JUAN JOSÉ SANGUINETI FILOSOFIA DELLA MENTE Una prospettiva ontologica e antropologica PUBBLICATO IN EDUSC, ROMA 2007 2 Presentazione La filosofia della mente è un’area d’indagine filosofica maturata nella tradizione anglosassone e nata dalla necessità epistemologica e linguistica di parlare di mente e di atti mentali per riferirsi a certi aspetti delle operazioni e della condotta umana. Nella filosofia classica, le tematiche affrontate da questo indirizzo corrisponderebbero alla psicologia filosofica nella linea aristotelica e tomistica. Dopo la crisi della metafisica classica provocata dall’empirismo e dal kantismo, molti filosofi pensarono di abbandonare per sempre la tematica di anima e corpo. La neuroscienza, la psicologia, la scienza computazionale e la dinamica interna della filosofia del linguaggio obbligarono tuttavia a riproporre la terminologia “mentalista”, con l’impiego di termini quali intenzionalità, rappresentazione e altri simili. Benché raramente i filosofi si azzardassero a ritornare alle questioni ontologiche, almeno è comparso una sorta di dualismo delle proprietà, nel senso della distinzione tra le operazioni fisiche e le operazioni mentali. Al contempo, nuovi tentativi di esautorare il discorso sull’anima, spesso indicata come mente, si fecero avanti col comportamentismo e il riduzionismo neurologistico. In questo modo sono sorti parecchi dibattiti, benché non propriamente una filosofia sistematica, su temi “mentalisti” quali la percezione, le sensazioni, le emozioni, l’intelligenza e la nota questione sul rapporto tra mente e cervello. Con la comparsa delle scienze cognitive, la Philosophy of Mind trovò una collocazione in quest’area epistemica, consolidandosi come una disciplina filosofica diversa dall’epistemologia. In questo volume cercherò di analizzare alcuni punti fondamentali abitualmente discussi nella filosofia della mente, senza la pretesa di essere esaustivo. Dopo un breve capitolo di carattere storico, non ci sarà più spazio per entrare nei particolari della storia di questa disciplina né per sviscerare le posizioni dei singoli autori. Affronterò i temi sistematici in maniera diretta, con una proposta di fondo personale, 3 sia pure ispirata alla filosofia di Aristotele e Tommaso d’Aquino1. I capitoli 2 al 4 si soffermano con una certa ampiezza sul problema filosofico dei rapporti tra le operazioni cognitive e l’attività cerebrale. I capitoli 5 e 6 sono dedicati rispettivamente all’intelligenza degli animali e all’automazione computazionale dei processi cognitivi. Così, il lettore troverà in questo libro una serie di riflessioni sulle “tre menti” spesso studiate in questo settore: la mente umana o personale, quella animale e quella artificiale. Lungo l’esposizione ci saranno allusioni e riferimenti obbligati a questioni scientifiche (specialmente di tipo neurologico), ma non entrerò nei loro dettagli. Presuppongo la parte scientifica degli argomenti considerati e mi soffermo sulle questioni di principio, puntando soprattutto alla valutazione filosofica dei problemi. Gli studi di filosofia della mente spesso si limitano a riflettere lo stato attuale delle questioni. Sono utili per ricavarne una conoscenza storica, ma di solito non sono molto concludenti, forse perché la competizione tra le scuole (funzionalismo, dualismo, eliminativismo, emergentismo) è ancora in corso e nell’orizzonte non si profilano altre prospettive. Gli autori di manuali2 tendono a presentare conclusioni leggermente eclettiche. Cercano di far capire i termini del dibattito ma difficilmente oltrepassano l’impostazione di confronto tra le opinioni. Un esempio di questa situazione potrebbe essere l’opera di H. Putnam, Mente, corpo, mondo (1999), dove egli manifesta in maniera euristica le sue molteplici e spesso variabili opinioni sulle questioni della mente, secondo uno stile incisivo ma al contempo leggero, con una prolifica presentazione di argomenti, esempi, controesempi e con frequenti richiami al buon senso. Non tutti gli autori impegnati in quest’area del pensiero hanno tale atteggiamento. Certe loro posizioni possono essere molto radicali. In generale, però, molti preferiscono limitarsi alla discussione dei problemi. Quest’impostazione risulta ovviamente condizionata dalla situazione storica del momento, e nell’area filosofica 1 In alcune pagine di questo lavoro farò riferimento al pensiero di Tommaso d’Aquino in una prospettiva non storiografica. Traduco i suoi testi sulla base del testo originale. Trovo pertinenti alcune delle sue vedute sull’argomento “mente/corpo” e perciò le incorporo con libertà nel contesto dell’esposizione, con indipendenza dagli schemi particolari dell’Aquinate. 2 Ad esempio Bechtel, Bermúdez, Di Francesco, Flanagan, Heil, Kim, Lowe, Nannini, Paternoster: cfr. bibliografia finale. 4 anglosassone, ormai diffusa in tutto il mondo, dal forte peso della tradizione empirista. Dal punto di vista di questo studio, invece, spero sarà possibile arrivare ad una valutazione speculativa delle posizioni grazie alla luce di una prospettiva più alta. Tale prospettiva è raggiungibile purché sia superata l’ambientazione puramente scientifica della filosofia della mente e ci si apra a una visione metafisica e antropologica della persona3. 3 Per le questioni antropologiche affrontate in queste pagine, ad esempio sul corpo umano, i sentimenti, il linguaggio, la coscienza o l’azione, si vedano gli studi sistematici di antropologia, in particolare J. A. Lombo, F. Russo, Antropologia filosofica, Ed. Università della Santa Croce, Roma 2005 e J. M. Burgos, Antropología: una guía para la existencia, Palabra, Madrid 2003. 5 Introduzione Perché mente e corpo? Sin dai tempi più remoti, nella cultura, nelle religioni e nelle dottrine filosofiche c’è stata l’idea che l’uomo, pur essendo uno, è costituito non solo da parti fisiche, ma anche da elementi psichici, spirituali o immateriali, come i pensieri, le fantasie, l’anima, lo spirito, l’intelletto o la ragione. Questa pluralità di atti, potenze e perfino anime spiegherebbe la complessità della condotta umana. Le nostre azioni sono molto diverse. Alcune sono esterne, altre interne. Certe attività possono predominare su altre (una persona può essere molto dominata dalla sua parte sensitiva), oppure possono favorire tensioni o influire su altri atti, creando una sinergia che rende conto del dinamismo umano. Quindi l’uomo va visto, certamente, come uno, ma insieme come un’unità complessa. Si comprende la necessità di parlare di potenze, di moduli o di livelli psichici. Secondo San Tommaso, abbiamo due intelligenze4; secondo Gardner, le nostre intelligenze sarebbero sette5; nella tradizione cristiana si parla dell’uomo vecchio che lotta contro l’uomo nuovo. Ciascuno di quegli elementi possiede una sua autonomia e presenta le sue esigenze (esigenze dei sensi, dei sentimenti, della ragione). Siamo costituiti, dunque, da una pluralità di elementi strutturali. Se c’è pluralità, vi è una distinzione, un’integrazione e una causalità tra questi elementi. È questa la complessità dell’uomo. Alcuni autori non riconoscono l’unità della persona umana. Minsky immagina la nostra pluralità interna come una “società di agenzie” in competizione6, senza un io supervisore garante dell’unità dell’insieme. Noi però abbiamo coscienza della nostra identità, una coscienza personale che ci consente di dire io, specialmente quando siamo attivi e responsabili (“io ho fatto questo”). È 4 Intelletto agente e intelletto paziente: cfr. S. Th., I, q. 79, aa. 2 e 3. Cfr. H. Gardner, Frames of Mind. The Theory of Multiple Intelligences, Basic Books, New York 1983. 6 Cfr. M. Minsky, La società della mente, Adelphi, Milano 1989. 5 6 difficile urtare contro questa evidenza. Occorre però spiegare come siamo identici e molteplici al contempo e in che senso dobbiamo auto-integrarci, poiché possiamo pure disintegrarci. D’altra parte, se l’io fenomenologico manifesta uno spazio di coscienza con elementi più o meno controllabili, vi sono in noi degli aspetti oscuri che influiscono sul nostro modo di comportarci (tendenze, predisposizioni profonde, emozioni latenti). La presenza di un’identità in mezzo alla pluralità di forze della nostra natura complessa è attestata a livello personale. Sentiamo la forza interiore dei desideri, dei sentimenti, delle pulsioni. Il nostro io fenomenologico viene indicato in espressioni come “la mia anima”, “il mio cuore”, “il mio interiore”, frequenti nella letteratura spirituale. Ma occorre andare a un livello più profondo e ontologico, per cercare gli elementi intrinseci costitutivi di ciò che davvero siamo. Inoltre la pluralità d’istanze del nostro essere e le loro interazioni non sono sempre dello stesso genere. Ci vuole, dunque, un’analisi approfondita dei termini del problema. Nella storia della filosofia e delle scienze (psicologia, neurologia) talvolta si è fatto ricorso a modelli analogici per raffigurarci come potrebbe essere l’ontologia della nostra struttura personale. Abbiamo, ad esempio, il modello platonico della città interiore, usato pure da Aristotele quando parla di un “dominio politico” sui nostri stati d’animo. Eppure la società, a sua volta, è stata paragonata certe volte a un organismo. Nel platonismo e in Cartesio, il dominio-guida dell’anima sul corpo è stato spiegato secondo il modello del timoniere o della guida di un mezzo di trasporto. Sin dai tempi di Cartesio è diventato frequente, invece, il modello meccanico del corpo e dell’uomo, nel senso di concepire le nostra struttura come composta da una serie di pezzi che vengono assemblati per costituire una macchina, dalla quale nascono le sue funzioni. Negli ultimi decenni sono stati usati modelli computazionali (la mente e il cervello visti con l’analogia del computer) e connessionisti (reti neurali). I modelli possono essere gerarchici, stratificati, sinergici, sistemici. In queste pagine vorrei proporre come punto di partenza il “modello ilemorfico” di tipo aristotelico. Veramente non è un modello nel senso della scienza, nella quale la modellizzazione semplifica o idealizza la realtà. L’ilemorfismo è un approccio ontologico capace di abbracciare molteplici dimensioni della realtà seguendo una linea interpretativa dove l’essere e la causalità acquistano sensi diversi. L’ilemorfismo 7 aristotelico è collegato a una filosofia della sostanza: l’essere “indipendente” ovvero l’essere in senso forte. Oggi si sente il bisogno dell’impiego di categorie ontologiche per poter rendere conto delle differenze tra la mente umana, il corpo, la mente animale, i computer, le menti “collettive” (come l’insieme delle conoscenze di una biblioteca o di Internet) e i robot umanoidi dotati di intelligenza artificiale e magari di emozioni. I grandi dibattiti della filosofia della mente mettono in crisi la distinzione tra queste realtà. Talvolta non resta che affidarsi alla conoscenza comune, una volta che lo sforzo analitico sembra esaurito, per dire ad esempio che “il computer non pensa, ma non sappiamo spiegare perché”. Nella tradizione filosofica, spicca in questo quadro la dualità di anima-corpo7. Pur essendo il corpo una struttura complessa e anche se l’anima svolge diverse funzioni a vari livelli, la dualità corpo e anima appare sempre fondamentale ed è prevalsa sulla concezione tricotomica di corpo-anima-spirito (che pure ha un senso). In qualche modo, quindi, la problematica si concentra sul modo in cui si concepisce la dualità fondamentale di anima e corpo o di ciò che è proprietà, atto o evento psichico e ciò che è proprietà, atto o evento fisico. A causa dell’abbandono della categoria dell’anima, la “dualità originaria” di cui oggi si parla è quella di mente-corpo (l’anima è stata sostituita dalla mente), e quindi l’indagine è impostata intorno alla dualità di atti fisici-atti mentali. L’uso di mente anziché di anima a mio parere favorisce il dualismo, nel senso che separa la “mente” dal corpo più di quanto l’anima e il corpo fossero separati (almeno nell’aristotelismo, dove l’anima era la forma del corpo). Comunque in questo libro mi adeguo spesso alla terminologia “mentalista”, solo per far capire meglio i punti da discutere. Le posizioni filosofiche profonde sono, quindi, posizioni relative alla distinzione -o non distinzione- e al rapporto attivo tra il fisico e il mentale. La fenomenologia, intesa in senso ampio, aiuta in un primo momento a capire quanto succede in noi, sia nei nostri atti che nel comportamento. Tutti sperimentiamo dei “vissuti” come le sensazioni, le emozioni, i pensieri, la volizione. Ma la 7 Per una visione sintetica della problematica mente/cervello nelle scienze cognitive, cfr. J. M. Maldamé, Sciences cognitives, neurosciences et âme humaine, “Revue Thomiste”, 106 (1998), pp. 282-322. Cfr. anche il mio lavoro Operazioni cognitive: un approccio ontologico al problema mente-cervello, “Acta Philosophica”, 14 (2005), pp. 233-258. 8 fenomenologia non basta. Il ruolo del cervello nel pensiero passa completamente inosservato. Dobbiamo prenderne atto indirettamente attraverso l’analitica causale. Di conseguenza, le descrizioni e le spiegazioni sui rapporti tra il fisico e il mentale sono condizionate e talvolta illustrate dalle indicazioni scientifiche (grazie alla neurologia, ad esempio, veniamo a conoscere la corrispondenza tra il linguaggio e la regione corticale linguistica). Una cosa simile accade a livello ontologico profondo. Le interpretazioni sulla natura della mente, del cervello o dell’intelligenza artificiale sono spesso collegate alle categorie metafisiche adoperate dagli autori (nozioni di causalità, sostanza, soggetto, intelligenza, rappresentazione). Prima di affrontare le questioni di fondo della filosofia della mente selezionate in questo studio, come annunciato, daremo uno sguardo d’insieme alle posizioni predominanti sullo scenario filosofico. Nel seguente capitolo si potrà capire più facilmente la rilevanza dei problemi presentatisi lungo la storia circa i rapporti tra la mente e il corpo. L’esposizione sarà un buon punto di partenza e uno stimolo per motivare i lettori a proseguire nello studio e per renderli sensibili alle analisi e alle argomentazioni dei successivi capitoli. 9 Capitolo 1 Le posizioni filosofiche In queste pagine esaminiamo in maniera sintetica le grandi risposte filosofiche al problema mente/corpo, senza la pretesa di tracciare una storia della filosofia della mente. Tralasciamo le sfumature dei singoli filosofi, per concentrarci sull’inquadramento delle tesi principali. In teoria ci sarebbero soltanto due posizioni di fondo: dualismo mente/corpo o monismo (spiritualistico o materialistico). Però, come vedremo, le concezioni filosofiche alla fine risultano più complicate e un certo dualismo, pur essendo la tesi più antica, riemerge sempre in modi più o meno sofisticati8. 1. Dualismo e parallelismo La posizione dualista sostiene, in termini generali, la distinzione reale tra anima e corpo (dualismo ontologico) o almeno tra atti psichici (“mentali”) e atti fisici (dualismo delle proprietà). In un senso più preciso, il dualismo non riconosce l’integrazione delle due istanze nell’unità di un’unica sostanza (come invece fa Aristotele). Nel dualismo l’insistenza ricade sulla distinzione, che arriva ad essere una separazione tra mente e corpo, al punto che il loro rapporto è concepito spesso in modo estrinseco, come se fosse il rapporto tra “due cose”. Esiste un dualismo popolare frequente nelle tradizioni culturali e religiose, dove la distinzione tra anima e corpo è scontata. Questo dualismo può essere considerato, fino a un certo punto, legittimo e anche vero, dal momento che corrisponde alla conoscenza ordinaria o alla percezione comune secondo cui insieme al corpo abbiamo pure una dimensione spirituale, non sensibile e non spaziale, dove sono presenti i nostri pensieri, idee, sentimenti e intenzioni. Un certo dualismo sembra naturale a 8 Per una visione storica complessiva della filosofia della mente, almeno fino a un certo periodo, cfr. l’eccellente studio di S. MORAVIA, L’enigma de la mente, Laterza, Roma-Bari 1988. 10 ogni persona, secondo una prospettiva fenomenologica iniziale, comune a tutti e sempre presente nell’autopercezione. In questo senso, in rapporto al tema che ci occupa, il dualismo appare come la posizione più popolare e tradizionale. Il dualismo dell’uomo comune, naturalmente, può essere influito dall’educazione morale, religiosa, scientifica, filosofica, e sotto questo punto di vista è condizionato dalle caratteristiche di ogni cultura. La civiltà semitica e greca, da cui l’Occidente è debitore, ad esempio nei libri biblici, nell’ebraismo e nel cristianesimo, è pervasa da un certo dualismo ontologico moderato. Appartiene alla cultura greca e al semitismo ellenistico la convinzione dell’esistenza del corpo e dell’anima come elementi diversi, al punto che l’anima, nella visione cristiana, è considerata immortale e sussistente anche dopo la morte. Ma nel giudeo-cristianesimo il corpo è visto in modo positivo, non come una sostanza legata al male o addirittura radice del male, come invece avviene nel manicheismo e nelle concezioni gnostiche. Nella terminologia religiosa giudeo-cristiana, il corpo da combattere non è il corpo in se stesso, ma i desideri sensitivi disordinati (concupiscenza, ambizione, orgoglio). In questo senso San Paolo contrappone la carne allo spirito9. Paolo non è dualista nel senso di negare valore al corpo. La fede cristiana, nel sostenere l’incarnazione del Verbo di Dio e la risurrezione della carne, valuta positivamente la corporeità. Ci sono molte modalità di dualismo antropologico10. Il dualismo moderato considera l’anima e il corpo come due cose o sostanze, ma non necessariamente nega la loro unità tramite rapporti interattivi. Un dualismo radicalizzato, invece, concepisce l’uomo come identico alla sua anima e vede nel corpo il domicilio provvisorio 9 Cfr. Gal 5, 16 ss. Cfr. sul tema J. Seifert, Das Leib-Seele-Problem und die gegenwärtige philosophische Diskussion, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1989, pp. 158-162, con un’utile precisazione sui diversi tipi di dualismo. Seifert si riconosce dualista, con una posizione propria che non vede il corpo in modo negativo né accidentale. La persona umana, secondo questo autore, è una sola sostanza costituita da due sostanze, una spirituale e l’altra materiale (il corpo organico). Seifert trova certe difficoltà nella nozione di anima umana come forma del corpo (cfr. pp. 215-223) e quindi adopera un’ontologia che, a nostro parere, non è del tutto soddisfacente e non riesce a dar ragione di molti aspetti dell’unità dinamica anima/corpo. La sua posizione corrisponde alla tradizione spiritualistica cristiana arricchita dal personalismo, senza però accogliere pienamente la tesi tomistica dell’anima umana come forma del corpo umano. San Tommaso in S. Th., I, q. 75 si esprime sull’uomo come “composto da una sostanza spirituale e da una sostanza materiale”, ma solo per usare una formulazione neutra introduttiva, non nel senso di sostenere una tesi vera e propria. 10 11 dell’anima, perfino il suo carcere o un’istanza opposta ai suoi interessi, quindi radice del male. Secondo la teoria della trasmigrazione, le anime possono reincarnarsi in una successione di corpi, nei quali trovano soltanto una sede estrinseca. Il dualismo dei filosofi, più sofisticato e preciso, ammette molte varianti. Il dualista classico per antonomasia è Platone. Le tesi filosofiche dei dualisti tentano di spiegare in che senso sono diversi il corpo, l’anima e lo spirito (alcuni distinguono due livelli sopracorporei, per cui si parla di “trialismo”), per poi affrontare il compito di illustrare la loro interazione. Il dualismo cartesiano oggi è ritenuto (forse un po’ ingiustamente) come emblematico della posizione dualistica. Questa nuova posizione opera ormai in un ambiente moderno, dove la spiegazione fisica di stampo galileiano o cartesiano è divenuta il paradigma della scientificità. Il dualismo di Cartesio abbandona la nozione aristotelica di anima come forma o atto sostanziale del corpo. L’anima umana viene presa piuttosto nella linea dell’attestazione fenomenologica della coscienza. Si comprende così il motivo della progressiva sostituzione del termine anima per mente. Il corpo, quindi, non è ormai il corpo informato dall’anima, presentandosi come una macchina autonoma che funziona secondo le leggi della natura. La separazione ontologica di anima e corpo diventa così molto forte e include una separazione epistemologica fondamentale. Nasce dunque il problema di come un evento cosciente, non fisico (l’atto della coscienza), possa essere in grado di trasmettere movimento agli ingranaggi meccanici del corpo. La perdita della nozione di anima non significa dunque la scomparsa del dualismo nella filosofia contemporanea. Al contrario, in un certo senso la filosofia e la scienza moderna comportano un profondo dualismo, più epistemologico che metafisico. Tutto ciò che corrisponde al pensiero, alla coscienza, alla persona e all’esistenza umana spesso viene considerato come appartenente al dominio della filosofia (fenomenologia, esistenzialismo, ermeneutica). A ciò si contrappone quanto corrisponde all’organismo umano,visto nel quadro della biologia, quindi secondo canoni deterministici e non di rado secondo il principio di “causalità fisica chiusa” (ogni evento fisico deve avere una causa antecedente fisica). La neurologia rafforza, 12 in molti autori, questa concezione chiusa del corpo umano11. Il dualismo epistemologico è implicito, ad esempio, nella distinzione diltheyiana tra “scienze dello spirito” e “scienze naturali”. La psicologia moderna, in questo senso, è stata una scienza metodologicamente incerta, fluttuante tra una visione spiritualista dei fenomeni psichici e una prospettiva naturalista, subordinata ai canoni delle scienze naturali (si pensi alle incertezze di Husserl o Wittgenstein sulla natura della psicologia). Il dualismo moderno, quindi, è di natura fondamentalmente epistemologica. Per questo motivo talvolta è collegato alla contrapposizione forte tra la filosofia e la scienza. Nella sua radicalità epistemica, il dualismo moderno favorisce il passaggio ai monismi. L’autonomia chiusa della neurobiologia, accentuatasi nel positivismo e negli indirizzi “scientisti”, prepara la concezione monista materialista. La svalutazione della conoscenza scientifica e il primato della filosofia, nel senso dell’idealismo, fa inclinare la bilancia, invece, in favore del monismo spiritualista. Una posizione vicina al dualismo è il parallelismo psicofisico. La differenza con il dualismo è che il parallelismo abbandona il problema dell’interazione tra il fisico e il mentale. Il rapporto tra il mentale e il fisico si vede spesso in termini di “coordinamento”. L’atto psichico di vedere, ad esempio, sarebbe corrispondente al funzionamento biologico dell’occhio. Per alcuni autori parallelisti, l’anima sarebbe “ben coordinata” con i movimenti del corpo. In altri tempi il parallelismo era di natura ontologica, come nell’occasionalismo. Oggi è più frequente il parallelismo epistemologico, pur senza l’uso di questa denominazione. È facile arrivare a sostenere, ad esempio, che gli atti mentali sarebbero tali secondo una descrizione psicologica, benché ciascuno di essi avrebbe un correlato fisico (neurologico), per cui potrebbe essere pure oggetto di una descrizione neurologica. In questa impostazione del problema si pone in primo piano la questione della correlazione tra il fisico e il mentale. Ad esempio si parla di emozioni reali che 11 Per David Braine, questa è una concezione astratta o riduttiva del corpo: cfr. The Human Person: Animal and Spirit, University of Notre Dame Press, Notre Dame (Indiana) 1992. 13 avrebbero un correlato nella dinamica cerebrale. Il senso in cui la correlazione venga interpretata può comportare ancora un dualismo, oppure uno spostamento verso il monismo. L’insistenza sulla duplicità delle descrizioni può far pensare che, in fondo, ci sarebbe un unico fenomeno, suscettibile di una descrizione psicologica o di una descrizione neurofisiologica. Secondo alcuni studiosi, la descrizione psicologica sarebbe importante per la comunicazione umana. La “psicologia popolare”, in altre parole, sarebbe utile in questo senso, ma la vera spiegazione sarebbe neurologica (il “monismo anomalo” di Davidson è vicino a questa posizione12), così come per capirci parliamo delle cose in termini fenomenologici e non scientifici, pur sapendo che la vera spiegazione si trova nelle scienze sperimentali (fisica, chimica). 2. Monismo spiritualista Per il monismo l’anima e il corpo sarebbero la stessa cosa, forse visti in maniera diversa. Ma l’equiparazione tra anima e corpo può favorire uno dei due termini dell’identità. Il monismo spiritualista non è una posizione molto diffusa e, in un senso rigoroso, tra i filosofi più noti è stata sostenuta solo da Berkeley. Secondo il principio immanentistico di Berkeley, i corpi sarebbero oggetti osservati da una coscienza. Naturalmente, qualsiasi posizione filosofica in cui la nozione di corpo entri in crisi sarà propensa alla riduzione della realtà allo spirito. Nell’idealismo occidentale tale riduzione si compie tramite una via gnoseologistica. Una forma vicina al monismo spiritualista è il panpsichismo, secondo il quale le realtà inferiori alla vita umana e animale avrebbero una forma di psiche (in un modo simile, alcuni autori hanno parlato di una intelligenza cosmica). Tralasciando le vecchie mitologie animiste, l’attribuzione di psiche o di anima alle cose inanimate e ai vegetali, come oggi fa l’australiano Chalmers13, è un segno della debolezza di un’ontologia che consente di vedere ragione, intenzioni o coscienza 12 Cfr. D. Davidson, Azioni ed eventi, il Mulino, Bologna 1992. Chalmers in un primo momento può sembrare dualista, dal momento che rivendica con validi argomenti l’irriducibilità della coscienza ad atti di altro genere. Ma alla fine egli estende la coscienza ad ogni entità dell’universo capace di contenere informazione: cfr. The Conscious Mind, Oxford University Press, Oxford 1996. 13 14 in qualsiasi tipo di realtà. Dietro certe forme di apparente panpsichismo contemporaneo non di rado si cela il materialismo (come quando si parla di geni “intelligenti”). In altri casi, l’estensione indiscriminata di proprietà intenzionali a quanto manifesta auto-organizzazione e finalità indica, per contrasto, la necessità di un uso adeguato e non selvaggio della terminologia intenzionale. Certi autori oggi attribuiscono facilmente intelligenza, capacità concettuale e ragionamenti agli animali. Altri non vedono problemi nell’assegnare coscienza ai robot dotati d’intelligenza artificiale. Anche alla vita e perfino all’intero cosmo è stata attribuita una forma oscura di intelligenza. Una filosofia della natura carente può essere la causa di queste bizzarre posizioni. La presenza di finalismo e di ordine razionale nel mondo naturale non ha sempre lo stesso senso. Gli antichi -perfino Tommaso d’Aquino- parlavano un po’ metaforicamente di un “appetito naturale” e di un “amore naturale” per cui tutte le cose tendevano ai loro fini naturali. Tale appetito non era un vero desiderio né una reale tendenza. La pietra non cade perché ama cadere nei suoi “luoghi naturali”. Eppure la pietra, nel cadere secondo leggi precise, manifesta l’ordine intelligibile della natura. Agendo in tal modo, essa contribuisce all’armonia del cosmo. La lezione da trarre da queste attribuzioni indiscriminate di tendenze e di razionalità ad ogni cosa che agisce in un modo razionale è la necessità di impiegare categorie ontologiche adeguate e di contare con il significato analogico dei termini. Il monismo spiritualista tende a una concezione unitaria di tutta la realtà, ma non secondo la linea della materialità. In qualche modo, questo monismo può presentare una certa finezza intellettuale e, sebbene sia molto minoritario nella cultura, si comprende che sia tipico di alcune mentalità filosofiche. Molti antichi provarono una particolare propensione nei suoi confronti, in quanto certe distinzioni ontologiche e concettuali non erano ancora maturate in determinate culture (basti pensare alla nozione imprecisa di corpo e di spirito nello stoicismo e nel neoplatonismo). Il dualismo radicale cartesiano, invece, è un risultato estremo della mentalità scientifica caratteristica della cultura occidentale. Le perfezioni trascendentali -l’essere, l’unità, il bene, l’intelligibilità, la bellezza- e altri aspetti affini ai trascendentali, come l’ordine, le relazioni, la causalità ordinata, si trovano dappertutto nell’universo. Ma non sono identiche in tutti i casi e 15 perciò non vanno prese univocamente. La vita artificiale non è la vita naturale. L’intelligenza di un animale, di una società o di un robot umanoide non sono “intelligenze” nello stesso senso. Di qui l’urgenza di un’ontologia capace di rendere conto delle distinzioni forti presenti nella conoscenza comune. 3. Comportamentismo La posizione comportamentista psicologica fu una reazione contro la psicologia introspezionistica. Com’è noto, il progetto comportamentista (inizi del XX secolo) era di ridurre i contenuti psichici “interioristici” a schemi di comportamento esterno, secondo la struttura di “stimolo ambientale/risposta comportamentale” acquisita tramite l’esperienza (apprendimento). La fame, la sete, il dolore, andrebbero interpretati in termini di atti esterni, scientificamente analizzabili e possibilmente riducibili a leggi, secondo il metodo abituale delle scienze sperimentali (ipotesi e verificazione). La sequenza stimolo-risposta presa in considerazione era spesso di tipo fisiologico. Il comportamentismo psicologico è debitore del verificazionismo epistemologico. Nella misura in cui a partire da presunte leggi fenomeniche si è cercato di risalire a ipotesi causali più profonde (ad esempio, predisposizioni ad agire in un certo modo), il comportamentismo si è affievolito. La psicologia cognitiva, nata come reazione contro il comportamentismo (seconda metà del XX secolo), dimostrò la pertinenza del ricorso a rappresentazioni e a stati interiori cognitivi ed emotivi allo scopo di spiegare il comportamento intenzionale esterno (linguaggio e atti umani). Il comportamentismo filosofico (Ryle), a sua volta, cercò di spiegare il vocabolario psicologico interioristico (atti privati, accessibili solo all’io), tipico del cartesianesimo, in termini di gruppi di atti esterni e pubblici (insieme alle disposizioni), non tanto nel senso di una descrizione scientifica, bensì piuttosto nella linea della fenomenologia ordinaria della condotta esterna14. Questo indirizzo filosofico attirò l’attenzione verso i rapporti degli stati cognitivi ed emotivi con l’attività esterna del soggetto, nella quale quegli stati si dimostrano effettivi, così come l’ira si esprime in azioni esterne -attacco personale, vendetta-, o come qualcuno 14 Cfr. G. Ryle, The Concept of Mind, Hutchinson of London, Londra 1949. 16 dimostra di avere intelligenza nell’abilità per compiere mosse intelligenti concrete. L’idea di tralasciare la realtà degli atti psichici interiori -dolore, sensazione, intenzione, volere-, chiamati qualia nella filosofia della mente quando sono sensazioni, non è convincente. Nessun insieme di atti esterni può rendersi equivalente a un atto interno. Gli atti interni possono manifestarsi in modi molto contingenti. Essi non hanno una manifestazione esterna univoca che possa servire per definirli. Ciò che veramente spiega una determinata condotta esterna umana è la motivazione del soggetto. Se prendo un medicinale, normalmente è perché desidero guarire da un mal di testa (desiderio, dolore). I comportamentisti a volte riconoscono la disposizione o predisposizione come fattore che rende conto degli atti pubblici. Ma ciò non basta. Le disposizioni a compiere determinati atti, nei soggetti che agiscono intenzionalmente, sono proprio le rappresentazioni, le emozioni, le ragioni (in quanto stati abituali). 4. Neurologismo ed emergentismo a) Teoria dell’identità Il dualismo fisico/mentale potrebbe risolversi, secondo alcuni autori, nell’identità in favore degli atti fisici. Il presunto atto mentale (idea, emozione, sentimento) non sarebbe altro che un atto fisico complesso di tipo nervoso. Lo sviluppo della neurologia rende attrattiva questa ipotesi. La scoperta delle localizzazioni cerebrali delle funzioni superiori (linguaggio, memoria, percezione, emozione, coscienza) favorisce l’idea secondo la quale i fenomeni psichici non sarebbero altro che un’attività nervosa sofisticata. Inizialmente questo fenomeno sarebbe inavvertito, come avviene in tante realtà fenomeniche la cui spiegazione fisico-chimica si scopre posteriormente grazie al progresso scientifico. La variabilità e le anomalie dei comportamenti psichici sarebbe spiegata in un senso veramente scientifico in base alle condizioni dinamiche delle trasmissione neurali: reti neurali, associazioni tra aree del cervello, computazioni neurali, caratteristiche delle sinapsi. La psicologia (cognitiva, comportamentista) sarebbe solo descrittiva. La spiegazione profonda della psiche sarebbe situata a livello neurofisiologico. Per questo motivo il problema filosofico del rapporto “mente-corpo” spesso è indicato in termini di rapporto mente-cervello. Per il neurologismo, l’attività mentale è “ciò che fa il cervello”. La mente sarebbe semplicemente il funzionamento complessivo del 17 cervello o del sistema nervoso come un tutto. Questa tesi, come posizione filosofica è stata denominata teoria dell’identità (noi preferiamo il nome di neurologismo). È stata sostenuta, ad esempio, da H. Feigl, U. Place e J. J. Smart e, in un grado più sofisticato e vicino al funzionalismo, da D. K. Lewis e D. Armstrong. Il neurologismo ha una parte della verità, dal momento che molte funzioni psicologiche (sensazioni, percezioni, passioni) sono veramente causate da eventi neurofisiologici. Questa causalità è parziale e, in linea di massima, nell’aristotelismo sarebbe una causalità materiale, almeno per quanto si riferisce alla conoscenza sensitiva. Bisognerebbe vedere, poi, il tipo di rapporto esistente tra pensieri, atti liberi e attività cerebrale. Ci sono qui due questioni: 1. Problema descrittivo: è possibile ridurre il pensiero, la volontà, le emozioni, all’attività elettrochimica cerebrale? 2. Problema causale: si può dire che il pensiero, l’amore, le credenze, siano semplicemente causati dall’attività elettrochimica del sistema nervoso? La risposta del neurologismo a queste domande è affermativa. Alcuni sostengono pure la tesi fortemente anti-intuitiva secondo cui gli stessi qualia sarebbero irreali: un dolore non sarebbe altro che attività elettrochimica. Il dolore psichico non esisterebbe. Numerose critiche a questo tipo di riduzionismo si sono limitate a rivendicare, in modi anche ingegnosi, l’ovvia esistenza degli atti interiori o atti di coscienza. La causa di questo radicalismo riduttivo sembra essere epistemologica. I neurologisti non conoscono altra scienza all’infuori delle scienze naturali: fisica, chimica, biologia. “Spiegare” una realtà superando i parametri delle scienze sperimentali non sarebbe scientifico. Ma la spiegazione scientifica delle scienze naturali, se non si ammettono altre dimensioni ontologiche ed epistemologiche, è inevitabilmente riduttiva. I sostenitori della teoria dell’identità neurologistica sembrano vivere una sorta di schizofrenia epistemologica. Sono consapevoli di avere un’attività mentale, grazie alla quale comprendono e insegnano le loro teorie, ma non sono in grado di spiegare la realtà psichica umana se non in termini neurologici, per cui sono costretti ad essere riduttivisti, appellandosi però al sostegno di una teoria epistemologica. Il neurologismo si trova sempre nella scomoda situazione di aver a che fare con la realtà intuitiva costantemente presente della coscienza, che comunque va 18 emarginata dal quadro scientifico, negata o reinterpretata. Questo fatto provoca l’incessante necessità di costruire teorie alla fine di “spiegare” perché crediamo di pensare, di amare, di volere, quando in realtà non saremmo altro che entità fisicochimiche. È sottinteso il pregiudizio secondo cui non ci potrebbe essere niente al di sopra dell’esistenza fisica, o che comunque tutto sarebbe dovuto a cause fisiche, sia pure molto complesse. Talvolta questa tesi viene proposta come una novità della scienza più recente, il che non è vero: siamo semplicemente davanti a un’interpretazione filosofica. Un modo molto radicale di essere neurologisti è il cosiddetto eliminativismo (coniugi Churchland: Paul e Patricia Churchland15). Gli eventi mentali apparterrebbero alla “psicologia popolare”, ridotta alla categoria della spiegazione prescientifica, così come ci riferiamo al mondo fisico in maniera popolare, ma sbagliata, dicendo “il sole si muove” o “le stelle sono punti luminosi del firmamento”. A un livello esplicativo, la fraseologia neurologica dovrebbe sostituire a poco a poco la terminologia fenomenologica. La sostituzione è qui una eliminazione. Dire “faccio questo perché voglio” potrà avere un senso popolare, ma la vera spiegazione di questa impressione sarebbe neurofisiologica. Alcuni filosofi materialisti hanno cercato di giustificare l’uso del “linguaggio mentalista”, con l’idea di garantire uno spazio di autonomia alla psicologia. Si è tentato di legittimarlo, ad esempio, proponendo che gli “arnesi mentalisti” sarebbero costruzioni teoriche, simili alle ipotesi causali inosservabili della fisica e magari anche utili a scopi scientifici, linguistici o rappresentativi (ci avviciniamo così al funzionalismo). In questa linea sembra profilarsi la proposta di Dennett della intentional stance (“atteggiamento intenzionale”) che consente di “attribuire” stati mentali anche agli animali e alle macchine (robot o altro)16. Così si prende in prestito una categoria della filosofia della scienza, spesso interpretata in senso strumentalistico, per dar ragione della convenienza di non abbandonare del tutto il linguaggio mentalista. Ciò che è più ovvio (le nostre sensazioni, idee, intenzioni) 15 Cfr. P. S. Churchland, Neurophilosophy. Toward a Unified Science of the Mind/Brain, The MIT Press, Cambridge (Mass.) 1986; P. M. Churchland, The Engine of Reason, the Seat of the Soul, MIT Press, Cambridge (Mass.) 1996; Matter and Consciousness, MIT Press, Cambridge (Mass.) 1998. 16 Cfr D. C. Dennett, L’atteggiamento intenzionale, il Mulino, Bologna 1993. 19 diventa adesso, paradossalmente, un costrutto teorico che al massimo potrebbe essere felicemente utile. Le conseguenze del neurologismo, se fossero prese con coerenza, potrebbero essere anche totalitarie. Ogni attività umana di tipo morale, religioso, politico, artistico, scientifico, dovrebbe sottostare al primato della neurologia, con conseguenze talvolta inquietanti di carattere educativo e giuridico. Non a caso si è parlato di neurofilosofia (Patricia Churchland). Talvolta si impiega persino anche troppo il prefisso neuro in formule come neuroetica, neuroreligione, neuroestetica, e altro. b) Biologismo neurale Le restrizioni linguistiche e concettuali della teoria dell’identità non sono necessarie per sostenere una visione neurologista. Alcuni autori, specialmente in campo neurologico anziché filosofico, riconoscono volentieri livelli psichici elevati (emozioni, concetti), solo che ne danno un’interpretazione prevalentemente neurologica. La loro visione non corrisponde a una scuola filosofica elaborata, quanto piuttosto ad una cosmovisione di tipo biologista neurale, sostenuta talvolta con l’entusiasmo provocato dai successi della neuroscienza negli ultimi decenni. Il biologismo prevale specialmente nei nostri giorni, dopo la crisi (relativa) del funzionalismo computazionale che vedremo più avanti. Di solito questi autori criticano sia il comportamentismo che il computazionalismo, posizioni considerate insufficienti in quanto hanno emarginato l’importanza della biologia. Studiosi in questa linea oggi molto noti sono, ad esempio J. P. Changeux17 e M. S. Gazzaniga18, fortemente neurologisti. Altri meno radicali, anche se tendenzialmente materialisti, eppure molto validi per le loro ricerche neurologiche, sono A. Damasio19 17 Una sua opera molto conosciuta è stata L’uomo neuronale, Feltrinelli, Milano 1988. Cfr., tra altri suoi scritti, La mente inventata, Guerini, Milano 1999. 19 Cfr., ad esempio, Emozione e coscienza, Adelphi, Milano 2000; Alla ricerca di Spinoza, Adelphi, Milano 2003. 18 20 e G. Edelman20. Più aperto ad una visione non riduttiva ci sembra, invece, J. LeDoux21. Alcune posizioni di questi esponenti della scienza sarebbero compatibili con l’emergentismo che vedremo in seguito. Le indicazioni scientifiche proposte da questi ricercatori sulla coscienza, il linguaggio, le emozioni, e tante altre tematiche che stanno tra la neuroscienza e la psicologia, sono importanti. Non è accettabile, invece, l’eventuale tentativo di alcuni di essi di rendere conto in modo radicale della morale, della religiosità o, più in generale, del comportamento umano in tutte le sue dimensioni. La neurologia offre una piattaforma di base all’antropologia, ma non è il suo nucleo essenziale. Tutto ciò che sia scientificamente corretto in questi studi, comunque, è compatibile con la visione della filosofia della mente proposta in questo libro. c) Emergentismo Secondo questa posizione filosofica, la complessità organica nervosa produrrebbe delle proprietà olistiche superiori, non deducibili dalla somma delle parti dell’organismo, analogamente al fenomeno per cui, da molte entità microscopiche emergono delle proprietà macroscopiche dei corpi, le quali in un certo senso sono “nuove” rispetto alle proprietà delle singole parti. Lo stesso si potrebbe dire riguardo alle proprietà della vita. Così, i tratti della vita “emergerebbero” da una determinata complessità chimica. Questa posizione è l’emergentismo. È sostenuta, ad esempio, da Mario Bunge22. Il novum “emergente” dal basso, secondo queste teorie, si avvicina in parte alla nozione di forma aristotelica, almeno in un senso largo. Evidentemente un edificio possiede una struttura propria, suscitata dall’ordine tra i mattoni e gli altri componenti materiali della costruzione. Ma la proprietà olistica, in quanto intreccio di relazioni, non gode del livello ontologico dell’atto sostanziale aristotelico. La proprietà olistica 20 Cfr., Il presente ricordato, Rizzoli, Milano 1991; Sulla materia della mente, Adelphi, Milano 1993; insieme a G. Tononi, Un universo di coscienza, Einaudi, Torino 2000. 21 Cfr. J. LeDoux, Il Sé sinaptico, Cortina, Milano 2002; Il cervello emotivo, Baldini & Castoldi, Milano 1999. 22 Cfr. M. Bunge, The Mind-Body Problem. A Psychobiological Approach, Pergamon Press, Oxford 1980. 21 non ha un ruolo causale riguardo al livello inferiore. La “forma” di una casa o di una statua è irriducibile alle parti e dà loro un senso, ma non organizza la loro struttura. La forma del tutto serve soltanto da criterio all’artista per la configurazione della sua opera. La causalità formale aristotelica invece è un principio forte, cui fa capo la strutturazione globale dell’individuo di una specie data. Altri filosofi emergentisti riconoscono a certe configurazioni della materia la capacità di suscitare (come la eductio formae della scolastica) atti veramente nuovi e non semplici proprietà olistiche. Questa posizione è sostenuta, ad esempio, da Popper, Margolis23 e probabilmente da Searle. È in questo modo come, secondo Popper, la vita sorge dalla non-vita, la coscienza procede dalla vita e la mente umana emerge dalla vita animale. L’emergentismo di Popper si ricollega al dualismo (dualismo emergentista). I livelli superiori (coscienza, libertà) esercitano un controllo sui livelli inferiori. Tra mente e corpo vi sono vere interazioni. L’emergentismo di Popper non è materialista: la mente sorge dell’evoluzione, ma è diversa dalla realtà fisica. La sua comparsa è quasi una creazione o un miracolo della natura24. Invece l’emergentismo olistico è materialista, in quanto la mente si riduce alle proprietà olistiche del sistema nervoso. Nell’emergentismo di John Searle25, l’organizzazione e il dinamismo cerebrale causano i fenomeni mentali (la coscienza, la soggettività e le sensazioni sono vere qualia). Non sappiamo spiegare bene come si produce questo salto, ma esso comunque è un evento reale di natura biologica. In difesa della realtà dei qualia (una realtà “di prima persona”, non di “terza persona”), Searle ha sviluppato argomenti formidabili contro il comportamentismo, il neurologismo, l’emergentismo olistico e, infine, contro il funzionalismo (posizione che vedremo in seguito), cioè egli si è opposto a ogni forma di riduzionismo che elimini la soggettività. Il dolore, ad esempio, è una qualità soggettiva reale sofferta dal soggetto, non una semplice 23 Cfr. J. Margolis, Persons and Minds, Reidel, Dordrecht 1978. Per Popper, la realtà psichica (mondo 2) è completamente diversa dal mondo materiale (mondo 1). Pensieri, opinioni, desideri, io, coscienza, non sono cose materiali. Cfr. K. Popper, J. C. Eccles, L’io e il suo cervello, Armando, Roma 1981; K. Popper, Congetture e confutazioni, il Mulino, Bologna 1972; Conoscenza oggettiva, Armando, Roma 1975. 25 J. Searle, Mente, cervello, intelligenza, Bompiani, Milano 1988; The Rediscovery of the Mind, MIT Press, Cambridge (Mass.) 1992; Consciousness and Language, Cambridge University Press, Cambridge 2002. 24 22 caratteristica del tutto organico, presa in terza persona26. Lo stesso si può dire dell’io, non identico alla struttura olistica del cervello. Searle rifiuta di essere considerato dualista: la coscienza non è una proprietà separata dal cervello, ma è ad esso legata in maniera intrinseca e unitaria, così come il carattere liquido o solido di una sostanza “emerge” dai rapporti causali delle sue molecole27. La sua posizione, a differenza di quella di Popper, è materialista28: gli stati mentali o soggettivi sono stati fisici “di alto livello”, irriducibili a stati fisici non soggettivi, e sono spiegabili dalla causalità cerebrale29. d) Sopravvenienza La tematica dell’emergenza degli stati mentali a partire dagli eventi nervosi è stata affrontata dai filosofi della mente con la categoria della sopravvenienza. Accettando la dualità problematica di eventi fisici ed eventi mentali, alcuni autori (Kim30, Davidson31, Chalmers) propongono una loro reciproca correlazione, nel senso che un soggetto con proprietà fisiche F (neurologiche) avrebbe in un modo perfettamente correlato una serie di proprietà mentali M. Quindi due soggetti fisicamente indiscernibili sarebbero psicologicamente indiscernibili. Si dice, allora, che le proprietà M “sopravvengono” sulle proprietà F, poiché queste ultime determinano l’apparire di M. Proprio come avviene nell’emergentismo, sono le proprietà fisiche a determinare l’apparizione delle proprietà “più alte” (mentali), così come la disposizione delle parole e delle frasi di un’opera letteraria determina il 26 Una descrizione “in terza persona” è oggettiva, indipendentemente da fenomeni soggettivi (così sono tutte le descrizioni fisico-chimiche e matematiche). La descrizione “in prima persona” si riferisce a una soggettività che la sente come propria. Per Searle, i fenomeni soggettivi sono reali (“epistemologicamente oggettivi”), ma se tentiamo di ridurli a fenomeni oggettivi (“ontologicamente oggettivi”) semplicemente li eliminiamo. 27 “L’esistenza della coscienza può essere spiegata dalle interazioni causali tra gli elementi del cervello a livello microfisico” (The Rediscovery of the Mind, cit., p. 112). 28 Searle è materialista in quanto non riconosce l’esistenza di uno spirito capace di essere indipendente dalla materia (l’anima umana immortale). Il materialismo neurologista di altri filosofi della mente consiste nella negazione, inoltre, degli atti soggettivi (sensazioni, pensieri, emozioni, io). Questi autori temono, a ragione, che il riconoscimento degli atti soggettivi scuota il primato assoluto della fisica e che, quindi, alla fine favorisca l’affermazione di una realtà metafisica o spirituale. 29 Per Searle la neurologia oggi non è capace di spiegare come dal cervello sorge “causalmente” la mente, ma un giorno potrebbe farlo. Per il momento, la coscienza rimane “un mistero”. 30 Cfr. J. Kim, The Philosophy of Mind, Westview Press, Boulder (Colorado) 1996. 31 Cfr. D. Davidson, Azioni ed eventi, cit. 23 “sopravvenire” delle sue qualità artistiche o letterarie. La sopravvenienza (supervenience) di per sé è una correlazione monodirezionale: non è l’evento mentale a determinare l’evento fisico, ma viceversa. Si applica molto bene al solito esempio del dolore: ovviamente, non è che il dolore causi una stimolazione nervosa, ma piuttosto la stimolazione nervosa causa tale sensazione. Ma non è così facile dire altrettanto degli stati mentali più alti, come un’emozione o un pensiero. La relazione di sopravvenienza può essere interpretata in molti modi, a seconda del tipo di “realtà ontologica” ammessa dagli autori per gli stati mentali o soggettivi32. Nel neurologismo radicale lo stato mentale “sopravveniente” è identico alla base neurale. Nel funzionalismo, come vedremo adesso, lo stato mentale possiede la categoria di una funzione. In Searle, la sopravvenienza è interpretata in un senso causale: la base cerebrale provoca la comparsa degli stati mentali. 5. I funzionalismi a) Computazionalismo L’emergentismo e il principio della sopravvenienza sono vicini alla proposta funzionalista. Questa corrente nacque in occasione dello sviluppo delle scienze cognitive. Queste ultime superarono i divieti comportamentisti di non indagare sulla “scatola nera” della mente interiore, grazie alla descrizione e spiegazione degli eventi mentali sulla base dei modelli computazionali. La mente viene presa qui secondo l’analogia del software di un computer, cioè come un programma o un metodo di elaborazione e di trasmissione dell’informazione. Le due scienze principali del cognitivismo -con influssi reciproci- sono la scienza computazionale e la psicologia cognitiva33. 32 Cfr., per una discussione dell’argomento, N. Murphy, Supervenience and the Downward Efficacy of the Mental: a non Reductive Physicalist Account of Human Action, in R. J. Russell et al. (ed.), Neuroscience and the Person. Scientific Perspectives on Divine Action, Vatican Observatory Publications, Vatican City State 1999, pp. 147-164; J. Seifert, Das Leib-SeeleProblem und die gegenwärtige philosophische Diskussion, cit., pp. 74-76. 33 Oggi il cognitivismo psicologico segue altre strade. In questo paragrafo ci riferiamo al cognitivismo nel suo “periodo classico” (ultimi decenni del XX secolo). Come scuola psicologica, il cognitivismo reagì contro il comportamentismo, riconoscendo la realtà degli 24 La posizione funzionalista intende reagire contro la riduzione degli stati mentali a semplici stati neurologici o ad atti del comportamento. Occorre riconoscere agli stati mentali un certo statuto autonomo. Una prima versione di funzionalismo, avviata da Hilary Putnam (poi abbandonata da questo filosofo), prende la forma forte di funzionalismo computazionale. Così come la macchina computazionale possiede certi “stati interni” di tipo funzionale, non riducibili alle sue parti fisiche o elettroniche (programmi, sequenze di simboli, memoria, istruzioni, operazioni di calcolo), analogamente si potrebbe pensare alla nostra mente come una forma di programmazione computazionale del cervello (il quale sarebbe l’hardware)34. Veramente i computer sono stati creati seguendo un’analogia con i nostri processi cognitivi, non all’inversa. L’input equivale all’arrivo di dati (come avviene, ad esempio, nella sensazione), cui segue la loro elaborazione (processi talvolta simili alla percezione, alle traduzioni e alle inferenze), poi la loro conservazione (memoria), continuando fino agli output, così come la nostra mente arriva a conclusioni o comanda azioni che configurano il nostro comportamento. I computer possono, quindi, simulare, ma anche emulare e perfino sorpassare le riuscite delle elaborazioni cognitive della nostra mente (calcoli, traduzioni, comando di azioni intelligenti). Da qui è nata la tentazione del funzionalismo computazionale radicale, denominato anche teoria dell’intelligenza artificiale forte. Secondo questa teoria non ci sarebbe alcuna differenza di fondo tra la nostra mente o la nostra intelligenza e il funzionamento delle macchine intelligenti (Minsky, Dennett)35. Purtroppo il funzionalismo computazionale è una nuova versione del riduttivismo. Esso prende gli stati soggettivi della mente come stati informatici di un computer. Per questo motivo la tesi funzionalista è stata più convincente, almeno in stati mentali (attenzione, percezione, memoria, emozioni, ragionamenti). L’avvicinamento alla scienza computazionale non è necessariamente una riduzione, ma piuttosto un’ispirazione, seguendo la metafora della mente come un computer. 34 Cfr. H. Putnam, Mind, Language, and Reality: Philosophical Papers, vol. 2, Cambridge University Press, Cambridge 1975, pp. 325-440; Rappresentazione e realtà, Garzanti, Milano 1993; Mente, corpo, mondo, il Mulino, Bologna 2003. 35 Cfr. M. Minsky, La società della mente, cit.; D. C. Dennett, L’atteggiamento intenzionale, cit.; M. Boden, Artificial Intelligence and Natural Mind, Harvester Press Lim., Brighton (Sussex) 1977; The Philosophy of Artificial Intelligence (ed.), Oxford University Press, Oxford 1989/90. Benché più moderata, Margaret Boden è vicina alla visione computazionalista della mente umana. 25 parte, in rapporto ai processi puramente cognitivi (calcoli, soluzioni di problemi, deduzioni), e molto meno in relazione a stati più ovviamente soggettivi, come i dolori, le sensazioni o le emozioni. Un computer può compiere un vero calcolo (non come un atto cognitivo, ma sì arrivando a un risultato corretto), mentre non può che imitare le emozioni o l’io (dolore, angoscia, gioia, amore). In termini generici, il funzionalismo comporta la riduzione degli atti o stati mentali alle funzioni di una macchina, di un organismo, senza arrivare a parlare di atti di un soggetto. In questo senso il funzionalismo sembra vicino all’emergentismo. Ma il funzionalismo computazionale, come abbiamo detto, punta agli “stati interni” dei computer tradizionali36. Questi stati sono informatici e simbolici. Il computer, in questo senso, rassomiglia ad una mente non solo perché calcola o deduce, ma anche perché elabora l’informazione tramite un linguaggio e una grammatica, facendo uso di “categorie rappresentative”. La possibilità di implementare i programmi computazionali su basi elettroniche assai diverse (e anche di altro tipo) evidenziava l’esistenza di un abisso tra la “mente” del computer e l’hardware. In questo senso, i funzionalisti difesero la tesi della molteplice realizzabilità degli stati mentali, un punto che allontanò la teoria della mente dalla base fisica. Il supporto nervoso appariva molto accidentale (così come il contenuto di un libro è indipendente dalla materialità delle sue pagine). Paradossalmente, il funzionalismo computazionale generò una sorta di nuovo dualismo platonico. La “mente” era talmente indipendente dalla base materiale, che poteva essere realizzata in ogni tipo di calcolatore, nei cervelli umani o in robot quantistici del futuro. Da qui sono nate idee fantascientifiche oggi molto note, come pensare alla possibilità che il “contenuto informatico” della nostra personalità un giorno potrebbe essere preservato e trasferito a robot sofisticati o a fantomatici computer cosmici del futuro (quasi una nuova forma di “reincarnazione delle anime” e di “risurrezione”). 36 I computer tradizionali seguono la cosiddetta architettura di Turing o di von Neumann, basata sull’uso del simbolismo, cioè di una grammatica (regole sintattiche) contenuta nel programma. La computazione artificiale non simbolica segue invece l’architettura connessionistica (reti neurali): cfr. il nostro capitolo 6, n. 8. 26 Queste idee bizzarre sono state favorite dalla confusione -o mescolanza indifferenziata- tra le nozioni di sensazioni, atti intellettuali e contenuti del pensiero, i quali spesso vengono presi in modo indistinto dai filosofi della mente37. È vero che i contenuti oggettivi del pensiero sono immateriali e possono essere trascritti in molte lingue, in libri stampati, in libri elettronici, e possono passare da una persona ad un’altra, ma non è così per gli stati soggettivi. Non ha senso dire che un’emozione o un atto di fede siano uno “stato informatico”38. Il funzionalismo computazionale, in conclusione, pur sembrando un superamento del riduttivismo neurale e comportamentale, contribuì a mettere in crisi la distinzione tra mente umana e “mente” della macchina, tra intelligenza umana e intelligenza artificiale. Così fece Turing quando accennò alla possibilità che la nostra intelligenza non fosse qualcosa di essenzialmente diverso dalle funzioni computazionali più alte dei calcolatori39. John Searle, con il noto esempio della “stanza cinese” e con altre argomentazioni, introdusse utilmente la distinzione tra intenzionalità intrinseca e intenzionalità derivata40. L’intenzionalità intrinseca nasce da veri atti cognitivi. Quella derivata, invece, è relativa a un osservatore (un interprete). Così come un libro non contiene pensieri, ma i suoi simboli indicano contenuti che un lettore può capire 37 I protagonisti dei dibattiti della filosofia della mente tendono a prendere gli stati mentali come se fossero un unico genere, senza distinguere tra il livello sensitivo e il livello intellettivo. Questa consuetudine è fonte di non poche oscurità (un dolore fisico è molto diverso da un pensiero). Molti atti mentali vengono accolti dagli autori sotto la categoria degli atteggiamenti proposizionali (“credo che p”, “desidero che p”), dove il verbo principale (“credo”, “desidero”, “penso”) indica un atteggiamento mentale nei confronti di un oggetto indicato con una proposizione subordinata che serve da complemento oggetto della frase. Ma la nozione di atteggiamento proposizionale, pur essendo rilevante per la filosofia linguistica, non appare decisiva per la discussione gnoseologica o epistemologica. Più importante è distinguere tra la conoscenza sensibile e intellettuale. Ad esempio, vedere una casa è un atto della sensazione o della percezione visiva. Dire, invece, “vedo una casa”, esprime un giudizio, un vero atto intellettuale. 38 Il computazionalismo astratto suscitò, per reazione, nuovi orientamenti del cognitivismo, portando ad accentuare la dimensione esterna (“ecologica”) in cui la conoscenza è situata, nonché il tipo di corporeità dove la conoscenza è insediata: conoscenza dunque situata e incarnata (embodied knowledge). Il nuovo indirizzo si ripercuote sulla robotica, con la tendenza a creare, anziché “intelligenze artificiali generali”, agenti intelligenti artificiali situati e con un corpo adatto, competenti per certe funzioni. 39 Cfr. A. Turing, Computing Machinery and Intelligence, “Mind”, 59 (1950), pp. 433-460, dove si propone il celebre “test di Turing”. 40 Cfr. J. Searle, Consciousness and Language, cit., pp. 77-89, 106-129. 27 (intenzionalità derivata), qualcosa di simile accade con il computer. Il linguaggio dei programmi è tale solo in rapporto all’interprete umano. Una macchina o una serie di cose materiali non possono avere una semantica, né una sintassi intrinseca, benché il linguaggio sarà sempre materializzato in un supporto materiale. L’intenzionalità relativa, quindi, è in funzione dell’intenzionalità intrinseca. Le reti connessionistiche41, una modalità non simbolica di computazione, apparentemente sfuggirebbero a quest’obiezione. Le critiche alla metafora del cervello come un computer rilevarono che il sistema nervoso non computa in un modo simbolico. Ma anche qui bisogna fare una serie di distinzioni. I termini computazione e informazione hanno sensi diversi. La computazione vera e propria è un metodo ideato dall’uomo per eseguire calcoli tramite la manipolazione di simboli o, in una visione ancora più generale, è il metodo per cui l’uomo è in grado di trattare (processing) l’informazione attraverso la manipolazione di simboli42. Tale elaborazione consiste, in definitiva, nella produzione di sequenze ordinate tra simboli secondo regole stabilite, come si fa, ad esempio, in una traduzione o in un calcolo aritmetico (i passaggi tra le sequenze sono le operazioni computazionali). Informazione in termini generali è, a sua volta, l’ordine introdotto in una serie di elementi, disponibile per essere trasmesso. L’informatica si occupa della trasmissione ed elaborazione dell’informazione tramite il simbolismo (ad esempio, codificazione, decodificazione). L’informazione e la computazione si riferiscono originariamente a processi cognitivi (informare classicamente significa trasmettere una conoscenza). In modo derivato, invece, quei termini alludono a operazioni simboliche automatiche delle macchine (computer), indicate comunque tramite una terminologia cognitiva analogica (“messaggio”, “memoria”, “inferenza”). Ma l’uomo scopre pure un ordine dinamico nella natura. Egli può descrivere e calcolare tale ordine in termini astratti (leggi, funzioni matematiche), anche in modo informatico e computazionale. 41 Cfr. il nostro capitolo 6, n. 8. Nella computazione in senso stretto, questo processo è eseguito automaticamente da una macchina (“intenzionalità derivata”), anche se la mente umana può computare usando la sua ragione (“intenzionalità intrinseca”). 42 28 In questo senso possiamo parlare, per analogia, di un comportamento “intelligente” della natura, come se essa facesse dei calcoli matematici, e ugualmente attribuiamo agli organismi un “codice genetico”, o diciamo che il cervello “compie delle computazioni” nei processi neurali. Qualcosa di simile si verifica nelle reti neurali artificiali. Il loro modo di computare imita i processi neurali di trattare l’informazione, in modo separato però dagli atti veramente intenzionali. Non per questo va sottovalutato l’ordine naturale non cognitivo. Analogamente, capiamo la natura con la matematica, ma nel mondo fisico non c’è propriamente un ordine matematico (come invece sostenevano i pitagorici). L’ordine del cosmo non è una fotocopia della matematica, né viceversa. Il funzionalismo computazionale non è stato capace di operare un discernimento ontologico tra questi aspetti. Gli atti personali cognitivi non si possono confondere con le operazioni simboliche o non simboliche di un ingegnoso processore di informazione, né con i processi naturali ordinati, intelligibili ma non intelligenti, “razionali” solo nel senso derivato in cui possiamo parlare della razionalità della natura43. b) Altri funzionalismi Altri tipi di funzionalismo sono stati più moderati. Il funzionalismo rappresentazionale (Fodor44) impiega il modello computazionale in senso largo, piuttosto metaforico, anche se non privo di ambiguità. In una linea inaugurata dalla psicolinguistica di Chomsky, il punto centrale di questo indirizzo è vedere i processi della mente umana come una serie di rapporti “sintattici” tra rappresentazioni (concetti), nel contesto di un linguaggio del pensiero (“mentalese”) costituito da proposizioni mentali. In contrasto con l’eliminativismo neurologista, la psicologia fodoriana segue da vicino la fenomenologia della folkpsychology. Veramente il 43 Un’altra difesa della realtà degli atti soggettivi, sia contro il computazionalismo che contro la teoria dell’identità, si trova in Th. Nagel, What Is It Like To Be a Bat?, “The Philosophical Review”, 83 (1974), pp. 435-450. Questo articolo ebbe un grande impatto tra i filosofi della mente. 44 Cfr. J. A. Fodor, La mente modulare. Saggio di psicologia delle facoltà, il Mulino, Bologna 1988; Psicosemantica. Il problema del significato nella filosofia della mente, il Mulino, Bologna 1990; The Elm and the Expert: Mentalese and Its Semantics, MIT Press, Cambridge (Mass.) 1994. 29 “linguaggio del pensiero” non sembra distante dal pensiero stesso, o almeno da alcune delle operazioni mentali considerate dalla filosofia classica, come la formazione di proposizioni mentali. Il funzionalismo causale (per esempio, Davidson) prende gli atti mentali nel loro ruolo causale rispetto ad altri atti mentali (desideri, credenze) o riguardo a istanze non psichiche (gli stimoli ambientali causano atti mentali che portano a modificare la condotta). Si apre così lo spazio a un’analisi psicologica autonoma nei confronti della descrizione neurologica e comportamentale. Alcuni funzionalisti hanno discusso tematiche epistemologiche o gnoseologiche, come la questione del contenuto significativo degli stati mentali (intenzionalità e rapporto col mondo). Altri funzionalisti (“teleologici”)45 collegano gli stati mentali a situazioni biologiche o a funzioni organiche adattive emerse con l’evoluzione dei viventi. Ma non si arriva al riconoscimento degli stati psichici come veri atti soggettivi, e tanto meno personali. Il funzionalismo rivendica l’autonomia degli stati mentali dal punto di vista epistemologico, ma è ontologicamente carente. Per timore di cadere nel dualismo, non elabora una vera teoria ontologica e antropologica degli atti psichici. La pura funzionalità è ontologicamente neutra e, senza le dovute distinzioni, può essere sempre pensata come trasferibile alle macchine o agli animali. 6. Verso un ridimensionamento del dibattito “anima e corpo” La questione “mente/corpo”, “mente/cervello”, è stata impostata nella filosofia della mente in una prospettiva ristretta. I dibattiti in qualche modo si sono esauriti e talvolta non solo non aprono orizzonti filosofici, ma li chiudono. Sono stati vivaci nella misura in cui hanno accompagnato l’emergenza di nuovi approcci disciplinari e interdisciplinari provenienti dal campo informatico e neuroscientifico. Ma alla fine non lasciano spazio se non per lo sviluppo scientifico, senza donarci al contempo, come ci si poteva aspettare dalla filosofia, la consolazione di una visione umanistica. Epistemologicamente i dibattiti si sono svolti sotto il primato tacito delle scienze. Il punto in comune dei contendenti è il rifiuto del dualismo cartesiano, che 45 Cfr. W. Lycan, Consciousness, MIT Press, Cambridge (Mass.) 1987. 30 appare agli interlocutori come la vecchia roccaforte di uno spiritualismo ormai tramontato. Alcune voci contro il riduttivismo si sono alzate, ma nei limiti della cornice epistemologica sopra indicata. Certe forme di riduttivismo sono state criticate solo per venir sostituite da nuovi riduttivismi. La confusione ontologica è notevole, come abbiamo notato, e contro di essa si alza soltanto la reazione del buon senso, utile ma non sufficiente. Uno degli autori più efficaci nella critica antiriduttivista è stato John Searle46. Eppure, a nostro avviso neanche Searle riesce a superare i limiti della filosofia della mente standard. Nelle sue argomentazioni egli difende l’irriducibilità della coscienza, andando così, coraggiosamente, contro il centro di gravità della filosofia della mente degli autori più rinomati. Ma la sola rivendicazione della coscienza non basta. Una visione neurologica che si occupi della coscienza sarà interessante, ma non sufficiente. Manca in Searle quello che manca nell’impostazione generale della filosofia della mente: una vera dimensione metafisica e antropologica dei problemi. Senza di essa, l’affermazione della realtà della coscienza si mantiene a livello biologico e così, in un certo senso, si banalizza. Sembra strano che nel quadro delle posizioni filosofiche elencate sia assente l’aristotelismo o il tomismo47. La sua assenza è un fatto storico e culturale che in 46 Un altro autore antiriduzionista è Th. Nagel (cfr. Uno sguardo da nessun luogo, Il Saggiatore, Milano 1988). Nagel si accorge delle enormi difficoltà concettuali presenti nella filosofia per capire la soggettività e si oppone al riduzionismo, ma non riesce ad avanzare una teoria propria. La sua analisi rimane quindi sul piano problematico. 47 Esistono comunque alcuni studi sull’argomento in linea tomistica: oltre il mio lavoro Operazioni cognitive, “Acta Philosophica”, cit., e quello menzionato di J. M. Maldamé, Sciences cognitives, cfr: AA.VV., Homo Loquens. Uomo e linguaggio. Pensieri, cervelli e macchine, Ed. Studio Domenicano, Bologna 1989; G. Basti, Il rapporto mente-corpo nella filosofia e nella scienza, Ed. Studio Domenicano, Bologna 1991; Il problema mente-corpo, in V. Possenti (curatore), Annuario di Filosofia 2000, Corpo e anima, Mondadori, Milano 2000, pp. 265-318; voce Mente-Corpo, Rapporto, in G. Tanzella-Nitti, A. Strumia (curatori), Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede, Città Nuova, Roma 2002, vol. 1, pp. 920-939; L. Borghi, L’antropologia tomista e il ‘Body-mind problem’ (alla ricerca di un contributo mancante), “Acta Philosophica”, 1 (1992), pp. 279-292; R. Cross, Aquinas and the MindBody Problem, in J. Haldane (ed.), Mind, Metaphysics, and Value in the Thomistic and Analytical Traditions, University of Notre Dame Press, Notre Dame (IN) 2002, pp. 36-53; J. Haldane, Analytical Philosophy and the Nature of Mind: Time for Another Rebirth, in R. Warner, T. Szubka (ed.), The Mind-Body Problem: A Guide to the Current Debate, Blackwell, Oxford, 1994, pp. 195-203; Breakdown of Philosophy of Mind, in J. Haldane (ed.), Mind, Metaphysics, and Value in the Thomistic and Analytical Traditions, cit., pp. 54-75; A. 31 questo momento non possiamo considerare. Basta prendere nota della totale ignoranza, da parte degli autori, della filosofia aristotelica o vicina ad Aristotele. Il filosofo più antico preso in considerazione, peraltro non sempre ben compreso, è Cartesio. Un Cartesio semplificato, ridotto ad uno schema fisso e impoverito. Ogni proposta spiritualista sembra, quindi, condannata a ricadere nel dualismo cartesiano. Quale intuizione potrebbe offrire un autore come Tommaso d’Aquino nel quadro storico presentato? Rileverei due punti fondamentali: 1. L’anima umana come forma del corpo, come il suo atto sostanziale in unità con la dimensione fisica e nella singolarità ontologica di una persona fisica. Questo punto è correlativo a una filosofia della sensazione e della percezione in cui gli elementi psichici e fisici siano intimamente uniti. Da qui può venir fuori, da un lato, una particolare filosofia della vita animale, e dall’altro una filosofia della corporeità umana. Questi aspetti sono completamente assenti nell’orizzonte della filosofia della mente. La fenomenologia contemporanea e il personalismo potrebbero venir in aiuto, a questo punto, per contribuire ad una visione del corpo animale e del corpo umano, con tutte le sue funzioni, non ridotto alla prospettiva scientifica. 2. La trascendenza dell’intelligenza, della volontà e della libertà rispetto all’organicità del corpo umano. Questa è la base che consente di parlare della spiritualità della persona umana, una spiritualità incarnata, materializzata, ma non ridotta alla funzionalità corporea. Questo punto, inaccettabile per la maggioranza dei filosofi della mente in quanto sembra una posizione dualistica, è invece fondamentale. Nelle pagine seguenti seguiremo questa traccia in modo sistematico. Saremo in grado di vedere, così, la problematica della filosofia della mente da una prospettiva ontologica, uscendo dai vicoli ciechi dei dibattiti storici. Non per questo intendiamo ignorare la situazione contemporanea filosofica e scientifica di questo settore della filosofia. Dalla cornice in cui saremo collocati potremo valutare tale situazione, quindi potremo approfondire i problemi in un senso radicale, muovendoci sin dall’inizio in una direzione metafisica e antropologica. Presuppongo certi punti Kenny, The Metaphysics of Mind, Clarendon Press, Oxford 1989; Aquinas on Mind, Routledge, London 1993. 32 fondamentali quali il realismo della conoscenza, la psicologia della percezione, l’intenzionalità, la coscienza, l’identità della persona (talvolta considerati dai filosofi della mente, ma con risultati scarsi), in quanto ritengo sia preferibile vederli in un modo approfondito nella filosofia della conoscenza e nell’antropologia. Ne farò cenno solo in rapporto alle questioni direttamente affrontate nei capitoli successivi. 33 Capitolo 2 Il corpo senziente 1. Ilemorfismo: aspetti ontologici ed epistemologici Il mondo fisico è caratterizzato dalla complessità, non solo nel senso in cui viene intesa nelle scienze biologiche, ma in una prospettiva pluridimensionale e analogica. Per questo motivo ci sono molti tipi di descrizione e di spiegazione delle cose. Il problema è ontologico, epistemologico e linguistico. Troveremo sempre, al momento dell’analisi, una pluralità di elementi, una totalità, rapporti di coordinazione, subordinazione, gerarchie, diverse modalità di unità sostanziale e di unità di ordine, nonché svariate forme di causalità. Quando è prevalso solo un tipo di analisi, ad esempio la prospettiva delle scienze naturali, si produce un impoverimento nella comprensione. L’analitica causale scientifica è competente per tutto quanto riguarda la causalità materiale delle cose. Essa è utile per la tecnica, dal momento che possiamo intervenire sui corpi solo alterando la loro struttura materiale. Ma se i corpi possiedono altre dimensioni, l’analitica causale scientifica risulta insufficiente. Con la fisica possiamo capire la struttura materiale in cui è scritto un romanzo di Manzoni, ma questo non ci serve per comprenderne il contenuto letterario. L’analitica aristotelica comincia evidenziando una dualità strutturale di base in ogni cosa materiale: la dualità di forma e materia. Può essere presa anche come due sensi della causalità intrinseca: causalità formale e causalità materiale (causa o principio: ciò da cui una cosa dipende nel suo essere e operare). Una stessa materia (il legno) può essere “informata” da forme molto diverse (il letto, la sedia), e una stessa formalità (il letto), può essere realizzata in diverse basi materiali (letto di legno, letto di ferro). Materia indica qui una serie di elementi che, adeguatamente coordinati, servono a far emergere un atto di una qualità superiore o di un ordine diverso di quello cui le parti appartengono. Così, col solo concetto di pietra non si può capire la 34 struttura casa, e la nozione di casa non dice niente sulla materialità di cui è fatta. La materialità e la formalità vanno capite insieme. L’ontologia e l’epistemologia sono implicate in questo intreccio tra la formalità e la materialità. Il problema è anche d’intelligibilità. Dal basso, cioè dal solo livello materiale, non possiamo capire l’alto, il livello formale. La struttura “casa” è una formalità da capire per se stessa. Se nel mondo vi sono forme, vuol dire che non tutto è materialità, nel senso in cui l’abbiamo presa in queste linee. Spesso, però, nominiamo la materialità con l’implicazione della formalità e viceversa, e il composto è pure considerato come materiale, cioè come un “essere materiale”. La materialità possiede inoltre una connotazione epistemologica: “materiale” è quanto per noi è tangibile, visibile, udibile, quanto cioè è capace di essere sottoposto ai nostri sensi esterni. La forma, da sola, è un “principio d’immaterialità”: la capiamo come separata dalla sua materia, in astratto, oppure come incorporata nella materialità. Quando ascoltiamo le parole di qualcuno guardando soltanto il movimento delle labbra, osserva Polanyi48, la concentrazione della nostra attenzione sul livello inferiore fa sì che la nostra percezione del livello superiore svanisca. Invece, se stiamo attenti centralmente alle parole, cogliamo il movimento delle labbra in modo secondario o sussidiario. L’attenzione si rivolge, in questo caso, centralmente all’elemento formale e secondariamente agli elementi materiali. I pezzi materiali, se non vengono colti nella dimensione formale integrativa e superiore, diventano frammenti senza significato. Ormai non sono più parti di un tutto più alto, ma sono soltanto elementi del livello ontologico materiale: il loro senso, quindi, cambia totalmente. La realtà ovviamente è ancora più complessa. I livelli formali non sono sempre dello stesso tipo. Ci sono “forme che formalizzano altre” (forme per nulla univoche) e questo parecchie volte. Ciò che prima era una struttura di forma/materia può essere materiale rispetto a un atto “informante” più alto. “Più alto” non comporta qui un giudizio di valore, bensì il fatto di informare una materialità, così come il livello “squadra sportiva” è “più alto” di quello dei singoli giocatori. Salendo le successive “forme di forme”, alla fine arriveremo al cosmo o universo, totalità formale 48 Cfr. M. Polanyi, The Structure of Consciousness, “Brain”, 88 (1965), pp. 799-810. 35 abbracciante tutte le strutture del mondo. Quindi nell’universo vi sono molteplici strutture a strati. La totalità emergente non è meramente quantitativa (somma delle parti), ma è una vera realtà formale. Il tutto formale e complesso esercita un tipo di causalità sulla materialità (“causalità formale”), non solo come criterio d’intelligibilità, ma anche come principio ontologico. La totalità formale è integrativa in quanto stabilisce vincoli nuovi tra gli elementi, costituendo un nuovo tipo di essere. Tralasciamo per il momento come si forma nel tempo questa strutturazione (problema dell’evoluzione). Nel caso di un artefatto, l’integrazione formale è opera di un agente intelligente esterno, l’uomo, che agisce in quanto comprende una forma ed è intenzionato a farla emergere manipolando una materia. Le formalità naturali del mondo, invece, appaiono spontaneamente e non hanno sempre lo stesso senso. Il tutto formale “nasce dal basso”, cioè emerge, sopravviene, è suscitato, quando le parti materiali sono predisposte in un certo modo. Ho introdotto così, parzialmente e in un modo semplificato, il “modello” ontologico ilemorfico della natura, ampio e poliedrico nella filosofia aristotelica (la dualità forma/materia non ha sempre lo stesso senso). Le scienze naturali, benché non usino esplicitamente questo modello, inevitabilmente studiano strutture ilemorfiche in senso analogico: particelle elementari, nuclei atomici, atomi, molecole, aggregazioni, composti di ogni tipo, fino ad arrivare al cosmo. Niente si può studiare solo materialmente. Tutto si capisce a partire da qualche formalità, anche se alcune sono più importanti di altre. La struttura quantitativa talvolta si rivela utile per capire ciò che sono le cose, almeno in un senso parziale. Si possono stabilire delle correlazioni tra le strutture quantitative e le proprietà fisiche sottostanti. Possiamo capire bene i colori, ad esempio, utilizzando la matematica nel campo dell’ottica. Naturalmente l’uomo, quando cerca di figurarsi come sono le cose e le loro strutture, vi introduce alcuni elementi logici. Questi elementi schematizzano, semplificano e talvolta idealizzano la realtà fisica. Eppure, essi corrispondono al mondo e abitualmente non sono arbitrari. L’elemento logico nasce quando l’uomo pensa la formalità separandola dalla base materiale dove essa è realizzata. 36 Uno sguardo al mondo materiale manifesta tre tipi di strutture significative naturali: 1. La strutture sostanziali o forme specifiche forti (inanimate). 2. Le unità di ordine o di composizione, sopraggiunte alle forme specifiche forti. 3. I composti organici della vita vegetativa. Senza entrare in dettagli e problemi di filosofia della natura, in generale capiamo bene con l’aiuto delle scienze le specie fisiche inanimate grazie alla loro forte unità e all’esistenza di proprietà e rapporti stabili e selettivi. Così le distinguiamo dalle composizioni ordinate, più variabili e contingenti, nate dall’intreccio tra le unità forti della natura. Sebbene si possa dubitare sul tipo di unità da assegnare alle svariate strutturazioni della natura inanimata, comunque restiamo sempre a un livello abbastanza omogeneo. Con gli stessi strumenti concettuali, la fisica e la chimica ci consentono di capire l’atomo così bene come si comprende una stella o una galassia. L’omogeneità talvolta è più accentuata dai nostri approcci epistemologici, col rischio di livellare troppo le cose. Ad ogni modo, le forme forti della natura inanimata (le specie) costituiscono la piattaforma delle forme più deboli (composizioni). 2. La corporeità vivente Nelle unità organiche la formalità acquista un nuovo ruolo. L’organismo vivente è qualcosa di qualitativamente diverso in paragone alle sostanze inorganiche. Le funzioni biologiche di crescita, alimentazione e riproduzione mostrano la presenza di un tipo di forma peculiare e in definitiva manifestano un modo originario di “essere corpo”. L’organismo vede organizzate e amministrate le forze fisiche e le sostanze chimiche di cui è costituito in una modalità nuova e inattesa rispetto alle caratteristiche del mondo inorganico. Naturalmente quanto diremo in seguito va preso in un senso analogico flessibile, poiché le manifestazioni della vita non finiscono di sorprenderci e non si ripetono sempre nello stesso modo. Lo fanno in una maniera molto graduale e talvolta con ramificazioni e variazioni di ogni tipo. La vita non si può dedurre a priori. Bisogna seguirla e osservarla induttivamente in tutte le sue varianti. Tra i complessi processi studiati dalla biologia, spicca l’omeostasi (autoregolazione in funzione delle variazioni ambientali) come modo in cui l’organismo mantiene un certo ordine come fine a se stesso, un ordine da difendere 37 anche aggressivamente e che comunque si può perdere con la morte o venire indebolito con la malattia. Se viene a mancare questa costante e flessibile difesa, i dinamismi fisici del livello inferiore portano l’individuo alla sua rapida distruzione. L’organismo è veramente irriducibile alla materialità inerte. Non ha nuovi elementi rispetto a quelli che sono noti nel mondo fisico-chimico, ma possiede un elemento formale forte che fa dell’unità biologica un vero fine a se stesso. Tre aspetti possono considerarsi in questo senso: 1) Autofinalismo. Nella vita la finalità emerge nel mondo per la prima volta non come una semplice armonia tra le forme, ma come un nucleo differenziato che afferma se stesso nelle sue operazioni. L’omeostasi e l’autodifesa organica ne sono una manifestazione. Per questo motivo l’individuo biologico ostenta un nuovo rapporto con il mondo: prende l’energia dall’esterno, che così diventa ambiente, incorporandola e amministrandola al suo interno. Quindi il vivente ha qualcosa di proprio, come se avesse una certa interiorità che lo contraddistingue dall’ambiente. Anche per questo motivo il vivente, nonostante debba adattarsi all’esterno, in una certa misura può adattarlo ai suoi fini. 2) Sostanzialità forte. I fini immanenti dell’unità vivente fanno di essa un soggetto auto-finalizzato. Solo di un vivente diciamo che sta “bene” o “male”, che si deve “difendere dai pericoli” o che si ammala e muore. Questa peculiare rilevanza dell’individuo rende più chiara o più forte in esso la categoria ontologica del soggetto o sostanza: il vivente emerge con una sorta di “personalità” proprio perché è autofinalizzato. La sua unità di azione si auto-differenzia dal resto delle cose in una maniera più netta: il vivente si riconosce facilmente in paragone all’ambiente inanimato. 3) Prassi. L’organismo manifesta chiaramente una serie di attività destinate alla sua sopravvivenza, crescita e riproduzione. Così come è più fortemente una sostanza, le sue operazioni meritano il nome di azioni, atti cioè immanenti e teleologici destinati alla propria sopravvivenza. Con i viventi, per la prima volta compare nel mondo la 38 realtà della prassi49, vale a dire l’azione teleologica destinata a difendere un’unità come un valore proprio. Il vivente opera per vivere, per mantenersi in vita o per trasmetterla. Vive nel senso di “tendere a vivere” e di “sopravvivere”, poiché è sempre minacciato da meccanismi entropici, da rischi, da malattie o da eventi meccanici, fisici, chimici che possono facilmente distruggerlo. Nel vivente tutto è autofinalizzato, tutto è al servizio del soggetto in vita e tutto è prassi. Ciò che non si schiera in questa direzione, alla fine diventa nocivo. Proprio per questo, le cose inanimate appaiono disorganizzate o prive di ordine se confrontate con i viventi. In realtà esse hanno un ordine di livello più basso (ordine meccanico, gravitazionale, termodinamico, elettromagnetico). Nelle cose inanimate è più difficile distinguere tra ciò che è essenziale e accidentale, dal momento che qualsiasi struttura va bene di per sé, anche se poi è rigidamente determinata oppure è soggetta a fluttuazioni statistiche. La vita invece non ammette qualsiasi cosa proprio per la sua finalità, mentre nello stesso tempo i rapporti dinamici vitali si fanno sempre più flessibili e svariati. La flessibilità, la contingenza, un relativo indeterminismo, si comprendono nel contesto della crescente complessità vitale e sono sempre in rapporto ai fini biologici. Per questo il caso appare specialmente nella vita. Diventa casuale (o accidentale) ciò che nella prassi biologica non è controllato dalla teleologia della vita, quando cioè passa a dipendere solo dai livelli inferiori e dalle loro leggi (un evento è casuale rispetto a un tipo di causalità, ma non in rapporto ad un altro ordine causale). Dal punto di vista epistemologico, la complessità del vivente dimostra ancora una volta l’importanza dell’esistenza dei livelli di comprensione cui accennavamo sopra. Infatti, i meccanismi fisico-chimici del vivente sono incorporati a una struttura più alta, in funzione della quale sono finalizzati. Le funzioni vitali sono ora il criterio primordiale d’intelligibilità della struttura fisica sottostante. Anzi se un evento fisicochimico organico si produce senza finalità, non soltanto non è intelligibile, ma facilmente prepara la morte del vivente, così come se giochiamo a scacchi muovendo i pezzi a vanvera, cominceremo subito a perdere la partita. 49 Impiego questo termine in un senso analogico. Si può parlare di prassi anche in modo esclusivo per l’uomo. Però è ovvio che nella vita appare un modo di operare autofinalizzato che merita una denominazione speciale. 39 Le leggi dello strato inferiore sono autonome, ma sono anche al servizio delle leggi dello strato superiore (non importa che sia più difficile parlare di leggi in senso rigoroso per le dimensioni più complesse della realtà). Le leggi inferiori non bastano per rivelare le operazioni formalmente più alte di un complesso stratificato (“strati” qui è solo un modo metaforico di parlare). Viceversa, i principi più alti non possono definirsi in virtù delle leggi inferiori. Di conseguenza, la legge inferiore è necessaria, ma non sufficiente. I processi eseguiti secondo principi e cause inferiori servono all’organismo, ma possono anche distruggerlo. Quest’ultimo punto, pur essendo valido in termini generali, acquista un peculiare valore per la vita. Nel campo fisico riferito agli esseri inanimati, la riduzione di una teoria ad un’altra (ad esempio, la riduzione della termodinamica fenomenologica a meccanica statistica) può avere un senso epistemologico positivo. La complessità invece non è riducibile alla semplicità dei componenti. Questo principio vale specialmente per la biologia. La lettura fisica e chimica della vita è importante in quanto svela proprietà e cause che non possono essere ignorate, ma la biologia non è semplicemente riducibile alla fisica e alla chimica. 3. Informazione senza conoscenza Un’altra manifestazione della vita legata ai criteri indicati è il ruolo peculiare che in essa acquista l’informazione50. In termini generici, come abbiamo anticipato nel capitolo precedente, informazione è sinonimo di ordine. Esiste una certa corrispondenza tra l’informazione nel senso scientifico del termine (nella teoria dell’informazione) e la formalità aristotelica. L’informazione nelle sostanze inanimate, dal punto di vista della fisica, è una nozione termodinamica correlata all’ordine (l’entropia è una misura del “disordine” termodinamico). a) Informazione e formalizzazione In biologia la nozione di informazione, nata appunto nella teoria dell’informazione (Shannon), è stata applicata con successo alla genetica. 50 Cfr., sul tema, E. Sarti, voce Informazione, in G. Tanzella-Nitti, A. Strumia (curatori), Dizionario Interdisciplinare di scienza e fede, cit., vol. 1; M. Artigas, The Mind of the Universe, Templeton Foundation Press, Philadelphia e Londra 2002, pp. 97-101. 40 L’informazione in quest’ambito è collegata alla sua trasmissione spazio-temporale (messaggio a un recettore). L’ordine dinamico dell’organismo esige, infatti, la coordinazione delle funzioni svolte da molteplici elementi, distanti tra loro nello spazio e nel tempo (ordine spaziale e temporale). La realizzazione dell’ordine biologico esige dunque la trasmissione opportuna di un “segnale” -una sorta di presimbolo con valore causale- attraverso il tempo e lo spazio, il quale “indicherà al recettore” di fare qualcosa al momento opportuno, vale a dire di operare seguendo un’ottima coordinazione con gli altri elementi della totalità organica. Ordinariamente comprendiamo bene questi fenomeni nell’ambito cognitivo e organizzativo umano. La sorpresa è vederli realizzati nell’ordine biologico senza la conoscenza. Il processo indicato diventa specializzato nei viventi con sistema nervoso, dove è collegato alla conoscenza sensibile. Ma nelle cellule il fenomeno già esiste ed è destinato alla crescita differenziata e alla trasmissione del patrimonio ereditario della vita. La trasmissione d’informazione tramite segnali è operante nell’organismo grazie a un meccanismo, simile a una traduzione, chiamato trasduzione, presente anche nella comunicazione nervosa. La trasduzione è un processo o un insieme di processi tramite i quali una cellula trasforma un segnale o stimolo ricevuto in un altro segnale o risposta specifica. Così l’organismo può funzionare grazie al coordinamento “saggio” tra i suoi elementi interagenti e intercomunicati, come se ognuno di essi “sapesse” non solo dove agire, ma anche il momento opportuno e la modalità o misura conveniente in cui farlo (ad esempio, in quale momento conviene smettere di trasmettere il segnale). Il coordinamento funzionale dell’organismo è ottimizzato, dunque, dalla “trasmissione con valore causale” di segnali all’interno dell’unità biologica. Detto in altre parole, il coordinamento -cioè l’ordine biologico- richiede un buon sistema di comunicazione causale dell’informazione all’interno del vivente. L’informazione esiste dappertutto nella natura, ma solo i viventi la usano, e la usano in un senso teleologico. I geni sono portatori di informazione biologica in una maniera non intenzionale. Il codice genetico è concepito, per analogia, come una sorta di “linguaggio” con “istruzioni” che serviranno, insieme ad altri fattori epigenetici, alla crescita differenziata dell’organismo e alla trasmissione a nuovi individui dell’informazione ereditaria relativa alla specie. Il codice genetico viene visto dunque come una sorta di 41 “programma” che servirà da guida nella crescita e nella riproduzione. Tale programma è anche un contenuto “immagazzinato” o conservato nella “memoria” della specie. Grazie al genoma, grazie cioè al patrimonio genetico ereditario della cellula, la specie può conservare la sua identità e può anche variarla (nell’eventualità di mutazioni con conseguenze evolutive). L’ilemorfismo biologico precosciente è un vero ilemorfismo, nel quale la distinzione tra forma e materia diventa, per così dire, più netta e più bilanciata verso il predominio di una forma organizzatrice che conserva una certa “memoria di se stessa” e si distacca alquanto -se possiamo parlare così- dalla materialità. La capacità di riproduzione indica una potenza di superamento della caducità individuale, una virtuale “immortalità”51. L’individuo (il soma) invecchia, ma non invecchia la sua dotazione genetica. La forma “immortale” è sempre in grado di trasmettersi a una nuova materia. L’ereditarietà trasmette, quindi, elementi di per sé “perpetui” ed è dissociata dallo sviluppo somatico52. Da questo punto di vista, la trasmissione della specie è soprattutto una comunicazione di informazione, non primariamente un influsso di materia o di energia in un nuovo soggetto. Si potrebbe dire in qualche modo che nella trasmissione genetica la forma da trasmettere appare quasi “astratta” (separata) dalla materialità somatica. Proprio per questo, l’introduzione della nozione di informazione nella genetica è stata molto adeguata e non può considerarsi una semplice metafora presa dalla scienza dell’informazione. Questa forma di “astrazione” si vede anche nel fatto, ad esempio, che i geni contengono al contempo la codificazione delle proteine (geni strutturali) e il modo di farlo secondo determinati controlli (i geni regolatori)53, come se ci fosse un 51 L’alimentazione, in quanto modo di superare la tendenza al disordine conseguente al principio termodinamico dell’aumento di entropia, esprime la tendenza alla conservazione della vita. Nutrirsi è prendere dall’ambiente “entropia negativa”, secondo l’efficace espressione di Schrödinger (Che cosa è la vita, Sansoni, Firenze 1947, pp. 100-105), per così ristrutturare continuamente un edificio che, in base alle leggi “inferiori” della fisica, tende a disorganizzarsi. Vivere (biologicamente) è “mantenersi in vita”. 52 Cfr. Arantza Etxeberria Agiriano, Tomás Garcia Azkonobieta, Sobre la noción de información genética: semántica y excepcionalidad, “Theoria: Revista de teoría, historia y fundamentos de la ciencia”, vol. 19, n. 50, 2004, pagg. 209-230; E. Boncinelli, Il cervello, la mente e l’anima, Mondadori, Milano 1999. 53 Questo punto è stato intravisto da E. Schrödinger in Che cosa è la vita, cit. Il cromosoma cellulare “contiene in una specie di codice cifrato l’intero disegno del futuro sviluppo 42 piano generale insieme a una funzione “prudenziale” incaricata di adeguare il piano alle circostanze variabili. Mi sono trattenuto sulla nozione di informazione applicata alla biologia a causa della sua importanza epistemologica nella filosofia della mente. Un uso inadeguato di tale concetto nell’ambito della natura ci porterebbe all’antropomorfismo54. Ovviamente un certo antropomorfismo è inevitabile nella nostra lettura dei processi naturali. Il “codice genetico” (come un alfabeto collegato a una grammatica), secondo la nostra terminologia, è “letto” dalle cellule, invia “istruzioni” e “comandi”, viene “tradotto”, “interpretato”, e quando è “mal letto”, con l’introduzione di errori, si producono delle malattie o malformazioni. L’informazione contenuta nella natura, quindi, è unita alla materialità ed ha un’efficacia causale. L’informazione nel senso cognitivo umano invece è veramente astratta e si esprime in un linguaggio arbitrario. In espressione metaforica, contenente però un fondamento di verità, ai tempi di Galileo si diceva che la natura era “un libro scritto in un linguaggio matematico”, mentre oggi la vediamo come una sorta di “linguaggio fatto da codici e segni”. b) Segnali e processi causali Nella natura organica l’ordine e gli aspetti formali sono strutturali e insieme causali. La forma è unita alla materia, così come l’informazione è collegata all’energia. L’alimentazione del vivente è un processo fisico, causale, materiale ed energetico. Ma l’alimentazione contiene un aspetto “informativo”, nel senso che va fatta secondo una misura, in certi tempi, seguendo certi canali. I classici direbbero che l’alimentazione va compiuta in un modo “ordinato”, ed è questo l’aspetto formale di cui stiamo parlando. L’organismo è dotato di elementi di controllo dei processi biologici. Negli animali essi non sono esclusivamente cellulari, ma corrono a carico di una parte specializzata del corpo: il sistema nervoso. Analogamente a come fanno le cellule, il sistema nervoso recepisce dei segnali a titolo d’informazione sullo stato dell’individuo e del suo funzionamento nello stadio della maturità. Ogni serie completa di cromosomi contiene l’intero testo del codice” (p. 33). Ancora: “le strutture cromosomiche sono, contemporaneamente, degli strumenti per portare innanzi lo sviluppo che esso simboleggiano. Esse sono codice di leggi e potere esecutivo, o, per usare un’altra metafora, sono il progetto dell’architetto e insieme abili costruttori” (p. 31). 54 Cfr., sul tema della razionalità, l’auto-organizzazione e la teleologia della natura, M. Artigas, The Mind of the Universe, cit., pp. 118-145. 43 dell’ambiente e del corpo. In base a questi dati, il sistema nervoso invia dei segnali all’organismo in modo da regolare l’utilizzo dell’energia necessaria per il buon andamento delle funzioni organiche. Con terminologia informatica, parliamo quindi di segnali (più in dietro ho impiegato il termine presimbolico). Il segnale non è un simbolo vero e proprio. Il simbolo inteso in un senso umano normalmente fa parte di un intero linguaggio, col suo alfabeto e la sua grammatica. Il suo contenuto informativo di solito è arbitrario ed è separato dalla sua efficacia causale. Il vero simbolo appartiene a un sistema cognitivo ed è in funzione di una mente capace di leggerlo. Riguardo alla conoscenza sensibile, presente negli animali e negli uomini, parliamo invece di trasmissione di segnali, specialmente in riferimento alla comunicazione luminosa e acustica. La trasmissione di segnali ottici, acustici, ecc., è un processo fisico e causale, ma ora è anche una comunicazione cognitiva. I sensi animali ricevono segnali il cui contenuto informativo scatena una serie di risposte (l’animale sente un rumore minaccioso e fugge). I segnali naturali, come una nube oscura è un segno di pioggia, o il fumo è un segno di fuoco, sono aspetti fisici che consentono di conoscere “qualche altra cosa” del mondo, anche in maniera sensitiva e non solo intellettuale (il cane interpreta bene la faccia allegra o triste del suo padrone). I segnali negli animali possono pure diventare alquanto “arbitrari”, come se fossero simboli astratti, tramite il processo del riflesso condizionato: il campanello, senza che abbia di per sé un rapporto naturale con il cibo, può diventare un segnale per l’animale affamato e condizionato, scatenando in lui una serie di reazioni fisiologiche. Grazie alla flessibilità della vita animale, questi segnali “arbitrari” non sono puramente cognitivi, poiché vengono ad incorporarsi nel dinamismo fisiologico neurovegetativo. Il caso è diverso nella vita vegetale. Le piante cominciano a fiorire non appena “avvertono” i primi “segnali” della primavera. In questo caso i segnali non sono cognitivi ma solo causali, pur avendo una dimensione informativa. Qualcosa di simile vale per i messaggi genetici di cui abbiamo parlato sopra. Concludendo, la trasmissione d’informazione nell’organismo, in particolare a livello cellulare, studiata in dettaglio dalla biologia molecolare, si può spiegare in 44 termini di comunicazione di segnali e messaggi, ma è insieme un processo intrinsecamente fisico e causale (richiedendo un dispendio almeno minimo di energia). Tale trasmissione associa la causalità efficiente alla causalità formale. Si può quindi descrivere, secondo il nostro modo analitico di parlare, come un certo flusso di informazione. I rapporti tra formalità e materialità, tra efficienza e finalità, sono quindi peculiari nella vita. Il vivente riesce a controllare la sua attività organica amministrando in un senso teleologico le risorse energetiche prese dall’ambiente. L’aspetto di controllo corrisponde alla causalità formale e non comporta ancora conoscenza. La causalità formale del vivente non è, dunque, una semplice armonia tra le forze materiali, come accade nel mondo inanimato. L’organismo vivente, in un certo senso, sta sempre auto-costruendosi. Questa auto-costruzione è una forma di combinazione attiva tra la sua causalità formale e la sua materialità sempre in fieri. Perciò usiamo spesso delle metafore costruttive per capire la vita, come quando Schrödinger parlava, alludendo alla genetica, del piano regolativo e della sua esecuzione, o della legge e della sua messa in pratica. 4. Sentire di vivere La vita negli animali acquista una nuova caratteristica: la coscienza sensitiva, l’atto cioè di sentire il corpo, i suoi processi e perfino l’ambiente esterno. Questa novità ontologica sembra così sorprendente e inattesa in un primo momento, dal punto di vista fisico, che portò molti filosofi alla concezione dualista, come se le funzioni della coscienza sensitiva fossero qualcosa di completamente eterogeneo rispetto al corpo, e quindi quasi “spirituale”. Come abbiamo visto nella parte storica, ancora oggi riesce difficile a molti accettare la realtà dei qualia (atti di vedere, udire, sentire dolore o piacere), o almeno di integrarli in una visione unitaria della vita animale. Per questo motivo si è tentati spesso di eludere la realtà degli atti sensitivi e di concepirli magari come funzioni o come elementi causali, senza la proprietà intrinseca della coscienza. In realtà, la coscienza sensitiva dovrebbe essere vista, in continuità con quanto abbiamo considerato finora, come una modalità più alta di essere-corpo, anzi corpo organico: il corpo animale, sensitivo, aggiunge all’essere-corpo-vivente la qualità di 45 sentire di vivere-nella-forma-della-corporeità. La pianta si alimenta, ma l’animale (e noi stessi), non solo ci alimentiamo, ma sentiamo di farlo, con piacere se la funzione vitale è esercitata in modo positivo, con dolore se essa viene a meno. Non ogni funzione vegetativa è sentita, e le modalità sensitive sono molto diverse. La crescita o le funzioni cellulari non si sentono. Ma la nutrizione, la riproduzione, il movimento, il corpo come un tutto, certamente si sentono55. L’atto di sentire non è deducibile né prevedibile da alcuna funzione vegetativa. Bisogna accettarlo come un dato primitivo. Non è un semplice perfezionamento della vita vegetativa, poiché non sta nella sua stessa linea. È un qualcosa di nuovo, un certo salto che comincia a preannunciare, se si può parlare così, la coscienza superiore dell’uomo. Questo punto si vede meglio nell’analisi del progressivo arricchimento della vita sensitiva: immaginazione, memoria, intelligenza animale. 1. La sensazione come atto immanente. La struttura ilemorfica riceve un nuovo senso con la coscienza sensitiva. In qualche modo la sensazione, in quanto atto cognitivo compiuto da un corpo organico, è sopra-ilemorfica, seppure potremmo vederla come la realizzazione dell’ilemorfismo in un senso diverso. Una cosa è la struttura organica della mano (cellule, tessuti). Ben diverso invece è che la mano “sia sentita come mano”, una qualità tattile legata alle sue capacità funzionali, come prendere oggetti del mondo esterno, colpire o disporre meglio del proprio corpo. L’atto di sentire sarà, se vogliamo, una “formalità” della mano, ma molto diversa dalle forme corporee inanimate e vegetative. La sensazione è un atto non destinato alla funzione di strutturare una materia, come accade invece nelle forme delle cose inanimate e vegetali. La sensazione sorpassa la funzione organizzativa, inaugurando la dimensione soggettiva della realtà. La sensazione è, aristotelicamente parlando, atto immanente, cioè un atto con valore per se stesso, non semplicemente definito per la sua funzione fisica nell’organismo. Il movimento intenzionale ha senso solo quando raggiunge il fine verso il quale si muove (ad esempio, un viaggio). Il suo senso quindi sta fuori di se 55 Scrive San Tommaso: “è questa la differenza tra gli animali e le altre cose naturali, che queste ultime, nel loro costituirsi in ciò che corrisponde alla loro natura, non lo sentono. Ma gli animali lo sentono”: S. Th., I-II, q. 31, a. 1. 46 stesso (transitività). L’atto immanente invece “non si muove” verso un’altra cosa, in quanto è di per sé un fine a se stesso, un fine già posseduto nel compiersi stesso dell’atto. Il valore del sentire cioè sta nel sentire stesso, anche se per questo motivo comporta una correlativa negatività, come accade nel dolore e nelle sensazioni sgradevoli. Certamente possiamo trovare molte utilità delle sensazioni. Il dolore serve per segnalare una disfunzione organica, il piacere attira verso atti organici positivi. Ma non per questo le sensazioni si esauriscono nella loro utilità, altrimenti le svuoteremmo di senso. Se gli animali fossero più abili nel conseguimento dei loro fini senza sentirlo, mancherebbe loro ciò che è il nucleo stesso della vita animale. 2. Trascendenza sulla materialità vegetativa. Gli atti di sentire, percepire, ricordare, pur essendo pienamente materiali, di per sé trascendono la pura funzione vegetativa, anche se non tutti lo fanno nella stessa misura. Alcuni atti sensitivi sono direttamente fisiologici, in quanto hanno a che vedere con la situazione organica del corpo o con una funzione vegetativa. Così sono le sensazioni relative all’alimentazione (fame, sete), alla sessualità, allo stato di benessere o di malfunzionamento del corpo (dolore, piacere fisico, sensazioni muscolari, cinestesiche). Altri atti sensitivi invece non sono propriamente fisiologici, ad esempio gli atti percettivi di forme intenzionali dell’ambiente. La visione dei colori, anche se viene compiuta neurologicamente, non ha come scopo la costituzione e preservazione di un organo fisiologico. Accade al contrario: un organo qui è usato (gli organi della vista, dell’udito) al servizio di una funzione transorganica, che non per questo motivo è da ritenersi spirituale. In questo senso,il filosofo spagnolo Leonardo Polo parla della sensazione in termini di avanzo formale, cioè di una sorta di iperformalizzazione concepita come un eccesso nei riguardi della materia56. In modo simile, i classici parlavano di una certa immaterialità della sensazione nei confronti delle forme non cognitive. Questo fenomeno si può considerare anche dal versante neurologico. L’animale non dipende soltanto dai suoi istinti innati, contenuti in qualche misura nel codice 56 Cfr. L. Polo, Curso de teoría del conocimiento, vol. I, Eunsa, Pamplona 1984, pp. 215 ss. 47 genetico. L’animale deve agire imparando, cioè deve formalizzare alcuni dei suoi organi e in un certo senso “costituirli come tali”. È vero che l’animale è già provvisto del cervello. Ma l’anatomia cerebrale, oltre gli organi dei sensi esterni, lascia un ampio spazio per la formalizzazione frutto dall’apprendimento, la quale sarà iscritta nelle aree opportune dell’encefalo. L’animale deve in qualche modo “costruirsi” gli organi fisiologici della memoria e dell’immaginazione, modellando il suo cervello. Dunque quest’organo non è semplicemente destinato al controllo dell’organicità vegetativa. Un animale con più memoria o con una maggiore intelligenza pratica non per questo è cresciuto organicamente. È cresciuto invece intenzionalmente, ma lo ha fatto attraverso l’utilizzazione di un organo “plastico” modellato in rapporto a quelle nuove funzioni “transorganiche”57. Possiamo dire dunque che: 1) l’animale vede elevate le funzioni organiche a una nuova dimensione: si alimenta come le piante, ma sentendolo; inoltre, 2) si apre a funzioni transorganiche, le quali non per questo motivo sono spirituali: funzioni sociali, cooperazione con altri animali, gioco, comunicazione, costruzione di tane, caccia, difesa, attacco. L’animale non è superiore ai vegetali per il fatto di essere un “vegetale più perfetto”. Il perfezionamento vegetativo sembra esaurito nella vita sensitiva. Stiamo adesso in una nuova linea ontologica, incomprensibile con categorie causali di tipo fisico: l’unico modo di capirla è col concetto di intenzionalità58. 3. Ambito intenzionale. L’apertura cognitiva ed emotiva animale comporta dunque in primo luogo la auto-sensibilizzazione del proprio corpo in alcune delle sue funzioni organiche, come l’alimentazione e la riproduzione. Il corpo animale è un corpo senziente e sentito59. L’animale sente le sue operazioni e passioni (coscienza animale o sensitiva), il suo benessere e sofferenze, i suoi movimenti, sforzi e tensioni, e il suo dinamismo somatico come una totalità. Proprio per questo può dominare intenzionalmente il corpo e non si limita a dipendere da funzioni vegetative di controllo (la crescita organica invece non è controllata intenzionalmente, ma solo 57 Cfr., per questo punto, L. Polo, Curso de teoría del conocimiento, vol. II, pp. 15 ss., Eunsa, Pamplona 1985. 58 Non occorre riservare l’intenzionalità alle funzioni intellettuali. Esiste un’intenzionalità negli animali, dal momento che essi hanno vere funzioni cognitive. 59 La lingua tedesca si riferisce al corpo vivente o animale col termine Leib, diverso da Körper o corpo in senso dimensionale. 48 vegetativamente). La presa del proprio corpo avviene per lo più in un senso olistico. L’animale sente il suo corpo come un tutto unitario disponibile per la locomozione e per i movimenti intenzionali, come la corsa per attaccare o per fuggire, o lo sguardo della faccia per capire le intenzioni di un avversario. Inoltre la percezione sensitiva si apre all’ambiente, trascendendo così il proprio corpo, come avviene nella vista, nell’udito e nelle altre attività dei sensi esterni. L’animale percepisce l’ambito fisico in cui svolge la sua attività in funzione dei suoi scopi pratici: una prateria come territorio in cui trovare riparo e alimento, una serie di rilievi geografici come luogo di nascondiglio, elementi dell’ambiente atti per la costruzione del nido o della tana. Egli percepisce, in modo particolare, l’esistenza di altri individui della propria specie o di altre, dove è incluso anche l’uomo, visto come amico, nemico potenziale, specie pericolosa o possibile. Gli animali sviluppano quindi una certa intersoggettività: riconoscono altri individui, anche con funzioni “sociali” (compagni, rivali, superiori, inferiori, prole, genitori, partner sessuali). Le scimmie riconoscono dei soggetti della loro specie tramite una percezione accurata della loro faccia. La sensibilità animale si apre ulteriormente a una certa “interiorità rappresentazionale”, superando così la chiusura dell’individuo nell’hic et nunc. L’esperienza e i ricordi degli animali sorpassano l’ambito ridotto della percezione istantanea. Tale esperienza consente loro, fino a un certo punto, di prevedere il futuro e di anticipare così intenzioni di rivali o nemici. Questa capacità permette di avere intenzioni di compiere azioni con una certa struttura a lunga scadenza, come può essere, ad esempio, il pedinamento di un rivale, il compimento di una vendetta, la cura della prole, la costruzione di tane sofisticate, la migrazione a luoghi lontani. Tutto questo gli animali non lo compiono meccanicamente, come se fossero dei computer programmati, ma lo fanno grazie all’accumulo di esperienze e all’apprendimento. Non basta dire che gli animali realizzano questi atti “istintivamente”. Gli istinti sono inclinazioni naturali predeterminate verso una certa condotta generica (ad esempio, l’istinto di fuggire o di accudire la prole). Ma il comportamento istintivo non si contrappone all’apprendimento né alla coscienza sensitiva. Di solito esso è una spinta iniziale da completare tramite l’apprendimento. Gli animali debbono imparare a difendersi, a cacciare, a volare. L’istinto quindi non si contrappone alla condotta 49 intenzionale. Anche se un animale può aggredire “per istinto”, lo fa in un modo flessibile, variabile a seconda delle circostanze, tramite operazioni percettive ed emozioni e con il ricorso all’esperienza acquisita. 4. Integrazione e soggettivizzazione. Le sensazioni, percezioni, ricordi ed emozioni animali, pur avendo la loro autonomia neurofisiologica, sono continuamente integrate nella vita sensitiva. Questa integrazione è palese anche a livello neurologico: gli animali più evoluti centralizzano la loro attività sensitiva nel sistema nervoso, detto appunto “centrale”. L’encefalo diventa l’organo di governo della fisiologia degli animali e della loro attività interna (controllo neurale del proprio corpo) ed esterna (condotta). La testa dell’animale è, anche anatomicamente, l’organo di comunicazione, di centralizzazione percettiva e di direzione comportamentale. L’integrazione cognitiva ed emotiva è dinamica e continua, e non è mai garantita del tutto, essendo in rapporto con un ambiente variabile e contingente. Essa porta l’animale all’unità, a tal punto che dobbiamo denominarlo con un nuovo nome: soggetto. Non è una persona, ma è un certo “soggetto”, in quanto possiede una soggettività sensitiva (cognitiva ed emotiva) assolutamente insolita nei vegetali. Tale soggettività non è la totalità del corpo, poiché non è una globalità spaziale né una struttura anatomica completa. Quando l’animale soffre o si arrabbia, soffre come un tutto, si arrabbia come un tutto soggettivo. Il fenomeno non si può descrivere in termini spazio-temporali. Lo comprendiamo per analogia con i nostri comportamenti soggettivi primari. 5. Condotta come prassi intenzionale. La sensibilità emotiva e cognitiva animale crea un nuovo tipo di operazioni, diverso dalla “prassi vegetativa”. La prassi animale è intenzionale: nasce dall’immaginazione, dall’attenzione, dalla memoria, dall’esperienza, dagli impulsi emotivi, portando a vedere il mondo -ambiente e rapporti intersoggettivi- come “pieno di significati animali”. Gli atti corporei dell’animale si configurano in rapporto a questi significati e sono attribuibili al soggetto come un tutto. La nuova prassi merita un nome particolare: condotta. L’animale, quando cerca la preda, corteggia l’altro sesso, si nasconde dal pericolo o vive in stato di obbedienza nei confronti del suo padrone umano (animali addomesticati), esercita un comportamento intenzionale, come ha rilevato l’etologia moderna (superando così una visione puramente organica della zoologia). Gli atti 50 della condotta animale sono “esterni” ed osservabili, ma solo per chi sa interpretarli come espressioni della vita animale. L’esterno qui non è colto con una lettura fisicochimica, bensì in modo intenzionale. La condotta è una prassi intenzionale. Nella vita appariva per la prima volta un tipo di attività fortemente finalizzata. Nell’animale questo finalismo è ampliato ed è intenzionale. Esso guida la sua condotta come un soggetto unitario in virtù della sua cognizione, emotività e tendenze. Fenomenologicamente questo punto si vede, ad esempio, nella motilità: l’animale dispone del suo corpo proprio nel senso di poterlo articolare con una certa libertà (in senso analogico). L’articolazione somatica costituisce la sua situazione (indicata dalla categoria aristotelica del situs o modo di stare nel locus), non puramente meccanica, ma significativa per la vita: corpo in agguato, corpo disteso, corpo in tensione. In un secondo aspetto della condotta motrice, l’animale è capace di spostare il suo corpo localmente, con un certo dominio del suo territorio (dominio ecologico). Infine, il comportamento corporeo si vede nell’espressività facciale, dotata spesso di una valenza comunicativa: faccia esprimente sofferenza, dolore, ferocia, inquietudine, panico, amicizia. 6. La base neurale: elaborazione dell’informazione. Negli animali compare il sistema nervoso, il quale diventa sempre più sviluppato -centralizzazione, encefalizzazione- nelle specie superiori. Così come la vita organica è organizzata e trasmessa tramite la dotazione genetica, in questo livello l’informazione viene recepita ed elaborata in un senso nuovo, al di sopra degli elementi genetici che pur sono sempre conservati nell’organismo. La sensibilità consiste, in questo senso, nella ricezione d’informazione proveniente dall’ambiente e dal corpo proprio, in un modo sempre variabile, affinché sia elaborata, conservata nella memoria e funzionalizzata in rapporto alle reazioni emotive e alla guida del comportamento. Sembra questo il compito peculiare del sistema nervoso, particolarmente del cervello. La scienza cognitiva ci ha fatto scoprire il cervello come un organo elaboratore di informazione. Quest’elaborazione è un tutt’uno con gli aspetti intenzionali della cognizione e dell’emozionalità. A partire da quest’ultima si produce il governo della condotta e di tanti aspetti neurovegetativi collegati all’affettività. L’elaborazione informazionale nervosa non segue una modalità simbolica. Molti aspetti del ruolo dell’informazione nella vita vegetativa sono conservati ed 51 elevati al nuovo livello della coscienza sensitiva oppure a momenti precoscienti o inconsci propri della dimensione neurologica. Il sistema nervoso trasmette informazione tramite un meccanismo causale “presimbolico”, dove i segnali recepiti subiscono processi di trasduzione e sono interpretati in un determinato senso in funzione della percezione e della risposta comportamentale. Seppure nell’animale non esiste un linguaggio separato (astratto), la ricezione percettiva include un’interpretazione degli eventi sensibili, nei quali l’individuo scorge un significato. Un suono può rappresentare un pericolo, un odore indica la presenza di un individuo. L’associazione di segnali può includere nuovi significati e viene impressa nell’esperienza. Questa è la base dello sviluppo dei linguaggi animali. 5. Ontologia dell’atto sensitivo a) Le cinque dimensioni delle operazioni sensitive Nella nostra sezione storica abbiamo considerato come l’attività psichica viene spesso vista in modo unilaterale (neurologismo, funzionalismo, comportamentismo) da alcune correnti filosofiche. Adesso possiamo prendere atto in un modo più esplicito della presenza di una serie di dimensioni della vita sensitiva. Queste dimensioni sono una realtà ontologica e fondano gli approcci epistemologici della conoscenza comune, della scienza e della filosofia nei confronti della vita sensitiva. Nell’abituale filosofia della mente questo paragrafo sarebbe intitolato “ontologia degli atti mentali”. Noi preferiamo distinguere tra l’atto sensitivo e l’atto intellettuale, poiché essi non hanno esattamente la stessa struttura ontologica. Confonderli è tipico del dualismo cartesiano. In modo generico si potrebbe pure parlare di “atti psichici”, solo che, come diremo, psichica è piuttosto una dimensione degli atti animali o umani. Dunque le cinque dimensioni sono: a. La dimensione neurologica è la parte fisica o causa materiale dell’atto sensitivo (cognitivo o emotivo). A livello di conoscenza ordinaria o “fenomenologica”, questa dimensione di solito è velata, benché notiamo la presenza dell’organo sensoriale e comprendiamo il suo ruolo. Avvertiamo di vedere con gli occhi, nonché le ripercussioni fisiologiche delle nostre emozioni. Dal punto di vista epistemologico, la dimensione neurofisiologica corrisponde a un tipo di astrazione in cui sono considerati soltanto i parametri dei corpi corrispondenti alle descrizioni e alle 52 spiegazioni caratteristiche delle scienze naturali, in rapporto all’osservazione esterna delle proprietà anatomiche e fisiologiche organiche. Possiamo studiare la vista materialmente, ad esempio, descrivendo e spiegando fisicamente il sistema visivo (retina, vie nervose al cervello, centri corticali). A causa dell’astrazione della metodologia scientifica, è possibile considerare questa dimensione senza aver sperimentato le corrispondenti sensazioni o emozioni. Possiamo studiare la percezione di ultrasuoni nei pipistrelli senza poter figurarci che cosa “sentano”, correlando eventi nervosi e reazioni esterne, anche se ci serviamo dell’analogia con processi intenzionali umani, di cui abbiamo un’esperienza soggettiva, per farci una certa idea dell’esperienza la cui qualità specifica ignoriamo. La descrizione neurale degli eventi psichici è importante per intervenire causalmente sull’organismo senziente. Essa possiede la sua autonomia, dando luogo alla scienza naturale della psiche. Ma tale descrizione ha senso solo presupponendo la componente psicologica correlativa. Se un gatto non vede bene, la neuroscienza potrà far sì che migliori la vista. La paura di un gatto, atto psicosomatico, forse si potrà moderare con farmaci o con interventi neurali opportuni. In questo caso avremo preso la via della materialità per suscitare o per modulare alcuni effetti psicosomatici. Questa strada è utile in tante circostanze, ma la causalità naturale ordinaria (intenzionale) della paura sta nella percezione di oggetti pericolosi, non nella pura manipolazione del sistema nervoso. b. La dimensione psichica soggettiva è la causa formale dell’atto sensitivo. La descrizione psicologica degli atti sensitivi, in quanto si riferisce al loro aspetto formale, è quella che “ha senso” per noi, e in questo senso è più importante della sola dimensione fisica. Etimologicamente psichico vuol dire “dell’anima”. Il vissuto psichico è la qualità sentita in quanto tale (freddo, dolore), benché nel caso delle operazioni intellettuali non diciamo di “sentirle”, bensì di “avvertirle” (“avverto le mie intenzioni”). La qualità psichica normalmente è assegnata al soggetto senziente (“sento freddo”). Di solito è cosciente (“coscienza sensitiva”), ma può anche non esserlo. La distinzione tra atti fisici (esternamente osservabili) e psichici (internamente 53 osservabili) è stata proposta da Brentano60, anche se risale alla distinzione classica tra anima e corpo e tra gli atti delle diverse potenze operative. Comunque qui non sto parlando di due tipi di atti, ma di due dimensioni di un unico atto. La dimensione psichica è un vissuto del soggetto senziente. Quindi è vissuta “in prima persona” o “privatamente”, mentre la dimensione neurale è conosciuta “in terza persona” o “pubblicamente” (questa terminologia è impiegata solo per l’uomo). La psicologia, se non è comportamentista, normalmente si serve della fenomenologia psicologica o dell’esperienza interna dei soggetti umani. Per analogia, possiamo immaginarci più o meno bene aspetti della sensibilità animale più vicini alle nostre esperienze. Il punto indicato è presente nel seguente testo di Tommaso d’Aquino: “Nelle passioni dell’appetito sensitivo si possono considerare due aspetti, uno materiale (quasi materiale), l’alterazione organica (corporalem transmutationem), e l’altro formale (quasi formale), procedente dall’appetito. Così come nell’ira, si legge in I de Anima61, l’elemento materiale è l’incremento di sangue intorno al cuore, o qualcosa di questo tipo, mentre l’elemento formale è il desiderio di vendetta”62. La sede corporea dell’emotività, come sappiamo, non sta nel cuore ma nel cervello, ma il punto essenziale non cambia. L’emozione, atto psicosomatico, possiede una struttura “quasi ilemorfica”: la dimensione psichica è l’iperformalizzazione di una struttura organica adeguata. c. Dimensione oggettiva dell’intenzionalità psichica (rilevata da Brentano). Gli atti sensitivi e percettivi hanno un lato soggettivo (l’atto come operazione del soggetto) e un versante intenzionale oggettivo (da qui viene, appunto, il termine intenzionalità). Così, l’atto di vedere è intenzionato ad un oggetto: il colore e la luce delle cose visibili. Le due dimensioni, soggettiva e oggettiva, sia pure collegate e inseparabili, non si possono confondere. La percezione ci apre al mondo reale, 60 Cfr. F. Brentano, La psicologia dal punto di vista empirico, Laterza, Roma-Bari 1997, vol. 1, pp. 144-146, corrispondenti al capitolo intitolato “La differenza tra fenomeni psichici e fenomeni fisici”. 61 Cfr. Aristotele, I De Anima, 403 a 30. 62 San Tommaso, S. Th., I, q. 20, a. 1, ad 2. 54 l’immaginazione ci svela un mondo immaginario, diverso dalla stessa soggettività. L’oggetto dell’atto intenzionale ordinariamente è il mondo esterno o il proprio corpo nella misura in cui viene rivelato dall’approccio cognitivo. L’oggetto è la realtà stessa in quanto si manifesta parzialmente o aspettualmente al soggetto cognitivo. In alcuni casi, l’oggetto può essere una “rappresentazione” senza un riferimento diretto alla realtà (ad esempio, i sogni). Nell’uomo, gli oggetti dell’immaginazione e del pensiero razionale possiedono una propria autonomia (non si confondono con le operazioni del soggetto), e sono indeducibili dalla struttura della soggettività63. La conoscenza sensibile si rivolge direttamente al mondo, occultando in qualche modo la soggettività, soprattutto nel caso dei sensi più “oggettivi” (vista e udito). L’intenzionalità “favorisce” il darsi dell’oggetto e per questo nasconde il soggetto. Invece le emozioni e i sentimenti sono più direttamente rivelatori della soggettività, benché abbiano generalmente una dimensione oggettiva (ad esempio, la gioia normalmente è dovuta a motivi oggettivi). d. La dimensione comportamentale è costituita dagli atti esterni intenzionali che configurano la prassi animale o condotta: mangiare, cacciare, nascondersi, richiamare l’attenzione, fuggire. Quasi tutti gli atti psichici almeno hanno un rapporto con un possibile quadro comportamentale (il dolore porta a lamentarsi e a cercare di fare qualcosa per toglierlo; l’ira orienta verso l’aggressione). Nel comportamento si può distinguere tra l’espressione o manifestazione esterna degli atti interni e le azioni che ne sono la causa o la conseguenza. Quando gli atti sensitivi sono situazioni stabili o abiti anziché operazioni (situazione di tristezza, memoria, rancore prolungato), possiamo vedere la dimensione psichica come una predisposizione stabile ad agire in un certo senso. e. La dimensione metafisica si colloca a un livello ontologico preoperativo e prefenomenico. È presente negli atti sia sensitivi che intellettuali. Ci riferiamo ad essa quando diciamo, ad esempio, “questo animale sta soffrendo”, “sento la mia mano”. Senza una nostra comprensione metafisica, implicita nella conoscenza ordinaria e 63 Questa dimensione, applicata al livello intellettuale umano, corrisponde alle nozioni di mondo 3 di Popper e di oggettività intenzionale di Husserl. L’interpretazione filosofica dell’oggettività è collegata alla problematica del realismo della conoscenza. 55 nelle scienze, non avrebbe senso parlare di questo animale o di io (l’io non è né un’operazione, né una sensazione, né un oggetto, e comunque viene avvertito). Questo punto è fondamentale, ovviamente, per comprendere l’uomo nella completezza delle sue dimensioni o per poter parlare significativamente di persona, io, coscienza, conoscenza della realtà, allucinazione (quest’ultima nozione presuppone i concetti metafisici di verità e di errore). La dimensione metafisica è avvertita dall’uomo con un atto intellettuale operante nella cognizione sensitiva. L’empirismo di tradizione humeana trova difficile la comprensione dell’io o della persona perché dissolve la comprensione metafisica a scapito delle altre dimensioni (di conseguenza, l’io e altre realtà solo metafisicamente accessibili verranno viste come costruzioni logiche, psichiche, sociali, ecc.). Mi sono riferito a queste cinque dimensioni prevalentemente nei confronti degli atti sensitivi, ma qualcosa di analogo si può dire in rapporto alle operazioni spirituali dell’uomo, come capire, credere o volere, solo che in questo caso, come vedremo nel capitolo 3, la dimensione neurologica, pur avendo un rapporto essenziale con l’operazione spirituale, non è un suo costituente formale, benché possa essere integrata con essa nell’unità di un singolo atto umano. Parlare, ad esempio, è un unico atto umano, con una dimensione intellettiva e volitiva e un lato fisico linguistico. In questo caso, l’atto intellettuale-volitivo contenuto nel parlare è spirituale, ma al contempo include un versante fisico essenziale, dando luogo a un unico atto umano personale (atto integrato quindi, da operazioni spirituali e fisiche)64. Normalmente la nostra conoscenza comune dell’agire animale e umano coglie in modo simultaneo queste cinque dimensioni. Nel dire “provo dolore alla mia mano”, avverto il mio corpo e percepisco un mio evento psichico, mentre al contempo comprendo il mio comportamento linguistico e la mia soggettività personale senziente. Possiamo separare ciascuna delle cinque dimensioni sul piano dell’astrazione, come fanno le scienze, ma allora le altre dimensioni si presuppongono. La filosofia studia in un modo più sistematico l’aspetto metafisico degli atti della vita animale e umana. La stessa distinzione di queste dimensioni si 64 Con una visione soltanto scientifica, mi si consenta di insistere, queste “integrazioni” di atti o di livelli sono semplicemente incomprensibili. 56 comprende solo nel quadro della conoscenza metafisica: non si può giustificare situandoci esclusivamente sul piano psicologico o neurologico. La realtà di queste dimensioni si potrà discutere, affermare o negare, come quando si dice “la sensazione non è che attività neurale” o “l’io è fittizio”, ma ciò si fa sul piano metafisico. Una tesi riduzionistica non può evitare di essere ontologica. L’ignoranza di una di queste dimensioni può sembrare una posizione innocua, ma non sempre è così, perché le cose più ovvie non si possono ignorare senza conseguenze pratiche violente. Difatti, l’esclusione di uno di questi aspetti potrebbe portare ad azioni deviate. Se riteniamo che gli animali non soffrano, potremmo farli soffrire parecchio. In un modo analogo, potremmo uccidere vite umane innocenti se ignoriamo la realtà metafisica della persona quando non è in grado di esercitare l’autocoscienza in atto. La conoscenza ontologica quindi può essere una responsabilità etica. b) Carattere psicosomatico dell’atto sensitivo A questo punto possiamo precisare meglio la natura dell’atto sensitivo. Escludiamo l’esistenza di due atti o di due eventi, uno neurale e l’altro psichico. L’atto sensitivo, sia cognitivo che tendenziale, è simultaneamente psichico e neurale. È un unico atto psicosomatico, con una dimensione formale (psichica) e una dimensione materiale (neurologica). Questo è un punto esplicito nell’Aquinate e in Aristotele: “Sentire non è un atto dell’anima, né del corpo, bensì del composto [di anima e corpo]”65. A livello di potenza, in modo correlativo, Tommaso d’Aquino concepisce la facoltà psichica (ad esempio la vista) come una speciale potenzialità dell’anima sensitiva inerente all’organo, così come, in modo strutturale, l’anima sensitiva è l’atto-di-un-organismo, nell’unità di una sola sostanza e un solo individuo. Questa tesi è ben diversa dalla teoria dell’identità, la quale identifica le due 65 Tommaso d’Aquino, S. Th., I, q. 77, a. 5, sed contra, che è una citazione di Aristotele: Del sonno e della veglia, I, 454 a 7. 57 dimensioni riducendo l’una all’altra. Al contrario, la dimensione formale e quella materiale dell’atto sensitivo sono diverse, così come, in un altro ambito di cose, la forma e la materia delle cose fisiche sono diverse, senza però essere “due cose”. Sono due aspetti o co-principi che possono essere compresi, per astrazione, in un modo separato, ma non sono due sostanze né due essenze. L’unità sopra-ilemorfica tra la formalità psichica e la materialità neurale degli atti psichici è una tesi ontologica ben comprensibile all’interno della metafisica aristotelica. Siamo portati all’affermazione di questa tesi in base all’esperienza e alla lettura metafisica della realtà. La fenomenologia della percezione non sempre l’attesta direttamente. La scienza ci dà anche indicazioni interessanti al riguardo, operando però all’interno di un’astrazione. Il linguaggio psicologico può adeguarsi a questi livelli epistemologici. c) Rilievi linguistici Dal punto di vista linguistico, correlativo alla fenomenologia della percezione, gli atti sensitivi fisiologici sono denominati fisici e sono attribuiti al soggetto, con o senza una specificazione somatica particolare. Così, il dolore e il piacere corporei, oppure la fame o la sete, sono sperimentati come atti fisici (“provo dolore nel dito”), ma naturalmente atti fisici del corpo elevato o senziente. Possiamo dire “il mio stomaco ha fame”, ma è un modo improprio di parlare. È più esatto dire “ho fame”: la sensazione dello stomaco, benché sia di una parte del corpo, va attribuita al soggetto e non a tutto il corpo (non è che tutto il mio corpo abbia fame). Quindi ci sono perlomeno due nozioni di corpo: una è il corpo in quanto appartiene a un livello ontologico inferiore, un’altra il corpo corrispondente al livello superiore (somatico). Il “dolore fisico” non appartiene al corpo in quanto descritto dalle scienze naturali (corpo astratto e in terza persona), neppure all’anima, ma è del corpo animato o dell’anima incarnata. Invece non attribuiamo normalmente al soggetto senziente le attività vegetative o fisico-chimiche delle parti del nostro corpo. Se teniamo conto in modo esclusivo del linguaggio scientifico naturale, la dimensione sensitiva apparirà dunque strana, misteriosa o incomprensibile. Sorgerà quindi la tentazione di minimizzarla o di attribuirla soltanto allo spirito. Questo dualismo finisce facilmente nel monismo materialista, poiché l’atto psichico visto 58 come un elemento estraneo al corpo invita alla sua eliminazione. Queste particolarità linguistiche dimostrano l’importanza dell’analogia nell’uso dei termini psicologici. Se corpo può significare il corpo senziente, o il corpo in quanto non senziente, qualcosa di simile vale per la terminologia cognitiva applicata agli animali, agli uomini e alle macchine. Di solito prendiamo gli atti umani così come vengono percepiti in circostanze ordinarie e talvolta li attribuiamo ad altre cose in maniera un po’ indifferenziata. Nel dire “vedo una persona”, “il cane vede una persona”, “il robot vede una persona”, utilizziamo il verbo vedere in modo analogico. Il nostro vedere non è identico a quello di un animale e molto meno al “vedere” di un computer attrezzato con sensori. Gli animali vedono persone, ma non le riconoscono come tali, e i sensori di un robot propriamente non vedono, pur comportandosi come se vedessero. Lo stesso vale per tanti verbi cognitivi e affettivi, come desiderare, spaventarsi, volere, scegliere, capire, ricordare, accorgersi, contare, parlare. Da quanto detto possiamo ricavare due conclusioni: 1) I termini di un livello ontologico acquistano un nuovo senso se valgono per tale livello elevato a un grado ontologico più alto. Per questo motivo abbiamo parlato di corpo elevato per riferirci al corpo sensibilizzato (ancor di più in riferimento al corpo umano personalizzato), e di corpo astratto per parlare del corpo di un’entità superiore preso nella prospettiva di un livello ontologico inferiore (nella terminologia ordinaria queste distinzioni non sono seguite con rigore). Con un altro esempio, parliamo degli animali per riferirci agli animali irrazionali o agli animali in quanto costituiscono un genere cui partecipa l’uomo come “animale razionale”. 2) I termini di un livello superiore possono essere usati per i livelli inferiori con analogia o equivocità. Il nome “intelligenza” non significa lo stesso usato per l’uomo o per le scimmie, e attribuito a una macchina diventa equivoco. L’occhio di una statua si dice “occhio” in senso equivoco. Dal punto di vista della presentazione fenomenica, alcuni atti sensitivi manifestano chiaramente la loro dimensione materiale. Altri, invece, più immateriali e intenzionali, si rivelano preferentemente sul versante psicologico o sul piano dell’oggettività. Quando compare nella nostra mente una melodia, siamo rivolti all’oggettività: il lato soggettivo del fenomeno è conosciuto indirettamente e niente 59 sappiamo dell’aspetto neurologico. Scoprire il ruolo del cervello nelle nostre attività psichiche ci ha richiesto secoli. d) Correlazioni e causalità: presentazione euristica del problema Esaminiamo adesso alcuni problemi ontologici sul rapporto tra la materialità neurale e la sopraformalizzazione psichica. Certe questioni al riguardo sono state considerate da alcuni filosofi funzionalisti preoccupatisi di vedere il senso in cui una struttura organica potrebbe corrispondere a una funzione psicologica e viceversa. Sono celebri al riguardo le speculazioni di H. Putnam, con numerosi “esperimenti mentali” allo scopo di vedere fino a che punto una funzione psicologica sarebbe “molteplicemente realizzabile” in molti supporti neurali, o come un unico supporto neurale sarebbe in grado di recepire parecchie formalizzazioni psichiche. La nozione di sopravvenienza, menzionata nella nostra sezione storica, è stata usata proprio per approfondire questo punto, senza però aver dato luogo a risultati conclusivi. Pensare a priori che un tipo di formalità debba sempre corrispondere a un tipo (type) o a un caso concreto (token) di materialità o viceversa sarebbe arbitrario. Anche a livello ilemorfico semplice possiamo capire, ad esempio, come la struttura “sedia” può essere realizzata in molti tipi e casi di materia (sedia di legno, di ferro), così come la medesimo materia può ricevere diverse formalizzazioni (col legno possiamo fare sedie, tavole, armadi). Parlare di correlazione non basta, benché sia orientativo in mancanza di altre conoscenze. Le idee di correlazione o di sopravvenienza potrebbero essere fuorvianti se non si passa a un’analisi ontologica della questione. Il dolore, ad esempio, non è propriamente “il correlato” di una base neurale, ma è piuttosto una certa struttura neurale vista dal suo versante formale, così come “bicchiere” non è il correlato di un certo pezzo di cristallo, come se il bicchiere fosse una “cosa” diversa dal pezzo di cristallo. I filosofi della mente hanno cercato di risolvere i problemi legati alla correlazione mente-corpo col ricorso a esperimenti mentali. Si è suggerita la possibilità di immaginare certe strutture microfisiche quantistiche dotate di sensazioni, come i dolori, o di pensare ad una sensazione di dolore senza una base materiale. Questi esperimenti, a mio parere, tranne casi particolari non sono sempre utili, perché il fatto che una possibilità non sia contraddittoria non garantisce il suo 60 senso, e in qualsiasi caso non serve per l’elaborazione di un’ontologia realistica. Potremmo pensare, ad esempio, ad un universo costituito soltanto da linee? Mettersi a pensare a queste cose, benché non siano contraddittorie, non mi pare un utile metodo filosofico. La “correlazione” forma/materia, nelle sue molteplici possibilità, si apre alla questione causale. Il binomio formalità-materialità contiene aspetti causali propri. Una determinata configurazione materiale suscita il comparire di una forma. Nel quadro dell’attività artistica dell’uomo, il processo è guidato dalla mente umana. Una certa organizzazione di lettere “suscita” la Divina Commedia: in questo caso, le lettere sono un semplice materiale che può essere ordinato svariatamente da qualcuno, con la finalità di produrre sequenze simboliche dotate di significato. Nella natura, invece, la materia talvolta si auto-organizza spontaneamente, o sembra di farlo, e così nascono le specie o “tipi di enti” dell’universo. Quest’organizzazione relativamente spontanea, subordinata comunque a leggi naturali, pone una serie di problemi metafisici che non affronteremo in questa sede. Andiamo invece alla questione mente/corpo. A un certo livello “basso”, l’elemento materiale organizzato in un certo senso suscita la sensazione, ovviamente in rapporto alla causalità ambientale. La visione, l’audizione, la percezione, il dolore, la fame e tanti altri atti psichici elementari sono causati dall’organizzazione materiale organica (causalità materiale), per cui sono controllabili quando sappiamo agire sulle opportune disposizioni materiali. L’unico modo di produrre un dolore, di alleviarlo o di eliminarlo, è agire causalmente sulle disposizioni neurofisiologiche corrispondenti o sugli agenti esterni che provocano la stimolazione dolorosa. Vedere invece nelle idee con cui Einstein scoprì la teoria della relatività il semplice risultato di una complessa attività neurale sarebbe un esempio di riduzionismo materialista. Non basta attribuire la causalità dei contenuti del pensiero a una certa organizzazione e funzionalità del cervello. La questione merita un approfondimento e per ora mi limito a presentarla, senza la pretesa di risolverla in questo momento (non tutti gli atti psichici, comunque, sono analizzabili secondo un unico schema causale). Perché una strutturazione materiale causa o suscita la comparsa di una formalità? Questa domanda non può ricevere una risposta univoca. Possiamo domandarci, ad esempio, perché una certa organizzazione materiale “suscita” una 61 sedia. Ovviamente la sedia non si costituisce in qualsiasi modo. Bisogna adoperare i materiali adeguati e assemblarli nel modo giusto affinché risulti una struttura con le caratteristiche di una sedia, ad esempio, affinché un uomo possa sedersi su di essa e così possa svolgere facilmente certi lavori. In quest’esempio, la “forma come fine” guida la strutturazione della materia, come ha visto bene Aristotele all’inizio del libro della Fisica66. Eppure, quando ci domandiamo sui requisiti affinché una certa anatomia e fisiologia nervosa possa dar luogo alle sensazioni coscienti o a qualsiasi processo psichico, di solito non sappiamo cosa rispondere. E se in parte rispondiamo, non siamo del tutto soddisfatti, in quanto ci sembra di rimanere a livello di corrispondenza contingente e non d’intelligibilità necessaria. Tuttavia, una volta accettata la dualità psichico/fisico con un minimo di corrispondenza reciproca, alcuni aspetti fisici particolari ci sembrano più adatti per suscitare certi atti psichici, dal momento che abbiamo imparato di fatto “come funzionano le cose”. In questo senso Tommaso d’Aquino, ispirandosi ad Aristotele (influito a sua volta dal pitagorismo), pose come condizione necessaria per la produzione della sensazione l’esistenza di una precisa proporzione matematica (medietas, qualità intermedia fisico-matematica) tra la costituzione fisica dell’organo sensoriale e le caratteristiche degli stimoli ambientali, l’esistenza cioè di una fine “sintonizzazione” tra organo recettore e stimoli67. Questo punto, pur legato alla visione fisica antica, è significativo. Si vede qui la ricerca di una certa intelligibilità nella strutturazione materiale capace di dar luogo alla sensazione. Tommaso d’Aquino si serviva di questa tesi per “spiegarsi” perché i corpi celesti non potevano sentire (quindi non potevano essere animati), in quanto non erano corpi organici, capaci di avere la medietas68. Egli 66 Cfr. Aristotele, Fisica, libro 2. Cfr. Aristotele, Dell’anima, II, capp. 11 e 12, in particolare 424 a-b; III, cap. 1, in particolare 426 a 27 - 427 a 15, e il correlativo commento tomistico. Vedere anche C. Fabro, Percezione e pensiero, Vita e Pensiero, Milano 1941, pp. 20-26. 68 Gianfranco Basti ha stabilito un ponte tra la teoria della medietas e l’approccio informatico nello studio della sensazione. La medietas comporterebbe una sorta di computazione: “la ‘medietà’ consiste allora precisamente nella capacità dell’organo di senso di far corrispondere ad una qualche variazione dell’intensità dello stimolo dall’esterno un’analoga variazione di intensità di una grandezza fisica nella propria dinamica interna (...) Si tratta cioè di un computo essenzialmente ‘analogico’, diremmo oggi”: Le scienze cognitive: un ponte tra intelligenza naturale e intelligenza artificiale, in S. Biolo (curatore), Intelligenza naturale e 67 62 vedeva inoltre una correlazione tra il livello dell’intelligenza umana e l’ottima costituzione fisica del corpo umano, atta per una delicata percezione sensibile69 e, come vedremo più avanti, per motivi analoghi correlava la mente umana a una certa anatomia cerebrale. Pur sussistendo sempre un gap dimensionale tra l’ambito corporeo non sensibile e il corpo senziente, si comprende bene l’esistenza della disponibilità di un tipo di materialità nei confronti di una formalizzazione specifica. Siamo intelligenti, in parte, perché abbiamo un certo tipo di cervello e non qualsiasi struttura, idoneo per poter svolgere le funzioni sensitive. Il principio di una corrispondenza adeguata tra struttura neurale e funzioni mentali appare intelligibile. Capiamo bene, ad esempio perché una buona comunicazione nervosa o perché la plasticità cerebrale facilitano certe attivazioni psichiche, così come comprendiamo bene gli ostacoli neurologici al buon funzionamento della mente. In linea di massima riteniamo che il pensiero deve avere come supporto un cervello di un certo volume e complessità. Quindi sia pure a tastoni, a poco a poco capiamo come una buona funzionalità mentale richiede delle condizioni anatomiche e fisiologiche precise. La materialità impone le sue regole. Le impariamo come una necessità con certi margini di contingenza. Il problema comunque rimane aperto. Una via di soluzione di questo problema sta nell’approfondimento del progressivo dominio della formalità sulla materialità. Nella visione ilemorfica di Tommaso d’Aquino, le forme più alte (anima vegetativa, sensitiva e intellettiva) “dominano” sempre meglio la materia. Questo dominio crescente non è la semplice superiorità formale del tutto rispetto alle parti. Piuttosto si colloca nella linea dell’organizzazione, la funzionalità, la sostanzialità, l’unità e la finalizzazione. Ovviamente non avrebbe senso dire che la struttura di un aereo “domina” la materia di cui è fatto. Una struttura d’ordine non è come la forma forte di una sostanza naturale o di un vivente. Ma non bisogna pensare alla formalità superiore come a una specie di intelligenza artificiale, Marietti, Genova 1991, p. 130. Cfr. ancora Basti, su questo punto, Filosofia dell’uomo, Ed. Studio Domenicano, Bologna 1995, pp. 214-224. Su tematiche di Basti affini a questi punti, cfr. la voce Mente-Corpo, Rapporto, in Dizionario Interdisciplinare di Scienza e fede, cit. 69 Cfr. S. Th., I, q. 76, a. 5. 63 “cosa” che controlla i meccanismi materiali, poiché in questo caso andremmo al dualismo estrinseco. Così in Cartesio l’anima umana era come un fontaniere che regolava i meccanismi della fontana del corpo, vale a dire, era una mente tecnica che governava una macchina. La formalità del vivente non cognitivo non è una speciale forza aggiunta che mette in moto i meccanismi della vita, come sosteneva il vitalismo. Piuttosto è un atto sostanziale immanente da cui dipende l’organismo nella sua identità e dinamismo vitale unitario. Tale atto può essere suscitato da una certa complessità molecolare e scompare a causa di certe disfunzioni organiche che distruggono la totalità vivente. Qualcosa di simile si può dire della vita sensitiva. Ma nell’animale una parte organica esercita le funzioni di controllo centralizzato. Questa parte del corpo è “sopraformalizzata” dalle funzioni psichiche intenzionali. In questo caso, quindi, la causalità della vita intenzionale non dipende semplicemente dai processi organici o neurali in quanto puramente fisici. Dipende da essi in quanto sono animati e sensibilizzati. Talvolta le funzioni psichiche sensitive più alte, transorganiche, possono guidare la stessa formalizzazione materiale, nonché il funzionamento intenzionale del corpo (condotta). Comincia ad apparire così una causalità top-down, dall’alto in basso, una causalità formale attiva diversa dalla causalità bottom-up o dal basso in alto, più caratteristica della pura materialità. Così, l’animale quando impara tramite i suoi processi cognitivi ed emotivi sta organizzando il suo cervello in un certo senso. Questa funzione di dominio “alto” della formalità sulla materialità appare a poco a poco nelle funzioni sensitive superiori, senza comportare dualismo. Torneremo sulla problematica della causalità nel capitolo 4. Volevamo farne soltanto un cenno a proposito dell’ontologia dell’atto sensitivo. Non sempre, come talvolta si pensa, le linee della causalità della vita sensitiva vanno dal basso verso l’alto. In altre parole, la causalità nella vita animale non si esaurisce sul versante della materialità. Gli atti intenzionali sono causalmente rilevanti. Il problema si presenta in modo più forte nell’uomo, la cui condotta è guidata dalla volontà. Però, se negli animali le funzioni superiori cominciano ad avere un ruolo causale proprio, allora l’affermazione della causalità del nostro spirito sul corpo non apparirà strana o poco naturale. 64 6. Comportamento e interiorità a) Introduzione Nella visione razionalistica classica, solo il soggetto (“io”) avrebbe il privilegio di accedere ai suoi stati interiori o stati di coscienza. Degli altri si avrebbe una conoscenza fisica esterna e si arriverebbe alla loro interiorità solo per inferenza. Questa posizione separava drasticamente l’esteriorità “pubblica” dall’interiorità “privata”. Lo stesso si può dire dell’empirismo fenomenista, una posizione gnoseologica secondo cui noi conosciamo primariamente le apparenze, i puri dati dei sensi (sense-data) e non la realtà così come è veramente: il mondo esterno in quanto conosciuto diventa un puro mondo interno. L’immediatezza sarebbe esclusivamente l’interiorità o il mondo delle nostre rappresentazioni. Ne segue una speciale difficoltà per distinguere tra percezione, immaginazione e allucinazione. Il comportamentismo filosofico invece (Ryle), nonostante i suoi limiti, ha messo in luce la portata dei legami tra gli atti interni e la condotta esterna. Inoltre, nel superamento di una concezione puramente rappresentazionale della conoscenza, oggi si tende a vedere la percezione e la vita cognitiva come un rapporto diretto verso la realtà esterna. Esiste, certamente, una reale interiorità (sensazioni, emozioni, dubbi, idee), ma nel quadro di un rapporto intenzionale con la realtà e non come qualcosa di chiuso. Anche chi sogna o chi è allucinato non crede di conoscere soltanto sense-data, ma ritiene, sia pure erroneamente, di essere presente nella realtà70. D. Braine71 segnala con enfasi questo punto, come precedentemente lo aveva fatto J. Gibson72 sul versante psicologico. Le mediazioni rappresentative comunque non si possono omettere, poiché altrimenti non si potrebbero spiegare, ad esempio: 1) gli aspetti costruttivi delle nostre facoltà cognitive; 2) gli errori e le inadeguatezze della percezione; 3) la crescita e ricchezza del mondo interiore dell’uomo, grazie al pensiero e all’immaginazione creativa. 70 La “teoria dei sense-data” fu criticata da J. Austin nella sua opera Sense and sensibilia, Clarendon Press, Oxford 1992. Quest’opera portò l’ultimo Putnam ad una posizione gnoseologica più favorevole al realismo naturale, lontana dal suo precedente “realismo interno”: cfr. H. Putnam, Mente, corpo, mondo, cit. 71 Cfr. D. Braine, The Human Person: Animal and Spirit, cit. 72 Cfr. J. J. Gibson, Un approccio ecologico alla percezione visiva, il Mulino, Bologna 1999. 65 Nel cognitivismo oggi è dominante l’indirizzo della “conoscenza incarnata” (embodied cognition), dove la cognizione è concepita come nata dalle interazioni tra il soggetto conoscente e il suo ambiente. La conoscenza dipende da esperienze emerse grazie al fatto di avere un corpo con certe capacità sensorio-motorie, e inizia a partire dall’abilità di un organismo di agire nel suo ambiente73. Questi aspetti valgono particolarmente per l’esperienza sensibile, sempre situata in un contesto fisico e in rapporto alle attività intenzionali del conoscente74. In queste discussioni bisogna mantenere un equilibrio tra l’interiorità e l’esteriorità, tra la coscienza soggettiva e l’apertura al mondo, senza unilateralismi. Nessuno può avere in proprio le sensazioni, emozioni o pensieri degli altri. Possiamo conoscere quanto li succede e partecipare empaticamente alla loro vita, senza per questo essere gli altri75. Così come la conoscenza è un’apertura al mondo trascendente, precisamente tramite le rappresentazioni la nostra capacità cognitiva è strutturalmente intersoggettiva. La conoscenza delle altre persone, anche nella loro interiorità, è naturale e in una prima fase è immediata. Conosciamo gli altri attraverso la manifestazione della loro vita e condotta, dove si includono le espressioni gestuali, i simboli e il linguaggio. Talvolta possiamo condividere empaticamente la loro esistenza per mezzo della conoscenza di esperienza. Queste modalità cognitive sono modalità percettive e apprensive superiori. Sono immediate in quanto arrivano alla realtà esistenziale dell’altro (senza astrazione né ragionamento), e insieme sono psicologicamente mediate, dato che si acquistano con l’esperienza e l’apprendimento. 73 La teoria della conoscenza incarnata nacque come reazione contro la visione eccessivamente astratta della conoscenza, propria del cognitivismo classico e del funzionalismo computazionale. Cfr., sul tema, W. J. Clancey, Situated Cognition, Cambridge University Press, Cambridge 1997; M. Johnson, The Body in the Mind, The University of Chicago Press, Chicago e Londra 1984; G. Lakoff, M. Johnson, Philosophy in the Flesh, Basic Bookls, New York 1999; D. Vallega-Neu, The Bodily Dimension in Thinking, State University of New York Press, Albany (NY) 2005; F. Varela, E. Thompson, E. Rosch, The Embodied Mind, The MIT Press, Cambridge (Mass.) 1993; M. Wilson, Six Views of Embodied Cognition, “Psychonomic Bulletin and Review”, 9 (2002), pp. 625-636. 74 La conoscenza intellettuale, come diremo più avanti, trascende comunque ogni contesto dato e ogni situazione particolare dell’esperienza. Nei dibattiti cognitivi non sempre si distingue tra cognizione intellettuale e sensitiva. 75 Su questo punto torneremo nel capitolo 4, n. 9. 66 Conoscere l’altro comporta saper interpretare bene le sue manifestazioni. Questo processo si compie sia a livello percettivo, come abbiamo appena detto, sia a livello di ragionamento astratto. Per sapere se una persona sta mentendo, possiamo lasciarci guidare dall’intuizione, oppure fare una serie di ragionamenti, paragoni e prove. Entrambi i metodi non sono completamente separati, poiché l’intuizione spesso include un minimo di paragoni a livello di esperienza immediata. In alcuni casi le manifestazioni dell’interiorità sono ovvie. Un sorriso esprime gioia in un modo naturale, e in casi familiari più concreti scorgiamo bene le minime sfumature dei sorrisi. In circostanze ambigue, il sorriso dovrà essere interpretato in base a una certa indagine (se era sincero o puramente cortese, le sue vere cause, ecc.). Conosciamo l’interiorità degli animali, d’altra parte, per analogia con quanto succede nei nostri simili e anche perché hanno un’anatomia e fisiologia simile alla nostra. Se hanno occhi ed orecchie, è naturale pensare che vedano e sentano come noi. Riguardo agli animali lontani dalla nostra costituzione somatica, facciamo un’inferenza analoga quando scopriamo il loro sistema nervoso. Quest’argomento proviene da Searle76. Il nucleo del suo ragionamento è che noi conosciamo empiricamente l’esistenza di coscienza negli animali non solo perché osserviamo il loro comportamento, ma anche e soprattutto perché ne conosciamo la struttura causale. Invece, nei riguardi di una matita o di un robot, benché non possiamo dimostrare che “non hanno una coscienza”, sappiamo certamente che non possiedono la struttura causale capace di produrla. Per lo stesso motivo, quando vediamo la TV non pensiamo che lì dentro ci siano piccoli uomini in azione. Il motivo è empirico e non a priori. b) L’esterno e l’interno degli atti Consideriamo adesso il rapporto tra la conoscenza e il comportamento. Percepire, ricordare o capire sono azioni, una certa prassi, ma il problema si pone specialmente nei confronti delle azioni esterne (camminare, salutare), visibili a tutti gli osservatori. Ordinariamente le vediamo come espressioni di un atto interiore: se qualcuno va a comprare un gelato, è perché vuole comprarlo; se una persona mi 76 Cfr. J. Searle, The Rediscovery of the Mind, cit., c. 3. 67 saluta, è perché desidera manifestarmi affetto o rispetto. I moralisti e i giuristi hanno sempre mantenuto la distinzione tra atti interni (volizioni, intenzioni) e atti esterni (movimenti significativi del corpo umano). Secondo Tommaso d’Aquino, l’atto esterno è l’usus o impiego delle potenze fisiche del corpo in seguito a un comando della volontà. L’interno e l’esterno spesso sono un unico atto e non due atti articolati. Quando lavoriamo o parliamo, non c’è d’una parte l’atto della volontà di “voler lavorare”, di “voler parlare”, e dall’altra parte l’azione fisica corrispondente. Siamo piuttosto dinanzi a un unico atto con due dimensioni integrate, in quanto una potenza è usata da un’altra77. Ancora una volta, siamo lontani dal dualismo: “L’atto interiore della volontà e l’atto esterno, in quanto considerati nel genere dell’agire morale, costituiscono un unico atto”78. Non conviene separare troppo queste due dimensioni, benché talvolta possano scindersi quando ci sono atti solo esterni o solo interni. I tribunali giudicano gli uomini secondo la loro condotta esterna e pubblica, presupponendola animata dalla volontarietà interna. Tale volontarietà può essere ragionevolmente presunta grazie alla conoscenza umana degli altri in quanto soggetti volontari. Il rapporto tra il lato interno ed esterno degli atti non sempre è identico. Certi eventi non fanno parte dell’atto intenzionale, ma ne sono l’effetto. Essi servono da indizi e possono considerarsi una certa espressione di quanto succede nel soggetto. Ad esempio, la sudorazione seguita dalla percezione di un pericolo è una conseguenza fisiologica di un’emozione, non una sua vera espressione intenzionale. Lo stesso si può dire delle lacrime che possono nascere dalla gioia o dalla tristezza o da una causa puramente fisiologica. Invece un sorriso o lo stare accanto a un malato non sono conseguenze fisiologiche, ma vere espressioni di un atto interiore (per esempio di benevolenza), da cui non sempre si separano come se fossero un elemento diverso. Che cosa è, dunque, la condotta? Il comportamento è il fare umano o l’insieme 77 Cfr. San Tommaso, S. Th., I-II, q. 17, a. 4: il cosiddetto imperium (comando volontario) è un tutt’uno con l’actus imperatus (movimento corporeo imperato dalla volontà). 78 San Tommaso, S. Th., I-II, q. 20, a. 3, c. 68 delle nostre azioni: ciò che facciamo ovvero la prassi. In questo senso il capire o il volere sono pure una prassi. Non fanno parte del nostro agire invece gli eventi fisiologici o psichici, sentiti oppure inconsci, che patiamo o che semplicemente ci capitano (ad esempio, un mal di testa). Questi eventi possono incorporarsi alla nostra condotta se riusciamo ad integrarli nella prassi (il mal di testa può portarci a prendere un medicinale). La distinzione tra teoria e prassi nasce perché gli atti contemplativi o teorici (conoscere, amare) non modificano la realtà, mentre gli atti pratici la alterano (lavoro, tecnica, arte). c) Tre nozioni di condotta Dopo il concetto generico di comportamento abbozzato nel paragrafo precedente, ritengo se ne possano rilevare tre significati fondamentali: 1) Concatenazione di atti intenzionali indirizzata a un fine. Questa nozione di condotta è applicabile anche alle operazioni intellettuali. “Sommare”, in questo senso, è un tipo di comportamento. Per verificare se qualcuno sa sommare, bisogna osservare cosa fa o quali operazioni mette in atto. Così si vedrà se sa sommare davvero ed eventualmente si saprà pure come fa le addizioni (ci sono molti metodi di sommare). Le operazioni dimostrano nei fatti il compimento di veri atti cognitivi. Evidentemente questa è la chiave dei test d’intelligenza. L’importante qui non è tanto la contrapposizione tra esterno ed interno, bensì il fatto che ci sia una serie di operazioni ben collegate e orientate a un fine. Diciamo che uno sa giocare agli scacchi se lo dimostra nella sua condotta, dove “condotta” indica il fatto di giocare bene. Non è che tutto il comportamento si esaurisca in insiemi di operazioni. Le operazioni manifestano, in questo caso, non tanto l’esistenza di un “atto interno”, bensì di un abito. Chi gioca bene agli scacchi dimostra di possedere l’abito di saper giocare agli scacchi79. Le conseguenze operative di un abito dimostrano la sua 79 Questa dimostrazione non è logica, poiché un insieme di operazioni non è mai equivalente a un abito. Dal punto di vista della logica oggettiva, dalle operazioni non si può risalire agli abiti. Per chi non si chiude nella pura oggettività, invece, è molto facile passare dalle operazioni alla loro fonte causale (dai segni della vita al vivente, dai segni della persona alla persona, dai segni degli abiti agli abiti). Questo passaggio è una dimostrazione metafisica, non logica. 69 esistenza, anche se non lo esauriscono e tanto meno lo definiscono. In questo senso l’apostolo Giacomo -se ci è consentito fare un salto ad un autore biblico- vuole avere una conferma della fede di una persona vedendo le sue opere80. Lo stesso si potrebbe dire riguardo all’amore o all’amicizia. “Ho un ricordo”, “ho capito la storia”: per dimostrare di avere tale ricordo o tale comprensione, e per sapere fino a che punto queste conoscenze sono padroneggiate, bisogna fare una serie di domande al soggetto, obbligandolo a compiere certe operazioni. Allora lui stesso conoscerà fino a che punto possiede quel ricordo o tale comprensione. Non per questo, com’è ovvio, gli atti di capire o di ricordare, rimanendo nella memoria come abiti, si riducono a tali operazioni di accertamento. Un autore come Ryle ha superato il puro comportamentismo delle operazioni passando alle disposizioni viste come le loro radici. Queste “disposizioni ad agire” sono abiti nel senso aristotelico del termine. Ma l’esistenza di abiti o disposizioni non elimina la realtà delle operazioni interiori, le quali possono includere una componente dispositiva. “Provare odio” è un atto interno, sentito dal soggetto, e al contempo suppone una disposizione a fare del male all’odiato tramite atti esterni (negargli il saluto, criticarlo). Invece chi sa inglese, pur non sentendo assolutamente niente, possiede nella sua mente un insieme di autentiche conoscenze, non in un senso operazionale ma abituale. L’abito linguistico di sapere inglese è una disposizione a produrre frasi in inglese, con un reale contenuto cognitivo inconscio e preoperativo. Lo stesso vale per tanti abiti e abilità di carattere pratico (tecnici, artistici, sociali). La condotta umana, quindi, risale a intrecci di abiti acquisiti. Un abito può essere formato, a sua volta, da un insieme di abiti. Occorre distinguere, peraltro, tra gli abiti umani, caratterizzati dalla libertà e la razionalità (abiti scientifici, abiti sociali, virtù morali) e le abilità o destrezze animali. Queste ultime nascono da condizionamenti o dalla ripetizione di certi circuiti intenzionali (esperienza e apprendimento animale). Quando l’abito include l’uso di certe abilità corporee (ad esempio, la capacità di usare strumenti di lavoro, di ballare, di fare sport), possiamo parlare di condotta 80 Cfr. Gc 2, 17-18. 70 esterna. Diciamo “esterna” in quanto è costituita da atti sensibili che, ben interpretati, possono essere appresi da osservatori esterni, come quando diciamo “lei suona molto bene la chitarra”. L’espressione esterna dimostra l’esistenza di un abito. Questa prima nozione di comportamento è molto più ampia di quella usata solitamente dai comportamentisti, fermi piuttosto alla contrapposizione tra l’interno e l’esterno. La distinzione tra abiti e operazioni invece è fondamentale. Una quantità enorme di azioni umane, come lavorare, parlare, giocare, studiare, pregare, pranzare, pagare, sono intelligibili alla luce di tale distinzione. Un’incoerenza nella concatenazione degli atti indirizzati a un fine -ad esempio, una serie di mosse casuali nel gioco degli scacchi- produce una mancanza d’intelligibilità nella condotta. Per questo diciamo talvolta di qualcuno: “non capisco come si comporta”. La distinzione tra gli abiti umani cognitivi e le abilità animali cognitive non va tralasciata. Le abilità dell’animale sono predisposizioni, piuttosto chiuse, destinate al compimento di una serie di atti pratici collegati alle finalità animali (così sono, ad esempio, le abilità delle api operaie). Gli abiti umani di natura intellettiva includono invece una conoscenza universale, non limitata a una serie di atti tipici. Basta vedere l’inesauribile capacità umana di formare abiti, ad esempio di imparare lingue o di fare ogni tipo di tecnologia. Un cane potrà imparare a prendere un pallone con una grande abilità, ma solo l’uomo sa che cosa è un pallone in termini universali. Di conseguenza, le abilità dell’uomo quando inventa tutti i giochi possibili con il pallone, in modo inesauribile, è ben diversa dalla destrezza fisica di giocare al pallone, la quale è necessariamente limitata. Anche qui si vede la sproporzione tra le operazioni e gli abiti razionali, perché le prime sono necessariamente finite, eppure possono dimostrare l’esistenza di una comprensione universale a livello abituale. Solo così possiamo sapere che gli altri, in base a ciò che fanno, possiedono delle conoscenze universali. 2) Insieme di atti fisici dotati di un significato, specialmente quando hanno un valore simbolico. Questo è il secondo senso di “comportamento”, adesso riferito alla condotta esterna. Un esempio paradigmatico in tal senso sarebbe il comportamento linguistico. L’atto di parlare include una dimensione fisica e significa una comunicazione volontaria e intellettuale con un interlocutore. La dualità segno/significato è una dualità esterno/interno, tenendo conto che il segno rende 71 visibile l’interno anziché occultarlo. L’unità segno-significato normalmente comporta l’unità di un unico atto integrato da diverse potenze (potenze fisiologiche, capacità mnemoniche e altro). Quando una persona ci saluta con la mano, non separiamo il movimento delle sue mani dal saluto come atto volontario. Sarebbe alquanto strano dire che il movimento fisico delle mani è l’espressione di un suo “saluto interiore”, come se ci fossero due saluti, uno fisico e un altro “spirituale”. Proprio in questo senso Wittgenstein rilevava che, quando vediamo una persona o ne vediamo il volto, abbiamo “un atteggiamento nei confronti dell’ anima (eine Einstellung zur Seele)”81. L’anima risplende nel volto della persona che parla o sorride, così come il significato illumina il segno. Nella visione dualistica, al contrario, la parte spirituale della persona si nasconde dietro il suo corpo, un corpo ridotto all’astrazione della fisica o forse ai sense-data. 3) Struttura di atti fisici in quanto consegue un piano intellettivo o esprime emozioni e atti volontari. Questa terza forma di condotta comporta il rapporto tra un progetto o intenzione e la sua realizzazione visibile, oppure tra un’emozione o sentimento e la sua espressione sensibile nel corpo. Il comportamento si riferisce qui alla dimensione visibile di una fonte cognitiva o emotiva, e non si confonde con i rapporti indicati nei nn. 1 e 2, anche se possono sembrare molto simili. La condotta esterna, in questo caso, può essere contingente, quindi non è una semplice riproduzione della radice interna. L’emozione dell’ira, ad esempio, include, sia pure in modo contingente, la predisposizione a compiere certi atti esterni (aggressioni, accuse, contorsioni del corpo). Una persona può escogitare nella sua mente un programma di gita sportiva o turistica: “condotta” sarà l’esecuzione di questo piano. Se decido di vedere un film, la condotta sarà vederlo effettivamente. Contro gli eccessi del comportamentismo, bisogna ribadire che gli atti interni non comportano per forza un’espressione sensibile o una traduzione in atti esterni. Una decisione può mantenersi, rimandando a più tardi l’esecuzione. Possiamo provare mal di denti senza fare smorfie né dare segni esterni di dolore. Talvolta ci può essere un contrasto tra ciò che si vuole o si prova e quanto si fa esternamente. Così succede 81 L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1967, parte II, sezione IV, p. 235. 72 negli attori quando fingono una condotta esterna dotata di un’intenzionalità non corrispondente a ciò che sono nella vita reale. Un caso diverso è quello dell’ipocrita che simula di avere certe intenzioni con lo scopo di ingannare. Non sempre il nostro comportamento esterno dimostra la verità delle emozioni o delle intenzioni che diciamo di avere. Talvolta consideriamo più conveniente occultare le nostre emozioni. d) Visione riassuntiva Fin qui ci siamo riferiti all’attività sempre più elevata dei viventi superiori, fino ad arrivare agli animali, con pochi cenni sull’uomo. Tale attività appare unitaria e al contempo molteplice, stratificata, gerarchica, con elementi da integrare ad ogni momento. Sulla base dell’ilemorfismo, la cui massima perfezione si verifica nell’ambito della vita organica, abbiamo visto come negli animali emerge un tipo di attività che comincia ad interiorizzare il corpo (percezione, rappresentazioni, memoria, intelligenza animale, emozioni), in un senso che abbiamo caratterizzato come sopra-ilemorfico (avanzo formale, intenzionalità, transorganicità). Tutto questo avviene senza dualismi, in una mirabile continuità-discontinuità con la vita organica e con le leggi della struttura ilemorfica dei corpi. L’emergenza di una causalità superiore, dall’alto verso il basso, sarà considerata nel capitolo 4 di questo volume. Ci siamo dilungati sulla filosofia della vita animale perché solo una comprensione completa della natura inferiore all’uomo può aiutarci a capire senza dualismi la nostra dimensione spirituale, rendendo giustizia all’importanza della nostra corporalità, come hanno fatto alcuni indirizzi della fenomenologia (ad esempio, la filosofia del corpo di Merleau-Ponty o di Wojtyla). Il comportamento somatico è personalizzato. Non come frutto di un’idealizzazione simbolica, ma nella linea di una corporalità animale sempre più dominata dalle forme intenzionali della vita cognitiva ed emotiva. 73 Capitolo 3 L’intelligenza umana 1. La trascendenza dell’intelligenza umana sul corpo Rivolgiamo adesso lo sguardo alla capacità cognitiva dell’uomo. Verificandosi un salto abissale rispetto agli animali, nell’uomo troviamo una dimensione superiore, costituita dalla razionalità e la libertà che: 1) sorpassa le potenze o energie della materia anche sensibilizzata, come vedremo; 2) al contempo è in continuità con il crescendo della vita terrestre. Sembra strano e addirittura è sconcertante questo connubio tra continuità e discontinuità sul piano ontologico e operazionale. I classici comprendevano questo punto nel contesto dei gradi dell’essere e della vita. Un principio del mistico neoplatonico Dionigi accennava al fatto che ogni dimensione superiore nella scala ontologica della natura viene in qualche modo preannunciata dai gradini più alti dei livelli immediatamente inferiori. Ma la scala ascendente della vita non presenta una sola dimensione. Nella natura vi sono molteplici linee di sviluppo delle capacità biologiche. La formazione delle specie comporta una specializzazione in cui molti guadagni impongono una perdita in altri sensi. L’albero della vita fiorisce con diverse ramificazioni e non in una sola direzione. Eppure, nell’insieme -vita vegetativa, animali inferiori, animali superiori e uomo- si scorge un quadro complessivo di progresso, sia pure non assoluto, in quanto è attraversato dalla contingenza e da molti elementi che comportano rischi, limitazioni e possibilità di collasso. Seguendo una tradizione secolare, possiamo denominare spirito i livelli più alti dell’anima umana. In questa nuova dimensione antropologica rileviamo due aspetti: 1) Il superamento o trascendenza dello spirito umano rispetto alle potenze e funzioni corporee. Ispirandosi ad Aristotele, Tommaso d’Aquino parlava di 74 un’immaterialità assoluta dell’intelligenza umana. 2) Il rapporto essenziale e non accidentale dell’anima umana col corpo proprio. Questo rapporto, lungi dal significare un abbandono della materialità fisica, comporta un maggiore dominio sul corpo e sul mondo, pur includendo al contempo un condizionamento causato dalla vita organica. Tale condizionamento è uno degli aspetti del ruolo del corpo nelle funzioni spirituali. La corporeità pone dei limiti all’operare dello spirito, ma soprattutto suscita condizioni antropologiche caratteristiche dell’uomo: esistenza storica, razionalità, dimensione linguistica, aspetti ermeneutici. Consideriamo in primo luogo il punto relativo alla trascendenza assoluta dell’intelligenza sul corpo. Abbiamo l’esperienza di compiere operazioni cognitive che superano completamente la condizione dei corpi: le operazioni intellettuali. Gli animali, infatti, anche se colgono rapporti non sensibili tra i corpi (rapporti di utilità, strumentalità, pericolo, collaborazione, significato), lo fanno pur sempre in rapporto a situazioni concrete della loro vita e non in astratto, cioè non in una maniera generalizzabile a ogni situazione possibile. L’uomo invece comprende rapporti o contenuti, sia sensibili che immateriali (oggetti, relazioni, eventi, proprietà), in un modo completamente universale. L’uomo non capisce soltanto l’aspetto utile di tante cose, ma comprende la stessa idea astratta di utilità o di rapporto mezzo-fine. L’universalità astratta dei contenuti compresi comporta l’indipendenza da qualsiasi situazione materiale data, quindi è dotata di una certa infinità, grazie alla quale risulta applicabile a infinite situazioni in qualsiasi tempo. Questo è il motivo per cui l’uomo è sempre in grado di capire qualsiasi tipo di realtà al di sopra delle sue condizioni spaziali e temporali. In questo senso l’essere umano si dimostra signore dello spazio e del tempo. È condizionato dal tempo e vive solo in un periodo della storia, ma simultaneamente può tentare di capire la storia di ogni epoca, può scrivere romanzi atemporali e progettare di costruire ogni tipo di cosa in qualsiasi luogo o tempo futuro. Ciascuno di noi, se preparato, e l’umanità presa globalmente, dimostra questa inesauribile capacità, che può essere ostacolata ma non eliminata. Da qui nascono le seguenti caratteristiche: 1. Potenza ontologica. La persona umana è capace di riconoscere il valore di 75 realtà come realtà e così distingue tra ciò che è reale, irreale, finzione, pensiero, vero, falso, e può fare dei giudizi sull’essere di qualsiasi cosa. Siamo in grado di discernere tra l’attualità, la possibilità, la necessità, l’impossibilità, l’essenzialità, l’accidentalità di quanto pensiamo e conosciamo. Dunque ci regoliamo nei confronti dell’essere preso come tale in rapporto a qualsiasi realtà esistente, possibile o anche fittizia, in uno spazio cognitivo illimitato. Questa sorta di “potenza ontologica” sta alla radice del significato profondo di essere intelligente. L’intelligenza è, in un senso radicale, la capacità di aprirsi all’essere, la capacità di interrogare qualsiasi cosa nella prospettiva dell’essere (“che cosa vuol dire essere, essere corpo?”). I sensi e l’esperienza sensibile raggiungono aspetti dei corpi, ma gli animali non possono far diventare questi aspetti l’oggetto di un quesito ontologico, e perciò non possono riflettere su loro stessi per domandarsi chi sono. 2. Capacità contemplativa disinteressata. Ne segue la potenzialità umana di confrontarsi con ogni tipo di cognizione e di discorso per giudicare semplicemente della sua verità o non-verità, al margine di altri interessi, e di poter regolare la vita secondo la verità. L’uomo può considerare qualsiasi cosa per il solo piacere di contemplarla, al di là delle sue funzionalità pratiche82. 3. Trascendenza cognitiva sulla corporeità. La trascendenza dell’intelligenza sul corpo (senza escludere i nostri condizionamenti fisici) si vede nella capacità di confrontarci con ogni realtà materiale e con l’universo corporeo, anzi di pensare senza limiti ad altre possibilità cosmologiche. Possiamo capire le leggi dell’universo, ma possiamo altresì pensare a illimitate altre leggi di infiniti universi possibili. La nozione di universi infiniti, pur essendo solo potenziale, dimostra fino a che punto la nostra mente non è incatenata a nessun tipo di corpo e a nessun universo definito. Una conseguenza di questo punto è la capacità umana di creare le scienze, con la possibilità di uno sviluppo di per sé indefinito, sempre aperto a nuovi orizzonti. L’esistenza di una sola scienza sarebbe già sufficiente come segno di trascendenza 82 Parliamo di capacità e di tendenza, non di risultati assoluti. L’apertura ontologica trascendentale umana non comporta l’effettiva conoscenza di tutto in modo esauriente, come se fossimo Dio. 76 della mente umana sulla materialità. Ma l’uomo è capace di creare una molteplicità indefinita di scienze. Con la filosofia egli può porsi le domande universali e fondamentali sulla realtà, su se stesso e sul senso della materialità. 4. Libertà. Dalla potenza ontologica e contemplativa umana nasce, sul versante tendenziale, la capacità senza limiti di volere e di desiderare qualsiasi cosa, nella misura in cui è. Allora l’essere acquista il valore di bene, cioè di una realtà dotata di valore, desiderabile e amabile nei nostri confronti. La capacità di amare con la volontà include la libertà, vale a dire l’indipendenza tendenziale dinanzi a qualsiasi realtà finita. Con la volontà possiamo amare ogni cosa, con capacità di libera scelta. Il volere umano si può estendere a ogni entità, quindi al cosmo, alle scienze e alle arti, alla natura e alle persone. Il nostro volere non è inclinato in modo esclusivo o determinato a bisogni materiali o a condizioni fisiche. Vogliamo con libertà la salute del corpo, i beni sensibili, ma vogliamo pure la scienza, l’arte, la persona, la vita e qualsiasi altra realtà naturale, personale o culturale. Questa è la radice dell’orientamento della persona verso Dio. 5. Potenza simbolica universale. La libertà come dominio razionale sulla materia si manifesta in modo particolare nella capacità di trasformare in una maniera arbitraria qualsiasi cosa o evento sensibile in un simbolo, non restando legata a nessuno di essi. Di conseguenza, l’uomo ha sempre il potere di cambiare a piacere le regole tra i segni, potendo creare indefinite grammatiche, indefiniti linguaggi (libertà sintattica). Egli può sempre cambiare i significati prefissati (libertà semantica) e può farne un uso illimitato, cambiando quando vuole le regole e i significati (libertà pragmatica). 6. Potenza tecnologica universale. Il dominio sul corpo e sul mondo naturale si esprime ulteriormente nella capacità umana di orchestrare le forze della natura per crearsi ogni tipo di artefatto utile o di valore artistico, sia pure con i limiti delle risorse naturali e delle disponibilità energetiche. L’uomo non è determinato a fare nessun tipo di cosa concreta, osservava Tommaso d’Aquino, in quanto può costruirsi sempre nuovi tipi di strumenti tecnici, senza limiti formali, a causa della potenza infinita del 77 suo dominio sulle formalità corporee83, pur con il condizionamento proveniente dai limiti materiali, dalla conoscenza della verità e dalla convenienza del bene (questi ultimi due aspetti non sono propriamente limiti). Come dimostrare l’esistenza di queste caratteristiche dell’intelligenza umana, anche se in verità sono evidenti? Un’indagine empirica, statistica o sociologica può confermarle, ma solo in maniera parziale e non definitiva. Sono utili le osservazioni psicologiche o sociologiche sugli aspetti dell’intelligenza in gruppi culturali, nei bambini, ecc., solo che in questi casi avremo sempre a che fare con esperienze limitate. Presupponendo però la spiritualità, queste esperienze sono una conferma delle caratteristiche indicate. In altre parole, l’esistenza dell’infinita potenza dell’intelligenza, con la conseguente libertà, non è direttamente affrontabile con metodi scientifici naturali, né psicologici né neurologici. Conosciamo le nostre capacità cognitive universali solo grazie allo sguardo metafisico rivolto a ciò che siamo e facciamo, vale a dire, impiegando il metodo filosofico e non i metodi delle scienze particolari. L’esperienza metafisica del nostro pensiero non guarda gli atti umani isolati, bensì l’insieme di operazioni, oggetti e risultati, in quanto si manifestano nella nostra vita, nella cultura e nella storia. Consideriamo in particolare le opere della civiltà. L’esistenza della filosofia, delle scienze, delle tecnologie, dell’arte e della religione manifesta il carattere inesauribile della nostra intelligenza, condizionata ma non incatenata alle funzioni materiali della vita. Un uomo o una singola cultura forse saranno incapaci di superare una certa situazione scientifica o culturale, ma non l’umanità nel suo complesso. Lo sguardo d’insieme all’esperienza storica e culturale dimostra ciò che siamo. Per conoscere la natura umana, osserva Spaemann, non bisogna rivolgersi agli inizi -che cosa possono fare o non fare gli embrioni, i neonati, gli uomini primitivi-, bensì ai 83 Cfr. S. Th., I, q. 76, a. 5, ad 4. Le espressioni di questo brano si concentrano sulla potenza infinita della mente umana: “l’anima intellettuale, poiché comprende gli universali, possiede una potenza infinita”; grazie alla ragione, “l’uomo può costruirsi strumenti tecnici in modi infiniti e per infiniti effetti” (infinitorum modorum, et ad infinitos effectus). In modo simile si legge in S. Th., I, q. 91, a. 3, ad 2: “alla ragione naturale, in quanto può avere infinite concezioni (infinitarum conceptionum), corrisponde la capacità di prepararsi infiniti strumenti (infinita instrumenta)”. 78 momenti sviluppati84. Secondo la metodologia di Tommaso d’Aquino, conosciamo lo spirito umano risalendo dagli oggetti alle operazioni, dal momento che è difficile “assistere” al compiersi dell’operazione pura, data la sua intenzionalità. Naturalmente bisogna rispettare la natura del salto e l’autenticità dell’accesso alla nuova dimensione. Le operazioni mentali non sono oggetti. Eppure, a causa della proporzione tra oggetto e operazione, la condizione dell’oggettività ci dà un indizio sulla natura delle operazioni rispettive. È questo il metodo seguito nelle nostre ultime considerazioni. Le realizzazioni oggettive della ragione -le opere della civiltà umana- dimostrano la trascendenza della mente sul corpo. La sproporzione infinita tra gli oggetti razionali e la dimensione corporea ci porta così alla conclusione dell’immaterialità assoluta del pensiero, cioè all’autentica spiritualità della potenza e delle operazioni intellettuali. Il modo cartesiano di arrivare a questa tesi sarebbe invece fenomenologico: la coscienza intellettuale si auto-attesta come non corporea, non spaziale, non dimensionale. Senza escludere il valore positivo di quest’esperienza della spiritualità, peraltro riconducibile all’agostinismo, la via aristotelica e tomistica appare più ontologica: l’operazione intellettiva (intellectus, voûs) risulta intrinsecamente e totalmente immateriale, quindi non causata in modo proprio da alcun intervento o forza corporea. Nemmeno un organo altamente sensibilizzato, come il cervello visto come organo dell’esperienza sensibile, può essere capace di causare l’atto infinito della comprensione intellettuale. In altre parole, le operazioni dell’intelligenza non possono essere compiute propriamente in virtù dell’intervento di una funzione nervosa85. L’intelligenza umana dunque non è una potenza organica superiore. Pur 84 Cfr. R. Spaemann, Natura e ragione, Edusc, Roma 2006, p. 28. Cfr., su questo punto, Tommaso d’Aquino, Q. de Anima, q. un., a. 1: “nella sua operazione propria [dell’anima intellettiva] non è possibile la comunicazione con un organo corporeo. Non esiste un organo dell’intelligenza, così come invece l’occhio è l’organo della vista, come dice Aristotele nel III libro del De Anima. L’anima intellettiva opera per se stessa, in quanto ha un’operazione propria, senza comunicazione col corpo”. Il riferimento è al III De Anima 429 a 10 - b 10. Tommaso segue il principio aristotelico della “separazione” totale operativa dell’intelligenza rispetto ad ogni dimensione corporea, precisando che non è una separazione secundum esse o costitutiva: cfr. In III De Anima, lect. 7. Si veda anche De Unitate 85 79 essendo l’anima umana la forma del corpo, vi è in essa una potenza trascendente la funzione di costituire in atto il corpo della persona umana come corpo organico e senziente della nostra specie. Un indizio della trascendenza dell’intelletto sul corpo sta nel fatto che con l’uomo cessa ormai la progressiva trasformazione del sistema nervoso o del cervello in funzione delle migliori prestazioni cognitive ed emotive. Nel quadro biologico evolutivo, la complessità cognitiva appare collegata a un certo sviluppo del sistema nervoso. Nella costituzione encefalica umana, invece, nonostante l’enorme salto cognitivo della nostra intelligenza, non si osservano delle novità troppo sorprendenti in paragone alle scimmie più progredite o agli ominidi. Le scimmie hanno già una neocorteccia e il loro cervello conosce fenomeni come la lateralizzazione. In alcune specie animali vi sono aree cerebrali deputate alla produzione di suoni significativi, quasi come un anticipo delle aree linguistiche86. Rilevante in questo senso è il fatto che lo sviluppo della civiltà umana non implichi ormai cambiamenti neurofisiologici nel cervello, anche se tale sviluppo allontana in modo stupefacente l’uomo dallo stile di vita scimmiesco. Abbiamo lo stesso cervello degli uomini primitivi87. Il progresso anche fisico dell’uomo -maggiore dominio del corpo, del territorio, dell’ambiente- adesso corre a carico dello sviluppo culturale e tecnologico. La mente umana non cresce grazie a modificazioni correlative del cervello, ma solo nella misura in cui acquista un linguaggio, impara scienze e arti, crea istituzioni e vive in una cultura che gli consente lo sviluppo di abiti intellettuali. Eppure il salto dell’intelligenza non elimina l’esistenza di una certa continuità tra la vita dei mammiferi superiori e l’esistenza umana, una continuità nella discontinuità. La manifestazione di una potenza sopracorporea in un corpo Intellectus, cap. 1, dove si afferma che l’intelligenza non può essere l’atto di un corpo (actus corporis). 86 Naturalmente nel cervello e nel corpo umano esistono certe novità specifiche, come la posizione eretta, la nuova funzione delle mani, l’apparizione dell’organo fonatorio che produce alcuni cambiamenti cerebrali, lo sviluppo delle aree prefrontali e delle aree associative corticali e l’aumento del volume e peso del cervello in relazione al resto del corpo. Questi aspetti sono congruenti con le caratteristiche cognitive della nostra razionalità incarnata. 87 Cfr. A. Oliverio, Esplorare la mente. Il cervello tra filosofia e biologia, Cortina, Milano 1999, pp. 56-62. 80 sensibilizzato e intenzionale non è violenta ed estrinseca. Al di sopra della vita organica, nella vita animale si era già aperta la strada di una “sovrabbondanza” cognitiva e tendenziale più alta delle funzionalità organiche. Abbiamo già visto come gli atti sensitivi animali non erano destinati alla pura produzione fisica, bensì allo svolgimento di funzioni organiche accompagnate dall’immanenza di atti intenzionali e addirittura all’esercizio di funzioni transvegetative (gioco, socialità, predazione, tecnica). In questa linea, la sensibilità animale è radicata in una struttura cerebrale deputata ad essere svariatamente formalizzata, attraverso circuiti nervosi non predeterminati, correlati all’esperienza e destinati al compimento dei fini istintivi animali. Gli animali debbono sopravvivere, alimentarsi, riprodursi, ma non come se fossero “migliori vegetali”. Anzi in un certo senso sono “peggiori”, dal momento che hanno una vita più breve e ricevono un’alimentazione eterotrofica, per cui devono procurarsi materiale organico dall’ambiente88. La vita intellettuale porta a compimento questa iperformalizzazione organica a livello del cervello. La nostra sensibilità, specialmente ai livelli più alti, basandosi su una struttura organica enormemente plastica capace d’istaurare miliardi di connessioni sinaptiche, si orienta principalmente al servizio dei fini razionali della vita umana. Molti di questi fini sono pure quelli degli animali, ma ora sono elevati ad una dimensione più alta, per cui sono realizzati secondo nuove modalità (ad esempio, la solidarietà animale adesso si trasforma in amicizia razionale). La ragione appare dunque, pur nella sua trascendenza, come emergente a partire da un terreno che l’ha preparata, non come un’aggiunta estrinseca89. I termini di emergenza e sopravvenienza, usati nelle posizioni filosofiche contemporanee, non erano del tutto ignorati nella tradizione classica. Per riferirsi al superamento dell’intelletto sulla sensibilità Tommaso d’Aquino impiegava, in questo senso, verbi quali excedit, transcendit, superexcedit, emerget, supergreditur, supervenit90. 88 Gli animali non possono sintetizzare i propri costituenti cellulari utilizzando sostanze inorganiche semplici, come fanno invece i vegetali (autotrofismo, ad eccezione dei funghi). 89 Utilizzo qui il termine emergenza in senso ampio, compatibile con una trascendenza non causata dalla materia. 90 Cfr. S. Th., I, q. 76, a. 1 c.; ib., ad 4; ib., a. 4, ad 3 (“semper autem secundum superveniens priori, perfectius est”: ciò che sopravviene in secondo termine è sempre più perfetto di ciò che era prima); ib., q. 78, a. 1; De Spiritualibus Creaturis, a. 2, ad 2; Q. de Anima, a. 1. 81 Tralascio la luce che questo punto potrebbe implicare per una comprensione dei fenomeni evolutivi degli ominidi fino alla comparsa dell’uomo dotato di una mente spirituale e personale. Inoltre, il carattere non estrinseco dell’emergenza dell’anima spirituale in un organismo altamente sensibilizzato comporta una manifestazione lenta e naturale, non brusca e totale, delle potenzialità del nostro intelletto. L’intelligenza può maturare sulla base di un organismo predisposto e in un ambiente umano ricco in esperienze e risorse simboliche. Quindi non è una sorpresa la graduale temporalizzazione dello sviluppo intellettuale dei bambini, nonché la relativamente bassa velocità del progresso tecnologico e culturale lungo la storia, finché non si arriva al possesso di strumenti che rendono accelerato questo processo. 2. Il ruolo del cervello nel pensiero La trascendenza sopracorporea del pensiero non rende secondario né accidentale il coinvolgimento del cervello nei suoi confronti. Il suo ruolo nella cognizione è stato ignorato durante secoli perché la base organica rimane nascosta alla coscienza fenomenologica dell’oggetto. Questo nascondimento è un bene naturale, poiché così risplende alla visione della mente soltanto la dimensione dell’oggettività, mentre sarebbe senz’altro un intralcio notare gli interventi dei neuroni nei processi sensitivi che stanno alla base del pensiero. L’occultamento della funzione cerebrale nella cognizione umana favorisce le posizioni dualistiche, che non per caso sono le più antiche. Tuttavia questo fatto è in favore della tesi spiritualistica: conosciamo meglio le grandi verità antropologiche (siamo liberi, siamo persone) e solo posteriormente arriviamo ai dettagli della causalità materiale propria della dimensione corporea. L’uomo antico ha avuto una coscienza di sé stesso molto spirituale (religiosità, credenza nello spirito e nell’aldilà), benché non priva di confusioni. La scoperta dell’importanza della materialità è piuttosto tardiva nell’uomo. Naturalmente in qualsiasi cultura sempre troveremo l’ovvia percezione del legame tra la testa e le funzioni cognitive, anche più alte. Guardiamo le persone rivolgendo gli occhi alle espressioni del volto, dove avvertiamo lo sguardo intelligente ed emotivo. La faccia è il luogo del linguaggio parlato. Il capo è chiaramente la parte anatomica con cui governiamo il corpo. Esiste una sensazione diffusa, ma vera, che “pensiamo con la testa”, e i disturbi alla testa sono quelli che più ci impediscono di pensare. La neuroscienza conferma e ovviamente allarga queste impressioni, fino a 82 livelli incredibili di finezza e dettaglio analitico. I principi della gnoseologia di Tommaso in questo punto appaiono particolarmente interessanti nei confronti della situazione scientifica e filosofica contemporanea. Secondo tali principi, il rapporto dell’intelligenza con il cervello è essenziale, pur restando fermo il carattere inorganico di tale facoltà. La potenza intellettiva non può rendersi operativa, e quindi crescere nelle sue abilità, se non è preceduta da un’attività sensibile superiore sufficientemente ampia e matura. Tale attività dev’essere continua e quindi coinvolge il cervello in modo permanente, come funzione di sostegno di una sensibilità costantemente aperta all’attività intellettuale. Un ambito della sensibilità particolarmente legato alle operazioni intellettuali, anzi direttamente controllato da esse, è il simbolismo (linguaggio). Di conseguenza l’uomo, animale razionale, deve imparare a parlare, cioè deve crearsi una sfera superiore della sensibilità e quindi deve “strutturare” il suo cervello in una certa forma per poter pensare. a) Tommaso d’Aquino e il cervello Vorrei indicare in seguito alcuni punti concreti di Tommaso d’Aquino dove il ruolo del cervello nella conoscenza intellettuale appare con notevole chiarezza. Non lo farò in un senso storiografico -per cui ometto tanti dettagli-, bensì cercando piuttosto di vedere negli spunti segnalati delle implicazioni interessanti per la filosofia della mente. 1. Rapporto intrinseco tra pensiero e sensibilità. Nella psicologia dell’aristotelico Aquinate il rapporto tra pensiero e sensibilità è assolutamente intrinseco. L’intera sensibilità, a sua volta, è organica (e insieme transorganica, come abbiamo detto). Il rapporto ragione/sensibilità si snoda in questi aspetti: * La coscienza sensibile è condizione fondamentale per l’esercizio del pensiero. L’attivazione dei sensi è condizione sine qua non per l’esercizio della ragione e per l’uso della libertà. La coscienza sensitiva -lo stato di veglia, contrapposto al sonno, allo svenimento o allo stato comatoso- è la situazione intenzionale normale atta per il riconoscimento dell’ambiente, del corpo e della propria unità psicosomatica. Questa è la prima condizione per poter essere padroni delle nostre facoltà superiori (intelligenza e volontà). La perturbazione della coscienza sensitiva annulla o 83 indebolisce la forza della ragione e della volontà. * Astrazione a partire dall’esperienza sensibile. In modo originario, la comprensione intellettuale prende spunto da una serie di esperienze sensibili illuminate dall’intelletto. Senza tali esperienze, la comprensione non può nascere91. * Linguaggio. L’uso e lo sviluppo del pensiero razionale esige la creazione del linguaggio, opera della sensibilità in collegamento con la ragione. L’apprendimento di una lingua presuppone la capacità percettiva, immaginativa e mnemonica di riconoscere, richiamare e collegare i segni linguistici in modo razionale. * “Conversio ad phantasmata” e cogitativa. La conoscenza intellettuale concreta delle cose o degli eventi materiali richiede la conversione dell’intelligenza agli oggetti della fantasia, all’esperienza sensibile e al mondo della percezione esterna. In questo modo, la sensibilità stessa comincia a partecipare intrinsecamente alla razionalità, cioè viene elevata “per illuminazione” a un livello cognitivo più alto92. Tommaso d’Aquino assegna questo compito alla facoltà sensitiva chiamata cogitativa, simile all’estimativa animale, solo che elevata grazie alla partecipazione alla razionalità93. Dunque il riconoscimento delle facce, degli individui come persone, dei segni sensibili come portatori di un significato, correrebbe a carico di una facoltà sensitiva elevata al piano della razionalità. Ciò che negli animali è l’esperienza animale, livello superiore della loro sensibilità e luogo della loro “intelligenza” pratica, come vedremo, negli uomini è l’esperienza umana, un’esperienza penetrata dall’intelligenza universale, delle strutture ontologiche della realtà. Non è importante qui ammettere o meno la “cogitativa” come facoltà. Ciò che conta è il collegamento dinamico tra l’intelligenza astratta e l’esperienza concreta, perché in questo modo l’esperienza supera il livello della sensibilità e si apre alla 91 Cfr. S. Th., I, q. 84, 6. Cfr. S. Th., I, q. 84, a. 7. 93 Secondo l’Aquinate, l’estimativa è la capacità sensitiva animale di riconoscimento attivo di aspetti utili o significativi dell’ambiente. L’animale così “intuisce” in un modo concreto rapporti o eventi (per esempio, causali), talvolta anche azioni da intraprendere in funzione dei suoi fini istintivi: cfr. S. Th, I, q. 78, a. 4. 92 84 pregnanza intelligibile, diventando esperienza umana. Le nostre conoscenze ordinarie -“vedo un amico”, “vado all’università”- sono fusioni di livelli cognitivi. Avevamo già trovato questa caratteristica quando parlavamo dell’ontologia dell’atto sensitivo. Non abbiamo d’una parte l’intelligenza e dall’altra parte i sensi esterni e interni, come se fossero separati tra loro. Abbiamo una conoscenza unitaria stratificata, integrata, elevata, e per questo non facile da analizzare. “Vedo l’università” comporta il riconoscimento di un pattern sensitivo (un edificio, un campus) e al contempo suppone la lettura intelligente di quel pattern come “università”, usando il concetto universale corrispondente. Gli animali riconoscono invece la configurazione tipica di altre specie e possono discernere individui di una specie o di un’altra (riconoscere uomini, cani, gatti), ma non lo fanno usando concetti universali comprensivi, bensì ricorrendo ad esperienze attive tipiche che si formano nel gioco delle loro operazioni sensitive (pure noi facciamo lo stesso, ma arrivando all’universalità astratta). Di conseguenza, quando l’animale riconosce un adulto o un bambino, possiamo attribuire la sua percezione al cervello in quanto sede organica adeguata dell’esperienza sensitiva. Quando invece riconosciamo un altro uomo, una donna, un bambino o altro, la nostra esperienza, resa possibile dall’attività neurale, riceve inoltre la luce dell’intelligenza come facoltà inorganica che trascende la potenzialità sensitiva del cervello, anche se opera all’interno della sensibilità cerebrale. Queste conclusioni si collocano sul piano metafisico. Non si possono dimostrare né confutare empiricamente, ma non per questo le postuliamo a priori. Il metodo di una filosofia metafisica e realista è la riflessione intellettuale basata sulle esperienze umane. Solo in questo modo possiamo riconoscere l’esistenza di concetti universali, l’esistenza della persona umana o il rapporto di verità, e tante altre realtà metafisiche del 94 mondo94. Le scienze particolari (psicologia, linguistica, neuroscienza) L’empirismo si concentra sull’esperienza presa in modo riduttivo, cercando di eliminarne gli elementi metafisici o antropologici. Alcuni scienziati cognitivi capiscono con difficoltà il passaggio al livello metafisico a causa dell’incidenza dell’empirismo nella lettura scientifica dei fatti. Così si spiega, ad esempio, che certi autori non riescano a vedere una distinzione fondamentale tra uomini e animali. In qualche modo hanno ragione: col solo metodo empirico 85 presuppongono questi punti, anzi potrebbero contribuire ad approfondirli, dal momento che possono essere in connessione con alcune tesi filosofiche. Comunque esse non sono dimostrabili con metodi scientifici particolari (metodi statistici, osservazioni empiriche, esperienze scientifiche). 2. Il cervello. Per Tommaso d’Aquino, seguendo la medicina galenica e araba, l’organo della sensibilità superiore (la cogitativa) è il cervello95. Due testi significativi: “Il funzionamento efficace delle potenze sensitive interiori, quali l’immaginazione, la memoria e la cogitativa, richiede una buona disposizione del cervello (bona dispositio cerebri). Perciò l’uomo possiede un cervello maggiore tra gli altri animali, secondo la proporzione della sua quantità”96. “Era conveniente che l’uomo, tra tutti gli animali, possedesse un cervello da dimensioni massime (maximum cerebrum), affinché le operazioni delle sue capacità sensitive interiori, necessarie in rapporto all’operare intellettivo, potessero essere adoperate con maggiore libertà”97. 3. Temperamento e fisiologia. Secondo Tommaso, certe disposizioni del temperamento collegate alla fisiologia possono senza colpa o merito inclinare in qualche modo a determinati vizi o virtù, come accade con la debolezza del carattere, la forza della concupiscenza o l’aggressività. L’Aquinate vede questa dotazione -oggi parleremmo di predisposizioni genetiche e di aspetti epigenetici e neurofisiologicialla luce della fisiologia umorale galenica. Ciascuno deve impegnarsi in modo non si può capire il senso di tale distinzione, la quale comunque non cessa mai di accompagnare la conoscenza comune. 95 Cfr. S. Th., I, q. 78, a. 4. 96 Q. de Anima, q. un., a. 8, c. 97 S. Th., I, q. 91, a. 3, ad 1. Inoltre, seguendo Aristotele (cfr. De motu animalium), Tommaso d’Aquino ritiene erroneamente che il cuore sia il primum movens fisiologico del corpo, l’organo cioè che comunica al resto del corpo l’automovimento animato (come una sorta di vibrazione ritmica continua), benché l’unione anima/corpo sia immediata e non compiuta tramite un organo particolare: cfr. Q. de Anima, a. 9, e l’opuscolo De motu cordis. La funzione di controllo vegetativo dell’organismo, oggi sappiamo, spetta al sistema nervoso. L’indicazione di Tommaso, comunque, rivela la compatibilità, a suo avviso, tra la funzione informante dell’anima e il primato dinamico globale di un organo rispetto al resto del corpo. 86 responsabile, con l’educazione e la formazione delle virtù, per contrastare o superare le inclinazioni umanamente negative che possono far parte del suo temperamento98. 4. Patologie. Le indisposizioni o la mancata attivazione della sensibilità disturbi della coscienza, della memoria, dell’attenzione, della capacità di concentrazione o di pianificazione- impediscono il normale esercizio della ragione99. I disturbi cognitivi ed emotivi a livello patologico sono attribuibili, secondo l’Aquinate, a una disfunzione cerebrale: “La lesione di alcuni organi impedisce all’anima di comprendere direttamente se stessa e le altre cose, come quando si verifica una lesione al cervello (laeditur cerebrum)”100. Certi squilibri psichici chiaramente patologici di tipo affettivo (perversitas, bestialitas)101, pur sembrando gravi depravazioni morali anche di carattere aggressivo o sessuale, potrebbero essere dovuti a malattie fisiologiche, sebbene possano essere pure favoriti da depravazioni sociali nelle consuetudini culturali102. Secondo quest’ultima indicazione, le carenze patologiche cognitive e affettive non sempre sono da ricondursi semplicemente a lesioni neurali. La loro causa può stare nei primi sviluppi dell’infanzia collegati a fattori importanti dell’educazione (ambiente e famiglia). Queste brevi note mostrano fino a che punto un pensatore antico come 98 Cfr. S. Th., II-II, q. 155, a. 4; q. 156, a. 1. Cfr. S. Th, I, q. 84, a. 8. 100 De Spiritualibus Creaturis, q. un., a. 2, ad 7. Cfr. S. Th., I, q. 84, a. 7, dove si fa riferimento a malattie mentali (“frenetici”, “letargici”) causate da lesioni fisiche che impediscono l’uso dell’intelligenza. 101 Gli antichi conoscevano il fenomeno delle malattie mentali e non è vero che le attribuissero sempre al demonio. Alcuni termini all’uso nel tempo di San Tommaso per riferirsi ai malati di mente erano: frenetici, maniaci, furiosi, malinconici, letargici, lunatici, amentes, insani. 102 Cfr., su questi punti, l’intero libro In VII Ethicorum e i rispettivi libri aristotelici. In queste idee, Tommaso segue Aristotele e la medicina araba. Cfr., al riguardo, l’articolo di M. F. Echavarría, La enfermedad “psíquica” (‘aegritudo animalis’) según Santo Tomás, in www.geocities.com/allerlist/echavarria2.html, e il suo lavoro La praxis de la Psicología y sus niveles epistemológicos según Tomás de Aquino, Universitat Abat Oliba CEU, Documenta Universitaria, Gerona 2005, pp. 435-465; ved. anche G. Roth, Amentia ex aegritudinibus cerebralibus. Psychopathologia in doctrina sancti Thomae et psychiatria biologica contemporanea, in AA. VV., L’anima nell’antropologia di S. Tommaso d’Aquino, Massimo, Milano 1987 (Atti del Congresso della SITA del 1986), pp. 597-604; A. Muntané Sánchez, La mente y el cerebro, Libros EnRed, Buenos Aires 2005. 99 87 Tommaso, guidato da Aristotele, è arrivato a sostenere una visione abbastanza chiara circa il rapporto intrinseco ed essenziale tra le funzioni spirituali e l’attività cerebrale. Cerchiamo adesso di esprimere questi punti in una maniera più sistematica e ontologica. b) La causalità del cervello in rapporto all’atto intellettuale Le indagini neurologiche sul rapporto tra cervello e intelligenza ci presentano correlazioni. In questo senso, possiamo parlare di condizioni ottimali del funzionamento del cervello, nonché della sua conformazione anatomica, affinché possiamo compiere certe funzioni cognitive ed emotive. Il punto risulta particolarmente chiaro nelle disfunzioni. Le lesioni meccaniche (un colpo alla testa), elettriche (scosse elettriche al cervello), chimiche (droghe), le disfunzioni neurofisiologiche, possono compromettere la capacità di usare le nostre potenze razionali, decisionali o linguistiche. Le condizioni neurali segnalano un tipo di causalità. Esse sono molteplici, complesse e stanno tutte nella linea della materialità. In questo senso sono un po’ simili alle condizioni fisiche necessarie per scrivere bene una serie de parole. La causalità fisica necessaria e non sufficiente per scrivere un libro non è causa del suo contenuto scientifico o artistico, ma solo della sua materialità. Non è molto rigoroso dunque dire che una certa attivazione neurale “ci fa pensare” o “ci muove a decidere”, dal momento che la causalità neurale sul pensiero e sulla decisione è parziale, pur essendo una condizione imprescindibile. Ma alcuni autori, a causa della loro mentalità esclusivamente scientifica, non conoscono altre cause se non quelle fisiche. Solo che così il problema si è deciso a priori e il pensiero non potrà avere altro tipo di cause. Paul Ricoeur, nella sua opera Ce qui nous fait penser, scritta in dialogo con Pierre Changeux e dedicata al tema mente-cervello103, contro il riduzionismo di quest’ultimo vede l’attività neurale come un sostrato, come una certa causa materiale sine qua non del pensiero, servendosi del quadruplice significato della causalità in 103 Cfr. Jean-Pierre Changeux, Paul Ricoeur, Ce qui nous fait penser, Poches Odile Jacob, Parigi 2000. 88 Aristotele (causa formale, materiale, efficiente e finale). Le funzioni sensitive superiori, inseparabili dall’organismo, indubbiamente esercitano una certa causalità sull’atto intellettivo. Ma non dobbiamo vedere la causalità sempre dal basso verso l’alto, poiché nell’ambito psicosomatico essa opera pure nella direzione inversa. La causalità delle immagini e dell’esperienza sensitiva sull’intelligenza è l’offerta di un oggetto adeguato, predisposto affinché la mente possa illuminarlo. La piattaforma sensitiva suscita l’apparizione di un contenuto intellettuale, ma l’illuminare intellettivo è originario. Non è il prodotto di forze materiale e nemmeno è un semplice frutto delle presentazioni dell’esperienza sensibile. Il problema causale, quindi, non va posto in un modo direi “brutale” semplicemente tra attività neurale e pensiero. Questo ci porterebbe o al materialismo, se neghiamo il pensiero, oppure al dualismo cartesiano. La causalità in questo problema piuttosto si gioca tutta nella linea della mediazione della sensibilità superiore. La sensibilità, costituita dall’organicità cerebrale a titolo di causa materiale, esercita una causalità parziale nella nascita dell’operazione intellettuale, ma è anche guidata e illuminata dalle luci intellettuali nelle loro successive configurazioni104. Possiamo trarne adesso le nostre conclusioni. In primo luogo, ricordiamo il ruolo di causa materiale del sistema nervoso nell’attività sensitiva. Non ogni causa materiale, tuttavia, va capita nello stesso senso e, come segnala L. Polo, i diversi sensi della causalità non vanno visti isolatamente, ma nel loro rapporto vicendevole105. D’una parte, come abbiamo visto, la materialità organica sensibilizzata dà un nuovo senso alla corporeità (“corpo senziente”), sia in funzione del potenziamento delle funzioni organiche, sia in rapporto ai fini transorganici animali ed umani. La materialità entra dunque come causa materiale nella misura in cui consente di 104 Secondo Searle, come abbiamo visto (cfr. il nostro capitolo 1, n. 4), gli atti della coscienza sono causati da complessi meccanismi cerebrali. Alla luce di quanto stiamo dicendo, questa tesi appare insufficiente: bisogna precisare il tipo di causalità corrispondente al sistema nervoso, e insieme distinguere tra la coscienza sensitiva e il pensiero (un dolore e un pensiero matematico non hanno le stesse cause). 105 Cfr. L. Polo, El conocimiento racional de la realidad, Cuadernos de Anuario Filosófico, Pamplona 2004, pp. 77 ss. 89 raccogliere e di selezionare l’informazione in una maniera sempre più plastica e indeterminata, in base a miliardi di connessioni. Così a poco a poco i processi bottomup lasciano più spazio alla causalità top-down delle funzioni superiori. Il dinamismo complessivo del cervello diventa sistemico. Le unità psicosomatiche si rafforzano a vicenda nei loro singoli livelli. Possiamo dire in sintesi: il sistema nervoso, organo del sistema intenzionale della vita sensitiva, nel passaggio alla funzione intellettiva agisce a titolo di causa materiale, dispositiva e strumentale: 1) per consentire la comparsa dell’atto intellettivo e volitivo; 2) per recepire al suo livello l’influsso e la guida continua dei contenuti superiori (creandosi così meccanismi di feedback). Il ruolo del cervello nel pensiero quindi è necessario, intrinseco, essenziale, proprio perché è un “cervello elevato” dalle funzioni intenzionali. I suoi interventi comunque sono parziale, anzi sproporzionati, vista l’infinita eccedenza del pensiero rispetto a qualsiasi struttura fisica e ad ogni esperienza sensitiva. Pensiamo dunque con il cervello? Sì, con il cervello elevato, in un modo dispositivo e non pienamente proporzionato. E che cosa apporta la dimensione strettamente neurale al pensiero? Apporta una gestione dell’informazione che, consentendo più direttamente la comparsa di atti intenzionali, agevola le condizioni in cui la potenza spirituale umana può operare e così può dominare lo stesso cervello dal punto di vista della maggiore funzionalità cognitiva. Per illustrare il ruolo di causa strumentale del cervello rispetto all’atto di capire qualcuno potrebbe pensare alla metafora della matita. Lo scrittore non può tradurre in atto le sue idee se non ha uno strumento materiale capace di scrivere simboli (la matita). L’analogia è tipica del dualismo e in questo senso è inadeguata. La matita è una causa strumentale estrinseca, mentre il cervello è un organo intrinseco alla persona che pensa. La matita non apporta contenuti, mentre il cervello “conosce” in quanto sensibilizzato, così come l’occhio “vede” in quanto organo sensibilizzato. Questa conoscenza sensitiva superiore apre lo spazio all’illuminazione intellettuale. Di conseguenza, semplicemente non esiste una causa fisica dell’atto 90 intellettuale e volitivo106. Per indagare sui principi propri della cognizione intellettiva bisognerebbe quindi inoltrarsi in un’analisi della nascita del pensiero, dove entrano in gioco l’intelligibilità della realtà, la natura e l’oggetto dell’intelligenza, l’articolazione di concetti e proposizioni e l’uso della razionalità. I filosofi, i logici, gli scienziati, si sono fatti un’idea ampia e precisa del funzionamento della nostra intelligenza senza bisogno di sapere neurologia. Le loro indicazioni, se vere, restano sempre valide. Questo fatto è un’indicazione del carattere strumentale e dispositivo del cervello nella genesi del pensiero. L’esperienza, per quanto alta, non causa, ma solo dispone verso l’apparizione di nuovi pensieri (specialmente quando sono creativi). D’altronde, ordinariamente l’esperienza suscita nuovi pensieri in quanto è già arricchita da pensieri precedenti (memoria e sapere abituale). La causalità dal basso, quindi, non sta soltanto nel cervello come entità elettrochimica, ma piuttosto nel ruolo delle immagini, del linguaggio e della memoria, potenze organiche e quindi cerebrali. Però, una volta che l’intelligenza comincia a operare, essa porta con sé la propria dinamica. Quindi non basta cercare le causalità predispositive della comprensione nel dinamismo cerebrale. Le cause proprie del progresso nella cognizione intellettuale si trovano nell’attuazione opportuna dell’intelligenza stessa, nelle sue operazioni e abiti in rapporto all’intera personalità del soggetto, ovviamente in funzione di altri soggetti, del mondo culturale e dell’essere trascendente come fonte inesauribile del pensiero. Due punti ancora prima di passare ad altri argomenti. Il primo si riferisce al pensiero come atto personale, il secondo all’unità dell’atto intellettivo integrato con la sensibilità: 1. Il pensiero come parte della vita razionale della persona. In continuità con quanto abbiamo visto sulla vita organica e intenzionale, l’intelligenza apre un nuovo stile di vita corrispondente alla persona umana come animale dotato di razionalità. L’uomo vive come persona nella misura in cui conosce intellettualmente e orienta la sua vita secondo la verità conosciuta e amata. Ciononostante, il pensiero può essere considerato in astratto, senza riferimento 106 La nostra analisi si è concentrata sull’atto intellettuale. Indirettamente si estende anche all’atto volitivo, dal momento che la volontà può agire solo all’interno della comprensione intellettuale. 91 alla persona (ad esempio, quando ragioniamo sugli oggetti matematici). I contenuti e le operazioni intellettuali possono essere pure oggettivati in simboli e in meccanismi di elaborazione dell’informazione. In questi casi il pensiero si separa in qualche modo dalla persona, acquistando una forma di “autonomia” (ma non dobbiamo postulare per questo motivo il mondo platonico delle idee). Ma la dimensione di oggettività astratta del pensiero acquista un senso definitivo nella misura in cui è incorporata alla vita intelligente della persona. Le scienze e le verità scientifiche sono considerate ai margini delle persone umane per una necessità dell’astrazione scientifica (dimensione dell’oggettività). Un libro di scienza contiene “pensieri potenziali”. Questi contenuti saranno resi attuali soltanto da una mente personale che li comprenderà grazie alla lettura del libro. Qualcosa di analogo si può dire nei confronti dei procedimenti e risultati “oggettivati” delle macchine intelligenti (computer dotati di intelligenza artificiale). Non importa quindi se le elaborazioni di un “agente intelligente artificiale” sembrano più potenti delle risorse intellettuali di una persona, o se una calcolatrice può compiere calcoli dalle dimensioni astronomiche, inaccessibili alle capacità personali. Il pensiero di una persona comunque rimane essenzialmente diverso dalle oggettivazioni artificiali dell’intelligenza, semplicemente perché è personale, appartenente alla sua vita cognitiva e volontaria. In questo senso nessun tipo di trattamento dell’informazione esterno alla persona può sostituirlo. Questo fatto non toglie però la necessità di astrarre e di oggettivare per progredire nello sviluppo cognitivo (nel capitolo 6 vedremo con più ampiezza il problema dell’intelligenza artificiale)107. 2. L’unità psicosomatica e personale dell’atto di comprendere. La trascendenza dell’atto intelligente rispetto al corpo e alla sensibilità non impedisce la loro integrazione nell’unità di un solo atto, così come l’anima umana trascende il corpo ma insieme costituisce con esso una sola unità sostanziale (la persona). La frase “questa è la mia casa”, pronunciata mentre la vediamo, fa parte di un unico atto intellettivo- 107 In questo senso, E. Sprague, in Persons and Their Minds, Westview Press, Boulder (Colorado) 1999, contrappone le filosofie della mente, concentrate sull’epistemologia (mindism), ad una filosofia che invece dovrebbe andare più centralmente alla persona (personism). 92 sensitivo. Un singolo atto personale integra qui la comprensione, il proposito volontario, l’atto linguistico, la visione e la conseguente attività neurale. In modo analogo, quando salutiamo con la mano una persona compiamo un unico atto personale integrato da molti elementi. Le azioni umane sono solitamente integrate da molteplici operazioni compiute da diverse potenze (volontà, intelligenza, sensi, muscoli). Così quelle operazioni possono costituire una singola azione umana. Non saranno allora due o più atti correlati, ma un’unica azione personale, dove l’elemento formale più alto normalmente la volontà intellettiva- formalizza gli altri elementi e quindi li unifica108. Vediamo in seguito due questioni correlate alla problematica mente/cervello. La prima è relativa all’inconscio cognitivo; l’altra riguarda il problema dell’identità personale, anche in rapporto alla sopravvivenza dell’anima umana dopo la morte. 3. L’inconscio cognitivo Pur essendo tante le modalità in cui si può parlare di coscienza, ne indichiamo almeno tre livelli fondamentali : 1) Coscienza sensitiva o stato sensitivo di veglia, comune agli animali e all’uomo, con un radicamento cerebrale ben noto. Nell’uomo questa è la base di ogni altro stato di coscienza. La “coscienza onirica” -i sogni mentre dormiamo- potrebbe essere considerata come un grado basso e poco integrato della coscienza sensibile, magari arricchito anche da contenuti superiori, senza però una piena integrazione. 2) Coscienza intellettiva come avvertenza chiara e profonda di alcuni oggetti della conoscenza, con la possibilità di gradi diversi d’intensità. Si può essere più o meno cosciente di avere un oggetto di valore tra le mani, di sentire i rumori della strada, o di trovarsi davanti a una persona importante. In questo secondo senso, “coscienza” e “conoscenza” sono praticamente sinonimi. 108 Quando l’atto di un agente volontario provoca un effetto esterno, la causa propria dell’effetto è l’agente stesso, non le operazioni tramite le quali si giunge all’effetto. Se una persona spara e uccide qualcuno, la causa propria della morte è l’agente, non i processi fisicochimici del suo cervello o la pallottola che ferisce il corpo provocandone la morte. Cfr. E. Lowe, An Introduction to the Philosophy of Mind, Cambridge University Press, Cambridge 2000, cap. 9. 93 3) Coscienza come auto-conoscenza del proprio soggetto e dei suoi atti o stati: coscienza di essere responsabile, di agire liberamente, di essere una persona, di aver commesso un delitto, di avere un braccio. Anche l’auto-conoscenza ammette parecchi gradi d’intensità e di profondità109. In questo senso, avvertiamo la nostra esistenza personale operante (“sono”, “esisto”, “vivo”), la nostra attività intenzionale (“sto guardando dalla finestra”), i nostri sentimenti (“sono nervoso”), il nostro corpo. Possiamo sapere di noi stessi molti aspetti (il nostro nome, l’ora in cui viviamo, tanti ricordi biografici personali, le nostre qualità o difetti, ecc.). L’autocoscienza intellettuale presuppone la coscienza sensitiva vigile e ci consente di dominare liberamente gli atti disponibili del nostro corpo e di esprimerci linguisticamente o con gesti significativi liberi. La diminuzione o la perdita dell’autocoscienza, o di certi aspetti della coscienza di sé (ad esempio, perdita di memoria biografica), annulla questa capacità e quindi interferisce nell’uso della nostra libertà. La coscienza, pur essendo una situazione cognitiva alta, non è equivalente alla conoscenza. Non possiamo pretendere che tutta la nostra vita psichica sia semplicemente cosciente. Al contrario, molte nostre conoscenze, ricordi, abiti o disposizioni non sono aperti alla coscienza e comunque sono importanti, in quanto costituiscono un certo fondamento di quanto facciamo e pensiamo nei momenti della coscienza attivata. Così, soltanto grazie alla nostra padronanza di una scienza o di un linguaggio possiamo creare frasi significative, consistenti e vere. Il sapere abituale non si presenta alla coscienza, né oggettiva né operazionale. Sappiamo inglese, italiano, senza avvertirlo in modo sensibile né “vederlo” intellettualmente. Concludiamo di avere tali abiti linguistici perché osserviamo la buona riuscita delle nostre frasi coscienti. In definitiva, ciò che ho presente davanti alla mia considerazione in atto (“ciò in cui sto adesso pensando”: la mia finestra cognitiva), sebbene sia molto importante per l’uso della mia libertà, è minimo nei 109 Cfr., sul tema, in ambito di filosofia della mente, Q. Cassam (ed.), Self-Knowledge, Oxford University Press, Oxford 1994; S. Shoemaker, The First-Person Perspective and Other Essays, Cambridge University Press, Cambridge 1996; N. Nelkin, Consciousness and the Origins of Thought, Cambridge University Press, Cambridge 1996; D. Davidson, Subjective, Intersubjective, Objective, Clarendon Press, Oxford 2001. 94 confronti delle dotazioni, assai complesse, della mia persona in quanto essere conoscente e tendenziale (volontà, inclinazioni, stati animici). La memoria di lavoro o cornice cosciente in cui si espande la nostra attenzione è solo una parte della nostra vita cognitiva. La geografia dell’inconscio cognitivo e tendenziale è complessa. D’una parte abbiamo gli oggetti rimasti nella memoria, oppure certe operazioni cognitive non arrivate alla soglia della coscienza. Questi oggetti/operazioni (ad esempio, il ricordo risalente a due anni di aver fatto una gita) possono essere accessibili (oppure no) alla chiarezza cosciente. La coscienza in questo senso è graduale, poiché ci sono oggetti molto coscienti e altri semicoscienti. Ulteriori aspetti psichici, come gli abiti e le inclinazioni, semplicemente per la loro natura non possono essere coscienti, nel senso di essere sentiti o avvertiti. Il possesso di abilità, virtù, vizi, disposizioni, non è visibile alla mente come oggetto fenomenico, e neanche è avvertito nel modo in cui notiamo le nostre operazioni in atto o perfino il nostro io quando agisce. Qual è il rapporto tra gli aspetti psichici inconsci e il sistema nervoso? Il cervello accumula informazione latente e implicita, resa disponibile nei momenti opportuni, e ci sono al riguardo delle aree o circuiti legati alla memoria a lungo e a breve termine, nonché alla memoria “procedurale” e a quella “dichiarativa”. La nostra conoscenza linguistica ha un suo radicamento cerebrale. Si può però domandare: l’amnesia ci fa perdere i ricordi, o soltanto la possibilità di ricuperarli? Il tema è ampio e qui possiamo soltanto suggerire qualche indicazione filosofica di principio in base a quanto abbiamo visto finora nella nostra esposizione. Searle riconduce i contenuti cognitivi inconsci a predisposizioni cerebrali110. Sarebbe troppo sbrigativo, a suo parere, concepire le nostre conoscenze inconsce come se fossero una sorta di fotocopia oscura delle cognizioni coscienti, semplicemente “situate in una zona d’ombra”. Searle però elabora, in un’altra sezione del suo lavoro111, un’interessante teoria del background cognitivo, secondo la quale i nostri atti intenzionali funzionano in un contesto di capacità mentali non intenzionali o non rappresentative. Il senso delle nostre espressioni linguistiche (ad esempio, tagliare in 110 111 Cfr. J. Searle, The Rediscovery of the Mind, cit., cap. 7. Cfr. ibid., cap. 8. 95 frasi come “tagliare l’erba”, “tagliare le spese”) potrebbe essere infinito secondo i contesti. Soltanto il rapporto con reti semantiche e, in definitiva, con uno sfondo preintenzionale (background) determina in modo soddisfacente il senso e la verità di quanto si esprime intenzionalmente. Così, mentre un soggetto dorme, non si può pensare che egli abbia nella sua mente una sorta di “contenitore” con tutte le frasi possibili relative a ciò che egli sa (lingue, scienze). Qual è, allora, lo statuto ontologico del background cognitivo? Il punto rimane oscuro in Searle, ma alla fine egli, non potendo concepire un tipo di contenuto psichico che non sia intenzionale, riferisce tale sfondo alle capacità o a una sorta di potenzialità del cervello. Questa tesi non è del tutto soddisfacente. Non siamo tenuti a ridurre la conoscenza a operazioni coscienti intenzionali. Esiste un piano cognitivo abituale preoperativo e preconscio dotato di contenuti (ad esempio, il sapere conservato nella memoria, o le virtù intellettive e morali) non riducibile a semplici predisposizioni. È qui dove si collocano il background, le reti semantiche e tutto quanto sconfina gli stretti margini delle finestre cognitive, o dove è situata la pregnanza dei primi principi noetici in rapporto al resto delle nostre conoscenze operative. Ma se le operazioni sensitive sono psicosomatiche, analogamente la conformazione stabile e preoperativa del cervello come organo sensitivo sarà altrettanto psicosomatica, sarà cioè costituita da una dimensione materiale e da una corrispondente dimensione formale precosciente. Searle ha ragione nel non voler immaginare questo strato secondo il modello della conoscenza operativa. Ma non c’è difficoltà nell’ammettere l’esistenza di una vera psiche inconscia, legata al cervello in tutto quanto è relativo alla sensibilità, ma non semplicemente identificata con le strutture neurali. Il rapporto dei contenuti intellettivi preconsci col cervello sarà analogo a quello delle operazioni rispettive. La nostra anima spirituale dunque può essere piena di ricordi, scienze, principi, atteggiamenti intellettuali e volontari e intenzioni implicite. Il sapere abituale, una sorta di magazzino o tesoro pieno di innumerevoli specie (thesaurus specierum), secondo la metafora di Tommaso d’Aquino112, è un insieme di acquisti stabili costituenti la mente informata a titolo di abiti o possessi intellettivi. Questi contenuti hanno un radicamento neurale nella misura in cui sono stabilmente 112 Cfr. S. Th., I, q. 78, a. 4. 96 collegati a determinate esperienze e a un certo linguaggio. Così avviene, ad esempio, nel sapere linguistico correlato alle aree linguistiche corticali. Come esiste, ad esempio, un ricordo nella nostra mente, quando non lo ricordiamo in atto? La traccia mnemonica cerebrale corrispondente a tale ricordo, fintanto non è attivata, possiede un contenuto psichico preconscio? La coappartenenza tra dimensione psichica e neurologica ci spinge a dare una risposta affermativa a questa domanda. Ma il ricordo potenziale non è come un oggetto messo in ombra. Il ricordo “immagazzinato” è un tipo di stato psichico che possiamo chiamare abituale. Il possesso abituale di una cognizione non si può “concepire”, proprio perché sta alla base di ogni concettualizzazione. Un ricordo, un’intuizione pregnante o un sapere previo potranno dar luogo a una serie di operazioni o di rappresentazioni oggettive. Queste ultime spesso non esprimono che un aspetto parziale della forza cognitiva dell’abito113. Il contenuto cognitivo abituale della mente è immenso. Esso influisce sul nostro comportamento e sul nostro pensiero (senza causarli in modo deterministico), anche senza il passaggio alle rappresentazioni, cioè a quello che i classici chiamavano verbi mentali (un pensiero, una proposizione). D’altronde gli abiti -ad esempio i ricordi latenti- non vanno presi in una maniera atomistica. Non possiamo enumerarli come se fossero delle unità isolate. Sotto un certo punto di vista, essi sono strutture a rete, con nuclei sistemici più forti e altri più deboli. Grazie alla cognizione abituale possiamo dare “sguardi luminosi di insieme” alla molteplicità delle nostre idee e delle nostre esperienze, anche paragonandole a vicenda. Così possiamo vedere e capire meglio, senza la necessità di dover compiere continuamente nuove operazioni per ogni momento nostro di insight, cosa impossibile perché creerebbe catene all’infinito di operazioni mentali114. 113 Scrive Tommaso d’Aquino: “la concezione attuale nasce dalla conoscenza abituale”: Q. de Veritate, q. 4, a. 2. Sappiamo e ricordiamo, anzi, molto di più di quanto riusciamo a pensare in ogni singolo momento: “l’intelligenza non riesce a esprimere nella concezione di un verbo tutto quanto abbiamo nella conoscenza abituale, bensì soltanto un aspetto”: Q. de Veritate, q. 4, a. 4. 114 Cfr., in questo senso, E. Moss, The Grammar of Consciousness. An Exploration of Tacit Knowing, St. Martin’s Press, New York 1995, dove si delinea una filosofia della mente ispirata alle idee di Polanyi sulla conoscenza tacita. 97 4. Anima, corpo e identità personale In questo libro non consideriamo problemi ontologici propri dell’antropologia. Ci limitiamo agli aspetti cognitivi tipicamente studiati dai filosofi della mente. Comunque adesso mi riferirò ad alcuni punti relativi all’identità della persona, indispensabili per il nostro sviluppo tematico (presupponendo le nozioni antropologiche fondamentali di persona e anima umana). In alcuni casi sarà sufficiente fare solo qualche precisazione terminologica115. a) Persona La trascendenza dell’intelligenza umana sulla sensibilità, insieme al suo legame intrinseco con essa, è correlativo alla trascendenza dell’anima spirituale sulla materia e al suo vincolo sostanziale con il corpo116. L’unità anima/corpo è un tutt’uno con l’identità e unità ontologica della persona umana. La persona non è il corpo né l’anima, ma la totalità sussistente di corpo ed anima. A questa totalità conviene propriamente l’attribuzione di essere. In rigore, solo la persona è, non le sue parti, e solo la persona agisce, in quanto è padrona dei suoi atti grazie alla libertà. Veramente solo la persona realizza in grado massimo la perfezione esistenziale dell’essere. La persona è sempre presente, anche quando non opera all’altezza di tutte le sue potenzialità o quando non è riconosciuta da nessuno (la conoscenza non crea la persona). L’embrione umano è persona, benché non possa ancora esercitare le funzioni superiori umane. In qualche stadio primitivo egli potrebbe non avere nemmeno sensazioni, così come un uomo anestetizzato o in stato di coma perde l’esercizio della sua coscienza intellettuale e sensitiva. In questi casi siamo sempre davanti a persone umane. Sappiamo di esserlo quando siamo davanti a un corpo vivo appartenente alla specie umana. Riconoscere l’altro come persona è tanto importante quanto riconoscere noi stessi come persone. Naturalmente, il criterio di conoscenza 115 Cfr., su questo tema nella prospettiva della filosofia della mente, J. Perry (ed.), Personal Identity, University of California Press, Berkeley e Los Angeles 1975; J. Cornwell (ed.), Consciousness and Human Identity, Oxford University Press, Oxford 1998; S. Shoemaker, Identity, Cause, and Mind, Clarendon Press, Oxford 2003; J. Searle, Mind, Oxford University Press, Oxford 2004. 116 Sul concetto aristotelico di anima, nel contesto del dibattito mente-corpo, cfr. J. Quitterer, L’anima umana: illusione o realtà neurobiologica? Un contributo all’attualità del concetto di anima, “Rivista teologica di Lugano”, VIII (2/2003), pp. 217-231. 98 dell’identità umana non si confonde con l’identità ontologica della persona stessa. b) Coscienza e io La coscienza della propria identità è un aspetto della conoscenza intellettuale. La coscienza personale non è la persona (una persona umana può essere incosciente). Come abbiamo visto nella sezione sull’inconscio, la coscienza personale si manifesta quando ci comprendiamo in modo naturale e in mezzo alle nostre azioni come soggetti di riferimento di quanto facciamo o di quanto ci accade. La parola normalmente impiegata per indicare l’autocoscienza personale è io, il me stesso. L’io quindi è la propria persona in quanto avverte se stessa nei suoi atti. L’io non si “sente” e non è appreso come oggetto di nessuna operazione, bensì si avverte come il soggetto delle mie operazioni o passioni (“voglio”, “vedo”, “soffro”). La conoscenza dell’io è metafisica e insieme sperimentale, benché non empirica (ci sono molte esperienze metafisiche e spirituali). L’esperienza dell’io è misteriosa e al contempo chiara. Comprende il proprio corpo, ma lo sorpassa (“il mio corpo è mio, ma io non sono semplicemente la totalità del mio corpo”)117. “Io” si riferisce specialmente agli atti superiori (“ragiono”) o agli atti fisici in quanto includono il tutto personale attivo o passivo (“corro”, “mi perseguitano”), mentre gli atti delle parti del corpo diciamo di averli o che sono nostri (“ho un dolore al dito”, “il mio braccio è ferito”). Per attribuzione semantica possiamo riferire l’io ad un’altra persona, persino quando non è cosciente (“quel soggetto che dorme è un io”). Esiste una correlazione tra l’autocoscienza e l’attività cerebrale? La risposta è affermativa, dal momento che l’autocoscienza è un’attività dell’intelligenza collegata all’attivazione della sensibilità superiore118. Non esiste una localizzazione dell’intelligenza come potenza spirituale, né delle sue operazioni spirituali in quanto 117 Sul rapporto tra io e corpo, cfr. C. Fabro, L’io e l’esistenza, a cura di A. Acerbi, Ediz. Università della Santa Croce, Roma 2006. Fabro prende la dualità io/corpo come fenomenologicamente corrispondente alla dualità ontologica di anima/corpo. Ne segue uno sviluppo ampio e ricco dell’esperienza vissuta dell’io nel suo rapporto col corpo. 118 Cfr. il n. 8 di questo capitolo sulle correlazioni tra atti intellettivi e fenomeni neurali. Ved. sul tema, dal punto di vista neurologico, T. E. Feinberg, J. P. Keenan (ed.), The Lost Self: Pathologies of the Brain and Identity, Oxford University Press, Oxford 2005. 99 tali. Ma tali operazioni (atti relativi alla coscienza di sé, giudizi, scelte, progetti) sono in collegamento con le aree corticali e subcorticali della sensibilità superiore cognitiva, emotiva e motoria119. Comunque su questa tematica è bene ricordare i diversi livelli della coscienza personale prima accennati (situazione di veglia, memoria autobiografica, capacità di riconoscere aspetti cognitivi o parti del corpo come nostri, ecc.) da cui risulta una particolare complessità del problema a livello neurologico. Un livello della coscienza personale sono i ricordi della propria vita, ma la coscienza personale non è necessariamente identica alla coscienza narrativa. Possiamo dire “io” e agire liberamente, pur avendo perso la memoria della nostra identità narrativa120. c) Anima come io e anima come atto del corpo L’io è stato tradizionalmente denominato anima o spirito in riferimento specifico alla sua vita intellettuale o spirituale orientata a fini trascendenti (scienza, arte, moralità, religione, amicizia), pur contando con la partecipazione della sensibilità. La vita superiore dello spirito non è necessariamente separata dal corpo, anzi riesce a coinvolgerlo nei fini trascendenti, come avviene in un modo particolare nell’arte. Così come l’intelligenza e la libertà possono orientarsi al servizio di fini corporei -cercare alimenti, curare la salute-, è altrettanto naturale il processo inverso, quando le dimensioni più alte del corpo si pongono al servizio dello spirito121. David Braine parla, in questo senso, di una concezione fenomenologica e prefilosofica dell’anima, frequente nelle Sacre Scritture, quando si parla di “cuore umano” o di “amare Dio con tutta l’anima”122, oppure nella letteratura e nel linguaggio colloquiale (“la mia anima è turbata”, “il mio spirito gioisce”). Questo modo di riferirsi alla parte più alta della persona -la dimensione spirituale- non comporta una particolare teoria dell’anima come forma del corpo123. In questi usi i 119 Cfr. il nostro capitolo 4, nn. 7 ed 8, dove la correlazione è ricondotta alla causalità. Cfr., sul tema, lo studio di A. Damasio, Emozione e coscienza, cit. 121 Secondo la fede cristiana, la spiritualizzazione del corpo avverrà in grado massimo nello stato di gloria. La scomparsa della contingenza biologica renderà superflue le attività sensitive destinate alla sopravvivenza di un corpo sottomesso al degrado entropico. Il corpo risorto e santificato sarà più pienamente partecipe della gloria del suo spirito. 122 Cfr., ad esempio, Mt 26, 37; Lc 1, 46; 10, 27; 12, 19; Gv 14, 1. 123 Cfr. D. Braine, The Human Person: Animal and Spirit, cit., pp. 481 ss. 120 100 termini “anima” o “spirito” valgono per “io” o “la mia persona”. È naturale esprimersi in questo modo, poiché molte attività superiori non possono attribuirsi al corpo. Non ha senso dire “il mio corpo è pieno di incertezze”, “il mio corpo ha votato”, mentre invece ha senso dire “il mio corpo si è indebolito”. Secondo Braine, la concezione fenomenologica dell’anima non comporta dualismo, benché Cartesio le abbia dato una falsa ontologia, separandola dal corpo. Tale concezione non è incompatibile con la nozione aristotelica di anima come forma del corpo. d) Identità del corpo umano e cervello La persona è la totalità unitaria e individuata di corpo-anima, non una parte speciale dell’anima o del corpo. Dal momento che l’anima, forma del corpo, rende specificamente umano tutto il corpo (“il mio corpo”), l’anima non può essere l’atto di una parte somatica, ma lo è dell’insieme delle parti dell’organismo preso come un tutto. Le parti del nostro corpo, comunque, sono sostituibili. Questo avviene naturalmente durante tutta la vita (rinnovamento cellulare) e può essere anche realizzato artificialmente, come succede nelle protesi. La sostituzione di parti del nostro organismo non significa che esse siano contingenti o accidentali. La totalità somatica conserva la sua identità grazie alla presenza della forma -anima- in un corpo che può rinnovarsi materialmente di continuo, privandosi di parti o incorporando parti alla sua totalità in flusso124. La permanenza dell’identità personale è attestata dalla continuità dei ricordi dell’io cosciente (“io narrativo”). Però, come abbiamo detto, la coscienza non si confonde con l’identità personale. Ripetiamolo ancora: la persona, una realtà ontologica, sussiste anche nei casi in cui si perde la coscienza: amnesia, stati comatosi, patologie della coscienza. La radice neurofisiologica dell’identità dinamica del corpo umano sta nell’encefalo, centro del sistema nervoso e quindi centro dell’organizzazione dell’intero corpo umano in tutte le sue funzioni, neurovegetative e neurosensitive. 124 Talvolta si pone il problema dell’identità “numerica” di una nave le cui parti materiali siano a poco a poco tutte sostituite. La questione è diversa, poiché la nave non è una sostanza, ma un’unità fisica collettiva. Non entro adesso nella problematica dell’identità delle unità collettive le cui parti cambiano (un popolo, o l’esempio menzionato della nave). 101 Questo fatto non significa che l’identità del corpo umano125 sia l’identità dell’encefalo. Se fosse così, il corpo umano sarebbe soltanto il suo cervello e il resto sarebbe accidentale. L’attribuzione all’encefalo della funzione di radice dell’identità dinamica del nostro corpo significa che la distruzione dell’encefalo comporta direttamente la morte (la disintegrazione) di tutto il corpo. Ovviamente, il principio fondamentale dell’unità del corpo umano è l’anima, non l’encefalo. Però, alcune parti del corpo dipendono da altre e una di esse si dimostra la parte organica principale, dalla quale dipende dinamicamente la sussistenza dell’intero organismo. Per questo motivo, l’encefalo preso come un tutto è l’unico organo insostituibile del corpo umano. Nel caso ipotetico, forse puramente teorico, di un encefalo “trapiantato” in un altro tronco somatico umano, la persona “seguirebbe” il destino dell’encefalo (invece, un trapianto di cuore non comporta un cambio di persona), ma non perché esso sia sede delle funzioni superiori, poiché la persona non s’identifica con le sue funzioni superiori, bensì perché, come abbiamo detto, l’encefalo è la radice organica dinamica dell’identità numerica del proprio corpo, e la persona sta dove sta il proprio corpo. Il caso di due gemelli uniti fisicamente in un unico tronco condiviso, per indicare un fatto apparentemente problematico in questo senso, in realtà non significa la presenza di due persone in un unico corpo. In questo caso ci sono piuttosto due persone con due corpi uniti, con la condivisione di alcune parti. Sappiamo che sono due persone perché siamo davanti a due encefali vivi e diversi. L’asportazione e sostituzione di parti del cervello non intacca necessariamente la sua unità e identità funzionale. Questo genere di interventi, pure in quadri fantascientifici, al massimo potrebbe comportare la morte oppure una menomazione cognitiva e tendenziale/emotiva della persona (molti di questi interventi, se possibili, potrebbero essere immorali). Anche i casi patologici di “molteplici personalità” (schizofrenia, cervello diviso) sono esempi di disintegrazione cognitiva ed emotiva che non comportano la scomparsa dell’identità personale ontologica. Un malato mentale, con la sua coscienza divisa, non per questo motivo cessa di essere persona. 125 Mi riferisco sia all’identità numerica (ciò che fa di questo corpo il mio corpo) che specifica (ciò che fa di una struttura corporea un corpo umano). Nella filosofia analitica si parla di identità come type (specifica) e di identità come token (numerica o del caso concreto). 102 Talvolta si pone la domanda sulla possibilità di un trasferimento di funzioni cognitive nei casi ipotetici di trapianti di parti di cervello. Veramente non è stato mai dimostrato che un eventuale trapianto di sezioni cerebrali in un altro cervello implichi un trasferimento di informazioni e di contenuti cognitivi da soggetto a soggetto. L’idea fantascientifica di un trapianto dell’area linguistica da un soggetto ad altro che comportasse un trasferimento della competenza linguistica correlata ci sembra improponibile. Si può trapiantare biologicamente un occhio e la potenza visiva, ma non i contenuti intenzionali del pensiero (ricordi, sapere, esperienza). Con la perdita di connessione con le funzioni intenzionali, la massa cerebrale smette di essere il loro adeguato supporto126. Per un motivo analogo, l’idea di poter “trasportare” l’informazione psichica (personalità, ricordi, sapere) dal cervello a un supporto informatico, balenata in autori affini al funzionalismo, è altrettanto stravagante. Tramite mezzi artificiali, ovviamente, si potrebbe fare una “ricopiatura” virtuale di alcuni aspetti della nostra personalità, o dei contenuti del nostro sapere, ma ciò non sarebbe un trasferimento della persona, bensì la costruzione di una sua simulazione informatica. Diverso è il caso dell’impianto nel cervello di una “protesi” cognitiva artificiale, come quelle che oggi si adoperano per riparare danni o carenze dei sensi esterni (visione artificiale) o di funzioni motorie. Un collegamento neurotecnologico del nostro cervello a un computer (interfaccia cervello/computer) potrebbe giovare alle prestazioni della sensibilità. Ciò potrebbe significare l’apertura di una nuova via di accesso a fonti informative, ma il problema della perdita dell’identità personale ontologica qui non si pone127. Il collegamento biotecnologico del nostro cervello con strumenti informatici può essere utile, se possibile, finché rimane nel campo dell’informazione o dei comandi motori. In un quadro fantascientifico, tale collegamento risulterebbe problematico dal punto di vista etico e forse della salute mentale, se il congegno elettronico dovesse contenere simulazioni psichiche di natura emotiva, tendenziale o 126 127 Cfr. il nostro capitolo 3, n. 7, sulla codificazione cerebrale. Torno su questo tema nel capitolo 6, n. 6 e). 103 pratica che potrebbero nuocere la persona come agente libero ed emotivo128. La neurotecnologia, al pari di ogni altro genere di tecnica, ha i suoi limiti antropologici e morali. e) L’anima separata dal corpo Mi riferirò brevemente a questo punto secondo il pensiero di Tommaso d’Aquino. La trascendenza dell’anima umana sul corpo porta l’Aquinate a sostenere la sua sussistenza dopo la morte129. In questo caso l’anima separata, mancandole una parte essenziale, si trova in una situazione imperfetta (questa è una tesi tomistica130), benché in quanto sussistente non smetta di essere una persona umana. La presenza della persona segue sempre la parte che sussiste senza cambiare identità, nonostante le possibili asportazioni e trapianti. Il corpo umano muore, ma non l’anima spirituale, quindi non muore la persona131. Ciò non significa che la persona sia l’anima, così come il corpo umano non è solo l’encefalo, anche se un encefalo teoricamente mantenuto in vita privo del suo tronco sarebbe ancora una persona umana. Invece un dito mantenuto artificialmente in vita non è una persona, poiché è stato separato dalla radice dinamica dell’identità del nostro corpo, come abbiamo visto. Il legame essenziale dell’esercizio dell’intelligenza umana con l’esperienza e il cervello pone il problema del modo in cui si dovrebbe concepire la mente umana nella sua esistenza (sia pure provvisoria, secondo la fede cristiana) staccata dalla base neurale. Ad esempio, in che senso dovrebbero rimanere nell’anima separata le scienze o le lingue imparate dalla persona? In risposta a tale quesito, Tommaso si limita a ipotizzare una conoscenza “confusa e generica”, sebbene questa imperfezione sarebbe 128 Cfr. sull’intelligenza artificiale il nostro capitolo 6, in particolare n. 6 e). Cfr. San Tommaso, S. Th., I, q. 75, aa. 2 e 6. 130 Cfr. San Tommaso, C. G., IV, 79, n. 4135-36 (ed. Marietti). 131 San Tommaso sembra negare che l’anima umana separata dal corpo sia persona, ma solo perché egli intende per persona l’unità sussistente nell’integrità della sua natura, la quale esige anche il corpo (cfr. In III Sent., d. 5, q. 3, a. 2; In I Cor., XI, lect. 2). Il contesto di queste affermazioni è l’argomentazione in favore della risurrezione del corpo, insieme all’intenzione di evitare il platonismo. Ciononostante, secondo l’Aquinate l’anima umana separata conosce in atto, benché imperfettamente: cfr. S. Th., I, q. 89; I-II, q. 4, a. 5, ad 2. Cfr., sul tema, J. A. Lombo, La persona humana en Tomás de Aquino, Pontificia Università della Santa Croce, Apollinari Studi, Roma 2001, pp. 325-335. 129 104 rimediata nella situazione di visione beatifica132. Degli abiti cognitivi, cioè il sapere abituale acquisito in questa vita, rimarrebbe nell’anima separata tutto ciò che è in se stesso puramente intellettuale, separato e quindi anche trasformato dai contenuti legati alla sensibilità133. Questa risposta potrà apparire poco soddisfacente, ma forse è il massimo che si può dire sul piano filosofico. La fede cristiana, benché contenga dei punti relativi alla vita ultraterrena senza corpo, tace sulla modalità esistenziale delle operazioni spirituali dell’anima, un punto sul quale non abbiamo alcuna esperienza. Le nostre esperienze cognitive (astrazione, oggettivazione, ragionamento, scienze) sono relative all’intelligenza che opera in unione con la sensibilità. La filosofia può puntare all’immortalità dell’anima, come ha fatto Platone, ma non è competente per parlare sulla modalità concreta dell’esistenza ultraterrena. 5. Lo sviluppo dell’intelligenza Nei seguenti paragrafi intendo considerare alcuni aspetti dell’intelligenza particolarmente collegati al cervello, centro di attenzione delle indagini della filosofia della mente134. Lo sviluppo mentale è condizionato da elementi neurologici collegati al buon funzionamento delle nostre funzioni psichiche superiori. Il problema non si riferisce solo agli atti intellettivi, ma allo stesso sviluppo dell’intelligenza. Nel quadro classico, come sappiamo, questo sviluppo non è visto come un puro accumulo di informazioni, ma soprattutto come una crescita a livello di abiti ovvero di peculiari potenzialità acquisite dalla mente. Lo sviluppo cognitivo è individuale ma anche collettivo, a causa dell’interconnessione sociale tra le persone tramite i mezzi di comunicazione. Con gli abiti acquisiti, se sono positivi, cresce l’idoneità personale per compiere con facilità una serie di operazioni intellettuali. Su una certa base offerta dalla natura, le prestazioni intellettuali migliorano con lo sforzo dell’apprendimento cognitivo. Il 132 Cfr. San Tommaso, S. Th., I, q. 89. Cfr. San Tommaso, S. Th., I, q. 89, a. 5. 134 Non entriamo nella problematica psicologica dello sviluppo dell’intelligenza nel bambino e nei ragazzi. Su questo tema si veda J. Piaget, La nascita dell’intelligenza nel bambino, Giunti e Barbera, Firenze 1993; La costruzione del reale nel bambino, La Nuova Italia, Firenze 1973; L’equilibrazione delle strutture cognitive, Boringhieri, Torino 1981. 133 105 risultato non è solo l’acquisto di abilità procedurali per mettere in atto una schiera di atti razionali. Più ampiamente, il risultato è un potenziamento della stessa capacità comprensiva dell’intelletto, quindi un’abilitazione per compiere con naturalezza e opportunamente operazioni intellettuali, anche nuove, che prima il soggetto non era capace di esercitare. Il “grado” di intelligenza di una persona si riferisce a un misto tra elementi innati e acquisiti che facilitano lo sviluppo delle risorse intellettuali. Questo sviluppo si può riferire alle operazioni intellettuali in generale oppure ad alcuni campi specifici (capacità scientifica, artistica, meccanica, organizzativa). La crescita razionale non dipende solo dalle variabili neurologiche, ma da un insieme di elementi che vanno presi simultaneamente e in modo sistemico, cioè con influssi reciproci. Vediamo di elencarne alcuni: 1. Sistema nervoso. È la condizione materiale fondamentale. Sono inclusi in questa dimensione aspetti genetici ed epigenetici, nonché elementi legati all’ambiente fisico e alle prime fasi di sviluppo embrionale e dei primi anni dell’infanzia. 2. Livello culturale. Una civiltà letteraria, scientifica, artistica e aperta ai valori intellettuali è stimolante e orientativa per la ragione umana. Al contrario, una cultura può contenere elementi poco favorevoli allo sviluppo intellettuale (ad esempio, se è chiusa al progresso scientifico o ai valori dell’intelligenza). 3. Linguaggio, simboli. L’intelligenza può crescere solo se trova nella cultura la disponibilità di un sistema linguistico e simbolico. Ad esempio, l’intelligenza matematica si fa avanti solo se impara un simbolismo matematico preciso. 4. Ambiente sociale a livello familiare, istituzionale e di amicizia. Questo punto, insieme al n. 3, potrebbe essere incluso nel n. 2. Lo indichiamo in modo separato soltanto per renderlo più esplicito. Il n. 2 lo riferiamo piuttosto alla macrocultura, mentre in questo numero pensiamo alla microcultura. L’interazione con interlocutori intelligenti in questi ambiti (famiglia, scuola, amici), nonché le caratteristiche di questi nuclei sociali, favoriscono od ostacolano lo sviluppo razionale, volontario ed emotivo. 5. Educazione. Anche questo punto è implicito nei numeri precedenti. L’intelligenza umana cresce se è educata, con l’aiuto di maestri e istituzioni. Il primo 106 apprendimento linguistico e di altre abilità di base è collegato ai “tempi critici”, quindi è in un particolare rapporto con le prime specializzazioni della sensibilità superiore dell’uomo, quando la plasticità cerebrale è ancora in una fase molto delicata e ricettiva. I periodi della prima infanzia, cioè delle prime esperienze, sono decisivi per lo sviluppo intellettuale e affettivo di base (ad esempio, apprendimento di lingue o di abilità musicali e artistiche). 6. Abiti intellettuali. Questo fattore è interno alla mente, benché sia condizionato da elementi esterni. Come accennavamo sopra, le persone diventano in qualche modo “più intelligenti” quando acquistano delle virtù o “competenze” di eccellenza cognitiva di ogni tipo: abiti scientifici, tecnici, artistici, organizzativi, filosofici, morali, sociali. Ciò dipende dall’impegno personale, dalla dedicazione, dall’interesse, dallo studio e da tante esperienze personali in campi concreti. 7. Dimensione personale e affettiva. Le virtù etiche e l’equilibrio complessivo della personalità incidono sulla formazione intellettuale. La personalità morale è in un particolare rapporto con gli aspetti sapienziali della conoscenza umana (senso della vita, religiosità, moralità, considerati a livello di comprensione e di prassi vissuta). Molti elementi della cosiddetta “intelligenza emotiva” (capacità di empatizzare, comprensione delle situazioni degli altri) hanno a che vedere con questa dimensione. Come si vede, potrebbe essere una semplificazione ritenere fisso il livello intellettuale di una persona o pensare che ciò dipenda unicamente dalle dotazioni del suo cervello. I grandi scienziati non erano necessariamente gente con un cervello più potente. Spesso erano persone dotate di grandi passioni intellettuali, di molta tenacità e disciplina intellettuale, che hanno trovato e seppero trarre profitto di circostanze favorevoli, quasi sempre indipendenti dalla loro volontà, per dedicarsi allo studio e alla ricerca in una certa area del sapere. Il quadro presentato è solo orientativo e va capito in un senso sistemico, con meccanismi di feed-back. Ogni dimensione può influire o condizionare le altre, sincronicamente e diacronicamente. L’agire umano elevato dagli abiti intellettivi incide sulla cultura e produce opere (libri, strumenti tecnici, istituzioni). Ciò crea le condizioni culturali che a loro volta aiutano a elevare il livello intellettuale delle persone (ma potrebbero anche ostacolarlo). L’ambiente culturale inoltre suscita abiti 107 collettivi, in successione storica, abiti trasmessi alle singole persone tramite l’educazione. Non esiste una “intelligenza sociale” come un’entità ipostatica, ma sì esistono condizioni culturali e organizzative più favorevoli all’intelligenza o più intelligentemente impostate. Lo stimolo dei maestri e gli interessi degli studenti condizionano lo sviluppo dell’intelligenza nella direzione di un campo specifico o di una serie di virtù (senso della verità, serietà, profondità, chiarezza, razionalità, mentalità critica, ragionevolezza, equilibrio, apertura, creatività). Il positivismo scientifico, o il relativismo intellettuale, non sono soltanto correnti filosofiche, ma possono anch’essere caratteristiche di una mentalità ambientale che condizionano lo sviluppo della mente in una certa direzione o che magari restringono l’uso delle sue potenzialità (il positivismo scientifico chiude la mente alla sensibilità filosofica). In queste indicazioni sono presenti degli aspetti valutativi e altri più tecnici, sebbene non ci sia una netta divisione tra di essi. Tutti considerano più intelligente la persona capace di fare facilmente calcoli matematici molto sofisticati, o se è in grado di vedere le implicazioni o i presupposti di certe situazioni, o se capisce subito il significato di una storia. I test sul quoziente intellettuale valutano il grado d’intelligenza in funzione di certe abilità razionali, preferentemente di tipo matematico e logico (saper trovare analogie, scoprire relazioni nascoste, saper ricollegare aspetti). Però i criteri di intelligenza sono tanti (saper comunicare bene le proprie idee, saper sintetizzare, saper generalizzare, saper prevedere) e alcuni di essi possono essere in rapporto a valutazioni sociali, culturali o filosofiche. I modelli di ciò che si ritiene una “intelligenza brillante” sono parecchi. Alcuni possono essere relativamente contingenti (ad esempio, in una determinata cultura la gente può assegnare grande valore alle capacità retoriche, o al sapere matematico). Certe presunte qualità intellettuali possono essere pure vincolate a una concezione discutibile o perfino sbagliata dell’intelligenza. In mezzi sociali dove dilaga la corruzione, chi non si lascia corrompere può apparire poco furbo. In un ambiente positivista, la sensibilità filosofica può apparire fuorviante. In un contesto ideologico o totalitario, facilmente saranno stimati come più intelligenti coloro che si adeguano all’ideologia dominante o alle idee “politicamente corrette”. 108 Inoltre i valori intellettuali sono da prendersi spesso in una prospettiva di armonia. Sapere molta matematica o essere bravi negli scacchi è un valore intellettuale, ma lascia di esserlo se la persona diventa troppo unilaterale nei loro riguardi. La mentalità critica può essere una virtù intellettuale, ma non lo è più se diventa ipercritica o non è in armonia con l’amore per la verità. Avere convinzioni riguardo alla verità è un bene intellettuale, ma non lo è cadere nel fanatismo o nella chiusura mentale. La valutazione definitiva di ciò che vuol dire “essere più intelligenti” è un problema antropologico, talvolta con un versante morale e prudenziale. Grazie al noto libro di D. Goleman135, oggi si parla di intelligenza emotiva, vale a dire la capacità di amministrare in modo intelligente le nostre emozioni e doti comunicative. Si dovrebbe pure parlare di una intelligenza sapienziale, diversa dall’intelligenza scientifica, tecnica o calcolatrice. Il problema è anche educativo: che tipo di intelligenza vogliamo vedere sviluppata nei giovani e nei nostri figli? La risposta sincera a questa domanda da parte di alcuni strati sociali potrebbe essere povera e deludente. 6. Cervello e grado di intelligenza136 Tutto ciò che è cognitivo nell’uomo, nella misura in cui deve passare per la sensibilità, “passa” per il cervello, ma non per questo tutto dipende dal cervello. L’apprendimento di una lingua, ad esempio, è un evento cerebrale (non però in modo esclusivo), perché chi impara una lingua sta plasmando il suo cervello. Ma egli o lei lo fanno a partire da una situazione culturale. Per imparare le lingue non servono farmaci né interventi chirurgici sul cervello. Occorre invece trovare un linguaggio disponibile nella cultura e poi studiarlo effettivamente. In questo caso si sta esercitando una causalità sul cervello “dall’alto verso il basso”, destinata alla 135 Cfr. D. Goleman, Intelligenza emotiva, Rizzoli, Milano 1996. Le tematiche sul rapporto tra l’attività intelligente e il cervello sono oggetto di ricerca scientifica, spesso in prospettiva euristica e con conclusioni non del tutto definitive. Cfr., al riguardo, H. J. Eysenck, The Inequality of Man, Temple Smith, Londra 1973; H. J. Jerison, Evolution of the Brain and Intelligence, Academic Press, New York 1973; F. Mora (ed.), El cerebro sintiente, Ariel, Barcellona 2000; F. Mora, El reloj de la sabiduría. Tiempos y espacios en el cerebro humano, Alianza Editorial, Madrid 2001; D. Purves (curatore), Neuroscienze, Zanichelli, Bologna 2000, pp. 480-498. 136 109 formalizzazione delle aree corticali linguistiche. La causalità “dal basso verso l’alto” serve a rendere più atte le condizioni materiali che consentono la formalizzazione procedente dall’alto. In parte è quanto avviene nel modellare una statua o nello scrivere un libro: l’intervento dall’alto produce una strutturazione della materia basata su criteri artistici o intellettivi. L’intervento dal basso potrà occuparsi invece delle basi materiali, ad esempio, per quanto riguarda il libro, del livello ortografico secondo criteri grammaticali, o del livello grafico affinché le lettere siano riconoscibili, o del livello fisico di base affinché le pagine si conservino a lungo. A parità di condizioni educative, culturali, caratteriali, personali, una notevole capacità intellettiva in uno o più campi potrebbe essere dovuta, naturalmente, a condizioni cerebrali favorevoli. Presupponendo a sua volta una parità di condizioni cerebrali in rapporto alle capacità mentali, si potrebbe pensare a gradi di intensità della stessa intelligenza nei diversi individui? Il fatto che alcune persone siano più creative o facciano scoperte geniali potrebbe essere dovuto a una “maggiore forza” della loro intelligenza e non ad altri fattori? Non credo sia possibile rispondere a questa domanda. Il fondo ultimo dello spirito è insondabile. Le persone nascono con una certa configurazione genetica e con una serie di condizioni neurofisiologiche dove contano gli influssi ambientali dei primi tempi dello sviluppo psicosomatico. A partire da questa base emergono individui più dotati o meno dotati, in generale o per un certo tipo di competenza cognitiva, con un determinato temperamento e modi di agire molto personali. Tranne il caso di malattie e malformazioni neurali, non possiamo correlare i gradi e le modalità dell’intelligenza a nessuna situazione genetica di base, anche perché i concetti di “gradi” e “modalità” dell’intelligenza sono alquanto relativi, a causa della loro complessità. Il resto, cioè lo sviluppo mentale, dipende da un intreccio di fattori, dove le capacità cognitive si manifestano col tempo, per cui non possiamo valutarle all’inizio, quando sono soltanto potenziali. Se un bambino dimostra una memoria prodigiosa o una capacità notevole di concentrazione dell’attenzione, superiore alla norma, in linea di principio si tende ad attribuire queste qualità a cause neurologiche, ma oggi ci mancano dati sufficienti per confermare empiricamente quest’ipotesi in modo univoco. 110 Possiamo stabilire una corrispondenza generica tra sviluppo cerebrale e crescita delle capacità cognitive comparando le diverse specie animali. Il criterio dell’aumento di peso e di volume della massa encefalica non basta da solo in questo senso. Un parametro impiegato per stabilire in qualche modo tale correlazione è il coefficiente di encefalizzazione (rapporto tra dimensione encefalica e peso del corpo), ma neanche esso è sufficiente se non si aggiungono elementi quali la struttura stessa del cervello e lo sviluppo della neocorteccia. Questi criteri invece non servono come indice del grado d’intelligenza tra gli uomini (tra gruppi razziali, sessi, individui). Ciò non è dovuto al fatto che le condizioni cerebrali siano irrilevanti per l’intelligenza. Il problema è che la realtà è troppo complessa. Nemmeno possiamo stabilire correlazioni empiriche univoche che consentano di ritenere semplicemente ereditarie le capacità intellettuali (ad eccezione di alcuni deficit psichici e di certe abilità cognitive di base, più legate alla materialità, come le capacità musicali), tra l’altro perché in questo campo non possiamo distinguere facilmente tra eredità biologica ed eredità culturale e perché gli elementi in gioco sono troppi. Inoltre, la plasticità del cervello consente talvolta uno sviluppo intellettivo capace di superare alcuni limiti neurologici. Certi difetti neurologici si possono aggirare e compensare nei tempi critici, ma non altri. Alcuni individui hanno sviluppato un’intelligenza normale pur avendo disponibile solo un emisfero cerebrale137. Possiamo piuttosto segnalare delle condizioni neurologiche generali favorevoli allo sviluppo dell’intelligenza, alcune delle quali le troviamo nella specie umana a differenza di altre specie animali, ad esempio, l’ampio sviluppo delle aree corticali associative e dei lobi prefrontali. Ovviamente tutto ciò che favorisce l’adeguata attività del cervello e la comunicazione dinamica tra le regioni cerebrali rilevanti per la percezione, la memoria, l’attenzione, la coscienza, l’equilibrio emotivo, il linguaggio, la pianificazione motoria, costituisce una base indispensabile per lo sviluppo ed esercizio dell’intelligenza, in modo particolare riguardo alle funzioni intellettuali collegate a un’area percettiva o linguistica (ad esempio, “intelligenza 137 Cfr. A. Battro, Half a Brain is Enough, Cambridge University Press, Cambridge 2000. 111 musicale”, “intelligenza spaziale”, “intelligenza linguistica”, ecc.138). Sul versante negativo, come abbiamo detto, certe lesioni o deficit neurologici impediscono il normale funzionamento della razionalità. Questi punti rimangono fermi in linea di principio, ma non sono da prendere in modo rigido o assoluto a causa dell’enorme complessità del cervello, un organo plastico molto versatile. Per concludere, una parola sull’importanza delle prime esperienze per lo sviluppo mentale, quando il cervello in qualche modo si sta ancora costituendo. Le buone capacità cognitive ed emotive di un individuo e certe loro variazioni a livello di base, e proprio per questo fondamentali, dipendono fortemente dalle prime esperienze. In molti animali le prime esperienze servono per determinare meglio la loro condotta istintiva primaria. Nell’uomo ci sono tempi critici per imparare a parlare la prima lingua (anche negli uccelli, per imparare a cantare o volare). Le prime esperienze possono determinare certe capacità cognitive ed emotive di base in un modo ampio, oppure “esclusivistico” e più rigido139. L’individuo nasce piuttosto indifferenziato e molto flessibile, un aspetto correlato alla plasticità sinaptica. Più tardi questa plasticità si perde, quando ormai si sono create certe specialità che comportano pure una forma di “esclusività”. È questo il motivo per cui la tonalità musicale di una lingua non si può imparare perfettamente dopo la pubertà. Dopo il primo anno di vita i bambini perdono la capacità di distinguere tra fonemi troppo somiglianti. Analogamente, un difetto nell’uso di un occhio nei primi anni produce il fenomeno dell’occhio pigro (ambliopia), il quale perde capacità visiva quando all’inizio è stato ignorato dal cervello. Questi punti si riferiscono a certe abilità di base, come la percezione musicale o la visione. Invece lo studio di una nuova lingua non “specializza troppo”. Al contrario, saperne parecchie facilita ancora lo studio di nuove lingue. Però se ai tempi critici non si impara nessuna, l’individuo troverà molte difficoltà per parlare bene più tardi. Ciò che è limitata qui è la capacità percettiva e motoria più legata alla materialità. Non ci sono invece tempi critici per imparare abilità cognitive più alte, 138 Cfr., su questo punto, H. Gardner, Frames of Mind, cit. Gardner, in Frames of Mind, cit., menziona il caso del “Suzuki Talent Center” nel Giappone, dove bambini sin dal primo anno di vita fino agli 7-8 anni ricevono un insegnamento musicale intensivo. A quell’età sembrano prodigi per le loro abilità musicali. L’esperienza è interessante, anche se discutibile dal punto di vista educativo. 139 112 come scienze, filosofia, arti o tecniche. 7. Cervello, linguaggio, immagini e pensiero140 a) Necessità del linguaggio L’esperienza linguistica è fondamentale sin dall’inizio per lo sviluppo e l’esercizio dell’intelligenza141. Il motivo è che ordinariamente l’atto intellettuale non si può compiere in modo adeguato senza simboli. Certamente il pensiero crea il linguaggio e non viceversa, ma lo crea per necessità. Senza simboli sensibili, l’operazione intellettuale rimane sfuggente e così non può essere ricuperata, individuata e utilizzata convenientemente. Il pensiero quindi non può progredire senza simboli, anche se normalmente quando parliamo o scriviamo capiamo più di quanto esprimiamo linguisticamente, poiché non tutto quanto si comprende si può dire con le parole. La realtà è più ampia del pensiero e il pensiero è più ampio del linguaggio. L’uso del simbolismo facilita ma anche condiziona l’esercizio del pensiero. Veramente il linguaggio è in se stesso pensiero (incarnato) e non un insieme di eventi puramente fisici. Il linguaggio contiene e veicola pensiero. Dato un sistema simbolico creato culturalmente dall’uomo, per far diventare una persona (un bambino) operativamente intelligente occorre insegnarle un linguaggio, insieme ai gesti che aiutano a contestualizzarlo. I bimbi lasciati da soli in ambienti naturali sin dall’inizio, senza un aiuto umano, senza linguaggio, alcuni allevati da animali (“bambini selvaggi”), non hanno potuto sviluppare convenientemente la loro intelligenza. Ciò non significa comunque che lo sviluppo cognitivo sia identico né esattamente parallelo allo sviluppo linguistico. 140 Cfr., su questi argomenti, S. Auroux, La filosofia del linguaggio, Ed. Riuniti, Roma 1998; P. Casalegno, Filosofia del linguaggio, Carocci, Roma 2002; P. Carruthers, Language, Thought and Consciousness, Cambridge University Press, Cambridge 1996; P. Carruthers, J. Boucher (eds.), Language and Thought, Cambridge University Press, Cambridge 1998; F. Conesa, J. Nubiola, Filosofía del lenguaje, Herder, Barcellona 1999; L. Formigari, Il linguaggio. Storia delle teorie, Laterza, Roma-Bari 2001; E. H. Lenneberg, Biological Foundations of Language, J. Wiley and Sons, New York 1967. 141 L’apprendimento linguistico primario è collegato anche alle prime esperienze sociali e affettive. L’intelligenza non comincia a evolversi nel bambino senza l’intervento continuato di un’altra persona parlante e affettuosa (normalmente la madre e il padre). La mente umana è intersoggettiva sin dall’inizio. 113 Siamo anatomicamente predisposti per parlare. Il linguaggio orale è un fatto naturale della specie umana. La creazione concreta di un linguaggio e l’apprendimento linguistico, invece, sono un evento culturale -non puramente naturale- che consente all’uomo di poter muoversi razionalmente nel mondo naturale e nell’ambiente umano. Nell’insegnare lingue trasmettiamo alla gente un sapere sedimentato da secoli. Non un sapere nel senso di giudizi, bensì una piattaforma concettuale e di abiti che poi vanno usati personalmente e in modo creativo dalle persone. b) Il linguaggio, tra l’intelligenza e il cervello Il linguaggio, costituito da simboli acustici e grafici, appartiene all’ambito dell’immaginazione e della memoria sensitiva, potenze organiche che partecipano all’intelligenza. Il cervello, di conseguenza, in unione con l’apparato fonatorio, è organo del linguaggio, come lo dimostra l’esistenza di aree corticali linguistiche conosciute dalla neurologia sin dal XIX secolo. Come abbiamo detto sopra, l’apprendimento linguistico è una certa configurazione del cervello operata dall’alto (dall’intelletto razionale). La “crescita del cervello” qui non è solo fisiologica, ma è relativa alla sua formalizzazione in quanto strumento delle attività intenzionali. Questo succede in qualsiasi forma di crescita delle esperienze sensitive alte dell’uomo. Il cervello diventa così, a poco a poco, un organo più idoneo e più duttile per svolgere le sue funzioni al servizio dell’intelligenza. Il cervello linguistico si dimostra, in questo senso, uno strumento organico del pensiero, così come le mani sono uno strumento corporeo della ragione in rapporto al lavoro, mentre il volto è pure uno strumento o, meglio, la rivelazione corporea della vita interiore della persona e un mezzo naturale della sua comunicazione (insieme al linguaggio: non per nulla il linguaggio orale è un evento facciale). E così come le nostre mani creano strumenti separati di lavoro (la tecnologia), ugualmente il cervello linguistico ha bisogno di strumenti separati per raggiungere traguardi lontani nelle opere della ragione. Lo strumento esterno fondamentale del pensiero/linguaggio è il linguaggio scritto. La scrittura è l’oggettivazione esterna e fisica di una ragione che usa naturalmente un cervello. Qualcosa di analogo si potrebbe dire oggi dei computer, in 114 quanto non sono macchine di trasformazione dell’energia ma strumenti di elaborazione dell’informazione. La scrittura e i computer costituiscono elaborazioni tecniche al servizio delle nostre attività intenzionali. In questo senso sono come strumenti separati del cervello, il quale a sua volta è uno strumento intrinseco (un organo) in funzione di un pensiero tenuto a usare un linguaggio. Inoltre, benché oggi sia possibile l’impianto di biochip nel nostro organismo per potenziare alcune delle sue funzioni, essi restano comunque strumenti tecnologici e non organici, il cui valore deriva dal loro servizio all’organismo e alla persona142. La “separazione” delle attività razionali implicate nelle creazioni tecnologiche è una manifestazione del dominio umano sul mondo fisico. Tale separazione è una forma di astrazione. Essa comporta dei vantaggi e insieme certi inconvenienti da superare nella misura del possibile. In quanto ai vantaggi, la scrittura consente al pensiero di arrivare molto al di là di quanto lo permette la nostra ristretta memoria di lavoro. I computer ci consentono di compiere operazioni razionali con risultati inaccessibili alla nostra intelligenza in certi campi della razionalità. Lo svantaggio è che la separazione impone, riguardo alla lingua scritta, un peculiare sforzo ermeneutico, e qualcosa di analogo si può dire dell’ausilio informatico in rapporto alla nostra razionalità. Dobbiamo sempre incorporare alla nostra intelligenza personale il servizio esterno dei testi e dei computer. Essi non si sostituiscono alla nostra comprensione, ma soltanto la facilitano. Il linguaggio si rivela, in definitiva, come lo strato più alto della nostra sensibilità superiore ed è, in questo, senso, il vero mediatore tra l’intelligenza e il corpo, anche se questo ruolo può essere assegnato a qualsiasi simbolo o gesto sensibile usato dall’uomo per esprimere un’intenzione razionale o volontaria. Il linguaggio sta sotto la guida immediata della ragione e così rende possibile la nostra vita razionale nella forma di un’unità dinamica tra la mente e il corpo. La ragione, come articolazione dei nostri pensieri, richiede i canali linguistici. La forma linguistica articolata di base è la proposizione, inizio della ragione, cui seguono i processi inferenziali e gli altri nessi del discorso linguistico. Esiste una 142 Cfr. il nostro capitolo 6, n. 6 e). 115 corrispondenza tra razionalità e discorso linguistico, non però una perfetta simmetria. Le costruzioni linguistiche hanno le loro leggi e la loro autonomia: sono al servizio della ragione, ma non sono isomorfe alle operazioni razionali. c) La codificazione cerebrale del linguaggio In che senso il cervello contiene una “codificazione” nelle aree linguistiche? Come risulta immagazzinata nei circuiti cerebrali una lingua, con il suo lessico -nomi, verbi- e le sue regole? La risposta a questa domanda non è facile143. L’informazione ottica e acustica proveniente dall’esterno è recepita dai sensi e comunicata al cervello tramite i meccanismi di trasduzione. Essi trasformano l’informazione ottica accolta dalla retina in un’informazione elettrochimica sempre più elaborata che dà luogo alla percezione delle forme visive. Lo stesso si può dire della percezione acustica. Nascono così le immagini luminose e acustiche. In seguito, gruppi di immagini preselezionate, corrispondenti ai fonemi linguistici e ai rispettivi segni grafici della scrittura, cominciano a svolgere la funzione di segni in certe regioni corticali, con il noto fenomeno della lateralizzazione linguistica (di solito nell’emisfero sinistro, non però in modo esclusivo). I segni orali potranno essere interpretati (ascoltati) o prodotti (parlati), e i segni grafici potranno essere visti e capiti (letti) e trascritti (scritti). Abbiamo così le quattro dimensioni linguistiche: ascoltare e parlare, leggere e scrivere. I segni linguistici radicati nel cervello -neuroni e assemblee di neuronidiventano immagini tipiche (patterns da riconoscere) e vengono collegati a un significato mentale. Ma i segni sono pure associati tra loro secondo regole (sintassi). Il loro significato completo (semantica) nasce ordinariamente da questi rapporti, i quali si stabiliscono a diversi livelli: rapporti tra lettere, tra parole, tra frasi e tra gruppi di frasi, e così si potrebbe andare all’infinito. La lingua è un sistema di segni basato su una serie di regole astratte e generali: la grammatica. Di per sé la lingua è un codice, cioè un insieme di segni sensibili o un 143 Sul rapporto tra cervello e linguaggio, cfr. Ch. Temple, Il nostro cervello. Come funziona e come usarlo, Laterza, Roma-Bari 1996, pp. 85-113, 159-194; L. K. Obler, K. Gjerlow, Cervello e linguaggio, McGraw-Hill, Milano 2001. 116 sistema simbolico che, secondo regole di combinazione tra i suoi elementi e regole di generazione e di trasformazione di sequenze, può associarsi a svariati significati e può produrre indefinitamente sequenze significative (il discorso). La lingua è una creazione culturale che noi comprendiamo a livello fenomenologico. Quindi il codice linguistico di per sé è un’oggettività del pensiero dipendente da un abito intellettivo, il quale comporta un certo uso intenzionale di oggetti della percezione. Il linguaggio, detto in un altro modo, è un’oggettività del pensiero resa disponibile, in quanto abito, all’uso della ragione. Non è un fenomeno biologico, anche se è in un rapporto intrinseco con la biologia “computazionale” del cervello. Siamo riusciti a creare sistemi simbolici di elaborazione dell’informazione in base al principio della codificazione grammaticale nei computer dotati dell’architettura di von Neumann o di Turing. Abbiamo così imparato a incorporare il trattamento dell’informazione in una base fisica. Possiamo usare un computer anche per incorporarvi una lingua (dizionari, programmi ortografici o di traduzione). Ora, si può dire che facciamo spontaneamente qualcosa di analogo quando usiamo il nostro cervello per imparare a parlare o a leggere? Oggi sappiamo che la risposta a questa domanda è negativa. Il cervello non è un computer simbolico. Non è come l’hardware di un programma, con le sue regole e una memoria “domiciliata” in un archivio. Le nostre grammatiche non sono incorporate alle regioni linguistiche cerebrali come possono esserlo in un computer simbolico. Eppure, in qualche modo complesso e indiretto, alcuni aspetti di base delle grammatiche e il lessico delle lingue sono “iscritti” nel cervello (si ricordi quanto abbiamo visto nel capitolo 2, n. 3, sull’analogia dei concetti di informazione e di computazione). Conosciamo questo punto perché le lesioni cerebrali che comportano dei deficit linguistici e l’osservazione di attivazioni di aree corticali in seguito all’esecuzione di compiti linguistici dimostrano un coinvolgimento cerebrale in alcuni aspetti specifici dell’uso della lingua. Anche se molto rimane ancora aperto alla ricerca, alcuni aspetti linguistici concreti con basi cerebrali chiare sono: fluidità e tonalità del linguaggio, comprensione e produzione verbale, padronanza dei nomi di individui in certe categorie semantiche, uso di nomi e verbi, bilinguismo o poliglottismo. Sebbene oggi ignoriamo molto sul come della “codificazione linguistica” 117 cerebrale (codificazione in senso metaforico), possiamo prevedere in termini generici l’applicazione in questo punto dei principi associativi dell’architettura connessionistica (reti neurali), su una base di “computazione” di natura elettrochimica. Questa codificazione, a titolo di base materiale, ovviamente sta in rapporto alla sensibilità superiore umana (percezione, memoria, immaginazione) e al suo dinamismo associativo, in dipendenza diretta dalla creazione razionale di un sistema linguistico. D’altra parte, quando parliamo, ascoltiamo, leggiamo, tutto il cervello è operante in un modo complesso e non solo le aree linguistiche. Un discorso significativo esige collegare molte memorie, l’attenzione, la pianificazione motrice inerente al parlare, le regioni linguistiche, le aree percettive e l’emotività. La pratica linguistica presuppone il dominio di un lessico e di una serie di regole, e anche il possesso di una “teoria della mente” degli interlocutori (vale a dire, saper intuire quanto succede nella mente altrui e anticiparne le risposte). Il dominio linguistico a livello di conversazione richiede inoltre saper fare un piano narrativo o argomentativo, adeguare il discorso ai contesti variabili, prevedere le reazioni a quanto diciamo e tener conto di tanti altri aspetti considerati dalla teoria della comunicazione. d) La questione dell’innatismo linguistico Secondo Noam Chomsky144, ogni lingua si riconduce a una “grammatica universale” profonda innata, appartenente a una funzionalità di base del cervello umano, così come è naturale all’uomo avere un apparato fonatorio previsto per parlare. Solo così si spiegherebbe il fatto che i bambini ordinariamente imparano con facilità e senza un particolare sforzo la lingua materna, con regole di produzione che consentono una sistematicità e una creatività molto al di là di quanto si potrebbe aspettare dal contatto sempre limitato con le esperienze linguistiche. La tesi chomskiana superò la visione comportamentista, troppo limitata ai processi di apprendimento linguistico basati su condizionamenti e associazioni. Resta 144 Cfr., tra le sue numerose opere di linguistica, Le strutture della sintassi, Laterza, Bari 1970; Linguaggio e problemi della conoscenza, il Mulino, Bologna 1991; Nuovi orizzonti nello studio del linguaggio e della mente, Il Saggiatore, Milano 2005. 118 da vedere in che senso si potrebbe parlare di una predisposizione innata verso alcune strutture sintattiche di base cui tenderebbe ogni linguaggio concreto formatosi storicamente, quali l’italiano, l’inglese, l’ebraico, ecc. Ad esempio, le strutture nomi/verbi, soggetto/predicato, costituiscono davvero un “universale linguistico” cui si tende, o sono convenzionali e arbitrarie come qualsiasi lingua concreta? Questo problema risulta talvolta oscuro a causa dell’intreccio tra sensibilità alta e intelligenza, anzi tra linguistica e logica. Nell’origine e nell’apprendimento di un linguaggio queste dimensioni sono intrinsecamente collegate. La formazione di un linguaggio non è un fatto biologico, bensì culturale e razionale, sia pure con una base neurologica. La nascita del linguaggio è una delle prime opere della ragione, per cui non sorprende il suo forte legame con la nostra natura psicosomatica alta. Empiricamente non sappiamo come siano nati i linguaggi umani primitivi o, in altre parole, come sia nata la civiltà umana in mezzo alla vita selvaggia degli uomini primitivi145. Una teoria evoluzionistica puramente biologica potrà dar ragione della formazione dei “linguaggi” animali, ma non della nascita del linguaggio umano, frutto dell’intelligenza come potenza universale. Il fenomeno dei bambini selvatici prima menzionato non ci ha dato nessuna luce empirica sull’origine del linguaggio. In generale questi bambini non sono stati capaci di imparare un vero linguaggio, e certamente non li abbiamo visti inventare da soli forme grammaticali nuove, sia pure minime. Questa creazione richiederebbe contesti sociali adeguati e tempi lunghissimi. Probabilmente l’uomo cominciò a costruirsi strutture linguistiche primarie e imperfette in un modo simile a come riuscì a elaborare procedimenti aritmetici elementari (contare, calcolare, creare i numeri), sulla base di regole generali dell’esperienza che più tardi diverrebbero vere strutture universali e astratte. Sulla questione dell’innatismo, potrebbe farsi un paragone con gli animali che emettono suoni significativi. Il canto di alcuni uccelli è innato, cioè legato alla specie, ma la predisposizione innata non prende forma se non grazie a un minimo di esperienza primaria in tempi critici, la quale talvolta include l’ascolto e la 145 Cfr., sul tema, S. R. Harnad et al. (eds.), Origins and Evolution of Language and Speech, The New York Academy of Science, New York 1976; M. I. Landsberg (ed.), The Genesis of Language, M. de Gruyter, Berlino 1988; T. Deacon, Symbolic Species: The Coevolution of Language and the Brain, Norton, New York 1997. 119 conseguente imitazione dei canti146. Nell’uomo l’unico innatismo ovvio riguardo al linguaggio è l’apparato fonatorio e quindi la capacità fisica di parlare, attualizzata solo se c’è un contatto umano con una lingua culturale. Sul piano dell’intelligenza, sono innate le capacità per compiere determinati atti e per conoscere alcuni contenuti fondamentali. In questo senso, così come è culturale e non naturale parlare inglese o vivere in una città, invece è naturale ragionare, giudicare, conoscere i primi principi, parlare qualche lingua o vivere in una famiglia. Ma ciò che è naturale o innato non necessariamente esiste in atto sin dall’inizio. Piuttosto il suo sviluppo è naturale, pur con tante variazioni storiche contingenti. All’origine gli elementi innati possono essere solo potenziali. La loro attualizzazione, inoltre, potrebbe essere ostacolata o impedita (ad esempio, la condizione libera è naturale all’uomo, eppure esiste la schiavitù). Comunque la domanda sussiste: esiste una tendenza congenita verso la formazione di una protostruttura sintattica? Cercheremo di dare una risposta a tale quesito nel seguente paragrafo. e) Esiste un linguaggio mentale previo ai linguaggi convenzionali? Il problema degli “universali linguistici” e della “grammatica universale” potrebbe essere impostato con una maggiore chiarezza se distinguiamo tra la logica e la grammatica, cercando al contempo di vederne i collegamenti. Ad esempio, la struttura soggetto/predicato, appartiene alla grammatica o alla logica universale? Questa alternativa si pone anche davanti alla tesi di Fodor, ispiratasi a Chomsky, dell’esistenza di un mentalese o linguaggio del pensiero stesso, previo ai linguaggi convenzionali come il francese, lo spagnolo o il cinese147. Se consideriamo i singoli nomi, la distinzione tra pensiero e linguaggio appare chiara: cavallo o horse esprimono lo stesso concetto, quindi la parola convenzionale non è il concetto. Ma la distinzione, ad esempio, tra neve e nevicare, ovviamente linguistica, non è anche logica? Se lo è, allora la distinzione tra nome e verbo è logica, 146 Sul rapporto tra innatismo e apprendimento, cfr. il nostro capitolo 4, n. 2. Nel nostro capitolo 1, n. 5, ci sono alcuni riferimenti bibliografici su Fodor. Le mie considerazioni sono indipendenti dall’articolazione dettagliata della tesi fodoriana. Come nel caso di Chomsky, intendo soltanto proporre un giudizio orientativo generale sulla tesi della grammatica universale e dell’eventuale esistenza di un “linguaggio” della mente. 147 120 quindi risponde a un pensiero. Quando diciamo “questa persona è uno scrittore”, la proposizione, articolata come l’attribuzione di un predicato a un soggetto, non è puramente grammaticale, ma è logico-grammaticale. La formazione di una proposizione mentale non è identica alla sua espressione in una lingua convenzionale. Eppure, noi non formiamo prima una proposizione “mentale” per poi “tradurla” al linguaggio, ma la pensiamo già in un linguaggio, potendo poi tradurla ad un’altra lingua. Il “mentalese” e gli “universali linguistici” sono a mio avviso il pensiero stesso in quanto diventa articolato in certe strutture logiche fondamentali e naturali148. Queste articolazioni corrispondono alle operazioni mentali compositive nelle quali comincia a svilupparsi la ragione, di cui quella primaria è la proposizione. Per questo motivo, non è facile distinguere tra la logica proposizionale, con tutte le sue possibili operazioni, e quello che i medievali chiamavano la “grammatica speculativa”. L’articolazione sistematica di una certa logica possiede un valore universale -come universali sono i sillogismi-, ma nello stesso tempo è condizionata in una maniera alquanto contingente dall’esistenza di un linguaggio evoluto, nel quale ad esempio sia presente la distinzione tra nomi concreti, nomi astratti, verbi, soggetto e predicato, nonché certi connettivi logici (e, o, se). La logica è universale, non puramente culturale, ma può nascere solo radicata in una cultura che abbia sviluppato un linguaggio. La logica e gli elementi logici di base del linguaggio non sono innati, dal momento che si formano a partire dall’esperienza. Ma sono naturali nel senso che sono formazioni cui la mente umana tende per natura. In questo senso la conoscenza dei primi principi e le operazioni mentali di base (giudizi, ragionamenti) sono naturali. Sono collegati al cervello nella misura in cui non si attualizzano senza un linguaggio, anzi appartengono alla struttura profonda del linguaggio. La logica, in definitiva, è universale, pur nascendo in una cultura. Il linguaggio concreto, invece, è sempre un fenomeno locale. 148 Queste forme, ad esempio il ruolo logico-grammaticale del verbo essere, hanno una portata metafisica, ma non sono semplicemente isomorfe alle strutture ontologiche. 121 f) Linguaggio, immagine e significato universale L’evento linguistico di base è l’associazione tra segno e significato. L’animale può associare una forma vista, udita e interpretata in qualche modo (ad esempio, come pericolosa) ad un’emozione e ad una condotta. Un fischio rivolto a un cane può incitarlo ad avvicinarsi a me. L’uomo, però, quando sente dei fischi in molteplici situazioni, anche in quelle che non riguardano la sua vita pratica, sa che cosa è il fischio, pur potendo faticare a riconoscerlo come tale in casi particolari. L’uomo può collegare indefinitamente il fischio ad altre esperienze: fischiare alle persone, per divertirsi, per disapprovare e per altri motivi, e può immaginare indefinite variazioni nel modo di farlo. Riconosciamo dunque il pattern “fischio”, ma lo comprendiamo a livello di concetto universale. Possiamo definirlo e fare un’indagine sul suo senso in generale o in casi particolari, vale a dire, dalla sua comprensione possiamo ricavare un sapere e non solo una serie di esperienze concrete. Le esperienze particolari dell’evento “fischio” hanno una radicazione neurale (anche se ignoriamo quale sia nei suoi minimi dettagli). Però l’attivazione di quelle esperienze vengono accompagnate da una comprensione essenziale. Tale comprensione è un atto intellettuale, non organico e non localizzato, benché sia in rapporto con le radicazioni cerebrali delle rispettive esperienze. Inoltre denominiamo l’atto di fischiare con un termine arbitrario resosi indipendente dall’esperienza concreta e dalla prassi ad essa collegata. La nostra comprensione intellettuale viene si collega così non solo a un’esperienza sensitiva, ma a una parola, cioè a una nuova immagine che adesso diventa “astratta” (simbolo) e che sta al servizio della comprensione del concetto corrispondente. I simboli usati dagli animali, benché si possano separare dalle esperienze di cui sono simboli, e anche se sono integrabili in un’associazione pseudo-sintattica con altri simboli149, in realtà non si separano mai dai contesti concreti relativi ai fini intenzionali animali. Questo è vero anche se un animale, per ipotesi, fosse in grado di riconoscere migliaia di fischi diversi e di metterli in connessione a scopi pragmatici. 149 L’animale potrebbe collegare, ad esempio, un fischio a un grido successivo, attribuendo a tale connessione un significato concreto in funzione della sua condotta. 122 Non per questo arriverebbe alla comprensione disinteressata e teoretica della realtà come possibile oggetto di contemplazione. Tra l’esperienza (può essere un’immagine acustica), la parola e il concetto universale si crea dunque un triangolo cognitivo. È il triangolo tra immaginazione, linguaggio e pensiero. Le reti neurali corrispondenti all’unità tra immaginazione, memoria, parola e riproduzione motoria della parola quindi sono sostenute dalla comprensione intellettuale (pur essendo autonome rispetto a quest’ultima, con la possibilità quindi di rimanere scollegate dalla luce razionale). La comprensione è la radice della lettura intelligente dell’immagine e della parola. Il processo cognitivo linguistico così è nato dall’alto (dall’intelligenza), manifestandosi come un dominio intenzionale del corpo. L’intelligenza esprime naturalmente i suoi contenuti nella produzione verbale, dando così al corpo una funzione significativa naturale. Quanto abbiamo detto presuppone il riconoscimento ontologico del pensiero astratto. L’esistenza di concetti universali non si può dimostrare neurologicamente, ma neanche confutare. Lo stesso vale in rapporto ai test empirici di comprensione intellettuale (quei test presuppongono, ma non dimostrano, l’esistenza del pensiero universale). I concetti universali si colgono nell’esperienza intellettuale di portata metafisica. Essa richiede una riflessione sui contenuti significati dal linguaggio. Non è un’esperienza della propria soggettività, quindi non è il risultato di un’introspezione psichica. I concetti, in definitiva, sono astratti e quindi li comprendiamo solo nell’astrazione. Neanche le altre sfere della vita dello spirito, come l’amore o la libera scelta, si possono accertare nella sola prospettiva neurologica. Se per un motivo filosofico o ideologico, ma non veramente scientifico, non si riconoscono queste dimensioni della vita umana, allora l’interpretazione di alcuni eventi corporei dell’uomo sarà distorta. Se non capisco l’arte, la mia interpretazione dei movimenti della mano di Raffaello quando muove il pennello non sarà adeguata. Se riduciamo tutto a chimica, allora nel cervello, nel linguaggio o nell’amore non vedremo che chimica. Le immagini (non verbali), in quanto rimandano a contenuti intellettuali, insieme al linguaggio (costituito da immagini arbitrarie o più “astratte”), costituiscono una base induttiva dei pensieri e una loro espressione. L’intelligenza di ciascuno 123 ovviamente può essere più immaginativa o più verbale, benché queste due modalità in fondo siano complementari150. Un’immagine, una scena o una serie di eventi ci fanno capire implicitamente molte cose. Nel racconto di una storia, il linguaggio si pone al servizio delle esperienze. Ma i commenti verbali su tale storia rendono esplicito quanto possiamo aver capito solo implicitamente nell’immaginarla. La pregnanza intelligibile dell’esperienza dell’immaginazione è molto forte. Però, a sua volta, la verbalizzazione attualizza il pensiero e lo fa scorrere in un modo più astratto. La parola, così, appare più docile nei confronti dell’intelligenza cosciente. L’immaginazione è la base del pensiero, ma il linguaggio è la parte della sensibilità più vicina all’intelligenza. 8. Correlazione tra atti intellettivi ed eventi neurali La neuroscienza considera il rapporto tra operazioni psichiche e neurali spesso in termini di correlazione. La “sopravvenienza”151 sarebbe una forma biunivoca di correlazione tra gli atti mentali e gli atti neurali. La ricerca sulle correlazioni lascia in sospeso il problema causale, ma serve almeno come indicazione di un rapporto funzionale. Poniamo adesso la seguente domanda: esiste una correlazione tra gli atti spirituali (pensiero, volontà) e gli eventi neurali? Se i nostri pensieri sono sostentati da una piattaforma dell’immaginazione, allora i nostri atti intellettuali comporteranno l’attivazione di zone o reti cerebrali di sostegno correlate alla loro base sensitiva. Se diciamo “Dio esiste”, il cervello è attivo per la produzione di questa frase, benché il giudizio sia un atto spirituale. Se vediamo un cane e lo riconosciamo concettualmente, la nostra idea di cane è associata al riconoscimento sensitivo di un pattern e quindi è collegata a un’adeguata base neurale. L’uso di concetti astratti all’infuori dell’esperienza sensibile possiede una corrispondenza neurale almeno nella misura in cui tali concetti ricorrono al linguaggio. Quale base neurale si può ipotizzare per concetti come “essere”, “senso della vita”, “obbligo morale”, “limiti della libertà”? Nessuna di per sé, in modo specifico. Sennonché, quando pensiamo a queste realtà usiamo un linguaggio e stiamo attenti, il che richiede una corrispondente attività 150 Cfr., sul tema, M. Eysenck, M. T. Keane, Manuale di psicologia cognitiva, ed. Sorbona, Milano 1995, pp. 181-224. 151 Cfr. il nostro capitolo 1, n. 4, a), e il capitolo 2, n. 5. 124 cerebrale152. Questa non è una vera correlazione o almeno non può essere pensata come biunivoca o “proporzionale”. È semplicistico ritenere che un pensiero trovi una precisa corrispondenza con un evento neurale specifico, come postula il principio di sopravvenienza. Quando parliamo con un minimo di emozione, non soltanto si stanno attivando le aree cerebrali pertinenti, ma vi sono pure attivazioni latenti di tutto quanto può essere associato alle funzioni cognitive, emotive e motrici. I nostri pensieri concettuali -ad esempio la frase “adesso prenderò l’autobus”- sono associati in modo latente a tantissimi altri concetti a rete e a tanti abiti intellettivi -ciò che Searle chiama il background della mente-, ad esempio all’abito per cui comprendiamo continuamente l’esistenza del mondo e il principio di non contraddizione, nonché a tanti concetti collegati alla nozione di autobus, quali “mezzo di trasporto”, “città”, ecc. Il pensiero sovrabbonda sul linguaggio e sull’immaginazione. Benché correlato al cervello, il pensiero “sovrabbonda” sull’organismo, sia in quanto all’atto che nel suo oggetto, per non parlare dei suoi contenuti impliciti o non tematizzati. Il problema della correlazione inoltre va impostato in una maniera dinamica e causale, non statica. La mente sta sempre in movimento. Ad esempio: una professoressa sta tenendo una conferenza. Il suo pensiero si svolge secondo successioni logiche che dipendono dalle sue previe conoscenze e dalle domande dei suoi interlocutori, talvolta anticipate o previste. Il suo pensiero dunque sta in un’interazione continua con altri soggetti intelligenti. Mentre lei parla, sta guidando in modo naturale e inconsapevole numerosissime attivazioni cerebrali di tipo linguistico e immaginativo, anche perché sta mantenendo in atto la sua memoria di lavoro, collegata all’attenzione e al richiamo di tanti elementi mnemonici. La professoressa dipende da innumerevoli configurazioni cerebrali che lei stessa ha creato nel suo apprendimento cognitivo. Un animale fa qualcosa di simile per dirigere la sua condotta intenzionale. Ma l’animale è spinto dai suoi dinamismi istintivi, mentre la persona orienta il suo 152 Le localizzazioni cerebrali, d’altra parte, vanno viste in un quadro di complessità. Sono flessibili e molto complesse, a causa della plasticità del cervello e delle sue caratteristiche sistemiche e di funzionamento a rete. 125 comportamento in base al dinamismo della sua vita razionale e personale. Materialmente lei dipende dalla funzionalità organica del suo sistema nervoso, di cui non è responsabile. Un intervento biologico sul suo cervello si potrà giustificare solo per rendere efficace il funzionamento nervoso (per esempio, prendere del caffè prima della conferenza, per essere più sveglia). Ma la causalità “dall’alto” che promuove i suoi processi cerebrali sta nelle sue capacità cognitive e volontarie. Le nostre funzioni cognitive più alte dominano in modo naturale le nostre dimensioni inferiori, certamente non in qualsiasi modo ma secondo canali precisi. Questo dominio comprende la capacità di operare una continua formalizzazione integrativa dei nostri strati sensitivi. Se la persona non riesce a guidare con la ragione i suoi dinamismi sensitivi per cause morali o forse patologiche, la sua vita entra in un processo di disintegrazione. Questo punto ci introduce nel problema della causalità e lo affronteremo con più ampio respiro nel seguente capitolo. In definitiva, le correlazioni tra pensiero e sostegno neurale stanno cambiando costantemente e in buona misura sono guidate dall’intelletto. Facciamo un paragone con un libro. Le sue caratteristiche scientifiche o letterarie “corrispondono” a una configurazione fisica del libro stampato (anche in questo caso si parla, infatti, di “sopravvenienza”). Però l’importante è che il libro è stato scritto dall’alto (dallo scrittore). Se modifichiamo a caso una parola stampata, probabilmente ne altereremo a caso qualche qualità letteraria o scientifica. Se lo facciamo affinché il volume sia più leggibile, si agisce sulla sua materialità con criteri materiali. Se il libro rischia di rovinarsi a causa di un logoramento fisico, chiameremo l’esperto perché prenda le misure opportune. Se invece vogliamo migliorarne le qualità artistiche o scientifiche, dovremo ricorrere all’autore, il quale agirà sulla materialità del testo con una causalità più alta153. È quanto accade quando la professoressa del nostro esempio precedente migliora la sua prossima conferenza studiando di più. Allora lei configura il suo cervello in un certo senso, non con criteri materiali, ma in funzione di una tematica cognitiva di alto livello. Consideriamo un ultimo punto. La codificazione dell’immaginazione e del 153 Il paragone del libro è solo un esempio analogico. Non intendiamo sostenere una posizione dualistica. 126 linguaggio nel cervello, in quanto base del pensiero, potrebbe consentire in linea di principio di “leggere” ciò che un individuo sta immaginando, parlando nel suo interno o addirittura pensando? Le possibilità in questo senso a mio parere sono limitate e lo saranno sempre in futuro. Al massimo, tale lettura non sarebbe completamente diversa da quella che compiamo quando arriviamo al pensiero di una persona osservando e interpretando il suo comportamento, gesti e linguaggio. Ci sarebbe quindi un problema di natura ermeneutica, certamente molto più complesso. Oggi siamo capaci, con certi limiti, di scoprire “neurologicamente” se una persona mente, se legge, se scrive o se ha un deficit cognitivo. Ma è difficile pensare che tale lettura arrivi ai contenuti precisi. L’eventuale “lettura” dei contenuti intenzionali dell’informazione cerebrale non è come la lettura di un archivio elettronico. 9. Quadro panoramico Vediamo adesso un quadro d’insieme delle tematiche affrontate. Dobbiamo considerare l’attività sensitiva e intellettuale nella sua dinamica completa, sia dal punto di vista della base permanente da cui le operazioni emergono -abiti, sapere acquisito, predisposizioni-, sia in rapporto alle sollecitazioni in atto -stimoli, domande, letture- che di volta in volta arrivano ai nostri sensi e alla nostra intelligenza. La causalità degli atti intenzionali non va intesa, quindi, solo nel solito senso lineare di input, operazioni interne e output (stimoli → atti mentali → comportamento), ma va vista in un modo più ampio. Le architetture cognitive elaborate dalla scienza cognitiva nella linea della computazione simbolica -con i loro elementi: memoria di lavoro, memoria dichiarativa, regole di produzione- non sono un modello sufficiente della nostra mente. Neanche ci servono a questo scopo i modelli connessionisti. Piuttosto è il contrario: questi modelli di mente artificiale sono stati elaborati sotto l’ispirazione di ciò che, in parte, farebbe la nostra mente o il nostro cervello, e ovviamente sono parziali. Del resto, non possiamo limitarci al funzionamento del cervello. Va presentato un quadro antropologico, dove il nucleo fondamentale è la persona umana nei suoi rapporti con gli altri, con la cultura e l’ambiente, tenendo conto delle “opere” culturali, che a loro volta influiscono sulle persone nei loro rapporti intersoggettivi. Il quadro dunque è complesso e va preso in un modo sistemico. Il nostro primo schema illustra i livelli preoperativi permanenti della nostra 127 personalità: Aspetti innati Aspetti acquisiti Intelligenza, volontà Integrazione superiore Comandi sulla vita intenzionale Sensibilità intenzionale Linguaggio Esperienza Memoria Coscienza sensibile Emozioni Cervello Sistema nervoso Soma Sensibilità vegetativa o fisiologica Fisiologia corporea Il nostro corpo è animato dalla vita organica ed è sensibilizzato: corpo elevato. Alcune delle sue funzioni vegetative sono accompagnate dalla coscienza sensitiva. Le funzioni più alte della sensibilità sono intenzionali e relative ai fini della vita sensitiva. Queste funzioni partecipano agli influssi delle operazioni spirituali e così creano ambiti sensibili specificamente umani (linguaggio, esperienza, immaginazione creativa, comportamento esterno razionale). Il cervello contiene le formalizzazioni relative alla vita sensitiva cognitiva ed emotiva. Le potenze spirituali sorpassano la dimensione somatica, ma al contempo sono legate al cervello sensitivo. Questi strati si innestano in un senso gerarchico e sistemico. Le funzioni più alte formalizzano, integrano e dominano le funzioni inferiori. La base permanente della persona è costituita da principi innati: anima e corpo (con la base genetica), potenze, istinti, temperamento. Altri principi permanenti sono acquisiti: riflessi condizionati, abiti, memorie, consuetudini, sapere. Il secondo schema si riferisce ai rapporti interattivi tra la persona umana e il mondo esterno: 128 Stimoli ambientali Persona umana Abiti Cervello Altre persone Tecnologia Scienze, arti Istituzioni Operazioni immanenti (intellettive, volontarie) Linguaggio Altri tipi di comportamento Strumenti simbolici Libri Computer Opere della cultura Il dinamismo antropologico comprende gli influssi operanti sugli strati della persona: influssi fisici (stimoli) o di tipo personale interattivo (domande degli altri, aspettative, richieste). Essi agiscono a livello cognitivo, affettivo e comportamentale. Altri influssi sono di tipo sociale e culturale: storia, tradizioni, opinione pubblica, istituzioni, famiglia, opere culturali e tecniche. Questi elementi dunque, insieme al bagaglio personale permanente, inducono le risposte operative e comportamentali della persona. Da essa nascono le operazioni immanenti (intellettuali, volontarie, emotive), dalle quali segue la condotta esterna: atti di parlare, viaggiare, giocare, salutare, lavorare. Il comportamento esterno personale possiede sempre una dimensione immanente (comprensione, amore). Le operazioni immanenti e transitive delle persone riconfigurano la base permanente della personalità, in quanto aumentano la memoria, modificano le predisposizioni e creano nuovi abiti. Il cerchio vitale abiti-operazioni alimenta se stesso, come in un meccanismo di feed-back. La dimensione esterna della nostra condotta modifica l’ambiente fisico -lavoro fisico e tecnologia- e influisce interattivamente con le altre persone tramite il linguaggio e le opere culturali. Le prime opere culturali sono il linguaggio e i sistemi simbolici. Seguono gli strumenti tecnologici finalizzati al lavoro fisico, gli strumenti simbolici destinati al servizio dell’operare intenzionale (libri, computer), le scienze, le arti e le istituzioni. Queste 129 ultime consentono l’agire collettivo. L’uomo crea cultura, interagisce con altre persone e modifica l’ambiente fisico. Tre spunti ulteriori da commentare del quadro presentato sono: 1. Il ruolo causale del cervello è importante come base materiale in questa cornice, ma è sempre strumentale. Il comportamento e le opere dell’uomo non si spiegano semplicemente con il cervello. Si spiegano, a livello alto, secondo il dinamismo interiore della persona in interazione con gli altri e con la cultura. 2. La cultura -linguaggio, scienza, istituzioni, tecnologia, arte- è creata dall’uomo e forma le persone. L’ambiente esterno alla persona è triplice: mondo fisico, mondo culturale, persone umane (singole o in gruppo). 3. Nella base personale permanente sono presenti gli abiti primordiali e le inclinazioni fondamentali della persona. Gli abiti cognitivi basilari sono la conoscenza abituale delle realtà ontologiche primarie e dei loro primi principi: conoscenza del mondo, degli altri e di noi stessi, e i principi rispettivi (non-contraddizione, causalità, dignità della persona, verità, libertà, moralità di base). Alcune inclinazioni antropologiche fondamentali sono l’amore di noi stessi, il rispetto e l’amore del prossimo, la tendenza alla convivenza familiare e sociale, l’inclinazione al sapere e alla creazione tecnica e artistica. Non è possibile spiegare il dinamismo personale ricorrendo solo alla cultura o alla biologia. La cultura può facilitare (ma anche ostacolare) l’espansione dei principi antropologici naturali. La biologia fornisce una base non solo fisica, bensì pure sensitiva alta, poiché alcune dimensioni della vita umana sono “accennate” dalla vita intenzionale animale (tendenza alla comunicazione, socialità, cenni di elaborazione tecnica, percezione significativa dell’ambiente). Il comportamento umano razionale nasce radicalmente, in definitiva, dalla natura umana nella sua dimensione spirituale cognitiva/tendenziale, in quanto incarnata in un corpo elevato. 130 Capitolo 4 La causalità mente-cervello 1. Introduzione al problema Nei capitoli precedenti mi sono concentrato specialmente sull’argomento della distinzione e integrazione ontologica tra le operazioni psichiche e gli atti organici. Adesso vorrei affrontare la questione causale, in parte già anticipata in rapporto allo sviluppo dell’intelligenza. Il problema va visto alla luce del comportamento e la sua soluzione dev’essere ontologica, non puramente biologica o computazionale. Dalla concezione stratificata dei gradi della vita, infatti, emerge una visione causale profonda e complessa. Che cosa ci spinge ad agire in una determinata maniera? La problematica si concentra su questa domanda. Ma la risposta non può essere univoca, se vogliamo tener conto di tutti gli elementi in gioco (diacronici e sincronici) che influiscono ma non determinano l’agire umano e nemmeno, in un altro senso, l’agire animale. Innanzitutto, la questione non si può risolvere nel modo giusto se contiamo solo con gli strumenti concettuali offerti dalla scienza naturale o computazionale, dove la causalità viene presa in un modo abbastanza univoco e spesso è vista piuttosto in riferimento agli aspetti materiali. Il nostro problema è impostato tradizionalmente nella cornice della “causalità anima/corpo” (o “mente/corpo”), come suggerisce il titolo scelto per questo capitolo. Secondo Platone, l’anima semplicemente muove il corpo. Questa impostazione, anche se risponde a una certa visione fenomenologica (i viventi sembrano muovere se stessi, dunque avrebbero l’anima come principio di automovimento), in realtà è fuorviante. Pure nel mondo inorganico esiste una forma di auto-movimento, poiché la realtà materiale non è del tutto inerte (questo punto è collegato alle carenze della meccanica peripatetica). Nel dualismo cartesiano, la questione si riduce all’impulso che lo spirito 131 cosciente dovrebbe esercitare su un di pezzo di materia meccanica, elettrica o altro. Tale impulso non sarebbe meccanico, elettrico, ecc., quindi sarebbe qualcosa di misterioso che comunque produrrebbe un nuovo movimento nel mondo fisico, non derivato dalle forze naturali, quindi violando in un certo senso le leggi fisiche (violando, ad esempio, il principio di conservazione dell’energia, poiché l’impulso spirituale comporterebbe la creazione di nuova energia). Più misteriosa ancora sarebbe la causalità esercitata dal corpo sulla mente: come è possibile che un fenomeno meccanico, elettrico o chimico causi un evento spirituale o psichico? Si comprende la rinuncia dei parallelisti all’indagine sul problema causale, per passare a parlare solo di correlazioni o di coordinamento. I materialisti riducono la questione alla pura causalità fisica così come viene vista dalla descrizione scientifica, la quale comporta un modo ristretto, sia pure utile, di considerare la causalità fisica. Si oppongono, in questo senso, all’esperienza intuitiva secondo la quale alcuni dei nostri atti, come i ragionamenti, non hanno cause fisiche vere e proprie. Certi autori sono costretti ad ammettere che le cause neurofisiologiche “suscitano eventi mentali”. Questo fenomeno viene accolto, al massimo, come una forma di emergenza olistica o come un risultato globale di un insieme di cose, o come un epifenomeno o una sopravvenienza. La linea causale in quest’impostazione procede sempre dal basso, cioè dalla causalità materiale. I funzionalisti affrontarono il problema causale evitando impegni ontologici. In qualche modo, essi riproposero l’antico dualismo in termini funzionali. Molti hanno riconosciuto la causazione tra eventi psichici, ma in rapporto alla base fisica preferiscono restare a livello di correlazione o di sopravvenienza. Una credenza, ad esempio, unita a un desiderio, potrebbe produrre un ragionamento e portare alla conclusione pratica che comanda l’azione: “credo che nel frigorifero ci sia un gelato; questo pensiero suscita in me il desiderio di mangiarlo; so che, per prendere il gelato, devo aprire il frigorifero; dopo un breve ragionamento pratico, apro il frigorifero, prendo il gelato e me lo mangio”. Questa descrizione “alta” della condotta è intelligibile in quanto spiega razionalmente una condotta. Più in dietro ci sarebbero le corrispondenti concatenazioni causali di natura neurofisiologica: la mia credenza come evento neurale causa l’evento neurale del desiderio, ecc. Di conseguenza, l’intreccio delle azioni umane sarebbe spiegabile dal punto di vista delle catene 132 causali fisiche, anche se la spiegazione fenomenologica psichica sarebbe pure valida per capirci a livello prescientifico. La riduzione della causalità psichica a quella fisica potrebbe portare a pensare che ogni problema umano, psicologico, morale o religioso, in fondo sarebbe riducibile a un problema neurologico, da risolvere eventualmente con metodi neurologici (interventi, farmaci) o tecnoneurologici (combinazione tra neurologia e procedimenti computazionali). Il riduzionismo causale potrebbe portare a eludere troppo sbrigativamente la responsabilità e l’impegno delle proprie scelte. Parecchie malattie psichiche possono derivare da lesioni fisiche del sistema nervoso. Ma non ogni anomalia del comportamento umano si riduce a un difetto neurale o “computazionale” della nostra mente assimilata al cervello. Anche nei casi di deficit cognitivi ed emotivi dovuti a cause fisiche, gli interventi intenzionali dall’alto (dalla dimensione spirituale) non sono da tralasciare, dato l’intreccio tra i livelli della vita sensibile e intellettuale. Perciò, la psicoterapia di sostegno spesso completa il trattamento farmacologico di alcune disfunzioni psiconeurali. Non è male ricordare che molti squilibri emotivi, non patologici, tradizionalmente venivano affrontati nella prospettiva della virtù, cioè in una dimensione formativa del carattere collegata all’impegno della libertà e della ragione. Le virtù sono un potenziamento o una crescita delle facoltà spirituali o sensitive superiori nei suoi aspetti operativi e comportamentali. Possono integrare aspetti anche materiali della sensibilità, come il mangiare, il bere, l’uso della sessualità. Le virtù sono energie personali, non innate ma acquisite, capaci di portarci a un autocontrollo intenzionale, libero, convinto e consapevole, nei confronti della nostra affettività e della nostra condotta. Nel dominio virtuoso della sensibilità, dell’affettività e della condotta, l’uomo cresce come persona. Non c’è nessun motivo scientifico per considerare superata questa visione, anzi è quella di cui oggi il mondo ha più bisogno. Alcuni libri di auto-aiuto in fondo sono saggi sulle virtù umane. Il problema della causalità psicosomatica, dunque, non è semplice. Nei viventi intenzionali e razionali ci sono molte vie causali. La dimensione organica influisce sulla dimensione psichica in modalità molto diverse, secondo il tipo di attività implicata e secondo circostanze assai variabili. Un dolore fisico cronico può portare 133 alla tristezza, questa alla depressione, la quale indebolisce la capacità di giudicare e di valutare le cose e, a sua volta, può facilitare l’insorgere di nuovi disturbi organici (meno difese immunitarie, alterazioni del sistema endocrino). Una crisi psicologica o morale può portare al decadimento fisico, da cui seguono numerose conseguenze fisiche, sociali e morali. Questi esempi evidenziano le complesse vie della causalità tra i livelli corporei e spirituali154. 2. Il dinamismo causale nella vita animale In questo capitolo cercheremo di presentare una panoramica sistematica del problema causale. Bisogna tener conto dell’insieme delle cause in gioco, vale a dire cause interne ed esterne, innate e acquisite, nei loro livelli e interazioni. L’attenzione va rivolta pure all’eventuale causalità specifica principale in un ambito dell’attività psicosomatica, pur sapendo che, insieme a una causa primaria, ci possono essere altre cause collaterali, il cui influsso potrà essere più o meno intenso o più o meno determinante nella produzione di un atto comportamentale. Iniziamo con la considerazione della vita animale, oppure della dimensione animale della nostra vita personale. L’impostazione dell’indagine causale deve tener conto della complessità del vivente intenzionale. Non è adeguato, quindi, impostare il problema in termini di “causalità tra l’anima e il corpo”, come se fossero due elementi interagenti155. Analogamente, pensare al problema proponendo un quadro dove ci sono “atti mentali” che causano “atti fisici” e viceversa è fuorviante e dualistico. La realtà non è che l’anima causa un effetto nel corpo. Piuttosto una situazione psicosomatica a un certo livello, spesso in funzione di cause esterne o dei diversi background del soggetto, produce una conseguenza psicosomatica ad un altro (o lo stesso) livello, spesso modificando l’ambiente o influendo su altre persone. In un individuo emerge, ad esempio, l’emozione della gioia. La causa specifica di questo sentimento sarà di solito un motivo oggettivo, ad esempio, una buona notizia o l’incontro con un caro amico. Tale emozione potrà sorgere soltanto se il 154 Cfr., su questa tematica nella filosofia della mente, J. Heil, A. Mele (eds.), Mental Causation, Clarendon Press, Oxford 1993. 155 Searle fa notare questa erronea impostazione dell’argomento: cfr. Mind, cit., pp. 193-214. Significativamente, Tommaso d’Aquino non segue mai questa modalità. 134 soggetto è predisposto. La gioia non arriverà facilmente se la persona è amareggiata per altri motivi, se ha un’indisposizione nervosa o altro. Quindi la gioia è causata, in questo caso normalissimo, da una conoscenza positiva forse inattesa o da un incontro della persona con un bene, benché richieda una disposizione emotiva soggettiva. Il sentimento nasce, di conseguenza, da una causalità dall’alto -sfera psichica superiore-, presupponendo un’attivazione neurale adeguata. La gioia provoca inoltre certe alterazioni psicosomatiche che il soggetto può ben notare, ovviamente correlate alla funzionalità cerebrale. Tale sentimento rende il nostro corpo più agile e attivo e si ripercuote sul comportamento, inducendo un volto sereno e sorridente, buon umore e comunicabilità. Tralasciamo gli effetti positivi di questo fatto in altre persone. Ecco un esempio semplice di una situazione psicosomatica causata da elementi esterni agenti sul corpo elevato (la ricezione di messaggi positivi per la vita intenzionale). Qualcosa di analogo si può dire riguardo agli animali, nella misura in cui essi provano emozioni positive nei confronti di beni concreti appartenenti allo loro sfera intenzionale. a) Riflessi Il comportamento animale è prefigurato in qualche modo nelle reazioni delle cellule nei confronti degli stimoli ambientali. Queste reazioni costituiscono un primo esempio di “condotta” o prassi organica, orientata teleologicamente alla difesa, conservazione, omeostasi e riproduzione dell’organismo156. I vegetali, benché non sentano, “avvertono” degli agenti ambientali variabili -stimoli- tramite recettori e meccanismi di trasduzione (segnali elettrici e messaggi chimici), come se avessero già una sorta di prefigurazione del sistema nervoso157. Tali stimoli inducono delle risposte, ad esempio, movimenti delle parti verso certe direzioni, adattamenti ed effetti di crescita. La pianta si addatta ad un ambiente variabile e cerca attivamente le fonti energetiche che la nutrono. Denominiamo tropismi, tassie, nastie, kinessie, morfogenesi, queste reazioni “comportamentali” innate dei vegetali nei confronti di stimoli come la luce, la temperatura, la presenza di sostanze chimiche, l’umidità, la gravitazione, il magnetismo (l’eliotropismo, ad esempio, è il movimento delle piante 156 157 Cfr. il nostro capitolo 2, n. 2. Cfr. il nostro capitolo 2, n. 3. 135 destinato ad assorbire il massimo dell’energia solare). Le unità comportamentali elementari negli animali che continuano ed ampliano i tropismi e i processi vegetali analoghi, incorporandosi gradualmente all’ambito sensitivo, sono i riflessi. Il riflesso è una risposta neurale predeterminata di fronte ad uno stimolo definito. Si manifesta particolarmente come movimento muscolare o come secrezione ghiandolare158. Il suo scopo è l’autoregolazione dell’organismo in funzione della sua attività biologica. Esempi di riflessi sono i movimenti delle palpebre, la lacrimazione, la salivazione, la sudorazione, la contrazione delle pupille, il vomito, la tosse, la minzione o le risposte posturali. Sono controllati da centri midollari o encefalici del sistema nervoso. I riflessi di base sono assoluti o incondizionati (sono innati). Il fenomeno del condizionamento a partire da stimoli inizialmente neutri è una prima forma di “apprendimento animale” che crea i riflessi condizionati (scoperti da Pavlov e interpretati in un senso riduzionista da Watson, fondatore del comportamentismo). Con i riflessi condizionati appare nella vita animale una struttura quasi simbolica, dal momento che il riflesso condizionato è un “segnale” indotto che suscita una risposta comportamentale159. Il comportamentismo psicologico cercò di spiegare la condotta animale fondamentalmente in base al dinamismo dei riflessi. Al condizionamento classico pavloviano si è aggiunto il condizionamento operante o strumentale (Thorndike, Skinner), dove il condizionamento appreso non è il semplice abbinamento tra uno stimolo assoluto e un altro neutro, bensì l’articolazione di una condotta animale appresa -ad esempio, azionare una leva o azioni più complesse- mirata all’ottenimento del premio verso cui si tende. Il condizionamento strumentale alla fine si confonde con l’apprendimento tramite prove ed errori ovvero tramite esplorazioni associative. Il fenomeno è inquadrabile nell’ambito cognitivo ed emotivo. Superiamo così le ristrettezze del comportamentismo. Il comportamentismo aveva affrontato i dinamismi animali in una prospettiva causale troppo ristretta, come se la successione stimoli→reazioni fosse analoga a 158 Riflesso non è sinonimo di atto vegetativo (come la respirazione o la digestione). L’arco o circuito riflesso è una regolazione nervosa dell’attività dell’organismo. 159 Cfr. un ampio studio di queste tematiche in J. L. Pinillos, Principios de psicología, Alianza, Madrid 1975, pp. 217-404. 136 qualsiasi successione regolare fisica del tipo antecedenti→conseguenti. Si perdeva così la natura della vita. Lo stimolo ambientale non è la causa principale della prassi vitale, ma è solo una causa inferiore e spesso non vivente che, incidendo sull’organismo induce un atto organico, la cui radice sta nella costituzione del vivente, così come la luce, nell’arrivare all’occhio, “produce” la visione come causa materiale esterna, necessaria ma non sufficiente per vedere. La luce fa vedere soltanto se incide su un corpo sensibilizzato per la visione. Di per sé, gli stimoli ambientali sono eterogenei rispetto ai loro effetti organici. Non li spiegano se non presupponendo la causalità propria del vivente. I riflessi, quindi, non vanno capiti nel senso tradizionale del comportamentismo. Essi sono già una prima condotta vitale, spesso accompagnata dalla sensazione, quindi da una prima forma di emotività, inesistente nei tropismi vegetali. Il riflesso non è una risposta passiva all’input ambientale, come il moto della pallina colpita da fuori. Il riflesso come prassi attiva è un’attività teleologica dell’organismo in funzione del suo operare vegetativo -ad esempio, riflessi intestinali, riflessi sessuali-, oppure orientata alla difesa da pericoli, ostacoli o squilibri esterni o interni del dinamismo vitale160. Il comportamento degli animali segue il seguente schema: 1. Informazione percepita (ad esempio, avvertire la presenza di un animale). 2. Presa dei significati (interpretare tale presenza, ad esempio, come pericolosa). 3. Reazioni emotive (con una forza motrice: ad esempio, la paura). 4. Comandi motori. 5. Condotta esterna (ad esempio, la fuga). Questo schema è già implicito nei riflessi, dove la risposta comportamentale non solo dipende dalla percezione dello stimolo, ma anche dall’emozione suscitata: i riflessi salivari del cane possono essere condizionati da un campanello, ma sono pure attivati perché l’animale ha fame, cioè ha una sensazione organica che induce il suo movimento verso il cibo. Nei livelli superiori della condotta animale scopriamo, però, una maggiore plasticità e un intervento più ampio degli elementi interiori (cognizione 160 Questa versione attivista dei riflessi si può vedere nei commenti di Popper alla teoria dei riflessi condizionati: cfr. L’io e il suo cervello, cit., pp. 167-172. 137 ed emozione), al di sopra dei meccanismi troppo rigidi dei riflessi, e quindi una maggiore possibilità di “scelta” nelle risposte comportamentali. b) Istinti Gli istinti sono elementi innati, geneticamente ereditati e collegati alla specie, che portano l’animale a una condotta predeterminata, finalizzata e “intelligente”. L’istinto sessuale, l’istinto di curare la prole, l’istinto aggressivo, quello di volare o di nuotare, ecc., di solito sono descritti in prospettive diverse161. In un modo più preciso, l’istinto può essere preso: 1) Come una forma di comportamento articolato, schematico e stereotipato, automatico ma anche flessibile, innato o quasi programmato, come se includesse una memoria procedurale (ad esempio, l’istinto delle formiche di costruire in un modo preciso i formicai o l’istinto del ragno di costruire la ragnatela). 2) Si può insistere sull’elemento cognitivo legato a tale comportamento. In questo senso l’istinto sarebbe equivalente a una forma innata d’intelligenza animale. 3) Come inclinazione verso un tipo specifico di condotta (come quando diciamo che “il cane aggredisce o si accoppia per istinto”). Le tendenze istintive sono finalizzate ai grandi fini della vita animale: conservazione, nutrizione, difesa, predazione, attacco, riproduzione, gregarismo, abitazione. Ciò che chiamiamo istinto comprende, quindi, come un “triangolo” costituito da 1) schemi comportamentali innati e tipici della specie; 2) una cognizione ugualmente tipica per la specie; 3) un’inclinazione dello stesso ordine. I riflessi, anche se sembrano istintivi, sono un tipo di comportamento più elementare. Seguendo la visione dei gradi della vita, l’istinto appare come una forma di comportamento intenzionale più ricca della condotta basata su puri riflessi, i quali sono più automatici e prevalentemente vegetativi. L’istinto può abbracciare una serie articolata di riflessi elevati a un piano più 161 Il concetto di istinto è stato sempre soggetto a discussioni di natura biologica, psicologica e filosofica, spesso collegate agli indirizzi scientifici. In queste pagine ne darò un’interpretazione coerente con l’impostazione del nostro studio. 138 alto. Ad esempio, i riflessi della masticazione, della deglutizione, ecc., sono inquadrabili nell’istinto nutritivo. Quest’ultimo non viene preso qui in un modo generico, bensì comprende tutte le attività unitarie e coordinate che portano l’animale a ricercare il cibo e a consumarlo in un certo modo innato ed ereditato. Nei confronti dei riflessi, gli istinti appaiono meno rigidi e sono più soggetti all’apprendimento in base all’esperienza. Ad esempio, non si impara a tossire, a starnutire, e invece l’animale deve imparare a difendersi, a muoversi nel suo territorio o a procurarsi il cibo in ambienti difficili. Consideriamo in seguito una serie di punti: a. Anche se l’istinto è un principio di comportamento non deliberato, non bisogna separarlo dalla coscienza sensibile e neanche dall’intelligenza animale di cui parleremo nel capitolo 5. L’istinto non è un puro automatismo. Inoltre l’istinto è fortemente finalizzato, anche se l’animale non sa di averlo (non può riflettere sulla sua condotta istintiva). La non deliberazione “impulsiva” dell’istinto si contrappone al comportamento razionale, secondo il quale l’uomo opera dopo aver riflettuto. b. L’innatismo istintivo appare contrapposto all’apprendimento. Lo schema innato di azioni istintive non s’impara (il ragno costruisce la ragnatela senza imparare a farlo). Occorre precisare tuttavia che i comportamenti innati complessi hanno bisogno di una certa esperienza per essere portati al loro sviluppo operativo. L’istinto si attualizza bene in un certo ambiente e nei confronti di altri soggetti animali (genitori, prole, compagni, nemici)162. L’animale deve imparare a cacciare, a difendersi o a temere certe situazioni. Gli animali che costruiscono tane, se sono portati ad altri ambienti o se il loro ambiente è modificato, entro certi margini possono adeguarsi alla nuova situazione e modificare convenientemente le loro opere163. Non c’è un confine assoluto tra comportamento istintivo e imparato. Nella misura in cui la vita animale è più complessa, l’istinto è più aperto all’apprendimento in base all’esperienza e alle associazioni (spesso per prova ed errori). Questo fenomeno 162 Il comportamento istintivo di solito scatta dinanzi a certi segnali o stimoli precisi (releasers) di tipo visivo, acustico, olfattivo, chimico. In certi casi le prime impressioni possono essere decisive in tempi critici per fare scattare un comportamento che poi diventa quasi irreversibile (ad esempio, affinché il pulcino segua i genitori). Questo fenomeno è denominato imprinting: “lasciare una impronta”. I releasers e l’imprint sono stati studiati dagli etologi (ad esempio Lorenz). 163 Cfr. J. L. Gould, C. G. Gould, The Animal Mind, HPHLP, New York 1994, pp. 22-67. 139 richiede una vita psichica più ricca e indeterminata 164. In questa linea ascendente, risulta notevole la povertà istintiva dell’uomo, collegata alla minore specializzazione del corpo e alla necessità di dover imparare quasi tutto165, per cui si comprendono i lunghi tempi dell’educazione. L’uomo nasce molto più indifeso degli altri animali e perciò ha più bisogno delle cure della famiglia e dell’educazione. L’indeterminazione delle funzioni sensitive umane costituisce una piattaforma molto atta per la regolazione superiore procedente dalla ragione in un contesto sociale166. Gli istinti come conoscenze non imparate o come programmi motori prefissati non esistono nell’uomo, o sono ridotti ad azioni elementari di base. Questa dimensione dell’istinto è sostituita dalla cultura e dalla tecnica. Ciò che sembra istintivo nell’uomo sono piuttosto le sue inclinazioni naturali legate al corpo in quanto organismo vegetativo-sensitivo. Queste inclinazioni -fame, sete, sessualità- non sono però istintive nell’uomo come negli animali, perché, pur essendo sperimentate come impulsi forti verso beni sensibili, sono incorporate e sempre guidate dalla ragione. L’uomo sente la fame, ma non si lascia guidare da impulsi incontrollati verso il cibo, come se fosse un animale. Egli decide quando, come, dove e cosa mangiare, e può anche non farlo. A causa di queste caratteristiche, tenendo conto del significato abituale del termine istinto (impulso cieco, non razionale), sembra più corretto parlare di 164 Gli animali non possono imparare qualsiasi cosa, come sembravano suggerire alcuni comportamentisti, ma solo ciò che sta nella linea della loro specie. La stessa conformazione anatomica animale dimostra che la specie è già “specializzata” per compiere certi atti naturali (appunto istintivi), come mangiare, vedere, riprodursi in un certo modo, lavorare con un certo ruolo sociale (come accade nelle api) o, per quanto riguarda l’uomo, parlare. L’etologia (K. Lorenz, N. Tinbergen, K. von Frisch) rilevò l’esistenza di comportamenti specifici negli animali. 165 Cfr., sul tema, la visione antropologica di A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Feltrinelli, Milano 1983. 166 Tommaso d’Aquino, commentando la scarsa specializzazione anatomica umana, osserva come in compenso l’uomo ha la ragione e le mani, i cui movimenti indeterminati sono guidati dalla ragione e si orientano alla produzione artistica e tecnica (S. Th., I, q. 76, a. 5, ad 4; q. 91, a. 3, ad 2). Anche per questo motivo l’essere umano ha un particolare bisogno di essere educato (C. G., III, c. 122). L’uomo non si adatta semplicemente all’ambiente, ma crea un proprio ambiente (la città, la cultura). Non ha una nicchia ecologica o, se vogliamo, la sua nicchia è la superficie terrestre. Ciononostante, l’uomo è sempre un essere naturale che deve vivere in un ambiente fisico adatto, avendo cura del suo habitat. 140 inclinazione o di tendenza anziché di istinto per riferirci alla parte tendenziale sensitiva umana167. A un livello più alto, vi sono nell’uomo inclinazioni antropologiche naturali di carattere spirituale (ad esempio inclinazioni verso la vita sociale, l’amicizia, il lavoro, la religione, il sapere e tanti altri valori umani)168. Alcune di esse possono avere una base nella sensibilità tendenziale elevata alla dimensione della persona. P. D. MacLean ipotizzò l’esistenza di tre livelli evolutivi e strutturali nei vertebrati. Il livello più basso o “cervello da rettile” è dominato da riflessi controllati dalla parte superiore del midollo spinale, dal ponte, dal mesencefalo e de aree vicine collegate a funzioni di mantenimento vegetativo (respirazione, circolazione, riproduzione). Il livello medio, proprio dei mammiferi inferiori, trova la sua sede nel paleoencefalo ed è in rapporto con le attività istintive e l’emotività. Il livello superiore, caratteristico dei primati, è sotto il dominio del neoencefalo, con funzioni cognitive aperte all’esperienza e all’apprendimento. 167 Parliamo di tendenza nel senso di un impulso inconscio oppure sentito verso il compimento di certi atti. Alcune tendenze possono essere individuali, come la propensione personale di una persona verso l’arte, la scienza, la politica, ecc. 168 Le inclinazioni antropologiche naturali sono orientamenti della volontà verso il bene. Esse costituiscono un aspetto strutturale della natura umana, motivo per il quale sono il fondamento naturale dell’etica: cfr. Tommaso d’Aquino, S. Th., I-II, q. 94, a. 2. Non ogni tendenza umana è per forza biologica. Una visione sistematica delle tendenze umane, contrapposte agli istinti, con un particolare approfondimento della teoria tomistica, si trova nell’eccellente studio di A. Malo, Antropologia dell’affettività, Armando, Roma 1999, pp. 105-211. Cfr. anche M. Rhonheimer, Legge naturale e ragione pratica, Armando, Roma 2001, pp. 107-109; J. A. Lombo, F. Russo, Antropologia filosofica, cit., pp. 97-102. 141 Questa triplice divisione, seppure alquanto semplificata, risulta orientativa. Secondo la tesi di fondo di MacLean, i livelli sensitivi inferiori non spariscono, ma sono integrati nei livelli superiori in corrispondenza con le strutture encefaliche tardive169. I livelli sensitivi più alti (emozioni, immaginazione, esperienza), aggiungiamo noi, sono più facilmente trasfigurati dalle funzioni spirituali (così, la tendenza sessuale viene elevata ed è vissuta come dimensione emotiva personalizzata rispetto all’altro sesso). Invece i livelli più bassi (i riflessi) sono rigidi e poco malleabili (ad esempio, le tendenze alla nutrizione o alla sessualità a livello di riflessi), anche se sono pure controllabili dalla persona umana. 169 Cfr. P. MacLean, The Triune Brain in Evolution, Plenum Press, New York 1990. 142 c) Passioni organiche Consideriamo in seguito il ruolo dell’emotività o passionalità nella condotta. La sensibilità animale e umana “formalizza” le funzioni neurovegetative o fisiologiche. La digestione, ad esempio, può essere accompagnata da benessere, malessere, sensazione di pesantezza, ecc. L’attività organica acquista così una coloritura psicosomatica causalmente rilevante. Le sensazioni somatiche (periferiche, viscerali, muscolari) sono apparentemente passive, per cui i classici le chiamavano passioni (cioè non sono azioni nostre, ma “ci capitano”). Queste sensazioni, indotte da alterazioni fisiologiche interne o da stimoli ambientali, orientano all’azione. Il dolore fisico, tipico esempio di passione sensitiva vegetativa, quando è possibile induce una reazione corporea orientata a evitare la sua causa. Il dolore, quindi, muove o causa nella direzione della difesa o della riparazione dell’organismo. Ciò che causa non è il sistema nervoso “parallelo al dolore”, né l’anima, bensì il dolore in quanto atto psiconeurale. Il piacere fisico, un’altra passione, ugualmente è causato e causa, anzi il piacere è un importante elemento causale del dinamismo del “corpo che sente se stesso”. Il piacere è una sensazione organica più diffusa del dolore (piacere tattile, del gusto, della vista, ecc.). Generalmente è collegato a un bene (sentito) dell’organismo, sebbene possa essere derivato da una causa intenzionale (ad esempio, da un segno di affetto). Come espressione di benessere organico, il piacere fisico nasce di solito dal compimento adeguato di alcune attività organiche sentite. La sua funzione vitale è di attirare verso la loro realizzazione (ad esempio, spinge a consumare un alimento gradevole), seppure in questo senso il piacere piuttosto è preceduto dalla passione del desiderio (fisico). Il soggetto senziente prova una mancanza organica (fame, sete170), 170 Il desiderio sessuale è legato alla funzione riproduttiva, ma non è del tutto simmetrico alla fame o alla sete, poiché negli animali superiori la sua dimensione sensibile normalmente è trasfigurata nell’amore sensibile verso il maschio o la femmina presi come soggetti intenzionali. Di conseguenza, la sessualità (anche animale) trascende in parte la pura funzionalità vegetativa in quanto sentita. L’amore sessuale animale, in definitiva, è una passione più alta della fame o della sete. Nell’uomo la dimensione animale dell’attrazione sessuale viene incorporata nella struttura della persona e quindi è attuata, secondo le circostanze, nella modalità “elevata” dell’amore tra uomo e donna, in un contesto di virtù e di libertà e non secondo semplici impulsi istintivi. La separazione tra queste dimensioni dell’amore può comportare un fattore di disintegrazione del comportamento umano. Cfr., sul 143 una sensazione-desiderio che insieme inquieta ed è anche dolorosa se il soddisfacimento -attrazione del piacere- viene ritardato oltre misura. I classici denominarono concupiscenza o appetito il desiderio sensibile, anche se il concetto può essere trasferito a livelli più alti (desiderio di ricchezze, di onori, ecc.). Il desiderio fisico si sperimenta come la tendenza verso un oggetto piacevole ai sensi, o come la ricerca di soddisfacimento di un impulso verso un bene fisico sensibile, il che include il compimento di una funzione fisiologica (mangiare, bere, attività sessuale). Nel momento in cui la funzione viene adempiuta e il desiderio è così “appagato”, si sente il piacere, cui segue la scomparsa del desiderio e molto rapidamente anche del piacere stesso. Il piacere sensibile è breve: va via non appena si compie la consumazione del bene sensibile (si pensi al piacere sfuggente di bere un bicchiere d’acqua quando si ha molta sete). La natura è avara con i piaceri fisici, benché sia spesso violenta riguardo a certi desideri sensibili. Con questi elementi vogliamo far notare il senso in cui gli animali sono mossi dai loro desideri e passioni sensibili e non semplicemente dalle loro strutture biologiche, genetiche e nervose, non in una modalità dualistica, ma nell’unità di queste dimensioni. Il dinamismo del piacere-desiderio è perfettamente integrato con gli elementi fisiologici e non c’è da stupirsi che abbia un circuito cerebrale proprio. Se la dimensione fisiologica si rende indipendente e tende alla ripetizione, si produce la caduta dell’individuo senziente nella situazione di dipendenza (droga, tabacco, alcolismo). Il soggetto afflitto da questo male, di cui forse è moralmente responsabile, sente con violenza la necessità fisiologica di compiere in frequente ripetizione una serie di atti che soddisfano le regolari e urgenti richieste dei meccanismi di dipendenza. Ciò che forse era mancanza di temperanza, adesso diventa patologico, e le sue cause sono primordialmente fisiologiche (siamo di fronte a un livello causale basso del soggetto psicosomatico). I meccanismi e la forza della tossicodipendenza sono diversi a seconda del tipo di processo funzionale in atto. La tossicodipendenza focalizza ossessivamente l’attenzione e il comportamento tema, K. Wojtyla, Amore e responsabilità, in Metafisica della persona. Tutte le opere filosofiche e saggi integrativi, Bompiani, Milano 2003, pp. 461 ss, e Persona e atto, in ibid., pp. 1071-1089 (sul concetto di disintegrazione). 144 dell’individuo, riducendo i suoi spazi di azione. Non potendo opporsi facilmente agli impulsi della dipendenza, il soggetto si trova sotto una forma di “schiavitù organica”. Dalla disabilità tossicodipendente è possibile riabilitarsi con metodi oggi ampiamente conosciuti. Esistono pure forme “più alte” -meno fisiche- di dipendenza psicologica che “assediano” l’anima, come la passione per il gioco, le ossessioni di tipo lavorativo, erotico, ecc., le quali hanno comunque una base neurale, in quanto tali deviazioni della condotta catturano la memoria, l’immaginazione e i desideri e così schiavizzano la ragione. Il modo più elevato di superare queste situazioni è l’impegno personale nella creazione di virtù morali cognitive, emotive e comportamentali. Il soggetto deve essere prima convinto del valore da promuovere in se stesso, e in seguito deve avere la coerenza di fare o di non fare ciò che sta nella linea della virtù desiderata. Contro una tendenza oggi troppo diffusa, falsamente confusa con la spontaneità e la libertà, la persona, riguardo a queste problematiche, dev’essere talvolta portata a saper dire di no, vale a dire, deve saper esercitare una certa violenza contro le incitazioni sociali, le pressioni culturali o la ribellione di “una parte di noi” che ci porta dove non vogliamo171. Questo è il senso di quanto nell’ambito ascetico è chiamato mortificazione intesa come abito virtuoso. La parola repressione è stata troppo abusata e ideologizzata, come se ogni tentativo -educativo o politico- di frenare una tendenza deviata dovesse essere sempre contrario all’espansione della libertà. Ma una libertà non disposta a soffrire, anche ad auto-negarsi per motivi validi e nel modo giusto, può finire nella schiavitù o nell’ingiustizia, così come una società non disposta a frenare la criminalità, con mezzi legittimi, diventerà sempre più indebolita e ridurrà i suoi spazi di libertà172. Bisogna distinguere tra le anomalie tendenziali morali, facilmente sottoponibili 171 La fede cristiana sostiene l’esistenza di un principio di squilibrio affettivo in ogni persona (la concupiscenza in senso teologico), per cui i nostri impulsi emotivi, di per sé positivi, non sempre ci portano dove vorremmo o dove con la ragione vediamo che ci conviene andare. Dal punto di vista teologico, questo squilibrio congenito è una delle conseguenze del peccato originale. 172 La cosiddetta ideologia del ‘68, nella misura in cui si è polarizzata unilateralmente in favore di una libertà contrapposta a qualsiasi forma di vincolo, confuso con la repressione, è stata purtroppo disastrosa dal punto di vista educativo. 145 alla ragione, benché non senza sforzo e travaglio interiore, e quelle veramente patologiche, ormai fuori controllo e di cui forse il soggetto non è del tutto (o per nulla) responsabile. In certi casi il confine tra il comportamento moralmente negativo -vizio, peccato, immoralità- e la condotta patologica può non essere netto, a causa della complessità dei dinamismi psicosomatici. Nella misura del possibile, comunque, la persona va aiutata a superare ogni difficoltà tendenziale puntando principalmente al potenziamento e all’esercizio consapevole della sua libertà. d) Passioni animali “alte” La vita sensitiva animale e umana non è univocamente collegata alla funzionalità neurovegetativa. La percezione esterna apre la soggettività senziente a oggetti intenzionali che non sono funzioni vegetative, come quando un animale vede alberi, foreste o avverte pericoli nell’ambiente. Tale percezione suscita nell’animale passioni relative alla sua vita istintiva transvegetativa. Nelle sensazioni relative allo stato dell’organismo non è facile separare la dimensione informativa da quella passionale. Sentiamo il movimento del braccio (sensazione cinestesica), ma possiamo sentirlo anche dolorosamente (elemento sgradevole o passione nel senso classico). Nelle sensazioni più intenzionali il corpo si occulta in favore dell’oggetto esterno. In quest’ordine della sensibilità la dimensione cognitiva ed emotiva diventano chiaramente differenziate. Ad esempio, la visione animale della faccia di un altro animale può lasciarlo indifferente, ma può anche incutergli paura, desiderio, gelosia. Le passioni suscitate dalla percezione esterna sono “passioni alte”, che guidano il comportamento intenzionale. Queste passioni animali (possiamo chiamarle anche emozioni) sono dinamismi orientati al servizio dei fini istintivi: conservazione della vita, cura della prole, caccia, costruzione di tane. Nell’uomo, le passioni sensitive “alte” sono al servizio dei fini della vita razionale. La visione umana del volto di un amico suscita sentimenti personali e promuove un comportamento adeguato al livello ontologico della persona. Gli animali sono mossi dalle loro passioni istintive, stati affettivi o emozioni173: 173 Aristotele aveva già osservato che il motore del comportamento animale sta nelle sue inclinazioni sensitive: cfr. III De Anima, 433 a 10 ss; 433 b 5 ss. 146 spavento, rabbia, desiderio di vendetta, gelosia, giocosità, aggressività, agitazione, trepidazione, inquietudine, obbedienza a un capo, sottomissione. Queste passioni, innescate da stimoli esterni significativi o da situazioni interne organiche, promuovono una condotta intenzionale: collaborazione sociale, operosità, difesa, caccia, amicizia o inimicizia animale, corteggiamento sessuale, comunicazione, strategie di lavoro, comportamenti materni, solitudine. Non siamo adesso interesatti a fare una classificazione completa di queste passioni e dei comportamenti conseguenti, né intendiamo proporre una distinzione tecnica tra emozioni, sentimenti o inclinazioni174. Spesso tali classificazioni seguono criteri naturali, ma possono avere anche una componente logica (ad esempio, il desiderio sensitivo potrebbe essere un genere, specificato come fame, sete, desiderio sessuale, ecc.). Di solito i nomi di inclinazioni, istinti o appetiti (la oJrmhv dei classici greci) sono generici (inclinazione alla conservazione, alla nutrizione, alla procreazione, alla socialità), mentre le passioni o emozioni sono piuttosto le loro attuazioni concrete (così, l’emozione della paura manifesta la tendenza alla difesa)175. Aristotele introdusse una distinzione interessante tra la tendenza al semplice possesso di un bene sensibile, attuata come desiderio o piacere, e la tendenza verso i mezzi da adoperare quando tale possesso (o conservazione) è difficile o trova ostacoli. Quest’ultimo punto crea l’aggressività (attacco, difesa), ma promuove anche l’intelligenza animale, che deve darsi da fare non per godere semplicemente dei beni sensibili, bensì per conquistarli e proteggerli, staccandosi così dalla pura ricerca del piacevole. In qualsiasi caso, il criterio d’intelligibilità della vita affettiva animale è sempre la finalità. Gli animali soffrono, lavorano, si muovono, perché hanno fini intenzionali. La causalità della vita affettiva, cognitiva e comportamentale animale, in questo livello transvegetativo, è psicosomatica, in un senso più complesso della causalità psicosomatica della sensibilità vegetativa. Un gatto, ad esempio, provando paura di fronte a un cane inferocito, può reagire con la fuga. La causa propria della sua paura è 174 Cfr., sul tema, A. Damasio, Emozione e coscienza, cit., pp. 51-104. A. Malo, in Antropologia dell’affettività, cit., impiega in modo sistematico la distinzione tra tendenza e fenomeno affettivo concreto (emozione, passione, sentimento). Il fenomeno affettivo è una “attualizzazione” della tendenza. 175 147 la percezione del cane inferocito: tale riconoscimento percettivo è un evento psicosomatico causato da uno stimolo esterno complesso. Questa percezione suscita un altro evento psicosomatico: l’emozione della paura. La parte neurale della successione causale di questi due eventi psicosomatici è il collegamento cerebrale tra le aree percettive, emotive e motorie. Non si pone qui la questione dell’anima che “muove” il corpo. Un evento psicosomatico, causato intenzionalmente e non in un modo puramente fisico, causa un altro evento psicosomatico. Possiamo seguire neurologicamente (con aspetti pure genetici, ormonali, ecc.) questo tipo di causalità psicosomatica alta degli animali. In quanto alta e non destinata a perfezionare il corpo vegetativo, la dimensione intenzionale comunque acquista una maggiore importanza nella spiegazione del comportamento. Se siamo interessati a che un cane impari a custodire bene la nostra casa, dovremo agire al livello dell’intenzionalità propria dell’animale, adoperando le cause adeguate che promuovono tale comportamento (stimolazione attrattiva, allenamento). La base neurale, benché imprescindibile, in questo caso risulta più strumentale, come abbiamo avuto occasione di osservare in precedenza. e) Fenomenologia della motricità animale Una visione fenomenologica della condotta degli animali superiori rivela il primato di comando della testa, luogo del cervello. La tradizione popolare assegnò ad essa la funzione di guida (i governanti sono i capi della società)176. Palesemente la testa è la sede degli organi dei sensi, tranne il tatto, ed è altrettanto il luogo del controllo percettivo che guida i movimenti intenzionali del corpo. Il volto è sede dell’espressività e luogo della funzione linguistica. La faccia esprime la comunicazione con altri soggetti e non solo trasmette informazione, ma manifesta lo stato di animo dell’individuo e i suoi interessi comunicativi. Nello sguardo e negli occhi si nota l’attenzione e spesso l’intenzione del soggetto, il suo stato di coscienza e il tipo di emozione che sta provando nei suoi rapporti sociali (autorità, simpatia, amicizia, docilità, richiesta, dolcezza, timore, impazienza). Il volto umano è veramente l’espressione dell’anima. Il cervello è la parte più nascosta e protetta del 176 La visione popolare coincide in questo caso con la scienza. Non così, invece, per quanto riguarda l’attribuzione dell’affettività al cuore. 148 corpo, ma la testa e il volto umano sono le parti che più manifestano la persona. I movimenti del corpo senziente sono di vario tipo. Quelli di natura vegetativa sono causati dai muscoli lisci. I movimenti intenzionali (volontari nell’uomo) sono causati dai muscoli striati. I primi sono controllati dal sistema nervoso vegetativo, i secondi dal sistema nervoso centrale. Quindi la motricità intenzionale delle parti del corpo è dovuta negli animali (e nell’uomo) all’organo effettore denominato muscolo. La separazione tra motricità intenzionale ed alterazioni metaboliche è una caratteristica importante degli animali, a differenza delle piante. Il corpo animale non solo rivela una vitalità vegetativa legata all’ambiente, ma diventa anche soggettivo in funzione di fini transvegetativi, per cui nell’ambiente appaiono “oggetti” dell’azione corporea intenzionale (ad esempio, il ramo dell’albero oggettivato come “qualcosa su cui arrampicarsi”)177. Il fenomeno dell’oggettivazione appare già in qualche modo nella percezione animale. I movimenti somatici intenzionali sono azioni dell’animale come un tutto soggettivo e procedono dalle sue funzioni superiori. Il corpo animale (pure il nostro) è parzialmente disponibile come una totalità che si muoverà con una certa autonomia, distaccandosi in un certo senso dalla pura aderenza fisiologica all’ambiente. I mammiferi muovono la testa con certi gradi di libertà, non deterministicamente, e così si sdraiano, si alzano, corrono, si fermano, muovono le mani e prendono oggetti (i primati), si nascondono, lavorano: in definitiva, dominano intenzionalmente, non vegetativamente, le posizioni articolate del loro corpo soggettivo. A differenza dei tropismi vegetali, questi movimenti sono variabili, reversibili, discontinui, veloci, controllati. Essi non cambiano lo stato dell’organismo: sono più distanziati dalla natura vegetativa e dai rapporti omeostatici con l’ambiente178. Gli arti (braccia e gambe) sono le membra specialmente deputate a queste funzioni. Essi godono del privilegio di uno spazio di “libertà motrice” e costituiscono il fondamento del comportamento intenzionale di molti animali. Gambe e piedi sono le membra della locomozione di molti mammiferi (movimento locale intenzionale), e 177 Cfr., su questo tema, H. Jonas, Dalla fede antica all’uomo tecnologico, il Mulino, Bologna 1991, pp. 292-302. 178 Cfr. ibid. 149 sono pure gli organi degli spostamenti autonomi e veloci. La locomozione esprime un certo dominio ecologico e manifesta quella “libertà territoriale” che viene impedita con il carcere o la gabbia. Ulteriormente le mani per l’uomo, liberate ormai dalla funzione locomotrice, diventano un organo di comunicazione gestuale e lo strumento primordiale del lavoro razionale, grazie alla loro libertà di movimento per eseguire ogni tipo di comandi razionali. Con le mani l’uomo afferra e muove le cose volontariamente e crea e maneggia gli strumenti di lavoro. In definitiva, con le sue mani come strumenti della ragione l’uomo muove e perfeziona le cose del mondo. Consideriamo adesso, sempre in prospettiva fenomenologica, alcuni aspetti causali della motricità intenzionale. L’animale muove i suoi arti spontaneamente, non meccanicamente, seguendo comandi motori procedenti dal cervello. Questi comandi nascono da reti e associazioni complesse tra le aree percettive, emotive e motorie179. Il comando motorio animale è un atto sensitivo superiore suscitato dall’incontro tra un’operazione percettiva e una reazione emotiva (il che costituisce un tutt’uno con la base nervosa, nella modalità dell’iperformalizzazione menzionata spesso in queste pagine). La guida principale dei moti intenzionali animali non è il dinamismo vegetativo, dove la materialità è più dominante, bensì la vita e gli “interessi” propri dell’attività sensitiva. L’animale si muove intenzionalmente in quanto è sollecitato da richiami del suo mondo significativo, richiami ai quali risponde emotivamente e con l’intelligenza pratica. Mostro un oggetto qualsiasi, ad esempio, al mio animale domestico. L’animale ha fiducia in me, quindi coglie l’oggetto, che potrebbe essere interessante per lui, e forse comincia a esplorarlo, ad annusarlo, a seguirlo con la vista, o magari lo prende con le zampe o vuole afferrarlo con la bocca. Eventualmente egli troverà l’utilità dell’oggetto in funzione delle “finalità” della sua vita (per lui inconsapevoli). L’oggetto potrebbe essergli buono come alimento, oppure potrebbe essere un oggetto per giocare o da catturare. Questi movimenti hanno la plasticità e la libertà consentiti dagli spazi percettivi 179 Qualcosa di simile accade nei nostri atti volontari, solo che nei nostri circuiti nervosi interviene la guida superiore della razionalità volontaria, come vedremo meglio nei nn. 7-8 di questo capitolo. 150 dove all’animale vengono presentati in continuazione innumerevoli oggetti, cose cioè che possono essere integrate nel suo orizzonte vitale, verso le quali egli è già predisposto per agire in un certo senso: perseguimento e cattura, segnali appresi che spingono a muoversi (ad esempio, alzarsi in volo, volare in una certa direzione), risposte aggressive, obbedienza ai richiami di altri animali. L’animale domestico, in questo senso, ha imparato ad obbedire ai comandi del padrone umano. Egli riconosce in certi segni -sguardi, cenni di movimento, parole- la necessità di reagire con una condotta, la quale spesso -specialmente nei cani- è una forma di “obbedienza”180: inseguire il padrone, realizzare una determinata azione o smettere di farla, stare attenti a ciò che verrà dopo (quando, ad esempio, c’è un’aspettativa di alimento). Questo modo di agire lo vediamo anche nei bambini più piccoli, solo che in loro a poco a poco cominciano a manifestarsi i segni della razionalità e una capacità linguistica creativa. 3. Volontà e motricità secondo San Tommaso L’uomo agisce “a livello umano”, ha sempre sostenuto la tradizione classica, quando opera mosso non da dinamismi istintivi, ma secondo scelte razionali e libere. In base ad esse muoviamo il corpo in rapporto alla nostra sensibilità percettiva ed emotiva. Riteniamo vera questa spiegazione e intendiamo approfondirla in questo capitolo, anche con il proposito di non cadere nel dualismo cartesiano. La dualità anima-corpo comunque esiste (ma il corpo è “corpo vegetativo-sensitivo-emotivo”). Quindi la spiegazione monista (neurologistica) del comportamento umano è da escludere. La proposizione “io muovo il mio corpo perché voglio” è vera. Questo “io” indica la persona totale col suo corpo in quanto è guidata dalla libertà e razionalità. Possiamo considerare il problema da diversi punti di vista. Per chi sostiene la spiritualità dell’anima è fuori questione che il nostro spirito (il nostro io libero) sia in grado di muovere il corpo personale. Ma si cade in una semplificazione -dualismo cartesiano- se riduciamo questo influsso causale all’esercizio di una semplice causalità efficiente del pensiero su qualche struttura cerebrale particolare. Nelle pagine seguenti prima mi soffermerò sulle motivazioni intenzionali delle nostre scelte, 180 In mancanza di altri termini, impiego una terminologia alquanto antropomorfica per riferirmi alla vita intenzionale animale. 151 in secondo luogo affronterò l’argomento delle loro fonti causali, per poi analizzare la genesi dell’atto per cui da una scelta segue il movimento intenzionale del corpo, con un riferimento speciale al coinvolgimento della base neurale. Come introduzione a queste tematiche, vorrei illustrare brevemente come Tommaso d’Aquino, seguendo Aristotele, ha impostato il problema. Se andiamo a leggere i testi tomisti su questa problematica, non troveremo mai l’impostazione di “come l’anima muove il corpo umano”. Il punto di partenza di Tommaso è il “triangolo aristotelico del comportamento” di tendenza, ragione (o intelletto pratico) e azione181. In definitiva, l’appetito182, in base a una conoscenza (percezione o ragionamento), muove all’azione. L’appetito può essere l’impulso emotivo animale (passione, desiderio) o la tendenza razionale umana o volontà. La conoscenza può includere la percezione, l’immaginazione e nell’uomo specialmente la ragione pratica, che compie ragionamenti a partire da ciò che l’appetito ama o desidera. Dal punto di vista dell’oggetto intenzionale dell’impulso affettivo, ciò che è amato, tramite la conoscenza razionale, muove all’azione. Scrive Aristotele: “L’oggetto stesso del desiderio diviene il principio dell’intelletto pratico; il termine finale del ragionamento è il punto di partenza dell’azione”183. La conoscenza razionale pratica non può essere un’inferenza impostata solo in termini universali (allora non sarebbe pratica), ma deve scendere alla singolarità (“sillogismo pratico concreto”). Questo punto richiede il coinvolgimento delle potenze sensitive (percezione e immaginazione), specialmente per la segnalazione delle situazioni concrete. Aristotele fa il seguente esempio nel suo breve opuscolo 181 Cfr. Aristotele, III de Anima, capitoli 9 ss. Il termine latino appetitus corrisponde a ciò che ordinariamente chiamiamo tendenza o appetito. Traduce il termine greco o[rexi", mentre il desiderio in greco è detto ejpiqumiva e in latino è stato tradotto come concupiscentia, spesso con una connotazione di bramosia sensibile o forte desiderio fisico. 183 Aristotele, III de Anima, 433 a 15-17 (traduco dalla versione francese De l’âme, Les Belles Lettres, Parigi 1995). L’ordine successivo causale qui è: desiderio→ragione→azione. In questo triangolo non compare la causa fisica (efficiente). Il desiderato muove come causa finale. Ciò che è inferito razionalmente muove pure a livello di finalità, conferendo razionalità al desiderio e concretizzando i mezzi per raggiungere l’oggetto amato. La questione della motricità fisica qui non si pone. A mio avviso, in Aristotele essa si riconduce alquanto oscuramente al cuore come organo fisiologico. È come se l’emotività sensitiva incidesse nel cuore, da dove nascerebbero i “comandi motori”. Tommaso scavalca certe lacune del testo aristotelico e trova una sintesi più elaborata. 182 152 sulla motricità animale: “Devo coprirmi [oggetto desiderato]. La coperta serve a coprirmi. Dunque ho bisogno di una coperta [prima conclusione di un sillogismo pratico]. Ciò di cui ho bisogno devo produrlo. Quindi devo farmi una coperta [seconda conclusione di un sillogismo pratico, ormai diventata una scelta, principio motorio della prassi]”184. Nella prospettiva tomista, basata come quella aristotelica sull’esperienza ordinaria, l’elemento motorio fondamentale dell’agire umano è la volontà, potenza libera nei confronti delle forze sensitive e materiali e capace di muovere se stessa (autodeterminarsi) sia per amare che per volere i mezzi adeguati per giungere agli oggetti amati185. Dire volontà in pratica è dire io, nucleo personale della potenza volontaria. L’autodeterminazione personale non è però assoluta, dal momento che la volontà è pure “mossa”, in un senso particolare, dagli oggetti amati e compresi (i beni, come le persone amate). Ciò che è amato incide sui dinamismi volontari nella linea spirituale della “finalità che attira”, non in un modo fisico-causale e tanto meno deterministico. La motricità corrisponde, in un modo più preciso, al dominio esercitato dalla volontà sulle altre forze umane, denominato usus da Tommaso, il quale, per quanto riguarda l’applicazione concreta agli atti, dà luogo all’imperium (oggi diremmo comando) e alla executio186. Gli atti volontari del corpo, quindi, sono imperati (=comandati) dalla volontà187. Parlando in termini generali: “La volontà muove le altre potenze dell’anima ai loro atti. Usiamo le altre potenze quando vogliamo”188. La volontà, tuttavia, muove ordinariamente secundum rationem: muove in armonia con quanto indicato dalla ragione come conveniente in funzione dei fini o 184 Aristotele, De motu animalium, 701 a 15-22 (traduco dalla versione francese Mouvement des animaux, Les Belles Lettres, Parigi 1973). 185 Cfr. San Tommaso, S. Th., I-II, q. 9, a. 3. 186 Cfr. S. Th., I-II, qq. 16 (usus) e 17 (imperium). 187 Cfr. S. Th, I-II, q. 17, a. 9. 188 S. Th., I-II, q. 9, a. 1. 153 valori amati (Dio, persone, scienza, arte, politica, prestigio, ecc.). San Tommaso è inoltre consapevole che la volontà non può muovere le forze vegetative e puramente naturali del corpo e che neanche esercita un influsso diretto sulle passioni o emozioni. Queste ultime piuttosto sono suscitate da dinamismi propri, spesso in rapporto alle funzioni della sensibilità cognitiva. A loro volta, le passioni sono vere spinte motrici (proviamo fame, quindi ci sentiamo spinti a mangiare) e hanno ripercussioni fisiologiche caratteristiche (la paura suscita reazioni corporee concomitanti). In sintesi: la volontà (l’io) muove direttamente la capacità intellettuale e le potenze cognitive sensitive (penso o immagino quando voglio), e muove le forze di locomozione del corpo nella misura in cui esse sono controllate dalla sensibilità (muovo le mani o gli occhi volontariamente). Il dominio razionale/volontario del corpo secondo Tommaso si esercita tramite il controllo immediato delle forze motrici sensitive189. Ovviamente la ragione può anche muovere il corpo indirettamente, decidendo agire sulle sue cause, se le conosciamo (come quando prendiamo un farmaco). In modo simile, la volontà può influire sulle proprie passioni (non “dispoticamente”, ma “politicamente”, secondo la metafora aristotelica190), orientando la cognizione (percezione, immaginazione, ricordi) verso gli oggetti che attivano gli affetti191. Questi punti sono sostenuti in base alla nostra esperienza normale comportamentale, al di là di situazioni patologiche o straordinarie. Come fa la volontà (o la ragione) a muovere un membro del corpo? Come abbiamo detto, la risposta di Tommaso segue il principio della mediazione della sensibilità, anche se rimane un po’ vaga a causa delle scarse conoscenze biologiche del suo tempo. Leggiamo con attenzione: “La forza cognitiva non muove se non attraverso la forza appetitiva. Così come la ragione universale non muove se non tramite la ragione particolare [cioè la cogitativa], come si dice nel III de Anima, analogamente l’appetito 189 Cfr. S. Th., I-II, q. 17, a. 9. Cfr. S. Th., I-II, q. 17, a. 7. 191 Cfr. S. Th., I-II, q. 17, a. 9, ad 3, dove spiega come la volontà può esercitare un dominio naturale sulla sensibilità sessuale. 190 154 razionale, denominato volontà, non muove se non attraverso l’appetito sensitivo. Quindi il motore prossimo del nostro corpo è l’appetito sensitivo. Per questo motivo l’atto dell’appetito sensitivo è sempre seguito da un’alterazione concomitante del corpo, principalmente nel cuore, che è il principio dei movimenti degli animali”192. Ovviamente l’Aquinate ignora il rapporto neurologico tra l’emotività e la motricità, attribuito semplicemente al cuore secondo la tesi aristotelica193. Nonostante le ripercussioni corporali delle passioni non siano precisamente il tipo di movimento volontario del corpo su cui stiamo indagando, da quanto dice l’Aquinate appare ovvio che egli concede forza motrice alla volontà solo nella misura in cui essa sia collegata all’emotività orientata alle situazioni concrete. Torneremo su questo punto più avanti. La volontà non è tuttavia puramente attiva, dal momento che può essere influenzata -non determinata, altrimenti si annullerebbe- da una serie d’istanze, potendo specialmente essere guidata dalle nostre idee e convinzioni (credenze). Il nostro io volontario è passivo nei confronti delle presentazioni cognitive (muovo la mano liberamente, sì, ma guidato da ciò che vedo e percepisco) e della pressione dei sentimenti, i quali ci presentano i beni in una maniera attrattiva per la volontà (più avanti esamineremo il rapporto tra sentimenti e volontà). Il volere motorio quindi nasce dal volere come amore, il quale è suscitato e guidato -non causato- dalla conoscenza e in parte dalle passioni. Vengono così a crearsi interazioni assai complesse tra le idee, l’amore, la percezione e le emozioni, in un quadro non puramente interiore, ma in rapporto agli oggetti reali, alle sollecitazioni di stimoli ambientali o ai richiami di altre persone nei nostri confronti. Un aspetto di questa complessità è il conflitto tra la volontà e le passioni, ampiamente contemplato dai classici, in particolare dalla letteratura ascetica cristiana e dalla teologia morale. Seguendo Aristotele, ma citando anche San Paolo (“le due leggi interiori”: quella dello spirito e quella della carne194), l’Aquinate menziona 192 S. Th., I, q. 20, a. 1, ad 1. La sede organica delle passioni sensibili secondo Tommaso è il cuore: cfr. S. Th., I-II, q. 24, a. 2, ad 2. 194 Cfr. Rm, 7, 15-23. 193 155 l’eventuale contrasto tra la volontà e i desideri sensitivi, come accade nell’incontinenza o nell’intemperanza195 (due vizi collegati alla mancanza di temperanza e ai piaceri, menzionati con termini tecnici). L’inclinazione sensitiva esercita una pressione psicologica -anzi psicosomatica- sulla volontà, senza però forzarla con necessità. Neanche la ragione riesce a dominare sempre e del tutto le inclinazioni dei sentimenti e dei desideri sensibili. Continuo a esporre qui alcuni punti tomisti sull’argomento in esame. Un’intensa forza emotiva può oscurare la capacità di giudizio della persona, poiché a molti talvolta le cose sembrano giuste quando sono d’accordo con le loro preferenze passionali, almeno a livello di giudizio pratico immediato (deterioramento del giudizio prudenziale). Una passione sensibile molto intensa fa diminuire la forza della volontà e può perfino togliere l’uso della ragione in un determinato momento, così come vediamo che alcuni, per un amore folle o presi da un’enorme indignazione, commettono delle pazzie196. Una fortissima presa dell’immaginazione o del giudizio della cogitativa potrebbe compromettere la libertà dell’atto volontario, come avviene in modo abituale in alcuni malati mentali (amentes)197. Quindi la deviazione razionale provocata dai disordini passionali può avere una valenza morale, quando la persona esercita il normale dominio razionale sul comportamento, oppure potrebbe essere dovuta a cause patologiche. Le inclinazioni temperamentali, di radice fisiologica, oppure l’influsso delle consuetudini sociali, possono ostacolare il normale sviluppo della vita razionale, sebbene possano ugualmente aiutarlo. Pure qui la persona si vede di fronte al compito di far crescere la sua libertà mediante lo sviluppo delle virtù intellettuali e morali. Questi tre elementi, le consuetudini sociali, il temperamento con la sua base 195 Cfr. S. Th., I-II, q. 17, a. 7. La mancanza di temperanza è studiata da Aristotele nel libro VII dell’Etica a Nicomaco. Nella prospettiva aristotelica, cui Tommaso aderisce, intemperante è chi segue i desideri disordinati per propria scelta o convinzione, quindi senza sforzarsi per contrastarli. Invece incontinente è chi, pur essendo convinto della necessità di comportarsi in un certo modo, quando arriva la sollecitazione passionale non ha la forza di opporvisi. L’Aquinate fa l’esempio di chi si è deciso a non prendere dolci fuori orario, ma a un certo punto ne vede uno in un altro momento e si lascia vincere dal desiderio di mangiarlo. Forse se ne pente subito, quando la passione non è più attiva: cfr. In VII Ethic., lect. 3, n. 1347 dell’edizione Marietti. 196 Cfr. S. Th., I-II, q. 77, a. 2. 197 Cfr. S. Th., I-II, q. 77, a. 1. 156 fisiologica e le malattie nervose, sono esplicitamente menzionati da Tommaso d’Aquino come fattori che possono diminuire o annullare la capacità di scelta responsabile della persona. Tommaso riconosce la complessità di alcune situazioni nel suo commento al libro VII dell’Etica a Nicomaco198. Ad esempio, gravi disgrazie possono far precipitare una persona nella follia. Le consuetudini sociali o familiari depravate sono più pericolose quando incidono sui bambini. La persona cresce, di conseguenza, sulla base di un complesso di inclinazioni, alcune delle quali sono sensitive (ad esempio, inclinazioni verso l’aggressività, verso la mansuetudine o verso la socialità), quindi fondate anche su una certa struttura neurobiologica. Questo punto, prettamente tomistico, appare rilevante per la discussione sulle “basi biologiche” dell’etica199. Ad esempio negli animali superiori, riconosce Tommaso, si potrebbe addirittura parlare di “prudenza”, “ferocia”, “inganno”, “mansuetudine”, sebbene queste inclinazioni solo metaforicamente potrebbero dirsi virtù o vizi200. Un temperamento irascibile può essere dovuto, egli sostiene ancora, alla complexio naturalis, cioè alla base neurofisiologica della persona, anche ereditaria201. La moralità non è kantianamente situata alle spalle della dotazione naturale psicosomatica della persona. La libertà non è dualisticamente opposta alla natura. Ciò che nell’animale non è ancora morale, nella persona si presenta come una base impulsiva psiconeurale sulla quale, con l’intervento attivo della libertà e la formazione delle virtù, si può costruire l’edificio della vita morale. Queste indicazioni non comportano una visione negativa della passionalità, come se essa fosse solo restrittiva della libertà nella linea “ascendente”. Anche una scelta di vita sbagliata può alimentare l’emotività in un senso negativo e “discendente”, in un modo che finirà per restringere la libertà. A sua volta, l’emotività in un senso positivo può condurre la libertà nella giusta direzione, dal basso verso l’alto, oppure la libertà può suscitare sentimenti positivi, dall’alto verso il basso, col risultato felice di portare così all’integrazione della persona. 198 Cfr. altri luoghi dell’Aquinate citati nel nostro capitolo 3, n. 2. Considerare la biologia come il fondamento dell’etica sarebbe naturalizzare la morale e quindi farla scomparire (magari riducendola alla medicina). L’etica, però, tiene conto dei dinamismi biologici e cerca di integrarli con le esigenze della persona. 200 Cfr. In VII Ethic., lect. 6 (cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, VII, 1149 b 30-35). 201 Cfr. In VII Ethic., lect. 6. 199 157 L’impostazione di Tommaso sull’interazione tra gli elementi dinamici della persona vista in queste pagine mi pare molto orientativa, purché si lavori con una nozione analogica della causalità. Gli attuali dibattiti sulla “causalità mente/corpo” soffrono purtroppo della restrizione della causalità alla visione esclusivamente scientifico-naturale, dove i rapporti causali e le conseguenti leggi sono considerati in un modo particolare, non secondo tutte le loro dimensioni ontologiche. 4. La razionalità della scelta: motivi e ragioni In continuità con quanto abbiamo esaminato nelle pagine precedenti, in seguito presenterò una panoramica d’insieme applicata all’uomo sull’argomento centrale di questo capitolo. a) La decisione: amore e ragioni Una prima differenza spicca tra la condotta animale e umana:prima di agire, l’uomo è capace di pensare, quindi di fermare i suoi impulsi eventualmente istintivi. Possiamo domandarci cosa dobbiamo fare, come farla, quando, dove e con quali mezzi, esaminando le motivazioni del nostro agire futuro e progettando possibili piani di azione. Questi processi costituiscono la deliberazione. Deliberando, l’uomo può tornare riflessivamente sui suoi piani o rivedere ciò che ha fatto, e può anche “metateorizzare” le finalità di ciò che fa, ponendo in questione la legittimità e il senso dei suoi stessi fini. La deliberazione è un momento rigorosamente razionale. Non è un semplice ragionamento astratto. La deliberazione, in quanto auto-programmazione e auto-giustificazione della condotta, è un atto -o una serie di atti- in cui la persona torna completamente su se stessa, e perciò può dirsi un io, cioè un soggetto autocosciente in prima persona, non solo razionale ma libero, poiché dirige se stesso nel suo operare teleologico, anche se non è né il creatore né l’ultima fonte di ciò che egli è e può fare. Alla deliberazione segue la decisione o scelta, cioè la determinazione di fare qualcosa, ordinariamente con libertà anche nel tempo. La decisione non nasce radicalmente da un impulso naturale, fisiologico o emotivo, e nemmeno è il risultato automatico dei ragionamenti deliberativi. Si compie nello spazio di libertà aperto 158 dall’intelligenza. Come azione libera, quindi, si richiama al potere di essere attuata in modo originario dal soggetto autocosciente. Chiamiamo questo potere la volontà, il cui verbo corrispondente è voglio. Compiere una scelta deliberata è dire “voglio”, con la perfetta possibilità di dire “non voglio”, in modo netto e senza mezzi termini. Se un oscuro meccanismo ci ingannasse su questo potere, non ci sarebbe la libertà e saremmo semplicemente degli esseri naturali (animali superiori) o macchine complesse. Io, libertà, scelta, persona sono correlativi: ciascuno di questi elementi non può esistere senza gli altri. La persona è il soggetto ontologico che può fare scelte libere quando è autocosciente202. “Decidersi” è autodeterminarsi nei confronti della propria condotta. La decisione si compie in rapporto a un fare o a un’azione: mi decido sulla mia condotta. “Decido di agire” vuol dire: “decido quale sarà la mia condotta futura”. Non ho bisogno di fare adesso ciò che scelgo. Posso decidere di fare una cosa domani, tra un anno, ecc., senza limiti di tempo (tranne quelli che la natura non mi offre). Nel momento temporale già deciso in anticipo, muoverò il mio corpo, riattualizzando la scelta e portandola al piano dell’esecuzione corporea nel tempo. L’azione decisa è razionale se è motivata (altrimenti sarà libera, ma irrazionale). La decisione si confronta, in questo senso, con due elementi giustificanti: i motivi e le ragioni. Prendo una medicina e, dinanzi alla domanda “perché la prendi?” (giustificazione dell’azione), posso rispondere: 1) indicandone il motivo: “desidero star bene, togliermi la febbre, il dolore di testa”; 2) menzionando in seguito la ragione: “ritengo che prendere questo farmaco mi toglierà il mal di testa”. La struttura della scelta quindi è duplice: 1) decidiamo puntando a un bene o valore, oggetto del nostro amore o desiderio (dimensione affettiva); 2) coerentemente decidiamo in base a una serie di ragionamenti che stabiliscono una connessione tra certe mie possibili azioni e i valori da raggiungere o da proteggere (dimensione razionale). “Decido di prendere adesso questa medicina perché so che farà bene alla 202 La persona non sempre agisce secondo tutte le dimensioni della sua vita. Un puro atto fisiologico di un uomo appartiene alla persona, ma non è personale. L’embrione umano, un individuo svenuto o dormente sono persone. Ma in questi stati non possono compiere atti personali. 159 mia salute”: poiché io amo la mia salute, ho visto la convenienza di prendere questa medicina. La salute è la finalità, il bene amato e perciò custodito, mentre la medicina è il mezzo scoperto per ricuperare la mia salute. Arrivo a tale conclusione tramite il “sillogismo pratico aristotelico”, cioè con l’intelligenza pratica o ragione203. In definitiva, la condotta più caratteristica quando la persona sta nella pienezza delle sue capacità è la scelta razionale, una scelta intrinsecamente teleologica, primariamente nata dall’amore verso un fine, un valore o una persona (la salute, la famiglia, la professione, la comunità civile, la patria, gli amici, la scienza, l’arte, Dio). Questi beni sono amati in se stessi e non puramente “in funzione di un’altra cosa” (altrimenti sarebbero beni strumentali)204. Ma il fine bisogna raggiungerlo, custodirlo, o dobbiamo svilupparne l’adesione, il che comporta riflettere razionalmente sui mezzi adeguati ordinati alle azioni giuste in tal senso. Se voglio studiare una scienza, debbo scegliere di andare a un’università; voglio bene un amico e quindi decido di farli una visita, e così via205. In sintesi: Amore di un bene Deliberazione sull’azione da fare Scelta Azione I beni amati in se stessi generalmente sono presupposti delle scelte e non motivo di discussione e di scelta. L’adesione ai beni antropologici fondamentali -amore di Dio, rispetto della moralità, adesione a certi valori- spesso è promossa dalle tradizioni 203 Il bene amato dev’essere al contempo percepito (come un fine o bene). La ragione propriamente riguarda i mezzi conducenti al bene. Questi ultimi possono essere visti, a loro volta, come un fine amato derivato che richiede nuovi mezzi. Presupponendo il fine secondario di “imparare a guidare”, si penseranno altre cose utili conseguenti. 204 Certe volte dobbiamo “scegliere” di accettare cose o situazioni non volute di per sé, vedendoci costretti a farlo per diversi motivi (ad esempio se ci minacciano, o se il menu da scegliere non ci soddisfa). Ma anche in questi casi la decisione tiene conto di qualche cosa amata di per sé e che muove a “rassegnarsi” a fare un certa scelta. Se il menu di un ristorante ci dispiace, comunque scegliamo un pasto perché vogliamo mangiare; se un ladro ci obbliga a consegnargli il nostro portafoglio, scegliamo di darglielo perché amiamo la nostra vita, messa in pericolo. 205 Ovviamente la realtà è più complessa. Tramite una sola azione possiamo raggiungere molti scopi alla volta, alcuni primari e altri secondari. I mezzi, poi, possono essere necessari oppure opzionali. Un fine amato può essere ordinato a un fine più alto (gerarchia di finalità). Comunque la struttura fini/mezzi, beni amati/azioni conseguente, amore/ragioni, regge sempre. Moltiplichiamo le nostre azioni in base a valori o beni ritenuti fondamentali per la nostra vita. 160 culturali e religiose o dall’educazione, anche se possono essere scoperti personalmente attraverso molte vie. L’uomo tende per natura a questi beni e la cultura li offre in modi svariati (purtroppo anche con deviazioni). I beni fondamentali, anche in modo concreto e non solo in generale (ad esempio, la nostra vita, i genitori, gli amici dell’infanzia, la patria), non sono propriamente oggetto di scelta anche perché spesso ci vengono dati. Dobbiamo però accoglierli di cuore206, e nelle scelte della vita compiute in coerenza con essi riconfermiamo che li amiamo. Non li scegliamo come se fossero oggetti nell’elenco di un menu, ma possiamo invece deciderci ad amarli con più coerenza e dedizione (e possiamo anche rifiutarli). Altri beni particolari sono trovati, nelle circostanze della vita, in diverse forme di esperienza. Così incontriamo amici o scopriamo compiti concreti. La conoscenza di una realtà amabile può catturare la nostra volontà. È in questo modo come una persona decide di sposarsi o di seguire una determinata vocazione. b) La dimensione etica Come si vede, insieme alla razionalità dei mezzi esiste pure una “razionalità dei fini”. Chi ama qualcosa, anche fondamentale, può domandarsi se quell’oggetto di amore è giusto, o se lo ama nel modo giusto. Quando molti beni sono in gioco, la ragione può riflettere se sono ben coordinati o gerarchizzati, poiché talvolta possono sorgere dei conflitti tra i beni che amiamo, e alcuni di essi sono per noi prioritari o più incondizionati rispetto ad altri. Ogni persona può considerare se le sue ultime priorità -i suoi “amori” o “valori” ultimi- sono valide o se magari dovrebbero essere riesaminate. Anche il fatto di non amare niente in modo incondizionato, come frutto di una posizione scettica o egoista, può essere esaminato con la ragione. In questo modo una persona può vedersi spinta, come in un’ultima istanza, a riflettere in modo personale sugli ultimi valori della sua vita (la filosofia esegue questo compito in modo teoretico). La morale esiste proprio per guidare l’uomo -in termini universali- ad amare bene ciò che egli è tenuto o ha scelto di amare, anche se eventualmente la razionalità dell’amore -meglio: la verità dell’amore- potrebbe entrare in contrasto con i 206 Cfr. J. Philippe, La libertà interiore, San Paolo, Milano 2002, pp. 25 ss. 161 sentimenti o con altri elementi (ad esempio, con consuetudini sociali discutibili o con pressioni economiche). Così, l’egoista farà innumerevoli scelte razionali al servizio dei suoi interessi, mentre chi è troppo dominato dal timore nei confronti di certe difficoltà spesso sceglierà condizionato dalle sue paure e non secondo ciò che egli veramente vorrebbe. Nel primo esempio, la razionalità dei mezzi è ben pensata, ma il fine amato è sbagliato (l’egoismo è un male morale). Nel secondo esempio, la paura introduce un ostacolo nella razionalità dei mezzi, il che potrebbe mettere a rischio la genuinità dell’amore verso un fine. Le spinte verso una scelta procedono da molti ambiti -consigli, pressioni, passioni, interessi, amore, difficoltà- e quindi le scelte non sono sempre facili e spesso non nascono semplicemente da ciò che vogliamo fare. Possiamo anche volere cose impossibili; talvolta dobbiamo scegliere tra le possibilità che ci offre una cultura, una nazione o una situazione data. L’intenzione di sposarsi, ad esempio, normalmente nasce dall’amore sponsale verso una persona. Questo è il motivo proprio e adeguato del matrimonio e non altri interessi, poiché tra l’oggetto amato e l’atto di amarlo ci dev’essere una proporzione207. Ma la scelta di sposarsi deve anche tener conto dei valori fondamentali prioritari (ad esempio, relativi alle condizioni antropologiche del matrimonio come istituzione sociale). Proprio qui entrano le priorità morali di cui parlavamo. L’istanza etica intende appunto indicare il giusto ordine degli amori. Il bene da rispettare eticamente è sempre un bene incondizionato(proprio questo lo definisce come morale). Esso non nasce da fuori, non è imposto, ma scaturisce dalla struttura antropologica della persona208. Ognuno ha necessariamente le sue priorità e per questo è un agente 207 Secondo questa proporzione, i beni strumentali -come la tecnica- vanno amati in funzione dei loro fini e non semplicemente per se stessi. I beni amabili di per sé -scienza, amore, amicizia- invece vanno voluti in se stessi, ma possono essere ordinati ad altri valori e possono pure riportare delle utilità. Uno scienziato può amare la scienza in se stessa, inoltre può ordinare la sua ricerca in favore dell’istituzione dove lavora, e al contempo può ricevere un compenso economico in funzione di un ulteriore bene amato. 208 La base dell’etica sono i beni antropologici fondamentali, verso i quali la natura umana tende (queste tendenze appartengono a quello che Tommaso d’Aquino denominava “volontà come natura”: cfr. A. Malo, Antropologia dell’affettività, cit., p. 231 ss). La libertà non è indifferenza, ma tende all’amore di un bene. Scegliere contrariando le inclinazioni antropologiche naturali è violento e opposto alla persona umana. Per questo motivo, la moralità è intrinseca all’uomo, non estrinseca come le leggi civili, anche se dobbiamo 162 morale. Ma tali priorità debbono essere giuste. Se qualcuno ama i beni morali in modo condizionato (ad esempio, rispetta la vita degli altri finché non si presenti una situazione in cui forse potrebbe decidere di non farlo), allora cade nell’immoralità e così diventa moralmente cattivo. La moralità non crea l’amore e non sempre ci dice quali beni concreti dobbiamo amare (ad esempio, quali amici dobbiamo avere). L’etica piuttosto segnala in modo universale l’ambito e certe condizioni dei nostri amori affinché siano giusti. c) Conflitti e dinamismo delle scelte Il nostro comportamento è indotto da spinte provenienti da molte istanze: una necessità fisiologica, un impulso emotivo, una pressione sociale o familiare, le esigenze dell’amore, una ragione di utilità. L’iniziativa che muove la nostra condotta può sorgere da un’idea personale o potrebbe anche nascere dalla volontà di altri che ci offrono una proposta. Alcune scelte nascono da una certa necessità (fisica, morale), altre sono opzionali (motivi di convenienza). Il quadro comportamentale susseguente sarà razionale solo se la spinta ricevuta verso l’azione passa attraverso il vaglio della libera scelta o accettazione. Possiamo sentire una forte sete, ma la nostra azione di bere sarà razionale e non meramente fisiologica solo se decidiamo di bere, cioè se consideriamo conveniente bere adesso o domani, questa o l’altra bevanda. I conflitti di scelta si presentano quando i beni proposti da quelle diverse possibili vie sono concorrenti, non simultaneamente attendibili o perfino incompatibili. I conflitti si possono superare in molti modi, ma saranno risolti al livello della persona solo se prendiamo una decisione secondo una riflessione razionale. Così, può capitarci di voler bere a causa di una forte sete e di non poterlo fare nel momento in cui siamo impegnati in un compito più urgente: la soluzione razionale sarà decidere di bere più tardi. In altri casi la soluzione del conflitto può comportare una rinuncia: se dobbiamo scegliere tra studiare in un’università o in un’altra, ciascuna delle quali comporta per noi certi vantaggi, alla fine dovremo “oggettivare” l’etica nella forma di norme morali espresse in modo proposizionale (“non rubare”, “non uccidere”, ecc.). 163 sceglierne una rinunciando ai vantaggi dell’altra209. I conflitti morali pongono a rischio beni irrinunciabili. La persona onesta considera intangibili certi valori morali. Non sarà disposta, ad esempio, a intraprendere un compito economicamente molto vantaggioso se comporta il tradimento di valori morali che perturberebbero l’amore di cose o persone che è tenuta ad amare. La persona moralmente retta difende i suoi amori verso Dio, la società, la sua famiglia. Quando un individuo non osserva un criterio morale fondamentale, spesso è perché ha ceduto ad altre preferenze che per lui, almeno in un certo momento, sono divenute prioritarie (il proprio interesse passionale, il prestigio, la posizione sociale). Ovviamente si può anche non rispettare un valore morale per ignoranza o per motivi ideologici. Le scelte non sono sempre facili. Le spinte conflittuali possono essere forti o deboli. Sono facili le scelte scontate riguardanti azioni strumentali ordinarie in favore di beni voluti senza particolari problemi. Normalmente non è complicato scegliere un mezzo di trasporto per recarci al posto di lavoro. Certe scelte sono operative in una maniera abituale e fanno scattare in noi meccanismi di condotta quasi automatici. Quando cammino verso un certo posto mi affido agli automatismi del mio corpo, controllandoli dal di sopra (la mia scelta opera in quei momenti in modo implicito o virtuale). Questi automatismi sono simili a quelli con cui marcia il cane che forse mi accompagna, ma in lui essi sono controllati dall’istinto che lo ha portato a seguirmi. Se un amico m’interrompe nel mio tragitto, eventualmente potrò trovarmi nel piccolo conflitto morale di dover scegliere tra il bene dell’amicizia (fermarmi per un po’ di tempo col mio amico) e il bene della puntualità nel mio orario di lavoro. Le scelte sono difficili per diverse cause: 1) alcune scelte esigono una lunga e intensa deliberazione intellettuale (ad esempio, una complessa scelta economica); 2) altre sono dure perché si oppongono a inclinazioni affettive contrarie (ad esempio, se so che una mia scelta non troverà consensi); 3) certe scelte sono difficili perché la loro 209 Le scelte si compiono sempre in funzione di un bene percepito con l’intelligenza e amato con la volontà, ordinariamente accompagnata anche dagli affetti. Alcuni beni sono necessari e altri solo convenienti. Spesso scegliamo cose utili non per noi, ma per altri, ad esempio, per il bene di una persona amata o di un’istituzione o impresa nella quale siamo coinvolti. Aiutiamo gli altri a scegliere con i nostri consigli. 164 esecuzione non sarà facile (posso decidere di studiare sapendo che mi costerà; una scelta è faticosa se ho pochi mezzi per portarla a compimento, o perché troverò speciali difficoltà giuridiche); 4) determinate decisioni faranno scattare l’opposizione di altri e quindi sono scelte difficili. Le virtù conferiscono al soggetto energia interiore -saggia, non semplicemente “volontaristica”- per compiere queste scelte difficili. Gli altri ci aiutano pure a decidere: ad esempio, il consiglio di un esperto è utile nel senso del n. 1, mentre gli incoraggiamenti o le esortazioni possono contribuire a superare le difficoltà indicate nei nn. 2-4. 5. Le fonti delle motivazioni La scelta nasce da un’istanza deliberata grazie all’interazione tra la volontà e l’intelligenza. Quest’istanza non emerge dal nulla, ma da una piattaforma sempre presente e, insieme, da una serie di attivazioni del momento. Consideriamo questi aspetti. La “piattaforma sempre presente” è la nostra natura umana -corpo e anima- con le sue potenze e inclinazioni naturali e il patrimonio genetico ereditato. S’includono qui pure i tratti stabili acquisiti della personalità, come gli abiti -virtù e vizi-, l’esperienza accumulata, il sapere imparato, insieme alla situazione del mondo in cui si svolge la nostra attività intenzionale (ambiente, storia, cultura, regole sociali, tradizioni, istituzioni). Da questo sfondo ogni persona riceve una quantità immensa di possibilità e di stimoli per agire in un certo senso nei confronti degli spazi di comportamento. La scelta nasce, insomma, nel quadro di una natura, con elementi innati e altri acquisiti stabilmente, e nell’ambito di una cultura. Vediamo questi punti in un modo più analitico. L’atto libero emerge da un intreccio di fattori causali, almeno a titolo di predisposizioni: * Le condizioni neurofisiologiche consentono di compiere bene gli atti necessari per arrivare alla scelta libera e alla sua esecuzione materiale. Esempi di queste condizioni sono la capacità cognitiva normale, un’affettività non patologica, uno stato adeguato della coscienza. * Gli abiti cognitivi, affettivi e volontari positivi permettono di arrivare facilmente alla scelta e all’esecuzione, mentre quelli negativi producono l’effetto 165 contrario. Una persona poco riflessiva, precipitosa, indecisa, o che si lascia trascinare dalle emozioni, o incapace di opporsi seriamente alla volontà altrui, trova delle difficoltà per compiere scelte prudenti. Le idee morali, i preconcetti, le inclinazioni, le virtù o i vizi inclinano verso un certo tipo di scelte. * L’ambiente culturale e familiare, l’educazione ricevuta sono ovviamente elementi fortemente orientativi delle scelte. In sintesi: Base neurofisiologica Abiti cognitivi Abiti affettivi Sapere Inclinazioni Cultura Ambiente Famiglia Educazione Scelta Esecuzione Input concreto Come si vede nello schema, la scelta nasce spesso suscitata da un input esterno (ad esempio, l’invito a fare una passeggiata), oppure deriva direttamente dall’iniziativa personale. La radice della scelta sta sempre in una situazione psicosomatica personale situata in un ambiente sociale. Per questo motivo possiamo in qualche modo prevedere i comportamenti delle persone, dato che conosciamo la “piattaforma di base” in cui operano le loro scelte personali (conoscendo le opinioni di una persona, possiamo facilmente prevedere alcune delle sue scelte). Questo secondo quadro illustra altri aspetti delle fonti dell’atto libero: 166 Piattaforma sempre presente Spinta prevalente Attivazioni del momento Struttura anima-corpo Base neurologica Condizionamenti materiali Primi principi abituali Inclinazioni naturali Conoscenze, sapere Sistemi di valore “Amori” Abiti Ecc. Riflessione razionale Scelta volontaria Pressioni emotive Pressioni sociali Iniziativa personale Letture Proposte di altri Obblighi morali Bisogni materiali Ecc. La “piattaforma sempre presente” offre uno spazio di possibilità alla libertà. Non sta nella linea del determinismo. Al contrario, nella misura in cui gli oggetti conosciuti sono più ampi e le inclinazioni sono positive, lo spazio delle scelte si apre ancor di più. Lo riducono le disfunzioni neurologiche, le restrizioni cognitive o la negatività affettiva o volontaria (i vizi). Le restrizioni possono provenire dalla cultura, dalla società, da carenze educative o da trascuratezze personali. Ma anche coloro che contano con pochi margini decisionali -ad esempio, malati mentali gravi, persone private della libertà fisica- conservano una base di libertà non derivata dalle loro dotazioni naturali, bensì da loro stessi, il cui uso configura la loro levatura morale. Anche quel margine si può perdere, così come possiamo perdere la coscienza e la vita. Tuttavia, questa conseguenza della contingenza della nostra struttura fisica non 167 cancella la libertà. Le “attivazioni del momento” possono procedere dall’ambiente esterno: un evento ambientale, una circostanza politica o sociale concreta, il consiglio di un amico, un influsso familiare. Oppure dall’ambito interno, secondo gli strati ontologici della persona: situazioni fisiche particolari del corpo, passioni organiche, emozioni o sentimenti, amore o adesione a valori, motivi razionali. Tra queste sollecitazioni di solito ci sarà un’attivazione o fattore scatenante decisivo (spinta prevalente) che porta alla necessità di prendere una decisione, rapidamente o dando un tempo. Può essere, ad esempio, l’invito personale ad assumere un lavoro, o la necessità pressante di una persona che richiede un aiuto. L’attenzione alla salute impone negli individui la necessità di compiere numerose scelte e lo stesso si può dire di altri bisogni del corpo o legati alla nostra materialità. Immaginiamo il seguente esempio. Un individuo riceve l’invito a stabilirsi in un paese per svolgervi un importante compito sociale o per realizzarvi una serie di studi. L’iniziativa in questo caso è nata dall’esterno, ma tocca a lui prendere una decisione al riguardo. Nella sua scelta ci saranno tanti elementi in gioco: amore e gusto per la scienza, desiderio di servire la società e di fare del bene, possibilità reali di intraprendere il compito (idoneità, condizioni favorevoli), eventuali altre priorità (beni importanti da non trascurare), sentimenti di “basso livello morale”, come una certa ambizione, la voglia di avere prestigio, la paura nei confronti delle difficoltà. La persona si trova, dunque, davanti a un sistema di valori, ma è anche spinta da pressioni emotive e da condizionamenti materiali che possono aggiungere gradi di difficoltà alle sue opzioni. Alcune scelte di questo tipo, per il sì o per il no riguardo a un bene, forse saranno moralmente obbligate se riguardano amori intangibili, mentre altre saranno opzionali. Se un elemento tra quelli indicati perturba il giudizio razionale -paura, ambizione, superficialità nell’esaminare la questione, pressioni esterne-, la razionalità della scelta verrà compromessa. Come si vede, ogni sorta di “attivazione del momento” è accettabile, sia come “spinta prevalente” che come fattore concorrente, collaterale o coadiuvante. Nonostante, la scelta sarà situata a livello umano “alto” solo se passa attraverso la deliberazione razionale. La scelta deliberata sarà giusta o adeguata, a sua volta: 1) se parte da premesse collegate ai valori amati, purché siano 168 validi; 2) se il soggetto ha percepito bene il vincolo tra il fine amato e una certa attività da compiere in suo favore. In definitiva, occorre una buona scelta dei mezzi in funzione di un amore giusto. Altrimenti la decisione perde spessore razionale. 6. La libertà nella genesi dell’atto di scelta Nelle sezioni successive vedremo alcuni aspetti della dinamica delle libere scelte, cercando anche di indicare il ruolo che in esse svolgono le strutture cerebrali, non da una prospettiva scientifica sperimentale, bensì a livello di principi. Come abbiamo visto, il nostro pensiero è collegato al cervello nella misura in cui è in rapporto con la sensibilità. Questo legame è ascendente e discendente. Vale a dire, la sensibilità (percezione, memoria, immaginazione, emozioni) offre spunti, spazi e orientamenti al pensiero deliberativo, il quale a sua volta guida attivamente, con la volontà, il dinamismo della sensibilità nella direzione richiesta dall’intenzionalità personale. Quindi mentre pensiamo, deliberiamo, decidiamo, stiamo attivando molte aree e reti cerebrali, nella misura in cui l’intelligenza e la volontà, sempre unite, sono co-presenti e co-operanti nella sensibilità superiore “cerebralizzata”. Nelle condizioni normali si produce, così, una sorta di scambio dinamico tra le funzioni superiori (intelligenza e volontà) e gli elementi della sensibilità, cui segue la programmazione motoria e la condotta esterna. In assenza di malattie, questo scambio è dominato dal primato della libertà, con tutti i suoi condizionamenti. Tale primato comporta uno sforzo continuato di discernimento, integrazione e ridimensionamento delle strutture cognitive. Se il pensiero di un individuo si lascia vincere dalle passioni o dall’immaginazione, si scende al livello della “schiavitù” delle scelte, che saranno dettate dai disordini di una sensibilità non ben guidata o dagli errori di una scelta irrazionale. In questo flusso di energie fisiche, psichiche e spirituali, la mediazione della sensibilità è fondamentale. Probabilmente è questo il nocciolo del classico problema “mente-cervello”. Il punto più delicato -per alcuni il più difficile da capire- è che la sensibilità umana superiore contiene al suo interno una sorta di “fusione” o di “coabitazione” tra spiritualità e sensibilità. Per dirlo in un modo più preciso, la sensibilità superiore partecipa intrinsecamente alla spiritualità e quest’ultima, a sua volta, sia 169 come intelligenza che come volontà, non porta a termine il suo dinamismo se non in collegamento con la sensibilità, vale a dire, come esperienza intelligente del concreto con la conseguente reazione emotiva (svilupperò questo punto nel n. 7 di questo capitolo). a) La libertà della scelta Le scelte nascono nell’esperienza, grazie ai canali di pensiero aperti dal linguaggio. In quanto le nostre scelte sono portate all’orbita dell’intelligenza universale e della deliberazione, non sono mai rinchiuse nella materialità di uno scenario pratico concreto (questo punto si manifesta con più chiarezza nelle scelte serene, dove non ci sono elementi di urgenza o di costrizione). Voglio fare, ad esempio, un viaggio turistico per riposarmi. Considero altre possibili finalità (viaggio di lavoro, viaggio per fare una visita familiare), e inoltre percepisco una rosa di possibili mezzi (treni, macchina, aereo) e di possibili percorsi, tappe o mète in funzione dello scopo che mi sono prefissato. Posso prendere in considerazione vantaggi e svantaggi, le condizioni di sicurezza dei mezzi di trasporto, le date disponibili, le variabili economiche. Analizzo tutti questi quadri aperti con una sorprendente libertà di pensiero. In definitiva, quando decidiamo e progettiamo un viaggio per tanti motivi, e in tanti altri progetti, non siamo mai chiusi in uno scenario materiale univoco. Il nostro pensiero deliberativo si muove in uno spazio di universalità nelle diverse rappresentazioni e paragoni che compie per arrivare alla decisione. Si può dire la stessa cosa della parte volitiva, benché il punto sembri meno immediato. L’universalità cognitiva fa emergere una forma di universalità volitiva, anche se ciò che amiamo sarà sempre concreto. Non abbiamo desideri specializzati se non nel campo fisiologico. Potenzialmente possiamo desiderare e volere ogni tipo di cosa, di valore, di situazione, di persona, poiché tutte le cose contengono per noi aspetti amabili, come oggetti pratici, di scienza, di arte, di contemplazione, di convivenza. Vogliamo e amiamo cose concrete, ma la nostra volontà non resta mai chiusa in nessun oggetto amato. L’essere finito non esaurisce mai la nostra infinita capacità di amare. È questa la radice profonda della nostra libertà di amare: tutto ci può attirare, ma niente ci può determinare. Restiamo liberi perché la nostra volontà è aperta all’universalità dell’essere conosciuto dall’intelligenza. Questa è la radice, in 170 definitiva, del nostro orientamento profondo e radicale verso Dio. b) Alcune difficoltà relative alla libertà di scelta Consideriamo in seguito una serie di punti apparentemente difficili da conciliare con la libertà elettiva: 1. Non possiamo scegliere qualsiasi cosa, come se fossimo onnipotenti. Ordinariamente scegliamo situati, nel quadro di un dato ambito di possibilità. Eppure scegliamo in base a considerazioni universali e con una volontà di solito al di sopra delle offerte disponibili. Possiamo desiderare anche cose in apparenza impossibili, superando le ristrettezze del presente, e talvolta anche riusciamo ad ottenerle. 2. Spesso, anziché scegliere, siamo costretti ad accettare quanto ci viene imposto dalle circostanze. A questa difficoltà facciamo notare due punti: 1. In molte esperienze della vita godiamo di ampi margini di scelta e di iniziativa, senza costrizioni. Tali situazioni sono sufficienti per dimostrare l’esistenza della libertà, benché alle volte l’uomo sia dominato per lunghi anni da condizioni costrittive (carcere, malattia, oppressione). 2. Anche in queste situazioni gli uomini e le donne trovano spazi di libertà o riescono a crearli, grazie alla capacità di fare considerazioni universali (gli animali in cattività, invece, forse riescono a fuggire, ma non lo fanno in modo deliberativo). 3. La libertà di scelta di solito è legata a qualche forma di necessità logica (se vogliamo un fine, per coerenza dobbiamo volere i mezzi), fisica (scegliamo costretti da bisogni materiali), morale (siamo moralmente obbligati a compiere certe scelte). Comunque l’autodeterminazione sussiste: per decidersi, la volontà deve porre il proprio atto. Non può aspettare di essere causata, semplicemente perché la volontà può causare ma non è causata (dal punto di vista della causa efficiente). I motivi e le ragioni non sono cause efficienti. 4. Nella scelta, la volontà segue ordinariamente il giudizio della ragione, frutto della deliberazione. Purtroppo, non di rado questo giudizio è viziato dagli interessi volontari, e così le ragioni facilmente possono diventare una semplice giustificazione per fare ciò che vogliamo e non ciò che sarebbe giusto. Questa difficoltà mostra i limiti della nostra libertà nei confronti della verità. Non siamo creatori della verità e 171 del bene, ma con la nostra volontà disordinata possiamo manipolare la verità e abusare della razionalità. La situazione però non è irrimediabile, perché nella coscienza umana rimane sempre uno sfondo di verità e di rettitudine. Con la deliberazione della ragione, la persona può riconoscersi colpevole di un’ingiustizia e pentirsi sinceramente. La possibilità della conversione è una manifestazione di libertà, anzi libera ancor di più l’uomo dalla schiavitù della coscienza oscurata a causa del suo attaccamento ad atti ingiusti. c) Scelte animali Gli animali manifestano una modalità particolare di “scelta non razionale” quando gli istinti li spingono alla ricerca selettiva di oggetti, con capacità molto diverse in ogni specie. Il predatore “sceglie” la preda, l’animale in fuga “sceglie” dove andare, l’uccello migratorio seleziona una rotta, il cane infuriato aspetta con attenzione e controlla il momento migliore per lanciare un attacco. Le api “scelgono” tra varie opzioni il luogo dove stabilire un nuovo alveare, anche dopo giornate di accurata esplorazione, e “decidono” pure il luogo dove andare a raccogliere il nettare, in base alle indicazioni delle api danzatrici210. Queste scelte emergono dalle inclinazioni istintive degli animali e dalla loro intelligenza pratica (cfr. il seguente capitolo). Si compiono in base a una continua informazione sensitiva proveniente da un ambiente variabile e difficile, dove l’animale è costretto a fare qualcosa di proprio per arrivare al risultato desiderato. Dalle scelte animali nasce un comportamento intenzionale flessibile, non deterministico. Ma le scelte animali sono prive della dimensione etica. Non possono capire la realtà delle scelte animali coloro che seguono una concezione deterministica della natura. Inoltre è possibile discernere tra le scelte animali e le scelte razionali dell’uomo, ma solo se si riconosce l’ampiezza e la libertà delle scelte umane, basate sulla capacità di deliberare e di programmare in astratto. La distinzione tra scelte umane (razionali) e scelte animali ci porta a precisare il 210 Cfr., su questi temi D. R. Griffin, Menti animali, Boringhieri, Torino 1999; J. L. Gould, C. G. Gould, The Animal Mind, cit.; J. Vauclair, L’intelligence de l’animal, Ed. du Seuil, Parigi 1995. 172 senso del termine razionalità. Le scelte animali potrebbero dirsi “razionali” in modo analogico, poiché la natura manifesta dinamismi ordinati e in questo senso tutto l’universo possiede un’intelligibilità. La razionalità imperfetta e analogica dell’animale è sempre pratica, concreta e sensitiva. La razionalità umana è universale e autoreferenziale, poiché contiene la capacità di giudizio, di autocritica e di autopianificazione astratta. Gli animali sono detti irrazionali in quanto non hanno la ragione universale umana. Il comportamento umano diventa irrazionale quando la persona agisce senza la dovuta deliberazione (condotta impulsiva e passionale) o quando le sue ragioni sono false o il suo amore è inadeguato (sarebbe irrazionale voler andare sulla luna a piedi, o amare i gatti come se fossero persone). L’irrazionalità può infiltrarsi in tutti i momenti della nostra condotta complessa (irrazionalità di una scelta, di un consiglio, di un comportamento, di un’ideologia sociale). L’irrazionalità nell’uso della libertà nei confronti degli amori che siamo tenuti a salvare è l’ingiustizia o peccato (irrazionalità morale). Esiste ugualmente una irrazionalità patologica, dovuta a disturbi neuropsichici nell’uso delle nostre facoltà superiori. Nei gradi estremi, diciamo appunto che un individuo “ha perso la ragione” o che agisce in maniera folle. In gradi minori, la razionalità di una persona può essere indebolita, ad esempio, a causa di una difficoltà nel prendere decisioni, nel pianificare o nel dirigere l’attenzione verso un piano di condotta o verso altre realtà. 7. Dalla scelta alla motricità. La mediazione emotiva e dei sentimenti a) Impostazione del problema Vediamo adesso l’argomento della connessione tra la scelta umana e i relativi comandi motori. Voglio muovere un dito (scelta, intenzione efficace), ad esempio, per scrivere un testo. Se non trovo ostacoli e non soffro una paralisi, muovo le mie dita senza problemi. Una mia intenzione ha indotto una serie di alterazioni nel mio cervello, concretamente è avvenuta una programmazione motoria capace di trasmettere un impulso ai muscoli delle mie membra. L’attestazione fenomenologica ci porta a distinguere il volere come scelta, talvolta chiamato intenzione, e il volere come comando motorio volontario. Posso 173 decidere: “tra due ore muoverò la mia mano”. La scelta non è ancora il comando motorio. Compiuto il tempo prefissato, rinnoverò la scelta, solo che questa volta essa sarà operante in atto in quanto si è identificata con il comando motorio. L’esempio proposto è una banale scelta motrice. Negli animali superiori troviamo fenomeni molto simili, anzi per quanto riguarda quell’esempio, materialmente quasi uguali211. Una scimmia può “decidersi” a muovere un tasto con la sua mano. Muove le dita in quanto compie a livello animale il “triangolo della motricità”: desiderio, percezione adeguata e azione. La scimmia desidera fare qualcosa con le dita, percepisce uno spazio di movimento, sente le membra da muovere e quindi muove una parte del corpo. Quello che essa fa si può descrivere perfettamente in termini di circuiti nervosi: stimoli sensibili, percezione, attivazione delle aree emotive, conseguente attivazione delle aree motorie, con l’eventuale uso di una memoria procedurale212. I movimenti volontari del corpo umano si possono altresì descrivere secondo opportuni circuiti neurofisiologici, nella linea della causalità materiale213. Dal punto di vista neuroscientifico, nessun elemento ci consente di distinguere essenzialmente la nostra condotta da quella dei mammiferi vicini a noi (i primati). Se ci limitiamo all’osservazione fisica tipica delle scienze naturali, soltanto si vedrà l’attivazione elettrochimica di una serie di centri o di reti tra le aree deputate alle funzioni psichiche superiori (cognitive, affettive, motorie). Quindi tra l’osservazione neurologica di una scimmia o di un uomo in azione non c’è niente di sbalorditivamente diverso. Questo fatto è naturale. La sola osservazione empirica secondo i canoni delle scienze naturali non ci porterà mai a rilevare un evento spirituale. Empiricamente, se 211 Solo per analogia possiamo denominare “volontari” questi movimenti del corpo dell’animale. Possiamo chiamarli in modo più preciso movimenti intenzionali. Ovviamente sono diversi dai riflessi e dai movimenti automatici organici (come la respirazione). 212 Non sempre i movimenti intenzionali sono la risposta ad uno stimolo esterno. I movimenti umani e animali delle labbra o degli occhi, e tanti altri moti delle membra, sono intenzionali e non nascono necessariamente da un input esterno, benché tengano conto dell’ambiente. 213 Cfr., su questo tema, F. Keller, A. Acerbi, Aspetti neurofisiologici e filosofici della volizione, Convegno Dinamiche della volizione e libertà, Istituto Auxologico Italiano, 10-11 marzo 2006, Milano, in corso di stampa; B. J. Baars, A Cognitive Theory of Consciousness, Cambridge University Press, Cambridge 1998. 174 non badiamo ai risultati tecnici del lavoro umano (cattedrali, aeroporti), non siamo molto diversi dagli animali superiori. Tuttavia, dal momento che l’animale non è mosso semplicemente dai suoi neuroni, bensì da una complessa vita intenzionale, cognitiva e affettiva, allora non c’è una difficoltà enorme per capire come pure la nostra condotta, tramite le dovute attivazioni neurali, deriva in senso proprio da una complessissima vita cognitiva e affettiva superiore, di natura ben più alta della sola sensibilità: una vita dominata dall’intelligenza e dalla volontà. Personalmente abbiamo un’esperienza privilegiata di questa causalità superiore. Vogliamo muovere la mano e la muoviamo con tutta libertà. Conosciamo per esperienza i motivi della nostra condotta, sappiamo che molti dei nostri atti li facciamo perché vogliamo, mentre altri li vogliamo e non riusciamo a compierli, altri ancora le compiamo con difficoltà, e infine altri ci capitano e non li vogliamo, benché possiamo accettarli. Vediamo in seguito due difficoltà normalmente contemplate nei libri di filosofia della mente sul problema del movimento libero del corpo. Una è nata da certi esperimenti di Libet. L’altra è collegata a una presunta violazione del principio di conservazione dell’energia. b) Gli esperimenti di Libet Alcuni esperimenti condotti da N. Libet e collaboratori negli anni ‘80 del secolo scorso sembravano evidenziare che il cosiddetto “potenziale di preparazione” (PP) corticale per il movimento volontario cominciasse leggermente prima che il soggetto indicasse la sua scelta cosciente di muovere le membra del corpo. Questo esperimento continua ad essere oggetto di discussione. Una possibile spiegazione del fatto è che il soggetto nei brevissimi istanti prima della scelta, quando sta considerando quasi inconsciamente la possibilità di dover muoversi o sta anticipandosi in un modo semiconscio a un certo movimento più o meno previsto e abitualmente noto, induce delle alterazioni anticipate relative al PP. Ulteriori esperimenti hanno ridimensionato le conclusioni che si possono trarre dagli 175 esperimenti di Libet214: “Il PP si presenta prima, quando accade un certo grado di prepianificazione, anziché quando il movimento è completamente spontaneo. Presi come un tutto, questi risultati sono ulteriormente in favore dell’idea che il PP possa essere generato da alcuni processi non-motori implicati nella considerazione del movimento che dovrà accadere in un certo momento del futuro. Questo punto indebolisce la pretesa secondo cui un anticipato impostarsi del PP indicherebbe che il cervello comincia a preparare il movimento prima che il partecipante [all’esperimento] abbia deciso coscientemente di farlo”215. Un’altra possibile risposta al problema, suggerita da Keller-Acerbi, è che l’individuo in realtà mette in atto un’operazione piuttosto automatica grazie ad una previa scelta di partecipare all’esperimento. Quest’ultima sarebbe la vera scelta volontaria, una decisione che impegna il soggetto ed esige una vera riflessione. Analogamente, dopo la scelta di andare a piedi verso un posto, mettiamo in atto una serie di automatismi abituali che non comportano necessariamente nuove scelte razionali frutto di una coscienza riflessa216. Comunque tali automatismi non sono del tutto privi della coscienza. Sarebbero piuttosto operazioni sensitive controllate in modo globale dalla volontà. Questo punto richiede, fanno notare Keller-Acerbi, una concezione “non humeana” della causalità, contrariamente a quanto fa un’analisi dualistica di questo problema. La causalità volontaria sul corpo non va concepita come un antecedente temporale puntuale che in un istante matematico muove un punto del corpo. La volontà piuttosto attiva un organo adeguatamente sensibilizzato, e non lo fa a titolo di un antecedente temporale, come vedremo più avanti. 214 Cfr. J. A. Trevena, J. Miller, Cortical Movement Preparation before and after a Conscious Decision to Move, “Consciousness and Cognition”, 11 (2002), pp. 162-190. 215 Ibid., p. 169. Con indipendenza da quest’ultima ipotesi, “i risultati di Libet e altri (1983) non dimostrano senza ambiguità che il movimento di preparazione cominci in modo inconscio”: ibid., p. 188. Cfr. B. Libet, Unconscious Cerebral Initiative and the Role of Conscious Will in Voluntary Action, “The Behavioral and Brain Sciences”, 8 (1985), pp. 529566. 216 Cfr. F. Keller, A. Acerbi, Aspetti neurofisiologici e filosofici della volizione, cit. 176 c) Violazione del principio di conservazione dell’energia? Secondo un’obiezione abbastanza antica, l’intervento della libertà nel corpo umano comporterebbe una creazione di energia nel mondo fisico, contraria alle leggi della fisica. Questa difficoltà oggi mi sembra improponibile. Se fosse accettabile, dovrebbe essere pertinente anche per i movimenti fisici intenzionali degli animali. La serie di movimenti fisici che avvengono nel cervello e nel corpo di un animale o dell’uomo si possono descrivere perfettamente secondo i principi della dinamica fisica e non violano alcun principio fisico. Fenomenicamente non vediamo altro che una certa utilizzazione dell’energia disponibile, sia quando cade un sasso che quando muoviamo un dito o un neurone. La causa superiore agisce certamente, e spiega il comportamento nella sua dimensione intenzionale, ma tutto ciò è irrilevante per la prospettiva della fisica. Il principio di conservazione dell’energia non è certo violato, ma esiste una causalità al di sopra di esso. Il problema nasce quando la causalità, così come viene presa dalla fisica, viene interpretata in un senso troppo ontologico e addirittura chiuso. Allora qualsiasi causalità superiore sarà vista come concorrente e quindi incomprensibile. Il ricorso all’indeterminismo quantistico o alla dinamica fisica non-lineare può rendere più intelligibile le predisposizioni fisiche dell’organismo per essere informato da dimensioni più alte (sensibilità e razionalità), ma non va utilizzato semplicemente per “dare un piccolo spazio” alla causalità dello spirito sul corpo, che così sarebbe concepita in una maniera dualistica. Neppure il determinismo newtoniano, se non era recepito in modo chiuso, cioè antimetafisico, era incompatibile con la libertà, anche se offriva una base fisica meno adatta alla filosofia della natura di stampo aristotelico. Le discussioni su “libertà e indeterminismo”, “libertà e cervello”, di solito confondono le prospettive scientifica e filosofica e prendono l’argomento della causalità dell’atto libero quasi in concorrenza con la concezione scientifica della causalità (come se le due forme della causalità fossero sullo stesso piano)217. Questi dibattiti mescolano il dualismo cartesiano con una visione humeana della causalità e 217 Qualcosa di simile si può dire sulla tematica della creazione divina in rapporto ai processi fisici naturali e sulla questione dei miracoli di Dio nella natura. 177 così finiscono in una strada senza uscita. d) La mediazione dei sentimenti nella motricità volontaria Nelle pagine successive cercherò di approfondire il problema della causalità della volontà sui movimenti intenzionali del corpo. Farò ricorso in questo senso al principio tomistico della mediazione della sensibilità superiore come vincolo dinamico tra le funzioni spirituali e gli atti corporei. Così come la comprensione intellettuale secondo San Tommaso arriva all’esperienza delle cose concrete tramite la razionalità particolare, il cui organo è il cervello, analogamente si può dire che la volontà promuove la condotta corporea tramite l’affettività superiore, collegata alle aree cerebrali dell’emotività e della motricità218. Per illustrare la questione, andiamo all’esperienza ordinaria. La conoscenza pratica e immediata di fini o valori, nonché dei mezzi che conducono ai fini, suscita nelle persone sentimenti ed emozioni carichi di una forte spinta comportamentale. Così avviene nell’innamoramento, ad esempio quando si pensa o si vede la persona amata. Ma accade pure ogniqualvolta desideriamo il possesso di alcune cose. Un professore di filosofia, sapendo che il libro della Metafisica di Aristotele sta immagazzinato in una biblioteca, può sentire il desiderio di andare a leggerlo. Questo desiderio è razionale, quindi volontario (“il professore vuole avere quel libro”), e al contempo è sensitivo (“egli sente il desiderio di avere il libro”), non perché sia l’aspirazione a un bene sensibile, bensì per il fatto che il bene desiderato (un libro da leggere) è concreto, materiale e sensibile. La sua volontà è dunque caricata da un’emozione sensibile movente. Da tale intenzione/desiderio nascerà il comando motorio in virtù del quale quel professore andrà in fretta alla biblioteca, forse pensando che possono chiuderla, cioè con un certo timore (un’altra emozione, legata all’intensità della sua volontà). Queste emozioni, promosse dalla volontà e dalla ragione, sono sensitive e quindi hanno un radicamento cerebrale, e come tali si collegano ai comandi motori cerebrali che attivano il comportamento corporeo. 218 Abbiamo visto questo punto in Tommaso, nel nostro capitolo 4, n. 3. 178 Vediamo adesso di argomentare la validità di questa tesi considerando due punti: gli stati affettivi e il loro rapporto con la volontà. d. 1) Emozioni e sentimenti Credo sia un errore frequente in questo campo la riduzione della volontà al momento “freddo” della scelta deliberata (freddo in quanto momento della ragione) o della pura mozione motoria (“voglio muovere le gambe e le muovo”). La volontà principalmente ama, e quindi sperimenta affetti o sentimenti: desideri, speranza, gioia, timore, amore. Non bisogna ridurre i sentimenti umani alle passioni sensitive condivise con gli animali219. Questo punto potrebbe risultare alquanto oscuro per alcuni perché non esiste tra gli autori, né classici né moderni, una teoria troppo elaborata e accettata sui sentimenti, emozioni, sensazioni, passioni, affetti, e il vocabolario psicologico emotivo corrente a questo riguardo si presenta, in generale, fluido e poco preciso220. La questione potrebbe essere articolata nei seguenti termini. Come abbiamo visto nel numero 2 di questo capitolo, alcune passioni animali sono organiche, quali la fame, la sete o il desiderio sessuale, e altre (“emozioni”) sono transorganiche e intenzionali, come la paura, l’ira, la gelosia, la sottomissione, l’aggressività, la depressione, il desiderio di giocare, la tristezza (alcuni stati affettivi elevano al livello intenzionale le passioni organiche). Nell’affettività umana, a sua volta, possiamo fare le seguenti distinzioni221: 1) Le passioni organiche, per quanto siano incorporate al dinamismo dell’intelligenza e della volontà, conservano comunque una chiara autonomia a causa del loro carattere fisico. La fame è sempre la stessa e non si può contrariare 219 L’argomento è ampiamente sviluppato da A. Malo, Antropologia dell’affettività, cit., pp. 194-211. 220 Tommaso d’Aquino considera le emozioni umane alla stregua della classificazione aristotelica delle passioni animali (piacere, dolore, desiderio, ira, amore), ma al contempo egli riconosce nell’uomo affetti spirituali, anche se talvolta possono avere lo stesso nome (amore, speranza, desiderio), affetti attribuibili direttamente alla volontà a titolo di atti o di stati: cfr. S. Th., I, q. 19, a. 1, ad 2; a. 2; I, q. 20, a. 1. 221 Cfr., sul tema, G. Perna, Le emozioni della mente, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2004; E. T., Rolls, The Brain and Emotion, Oxford University Press, Oxford 1999. 179 direttamente. 2) Le emozioni sensitive intenzionali condivise con gli animali, pur avendo una dimensione cerebrale, nell’uomo sono più suscettibili di essere incorporate e fortemente trasformate dall’intenzionalità spirituale. Così, l’ira nell’animale si attua nei confronti dei beni collegati ai cicli istintivi, mentre nell’uomo l’ira si accende dinanzi a oggetti intellettuali o personali: indignazione davanti a un’ingiustizia, o perché ci hanno rubato un libro di poesie, o rabbia perché non riusciamo a capire bene un’operazione matematica. Le emozioni, essendo sensitive, sono accompagnate da alterazioni neurofisiologiche (nella respirazione, nella circolazione, nel metabolismo), prova lampante della loro base cerebrale. Le passioni organiche, invece, anziché alterazioni fisiologiche, sono semplicemente una forma di autosensibilità del corpo in alcune delle sue funzioni organiche. Le emozioni sensitive intenzionali costituiscono un settore di ciò che si potrebbe considerare la “base biologica” dell’etica. Quest’ultima in parte cerca, in parte, di introdurre nelle emozioni e nelle passioni un ordine consono alla persona. L’emotività, come vedremo più avanti, partecipa alla volontà nella sua dimensione affettiva, pur possedendo una certa autonomia nei suoi confronti a causa della sua radicazione neurale. 3) Una situazione intermedia tra i primi due tipi di affetti sono certi stati d’animo psicosomatici, positivi o negativi, collegati a condizioni neurofisiologiche: il nervosismo, l’ansietà, l’euforia, l’insicurezza, la timidezza, il benessere fisiologico, il buon umore, la stanchezza, la giovialità. Alcuni di questi stati, se sono permanenti, tradizionalmente vengono assegnati al “temperamento” della persona. Così, l’indignazione o l’amore non si manifestano ugualmente in una persona nervosa, tesa, ansiosa, serena o equanime222. 4) Gli atti e stati affettivi intensi e brevi di solito si chiamano emozioni. Gli antichi li denominavano passioni nel senso di situazioni “che ci capitano”, in contrapposizione alle azioni, le quali invece dipendono da noi in quanto agenti liberi. 222 A. Damasio chiama “emozioni di fondo” questi stati animici: cfr. Emozione e coscienza, cit., pp. 69-72. 180 Talvolta passione indica uno stato affettivo frequente, intenso e poco controllato, indirizzato a un oggetto (passione per il gioco, innamoramento passionale). Ci sono anche predisposizioni abituali -tendenze particolari- verso certi stati animici ed emozioni (fanno parte del temperamento). Ad esempio, l’irascibile tende all’ira, e chi serba un rancore può tendere ad atti aggressivi. Quando un abito affettivo è frutto di un lavoro di formazione guidato dalla ragione e dalla volontà ed è orientato al bene personale, diventa una virtù dell’affettività (così, una persona può essere affabile e simpatica per virtù, oppure per predisposizione naturale)223. 5) Alcuni stati d’animo, prevalentemente chiamati sentimenti, sono specificamente umani e non li troviamo negli animali: ammirazione, gioia, esaltazione, felicità, rimpianto, sentimenti estetici, sentimenti religiosi. Questi stati affettivi sono spirituali. Quando sono molto intensi, diventano “emozioni” e possono avere risonanze fisiologiche (nel ritmo cardiaco e la pressione arteriosa, effetti ormonali, ecc.), probabilmente perché sono in connessione con affetti sensibili situati nel medesimo genere analogico. L’esultanza, la felicità, l’amore umano, in qualche modo appartengono allo stesso genere dell’allegria sensitiva di tipo animale (sono infatti sentimenti positivi nei confronti di beni aspettati o posseduti), sia pure con ovvie differenze analogiche. Quindi alcuni sentimenti spirituali possono avere effetti neurofisiologici simili a quelli provocati dalle passioni sensitive “analoghe”. Una tale continuità appare coerente con il principio di gradazione della vita. Quello che negli animali è solo sensitivo, nell’uomo è elevato, ampliato e trasformato, ma rimane anche incarnato. I sentimenti spirituali non nascono da meccanismi neurali o solo psicologici, ma dal riconoscimento o apprezzamento personale di oggetti intenzionali come possono essere una situazione della vita, un’opera artistica meravigliosa, un insieme simbolico suggerente, una persona cara (amico, padre, madre), un bel paesaggio, la patria, Dio. Perciò, la tonalità affettiva della persona può riflettere spesso un atteggiamento di fondo davanti alla realtà, una certa “situazione esistenziale” di carattere psicosomatico 223 Le pagine successive di questo capitolo talvolta sfiorano questioni etiche. Cfr., al riguardo, A. Rodríguez Luño, Ética general, Eunsa, Pamplona 2001, in particolare pp. 155-174, in riferimento alle inclinazioni, e il già citato volume di M. Rhonheimer, Legge naturale e ragione pratica. 181 che incide sul comportamento umano224. Una visione del mondo religiosa, morale, nichilistica, ecc. suscita dei sentimenti corrispondenti. Comunque, la tonalità affettiva della persona può essere anche temperamentale, dovuta alle condizioni psicosomatiche di carattere sensitivo menzionate nel n. 3 di queste divisioni. I sentimenti, pur essendo naturali, hanno sfumature diverse secondo la cultura, l’educazione e la ricchezza della propria personalità. L’arte, l’ornamentazione, le immagini, l’ambiente, possono suscitare determinati sentimenti. Gli affetti, inoltre, sono comunicativi e quindi hanno una dimensione interattiva. I nostri sentimenti positivi come la benevolenza, la misericordia, la solidarietà, hanno effetti benefici nelle persone con cui conviviamo. Il contrario accade con i sentimenti negativi (durezza di cuore, asprezza, egoismo, disprezzo, rancore, arroganza). 6) Le virtù sono condizioni permanenti di eccellenza delle operazioni volontarie in riferimento a determinati oggetti, e come tali sono predisposizioni della condotta volontaria225. Sono, quindi, un perfezionamento della stessa capacità volontaria o personale di amare e di comandare la condotta, motivo per il quale includono una dimensione cognitiva o razionale. Ad esempio, la virtù dell’umiltà contiene una valutazione giusta di ciò che siamo, pure nei confronti degli altri, e insieme comporta una stima moderata di noi stessi226. In quanto predisposizioni, le virtù non sono sentite e neanche sono sentimenti. Esse arrivano laddove giunge l’influsso della volontà. Di conseguenza, le virtù introducono ordine ed eccellenza in tutto il piano dell’affettività (considerato nei numeri 1-5 delle nostre divisioni; così avviene con la temperanza, la castità, la fortezza, la misericordia), ma anche nella conoscenza (come fa la prudenza) e nel 224 A. Malo, in Antropologia dell’affettività, cit., p. 204, menziona sentimenti dell’uomo nei confronti dei trascendentali dell’essere: atteggiamenti emotivi relativi al bene e al male, alla verità e alla bellezza delle cose. 225 Parliamo delle virtù della volontà. Ci sono anche abiti intellettivi o “virtù intellettuali” di cui adesso non ci occupiamo, anche se esiste un intreccio delicato tra molte virtù volontarie e certi abiti intellettivi. 226 Sul tema della virtù, rimando all’opera di C. Peterson, M. Seligman Character Strengths and Virtues, Oxford University Press, Oxford 2004. Merito di questo lavoro è di portare la tematica delle “forze del carattere” e della virtù, base di una vita buona e sana, al piano della psicologia, superando l’unilateralismo di concepire la normalità come semplice assenza di malattie psicologiche. 182 comportamento (così la giustizia o la carità). Anzi la virtù normalmente incide simultaneamente su questi tre ambiti. La carità, ad esempio, migliora i sentimenti di amore verso gli altri, ci aiuta a conoscerli meglio e soprattutto spinge a compiere atti indirizzati al loro bene. Il compimento del dinamismo volontario è l’atto umano, o atto personale, libero e razionale. Di conseguenza, la dimensione fondamentale della virtù non è il sentimento né la conoscenza, ma la prassi umana. La virtù è essenzialmente comportamentale, nel senso antropologico del termine (non è giusto chi si sente giusto, ma chi fa opere di giustizia). La volontà di una persona si rivela principalmente nella sua condotta libera. In modo sintetico, si potrebbe anche dire che le virtù volontarie sono, complessivamente, la crescita della persona in quanto persona. In modo antitetico, i vizi sono deviazioni stabili della persona nelle sue diverse dimensioni. Alcuni di essi introducono disarmonie (l’egoismo, l’ossessione per il denaro o il potere), e altri sono semplicemente disgregativi (pigrizia, sentimentalismo, sensualità non controllata). d. 2) Il rapporto tra sentimenti e volontà Mi riferirò in seguito ai sentimenti, affetti ed emozioni umane prendendoli come sinonimi, diversi dalle sensazioni organiche. Il punto da considerare adesso è il rapporto tra questi stati affettivi e la volontà. Il problema è vedere fino a che punto i sentimenti sono atti o stati della volontà o invece sono indipendenti da essa. L’appetito sensibile (organico) chiaramente non si confonde con la volontà: posso sentire fame eppure non voler mangiare, forse perché ritengo che mi farà male, o perché desidero praticare un digiuno, o per motivi di orario. Invece, se ho sentimenti di amicizia verso qualcuno, è questo uno stato della mia volontà o qualcosa di estraneo ad essa? La questione non è facile da risolvere, visto che la volontà, come abbiamo insinuato, non può ridursi all’atto di scelta. La volontà comporta primariamente la capacità e anche la tendenza di amore verso beni o valori umani -specialmente persone- conosciuti con l’intelligenza. Però la volontà, trovandosi in situazioni molto diverse nei confronti del bene amabile, può esercitare molti atti, come desiderare, avere un’intenzione, amare, gioire, sperare, pentirsi, e può anche trovarsi in stati 183 abituali come l’amicizia, l’odio, l’avversione, la felicità. In quanto capacità, può essere perfezionata dalle virtù volontarie, quali la giustizia, la generosità (o può anche rovinarsi con i vizi, come l’egoismo). Detto tra parentesi: quando diciamo “volontà”, si potrebbe dire ugualmente la persona, visto che gli atti volontari non sono che gli atti della persona presa come un tutto. Diciamo “ti amo”, non “la mia volontà ti ama”, proprio perché la volontà siamo noi stessi227. La complessità delle situazioni volontarie procede dal fatto che possiamo sperimentare simultaneamente rapporti dinamici molteplici nei confronti di diversi beni, che forse sono concorrenti. Ad esempio, la nostra intenzione di andare a finire un lavoro urgente potrebbe essere ostacolata dalla convenienza di accompagnare una persona cara a fare una passeggiata. L’urto tra queste due sollecitazioni potrebbe provocare ansietà e nervosismo, obbligando la volontà a compiere rettifiche delle scelte già fatte. I livelli della sensibilità s’intrecciano nel loro dinamismo con l’ambito della persona come soggetto responsabile. Così, una buona notizia riempie la nostra volontà di gioia, la quale si trasmette anche alla base organica, dandoci più energie fisiche per lavorare e vincere ostacoli. L’indisposizione fisica, invece, può disporci più facilmente ad avere uno scatto d’ira o può farci cadere nella tristezza, forse favorendo scelte sbagliate. Gli esempi di questi intrecci sono innumerevoli. Il punto centrale di questo problema è la comunicazione partecipativa e interattiva della volontà con la dimensione emotiva e sentimentale della persona. Quando questa comunicazione è positiva ed è presieduta dalla dimensione più alta della persona (la volontà, la ragione, la scelta, le virtù), la sfera sentimentale diventa integrata e si trasforma in una forza trascinante e operativa della vita umana. Al contrario, quando la parte emotiva e sentimentale predomina sulla dimensione razionale, la conseguenza è la disgregazione della persona e la caduta nel soggettivismo. In entrambi i casi, volontà e sentimento vanno all’incontro e in qualche modo finiscono per fondersi, sia pure con risultati diversi228. 227 Ontologicamente la persona non è identica alla volontà. La volontà però non è una semplice capacità umana tra altre, ma è il nucleo stesso della persona nella sua capacità di agire come soggetto. D’altra parte, la volontà e l’intelligenza sono compenetrate e non si possono separare se non analiticamente. 228 In Persona e atto, Wojtyla denomina eccitazione ciò che noi abbiamo chiamato passione organica, e commozione l’emozione e il sentimento. Quando l’emozione diventa uno stato 184 La dimensione alta di una persona, comunque, potrebbe essere deviata da ideologie, scelte sbagliate, forme razionali corrotte, mentre il suo “cuore sentimentale” forse rimane ancora nobile nei confronti dei valori. Così, un individuo educato in un’ideologia perversa, davanti a crimini giustificati da essa potrebbe provare dei sentimenti di ripugnanza che forse lo porteranno a ravvedersi. Il criterio ultimo di validità delle nostre scelte comunque non è immanente a noi (ragione o sentimento), ma trascendente: la verità dell’essere. Spesso la ragione vede la verità e il sentimento può essere ribelle, ma il contrario potrebbe anche accadere. Né il razionalismo né il sentimentalismo sono posizioni giuste. Ciò che più conta è la trascendenza della verità e del bene. I sentimenti hanno una loro autonomia rispetto alla “pura” volontà a causa del loro risvolto neurale. Così una persona che prova odio verso qualcuno a un certo punto può pentirsi e non voler più odiare. La sua scelta razionale e convinta è di non odiare più. Questa decisione, tuttavia, non eliminerà automaticamente la sua predisposizione sentimentale verso gli atti di odio, il che potrebbe, naturalmente, mettere a rischio il suo pentimento. La persona, quindi, grazie alla riflessione razionale, può decidere con libertà di cambiare oggetto o modalità nei suoi atti e condotta conseguente, ma dovrà pure impegnarsi -educando la sua affettività- per far sì che la sua parte emotiva sia congruente con le sue scelte. L’interazione tra i sentimenti “volontari per partecipazione” e la “volontà di decisione” è reciproca, pur mantenendosi sempre il rapporto con la dimensione cognitiva. I sentimenti possono emergere in un modo più o meno spontaneo in certe circostanze, spingendo la volontà in un determinato senso. Così accade, ad esempio, con tanti sentimenti naturali di amicizia e di benevolenza verso alcune persone, o quando ci si affeziona a un certo lavoro. Però questi sentimenti potrebbero entrare in contrasto con altri affetti o con l’amore verso beni indicati dall’intelligenza come prevalenti o addirittura incondizionati. Spetta alla ragione considerare l’eventuale irrazionalità di un certo sentimento, che quindi bisognerebbe tentare di inibire. Ad esempio, se un’amicizia coinvolge una persona in un possibile atto criminale, il permanente -atteggiamenti stabili di simpatia, avversione, rancore, amore-, allora praticamente si è fusa con la volontà: cfr. Persona e atto, cit., pp. 1136-1139. 185 sentimento -normalmente nobile- di voler fare ciò gli amici chiedono si è trasformato in un affetto irrazionale229. La volontà è capace non solo di non seguire tale affetto, ma anche di moderarlo o purificarlo, orientando così la dimensione emotiva verso la razionalità e l’amore giusto. La volontà potrebbe anche accettare irrazionalmente una richiesta sentimentale ingiusta. La volontà può cedere, ma tende comunque a fondersi con il sentimento, perché le due istanze sono sempre tendenziali e sono spinte naturalmente alla convergenza e alla loro unificazione. Peraltro, alcune disfunzioni nervose possono incidere sull’affettività e sulla capacità cognitiva di una persona, rendendola meno abile nelle sue decisioni o giudizi pratici. In questo caso la persona diventa meno responsabile delle sue scelte irrazionali, che così non saranno vere scelte. In altre circostanze, invece, a causa di una deformazione nell’educazione degli affetti, alcuni individui si lasciano trascinare fortemente dalla loro emotività congruente con certe scelte non esplicite e in questo senso “protette”. Di conseguenza, tali persone non accettano facilmente la proposta di ragionare sulle loro opzioni pratiche. Preferiscono assumere atteggiamenti sentimentali e quasi impazziscono se una proposta contraria alle loro inclinazioni viene offerta alla loro considerazione, e in questo modo finiscono per imporre la loro volontà. Da questo esempio si vede l’importanza dell’educazione dei sentimenti, affinché collaborino con le scelte razionali e non diventino complici delle opzioni irrazionali. Non sempre è facile distinguere tra ciò che è patologico e ciò di cui una persona è veramente responsabile. In qualsiasi caso, non bisogna perdere di vista il ruolo guida della ragione fondata sulla verità e del conseguente amore autentico. Questi elementi debbono governare la persona, non i sentimenti, né una ragione razionalista. Ma i sentimenti sono di per sé positivi e assolutamente imprescindibili per la 229 Non tutti i sentimenti sono sempre buoni in modo concreto e in qualsiasi situazione. Alcuni sentimenti, secondo i contesti, vanno lasciati da parte, non ascoltati e non alimentati, in attesa di una trasformazione positiva dell’affettività di una persona. Questo compito è delicato e va eseguito con convinzione e impegno, specialmente nel campo dell’educazione. È un errore la repressione autoritaria ed esteriore di ogni sentimento che sembri deviato, ma è altrettanto sbagliato considerare sacri e intangibili i sentimenti. Il senso dell’importanza della ragione e dell’amore vero è una guida affinché le persone riconoscano la loro fragilità emotiva e sentimentale e s’impegnino nell’educazione dell’affettività. 186 dimensione motoria, come vedremo nel n. 8 di questo capitolo230 . È questa, a mio avviso, la giusta impostazione della tradizionale tematica dell’influsso dell’anima sul corpo e viceversa. Gli strati in gioco sono tre, non due: dimensione psicosomatica vegetativa (sensazioni organiche), psichismo emotivo e volontà razionale (spirito). A questo puntavano, in parte, le antiche tricotomie di corpo, psiche e spirito, riprese in un certo modo da Wojtyla e in un altro senso dalla concezione tripartita di MacLean. Tra questi strati ci sono linee ascendenti e discendenti di interazione, integrazione o possibile dissociazione, come si è visto in queste pagine. Il seguente schema illustra gli strati e le loro interazioni: 230 J. LeDoux, in Il Sé sinaptico, Cortina, Milano 2002, pp. 419-450, sostiene l’importanza dell’integrazione psichica (molto diversa è la tesi aberrante di Minsky e Dennett, secondo cui l’uomo non è un io, ma un insieme di forze in associazione). “Questo è il motivo -scrive LeDoux- per cui un matematico brillante oppure un artista o un imprenditore di successo possono come chiunque altro cadere vittime di una seduzione sessuale, della collera suscitata dal traffico, della gelosia (...) Il nostro cervello non si è evoluto a un punto tale che i nuovi sistemi, i quali rendono possibile un pensiero complesso, riescano facilmente a controllare i sistemi antichi che danno origine ai nostri bisogni e moventi di base, nonché alle reazioni emotive. Ciò non vuol dire che siamo completamente in balia del nostro cervello e che non ci resti che cedere ai nostri impulsi. Significa invece che la causalità discendente è a volte un’impresa ardua. Fare la cosa giusta non sempre scaturisce spontaneamente dal fatto di sapere quale sia la cosa giusta da fare” (ibid., p. 449). L’intuizione di LeDoux sulla possibilità di dissociazioni tra le funzioni alte e basse della vita psichica è giusta. Il medesimo concetto si legge poco più avanti: “talvolta, però, pensieri, emozioni e motivazioni si dissociano. Se la trilogia mentale si scompone, è probabile che il Sé cominci a disgregarsi e la salute mentale a deteriorarsi. Quando i pensieri sono completamente dissociati dalle emozioni e dalle motivazioni, come nella schizofrenia, la personalità può drasticamente trasformarsi. Quando le emozioni imperversano liberamente, come nei disturbi dell’ansia e nella depressione, una persona non è quella che era un tempo. E quando le motivazioni sono piegate dalla dipendenza dalle droghe, gli aspetti emotivi e intellettuali della vita ne risentono” (ibid., p. 450). Certi aspetti neurofisiologici legati alle decisioni sono considerati in quest’opera nelle pp. 350-360. 187 Volontà Virtù Sentimenti spirituali Psichismo emotivo Partecipa alla volontà Radicazione cerebrale Stati d’animo psicosomatici Passioni organiche (con attivazioni fisiologiche proprie) Intelligenza Razionalità pratica Ragione sensitiva Sede cerebrale Sensibilità cognitiva organica Alterazioni neurofisiologiche Sullo strato psicosomatico neurovegetativo la persona esercita un controllo indiretto e piuttosto rigido, secondo canali precisi, ad esempio riguardo a funzioni come l’alimentazione e la sessualità. Non possiamo evitare di avere fame, ma entro certi margini possiamo decidere quando e come mangiare e, se non desideriamo cadere nella golosità, possiamo decidere di tenerci lontani da certi cibi succulenti. Il dominio dei sensi esterni ed interni (immaginazione, memoria), l’approccio adeguato agli universi simbolici e raffigurativi, la prudenza nella frequentazione di ambienti e persone, fanno parte degli elementi coi quali possiamo essere padroni della sessualità nella sua dimensione organica e sentimentale. Invece non possiamo controllare direttamente certe sensazioni o alterazioni organiche (dolori, malessere fisiologico), né siamo signori dei nostri stati animici psicosomatici (come il nervosismo), se non agendo talvolta sulle loro cause fisiche (ambientali o neurofisiologiche), se è conveniente in certi casi, o sugli elementi delle dimensioni superiori della persona 188 eventualmente ad essi correlati (ad esempio, il nervosismo può essere alleviato in ambienti umani rasserenanti, o assumendo atteggiamenti positivi nel lavoro o in altre attività). Tralascio qui la questione delle tecniche psicologiche o psicosomatiche di controllo dei settori della sensibilità neurovegetativa e della coscienza sensitiva. Sullo psichismo emotivo e dei sentimenti abbiamo un dominio “politico” e non “dispotico”, come diceva Aristotele, cioè non immediato, bensì attraverso le cause intenzionali e psicosomatiche che suscitano direttamente gli affetti. Come accade negli altri strati, nel dominio dei nostri sentimenti raramente agiamo da soli, poiché dipendiamo dall’ambiente (ad esempio, dai mezzi di comunicazione) e dalle persone che ci circondano (famiglia, amici, colleghi). Un articolo violento o aggressivo di un giornale può suscitare nella gente sentimenti bellici, razzisti o nazionalistici. In una linea ascendente, i sentimenti nati in noi in modo naturale, suscitati da cause intenzionali personali, ambientali o simboliche (talvolta anche da situazioni fisiche stimolanti), se sono positivi e si trovano in armonia con le nostre scelte autentiche e giuste, vanno accolti dalla nostra dimensione tendenziale profonda, la volontà, e così contribuiranno all’integrazione dinamica del comportamento con le altre dimensioni della nostra personalità. Invece, se i sentimenti spontanei suscitati da quelle cause sono negativi o poco convenienti, allora vanno purificati, moderati o respinti con la forza di sentimenti superiori e delle virtù corrispondenti, oppure agendo sulle loro cause intenzionali. Ad esempio, la perdita del lavoro può produrre una profonda tristezza in una persona. Questo sentimento è naturale, ma contiene un elemento negativo, poiché potrebbe portare alla depressione, all’inazione o alla disperazione. In questo caso, anziché respingere con “freddezza razionale” e stoica tale sentimento, sembra più conveniente cercare di superarlo con atteggiamenti positivi: la virtù della fortezza (non scoraggiarsi di fronte alle difficoltà) può aiutare in tal senso, nonché i consigli e conforto degli amici, cose che pongono il soggetto davanti a beni più alti. Questi beni, conosciuti e amati, creano nel soggetto una condizione emozionale più positiva, basata su cause reali e non false. La tristezza potrebbe continuare in questo caso (sarebbe sradicata del tutto, ovviamente, se la persona trovasse un nuovo lavoro, cosa auspicabile ma contingente), ma si eviterebbe che essa prendesse una forza tale da distruggere la personalità. 189 Dal punto di vista discendente, la volontà razionale diventa completamente umana ed efficace se è incarnata nella dimensione dei sentimenti. L’amore vero, autentico e forte si traduce necessariamente in slancio anche emotivo, talvolta in passione ed entusiasmo. L’educazione dell’affettività, attraverso mezzi estetici, retorici, simbolici, ambientali, personali, deve cercare di suscitare sentimenti nobili, come la misericordia, l’affabilità, la giocondità, il gusto per la collaborazione e il servizio, mentre vanno evitati sentimenti negativi come l’irritabilità, la suscettibilità, lo scoraggiamento, l’incomprensione delle persone o l’impazienza. Le vie ascendenti e discendenti si intrecciano a vicenda. La persona dotata di sentimenti positivi, altruisti, costruttivi, li comunica facilmente agli altri e vince con maggiore efficacia l’assalto di sentimenti negativi, dovuti a cause reali o fittizie (ad esempio, troppo amplificate). In definitiva i nostri sentimenti sono autentici se sono risonanze affettive davanti alla realtà o alla verità. Eventi reali negativi (dolore, malattia, morte, ingiustizie, penuria, guerre, crolli economici) necessariamente provocano sentimenti negativi. A questo livello tocchiamo lo sfondo esistenziale della persona. Di fronte a queste esperienze negative, forti e basate sulla verità, solo una realtà positiva più alta può costituire una causa adeguata di superamento personale sul piano dei sentimenti. A questo punto l’aggancio con i valori trascendenti offerti dalla religione è fondamentale. Il dispiacere perché ci hanno dato una risposta sgradevole si può superare passeggiando con un buon amico. Il dolore provocato dalla morte di persone care o dalla prospettiva della propria morte solo si può superare davvero con la speranza nella vita trascendente. Tale speranza, peraltro, va presa nel modo giusto e non in qualsiasi modo, il che dipende, ancora una volta, dalla verità teologica nel suo adeguato rapporto all’uomo231. In definitiva, l’identificazione dei sentimenti con la volontà acquista un valore positivo quando è fondata sulla verità e sul bene, non semplicemente su eventi psicologici e neurali. 231 Nell’ambito della fede cristiana, questo punto è garantito dalla Rivelazione di Dio in Cristo e dalla conseguente risposta personale di adesione alla verità di Dio. 190 d. 3) Alcuni spunti wojtyleani sulla questione dei sentimenti e la volontà Per finire questa sezione, vorrei proporre alcune idee di K. Wojtyla sull’argomento delle pagine precedenti232. Secondo la sua terminologia, egli parla dell’integrazione dell’ambito soggettivo dei sentimenti nell’operatività della persona. La dimensione emotiva è “l’io soggettivo”, la tradizionale psiche, mentre la dimensione più alta della persona è “l’io trascendente”, la ragione, la libertà o lo spirito, il livello della decisione e della conoscenza della verità trascendente. Tra le due istanze possono insorgere delle tensioni, in un quadro però tendente all’integrazione. La stabilizzazione permanente dei sentimenti, cioè la “fissazione” dei sentimenti in stati affettivi continui è proprio il costituirsi dell’io soggettivo. Se manca l’integrazione, si produce la “emozionalizzazione della coscienza”, la quale in casi estremi impedisce al soggetto di agire con responsabilità e autodeterminazione, disgregando la sua operatività personale233. Tranne questi casi, l’emozionalità può avvicinarsi al livello della persona e così può trasformarsi in un’esperienza vissuta dei valori, punto vicino a Scheler, anche se Wojtyla riconosce pure la cognizione intellettiva dei valori. In questo modo Wojtyla vede nell’esperienza di una emotività intenzionale aperta ai valori una partecipazione del vissuto alle funzioni superiori della persona. Il livello più alto della persona corrisponde al volere nel momento della scelta e del confronto con la verità. “L’operatività, e con essa l’autodeterminazione personale, si forma nella decisione e nella scelta, e queste presuppongono la relazione con la verità, il riferimento dinamico ad essa nella volontà stessa. In questo modo, tuttavia, nella spontanea esperienza vissuta del valore e nella tendenza ad essa legata, alla realizzazione emozionale della propria soggettività entra un fattore nuovo, trascendente. Questo fattore indirizza la persona verso la realizzazione di se stessa nell’atto, non attraverso la semplice spontaneità emozionale, ma attraverso la relazione trascendente con la verità, con il dovere e la responsabilità ad essa legati. Nelle concezioni tradizionali questo 232 233 Cfr. K. Wojtyla, Persona e atto, cit., pp. 1138-1151. Cfr. ibid., pp. 1144-1149. 191 fattore dinamico della vita personale è stato definito ragione (...) Questa capacità determina la forza autentica dello spirito, che fa da asse portante all’agire umano. La proprietà di questa forza, anche se esige una certa distanza dai valori spontaneamente vissuti (e per così dire una ‘distanza di verità’), tuttavia non nega affatto tali valori, non li rifiuta in nome della ‘pura trascendenza’, come apparentemente volevano gli stoici e Kant. La subordinazione autentica alla verità, come principio delle decisioni e delle scelte della libera volontà umana, nella sfera delle emozioni richiede piuttosto una particolare connessione tra la trascendenza e l’integrazione”234. L’ultima osservazione del testo punta alla tesi di questa sezione sulla comunicazione partecipativa dell’affettività umana alla volontà, comunicazione positiva quando è guidata dalla verità. 8. Muovere il corpo volontariamente Consideriamo in seguito un punto nucleare che stiamo inseguendo in questo capitolo: dopo la scelta, come fa la volontà a muovere il corpo? Nella sezione precedente siamo arrivati a una conclusione importante: la volontà, potenza razionale, s’incarna nell’affettività superiore e nelle sue sedi cerebrali, e a tale affettività spetta il ruolo di produrre i comandi motori volontari. Cercheremo di esporre e di difendere questa tesi. a) Funzioni psichiche e mutamenti fisici La radice dei movimenti intenzionali animali sono le loro attivazioni psicosomatiche di natura emotiva, tendenziale, spesso in collegamento con la coscienza animale del proprio corpo e dell’ambiente. L’animale percepisce un pericolo e si muove per esplorare l’ambiente o fugge. Al contempo, le emozioni animali muovono il corpo nel senso di produrre effetti somatici di natura neurovegetativa. Le emozioni animali, quindi, muovono in un duplice senso: a) Producono alterazioni neurofisiologiche (variazioni nella pressione arteriosa, 234 Ibid., pp. 1150-1151. 192 nella temperatura del corpo, nel sistema ormonale, ecc.); b) attivano i muscoli affinché si produca il comportamento intenzionale tipico dell’animale (correre, saltare, volare, gridare). In noi accade qualcosa di simile. Solo che il dominio sui muscoli (striati) è controllato direttamente dalla volontà e per questo motivo i nostri movimenti somatici intenzionali sono propriamente volontari. Questa possibilità di muovere volontariamente il corpo “muscolare” è l’ambito di libertà sul nostro organismo -e quindi sul mondo- che la natura ci ha concesso. Le alterazioni neurofisiologiche, considerate dai classici come concomitanti alle passioni, “ci accadono”, cioè non dipendono da noi, benché possiamo agire sulle loro cause. Esse sono attivazioni di certi settori del corpo “neurovegetativo” conseguenti in modo naturale alle emozioni e ai sentimenti (ira, paura, desideri). I movimenti fisiologici organici sentiti (fame, sete, sessualità), invece, non sono alterazioni “conseguenti”. Sono semplicemente il risvolto fisico proprio della sensazione organica, come abbiamo già detto. Tali sensazioni, in quanto sono affettive (la fame è un desiderio organico), sono motorie (la fame muove alla ricerca dell’alimento). Perché queste differenze? Qual è il loro senso? 1. La funzione motrice dell’emotività animale, considerata nel n. 2 di questo capitolo, è ben conosciuta sul versante neurologico. Le alterazioni neurovegetative susseguenti a tali emozioni tendono a predisporre il corpo in funzione della condotta prevista dalla parte tendenziale. Se la condotta intenzionale è ostacolata (ad esempio, se l’animale subisce un attacco), le alterazioni organiche corrispondenti preparano il corpo per la difesa. Potranno essere anomale o squilibrate (tensione, sudorazione, affanno), se il programma di condotta non raggiunge i suoi obiettivi. 2. La condotta intenzionale umana, invece, è libera nei confronti delle emozioni. I sentimenti non la scatenano spontaneamente. In condizioni di normalità, l’uomo è capace di fermare la sua condotta, per quanto forti siano i suoi sentimenti, e di considerarla freddamente con la ragione, per poi decidere cosa fare liberamente. La volontà/ragione, quindi, ha due dimensioni leggermente separate, una affettiva e l’altra motrice. La dimensione affettiva scende al livello delle emozioni sensitivo-volontarie, potendo provocare delle reazioni neurofisiologiche. Queste 193 reazioni sono autonome e non sempre hanno a che vedere direttamente con le motivazioni volontarie (una brutta notizia di per sé non ha niente a che vedere con l’organismo, ma può provocare un’indigestione). Si potrebbe pensare in questo senso ad una sorta di mancato equilibrio tra l’anima e il corpo. Comunque, in linea di massima esiste una congruenza tra le situazioni volontarie o spirituali e il dinamismo somatico. I sentimenti positivi (gioia, ottimismo, slancio interiore) fanno bene all’organismo, stimolano e danno energia, mentre quelli negativi (tristezza, disperazione, odio, paura) possono creare disturbi o squilibri corporei. Alcuni sentimenti hanno pure una forma espressiva corporea caratteristica (come le lacrime, il sorriso, il volto disteso). Questi fatti sono una manifestazione dell’unità dinamica tra l’anima e il corpo. Consideriamo per un attimo l’eventuale causalità del pensiero sul cervello, indipendentemente dalla mozione volontaria. Si può parlare di una causalità movente dell’intelligenza sulla sua base neurale? Non è vero che i nostri pensieri provocano in noi attivazioni cerebrali? Questa domanda potrebbe condurci a un’impostazione dualistica cartesiana. La cognizione sensitiva esercita un dominio formale sulla base neurale nell’unità integrata degli atti psicosomatici, come abbiamo visto nel capitolo 2. Questo dominio -formalizzazione attiva- diventa più ampio man mano la funzione cognitiva è più alta, suscitando processi top-down compatibili con gli aspetti materiali attivi da cui emergono processi bottom-up. Ora, il pensiero unito alla sensibilità superiore esercita pure questo ruolo formalizzante, da non confondere con una causalità efficiente o movente. Comincio a ricordare, ad esempio, ciò che ho fatto ieri, senza muovere un muscolo. Questo mio atto è libero (“voglio ricordare, dirigo la mia attenzione verso questi ricordi”) perché la mia volontà domina l’atto intellettivo, il quale a sua volta è unito alla sensibilità superiore, facendola partecipe alla sua comprensione. La sensibilità, cerebralmente localizzata (centri dell’attenzione, della memoria, dell’immaginazione), comporta una disponibilità materiale tale da consentire il comparire “suscitato” dei pensieri (ma la causa propria di quest’ultimo è la luce intellettiva stessa). A loro volta i pensieri, in quanto sono un certo atto (illuminante) delle operazioni sensitive superiori, fanno sì che queste operazioni si orientino in un certo senso. Però la nostra attività sensitiva, in quanto è cerebrale, lascia una traccia o una formalizzazione stabile nell’operatività 194 cerebrale. Tale traccia è la base fisica degli abiti intelligenti -per partecipazionedell’immaginazione e della memoria, una base che a sua volta consente al pensiero di proseguire in un certo senso. L’unico elemento causale movente di questi processi (causa spirituale) è l’influsso della volontà sul pensiero e perciò, in modo simultaneo, sulla sensibilità. Nella misura in cui l’io domina i suoi pensieri, è una certa causa (non assoluta) di quanto seguirà secondo i processi intellettuali, talvolta imprevedibili, o secondo altre vie causali naturali. Così, chi decide di studiare, è una causa (parziale) dei buoni risultati intellettuali del suo studio, nonché delle formalizzazioni cerebrali conseguenti. Chi decide di attivare i suoi sensi secondo un certo indirizzo, sarà una causa, sia pure parziale, delle conseguenze psicosomatiche naturali di tali attivazioni. La causalità volontaria comporta una responsabilità solo quando le conseguenze sono previste e volute. Chi fa una ricerca e compie una scoperta, è responsabile dei suoi sforzi intellettuali, ma non della scoperta stessa, la quale dipende da luci intellettive di cui lui non è il padrone (nessuno capisce semplicemente perché vuole capire). Chi studia sempre di notte e dorme poco sarà responsabile dei danni fisici che tale condotta potrà recare alla sua salute. b) La volontà e i comandi motori I movimenti intenzionali umani sono sottoposti al dominio della volontà razionale. Così avviene, ad esempio, nei moti dei nostri occhi quando guardiamo, o nelle nostre labbra quando parliamo, o nell’impiego delle nostre membra per muoverci e agire nel mondo. Da questi movimenti volontari seguono in modo naturale altre modifiche fisiche, sia nel nostro corpo che nel mondo esterno. La volontarietà arriva ad ogni atto, conseguenza ed opera esterna dove arriva la nostra intenzionalità e consapevolezza. Nel n. 3 di questo capitolo avevamo citato la frase dell’Aquinate secondo cui “l’appetito razionale, denominato volontà, non muove se non attraverso l’appetito sensitivo”235. Prima vorrei verificare fenomenologicamente la verità di questa tesi. In 235 S. Th., I, q. 20, a. 1, ad 1. 195 secondo termine farò qualche considerazione sul modo in cui la volontà domina i nostri comandi cerebrali motori. Dal punto di vista neurologico, la motilità volontaria nasce da associazioni tra aree corticali e sottocorticali che collegano funzioni cognitive, emozionali e motorie, sia nell’uomo che nei mammiferi superiori. b. 1) La volontà muove tramite i sentimenti Decido di muovere le mie mani e le muovo, pur ignorando i processi neurofisiologici che mi consentono di dominare il mio corpo. Se l’atto è intenzionale, dietro la scelta c’è una motivazione, quindi un desiderio volontario. Posso muovere le mani per salutare un amico: l’affetto fa nascere in me il desiderio di salutarlo, insieme alla convinzione che un certo movimento gestuale è un’espressione adeguata di amicizia. Dove sta, in questo caso, il sentimento come diverso dalla decisione volontaria motivata dall’amore? Nella sezione precedente abbiamo spiegato come gli affetti partecipano alla volontà. Vogliamo bene ai nostri amici sia con la volontà che con sentimenti di amore, dove la volontà e i sentimenti sono integrati in un unico atto. Tale integrazione è conseguente alla previa unione partecipativa tra l’intelligenza e la percezione concreta nella comprensione individuale di questo amico. L’oggetto percepito e amato può essere una persona, una comunità, un valore, un’istituzione. La percezione umana solitamente è intellettivo/sensitiva. La percezione può cadere pure su un simbolo, un aspetto, un oggetto immaginato o ricordato (poiché possiamo arrivare a una persona immaginandola, ascoltando la sua voce, vedendone una fotografia o semplicemente sentendone pronunciare il nome). A tale percezione intelligente può seguire l’amore, il quale s’incarna nei sentimenti. Così, l’integrazione tra la ragione/volontà e le potenze sensitive superiori comprende l’integrazione della parte spirituale dell’uomo con il nostro corpo elevato. Ora, un aspetto di tale integrazione è la motricità volontaria. Quando comprendo, quando amo, quando desidero qualcosa, nel cervello avvengono in modo naturale alterazioni collegate all’integrazione tra intelletto e percezione, tra volontà e sentimento, tra sentimento e azione. Quindi, quando i sentimenti includono un’attività pratica -e tanti sentimenti muovono di per sé all’azione-, allora da essi nascono i comandi motori volontari (“desidero leggere questo libro →muovo le mie mani per 196 prenderlo”), ovviamente in connessione con la percezione e con l’autosensibilità. In un certo senso, muove la percezione emotiva, o muove l’emozione legata alla percezione. Il seguente schema sintetizza questi punti: Volontà Ragione universale Scelta Esperienze concrete Sentimenti sensitivivolontari Bene concreto amato Comandi motori Comportamento Alterazioni neurofisiologiche Espressività somatica Alcune scelte scontate possono sembrare prive di un contenuto emotivo, ma non è così. Se quelle scelte sono impedite, il desiderio implicito si avverte, forse nella forma di un dispiacere. Se desideriamo prendere un libro dallo scaffale di un armadio e non ci riusciamo, proviamo ansietà o inquietudine. Perciò, le alterazioni neurofisiologiche che accompagnano i nostri desideri (ad esempio, quando desideriamo di arrivare ad un appuntamento e prendiamo un mezzo di trasporto) si notano più facilmente quando l’affettività conseguente alla scelta aumenta d’intensità o quando la decisione trova un ostacolo (prendiamo un autobus che rimane bloccato dal traffico, quindi proviamo paura di arrivare tardi all’appuntamento e cominciamo a 197 sentirci fisicamente a disagio). In quanto abbiamo visto scorgiamo due dimensioni della volontà, una passiva e un’altra attiva236. La dimensione passiva tradizionalmente è chiamata eros, manifestandosi come sentimento di attrazione verso un bene che “cattura” la volontà di amore. La volontà umana è creata e quindi è ricettiva nei confronti di beni che non possiede per se stessa e che trova fuori di sé, negli altri e massimamente in Dio. Questa ricettività volontaria, incarnandosi nel “cervello emotivo”, si traduce in una serie di risonanze sentimentali forti ma “passive”. Il momento attivo della volontà, invece, è quello in cui l’amore, se è reale e coerente, si orienta al fare, ad un’azione che avvicina o conferma l’unione dell’amante a ciò che è amato, dove entrano in gioco sentimenti attivi indirizzati all’azione. L’agape, infatti, comporta un “dare”, o piuttosto sta nel fatto che la volontà dona se stessa in favore dell’amato (una persona umana oppure Dio). La donazione dell’amore comporta il passaggio all’operatività del comportamento, poiché solo nella condotta si dimostra come sta effettivamente la volontà che ama. Tra questi due aspetti della volontà e dell’amore, sia sul piano degli affetti che sul versante comportamentale, ci dev’essere un’armonia. Talvolta possono sorgere delle tensioni (ad esempio, tra sentimenti spontanei e scelte volontarie) e anche incoerenze e mancanze di unità nella vita di una persona, per cui l’esigenza di integrazione rimane e se non è soddisfatta provocherà squilibri. Ad esempio, una persona può provare rancore o tristezza per qualche motivo. Mossa però da un amore più alto (l’amore di Dio, il desiderio di rispettare il bene morale), sottoposto alla riflessione razionale, quella persona potrebbe prendere la decisione di non portare al piano delle azioni ciò verso cui, invece, tende il suo orgoglio ferito o il suo rancore persistente. Pur avendo preso tale decisione, non sempre riuscirà ad eliminare automaticamente i suoi sentimenti contrastanti. Tuttavia, la persona si esprime sempre meglio in ciò che fa, dopo una scelta, anziché in ciò che semplicemente sente. Più avanti, i sentimenti potranno riflettere con più forza la verità del suo amore, poiché la condotta effettiva, se è veramente voluta, riesce a 236 Cfr., su questo punto, l’enciclica Deus caritas est, di Benedetto XVI. 198 riconfermare la scelta e così a poco a poco si potrà imprimere più intensamente sull’emotività, promuovendo una maggiore congruenza tra la prassi e l’affettività. b. 2) Come influisce l’intenzione volontaria sul corpo in moto La persona muove volontariamente il corpo, come abbiamo visto, tramite i sentimenti, la percezione e l’immaginazione. In questo modo la persona passa alla prassi, all’atto umano. Ora, così come l’atto intellettuale è presente in tutta la percezione intelligente della persona, in modo analogo la scelta volontaria è immanente a tutto il corpo personale in movimento. Come avviene questa immanenza? Compio la scelta di recarmi domani al luogo di un appuntamento. Prima del mio movimento, la mia scelta rimane nella mia memoria come intenzione. Al momento opportuno, l’intenzione viene attualizzata, riportata alla coscienza e procede al compimento operativo. Il movimento deciso inizia in un momento temporale. Al di sopra di tale inizio, come principio operativo supremo, c’è l’intenzione, la scelta della volontà comunicata al desiderio di muovermi. La decisione, anche se avviene nel tempo, non è propriamente un evento di natura temporale. È sopratemporale, come ogni atto intellettivo/volontario. Di conseguenza, la scelta non è un antecedente temporale degli atti motori del corpo. Come abito operativo immanente al desiderio motore cerebralizzato, da cui nascono i comandi motori, la decisione volontaria presiede tutto lo svolgimento del processo fisico inerente all’azione. Questo processo può avere molte articolazioni, ma l’azione umana resta una sola. Tale unità procede dall’intenzione e dal compimento effettivo dell’intenzione nell’azione. Mentre cammino verso il luogo dell’appuntamento, non ho bisogno di rinnovare di continuo la mia scelta, né devo aggiungere nuovi desideri per muovere ogni parte del sistema motorio del corpo. L’attivazione motoria pone in atto meccanismi “automatici”, coscienti o meno (non ho bisogno di decidere né di desiderare di muovere il piede in questa forma precisa, di attraversare questa parte della strada e non l’altra, ecc.). La decisione e il desiderio conseguente muovono o guidano in un modo soave, dal di sopra, il sistema motorio (muovere le gambe, salire le scale, evitare urti, prendere la metropolitana, ecc.), sempre grazie alla mediazione dei 199 controlli percettivi. Così si svolgono i nostri movimenti routinari, con le solite interazioni tra le percezioni (vedere la strada per attraversarla, aspettare il semaforo, ecc.) e gli automatismi motori abituali, imparati e incorporati nella memoria procedurale. Eppure non agiamo come dei robot programmati, dal momento che l’esecuzione fisica è personale, quindi è “formalizzata” attivamente dall’intenzione volontaria virtuale presente e non revocata nel corpo. D’altra parte, benché abbiamo insistito sul ruolo motorio dell’emotività volontaria, non va dimenticato l’intervento continuo della cognizione sensitiva nella guida dello svolgimento motorio, sin dalla pianificazione dei movimenti a diversi livelli fino alla loro esecuzione. Gli studi neurofisiologici su questo punto sono noti (attivazioni corticali e sotto-corticali, ruolo del cervelletto e dei gangli della base). Dal punto di vista fenomenologico, non solo le sensazioni esterne guidano il moto, ma anche l’immaginazione e la percezione significativa dell’obiettivo o fine del moto, in funzione del quale esso viene pianificato. Gli obiettivi dei moti animali sono presenti a livello di sensibilità, mentre quelli dei moti umani sono anche contemplati dalla ragione. Ad esempio, se vogliamo arrivare al cancello d’ingresso di un palazzo, prefissiamo l’obiettivo e, anche inconsciamente, facciamo un piano spaziale e sequenziale, colto dall’immaginazione anticipatrice. La presenza di questo piano, nel quale il cancello è percepito come “punto di arrivo desiderato”, presiede lo svolgimento dei movimenti237. Quando l’atto è volontario, come stavamo dicendo, l’intenzione sta al primo posto del dinamismo psicosomatico indirizzato al compimento dell’azione. L’atto volontario motorio, mentre perdura fino al suo compimento, è un unico atto integrato, sebbene alcuni dei sui elementi siano separabili. Un saluto, un pranzo, una conversazione, riuniscono nell’unità di un unico atto personale molteplici elementi: l’intenzione e la scelta, la comprensione e la percezione, l’amore e altri sentimenti, i correlati neurali opportuni e il comportamento esterno. Tutto ciò costituisce un intreccio dinamico unitario, guidato in modo naturale dalla persona in 237 La sola immaginazione di un movimento corporeo comincia già ad attivare le aree neurali motrici, anche senza il proposito di arrivare all’azione. Questo fenomeno dimostra fino a che punto sono associati la cognizione sensitiva concreta e il comportamento motorio. 200 azione238. In definitiva, il comportamento fisico intenzionale e volontario dell’uomo è ciò che tradizionalmente chiamiamo prassi (prassi umana), la cui unità di base è l’azione umana o l’atto personale239. In queste ultime pagine abbiamo visto fino a che punto il cervello e tutto l’organismo sono coinvolti nella prassi. Ci siamo soffermati in particolare sul modo in cui la volontà, in collegamento con la conoscenza e i sentimenti, è in grado di muovere il corpo personale. La natura stessa ci offre la possibilità di agire al di sopra delle sue leggi, non contro di esse. Naturalmente, il nostro dominio razionale sul corpo non è totale e cambia a seconda dell’età e dello stato fisiologico e psicologico di ogni persona. Il compito umano è di integrare le molteplici istanze preoperative della nostra personalità, affinché il nostro comportamento sia un’espressione della libertà nei suoi atti di cognizione della verità e di amore trascendente. 9. Condivisione di vita e interazioni intersoggettive Come conclusione di questo capitolo, vorrei considerare in seguito alcuni aspetti sul modo in cui la nostra condotta è guidata, e in un certo senso attivata, dalla “mente degli altri” e non solo dalla nostra “mente” (e viceversa). Questo punto è fondamentale, ma la sua importanza si può capire soltanto dopo l’esposizione analitica precedente sulla causalità volontaria motrice. L’argomento ha a che vedere con la partecipazione empatica e con l’intersoggettività, anzi richiede una previa considerazione delle modalità in cui le unità viventi possono “vivere insieme” e così interagire tra loro in maniera vitale. La tematica della condivisione di vita e dell’interazione intersoggettiva si sta rivelando sempre più importante negli ultimi tempi. Cominciamo con qualche cenno sul fenomeno della simbiosi. Tutti i viventi sono fisicamente collegati tra loro in molteplici sensi. Gli individui della stessa specie condividono la medesima struttura genetica e la 238 Un atto personale, comunque, può essere uno e al contempo composto da altri atti. Così, un pranzo possiede un’unità come prassi umana, ma insieme è costituito da molteplici atti personali (giudizi, scelte, momenti di conversazione, ecc.). Non è questa la sede per analizzare in dettaglio la molteplicità di composizione degli atti personali. 239 Per una visione analitica dell’azione umana nella prospettiva dell’Aquinate, cfr. S. Brock, Azione e condotta: Tommaso d’Aquino e la teoria dell’azione, Edusc, Roma 2002. 201 trasmettono a nuove unità. La loro prassi è unificata dai loro comuni compiti e inclinazioni. Talvolta mantengono tra loro forme simbiotiche di vita a livello vegetativo, come si vede ad esempio nei rapporti intrauterini tra madre e figlio non ancora nato, o nella convivenza di batteri all’interno del nostro intestino. La simbiosi tra specie diverse è un fenomeno ampiamente conosciuto. Nella simbiosi, due organismi, pur essendo diversi, sono associati per un periodo di tempo oppure in modo stabile nella realizzazione di certe funzioni biologiche, spesso con vantaggi reciproci (“mutualismo”), o almeno di uno di essi (“inquilinismo”), o forse con un risultato nocivo per uno (“parassitismo”). Nella simbiosi più stretta, un organismo vive in dipendenza da un altro, come il feto vive dalla madre240. I viventi intenzionali condividono la propria vita, a loro volta, in parecchi modi. L’autonomia e individualità propria dei viventi procede di pari passo con la partecipazione reciproca alla vita altrui. In nessun caso la vita è un fenomeno puramente individuale. Vivere è convivere. I rapporti intersoggettivi, ovviamente, possono essere positivi o negativi, cioè possono rappresentare una forma di condivisione e di collaborazione costruttiva, oppure risultare nocivi per alcuni (come succede nel caso, peraltro normale negli animali, dell’aggressione e della predazione). La condivisione della vita sensitiva o intellettiva si manifesta nella capacità di riconoscere un altro individuo come un certo soggetto interiorizzato e in azione, cioè comprende le dimensioni cognitive, affettive e comportamentali. Le persone umane, ma anche alcuni animali a un certo livello, possono riconoscere la sofferenza degli altri, l’intenzione implicita dei loro movimenti appena iniziati, oppure possono interpretare bene i loro segni gestuali, facciali o linguistici (sguardi amichevoli, irritazione, nervosismo, preoccupazione). La capacità di partecipare in qualche modo all’emotività o ai sentimenti degli 240 Queste forme simbiotiche possono evolvere col tempo in modi molto diversi, anche a seconda delle circostanze ambientali. Se un organismo piccolo vive di un altro più grande, abitando nel suo organismo, si parla di rapporto simbionte/ospite. La simbiosi può avvenire anche in modo separato, come succede, ad esempio, nell’allattamento materno della prole, o quando l’uccello “piviere egiziano” pulisce i denti della bocca spalancata dei coccodrilli, mangiandone gli avanzi. La biologa Lynn Margulis ha ridimensionato i processi evolutivi, rilevando il ruolo della cooperazione e non solo della competizione tra gli organismi: cfr. L. Margulis, D. Sagan, Microcosmo, Mondadori, Milano 1989. 202 altri è l’empatia. L’abilità per farsi un’idea delle rappresentazioni, opinioni, sentimenti e intenzioni degli altri, in unità con la loro condotta, insomma la capacità di comprendere i loro stati interiori a partire dalla loro condotta, spesso viene indicata nelle scienze cognitive con l’espressione “avere una teoria della mente”241. Senza ricorrere alla telepatia, abbiamo spazi di esperienza condivisi con gli altri, grazie ai quali possiamo comprendere i loro stati psicologici, anzi i loro vissuti. Alcuni soggetti possono essere specialmente esperti nella “lettura della mente altrui” (mindreading), mentre altri sono scarsamente empatici (come succede, in modo patologico, negli autisti). La “lettura della mente” di solito è un fenomeno percettivo di esperienza acquistata, ma può anche allargarsi ad aspetti inferenziali, nei quali interviene la mediazione razionale. Gli incontri interpersonali come il dialogo, il lavoro o i giochi in gruppo, l’apprendimento, ecc., riescono bene quando le capacità empatiche delle persone sono buone. Tali incontri, peraltro, sono forme di esperienza che favoriscono, a loro volta, lo sviluppo delle capacità comunicative. Negli anni ‘80 e ‘90 del Novecento alcuni ricercatori dell’università di Parma (G. Rizzolatti, L. Fogassi, V. Gallese) scoprirono in certe aree corticali dei macachi l’attivazione di neuroni legati alla motricità non solo quando gli animali compivano certe azioni, ma anche quando vedevano un altro fare la stessa azione, e ugualmente quando sentivano rumori associabili a tale azione (ad esempio, l’azione di strappare un foglio di carta). Questi neuroni furono chiamati neuroni specchio (mirror). Il fenomeno si estende anche all’uomo. Lo “specchiarsi”, si è visto ulteriormente, si produce anche con la visione di sensazioni tattili di altre persone. Nel vedere una persona colpita da un dolore per un colpo, il soggetto attiva i neuroni del dolore del proprio cervello corrispondenti alla parte somatica colpita242. La scoperta dei neuroni-specchio, considerata una delle più importanti degli 241 L’espressione, un po’ debitrice del “mentalismo cartesiano”, viene usata correntemente in contesti cognitivisti. È stata resa famosa dall’articolo di D. Premack, G. Woodruff, Does the Chimpanzee have a “Theory of Mind”?, in “Behavioral and Brain Sciences”, 1 (1978), pp. 515-526. 242 Cfr. G. Rizzolatti, The Mirror Neuron System and Its Function in Humans, in “Anat. Embryol.”, 210 (5-6), (2005), pp. 419-21; V. Gallese, La molteplicità condivisa. Dai neuroni mirror all’intersoggettività, in A. Ballerini et al., Autismo: L’umanità nascosta, S. Mistura (curatore), Einaudi, Torino 2006; G. Rizzolatti, C. Sinigaglia, So quel che fai, Cortina, Milano 2006. 203 ultimi anni nel campo neurobiologico, d’una parte rileva la prossimità tra visione, immaginazione e motricità, ma soprattutto getta un’ampia luce sui processi imitativi e partecipativi degli animali e dell’uomo. I neuroni mirror costituiscono sicuramente la base neurale degli eventi empatici e di condivisione della vita psichica. Essi dimostrano come il proprio corpo sensibilizzato può entrare in risonanza, in un modo isomorfo, quando osserva fenomeni significativi negli altri, fenomeni cioè non puramente fisici, né puramente psichici, bensì psicosomatici. Si apre così un orizzonte alla comprensione di certi rapporti intersoggettivi di condivisione che stanno alla base di tante altre interazioni profonde tra individui e di partecipazione cognitiva, emotiva e comportamentale nelle attività dei gruppi. Questi fenomeni appartengono all’esperienza intersoggettiva e sociale e danno ragione della “teoria della mente” di cui parlavamo sopra, senza obbligarci a pensare in modo antropomorfico che il partecipante alla vita psichica altrui abbia necessità di costruirsi “una teoria” sullo stato della coscienza dell’altro. Il fenomeno è piuttosto vissuto, anche a livello preconscio. La partecipazione al vissuto degli altri -l’empatia dei fenomenologi- è diversa in ogni specie animale. Nell’uomo appartiene al livello spirituale della persona, dove il punto nucleare è la capacità di riconoscere negli altri un io, un soggetto personale indipendente da noi stessi, col quale possiamo identificarci intellettualmente e affettivamente, con la possibilità di condividere tanti aspetti della propria vita: amicizia, famiglia, lavoro. Se “vivere è convivere”, come dicevamo sopra, adesso si può aggiungere: sul piano intenzionale, vivere è condividere. Questa capacità è collegata alla de-centralizzazione dell’io, vale a dire, alla facilità con cui una persona è in grado di stabilire il suo centro all’infuori di se stessa o delle sue utilità, ad esempio, in un bene comune condiviso da molti, o in rapporto agli interessi degli altri in quanto oggetto del suo amore, della sua solidarietà o della sua collaborazione. La persona trascende se stessa quando sa percepire le cose dal punto di vista degli interessi di un altro, o quando sa condividere l’attenzione con altri soggetti in relazione a un certo oggetto intenzionale: un argomento di studio, un 204 valore condiviso, un compito comune243. La condivisione di spazi intenzionali ha il suo risvolto nello sviluppo prenatale e nei primi anni dell’infanzia, specialmente quando si segue il rapporto tra la madre e il bambino, un rapporto prima simbiotico-vegetativo (ma anche sensitivo), più tardi quasi simbiotico in un senso affettivo e intellettuale244. Solo così si può comprendere, ad esempio, l’apprendimento linguistico, e in questo modo si compie, in definitiva, l’emergenza dell’io autocosciente nella persona in sviluppo. Nei primi mesi di vita il bambino, in risposta al sorriso della madre, è in grado di produrre i primi sorrisi. “A cinque-otto settimane il bambino imita l’apertura della bocca e la protrusione della lingua soltanto se compiute da un essere umano e non da un oggetto che assomiglia un essere umano (...) A cinque mesi i bambini sono capaci di distinguere differenti espressioni di emozioni da parte dei suoi partner comunicativi”245. L’accesso cognitivo/emotivo e comportamentale alla realtà è mediatizzato in questo periodo della vita dal modello dato dagli adulti, tra i quali il ruolo materno è preferenziale nei momenti molto iniziali dello sviluppo. Il modello viene incorporato nell’imitazione, in quanto è significativo, stimolante e personalizzato. Ancora il testo citato: “Nella prima metà del primo anno di vita si sviluppa anche il fenomeno chiamato joint visual attention: il bambino segue la direzione dello sguardo della mamma per guardare la stessa cosa cui sta guardando la mamma; inoltre il bambino guarda dove la mamma indica e indica la cosa che vuole sia guardata dalla mamma. In breve, a questa età bambino e mamma condividono lo stesso fuoco di attenzione”246. Questo punto coincide con quanto dicevamo sui neuroni mirror come base 243 Tradizionalmente questi fenomeni furono considerati quasi esclusivamente dal punto di vista morale o spirituale, ad esempio parlando della carità o della comunione di vita. Risulta significativo vederli adesso al centro della ricerca cognitiva e neurologica. 244 Cfr. A. Antonietti, Come i bambini colgono la mente, in L. Lenzi (curatore), Neurofisiologia e teorie della mente, Vita e Pensiero, Milano 2005, pp. 83-116. 245 Ibid., p. 88. 246 Ibid., p. 89. 205 dell’imitazione e della co-attività tra soggetti diversi unificati in compiti intenzionali. Bambino e madre condividono in questo caso lo stesso campo attenzionale e intenzionale. Una manifestazione più evoluta di questa capacità di sintonizzare con gli altri si verifica quando i bambini capiscono esplicitamente il fenomeno dell’imitazione. Questo punto si vede nei giochi di finzione, nei quali i bambini imparano ad assumere i ruoli degli altri e sono capaci di attribuire un valore intenzionale fittizio a bambole e ad altri giocattoli, con discernimento tra la finzione e la realtà247. Ovviamente la finzione introduce il rischio della separazione dalla realtà e della sua manipolazione (come avviene in certi video-giochi), potendo in questo senso ledere il senso della realtà, se il gioco non viene impiegato con moderazione. A livello adulto, la comprensione empatica degli altri interagisce con la capacità di analisi e di razionalizzazione delle situazioni altrui. Così entra in gioco l’oggettivazione dell’altro, impiegata normalmente nelle mediazioni sociali e nel campo scientifico. Ma il pensiero astratto esiste, in definitiva, in funzione della conoscenza vissuta o di esperienza. La vita umana è destinata ad essere co-vissuta nei rapporti interpersonali, soprattutto nella relazione con Dio, verso il quale tende la persona nel suo nucleo più profondo. Comprendere la “mente” degli altri per condividere la loro vita dovrebbe dirsi piuttosto giungere al loro cuore, radice delle loro intenzioni, scelte e motivazioni più profonde. Non ci si arriva tramite i metodi oggettivanti delle scienze, ma soltanto nella partecipazione di vita, quando l’io può diventare un noi. Da qui seguono una serie di conseguenze relative all’interazione tra gli uomini, un tema molto ampio, impossibile da affrontare in queste pagine. Il fondamento dell’interazione personale sta tuttavia nelle premesse indicate in quest’ultimo paragrafo. L’uomo non agisce quasi mai da solo, ma insieme o in rapporto agli altri. 247 Cfr. ibid., pp. 92-95. 206 Capitolo 5 L’intelligenza animale 1. Approssimazione epistemologica e storica Dedicheremo adesso alcune pagine alla questione dell’intelligenza animale248. Nel quadro delle ricerche delle scienze cognitive, lo studio della “mente animale” occupa un luogo particolare, con molti legami con la psicologia cognitiva. Una tematica tipica della filosofia della mente è il rapporto tra l’intelligenza umana, l’intelligenza artificiale e l’intelligenza animale. Ciascuno di questi ambiti può dar luce agli altri seguendo un metodo comparativo. Gli animali hanno una sorprendente dimensione psichica, trascurata dall’approccio puramente fisiologico della zoologia tradizionale. Dal nostro studio precedente facilmente si evince la prospettiva in cui si colloca questo campo di ricerca della filosofia e della scienza della mente. Le capacità cognitive superiori degli animali dimostrano un dinamismo dell’esperienza non sempre facile da distinguere da forme elementari dell’intelligenza umana, con risposte teleologiche e comunicative e notevoli abilità nella ricerca di mezzi opportuni per la difesa o per l’acquisizione di un bene, perfino con una certa “creatività”. Esiste inoltre una capacità linguistica animale. Esaminiamo dunque questi aspetti e cerchiamo di arrivare ad alcune conclusioni, anche per poter così valutare meglio la potenza della mente umana. Nelle culture tradizionali l’uomo era in contatto diretto con gli animali. Alcuni convivevano con lui e spesso erano utili nel lavoro o nella guerra. Alcuni venivano allevati per l’alimentazione o erano oggetto da caccia, mentre gli animali selvatici costituivano con frequenza un pericolo da cui l’uomo cercava di difendersi. Nelle antiche religioni certi animali venivano talvolta sacralizzati, oppure erano destinati ai sacrifici come manifestazione di culto a Dio. 248 Cfr., sul tema, D. R. Griffin, Menti animali, cit.; J. L. Gould, C. G. Gould, The Animal Mind, cit.; J. Vauclair, L’intelligence de l’animal, cit.; M. Manzanedo, La cogitativa del hombre y la inteligencia de los animales, “Angelicum”, 67 (1990), pp. 329-363. 207 Nella Sacra Scrittura gli animali appaiono in alcune di queste prospettive, senza essere mai oggetto d’idolatria. Nella Genesi l’uomo si trova in una speciale situazione di solidarietà con essi (Adamo deve imporli un nome249; le specie animali sono salvate dal diluvio nell’arca di Noè). Nel libro di Giobbe e nei libri sapienziali molti animali destano meraviglia all’uomo e sono motivo di contemplazione della potenza creatrice di Dio250. Talvolta le abilità animali sono occasione per trovare dei paragoni e insegnamenti morali (la figura delle pecore del buon pastore nel Vangelo, la colomba come simbolo dello Spirito Santo). In una linea analoga, seppure molto diversa nel suo contesto di fondo, si trovano le antiche favole in cui gli animali sono protagonisti e vengono visti in un modo antropomorfico, un po’ come oggi si fa nei cartoni animati. In Aristotele emerge un atteggiamento scientifico (fisiologico e psicologico) nei confronti degli animali251. Aristotele e la sua tradizione riconobbero in essi una vera vita cognitiva e tendenziale, con svariate emozioni e con un’intelligenza pratica istintiva. L’uomo è anche un animale, ma dotato di ragione, per cui supera completamente il regno zoologico. Con l’impostazione di Cartesio e della fisiologia moderna, gli animali verranno analizzati secondo principi fisiologici, in certi casi come se fossero “macchine deterministiche” senza sensibilità, la quale apparterrebbe alla coscienza e quindi solo all’anima, ritenuta esclusiva dell’uomo. Nel razionalismo, il controllo scientifico della natura dovrebbe anche implicare un dominio assoluto dell’uomo sugli animali. D’altra parte, nei secoli XIX e XX l’industrializzazione e l’urbanizzazione allontanano l’uomo dalla convivenza con gli animali e molte specie rischiano l’estinzione o si estinguono. Il lavoro animale come fonte di energia (cavalli, buoi) diventa ormai superfluo. Resta importante, comunque, l’allevamento per la produzione alimentare e la presenza di animali domestici come oggetto di ricreazione e di compagnia o per la sicurezza. Cresce invece la curiosità scientifica e popolare verso gli animali (si pensi alla creazione degli zoo), mentre nel Novecento 249 Cfr. Gn 2, 19 ss. Cfr. Gb capp. 39-41. 251 Cfr. De Generatione Animalium, De Partibus Animalium, De Motu Animalium. 250 208 cominciano a moltiplicarsi i movimenti animalisti in un contesto ecologico, con risvolti anche ideologici, nei quali si perde talvolta la nozione di persona umana. L’approccio scientifico verso gli animali segnò un salto con Darwin. Oltre la visione puramente tipologica statica, gli animali furono considerati nel darwinismo sotto il profilo dell’evoluzione delle specie, seguendo pure un metodo naturalista psicologico comparato, nel quale si delineava una visione continuista tra le facoltà “mentali” degli animali, perfino in paragone con la specie umana. Contro l’eccessivo antropomorfismo di tale approccio reagì la linea comportamentista. Nel comportamentismo iniziale (Pavlov, Watson), l’attività animale non veniva spiegata secondo facoltà psichiche superiori, ma solo tramite la meccanica dei riflessi condizionati. La ricerca si concentrò sull’apprendimento in base a questi riflessi. Tale fenomeno si riduce a un apprendimento associativo, sia positivo (stimolante) che negativo (inibitorio), come abbiamo detto nel capitolo 4. Secondo la visione etologica posteriore, la percezione dello stimolo condizionato è uno scatenante o pista iniziale (cue, in inglese), contingente e imparata per esperienza (un odore, un colore, un segnale). La spinta suscita una risposta istintiva verso la quale l’animale è predisposto, con l’attuazione di determinati riflessi (nutritivi, sessuali, aggressivi, ecc.). Dinanzi a questa forma elementare di superamento della pura presentazione degli stimoli naturali già si avverte la povertà del nostro linguaggio psicologico applicato agli animali. Infatti, quando vediamo un cane agitarsi e prepararsi per mangiare non appena egli vede certi cenni del padrone a una certa ora, o quando sente un campanello (se è stato dovutamente condizionato), siamo tentati di dire che “l’animale sa che il cibo sta per arrivare”, o che “comprende certi segni”. Veramente egli non sa nulla, ma la sua capacità percettiva è associativa, includendo una memoria, per cui il cane è in grado di recepire la mediazione di certi segni concreti che possono guidare la sua condotta al di là delle presentazioni sensoriali immediate e naturali. Grazie a questa potenza cognitiva egli può imparare, sia pure con molti limiti, ciò che è utile o nocivo alla sua vita. È questa la prima forma di ciò che potremmo chiamare “intelligenza animale”. 209 Il condizionamento strumentale252, studiato dal comportamentismo più maturo (Skinner), suppone un’estensione dell’intelligenza pratica. Adesso si vede come gli animali possono imparare, spontaneamente o guidati, a compiere certe azioni da cui segue un beneficio per loro (ad esempio, premere una leva per ottenere alimento, o eseguire una serie articolata di atti). Questo modo di imparare è collegato all’esperienza in cui si opera secondo prove e correzioni di errori, dove alla fine si stabiliscono sequenze consolidate di azioni destinate a un fine utile, nel quadro della condotta intenzionale istintiva. Il comportamentismo aprì l’orizzonte dell’apprendimento animale. Tuttavia, come abbiamo già detto, gli animali possono imparare in base a condizionamenti soltanto ciò che può entrare nei canali degli istinti propri di ogni specie. Ad esempio, si può insegnare a un topo a premere una leva per ottenere cibo, ma non per evitare una scossa elettrica, perché il suo modo innato di ottenere cibo è l’uso dei suoi arti anteriori, mentre per fuggire egli eseguirà movimenti motori come saltare. Questo fatto costituisce un limite ai condizionamenti. In definitiva, gli animali possono imparare a compiere atti che concretizzano la loro condotta orientata istintivamente verso certi fini e già avviata in un certo modo da schemi innati. Gli etologi (Lorenz, Tinbergen, von Frisch) affrontarono il comportamento animale in una prospettiva più ampia del comportamentismo. Studiarono numerose specie osservando la condotta dell’animale non solo in laboratorio, ma nel suo habitat naturale. Uno dei punti centrali di questi studi fu l’unità tra istinto e apprendimento, due elementi da non contrapporre. Il comportamento istintivo innato, a base genetica, include una serie di capacità cognitive, di reazioni emotive e di manifestazioni di una condotta esterna stereotipata. Possiede, inoltre, una flessibilità e una capacità di adattamento a certe variabili ambientali, tali da promuovere un vero apprendimento, spesso guidato dai progenitori nei primi momenti della vita. Il carattere istintivo della condotta animale non esclude la dimensione cognitiva, poiché una condotta istintiva non è necessariamente automatica e inconscia. Gli istinti di aver cura della prole, di difendersi da attacchi, di cercare la preda, di 252 Cfr. il nostro capitolo 4, n. 2. 210 accoppiamento sessuale, includono elementi cognitivi ed emotivi che entrano in rapporto con l’ambiente in un modo flessibile. Questo fenomeno ha un versante neurologico, dal momento che l’apprendimento suppone la creazione di una configurazione di circuiti nervosi che poi rimangono come memoria procedurale. Il fatto che, come conseguenza di quanto detto, l’animale sia portato a compiere azioni teleologiche dove egli è capace di riconoscere elementi utili (oppure nocivi), fa pensare a un comportamento “intelligente”. Ciò che sembra intelligente nell’animale non è tanto quanto realizza sempre nello stesso modo, per quanto sia meraviglioso (ad esempio, l’organizzazione sociale e il lavoro delle api), bensì piuttosto quanto fa perché lo ha imparato “per proprio conto”, oppure come reazione utile e talvolta sorprendente in una situazione inattesa, come la gorilla femmina (Binti Jua) che, nello zoo di Chicago nel 1996, condusse alla porta un bambino umano caduto nella gabbia affinché il guardiano potesse ricuperarlo. La psicologia cognitiva riconobbe ancor più chiaramente la presenza di elementi cognitivi dinamici negli animali (rappresentazioni, “mappe” per orientarsi), utili per la risoluzione di problemi nuovi. Gli animali avrebbero delle “rappresentazioni” di un ambiente o di un territorio, grazie ai quali possono progettare strategie, valutare distanze, muoversi seguendo i percorsi più brevi, scoprire oggetti occulti e comunicare ad altri queste informazioni a effetti pratici. A questo punto alcuni autori non hanno avuto difficoltà nell’attribuire agli animali intelligenza, consapevolezza, una certa capacità di generalizzazione, perfino riflessione e forme di ragionamento pratico. Di conseguenza, la distinzione essenziale tra l’uomo e gli animali s’indebolisce. Di fronte a questo panorama scientifico, sembra importante cercare di chiarificare il senso in cui usiamo il linguaggio cognitivo e affettivo quando lo applichiamo agli animali. Bisogna insomma superare la crisi antropologica che viene a crearsi quando non si sa più distinguere tra l’intelligenza umana e l’intelligenza animale se non per motivi accidentali ricondotti a un semplice sviluppo graduale cerebrale o sociale. 2. In che senso parliamo di intelligenza animale Gli studiosi della vita degli animali spesso oscillano tra l’antropomorfismo, quando assegnano ad essi troppo facilmente la facoltà di pensiero, e il riduzionismo, 211 quando concepiscono la loro mente come una sorta di computer programmato. Normalmente, come abbiamo accennato, siamo portati a riconoscere negli animali una certa intelligenza quando essi manifestano una capacità di risposta creativa, ad esempio per risolvere nuovi problemi. Nel cognitivismo l’intelligenza è stata vista spesso come la capacità di risolvere problemi (problem solving). Bisogna però stare attenti all’interpretazione che diamo di una presunta condotta intelligente. È facile oscurare i contesti, omettere dettagli, proponendo così descrizioni devianti, come sarebbe pensare che, per il fatto che una scimmia o un cane manifestino con gesti il loro desiderio di uscire di casa, ci starebbero “dicendo” che “vogliono” uscire a fare una passeggiata. Analogamente, potremmo credere che gli animali compiano dei ragionamenti che in realtà sono nostri, o che abbiano dei concetti solo perché riconoscono categorie di oggetti, come la capacità di distinguere tra gatti, uccelli, uomini o altre specie. La questione dell’intelligenza degli animali va incorniciata nel loro tipo di vita sensitiva, nell’insieme delle loro facoltà di immaginare, ricordare, associare, comunicare, nonché nelle loro inclinazioni specifiche. Queste capacità si realizzano diversamente nelle specie e nei singoli gruppi o individui, spesso in funzione dell’ambiente circostante. Per capire il fenomeno dell’intelligenza animale occorre non dimenticare l’importanza della finalità nel mondo della vita. Una determinata finalità presente in una specie zoologica è collegata a forme di struttura anatomica e funzionale. Queste forme vanno capite in interazione con l’ambiente, con altri specie, oppure in rapporto a individui della stessa specie. Le attività degli animali sono spesso coordinate spaziotemporalmente o causalmente secondo rapporti di strumentalità, di utilità e di finalità. La vita organica, anche prima della vita animale, esibisce una forma di “intelligenza immanente” che già stupiva gli antichi e che non di rado forniva loro la base di teorie vitalistiche, oppure costituiva, più giustamente, il nucleo dell’argomentazione che a partire dall’ordine “intelligente” della natura risaliva all’esistenza di una Intelligenza superiore creatrice. Parlare di intelligenza animale vuol dire, quindi, riproporre la tematica della finalità nella natura. Il comportamento intelligente è appunto quello in cui si dimostra che si agisce in funzione di fini e chi si gestiscono mezzi, con una certa variabilità, puntando ad essi. 212 La prassi dei viventi è teleologica. La prassi animale si confronta con le finalità della vita istintiva (caccia, difesa, costruzione di tane, di nidi) in una maniera cognitiva ed emotiva, senza l’automaticità di una macchina. Il finalismo delle macchine è estrinseco. Il finalismo animale è immanente e non è completamente automatico, poiché è controllato, entro certi margini, dalla coscienza dell’animale e dalle sue capacità associative. Ciò che ci sorprende come intelligente negli animali è duplice253: 1. Livello di specie. Gli animali possiedono meccanismi innati di origine genetica in base ai quali realizzano operazioni molto complesse, come vedremo più avanti. Talvolta esibiscono un’incredibile organizzazione sociale, come accade nelle api, nelle quali alcune categorie sono dotate di proprietà anatomiche deputate a determinate funzioni (nell’uomo un fenomeno analogo si osserva nelle differenze di sesso). Queste caratteristiche hanno fatto pensare talvolta all’esistenza di una sorta di intelligenza della specie come un tutto, responsabile della distribuzione di proprietà e relazioni più particolari nelle “membra” della società animale. Il relativo antifinalismo del principio di selezione naturale di Darwin smorzò alquanto la tesi dell’intelligenza immanente della vita, introducendo un meccanismo “cieco” che comporterebbe vantaggi per certe specie e sarebbe la causa dei loro “progressi” nei confronti di altre specie. La meraviglia della costruzione degli alveari, nelle api, sarebbe il frutto della selezione naturale a livello genetico. Non bisogna pensare, tuttavia, che la selezione naturale sia incompatibile con l’intenzionalità della vita animale, anche se molti aspetti al riguardo ci sono ignoti. I comportamenti “programmati” delle api o dei castori che costruiscono dighe a protezione delle loro tane sono incorporati nella loro memoria innata grazie a circuiti cerebrali prefissi. Siamo di fronte a una spontaneità intelligente offerta dalla natura, a base genetica, presumibilmente acquisita tramite la selezione naturale e gli altri fattori che portarono all’origine della specie. 2. Livello individuale. Il comportamento istintivo più alto offre sempre più spazi 253 Uso qui il termine intelligente in un senso analogico. Nel corso di questo capitolo verrà precisato il modo in cui andrebbe interpretata l’intelligenza animale. 213 indeterminati e meno rigidi, spazi aperti alla relativa creatività dell’individuo e forse anche del gruppo, costretto ad imparare e ad usare le facoltà superiori in un modo utile, anzi obbligato a risolvere i problemi che possono nascere in un ambiente avverso. Una variazione ambientale, in questo senso, può provocare la nascita di una nuova associazione cognitiva utile, sulla base di abilità acquisite o di potenzialità istintive latenti. Negli anni ‘30 del secolo scorso alcuni uccelli in Inghilterra impararono ad aprire le bottiglie di latte distribuite a domicilio. Essi sapevano già rompere col becco alcune cose. Un nuovo contesto, una nuova opportunità, portò questi animali a imparare qualcosa di nuovo, ma ovviamente non per il fatto di aver pensato in modo astratto che “queste bottiglie si possono aprire e così riusciremo a ottenere del latte”254. Lo scimpanzé di Köhler degli inizi del Novecento costituì un caso famoso di intelligenza animale. La scimmia, vedendo del cibo dalla finestra, sapeva uscire di casa e andare a prenderlo, cioè sapeva muoversi in uno spazio alla ricerca di un obiettivo. È molto citata la scoperta di Köhler del modo in cui uno scimpanzé trovò il modo di raggiungere il cibo lontano unendo due bastoni o sovrapponendo scatole per arrampicarvisi e così poter prendere l’oggetto desiderato. Lo studioso tedesco parlò di una certa intuizione intelligente (Einsicht) dell’animale nel momento in cui scoprì la nuova possibilità. Questa esperienza va meglio contestualizzata. L’animale era stato allenato per lungo tempo nel compito di ricerca di alimenti difficili da raggiungere in base a certe sue qualità innate, come l’abilità di manipolare bastoni anche senza scopo, o di salire su banchi e saltare per giocare. In tale contesto, risultava più facile trovare per caso una certa soluzione di un problema concreto. Tuttavia, la scimmia non sa trarre profitto della sua scoperta per proseguire nella stessa linea in modo sistematico. L’esempio riportato è un caso di associazione intelligente, vale a dire 254 Nelle pagine seguenti proporrò alcuni esempi significativi di comportamento animale intenzionale, ben conosciuti dagli etologi. Benché la menzione di questi casi possa sembrare estranea allo stile filosofico di questo libro, la ritengo indispensabile per rendere più concreta l’esposizione. Essi sono la base empirica per l’interpretazione filosofica dell’intelligenza animale. 214 un’associazione che serve a uno scopo, anche se è scoperta per caso o nel quadro di un ambiente che offre delle opportunità a coloro che possiedono già certe abilità innate o acquisite. Così gli animali possono scoprire o imparare delle strategie utili in base alla loro esperienza e non tramite ragionamenti astratti. Talvolta gli “scopritori” possono essere imitati da altri individui. Nel 1953, in un’isola del Giappone fu osservato un macaco che aveva imparato a lavare con l’acqua le patate piene di sabbia che doveva mangiare, abitudine che lentamente passò per imitazione ad altri macachi della regione. In modo simile, gli scimpanzé, considerate le scimmie antropomorfe più intelligenti, sanno preparare ramoscelli appositi e usarli per prelevare termiti dai loro nidi, non raggiungibili con le loro mani. L’intelligenza associativa è riuscita in questo caso a fabbricare un utensile destinato alla caccia. Il contesto favorevole a questa scoperta è collegato all’abitudine di queste scimmie di manipolare cose per gioco (ad esempio, in laboratorio, esse cercano di infilare delle matite nelle prese di elettricità). In termini generali, la prassi intelligente animale si manifesta nei seguenti campi: 1. Quando si presentano delle difficoltà, l’animale talvolta riesce a risolvere un problema in un modo non previsto nei dettagli a livello di specie, per esempio nella predazione o nella difesa contro predatori. Così, alcuni animali “sanno” uccidere le loro prede immergendo in acqua per un tempo la testa delle vittime. 2. Nell’elaborazione di utensili tecnici o nella costruzione di nidi o tane. I castori non soltanto costruiscono dighe, ma sanno anche ripararle, come se fossero “piccoli ingegneri”. 3. Nella comunicazione attraverso segnali (linguaggio animale) in funzione di rapporti animali “sociali”: cooperazione di gruppo, rapporti con compagni sessuali o con aggressori, concorrenza con rivali. Talvolta gli animali intendono ingannare a scopo di difesa o di attacco: creano false piste, sanno dissimulare le loro intenzioni, si fingono morti per evitare di essere divorati. Alcuni canti animali hanno precisi scopi comunicativi. Alcuni passeri decorano i loro nidi per attrarre le femmine. 4. Nei rapporti sociali alcuni animali usano una forma di “intelligenza 215 emozionale”. Ad esempio, un cane o un gatto possono cercare l’amicizia con un uomo perché “intuiscono” così la possibilità di trovare alimento e protezione. Quando ci sono gerarchie sociali (individui dominanti, subordinati), gli animali ne tengono conto e reagiscono diversamente nei confronti di ciascuno, anche con astuzia. Alcuni animali soffrono molto con la morte di padroni o compagni. Verso la fine del 2005 in Francia un cane sfigurò la faccia della sua padrona che aveva preso barbiturici per suicidarsi, con la finalità -riuscita- di svegliarla255. La creazione di luoghi di riparo o di custodia della prole, la fabbricazione di utensili elementari, l’elaborazione di un certo linguaggio, anche con canti e “danze”, e in alcuni casi la formazione di una sorta di “struttura sociale”, oppure la creazione di strategie di predazione, di attacco o di viaggi migratori, indicano che negli animali, specialmente in quelli che consideriamo superiori (mammiferi, tra cui specialmente i primati, ma d’altra parte pure gli insetti), si viene a creare come un cenno di cultura che preannuncia in qualche modo le creazioni culturali umane. Si trovano pure variazioni di questi cenni culturali a seconda della regione geografica dove vengono sviluppati. In alcuni casi, come accade negli animali domestici, le specie e gli individui imparano ad adattarsi agli ambienti umani -ad esempio ambienti urbani- e sono in grado di acquisire, se addomesticati, modi di comportamento imparati dagli uomini256. La variabilità funzionale e adattativa delle risposte animali intelligenti dimostra una particolare plasticità nervosa e, naturalmente, va di pari passo con un’adeguata base neurale, visto che le facoltà animali superiori, come abbiamo detto nei capitoli precedenti, trovano nel cervello il loro organo come causa materiale. Pur vedendo che gli animali dimostrano in generale una crescita delle loro capacità cognitive sin dalle specie elementari fino a quelle più complesse, la linea di questa crescita non va presa in un senso troppo univoco. Piuttosto ci sono linee di intelligenza, nelle quali le 255 Il cane venne ucciso, mentre la donna si è resa famosa per aver ricomposto la sua faccia con un trapianto facciale. 256 Agli inizi del Novecento, il famoso cavallo chiamato “l’intelligente Hans”, in Germania, sembrava rispondere bene, con numeri precisi di colpi delle zampe, a domande su operazioni aritmetiche come la somma o la moltiplicazione. Poi si scoprì che questo cavallo avvertiva i movimenti involontari del padrone che denotavano il momento critico in cui doveva smettere di dare i colpi. Questo caso dimostra la straordinaria capacità comunicativa che può sviluppare un animale in rapporto all’uomo o ad altri animali. 216 singole specie sviluppano alcune caratteristiche che in altre specie mancano. Gli insetti, i cani, i primati, non si dispongono in una linea univoca di progresso cognitivo (gli insetti sociali possiedono un grado elevatissimo di “intelligenza collettiva”, inesistente nei mammiferi). D’altronde, gli animali acquistano potenza cognitiva nella misura in cui ciò è consentito dal loro corpo. Si può crescere in intelligenza pratica in rapporto alla vista, o all’olfatto, o all’agilità nei movimenti del corpo. Le scimmie, avendo gli arti più liberi, possono sviluppare abilità intelligenti in rapporto alla presa manuale di oggetti e alla loro manipolazione. Lo scimpanzé può imparare ad andare in bicicletta o ad usare la tastiera di un computer. Il cane non può acquisire queste abilità perché non glielo consente il corpo. In definitiva, nella vita animale superiore troviamo dei cenni dello stile di vita intelligente umana, in campi come la cultura, la famiglia, la cura della prole, il lavoro, il linguaggio, l’edificazione, le associazioni cognitive, la socialità, le gerarchie (tutti termini che dovremmo mettere tra virgolette). Ciononostante, gli animali non si separano mai dalle situazioni concrete, non riescono mai ad universalizzare in senso forte, per giungere all’autentica astrazione. Possono contare fino a un certo punto, ma non elaborano la nozione astratta di numero, da dove nasce la matematica. Possono articolare dei simboli, con “pseudo-grammatiche” (specialmente se sono educati dall’uomo), ma non danno mai il salto ad una vera grammatica universale e astratta, con l’uso di variabili e regole universali di costruzione di sequenze simboliche. Gli animali non si ammirano, non conoscono lo stupore, né la conoscenza speculativa, né il piacere di conoscere per conoscere, al di là di ogni utilità. Non sono in grado di ridere probabilmente perché la percezione del ridicolo contiene una dimensione disinteressata di sorpresa gradevole di fronte a qualcosa di assurdo senza danno257. Riescono, sì, a giocare, ma non lo fanno come un esercizio consapevole e guidato da regole astratte. Il loro gioco è piuttosto un esercizio istintivo piacevole e divertito di capacità animali di vario tipo (ad esempio, alcuni cuccioli “giocano” a 257 Il ridere comporta l’aver intravisto un elemento assurdo e inatteso -non razionale- in ciò che dovrebbe o si aspetterebbe che fosse razionale, senza però un serio danno, o almeno restandogli importanza, e perciò in un modo gradevole. Il ridere comporta quindi una razionalità in senso stretto. 217 mordersi, senza farlo seriamente). Da quanto abbiamo visto segue una conseguenza interessante riguardo all’intelligenza degli ominidi, nel quadro -ancora attraversato da oscurità e da ipotesidell’evoluzione delle scimmie che sbocca nell’homo sapiens. Le osservazioni fatte in questo capitolo ci hanno portato, infatti, ad ampliare la nostra abituale comprensione delle capacità cognitive degli animali. Adesso siamo meglio preparati per vedere in certe abilità tecniche o quasi culturali di alcune specie di ominidi eventuali forme superiori d’intelligenza animale non necessariamente caratterizzate dall’universalità e dall’astrazione (quindi gli ominidi non sarebbero veri uomini, ma solo animali). Negli ominidi osserviamo il dominio del fuoco, la scoperta dell’alimentazione con cibi cotti, lo sviluppo di una certa industria litica, determinate forme di socialità, l’uso della sepoltura (ma sappiamo che alcuni animali “piangono” i loro morti e possono anche seppellirli). Di fronte a queste manifestazioni di una vita intenzionale elevata, ci si domanda spesso dove starebbe la differenza essenziale con l’uomo, o quale sarebbe il segno di trovare una specie di ominidi cui possa attribuirsi con certezza la razionalità spirituale propria della persona umana. Ovviamente questo problema non esiste per chi si rifiuta di vedere una distinzione essenziale tra uomo e animale (materialismo). In risposta a tale quesito, non esiste a mio parere un’operazione singola e visibile che possa considerarsi come sicuramente razionale, nel senso umano del termine. Tutto ciò che è visibile, anche se è razionale, può essere sempre frutto di operazioni legate alla materialità. Questo punto vale per tutto quanto fanno gli animali, gli ominidi e le macchine informatiche. Per giudicare se siamo di fronte alla razionalità astratta e spirituale dobbiamo andare al di là (o “all’indietro”) delle singole operazioni, per dare uno sguardo d’insieme al dinamismo dell’operare razionale. Questo sguardo si può dirigere verso certe opere della ragione che dimostrano complessivamente la presenza attiva di un’attività razionale veramente universale. Concretamente: * Lo sviluppo delle scienze e delle arti presuppone la realizzazione di operazioni intellettuali universali. Le scienze sono veramente astratte, si sviluppano senza posa e in ogni direzione, senza chiudersi in una specialità o in una forma 218 concreta culturale o storica. Lo stesso vale per le diverse forme di arti e di tecnologie. * Qualcosa di simile si può dire riguardo alla nascita nella cultura del linguaggio articolato, regolato da un’autentica grammatica, con norme astratte e universali. Anzi il linguaggio umano è sicuramente la prima forma di tecnica razionale astratta ed è la premessa indispensabile che consente la nascita delle scienze. * L’apparizione di credenze e attività speculative, non legate a problemi animali concreti, è un segno di intelligenza universale e di spiritualità. Le religioni, le cosmovisioni, le narrazioni mitiche, il culto dei morti, lo sviluppo dell’arte destinato esclusivamente alla contemplazione, sono manifestazioni culturali collegate certamente a uomini (homo sapiens). Invece le opere tecniche degli ominidi e la loro socialità non ci permettono di affermare con assoluta chiarezza che essi oltrepassino il livello degli animali superiori. * Il progresso in ogni direzione, senza chiusure specialistiche, forse all’inizio occasionato da eventi casuali ma poi pianificato ed ampliato, è pure un segno di una potenza intellettuale non incatenata alla materialità. È questo il motivo per cui l’uomo è capace di inventare ogni tipo di tecniche e di migliorarle all’infinito258. Ed è pure la causa per cui noi uomini siamo gli unici animali che ci interessiamo a tutte le intelligenze animali, le quali in un certo senso appaiono come forme frammentarie o specialistiche di un’intelligenza che nella nostra specie si dimostra invece universale. L’uomo non è strutturalmente specializzato per compiere nessuna particolare attività o funzione. Egli acquista molte specialità ma non si esaurisce in esse, poiché le sorpassa tutte quante. 3. Opere “intelligenti” degli animali Nel tentativo di offrire un breve quadro d’insieme delle capacità intelligenti degli animali, mi riferirò in primo luogo al loro ambito comportamentale “razionale”, per considerare poi alcune delle loro capacità cognitive e, infine, la questione del linguaggio animale. 258 Cfr. il nostro capitolo 3, n. 1. 219 1. Ricerca dell’alimento. Gli animali impiegano diverse strategie per la localizzazione, la selezione, l’approvvigionamento e l’utilizzazione del cibo. Talvolta devono prendere “decisioni non programmate” in ambienti variabili, o quando sorgono delle difficoltà. Gli animali hanno in questo senso una sorta di “schema di ricerca” innato, comunque flessibile riguardo alla varietà di circostanze. 2. Predazione. La ricerca del cibo richiede spesso la caccia di animali che possono difendersi e che cercano di evitare di essere le vittime di attacchi predatori. Il comportamento predatorio comporta lo sviluppo dell’intelligenza pratica, sia per il predatore, che deve localizzare, inseguire e catturare la preda, sia per le vittime, che a loro volta devono imparare a individuare le minacce dei predatori, sviluppando delle strategie di difesa, fuga, nascondimento e perfino inganno. In molte specie la predazione e la difesa contro i predatori si compie in gruppo. Si introduce così una sorta di “mentalità collettiva” e una forma di “intelligenza sociale”: nascono i ruoli di guida e di sorveglianza, una divisione dei compiti, la difesa “altruista” della prole. Il comportamento di ricerca alimentare o di caccia/difesa sviluppa la capacità di orientamento spaziale o territoriale (ad esempio, con ampie migrazioni), e lo stesso vale per il nascondimento o l’immagazzinaggio del materiale raccolto (con la necessità di usare “mappe cognitive”)259. 3. Utensili, strumenti. Molti animali -non solo primati, ma anche uccelli, insettiutilizzano elementi trovati nell’ambiente come strumenti per raggiungere qualche oggetto nella caccia o altro. Si manifesta così una modesta ma significativa intelligenza tecnica. Talvolta gli utensili vengono preparati in qualche modo. Lo scimpanzé è in grado di rompere dei rami, togliendo via i rametti secondari e le foglie, per così infilare l’utensile in un termitaio e poi estrarlo, allo scopo di mangiare le termiti che vi si sono attaccate. Anche gli uccelli usano tecniche analoghe per ottenere cibo non direttamente raggiungibile. Alcune ghiandaie verdi del Texas impararono a usare pezzi di fogli di giornale, collocati nelle loro gabbie, per trascinare del cibo altrimenti non raggiungibile. Alcuni aironi catturano pesci utilizzando come esca, per 259 Gli uccelli del miele, ad esempio, guidano altri mammiferi, persino l’uomo, fino al posto dove ci sono degli alveari di api, cioè ricorrono a loro per un compito che non sono in grado di fare da soli, e questo soltanto per accontentarsi di mangiare la cera e le larve dopo che l’uomo ha aperto l’alveare e preso il miele. 220 attrarli, ramoscelli, foglie, piume, insetti, lombrichi, oggetti che lasciano galleggiare sulla superficie dell’acqua. Ad alcune scimmie piace invece manipolare oggetti per gioco. Scimmie antropomorfe sono state addestrate per saper utilizzare (in modo ovviamente limitato) certi oggetti artificiali costruiti dall’uomo, come una chiave, una bicicletta o i tasti di un computer. Alcuni animali fabbricano trappole per la caccia (come le ragnatele dei ragni). 4. Architettura. Numerose specie animali sanno costruire rifugi, nidi, tane, manifestando, come al solito, una certa invarianza nello schema fisso di azione, insieme ad una variabilità nei dettagli a seconda delle circostanze o dei luoghi geografici. Spesso sanno riparare ciò che viene distrutto o rovinato. Nel lavoro in gruppo di costruzione e nell’ impiego delle opere fatte, molti animali esibiscono una certa intelligenza sociale, con cooperazione, divisione dei compiti, dominanza e subordinazione. I casi più sbalorditivi di costruzioni “architettoniche” provengono dagli insetti sociali. Risulta interessante osservare il modo in cui lavorano, ad esempio, le formiche operaie. Sono dotate di un’anatomia differenziata, adattata al compimento di alcune funzioni (cura di uova, raccolta di cibo, difesa della colonia). Le formiche tessitrici, tra altre abilità, per costruire i nidi piegano delle foglie unendo i bordi, e a questo scopo si uniscono in gruppi cooperativi per operare sulle foglie, le quali sono più grandi dei loro corpi. Certe volte eseguono questo lavoro formando catene di operaie. Sono notevoli certi formicai di termiti, con camere per la regina, per i “neonati”, per immagazzinare il cibo e per “coltivarlo” in qualche modo. Gli ambienti interni dei formicai sono dotati di attrezzi per la ventilazione, la refrigerazione, la difesa, il rinforzo delle pareti e dei soffitti. L’intelligenza collettiva di questi animali è sorprendente: ogni individuo esegue il suo compito nel tempo e nello spazio giusto, in funzione di un “progetto comune” in favore del gruppo. Le abilità individuali sono usate a beneficio della comunità260. 260 Risultano singolari, per fare un altro esempio, i pergolati costruiti dagli uccelli giardinieri dell’Australia e della Nuova Guinea, che servono ai maschi per attirare le femmine. I 221 Citerò, per finire questa sezione, il noto esempio dell’ingegneria dei castori nella costruzione di tane, rifugi sotterranei, cunicoli, canali, laghetti e dighe. Uno degli obiettivi di questi lavori è la regolazione del livello delle acque dei luoghi dove abitano, per cui vengono usati materiali come legno, rami o fango (ad esempio, se c’è un allagamento, il castoro sa praticare uno o più buchi per far scendere il livello dell’acqua). I castori preparano con cura le loro costruzioni (tagliano la legna, abbattono un albero, trasportano materiali lungo i canali), le sorvegliano e le riparano, e sanno reagire alle difficoltà ambientali in un modo flessibile261. Il “ragionamento” per cui viene collocata una scatola per arrampicarvisi e così raggiungere un oggetto troppo alto non è esclusivo di alcune scimmie. Anche i castori si comportano in questo modo: “Quando qualcosa di edibile veniva collocato fuori portata su una piccola piattaforma in cima a un palo di un metro, i castori vi ammucchiavano dei rami su cui poi si arrampicavano per raggiungere il cibo”262. Questi comportamenti intenzionali non sono semplici o isolati. Sono articolati intorno a grandi obiettivi da cui derivano un insieme di piccoli compiti svariati, ciascuno dei quali richiede la messa in pratica di una catena di azioni finalizzate, in coordinamento con le attività di altri individui e con una proiezione di lunga durata nel tempo, modificabile o adattabile secondo il cambio di circostanze o di luogo geografico. Naturalmente, l’animale che agisce seguendo queste strategie non ha “un piano di azione” nella sua mente, così come l’animale che si accoppia, seguendo vere inclinazioni e percezioni significative, non “ha in mente” i benefici della riproduzione pergolati vengono decorati con fiori o altri oggetti, con l’utilizzazione “estetica” di varietà di colori (i maschi dominanti distruggono i pergolati di altri rivali più deboli). 261 D. Griffin, in Menti animali, cit., menziona, ad esempio, il caso di una “ingegnosa risposta a una nuova situazione da parte di due castori confinati in un’area dotata di una piscina di 3,5 × 2,5 metri, in cui il livello dell’acqua, profonda 160 cm, era regolato da un tubo di scarico provvisto di un tappo con tre fori di 8 mm di diametro. Dopo circa due settimane i due castori cominciarono a chiudere questi fori con ‘ramoscelli spellati che erano stati rosicchiati obliquamente alle due estremità e appuntiti in modo da adattarsi perfettamente ai buchi (...) La prestazione venne ripetuta ogni volta che noi, al mattino, rimuovevamo i bastoncini e riportavamo l’acqua della piscina al suo normale livello. Ogni notte, i castori preparavano dei nuovi bastoncini ben calibrati e bloccavano i buchi (...) [Infine] modificarono la loro tecnica: oltre ai bastoncini aggiunsero erba e mucchi di foglie mischiate a fango’ (citazione di un articolo di G. Pilleri, 1983)” (p. 123). 262 Ibid., pp. 122-123. 222 per la specie. C’è un livello naturale proprio della specie, geneticamente determinato, per cui l’animale possiede una dotazione anatomica e fisiologica e certe capacità in funzione del bene di una comunità, e un livello intenzionale secondo il quale l’individuo agisce in base a conoscenze ed emozioni, senza però “sapere” di seguire il piano più alto “previsto” dalla specie. Non bisogna postulare una “mente della specie” per questo livello naturale. Basta riconoscere la realtà della specie, dove s’include un ordine intelligibile finalizzato263. Si potrà dire che quest’ordine è sorto grazie ai meccanismi selettivi della natura. Possiamo accettarlo. Il risultato comunque non è meno degno di ammirazione. Ciò significa che la selezione naturale, unita ad altri fattori, è stata in grado di produrre queste incredibili società di formiche e di api che hanno incorporato un finalismo immanente alla specie, e così negli altri casi che abbiamo considerato. La metodologia della selezione naturale dunque dovrebbe essere vista come una modalità causale, di tipo materiale e non formale, capace di creare in una maniera contingente dinamismi auto-finalizzati contingenti. Non bisogna postulare una sorta di programma vitale inerente alla natura evolutiva, né una “mente immanente”. Nella natura presa complessivamente, insomma, esiste un ordine contingente, non un caos. All’interno di quest’ordine dinamico, le specie e gli organismi individuali sono autofinalizzati, servendosi dell’armonia non organica del cosmo e dell’insieme -neppure esso autofinalizzato- di tutte le specie viventi. 4. Antropologie naturalistiche Prima di considerare altri aspetti dell’intelligenza animale, vorrei soffermarmi brevemente sul senso di questi studi etologici, specialmente nei confronti dell’uomo. Nella misura in cui la vita degli animali si rivela densa dal punto di vista cognitivo, emozionale e sociale, i paragoni con l’uomo sono sempre più alla portata di mano. Tuttavia, così come dobbiamo evitare l’antropomorfismo di proiettare sui comportamenti animali le nostre categorie umane (nei castori potremmo vedere dei laboriosi ingegneri, idraulici, architetti, fedeli capifamiglia; nelle api e nelle formiche, 263 Neppure l’uomo, quando nasce come maschio o femmina e scopre le sue inclinazioni sessuali, “ha in mente” la divisione sessuale come elemento strutturale al servizio della sua specie. Soltanto con la ragione riflettiamo su questi ordini della natura, naturalmente inconsci per gli individui e che trascendono ampiamente i loro desideri sensitivi. 223 modelli politici collettivisti), c’è da evitare altrettanto di concepire l’uomo sul modello della vita animale istintiva. Il paradigma evoluzionista e genetista porta non raramente alcuni autori a vedere la vita umana come se non fosse altro che un’ulteriore forma complessa nel gioco tra istinti e apprendimento selettivo. Già Darwin iniziò la consuetudine di parlare dell’uomo nella prospettiva di un’antropologia animale che ignora l’elevazione introdotta dallo spirito nella dimensione sensitiva umana. In questa linea si sono collocati J. Monod, B. Skinner, K. Lorenz, E. Wilson, R. Dawkins e tanti altri. Loren R. Graham264 chiama ampliativisti questi autori, in contrapposizione agli scienziati restrittivisti. Questi ultimi mantengono la scienza lontana dai valori o dai significati filosofici (un caso estremo è il positivismo). Gli ampliativisti, invece, vedono nella scienza -normalmente la biologia- implicazioni sociali, politiche, antropologiche o etiche, senza la preoccupazione di invadere il campo della filosofia. Ma questo è il punto problematico. Far passare idee filosofiche come se fossero scientifiche è ideologia anziché filosofia. Un caso emblematico in questo senso è rappresentato dalla sociobiologia di E. O. Wilson265. I suoi studi delle società animali prospettano l’applicazione della teoria della selezione naturale ai comportamenti sociali animali, determinati da basi genetiche in interazione con l’ambiente in lunghissimi periodi di tempo. In questa chiave interpretativa si potrebbero spiegare i comportamenti degli insetti sociali, presso i quali alcuni individui “si sacrificano” in modo altruistico in favore della sopravvivenza della specie. La sociobiologia -vincolata alla genetica, all’etologia, all’ecologia e alla neurobiologia- fornirebbe quindi gli elementi per spiegare comportamenti collettivi animali come la scelta dei compagni sessuali, l’aggressione, la territorialità o la divisione del lavoro. Lo stesso schema sarebbe applicabile alla condotta dell’uomo, offrendo così un fondamento biologico -in definitiva riduzionistico- dei comportamenti sociali e morali, ad esempio, in rapporto alla criminalità, alle guerre, al fenomeno del razzismo o alla condotta sessuale. 264 Cfr. L. Graham, Scienza e valori, Armando, Roma 1988. Cfr. le sue opere Sociobiology, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1980; The Insect Societies, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1971; Sociobiology: The New Synthesis, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1975. 265 224 I dibattiti suscitati da questa concezione biologista dell’uomo sono stati numerosi. I termini delle polemiche di solito sono il ruolo del determinismo genetico e dell’influsso ambientale o l’estensione delle teorie sugli animali all’uomo. Fenomeni umani e sociali come il nazionalismo, il celibato, il matrimonio, la carità o il volontariato vengono così affrontati non nella prospettiva della libertà umana e delle motivazioni personali o sociali, bensì in un orizzonte animale dove sono determinanti il ruolo dei geni, i processi selettivi e le pressioni ambientali. Tutto ciò, nella visione evoluzionistica darwiniana, in definitiva è indirizzato alla preservazione della specie e al successo riproduttivo. Conta come valore primario ciò che ha più efficacia adattativa in un ambiente difficile e concorrenziale. Oggi questa impostazione antropologica naturalistica è di moda. Si impiegano canoni naturalisti omogenei nello studio delle comunità animali o umane, con applicazioni alle società primitive, alle etnie o ai fenomeni sociali contemporanei. Il naturalismo materialista della fine dell’Ottocento sembra aver preso ancora una volta il sopravvento. I best-seller di questo genere di letteratura scientifica si moltiplicano, come ai tempi di Darwin. Gli studi interdisciplinari sulla vita intenzionale degli animali contengono elementi attendibili, ma molti punti rimangono ancora oscuri e la realtà è troppo complessa per poterla ridurre a schemi rigidi e unilaterali. Tuttavia, la semplice trasposizione all’uomo della prospettiva in cui viene inquadrata la vita animale è fuorviante. Ne consegue un impoverimento dell’antropologia, soprattutto del senso della libertà e della responsabilità umana. La genetica, anche includendo gli elementi epigenetici dello sviluppo fisico e sensitivo dell’organismo, non è in grado di spiegare le complesse motivazioni del comportamento umano nel campo dell’amicizia, dell’amore umano nelle sue espressioni più alte, della scienza e dell’arte e di tanti altri aspetti della vita culturale e sociale dell’uomo. Pensare che l’uomo agisca primordialmente per preservare la specie, per sopravvivere e per avere successo riproduttivo è una visione molto piatta (e falsa) della vita umana. Lo sviluppo della razionalità, accanto alla cultura, trasforma la base sensitiva della nostra personalità in una dimensione elevata al livello della persona umana. Ciò che è dominante nell’uomo è la razionalità e la volontà, perfino negli individui che vivono in funzione delle loro inclinazioni sensibili (benessere fisico, piaceri, 225 aggressioni). Queste persone non rassomigliano, in rigor dei termini, agli animali. Tranne eccezioni patologiche, si direbbe piuttosto che la loro razionalità si è messa al servizio degli strati sensitivi della personalità. Il problema di queste persone non è di adattamento, come se fossero animali. Il loro problema piuttosto è educativo e morale. 5. Aspetti cognitivi animali a) Percezione di configurazioni invarianti e tipiche. Razionalità pratica Gli animali non recepiscono dei semplici sense-data. Essi accolgono autentiche strutture percettive in continuità spazio-temporale, nella misura in cui diventano familiarizzati con esse e in rapporto ai loro bisogni sensibili. In base a processi di condizionamento, l’uomo può insegnarli a percepire cose nuove. Queste percezioni includono associazioni anche di lungo raggio, in cui si riconoscono rapporti tra segno e significato, o di tipo causale e strumentale. Ne segue una forma di razionalità pratica, con l’apparenza di poter compiere perfino dei ragionamenti pratici. Questi rapporti cognitivi non si realizzano in modo astratto e universale. Potremmo parlare di “astrazione”, in questi casi, solo in quanto il riconoscimento percettivo di un pattern associativo viene separato da altre configurazioni o dallo sfondo percettivo. Così un gatto riconosce la figura di un cane o il “tipo cane” come diverso da altri tipi di cose. Gli animali possiedono schemi percettivi di parecchie cose, diversi però dai veri concetti. Non è adeguato chiamare concettuale questo modo naturale di percepire. La gnoseologia empirista, ovviamente, identifica gli schemi percettivi con i concetti. Il riconoscimento animale di tipi (cose, rapporti, azioni), negli individui concreti e mai in modo separato, è legato a reazioni emotive e a risposte comportamentali. La percezione selettiva dell’ambiente, insieme ai ricordi di esperienze passate (apprendimento, condizionamenti acquisiti), può invitare l’animale a ricercare attivamente un tipo di oggetto, con la possibilità di stabilire paragoni in base alle “offerte” dell’ambiente. Dopo una fase esplorativa più o meno complessa, la risposta comportamentale potrà essere una scelta266. Quando la percezione include una serie di 266 Cfr. il nostro capitolo 4, n. 6. 226 associazioni già imparate, la risposta pratica dell’animale sembra quasi “sillogistica”. Detto in modo simbolico: l’animale può imparare che per ottenere A deve avere B, e che per avere B deve compiere l’atto C. Alcuni piccioni, ad esempio, sono stati addestrati a riconoscere figure di persone umane proiettate su uno schermo, diverse tra loro e mescolate tra molte altre. Il piccione, condizionato in base a premi di cibo, impara a beccare proprio le figure umane. In altri esperimenti essi riescono a imparare a beccare gruppi di figure uguali con indipendenza dal loro variabile contenuto. Non è che abbiano acquistato i concetti astratti di “uguale” o “diverso”, e neppure fanno il ragionamento astratto “se riesco a beccare le figure uguali, otterrò del cibo”. La capacità di riconoscere in modo concreto -ma con molti limiti- delle strutture o rapporti geometrici semplici ci consente di capire in che senso gli animali possono imparare a contare, vale a dire, a riconoscere numerazioni concrete molto modeste, secondo i meccanismi sopra indicati. Ad esempio, l’animale può imparare a dare una risposta selettiva a diversi numeri di oggetti: scegliere una scatola se ha un certo numero di macchie sul coperchio; beccare tre volte quando vede due punti illuminati. Analogamente, essi possono riconoscere qualche struttura temporale, ad esempio possono imparare a compiere un’azione a una determinata ora. L’associazione imparata può diventare una regola seguita dall’animale in mezzo a molte variazioni, spesso per ottenere un premio. Non sarebbe giusto dire che così esso “capirebbe” i principi di identità, di non contraddizione o di inferenza logica, per quanto riconosca in modo concreto cose simili e diverse anche con indipendenza dal loro contenuto, sempre però in contesti legati alla sua esperienza e apprendimento. L’animale non ha un pensiero né logico né “prelogico”, ma agisce semplicemente in base ad associazioni significative imparate. Solo in questo senso alcuni animali sono in grado di competere con i bambini in certe fasi degli stadi di Piaget sullo sviluppo dell’intelligenza nei primi anni di vita. Negli esperimenti degli etologi, il premio ottenuto come risultato dell’associazione solitamente è cibo. Ma non in modo esclusivo. Gli animali possono imparare anche per gioco, o per obbedire ad una figura dominante, come fanno i cani domestici con l’uomo. Alcuni animali imparano per gioco a imitare certe strutture 227 percepite. I delfini possono imitare i movimenti di tartarughe, di pinguini o di uomini. Ad esempio un delfino, vedendo come una persona pulisce una finestra, può mettersi a copiare il gesto utilizzando qualsiasi oggetto. b) Riconoscimenti sociali Gli animali vivono in un ambiente non meramente fisico, ma sociale e intersoggettivo, dove sono in gioco la comunicazione e l’interazione con altri soggetti intraspecifici o extraspecifici. Essi percepiscono facce, espressioni e simboli, atteggiamenti emotivi e comportamentali, con reazioni emotive e adeguate risposte: accompagnamento, inseguimento, collaborazione, intrusione, difesa, inganno, simulazione, obbedienza. I riconoscimenti individuali più tipici di alcuni animali si riferiscono a rapporti di parentela e alle gerarchie di dominanza e subordinazione. In molte specie le madri riconoscono ciascuno dei loro cuccioli e hanno con loro una comunicazione concreta basata su gesti e grida. Molte riconoscono i cuccioli di altri animali o i loro genitori. Nei gruppi socializzati -ad esempio, tra le scimmie-, alcuni individui sono dominanti o perfino capi e altri sono subordinati, con rapporti conseguenti tipici che ci sorprendono e ci fanno ridere. Gli animali subordinati possono chiedere clemenza, pace o pietà ai dominanti, i quali invece si possono permettere di dare loro fastidio (ad esempio, rubarli qualcosa). Tra gli scimpanzé, se viene data una banana a una giovane scimmia con poca autorità, col tempo essa impara e tenersela nascosta per evitare di essere derubata, anche con operazioni di depistaggio. Questi “furti” si producono anche a livello di rapporti sessuali, con casi di “adulterio” e punizioni inflitte dai dominanti alle scimmie “discole”. Simili atteggiamenti “furbeschi” possono anche avvenire nel rapporto tra uomo e animale (le scimmie sono più discole dei cani e normalmente non riescono ad essere completamente addomesticate). Legati a questi comportamenti, nella vita affettiva animale troviamo, di conseguenza, gelosie, invidie, vendetta, rancore, amore, concorrenza, umiliazione, furia, protezione, carezze, sfiducia, tristezza, isolamento, depressione, giovialità. L’osservazione di questa dimensione sociale, cognitiva e affettiva ci colpisce, in quanto prefigura comportamenti umani. Vengono così a configurarsi tra i soggetti atteggiamenti che possono sembrare quasi pre-etici: essi possono ingannare, 228 disobbedire, piangere, “rubare”, “assassinare” per vendetta. Queste reazioni corrispondono all’ambito che i classici chiamavano passionale. Si parla, ad esempio, di altruismo animale. Senz’altro esiste un tipo di altruismo negli animali, diverso secondo le specie. Il suo valore non è morale, ma piuttosto passionale. Le madri si sacrificano per i cuccioli; gli animali si manifestano affetto a vicenda e soffrono se uno di loro è malato o muore; tra essi è frequente il comportamento del grooming, cioè pulire affettuosamente l’altro. I delfini soccorrono i feriti della loro specie e di solito aiutano i nuotatori umani in pericolo di affogare, trasportandoli delicatamente verso la riva. Per indicare queste dimensioni cognitivo-emotive della vita animale dobbiamo impiegare una terminologia antropomorfica. D’altronde, come in tutto quanto stiamo dicendo sulla cognizione, sull’emotività e sul comportamento, questi aspetti psicologici hanno un versante neurologico vicino a quanto avviene nell’uomo (ad esempio, la lateralizzazione del linguaggio). L’etologia ci ha fatto scoprire che gli animali “sono più umani di quanto pensavamo” e che anche noi “abbiamo più animalità di quanto credevamo”. Ma non dimentichiamo la profonda tesi dei classici: l’uomo è un animale, sì, ma dotato di una ragione universale. La nostra vita passionale può essere simile a quella degli animali, ma al contempo è immensamente più ricca. Inoltre, con la ragione e la libertà siamo in grado di dominare e di orientare convenientemente le nostre inclinazioni, appetiti ed emozioni. La nostra relativa vicinanza agli animali, quindi, non dev’essere per noi causa di sconcerto. Piuttosto è un motivo di stupore che ci porta a conoscere meglio la nostra appartenenza alla natura e ad essere consapevoli della nostra superiorità per il fatto di essere persone, capaci di capire la realtà ontologica e di decidere con piena libertà. c) Coscienza animale Gli animali hanno coscienza sensibile per il fatto che sentono, godono e soffrono, quindi sentono se stessi come soggetti sensitivi corporei, così come riconoscono altri soggetti, al punto di provare affetti per loro o di sentire compassione nei loro confronti. Alcuni riescono perfino a riconoscere la propria figura riflessa. Dopo un po’ di esperienza, alcune scimmie antropomorfe (scimpanzé, orangutan, gorilla) possono riconoscere se stesse nel vedersi in uno specchio. Se ricevono all’insaputa una macchia sulla fronte, alcune tendono a togliersela via quando la 229 vedono sullo specchio, e possono usare pure lo specchio per esplorarsi la faccia (la lingua, la gola, il naso). Tutto questo non significa autocoscienza in senso forte. L’animale percepisce il proprio corpo, ma non riflette su se stesso come soggetto esistente. Egli non ha coscienza della sua vita, dei suoi istinti, della sua natura. Non può “oggettivizzare” se stesso, prendendosi come un tutto per chiamarsi “io”. 6. Comunicazione e linguaggio animale a) Aspetti generali Una delle proprietà cognitive più importanti degli animali è la capacità di comunicazione intenzionale attraverso forme simboliche naturali, le quali in qualche modo prefigurano il linguaggio umano. Gli animali comunicano tra loro attraverso grida, gesti, segnali sensitivi (acustici, visivi, odoriferi, tattili), in contesti sociali e in funzione dei loro fini intenzionali (avvertenze di pericolo, corteggiamento, minacce, lamenti, richiami, segnali di partenza in gruppo). Tale comunicazione non raggiunge mai il livello del dialogo, nel senso in cui gli uomini conversano tra loro come un fine a se stesso. Ma neanche si limita ad essere una semplice espressione emotiva, come le grida di dolore. La comunicazione animale è un vero scambio emozionale di messaggi che contengono un’informazione e hanno fini pratici. Ciò comporta la capacità dell’animale di “intuire” psicologicamente cosa succede negli altri (la “teoria della mente” di cui parlavamo prima), ad esempio, di conoscere il loro stato emozionale, o di prevedere che cosa stiano per fare o come potrebbero reagire. Gli animali possono scorgere in altri soggetti segni di minaccia, o voler manifestare sottomissione, o fare richieste, così come un gatto o un cane possono chiedere qualcosa al loro padrone umano. Come abbiamo detto, in questi messaggi alcuni animali talvolta possono anche simulare o “voler” ingannare. Il linguaggio animale è un sistema di segni con valore associativo, attraverso il quale l’individuo trasmette informazioni ed esprime emozioni, provocando negli ascoltatori che “capiscono” una reazione emotiva e inducendo in essi delle risposte comportamentali. Non è un linguaggio umano perché non è un sistema di segni che si possano combinare liberamente secondo regole universali (grammatica), con autonomia astratta rispetto a situazioni concrete. Per questo motivo, il linguaggio 230 animale, sebbene ammetta una notevole flessibilità collegata alle circostanze, non è creativo all’infinito, cioè non porta il parlante a produrre indefinite combinazioni con totale arbitrarietà rispetto ai contesti e alle finalità, come succede invece nell’uomo. Questo fatto non significa che i linguaggi animali siano poveri o costruiti sempre da pochi segni molto elementari, come si pensava un tempo. Al contrario, la ricerca dimostra sempre più che i linguaggi animali possono essere molto ricchi e versatili. I condizionamenti associativi contengono enorme possibilità. Oggi possiamo spiegarci meglio questo punto grazie allo sviluppo del connessionismo. I linguaggi animali per lo più sono innati, ma hanno bisogno dell’esperienza e di una forma di “educazione” (ad esempio, ascolto dei genitori e imitazione) per essere sviluppati. Gli animali possono anche imparare a comunicare tramite condizionamenti, come dimostra il fatto che l’uomo può insegnare loro nuove associazioni significative. Del resto, il linguaggio animale ovviamente ha una base cerebrale, manifestando pure i fenomeni della lateralizzazione e delle localizzazioni. In base a quanto abbiamo detto, l’uomo può comunicare con gli animali -cosa più che ovvia- e in certi casi può insegnare loro un linguaggio “artificiale” adattato alla loro logica associativa. I risultati più o meno felici di questo insegnamento, come succede con altre capacità cognitive, sono variabili nei soggetti, nei tempi e nelle situazioni, per cui di solito vengono misurati dall’uomo con metodi statistici. Ad esempio, attraverso domande e risposte, si verifica la misura in cui un animale ha imparato un linguaggio. Risposte corrette in termini di un 70, 80 % sono considerate un buon risultato. Questo fatto è in sintonia con la natura connessionistica della logica associativa degli animali. b) Tipi di comunicazione Il linguaggio animale è fatto da segni naturali ma anche “arbitrari”, nel senso che possono crearsi legami significativi lontani dalla loro fonte naturale di origine, sia nello spazio che nel tempo (quindi separati dall’impressione del momento). La comunicazione più naturale, cioè più immediata o “prelinguistica”, si stabilisce nei rapporti gestuali che diventano spontanei nella convivenza. Così la madre, essendo in un rapporto immediato con i cuccioli, riesce ad “educarli” attraverso semplici manipolazioni, richiami o gesti che provocano reazioni o inducono comportamenti 231 imitativi. Può insegnar loro, in questa maniera, a stare attenti, a saper usare bene gli utensili o a camminare. Molti gesti del corteggiamento sessuale sono pure una forma immediata di comunicazione. Il tipo di linguaggio adoperato dalle specie animali dipende dalla loro costituzione anatomica e neurofisiologica. Insetti, uccelli o mammiferi usano mezzi di comunicazione molto diversi in questo senso. Il linguaggio animale più simile al nostro è basato sull’emissione intenzionale di suoni significativi: grida, grugniti, canti degli uccelli. Le grida di alcune scimmie possono essere degli avvertimenti alle altre, ad esempio allarmi dinanzi a un pericolo267, o richiami a una certa condotta, come gli strilli dell’uccello del miele intendono guidare l’uomo verso un alveare. Questi segnali possono variare a seconda del ruolo sociale (come la madre emette un grido tipico rivolto ai cuccioli). Certi canti dei galli emessi alla vista di alimenti preferiti sono in funzione della presenza di femmine (galline). Ciò vuol dire che il tipo di “pubblico in ascolto” influisce sul linguaggio animale. I pappagalli, come sappiamo, riescono a imitare in modo sorprendente i suoni umani. Non possono farlo invece le scimmie, prive di corde vocali, per cui l’uomo insegna ad esse linguaggi artificiali non acustici. Nelle api e nelle formiche troviamo una comunicazione simbolica particolarmente sofisticata. Le danzi delle api, a seconda del loro senso orario o antiorario o del loro ritmo, intensità e altri dettagli, provvedono informazione sull’alimento -distanza, orientamento, qualità-, oppure sul luogo dove si può costruire un nuovo alveare, e al contempo invitano altre api ad adoperarsi nella ricerca del cibo o inducono altre risposte. Le informazioni in arrivo sono spesso molteplici. Quindi i segnali non provocano risposte automatiche, ma danno luogo a processi “decisionali” del gruppo che impiegano un certo tempo. Le reti di comunicazione degli insetti sociali mettono in gioco tutte le loro capacità cognitive ed emotive, in un modo così sorprendente che nemmeno oggi riusciamo a spiegarcelo del tutto. 267 Nei cercopitechi verdi (Africa) sono stati scoperti tre tipi di allarme di fronte ai predatori: uno, alla vista di mammiferi carnivori, induce la risposta di arrampicarsi sugli alberi; un altro, in presenza di aquile pericolose, conduce a trovar rifugio nella vegetazione fitta; un terzo allarme, infine, nei confronti dei serpenti, induce la risposta di rimanere ritti sulle zampe posteriori e di guardare intorno. 232 c) Linguaggi insegnati agli animali L’uomo è riuscito ad insegnare ad alcuni animali certi sistemi di simboli per poter interagire con loro in modo intenzionale, come peraltro si è fatto da sempre in una maniera più semplice con gli animali domestici. Delfini e leoni marini impararono così un linguaggio basato su gesti -simili a quelli usati dai sordomuticorrispondenti a oggetti, luoghi, posizioni e azioni. Con questo mezzo comunicativo l’uomo può comandare ed essere obbedito da questi animali. Non sembra giusto sostenere che così i delfini imparino una sintassi, a meno di non fare un uso ampio del termine. Essi sono semplicemente in grado di capire il significato di una breve serie concatenata di segnali che, “tradotta” nella lingua umana, sarebbe come dire ad esempio “adesso tocca con la coda il tubo che sta alla tua destra”. Sempre in questa linea, possiamo insegnare a questi animali un vocabolario costituito da “nomi” di oggetti, da “aggettivi” (ad esempio, nomi di colori) e da “verbi” di azioni. Queste denominazioni sono antropomorfiche. L’animale non impara una vera grammatica. Egli impara -benché il fatto sia meraviglioso- una “proto-grammatica” limitata, senza regole universali e astratte. Tramite esperimenti durati parecchi anni, si è riusciti a condizionare pappagalli affinché rispondessero a domande del tipo: “di che colore è questo?”, “quanti oggetti sono qui?” (fino a un certo numero). Oppure per rispondere a domande su oggetti simili e diversi: “che cosa c’è in comune in questi oggetti?” (risposta: “il colore”; oppure: “niente”). O anche per dire “no” in situazioni di rifiuto. Sono note in questo campo le ricerche di Irene Pepperberg. Situazioni esperimentali simili sono state preparate con scimmie antropomorfe. I coniugi Gardner, negli anni ‘70 e ‘80 del secolo scorso, allenarono durante molti anni la scimpanzé femmina Washoe a comunicare tramite elementi del linguaggio dei sordomuti. L’animale poteva riferirsi a certi oggetti o azioni familiari. Poteva, quindi, chiedere alcune cose. Imparò il segno corrispondente ad aprire per chiedere che si aprisse una porta, ma posteriormente anche il rubinetto dell’acqua, un libro, una scatola. In modo simile, Premack insegnò un certo linguaggio a un gruppo di scimpanzé, utilizzando gettoni di plastica a colori (“lessicogrammi”) con diverse forme, capaci di costituire un “lessico”. I gettoni potevano essere disposti in modo sequenziale. Su questa base si poteva stabilire un breve “dialogo” con la scimmia, ad 233 esempio, dicendole: “se Sara (nome della scimmia) prende una mela, Mary (la sperimentatrice) le darà un cioccolatino”, ottenendo un risultato positivo. Alla discriminazione di configurazioni si unisce, così, la comprensione di un rudimento di linguaggio (con l’apparenza di una sintassi e perfino dell’uso di un nesso logico condizionale). In un altro progetto, Sue Savage-Rumbaugh e Duane Rumbaugh utilizzarono una tastiera in cui i tasti erano collegati a parole, in modo che gli scimpanzé potessero premere i tasti giusti per ottenere cibo o esprimere desideri. In una fase più complessa, alcune scimmie impararono a premere tasti per chiedere certi strumenti -con la possibilità di scelta tra vari strumenti in mostra già conosciuti dagli animali- coi quali potevano ottenere del cibo (ad esempio, aprendo una scatola con lo strumento scelto). Ad un livello ancora più difficile, impararono a chiedere tale attrezzo a un’altra scimmia (comunicazione collaborativa), condividendo poi con essa il cibo ottenuto. Uno scimpanzé pigmeo -bonobo- chiamato Kanzi, a partire dai sei mesi stava in compagnia della madre, l’unica ad essere allenata nella ricerca riferita. Dopo un certo tempo si è visto che Kanzi, senza un addestramento specifico, aveva imparato da solo, per osservazione, a usare bene la tastiera della madre in sua assenza, anche con una modesta produttività “originale”. Poi si è visto che l’apprendimento in tempi critici (iniziali) favoriva la velocità e la portata di quanto l’animale poteva imparare. In altri esperimenti eseguiti da Woodruff e Premack, le scimmie ricorrevano all’uomo come intermediario per ottenere un alimento non accessibile, riuscendo a scoprire per via di esperienza l’individuo che le ingannava, distinguendolo da colui che diceva loro la verità (con quest’ultimo avevano fiducia). d) I limiti del linguaggio animale La tematica del linguaggio forse è quella che più suggerisce l’alto livello cui può arrivare l’intelligenza animale. Dobbiamo essere cauti, tuttavia, nell’interpretazione del significato dei linguaggi animali, poiché una certa proiezione antropomorfica è inevitabile in mancanza di categorie proprie per capire il mondo della vita intenzionale pre-razionale. Ci sono inoltre, in modo particolare in questo campo, pregiudizi talvolta ideologici (l’animalismo, il materialismo), nei quali si affaccia l’idea che in fondo la differenza tra gli animali superiori e l’uomo sarebbe 234 solo graduale o culturale. D’altra parte, come abbiamo detto sopra, se si presuppone una gnoseologia empirista, non ci sarà modo di rilevare una differenza essenziale tra la conoscenza animale e quella umana. I linguaggi animali dimostrano la straordinaria ricchezza della vita intenzionale, cognitiva, emotiva e comunicativa pre-razionale. Troviamo in essi elementi che prefigurano il nostro linguaggio, con “una certa semantica”, “un cenno di sintassi”, “qualche creatività”, ma sempre a livello rudimentale. Possiamo fare paragoni, anche sperimentali e statistici, con il comportamento linguistico immaturo dei bambini. Possiamo pensare, senza dimostrarlo affatto, che il linguaggio umano sarebbe sorto come una forma di evoluzione a partire dai linguaggi degli ominidi. Ma le differenze abissali tra i linguaggi degli animali e dell’uomo sussistono. Il nostro linguaggio non è un semplice perfezionamento dei mezzi comunicativi animali (più ampio, più veloce), ma costituisce un altro genere di comunicazione, sebbene usi come materia o piattaforma di base la capacità sensitiva di associare segni in modo intenzionale grazie alla memoria e all’immaginazione. Il linguaggio umano è di un altro genere perché esprime un pensiero universale. I ricercatori tendono spesso a suggerire che le differenze tra il linguaggio dell’uomo e dell’animale sarebbero solo di grado. Vengono più sottolineate le somiglianze anziché le differenze profonde. Naturalmente, molti studiosi sono consapevoli della facilità con si può attribuire all’animale la capacità di comprendere, come accadde con l’inganno di clever Hans, e cercano accuratamente di evitare questi errori. Senz’altro sorprende la complessità dei linguaggi e azioni che certi animali riescono a imparare guidati dall’uomo. Tuttavia, la convivenza umana con animali particolarmente sensibili ha sempre “elevato” questi ultimi a livelli in cui sono riusciti a imparare molte cose che non avrebbero raggiunto se fossero stati lasciati nella foresta. Le imparano però in un modo piuttosto passivo. Una scimmia potrà usare una tastiera per comunicare qualcosa, ma non avrà mai l’iniziativa di creare un linguaggio scritto. Il punto essenziale è il seguente. I linguaggi animali, anche imparati dall’uomo, sono sempre legati a situazioni concrete, rivolte a fini interessanti per gli animali. Tali linguaggi progrediscono talvolta con una certa spontaneità, ma in un modo molto modesto, di tipo adattativo. Gli animali usano il linguaggio con una certa flessibilità, 235 ma non oltrepassano la “logica associativa”, la stessa logica che siamo riusciti a riprodurre tramite i metodi connessionisti di computazione. Il raggio delle associazioni può essere enorme -pensiamo alle reti sinaptiche-, e ciò aiuta l’animale a non restare legato alla pura immediatezza del qui ed ora. Ma siamo sempre a livello di reti sensitive, materiali e concrete268. Il linguaggio umano rimanda invece a un’oggettivazione razionale che consente la separazione completa della lingua da ogni situazione materiale concreta. Da qui nascono l’arbitrarietà assoluta dei significati semantici, l’universalità delle regole sintattiche e l’apertura senza fine degli usi pragmatici. Queste caratteristiche costituiscono il senso profondo del linguaggio dell’uomo. Il fenomeno del nostro linguaggio va visto complessivamente, non in singole frasi, quando cioè consideriamo in modo globale le strutture delle lingue create dall’uomo, i loro usi e la nostra capacità di creare grammatiche all’infinito. Si comprende così perché l’uomo è in grado di imparare qualsiasi linguaggio sensitivo animale, e anche perché è capace di insegnare lingue non in modo spontaneo e inconsapevole, ma creando grammatiche. È questo uno degli aspetti della nostra autocoscienza linguistica. La potenza simbolica dell’uomo è universale, infinita e autocosciente. L’uomo può usare il simbolismo grammaticale senza restrizioni. Egli è in grado di inventare linguaggi formali a scopo solo deduttivo, come fa nella matematica e nella logica, e può ulteriormente creare strumenti simbolici, come i libri e i computer. Eppure egli rimane libero da queste oggettivazioni, poiché può farne sempre altre. L’uomo si diletta nel linguaggio con una finalità estetica e contemplativa, non legata alle funzioni di adattamento all’ambiente. In definitiva, nel linguaggio l’uomo esprime la sua persona, mentre i linguaggi degli animali sono una manifestazione della loro vita sensitiva. 268 Per capire questo punto bisogna considerare il linguaggio nella prospettiva del pensiero metafisico. Se limitiamo l’esame alle sole realizzazioni empiriche, non potremo distinguerlo da una struttura associativa. Per questo motivo il comportamentismo non è stato in grado di elaborare una teoria linguistica cognitiva. 236 Capitolo 6 Tecnologia dell’intelligenza 1. Ontologia degli oggetti artificiali Ho incominciato questo volume con il problema degli atti umani, incorniciati nella complessità dei livelli della vita umana (atti neurovegetativi, psicosomatici e spirituali). Nel capitolo 3, n. 9 ho presentato una panoramica degli elementi in gioco nella crescita dell’intelligenza (ambiente, eredità, abiti). Alcuni di questi elementi sono creazioni culturali, non viventi né persone umane (la prima creazione artistica è il linguaggio). Si viene a costituire in questo modo un ambito “postnaturale” (una città, una biblioteca, un parco) nel quale viviamo o col quale interagiamo: la cultura. Essa ci serve da mediatrice per comunicare con le altre persone e come mezzo per agire nella natura al di là delle nostre capacità puramente somatiche. Il nostro corpo elevato ha bisogno di un “ambiente elevato”. Il mondo degli oggetti artificiali e culturale è come un prolungamento “oggettivato” del nostro cervello e delle nostre capacità motorie. In quest’ultimo capitolo vorrei soffermarmi sulla tematica dell’intelligenza artificiale in una prospettiva filosofica (non tecnica). Insieme agli argomenti della mente umana e animale finora esaminati, i filosofi della mente di solito studiano la questione della mente artificiale. Una certa interpretazione di quest’ultima, come abbiamo visto nella sezione storica, diede origine alla corrente funzionalista, mentre la scienza cognitiva considerò le operazioni mentali umane alla stregua dei modelli computazionali. Per situare ontologicamente la portata delle operazioni computazionali è opportuno rapportarle alla filosofia della tecnica. È proprio quanto ho cominciato a fare nelle considerazioni iniziali di questo capitolo, quando mi sono riferito al superamento umano del mondo della natura selvaggia tramite le creazioni culturali, come fece l’uomo quando cominciò a parlare, a vestirsi, a prepararsi il cibo, a 237 lavorare con strumenti e ad abitare in case e non all’aperto o nelle caverne. Negli animali esiste un “cenno” di cultura, come abbiamo visto, sia per le loro creazioni prototecniche, sia per il ruolo che nella loro vita acquistano i segni, sin dai riflessi condizionati fino all’uso dei linguaggi sensitivi. Ma le nostre creazioni culturali, opera della razionalità pratica, sono in collegamento con l’intelligenza e la libertà. Da qui nasce l’incredibile estensione della cultura e della tecnica a tutti i campi. Non c’è nessun ambito della nostra vita, né materiale né spirituale, dove non si faccia avanti la dimensione pratica (tecnica e artistica), quindi il fare che produce oggetti o che prende cose naturali per trasformarle in oggetti, almeno in simboli (chiameremo qui oggetto ciò che è fatto o creato dall’uomo). In uno sguardo d’insieme, vediamo adesso alcuni principi di base delle creazioni artificiali o tecniche: 1) L’oggetto (cosa o processo artificiale) è fatto dall’uomo come mezzo per una finalità. L’oggetto quindi è strumentale, vale a dire si colloca nella categoria del rapporto mezzo/fine. Lo “strumento” è qualcosa che tramite la sua materialità consente di compiere un’azione, come un coltello serve per tagliare e quest’ultima operazione a sua volta può incorporarsi all’atto di mangiare. L’atto umano che pone in rapporto effettivo lo strumento col fine è l’uso. L’oggetto strumentale quindi viene usato in funzione dell’azione (“uso il coltello per mangiare”), la quale o è un fine in se stesso (azione immanente) oppure è al servizio di un altro fine. Le parti del corpo umano più specialmente destinate all’uso degli oggetti fisici sono le mani. 2) Alcuni oggetti incorporano il simbolismo nella loro funzionalità, in un modo essenziale (come avviene nell’oggetto “libro”) oppure derivativo. L’uso di un coltello prezioso, ad esempio, potrebbe anche simboleggiare, derivativamente, una posizione sociale o un evento familiare. Il vestito ha una funzione fisica di protezione, ma possiede inoltre un valore simbolico collegato all’operare della persona nella cultura e in rapporto agli altri. 3) Certi oggetti fisici sono collegati a oggetti interiori, i quali sono il termine intenzionale di operazioni intellettive. Una poesia scritta su un pezzo di carta è un oggetto esterno da leggere: l’uso in questo caso è la lettura. La poesia sulla carta quindi è collegata all’oggetto interiore, cioè alla poesia come contenuto intenzionale 238 della mente. In un senso rigoroso il poema non esiste nel mondo fisico, bensì nella mente umana. I simboli esterni sensibili servono da mezzi fisici che consentono il compimento di operazioni interiori dotate di un contenuto intenzionale. Il linguaggio appartiene a questa categoria. Gli oggetti creati dall’uomo, quindi, non sono solo fisici, ma possono essere pure oggetti intenzionali come le scienze, la letteratura o le lingue. Questo mondo interno “oggettivo” fa parte della cultura e serve da mediatore tra le persone. Gli uomini possono unirsi -non in un modo esclusivo, naturalmente- nel far convergere le loro operazioni mentali sugli oggetti intenzionali. In questo modo, ad esempio, due persone si uniscono nella lettura di un romanzo o nello studio di una scienza. 4) Gli oggetti fisici sono separati dal corpo umano. Le parti specializzate del corpo (“organi”), svolgendo certe operazioni, servono al mantenimento della vita fisica. L’organo non è un oggetto, bensì una parte vitale del corpo. Etimologicamente organico significa strumentale: l’organo è uno “strumento interno del corpo”. In un modo più preciso, organico indica il carattere immanente e ben coordinato del servizio reso dalle membra dell’organismo. L’atto strumentale dell’organo di un vivente di solito si dice funzione. Così, il funzionamento del cuore fa parte della vita corporea. Gli oggetti artificiali, invece, sono separati dal corpo umano, benché talvolta stiano al suo servizio (farmaci, pasti), o lo completino anche a scopo sociale (indumenti), e in gradi estremi vi si incorporino (protesi). Quando questi strumenti sono macchine, parliamo di funzioni in un senso derivato. Le macchine sono oggetti che, usate dall’uomo, producono lavoro fisico, quindi trasformano energia, impiegando forze e processi della natura inanimata (energia meccanica, chimica, elettrica, ecc.). A differenza degli organi, la macchina appartiene alla dinamica del mondo senza vita. 5) Le persone sono aiutate nella loro prassi da oggetti e da altri soggetti in maniera vicendevole, specialmente tramite la comunicazione. Gli esseri umani collaborano a vicenda nel compimento e perfezionamento del loro operare sia fisico che spirituale. Un aiuto è un servizio strumentale (come un autista mi può portare in un certo posto). Ma le persone servono gli altri mantenendo il proprio livello 239 ontologico, non come se fossero oggetti inanimati o macchine. In caso contrario si produce una forma inferiore di servizio o perfino una degradazione. La modalità più elevata di servizio all’uomo è la comunicazione personale, nella quale s’include la cognizione e l’amore reciproco. Vediamo alcuni esempi di oggetti artificiali, senza la pretesa di esaurire la tematica né di fare classificazioni complete: * pane: oggetto organico al servizio dei bisogni del corpo umano; * edificio: oggetto destinato a luogo di abitazione o di lavoro. Può contenere elementi estetici e simbolici; * martello: strumento di lavoro, in quanto usa energia per ottenere cambiamenti fisici; * motore: esegue lavoro in maniera automatica, senza dover essere manovrato continuamente dall’uomo; * anello: indumento del corpo con una finalità simbolica; * chiodo: strumento in funzione di un altro oggetto (sostegno); * orologio: strumento con elementi simbolici destinato alla misurazione dell’ora; * pacemaker: stimolatore cardiaco elettronico interno all’organismo; * telescopio: strumento di osservazione che migliora la potenza visiva; * televisore: strumento elettronico di telecomunicazione; * pittura: oggetto di natura visiva destinato alla contemplazione estetica; * libro: strumento a contenuto simbolico destinato alla trasmissione del linguaggio scritto; * moneta: misura di valore di scambio. Il suo valore dipende da regole sociali accettate, quindi contiene un elemento istituzionale collegato al simbolismo; * club: gruppo di persone trasformato in un oggetto istituzionale; * congresso: attività di un’entità istituzionale; 240 * computer: strumento fisico che elabora informazione tramite il simbolismo. Da questi esempi si scorgono alcune categorie fondamentali di oggetti artificiali, risultati dell’attività poietica o creativa dell’uomo: 1. Oggetti fisici di uso per il benessere del corpo umano: alimento, vestito, farmaco, edificio, mobile, trasporto, difesa (armi). Possono aggiungere valori simbolici, ad esempio relativi a ruoli istituzionali o sociali, diventando così oggetti estetici. 2. Strumenti di lavoro fisico, spesso automatici, chiamati macchine: turbina, forno, reattore. 3. Oggetti estetici in funzione di atti contemplativi: opere artistiche. Possono incorporare il simbolismo. 4. Strumenti cognitivi utili per l’allargamento della potenza dei sensi o per la misurazione: microscopio, orologio. 5. Strumenti di produzione e trasmissione di contenuti sensibili e, in particolare, del linguaggio orale o scritto: libri, fotografie, dischi, cineprese, radio, TV, Internet. * Questi oggetti hanno diversi livelli: una cosa è un libro come artefatto materiale, un’altra il suo contenuto cognitivo, espresso in simboli sensibili, benché esistente in senso proprio come “oggetto mentale”. * Alcuni di questi oggetti possono entrare nella categoria delle opere artistiche o essere strumenti per produrle (ad esempio, strumenti musicali). Ma possono pure contenere altre opere immanenti della ragione (scienza, comunicazione, contenuti religiosi, ecc.). 6. Elaborazione dell’informazione: computer, reti connessionistiche. I nn. 4-6 possono considerarsi, in generale, oggetti cognitivi. 7. Istituzioni: creazioni umane immateriali che facilitano la vita sociale (università). Dalle istituzioni nascono gli oggetti fisici istituzionali (denaro, documenti), con valore simbolico, e gli atti istituzionali (vendere, comprare). 241 Le categorie di oggetti s’intrecciano a vicenda. Gli strumenti cognitivi, ad esempio, possono essere anche macchine automatiche (un computer) e ostentare dimensioni estetiche. Vi sono pure oggetti derivati o parti di altri oggetti, come le pagine di un libro o la scala di un edificio. Tutti gli oggetti sono suscettibili di essere analizzati a diversi livelli. Un libro può essere considerato dal punto di vista fisico, estetico, giuridico, scientifico, linguistico, tipografico o altro. Questa classificazione, con le distinzioni introdotte, ci aiuta a elaborare una certa ontologia degli oggetti artificiali, importante per evitare confusioni ontologiche. Una macchina, ad esempio, non è un vivente, e bisogna sapere perché. Alcuni oggetti artificiali contengono elementi immateriali, ma non sono menti né persone virtuali. Ogni tipo di oggetto fa emergere alcune nuove proprietà. Ad esempio, l’evento “accordo tra due paesi” è l’atto di un oggetto istituzionale, non attribuibile ai cittadini dei rispettivi paesi. Le nuove strutture, proprietà, relazioni, attività e funzioni che possono emergere con la costruzione degli oggetti culturali sono peculiari, vanno studiate accuratamente e non si confondono con le categorie ontologiche corrispondenti alle sostanze naturali o ai loro raggruppamenti, come i vegetali, gli animali, le persone o le società naturali. L’emergentismo non sempre fa queste distinzioni e così non aiuta a distinguere, ad esempio, la “totalità cervello” (una totalità biologica) da altre unità ontologiche (come le persone o i software dei computer). Un filosofo cui facessero vedere l’università di Oxford mostrandogli il campus, gli edifici, le biblioteche, ecc., forse alla fine potrebbe dire di non aver visto ancora “l’università”269. Naturalmente l’università non si può vedere come se fosse un oggetto fisico. È una realtà istituzionale, anche se esige di essere materializzata in edifici, aule, ecc. (non può esistere soltanto “sulla carta”, se non potenzialmente). Consideriamo, ad esempio, la macchina. Costituite dall’assemblaggio di molti pezzi, le macchine sono unità funzionali, ma non sono organismi né vere sostanze, poiché la loro unità teleologica, derivata dal fine principale (per una lavatrice, ad 269 L’esempio è proposto da G. Ryle in The Concept of Mind, cit., pp. 17-18. La confusione nasce, secondo Ryle, dall’errore “categoriale” di credere che ogni realtà debba essere sempre più o meno simile agli oggetti fisici. 242 esempio, è lavare), è estrinseca, sta cioè solo nella mente dell’artefice, anche quando sono automatiche o “funzionano da sole”270. Una macchina compie, infatti, azioni transitive, orientate alla produzione di modifiche fisiche esterne, e non atti immanenti, come invece avviene nell’organismo, fine a se stesso e fine della sua autoorganizzazione. Il meccanicismo dell’epoca razionalista aveva ridotto a macchine tutte le sostanze naturali, facendo così del finalismo della natura una realtà estrinseca, precipitosamente attribuita a Dio Creatore271. La macchina realizza ciò che l’uomo poteva fare prima solo con le sue mani e con l’aiuto di pochi strumenti, e inoltre migliora la qualità ed estende immensamente il tipo e il numero degli oggetti artificiali. Con l’avvento della “civiltà delle macchine” nacque la moderna società tecnologica, caratterizzata dall’impiego massiccio dell’automazione industrializzata e commercializzata. A differenza del ruolo più modesto dell’antico artigianato, il “macchinismo” ovvero la dimensione tecnologica del lavoro acquista così una preponderanza inedita nella cultura. Oggi attraversiamo una delle molteplici e complesse fasi della civiltà tecnologica. A causa del suo automatismo, la macchina sembra competere con l’uomo. All’inizio, essa fa quello che poteva fare l’artigiano, in qualche modo sostituendolo e superandolo, e sembra pure imitare la parte umana dei servizi materiali prima svolti dalle persone. Il cameriere “mi serve” il caffè, ma adesso questo servizio può svolgerlo una macchina, la quale così imita l’azione umana, sebbene essa in realtà ne riproduca solo il contenuto materiale, ormai separato dall’atto personale di servizio. In particolare le macchine cibernetiche, grazie al meccanismo di autoregolazione in funzione delle variabili ambientali, sembrano riprodurre i 270 Secondo Aristotele l’artefatto, a differenza dell’entità naturale, non possiede al suo interno “il principio del suo movimento”: Fisica, II, 192 b. Il punto mi sembra vero se viene riferito alla finalità, e in questo senso si può estendere alle macchine automatiche: la loro unità funzionale (il “progetto della macchina”) non è intrinseca alla macchina stessa, ma sta direttamente nella mente del suo creatore. Questo principio vale anche per le opere d’arte. Il loro senso, come direbbe Searle, è observer-related: si rapporta cioè ad un interprete intelligente. 271 La perdita del finalismo intrinseco della natura è la premessa del tecnologismo esasperato, che vede nella natura solo una materia da dominare tramite la tecnologia. Cfr. il mio articolo Tecnologia e mondo naturale, in AA. VV, Seconda Navigazione, volume su La tecnica, la vita, Mondadori, Milano 1998, pp. 91-115. 243 comportamenti vitali, in quanto sembrano agire secondo una finalità, “autoadattandosi” all’ambiente (così un termostato o un pilota automatico). Tale finalità invece è completamente estrinseca. La macchina cibernetica potrà essere un automa vitale, ma non è un vero vivente. Costruire un automa capace di simulare il comportamento vivente non è generare un vivente. È, semplicemente, costruire una macchina (se invece diciamo che il vivente è uguale all’automa vitale, allora abbiamo perso la vera natura della vita). Prendiamo adesso il caso dei libri. Questi oggetti rimandano alla mente in un senso diverso dalle macchine, in quanto sono un insieme di simboli linguistici in rapporto a qualche contenuto intelligibile. Possiamo chiamarli, in questo senso, “artefatti simbolici”. Non sono impiegati per svolgere un lavoro fisico, ma per essere letti. In virtù del loro valore simbolico, i testi suscitano operazioni intellettuali in chi li legge. Come pura realtà materiale, non hanno alcuna consistenza all’infuori delle loro proprietà fisico-chimiche. Sarebbe assurdo proiettare su di essi una mente o dei contenuti mentali. I libri esistono invece in funzione delle menti dei loro autori ed interpreti. Non possiamo dire che nei libri ci siano delle “idee” se non in un modo metaforico. Semmai, vi sono in essi dei contenuti intelligibili in potenza (i simboli) che diverranno intelligibili in atto al momento della lettura. Se nessuno li leggerà, quella intelligibilità non passerà all’atto. 2. Oggetti istituzionali e “mente collettiva” Un tipo interessante di entità creata dalla ragione umana è le istituzione. Questi oggetti nascono da regole istituite da accordi tra gli uomini ed esistono come realtà intenzionali collegate al mondo fisico e umano, spesso con una base o fondamento naturale272. La prima realtà istituzionale è il linguaggio e anche certe forme prelinguistiche gestuali, purché siano riconosciute come forme sociali significative e non come un comportamento basato su condizionamenti biologici o su istinti. Il linguaggio animale è un fatto psicosomatico naturale, mentre quello umano è un’istituzione a base 272 Le chiamo intenzionali per distinguerle dalle realtà naturali. Tale intenzionalità, come giustamente ha visto Searle, è derivata e non originaria, in quanto quest’ultimo tipo si attribuisce solo alle operazioni del soggetto conoscente. 244 naturale. Un semplice movimento della testa per dire “sì” può avere un valore istituzionale se gli uomini vi riconoscono degli effetti non naturali, ad esempio, l’espressione di un impegno, di una scelta, di un permesso, di una negazione273. Lo strumento per la creazione di istituzioni di solito è il linguaggio orale o scritto, come è il caso dei documenti utilizzati nei contratti o testamenti. Pure le norme giuridiche -le leggi o il Diritto-, fondamentali accanto al linguaggio per la creazione della civiltà, sono oggetti istituzionali. a) Statuto ontologico dell’istituzione Consideriamo in seguito il tipo di realtà ontologica dell’oggetto istituzionale, evitando gli estremi del platonismo e del nominalismo274. Le istituzioni sono entità reali, non fittizie. Non possiamo considerare reali solo le cose materiali. Una norma che regola il comportamento di una società è qualcosa di reale, pur non essendo un oggetto visibile. Spesso l’oggetto istituzionale trova un’espressione fisica, ad esempio nei simboli, ma con conseguenze effettive: un testamento scritto è un simbolo con parecchie conseguenze pratiche nella vita. Oppure l’istituzione può includere in se stessa una dimensione fisica non simbolica: una scuola deve avere studenti, cioè persone fisiche. La famiglia come istituzione giuridica ha come fondamento la realtà naturale della famiglia. La creazione di una realtà istituzionale presuppone la capacità di astrazione, poiché nell’oggetto istituzionale normalmente esiste un fondamento fisico al quale si aggiunge un significato istituzionale che va capito solo in modo astratto, con indipendenza dalla materialità visibile. Un club non è “questo gruppo di persone”: un determinato club può mantenere la sua identità istituzionale lungo i secoli. Gli animali possono agire in gruppo e abituarsi a regole, ma non possono capire la realtà istituzionale. L’oggetto istituzionale comunque non è un’idea platonica, ma neanche è una semplice convenzione umana irreale (nominalismo). L’istituzione è una realtà intelligibile del mondo umano, creata dalla ragione 273 Cfr., su questo tema, J. Searle, Atti linguistici, Bollati-Boringhieri, Torino 2000. Per una visione emergentista della realtà culturale, cfr. J. Margolis, Culture and Cultural Entities, Reidel, Dordrecht 1983. 274 245 pratica. Può scomparire se gli uomini si mettono d’accordo per annullarla, ma è reale quando la riconoscono. Una lingua come l’italiano o l’inglese è reale, ma in teoria gli uomini potrebbero decidere di non accettare le sue regole, cancellandola. L’astrazione spiega perché l’istituzione di per sé non deperisce e quindi mantiene intatta la sua identità nel tempo. Dove esiste l’istituzione? Esiste come oggetto intenzionale della mente umana in riferimento alla realtà fisica ad essa collegata. Ad esempio una poesia esiste “nella” mente del lettore, normalmente con un riferimento all’oggetto fisico dove sta scritta (un libro, un pezzo di carta). Poiché è reale, l’istituzione possiede una consistenza intelligibile e amabile che trascende gli individui. I cittadini, ad esempio, debbono conoscere le leggi e le istituzioni sociali e sono tenuti ad amarle, in quanto sono un bene per la vita sociale. L’amore della nazione o dell’impresa dove si lavora, e non solo dei loro individui, è una manifestazione dell’amore al bene comune. Quindi in un certo senso le istituzioni trascendono gli individui, pur essendo creazioni della ragione umana in conformità con certe esigenze metafisiche e morali della persona (ad esempio, le leggi devono essere giuste; un giuramento deve dire la verità). b) Tipologia degli oggetti istituzionali Alcune realtà istituzionali sono oggetti che rappresentano intrecci di relazioni, ad esempio, il linguaggio, il Codice civile, la moneta, il sistema bancario. Altre istituzioni rappresentano gruppi sociali, come un club, una scuola, una nazione: le società istituzionali talvolta sono chiamate semplicemente istituzioni o istituti. Un altro tipo sono gli atti riconosciuti come tali dalla volontà istituzionale della società, oppure da istituzioni che hanno la funzione di farlo (come un Parlamento in quanto emana norme giuridiche). Gli atti istituzionali possono essere compiuti da persone fisiche (comprare, votare, vincere un premio, giurare) o da istituzioni, le quali talvolta vengono configurate dal Diritto come “persone giuridiche”. Così una società può comprare cose, una nazione può aprire rapporti diplomatici con un’altra, o un’università può inaugurare una facoltà. In sintesi, possiamo parlare di oggetti istituzionali (la moneta), di atti istituzionali (comprare) e di istituzioni (una scuola), benché nell’insieme questi oggetti potrebbero essere denominati genericamente “istituzioni”. 246 c) Istituzione e agire collettivo Vediamo, infine, il rapporto tra gruppo, istituzione e agire collettivo. I membri di un gruppo sociale agiscono intenzionalmente in modo personale (mangiare, lavorare, pensare), ma anche in interazione con gli altri, promuovendo così azioni collettive (ad esempio, la costruzione di un’autostrada). L’agire di una collettività non si può spiegare come la semplice somma del comportamento degli individui, né solo in base ai loro rapporti vicendevoli, e neanche col ricorso ad un’inesistente “mente del gruppo” 275. In una comunità sociale si possono considerare: 1) le azioni personali dei loro membri; 2) l’attività del gruppo in quanto tale; 3) se è il caso, la prassi del gruppo come istituzione, e correlativamente le azioni dei singoli membri a nome dell’istituzione. L’azione personale dei membri di un gruppo vero e proprio -in quanto membriè intenzionalmente collettiva. Vale a dire, l’azione personale “fa parte” dell’azione del gruppo, come ha spiegato Searle, quando ogni singolo membro agisce con una “intenzionalità collettiva”, in quanto intende razionalmente collaborare con i fini del gruppo, quindi unito all’intenzione collettiva degli altri soci276. Basta che questa consapevolezza sia minimamente razionale. Se non arriva alla soglia razionale, il comportamento collettivo di una persona forse è puramente sensibile, come può accadere nei bambini molto piccoli, oppure scompare, o rimane solo come una materialità inerte. Quindi, quando una persona lavora in un gruppo, può dire “io agisco”, ma anche “noi agiamo”277. Una comunità non può compiere in quanto tale azioni intenzionali (altrimenti 275 Cfr., su questo tema J. Searle, Consciousness and Language, cit., pp. 90-105. Questa esigenza d’intenzionalità collettiva non è applicabile in quanto tale agli aggruppamenti animali. Gli animali si uniscono socialmente nella misura in cui compiono operazioni cognitive ed emotive in rapporto ad altri di un gruppo, unificato da alcune finalità comuni. Gli animali, in altre parole, possono agire come membri di una collettività, con una certa “intenzionalità collettiva”, non però in modo intellettuale né auto-cosciente. 277 Il noi si dice in riferimento alle azioni che incidono sul gruppo come totalità o in rapporto a quelle che fanno tutti insieme, non però rispetto a quelle notoriamente parziali in relazione al compito collettivo. Così in un progetto edilizio, gli operai possono dire insieme agli architetti, “stiamo costruendo un albergo”, “ci manca poco per finire”, ecc., mentre ciascuno riferisce a se stesso le azioni corrispondenti ai propri compiti parziali nel contesto dell’azione collettiva. 276 247 avrebbe una “mente collettiva”). Le azioni immanenti (pensare, amare) sono solo individuali. Però, si attribuisce giustamente all’associazione il risultato esterno che definisce il suo compito: il film realizzato, l’edificio finito, il pranzo servito, ecc. Ovviamente i membri possono pure dire: “questo compito lo abbiamo fatto noi”278. Si può pure considerare l’azione di un raggruppamento elevato a entità istituzionale. In questo caso, come abbiamo detto, l’istituzione può compiere atti istituzionali (“la squadra sportiva ha vinto la partita di calcio”), anche con indipendenza dai loro membri, i quali sono sostituibili. L’istituzione possiede un’identità sussistente nel tempo, al di là delle persone che passano. Può essere vista analogicamente come se fosse una persona che agisce, con diritti e doveri, o come un organismo con funzioni (cariche, comitati) che diventano altrettanti oggetti istituzionali (ad esempio, la presidenza di una nazione). Un membro del gruppo, per tanto, a seconda della sua carica o funzione istituzionalmente riconosciuta può compiere atti personali i quali, in base al simbolismo istituzionalizzato, diventano strumenti dell’agire dell’istituzione (ad esempio, firmare un accordo, una legge). L’atto amministrativo di un funzionario possiede, in questo senso, una dimensione personale di cui è responsabile, ma gode inoltre di una dimensione istituzionale che trascende la persona. In qualche modo l’individuo in questo caso agisce come strumento dell’istituzione. In conclusione, le macchine, i libri, le istituzioni, sono realtà molto diverse. In queste pagine abbiamo analizzato il loro rapporto con la mente umana dal punto di vista ontologico e non puramente tecnico o giuridico. Questo genere di analisi ci preserva da certe interpretazioni deviate che nascono da posizioni platoniche, materialistiche, funzionaliste o emergentiste. Qualcosa di simile bisogna dire degli oggetti tecnici computazionali. 278 In questo punto mi sono ispirato ad alcuni testi di Tommaso d’Aquino sui gruppi (ad esempio, C. G., II, 57; In I Ethic., lect. 1), analizzati nel mio lavoro La filosofia del cosmo in Tommaso d’Aquino, Ares, Milano 1986, pp. 137-144. 248 3. I computer come elaboratori dell’informazione279 Uno sguardo alla realtà tecnologica degli elaboratori elettronici dell’informazione rappresenta una sfida per le tematiche della filosofia della mente. I computer, come abbiamo detto, trasformano l’informazione e non l’energia. Sono un nuovo tipo di macchine destinate al compimento di un lavoro intellettuale e non fisico, con una spesa energetica minima solo collegata alla materialità del loro funzionamento. I computer abitualmente usati seguono l’architettura di Turing e von Neumann, fondata su una struttura essenzialmente simbolica. Il software del computer simbolico è costituito da una serie di segni “alfabetici” governati da una grammatica, cioè da regole (“sintattiche”) di combinazione. I calcolatori, dunque, condividono con i libri il fatto di recepire contenuti informativi in modo simbolico e separato dalla mente, in rapporto ad atti interpretativi dell’uomo. Ma essi non soltanto contengono informazione, bensì consentono di passare da alcune informazioni ad altre, coprendo così il campo delle inferenze umane. È come se fossero libri o enciclopedie “automatiche”, capaci di elaborare l’informazione ricevuta e di rispondere alle nostre domande. Le macchine informatiche non funzionano come il cervello, privo di programmi e di meccanismi simbolici. Ciononostante, un paragone tra esse e il cervello è naturale e ci risulta sorprendente. Analogamente al sistema nervoso, i calcolatori lavorano seguendo il ciclo di: 1. Ricezione dell’informazione (input) attraverso canali specifici. 2. Elaborazione dell’informazione a diversi livelli. 279 Su quest’argomento, cfr. le opere di Charniak, Di Francesco, Johnson-Laird, Luger, Pessa/Penna, Putnam e Simon menzionate nella bibliografia finale. Si vedano anche E. Agazzi, Operazionalità e intenzionalità. L’anello mancante dell’intelligenza artificiale, Jaca Book, Milano 1989; G. Button, J. Coulter, J. R. Lee, W. Sharrock, Computers, Minds and Conduct, Polity Press, Cambridge 1995; J. Copeland, Artificial Intelligence, Blackwell, Oxford 1993; T. de Andrés, Homo Cybersapiens. La inteligencia artificial y la humana, Eunsa, Pamplona 2002; S. Jaki, Brain, Mind and Computers, Gateways Editions, New York 1989; P. Mello, voce Intelligenza artificiale, in G. Tanzella-Nitti, A. Strumia (curatori), Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede, cit., vol. 1; S. J., Russell, P. Norvig, Intelligenza artificiale. Un approccio moderno, Utet, Torino 1998; J. Searle, The Rediscovery of the Mind, MIT Press, Cambridge (Mass.) 1992; T. Winograd, F. Flores, Understanding Computers and Cognition, Ablex Pub. Corporation, Norwood (N. Jersey) 1987. 249 3. Conservazione dell’informazione nella memoria. 4. L’organizzazione dell’informazione elaborata consente di arrivare a risposte (output) di natura cognitiva e motoria. Si può stabilire un’analogia più adeguata tra il computer e la mente umana, anziché il cervello, dal momento che la nostra intelligenza agisce secondo regole astratte e usa il simbolismo. Ma in realtà è alla rovescia. L’uomo inventò il computer proprio ispirandosi alla mente intellettuale. L’analogia con il cervello, benché più distante, comunque è coerente con la continuità tra le funzioni cognitive superiori e inferiori. Le prestazioni dei computer toccano la soglia delle capacità cognitive umane e sembrano addirittura superarle. La macchina informatica è capace di svolgere parecchi compiti: riconoscimento di patterns sensitivi, produzione di immagini, una certa generalizzazione e induzione, traduzione di testi, soluzione di problemi, dimostrazione di teoremi, pratica di giochi come gli scacchi, elaborazione di alcune opere “artistiche” (racconti, musica, figure estetiche), guida in compiti professionali scientifici e tecnici altamente sofisticati (ingegneria, astronautica, medicina), simulazione virtuale di situazioni contro-fattuali a scopo di ricerca. L’elenco potrebbe continuare ancora e alla fine abbraccia tutti gli ambiti assegnati alla competenza dell’intelligenza artificiale o dei sistemi intelligenti. Siamo davanti alla creazione di una vera tecnologia dell’intelligenza280. Abbiamo scoperto, in altre parole, la possibilità di tecnificare molti aspetti dei processi intellettuali, con risultati oggettivi sbalorditivi. Oggi vengono costruiti sistemi intelligenti multi-agenti, sistemi cioè integrati da molteplici “agenti intelligenti” (con intelligenza artificiale) capaci di interagire tra loro e con l’uomo in un determinato ambiente. Dotati di abilità motorie, diventano dei robot intelligenti, destinati a collaborare con l’uomo in numerosi compiti281. 280 Tra i primi promotori dell’intelligenza artificiale possiamo ricordare i nomi di J. McCarthy, A. Newell, H. Simon, M. Minsky. 281 Le prime tecniche d’intelligenza artificiale si concentrarono sulla risoluzione generale di problemi. Un’ulteriore fronte di ricerca furono i sistemi esperti, dotati di un’ampia informazione specialistica e di meccanismi inferenziali, secondo regole e strategie pensate per la risoluzione di problemi, in modo da poter svolgere compiti di consulenza nel lavoro professionale. Come abbiamo detto, in questi anni sono in sviluppo sistemi intelligenti pluri- 250 I computer sono strumenti cognitivi (i robot sono inoltre strumenti di lavoro). Anzi, in un certo senso i sistemi intelligenti (SI) sono capaci di incorporare tutti gli strumenti cognitivi e di lavoro, almeno in teoria, per renderli più effettivi282. Quindi il raggio di azione dei SI tecnologici non solo è ampio, ma acquista una forma di universalità. Così come nei libri si può introdurre “tutto ciò che è scritto”, analogamente sarebbe possibile in teoria computerizzare tutta la tecnologia umana, per così guidarla nei loro aspetti informativi. L’universalità dei SI riesce a coprire, in una certa misura, tutto l’ambito delle operazioni razionali dell’uomo. Proprio per questo si parlava di “intelligenza artificiale” (cioè tecnologica), dal momento che essa sembrava capace di svolgere tutti quei compiti tradizionalmente collegati al possesso d’intelligenza: calcolare, vedere le implicazioni, organizzare, scegliere, interagire con nuovi dati. Gli elaboratori dell’informazione portano a risultati che l’uomo non può intuire con le sue sole risorse intellettuali. Come ogni macchina (ma questa volta siamo davanti a una macchina “intellettuale”), il SI crea il problema della concorrenza con l’uomo, al quale può superare in tanti aspetti. Inoltre i SI, adeguatamente programmati, possono migliorare da soli le loro prestazioni, cioè possono essere dotati della capacità di apprendimento per così ottenere risultati ottimizzati. In questa linea, i SI manifestano una certa creatività e flessibilità, rappresentando ancora una volta una sfida per l’intelligenza naturale dell’uomo. 4. La razionalità calcolatrice separata Da quanto abbiamo visto si pongono le seguenti domande: 1. Come fanno i computer ad arrivare a risultati così sorprendenti nell’area del pensiero razionale? 2. Dove sta la distinzione tra le operazioni dei viventi e le “operazioni cognitive” dei computer? 3. Esiste un ambito intelligente proprio della persona e non accessibile alle agenti e la robotica, con la capacità di un certo adattamento all’ambiente e di dominio del “corpo” robotico. 282 Classicamente questi sistemi venivano chiamati intelligenza artificiale (IA). Oggi questa denominazione è meno di moda, per cui sembra preferibile parlare di sistemi intelligenti (personalmente aggiungerei il termine tecnologici). Userò per questi oggetti la sigla SI. 251 “macchine intelligenti”? La risposta alla prima domanda possono darla i tecnici dell’informatica. Se la vita, la coscienza e l’intelligenza sono un mistero dinanzi al quale la filosofia continua a meravigliarsi, ciò che fanno le macchine, inventate dagli uomini, non dovrebbe risultarci così misterioso. Il disorientamento nasce quando si propone la riduzione del pensiero alle operazioni informatiche. I computer sono strumenti tramite i quali l’uomo è riuscito ad automatizzare le trasformazioni dell’informazione impiegando un linguaggio, quindi secondo una modalità astratta o separata dai contesti della vita dove tale informazione può essere operante. Questa separazione è compiuta anche personalmente -in una maniera modesta- nel nostro pensiero logico-formale tradotto nel linguaggio. Operiamo così quando trasformiamo sequenze di simboli seguendo una regola, anche imparata a memoria, ad esempio quando moltiplichiamo o dividiamo numeri seguendo procedimenti prestabiliti o, più ampiamente, quando eseguiamo calcoli matematici o compiamo deduzioni logiche formali (puramente sintattiche). Con gli elaboratori elettronici abbiamo imparato a farlo meccanicamente “fuori della nostra testa”, come avevano già intuito i primi sognatori delle macchine calcolatrici (Raimondo Lullo, Pascal, Leibniz). Il passaggio sintattico compiuto tra simboli o tra stringhe di simboli si chiama computo o calcolo (di qui il nome di computer, cioè “calcolatore”). In questo modo passiamo, ad esempio, dall’espressione a a quella b, secondo una regola o istruzione c. La regola potrebbe essere: “se a, allora b”. Da qui nasce l’algoritmo, procedimento che consente di risolvere un problema o di eseguire un compito tramite un numero finito d’istruzioni chiare e univoche e compiendo un numero finito di passi283. Tradizionalmente quest’operazione è stata realizzata in un ambito matematico o logico-formale, ma si può estendere ad altri campi, pur essendo sempre un calcolo (una forma di inferenza). Il computer elettronico esprime gli elementi del calcolo in un codice adeguato 283 In ambiti più complessi si utilizzano algoritmi euristici, con istruzioni più generali che cercano la soluzione ottimale tra parecchie possibilità. Negli algoritmi genetici l’euristica lavora in base alle regole della selezione naturale della teoria evoluzionistica. 252 alla macchina e costituito da un alfabeto i cui due elementi, 1 e 0, corrispondono alle posizioni on e off di un commutatore. Da ciò risulta il bit -una cifra binaria- ovvero l’unità minima d’informazione del computer. In questo modo il computo risulta automatico, escludendosi la comprensione eidetica, come quando facciamo una moltiplicazione senza “capire” perché viene fuori un certo risultato. Il risultato si ottiene solo grazie a una regola eseguita in un modo meccanico. Tutte le operazioni dei computer sono di questo genere, sono cioè semplici computazioni algoritmiche284. Adesso si può capire meglio perché gli elaboratori elettronici non sono stati ideati a partire da ciò che fa il cervello, bensì ispirandosi al modo tipico di lavorare del nostro pensiero formale, specialmente nelle operazioni di calcolo. Dopo aver scoperto che il sistema nervoso elabora l’informazione, naturalmente, si è pensato all’analogia del computer col cervello. Però il sistema nervoso, come si è visto chiaro più tardi, tratta l’informazione in un modo diverso dal calcolo astratto. Sarebbe un antropomorfismo pensare il contrario. La realtà tecnologica dei computer nasce grazie all’esistenza del linguaggio, quindi non ha niente a che vedere con i codici (metaforici) del cervello, nei quali l’informazione è elaborata in un modo naturale e biologico285. La computazione è un ausilio della nostra ragione calcolatrice. Grazie all’informatica possiamo ottenere risultati che oltrepassano le nostre abilità personali di calcolo, in un modo analogo -se serve il paragone- a una biblioteca in quanto rappresenta un ausilio della nostra memoria. Senza contenere un vero sapere, la biblioteca oltrepassa ampiamente le nostre capacità personali di memorizzazione. La razionalità calcolatrice è una parte della nostra razionalità. Quest’ultima, a sua volta, è una funzione della nostra intelligenza. Quando compiamo personalmente dei calcoli formali meccanici (somma, resta), in qualche modo ci comportiamo come 284 Detto in un modo più tecnico, le operazioni dei computer sono casi delle operazioni di computazione eseguibili da una macchina universale di Turing. Quest’ultima è una macchina ideale le cui operazioni definiscono l’area della computabilità. Ideata dal matematico inglese Turing, scopritore insieme a von Neumann dell’idea del computer moderno, la macchina universale di Turing è collegata a una serie di teoremi che indicano i limiti del pensiero formale ovvero delle operazioni computabili. Questi teoremi sono in collegamento con i classici teoremi di limitazione del pensiero formale, dimostrati da K. Gödel negli anni ‘30 del secolo XX. 285 Cfr. il nostro capitolo 3, n. 7. 253 un computer. Precisamente quest’aspetto della ragione viene reso più potente dalle macchine calcolatrici. Dal punto di vista fisico, i computer non sono altro che congegni e circuiti elettronici. Come nel caso dei libri, la loro “intelligibilità potenziale” si attualizza soltanto quando l’uomo, utilizzandoli, interpreta intenzionalmente i loro risultati. Il programma del computer, in quanto è immateriale, esiste nella mente dei programmatori come un linguaggio formale, intenzionalmente riferito ai simboli fisici informatici. In definitiva, il computer è collegato alla mente umana e senza di essa è solo una pura realtà materiale. Ma la nostra mente ha bisogno di questo strumento per progredire nel campo della razionalità calcolatrice, così come la nostra memoria ha bisogno del linguaggio e diventa molto più efficace quando tale linguaggio è scritto. 5. Operazioni di macchine Con queste premesse, in risposta alla seconda domanda posta all’inizio della sezione precedente, possiamo concludere che i processi computazionali compiuti dai SI non sono operazioni cognitive, anche se possiamo nominarli con verbi cognitivi in modo metaforico, anzi dobbiamo farlo per poter usare agevolmente tali sistemi. Così come un libro “avverte”, “comanda”, “proibisce”, lo stesso si può dire dell’elaboratore informatico quando “calcola”, “traduce”, “consiglia”, “suggerisce”. Le funzioni computazionali, con le loro “rappresentazioni”, “memoria de lavoro”, “memoria dichiarativa”, “scelte” (si avverta la terminologia psicologica), sono “sintattiche” e “semantiche” in rapporto alla mente umana che sa interpretare i contenuti cognitivi incorporati simbolicamente ai computer286. Le operazioni informatiche, hanno osservato giustamente alcuni autori, simulano atti o stati cognitivi. La simulazione è l’apparenza di una realtà. I sistemi tecnologici intelligenti simulano, in effetti, gli atti di pensare, di riflettere, di ragionare, cioè simulano di compiere atti cognitivi (anche emotivi) interni, oppure producono la loro espressione esterna o “comportamentale” (come avviene nei robot). 286 Cfr. J. Searle, The Rediscovery of the Mind, cit., cap. 9. 254 La simulazione computazionale è particolarmente notoria nel caso dell’apparenza di sensazioni ed emozioni. Un robot dotato di sensori ottici può rispondere adeguatamente all’input visivo con un comportamento motorio corretto, “come se vedesse”. Così egli realizza, in un modo “comportamentista”, molto di quanto una persona fa mentre vede, senza però avere la reale sensazione della vista. Potrebbe essere programmato eventualmente per reagire “emotivamente” di fronte a situazioni esterne negative, con “espressioni” e “atti esterni” che simulano l’indignazione, lo stupore o la tristezza. “Introdurre” emozioni in queste macchine potrà risultare più o meno utile o divertente, a scopo di ricerca o per agevolare il rapporto pratico dell’utente con i robot umanoidi, ma saranno sempre emozioni simulate e non reali, come è simulato quanto fanno gli attori o quanto succede in uno specchio, in un disegno, in un film o in una realtà virtuale287. Neanche una simulazione esternamente perfetta, per quanto utopica, smetterebbe di essere una finzione. I risultati delle operazioni computazionali invece sono reali, non simulazioni. L’elaboratore elettronico non pensa di fare una traduzione, ma ottiene una vera traduzione. L’output dei computer (immagini, soluzioni dei problemi, comandi motori, vittoria in una partita di scacchi) sono reali. In questi risultati la macchina può emulare l’uomo. Questo fenomeno è normale ed è una caratteristica di ogni tecnologia: quasi tutte le macchine fanno meglio ciò che noi possiamo fare con difficoltà e tanti limiti, o che non possiamo fare in alcun modo. I punti filosofici fondamentali relativi a questo problema sono: 1. Le imitazioni informatiche dei viventi (vita artificiale) non sono una vera vita288. La bioinformatica studia i fenomeni biologici riproducendo in modo computazionale processi vitali, come l’auto-organizzazione, la riproduzione, l’evoluzione, la complessità vitale o l’adattamento. La produzione di vita artificiale è 287 L’antica obiezione secondo cui l’intelligenza artificiale non ha un corpo, non è situata e non ha emozioni, va ridimensionata. Un robot supera questi limiti dell’intelligenza artificiale di altri tempi. Ma il suo corpo e il suo adattamento non sono organici e le sue emozioni sono fittizie. 288 Cfr. il nostro capitolo 2, n. 2. Uno dei fondatori delle ricerche di vita artificiale in base a processi informatici è Christopher Langton, negli anni ‘80. Il concetto di automa cellulare era stato già proposto dal matematico von Neumann. 255 la modellizzazione della vita tramite processi computazionali. Come nel caso dell’intelligenza artificiale, visto che apparentemente “tutto si può simulare”, si pone la domanda filosofica sulla distinzione tra vita reale e vita artificiale. Riguardo alla vita cosciente, la risposta sembra più facile, poiché la simulazione della coscienza e delle emozioni è palese. I computer, a differenza degli animali, non hanno atti interni, come le sensazioni, che per noi sono evidenze immediate. I filosofi materialisti tendono a relativizzare la realtà delle qualità sentite o della coscienza perché capiscono l’incompatibilità di questo punto con le loro teorie. Ora, nel caso della vita vegetativa, come discernere tra un vero vivente e un vivente artificiale? Non basta dire che la vita finora conosciuta è basata sulla chimica del carbonio e non sul silicio. Il punto essenziale piuttosto è che l’uomo, quando realizza una simulazione computazionale, sa perfettamente cosa sta facendo. Il risultato non è un nuovo vivente, in questo caso, bensì una sua rappresentazione virtuale. Non distinguerla dalla vita reale sarebbe come confondere una fotografia o un film con la realtà. Tale rappresentazione raccoglie in modo parziale, secondo il modello usato, certi elementi formali della vita (informazione separata dalla realtà vivente), come se fosse un’astrazione, ovviamente molto utile e importante per la ricerca biologica. Se fossimo in grado di creare piante informatiche in un ambiente reale, analogamente ai robot, non per questo motivo sarebbero veri vegetali, ma solo imitazioni. Queste “piante” avrebbero aspetti formali vegetativi non legati a un vero corpo organico, ma ad un meccanismo elettronico destinato alla simulazione di questo genere di processi. 2. I computer non sentono. I calcolatori possono soltanto simulare di avere sensazioni ed emozioni. Sono privi di atti immanenti: non hanno alcuna interiorità, alcuna forma di coscienza, nemmeno sensitiva. Questo punto così evidente è messo in dubbio dagli autori materialisti solo perché si contrappone palesemente alla riduzione di tutto alle proprietà fisiche esterne. Solo a questo caro prezzo cade la distinzione tra uomo, animale e macchina. 3. I sistemi intelligenti o i robot non sono persone umane e non hanno un “io”. In base a quanto detto nei punti precedenti, quest’affermazione è più che ovvia. Il 256 riduzionismo computazionale dissolve le nozioni di persona, intelligenza personale, autocoscienza ed io in insiemi di processi informatici, di programmi, di “agenzie” computazionali con i loro “omuncoli”, “memi” o moduli cognitivi. L’io viene ridotto spesso, in queste filosofie, a funzioni di auto-monitoraggio degli agenti virtuali. Gli autori che non vedono una differenza di fondo tra “l’io robotico” e la persona si sono fatti spesso un’antropologia alla misura del mondo computazionale. I presupposti empiristici non consentono loro di avere una nozione di persona capace di reggere di fronte alle simulazioni eseguite dalle realtà virtuali. La distinzione tra la persona e il robot che simula di essere una persona (simula di avere emozioni o ricordi) non si può spiegare con qualche operazione “speciale” che il robot non potrebbe avere, visto che tutto può essere simulato, anche con operazioni virtuali all’infinito. La persona, la libertà, il pensiero, l’autocoscienza, sono compresi al livello metafisico, proprio di ogni persona nella sua contemplazione ordinaria dell’essere trascendente. Invece comprendiamo i robot o gli agenti tecnologici intelligenti, dal punto di vista tecnico, in quanto sappiamo come li abbiamo fatti. Sappiamo che sono macchine capaci di manipolare informazione e di eseguire un conseguente lavoro. Anche nel caso fantascientifico di robot che si fossero resi autonomi dal controllo umano e capaci di auto-replicarsi, autoperfezionarsi e auto-sostentarsi trovando i mezzi energetici per alimentarsi, niente cambierebbe. Una macchina sulla quale l’uomo ha perso il controllo è sempre una macchina. L’informazione offerta dagli agenti intelligenti, robotici o no, non è altro che una serie di dati, implicazioni, risultati o comandi, e l’esecuzione pratica che ne può derivare è solo una prassi tecnica. Le “scelte” robotiche, per quanto utili possano risultarci, non sono che conseguenze algoritmiche, anche nei casi sofisticati di SI dove esistano spazi per l’aleatorietà e quindi una certa indeterminazione. In definitiva, gli agenti intelligenti informatici sono entità tecniche. I loro problemi meramente tecnici riguardano l’efficienza delle loro prestazioni. La persona umana, invece, ha la capacità di volere, non come risultato di una serie di operazioni algoritmiche, bensì come potenza di amare derivata dal riconoscimento del valore dell’esistenza nel mondo, del valore della propria dignità e di quella delle altre persone. Un robot non può volere veramente, non può amare, non 257 ha problemi esistenziali, morali, religiosi, e se fosse programmato per simulare di averli, non sarebbe altro che una caricatura dell’uomo. Veramente non ha molto senso paragonare le prestazioni intelligenti delle persone con i SI, poiché non sono situati sullo stesso piano ontologico. Nel campo computazionale, un sistema intelligente può superare ampiamente la persona più dotata del mondo, mentre una persona con una modesta intelligenza e scarsa cultura sorpassa infinitamente qualsiasi SI, in quanto ha libertà, coscienza, responsabilità morale e capacità di contemplare la realtà. 6. Limiti e utilità dell’intelligenza informatica a) Gli atteggiamenti critici Sin da quando sono cominciati i primi lavori sull’intelligenza artificiale (verso la metà del Novecento) fino ai nostri giorni, si sono succedute parecchie ondate critiche su questa tecnologia, intese a controbilanciare gli eccessivi entusiasmi e utopie dei seguaci dell’intelligenza artificiale denominata forte (sostenitori dell’indiscernibilità tra intelligenza naturale e artificiale). Si è fatto notare, ad esempio, che ai primi momenti euforici seguirono spesso tappe di assestamento, dove la pratica concreta s’incaricava di dimostrare i limiti degli strumenti inventati, dai quali non si poteva attendere la soluzione di tutti i nostri problemi. Altre critiche sono state dure e talvolta negative, cercando quasi di scoraggiare la ricerca informatica oppure sottolineando con soddisfazione la stagnazione, reale o presunta, di alcuni progetti della tecnologia dell’intelligenza artificiale. Alcune linee di critica sono state più profonde289, come è il caso di Searle, il quale cercò argomentazioni in favore della realtà della coscienza come situazione soggettiva, in contrasto con le macchine intelligenti idealmente più perfette, comunque prive di veri atti di coscienza. Abbiamo seguito questa strada nella sezione precedente: i processi computazionali, abbiamo ribadito, non sono vere operazioni cognitive. 289 Cfr., ad esempio, H. L. Dreyfus, S. E. Dreyfus, Mind over Machine, The Free Press, New York 1988; H. L. Dreyfus, Quel che i calcolatori non possono fare, Armando, Roma 1988; What Computers ‘still’ Cant’do, MIT Press, Cambridge (Mass.) 1992. 258 Sullo stesso fronte della critica, certi autori si sono concentrati sui teoremi di limitazione, dai quali si concludono i limiti invalicabili della computabilità dal punto di vista logico e matematico. Quest’ultimo approccio, convergente con l’orientamento attuale delle scienze naturali (dinamiche non lineari, scienze della complessità), può essere utile per concludere che, se non tutto è computabile, come è stato definitivamente dimostrato, allora la realtà naturale non sarà mai completamente dominabile dalla tecnologia dell’intelligenza. Quindi non possiamo illuderci con progetti utopici di auto-dominio completo della capacità razionale. In queste nostre ultime osservazioni, tuttavia, intendiamo andare alla radice del problema. Non basta il rifiuto dello scientismo, del tecnologismo, del razionalismo. Questo rifiuto sarebbe compatibile con una visione disincantata o “postmoderna”, senza certezze di verità. I nostri spunti saranno impostati su una prospettiva antropologica e metafisica, al di là delle solite tematiche considerate dalla filosofia della mente. Non intendiamo deprimere l’immenso valore dell’informatica, una vera estensione della nostra razionalità la cui importanza forse è paragonabile a quella della scrittura. Vogliamo dunque rispondere alla terza domanda posta all’inizio della sezione n. 4 di questo capitolo: in quali aspetti l’intelligenza umana è più alta dell’intelligenza artificiale? In realtà, il paragone non può essere concorrenziale. Non è che la nostra intelligenza personale sia più potente della capacità di calcolo dei computer. Va detto piuttosto che certi aspetti della nostra intelligenza, non accessibili alla computazione, illuminano il senso di ogni computazione. Sono gli aspetti essenziali, relativi ai fini e ai valori, al senso delle cose e alla situazione metafisica. Il campo proprio dell’intelligenza informatica, invece, è strumentale, logico, quantitativo, organizzativo e deduttivo. Solo in quest’ambito le macchine informatiche sono di aiuto all’intelligenza personale (in alcuni casi un aiuto potentissimo e imprescindibile). Dagli apparecchi informatici possiamo aspettarci istruzioni utili per viaggiare verso altri pianeti o per sintetizzare farmaci, ma non riceveremo mai da essi risposte metafisiche, morali o religiose. b) Intelligenza personale e razionalità computazionale Consideriamo adesso alcuni spunti sulla differenza fondamentale tra 259 l’intelligenza personale e i risultati cui può arrivare l’intelligenza computazionale (nella sezione precedente abbiamo già visto come quest’ultima giunge soltanto a risultati, senza compiere operazioni vitali, sensitive o intelligenti). 1. Solo l’intelligenza personale conosce fini, valori e principi. I sistemi intelligenti informatici non possono dirci alcunché sulle cose essenziali, sulle priorità fondamentali collegate ad una visione d’insieme del mondo di tipo metafisico, antropologico e morale. Semmai, i programmatori possono incorporarvi in qualche modo certi principi pratici che rispettino i valori e i fini (“evitare soluzioni violente”, “cercare il dialogo”), ma in teoria potrebbero anche creare programmi o robot con finalità criminali o immorali. Ancora una volta si vede come l’intelligenza informatica appartiene alla ragione strumentale, cioè alla ragione nei suoi aspetti tecnici e non etici. Un computer non può avere saggezza, ma può essere tecnicamente efficace. In termini aristotelici, si potrebbe dire che alla persona corrisponde l’intelletto (noús, intuizione), mentre la macchina informatica sarebbe competente piuttosto nel campo della ragione (lógos). Questo è vero purché per intuizione s’intenda la visione essenziale delle cose e la ragione sia vista sul versante computazionale, non in altri aspetti razionali dove l’intervento della comprensione intelligente è rilevante, come avviene nella ragione etica, politica, educativa e anche in altre aree dove i problemi non si risolvono con la sola computazione. Invece, se per intuizione s’intende una sorta di visione vaga che consente di risolvere problemi tecnici meramente “per fiuto”, in un modo alquanto incosciente, allora la razionalità computazionale, nell’indicare con precisione i passi da seguire per risolvere un problema, supera ampiamente tal genere di intuizione. 2. La persona è creatrice e padrona dei sistemi informatici. Questi ultimi sono soltanto strumenti. L’uomo è il creatore dei computer, dei programmi, dei miglioramenti tecnici dell’informatica, dei SI. Egli li ha creati impiegando con impegno la sua intelligenza e le sue conoscenze specialistiche. Le proprietà tecniche degli elaboratori informatici consentono che l’uomo possa talvolta beneficiarsi dai loro “consigli tecnici”. I SI possono auto-programmarsi in un certo senso (con alcuni limiti), ma questo relativo auto-dominio della macchina intelligente è sempre di natura tecnica (nemmeno è un’autopoiesis vivente), e lo sarebbe ugualmente nel caso fantascientifico di un’intera popolazione di SI che riuscisse a dominare l’universo. La 260 macchina, per quanto autonoma, è sempre uno strumento, anche lasciata a se stessa: il suo senso ontologico è solo questo. La persona invece è padrona naturale della macchina: il suo compito è di crearla, di usarla e di guidarla, in definitiva in funzione delle finalità metafisiche, antropologiche ed etiche della nostra esistenza. Se l’uomo si lascia padroneggiare o condizionare troppo dalle macchine, è colpa sua (oppure è uno dei nostri limiti). 3. La “visione del mondo” della macchina informatica è ristretta e dipende dai programmatori. Le categorie, i principi, le preferenze, le regole, le strategie da seguire incorporate nei computer, sono sempre una visione ristretta e astratta, incapace di coprire tutta la realtà, e per di più tutti quegli elementi sono stati scelti dai programmatori. Anche se la macchina potrà imparare e auto-migliorare, lo farà nella cornice concettuale prestabilita. L’uomo rimane libero di fronte alle oggettivazioni informatiche. Egli può sempre compararle a vicenda dal di fuori, per così creare nuove cornici, nuovi sistemi, nuovi programmi. Proprio per questo l’uomo non cessa mai di creare ulteriori sistemi informatici e, man mano le scienze progrediscono, egli deve continuamente aggiornare i programmi o crearne dei nuovi. Solo lui sa come modificare i programmi in modo rilevante, dal momento che soltanto lui possiede la visione essenziale, situata al di sopra di ogni settore e problema tecnologico. 4. La “potenza cognitiva” delle macchine intelligenti non arriva a tutti i contesti. L’incompletezza della “cosmovisione informatica” non solo riguarda i contenuti, ma anche gli infiniti contesti cui le conoscenze e il linguaggio sono applicabili quando vengono riferiti al mondo reale. Certamente neanche l’uomo conosce a priori i contesti. Ma solo lui, con la sua visione integrata e tenendo conto della variabilità delle situazioni, è in grado di applicare con prudenza e sagacità le conoscenze scientifiche e tecniche. L’elaboratore elettronico potrà superare l’uomo dal punto di vista tecnico, ma non può apportare né saggezza né prudenza. Queste due virtù appartengono alla persona e non nascono dal pensiero “meccanizzato”. La saggezza e la prudenza si riferiscono soprattutto alla conoscenza fondamentale e personalizzata che ciascuno può avere di se stesso, di altre persone o di ambienti umani. Quelle virtù si applicano specialmente a questioni morali, 261 educative, familiari, sociali, politiche, e anche al resto delle tematiche nella misura in cui ci sia un rapporto con problemi umani. Peraltro una conoscenza logica, matematica, fisica o tecnica non messa in collegamento con l’uomo rimane sempre una visione astratta. 5. L’uomo deve interpretare il simbolismo delle macchine informatiche. L’ambiguità e l’incompletezza del linguaggio non valgono soltanto per i testi, ma anche per il simbolismo computazionale. L’informatica, in altre parole, non è esente dal problema ermeneutico. La macchina o il robot potranno fornire indicazioni tecniche, ma solo l’uomo, con la sua intelligenza personale, è in grado di interpretarle correttamente, nell’ampio contesto della comprensione metafisica e antropologica. Del resto, se il simbolismo dei computer non è letto dall’uomo, perde completamente senso. c) Utilità dei sistemi intelligenti e padronanza umana Due punti sono da rilevare: a) I sistemi intelligenti possono incrementare le nostre conoscenze e la nostra prassi razionale nelle questioni dove la computazione è rilevante. Quest’ambito comprende qualsiasi problematica scientifica dove conti molto la metodologia logica e matematica (in scienze come la matematica, la fisica, la chimica, la biologia), da cui potrebbero risultare scoperte importanti, in altri tempi lasciate in mano a forme più modeste di computazione. Lo stesso si può dire riguardo a tanti problemi tecnici di ingegneria, medicina, economia, scienze della terra, ricerca spaziale, ecc., dove l’impiego della tecnologia dell’intelligenza oggi è assolutamente indispensabile. Nei campi invece della filosofia, dell’educazione, della politica, dove le valutazioni essenziali e la dialettica della libertà entrano in gioco in maniera fondamentale, l’utilità dei sistemi informatici intelligenti è molto più strumentale e sicuramente collaterale. b) Nell’uso dei sistemi intelligenti, l’uomo incorpora in maniera insostituibile la sua visione sapienziale, completa e prudenziale. Il rapporto uomo/macchina informatica non va visto in maniera concorrenziale o di emulazione. Un motto di Popper nella sua pagina web di anni fa diceva: 262 “Armati da una matita, possiamo essere due volte più intelligenti di quanto non lo siamo senza di essa. Armati da un computer, possiamo diventarlo centinaia di volte in più”. Il computer è un’estensione della nostra intelligenza calcolatrice. Grazie ad essa possiamo esimerci dal lavoro quasi meccanico di dover calcolare, un lavoro per il quale siamo troppo limitati. Invece, il nostro apporto insostituibile sta nelle valutazioni personali sulla convenienza dell’impiego di questo o di quest’altro sistema intelligente per affrontare problemi tecnici di ogni genere, nonché nell’interpretazione dei risultati o delle proposte. In definitiva: i SI vanno usati in modo sapienziale (altrimenti restano un puro fatto tecnologico), e in questo modo possono collegarsi alla visione contemplativa della realtà e alla prassi morale della persona. d) Il problema dell’etica robotica Nell’orizzonte della tecnologia dell’intelligenza si profila l’attività di robot umanoidi, dotati non solo di un’intelligenza computazionale, ma anche di atteggiamenti emotivi (simulati), con una forma corporea e un comportamento esterno vicini all’uomo. Sembra nascere così un particolare problema etico, visto che queste macchine potrebbero avere reazioni emotive e progetti (elaborati dalla loro “mente”) capaci di recare non solo benefici ma anche eventuali danni agli uomini. Si è parlato talvolta della necessità di fornire una sorta di codice “etico” ai robot umanoidi, e a questo proposito vengono ricordate le tre leggi dell’etica robotica ideate da Isaac Asimov290: 1) un robot non deve recare danni a un essere umano o, almeno per inazione, non deve consentire che un essere umano sia lesionato; 2) un robot deve obbedire agli ordini ricevuti dagli esseri umani, tranne che siano in contraddizione con la prima legge; 3) un robot deve proteggere la propria esistenza, nella misura in cui questa protezione non sia in contrasto con la prima e la seconda legge. Assumendo per ipotesi quest’idea fantascientifica, risulterebbe molto difficile garantire che quei robot interpretassero bene quelle leggi in situazioni rischiose per loro o per gli uomini, o che potessero risolvere i possibili conflitti tra le tre leggi. Che 290 Cfr. I. Asimov, Io, robot, Mondadori, Milano 2004. 263 cosa succederebbe se i robot incontrassero dei robot nemici o uomini criminali? Peraltro, non è facile definire “danno” per una programmazione che dovrebbe coprire tanti possibili casi di danni (collaterali, indiretti, ecc.). Ancora una volta, ci troviamo con il problema della saggezza e della prudenza umana. Più che di una roboetica, si dovrebbe parlare di un’etica della robotecnica. Innanzitutto bisognerebbe domandarsi se è sempre sensata l’idea di voler introdurre in modo sistematico comportamenti pseudo-emotivi nei robot, soprattutto se si ha la pretesa di creare umanoidi che sarebbero occasione di oscurare il valore dei veri sentimenti nei rapporti umani e sociali. D’altra parte, se il comportamento di certi robot dovrebbe produrre dei danni all’uomo o alla società, il problema etico starebbe negli esseri umani che lo hanno costruito e destinato a certi usi. Nei robot stessi i problemi sono esclusivamente tecnici. I provvedimenti adottati per difendere l’uomo dai rischi della robotica saranno sempre tecnici, anche se possono essere ispirati a criteri etici. È normale che la tecnologia possa essere pericolosa se non è adeguatamente controllata dall’uomo. Ed è sempre scontato, ovviamente, che l’etica è destinata a regolare la tecnica. I sostenitori di una visione funzionalista o materialista non sono in grado di discernere adeguatamente tra intelligenza personale e artificiale, tra persona e robot, tra etica e tecnica. Non hanno un’antropologia capace di affrontare i problemi indicati. La fantascienza può divertirci con mondi dove i robot possono diventare ribelli, commettere ingiustizie, essere puniti, andare in carcere, come se fossero agenti morali. Con una visione materialista della vita, però, queste fantasie non solo soddisfano la curiosità, ma anche alimentano una confusione antropologica di fondo. e) L’interfaccia uomo/computer nella bioingegneria Tramite biochip impiantati o collegati a parti del sistema nervoso, oggi si possono incorporare in un individuo disabile delle neuroprotesi (ad esempio, della coclea, parte dell’orecchio interno dove gli stimoli sonori sono trasformati in impulsi nervosi), collegati a computer esterni, allo scopo di rimediare disfunzioni visive, acustiche, motorie. Questo nuovo fronte della biotecnologia, di per sé positivo e promettente, crea specifici problemi etici, dal momento che l’impianto di biochip costituisce un apporto informatico alle prestazioni psicosomatiche non già esterno, 264 come quello dei computer normali, bensì interno al sistema nervoso e controllabile dall’esterno (con la possibilità di utilizzare i comandi cerebrali anche per muovere computer “distanti”, ad esempio di tipo robotico). La tecnologia computazionale viene così incorporata in qualche modo all’organismo a scopo terapeutico, o per migliorare in una certa misura la potenza delle nostre funzioni psicosomatiche. La biotecnologia informatica è possibile, tenendo conto dei limiti etici di queste pratiche, nella misura in cui l’attività nervosa è collegata a funzioni organiche, come la motricità o la percezione. Il panorama diventa più problematico se l’intervento biotecnologico incide sulla base neurale delle funzioni cognitive o affettive alte, di tipo intenzionale transorganico, come il pensiero o i sentimenti umani. Questo campo di ricerca è oggi agli inizi e non conosciamo ancora le sue possibilità di sviluppo effettivo. In ogni caso, la tecnologia non è in grado di controllare le attività spirituali della persona (l’esercizio della libertà e la comprensione intellettuale), dal momento che esse non sono causate dal cervello, pur avendo una base cerebrale. La neurotecnologia può agire soltanto nell’area dei condizionamenti psicosomatici degli atti umani, ovviamente con rischi non indifferenti (controlli abusivi, intrusioni con effetti di disintegrazione psichica), benché al contempo essa potrebbe risolvere tanti problemi sensoriali e motori, quali la cecità, la sordità, la tetraplegia, grazie al controllo della comunicazione dei segnali nervosi. I limiti antropologici ed etici della bioingegneria computazionale non potranno essere avvertiti in profondità da autori o ricercatori materialisti. In questo senso, gli entusiasmi talvolta euforici con cui alcuni attendono la creazione di un “nuovo tipo di uomo” (l’uomo bionico o cyborg, fusione tra computazione e organismo), o di “nuovi esseri intelligenti super-umani”, è sintomo di un’antropologia carente. La tecnologia deve stare al servizio della persona. 265 7. Creatività e apprendimento a) Creatività291 Può essere creativa l’intelligenza informatica? La risposta dipende dal senso, comunque analogico, del concetto di creatività. Gli animali, l’uomo e i SI possono essere creativi, ciascuno in un senso particolare. La creatività cognitiva, in linea di massima, è la capacità di scoprire o di inventare una nuova relazione, un nuovo ordine, una novità formale non preesistente nei contenuti acquisiti, anche se soggiacente come possibilità. Non basta definire la creatività in termini di informazione. Ciò che è inventato o scoperto deve essere rilevante, interessante, o deve soddisfare un certo scopo. Quindi non qualsiasi novità è ugualmente valida, il che dipende da certi parametri di valutazione. I sistemi intelligenti arrivano a risultati creativi, non previsti dall’uomo, soprattutto perché possono esplorare “spazi concettuali” o “euristici”. Questi spazi sono ambiti di un problema o di una questione cognitiva o pratica definiti con metodi computazionali, ad esempio tramite regole generali e algoritmi euristici. Il fatto di risolvere un problema nuovo entro uno spazio concettuale è la manifestazione di un tipo di creatività tipico dei SI artificiali. I limiti di questa creatività sono i limiti del quadro concettuale dato. Inoltre la cornice concettuale presuppone un background di comprensione metafisica e antropologica non raggiunta dal SI. L’uomo è capace di trascendere ogni spazio euristico problematico predefinito. Egli può comparare infiniti tipi di problemi e infiniti quadri concettuali, diversi oppure opposti, anche per integrarli o associarli tra loro, ed è capace di crearne sempre dei nuovi. La radice di questa potenza è l’apertura della mente umana all’infinito dell’essere. Da qui emerge la possibilità di fare senza posa delle creazioni intelligenti inattese. Può darsi che i singoli individui, tranne il caso dei grandi talenti o dei geni, non godano di un’enorme capacità creativa, o che sempre lavorino in cornici più o meno “prestabilite”. Ma l’umanità intera manifesta complessivamente un’infinita creatività nel pensiero, nella tecnica e nell’arte. 291 Cfr., sul tema, T. Dartnall (ed.), Artificial Intelligence and Creativity, Kluwer, Dordrecht 1994; O. A. Dentici, Intelligenza e creatività, Carocci, Roma 2001. 266 I risultati effettivi della creatività dei SI appaiono piuttosto modesti, comunque non disprezzabili. Nel campo scientifico, ad esempio, certi programmi sono riusciti talvolta a “scoprire” alcune leggi fisiche (come le leggi di Keplero), o a compiere altre scoperte più particolari. Sono arrivati a tali risultati, naturalmente, solo se adeguatamente programmati. Non si conoscono invenzioni scientifiche sconvolgenti compiute dalla sola intelligenza artificiale. Gli stessi progressi più importanti nell’informatica sono stati ideati non da macchine, ma da persone umane che, volendo, possono sempre programmare senza limiti nuove tecniche d’intelligenza artificiale. Nel campo artistico, certi programmi possono produrre opere nuove (pitture, disegni, canzoni) in base a certe regole. Spetta all’uomo valutare la qualità artistica delle opere realizzate da artisti o da macchine. Più interessante e realistica ci sembra la possibilità che l’uomo, servendosi di “creazioni” particolari dei SI in campo scientifico o artistico, possa interagire con esse e così arrivare personalmente a valide creazioni. L’uso interattivo della tecnologia dell’intelligenza potrebbe offrire all’uomo nuove opportunità di manifestare la sua creatività personale nelle opere scientifiche, tecnologiche e artistiche. In questa tematica sono sempre valide la nostre osservazioni precedenti riguardo ai limiti della tecnologia dell’intelligenza. Le opere dei SI, per quanto utili e valide, comunque sono state ottenute tramite meccanismi non intenzionali, all’infuori delle operazioni cognitive personali. Quindi sono opere dell’uomo stesso in quanto raggiunge nuovi risultati tramite strumenti creati da lui. b) Apprendimento Una delle proprietà dei sistemi intelligenti è di poter imparare “da soli”, cioè di poter migliorare in modo autonomo e stabile le proprie prestazioni. Pure in questo caso bisogna tener conto dell’analogia del concetto di apprendimento. Gli animali, l’uomo e alcuni sistemi informatici possono imparare, ma non nello stesso senso. Il concetto di apprendimento è intenzionale. Gli organismi possono rispondere meglio agli stimoli ambientali in base a processi di adattamento. Dire che “imparano” ad adattarsi è una metafora. Gli animali invece imparano in un senso vero e proprio quando incorporano, grazie all’esperienza, modi stabili di comportamento che prima non avevano. In questo senso l’apprendimento si contrappone all’innatismo. La prima 267 e più elementare forma dell’apprendimento animale è il condizionamento strumentale. L’apprendimento comporta la conservazione nella memoria di ciò che si è imparato. Le nuove abilità acquisite (nuotare, volare) s’incorporano nella memoria procedurale. L’uomo impara quando aggiunge alla sua memoria contenuti cognitivi o abilità nuove che prima non aveva (imparare scienze, lingue, tecniche, arti). Il confine tra ciò che si impara come contenuto (know what) o come saper fare (know how) non sempre è preciso, poiché i contenuti imparati debbono saper essere usati convenientemente. Chi impara filosofia, deve imparare a saper fare filosofia. Imparare non è semplicemente ricordare. Ciò che s’impara costituisce un sapere. In generale, ciò che viene imparato nell’uomo è un abito, cioè una dotazione stabile, acquisita e non innata, di tipo cognitivo teorico o pratico, specialmente a livello intellettivo. Le modalità di apprendimento sono parecchie. La ripetizione, l’esperienza, certe reazioni emotive, aiutano a imparare in un modo sensitivo, spontaneo e poco riflesso, talvolta di tipo adattativo. Gli animali e anche l’uomo possono imparare a far bene certe cose in base a minacce, premi, punizioni o altri stimoli affettivi. La dimensione cerebrale dell’apprendimento è fondata sulla plasticità sinaptica. Nel processo d’apprendimento vi è una parte passiva e un’altra attiva intrinsecamente collegate, poiché chi impara deve recepire qualcosa ma deve ugualmente “far diventare propri” determinati contenuti o atti. Nella vita animale si comincia a imparare dagli altri grazie all’apertura cognitiva e affettiva. Questo fenomeno consente di recepire dai progenitori le loro abilità congenite o acquisite. La forma elementare dell’apprendimento a partire dagli altri è l’imitazione ripetitiva di operazioni della sensibilità. L’uomo impara razionalmente soprattutto quando acquista conoscenze o abilità (abiti, virtù) tramite processi intenzionali specifici. In questo senso egli “impara a imparare”, cioè impara in modo cosciente a esercitare le operazioni giuste che portano all’apprendimento (saper studiare, saper allenarsi). L’educazione comprende l’insieme armonioso di tutto quanto l’uomo e la donna debbono imparare per vivere bene come persone in un determinato ambiente sociale. L’apprendimento umano possiede una duplice dimensione, ricettiva e attiva, poiché ci arricchiamo solo se recepiamo e sviluppiamo attivamente quanto i nostri 268 simili hanno acquistato e conservato nella cultura. Questo processo avviene solo attraverso il rapporto personale con gli altri. L’apprendimento guidato da altri (i maestri) crea le relazioni reciproche di insegnare/imparare. Naturalmente la persona può anche imparare per proprio conto, quando scopre da sola nuovi contenuti e abilità. Però in questo caso essa si preoccupa di trasmettere ad altri quanto ha imparato, per cui il processo educativo basato sulla menzionata duplice relazione non si perde mai di vista. I sistemi intelligenti informatici possono “imparare” nel senso che possono migliorare le proprie prestazioni in base a certe finalità, valori o criteri predeterminati nei programmi. Una macchina informatica può imparare “automaticamente” -per questo è macchina- grazie a meccanismi di auto-valutazione delle operazioni con più successo secondo un determinato criterio. Queste operazioni, una volta individuate, possono essere incorporate nella memoria (come regole di produzione). I limiti di questa forma meccanica di auto-apprendimento sono quelli già visti sopra in relazione al valore cognitivo delle operazioni informatiche. 8. Connessionismo292 a) Un nuovo paradigma computazionale Il connessionismo è una tecnica di elaborazione e di trasmissione dell’informazione basata su associazioni a rete tra diverse “unità sinaptiche” o neuroni artificiali, ciascuno dei quali può recepire e trasmettere un’informazione, oppure può 292 Sull’argomento del connessionismo si possono consultare, in generale, i manuali di psicologia cognitiva o di scienza cognitiva di Eysenck/Keane, Luger, Pessa/Penna e Viggiano, indicati nella bibliografia finale. Inoltre cfr. G. Basti, Il rapporto mente-corpo nella filosofia e nella scienza, cit.; W. Bechtel, A. Abrahamsem, Connectionism and the Mind, Blackwell, Oxford 2002; A. Clark, Microcognizione. Filosofia, scienza cognitiva e reti neurali, il Mulino, Bologna 1994; P. L. Cobos Cano, Conexionismo y cognición, Pirámide, Madrid 2005; J. E. Corbí, J. L. Prades, El conexionismo y su impacto en la filosofía de la mente, in F. Broncano, La mente humana, Trotta, Madrid 1955, pp. 151-175; D. Floreano, C. Mattiussi, Manuale sulle reti neurali, il Mulino, Bologna 2002; St. Grossberg, Natural Networks and Natural Intelligence, MIT Press, Cambridge (Mass.) 1988; S. López Palomo, El conexionismo como problema filosófico, tesi di Licenza della Facoltà di filosofia della Pontificia Università della Santa Croce, Roma 2006; P. Smolensky, Il connessionismo: tra simboli e neuroni, Marietti, Genova 1992. 269 inibirla o bloccarla293. In base ai pesi (o la loro somma algebrica) acquistati dai nodi in funzione dei rapporti tra gli input e il loro valore di soglia294 (tenendo conto che il peso di ogni nodo attiva oppure blocca la connessione), la rete acquista una certa configurazione dinamica in virtù della quale produce delle risposte specifiche. Le reti neurali artificiali costituiscono un modo non simbolico di computazione (senza programmi), diverso dalla computazione simbolica seguita dai computer tradizionali. Possiamo capire la possibilità di elaborare informazione senza simbolismo se ricordiamo che questa è appunto la logica della vita, quindi del cervello e delle sue connessioni sinaptiche. Una delle sue caratteristiche è il parallelismo, contrapposto alla serialità del processing dei computer simbolici. L’informazione è distribuita in tutta la rete e si propaga “in parallelo” (non sequenzialmente ovvero attraverso canali speciali). La tecnologia delle reti neurali si è ispirata al modo in cui il cervello elabora l’informazione295. Talvolta il connessionismo e la computazione simbolica vengono contrapposti, ma in realtà i due procedimenti possono combinarsi. I computer tradizionali possono creare reti connessionistiche e possono lavorare tra loro anche in modo parallelo. Le reti neurali sono costruite a poco a poco attraverso l’accurata modificazione dei pesi delle connessioni sinaptiche. In questo senso la rete viene allenata e progressivamente impara a produrre una serie di risposte a seconda della configurazione acquistata. La rete può essere costruita sotto la guida di un supervisore che orienta il suo allenamento verso un certo risultato. Però una rete si può anche formare spontaneamente, senza supervisione, e allora le uscite che ne derivano seguono una dinamica propria e tendono ad auto-stabilizzarsi in una certa configurazione, potendo risultare utili nel contesto funzionale in cui si sono istaurate, 293 Alcuni studiosi importanti nei primi sviluppi delle reti neurali, a partire dagli anni ‘40 del secolo scorso, sono stati W. McCulloch, W. Pitts, D. Hebb, F. Rosenblatt, O. Selfridge, E. Caianiello. Ricercatori più recenti sono D. Rumelhart e L. McClelland. 294 I pesi sono misure matematiche analoghe ai potenziali di eccitazione e d’inibizione dei neuroni. 295 Questo fatto non toglie che il sistema nervoso contenga anche delle specializzazioni o moduli localizzati. Il suo funzionamento non è puramente in parallelo. D’altra parte, normalmente le reti neurali non intendono essere un modello preciso del funzionamento cerebrale. 270 così come -per fare un paragone- i rapporti spontanei tra molti amici alla fine possono essere utili nell’ambito dell’amicizia. b) Il connessionismo nella natura e nell’uomo Il connessionismo, fenomeno tipico della vita, potenziare la sua funzionalità adattativa e selettiva, sia nell’ambito della vita organica che nel campo intenzionale, a livello inconscio e anche cosciente. L’uomo ha imparato a riprodurre questi processi naturali in modo artificiale. Il connessionismo dunque è un paradigma epistemologico con un fondamento naturale: la formazione spontanea di ordine nella vita attraverso associazioni. Tramite la logica associativa vengono costituiti ordini naturali, in ambito biologico, che poi risultano selettivi o preferenziali. Seppure il paradigma connessionistico non spiega tutta la natura vivente, apporta una luce importante sul modo in cui procedono le opere della vita. La logica connessionistica non si contrappone al finalismo. La sua teleologia piuttosto è bottom-up: la finalità emerge dal basso e specifica una tendenza biologica previa. Il nostro concetto di teleologia spesso è troppo “progettualistico”, in quanto nasce da una logica astratta basata su regole generali separate che poi applichiamo alla realtà. Ma il finalismo della natura non va concepito in questa maniera antropomorfica. Questo punto potrebbe gettare luce sulla razionalità dei processi evolutivi della natura e sul ruolo dei fenomeni aleatori nei dinamismi naturali. Nella vita sensitiva i processi connessionistici sono naturali, visto che il cervello è un organo altamente associativo, secondo la sua dinamica basata sui rapporti attivi tra neuroni. Nella vita animale, anche sociale, l’associazionismo cognitivo/emotivo è in funzione dei fini istintivi e presiede, in buona misura, l’apprendimento in base all’esperienza. Nell’uomo l’associazionismo intenzionale è introdotto nell’orbita della vita razionale. Nella psicologia cognitiva si è svolta una polemica (della quale non possiamo dare i dettagli) sull’interpretazione dei processi umani della conoscenza in termini o prevalentemente simbolici e linguistici (linea della scuola di Fodor), oppure in termini connessionistici (McClelland, Smolensky). Ma nella nostra cognizione i livelli sub- 271 simbolici e simbolici piuttosto s’intrecciano a vicenda. Il paradigma connessionistico interviene ugualmente a livello linguistico, intenzionale e cosciente. Il tipico associazionismo mnemonico segue procedure connessionistiche. Un ricordo, a seconda del suo “peso”, richiama con più o meno forza altri ricordi. Il connessionismo spiega la duplice direzione della conoscenza, sia bottom-up, oppure dalle parti al tutto, sia top-down, oppure dal tutto alle parti. Infatti nella percezione, nella memorizzazione e in ogni tipo di apprendimento un singolo dato ci può portare alla totalità, così come la voce di una persona ci rimanda alla persona completa. All’inverso, l’apprensione di una totalità ci consente di superare rumori (dati non integrabili nella percezione) e lacune così come, quando sentiamo una frase, possiamo capirla anche se viene pronunciata male o con suoni incompleti. Riconosciamo il volto delle persone e le loro somiglianze reciproche in base a criteri connessionistici, non deduttivi296. La ragione umana segue parimenti due vie complementari, una astratta e deduttiva, basata su simboli e regole generali, l’altra legata all’esperienza, con l’impiego di paragoni, analogie e processi induttivi. Possiamo conoscere una città utilizzando una cartina (metodo deduttivo e a priori), oppure percorrendola in diverse direzioni, affidandoci all’esperienza (metodo induttivo e associativo). In modo simile, il connessionismo è applicabile al linguaggio e alla comprensione dei significati, come si vede nelle reti semantiche che possono configurare il significato analogico di un concetto non secondo una definizione a priori, ma sulla base di generalizzazioni imperfette prese dai rapporti tra i casi conosciuti. Comunque non tutto è pura associazione empirica nel nostro pensiero. Alcuni concetti, senz’altro, hanno ombre di imprecisione, quando ammettono dei margini più o meno rilevanti di apertura significativa, una caratteristica studiata dalla logica 296 Precisamente in questi settori sono state elaborate alcune reti neurali capaci di riconoscere facce, di discriminare oggetti, di imparare alcuni aspetti della pronuncia dell’inglese o della coniugazione del tempo passato di verbi regolari e irregolari della lingua inglese. La tecnologia connessionistica, comunque, per il momento non ha avuto un grande sviluppo commerciale. 272 sfumata (fuzzy). Altri concetti, però, sono precisi nel loro significato, nonostante possano presentare piccole sfumature svariate nelle loro connotazioni297. La logica dell’analogia è capace di introdurre chiarimenti opportuni in questi usi concettuali, al servizio della conoscenza della verità e senza cadere nel relativismo empirista. Il paradigma connessionistico rende intelligibile, in un certo senso, anche i dinamismi sociali. Il progresso storico può essere guidato da progetti e piani prestabiliti, ma spesso va avanti in un modo relativamente inconsapevole, secondo tanti legami imprevisti o spontanei tra le persone, il mondo e la cultura, legami dovuti alla comparsa di nuove circostanze. Di solito la razionalità concreta e induttiva, apparentemente meno teleologica (in realtà, solo meno progettuale), precede l’uso della razionalità astratta. Per questo motivo, i progressi culturali e scientifici non sempre nascono da programmi chiari e consapevoli, ma spesso emergono da intrecci a rete, con un relativo disordine. Posteriormente l’uomo, considerando i valori conquistati grazie a questi dinamismi, stabilisce regole generali e si orienta in un modo più consapevole e coerente verso i nuovi obiettivi, spinto dai fini verso i quali la sua natura tende. c) Aspetti ontologici La portata ontologica delle operazioni informatiche delle reti neurali è analoga a quella dell’informatica simbolica. Le reti possono essere costruite in un particolare hardware, ma nella maggior parte dei casi vengono istallate a livello software in programmi di computazione. Naturalmente, le reti non compiono operazioni immanenti cognitive e non hanno vere rappresentazioni, benché possano elaborare l’informazione corrispondente a tali operazioni. Sono strumenti tecnici i cui risultati, quindi, vanno interpretati dall’uomo secondo la sua cognizione percettiva e concettuale. Le reti talvolta possono aiutarci alla classificazione di oggetti o al riconoscimento di configurazioni, oppure servono a prevedere risultati in base a insiemi di dati da cui seguiranno conseguenze incerte (ad esempio, sul clima locale, sugli esiti della borsa valori, sul rischio dei prestiti). 297 Cfr. il mio studio Introduzione alla gnoseologia, Le Monnier, Firenze 2003, pp. 102-115, 122-136. 273 La scoperta della computazione connessionista non può essere usata in sostegno del materialismo o dell’eliminativismo (come hanno fatto i coniugi Churchland), tranne che sia ignorata la dimensione psichica della conoscenza, in un modo analogo al riduzionismo della teoria dell’intelligenza artificiale forte. Di conseguenza, le nostre valutazioni sull’utilità e sui limiti della tecnologia dell’intelligenza valgono ugualmente per la computazione connessionistica298. In sintesi, l’informatica connessionistica non solo è ispirata alla dinamica associativa neurale, ma si rapporta più ampiamente a certi aspetti dell’elaborazione biologica dell’informazione e, a livello umano, alla razionalità concreta e associativa del pensiero. La computazione simbolica invece imita la nostra razionalità astratta e deduttiva, basata soprattutto sul simbolismo. 298 Una lettura delle reti neurali associata alle dinamiche fisiche non lineari, in vicinanza alle intuizioni aristoteliche sulla forma e l’intenzionalità, si può vedere in G. Basti, Il rapporto mente-corpo nella filosofia e nella scienza, cit., pp. 198-250. 274 Epilogo Le tematiche affrontate in questo volume coprono in maniera sintetica numerosi punti normalmente contemplati nei libri e articoli di filosofia della mente. Ogni argomento meriterebbe uno sviluppo assai più ampio, se teniamo conto dell’immensa bibliografia esistente e dei molteplici rapporti delle questioni esaminate con le ricerche scientifiche. In queste pagine ho preferito concentrarmi sugli aspetti fondamentali dal punto di vista filosofico. La vastità dei punti considerati, così vicini a settori quali le neuroscienze, la psicologia cognitiva e la scienza computazionale, consigliava la prospettiva prescelta, diversa da una semplice presentazione neutrale dei problemi o da un puro resoconto storico dei dibattiti. L’approccio ontologico e antropologico mantenuto sin dall’inizio in questo libro si è rivelato fecondo nello studio delle singole questioni -almeno, così spero-, aprendo un orizzonte alla comprensione degli atti personali nella loro connessione con la base neurale, sia a livello psicosomatico che neurovegetativo. Inoltre abbiamo tenuto presente il prolungamento dell’attività della persona nella cultura, la sua interazione con gli altri, l’importanza del linguaggio e l’imprescindibile ricorso alla strumentazione tecnologica nei riguardi del progresso cognitivo dell’uomo, da cui risultano tante conseguenze sul piano emotivo e comportamentale. Un’ontologia dell’operare umano, nel rispetto dei livelli della persona e delle loro reciproche relazioni, consente di approfondire un insieme di argomenti su cui oggi la ricerca è più che mai aperta. Non mi resta che augurare ai lettori di questo libro un proseguimento pieno di frutti nei loro studi sull’uomo nel campo filosofico e scientifico. 275 Bibliografia AA. VV., Homo Loquens, Ed. Studio Domenicano, Bologna 1989. AA. VV., “Anuario filosófico” (Universidad de Navarra), numero monografico su Identidad personal, XXVI/2, 1993. AA. VV., Il rapporto di Napoli sul problema mente-corpo, Istituto per ricerche ed attività educative, Napoli 1991. 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Tutte le opere filosofiche e saggi integrativi, Bompiani, Milano 2003. 278 Indice generale PRESENTAZIONE INTRODUZIONE. PERCHÉ MENTE E CORPO? CAPITOLO 1. LE POSIZIONI FILOSOFICHE 1. Dualismo e parallelismo 2. Monismo spiritualista 3. Comportamentismo 4. Neurologismo ed emergentismo a) Teoria dell’identità b) Biologismo naturalista c) Emergentismo d) Sopravvenienza 5. I funzionalismi a) Computazionalismo b) Altri funzionalismi 6. Verso un ridimensionamento del dibattito “anima-corpo” CAPITOLO 2. IL CORPO SENZIENTE 1. Ilemorfismo: aspetti ontologici ed epistemologici 2. La corporeità vivente 3. Informazione senza conoscenza a) Informazione e formalizzazione b) Segnali e processi causali 4. Sentire di vivere 5. Ontologia dell’atto sensitivo a) Le cinque dimensioni delle operazioni sensitive b) Carattere psicosomatico dell’atto sensitivo c) Rilievi linguistici d) Correlazioni e causalità: presentazione euristica del problema 6. Comportamento e interiorità a) Introduzione b) L’esterno e l’interno degli atti c) Tre nozioni di condotta d) Visione riassuntiva CAPITOLO 3. L’INTELLIGENZA UMANA 1. La trascendenza dell’intelligenza umana sul corpo 2. Il ruolo del cervello nel pensiero a) Tommaso d’Aquino e il cervello b) La causalità del cervello in rapporto all’atto intellettuale 3. L’inconscio cognitivo 4. Anima, corpo e identità personale a) Persona b) Coscienza e io 279 c) Anima come io e anima come atto del corpo d) Identità del corpo umano e cervello e) L’anima separata dal corpo 5. Lo sviluppo dell’intelligenza 6. Cervello e grado di intelligenza 7. Cervello, linguaggio, immagini e pensiero a) Necessità del linguaggio b) Il linguaggio, tra l’intelligenza e il cervello c) La codificazione cerebrale del linguaggio d) La questione dell’innatismo linguistico e) Esiste un linguaggio mentale previo ai linguaggi convenzionali? f) Linguaggio, immagini e significato universale 8. Correlazioni tra atti intellettivi ed eventi neurali 9. Quadro panoramico CAPITOLO 4. LA CAUSALITÀ MENTE-CERVELLO 1. Introduzione al problema 2. Il dinamismo causale nella vita animale a) Riflessi b) Istinti c) Passioni organiche d) Passioni animali “alte” e) Fenomenologia della motricità animale 3. Volontà e motricità secondo San Tommaso 4. La razionalità della scelta: motivi e ragioni a) La decisione: amore e ragioni b) La dimensione etica c) Conflitti e dinamismo delle scelte 5. Le fonti delle motivazioni 6. La libertà nella genesi dell’atto di scelta a) La libertà della scelta b) Alcune difficoltà relative alla libertà di scelta c) Scelte animali 7. Dalla scelta alla motricità. La mediazione emotiva e dei sentimenti a) Impostazione del problema b) Gli esperimenti di Libet c) Violazione del principio di conservazione dell’energia? d) La mediazione dei sentimenti nella motricità volontaria d. 1. Emozioni e sentimenti d. 2. Il rapporto tra sentimenti e volontà d. 3. Alcuni spunti wojtyleani sulla questione dei sentimenti e la volontà 8. Muovere il corpo volontariamente a) Funzioni psichiche e mutamenti fisici b) La volontà e i comandi motori b. 1. La volontà muove tramite i sentimenti b. 2. Come influisce l’intenzione volontaria sul corpo in moto 9. Condivisione di vita e interazioni intersoggettive CAPITOLO 5. L’INTELLIGENZA ANIMALE 1. Approssimazione epistemologica e storica 2. In che senso parliamo di intelligenza animale 280 3. Opere “intelligenti” degli animali 4. Antropologie naturalistiche 5. Aspetti cognitivi animali a) Percezione di configurazioni invarianti e tipiche. Razionalità pratica b) Riconoscimenti sociali c) Coscienza animale 6. Comunicazione e linguaggio animale a) Aspetti generali b) Tipi di comunicazione c) Linguaggi insegnati agli animali d) I limiti del linguaggio animale CAPITOLO 6. TECNOLOGIA DELL’INTELLIGENZA 1. Ontologia degli oggetti artificiali 2. Oggetti istituzionali e “mente collettiva” a) Statuto ontologico dell’istituzione b) Tipologia degli oggetti istituzionali c) Istituzione e agire collettivo 3. I computer come elaboratori dell’informazione 4. La razionalità calcolatrice separata 5. Operazioni di macchine 6. Limiti e utilità dell’intelligenza informatica a) Gli atteggiamenti critici b) Intelligenza personale e razionalità computazionale c) Utilità dei sistemi intelligenti e padronanza umana d) Il problema dell’etica robotica e) L’interfaccia uomo/computer nella bioingegneria 7. Creatività e apprendimento a) Creatività b) Apprendimento 8. Connessionismo a) Un nuovo paradigma computazionale b) Il connessionismo nella natura e nell’uomo c) Aspetti ontologici BIBLIOGRAFIA GENERALE EPILOGO 281 COPERTINA La filosofia della mente è un’area del pensiero contemporaneo tipicamente interdisciplinare. Nasce, in parte, dalla filosofia analitica, ma soprattutto da problemi epistemologici e antropologici suscitati dalle scienze cognitive, quali le neuroscienze, la psicologia cognitiva, la filosofia computazionale e la psicolinguistica. Le questioni affrontate in questo volume sono presenti nell’attuale dibattito tra li esperti di filosofia della mente: distinzione e integrazione tra operazioni mentali e attività neurale, ruolo del cervello nelle funzioni cognitive, pensiero e linguaggio, basi neurologiche dell’intelligenza, causalità tra fenomeni intenzionali e mutamenti neurofisiologici, concetto d’intelligenza animale, rapporti tra l’intelligenza personale e l’intelligenza artificiale. Il libro considera le diverse correnti della filosofia della mente (dualismo, emergentismo, funzionalismo, comportamentismo, ecc.) e presenta una visione antropologica di fondo ispirata a certe premesse aristoteliche e tomistiche, nelle quali i livelli della persona (neurovegetativo, somatosensitivo, spirituale) sono fortemente integrati. In questo volume i lettori incontreranno una serie di argomenti di confine situati nell’odierno dialogo tra la filosofia, le neuroscienze e le tecnologie computazionali. Troveranno, soprattutto, una piattaforma filosofica solida, capace di approfondire gli elementi dei dibattiti senza riduzionismi, con un approccio aperto alle dimensioni trascendenti della persona umana. Juan José Sanguineti, italo-argentino, è professore ordinario di filosofia della conoscenza presso la Pontificia Università della Santa Croce. È autore di numerosi articoli e libri su tematiche della filosofia della scienza, cosmologia, filosofia della natura, gnoseologia, logica e filosofia del linguaggio, spesso nella prospettiva del dialogo tra la filosofia e le scienze. Le sue ricerche più recenti si concentrano sulla filosofia della scienze cognitive. 282 INDICE DEI NOMI Abrahamsem A., Acerbi A., Agazzi E., Andrés (de) T., Antonietti A., Aristotele Armstrong D., Artigas M., Asimov I., Auroux S., Austin J., Baars B.J., Ballerini A., Basti G., Battro A., Bechtel W., Benedetto XVI, Berkeley G. Bermúdez J.L., Biolo S., Boden M., Boncinelli E., Borghi L., Braine D., Brentano F., Brock S., Broncano F., Bunge M., Burgos J.M., Button G., 283 Caianello E., Carruthers P., Cartesio R., Casalegno P., Cassam Q., Chalmers D.J., Changeux J-P., Charniak E., Chiari S., Chomsky N., Churchland P.M., Churchland P.S., Clansey W.J., Clark A., Conesa F., Corbí J.E., Cornwell J., Copeland J., Coulter J., Cross R., Crumley II J.S., Damasio A., Dartnall T., Darwin Ch., Davidson D., Dawkins R., Deacon T., Dennett D.C., Dentici O.A., Di Francesco M., Dreyfus H.L., Dreyfus S.E., Eccles J.C., Echavarría M.F., Edelman G., 284 Etxeberria Agiriano A., Eysenck H.J., Eysenck M.W., Fabro C., Feigl H., Feinberg T.E., Frisch (von) K., Flanagan O., Floreano D., Flores F., Fodor J.A., Fogassi L., Formigari L., Gallese V., Garcia Azkonobieta T., Gardner (coinugi, A.G. e B.G.) [cercarli nel testo come “coiniugi Gardner”. Di solito sono conosciuti così] Gardner H., Gazzaniga S., Gehlen A., Giacomo (San) Gibson J., Gjerlow K., Gödel K., Goleman D., Gottenplan S., Gould C.G., Gould J.L., Graham G., Graham L.R., Gregory R.L., Griffin D.R., Grossberg St., Haldane J., Harnad S.R., 285 Hebb D., Heil J., Hookway C., Husserl E., Jaki S., Jerison H.J., Johnson M., Johnson-Laird Ph., Jonas H., Kant E., Keane M.T., Keenan J.P., Keller F., Kenny A., Kim J., Köhler W., Lakoff G., Landsberg M.I., Langton Ch., LeDoux J., Lee J.R., Leibniz G., Lenneberg E.H., Lenzi L., Lewis D.K., Libet N., Lombo J.A., López Palomo S., Lorenz K., Lowe E.J., Luger G.F., Lullo R., Lycan W.G., MacLean P., Maldamé J.M., 286 Malo A., Manzanedo M., Manzoni A., Marconi D., Margolis J., Margulis L., Marrafa M., Mattiussi C., McCarthy J., McClelland L., McCulloch W., McDermott D., McDowell J., Mele A., Mello P., Merleau-Ponty M., Miller J., Minsky M., Monod J., Mora F., Moravia S., Moss E., Moya C., [controllare se forse il testo dice: Moya Espí, C.] Muntané Sánchez A., Murphy N., Nagel Th., Nannini S., Nelkin N., Neumann (von), J., Newell A., Norvig P., Nubiola J., Obler L.K., Oliverio A., Paolo (San), 287 Pascal B., Paternoster A., Pavlov I., Peppeberg I., Perna G., Perry J., Pessa E., Peterson C., Peterson D., Philippe J., Piaget J., Pietronilla Penna M., Pilleri G., Pinillos J.L., Pitts W., Place U., Platone Polanyi M., Polo, L., Popper K., Possenti V., Prades J.L., Premack D., Purves D., Putnam H., Quitterer J., Rabossi E., Rey G., Rhonheimer M., Ricoeur P., Rizzolati G., Rodríguez Luño A., Rolls E.T., Rosch E., Rossenblatt F., 288 Roth G., Rumbaugh D., Rumelhart D., Russell R.J., Russell S.J., Russo F., Ryle G., Sagan D., Sanguineti J.J., Sarti E., Savage-Rumbaugh S., Scheler M., Schins J.M., Schrödinger E., Searle J., Seifert J., Selfridge O., Seligman M., Sellés J.F., Shannon C. E., Sharrok W., Shoemaker S., Simon H., Simon M., Skinner B.F., Smart J.J., Smith P.K., Smolensky P., Sosa E., Spaemann R., Sprague E., Strumia A., Szubka T., Tanzella-Nitti G., Temple Ch., 289 Thompson E., Thorndike E.L., Tinbergen N., Tommaso d’Aquino Trevena J.A., Turing A., Vallega-Neu D., Varela F., Vauclair J., Viggiano M.P., Villanueva E., Warner R., Watson J.B., Wilson E.O., Wilson M., Winograd T., Wittgenstein L., Wojtyla K., Woodruff G., Nomi di animali Binti Jua Hans Kanzi Sara Washoe 290 DISEGNO CERVELLO MAC LEAN
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