito del mondo culturale del tempo.
Anzitutto si ha una rilettura e, per alcuni testi, una riscoperta dei padri greci: l’Areopagita,
Massimo il confessore e Gregorio di Nazianzo erano già noti, ma sono tradotti meglio. Si
traducono e si diffondono le opere, pressoché dimenticate, di Gregorio di Nissa, Giovanni
Crisostomo e Gregorio Damasceno. Il contatto con l’oriente tramite le crociate, e poi con la
sventurata spedizione del 1204, favorisce queste letture e promuove una comprensione di un
mondo che teologicamente torna vicino: remota preparazione all’effimera unione del II
concilio di Lione, di cui parleremo oltre. Qui è tutto un mondo venato di platonismo
cristiano, ma non solo, che irrompe in occidente.
Il risveglio evangelico, detto in altri termini, il diffondersi dell’ideale della “vita apostolica”,
sintesi tra contemplazione e pastorale, orgogliosamente rivendicata dai suoi esponenti,
prima canonici regolari e poi mendicanti, come superiore alla vita monastica, “solamente”
49
Averroé non insegna l’esistenza di una doppia verità, religiosa e filosofica. Me dichiara che il modo di procedere del
filosofo alla ricerca dell’unica verità è differente e distinto rispetto al percorso della gran parte del popolo, che arriva
alla verità attraverso la religione. Si ha quindi in lui un dualismo tra religione e dialettica, possibile nel contesto
islamico, dove la divinità non si incarna e dove il pensiero di Dio è al di là di tutto, “Allah sa di più”.
211
contemplativa, farà sorgere e darà ispirazione a nuovi ordini, ma va a creare movimenti ad
alta densità spirituale anche tra i laici, a cui la vita apostolica, da condurre nel saeculum, è
più a portata di mano. Da queste esigenze spirituali nascono nuovi stimoli al pensiero e al
dibattito teologico, oltre che violente controversie intraecclesiali.
Come aveva fatto Graziano per le varie fonti, talvolta contraddittorie, del diritto, così, in
questa prima scolastica, nascono i tentativi di raccogliere in un ordine sistematico le
principali affermazioni dei Padri, confrontarle e farne emergere eventuali contraddizioni, e
tentare una chiarezza e una sintesi tramite la dialettica: dopo i tentativi di Anselmo di Laon
e di Guglielmo di Champeaux, entrambi, tra l’altro, allievi della scuola monastica di Bec, si
affermerà la più matura opera, già sopra citata, di Pietro Lombardo, nell’ultimo suo anno di
vita (1160) vescovo a Parigi. Le Sentenze di Pietro Lombardo saranno, come il Decretum
Gratiani per il diritto canonico, la base dell’insegnamento della teologia per il XIII secolo.
Che cos’è, in questo contesto estremamente dinamico, la “scolastica”? Tutti usano questa
espressione, ormai canonica, ma pochi ne dànno una definizione, così che sotto il termine
“scolastica” ci finisce… un po’ di tutto. A livello di storia della Chiesa la scolastica è il
tentativo, o meglio l’articolarsi dei tentativi, di fare sintesi rispetto a tutti questi vettori di
forza. Il XII secolo sembra vada interpretato come l’età creativa, il tempo del sorgere di
molti problemi e dibattiti che però non trovano ancora il genio, o i geni, capaci di
sintetizzarli. Il XIII secolo vedrà l’impegno a dare senso e a incanalare tutte queste
dinamiche in progetti organici e definiti: ciò sconterà la perdita di una parte di creatività e
spontaneità, ma l’acquisto di una maggior incidenza.
§ 79: la teologia come scientia nel XIII secolo
Bibliografia: FM 13, 207-520; J 5/1, 356-376; L 544-549; GV 783-820; HC 5, 759-780; M.
D. CHENU, La teologia come scienza. La teologia nel XIII secolo, Milano 1971.
Volutamente usiamo qui l’espressione colta dallo Chenu come cifra sintetica del periodo
della piena scolastica: teologia come scientia. I teologi hanno ormai compiuto la scelta, non
tanto di abbandonare l’antica visione della Sacra Pagina biblica da leggere e commentare,
pratica che resterà nel curriculum di tutti i docenti delle università di questo periodo; quanto
integrare nel percorso dello studio e del dibattito tutta la strumentazione considerata,
appunto “scientifica”, appresa dagli studenti nella facoltà “della arti”, e che con la dialettica
comprende anche la matematica e la fisica. Dunque la scienza aristotelica, con cui la
212
teologia fa i conti. Questo processo di dialogo e di “acculurazione” richiede una sintesi che
non mortifichi le due componenti fondamentali, il pensiero razionale con i suoi risultati e
l’ascolto della rivelazione. Il secolo XIII vedrà svariati tentativi di sintesi, che si incarnano
spesso (non sempre) in summae o prodotti editoriali analoghi, e che noi chiameremo
“progetti”. Questi autori infatti operano qualcosa di analogo a quanto oggi possiamo
caratterizzare con il termine “progetto”. A partire da alcuni dati e da alcuni obiettivi, ogni
linea cerca di edificare una costruzione la più ampia e salda possibile. Non prenderemo in
considerazione tutti gli autori di questo periodo, ma cercheremo, molto brevemente, di
offrire un quadro in cui inserire i vari personaggi che si incontrano nello studio della
teologia sistematica.
Una prima figura di sintesi potrebbe essere considerata quella di Alberto: domenicano,
docente in varie università europee, maestro di Tommaso d’Aquino che appartiene al suo
stesso ordine. Il tentativo di Alberto “magno” sarà quello di incorporare nella cultura e nella
teologia occidentale il patrimonio scientifico greco e arabo nei campi della medicina, della
fisica e delle scienze della natura, cercando di armonizzare questi elementi con le linee di
sviluppo della teologia.
In un’altra zona d’Europa, tradizionalmente sede di studi e approfondimenti, ossia
l’Inghilterra, nasce l’università di Oxford. In questa antica scuola si insediano i francescani,
che arrivano nella Britannia insulare nei primi anni di esistenza del loro ordine, provenendo
dalla Francia, addirittura ancora vivente il santo fondatore assisiate50. E si risente di tutta
l’ispirazione francescana nel progetto di Roberto Grossatesta e della scuola di Oxford, che
fa dell’esperienza il punto di partenza della riflessione e sviluppa gli studi di fisica e ottica.
Il culmine della scuola di Oxford sarà la sintesi operata da Duns Scoto, che però si affaccia
già nel XIV secolo.
In questo periodo va notato un apporto prezioso, non sul versante della sintesi teologica ma
dal lato della messa a punto degli strumenti per studiare e comprendere l’aristotelismo
imperante nelle facoltà delle arti. Il fiammingo Guglielmo di Moerbeke e altri ritornano ai
testo aristotelici già cosparsi di glosse razionalistiche e mettono in atto una traduzione latina
direttamente dal greco, quindi più precisa e “purgata” dall’averroismo, consentendo così ai
dialettici e ai filosofi di muoversi sull’originale pensiero di Aristotele: un po’ di buona
50
R. MANSELLI, I primi cento anni di storia francescana, a cura di A. Marini, Cinisello B. 2004, 41.
213
filologia aprì la porta alla conciliazione tra la tradizione filosofica antica riscoperta e il
cammino del pensiero occidentale.
E’ a questo punto, con questi strumenti testuali migliori, nel contesto di una università ormai
articolata nelle sue forme stabili, quale era quella di Parigi, che può svilupparsi il vasto
progetto sintetico di Tommaso d’Aquino. E’ importante ricordare che il culmine di questa
elaborazione, ossia la Summa theologiae, è il punto di arrivo di un lavoro di studio e
insegnamento che Tommaso svolge secondo le gerarchie e il curriculum ormai tradizionale:
commenti biblici, commento alle Sententiae di Pier Lombardo, e poi discussione di
tematiche nelle Quaestiones, sedute “laboratoriali” in cui la dialettica era utilizzata per
l’approfondimento delle verità filosofiche e di fede.
Il progetto di Tommaso, in breve, può essere così definito: piena inculturazione della
teologia nella scientia aristotelica ormai egemone nella facoltà delle arti, a partire dalla
chiarezza sugli aspetti metodologici: quale spazio in teologia per l’utilizzo della dialettica?
Come una dialettica spassionata può condurre ad accrescere la scienza della fede e non a
distruggere le certezze della rivelazione biblico-cristiana? L’impianto degli articoli della
Summa offre icasticamente l’idea del percorso di pensiero di Tommaso: Utrum caritas sit
virtus… Videtur quod non… Sed contra… Respondeo dicendum quod… ad primum…51.
Tommaso distingue tra la ragione e la fede, in questo accogliendo la lezione aristotelica e
averroistica, ma postula il loro accordo, necessario oggettivamente per l’unica verità a cui
ragione e fede si dirigono. L’accordo tra il pensiero e la fede sarà quindi intelligibile, e
questo sarà lo spazio della dialettica. Anche nell’interpretazione della Scrittura, che rimane
la base della teologia, la ragione ha un compito di approfondimento, a partire dalla
tradizione esegetica patristica mai dimenticata.
La struttura di elaborazione di Tommaso, esercitata in anni di dibattiti universitari, tradisce
in controluce l’intenzione di questi gradi maestri dei secoli XII-XIII, che, a parere di chi
scrive, ben si esprime nel titolo dell’opera giuridica di Graziano: Concordantia
discordantium… La Scrittura e la tradizione forniscono una grande quantità di materiale,
talvolta intelligibile a fatica: infatti la lettura allegorica della Bibbia nasceva anche – non
51
Aprendo a caso la Summa, in questo caso si tratta della IIa IIae, quaestio 23, articulus 3. Si noti che una delle gravi
difficoltà tutt’ora in campo nello studio dei testi tomistici è l’edizione critica. Infatti, anzitutto gli originali di Tommaso,
che in molte parti abbiamo, sono scritti con una grafia difficilissima, chiamata dai paleografi, per antonomasia, littera
illeggibilis; invece le varie opere di Tommaso ci sono giunte spesso a partire dagli appunti degli studenti, che, come
tutti gli appunti, sono imprecisi, si integrano reciprocamente, producono testi anche molto diversi tra loro che i copisti a
pagamento dei vicolo parigini poi riproducevano il più velocemente possibile per il bisogno degli studenti stessi.
214
solo – dall’idea di rendere comprensibili quei passi soprattutto anticotestamentari che non si
capivano “alla lettera”. Ma anche la scientia – fisica, metafisica, etica… - aristotelica
fornisce altri risultati, talvolta, almeno apparentemente, discordanti dall’ispirazione biblica.
Posta una questione (utrum), si esaminano con la ragione le posizioni discordi (videtur quod
non – sed contra), si propone una soluzione (respondeo) e a partire da questa affermazione
già sorretta dal percorso razionale, si interviene nella spiegazione intelligibile delle
obiezioni.
A volte, studiando la storia della filosofia e della teologia di questo periodo, ci si imbatte in
questioni, che a noi sembrano del tutto destituite di concretezza, e che quindi, se mal
studiate come spesso avviene nella scuola secondaria italiana, generano quel senso di
inutilità che purtroppo è uno stigma del pensiero medievale. Si tratta, invece, di tematiche
estremamente concrete, legate a questioni che in quel periodo, erano all’ordine del giorno, e
a cui docenti e studenti partecipavano in maniera appassionata, tanto che il buon Tommaso,
che non era certo un fisico sportivo, si trovò spesso a incorrere in agguati e risse contro la
sua persona. L’esempio più eclatante è quello del dibattito sul tema dell’intelletto comune,
che lo vide dialogare e scontrarsi con Sigieri di Brabante. Gli aristotelici radicali, seguaci in
questo di Averroé, postulavano che esistesse un unico intelletto comune a tutti gli uomini,
coincidente con l’anima, che permetteva la comunicazione delle idee e dei risultati del
pensiero; Tommaso invece si opponeva a questa teoria dell’intelletto comune, postulando
l’esistenza di un intelletto individuale e richiedendo altre forme che spiegassero la
comunicazione. Tematica apparentemente del tutto teorica. In realtà la proposta di intelletto
comune portava gli aristotelici radicali a importanti conseguenze sul piano morale: se
l’anima dei santi è salvata, e tutti condividono l’intelletto e quindi l’anima dei santi, tutti
sono salvati, indipendentemente dai loro atti buoni o cattivi.
D’altronde la teologia del XIII secolo, di Tommaso e degli altri, rimane una teologia
militante, come nei secoli precedenti, ossia legata alle necessità ecclesiali del tempo e ai
temi caldi del dibattito. S’è già detto che la Summa contra gentiles, o meglio Liber de
veritate catholicae fidei contra errores infidelium, che tra l’altro gli fu sollecitata da varie
parti, era in vista di un approfondimento teorico dell’impegno evangelizzatore che i suoi
stessi confratelli domenicani stavano portando avanti, e non è certo un caso che nel secolo
XIV sia la contra gentiles che la Summa theologiae fossero tradotte perfino in armeno dai
domenicani missionari nella zona caucasica.
215
La contemporanea elaborazione francescana che ha come elemento di spicco Bonaventura
da Bagnoregio può essere letta come un tentativo di sintesi ma con un’impronta più
tradizionale, potremmo dire “conservatrice” (senza dare nessun significato negativo al
termine). L’opera bonaventuriana è una “teologia della pietà”, il suo percorso è quella
tradizionale, anselmiano: lettera della Scrittura – dogmi – allegoria (interpretazione
spirituale), e Bonaventura recupera una serie di elementi agostiniani che facevano da
resistenza all’aristotelismo universitario. E non saranno solo i serrati ma mitissimi dibattiti
tra Tommaso da una parte, Duns Scoto e Bonaventura dall’altra, a rappresentare una realtà
variegata in cui l’aristotelismo era pacifico nella facoltà delle arti ma sospetto in quella della
teologia: Tommaso muore, cinquantenne, nel marzo 1274. Esattamente tre anni dopo
l’arcivescovo di Parigi, Étienne Tempier, pubblicava una lista di testi tomisti condannati
come eccessivamente aristotelici e quindi eretici: una condanna che sarà tolta ufficialmente
dall’università di Parigi nel 1325.
216
CAPITOLO XII: LA LOTTA TRA DIRITTO CANONICO E DIRITTO ROMANO NEL RAPPORTO
PAPATO-IMPERO (1153-1198)
§ 80: lo scontro con il Barbarossa
Bibliografia FM 9/2, 413-517; 577-659; J 5/1, 78-97; GV 432-453. 455; L 491-501; HC 5,
203-216; P 85-87; EP 2, 286-308
Come spesso avviene nello svolgersi delle vicende storiche, pochi mesi sono sufficienti per
un cambio generazionale. Nel 1153 sale al potere in Germania il giovane Federico I di
Hohenstaufen, o di Svevia come lo chiama la tradizione storiografica italiana; l’anno
successivo è eletto papa Nicolas Breakspear, canonico regolare di San Ruf d’Avignone
prima di diventare cardinale, che prende il nome di Adriano IV: finora il primo papa di
origine inglese. Al nuovo papa si presentano due questioni ormai endemiche nello scenario
politico del centro-sud Italia, ossia l’inquietudine della città di Roma, proprio in quel
periodo alimentata dalla predicazione pauperistica di Arnaldo da Brescia; e il difficile
rapporto col regno dei Normanni, che si spingono a occupare Benevento, che anni prima si
era data al papa, e si infiltrano nella “campagna”, ossia nella zona di maremme a sud di
Roma. Adriano progetta quindi di ricorrere al giovane re, cogliendo l’occasione
dell’incoronazione imperiale.
Ma alla corte del Barbarossa, così venne presto chiamato Federico, si registrava un clima
culturale nuovo, almeno per certi aspetti. Il progetto politico si orientava a restaurare un
impero dai connotati tradizionalmente feudali, con un controllo stretto sul territorio tramite
la nobiltà, ecclesiastica e militare: si trattava cioè di un percorso che oggi chiameremmo
conservatore per non dire reazionario, visto che la struttura feudale da tempo mostrava
importanti segni di crisi. Ma l’ideologia soggiacente a questa restaurazione proveniva da
una fonte differente rispetto a quella tradizionale del mondo tedesco, legata alle figure di
Carlo magno e di Ottone, imperatori cristiani e germanici. La figura imperiale era delineata
e connotata dai caratteri del diritto romano, che le nuove università, soprattutto nel nord
Italia, avevano rimesso nel circolo culturale europeo. Si tratta, ovviamente, del diritto di
Teodosio e di Giustiniano, che però si basa sulla legislazione precedente. Dunque la
restaurazione feudale aveva un sottofondo ideale in qualche modo differente e nuovo
rispetto alle generazioni precedenti. Questa visione emerge attraverso vari sintomi. Ad
esempio, la punizione di alcuni attentati alla persona dell’imperatore, uno dei quali avvenuto
217
a Lodi ad opera di un energumeno sconosciuto, era determinata non dal diritto germanico,
ma dal principio tutto romanistico di laesa maiestas. Ma fu la rivendicazione del potere
assoluto e supremo del re tedesco che generò il primo scontro tra papa e imperatore, su una
questione assolutamente formale anzi simbolica, ma si sa quanto, in quel periodo,
contassero i simboli. Giunto alle porte di Roma in vista dell’incoronazione imperiale,
Federico si rifiutò di prestare il servizio di Marschall, di palafreniere del papa, come voleva
un’antica tradizione dei tempi carolingi. Un gesto che fece scalpore e provocò dotte
discussioni tra i teorici delle due parti.
Giunto a Roma e incoronato, Federico mostrò il vero interesse della sua politica, ossia la
situazione del nord Italia, in cui le città avevano ottenuto col passare del tempo una larga
autonomia. Partendo da concessioni dei predecessori di Federico, che nei decenni precedenti
si erano concentrati sulla situazione tedesca, le città comunali avevano progressivamente
consolidato e assorbito nella propria legislazione e nei propri usi alcuni diritti di tipo statale,
come la riscossione di tasse, il battere moneta, una larga autonomia giudiziaria. Senza
contare che l’aristocrazia terriera, antica base di consenso e controllo della corte imperiale
sul territorio, era stata depotenziata nelle proprie ambizioni proprio dal nuovo movimento
comunale. Federico puntava a restaurare la diretta autorità imperiale sulle città
settentrionali, e si disinteressava dell’instabile situazione di Roma, solo intervenendo contro
Arnaldo da Brescia, e della pressione normanna sul Patrimonium Petri, pur restando ostile
alla potenza siciliana.
Una volta che il nuovo imperatore partì da Roma, papa Adriano, con la mediazione del
mondo normanno franco-inglese da cui proveniva, si accordò con il regno di Sicilia, ma in
questo modo scontentò l’imperatore. Circola nella corte del Barbarossa l’accisa di un
complotto tra Roma, l’impero bizantino, i normanni e le città del nord Italia per deporre
l’imperatore e sovvertire l’ordine costituito: sarebbe, dunque, laesa maiestas (cfr. EP 2,
289). Contemporaneamente si apriva, sempre per ragioni politiche, un nuovo fronte di
tensioni. Adriano, da cardinale, era stato inviato come legato tra la Norvegia e la Svezia, e
aveva costituito una provincia ecclesiastica autonoma per la Norvegia (Nidaros-Trondheim),
e aveva anche portato il pallio al vescovo di Lund, nuovo metropolita per la Danimarca,
Eschilo (Erskil), ma così la Santa Sede si era scontrata con la potente arcidiocesi di
Amburgo-Brema, che rivendicava il suo controllo sull’evangelizzazione dei territori
scandinavi. Con Amburgo si schierò poi Federico, sperando in tal modo di avere dalla
218
propria parte i giovani regni scandinavi. Eschilo di Lund s’era recato a visitare il papa suo
amico ad limina Petri, ma nel ritorno era stato arrestato e imprigionato dai soldati imperiali
in Borgogna: Federico cercava di appoggiarsi alle rivendicazioni amburghesi per controllare
appunto i regni di Svezia e Norvegia. Il papa protestò per l’atto poliziesco e inviò due
cardinali, uno dei quali era Rolando, cancelliere, già appartenente all’università di Bologna,
alla dieta imperiale d Besançon. I due cardinali trasmisero una lettera papale di esortazione
a liberare Eschilo: il papa, dopo aver ricordato di aver fatto generosamente del bene
(beneficium) all’imperatore avendolo incoronato, prometteva la sua benevolenza e altri atti
concreti di favore (beneficia) a Federico se, liberando il vescovo svedese, avesse mostrato la
sua obbedienza alla Santa Sede. Il cancelliere e vescovo di Colonia Rainaldo di Dassel
tradusse in tedesco il termine latino beneficium non con un generico Wohltat, ma con il
tecnico Lehen, che significa “feudo”. Il testo di Adriano, così reso, avrebbe dichiarato, in
pratica, che la corona imperiale era un diritto a disposizione del papa, e che Federico lo
deteneva solo in quanto vassallo del papa stesso: concezione inaudita sia per la tradizione
germanica, sia, ancor di più, per quella di diritto romano propugnata dalla corte dello svevo.
Quanto questa traduzione fosse un’incomprensione di Rainaldo, quanto invece una voluta
provocazione contro il vescovo di Roma, quanto una cosciente ambiguità della stessa curia,
che conosceva la donatio Constantini e all’occorrenza ne faceva uso, è impossibile dirlo.
Certo è che la lettura e traduzione della missiva papale suscitò la reazione stizzita dei grandi
del regno germanico, e costrinse i legati papali ad allontanarsi.
Nel 1158, forte di un potente esercito e dell’appoggio della nobiltà del nord Italia, Federico
scese ancora in Italia, anche cogliendo l’occasione delle lotte interne tra città comunali
(aprile 1158: distruzione di Lodi); l’imperatore, con gli alleati, mise a ferro e fuoco Milano,
la città che guidava il movimento autonomistico (1158), e distrusse Crema dopo un terribile
assedio (1159). In una assemblea convocata alla Roncaglia, cioè in una striscia di terra tra il
Po e l’antico corso del Lambro, grosso modo davanti a Piacenza, Federico stroncò le
ambizioni delle città lombarde, imponendo a ogni centro urbano un suo rappresentante, e
rivendicando tutte le “regalìe” da decenni esercitate dai comuni. Federico estese poi queste
norme anche alle città di dominio pontificio, nonostante le proteste di Adriano.
In quello stesso 1159 Adriano moriva ad Anagni. La maggioranza dei cardinali, diversi dei
quali originari da comuni italiani, elesse al suo posto il cancelliere Rolando, che prese il
nome di Alessandro III e fu appoggiato dai Frangipane, mentre una minoranza filoimperiale
219
proclamò papa il cardinale Ottaviano della nobiltà romana, che prese il nome di Vittore IV
(+ 1164, ebbe a successore Guido da Crema, Pasquale III). Alessandro dovette fuggire da
Roma, rimase in esilio soprattutto in Francia fino al 1165, quando riusciva a entrare di
nuovo a Roma. E’ in questi anni che divampa la lotta tra il Barbarossa e i comuni del nord
Italia, raccolti nella lega lombarda e appoggiati sempre lealmente dal papa, anche quando
l’imperatore cerca di scioglierne l’alleanza con trattative diplomatiche. Federico nel 1167
punta su Roma e la assedia vittoriosamente, ma è costretto a fuggire per una violenta
epidemia che decima l’esercito: muore, nell’occasione, anche Rainaldo di Dassel. Dopo una
guerra durata dieci anni, infine la lega lombarda, formata dalle fanterie “borghesi” delle
città, riesce a prevalere sull’esercito di cavalieri di Federico, nella battaglia di Legnano
(1176). L’anno dopo l’imperatore scende a trattative a Venezia, e si giunge a una pace di
compromesso: formalmente è l’imperatore che concede ai comuni quelle regalìe che
esercitavano ormai da decenni, ma la teoria imperiale deve accettare il fatto compiuto dello
sviluppo economico-politico delle città e del superamento del sistema imperiale e feudale. A
seguito della pace di Venezia, Alessandro III compie una serie di operazioni di
risistemazione della vita ecclesiastica sconvolta da anni di guerra, e il riordino si conclude
con il concilio lateranense III del 1179. In esso viene approvata la costituzione Licet de
vitanda, ulteriore sviluppo del sistema di elezione del papa. Si sancisce la fine
dell’egemonia dei cardinali vescovi, che fu il perno del partito riformista un secolo prima, e
si stabilisce la regola, tutt’ora valida, dell’elezione coi due terzi dei voti dei cardinali, una
maggioranza qualificata che comporta una convergenza salda ma è difficile da raggiungere.
Seguiranno elezioni di papi più stabili perché con un forte consenso, ma più lungo sarà il
periodo di sede vacante.
§ 81: dall’ultima fase del regno di Barbarossa alla morte di Enrico VI (1177-1197)
Bibliografia FM 9/2, 661-712; J 5/1, 118-128; L 500-502; GV e P vedi § precedente; HC 5,
216-223; EP 2, 308-326
Con la pace di Venezia, dopo venticinque anni di regno, si registra una svolta nel
programma politico di Federico. Il centro di interesse si sposta dal nord Italia, ormai lasciato
nelle mani delle “nuove” forze cittadine, al mediterraneo. Il primo segnale, e per certi
aspetti il più importante, è il matrimonio di Enrico, figlio ed erede di Federico, con Costanza
d’Altavilla, figlia dell’ultimo re normanno Ruggero II. Poco dopo, nel 1187, i latini
220
d’outremer subirono la durissima sconfitta dei corni di Hattin e dovettero cedere al Saladino
Gerusalemme. Papa Clemente III proclamò la crociata, e vi aderì anche l’ormai anziano ma
indomito Federico, che oltre alla causa santa del sepolcro di Cristo evidentemente aderiva a
un’occasione di maggior controllo del mediterraneo. Mentre Filippo Augusto di Francia e
Riccardo cuor di leone d’Inghilterra si muovevano per via di mare, Barbarossa si inoltrò
nell’Anatolia, dove perse la vita annegando nel fiume Salef (Calicadno per i bizantini,
Göksu per i turchi), davanti a Seleucia (attualmente Silifke), in Cilicia. La morte di Federico
e quindi il ritiro della potente cavalleria tedesca, e le rivalità tra Filippo e Riccardo feceri
sostanzialmente fallire la nuova ondata crociata.
Intanto Enrico a nome della moglie lottava per il predominio sul regno normanno, conteso
dal pretendente Tancredi conte di Lecce, e controllava i dintorni di Roma alla morte di
Clemente III. Fu allora eletto il classico papa “di transizione”, il cardinale più anziano,
ottantacinquenne, Celestino III, romano e do grande esperienza diplomatica. Celestino
incoronava imperatore Enrico (1191) ma appoggiava segretamente Tancredi, per evitare che
la corona siciliana fisse unita a quella imperiale, stritolando il Patrimonium tra due fuochi.
Si delinea qui la grande paura del papato fino al XIII secolo, quella della manovra a
tenaglia, che determinò molte scelte politiche dei vescovi di Roma di questi decenni. Enrico
non solo riuscì a conquistare il regno di Sicilia e a farsi incoronare a Palermo, ma
contemporaneamente ebbe un figlio dalla non più giovanissima Costanza, chiamato, in
ricordo nel nonno, Federico. Siamo alla fine del 1194. Enrico governa con durezza il regno
normanno, imponendo temuti tedeschi come funzionari sul territorio (celebre e odiato fu il
siniscalco del regno, Marcovaldo di Anweiler) e progettando grandi cose tramite l’unione
tra l’antico impero e la ricchissima e strategica Sicilia. Promette anche di andare in crociata,
e scende a trattative con la Santa Sede. Nel 1197 improvvisamente Enrico VI muore,
lasciando Costanza erede del regno e tutrice del piccolo Federico. Poco dopo moriva anche
Celestino, novantatreenne. Il progetto imperiale tentato dal Barbarossa e continuato dal
figlio sembrava completamente interrotto, nelle mani di una donna che, non appena al
potere, sgombrò il campo del regno siciliano dai tedeschi e si appoggiò alla nobiltà
normanna e ai funzionari locali, anche di origine musulmana, e di un bambino che a cinque
anni perdeva anche la madre. Nonostante le insidie dinastiche, per quel momento la
sindrome da accerchiamento del papato era sotto controllo.
221
Intanto il camerlengo, ossia il ministro delle finanze della sede romana, il cardinale Cencio,
riorganizzava le risorse, i censi e i diritti del Patrimonium, opera indispensabile per poter
perseguire costosi interventi politici e pastorali: la grande operazione di riordino fu
materializzata nel Liber Censuum alla fine del secolo XII. La curia romana, ormai fondata
su quelli che oggi chiameremmo “dicasteri” come la Camera apostolica, la Cancelleria e la
Penitenzieria, guidate direttamente dai più potenti cardinali, accentuava il suo intento
centralizzatore. Il concistoro, ossia l’assemblea dei cardinali di tutti e tre gli ordini (vescovi,
presbiteri e diaconi), fin dal tempo di Urbano II si vede attribuiti compiti decisivi, e riunito
in questo periodo (fine XII secolo) mensilmente, sostituiva ormai gli antichi sinodi romani
ed era il luogo dell’assunzione delle più importanti decisioni, come assemblea giudiziaria
pubblica. Inoltre i cardinali sottiscrivevano i più importanti documenti papali.
§ 82: la chiesa inglese sotto Enrico II Plantageneto e la figura di Thomas Becket
Bibliografia: J 5/1, 98-108; FM 9/2, 519-575; GV 453-454; L 499; HC 5, 251-252.
Nell’Inghilterra governata ormai da un secolo dagli eredi dei normanni, alla metà del XII
secolo, lo scontro non è tra diritto canonico e diritto romano come ideologia di sostegno al
progetto conservatore-feudale, ma tra il diritto canonico scaturito dalla riforma del secolo
XI
e il diritto consuetudinario che è la base della legislazione e della struttura del regno. E per
queste consuetudini i re inglesi continuano la politica di forte controllo delle sedi vescovili
attuata da Guglielmo il Conquistatore sia per ragioni di stabilità interna, sia, dopo il 1066,
per imporre la riforma a una chiesa che con gli ultimi monarchi anglosassoni era andata in
una fase di evidente decadenza. Enrico II volle a arcivescovo di Canterbury e primate un
suo chierico e funzionario di corte, Thomas Becket. Come avveniva in quei decenni in quasi
tutti i regni europei, i grandi arcivescovi provenivano dalla corte, dove spesso ricoprivano
ancora incarichi. Thomas s’era distinto, prima della sua elezione, come difensore dei diritti
del clero contro le prepotenze della nobiltà e della corte, pur svolgendo soprattutto un
compito di ricostruzione di un ordine legale in un regno prima sconvolto dalle lotte tra i
potentati locali; il suo impegno di uomo della legge e dell’ordine era in piena sintonia con la
politica del suo re, con cui era legato da sincera amicizia. Subito dopo la sua nomina
rassegnò le dimissioni da cancelliere, con sorpresa di tutti, non solo in Inghilterra. Da
arcivescovo continuò a porsi come figura di rispetto della legge, che però in questo ambito
222
era il diritto canonico uscito dalla riforma, che escludeva l’intervento dei laici nella Chiesa,
e così ben presto si mise in urto col re e con il suo entourage. Ciò avvenne in particolare tra
il concilio di Tours, presieduto dall’esiliato Alessandro III (1163), a cui Thomas partecipò, e
le assise del regno di Clarendon, in cui il re richiese di mettere per iscritto e sancire
solennemente le consuetudines del rapporto corona-Chiesa dei tempi di Guglielmo, scelta a
cui Thomas non volle aderire (1164). Fu in esilio in Francia dal 1164 al 1170, sempre
appoggiato da Alessandro III, un po’ meno dai confratelli vescovi inglesi. Per la minaccia di
un interdetto sul regno, Enrico II lo riammise in Inghilterra, e Thomas tornò nella sua sede
all’inizio di dicembre del 1170. Pare che il re non avesse ordito nessuna congiura contro il
suo arcivescovo, ma si fosse lasciato sfuggire un: “Ma non c’è proprio nessuno che mi liberi
da questo fastidioso prete?”, comunque quattro cavalieri della corte tesero un agguato al
Becket, che, meno di un mese dopo il suo rientro, fu ucciso nella sua stessa cattedrale.
La fama del martirio e i miracoli che da subito avvennero presso le reliquie del presule,
nonché la scomunica scagliata contro il re e l’interdetto sui possedimenti francesi della
dinastia normanna, costrinsero Enrico alla penitenza pubblica; si discute, però, se a seguito
di questa solenne cerimonia fosse o no sospesa l’esecuzione delle costituzioni di Clarendon.
Il culto dell’arcivescovo martire si diffuse in tutta Europa: il classico della letteratura
inglese Canterbury Tales di Chaucer hanno come cornice un pellegrinaggio alla tomba del
Becket. Anche nel regno inglese il rapporto tra politica e mondo ecclesiastico, messo in
tensione dalle risultanze della riforma gregoriana, vide gli uomini della linea di Alessandro
III offrire segni interessanti di una posizione indipendente rispetto al potere.
§ 83: sintesi e linee di approfondimento
L’ideale dell’armonia tra regno e Chiesa era ormai entrato nella mentalità del mondo
cristiano occidentale: si può parlare, a questo riguardo, di “cristianità”, come di una sorta di
mito fondante, di ideologia politica a cui tutti dicevano di voler aderire. Ma la riforma
gregoriana, ormai diventata “carne e sangue” del diritto ma anche della pastorale e della
strutturazione della Chiesa latina, non poteva non creare continue tensioni rispetto a chi,
come Federico Barbarossa, volesse una concezione “imperialistica” – nel senso dell’impero
di Giustiniano – al tentativo di ripristino dei diritti regali sulle città, oppure, come Enrico II
Plantageneto oppure, anche nelle differenze, come Enrico VI, volesse conservare o
ricuperare il controllo sulle sedi vescovili o comunque perseguire una politica di egemonia.
223
Non mancano vescovi che pagano di persona la fedeltà all’ideale di una Chiesa
indipendente. Ma se da una parte la struttura dell’impero feudale sovranazionale è in
posizione sempre più critica, in parallelo con il venir meno dell’esclusività del sistema
feudale stesso, si delineano alcuni vettori di forza che spingono verso altre realtà sociali e
politiche, che lentamente e con grandi differenze si faranno largo. Da una parte il mondo
cittadino, geloso dei margini conquistati con l’impegno economico e l’esercizio collettivo
del potere, esautora i vescovi dalla posizione tradizionale di governo paternalistico dei
centri urbani; dall’altra parte alcuni centri di potere, con una legislazione sempre più
accentrata e omogenea – diversamente dalla frammentarietà feudale – controlla le città, il
territorio e intende controllare anche la vita ecclesiastica: gli esempi dei regni (entrambi di
origine normanna) dell’Inghilterra e della Sicilia mostrano questi percorsi. La sede romana,
fedele ai principi di riforma, si appoggia ai comuni della lega lombarda per la lotta contro il
Barbarossa e i suoi discendenti, e si ritrova sempre più impegnata nello scacchiere
internazionale, per la riconquista di Gerusalemme, il ridimensionamento del potere tedesco,
il timore dell’accerchiamento. In questo contesto elabora dottrine teologico-politiche e
prassi diplomatiche che avranno il loro culmine nel secolo XIII, ma che si basano su un
profondo retroterra di pensiero. La necessità di risorse, sia di personale che economiche, per
tenere in piedi questa complessa politica conduce a un potenziamento della curia e a una
strutturazione sempre più accentrata.
Si può approfondire la condizione della Chiesa nel regno normanno di Sicilia, discussa da
storici soprattutto inglesi: se ne veda una descrizione precisa in D. MATTEW, I normanni in
Italia, Roma – Bari 1997, 222-234. Se già le Consuetudines inglesi davano al re largo
influsso sulla chiesa, nel regno dell’Italia meridionale le concessioni del tempo di Anacleto
II e la politica dei re normanni creavano condizioni quasi uniche rispetto al resto d’Europa.
Alcuni testi interessanti e una messa a punto della storiografia sui conflitti tra vescovi e
poteri cittadini nel nord e centro Italia in M. PELLEGRINI, Vescovo e città. Una relazione nel
Medioevo italiano (secoli II-XIV), Milano 2009.
224
CAPITOLO XIII: L’ETÀ DI INNOCENZO III
§ 84: i frutti dei “papato dei professori”
Bibliografia: GV 493-496; P 231-233; HC 5, 223-238; 499-504
Alla morte dell’anziano Celestino III, la politica della curia romana doveva affrontare un
insieme di questioni aperte. Anzitutto, sia il regno normanno di Sicilia che l’impero
germanico erano vacanti. Il piccolo Federico, figlio di Enrico VI, poteva essere formalmente
re del sud Italia, ma non poteva essere automaticamente erede dell’impero, che era
comunque elettivo e doveva essere guidato da una figura riconosciuta dai duchi e dai grandi
feudatari anche ecclesiastici d’oltralpe. Per quanto riguarda il regno di Sicilia, il governo a
nome di Federico era tenuto dall’energica madre Costanza, che però doveva fare i conti con
la riottosa nobiltà normanna, e difatti si liberò della pesante tutela di Markwald e degli altri
funzionari germanici per accontentare i baroni. Per l’impero, come vedremo oltre, i duchi
non si accordavano su un unico candidato. Le città del nord e centro Italia, formalmente
sottomesse all’imperatore ma ampiamente autonome dopo la pace di Venezia, vivevano un
tempo di inquietudini sia interne, tra le fazioni delle singole città, sia per continue
competizioni economiche che si trasformavano in sanguinose lotte di egemonia. Anche
Roma era coinvolta in questo movimento, e una parte della cittadinanza avrebbe volentieri
fatto come tante altre città italiane, cioè avrebbe scelto una forma di autogoverno, mettendo
da parte il potere del vescovo, che però in questo caso era il papa… Altro tema che
preoccupava la corte di Roma era la crociata: Gerusalemme era perduta da dieci anni, la
terza crociata era fallita e Enrico VI non era potuto accorrere a liberare i luoghi santi. Anzi,
nonostante l’abilità di alcuni dei re di Gerusalemme, i domini cristiani erano ormai ridotti ad
alcune città lungo il Mediterraneo, e la capitale era ormai San Giovanni d’Acri.
La curia romana, che aveva eletto l’anziano Celestino e si apprestava a eleggere il giovane
Lotario dei conti di Segni, era un complesso internazionale di esperti diplomatici e di
studiosi di diritto e teologia. In essa si era giunti a una consapevolezza riflessa e affermata
nei testi, ad esempio nelle ampie premesse (le arengae, in termine tecnico) delle bolle
papali, di una visione del ruolo del vescovo di Roma nella Chiesa che si può definire con
l’espressione plenitudo potestatis. Per comprendere il significato dell’espressione, val la
pena non solo far riferimento al latino classico, ma por mente al fatto che la parola potestas
nel XII e XIII secolo, mantenendo un livello teorico (“il potere”), si incarnava in figure
225
precise ad esempio nella vita delle città italiane. La potestas era il capo delle magistrature
cittadine, “nome astratto di solito impiegato per significare colui che esercitava una
giurisdizione civile o penale in nome di una superiore autorità”52, dunque insieme il potere
astratto e la persona che lo incarnava, in nome dell’autorità, ossia un’ideologia che si
attaglia perfettamente al “caso” del papa.
Plenitudo potestatis quindi non significa un’estensione assolutistica e totalitaria del potere,
bensì anzitutto una funzione vicaria, “in nome di” colui che ha “ogni potere in cielo e in
terra”53, cioè di Gesù Cristo. La Plenitudo potestatis è anzitutto una funzione arbitrale nelle
contese della christianitas, in tutte quelle situazioni in cui, in nome di Cristo, si deve
riportare la pace oppure indicare quel è la soluzione conforme al bene della cristianità: la
coronazione imperiale, soprattutto se discussa, oppure l’appello alla crociata, o, più
ampiamente, l’imposizione della pax Dei. Si noti che tutte queste forme, di fatto, erano già
state sperimentane nei secoli XI e XII e avevano visto il vescovo romano come
protagonista, da solo (come nel caso della coronazione) o come colui che convoca e
presiede sinodi (come per la crociata di Clermont). L’elaborazione teorica aveva dunque dei
precedenti su cui costruirsi e confermarsi. Inoltre l’esercizio della potestas era, in linea
generale, un intervento in situazioni di emergenza, mentre nell’ordinarietà le potestates
politiche avevano piena e riconosciuta autonomia.
Sempre a partire dalle vicende dei secoli precedenti, l’esperienza aveva mostrato un’altra
sfumatura dell’esercizio della potestas papale: il giudizio sulla conformità delle scelte e
degli atteggiamenti dei governanti rispetto alla legge morale – e quindi al diritto canonico
che la incarnava. Quindi non solo in situazioni “critiche” come la crociata o la guerra o la
coronazione imperiale, ma anche in tempi più ordinari, il papa era l’istanza definitiva
laddove si ravvisava un abuso del capo politico. Si era visto Gregorio VII scomunicare
Enrico IV, deporlo e sciogliere i sudditi dal giuramento di fedeltà, perché Enrico era
accusato di simonia e abuso contro le prerogative papali; Alessandro III aveva scagliato
l’interdetto contro i possedimenti francesi del re d’Inghilterra per la morte di Thomas
Becket… Dunque, come dichiarato già in embrione dal dictatus papae, al papa “è lecito
deporre l’imperatore” (n. 12) ed egli “può sciogliere i sudditi dalla fedeltà verso gli iniqui”
52
53
E. OCCHIPINTI, L’Italia dei comuni. Secoli XI-XIII, Roma 2000, 55 (cfr. 53-60).
Data est mihi omnis potestas in caelo et in terra: Mt 28,18.
226
(n. 27): un giudice con piena autorità e con un insieme di pene canoniche da utilizzare, non
ad arbitrio ma, appunto, contro gli “iniqui”, chiunque siano, anche costituiti in autorità.
L’esercizio della plenitudo potestatis è dunque una guida spirituale, ma con importanti
risvolti politici, che richiede risorse umane (curia, legati…), e quindi ha bisogno di risorse
economiche basate su una risorsa politico-territoriale, ossia il patrimonium Petri. Quel che
un po’ anacronisticamente si potrebbe chiamare lo stato pontificio, non era una realtà
precisamente confinata e normata, una un insieme di diritti, spazi controllati e tradizioni,
continuamente contesi e rivendicati. Negli ultimi decenni del XII secolo il patrimonium era
stato descritto, in qualche modo fotografato, dal Liber censuum romanae ecclesiae messo a
punto dal cardinal camerario Cencio. Questo ampio documento è segno di una volontà di
controllo da parte della curia romana, ma anche della linea di tendenza, diffusa negli ultimi
decenni del secolo XII e nel secolo XIII sia nel mondo ecclesiastico che in quello civile, di
riorganizzare, definire, rivendicare per iscritto i diritti delle città, dei vescovadi54. Anche
nella compilazione del liber censuum emerge la struttura intellettuale della corte romana del
periodo.
Sia nello svolgimento del processo storico che nell’elaborazione di pensiero, si potrebbe
dire che lo “scontro” tra diritto canonico riformistico-papale e diritto politico nelle sue varie
espressioni (feudale, consuetudinario, romano imperiale) è stato finora vinto dalla parte
ecclesiastica, e dal diritto si sta articolando una teologia.
§ 85: Innocenzo III
Bibliografia: FM 10, 17-147; J 5/1, 190-215; L 502-506; GV 457-493; P 233-237; HC 5,
504-510; 553-599; EP 2, 326-350
Dopo uno dei papi più anziani della storia, il collegio cardinalizio, in un giorno di scrutinio
(6 gennaio 1198, lo stesso giorno della morte di Celestino III), elesse il cardinale più
giovane, Lotario dei conti di Segni, trentottenne, che prese il nome di Innocenzo III.
Formato, a quanto pare, a Parigi e a Bologna, canonista e teologo – l’approccio strettamente
teologico di Lotario è nello stile monastico e non scolastico – e politico avvertito, Innocenzo
è soprattutto un uomo di fede, con sincera spiritualità personale e altissima coscienza del
proprio ministero, con un profilo del pontificato essenzialmente spirituale. E’ a partire da
54
Cfr. Vescovi medievali, a cura di G. G. Merlo, Milano 2003.
227
questo nucleo e non dalle strategie politiche che si può comprendere la figura di Innocenzo
e l’incidenza avuta nella Chiesa dell’inizio del XIII secolo.
Il giovane papa affronta problemi con intuito sorprendente e senso dell’innovazione. Si può
dire, in breve, che le tematiche attraversate dal suo pontificato sono state: il rapporto tra
sacerdotium e regnum, sia dal punto di vista pratico-politico sia con le riflessione teorica,
sia a fronte del tradizionale legame con l’impero sia nell’ambito delle altre monarchie
europee; le urgenze pastorali dei suoi tempi, a cui si dedicherà attenzione nel capitolo XIV,
con il ruolo dei nascenti ordini mendicanti, e il tentativo di una normativa quadro con il
concilio Lateranense IV del 1215; il rapporto tra la struttura istituzionale della Chiesa, ormai
ampiamente messa a punto e delineata, e la spontaneità dei movimenti spirituali, coma ad
esempio quello di Francesco d’Assisi; e perfino il rapporto tra teologia, ormai avviata verso
la piena scolastica, e mistica.
Molti di questi temi saranno toccati nelle prossime pagine. Anzitutto diamo uno sguardo alla
sua azione di pontefice con addentellati più direttamente politici.
I problemi aperti al momento della sua elezione si imperniavano anzitutto sul rapporto
Sicilia-Impero-Patrimonium. Il regno di Sicilia apparteneva, tradizionalmente e
formalmente, al Patrimonium stesso, quale feudo sotto l’alta sovranità papale, mai esercitata
direttamente. A seguito dello scisma innocenziano, settanta anni prima, era stato dichiarato,
da Roma stessa, regno autonomo, pur legato tramite gesti simbolici alla sede papale. Nel
corso dei secoli, e fino addirittura al 1700, il legame vassallatico della monarchia siciliana
era rappresentato dal dono annuale di una mula bianca, la cosiddetta “chinéa”. Questo regno
teoricamente sottomesso a Roma aveva ora un re bambino, Federico, figlio del temibile
Enrico VI, ormai defunto. Alla morte della madre, Costanza d’Altavilla, già nel 1198,
Innocenzo divenne tutore del piccolo Federico: da una parte dovette garantire l’unità e
l’indipendenza del regno di fronte alle mire dell’impero tedesco e alle spinte centrifughe dei
baroni normanni, dall’altra si trovò costretto a individuare un equilibrio con il mondo dei
funzionari della corte di Palermo. Per tutto questo, il papa dovette impiegare molte risorse
economiche.
Contemporaneamente, anche l’impero germanico s’era trovato senza capo per la morte di
Enrico. Il piccolo Federico non poteva sperare di essere eletto al trono di suo padre, se non
più avanti. Nel frattempo i duchi tedeschi, sempre molto litigiosi, avevano proceduto a una
duplice elezione contrapposta, di Filippo di Svevia, fratello di Enrico, e di Ottone di
228
Brunswick. Per il principio della plenitudo potestatis Innocenzo III si pone come arbitro
della contesa, anche se le forze politiche tedesche non si erano certo appellate al papa, ma
avevano cercato appoggi nello scenario europeo, e quindi l’elezione imperiale era ormai una
questione internazionale, con un ruolo pesante sia della monarchia francese, sia di quella
inglese, sia della potenza economica delle città del nord e del centro Italia. Il papa finisce
per appoggiare Ottone, che per un certo tempo occuperà il trono imperiale (Ottone IV):
questo pretendente aveva fatto ampie promesse a Innocenzo di autonomia e indipendenza
delle Chiese e di rispetto del patrimonium Petri, ma una volta incoronato non rispetterà i
patti e punterà ad annettere all’impero la monarchia siciliana, minacciando il patrimonium e
mettendo da parte i diritti del papato. Per evitare la temutissima “manovra a tenaglia”,
Innocenzo III scomunica l’imperatore (1210) e dà la sua approvazione all’elezione di
Federico II, ormai adolescente e “maggiorenne”, da parte degli avversari di Ottone. Le
garanzie che Innocenzo chiede a Federico sono le solite: pieno rispetto dei diritti e dei
confini del Patrimonium, ampia libertà lasciata al papa nelle nomine e nel controllo dei
vescovi, separazione della corona imperiale da quella siciliana. Federico nel 1213 con la
“bolla d’oro” di Eger accoglie tutte le richieste del papa, dando alla Chiesa una “libertà” più
ampia di quella pattuita novant’anni prima a Worms, e nel 1214 il suo alleato Filippo
Augusto di Francia sconfigge definitivamente Ottone nella battaglia di Bouvines.
Nella gestione diretta del Patrimonium Innocenzo, oltre a opporsi alle mire dei candidati
imperiali e dei baroni meridionali, mette in atto una sistematica e dispendiosa politica di
recupero dei diritti e delle rivendicazioni elencati nel Liber censuum, sottomettendo le città
e ottenendo perfino una situazione di pacificazione di Roma. Il suo attivismo politico e
diplomatico, come è ovvio, richiedono risorse economiche notevoli, che spesso vengono
rastrellate, oltre che dal patrimonium, dalla fiscalità ecclesiastica.
Ma l’impegno di Innocenzo non riguarda soltanto l’annoso problema dell’impero con le sue
conseguenze italiane. Abbiamo visto la sua attenzione verso l’oriente, frustrata dalla IV
crociata iniziata nella corte del “nemico” Filippo di Svevia. Ma anche nel regno inglese il
papa fa sentire la sua influenza. Nella contesa tra due candidati al seggio primaziale di
Canterbury, quello dei vescovi e quello nominato dalla corona, Innocenzo rifiutò di
riconoscere entrambi e impose con successo il suo amico e compagno di studi Stefano
Langton; piegò l’opposizione di re Giovanni (senza terra) tramite l’interdetto scagliato
contro il suo regno. Più tardi, ormai verso la fine della vita, fece in tempo a cogliere
229
l’occasione per rivendicare la sua posizione di sovrano feudale dell’Inghilterra, rivendicata
dai papi fin dai tempi di Guglielmo il conquistatore. Il re Giovanni era stato costretto a
cedere al parlamento, cioè all’assemblea dei nobili e delle città, per ragioni economiche:
Innocenzo prese l’alta difesa del re contro il parlamento e respinse ufficialmente la Magna
Charta che poneva per iscritto diritti e privilegi delle realtà rappresentate dal parlamento
stesso, tra cui la regola del divieto di imporre nuove tasse senza averne sentito i
rappresentanti.
Innocenzo III, sempre per portare avanti gli interessi religiosi e pastorali della Chiesa e i
progetti di crociata, fece sentire il suo intervento anche sulla Spagna, sulle monarchie
scandinave, sulla Polonia, sull’Ungheria, e perfino sulla Bulgaria, sulla Serbia e
sull’Armenia: in particolare nei Balcani la crisi connessa all’instaurazione dell’impero latino
di Costantinopoli spinse sia il signore dei Serbi che lo zar dei Bulgari ad avvicinarsi a Roma
iniziando percorsi di unione tra le Chiese. Si potrebbe dire che Innocenzo abbia messo in
opera un vero dominium mundi spirituale, una politica (quasi) sempre vincente (anche se
non sempre per lungo periodo), espressione e conferma delle teorie della Plenitudo
potestatis. Di fatto Innocenzo si dimostra personaggio di rilievo unico, e non incontra sulla
sua strada nessun monarca veramente alla sua altezza, dal punto di vista intellettuale o
diplomatico. E’ il culmine dell’egemonia del vescovo di Roma sulla cristianità europea,
controbilanciato dal punto di vista ideologico dal pieno compimento della tradizione
simbolica tipicamente romana che faceva del papa l’autorità più alta e insieme la persona
più fragile (A. Paravicini Bagliani).
§ 86: la lotta tra il papato e Federico II di Svevia
Bibliografia: FM 10, 281-320; J 5/1, 268-283; L 507-512; GV 496-514; P 237-239; HC 5,
510-517; 530-534; 601-610; EP 2, 350-393.
La convocazione del concilio Lateranense IV era stata occasione per proclamare un altro
appello alla crociata. Innocenzo III era morto nel 1216, e l’idea della crociata era rimasta in
sospeso, mentre il giovane imperatore Federico stava consolidando il suo potere sia in
Germania che nel regno di Sicilia. A sostituire Innocenzo venne chiamato l’anziano e
esperto cardinale Cencio, già camerarius redattore del Liber censuum, che prese il nome di
Onorio III. Prudente continuatore dell’amministrazione e della politica di Innocenzo, ma
meno attivista del predecessore, Onorio per tutto il decennio del suo pontificato (1216230
1227) cercò di spingere l’imperatore a prendere l’iniziativa della crociata e a separare
definitivamente le due corone dell’impero e di Palermo. Federico continuava a rinviare le
scelte e le decisioni: secondo alcuni storici, per un legittimo e necessario consolidamento
delle varie articolazioni del potere e in attesa di un erede che potesse essere investito del
dominio siciliano, secondo altri per un furbesco doppio gioco… anche tra gli studiosi del
passato continua la vecchia rivalità di guelfi e ghibellini.
Proprio le violente lotte tra i due partiti nell’Italia settentrionale, lotte interne alle città e
guerre sanguinose per il predominio economico e territoriale, videro Federico in posizione
sempre più protagonista a favore delle città e dei partiti ghibellini, vicini ai potentati rurali
ancora forti (gli aristocratici del Piemonte, Ezzelino da Romano nella pianura veneta) e
contro i gruppi guelfi, tradizionalmente filopapali, appoggiati dalla Francia, contigui agli
ordini mendicanti che andavano diffondendosi nelle città. Ovviamente anche questo
attivismo del giovane imperatore creava una forte tensione con la curia romana, anche se
Onorio puntava sulle armi della diplomazia e della persuasione.
Alla morte di Onorio fu eletto papa Ugo (Ugolino), cardinale vescovo di Ostia, nipote di
Innocenzo III: si tratta della figura più importante di cardinale “protettore” di Francesco
d’Assisi e del suo nuovo ordine, anche se sembra difficile immaginarsi che due persone così
differenti, il canonista e politico curiale per eccellenza e il fraticello povero di Assisi,
potessero essere uniti da una così profonda amicizia come quella che permise a Ugolino di
aiutare Francesco a incarnare anche canonisticamente (e in fondo a perpetuare) il suo ideale.
Gregorio IX, questo il nome da papa, volle consapevolmente proseguire l’impegno di
Innocenzo e mettere in atto diritti e prerogative della plenitudo potestatis. La scomunica a
Federico, per la sua dilazione della crociata, venne quasi immediatamente, e così
l’imperatore finalmente partì per l’oriente (1228-1229). Cresciuto in una corte ancora
trilingue come ai tempi dei normanni (latino, greco, arabo), grande conoscitore della cultura
e della mentalità araba, Federico senza colpo ferire ottiene, col trattato di Giaffa, il controllo
di Gerusalemme (ma priva di mura) e la possibilità per i cristiani di accedere a quasi tutta la
città, e di recarsi in pellegrinaggio a Betlemme e a Nazaret, per i successivi dieci anni, e
rivendica per sé e per suo figlio Corrado la corona di Gerusalemme, come sposo dell’erede
Isabella di Brienne. Nel frattempo i funzionari imperiali si scontrano con la curia romana
per il controllo delle città umbre e marchigiane. Tornato in Italia, Federico si impone
militarmente, ottiene la remissione della scomunica nonostante la contrarietà di Gregorio, e
231
dà una sistemazione giuridica moderna al regno di Sicilia, con le constitutiones Melfitanae,
che rivendicano il diritto del re a disporre delle leggi del regno senza bisogno
dell’approvazione del papa e sanciscono un controllo della corona sulla Chiesa del
meridione d’Italia.
Il decennio successivo mostra di nuovo il divampare dello scontro tra Gregorio IX e
Federico II. I motivi della lotta si riconducono sostanzialmente allo scacchiere italiano: nel
nord, con determinazione e talvolta con crudeltà, Federico impone il suo controllo sulle
città, e talvolta a questa efficace opera di conquista seguono episodi di violenza contro
personalità ecclesiastiche e anche contro i frati minori. L’imperatore, per certi versi deciso a
lottare contro gli eretici, a seconda della convenienza lascia mano libera ai gruppi albigesi
alleati della nobiltà ghibellina. Inoltre non ha nessuna intenzione di rendere effettivo il suo
sganciamento sul regno di Sicilia, attuando la temuta manovra a tenaglia sul Patrimonium.
Gregorio inizialmente cerca di mediare tra le città comunali e l’imperatore. Dopo la
sconfitta dei comuni a Cortenuova da parte di Federico e dei suoi alleati (1237) arriva anche
il tentativo di Federico di conquistare Roma, secondo alcuni studiosi per raggiungere
l’obiettivo di unificare l’Italia, ma è difficile esser certi che questo disegno sia stato chiaro
nella mente dell’imperatore. Gregorio di nuovo lo scomunica e convoca un concilio a
Roma, ma Federico fa rapire dai suoi alleati pisani, nelle acque dell’isola d’Elba, i vescovi
provenienti dalla Francia e del nord Italia. Nel 1241 Gregorio IX muore, e per venti mesi i
cardinali sono alle prese con la nuova elezione, tra coloro che erano più favorevoli alla
pacificazione con l’imperatore e quelli che intendevano continuare la battaglia intrapresa da
Gregorio. Un papa eletto, Celestino IV, muore dopo soli 17 giorni, e tutto ricomincia da
capo, finché finalmente i voti convergono su Sinibaldo Fieschi, genovese, che assume il
nome di Innocenzo IV, e da cardinale era uno di coloro che sostenevano la necessità dello
scontro con l’imperatore.
In realtà le prime mosse del nuovo papa e le risposte di Federico vanno nella direzione della
trattativa, sia per il dispendio di forze da entrambe le parti, sia per la minaccia dei mongoli:
nel 1241 sia la cavalleria unita dei tedeschi e dei polacchi sia le truppe ungheresi erano state
annientate in due battaglie campali condotte dal figlio di Genghiz Khan. La pressione
mongola era momentaneamente diminuita a causa della morte del gran Khan, ma si temeva
una ripresa, sia contro l’Europa che contro quanto rimaneva dei regni crociati. L’ipotesi che
i mongoli potessero annientare le potenze islamiche con una saggia alleanza con i crociati
232
era da tempo tramontata. Le violente lotte in Italia del nord tra gli imperiali e i comuni
guelfi interrompevano il dialogo iniziale. Innocenzo, con una fuga fortunosa, passava nella
tradizionale alleata Francia e convocava a Lione un concilio generale (1245). Nel discorso
inaugurale, il papa indicava le cinque piaghe della Chiesa di quel tempo: la decadenza con il
conseguente bisogno di riforma, la crociata, la minaccia mongola, l’unione incompiuta con i
greci, la questione dell’impero. Nel primo concilio di Lione si mise in atto un vero processo
dei vescovi all’imperatore, che fu accusato di spergiuro, eresia, sconvolgimento della pace
della cristianità e violenza contro i vescovi, e fu condannato, scomunicato e deposto. Contro
di lui fu proclamata una vera crociata, e di nuovo divampò la lotta militare. Nel 1248
Federico subisce una dura sconfitta davanti a Parma, città da tempo collegata al papa
Innocenzo IV; nel 1250 muore improvvisamente, e con lui si conclude la dinastia imperiale
degli Staufen, che in tre generazioni aveva vissuto un quasi continuo conflitto col papato.
La storiografia di gran parte del XX secolo, erede dei dibattiti dell’ottocento, ha spesso letto
in senso ideologico il conflitto tra i papi successivi a Innocenzo e Federico II. Gli storici
“ghibellini”, protestanti tedeschi e anticlericali italiani, delineano una figura di imperatore
illuminato (quasi illuminista…), tollerante, colto, e magari con un disegno di unificazione
della penisola che il papato, ovviamente, infrange a tutti i costi. Gli studiosi “guelfi”, spesso
condizionati dalla propaganda antimperiale, accentuano i tratti di doppiezza, di oppressione
delle chiese, e anche di degrado morale di Federico. Onorio III finisce per essere
arrendevole, invece Gregorio IX aspetta il momento di essere eletto papa per colpire
irosamente il giovane imperatore.
Le cose sono molto più complesse e oggi certe visioni ideologiche sono da abbandonare.
Tutti i protagonisti si muovono su uno scacchiere politico sempre più complesso. Federico,
soprattutto nei primi anni, sembra abbastanza sinceramente disposto al dialogo con la sede
romana (a cui deve il regno), deve consolidare le sue posizioni sia nel regno normanno che
in Germania, dove i baroni meridionali e la nobiltà germanica non solo non si accordano tra
loro, ma mostrano uno spiccato senso d’indipendenza, e tenta di controllare le ribelli città
del nord Italia. Onorio, come tutti i papi, punta a tener distinti impero e corona sicula, teme
sconfinamenti e ribellioni filoimperiali nel Patrimonium, vuol controllare le nomine
episcopali nel sud e, rispetto ai comuni padani, vede la tensione tra la tradizionale alleanza
tra lombardi e Roma e il fatto che molte di queste città emarginano il potere dei vescovi e
non s’impegnano nella lotta antieretica. Entrambi, Federico e Onorio, sono pesantemente
233
condizionati dal progetto di crociata, che Federico, almeno nei primi anni, sembra voler
portare avanti, anche per rivendicare il suo diritto di erede della corona di Gerusalemme, ma
la nobiltà europea comincia a non voler rispondere agli appelli. Successivamente, mentre
Gregorio IX mantiene gli stessi obiettivi del suo predecessore, Federico, ormai sicuro
soprattutto della Sicilia, mostra un disegno più marcato di egemonia e di controllo del
potere e anche della Chiesa (compresa la lotta antieretica e l’assorbimento del Patrimonium)
e si muove con disinvoltura, spesso con crudeltà, nei conflitti del nord Italia. Sembrerebbe
che, a partire dal momento in cui Federico II incorona se stesso a re di Gerusalemme (1229),
il giovane imperatore accentui in maniera progressivamente più forte un suo ruolo
messianico di portatore di un regno di felicità in terra, mentre al papa e alla Chiesa spetta il
compito di salvezza eterna che ne esclude un potere “di questo mondo”, anzi obbliga i
prelati a vivere in povertà e l’imperatore a correggerli. Questa mescolanza di assolutismo e
spiritualismo si esprime soprattutto con il Liber augustalis, esito delle assise melfitane (cfr.
HC 5, 624), dove non per caso l’imperatore rivendica il suo diritto-dovere di lottare contro
l’eresia (§ 90). Quanto Federico sia invece sincero credente, quanto si senta “unto da Dio”,
o quanto prema su questi contenuti o su visioni più moderate e concilianti a seconda di
interessi tattici, non è dato sapere con certezza.
Da questo scenario complesso scaturiscono i vari tentativi di accordo, più efficaci con
Onorio III, ormai molto difficili con Gregorio IX e con Innocenzo IV. Sicuramente è
importante rilevare non solo la questione del rapporto tra regno di Sicilia, formalmente
vassallo della sede romana, e impero, in cui spesso Federico gioca in maniera ambigua, e
che Roma vuol tener distinto; ma il peso condizionante che nei passi del papato è dato dai
progetti di crociata, dopo la vicenda della conquista latina di Costantinopoli e l’iniziale
successo a Damietta in Egitto (1218).
§ 87: la fine della lotta, un papato vittorioso e stremato; sintesi e spunti di
approfondimento
Bibliografia: FM 10, 557-581; 601-609; J 5/1, 284-290; 338-346; 377-385; L 512-518; GV
514-528; P 239-242; HC 5, 517-522; 534-552; EP 2, 393-411; 423-459
Dopo quattro anni di governo del figlio di Federico, Corrado IV (1250-1254), si apre una
lunga fase di interregno (1254-1273), in cui i duchi e gli arcivescovi elettori non si
accordano su un unico candidato; inoltre, se già ai tempi di Ottone di Brunswick e Filippo di
234
Svevia le potenze straniere avevano cercato di influire sulla nomina imperiale, ora
addirittura i candidati sono stranieri, anche se legati per parentela a stirpi imperiali tedesche:
da una parte c’è Alfonso di Castiglia, dall’altra il figlio di Giovanni Senza Terra, Riccardo
di Cornovaglia. Ma per i papi il vero problema è la Sicilia, retta alla morte di Federico da
uno dei suoi figli prediletti, Manfredi, che si fa proclamare re e riprende la pressione
militare sul Patrimonium e i progetti del padre di predominio sulle città padane. Nella curia
romana, rivendicando l’alto dominio feudale sul regno meridionale, si fa strada l’idea di
conferire la corona siciliana a una nuova dinastia. Dapprincipio l’ipotesi era quella di
chiamare un esponente della casa reale inglese, ma per l’indisponibilità a mettersi in gioco
in quella che poteva essere una dura conquista, papa Urbano IV (1261-1264), francese e già
patriarca di Gerusalemme, propone di coinvolgere la dinastica reale francese, segnatamente
il fratello di Luigi IX (il santo), Carlo, feudatario dell’Anjou, appoggiandosi sul tradizionale
legame tra papi, Francia, città comunali e… denaro dei banchieri toscani, interessati agli
investimenti nella ricca Sicilia e al commercio mediterraneo. Carlo scende in Italia,
sconfigge Manfredi che muore nella definitiva battaglia di Benevento nel 1266. Nel
frattempo il figlio di Corrado IV e nipote di Federico, Corradino, diventa maggiorenne e
organizza una spedizione per ricuperare il regno dell’Italia del sud e accreditarsi come
imperatore. Carlo lo sconfigge a Tagliacozzo, lo prende prigioniero e, in spregio alle
tradizioni nobiliari, lo fa decapitare a Napoli nel 1268. Carlo è ormai padrone del sud e tiene
le fila dei rapporti con le città guelfe. E’ molto influente anche a Roma, dove si apre la più
lunga sede vacante, 33 mesi (1268-1271) senza che i cardinali si accordino su un candidato.
La curia romana è vittoriosa nella lunga lotta contro gli Staufen, ma esce economicamente
stremata dal conflitto, e con un alleato potente, privo di scrupoli e deciso a condizionare il
papa: il rischio della manovra a tenaglia dei tedeschi sul Patrimonium è sventato, ma a un
costo molto alto.
In tre quarti di secolo, grosso modo, Innocenzo III e i suoi successori hanno voluto
coscientemente esercitare la potestas papale come garanzia di pace e integrità della
cristianità, di difesa dei vescovi e della loro indipendenza, ma anche per proteggere il
Patrimonium Petri ritenuto irrinunciabile. L’impegno non si è mosso soltanto contro gli
imperatori tedeschi, verso i quali, peraltro, non sono mancati tentativi di accordo e periodi
di almeno apparente armonia. Anche verso le realtà monarchiche di tutta Europa i papi
hanno ritenuto loro dovere intervenire. L’azione è sempre accompagnata da un
235
approfondimento teorico, e non si dimentichi che per quanto possibile Roma ha cercato, con
efficacia, di coinvolgere gli episcopati.
E’ indubbio che ne esce un’immagine molto esposta in politica della sede romana: il
prossimo capitolo, dedicato al risvolto pastorale, ne è l’indispensabile completamento.
Certamente figure come Innocenzo III e Gregorio IX conservano ed esprimono uno spessore
spirituale troppo spesso dimenticato dalla storiografia. E’ però altrettanto reale che la
preoccupazione per lo scenario italiano spesso è prevalente e finisce per appesantire
l’utilizzo delle sanzioni spirituali, che presto scadranno agli occhi dell’opinione pubblica
europea.
Va sottolineato che il papato, e non solo, ma aree importanti dell’episcopato e del mondo
dei religiosi, è guidato coscientemente da studi e studiosi, e i dibattiti nelle università
europee contribuiscono alla precisazione delle linee teoriche e delle scelte ecclesiali e
politiche: raramente nella storia del vecchio continente gli “intellettuali” hanno avuto così
tanto spazio. Anche nelle corti imperiali.
E’ interessante notare il parallelo tra fasi di conflitto nell’elezione del re di Germania e
lunghe sedi vacanti pontificie. Alla litigiosità dell’alta nobiltà tedesca fa riscontro la
difficoltà di eleggere un papa coi due terzi dei voti dei cardinali, ma in entrambi i casi cresce
l’influenza delle varie corti europee. Nell’elezione seguita alla morte di Clemente IV (12651268) i cardinali erano riuniti a Viterbo, e le autorità cittadine misero in atto una serie di
misure per accorciare per quanto possibile l’eccessivo prolungarsi dell’elezione: chiusura
del palazzo, progressiva diminuzione del rifornimento di alimenti e, addirittura, distruzione
del tetto. Alcune di queste azioni erano già state intraviste in elezioni precedenti. Da quel
momento, in senso proprio, si può parlare di conclave, ennesima evoluzione del
meccanismo di individuazione di colui che è ormai la guida riconosciuta della cristianità.
La ricerca sulla storia delle idee politiche continua a lavorare sulla formazione del concetto
di stato moderno, che sembra delinearsi lentamente proprio nel cuore di questo secolo XIII.
I regni sempre più si definiscono come corpi “mistici”, in analogia e contrapposizione con
la Chiesa, e le classi dirigenti, formate nelle università al diritto civile, fanno argine contro il
fiscalismo della curia romana. Sembra crescere un diffuso anticlericalismo, ad esempio nel
mondo dei trovatori, uno “spirito ghibellino” che apre a sviluppi di pensiero e a
atteggiamente pratici nuovi, in cui il potere politico sembra laicizzarsi, anche se in realtà i re
non cessano di rivendicare la dimensione religiosa del loro dominio. Su queste interessanti
236
questioni si possono leggere i classici studi di M. Bloch ed E. Gilson e i più recenti
interventi di E. Kantorowicz, A. Paravicini Bagliani e M. Pacaut.
Il dibattito sulla figura di Federico II è ampiamente aperto, e recentemente si sono visti
nuovi contributi: l’impressione di chi scrive è che si tratti in realtà di una mitizzazione
piuttosto anacronistica di un personaggio indubbiamente superiore per intelligenza, abilità e
formazione, ma ancora legato a modalità tradizionali di gestione del potere, e, tutto
sommato, difficilmente riconducibile a una visione contemporanea di sovrano illuminato e
multiculturale. Invece riguardo a Innocenzo III si possono prendere in esame i suoi scritti da
cardinale, acute delineazioni del progetto che Lotario di Segni porterà avanti: tutto
sommato, a livello di “modernità”, Innocenzo mi sembra più significativo del suo pupillo
Federico… Una breve ma precisa sintesi della concezione della potestas papale in
Innocenzo III, con approfondimenti che evitano le esagerazioni purtroppo diffuse, si legge
in Enciclopedia dei papi 2, sub voce.
237
CAPITOLO XIV: LA PASTORALE NEL TEMPO DELLE CITTÀ
Le tematiche che si raccolgono in questo capitolo sono spesso trattate in maniera separata:
gli ordini mendicanti, il diffondersi delle eresie e la nascita dell’inquisizione, gli aspetti
pastorali, l’impegno missionario. Ritengo che tutte queste realtà siano unite da diversi fili,
che spesso si riconducono al nascere e al diffondersi degli ordini mendicanti, insieme effetto
e causa delle novità culturali e mentali dei secoli XII e XIII. Se è vero che collocare nel
puro ambito della pastorale la vivacità anche spirituale e mistica dei mendicanti può
sembrare un impoverimento, a cui si spera di ovviare con una certa attenzione, è altrettanto
vero che francescani, domenicani e altri movimenti religiosi di questi secoli vogliono quasi
tutti essere un’espressione dell’ideale della “vita apostolica”, che quindi li ricollega
strettamente all’azione di evangelizzazione della Chiesa.
Si potrebbe affermare che nel corso del XIII secolo l’Europa raggiunge la diffusione totale
del cristianesimo: la missione raggiunge le ultime sacche di popolazioni legate alle religioni
tradizionali, nel centro (Cumani) e nel nord est del continente (Baltici). Dunque tutti
cristiani nell’Europa del tempo. Ma la cristianizzazione si rivela spesso fragile, superficiale,
anche in zone raggiunte da secoli, e non parliamo delle aree di recente missione. Inoltre la
nuova realtà delle città in pieno sviluppo comporta problemi pastorali e richiede metodi di
“evangelizzazione” innovativi. Il diffondersi di dissidenze ed eresie, oltre che di
comportamenti morali devianti, sono il segno delle nuove questioni della pastorale
nell’ultimo scorcio di quel che chiamiamo “medioevo”.
§ 88: L’eresia albigese e altri movimenti di dissidenza tra XII e XIII secolo
Bibliografia: FM 9/1, 117-136; 9/2, 845-862; J 5/1, 140-149; L 519-523; GV 714-737; L
277-278; HC 5, 434-455; M. ROQUEBERT, I catari. Eresia, crociata, Inquisizione dall’XI al
XIV secolo, Cinisello B. 2003; A. DEL COL, L’inquisizione inItalia. Dal XII al XXI secolo,
Milano 2006, 44- 62
Qualche storico ha parlato di una “ondata eretica” che si diffonde in Europa tra il 1135 e il
1140, cioè proprio negli anni di pacificazione ed equilibrio tra impero e Chiesa. L’alto
medioevo è sempre stato considerato un’età cristiana senza eresie: “L’alto medioevo è in
genere un’epoca di fede sicura, indiscussa. Mancano eresie di una qualche notevole
proporzione, che per questo periodo si riscontrano solo in Oriente ve non in Occidente” (cfr.
238
§ 42). Questa affermazione andrebbe rivista soprattutto a partire dalla concezione
intellettualistica di eresia, comunque si può accettare che, in linea di massima, la stragrande
maggioranza della popolazione non manifestasse posizioni di dissidenza rispetto alla
concezione ufficiale del credere. Alla metà del XII secolo emergono invece segnali di
concezioni collegate ai contenuti della fede, e che si staccano e si scontrano con la visione
tradizionale. Distingueremo tre aree, di differente diffusione e incidenza. Se si leggono le
vicende del controllo antieretico contemporaneo nell’impero bizantino, si scorgono
interessanti analogie tra i movimenti dissidenti occidentali e i gruppi (bogomili e
“spirituali”) condannati in oriente, pur con sfumature piuttosto differenti.
Radicalismo riformistico: alcuni personaggi, spesso legati al mondo ecclesiastico, portano
a posizioni estreme il bisogno e il movimento di riforma della Chiesa, dopo che i punti
principali della riforma monastica-papale-episcopale erano stati acquisiti nell’XI e inizio
XII secolo. Alla radice di alcuni di questi gruppi sta ancora il movimento di riforma
cosiddetta “gregoriana”, soprattutto nel suo versante laicale e del “basso clero”. I “Patari”
del nord Italia, appoggiati, pur con cautela, da Pier Damiani, Gregorio VII e gli altri
riformatori, nella loro opera di boicottaggio del clero simoniaco e concubinario erano giunti
a teorizzare l’invalidità dei sacramenti amministrati dai sacerdoti contrari alla riforma.
Mentre alcune decisioni dei concili riformatori dell’età di Gregorio VII avevano in parte
acquisito questo principio, proclamando la nullità delle ordinazioni dei vescovi simoniaci
almeno per i chierici consapevoli o complici dello scambio di denaro, Urbano II aveva
ricuperato il principio antico della distinzione tra validità dei sacramenti e indegnità del
ministro. Ma gruppi di “Patarini” (a questo punto il ternime diventa ereticale) restarono
fedeli ai tempi eroici e ai loro principi, ponendosi in posizione dissidente.
Lo slogan “riforma” catalizzava proteste ed energie spesso legate al mondo cittadino in
fermento, come il gruppo che si coagula attorno a Arnaldo da Brescia e che coinvolge un
certo numero di famiglie potenti di Roma, o come il movimento di Eon de l’Etoile, eremita
e contestatore bretone, che tra il 1145 e il 1148 assalta i monasteri. E’ un riformismo con
una forte impronta pauperistica, che pretende una Chiesa priva di mezzi e di potere, una
visione radicale della “vita apostolica”, l’ideale di vocazione che proprio in quegli anni si
stava diffondendo.
Catari o Albigesi. Ci dovremo soffermare molto di più su questo mondo per alcuni aspetti
ancora sconosciuto, e spesso avvolto anche al giorno d’oggi da un’aura mitica, basata su
239
affermazioni storicamente prive di fondamento. Il nome di Albigesi deriva dalla città di
Albi, in Linguadoca, che non è esattamente la loro capitale ma è collocata nell’area di
maggior diffusione del movimento. L’epiteto “catari” ha ricevuto le più diverse
interpretazioni: dal greco “catharoi”, cioè puri, al collegamento con il “catus”, cioè con il
gatto, di cui sarebbero stati adoratori. E’ certo che “catari” è un aggettivo utilizzato solo
dagli avversari, mentre essi stessi si definivano “buoni uomini” oppure “buoni cristiani”.
E’ tutt’ora discussa l’origine di questo movimento. I buoni rapporti tra questi gruppi
occidentali e i Bogomili, setta dualista balcanica di quel tempo, ha fatto pensare a una
filiazione del catarismo da gruppi dualisti orientali, quali i bogomili stessi, i pauliciani, o
gruppi di manichei ancora esistenti in Oriente, tramite crociati o mercanti, ma l’analisi della
documentazione non approda per ora a nulla di certo se non che i gruppi albigesi già
costituiti avevano contatti e collaborazioni con il dualismo balcanico55. Comunque in
Francia coloro che appartenevano a queste correnti vennero frequentemente chiamati
“Bougres” (cioè Bulgari).
Non ci sono rimasti molti documenti della religione e delle credenze albigesi, provenienti
dall’interno del gruppo: una quantità notevole di materiale è andata perduta durante la
crociata o nella repressione, e probabilmente i testi esoterici, quelli più alti e segreti, erano
di tradizione orale o vennero nascosti e distrutti dagli stessi eretici. Quel che è rimasto, oltre
alle relazioni dei tribunali dell’inquisizione, ci restituisce un contorno tutto sommato chiaro
e coerente del movimento.
Va detto anzitutto che, nonostante la precisa organizzazione – quasi una chiesa parallela – il
catarismo non è una struttura monolitica. In realtà esistevano diversi gruppi, tra loro simili
per concezioni e comportamenti, ma separati quanto a legami gerarchici e talvolta in
posizioni ostili tra loro, come avveniva nel nord Italia dove si registrano una chiesa catara a
55
I pauliciani, su cui notizie certe si hanno dal secolo VII, sono gruppi eretici dell’Asia Minore, per lo più ai confini con
l’Armenia. Fanno riferimento a san Paolo e rifiutano pressoché tutto l’Antico Testamento. Interpretano le parole
ortodosse in senso allegorico, escludono sostanzialmente incarnazione, sacramenti e uso delle immagini, il loro
dualismo comporta la non violenza, oltre che la castità sessuale, ma il passaggio di gruppi militari già iconoclasti al
paulicianesimo dopo il concilio di Nicea II trasforma queste comunità perseguitate e raminghe in una specie di stato
militare a cavallo tra impero bizantino e sultanati arabi in Anatolia. In seguito alla distruzione della loro piazzaforte i
pauliciani furono in parte integrati nell’esercito bizantino e dispersi in vari “Temi”. I bogomili diffusi in Bulgaria hanno
evidenti analogie di comportamento con i catari dell’Europa occidentale (si veda la breve descrizione da un eresiologo
bizantino in HC 4, 247-248). Il Bogomilismo sembra avere radici contestative verso un clero e una realtà monastica
decadenti e sottomesse alla riconquista bizantina dei Balcani nel X secolo. Nel IX secolo, in alcuni villaggi
dell’Armenia, emergono gruppi di eretici “Tondrachiani” (dal nome di uno di questi centri, T‘ondrak), che rifiutano i
sacramenti e rivendicano una dottrina cristiana “pura” secondo le origini ma, sembra, senza elementi dualisti. Vi sono
gruppi legati a questa eresia in pieno XI secolo. Essa pare sia sopravvissuta con altri nomi fino al XVII-XIX secolo.
240
Concorezzo, con diverse filiazioni e dipendenze, da cui si staccarono le chiese di
Desenzano, di Mantova e di Vicenza-Treviso. E’ quindi possibile che tra queste diverse
“denominazioni” vi fossero posizioni teologiche più o meno radicali.
Quel che si desume dalla documentazione originale ci mostra un dualismo autentico, ma con
una base anzitutto antropologica, e solo conseguentemente (e non in maniera sviluppata)
teologica. La dottrina fondamentale del catarismo non era in fondo nulla di così nuovo:
l’uomo è una scintilla divina imprigionata nella carne, e che da essa deve liberarsi per
ritornare alla sua origine che è Dio. Da questo dato che sembra comune a tutte le forme di
catarismo discendono inevitabili conseguenze: una visione negativa della materia e della
creazione; una condanna di tutto ciò che concerne la sessualità, che nelle varie sue forme
non fa altro che perpetuare la materia; rigide esclusioni alimentari, cioè di tutto ciò che con
l’atto sessuale è in qualche modo legato: carne ma anche latticini e uova… Sembra che i
catari usassero il pesce, credendolo generato spontaneamente dall’acqua.
Quanto all’origine della materia e del male, pare che non tutti i gruppi albigesi postulassero
l’esistenza di una divinità malvagia, mentre le speculazioni più diffuse individuavano
comunque un principio negativo, che a volte veniva chiamato diavolo.
Questa visione dualistica tanto simile ad alcuni tratti dello gnosticismo dei primi secoli
cristiani – forse una sorta di patologia ricorrente? – produce alcune conseguenze di fronte
alla prassi ecclesiale e allo sviluppo teologico medievale. Ovviamente vengono svalutati
tutti i sacramenti, soprattutto il matrimonio, ma anche l’eucaristia. Ponendosi come i veri
credenti, i “buoni cristiani”, i catari avevano sviluppato un’esegesi dell’antico e del nuovo
testamento, che non escludevano ma che rileggevano a partire dal loro contenuto dualistico.
Il Gesù Cristo dei catari non è un Dio incarnato, è l’annunciatore angelico della verità dei
buoni cristiani, e la sua morte in croce è soltanto apparente (docetismo). Dunque
apparentemente non si aveva un distacco dei catari dal cristianesimo, bensì una rilettura in
senso dualistico, oltretutto resa insidiosa dal sistematico atteggiamento di “nicodemismo”:
in caso di necessità e per non far scoprire né se stessi né gli altri seguaci, si poteva e si
doveva partecipare alle pratiche cattoliche tradizionali.
Ma quali erano le strutture e i riti dagli albigesi? La rigida visione negativa del mondo
comportava la differenziazione in due gruppi: gli audientes, coloro cioè che dovevano
restare legati al loro matrimonio, alla famiglia, al lavoro e quindi non potevano vivere in
pienezza la vita pura; e i perfecti o buoni uomini, che invece avevano ricevuto il
241
consolamentum, cioè una sorta di battesimo-imposizione delle mani che li aveva liberati
dalla schiavitù della materia. I perfetti vivevano spesso in comune, lavoravano con le
proprie mani, seguivano le norme di castità e di purità alimentare, e accoglievano gli uditori
in celebrazioni in cui si spezzava il pane e si faceva una sorta di catechesi. I perfetti erano
organizzati in strutture gerarchiche, tra di loro vi erano sia uomini che donne, mentre agli
audientes restava la speranza di ricevere il consolamentum alla fine della vita e così essere
definitivamente liberati da materia e successive reincarnazioni. E certo che al passaggio tra i
perfetti in fin di vita tramite il consolamentum seguiva quasi sempre la cosiddetta endura o
martirium: i moribondi, per evitare che una guarigione li riportasse in stato di peccato, erano
soffocati o lasciati morire d’inedia.
Pur mantenendo l’atteggiamento di nicodemismo e segretezza, i catari avevano sviluppato
una posizione violentemente anticlericale: i vescovi e i preti davano un’interpretazione falsa
delle Scritture e facevano dei sacramenti la fonte del loro potere e guadagno. Gli albigesi,
così, anche se apparentemente non si distinguevano dagli altri, creavano una chiesa parallela
chiusa e settaria, in cui l’entrata anche come audiens comportava la rescissione di tutti i
legami sociali. Ciò ovviamente significava che divenisse molto difficile uscire dal gruppo
nel caso su volesse prendere distanza da questa concezione.
Il movimento cataro si diffonde in Linguadoca – molto poco in Provenza – e nella
Catalogna, nell’Italia del centro-nord, in Renania, in Inghilterra e nella zona della
Champagne: tutte zone avanzate economicamente e urbanizzate. Nell’area tolosana è certo
il legame tra catari e nobiltà locale, che li proteggeva; non poche donne dell’aristocrazia
rimanevano vergini o da vedove entravano tra i perfetti. Il catarismo divenne segno di
indipendenza rispetto all’odiata monarchia di Parigi. Nel nord e centro Italia questo legame
non è certo, forse ha più un significato tattico di alleanza tra le forze ghibelline e i gruppi
eretici contro le gerarchie locali. In tutti i casi, i catari ritrovavano nelle zone di diffusione
un allentamento dell’impegno riformistico del clero, soprattutto dell’episcopato della
Francia meridionale. Soprattutto in Francia, il catarismo divenne un fenomeno abbastanza
popolare e con una certa diffusione.
Valdo e i valdesi. Spesso valdesi, umiliati e albigesi furono confusi tra loro, anche per
l’adiacenza della diffusione, e per l’analoga contestazione delle strutture corrotte della
Chiesa. Si tratta, in realtà, di fenomeni totalmente differenti. Valdesi e Umiliati sono
movimenti laicali pauperistici. L’ambiente sociale di origine è analogo e si colloca nelle
242
città: Pietro Valdo è un mercante, gli umiliati sono o diventano artigiani tessili. Questi laici
scelgono di vivere un’esistenza cristiana essenziale, povera, dedita al lavoro, e sentono una
chiamata alla predicazione. Dunque accostano le Scritture e a partire dalla loro spiritualità
ritengono di avere un diritto-dovere di predicare. Ma la predicazione è ovviamente riservata
al clero. Pietro Valdo e i suoi seguaci, soprattutto provenienti dalla zona di Lione, tentano di
farsi approvare dai vescovi, i quali però vietano a loro proprio la predicazione. Questo
comporterà la rottura con la gerarchia ecclesiastica, verso il 1182, dopo un passaggio al
Lateranense III che non li aveva direttamente condannati, e la creazione di una chiesa
parallela, diffusa sui due versanti delle Alpi e altrove in Italia (fino in Calabria) e Francia,
fino alla Boemia e all’Ungheria. Talvolta si hanno influssi catari più o meno marcati. Alcuni
gruppi umiliati avranno il medesimo percorso, mentre altri, come vedremo più oltre,
resteranno nell’ambito della comunità cattolica.
A fronte di questa ondata eretica, qual è la reazione? Anzitutto si assiste con preoccupante
frequenza a linciaggi popolari, soprattutto in quelle aree, come la Renania, dove i
movimenti non godono della protezione delle autorità, che anzi spesso fomentano le
violenze. Ovviamente, in linea teorica, la reazione doveva provenire dall’autorità
ecclesiastica e limitarsi a sanzioni di tipo canonico. La responsabilità dell’argine contro gli
eretici era dei vescovi e dei loro tribunali, che spesso non funzionano – e sì che non
mancavano i canonisti… – oppure, come in molte zone del sud della Francia, sono
conniventi o tolleranti, anche per compiacere l’aristocrazia locale. Oltretutto, in particolare i
catari erano una realtà mimetica e settaria, difficilissima da individuare per la rete di
complicità e segreto che l’avvolgeva. Da Roma giungono a più riprese dei legati, spesso
monaci cistercensi, dopo che lo stesso Bernardo aveva svolto opera di predicazione
antieretica. Da legati papali questi si presentano con grande sfoggio di seguito, insegne e
ricchezze, rafforzando l’atteggiamento popolare anticlericale e divenendo inefficaci, quando
non controproducenti.
§ 89: Domenico di Guzman e i fratres praedicatores
Bibliografia: FM 10, 235-243; 348-352 J 5/1, 242-246; L 534-536; GV 664-671; P 249-251;
HC 5, 736-741; 750-758; M. ROQUEBERT, San Domenico. Contro la leggenda nera,
Cinisello B. 2005.
243
Una delle intuizioni fondamentali di Domenico di Guzman sarà proprio quella di combattere
l’eresia con lo stesso linguaggio degli eretici: la povertà e la vita comune, e una
predicazione semplice e popolare. Colto canonico, originario della diocesi di Osma, in
Castiglia, restaurata come sede episcopale attorno al 1181 dopo la riconquista sui
musulmani, Domenico era uno dei principali collaboratori del vescovo Diego de Acevedo,
zelante pastore in contatto con la curia romana. Così Domenico accompagna il suo vescovo
in una missione diplomatica in Germania e nel Baltico. Nel viaggio essi si imbattono nel
movimento albigese e constatano l’inefficacia dei legati cistercensi, e incontrano anche i
gruppi pagani dei Cumani in Europa centrale. Rientrando a Roma dopo la missione,
Domenico chiede di dedicarsi alla predicazione verso i pagani e gli eretici. Innocenzo III,
che conosceva le diverse situazioni e stava operando per integrare i gruppi pauperistici degli
Umiliati del nord Italia e dei valdesi seguaci di Durando di Huesca, che proprio a seguito di
un pubblico dibattito a Pamiers nel 1207 con Diego e Domenico si riavvicina alla Chiesa
cattolica, indirizza il canonico castigliano verso la questione albigese, dapprima col suo
vescovo, che poi rientrerà in diocesi, approvando una forma di “vita apostolica” segnata
dalla povertà e dalla predicazione. Il primo passo del piccolo gruppo guidato da Domenico è
l’insediamento in una chiesa semiabbandonata, Santa Maria di Prouille, ai piedi del
villaggio fortificato di Fanjeaux, di un gruppo di donne ex catare, tornate alla Chiesa
cattolica, ma da una parte bisognose di protezione dalle vendette dei settari, dall’altra decise
a continuare, da cattoliche, una vita comune sobria e spirituale come avevano visto fare dai
“perfetti” albigesi. Non dimentichiamo che Fanjeaux era uno dei centri a più alta densità
catara, dunque una sorta di provocazione in casa nemica! Dalle esperienze della
predicazione itinerante, delle diatribe pubbliche nelle piazze, del confronto con i catari
progressivamente si precisa il volto del nuovo ordine. Emergono così due novità rispetto
alle forme di vita consacrata finora in opera. Anzitutto, il gruppo di frati non avrà nessun
reddito fisso da immobili, rurali o urbani. Sia i monasteri benedettini classici, come quelli
più radicali cistercensi, come i conventi dei premonstratensi e degli altri canonici regolari, si
assicurano per il mantenimento la proprietà almeno di terreni coltivabili. I seguaci di
Domenico non avranno fonti stabili di reddito. E’ la struttura giuridica che noi chiamiamo
degli “ordini mendicanti”, che non significa che vivessero chiedendo l’elemosina nelle
strade, anche se in parte il reddito proveniva da offerte analoghe. L’altra novità è la
predicazione come scopo specifico dell’ordine, una sorta di specializzazione, inedita nel
244
panorama delle congregazioni di chierici regolari, pur molto impegnati nella pastorale. Il
nuovo ordine assunse la tradizionale regola agostiniana, con una struttura per “province”
mutuata dai premonstratensi, con una interessante mescolanza tra il potere centralistico del
maestro generale e un’ampia democrazia interna nella vita dei conventi, delle province e
dell’ordine stesso. Altre due caratteristiche della nuova realtà saranno lo stretto
collegamento col papato e la scommessa, immediatamente e consapevolmente assunta, sulla
cultura dotta, universitaria, e sulla produzione libraria, così che i Predicatori (solo molto più
tardi saranno chiamati “domenicani”) invasero letteralmente coi loro conventi le principali
città universitarie dell’Europa del tempo.
L’opera di riconquista dei catari, iniziata da Domenico attorno al 1206, fu ben presto
interrotta e subissata dalla crociata indetta da Innocenzo III su pressione del re di Francia
(1212-1229). I Predicatori stavano agendo con uno stile di dibattito, persuasione, recupero,
con coraggio, povertà e senza usare strumenti coercitivi. La crociata venne proclamata a
seguito dell’assassinio di uno dei legati pontifici, il cistercense Pietro di Castelnau, il che è
sintomo di un clima eversivo, fatto di agguati e minacce, messo in atto dalla nobiltà filocatara (anche se teoricamente i perfetti non dovevano far scorrere il sangue). La lunga
guerra, guidata per quasi tutto il suo svolgimento dall’ambizioso Simon de Montfort e
appoggiata dal re di Francia che voleva imporre il suo potere sulla riottosa nobiltà locale
alleata del re d’Aragona, intanto trasformò i motivi teologici in bandiere politiche: nobili
della Linguadoca non aderenti al catarismo combatterono a fianco degli albigesi, mentre la
crociata coalizzava tutte le mire espansionistiche dei dintorni.
Gli scontri armati più che in battaglie campali divamparono nella tipica e crudele guerra
d’assedio: i nobili filo-albigesi e i perfetti si asserragliavano nelle città e nei castelli
fortificati, e le truppe di Simone di Montfort mettevano in campo tutta la strumentazione
d’assedio: blocco per fame e sete, macchine d’assedio, incendi… L’ultima roccaforte
albigese, Montségur, cadde addirittura nel 1244, arrendendosi all’assedio: i perfetti e le
perfette, in numero di 224, si rifiutarono di abiurare e furono immediatamente bruciati: era
stato costruito ai piedi del monte un recinto di pali riempito di legna, ed essi vi furono
gettati dentro. Domenico aveva abbandonato Tolosa già nel 1217, dopo aver tentato di
continuare la sua opera nonostante la crociata.
L’impegno dei Predicatori si sviluppò in tutta Europa, soprattutto in tre ambiti: quella che
oggi chiameremmo la “pastorale universitaria”, le missioni soprattutto in nord Europa,
245
Armenia e Asia fino all’India, alla Cina e alle steppe dell’Asia centrale, e la lotta all’eresia,
con l’inserimento dei Predicatori da protagonisti, anche se insieme ai francescani e ad altri
esponenti di ordini religiosi, in questa nuova istituzione che fu l’inquisizione.
§ 90: l’inquisizione – principi giuridici, iniziative parallele, efficacia
Bibliografia: FM 9/2, 862-872; 10, 149-181; 377-442; J 5/2, 223-232; 298-308, 347-355; L
523-525; GV 740-759; P 278-280; HC 5, 781-803; A. DEL COL, L’Inquisizione in Italia.
Dal XII al XXI secolo, Milano 2006, 63-138; J.-P. DEDIEU, L’inquisizione, Cinisello B.
2000, 7-22
Potrebbe sembrare scontato, ma conviene ricordare la distinzione tra inquisizione
medievale, di cui qui si vuol brevemente trattare, inquisizione spagnola e inquisizione
romana dell’età moderna. Si tratta di strutture giuridiche di tipo diverso – l’inquisizione
spagnola, ad esempio, è un dicastero della corona – che agiscono in tempi diversi, anche se
alcuni presupposti le legano tra loro. Non giova alla conoscenza storica la confusione e
l’anacronismo.
Principi giuridici. Prima del sorgere del tribunale dell’inquisizione, si assiste a una
progressiva evoluzione della giurisprudenza, che l’inquisizione stessa poi utilizzerà in
appoggio al suo operare. Dunque la legislazione sulla lotta antiereticale nelle forme
inquisitorie anticipa di quasi un secolo il tribunale vero e proprio. Conviene mostrare in
maniera schematica i passi principali dell’evoluzione.
1. Con Alessandro III si individua nella lotta antieretica l’uso del procedimento ex officio,
una forma particolare del diritto che prevede non la denuncia da una parte lesa, ma
l’azione giudiziaria messa in atto direttamente dalla magistratura.
2. Secondo la dottrina insegnata nell’università di Bologna nella seconda metà del XII
secolo, l’eresia equivale giuridicamente alla laesa maiestas, quindi all’attentato diretto
alla vita del sovrano e all’integrità dello stato.
3. Lucio III nel 1184, di fronte alla diffusione del dualismo albigese e alla definitiva
condanna dei valdesi, nella decretale Ad abolendam sancisce definitivamente l’uso del
procedimento ex officio e l’equiparazione dell’eresia alla lesa maestà.
4. Innocenzo III nel 1199 (decretale Vergentis in senium) oltre a confermare le decisioni di
Lucio III, richiede che il delitto di eresia sia sancito da una animadversio debita, cioè da
una pena proporzionata, corrispondente alle pene per il delitto di lesa maestà.
246
5. Più tardi, con la crociata albigese e col concilio Lateranense IV, si afferma che contro gli
eretici è possibile proclamare una vera crociata, con conseguente uso della coercizione e
con i premi spirituali connessi a chi scende in crociata per difendere la fede.
6. Nel periodo del pontificato di Onorio III, quindi nella prima fase di governo di Federico
II, si sancisce definitivamente il legame tra sentenza ecclesiastica antieretica e
esecuzione della pena da parte del braccio secolare; la pena del rogo è, per ora,
tacitamente tollerata.
7. Con Gregorio IX si ha il riconoscimento che l’esecuzione capitale tramite rogo è
animadversio debita dei governanti al delitto di eresia.
8. Con Innocenzo IV si ha una mitigazione delle pene ma l’introduzione, negli
interrogatori, dell’uso della tortura.
Coi pontefici Gregorio IX e Innocenzo IV l’inquisizione vera e propria è già nata, ed ha tutti
gli strumenti giuridici per agire così come i documenti ci raccontano.
Ci si potrebbe domandare come sia avvenuto che a fronte del tradizionale principio che
nessuno possa essere costretto a credere, peraltro ribadito in questi tempi da Bernardo di
Chiaravalle e da teologi come Pietro Cantor, si sia elaborata una dottrina giuridica della
coercizione di questo genere. Si evitino ovviamente le posizioni ideologiche, di chi dice che
tutte le religioni rivelate diventano violente, come di chi vuol a tutti i costi restituire valore
alla coazione. All’azione di organizzazione dei materiali tradizionali operata
dall’insegnamento canonistico, che spesso finisce per modificare profondamente il
significato e l’interpretazione dei testi più antichi, si unisce la massiccia ripresa di linee
agostiniane antidonatiste, col celebre Compelle intrare e la sua interpretazione, e soprattutto
la convergenza della gerarchia ecclesiastica e delle strutture statali a ogni livello (dai
podestà comunali all’imperatore) nell’interesse di compattare la società senza dissidenze.
Così il procedimento inquisitorio diverrà una vera mentalità coercitiva, che più oltre
proveremo ad approfondire, e che sarà alimentata dalla demonizzazione dell’eretico,
considerato incarnazione del demonio e insieme nemico della società.
La nascita dei tribunali. In linea teorica, come s’è detto più sopra, questa giurisprudenza
ecclesiastica era la linea direttiva per i tribunali vescovili, eventualmente affiancati dalle
magistrature locali. Ma i primi spesso non funzionavano, e le seconde, soprattutto nelle città
– ma con qualche differenza lo stesso si poteva dire dei nobili della campagna – tendevano
ad emanciparsi dal controllo episcopale. Si aggiunga che Federico II nel 1220 e nel 1227
247
aveva emanato come sua legislazione imperiale la normativa antieretica ecclesiastica, per
ribadire il suo controllo totale e la sua consapevolezza di prima fonte del diritto. Non è
dunque un caso se sarà il suo più acceso rivale, Gregorio IX, negli anni dello scontro
frontale con l’imperatore, che cercherà, con successo, di sminuire il potere imperiale e
accentuare quello papale nella lotta antieretica. Così la sede romana crea dei tribunali, con
mandato diretto dal papa, per alcuni territori che si ritenevano in modo particolare infetti
dall’eresia, e in cui le altre istanze ordinarie erano ritenute insufficienti. Generalmente a
capo di queste commissioni giudiziarie vengono posti dei frati predicatori, affidabili per la
competenza teologica e per il legame istituzionale con Roma. Nasce così ufficialmente
l’inquisizione, che noi chiamiamo appunto “inquisizione medievale”.
Sembra di poter dire che i primi tribunali dell’inquisizione abbiano ricevuto il mandato di
Gregorio IX tra il 1232 e il 1234, cioè negli anni della canonizzazione di Antonio di Padova
e di Domenico di Guzman. Nel 1233 un sorprendente sussulto religioso attraversa tutto il
nord e il centro Italia: si assiste a fenomeni miracolosi, alla diffusione di messaggi da parte
di predicatori eremiti, a rituali penitenziali; questo fermento viene assunto dai francescani e
dai seguaci di san Domenico, i quali accompagnano il movimento devozionale con
campagne di predicazione; è la cosiddetta “devozione dell’Alleluja”. In questa occasione i
frati intervengono contro l’abitudine alla violenza politica nelle città comunali, e esortano
alla riforma della moralità. Essendo la loro predicazione realistica di fronte a situazioni di
instabilità, ingiustizie e depravazione diffuse, in vari centri urbani i predicatori vengono
chiamati a guidare provvisoriamente il comune, per riformarne gli statuti. In questa
rinnovata legislazione cittadina si inserisce la normativa antieretica, e i magistrati eletti
dopo la devozione la applicano, talora con spietato rigore.
Dunque quando Gregorio IX istituisce i primi tribunali dell’inquisizione, la crociata albigese
s’è conclusa da anni e anche in Italia la repressione da parte statale è in pieno svolgimento.
Queste strutture collegate direttamente alla sede romana e guidate dai frati predicatori (più
tardi vi troveranno un ruolo anche i francescani) sono con ogni probabilità uno strumento
per controllare strettamente la lotta all’eresia, per tener desta l’attenzione nei territori in cui
si rischiava di abbassare la guardia, come tra i vescovi francesi, e per evitare che fossero i
magistrati civili a sostituirsi interamente a quelli ecclesiastici. E in effetti sia tra i vescovi
che tra i governanti laici non mancheranno le tensioni e le ostilità verso questi tribunali.
248
La mentalità. Per comprendere la realtà dell’inquisizione medievale, oltre a far riferimento
alla giurisprudenza più sopra esposta, si dovrà far lo sforzo di entrare nella mentalità
soggiacente alle procedure, una struttura di pensiero in cui le dimensioni teologica, giuridica
e di ideologia sociale sono strettamente intrecciate. L’eresia è dunque considerata un veleno
per il bene più alto, che è la fede, e insieme un pericolo per la società intera, la cui
compattezza è basata sulla fede. L’eretico è indissolubilmente un peccatore che ha bisogno
di convertirsi e una minaccia alla stabilità sociale. Dunque l’obiettivo per l’inquisizione è la
conversione dell’eretico, che passa attraverso la confessione, e giunge alla salvezza della
persona e della società e alla sconfitta del nemico. La confessione è, insieme, dimensione
sacramentale e passaggio giudiziario, quindi il tribunale è inestricabilmente luogo di
penitenza sacramentale e di intervento giuridico. Se l’eretico, “convinto” di eresia (cioè, a
suo carico ci sono prove evidenti di adesione ai gruppi eretici), confessa, è salvo lui e salva
la società, e dunque – nella logica inquisitoriale – questa confessione va ottenuta a tutti i
costi, anche con la tortura. Ovviamente, ottenuta la confessione, si darà una penitenza
appropriata alla gravità del peccato-delitto di eresia: un pellegrinaggio, la partecipazione
alla crociata, un abito penitenziale portato per lungo tempo… Ma se, nonostante le prove,
l’eretico non confessa, o rimane ostinato nella sua errata credenza, oppure, dopo aver
confessato, ricade nell’eresia, il tribunale non può fare altro che prendere atto della sua
ostinazione e consegnarlo ai tribunali civili, che ovviamente lo giudicheranno colpevole di
lesa maestà e lo condanneranno a morte, nonostante l’inquisizione all’atto di consegnare
l’eretico al “braccio secolare” abbia esortato alla clemenza… esortazione inutile e dunque
sostanzialmente ipocrita: e, formalmente, il tribunale ecclesiastico non condannava a morte,
in qualche modo riconosceva che il peccatore non voleva convertirsi. Non si può non
ricordare un passaggio evangelico: “A noi non è consentito mettere a morte nessuno”…
Si aggiunga un aspetto tecnico dell’indagine che si spiega nel contesto albigese: poiché la
struttura settaria dei gruppi catari controllava strettamente i possibili testimoni e intimidiva
con vendette coloro che avessero voluto lasciare l’eresia, l’inquisizione “inventò” un
sistema di protezione dei collaboratori di giustizia: il presunto eretico non poteva conoscere
chi l’aveva denunciato, anche se poteva sapere per tempo quali prove erano addotte contro
di lui. Quindi una certa garanzia era data all’imputato, ma anche, forse più fortemente, al
testimone o denunciante.
249
Inseriamo qui un fenomeno parallelo all’istituzione dei tribunali di inquisizione, ossia la
creazione di confraternite di laici, variamente denominati – cruciferi, crucesignati,
“compagnia della fede” – che si affiancavano all’azione dei frati sia per offrire un aiuto
catechistico nelle conversazioni e nei dibattiti, sia per proteggere predicatori e inquisitori da
attentati e violenze, sia per raccogliere informazioni e prove. Uno dei creatori di questi
gruppi, che quindi avevano il diritto di portare armi, è Pietro da Verona, nato da famiglia
catara nel 1203, convertito da una predica di Domenico a Bologna nel 1221 ed entrato tra i
frati predicatori, impegnato nella lotta antieretica anche per la sua esperienza diretta,
inquisitore di “Lombardia” nel 1251, ucciso in un agguato a Seveso l’anno dopo e
canonizzato nel 1253.
Efficacia. Una vecchia battuta tipicamente clericale racconta: “Qual è la somiglianza tra
gesuiti e domenicani? Entrambi sono sorti per combattere gli eretici, protestanti e albigesi.
Qual è la differenza tra i due ordini? Avete mai visto in giro un albigese?”. Si tratta di
un’ironia quasi macabra, ma che comunque si basa su un fatto, cioè l’estinzione sostanziale
del movimento eretico. Pare che l’ultimo “buon cristiano” messo al rogo sia un certo
Guglielmo Bélibaste, tra l’altro personaggio piuttosto discutibile nei comportamenti morali,
bruciato un secolo dopo la crociata, nel 1321. E’ tuttavia una semplificazione priva di
fondamento ritenere che i roghi dell’inquisizione abbiano sterminato popolazioni intere pur
di ottenere il risultato. Basandosi sui calcoli più attendibili, uno storico equilibrato, Andrea
Del Col, afferma che la percentuale degli albigesi in Linguadoca nel secolo di diffusione del
fenomeno sia stimabile attorno al 5% della popolazione, cioè mediamente circa 40mila su
ottocentomila abitanti. Tra il 1230 e il 1330, quindi su un secolo, dovrebbero esser stati
perseguiti (e non tutti messi a morte, forse solo il 5% degli imputati) circa 15-20mila catari,
ossia l’1-1,5% della popolazione, che comunque è una cifra elevata di imputati, e di vittime.
Questo dice che l’azione dell’inquisizione è stata solo una delle componenti dell’estinzione
della realtà catara. Certamente la crociata, che precede l’inquisizione, ha portato un gran
numero di vittime (non tutte albigesi!) e alla presa di distanza dal movimento di gran parte
di quella fetta di popolazione prima simpatizzante. Sicuramente l’efficacia della
predicazione dei frati di Domenico, unita alla loro testimonianza di povertà, ha dato un
contributo determinante alla diminuzione del fascino dei “buoni cristiani”: e, tra l’altro, va
tenuto presente che i frati inquisitori erano una minima percentuale rispetto a tutti quelli che
si dedicavano alla predicazione, alla catechesi, alla diatriba nelle piazze. A questo si unisca
250
una constatazione che molti storici più recenti hanno fatto: il catarismo è, sì, una religione
diffusa tra gli strati più progrediti della popolazione urbana, ma sembra essere un’ideologia
“reazionaria” rispetto ai cambiamenti sociali in corso. Il rifiuto della materia, del denaro, del
commercio, la concezione dualistica e reincarnazionista, e quindi determinista e opposta
all’idea di un uomo padrone della propria vita e iniziativa, sono segnali di disagio rispetto ai
fenomeni di cambiamento culturale. E la spiritualità dei frati predicatori e dei francescani ha
permesso di recuperare e integrare vari aspetti contestativi, ad esempio una fede povera,
superando la fragilità insita nel fenomeno cataro, che quindi in qualche modo si è esaurito
anche per inerzia storica.
A una valutazione di efficacia può unirsi un giudizio su questa struttura dell’inquisizione: la
coercizione violenta è in qualche modo comprensibile, tenendo conto del contesto? Alcuni
storici in passato, non solo tra coloro che portavano avanti una posizione apologetica, hanno
sottolineato la consistenza antisociale del movimento cataro, che, se si fosse diffuso,
avrebbe portato al sovvertimento delle basi sociali. Si tratta di considerazioni con qualche
fondamento ma da non esagerare. Se ogni atteggiamento settario è preoccupante, e
soprattutto i catari portavano avanti un comportamento del genere, e se ci fa impressione il
“rito” dell’endura, è altrettanto vero che la condanna teorica del matrimonio e della
sessualità si affiancava a una realistica tolleranza della vita di famiglia per gli uditori.
Dunque, se è vero che la posizione albigese aveva assunto qualche connotazione eversiva, è
anche vero che alla fine i motivi della crociata e dell’inquisizione furono altri. La tradizione
teologica, anche contemporanea al nascere dell’inquisizione, è costante nel rifiutare la
coercizione nel credere, e qualche voce negativa in quegli anni s’è levata contro queste
azioni, e dunque è difficile anche invocare l’unanimità della mentalità. Possiamo dire che un
percorso intellettuale discutibile, ossia l’equivalenza tra eresia, menzogna e lesa maestà, tra
pericolo morale e pericolo sociale, ha portato alla creazione di un’ideologia diffusa,
sostenuta dagli interessi dei governi, emotivamente in sintonia con le paure popolari, ma
contraddittoria con la tradizione ecclesiale. Ben presto il sistema inquisitorio medievale
andrà in crisi e subirà un processo di decadenza e anche di vere e proprie deviazioni nel
XIV e XV secolo, ma sarà ripristinato, con notevoli differenze, nella Spagna riconquistata
del XV secolo e nella controriforma del XVI.
§ 91: Francesco d’Assisi e il francescanesimo
251
Bibliografia: FM 10, 244- 252; 353-359; 618-619; J 5/1, 246-259; L 527-534; GV 671-689;
P 251-257; HC 5, 733-736; 741-746; R. MANSELLI, San Francesco d’Assisi. Editio maior,
Cinisello B. 2002; R. MANSELLI, I primi cento anni di storia francescana, Cinisello B.
2004; J. LE GOFF, San Francesco d’Assisi, Roma – Bari 2008
La vulgata storica ci consegna i frati predicatori come gli occhiuti agenti dell’inquisizione,
mentre i francescani si guardano come i lieti e liberi giullari di Dio. Sembrerebbe dunque
che parlare qui di Francesco e dei suoi seguaci sia compiere un salto a tutt’altro tema.
Invece, come s’è già accennato qua e là, non mancano le connessioni tra questa figura unica
nel panorama spirituale cristiano e i temi appena trattati. Ma procediamo con una breve
sintesi della vicenda biografica di Francesco di Pietro Bernardone.
E’ ben nota la sua origine cittadina e mercantile, della più tipica classe sociale dei comuni
italiani, da un mercante di stoffe in traffico con la Francia, da cui verrà il nome più noto di
un figlio che al battesimo era stato chiamato Giovanni. L’adolescenza di un rampollo di
ricchi mercanti intrecciava la pratica dell’arte paterna a progetti di scalata sociale, ossia di
passaggio dal ceto borghese a quello nobile: di qui il tentativo di dare a Francesco
l’opportunità di partecipare alla crociata e l’esperienza di prendere le armi contro la nemica
Perugia, a vent’anni, nel 1202, e di finire prigioniero nella battaglia di Collestrada. Ma di
qui anche quella caratterizzazione di una jeunesse dorée, cioè di una fase di vita, più che
spensierata e peccatrice, mossa dal desiderio di mostrare le ricchezze familiari e di accedere
a comportamenti nobiliari e “cortesi”.
Le testimonianze sono unanimi nel far coincidere la conversione con l’incontro con il
lebbroso: esperienza di shock rispetto alla forma di vita ideale, ma anche incontro piuttosto
frequente nella penisola italiana, dove la terribile malattia tropicale – oltre patologie
analoghe o somiglianti – era stata riportata proprio dai crociati. Da questo incontro e da
successive esperienze mistiche deriva la scelta di una vita penitenziale, di per sé non
particolarmente originale: in tutti i secoli precedenti, cavalieri o altri avevano scelto di
rivestirsi dell’abito penitenziale e di condurre vita eremitica. Ma in Francesco c’è qualcosa
di nuovo, ossia il desiderio di condivisione della vita degli strati più poveri della società
cittadina, non solo nel vitto e nel vestito, ma anche nell’adiacenza di abitazione e nella
frequenza.
Da questa prima scelta, e con una serie di passaggi e traslochi nelle adiacenze della città
natale, scaturisce la ricerca di “Madonna Povertà”. Si tratta di una vita di somiglianza a
252
Cristo povero e sofferente, dunque un vero, anche se solo intuito, spostamento di accento:
l’ideale di vita apostolica, già diffuso nel secolo precedente e portato avanti
consapevolmente da Domenico, qui è ideale, potremmo dire, di vita “cristica”. Che assume i
connotati di una sorta di scelta esegetica: vivere il Vangelo sine glossa, nell’età della Glossa
ordinaria… assumere come normativo un Vangelo alla lettera, e non per allegoria. In questo
quadro si comprende l’episodio del praesepe di Greccio e perfino il fenomeno, di cui
Francesco ha il primato nella storia, delle stimmate.
Quella di Francesco è una struttura di vita al di fuori del quadro, ancora rurale-feudale, dei
canonici regolari. Emerge progressivamente l’ideale di una fraternità da vivere in piccolo
gruppo, come gli apostoli, in una scelta di povertà, come sopra si diceva, concreta,
socialmente connotata, “mendicante”, senza proprietà e nell’assoluta diffidenza dell’uso del
denaro. E in effetti il primo gruppo di amici che, uno dopo l’altro, si uniscono a Francesco,
è numericamente limitato, quasi interamente composto da laici, e di provenienza assisiate.
Quante somiglianze, si potrebbe dire, con i gruppi di “perfetti” catari presenti con una loro
organizzazione gerarchica nella valle di Spoleto! Eppure sono da sottolineare una serie di
attenzioni e gesti che contrappongono, con ogni probabilità in modo cosciente, Francesco
agli eretici: la devozione profonda all’eucaristia, il rispetto affettuoso verso il clero –
Francesco sarà sempre in ottimi rapporti col suo vescovo e protettore Guido – e una
concezione della creazione che è tutt’altro che dualistica.
Come valdesi e umiliati, il gruppo di penitenti attorno a Francesco si dà alla predicazione
popolare, ma con la massima attenzione a non invadere gli spazi istituzionali, il che, tra
l’altro, porterà i francescani a “inventare” forme di annuncio assolutamente innovative,
spesso simboliche e gestuali, e adatte al pubblico delle piccole città del centro Italia.
Questo ministero di testimonianza e predicazione popolare, sempre in maniera progressiva,
si chiarisce per Francesco: per quanto riguarda la penisola italiana, i suoi frati saranno
chiamati a denunciare i gravi mali delle città, e a contribuire alla pacificazione tra le fazioni.
E’ noto come, verso la fine della vita, Francesco intervenga personalmente per sedare le
lotte tra partiti nella sua Assisi, e in questa occasione pare abbia aggiunto la strofa del
“cantico”: “laudato si’, mi’ Signore, per quelli che perdonano nello tuo amore…”. Ma nella
sua escursione in Egitto in occasione della spedizione del 1217, quella che di solito è detta
la quinta crociata, desideroso di accedere ai luoghi della vita di Cristo – e ritorna l’idea
dell’identificazione del Vangelo sine glossa – e di morire martire, la predicazione ai non
253
cristiani assume le forme dell’ascolto e dell’adattamento, come è evidente dal capitolo della
Regula non bullata dedicato a de euntibus inter saracenos et alios infideles:
L’un modo [di essere missionari] è che non facciano liti né contrasti, ma siano
sottomessi ad ogni creatura per amore di Dio e dichiarino di essere cristiani. L’altro
modo è che, quando abbiano notato che ciò piace al Signore, annunzino la parola di
Dio, perché siano battezzati e siano fatti cristiani56.
Francesco ritornava velocemente dall’Egitto perché era stato informato che i “vicari” che
aveva posto a reggere il gruppo avevano fatto scelte che non condivideva, soprattutto nella
direzione di omologare la nascente realtà agli ordini monastici già esistenti. Il problema
però era che il suo ideale iniziale di un piccolo gruppo di persone che vivevano come Gesù
e gli apostoli era messo in crisi dalla spontanea e fulminea diffusione della proposta in
Francesco in tutta Europa e dall’afflusso ingente e inatteso di migliaia di nuovi seguaci, che
non potevano più essere guidati solo dalle consuetudini e dalla radicalità spirituale del solo
Francesco. Roma, con cui Francesco è in contatto fin dai tempi di Innocenzo III, preme per
la redazione di una regola. Il primo tentativo, che si colloca nei primi anni di pontificato di
Onorio III, è la cosiddetta regula non bullata, che però non riscuote l’unanimità nel
nascente “ordine”. E’ un esperto canonista come Ugolino, cardinale vescovo di Ostia e
nipote di Innocenzo III, amico di Francesco e da lui stesso richiesto, a contribuire alla
redazione della Regula bullata del 1223, che cerca un equilibrio tra una normalizzazione
secondo i principi del diritto ecclesiale e la durata dell’intuizione iniziale. Alla regola
Francesco chiederà sempre che si affianchi una testimonianza dei “primi tempi” che sia
come l’interpretazione autentica: dapprima sarà lui stesso, non superiore ma vivente
memoria dello slancio iniziale, e alla sua morte vorrà uno dei primi seguaci, l’amico di
giovinezza Bernardo di Quintavalle: quasi un’autorità “carismatica” da affiancare a quella
dei superiori gerarchici.
Dalla sua vita quasi estrema di povertà e dal viaggio in Oriente porterà le malattie che lo
martirizzeranno (insieme agli interventi medici) nell’ultima fase di vita: pare che gli fosse
rimasta, oltre a un insieme di acciacchi e debolezze, la “febbre quartana”, cioè una forma
particolarmente pesante di malaria. Francesco trascorre gli ultimi anni di vita ai margini del
254
governo dell’ordo, nel ristretto territorio (Assisi, Rieti, la Verna) dei suoi pellegrinaggi
eremitici, sopportando le malattie e dedito alla preghiera. Muore tra il 3 e il 4 ottobre 1226,
quarantacinquenne, neanche sei mesi prima dell’elezione del “suo” cardinale Ugolino come
papa. Intanto è nato l’Ordo Fratrum Minorum, una nuova militia religiosa dedita alla
pastorale nelle città e nelle campagne d’Europa (e non solo), ben presto letta in parallelo coi
frati predicatori, pur avendo un’origine, una genesi e una struttura giuridica differenti. Ma
era proprio questo ciò che Francesco aveva voluto?
La questione francescana. Da un punto di vista della storiografia moderna, la “questione
francescana” nasce alla fine del XIX secolo con gli studi dello storico protestante francese
Paul Sabatier, in contatto con alcuni cattolici modernisti, che studia con rigore scientifico le
fonti francescane. La sua posizione: c’è frattura e discontinuità tra Francesco e il
francescanesimo, tra Francesco e la Chiesa contemporanea e successiva. Ciò che si incarna
nella regola dei minori e soprattutto nella vicenda dell’ordine è altro rispetto al sogno e
all’ideale di Francesco, che in effetti alla fine della sua vita prende le distanze dalla
“struttura” papale incarnata da frate Elia. Sembra, come si vede, di sentire ciò che Loisy, o
esponenti della teologia liberale protestante, dice della discontinuità tra Gesù e la Chiesa. E
questa visione di un “altro” Francesco si incarna anche in opere di successo, come, ad
esempio, il film di Liliana Cavani dedicato al santo.
D’altra parte sta di fatto che è lo stesso Francesco a coinvolgere nel governo e nella
normativa dell’ordine frate Elia e il cardinale Ugolino, soprattutto dopo la crisi connessa al
suo viaggio in Egitto, dove, peraltro, fu accompagnato da Elia. Il dibattito è ancora aperto, e
ci si limita qui a porre tre punti di riflessione e approfondimento, su cui gli storici stanno
lavorando.
Anzitutto c’è il problema delle fonti: secondo molti studiosi, i racconti della vita di
Francesco sono fin dall’origine condizionati nella loro stesura dall’appartenenza degli
scrittori all’uno o all’altro dei due partiti interni all’ordine, i “conventuali” di frate Elia e gli
“spirituali” legati almeno emotivamente ai primi compagni di Francesco; le “legende”
istituzionali dell’ordine (Tommaso da Celano, Bonaventura) sarebbero l’incarnazione del
partito conventuale, altri testi meno diffusi invece sarebbero la voce della frangia radicale,
“spirituale”. Recentemente è sorta un’altra linea interpretativa, che contrappone i documenti
sorti nell’ambito direttivo dell’ordine, sensibile all’istanza internazionale ormai assunta
56
MANSELLI, San Francesco…, 345.
255
dalla comunità francescana, e i racconti radicati nell’ambito localistico assisiate e centroItaliano, legati a un Francesco arcaico e alla nostalgia dei primi tempi. Oggi si è alla ricerca
di altre fonti, non agiografiche, ad esempio le cronache e gli archivi cittadini.
In secondo luogo bisogna tener presente quelli che possono esser considerati dati di fatto
acquisiti. Anzitutto, ancora vivente Francesco, è avvenuta una effettiva normalizzazione
giuridica del movimento, che certamente ha in parte mortificato la spontaneità delle origini,
ma che ha condotto al perpetuarsi della proposta francescana negli anni e nei secoli; si tratta
di un processo che la sociologia conosce bene. Il vero interprete di questo passaggio non
sarebbe frate Elia, bensì il teologo e ministro generale dei francescani Bonaventura, che
cercò anche di mediare tra le varie correnti. Ben presto, all’interno del movimento si delineò
un “movimento interno”, che rivendicava l’eredità francescana in senso radicale, e si
rifaceva alle origini, per certi aspetti in parte mitizzate; una parte di questa linea condividerà
la lettura apocalittica della storia delineata dal cistercense (poi fondatore di una sua
congregazione monastica) Gioacchino da Fiore. Analoghe, anche se meno travagliate,
furono le vicende del movimento francescano femminile, nato da un gruppo di ragazze
assisiati, la prima delle quali è Chiara di Favarone d’Offreduccio, figlia di un nobile della
città, che nel 1211 o 1212 raggiunge Francesco per seguire il suo ideale, e insediata con la
sorella Agnese nel primitivo luogo in cui Francesco aveva iniziato la sua penitenza, San
Damiano fuori dalle mura d’Assisi.
Infine, si sta superando una lettura “fissista” di Francesco, non più descritto dagli storici
come portatore di un ideale chiaro fin dall’inizio e successivamente tradito da un’opera di
normalizzazione che egli non capiva e non condivideva, bensì figura creativa, personalità in
continua ricerca della realizzazione di un’intuizione tanto profonda quanto indefinita nei
suoi contorni, che prova a costruire anche con tensioni e fallimenti e in dialogo con la
gerarchia ecclesiastica, con le avvenimenti, con le persone che incontra, come il primo
studioso e teologo dell’ordine, il portoghese Antonio. Dunque si ve abbandonando il mito,
tra il romantico e il protestante, di Francesco interprete insuperato del cristianesimo,
incompreso ed emarginato dalle strutture di potere…
§ 92: il clero “in cura d’anime” tra la riforma gregoriana e la fine del XIII secolo
256
Bibliografia: FM 9/2, 715-801; 10, 505-516; 609-618; 628-629; J 5/1, 155-161; 321-333;
GV 623-636; HC 5, 239-272; Le clerc séculier au moyen Age, Paris 1993; G. LE BRAS,
L’église et le village, Paris 1976
Una delle conseguenze più evidenti della riforma e della lotta delle investiture sembra, a
detta della maggioranza degli storici, una maggior incidenza del ruolo del vescovo nella
strutturazione delle diocesi, dei centri religiosi e, di conseguenza, della pastorale. Più vicini
alla gente, più attenti ai diritti della Chiesa rispetto al potere politico, i vescovi della prima
metà del XII secolo cercano di diffondere nei loro territori le normative scaturite dalla
riforma e di riprendere il controllo del clero. Se in Germania e in alcune diocesi del nord
della Francia i presuli erano fortemente impegnati anche sul versante del governo dei
“principati” di cui erano titolari, ciononostante i presuli tedeschi e in generale i vescovi
occidentali utilizzano entrate e diritti signorili anche in vista di accrescere l’influenza della
realtà diocesana sul territorio.
Il legame tra i vescovi e i capitoli cattedrali, a sua volta, per certi aspetti si rinsalda: i
capitoli divengono, almeno in teoria, i detentori principali del diritto elettorale dei vescovi, e
quindi spesso si hanno molti presuli che provengono dai capitoli e un numero minore,
rispetto al periodo precedente, dai monasteri; alcune dignità capitolari, come vedremo
meglio più oltre, svolgono un servizio diocesano, come i cancellieri per la redazione dei
documenti o gli “scolastici” per la formazione del clero, e sono i delegati dei vescovi per il
controllo delle comunità rurali, come gli arcidiaconi; i vescovi più impegnati nell’opera di
riforma ottengono la ripresa della vita comune del capitolo, una realtà impegnativa che a
volte resisterà pochi decenni. D’altra parte si assiste in questi secoli alla definitiva
distinzione tra i beni vescovili e la “massa” capitolare, il che rende i canonici
progressivamente più indipendenti dal loro vescovo.
Nel capitolo cattedrale, a volte formato da decine e decine di canonici, si ha il luogo di
sintesi delle realtà cittadine: il vescovo, la nobiltà, i notabili della nascente borghesia, la
stessa corte del monarca hanno diritti di nomina e di rappresentanza. Ma il clero collegiato
non si limita ai capitoli cattedrali: si sviluppano nei secoli X-XIII collegi di canonici più o
meno grandi legati ad altre chiese, per lo più cittadine, ma, almeno in Italia, anche nelle
campagne. La nobiltà locale trova nella fondazione di una collegiata il modo di collocare in
buona posizione ecclesiale figli cadetti e clienti, i quartieri in espansione si appoggiano alla
cura pastorale di questi gruppi di sacerdoti, borghi in procinto di assumere il ruolo di città
257
collocano nel capitolo un motivo di prestigio e di rivendicazione. Nelle zone rurali
dell’Italia del centro-nord molte pievi continuano la tradizione di un clero che opera
insieme, pur perdendo spesso la vita comune, mentre nel meridione si ha il fenomeno,
legato a nobiltà e famiglie locali, delle chiese “recettizie” pressoché private. Tuttavia, a
differenza dei monasteri, tutte queste realtà hanno sempre un ruolo pastorale sul territorio.
La maggior attenzione dei vescovi, nonché la presenza di capitoli e collegiate, fanno di
questo periodo (XI-XII secolo) un tempo in cui si ha una più alta e ordinata strutturazione
della diocesi. In molte circoscrizioni, ad esempio, è questo il tempo in cui è documentata
una completa rete di pievi. I vescovi conferiscono agli arcidiaconi il compito di sorvegliare
il clero delle campagne, che così viene suddiviso in aree, che tutt’oggi, in varie zone
d’Europa, si chiamano “arcidiaconati”, “decanati”, “arciprestazgos” e così via. Alcune
diocesi hanno due o più arcidiaconi, collegati al capitolo cattedrale ma impegnati sul
territorio. Il vescovo si riserva e riesce a rivendicare un maggior controllo delle chiese “di
proprietà” dei monasteri e delle nomine dei chierici, mentre, durante gli anni del successo
della riforma gregoriana, si ha un imponente fenomeno di “restituzioni” di chiese da parte
dei proprietari laici alla realtà diocesana. Dunque la situazione, molto policentrica e spesso
francamente anarchica, del periodo VII-X secolo viene superata con una maggior coerenza.
Ciò non significa che il centro episcopale sia l’unico detentore dell’organizzazione pastorale
e delle nomine. Sussiste un intreccio di diritti, in questo tempo sempre più denominati
patronatus, dei monasteri, che a volte controllano intere regioni, della noblità, dei notabili e
delle vicinie cioè delle famiglie del quartiere, dei capitoli stessi indipendentemente dal
vescovo, e della corte del re o dell’imperatore. Vi si affiancano, laddove sono presenti, i
conventi di canonici regolari che spesso assicurano la cura di diverse chiese o che le
ricevono in donazione. I vescovi, tramite gli arcidiaconi o i pievani, mantengono almeno il
diritto di controllare la preparazione del chierico e la regolarità della nomina.
Il clero soprattutto delle campagne ha una naturale tendenza a vivere delle dinamiche del
villaggio, ad entrare in osmosi con la popolazione. Provenendo spesso da famiglie del
popolo, non certamente di origine servile ma comunque non necessariamente benestanti, è
in continuo contatto con la mentalità locale. I più gravi problemi che pesavano sul clero al
tempo della riforma, in particolare la simonia, sembrano ampiamente superati e controllati.
Per quanto riguarda il celibato, faticosamente il principio è affermato e si diffonde, ma
rimangono aree importanti di resistenza non solo nella prassi ma anche nel pensiero. In
258
particolare il regno Anglo-Normanno, di qua e di là della Manica, vede una tolleranza della
convivenza matrimoniale dei sacerdoti, nonostante i tentativi di vescovi come Anselmo
d’Aosta. Alcuni autori, come il cosiddetto Anonimo di York (probabilmente più scrittori),
difendono l’uso e la bontà del matrimonio dei chierici. Lo sviluppo delle scuole capitolari e
più avanti delle università garantisce la possibilità per il clero di istruirsi, anche se è
probabile che una parte consistente si formi attraverso un apprendistato presso il parroco del
proprio paese. Sia nelle campagne che anche nel clero collegiale delle città i sacerdoti sono,
nel numero complessivo del clero, ancora una minoranza: molti si fermano al diaconato (e
hanno diritto ad entrare nei capitoli e addirittura ad essere nominati arcidiaconi), altri
all’accolitato o ad altri ordini minori, e possiamo pensare che questi ultimi fossero meno
istruiti e, molti, anche sposati. I sacerdoti che si dedicavano della cura pastorale certamente
celebravano l’eucaristia, il battesimo e l’unzione dei malati gravi. Ma si occupavano delle
vesti liturgiche e della cera e di tutte le necessità materiali della sacrestia. Accoglievano i
penitenti per la confessione, benedivano i pellegrini che partivano o passavano, le donne che
avevano partorito, i fidanzamenti e le nozze, visitavano i malati. Spiegavano il Credo e il
Pater come strumenti per la catechesi e ricordavano ai fedeli le normative ecclesiastiche.
Non tutti erano in grado di predicare, qualcuno era così capace da essere invitato in qualche
parrocchia vicina, mentre in città il vescovo o i canonici addetti potevano assicurare una
predicazione più regolare (HC 5, 270).
In questo periodo si assiste a un interessante fenomeno associativo: si formano importanti
confraternite/corporazioni del clero maggiore, dotate di beni che erano redistribuiti ai
membri, ma anche corporazioni del clero minore.
La situazione del clero, dopo il momento più intenso della riforma gregoriana (fine XIinizio XII secolo), non si stabilizza definitivamente. I mutamenti demografici sollecitano e
mettono in tensione la geografia pastorale: le città si espandono oltre le mura e si
stratificano a livello sociale, e quindi le vecchie parrocchie finiscono per non raggiungere
tutti i fedeli. La riforma arriva in tempi diversi nelle varie zone d’Europa, e nel clero, dopo
periodi di riforma, slancio pastorale e purificazione morale, la tendenza è quella di tornare
alla “ordinaria amministrazione” e a taluni compromessi con il clima morale dei fedeli. La
vita comune del clero secolare ha un andamento instabile e oscillante. Soprattutto nelle aree
di recente cristianizzazione, come la Germania orientale, la Polonia, l’Ungheria, o nei
territori più dislocati come le valli alpine, i fedeli spesso mantengono più robusti legami con
259
tradizioni e comportamenti precristiani, e il clero rischia di scivolare in una “complicità”
che si estende alla questione del celibato (in Islanda vescovi e clero sono notoriamente
uxorati fino al XVI secolo inoltrato), e a atteggiamenti di tipo sciamanico. Inoltre le chiese
sono poche e lontane – in tutta la val di Fassa per anni l’unica chiesa era a Vigo – e il clero
in queste zone non è numeroso e stenta ad avere di che vivere. Tuttavia gli storici sembrano
ravvisare il passaggio lemto ma globale a un’immagine di clero differente: da una
prevalente ritualità, tipica peraltro degli “uomini del sacro” delle culture preesistenti,
all’impegno di cura d’anime, più propriamente pastorale, formativo e caritativo. Non è un
caso che si vada diffundendo un termine latino nuovo, tutt’oggi presente in linguaggi e
dialetti di varie zone d’Europa: “curatus”.
Nel XIII secolo, soprattutto con il passaggio chiave del quarto concilio lateranense, si ha un
principio di svolta con un rinnovamento pastorale. Giustamente molti studiosi pongono
l’accento sull’obbligo della confessione annuale, che, come vedremo più sotto, comporta la
diffusione di una cultura della “coscienza”. Ma anche nel clero l’impegno della confessione
spinge verso una figura di tipo pastorale, con un legame differente con la popolazione
rispetto all’osmosi. Ma a questa svolta il clero secolare occidentale arriverà in parte
impreparato, e per altri versi sottoposto a una situazione di emarginazione da parte dello
zelo deciso degli ordini mendicanti, con tensioni e sbocchi che si potranno vedere nelle
pagine seguenti (§ 94).
§ 93: i “nuovi” laici nella Chiesa
Bibliografia: FM 9/2, 827-843; 10, 620-635; J 5/1, 150-155; P 215-223; HC 5, 397-411;
804-827; A. VAUCHEZ, I laici nel medioevo, Milano 1989
Pochi storici, studiando in maniera specializzata il movimento monastico di questi secoli,
rilevano una delle novità, cioè la scomparsa di un certo tipo di relazione tra famiglie nobili e
monasteri, che si incarnava nella figura dell’advocatus. In realtà non cessano fondazioni di
origine aristicratica, ma cistercensi e premostratensi, e più tardi ordini mendicanti, non
contemplano neppur lontanamente un tipo di rapporto che scompare quasi, diremmo, di
morte naturale. Ciò non significa che questo mondo monastico non abbia più rapporto con il
laicato. Così la dura lotta tra il movimento riformatore e le corti riguardo alle investiture
comporta una decisa separazione e una, non totale ma effettiva, perdita di influenza
dell’aristocrazia nella vita ecclesiale. Tuttavia, più che di spesso decantata
260
“clericalizzazione” della Chiesa, si ha qui l’emergere di nuove modalità di presenza dei
laici. Tanto più che, con la fine della struttura feudale e il (ri)sorgere del mondo cittadino,
una nuova classe di laici, dalle mille varietà e sfaccettature, si va affermando: i borghesi.
Nel mondo cittadino, più dinamico ma in fondo più documentato rispetto alla vita rurale,
emergono segni importanti di novità, che hanno riflessi istituzionali e generano strutture di
lunga durata. Nel secolo XII si hanno le prime notizie delle cosiddette fabbriche, termine
generalmente impiegato per il mondo attorno alla cattedrale. Si tratta di confraternite o
comitati che si occupano della costruzione, del finanziamento, della manutenzione della
chiese cittadine. Anche le parrocchie dei quartieri progressivamente vengono affiancate a
gruppi analoghi, nel nord Italia detti vicinie. I laici, soprattutto benestanti o esperti,
assumono ben presto un ruolo preponderante, generando tensioni e ostilità nel clero che
vede diminuire il proprio monopolio decisionale. Ma le comunità di fedeli, ora segnate da
libertà sociale, benessere economico e competenza tecnico-amministrativa, impongono un
proprio ruolo più forte.
Analoghe realtà, spesso appoggiate dai nascenti governi cittadini, si occupano della
fondazione, della gestione, dell’amministrazione di strutture caritative quali ospedali,
lebbrosari, orfanotrofi, luoghi d’accoglienza di ex prostitute. Spesso si tratta di gruppi di
laici, celibi o vedovi, che si dedicano a tempi pieno a questi servizi, con l’appoggio di altri,
legati ai primi per parentela, amicizia, contiguità sociale, e che finanziano o proteggono
dall’esterno. In un successivo paragrafo si vedranno meglio i campi d’azione di queste
forme di assistenza sociale.
Lo stabilirsi degli ordini mendicanti in città, talvolta in quartieri nuovi, o borghesi, o di
famiglie povere, è occasione di promozione dei laici, singoli e associati. I frati predicatori
fondano le compagnie della fede per difendere la città dall’eresia facendo tra l’altro
pressione sui governi cittadini; i frati minori, a loro volta, diffondono il terz’ordine creato,
sembra in maniera innovativa, da Francesco proprio per coloro che continuavano a vivere
nel secolo. Se prima solo i nobili si legavano a grandi monasteri come Cluny per assicurarsi
il suffragio della propria anima e di quella dei familiari, ora questo desiderio si generalizza e
si creano filiazioni spirituali, che spesso dànno il diritto di sepoltura nelle stesse chiese.
Tendenzialmente le famiglie magnazitie filoimperiali, che nel XIII secolo saranno chiamati
“ghibellini”, si collegano ancora a monasteri, soprattutto cistercensi, mentre la parte
“guelfa”, cioè i populares, è affine agli ordini mendicanti. I più benestanti, anche come
261
forma di manifestazione di status, finanziano la costruzione delle grandi chiese dei
mendicanti, ottenendo il diritto a una tomba segnalata. Anche le chiese parrocchiali, come
da tradizione ma con un sempre maggiore utilizzo delle strutture stesse delle chiese e non
solo delle adiacenze, sono luogo di sepoltura, suffragio, monumentalizzazione. E,
ovviamente, intervento e rivendicazione di proprietà e potere.
Altri segnali ci portano fuori dalle mura delle città, senza farcele abbandonare. Si tratta di
massive adesioni di vari strati sociali a grandi movimenti di predicazione, spesso con
incidenza importante e non effimera sui fenomeni storici. Il primo episodio, che per certi
aspetti dovette dare una sorta di shock, fu il movimento che si creò attorno a Pierre l’ermite
in occasione della prima crociata. Pur concludendosi in un pesante fallimento, la crociata
dei poveri non si può dire che non avesse peso sul successivo svolgersi delle vicende, che,
probabilmente per Urbano II, certamente per l’imperatore bizantino alessio, dovevano
riguardare soltanto uomini d’arme. Anche la “crociata dei bambini”, in realtà movimento
giovanile da collocare attorno al 1212, anch’esso disperso prima dell’arrivo in Terrasanta,
mostra l’autonomia dal clero di gruppi sociali svariati, presi da obiettivi religiosi più o meno
realistici. Ma saranno le grandi campagne di predicazione per la pace e la riconciliazione,
contro le eresie e le deviazioni morali cittadine, che vedranno i laici protagonisti insieme ai
frati mendicanti, come ad esempio la cosiddetta “devozione dell’Alleluia” del 1233 di cui si
parlerà più sotto. La predicazione e l’entusiasmo per alcune figure di santità o per alcune
reliquie celebri trascinano in fenomeni di pellegrinaggio, che ormai non è più soltanto una
forma pubblica di penitenza e che avrà il suo culmine col giubileo del 1300. Dunque i laici
protagonisti non solo come individui o come gruppi organizzati, ma anche come movimenti
di massa.
Nella seconda metà del ‘200 si intravede un fenomeno che mette insieme predicazione,
movimento popolare e organizzazione sociale tipica del tempo. A Perugia nel 1260
appaiono i primi gruppi di “flagellanti”, che si riuniscono in confraternite: il gesto
penitenziale, dal sapore antico e tipicamente monastico, diventa segnale popolare e diffuso e
si unisce a un impegno di intensa vita di preghiera e di attenzione alle piaghe della società,
in attesa di esplodere nei periodi di grande pestilenza e di attese escatologiche. Altre
confraternite erano presenti da secoli, dunque la forma confraternale, già accennata in varie
occasioni (“fabbriche”, ospitalità, compagnie della fede…), diviene il modo tipico di
presenza del laico nella vita ecclesiale. Nelle città di tutta Europa a ogni corporazione
262
(altrimenti detta paratico, gilda…) corrisponde la confraternita col proprio santo patrono, il
proprio altare (a volte mobile e montato presso il pilastro della cattedrale che il gruppo ha
finanziato), a volte la propria chiesa. E la confraternita col patrono permettono sovente di
liberare il mestiere dei componenti dalle diffidenze e dalle condanne religiose, e di
nobilitarlo: speziali, medici, notai, calzolai… Ci sono confraternite più svincolate
dall’appartenenza professionale e con intenti più propriamente religiosi.
E c’è tutto un mondo di singoli laici che per conversione personale, sventure della vita,
shock interiori scelgono forme che certamente sono della tradizione, ma vissute nella
propria casa e nel proprio ambiente laicale: sono i penitenti e le béguines (beghine), alcune
delle quali vivono in vita comune senza una forma istituzionale, almeno inizialmente, e
lavorano con le proprie mani nel mondo dell’artigianato soprattutto tessile. Da questi
gruppi, talvolta borderline rispetto alla cstruttura ecclesiastica e non privi di sospetti,
nascerà il fenomeno umiliato. Ma spesso in questo mondo si colloca la santità dei laici santi
“recenti” dalla devozione in grande diffusione, soprattutto nelle Fiandre e in Italia, come ha
mostrato Vauchez.
Fin qui s’è parlato prevalentemente di città. E la fede dei laici contadini? C’è l’emergere di
un laicato anche in questo mondo, che continua ad essere considerato, come da tradizione
tipicamente mediterranea, un mondo “di serie b”, una barbarie diffusa? Purtroppo del
mondo rurale ci manca molta dcumentazione, e quel che ci è nrimasto forse attende nuovi
metodi d’approccio. Però sembra di poter sottolineare due realtà, sostanzialmente
contrastanti. Nel XII e XIII secolo s’intravedono segnali di una fede meno rozza e
superficiale, più intima, che, probabilmente ancora per il tramite della confessione
personale, si apre alla diffusione delle immagini della croce e alla devozione alla passione di
Cristo, che più tardi il mondo francescano inquadrerà nella pratica della via crucis. Anche la
devozione mariana, pun non assente in precedenza, prende l’abbrivio: basti pensare ai tanti
ex voto pittorici, di fattura popolare, dipinti sui muri di chiese, santuari e cattedrali. Nel
periodo della riforma anche il mondo rurale reclama sacerdoti celibi e non macchiati di
simonia, e si adopera anche con la violenza per questi obiettivi. Dall’altra parte la religione
“popolare” ovvero “folklorica” rimane e a volte si ha l’impressiuone che abbia la forza di
ritornare dopo periodi di ostracismo sistematico o di oblio. Non è qui il luogo per entrare
nelle complesse considerazioni metodologiche che vedono la storia fare i conti con
l’etnologia e l’antropologia culturale, se si tratti di “religione delle classi subalterne” oppure
263
di “residui”, di “cristianizzazione” o “inculturazione” o in realtà di mancata
cristianizzazione. Quanto s’è detto al capitolo 7 (in particolare § 54) può valere anche per
questo periodo: i pastori provano a ricomprendere le esigenze della popolazione, in
un’opera di dialogo non sempre cosciente di sé e non sempre riuscita.
In questo spazio dedicato a nuove presenze dei laici nella Chiesa, accenniamo, last but not
least, alla figura della donna. Il mondo monastico vedeva comunità femminili molto ridotte
numericamente rispetto agli uomini, e di provenienza aristocratica. Domenico a Prouille
inizia con una comunitàè femminile e Clara di Favarone d’Offreduccio fugge dalla sua casa
(aristocratica) d’Assisi per raggiungere Francesco e per dare inizio a una comunità “nuova”
che pone al centro la povertà. Non corrispondono all’ideale monastico le donne che si
dedicano alla preghiera e al servizio dei poveri, che nelle Fiandre si chiameranno Beguines e
che annoverano tra le loro file Elisabetta, di famiglia regale ungherese, sposa del margravio
di Magdeburgo e, vedova, dedita completamente ai bisognosi. Anche le numerose recluse,
spesso sospettate di estremismo ed eresia, ma altrettanto spesso circondate da discepoli
anche del clero, sono un esempio di nuove forme di santità al femminile. Questi secoli ci
trasmettono ampia documentazione di donne mistiche, soprattutto in Renania, come
Ildegarde di Bingen, Gertrude di Hefta, Hadewijk, che scrivono visioni e profezie e vivono
una forma spirituale con tratti sentimentali e affettivi tali da aver fatto coniare agli storici
l’intraducibile vocabolo Minnenmystik: essendo i Minnesänger i corrispondenti dei
“trovatori”, si potrebbe affermare che si tratta di poetesse dell’amor cortese per Gesù Cristo,
contemplato soprattutto nella sua passione. La diffusa devozione a Maria vergine è la
cornice e il linguaggio in cui si colloca questo nuovo universo cristiano al femminile.
§ 94: forza e debolezza di una pastorale alla ricerca di se stessa
Bibliografia: FM 9/1, 177-215; 9/2, 873-910; 10, 183-234; 253-277; 516-537; J 5/1, 233241; 260-266; L 536-541; GV 832-859; P 223-230. 266-277; HC 5, 456-495; 523-530; 705732; 746-750; La pastorale della Chiesa in Occidente dall’età ottoniana al concilio
lateranense IV, Milano 2004, soprattutto 171-325; Ph. ARIÈS, L’homme devant la mort. I: le
temps des gisants, Paris 1977, in particolare 99-288
Il punto di sintesi e di svolta per considerare la pastorale dei secoli XII-XIII è il concilio
lateranense IV del 1215, convocato da Innocenzo III, per molti aspetti una vera assise
“pastorale” anche se con modalità e significati molto diversi, ovviamente, dal concilio del
264
1962-65 che per la prima volta si è dato questo aggettivo come definizione. Il lateranense IV
codifica principi e comportamenti, alcuni già in atto o per lo meno già proclamati, e che
faranno la pastorale in occidente fino al concilio di Trento e oltre. Si pensi ad esempio al
testo del canone 21:
Omnis utriusque sexus fidelis, postquam ad annos discretionis pervenerit, omnia sua
solus peccata saltem semel in anno fideliter confiteatur proprio sacerdoti, et
iniunctam sibi poenitentiam pro viribus studeat adimplere, suscipiens reverenter ad
minus in Pascha Eucharistiae sacramentum… alioquin et vivens ab ingressu ecclesiae
arceatur et moriens christiana careat sepultura… (DS 812)
Questo ordine, che stabiliva un minimum peraltro ben noto anche in precedenza, generò i
celebri precetti: “Confesserai tutti i tuoi peccati almeno una volta all’anno”; “Riceverai
umilmente il tuo creatore almeno a Pasqua” (CCC 2042; CDC 920; 989). Ancora una volta,
la personalità che ritroviamo in tutti questi momenti di svolta è Innocenzo III.
Un quadro sacramentale. La pastorale del lateranense IV, e l’effettiva azione della Chiesa
in questi secoli, si impernia sulla celebrazione/recezione dei sacramenti, in particolare
sull’asse confessione-eucaristia. Il quadro sacramentale è ormai chiaro e stabilizzato, la
scolastica ne sviscera questioni e condizioni, l’arte sacra propone scene di celebrazione
codificate. L’eucaristia è celebrata e anche sempre più adorata: non nasce nel secolo XII la
custodia continua dell’eucaristia, ma la preghiera di adorazione, il “vedere l’eucaristia” si
diffonde, e la spiritualità eucaristica e una serie di eventi straordinari fanno nascere la festa
del Corpus Domini, la cui innografia è di Tommaso d’Aquino, e che in Francia assume il
nome popolare Fête Dieu, estremamente significativo. Questo comporta un salto di qualità
per la figura sacerdotale, ormai centrale, a cui si va attribuendo un “potere” circoscritto ma
chiaro (sacerdos proprius). Ma, come bene intuisce Francesco, che non fu mai sacerdote, il
coetus sacerdotalis ha le sue luci e le sue ombre. Si potrebbe dire, in estrema sintesi, che il
sacerdote è un “amministratore”: tale termine si usa per i sacramenti ma anche,
significativamente, per i benefici. I sacerdoti sono collocati in una struttura che ha le sue
fragilità: sono sempre a rischio di deviare in comportamenti e pratiche che potremmo
definire sciamaniche, e si trovano a dover far fronte a urgenze dal punto di vista economico.
265
Bisogna d’altra parte sfatare la leggenda nera di un clero medievale ignorante. Le nascenti
università, come anche le tradizionali scuole capitolari che spesso sono all’origine dei nuovi
atenei, ospitano chierici in formazione in vista del ministero, non solo quelli delle città
universitarie, ma anche da tutto il territorio circostante e perfino da vari paesi d’Europa. Un
testo esemplare di questa formazione, quasi un manuale generale per il clero, è il Rationale
divinorum officiorum di Guglielmo Durand de Mende, una summa liturgica di voluminose
dimensioni, redatto all’inizio del XIV secolo e diffuso in un numero eccezionale di
manoscritti e, più tardi, il secondo classificato delle prime edizioni a stampa dopo la Bibbia:
un vero best seller. Dunque il clero, responsabile del perno sacramentale della pastorale, è
attraversato da una forte tensione tra alte aspettative e debolezze di fondo.
Nel quadro sacramentale si colloca l’evolversi della dottrina sul matrimonio. I penitenziali
dell’alto medioevo condannano l’incesto, ma questo è il risvolto estremo di un diritto che
poco a poco chiarisce gli impedimenti. Dopo un primo orientamento a proibire i matrimoni
tra parenti fino al settimo grado, proprio col Lateranense IV, anche per ragioni pratiche
(difficoltà a ricostruire gli alberi genealogici in mancanza di documentazione scritta), si
torna al quarto grado. In compenso all’impedimento di parentela si affianca quello di
affinità, anche spirituale. Questa scelta, come quella di proibire ogni forma di ripudio,
andava a cozzare non solo contro abitudini e stili spessi diffusi tra le classi nobiliari, ma
anche contro interessi di alleanze politiche che spesso stavano dietro i contratti
matrimoniali. Da qui le complesse controversie tra la curia romana e i monarchi, in
particolare due casi riguardanti la corte francese (Filippo I e Bertrada al tempo di Urbano II,
Filippo Augusto e Ingeborg di Danimarca un secolo dopo) che fecero progredire
l’elaborazione canonica.
Bisogna notare, come affermano in molti, che dal XII secolo l’asse della confessione sta
pasando dalla “penitenza”, seconto la tipica tradizione insulare dei penitenziali e delle
tariffe, all’intenzione che si porta nella confessione, cioè al pentimento. Abelardo aprirà la
riflessione su questa questione, che vedrà un celere mutamento dello stile delle elaborazioni
scritte nell’ambito teologico universitario, i “manuali dei confessori”, da lì una
riconsiderazione di molte azioni, ad esempio il commercio, a partire dall’intenzione, infine
un più lento trasformarsi della coscienza e della mentalità dei credenti.
Predicazione e formazione. Di per sé, da sempre, predicazione e catechesi sono
responsabilità dei vescovi e del clero, ma sempre più “amministratori” gli uni e gli altri,
266
spesso trascurano il pesante impegno della formazione del popolo, come si nota nelle
vicende della diffusione delle eresie. Di per sé, la riforma gregoriana aveva prodotto
un’onda lunga di ripresa dello slancio di predicazione, che si incarnava in alcuni vescovi e
sacerdoti, nella produzione di omeliari, negli statuti sinodali che obbligavano alla
predicazione sistematica, e perfino in scuole specializzate, come il collegio fondato a Parigi
a metà del XIII secolo da Robert de Sorbon, e che da lui prese poi il nome. Proprio alcuni
esponenti della scolastica (Pietro Cantore, Stefano Langton, Tommaso di Chobham) si
distinsero per un impegno formativo nei confronti del clero destinato alla predicazione. Ma
il meccanismo beneficiale e la preponderanza dell’attenzione sulla “amministrazione” finì
per rallentare e in varie zone d’Europa inceppare lo slancio.
In quella fase, e poi progressivamente espandendosi, si attua una vera supplenza da parte
degli ordini mendicanti, che diventerà una sorta di esclusiva. Se i “frati predicatori” avranno
nel DNA l’impegno all’annuncio pubblico dei contenuti cristiani, presto anche i francescani
si affiancheranno, con figure “mitiche” quali Antonio di Padova e più tardi Bernardino da
Siena. Le grandi chiese dei mendicanti, capaci di migliaia di persone e dall’acustica perfetta,
saranno i luoghi di predicazione ordinaria e straordinaria, conseguentemente delle
confessioni, e infine della sepoltura delle famiglie amiche e finanziatrici, generando rivalità
e tensioni con il clero secolare. La presenza dei mendicanti, in città e spesso anche nelle
campagne, darà il colpo di grazia, in vari territori ad esempio italiani, al sistema
altomedievale delle pievi, già di suo in declino per motivi giuridici (rivendicazioni di
autonomia da parte delle ecclesiae dipendenti), economici (tassazione e svalutazione degli
antichi benefici) e di relazioni sociali (fine della struttura feudale).
L’azione dei frati mendicanti spesso aveva origine o potenziamento in grandi momenti di
devozione popolare, come la già citata “devozione dell’alleluja” del 1233. In queste città –
si fa l’esempio dell’Italia, per altre zone d’Europa ci sono differenti percorsi – la politica si
va emancipando dal potere vescovile e si trasforma in lotta, spesso violenta, tra partiti; nel
fluido e mobile ambiente cittadino i gruppi eretici hanno mano libera alla propaganda; il
guadagno, la promiscuità, gli scarsi legami sociali generano disordini morali, dall’usura alla
produzione di falsi, dalla prostituzione alla pedofilia, dall’aborto e infanticidio al delitto
politico o passionale… A partire dall’arrivo di un gruppo di frati, o da un evento
miracoloso, o da qualche altra “miccia spirituale”, si creano le condizioni per un’adesione di
massa alla predicazione popolare dei mendicanti, capace di coinvolgere l’opinione pubblica
267
con i canti (le “laude”) o gesti scenografici (la consegna delle armi); i frati interagiscono
con gruppi di penitenti laici provenienti dagli strati sociali cittadini (si pensi all’origine
sociale dei sette fondatori dell’ordine dei servi di Maria sul Monte Senario, o ai terzi ordini)
organizzati in confraternite; la predicazione diviene impegno di moralizzazione, di
riconciliazione privata e pubblica, con gesti plateali che richiamano le “tregue di Dio” e
connesse azioni di polizia contro gli usurai (spesso ebrei), i lenoni, gli eretici: nel 1233 il
podestà di Milano Oldrado da Tresseno, di provenienza lodigiana, mise al rogo molti catari.
La pressione dell’opinione pubblica guidata dalla predicazione mendicante chiede una
revisione degli statuti comunali per una migliore rappresentatività e per sistemi di
pacificazione, per la libertà della Chiesa, per l’inserimento di norme antieretiche e di buon
costume. In alcuni casi, come già detto, i frati vengono nominati al governo della città, per
una fase transitoria. Dunque quel che avviene a Firenze con Girolamo Savonarola nel XV
secolo non è, per certi aspetti, nulla di nuovo.
Queste grandi “devozioni”, prese singolarmente, esprimono frutti poco duraturi: le realtà
strutturali, come le rivalità politiche o i meccanismi economici, non tardano a riemergere.
Ma intanto restano in città i conventi dei frati e le confraternite di laici, che si inseriscono
profondamente nel tessuto cittadino.
La preghiera. A tanti studi di grande interesse sulla preghiera delle varie epoche manca
ancora chi si senta di fare una grande sintesi. Facciamo qui solo qualche accenno a prtire dai
testi di preghiera, dall’iconografia, dalle notizie sparse in ogni dove. I cristiani dei secolo
XI-XIII, pur senza dimenticare mai i santi, si rivolgono a Dio, ma come “Padre”, segno di
una più profonda penetrazione del messaggio cristiano a livello di mentalità; si rivolgono a
Gesù Cristo, considerato sul versante della storicità, dell’umanità (si pensi al presepe di
Greccio), della passione, anche a seguito delle crociate e dei pellegrinaggi a Gerusalemme;
e si rivolgono a Maria vergine, cui sono intitolate cattedrali e dedicate città intere (Hostis
turbetur quia Parmam Virgo tuetur).
La contemplazione della passione di Gesù si colloca nella liturgia del triduo pasquale da cui
si sviluppano forme di teatro sacro, gruppi scultorei del “compianto”, e chiese che
riproducono la pianta del martyrion di Gerusalemme.
Michel Parisse usa l’espressioni di “voga prodigiosa” della preghiera dei salmi: non certo
confinati nei chiostri, i salmi pervadono la liturgia parrocchiale, si imparano a memoria per
la preghiera personale e, per il medesimo intento, si trascrivono su manoscritti facilmente
268
trasportabili. Soprattutto i sette salmi penitenziali sono la compagnia quotidiana di clero e
laici di intensa vita spirituale.
Povertà e assistenza. In città cambia anche la povertà: non più famiglie rurali al limite della
sopravvivenza ma legate al territorio ovvero piccoli gruppi di pellegrini, e tendenze
epidemiche basse. I poveri sono gruppi sempre più consistenti di senza lavoro stagionali, di
categorie sociali emarginate, di malati incurabili e infettivi come i lebbrosi. E la città col suo
agglomerarsi con poca igiene diviene spazio per le epidemie, anche se per ora non si
avranno pandemie eclatanti come avverrà dalla metà del XIV secolo in avanti. Dunque
anche l’assistenza esce dal quadro monastico rituale e richiede nuove soluzioni.
Continua e si approfondisce la lettura spirituale del povero, immagine di Cristo sofferente:
l’esempio di Francesco e l’arte sacra formano un atteggiamento diffuso.
A livello istituzionale continuano e si moltiplicano molti piccoli “ospedali”, non solo in
campagna ma sempre più in città, appoggiati e finanziati dalle municipalità o dalle famiglie
dei notabili, dal funzionamento polivalente e non specializzato: si raccolgono insieme
pellegrini, malati, poveri, convalescenti. Solo i lebbrosari assumono un funzionamento
specializzato. Il personale è spesso formato da gruppi di laici penitenti, provenienti dalle
classi produttive cittadine, che, magari a seguito di una campagna di predicazione, si
assumono l’onere di un servizio ai poveri, col sostegno delle autorità e l’afflusso di eredità
di mercanti e artigiani. Molti di questi gruppi, pur restando laici, assumono la regola
agostiniana. Gli ordini cavallereschi hanno spesso una realtà del genere alla loro origine.
Per motivi spirituali, tecnici ed economici queste strutture tendono a declinare nel giro di un
paio di generazioni, per poi riprendere a seguito di una riforma o di un’altra predicazione
straordinaria.
Lo sviluppo dell’economia monetaria seguito alla ripresa demografica ed economica porta
alla tolleranza e poi all’approvazione del commercio, ma non del prestito ad interesse, del
commercio del denaro, che continua in questo periodo ad essere vietato dal diritto canonico.
Al crescere dell’accumulo di ricchezze nelle mani dei più abili, e quindi delle sperequazioni
sociali, si affianca, quasi a contrappunto, l’impegno caritativo. Al soccorso dei più poveri si
unisce, nei filoni spirituali più ferventi (Cistercensi, Premonstratensi, Domenicani,
Francescani, figure di eremiti), la povertà quale scelta di vita, come virtù.
269
Ma nelle città si comincia a scorgere qualche segno di un modo diverso di vedere i poveri,
che si diffonderà soprattutto dal XIV secolo in avanti, e che, per la prima volta nel mondo
cristiano, è contrassegnato dalla paura.
Di fronte alla morte. Riprendiamo qui cenni sparsi già nelle pagine immediatamente
precedenti. La cura e la celebrazione della morte nel cristianesimo si connette con la morte
di Cristo e con la speranza della risurrezione con lui. Questo significato più propriamente
teologico ed escatologico squarcia il velo plumbeo dell’ignoto post mortem che accompagna
tutte le culture, si pensi al saggio aristocratico della corte di re Edwin di Northumbria,
raccontato a Beda e citato più sopra (§ 12). Ma la densità emotiva e culturale del morire è
tale che questo contenuto del cristianesimo attrae alcune forme di pensiero presistenti, così
che il culto dei defunti diviene anche la cristianizzazione del culto degli antenati, ricordati
per nome in un impasto di bisogno di preghiere e di ricordo ed esempio positivo. Ma per
lunghi secoli questo ricirdo degli antenati è possibile solo al mondo nobiliare, che utilizza le
chiese private per seppellire i propri cari e chiede ai monasteri – Cluny ne sarà specialista –
le preghiere personali di suffragio. Intanto il clero conduce una lotta accanita a quanto non
assimilabile dalla concezione cristiana del culto funerario: banchetti e danze nei cimiteri,
sacrifici per calmare i morti “cattivi” (bimbi nati morti, uccisi non vendicati…) che
potrebbero avere motivi per reclamare giustizia, narrazioni di cortei di morti che
magicamente appaiono nelle notti speciali.
Il luogo sacro cristiano è molto presto il luogo della sepoltura: si seppellisce, e quindi non si
incenerisce, e si seppellisce ad sanctos, vicino a quei santi, presenti talvolta anche con
qualche reliquia, così come nelle catacombe romane si vuol giacere per sempre accanto alle
venerate tombe dei martiri. Ma per tutto l’alto medioevo la stragrande maggioranza della
popolazione si fa seppellire nei pressi della chiesa senz’altro segno di riconoscimento. In
questo periodo appaiono alcuni fenomeni: intanto la sepoltura nella chiesa stessa, riservata a
poche categorie, inizialmente i monaci, i frati, il clero, poi i maggiorenti che sono legati per
qualche merito alla chiesa stessa. In secondo luogo, si vuol ricordare la persona o la sua
famiglia, ed ecco le lapidi, spesso non collocate esattamente nel luogo di sepoltura, con
formule e messaggi che vanno evolvendo. In terzo luogo, alcune categorie privilegiate, ossia
i papi, i vescovi, i canonici, i regnanti, sono raffigurati come gisants, come se fossero distesi
nel letto funebre, con gli abiti della propria dignità, le insegne (sacerdoti e canonici spesso
con il calice tra le mani) e un ritratto del volto. Ora spesso questi gisants sono
270
innaturalmente murati nelle pareti dei chiostri e dei musei, in verticale, mentre le fattezze
consumate mostrano la loro collocazione orizzontale, pavimentale. Sono ancora una volta
solo alcuni: in fondo, se la morte è, poeticamente, “una livella”, il mondo gerarchico dei
vivi ripropone le sue differenze. Così come è distinzione sociale e dovere morale fare
testamento, e in esso ricordare Dio e i poveri, la Chiesa e i bisognosi: da questi secoli inizia
a giungere fino a noi la massa enorme e preziosissima dei documenti testamentari, fortuna
di una delle corporazioni cittadine, i notai.
Nei testamenti, nelle donazioni alle chiese, nelle affiliazioni alle confraternite si colloca
sempre il riferimento alle messe di suffragio, sviluppo delle preghiere per i defunti che già
sono attestate nelle antiche catacombe cristiane. S’è visto sopra che i monasteri per i secoli
tra il IX e l’XI sono il grande serbatoio delle preghiere per i morti, e questo ha portato alla
clericalizzazione degli ordini monastici. Ora il suffragio si generalizza, diventa merce
richiesta anche dai borghesi, soprattutto da chi, come i mercanti, sapeva di aver bisogno di
penitenza e sconto di molti peccati riguardanti il denaro. Il purgatorio, concetto teologico
che arriva a chiarezza a partire da intuizioni molto antiche – nelle catacombe si prega per i
defunti ma i martiri pregano per i vivi… –, sarà il “tempo”, e poi anche il “luogo” per questa
costosa purificazione, ma le preghiere, le messe, la beneficienza, e presto anche
l’indulgenza, abbreviano la permanenza dell’anima nella realtà intermedia.
Ma chi muore scomunicato, come Manfredi figlio di Federico II di Svevia, o senza aver
ricevuto l’eucaristia a pasqua, non può godere della terra benedetta ad sanctos: nascono i
luoghi di sepoltura degli “inconfessi”, che avranno bisogno, come chiede appunto Manfredi
a Dante di passaggio, di speciali e più intensi suffragi.
La preghiera e la messa di suffragio, l’opus Dei di conventi e monasteri, la sepoltura in
luogo consacrato, la lapide e il gisant che ricorda le buone opere, il testamento sono
altrettanti segni di un percorso umano verso la speranza di una sopravvivenza dopo la
morte, che lentamente supera esecrazioni, timori e censure del morire. Ma insieme sono
sintomi di quel che molti han definito l’emergere discreto dell’io, dell’identità, della
coscienza personale di contro a un’identificazione con il clan, la stirpe, la collettività.
Una breve sintesi. La Chiesa in Europa occidentale nella sua azione pastorale si mostra
come realtà potente e fragile nello stesso tempo, coi suoi punti di luce quali l’acquisizione
dell’importanza centrale dei sacramenti, le grandi predicazioni, la capacità di incidenza
sociale e di mentalità, la diffusione della confraternite, l’impegno caritativo; e con le sue
271
ombre, come le debolezze economiche, le aree di recente evangelizzazione o non raggiunte
regolarmente da clero e predicazione, la conflittualità tra clero secolare e mendicanti. La
stessa lotta antieretica vedrà la compresenza di predicazione, testimonianza di povertà,
coercizione, rivalità tra tribunale dell’inquisizione e poteri locali. La grande crisi del secolo
XIV, a livello igienico-sanitario, quindi demografico, economico, e soprattutto culturale
rivelerà diffusi sintomi di ritorno al precristiano, paure più o meno razionali di difficile
integrazione nella psicologia collettiva, stanchezze e decadenza degli ordini religiosi antichi
e nuovi, calo di livello del clero, deviazioni nelle strutture dell’inquisizione. Ma i punti di
luce di questi secoli riveleranno comunque una persistente vitalità fin dentro la grande
svolta del XVI secolo.
§ 95: la Chiesa occidentale guarda a oriente – le missioni
Bibliografia: FM 10, 364-375; 583-600; 637-672; J 5/1, 291-297; 309-320; L 513-515; GV
529-537; 547-552; P 240-241; HC 5, 342-355; 671-701; 6, 17-26; EP 2, 411-422
Come si è detto già varie volte, la Chiesa, in particolare il papato, non smette di guardare a
Gerusalemme e di incitare alla crociata. E continua a perseguire il disegno di una piena
unione con la Chiesa greca. La quarta crociata e la conquista di Costantinopoli crearono
l’illusione, presto svanita, di una piena unità tra oriente e occidente cristiano (cfr. § 74).
Dopo la riconquista di Costantinopoli e la restaurazione di un fragile impero bizantino
(1261), l’imperatore Michele VIII Paleologo tenta sul piano diplomatico di disinnescare le
minacce di aggressione da parte di Carlo d’Angiò proponendo alla sede Romana e al re di
Francia Luigi IX (“il santo”) di intavolare trattative per l’unificazione. Nel 1270 Luigi IX
parte per la crociata ma muore a Tunisi. Contemporaneamente da molti mesi l’elezione
papale era in sospeso a Viterbo (§ 87). Finalmente nel 1271, anche per il timore
dell’invadenza di Carlo, non più tenuto a bada dal santo fratello, i cardinali decidono di
eleggere non un francese come i predecessori Urbano IV e Clemente IV, ma un outsider, un
prelato al di fuori del collegio, il piacentino Tebaldo Visconti, arcidiacono di Liegi e
patriarca nominato di Gerusalemme, che in quel momento è in Terrasanta e ha quindi una
certa esperienza e motivazione per questi scenari internazionali. Solo nel 1272 Tebaldo
riesce a rientrare in Roma e prende il nome di Gregorio X. Tre sono i punti del programma
di Gregorio: riforma della Chiesa, unione tra i cristiani, crociata. Per attuarli, il papa
convoca il II concilio di Lione, che doveva vedere la presenza di figure di studiosi come
272
Bonaventura da Bagnoregio e Tommaso d’Aquino, il quale ultimo, però, morì prima di
giungere al concilio. Comunque non mancavano gli studiosi occidentali e furono invitati
anche gli orientali, con l’appoggio politico dell’imperatore. Al concilio parteciparono
teologi greci favorevoli all’unione, che poi continuarono ad alimentare gli approfondimenti
di studio e anche un orientamento politico, soprattutto Giovanni Bekkos, poi patriarca di
Costantinopoli. L’unione fu messa a punto e proclamata, ma la morte di Gregorio X
(gennaio 1276), l’ostilità della popolazione e di gran parte della gerarchia greca, e alla fine,
dopo i brevi pontificati di Innocenzo V (primo papa domenicano: sei mesi), Adriano V (un
mese), Giovanni XXI (papa portoghese: otto mesi), Niccolò III (due anni), l’elezione del
francese Martino IV diede via libera all’aggressività angioina verso i bizantini e
compromise definitivamente l’unione lionese. Del concilio II di Lione rimase molto
materiale legislativo, tra cui le norme del “conclave”, e anche una linea di teologi greci filolatini che cercarono il dialogo anche nei decenni successivi.
Nel frattempo le diverse ondate di invasori mongoli, di cui abbiam già dato cenno (§ 86), se
non avevano portato una sperabile conversione al cristianesimo e la fine dell’Islam, avevano
diminuito la forza degli stati arabi e turchi nel Medio Oriente e permesso l’apertura di
contatti e scambi commerciali. Tebaldo Visconti, appena eletto papa, prima di partire da San
Giovanni d’Acri aveva consegnato lettere per il gran khan a tre mercanti veneziani in
partenza per la Cina, Niccolò, Matteo e Marco Polo (1271). La cristianità occidentale prese
coscienza che effettivamente esisteva un vasto mondo non ancora raggiunto dal Vangelo: se
nell’Africa si vociferava dell’esistenza di un impero cristiano del “Prete Gianni”, l’Oriente
non si limitava ai musulmani che, com’era certo allora, non erano altro che cristiani
rinnegati. Sono frati francescani a giungere fino a Pechino, entrando tra l’altro in contatto
con gruppi di cristiani nestoriani presenti nel cuore della Cina. Il francescano Giovanni da
Montecorvino è arcivescovo di Khanbaliq (Pechino) all’inizio del XIV secolo, e la presenza
francescana, con la conversione di un certo numero di pagani, dura fino al crollo del
dominio mongolo e al sorgere della dinastia dei Ming (1368). Tentativi di evangelizzazione
dei mongoli si susseguono in questi anni, con scarso successo. Come già si è detto, i
domenicani si muovono nel Caucaso, tra armeni cristiani con cui si crea un intenso dialogo
teologico e altri gruppi pagani (Societas Peregrinantium pro Christo). Sia i francescani che i
domenicani tentano anche l’evangelizzazione del nord Africa, a costo di numerosi martiri.
273
§ 96: spunti di approfondimento
Le tematiche riguardanti la storia della pastorale, che si incrocia (e però si differenzia) con
la storia della mentalità e la storia sociale, sono quasi tutte recenti e spesso aperte a
molteplici sviluppi. Segnaliamo, come già ricchi di trattazioni e di dibattito, la questione
dell’etica economica in cambiamento, con la tolleranza e poi l’approvazione del commercio,
col dibattito e le norme sull’usura, con le riflessioni dei “manuali dei confessori”. Gli autori
più accessibili in questo campo sono O. Capitani, J. Le Goff, A. Vauchez, e per un periodo
leggermente successivo L. Veerecke. Sempre Le Goff ha aperto una provocazione con il suo
sconcertante titolo “la nascita del purgatorio”. Ma esso “nasce” davvero in questi anni? si
veda la breve messa a punto e precisazione in HC 5, 813 e nota 34.
274
CAPITOLO XV: L’ETÀ DI BONIFACIO VIII
§ 97: nel rapporto tra Chiesa e stati; l’avventura di Celestino V
Bibliografia: J 5/1, 387-389; L 564-565; GV 552-562; P 242-243; HC 6, 44-45; EP 2, 460472.
Mentre l’impero germanico vive una diminuzione di incidenza e prestigio sullo scenario
europeo (coi primi imperatori d’Asburgo e Adolfo di Nassau), Francia e Inghilterra
assumono il ruolo di gradi potenze e si avviano a essere monarchie moderne, centralizzatrici
e assolutizzanti. Filippo IV, detto “il bello”, che regna dal 1285 al 1314, è il protagonista
della riorganizzazione del regno di Francia. Contemporaneamente Edoardo I (re
d’Inghilterra dal 1272 al 1307) riforma lo stato, annette il Galles e controlla la Scozia fino al
1297. Con la guerra per la Guienna (1294-97) si annuncia la devastante guerra dei cent’anni
(1339-1453) tra il trono francese e il rivale-vassallo re d’Inghilterra che è duca di
Normandia. Altri stati, come l’Aragona, l’Ungheria, la Lituania, la Boemia vivono periodi
di evoluzione, fasi di espansione e di stabilizzazione. E’ un mondo politico e giuridico che
si sta diversificando rispetto a quanto si vedeva fino alla metà del XIII secolo. In questo
scenario non può che emergere la tensione tra i troni più accentratori e assolutizzanti e
l’idea e la politica della plenitudo potestatis anch’essa portata all’estremo soprattutto da
Bonifacio VIII.
La crisi prolungata dell’impero ha portato nella seconda metà del XIII secolo all’egemonia
politica della Francia, con importanti riflessi sulla sede romana e sul collegio cardinalizio:
papi francesi (Urbano IV 1261-1264; Clemente IV 1265-1268; Martino IV 1281-1285), un
numero notevole di cardinali francesi, e un legame talvolta tormentato con la casa d’Angiò
che dominava l’antico regno normanno del sud Italia e deteneva la leadership del partito
guelfo nelle città comunali. Ma la parte guelfa-filofrancese, guidata dalla famiglia romana
degli Orsini, non monopolizzava il collegio cardinalizio e la curia, dove anche i ghibelliniantifrancesi, che si appoggiavano all’Aragona, formavano un gruppo consistente guidato dai
Colonna. Da qui, per la regola dei due terzi, elezioni pontificie lunghe, che talvolta portano
sulla cattedra di Pietro degli outsider come Gregorio X, ma che comunque devono fare i
conti con un equilibrio instabile.
Tendenzialmente i papi provengono dal diritto canonico, così come il nerbo della curia
romana. Si nota un avanzare e consolidarsi di una mentalità di governo meno pastorale e più
275
giurisdizionale, una crescente diffidenza nei confronti dei movimenti spirituali, un uso
sempre più disinvolto, ma spesso anche meno efficace, delle pene canoniche della
scomunica, dell’interdetto, della deposizione. L’opinione pubblica, e in seguito anche i
teologi e il clero delle varie nazioni, cominciano a contestare e a non osservare
l’adempimento delle “armi spirituali” utilizzate evidentemente per fini sempre più politici.
Il caso per certi aspetti più eclatante si ha dopo i cosiddetti “vespri siciliani” e con la guerra
tra angioini e aragonesi per il dominio della Sicilia. Nel 1282 i baroni siciliani, legati al
ricordo di Federico II e di Manfredi, si ribellano al dominio francese e invocano l’intervento
di Pietro III d’Aragona, genero del figlio di Federico e quindi con qualche motivo di
rivendicazione del trono siculo. La Francia e Carlo d’Angiò mettono in piedi una guerra che
il papa francese Martino IV qualifica come crociata, e che sarà un sostanziale fallimento,
che porterà al distacco dell’isola dalla corona di Napoli.
Dopo una sequenza di pontificati sostanzialmente piuttosto brevi, alla morte di Nicolò IV
(Girolamo Masci, già generale dei francescani, pontefice del 1288 al 1292), favorevole ai
Colonna e al partito antifrancese, il collegio cardinalizio riunito a Perugia portò avanti
trattative sterili per ventisette mesi (1292-1294). Filofrancesi e antifrancesi, Colonna e
Orsini si contrappongono senza riuscire a esprimere nessun nome di convergenza. Per
sfinimento si sceglie una figura veramente fuori da qualsiasi contatto con la curia, ossia un
eremita, già appartenente ai benedettini poi uscito di monastero e stabilitosi sul monte
Morrone e in seguito sulla Maiella, nell’appennino abruzzese, quindi in territorio angioino:
Pietro “del Morrone”, di famiglia contadina del Molise, che nel 1294 aveva già 85 anni.
Perché questa elezione? La situazione politica del Patrimonium andava verso una crescente
instabilità e bisognava a tutti i costi far tornare la curia alla vita ordinaria; Pietro era uomo
conosciuto per santità di vita (e prometteva un pontificato breve, essendo già anziano); e
soprattutto Carlo II d’Angiò, re di Napoli, era d’accordo: probabilmente nel ritorno da
Perugia, dove aveva visitato il “conclave”, a Napoli, Carlo aveva incontrato l’eremita, che,
conosciute le vicende della sede vacante, aveva scritto una lettera ingenua ed esortativa ai
cardinali. Il re di Napoli era talmente d’accordo… che, appena eletto, chiamato e
intronizzato il nuovo papa, che prese il nome di Celestino V, Carlo lo “convince” a
trasferirsi a Napoli con tutta la curia, e così di fatto diventa la guida politica del venerando
eremita papa. Nei cinque mesi di pontificato, Celestino V è docile alle linee di politica
estera della casa d’Angiò: su dodici cardinali creati, sette erano francesi… L’unica sfera
276
autonoma del suo governo è legata ai privilegi che pubblica a favore della sua piccola
congregazione eremitica (che prenderà il nome di “celestini”) e all’appoggio ai movimenti
spirituali più radicali, come l’ala localistico-eremitica dei francescani, che ne mitizzerà la
figura, leggendo in Celestino il “papa angelico” preannunciato un secolo prima dalle
profezie di Gioacchino da Fiore, colui che avrebbe aperto l’età dello Spirito Santo, quella
dei monaci, e chiuso l’età del Figlio, quella del clero e dei vescovi… D’altronde, il vecchio
santo Pietro appena sapeva un po’ di latino, e anche solo questo lo poneva in situazione di
inferiorità e dipendenza rispetto a tutta la sua curia.
Come è noto, dopo cinque mesi di governo, Pietro-Celestino diede le dimissioni davanti al
concistoro: 13 dicembre 1294. Fiumi di inchiostro sono corsi per dare una spiegazione di
queste dimissioni. I movimenti spirituali radicali, e Filippo il Bello di Francia, per motivi
che saranno evidenti più oltre, accusarono il successore, Benedetto Caetani, di aver fatto
un’opera di plagio nei confronti del santo vegliardo. I documenti, invece, parlano molto
chiaro. Celestino V era anziano, santo, ma non idiota. Si rese conto ben presto di essere
incapace di gestire il governo, incompetente nel diritto e inesperto di diplomazia. Si
consigliò con diversi esperti, sia cardinali come Gerardo Bianchi e Benedetto Caetani, sia
funzionari della curia. Le risposte furono sempre obiettive: le dimissioni sono tecnicamente
possibili ma aprirebbero scenari problematici dal punto di vista della stabilità della curia.
Anche il Caetani disse chiaramente al papa che le dimissioni aprivano una situazione di
grande tensione. Nonostante le pressioni di Carlo II e del concistoro, Pietro del Morrone
abdicò per tornare eremita. La velocissima elezione del successore permise per un atto di
grande abilità di portare l’eremita Pietro in luogo sicuro da eventuali colpi di mano, del re di
Napoli o di fanatici spirituali, nel castello di Fumone, tra Alatri e Ferentino, a poche decine
di chilometri in linea d’aria dai luoghi dove Pietro aveva trascorso quasi tutta la sua vita: “in
custodia non quidem libera, honesta tamen” (Tolomeo di Lucca, cronista contemporaneo;
Giovanni Villani parla di “cortese prigione”). L’anziano monaco sopravvisse ancora due
anni, in preghiera, penitenza, e ben nascosto.
Su Pietro Celestino è cresciuto un mito, incarnato nel XX secolo dal romanzo di Ignazio
Silone, L’avventura di un povero cristiano. Si può proiettare su di lui, come già fecero i
“fraticelli” francescani del XIV secolo, l’ideale di un papato povero e santo contrapposto a
una curia potente e corrotta, e rammaricarsi che colui che poteva riportare la Chiesa ai
primordi avesse fatto il “gran rifiuto” – ma era proprio lui il personaggio cui Dante
277
alludeva? In realtà Pietro del Morrone fu molto più realista dei suoi mitizzatori, rendendosi
conto dell’impreparazione a incidere in una struttura complessa che figure ben più esperte
come Gregorio X avevano faticosamente e parzialmente chiamato alla riforma. Il vecchio
eremita si accorse con lucidità che, lungi dal provocare una effettiva rivoluzione, rischiava
di essere uno strumento funzionale non solo al sistema, ma a un polo soltanto, quello di
Carlo II, squilibrando invece di cambiare in meglio la struttura.
Icastico ma realista il giudizio del padre Garcia Villoslada, un esperto di queste vicende:
Con Celestino V – el nuevo Poverello, enamorado de la pobreza evangélica – había
triunfado un momento la tendencia espiritualista de los que soñaban en el “papa
angélico” y en una reforma sui generis de la Iglesia. La ingenuidad de unos, la
ignorancia de otros, la exaltación apasionada de los más, mezclándose con los
intereses bastardos de muchos, hicieron irrealizable la ansiada reforma y hasta
imposible el gobierno de la Iglesia (GV 563).
§ 98: Bonifacio VIII
Bibliografia: J 5/1, 389-404; L 565-571; GV 562-623; P 243-246; HC 6, 258-260 e passim!;
EP 2, 472-493; G. MARTINA, Storia della Chiesa da Lutero ai nostri giorni. I: l’età della
Riforma; Brescia 1993, 61-64.
Una decina di giorni di sede vacante, due giorni di conclave vero e proprio, furono
sufficienti a eleggere un successore a Celestino V, nella persona di Benedetto Caetani,
Bonifacio VIII. Il suo curruculum è a tutta prova e ben addentro alle logiche curiali: studi e
competenze canonistiche, esperienza di legazioni internazionali, famiglia della nobiltà
laziale, importante ma non potentissima né legata all’uno o all’altro dei due gruppi dei
“colonnesi” e degli “orsini”; gradito dal trono francese con cui aveva collaborato a livello
diplomatico, equidistante dai partiti e anche dagli ordini mendicanti ormai potenti in curia;
quasi sessantenne, dunque maturo ma con la possibilità di un pontificato non effimero.
Immediatamente, oltre a mettere al sicuro da colpi di testa di qualcuno il suo scomodo
predecessore, Bonifacio VIII impresse al governo della curia e del Patrimonium
un’impronta ben precisa, degna di chi conosceva i meccanismi del potere romano: pose ai
posti chiave alcuni suoi fedelissimi, in gran parte parenti stretti, evitando così di basarsi sui
partiti cardinalizi e tenendo saldamente le redini. Chiaramente la gestione degli uffici e del
278
territorio comportava entrate notevoli per la famiglia Caetani, obiettivo che Bonifacio non
nascondeva, pur mantenendosi sempre nella legalità. Si tratta di una forma iniziale e
politicamente funzionale di nepotismo, ma la differenza con i pontificati d’età moderna è
marcata.
Per comprendere la personalità di Bonifacio VIII si possono utilizzare quelli che
apparentemente sembrano luoghi comuni sulla mentalità delle famiglie patrizie di Roma: un
impasto di razionalità ed emotività, un intreccio unico di astuzia, generosità, cinismo, senso
della scommessa, ironia, e un pizzico di superstizione. Talvolta la libertà dei discorsi e dei
gesti sfiorava l’impudenza, eppure non veniva mai meno il diplomatico e l’uomo di
governo. Non lo si può accusare né di immoralità, né di avarizia, né tantomeno di irreligione
e di eresia, come i suoi avversari cercheranno di affermare.
A questa personalità sui generis, a metà tra il marchese del Grillo e il cardinal Tardini, forse
interpretabile da un Alberto Sordi o da un Carlo Verdone, non si può attribuire la totale
spiegazione di un pontificato. Bisogna evidenziare che in Bonifacio arriva al massimo
sviluppo l’ideologia della plenitudo potestatis, la consapevolezza riflessa e teologicamente
motivata del governo universale del pontefice romano:
Uterque ergo est in potestate Ecclesiae, spiritualis scilicet gladius et materialis. Sed is
quidem pro Ecclesia, ille vero ab Ecclesia exercendus. Ille sacerdotis, is manu regum
et militum sed ad nutum et patientiam sacerdotis. Oportet autem gladium esse sub
gladio, et temporalem auctoritatem spirituali subiici potestati (DS 873)
Gli studi di uno storico e canonista di vaglia, il p. Stickler, affermano che il gladius
temporalis di questi documenti e della tradizione canonistica del XIII secolo rappresenta
originariamente solo la potestà coattiva materiale della Chiesa, cioè il potere che la Chiesa
esercita sui corpi per difendere l’integrità della fede, distinta dalla potestas spirituale che è
esercitata sulle anime. Si tratterebbe dunque dello ius gladii per la repressione dell’eresia
che solo il “braccio secolare” può esercitare ma a servizio del bene ecclesiale, mentre le
scomuniche, gli interdetti e le altre “armi spirituali” sono nelle mani direttamente di Pietro.
Saranno più tardi le dottrine canonistiche del XIV secolo che identificheranno il gladius
temporalis con la potestà civile dei principi, ma questo non sembra il senso delle parole di
279
Bonifacio. Pur con questa precisazione, l’autoconsapevolezza del potere papale con influsso
sulla società raggiunge un vertice nelle concezioni bonifaciane.
Ma questa consapevolezza in Bonifacio assume un livello inedito nei predecessori,
compreso Innocenzo III. La plenitudo potestatis è trasferita dalla sede romana quale
istituzione incarnata dal papa alla persona fisica del papa. Questa concezione,
oggettivamente nuova rispetto alla tradizione romana dei secoli XI-XIII che aveva
equilibrato l’assolutezza del potere papale con la coscienza della fragilità della persona del
pontefice, si proietta in segni non equivoci: la cura per la salute, con medici, medicine e
terme (non a caso l terme di Fiuggi sono ancor oggi chiamate le terme di Bonifacio VIII); i
primi ritratti dal vero nella statuaria; il monumento funebre. Si potrebbe dire anche, ma ciò è
storicamente meno rilevante, che la concezione ideologica ormai tendente alla teocrazia si
innestava su un ego piuttosto ingombrante…
A Bonifiacio non manca neppure un programma preciso: instaurare la pace in Europa, in
particolare tra Francia e Inghilterra che lottavano per la Guienna, in vista della crociata,
visto che il predecessore di Celestino V aveva assistito quasi senza batter ciglio alla caduta
dell’ultimo baluardo, San Giovanni d’Acri; e la pace era in funzione della difesa dei
privilegi ecclesiastici, minacciati dalla centralizzazione delle monarchie.
Tutto, implicitamente, prometteva lo scontro frontale col monarca più potente, Filippo il
Bello; ma nessuno dei due futuri contendenti avrebbe in partenza ammesso la volontà di
abbattere l’altro. Anzi…
Filippo IV di Francia, con una buona fortuna militare ma qualche difficoltà soprattutto
economica, continuava a sentirsi il difensore della vera fede, e ovviamente della sede
romana, secondo tradizione. La sua corte, improntata agli studi del diritto romano, stava
attuando una serie di dispositivi centralistici. Nelle vicende dello scontro tra Filippo e
Bonifacio, non dobbiamo dimenticare il ruolo dei ministri francesi, laici come Guillaume de
Nogaret (che, come il Garcia Villoslada insinua, non sappiamo quanto a ragione, essendo
figlio di un albigese aveva una vendetta da compiere…) ed ecclesiastici come Philippe de
Marigny (poi arcivescovo di Sens), strumenti
fedeli e determinati dell’assolutismo incipiente di Filippo.
Tenendo conto che l’opera di Bonifacio VIII avrà influenze e interventi su tutta Europa e
non avrà a che fare solo col regno francese, proviamo qui a sintetizzare le vicende di uno
scontro che inizia verso il 1296 e subirà un’escalation fino alla morte del papa nel 1303.
280
Dovendo finanziare la guerra con il re inglese, Filippo pose alcune esazioni fiscali sui beni
ecclesiastici, andando così contro il diritto canonico che li esentava dagli interventi secolari:
le tasse son sempre motivo di scontro, e in Francia saranno nodo del contendere tra re e
Chiesa fino al XVIII secolo. Bonifacio invia una lettera al re, la bolla Clericis laicos, che
riafferma i privilegi dei benefici ecclesiastici e, in controluce, la superiorità del potere
ecclesiastico su quello regale, lanciando la scomunica contro tutti i laici che senza
autorizzazione della sede apostolica esigessero dal clero una qualunque tassa. Il re per
ritorsione pone il divieto di esportare valuta fuori dal regno (cioè a Roma, strangolando le
entrate fiscali ecclesiastiche indispensabili per il governo curiale) e fa espellere i legati e i
riscossori romani. Invece la chiesa inglese resiste risolutamente alle esazioni del monarca.
In questo primo round si arriva però a un compromesso tra le due parti, e a una situazione di
sostanziale tregua. Bonifacio ammette un’interpretazione meno stretta e rigida della Clericis
laicos, disinnesca la scomunica, e permette al clero francese di venire in aiuto al proprio re.
Segnale di distensione è la canonizzazione di Luigi IX, avvenuta in Orvieto nel 1297.
Nel frattempo, cova la tensione tra il papa e il clan dei Colonna, rivali dei Caetani nei
territori a est e sud di Roma. I Colonna, come sopra si diceva, erano i capi del partito
ghibellino, quindi filoimperiale e antifrancese, ed erano fautori di una concezione
corporativa del collegio cardinalizio. La tensione diviene scontro aperto quando il tesoro
personale del papa e di suo fratello Pietro, valutabile in circa 200mila fiorini, in
trasferimento da una sede all’altra della curia fuori Roma, destinato ad essere investito nelle
città laziali, viene a cadere nelle mani di una banda armata colonnese. La reazione del papa
è immediata, prima con la convocazione del concistoro, a cui i cardinali Colonna, Giacomo
e Pietro, si rifiutano di partecipare, poi con un ultimatum, che richiede la restituzione del
maltolto e la consegna al controllo papale delle piazzeforti della famiglia (Palestrina,
Zagarolo ce Colonna), infine con un intervento manu militari. Bonifacio così costringe i due
cardinali della famiglia rivale a fuggire, tra l’altro proprio presso gli avversari storici (ma
alleati di interessi antipapali) francesi. I Colonna diffondono accuse di simonia contro il
papa, e anche di aver subdolamente costretto il povero Celestino V a dimettersi: un
documento di accusa contro Bonifacio, stilato nel castello di Lunghezza, anche da frati
francescani, dichiara invalida l’elezione di Bonifacio e appella a un concilio. Uno dei tre
francescani alleati dei Colonna è l’ascetico poeta e spirituale Iacopone da Todi. Nella bolla
Lapia abscissus Bonifacio dichiara i Colonna e i loro alleati scismatici, blasfemi,
281
scomunicati (23 maggio 1297). I cardinali difendono apertamente la posizione bonifaciana.
Il papa proclama la crociata contro gli avversari. Messi in difficoltà militare, i Colonna
chiedono perdono al papa, che però impone condizioni durissime, costringendo i leader
dell’opposizione a fuggire in Francia (1299-1303).
Filippo, in questo periodo, riprende a tassare i benefici ecclesiastici, favorisce i vescovi suoi
alleati ma interviene pesantemente contro i prelati francesi che si oppongono alla sua
politica. Bonifacio, superato il conflitto contro i Colonna e sulla scorta del successo del
giubileo del 1300, incarica di intervenire a suo nome presso il re un notorio oppositore di
Filippo, Bernard Saisset, vescovo di Pamiers, che, ricoprendo il ruolo di legato papale, è
arrestato dal governo francese. La dura ma riservata bolla di Bonifacio, Ausculta Filii, che
evita la scomunica ma rimprovera a Filippo il suo atteggiamento regalistico e convoca un
concilio a Roma per giudicare le azioni del re francese, viene sequestrata dal re che ne
pubblica una versione ampiamente falsificata e provocatoria nei confronti dell’episcopato e
dell’opinione pubblica (Deum Time). Questo il testo della breve falsificazione:
Bonifacius episcopus, servus servorum Dei, Philippo Francorum regi. Deum time et
mandata sua observa. Scire te volumus, quod in spiritualibus et temporalibus nobis
subes. Beneficiorum et praebendarum ad te collatio nulla spectat, et si aliquorum
vacantium custodiam habeas, fructus eorum successoribus reserves; et si quae
contulisti, collationem huiusmodi irritam decrevimus, et quantum de facto
processerit, revocamus. Aliud autem credentes haereticos reputamus.
Inizia così una campagna d’opinione contro il papa, sapientemente orchestrata dai ministri
francesi e finanziata dal re: segno, anche questo, dei tempi moderni. Apertamente Bonifacio
è accusato di opprimere lo stato francese e di travalicare i suoi diritti, ma altre voci vengono
ad arte diffuse: il papa sarebbe incredulo e eretico, farebbe ricorso ai maghi, sarebbe
simoniaco, moralmente corrotto… Filippo, al culmine della tensione, convoca gli Stati
Generali, assemblea straordinaria del regno, per mostrare l’adesione di tutta la Francia alla
sua politica ecclesiastica. I vescovi francesi in grande maggioranza si schierano col re.
Nel luglio 1302 Filippo il Bello si trova in grave difficoltà militare e diplomatica a seguito
della battaglia di Courtray nelle Fiandre, e quindi cerca di prendere tempo nelle trattative
con il papa, mentre fa proseguire la campagna di opinione e intimidazione in Francia,
282
portata avanti dal più radicale Nogaret. Intanto Bonifacio convoca un sinodo della Chiesa
francese a Roma (ottobre 1302), di cui abbiamo scarsissima documentazione ma che sembra
abbia visto la partecipazione di 4 arcivescovi e 35 vescovi, che si riavvicinano al papa. A
seguito di questo evento, Bonifacio pubblica la solenne Unam Sanctam, una risposta
concettualmente articolata alle posizioni francesi (18 novembre 1302). Mettiamo in rilievo
soprattutto tre aspetti: l’affermazione dell’unità e unicità della Chiesa, “extra quam nec
salus est nec remissio peccatorum”, unità attraverso un solo capo e non due teste “quasi
monstrum”, contestazione della posizione dei Greci che asserivano di non essere stati
affidati a Pietro e ai suoi successori, ma anche delle teorie regalistiche che ponevano i
monarchi come capi delle rispettive chiese; la già citata allegoria delle due spade, spirituale
e temporale, entrambe affidate alla Chiesa, l’una tenuta dal “sacerdote”, l’altra dai monarchi
ma “ad nutum et patientiam sacerdotis”; la definizione solenne che suona così: “Porro
subesse Romano Pontifici omni humanae creaturae declaramus, dicimus, diffinimus omnino
esse de necessitate salutis”. E’ la più chiara indicazione della teologia della plenitudo
potestatis, con evidenti risvolti ecclesiologici e non solo di rapporto tra la Chiesa e lo stato.
Nel marzo-giugno 1303, in alcune convocazioni ufficiali, la corte francese appella a un
concilio per giudicare le accuse contro Bonifacio VIII, riassumibili, da un intervento del
Nogaret, in quattro: illegittimità, eresia, simonia, incorregibilità. Secondo le posizioni della
corte francese, non si trattava di un giudizio contro la Prima sedes, bensì contro il privato
Benedetto Caetani, eretico quindi automaticamente deposto e fuori dalla Chiesa. Si tratta
dell’utilizzo spregiudicato del caso del papa eretico, che era contemplato nel diritto
canonico tradizionale (sul testo delle accuse contro Bonifacio si veda GV 613-614).
La manovra francese provoca la decisione di Bonifacio VIII di scomunicare il re,
togliendogli così anche giuridicamente il diritto di appellarsi a un concilio. La bolla di
scomunica è in preparazione (Super Petri Solio, che doveva essere antedatata all’8
settembre 1303), quando il Nogaret, in missione per conto di Filippo in Italia, e Sciarra
Colonna con le forze militari disponibili della sua famiglia aggrediscono e tentano di rapire
il papa nel suo palazzo di Anagni (7 settembre 1303). Bonifacio VIII viene però liberato due
giorni dopo dalla popolazione del borgo, legata feudalmente alla famiglia Caetani, e fa
ritorno a Roma, dove muore circa un mese dopo il colpo di mano di cui era stato vittima,
lasciando di fatto in sospeso tutte le questioni con la corte di Francia. Il coraggio dimostrato
283
durante l’aggressione di Sciarra Colonna e la serenità spirituale in punto di morte riscattano
in parte la sua immagine di ambizioso e avido gestore del potere.
La figura di Bonifacio VIII è sicuramente una delle più controverse del papato medievale.
E’ però interessante rilevare che nella vulgata storica ancor diffusa in Italia, grazie in
particolare alle vivaci opere di un noto giornalista del passato, sostanzialmente privo di vera
competenza storica, papa Caetani sia dipinto con gli stessi colori delle notizie false diffuse
alla fine del XIII secolo da Filippo il Bello e dalla sua corte: d’altronde, questo avviene
spesso quando si tratta di giornalisti. Indubbiamente una delle prime “campagne
d’opinione” dell’età moderna ha avuto un’efficacia a tutta prova!
Bonifacio non è un avido e disonesto nepotista, né un corrotto, né un eretico superstizioso.
E’, piuttosto, un papa canonista che applica rigidamente la lettera delle affermazioni di
Gregorio VII e Innocenzo III, ma con uno spirito distante dai suoi più illustri predecessori
dei primi secoli del secondo millennio. La sua autoconsapevolezza di successore di Pietro
manca di quell’equilibrio tra potere e fragilità che i simboli avevano contribuito a incarnare
e rammentare. Il profilo spirituale che è l’anima vera di un Ildebrando o di un Lotario non si
ritrova se non molto ai margini in Benedetto Caetani. E’ sempre valida ed efficace la
descrizione che il Martina fa della situazione alla morte di Bonifacio VIII:
Alle affermazioni esasperate dell’autorità pontificia pronunziate dal card. Matteo
d’Acquasparta nel concistoro del giugno 1302, corrispondeva una realtà amaramente
diversa: il papa umiliato, l’unità cristiana medievale spezzata definitivamente, la
collaborazione tra i due poteri rotta, la vita pubblica avviata ormai alla laicizzazione e
alla secolarizzazione57.
Vogliamo qui inserire qualche considerazione riguardante il giubileo del 1300, avvenuto
proprio nello svolgersi delle tensioni tra papa e re di Francia, evento iniziale di una
sequenza di convocazioni penitenziali tutt’ora in regolare corso, noto contesto in cui Dante
colloca la sua Comedia. Anche sul giubileo del ‘300 si hanno divulgazioni storiche di marca
ottocentesca-anticlericale, con tanto di preti che raccolgono e insaccano monete col badile,
frutto del genio finanziario di Bonifacio VIII che ha abilmente rimpinguato con l’indulgenza
plenaria le casse vuote del pontefice. I documenti ci parlano di una realtà ben diversa. Verso
284
la fine del 1299 si diffondono a Roma e in Europa voci di una speciale e straordinaria
remissione dei peccati dell’anno centenario. Giungono da tutto il continente pellegrini che
dichiarano di ricordare che dai loro nonni si descriveva una grande indulgenza per l’anno
secolare precedente, e i romani ne sono contagiati. La sera del 1 gennaio 1300, alla fine
della giornata di lavoro, un gran numero di romani e pellegrini si assiepa nelle basiliche, e
l’afflusso continua, ininterrotto, nelle settimane successive. A questo punto il papa, sorpreso
dall’inatteso convergere di folla, fa compiere ricerche d’archivio per ritrovare l’eventuale
documento che proclamava l’indulgenza, e che non poteva mancare, trattandosi del
pontificato di Innocenzo III. Ma su questa leggendaria indulgenza del 1200 nulla si riesce a
trovare.
Solo nel febbraio 1300, quindi dopo varie settimane di continuo pellegrinaggio, Bonifacio
VIII, in forza della plenitudo potestatis, proclama il giubileo come grande e larga
riconciliazione, remissione di scomunica, di irregolarità e di penitenze, e legando
l’indulgenza a scelte pastorali: pellegrinaggio nelle basiliche dei santi Pietro e Paolo,
confessione, e disponibilità di sacerdoti per la riconciliazione. In quest’opera di rilettura
pastorale di un fenomeno spontaneo di massa, un sussidio determinante fu prestato
dall’ormai stabilizzato ufficio della penitenzieria apostolica.
Si noti che per l’indulgenza le dichiarazioni di Bonifacio VIII non prescrivono mai offerte
in denaro. Esse, tuttavia, affluivano ampiamente nei luoghi di pellegrinaggio, e il papa
stabiliva che esse fossero destinate totalmente al mantenimento e restauro della basiliche
giubilari, e non alla camera apostolica: dunque, non servirono, quelle spontanee offerte, a
rimpinguare le casse pontificie, esauste per l’azione politica e diplomatica di Bonifacio VIII.
Il giubileo del 1300 si presta bene a riassumere sia la figura del papa e la sua concezione di
plenitudo potestatis, sia l’intervento del diritto a “regolare e sanare” le vicende ecclesiali,
sia uno dei fili della storia che finora abbiamo descritto, quello che unisce la penitenza, il
pellegrinaggio, la crociata, l’indulgenza, che col giubileo fa un salto di qualità e apre una
concezione del “tesoro della Chiesa” che tanta fortuna e tante conseguenze avrà nell’età
moderna.
§ 99: la chiusura del contenzioso con Filippo il Bello, i Templari, il concilio di Vienne
57
MARTINA 1, 64.
285
Bibliografia: J 5/2, 4-21; L 571-573; HC 6, 45; EP 2, 493-512; G. MARTINA, Storia della
Chiesa da Lutero ai nostri giorni. I: l’età della Riforma; Brescia 1993, 64-68; D. VINGTAIN,
Avignon. Le palais des papes, s.l.n.d., 16-27; B. GUILLEMAIN, I papi di Avignone 13091376, Cinisello Balsamo 2003, 9-15; Benedetto XI frate Predicatore e papa, a cura di M.
Benedetti, Milano 2007
Alla prima votazione del conclave seguito alla morte di Bonifacio VIII fu eletto un
trevigiano di umili origini, Niccolò di Boccassio, provinciale di Lombardia e poi maestro
generale dei frati predicatori, collaboratore di lungo corso di Bonifacio e suo ostinato
difensore. Benedetto IX, utilizzato dai papi in importanti missioni diplomatiche, tentò la
strada di un compromesso con il re di Francia, in vista di un rasserenamento dell’orizzonte
pastorale. Fece il passo di rimettere la scomunica di Filippo, ma non intese transigere sul
principio che nessun papa, e tantomeno Bonifacio VIII, poteva essere giudicato, né da un
concilio né da altre istanze. I colpevoli, semmai, erano Sciarra Colonna e il Nogaret, che
convocò per rendere conto delle vicende di Anagni. Ma nel luglio 1304, a Perugia, proprio
nei giorni in cui aveva ingiunto ai collaboratori di Filippo di presentarsi, Benedetto muore
improvvisamente, pare per un’indigestione di fichi di cui era ghiotto, ma già il noto cronista
italiano Giovanni Villani insinua l’ipotesi del veleno. Segue un conclave ben più lungo, di
11 mesi, alla fine del quale grazie alle pressioni di Filippo e alla mediazione del capo della
famiglia Orsini, si giunse a convergere attorno all’arcivescovo di Bordeaux, Bertrand de
Got, che si fece incoronare a Lione e convocò un concilio a Vienne, in Provenza ma sotto il
dominio imperiale, con quattro punti all’ordine del giorno: lo stato della fede, la riforma
della Chiesa, la crociata e la questione dei templari.
E’ giunto il momento di parlare di questo ordine cavalleresco, su cui si spreca la letteratura,
in gran parte senza alcun valore scientifico, spesso romanzesca, occultistica, perfino
picaresca. Nati nel 1119 da un gruppo di nobili crociati di origine francese, sotto l’egida di
Bernardo di Chiaravalle (§ 69), impegnati come corpo scelto di cavalieri in Terrasanta,
odiatissimi da Saladino e da tutti i capi musulmani del medio oriente, i templari avevano
costituito una rete diffusa in tutto l’occidente, basata sulle commende o commanderies,
detentrici di beni e diritti, e soprattutto impegnate fin dall’inizio a fare da cassaforte ai
cavalieri che partivano per le crociate. Alla fine del ‘200 i templari erano possessori di una
liquidità amplissima, dipendevano direttamente dal papa, erano soprattutto in Francia un
vero e proprio stato nello stato, ma non svolgevano più la funzione di difesa di regni crociati
286
ormai caduti in potere musulmano, anche se si sperava sempre in una nuova vittoriosa
spedizione. Dunque questo ordine, la sua potenza e ricchezza, che funzione poteva ancora
avere? Inoltre, trattandosi di un ordine insieme religioso e cavalleresco di direzione
esclusivamente nobiliare, circolavano voci di intemperanze, sodomia, strani segreti, eresia.
Voci che Filippo il Bello, loro alleato fino al 1305, ad arte amplifica e diffonde secondo
l’ormai nota guerra propagandistica che era un’arma fondamentale della corte francese. Il
voltafaccia del re è spiegabile sia per la concezione assolutizzante e centralizzatrice dello
stato, sia per l’urgente bisogno di denaro. Tra il 1305 e il 1307, quindi alla vigilia del
concilio di Vienne, i funzionari francesi procedono a un’imponente campagna antitemplare,
con l’uso di infiltrati, gli arresti di massa, i processi con l’uso della tortura. A fronte di
questa violenza, soprattutto i dirigenti, il gran maestro Jacques de Molay e altri, mostrano
una sconcertante debolezza, confessando sotto tortura delitti quali l’idolatria, il vilipendio
della croce, l’incredulità riguardo all’eucaristia, la sodomia praticata sistematicamente.
In vista del concilio, il papa avoca a sé tutti i processi, compresi quelli che la diplomazia
francese aveva richiesto alle altre corti (Cipro, Italia, penisola iberica…) e che
generalmente, non utilizzando la tortura, mostravano esiti totalmente opposti a quelli
francesi. Passato sotto il controllo papale, il dossier dei templari vede la ritrattazione in serie
da parte dei dirigenti di tutte le precedenti confessioni.
Così si arriva al concilio di Vienne, nel 1311, in cui Clemente V e Filippo il Bello si
accordano per uno scambio politico: Bonifacio VIII non sarà processato, in cambio della
fine del Tempio. Il concilio-processo di Bonifacio formalmente viene istruito ma svuotato
delle accuse: un diacono si reca alle porte della cattedrale di Vienne e proclama la
convocazione di eventuali accusatori di Bonifacio, che non si presentano. I templari non
vengono processati ma il loro ordine è sciolto dal papa in via amministrativa, senza
condanna, mentre teoricamente i loro beni sarebbero stati devoluti agli altri ordini
cavallereschi. Filippo si impadronisce di gran parte delle ricchezze templari in Francia e due
anni dopo il concilio farà mettere al rogo la dirigenza dei templari come eretici relapsi, un
episodio in cui il De Molay e gli altri mostreranno finalmente un coraggio quasi espiatorio.
Il concilio di Vienne prende in esame anche gli altri punti. Per quanto riguarda la questione
della fede, condanna come eretici i francescani radicali capeggiati da Pier di Giovanni Olivi
e i cosiddetti “Fratelli del Libero Spirito”, una linea mistica piuttosto problematica e
ambigua. Per la crociata, si stendono e proclamano molti progetti – tra l’altro il Nogaret
287
viene condannato per la sua aggressione a Bonifacio a partecipare alla futura crociata – che
resteranno tutti sulla carta. Per quanto riguarda la riforma della Chiesa, l’intervento di
maggior rilievo è quello di un certo contenimento dell’autonomia pastorale degli ordini
mendicanti rispetto ai vescovi. In particolare i francescani vedono l’appoggio alla “via
media” bonaventuriana nel dibattito tra spirituali e conventuali.
Clemente V, incoronato a Lione nel 1305, era rimasto nel sud della Francia per preparare il
concilio, e si era stabilito su un possedimento della Chiesa romana – il contado venassino –
presso Avignone, sul confine tra regno di Francia e impero, collegata a Vienne dal corso
navigabile del Rodano. L’entrata ufficiale di Clemente V in Avignone è nel marzo 1309.
Questa città fu residenza dei papi quasi ininterrottamente fino al 1378. La curia papale era
già stata nel secolo precedente una realtà itinerante per le città del Patrimonium: Viterbo,
Perugia, Anagni, Orvieto erano le sedi preferite dai papi, e non solo per il clima più fresco:
“in un secolo, tra Innocenzo III e Bonifacio VIII, la corte papale è assente da Roma per
circa 60 anni” (A. Paravicini Bagliani). Concettualmente, in fondo, il trasferimento nel
contado venassino non era certo uno strappo alla regola, e per un concilio (Lione II era stato
trent’anni prima) si fa questo e altro. Ma motivi più determinanti porteranno alla scelta di
stabilirsi per lungo tempo a circa mille chilometri di distanza dalla sede del vescovo di
Roma. Motivi che si connettono con un’età che è già diversa da quella che abbiam cercato
di raccontare in queste pagine.
288
PER UNA CONCLUSIONE
Bibliografia: GV 25-27; HC 14, 20-22; L. MEZZADRI, Storia della Chiesa tra medioevo ed
epoca moderna I: dalla crisi della Cristianità alle Riforme (1294-1492), Roma 2001, 7-11;
J. DELUMEAU, La paura in Occidente (secoli XIV-XVIII). La città assediata, Torino 1979;
C. M. CIPOLLA, Le macchine del tempo, Bologna 1981; Br. GEREMEK, La pietà e la forca.
Storia della miseria e della carità in Europa, Roma-Bari 1995; J. HUIZINGA, L’autunno del
medioevo, Roma 1992
§ 100: periodizzazione
Perché chiudere l’esposizione di questa fase della storia della Chiesa con Bonifacio VIII e il
trasferimento del papato ad Avignone? Il medioevo, in genere, si chiude molto più avanti,
talvolta con la cosiddetta “scoperta” (meglio chiamarla conquista) dell’America da parte
degli Europei, talaltra con la rottura dell’unità di confessione nell’Europa occidentale.
La prima risposta, apparentemente poco scientifica ma in realtà non priva di fondamenti, è
la seguente: perché questa è la tradizione della scuola storiografica da cui proviene chi ha
provato a stendere queste pagine, che è quella della facoltà di storia ecclesiastica della
Pontificia Università Gregoriana. Affermare la propria radice e provenienza è atto di onestà
intellettuale e riconoscimento di un’elaborazione di pensiero e studi messa in atto da figure
eminenti quali Ricardo Garcia Villoslada e Mario Fois. L’università Gregoriana distingue
l’esposizione della storia generale in quattro grandi periodi: Antica, Medievale, Nova e
Moderna, e l’età “nova” racchiude i secoli XIV-XVI.
Ovviamente è importante mostrare i motivi di questa periodizzazione, che, come tutte le
scansioni del tempo, ha i suoi pregi e i suoi limiti, mostra vantaggi scientifici e didattici ma
fa perdere, inevitabilmente, qualche prezioso legame.
Il padre Mario Fois, nelle sue dispense inedite, tanto preziose quanto tormentate nella loro
stampa ciclostile, e più recentemente il suo successore alla cattedra di storia della Chiesa del
XIV-XVI secolo, padre Luigi Mezzadri, sottolineano questi aspetti: il crescere e
consolidarsi delle monarchie moderne; la crisi del papato, segnata dal periodo avignonese,
dallo scisma d’occidente, e infine dal papato rinascimentale politico; i gravi cambiamenti
economico-sociali. Padre Fois mostrava anche l’influenza del cambiamento di clima, che
passa, nell’Europa occidentale, da una fase temperata calda favorevole allo sviluppo
dell’agricoltura a una fase fredda (una “piccola glaciazione”). Questa situazione, sia
289
climatica che economica, crea le condizioni per la pandemia della “peste nera” del 13481351, in cui sembra morisse circa un terzo della popolazione europea. Oltre alla susseguente
crisi demografica e produttiva, e alla situazione di endemia serpeggiante per i secoli
successivi di patologie quali la peste, il vaiolo, il colera, lo choc della peste nera, così ben
descritto anche se indirettamente dal Boccaccio non lasciò l’Europa intatta da un punto di
vista della mentalità: non a caso danze macabre e caccia alle streghe si accendono in questo
periodo.
La pubblicistica più acuta degli ultimi decenni colloca nel XIV l’inizio di una serie di
fenomeni e cambiamenti. Jean Delumeau fa iniziare nel secolo XIV la sua “città assediata”
da Satana e dai suoi inviati, cioè gli ebrei e le donne; Bronislaw Geremek mostra i segni di
un cambiamento, anch’esso all’insegna della paura, nei confronti della povertà e dei poveri;
Carlo Maria Cipolla in uno dei suoi sorprendenti saggi delinea i cambiamenti di ritmo e
mentalità provocati dallo sviluppo dell’arte orologiaia a partire, ancora una volta, dal XIV
secolo.
Ricardo Garcia Villoslada fa un’osservazione che offre un contributo specifico a questa
periodizzazione, ossia la consapevolezza degli uomini del XIV secolo di essere in un’età
“moderna”, che per ora si contrappone soltanto alla via “antiqua” o degli antichi, in attesa
che rinascimento, storiografia protestante e illuminismo “creino” l’idea e il mito dell’età “di
mezzo”, senza senso e piena di buio. I nominalisti, seguaci di Guglielmo di Occam, si
definivano i filosofi della “scuola moderna”; dalle riflessioni e dalle pratiche di Gert Groote
e di Jan de Ruusbroek sorse la linea spirituale che si autodefiniva “devotio moderna”.
Dunque, e questo non è da poco, gli uomini più intellettualmente innovatori del XIV secolo
parlano già di “modernità”.
A questa periodizzazione si adegua gran parte della manualistica classica di storia della
Chiesa del XX secolo: oltre, ovviamente, alla spagnola serie della BAC, che per il II volume
è redatta da Garcia Villoslada, e che chiude il medioevo alla morte di Bonifacio VIII nel
1303, all’edizione italiana del vecchio e resistente Bihlmeyer-Tüchle, che fa arrivare il
basso medioevo al 1294, anno di elezione di papa Caetani, al manuale tedesco coordinato da
Hubert Jedin, che fa il passaggio all’anno 1300. Lo stesso padre Martina nel suo manuale a
più volumi sull’età moderna e contemporanea affronta sì la storia a partire dalla riforma
luterana, ma in pagine sintetiche fa rimontare le cause fino al papato di Bonifacio VIII. Una
certa differenza è data dall’Histoire du Christianisme a cura di J.-M. Mayeur, Ch. Pietri, A.
290
Vauchez e M. Venard: il quarto volume va dal 610 al 1054, il quinto dal 1054 al 1274, il
sesto, considerato ancora “medioevo”, si estende fino al 1449, ma la stessa scansione si
avvicina molto alle cesura che s’è scelta qui, e la considerazione metodologica di Claude
Langlois accenna al 1274 come punto di “repère”, cioè riferimento o caposaldo.
Dunque possiamo dire che tra il papato di Gregorio X e quello di Clemente V, tra il concilio
II di Lione e il concilio di Vienne, sta mostrandosi una svolta che darà i suoi frutti
progressivamente ma con indubbia efficacia. E non è un caso che dopo Vienne, e dopo due
secoli in cui i concili (I-IV lateranensi, I-II lionesi, Vienne) si celebrano con una certa
regolarità, con intervalli massimi di circa 40 anni, e con una sostanziale conduzione da parte
di Roma, il primo concilio successivo è quello di Costanza. Ma proprio nel concilio di
Vienne risuona, abilmente ma faticosamente scongiurata da Clemente V, la minaccia di
appello dal papa al concilio, che sarà un leit motiv di tutta l’età nova e sarà chiusa
radicalmente a Trento, pur tenendo conto dei rigurgiti gallicani-giansenisti della Francia del
grand siècle.
Si respira, indubitabilmente, un’aria nuova, e anche a livello culturale a Dante, ultimo
interprete del tempo precedente, succederà Petrarca, nato nel 1304, il primo moderno: non è
un caso neppure che abbiamo il manoscritto originale dei Rerum vulgarium fragmenta, e
non quello della Comedia.
§ 101: dinamismi sintetici
Oggi la manualistica e la saggistica tende a evitare l’identificazione di una cifra sintetica di
un periodo, una visione globale che racchiuda e dia il senso di una fase storica ampia: segno
della specializzazione e anche della frammentazione che viviamo. Certo, ci affascina ancora
la capacità di certi storici del XX secolo, di cogliere un “profilo” unitario a un’epoca. Ci
voleva la filosofia hegeliana, in Italia tradotta e applicata alla storiografia da Benedetto
Croce, a fondamento di questi arditi sguardi. E chi scrive ha una certa nostalgia di non
riuscire a individuare, come Giorgio Falco, una “Santa Romana Repubblica” attorno a cui
ricondurre le tensioni, gli scontri, tutto il processo organico di nascita, germoglio, tensione,
consolidamento e morte di un’epoca. Ci prova, recentemente, il Penco, riproponendo il
concetto di Christianitas come sintetico. A parte che l’anziano venerabile storico
benedettino non ha il vigore architettonico di Falco, risulta oggi in fondo insoddisfacente,
grazie agli apporti della storiografia recente, collegare tutto a un concetto in fondo piuttosto
291
tardo, forse utile dal punto di vista della comprensione dei rapporti tra gerarchia
ecclesiastica e potere politico, in fondo marginale se si considera l’evoluzione teologica,
l’impegno pastorale, ma anche la stessa spinta missionaria costante per tutto questo periodo.
In attesa di un altro nucleo, sperabilmente racchiuso in una espressione significativa di quel
tempo e non in una categoria inventata nel XXI secolo e applicata al medioevo, è ancora
possibile tentare di individuare qualche categoria sufficientemente sintetica? O è meglio
descrivere le vicende e mostrare concatenazioni dei fatti contingenti, senza esporti a sintesi
interpretative più ampie?
La prudenza degli studiosi attuali ha i suoi motivi, ma c’è il rischio, a lungo andare, di
ridursi, ancora una volta, a una visione frammentata, inconsciamente positivista, che al di là
di alcuni nodi molto legati a quel luogo e a quel momento non osa andare, come se quella
concatenazione fosse, come il “fatto bruto” preteso dagli storici della fine dell’ottocento,
tutto quello che si può dire. E comunque alla fine un’architettura la si lascia sussistere, ma
col difetto dell’inconsapevolezza, del sottinteso, e quindi evitando una verifica nel dibattito
storiografico. Allora saranno dinamismi sostanzialmente economici, o vaghe tensioni
psicologiche, a dare l’impronta di un’epoca. Tutte realtà che, se pure influiscono nella vita
di un’epoca e di una civiltà, sono comunque estremamente parziali, e tanto più quanto si
cerca di dar ragione al processo storico di una comunità umana come è la Chiesa, che non
può essere letta soltanto a partire da obiettivi politici o motivazioni economiche o tensioni
psicologiche.
Mi sembra che a livello metodologico si possa tentare oggi una sintesi cercando di mostrare
alcuni dinamismi che sul lungo periodo accompagnano la vita della Chiesa. Si tratta di
polarità che ritornano e legano insieme fatti, scelte e mentalità, e che, in quanto tali,
mostrano anche il muoversi e l’evolvere del processo storico, tenuto in tensione proprio da
questi nuclei mai completamente esauriti. Volutamente si utilizza qui il termine
“dinamismi” e non quello di dialettiche, che, col loro riferimento agli schemi hegeliani,
comportano un elidersi delle polarità in una superiore sintesi, mentre spesso, nella storia,
alcune tensioni restano inevitabilmente aperte e ritornano, sotto altre forme, in quanto
esigenze fondamentali, o dell’umano, oppure delle realtà e istituzioni stesse che sono
oggetto di studio.
Mi sembra di poter individuare almeno quattro coppie di polarità utili a dare un profilo
sintetico dei sette secoli descritti in queste pagine.
292
Centro e periferia: indubbiamente la crisi dell’impero romano aveva riportato il bacino del
mediterraneo, dove il cristianesimo si era diffuso, in una condizione di frammentarietà. La
stessa riconquista operata dalla natura in epoca di regresso demografico costringe i gruppi
umani a resistere e ricostruirsi in condizioni di autonomia e autarchia, e in un certo senso la
struttura delle abbazie dei secoli VI-X rispecchia questo particolarismo necessario, per certi
aspetti, alla sopravvivenza. La Chiesa dei secoli VII-XIII è attraversata dall’esigenza di
rispecchiare e rispettare le particolarità organizzative, culturali, spirituali, ma dall’altra parte
anche dall’istanza di avere linguaggi comuni, diritto comune, punti di riferimento condivisi.
Non solo Roma sarà il luogo del tentativo di tenere uniti i frammenti: anche i grandi progetti
imperiali, da Carlo magno a Ottone I, da Ottone III a Federico II, porteranno con sé questo
obiettivo. La tensione tra centro e periferia a volte produrrà delle connessioni a rete, come
quelle della riforma lorenese, a volte delle strutture verticistiche, come Cluny. Il sogno di
un’unità granitica, anche politica, del cristianesimo occidentale avrà sempre a che fare con
realtà cristiane ma politicamente eccentriche e volutamente indipendenti. Nella cristianità
orientale il centro, incarnato dalla corte imperiale, a sua volta non potrà assorbire se non a
prezzo di impoverirsi le periferie dei temi, con le loro istanze religiose differenti, come si
mostra nella controversia iconoclasta, o le realtà cristiane non allineate con l’ortodossia di
corte. Il rapporto centro-periferia è il nucleo per comprendere le faticose decisioni nel
sorgere di arcivescovadi autonomi o autocefali nelle terre raggiunte dalla missione; ma
anche, almeno in parte, gli scontri tra gli spirituali francescani, radicati nelle antiche terre
umbre, e conventuali, promotori di una struttura internazionale e centralizzata.
Stabilità e creatività: certamente la vita “religiosa” nel senso di consacrazione è lo spazio
della creatività, e quando si decreta l’unificazione (Ludivico il pio, Lateranense IV)
immediatamente c’è qualche gruppo che non si riconosce nella normativa. Ma anche
l’attività pastorale, che incontra sempre diverse mentalità e nuove domande, reclama gli
spazi della sperimentazione, che spesso interpellano l’elaborazione teologica. CostantinoCirillo e Metodio si trovano di fronte al problema linguistico, Domenico e Francesco alle
istanze di una società che reclamava una religiosità povera e essenziale, Tommaso e gli altri
scolastici alle sfide delle domande emergenti dalla lettura di Aristotele. I tentativi
sperimentali trovano nell’esigenza di conservazione, di riferimento alla tradizione, di
verifica autoritativa un muro di contenimento, spesso rappresentato ancora una volta da
Roma, ma anche qui non sempre la sede romana è il freno, spesso è l’acceleratore
293
soprattutto nei confronti delle esperienze missionarie e religiose, mentre i vescovi e i
metropoliti danno voce al bisogno di stabilità e di coerenza.
Annuncio e dialogo: i versanti coinvolti da questo dinamismo sono certamente quello
missionario e quello della pastorale popolare, sia rurale che cittadina. Il Vangelo cristiano è
chiaro nei suoi contenuti teologici e morali, ma la sua traduzione richiede un sempre nuovo
equilibrio tra gesti sconcertanti e parole in sintonia con la cultura di partenza, tra richieste di
comportamenti adeguati alla fede accolta e tolleranza nei confronti di abitudini inveterate,
tra accoglienza delle domande più profonde dei gruppi dissidenti e chiarezza nel richiedere
una posizione pura di fede, tra opposizione alla violenza e canalizzazione delle abitudini
guerresche. La missione e la pastorale del medioevo sono tanto ricche di linguaggi, dalle
feste alle immagini, quanto intessute di radicalità monastiche, eremitiche, martiriali, sempre
in bilico tra un adattamento che sfiora il magico e una chiarezza che genera la coercizione.
Oikonomia e akribeia: questo binomio è emerso nel rapporto tra Chiesa d’oriente e
d’Occidente, e se nella riforma gregoriana e nello scisma del 1054 si mostra che l’oriente è
economico e l’occidente è rigoroso, in entrambe le chiese la tensione non si risolve mai
completamente. Tutta la riforma gregoriana e il suo rapporto tra papato e impero si
riconduce al’urto tra due riforme contrapposte, quella armonica dei vescovi imperiali e
quella acribica dei monaci della curia romana. Ma in questo senso si può leggere la vicenda
di continue tensioni tra Chiese e stati, tra Roma e i troni, prima quello imperiale di Federico
I, Enrico VI e Federico II, poi quello francese di Filippo il bello, anche come tensione
intraecclesiale tra fautori dell’armonia col potere e difensori della legge ecclesiastica. La
Sacra Pagina della teologia monastica reagisce con acribia alla dialettica corriva della nuova
cultura portata avanti da un Abelardo o da un Gilbert de la Porrée, fino alle sintesi, parziali e
dinamiche, di Tommaso e Bonaventura.
Polarità sempre aperte per tutto il periodo considerato, spesso intrecciate tra loro in maniera
inedita e inattesa, nelle stesse persone mai completamente risolte.
§ 102: acquisizioni e debolezze
In questo avvicendarsi e interagire di tensioni e istanze, i secoli che abbiamo esaminato
vedono l’emersione di alcuni aspetti della vita della Chiesa che, dapprima in embrione e in
maniera incerta, poco a poco assumono visibilità e stabilità, fino a entrare, potremmo dire in
maniera definitiva, nei tratti del volto della Chiesa occidentale.
294
Un esercizio attivo del primato: la storiografia e il dibattito ecclesiologico sembrano ormai
aver individuato con chiarezza, ma anche con equilibrio e senza le esagerazioni ideologiche
di un tempo, l’evoluzione dell’esercizio del primato del vescovo di Roma avvenuta in questi
secoli, con una accelerazione indubbia provocata nella e dalla riforma dell’XI secolo, ma
con radici precedenti e sviluppi successivi. Potremmo dire, in breve, che l’esercizio del
primato romano passa progressivamente da una forma di garanzia e collegamento a una
modalità intanto più attiva e meno di attesa che le istanze arrivassero ad limina
apostolorum, e in secondo luogo con una qualità più accentuata di ordinamento, promozione
e controllo. Non più solo un papa che riceve vescovi, re e penitenti, ma un pontefice che si
muove, convoca sinodi, invia legati. Quindi anche il passaggio da un Patriarchium
amministrativo e notarile a una curia giuridica, diplomatica e organizzativa. Il primato
promuove le missioni, ordina le gerarchie sui territori evangelizzati, protegge monasteri e
interi ordini religiosi, sostiene vescovi nello scontro col potere politico, diventa protagonista
della lotta antieretica. E’, in poche parole, il promotore di due realtà che ormai assumono la
forza di miti evocativi: riforma e crociata. Non dimentichiamo, però, tutto l’aspetto
penitenziale-riconciliativo della sede romana, determinante proprio nella realtà della
crociata, nei sinodi riformatori, nel progressivo formarsi della Penitenzieria, infine nella
gestione pastorale del giubileo. Un primato che nell’autoconsapevolezza romana ma anche
nella percezione della Chiesa occidentale assume la connotazione teologica e giuridica della
plenitudo potestatis, e si traduce in forme liturgiche e simboliche.
La distinzione tra gerarchia ecclesiale e struttura politica: anche qui sembra che l’età
della riforma dell’XI secolo e la sconfitta del Reichskirchensystem e del mondo feudale ad
esso soggiacente sia la svolta fondamentale, anche se non compiuta, di un percorso che
secondo alcuni è un passaggio di laicità, secondo altri è un tentativo teocratico, ma che
innegabilmente differenzia l’occidente cristiano dall’oriente. I potentes laici, imperatori, re,
nobili, dapprima modelli di santità e creatori dell’episcopato e dei monasteri, sono
emarginati almeno parzialmente dall’esercizio del potere ecclesiastico, non possono più
rivendicare un ruolo di diritto nella guida della Chiesa ma, al limite, come la corte di Filippo
il Bello, rivendicare il dominio assoluto sul “temporale”. La Chiesa è ormai compiutamente
a guida gerarchico-sacramentale, e il sacerdotium si distingue dal mondo per formazione,
comportamenti, criteri di scelta, con qualche aspetto di tipo monastico anche nella struttura
“secolare” del clero. Ormai sono due gerarchie, quella ecclesiale e quella politica, che si
295
distinguono e, idealmente, perseguono in armonia gli stessi fini, ma con la rivendicazione da
parte del papato e dei vescovi di un ruolo di giudizio e “riforma” anche nei confronti del
potere politico.
Ragione e cultura nei percorsi teologici: i teologi militanti dei secoli X-XII, gli spazi di
elaborazione delle “rinascenze” carolingia, ottoniana e della cultura ecclesiale del secolo
XII, l’inserimento del dibattito teologico nel mondo cittadino e universitario fanno della
teologia e più in generale del pensiero cristiano un movimento in osmosi con le istanze dei
tempi. A confronto con la solenne, ieratica, ripetitiva teologia orientale, la ricerca
occidentale è contaminata, creativa, disinvolta, e si comprende come la percezione che i
greci hanno del mondo del pensiero latino sia di una realtà sfuggente, irrispettosa della
tradizione, sostanzialmente eretica. Il mondo dei monasteri resta il luogo della lectio più
simile alla teologia patristica e tradizionale, e si crea una tensione tendenzialmente feconda,
con qualche rischio di unilateralità, con la teologia come scientia delle scuole cittadine e
degli ordini mendicanti. La teologia occidentale da qui in avanti non potrà più prescindere
dalle varie ondate di inculturazione provenienti dall’economia, dalla politica, dalla filosofia,
dalle scoperte scientifiche. Anche per quanto riguarda l’arte, al fissismo orientale si
contrappone un occidente in piena evoluzione di forme, di canoni e di percorsi.
Una pastorale per le campagne: l’età antica aveva consegnato alla vita ecclesiale una
struttura fondamentalmente romana, cioè centrata sulla città. Se proprio questo suo
imprinting sarà uno dei motivi di rivitalizzazione della vita urbana dopo la forte crisi dei
secoli VI-IX, d’altra parte questi secoli allenano le comunità cristiane non solo alla missione
verso i “barbari”, ma anche all’invenzione di metodi, strumenti e strutture per una pastorale
decentrata, fondamentalmente rurale. I primi pionieri sembrano esser stati quei religiosi,
monaci iroscozzesi, orientali, o eremiti, itineranti nelle vaste campagne e foreste
dell’occidente spopolato. Una predicazione essenziale, una gestualità quasi ordalica, un
santorale narrativo e taumaturgico, la confessione auricolare sono alcuni dei percorsi che la
cristianizzazione articolerà non solo nei secoli VII-X, ma anche in seguito, ben dentro l’età
moderna. Ma non si dimentichi che bisognava pensare anche alle strutture, al personale e al
suo mantenimento, e il beneficium divenne la forma fondamentale, anch’essa resistente
nelle campagne europee fino al XX secolo.
Movimenti spirituali per consacrati e laici: questi secoli consegnano alla Chiesa
d’occidente non solo una varietà e diffusione di forme di vita angelica, cioè contemplativa,
296
determinanti per la vita e la cultura dell’Europa, ma anche un’altra branca di movimenti
religiosi, inesistente o quasi in oriente, che si raccoglie sotto il nome di vita apostolica. Sono
le congregazioni di canonici regolari, poi gli ordini mendicanti e i gruppi di frati laici
ospitalieri o cavalieri. E da queste realtà, sia contemplative che apostoliche, gemmano
movimenti laicali, confraternite, collegamenti di ogni genere, aprendo a una santità laicale e
anche a una mistica laicale che sarà propria soprattutto del mondo femminile del XIV e XV
secolo. Questi movimenti mostreranno una vitalità di lungo periodo, formeranno per secoli
uno degli ambiti di reclutamento per le missioni anche fuori d’Europa, avranno una
presenza di grande rilevanza nella vita delle città, sapranno arginare, con le buone o con le
cattive, le proposte dei dissidenti.
Una rete stesa su tutto il continente: parrocchie, monasteri, conventi, ospedali. Anche
qui, il confronto tra la situazione del secolo VI e quella del XIII è istruttivo. E non si può
dare per scontato, così come più o meno lo stesso torno di tempo non ha prodotto i
medesimi risultati, ad esempio, nell’età moderna in America Latina. Certo in alcune zone
d’Europa la rete è a maglie più fitte anche per la maggior antropizzazione, e in altre più
spopolate è più rada, e la peste della metà del XIV secolo metterà a durissima prova la
tenuta della rete. Ma è indubbio che la cristianizzazione dello spazio abbia raggiunto in
Europa nord-occidentale la sua compiutezza. Con una connotazione caritativa-assistenziale.
Come sempre la storia è il luogo dell’incompiuto e del parziale. Sarebbe non scientifica una
sintesi che non tenga presenti anche quei punti di fragilità e quelle questioni dolorosamente
aperte che passavano dal secolo XIII al XIV. Spesso si tratta di estremizzazioni di quelle
dinamiche che abbiamo cercato di evocare nel paragrafo precedente, di visioni parziali e di
irrigidimenti che non permettevano di rispondere alle nuove sfide che si facevano avanti.
Tendenze teocratiche: la rivendicazione del controllo del potere politico da parte della
guida religiosa già stava mostrando i suoi limiti, con l’utilizzo politico delle pene canoniche,
il coinvolgimento nelle lotte militari, le tensioni partitiche dentro gli episcopati e lo stesso
collegio cardinalizio. Il momento di più alta autocoscienza del papato aprirà un tempo di
debolezza del papato stesso.
Centralizzazione: anche per rispondere alle tendenze assolutizzanti degli stati, la curia
romana da tempo aveva avviato una politica centralizzatrice che stava iniziando a estendersi
sulle nomine beneficiali, ma che avrà come conseguenze il fiscalismo, l’assenza dei
beneficiati sul territorio, la rimozione delle istanze periferiche.
297
Apriorismo legalistico: l’akribeia canonica sta diventando pervasiva come unico criterio
della conduzione della vita ecclesiale, irrigidendo non solo la vita pastorale e aprendo a
forme di controllo e coercizione che si incarnano nell’inquisizione, ma anche impedendo di
accogliere nuove istanze e sperimentazioni religiose. D’altra parte lo stesso corpo di esperti
e rigorosi legisti applica disinvoltamente l’oikonomia nelle trattative diplomatiche coi poteri
politici.
Svuotamento di significato delle strutture territoriali: le tensioni tra ordini mendicanti e
clero secolare che attraversano tutto il XIII secolo e continuano successivamente porteranno
in varie aree d’Europa allo strapotere dei conventi nella predicazione e nella pastorale e
nella trasformazione sempre più accentuata del clero, che diverrà in senso anche negativo
amministratore e non più pastore.
Perdita di sostanza religiosa: i primi segnali si vedono con Bonifacio VIII e la sua curia,
ma la crisi di tutti gli ordini religiosi, tranne i certosini, nel secolo XIV è il sintomo di un
impoverimento della consistenza religiosa della struttura. Certamente resta la testimonianza
della santità, l’impegno missionario, lo slancio caritativo. Ma il livello tende ad abbassarsi.
Epidemie e guerre crudeli nei secoli successivi evidenzieranno questa realtà. Che non
eviterà neppure il mondo universitario e lo studio teologico, che sempre più tenderà a
disperdersi in questioni marginali, a mettere tutto in discussione, a confondere l’essenziale e
il secondario.
Come spesso avviene anche ai singoli, in una comunità ciò che è rigido è anche fragile, e le
rigidità e i punti deboli non tarderanno a mostrarsi e a rendere difficoltosa la capacità della
Chiesa di cogliere i problemi di un nuovo mondo, anch’esso pieno di luci e ombre, che si
apriva davanti a lei e di rispondere attraverso nuove strade: un processo che comunque si
innescherà, attorno alla metà del Quattrocento, secondo alcuni recenti studi che tendono a
superare la visione puramente reattiva della cosiddetta controriforma58. Comprendere
domande, sfide e problemi del proprio tempo per cercare di rispondere con una rilettura del
messaggio del proprio Fondatore: questo sembra essere uno dei compiti storici, forse in
certo modo il compito storico, di una comunità come la Chiesa. Sembra di poter dire che
essa, nei secoli tra il VII e il XIII, abbia svolto con successo questo compito.
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R BIRELEY; Ripensare il cattolicesimo 1450-1700. Nuove interpretazioni della Controriforma, Genova-Milano 2010
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