Tesi

Università degli Studi di Torino
Facoltà di Medicina e Chirurgia
Corso di Laurea in Medicina e Chirurgia
Tesi di Laurea
MANIPOLAZIONE IN VITRO ED IMPIEGO PER
L'AUTOTRAPIANTO DEI PROGENITORI EMOPOIETICI
CIRCOLANTI
Relatore:
Candidata:
Chiar.mo Prof.
Alessandro Pileri
Irene Ricca
Anno Accademico 1997/98
1
INTRODUZIONE
1. Premessa
I linfomi non-Hodgkin (NHL) sono neoplasie particolarmente
chemiosensibili. Questo giustifica la ricerca continua, in corso ormai
da circa 20 anni, per cercare di aumentare la capacità citoriduttiva e
quindi le potenzialità curative dei trattamenti chemioradioterapici (1,2).
In effetti, uno dei principali aspetti di ricerca clinica nei NHL è
consistito nella problematica della dose soglia di chemioterapici
somministrabile, vale a dire il limite di dose del farmaco oltre il quale
si ottengono effetti letali per il paziente. D’altro canto la
chemiosensibilità delle cellule linfomatose è spesso correlata alla dose
di farmaco somministrato. In altre parole, maggiore è la dose del
chemioterapico che può essere somministrata, più alta è la possibilità
di cura. Nello stesso tempo, un discreto numero di linfomi ha un
decorso
naturale
relativamente
lento;
tale
andamento
è
particolarmente evidente nei cosidetti linfomi a “bassa-intermedia
malignità”, da alcuni identificati anche con il termine di linfomi
indolenti (3). Pertanto, nel trattamento dei linfomi si è anche cercato di
prestare attenzione alla tollerabilità della terapia, con una certa
cautela
verso
un
impiego
troppo
esteso
di
programmi
chemioradioterapici aggressivi. Questi diversi aspetti hanno fatto sì
che il linfoma fosse una delle patologie in cui maggiormente si sia
sviluppata la ricerca di nuovi approcci terapeutici (4). In particolare, è
stato proprio nei linfomi che maggiormente si sono sperimentate le
nuove opportunità terapeutiche offerte dall’ introduzione nella pratica
clinica dei fattori di crescita, in particolare del G-CSF e del GM-CSF,
che sono stati finora i fattori più utilizzati in vivo (5,6,7).
I fattori di crescita hanno permesso, quindi, di intensificare il
trattamento chemioterapico, con possibili miglioramenti dell’efficacia
terapeutica; nello stesso tempo, l’aggiunta dei fattori di crescita
comporta una ridotta tossicità mielopoietica, consentendo quindi di
estendere l’applicabilità delle terapie citotossiche (6). In effetti, uno dei
principali vantaggi offerti dall’uso di G-CSF o di GM-CSF è stata
proprio la possibilità di incrementare sensibilmente la dose dei
farmaci citostatici somministrabili. Ancora più importante è stata,
però, la dimostrazione che i fattori di crescita, soprattutto se associati
2
a chemioterapia, hanno la capacità di mobilizzare nel sangue
periferico ingenti quote di progenitori emopoietici, le cosidette PBPC
(Peripheral Blood Progenitor Cells) (8,9,10). Come è ormai noto, il rapido
attecchimento
midollare
è
la
caratteristica
principale
dell’autotrapianto con i progenitori emopoietici raccolti dopo
mobilizzazione periferica (11,12). Ciò è dovuto alla elevata quantità di
progenitori che vengono reinfusi. E’ stato calcolato che i progenitori
che vengono raccolti durante una buona mobilizzazione sono
all’incirca 10 volte più numerosi di quelli ottenibili da un espianto
midollare (13). Inoltre la composizione delle raccolte è rappresentativa
di tutti gli elementi midollari, inclusi i progenitori più immaturi.
Questo garantisce una ricostituzione emolinfopoietica completa e
duratura nel tempo (11,12,14). Grazie a queste caratteristiche, l’uso delle
PBPC in corso di autotrapianto ha enormemente semplificato la
procedura ed ha confinato la tradizionale procedura di autotrapianto
con cellule di midollo ad un ruolo marginale (15-17).
2. Il ciclo HDS: esempio di ideale utilizzo delle nuove opportunità
terapeutiche offerte dai fattori di crescita
Alcuni anni fa è stato proposto un nuovo schema terapeutico,
denominato HDS (High Dose Sequential), utilizzabile nelle forme
tumorali chemiosensibili (18). Lo schema HDS si basa sostanzialmente
sulla somministrazione intervallata di singoli farmaci, alle massime
dosi tollerate. Tale modalità di somministrazione si è resa fattibile
proprio grazie alla disponibilità per l’uso clinico dei fattori di crescita,
in grado di attenuare la mielotossicità di chemioterapici ad alte dosi.
Vari studi sperimentali hanno dimostrato che l’intensità di dose di un
singolo farmaco può consentire di superare la chemioresistenza
"relativa" delle cellule tumorali (19). Nel caso dell’HDS ci si basa
comunque sulla coniugazione del principio di “dose size”, cioè di dosi
altissime di farmaci singolarmente somministrati a tempi differenti,
con quello più comune di “dose intensity”, cioè di dose globale dei vari
farmaci chemioterapici somministrati entro un certo periodo di tempo.
La seconda peculiarità dello schema HDS consiste poi
nell’autotrapianto con cellule progenitrici periferiche (PBPC) raccolte
nelle prime fasi del ciclo (9). In effetti è proprio con gli studi condotti
con l’HDS che si è identificata per la prima volta e si è sviluppata la
3
metodica di autotrapianto con PBPC (9,20). Questo approccio è fattibile
in quanto l’associazione di alcuni farmaci ad alte dosi, quali la
ciclofosfamide (CTX) o l’etoposide (VP16) inclusi nel ciclo HDS, e di un
fattore di crescita consente la mobilizzazione periferica di grandi
quantità di progenitori emopoietici (totipotenti e commissionati) dal
midollo al sangue circolante (8). Ad esempio dopo somministrazione di
CTX a 7 g/m2 seguita da G-CSF o GM-CSF, si raggiungono
concentrazioni di CD34+ e di CFU-GM a livello del sangue periferico
addirittura superiori a quelle midollari (13). Queste cellule progenitrici
emopoietiche hanno la prerogativa di determinare un rapido
attecchimento midollare, con una netta riduzione della durata della
fase di leucopenia e trombocitopenia e quindi notevole abbattimento
della tossicità e mortalità (9,13).
Pertanto, il ciclo HDS è oggi considerato tra quelli che meglio
sfruttano le nuove opportunità offerte dai fattori di crescita. Il regime
è stato disegnato per forme chemiosensibili, che potessero giovarsi da
una intensificazione del trattamento e quindi è risultato
particolarmente adatto per i linfomi, specie quelli clinicamente più
aggressivi (21). Nello stesso tempo, l’autotrapianto con PBPC raccolte
all’inizio del ciclo ha fatto preferire l’impiego dell’HDS in neoplasie con
scarsa o assente infiltrazione osteomidollare, per ridurre il rischio di
reifusione di cellule tumorali in corso di autotrapianto. Il linfoma
“diffuso a grandi cellule” senza infiltrazione midollare sembrava tra le
forme che più potessero giovare dall’HDS. In effetti, in un recente
studio di collaborazione tra l’Unità Trapianto di Midollo dell’Istituto
Nazionale Tumori di Milano e la Cattedra di Ematologia di Torino, è
stato osservato che, in queste forme di linfoma, l’HDS consente di
aumentare notevolmente la percentuale di risposte complete così
come la sopravvivenza libera da eventi, che è l’espressione più
indicativa delle potenzialità curative di un trattamento (21). In
conclusione l’HDS è caratterizzato da una buona tollerabilità, può
essere di vasta applicazione e sembra offrire sostanziali vantaggi
terapeutici rispetto ai più tradizionali approcci di chemioterapia
convenzionale.
3. Applicazione dell’approccio HDS nel trattamento dei linfomi
indolenti
4
Come già accennato in precedenza, nell’ambito dei NHL, esistono delle
forme, che complessivamente rappresentano all’incirca il 40% di tutti
i linfomi, caratterizzate da un andamento clinico relativamente poco
aggressivo. Sono queste le forme istologicamente definite “a
bassa/intermedia malignità”, note anche come linfomi indolenti, ora
meglio descritte nella più recente classificazione istologica “REAL”. Le
forme più frequenti sono quelle “nodulari” o, più appropriatamente,
“forme follicolari”, che nella tradizionale classificazione della Working
Formulation (W.F.) erano identificate con le lettere B – C – D. Esistono
poi forme di tipo “linfocitico diffuso”, note anche come forme A
secondo la W.F.; infine, nell’ambito dei linfomi indolenti viene talora
inserita una più rara entità, note come “linfoma mantellare” (tipo E
secondo la W.F.), il cui andamento clinico è solo apparentemente poco
aggressivo (22). In realtà i linfomi mantellari sono tra quelli di più
difficile gestione, con una aspettativa di vita media di meno di 3 anni,
se trattati con le tradizionali cure chemioterapiche. Nel complesso,
comunque, le forme indolenti sono generalmente caratterizzate da un
andamento clinico non così tumultuoso come avviene nelle forme a
intermedia/alta malignità, ed hanno sopravvivenze mediane
relativamente lunghe, variabili dai 3 anni del linfoma mantellare, sino
ai 10-15 anni delle forme di tipo “linfocitico”. Tuttavia, caratteristica
comune delle forme indolenti è l’inguaribilità con gli approcci
chemioradioterapici tradizionali. Per tali motivi, negli ultimi anni si è
sviluppato un certo interesse per l’approccio ad alte dosi con
autotrapianto anche nelle forme indolenti. Tale approccio è stato
ovviamente considerato solo per i pazienti più giovani, in cui la
prospettiva di una malattia inguaribile doveva in qualche modo essere
migliorata. Inoltre l’uso di un approccio intensivo andava considerato
anche per i pazienti con malattia avanzata. Infatti, se globalmente la
sopravvivenza mediana dei linfomi indolenti è molto lunga, se si
considerano solo i pazienti che manifestano malattia avanzata, le
aspettative di vita scendono sensibilmente con mediane di
sopravvivenza nei linfomi follicolari avanzati di non più di 5 anni.
Tutto ciò giustifica ampiamente le ricerche cliniche volte all'impiego di
procedure chemioradioterapiche intensive nei linfomi indolenti, di età
giovanile e in stadio avanzato o sintomatico (23,24).
Dalle esperienze nei linfomi aggressivi, lo schema HDS era risultato
ben tollerabile e molto efficace. Per tale motivo venne considerato un
suo potenziale impiego, come “terapia eradicante”, anche in forme di
5
NHL a bassa o intermedia malignità, quali appunto il linfoma
follicolare, e con esso anche il meno frequente istotipo A della W.F.,
così come il linfoma mantellare (25-27). Le esperienze originali, su
questo nuova linea terapeutica, sono state condotte presso la
Cattedra di Ematologia di Torino. Per l’uso nei linfomi indolenti, fu
ritenuto necessario modificare lo schema HDS originale, adattandolo
a neoplasie con caratteristiche differenti dal linfoma diffuso a grandi
cellule (28). I criteri guida che sono stati seguiti nell’ideare il nuovo
ciclo HDS adattato per linfomi a bassa/intermedia malignità possono
essere così riassunti:
a) considerando la minor chemiosensibilità di queste forme, lo
schema HDS è stato intensificato, e per questo è stata introdotta una
fase iniziale di “debulking” con 2 cicli APO ( 2 9 ) e, se non sufficienti, 2
cicli DHAP ( 3 0 ) ;
b) poiché il midollo è quasi sempre massivamente infiltrato da
cellule linfomatose, la mobilizzazione dopo CTX e fattore di crescita
non può essere attuata nella fase iniziale, ma va posticipata nelle fasi
finali della terapia sequenziale, quando si raggiunge un adeguato
“purging”
chemioterapico
in
vivo
(la
sequenza
originale
CTXMTXVP16 è stata così invertita in VP16MTXCTX);
c) per facilitare la mobilizzazione finale dopo CTX è stato previsto
un intervallo libero da terapia citostatica, nel corso del quale ci si è
limitatati ad un “mantenimento” con cortisonici; tale intervallo si è
rivelato indispensabile per ripristinare una buona funzionalità
midollare, tale da garantire una adeguata mobilizzazione dopo il
successivo CTX (20);
d) nel condizionamento dell’autotrapianto si è preferita una
terapia submieloablativa combinata, associando due farmaci ad alte
dosi (melphalan 180 mg/Kg e mitoxantrone 60 mg/Kg) ( 3 1 ) ,
escludenndo la TBI la cui elevata tossicità poteva accentuarsi dopo
uno schema già molto intensivo ; è comunque sempre prevista una
irradiazione localizzata sulle sedi di malattia “bulky”, da effettuare a
breve distanza dalla conclusione dell’HDS;
e) come “target” di risposta a questa terapia è stata inserita non
solo la risposta clinica (percentuale di CR), ma anche quella
biomolecolare sulle masse tumorali minime residue (tecnica di PCR;
sensibilità fino a 1x10- 6 ).
Nello studio pilota condotto con l’HDS intensificato (i-HDS) sono stati
inseriti pazienti con diagnosi istologica e immunofenotipica di linfoma
6
follicolare “primitivo” o follicolare “in trasformazione”, linfoma
linfocitico e linfoma mantellare, con malattia in stadio avanzato e/o
sintomatica, e non precedentemente trattati con chemioterapia né
radioterapia estesa. Nel complesso il trattamento è risultato fattibile,
con una tollerabilità accettabile e una mortalità da trattamento
inferiore al 2%. Va segnalata in particolare la buona tolleranza
emopoietica alle varie fasi della terapia ad alte dosi, analoga a quella
già descritta per l’HDS originale (21). La ricostituzione emopoietica
dopo autotrapianto è stata rapida; si sono verificati alcuni casi di
leucopiastrinopenia tardiva, per altro transitoria, e, a distanza di 6
mesi, si è osservato un attecchimento completo e stabile in un tutti i
pazienti valutabili. Non si segnalano gravi tossicità a distanza, tranne
un caso di mielodisplasia, insorto per altro dopo soli 2 mesi dalla
conclusione dell’HDS. Il trattamento ha mostrato una spiccata attività
antitumorale. La Remissione Completa (RC) valutata dopo 2 mesi
dalla conclusione dell’HDS è stata ottenuta in una elevata proporzione
di pazienti. In particolare i valori di 86% e di 100% di RC nei linfomi
follicolari e mantellari si pongono su livelli nettamente superiori a
quanto si ottiene in queste forme con trattamenti chemioradioterapici
convenzionali (28). La risposta inoltre è stata duratura, specie per
quanto riguarda i linfomi follicolari, con il 76% di pazienti tuttora vivi
a lungo termine in RC continua (RCC) senza altri eventi ad una
mediana di follow-up di 3.5 anni. Una maggior proporzione di pazienti
è ricaduta tra le forme di istotipo linfocitico e mantellare. Tuttavia,
anche in questi 2 gruppi, in cui già il raggiungimento della RC è
improbabile con il trattamento convenzionale, permane una discreta
quota di pazienti in RCC a lungo termine. La buona tollerabilità
associata alla elevata risposta clinica ha comportato una
sopravvivenza al momento decisamente buona, con 86% dei pazienti
tuttora vivi ad un follow-up mediano di circa 4 anni. Questo dato è di
maggior rilevanza se si considera che nella casistica erano stati
inseriti anche pazienti con linfoma trasformato e quindi con prognosi
decisamente più sfavorevole (32,.33).
Con le terapie convenzionali le forme di linfoma qui considerate
hanno, come detto, un andamento relativamente indolente: la
sopravvivenza media, pur se variabile tra una forma e l’altra, è in
genere di diversi anni. Va ancora ricordato che le risposte all’HDS
intensificato sono state di gran lunga superiori a quanto
comunemente si osserva in queste forme con schemi convenzionali,
7
anche intensivi (28). Ciononostante, i dati non sono ancora definitivi
per concludere che nei linfomi a bassa/intermedia malignità
l’approccio ad alte dosi offre sostanziali vantaggi in termini di
sopravvivenza o di possibilità di guarigione rispetto ai trattamenti
convenzionali. Per ottenere una risposta conclusiva a questo quesito
occorrerà prolungare il follow-up dei pazienti. Tuttavia, allo scopo di
avere una indicazione precoce sulla reale efficacia dell’HDS sono stati
ottenuti promettenti risultati dalla analisi molecolare della cosidetta
Malattia Minima Residua (MMR). Tale analisi è stata prevalentemente
effettuata nei pazienti con linfoma follicolare ed ha permesso di
concludere che, almeno per quanto riguarda questo specifico
sottogruppo di linfomi, l’HDS offre dei risultati in termini di
eliminazione della MMR sinora mai ottenuti con le terapie
convenzionali (34).
4. Il problema della Malattia Minima Residua: metodiche di
analisi e possibilità di sua eradicazione
In oncoematologia clinica, le metodiche di biologia molecolare vengono
applicate con sempre maggiore frequenza, anche se non sono ancora
considerate di routine in tutti i centri ematologici, per la valutazione
della MMR in pazienti sottoposti a chemioterapia intensiva e/o a
procedure di trapianto di cellule emopoietiche autologhe o
allogeniche. Nelle malattie oncoematologiche, il quadro di remissione
viene abitualmente valutato in termini clinici, morfologici e/o di
analisi del cariotipo. Con il termine di remissione ematologica si
definisce la presenza di meno del 5% di blasti nel midollo, in presenza
di una normale conta periferica. Per remissione citogenetica si intende
invece il riscontro di un cariotipo normale in almeno 20 metafasi
midollari in pazienti che presentavano alla diagnosi specifiche
alterazioni citogenetiche. Dal momento che i pazienti affetti da
leucemia presentano alla diagnosi o alla recidiva un numero di cellule
tumorali superiore a 1012, il numero di cellule tumorali presenti in un
paziente in remissione ematologica o citogenetica può variare da 0 a
1010. Nonostante questa possibile discrepanza in termini di cellule
tumorali ancora presenti, tutti i pazienti in remissione ematologica e
citogenetica vengono considerati come un’ unica entità nei protocolli
di trattamento.
8
Per MMR si intende la presenza di cellule tumorali in pazienti in stato
di remissione definito con i metodi di diagnostica convenzionale. Lo
scopo principale dello studio della MMR è la possibilità di differenziare
pazienti che hanno un diverso numero di cellule tumorali residue, ed
in particolare quelli che potrebbero beneficiare di un ulteriore
trattamento di mantenimento o anche di un eventuale trattamento
intensificato con trapianto. Attualmente i metodi più sensibili
disponibili per lo studio della MMR utilizzano la reazione polimerasica
a catena (PCR), che utilizza l’amplificazione di markers tumorespecifici, consentendo di identificare una cellula tumorale su 10 5-106
cellule normali (35). Nonostante la PCR sia almeno due o tre logaritmi
più sensibile dei metodi convenzionali, i pazienti con leucemia che
non presentano cellule tumorali identificabili molecolarmente
potrebbero in realtà avere ancora più di un milione di cellule
tumorali. Tali cellule giocano sicuramente un ruolo importante nella
eventuale recidiva della malattia. D’altro canto, in alcuni tipi di
leucemia, come per esempio la leucemia acuta promielocitica, è stata
dimostrata una correlazione esistente tra il riscontro di PCR positività
ed una successiva recidiva della malattia (36).
L'eventuale presenza di cellule tumorali nelle raccolte midollari e
periferiche utilizzate nell'autotrapianto rappresenta un problema
importante, in modo particolare nei linfomi follicolari e mantellari, in
cui l'infiltrazione midollare è di frequente riscontro. Per molto tempo
si è supposto che le raccolte periferiche fossero meno contaminate
rispetto a quelle midollari. In realtà, numerosi lavori pubblicati
recentemente hanno dimostrato la presenza di cellule tumorali nelle
raccolte di PBPC ottenute sia in neoplasie ematologiche sia in tumori
solidi. E' pertanto evidente l'importanza che la raccolta di PBPC sia
preceduta da un programma di chemioterapia intensiva, e che tale
programma sia affiancato da uno stretto monitoraggio della malattia
minima residua (MMR). Nello studio pilota con i-HDS le strategie
sperimentali utilizzate nella valutazione nella MMR sono basate
sull'utilizzo della PCR, che assicura una elevata sensibilità e
specificità. Il riarrangiamento dell'oncogene Bcl2 è ampiamente
utilizzato nella valutazione della MMR mediante PCR nei linfomi non
Hodgkin. Tale riarrangiamento è presente nel 75% circa dei linfomi
follicolari e nel 25% di quelli diffusi. La traslocazione t(14;18)
giustappone l'oncogene Bcl2, localizzato sul cromosoma 18, al gene
delle catene pesanti delle immunoglubuline, sul cromosoma 14.
9
L'assenza di tale traslocazione in una percentuale non indifferente di
linfomi ha condotto a studiare una nuova strategia sperimentale,
sempre basata sulla PCR, che utilizza il riarrangiamento dei geni delle
catene pesanti delle immunoglobuline. Il riarrangiamento delle regioni
cosiddette di "variabilità", "diversità" e "collegamento" (VDJ) genera
delle sequenze di DNA che sono specifiche del clone tumorale. Queste
sequenze
vengono
chiamate
"regioni
determinanti
la
complementarietà" (CDR) e codificano per i siti di legame con
l'antigene. Da tali sequenze è possibile ottenere amplimeri e sonde
tumore-specifiche che permettono la valutazione in PCR della MMR.
Nello studio pilota con i-HDS, combinando l’analisi del
riarrangiamento del Bcl-2 e del riarrangiamento delle sequenze VDJ
dei geni IgH è possibile ottenere un marker tumorale adatto agli studi
molecolari in circa il 90% dei pazienti con linfoma follicolare o
mantellare (34). Complessivamente, la MMR è stata valutata
molecolarmente in 20 pazienti con linfoma follicolare. In 13 (65%) di
questi pazienti l’analisi in PCR è risultata negativa già al momento
della raccolta delle cellule per l’auto trapianto. Da un lato il risultato
conferma la correttezza della strategia adottata, volta come detto alla
raccolta delle cellule autologhe dopo un adeguato trattamento di
debulkying tumorale. Inoltre, dimostra l’elevata efficacia antitumorale
dello schema HDS intensificato, in grado di eliminare in una elevata
percentuale di pazienti la malattia rilevabile solo molecolarmente. Tale
evenienza non era mai stata segnalata in precedenza con trattamenti
convenzionali.
La negativizzazione dell’ esame PCR rilevata sulle cellule da
autotrapiantare di molti pazienti con linfoma follicolare non solo
dimostra l’entità della regressione tumorale dopo HDS ma ha anche
un valore prognostico. Infatti, tutti i pazienti sottoposti ad
autotrapianto con materiale PCR negativo ha mantenuto nel tempo la
negatività di tale esame (34). Va poi ribadito che nessuno dei pazienti
con PCR negativa ha sinora manifestato segni di ripresa di malattia, e
le poche recidive si sono verificate unicamente in pazienti PCR
positivi. Il raggiungimento di una negatività in PCR della MRD
predice, quindi, una lunga sopravvivenza senza malattia (37). Questa
osservazione è in linea con quanto riportato dal gruppo del Dana
Farber di Boston in pazienti con linfoma follicolare autotrapiantati
con materiale reso PCR negativo mediante purging in vitro (38,39). In
10
altre parole con l’approccio i-HDS si può ottenere con una sorta di
purging chemioterapico in vivo ciò che può essere ottenuto con
sofisticate e talora difficilmente riproducibili metodiche di
manipolazione in vitro (17). Il valore dell’ autotrapianto con materiale
PCR negativo rende comunque di potenziale valore clinico
l’introduzione anche nel programma i-HDS di una procedura di
purging in vitro. Infatti è più che giustificato riservare questo ulteriore
trattamento a quella minoranza di pazienti che persiste in PCR
positività al momento della raccolta delle cellule da trapiantare. I dati
del presente lavoro illustrano proprio i risultati ottenuti in uno studio
pilota di purging in vitro, riservato a pazienti con linfoma indolente,
sottoposti a trattamento con i-HDS e con raccolte di PBPC positive per
MMR valutata in PCR.
11
OBIETTIVI DELLO STUDIO
A causa del frequente coinvolgimento midollare, la contaminazione da
parte di elementi linfomatosi della quota cellulare mobilizzata è
ancora un aspetto critico del programma di autotrapianto (40,41). Come
precedentemente descritto, in alcuni pazienti la raccolta leucaferetica,
dopo il solo trattamento chemioterapico ad alte dosi, può risultare
negativa all’ analisi molecolare (27,34,42,43). Tuttavia, in una parte di
pazienti, nonostante l’ intenso trattamento chemioterapico effettuato,
si ottengono raccolte di PBPC contaminate da cellule tumorali residue
(34,42-44). In questi casi, un trattamento ex-vivo potrebbe dimostrarsi
utile nel tentativo di ottenere una negatività molecolare. La
purificazione in vitro si è dimostrata efficace con cellule ottenute da
espianto midollare (38,45). Ciò potrebbe non essere altrettanto vero se
si utilizzano le PBPC (46-47). Infatti, nella purificazione in vitro del
materiale ottenuto dal sangue periferico occorre manipolare un
numero di cellule molto più elevato rispetto alla quota cellulare
presente nel materiale midollare espiantato. Questa abbondante
cellularità può rappresentare un ostacolo per la decontaminazione
tumorale delle PBPC.
L'obiettivo dello studio è stato, appunto, quello di analizzare una
procedura di purificazione immunomagnetica negativa in vitro su
materiale raccolto con leucaferesi. Sono stati considerati pazienti con
linfoma follicolare o mantellare, trattati con il programma i-HDS.
Venivano selezionati per la procedura di purging unicamente quei
pazienti le cui leucaferesi risultassero positive per MMR valutata in
PCR. In particolare, ci si è proposti di valutare:
 la fattibilità della procedura di purging in vitro effettuata su PBPC
raccolte dopo prolungata chemioterapia;
 la tollerabilità, con specifica attenzione all’attecchimento emopoietico,
di un autotrapianto effettuato con PBPC sottoposte a purging “in
negativo”;
 l’efficacia della procedura nel rendere il materiale da autotrapiantare
negativo per l’analisi della MMR in PCR;
12
 la possibilità di incrementare, grazie all’aggiunta del trattamento exvivo, la percentuale di pazienti che sopravvivono a lungo con
assenza clinica e molecolare di malattia;
 i costi aggiuntivi derivanti dalla manipolazione in vitro del materiale
da autotrapiantare;
 il ruolo generale del purging in vitro nell’ambito di programmi
intensivi ad alte dosi con autotrapianto di PBPC per pazienti con
linfoma indolente.
13
PAZIENTI E METODI
1. Caratteristiche dei pazienti, piano di trattamento e criteri di
risposta
Sono stati selezionati per la procedura di purging immunomagnetico
in negativo in vitro tredici pazienti con diagnosi di linfoma non
Hodgkin (NHL). Essi hanno ricevuto come trattamento di prima linea
un programma chemioterapico sequenziale ad alte dosi seguito da un
autotrapianto finale di cellule progenitrici da sangue periferico
(PBPC). L'intero programma, incluso il purging in vitro, è stato
approvato dalla Commissione Etica locale e tutti i pazienti hanno dato
il proprio consenso informato sia al programma di chemioterapia ad
alte dosi che al trattamento in vitro delle PBPC.
Tutti i pazienti inclusi nello studio erano affetti da NHL classificabile
come follicolare o mantellare. La distinzione istologica tra linfoma
follicolare o mantellare fu posta in base a criteri morfologici e
immunofenotipici. I criteri d'inclusione nello studio comprendevano:
a) età tra 18 e 60 anni;
b) capacità di fornire consenso scritto informato alla sperimentazione,
assenza di tossicodipendenza, assenza di turbe psichiche;
c) HIV-negatività; negatività di HbsAg e di HCV, ad eccezione dei casi
in cui si sia evidenziata una negatività di replicazione virale;
d) performance status (ECOG) = 0-4;
e) non gravi affezioni a carico di cuore, polmoni, reni, fegato, escluse
quelle direttamente secondarie alla malattia di base;
f) assenza di altre neoplasie concomitanti;
g) non precedenti trattamenti chemioterapici e/o radioterapici estesi;
h) assenza di localizzazioni cerebrali e/o meningee;
i) diagnosi istologica su preparato bioptico di NHL di tipo follicolare,
mantellare o con segni di trasformazione in forma diffusa a grandi
cellule;
j) malattia linfomatosa in fase avanzata (stadi III – IV sec. Ann Arbor).
Tutti i pazienti furono sottoposti ad una stadiazione di routine prima
di iniziare il trattamento chemioterapico; tutti presentavano una
malattia particolarmente avanzata (stadio IV) con invasione midollare
di vario grado. In un solo paziente il midollo osseo risultò
14
normocellulare alla biopsia ossea ma, verosimilmente, si trattava di
un falso negativo, considerata la notevole diffusione della malattia
anche a livello iliaco come dimostrato dalla TC. Per undici pazienti era
disponibile un marker molecolare (riarrangiamento di Bcl-1, Bcl-2 o
VDJ delle IgH) utile per il follow up biomolecolare.
Le principali caratteristiche cliniche dei pazienti sono riassunte nella
Tabella 1.
Il programma di chemioterapia utilizzato consiste in un'ulteriore
intensificazione dell'HDS originale, sviluppato alcuni anni fa dal
Centro Tumori di Milano e successivamente utilizzato nei linfomi non
Hodgkin diffusi a grandi cellule (9,21). Brevemente, la versione
intensificata dell'HDS (i-HDS) comprende la somministrazione di 2
cicli APO e di 2 cicli DHAP (29,30) seguiti da una fase di chemioterapia
ad alte dosi sequenziale. Questa inizia con Etoposide (VP-16) 2gr/m2,
seguita, approssimativamente 2 settimane dopo, da Metotrexate
8gr/m2; segue un intervallo di 4 settimane allo scopo di permettere
un'adeguata ripresa midollare prima della fase di mobilizzazione (20).
Vengono, poi, somministrati 7gr/m2 di Ciclofosfamide e, durante la
successiva fase di ripresa emopoietica, vengono raccolte le PBPC. Lo
schema chemioterapico è completato da una fase submieloablativa
finale con alte dosi di Mitoxantrone e Melphalan e autotrapianto di
PBPC (31).I pazienti vengono trattati con fattori di crescita (GM-CSF o
G-CSF) al giorno +1 dall'autotrapianto allo scopo di indurre un più
rapido recupero ematologico. La radioterapia sulle eventuali masse
residue viene programmata 1 o 2 mesi dopo l'autotrapianto. Nella
Figura 1 è illustrato lo schema chemioterapico i-HDS utilizzato.
La risposta clinica è stata valutata mediante una ristadiazione
completa eseguita prima della somministrazione della ciclofosfamide,
2 mesi dopo l'autotrapianto e, in seguito, a intervalli di 3 mesi per il
primo anno di follow-up e ogni 6 mesi a partire dal secondo anno di
osservazione. La risposta completa (RC) è stata definita come assenza
di qualsiasi evidenza clinica di malattia, mentre la remissione parziale
(RP) è stata definita come persistenza di malattia con una riduzione
della massa tumorale maggiore del 50%. Tutti i pazienti trattati
furono così valutati. E' stata calcolata la curva di sopravvivenza a
partire dalla data dell' autotrapianto fino alla data del decesso o
dell'ultimo controllo prima di questo; la curva di sopravvivenza libera
da malattia è stata calcolata dalla data dell'autotrapianto al momento
15
dell'evento (recidiva, progressione di malattia o morte). L’analisi della
sopravvivenza è stata attuata mediante il metodo del prodotto limite
secondo Kaplan & Meier (48).
2. Raccolta e valutazione dei progenitori emopoietici
I progenitori emopoietici circolanti sono stati mobilizzati e raccolti
dopo le alte dosi di ciclofosfamide. Per stimare il numero di leucaferesi
necessarie e il momento ottimale per la raccolta, ogni giorno, dal
giorno +9 dalla chemioterapia, sono state valutate le cellule CD34positive (CD34+) in rapporto ai valori emocromocitometrici fino al
termine dell'intera procedura di raccolta. Il conteggio delle cellule
CD34+ è stato effettuato mediante immunofluorescenza con
citometria a flusso su tutti i campioni di sangue (49). A tale scopo, è
stato usato un anticorpo monoclonale anti-CD34 coniugato con
Ficoeritrina (anti-HPCA-2, Becton & Dickinson) (13). Il numero di
cellule CD34+ circolanti per microlitro di sangue è stato calcolato
moltiplicando la percentuale di cellule CD34+ per il numero di
leucociti presenti in 1 l di sangue. La procedura di raccolta è stata
effettuata quando la conta leucocitaria raggiungeva i 1000
elementi/l e le cellule CD34+ del sangue periferico erano superiori a
10/l. Per la procedura di leucaferesi è stato utilizzato un separatore
di cellule ematiche a flusso continuo (COBE-SPECTRA o
FRESENIUS); in ogni procedura sono stati processati dai 7 ai 13 litri
di sangue (mediana 8.9 litri).
La quantità di progenitori emopoietici nel prodotto di raccolta è stata
stimata prima, durante e dopo la procedura di purificazione in vitro
valutando sia il numero di cellule CD34+ che le CFU-GM. Le CFU-GM
sono state valutate mediante la coltura in terreno semisolido di 1, 10
e 100 l di sospensione cellulare, senza altre procedure di separazione
(8). In questo modo si è voluto evitare qualsiasi possibilità di
arricchimento delle cellule progenitrici emopoietiche dovuto alle
stesse procedure di separazione. Le colture cellulari in agar al 3%
prevedevano l'utilizzo di medium iscove (IMDM) arricchito con siero
bovino fetale (FBS HYCLONE, Baxter) al 20% e fattori di crescita
ottenuti dal sovranatante di una linea cellulare di tumore della
vescica (5637) al 10% (8,13). Dopo 14 giorni di incubazione a 37°C e ad
un tasso di di CO2 del 5% sono state contate le colonie così ottenute
16
ed è stato calcolato il valore medio di CFU-GM per ml di sospensione
cellulare. Il numero totale di cellule CD34+ (x106/kg) e di CFU-GM
(x104/kg) è stato ottenuto moltiplicando la loro frequenza per millilitro
per il volume totale di sospensione cellulare e dividendo il risultato
per il peso corporeo del paziente.
Come dose minima richiesta per l'autotrapianto del paziente con sole
PBPC furono posti, rispettivamente, valori pari a 30x10 4 CFU-GM/kg
e 5x106 CD34/kg. In solo due pazienti non furono raggiunti tali valori
e perciò furono utilizzati per l'autotrapianto anche cellule midollari
purificate in vitro.
3. Procedura di purificazione in vitro
Il prodotto leucaferetico è stato processato con l'obiettivo di ridurre la
cellularità totale, rimuovendo le cellule mielomonocitiche mature. A
tale scopo si è utilizzata una procedura di separazione in vitro a
gradiente di densità con ficoll/metrizoato (1067 g/l) (50). Dopo un
singolo passaggio, le cellule sono state risospese in IMDM con il 10%
di plasma autologo l'1% di sieroalbumina umana e incubate per 1 ora.
L'incubazione mirava a saparare le cellule mature con capacità di
aderenza dai progenitori emopoietici. Dopo la rimozione delle cellule
aderenti, la cellularità risultava ridotta, in media, di 5 volte rispetto
alla cellularità di partenza, con un recupero delle cellule progenitrici
pari al 70-75% (50). Gli elementi nucleati sono poi stati incubati con
un cocktail di anticorpi monoclonali anti-cellule B (mAb anti-CD19,
anti-CD20, anti-CD22 e anti-CD23) alla temperatura di 4°C per 30
minuti, in presenza di 5 mg/ml di immunoglobuline umane. Sono
quindi state aggiunte delle biglie immunomagnetiche (Dynabeads) in
un rapporto pari a 2 biglie per ogni cellula e il materiale è stato così
incubato per altri 30 minuti a 4°C in lenta agitazione. Le cellule sono
state, poi, fatte passare nel separatore Max-Sep (Baxter), con un
flusso di 20 ml/min, con l'obiettivo di rimuovere le cellule B ricoperte
dalle biglie immunomagnetiche (51). L'incubazione con le biglie e la
successiva separazione sono state ripetute una seconda volta.
17
4. Analisi molecolare
Dal punto di vista molecolare si è proceduti all'analisi dell'eventuale
presenza di MMR prima e dopo la procedura di purificazione in vitro
con l'ausilio della PCR. La malattia minima residua è stata monitorata
in tutti i pazienti autotrapiantati finchè persisteva l' evidenza clinica
di remissione completa. Come marker molecolari sono stati utilizzati il
riarrangiamento del gene Bcl-2 (8 pazienti), del gene Bcl-1 (1 paziente)
o della regione variabile riarrangiata della catena pesante delle
immunoglobuline (2 pazienti).
a) Estrazione dell'acido nucleico Durante le procedure diagnostiche
standard sono stati raccolti campioni di sangue midollare, sangue
periferico e tessuto linfonodale. Il DNA genomico è stato purificato
mediante
digestione
con
Proteinasi
K,
estrazione
con
(52)
fenolo/cloroformio e precipitazione con etanolo
. L'RNA è stato
isolato utilizzando il metodo "RNAzol B" (Biotec Laboratories,
Houston, Texas)
b) Amplificazione con PCR della traslocazione Bcl-2/IgH I breakpoints
maggiori (MBR) e minori (mcr) sono stati amplificati con la tecnica di
PCR. Gli oligonucleotidi primer sono stati quelli utilizati da Gribben et
al. (38). In breve, 1 g di DNA genomico è stato amplificato in 200 M
dNTPs, 5 l di Taq Buffer [50 mM KCl, 10 mM TRIS-HCl pH 8, 2 mM
MgCl2, 0,1% (wt/vol) di gelatina], aggiungendo 2,5 unità di Taq DNA
Polimerasi (Promega, Madison, WI, USA) in un volume finale di 50 l.
Il ciclo di amplificazione comprende: 1 minuto a 94°C; 1 minuto a
55°C (MBR) o 58°C (mcr); 1 minuto a 72°C, ripetuti per 25 volte e
seguiti da una fase di allungamento finale di 7 minuti a 72°C. E' stata
poi effettuata una riamplificazione con 30 cicli di 5 l del materiale
ottenuto con la precedente amplificazione utilizzando primer interni. Il
DNA così amplificato è stato analizzato con elettroforesi su gel di
agarosio al 2% contenente bromuro di etidio e visualizzato con luce
ultravioletta. Ogni amplificazione conteneva un controllo debolmente
positivo consistente in una diluizione di 10-5 di una determinata linea
cellulare. Come controllo negativo è stato usato del DNA policlonale.
c) Amplificazione con PCR della traslocazione Bcl-1/IgH Per
l'amplificazione della giunzione Bcl-1/JH è stata lievemente
modificata la tecnica di PCR precedentemente descritta. Per il
18
cromosoma 14 è stato utilizzato un primer di consenso derivante
dall'estremo 3' della regione JH (JH3:5'-ACCTGAGGAGACGGTGACC3'). Gli oligonucleotidi specifici per il cromosoma 11q13 hanno la
seguente sequenza:
P2:5'-GAAGGACTTGTGGGTTGC-3'
P4:5'-GCTGCTGTACACATCGGT-3'
Per l'amplificazione è stato utilizzato 1 g di DNA genomico con i
primer P2 e JH3 (10 picomoli) in 200 M dNTPs, 5 l di Taq Buffer [50
mM KCl, 10 mM TRIS-HCl pH 8, 1,5 mM MgCl2, 0,1% (wt/vol) di
gelatina], aggiungendo 2,5 unità di Taq DNA Polimerasi (Promega,
Madison, WI, USA) in un volume finale di 50 l. La prima
amplificazione comprende: 1 minuto a 94°C, 30 secondi a 55°C, 30
secondi a 72°C, ripetuti per 33 volte e seguiti da una fase di
allungamento finale di 7 minuti a 72°C. Alle medesime condizioni è
stata condotta una seconda amplificazione di 2 l del materiale
ottenuto con il precedente passaggio con i primer interni P4 e JH3 (10
picomoli) Il DNA amplificato è stato analizzato con elettroforesi su gel
di agarosio al 2% contenente etidio bromuro e visualizzato alla luce
ultravioletta. Come controllo negativo è stato utilizzato del DNA
policlonale.
d) Amplificazione con PCR e sequenziamento della regione variabile
(VDJ) riarrangiata dell'IgH Per quei pazienti per cui non si è trovata
una traslocazione Bcl-1 o Bcl-2, è stata amplificata la VDJ tumorale
partendo dal DNA genomico alla diagnosi (63). In breve, 1 g di DNA è
stato amplificato in 200 M dNTPs, 5 l di Taq Buffer [50 mM KCl, 10
mM TRIS-HCl pH 8, 1,5 mM MgCl2, 1% (wt/vol) di gelatina],
aggiungendo 2,5 unità di Taq DNA Polimerasi (Promega, Madison, WI,
USA), 10 picomoli dei primer VH.L o VH.D e 10 picomoli del primer
JH.D (senza siti di restrizione), in un volume finale di 50 l.
L'amplificazione comprende i seguenti cicli: 1 minuto a 94°C, 30
secondi a 62°C, 30 secondi a 72°C, ripetuti per 35 volte e seguiti da
una fase di allungamento finale di 7 minuti a 72°C. Il DNA amplificato
è stato direttamente sequenziato usando i primer VH.L, VH.D e JH.D
(53). Quando la qualità della sequenza non ha permesso una lettura
completa delle regioni CDR (Complementary Determining Regions), il
DNA è stato riamplificato con primer contenenti i siti di restrizione
EcoRI e HindIII e clonato con il vettore Bluescript SK (Stratagene, San
Diego, CA). L'analisi dei dati è stata fatta utilizzando il PC-GENE
Software (IntelliGenetics, Inc., Mountain View, CA)
19
e) Ricerca di cellule linfomatose residue La ricerca di eventuali cellule
linfomatose residue è stata condotta sulle PBPC e sulle cellule
tumorali prima e dopo la procedura di purificazione in vitro, così
come sui campioni di midollo osseo ottenuti nel follow-up dopo
l'autotrapianto. E' stato amplificato 1 l di DNA utilizzando i test per
Bcl-2, Bcl-1 o IgH. Quando si utilizzava come marker molecolare l'IgH,
il 20% del prodotto amplificato è stato analizzato in elettroforesi con
gel di agarosio, trasferito su membrana e ibridizzato con sonde CDR3
marcate con [-32P]ATP (54). Per ridurre al minimo il rischio di falsi
negativi, tutti i campioni di DNA che non producevano una buona
amplificazione venivano nuovamente amplificati e la qualità del DNA
era saggiata amplificando la sequenza dell'esone 5 del gene p53 o
l'esone 2 del gene N-ras.
20
RISULTATI
1. Recupero dei progenitori emopoietici prima della procedura di
purificazione in vitro e attecchimento dopo autotrapianto
Sono state effettuate in totale 30 procedure di purificazione in vitro
sul prodotto leucaferetico di 13 pazienti. La Tabella 2 mostra i
cambiamenti in termini di cellularità, CFU-GM e cellule CD34+ prima,
durante e dopo la purificazione in vitro. Il recupero di CFU-GM e di
CD34+ è stato di circa il 75% dopo la fase preliminare di
arricchimento, con deplezioene delle cellule mature; il recupero dei
progenitori è stato di oltre il 60% al termine dell’ intera procedura di
purificazione. Il rapporto CD34+/CFU-GM finale è pari a 10:1, valore
del tutto paragonabile a quello basale. Ciò dimostra come, nonostante
i numerosi procedimenti che la metodica utilizzata comporta, non si
abbia una perdita significativa delle capacità funzionali di crescita in
vitro dei progenitori emopoietici.
L’arricchimento cellulare è volto principalmente ad eliminare gli
elementi maturi presenti a livello del sangue periferico, in modo che la
manipolazione dei progenitori sia meno influenzata dalla presenza di
altri elementi cellulari. Inoltre, la riduzione della cellularità è volta
anche ridurre i costi della procedura: infatti, sulla spesa economica
incide molto il costo delle biglie immunomagnetiche e, riducendo la
cellularità, si ha una proporzionale riduzione della richiesta di biglie,
con ovvi vantaggi economici.
In 2 pazienti che avevano raccolto meno di 30x104 CFU-GM/kg e
5x106 CD34+/kg sono state reinfuse anche cellule midollari
purificate; i rimanenti 11 pazienti poterono essere autotrapiantati con
sole PBPC, avendo a disposizione dopo il purging adeguate quantità di
progenitori. La quantità mediana (con range) di progenitori
emopoietici reinfusi e la durata della fase di pancitopenia posttrapianto sono riportate nella Tabella 3. Come riportato in Tabella,
l’attecchimento a breve termine è stato molto rapido, sia per la linea
granulocitaria che piastrinica. In effetti, i dati di ripresa emopoietica
nei 13 pazienti autotrapiantati con PBPC purificate in vitro sono simili
a quelli generalmente osservati in procedure di autotrapianto con
PBPC non manipolate.
21
La Tabella 4 illustra i valori dell’emocromo a 1 e 2 anni dal
trapianto. I dati dimostrano che l’attecchimento è stato duraturo.
I valori emocromocitometrici si sono normalizzati pressochè in
tutti i pazienti dopo circa un anno dal trapianto. In un unico
paziente si è osservata una persistente trombocitopenia con valori
della conta piastrinica attorno ai 40-50000/mmc, senza però che
questo abbia comportato gravi problemi clinici o necessità
trasfusionali. Pertanto, i dati della Tabella 3 e 4 indicano che il
purging immunomagnetico negativo in vitro non comporta
alterazioni significative nella capacità di attecchimento delle PBPC
a breve e lungo termine.
2. Follow-up clinico e molecolare
Tutti i pazienti hanno risposto al programma chemioterapico ad
alte dosi e, al momento della raccolta leucaferetica, tutti
mostravano una remissione completa, con l’eccezione di un
paziente in cui persisteva una limitata invasione midollare,
documentata alla biopsia ossea. Come mostrato nella Tabella 5,
tutti i prodotti leucaferetici mostravano la presenza di MMR
all’analisi biomolecolare mentre, a livello midollare, solo 7 pazienti
risultavano PCR-positivi. Dopo trattamento di purificazione in
vitro, le PBPC di 3 pazienti diventarono negative alla PCR. In
questi pazienti, la PCR negatività si è mantenuta in vivo dopo
autotrapianto, e tuttora la MMR non è rilevabile sia a livello
periferico che a livello midollare (Tabella 5 e Figura 2). Negli altri
8 pazienti valutabili molecolarmente, si è invece mantenuta una
PCR positiva anche dopo il purging in vitro. Tuttavia, in 3 di
questi pazienti si è potuto ottenere una stabile negativizzazione
molecolare dopo l’autotrapianto; in altri 2 pazienti si è osservata
una situazione “oscillante” tra la negatività e la positività
molecolare (Figura 2). Tutti i pazienti che hanno ottenuto
negativizzazione della PCR dopo purging o dopo autotrapianto
appartenevano al sottogruppo follicolare. Nessuno dei 3 pazienti
affetti da linfoma di tipo mantellare ha raggiunto la PCRnegatività, nè dopo la procedura di purificazione in vitro, nè dopo
l’autotrapianto. I risultati del monitoraggio biomolecolare della
22
MMR di tutti pazienti valutabili
schematizzati nella Figura 2.
molecolarmente
sono
Per quanto riguarda l’andamento clinico, entrambi i pazienti con
linfoma in trasformazione istologica hanno avuto una rapida
progressione di malattia dopo trapianto, e sono successivamente
deceduti per cause legate alla evoluzione della malattia; in
entrambi questi pazienti non era disponibile un marker
molecolare. Per quanto riguarda i restanti 11 pazienti, sono
recidivati due dei pazienti con linfoma mantellare (G.P e S.A.M.);
una terza recidiva è stata osservata in un paziente affetto da
linfoma follicolare i cui campioni di midollo emopoietico prelevati
durante il follow-up mostravano un pattern “oscillante” all’analisi
biomolecolare. I restanti 8 pazienti sono tuttora vivi, senza segni
di progressione. Le curve di sopravvivenza e di sopravvivenza
libera da malattia sono riportate, rispettivamente, nelle Figure 3 e
4.
3. Analisi dei costi
Gli anticorpi monoclonali anti-cellule B sono stati gentilmente
offerti dalla ditta Baxter. Per quanto riguarda i vari materiali di
laboratorio utilizzati, si è stimata una spesa di circa £. 2.000.000.
Fondamentalmente, però, il maggior impatto economico è
rappresentato dal costo delle biglie immunomagnetiche.
Considerando che per ogni paziente sono stati usati in media 9.9
botticini di biglie e che il costo di ciascun botticino è di circa £
1.000.000, la spesa media per ogni paziente è di circa £
10.000.000. Possiamo, quindi, concludere che il trattamento di
purificazione
in
vitro
per
ciascun
paziente
costa
approssimativamente £ 12.000.000.
23
DISCUSSIONE
Negli anni passati il sempre più ampio utilizzo delle PBPC a scopo
trapiantologico è stato accompagnato da un crescente interesse per le
procedure di purificazione in vitro. Il razionale di tali metodiche
consisteva nella convinzione che la purificazione in vitro delle cellule
destinate ad essere reinfuse al paziente avrebbe dovuto ridurre il
rischio di recidiva dopo l'autotrapianto. Tuttavia, dal momento che
non esistono dati che dimostrino una reale efficacia di tali metodiche,
è necessario seguire alcuni criteri per attuare un programma di
autotrapianto con cellule purificate in vitro. In primo luogo, la
malattia tumorale dovrebbe essere altamente chemiosensibile e
potenzialmente curabile con un programma chemioterapico ad alte
dosi. In tal caso, l'utilizzo per l’ autotrapianto del minor numero di
cellule tumorali, possibilmente al di sotto della sensibilità dei metodi
di analisi molecolare, potrebbe essere fondamentale per un buon
risultato finale. Inoltre, con i comuni protocolli di purificazione in
vitro attualmente disponibili, è possibile ottenere una riduzione della
quota tumorale di 2 o 3 log. Ciò nonostante, il materiale da
trapiantare non dovrebbe essere massivamente contaminato
altrimenti anche una procedura di purificazione ottimale non
riuscirebbe a ridurre la componente di malattia minima residua al di
sotto della sensibilità dei metodi molecolari. Infine, il limite
estremamente vincolante di tutta la procedura è rappresentato dalla
necessità di un marker molecolare, non sempre disponibile, per la
valutazione a lungo termine della malattia minima residua.
Nel nostro studio, questi tre principali criteri erano soddisfatti. Infatti,
abbiamo utilizzato lo schema di trattamento per la cura dei linfomi
follicolari in cui, nella maggior parte dei casi, l'assenza a livello sia
clinico che molecolare della malattia minima residua è stata osservata
già con la sola chemioterapia sequenziale ad alte dosi. Inoltre, la
purificazione in vitro è stata effettuata su PBPC raccolte dopo un
intenso debulking chemioterapico. In effetti, nella maggior parte dei
casi osservati si è ottenuta una remissione clinica completa al
momento della raccolta, con la sola eccezione di un paziente in cui
persisteva ancora una minima invasione midollare, in assenza di altri
segni di malattia. Infine, per 11 dei 13 pazienti studiati era disponibile
un marker molecolare, rappresentato dalla traslocazione di Bcl-2 o
24
Bcl-1 o dal riarrangiamento della regione variabile delle
immunoglobuline, fondamentale per la valutazione della malattia
minima residua nelle cellule purificate e il monitoraggio a lungo
termine dei pazienti dopo autotrapianto.
E’ stato scelto un metodo di purificazione in vitro in negativo per varie
ragioni (51,55). Innanzittutto, la selezione in negativo non comporta la
manipolazione diretta delle cellule CD34+ che intendiamo reinfondere
al paziente. Non si possono infatti del tutto escludere eventuali
alterazioni nella capacità di attecchimento a breve e lungo termine
delle cellule progenitrici emopoietiche a seguito deldiretto contatto con
gli anticorpi monoclonali o le biglie immunomagnetiche. Inoltre, una
selezione in positivo implica una completa deplezione delle cellule T e
NK e ciò potrebbe in qualche modo influire negativamente sulla
rigenerazione midollare post-trapianto. Infine, essendo ancora oggetto
di discussione una possibile coespressione dell’antigene CD34 sulle
cellule immature CD19+ (56-59), si teme che una selezione in positivo
rivolta verso le cellule CD34+ non possa garantire un’efficiente
deplezione delle cellule tumorali, esprimenti il CD19.
Come già precedentemente accennato, l’ingente quota di elementi
cellulari mobilizzati può rappresentare un limite alla manipolazione in
vitro delle PBPC. Sembra, perciò, utile far precedere alla purificazione
vera e propria un passaggio preliminare volto a ridurre al minimo la
cellularità e arricchire la raccolta di progenitori variamente
commissionati (45,46). Nel procedimento da noi effettuato è stato,
dunque, inserito un primo passaggio che comprendeva la metodica di
separazione su gradiente di densità (Ficoll) (50). In tal modo siamo
riusciti ad eliminare circa il 75% delle cellule mature, comprendenti
principalmente elementi della serie mielomonocitica. La procedura si
è dimostrata efficiente e riproducibile, confermando un buon recupero
di cellule CD34+. Numerosi studi hanno sottolineato la correlazione
tra la quantità di cellule progenitrici reifuse e la velocità di
rigenerazione midollare (60,61). La maggior parte dei pazienti compresi
nello studio ha potuto ottenere al termine delle varie manipolazioni in
vitro adeguate quantità di PBPC per l’autotrapianto. In genere,
l’obiettivo di eseguire l’autotrapianto con PBPC è stato raggiunto con
un limitato numero di leucaferesi (mediana: 2 leucaferesi/paziente).
Questi dati dimostrano, quindi, che la raccolta di PBPC è in genere
25
soddisfacente e la manipolazione in vitro non comporta eccessive
perdite aspecifiche dei progenitori.
La rigenerazione midollare è stata relativamente rapida, solo
lievemente ritardata rispetto a quella ottenuta in pazienti
autotrapiantati con PBPC non manipolate in vitro (20,28). Recenti studi
hanno dimostrato come anche dopo l’ autotrapianto di PBPC
purificate ex-vivo in pazienti affetti da tumori solidi ed ematologici
l’attecchimento midollare a breve termine sia rapido (62,63) . Prtanto i
nostri risultati sono in linea con le più recenti segnalazioni. Pochi dati
sono invece stati sinora riportati sulla rigenerazione midollare a lungo
termine. In tutti i nostri pazienti valutabili, si è osservata una buona
emopoiesi, con valori emocromocitometrici stabili a 1 e a 2 anni dal
trapianto; un unico paziente ha sviluppato una leucotrombocitopenia, peraltro clinicamente irrilevante. Questo suggerisce
che il purging immunomagnetico in negativo in vitro dei progenitori
emopoietici non compromette la rigenerazione midollare a lungo
termine. Attualmente, non è noto se altri metodi di purificazione in
vitro, quale la più frequentemente utilizzata selezione in positivo delle
cellule CD34+, siano egualmente prive di tossicità sull’attecchimento
a lungo termine.
Il materiale leucaferetico conteneva una quota relativamente bassa di
cellule tumorali. Tuttavia, solo in alcuni pazienti, il trattamento in
vitro ha portato la MMR al di sotto della sensibilità del metodo di PCR.
Questo ci porta a pensare che il raggiungimento di una completa
purificazione in vitro rappresenti ancora un problema irrisolto,
soprattutto se vengono utilizzate le PBPC. Infatti, numerose
esperienze su materiale midollare hanno dimostrato una più alta
percentuale di conversione positivitànegatività in PCR (24,45,47,64). La
spiegazione più plausibile a tale differenza risiede proprio nella
diversa quantità di cellule processate. Nuove strategie di purificazione
in vitro che comprendono sia una selezione in negativo che una in
positivo si sono dimostrate efficaci in termini di riduzione della
contaminazione tumorale (65). Inoltre, sono attualmente disponibili
nuovi separatori cellulari (65,66). Con l’impiego di queste innovazioni,
dunque, è ragionevole pensare di poter migliorare la procedura di
purificazione in vitro, in modo da poter disporre di procedure
altamente efficienti nella rimozione di cellule tumorali sia da raccolte
midollari che da raccolte di PBPC.
26
Dopo la procedura di purificazione in vitro, abbiamo ottenuto una
negatività in PCR in 3 su 11 pazienti valutati; ciononostante, siamo
portati a pensare che la manipolazione in vitro delle PBPC possa
essere stata in qualche modo di beneficio clinico. Infatti, durante il
follow-up molecolare, in 5 degli 8 pazienti affetti da linfoma follicolare
e autotrapiantati con materiale positivo in PCR si è assistito ad una
conversione in PCR negatività midollare dopo l’autotrapianto. Va
segnalato che, in una casistica della Cattedra di Ematologia di Torino,
su 15 pazienti autotrapiantati con PBPC non manipolate in vitro e
PCR positive, si è osservata un conversione in vivo in un unico caso
(34,67). Perciò, il persistere di una PCR positività dopo autotrapianto
con PBPC manipolate in vitro non deve necessariamente escludere
un’efficace decontaminazione tumorale. La sola riduzione delle cellule
linfomatose o il loro eventuale danneggiamento durante l’intera
procedura potrebbe, infatti, essere sufficiente per indurre in vivo la
negatività in PCR.
Globalmente, i risultati ottenuti nei pazienti con linfoma follicolare
sono incoraggianti: 6 pazienti su 8 mantengono la negatività in PCR,
con un follow-up mediano di 20 mesi. Nessuno di questi pazienti
manifesta segni clinici di recidiva, a conferma dell’importanza
prognostica dell’assenza di MMR valutata con metodi biomolecolari
(34,38,39) . Un unico paziente, la cui analisi molecolare è stata
“oscillante”, ha mostrato lievi segni di recidiva. La situazione è diversa
se consideriamo i pazienti con diagnosi di linfoma mantellare. Infatti,
l’analisi in PCR è stata costantemente positiva, sia prima che dopo la
purificazione in vitro. Ciò conferma che non sono disponibili al
momento procedure di purificazione in vitro in grado di negativizzare
in PCR nè le PBPC mobilizzate nè il midollo osseo dei pazienti con
linfoma mantellare (68). I risultati sono stati ancora più scoraggianti
nei due pazienti con linfoma in trasformazione istologica. Per queste
forme meno chemiosensibili una purificazione in vitro dei progenitori
emopoietici non ha, quindi, un ruolo significativo nell’approccio
terapeutico e strategie alternative di trattamento vanno sperimentate,
incluso un precoce approccio con trapianto allogenico.
In conclusione, questo studio ha dimostrato come la purificazione in
vitro possa avere un ruolo determinante nel trattamento dei linfomi
follicolari, aumentando la percentuale di pazienti in grado di
27
raggiungere una PCR-negatività stabile nel tempo. Il miglioramento
delle metodiche di manipolazione in vitro dovrebbe aumentare
l’efficienza di deplezione tumorale e il loro utilizzo in combinazione
con chemioterapia ad alte dosi potrà portare alla remissione
molecolare un numero sempre maggiore di quei pazienti, affetti da
linfoma follicolare, con malattia avanzata e per questo candidati ad
un trattamento aggressivo.
28
BIBLIOGRAFIA
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