Presentazione della lettera "Rallegratevi" di B. Secondin

Dalla consolazione alla profezia
Intervento di p. Bruno Secondin ocarm.
Ormai è stato detto tutto su questa lettera, da voci molto più autorevoli della mia. Che
mai si potrà aggiungere ancora? Parlerò con libertà, inquieta, esplorativa.
Non bisogna avere fretta di sapere "come si fà", o "dove dobbiamo arrivare?". Questa
Lettera non è un "gioco in scatola", che si porta a casa, si apre e ci sono dentro le
istruzioni per montarlo e farlo funzionare subito. Niente chiavi in mano, soluzione prêt-àporter. Il fil rouge è l'invito a rimettersi in gioco, con la consapevolezza che lo scenario
ecclesiale è cambiato. Il momento è favorevole anche per noi.
Per sette volte Papa Francesco nella Evangelii Gaudium - davvero un testo chiave del
pontificato - ripete: "Non fatevi rubare...". Ne cito una, là dove invita a mettere "la Chiesa in
movimento di uscita da sé, di missione centrata in Gesù Cristo, di impegno verso i poveri.
Dio ci liberi da una Chiesa mondana sotto drappeggi spirituali o pastorali! Questa
mondanità asfissiante si sana assaporando l’aria pura dello Spirito Santo, che ci libera dal
rimanere centrati in noi stessi, nascosti in un’apparenza religiosa vuota di Dio. Non
lasciamoci rubare il Vangelo!" (EG 97).
"Quanto è evangelica la Chiesa oggi?". Questa è la domanda chiave, decisiva,
provocatoria che Francesco sta facendo alla Chiesa e anche a noi. Quanto è evangelica la
vita consacrata, la pastorale ordinaria, la nostra testimonianza? Domande e provocazioni
che stanno dentro ogni suo discorso e ogni suo gesto. Egli vuole vedere in atto la vertigine
del Vangelo, la gioia del Vangelo, la tenerezza del Vangelo.
Lo scenario in cui si pone la lettera
Fino ad un anno fa il clima era molto diverso dentro la Chiesa e anche dentro le famiglie
religiose. Non brillava molta luce, non c'era molta fantasia per esplorare il futuro. I
fantasmi sgradevoli di una apocalisse prossima ventura di numeri e testimonianze, da
tempo paralizzano i nostri carismi. La nostra capacità di lasciare il porto sicuro del
passato mitizzato, per una nuova pesca audace ed esplorativa nei mari profondi della
modernità, sembrava solo sonnambulismo in pieno giorno.
Veniamo da una non breve stagione, forse qualche decennio, in cui di noi consacrati si
parlava o per lamentare la ritrosia a tentare nuove esplorazioni profetiche, oppure per
criticare la nostra resistenza ad entrare in programmazioni diocesane di comunione e
collaborazione. Oppure si veniva associati allegramente fra le forme obsolete in via di
estinzione, sopravvissute casualmente nella modernità. Si può trovare prova di quanto
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- B. SECONDIN, Dalla consolazione alla profezia
dico nelle cronache degli ultimi sinodi episcopali: non c'erano orecchi per ascoltarci, né
occhi intelligenti per valutarci. Basta verificare...
Non è mancata certo una ricca e fosforescente elaborazione teologica sulla nostra
identità e funzione ecclesiale. Anzi di teologia nel cinquantennio postconciliare ne
abbiamo prodotta parecchia, a volte con un linguaggio carico di simbologia e bellezza
progettuale. Ma erano e restano grandi orizzonti in cui non siamo ancora riusciti a
tracciare percorsi concreti realistici e significativi, fecondi di futuro.
Lo stesso Sinodo del 1994 - dedicato proprio alla vita consacrata - è stato certo un
momento di verifica e discernimento. E ci siamo mossi con un protagonismo intelligente e
sotto certi aspetti audace e creativo, ottenendo buoni risultati. Ma al di là di quel
momento felice e interessante, completato con la ricca esortazione Vita consecrata
(1996), poi nei tempi lunghi il trend dell'anemia di risorse e di anomia di progettualità,
non è stato arrestato. Col rischio di rotolare indecorosamente ancor più, senza capacità di
invertire la tendenza e far percepire altro attorno a noi e di noi.
Non voglio dire che non abbiamo dignità e decoro, non voglio affermare che la vita
consacrata è un groviglio di problemi. Non ho questo giudizio da proporre. Ma è proprio
della vita consacrata di abitare le frontiere e non di vivere di manutenzione. È questo che
io vedo fragile, non evidente, non in piena luce. Non bastano proclami generosi, ricche
memorie, roboanti e solenni canonizzazioni, per cambiare profilo.
Come è sempre stato nella storia, si rifletteva in noi una certa fase ecclesiale: una
Chiesa avvolta di una nebbia oscura a causa di certi scandali clamorosi, nelle periferie ma
anche al centro. Si potrebbe dire che "mancava l'aria": si respirava male. E anche le belle
esperienze che si realizzavano nella Chiesa - si pensi anche solo alle GMG, al cambio dei
papi, a certi eventi eccezionali (canonizzazioni), la passione per la Parola (vedi Sinodo
sulla Parola), ecc. - non innescavano nuovi dinamismi, risvegli e inizi di stagioni meno
tristi. Sto ricordando cose note.
Siamo forse all'inizio di una nuova stagione?
Ci vuole poco sforzo per rendersi conto che l'aria è cambiata, e anche la musica. Già non
è poco. E questa lettera vuole - se ho capito bene - proprio aiutare a respirare la nuova
aria, a suonare la nuova musica, ad abitare i nuovi orizzonti. Bisogna però accettare di
aprire orecchi e occhi, soprattutto l'orecchio del cuore. Perchè a volte è proprio questo
che fa fatica ad attivarsi.
Come tutti ormai abbiamo imparato, Papa Francesco ama il dialogo, il faccia a faccia, la
battuta che resta impressa. E anche quando scrive cose più impegnative, usa lo stesso
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- B. SECONDIN, Dalla consolazione alla profezia
stile: dialogando con il lettore, stuzzicando la sua intelligenza e la fantasia, chiamando
pane al pane, in maniera graffiante, con espressioni popolari efficaci, senza giri di parole.
Papa Francesco evita sempre di proporre un paradigma teorico forte e
onnicomprensivo, ma è capace di mettere a punto concetti carichi di ispirazione e forza
simbolica. Pensiamo alle frontiere esistenziali e sociali, al coraggio della tenerezza, al
primato della gioia e della misericordia, alla mistica del popolo, alle novità di Dio, ai
processi da innescare. O l'invito, ai giovani di fare casino (Hagan lio!), ai curiali ad evitare
la mondanità spirituale, ai generali di accarezzare i conflitti, a tutti pastori di avere l'odore
delle pecore... Espressioni tutte colorite, che non hanno bisogno di tante spiegazioni, e che
aprono uno stile nuovo nel linguaggio ecclesiale e nuovi spiazzi soleggiati nelle foreste
complesse delle nostre situazioni confuse.
Potrebbe sembrare che manchi un progetto di ampio respiro, ma a che servono
progetti ubiquitari in questa frammentazione postmoderna? Papa Francesco ha una
ripulsa chiara per simili architetture, "collocate nel regno delle pure idee", come ha detto
in Evangelii Gaudium (n. 232). E lo ripete in lungo e in largo in tutte le tonalità. La sua
strategia è quella di innescare e avviare processi e "azioni che generano nuovi dinamismi",
fuggendo "l'ossessione dei risultati immediati" (EG 223, 225).
Le domande finali, tratte direttamente da alcune frasi di Papa Francesco, vogliono
proprio introdurre nello stesso stile: mettersi in gioco, verificare percorsi aperti, veritieri.
Le due icone bibliche
Si noterà che le due parti della lettera sono introdotte da due brevi passaggi del profeta
Isaia. Isaia aveva davanti a sé della gente che ormai si era rassegnata al peggio senza più
risorse per nuova speranza. Oppure che rinfacciava a Dio di aver deluso tutti con i sogni di
novità che non si era poi realizzati. Opportunamente le due citazioni sono state anche
illustrate con una breve riflessione: nel contesto del linguaggio biblico e nello specifico
della situazione di Isaia.
Così non sono messe lì per ornamento, ma gettano luce sui nostri cammini, per passare
dai discorsi ai percorsi. "La Parola di Dio viene trasferita nella vita, sulla quale getta la
luce della sapienza che è dono dello Spirito" (come diceva VC 94).
E lo si fa in una duplice prospettiva. Anzitutto l'invito al cammino di ritorno alla stanza
interiore, alla nostra identità di chiamati e amati, scelti e plasmati, trasformati e costituiti
per un progetto da abbracciare con un sì gioioso. La perdita di fascino e vitalità di questa
esperienza interiore - quando diventa solo posa spirituale e vuota formalità - è perdita
secca su tutta la linea della nostra testimonianza. Allora viene meno la inquietudine della
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ricerca e non riusciamo più a decentrarci in maniera feconda. Lo facciamo solo sotto
impulsi nevrotici e improvvisati, senza discernimento serio.
La seconda parte di apre con il suggestivo versetto biblico, sempre da Isaia:
"Consolate!" (Is 40,1). Anche questa non è impostata su grandi imperativi vincolanti, ma
cadenzata su quattro orizzonti intonati dall'invito di Isaia a donare "consolazione". Si
tratta di offrire l'abbraccio di Dio, di vivere insieme il linguaggio della tenerezza, della
prossimità che tesse comunione, con cuore inquieto e occhio penetrante. Ecco come
abitare gli orizzonti con amore e creatività.
No al carisma in bottiglia
"Il carisma non è una bottiglia di acqua distillata. Bisogna viverlo con energia,
rileggendolo anche culturalmente" (Svegliate il mondo!, p. 8). E aggiungeva anche che
"mai un religioso deve rinunciare alla profezia" (p. 7). Se penso alla resistenza tenace che
c'era nella Curia romana vent'anni fa di fronte a questo vocabolario, credo che si possa
parlare di miracolo. Non sto inventando nulla, mi riferisco a cose note.
Ma non basta la parola profezia, anche se ha un suo ruolo e indica una funzione e una
risorsa specifica di qualità. Non si può giocare ad essere profeti, ci vogliono i fatti: ci
vogliono le scelte coerenti, l'audacia, l'esplorazione di vie nuove, accanto all'annuncio e
alla denuncia (cf. VC 84). E senza aspettare troppo: perchè le urgenze ci travolgono, e chi
non gioca da protagonista rischia di essere scaricato dalla storia.
Come ha scritto Papa Francesco: "A volte la paura ci paralizza troppo. Se consentiamo
ai dubbi e ai timori di soffocare qualsiasi audacia, può accadere che, al posto di essere
creativi, semplicemente noi restiamo comodi senza provocare alcun avanzamento e, in tal
caso, non saremo partecipi di processi storici con la nostra cooperazione, ma
semplicemente spettatori di una sterile stagnazione della Chiesa" (EG 129). E più avanti
avverte che si corre il rischio di "diventare un museo folkloristico di eremiti localisti,
condannati a ripetere sempre le stesse cose, incapaci di lasciarsi interpellare da ciò che è
diverso e di apprezzare la bellezza che Dio diffonde fuori dai loro confini" (EG 234).
Sulla nuova musica di Papa Francesco, questa lettera sollecita all'inventiva, con audacia
e profezia. Si tratta di passare dalla lamentela sterile e depressa alla speranza che scruta i
segni della novità e valorizza anche le risorse fragili. Dal ripiegamento degli sfiduciati
senza più sogni, alla progettualità evangelica e alla donazione esplorativa, perchè c'è un
futuro che Dio ci dona oggi e qui. Dalla rappresentazione virtuale della propria identità ai
volti reali del popolo e delle culture e alle risorse concrete con cui essere "chiesa" che
serve il Regno.
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- B. SECONDIN, Dalla consolazione alla profezia
Aurora tantum est!
Così definiva papa Giovanni XXIII il Concilio che iniziava.
Mi auguro che anche questa Lettera possa essere definita allo stesso modo. Un primo
bagliore di aurora, che apre ad una nuova stagione di sapienza orientatrice, di audacia
carismatica, di passione calda e generosa per il Vangelo, di prossimità profetica per
abitare in tutte le periferie con la ricchezza dei nostri carismi.
"Non bisogna portarsi la frontiera a casa, ma vivere in frontiera ed essere audaci"
(Intervista a Papa Francesco, in Civiltà Cattolica, 2013/III, 474).
Per natura noi siamo le sentinelle che vigilano sulle frontiere, per segnalare urgenze ed
eventi, sfide e incontri, diaconie e utopie. Non facciamoci rubare la speranza, non
facciamoci altro male da soli, non perdiamo il treno. Non perdiamo tempo ad allevare
vitelli grassi, ma usciamo fuori, rompiamo i nidi, le garanzie comode, i perbenismi e le
formalità, le paure e i calcoli. Diamo una nuova chance evangelica ai nostri carismi!