Il viaggio nel mare magnum dei testi dannunziani ha un inizio e non

D’Annunzio: vates victus, vates invictus?
Fu il più grandioso nocchiero che traghettò l'Italia dall'Ottocento al Novecento, dalla piccola
borghesia di provincia alla nazionalizzazione delle masse, dalla Belle Époque alla guerra, dalla
galanteria all'eros, dalla morale all'estetica, dal cavallo al velivolo e al sommergibile, dal culto
romantico del genio e dell'eroe al culto moderno del superuomo, ardito trascinatore delle folle.1
Così Marcello Veneziani descrive quell’uomo che forse più di tutti influenzò la società dell’Italia di
inizio Novecento, trasformandola, divertendola, sorprendendola, trascinandola con tale originalità,
classe e carisma che nel corso della storia difficilmente verrà imitato: Gabriele D’annunzio.
L’amore per le donne che hanno fatto parte della sua vita ha sicuramente contribuito ad accrescere
la grande fama dell’amante passionale creando nell’uomo il mito, ma ciò che probabilmente più
rese D’Annunzio il personaggio affascinante, che vive nell’immaginario degli Italiani così come in
quello estero, è il suo stile di vita, la sua ideologia, le sue imprese eroiche e simboliche, la capacità
di coinvolgere lettori e uditori nei suoi stessi obiettivi, renderli partecipi, anzi elementi
indispensabili nella sua scalata al successo. Il poeta esteta, l’esistenza come trasgressione, vitalismo
e immaginazione: la sua vera aspirazione fu elevare la vita al rango di opera d'arte fatta per essere
ammirata e imitata.
Tuttavia sorge una domanda: se l’uomo non fosse stato il Personaggio, avrebbe potuto avere la
stessa influenza, lasciare la stessa indelebile impronta sul sentiero sul quale si stava avviando
l’Italia?
Viceversa, in quanta misura fu invece la società dell’epoca ad influenzare lo scrittore? La fama già
affermata attorno a lui fu determinante? E poi, sarebbe possibile immaginare un uomo simile in un
contesto diverso da quello di un’Italia da poco unificata, ancora divisa sotto molti aspetti e pertanto
facilmente influenzabile e manipolabile?
È indubbio che con i se e con i ma la storia non si costruisce, ma è altrettanto vero che per
riconoscere a livello sociale e politico le imprese di questo mito va approfondito e analizzato, in
primo luogo attraverso la sua avventurosa vita e poi mediante i suoi testi, il ruolo effettivo che egli
ebbe grazie al suo carisma politico e letterario e non soltanto per le storie di gossip…
1
Il Capitano che portò in guerra l’Italia: vittima o eroe?
Durante il primo ventennio del Novecento, l’Europa fu travolta dalla Grande Guerra e D’Annunzio
partecipò attivamente alle vicende belliche dando un determinante contributo.
La scintilla che fece scoppiare il primo conflitto mondiale fu l’uccisione dell’erede al trono
dell’impero asburgico Francesco Ferdinando per mano di uno studente serbo-bosniaco. In pochi
giorni, le cinque maggiori potenze europee erano scese in campo su due fronti contrapposti (Austria
e Germania, Russia, Francia e Inghilterra). L’Italia rimase inizialmente neutrale, giustificando
questa scelta con il carattere difensivo proprio della Triplice Alleanza.
Il governo italiano a questo punto si scisse in interventisti e non interventisti. I partiti non
interventisti erano i liberali (giolittiani), i cattolici e i socialisti, mentre degli interventisti facevano
parte i democratici, i sindacalisti rivoluzionari, i nazionalisti e i socialisti fuoriusciti dal loro partito.
All’inizio del conflitto le forze non interventiste erano la maggioranza ma gli interventisti
sfruttarono la stampa e i mezzi di propaganda per mobilitare le masse ed impadronirsi delle piazze.
L’Italia firmò segretamente con la Triplice Intesa il Patto di Londra, che prevedeva dunque l’entrata
in guerra dell’Italia al fianco di quest’ultima.
L’unico ostacolo alla guerra era dunque la maggioranza neutralista parlamentare, che doveva
teoricamente approvare il Patto di Londra. Quando la maggior parte dei deputati si schierò a favore
di Giolitti e dunque della neutralità dell’Italia, le manifestazioni interventiste si fecero sempre più
imponenti e violente: la piazza si era ormai schierata.
In quelle che vennero poi chiamate le “radiose giornate di maggio” il protagonista assoluto fu
proprio Gabriele D’Annunzio, che tenne di fronte alle folle entusiaste una serie di discorsi a favore
dell’intervento in guerra contro la Triplice Alleanza.
“Compagni, non è più tempo di parlare ma di fare; non è più tempo di concioni ma di azioni, e di
azioni romane. Se considerato è come crimine l'incitare alla violenza i cittadini, io mi vanterò di
questo crimine, io lo prenderò sopra me solo. Se invece di allarmi io potessi armi gettare ai
risoluti, non esiterei: né mi parrebbe di averne rimordimento. Ogni eccesso della forza è lecito, se
vale ad impedire che la Patria si perda. Voi dovete impedire che un pugno di ruffiani e di frodatori
riesca ad imbrattare e a perdere l'Italia. (…) Ascoltatemi: Intendetemi. Il tradimento è oggi
manifesto. Non ne respiriamo soltanto l'orribile odore, ma ne sentiamo già tutto il peso
obbrobrioso. Il tradimento si compie in Roma, nella città dell'anima, nella città di vita! Nella Roma
vostra si tenta di strangolare la Patria con un capestro prussiano maneggiato da quel vecchio boia
labbrone le cui calcagna di fuggiasco sanno la via di Berlino. (…) Formatevi in drappelli,
2
formatevi in pattuglie civiche; e fate la ronda, ponetevi alla posta per catturarli. Non una folla
urlante, ma siate una milizia vigilante. Questo vi chiedo. Questo è necessario. È necessario che non
sia consumato in Roma l'assassinio della Patria. Voi me ne state mallevadori, o Romani. Viva
Roma Vendicatrice!”.2
Questo discorso di D’Annunzio fu gridato a gran voce alla folla il 13 maggio 1915 a Roma. Il poeta
non solo incitava i suoi concittadini a sostenere l’entrata in guerra dell’Italia, ma anche ad
imbracciare le armi loro stessi e catturare coloro che erano contro la salvezza e la grandezza della
patria.
Poco tempo dopo lo scrittore tenne un altro discorso violento in Campidoglio, durante il quale,
nell’incitare ripetutamente il popolo all’entrata in guerra, fece leva sui sentimenti patriottici e
acclamò i soldati, per la maggior parte ragazzi. I politici, che a suo parere denigravano l’esercito,
avrebbero in realtà dovuto ringraziare i giovani militari, che li stavano proteggendo dalla violenza
delle masse popolari.
“Come dovevano essere afflitti i nostri giovani soldati! E di qual disciplina, di quale abnegazione
davano essi prova, proteggendo contro la giusta ira popolare coloro che li denigrano, che li
calunniano, che tentano di avvilirli davanti ai fratelli e davanti ai nemici! Gridiamo: "Viva
l'Esercito!". È il bel grido dell'ora!
Fra le tante vigliaccherie commesse dalla canaglia giolittesca, questa è la più laida: la
denigrazione implacabile delle nostre armi, della difesa nazionale. Fino ad ieri, costoro hanno
potuto impunemente seminare la sfiducia, il sospetto, il disprezzo contro i nostri soldati, contro i
belli, i buoni, i forti, i generosi, gli impetuosi nostri soldati, contro il fiore del popolo, contro i
sicuri eroi di domani. (…) Verde, bianca e rosso! Triplice splendore della primavera nostra! Date
tutte le bandiere al vento, agitatele e gridate: Viva l'Esercito! Viva l'Esercito della più grande
Italia! Viva l'Esercito della liberazione!”3
Ma D’Annunzio non voleva solo difendere l’esercito dalle calunnie dei potenti ma intendeva anche
mostrare al popolo che coloro che li governavano in realtà non ne avevano il diritto e cercavano di
svendere l’Italia solo per salvaguardare i propri interessi economici.
“Non vi lasciate illudere, non vi lasciate ingannare, non vi lasciate impietosire. Tal mandra non ha
rimorsi, non ha pentimenti, non ha pudori. Chi potrà mai distogliere dal gusto e dall'abitudine del
brago e del truogolo l'animale che vi si rivoltola e vi si sazia?(…) non dev'essere tollerata la
presenza impudente di coloro che per mesi e mesi hanno trattato col nemico il baratto d'Italia. Non
bisogna permettere che, camuffati della casacca tricolore, vengano essi a vociare il santo nome
con le loro strozze immonde.
3
Fate la vostra lista di proscrizione, senza pietà. Voi ne avete il diritto, voi ne avete anzi il dovere
civico. Chi ha salvato l'Italia, in questi giorni d'oscuramento, se non voi, se non il popolo schietto,
se non il popolo profondo. (…)
Suonate la campana a stormo! Oggi il Campidoglio è vostro come quando il popolo se ne fece
padrone, or è otto secoli, e v' istituì il suo parlamento. O Romani, è questo il vero Parlamento. Qui
da voi oggi si delibera e si bandisce la guerra. Sonate la Campana!”4.
Sulla scia di questo grande entusiasmo e preoccupato di una grave crisi costituzionale, il governo
dichiarò guerra all’Austria - Ungheria: era il 24 maggio 1915. D'Annunzio si arruolò volontario
nei Lancieri di Novara, nonostante avesse già 52 anni, partecipando subito ad alcune azioni
dimostrative navali e aeree.
Ottimo aviatore, nel settembre 1915 partecipò a un'incursione aerea su Trento e nei mesi successivi,
sul fronte carsico, a un attacco lanciato sul monte San Michele nel quadro delle battaglie
dell'Isonzo. Il 16 gennaio del 1916, a seguito di un atterraggio d'emergenza, nell'urto contro la
mitragliatrice dell'aereo riportò una lesione all'altezza della tempia e dell'arcata sopraccigliare
destra. La ferita non curata per un mese provocò la perdita dell'occhio. Tuttavia, ben presto tornò a
combattere. Contro i consigli dei medici, continuò a partecipare ad azioni belliche aeree e di terra:
nel settembre 1916 ad un'incursione su Parenzo e, nell'anno successivo (1917), con la III Armata,
alla conquista del Veliki e al cruento scontro presso le foci del Timavo nel corso della decima
battaglia dell'Isonzo. Nel marzo 1918, con il grado di maggiore, assunse il comando della Squadra
aerea di San Marco. Le imprese aeree contro il porto di Cattaro (1917) e il Volo su Vienna e la
partecipazione sui MAS alla Beffa di Buccari (1918) completarono il suo stato di servizio. Al
termine del conflitto egli apparteneva di diritto alla generazione degli assi e dei pluridecorati 5 e il
coraggio dimostrato, unitamente alle celebri imprese di cui era stato protagonista, ne consolidarono
ulteriormente la popolarità.
Per quanto D’Annunzio potesse essere famoso in Italia e anche all’estero, era comunque un uomo e
come tutti gli uomini soffriva di uno strano morbo per cui si diventa reduci.
Anni di guerra impediscono a molti di ritrovare la dimensione della pace, di accettare la fatica di
affrontare i problemi con calma e ponderatezza; l'abitudine alla violenza, vissuta per anni come
norma quotidiana e come risolutrice del problema bellico immediato (la distruzione del nemico), è
dura da perdere. A ciò si aggiunga quel clima di sbandamento culturale che l'Europa viveva
dall'inizio del secolo; i messaggi futuristi di Marinetti, con l'esaltazione dell'azione fine a sé stessa,
con la proclamazione della bellezza della guerra, trovavano facile presa soprattutto tra i giovani, che
vivevano indubbiamente un momento di smarrimento. Infatti il XX secolo, nella sua ansia di creare
nuovi valori, nella sua sconfinata fiducia nel progresso, aveva in verità creato un grande vuoto. E
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contro la paura, contro lo smarrimento, è bello essere in tanti, essere pieni di energia, vivere la vita
come una sfida continua.
Anche in D’Annunzio si riscontrano queste caratteristiche poiché leggendo i suoi testi, è in
evidenza la contrapposizione tra un'eleganza formale squisita unita a una capacità unica di costruire
il linguaggio e l'assoluta mancanza di veri contenuti e valori, salvo che si vogliano considerare
come tali l'esaltazione della vita eroica e l’ideale dell'uomo superiore, capace di cogliere nella loro
completezza sensazioni spesso esasperate, che siano di godimento o di dolore, di dominio o di
sacrificio. I valori con i quali il poeta non si identificava erano gli ideali borghesi, strettamente
legati al profitto economico che concepiva l’arte sempre più come un prodotto per la massa.
Paradossalmente però lo stesso autore era molto attento alle leggi di mercato e cercava di trovare
ogni modo di essere pubblicizzato perché per condurre una vita lussuosa e non omologarsi alla
massa aveva necessariamente bisogno dei soldi che provenivano proprio dalla borghesia. La ricerca
di risorse finanziarie fu dunque la costante preoccupazione della sua vita.
D’Annunzio, tuttavia, non condivideva l’entusiasmo e la bellezza dell’essere in tanti che
caratterizzava tanti suoi contemporanei: al contrario, essendo un artista e non facendo parte
dell’omologante mediocrità industriale, si elevò dalla massa e cercò quell’eccentricità che lo rese
famoso, come possiamo capire dalla sua esperienza militare di aviatore solitario e dal suo modo di
vivere la guerra in modo isolato. Il poeta è promotore di se stesso come avventuriero temerario, che
non ha paura dei pericoli e sempre disponibile a farsi capo di selezionate schiere di “audaci”, come
avverrà successivamente.
In questo contesto storico, politico e culturale si venne a creare la questione di Fiume.
Fiume, nella quale erano presenti diverse etnie tra cui la più numerosa era l’etnia italiana, era una
delle più floride città dell'Impero austro – ungarico. Quando l’Italia firmò il Patto di Londra con la
Triplice Intesa, l’assegnazione delle terre prevedeva il Trentino fino al Brennero, Trieste e le Alpi
Giulie, tutta l'Istria, quasi tutta la Dalmazia, Valona e il suo entroterra albanese e il Dodecanneso,
ma nessuno aveva pensato a Fiume, anche perché la comunità italiana di quella città aveva ben
pochi legami con la madrepatria. Tuttavia l'occupazione della città da parte delle truppe slave, con
tutta la minaccia di integrazione forzata che questo comportava, aveva indotto gli italiani di Fiume a
formulare l'appello all’allora Primo Ministro Orlando. Fiume si faceva forte del suo antico stato
giuridico speciale e reclamava il proprio diritto all’autodeterminazione.
La maggior parte del popolo e dei letterati tra cui D’Annunzio vedeva la vittoria della Grande
Guerra come una vittoria mutila, poiché la città di Fiume non era stata concessa all’Italia.
D'Annunzio tuonava sulle piazze contro la vittoria mutilata e intanto gli avvenimenti a Fiume
precipitavano. Il Capitano Host Venturi mobilitò le truppe della legione fiumana, un corpo
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paramilitare, e inviò un messaggio a D'Annunzio, invitandolo ad assumere il patronato della causa.
Host Venturi sfondava una porta aperta, perché D'Annunzio era chiaramente bramoso di azione; del
resto l'idea di un'azione armata per liberare Fiume, cacciandone le truppe alleate e costringendo il
governo italiano a dichiarare l'annessione della città all'Italia, serpeggiava già da mesi, ma non
aveva ancora preso corpo e soprattutto mancava di un Capo. La scelta di Host Venturi fu felice,
perché la popolarità del poeta soldato era tale da poter fare da catalizzatore delle forze più disparate,
come avvenne. Il governo italiano ordinò all’esercito di presidiare il confine della città e di
aumentare la sorveglianza.
Il 12 settembre 1919 D'Annunzio era a Ronchi, una cittadina a pochi chilometri da Trieste, con un
seguito di poche centinaia di uomini; tuttavia sulla strada per Fiume il numero andò aumentando:
alle porte della città contesa gli uomini al seguito di D'Annunzio erano oltre duemila, tra granatieri,
arditi e fanti. Il generale Pittaluga, secondo gli ordini, avrebbe dovuto fermare con le armi questo
esercito privato, comandato da un uomo che palesemente si poneva in rotta col governo. Ma al
gesto teatrale di D'Annunzio, che aprì il pastrano mostrando la medaglia d’oro e proclamando “Lei
non ha che a far tirare su di me, Generale!”6, Pittaluga rispose abbracciando il poeta ed entrando
con lui a Fiume.
L’avvenimento suscitò nel Paese anche le simpatie delle masse popolari che vedevano in quel gesto
di forza, seguito da entusiastiche manifestazioni, il prodromo della rivoluzione proletaria. Passati i
primi giorni di entusiasmo, Fiume si trovava di fronte ai problemi concreti di una città sottoposta ad
un blocco; con un passaggio di poteri alquanto fumoso, il Comandante (D’Annunzio) dovette
sobbarcarsi tutte le questioni pratiche, perché lo scrittore era piuttosto determinato a creare quel
clima che avrebbe dovuto fare di Fiume il faro di una ripresa nazionale all'insegna di valori, che
avevano come denominatore comune l'azione bella ed eroica. Il poeta presentava sé stesso e i suoi
seguaci come i rappresentanti della vera Italia, incarnazione di una forza spirituale superiore, e i
suoi soldati come i genuini rappresentanti delle forze armate, quelli che non avevano mai
smobilitato e che non accettavano nessuna mutilazione della Patria. Non a caso a Fiume conversero
nazionalisti, che furono comunque i primi protagonisti dell'impresa, ma in seguito anche anarchici e
sindacalisti. La Costituzione di Fiume risultò tanto avanzata quanto irrealistica per l'epoca e
comunque non trovò mai pratica attuazione.
Nel giugno del 1920 tornò al potere Giovanni Giolitti, appoggiato anche dai nazionalisti e da
Mussolini, che vedevano in lui l'unico uomo in grado di far uscire il paese dal caos. E Giolitti fu
l'uomo che seppe liquidare Fiume; ma si assicurò l'appoggio di Mussolini, pronto a scaricare il
poeta ora che l'avventura fiumana, non avendo di fatto risolto nulla, stava per ripiegarsi su sé stessa.
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Mentre in Italia accadevano queste cose, D'Annunzio vedeva crescere il suo isolamento in una città
afflitta dai seri problemi di un'economia dissestata.
Una spedizione a Zara, insieme a tanto numerosi quanto fumosi progetti di esportare il modello
fiumano non solo nel resto dell'Italia, ma addirittura nel mondo, a difesa di tutti i popoli oppressi7,
non era che un’ulteriore espressione di un'esperienza che non aveva prodotto nulla di concreto.
Nel Natale del 1920 le truppe regolari entrarono in Fiume, dopo che una cannonata, sparata da una
corazzata, aveva colpito la stessa residenza del Comandante. Dopo il Natale di sangue i legionari,
che avevano perso una cinquantina di uomini, abbandonarono Fiume indisturbati; D'Annunzio si
trattenne ancora per poche settimane e poi se ne andò, indisturbato anche lui, ritirandosi dal 1921 a
Gardone.
Lì Mussolini, come tributo a D’Annunzio, inviò finanziamenti per trasformare la villa di Cargnacco
del poeta in una residenza monumentale, il famoso Vittoriale degli Italiani, più simile a un museo
che a un’abitazione; al tempo stesso, però, lo fece controllare da spie.
Il rapporto tra D’Annunzio e il Duce fu infatti sempre di reciproca diffidenza: se da un lato il
politico stimava D’Annunzio per il suo stile di vita e le sue idee, dall’altro aveva il timore di averlo
come avversario, data la grande capacità del poeta di infiammare le piazze con il suo carisma e la
sua enorme fama.
Il fallimento dell’impresa di Fiume è il paradigma del fallimento di D’Annunzio come politico.
Ma in realtà cosa sperava di ottenere lo scrittore con la sua azione bellica?
Probabilmente questa impresa non fu fatta con uno scopo di tipo economico, ma per riaffermare la
notorietà che egli aveva raggiunto durante la Prima Guerra Mondiale e per mostrare a se stesso e
allo Stato italiano che lui, il grande poeta, il Comandante, poteva creare una città che fosse
espressione di quei valori di eroismo che lui stesso aveva incarnato durante la guerra.
Purtroppo il poeta non aveva tenuto conto delle questioni burocratiche ed economiche che si
sarebbe trovato ad affrontare di lì a poco. Per quanto la volontà del Comandante fosse di creare una
città perfetta, questo non fu realizzabile perché lui non possedeva i mezzi e forse la capacità politica
per ottenere il suo scopo. Nel Cinquecento un famoso scrittore italiano nella sua opera Il principe
espresse un concetto molto chiaro, Il fine giustifica i mezzi; probabilmente se D’Annunzio avesse
tenuto a mente questa frase non ci sarebbe mai stata la presa di Fiume, poiché si sarebbe reso conto
da solo che non era preparato a governare una città.
La mentalità impulsiva di D’annunzio in quel frangente è quella che caratterizza i giovani d’oggi:
tutti quanti pensano di poter cambiare il mondo non conoscendo però neanche cosa c’è fuori dalla
loro porta. Come il poeta sopravvalutò le sue capacità amministrative, burocratiche, i giovani
sopravvalutano le loro capacità e la loro sicurezza, che il più delle volte li portano al fallimento;
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sarebbe necessario pensare prima di agire, ma sembra che questo concetto fosse sconosciuto a suo
tempo a D’annunzio ed oggi a noi.
… le alte coppe fiorentine …
… la ricca ammantatura di una coperta di seta fine …
Il viaggio nel mare magnum dei testi dannunziani ha un inizio e non ha una fine: luoghi, stagioni,
luci e colori si offrono impetuosamente creando un caleidoscopio di situazioni in cui ci ritroviamo
immerse.
Proviamo a seguire i protagonisti di alcuni romanzi. Andrea, Tullio, Giorgio, Stelio: uomini
affascinanti, ricchi, spesso al centro dell’attenzione ovunque si trovino.
Questi uomini hanno ricevuto fortune e ricchezze dalla sorte e lasciano la loro impronta sulla vita
delle persone che li circondano.
Ma quanto c’è di vero in loro? Quanto incide su di loro l’ambiente in cui vivono?
Potremmo immaginare Andrea in una baita tirolese invece che a Palazzo Zuccari o Stelio in un
comizio di provincia invece che nella Sala del Maggior Consiglio?
Seguiamo Andrea e lo vediamo mentre aspetta Elena, completamente rapito da lei e desideroso di
incontrarla. Dove ha luogo questa attesa? Nella sua casa.
Questo delicato istrione non comprendeva la comedia dell'amore senza gli scenarii. Perciò la sua
casa era un perfettissimo teatro; ed egli era un abilissimo apparecchiatore. (…)
Come una fiala rende dopo lunghi anni il profumo dell'essenza che vi fu un giorno contenuta, così
certi oggetti conservavano pur qualche vaga parte dell'amore onde li aveva illuminati e penetrati
quel fantastico amante. E a lui veniva da loro una incitazione tanto forte ch'egli n'era turbato
talvolta come dalla presenza d'un potere soprannaturale.
Pareva, in vero, ch'egli conoscesse direi quasi la virtualità afrodisiaca latente in ciascuno di quegli
oggetti e la sentisse in certi momenti sprigionarsi e svolgersi e palpitare intorno a lui. (…)
Nelle alte coppe fiorentine le rose, anch'esse aspettanti, esalavano tutta la intima lor dolcezza. Sul
divano, alla parete, i versi argentei in gloria della donna e del vino, frammisti così
armoniosamente agli indefinibili colori serici nel tappeto persiano del XVI secolo, scintillavano
percossi dal tramonto, in un angolo schietto disegnato dalla finestra, e rendevan più diafana
l'ombra vicina, propagavano un bagliore ai cuscini sottostanti.(…) Pareva all'amante che ogni
forma, che ogni colore, che ogni profumo rendesse il più delicato fiore della sua essenza, in
quell'attimo.8
Gli oggetti assumono per Andrea un significato che travalica la loro funzione e la loro materialità.
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Fra questi oggetti troviamo le alte coppe fiorentine, il tappeto persiano del XVI secolo, o più avanti
il piccolo specchio antico dalla cornice ornata di figure scolpite.
Sono oggetti preziosi che fanno di Andrea un esteta secondo la linea del Decadentismo che in quel
periodo si imponeva nel quadro culturale come corrente artistica e letteraria.
Come non pensare allora al capolavoro di Oscar Wilde, pubblicato due anni dopo Il Piacere e
considerato uno dei manifesti del Decadentismo?
Il protagonista è un giovane dall’aspetto bellissimo che nel corso del romanzo, anche sotto
l’influsso delle parole dell’amico Lord Henry Wotton, sarà sempre più ossessionato dallo scorrere
del tempo e dal desiderio di preservare intatte la sua giovinezza e la sua bellezza: sarà così che,
ricalcando il mito del Faust, legherà indissolubilmente la sua anima ad un ritratto di sé stesso,
lascerà invecchiare l’uomo nella tela al posto suo e vivrà una vita immortale senza che il tempo né i
crimini della sua vita di nefandezze arrivino mai a deturpare il suo aspetto.
Un ritratto… ma non è solo questo, non solo un semplice quadro: è il più bel ritratto che sia mai
stato creato, del più affascinante e bel giovane che si sia mai visto.
Gli oggetti d’arte hanno un ruolo fondamentale nel Decadentismo: in essi l’esteta vi trova la sua
(l’unica) ragione di vita e se ne circonda dedicandosi alla loro contemplazione e vivendo in un
altezzoso e quanto mai élitario isolamento dalla società di massa che si andava creando alla fine del
XIX secolo, poiché essa non è in grado di comprendere né quantomeno di apprezzare il suo
raffinato spirito. La nascita e lo sviluppo del Decadentismo sono dunque profondamente determinati
dalla società dell’epoca: l’industrializzazione faceva sentire le sue prime, grandi ricadute sulla
mentalità del singolo, spinto sempre più ad arricchirsi pensando unicamente al proprio tornaconto
personale, e tesi filosofiche come quella utilitaristica, che permeava il tessuto sociale della
borghesia, ne avvaloravano le fondamenta.
È così che il culto dell’opera d’arte nasce come opposizione e rivolta al bieco materialismo e alla
mediocrità del gusto di massa, divenendo il fondamento alla base del Decadentismo in tutta Europa:
per Wilde, come per lo stesso D’Annunzio, la venerazione dell’arte esclusivamente dal punto di
vista estetico, senza implicazioni morali, ne è l’unica possibile modalità di fruizione. Come scriveva
l’eccentrico irlandese nella prefazione a Il ritratto di Dorian Gray, …Tutta l'arte è completamente
inutile.9
La ricerca del bello e del raffinato, della musicalità, preziosità e perfezione linguistica diventa di
conseguenza anche l’unico modo di concepire un’opera d’arte, sia essa un romanzo od una poesia.
Il ritratto di Dorian è, in questo senso, il vero e proprio simbolo di questa concezione estetica: con la
sua bellezza incanterà tutti i personaggi del romanzo, che ne rimarranno estasiati e se ne
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innamoreranno uno dopo l’altro, a partire dal suo creatore, il pittore Basil Hallward, fino a,
ovviamente, il giovane Dorian.
È possibile cogliere questo aspetto e la particolarità del quadro fin dalle prime pagine del romanzo:
Mentre il pittore guardava la forma bella e piena di grazia che con tanta abilità artistica aveva
raffigurato, un sorriso di compiacimento gli attraversò il volto e parve volervisi fermare. Ma,
improvvisamente, si alzò e chiudendo gli occhi posò le dita sulle palpebre, come se volesse tener
prigioniero nella mente uno strano sogno da cui temeva ridestarsi. «È la tua opera migliore, Basil,
la più bella cosa che hai mai fatto,» disse languido Lord Henry. «Devi assolutamente esporla» (…)
«So che riderai di me,» rispose il pittore, «ma non posso davvero esporlo. Vi ho messo dentro
troppo di me.»10
La vita di Dorian, come quella dell’esteta, è indissolubilmente intrecciata all’Arte: il quadro diviene
il suo alter ego, la corruzione del tempo e del costume non cessa di lasciarvi segni indelebili e alla
fine del romanzo, in un impulso di rabbia, il giovane trafigge la tela con un pugnale, spezzando il
sortilegio e cadendo a terra morto. Al sopraggiungere dei servi, la rivelazione: il quadro è tornato al
suo splendore originario, a terra è rimasto un corpo orribilmente invecchiato.
Quando furono entrati, videro appeso alla parete uno splendido ritratto del loro padrone come lo
avevano visto l'ultima volta, in tutto lo splendore della sua gioventù e della sua bellezza. Disteso
sul pavimento c'era un uomo, in abito da sera, con un coltello piantato nel cuore. Era sfiorito,
rugoso, con un volto ripugnante. Solo quando esaminarono i suoi anelli lo riconobbero.11
Non è certo un caso che il padrone sia riconosciuto grazie ai suoi preziosi anelli e ciò la dice lunga
sull’importanza che il personaggio dell’esteta attribuisce alla bellezza ed agli oggetti raffinati.
Nell’allegorico epilogo del romanzo, la conclusione è unica: solo l’Arte può custodire in eterno una
bellezza immacolata e sopravvivere all’azione distruttrice del tempo.
L’estetismo di Wilde è ben evidente nella descrizione dello studio di Basil Hallward presente
nell’incipit del romanzo:
Lo studio era pervaso dall'odore intenso delle rose e, quando tra gli alberi del giardino spirava la
leggera brezza estiva, dalla porta spalancata entrava l'intenso odore dei lillà, o il più delicato
profumo dei fiori rosa dell'eglantina.
Dall'angolo del divano di coperte da sella persiane, sul quale era sdraiato, fumando com'era sua
abitudine, innumerevoli sigarette, Lord Henry Wotton coglieva lo splendore dei fiori di liburno del
colore e della dolcezza del miele, i cui tremuli rami parevano appena sopportare il peso della loro
fiammeggiante bellezza. (…) Il cupo ronzio delle api che vagavano tra le alte erbe non falciate o
roteavano con monotona insistenza intorno agli stami coperti di polvere dorata degli sparsi
10
caprifogli sembrava rendere ancora più opprimente la sensazione di immobilità. (…) In mezzo alla
stanza, fissato a un cavalletto, stava il ritratto a figura intera di un giovane di straordinaria
bellezza.12
La descrizione accuratamente particolareggiata ci sembra essere straordinariamente vicina a quella
che D’Annunzio fa ne Il Piacere e d’altra parte entrambi rispecchiano il gusto dandy inaugurato nel
romanzo del 1884 Controcorrente di Joris-Karl Huysmans.
Qui infatti la casa del dandy Des Essaintes ha tratti in comune con Palazzo Zuccari, così come il
culto della raffinatezza di Dorian, nel romanzo di Oscar Wilde, è straordinariamente somigliante
alla ricerca di oggetti preziosi che Andrea persegue.
Tra le cose più preziose possedute da Andrea Sperelli era una coperta di seta fina, d'un colore
azzurro disfatto, intorno a cui giravano i dodici segni dello Zodiaco in ricamo, con le
denominazioni Aries, Taurus, Gemini, Cancer, Leo, Virgo, Libra, Scorpius, Arcitenens, Caper,
Amphora, Pisces a caratteri gotici. Il Sole trapunto d'oro occupava il centro del cerchio; le figure
degli animali, disegnate con uno stile un po' arcaico che ricordava quello de' musaici, aveva uno
splendore straordinario; tutta quanta la stoffa pareva degna d'ammantare un talamo imperiale.
Essa, infatti, proveniva dal corredo di Bianca Maria Sforza, nipote di Ludovico il Moro; la quale
andò in sposa all'imperator Massimiliano.
La nudità di Elena non poteva, in verità, avere una più ricca ammantatura.13
Avrebbe amato lo stesso Elena se invece di essere ammantata dalla coperta trapunta d’oro avesse
indossato un vestito ordinario da operaia?
Gli oggetti agiscono addirittura sulla sua capacità di amare creando un contesto prezioso e raffinato
all’interno del quale Andrea - amante vive da esteta la sua passione.
La sua vanità di giovine viziato ed effeminato non trascurava mai nell'amore alcun effetto di grazia
o di forma. Egli sapeva, nell'esercizio dell'amore, trarre dalla sua bellezza il maggior possibile
godimento.14
E’ certo che il personaggio di Andrea Sperelli rappresenta la personificazione stessa dell’esteta e
attraverso di lui D’Annunzio si impose nel panorama letterario europeo, ma è anche vero che la
figura stessa dell’esteta era destinata a soccombere.
A noi sembra che Andrea sia talmente condizionato dai suoi oggetti da rimanere schiacciato dentro
Palazzo Zuccari come in una cripta.
(…) nell'artificio quasi sempre egli metteva tutto sé; vi spendeva la ricchezza del suo spirito
largamente; vi si obliava così che non di rado rimaneva ingannato dal suo stesso inganno,
11
insidiato dalla sua stessa insidia, ferito dalle sue stesse armi, a somiglianza d'un incantatore il
quale fosse preso nel cerchio stesso del suo incantesimo.15
Andrea crede di imporsi su tutti coloro che lo circondano:
Nessuno doveva bevere al bicchiere dove aveva egli bevuto una volta. Il ricordo del suo passaggio
doveva bastare a riempire una intera vita. Le amanti dovevano rimaner fedeli in eterno alla sua
infedeltà. Questo era il suo sogno orgoglioso. E poi gli spiaceva la publicazione, la divulgazione
d'un segreto di bellezza. Certo, s'egli avesse posseduto il Discobolo di Mirone o il Doriforo di
Policleto o la Venere cnidia, la sua prima cura sarebbe stata di chiudere il capolavoro in un luogo
inaccessibile e di goderne da solo, perché il godimento altrui non diminuisse il suo proprio.16
Il desiderio di acquisire potere sulla donna amata ammaliandola con la propria aura è quindi molto
forte in Andrea Sperelli: il potere è allora concepito come un’orgogliosa affermazione di sé stesso
sull’amante, sugli altri personaggi che lo circondano e sul mondo da cui è contornato. Quella di
Andrea è, però, un’affermazione trasmessa attraverso l’universo esteticamente perfetto che il
protagonista ha costruito intorno a sé: il culto del bello e gli oggetti di cui si circonda non sono
infine altro che un mezzo di cui Andrea ha necessariamente bisogno per giungere al suo trionfo. E
allora si può davvero affermare che la sua ricerca di potere sia un successo? Il desiderio di
emergere, di distinguersi dalla massa e di imporsi su di essa, che caratterizza il personaggio di
Andrea, è lo stesso che permea l’animo dell’autore D’Annunzio, ma raggiunge esso il suo
obiettivo?
Di certo non vi è alcuna emancipazione dell’esteta, degli esteti, dal fascino che su di loro esercitano
il lusso e gli oggetti d’arte: entrambi rimangono sempre indissolubilmente legati ad essi e ne
avranno sempre un indiscusso bisogno… ma è possibile che i due uomini siano addirittura
sopraffatti dal loro culto dell’arte?
Andrea Sperelli sì, rimane forse lui stesso vittima di sé stesso:
La sua tristezza s'aggravò. Egli si trovava in una disposizion di spirito strana. La sensibilità de'
suoi nervi era così acuta che ogni minima sensazione a lui data dalle cose esteriori pareva una
ferita profonda. Mentre un pensiero fisso occupava e tormentava tutto il suo essere, egli aveva tutto
il suo essere esposto agli urti della vita circostante.17
Anche l’episodio del duello, in cui Andrea è coinvolto, ci fa riflettere su quanto lui sia artefice o
vittima della situazione. Durante una corsa di cavalli, la gelosia per le attenzioni che Andrea rivolge
12
a Donna Ippolita divora il marchese Rutolo: la risata di Andrea diventa, fra i due uomini, il motivo
occasionale dello scontro verbale che in pochi istanti si trasforma in una sfida a duello.
Andrea può rifiutare il duello? O non rimane anche qui una vittima di sé stesso, del suo orgoglio e
del ruolo che si è imposto di giocare indossando la sua maschera di dandy?
Cosa significa per lui battersi con l’avversario?
E soprattutto, in quanta misura la presenza del pubblico influisce sull’atteggiamento del
protagonista? Gli eventi avrebbero preso un corso diverso se il litigio fra Andrea e il marchese si
fosse svolto in privato invece che nella cerchia mondana dell’ippodromo?
Già la notizia del litigio si era sparsa nel recinto, e saliva su per le tribune, ad accrescere
l’aspettazion della corsa. (…) La diceria di diffondeva, trasformandosi, per le belle bocche
femminee.18
A noi sembra che Andrea rimanga vittima di convenzioni sociali imperanti nell’alta aristocrazia,
secondo le quali l’onta va lavata nel sangue anche se l’onta è solo una risata, seducente effusione di
giovinezza, giudicata irriverente da un uomo geloso.
E come un cavaliere quattrocentesco, Andrea non può sottrarsi, non può mostrarsi vile.
Del resto cosa vuole Andrea?
Andrea Sperelli era calmo, quasi allegro. Il sentimento della sua superiorità su l'avversario
l'assicurava; inoltre, quella tendenza cavalleresca alle avventure perigliose (…) gli faceva vedere il
suo caso in una luce di gloria; e tutta la nativa generosità del suo sangue giovenile risvegliavasi,
d'innanzi al rischio.19
Il duello per lui è un’occasione per mostrare la sua superiorità ed acquistare gloria agli occhi di tutti
e soprattutto agli occhi di quella Donna Ippolita, una delle meteore da cui lui rimane
occasionalmente attratto.
Lei amava gli abiti sontuosi, i broccati, i velluti, i merletti. I larghi collari medìcei parevano la
foggia meglio adatta a far risaltare la bellezza della sua testa superba.20
Andrea non ama Ippolita; certamente non la ama al punto da rischiare la vita per lei.
Ma forse è succube di quei larghi collari medìcei che rappresentano il mondo vacuo di cui lui è
protagonista e vittima inconsapevole.
Andrea è dunque, in conclusione, vittima di sé stesso, tenta la conquista del potere ma non riesce
poi a distaccarsi dai mezzi utilizzati per arrivare fin lì.
Ma in tutto questo, anche per D’Annunzio si può parlare, in qualche modo, di fallimento, di
un’emancipazione non riuscita dalla società e dagli oggetti di cui si circonda?
13
Lui è sì influenzato dalla società del suo tempo nella propria poetica, ma in fondo lo è la stessa
nascita del Decadentismo, in quanto movimento culturale in opposizione al Positivismo e alla
mediocrità letteraria che si era diffusa nella classe sociale borghese dell’epoca.
Il Vate ha bisogno di soldi per mantenere lo stile di vita che conduce, in una certa misura è dunque
schiavo del denaro e per esso cede alla necessità, lavorando come giornalista. Certo era anche
questo un modo per autocelebrarsi ed accrescere la propria popolarità, ma in ogni caso chi ci dice
che non avrebbe preferito dedicarsi a tempo pieno alle sue opere?
Quel rifugiarsi di tanto in tanto nella casa dell’amico Michetti per sfuggire ai creditori e al caos
della capitale è un indizio significativo.
Ciò che scrive e il modo in cui lo fa non è, certo, in un’espressione che rende bene l’idea, solo
farina del suo sacco, ed è chiaro che il contesto culturale, sociale e storico abbia giocato un ruolo
fondamentale nel determinare l’autore. Non è però, in fondo, il ruolo dell’artista proprio quello di
essere interprete del proprio tempo?
Come sosteneva D’Annunzio, conviene dunque all' artista moderno immergersi di tratto in tratto
nelle medie correnti vitali e mettere la propria anima in contatto con l' anima collettiva per
sentirne la tendenza oscura ma incessante e inarrestabile, se egli aspira a divenire l' interprete e il
messaggero del suo tempo.21
In linea con il Decadentismo europeo, allora, D’Annunzio adotta il culto dell’Arte come filosofia di
vita, attorniandosi di oggetti lussuosi e perseguendo la superficialità, l’Arte inutile di Wilde, in ogni
aspetto della propria produzione e della propria vita … ma rimane infine avviluppato in un vortice
di nonsenso, di assoluta nullità e insignificanza, come il suo Andrea Sperelli? Tutt’altro.
L’atteggiamento dell’artista è quello di colui che guarda il mondo attraverso una propria, personale
lente di ingrandimento, catturando ogni dettaglio ma inglobando allo stesso tempo, nella sua
visione, l’universo intero… L’Arte non ha forse un totalizzante completamento in sé stessa?
Ricami, abbellimenti, oggetti lussuosi sono il mezzo attraverso cui percepisce il mondo e ce lo
descrive in modo sublime… Possiamo davvero privarlo del suo strumento?
Desidera la fama più di qualsiasi altra cosa, tanto da far circolare la falsa notizia della sua morte per
incentivare la vendita di una delle sue prime opere, Primo Vere... decisamente eccentrico ed
eccessivo, certo, ma in fondo il desiderio di gloria non è ciò che muove, chi più chi meno, ogni
scrittore, pittore, musicista, ognuno insomma, che sia creatore di un’opera d’arte?
Diremo di più: il desiderio di essere apprezzati è probabilmente il principio che muove ogni singola
persona in ogni sua singola azione, anche la più piccola, quotidiana, ovvia o scontata. Dall’altra
14
parte, a pari merito, è sempre una fonte di gioia infinita la sensazione di essere soddisfatti per ciò
che facciamo e di venire per ciò gratificati.
Ma allora, si può in coscienza dare torto al nostro poeta, che è semplicemente alla ricerca della
massima gloria, nell’aspirazione della massima gratificazione e felicità?
15
1
Note
Marcello Veneziani, Quel Vate per tutti e per nessuno, Il Giornale.it, 11 marzo 2013
http://www.ilgiornale.it/news/cultura/quel-vate-tutti-e-nessuno-894420.html
2
Gabriele D’Annunzio, discorso del 13 maggio 1915, Roma
http://cronologia.leonardo.it/storia/a1915d.htm
3
Gabriele D’annunzio, discorso del 17 maggio 1915, Roma
http://cronologia.leonardo.it/storia/a1915d.htm
4
ibidem
5
http://www.aetnanet.org/modules.php?name=News&file=print&sid=2481582
6
Gabriele D’Annunzio in http://cronologia.leonardo.it/storia/biografie/dannunz3.htm
7
http://cronologia.leonardo.it/storia/biografie/dannunz3.htm
8
Gianni Oliva (a cura di), D’Annunzio, I grandi romanzi, Il Piacere, Newton Compton Ed., Roma, 2011, pagg. 58-59
9
Oscar Wilde, Il ritratto di Dorian Gray, Prefazione, edizione on-line a cura di Gerardo D’Orrico, 2009
http://www.beneinst.it/e-book/e-book/Oscar%20Wilde%20-%20il%20ritratto%20di%20Dorian%20Gray.pdf
10
Ibidem, capitolo I
11
Ibidem, capitolo XX
12
Ibidem, capitolo I
13
Gianni Oliva (a cura di), D’Annunzio, I grandi romanzi, Il Piacere, Newton Compton Ed., Roma, 2011, pagg. 114-15
14
Ibidem, pag. 55-56
15
Ibidem, pag. 58
16
Ibidem, pag. 244
17
Ibidem, pag. 104
18
Ibidem, pag. 127
19
Ibidem
20
Ibidem, pag. 124
21
Gabriele D’Annunzio in Paccagini Ermanno, D’annunzio giornalista – Il piacere dello scandalo, Corriere della Sera, 27
Ottobre 2003, pagina 25
http://archiviostorico.corriere.it/2003/ottobre/27/Annunzio_giornalista_piacere_dello_scandalo_co_0_031027051.shtml
Bibliografia e sitografia
Gianni Oliva (a cura di), D’Annunzio, I grandi romanzi, Il Piacere, Newton Compton Ed., Roma, 2011
Corrado Bologna, Paola Rocchi, Rosa fresca aulentissima, vol. 5, Loescher, Torino, 2010
Marina Spiazzi, Marina Tavella, Only Connect… New Directions, vol. 2, Zanichelli, Bologna, 2009
Zeffiro Ciuffoletti, Umberto Baldocchi, Stefano Bucciarelli, Stefano Sodi, Dentro la storia, vol. 3,
edizione arancione, Casa editrice G. D’Anna Messina-Firenze, Firenze, 2012
Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti, Giuseppe Zaccaria, Dal testo alla storia Dalla storia al
testo, vol. F, Paravia Bruno Mondadori Editori, 2000
Gabriele D’annunzio – Biografia in Wikipedia, la libera Enciclopedia,
http://it.wikipedia.org/wiki/Gabriele_D'Annunzio