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ASE 31/2(2014) 63-92
Franco Motta
Una figura della tradizione.
Il Gesù di Baronio (1560 ca.-1588)
I. Gesù negli Annales ecclesiastici
Il primo volume degli Annales ecclesiastici di Cesare Baronio, il
monumento della storiografia sacra della Controriforma, abbraccia il
secolo esatto compreso fra l’avvento di Cristo e l’anno 100, primo di
regno dell’imperatore Traiano e ottavo di Clemente Romano papa. Nella
prima parte, la storia delle origini della Chiesa coincide con la historia
evangelica, il racconto secondo i vangeli della vita di Gesù Cristo, caput
Ecclesiae, capo e sovrano del corpo mistico. 206 pagine su un totale di
poco più di 700, dall’annunciazione all’ascensione: trascrizione cartacea, nell’economia delle pagine dell’opera, dello spazio che i trentatré
anni di vita del Salvatore occupano nell’arco di un secolo.
In realtà basta scorrere rapidamente il testo per accorgersi che quello
di Baronio è tutto meno che un racconto. La metafora che più si avvicina
al modo in cui l’autore descrive le vicende che hanno per protagonisti
Gesù, la Vergine, Giovanni Battista, Erode, Pietro e gli altri discepoli è
quella dell’apparato scenico: una dettagliata ricostruzione d’ambiente
sullo sfondo della quale prende corpo la dimostrazione della concordia
fra gli scritti canonici del Nuovo Testamento, le fonti non cristiane
dell’antichità e i padri della Chiesa.
L’obiettivo naturalmente non è quello di una contestualizzazione
storica dell’evolversi del corpus delle dottrine e delle tradizioni apostoliche, dal momento che, per Baronio come per i suoi contemporanei, la
dottrina cristiana non è oggetto di evoluzione bensì di rivelazione; ad
assestarsi negli Annales ecclesiastici è invece un imponente dispositivo
probatorio – alimentato dalla storia, dall’antiquaria, dalla filologia e
dalla geografia del mondo antico – il cui orizzonte sta nel persuadere il
lettore dell’ininterrotta continuità della tradizione dalla Chiesa antica
a quella moderna, e il cui esito, già nell’immediato della straordinaria
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fortuna editoriale dell’opera, sarà la fondazione del canone tridentino
della storia del cristianesimo.
Per giustificare queste mie affermazioni vado prima di tutto ad analizzare più nel dettaglio le circostanze della nascita del lavoro.
II. La historia evangelica come archetipo della Chiesa
Che gli Annales ecclesiastici siano stati pensati prima di tutto per
rispondere all’offensiva dell’erudizione protestante sul fronte della storia della Chiesa è cosa che non ha bisogno di essere ricordata. «Baronio – notava Albano Biondi, acutissimo conoscitore della storiografia
umanistica e postumanistica – volle […] costruire un testo di battaglia, l’analogo, sul terreno della storia, delle Controversiae di Roberto
Bellarmino».1
L’avversario sono le celebri Centuriae Magdeburgenses, il titolo sotto il quale è più nota la Ecclesiastica historia prodotta in tredici volumi
fra il 1559 e il 1574 dal cenacolo di eruditi militanti che si riunisce a
Magdeburgo sotto la guida di Matthias Flacius (Vlacic’), detto Flacius
Illyricus, capofila dell’opposizione luterana radicale all’interim di Augusta emanato da Carlo V e alla posizione compromissoria di Melantone.
Le Centuriae rappresentano una novità assoluta nel panorama della
cultura storica del tempo: esse non disegnano una storia di uomini e di
eventi ma, per la prima volta, quella che oggi sarebbe definita storia
delle idee. La loro funzione, infatti, è quella di certificare la secolare e
progressiva corruzione della dottrina di Cristo e degli apostoli ad opera
del papato, secondo l’idea di Lutero – del Lutero degli ultimi scritti,
1 “La storiografia apologetica e controversistica”, ora in: Id., Esorcisti, eretici, streghe. Saggi
di storia moderna, a cura di M. Donattini, Modena, Comune di Modena, 2008, 555-74 (ed. or.
1986), 564. Lo studio documentalmente più completo su Baronio resta il vecchio e apologetico
G. Calenzio, La vita e gli scritti del cardinale Cesare Baronio bibliotecario di Santa romana
Chiesa, Roma, Tipografia Vaticana, 1907 (2 voll.); sulla sua missione storiografica, invece, S.
Zen, Baronio storico. Controriforma e crisi del metodo umanistico, Napoli, Vivarium, 1994,
cui sono da affiancare le miscellanee Baronio storico e la Controriforma - Atti del convegno
internazionale di studi (Sora, 6-10 ottobre 1979), a cura di R. De Maio, L. Gulia, A. Mazzacane
(Sora: Centro di studi sorani “Vincenzo Patriarca”, 1982); Baronio e le sue fonti - Atti del
convegno internazionale di studi (Sora, 10-13 ottobre 2007), a cura di L. Gulia (Sora: Centro
di studi sorani “Vincenzo Patriarca”, 2009); e Cesare Baronio tra santità e scrittura storica,
a cura di G.A. Guazzelli, R. Michetti, F. Scorza Barcellona, Roma, Viella, 2012. Più agili H.
Jedin, Kardinal Caesar Baronius. Der Anfang der katholischen Kirchengeschichtsschreibung im
16. Jahrhundert, Münster, Aschendorff, 1978 (uno tra i «classici» dello storico tedesco) e C.K.
Pullapilly, Caesar Baronius Counter-Reformation Historian, Notre Dame-London, University
of Notre Dame Press, 1975. Da segnalare infine le pagine dedicate allo storico sorano da I. Backus, Historical Method and Confessional Identity in the Era of the Reformation (1378-1615),
Leiden-Boston, Brill, 2003, 375 ss., e da S. Tutino, Shadows of Doubt. Language and Truth in
Post-Reformation Catholic Culture, New York, Oxford University Press, 2014, 74 ss.
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soprattutto – della veritas abscondita, della vera fede eclissata dalle
menzogne e dai falsi riti dell’Anticristo romano.
Un primo contributo storiografico a questa grande visione Illyricus
l’aveva dato con il Catalogus testium veritatis (1556), un repertorio di
autori e martiri antipapisti che si presentava come una genealogia ideale
della Riforma che si dipanava a partire da Cristo. Rispetto a quel testo, le
Centuriae aprivano il respiro della ricerca all’intera storia sacra, innervate da una teologia della storia che contemplava il dispiegamento della
volontà divina nella forma di una lotta secolare e incessante attorno alla
preservazione della vera dottrina. Da questo punto di vista le Centuriae
incarnano realmente l’omologo speculare degli Annales di Baronio e
delle Disputationes de controversiis (1586-93) di Bellarmino, laddove
la forza metastorica che per questi ultimi è rappresentata dal pervicace
fiorire dell’eresia, per i Centuriatori ha la natura della resistenza della
vera parola dei vangeli allo stratificarsi secolare delle mistificazioni e
dei costumi umani, orchestrato dal demonio.2
La prima centuria dei magdeburghesi e il primo volume degli Annales ecclesiastici corrono paralleli lungo lo stesso periodo storico, il
primo secolo dell’era cristiana. Nell’impianto delle Centuriae, un’opera
tutta gravitante attorno alla dimensione dottrinale della fede, quell’età
tiene naturalmente un luogo privilegiato: è in essa che si trova l’insegnamento «puro» di Cristo e degli apostoli, ossia il metro di confronto
sul quale si misurano il vero e il falso nei secoli posteriori.
«Si è deciso – è questo l’esordio programmatico del testo – di dividere
questa centuria in due libri, affinché meglio emergesse la vicenda di
Cristo quando era ancora visibile su questa terra e si potesse chiaramente riconoscere quale regola di dottrina e quale governo della Chiesa
egli abbia stabilito, e poi affinché la pratica, ossia l’uso di quella stessa
dottrina ricevuta da Cristo potesse essere percepibile anche nella prassi
degli apostoli, e fosse possibile osservare e correttamente esaminare
quale governo della Chiesa essi abbiano osservato in ogni cosa, quale successione abbiano rispettato, quali avversità abbiano sopportato.
2 Sulle Centuriae Backus, Historical Method and Confessional Identity, 358 ss.; H. Bollbuck,
“Testimony of True Faith and the Ruler’s Mission. The Middle Ages in the Magdeburg Centuries
and the Melanchton school”, Archiv für Reformationsgeschichte 101 (2010) 396-420; O.K.
Olson, Matthias Flacius and the Survival of Luther’s Reform, Wiesbaden, Harassowitz, 2002,
256 ss. (che tuttavia si occupa essenzialmente delle vicende storiche in cui si realizza la loro
pubblicazione). Analisi comparate delle Centuriae e degli Annales di Baronio in: E. Norelli,
“L’autorità della Chiesa antica nelle Centurie di Magdeburgo e negli Annales del Baronio”, in:
Baronio storico e la Controriforma, 253-307; H. Röttgen, “Il ‘loco’ nell’idea delle Centuriae
Magdeburgenses e negli Annales ecclesiastici. Scrittura verso tradizione, ovvero la Chiesa a
Wittenberg o Magdeburg e la Chiesa a Roma”, in: Baronio e le sue fonti, 115-31. Una lettura
dei principi teorici che sottendono le Centuriae e le Controversiae di Bellarmino in: F. Motta,
“Il salto nei tempi nuovi. Controversia religiosa e teologie della storia fra XVI e XVII secolo”,
in: Con o senza le armi. Controversistica religiosa e resistenza armata nell’età moderna - Atti
del XLVII convegno di studi sulla Riforma e sui movimenti religiosi in Italia (Torre Pellice, 8-9
settembre 2007), a cura di P. Gajewski, S. Peyronel Rambaldi (Torino: Claudiana, 2008), 281-96.
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La ragione fondamentale di questa scelta è quella di paragonare le
condizioni delle Chiese dei secoli successivi a quelle di Cristo e degli
apostoli».3
Nell’architettura e nella concezione della storia sacra, storia del
manifestarsi della volontà di Dio nel mondo, il primo secolo costituisce
dunque il paradigma di confronto per i secoli successivi, l’archetipo
rispetto al quale il cristiano può valutare le deviazioni e le variazioni
indotte dall’opera del demonio. In virtù di questo suo statuto di esemplarità, la historia evangelica copre nella storiografia confessionale un
ruolo analogo a quello che il canone biblico svolge nella coeva teologia
controversista, e cioè il ruolo di misura fondamentale della verità.4 Come nota Enrico Norelli, «la “syncera ac vera antiquitas” è dunque solo
quella che pienamente si attiene alla doctrinae forma di Cristo e degli
apostoli, e quindi, in sostanza, si identifica con il primo secolo. Questo
è qualitativamente diverso da tutti i successivi, nei quali si consuma progressivamente il processo di corruzione della dottrina e della Chiesa che
culminerà con il pieno dominio dell’anticristo a partire dal VII secolo».5
Se leggiamo la prefazione baroniana al primo volume degli Annales
– una prefazione che si configura come un manifesto di lotta intellettuale
e come una premessa generale di metodo – siamo posti di fronte a una
prospettiva controversistica speculare:
«Alcuni fra gli autori più recenti [scil. i Centuriatori], pur dichiarando
di voler raccogliere le storie degli antichi, in realtà non hanno cercato
altro che di serrare quell’accesso aperto per noi [la metafora è presa da
1Cor 16,9, Ostium mihi apertum est magnum et efficax] accumulando
menzogne, per impedirci di procedere lungo quella via regia. Ma per
frustrare i tentativi di costoro […] ritengo che sia più che sufficiente
mostrare l’immagine vera e sincera del volto della Chiesa secondo il
suo disegno originario […]. A questo dunque ci dobbiamo applicare
con ogni diligenza, e cioè a far sì che, rivolgendo sempre gli occhi
della mente a quel primo esempio, il primitivo ritratto della Chiesa
3 «Placuit autem hanc centuriam in libros duos partiri, ut historia Christi, donec visibiliter
in terris magis emineret, ac liquido constaret, qua ipse doctrinae ratione, qualique gubernatione
Ecclesiae sit usus. Deinde, ut in apostolorum quoque curriculo, ipsa veluti praxis seu usus doctrinae, a Christo acceptae, extaret, et qualem ipsi Ecclesiae gubernationem in rebus omnibus
observarint, qualique successu usi sint, quales etiam adversitates pertulerint, conspici, recteque
considerari posset. Idque propter eam potissimum causam, ut res Ecclesiarum, in posterioribus
seculis, cum rebus Christi et apostolorum conferri» (Centuriae Magdeburgenses seu historia
ecclesiastica Novi Testamenti, qui nell’ed. Norimbergae, apud Ioannem Leonardum Langium,
I, 1757, cent. I, l. I, c. 1, 4).
4 Nei controversisti cattolici della piena Controriforma la questione della Scrittura – canone
biblico, perspicuità testuale, attribuzione della funzione ermeneutica – costituisce generalmente
la sezione preliminare dell’impianto disputatorio; un caso noto è quello delle Disputationes di
Bellarmino, nelle quali la controversia De Verbo Dei tiene il primo posto. Vd. sul tema F. Motta,
Bellarmino. Una teologia politia della Controriforma, Brescia, Morcelliana, 2005, sp. 197 ss.
5 “L’autorità della Chiesa antica nelle Centurie di Magdeburgo e negli Annales del Baronio”, 268.
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sia restituito alla propria primitiva bellezza, affinché essa con il suo
splendore dissolva le tenebre e disperda la caligine al punto che gli
occhi di chi la contempla possano godere in tutta gioia del limpidissimo
aspetto della verità».6
Tornerò più oltre su questa reiterazione di metafore che rinviano al
senso della vista e alla percezione visiva della verità. Per ora è sufficiente notare come l’idea di una condizione originaria e autentica della
Chiesa, velata dagli errori accumulatisi nel tempo, accomuni Baronio e
i Centuriatori, ossia coloro che, su fronti opposti, tengono a battesimo
la storiografia ecclesiastica moderna. Anche per l’oratoriano, infatti, è
nelle consuetudini di Cristo e degli apostoli che si ritrova, in sé già perfetto, l’archetipo della forma e del governo della Chiesa, «i fondamenti
della religione cristiana, le leggi divine, le pie funzioni, i sacri concili,
i canoni pubblicati».7
A fare la differenza è il modo in cui la dottrina e la prassi primitive
si fanno cogliere: nelle Centuriae, come nel Catalogus testium veritatis,
attraverso un paziente lavoro di recupero dei frammenti di verità che
fluttuano nel mare magnum delle imposture e delle cerimonie papiste;
negli Annales, al contrario, attraverso la difesa inoppugnabile della continuità che lega l’originaria comunità apostolica alla Chiesa delle età
posteriori.
In altri termini, mentre per i Centuriatori la verità, nel decorso della
storia, è stata appannaggio di pochi, per Baronio essa non ha mai cessato
di rendersi visibile e percepibile nel gran corpo della Chiesa gerarchica.
Non a caso il registro lessicale dell’oratoriano, nel già citato prologo agli
Annales che costituisce un manifesto dottrinale scritto secondo le regole
della grammatica storica, è tutto addensato attorno a una semantica della
continuità e della tradizione: la «monarchia visibile della Chiesa cattolica, istituita da Cristo Signore e fondata su Pietro», è stata «integralmente
conservata, religiosamente custodita, né mai interrotta o sospesa, ma
6 «Fuere namque e recentioribus nonnulli, qui antiquorum res gestas se collecturos professi,
nihil aliud conati sunt, nisi ut mendacia coacervantes, aditum hunc nobis apertum obstruerent,
et patentem viam regiam impedirent […]. Sed ad horum conatus infringendos, commenta detegenda, ac imposturas aperiendas, non multa opus est consultatione, vel facto. Satis superque
puto, si germana illa, ac sincera Ecclesiae vultus imago ex antiquo proposito demonstretur […].
In hoc igitur nobis omni diligentia incumbendum, ut in primum illud exemplar semper mentis
oculos intendentes, Ecclesiae effigies illa pristina, pristino decori formaeque reddatur, quae suo
splendore sic tenebras disiiciat, caliginem dispellat, ut oculi intuentium, maxima cum iucunditate clarissimo veritatis aspectu perfruantur» (Annales ecclesiastici, I, Romae, ex Typographia
Vaticana, 1588, Praefatio, 1-2).
7 «Nos operae pretium facturos existimamus, si una cum nascentis Ecclesiae primordiis, ipsa
christianae religionis fundamenta a primitus iacta, divinas leges, pias functiones, sacra concilia,
editos canones, ut instituti ratio postulabit, sigillatim recensuerimus» (ivi, 4).
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continuata in perpetuo» dai romani pontefici. La dimostrazione di tutto
questo è il precipuo compito cui si accinge lo storico Baronio.8
III. Struttura e retorica del testo
È sullo sfondo di queste premesse che si proietta il ritratto di Gesù
che troviamo negli Annales ecclesiastici.
È un ritratto che non esiterei a definire diafano, un ritratto che non
vive mai di vita propria ma che si lascia soltanto intravedere nel pleonasmo dell’ambiente che lo ospita. Calato in un continuum di dottrine e
consuetudini nel quale perde la propria fisionomia messianica, Gesù si
rende riconoscibile essenzialmente come figura del transito dall’antica
alla nuova alleanza. In questo senso mi sento di condividere appieno le osservazioni di Mauro Pesce in merito alla contestualizzazione
del Gesù di Baronio all’interno del programma metodologico dei Loci
theologici (1563) di Melchior Cano, il grande sistematore del metodo
dimostrativo in teologia senza il quale non può essere compresa tutta
la controversistica dell’età della Controriforma (e sul quale tornerò fra
poco): «Gesù rientra nel secondo “luogo teologico” De traditionibus
apostolicis. I teologi cattolici in età moderna avranno sempre difficoltà
a riconoscere che la figura storica di Gesù è un “luogo teologico”, cioè
un punto di riferimento fondamentale per il mutamento della Chiesa.
Il punto principale di riferimento per la teologia cattolica sono la Sacra
Scrittura, la tradizione, i dogmi, ma non la figura di Gesù».9
La historia evangelica degli Annales gravita di fatto attorno a due
poli: l’avvento, la nascita e l’infanzia di Gesù da un lato, la sua attività
pubblica dall’altro, fino all’ascensione. Il battesimo nel Giordano, con
la lunga digressione sulla figura di Giovanni Battista e sul congregarsi
degli apostoli, costituisce lo spartiacque tra i due versanti del racconto.
Il testo è introdotto dai copiosi Apparatus ad annales ecclesiasticos (49
pagine in folio nell’editio princeps romana), il «dispositivo» che costituisce la premessa storica generale alle vicende del Nuovo Testamento:
vi trovano posto le sette dell’ebraismo del secondo tempio, le scuole
filosofiche pagane, la ricapitolazione dell’ascendenza di Cristo, i prodigi
8 «Ad haec catholicae Ecclesiae visibilem monarchiam a Christo Domino institutam, super
Petrum fundatam, ac per eius legitimos, verosque successores, Romanos nimirum pontifices,
inviolate conservatam, religiose custoditam, neque umquam interruptam, vel intermissam, sed
perpetuo continuatam, semperque huius mystici corporis Christi, quod est Ecclesia, unum caput
visibile, cui pareant membra cetera, esse cognitum et observatum per singula tempora demonstrabimus» (ivi, 4-5).
9 “L’emergere della ricerca sulla figura storica di Gesù in età moderna”, in: I volti moderni
di Gesù. Arte filosofia storia, Macerata, Quodlibet, 2013, 41-76, qui 51.
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che ne preannunciano l’incarnazione.10 Per comprendere il tema della
continuità cui ho fatto cenno sopra è sufficiente analizzare alcuni tópoi
tra i più significativi di quelle pagine.
All’estinzione del regno e del sacerdozio nella tribù di Giuda all’approssimarsi dell’avvento, ad esempio, Baronio riserva l’esordio degli
Apparatus. Si tratta di un motivo propriamente ecclesiologico, volto
a enfatizzare la convergenza in Cristo delle supreme funzioni regale
e sacerdotale secondo la lettura figurale di Gen 49,10, una lettura che
aveva già tenuto un ruolo di primo piano nella Historia di Eusebio e
nella Civitas Dei agostiniana e si era poi trasmessa al medioevo come
compimento della promessa del regno universale di Cristo.11 Baronio,
attingendo alle Antiquitates di Giuseppe Flavio, si preoccupa di confermarne l’autenticità storica:
«Al tempo opportuno, infatti, come era scritto nelle profezie sacre, lo
scettro e il comando si erano estinti dalla tribù di Giuda e dalla casa
di Davide, non in favore di Sedecia, come sosteneva Giuliano, ma in
favore degli Asmonei, dopodiché il potere supremo presso gli ebrei
fu consegnato a Erode. […] E in ogni caso di questi tempi [scil. poco
prima della nascita di Gesù] si erano estinti non soltanto il regno, ma
anche la legittima carica di sommo sacerdote. Dalla famiglia degli
Asmonei, infatti, essa fu trasferita ad altri, poiché Ircano pontefice
massimo fu ucciso da Erode stesso, il quale poi ordinò di uccidere
anche Aristobulo, della medesima stirpe, con cui l’aveva sostituito».12
Altrove l’apologia della tradizione attraverso il dispositivo delle prove storiche riguarda le consuetudini della Chiesa. È il caso, ad esempio,
della descrizione dei paramenti del sommo sacerdote conservati nella
Torre Antonia di Gerusalemme, che sembrano prefigurare il modello
dell’abbigliamento papale, o dell’abito di setole di cammello e della
cintura stretta sui fianchi di Giovanni Battista, a dimostrare l’uso antico
del cilicio. Questi, poi, per la vita da anacoreta, è indicato apertamente
10 Nell’edizione critica di riferimento degli Annales con la continuazione di Odorico Raynaldi, diretta da Giovanni Domenico Mansi con note di Antonio Pagi (Lucca, 1738-59, 38 voll.),
gli Apparatus sono pubblicati a parte nel XIX volume insieme con una raccolta di altri testi di
Baronio e di recensioni della sua opera, mentre il I volume esordisce con la nascita di Gesù.
11 Gen 49,10 : «Non auferetur sceptrum de Iuda et baculus ducis de pedibus eius, donec veniat
ille, cuius est, et cui erit oboedientia gentium». Cf. Ecclesiastica historia c. 6; De civitate Dei
XVII, 4. Il tema ricorre anche nella Historia ecclesiastica nova di Tolomeo da Lucca (1314-16),
I, 2, De primo pontifice et Domino nostro Iesu Christo.
12 «Opportunum sane tempus, defecerat enim, quod erat in sacris oraculis, de tribu Iuda, et
domo David regium sceptrum, atque ducatus, non in Sedechia, quod Iulianius dicebat, sed in
Assamonaeis, postquam rerum summa apud Hebraeos redacta est ad Herodem. […] Verum enim
vero non modo regnum, sed et legitima summi sacerdotii institutio, per haec tempora defecerat. E
familia namque Assamonaeorum fuit ad alios translatum, et Hircanus quidem pontifex maximus
ab eodem Herode necatus est, cui cum substituisset Aristobulum gentis eiusdem, mox et hunc
interfici iussit» (Annales ecclesiastici, Apparatus, 8-9).
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come «monachorum princeps», fondatore della vita monastica, secondo
una definizione (in realtà apocrifa) di Crisostomo.13
È attorno a due grandi luoghi dottrinali, tuttavia, che si condensa la
descrizione della missione di Gesù negli Annales: il primato di Pietro e
l’istituzione del sacrificio della messa.
L’apologia del ministero petrino si sviluppa in due momenti distinti.
Dapprima a commento dell’episodio di Gv 1,35 ss. dell’arrivo di Andrea e Simon Pietro presso Gesù, dove Baronio insiste sull’elezione di
Pietro merito confessionis, «in ragione della sua fede», laddove Andrea
era maggiore d’età (lo precedeva lungo la strada quando si erano fatti
incontro al Messia: una deduzione tratta dal Panarion di Epifanio), e
superiore quanto a perfezione di vita:
«Simon Pietro fu preferito da Cristo ad Andrea in ragione della sua
fede: infatti sappiamo che non soltanto nell’annuncio, ma anche nella
professione della suprema fede Simone fu superiore sia ad Andrea che
a tutti gli altri apostoli. […] Da questo appare quanto vergognosamente
sbaglino tutti coloro che ritengono che il primato sia stato attribuito a
Pietro perché era il più anziano».14
A completare l’analisi, una lunga digressione filologica sull’origine
e la ragione del nome Cefa/Pietro attribuito a Simone.
La questione del primato apostolico ricorre una seconda volta nell’episodio dell’investitura pontificale di Pietro, a esegesi della celebre pericope di Mt 16,18 («Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia
Chiesa»), il luogo evangelico più classico dell’apologetica romana. Ma
vale la pena di leggere il testo, che costituisce un esempio lampante di
quel «continuismo» biblico e, più in generale, storico, di cui ho scritto
poco fa:
«Poiché [Cristo], per la sua divina sapienza, prevedeva che sarebbe
accaduto spessissimo che sorgessero controversie e diatribe relative
13 Ivi, ad ann. 17, 92; ad ann. 31, 101-2: «Porro eiusmodi vitae genere Ioannem iecisse vitae
monasticae fundamenta […] catholici omnes fatentur: eaque de causa Chrysostomus eumdem
Ioannem monachorum principem nominat». Il riferimento è a due omelie attribuite a Crisostomo
che Baronio cita nella traduzione latina di Gentian Hervet, in Divi Ioannis Chrysostomi divinae
operae, qui nell’ed. Venetiis, apud Iuntas, 1574 (ed. or. 1549): In Marcum Homilia I, II, 417r, e
De divo Ioanne Baptista, in Ioan. 1, III, 143v. In realtà già Sisto da Siena, nella sua Bibliotheca
sancta (1566), aveva individuato entrambe le omelie come apocrife, un parere poi accolto da
Antonio Possevino nei suoi canonici Apparatus sacri, II, Venetiis, apud Societatem Venetam,
1606, 157-58.
14 «Praelatus vero Andreae Simon Petrus a Christo merito confessionis: etenim non in renuntiatione tantum, sed et in summae fidei professione Simonem tum Andreae, tum etiam caeteris
apostolis praestitisse constat; ut merito ille eligeretur, qui caeteris praeesse deberet: tuncque implendum, quod nunc tantummodo pollicetur, nempe ut Cephas, hoc est, Petrus, appellaretur […].
Ex his apparet, quam turpiter errent qui primatum putant Petro collatum, quod senior caeteris
esset. Nam quod ad hoc spectat, etsi non alii, certe Andreas maior aetate, prior in vocatione, et
in perfectioris vitae electione Petro praestabat» (ib., ad ann. 31, 103-4). Cf. Epifanio, Adversus
haereses II, n. 51, 14: PG 41,914-15.
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alla fede, a buon diritto decise di chiarire chi avrebbe avuto l’incarico
di giudicare cosa è corretto, in qualsiasi occasione. E affinché i divini
sacramenti riuniti nella Chiesa non perdessero di valore a causa della dispersione della fede nella convinzione dell’uno e dell’altro, Egli
volle istituire un solo capo, visibile a tutti, cui tutti gli altri si sottomettessero e obbedissero. La qual cosa del resto non c’è dubbio che
sia avvenuta sempre e dovunque, secondo il diritto divino e umano.
Nessuno ignora, infatti, che presso gli ebrei era stato istituito da Dio
un sommo pontefice, superiore a tutti gli altri sacerdoti […]. E anche
presso i gentili, quando mai si è trovata una repubblica in cui, a pieno
diritto, non esistesse un sommo sacerdote che, per legge e autorità, non
sovrastava tutti gli altri? Non starò a dimostrare questo fatto caso per
caso: bastino come esempio la repubblica romana, anzitutto, nella quale
il pontefice massimo rivendicava per sé il massimo potere tanto su tutti
i sacerdoti quanto sugli altri magistrati; e poi la repubblica ateniese,
dove pure esisteva un sommo sacerdote che nell’Areopago richiedeva
e raccoglieva i pareri degli altri».
L’ufficio pontificale assegnato a Pietro diventa dunque l’espressione
perfetta e definitiva di un elemento invariante nella storia dei popoli, la
gerarchia delle funzioni come garanzia di ordine, un principio radicato
nella lex aeterna trasmessa all’uomo all’atto della creazione. Cristo,
del resto, non si è incarnato per abrogare la legge, né quella umana né
quella naturale:
«Gesù, che non venne per distruggere la legge scritta né il diritto naturale che Dio ha instillato nella mente di ciascuno, bensì per rendere
tutto perfetto in ogni sua parte, dopo avere istituito nella Chiesa il
collegio degli apostoli ne scelse uno, quale capo supremo e principe,
che li guidasse tutti».15
15 «Hinc quoniam divina illa sapientia praevidebat fore, ut in Ecclesia saepius eiusmodi
quae ad fidem pertinent, orirentur controversiae ac disceptationes, iure consuluit, ut a quo quod,
quolibet tempore decernendum esset, in comperto esset; et ne ex cuiusque animi sententia fide
in diversa distracta, divina in Ecclesiam collata sacramenta vilescerent, unum idemque visibile
omnibus caput statuendum putavit, cui ceteri subessent ac parerent. Quod quidem iure divino,
humanoque semper ubique gentium factitatum esse, compertissimum est. Apud Hebraeos enim
summum pontificem, qui ceteris praeesset sacerdotibus, a Deo institutum esse, non est qui
nesciat […]. Sed et quaenam apud gentes optimis legibus reperitur instituta respublica in qua
non unus esset summus sacerdos, qui iure et auctoritate ceteros antecelleret sacerdotes? Non
morabimus haec in singulis demonstrare: satis ad exemplum ipsa in primis Romana respublica
in qua pontifex maximus maximum omnium tum in ceteros sacerdotes, tum in alios magistratus
sibi vindicavat imperium. In Atheniensium quoque republica summus etiam sacerdos erat, qui
in Areopago rogabat singulorum sententias, ac colligebat. […] Iesus, qui non legem scriptam,
iusve naturale a Deo menti cuiusque insitum labefactare venisset, sed numeris omnibus omnia
absolutissima reddere, instituto iam in Ecclesia collegio apostolorum, ex illis unum omnium
maximum ac principem, qui ceteris praeesset, elegit» (Annales ecclesiastici, ad ann. 33, 137).
Da questo punto di vista il giudizio di Roberto Osculati, che condivido appieno, secondo cui per
Baronio «la storia della Chiesa è sempre di nuovo quella che una volta per tutte è iscritta nelle
sue origini e i quattro evangeli canonici costituiscono i pilastri insostituibili della costruzione
successiva» (“Storia, dogma e leggenda alle origini del cristianesimo secondo gli Annali di
Cesare Baronio”, in: Baronio e le sue fonti, 171-89, qui 174), va integrato dalla consapevolezza
di questo peculiare continuismo controriformato che fa vedere nel cristianesimo e nelle sue
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Mi sembra opportuno sottolineare che queste considerazioni di
Baronio sono il chiaro riflesso del tema, peculiarmente tomista, della
concordia fra legge umana e legge naturale, discendenti entrambe dalla
ragione divina, e del loro accordo con lo ius divinum della rivelazione.
Si tratta di un luogo ricorrente in tutta l’apologetica cattolica dell’età
confessionale, in radicale opposizione alla separazione protestante tra
il regno della fede e quello della ragione. Una variante significativa
dell’impiego di questo tema si trova, ad esempio, presso i controversisti
gesuiti, nei quali la difesa della sovranità del papa in quanto iudex controversiarum si appella regolarmente alla naturalità dell’ordinamento
gerarchico in quanto costante delle comunità umane, riconoscibile tanto
nella Chiesa quanto nella sfera del politico. Mi limito a evocare le parole di uno tra i più prolifici e abili controversisti del primo quarto del
Seicento, Martin Becanus:
«Tra le questioni di fede e di religione da una parte e le questioni civili
e politiche dall’altra si può osservare una molteplice analogia. 1. Come
nelle cose politiche e civili spesso sorgono liti e controversie che richiedono la presenza di un giudice che emetta una sentenza tra le parti,
così è anche nelle cose di fede e religione. 2. Come nelle controversie
civili si distinguono queste tre cose, il giudice, la legge scritta e la
consuetudine, così anche nelle controversie di fede esistono il giudice,
la Scrittura nei due Testamenti e la tradizione».16
Se, proseguendo, osserviamo la descrizione del rito eucaristico e
dell’istituzione del sacrificio della messa – l’argomento cui Baronio
dedica più spazio – ci imbattiamo in una prospettiva continuista analoga, seppure questa volta non proiettata sulla corrispondenza tra fede e
ragione bensì sulla concordia tra Antico e Nuovo Testamento.
Dopo una lunga analisi preliminare del computo della Pasqua e delle
cerimonie conviviali presso gli ebrei e i gentili, il discorso baroniano
si concentra sulla descrizione del Seder di Pasqua e della collocazione,
all’interno di esso, della Cena del Signore, di cui sono sottolineati la
funzione istitutiva del sacerdozio cristiano e il perfezionamento dell’ordine mosaico dei rituali e delle benedizioni:
istituzioni il perfezionamento di preesistenti religioni rivelate, come nel caso dell’interpretazione
del confucianesimo elaborata da Matteo Ricci e dai gesuiti della missione cinese e di quella della
religione egizia che si trova in Athanasius Kircher.
16 «Inter res fidei ac religionis ex una parte, et inter res civiles et politicas ex altera, potest
spectari multiplex analogia. 1. Sicut in politicis ac civilibus saepe oriuntur lites ac controversiae,
quae requirunt aliquem iudicem, qui sententiam ferat inter partes litigantes, sic etiam fit in fide
ac religione. 2. Sicut in controversiis civilibus distinguuntur haec tria: iudex, lex scripta, et
consuetudo: sic etiam in controversiis fidei, haec tria, iudex, Scriptura utriusque Testamenti, et
traditio» (De iudice controversiarum, in: Becanus, Opera omnia aucta revisa et in duos tomos
distributa, qui nell’ed. Moguntiae, impensis Ioan[n]is Godefredi Schönwetteri, 1649, II, 1247).
Sulla concordia tra fede e ragione nella Seconda scolastica G. Heinz, «Divinam christianae
religionis originem probare». Untersuchung zur Entstehung des fundamental-theologischen Offenbarungstraktates der katholischen Schultheologie, Mainz, Matthias-Grünewald, 1984, 64 ss.
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«La Cena del Signore […] fu distinta dalla cena dell’agnello pasquale,
e fu amministrata dopo di essa. Vi fu istituito quel primo sacramento
ineffabile con cui avviene la transustanziazione del pane e del vino
nella carne e nel sangue di Cristo, nello stesso corpo di Cristo integro
sotto le due specie. Allora anche gli apostoli, cui il Signore ordinò di
fare la stessa cosa in memoria di lui, diventarono sacerdoti, e fu così
regolato il sacrificio che avrebbero offerto».17
Si noti la concisione delle parole dedicate al sacrificio celebrato da
Gesù, a fronte delle pagine che lo precedono e lo seguono e che servono
a stabilire la continuità tra il sacrificio prescritto da Dio a Israele e il
rituale eucaristico – nonché, naturalmente, il carattere sacramentale di
quest’ultimo fin dagli esordi della comunità cristiana, in opposizione al
simbolismo di matrice zwingliano-calvinista. È una lettura tutta dottrinale ed ecclesiologica nella quale resta al centro del discorso la difesa della
funzione sacerdotale, retta sull’interpretazione figurale di Melchisedec,
il re-sacerdote di Salem descritto da Gen 14,18-19:
«I simboli di un sacerdozio e di un sacrificio così supremi furono divinamente annunciati e predetti in quasi mille modi dall’antica legge, per
cui, per il momento, è sufficiente ricordare quelli che furono espressi
con alcuni segni non certo oscuri, consegnati alla profezia, nel re e
sacerdote Melchisedec […]. Da cui le parole di Cipriano nel commentare questo passo: “Nel sacerdote Melchisedec vediamo prefigurato il
sacramento del sacrificio del Signore, secondo ciò che ci testimonia
la Scrittura quando dice Melchisedec, re di Salem, offrì pane e vino.
Era sacerdote dell’Altissimo e benedisse Abramo”. Che Melchisedec
portasse in sé la figura di Cristo è dichiarato dallo Spirito santo nei
Salmi [Sal 110]».18
17 «Constat autem ex praedictis cenam Domini […] fuisse distinctam a cena agni paschalis,
ac post illam fuisse administratam. In qua primum illud sacramentum ineffabile est institutum
quo transsubstantiatio fit panis et vini in carnem et sanguinem Christi, in ipsum Christi corpus
sub utraque specie integrum. Tunc et apostoli, quibus Dominus praecepit id ipsum facere in
sui memoriam, sacerdotes sunt facti, atque ipsum sacrificium, quod offerrent, est ordinatum. Id
apostoli ipsi, id Patres omnes, id traditio ecclesiastica, ac ipsa catholica fides ab ipso exordio
nascentis Ecclesiae praedicavit, ac hactenus profiteri non desinit» (Annales ecclesiastici, ad
ann. 34, 159-60).
18 «Tam amplissimi sacerdotii ac sacrificii symbola, cum mille fere modis fuerint olim per
veterem legem divinitus praemonstrata, atque praedicta, satis sit in praesentiarum illa paucis commemorasse, quae in rege et sacerdote Melchisedech sunt quibusdam non obscuris certe figuris
expressa, atque oraculo prophetico consignata, dicente de Christo David, quid dico David? immo
ipso Deo Patre: Tu es sacerdos in aeternum, secundum ordinem Melchisedech. Unde in hanc
sententiam Cyprianus: Item, inquit, in sacerdote Melchisedech sacrificii Dominici sacramentum
praefiguratum videmus, secundum quod divina Scriptura testatur, et dicit: Et Melchisedech rex
Salem, protulit panem et vinum. Fuit autem sacerdos altissimi et benedixit Abraham. Quod
autem Melchisedech typum Christi portaret, declarat Spiritus sanctus in psalmis, ex persona
Patris ad Filium dicentis: Ante Luciferum genui te: Tu es sacerdos in aeternum, secundum ordinem Melchisedech» (ib., 161). Cf. Cipriano di Cartagine, ep. 63, Ad Caecilium de sacramento
Dominici calicis: PL 3,372-89.
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IV. Un’apologia della tradizione
Ora, quello che mi sembra apparire evidente a conclusione di questa
lettura dei luoghi più distintamente dottrinali della storia evangelica
degli Annales è che il Gesù di Cesare Baronio è solidamente collocato
all’interno di un continuum storico e religioso nel quale le tradizioni
pagane e quelle ebraiche prefigurano e annunciano la natura successiva
della Chiesa e fungono, per così dire, da riflessi parziali e frammentari
di un unico disegno divino destinato a piena rivelazione soltanto con
l’universalismo cristiano. Non a caso Baronio accetta in toto dalle antiche Historiae di Paolo Orosio l’idea dell’affermazione della sovranità
monocratica di Augusto e della pace da lui donata all’impero come
praeparatio dell’avvento, come pure la leggenda per cui l’imperatore
avrebbe avuto il presagio della prossima nascita di Cristo e per questo
avrebbe rifiutato il titolo di dominus.19
In questo imponente dispositivo argomentativo quella che viene ad
appannarsi, come già detto, è la soggettività di Gesù, la sua individualità, dispersa nell’opera corale che presiede al perpetuarsi della tradizione.
Il Cristo è caput e fondatore della Chiesa, ma solo in quanto figura
della tradizione, garante di una transizione dall’antico al nuovo patto che
si svolge nell’orizzonte del compimento, nel senso latino di completio,
di «completamento» e «perfezionamento» di leggi e consuetudini che
scaturiscono dalla legge eterna infusa nella natura umana e si trovano
sparse tra i popoli dell’antichità. La proclamazione evangelica della
separazione fra il regno di Dio e il mondo, e dunque del superamento
degli istituti d’obbedienza che reggono quest’ultimo, finisce per dare
scarsa o nulla traccia di sé nelle pagine degli Annales.
Non a caso, i passi evangelici che fondano la messianicità dell’annuncio di Gesù nel tono antinomico della sua predicazione sono toccati
del tutto cursoriamente da Baronio. Tre esempi ritengo siano sufficienti.
L’episodio della cacciata dei mercanti dal tempio: «Con l’avvicinarsi della Pasqua Gesù salì a Gerusalemme e, fatta una sorta di flagello
con alcune cordicelle, cacciò coloro che compravano e vendevano nel
tempio».20 In questo caso Baronio segue il racconto di Giovanni (2,13
ss.) e colloca il fatto all’esordio della predicazione di Gesù, accettandone anche il successivo dialogo con i farisei sulla distruzione e la
ricostruzione miracolosa del tempio. Ma non si sofferma neppure un
attimo sul significato simbolico del gesto, dilungandosi invece per il
19 Annales ecclesiastici, ad ann. 1, 59-60. Cf. Orosio, Historiarum adversus paganos libri
VII, VI, 20: CSEL 5,419. L’intero libro VI dell’opera descrive l’instaurazione dell’impero come
preparazione dell’avvento del Dio unico e della propagazione della sua parola.
20 «Interim vero appropinquante Pascha ascendit Iesus Hierosolymam, et facto quasi flagello
de funiculis eiecit ementes et vendentes in templo» (ivi, ad ann. 31, 109).
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resto della pagina a dimostrare l’esattezza del calcolo dell’evangelista
circa i quarantasei anni impiegati per i lavori di ampliamento del tempio
voluti da Erode il Grande.
Le beatitudini: «Mentre insegnava ai suoi discepoli tenne il discorso
sulla beatitudine, e mostrò più volte dove essa si trovasse».21 In questo
caso risalta ancora di più l’assenza di qualsiasi sforzo di esegesi di un
passaggio così centrale nella predicazione gesuana.
Infine, l’episodio dell’adultera: «Tornato nel tempio si mise a sedere
e a insegnare al popolo; allora gli portarono davanti una donna che era
stata colta in adulterio, ma egli, in mancanza di prove [deficientibus
accusatoribus], la assolse». L’espressione «deficientibus accusatoribus» usata per indicare l’assenza di prove sufficienti a una condanna
appartiene al vocabolario dello ius commune e ricorre spesso nel diritto
canonico. Un’evidenza in più, mi sembra, della peculiare coloritura
legalistica del ritratto di Gesù disegnato dall’autore.22
Questa insistenza sulla tradizione, che fa il paio con l’espulsione
della soggettività di Gesù dal racconto evangelico, mi pare fra l’altro che
possa essere stimata una delle ragioni di fondo che inducono Baronio
a scegliere il titolo di annales anziché di historia, qual era stata invece
la scelta dei Centuriatori. È una scelta che lo stesso autore giustifica
nella prefazione:
«Gli antichi distinguevano gli annali dalla storia laddove in quest’ultima l’autore tratta propriamente degli eventi dei suoi tempi, che ha
visto o che avrebbe potuto vedere, e indica non soltanto cos’è accaduto,
ma anche perché e con quale scopo, mentre negli annali egli affida ai
documenti la conoscenza degli eventi antichi, lontani dal suo tempo,
collocandoli uno per uno al tempo in cui accaddero. Noi dunque […]
lasceremo agli storici pagani […] i loro discorsi sistemati con arte squisita e finzioni, composti con le testimonianze di chicchessia sistemate a
piacere, e scriveremo annali anziché una storia, seguendo quel genere
oratorio che più si attaglia alla maestà e alla gravità ecclesiastiche, e
dunque esprimendoci con devozione, purezza, sincerità, senza alcun
ornamento né finzione».23
21 «Docens discipulos suos, habuit sermonem de beatitudine, et ubi illa esset sita, pluribus
demonstravit» (ivi, ad ann. 32, 124).
22 «In templum rediens, sedens docebat populum: tunc oblatam sibi mulierem deprehensam in
adulterio deficientibus accusatoribus, absolvit» (ivi, ad ann. 33, 143). Sull’espressione giuridica
deficientibus accusatoribus cf. A. Fiori, “Praesumptio violenta o iuris et de iure? Qualche annotazione sul contributo canonistico alla teoria delle presunzioni”, in: Der Einfluss der Kanonistik
auf die Europäischen Rechtskultur, Hrsg. O. Condorelli, F. Roumy, M. Schmoeckel, I: Zivil- und
Zivilprozessrecht, Köln, Böhlau, 2009, 75-106.
23 «In primis igitur, quod ad titulum spectat: cur potius Annales ecclesiasticos, quam historiam huiuscemodi lucubrationes nostras, maluerimus nuncupare, hanc asserimus ratione: eo
nempe discrimine veteres ab historia annales distinxerunt, quod illa proprie res suorum temporum gestas, quas auctor vel vidit, vel potuit videre, pertractet, neque tantum quid gestum sit,
sed et qua ratione, quove consilio, indicet: Annalibus contra scriptor res antiquas, ut plurimum,
quas sua non novit aetas, easdemque suis annis singulas monumentis commendet. Nos autem,
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Personalmente ritengo che dietro la scelta di Baronio, che è una
scelta di unicità lessicale che spicca rispetto a una lunga tradizione di
historiae ecclesiasticae, più o meno ortodosse – da Eusebio a Paolo
Orosio fino a Tolomeo da Lucca, Platina, Carlo Sigonio e Girolamo
Muzio –, traspaia anche una forma di autocensura, che si lascia leggere se collocata nell’alveo culturale e, ancor più, mentale della piena
Controriforma.
Mi spiego meglio: l’idea di historia rimanda di per sé a una narrazione, ossia all’esplicitazione letteraria di un processo cui sono connaturate
le caratteristiche dell’evoluzione e del mutamento, per il fatto che lo
storico vi è diretto testimone; gli annales, al contrario, secondo il paradigma di Tacito – maestro di stile e di ideologia per gli autori dell’età
tridentina –, sono registrazione di accadimenti fissati nel passato e quindi definitivamente consegnati a uno statuto di immutabilità. Altrimenti
detto, l’annalistica è intimamente legata al concetto di persistenza, e più
ancora di reiterazione degli eventi, consegnati a un orizzonte storico dal
quale è assente la possibilità del mutamento.
In questo senso, il perno concettuale attorno al quale ruota il macchinario dell’annalistica ecclesiastica di Baronio è quello della lotta
incessante fra l’ortodossia e l’eresia, ossia fra la conservazione e l’adulterazione della dottrina e della tradizione. È una visione metastorica
perché, lo vedremo subito, ha le sue ragioni non nel metodo storico
bensì in quello teologico, che nel caso del cattolicesimo tridentino è
schiacciato sul presupposto dell’indefettibilità del patrimonium fidei
della Chiesa romana.
A fare luce su questo, la stessa prefazione agli Annales: «Nessuna
questione nella Chiesa fino a oggi sembra essere stata così trascurata
come una narrazione delle cose ecclesiastiche condotta con sincero,
sicuro e perfetto impegno. Se guardiamo agli autori antichi che hanno pubblicato opere su questo argomento risulta difficile imbattersi in
qualcuno che abbia seguito in tutto la verità».24 A Baronio basta indicare
qualche colpevole: Eusebio, infetto da arianesimo, Socrate Scolastico e
Sozomeno, eretici novaziani, Orosio, oscuro e involuto, e poi gli storici
quoniam non tantum res antiquas, sed ecclesiasticas potissimum pertractamus, […] relinquemus
historicis ethnicis locutiones illas, per longiorem ambitum periphrastice circunductas, orationes
summa arte concinnatas, et fictas, ex sententia cuiusque compositas, ad libitumque dispositas,
et annales potius, quam historiam scribemus, et quod ecclesiasticam maiestatem ac gravitatem
maxime decet, dicendi genus sectantes: quae dicenda sunt sancte, pure, sincere absque ullo
prorsus fuco, vel figmento, prout gesta sunt, per annos singulos digesta enarrabimus» (Annales
ecclesiastici, Praefatio, 3).
24 «At maior ex aliis, atque ex nostris ipsis, qui in eo scribendi genere versati sunt, quam
ex praedictis, nostra quidem sententia, superest labor: cum, liceat ingenue fateri, nulla res in
Ecclesia ita hactenus negligi visa sit, ac rerum ecclesiasticarum gestarum vera, certa, atque exacta
diligentia perquisita narratio. Et ut de antiquioribus loquar, qui eiusdem argumenti commentarios
ediderunt, invenire difficile est, qui veritatem in omnibus fuerit assecutus» (ivi, 2).
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antichi a partire da Giuseppe Flavio, ciechi al lume della verità. Un intero catalogo di fonti non del tutto menzognere, ma di certo inaffidabili,
che arriva fino ai Centuriatori: nessuno di loro ha mentito in toto, ma
tutti hanno miscelato falsità e verità, lasciando allo storico cattolico il
compito di discernere le prime dalle seconde.
Nulla, in altri termini, si genera ex novo: è uno sguardo genealogico
sull’errore di fede che ha un proprio lampante corrispettivo nella coeva
prefazione alle Disputationes de controversiis di Bellarmino, inclusa
nella prima edizione dell’opera del 1586 ma che di fatto è la versione a
stampa di una declamazione risalente a dieci anni prima, all’esordio del
corso di teologia controversista tenuto dal teologo gesuita al Collegio
romano. In essa, sullo sfondo di una teologia della storia concepita di
nuovo come un perpetuo pólemos fra ortodossia ed eresia, Bellarmino
interpreta gli errori di Lutero, di Calvino e degli altri eretici moderni
come la restaurazione di un’antica catena di errori che si snoda a partire
dal primo eretico della storia della Chiesa, Simon Mago.25
Stiamo parlando di una forma mentis che è al tempo stesso criterio
di metodo e programma di battaglia culturale. La storiografia, anche
quella ecclesiastica, compirà tuttavia passi più rapidi della teologia,
meno permeabile alle suggestioni delle scienze filologiche e antiquarie.
A metà Settecento, agli occhi di un cauto riformatore come Giuseppe
Agostino Orsi, intellettuale di fiducia di papa Benedetto XIV, la scelta
annalistica di Baronio non sarà più comprensibile, e l’oratoriano finirà
accomunato proprio a Eusebio, Socrate Scolastico e Sozomeno – oltre
che a Tillemont e ai bollandisti – nella schiera degli scrittori che non
possono essere annoverati fra gli storici veri e propri in ragione dell’assenza, nelle loro opere, di un vero continuum narrativo: proprio quella
che per Baronio era stata una scelta epistemologica premeditata.26
V. Perché gli Annales
Vorrei ora tornare alla questione della funzione specifica degli Annales ecclesiastici.
Ho cercato di spiegare prima la differenza di fondo che, a mio parere, li oppone alle Centuriae Magdeburgenses: se per queste ultime
il nucleo ultimo di senso risiede nell’idea di recuperare, e custodire, il
tenue filo della corretta dottrina di Cristo all’interno di una storia che
25 Praefatio in disputationes de controversiis christianae fidei adversus huius temporis hae­
reticos, qui in: Roberti Bellarmini opera omnia, ed. J. Fèvre, I, Paris, Vivès, 1870, 53-62, su cui
rinvio a Motta, Bellarmino, 163 ss.
26 Della istoria ecclesiastica, in Roma, nella stamperia di Pallade, appresso Niccolò e Marco
Pagliarini, I, 1747, Prefazione.
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appare dominata dalla mistificazione, per gli Annales esso sta nella
ratifica di una tradizione che ha fondato l’autorità della Chiesa romana
durante tutta la sua storia, e nella sua difesa dall’assedio dell’eresia.
È un’opposizione che, però, non deve essere letta come riflesso di
un immediato rapporto di causa-effetto, bensì ricompresa all’interno di
due più ampi sistemi culturali, quello cattolico-romano e quello luterano
(meglio: gnesioluterano, per come la terminologia dell’epoca designava il «purismo» di Illyricus), la cui cristallizzazione occupa i decenni
centrali del XVI secolo.
La ragione di questa mia considerazione è semplice: il primo volume
degli Annales riproduce materiale che si può ritenere sia già pronto prima che a Roma si concepisca la necessità di una risposta ai Centuriatori,
ossia prima che la storia ecclesiastica del primo secolo diventi materia di controversia. Altrimenti detto: la historia evangelica di Baronio
non è concepita – lo si può affermare con un alto margine di certezza
– per rispondere alle Centuriae, ma per un’altra funzione che solo in
un secondo momento finisce assorbita dall’impresa più pressante della
disputa storiografica.
Sappiamo della freddezza che, all’interno della congregazione
dell’Oratorio – che Baronio vede nascere e verso la quale conserva
per tutta la vita una solida devozione –, circonda gli Annales; si può
anche scrivere di aperta ostilità, quantomeno da parte di Antonio Galloni, biografo e segretario di Filippo Neri (nonché a sua volta agiografo
dei martiri dei primi secoli), che stende una relazione critica piuttosto
dettagliata sull’opera del confratello.
Gli Annales ecclesiastici, nel loro impianto di grande silloge storiografica, prendono corpo non tanto per iniziativa degli ambienti oratoriani, ma per diretto interessamento degli organi di curia deputati
all’organizzazione dell’offensiva letteraria contro i protestanti. È nelle
stanze vaticane che si reperiscono i fondi necessari alla stampa dei
primi due volumi, la cui mole è tale, di per sé, da scoraggiare anche
il più volenteroso degli editori (stante, fra l’altro, l’allora scarsissima
rinomanza dell’autore al di fuori di Roma).27
Il progetto di confutazione delle Centuriae Magdeburgenses prende
vita a Roma attorno al 1565, quando già sono sul mercato i primi otto
volumi dell’opera. Il concilio di Trento si è concluso da due anni, e il
papato sta accentrando il controllo delle infinite filiere della riconquista religiosa – diplomatica, militare, pastorale, teologica, disciplinare –
che la storiografia ottocentesca riassumerà nel concetto complessivo
27 L. Ponnelle, L. Bordet, San Filippo Neri e la società romana del suo tempo (1515-1595),
tr. it. Firenze, Libreria editrice fiorentina, 1931 (ed. or. 1928), 358 ss. Sulla complessiva vicenda
editoriale degli Annales ecclesiastici G. Finocchiaro, Cesare Baronio e la tipografia dell’Oratorio, Firenze, Olschki, 2005.
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di Controriforma. Dal punto di vista della storia ecclesiastica le armi a
disposizione sono sconfortanti: a parte gli autori antichi come Eusebio
(di certo più caro ai protestanti che non ai cattolici per la sua insistenza
sulla sovranità imperiale sulla Chiesa), la biblioteca è composta essenzialmente dall’inservibile Historia ecclesiastica nova di Tolomeo
da Lucca, vecchia di duecentocinquant’anni, dall’assai poco ortodosso
Liber de vita Christi ac omnium pontificum del Platina (1479) e dai
sintetici cataloghi di pontefici firmati da Onofrio Panvinio.
I primi tentativi di confutazione sono affidati alla Compagnia di
Gesù, che sotto il generalato di Francisco de Borja diventa a tutti gli
effetti il referente istituzionale dell’offensiva confessionale cattolica
in Germania: si registrano due opere di Pietro Canisio, su Giovanni
Battista e la Vergine (1571 e 1572), e un’apologia del canone degli
apostoli per mano di Francisco de Torres.28 Ma nessuno di questi lavori
possiede il respiro adeguato. La Historia sacra di Girolamo Muzio,
Venezia, 1570, si arena al primo libro; quella di Carlo Sigonio non arriva
nemmeno alla stampa.
La commissione cardinalizia incaricata di predisporre la replica alle
Centuriae è istituita da Pio V nel 1571 e affidata a Guglielmo Sirleto, custode della Biblioteca Vaticana e influente esperto di manoscritti antichi.
Baronio ha i primi contatti con essa tra il 1576 e il ’77; nel maggio del
1577 inoltra a Sirleto – che lo aiuta nella traduzione delle fonti greche,
che Baronio non padroneggia – la richiesta di permesso di lettura dei
Centuriatori. Più o meno a quel momento deve risalire il suo incarico
ufficiale per la stesura degli Annales ecclesiastici.
Nell’aprile del 1579 Baronio riferisce al padre di avere terminato la
stesura del primo volume dell’opera: ha avuto due anni a disposizione
per lavorare con le Centuriae sulla scrivania e fare i necessari confronti.
Il volume è pubblicato dalla Tipografia Vaticana nel 1588, ma questo
ritardo di quasi dieci anni rispetto all’ultimazione dell’opera non deve
essere probabilmente attribuito a un’ulteriore riscrittura del testo, quanto
alla mole di lavoro che la stamperia (ufficialmente eretta con bolla di
Sisto V solo nel 1587) ha in cantiere, visto che in meno di un decennio
dà al giorno un imponente catalogo di fonti e di apparati che entrano di
diritto nell’ossatura dei testi di riferimento della scienza sacra tridentina: le opere di Basilio (1587-88), di Gregorio Magno (1588-93), di
Bonaventura (1588-96), nonché la Bibbia Sisto-clementina (1590-93)
28 P. Canisio, Commentariorum de Verbi Dei corruptelis liber primus. In quo de sanctissimi
praecursoris Domini Ioannis Baptistae Historia evangelica cum adversus alios huius temporis
sectarios, tum contra novos Ecclesiasticae historiae consarcinatores sive Centuriatores pertractatur, Dilingae, 1571; Id., De Maria Virgine incomparabili et Dei genitrice, Ingolstadii, 1572;
F. de Torres, Adversus Magdeburgenses Centuriatores pro canonibus apostolorum, Florentiae,
1572. Su questa prima produzione controversistica contro le Centuriae Zen, Baronio storico,
128 ss.
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e la Bibliotheca selecta di Antonio Possevino (1593). I numerosi refusi
della prima edizione degli Annales sembrano testimoniare in favore
di una certa frettolosità da parte dei tipografi vaticani.29 Senza contare
che, proprio in quegli stessi anni, Baronio è impegnato nella cura del
Martyrologium Romanum, che esce in una prima edizione nel 1584 e
in una seconda versione rivista cinque anni dopo.
A quando risale, allora, la composizione del primo volume degli
Annales, e con esso della storia evangelica di Baronio, e perché la curia
romana decide di affidare l’incarico proprio a lui? Il secondo quesito,
a giudicare dalle testimonianze, è assorbito dal primo: la commissione
Sirleto si rivolge a Baronio nel 1576 perché questi ha già in mano una
storia della Chiesa dell’età apostolica; l’intermediario deve probabilmente essere Filippo Neri, che a Sirleto è legato da una stretta consuetudine.
A dar fede alle parole di Carlo Bascapè, il biografo di Carlo Borromeo, nel 1584 Baronio sta lavorando da circa venticinque anni alla sua
storia della Chiesa; ne consegue che i suoi primi passi risalgono al 1560
circa, poco a ridosso dell’ingresso nella comunità di San Girolamo della
Carità a Roma, il primo gruppo di discepoli di Filippo Neri. Lo stesso
Baronio, del resto, nella deposizione rilasciata nel corso del processo
di canonizzazione di Neri, fissa questa sua attività all’esordio della propria vita religiosa: «[Neri] mi commandò che io parlasse dell’historia
ecclesiastica».30
L’impegno storiografico di Baronio, quindi, non sorge originariamente da un’urgenza controversistica, ma da un onere tutto interno a un
cenacolo devoto che è uno dei centri propulsori della riforma religiosa
della Chiesa romana, l’Oratorio. È in questo ambiente che prende corpo
la storia evangelica che troverà spazio negli Annales. Lo descrive più
in dettaglio Galloni nella sua Vita di san Filippo Neri:
«Ciascun giorno della settimana […] quattro sacerdoti uno doppo
l’altro ragionavano all’Oratorio: predicavano essi non se stessi, ma
Christo crocifisso; e questo facevano con tanto affetto, ardore, e spirito, ch’infiammavano non poco gli uditori nell’amor di Dio. I sermoni
erano di materie utili, e necessarie alla salute degli ascoltanti, […] e
terminati sempre con essempi tolti da vite de’ santi, co’ quali stirpavano mirabilmente i vizi, seminavano le virtù, e ricoglievano frutto
predicando, e operando, di vita eterna […]. Raccontava il p. Baronio
secondo l’usanza l’historie ecclesiastiche; altri le vite de’ santi, che
così voleva il beato padre».31
Finocchiaro, Cesare Baronio e la tipografia dell’Oratorio, 21 ss.
Zen, Baronio storico, 17.
31 La vita di san Filippo Neri, a cura di M.T. Bonadonna Russo, Roma, Presidenza del Consiglio dei ministri - Dipartimento per l’Informazione e l’editoria, 1995, 144.
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Il biografo di Baronio, Generoso Calenzio, fornisce ulteriori particolari sulle fonti e il metodo delle letture: relazioni dei missionari gesuiti
nelle Indie, leggende agiografiche, l’Imitazione di Cristo. Poi, a turno,
i partecipanti commentano i brani letti:
«Uno di questi ultimi sermoneggianti seguita il descorso della historia
ecclesiastica, e incominciando dal principio dell’incarnazione di Giesù Cristo Nostro Signore va di tempo in tempo raccontando tutte le
cose, che di mano in mano occorsono in diverse parti del mondo, che
sieno di edificatione, et mostrino la gloria di Dio, et la successione di
santa Chiesa, et la virtù, et gratia dello Spirito Santo, che la governa,
et fa che questa barca fra tante grandi tempeste di persecutioni di
imperadori, et d’heretici, che con diverse pestifere et false dottrine
hanno cercato di sovvertirla, sia stata sempre superiore, et habbia fatto
inchinare a sé imperii et regni, et convinte et confutate tutte le eresie,
come ne’ concilii santi si legge di tempo in tempo, ove si scuopre che
gli errori di moderni heretici sono le fecci assorbite da loro, che anticamente sono state da padri santi dimostrate false, anathematizzate,
et condannate».32
È evidente che, accanto agli scritti di edificazione e a quelli di carattere contemplativo, le letture comuni del circolo filippino di San
Girolamo e poi di Santa Maria in Vallicella abbracciano tematiche di
indiscutibile spessore dottrinale e apologetico, tradotte in questo caso
nel linguaggio di una storia sacra «dal principio dell’incarnazione di
Gesù Cristo» pensata come apparato atto a provare la santità della Chiesa romana, la sua discendenza apostolica, la sua superiorità a «imperii
et regni».
Né queste adunanze coinvolgono soltanto i preti dell’Oratorio: sappiamo che, dopo il riconoscimento ufficiale della congregazione, nel
1575, ad esse prendono parte uomini del rango intellettuale di Federico
Borromeo, Roberto Bellarmino, Gabriele Paleotti, il riformatore tridentino dell’arte sacra, Silvio Antoniano, restauratore della pedagogia
cattolica, il padre dell’antiquaria cristiana Antonio Bosio e due grandi
esperti di retorica sacra come Agostino Valier e Marc-Antoine Muret.
Siamo a un’altezza temporale alla quale il primo volume degli Annales, come notato sopra, può considerarsi completato: ma riesce difficile
pensare che a quel tavolo di pensatori di punta del papato tardocinquecentesco quelle pagine non siano oggetto di una rilettura collettiva. È
in questo ambiente di teologi, eruditi e predicatori seduti ai vertici della
Chiesa che nasce dunque il Gesù di Baronio.
32 Calenzio, La vita e gli scritti del cardinale Cesare Baronio, I, 136.
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VI. Storiografia sacra, conversione e riforma della Chiesa
Torno con ciò alla questione della funzione originaria dell’opera.
Ho introdotto all’inizio il tema delle metafore visuali che si accavallano
nelle pagine della prefazione: «Mostrare l’immagine vera», «rivolgere
gli occhi della mente», «primitivo ritratto della Chiesa», «dissolvere le
tenebre e disperdere la caligine». Non credo sia necessario ricordare che
lo statuto dell’immagine, nel paradigma culturale della Controriforma,
rinvia prima di tutto al regime della persuasione e di quello che è il suo
esito spirituale, la conversione.
Discipline come la teologia controversista, la pedagogia, la retorica
sacra, persino la filologia e l’antiquaria condividono, in quel paradigma culturale, la medesima finalità persuasiva e parenetica, e fra esse
rientra senza dubbio la storiografia apologetica che Baronio inaugura,
o comunque celebra in grande stile.
L’ideologia del ritorno alla purezza della Chiesa apostolica innerva
il programma di quelle forze del rinnovamento religioso cinquecentesco
che, da Jedin in poi, la storiografia ha identificato nei termini di riforma
cattolica.33
Nel seno delle congregazioni di preti secolari che operano il distacco
dalla pratica religiosa degli ordini del medioevo, come gli oratoriani, i
barnabiti e i gesuiti, questo programma di rigenerazione istituzionale
passa prima di tutto attraverso la riforma interiore, e dunque la conversione del proprio sé religioso. Di qui l’affermarsi di una dimensione
intrinsecamente morale della storia: per quanto riguarda l’Oratorio,
l’elaborazione di un nuovo modello di vita cristiana attinge alla conoscenza del passato degli exempla dei martiri e dei santi dell’età eroica
della Chiesa antica.34
33 Attualmente, in realtà, non sembra prevalere univocità di termini nell’indicare il movimento di rinnovamento interiore del cattolicesimo cinquecentesco che anticipa e prepara
la ripresa della Chiesa romana dopo il concilio di Trento: le espressioni «riforma cattolica»,
«riforma tridentina», «rinnovamento cattolico» sono di fatto del tutto equivalenti. Cf., fra gli
altri, R. Po-chia Hsia, La Controriforma. Il mondo del rinnovamento cattolico, 1540-1770, tr.
it. Bologna, il Mulino, 2001 (ed. or. The World of Catholic Renewal, 1540-1770, 1998, dove,
come si nota, non appare il termine «Controriforma»); J. O’Malley, Trento e dintorni. Per una
nuova definizione del cattolicesimo nell’età moderna, tr. it. Roma, Bulzoni, 2004 (ed. or. Trent
and All That. Renaming Catholicism in the Early Modern Era, 2000); R. Bireley, Ripensare il
cattolicesimo, 1450-1700. Nuove interpretazioni della Controriforma, tr. it. Genova, Marietti,
2010 (ed. or. The Refashioning of Catholicism, 1450-1700. A Reassessment of the Counterreformation, 1999).
34 Jedin, Kardinal Caesar Baronius, 19 ss. M. Impagliazzo, “I padri dell’Oratorio nella Roma
della Controriforma (1595-1605)”, Rivista di storia e letteratura religiosa 25/2 (1989) 285-307.
È in questo senso, probabilmente, che va letta l’attribuzione a Filippo Neri da parte di Baronio
non solo dell’impulso, ma dell’idea stessa della stesura degli Annales: VIII, 1599, Pro Annalibus
ecclesiasticis beato patri Philippo Nerio Congregationis Oratorii fundatori gratiarum actio, n.n.
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È senza dubbio verso questa direzione, a mio parere, che dobbiamo
guardare per capire a fondo la funzione culturale della historia evangelica di Baronio. «Se si vuole comprendere Baronio come storico –
nota Simon Ditchfield – è necessario tenere ben presente il concetto di
historia sacra e, al tempo stesso, ricordare che per l’oratoriano la produzione storica non era differente da quella liturgica, con l’inevitabile
conseguenza che la sua fruizione e la sua lettura erano, in definitiva, una
forma di preghiera».35 Gli studi baroniani ci testimoniano direttamente
di due conversioni seguite alla lettura degli Annales ecclesiastici: quella
di Justus Calvinus, controversista tedesco che nel 1602 si fa battezzare
a Roma assumendo il secondo nome di Baronius, e quella di Caspar
Schoppe, una tra le figure più controverse degli ambienti della corte di
Ferdinando II, convertitosi a Ingolstadt nel 1600.36
Certo esiste anche un bisogno di patronage che spinge il neoconvertito a eleggersi un padrino della propria conversione. Ma al netto di
questo sarebbe un errore prendere queste testimonianze come semplici
invenzioni propagandistiche.
Dopo il tramonto dell’età confessionale, dalla metà del XVII secolo
– e naturalmente a maggior ragione oggi –, la ciclopica macchina erudita
degli Annales non è più in grado di convertire nessuno: ma prima di quel
saliente la mozione psichica, la pulsione emozionale che nel mondo contemporaneo costituisce la naturale dimensione dell’esperienza religiosa
– conseguenza del soggettivismo ottocentesco e, per quanto riguarda
il mondo cattolico, della reazione al razionalismo illuminista –, è solo
un aspetto del processo di conversione.37 Altrettanto importante è il
convincimento della ragione, vale a dire l’assenso dato a un perspicuo
apparato di certezze, governato dal riconoscimento di prove di ordine
scritturale, teologico, storico: una diretta conseguenza dell’incertezza
confessionale, che pone il soggetto nell’obbligo di dovere discernere la
vera fede al fine di garantirsi la salute dell’anima.
Si tratta di un processo che, nella Roma di fine Cinquecento, trova
terreno fertile nella costruzione di quell’ideologia della capitale cattolica
come «paesaggio sacro» in cui restano accomunati gli Annales, le note
storiche di Baronio al Martyrologium Romanum e la Roma sotterranea
35 “Baronio storico nel suo tempo”, in: Cesare Baronio tra santità e scrittura storica, 3-21,
qui 4-5.
36 S. Benz, Zwischen Tradition und Kritik. Katholische Geschichtsschreibung im barocken
Heiligen Römischen Reich, Husum, Matthiesen, 2003, 47.
37 Il tema della conversione religiosa come fenomeno che, nell’età moderna, si fa leggere
attraverso più filtri, da quello politico a quello artistico e letterario, è oggetto da alcuni anni di
un interesse di ricerca piuttosto intenso. Vd., fra gli altri titoli, Konversion und Konfession in der
frühen Neuzeit, Hrsg. U. Lotz-Heumann, J.-Fr. Missfelder, M. Pohlig, Gütersloh, Gütersloher
Verlagshaus, 2007; The Turn of the Soul. Representations of Religious Conversion in Early
Modern Art and Literature, eds. L. Stelling, H. Hendrix, T.M. Richardson, Leiden-Boston,
Brill, 2012.
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di Antonio Bosio, la grande opera sulle catacombe protocristiane uscita
postuma nel 1635. È l’esplicitazione letteraria di quel culto per le antichità cristiane per il quale nel 1559 Filippo Neri, dopo anni di preghiera
solitaria nelle catacombe di San Sebastiano sull’Appia antica, crea il
circuito devozionale delle Sette chiese.38
Come l’apparato storico baroniano al Martyrologium abbonda di
descrizioni degli strumenti del martirio e dei luoghi di sepoltura, così
l’itinerario di Bosio nel circuito cimiteriale romano – oltre trent’anni di
esplorazioni nei sotterranei bui della città, significativamente restituiti a
partire dalle catacombe vaticane – accompagna il lettore nella contemplazione dei sepolcreti, degli oltraggi pagani ai corpi dei martiri e della
loro miracolosa conservazione.
Quello che l’occhio moderno rubrica come gusto tutto barocco per la
glorificazione della consistenza carnale della santità è in realtà il frutto
di un preciso programma di persuasione all’interno del quale l’archeologia e la storia conseguono un alto valore dottrinale, e non procedono
mai separate dalle loro ricadute teologiche. Come specifica il curatore
della Roma sotterranea, Giovanni Severani, in merito all’esegesi dei
simboli di uso sepolcrale,
«prima però di venire alla dichiaratione di dette figure, perché tra quelle, oltre alle sacre, ve ne sono alcune di vari animali, et altre indifferenti, le quali possono dar qualche sospetto, che in que’ santi luoghi vi
siano stati sepelliti ancora gentili, o heretici, o scismatici (come alcuni
hanno dubitato) ci è parso ancora necessario […] di provare con efficaci
ragioni, et auttorità de’ santi Padri, e sacri concilii, che li nostri cimiteri
sono stati sempre conservati illibati per uso de’ christiani, e non mai
contaminati da gentili, o heretici, o scismatici, con servirsi di quelli
né in vita, né in morte, come si accennò di sopra quando si trattò del
cimiterio degli hebrei».39
Le stesse catacombe protocristiane divengono così la prova di una
divaricazione fra ortodossia ed eresia antica quanto le origini del cristianesimo. Non sorprende che nell’opera di Bosio – e, lo vedremo tra poco,
in quella di Baronio – la formidabile perizia archeologica si accompagni
al rotondo credito dato a vetuste leggende agiografiche che narrano
di martiri che appaiono dopo la morte per reclamare la sepoltura e di
imprecazioni notturne degli spiriti di devoti monaci accomunati nella
tomba alle spoglie di eretici.
È sullo sfondo di questa doppia valenza funzionale, quella controversistica, per così dire esterna, e quella più generalmente devozionale
e parenetica, interna allo spirito di rinnovamento della Chiesa tridentina,
38 S. Ditchfield, “Reading Rome as a sacred landscape, c. 1586-1635”, in: Sacred Space
in Early Modern Europe, eds. W. Coster, A. Spicer, Cambridge, Cambridge University Press,
2005, 167-92, sp. 171 ss.
39 Roma sotterranea, in Roma, appresso Guglielmo Facciotto, 1632, 593.
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che va letto lo straordinario successo degli Annales ecclesiastici, e dunque della storia evangelica che essi propongono. Un’edizione corretta in
tre ristampe, presso la prestigiosissima officina dei Plantin di Anversa
(1589 ss., 1597 ss., 1612 ss.); una ristampa romana dei primi quattro
volumi (1591 ss.); un’ulteriore edizione a Magonza (1601 ss.) riprodotta a Venezia (1601 ss.) e Colonia (1609, 1624), solo per restare tra
quelle coeve all’autore.40 Una simile fortuna editoriale di certo riflette la
temperie culturale di un’epoca affannosamente alla ricerca della regula
fidei, il criterio per stabilire l’autenticità della fede: ma di certo rinvia
anche a un uso più funzionale dell’opera.
Per come sono articolati, l’ho già sottolineato, gli Annales ecclesiastici si presentano assai più come una collazione di fonti e di citazioni
che come un racconto dotato di una propria consistenza narrativa. È uno
dei rimproveri – l’altro, imperdonabile, è la difettosa o nulla conoscenza
del greco e delle lingue del Vicino Oriente – che a Baronio muovono gli
eruditi della grande tradizione del riformismo cattolico settecentesco,
Muratori, Giovanni Lami nelle Novelle letterarie, Juan Andrés e il già
citato Gisueppe Agostino Orsi.41
È un rilievo che si accompagna regolarmente a quello di eccessivo
spirito controversistico che accompagna la memoria di Baronio nell’età
dei Lumi. E non a caso queste critiche fanno il paio: l’andamento dossografico e descrittivo, anziché narrativo, degli Annales è parte essenziale
dello scopo per cui essi sono stati pensati dall’autore.
Gli Annales ecclesiastici, infatti, sono prima di tutto un inventario di
luoghi teologici, un repertorio di fonti e di prove pensato come alimento del lavoro di predicatori, confessori, controversisti. In questo senso
essi costituiscono una delle concretizzazioni più brillanti ed efficaci
del metodo argomentativo esemplato dai Loci theologici di Melchior
Cano (1563), con la loro teoria dei dieci luoghi, o classi di argomenti,
da cui attingere le prove necessarie all’ufficio apologetico. La decima
e ultima di queste classi è la storia profana, ed è innegabile che gli Annales ecclesiastici, nella loro essenza, siano il prodotto di una finissima
opera di tessitura che intreccia luoghi dottrinali (il Nuovo Testamento,
i padri) e luoghi storici sussidiari a quelli (subsidia fidei), concepiti
per fondare un discorso persuasivo atto a contribuire a ricomporre le
eventuali discordanze tra le fonti sacre e a inquadrare correttamente il
40 Come noto, seguono le continuazioni di Rainaldi, 10 voll., 1646-77, Laderchi, 3 voll.,
1728-37, Theiner, 3 voll., 1856, considerate quelle più affidabili. Meno pregevoli Bzowski, 9
voll., 1616-72, e Spondanus, 2 voll., 1659. Di riferimento la già citata edizione critica di Lucca,
1738-59. Sulla fortuna bibliografica degli Annales seguo le voci sull’autore di A. Molien, in:
DHGE, VI, 1932, 871-82, e A. Pincherle, in: DBI, VI, 1964, 470-78.
41 D. Menozzi, “Il dibattito sul ‘Baronio storico’ nella Chiesa italiana del Settecento”, in:
Baronio storico e la Controriforma, 693-734.
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significato di determinate espressioni ed eventi senza mai influire sulla
loro interpretazione ortodossa.42
Per l’alta cultura cattolica un’operazione di questo genere non era
pensabile, prima degli Annales, con i compendi a disposizione: né per
la storia della Chiesa in generale né, per lo specifico che qui ci interessa,
per la storia evangelica. Non con le opere del Platina e di Sigonio, che si
limitano a seguire stringatamente i racconti evangelici, e nemmeno con
quella di Muzio, pure esplicitamente pensata per ribattere ai Centuriatori, ma che esordisce con la morte di Giuda, trascurando incautamente
l’enorme potenziale controversistico contenuto nella vita di Gesù.43
Con gli Annales ecclesiastici, invece, uno sconfinato arsenale di
prove è messo a disposizione della variegata galassia dei mediatori del
discorso religioso controriformista. Ne fa fede, ritengo, la folta selva di
epitomi e compendi, ciascuno con il suo specifico taglio di lettura, che
segue dappresso l’uscita di ognuno dei volumi originali: solo per citarne alcuni, quelli di Francesco Panigarola esemplato sul primo volume
baroniano e uscito due soli anni dopo quest’ultimo (che però dedica
scarsa attenzione alla storia evangelica), di Gabriele Bisciola, 1601, e
di Henri de Sponde (Spondanus), il più diffuso, del 1613.44
È sulla base di questa letteratura sussidiaria, e soprattutto del probabile uso mediato – essenzialmente orale, possiamo ritenere – che se ne
fa, che si afferma e si radica nell’immaginario collettivo il Gesù della
42 Sulla concezione della storia profana in Cano A. Biondi, “Melchiorre Cano e l’esperienza
storico-filologica dell’Umanesimo”, ora in: Id., Esorcisti, eretici, streghe, 455-92 (ed. or. 1973).
43 «La intention nostra veramente essendo stata di scriver questa historia à popoli fedeli in
rimedio delle heresie, […] et ispargendo coloro, che nel tempo degli apostoli, et nella primitiva
Chiesa si usava la dottrina, che da loro si semina, a me è paruto soverchio il parlar della natività,
della vita, de’ miracoli, della morte, et della resurrettion del Signore (secondo che si è fatto da
loro) [scil. i Centuriatori] che di questo non è la nostra contesa. Ma habbiamo tolto il principio
della ascesa del Salvator nostro in cielo, per essere incontanente dapoi succedute cose che ributtano le coloro opinioni; et dalla dottrina de’ santi vangeli parleremo, quando pervenuti saremo
al loro luogo, che anche dopo la salita di Christo in cielo furono scritti i santi vangeli» (Della
historia sacra libro primo, in Venetia, appresso Gio. Andrea Valvassori, detto Guadagnino, 1570,
4r-v, n.n.). Cf. Platynae historici liber de vita Christi ac omnium pontificum qui hactenus ducenti
fuere et XX, a cura di G. Gaida, qui in: Rerum Italicarum scriptores, a cura di G. Carducci, V.
Fiorini, Città di Castello, S. Lapi, [1913-32], 4-8; C. Sigonio, Historiae ecclesiasticae libri XIV,
qui nell’ed. Mediolani, in Regia curia, 1734, 1-9.
44 F. Panigarola, Il compendio degli Annali ecclesiastici del padre Cesare Baronio, in Roma,
per gli heredi di Giovanni Gigliotto, 1590; G. Bisciola, Epitome annalium ecclesiasticorum,
Venetiis, apud Georgium Variscum, et socios, 1601; Annales ecclesiastici ex XII tomis Caesaris
Baronii in epitomen redacti, opera Henrici Spondani, qui nell’ed. Lutetiae Parisiorum, sumptibus Dionysii de la Nouë, 1617, che è il volume che più a lungo segue le vicende dei vangeli.
Altri compendi sono indicati nelle voci biografiche citate sopra, nota 40, e in Benz, Zwischen
Tradition und Kritik, 38 ss. Accanto a questa funzione controversistica va segnalata anche
quella più propriamente manualistica degli Annales e dei loro compendi, che però, a differenza
di quanto ritiene A. Burlini Calapaj, “Accademie e storiografia ecclesiastica alla fine del ’600”,
in: Baronio storico e la Controriforma, 659-71, non ritengo essere l’unica né la principale ragion
d’essere dell’opera.
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Controriforma dipinto da Baronio. Resta a questo punto da verificare
quale sia il metodo con il quale l’oratoriano traccia questo ritratto.
VII. Il metodo di Baronio
Il giudizio più autorevole su Baronio storico resta quello di Hubert
Jedin, che, pur riconoscendo l’impianto apologetico degli Annales e i
loro ripetuti errori nell’uso delle fonti, gli attribuisce il merito di essere
stato il primo autore in ambito cattolico a trattare della Chiesa come
oggetto di studio a sé, distinto dalla storia dell’umanità nel suo complesso.45
Si tratta di un giudizio certamente condivisibile ma che, a mio parere, almeno per quanto riguarda l’inquadramento teorico dell’opera e
in particolare della storia evangelica, non deve indurre a sopravvalutare
l’originalità baroniana.
Prima di tutto, la scelta dell’avvento, o quantomeno dell’incarnazione, quale punto d’avvio della storia della Chiesa è debitrice del
tradizionale palinsesto di Eusebio; tale scelta accomuna, ad esempio,
Tolomeo da Lucca, il Platina e Carlo Sigonio, mentre già ho segnalato
la scelta opposta di Girolamo Muzio. Nemmeno la contestualizzazione
del racconto evangelico all’interno del quadro storico dell’ebraismo del
secondo tempio e dell’impero dell’età di Augusto può essere considerata un’operazione del tutto innovativa, visto che un approccio analogo
apre l’opera del Platina e rinvia all’impianto delle Historiae di Paolo
Orosio.46
A fare la differenza rispetto al passato, in realtà, è lo spettro delle
evidenze messe in campo, che si traduce non soltanto nell’amplissima
mole di fonti prodotte da Baronio a fronte delle poche pagine dedicate
a Gesù dagli autori citati, ma soprattutto nella fittissima rete di riferimenti nella quale si incrociano autorità bibliche, patristiche e storiche,
tanto più rappresentativa della consapevolezza della posta in gioco e
del pluridecennale impegno profuso nella ricerca.
Su quali presupposti Baronio fonda il proprio uso delle fonti? Già
all’epoca della pubblicazione degli Annales la solidità metodologica
dello storico oratoriano è presentata come una virtù indiscussa, che
illumina un’inedita figura di intellettuale militante per il quale il lavoro
storico diventa una forma di ascesi.
«Tutto ciò che trovava difeso da ragioni e testimonianze inoppugnabili
era pronto ad affermarlo senza remore, e allo stesso modo respingeva
con franchezza ciò che gli appariva meno probabile e meno conforme
45 46 Jedin, Kardinal Caesar Baronius.
Liber de vita Christi ac omnium pontificum, 4-8.
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a verità, per quanto provenisse da fonti autorevoli; perciò prima di affermare qualcosa la ponderava attentamente, e indagava e valutava con
la dovuta diligenza chi fosse l’autore, quale la causa, il fine, il luogo,
il tempo, in una parola tutto».47
Così uno tra gli antichi biografi del cardinale, Girolamo Barnabei,
nel 1651. Ma queste considerazioni riproducono nella sostanza quanto
Baronio stesso premette al primo libro dell’opera:
«Tratteremo tutto in modo da non affermare nulla con leggerezza o
sconsideratamente: nulla senza motivo, nulla che non sia confortato
da testimonianze certissime, che non sia dimostrabile con la ragione, probabile congetturalmente e, per quanto è possibile, stabilito su
una chiara e solida verità. Possiamo affermare con certezza che, nello
scrivere, non abbiamo seguito alcuna favola da ignorante, ma solo le
testimonianze più affidabili».48
Ora, è necessario comprendere cosa intenda realmente Baronio allorché rivendica la solidità del proprio lavoro di analisi delle fonti e
l’accoglimento esclusivo di «testimonianze certissime» (probatissimi
testes). Secondo quale criterio, cioè, sono certissime le fonti che egli
impiega? Secondo un criterio filologico e storico, come per Valla ed
Erasmo, oppure di altro tipo?
Riguardo alla historia evangelica, le fonti degli Annales sono prima
di tutto gli scritti canonici del Nuovo Testamento secondo la Vulgata
di Girolamo, stante il fatto che all’epoca della composizione del primo
volume non è ancora disponibile la Sisto-clementina, che vede la luce
nella sua forma definitiva solo nel 1592. Non poteva essere altrimenti, del resto, visto che Baronio accetta in toto il canone testamentario
approvato dal concilio di Trento nel decreto sulle fonti della fede, ivi
compresi quei testi sui quali Lutero, Erasmo e, prima ancora, il Caietano avevano espresso forti dubbi di autenticità: la Lettera di Paolo agli
Ebrei, la Lettera di Giacomo, la Seconda lettera di Pietro, la Seconda e
la Terza di Giovanni, la Lettera di Giuda e l’Apocalisse.49 Tutti questi
47 «Quemadmodum quaecumque optimis rationibus ac testimoniis subnixa comperiebat,
facile, prompteque affirmabat, ita etiam siquid minus probabile, minusque consentaneum veritati
videretur, quantumvis graves alioqui authores haberet, libere atque aperte reiiciebat; quamobrem
antequam certi quidquam statueret, singula suis momentis expendere, qui rerum scriptores, quae
causae, quae consilia, loca, tempora, uno verbo omnia explorare diligenter, ac recognoscere» (G.
Barnabei, Vita Caesaris Baronii, Romae, apud Vitalem Mascardum, 1651, 50).
48 «Haec itaque omnia […] sic pertractabimus, ut nihil dicamus leviter, aut inconsiderate:
nihil inaniter, nihil quod non probatissimis testibus fulciatur, ratione demonstretur, coniecturis
probetur, ac denique, quantum licet, perspicua solidaque veritate firmetur. Non enim indoctas
fabulas secuti sumus haec scribentes, dicimus confidenter, sed gravissimis usi testibus, quos
testis ipsa chartarum margo, ne singulorum auctorum molestum, prae nimia longitudine texamus
catalogum, facile demonstrabit» (Annales ecclesiastici, Praefatio, 5).
49 Norelli, “L’autorità della Chiesa antica”, 274 ss. Sulle discussioni attorno al canone neotestamentario nell’età confessionale B.M. Metzger, The Canon of the New Testament. Its Origin,
Development, and Significance, Oxford, Clarendon Press, 1987, 239 ss.
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testi, a parte le lettere di Giovanni (ma senza dubbio per la loro marginalità nel corpus neotestamentario) sono contemplati dall’index locorum
del primo volume degli Annales: con una sensibile esiguità di citazioni
rispetto agli altri libri, forse dettata da prudenza, ma lo sono.
Quale contrappunto all’apparato biblico Baronio impiega poi i padri
dei primi secoli e gli altri autori cristiani antichi – Ignazio di Antiochia,
Giustino, Clemente Alessandrino, Origene, Ireneo, Ambrogio, Agostino,
Eusebio, Epifanio, Gregorio di Tours e altri, quindi Giuseppe Flavio e
Filone d’Alessandria come testimoni ebraici e Plinio il Vecchio, Svetonio, Ammiano, Tacito, Plutarco e Dione Cassio fra i pagani.50 Nella
descrizione della geografia dei luoghi santi – uno strumento non secondario nel corredo probatorio dell’autore – trovano un posto d’elezione
il De locis sanctis di Beda e la Descriptio Terrae sanctae di Burcardo
del Monte Sion. Giuseppe Flavio resta comunque la fonte non cristiana
di gran lunga più utilizzata.
All’interno di questo mare magnum di autorità Baronio dichiara
programmaticamente di sceverare tre generi di dati, quelli veri, quelli
verosimili e quelli falsi: «Ci appoggiamo a quelli veri, non contraddiciamo quelli verosimili, respingiamo quelli estranei alla verità».51 Ora,
cosa intende Baronio per dati «veri»?
Una semplice lettura del testo rende subito evidente che il vaglio
impiegato da Baronio dipende per intero da una valutazione dottrinale.
La regola che si desume prevede prima di tutto l’accoglimento in toto
di quanto proviene dagli scritti canonici, perseguendo sempre l’ideale
della concordia evangelica, cioè della composizione delle divergenze
tra i vangeli.
Le altre fonti antiche sono valutate sulla base della loro aderenza
al dettato dei testi canonici, come nel caso del censimento di Quirinio
governatore di Siria, che Giuseppe Flavio fissa a nove anni dopo la
morte di Erode contro quanto affermato da Luca (2,2): in questo caso
Baronio si dilunga nella confutazione del passo delle Antichità giudaiche compilando un elenco di prefetti e legati romani in Giudea al fine
di dimostrare la verità della datazione lucana.52 Lo stesso procedimento
vale per quegli episodi descritti da fonti apocrife del Nuovo Testamento
che tuttavia, nella tradizione, hanno conseguito una propria singolare
fortuna: se sono in aperta contraddizione con i vangeli canonici sono
respinti senza incertezze, come nel caso della leggenda dell’ostetrica
cui si secca la mano nell’assistere al parto virginale di Maria, con50 Un’attenta analisi delle fonti baroniane in Osculati, “Storia, dogma e leggenda alle origini
del cristianesimo”, 176 ss.
51 «Sicut veris innitimur, et verisimilibus non contradicimus, ita quae sunt a veritate prorsus
aliena, procul, ut instituimus, abiicimus atque refellimus» (Annales ecclesiastici, ad ann. 1, 31).
52 Ivi, ad ann. 1, 38 ss.
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tenuta nel Protovangelo di Giacomo e acquisita come autentica dalla
Legenda aurea di Iacopo da Varagine; se invece possono coesistere
con il racconto evangelico, come nel caso delle tradizioni sulla fuga in
Egitto provenienti dal vangelo arabo dell’infanzia (il crollo degli idoli
al passaggio della sacra famiglia), citate anche da Tolomeo da Lucca,
Baronio si limita a menzionarne l’esistenza senza descriverli ma non
dichiarandoli falsi.53
Agli autori cristiani antichi è accordato un credito piuttosto ampio.
Nel caso di discordanze prevale il principio della concordia interna alla
Scrittura. È il caso dell’origine dei Magi, caldei per Girolamo e Basilio,
persiani per Clemente Alessandrino, Crisostomo e Cirillo d’Alessandria,
arabi per Giustino, Cipriano e Tertulliano: Baronio si dichiara a favore
di quest’ultima tesi accettando la lettura figurale del Salmo 71 («i re
degli arabi e di Saba porteranno doni»), accostandola alla menzione di
Is 60,6 sulle tribù di Madian ed Efa e mostrando che queste avevano
colonizzato l’Arabia sulla base di Gen 25,6.54
In realtà, l’impiego di un metodo storico non dipendente da quello
dottrinale si rileva sostanzialmente solo nella critica delle tradizioni più
tarde, cui Baronio applica con un certo rigore il principio di antichità.
Un primo caso è quello dei prodigi che prefigurano e accompagnano
il tempo dell’avvento e della natività – gli oracoli delle Sibille sulla
prossima nascita del Salvatore, il sole circondato da un arco di luce,
l’improvviso sgorgare di una fonte d’olio presso il Tevere –, ampiamente citati dall’agiografia medioevale e risalenti in origine a Orosio, e che
Baronio accoglie senza remore.55 Al contrario, la leggenda del crollo
del tempio della Pace, a Roma, al momento della nascita di Gesù è rifiutata sulla base del fatto che Svetonio, Giuseppe Flavio e Plinio fanno
risalire solo a Vespasiano la costruzione di quel tempio: ma in questo
caso si tratta di una leggenda posteriore, attribuita a Pier Damiani.56 In
margine a questo, è semplice chiosare che il concetto di vero e quello
di verosimile non sono per nulla dipendenti dalla probabilità fattuale
di un evento, ma dalla loro prossimità alle fonti canoniche della fede.
Un secondo caso esemplare circa l’atteggiamento nei confronti della
tradizione riguarda l’episodio della presentazione di Maria al tempio e
del suo successivo matrimonio, un racconto che non ricorre nei canonici ma che dal corpus apocrifo si radica solidamente nella tradizione
cristiana. In questo caso Baronio, per stabilire la cronologia dell’evento,
si affida alla tarda Historia ecclesiastica di Niceforo Callisto (XIV sec.),
53 Ivi, ad ann. 1, 59, 70 ss. Cf. Legenda aurea, a cura di A. Levasti, I, Firenze, Le Lettere,
2000, 74; Tolomeo da Lucca, Historia ecclesiastia nova, c. 5.
54 Annales ecclesiastici, ad ann. 1, 65-66.
55 Ivi, Apparatus ad annales ecclesiasticos, 8; cf. Orosio, Historiarum adversus paganos
libri VII, VI, 20,5-8, 419 ss.
56 Annales ecclesiastici, ad ann. 1, 60.
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che cita un frammento di Evodio di Antiochia in cui è fissata a undici
anni l’età del matrimonio della Vergine e a quindici quella del parto:
la testimonianza è unica, ma data la sua antichità (Evodio è immediato
successore degli apostoli) Baronio l’accoglie come incontestabilmente
vera.57
VIII. Verità di fede e verità storica
Da quanto ho esposto sino a ora credo di poter concludere che la
historia evangelica di Baronio – ma lo stesso vale più in generale per gli
Annales ecclesiastici – sia l’esito dell’applicazione alla storia sacra del
programma di disciplinamento culturale perseguito dalla Chiesa tridentina: confermare il canone biblico e ribadire la centralità della tradizione
quale fonte della fede, rivalutare l’importanza della letteratura patristica,
e quindi di un approccio positivo alla teologia – di contro al peso che
la dialettica aveva nel metodo teologico medioevale –, sfrondare l’eredità devozionale del medioevo di quei culti e di quelle leggende che
escono dal perimetro del controllo dottrinale sulla tradizione esercitato
dalla gerarchia, costruire un discorso religioso persuasivo che sappia
usare le fonti storiche, secondo quanto previsto dalla metodologia dei
loci theologici, come elementi di un dispositivo apologetico che resta
comunque retto sul primato della teologia.
Credo che sia anche questa la ragione per cui l’inserimento a pieno
titolo della storia evangelica all’interno di un discorso che pretende di
corroborare una verità di fede come verità storica, quale si ritrova negli Annales, resti senza eco una volta tramontato il giorno pieno della
controversia confessionale.
I grandi autori cattolici di storia sacra del XVIII secolo, come Fleury e Dom Calmet, apriranno le loro storie della Chiesa con l’episodio
dell’associazione di Mattia agli apostoli descritto da At 1,15 ss., e dunque dopo l’ascensione di Cristo. «Suppongo che il mio lettore – premette Fleury – sia sufficientemente istruito sul mistero di Gesù Cristo […].
Chiunque si prenda la pena di leggere la mia storia avrà senza dubbio
la devozione di leggere i santi vangeli».58
57 Ivi, Apparatus ad annales ecclesiasticos, 21 ss. Sul criterio essenzialmente dottrinale
del metodo di Baronio, in questo caso in riferimento agli atti degli antichi martiri, richiamo il
contributo di F. Scorza Barcellona, “Gli Atti dei Martiri negli Annales Ecclesiastici”, in: Cesare
Baronio tra santità e scrittura storica, 195-221, e la sua critica alla tesi di S. Ronchey, “Baronio
e gli antichi Atti dei Martiri: dottrina ufficiale e realtà storica”, in: Baronio e le sue fonti, 301-25,
che invece insiste sulla correttezza del vaglio filologico baroniano.
58 «Je suppose que mon lecteur est suffisamment instruit du mystère de Jésus-Christ: de sa
generation éternelle, de sa naissance miraculeuse dans le tems, de sa vie, de ses miracles, de sa
doctrine, de sa passion, de sa mort, de sa resurrection et de son ascension glorieuse. Quiconque
prendra la peine de lire mon histoire, aura sans doute la dévotion de lire les saints évangiles»
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La storia dell’avvento, dell’incarnazione e della passione di Cristo
narrata dai vangeli e commentata dai padri, con i suoi miracoli, i suoi
prodigi, le sue genealogie e i suoi rimandi profetici, non sarà allora più
credibile come regime storico di verità a fronte del progredire di un
metodo la cui persuasività sarà vincolata non più alle esigenze della
lotta confessionale, ma alle convenzioni delle scienze profane. La storia
evangelica, in altri termini, sarà sempre più consegnata all’ambito della
fede; probabilmente solo da quella fase, e probabilmente anche come
reazione all’eredità di quel dispositivo culturale dogmatico di cui gli
Annales ecclesiastici sono uno tra i testi fondatori, prenderanno forma
i presupposti della ricerca sul Gesù storico.
Franco Motta
Dipartimento di Studi Politici
Università di Torino
[email protected]
(Histoire ecclésiastique, qui nell’ed. Paris, chez Emery - Saugrain - Pierre Martin, I, 1722, 1-2).
A. Calmet, Histoire de l’Ancien et du Nouveau Testament, qui nell’ed. Paris, chez Emery, II,
1718, narra brevemente delle vicende evangeliche alla fine della sezione dedicata all’Antico
Testamento, senza alcuna contestualizzazione storica né discussione delle fonti.
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