Ah perché non è infinito come il desiderio, il potere umano? Caleidoscopico D’Annunzio: sinestesia di contraddizioni. Neanche il potere umano è infinito. Se il potere umano fosse infinito come il desiderio, D’Annunzio non si sarebbe accontentato. Se D’annunzio non avesse fatto quel che ha fatto e scritto quel che ha scritto, avremmo, ora, a disposizione quella immane produzione la cui lettura ci appare spesso contraddittoria, ambivalente e a tratti assurda, paradossale, divina, mistica, folgorante, invitante, sensuale, terrena, violenta, nerboruta? Avremmo assaporato e gustato, dispregiato o amato con i denti della mente nelle sinapsi neuronali quel groviglio di emozioni, di sensazioni, di pensieri, di stati d’animo, conturbati, eccitati, quel misto sublime di ossessioni psichiche e fisiche? Avremmo di certo e comunque, a nostro avviso, attinto a piene mani alla fonte del suo vivere perché per D’Annunzio il potere è vivere: vivere nel verso, vivere dentro e come le radici delle piante, nella linfa della foglia virente, nei frutti caldi cotti dal sole, nelle pesche contuse, nei mandorli, nei seni della nutrice, nelle mammelle inturgidite dalla schiuma del mare, nei lombi afferrati di spalle da mani di uomo sannita, nel fondoschiena e nelle curve dei fianchi baciati dai raggi di luna e inumiditi dalle gocce di mare. È desiderio la vita che scorre e palpita nel sangue ribollente nelle vene, nei corpi muti avvinghiati come le serpi sulle strade, nelle urla fameliche, nell’ira travolgente, negli occhi da pescecane di Mara, nella purezza di Maria, nell’avvenenza di Elena, desiderio nella donna e per la donna, sensuale come una cerva, passionale come una giovenca, forte e flessuosa come una tigre. Desiderio incessante, astratto, inebriante, mente e corpo in un solo unico anelante pensiero. Membra ridotte in brandelli all’idea del desiderio, desiderio incolmabile senza principio, senza fine, con un forse inequivocabile: potrà essere mai soddisfatto? Sarà quel desiderio in grado, se veramente raggiunto, appagare le aspettative e colmare il vuoto dell’animo? Forza, ancora forza e sempre forza è il desiderio, così da noi interpretato. Anelito, spirito, sogno, corsa, sudore è il desiderio; corpi ansimanti, rigoglio di un’edera abbarbicata e tenace è il desiderio come un forte colpo di frusta sferzante e flessuoso in opposizione all’anima indomita. Questo il desiderio spinto per rendere eterno il potere. Apparente apparenza. Lì, in agguato, a tendere la trama di tela di ragno per imbrigliare quella esasperata tensione al desiderio, c’è la paura, più di una: la paura di provare dolore, la paura del tempo che scorre, la paura di non godere appieno quel desiderio incessante che spasmodicamente 1 eccita l’animo e offusca la mente. E mente e corpo, razionale e irrazionale si fondono riversandosi con mille voglie in un tutt’uno, in un solo unico amore. Per certi versi si ha quasi la sensazione che D’Annunzio desideri velare l’apparente ingannando all’apparenza se stesso. Che sia l’amore il principio manifesto del potere umano infinito? Desiderare e amare, avere e potere. Le attenzioni si coagulano sulla donna da amare, da avere, da possedere: è il pensiero più bello, incolmabile desiderio in cui il potere potrebbe varcarne incommensurabili limiti. Sembrerebbe una bizzarra follia ma l’amore rende folli. Tutto come follia nell’amore che tutto può: può uccidere, può rendere felici, può rendere la vita infernale. “Bisogna che sia, bisogna che sia”1: l’ossessione folle del potere nel desiderio. Senza inizio e senza fine; “bisogna che sia”: l’esortazione e l’ammonimento, il coraggio di osare nel tentativo di vincere le paure per lasciarsi avvinghiare dalla passione. Allora il desiderio percepito come incolmabile rende freddi e strazia per la disperazione. La disperazione si nasconde dietro gli occhi, il cuore: le pupille rimpiccioliscono, il cuore si stringe. E ancora paura. Chi colma l’arsura del desiderio? Nessuno sarà in grado di riempire il vuoto insanabile del desiderio inappagato. Lo si assapora per un attimo in un breve lasso di tempo, dopo di che si ha più fame di prima. “Bisogna che sia, bisogna che sia”. Bisogna che sembri quel desiderio ma non è. E se si manifesta è in contrapposizione alla realtà in sé, così anche l’amore, anche il potere. La contraddizione. Allora, cos’è il potere umano? Niente e tutto. Una contraddizione: nega e afferma. Da un lato neppure l’amore ha potere sotto il quale D’annunzio si rifugia. “Se l’amore fosse una creatura viva e avesse gli occhi potreste voi guardarlo senza vergognarvi?” “non lo guardo”. Non è questa paura? Non è questo un fuggire dal sentimento nel tentativo di nascondersi dietro uno scudo protettivo rinunciando al piacere della vita più ingannevole? “Forse”. Di certo la vergogna non oscurerà la vista! Non bisogna permetterglielo. Gli occhi, la bocca, le braccia, le dita, insomma tutti i sensi (olfattivi, gustativi, uditivi) sono complici impegnati con forza nel tentativo dell’irraggiungibile con il suo necessario bisogno di sorvolare, seppure con l’autoinganno, su quanto non infinito sia il desiderio umano. Nell’anelito al potere c’è un’ossessiva e incessante ricerca: quasi un gioco perché tutto è un gioco, perché bisogna che sia il gioco delle contrapposizioni e delle ambiguità, un furore gonfiante nel petto, un suono metallico, un’arma doppio taglio, desiderio nella sua più truce ambiguità, nella violenza più livida e irrazionale, belluina, selvaggia. Potere immaginato nella storia delle cose, nella natura: vagheggiamento del delirio onnipotente, impensabile, ineffabile reso palpabile nelle emozioni vissute, nelle esperienze sperimentate. 1 Forse che sì forse che no 2 E così in quel tentativo di spingersi sul desiderio per rendere eterno il potere è impossibile non guardare all’amore. L’amore quindi come potere nel desiderio. Il desiderio è l’amore. L’amore è come “ le maghe che stanno in alto mare”, così in Dalfino, si legge in Terra vergine, “ammaliano i pescatori riducendoli in roccia con i loro lunghi capelli”. L’amore è animale, l’amore è bestia, l’amore è forza, l’amore è tutto ciò che non si può contrastare. L’amore non dà paura, l’amore rende turgido il pensiero anche quello più truce. L’amore è desiderio brutale, è incessante quando si insinua nel cuore avido di desiderio. È tanto inebriante l’amore, tanto travolgente. Amore è anche tensione sessuale, gioco erotico nell’espressione di due corpi che si fondono: l’unione di due amanti, tesi e stremati dal desiderio. E nel gioco amoroso il desiderio avvampa. E allora non può essere frenato in nessun modo: l’umano scivola nella sfera istintiva, nell’animalesco antropomorfo. E il desiderio si inerpica nel groviglio di membra. In Terra Vergine il “desiderio strozzava la bocca” sorretto dall’imperativo raddoppiato: “Baciami”…“Baciami!” Con occhi socchiusi, quasi ad assaporare il gusto del bacio desiderato e la forza vince senza riserve: “l′attirò a sé, e"… stette a sentirsi correre per le vene la voluttà di quella bocca umida premuta all′arida bocca sua”. L’apparente reticenza di Fiora è l’espressione più lucida di quanto potere abbia il desiderio. La giovane “tremava più d′una vetrice, ma nella carne turgida pel calore della corsa aveva le prurigini, ma la lascivia c′era nell′aria, c′era nel sole, c′era negli odori ”fino a quando“ una testa nera di capra sbucò tra il fogliame guardando con le miti iridi gialle quel groppo vivo di membra umane”. Non è forse un lasciar intendere quale sia l’animalesca palingenesi del desiderio desideroso di diventare potere dominante? Solo all’idea della possibile concretezza di quel desiderio di pervenire ai confini dell’infinito desiderio, D’Annunzio sceglie di dilatare la spinta, quasi a rendere l’attesa eccitante, febbrile e indefinita. Alle radici della felicità. Non vi sono confini all’orizzonte nella ricerca del piacere perché abbattuti da sospiri pendenti tra mare e montagna, simili a cammini migranti alla ricerca della terra natia o meglio alla ricerca di sé nei crepuscoli di una sera e/o di un cielo notturno estivo illuminato dalla luna. L’indefinito che sollecita il piacere e dà effetto soporifero e inebriante felicità perché impalpabile, gustoso come i chicchi rossi di un melograno a settembre, impercettibile come un sogno sognato in una Roma dei fori imperiali ammantata di candida e cangiante neve in una sera invernale2. L’idea della felicità mentre sale il desiderio, sale all’apice di un orgasmo trattenuto e non consumato, con l’idea di una donna che rende felici, che abbraccia la fantasia dell’uomo spasmodico, assettato, irretito dal sogno del piacere desiderato, volutamente non appagato per 2 Il piacere, libro III, cap.III 3 dilatare nel tempo infinito la sensuale sollecitudine delle membra e la mente fluttuante. E in quel modo i pensieri si colorano, camaleontiche sfumature riempiono le idee di un vago piacere indefinito, di un potere inaspettato. Infinite combinazioni, come fossimo davanti al foro di un caleidoscopio, si trasfigurano in immagini per diventare analogie della concretezza delle cose, degli uomini, degli animali, delle acque. Come Dalfino quanto gettandosi tra le onde del mare diventa acqua egli stesso. Si ravvisa un’epifania del virtuosismo nell’estremo tentativo di vincere prepotentemente ogni umano segno, così come avviene nei volti “silvani”, nella Pioggia nel pineto. Ancora una donna trasfigurata nella sua estrema felicità di essere. Ermione è bella, è desiderabile, anzi è desiderata. Il desiderio è tangibile, la tensione emotiva è percepibile. Le mani ignude degli amanti si contrappongono ai “vestimenti leggeri” inzuppati di pioggia. Nella leggerezza di quei vestimenti la metafora di quanto poco possa bastare per lasciarsi andare completamente al desiderio. Invece c’è un inseguimento amoroso, dal sapore malinconico. Come se i due amanti rincorrendosi, si incontrano sfiorandosi per poi perdersi nuovamente di vista senza nulla di fatto. Due calamite troppo deboli per restare unite ma con cariche troppo forti per ignorarsi. Insomma tanto poco basterebbe per concretizzare la “favola bella”. Allora stavolta non bisogna spingersi oltre e infatti quella favola illude. E si parla di un’illusione amara, desiderata, malinconica perché avrebbe potuto essere tutta un’altra cosa. È forse la consapevolezza che non c’è desiderio infinito o è la percezione di un potere all’uomo alieno? È ammissibile che D’annunzio si sia imbattuto nella verità che non voleva conoscere e/o ammettere? E se la ragione potesse? Altra risposta, (forse un’altra speranza? Un altro tentativo per tentar la carta dell’essere felice) , anzi altro strumento possibile per vincere: la ragione. In alcune circostanze sembrerebbe l’unico mezzo funzionale che tenendo a freno l’istinto bestiale spinge al desiderio infinito. Ma ancora una volta il desiderio è indomabile e il solo tentativo di imbrigliarlo sotto il gioco della ragione è un attentato alla potenza dell’immaginazione forse l’unica forza che può tentare sul serio di concretizzare quel potere. Sarebbe come chiedere di spegnere un incendio che si estende a macchia d’olio con poche centinaia di litri d’acqua. Inutile. Forse all’inizio si riuscirebbe, ma poco dopo, l’incendio avvamperebbe ancora più prepotentemente e brucerebbe con maggiore potenza e vigore. Forse è ciò che vuole D’Annunzio. Allo stesso modo il fuoco della passione potrebbe bruciare i due amanti che hanno cercato di trattenere il loro desiderio. Tutto è impotente di fronte al desiderio umano. Allora non c’è niente in potenza in grado di arginare il desiderio! Perché provare a porre dei paletti se già si sa che questi saranno inutili? Non si sfugge alla passione, non si sfugge all’alchimia della forza dell’amore. Non si sfugge all’amore. Non si 4 sfugge nemmeno alla passione, parte più sensibile dell’amore ma non eterna poiché niente sopravvive all’uomo. Come decade la realtà anche l’uomo si ripiega su se stesso con il peso della sua mortalità. Perciò quella materia naturale, in qualsiasi forma possa esser vista, a sua volta si trasfigura e il Poeta vorrebbe avvolgerla in un temporale di emozioni fulminanti e devastanti, ciniche visioni. Forse è lì il Piacere, tra sangue rosso sgorgante, tra il sudore dopo una corsa veloce tra ali del vento nel deserto e un roseto valicato, le cui spine aizzano il dolore del brivido spinto, Eros dolce e violento, flessuoso come l’elegante corsa di un cavallo o leggera andatura di un levriero, come il canto di una cicala nella radura o il gracidar di una rana nella palude lontana. I balletti degli sguardi. Stringersi forte amandosi, proteggersi, innalzarsi al di sopra di tutte le pene, farsi scudo l’uno con l’altro e usare il corpo per assaporare qualunque momento per dilatare l’istante all’infinito illusorio. Ma è illusorio. Nella decadenza del tutto e nello sfarsi della materia, nei corpi sul baratro della putredine si fa spazio la malinconia. “Rimani! Riposati accanto a me/ non te ne andare” oppure “stringiti a me/ abbandonati a me/ sicura”: è desiderio sessuale? No! È amplesso ambito? No! È ricerca forse di una amabile compagna? Illudiamoci che sia un sì! Vero è che l’uomo, a lungo andare, desidera, per sentirsi vivo, superare il rapporto carnale con la forza di una carezza e la potenza dello sguardo, specchio dell’animo umano. Quanta importanza dietro le quinte di uno sguardo. E D’Annunzio gli riserva un posto d’onore. Quando entra in campo il desiderio è lo sguardo che diventa desideroso. Quando la scena diventa malinconica è lo sguardo che si fa triste. E gli occhi da cui lo sguardo parte diventano piangenti. E lo sguardo vale molto più di mille parole. “Ci sono certi sguardi di donna che l'uomo amante non scambierebbe con l'intero possesso del corpo di lei.”3. Nella malinconia lo sguardo, intimo perché è profondo nell’incontro tra due anime. E nello sguardo gli uomini comunicano primariamente il loro desiderio e la loro passione anche animalesca. Lo sguardo è l’anticamera del desiderio e della passione non più controllabile dall’uomo, travolgente e bestiale. Un gioco di sguardi felini, un balletto di famelici sguardi “nel mangiarsi con gli occhi” per tentare di far perdurare ancora il desiderio. Il gioco del potere. “Vi prendete gioco di me?” così chiede Paolo ad Isabella in “Forse che sì forse che no” e lei risponde “ tutto è gioco”. E se anche la ricerca dell’infinito potere fosse un gioco illusorio per auto convincersi di ulteriori possibilità superomistiche? Stavolta a definirsi potente è la donna. Isabella è capace di trasformare il desiderio bestiale di un uomo in un gioco. Un gioco 3 www.poesieeracconti.it, frasi e aforismi, Gabriele D’Annunzio 5 pericoloso, un’arma a doppio taglio. Ancora una volta l’amore è desiderio. Un gioco d’amore tra uomo e donna, nelle cui mani sono incise le regole del gioco. Nel gioco di parole il gioco dell’amore: il potere sul cuore del suo uomo, succube di se stesso, legato al desiderio che solo lei potrà rendere infinito e appagato. “Mi tenterai e mi deluderai ancora?” “Forse”. Già, forse, ancora lì davanti all’incertezza, nel rifiuto di un’accondiscendenza. Tutto è un gioco. Il gioco della lacerazione dell’anima, della morte interiore. Il brivido della paura e la retorica dei forse. Perché Isabella risponde “forse”? Anche lei in tutto il suo negarsi vuole completare il suo amore, il suo desiderio. “Le parole erano come faville fulminee, che si partissero non dalla bocca senza respiro ma dall'apice del cuore lottante. Il vento le rapiva e le mesceva all'immenso vortice di polvere alzato nella traccia spaventosa. Parevano non avere la figura del suono ma quella dell'ardore, disumanate dalla brevità nella luce, dalla solitudine nello spazio”. Abbiamo forse davanti a noi il vero D’Annunzio? È forse l’uomo frustrato dalla passione riversata nelle parole per innalzare i suoi sentimenti? Forse! È forse questa la sua vera voce? O forse è un uomo, un comune umano con tutte le sue paure? C’è forse la solitudine di un notturno senza la luce degli sguardi dilatati dalla passione? C’è forse la paura della solitudine? Ci sono tante parole, un girovagare delle parole come il vento, con il fiato strozzato, come l’ardore che brucia dentro, come la luce che viene a mancare con uno schiocco e infine il silenzio, di nuovo la solitudine. Cos’è? La solitudine turba così tanto? È ancora paura? Forse! È di sicuro continua ricerca della passione anche stavolta per sottoscrivere le leggi delle arti dell’amore come continua ricerca della passione e dell’ardore. Il potere, pulsante come il sangue rosso delle vene in ogni parte del corpo. Il potere come un cuore tremante e ancora paura. Per questo un tentativo esorcizzante: «No, non moriamo. Il cuore ti trema. Il tuo furore è vano. Godi e soffri di me. Non sono mai stata così forte e così desiderabile». Desiderio e immagini alimentano i pensieri più nascosti. Là le fantasie più recondite su Maria che della Vergine ha solo il nome. Chi delle due? Andrea aspetta Elena e sogna Maria. Così D’Annunzio nel libro III, capitolo II de “Il Piacere”. Imbevuto di piacere, sopraffatto dall’immaginazione di penetrare e vivere dentro Maria, Andrea nell’attendere Elena si scioglie nel brivido di un desiderio piacevole perché non consumato nella realtà. È passione fulminea, è bisogno erotico, è esalazione della carne. E la voracità del sentimento, della passione, della pesantezza del desiderio che si riversa in istinti animaleschi. Dimostra, ne siamo convinte, quanto il desiderio non è infinito e se non si definisce il potere neppure quello è infinito. E seppur si desidera non si può avere. Avere significa porre fine al desiderio. Habere non haberi, ecco la contrapposizione: il non avere spinge l’uomo ad avere, a possedere non solo spiritualmente ma carnalmente; spinge al lavoro continuo della ricerca. Maria 6 prevale su Elena. Maria è un sogno desiderabile che spinge al desiderio. Ma, che senso ha? Ė un gioco, noioso e inutile, ma contribuisce al desiderio continuo, alla ricerca continua del desiderio, al continuo bisogno che il potere umano pervenga al desiderio infinito. È dunque la donna a rappresentare il desiderio infinito? È di certo quella è “La freschezza della vita come una ghirlanda rinnovata ad ogni alba”, così si legge in Forse che sì forse che no, al cui contatto si produce“ calore di flusso sotto la pelle come una stagione dorata e l’inquietudine delle vene e l’odore profondo”. Il rapporto è come una commedia umana. Il rapporto, lo ripetiamo, è come un gioco, un gioco di parole, un gioco di gesti, di sguardi, respiri, carezze, un gioco erotico impalpabile. Niente è paragonabile per D’Annunzio alla criniera di Maria che lo avvolge delicatamente in una stretta soffice creando intorno a lui un’ atmosfera inebriante, unica. Un solenne momento paradisiaco con la luna protagonista. Atmosfera eccitata in cui D’Annunzio crea nella sua mente un ambiente puro e candido, rigoglioso come i gigli in quel candore ovattato dall’astro argenteo. Maria vive nella beatifica e virginea dimensione illusoria. È sognata ad occhi aperti da Andrea. Non è carnale, non può essere posseduta subito, insomma è un opposto di Elena, lì a portata di mano ma facile da consumare. Elena è espressione reale della sensualità, domina Andrea, l’eroe maschile, accecato dai sensi, lo incanta, lo rapisce , lo travolge con la sua bellezza e lussuria, ne coinvolge il lato più profondo e brutale. Lui è pronto a tutto pur di possederla e di goderne a pieno, fino in fondo, tutto d’un fiato. Lì finisce il piacere; in quell’attimo il piacere non è infinito e il potere si affloscia su se stesso. Allora meglio Maria. La femme fatale. Lei, Maria, possedeva una mimica sapiente e un comportamento ambiguo in grado di suscitare pericolose allusioni, tanto era potente il suo fascino. Era dotata di una devastante carica erotica, simile ad una potenza distruttiva, capace di assorbire ogni forza vitale; lo stesso protagonista ritiene che fosse «occasion di ruina e di disordine più che se ella facesse professione di impudicizia»4. Il solo pensiero di quella donna carica il Vate di “passione altissima e inestinguibile”, così da risvegliare le fiamme di un amore ardente e passionale, grondante di desiderio, che da tempo affollava i suoi pensieri con un cenno di nostalgia e malinconia. Quell’amore è come un veleno che non ha né cura né rimedio; è una tossina che gli scorre dentro, lo attraversa, lo anima ma non lo uccide; lo rende più vivo che mai, lo riempie, lo sollecita in ogni sua parte. Ed ora, di lei e dell’amore, non resta che un dolce ricordo, una reminescenza dal sapore aspro e amaro, con un retrogusto che porta con sé una scia di lontana felicità. Un piacere quasi infinito, quasi. 4 Il Piacere, libro III, cap. III 7 E tra Maria e Elena nella memoria è un rievocare momenti passati, roventi di passione e piacere, e a tratti quasi spenti come una luce soffusa e distante. Anche gli oggetti diventano emblema di quei tempi ormai irraggiungibili. Una sorta di decadente ambiguità. E Elena non appartiene più ad Andrea. La certezza di quel primo possesso gli sfugge di mano e gli genera nell’animo un dolore e un abbattimento infinito. È la certezza di quanto sia fragile il potere del desiderio se si possiede? Meglio Maria. Come un ermellino, rappresenta il sogno fugace, effimero di D’Annunzio. È ansia atroce. Di nuovo tra Elena e Maria? Maria; Maria perché candore, forza del simbolo che sa abilmente soggiogare lo spirito del poeta. Maria è un sogno quasi mistico. Sulla passione concreta di Elena tutto si esaurisce; D’Annunzio preferisce vivere al limite. Su quel limite l’ebbrezza di un “trasumanar”, di “indiarsi” al di là di ogni possibilità immaginabile. Superomisticamente spiccare in un volo icareo, con la febbre del vivere nelle membra segnate da arterie pulsanti come i fiotti di sangue caldo, come gli oscuri impulsi di una torbida sensualità di una nostalgica bellezza irraggiungibile. È teofania che solo nel linguaggio trova la sua più squisita santità. Se dovesse venir meno quella ricerca del piacere che inevitabilmente si conclude col piacere stesso e la nascita del piacere, che senso avrebbe la vita dell’uomo? Alla vista di Maria tutto si illumina. E luce fu. La natura si inginocchia, si prostra. La natura avvolge colei che è divina. La passione viene dagli occhi, eleganti e parlanti. Si concretizza una dimensione eterea data dai capelli, occhi, viso. Viene fuori una donna simbolo di sensualità angelica, che si assapora piano piano. I capelli scuri, le ombre scure vengono addensate dalla luce della luna. E Maria avanza: “Comis suis obumbrabit tibi et sub comis peccabit”, mentre ‘ incedit per lilia et super nivem’5. È un’ ambigua visione aggrappata all’immaginazione più spinta, è voluttuoso tentativo di consumare l’amore erotico peccando, lì sotto le chiome in un “ favoloso plenilunio”. Esperienze ambigue. Le esperienze del nostro, a questo punto, sembrano dettate e regolate da un doppio gioco di volontà che si snoda, secondo il nostro sentire, tra il volere e il non volere. Un gioco combattuto però, in cui non sussiste deliberatamente il controllo delle due anime dannunziane: una razionale e una passionale. Un vero e proprio scontro tra due posizioni, l’animalesco e il passionale contro il razionale più spregiudicato, calcolatore e freddo. Poiché però la passione e le stesse esperienze preferiscono il mezzo sensoriale a quello razionale, spesso prevale la parte animale su quella umana. Un’ambiguità palese; animale e razionale, l’uno però è inscindibile dall’altro eppure in contrapposizione. Non possiamo pertanto parlare ancora una volta di infinito. 5 Il piacere, libro III, cap.III 8 L’ambiguità è una vera e propria scelta, uno stile. Infatti è mediante l’ambiguità, il volere e non volere che il desiderio viene allungato, protratto all’inverosimile, ma non è raggiunto. È una corda tesa in un gioco di dubbi e di necessità. Necessità di cui è dubbia la legittimità dell’appagamento. Dubbi di cui c’è necessità affinché non si spengano la passione e il desiderio. Non si ha una fine dopo l’appagamento del piacere, bensì un nuovo inizio. Dopo che la fera è prevalsa sull’uomo, questo torna a dominare le sue azioni prima che il desiderio venga spento del tutto. In questo modo, vengono sedati l’ardore e la passione brucianti, momentaneamente. Poi il desiderio si risveglierà nuovamente e nuovamente la passione prevarrà sulla ragione. E la ragione non potrà riportare l’ordine finché la passione non si sarà sedata, almeno un poco. Ecco perché gioco del volere e non volere. Volere, perché la passione spinge e freme e fa fremere l’uomo stesso. Non volere, perché la ragione calcola e studia e spesso cerca l’istinto animale, senza coscienza, in una dimensione catastrofica dell’esistenza. Ma allora, ci siamo chieste, cosa c’è veramente in D’Annunzio ? Amore, passione, lucida razionalità, bestialità tanta da uccidere, tanta da salvarsi con il più truce peccato, con la passione selvaggia di Mingo e la paura di Tora 6, con l’ira furente e vendicativa di Dalfino ubriacato dagli occhi di Zarra7, con l’azione assassina di Tullio. Innocente quanto? E se Tullio fosse il personaggio della svolta? E se Tullio fosse l’espressione dell’infinito potere con il suo desiderio appagante? Tullio è protagonista de “L’Innocente”, e uomo dalla personalità debole, avara, incoerente e instabile; egli incarna tutti i caratteri peculiari che vanno a costituire l’idea del superuomo, individuo che si compiace cinicamente e violentemente della propria potenza (fittizia), della propria capacità di imporsi sul mondo che lo circonda lasciandovi una memorabile traccia, un segno pomposo che lo metta in risalto rispetto al resto della società senza, però, badare alle conseguenze delle sue scellerate azioni. È questo il costo per raggiungere il potere infinito? Con quali strumenti? La svolta. Tullio Hermil vuole fare della sua vita un’opera d’arte, incorniciata della propria unicità, storica e inimitabile ma qualcosa manda irreversibilmente all’aria tutti i suoi piani. Un bambino. Non un bambino qualsiasi ma un figlio illegittimo di nome Raimondo nato dalla relazione extraconiugale della moglie con l’amante Filippo Arborio, tra i più celebri scrittori dell’epoca. È forse Raimondo il segno, il simbolo tangibile dell’impotenza, della perfezione disfatta dell’idea del supremo? Raimondo, ancora nel grembo materno, diventa l’ “intruso” per eccellenza, l’ostacolo che 6 7 La gatta in Terra Vergine Dalfino in Terra vergine 9 impedirà per sempre il riappacificamento con la moglie Giuliana, colui che distruggerà le architetture mentali meccanicamente congeniate dal protagonista. Il piccolo Raimondo sporcherà di un’indelebile macchia nera, quell’utopica opera d’arte ossessivamente aspirante alla perfezione che è la vita di Tullio (così concepita dallo stesso D’Annunzio). Questa, però, è solo la punta dell’iceberg. Raimondo è molto più di un figlio inatteso, indesiderato; è l’incarnazione delle colpe di lui e Giuliana svolge un ruolo fondamentale: ella è il fragile e sottile legame che mette in comunicazione il desiderio di Tullio di raggiungere l’irraggiungibile e i limiti posti dalla finitezza del potere a sua disposizione. E Raimondo spaventa Tullio, a sua volta spaventato dalla concretizzazione dei suoi errori, perché Tullio è faccia a faccia con sé stesso, è spoglio, lasciato in balia del pericolo, nudo, circondato solo dai mille riflessi della sua interiorità. Questo insopportabile confronto lo lascia spiazzato, attonito ma, soprattutto, mette in luce uno dei drammi del genere umano: l’esame di coscienza. Un esame che solo i più nobili, i più coraggiosi e i più peccatori riescono a superare. Ma Tullio non è nobile perché non è peccatore: il suo continuo rifugiarsi in questa idillica e surreale concezione della vita lo hanno allontanato dalle proprie responsabilità, dai propri doveri. Fare un esame di coscienza e portare a galla tutte le ambiguità, le contraddizioni e una voce della verità che non si vuole conoscere (anche noi la pensiamo così) perché ferisce a tal punto da far morire. E non si vuole morire, D’Annunzio non vuole morire, D’Annunzio si inerpica nella vita più voluttuosa per nascondere l’innocenza. Innocenza infantile ma pura, vera, sfrontata come la verità della illegittimità di Raimondo da fare fuori. La vita, allora, non è perfetta come un’opera d’arte immaginata nella mente del pittore. Nell’eleganza della vita come opera d’arte non ci sono i problemi perché affrontare il problema è inconcepibile, è impensabile poiché non rientra nella logica dell’infinito potere. Quindi, bisogna eliminarlo ed eliminarlo significa ucciderlo poiché questo problema è vivo e ha un nome. Uccidere significa tentare di dimostrare a sé stessi di avere potere, tale da sacrificare una vita imperfetta per una quasi perfetta. Nel profondo dell’animo di Tullio crediamo riviva D’Annunzio, con le sue emozioni, le sue passioni, i suoi dolori; il suo amore spezza il fiato. Sarà per questo che l’opera costituisce un’altalenante oscillazione tra il reale e l’immaginario, il razionale e l’assurdo, l’autobiografia e il romanzo? Scritto dopo la separazione dalla moglie, ne “L’Innocente” D’Annunzio trasporta metaforicamente le sue vicende: la frustrazione di Giuliana e l’accesa relazione erotica che egli instaura con Barbara Leoni riflettono rispettivamente lo stato d’animo della moglie di D’Annunzio e le avventure di quest’ultimo con l’amante Teresa Raffo. 10 Riscontriamo ancora dolore, ancora paura, ancora frustrazione per la contraddizione sanguigna ma la coscienza non si sottopone al tribunale degli uomini. Così riportiamo: “La giustizia degli uomini non mi tocca; nessun tribunale della terra saprebbe giudicarmi. Eppure bisogna che io mi accusi, che io mi confessi, bisogna che io riveli il mio segreto a qualcuno: a chi?” All’interrogativo del protagonista non si può che rispondere con un’altra domanda: “Se noi riconosciamo – pensavo - che errare è dell’uomo, non è crudeltà sovrumana la giustizia?” come scriveva Luigi Pirandello ne “Il fu Mattia Pascal”. Non ci pare molto distante. Dell’espiazione delle proprie colpe non si può che rendere conto a sé stessi. Ogni essere umano è un composto che si genera dalle proprie virtù, dai propri valori così come dai propri errori e dalle proprie colpe lungo tutto il corso della sua storia; per questo, “L’Innocente”, secondo noi, è tutti e nessuno. L’opera si presenta sottoforma di introspezione psicologica e ha lo scopo di rispondere al bisogno umano della confessione e della presa di coscienza dei propri peccati, di cui solo in parte l’uomo è in grado di pentirsi. Il pentimento, infatti, è posto a metà strada tra il desiderio e il potere (due grandezze inversamente proporzionali) e la sua messa in pratica potrebbe compromettere tragicamente la buona riuscita di quell’opera d’arte che è la vita, una vita bella all’inverosimile. Ma fino a che punto? È l’arte una risposta all’infinito potere? Ne “Il Fuoco” il tema dell’arte e del buon gusto costituisce un elegante sfondo nelle storia d’amore tra Stelio Effrena (superuomo dannunziano e artista di singolare genialità) e Foscarina (attrice all’apice della celebrità in Italia), i quali tra mille vicende scriveranno una lunga e tormentata storia d’amore finché il carattere forte di lei, determinata e fatale con in mano un sicuro potere, decide di troncare la relazione per partire alla ricerca di un avanzo di carriera in America. Come in molti altri lavori dell’autore imbevuti di passione estrema, (l’abbiamo letto soprattutto nelle “Novelle della Pescara”e in “Terra vergine”), dilatata fino alle arterie gonfie di passione, sono palesi i rimandi autobiografici. Il rapporto tra Stelio e Foscarina altro non sarebbe che la metafora, così si dice, della relazione tra Gabriele D’Annunzio e Eleonora Duse, probabilmente l’unica donna stata in grado di far riecheggiare nel tempo i battiti del suo cuore. È quasi convinto, D’Annunzio di aver trovato con lei l’infinito desiderio. Giordano Bruno Guerri riporta una curiosità piuttosto interessante: “nello studio di D’Annunzio c’era una sola presenza femminile, a parte quella della madre. Di tutte le donne, migliaia, che ebbe, nel luogo dove lavorava, c’è un solo busto di donna, quello di Eleonora Duse. Su quel busto teneva un velo, perché, diceva, << non riusciva a sostenere il suo sguardo>>”. Forse perché il velo, secondo noi, copre parte delle terrene verità: la fine, il finito, la materia, la sfida non vinta dell’uomo soggiogato dalla donna. D’Annunzio e Duse avvinghiati come due serpi ma come 11 due leoni sull’arena, flessuosi, giocolieri sottili in ambigue psicologie in contrasto. Amanti in passione fulminea, votati al bello, senza nessuna piaga. E come D’annunzio e la Duse, anche i due protagonisti del romanzo “Il fuoco” consacrano la loro vita al culto per l’arte, alla ricerca del bello ideale. Stelio si presenta come un “superuomo letterario” fatto di poesia, musica, danza. L’arte però non dà a Stelio la sverzante energia per foggiare addirittura una nuova stirpe latina. Anche con l’arte quindi c’è la morte viva in uno scenario veneziano decrepito. L’arte sarebbe, a nostro modo di vedere, un compromesso all’impossibilità di conciliare tra di loro desiderio e potere. Grazie all’arte, l’animo dell’uomo si eleva, si sublima, si distacca dalla dimensione terrena del dolore, dalla reale sofferenza del mondo e raggiunge una stadio di pacata distensione spirituale, una piacere innocente e puro che l’erotismo umano può imitare solo parzialmente. L’arte è il tratto in cui l’individuo varca la soglia del potere e si lascia andare all’infinità del desiderio, vi si avvolge e si fa trasportare dai versi magici della poesia, dalle note soavi di una composizione musicale, dalla delicata linea fissata da un pennello sulla tela. E il verso trasforma, è in tutto, come i tentacoli di un polpo afferra, avvinghia, trasmuta pericolosamente come per non “ardere i libri, spezzar le statue, lacerare le tele”.8 Neanche il marciume della vita, fango dell’esistenza è immune dalla forza seduttiva della parola irresistibile. Anzi il Vate, poiché è cosciente della sozzura viva e onnipresente, in risposta al senso di impotenza provato dagli uomini dinanzi alle avversità della vita, risponde alle paure, allo smarrimento, agli ingranaggi meccanicistici del sistema. È un tentativo disperato di sublimare magicamente con grazia piacevole, in una suggestione convulsa, il proprio vivere inimitabile per farne un modello, una regola, la volontà di superare “la dolcigna afa di morte, l’odore delle persiche mézze, delle rose passe, del miele guasto9” con effetti contrari: la bellezza della vitalità; il rigoglio del panico e contagioso guizza vitale nel gioire alla vita, un canto esilarante della parola. Allora tutto “s’ode”10:(la pioggia argentea scrosciare, il suono del mirto, il suon del ginepro, stromenti diversi sotto innumerevoli dita, le fronde più rade e men rade affinché l’anima si schiude novella sulla favola bella che illude. Nel mistero si cela l’ascolto, bisogna tacere per cogliere in pieno il messaggio di esperienze di vita oltre l’umano. Solo le parole “più nuove” nella loro varietà e più pura semplicità colgono l’arcano mistero svelato dal poeta, fusosi nella vegetale condizione. Sono lì le parole a portata di mano nella loro sublime semplicità: fiume, monte, mare, nube, onda, erba, bacca, ginepro, stagno, palude, animali acquatici, palustri, terrestri, con l’impenetrabile vastità dei loro significanti e significati, con il loro valore denotativo e connotativo. L’estasi della semplicità della parola a significare in opposizione alla morte la vita piena, colta da chi divinamente ne interpreta la sua naturale espressione. 12 E la parola nel verso è tutto, (che sia in prosa o poesia dagli acuti più enfatici e emotivamente coinvolgenti), a deputare sull’altare dell’esistenza il tributo monumentale alla vita folgorante, al desiderio possente, al potere ambito nell’habere non haberi, come più volte detto. È veramente tutto il verso? Può veramente l’arte superare i confini? Torniamo un attimo indietro, al romanzo “Il fuoco”, al suo protagonista Stelio. Concretamente, Stelio si immerge nell’arte e si occupa dell’edificazione di un teatro per sublimare il sovraumano. Non ci riesce così come D’Annunzio non completa il romanzo. Perciò, riteniamo che neppure con l’arte si pervenga al potere infinito. Tutto ci appare scuro: la laguna di Venezia è malinconica, simbolicamente il fuoco e l’acqua sono in opposizione, la luce e il buio sono in antitesi. Anche sul piano sonoro è possibile un tale riscontro; infatti, nel posizionamento di ciascun termine, di ciascuna proposizione, l’autore evoca una sinfonia dolce amara a tratti fragorosa, a tratti muta. Sembrerebbero il verso con le sue componenti e l’arte in ogni sua sfumatura, (ma lo ribadiamo non lo sono) la risposta per curare il malessere interiore del poeta e di tutti gli animi sensibili a cui egli intende rivolgersi; l’arte come risposta a domande che vagano lontano e, di tanto in tanto, ritornano e punzecchiano l’animo del poeta nel tentativo di vincere lo scorrere del tempo, l’inevitabile invecchiamento delle cose, la morte. La fine. “ Serro i denti. Sento le barbe aggrovigliate nel cervello. Sento distinte le membrane e le squame carnose. Il gambo si allunga. Il fiore si compisce, s’infoltisce, s’appesantisce. È cupo, è quasi nero. Lo vedo.”.. ho paura del mio grido folle… E io grido”. Siamo al giro di boa. D’annunzio ci appare quasi stanco, eppure non sembra perdere il suo slancio vitalistico ma è in preda a tormenti pesanti. “Ogni duolo umano m’abbandona”, l’io del poeta si potenzia all’infinito sino a quando la sua “ forza supina” non “ si stampa nell’arena”, in “ogni cosa esigua, in ogni cosa immane” fino a quando lui, D’Annunzio non avrà “più nome” per identificarsi nel meriggio stesso, una trasfigurazione in divinità così che “vive in tutto tacito come la Morte” e la sua “vita è divina”, se sussisterà il godimento, se l’eccitazione è come piacere assoluto della vita. Ma la vita si porta via tutto. Tutto imputridisce. “La mia vana tristezza”. È l'ambivalenza tra la vita e la morte. “E fili, e fili sin che l'olio dura, Nutrice; e morta la mammella pende”: quella stessa mammella che gli ha dato la vita all’improvviso viene a mancare. D’annunzio sa di attraccare “In vano” a un qualche porto. Ogni desiderio pare assopirsi così come la vita sotto le ali della morte e quel desiderio che prima era infinito ora è addirittura invano. C’è tanta tristezza nell’ultimo tentativo di vincere il buio della decadenza umana, ogni vitalismo si affloscia. Azzarda quel desiderio che ormai è cessato, non ce la fa. Allora sogna. Il sogno è la massima espressione di realizzazione del desiderio. Quel sogno 13 “dell’ alta marea che sommerge” (come in Versi d’amore) è inebriante certo, ma non è reale. È un sogno nel quale si spera. Soffoca il desiderio, soffocano i sensi, soffoca l’anelito all’infinito e sarà la depressione e sarà la morte. Sarebbe arrendersi, gettare la spugna. Ma no, così sarebbe una vita sprecata. Perciò non resta che sognare perché il sogno non essendo reale, è dunque infinito. È veramente tutto? Ah perché non è infinito come il desiderio il potere umano? Ma ancora una volta: cosa è il desiderio? D’Annunzio è l’espressione del desiderio fattosi carne sulla terra, radice della pianta, salda sulla Madre terra. È il suo estetismo, il suo volere è stato potere desiderato di ciò che ha desiderato. L’idea si è trasformata in habere, ottenere, possedere la perfezione, la raffinatezza, la cultura, l’ossessiva logica del dettaglio senza trascurare la forma che si perde nell’orizzonte panico. La resa dei conti. Alla fine D’Annunzio sa: nell’uomo c’è congenita la fine, la disgregazione, la malattia degenerante, la polvere dopo la morte; D’annunzio l’aveva capito per cui il potere umano non può essere infinito, neanche il desiderio lo è, sebbene parrebbe esserlo perché come il sogno spinge all’eternità dell’esistenza nel lascito di una memoria del sé. Ma l’unica cosa certa è la morte, colei che regna e vince l’esistenza di ogni uomo, sovrana di tutte le cose terrene; fredda, agghiacciante, non guarda in faccia nessuno; è li che ti segue, silenziosa non ti abbandona mai, ti inganna e ti fa credere di aver tempo, quel tempo che appena può ti ruba e ti porta via, assalendoti e strappandoti l’anima. Tutto, dinanzi a lei ,diventa vano e illusorio. Ti permette di percepire, grammo dopo grammo, il peso di un vita inutile, di una scadenza certa e di una fine segnata, che grava sulle tue spalle come un macigno destinato a schiacciarti. D’Annunzio virtuosissimamente si oppone. È una dominatrice, avida e spietata, che non ti lascia nulla, se non la consapevolezza di essere riservato ad un corpo spento, inconsistente, degradato e consumato dal tempo. E riepilogando, come nel romanzo “L’Innocente”, anche in quello de “Il Trionfo della morte”, il protagonista Giorgio Aurispa, intellettuale fine e capace di sottilissime analisi, è un Superuomo debole e in perenne crisi poiché incapace di saper vivere. Vige un senso di turbamento e, allo stesso tempo, il fascino e l’incanto e la morte domina come signora fatale. L’uomo comincerà ad esplorare, (per noi è un falso tentativo) la sua coscienza, alla ricerca di un nobile ed elevato significato da attribuire alla propria esistenza, in contrapposizione alla banalità della vita quotidiana. La fine avanza, la si respinge inutilmente nel tentativo di superare il divario assaporando “tutti i frutti terrestri”. Ė la spinta per condurre una vita attiva, dinamica, energica, operosa, ricca di stimoli intensi, di ideali, di passioni, di ambizioni e fantasie per rimettere in gioco e a frutto gli ardori giovanili. Sembrerebbe che solo così potremmo essere felici. 14 Solo un legame eterno e invincibile accompagna l’esistenza sospesa tra la vita e la morte. Il sentimento di angoscia e di misteriosa inquietudine non trova pace neppure nella spinta all’infinito potere del desiderio. Apparente armonia nell’architettura dei suoni, dei colori, delle immagini dove , si cela, nascosta, la minaccia e la presenza della morte incombente . La morte non dà scampo, prima o poi, busserà alla porta. Niente la fermerà o le impedirà di impossessarsi di noi, poiché noi le apparteniamo. Nasciamo per morire, e non c’è vita che duri in eterno. L’uomo porta con sé la fine, e con questa il limite del suo potere e di ciò che può desiderare. Voleva D’Annunzio forse eternità della memoria? Forse che sì forse che no! La poesia è nel verso lo strumento, la parola il mezzo sublimante, “il poeta che ama le cose della terra tocca con puro fervore tutto”, dominatore, con il suo amore per quella cosa viva”( recita così il poeta nel Il discorso della siepe), “è il senso del divino nella sua lode”, è il senso del potere nei suoi versi. Ma solo nei suoi versi e non nell’uomo disfatto dalla vita perché la morte ha potere, (quel potere della morte crediamo sia veramente infinito), un potere che chi vive non ha e allora lo ricerca vibrante, dolcemente, violentemente, nei sapori e nei colori dell’esistenza delle cose e della natura. È una folle contrapposizione in cui al discorso poetico viene attribuito un esilarante riscatto perché la vita altro non è, compresa quello dello stesso poeta, vittima del tempo divoratore. Ad essere divorato, a questo punto, è anche il desiderio così come il potere di una vita d’eccezione. Alla fine solo un nostalgico sospiro: “Ah perché non è infinito come il desiderio, il potere umano?” Perché: “Ecco, sento che muoio118”. E, sebbene “ Tutto fu ambito” e addirittura “tutto fu tentato… ogni gesto fu d’esempio”, anche il desiderio, pseudo infinito, a nostro avviso, fu. A questo punto come potrebbe essere infinito il potere se l’uomo stesso che dovrebbe gestirlo è finito? D’annunzio lo aveva capito, poteva solo malinconicamente sospirarlo, nonostante il tutto. Di sicuro, alla fine di questo percorso, abbiamo fatto nostro un dato di fatto: D’annunzio è un uomo, una donna, un essere animale, un essere vegetale, un qualsiasi elemento nel quale fondersi, alla disperata ricerca di una ragione di vita su questa terra. E anche noi oggi ci sentiamo così nel tentativo di dare un senso a tutto ciò che facciamo e al perché lo facciamo e, spesso, in quel dare senso e in quel fare, vediamo il nostro cammino irto di laceranti contraddizioni. 11 Da Maia – Laus Vitae 15 BIBLIOGRAFIA La letteratura di Baldi Giusso Razetti Zaccaria, vol. 5, Paravia Il Piacere, libro III, cap. I, II, III Il trionfo della morte Le vergine delle rocce, libro I, III Le laudi, da Alcyone: La pioggia nel pineto, la sera fiesolana, Meriggio, Nella belletta, I Pastori Il Notturno, Terra vergine Le novelle della Pescara, Il fuoco, Versi d’amore e di Gloria, vol. II, III in http://www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze/, documenti in pdf, edizioni elettroniche Introduzione a D’Annunzio di A. Felice, Laterza, Roma – Bari 1991 Il discorso della siepe in Il libro ascetico della Giovane Italia, G.D’annunzio SITOGRAFIA “D’Annunzio e “Il fuoco” dello scandalo” di Antonio Angeli (recensione “La mia vita carnale” di G. B. Guerri), ne Il Tempo.it http://www.oilproject.org/lezione/d-annunzio-autobiografia-5641.html http://www.poesieracconti.it/poesie/a/gabriele-dannunzio http://www.poesie.reportonline.it/poesie-di-gabriele-d-annunzio/o-falce-di-luna-calante-di-gabrieled-annunzio.html http://www.raccontiepoesie.org/Poesie_aut_erotiche/Dannunzio_E.htm#2 16
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