CAPITOLO VIII: RIFORMA “GREGORIANA” E LOTTA PER LE INVESTITURE – UNA SVOLTA § 59: Acquisizioni storiografiche Bibliografia: G. M. CANTARELLA, Il sole e la luna. La rivoluzione di Gregorio VII papa 1073-1085, Roma – Bari 2005; G. MICCOLI, Chiesa gregoriana. Ricerche sulla riforma del secolo XI, Roma 1999; una sintesi sulla riforma, discutibile ma acuta, in H. FUHRMANN, Gregorio VII, “riforma gregoriana” e lotta per le investiture, in Storia dei papi, e cura di M. Greschat e E. Guerriero, Cinisello B. 1994, 210-213. Bisogna superare anzitutto la vecchia ma ancor diffusa visione della riforma gregoriana come scontro tra due mondi sostanzialmente opposti, ciascuno dei quali poi è valutato positivamente o negativamente a seconda delle ideologie di partenza. I gregoriani non erano l’unico e ultimo resto di una Chiesa tutta degenerata e corrotta, di un episcopato ormai totalmente succube della corona imperiale tedesca e degli altri monarchi, come pretende una certa storiografia ecclesiastica del passato; e neppure erano i rigidi assertori di una Chiesa monastica e monarchica, che impose il celibato ecclesiastico, riesumandolo (forse) da vecchie e disusate leggi o (più probabilmente) inventandolo di sana pianta per evitare che la struttura ecclesiastica avesse danni economici dall’ereditarietà dei benefici ecclesiastici, e così inventandosi tutto un nuovo diritto canonico papista per apriorismo o malcelata sete di potere, come si esprime un certo teologare con poche attenzioni filologiche o posizioni più o meno ideologiche di varie storiografie. La riforma, la volevano molti, vescovi sia del campo gregoriano che del campo imperiale. Wiberto o Guiberto di Ravenna, per un buon numero di anni papa imperiale col nome di Clemente III, non era semplicemente il prelato ambizioso e rapace che approfitta del discredito gettato dal campo imperiale su Gregorio VII per occupare il suo seggio papale, ma un vescovo colto e capace e impegnato a portare avanti, anche lui, principi e idee di “riforma”, come ad esempio la vita comune dei canonici di Ravenna. I vescovi tedeschi erano per lo più figure culturalmente adeguate e moralmente ineccepibili. Uno degli esempi possibili è Burcardo, vescovo “imperiale” di Worms attorno all’anno mille: pastore zelante, scrittore, raccoglie i dati fondamentali della normativa canonica e pastorale, compreso un “penitenziale” non certo lassista. Nel Regnum Italiae non mancavano vescovi meno capaci e più corrotti, ma nel campo imperiale ci saranno anche personaggi sinceramente preoccupati di superare il mercimonio dei benefici ecclesiastici che tutti, allora, definivano simonia. Se 142 nella corte di Enrico IV di Franconia c’erano ministri e consiglieri oggettivamente compromessi con una gestione “politica” e anche ben poco regolare dei beni e delle cariche ecclesiastiche, una parte non secondaria dell’episcopato, sia tra i favorevoli alla posizione papale che tra quelli vicini all’impero, percepiva che una riforma era necessaria. Ciò, ovviamente, non significa che non ci fossero le condizioni e i motivi per quella “lite” che fu la lotta per le investiture, e da cui prende latino nome una preziosa raccolta moderna di scritti imperiali e gregoriani del periodo: i libelli de lite. Il motivo dello scontro, a posteriori, è evidente, e anche a quel tempo divenne progressivamente più chiaro con il protrarsi delle polemiche. Gli imperiali volevano la riforma ma intendevano restare all’interno del quadro del Reichskirchensystem, struttura imprescindibile, secondo loro, della vita ecclesiale. I gregoriani scelsero per logica interna dell’impegno di riforma di prescindere dal sistema della Chiesa imperiale, individuando proprio nello stretto legame tra potere politico territoriale e struttura ecclesiastica il nocciolo che creava le condizioni per lo slittamento nella simonia e nel concubinato del clero. In sintesi, questo fu l’oggetto del contendere. Ma anch’esso si chiarì poco a poco, progressivamente, e non senza ripensamenti dell’uno o dell’altro attore del dramma: ci possono sconcertare alcuni passaggi di campo, che gli ex amici definivano, com’è ovvio, tradimento. Ma se ne coglie spesso il significato proprio all’interno di due gruppi che, almeno a parole, ma non solo, proclamavano entrambi il bisogno di riforma della Chiesa. Aggiungiamo ancora che all’interno dello stesso gruppo “gregoriano” non sono mancate posizioni differenti, e non solo riguardo a sfumature. E questo ha portato a drammatici scontri, a rotture, a “tradimenti” veri o apparenti. Spesso i “gregoriani”, pur essendo decisi, quando se ne delineò il contorno, a rifiutare le investiture laicali, si dividevano sulla possibilità o meno di collaborare o almeno di entrare in dialogo con la corte imperiale e i suoi vescovi. Si tratta, quindi, di uno scenario di grande complessità; e, di conseguenza, anche di grande interesse. Ma, verrebbe da dire, se l’episcopato era, in fondo, così determinato per la riforma, allora ce n’era poi così bisogno? I testi di entrambe le parti, lo stesso movimento popolare della pataria contro il clero concubinario e simoniaco, provano che in realtà di riforma c’era bisogno. Perfino, come si diceva sopra, alcuni elementi del papato tuscolano avevano ripreso il diritto canonico occidentale sul celibato ecclesiastico per proclamare che bisognava rimetterlo in vigore. Se una parte non marginale dell’episcopato era desiderosa di 143 riforma, probabilmente gran parte del clero soprattutto nelle campagne era invece in condizioni morali e culturali deprimenti1. E sistemi di assegnazione di cariche e benefici ecclesiastici sbrigativi e a base di denaro contante erano diventati la normalità, se non dovunque, in larghe parti della Chiesa occidentale. Aree importanti di monachesimo erano state riformate, ma anche qui c’erano abbazie potenti e ricche o conventi di canonichesse di vita piuttosto rilassata o compromessa coi giochi di potere locali, talvolta squallidi o violenti. Mentre con Enrico III l’episcopato di Germania e Italia è generalmente di buona qualità, la situazione inizia a mostrare qualche segno di decadimento col figlio Enrico IV, salito bambino al trono: durante la sua minore età emergono casi di simonia in Germania (FM 8, 53s), e da adulto avrà, come vedremo, pochi scrupoli in questo campo. Un’altra acquisizione della più recente storiografia, in fecondo contatto con le discipline storiche laiche, inserisce la riforma della Chiesa occidentale in un contesto di ripresa anzitutto demografica, e quindi economica e colonizzatrice, che, con qualche avvisaglia già nel secolo X, diviene trend ampio e percepito nei decenni dopo il mille, non senza un influsso climatico, almeno così sembra: tra il 1000 e il 1300 si arriva a popolare la Groenlandia, che attualmente smentisce il nome di “isola verde” che gli fu dato dagli scandinavi che la raggiunsero; e la vite attecchiva in Gran Bretagna, cosa che oggi non avviene più… Lo slancio demografico produce importanti cambiamenti economici, con la fine o la marginalizzazione del fenomeno schiavistico, l’emergere di un mondo di “cavalieri” nobili in cerca di un ruolo, la ripresa della vita urbana in varie parti d’Europa. Il contadino occidentale bonifica nuove terre, nel mondo di boschi e paludi dove finora era sopravvissuto (quanto sono diffusi in Italia i nomi di Ronco, Villanova, Castelnuovo; ma termini analoghi si offrono nella toponomastica di tutta Europa)2. Dunque l’Europa occidentale è in pieno slancio, e questo impulso di crescita ed espansione raggiunge anche la Chiesa, spingendola ad affrontare nuovi problemi, a individuare e sopprimere cause di inerzia, a intraprendere progetti di larga portata, come furono le crociate, che, come diremo a suo luogo, in questo slancio vanno lette. 1 Non mancava neppure chi presumeva di avere un’elaborazione teologica o pezze d’appoggio canoniche al matrimonio del clero, come quei canonici della Chiesa di Laus che Pier Damiani incontra verso il 1059 e che come tauri furentes lo aggrediscono mettendogli davanti i testi di uno sconosciuto sinodo: si vedano le epistole* (PL 145, 402. 685*). 2 Il termine Ronco significa terra bonificata di recente. Nel vecchio e utilissimo annuario del Touring del 1951 conto almeno 111 luoghi italiani sicuramente riconducibili a questo termine. 144 La Chiesa dunque partecipa di questo slancio, lo fa proprio in qualche modo, o per certi aspetti prova a canalizzarlo, e a offrire un senso o dei sensi culturalmente significativi. § 60: Prima fase – i papi “tedeschi” Bibliografia: FM 7, 97-115; J 4, 326-333; 459-467; L 385-401; GV 139-149; P 69-72; HC 4, 859-861; EP 2, 150-166. La riforma convenzionalmente si intitola “gregoriana” con riferimento a Gregorio VII, che però fu, come papa, quasi più un simbolo della riforma: sicuramente ne fu uno dei protagonisti più rilevanti, ma non fu certo l’iniziatore, benché la sua figura si inizi a vedere proprio dalle prime battute del processo storico che cercheremo di descrivere. La “riforma” inizia ben prima. Che cos’è la riforma gregoriana? Per dare una prima e limitata definizione, è il momento in cui le linee di riforma già presenti nella compagine ecclesiale vanno “alla testa”, cioè giungono a influenzare il governo del pontificato romano e, attraverso l’impulso che esso si assume, sono diffuse sistematicamente in tutta l’Europa occidentale, e in questo modo diventano condizioni dello “slancio”, ossia della condivisione, da parte delle comunità ecclesiali, del movimento espansivo dell’occidente europeo. Si tratta di esperienze rinnovatrici presenti nel mondo monastico (vedi capitolo 6), sia nell’ampio mondo cluniacense che nelle variegate realtà raggiunte dai riformatori “lorenesi”, sia nei fermenti dei vari ambiti eremitici; ma anche di dibattiti sul versante teologico e su quello canonistico, che da tempo dibattono di “simonia” e di “nicolaismo”, non a caso termini desunti dagli scritti del Nuovo Testamento. Guardando questo processo nel suo ampio arco temporale, potremmo dire dal 1046 al 1122 per segnare due termini definiti da avvenimenti formali (un sinodo e un “concordato”), si può anticipare un dato interpretativo che si può collocare nel fenomeno ricorrente nella storia umana e si chiama eterogenesi dei fini. La riforma nasce all’interno del Reichskirchensystem, da prelati assolutamente legati a questa struttura, ma per una sorta di logica interna finirà per sovvertirlo e portare a una sua sostanziale liquidazione. Alla fine del § 38 si accennava alla contesa tra tre pretendenti al seggio papale. Il papa tuscolano Benedetto IX, nipote dei suoi due predecessori, ma figura, sembra, ben più spregiudicata di loro, o per lo meno fin troppo legata a interessi e disegni particolaristici, alla politica spicciola delle fazioni rimane, finì per scontrarsi con nuclei importanti del potere cittadino. La famiglia rivale, i Crescenzi, gli contrappose come antipapa il vescovo 145 Giovanni di Sabina, che prese il nome di Silvestro III, che per qualche tempo riuscì a cacciare il rivale da Roma, ma fu costretto poi a fuggire, forse anche alla corte imperiale costantinopolitana, con cui i Crescenzi avevano sempre mantenuto contatti. Una parte del clero romano, portatrice di istanze riformatrici e capeggiata dal presbitero Giovanni Graziano, riuscì a convincere Benedetto a ritirarsi, ma il papa tuscolano pose come condizione che gli venisse rifuso quanto speso nell’elezione a papa. Giovanni e i suoi amici raccolsero con una colletta il denaro necessario e ottennero le dimissioni di Benedetto. Alla successiva elezione fu papa proprio il presbitero Giovanni, che prese il nome di Gregorio VI. Siamo nel 1045. Il ritorno in Roma di Silvestro III provocò scontri e contestazioni e la discesa in Italia del re di Germania Enrico III, che nel 1046 convocò a Sutri un sinodo di vescovi tedeschi (della sua corte) e italiani. Non è chiaro quel che avvenne al sinodo: certamente Silvestro fu condannato, l’abdicazione di Benedetto fu confermata ma Gregorio VI fu accusato di simonia. Non si sa se si dimise da se stesso o fu deposto, le fonti coeve si dividono “equamente” tra queste due letture, comunque fu inviato in esilio in Germania dove morì poco dopo in fama di santità. L’accompagnava il giovane Ildebrando, del clero romano, futuro Gregorio VII. Azzerata così la situazione – peraltro Benedetto tentò più tardi di rivendicare il suo diritto a esser papa – Enrico III faceva procedere all’elezione di un nuovo vescovo di Roma nella persona di Switger (Suitgero), vescovo di Bamberg, che prese il nome di Clemente II, primo di una lunga serie di papi con questo ordinale, che quindi sceglievano nomi inusuali e riferiti a figure antiche del papato. Quali furono i motivi dell’intervento imperiale in Italia? Certamente la situazione di disordine in Roma aveva richiamato l’imperatore, ma probabilmente non vi è in Enrico un vero anelito di riforma: sconfitti o in grave difficoltà i suoi alleati tuscolani, ormai incapaci di gestire la situazione in città, il re germanico prova a governare direttamente il mondo romano tramite suoi vescovi3. Il pontificato di Clemente II fu breve, ma più ancora lo sarà quello del successore, Poppo vescovo di Brixen, ossia Damaso II, che morì nel giro di un paio di settimane dall’entrata in Roma, nell’estate del 1048. Al suo posto, Enrico designava al seggio romano un suo 3 Cfr. FM 7, 103. 146 parente, prelato di nobilissima famiglia e vescovo di Toul in Lotaringia (Lorena, ora francese), Bruno (o Brunone), che scelse il nome di Leone IX4. Un dato interessante e, a quanto sembra, confermato dalle fonti fu la scelta del giovane candidato di entrare in Roma come un pellegrino e di chiedere al clero e al popolo romano la conferma dell’elezione, per tornare alla più antica tradizione canonica. Evitando di sovraccaricare questo gesto di chissà quale progetto di distacco dalla Chiesa “imperiale”, sembra tuttavia che Bruno-Leone IX avesse una piena consapevolezza dell’indipendenza e autonomia del diritto canonico in generale e delle elezioni ecclesiastiche in particolare: pare che idee di tipo “gelasiano” fossero diffuse nell’ambiente di formazione di Bruno. Con Leone IX e col suo pontificato relativamente più lungo dei precedenti (1048-1054) e sicuramente ben più intenso ed incisivo, si cominciano a notare nella vita della curia romana segni importanti di novità. Un sintomo, come spesso avviene, è dato dalle modalità della cultura scritta e della confezione dei documenti: la cancelleria pontificia abbandona la antica e incomprensibile scrittura “curiale romana” e il tradizionale papiro per passare alla pergamena e a una forma documentaria con importanti analogie rispetto alle cancellerie imperiali nella tipologia dei documenti, nei caratteri di scrittura, nei segni di autenticazione5. Ciò significa che il personale è cambiato, e la antica e resistente struttura del patriarchium romano, corporazione gelosa e tradizionalista che reclutava e formava gli alti funzionari papali tra la nobiltà laziale, è stata sostituita da altri. Da dove proviene questo nuovo personale? Nella corte di Leone IX sono innestati (l’uso di questo termine non è casuale) uomini provenienti dai monasteri legati alla riforma lorenese e da altri centri religiosi di fervida vita. D’altronde, Bruno era stato vescovo in Lorena, aveva chiesto l’aiuto di Guglielmo di Volpiano (§ 47) per riformare alcuni monasteri nella sua diocesi, e si era portato dietro i suoi uomini, che furono progressivamente collocati nei nodi strategici della curia. Si tratta di Umberto, monaco di Moyenmoutier, consacrato vescovo di Silva Candida; di Federico, fratello del duca di Lorena, non monaco ma canonico a Liegi, ora cancelliere del vescovo di Roma; di Ugo Candidus (“il Bianco”), 4 Ricerche recenti mostrano come fosse uso delle famiglie nobili non solo designare alcuni dei loro figli alla carriera ecclesiastica, ma assegnare fin dal battesimo a questi futuri chierici alcuni nomi “tipici”, e sembra che Bruno fosse di questi, così come Adalberone, nome portato da sette membri di tre generazioni della stessa famiglia, tutti vescovi tra Metz, Reims, Verdun, Laon e Treviri, mentre i fratelli, duchi e conti, portavano nomi come Federico, Gozlino, Goffredo, Teodorico (Thierry)…cfr. HC 4 (ed. fr.) 807. 5 Per chi fosse interessato si veda Th. FRENZ, I documenti pontifici nel medioevo e nell’età moderna, città del Vaticano 1989, 18ss; P. RABIKAUSKAS, Diplometica pontificia. Praelectionum lineamenta, Roma 1980, 35-66, Acta pontificum, collegit I. Battelli, (Exempla scripturarum, 3), 5-9; cfr. J IV 367ss. 147 monaco di Rémiremont, incardinato in un titulus presbiterale romano; ma anche di Pietro Damiani, ravennate e legato all’eremitismo di Romualdo, più tardi vescovo di Ostia (e quindi, per tradizione, consacratore dei nuovi papi), e del giovane Ildebrando, toscano d’origine, fatto abate (riformatore) di San Paolo fuori le mura. Si annuncia qui un uso che farà storia, giungendo fino ai giorni nostri. Il clero “cardinalis” di Roma, ossia vescovi suburbicari, presbiteri e diaconi, passano da un ruolo più strettamente liturgico che li caratterizzava nell’età precedente, quando il potere effettivo era gestito dalle figure del protonotarius, del primicerius, del vestararius e degli scriniarii, a un impegno di tipo teologico, giuridico, ma anche diplomatico. E questi “cardinali” non sono scelti esclusivamente tra il clero romano, ma sempre più formano un collegio di provenienza e formazione internazionale. Non dev’esser stato agevole per Leone IX mettere in atto questo innesto: abbiamo poche, ma significative tracce di ostilità e ribellione da parte del mondo “romano de Roma” così abilmente detronizzato… Il papa, formato alla corte imperiale germanica, non solo assume abitudini di produzione documentaria di quell’ambiente, ma per certi aspetti plasma la propria immagine e l’immagine della curia romana su di essa. Leone IX è un papa… mobile. Si mette in viaggio per presiedere sinodi riformatori, come l’imperatore si spostava per presiedere i suoi “placiti” e le sue “diete” sul territorio. Questa non è un’assoluta novità: alcuni pontefici del secolo precedente si erano recati a Ravenna o a Pavia per guidare sinodi, senza poi riesumare i papi che varcavano le alpi per chiedere aiuto ai monarchi carolingi. Però Leone interpreta questo ruolo con intensità più marcata e produce un’inusitata percezione di presenza e prestigio del papa: d’altronde gli imperatori più importanti avevano costruito così il loro potere, con una presenza costante ed efficace sul territorio. I sinodi presieduti da Leone IX o dai suoi legati, i “cardinali” di cui sopra si parlava, non creano un nuovo diritto canonico, ma riprendono e ribadiscono costantemente le normative della tradizione. In questa fase l’impegno di riforma opera soprattutto contro il nicolaismo, arrivando a prescrivere al popolo cristiano il boicottaggio liturgico del clero concubinario, e condannando alla schiavitù a favore della Chiesa le donne conviventi coi sacerdoti; e contro la simonia. In questo contesto emerge il problema della validità dei sacramenti conferiti dal clero simoniaco, una questione che assume presto un andamento angoscioso, vista la diffusione del fenomeno. Umberto di Silva Candida è per la non validità, Pier Damiani invece, sviluppando le idee degli scritti formosiani di Auxilius e Vulgarius, afferma la 148 validità, e la sua tesi alla fine prevale. Ma tutti sono concordi: la simonia e il nicolaismo non sono solo abusi morali e disciplinari, bensì vere e proprie eresie teologiche. § 61: la rottura con Costantinopoli del 1054. Una sintesi sui quattro papi tedeschi. Bibliografia: FM 7, 117-160; J 4, 524-548; L 398-401; GV 218-221; HC 4, 862-863 (sulla chiesa bizantina di questo periodo vedere anche HC 5, 33-60). In questo torno di tempo, due entità geopolitiche nuove si affacciano sullo scenario italiano ed europeo: i Normanni del sud Italia e il ducato di Toscana. In una realtà critica come l’Italia meridionale, da sempre luogo di scontro tra i bizantini e il ducato longobardo di Benevento, dove poi si erano fatti strada i saraceni occupanti della Sicilia e chiamati a volte come mercenari negli scontri locali, dai tempi della presenza italiana di Ottone I e dei suoi discendenti la situazione s’era fatta anche più complessa. Non erano mancati scontri militari tra tedeschi e greci, la rivendicazione di Costantinopoli a amministrare le diocesi ecclesiastiche, il rifiuto bizantino a riconoscere l’imperatore tedesco, i rapporti di alleanza tradizionale tra Crescenzi di Roma, città costiere tirreniche, corte di Bisanzio. Apparsi da principio, sembra, come pellegrini nel Gargano, i primi normanni rimasero nel sud della penisola come mercenari al soldo delle potenze locali (d’altronde la guardia Varega era il corpo scelto di Costantinopoli) e progressivamente ampliarono il loro potere, soppiantando con la loro forza militare e con l’assoluta mancanza di scrupoli Bizantini e Longobardi. La loro espansione è motivo di preoccupazione per Leone IX, tanto più che Benevento, con il piccolo territorio che rimaneva sotto il controllo della città, si era “data” al pontefice per difendersi dall’aggressiva crudeltà normanna. Il governatore bizantino della Puglia, Argiro, media un’alleanza tra il papa, il cugino del papa, Enrico III, e i bizantini in funzione antinormanna. Ma Argiro ha un rivale politico a Costantinopoli, nella persona del patriarca, Michele Kerullarios (“Cerulario”). Oltre a posizioni opposte tra Michele e Argiro nel delicato gioco dell’aristocrazia di corte bizantina, può darsi che il patriarca temesse che una rinnovata alleanza con Roma gli avrebbe tolto quell’ampia autonomia ecclesiastica, che ormai Costantinopoli riteneva di avere per i pochi contatti con Roma6. Chi era Michele Cerulario? La chiesa greca venera come santo questo patriarca dotto e autoritario. Figlio di una famiglia senatoriale, implicato in un tentativo di colpo di stato, fu costretto a entrare in monastero e si dedicò alla carriera ecclesiastica. In questo periodo 149 nella Chiesa di Costantinopoli si delinea sempre più il gruppo di alti funzionari ecclesiastici, provenienti da famiglie dei notabili, guidati dal “chartophylax”, tra cui spesso gli imperatori scelgono i loro ministri. Michele diventa patriarca nel 1043. Nell’instabilità dinastica tra l’esaurimento della dinastia macedone e l’avvento della famiglia dei Comneni, i titolari del seggio costantinopolitano svolgono un ruolo di garanti della legittimità. Michele rivela ambizioni più ampie di influenza politica sull’imperatore e sulla corte. Il patriarca, per sabotare il lavoro diplomatico del rivale Argiro, a Costantinopoli fa circolare voci contro i “latini” e muove il vescovo teologo di Ochrida nei Balcani, Leone, per scatenare una dura polemica teologica contro Roma, riesumando tutto l’arsenale già accumulato nei dotti trattati di Fozio: gli usi liturgici latini, l’eresia del Filioque… A Costantinopoli si arriva a chiudere d’autorità le chiese delle comunità latine (i commercianti di Venezia, Amalfi…) e gruppi di fanatici compiono atti di vandalismo contro l’eucaristia “azzima” dei latini. Da Roma arrivano le dure confutazioni e controaccuse del più valente teologo di Leone IX, Umberto di Silva Candida, che trova nei greci ben novanta eresie diverse, tra cui, ovviamente, il nicolaismo. Su richiesta dell’imperatore Costantino IX Monomachos, una delegazione romana capeggiata da Umberto – forse non la persona più adatta dal punto di vista diplomatico – si reca a Costantinopoli col duplice mandato di perfezionare l’alleanza antinormanna e di chiarire i problemi teologici tra le due sedi formalmente in comunione dopo la chiusura della crisi foziana. La delegazione fu accolta cordialmente dall’imperatore, che cercò di mediare, ma dal patriarca con assoluta freddezza e reciproche ripicche7. Nel frattempo i normanni abilmente impedirono il congiungimento tra le truppe reclutate e condotte personalmente da Leone IX in attesa dei rinforzi imperiali e i soldati bizantini di Argiro. In una battaglia a Civita, nei dintorni dell’antica Canne, Leone IX fu sconfitto e preso prigioniero, e poco dopo la stessa sorte toccò ad Argiro. Poche settimane dopo, il papa morì, ancora prigioniero dei normanni. Tra Michele Cerulario e Umberto di Silva Candida, a Costantinopoli, era esplosa una durissima polemica, che si concludeva con la scomunica comminata da Umberto a nome del papa contro il patriarca e scenograficamente deposta sull’altare di Santa Sofia, dopo di che 6 Così almeno si ipotizza in FM 7, 146-147. Cit. J IV 536 (H.-G. Beck): “I Romani non si sentirono convenientemente onorati, mentre il patriarca deplorò di non esser stato salutato secondo le prescrizioni del protocollo. La scena si concluse con la muta consegna della lettera 7 150 la delegazione romana lasciava Bisanzio e Michele emetteva una contro-scomunica. Ma il papa “scomunicante” era già morto: Umberto ne era a conoscenza? Come è noto, le due scomuniche furono tolte nel dicembre 1965, in occasione della chiusura del concilio Vaticano II e dell’incontro tra il successore di Leone IX, papa Paolo VI, e quello di Michele, il patriarca Athenagoras. La rottura del 1054 fu completamente ignorata dalla storiografia bizantina, come un fatto del tutto irrilevante: c’era stato ben altro, se non nella violenza verbale, nell’articolazione degli scontri tra Roma e Costantinopoli. La conclusione della vicenda personale di Michele Cerulario è significativa per molti aspetti. Nel 1055 Costantino IX muore, e il potere viene gestito dalla moglie Teodora, ultima superstite della dinastia macedone. L’anno dopo l’imperatrice muore, passando il potere a un alto funzionario della burocrazia (Michele IV Stratiotikos). I militari, emarginati dal potere, si ribellano, con la guida di Isacco Comneno. Michele Cerulario scioglie i sudditi dal giuramento di fedeltà a Michele VI e contribuisce in maniera sostanziale alla vittoria di Isacco. Rivendicando a più riprese sul nuovo imperatore il suo ruolo, Michele Cerulario finì per compromettere il suo rapporto con la corte, fu arrestato nel 1058 e morì in carcere. Uomo di potere fino in fondo, fu l’unico dei patriarchi di questo periodo che volle superare il ruolo di garante della legittimità per tentare una gestione più diretta della politica. I suoi successori (Costantino Licude 1059-1063; Giovanni Xifilino 1064-1075), provenienti dalla burocrazia patriarcale, dotti e esperti, si affiancheranno al consolidarsi del potere dei Comneni. Non dimentichiamo intanto l’altra entità che andava prendendo forza nello scacchiere italiano. L’antico territorio longobardo della Tuscia o Toscana era stato unificato e organizzato da Adalberto Atto, capostipite di una dinastia nobiliare che prende il nome da uno dei castelli posseduti dalla famiglia, Canossa, in val d’Enza (RE) ora ridotto a rovina, e con una presenza militare ed economica anche oltre il versante tirrenico dell’appennino, fino a Reggio, Mantova e la grande abbazia di San Benedetto del Polirone. Bonifacio di Toscana aveva ulteriormente sviluppato la potenza del ducato. La moglie Beatrice, rimasta vedova con una sola figlia, Matilde, si era risposata con Goffredo “il Barbuto”, duca di Lorena e fratello di Federico, cancelliere della curia romana. Questa alleanza matrimoniale tra Toscana e Lorena suscitò l’ostilità di Enrico III, peraltro parente di Goffredo. Per pontificia, che – scritta ancora da Umberto – non era adatta a dissipare le paure del patriarca timoroso che l’alleanza politica potesse compromettere la sua autorità sulla chiesa bizantina…”. 151 conseguenza Federico aveva lasciato la cancelleria romana e si era ritirato a Monte Cassino. Alla morte di Enrico III (1056), l’imperatrice vedova, tutrice del piccolo Enrico, aveva accettato la situazione in Toscana e si era alleata con Goffredo e Beatrice. Intanto (1054) era divenuto papa, dopo la morte di Leone IX, il vescovo di Eichstätt, Gebehard, col nome di Vittore II. Chiamato come tutore del giovanissimo principe, Vittore II trascorse i tre anni del suo breve pontificato per lo più in Germania. Gli undici anni (1046-1057) dei cosiddetti papi tedeschi, non i primi provenienti da quel mondo8, si può dire che diedero l’avvio alla riforma gregoriana. Sostanzialmente queste figure si mantennero fedeli al Reichskirchensystem e si mossero in stretto contatto con la corte di Enrico III di Franconia, da cui, peraltro, provenivano. Ma l’innesto, sul modello della riforma monastica lorenese, di personale nuovo nella curia romana fu una delle scelte più rilevanti e incisive sul lungo periodo, anche grazie alla notevole qualità e all’abilità di questi monaci a rimanere in sella anche quando Roma non era più controllata e protetta dalla potente personalità di Enrico. In questo periodo la riforma non si ferma a proclami disciplinari ma inizia ad articolare una teologia, che affronta la questione della validità dei sacramenti, quella del primato romano, e altre. In questi anni si apre lo scisma del 1054. E’ evidente che, come più sopra si diceva, oltre che per motivi politici contingenti, la separazione così eclatante avviene per lo scontro tra l’oikonomìa del politico Michele Cerulario e di tutta la Chiesa bizantina del tempo, e l’akribèia dei monaci-cardinali che stanno avviando con decisione e cultura teologica la riforma occidentale. Proviamo a immaginare un Umberto di Silva Candida, che sta lottando strenuamente in Occidente contro il matrimonio del clero, e che in Oriente trova un clero uxorato. Di fronte a questo shock, e a una possibile rivendicazione da parte degli antiriformisti delle tradizioni orientali, a nulla può valere la considerazione che Oriente ed Occidente hanno per secoli vissuto uniti pur in questa differenza disciplinare. E d’altronde, le ostie consacrate delle chiese latine, calpestate dai teppisti dei bassifondi e degli ippodromi costantinopolitani, erano anch’esse segno di tentativi di omologazione di tradizioni diverse… La scomunica, sostanzialmente trascurata dall’Oriente, forse anche giuridicamente invalida, sembrava riparabile, e i contatti tra Roma e Bisanzio, pur nella consapevolezza che c’era una ferita aperta da riparare, continuarono fino alle crociate. 152 § 62: seconda fase – i papi “toscani” Bibliografia: FM 8, 19-67; J 4, 468-478; HC 5, 61-70; EP 2, 166-188 In realtà, dei tre papi che qui chiamiamo toscani, nessuno era originario dell’antico ducato di Tuscia: Stefano IX (1057-1058) era lorenese, Niccolò II (1059-1061) borgognone e Alessandro II (1061-1073) milanese. Praticamente per tutto il periodo governato da questi tre pontefici riformisti, legati in vario modo alla dinastia dei Canossa e da essa appoggiati, la sede romana era contesa da figure concorrenziali, in altri termini, più tradizionali, da antipapi. Non è dunque un caso o una particolare passione per il diritto canonico il fatto che in questo periodo si delinea una normativa sempre più precisa per l’elezione del vescovo di Roma, che, insieme all’ostinata lotta per continuare le linee di riforma contro simonia e nicolaismo, sarà il portato principale di questo quindicennio. Alla morte di Vittore II, la situazione politica dell’impero e del Regnum Italiae è quanto mai instabile: il figlio del defunto Enrico III è un bambino, il potere in Germania è gestito sostanzialmente dalla regina madre, Agnese; i normanni premono sempre più pesantemente sui domini del Patrimonium Petri e la nobiltà romana, depotenziata nelle sue pretese da Leone IX ma non liquidata completamente, accenna a rialzare la testa. I cardinali riformatori, ossia il gruppo dirigente di origine monastica “innestato” in Roma soprattutto da Leone IX, cercano l’appoggio in Goffredo di Lorena e Toscana, scegliendo di eleggere Federico di Monte Cassino, suo fratello, che prende il nome di Stefano IX. Nel suo breve pontificato si accentua la scelta di inviare legati papali a presiedere sinodi o a intervenire in altro modo nelle aree più calde dell’Italia e dell’Europa: sono cardinali del gruppo riformatore, come Pier Damiani o Ildebrando, che svolgono un ruolo di diffusione delle linee giuridiche e pastorali di una riforma in cui la sede Romana si sente sempre più protagonista. Alcuni legati, tra i più prestigiosi, sono ripetutamente inviati da Stefano IX e dai suoi successori in Lombardia e soprattutto a Milano. La potente ed estesa arcidiocesi, che nella prima metà dell’XI secolo aveva visto il consolidamento del potere vescovile sulla città e sui punti strategici del territorio per opera della determinante figura dell’arcivescovo Ariberto d’Intimiano, era scossa da disordini per gli scontri tra l’establishment nobiliare e 8 Prima di loro c’era stato il papa di Ottone III, Gregorio V. Dopo di loro e il lorenese Stefano XI, di cui si parlerà tra poco, se non si vuol considerare tedesco Adriano VI, che era fiammingo e di appartenenza imperiale, nel XVI secolo, si 153 dell’alto clero – i capitanei cioè le famiglie nobili che amministravano cariche e rendite diocesane e i cardinales, i chierici di curia “discendenti” della parte di clero esiliata a Genova al tempo dell’invasione longobarda – da un lato, e il movimento della Pataria dall’altro. Il termine “pàtari” o patarini, originariamente dispregiativo (probabilmente significava “straccioni” o “stracciaroli”), era stato assunto da questi gruppi come insegna di riforma e di purezza della fede. Guidati da un nobile di secondo livello, Landolfo, cui succederà il fratello Erlembaldo, e da un diacono, Arialdo, i patarini rappresentavano l’istanza di riforma della Chiesa dalla diffusa simonia e dalle inestricabili connessioni di potere tra la curia arcivescovile e l’alta nobiltà. Sicuramente una parte importante del movimento era composta dai valvassori, cioè dalla piccola nobiltà – di lontana origine dagli arimanni longobardi? – esclusa dalle cariche cittadine e vescovili. Anche a partire dai canoni di alcuni sinodi riformisti dei tempi di Leone IX, i patarini mettevano in atto una vera e propria azione di boicottaggio attivo nei confronti dei chierici simoniaci, non solo invitando la gente a disertare le celebrazioni dei preti “corrotti” ma intervenendo anche armi in pugno, con conseguenti risse spesso violente. La sede romana tenta, con un certo successo, di assumere la guida del movimento tramite i legati, mentre i metodi della Pataria si diffondono per tutto il nord Italia. Sempre nel breve pontificato di Stefano IX viene eletto vescovo della diocesi suburbicaria di Ostia l’eremita e teologo riformatore Pier Damiani. Per antica tradizione, il vescovo di Ostia era colui che consacrava vescovo il papa eletto, dunque il gruppo riformista conquista un ruolo chiave in uno dei passaggi dell’elezione papale, emarginando ulteriormente l’antica nobiltà clericale di Roma. Stefano IX si ammala improvvisamente mentre è in viaggio verso il fratello Goffredo, e in fin di vita chiede ai cardinali di attendere Ildebrando, inviato come legato in Germania, prima di procedere all’elezione. Non sappiamo veramente quale fosse il mandato dell’ambasceria tedesca di Ildebrando, ma gli storici recenti, in particolare Ovidio Capitani, affermano che comunque il disegno di Stefano era quello di ricomporre in unità i riformisti, la corte germanica e il ducato toscano contro l’aristocrazia romana (Tuscolani, Crescenzi, conti di Galeria). La quale alla morte di Stefano si coalizza e, mentre i riformisti attendono il rientro di Ildebrando, mette in piedi un’elezione come ai vecchi tempi del secolo X e converge sul candidato portato avanti dai conti di Tusculum, il vescovo Giovanni di arriva a Benedetto XVI… 154 Velletri, che prende il nome di Benedetto X. I cardinali riformatori si spostano a Siena, in Tuscia, e all’arrivo di Ildebrando eleggono il borgognone Gerardo, vescovo di Firenze, che prende il nome, ricco di risonanze storiche, di Niccolò II. In questa occasione si stabilisce una più precisa normativa elettorale. I cardinali vescovi, cioè i titolari delle sedi suburbicarie, si accorderanno nell’individuazione del nuovo papa, che sarà sottoposto a conferma da parte degli altri cardinali (presbiteri e diaconi) e poi acclamato “dal clero e dal popolo”. L’elezione in caso di necessità potrà esser svolta anche fuori di Roma, e alla presenza anche solo di una rappresentanza del populus romanus. A partire dalla sua elezione, anche se non ancora consacrato vescovo, il nuovo papa avrà pienezza di poteri. Si riconosce anche l’honor dovuto all’imperatore, secondo la tradizione dei tempi di Carlo magno e di Ottone I, riaffermata da Enrico III, ma non chiarita nella sua rilevanza. In questa normativa per l’elezione papale – solo due secoli dopo si potrà usare il termine conclave, come vedremo – si riconosce il bisogno di sottrarre la nomina papale al potere della nobiltà romana, garantendo maggior velocità di individuazione del candidato e maggior continuità del lavoro di riforma. Non si vuol però arrivare alla rottura con il potere imperiale, che tuttavia in quel momento è pressoché fuori gioco per la minore età di Enrico IV. Anche Niccolò avrà un pontificato breve. La figura dell’antipapa Benedetto sarà presto marginale grazie all’inedita alleanza tra il papato, la Toscana e il potere crescente dei Normanni, mediata dall’abate di Monte Cassino, Desiderio, in funzione della sconfitta militare della nobiltà romana che appoggiava l’antipapa. In questo momento i Normanni, da spina nel fianco del papa, diventano preziosi – anche se talvolta infidi e crudeli – alleati, e sono riconosciuti in un sinodo a Melfi quali vassalli della sede apostolica. Niccolò II per la prima volta ordina la proibizione per i chierici di ricevere l’investitura per titoli di chiese secondarie da laici, ovviamente nobili proprietari. L’uso, invalso da tempo e legato ai diritti che le famiglie di fondatori si arrogavano nella nomina del chierico dell’ecclesia del villaggio, in analogia all’investitura del mugnaio, del ferrarius o della guardia campestre, sottraeva questi chierici, spesso ignoranti e concubinari, al controllo episcopale e era uno degli spazi abituali di mercimonio delle cariche ecclesiastiche. Ma la 155 scelta di Niccolò è il primo segnale che dice un innalzamento del livello della riforma, dai sintomi alle cause sociali9. Anche alla morte di Niccolò avvengono due elezioni concorrenziali. La cancelleria del Regnum Italiae, guidata dal parmense Viberto, poi arcivescovo di Ravenna, a nome dell’imperatrice madre Agnese, guida i vescovi filoimperiali del nord Italia in una stretta alleanza con la nobiltà romana e fa eleggere Cadalo, vescovo di Parma e già titolare nella cancelleria, che, come è noto, è il vivaio per le nomine episcopali imperiali sia in Italia che in Germania: Cadalo prende il nome di Onorio II. L’operazione è condotta anche per sciogliere la sede papale dall’alleanza con i normanni, nemici dei tedeschi e concorrenti del potere imperiale nell’egemonia del sud Italia. I cardinali riformatori, guidati ancora una volta da Pier Damiani e da Ildebrando, eleggono il vescovo di Lucca, Anselmo da Baggio, vicino al movimento patarinico e al ducato toscano, che prende il nome di Alessandro II. La contrapposizione tra i due eletti è da principio nettamente favorevole al colto e potente Cadalo, ma in Germania un colpo di stato contro la regina vedova, guidato dall’arcivescovo di Köln, Anno, interrompe la politica antinormanna e dà via libera al papato riformista di Alessandro II, attraverso una serie di passaggi complessi in cui sembra che i vescovi tedeschi, anche su richiesta di Pier Damiani, abbiano una sorta di diritto d’arbitrato in nome dell’imperatore fanciullo, suscitando però le reazioni del papa e di Ildebrando. A un sinodo convocato a Mantova Alessandro II abilmente disinnescherà eventuali precedenti giuridici troppo favorevoli alla corte imperiale germanica. In questo periodo, mentre il movimento popolare per la riforma prende piede in tutto il nord Italia, altri scenari europei vengono raggiunti dall’impegno per la lotta alla corruzione nella Chiesa. In particolare, è la Chiesa inglese tra le più compromesse col potere locale dilaniato da lotte dinastiche. Il normanno di Normandia Guglielmo, che sarà detto il conquistatore, rivendica contro gli ultimi avanzi delle vecchie stirpi anglosassoni la successione al trono inglese, e per la sua fortunata campagna del 1066 riceve il vessillo di San Pietro quale insegna di appoggio da parte del papato. Vinta la resistenza della nobiltà anglosassone ad Hastings, Guglielmo nomina alla sede primaziale di Canterbury l’abate del monastero normanno di Bec, Lanfranco, di origini lombarde, convinto riformista, studioso di vaglia e maestro dell’aostano Anselmo, che gli succederà a Bec e poi a Canterbury. 9 Sui meccanismi e sulle conseguenze delle investiture laicali si veda FM 7, 233-263, preciso e ricco di esempi. 156 Attorno al 1070 Enrico IV raggiunge la maggiore età e prende in mano direttamente il potere, riprendendo la politica di egemonia italiana della madre e controllando in modo stretto e con atteggiamenti effettivamente simoniaci le diocesi della Germania e del Regnum Italiae. Lo scontro tra papato e impero ha come punto d’accensione ancora una volta la grande e potente arcidiocesi ambrosiana. Enrico nomina a vescovo un suo fedele, Goffredo, mentre la Pataria alla presenza dei legati papali nomina un suo candidato. Lo scontro porta alla scomunica, da parte di Alessandro II che ben conosce la situazione, di cinque consiglieri di Enrico per il Regnum Italiae come simoniaci. La lotta è ancora aperta quando Alessandro muore a Roma, nel 1073. Al di là dei singoli fatti, comunque significativi di legami europei della sede romana e di tendenze che via via si rivelano, va notata, nel quindicennio dei papi “toscani”, la stabilizzazione di due strutture, formali se si vuole, ma determinanti in questa fase. Il controllo dell’elezione papale da parte dell’episcopato riformista, con una progressiva sottrazione all’influenza della nobiltà romana e della corte imperiale, congiunto con l’invio di legati che a nome del papa presiedono sinodi ed elezioni episcopali in tutta Europa, sono due segni evidenti di un modo nuovo di consapevolezza ed esercizio del primato romano. E’ una Chiesa più gerarchica, più clericale certamente, più svincolata, d’altra parte, dai giochi del potere aristocratico e imperiale. E’ una Chiesa saldamente guidata da vescovi di origine spesso monastica, improntata all’achribèia, cioè alla riforma, che decide di condurre da sé le alleanze anche politiche con la dinastia di Canossa o coi Normanni del nordovest della Francia o del meridione d’Italia. Questa Chiesa romana ma ormai europea è in rotta di collisione con il Reichskirchensystem. Si colloca probabilmente in questo periodo un aspetto interessante e poco noto finora della riforma. Nella Roma “riconquistata” dai papi riformisti contro Cadalo vengono prodotte copie complete dei libri biblici (la cosiddetta bibliotheca, cioè un unico codice che raccoglie tutti i libri del canonici, sia del Vecchio che del Nuovo Testamento), in formato molto grande, con una decorazione sobria, con una scrittura senza impronte localistiche in modo che chiunque, in Europa, potesse utilizzarle senza difficoltà. Sono quelle che gli studiosi del ramo chiamano Bibbie atlantiche. Si incarna in esse un evidente progetto di rilancio della lectio secondo i dettami della regola benedettina, troppo spesso trascurati nei monasteri, ma anche di accesso all’intero corpus biblico per il clero secolare. Le bibbie “riformiste” si diffondono in tutta Europa, a volte riprodotte e regalate da vescovi e abati che si 157 schiereranno sempre fedelmente dalla parte del papato riformatore (Gebhard di Salzburg, Altmann di Passau) e da prelati che operano per la riforma ma a un certo punto, come vedremo, passeranno al partito imperiale, come Federico di Ginevra e Ermenfried di Sion10. § 63: Ildebrando-Gregorio VII, l’attacco al cuore del sistema Bibliografia: FM 8, 75-223; J 4, 479-500; L 427-445; GV 294-336; HC 5, 70-85; 131-136; P 73-79; EP 2, 188-217 Dal 1046, quando accompagnò l’esiliato Gregorio VI in Germania, Ildebrando “di Soana”, nato quindi nel cuore della Tuscia, monaco, ma non si sa in quale monastero inizialmente abbia preso i voti, e sicuramente non cluniacense, è personaggio di rilievo in curia riformista, rispettato, non sempre amato (dallo stesso Pier Damiani, che un po’ lo teme…), autorevole e noto per la sua vita religiosa profonda e rigorosa. Nel 1073 ha una venticinquennale esperienza di riforma, di amministrazione, di legazioni in Francia, Germania e Italia, di elezioni papali. Mentre si svolgono i funerali di Alessandro II, Ildebrando viene acclamato a furor di popolo e intronizzato a successore: un’elezione anomala (che gli sarà rimproverata), poi peraltro, sembra, confermata secondo le procedure il giorno successivo. Gregorio VII non comunica la sua elezione al giovane imperatore, che a livello giuridico è, di fatto se non formalmente, scomunicato perché non ha allontanato i consiglieri censurati da Alessandro II, e che politicamente non può intervenire in Italia perché impegnato a sedare una rivolta del ducato di Sassonia. Anche Gregorio, nonostante il prestigio e l’appoggio della città di Roma, di Matilde di Canossa e del partito riformista, non è nelle condizioni migliori per operare. La nobiltà romana gli è ostile, i rapporti coi normanni si sono guastati a motivo delle scorrerie banditesche che essi portano avanti, la pataria milanese sta perdendo lo slancio iniziale. Viberto, arcivescovo di Ravenna, guida con abilità il partito dei vescovi filoimperiali del nord Italia, che, come si diceva, non manca di personalità che affermano il bisogno di riforma, ma in collaborazione con l’impero. Chi è Gregorio VII? La sua complessa figura è una delle più controverse della storia del papato, soprattutto nella storiografia degli ultimi due secoli: infamato dagli studiosi di origine protestante e germanica per motivi ideologici, denigrato come un despota dagli 10 Si veda l’interessantissimo articolo di E. CONDELLO, La Bibbia al tempo della riforma gregoriana. Le Bibbie atlantiche, in Forme e modelli della traduzione manoscritta della Bibbia, a cura di P. Cherubini, Città del Vaticano 2005, 347-372. 158 anticlericali del mondo latino, esaltato dagli storici “ultramontani” come il campione di un papato infallibile e martire. Ildebrando è anzitutto un buon teologo e un buon canonista, senza particolari originalità, fedele alla teologia militante dei suoi predecessori riformisti e alla tradizione giuridica romana, con le tipiche accentuazioni di questa fase. E’ soprattutto un abile amministratore, e questo fu il ruolo principale da lui svolto prima di essere papa. Ben addentro ai meccanismi romani, Ildebrando compie un’opera di riordino ed elencazione delle proprietà della Chiesa romana, da tempo passate sotto il controllo dell’aristocrazia locale, e si impegna a fondo per la fine delle cariche tradizionali e lucrative del patriarchium, segnate dalla simonia e baluardo tradizionale dei tuscolani. E’ in questo quadro culturale che gli studiosi recenti collocano il misterioso dictatus papae, una sorta di masso erratico inserito nel registro della corrispondenza del papa. Già il titolo è un’espressione di notevole equivocità: si può tradurre in molti modi diversi. Il contenuto sembra un elenco di titoli di una collezione canonica: una raccolta da compilare, secondo lo stile del tempo, a partire dai canoni della Chiesa antica, per volontà del papa? La storiografia seria ha ormai abbandonato l’idea, purtroppo ancora diffusa, di un Gregorio VII che si inventa degli obiettivi assolutistici o si propone di decretare ex novo una costituzione pontificia verticistica, se non in preda a una sorta di delirio di onnipotenza. Il Dictatus papae è, probabilmente, l’indice di una compilazione progettata, e mai attuata per chissà quali ragioni, per raccogliere il diritto tradizionale e più puro rispetto all’influsso dei “laici” nella Chiesa, quasi un tentativo di sintetizzare il diritto elettorale e amministrativo originario. Oppure, come altri affermano, sarebbe una sorta di dottrina teologico-spirituale che supera il diritto tradizionale, ponendo il papa quale garante del buon funzionamento delle strutture ecclesiali e della retta fede11. Questo tentativo è guidato da un’ispirazione spirituale molto forte in Gregorio VII, ma anch’essa non originale: qualcuno l’ha definita la mistica di Pietro, il santo del potere delle chiavi, la cui santità è partecipata “quasi sacramentalmente” al papa. Da cui, ovviamente, l’importanza del “nascere” del papa, la sua nomina e tutta la ritualità che l’accompagna, come una sorta di continuazione di Pietro in terra, pur nella caducità delle persone che siedono sulla cattedra di Pietro. Uno degli strumenti preferiti da Gregorio VII per portare avanti la riforma sarà, oltre all’invio dei legati, la convocazione regolare, ogni anno, dei cosiddetti “sinodi quaresimali 159 romani”. Un uso antico, probabilmente in parte decaduto nel secolo X, anche se qua e là riemerge, che Ildebrando riattiva, chiamando i vescovi del centro Italia e il clero romano a partecipare all’impegno di riforma. Nei sinodi quaresimali si riprende l’intervento riformistico, dapprima con prudenza, e in un successivo crescendo che ha di mira le investiture ecclesiastiche da parte dei laici. Anche qui Gregorio VII non fa altro che continuare l’intuizione di Niccolò II, quasi quindici anni prima: ma questo è l’attacco frontale al nodo politico-ecclesiastico di fondo, l’attacco al cuore del sistema. Nel 1075 Enrico IV, sistemate (apparentemente, come vedremo) le questioni tedesche, riprende il suo interventismo nello scenario italiano. Anzitutto decide di chiudere la controversia sull’episcopato milanese nominando un suo uomo, Tedaldo. In seguito giunge alla nomina dei due vescovi di Fermo e di Spoleto, terre rivendicate dall’imperatore ma da sempre vescovadi sotto il controllo del primate romano e in zone considerate di competenza anche politica del vescovo di Roma: un vero atto provocatorio. Nel natale del 1075 Gregorio scampa per un soffio a un attentato da parte di un personaggio della burocrazia cittadina, Cencio de Prefecto. I successivi dodici mesi, dal gennaio 1076 al gennaio 1077, vedranno eventi significativi nello scontro, ormai aperto, tra papa e imperatore. All’inizio del 1076, in un sinodo a Worms, i vescovi dell’impero e del Regnum Italiae, guidati da Viberto, pur tra molti dubbi si sottraggono dall’obbedienza di Ildebrando. Gregorio reagisce scomunicando in un sinodo pasquale romano l’imperatore. Contemporaneamente a Tribur12 i nobili tedeschi oppositori di Enrico, ossia i duchi di Sassonia, Svevia, Baviera e Carinzia, si riuniscono e, cogliendo l’occasione della scomunica papale, si ribellano a Enrico. In autunno il papa si mette in cammino per raggiungere la Germania, dove vuole guidare personalmente un sinodo. Enrico, alle strette per la ribellione dei duchi, fortunosamente si sottrae al combattimento, evita la nemica Baviera e il Brennero e passa le Alpi in Savoia con l’appoggio della contessa Adelaide di Savoia e Susa, sua suocera. Gregorio è a Mantova, sulla via del Brennero, quando giunge la notizia dell’arrivo dell’imperatore, e per sicurezza retrocede a Canossa, protetto dall’alleata e figlia spirituale Matilde. Canossa, in val d’Enza, 28 gennaio 1077, in un inverno, pare, particolarmente gelido. Da tre giorni un penitente scalzo, vestito di sola lana e senza pelliccia, trascorre il tempo in 11 Si vedano le diverse posizioni sintetizzate in DP 203-204. 160 preghiera e in ginocchio davanti alle mura del castello accuratamente vigilate dai soldati della contessa Matilde. Dentro il castello, il papa è attorniato dalla contessa sua alleata, dall’abate Ugo di Cluny e dalla contessa Adelaide, che intercedono per il povero pellegrino, Enrico, re di Germania, scomunicato. Gregorio subordina ogni disegno e ogni considerazione politica alla sostanza religiosa: è un sacerdote, anzi è il vescovo insignito del potere di legare e sciogliere, davanti a un penitente. E lo assolve. Errore politico clamoroso si rivelerà questa scelta tutta spirituale, che permette a Enrico di ricuperare una legittimità e di tornare in Germania a combattere i suoi nemici interni; ma sarà anche, l’assoluzione di Canossa, la simbolica fine della teologia “imperiale”, che pretende che il monarca dell’impero di Carlo magno abbia una sorta di delega o rappresentanza divina. Gli avversari tedeschi di Enrico eleggono comunque un anti-re, Rodolfo di Svevia, e Gregorio pretende, inascoltato, di emettere una sentenza definitiva sulla legittimità del detentore del trono tedesco. Da qui viene una seconda scomunica per Enrico, che però ormai è politicamente il più forte. I vescovi suoi fedeli, in un sinodo non molto numeroso (circa trenta presuli) a Brixen (1080), affermano l’illegittimità dell’elezione a papa del “falso monaco” Ildebrando e procedono alla nomina a vescovo di Roma di Viberto, che prende il nome di Clemente III. I gregoriani hanno tra le loro file dei presuli tedeschi, soprattutto nell’area Salisburgo-Costanza-Passau e in Lorena. Con l’appoggio delle truppe tedesche Viberto prende Roma nel 1084 e finalmente incorona Enrico imperatore, mentre Gregorio è asserragliato in Castel S. Angelo. Viberto e Enrico sono costretti alla fuga da Roma per l’arrivo dei Normanni che liberano Gregorio ma a prezzo di violenze crudeli sulla città, per cui papa e Normanni se ne vanno tra le maledizioni del popolo. Un anno dopo Gregorio muore, a Salerno. Pare abbia concluso la vita con una sentenza di sapore biblico: “Ho amato la giustizia e odiato l’iniquità; per questo muoio in esilio”. “In troppi campi Gregorio dimostrò di essere più avanti del proprio tempo”, afferma il Fuhrmann13. Da un punto di vista politico il suo pontificato, dopo aver inferto colpi sorprendentemente efficaci al potere di Enrico, finì in un clamoroso insuccesso, e rischiò di mettere in crisi gli spazi di manovra del gruppo riformatore attorno a lui. Ma in fondo Gregorio VII fu un fallito di successo. La sua ispirazione totalmente religiosa, che veniva prima della sua esperienza amministrativa e diplomatica, è la chiave per comprendere le sue 12 Tribur oggi è un piccolo villaggio nei dintorni di Feuchtwangen, ai confini tra Baviera e Baden-Württemberg, più o meno a metà strada tra Stoccarda e Norimberga. 161 scelte e l’efficacia di lungo periodo, innegabile, del suo pontificato. Un paragone ardito e discutibile può stare tra Gregorio e Pio IX: entrambi pastori prima che sovrani, entrambi concludono l’esistenza in condizioni critiche, entrambi avranno un più ampio futuro della loro vita. La mistica di Pietro è la bussola che guida questo monaco, e anzitutto essa è il tradizionale potere delle chiavi, quello della scomunica e dell’assoluzione. § 64: Worms, l’attuazione del possibile. Bibliografia: FM 8, 225-246; 275-388; 405-576; J 4, 501-521; GV 336-358; HC 5, 85-97; 105-136; P 79-83; EP 2, 217-261 Urbano II. Sembrò, per qualche tempo, che la figura di Viberto-Clemente III potesse in qualche modo vedere la convergenza tra filogregoriani e antigregoriani. Gli stessi cardinali gregoriani ci misero quasi un anno (1085-1086) per riunirsi e designare un successore a Gregorio. I riformatori del partito gregoriano non avrebbero potuto accettare di riconoscere Viberto, pena l’automatica accettazione dell’idea che Ildebrando non fosse mai stato papa. I riformatori anti-imperiani elessero finalmente a Roma l’anziano abate di Monte Cassino, Desiderio, che però per mesi (Roma maggio 1086 – Capua marzo 1087) rifiutò di riconoscere l’elezione a motivo delle tensioni tra normanni, longobardi, Matilde e partito cardinalizio gregoriano, e solo dopo aver ottenuto una situazione di unità del fronte riformista e davanti all’evidente pericolo che i Vibertini prevalessero, assunse il nome di Vittore III e per pochi mesi guidò il partito gregoriano. Alcuni mesi dopo la sua morte (settembre 1087 – marzo 1088) fu eletto Odo (Eudes), già priore di Cluny e vescovo di Ostia, legato di Gregorio in Germania nel 1084-85, che si chiamò Urbano II: siamo nel 1088. Di origine francese, fedele all’eredità gregoriana ma abile diplomatico, Urbano ereditava una situazione precaria, apparentemente marginale: Viberto controlla Roma ed è riconosciuto dall’imperatore e dalla maggioranza dei vescovi della Germania e dell’Italia del nord. Urbano, dopo aver consolidato le adesioni nel meridione d’Italia e aver occupato l’isola Tiberina, con l’aiuto dei normanni, può ricuperare Roma (giugno 1089). Decide però di non fermarsi nella sede papale, e riprende la scelta di Leone IX e Gregorio VII di muoversi verso nord per presiedere sinodi riformatori. Nel 1094 è a Piacenza per uno di questi appuntamenti, dove viene raggiunto da alcuni ambasciatori dell’imperatore bizantino Alessio Comneno, che descrivono lo stato precario dell’impero 13 Storia dei papi, cit., 224. 162 cristiano e le minacce vissute dai pellegrini verso Gerusalemme, e propongono un’alleanza. Pochi mesi dopo, nel 1095, a Clermont, sempre durante un sinodo, in cui si riafferma a chiare lettere il rifiuto delle investiture laicali, inizierà l’avventura delle crociate, di cui parleremo. Ma già possiamo anticipare che il sinodo di Clermont è già in segno che Urbano ha assunto la guida della cristianità, molto più che Enrico IV e il suo papa. Urbano II si appoggia politicamente al re di Francia. Anche nella nazione francese non mancavano gravi problemi di investiture laicali a cariche ecclesiastiche, di simonia e nicolaismo, ma si poteva tentare di avere un rapporto migliore con il sovrano, rispetto a quello ormai compromesso con l’imperatore germanico. Con Urbano si ha, in certo senso, il primo segnale di un rapporto che avrà un grande futuro, quello tra Roma e la Francia. Questa manovra e l’indebolimento politico di Enrico porterà alla progressiva emarginazione di Viberto-Clemente III, che morirà un anno dopo Urbano (1099-1100), non riconciliato ma ormai ininfluente. Urbano per tutto il suo pontificato afferma di essere pedisequus di Gregorio VII, anche se alcuni gregoriani “duri e puri” gli rimprovereranno a più riprese di essere meno deciso. In realtà l’obiettivo perseguito è quello di risolvere lo scisma, con pazienza, abilità diplomatica in modo da isolare Enrico rispetto agli stati europei (Francia, Inghilterra), uso delle dispense per temperare le normative gregoriane che non vengono mai ammorbidite. Sarà il lungo pontificato di Urbano a creare le condizioni per la chiusura del conflitto. In questi anni il tema delle investiture ai benefici ecclesiali da parte dei poteri laici sarà individuato definitivamente, da entrambe le parti, come il tema strutturale della contesa. Pasquale II. A successore di Urbano è eletto un monaco probabilmente originario della Romagna, che prende il nome di Pasquale II (1099-1118). Al vecchio Enrico IV si ribella il figlio, anch’egli di nome Enrico (V), inizialmente postosi a paladino della riforma ecclesiastica. Ma, assunto definitivamente il potere dopo la rinuncia del padre, in realtà si rivelerà deciso continuatore del Reichskirchensystem. Intanto nella Francia alleata dei papi, grazie ad alcune esperienze concrete e alla teorizzazione del teologo e canonista Ivo di Chartres, si delinea una possibile soluzione alla questione. A vescovi e abati è possibile attribuire, da parte della corona, competenze politico-amministrative, ma con una distinzione di ruoli e conseguenti differenziazioni di simboli. Il pastorale e l’anello sarà consegnato dal metropolita o analoga autorità ecclesiastica, lo scettro dal re o dal suo rappresentante. Resta da decidere come si procede all’elezione. 163 Anche in Inghilterra la tematica del rapporto tra potere politico e reltà ecclesiastica balza in primo piano. Enrico, figlio di Guglielmo il conquistatore e fondatore della dinastia che sarà chiamata dei Plantageneti, continua la politica di controllo delle sedi episcopali già attuata con disinvoltura dai predecessori e arginata da Lanfranco di Canterbury e dal suo successore alla sede primaziale di Britannia, Anselmo d’Aosta, che era stato costretto all’esilio. Sia Lanfranco che Anselmo portavano avanti questo scontro col potere come condizione per la riforma della Chiesa anglonormanna, dove il concubinato del clero era ampiamente tollerato come la simonia, e dove pare fossero doffuse tra alcuni chierici pratiche di sodomia (FM 8, 429). Anselmo, richiamato da Enrico, rifiutò di sottomettersi all’omaggio feudale al re, richiamandosi alle norme romane di riforma. Di nuovo Anselmo fu cacciato dall’Inghilterra, e nel 1105 il papa scomunicò il re e i suoi funzionari, e costrinse Enrico ad accordarsi con Anselmo: il re rinunciava a consegnare pastorale e anello ai vescovi, però questi dovevano comunque offrire al monarca un corpo di truppe prima dell’investitura (dieta di Londra, 1107). In Francia e Inghilterra si delinea insomma una distinzione tra ministero ecclesiale e beni e poteri temporali ad esso collegati. Sarà questa distinzione, anche se non totale separazione, a trionfare a Worms, non senza un passaggio che potremmo considerare una sorta di fallito esperimento utopico. Nel 1111 Enrico scende in Italia per farsi incoronare. Nelle complesse trattative per giungere all’incoronazione, non intende perdere il controllo dei poteri che in Germania e nord Italia sono connessi alle cattedre episcopali. Allora il papa e il futuro imperatore giungono a un compromesso, mantenuto segreto: d’ora in avanti i vescovi dell’impero non avranno più l’investitura imperiale ma restituiranno al monarca anche i poteri delegati sul territorio14. All’atto dell’incoronazione il patto viene reso noto e l’episcopato reagisce negativamente, a quel punto con un colpo di mano Enrico V prende prigioniero Pasquale e si allontana da Roma. Due mesi dopo, rilascia papa e cardinali a seguito di un trattato: l’imperatore continuerà a conferire anello e pastorale, ma dopo l’elezione canonica e prima dell’ordinazione. In realtà lo scontro continua, perché l’imperatore pretende di controllare le elezioni episcopali. Ma progressivamente il partito riformatore, tenendo fermo il rifiuto di 14 Non è detto che questo significasse una totale perdita di potere da parte dei vescovi investiti di diritti “regali”: secondo il Cantarella (DP 230-231), in realtà, Pasquale concedeva a Enrico di recuperare tutti i diritti pubblici dell’impero e di ridistribuirli, probabilmente agli stessi vescovi e abati. Ma questi ultimi compresero bene il rischio e rifiutarono l’accordo, alla cui elaborazione non avevano peraltro partecipato. 164 investitura ecclesiastica da parte dell’imperatore o degli altri aristocratici, apre una disponibilità a discutere con la corte sui diritti “regali” collegati alle cariche ecclesiastiche. Worms 1122 e il “I concilio lateranense”. Durante il governo del successore di Pasquale II, Gelasio II (1118-1119), Roma ridiviene inquieta per gli scontri fra le fazioni aristocratiche dei Frangipane e dei Pierleoni15, che si appropriano dell’una e dell’altra delle case-forti e dei quartieri della Roma medievale. Gelasio è costretto a fuggire dalla città e a rifugiarsi a Cluny, mentre in Roma viene eletto un antipapa filoimperiale (Gregorio VIII, 1118-1121)16. A Gelasio succede Callisto II, di famiglia comitale borgognona, e appoggiato fortemente dalla corona capetingia. Nel frattempo Enrico V è in difficoltà per lo schierarsi dei vescovi tedeschi dalla parte del papa (dieta di Goslar 1120). L’imperatore intavola trattative che sfociano nel cosiddetto concordato di Worms, stipulato nel 1122 e sanzionato dal concilio lateranense dell’anno successivo. La soluzione raggiunta a Worms è un compromesso tra le parti, basato su una duplice distinzione, simbolica e geografica. A livello di simboli, si realizzava nell’impero quella separazione già ottenuta in Francia e Inghilterra: il ministero ecclesiale era rappresentato dall’anello e dal pastorale, e veniva conferito solo dall’autorità ecclesiastica a seguito di regolare elezione canonica. Lo scettro, segno delle “regalie”, cioè del potere politico delegato, era attribuito dall’imperatore. Inoltre in Germania il conferimento dello scettro deve avvenire subito dopo l’elezione canonica e prima della consacrazione e quindi del segno di anello e pastorale, e quindi l’imperatore ha una maggior influenza sull’elezione episcopale, che avviene in presenza dell’imperatore o dei suoi missi. In Borgogna e Italia, invece, lo scettro sarà concesso dall’imperatore entro sei mesi dopo il rito di consacrazione, il che, ovviamente, è sintomo di maggior autonomia della nomina dei vescovi. Il concordato di Worms è, l’abbiamo detto, un compromesso. Non è la separazione tra potere episcopale e potere politico, probabilmente irrealizzabile in quei secoli. E’ l’attuazione del possibile, un ridimensionamento dell’influenza dell’aristocrazia laica sulla vita della Chiesa occidentale che non arriva all’espulsione e a dipanare completamente l’intreccio, ma che permette il ripristino della regolarità di elezioni canoniche e la nomina di vescovi ben decisi a far prevalere la riforma contro la simonia e il concubinato dei sacerdoti. E’ altresì significativo che il trattato di Worms sia confermato da un sinodo lateranense, 15 Il capostipite di questi, un finanziere di origini ebraiche, Pietro di Leone, si era fatto battezzare. 165 erede e continuatore dei “sinodi quaresimali” della Chiesa romana ma riconosciuto dalla tradizione canonica occidentale, a partire dal XVI secolo, come “concilio ecumenico”, il nono secondo il conteggio latino, il primo del secondo millennio. Gregorio VII aveva ripristinato i sinodi lateranensi, prima di lui Leone IX aveva fatto dei sinodi lo strumento principale della riforma, dopo di lui Urbano II aveva saldato la tradizione romana con quella francese dei sinodi di pace: ormai il concilio è l’assemblea della christianitas convocata, presieduta e guidata dal papa. Il pontefice e la sua sede romana sono ormai completamente autonomi dall’intervento imperiale: ricordiamo che meno di un secolo prima di Worms, Enrico III aveva disposto del destino di coloro che rivendicavano la legittimità della loro elezione come papi. Come osserva Giovanni Miccoli (EP 2, 253), con e dopo Worms Roma è definitivamente il punto chiave dell’indipendenza della Chiesa dai poteri politici. § 65: una teologia militante. Bibliografia: FM 8, 247-273; 13, 45-96; J 4, 601-610; L 477-487 Nei paragrafi precedenti abbiamo incontrato figure che sono note nei sereni ambiti della filosofia e della teologia: Lanfranco di Bec, Desiderio di Monte Cassino, Anselmo d’Aosta, ma anche Pier Damiani. Forse non ci immagineremmo che un pensatore acuto e mistico come Anselmo sia stato per anni impegnato tra il governo episcopale e l’esilio per lo scontro col suo re. Ma in questi decenni si può parlare davvero di una teologia militante, inestricabilmente collegata con i dibattiti politico-ecclesiastici ma soprattutto con le questioni pastorali del loro tempo. In questo tempo giungono a maturazione processi di raccolta di principi e leggi canoniche. Sono le compilazioni cosiddette “pre-grazianee”, cioè precedenti al decretum Gratiani di cui parleremo successivamente. Da più parti, in varie zone dell’Europa occidentale, si sente il bisogno di raccogliere, riordinare, organizzare la sparsa e spesso trascurata legislazione canonica, prodotta dai sinodi antichi, dalle decretali papali (e dalle imitazioni “isidoriane”), dalle decine e decine di sinodi nazionali e riformatori dei secoli precedenti. Che c’entra la teologia col diritto canonico?, diremmo noi moderni, condizionati dalle rigide distinzioni dell’organizzazione illuministico-seminaristica degli studi clericali da Christian Wolff e Franz Stefan Rautenstrauch in avanti. In realtà queste operazioni che diedero origine al 16 Si tratta di Maurizio, arcivescovo di Braga in Portogallo, appoggiato dai Frangipane. Era una figura talmente poco significativa che i romani, con il loro noto stile, lo soprannominarono Burdinus, asinello. 166 diritto canonico del secondo millennio erano animate da un’intenzione radicalmente teologica e pastorale: si trattava di ritornare a una Chiesa pura, originaria, strutturata e guidata secondo le più antiche e limpide tradizioni. Il movimento riformatore gregoriano fu pieno di teologi che misero mano a nuove compilazioni canoniche: da Anselmo di Lucca al “cardinale” Deusdedit, da Bonizone di Sutri a Ivo di Chartres, e forse perfino Umberto di Silvacandida si diede da fare per una raccolta del genere. Non si trattava di un “nuovo” diritto canonico, ma di raccolte impostate in maniera innovativa e con l’utilizzo di fonti dimenticate o trascurate, o talvolta – ma ne erano inconsapevoli i compilatori – anche contraffatte, come per le pseudo-isidoriane o per una parte del materiale antifoziano, non a caso utilizzato in contesto antigreco o di approfondimento della questione del primato papale. A questo proposito, molta enfasi spesso viene data a quest’epoca come al momento dell’affermazione di un “papato” assolutisticamente travalicante i limiti del “primato” del primo millennio. Le semplificazioni spesso correnti vanno riviste. La teologia militante dei riformatori è il pensiero di una Chiesa, e di una chiesa romana, intanto sovrannazionale, di cui erano gli esponenti; di una Chiesa gerarchica sì, come si è visto sopra e come Congar bene mostra, con tendenze sicuramente più clericali, per contrasto con una struttura politica e aristocratica, dove i laici erano l’imperatore e la sua corte (e non i giovani di Azione Cattolica…); ma di una gerarchia che non si esaurisce affatto nel papa (e nei suoi legati), ma è costituita dai metropoliti e dai vescovi, canonicamente eletti, e convocati nei sinodi. Dal punto di vista normativo, il papa è centro e criterio di discernimento, ma anche questo non se lo sono certo inventato i gregoriani. Si accettano nelle raccolte le norme “non in contrasto” con la decretazione romana, anche sinodale. Quando però si tratta di scegliere tra norma e norma, scatta un accurato lavoro in cui entrano la “nuova” dialettica razionale e la filologia. Ovviamente la teologia non si esaurisce nelle compilazioni canonistiche. Si sono citati sopra i libelli de lite: geniale titolo contemporaneo (tre volumi appartenenti ai Monumenta Germaniae Historica, gigantesca opera editoriale del XIX-XX secolo) che raccoglie gli scritti dei pensatori di parte gregoriana e di origine imperiale, da Pier Damiani a Bonizone di Sutri, da Guido di Ferrara a Benzone di Alba, da Umberto di Silvacandida a Ivo di Chartres. Si tratta di testi che stanno a cavallo tra quella che oggi chiameremmo ecclesiologia, la politica, e la teologia sacramentaria. C’era la questione della validità dei 167 sacramenti dei simoniaci e quella del ruolo dell’imperatore nella Chiesa. Il cosiddetto Anonimo Normanno o Anonimo di York arriva ad affermare l’origine umana del primato pontificio e la rappresentanza di Cristo da parte di tutti i vescovi, una posizione estrema che non ebbe seguaci. Tra gli scrittori di parte gregoriana si nota la compresenza di posizioni teocratiche anch’esse estreme e di posizioni più moderate, che si rifanno al dualismo dei poteri, ecclesiale e politico, già teorizzato da papa Gelasio I nel V secolo17. I testi della discussione che per decenni animò lo studio dei pensatori delle due parti in causa interessano sia la teologia che la storia delle dottrine politiche. Nel contesto dell’impegno a imporre la riforma ad ogni costo, anche attraverso i metodi coattivi della pataria, e delle paci e tregue di Dio, emerge l’elaborazione di origine agostiniana portata avanti da Anselmo di Lucca sulla possibilità della guerra difensiva e dell’utilizzo del potere di coercizione per far rispettare le leggi ecclesiastiche. In questo periodo di sviluppo della teologia dei sacramenti, si radica nella pastorale e nella spiritualità la ripresa dei dibattiti sull’eucaristia con Berengario di Tours: si trattò di un approfondimento di quelle linee tra realismo e simbolismo eucaristico già intraviste in età carolingia (§ 42). Concludiamo queste poche righe destinate a collocare il dibattito teologico di quel tempo nel suo autentico contesto ecclesiale, con un cenno, minimo rispetto all’importanza del personaggio, di Anselmo d’Aosta, abate del monastero normanno di Le Bec e arcivescovo di Canterbury. Étienne Gilson, con l’acutezza che lo caratterizza sempre, afferma che in lui, come in ogni pensatore del medio evo, “lo stato sta alla Chiesa come la filosofia sta alla teologia e come la natura sta alla grazia”18. Si tratta dunque di un profondo intreccio, mai veramente dualistico, in cui il primo membro è, in qualche modo, necessario al secondo, ma sempre subordinato. Lo stato non può giungere al suo compimento senza l’apporto determinante della Chiesa, come la ragione umana è compiuta dalla (e ha la profonda esigenza della) teologia e come la natura non è residuale, ma senza la grazia vivrebbe un totale “senso d’irrisolto”… Tale ispirazione guida il pensiero di Anselmo, che si potrebbe, forse un po’ semplicisticamente ricondurre a un percorso dalla ragione alla fede di nuovo alla ragione, anche nelle sue scelte pastorali in cui fronteggia a viso aperto re Enrico I. 17 18 Cfr. DS 347. GILSON, Histoire…, 254. 168 § 66: sintesi e spunti di approfondimento. Cfr. HC 5, 97-103 (da generare un paragrafo sulla curia romana) La riforma gregoriana, che indubitabilmente impronta di sé la vita della Chiesa d’occidente nel secondo millennio, nasce da una duplice ispirazione: spirituale e pastorale. La prima istanza è certamente riconducibile al mondo monastico, che come sempre è il sensore più attento alle esigenze di fedeltà percepite rispetto all’originario cristiano, ma non si esaurisce in esso: basti l’esempio della Pataria lombarda, che con il monachesimo non sembra aver addentellati nel suo sorgere, a mostrare che la spiritualità del movimento “gregoriano” non è una “mentalità da monaci”. E anche i vescovi che, in un partito o nell’altro, propongono scelte di riforma non provengono solo dai chiostri. L’altra istanza della riforma è pastorale, e la stessa diffusione delle linee gregoriane in tutta Europa assume dimensioni apparentemente “canonistiche” e realmente di costruzione quotidiana della vita ecclesiale19. Si trattò, quindi, di rivedere le strutture ecclesiastiche e il loro concreto funzionamento, sia per rispettare quanto si sentiva di autenticamente evangelico e cristiano contro ogni corruzione morale, sia per mettere le comunità in condizione di operare per la diffusione del messaggio verso il mondo rurale e anche cittadino, ora che i centri urbani dànno prova di nuova vitalità. Non è un caso che sia una città come Milano a vedere i più violenti scontri tra i partiti. Il Reichskirchensystem, così come era stabilito nell’Europa imperiale nel secolo X e XI, e le analoghe strutturazioni presenti in Francia, Inghilterra e così via, sembrò a molti ormai inadeguato e anzi penalizzante a fronte dell’espansione del cristianesimo e delle esigenze della pastorale: un peso che condizionava in peggio il clero rurale, il ruolo dei vescovi, la chiesa romana. Dalla riforma scaturisce un nuovo stile pastorale, una profonda trasformazione della curia romana e delle sue modalità di azione, la nascita del “collegio cardinalizio”, un nuovo modo di gestire i sinodi sul territorio e quindi di interagire tra vescovi. In questo contesto si delinea un nuovo ruolo del vescovo di Roma, che il dibattito storiografico ha chiarito, tenendo conto che si tratta di un’evoluzione con dati di effettiva novità e aspetti di continuità rispetto agli ultimi secoli del primo millennio cristiano. Il papato con Worms conclude quasi otto decenni “di lotta e di governo”, di esperienze tragiche e di successi non effimeri, suggellando la continuità “gregoriana” delle elezioni 169 pontificie. Roma ha visto profonde evoluzioni nella struttura dell’antico patriarchium: se le lotte interne della nobiltà terriera del Lazio non smettono di influire sulla vita della città, il collegio dei cardinali ha assunto una forma, un modus operandi, una consapevolezza che offrono maggior strutturazione, continuità e una libertà di movimento di una certa ampiezza. Il papa pellegrino e presidente, direttamente o per intervento dei legati, dei snodi di riforma di tutta Europa è riconosciuto come la guida, colui che “struttura attivamente” lo slancio di evangelizzazione (che per molti aspetti è inestricabilmente anche espansione) della cristianità occidentale. La Chiesa latina accentua l’impronta gerarchica e clericale, emarginando – non totalmente ma significativamente – i laici dell’aristocrazia dalle decisioni interne; questo sembra comportare un processo di desacralizzazione del potere politico, con la sconfitta della teologia imperiale. Si può discutere se questo percorso, oltre ad avere in nuce le linee teocratiche che si svilupperanno più avanti, sia stato un passaggio determinante verso la laicità del rapporto tra religione e potere politico che è, a detta di molti, uno dei caratteri dell’occidente europeo. La riforma gregoriana e le vicende della seconda metà dell’XI secolo sono temi di ampio dibattito tra gli storici. Come spunti di approfondimento suggeriamo la lettura dei saggi di A. Paravicini Bagliani sulle tematiche simboliche del primato romano, come l’uso delle insegne imperiali, la crescente attenzione alla vita e alla morte del papa, al delicato passaggio “caotico” tra la fine terrena di un vescovo di Roma e l’elezione del suo successore, al binomio tra apostolicità e fragilità-transitorietà nella persona del papa. E’ altresì interessante prendere in esame i punti di vista diversi tra oriente ed occidente riguardo allo scontro tra Umberto di Silvacandida e Michele Cerulario e all’effettiva importanza della data del 1054 come periodizzante. Infine si possono confrontare le differenti, per certi aspetti opposte letture date al pontificato di Pasquale II e dei patti intercorsi nel 1111 tra il papa e Enrico V: utopia di una Chiesa povera e senza potere (scuola dell’università Cattolica di Milano, con P. Zerbi; G. Miccoli in EP 2, 229) o abili tentativi di equilibrio diplomatico (G. M. Cantarella)? 19 Si veda ad esempio il recente saggio di J. M. SOTO RÁBANOS, La práctica de la pastoral en la Península Ibérica (siglos XI-XII), in La pastorale della Chiesa in Occidente dall’età ottoniana al concilio lateranense IV, Milano 2004, 251-297. 170 CAPITOLO IX –“NORMALIZZAZIONE” DELLO SLANCIO: L’ETÀ DI BERNARDO § 67: Lo scisma papale del 1130, sintomo di normalizzazione Bibliografia: FM 9/1, 55-93; J 5/1, 5-14; GV 424-432; HC 5, 180-194; P 83-85; EP 2, 261272 Per comprendere come sia stato possibile che, pochi anni dopo il concordato di Worms e il I concilio lateranense, la sede romana abbia attraversato una crisi di notevole gravità, bisogna tener presenti vari fattori. Anzitutto il collegio dei cardinali ha un’importanza ormai consolidata, visibile nella produzione documentaria di questi decenni, in cui i titolari delle diverse cariche sottoscrivono col papa i documenti più importanti, ossia le costituzioni apostoliche. Tutti i ruoli chiave della curia romana, in questo periodo criticata duramente da Gerhoh di Reichersberg, sono nelle mani dei cardinali, un gruppo di chierici di provenienza internazionale e nominati direttamente e unicamente dal papa. In particolare la legislazione sulle elezioni pontificie e gli usi ormai consolidati da decenni di governo riformista mettono in rilievo due elementi: il ruolo determinante dei sette cardinali vescovi delle diocesi “suburbicarie”20 e il momento cruciale della morte del vescovo di Roma. A questo riguardo va sottolineato che nei decenni di lotta tra riformisti e imperiali le elezioni avevano ricevuto una normativa ma in continua evoluzione e adattamento, ed erano state esercitate in situazioni di emergenza, fino ad arrivare a nomine papali fuori Roma, a acclamazioni e così via. Dunque le leggi sulla scelta del nuovo papa non si erano ancora consolidate, si intrecciavano con tradizioni liturgiche anch’esse in evoluzione, e il momento di vacanza manteneva un significato critico. In secondo luogo era entrata nel collegio cardinalizio, durante i pontificati di Callisto II (1119-1124), borgognone, e di Onorio II (1124-1130), bolognese, una nuova generazione di cardinali. Si trattava di francesi e italiani del nord, per lo più non monaci ma canonici regolari, cioè provenienti da un mondo religioso diverso e nuovo rispetto a quello che aveva avviato e difeso la riforma gregoriana. La leadership di questo gruppo era di Aymeric, francese, cancelliere della curia romana, forse egli stesso canonico regolare. Si potrebbe dire 20 In questo periodo le sette sedi suburbicarie sono: Ostia, Albano, Velletri, Silvacandida, Labicum/Gabii, Porto, Praeneste (Palestrina): cfr. FM 7, 164. Più tardi Sabina si sostituirà a Velletri e al posto di Gabii si avrà Tusculum (Frascati): HC 5, 98. Attualmente le sedi suburbicarie sono: Albano, Palestrina, Frascati, Sabina e Poggio Mirteto, Velletri e Segni, Porto e Santa Rufina (che ha assorbito Silvacandida) e Ostia. 171 che l’ispirazione dei “nuovi riformisti” fosse quella di passare da una situazione di emergenza, necessaria per imporre la riforma ma ormai inutile, alla condizione normale e tradizionale della gestione del potere ecclesiastico, rimesso nelle mani dei vescovi, ormai tutti coinvolti nell’impegno di riforma. I “nuovi riformisti” erano naturalmente alleati dei Frangipane, nobili romani filo-imperiali. Rimaneva però nel collegio il partito dei vecchi gregoriani, per lo più monaci provenienti dal centro e sud Italia (Monte Cassino) e da Cluny, entrati nella curia durante il lungo pontificato di Pasquale II, legati alle modalità emergenziali che a suo tempo avevano resistito alle pressioni di Enrico IV e Enrico V. I “vecchi gregoriani” erano vicino alla fazione nobiliare dei Pierleoni. Si noti che in questo periodo si colloca il passaggio più critico della storia medievale di Cluny, con l’elezione e poi la rimozione dell’abate Ponzio di Melgueil (1109-1122: cfr. § 46): segnale che le grandi querce della riforma monastica cominciavano a invecchiare… Già l’elezione papale del 1124 fu segnata da tensioni e momenti di grande incertezza, e dalla contrapposizione dei due partiti e delle rispettive fazioni aristocratiche romane, con un compromesso in extremis sul nome di Lamberto di Ostia, non a caso il principale dei cardinali vescovi, in precedenza membro di una congregazione di canonici regolari. Nel 1130 le vicende si succedono a ritmo concitato. Onorio è ormai morente, e i due partiti per intervento di Aymeric si accordano per un procedimento che nel diritto medievale si chiamava “per compromesso”. L’accordo era che solo dopo la sepoltura di Onorio si sarebbe riunita una commissione ristretta di otto cardinali, rappresentanti delle due fazioni, in una delle case-forti controllate dai Frangipane, per esprimere il nuovo papa in tempi brevi per evitare scontri nelle strade cittadine. Onorio II moriva nella notte tra il 13 e il 14 febbraio. Aymeric per timore degli interventi dei Pierleoni tentava il colpo di mano: in quella notte stessa faceva seppellire Onorio, radunava immediatamente “gran parte” della commissione ristretta, cioè tutti i suoi e la minoranza degli altri, e faceva eleggere Gregorio Papareschi, che prese il nome di Innocenzo II. Il mattino successivo i “vecchi gregoriani”, scoperta la vicenda, riuscivano a radunare la maggioranza dei cardinali e a far eleggere il leader della loro corrente, Pietro Pierleone, Anacleto II. Quest’ultimo prese presto il controllo della città di Roma, scacciando il rivale. Anche Milano si schiera con Anacleto, invece con Innocenzo progressivamente si alleano l’impero, alleato dei Frangipane, e la Francia, da cui proviene Aymeric. Un ulteriore sponsor di Innocenzo sarà l’ascoltatissimo Bernardo di Chiaravalle. Lo scisma dura otto anni, fino alla morte di Anacleto. I due rivali, 172 per aver dalla loro parte i normanni in ascesa, offrono privilegi a Ruggero II, che, giocando abilmente sui due tavoli, uscirà dallo “scisma innocenziano” con il titolo di re e con una forma di delega papale per le questioni ecclesiastiche della Sicilia che sarà il primo seme di quell’interessante realtà giuridica che prese il nome di “monarchia sicula” e che durò fin dopo l’unità d’Italia nel XIX secolo. Il concilio lateranense del 1139, secondo per l’enumerazione latina dei concili ecumenici, sanzionerà la fine dello scisma e la vittoria dei “nuovi riformisti”. La crisi dello “scisma innocenziano” vede il prevalere del gruppo dei più giovani e quindi dell’idea di ritorno alla normalità dopo i ferventi decenni della lotta con l’impero. La guida della Chiesa torna ai vescovi e agli arcivescovi, e si punta a buoni rapporti coi governi, in particolare con l’impero germanico. E’, in fondo, la vittoria della Chiesa di Aymeric, di Bernardo e di Norberto di Xanten, fondatore dei premonstratensi e arcivescovo di Magdeburgo: una Chiesa meno legata al piccolo mondo riformista centro-italiano, più universale, più cosciente del cambiamento dei rapporti sociali. In fondo, i grandi gruppi monastici come Cluny facevano parte integrante dei sistema feudale, che in quei decenni cominciava ad andare in crisi. Dopo lo scisma innocenziano la normativa sull’elezione papale fa un passo avanti: bisogna rispettare rigidamente gli usi sulla celebrazione funebre e la sepoltura del papa prima di iniziare i procedimenti di elezione; una attenzione che progressivamente si cristallizzerà nei riti dei cosiddetti “novendiali”, tutt’ora in uso. In tutto questo, non va dimenticato un altro elemento: Roma, con i suoi aspetti originali ma anche con le analogie rispetto alle città del nord e centro Italia in pieno sviluppo economico e istituzionale, ridiventa inquieta, teatro di scontro tra fazioni e clan familiari. Tuttavia Paradossalmente il prestigio del papato usciva rafforzato dallo scisma. Riservando un posto centrale alla cura animarum, alla formazione del clero, alla spiritualità esigente dei canonici regolari e dei premonstratensi, i progetti riformatori di Innocenzo II presupponevano un legame più forte tra un papato consapevole della sua forza e le tensioni profonde di una società cristiana in cui si stavano realizzando profondi mutamenti. Per portare a termine la sua opera di riforma, Innocenzo II aveva bisogno di una curia più centralizzata, internazionale e meno romana (A. Paravicini Bagliani in HC 5, 193). 173 § 68: l’età di Bernardo, quindici anni di accordo tra papato e impero (1138-1153) Bibliografia: FM 9/1, 93-136; J 5/1, 33-49; GV 432-437; HC 5, 194-199; P 85; EP 2, 272286 A Innocenzo II, morto nel 1143 succedono i due brevi governi di Celestino II e Lucio II, poi un cistercense, figlio spirituale di Bernardo, Eugenio III (1145-1153). Dal 1138 al 1152 è imperatore Corrado III, nipote di Enrico V e fondatore della dinastia degli Svevi (come diciamo in Italia) ossia Hohenstaufen (secondo la tradizione storica tedesca). Forse è esagerato affermare che si tratta dell’unico quindicennio di pieno accordo tra Roma e l’impero, ma poco ci manca: nel 1152 a Corrado succede il figlio, Federico I, detto Barbarossa, e dunque presto si aprirà un nuovo contenzioso. Segnale dell’apice dell’armonia tra regni e Chiesa occidentale, ma anche della fragilità dell’equilibrio, sarà la cosiddetta seconda crociata, o crociata dei re, che parte con le migliori condizioni e si trasformerà in un pesante fallimento, ma se ne parlerà più oltre. Qui la citiamo come l’espressione di una sorta di utopia, incarnata da Bernardo: tutti i regni dell’Europa, uniti nella difesa della fede, accorrono in aiuto dei domini crociati, sotto la guida del papa. Al di là e al di sotto dei buoni rapporti tra papato e impero, papato e regni di Francia e Inghilterra, non mancano tensioni che emergeranno in maniera sconvolgente nel futuro. In Italia, del nord e del centro, lo spazio lasciato libero da Corrado, più interessato a stabilizzare il suo potere oltralpe, viene occupato dalle città, in pieno sviluppo economico. Queste si appropriano di diritti e poteri statali, come ad esempio il battere moneta; cominciano a emarginare i vescovi dal potere, quei vescovi attorno a cui s’era formata quella classe di laici collaboratori e vicedomini che era la stessa classe dirigente dei liberi comuni; e gareggiano tra loro in lotte economiche che degenerano in vere e proprie guerre. A Roma stessa scatta un processo di istituzionalizzazione della città: ritorna il senato, che si sente erede dell’antico e repubblicano senatus populusque. Attorno al 1143 un canonico di posizioni teologiche e politiche estreme, Arnaldo da Brescia, scacciato dalla sua città per la sua predicazione pauperistica, dopo una fuga in Francia, Svizzera e Boemia, guida il movimento contro il potere del papa. Nel 1155 sarà consegnato a Federico I, che lo metterà al rogo. Se Roma è in buoni rapporti con Corrado III, la Francia e l’Inghilterra, l’Italia del sud, pur formalmente sottomessa la dominio feudale del papa ha assunto una struttura unitaria e indipendente sotto il dominio dei normanni, che oltre a costituire un’entità economicamente 174 prospera, ad aver liquidato definitivamente gli ultimi resti del dominio arabo sulla Sicilia e a assorbire i domini cittadini sul Tirreno, puntava a territori che il papato considerava parte integrante del Patrimonium Petri e giocava sullo scacchiere europeo e mediterraneo attraverso i legami di sangue con i re d’Inghilterra e i principi di Antiochia. La curia romana, ormai un organismo internazionale e centralizzante, avoca a sé sempre più questioni, in particolare tutte quelle connesse con le esenzioni monastiche, suscitando le reazioni del già citato Gerhoh, del geniale Giovanni di Salisbury e dello stesso Bernardo di Chiaravalle. § 69: gli spazi del monachesimo e della vita religiosa Bibliografia: FM 8, 577-623; 9/1, 15-53; 137-176; 347-396; J 4, 584-600; 5, 15-32; L 456477; GV 636-662; HC 5, 151-175; 360-396; P 92-114; J. LECLERCQ, Bernardo di Chiaravalle, Milano 1992; Gr. PENCO, Il monachesimo, 123-144; nelle pagine seguenti un vasto quadro del monachesimo medievale (145-215). Collochiamo qui notizie e interpretazioni riguardanti alcuni filoni di vita consacrata, che, spesso nati qualche decennio prima, in questo periodo vedono il massimo dello sviluppo e dell’influenza sulla Chiesa occidentale di questo tempo. La vita monastica e forme analoghe in questo periodo conserva una sorta di grande leadership sulla cristianità latina. Per un secolo, da Gregorio VII (1073) a Adriano IV (1159) pressoché tutti i vescovi di Roma provengono dal monastero o dal convento di canonici regolari, via via coinvolgendo le realtà più “in voga” a seconda dei periodi: da Monte Cassino a Cluny a Cîteaux. E’, questo, anche un periodo di evoluzione di forme, dalla ripresa della regola benedettina in una sorta di “ideale” originario con i cistercensi, al sorgere del modello della “vita apostolica”, allo stabilizzarsi delle forme semieremitiche della certosa. E saranno le realtà che sorgono da questa evoluzione, o continua ricerca di una “forma” di vita cristiana totalizzante, che stanno dietro il passaggio dalla riforma militante dell’età gregoriana capace di liquidare il Reichskirchensystem con scelte radicali, alla seconda riforma, strutturale e morale, consolidata e diffusa capillarmente dai nuovi ordini religiosi. I cistercensi. La partenza di Cîteaux non è del tutto chiarita nel suo emergere: sembra di scorgervi l’opera di un abate benedettino in cerca di una vita più essenziale, Roberto di Molesme, poi costretto a riprendere la guida della sua abbazia, e di tre suoi seguaci, Alberico, Roberto e Stefano (Harding, di origine inglese quest’ultimo), che nel 1098 si 175 stabilirono in un luogo abbandonato e paludoso, feudo del duca di Borgogna. Era Cîteaux, nome che sembra derivare da cistels, canne palustri. Quel che è certo è che le origini del Novum Monasterium non erano un’iniziativa signorile, e che il primo gruppo, dopo un primo periodo di entusiasmo, stava per esaurirsi e sarebbe finito in un fallimento se non fosse arrivato un giovane nobile, Bernardo, con una schiera di parenti e amici come lui in cerca di una vita monastica estrema e povera. Quattro sembrano essere le caratteristiche del fenomeno cistercense: la rinuncia dell’esenzione monastica, la strutturazione tramite la Charta charitatis, lo sviluppo della realtà dei conversi e il ritorno a un certo tipo di “originale” benedettino. Vediamo in dettaglio. - Originariamente, e in maniera differente e contrapposta a Cluny e a una linea di tendenza che andava diffondendosi, i cistercensi non chiedevano il privilegio dell’esenzione monastica ma sceglievano di restare legati e sottomessi al vescovo del luogo: segno che l’episcopato era già stato toccato dalla riforma e la poteva garantire; più tardi, peraltrro, anche Cîteaux scelse la strada dell’esenzione, per mantenere unita una struttura che s’era diffusa in tutta Europa con uno sviluppo enorme. - La Charta charitatis era la normativa che andava completando la regola benedettina soprattutto per quel che riguardava i rapporti tra i monasteri, ed è caratterizzata da una centralizzazione flessibile. Da Cîteaux erano nate quattro abbazie: Clairvaux, La Ferté, Pontigny, Morimond, tutte in Borgogna. Queste cinque prime case erano le “matrici” da cui tutte le altre abbazie erano “figliate” e si sentivano dipendenti, collegandosi a volte tramite lo stesso nome, come Chiaravalle Milanese e Chiaravalle della Colomba (PR) a Clairvaux, o come Morimondo (MI) a Morimond. Gli abati delle abbazie madri annualmente svolgevano visite ai monasteri figli, e frequentemente convocavano capitoli generali con la presenza dei superiori e dei rappresentanti delle abbazie dipendenti. Il sistema aveva qualche somiglianza, ma una minor rigidezza rispetto a quello cluniacense, e permetteva contatti frequenti e un veloce passaggio di notizie e interventi. - I cistercensi rifiutarono di accogliere “oblati”, cioè bambini e adolescenti inviati dalle famiglie in monastero per la formazione scolastica e spesso legati per sempre, con una vocazione che oggi ci sembrerebbe forzata ma che allora era normale, al monastero. Le abbazie, per antica tradizione, erano dunque popolate da sciami di ragazzini, e investivano forze notevoli nel lavoro pedagogico. I cistercensi per secoli evitarono questa impostazione. Invece scelsero di sviluppare la presenza di un altro gruppo, quello 176 dei “conversi”. Non si tratta, a quanto pare, di un’invenzione cistercense, ma certo in questi monasteri “bianchi”21 questo gruppo assunse un’importanza determinante. I conversi erano giovani o adulti provenienti da famiglie del popolo, illetterati e quindi incapaci di cantare l’ufficio – i piccoli “oblati” benedettini, per contro, erano formati fin da adolescenti a questo compito. Avevano obblighi di preghiera semplificati, consistenti in ripetute recitazioni del Pater Noster. Insieme a questa preghiera semplice, i conversi si occupavano direttamente della bonifica e della conduzione delle terre affidate al monastero, e spesso svilupparono competenze tecniche notevolissime riguardanti, ad esempio, la canalizzazione delle acque e la costruzione di argini. Il lavoro agricolo, condotto direttamente dai monaci, era impostato in modo da non bonificare completamente le terre assegnate ma di lasciare degli spazi incolti (il che farà dei cistercensi i maggiori proprietari di foreste d’Europa e quindi di legname per travature di grandi costruzioni e per la cantieristica navale), quasi un anticipo di quel che oggi si chiamerebbe sviluppo sostenibile. E creò il sistema delle “grange” (grange, in francese, significa granaio), basi avanzate dove i monaci risiedevano durante il tempo del raccolto, in condizioni di continuare comunque la vita regolare. - Ma lo scopo finale del movimento nato a Cîteaux era il ritorno all’ideale monastico benedettino. Quindi i cistercensi cercano luoghi solitari e abbandonati come paludi, foreste e deserti, vivono una vita povera, abbandonano le comodità del vestito e le mitigazioni della dieta, semplificano la liturgia dalle superfetazioni cluniacensi e ritornano alla lectio, e tutti i monaci devono dedicarsi anche al lavoro manuale nei campi. Meno curato sarà l’impegno alla copiatura dei manoscritti. Alcuni autori cistercensi, Bernardo su tutti, avranno un ottimo livello culturale; ma le biblioteche dei monasteri bianchi saranno spesso ridotte al minimo indispensabile. Le chiese devono essere povere e senza decorazioni. La colonizzazione dei luoghi abbandonati ha come ideale la costruzione di una piccola “città di Dio”, un anticipo della nuova Gerusalemme in terra, visibile anche nella struttura e nelle proporzioni del monastero. Presto i cistercensi, oltre a passare al sistema dell’esenzione monastica, finiranno per non coltivare più direttamente le terre ma a limitarsi a sovraintendere il lavoro dei campi. Intanto, in uno slancio che attraversa tutto il secolo XII, i monasteri “bianchi” aggrediranno 21 I cistercensi si dicono anche benedettini bianchi per il colore delle vesti, di lana grezza non tinta, mentre il colore tradizionale delle vesti dei benedettini era il nero. 177 molte zone spopolate d’Europa, riformeranno monasteri in decadenza, contribuiranno in maniera determinante alla cristianizzazione del nord e dell’est dell’Europa e, più in generale, al consolidamento della cristianizzazione in territorio rurale22. In generale, manterranno sempre buoni rapporti coi governanti, dai duchi di Borgogna agli imperatori Staufen, ai re di Portogallo che su faranno seppellire sempre in una loro abbazia. Canonici regolari. Anche questi gruppi nascono spesso prima dei decenni dello scisma innocenziano, tant’è vero che ne saranno protagonisti23. Come quello di Cîteaux, il movimento della vita canonicale regolare nasce dal basso, non da iniziative dell’aristocrazia. Forse i primi focolai si collocano nell’Italia centrosettentrionale, anche se il grande sviluppo sarà nei paesi dell’impero. L’ideale, come s’è già detto sopra, è quello della “vita apostolica”: chierici, spesso sacerdoti, che scelgono di vivere come gli apostoli, facendo vita comune in luoghi solitari, vivendo la povertà, e dedicandosi alla predicazione, quindi alla vita pastorale diretta. Generalmente i “conventi” di canonici regolari sono in buoni rapporti e collaborazione pastorale coi vescovi, in particolare con i grandi vescovi principi dell’impero. Lo stesso fondatore di una di queste congregazioni, Norberto di Xanten, che crea i Premonstratensi (dal luogo della prima casa, Prémontré, tra la Francia e il Belgio), diverrà arcivescovo di Magdeburg. Dopo Worms le congregazioni di canonici regolari conoscono un grande sviluppo, cercando di armonizzare vita contemplativa e impegno di predicazione e di vita pastorale, talvolta assumendosi la cura di parrocchie rurali, pur continuando a far vita comune. In vari casi subentrano ai capitoli cattedrali. La vita religiosa è normata dalla “regola di sant’Agostino”. Canonici regolari e ordini cavallereschi, spesso simili o apparentati tra loro, gestiscono luoghi di passaggio dei pellegrini, soprattutto sul cammino di Santiago. La congregazione più importante e più diffusa è quella dei premonstratensi24, che progressivamente vedrà un’accentuazione della vita contemplativa e, grazie alla moltiplicazione delle sue case, in analogia con i legami di centralizzazione flessibile dei cistercensi, si strutturerà in province, sistema che sarà riprodotto dagli ordini mendicanti nei secoli successivi. Ai premonstratensi si affiancherà una congregazione di canonichesse regolari. 22 Si vedano le carte n° 52-53 dell’Atlante di storia della Chiesa Sui primi esempi di canonici regolari (Bernardo d’Aosta, Antoniti, Lateranensi, Ivo di Chartres) si può vedere I. GOBRY, L’Europa di Cluny, Roma 1999, 266-276. 24 Si veda la carta n° 54 dell’Atlante di storia della Chiesa. 23 178 Meno noti dei cistercensi, i canonici regolari sono significativi in questo arco storico per l’apporto specifico alla cultura ecclesiale (oltre che per il progresso nell’arte di produzione della birra): sarà una congregazione di canonici regolari, non grande ma di eccellenza, quella di Saint Victor a Parigi, uno dei luoghi determinanti per la nascita della teologia “scolastica”. Inoltre, mentre in questo periodo solo Eugenio III proviene dai cistercensi, tutti i papi da Onorio II a Adriano IV, meno due tra cui proprio Eugenio, provengono sicuramente da congregazioni di canonici. Gli studi comparativi sulle regole e i “costumieri” delle diverse congregazioni mostrano un’osmosi normativa e di scelte tra le varie congregazioni di canonici regolari e riforme monastiche, in particolare cistercensi. Altri aspetti della vita consacrata del XII secolo; Bernardo, una figura “sintetica”. E’ in questo periodo, in concomitanza con le crociate ma anche con la reconquista della penisola iberica e con la penetrazione del cristianesimo nei paesi baltici, che sorgono i cosiddetti ordini cavallereschi. Questi, si può dire, si distinguono progressivamente da congregazioni di frati ospitalieri, ma in realtà il ceppo di origine è comune. Si tratta, cioè, di gruppi di religiosi non sacerdoti, a volte provenienti dalla nobiltà guerriera, altre volte dalla borghesia cittadina, che si dedicano alla gestione di “ospitali”, cioè luoghi di cura dei malati, di ospitalità di pellegrini, di poveri, di convalescenti. A volte, come gli antoniti, si specializzano per alcune malattie; altri si stabiliscono presso ponti di particolare traffico dove si occupano dell’accoglienza dei pellegrini e della manutenzione delle delicate infrastrutture. Tra loro può esserci un sacerdote che fa da cappellano. Generalmente questi gruppi seguono la regola agostiniana. Solo qualche volta varie case si legano tra loro con un’organizzazione più complessa, in molto casi il gruppo di una casa rimane indipendente, e spesso questo porta a una rapida degenerazione rispetto all’ideale primitivo. Da simili strutture sorte a Gerusalemme sorgono i cavalieri teutonici, gli ospitalieri di San Giovanni e i cavalieri del Santo Sepolcro. I Templari, anch’essi originariamente un gruppo di nobili dedicati all’ospitalità e alla difesa dei pellegrini con base dove si credeva che fosse il tempio di Salomone, ricevono un’apposita regola scritta per loro da Bernardo di Chiaravalle. S’è visto sopra che i teutonici si dedicheranno alla “crociata” evangelizzatrice nei paesi baltici, giovanniti e templari formeranno il nerbo della cavalleria nei domini crociati di Terra Santa, temuti e odiati dai musulmani, mentre nella penisola iberica si formeranno gli ordini di Calatrava e di Alcántara, e altri minori. 179 Pressoché ogni movimento religioso sorto nei secoli XI e XII vede la presenza di donne accanto agli uomini: Prémontré avrà i suoi conventi di canonichesse, Cîteaux una congregazione di monache; nasceranno ancora congregazioni con monasteri doppi, come Sempringham in Inghilterra, anche se talvolta alcune fondazioni si trasformeranno col passare del tempo in istituzioni esclusivamente femminili. Anche gli ordini cavallereschi e i gruppi “ospitalieri avranno il loro versante di monache. Come s’è visto sopra, e si vedrà anche nel prossimo capitolo, Bernardo di Chiaravalle è, per certi aspetti, onnipresente. Monaco ma uomo d’azione, si calcola che abbia trascorso due terzi della sua vita fuori dal monastero. Non è il fondatore dei cistercensi, ma senza la sua presenza e la sua formidabile opera di diffusione e di reclutamento vocazionale, il suo ordine non sarebbe stato quello che fu. Ma, per certi aspetti, anche la storia di quei decenni del XII secolo sarebbe stata diversa. La sua visione della vita monastica è una scelta rigorosa dell’ascesi, anche al di là della saggia moderazione di Benedetto. Per questo, il “giovane” Bernardo scatena polemiche contro la grande e vecchia Cluny, colpevole di aver riempito le chiese di decorazioni inutili e ricche, di vestire i suoi monaci di pellicce, di abbondare nel cibo; anche se, almeno in parte, arriverà a moderare alcune punte della sua polemica. Ma le due interpretazioni, quella cluniacense e quella cistercense, della regola benedettina effettivamente sono in tanti aspetti opposte tra loro. Ma Bernardo è anche il mistico cantore dell’amore divino, con il suo ampio commento al Cantico dei Cantici; e il libro biblico dell’amore sarà uno dei campi di esegesi e omiletica del mondo cistercense: una risposta all’ideale dell’amore cortese che andava diffondendosi? Certo, è possibile, visto che, tra l’altro, Bernardo veniva da quella jeunesse dorée aristocratica che vive il suo apogeo nell’Europa in pieno cambiamento dei secoli XI-XIII. Infine Bernardo è giudicato dagli storici come l’ultimo difensore, insieme a Otloh di Sant’Emmeran e Manegold di Lautenbach, della teologia come sacra Pagina, commento amorevole e mistico delle Scritture, di ambiente tipicamente monastico, in contrasto con il diffondersi della teologia come dialettica, la teologia delle scuole e delle città, di Abelardo e di Gilbert de la Porrée. La sua polemica contro la vana filosofia porterà al culmine la resistenza già iniziata da Pier Damiani. In sintesi, si può dire che questi ordini religiosi, svincolati dalla struttura feudale ormai in condizioni critiche, condurranno la riforma dell’XI secolo dallo stato di emergenza alla 180 penetrazione capillare, accompagneranno la colonizzazione di vaste zone d’Europa in seguito al boom demografico, avranno un ruolo determinante nella stabilizzazione delle immagini e dei contenuti cristiani in quel lungo processo “dalla conquista alla conversione” che s’è cercato di descrivere al capitolo VII. Per la prima volta, nascono congregazioni a dimensione europea, dopo Cluny, ma con una strutturazione altrettanto centralizzata e ordinata, ma decisamente più flessibile. All’interno della spiritualità cistercense, gli studiosi intravedono già la “riscoperta dell’individuo”. Anche questo aspetto, insieme alla novità di congregazioni organizzate e al diffondersi, tramite e canonici regolari, dell’ideale della “vita apostolica”, saranno condizioni necessarie per la nascita, nei decenni successivi, dei cosiddetti “ordini mendicanti”. § 70: sorgenti spirituali e culturali dell’arte romanica Bibliografia FM 9/1, 215-232; L 401-404; GV 283-293; P 200-205 La storia dell’arte, soprattutto nell’insegnamento delle materie teologiche, deve liberarsi da una vecchia anche se brillante concezione descrittiva e autoreferenziale, quale è quella che generazioni di liceali, compreso chi scrive, si son trovati a studiare sul manuale (peraltro caratteristico per alcune “cantonate” clamorose) di Giulio Carlo Argan, e passare decisamente a una scientificità basata sullo studio del contesto e su una sana filologia. Senza pretendere neppur lontanamente di fare un trattato completo, si vuol qui dare qualche spunto di queste connessioni tra l’arte religiosa dei secoli XI-XII e il contesto storico ecclesiale. Si tratta, di decennio in decennio, di forme espressive portatrici di una mentalità, di alcune scelte spirituali, scaturite da incontri di realtà talvolta differenti e lontane nelle loro origini, volute da committenze coscienti di proposte e di legami religiosi, sociali, politici. Insomma, è un’arte “radicata”. Guardare alla facciata del duomo di Lucca significa ammirarne bellezza e proporzioni ma anche ricollegarsi alla riforma gregoriana, ad Anselmo da Baggio-Alessandro II, ai pellegrini che passavano dalla città del Volto Santo diretti verso Roma, sulla direttrice principale della via Francigena. Sembra anzitutto di poter dire che l’espansione demografica, la colonizzazione di nuove terre verso est, la ripresa della vita cittadina in diverse zone d’Europa, la diffusione del Cristianesimo in Scandinavia, Boemia, Ungheria, Polonia, una situazione economica in miglioramento abbiano creato le condizioni per la costruzione o la ristrutturazione di molte 181 chiese: è in questo quadro che si può collocare la celeberrima e già citata frase del cronista Rodolfo il Glabro sul manto bianco di chiese che ricopre l’Europa dopo l’anno mille. Non può essere un caso fortuito che abbiamo poche, significative ma numericamente limitate testimonianze dell’arte e dell’architettura carolingia e post-carolingia, mentre il romanico ha lasciato tracce molto più consistenti. Non è improbabile che in vari casi si sia passati da edifici di costruzione più precaria ed economica, per lo più di legno, a strutture meglio edificate, di materiali più ricchi e resistenti, con decorazioni e arredamento più variati. E’ l’età di Cluny, del culto che genera edifici persino sfarzosi, e la reazione cistercense di essenzialità è un contrappunto non meno ammirevole sul versante estetico (romanico borgognone). Ancora in questo quadro espansivo della popolazione e del cristianesimo nelle campagne va collocato l’emergere nel nord Italia a livello documentario e monumentale del fenomeno delle pievi. Dunque, per usare dei termini economici, in questi secoli sorge un’importante domanda di edilizia e architettura sacra, con una committenza varia (monasteri, vescovi, comunità cittadine, villaggi rurali, famiglie nobiliari) e dotata di risorse economiche sufficienti. L’offerta, cioè artisti e maestranze, non partiva dal nulla. Vi era la tradizione architettonica preesistente, preromanica o carolingia che dir si voglia, ma soprattutto tardoantica, visibile in tutta l’Europa già romana, in antiche rovine o in edifici ancora in piedi e utilizzati25. Il fenomeno del reimpiego di materiali dell’arte e dell’architettura classica negli edifici cristiani, così diffuso, non va letto soltanto come risparmio di forze e di risorse economiche in un’epoca povera, ma anche come cosciente e spesso simbolico processo di riappropriazione di “cose” belle e preziose da parte del mondo cristiano. Ma oltre a questi esempi classici, come sempre ritenuti un vertice da conservare e rilanciare, come avviene coi testi dei padri della Chiesa, l’arte e l’architettura di questo periodo partono da una linea di continuità figurativa, quella delle immagini spesso riprese da esempi anch’essi tardoantichi, ma poi sviluppate in direzioni evolutive, e che hanno nelle miniature librarie lo spazio di maggior persistenza ed esemplarità. E’ necessario qui uno sforzo di comprensione. Si potrebbe dire che ogni epoca abbia la sua “arte di riferimento”. Ad esempio nel barocco l’architettura (e per certi aspetti la musica) è, in certo senso, la forma che ispira le altre forme: scultura, pittura, immagini a stampa sono spesso architetture. Oggi 182 è forse la grafica pubblicitaria e virtuale che ispira l’immaginario televisivo, i video musicali, gli “affreschi” metropolitani dei writers. C’è poi tutto in processo di influssi reciproci e di contaminazioni di difficile e affascinante districazione. L’arte di riferimento per i secoli dal VII in avanti è spesso la miniatura che decorava i libri, e che ispira i cicli di affreschi e di mosaici con il loro andamento narrativo, o l’intreccio, il nodo e la geometria che passa dalla tradizione libraria insulare, che ha uno dei suoi esempi più alti nel book of Kells, un meraviglioso evangeliario, datato approssimativamente all’800, costruito nell’abbazia di Iona26. In questo senso, l’arte romanica dell’occidente sembra marcare un passaggio proprio dalla geometria astratta dell’intreccio27 alla narrazione delle “storie” (di Cristo, dei santi, dell’Antico Testamento…) già anunciata dai “Libri carolini” e differente dalla struttura evocativa dell’arte greca orientale. Insieme agli esempi tardoantichi e all’immaginario miniaturistico, l’arte che noi chiamiamo romanica si basa su alcune continuità tecniche che risalgono alla tarda antichità e che continuano ad essere coltivate in maestranze apparentemente indotte ma custodi gelose di competenze determinanti. Se è vero, come afferma Bognetti*, che è significativo che in italiano il termine “casa”, che è latino volgare e tardo, soppianta il termine antico domus, perché casa nei documenti longobardi significa capanna e designa le povere abitazioni di arimanni e contadini, domus invece è la casa di pietra o mattoni col tetto a regola d’arte che nessuno si poteva più permettere e sapeva più fare, è altrettanto vero che in zone del nord Italia in cui i bizantini più a lungo avevano resistito all’invasione longobarda esistevano gruppi di magistri, capomastri oggi si direbbe, che erano ancora capaci di costruire volte secondo la tradizione romana: è questa la radice dei cosiddetti “maestri comacini”. In questo insieme di condizioni favorevoli dal punto di vista della domanda, delle risorse, degli interscambi culturali, delle competenze tecniche e delle ispirazioni artistiche, si inserisce la riforma del secolo XI, con una capacità di incidenza superiore a quanto spesso si sa oggi. Papato, vescovi e monaci riformatori dànno un’impronta all’arte e all’architettura romanica in almeno due direzioni. Anzitutto, una celebrazione della liturgia “romana”, già diffusa dovunque dai capitolari carolingi e ora ripresa e purificata secondo modelli più 25 Il caso di Roma è emblematico, ed era davanti agli occhi dei tanti pellegrini: si veda A. FRASCHETTI, La conversione da Roma pagana a Roma cristiana, Roma-Bari 1999; L. BIANCHI, Ad limina Petri. Spazio e memoria della Roma cristiana, Roma 1999. 26 B. MEEHAN, Le livre de Kells, Paris 1995 (ed. originale, London 1994). 27 Su cui le brevi e interessantissime pagine dal già citato H.-I. MARROU, Decadenza romana o tarda antichità? III-VI secolo, Milano 1978, 137-139. 183 rigorosi, aveva bisogno di spazi adeguati. In secondo luogo, in epoca di spostamenti e di pellegrinaggi, costruire e decorare in un certo modo, secondo alcuni modelli, significava aderire a un’impostazione, proclamare un’appartenenza: a Cluny, a Cîteaux… a Roma! Si veda il caso di Lucca, con i due Anselmo, zio e nipote, vescovi nel secolo XI (il primo divenne, come si diceva, papa Alessandro II)28. L’arte romanica è dunque arte di incontri e di contaminazioni, arte di luoghi di sosta e di pellegrinaggio, in cui ogni chiesa è un nodo di una rete più ampia di contatti e di riferimenti. In essa si innesterà, con un ulteriore apporto di temi e di prodotti, il ricordo del Santo Sepolcro che i crociati riporteranno in Europa e che vorranno in vari modi riprodurre, come ad esempio a Bologna, nella chiesa omonima. § 71: spunti di approfondimento storiografico Consigliamo di seguire la produzione di saggi sulla spiritualità laicale di questo periodo, un campo di studi ampliato da André Vauchez e dalla sua scuola. L’autore francese parla di “emergenza del laicato nella Chiesa” per i secoli XI-XIII, un laicato (e una santità) differente rispetto al laicato aristocratico che dominava le investiture, combattuto da Gregorio VII e dai suoi affini. Anche la spiritualità femminile è un campo di astudio di notevole interesse. Classico invece, ma ancora ricco di spunti, è lo scontro nel campo teologico tra i fautori della teologia come Sacra Pagina, lettura e commento spirituale della Scrittura, e i sostenitori della teologia costruita sulla dialettica, quindi sull’apporto della filosofia, soprattutto ma non soltanto aristotelica: normalmente si contrappone Bernardo di Chiaravalle a Abelardo e a Gilbert de la Porrée. Si vedano le ormai datate ma sempre stimolanti pagine sulla coerenza (filosofica!) della mistica cistercense di Étienne Gilson in Lo spirito della filosofia medievale, uno dei libri che hanno contribuito alla conversione del maestro spirituale Thomas Merton. 28 Si vedano le ottime pagine sintetiche sull’ideologia del “neoantico” di Cl. BARACCHINI, Le arti figurative, in Lucca, a cura di M. T. Filieri, (I luoghi della fede), Milano 1999, 41-42. 184 CAPITOLO X: IL FENOMENO CROCIATO NELLO SLANCIO DEL CRISTIANESIMO OCCIDENTALE Bibliografia generale del capitolo: FM 8, 67-74; 388-404; 632-644; 9/1, 249-262; J 4, 574583; 5/1, 50-56; 109-117; 164-188; 216-222; 405-412; L 445-455; GV 358-397 (397-423 sulla Reconquista iberica); HC 5, 288-303; 636-670; P 87-92; St. RUNCIMAN, Storia della Crociate, 2 volumi, Torino 1993; D. M. NICOL, Venezia e Bisanzio, Milano 1990; J. PHILLIPS, Le prime crociate, Cinisello B. 2004; brevi sintesi, con qualche strumento utile: G. TATE, Le crociate. Cronache dall’oriente, s. l. 1994; B. HAMILTON, Le crociate, Cinisello B. 2003. Riteniamo che debba essere chiaro che la riforma cosiddetta gregoriana è causa e sintomo insieme di un più ampio slancio che coinvolse tutto il mondo cristiano soprattutto occidentale. Non si comprende la riforma senza l’espansione del cristianesimo verso i nuovi popoli, il sorgere e il diffondersi di ordini religiosi e case monastiche, la colonizzazione delle nuove terre, la crescita del mondo cittadino, lo sviluppo culturale e artistico. Senza cadere nel determinismo marxista, in cui le strutture economiche (e demografiche) sono la vera e unica radice di tutto, è innegabile che tutti questi fattori si influenzino a vicenda creando le condizioni per un vero slancio del mondo cristiano occidentale in varie direzioni, uno slancio che supera il calo di livello di motivazione, morale e culturale che aveva accompagnato la diffusione del cristianesimo nelle zone rurali del X secolo. In altri termini, la riforma non fu un’ideologia unilaterale di un gruppo di monaci tendenzialmente fanatici, ma una coerente e efficace risposta alle dinamiche che in quegli anni attraversavano il vecchio continente. In questo quadro vanno collocate e trovano un senso le “crociate”. Totalmente dimenticate da testi di studio generali anche recentissimi29, ma vagliate da una storiografia, soprattutto anglosassone, tutt’ora in pieno lavoro e ricca di spunti nuovi, le crociate sono un ampio fenomeno che, partendo da radici individuabili già nel X secolo, giungeranno, a livello di evocazione ma anche di attività militari, fino al XVII e XVIII secolo. Non si troverà qui di seguito l’analisi dell’ormai superata enumerazione “dalla prima all’ottava crociata”30: è ormai accertato che a partire dalla prima spedizione del 1096-1099, che chiameremo ancora “prima crociata”, fu un flusso pressoché continuo di piccole e grandi spedizioni, alcune 29 Si rilevi la completa assenza del tema in Cl. AZZARA e A. M. RAPETTI, La Chiesa nel Medioevo, Bologna 2009. 185 delle quali solennemente “bollate” e predicate universalmente, altre iniziative più limitate. Si cercherà qui di darne un sunto e in’interpretazione dentro il quadro del grande slancio del cristianesimo occidentale. § 72: una partenza sorprendente Premesse. Il movimento dei pellegrini occidentali verso la “Terra santa”, che ha radici nel cristianesimo antico, non si era mai interrotto, anche dopo la conquista islamica di Gerusalemme nel secolo VII. Come tutti i percorsi di pellegrinaggio, il viaggio a Gerusalemme assume nel medioevo una qualità penitenziale. Dunque non ci si deve immaginare che non si avessero se non lontane notizie di questi luoghi. Ricordiamo che in età carolingia esistevano monasteri “franchi” in Terra santa, e fu lì che i monaci greci compresero che l’uso latino aveva introdotto il filioque nell’intoccabile credo nicenocostantinopolitano. Tuttavia una serie di circostanze segnarono il secolo XI di una maggior problematicità dei pellegrinaggi. Tra il 1004 e il 1014 il sovrano di quell’area del medio Oriente, il califfo Hakim, che era figlio di una cristiana, scatenò un’inedita (per il regime islamico di quei secoli) persecuzione contro i cristiani, fino a ordinare nel 1009 la distruzione del santo Sepolcro. Nel 1014 si calcolano a trentamila le chiese cristiane danneggiate o distrutte. Le persecuzioni furono anche contro gli ebrei. Ispirato dal suo consigliere Darazi, Hakim proclamò la sua divinità nel 1016, e contemporaneamente cessò di perseguitare i cristiani e rivolse la sua aggressività contro i correligionari che non accettavano la sua svolta religiosa. Nel 1021 Hakim scomparve, probabilmente assassinato dalla sua stessa famiglia, mentre Darazi si rifugiò nelle montagne del Libano, fondando una setta (i “drusi”), che attendono il ritorno di Hakim come messia. Successivamente, attorno alla metà del secolo XI, tutta l’area tra l’Anatolia orientale e la Siria si trovò in una situazione di frammentazione politica: in diverse zone, stirpi turche islamizzate, in particolare i selgiuchidi, soppiantarono gli arabi nel controllo del potere, e premettero sull’impero bizantino, i cui ultimi eredi della rinascenza macedone di Basilio I sono sconfitti in una importante battaglia a Manzikert, vicino al lago di Van, nel 1071. In questa situazione frammentata, in cui tra l’altro entrano in gioco anche le rivalità tra le due 30 Se ne veda, per capire vecchi riferimenti, la cronologia in G. TATE, Le crociate. Cronache dall’oriente, s. l. 1994, 178-180. 186 grandi scuole islamiche, gli sciiti e i sunniti, i pellegrinaggi diventano molto insicurib e pericolosi, e chi torna racconta epopee penosissime. La dinastia bizantina che prende il potere dopo Manzikert, quella dei Comneni, nella persona di Alessio I, imperatore dal 1081 al 1118, progetta una riconquista dell’Anatolia, facendo leva sulla frammentazione degli avversari islamici. L’esercito di Alessio, com’è ormai tradizionale a Bisanzio dopo che l’efficiente sistema dei “temi” del settimo secolo era andato in disuso, era formato in gran parte da mercenari peceneghi (stirpe proveniente dalle steppe asiatiche) e vareghi (scandinavi). Nulla di strano, dunque, se Alessio attorno al 1090 per mettere in piedi una campagna militare pensi a reclutare mercenari in Occidente. Proprio nella parte occidentale della cristianità in questo periodo vanno rilevati interessanti segni nella mentalità, che creano le condizioni di quella che sarà la crociata. Anzitutto, la tradizione morale del cristianesimo antico aveva rifiutato decisamente la guerra e l’uso della violenza. Quando però il cristianesimo, sia in occidente che in oriente, diviene la religione del principe e della stato, deve cercare di dare ragione all’uso della forza. Nell’oriente bizantino, la guerra è e rimane un male, necessario, e la sua gestione è posta nei termini dell’oikonomia: si mantiene il principio del “non uccidere”, si è indulgenti con governanti e militari (che poi in tarda età passeranno gli ultimi anni in preghiera e penitenza in qualche monastero…). Questa visione risente del fatto che l’impero è la continuazione del dominio romano-cristiano tardoantico, in cui la questione dell’uso della forza era stato risolto pressoché allo stesso modo. In occidente, la cristianizzazione delle stirpi minoritarie ma dominanti dei popoli germanici, che han preso il potere grazie alle loro capacità militari, la visione della guerra come male, pur da tollerare, è meno incisiva. Con le esperienze della tregua Dei e della pax Dei inizia a diffondersi una mentalità che vede la possibilità della lotta armata contro i nemici della pace, che sono anche i nemici di Dio, ossia i violatori delle tregue, gli invasori infedeli di Spagna e Sicilia, fino ai nemici della riforma, con i vessilli di San Pietro concessi dal papa a Guglielmo il conquistatore e ai leader della pataria milanese: combattere, pur se una realtà da limitare, diviene un’attività che, in certi casi, è utile e perfino meritoria. Cosciente o inconscio, in questa visione della violenza può entrare un tentativo di canalizzare le abitudini militari di Franchi, Longobardi e Normanni. Comunque spesso questi aristocratici armati erano coinvolti in operazioni di potere e in lotte contro vicini scomodi contrassegnate dalla crudeltà. Come s’è visto per un caso locale già 187 più volte citato, non mancava chi, preso da resipiscenza, domandava penitenza per i suoi gravi peccati e si trovava “condannato” a un pellegrinaggio, magari in Terra santa, anche se disarmato e indifeso. Qua e là, e del tutto indipendenti da inesistenti paure dell’anno mille, sono presenti idee escatologiche: la fine del mondo si avvicina, quindi i cristiani sono in un tempo di urgenza per la remissione dei peccati e per la diffusione del Vangelo. A queste linee, più o meno marcate, di mentalità, si mescolano componenti più immediate, di tipo politico-sociale, che contribuiranno all’innesco della prima crociata. Fino al 1002 il condottiero musulmano Al Mansur minaccia e colpisce duramente gli stati cristiani del nord della Spagna. Ma nel 1085 i cristiani, contando sulla debolezza dei Reyes de Taifas musulmani31, ricuperano l’antica capitale visigota Toledo, con l’aiuto di cavalieri franchi, che cresceranno nell’appoggio alla Reconquista dal 1086 in avanti32. Anche i successi nel mediterraneo centrale sembra possano aver contribuito a dare all’occidente l’impressione di poter colpire i nemici musulmani: i normanni avevano riconquistato Palermo e Mazara nel 1072, Agrigento, nel 1086, e avevano scacciato gli ultimi resti del dominio islamico dall’isola nel 1093. Contemporaneamente (1087) Le città di Genova, Pisa e Amalfi, alleate con Roma, avevano inferto duri colpi ai pirati nordafricani che avevano le loro basi in Tunisia. Si discute molto, nella recente storiografia, su un tema di tipo economico sociale un tempo sottolineato nell’origine delle crociate. La diffusione del maggiorascato tra le famiglie aristocratiche nel regno franco e in Germania, per evitare che i patrimoni e i diritti delle famiglie si frammentassero, dava origine a un gruppo sociale, quello dei “cavalieri” di origine nobiliare ma con speranze ereditarie minime, che si sarebbe tentato di riversare nella guerra per il ricupero dei luoghi santi, anche con la speranza di costituirsi un nuovo patrimonio in Oriente. Gli studi recenti, senza poter del tutto smentire anche questa componente, visto che alcuni gruppi di figli cadetti effettivamente si stabilizzeranno in Terra santa dando origine all’aristocrazia franca crociata, affermano che nella maggior parte dei casi questi cavalieri torneranno nei loro territori d’origine. Anzi, la presenza di reti 31 Reyes de Taifas è un termine dispregiativo di questi piccoli domini musulmani in cui era frammentata la peniso0la iberica, e siglifica “re degli uccellini”, come dire re da burla. 32 In questo periodo i regni cristiani del nord della penisola iberica attuano un’opera di ripopolamento cristiano delle zone della Castiglia riconquistate ma spopolate, anche con l’apporto di coloni franchi: pare che la Sierra de Francia in diocesi di Salamanca, in piena regione di Castilla y León, derivi il nome da questa colonizzazione. Si veda la carta n° 60 dell’Atlante di storia della Chiesa 188 familiari tra le varie ondate di crociati nei due secoli di esistenza degli stati franchi d’outremer, fa pensare che partire per la crociata fosse una sorta di tirocinio, temporaneo e codificato, in molte stirpi nobiliari: come dire che a un certo punto della giovinezza, un periodo di servizio militare in Terra santa era parte dell’iter di formazione (e magari era un modo per ottenere il perdono dei “peccati di gioventù”), dopo di che si tornava in Europa. Probabilmente una parte di coloro che, figli di nobili ma con poche speranze di carriera in patria, si dedicavano all’oriente e alla crociata, erano le reclute degli ordini cavallereschi, di cui sopra (§ 69), abbiamo parlato. Tra Piacenza e Clermont. Ritorniamo a uno dei papi protagonisti della riforma dell’XI secolo, Urbano II, ossia Eudes di Ostia. Dopo aver ricuperato Roma, Urbano, riprendendo gli usi dei primi papi riformatori, in particolare Leone IX e Gregorio VII, si mette in viaggio verso nord, e celebra sinodi riformatori lungo il suo cammino. Nel 1095 è a Piacenza e sta guidano una di queste assemblee ecclesiastiche di riforma. Ivi è contattato da ambasciatori di Alessio, che presentano un quadro tragico della situazione in medio Oriente e chiedono al papa di contribuire a reclutare mercenari per aiutare il loro imperatore e rendere più sicuri i pellegrinaggi. E’ quasi certo che questi legati bizantini promettessero a nome del loro basileus di giungere alla definitiva conclusione delle tensioni e delle separazioni tra le chiese di Roma e Costantinopoli. Il progetto si fa più chiaro nell’itinerario di Urbano quando, varcate le Alpi, fa tappa nel suo antico monastero di Cluny: probabilmente raccoglie ulteriori notizie dalla Spagna e dai pellegrini che facevano tappa nelle case dell’ordine riformato borgognone. Nel novembre del 1095, Urbano II convoca un sinodo di vescovi a Clermont, nel centro della Francia. Il 27 di quel mese si raduna un grande convegno di nobili voluto dal papa. Ascoltiamo la sempre vivace narrazione del vecchio Runciman: Noi possiamo sapere soltanto approssimativamente che cosa Urbano disse in realtà. Sembra che abbia cominciato il discorso descrivendo ai suoi ascoltatori la necessità di aiutare i loro fratelli d’Oriente: la cristianità orientale aveva invocato aiuto perché i turchi stavano avanzando nel cuore delle terre cristiane, maltrattando gli abitanti e profanandone i santuari. Però egli non parlò soltanto della Romania, cioè di Bisanzio, ma mise anche in rilievo il particolare carattere sacro di Gerusalemme e descrisse le sofferenze dei pellegrini che vi si recavano. Terminato il suo fosco quadro, lanciò il 189 suo grande appello: la cristianità occidentale si metta in marcia per soccorrere l’Oriente; ricchi e poveri dovrebbero ugualmente partire, dovrebbero smetterla di trucidarsi a vicenda e combattere invece una guerra giusta, compiendo l’opera di Dio; e Dio li avrebbe guidati. Chi fosse morto in battaglia avrebbe ricevuto l’assoluzione e la remissione dei peccati. Qui la vita era miserabile e malvagia, con uomini che si logoravano fino a rovinare i propri corpi e le proprie anime; qui erano poveri e infelici, là sarebbero stati felici e ricchi e veri amici di Dio. Non doveva esservi indugio: si preparassero a partire quando fosse giunta l’estate, con Dio per loro guida. Urbano parlò con fervore e con tutta l’arte di un grande oratore e la risposta fu immediata e straordinaria. Grida di “Deus le volt” – “Dio lo vuole” – interruppero il discorso. Il papa aveva a malapena finito di parlare quando il vescovo di Le Puy si alzò dal suo seggio e, inginocchiatosi davanti al trono, chiese che gli fosse permesso di unirsi alla santa spedizione; a centinaia si accalcarono per seguire il suo esempio. Poi il cardinale Gregorio cadde in ginocchio e ripeté ad alta voce il Confiteor e tutto l’immenso uditorio gli fece eco. Terminata la preghiera, Urbano si alzò ancora una volta, pronunciò l’assoluzione e invitò i suoi ascoltatori a tornarsene a casa33. Il contesto di sinodo riformatore e insieme di concilio per sancire una pace di Dio e di celebrazione penitenziale è visibilissimo e mostra quanti legami ideali avesse quella proclamazione. E’ davvero una miccia che si accende, a partire da varie componenti. Secondo il Phillips, negli ascoltatori di Urbano II l’ideale di unire la chiesa d’Oriente e quella d’Occidente non era particolarmente rilevante. Lo era certamente di più in Urbano stesso. Conseguenze imprevedibili. Non è dato sapere, e non è poi rilevante da un punto di vista storico, se Urbano II prevedesse il successo del suo appello. Un gran numero di cavalieri, in quell’inverno, prende la croce, sotto la guida di alcuni “secondi figli” (Ugo di Vermandois, fratello del re di Francia; Boemondo di Taranto, fratello del re normanno), feudatari di medio-alto livello (Roberto, duca di Normandia; Raimondo di Saint Gilles, signore feudale della Provenza) o di importanti figure alla corte imperiale che vivevano un momento di minor fortuna, come Goffredo di Bouillon, duca di Lorena. Ma mentre nobili e cavalieri organizzano la loro spedizione, sistemano gli affari in vista della partenza, si dànno 190 appuntamento, nasce quasi spontaneamente un’ondata popolare. All’origine un predicatore e asceta, Pierre detto “l’ermite” (l’eremita), al cui seguito si muovono uomini e donne soprattutto di classi popolari, con la guida, oltre che del mistico e ingenuo eremita, di alcuni nobili e qualche poco-di-buono. Il movimento popolare francese suscitò per contagio un analogo flusso nella valle del Reno: tutti vogliono partire per conquistare il sepolcro di Cristo e combattere i nemici della croce… e in attesa di scontrarsi coi musulmani, si allenano alla lotta contro dei nemici più vicini, parimenti non cristiani e odiati perché prestatori di denaro: gli ebrei delle città renane. E’ il primo episodio significativo di pogrom antisemita del medioevo: i vescovi cercano di difendere le famiglie ebraiche, molte vengono trucidate, qualcuno cerca di salvarsi convertendosi sbrigativamente al cristianesimo. La “crociata tedesca” e i gruppi di Pietro l’eremita cercano di raggiungere Costantinopoli, a prezzo di devastazioni e saccheggi: la maggioranza viene dispersa con la forza dal re d’Ungheria. Quali erano i moventi di questo fenomeno, che si riproporrà in varie forme nei secoli successivi, come ad esempio la crociata dei bambini francesi e tedeschi del 1212? Probabilmente si ha un inestricabile intreccio tra motivi religiosi soprattutto penitenziali e sogni di conquista e di benessere. Vauchez sottolinea la dimensione escatologica, con dimensioni e tematiche innovative rispetto alle attese precedenti34. Alessio Comneno, che si aspettava un buon contingente di disciplinati mercenari occidentali, vide arrivare prima i resti della crociata popolare, e li traghettò in tempi brevissimi di là dal Bosforo, dove furono ulteriormente decimati in una incauta battaglia contro le avanguardie turche. Poi, un esercito superiore ai suoi calcoli e alle sue capacità di contenimento, poco disciplinato per la mancanza di un capo vero e proprio, se si eccettua Ademaro di Monteil, vescovo di Le Puy, già cavaliere poi passato alla vocazione ecclesiastica, legato del papa, riformatore e caritatevole, molto rispettoso dei vescovi ortodossi; tra l’altro, in questo corpo militare con una preparazione approssimativa e grandi problemi di approvvigionamento, una componente importante era data dai normanni del meridione d’Italia, nemici storici e acerrimi di Bisanzio. Da Costantinopoli a Gerusalemme via Antiochia: 1096-1099. Il problema del rapporto tra l’imperatore bizantino e i capi crociati fu provvisoriamente risolto con un giuramento 33 RUNCIMAN, Storia delle Crociate, I, 94-95. 191 simile a quello feudale, a cui, volenti o nolenti, i condottieri franchi si assoggettarono, tranne Raimondo di Saint Gilles, che poi si rivelò il più leale verso Alessio. Il patto tra Bisanzio e crociati era che ogni terra e città già appartenute a Bisanzio sarebbero state restituite all’imperatore, il quale a sua colta si impegnava a sostenere la spedizione con un corpo di genieri ed esploratori guidati da un ottimo ufficiale e particolarmente utili per muoversi in luoghi che ai franchi erano del tutto sconosciuti. Dopo aver assorbito al suo interno gli ultimi avanzi della crociata popolare, compreso Pietro l’eremita, l’esercito crociato compie una impresa travolgente in tutta l’Anatolia, conquistandosi una sorta di fama di invincibilità. Ma nel terribile assedio d’Antiochia sull’Oronte (1097-1098), e nel momento critico in cui, conquistata la città grazie a un tradimento, i crociati furono a loro volta assediati dalle forze musulmane alleate, l’alleanza coi bizantini finì. Boemondo rivelò le sue ambizioni e, essendo stato il primo a issare il suo vessillo sulla città, non volle cederla; d’altra parte Alessio, avendo avuto notizie disastrose della condizione dei crociati, li diede per spacciati e non mandò truppe in loro aiuto. Infine Ademaro, l’unico punto di equilibrio della dirigenza crociata, morì a Antiochia, in piena estate, probabilmente di tifo. Si costituisce il principato d’Antiochia, sotto il controllo dei normanni di Sicilia, mentre un altro gruppo, con l’appoggio dei nobili e della popolazione cristiana Armena, conquista Edessa. Sono i primi due nuclei dei domini crociati d’outremer. Gli altri crociati scendono lungo la costa mediterranea e nelle valli dell’entroterra e all’inizio dell’estate 1099 si trovano davanti a Gerusalemme, in possesso dei Fatimidi d’Egitto, che avevano apprestato le loro difese e interrato o inquinato i pozzi circostanti. L’assedio della città santa, dal 7 giugno al 14 luglio 1099, nel caldo di quei luoghi, fu durissimo. Solo l’arrivo di legname dal mare recato dai genovesi permise di costruire macchine d’assedio che alla fine diedero modo di penetrare in città, dove i crociati perpetrarono un crudele massacro di tutta la popolazione musulmana ed ebraica35. § 73: i regni crociati 34 A. VAUCHEZ, Le componenti escatologiche dell’idea di crociata, in A. VAUCHEZ, Santi, profeti e visionari. Il soprannaturale nel medioevo, Bologna 2000, 97-109. 35 “Il massacro di Gerusalemme impressionò profondamente tutto il mondo. Nessuno può dire quante siano state le vittime, ma la città venne svuotata dei suoi abitanti musulmani ed ebrei. Anche molti cristiani rimasero inorriditi di ciò che era stato fatto; e fra i musulmani che erano stati disposti fino a quel momento ad accettare i franchi come un nuovo fattore nella ingarbugliata situazione politica dell’epoca, ci fu da allora in poi la netta determinazione che gli occidentali dovevano essere cacciati. Quella sanguinosa dimostrazione di fanatismo cristiano risuscitò il fanatismo dell’Islam”: RUNCIMAN, Storia delle Crociate, I, 248. 192 Secondo i principi della struttura di potere europea, si formarono con la prima crociata un regno di Gerusalemme, che formalmente, ma senza troppo successo, avrebbe dovuto coordinare le altre entità: il principato di Antiochia, le contee di Tripoli (Libano) e di Edessa. Si può comprendere tra i regni crociati anche Cipro, nonché il regno della Piccola Armenia, in Cilicia, in cui, come a Edessa, la nobiltà armena e quella franca si mescolarono tramite matrimoni, grazie alla comune fede cristiana36. Il primo titolare di Gerusalemme, il duca di Lorena Geoffroy de Bouillon (Goffredo da Buglione, come diciamo noi italiani sulla scorta del poema di Torquato Tasso), non volle chiamarsi re ma Advocatus Sancti Sepulcri. Il suo fratello e successore, Baldovino di Edessa, prese il titolo di re. Che cosa fu Outremer, come venivano definiti i domini crociati nella cultura francese? Fu anzitutto un ambiente di cultura splendida, sostenuta da un circuito economico prospero, in cui le città marinare italiane, soprattutto Genova e Venezia, non mancarono di inserirsi. I legami con l’occidente non vennero mai meno, anche per le parentele familiari che univano, ad esempio, i normanni d’Antiochia a quelli di Puglia e Sicilia, i lorenesi di Gerusalemme a quelli del ducato, e così via. Per questo ci si deve immaginare un continuo afflusso di gruppi, a volte di corpi importanti, di militari armati che, via terra ma soprattutto via mare, giungevano in Oriente per fare il loro pellegrinaggio, incidere con la spada una croce nelle pietre del Santo Sepolcro, e combattere i musulmani alle frontiere, opportunamente munite di castelli, che furono determinanti nell’evoluzione dell’architettura militare in occidente. Questi coscienti legami generano, ad ogni shock in Terra santa, una convocazione solenne di una nuova crociata. La caduta di Edessa nel dicembre 1144 accese la cosiddetta seconda crociata, predicata da Bernardo di Chiaravalle (1147-1149). La rovinosa sconfitta dei crociati in Galilea, ai corni di Hattin, nel 1187, ad opera del curdo Salah-ad-din, che aveva unificato tutte le forze musulmane in medio oriente contro i crociati, la prigionia del re di Gerusalemme e la caduta della città santa, diedero il motivo della terza crociata, con il meglio dei capi di stato europei impegnati direttamente: l’imperatore Federico I Barbarossa, che muore annegato in Anatolia, il re di Francia Filippo Augusto e il re d’Inghilterra Riccardo Cuor di Leone. Nonostante questi progetti ambiziosi e con grande spiegamento di forze, i regni latini crociati, dopo il momento di massima espansione subito successivo alla I crociata, videro progressivamente erose le conquiste, e Gerusalemme, perduta dopo i corni di Hattin, non fu 36 Si veda la cartina annessa, nonché la carta n° 60 dell’Atlante di storia della Chiesa 193 più recuperata. La struttura di queste entità è debole, per la distanza rispetto all’occidente, per l’ostilità di Bisanzio, per la ripresa politica e militare araba incarnata soprattutto da Saladino, per la fragilità di queste dinastie aristocratiche franche insediate in Terra santa: gli uomini, spesso fiaccati dal clima, sopravvivevano meno delle donne, e spesso il trono di Gerusalemme fu retto da regine vedove. Inoltre le “assise” della nobiltà franca erano determinanti rispetto alla forza della corona, e tendevano alla frammentazione dei poteri. Gli aristocratici e i coloni franchi insediati stabilmente in Outremer, ben consapevoli di essere minoranza sparsa sul territorio37, avevano costruito una situazione di convivenza con le popolazioni preesistenti, sia cristiane che musulmane, soprattutto di contadini che erano stati sottomessi e che erano necessari per la conduzione delle terre; gestivano con prudenza e astuzia la complessa realtà politica, puntando a mettere gli uni contro gli altri i diversi potentati arabi, curdi, turchi, tutti musulmani ma divisi da sanguinose rivalità; e miravano a utilizzare le nuove forze militari provenienti dall’occidente soprattutto come arma di pressione diplomatica. Invece i crociati che arrivavano con le diverse ondate dall’Europa restavano scandalizzati che gli europei trapiantati tollerassero le moschee per la popolazione musulmana e pretendevano di andare subito all’assalto degli infedeli, generando quella classica reazione di compattezza che si crea tra i musulmani quando vengono aggrediti dall’esterno. Lentamente erosi nelle loro conquiste, i crociati terranno teste di ponte lungo le coste fino alla caduta dell’ultima città, San Giovanni d’Acri, a nord di Haifa, nel 1291: è sorprendente come queste fragili strutture statali, così dislocate rispetto ai paesi occidentali che avevano inviato i loro temuti cavalieri, siano riuscite a resistere quasi due secoli. Dal punto di vista ecclesiastico, gli stati crociati portavano non solo al confronto tra cristianesimo e islam, ma anche a un incontro tra il cattolicesimo occidentale uscito dalle vicende della riforma e le diverse chiese cristiane di queste terre: i melchiti facevano riferimento a Costantinopoli e all’ortodossia incarnata dall’imperatore cristiano, ma in Siria e a Gerusalemme c’erano importanti comunità giacobite e anche gruppi copti, entrambi in opposizione all’antico concilio di Calcedonia (451); inoltre in Cilicia e nel territorio di Edessa avevano un ampio potere le comunità armene; e nella contea di Tripoli la maggioranza era cristiana maronita. All’inizio, fino alla conquista di Gerusalemme del 1099, i rapporti tra i latini e le comunità soprattutto greche sono improntati al reciproco 194 rispetto. In questo atteggiamento il protagonista fu Ademaro di Le Puy, forse memore del progetto di fare delle crociate l’occasione per sanare le ferite tra chiesa d’oriente e d’occidente. Durante la prima crociata non furono perpetrate violenze e pressioni contro i vescovi greci, che furono sempre lasciati ai loro posti e che a volte si erano rivelati alleati preziosi dei latini, come anche gli armeni. Per i nuovi venuti furono fondate nuove sedi episcopali, come Ramleh, città araba completamente evacuata e non sede di un vescovo greco. Ademaro era morto a Antiochia, il suo successore, Daimberto di Pisa, raggiunse Gerusalemme nel dicembre 1099. A questo punto la politica ecclesiastica crociata cambia: il patriarca greco di Antiochia viene rimosso e al suo posto si colloca un chierico latino. La rottura tra i regni crociati e Bisanzio, che li vedrà sempre come traditori e scomodi vicini, e la presenza di gruppi latini fanatici anti-greci, porterà a una serie di scontri tra le comunità greche, soprattutto i chierici e i monaci, e i conquistatori occidentali. Tra la popolazione cristiana e i nuovi arrivati si creeranno ben presto legami anche matrimoniali. Alla fine dell’esperienza crociata, e fino ai giorni nostri, resterà una comunità autoctona di rito latino, in Palestina ma anche nell’attuale Turchia, ennesima tessera nel variegato mosaico cristiano di quei luoghi. § 74: la crociata del 1204 e la conquista latina di Costantinopoli Molto più costosa e incisiva dal punto di vista dei rapporti tra cristiani latini e greci sarà la cosiddetta quarta crociata, che a parere di chi scrive (e di altri ben più qualificati) segna la vera rottura tra Roma e Bisanzio, dal punto di vista ecclesiastico. Il papa Innocenzo III, di cui avremo molte occasioni di parlare, promuove un vasto disegno di riconquista della Terra santa, dopo più di dieci anni dalla caduta di Gerusalemme. Il piano iniziale, che sarà tipico delle spedizioni del XIII secolo, è quello di puntare verso l’Egitto, “ventre molle” del dominio musulmano, per poi raggiungere con le armi, o ottenere per via di trattative, la Palestina. I crociati, come spesso avviene, sono cavalieri di origine fiamminga, il che conferma ampiamente le letture recenti di una “tradizione” crociata in molte famiglie nobili dell’alta Lorena. Ma il problema è sempre quello del viaggio, molto costoso e fattibile solo per via di mare. Le potenze marinare italiane hanno i loro punti di riferimento e i loro interessi: Genova soprattutto nel Mar Nero, Venezia a Bisanzio e nell’Adriatico, con 37 Riassunto degli studi recenti sull’insediamento europeo in Terra santa in PHILLIPS, Le prime crociate, 69-85. 195 vecchie e diuturne ruggini verso gli ormai deboli imperatori d’oriente38. La città lagunare è coinvolta per il trasporto dei crociati e all’insaputa del papa stipula un trattato molto costoso con Bonifacio del Monferrato, comandante della spedizione e amico dell’imperatore germanico Filippo di Svevia. Alla corte di quest’ultimo si è rifugiato un pretendente al trono bizantino, Alessio Angelo, cognato di Filippo. Alessio propone di riportarlo a Bisanzio, installarlo sul trono, per poi avere il suo appoggio per la crociata. I ben informati veneziani, guidati dal doge Enrico Dandolo, hanno interesse a irrobustire la loro presenza a Costantinopoli, e quindi aderiscono al progetto, e anzi il doge prende la croce. Nella navigazione, essendo finiti i soldi dei crociati per il nolo delle navi, i veneziani chiedono loro di conquistare Zara in compenso del viaggio: la conquista della città dalmata, degno preludio di questa strana crociata, suscita l’ira di Innocenzo III e la conseguente scomunica dei veneziani. A Zara prende corpo definitivamente il disegno di puntare su Costantinopoli, sempre all’insaputa del papa, a partire dalle promesse di Alessio Angelo di pagare tutti i debiti e di sanare lo scisma tra greci e latini. Costantinopoli si arrende ai cavalieri crociati e ai veneziani senza grosse perdite, in fondo si trattava dell’ennesimo colpo di stato che rimuoveva un imperatore e ne metteva un altro. A fronte di questa nuova situazione, Innocenzo III, vedendo la possibilità di riconciliare la chiesa greca e di proseguire la crociata, sana provvisoriamente la scomunica veneziana. Ma Alessio non mantiene le promesse verso i sempre più inquieti crociati, finché una rivolta popolare ostile agli occidentali lo uccide. I crociati allora conquistano e saccheggiano crudelmente Costantinopoli, spartendosi l’impero coi veneziani: il doge da allora porterà il titolo di “signore dei tre ottavi dell’impero d’Oriente” (quartae partis et dimidiae totius imperii Romaniae Dominator)39. Baldovino di Fiandra è eletto imperatore dell’impero latino di Costantinopoli e Tommaso Morosini di Venezia è il nuovo patriarca. Da quel momento in avanti, nei territori sotto il controllo dei “latini” (Fiamminghi, Veneziani, poi Genovesi, Catalani, Francesi…) si attua una sistematica sostituzione di vescovi latini ai greci preesistenti. La violenza della conquista, l’atteggiamento sprezzante dei conquistatori e 38 Nel 1182, uno dei tanti colpi di stato che si succedevano a Costantinopoli aveva portato al potere Andronico I Comneno, sull’onda di un movimento xenofobo che massacrò in quell’occasione gli occidentali residenti in città, soprattutto pisani e genovesi, compreso il cardinale Giovanni, legato papale. Detronizzato nel 1185, Andronico fu sostituito da Isacco II Angelo, a sua volta abbattuto, accecato e imprigionato dal fratello minore, Alessio III, nel 1195. Il figlio di Isacco II, Alessio, fuggì in occidente, come si dice più avanti nel testo. 39 Sulla spartizione dell’impero bizantino si veda la carta n. 60 dell’Atlante di storia della Chiesa. 196 soprattutto questo disconoscimento della gerarchia greca crea una profonda offesa nel cristianesimo orientale verso i franchi. Innocenzo III al momento della conquista riceve notizie positive e inizialmente approva, poi, con un quadro più completo degli avvenimenti, condanna duramente la crociata. Alla fine accetterà la remissione della scomunica attuata dai suoi legati per la crociata e l’elezione del Morosini. L’impero latino d’oriente durerà, nella frammentazione e tra gli stenti, per quasi sessant’anni, quando i nobili bizantini rifugiatisi a Nicea riprenderanno la capitale (1261): qualcuno ha definito l’impero latino una realtà che “non poteva vivere e non riusciva a morire”. Di fatto non mancava di interessi e dinamiche vitali: gli affari di Veneziani, Genovesi e Catalani, il grano del mar Nero, il pepe e le spezie… La lotta tra l’impero latino e i transfughi greci dell’impero di Nicea, dell’impero di Trebisonda e del despotato dell’Epiro, le lotte interne tra veneziani, genovesi e altri conquistatori portarono al definitivo indebolimento del baluardo cristiano verso i turchi, proprio nel momento in cui ai Selgiuchidi si sostituivano gli Osmani o Ottomani (in Asia minore dal 1243). Ma soprattutto con la crociata del 1204 si creò un diffuso odio popolare greco contro i latini, così che ogni tentativo di riunione tra Roma e Costantinopoli, voluto da gruppi aristocratici per motivi religiosi e politici, era boicottato con durezza dalla popolazione e dai monaci. § 75: per un bilancio del fenomeno crociato; spunti di approfondimento storiografico Una storiografia autentica, dopo aver enucleato le vicende e delineato le connessioni, deve pervenire a un giudizio, che non è un giudizio morale ma cerca di mostrare l’efficacia o inefficacia delle libere scelte degli uomini, protagonisti di vicende e fenomeni, efficacia o inefficacia che si misurano col metro storico della capacità delle scelte di reggere all’impatto del contesto e di promuovere un ideale o una vita sociale. Talvolta ci sono scelte immediatamente perdenti che poi rivelano una interessante efficacia, ad esempio le posizioni di Gregorio VII, e viceversa. Questo non è, appunto, un giudizio morale, anche se, in una concezione non deterministica e non caotica della storia dell’uomo, una buona scelta dal punto di vista storico sarà apparentata con un buon principio di umanità, e per un credente anche con un buon principio di morale religiosa40. 40 Dire, come fa talvolta anche qualche teologo cattolico, che la storia la fanno i vincitori, significa avere o una concezione deterministica, in cui meccanismi che superano la libertà umana decidono delle sorti, e gli storiografi non 197 Quale giudizio dare sulle crociate? Il dibattito storiografico è ampio e di estremo interesse. Senza voler esaurire tutti gli aspetti, ancora molto magmatici, della discussione, ci sembra anzitutto di dover rimuovere concezioni estremistiche e inadeguate a dare conto delle vicende e della documentazione. La crociata non volle essere una guerra di religione: non si trattava di annientare l’islam o di convertire più o meno forzatamente i musulmani, ma di difendere l’impero cristiano; più tardi gli stati crociati, e di permettere ai pellegrini e ai cristiani di Terra santa di praticare il loro culto. Più tardi nacquero progetti missionari verso l’islam, proprio a partire dalla crociata: dai tentativi francescani al grande disegno di Ramon Llull (Raimondo Lullo) nel XIV secolo. Dall’altra parte, chi brillantemente descrive la crociata come un pellegrinaggio in grande stile, con una piccola deroga per quanto riguardava l’uso delle armi, e che casualmente o quasi quelle armi finì per usarle eccome, impoverisce profondamente la lettura dei documenti e una sana visione dell’intelligenza degli uomini dell’XI-XIII secolo41. Guerra giusta, ma non guerra santa: distinzione sottile, forse discutibile, ma l’interpretazione storica è fatta di distinzioni. E non guerra di colonizzazione: non è il caso di mettere in atto anacronismi proiettando su un fenomeno del XII secolo quel che l’Europa ha fatto nel XIX secolo. Sembra di poter dire che nel suo sorgere e nei suoi sviluppi di due secoli, il fenomeno crociato nasceva da un movimento religioso penitenziale, quello dei pellegrinaggi e della Tregua Dei, che volle inserirsi, abbastanza coscientemente nei suoi leaders come Urbano II, nella mentalità militare del tempo, quasi un trapianto genetico che voleva usare per una buona causa le risorse e gli istinti dell’aristocrazia europea. Appunto, guerra “giusta”, non Jihad. Sembra di poter rintracciare nei promotori del concilio di Clermont tre finalità chiari: rendere sicuri i pellegrinaggi verso oriente; unire l’impero d’oriente e quello d’occidente, la chiesa greca e quella latina; vivere un’esperienza unitaria, superando tensioni e rivalità. fanno che sanzionare la vittoria di questi meccanismi; oppure una concezione in cui il caso è sovrano nelle vicende, e in fondo oggi casualmente riteniamo che Gregorio VII abbia vinto, a posteriori, la lotta contro il Reichskirchensystem, mentre avrebbe potuto prevalere Clemente III e la sua concezione, e oggi lo riterremmo papa a tutti gli effetti. Casualmente… 41 Franco Cardini, noto e fortunato storico italiano delle crociate, scrive che “fin dall’impresa del 1096-1099, se non esisteva ancora la crociata c’erano però i ‘crociati’, o meglio i cruce signati: erano tutti i pellegrini che, armati o no, avevano risposto all’appello lanciato a Clermont da Urbano II e per questo portavano, cucito o ricamato sulla veste, il simbolo della croce. Tale simbolo non era se non un signum peregrinationis al pari, per esempio, della conchiglia per i pellegrini di Santiago de Compostela. Solo più tardi, in prospettiva, e in modo relativamente lento, il pellegrinaggio armato verso la Terrasanta – armato in deroga alla prassi ordinaria del pellegrinaggio, e considerate le condizioni in cui si svolgeva – sarebbe divenuto passagium” (Fr. CARDINI, cit. in TATE, Le crociate, 131). Basta rileggere quanto si può dare per certo del discorso di Urbano II a Clermont (§ 72) per aver dei dubbi sull’utilità interpretativa dei criteri di Cardini. 198 Queste finalità, come grandi criteri promotori, ritornano, in varia misura, nei documenti che nei secoli promuovono le diverse “crociate”. Indubbiamente il fenomeno crociato ebbe molti aspetti di lunga durata nella storia d’occidente: promosse interscambi culturali e artistici di estremo interesse, ebbe riflessi economici e commerciali rilevanti, generò contatti missionari ed ecumenici. Dalla crociata nacque una particolare attenzione, nella spiritualità medievale e moderna, per l’umanità di Cristo. Fu insomma uno dei segni più importanti dello slancio dell’occidente, cogliendo e sintetizzando il movimento penitenziale, il movimento caritativo (ordini cavallereschi e ospedali fondati in Europa dai crociati), l’impulso di evangelizzazione verso est. Ma storicamente il fenomeno crociato fu un fallimento. Alla fine, ci sentiamo di condividere il giudizio, per certi aspetti unilaterale, formulato più di mezzo secolo fa da Steven Runciman: lui storico del mondo bizantino e tendenzialmente simpatizzante per Bisanzio, accentua forse troppo i toni. Ma il confronto tra gli intenti e gli esiti è abbastanza chiaro: se le crociate vollero rendere sicuri i pellegrinaggi, non solo non ottenne durevolmente il risultato ma accrebbe i risentimenti islamici, che durano fino ad oggi, come mostrano i video di addestramento dei fanatici fondamentalisti, che vestono come “crociati” i manichini bersaglio. Se le crociate intendevano unire il cattolicesimo latino e l’ortodossia greca, la quarta crociata, in fondo coerente con molti aspetti del fenomeno, ne provocò la più dura e diffusa spaccatura. Se infine la crociata voleva essere un movimento unitario europeo, finì per sottolineare le divisioni interne, per diventare palestra per le rivalità dei nascenti “stati nazionali”, i quali finiranno per distruggere alcune realtà sovranazionali nate dalle crocuate, come ad esempio i cavalieri templari, combattuti fino alla fine da Filippo il Bello di Francia. Insomma, il trapianto genetico si risolse in un rigetto. Solo nella penisola iberica in qualche modo ebbe un esito stabile, ma lì la reconquista partì prima, e con motivazioni differenti, rispetto alla crociata, e fu un fenomeno in buona parte indipendente, anche se un certo spirito di crociata aleggia ancora nel cattolicesimo iberico, e fu la base ideologica del franchismo. Il dibattito è ricco e aperto, e ha prodotto anche una abbondante filmografia, talvolta storicamente interessante. Si può approfondire quale fu il significato storico dell’evento di Clermont, e come nacque e si trasformò il concetto di indulgenza42. Ci sono studi di grande 42 Cfr. ad esempio J 4, 577-578. 199 rilievo sul sorgere e sull’evolversi dell’idea di crociata: si vedano i titoli citati da A. Vauchez nel suo articolo sull’escatologia sottesa alla prima crociata. 200 CAPITOLO XI: L’ETÀ DEI PROFESSORI § 76: perché “l’età dei professori”? Bibliografia: FM 13, 97-100; GV 759-781; P 205-201; É. GILSON, Lo spirito della filosofia medioevale, Brescia 1964; M. D. CHENU, La teologia nel Medio Evo. La teologia nel XII secolo, Milano 1972 Al 1122, cioè all’epoca del concordato di Worms, era papa un nobile vescovo, Callisto II, successore di un monaco di Montecassino, Gelasio II. Meno di 40 anni dopo, nel 1159, sarà eletto papa, col nome di Alessandro III, Rolando, probabilmente senese, professore (quasi certamente di teologia, forse non di diritto) dell’università degli studi bolognese. Il papato non è tutta la Chiesa, ma questo confronto è sintomo di un modo diverso, trasformato. Alcune linee di forza, nate nel contesto della riforma o sviluppatesi da essa, crescono e improntano la vita della Chiesa occidentale. Vediamole sinteticamente. Il vescovo di Roma ha assunto la guida spirituale dell’occidente, ne è diventato il fulcro unitario, superando ormai il ruolo dell’imperatore. A Clermont un papa eletto fuori da Roma, da un gruppo di cardinali fuggiaschi, come rivale del potente e colto VibertoClemente III, lancia un appello ascoltato dalla nobiltà di mezza Europa (e dai vescovi, non dimentichiamolo) per un’impresa di proporzioni inedite: è uno dei primi e più evidenti segni di un’epoca nuova. E’ un papato che ha pagato direttamente il prezzo del suo ruolo, un papato itinerante non si inventa dal nulla, l’itineranza non è sempre fatta di sinodi di successo, è anche spesso esilio. E’ un papato con un orizzonte internazionale, anche grazie al personale di curia proveniente dalle realtà più vivaci dell’Europa occidentale. Nei secoli XI-XIII non si vedranno solo papi tedeschi e (molti) francesi e borgognoni, ma anche il solo papa (finora) inglese, Adriano IV – Nicola Breakspear, e il solo papa (finora) portoghese, Giovanni XXI – Pietro “Ispano”; e papi cistercensi, canonici regolari, domenicani… Tutti, ovviamente, provenienti dalla curia, realtà sempre contestata ma più libera dalle secche localistiche, che pure continueranno a influire e a rendere inquieta la città del vescovo, scossa dai tentativi di autonomia di tipo comunale e dalle rivalità tra le famiglie aristocratiche. Contemporaneamente, e a partire dai grandi teorici della riforma, come Pier Damiani e Umberto di Silvacandida, la teologia militante si fa sempre più matura. La riflessione teologica entra in dibattito serrato con la dialettica sempre più coltivata dagli studi delle 201 artes liberales, con la politica e le sue ideologie di supporto, ma anche con l’antidialettica di origine monastica, che intende ancorare la teologia alla meditazione orante della Sacra Pagina. I teologi sono attrezzati con le più recenti risorse del pensiero, ma militano in prima fila sul fronte della riforma. Mentre Pier Damiani, e poi Manegold di Lautenbach e Bernardo rifiutano la dialettica, Anselmo, non meno monaco, vescovo resistente di fronte al governo regio inglese a costo dell’esilio, apre la strada all’uso della dialettica in teologia. Anche dopo l’esaurirsi delle tematiche riformistiche, come quella del ruolo e dei limiti dei laici (nobili) nella Chiesa, o la questione della validità dei sacramenti amministrati da un chierico simoniaco, la teologia continuerà a essere militante e a prendere posizione riguardo alle tematiche urgenti: quelle dell’economia, con il dibattito sul prestito ad interesse e con i dubbi sulla liceità del commercio in un’età di sviluppo dei commerci e della circolazione monetaria; quelle della politica, con gli interventi nella lotta tra papato e impero, con la rivendicazione del potere dei vescovi; quelle dell’evangelizzazione, così che Tommaso d’Aquino scrive una summa contra gentiles e il già citato Raimondo Lullo progetta ponti verso le grandi religioni; quelle della vita interna della Chiesa, con le lotte serrate tra clero diocesano e ordini mendicanti… Non è solo la teologia a far uso delle risorse antiche riscoperte in occidente grazie agli apporti della cultura araba filtrati da Spagna, Sicilia e Terrasanta. Non è una novità che la cultura si faccia “sulle spalle dei giganti”, ma spesso sono nuove alcune delle fonti antiche: nel X secolo è ritornato in auge l’uso del cursus della prosa classica; nella matematica,. nelle scienze, nella medicina si ritrovano testi aristotelici e di altri greci, o si prendono tra le mani gli studi arabi; la storiografia sceglie una cosciente imitazione dei grandi storici latini; il diritto romano, coltivato nelle antiche nicchie romagnole, si diffonde nello studio giuridico e politico delle corti e delle università europee; si riprendono le letture dei padri della Chiesa, che sono la base dell’interpretazione biblica; e l’artigianato virtuoso e locale di comacini e cosmati si diffonde al di là delle brevi radure in cui era nato, e in tanti, nel viaggio verso la crociata, ammirano i mosaici greco-normanni di Monreale, i castelli e le chiese costruite dagli europei d’Outremer, le meraviglie bizantine custodite a Venezia. Per usare un concetto tipico dell’economia politica di impianto marxista, che rende l’idea, in Europa è avvenuta una sorta di accumulazione primaria di risorse, ma si tratta di beni intellettuali e culturali. Le regole canoniche antiche sono state riscoperte, rimesse in auge, confrontate, e se ne sono prodotte altre, grazie alla documentazione romana e ai sinodi 202 riformatori. Le questioni concrete hanno generato sentenze morali, sul commercio e sul matrimonio, sull’uso delle armi e sull’amministrazione della giustizia. Le varie chiese si sono confrontate sugli usi penitenziali e sulle diverse tradizioni liturgiche. C’è stato un ampio dibattito sui sacramenti, sul sacramento dell’ordine dalla questione formosiana alla simonia e al nicolaismo, sull’eucaristia e sul suo significato. C’è un patrimonio di pensiero specificamente ecclesiale, e più ampiamente di cultura anche “profana”, da ordinare, armonizzare, adattare a un mondo in piena evoluzione, e insegnare. La Glossa ordinaria, ormai giunta al culmine dello sviluppo, aveva aperto la strada. Il Decretum Gratiani, nato nell’insegnamento a Bologna, in realtà si chiama Concordantia discordantium canonum, e il titolo dice esattamente la necessità di un lavoro di confronto e superamento delle apparenti (o reali) contraddizioni tra normative sorte in mille anni di vita ecclesiale e in contesti profondamente differenti. Pietro “Lombardo” raccoglie le Sententiae teologiche e morali che saranno commentate nell’insegnamento, sempre nell’ottica del concordare, armonizzare, sintetizzare. Ci si avvia al prodotto culminante, la summa. Il luogo di queste operazioni di scelta, ordine, priorità non è più il chiostro del monastero, è la scuola cittadina che sta trasformandosi in una corporazione, cioè in una universitas. Il mondo in cui la Chiesa si muove è una realtà in pieno cambiamento. Non è qui il caso di entrare nel dettaglio del dibattito sul movimento economico europeo dei secoli XI-XIII, e certamente alcune enfasi del passato hanno bisogno di un giusto ridimensionamento. Però è innegabile l’espansione demografica che richiede nuove terre da coltivare, quindi espansione verso est, ricolonizzazione della penisola iberica, diminuzione delle foreste e bonifica delle paludi. Anche il commercio si sviluppa, con le spezie e i tessuti dell’oriente, l’ambra e le pellicce del Baltico, il grano delle pianure orientali caricato nel mar Nero. L’asse dell’attenzione, in alcune zone strategiche dell’Europa, passa dalla campagna alla città: la pianura padana e il centro Italia, i cui “lombardi” diverranno commercianti e banchieri in tutto l’occidente; i porti delle repubbliche marinare e della potente e ricca Sicilia; i centri commerciali e tessili alle foci dei grandi fiumi germanici, nelle Fiandre, i porti baltici e del mare del Nord che si uniscono nella lega Anseatica. Le città, come gli uomini d’affari, si uniscono tra loro in società, una questione determinante sarà quella di chi ha il diritto di battere moneta, schiavitù e servitù della gleba diventano un problema. La nobiltà del territorio rurale entra talvolta in conflitto, e talaltra si inserisce, in questi mondi cittadini, dove ai “magnati” aristocratici si affiancano i “populares”, la borghesia pronta a 203 prendere le armi per difendere gli interessi della città, capace di un rischio che non è più quello del cavaliere in guerra, ma quello del commerciante sulla strada e sul mare43. Come giustamente sottolinea Vauchez, perfino nella santità trovano posto i borghesi, gli artigiani come Omobono Tucenghi di Cremona. Ma in questi mondi potrebbe trovar spazio anche l’eresia. E’ un mondo che cambia e che la Chiesa affronta con il pensiero e con l’azione pastorale. La vittoria della riforma, come sembra essere un dato comune a tutta la storiografia, fu vittoria della Chiesa gerarchica contro l’investitura laicale. Fu un’immagine di Chiesa a prevalere, per certi aspetti unilaterale, ma in contrapposizione a un potere aristocratico che era divenuto sistema. Ma questa gerarchia è più collegiale che verticistica, o, se vogliamo, vede dei vertici potenti ma affiancati a collegi da cui non si può prescindere. E non è un caso che al compimento di questa riforma, nella prima metà del XII secolo, contribuirono dei canonici regolari, istituzione quant’altre mai segnata dalla collegialità. Nella riforma ci fu la vittoria del collegio cardinalizio, che progressivamente assunse delle forme, un ruolo, un riconoscimento. Nelle diocesi trovarono o ritrovarono un ruolo determinante i collegi capitolari, che nelle città divennero sempre più il luogo di sintesi tra il potere vescovile, il clero, le famiglie notabili e i gruppi sociali emergenti. Nel potere cittadino stavano avvenendo analoghi fenomeni di associazione e di gestione collegiale della cosa pubblica. La stessa universitas studiorum, come abbiamo detto, si costituisce come corporazione. Poco a poco, la coesistenza di realtà di vertice e di esigenze collegiali/corporative porterà a tensioni, talvolta feconde, talaltra conflittuali, fino agli scontri tra facoltà delle arti e facoltà di teologia nelle università, all’emarginazione del vescovo dal potere cittadino nei comuni italiani, ai lunghi conclavi del secolo XIII. Lo scenario in cui la realtà ecclesiale si muove non è più un mondo di foreste e paludi in cui qua e là si aprono delle radure: è un orizzonte veramente europeo, connesso dal Portogallo all’Armenia e da Uppsala a Salerno, con interscambi che vengono alla luce attraverso segni interessanti e tracce inattese44. In questo mondo, le figura di sintesi, come e forse più che papi come Innocenzo III o imperatori come Federico II di Svevia, sono frati domenicani come Tommaso d’Aquino, che nasce a Roccasecca in Ciociaria e trascorre i momenti più 43 Cit. E. POWER, Vita nel medioevo, Torino 1999, 37-80 (sulla figura di Marco Polo). E’ affascinante, ad esempio, lo studio di Fr. D’AIUTO, Il libro dei vangeli fra Bisanzio e l’oriente: riflessioni per l’età mediobizantina, in Forme e modelli della tradizione manoscritta della Bibbia, a cura di P. Cherubini, Città del Vaticano 2005, 309-345, in cui si mostrano interscambi tra ambienti greci, siriaci, armeni, georgiani e perfino con l’occidente. 44 204 importanti della sua vita a Parigi; o un professore di Bologna come Graziano; o Guglielmo Durand, vescovo di Mende, autore del Rationale divinorum officiorum, una sorta di summa simbolica e liturgica, che sarà uno dei testi più stampati in età moderna, subito dopo la Bibbia. § 77: Chiesa, cultura e teologia nei secoli XII e XIII – la situazione di partenza Bibliografia: FM 10, 443-503; 13, 97-100; L 477-487; J 4, 601-610; 5/1, 57-75; GV 781783; 821-827; HC 5, 412-417; CHENU, La teologia nel Medio evo… S’è già detto, qui sopra ma anche nei capitoli precedenti, che l’elaborazione esegetica, canonistica, morale e teologica nei secoli che potremmo definire dell’alto medioevo (VIIIX) aveva prodotto una grande quantità di materiale. Per certi aspetti, anche per le figure che avevano contribuito a queste indicazioni e per le vicende che avevano richiesto da esse una chiarezza, si trattava di affermazioni ritenute normative, o per lo meno di grande valore. Era stata una Chiesa di santi a pensare e a scrivere tutto questo! Ma, appunto, si sentiva anche l’esigenza di dare un ordine, di ritrovare delle priorità. Quanto veniva dalla cultura classico-cristiana continuava ad essere presente nello studio, a fornire strumenti di elaborazione, ed era rivestito della stima che era emersa già nei secoli precedenti. Gli scritti di Boezio, ad esempio, erano le linee guida della logica e della dialettica: e si trattava di un utilizzo di Aristotele a forte impronta platonica. Grazie alle traduzioni e agli studi dell’età carolingia (Giovanni Scoto Erigena), era molto diffuso lo pseudo-Dionigi, rivestito di autorità apostolica, e dunque, anche qui, scorreva linfa platonica. Tra i padri della Chiesa, letti, commentati, trascritti e raccolti nelle glosse alla Scrittura, prevaleva su tutti Agostino, pressoché onnipresente. Dunque si direbbe, da una parte, una prevalenza, in Occidente, del platonismo e della “scuola” alessandrina dei primi secoli, ma con qualche riferimento non marginale al letteralismo antiocheno, e con importanti differenze tra i vari “platonismi” o forse, per meglio dire, “agostinismi” dell’Occidente. In questo quadri va collocato il dibattito, ormai vecchio di vari decenni ma sempre interessante da ascoltare, tra De Lubac che legge tutta l’esegesi (e la teologia) medievale come sviluppo dell’esegesi spirituale a partire ma al di là della lettera, e Beryl Smalley che ritrova il filo dell’attenzione alla lettera e alla veritas judaica come sensibilità soggiacente a una parte consistente dello studio medievale della Scrittura. 205 Gli spazi della cultura, fino al secolo XI, erano stati soprattutto i monasteri, anche se non si può ridurre tutta la cultura di quel tempo esclusivamente al mondo monastico. Certo le abbazie benedettine che segnavano il paesaggio di tutto l’occidente, spesso sorte col contributo di quei monaci-pellegrini-missionari insulari che facevano della cultura uno strumento di evangelizzazione, avevano dato un apporto immenso. Si trattava di una cultura che partiva dalle scuole per i piccoli oblati, ed era indubitabilmente segnata dal ritmo liturgico e dalla pratica della lectio. Lo studio della Scrittura era dunque in funzione della contemplazione, l’esegesi allegorico-simbolica connetteva la Bibbia alla ritualità, e per imparare l’abbicì si usavano i salmi. L’impegno scolastico, secondo le migliori tradizioni insulari, aveva una cura particolare per la lingua latina e per la retorica, utile per le omelie. E’ chiaro che il platonismo e Agostino si inquadravano molto bene in questo mondo fondato sul pensiero simbolico, il cui prodotto “di vertice” non poteva che essere il commento al Cantico dei cantici, dove si sviluppava al massimo la lettura allegorica-spirituale. Molti storici del pensiero vedono in Bernardo l’ultimo, altissimo esponente della teologia della Sacra Pagina. Poi la storia insegna che le cose non finiscono di colpo. Certo, salvo alcuni pensatori come Guglielmo di Saint Thierry e Isacco della Stella (+ 1169), il mondo cistercense investirà un po’ meno sulla cultura libraria e un po’ più sulla cultura tecnica, non certo da disprezzare. E soprattutto smettono di accogliere i piccoli oblati e di fare dei monasteri-scuole. E il mondo benedettino non si esaurisce nel fenomeno cistercense: pochi contemporanei conoscono la qualità dell’esegesi e l’ispirazione profondamente contemplativa di un teologo “tradizionale” come Ruperto, abate del monastero “nero” di Deutz, sulla riva destra del Reno davanti a Colonia. Contemporaneamente, le scuole capitolari delle città, con l’apporto dei “canonici regolari”, avviano una linea innovativa, anche se non del tutto nuova. I chiostri cittadini dei canonici, come Saint Victor a Parigi, sono spazi culturali differenti dagli antichi monasteri. Vi si fa scuola, ma non più al modo in cui si istruivano i piccoli “oblati”. Sono ormai adolescenti e giovani, spesso ma non sempre e non tutti avviati alla carriera ecclesiastica secolare, a essere allievi di queste scuole, che mai peraltro erano cessate del tutto: si pensi a Reims, dove erano stati scholastici prima Gerberto, poi Bruno di Colonia. § 78: la “rinascita” del secolo XII 206 Bibliografia: FM 13, 100-206; J 5/1, 129-139; L 541-544; GV 759-783; HC 5, 417-433; CHENU, La teologia nel Medio evo…, in particolare 23-57 Parlando del già citato esegeta e teologo Ruperto di Deutz, Henri de Lubac afferma: Ruperto non ha aperto nuove vie all’intelligenza come S. Anselmo o come Pietro Abelardo; né come S. Bernardo, alla spiritualità. Egli non è stato toccato, come Guglielmo di Saint-Thierry, dalla grazia di Cîteaux, che allora ringiovaniva il mondo. Non ha anticipato le tecniche del pensiero come quel dialettico profondo e dimenticato che fu Gilberto de la Porrée. Non ha realizzato, come Ugo di San Vittore, l’equilibrio di una sintesi originale, un po’ artificiosa e perciò fragile, ma ricca e misurata… Nel cielo teologico di quella meravigliosa epoca egli vi brilla ugualmente, settima “pietra preziosa”, settimo candelabro d’oro… Egli merita di rimanere associato nel nostro ricordo con costoro, in compagnia di questi grandi testimoni dello Spirito, “viri spirituales, qui sunt luminaria mundi”45 e in nota enumera “altri astri d’un grande splendore” nella stessa epoca: Bernardo di Chartres, Guglielmo di Conches, Guigo il certosino, Anselmo di Laon, Pietro Venerabile, Sugero di Saint Denis, e con loro “non sarebbe difficile completare la dozzina”. Ci sono momenti della storia del pensiero in cui sembra che una misteriosa alchimia o una fortunata congiunzione di astri produca quasi simultaneamente non poche personalità di qualità intellettuale superiore. Non è detto che i loro risultati siano il vertice di una certa fase: a volte, come in questo caso, gli “astri” del secolo XII per certi aspetti anticipano, per altri pongono le condizioni o preparano il materiale per un ulteriore salto di qualità che loro sfugge. Ovviamente, con quel pizzico di sano illuminismo che non guasta, non possiamo credere né ad alchimie né ad astrologie. Cerchiamo brevemente, invece, di delineare i caratteri della cultura intellettuale e specificamente teologica del XII secolo. Si tratta, anzitutto, di un tempo di compresenze: insieme ai tradizionali luoghi di elaborazione della cultura, che erano i monasteri, si affacciano, come già accennato, “nuovi” luoghi (che poi del tutto nuovi non sono)come la scuola capitolare e poi l’università con la suo nuova organizzazione corporativa con forte interfaccia sociale e col meccanismo, sconosciuto nel monastero, della 207 cooptazione. Compresenza anche di diverse domande culturali: quelle tradizionali, monastiche e pastorali, e quelle delle facoltà delle arti, della medicina, perfino domande provenienti dal mondo laicale. Metodi diversi si affiancano: continua la lectio biblica, che resterà come uno dei pilastri della formazione teologica anche nell’università del XIII secolo, ma ad essa si affianca la quaestio, il percorso dialettico “lanciato” con successo di pubblico da Abelardo. Infine il sottosuolo di una serie di dibattiti rispecchia la competizione tra monaci e canonici, che già si è rivelata nello “scisma innocenziano” del 1130. Sono compresenze che svelano insieme intrecci e tensioni, identità e differenze, connessioni di temi e tradizioni e letture diverse e talvolta conflittuali delle connessioni stesse. Non a caso qualcuno ha scritto che i creatori della scolastica furono Anselmo e Abelardo: figure, mentalità, vocazioni e biografie tra loro diversissime. Queste compresenze in rapporto dinamico sono chiamate ad affrontare quelli che potremmo chiamare i temi del giorno. Anzitutto, bisogna continuare ad elaborare una teologia della Chiesa che esprima l’autoconsapevolezza maturata nella lotta contro il potere politico nell’età precedente e nel cammino secolare dell’espansione evagelizzatrice: non sarà una “ecclesiologia” così come oggi la vediamo e come inizia a delinearsi tra la fine del XIV e la metà del XV secolo, ma sarà un insieme di temi giuridici, sacramentali e morali mai disgiunti dalle loro radici scritturistiche e teologiche. Infatti uno dei filoni più rilevanti della produzione del pensieri credente del secolo XII sarà l’elaborazione compiuta della teologia dei sacramenti, luoghi ormai consapevolmente irrinunciabili della struttura istituzionale ecclesiale (ordine e plenitudo potestatis), della pastorale (eucaristia, confessione), della vita morale (matrimonio al tempo dell’amor cortese). Anche l’esperienza del “mondo” ha una più forte consistenza e propone tematiche inedite. La conquista di nuove terre, alcune soluzioni tecniche, una maggior fiducia dell’uomo dentro la natura, non più vista come realtà minacciosa ma come spazio di sviluppo e di conquista, stavano lentamente producendo una nuova mentalità. La città coi suoi artigiani, i suoi “corpi” sociali e le nuove modalità di scambio di prodotti sono uno scenario in crescita46. E’ forse discutibile, e andrebbe approfondito, che la “sconfitta” del laicato aristocratico e la vittoria di una Chiesa “gerarchica” abbia offerto comunque al laicato, forse 45 46 H. DE LUBAC, Esegesi medievale, 414-415. C. M. CIPOLLA, Storia economica dell’Europa pre-indistriale, Bologna 1980, 163-225. 208 al “nuovo” laicato della città, uno spazio di autonomia, di impegno “nel mondo”. Comunque nello stesso mondo clericale emergono i “saeculares”, coloro che vivono nel mondo: vescovi, capitoli, canonici regolari, e più tardi ordini mendicanti. A livello di coscienza collettiva si assiste al diffondersi del senso della “storia”, che si connette alle letture degli storici antichi e produce la proliferazione di cronache, ormai non più solo monastiche, e di letture teologiche della storia, come il De victoria Verbi Dei del già citato Ruperto di Deutz, paragonabile, come incisività nel medio evo, al De civitate Dei di Agostino e al Discorso sulla storia universale di Bossuet nelle loro rispettive epoche47. Il lungo “scisma” tra papato e impero, un vero shock a fronte degli ideali di armonia vissuti dagli uomini di cultura, così come il ricupere di Gerusalemme e poi la sua ricaduta nelle mani dei musulmani, fini alle ondate devastanti delle orde tartariche nel XIII secolo ponevano continuamente il problema del senso della storia e delle catastrofi che in essa si intravedevano, e del rapporto tra gli avvenimenti contemporanei e la dimensione escatologica. Già il dotto canonico Gerhoh di Reichersberg, figura di grande interesse della seconda metà del XII secolo, scrive De quarta vigilia noctis, preannunciando la conclusione di questo mondo malvagio e facendo di Gregorio VII la prima sentinella della quarta veglia. Alla fine dello stesso XII secolo le speculazioni di Gioacchino da Fiore, abate calabrese, che secondo De Lubac sovverte profondamente l’equilibrio dei “sensi della Scrittura”, porteranno all’estremo la sitematizzazione delle visioni escatologiche, e saranno destinate a una lunga fortuna per tutto il secolo successivo. Alcuni autori recenti insistono molto sulla riscoperta dell’individuo a quest’epoca, i cui maestri sarebbero da ritrovare nella spiritualità cistercense e nella conseguente esigenza di dare conto delle esperienze mistiche. Due cammini culturali, ora in simbiosi ora in tensione, in ogni singolo autore del tempo presenti in modi, forme, misure variabili, affrontano questi temi della comunità dei cristiani, dell’esperienza del saeculum, del senso della storia, dell’emersione dell’individuo. Si tratta della mentalità simbolica e della strumentazione dialettica. Gli autori antichi e i padri della Chiesa restano le letture di partenza per chiarire ed elaborare i temi dell’attualità, le curiosità e gli interessi nuovi. Accenniamo molto rapidamente a qualche esempio degli sviluppi del pensiero del XII secolo, in cui emergono queste tematiche “all’ordine del giorno”. Riccardo di San Vittore, 209 canonico regolare, elabora una teologia sacramentaria basata sulla distinzione e sul rapporto tra res e sacramentum che avrà una lunga fortuna. La scuola di Chartres mette in campo il tema del microcosmo e del macrocosmo: il mondo è concepito come un tutto, e l’uomo, nel mondo, ne rappresenta quasi la sintesi, e riflette questa totalità e completezza. Alcuni grandi teologi e uomini del clero sviluppano interessi e ricerche nel campo della medicina, della fisica e dell’ottica, con ardite connessioni nel campo biblico-teologico. E’ di grande interesse questa considerazione sintetica, ormai vecchia di mezzo secolo ma probabilmente mai sfruttata nella sua potenzialità, dello Chenu: I “nomi divini” sono un caso eminente di queste analogie metaforiche: i nomi biblici, fuoco, luce, leone, re, non le proprietà trascendentali in termini d’essenza… Spontaneo e tradizionale l’uso dei nomi metaforici diverrà l’oggetto di una coscienza critica che l’ingresso della metafisica dionisiana porterà di colpo ad un grado elevato di analisi. E’ in questa prospettiva che bisogna seguire lo sviluppo di quelle che vengono chiamate le prove dell’esistenza di Dio. Il trattato ne viene costituito nella seconda metà del secolo e tende a non usare che analisi concettuali della ragione metafisica; tuttavia conserva ancora il piano, immaginativo e biblico, della conoscenza metaforica. Così avviene ad esempio, ed è un caso fra molti, nella solida e gustosa elevazione sulla natura, “libro” e “figura” di Dio, che leggiamo annessa ad Didascalicon di Ugo da san Vittore48 Abelardo sviluppa una scienza psicologica del soggetto umano, che è anche una antropologia teologica. Nel frattempo si registra il cosiddetto “secondo ingresso” di Aristotele in occidente, di cui tanto han discusso gli storici della filosofia. Gli scritti del fondatore della scuola peripatetica non erano totalmente sconosciuti nell’Europa medievale, soprattutto filtrati attraverso Boezio. Ora giungono testi che non erano presenti nella vecchia tradizione occidentale, con tutta la predisposizione alla venerazione dell’antico che faceva parte della mentalità comune. Dalla Spagna, dove Aristotele era arrivato con la filosofia araba, vennero la Metafisica, la Fisica, il De Coelo e il De Anima e altri testi. Più tardi, nel secolo XIII 47 48 DE LUBAC, Esegesi medievale, 393. CHENU, La teologia nel Medio evo…, 183. 210 avanzato, si diffonderanno anche i testi etici. Inizialmente alcuni di questi scritti giunsero con le glosse e le aggiunte di Ibn Rushd, in occidente noto come Averroé, vissuto tra Spagna e Marocco (1126-1198), esponente di un accentuato razionalismo filosofico musulmano49. Spesso le glosse erano indistinguibili dal testo aristotelico, e quindi offrivano alla venerazione occidentale affermazioni di una direzione razionalistica sconcertante. La sfida aristotelica, tra la fine del XII secolo e il successivo, fu una vera crisi di acculturazione, “una delle crisi più profonde della storia del pensiero” (L. Geymonat). Immaginiamo anche il contesto concreto: gli studenti vivono il gusto e l’entusiasmo di una dialettica che rischia continuamente di discutere, per esercizio, le più profonde e inconcusse verità, con tutta la vivacità del mondo adolescenziale; la facoltà delle “arti”, dove questi testi diventano pane quotidiano, nella dialettica ma anche nella medicina e nell’astronomia, contesta il primato della teologia e cerca di rendersi autonoma nei giochi di potere e di equilibrio delle nascenti corporazioni degli studi. Non mancherà, soprattutto nei monasteri, una reazione antidialettica e antifilosofica. Ma la riduzione tutta italicofascista della filosofia a storia della filosofia, e le carenze negli studi dell’ambito della storia del pensiero accentuano questa ondata aristotelica come fatto determinante delle vicende culturali del XII e XIII secolo, e rischiano di dimenticare altri fattori, non meno rilevanti nell’ambito del mondo culturale del tempo. Anzitutto si ha una rilettura e, per alcuni testi, una riscoperta dei padri greci: l’Areopagita, Massimo il confessore e Gregorio di Nazianzo erano già noti, ma sono tradotti meglio. Si traducono e si diffondono le opere, pressoché dimenticate, di Gregorio di Nissa, Giovanni Crisostomo e Gregorio Damasceno. Il contatto con l’oriente tramite le crociate, e poi con la sventurata spedizione del 1204, favorisce queste letture e promuove una comprensione di un mondo che teologicamente torna vicino: remota preparazione all’effimera unione del II concilio di Lione, di cui parleremo oltre. Qui è tutto un mondo venato di platonismo cristiano, ma non solo, che irrompe in occidente. Il risveglio evangelico, detto in altri termini, il diffondersi dell’ideale della “vita apostolica”, sintesi tra contemplazione e pastorale, orgogliosamente rivendicata dai suoi esponenti, prima canonici regolari e poi mendicanti, come superiore alla vita monastica, “solamente” 49 Averroé non insegna l’esistenza di una doppia verità, religiosa e filosofica. Me dichiara che il modo di procedere del filosofo alla ricerca dell’unica verità è differente e distinto rispetto al percorso della gran parte del popolo, che arriva alla verità attraverso la religione. Si ha quindi in lui un dualismo tra religione e dialettica, possibile nel contesto islamico, dove la divinità non si incarna e dove il pensiero di Dio è al di là di tutto, “Allah sa di più”. 211 contemplativa, farà sorgere e darà ispirazione a nuovi ordini, ma va a creare movimenti ad alta densità spirituale anche tra i laici, a cui la vita apostolica, da condurre nel saeculum, è più a portata di mano. Da queste esigenze spirituali nascono nuovi stimoli al pensiero e al dibattito teologico, oltre che violente controversie intraecclesiali. Come aveva fatto Graziano per le varie fonti, talvolta contraddittorie, del diritto, così, in questa prima scolastica, nascono i tentativi di raccogliere in un ordine sistematico le principali affermazioni dei Padri, confrontarle e farne emergere eventuali contraddizioni, e tentare una chiarezza e una sintesi tramite la dialettica: dopo i tentativi di Anselmo di Laon e di Guglielmo di Champeaux, entrambi, tra l’altro, allievi della scuola monastica di Bec, si affermerà la più matura opera, già sopra citata, di Pietro Lombardo, nell’ultimo suo anno di vita (1160) vescovo a Parigi. Le Sentenze di Pietro Lombardo saranno, come il Decretum Gratiani per il diritto canonico, la base dell’insegnamento della teologia per il XIII secolo. Che cos’è, in questo contesto estremamente dinamico, la “scolastica”? Tutti usano questa espressione, ormai canonica, ma pochi ne dànno una definizione, così che sotto il termine “scolastica” ci finisce… un po’ di tutto. A livello di storia della Chiesa la scolastica è il tentativo, o meglio l’articolarsi dei tentativi, di fare sintesi rispetto a tutti questi vettori di forza. Il XII secolo sembra vada interpretato come l’età creativa, il tempo del sorgere di molti problemi e dibattiti che però non trovano ancora il genio, o i geni, capaci di sintetizzarli. Il XIII secolo vedrà l’impegno a dare senso e a incanalare tutte queste dinamiche in progetti organici e definiti: ciò sconterà la perdita di una parte di creatività e spontaneità, ma l’acquisto di una maggior incidenza. § 79: la teologia come scientia nel XIII secolo Bibliografia: FM 13, 207-520; J 5/1, 356-376; L 544-549; GV 783-820; HC 5, 759-780; M. D. CHENU, La teologia come scienza. La teologia nel XIII secolo, Milano 1971. Volutamente usiamo qui l’espressione colta dallo Chenu come cifra sintetica del periodo della piena scolastica: teologia come scientia. I teologi hanno ormai compiuto la scelta, non tanto di abbandonare l’antica visione della Sacra Pagina biblica da leggere e commentare, pratica che resterà nel curriculum di tutti i docenti delle università di questo periodo; quanto integrare nel percorso dello studio e del dibattito tutta la strumentazione considerata, appunto “scientifica”, appresa dagli studenti nella facoltà “della arti”, e che con la dialettica comprende anche la matematica e la fisica. Dunque la scienza aristotelica, con cui la 212 teologia fa i conti. Questo processo di dialogo e di “acculurazione” richiede una sintesi che non mortifichi le due componenti fondamentali, il pensiero razionale con i suoi risultati e l’ascolto della rivelazione. Il secolo XIII vedrà svariati tentativi di sintesi, che si incarnano spesso (non sempre) in summae o prodotti editoriali analoghi, e che noi chiameremo “progetti”. Questi autori infatti operano qualcosa di analogo a quanto oggi possiamo caratterizzare con il termine “progetto”. A partire da alcuni dati e da alcuni obiettivi, ogni linea cerca di edificare una costruzione la più ampia e salda possibile. Non prenderemo in considerazione tutti gli autori di questo periodo, ma cercheremo, molto brevemente, di offrire un quadro in cui inserire i vari personaggi che si incontrano nello studio della teologia sistematica. Una prima figura di sintesi potrebbe essere considerata quella di Alberto: domenicano, docente in varie università europee, maestro di Tommaso d’Aquino che appartiene al suo stesso ordine. Il tentativo di Alberto “magno” sarà quello di incorporare nella cultura e nella teologia occidentale il patrimonio scientifico greco e arabo nei campi della medicina, della fisica e delle scienze della natura, cercando di armonizzare questi elementi con le linee di sviluppo della teologia. In un’altra zona d’Europa, tradizionalmente sede di studi e approfondimenti, ossia l’Inghilterra, nasce l’università di Oxford. In questa antica scuola si insediano i francescani, che arrivano nella Britannia insulare nei primi anni di esistenza del loro ordine, provenendo dalla Francia, addirittura ancora vivente il santo fondatore assisiate50. E si risente di tutta l’ispirazione francescana nel progetto di Roberto Grossatesta e della scuola di Oxford, che fa dell’esperienza il punto di partenza della riflessione e sviluppa gli studi di fisica e ottica. Il culmine della scuola di Oxford sarà la sintesi operata da Duns Scoto, che però si affaccia già nel XIV secolo. In questo periodo va notato un apporto prezioso, non sul versante della sintesi teologica ma dal lato della messa a punto degli strumenti per studiare e comprendere l’aristotelismo imperante nelle facoltà delle arti. Il fiammingo Guglielmo di Moerbeke e altri ritornano ai testo aristotelici già cosparsi di glosse razionalistiche e mettono in atto una traduzione latina direttamente dal greco, quindi più precisa e “purgata” dall’averroismo, consentendo così ai dialettici e ai filosofi di muoversi sull’originale pensiero di Aristotele: un po’ di buona 50 R. MANSELLI, I primi cento anni di storia francescana, a cura di A. Marini, Cinisello B. 2004, 41. 213 filologia aprì la porta alla conciliazione tra la tradizione filosofica antica riscoperta e il cammino del pensiero occidentale. E’ a questo punto, con questi strumenti testuali migliori, nel contesto di una università ormai articolata nelle sue forme stabili, quale era quella di Parigi, che può svilupparsi il vasto progetto sintetico di Tommaso d’Aquino. E’ importante ricordare che il culmine di questa elaborazione, ossia la Summa theologiae, è il punto di arrivo di un lavoro di studio e insegnamento che Tommaso svolge secondo le gerarchie e il curriculum ormai tradizionale: commenti biblici, commento alle Sententiae di Pier Lombardo, e poi discussione di tematiche nelle Quaestiones, sedute “laboratoriali” in cui la dialettica era utilizzata per l’approfondimento delle verità filosofiche e di fede. Il progetto di Tommaso, in breve, può essere così definito: piena inculturazione della teologia nella scientia aristotelica ormai egemone nella facoltà delle arti, a partire dalla chiarezza sugli aspetti metodologici: quale spazio in teologia per l’utilizzo della dialettica? Come una dialettica spassionata può condurre ad accrescere la scienza della fede e non a distruggere le certezze della rivelazione biblico-cristiana? L’impianto degli articoli della Summa offre icasticamente l’idea del percorso di pensiero di Tommaso: Utrum caritas sit virtus… Videtur quod non… Sed contra… Respondeo dicendum quod… ad primum…51. Tommaso distingue tra la ragione e la fede, in questo accogliendo la lezione aristotelica e averroistica, ma postula il loro accordo, necessario oggettivamente per l’unica verità a cui ragione e fede si dirigono. L’accordo tra il pensiero e la fede sarà quindi intelligibile, e questo sarà lo spazio della dialettica. Anche nell’interpretazione della Scrittura, che rimane la base della teologia, la ragione ha un compito di approfondimento, a partire dalla tradizione esegetica patristica mai dimenticata. La struttura di elaborazione di Tommaso, esercitata in anni di dibattiti universitari, tradisce in controluce l’intenzione di questi gradi maestri dei secoli XII-XIII, che, a parere di chi scrive, ben si esprime nel titolo dell’opera giuridica di Graziano: Concordantia discordantium… La Scrittura e la tradizione forniscono una grande quantità di materiale, talvolta intelligibile a fatica: infatti la lettura allegorica della Bibbia nasceva anche – non 51 Aprendo a caso la Summa, in questo caso si tratta della IIa IIae, quaestio 23, articulus 3. Si noti che una delle gravi difficoltà tutt’ora in campo nello studio dei testi tomistici è l’edizione critica. Infatti, anzitutto gli originali di Tommaso, che in molte parti abbiamo, sono scritti con una grafia difficilissima, chiamata dai paleografi, per antonomasia, littera illeggibilis; invece le varie opere di Tommaso ci sono giunte spesso a partire dagli appunti degli studenti, che, come tutti gli appunti, sono imprecisi, si integrano reciprocamente, producono testi anche molto diversi tra loro che i copisti a pagamento dei vicolo parigini poi riproducevano il più velocemente possibile per il bisogno degli studenti stessi. 214 solo – dall’idea di rendere comprensibili quei passi soprattutto anticotestamentari che non si capivano “alla lettera”. Ma anche la scientia – fisica, metafisica, etica… - aristotelica fornisce altri risultati, talvolta, almeno apparentemente, discordanti dall’ispirazione biblica. Posta una questione (utrum), si esaminano con la ragione le posizioni discordi (videtur quod non – sed contra), si propone una soluzione (respondeo) e a partire da questa affermazione già sorretta dal percorso razionale, si interviene nella spiegazione intelligibile delle obiezioni. A volte, studiando la storia della filosofia e della teologia di questo periodo, ci si imbatte in questioni, che a noi sembrano del tutto destituite di concretezza, e che quindi, se mal studiate come spesso avviene nella scuola secondaria italiana, generano quel senso di inutilità che purtroppo è uno stigma del pensiero medievale. Si tratta, invece, di tematiche estremamente concrete, legate a questioni che in quel periodo, erano all’ordine del giorno, e a cui docenti e studenti partecipavano in maniera appassionata, tanto che il buon Tommaso, che non era certo un fisico sportivo, si trovò spesso a incorrere in agguati e risse contro la sua persona. L’esempio più eclatante è quello del dibattito sul tema dell’intelletto comune, che lo vide dialogare e scontrarsi con Sigieri di Brabante. Gli aristotelici radicali, seguaci in questo di Averroé, postulavano che esistesse un unico intelletto comune a tutti gli uomini, coincidente con l’anima, che permetteva la comunicazione delle idee e dei risultati del pensiero; Tommaso invece si opponeva a questa teoria dell’intelletto comune, postulando l’esistenza di un intelletto individuale e richiedendo altre forme che spiegassero la comunicazione. Tematica apparentemente del tutto teorica. In realtà la proposta di intelletto comune portava gli aristotelici radicali a importanti conseguenze sul piano morale: se l’anima dei santi è salvata, e tutti condividono l’intelletto e quindi l’anima dei santi, tutti sono salvati, indipendentemente dai loro atti buoni o cattivi. D’altronde la teologia del XIII secolo, di Tommaso e degli altri, rimane una teologia militante, come nei secoli precedenti, ossia legata alle necessità ecclesiali del tempo e ai temi caldi del dibattito. S’è già detto che la Summa contra gentiles, o meglio Liber de veritate catholicae fidei contra errores infidelium, che tra l’altro gli fu sollecitata da varie parti, era in vista di un approfondimento teorico dell’impegno evangelizzatore che i suoi stessi confratelli domenicani stavano portando avanti, e non è certo un caso che nel secolo XIV sia la contra gentiles che la Summa theologiae fossero tradotte perfino in armeno dai domenicani missionari nella zona caucasica. 215 La contemporanea elaborazione francescana che ha come elemento di spicco Bonaventura da Bagnoregio può essere letta come un tentativo di sintesi ma con un’impronta più tradizionale, potremmo dire “conservatrice” (senza dare nessun significato negativo al termine). L’opera bonaventuriana è una “teologia della pietà”, il suo percorso è quella tradizionale, anselmiano: lettera della Scrittura – dogmi – allegoria (interpretazione spirituale), e Bonaventura recupera una serie di elementi agostiniani che facevano da resistenza all’aristotelismo universitario. E non saranno solo i serrati ma mitissimi dibattiti tra Tommaso da una parte, Duns Scoto e Bonaventura dall’altra, a rappresentare una realtà variegata in cui l’aristotelismo era pacifico nella facoltà delle arti ma sospetto in quella della teologia: Tommaso muore, cinquantenne, nel marzo 1274. Esattamente tre anni dopo l’arcivescovo di Parigi, Étienne Tempier, pubblicava una lista di testi tomisti condannati come eccessivamente aristotelici e quindi eretici: una condanna che sarà tolta ufficialmente dall’università di Parigi nel 1325. 216 CAPITOLO XII: LA LOTTA TRA DIRITTO CANONICO E DIRITTO ROMANO NEL RAPPORTO PAPATO-IMPERO (1153-1198) § 80: lo scontro con il Barbarossa Bibliografia FM 9/2, 413-517; 577-659; J 5/1, 78-97; GV 432-453. 455; L 491-501; HC 5, 203-216; P 85-87; EP 2, 286-308 Come spesso avviene nello svolgersi delle vicende storiche, pochi mesi sono sufficienti per un cambio generazionale. Nel 1153 sale al potere in Germania il giovane Federico I di Hohenstaufen, o di Svevia come lo chiama la tradizione storiografica italiana; l’anno successivo è eletto papa Nicolas Breakspear, canonico regolare di San Ruf d’Avignone prima di diventare cardinale, che prende il nome di Adriano IV: finora il primo papa di origine inglese. Al nuovo papa si presentano due questioni ormai endemiche nello scenario politico del centro-sud Italia, ossia l’inquietudine della città di Roma, proprio in quel periodo alimentata dalla predicazione pauperistica di Arnaldo da Brescia; e il difficile rapporto col regno dei Normanni, che si spingono a occupare Benevento, che anni prima si era data al papa, e si infiltrano nella “campagna”, ossia nella zona di maremme a sud di Roma. Adriano progetta quindi di ricorrere al giovane re, cogliendo l’occasione dell’incoronazione imperiale. Ma alla corte del Barbarossa, così venne presto chiamato Federico, si registrava un clima culturale nuovo, almeno per certi aspetti. Il progetto politico si orientava a restaurare un impero dai connotati tradizionalmente feudali, con un controllo stretto sul territorio tramite la nobiltà, ecclesiastica e militare: si trattava cioè di un percorso che oggi chiameremmo conservatore per non dire reazionario, visto che la struttura feudale da tempo mostrava importanti segni di crisi. Ma l’ideologia soggiacente a questa restaurazione proveniva da una fonte differente rispetto a quella tradizionale del mondo tedesco, legata alle figure di Carlo magno e di Ottone, imperatori cristiani e germanici. La figura imperiale era delineata e connotata dai caratteri del diritto romano, che le nuove università, soprattutto nel nord Italia, avevano rimesso nel circolo culturale europeo. Si tratta, ovviamente, del diritto di Teodosio e di Giustiniano, che però si basa sulla legislazione precedente. Dunque la restaurazione feudale aveva un sottofondo ideale in qualche modo differente e nuovo rispetto alle generazioni precedenti. Questa visione emerge attraverso vari sintomi. Ad esempio, la punizione di alcuni attentati alla persona dell’imperatore, uno dei quali avvenuto 217 a Lodi ad opera di un energumeno sconosciuto, era determinata non dal diritto germanico, ma dal principio tutto romanistico di laesa maiestas. Ma fu la rivendicazione del potere assoluto e supremo del re tedesco che generò il primo scontro tra papa e imperatore, su una questione assolutamente formale anzi simbolica, ma si sa quanto, in quel periodo, contassero i simboli. Giunto alle porte di Roma in vista dell’incoronazione imperiale, Federico si rifiutò di prestare il servizio di Marschall, di palafreniere del papa, come voleva un’antica tradizione dei tempi carolingi. Un gesto che fece scalpore e provocò dotte discussioni tra i teorici delle due parti. Giunto a Roma e incoronato, Federico mostrò il vero interesse della sua politica, ossia la situazione del nord Italia, in cui le città avevano ottenuto col passare del tempo una larga autonomia. Partendo da concessioni dei predecessori di Federico, che nei decenni precedenti si erano concentrati sulla situazione tedesca, le città comunali avevano progressivamente consolidato e assorbito nella propria legislazione e nei propri usi alcuni diritti di tipo statale, come la riscossione di tasse, il battere moneta, una larga autonomia giudiziaria. Senza contare che l’aristocrazia terriera, antica base di consenso e controllo della corte imperiale sul territorio, era stata depotenziata nelle proprie ambizioni proprio dal nuovo movimento comunale. Federico puntava a restaurare la diretta autorità imperiale sulle città settentrionali, e si disinteressava dell’instabile situazione di Roma, solo intervenendo contro Arnaldo da Brescia, e della pressione normanna sul Patrimonium Petri, pur restando ostile alla potenza siciliana. Una volta che il nuovo imperatore partì da Roma, papa Adriano, con la mediazione del mondo normanno franco-inglese da cui proveniva, si accordò con il regno di Sicilia, ma in questo modo scontentò l’imperatore. Circola nella corte del Barbarossa l’accisa di un complotto tra Roma, l’impero bizantino, i normanni e le città del nord Italia per deporre l’imperatore e sovvertire l’ordine costituito: sarebbe, dunque, laesa maiestas (cfr. EP 2, 289). Contemporaneamente si apriva, sempre per ragioni politiche, un nuovo fronte di tensioni. Adriano, da cardinale, era stato inviato come legato tra la Norvegia e la Svezia, e aveva costituito una provincia ecclesiastica autonoma per la Norvegia (Nidaros-Trondheim), e aveva anche portato il pallio al vescovo di Lund, nuovo metropolita per la Danimarca, Eschilo (Erskil), ma così la Santa Sede si era scontrata con la potente arcidiocesi di Amburgo-Brema, che rivendicava il suo controllo sull’evangelizzazione dei territori scandinavi. Con Amburgo si schierò poi Federico, sperando in tal modo di avere dalla 218 propria parte i giovani regni scandinavi. Eschilo di Lund s’era recato a visitare il papa suo amico ad limina Petri, ma nel ritorno era stato arrestato e imprigionato dai soldati imperiali in Borgogna: Federico cercava di appoggiarsi alle rivendicazioni amburghesi per controllare appunto i regni di Svezia e Norvegia. Il papa protestò per l’atto poliziesco e inviò due cardinali, uno dei quali era Rolando, cancelliere, già appartenente all’università di Bologna, alla dieta imperiale d Besançon. I due cardinali trasmisero una lettera papale di esortazione a liberare Eschilo: il papa, dopo aver ricordato di aver fatto generosamente del bene (beneficium) all’imperatore avendolo incoronato, prometteva la sua benevolenza e altri atti concreti di favore (beneficia) a Federico se, liberando il vescovo svedese, avesse mostrato la sua obbedienza alla Santa Sede. Il cancelliere e vescovo di Colonia Rainaldo di Dassel tradusse in tedesco il termine latino beneficium non con un generico Wohltat, ma con il tecnico Lehen, che significa “feudo”. Il testo di Adriano, così reso, avrebbe dichiarato, in pratica, che la corona imperiale era un diritto a disposizione del papa, e che Federico lo deteneva solo in quanto vassallo del papa stesso: concezione inaudita sia per la tradizione germanica, sia, ancor di più, per quella di diritto romano propugnata dalla corte dello svevo. Quanto questa traduzione fosse un’incomprensione di Rainaldo, quanto invece una voluta provocazione contro il vescovo di Roma, quanto una cosciente ambiguità della stessa curia, che conosceva la donatio Constantini e all’occorrenza ne faceva uso, è impossibile dirlo. Certo è che la lettura e traduzione della missiva papale suscitò la reazione stizzita dei grandi del regno germanico, e costrinse i legati papali ad allontanarsi. Nel 1158, forte di un potente esercito e dell’appoggio della nobiltà del nord Italia, Federico scese ancora in Italia, anche cogliendo l’occasione delle lotte interne tra città comunali (aprile 1158: distruzione di Lodi); l’imperatore, con gli alleati, mise a ferro e fuoco Milano, la città che guidava il movimento autonomistico (1158), e distrusse Crema dopo un terribile assedio (1159). In una assemblea convocata alla Roncaglia, cioè in una striscia di terra tra il Po e l’antico corso del Lambro, grosso modo davanti a Piacenza, Federico stroncò le ambizioni delle città lombarde, imponendo a ogni centro urbano un suo rappresentante, e rivendicando tutte le “regalìe” da decenni esercitate dai comuni. Federico estese poi queste norme anche alle città di dominio pontificio, nonostante le proteste di Adriano. In quello stesso 1159 Adriano moriva ad Anagni. La maggioranza dei cardinali, diversi dei quali originari da comuni italiani, elesse al suo posto il cancelliere Rolando, che prese il nome di Alessandro III e fu appoggiato dai Frangipane, mentre una minoranza filoimperiale 219 proclamò papa il cardinale Ottaviano della nobiltà romana, che prese il nome di Vittore IV (+ 1164, ebbe a successore Guido da Crema, Pasquale III). Alessandro dovette fuggire da Roma, rimase in esilio soprattutto in Francia fino al 1165, quando riusciva a entrare di nuovo a Roma. E’ in questi anni che divampa la lotta tra il Barbarossa e i comuni del nord Italia, raccolti nella lega lombarda e appoggiati sempre lealmente dal papa, anche quando l’imperatore cerca di scioglierne l’alleanza con trattative diplomatiche. Federico nel 1167 punta su Roma e la assedia vittoriosamente, ma è costretto a fuggire per una violenta epidemia che decima l’esercito: muore, nell’occasione, anche Rainaldo di Dassel. Dopo una guerra durata dieci anni, infine la lega lombarda, formata dalle fanterie “borghesi” delle città, riesce a prevalere sull’esercito di cavalieri di Federico, nella battaglia di Legnano (1176). L’anno dopo l’imperatore scende a trattative a Venezia, e si giunge a una pace di compromesso: formalmente è l’imperatore che concede ai comuni quelle regalìe che esercitavano ormai da decenni, ma la teoria imperiale deve accettare il fatto compiuto dello sviluppo economico-politico delle città e del superamento del sistema imperiale e feudale. A seguito della pace di Venezia, Alessandro III compie una serie di operazioni di risistemazione della vita ecclesiastica sconvolta da anni di guerra, e il riordino si conclude con il concilio lateranense III del 1179. In esso viene approvata la costituzione Licet de vitanda, ulteriore sviluppo del sistema di elezione del papa. Si sancisce la fine dell’egemonia dei cardinali vescovi, che fu il perno del partito riformista un secolo prima, e si stabilisce la regola, tutt’ora valida, dell’elezione coi due terzi dei voti dei cardinali, una maggioranza qualificata che comporta una convergenza salda ma è difficile da raggiungere. Seguiranno elezioni di papi più stabili perché con un forte consenso, ma più lungo sarà il periodo di sede vacante. § 81: dall’ultima fase del regno di Barbarossa alla morte di Enrico VI (1177-1197) Bibliografia FM 9/2, 661-712; J 5/1, 118-128; L 500-502; GV e P vedi § precedente; HC 5, 216-223; EP 2, 308-326 Con la pace di Venezia, dopo venticinque anni di regno, si registra una svolta nel programma politico di Federico. Il centro di interesse si sposta dal nord Italia, ormai lasciato nelle mani delle “nuove” forze cittadine, al mediterraneo. Il primo segnale, e per certi aspetti il più importante, è il matrimonio di Enrico, figlio ed erede di Federico, con Costanza d’Altavilla, figlia dell’ultimo re normanno Ruggero II. Poco dopo, nel 1187, i latini 220 d’outremer subirono la durissima sconfitta dei corni di Hattin e dovettero cedere al Saladino Gerusalemme. Papa Clemente III proclamò la crociata, e vi aderì anche l’ormai anziano ma indomito Federico, che oltre alla causa santa del sepolcro di Cristo evidentemente aderiva a un’occasione di maggior controllo del mediterraneo. Mentre Filippo Augusto di Francia e Riccardo cuor di leone d’Inghilterra si muovevano per via di mare, Barbarossa si inoltrò nell’Anatolia, dove perse la vita annegando nel fiume Salef (Calicadno per i bizantini, Göksu per i turchi), davanti a Seleucia (attualmente Silifke), in Cilicia. La morte di Federico e quindi il ritiro della potente cavalleria tedesca, e le rivalità tra Filippo e Riccardo feceri sostanzialmente fallire la nuova ondata crociata. Intanto Enrico a nome della moglie lottava per il predominio sul regno normanno, conteso dal pretendente Tancredi conte di Lecce, e controllava i dintorni di Roma alla morte di Clemente III. Fu allora eletto il classico papa “di transizione”, il cardinale più anziano, ottantacinquenne, Celestino III, romano e do grande esperienza diplomatica. Celestino incoronava imperatore Enrico (1191) ma appoggiava segretamente Tancredi, per evitare che la corona siciliana fisse unita a quella imperiale, stritolando il Patrimonium tra due fuochi. Si delinea qui la grande paura del papato fino al XIII secolo, quella della manovra a tenaglia, che determinò molte scelte politiche dei vescovi di Roma di questi decenni. Enrico non solo riuscì a conquistare il regno di Sicilia e a farsi incoronare a Palermo, ma contemporaneamente ebbe un figlio dalla non più giovanissima Costanza, chiamato, in ricordo nel nonno, Federico. Siamo alla fine del 1194. Enrico governa con durezza il regno normanno, imponendo temuti tedeschi come funzionari sul territorio (celebre e odiato fu il siniscalco del regno, Marcovaldo di Anweiler) e progettando grandi cose tramite l’unione tra l’antico impero e la ricchissima e strategica Sicilia. Promette anche di andare in crociata, e scende a trattative con la Santa Sede. Nel 1197 improvvisamente Enrico VI muore, lasciando Costanza erede del regno e tutrice del piccolo Federico. Poco dopo moriva anche Celestino, novantatreenne. Il progetto imperiale tentato dal Barbarossa e continuato dal figlio sembrava completamente interrotto, nelle mani di una donna che, non appena al potere, sgombrò il campo del regno siciliano dai tedeschi e si appoggiò alla nobiltà normanna e ai funzionari locali, anche di origine musulmana, e di un bambino che a cinque anni perdeva anche la madre. Nonostante le insidie dinastiche, per quel momento la sindrome da accerchiamento del papato era sotto controllo. 221 Intanto il camerlengo, ossia il ministro delle finanze della sede romana, il cardinale Cencio, riorganizzava le risorse, i censi e i diritti del Patrimonium, opera indispensabile per poter perseguire costosi interventi politici e pastorali: la grande operazione di riordino fu materializzata nel Liber Censuum alla fine del secolo XII. La curia romana, ormai fondata su quelli che oggi chiameremmo “dicasteri” come la Camera apostolica, la Cancelleria e la Penitenzieria, guidate direttamente dai più potenti cardinali, accentuava il suo intento centralizzatore. Il concistoro, ossia l’assemblea dei cardinali di tutti e tre gli ordini (vescovi, presbiteri e diaconi), fin dal tempo di Urbano II si vede attribuiti compiti decisivi, e riunito in questo periodo (fine XII secolo) mensilmente, sostituiva ormai gli antichi sinodi romani ed era il luogo dell’assunzione delle più importanti decisioni, come assemblea giudiziaria pubblica. Inoltre i cardinali sottiscrivevano i più importanti documenti papali. § 82: la chiesa inglese sotto Enrico II Plantageneto e la figura di Thomas Becket Bibliografia: J 5/1, 98-108; FM 9/2, 519-575; GV 453-454; L 499; HC 5, 251-252. Nell’Inghilterra governata ormai da un secolo dagli eredi dei normanni, alla metà del XII secolo, lo scontro non è tra diritto canonico e diritto romano come ideologia di sostegno al progetto conservatore-feudale, ma tra il diritto canonico scaturito dalla riforma del secolo XI e il diritto consuetudinario che è la base della legislazione e della struttura del regno. E per queste consuetudini i re inglesi continuano la politica di forte controllo delle sedi vescovili attuata da Guglielmo il Conquistatore sia per ragioni di stabilità interna, sia, dopo il 1066, per imporre la riforma a una chiesa che con gli ultimi monarchi anglosassoni era andata in una fase di evidente decadenza. Enrico II volle a arcivescovo di Canterbury e primate un suo chierico e funzionario di corte, Thomas Becket. Come avveniva in quei decenni in quasi tutti i regni europei, i grandi arcivescovi provenivano dalla corte, dove spesso ricoprivano ancora incarichi. Thomas s’era distinto, prima della sua elezione, come difensore dei diritti del clero contro le prepotenze della nobiltà e della corte, pur svolgendo soprattutto un compito di ricostruzione di un ordine legale in un regno prima sconvolto dalle lotte tra i potentati locali; il suo impegno di uomo della legge e dell’ordine era in piena sintonia con la politica del suo re, con cui era legato da sincera amicizia. Subito dopo la sua nomina rassegnò le dimissioni da cancelliere, con sorpresa di tutti, non solo in Inghilterra. Da arcivescovo continuò a porsi come figura di rispetto della legge, che però in questo ambito 222 era il diritto canonico uscito dalla riforma, che escludeva l’intervento dei laici nella Chiesa, e così ben presto si mise in urto col re e con il suo entourage. Ciò avvenne in particolare tra il concilio di Tours, presieduto dall’esiliato Alessandro III (1163), a cui Thomas partecipò, e le assise del regno di Clarendon, in cui il re richiese di mettere per iscritto e sancire solennemente le consuetudines del rapporto corona-Chiesa dei tempi di Guglielmo, scelta a cui Thomas non volle aderire (1164). Fu in esilio in Francia dal 1164 al 1170, sempre appoggiato da Alessandro III, un po’ meno dai confratelli vescovi inglesi. Per la minaccia di un interdetto sul regno, Enrico II lo riammise in Inghilterra, e Thomas tornò nella sua sede all’inizio di dicembre del 1170. Pare che il re non avesse ordito nessuna congiura contro il suo arcivescovo, ma si fosse lasciato sfuggire un: “Ma non c’è proprio nessuno che mi liberi da questo fastidioso prete?”, comunque quattro cavalieri della corte tesero un agguato al Becket, che, meno di un mese dopo il suo rientro, fu ucciso nella sua stessa cattedrale. La fama del martirio e i miracoli che da subito avvennero presso le reliquie del presule, nonché la scomunica scagliata contro il re e l’interdetto sui possedimenti francesi della dinastia normanna, costrinsero Enrico alla penitenza pubblica; si discute, però, se a seguito di questa solenne cerimonia fosse o no sospesa l’esecuzione delle costituzioni di Clarendon. Il culto dell’arcivescovo martire si diffuse in tutta Europa: il classico della letteratura inglese Canterbury Tales di Chaucer hanno come cornice un pellegrinaggio alla tomba del Becket. Anche nel regno inglese il rapporto tra politica e mondo ecclesiastico, messo in tensione dalle risultanze della riforma gregoriana, vide gli uomini della linea di Alessandro III offrire segni interessanti di una posizione indipendente rispetto al potere. § 83: sintesi e linee di approfondimento L’ideale dell’armonia tra regno e Chiesa era ormai entrato nella mentalità del mondo cristiano occidentale: si può parlare, a questo riguardo, di “cristianità”, come di una sorta di mito fondante, di ideologia politica a cui tutti dicevano di voler aderire. Ma la riforma gregoriana, ormai diventata “carne e sangue” del diritto ma anche della pastorale e della strutturazione della Chiesa latina, non poteva non creare continue tensioni rispetto a chi, come Federico Barbarossa, volesse una concezione “imperialistica” – nel senso dell’impero di Giustiniano – al tentativo di ripristino dei diritti regali sulle città, oppure, come Enrico II Plantageneto oppure, anche nelle differenze, come Enrico VI, volesse conservare o ricuperare il controllo sulle sedi vescovili o comunque perseguire una politica di egemonia. 223 Non mancano vescovi che pagano di persona la fedeltà all’ideale di una Chiesa indipendente. Ma se da una parte la struttura dell’impero feudale sovranazionale è in posizione sempre più critica, in parallelo con il venir meno dell’esclusività del sistema feudale stesso, si delineano alcuni vettori di forza che spingono verso altre realtà sociali e politiche, che lentamente e con grandi differenze si faranno largo. Da una parte il mondo cittadino, geloso dei margini conquistati con l’impegno economico e l’esercizio collettivo del potere, esautora i vescovi dalla posizione tradizionale di governo paternalistico dei centri urbani; dall’altra parte alcuni centri di potere, con una legislazione sempre più accentrata e omogenea – diversamente dalla frammentarietà feudale – controlla le città, il territorio e intende controllare anche la vita ecclesiastica: gli esempi dei regni (entrambi di origine normanna) dell’Inghilterra e della Sicilia mostrano questi percorsi. La sede romana, fedele ai principi di riforma, si appoggia ai comuni della lega lombarda per la lotta contro il Barbarossa e i suoi discendenti, e si ritrova sempre più impegnata nello scacchiere internazionale, per la riconquista di Gerusalemme, il ridimensionamento del potere tedesco, il timore dell’accerchiamento. In questo contesto elabora dottrine teologico-politiche e prassi diplomatiche che avranno il loro culmine nel secolo XIII, ma che si basano su un profondo retroterra di pensiero. La necessità di risorse, sia di personale che economiche, per tenere in piedi questa complessa politica conduce a un potenziamento della curia e a una strutturazione sempre più accentrata. Si può approfondire la condizione della Chiesa nel regno normanno di Sicilia, discussa da storici soprattutto inglesi: se ne veda una descrizione precisa in D. MATTEW, I normanni in Italia, Roma – Bari 1997, 222-234. Se già le Consuetudines inglesi davano al re largo influsso sulla chiesa, nel regno dell’Italia meridionale le concessioni del tempo di Anacleto II e la politica dei re normanni creavano condizioni quasi uniche rispetto al resto d’Europa. Alcuni testi interessanti e una messa a punto della storiografia sui conflitti tra vescovi e poteri cittadini nel nord e centro Italia in M. PELLEGRINI, Vescovo e città. Una relazione nel Medioevo italiano (secoli II-XIV), Milano 2009. 224 CAPITOLO XIII: L’ETÀ DI INNOCENZO III § 84: i frutti dei “papato dei professori” Bibliografia: GV 493-496; P 231-233; HC 5, 223-238; 499-504 Alla morte dell’anziano Celestino III, la politica della curia romana doveva affrontare un insieme di questioni aperte. Anzitutto, sia il regno normanno di Sicilia che l’impero germanico erano vacanti. Il piccolo Federico, figlio di Enrico VI, poteva essere formalmente re del sud Italia, ma non poteva essere automaticamente erede dell’impero, che era comunque elettivo e doveva essere guidato da una figura riconosciuta dai duchi e dai grandi feudatari anche ecclesiastici d’oltralpe. Per quanto riguarda il regno di Sicilia, il governo a nome di Federico era tenuto dall’energica madre Costanza, che però doveva fare i conti con la riottosa nobiltà normanna, e difatti si liberò della pesante tutela di Markwald e degli altri funzionari germanici per accontentare i baroni. Per l’impero, come vedremo oltre, i duchi non si accordavano su un unico candidato. Le città del nord e centro Italia, formalmente sottomesse all’imperatore ma ampiamente autonome dopo la pace di Venezia, vivevano un tempo di inquietudini sia interne, tra le fazioni delle singole città, sia per continue competizioni economiche che si trasformavano in sanguinose lotte di egemonia. Anche Roma era coinvolta in questo movimento, e una parte della cittadinanza avrebbe volentieri fatto come tante altre città italiane, cioè avrebbe scelto una forma di autogoverno, mettendo da parte il potere del vescovo, che però in questo caso era il papa… Altro tema che preoccupava la corte di Roma era la crociata: Gerusalemme era perduta da dieci anni, la terza crociata era fallita e Enrico VI non era potuto accorrere a liberare i luoghi santi. Anzi, nonostante l’abilità di alcuni dei re di Gerusalemme, i domini cristiani erano ormai ridotti ad alcune città lungo il Mediterraneo, e la capitale era ormai San Giovanni d’Acri. La curia romana, che aveva eletto l’anziano Celestino e si apprestava a eleggere il giovane Lotario dei conti di Segni, era un complesso internazionale di esperti diplomatici e di studiosi di diritto e teologia. In essa si era giunti a una consapevolezza riflessa e affermata nei testi, ad esempio nelle ampie premesse (le arengae, in termine tecnico) delle bolle papali, di una visione del ruolo del vescovo di Roma nella Chiesa che si può definire con l’espressione plenitudo potestatis. Per comprendere il significato dell’espressione, val la pena non solo far riferimento al latino classico, ma por mente al fatto che la parola potestas nel XII e XIII secolo, mantenendo un livello teorico (“il potere”), si incarnava in figure 225 precise ad esempio nella vita delle città italiane. La potestas era il capo delle magistrature cittadine, “nome astratto di solito impiegato per significare colui che esercitava una giurisdizione civile o penale in nome di una superiore autorità”52, dunque insieme il potere astratto e la persona che lo incarnava, in nome dell’autorità, ossia un’ideologia che si attaglia perfettamente al “caso” del papa. Plenitudo potestatis quindi non significa un’estensione assolutistica e totalitaria del potere, bensì anzitutto una funzione vicaria, “in nome di” colui che ha “ogni potere in cielo e in terra”53, cioè di Gesù Cristo. La Plenitudo potestatis è anzitutto una funzione arbitrale nelle contese della christianitas, in tutte quelle situazioni in cui, in nome di Cristo, si deve riportare la pace oppure indicare quel è la soluzione conforme al bene della cristianità: la coronazione imperiale, soprattutto se discussa, oppure l’appello alla crociata, o, più ampiamente, l’imposizione della pax Dei. Si noti che tutte queste forme, di fatto, erano già state sperimentane nei secoli XI e XII e avevano visto il vescovo romano come protagonista, da solo (come nel caso della coronazione) o come colui che convoca e presiede sinodi (come per la crociata di Clermont). L’elaborazione teorica aveva dunque dei precedenti su cui costruirsi e confermarsi. Inoltre l’esercizio della potestas era, in linea generale, un intervento in situazioni di emergenza, mentre nell’ordinarietà le potestates politiche avevano piena e riconosciuta autonomia. Sempre a partire dalle vicende dei secoli precedenti, l’esperienza aveva mostrato un’altra sfumatura dell’esercizio della potestas papale: il giudizio sulla conformità delle scelte e degli atteggiamenti dei governanti rispetto alla legge morale – e quindi al diritto canonico che la incarnava. Quindi non solo in situazioni “critiche” come la crociata o la guerra o la coronazione imperiale, ma anche in tempi più ordinari, il papa era l’istanza definitiva laddove si ravvisava un abuso del capo politico. Si era visto Gregorio VII scomunicare Enrico IV, deporlo e sciogliere i sudditi dal giuramento di fedeltà, perché Enrico era accusato di simonia e abuso contro le prerogative papali; Alessandro III aveva scagliato l’interdetto contro i possedimenti francesi del re d’Inghilterra per la morte di Thomas Becket… Dunque, come dichiarato già in embrione dal dictatus papae, al papa “è lecito deporre l’imperatore” (n. 12) ed egli “può sciogliere i sudditi dalla fedeltà verso gli iniqui” 52 53 E. OCCHIPINTI, L’Italia dei comuni. Secoli XI-XIII, Roma 2000, 55 (cfr. 53-60). Data est mihi omnis potestas in caelo et in terra: Mt 28,18. 226 (n. 27): un giudice con piena autorità e con un insieme di pene canoniche da utilizzare, non ad arbitrio ma, appunto, contro gli “iniqui”, chiunque siano, anche costituiti in autorità. L’esercizio della plenitudo potestatis è dunque una guida spirituale, ma con importanti risvolti politici, che richiede risorse umane (curia, legati…), e quindi ha bisogno di risorse economiche basate su una risorsa politico-territoriale, ossia il patrimonium Petri. Quel che un po’ anacronisticamente si potrebbe chiamare lo stato pontificio, non era una realtà precisamente confinata e normata, una un insieme di diritti, spazi controllati e tradizioni, continuamente contesi e rivendicati. Negli ultimi decenni del XII secolo il patrimonium era stato descritto, in qualche modo fotografato, dal Liber censuum romanae ecclesiae messo a punto dal cardinal camerario Cencio. Questo ampio documento è segno di una volontà di controllo da parte della curia romana, ma anche della linea di tendenza, diffusa negli ultimi decenni del secolo XII e nel secolo XIII sia nel mondo ecclesiastico che in quello civile, di riorganizzare, definire, rivendicare per iscritto i diritti delle città, dei vescovadi54. Anche nella compilazione del liber censuum emerge la struttura intellettuale della corte romana del periodo. Sia nello svolgimento del processo storico che nell’elaborazione di pensiero, si potrebbe dire che lo “scontro” tra diritto canonico riformistico-papale e diritto politico nelle sue varie espressioni (feudale, consuetudinario, romano imperiale) è stato finora vinto dalla parte ecclesiastica, e dal diritto si sta articolando una teologia. § 85: Innocenzo III Bibliografia: FM 10, 17-147; J 5/1, 190-215; L 502-506; GV 457-493; P 233-237; HC 5, 504-510; 553-599; EP 2, 326-350 Dopo uno dei papi più anziani della storia, il collegio cardinalizio, in un giorno di scrutinio (6 gennaio 1198, lo stesso giorno della morte di Celestino III), elesse il cardinale più giovane, Lotario dei conti di Segni, trentottenne, che prese il nome di Innocenzo III. Formato, a quanto pare, a Parigi e a Bologna, canonista e teologo – l’approccio strettamente teologico di Lotario è nello stile monastico e non scolastico – e politico avvertito, Innocenzo è soprattutto un uomo di fede, con sincera spiritualità personale e altissima coscienza del proprio ministero, con un profilo del pontificato essenzialmente spirituale. E’ a partire da 54 Cfr. Vescovi medievali, a cura di G. G. Merlo, Milano 2003. 227 questo nucleo e non dalle strategie politiche che si può comprendere la figura di Innocenzo e l’incidenza avuta nella Chiesa dell’inizio del XIII secolo. Il giovane papa affronta problemi con intuito sorprendente e senso dell’innovazione. Si può dire, in breve, che le tematiche attraversate dal suo pontificato sono state: il rapporto tra sacerdotium e regnum, sia dal punto di vista pratico-politico sia con le riflessione teorica, sia a fronte del tradizionale legame con l’impero sia nell’ambito delle altre monarchie europee; le urgenze pastorali dei suoi tempi, a cui si dedicherà attenzione nel capitolo XIV, con il ruolo dei nascenti ordini mendicanti, e il tentativo di una normativa quadro con il concilio Lateranense IV del 1215; il rapporto tra la struttura istituzionale della Chiesa, ormai ampiamente messa a punto e delineata, e la spontaneità dei movimenti spirituali, coma ad esempio quello di Francesco d’Assisi; e perfino il rapporto tra teologia, ormai avviata verso la piena scolastica, e mistica. Molti di questi temi saranno toccati nelle prossime pagine. Anzitutto diamo uno sguardo alla sua azione di pontefice con addentellati più direttamente politici. I problemi aperti al momento della sua elezione si imperniavano anzitutto sul rapporto Sicilia-Impero-Patrimonium. Il regno di Sicilia apparteneva, tradizionalmente e formalmente, al Patrimonium stesso, quale feudo sotto l’alta sovranità papale, mai esercitata direttamente. A seguito dello scisma innocenziano, settanta anni prima, era stato dichiarato, da Roma stessa, regno autonomo, pur legato tramite gesti simbolici alla sede papale. Nel corso dei secoli, e fino addirittura al 1700, il legame vassallatico della monarchia siciliana era rappresentato dal dono annuale di una mula bianca, la cosiddetta “chinéa”. Questo regno teoricamente sottomesso a Roma aveva ora un re bambino, Federico, figlio del temibile Enrico VI, ormai defunto. Alla morte della madre, Costanza d’Altavilla, già nel 1198, Innocenzo divenne tutore del piccolo Federico: da una parte dovette garantire l’unità e l’indipendenza del regno di fronte alle mire dell’impero tedesco e alle spinte centrifughe dei baroni normanni, dall’altra si trovò costretto a individuare un equilibrio con il mondo dei funzionari della corte di Palermo. Per tutto questo, il papa dovette impiegare molte risorse economiche. Contemporaneamente, anche l’impero germanico s’era trovato senza capo per la morte di Enrico. Il piccolo Federico non poteva sperare di essere eletto al trono di suo padre, se non più avanti. Nel frattempo i duchi tedeschi, sempre molto litigiosi, avevano proceduto a una duplice elezione contrapposta, di Filippo di Svevia, fratello di Enrico, e di Ottone di 228 Brunswick. Per il principio della plenitudo potestatis Innocenzo III si pone come arbitro della contesa, anche se le forze politiche tedesche non si erano certo appellate al papa, ma avevano cercato appoggi nello scenario europeo, e quindi l’elezione imperiale era ormai una questione internazionale, con un ruolo pesante sia della monarchia francese, sia di quella inglese, sia della potenza economica delle città del nord e del centro Italia. Il papa finisce per appoggiare Ottone, che per un certo tempo occuperà il trono imperiale (Ottone IV): questo pretendente aveva fatto ampie promesse a Innocenzo di autonomia e indipendenza delle Chiese e di rispetto del patrimonium Petri, ma una volta incoronato non rispetterà i patti e punterà ad annettere all’impero la monarchia siciliana, minacciando il patrimonium e mettendo da parte i diritti del papato. Per evitare la temutissima “manovra a tenaglia”, Innocenzo III scomunica l’imperatore (1210) e dà la sua approvazione all’elezione di Federico II, ormai adolescente e “maggiorenne”, da parte degli avversari di Ottone. Le garanzie che Innocenzo chiede a Federico sono le solite: pieno rispetto dei diritti e dei confini del Patrimonium, ampia libertà lasciata al papa nelle nomine e nel controllo dei vescovi, separazione della corona imperiale da quella siciliana. Federico nel 1213 con la “bolla d’oro” di Eger accoglie tutte le richieste del papa, dando alla Chiesa una “libertà” più ampia di quella pattuita novant’anni prima a Worms, e nel 1214 il suo alleato Filippo Augusto di Francia sconfigge definitivamente Ottone nella battaglia di Bouvines. Nella gestione diretta del Patrimonium Innocenzo, oltre a opporsi alle mire dei candidati imperiali e dei baroni meridionali, mette in atto una sistematica e dispendiosa politica di recupero dei diritti e delle rivendicazioni elencati nel Liber censuum, sottomettendo le città e ottenendo perfino una situazione di pacificazione di Roma. Il suo attivismo politico e diplomatico, come è ovvio, richiedono risorse economiche notevoli, che spesso vengono rastrellate, oltre che dal patrimonium, dalla fiscalità ecclesiastica. Ma l’impegno di Innocenzo non riguarda soltanto l’annoso problema dell’impero con le sue conseguenze italiane. Abbiamo visto la sua attenzione verso l’oriente, frustrata dalla IV crociata iniziata nella corte del “nemico” Filippo di Svevia. Ma anche nel regno inglese il papa fa sentire la sua influenza. Nella contesa tra due candidati al seggio primaziale di Canterbury, quello dei vescovi e quello nominato dalla corona, Innocenzo rifiutò di riconoscere entrambi e impose con successo il suo amico e compagno di studi Stefano Langton; piegò l’opposizione di re Giovanni (senza terra) tramite l’interdetto scagliato contro il suo regno. Più tardi, ormai verso la fine della vita, fece in tempo a cogliere 229 l’occasione per rivendicare la sua posizione di sovrano feudale dell’Inghilterra, rivendicata dai papi fin dai tempi di Guglielmo il conquistatore. Il re Giovanni era stato costretto a cedere al parlamento, cioè all’assemblea dei nobili e delle città, per ragioni economiche: Innocenzo prese l’alta difesa del re contro il parlamento e respinse ufficialmente la Magna Charta che poneva per iscritto diritti e privilegi delle realtà rappresentate dal parlamento stesso, tra cui la regola del divieto di imporre nuove tasse senza averne sentito i rappresentanti. Innocenzo III, sempre per portare avanti gli interessi religiosi e pastorali della Chiesa e i progetti di crociata, fece sentire il suo intervento anche sulla Spagna, sulle monarchie scandinave, sulla Polonia, sull’Ungheria, e perfino sulla Bulgaria, sulla Serbia e sull’Armenia: in particolare nei Balcani la crisi connessa all’instaurazione dell’impero latino di Costantinopoli spinse sia il signore dei Serbi che lo zar dei Bulgari ad avvicinarsi a Roma iniziando percorsi di unione tra le Chiese. Si potrebbe dire che Innocenzo abbia messo in opera un vero dominium mundi spirituale, una politica (quasi) sempre vincente (anche se non sempre per lungo periodo), espressione e conferma delle teorie della Plenitudo potestatis. Di fatto Innocenzo si dimostra personaggio di rilievo unico, e non incontra sulla sua strada nessun monarca veramente alla sua altezza, dal punto di vista intellettuale o diplomatico. E’ il culmine dell’egemonia del vescovo di Roma sulla cristianità europea, controbilanciato dal punto di vista ideologico dal pieno compimento della tradizione simbolica tipicamente romana che faceva del papa l’autorità più alta e insieme la persona più fragile (A. Paravicini Bagliani). § 86: la lotta tra il papato e Federico II di Svevia Bibliografia: FM 10, 281-320; J 5/1, 268-283; L 507-512; GV 496-514; P 237-239; HC 5, 510-517; 530-534; 601-610; EP 2, 350-393. La convocazione del concilio Lateranense IV era stata occasione per proclamare un altro appello alla crociata. Innocenzo III era morto nel 1216, e l’idea della crociata era rimasta in sospeso, mentre il giovane imperatore Federico stava consolidando il suo potere sia in Germania che nel regno di Sicilia. A sostituire Innocenzo venne chiamato l’anziano e esperto cardinale Cencio, già camerarius redattore del Liber censuum, che prese il nome di Onorio III. Prudente continuatore dell’amministrazione e della politica di Innocenzo, ma meno attivista del predecessore, Onorio per tutto il decennio del suo pontificato (1216230 1227) cercò di spingere l’imperatore a prendere l’iniziativa della crociata e a separare definitivamente le due corone dell’impero e di Palermo. Federico continuava a rinviare le scelte e le decisioni: secondo alcuni storici, per un legittimo e necessario consolidamento delle varie articolazioni del potere e in attesa di un erede che potesse essere investito del dominio siciliano, secondo altri per un furbesco doppio gioco… anche tra gli studiosi del passato continua la vecchia rivalità di guelfi e ghibellini. Proprio le violente lotte tra i due partiti nell’Italia settentrionale, lotte interne alle città e guerre sanguinose per il predominio economico e territoriale, videro Federico in posizione sempre più protagonista a favore delle città e dei partiti ghibellini, vicini ai potentati rurali ancora forti (gli aristocratici del Piemonte, Ezzelino da Romano nella pianura veneta) e contro i gruppi guelfi, tradizionalmente filopapali, appoggiati dalla Francia, contigui agli ordini mendicanti che andavano diffondendosi nelle città. Ovviamente anche questo attivismo del giovane imperatore creava una forte tensione con la curia romana, anche se Onorio puntava sulle armi della diplomazia e della persuasione. Alla morte di Onorio fu eletto papa Ugo (Ugolino), cardinale vescovo di Ostia, nipote di Innocenzo III: si tratta della figura più importante di cardinale “protettore” di Francesco d’Assisi e del suo nuovo ordine, anche se sembra difficile immaginarsi che due persone così differenti, il canonista e politico curiale per eccellenza e il fraticello povero di Assisi, potessero essere uniti da una così profonda amicizia come quella che permise a Ugolino di aiutare Francesco a incarnare anche canonisticamente (e in fondo a perpetuare) il suo ideale. Gregorio IX, questo il nome da papa, volle consapevolmente proseguire l’impegno di Innocenzo e mettere in atto diritti e prerogative della plenitudo potestatis. La scomunica a Federico, per la sua dilazione della crociata, venne quasi immediatamente, e così l’imperatore finalmente partì per l’oriente (1228-1229). Cresciuto in una corte ancora trilingue come ai tempi dei normanni (latino, greco, arabo), grande conoscitore della cultura e della mentalità araba, Federico senza colpo ferire ottiene, col trattato di Giaffa, il controllo di Gerusalemme (ma priva di mura) e la possibilità per i cristiani di accedere a quasi tutta la città, e di recarsi in pellegrinaggio a Betlemme e a Nazaret, per i successivi dieci anni, e rivendica per sé e per suo figlio Corrado la corona di Gerusalemme, come sposo dell’erede Isabella di Brienne. Nel frattempo i funzionari imperiali si scontrano con la curia romana per il controllo delle città umbre e marchigiane. Tornato in Italia, Federico si impone militarmente, ottiene la remissione della scomunica nonostante la contrarietà di Gregorio, e 231 dà una sistemazione giuridica moderna al regno di Sicilia, con le constitutiones Melfitanae, che rivendicano il diritto del re a disporre delle leggi del regno senza bisogno dell’approvazione del papa e sanciscono un controllo della corona sulla Chiesa del meridione d’Italia. Il decennio successivo mostra di nuovo il divampare dello scontro tra Gregorio IX e Federico II. I motivi della lotta si riconducono sostanzialmente allo scacchiere italiano: nel nord, con determinazione e talvolta con crudeltà, Federico impone il suo controllo sulle città, e talvolta a questa efficace opera di conquista seguono episodi di violenza contro personalità ecclesiastiche e anche contro i frati minori. L’imperatore, per certi versi deciso a lottare contro gli eretici, a seconda della convenienza lascia mano libera ai gruppi albigesi alleati della nobiltà ghibellina. Inoltre non ha nessuna intenzione di rendere effettivo il suo sganciamento sul regno di Sicilia, attuando la temuta manovra a tenaglia sul Patrimonium. Gregorio inizialmente cerca di mediare tra le città comunali e l’imperatore. Dopo la sconfitta dei comuni a Cortenuova da parte di Federico e dei suoi alleati (1237) arriva anche il tentativo di Federico di conquistare Roma, secondo alcuni studiosi per raggiungere l’obiettivo di unificare l’Italia, ma è difficile esser certi che questo disegno sia stato chiaro nella mente dell’imperatore. Gregorio di nuovo lo scomunica e convoca un concilio a Roma, ma Federico fa rapire dai suoi alleati pisani, nelle acque dell’isola d’Elba, i vescovi provenienti dalla Francia e del nord Italia. Nel 1241 Gregorio IX muore, e per venti mesi i cardinali sono alle prese con la nuova elezione, tra coloro che erano più favorevoli alla pacificazione con l’imperatore e quelli che intendevano continuare la battaglia intrapresa da Gregorio. Un papa eletto, Celestino IV, muore dopo soli 17 giorni, e tutto ricomincia da capo, finché finalmente i voti convergono su Sinibaldo Fieschi, genovese, che assume il nome di Innocenzo IV, e da cardinale era uno di coloro che sostenevano la necessità dello scontro con l’imperatore. In realtà le prime mosse del nuovo papa e le risposte di Federico vanno nella direzione della trattativa, sia per il dispendio di forze da entrambe le parti, sia per la minaccia dei mongoli: nel 1241 sia la cavalleria unita dei tedeschi e dei polacchi sia le truppe ungheresi erano state annientate in due battaglie campali condotte dal figlio di Genghiz Khan. La pressione mongola era momentaneamente diminuita a causa della morte del gran Khan, ma si temeva una ripresa, sia contro l’Europa che contro quanto rimaneva dei regni crociati. L’ipotesi che i mongoli potessero annientare le potenze islamiche con una saggia alleanza con i crociati 232 era da tempo tramontata. Le violente lotte in Italia del nord tra gli imperiali e i comuni guelfi interrompevano il dialogo iniziale. Innocenzo, con una fuga fortunosa, passava nella tradizionale alleata Francia e convocava a Lione un concilio generale (1245). Nel discorso inaugurale, il papa indicava le cinque piaghe della Chiesa di quel tempo: la decadenza con il conseguente bisogno di riforma, la crociata, la minaccia mongola, l’unione incompiuta con i greci, la questione dell’impero. Nel primo concilio di Lione si mise in atto un vero processo dei vescovi all’imperatore, che fu accusato di spergiuro, eresia, sconvolgimento della pace della cristianità e violenza contro i vescovi, e fu condannato, scomunicato e deposto. Contro di lui fu proclamata una vera crociata, e di nuovo divampò la lotta militare. Nel 1248 Federico subisce una dura sconfitta davanti a Parma, città da tempo collegata al papa Innocenzo IV; nel 1250 muore improvvisamente, e con lui si conclude la dinastia imperiale degli Staufen, che in tre generazioni aveva vissuto un quasi continuo conflitto col papato. La storiografia di gran parte del XX secolo, erede dei dibattiti dell’ottocento, ha spesso letto in senso ideologico il conflitto tra i papi successivi a Innocenzo e Federico II. Gli storici “ghibellini”, protestanti tedeschi e anticlericali italiani, delineano una figura di imperatore illuminato (quasi illuminista…), tollerante, colto, e magari con un disegno di unificazione della penisola che il papato, ovviamente, infrange a tutti i costi. Gli studiosi “guelfi”, spesso condizionati dalla propaganda antimperiale, accentuano i tratti di doppiezza, di oppressione delle chiese, e anche di degrado morale di Federico. Onorio III finisce per essere arrendevole, invece Gregorio IX aspetta il momento di essere eletto papa per colpire irosamente il giovane imperatore. Le cose sono molto più complesse e oggi certe visioni ideologiche sono da abbandonare. Tutti i protagonisti si muovono su uno scacchiere politico sempre più complesso. Federico, soprattutto nei primi anni, sembra abbastanza sinceramente disposto al dialogo con la sede romana (a cui deve il regno), deve consolidare le sue posizioni sia nel regno normanno che in Germania, dove i baroni meridionali e la nobiltà germanica non solo non si accordano tra loro, ma mostrano uno spiccato senso d’indipendenza, e tenta di controllare le ribelli città del nord Italia. Onorio, come tutti i papi, punta a tener distinti impero e corona sicula, teme sconfinamenti e ribellioni filoimperiali nel Patrimonium, vuol controllare le nomine episcopali nel sud e, rispetto ai comuni padani, vede la tensione tra la tradizionale alleanza tra lombardi e Roma e il fatto che molte di queste città emarginano il potere dei vescovi e non s’impegnano nella lotta antieretica. Entrambi, Federico e Onorio, sono pesantemente 233 condizionati dal progetto di crociata, che Federico, almeno nei primi anni, sembra voler portare avanti, anche per rivendicare il suo diritto di erede della corona di Gerusalemme, ma la nobiltà europea comincia a non voler rispondere agli appelli. Successivamente, mentre Gregorio IX mantiene gli stessi obiettivi del suo predecessore, Federico, ormai sicuro soprattutto della Sicilia, mostra un disegno più marcato di egemonia e di controllo del potere e anche della Chiesa (compresa la lotta antieretica e l’assorbimento del Patrimonium) e si muove con disinvoltura, spesso con crudeltà, nei conflitti del nord Italia. Sembrerebbe che, a partire dal momento in cui Federico II incorona se stesso a re di Gerusalemme (1229), il giovane imperatore accentui in maniera progressivamente più forte un suo ruolo messianico di portatore di un regno di felicità in terra, mentre al papa e alla Chiesa spetta il compito di salvezza eterna che ne esclude un potere “di questo mondo”, anzi obbliga i prelati a vivere in povertà e l’imperatore a correggerli. Questa mescolanza di assolutismo e spiritualismo si esprime soprattutto con il Liber augustalis, esito delle assise melfitane (cfr. HC 5, 624), dove non per caso l’imperatore rivendica il suo diritto-dovere di lottare contro l’eresia (§ 90). Quanto Federico sia invece sincero credente, quanto si senta “unto da Dio”, o quanto prema su questi contenuti o su visioni più moderate e concilianti a seconda di interessi tattici, non è dato sapere con certezza. Da questo scenario complesso scaturiscono i vari tentativi di accordo, più efficaci con Onorio III, ormai molto difficili con Gregorio IX e con Innocenzo IV. Sicuramente è importante rilevare non solo la questione del rapporto tra regno di Sicilia, formalmente vassallo della sede romana, e impero, in cui spesso Federico gioca in maniera ambigua, e che Roma vuol tener distinto; ma il peso condizionante che nei passi del papato è dato dai progetti di crociata, dopo la vicenda della conquista latina di Costantinopoli e l’iniziale successo a Damietta in Egitto (1218). § 87: la fine della lotta, un papato vittorioso e stremato; sintesi e spunti di approfondimento Bibliografia: FM 10, 557-581; 601-609; J 5/1, 284-290; 338-346; 377-385; L 512-518; GV 514-528; P 239-242; HC 5, 517-522; 534-552; EP 2, 393-411; 423-459 Dopo quattro anni di governo del figlio di Federico, Corrado IV (1250-1254), si apre una lunga fase di interregno (1254-1273), in cui i duchi e gli arcivescovi elettori non si accordano su un unico candidato; inoltre, se già ai tempi di Ottone di Brunswick e Filippo di 234 Svevia le potenze straniere avevano cercato di influire sulla nomina imperiale, ora addirittura i candidati sono stranieri, anche se legati per parentela a stirpi imperiali tedesche: da una parte c’è Alfonso di Castiglia, dall’altra il figlio di Giovanni Senza Terra, Riccardo di Cornovaglia. Ma per i papi il vero problema è la Sicilia, retta alla morte di Federico da uno dei suoi figli prediletti, Manfredi, che si fa proclamare re e riprende la pressione militare sul Patrimonium e i progetti del padre di predominio sulle città padane. Nella curia romana, rivendicando l’alto dominio feudale sul regno meridionale, si fa strada l’idea di conferire la corona siciliana a una nuova dinastia. Dapprincipio l’ipotesi era quella di chiamare un esponente della casa reale inglese, ma per l’indisponibilità a mettersi in gioco in quella che poteva essere una dura conquista, papa Urbano IV (1261-1264), francese e già patriarca di Gerusalemme, propone di coinvolgere la dinastica reale francese, segnatamente il fratello di Luigi IX (il santo), Carlo, feudatario dell’Anjou, appoggiandosi sul tradizionale legame tra papi, Francia, città comunali e… denaro dei banchieri toscani, interessati agli investimenti nella ricca Sicilia e al commercio mediterraneo. Carlo scende in Italia, sconfigge Manfredi che muore nella definitiva battaglia di Benevento nel 1266. Nel frattempo il figlio di Corrado IV e nipote di Federico, Corradino, diventa maggiorenne e organizza una spedizione per ricuperare il regno dell’Italia del sud e accreditarsi come imperatore. Carlo lo sconfigge a Tagliacozzo, lo prende prigioniero e, in spregio alle tradizioni nobiliari, lo fa decapitare a Napoli nel 1268. Carlo è ormai padrone del sud e tiene le fila dei rapporti con le città guelfe. E’ molto influente anche a Roma, dove si apre la più lunga sede vacante, 33 mesi (1268-1271) senza che i cardinali si accordino su un candidato. La curia romana è vittoriosa nella lunga lotta contro gli Staufen, ma esce economicamente stremata dal conflitto, e con un alleato potente, privo di scrupoli e deciso a condizionare il papa: il rischio della manovra a tenaglia dei tedeschi sul Patrimonium è sventato, ma a un costo molto alto. In tre quarti di secolo, grosso modo, Innocenzo III e i suoi successori hanno voluto coscientemente esercitare la potestas papale come garanzia di pace e integrità della cristianità, di difesa dei vescovi e della loro indipendenza, ma anche per proteggere il Patrimonium Petri ritenuto irrinunciabile. L’impegno non si è mosso soltanto contro gli imperatori tedeschi, verso i quali, peraltro, non sono mancati tentativi di accordo e periodi di almeno apparente armonia. Anche verso le realtà monarchiche di tutta Europa i papi hanno ritenuto loro dovere intervenire. L’azione è sempre accompagnata da un 235 approfondimento teorico, e non si dimentichi che per quanto possibile Roma ha cercato, con efficacia, di coinvolgere gli episcopati. E’ indubbio che ne esce un’immagine molto esposta in politica della sede romana: il prossimo capitolo, dedicato al risvolto pastorale, ne è l’indispensabile completamento. Certamente figure come Innocenzo III e Gregorio IX conservano ed esprimono uno spessore spirituale troppo spesso dimenticato dalla storiografia. E’ però altrettanto reale che la preoccupazione per lo scenario italiano spesso è prevalente e finisce per appesantire l’utilizzo delle sanzioni spirituali, che presto scadranno agli occhi dell’opinione pubblica europea. Va sottolineato che il papato, e non solo, ma aree importanti dell’episcopato e del mondo dei religiosi, è guidato coscientemente da studi e studiosi, e i dibattiti nelle università europee contribuiscono alla precisazione delle linee teoriche e delle scelte ecclesiali e politiche: raramente nella storia del vecchio continente gli “intellettuali” hanno avuto così tanto spazio. Anche nelle corti imperiali. E’ interessante notare il parallelo tra fasi di conflitto nell’elezione del re di Germania e lunghe sedi vacanti pontificie. Alla litigiosità dell’alta nobiltà tedesca fa riscontro la difficoltà di eleggere un papa coi due terzi dei voti dei cardinali, ma in entrambi i casi cresce l’influenza delle varie corti europee. Nell’elezione seguita alla morte di Clemente IV (12651268) i cardinali erano riuniti a Viterbo, e le autorità cittadine misero in atto una serie di misure per accorciare per quanto possibile l’eccessivo prolungarsi dell’elezione: chiusura del palazzo, progressiva diminuzione del rifornimento di alimenti e, addirittura, distruzione del tetto. Alcune di queste azioni erano già state intraviste in elezioni precedenti. Da quel momento, in senso proprio, si può parlare di conclave, ennesima evoluzione del meccanismo di individuazione di colui che è ormai la guida riconosciuta della cristianità. La ricerca sulla storia delle idee politiche continua a lavorare sulla formazione del concetto di stato moderno, che sembra delinearsi lentamente proprio nel cuore di questo secolo XIII. I regni sempre più si definiscono come corpi “mistici”, in analogia e contrapposizione con la Chiesa, e le classi dirigenti, formate nelle università al diritto civile, fanno argine contro il fiscalismo della curia romana. Sembra crescere un diffuso anticlericalismo, ad esempio nel mondo dei trovatori, uno “spirito ghibellino” che apre a sviluppi di pensiero e a atteggiamente pratici nuovi, in cui il potere politico sembra laicizzarsi, anche se in realtà i re non cessano di rivendicare la dimensione religiosa del loro dominio. Su queste interessanti 236 questioni si possono leggere i classici studi di M. Bloch ed E. Gilson e i più recenti interventi di E. Kantorowicz, A. Paravicini Bagliani e M. Pacaut. Il dibattito sulla figura di Federico II è ampiamente aperto, e recentemente si sono visti nuovi contributi: l’impressione di chi scrive è che si tratti in realtà di una mitizzazione piuttosto anacronistica di un personaggio indubbiamente superiore per intelligenza, abilità e formazione, ma ancora legato a modalità tradizionali di gestione del potere, e, tutto sommato, difficilmente riconducibile a una visione contemporanea di sovrano illuminato e multiculturale. Invece riguardo a Innocenzo III si possono prendere in esame i suoi scritti da cardinale, acute delineazioni del progetto che Lotario di Segni porterà avanti: tutto sommato, a livello di “modernità”, Innocenzo mi sembra più significativo del suo pupillo Federico… Una breve ma precisa sintesi della concezione della potestas papale in Innocenzo III, con approfondimenti che evitano le esagerazioni purtroppo diffuse, si legge in Enciclopedia dei papi 2, sub voce. 237 CAPITOLO XIV: LA PASTORALE NEL TEMPO DELLE CITTÀ Le tematiche che si raccolgono in questo capitolo sono spesso trattate in maniera separata: gli ordini mendicanti, il diffondersi delle eresie e la nascita dell’inquisizione, gli aspetti pastorali, l’impegno missionario. Ritengo che tutte queste realtà siano unite da diversi fili, che spesso si riconducono al nascere e al diffondersi degli ordini mendicanti, insieme effetto e causa delle novità culturali e mentali dei secoli XII e XIII. Se è vero che collocare nel puro ambito della pastorale la vivacità anche spirituale e mistica dei mendicanti può sembrare un impoverimento, a cui si spera di ovviare con una certa attenzione, è altrettanto vero che francescani, domenicani e altri movimenti religiosi di questi secoli vogliono quasi tutti essere un’espressione dell’ideale della “vita apostolica”, che quindi li ricollega strettamente all’azione di evangelizzazione della Chiesa. Si potrebbe affermare che nel corso del XIII secolo l’Europa raggiunge la diffusione totale del cristianesimo: la missione raggiunge le ultime sacche di popolazioni legate alle religioni tradizionali, nel centro (Cumani) e nel nord est del continente (Baltici). Dunque tutti cristiani nell’Europa del tempo. Ma la cristianizzazione si rivela spesso fragile, superficiale, anche in zone raggiunte da secoli, e non parliamo delle aree di recente missione. Inoltre la nuova realtà delle città in pieno sviluppo comporta problemi pastorali e richiede metodi di “evangelizzazione” innovativi. Il diffondersi di dissidenze ed eresie, oltre che di comportamenti morali devianti, sono il segno delle nuove questioni della pastorale nell’ultimo scorcio di quel che chiamiamo “medioevo”. § 88: L’eresia albigese e altri movimenti di dissidenza tra XII e XIII secolo Bibliografia: FM 9/1, 117-136; 9/2, 845-862; J 5/1, 140-149; L 519-523; GV 714-737; L 277-278; HC 5, 434-455; M. ROQUEBERT, I catari. Eresia, crociata, Inquisizione dall’XI al XIV secolo, Cinisello B. 2003; A. DEL COL, L’inquisizione inItalia. Dal XII al XXI secolo, Milano 2006, 44- 62 Qualche storico ha parlato di una “ondata eretica” che si diffonde in Europa tra il 1135 e il 1140, cioè proprio negli anni di pacificazione ed equilibrio tra impero e Chiesa. L’alto medioevo è sempre stato considerato un’età cristiana senza eresie: “L’alto medioevo è in genere un’epoca di fede sicura, indiscussa. Mancano eresie di una qualche notevole proporzione, che per questo periodo si riscontrano solo in Oriente ve non in Occidente” (cfr. 238 § 42). Questa affermazione andrebbe rivista soprattutto a partire dalla concezione intellettualistica di eresia, comunque si può accettare che, in linea di massima, la stragrande maggioranza della popolazione non manifestasse posizioni di dissidenza rispetto alla concezione ufficiale del credere. Alla metà del XII secolo emergono invece segnali di concezioni collegate ai contenuti della fede, e che si staccano e si scontrano con la visione tradizionale. Distingueremo tre aree, di differente diffusione e incidenza. Se si leggono le vicende del controllo antieretico contemporaneo nell’impero bizantino, si scorgono interessanti analogie tra i movimenti dissidenti occidentali e i gruppi (bogomili e “spirituali”) condannati in oriente, pur con sfumature piuttosto differenti. Radicalismo riformistico: alcuni personaggi, spesso legati al mondo ecclesiastico, portano a posizioni estreme il bisogno e il movimento di riforma della Chiesa, dopo che i punti principali della riforma monastica-papale-episcopale erano stati acquisiti nell’XI e inizio XII secolo. Alla radice di alcuni di questi gruppi sta ancora il movimento di riforma cosiddetta “gregoriana”, soprattutto nel suo versante laicale e del “basso clero”. I “Patari” del nord Italia, appoggiati, pur con cautela, da Pier Damiani, Gregorio VII e gli altri riformatori, nella loro opera di boicottaggio del clero simoniaco e concubinario erano giunti a teorizzare l’invalidità dei sacramenti amministrati dai sacerdoti contrari alla riforma. Mentre alcune decisioni dei concili riformatori dell’età di Gregorio VII avevano in parte acquisito questo principio, proclamando la nullità delle ordinazioni dei vescovi simoniaci almeno per i chierici consapevoli o complici dello scambio di denaro, Urbano II aveva ricuperato il principio antico della distinzione tra validità dei sacramenti e indegnità del ministro. Ma gruppi di “Patarini” (a questo punto il ternime diventa ereticale) restarono fedeli ai tempi eroici e ai loro principi, ponendosi in posizione dissidente. Lo slogan “riforma” catalizzava proteste ed energie spesso legate al mondo cittadino in fermento, come il gruppo che si coagula attorno a Arnaldo da Brescia e che coinvolge un certo numero di famiglie potenti di Roma, o come il movimento di Eon de l’Etoile, eremita e contestatore bretone, che tra il 1145 e il 1148 assalta i monasteri. E’ un riformismo con una forte impronta pauperistica, che pretende una Chiesa priva di mezzi e di potere, una visione radicale della “vita apostolica”, l’ideale di vocazione che proprio in quegli anni si stava diffondendo. Catari o Albigesi. Ci dovremo soffermare molto di più su questo mondo per alcuni aspetti ancora sconosciuto, e spesso avvolto anche al giorno d’oggi da un’aura mitica, basata su 239 affermazioni storicamente prive di fondamento. Il nome di Albigesi deriva dalla città di Albi, in Linguadoca, che non è esattamente la loro capitale ma è collocata nell’area di maggior diffusione del movimento. L’epiteto “catari” ha ricevuto le più diverse interpretazioni: dal greco “catharoi”, cioè puri, al collegamento con il “catus”, cioè con il gatto, di cui sarebbero stati adoratori. E’ certo che “catari” è un aggettivo utilizzato solo dagli avversari, mentre essi stessi si definivano “buoni uomini” oppure “buoni cristiani”. E’ tutt’ora discussa l’origine di questo movimento. I buoni rapporti tra questi gruppi occidentali e i Bogomili, setta dualista balcanica di quel tempo, ha fatto pensare a una filiazione del catarismo da gruppi dualisti orientali, quali i bogomili stessi, i pauliciani, o gruppi di manichei ancora esistenti in Oriente, tramite crociati o mercanti, ma l’analisi della documentazione non approda per ora a nulla di certo se non che i gruppi albigesi già costituiti avevano contatti e collaborazioni con il dualismo balcanico55. Comunque in Francia coloro che appartenevano a queste correnti vennero frequentemente chiamati “Bougres” (cioè Bulgari). Non ci sono rimasti molti documenti della religione e delle credenze albigesi, provenienti dall’interno del gruppo: una quantità notevole di materiale è andata perduta durante la crociata o nella repressione, e probabilmente i testi esoterici, quelli più alti e segreti, erano di tradizione orale o vennero nascosti e distrutti dagli stessi eretici. Quel che è rimasto, oltre alle relazioni dei tribunali dell’inquisizione, ci restituisce un contorno tutto sommato chiaro e coerente del movimento. Va detto anzitutto che, nonostante la precisa organizzazione – quasi una chiesa parallela – il catarismo non è una struttura monolitica. In realtà esistevano diversi gruppi, tra loro simili per concezioni e comportamenti, ma separati quanto a legami gerarchici e talvolta in posizioni ostili tra loro, come avveniva nel nord Italia dove si registrano una chiesa catara a 55 I pauliciani, su cui notizie certe si hanno dal secolo VII, sono gruppi eretici dell’Asia Minore, per lo più ai confini con l’Armenia. Fanno riferimento a san Paolo e rifiutano pressoché tutto l’Antico Testamento. Interpretano le parole ortodosse in senso allegorico, escludono sostanzialmente incarnazione, sacramenti e uso delle immagini, il loro dualismo comporta la non violenza, oltre che la castità sessuale, ma il passaggio di gruppi militari già iconoclasti al paulicianesimo dopo il concilio di Nicea II trasforma queste comunità perseguitate e raminghe in una specie di stato militare a cavallo tra impero bizantino e sultanati arabi in Anatolia. In seguito alla distruzione della loro piazzaforte i pauliciani furono in parte integrati nell’esercito bizantino e dispersi in vari “Temi”. I bogomili diffusi in Bulgaria hanno evidenti analogie di comportamento con i catari dell’Europa occidentale (si veda la breve descrizione da un eresiologo bizantino in HC 4, 247-248). Il Bogomilismo sembra avere radici contestative verso un clero e una realtà monastica decadenti e sottomesse alla riconquista bizantina dei Balcani nel X secolo. Nel IX secolo, in alcuni villaggi dell’Armenia, emergono gruppi di eretici “Tondrachiani” (dal nome di uno di questi centri, T‘ondrak), che rifiutano i sacramenti e rivendicano una dottrina cristiana “pura” secondo le origini ma, sembra, senza elementi dualisti. Vi sono gruppi legati a questa eresia in pieno XI secolo. Essa pare sia sopravvissuta con altri nomi fino al XVII-XIX secolo. 240 Concorezzo, con diverse filiazioni e dipendenze, da cui si staccarono le chiese di Desenzano, di Mantova e di Vicenza-Treviso. E’ quindi possibile che tra queste diverse “denominazioni” vi fossero posizioni teologiche più o meno radicali. Quel che si desume dalla documentazione originale ci mostra un dualismo autentico, ma con una base anzitutto antropologica, e solo conseguentemente (e non in maniera sviluppata) teologica. La dottrina fondamentale del catarismo non era in fondo nulla di così nuovo: l’uomo è una scintilla divina imprigionata nella carne, e che da essa deve liberarsi per ritornare alla sua origine che è Dio. Da questo dato che sembra comune a tutte le forme di catarismo discendono inevitabili conseguenze: una visione negativa della materia e della creazione; una condanna di tutto ciò che concerne la sessualità, che nelle varie sue forme non fa altro che perpetuare la materia; rigide esclusioni alimentari, cioè di tutto ciò che con l’atto sessuale è in qualche modo legato: carne ma anche latticini e uova… Sembra che i catari usassero il pesce, credendolo generato spontaneamente dall’acqua. Quanto all’origine della materia e del male, pare che non tutti i gruppi albigesi postulassero l’esistenza di una divinità malvagia, mentre le speculazioni più diffuse individuavano comunque un principio negativo, che a volte veniva chiamato diavolo. Questa visione dualistica tanto simile ad alcuni tratti dello gnosticismo dei primi secoli cristiani – forse una sorta di patologia ricorrente? – produce alcune conseguenze di fronte alla prassi ecclesiale e allo sviluppo teologico medievale. Ovviamente vengono svalutati tutti i sacramenti, soprattutto il matrimonio, ma anche l’eucaristia. Ponendosi come i veri credenti, i “buoni cristiani”, i catari avevano sviluppato un’esegesi dell’antico e del nuovo testamento, che non escludevano ma che rileggevano a partire dal loro contenuto dualistico. Il Gesù Cristo dei catari non è un Dio incarnato, è l’annunciatore angelico della verità dei buoni cristiani, e la sua morte in croce è soltanto apparente (docetismo). Dunque apparentemente non si aveva un distacco dei catari dal cristianesimo, bensì una rilettura in senso dualistico, oltretutto resa insidiosa dal sistematico atteggiamento di “nicodemismo”: in caso di necessità e per non far scoprire né se stessi né gli altri seguaci, si poteva e si doveva partecipare alle pratiche cattoliche tradizionali. Ma quali erano le strutture e i riti dagli albigesi? La rigida visione negativa del mondo comportava la differenziazione in due gruppi: gli audientes, coloro cioè che dovevano restare legati al loro matrimonio, alla famiglia, al lavoro e quindi non potevano vivere in pienezza la vita pura; e i perfecti o buoni uomini, che invece avevano ricevuto il 241 consolamentum, cioè una sorta di battesimo-imposizione delle mani che li aveva liberati dalla schiavitù della materia. I perfetti vivevano spesso in comune, lavoravano con le proprie mani, seguivano le norme di castità e di purità alimentare, e accoglievano gli uditori in celebrazioni in cui si spezzava il pane e si faceva una sorta di catechesi. I perfetti erano organizzati in strutture gerarchiche, tra di loro vi erano sia uomini che donne, mentre agli audientes restava la speranza di ricevere il consolamentum alla fine della vita e così essere definitivamente liberati da materia e successive reincarnazioni. E certo che al passaggio tra i perfetti in fin di vita tramite il consolamentum seguiva quasi sempre la cosiddetta endura o martirium: i moribondi, per evitare che una guarigione li riportasse in stato di peccato, erano soffocati o lasciati morire d’inedia. Pur mantenendo l’atteggiamento di nicodemismo e segretezza, i catari avevano sviluppato una posizione violentemente anticlericale: i vescovi e i preti davano un’interpretazione falsa delle Scritture e facevano dei sacramenti la fonte del loro potere e guadagno. Gli albigesi, così, anche se apparentemente non si distinguevano dagli altri, creavano una chiesa parallela chiusa e settaria, in cui l’entrata anche come audiens comportava la rescissione di tutti i legami sociali. Ciò ovviamente significava che divenisse molto difficile uscire dal gruppo nel caso su volesse prendere distanza da questa concezione. Il movimento cataro si diffonde in Linguadoca – molto poco in Provenza – e nella Catalogna, nell’Italia del centro-nord, in Renania, in Inghilterra e nella zona della Champagne: tutte zone avanzate economicamente e urbanizzate. Nell’area tolosana è certo il legame tra catari e nobiltà locale, che li proteggeva; non poche donne dell’aristocrazia rimanevano vergini o da vedove entravano tra i perfetti. Il catarismo divenne segno di indipendenza rispetto all’odiata monarchia di Parigi. Nel nord e centro Italia questo legame non è certo, forse ha più un significato tattico di alleanza tra le forze ghibelline e i gruppi eretici contro le gerarchie locali. In tutti i casi, i catari ritrovavano nelle zone di diffusione un allentamento dell’impegno riformistico del clero, soprattutto dell’episcopato della Francia meridionale. Soprattutto in Francia, il catarismo divenne un fenomeno abbastanza popolare e con una certa diffusione. Valdo e i valdesi. Spesso valdesi, umiliati e albigesi furono confusi tra loro, anche per l’adiacenza della diffusione, e per l’analoga contestazione delle strutture corrotte della Chiesa. Si tratta, in realtà, di fenomeni totalmente differenti. Valdesi e Umiliati sono movimenti laicali pauperistici. L’ambiente sociale di origine è analogo e si colloca nelle 242 città: Pietro Valdo è un mercante, gli umiliati sono o diventano artigiani tessili. Questi laici scelgono di vivere un’esistenza cristiana essenziale, povera, dedita al lavoro, e sentono una chiamata alla predicazione. Dunque accostano le Scritture e a partire dalla loro spiritualità ritengono di avere un diritto-dovere di predicare. Ma la predicazione è ovviamente riservata al clero. Pietro Valdo e i suoi seguaci, soprattutto provenienti dalla zona di Lione, tentano di farsi approvare dai vescovi, i quali però vietano a loro proprio la predicazione. Questo comporterà la rottura con la gerarchia ecclesiastica, verso il 1182, dopo un passaggio al Lateranense III che non li aveva direttamente condannati, e la creazione di una chiesa parallela, diffusa sui due versanti delle Alpi e altrove in Italia (fino in Calabria) e Francia, fino alla Boemia e all’Ungheria. Talvolta si hanno influssi catari più o meno marcati. Alcuni gruppi umiliati avranno il medesimo percorso, mentre altri, come vedremo più oltre, resteranno nell’ambito della comunità cattolica. A fronte di questa ondata eretica, qual è la reazione? Anzitutto si assiste con preoccupante frequenza a linciaggi popolari, soprattutto in quelle aree, come la Renania, dove i movimenti non godono della protezione delle autorità, che anzi spesso fomentano le violenze. Ovviamente, in linea teorica, la reazione doveva provenire dall’autorità ecclesiastica e limitarsi a sanzioni di tipo canonico. La responsabilità dell’argine contro gli eretici era dei vescovi e dei loro tribunali, che spesso non funzionano – e sì che non mancavano i canonisti… – oppure, come in molte zone del sud della Francia, sono conniventi o tolleranti, anche per compiacere l’aristocrazia locale. Oltretutto, in particolare i catari erano una realtà mimetica e settaria, difficilissima da individuare per la rete di complicità e segreto che l’avvolgeva. Da Roma giungono a più riprese dei legati, spesso monaci cistercensi, dopo che lo stesso Bernardo aveva svolto opera di predicazione antieretica. Da legati papali questi si presentano con grande sfoggio di seguito, insegne e ricchezze, rafforzando l’atteggiamento popolare anticlericale e divenendo inefficaci, quando non controproducenti. § 89: Domenico di Guzman e i fratres praedicatores Bibliografia: FM 10, 235-243; 348-352 J 5/1, 242-246; L 534-536; GV 664-671; P 249-251; HC 5, 736-741; 750-758; M. ROQUEBERT, San Domenico. Contro la leggenda nera, Cinisello B. 2005. 243 Una delle intuizioni fondamentali di Domenico di Guzman sarà proprio quella di combattere l’eresia con lo stesso linguaggio degli eretici: la povertà e la vita comune, e una predicazione semplice e popolare. Colto canonico, originario della diocesi di Osma, in Castiglia, restaurata come sede episcopale attorno al 1181 dopo la riconquista sui musulmani, Domenico era uno dei principali collaboratori del vescovo Diego de Acevedo, zelante pastore in contatto con la curia romana. Così Domenico accompagna il suo vescovo in una missione diplomatica in Germania e nel Baltico. Nel viaggio essi si imbattono nel movimento albigese e constatano l’inefficacia dei legati cistercensi, e incontrano anche i gruppi pagani dei Cumani in Europa centrale. Rientrando a Roma dopo la missione, Domenico chiede di dedicarsi alla predicazione verso i pagani e gli eretici. Innocenzo III, che conosceva le diverse situazioni e stava operando per integrare i gruppi pauperistici degli Umiliati del nord Italia e dei valdesi seguaci di Durando di Huesca, che proprio a seguito di un pubblico dibattito a Pamiers nel 1207 con Diego e Domenico si riavvicina alla Chiesa cattolica, indirizza il canonico castigliano verso la questione albigese, dapprima col suo vescovo, che poi rientrerà in diocesi, approvando una forma di “vita apostolica” segnata dalla povertà e dalla predicazione. Il primo passo del piccolo gruppo guidato da Domenico è l’insediamento in una chiesa semiabbandonata, Santa Maria di Prouille, ai piedi del villaggio fortificato di Fanjeaux, di un gruppo di donne ex catare, tornate alla Chiesa cattolica, ma da una parte bisognose di protezione dalle vendette dei settari, dall’altra decise a continuare, da cattoliche, una vita comune sobria e spirituale come avevano visto fare dai “perfetti” albigesi. Non dimentichiamo che Fanjeaux era uno dei centri a più alta densità catara, dunque una sorta di provocazione in casa nemica! Dalle esperienze della predicazione itinerante, delle diatribe pubbliche nelle piazze, del confronto con i catari progressivamente si precisa il volto del nuovo ordine. Emergono così due novità rispetto alle forme di vita consacrata finora in opera. Anzitutto, il gruppo di frati non avrà nessun reddito fisso da immobili, rurali o urbani. Sia i monasteri benedettini classici, come quelli più radicali cistercensi, come i conventi dei premonstratensi e degli altri canonici regolari, si assicurano per il mantenimento la proprietà almeno di terreni coltivabili. I seguaci di Domenico non avranno fonti stabili di reddito. E’ la struttura giuridica che noi chiamiamo degli “ordini mendicanti”, che non significa che vivessero chiedendo l’elemosina nelle strade, anche se in parte il reddito proveniva da offerte analoghe. L’altra novità è la predicazione come scopo specifico dell’ordine, una sorta di specializzazione, inedita nel 244 panorama delle congregazioni di chierici regolari, pur molto impegnati nella pastorale. Il nuovo ordine assunse la tradizionale regola agostiniana, con una struttura per “province” mutuata dai premonstratensi, con una interessante mescolanza tra il potere centralistico del maestro generale e un’ampia democrazia interna nella vita dei conventi, delle province e dell’ordine stesso. Altre due caratteristiche della nuova realtà saranno lo stretto collegamento col papato e la scommessa, immediatamente e consapevolmente assunta, sulla cultura dotta, universitaria, e sulla produzione libraria, così che i Predicatori (solo molto più tardi saranno chiamati “domenicani”) invasero letteralmente coi loro conventi le principali città universitarie dell’Europa del tempo. L’opera di riconquista dei catari, iniziata da Domenico attorno al 1206, fu ben presto interrotta e subissata dalla crociata indetta da Innocenzo III su pressione del re di Francia (1212-1229). I Predicatori stavano agendo con uno stile di dibattito, persuasione, recupero, con coraggio, povertà e senza usare strumenti coercitivi. La crociata venne proclamata a seguito dell’assassinio di uno dei legati pontifici, il cistercense Pietro di Castelnau, il che è sintomo di un clima eversivo, fatto di agguati e minacce, messo in atto dalla nobiltà filocatara (anche se teoricamente i perfetti non dovevano far scorrere il sangue). La lunga guerra, guidata per quasi tutto il suo svolgimento dall’ambizioso Simon de Montfort e appoggiata dal re di Francia che voleva imporre il suo potere sulla riottosa nobiltà locale alleata del re d’Aragona, intanto trasformò i motivi teologici in bandiere politiche: nobili della Linguadoca non aderenti al catarismo combatterono a fianco degli albigesi, mentre la crociata coalizzava tutte le mire espansionistiche dei dintorni. Gli scontri armati più che in battaglie campali divamparono nella tipica e crudele guerra d’assedio: i nobili filo-albigesi e i perfetti si asserragliavano nelle città e nei castelli fortificati, e le truppe di Simone di Montfort mettevano in campo tutta la strumentazione d’assedio: blocco per fame e sete, macchine d’assedio, incendi… L’ultima roccaforte albigese, Montségur, cadde addirittura nel 1244, arrendendosi all’assedio: i perfetti e le perfette, in numero di 224, si rifiutarono di abiurare e furono immediatamente bruciati: era stato costruito ai piedi del monte un recinto di pali riempito di legna, ed essi vi furono gettati dentro. Domenico aveva abbandonato Tolosa già nel 1217, dopo aver tentato di continuare la sua opera nonostante la crociata. L’impegno dei Predicatori si sviluppò in tutta Europa, soprattutto in tre ambiti: quella che oggi chiameremmo la “pastorale universitaria”, le missioni soprattutto in nord Europa, 245 Armenia e Asia fino all’India, alla Cina e alle steppe dell’Asia centrale, e la lotta all’eresia, con l’inserimento dei Predicatori da protagonisti, anche se insieme ai francescani e ad altri esponenti di ordini religiosi, in questa nuova istituzione che fu l’inquisizione. § 90: l’inquisizione – principi giuridici, iniziative parallele, efficacia Bibliografia: FM 9/2, 862-872; 10, 149-181; 377-442; J 5/2, 223-232; 298-308, 347-355; L 523-525; GV 740-759; P 278-280; HC 5, 781-803; A. DEL COL, L’Inquisizione in Italia. Dal XII al XXI secolo, Milano 2006, 63-138; J.-P. DEDIEU, L’inquisizione, Cinisello B. 2000, 7-22 Potrebbe sembrare scontato, ma conviene ricordare la distinzione tra inquisizione medievale, di cui qui si vuol brevemente trattare, inquisizione spagnola e inquisizione romana dell’età moderna. Si tratta di strutture giuridiche di tipo diverso – l’inquisizione spagnola, ad esempio, è un dicastero della corona – che agiscono in tempi diversi, anche se alcuni presupposti le legano tra loro. Non giova alla conoscenza storica la confusione e l’anacronismo. Principi giuridici. Prima del sorgere del tribunale dell’inquisizione, si assiste a una progressiva evoluzione della giurisprudenza, che l’inquisizione stessa poi utilizzerà in appoggio al suo operare. Dunque la legislazione sulla lotta antiereticale nelle forme inquisitorie anticipa di quasi un secolo il tribunale vero e proprio. Conviene mostrare in maniera schematica i passi principali dell’evoluzione. 1. Con Alessandro III si individua nella lotta antieretica l’uso del procedimento ex officio, una forma particolare del diritto che prevede non la denuncia da una parte lesa, ma l’azione giudiziaria messa in atto direttamente dalla magistratura. 2. Secondo la dottrina insegnata nell’università di Bologna nella seconda metà del XII secolo, l’eresia equivale giuridicamente alla laesa maiestas, quindi all’attentato diretto alla vita del sovrano e all’integrità dello stato. 3. Lucio III nel 1184, di fronte alla diffusione del dualismo albigese e alla definitiva condanna dei valdesi, nella decretale Ad abolendam sancisce definitivamente l’uso del procedimento ex officio e l’equiparazione dell’eresia alla lesa maestà. 4. Innocenzo III nel 1199 (decretale Vergentis in senium) oltre a confermare le decisioni di Lucio III, richiede che il delitto di eresia sia sancito da una animadversio debita, cioè da una pena proporzionata, corrispondente alle pene per il delitto di lesa maestà. 246 5. Più tardi, con la crociata albigese e col concilio Lateranense IV, si afferma che contro gli eretici è possibile proclamare una vera crociata, con conseguente uso della coercizione e con i premi spirituali connessi a chi scende in crociata per difendere la fede. 6. Nel periodo del pontificato di Onorio III, quindi nella prima fase di governo di Federico II, si sancisce definitivamente il legame tra sentenza ecclesiastica antieretica e esecuzione della pena da parte del braccio secolare; la pena del rogo è, per ora, tacitamente tollerata. 7. Con Gregorio IX si ha il riconoscimento che l’esecuzione capitale tramite rogo è animadversio debita dei governanti al delitto di eresia. 8. Con Innocenzo IV si ha una mitigazione delle pene ma l’introduzione, negli interrogatori, dell’uso della tortura. Coi pontefici Gregorio IX e Innocenzo IV l’inquisizione vera e propria è già nata, ed ha tutti gli strumenti giuridici per agire così come i documenti ci raccontano. Ci si potrebbe domandare come sia avvenuto che a fronte del tradizionale principio che nessuno possa essere costretto a credere, peraltro ribadito in questi tempi da Bernardo di Chiaravalle e da teologi come Pietro Cantor, si sia elaborata una dottrina giuridica della coercizione di questo genere. Si evitino ovviamente le posizioni ideologiche, di chi dice che tutte le religioni rivelate diventano violente, come di chi vuol a tutti i costi restituire valore alla coazione. All’azione di organizzazione dei materiali tradizionali operata dall’insegnamento canonistico, che spesso finisce per modificare profondamente il significato e l’interpretazione dei testi più antichi, si unisce la massiccia ripresa di linee agostiniane antidonatiste, col celebre Compelle intrare e la sua interpretazione, e soprattutto la convergenza della gerarchia ecclesiastica e delle strutture statali a ogni livello (dai podestà comunali all’imperatore) nell’interesse di compattare la società senza dissidenze. Così il procedimento inquisitorio diverrà una vera mentalità coercitiva, che più oltre proveremo ad approfondire, e che sarà alimentata dalla demonizzazione dell’eretico, considerato incarnazione del demonio e insieme nemico della società. La nascita dei tribunali. In linea teorica, come s’è detto più sopra, questa giurisprudenza ecclesiastica era la linea direttiva per i tribunali vescovili, eventualmente affiancati dalle magistrature locali. Ma i primi spesso non funzionavano, e le seconde, soprattutto nelle città – ma con qualche differenza lo stesso si poteva dire dei nobili della campagna – tendevano ad emanciparsi dal controllo episcopale. Si aggiunga che Federico II nel 1220 e nel 1227 247 aveva emanato come sua legislazione imperiale la normativa antieretica ecclesiastica, per ribadire il suo controllo totale e la sua consapevolezza di prima fonte del diritto. Non è dunque un caso se sarà il suo più acceso rivale, Gregorio IX, negli anni dello scontro frontale con l’imperatore, che cercherà, con successo, di sminuire il potere imperiale e accentuare quello papale nella lotta antieretica. Così la sede romana crea dei tribunali, con mandato diretto dal papa, per alcuni territori che si ritenevano in modo particolare infetti dall’eresia, e in cui le altre istanze ordinarie erano ritenute insufficienti. Generalmente a capo di queste commissioni giudiziarie vengono posti dei frati predicatori, affidabili per la competenza teologica e per il legame istituzionale con Roma. Nasce così ufficialmente l’inquisizione, che noi chiamiamo appunto “inquisizione medievale”. Sembra di poter dire che i primi tribunali dell’inquisizione abbiano ricevuto il mandato di Gregorio IX tra il 1232 e il 1234, cioè negli anni della canonizzazione di Antonio di Padova e di Domenico di Guzman. Nel 1233 un sorprendente sussulto religioso attraversa tutto il nord e il centro Italia: si assiste a fenomeni miracolosi, alla diffusione di messaggi da parte di predicatori eremiti, a rituali penitenziali; questo fermento viene assunto dai francescani e dai seguaci di san Domenico, i quali accompagnano il movimento devozionale con campagne di predicazione; è la cosiddetta “devozione dell’Alleluja”. In questa occasione i frati intervengono contro l’abitudine alla violenza politica nelle città comunali, e esortano alla riforma della moralità. Essendo la loro predicazione realistica di fronte a situazioni di instabilità, ingiustizie e depravazione diffuse, in vari centri urbani i predicatori vengono chiamati a guidare provvisoriamente il comune, per riformarne gli statuti. In questa rinnovata legislazione cittadina si inserisce la normativa antieretica, e i magistrati eletti dopo la devozione la applicano, talora con spietato rigore. Dunque quando Gregorio IX istituisce i primi tribunali dell’inquisizione, la crociata albigese s’è conclusa da anni e anche in Italia la repressione da parte statale è in pieno svolgimento. Queste strutture collegate direttamente alla sede romana e guidate dai frati predicatori (più tardi vi troveranno un ruolo anche i francescani) sono con ogni probabilità uno strumento per controllare strettamente la lotta all’eresia, per tener desta l’attenzione nei territori in cui si rischiava di abbassare la guardia, come tra i vescovi francesi, e per evitare che fossero i magistrati civili a sostituirsi interamente a quelli ecclesiastici. E in effetti sia tra i vescovi che tra i governanti laici non mancheranno le tensioni e le ostilità verso questi tribunali. 248 La mentalità. Per comprendere la realtà dell’inquisizione medievale, oltre a far riferimento alla giurisprudenza più sopra esposta, si dovrà far lo sforzo di entrare nella mentalità soggiacente alle procedure, una struttura di pensiero in cui le dimensioni teologica, giuridica e di ideologia sociale sono strettamente intrecciate. L’eresia è dunque considerata un veleno per il bene più alto, che è la fede, e insieme un pericolo per la società intera, la cui compattezza è basata sulla fede. L’eretico è indissolubilmente un peccatore che ha bisogno di convertirsi e una minaccia alla stabilità sociale. Dunque l’obiettivo per l’inquisizione è la conversione dell’eretico, che passa attraverso la confessione, e giunge alla salvezza della persona e della società e alla sconfitta del nemico. La confessione è, insieme, dimensione sacramentale e passaggio giudiziario, quindi il tribunale è inestricabilmente luogo di penitenza sacramentale e di intervento giuridico. Se l’eretico, “convinto” di eresia (cioè, a suo carico ci sono prove evidenti di adesione ai gruppi eretici), confessa, è salvo lui e salva la società, e dunque – nella logica inquisitoriale – questa confessione va ottenuta a tutti i costi, anche con la tortura. Ovviamente, ottenuta la confessione, si darà una penitenza appropriata alla gravità del peccato-delitto di eresia: un pellegrinaggio, la partecipazione alla crociata, un abito penitenziale portato per lungo tempo… Ma se, nonostante le prove, l’eretico non confessa, o rimane ostinato nella sua errata credenza, oppure, dopo aver confessato, ricade nell’eresia, il tribunale non può fare altro che prendere atto della sua ostinazione e consegnarlo ai tribunali civili, che ovviamente lo giudicheranno colpevole di lesa maestà e lo condanneranno a morte, nonostante l’inquisizione all’atto di consegnare l’eretico al “braccio secolare” abbia esortato alla clemenza… esortazione inutile e dunque sostanzialmente ipocrita: e, formalmente, il tribunale ecclesiastico non condannava a morte, in qualche modo riconosceva che il peccatore non voleva convertirsi. Non si può non ricordare un passaggio evangelico: “A noi non è consentito mettere a morte nessuno”… Si aggiunga un aspetto tecnico dell’indagine che si spiega nel contesto albigese: poiché la struttura settaria dei gruppi catari controllava strettamente i possibili testimoni e intimidiva con vendette coloro che avessero voluto lasciare l’eresia, l’inquisizione “inventò” un sistema di protezione dei collaboratori di giustizia: il presunto eretico non poteva conoscere chi l’aveva denunciato, anche se poteva sapere per tempo quali prove erano addotte contro di lui. Quindi una certa garanzia era data all’imputato, ma anche, forse più fortemente, al testimone o denunciante. 249 Inseriamo qui un fenomeno parallelo all’istituzione dei tribunali di inquisizione, ossia la creazione di confraternite di laici, variamente denominati – cruciferi, crucesignati, “compagnia della fede” – che si affiancavano all’azione dei frati sia per offrire un aiuto catechistico nelle conversazioni e nei dibattiti, sia per proteggere predicatori e inquisitori da attentati e violenze, sia per raccogliere informazioni e prove. Uno dei creatori di questi gruppi, che quindi avevano il diritto di portare armi, è Pietro da Verona, nato da famiglia catara nel 1203, convertito da una predica di Domenico a Bologna nel 1221 ed entrato tra i frati predicatori, impegnato nella lotta antieretica anche per la sua esperienza diretta, inquisitore di “Lombardia” nel 1251, ucciso in un agguato a Seveso l’anno dopo e canonizzato nel 1253. Efficacia. Una vecchia battuta tipicamente clericale racconta: “Qual è la somiglianza tra gesuiti e domenicani? Entrambi sono sorti per combattere gli eretici, protestanti e albigesi. Qual è la differenza tra i due ordini? Avete mai visto in giro un albigese?”. Si tratta di un’ironia quasi macabra, ma che comunque si basa su un fatto, cioè l’estinzione sostanziale del movimento eretico. Pare che l’ultimo “buon cristiano” messo al rogo sia un certo Guglielmo Bélibaste, tra l’altro personaggio piuttosto discutibile nei comportamenti morali, bruciato un secolo dopo la crociata, nel 1321. E’ tuttavia una semplificazione priva di fondamento ritenere che i roghi dell’inquisizione abbiano sterminato popolazioni intere pur di ottenere il risultato. Basandosi sui calcoli più attendibili, uno storico equilibrato, Andrea Del Col, afferma che la percentuale degli albigesi in Linguadoca nel secolo di diffusione del fenomeno sia stimabile attorno al 5% della popolazione, cioè mediamente circa 40mila su ottocentomila abitanti. Tra il 1230 e il 1330, quindi su un secolo, dovrebbero esser stati perseguiti (e non tutti messi a morte, forse solo il 5% degli imputati) circa 15-20mila catari, ossia l’1-1,5% della popolazione, che comunque è una cifra elevata di imputati, e di vittime. Questo dice che l’azione dell’inquisizione è stata solo una delle componenti dell’estinzione della realtà catara. Certamente la crociata, che precede l’inquisizione, ha portato un gran numero di vittime (non tutte albigesi!) e alla presa di distanza dal movimento di gran parte di quella fetta di popolazione prima simpatizzante. Sicuramente l’efficacia della predicazione dei frati di Domenico, unita alla loro testimonianza di povertà, ha dato un contributo determinante alla diminuzione del fascino dei “buoni cristiani”: e, tra l’altro, va tenuto presente che i frati inquisitori erano una minima percentuale rispetto a tutti quelli che si dedicavano alla predicazione, alla catechesi, alla diatriba nelle piazze. A questo si unisca 250 una constatazione che molti storici più recenti hanno fatto: il catarismo è, sì, una religione diffusa tra gli strati più progrediti della popolazione urbana, ma sembra essere un’ideologia “reazionaria” rispetto ai cambiamenti sociali in corso. Il rifiuto della materia, del denaro, del commercio, la concezione dualistica e reincarnazionista, e quindi determinista e opposta all’idea di un uomo padrone della propria vita e iniziativa, sono segnali di disagio rispetto ai fenomeni di cambiamento culturale. E la spiritualità dei frati predicatori e dei francescani ha permesso di recuperare e integrare vari aspetti contestativi, ad esempio una fede povera, superando la fragilità insita nel fenomeno cataro, che quindi in qualche modo si è esaurito anche per inerzia storica. A una valutazione di efficacia può unirsi un giudizio su questa struttura dell’inquisizione: la coercizione violenta è in qualche modo comprensibile, tenendo conto del contesto? Alcuni storici in passato, non solo tra coloro che portavano avanti una posizione apologetica, hanno sottolineato la consistenza antisociale del movimento cataro, che, se si fosse diffuso, avrebbe portato al sovvertimento delle basi sociali. Si tratta di considerazioni con qualche fondamento ma da non esagerare. Se ogni atteggiamento settario è preoccupante, e soprattutto i catari portavano avanti un comportamento del genere, e se ci fa impressione il “rito” dell’endura, è altrettanto vero che la condanna teorica del matrimonio e della sessualità si affiancava a una realistica tolleranza della vita di famiglia per gli uditori. Dunque, se è vero che la posizione albigese aveva assunto qualche connotazione eversiva, è anche vero che alla fine i motivi della crociata e dell’inquisizione furono altri. La tradizione teologica, anche contemporanea al nascere dell’inquisizione, è costante nel rifiutare la coercizione nel credere, e qualche voce negativa in quegli anni s’è levata contro queste azioni, e dunque è difficile anche invocare l’unanimità della mentalità. Possiamo dire che un percorso intellettuale discutibile, ossia l’equivalenza tra eresia, menzogna e lesa maestà, tra pericolo morale e pericolo sociale, ha portato alla creazione di un’ideologia diffusa, sostenuta dagli interessi dei governi, emotivamente in sintonia con le paure popolari, ma contraddittoria con la tradizione ecclesiale. Ben presto il sistema inquisitorio medievale andrà in crisi e subirà un processo di decadenza e anche di vere e proprie deviazioni nel XIV e XV secolo, ma sarà ripristinato, con notevoli differenze, nella Spagna riconquistata del XV secolo e nella controriforma del XVI. § 91: Francesco d’Assisi e il francescanesimo 251 Bibliografia: FM 10, 244- 252; 353-359; 618-619; J 5/1, 246-259; L 527-534; GV 671-689; P 251-257; HC 5, 733-736; 741-746; R. MANSELLI, San Francesco d’Assisi. Editio maior, Cinisello B. 2002; R. MANSELLI, I primi cento anni di storia francescana, Cinisello B. 2004; J. LE GOFF, San Francesco d’Assisi, Roma – Bari 2008 La vulgata storica ci consegna i frati predicatori come gli occhiuti agenti dell’inquisizione, mentre i francescani si guardano come i lieti e liberi giullari di Dio. Sembrerebbe dunque che parlare qui di Francesco e dei suoi seguaci sia compiere un salto a tutt’altro tema. Invece, come s’è già accennato qua e là, non mancano le connessioni tra questa figura unica nel panorama spirituale cristiano e i temi appena trattati. Ma procediamo con una breve sintesi della vicenda biografica di Francesco di Pietro Bernardone. E’ ben nota la sua origine cittadina e mercantile, della più tipica classe sociale dei comuni italiani, da un mercante di stoffe in traffico con la Francia, da cui verrà il nome più noto di un figlio che al battesimo era stato chiamato Giovanni. L’adolescenza di un rampollo di ricchi mercanti intrecciava la pratica dell’arte paterna a progetti di scalata sociale, ossia di passaggio dal ceto borghese a quello nobile: di qui il tentativo di dare a Francesco l’opportunità di partecipare alla crociata e l’esperienza di prendere le armi contro la nemica Perugia, a vent’anni, nel 1202, e di finire prigioniero nella battaglia di Collestrada. Ma di qui anche quella caratterizzazione di una jeunesse dorée, cioè di una fase di vita, più che spensierata e peccatrice, mossa dal desiderio di mostrare le ricchezze familiari e di accedere a comportamenti nobiliari e “cortesi”. Le testimonianze sono unanimi nel far coincidere la conversione con l’incontro con il lebbroso: esperienza di shock rispetto alla forma di vita ideale, ma anche incontro piuttosto frequente nella penisola italiana, dove la terribile malattia tropicale – oltre patologie analoghe o somiglianti – era stata riportata proprio dai crociati. Da questo incontro e da successive esperienze mistiche deriva la scelta di una vita penitenziale, di per sé non particolarmente originale: in tutti i secoli precedenti, cavalieri o altri avevano scelto di rivestirsi dell’abito penitenziale e di condurre vita eremitica. Ma in Francesco c’è qualcosa di nuovo, ossia il desiderio di condivisione della vita degli strati più poveri della società cittadina, non solo nel vitto e nel vestito, ma anche nell’adiacenza di abitazione e nella frequenza. Da questa prima scelta, e con una serie di passaggi e traslochi nelle adiacenze della città natale, scaturisce la ricerca di “Madonna Povertà”. Si tratta di una vita di somiglianza a 252 Cristo povero e sofferente, dunque un vero, anche se solo intuito, spostamento di accento: l’ideale di vita apostolica, già diffuso nel secolo precedente e portato avanti consapevolmente da Domenico, qui è ideale, potremmo dire, di vita “cristica”. Che assume i connotati di una sorta di scelta esegetica: vivere il Vangelo sine glossa, nell’età della Glossa ordinaria… assumere come normativo un Vangelo alla lettera, e non per allegoria. In questo quadro si comprende l’episodio del praesepe di Greccio e perfino il fenomeno, di cui Francesco ha il primato nella storia, delle stimmate. Quella di Francesco è una struttura di vita al di fuori del quadro, ancora rurale-feudale, dei canonici regolari. Emerge progressivamente l’ideale di una fraternità da vivere in piccolo gruppo, come gli apostoli, in una scelta di povertà, come sopra si diceva, concreta, socialmente connotata, “mendicante”, senza proprietà e nell’assoluta diffidenza dell’uso del denaro. E in effetti il primo gruppo di amici che, uno dopo l’altro, si uniscono a Francesco, è numericamente limitato, quasi interamente composto da laici, e di provenienza assisiate. Quante somiglianze, si potrebbe dire, con i gruppi di “perfetti” catari presenti con una loro organizzazione gerarchica nella valle di Spoleto! Eppure sono da sottolineare una serie di attenzioni e gesti che contrappongono, con ogni probabilità in modo cosciente, Francesco agli eretici: la devozione profonda all’eucaristia, il rispetto affettuoso verso il clero – Francesco sarà sempre in ottimi rapporti col suo vescovo e protettore Guido – e una concezione della creazione che è tutt’altro che dualistica. Come valdesi e umiliati, il gruppo di penitenti attorno a Francesco si dà alla predicazione popolare, ma con la massima attenzione a non invadere gli spazi istituzionali, il che, tra l’altro, porterà i francescani a “inventare” forme di annuncio assolutamente innovative, spesso simboliche e gestuali, e adatte al pubblico delle piccole città del centro Italia. Questo ministero di testimonianza e predicazione popolare, sempre in maniera progressiva, si chiarisce per Francesco: per quanto riguarda la penisola italiana, i suoi frati saranno chiamati a denunciare i gravi mali delle città, e a contribuire alla pacificazione tra le fazioni. E’ noto come, verso la fine della vita, Francesco intervenga personalmente per sedare le lotte tra partiti nella sua Assisi, e in questa occasione pare abbia aggiunto la strofa del “cantico”: “laudato si’, mi’ Signore, per quelli che perdonano nello tuo amore…”. Ma nella sua escursione in Egitto in occasione della spedizione del 1217, quella che di solito è detta la quinta crociata, desideroso di accedere ai luoghi della vita di Cristo – e ritorna l’idea dell’identificazione del Vangelo sine glossa – e di morire martire, la predicazione ai non 253 cristiani assume le forme dell’ascolto e dell’adattamento, come è evidente dal capitolo della Regula non bullata dedicato a de euntibus inter saracenos et alios infideles: L’un modo [di essere missionari] è che non facciano liti né contrasti, ma siano sottomessi ad ogni creatura per amore di Dio e dichiarino di essere cristiani. L’altro modo è che, quando abbiano notato che ciò piace al Signore, annunzino la parola di Dio, perché siano battezzati e siano fatti cristiani56. Francesco ritornava velocemente dall’Egitto perché era stato informato che i “vicari” che aveva posto a reggere il gruppo avevano fatto scelte che non condivideva, soprattutto nella direzione di omologare la nascente realtà agli ordini monastici già esistenti. Il problema però era che il suo ideale iniziale di un piccolo gruppo di persone che vivevano come Gesù e gli apostoli era messo in crisi dalla spontanea e fulminea diffusione della proposta in Francesco in tutta Europa e dall’afflusso ingente e inatteso di migliaia di nuovi seguaci, che non potevano più essere guidati solo dalle consuetudini e dalla radicalità spirituale del solo Francesco. Roma, con cui Francesco è in contatto fin dai tempi di Innocenzo III, preme per la redazione di una regola. Il primo tentativo, che si colloca nei primi anni di pontificato di Onorio III, è la cosiddetta regula non bullata, che però non riscuote l’unanimità nel nascente “ordine”. E’ un esperto canonista come Ugolino, cardinale vescovo di Ostia e nipote di Innocenzo III, amico di Francesco e da lui stesso richiesto, a contribuire alla redazione della Regula bullata del 1223, che cerca un equilibrio tra una normalizzazione secondo i principi del diritto ecclesiale e la durata dell’intuizione iniziale. Alla regola Francesco chiederà sempre che si affianchi una testimonianza dei “primi tempi” che sia come l’interpretazione autentica: dapprima sarà lui stesso, non superiore ma vivente memoria dello slancio iniziale, e alla sua morte vorrà uno dei primi seguaci, l’amico di giovinezza Bernardo di Quintavalle: quasi un’autorità “carismatica” da affiancare a quella dei superiori gerarchici. Dalla sua vita quasi estrema di povertà e dal viaggio in Oriente porterà le malattie che lo martirizzeranno (insieme agli interventi medici) nell’ultima fase di vita: pare che gli fosse rimasta, oltre a un insieme di acciacchi e debolezze, la “febbre quartana”, cioè una forma particolarmente pesante di malaria. Francesco trascorre gli ultimi anni di vita ai margini del 254 governo dell’ordo, nel ristretto territorio (Assisi, Rieti, la Verna) dei suoi pellegrinaggi eremitici, sopportando le malattie e dedito alla preghiera. Muore tra il 3 e il 4 ottobre 1226, quarantacinquenne, neanche sei mesi prima dell’elezione del “suo” cardinale Ugolino come papa. Intanto è nato l’Ordo Fratrum Minorum, una nuova militia religiosa dedita alla pastorale nelle città e nelle campagne d’Europa (e non solo), ben presto letta in parallelo coi frati predicatori, pur avendo un’origine, una genesi e una struttura giuridica differenti. Ma era proprio questo ciò che Francesco aveva voluto? La questione francescana. Da un punto di vista della storiografia moderna, la “questione francescana” nasce alla fine del XIX secolo con gli studi dello storico protestante francese Paul Sabatier, in contatto con alcuni cattolici modernisti, che studia con rigore scientifico le fonti francescane. La sua posizione: c’è frattura e discontinuità tra Francesco e il francescanesimo, tra Francesco e la Chiesa contemporanea e successiva. Ciò che si incarna nella regola dei minori e soprattutto nella vicenda dell’ordine è altro rispetto al sogno e all’ideale di Francesco, che in effetti alla fine della sua vita prende le distanze dalla “struttura” papale incarnata da frate Elia. Sembra, come si vede, di sentire ciò che Loisy, o esponenti della teologia liberale protestante, dice della discontinuità tra Gesù e la Chiesa. E questa visione di un “altro” Francesco si incarna anche in opere di successo, come, ad esempio, il film di Liliana Cavani dedicato al santo. D’altra parte sta di fatto che è lo stesso Francesco a coinvolgere nel governo e nella normativa dell’ordine frate Elia e il cardinale Ugolino, soprattutto dopo la crisi connessa al suo viaggio in Egitto, dove, peraltro, fu accompagnato da Elia. Il dibattito è ancora aperto, e ci si limita qui a porre tre punti di riflessione e approfondimento, su cui gli storici stanno lavorando. Anzitutto c’è il problema delle fonti: secondo molti studiosi, i racconti della vita di Francesco sono fin dall’origine condizionati nella loro stesura dall’appartenenza degli scrittori all’uno o all’altro dei due partiti interni all’ordine, i “conventuali” di frate Elia e gli “spirituali” legati almeno emotivamente ai primi compagni di Francesco; le “legende” istituzionali dell’ordine (Tommaso da Celano, Bonaventura) sarebbero l’incarnazione del partito conventuale, altri testi meno diffusi invece sarebbero la voce della frangia radicale, “spirituale”. Recentemente è sorta un’altra linea interpretativa, che contrappone i documenti sorti nell’ambito direttivo dell’ordine, sensibile all’istanza internazionale ormai assunta 56 MANSELLI, San Francesco…, 345. 255 dalla comunità francescana, e i racconti radicati nell’ambito localistico assisiate e centroItaliano, legati a un Francesco arcaico e alla nostalgia dei primi tempi. Oggi si è alla ricerca di altre fonti, non agiografiche, ad esempio le cronache e gli archivi cittadini. In secondo luogo bisogna tener presente quelli che possono esser considerati dati di fatto acquisiti. Anzitutto, ancora vivente Francesco, è avvenuta una effettiva normalizzazione giuridica del movimento, che certamente ha in parte mortificato la spontaneità delle origini, ma che ha condotto al perpetuarsi della proposta francescana negli anni e nei secoli; si tratta di un processo che la sociologia conosce bene. Il vero interprete di questo passaggio non sarebbe frate Elia, bensì il teologo e ministro generale dei francescani Bonaventura, che cercò anche di mediare tra le varie correnti. Ben presto, all’interno del movimento si delineò un “movimento interno”, che rivendicava l’eredità francescana in senso radicale, e si rifaceva alle origini, per certi aspetti in parte mitizzate; una parte di questa linea condividerà la lettura apocalittica della storia delineata dal cistercense (poi fondatore di una sua congregazione monastica) Gioacchino da Fiore. Analoghe, anche se meno travagliate, furono le vicende del movimento francescano femminile, nato da un gruppo di ragazze assisiati, la prima delle quali è Chiara di Favarone d’Offreduccio, figlia di un nobile della città, che nel 1211 o 1212 raggiunge Francesco per seguire il suo ideale, e insediata con la sorella Agnese nel primitivo luogo in cui Francesco aveva iniziato la sua penitenza, San Damiano fuori dalle mura d’Assisi. Infine, si sta superando una lettura “fissista” di Francesco, non più descritto dagli storici come portatore di un ideale chiaro fin dall’inizio e successivamente tradito da un’opera di normalizzazione che egli non capiva e non condivideva, bensì figura creativa, personalità in continua ricerca della realizzazione di un’intuizione tanto profonda quanto indefinita nei suoi contorni, che prova a costruire anche con tensioni e fallimenti e in dialogo con la gerarchia ecclesiastica, con le avvenimenti, con le persone che incontra, come il primo studioso e teologo dell’ordine, il portoghese Antonio. Dunque si ve abbandonando il mito, tra il romantico e il protestante, di Francesco interprete insuperato del cristianesimo, incompreso ed emarginato dalle strutture di potere… § 92: il clero “in cura d’anime” tra la riforma gregoriana e la fine del XIII secolo 256 Bibliografia: FM 9/2, 715-801; 10, 505-516; 609-618; 628-629; J 5/1, 155-161; 321-333; GV 623-636; HC 5, 239-272; Le clerc séculier au moyen Age, Paris 1993; G. LE BRAS, L’église et le village, Paris 1976 Una delle conseguenze più evidenti della riforma e della lotta delle investiture sembra, a detta della maggioranza degli storici, una maggior incidenza del ruolo del vescovo nella strutturazione delle diocesi, dei centri religiosi e, di conseguenza, della pastorale. Più vicini alla gente, più attenti ai diritti della Chiesa rispetto al potere politico, i vescovi della prima metà del XII secolo cercano di diffondere nei loro territori le normative scaturite dalla riforma e di riprendere il controllo del clero. Se in Germania e in alcune diocesi del nord della Francia i presuli erano fortemente impegnati anche sul versante del governo dei “principati” di cui erano titolari, ciononostante i presuli tedeschi e in generale i vescovi occidentali utilizzano entrate e diritti signorili anche in vista di accrescere l’influenza della realtà diocesana sul territorio. Il legame tra i vescovi e i capitoli cattedrali, a sua volta, per certi aspetti si rinsalda: i capitoli divengono, almeno in teoria, i detentori principali del diritto elettorale dei vescovi, e quindi spesso si hanno molti presuli che provengono dai capitoli e un numero minore, rispetto al periodo precedente, dai monasteri; alcune dignità capitolari, come vedremo meglio più oltre, svolgono un servizio diocesano, come i cancellieri per la redazione dei documenti o gli “scolastici” per la formazione del clero, e sono i delegati dei vescovi per il controllo delle comunità rurali, come gli arcidiaconi; i vescovi più impegnati nell’opera di riforma ottengono la ripresa della vita comune del capitolo, una realtà impegnativa che a volte resisterà pochi decenni. D’altra parte si assiste in questi secoli alla definitiva distinzione tra i beni vescovili e la “massa” capitolare, il che rende i canonici progressivamente più indipendenti dal loro vescovo. Nel capitolo cattedrale, a volte formato da decine e decine di canonici, si ha il luogo di sintesi delle realtà cittadine: il vescovo, la nobiltà, i notabili della nascente borghesia, la stessa corte del monarca hanno diritti di nomina e di rappresentanza. Ma il clero collegiato non si limita ai capitoli cattedrali: si sviluppano nei secoli X-XIII collegi di canonici più o meno grandi legati ad altre chiese, per lo più cittadine, ma, almeno in Italia, anche nelle campagne. La nobiltà locale trova nella fondazione di una collegiata il modo di collocare in buona posizione ecclesiale figli cadetti e clienti, i quartieri in espansione si appoggiano alla cura pastorale di questi gruppi di sacerdoti, borghi in procinto di assumere il ruolo di città 257 collocano nel capitolo un motivo di prestigio e di rivendicazione. Nelle zone rurali dell’Italia del centro-nord molte pievi continuano la tradizione di un clero che opera insieme, pur perdendo spesso la vita comune, mentre nel meridione si ha il fenomeno, legato a nobiltà e famiglie locali, delle chiese “recettizie” pressoché private. Tuttavia, a differenza dei monasteri, tutte queste realtà hanno sempre un ruolo pastorale sul territorio. La maggior attenzione dei vescovi, nonché la presenza di capitoli e collegiate, fanno di questo periodo (XI-XII secolo) un tempo in cui si ha una più alta e ordinata strutturazione della diocesi. In molte circoscrizioni, ad esempio, è questo il tempo in cui è documentata una completa rete di pievi. I vescovi conferiscono agli arcidiaconi il compito di sorvegliare il clero delle campagne, che così viene suddiviso in aree, che tutt’oggi, in varie zone d’Europa, si chiamano “arcidiaconati”, “decanati”, “arciprestazgos” e così via. Alcune diocesi hanno due o più arcidiaconi, collegati al capitolo cattedrale ma impegnati sul territorio. Il vescovo si riserva e riesce a rivendicare un maggior controllo delle chiese “di proprietà” dei monasteri e delle nomine dei chierici, mentre, durante gli anni del successo della riforma gregoriana, si ha un imponente fenomeno di “restituzioni” di chiese da parte dei proprietari laici alla realtà diocesana. Dunque la situazione, molto policentrica e spesso francamente anarchica, del periodo VII-X secolo viene superata con una maggior coerenza. Ciò non significa che il centro episcopale sia l’unico detentore dell’organizzazione pastorale e delle nomine. Sussiste un intreccio di diritti, in questo tempo sempre più denominati patronatus, dei monasteri, che a volte controllano intere regioni, della noblità, dei notabili e delle vicinie cioè delle famiglie del quartiere, dei capitoli stessi indipendentemente dal vescovo, e della corte del re o dell’imperatore. Vi si affiancano, laddove sono presenti, i conventi di canonici regolari che spesso assicurano la cura di diverse chiese o che le ricevono in donazione. I vescovi, tramite gli arcidiaconi o i pievani, mantengono almeno il diritto di controllare la preparazione del chierico e la regolarità della nomina. Il clero soprattutto delle campagne ha una naturale tendenza a vivere delle dinamiche del villaggio, ad entrare in osmosi con la popolazione. Provenendo spesso da famiglie del popolo, non certamente di origine servile ma comunque non necessariamente benestanti, è in continuo contatto con la mentalità locale. I più gravi problemi che pesavano sul clero al tempo della riforma, in particolare la simonia, sembrano ampiamente superati e controllati. Per quanto riguarda il celibato, faticosamente il principio è affermato e si diffonde, ma rimangono aree importanti di resistenza non solo nella prassi ma anche nel pensiero. In 258 particolare il regno Anglo-Normanno, di qua e di là della Manica, vede una tolleranza della convivenza matrimoniale dei sacerdoti, nonostante i tentativi di vescovi come Anselmo d’Aosta. Alcuni autori, come il cosiddetto Anonimo di York (probabilmente più scrittori), difendono l’uso e la bontà del matrimonio dei chierici. Lo sviluppo delle scuole capitolari e più avanti delle università garantisce la possibilità per il clero di istruirsi, anche se è probabile che una parte consistente si formi attraverso un apprendistato presso il parroco del proprio paese. Sia nelle campagne che anche nel clero collegiale delle città i sacerdoti sono, nel numero complessivo del clero, ancora una minoranza: molti si fermano al diaconato (e hanno diritto ad entrare nei capitoli e addirittura ad essere nominati arcidiaconi), altri all’accolitato o ad altri ordini minori, e possiamo pensare che questi ultimi fossero meno istruiti e, molti, anche sposati. I sacerdoti che si dedicavano della cura pastorale certamente celebravano l’eucaristia, il battesimo e l’unzione dei malati gravi. Ma si occupavano delle vesti liturgiche e della cera e di tutte le necessità materiali della sacrestia. Accoglievano i penitenti per la confessione, benedivano i pellegrini che partivano o passavano, le donne che avevano partorito, i fidanzamenti e le nozze, visitavano i malati. Spiegavano il Credo e il Pater come strumenti per la catechesi e ricordavano ai fedeli le normative ecclesiastiche. Non tutti erano in grado di predicare, qualcuno era così capace da essere invitato in qualche parrocchia vicina, mentre in città il vescovo o i canonici addetti potevano assicurare una predicazione più regolare (HC 5, 270). In questo periodo si assiste a un interessante fenomeno associativo: si formano importanti confraternite/corporazioni del clero maggiore, dotate di beni che erano redistribuiti ai membri, ma anche corporazioni del clero minore. La situazione del clero, dopo il momento più intenso della riforma gregoriana (fine XIinizio XII secolo), non si stabilizza definitivamente. I mutamenti demografici sollecitano e mettono in tensione la geografia pastorale: le città si espandono oltre le mura e si stratificano a livello sociale, e quindi le vecchie parrocchie finiscono per non raggiungere tutti i fedeli. La riforma arriva in tempi diversi nelle varie zone d’Europa, e nel clero, dopo periodi di riforma, slancio pastorale e purificazione morale, la tendenza è quella di tornare alla “ordinaria amministrazione” e a taluni compromessi con il clima morale dei fedeli. La vita comune del clero secolare ha un andamento instabile e oscillante. Soprattutto nelle aree di recente cristianizzazione, come la Germania orientale, la Polonia, l’Ungheria, o nei territori più dislocati come le valli alpine, i fedeli spesso mantengono più robusti legami con 259 tradizioni e comportamenti precristiani, e il clero rischia di scivolare in una “complicità” che si estende alla questione del celibato (in Islanda vescovi e clero sono notoriamente uxorati fino al XVI secolo inoltrato), e a atteggiamenti di tipo sciamanico. Inoltre le chiese sono poche e lontane – in tutta la val di Fassa per anni l’unica chiesa era a Vigo – e il clero in queste zone non è numeroso e stenta ad avere di che vivere. Tuttavia gli storici sembrano ravvisare il passaggio lemto ma globale a un’immagine di clero differente: da una prevalente ritualità, tipica peraltro degli “uomini del sacro” delle culture preesistenti, all’impegno di cura d’anime, più propriamente pastorale, formativo e caritativo. Non è un caso che si vada diffundendo un termine latino nuovo, tutt’oggi presente in linguaggi e dialetti di varie zone d’Europa: “curatus”. Nel XIII secolo, soprattutto con il passaggio chiave del quarto concilio lateranense, si ha un principio di svolta con un rinnovamento pastorale. Giustamente molti studiosi pongono l’accento sull’obbligo della confessione annuale, che, come vedremo più sotto, comporta la diffusione di una cultura della “coscienza”. Ma anche nel clero l’impegno della confessione spinge verso una figura di tipo pastorale, con un legame differente con la popolazione rispetto all’osmosi. Ma a questa svolta il clero secolare occidentale arriverà in parte impreparato, e per altri versi sottoposto a una situazione di emarginazione da parte dello zelo deciso degli ordini mendicanti, con tensioni e sbocchi che si potranno vedere nelle pagine seguenti (§ 94). § 93: i “nuovi” laici nella Chiesa Bibliografia: FM 9/2, 827-843; 10, 620-635; J 5/1, 150-155; P 215-223; HC 5, 397-411; 804-827; A. VAUCHEZ, I laici nel medioevo, Milano 1989 Pochi storici, studiando in maniera specializzata il movimento monastico di questi secoli, rilevano una delle novità, cioè la scomparsa di un certo tipo di relazione tra famiglie nobili e monasteri, che si incarnava nella figura dell’advocatus. In realtà non cessano fondazioni di origine aristicratica, ma cistercensi e premostratensi, e più tardi ordini mendicanti, non contemplano neppur lontanamente un tipo di rapporto che scompare quasi, diremmo, di morte naturale. Ciò non significa che questo mondo monastico non abbia più rapporto con il laicato. Così la dura lotta tra il movimento riformatore e le corti riguardo alle investiture comporta una decisa separazione e una, non totale ma effettiva, perdita di influenza dell’aristocrazia nella vita ecclesiale. Tuttavia, più che di spesso decantata 260 “clericalizzazione” della Chiesa, si ha qui l’emergere di nuove modalità di presenza dei laici. Tanto più che, con la fine della struttura feudale e il (ri)sorgere del mondo cittadino, una nuova classe di laici, dalle mille varietà e sfaccettature, si va affermando: i borghesi. Nel mondo cittadino, più dinamico ma in fondo più documentato rispetto alla vita rurale, emergono segni importanti di novità, che hanno riflessi istituzionali e generano strutture di lunga durata. Nel secolo XII si hanno le prime notizie delle cosiddette fabbriche, termine generalmente impiegato per il mondo attorno alla cattedrale. Si tratta di confraternite o comitati che si occupano della costruzione, del finanziamento, della manutenzione della chiese cittadine. Anche le parrocchie dei quartieri progressivamente vengono affiancate a gruppi analoghi, nel nord Italia detti vicinie. I laici, soprattutto benestanti o esperti, assumono ben presto un ruolo preponderante, generando tensioni e ostilità nel clero che vede diminuire il proprio monopolio decisionale. Ma le comunità di fedeli, ora segnate da libertà sociale, benessere economico e competenza tecnico-amministrativa, impongono un proprio ruolo più forte. Analoghe realtà, spesso appoggiate dai nascenti governi cittadini, si occupano della fondazione, della gestione, dell’amministrazione di strutture caritative quali ospedali, lebbrosari, orfanotrofi, luoghi d’accoglienza di ex prostitute. Spesso si tratta di gruppi di laici, celibi o vedovi, che si dedicano a tempi pieno a questi servizi, con l’appoggio di altri, legati ai primi per parentela, amicizia, contiguità sociale, e che finanziano o proteggono dall’esterno. In un successivo paragrafo si vedranno meglio i campi d’azione di queste forme di assistenza sociale. Lo stabilirsi degli ordini mendicanti in città, talvolta in quartieri nuovi, o borghesi, o di famiglie povere, è occasione di promozione dei laici, singoli e associati. I frati predicatori fondano le compagnie della fede per difendere la città dall’eresia facendo tra l’altro pressione sui governi cittadini; i frati minori, a loro volta, diffondono il terz’ordine creato, sembra in maniera innovativa, da Francesco proprio per coloro che continuavano a vivere nel secolo. Se prima solo i nobili si legavano a grandi monasteri come Cluny per assicurarsi il suffragio della propria anima e di quella dei familiari, ora questo desiderio si generalizza e si creano filiazioni spirituali, che spesso dànno il diritto di sepoltura nelle stesse chiese. Tendenzialmente le famiglie magnazitie filoimperiali, che nel XIII secolo saranno chiamati “ghibellini”, si collegano ancora a monasteri, soprattutto cistercensi, mentre la parte “guelfa”, cioè i populares, è affine agli ordini mendicanti. I più benestanti, anche come 261 forma di manifestazione di status, finanziano la costruzione delle grandi chiese dei mendicanti, ottenendo il diritto a una tomba segnalata. Anche le chiese parrocchiali, come da tradizione ma con un sempre maggiore utilizzo delle strutture stesse delle chiese e non solo delle adiacenze, sono luogo di sepoltura, suffragio, monumentalizzazione. E, ovviamente, intervento e rivendicazione di proprietà e potere. Altri segnali ci portano fuori dalle mura delle città, senza farcele abbandonare. Si tratta di massive adesioni di vari strati sociali a grandi movimenti di predicazione, spesso con incidenza importante e non effimera sui fenomeni storici. Il primo episodio, che per certi aspetti dovette dare una sorta di shock, fu il movimento che si creò attorno a Pierre l’ermite in occasione della prima crociata. Pur concludendosi in un pesante fallimento, la crociata dei poveri non si può dire che non avesse peso sul successivo svolgersi delle vicende, che, probabilmente per Urbano II, certamente per l’imperatore bizantino alessio, dovevano riguardare soltanto uomini d’arme. Anche la “crociata dei bambini”, in realtà movimento giovanile da collocare attorno al 1212, anch’esso disperso prima dell’arrivo in Terrasanta, mostra l’autonomia dal clero di gruppi sociali svariati, presi da obiettivi religiosi più o meno realistici. Ma saranno le grandi campagne di predicazione per la pace e la riconciliazione, contro le eresie e le deviazioni morali cittadine, che vedranno i laici protagonisti insieme ai frati mendicanti, come ad esempio la cosiddetta “devozione dell’Alleluia” del 1233 di cui si parlerà più sotto. La predicazione e l’entusiasmo per alcune figure di santità o per alcune reliquie celebri trascinano in fenomeni di pellegrinaggio, che ormai non è più soltanto una forma pubblica di penitenza e che avrà il suo culmine col giubileo del 1300. Dunque i laici protagonisti non solo come individui o come gruppi organizzati, ma anche come movimenti di massa. Nella seconda metà del ‘200 si intravede un fenomeno che mette insieme predicazione, movimento popolare e organizzazione sociale tipica del tempo. A Perugia nel 1260 appaiono i primi gruppi di “flagellanti”, che si riuniscono in confraternite: il gesto penitenziale, dal sapore antico e tipicamente monastico, diventa segnale popolare e diffuso e si unisce a un impegno di intensa vita di preghiera e di attenzione alle piaghe della società, in attesa di esplodere nei periodi di grande pestilenza e di attese escatologiche. Altre confraternite erano presenti da secoli, dunque la forma confraternale, già accennata in varie occasioni (“fabbriche”, ospitalità, compagnie della fede…), diviene il modo tipico di presenza del laico nella vita ecclesiale. Nelle città di tutta Europa a ogni corporazione 262 (altrimenti detta paratico, gilda…) corrisponde la confraternita col proprio santo patrono, il proprio altare (a volte mobile e montato presso il pilastro della cattedrale che il gruppo ha finanziato), a volte la propria chiesa. E la confraternita col patrono permettono sovente di liberare il mestiere dei componenti dalle diffidenze e dalle condanne religiose, e di nobilitarlo: speziali, medici, notai, calzolai… Ci sono confraternite più svincolate dall’appartenenza professionale e con intenti più propriamente religiosi. E c’è tutto un mondo di singoli laici che per conversione personale, sventure della vita, shock interiori scelgono forme che certamente sono della tradizione, ma vissute nella propria casa e nel proprio ambiente laicale: sono i penitenti e le béguines (beghine), alcune delle quali vivono in vita comune senza una forma istituzionale, almeno inizialmente, e lavorano con le proprie mani nel mondo dell’artigianato soprattutto tessile. Da questi gruppi, talvolta borderline rispetto alla cstruttura ecclesiastica e non privi di sospetti, nascerà il fenomeno umiliato. Ma spesso in questo mondo si colloca la santità dei laici santi “recenti” dalla devozione in grande diffusione, soprattutto nelle Fiandre e in Italia, come ha mostrato Vauchez. Fin qui s’è parlato prevalentemente di città. E la fede dei laici contadini? C’è l’emergere di un laicato anche in questo mondo, che continua ad essere considerato, come da tradizione tipicamente mediterranea, un mondo “di serie b”, una barbarie diffusa? Purtroppo del mondo rurale ci manca molta dcumentazione, e quel che ci è nrimasto forse attende nuovi metodi d’approccio. Però sembra di poter sottolineare due realtà, sostanzialmente contrastanti. Nel XII e XIII secolo s’intravedono segnali di una fede meno rozza e superficiale, più intima, che, probabilmente ancora per il tramite della confessione personale, si apre alla diffusione delle immagini della croce e alla devozione alla passione di Cristo, che più tardi il mondo francescano inquadrerà nella pratica della via crucis. Anche la devozione mariana, pun non assente in precedenza, prende l’abbrivio: basti pensare ai tanti ex voto pittorici, di fattura popolare, dipinti sui muri di chiese, santuari e cattedrali. Nel periodo della riforma anche il mondo rurale reclama sacerdoti celibi e non macchiati di simonia, e si adopera anche con la violenza per questi obiettivi. Dall’altra parte la religione “popolare” ovvero “folklorica” rimane e a volte si ha l’impressiuone che abbia la forza di ritornare dopo periodi di ostracismo sistematico o di oblio. Non è qui il luogo per entrare nelle complesse considerazioni metodologiche che vedono la storia fare i conti con l’etnologia e l’antropologia culturale, se si tratti di “religione delle classi subalterne” oppure 263 di “residui”, di “cristianizzazione” o “inculturazione” o in realtà di mancata cristianizzazione. Quanto s’è detto al capitolo 7 (in particolare § 54) può valere anche per questo periodo: i pastori provano a ricomprendere le esigenze della popolazione, in un’opera di dialogo non sempre cosciente di sé e non sempre riuscita. In questo spazio dedicato a nuove presenze dei laici nella Chiesa, accenniamo, last but not least, alla figura della donna. Il mondo monastico vedeva comunità femminili molto ridotte numericamente rispetto agli uomini, e di provenienza aristocratica. Domenico a Prouille inizia con una comunitàè femminile e Clara di Favarone d’Offreduccio fugge dalla sua casa (aristocratica) d’Assisi per raggiungere Francesco e per dare inizio a una comunità “nuova” che pone al centro la povertà. Non corrispondono all’ideale monastico le donne che si dedicano alla preghiera e al servizio dei poveri, che nelle Fiandre si chiameranno Beguines e che annoverano tra le loro file Elisabetta, di famiglia regale ungherese, sposa del margravio di Magdeburgo e, vedova, dedita completamente ai bisognosi. Anche le numerose recluse, spesso sospettate di estremismo ed eresia, ma altrettanto spesso circondate da discepoli anche del clero, sono un esempio di nuove forme di santità al femminile. Questi secoli ci trasmettono ampia documentazione di donne mistiche, soprattutto in Renania, come Ildegarde di Bingen, Gertrude di Hefta, Hadewijk, che scrivono visioni e profezie e vivono una forma spirituale con tratti sentimentali e affettivi tali da aver fatto coniare agli storici l’intraducibile vocabolo Minnenmystik: essendo i Minnesänger i corrispondenti dei “trovatori”, si potrebbe affermare che si tratta di poetesse dell’amor cortese per Gesù Cristo, contemplato soprattutto nella sua passione. La diffusa devozione a Maria vergine è la cornice e il linguaggio in cui si colloca questo nuovo universo cristiano al femminile. § 94: forza e debolezza di una pastorale alla ricerca di se stessa Bibliografia: FM 9/1, 177-215; 9/2, 873-910; 10, 183-234; 253-277; 516-537; J 5/1, 233241; 260-266; L 536-541; GV 832-859; P 223-230. 266-277; HC 5, 456-495; 523-530; 705732; 746-750; La pastorale della Chiesa in Occidente dall’età ottoniana al concilio lateranense IV, Milano 2004, soprattutto 171-325; Ph. ARIÈS, L’homme devant la mort. I: le temps des gisants, Paris 1977, in particolare 99-288 Il punto di sintesi e di svolta per considerare la pastorale dei secoli XII-XIII è il concilio lateranense IV del 1215, convocato da Innocenzo III, per molti aspetti una vera assise “pastorale” anche se con modalità e significati molto diversi, ovviamente, dal concilio del 264 1962-65 che per la prima volta si è dato questo aggettivo come definizione. Il lateranense IV codifica principi e comportamenti, alcuni già in atto o per lo meno già proclamati, e che faranno la pastorale in occidente fino al concilio di Trento e oltre. Si pensi ad esempio al testo del canone 21: Omnis utriusque sexus fidelis, postquam ad annos discretionis pervenerit, omnia sua solus peccata saltem semel in anno fideliter confiteatur proprio sacerdoti, et iniunctam sibi poenitentiam pro viribus studeat adimplere, suscipiens reverenter ad minus in Pascha Eucharistiae sacramentum… alioquin et vivens ab ingressu ecclesiae arceatur et moriens christiana careat sepultura… (DS 812) Questo ordine, che stabiliva un minimum peraltro ben noto anche in precedenza, generò i celebri precetti: “Confesserai tutti i tuoi peccati almeno una volta all’anno”; “Riceverai umilmente il tuo creatore almeno a Pasqua” (CCC 2042; CDC 920; 989). Ancora una volta, la personalità che ritroviamo in tutti questi momenti di svolta è Innocenzo III. Un quadro sacramentale. La pastorale del lateranense IV, e l’effettiva azione della Chiesa in questi secoli, si impernia sulla celebrazione/recezione dei sacramenti, in particolare sull’asse confessione-eucaristia. Il quadro sacramentale è ormai chiaro e stabilizzato, la scolastica ne sviscera questioni e condizioni, l’arte sacra propone scene di celebrazione codificate. L’eucaristia è celebrata e anche sempre più adorata: non nasce nel secolo XII la custodia continua dell’eucaristia, ma la preghiera di adorazione, il “vedere l’eucaristia” si diffonde, e la spiritualità eucaristica e una serie di eventi straordinari fanno nascere la festa del Corpus Domini, la cui innografia è di Tommaso d’Aquino, e che in Francia assume il nome popolare Fête Dieu, estremamente significativo. Questo comporta un salto di qualità per la figura sacerdotale, ormai centrale, a cui si va attribuendo un “potere” circoscritto ma chiaro (sacerdos proprius). Ma, come bene intuisce Francesco, che non fu mai sacerdote, il coetus sacerdotalis ha le sue luci e le sue ombre. Si potrebbe dire, in estrema sintesi, che il sacerdote è un “amministratore”: tale termine si usa per i sacramenti ma anche, significativamente, per i benefici. I sacerdoti sono collocati in una struttura che ha le sue fragilità: sono sempre a rischio di deviare in comportamenti e pratiche che potremmo definire sciamaniche, e si trovano a dover far fronte a urgenze dal punto di vista economico. 265 Bisogna d’altra parte sfatare la leggenda nera di un clero medievale ignorante. Le nascenti università, come anche le tradizionali scuole capitolari che spesso sono all’origine dei nuovi atenei, ospitano chierici in formazione in vista del ministero, non solo quelli delle città universitarie, ma anche da tutto il territorio circostante e perfino da vari paesi d’Europa. Un testo esemplare di questa formazione, quasi un manuale generale per il clero, è il Rationale divinorum officiorum di Guglielmo Durand de Mende, una summa liturgica di voluminose dimensioni, redatto all’inizio del XIV secolo e diffuso in un numero eccezionale di manoscritti e, più tardi, il secondo classificato delle prime edizioni a stampa dopo la Bibbia: un vero best seller. Dunque il clero, responsabile del perno sacramentale della pastorale, è attraversato da una forte tensione tra alte aspettative e debolezze di fondo. Nel quadro sacramentale si colloca l’evolversi della dottrina sul matrimonio. I penitenziali dell’alto medioevo condannano l’incesto, ma questo è il risvolto estremo di un diritto che poco a poco chiarisce gli impedimenti. Dopo un primo orientamento a proibire i matrimoni tra parenti fino al settimo grado, proprio col Lateranense IV, anche per ragioni pratiche (difficoltà a ricostruire gli alberi genealogici in mancanza di documentazione scritta), si torna al quarto grado. In compenso all’impedimento di parentela si affianca quello di affinità, anche spirituale. Questa scelta, come quella di proibire ogni forma di ripudio, andava a cozzare non solo contro abitudini e stili spessi diffusi tra le classi nobiliari, ma anche contro interessi di alleanze politiche che spesso stavano dietro i contratti matrimoniali. Da qui le complesse controversie tra la curia romana e i monarchi, in particolare due casi riguardanti la corte francese (Filippo I e Bertrada al tempo di Urbano II, Filippo Augusto e Ingeborg di Danimarca un secolo dopo) che fecero progredire l’elaborazione canonica. Bisogna notare, come affermano in molti, che dal XII secolo l’asse della confessione sta pasando dalla “penitenza”, seconto la tipica tradizione insulare dei penitenziali e delle tariffe, all’intenzione che si porta nella confessione, cioè al pentimento. Abelardo aprirà la riflessione su questa questione, che vedrà un celere mutamento dello stile delle elaborazioni scritte nell’ambito teologico universitario, i “manuali dei confessori”, da lì una riconsiderazione di molte azioni, ad esempio il commercio, a partire dall’intenzione, infine un più lento trasformarsi della coscienza e della mentalità dei credenti. Predicazione e formazione. Di per sé, da sempre, predicazione e catechesi sono responsabilità dei vescovi e del clero, ma sempre più “amministratori” gli uni e gli altri, 266 spesso trascurano il pesante impegno della formazione del popolo, come si nota nelle vicende della diffusione delle eresie. Di per sé, la riforma gregoriana aveva prodotto un’onda lunga di ripresa dello slancio di predicazione, che si incarnava in alcuni vescovi e sacerdoti, nella produzione di omeliari, negli statuti sinodali che obbligavano alla predicazione sistematica, e perfino in scuole specializzate, come il collegio fondato a Parigi a metà del XIII secolo da Robert de Sorbon, e che da lui prese poi il nome. Proprio alcuni esponenti della scolastica (Pietro Cantore, Stefano Langton, Tommaso di Chobham) si distinsero per un impegno formativo nei confronti del clero destinato alla predicazione. Ma il meccanismo beneficiale e la preponderanza dell’attenzione sulla “amministrazione” finì per rallentare e in varie zone d’Europa inceppare lo slancio. In quella fase, e poi progressivamente espandendosi, si attua una vera supplenza da parte degli ordini mendicanti, che diventerà una sorta di esclusiva. Se i “frati predicatori” avranno nel DNA l’impegno all’annuncio pubblico dei contenuti cristiani, presto anche i francescani si affiancheranno, con figure “mitiche” quali Antonio di Padova e più tardi Bernardino da Siena. Le grandi chiese dei mendicanti, capaci di migliaia di persone e dall’acustica perfetta, saranno i luoghi di predicazione ordinaria e straordinaria, conseguentemente delle confessioni, e infine della sepoltura delle famiglie amiche e finanziatrici, generando rivalità e tensioni con il clero secolare. La presenza dei mendicanti, in città e spesso anche nelle campagne, darà il colpo di grazia, in vari territori ad esempio italiani, al sistema altomedievale delle pievi, già di suo in declino per motivi giuridici (rivendicazioni di autonomia da parte delle ecclesiae dipendenti), economici (tassazione e svalutazione degli antichi benefici) e di relazioni sociali (fine della struttura feudale). L’azione dei frati mendicanti spesso aveva origine o potenziamento in grandi momenti di devozione popolare, come la già citata “devozione dell’alleluja” del 1233. In queste città – si fa l’esempio dell’Italia, per altre zone d’Europa ci sono differenti percorsi – la politica si va emancipando dal potere vescovile e si trasforma in lotta, spesso violenta, tra partiti; nel fluido e mobile ambiente cittadino i gruppi eretici hanno mano libera alla propaganda; il guadagno, la promiscuità, gli scarsi legami sociali generano disordini morali, dall’usura alla produzione di falsi, dalla prostituzione alla pedofilia, dall’aborto e infanticidio al delitto politico o passionale… A partire dall’arrivo di un gruppo di frati, o da un evento miracoloso, o da qualche altra “miccia spirituale”, si creano le condizioni per un’adesione di massa alla predicazione popolare dei mendicanti, capace di coinvolgere l’opinione pubblica 267 con i canti (le “laude”) o gesti scenografici (la consegna delle armi); i frati interagiscono con gruppi di penitenti laici provenienti dagli strati sociali cittadini (si pensi all’origine sociale dei sette fondatori dell’ordine dei servi di Maria sul Monte Senario, o ai terzi ordini) organizzati in confraternite; la predicazione diviene impegno di moralizzazione, di riconciliazione privata e pubblica, con gesti plateali che richiamano le “tregue di Dio” e connesse azioni di polizia contro gli usurai (spesso ebrei), i lenoni, gli eretici: nel 1233 il podestà di Milano Oldrado da Tresseno, di provenienza lodigiana, mise al rogo molti catari. La pressione dell’opinione pubblica guidata dalla predicazione mendicante chiede una revisione degli statuti comunali per una migliore rappresentatività e per sistemi di pacificazione, per la libertà della Chiesa, per l’inserimento di norme antieretiche e di buon costume. In alcuni casi, come già detto, i frati vengono nominati al governo della città, per una fase transitoria. Dunque quel che avviene a Firenze con Girolamo Savonarola nel XV secolo non è, per certi aspetti, nulla di nuovo. Queste grandi “devozioni”, prese singolarmente, esprimono frutti poco duraturi: le realtà strutturali, come le rivalità politiche o i meccanismi economici, non tardano a riemergere. Ma intanto restano in città i conventi dei frati e le confraternite di laici, che si inseriscono profondamente nel tessuto cittadino. La preghiera. A tanti studi di grande interesse sulla preghiera delle varie epoche manca ancora chi si senta di fare una grande sintesi. Facciamo qui solo qualche accenno a prtire dai testi di preghiera, dall’iconografia, dalle notizie sparse in ogni dove. I cristiani dei secolo XI-XIII, pur senza dimenticare mai i santi, si rivolgono a Dio, ma come “Padre”, segno di una più profonda penetrazione del messaggio cristiano a livello di mentalità; si rivolgono a Gesù Cristo, considerato sul versante della storicità, dell’umanità (si pensi al presepe di Greccio), della passione, anche a seguito delle crociate e dei pellegrinaggi a Gerusalemme; e si rivolgono a Maria vergine, cui sono intitolate cattedrali e dedicate città intere (Hostis turbetur quia Parmam Virgo tuetur). La contemplazione della passione di Gesù si colloca nella liturgia del triduo pasquale da cui si sviluppano forme di teatro sacro, gruppi scultorei del “compianto”, e chiese che riproducono la pianta del martyrion di Gerusalemme. Michel Parisse usa l’espressioni di “voga prodigiosa” della preghiera dei salmi: non certo confinati nei chiostri, i salmi pervadono la liturgia parrocchiale, si imparano a memoria per la preghiera personale e, per il medesimo intento, si trascrivono su manoscritti facilmente 268 trasportabili. Soprattutto i sette salmi penitenziali sono la compagnia quotidiana di clero e laici di intensa vita spirituale. Povertà e assistenza. In città cambia anche la povertà: non più famiglie rurali al limite della sopravvivenza ma legate al territorio ovvero piccoli gruppi di pellegrini, e tendenze epidemiche basse. I poveri sono gruppi sempre più consistenti di senza lavoro stagionali, di categorie sociali emarginate, di malati incurabili e infettivi come i lebbrosi. E la città col suo agglomerarsi con poca igiene diviene spazio per le epidemie, anche se per ora non si avranno pandemie eclatanti come avverrà dalla metà del XIV secolo in avanti. Dunque anche l’assistenza esce dal quadro monastico rituale e richiede nuove soluzioni. Continua e si approfondisce la lettura spirituale del povero, immagine di Cristo sofferente: l’esempio di Francesco e l’arte sacra formano un atteggiamento diffuso. A livello istituzionale continuano e si moltiplicano molti piccoli “ospedali”, non solo in campagna ma sempre più in città, appoggiati e finanziati dalle municipalità o dalle famiglie dei notabili, dal funzionamento polivalente e non specializzato: si raccolgono insieme pellegrini, malati, poveri, convalescenti. Solo i lebbrosari assumono un funzionamento specializzato. Il personale è spesso formato da gruppi di laici penitenti, provenienti dalle classi produttive cittadine, che, magari a seguito di una campagna di predicazione, si assumono l’onere di un servizio ai poveri, col sostegno delle autorità e l’afflusso di eredità di mercanti e artigiani. Molti di questi gruppi, pur restando laici, assumono la regola agostiniana. Gli ordini cavallereschi hanno spesso una realtà del genere alla loro origine. Per motivi spirituali, tecnici ed economici queste strutture tendono a declinare nel giro di un paio di generazioni, per poi riprendere a seguito di una riforma o di un’altra predicazione straordinaria. Lo sviluppo dell’economia monetaria seguito alla ripresa demografica ed economica porta alla tolleranza e poi all’approvazione del commercio, ma non del prestito ad interesse, del commercio del denaro, che continua in questo periodo ad essere vietato dal diritto canonico. Al crescere dell’accumulo di ricchezze nelle mani dei più abili, e quindi delle sperequazioni sociali, si affianca, quasi a contrappunto, l’impegno caritativo. Al soccorso dei più poveri si unisce, nei filoni spirituali più ferventi (Cistercensi, Premonstratensi, Domenicani, Francescani, figure di eremiti), la povertà quale scelta di vita, come virtù. 269 Ma nelle città si comincia a scorgere qualche segno di un modo diverso di vedere i poveri, che si diffonderà soprattutto dal XIV secolo in avanti, e che, per la prima volta nel mondo cristiano, è contrassegnato dalla paura. Di fronte alla morte. Riprendiamo qui cenni sparsi già nelle pagine immediatamente precedenti. La cura e la celebrazione della morte nel cristianesimo si connette con la morte di Cristo e con la speranza della risurrezione con lui. Questo significato più propriamente teologico ed escatologico squarcia il velo plumbeo dell’ignoto post mortem che accompagna tutte le culture, si pensi al saggio aristocratico della corte di re Edwin di Northumbria, raccontato a Beda e citato più sopra (§ 12). Ma la densità emotiva e culturale del morire è tale che questo contenuto del cristianesimo attrae alcune forme di pensiero presistenti, così che il culto dei defunti diviene anche la cristianizzazione del culto degli antenati, ricordati per nome in un impasto di bisogno di preghiere e di ricordo ed esempio positivo. Ma per lunghi secoli questo ricirdo degli antenati è possibile solo al mondo nobiliare, che utilizza le chiese private per seppellire i propri cari e chiede ai monasteri – Cluny ne sarà specialista – le preghiere personali di suffragio. Intanto il clero conduce una lotta accanita a quanto non assimilabile dalla concezione cristiana del culto funerario: banchetti e danze nei cimiteri, sacrifici per calmare i morti “cattivi” (bimbi nati morti, uccisi non vendicati…) che potrebbero avere motivi per reclamare giustizia, narrazioni di cortei di morti che magicamente appaiono nelle notti speciali. Il luogo sacro cristiano è molto presto il luogo della sepoltura: si seppellisce, e quindi non si incenerisce, e si seppellisce ad sanctos, vicino a quei santi, presenti talvolta anche con qualche reliquia, così come nelle catacombe romane si vuol giacere per sempre accanto alle venerate tombe dei martiri. Ma per tutto l’alto medioevo la stragrande maggioranza della popolazione si fa seppellire nei pressi della chiesa senz’altro segno di riconoscimento. In questo periodo appaiono alcuni fenomeni: intanto la sepoltura nella chiesa stessa, riservata a poche categorie, inizialmente i monaci, i frati, il clero, poi i maggiorenti che sono legati per qualche merito alla chiesa stessa. In secondo luogo, si vuol ricordare la persona o la sua famiglia, ed ecco le lapidi, spesso non collocate esattamente nel luogo di sepoltura, con formule e messaggi che vanno evolvendo. In terzo luogo, alcune categorie privilegiate, ossia i papi, i vescovi, i canonici, i regnanti, sono raffigurati come gisants, come se fossero distesi nel letto funebre, con gli abiti della propria dignità, le insegne (sacerdoti e canonici spesso con il calice tra le mani) e un ritratto del volto. Ora spesso questi gisants sono 270 innaturalmente murati nelle pareti dei chiostri e dei musei, in verticale, mentre le fattezze consumate mostrano la loro collocazione orizzontale, pavimentale. Sono ancora una volta solo alcuni: in fondo, se la morte è, poeticamente, “una livella”, il mondo gerarchico dei vivi ripropone le sue differenze. Così come è distinzione sociale e dovere morale fare testamento, e in esso ricordare Dio e i poveri, la Chiesa e i bisognosi: da questi secoli inizia a giungere fino a noi la massa enorme e preziosissima dei documenti testamentari, fortuna di una delle corporazioni cittadine, i notai. Nei testamenti, nelle donazioni alle chiese, nelle affiliazioni alle confraternite si colloca sempre il riferimento alle messe di suffragio, sviluppo delle preghiere per i defunti che già sono attestate nelle antiche catacombe cristiane. S’è visto sopra che i monasteri per i secoli tra il IX e l’XI sono il grande serbatoio delle preghiere per i morti, e questo ha portato alla clericalizzazione degli ordini monastici. Ora il suffragio si generalizza, diventa merce richiesta anche dai borghesi, soprattutto da chi, come i mercanti, sapeva di aver bisogno di penitenza e sconto di molti peccati riguardanti il denaro. Il purgatorio, concetto teologico che arriva a chiarezza a partire da intuizioni molto antiche – nelle catacombe si prega per i defunti ma i martiri pregano per i vivi… –, sarà il “tempo”, e poi anche il “luogo” per questa costosa purificazione, ma le preghiere, le messe, la beneficienza, e presto anche l’indulgenza, abbreviano la permanenza dell’anima nella realtà intermedia. Ma chi muore scomunicato, come Manfredi figlio di Federico II di Svevia, o senza aver ricevuto l’eucaristia a pasqua, non può godere della terra benedetta ad sanctos: nascono i luoghi di sepoltura degli “inconfessi”, che avranno bisogno, come chiede appunto Manfredi a Dante di passaggio, di speciali e più intensi suffragi. La preghiera e la messa di suffragio, l’opus Dei di conventi e monasteri, la sepoltura in luogo consacrato, la lapide e il gisant che ricorda le buone opere, il testamento sono altrettanti segni di un percorso umano verso la speranza di una sopravvivenza dopo la morte, che lentamente supera esecrazioni, timori e censure del morire. Ma insieme sono sintomi di quel che molti han definito l’emergere discreto dell’io, dell’identità, della coscienza personale di contro a un’identificazione con il clan, la stirpe, la collettività. Una breve sintesi. La Chiesa in Europa occidentale nella sua azione pastorale si mostra come realtà potente e fragile nello stesso tempo, coi suoi punti di luce quali l’acquisizione dell’importanza centrale dei sacramenti, le grandi predicazioni, la capacità di incidenza sociale e di mentalità, la diffusione della confraternite, l’impegno caritativo; e con le sue 271 ombre, come le debolezze economiche, le aree di recente evangelizzazione o non raggiunte regolarmente da clero e predicazione, la conflittualità tra clero secolare e mendicanti. La stessa lotta antieretica vedrà la compresenza di predicazione, testimonianza di povertà, coercizione, rivalità tra tribunale dell’inquisizione e poteri locali. La grande crisi del secolo XIV, a livello igienico-sanitario, quindi demografico, economico, e soprattutto culturale rivelerà diffusi sintomi di ritorno al precristiano, paure più o meno razionali di difficile integrazione nella psicologia collettiva, stanchezze e decadenza degli ordini religiosi antichi e nuovi, calo di livello del clero, deviazioni nelle strutture dell’inquisizione. Ma i punti di luce di questi secoli riveleranno comunque una persistente vitalità fin dentro la grande svolta del XVI secolo. § 95: la Chiesa occidentale guarda a oriente – le missioni Bibliografia: FM 10, 364-375; 583-600; 637-672; J 5/1, 291-297; 309-320; L 513-515; GV 529-537; 547-552; P 240-241; HC 5, 342-355; 671-701; 6, 17-26; EP 2, 411-422 Come si è detto già varie volte, la Chiesa, in particolare il papato, non smette di guardare a Gerusalemme e di incitare alla crociata. E continua a perseguire il disegno di una piena unione con la Chiesa greca. La quarta crociata e la conquista di Costantinopoli crearono l’illusione, presto svanita, di una piena unità tra oriente e occidente cristiano (cfr. § 74). Dopo la riconquista di Costantinopoli e la restaurazione di un fragile impero bizantino (1261), l’imperatore Michele VIII Paleologo tenta sul piano diplomatico di disinnescare le minacce di aggressione da parte di Carlo d’Angiò proponendo alla sede Romana e al re di Francia Luigi IX (“il santo”) di intavolare trattative per l’unificazione. Nel 1270 Luigi IX parte per la crociata ma muore a Tunisi. Contemporaneamente da molti mesi l’elezione papale era in sospeso a Viterbo (§ 87). Finalmente nel 1271, anche per il timore dell’invadenza di Carlo, non più tenuto a bada dal santo fratello, i cardinali decidono di eleggere non un francese come i predecessori Urbano IV e Clemente IV, ma un outsider, un prelato al di fuori del collegio, il piacentino Tebaldo Visconti, arcidiacono di Liegi e patriarca nominato di Gerusalemme, che in quel momento è in Terrasanta e ha quindi una certa esperienza e motivazione per questi scenari internazionali. Solo nel 1272 Tebaldo riesce a rientrare in Roma e prende il nome di Gregorio X. Tre sono i punti del programma di Gregorio: riforma della Chiesa, unione tra i cristiani, crociata. Per attuarli, il papa convoca il II concilio di Lione, che doveva vedere la presenza di figure di studiosi come 272 Bonaventura da Bagnoregio e Tommaso d’Aquino, il quale ultimo, però, morì prima di giungere al concilio. Comunque non mancavano gli studiosi occidentali e furono invitati anche gli orientali, con l’appoggio politico dell’imperatore. Al concilio parteciparono teologi greci favorevoli all’unione, che poi continuarono ad alimentare gli approfondimenti di studio e anche un orientamento politico, soprattutto Giovanni Bekkos, poi patriarca di Costantinopoli. L’unione fu messa a punto e proclamata, ma la morte di Gregorio X (gennaio 1276), l’ostilità della popolazione e di gran parte della gerarchia greca, e alla fine, dopo i brevi pontificati di Innocenzo V (primo papa domenicano: sei mesi), Adriano V (un mese), Giovanni XXI (papa portoghese: otto mesi), Niccolò III (due anni), l’elezione del francese Martino IV diede via libera all’aggressività angioina verso i bizantini e compromise definitivamente l’unione lionese. Del concilio II di Lione rimase molto materiale legislativo, tra cui le norme del “conclave”, e anche una linea di teologi greci filolatini che cercarono il dialogo anche nei decenni successivi. Nel frattempo le diverse ondate di invasori mongoli, di cui abbiam già dato cenno (§ 86), se non avevano portato una sperabile conversione al cristianesimo e la fine dell’Islam, avevano diminuito la forza degli stati arabi e turchi nel Medio Oriente e permesso l’apertura di contatti e scambi commerciali. Tebaldo Visconti, appena eletto papa, prima di partire da San Giovanni d’Acri aveva consegnato lettere per il gran khan a tre mercanti veneziani in partenza per la Cina, Niccolò, Matteo e Marco Polo (1271). La cristianità occidentale prese coscienza che effettivamente esisteva un vasto mondo non ancora raggiunto dal Vangelo: se nell’Africa si vociferava dell’esistenza di un impero cristiano del “Prete Gianni”, l’Oriente non si limitava ai musulmani che, com’era certo allora, non erano altro che cristiani rinnegati. Sono frati francescani a giungere fino a Pechino, entrando tra l’altro in contatto con gruppi di cristiani nestoriani presenti nel cuore della Cina. Il francescano Giovanni da Montecorvino è arcivescovo di Khanbaliq (Pechino) all’inizio del XIV secolo, e la presenza francescana, con la conversione di un certo numero di pagani, dura fino al crollo del dominio mongolo e al sorgere della dinastia dei Ming (1368). Tentativi di evangelizzazione dei mongoli si susseguono in questi anni, con scarso successo. Come già si è detto, i domenicani si muovono nel Caucaso, tra armeni cristiani con cui si crea un intenso dialogo teologico e altri gruppi pagani (Societas Peregrinantium pro Christo). Sia i francescani che i domenicani tentano anche l’evangelizzazione del nord Africa, a costo di numerosi martiri. 273 § 96: spunti di approfondimento Le tematiche riguardanti la storia della pastorale, che si incrocia (e però si differenzia) con la storia della mentalità e la storia sociale, sono quasi tutte recenti e spesso aperte a molteplici sviluppi. Segnaliamo, come già ricchi di trattazioni e di dibattito, la questione dell’etica economica in cambiamento, con la tolleranza e poi l’approvazione del commercio, col dibattito e le norme sull’usura, con le riflessioni dei “manuali dei confessori”. Gli autori più accessibili in questo campo sono O. Capitani, J. Le Goff, A. Vauchez, e per un periodo leggermente successivo L. Veerecke. Sempre Le Goff ha aperto una provocazione con il suo sconcertante titolo “la nascita del purgatorio”. Ma esso “nasce” davvero in questi anni? si veda la breve messa a punto e precisazione in HC 5, 813 e nota 34. 274 CAPITOLO XV: L’ETÀ DI BONIFACIO VIII § 97: nel rapporto tra Chiesa e stati; l’avventura di Celestino V Bibliografia: J 5/1, 387-389; L 564-565; GV 552-562; P 242-243; HC 6, 44-45; EP 2, 460472. Mentre l’impero germanico vive una diminuzione di incidenza e prestigio sullo scenario europeo (coi primi imperatori d’Asburgo e Adolfo di Nassau), Francia e Inghilterra assumono il ruolo di gradi potenze e si avviano a essere monarchie moderne, centralizzatrici e assolutizzanti. Filippo IV, detto “il bello”, che regna dal 1285 al 1314, è il protagonista della riorganizzazione del regno di Francia. Contemporaneamente Edoardo I (re d’Inghilterra dal 1272 al 1307) riforma lo stato, annette il Galles e controlla la Scozia fino al 1297. Con la guerra per la Guienna (1294-97) si annuncia la devastante guerra dei cent’anni (1339-1453) tra il trono francese e il rivale-vassallo re d’Inghilterra che è duca di Normandia. Altri stati, come l’Aragona, l’Ungheria, la Lituania, la Boemia vivono periodi di evoluzione, fasi di espansione e di stabilizzazione. E’ un mondo politico e giuridico che si sta diversificando rispetto a quanto si vedeva fino alla metà del XIII secolo. In questo scenario non può che emergere la tensione tra i troni più accentratori e assolutizzanti e l’idea e la politica della plenitudo potestatis anch’essa portata all’estremo soprattutto da Bonifacio VIII. La crisi prolungata dell’impero ha portato nella seconda metà del XIII secolo all’egemonia politica della Francia, con importanti riflessi sulla sede romana e sul collegio cardinalizio: papi francesi (Urbano IV 1261-1264; Clemente IV 1265-1268; Martino IV 1281-1285), un numero notevole di cardinali francesi, e un legame talvolta tormentato con la casa d’Angiò che dominava l’antico regno normanno del sud Italia e deteneva la leadership del partito guelfo nelle città comunali. Ma la parte guelfa-filofrancese, guidata dalla famiglia romana degli Orsini, non monopolizzava il collegio cardinalizio e la curia, dove anche i ghibelliniantifrancesi, che si appoggiavano all’Aragona, formavano un gruppo consistente guidato dai Colonna. Da qui, per la regola dei due terzi, elezioni pontificie lunghe, che talvolta portano sulla cattedra di Pietro degli outsider come Gregorio X, ma che comunque devono fare i conti con un equilibrio instabile. Tendenzialmente i papi provengono dal diritto canonico, così come il nerbo della curia romana. Si nota un avanzare e consolidarsi di una mentalità di governo meno pastorale e più 275 giurisdizionale, una crescente diffidenza nei confronti dei movimenti spirituali, un uso sempre più disinvolto, ma spesso anche meno efficace, delle pene canoniche della scomunica, dell’interdetto, della deposizione. L’opinione pubblica, e in seguito anche i teologi e il clero delle varie nazioni, cominciano a contestare e a non osservare l’adempimento delle “armi spirituali” utilizzate evidentemente per fini sempre più politici. Il caso per certi aspetti più eclatante si ha dopo i cosiddetti “vespri siciliani” e con la guerra tra angioini e aragonesi per il dominio della Sicilia. Nel 1282 i baroni siciliani, legati al ricordo di Federico II e di Manfredi, si ribellano al dominio francese e invocano l’intervento di Pietro III d’Aragona, genero del figlio di Federico e quindi con qualche motivo di rivendicazione del trono siculo. La Francia e Carlo d’Angiò mettono in piedi una guerra che il papa francese Martino IV qualifica come crociata, e che sarà un sostanziale fallimento, che porterà al distacco dell’isola dalla corona di Napoli. Dopo una sequenza di pontificati sostanzialmente piuttosto brevi, alla morte di Nicolò IV (Girolamo Masci, già generale dei francescani, pontefice del 1288 al 1292), favorevole ai Colonna e al partito antifrancese, il collegio cardinalizio riunito a Perugia portò avanti trattative sterili per ventisette mesi (1292-1294). Filofrancesi e antifrancesi, Colonna e Orsini si contrappongono senza riuscire a esprimere nessun nome di convergenza. Per sfinimento si sceglie una figura veramente fuori da qualsiasi contatto con la curia, ossia un eremita, già appartenente ai benedettini poi uscito di monastero e stabilitosi sul monte Morrone e in seguito sulla Maiella, nell’appennino abruzzese, quindi in territorio angioino: Pietro “del Morrone”, di famiglia contadina del Molise, che nel 1294 aveva già 85 anni. Perché questa elezione? La situazione politica del Patrimonium andava verso una crescente instabilità e bisognava a tutti i costi far tornare la curia alla vita ordinaria; Pietro era uomo conosciuto per santità di vita (e prometteva un pontificato breve, essendo già anziano); e soprattutto Carlo II d’Angiò, re di Napoli, era d’accordo: probabilmente nel ritorno da Perugia, dove aveva visitato il “conclave”, a Napoli, Carlo aveva incontrato l’eremita, che, conosciute le vicende della sede vacante, aveva scritto una lettera ingenua ed esortativa ai cardinali. Il re di Napoli era talmente d’accordo… che, appena eletto, chiamato e intronizzato il nuovo papa, che prese il nome di Celestino V, Carlo lo “convince” a trasferirsi a Napoli con tutta la curia, e così di fatto diventa la guida politica del venerando eremita papa. Nei cinque mesi di pontificato, Celestino V è docile alle linee di politica estera della casa d’Angiò: su dodici cardinali creati, sette erano francesi… L’unica sfera 276 autonoma del suo governo è legata ai privilegi che pubblica a favore della sua piccola congregazione eremitica (che prenderà il nome di “celestini”) e all’appoggio ai movimenti spirituali più radicali, come l’ala localistico-eremitica dei francescani, che ne mitizzerà la figura, leggendo in Celestino il “papa angelico” preannunciato un secolo prima dalle profezie di Gioacchino da Fiore, colui che avrebbe aperto l’età dello Spirito Santo, quella dei monaci, e chiuso l’età del Figlio, quella del clero e dei vescovi… D’altronde, il vecchio santo Pietro appena sapeva un po’ di latino, e anche solo questo lo poneva in situazione di inferiorità e dipendenza rispetto a tutta la sua curia. Come è noto, dopo cinque mesi di governo, Pietro-Celestino diede le dimissioni davanti al concistoro: 13 dicembre 1294. Fiumi di inchiostro sono corsi per dare una spiegazione di queste dimissioni. I movimenti spirituali radicali, e Filippo il Bello di Francia, per motivi che saranno evidenti più oltre, accusarono il successore, Benedetto Caetani, di aver fatto un’opera di plagio nei confronti del santo vegliardo. I documenti, invece, parlano molto chiaro. Celestino V era anziano, santo, ma non idiota. Si rese conto ben presto di essere incapace di gestire il governo, incompetente nel diritto e inesperto di diplomazia. Si consigliò con diversi esperti, sia cardinali come Gerardo Bianchi e Benedetto Caetani, sia funzionari della curia. Le risposte furono sempre obiettive: le dimissioni sono tecnicamente possibili ma aprirebbero scenari problematici dal punto di vista della stabilità della curia. Anche il Caetani disse chiaramente al papa che le dimissioni aprivano una situazione di grande tensione. Nonostante le pressioni di Carlo II e del concistoro, Pietro del Morrone abdicò per tornare eremita. La velocissima elezione del successore permise per un atto di grande abilità di portare l’eremita Pietro in luogo sicuro da eventuali colpi di mano, del re di Napoli o di fanatici spirituali, nel castello di Fumone, tra Alatri e Ferentino, a poche decine di chilometri in linea d’aria dai luoghi dove Pietro aveva trascorso quasi tutta la sua vita: “in custodia non quidem libera, honesta tamen” (Tolomeo di Lucca, cronista contemporaneo; Giovanni Villani parla di “cortese prigione”). L’anziano monaco sopravvisse ancora due anni, in preghiera, penitenza, e ben nascosto. Su Pietro Celestino è cresciuto un mito, incarnato nel XX secolo dal romanzo di Ignazio Silone, L’avventura di un povero cristiano. Si può proiettare su di lui, come già fecero i “fraticelli” francescani del XIV secolo, l’ideale di un papato povero e santo contrapposto a una curia potente e corrotta, e rammaricarsi che colui che poteva riportare la Chiesa ai primordi avesse fatto il “gran rifiuto” – ma era proprio lui il personaggio cui Dante 277 alludeva? In realtà Pietro del Morrone fu molto più realista dei suoi mitizzatori, rendendosi conto dell’impreparazione a incidere in una struttura complessa che figure ben più esperte come Gregorio X avevano faticosamente e parzialmente chiamato alla riforma. Il vecchio eremita si accorse con lucidità che, lungi dal provocare una effettiva rivoluzione, rischiava di essere uno strumento funzionale non solo al sistema, ma a un polo soltanto, quello di Carlo II, squilibrando invece di cambiare in meglio la struttura. Icastico ma realista il giudizio del padre Garcia Villoslada, un esperto di queste vicende: Con Celestino V – el nuevo Poverello, enamorado de la pobreza evangélica – había triunfado un momento la tendencia espiritualista de los que soñaban en el “papa angélico” y en una reforma sui generis de la Iglesia. La ingenuidad de unos, la ignorancia de otros, la exaltación apasionada de los más, mezclándose con los intereses bastardos de muchos, hicieron irrealizable la ansiada reforma y hasta imposible el gobierno de la Iglesia (GV 563). § 98: Bonifacio VIII Bibliografia: J 5/1, 389-404; L 565-571; GV 562-623; P 243-246; HC 6, 258-260 e passim!; EP 2, 472-493; G. MARTINA, Storia della Chiesa da Lutero ai nostri giorni. I: l’età della Riforma; Brescia 1993, 61-64. Una decina di giorni di sede vacante, due giorni di conclave vero e proprio, furono sufficienti a eleggere un successore a Celestino V, nella persona di Benedetto Caetani, Bonifacio VIII. Il suo curruculum è a tutta prova e ben addentro alle logiche curiali: studi e competenze canonistiche, esperienza di legazioni internazionali, famiglia della nobiltà laziale, importante ma non potentissima né legata all’uno o all’altro dei due gruppi dei “colonnesi” e degli “orsini”; gradito dal trono francese con cui aveva collaborato a livello diplomatico, equidistante dai partiti e anche dagli ordini mendicanti ormai potenti in curia; quasi sessantenne, dunque maturo ma con la possibilità di un pontificato non effimero. Immediatamente, oltre a mettere al sicuro da colpi di testa di qualcuno il suo scomodo predecessore, Bonifacio VIII impresse al governo della curia e del Patrimonium un’impronta ben precisa, degna di chi conosceva i meccanismi del potere romano: pose ai posti chiave alcuni suoi fedelissimi, in gran parte parenti stretti, evitando così di basarsi sui partiti cardinalizi e tenendo saldamente le redini. Chiaramente la gestione degli uffici e del 278 territorio comportava entrate notevoli per la famiglia Caetani, obiettivo che Bonifacio non nascondeva, pur mantenendosi sempre nella legalità. Si tratta di una forma iniziale e politicamente funzionale di nepotismo, ma la differenza con i pontificati d’età moderna è marcata. Per comprendere la personalità di Bonifacio VIII si possono utilizzare quelli che apparentemente sembrano luoghi comuni sulla mentalità delle famiglie patrizie di Roma: un impasto di razionalità ed emotività, un intreccio unico di astuzia, generosità, cinismo, senso della scommessa, ironia, e un pizzico di superstizione. Talvolta la libertà dei discorsi e dei gesti sfiorava l’impudenza, eppure non veniva mai meno il diplomatico e l’uomo di governo. Non lo si può accusare né di immoralità, né di avarizia, né tantomeno di irreligione e di eresia, come i suoi avversari cercheranno di affermare. A questa personalità sui generis, a metà tra il marchese del Grillo e il cardinal Tardini, forse interpretabile da un Alberto Sordi o da un Carlo Verdone, non si può attribuire la totale spiegazione di un pontificato. Bisogna evidenziare che in Bonifacio arriva al massimo sviluppo l’ideologia della plenitudo potestatis, la consapevolezza riflessa e teologicamente motivata del governo universale del pontefice romano: Uterque ergo est in potestate Ecclesiae, spiritualis scilicet gladius et materialis. Sed is quidem pro Ecclesia, ille vero ab Ecclesia exercendus. Ille sacerdotis, is manu regum et militum sed ad nutum et patientiam sacerdotis. Oportet autem gladium esse sub gladio, et temporalem auctoritatem spirituali subiici potestati (DS 873) Gli studi di uno storico e canonista di vaglia, il p. Stickler, affermano che il gladius temporalis di questi documenti e della tradizione canonistica del XIII secolo rappresenta originariamente solo la potestà coattiva materiale della Chiesa, cioè il potere che la Chiesa esercita sui corpi per difendere l’integrità della fede, distinta dalla potestas spirituale che è esercitata sulle anime. Si tratterebbe dunque dello ius gladii per la repressione dell’eresia che solo il “braccio secolare” può esercitare ma a servizio del bene ecclesiale, mentre le scomuniche, gli interdetti e le altre “armi spirituali” sono nelle mani direttamente di Pietro. Saranno più tardi le dottrine canonistiche del XIV secolo che identificheranno il gladius temporalis con la potestà civile dei principi, ma questo non sembra il senso delle parole di 279 Bonifacio. Pur con questa precisazione, l’autoconsapevolezza del potere papale con influsso sulla società raggiunge un vertice nelle concezioni bonifaciane. Ma questa consapevolezza in Bonifacio assume un livello inedito nei predecessori, compreso Innocenzo III. La plenitudo potestatis è trasferita dalla sede romana quale istituzione incarnata dal papa alla persona fisica del papa. Questa concezione, oggettivamente nuova rispetto alla tradizione romana dei secoli XI-XIII che aveva equilibrato l’assolutezza del potere papale con la coscienza della fragilità della persona del pontefice, si proietta in segni non equivoci: la cura per la salute, con medici, medicine e terme (non a caso l terme di Fiuggi sono ancor oggi chiamate le terme di Bonifacio VIII); i primi ritratti dal vero nella statuaria; il monumento funebre. Si potrebbe dire anche, ma ciò è storicamente meno rilevante, che la concezione ideologica ormai tendente alla teocrazia si innestava su un ego piuttosto ingombrante… A Bonifiacio non manca neppure un programma preciso: instaurare la pace in Europa, in particolare tra Francia e Inghilterra che lottavano per la Guienna, in vista della crociata, visto che il predecessore di Celestino V aveva assistito quasi senza batter ciglio alla caduta dell’ultimo baluardo, San Giovanni d’Acri; e la pace era in funzione della difesa dei privilegi ecclesiastici, minacciati dalla centralizzazione delle monarchie. Tutto, implicitamente, prometteva lo scontro frontale col monarca più potente, Filippo il Bello; ma nessuno dei due futuri contendenti avrebbe in partenza ammesso la volontà di abbattere l’altro. Anzi… Filippo IV di Francia, con una buona fortuna militare ma qualche difficoltà soprattutto economica, continuava a sentirsi il difensore della vera fede, e ovviamente della sede romana, secondo tradizione. La sua corte, improntata agli studi del diritto romano, stava attuando una serie di dispositivi centralistici. Nelle vicende dello scontro tra Filippo e Bonifacio, non dobbiamo dimenticare il ruolo dei ministri francesi, laici come Guillaume de Nogaret (che, come il Garcia Villoslada insinua, non sappiamo quanto a ragione, essendo figlio di un albigese aveva una vendetta da compiere…) ed ecclesiastici come Philippe de Marigny (poi arcivescovo di Sens), strumenti fedeli e determinati dell’assolutismo incipiente di Filippo. Tenendo conto che l’opera di Bonifacio VIII avrà influenze e interventi su tutta Europa e non avrà a che fare solo col regno francese, proviamo qui a sintetizzare le vicende di uno scontro che inizia verso il 1296 e subirà un’escalation fino alla morte del papa nel 1303. 280 Dovendo finanziare la guerra con il re inglese, Filippo pose alcune esazioni fiscali sui beni ecclesiastici, andando così contro il diritto canonico che li esentava dagli interventi secolari: le tasse son sempre motivo di scontro, e in Francia saranno nodo del contendere tra re e Chiesa fino al XVIII secolo. Bonifacio invia una lettera al re, la bolla Clericis laicos, che riafferma i privilegi dei benefici ecclesiastici e, in controluce, la superiorità del potere ecclesiastico su quello regale, lanciando la scomunica contro tutti i laici che senza autorizzazione della sede apostolica esigessero dal clero una qualunque tassa. Il re per ritorsione pone il divieto di esportare valuta fuori dal regno (cioè a Roma, strangolando le entrate fiscali ecclesiastiche indispensabili per il governo curiale) e fa espellere i legati e i riscossori romani. Invece la chiesa inglese resiste risolutamente alle esazioni del monarca. In questo primo round si arriva però a un compromesso tra le due parti, e a una situazione di sostanziale tregua. Bonifacio ammette un’interpretazione meno stretta e rigida della Clericis laicos, disinnesca la scomunica, e permette al clero francese di venire in aiuto al proprio re. Segnale di distensione è la canonizzazione di Luigi IX, avvenuta in Orvieto nel 1297. Nel frattempo, cova la tensione tra il papa e il clan dei Colonna, rivali dei Caetani nei territori a est e sud di Roma. I Colonna, come sopra si diceva, erano i capi del partito ghibellino, quindi filoimperiale e antifrancese, ed erano fautori di una concezione corporativa del collegio cardinalizio. La tensione diviene scontro aperto quando il tesoro personale del papa e di suo fratello Pietro, valutabile in circa 200mila fiorini, in trasferimento da una sede all’altra della curia fuori Roma, destinato ad essere investito nelle città laziali, viene a cadere nelle mani di una banda armata colonnese. La reazione del papa è immediata, prima con la convocazione del concistoro, a cui i cardinali Colonna, Giacomo e Pietro, si rifiutano di partecipare, poi con un ultimatum, che richiede la restituzione del maltolto e la consegna al controllo papale delle piazzeforti della famiglia (Palestrina, Zagarolo ce Colonna), infine con un intervento manu militari. Bonifacio così costringe i due cardinali della famiglia rivale a fuggire, tra l’altro proprio presso gli avversari storici (ma alleati di interessi antipapali) francesi. I Colonna diffondono accuse di simonia contro il papa, e anche di aver subdolamente costretto il povero Celestino V a dimettersi: un documento di accusa contro Bonifacio, stilato nel castello di Lunghezza, anche da frati francescani, dichiara invalida l’elezione di Bonifacio e appella a un concilio. Uno dei tre francescani alleati dei Colonna è l’ascetico poeta e spirituale Iacopone da Todi. Nella bolla Lapia abscissus Bonifacio dichiara i Colonna e i loro alleati scismatici, blasfemi, 281 scomunicati (23 maggio 1297). I cardinali difendono apertamente la posizione bonifaciana. Il papa proclama la crociata contro gli avversari. Messi in difficoltà militare, i Colonna chiedono perdono al papa, che però impone condizioni durissime, costringendo i leader dell’opposizione a fuggire in Francia (1299-1303). Filippo, in questo periodo, riprende a tassare i benefici ecclesiastici, favorisce i vescovi suoi alleati ma interviene pesantemente contro i prelati francesi che si oppongono alla sua politica. Bonifacio, superato il conflitto contro i Colonna e sulla scorta del successo del giubileo del 1300, incarica di intervenire a suo nome presso il re un notorio oppositore di Filippo, Bernard Saisset, vescovo di Pamiers, che, ricoprendo il ruolo di legato papale, è arrestato dal governo francese. La dura ma riservata bolla di Bonifacio, Ausculta Filii, che evita la scomunica ma rimprovera a Filippo il suo atteggiamento regalistico e convoca un concilio a Roma per giudicare le azioni del re francese, viene sequestrata dal re che ne pubblica una versione ampiamente falsificata e provocatoria nei confronti dell’episcopato e dell’opinione pubblica (Deum Time). Questo il testo della breve falsificazione: Bonifacius episcopus, servus servorum Dei, Philippo Francorum regi. Deum time et mandata sua observa. Scire te volumus, quod in spiritualibus et temporalibus nobis subes. Beneficiorum et praebendarum ad te collatio nulla spectat, et si aliquorum vacantium custodiam habeas, fructus eorum successoribus reserves; et si quae contulisti, collationem huiusmodi irritam decrevimus, et quantum de facto processerit, revocamus. Aliud autem credentes haereticos reputamus. Inizia così una campagna d’opinione contro il papa, sapientemente orchestrata dai ministri francesi e finanziata dal re: segno, anche questo, dei tempi moderni. Apertamente Bonifacio è accusato di opprimere lo stato francese e di travalicare i suoi diritti, ma altre voci vengono ad arte diffuse: il papa sarebbe incredulo e eretico, farebbe ricorso ai maghi, sarebbe simoniaco, moralmente corrotto… Filippo, al culmine della tensione, convoca gli Stati Generali, assemblea straordinaria del regno, per mostrare l’adesione di tutta la Francia alla sua politica ecclesiastica. I vescovi francesi in grande maggioranza si schierano col re. Nel luglio 1302 Filippo il Bello si trova in grave difficoltà militare e diplomatica a seguito della battaglia di Courtray nelle Fiandre, e quindi cerca di prendere tempo nelle trattative con il papa, mentre fa proseguire la campagna di opinione e intimidazione in Francia, 282 portata avanti dal più radicale Nogaret. Intanto Bonifacio convoca un sinodo della Chiesa francese a Roma (ottobre 1302), di cui abbiamo scarsissima documentazione ma che sembra abbia visto la partecipazione di 4 arcivescovi e 35 vescovi, che si riavvicinano al papa. A seguito di questo evento, Bonifacio pubblica la solenne Unam Sanctam, una risposta concettualmente articolata alle posizioni francesi (18 novembre 1302). Mettiamo in rilievo soprattutto tre aspetti: l’affermazione dell’unità e unicità della Chiesa, “extra quam nec salus est nec remissio peccatorum”, unità attraverso un solo capo e non due teste “quasi monstrum”, contestazione della posizione dei Greci che asserivano di non essere stati affidati a Pietro e ai suoi successori, ma anche delle teorie regalistiche che ponevano i monarchi come capi delle rispettive chiese; la già citata allegoria delle due spade, spirituale e temporale, entrambe affidate alla Chiesa, l’una tenuta dal “sacerdote”, l’altra dai monarchi ma “ad nutum et patientiam sacerdotis”; la definizione solenne che suona così: “Porro subesse Romano Pontifici omni humanae creaturae declaramus, dicimus, diffinimus omnino esse de necessitate salutis”. E’ la più chiara indicazione della teologia della plenitudo potestatis, con evidenti risvolti ecclesiologici e non solo di rapporto tra la Chiesa e lo stato. Nel marzo-giugno 1303, in alcune convocazioni ufficiali, la corte francese appella a un concilio per giudicare le accuse contro Bonifacio VIII, riassumibili, da un intervento del Nogaret, in quattro: illegittimità, eresia, simonia, incorregibilità. Secondo le posizioni della corte francese, non si trattava di un giudizio contro la Prima sedes, bensì contro il privato Benedetto Caetani, eretico quindi automaticamente deposto e fuori dalla Chiesa. Si tratta dell’utilizzo spregiudicato del caso del papa eretico, che era contemplato nel diritto canonico tradizionale (sul testo delle accuse contro Bonifacio si veda GV 613-614). La manovra francese provoca la decisione di Bonifacio VIII di scomunicare il re, togliendogli così anche giuridicamente il diritto di appellarsi a un concilio. La bolla di scomunica è in preparazione (Super Petri Solio, che doveva essere antedatata all’8 settembre 1303), quando il Nogaret, in missione per conto di Filippo in Italia, e Sciarra Colonna con le forze militari disponibili della sua famiglia aggrediscono e tentano di rapire il papa nel suo palazzo di Anagni (7 settembre 1303). Bonifacio VIII viene però liberato due giorni dopo dalla popolazione del borgo, legata feudalmente alla famiglia Caetani, e fa ritorno a Roma, dove muore circa un mese dopo il colpo di mano di cui era stato vittima, lasciando di fatto in sospeso tutte le questioni con la corte di Francia. Il coraggio dimostrato 283 durante l’aggressione di Sciarra Colonna e la serenità spirituale in punto di morte riscattano in parte la sua immagine di ambizioso e avido gestore del potere. La figura di Bonifacio VIII è sicuramente una delle più controverse del papato medievale. E’ però interessante rilevare che nella vulgata storica ancor diffusa in Italia, grazie in particolare alle vivaci opere di un noto giornalista del passato, sostanzialmente privo di vera competenza storica, papa Caetani sia dipinto con gli stessi colori delle notizie false diffuse alla fine del XIII secolo da Filippo il Bello e dalla sua corte: d’altronde, questo avviene spesso quando si tratta di giornalisti. Indubbiamente una delle prime “campagne d’opinione” dell’età moderna ha avuto un’efficacia a tutta prova! Bonifacio non è un avido e disonesto nepotista, né un corrotto, né un eretico superstizioso. E’, piuttosto, un papa canonista che applica rigidamente la lettera delle affermazioni di Gregorio VII e Innocenzo III, ma con uno spirito distante dai suoi più illustri predecessori dei primi secoli del secondo millennio. La sua autoconsapevolezza di successore di Pietro manca di quell’equilibrio tra potere e fragilità che i simboli avevano contribuito a incarnare e rammentare. Il profilo spirituale che è l’anima vera di un Ildebrando o di un Lotario non si ritrova se non molto ai margini in Benedetto Caetani. E’ sempre valida ed efficace la descrizione che il Martina fa della situazione alla morte di Bonifacio VIII: Alle affermazioni esasperate dell’autorità pontificia pronunziate dal card. Matteo d’Acquasparta nel concistoro del giugno 1302, corrispondeva una realtà amaramente diversa: il papa umiliato, l’unità cristiana medievale spezzata definitivamente, la collaborazione tra i due poteri rotta, la vita pubblica avviata ormai alla laicizzazione e alla secolarizzazione57. Vogliamo qui inserire qualche considerazione riguardante il giubileo del 1300, avvenuto proprio nello svolgersi delle tensioni tra papa e re di Francia, evento iniziale di una sequenza di convocazioni penitenziali tutt’ora in regolare corso, noto contesto in cui Dante colloca la sua Comedia. Anche sul giubileo del ‘300 si hanno divulgazioni storiche di marca ottocentesca-anticlericale, con tanto di preti che raccolgono e insaccano monete col badile, frutto del genio finanziario di Bonifacio VIII che ha abilmente rimpinguato con l’indulgenza plenaria le casse vuote del pontefice. I documenti ci parlano di una realtà ben diversa. Verso 284 la fine del 1299 si diffondono a Roma e in Europa voci di una speciale e straordinaria remissione dei peccati dell’anno centenario. Giungono da tutto il continente pellegrini che dichiarano di ricordare che dai loro nonni si descriveva una grande indulgenza per l’anno secolare precedente, e i romani ne sono contagiati. La sera del 1 gennaio 1300, alla fine della giornata di lavoro, un gran numero di romani e pellegrini si assiepa nelle basiliche, e l’afflusso continua, ininterrotto, nelle settimane successive. A questo punto il papa, sorpreso dall’inatteso convergere di folla, fa compiere ricerche d’archivio per ritrovare l’eventuale documento che proclamava l’indulgenza, e che non poteva mancare, trattandosi del pontificato di Innocenzo III. Ma su questa leggendaria indulgenza del 1200 nulla si riesce a trovare. Solo nel febbraio 1300, quindi dopo varie settimane di continuo pellegrinaggio, Bonifacio VIII, in forza della plenitudo potestatis, proclama il giubileo come grande e larga riconciliazione, remissione di scomunica, di irregolarità e di penitenze, e legando l’indulgenza a scelte pastorali: pellegrinaggio nelle basiliche dei santi Pietro e Paolo, confessione, e disponibilità di sacerdoti per la riconciliazione. In quest’opera di rilettura pastorale di un fenomeno spontaneo di massa, un sussidio determinante fu prestato dall’ormai stabilizzato ufficio della penitenzieria apostolica. Si noti che per l’indulgenza le dichiarazioni di Bonifacio VIII non prescrivono mai offerte in denaro. Esse, tuttavia, affluivano ampiamente nei luoghi di pellegrinaggio, e il papa stabiliva che esse fossero destinate totalmente al mantenimento e restauro della basiliche giubilari, e non alla camera apostolica: dunque, non servirono, quelle spontanee offerte, a rimpinguare le casse pontificie, esauste per l’azione politica e diplomatica di Bonifacio VIII. Il giubileo del 1300 si presta bene a riassumere sia la figura del papa e la sua concezione di plenitudo potestatis, sia l’intervento del diritto a “regolare e sanare” le vicende ecclesiali, sia uno dei fili della storia che finora abbiamo descritto, quello che unisce la penitenza, il pellegrinaggio, la crociata, l’indulgenza, che col giubileo fa un salto di qualità e apre una concezione del “tesoro della Chiesa” che tanta fortuna e tante conseguenze avrà nell’età moderna. § 99: la chiusura del contenzioso con Filippo il Bello, i Templari, il concilio di Vienne 57 MARTINA 1, 64. 285 Bibliografia: J 5/2, 4-21; L 571-573; HC 6, 45; EP 2, 493-512; G. MARTINA, Storia della Chiesa da Lutero ai nostri giorni. I: l’età della Riforma; Brescia 1993, 64-68; D. VINGTAIN, Avignon. Le palais des papes, s.l.n.d., 16-27; B. GUILLEMAIN, I papi di Avignone 13091376, Cinisello Balsamo 2003, 9-15; Benedetto XI frate Predicatore e papa, a cura di M. Benedetti, Milano 2007 Alla prima votazione del conclave seguito alla morte di Bonifacio VIII fu eletto un trevigiano di umili origini, Niccolò di Boccassio, provinciale di Lombardia e poi maestro generale dei frati predicatori, collaboratore di lungo corso di Bonifacio e suo ostinato difensore. Benedetto IX, utilizzato dai papi in importanti missioni diplomatiche, tentò la strada di un compromesso con il re di Francia, in vista di un rasserenamento dell’orizzonte pastorale. Fece il passo di rimettere la scomunica di Filippo, ma non intese transigere sul principio che nessun papa, e tantomeno Bonifacio VIII, poteva essere giudicato, né da un concilio né da altre istanze. I colpevoli, semmai, erano Sciarra Colonna e il Nogaret, che convocò per rendere conto delle vicende di Anagni. Ma nel luglio 1304, a Perugia, proprio nei giorni in cui aveva ingiunto ai collaboratori di Filippo di presentarsi, Benedetto muore improvvisamente, pare per un’indigestione di fichi di cui era ghiotto, ma già il noto cronista italiano Giovanni Villani insinua l’ipotesi del veleno. Segue un conclave ben più lungo, di 11 mesi, alla fine del quale grazie alle pressioni di Filippo e alla mediazione del capo della famiglia Orsini, si giunse a convergere attorno all’arcivescovo di Bordeaux, Bertrand de Got, che si fece incoronare a Lione e convocò un concilio a Vienne, in Provenza ma sotto il dominio imperiale, con quattro punti all’ordine del giorno: lo stato della fede, la riforma della Chiesa, la crociata e la questione dei templari. E’ giunto il momento di parlare di questo ordine cavalleresco, su cui si spreca la letteratura, in gran parte senza alcun valore scientifico, spesso romanzesca, occultistica, perfino picaresca. Nati nel 1119 da un gruppo di nobili crociati di origine francese, sotto l’egida di Bernardo di Chiaravalle (§ 69), impegnati come corpo scelto di cavalieri in Terrasanta, odiatissimi da Saladino e da tutti i capi musulmani del medio oriente, i templari avevano costituito una rete diffusa in tutto l’occidente, basata sulle commende o commanderies, detentrici di beni e diritti, e soprattutto impegnate fin dall’inizio a fare da cassaforte ai cavalieri che partivano per le crociate. Alla fine del ‘200 i templari erano possessori di una liquidità amplissima, dipendevano direttamente dal papa, erano soprattutto in Francia un vero e proprio stato nello stato, ma non svolgevano più la funzione di difesa di regni crociati 286 ormai caduti in potere musulmano, anche se si sperava sempre in una nuova vittoriosa spedizione. Dunque questo ordine, la sua potenza e ricchezza, che funzione poteva ancora avere? Inoltre, trattandosi di un ordine insieme religioso e cavalleresco di direzione esclusivamente nobiliare, circolavano voci di intemperanze, sodomia, strani segreti, eresia. Voci che Filippo il Bello, loro alleato fino al 1305, ad arte amplifica e diffonde secondo l’ormai nota guerra propagandistica che era un’arma fondamentale della corte francese. Il voltafaccia del re è spiegabile sia per la concezione assolutizzante e centralizzatrice dello stato, sia per l’urgente bisogno di denaro. Tra il 1305 e il 1307, quindi alla vigilia del concilio di Vienne, i funzionari francesi procedono a un’imponente campagna antitemplare, con l’uso di infiltrati, gli arresti di massa, i processi con l’uso della tortura. A fronte di questa violenza, soprattutto i dirigenti, il gran maestro Jacques de Molay e altri, mostrano una sconcertante debolezza, confessando sotto tortura delitti quali l’idolatria, il vilipendio della croce, l’incredulità riguardo all’eucaristia, la sodomia praticata sistematicamente. In vista del concilio, il papa avoca a sé tutti i processi, compresi quelli che la diplomazia francese aveva richiesto alle altre corti (Cipro, Italia, penisola iberica…) e che generalmente, non utilizzando la tortura, mostravano esiti totalmente opposti a quelli francesi. Passato sotto il controllo papale, il dossier dei templari vede la ritrattazione in serie da parte dei dirigenti di tutte le precedenti confessioni. Così si arriva al concilio di Vienne, nel 1311, in cui Clemente V e Filippo il Bello si accordano per uno scambio politico: Bonifacio VIII non sarà processato, in cambio della fine del Tempio. Il concilio-processo di Bonifacio formalmente viene istruito ma svuotato delle accuse: un diacono si reca alle porte della cattedrale di Vienne e proclama la convocazione di eventuali accusatori di Bonifacio, che non si presentano. I templari non vengono processati ma il loro ordine è sciolto dal papa in via amministrativa, senza condanna, mentre teoricamente i loro beni sarebbero stati devoluti agli altri ordini cavallereschi. Filippo si impadronisce di gran parte delle ricchezze templari in Francia e due anni dopo il concilio farà mettere al rogo la dirigenza dei templari come eretici relapsi, un episodio in cui il De Molay e gli altri mostreranno finalmente un coraggio quasi espiatorio. Il concilio di Vienne prende in esame anche gli altri punti. Per quanto riguarda la questione della fede, condanna come eretici i francescani radicali capeggiati da Pier di Giovanni Olivi e i cosiddetti “Fratelli del Libero Spirito”, una linea mistica piuttosto problematica e ambigua. Per la crociata, si stendono e proclamano molti progetti – tra l’altro il Nogaret 287 viene condannato per la sua aggressione a Bonifacio a partecipare alla futura crociata – che resteranno tutti sulla carta. Per quanto riguarda la riforma della Chiesa, l’intervento di maggior rilievo è quello di un certo contenimento dell’autonomia pastorale degli ordini mendicanti rispetto ai vescovi. In particolare i francescani vedono l’appoggio alla “via media” bonaventuriana nel dibattito tra spirituali e conventuali. Clemente V, incoronato a Lione nel 1305, era rimasto nel sud della Francia per preparare il concilio, e si era stabilito su un possedimento della Chiesa romana – il contado venassino – presso Avignone, sul confine tra regno di Francia e impero, collegata a Vienne dal corso navigabile del Rodano. L’entrata ufficiale di Clemente V in Avignone è nel marzo 1309. Questa città fu residenza dei papi quasi ininterrottamente fino al 1378. La curia papale era già stata nel secolo precedente una realtà itinerante per le città del Patrimonium: Viterbo, Perugia, Anagni, Orvieto erano le sedi preferite dai papi, e non solo per il clima più fresco: “in un secolo, tra Innocenzo III e Bonifacio VIII, la corte papale è assente da Roma per circa 60 anni” (A. Paravicini Bagliani). Concettualmente, in fondo, il trasferimento nel contado venassino non era certo uno strappo alla regola, e per un concilio (Lione II era stato trent’anni prima) si fa questo e altro. Ma motivi più determinanti porteranno alla scelta di stabilirsi per lungo tempo a circa mille chilometri di distanza dalla sede del vescovo di Roma. Motivi che si connettono con un’età che è già diversa da quella che abbiam cercato di raccontare in queste pagine. 288 PER UNA CONCLUSIONE Bibliografia: GV 25-27; HC 14, 20-22; L. MEZZADRI, Storia della Chiesa tra medioevo ed epoca moderna I: dalla crisi della Cristianità alle Riforme (1294-1492), Roma 2001, 7-11; J. DELUMEAU, La paura in Occidente (secoli XIV-XVIII). La città assediata, Torino 1979; C. M. CIPOLLA, Le macchine del tempo, Bologna 1981; Br. GEREMEK, La pietà e la forca. Storia della miseria e della carità in Europa, Roma-Bari 1995; J. HUIZINGA, L’autunno del medioevo, Roma 1992 § 100: periodizzazione Perché chiudere l’esposizione di questa fase della storia della Chiesa con Bonifacio VIII e il trasferimento del papato ad Avignone? Il medioevo, in genere, si chiude molto più avanti, talvolta con la cosiddetta “scoperta” (meglio chiamarla conquista) dell’America da parte degli Europei, talaltra con la rottura dell’unità di confessione nell’Europa occidentale. La prima risposta, apparentemente poco scientifica ma in realtà non priva di fondamenti, è la seguente: perché questa è la tradizione della scuola storiografica da cui proviene chi ha provato a stendere queste pagine, che è quella della facoltà di storia ecclesiastica della Pontificia Università Gregoriana. Affermare la propria radice e provenienza è atto di onestà intellettuale e riconoscimento di un’elaborazione di pensiero e studi messa in atto da figure eminenti quali Ricardo Garcia Villoslada e Mario Fois. L’università Gregoriana distingue l’esposizione della storia generale in quattro grandi periodi: Antica, Medievale, Nova e Moderna, e l’età “nova” racchiude i secoli XIV-XVI. Ovviamente è importante mostrare i motivi di questa periodizzazione, che, come tutte le scansioni del tempo, ha i suoi pregi e i suoi limiti, mostra vantaggi scientifici e didattici ma fa perdere, inevitabilmente, qualche prezioso legame. Il padre Mario Fois, nelle sue dispense inedite, tanto preziose quanto tormentate nella loro stampa ciclostile, e più recentemente il suo successore alla cattedra di storia della Chiesa del XIV-XVI secolo, padre Luigi Mezzadri, sottolineano questi aspetti: il crescere e consolidarsi delle monarchie moderne; la crisi del papato, segnata dal periodo avignonese, dallo scisma d’occidente, e infine dal papato rinascimentale politico; i gravi cambiamenti economico-sociali. Padre Fois mostrava anche l’influenza del cambiamento di clima, che passa, nell’Europa occidentale, da una fase temperata calda favorevole allo sviluppo dell’agricoltura a una fase fredda (una “piccola glaciazione”). Questa situazione, sia 289 climatica che economica, crea le condizioni per la pandemia della “peste nera” del 13481351, in cui sembra morisse circa un terzo della popolazione europea. Oltre alla susseguente crisi demografica e produttiva, e alla situazione di endemia serpeggiante per i secoli successivi di patologie quali la peste, il vaiolo, il colera, lo choc della peste nera, così ben descritto anche se indirettamente dal Boccaccio non lasciò l’Europa intatta da un punto di vista della mentalità: non a caso danze macabre e caccia alle streghe si accendono in questo periodo. La pubblicistica più acuta degli ultimi decenni colloca nel XIV l’inizio di una serie di fenomeni e cambiamenti. Jean Delumeau fa iniziare nel secolo XIV la sua “città assediata” da Satana e dai suoi inviati, cioè gli ebrei e le donne; Bronislaw Geremek mostra i segni di un cambiamento, anch’esso all’insegna della paura, nei confronti della povertà e dei poveri; Carlo Maria Cipolla in uno dei suoi sorprendenti saggi delinea i cambiamenti di ritmo e mentalità provocati dallo sviluppo dell’arte orologiaia a partire, ancora una volta, dal XIV secolo. Ricardo Garcia Villoslada fa un’osservazione che offre un contributo specifico a questa periodizzazione, ossia la consapevolezza degli uomini del XIV secolo di essere in un’età “moderna”, che per ora si contrappone soltanto alla via “antiqua” o degli antichi, in attesa che rinascimento, storiografia protestante e illuminismo “creino” l’idea e il mito dell’età “di mezzo”, senza senso e piena di buio. I nominalisti, seguaci di Guglielmo di Occam, si definivano i filosofi della “scuola moderna”; dalle riflessioni e dalle pratiche di Gert Groote e di Jan de Ruusbroek sorse la linea spirituale che si autodefiniva “devotio moderna”. Dunque, e questo non è da poco, gli uomini più intellettualmente innovatori del XIV secolo parlano già di “modernità”. A questa periodizzazione si adegua gran parte della manualistica classica di storia della Chiesa del XX secolo: oltre, ovviamente, alla spagnola serie della BAC, che per il II volume è redatta da Garcia Villoslada, e che chiude il medioevo alla morte di Bonifacio VIII nel 1303, all’edizione italiana del vecchio e resistente Bihlmeyer-Tüchle, che fa arrivare il basso medioevo al 1294, anno di elezione di papa Caetani, al manuale tedesco coordinato da Hubert Jedin, che fa il passaggio all’anno 1300. Lo stesso padre Martina nel suo manuale a più volumi sull’età moderna e contemporanea affronta sì la storia a partire dalla riforma luterana, ma in pagine sintetiche fa rimontare le cause fino al papato di Bonifacio VIII. Una certa differenza è data dall’Histoire du Christianisme a cura di J.-M. Mayeur, Ch. Pietri, A. 290 Vauchez e M. Venard: il quarto volume va dal 610 al 1054, il quinto dal 1054 al 1274, il sesto, considerato ancora “medioevo”, si estende fino al 1449, ma la stessa scansione si avvicina molto alle cesura che s’è scelta qui, e la considerazione metodologica di Claude Langlois accenna al 1274 come punto di “repère”, cioè riferimento o caposaldo. Dunque possiamo dire che tra il papato di Gregorio X e quello di Clemente V, tra il concilio II di Lione e il concilio di Vienne, sta mostrandosi una svolta che darà i suoi frutti progressivamente ma con indubbia efficacia. E non è un caso che dopo Vienne, e dopo due secoli in cui i concili (I-IV lateranensi, I-II lionesi, Vienne) si celebrano con una certa regolarità, con intervalli massimi di circa 40 anni, e con una sostanziale conduzione da parte di Roma, il primo concilio successivo è quello di Costanza. Ma proprio nel concilio di Vienne risuona, abilmente ma faticosamente scongiurata da Clemente V, la minaccia di appello dal papa al concilio, che sarà un leit motiv di tutta l’età nova e sarà chiusa radicalmente a Trento, pur tenendo conto dei rigurgiti gallicani-giansenisti della Francia del grand siècle. Si respira, indubitabilmente, un’aria nuova, e anche a livello culturale a Dante, ultimo interprete del tempo precedente, succederà Petrarca, nato nel 1304, il primo moderno: non è un caso neppure che abbiamo il manoscritto originale dei Rerum vulgarium fragmenta, e non quello della Comedia. § 101: dinamismi sintetici Oggi la manualistica e la saggistica tende a evitare l’identificazione di una cifra sintetica di un periodo, una visione globale che racchiuda e dia il senso di una fase storica ampia: segno della specializzazione e anche della frammentazione che viviamo. Certo, ci affascina ancora la capacità di certi storici del XX secolo, di cogliere un “profilo” unitario a un’epoca. Ci voleva la filosofia hegeliana, in Italia tradotta e applicata alla storiografia da Benedetto Croce, a fondamento di questi arditi sguardi. E chi scrive ha una certa nostalgia di non riuscire a individuare, come Giorgio Falco, una “Santa Romana Repubblica” attorno a cui ricondurre le tensioni, gli scontri, tutto il processo organico di nascita, germoglio, tensione, consolidamento e morte di un’epoca. Ci prova, recentemente, il Penco, riproponendo il concetto di Christianitas come sintetico. A parte che l’anziano venerabile storico benedettino non ha il vigore architettonico di Falco, risulta oggi in fondo insoddisfacente, grazie agli apporti della storiografia recente, collegare tutto a un concetto in fondo piuttosto 291 tardo, forse utile dal punto di vista della comprensione dei rapporti tra gerarchia ecclesiastica e potere politico, in fondo marginale se si considera l’evoluzione teologica, l’impegno pastorale, ma anche la stessa spinta missionaria costante per tutto questo periodo. In attesa di un altro nucleo, sperabilmente racchiuso in una espressione significativa di quel tempo e non in una categoria inventata nel XXI secolo e applicata al medioevo, è ancora possibile tentare di individuare qualche categoria sufficientemente sintetica? O è meglio descrivere le vicende e mostrare concatenazioni dei fatti contingenti, senza esporti a sintesi interpretative più ampie? La prudenza degli studiosi attuali ha i suoi motivi, ma c’è il rischio, a lungo andare, di ridursi, ancora una volta, a una visione frammentata, inconsciamente positivista, che al di là di alcuni nodi molto legati a quel luogo e a quel momento non osa andare, come se quella concatenazione fosse, come il “fatto bruto” preteso dagli storici della fine dell’ottocento, tutto quello che si può dire. E comunque alla fine un’architettura la si lascia sussistere, ma col difetto dell’inconsapevolezza, del sottinteso, e quindi evitando una verifica nel dibattito storiografico. Allora saranno dinamismi sostanzialmente economici, o vaghe tensioni psicologiche, a dare l’impronta di un’epoca. Tutte realtà che, se pure influiscono nella vita di un’epoca e di una civiltà, sono comunque estremamente parziali, e tanto più quanto si cerca di dar ragione al processo storico di una comunità umana come è la Chiesa, che non può essere letta soltanto a partire da obiettivi politici o motivazioni economiche o tensioni psicologiche. Mi sembra che a livello metodologico si possa tentare oggi una sintesi cercando di mostrare alcuni dinamismi che sul lungo periodo accompagnano la vita della Chiesa. Si tratta di polarità che ritornano e legano insieme fatti, scelte e mentalità, e che, in quanto tali, mostrano anche il muoversi e l’evolvere del processo storico, tenuto in tensione proprio da questi nuclei mai completamente esauriti. Volutamente si utilizza qui il termine “dinamismi” e non quello di dialettiche, che, col loro riferimento agli schemi hegeliani, comportano un elidersi delle polarità in una superiore sintesi, mentre spesso, nella storia, alcune tensioni restano inevitabilmente aperte e ritornano, sotto altre forme, in quanto esigenze fondamentali, o dell’umano, oppure delle realtà e istituzioni stesse che sono oggetto di studio. Mi sembra di poter individuare almeno quattro coppie di polarità utili a dare un profilo sintetico dei sette secoli descritti in queste pagine. 292 Centro e periferia: indubbiamente la crisi dell’impero romano aveva riportato il bacino del mediterraneo, dove il cristianesimo si era diffuso, in una condizione di frammentarietà. La stessa riconquista operata dalla natura in epoca di regresso demografico costringe i gruppi umani a resistere e ricostruirsi in condizioni di autonomia e autarchia, e in un certo senso la struttura delle abbazie dei secoli VI-X rispecchia questo particolarismo necessario, per certi aspetti, alla sopravvivenza. La Chiesa dei secoli VII-XIII è attraversata dall’esigenza di rispecchiare e rispettare le particolarità organizzative, culturali, spirituali, ma dall’altra parte anche dall’istanza di avere linguaggi comuni, diritto comune, punti di riferimento condivisi. Non solo Roma sarà il luogo del tentativo di tenere uniti i frammenti: anche i grandi progetti imperiali, da Carlo magno a Ottone I, da Ottone III a Federico II, porteranno con sé questo obiettivo. La tensione tra centro e periferia a volte produrrà delle connessioni a rete, come quelle della riforma lorenese, a volte delle strutture verticistiche, come Cluny. Il sogno di un’unità granitica, anche politica, del cristianesimo occidentale avrà sempre a che fare con realtà cristiane ma politicamente eccentriche e volutamente indipendenti. Nella cristianità orientale il centro, incarnato dalla corte imperiale, a sua volta non potrà assorbire se non a prezzo di impoverirsi le periferie dei temi, con le loro istanze religiose differenti, come si mostra nella controversia iconoclasta, o le realtà cristiane non allineate con l’ortodossia di corte. Il rapporto centro-periferia è il nucleo per comprendere le faticose decisioni nel sorgere di arcivescovadi autonomi o autocefali nelle terre raggiunte dalla missione; ma anche, almeno in parte, gli scontri tra gli spirituali francescani, radicati nelle antiche terre umbre, e conventuali, promotori di una struttura internazionale e centralizzata. Stabilità e creatività: certamente la vita “religiosa” nel senso di consacrazione è lo spazio della creatività, e quando si decreta l’unificazione (Ludivico il pio, Lateranense IV) immediatamente c’è qualche gruppo che non si riconosce nella normativa. Ma anche l’attività pastorale, che incontra sempre diverse mentalità e nuove domande, reclama gli spazi della sperimentazione, che spesso interpellano l’elaborazione teologica. CostantinoCirillo e Metodio si trovano di fronte al problema linguistico, Domenico e Francesco alle istanze di una società che reclamava una religiosità povera e essenziale, Tommaso e gli altri scolastici alle sfide delle domande emergenti dalla lettura di Aristotele. I tentativi sperimentali trovano nell’esigenza di conservazione, di riferimento alla tradizione, di verifica autoritativa un muro di contenimento, spesso rappresentato ancora una volta da Roma, ma anche qui non sempre la sede romana è il freno, spesso è l’acceleratore 293 soprattutto nei confronti delle esperienze missionarie e religiose, mentre i vescovi e i metropoliti danno voce al bisogno di stabilità e di coerenza. Annuncio e dialogo: i versanti coinvolti da questo dinamismo sono certamente quello missionario e quello della pastorale popolare, sia rurale che cittadina. Il Vangelo cristiano è chiaro nei suoi contenuti teologici e morali, ma la sua traduzione richiede un sempre nuovo equilibrio tra gesti sconcertanti e parole in sintonia con la cultura di partenza, tra richieste di comportamenti adeguati alla fede accolta e tolleranza nei confronti di abitudini inveterate, tra accoglienza delle domande più profonde dei gruppi dissidenti e chiarezza nel richiedere una posizione pura di fede, tra opposizione alla violenza e canalizzazione delle abitudini guerresche. La missione e la pastorale del medioevo sono tanto ricche di linguaggi, dalle feste alle immagini, quanto intessute di radicalità monastiche, eremitiche, martiriali, sempre in bilico tra un adattamento che sfiora il magico e una chiarezza che genera la coercizione. Oikonomia e akribeia: questo binomio è emerso nel rapporto tra Chiesa d’oriente e d’Occidente, e se nella riforma gregoriana e nello scisma del 1054 si mostra che l’oriente è economico e l’occidente è rigoroso, in entrambe le chiese la tensione non si risolve mai completamente. Tutta la riforma gregoriana e il suo rapporto tra papato e impero si riconduce al’urto tra due riforme contrapposte, quella armonica dei vescovi imperiali e quella acribica dei monaci della curia romana. Ma in questo senso si può leggere la vicenda di continue tensioni tra Chiese e stati, tra Roma e i troni, prima quello imperiale di Federico I, Enrico VI e Federico II, poi quello francese di Filippo il bello, anche come tensione intraecclesiale tra fautori dell’armonia col potere e difensori della legge ecclesiastica. La Sacra Pagina della teologia monastica reagisce con acribia alla dialettica corriva della nuova cultura portata avanti da un Abelardo o da un Gilbert de la Porrée, fino alle sintesi, parziali e dinamiche, di Tommaso e Bonaventura. Polarità sempre aperte per tutto il periodo considerato, spesso intrecciate tra loro in maniera inedita e inattesa, nelle stesse persone mai completamente risolte. § 102: acquisizioni e debolezze In questo avvicendarsi e interagire di tensioni e istanze, i secoli che abbiamo esaminato vedono l’emersione di alcuni aspetti della vita della Chiesa che, dapprima in embrione e in maniera incerta, poco a poco assumono visibilità e stabilità, fino a entrare, potremmo dire in maniera definitiva, nei tratti del volto della Chiesa occidentale. 294 Un esercizio attivo del primato: la storiografia e il dibattito ecclesiologico sembrano ormai aver individuato con chiarezza, ma anche con equilibrio e senza le esagerazioni ideologiche di un tempo, l’evoluzione dell’esercizio del primato del vescovo di Roma avvenuta in questi secoli, con una accelerazione indubbia provocata nella e dalla riforma dell’XI secolo, ma con radici precedenti e sviluppi successivi. Potremmo dire, in breve, che l’esercizio del primato romano passa progressivamente da una forma di garanzia e collegamento a una modalità intanto più attiva e meno di attesa che le istanze arrivassero ad limina apostolorum, e in secondo luogo con una qualità più accentuata di ordinamento, promozione e controllo. Non più solo un papa che riceve vescovi, re e penitenti, ma un pontefice che si muove, convoca sinodi, invia legati. Quindi anche il passaggio da un Patriarchium amministrativo e notarile a una curia giuridica, diplomatica e organizzativa. Il primato promuove le missioni, ordina le gerarchie sui territori evangelizzati, protegge monasteri e interi ordini religiosi, sostiene vescovi nello scontro col potere politico, diventa protagonista della lotta antieretica. E’, in poche parole, il promotore di due realtà che ormai assumono la forza di miti evocativi: riforma e crociata. Non dimentichiamo, però, tutto l’aspetto penitenziale-riconciliativo della sede romana, determinante proprio nella realtà della crociata, nei sinodi riformatori, nel progressivo formarsi della Penitenzieria, infine nella gestione pastorale del giubileo. Un primato che nell’autoconsapevolezza romana ma anche nella percezione della Chiesa occidentale assume la connotazione teologica e giuridica della plenitudo potestatis, e si traduce in forme liturgiche e simboliche. La distinzione tra gerarchia ecclesiale e struttura politica: anche qui sembra che l’età della riforma dell’XI secolo e la sconfitta del Reichskirchensystem e del mondo feudale ad esso soggiacente sia la svolta fondamentale, anche se non compiuta, di un percorso che secondo alcuni è un passaggio di laicità, secondo altri è un tentativo teocratico, ma che innegabilmente differenzia l’occidente cristiano dall’oriente. I potentes laici, imperatori, re, nobili, dapprima modelli di santità e creatori dell’episcopato e dei monasteri, sono emarginati almeno parzialmente dall’esercizio del potere ecclesiastico, non possono più rivendicare un ruolo di diritto nella guida della Chiesa ma, al limite, come la corte di Filippo il Bello, rivendicare il dominio assoluto sul “temporale”. La Chiesa è ormai compiutamente a guida gerarchico-sacramentale, e il sacerdotium si distingue dal mondo per formazione, comportamenti, criteri di scelta, con qualche aspetto di tipo monastico anche nella struttura “secolare” del clero. Ormai sono due gerarchie, quella ecclesiale e quella politica, che si 295 distinguono e, idealmente, perseguono in armonia gli stessi fini, ma con la rivendicazione da parte del papato e dei vescovi di un ruolo di giudizio e “riforma” anche nei confronti del potere politico. Ragione e cultura nei percorsi teologici: i teologi militanti dei secoli X-XII, gli spazi di elaborazione delle “rinascenze” carolingia, ottoniana e della cultura ecclesiale del secolo XII, l’inserimento del dibattito teologico nel mondo cittadino e universitario fanno della teologia e più in generale del pensiero cristiano un movimento in osmosi con le istanze dei tempi. A confronto con la solenne, ieratica, ripetitiva teologia orientale, la ricerca occidentale è contaminata, creativa, disinvolta, e si comprende come la percezione che i greci hanno del mondo del pensiero latino sia di una realtà sfuggente, irrispettosa della tradizione, sostanzialmente eretica. Il mondo dei monasteri resta il luogo della lectio più simile alla teologia patristica e tradizionale, e si crea una tensione tendenzialmente feconda, con qualche rischio di unilateralità, con la teologia come scientia delle scuole cittadine e degli ordini mendicanti. La teologia occidentale da qui in avanti non potrà più prescindere dalle varie ondate di inculturazione provenienti dall’economia, dalla politica, dalla filosofia, dalle scoperte scientifiche. Anche per quanto riguarda l’arte, al fissismo orientale si contrappone un occidente in piena evoluzione di forme, di canoni e di percorsi. Una pastorale per le campagne: l’età antica aveva consegnato alla vita ecclesiale una struttura fondamentalmente romana, cioè centrata sulla città. Se proprio questo suo imprinting sarà uno dei motivi di rivitalizzazione della vita urbana dopo la forte crisi dei secoli VI-IX, d’altra parte questi secoli allenano le comunità cristiane non solo alla missione verso i “barbari”, ma anche all’invenzione di metodi, strumenti e strutture per una pastorale decentrata, fondamentalmente rurale. I primi pionieri sembrano esser stati quei religiosi, monaci iroscozzesi, orientali, o eremiti, itineranti nelle vaste campagne e foreste dell’occidente spopolato. Una predicazione essenziale, una gestualità quasi ordalica, un santorale narrativo e taumaturgico, la confessione auricolare sono alcuni dei percorsi che la cristianizzazione articolerà non solo nei secoli VII-X, ma anche in seguito, ben dentro l’età moderna. Ma non si dimentichi che bisognava pensare anche alle strutture, al personale e al suo mantenimento, e il beneficium divenne la forma fondamentale, anch’essa resistente nelle campagne europee fino al XX secolo. Movimenti spirituali per consacrati e laici: questi secoli consegnano alla Chiesa d’occidente non solo una varietà e diffusione di forme di vita angelica, cioè contemplativa, 296 determinanti per la vita e la cultura dell’Europa, ma anche un’altra branca di movimenti religiosi, inesistente o quasi in oriente, che si raccoglie sotto il nome di vita apostolica. Sono le congregazioni di canonici regolari, poi gli ordini mendicanti e i gruppi di frati laici ospitalieri o cavalieri. E da queste realtà, sia contemplative che apostoliche, gemmano movimenti laicali, confraternite, collegamenti di ogni genere, aprendo a una santità laicale e anche a una mistica laicale che sarà propria soprattutto del mondo femminile del XIV e XV secolo. Questi movimenti mostreranno una vitalità di lungo periodo, formeranno per secoli uno degli ambiti di reclutamento per le missioni anche fuori d’Europa, avranno una presenza di grande rilevanza nella vita delle città, sapranno arginare, con le buone o con le cattive, le proposte dei dissidenti. Una rete stesa su tutto il continente: parrocchie, monasteri, conventi, ospedali. Anche qui, il confronto tra la situazione del secolo VI e quella del XIII è istruttivo. E non si può dare per scontato, così come più o meno lo stesso torno di tempo non ha prodotto i medesimi risultati, ad esempio, nell’età moderna in America Latina. Certo in alcune zone d’Europa la rete è a maglie più fitte anche per la maggior antropizzazione, e in altre più spopolate è più rada, e la peste della metà del XIV secolo metterà a durissima prova la tenuta della rete. Ma è indubbio che la cristianizzazione dello spazio abbia raggiunto in Europa nord-occidentale la sua compiutezza. Con una connotazione caritativa-assistenziale. Come sempre la storia è il luogo dell’incompiuto e del parziale. Sarebbe non scientifica una sintesi che non tenga presenti anche quei punti di fragilità e quelle questioni dolorosamente aperte che passavano dal secolo XIII al XIV. Spesso si tratta di estremizzazioni di quelle dinamiche che abbiamo cercato di evocare nel paragrafo precedente, di visioni parziali e di irrigidimenti che non permettevano di rispondere alle nuove sfide che si facevano avanti. Tendenze teocratiche: la rivendicazione del controllo del potere politico da parte della guida religiosa già stava mostrando i suoi limiti, con l’utilizzo politico delle pene canoniche, il coinvolgimento nelle lotte militari, le tensioni partitiche dentro gli episcopati e lo stesso collegio cardinalizio. Il momento di più alta autocoscienza del papato aprirà un tempo di debolezza del papato stesso. Centralizzazione: anche per rispondere alle tendenze assolutizzanti degli stati, la curia romana da tempo aveva avviato una politica centralizzatrice che stava iniziando a estendersi sulle nomine beneficiali, ma che avrà come conseguenze il fiscalismo, l’assenza dei beneficiati sul territorio, la rimozione delle istanze periferiche. 297 Apriorismo legalistico: l’akribeia canonica sta diventando pervasiva come unico criterio della conduzione della vita ecclesiale, irrigidendo non solo la vita pastorale e aprendo a forme di controllo e coercizione che si incarnano nell’inquisizione, ma anche impedendo di accogliere nuove istanze e sperimentazioni religiose. D’altra parte lo stesso corpo di esperti e rigorosi legisti applica disinvoltamente l’oikonomia nelle trattative diplomatiche coi poteri politici. Svuotamento di significato delle strutture territoriali: le tensioni tra ordini mendicanti e clero secolare che attraversano tutto il XIII secolo e continuano successivamente porteranno in varie aree d’Europa allo strapotere dei conventi nella predicazione e nella pastorale e nella trasformazione sempre più accentuata del clero, che diverrà in senso anche negativo amministratore e non più pastore. Perdita di sostanza religiosa: i primi segnali si vedono con Bonifacio VIII e la sua curia, ma la crisi di tutti gli ordini religiosi, tranne i certosini, nel secolo XIV è il sintomo di un impoverimento della consistenza religiosa della struttura. Certamente resta la testimonianza della santità, l’impegno missionario, lo slancio caritativo. Ma il livello tende ad abbassarsi. Epidemie e guerre crudeli nei secoli successivi evidenzieranno questa realtà. Che non eviterà neppure il mondo universitario e lo studio teologico, che sempre più tenderà a disperdersi in questioni marginali, a mettere tutto in discussione, a confondere l’essenziale e il secondario. Come spesso avviene anche ai singoli, in una comunità ciò che è rigido è anche fragile, e le rigidità e i punti deboli non tarderanno a mostrarsi e a rendere difficoltosa la capacità della Chiesa di cogliere i problemi di un nuovo mondo, anch’esso pieno di luci e ombre, che si apriva davanti a lei e di rispondere attraverso nuove strade: un processo che comunque si innescherà, attorno alla metà del Quattrocento, secondo alcuni recenti studi che tendono a superare la visione puramente reattiva della cosiddetta controriforma58. Comprendere domande, sfide e problemi del proprio tempo per cercare di rispondere con una rilettura del messaggio del proprio Fondatore: questo sembra essere uno dei compiti storici, forse in certo modo il compito storico, di una comunità come la Chiesa. Sembra di poter dire che essa, nei secoli tra il VII e il XIII, abbia svolto con successo questo compito. 58 R BIRELEY; Ripensare il cattolicesimo 1450-1700. Nuove interpretazioni della Controriforma, Genova-Milano 2010 298
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