Registrazione al Tribunale di Velletri n. 9/2004 del 23.04.2004 - Redazione: C.so della Repubblica 343 - 00049 VELLETRI RM - 06.9630051 - fax 0696100596 - [email protected] Mensile a carattere divulgativo e ufficiale per gli atti della Curia e pastorale per la vita della Diocesi di Velletri -Segni Anno 11, numero 6 (109) - Giugno 2014 Giugno 2014 2 Ecclesia in cammino Bollettino Ufficiale per gli atti di Curia Mensile a carattere divulgativo e ufficiale per gli atti della Curia e pastorale per la vita della Diocesi di Velletri-Segni - Ogni vocazione è un invito ad uscire da noi stessi per seguire l’esempio dell’unico Pastore, + Vincenzo Apicella p. 3 - Il Papa della Docilità allo Spirito Santo e il Papa della Famiglia (...), Stanislao Fioramonti p. 4 - Messaggio Urbi et Orbi di Papa Francesco nella Pasqua 2014, S. Fioramonti p. 5 - Sempre più facile divorziare (...), Pier Giorgio Liverani p. 6 - Fattore “R”: religione questa sconosciuta, Rigel Langella p. 7 - I papi santi: da Pio X a Giovanni XXIII, fino a Giovanni Paolo II, Sara Gilotta p. 9 - Il futuro della famiglia: “maschio e femmina li creò” (Gn 1,27), p. Vincenzo Molinaro - Per una partecipazione piena, attiva e consapevole / 10: Tre passaggi conclusivi, don Andrea Pacchiarotti - La Samaritana e la Misericordia, Claudio Capretti p. 10 p. 11 - Iniziazione Cristiana. In attesa del nuovo documento dei nostri vescovi, don Daniele Valenzi p. 18 - La gioia intima di scoprirsi amati, Fabio Ciardi p. 19 - Ogni vocazione può nascere solo dall’amore e crescere nell’amore, Suore Apostoline di Velletri p. 20 - Gaetano di Laura e Luciano Taddei verranno ordinati Diaconi permanenti, Monica Casini p. 21 - Apriti alla Verità, porterai la Vita. 51a Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni, Suore Apostoline di Velletri p. 22 Direttore Responsabile Mons. Angelo Mancini Collaboratori Stanislao Fioramonti Tonino Parmeggiani Mihaela Lupu Proprietà Diocesi di Velletri-Segni Registrazione del Tribunale di Velletri n. 9/2004 del 23.04.2004 Stampa: Tipolitografia Graphicplate Sr.l. - Il parroco don Antonio Carughi deceduto dopo una breve malattia, mons. A. M. Erba p. 22 - “Il servo umile”. Rappresentazione della Passione, Morte e Risurrezione di N. S. Gesù Cristo, collaboratori parr. S. Paolo Ap. Velletri p. 23 - Acero 1° Maggio - Festa della Famiglia, Daniele, Monica e Claudio p. 24 - Colleferro, Parr. S. Bruno. Incontro riflessione promosso dalla Caritas: Porre l’uomo al centro del proprio interesse, iniziando da se stessi, Giovanni Zicarelli p. 26 - Giochiamo da Dio, Jacopo Giammatteo p. 27 - Dalla Comunità di Lariano, collaboratori parr. S. M. Intemerata p. 28 - Artena in Festa, Sara Calì p. 29 - Dalla Comunità di Segni p. 30 Redazione: Corso della Repubblica 343 00049 VELLETRI RM 06.9630051 fax 96100596 [email protected] A questo numero hanno collaborato inoltre: S.E. mons. Vincenzo Apicella, S.E. mons. Andrea M. Erba, mons. Franco Risi, mons. Franco Fagiolo, don Andrea Pacchiarotti, don Antonio Galati, Suore Apostoline Velletri, don Marco Nemesi, don Daniele Valenzi, p. Vincenzo Molinaro, Claudio Capretti, Pier Giorgio Liverani, Antonio Venditti, Sara Gilotta, Rigel Langella, Fabio Ciardi, Gruppo Caritas - Parr. S. M. Intemerata in Lariano, Collaboratori parr.li S. Paolo Ap. Velletri, Collaboratori parr.li S.M. Intemerata in Lariano, Monica Casini, Daniele, Monica e Claudio, Giovanni Zicarelli, Jacopo Giammatteo,Sara Calì, Valeriano Valenzi, Mara Della Vecchia,Giovanni Abruzzese, Edoardo Baietti. Consultabile online in formato pdf sul sito: p. 12 www.diocesi.velletri-segni.it DISTRIBUZIONE GRATUITA - Lariano parrocchia S. M. Intemerata: l’esperienza della Caritas, gruppo Caritas parr.le p. 13 - Impegno - Volontariato per il bene personale, degli altri e di tutti, don Antonio Galati p. 14 - La carità nella storia della Chiesa / 8: forza critico -profetica del volontariato, don Antonio Galati p. 15 - Per chi ha voglia di credere: La gioia semplice, don Gaetano Zaralli p. 16 - Il Cuore di Gesù ci insegna a donare e perdonare, mons. Franco Risi p. 17 - Il Sacro intorno a noi / 3, Stanislao Fioramonti p. 32 - Scuola: Stop alle riforme, Antonio Venditti p. 34 - Musical: Karol Wojtila la vera storia, Mara Della Vecchia p. 35 - Il mondo in soffitta di Antonio Venditti, Giovanni Abruzzese p. 36 - Doppio appuntamento culturale per il Museo Diocesano di Velletri, Edoardo Baietti p. 37 - Tiziano Vecellio, Amor sacro e Amor profano / 1 don Marco Nemesi p. 38 - Betlemme. Significativo fuori programma: il Papa fa fermare la papamobile e sosta in silenzio davanti alla barriera di sicurezza (...), Giovanni Valente p. 40 Il contenuto di articoli, servizi foto e loghi nonché quello voluto da chi vi compare rispecchia esclusivamente il pensiero degli artefici e non vincola mai in nessun modo Ecclesìa in Cammino, la direzione e la redazione. Queste, insieme alla proprietà, si riservano inoltre il pieno ed esclusivo diritto di pubblicazione, modifica e stampa a propria insindacabile discrezione senza alcun preavviso o autorizzazioni. Articoli, fotografie ed altro materiale, anche se non pubblicati, non si restituiscono. E’ vietata ogni tipo di riproduzione di testi, fotografie, disegni, marchi, ecc. senza esplicita autorizzazione del direttore. In copertina: Chiamata dei figli di Zebedeo Marco Basaiti, 1510, Venezia. Giugno 2014 3 Vincenzo Apicella, vescovo “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga” (Gv.15,16). ueste parole di Gesù, pronunciate nell’ultima cena terrena con i discepoli, sono indispensabili per comprendere il vero significato di ogni esistenza cristiana e, in particolare, di ogni vocazione specifica al servizio di Dio e dei fratelli. Esse sono inscindibili da quell’altra raccomandazione, sgorgata dalla compassione per le folle “stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore”: “la messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe!” (Mt.9,36-38). La vocazione, quindi, è sempre Dono da chiedere e Mistero da vivere, secondo la felice espressione di San Giovanni Paolo II, che così intitolò la sua toccante testimonianza in occasione del suo giubileo sacerdotale nel 1996. La nostra diocesi si appresta ad accogliere con gioia questo dono alla fine del mese di giugno, con l’Ordinazione di un sacerdote, don Teodoro Beccia e due diaconi, Luciano Taddei e Gaetano Di Laura: è un momento importante e decisivo non solo per gli ordinandi, ma per tutti noi. Nel rito sacramentale, in tutti e due i casi, c’è un elemento comune e suggestivo: la prostrazione sul pavimento degli ordinandi, durante il canto delle Litanie dei Santi, in attesa dell’imposizione delle mani da parte del vescovo, gesto che indica da sempre nella Chiesa il dono dello Spirito Santo. “Quel rito ha segnato profondamente la mia esistenza”, ha confidato il Papa recentemente canonizzato e così continua: “Anni più tardi, nella basilica di San Pietro - si era all’inizio del Concilio - ripensando a quel momento dell’Ordinazione sacerdotale, scrissi una poesia di cui mi piace riportare qui un frammento: Q Sei tu, Pietro. Vuoi essere qui il Pavimento su cui camminano gli altri... per giungere là dove guidi i loro passi Vuoi essere colui che sostiene i passi Come la roccia sostiene lo zoccolare di un gregge: Roccia è anche il pavimento d’un gigantesco tempio. E il pascolo è la croce. Scrivendo queste parole pensavo sia a Pietro che a tutta la realtà del sacerdozio ministeriale, cercando di sottolineare il profondo significato di questa prostrazione liturgica. In quel giacere per terra in forma di croce prima dell’Ordinazione, accogliendo nella propria vita - come Pietro - la croce di Cristo e facendosi con l’Apostolo ‘pavimento’ per i fratelli, sta il senso più profondo di ogni spiritualità sacerdotale” (Giovanni Paolo II, Dono e Mistero, LEV 1996, p.53-54). Diventare ‘pavimento’ è l’espressione che più intensamente esprime l’umiltà, nel senso più concreto e quasi materiale del termine, quello di aderire alla terra, di mescolarci con l’humus nel quale il Signore ci ha posto a svolgere il nostro ministero. Siamo chiamati a diventare uomini che sappiano condividere tutto degli uomini a cui apparteniamo: le gioie e i dolori, le fatiche e le speranze; capaci di accogliere nel nostro cuore le persone incontrate nel cammino, di ‘sporcarci le mani’ con i loro problemi e ‘farci carico’ delle loro croci. Dal canto suo, Papa Francesco, nel messaggio recentemente inviato per la Giornata di preghiera per le vocazioni, insiste sullo stesso tema, ma da un’altra prospettiva: ci ricorda la dimensione dell’Esodo, rilevando che ogni vocazione è un invito ad uscire da noi stessi, dalle nostre prospettive ristrette, dalle nostre aspirazioni e dai nostri progetti, per seguire l’esempio dell’unico Pastore, che “di fronte alla gioia che gli era posta dinanzi, si sottopose alla croce, disprezzando il disonore, e siede alla destra del trono di Dio” (Eb.12,2). Il Presbiterato e il Diaconato sono due forme di partecipazione alla funzione di pastore, due livelli diversi in cui si esplica il servizio al Signore e al suo popolo, due modi di dare la vita, a imitazione del Figlio dell’Uomo, che “non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mc.10,45). Se questo si realizza nel diacono, il cui titolo significa propriamente ‘servo’, si prolunga e si accresce nel presbitero, che deve rendere presente, nei segni sacramentali a cui presiede, l’unico sacrificio del Corpo di Cristo e del suo Sangue, sparso in remissione dei peccati di ciascuno di noi. Il mistero delle vocazioni ministeriali, che ci viene dato di vivere in questi giorni, è grande e inesauribile, non finiremo mai di esplorarlo e di contemplarlo, ma occorre sottolineare, per concludere, che esso scaturisce ed è ordinato al mistero della comunione, che è l’essenza stessa della Chiesa. In una Chiesa viva germogliano le vocazioni, che, a loro volta, fanno crescere la Chiesa nella comunione. Per questo, la mancanza di comunione è lo scandalo più grande, che impedisce ogni vocazione cristiana e distrugge la Chiesa, rendendola incapace di essere segno credibile di Cristo: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri” (Gv.13,35). Giugno 2014 4 a cura di Stanislao Fioramonti omenica 27 aprile, festa della Divina Misericordia, papa Francesco ha solennemente iscritto nel catalogo dei santi della Chiesa cattolica due suoi illustri predecessori, Giovanni XXIII (Angelo Giuseppe Roncalli) e Giovanni Paolo II (Karol Woityla). Della mattina indimenticabile in piazza San Pietro vogliamo riproporre le parti fondamentali della omelia del papa (concelebrava anche il papa emerito Benedetto XVI), che a partire dal Vangelo domenicale di Giovanni, quello dell’incredulità dell’apostolo Tommaso e della sua voglia di credere solo se vedeva le piaghe di Cristo, dei nuovi santi ha evidenziato i tratti salienti della spiritualità. D “San Giovanni XXIII e san Giovanni Paolo II hanno avuto il coraggio di guardare le ferite di Gesù, di toccare le sue mani piagate e il suo costato trafitto. Non hanno avuto vergogna della carne di Cristo, non si sono scandalizzati di Lui, della sua croce; non hanno avuto vergogna della carne del fratello (cfr Is 58,7), perché in ogni persona sofferente vedevano Gesù. Sono stati due uomini coraggiosi, pieni della parresia dello Spirito Santo, e hanno dato testimonianza alla Chiesa e al mondo della bontà di Dio, della sua misericordia. Sono stati sacerdoti e vescovi e papi del XX secolo. Ne hanno conosciuto le tragedie, ma non ne sono stati sopraffatti. Più forte, in loro, era Dio; più forte era la fede in Gesù Cristo Redentore dell’uomo e Signore della storia; più forte in loro era la misericordia di Dio che si manifesta in queste cinque piaghe; più forte era la vicinanza materna di Maria. In questi due uomini contemplativi delle piaghe di Cristo e testimoni della sua misericordia dimorava «una speranza viva», insieme con una «gioia indicibile e gloriosa» (1 Pt 1,3.8). La speranza e la gioia che Cristo risorto dà ai suoi discepoli, e delle quali nulla e nessuno può privarli. La speranza e la gioia pasquali, passate attraverso il crogiolo della spogliazione, dello svuotamento, della vicinanza ai peccatori fino all’estremo, fino alla nausea per l’amarezza di quel calice. Queste sono la speranza e la gioia che i due santi Papi hanno ricevuto in dono dal Signore risorto e a loro volta hanno donato in abbondanza al Popolo di Dio, ricevendone eterna riconoscenza”. “Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II - ha aggiunto Francesco - hanno collaborato con lo Spirito Santo per ripristinare e aggiornare la Chiesa secondo la sua fisionomia originaria, la fisionomia che le hanno dato i santi nel corso dei secoli. Non dimentichiamo che sono proprio i santi che mandano avanti e fanno crescere la Chiesa. Nella convocazione del Concilio san Giovanni XXIII ha dimostrato una delicata docilità allo Spirito Santo, si è lasciato condurre ed è stato per la Chiesa un pastore, una guidaguidata, guidata dallo Spirito. Questo è stato il suo grande servizio alla Chiesa; per questo a me piace pensarlo come il Papa della docilità allo Spirito Santo. In questo servizio al Popolo di Dio, san Giovanni Paolo II è stato il Papa della famiglia. Così lui stesso, una volta, disse che avrebbe voluto essere ricordato, come il Papa della famiglia. Mi piace sottolinearlo mentre stiamo vivendo un cammino sinodale sulla famiglia e con le famiglie, un cammino che sicuramente dal Cielo lui accompagna e sostiene. Che entrambi questi nuovi santi Pastori del Popolo di Dio intercedano per la Chiesa affinché, durante questi due anni di cammino sinodale, sia docile allo Spirito Santo nel servizio pastorale alla famiglia. Che entrambi ci insegnino a non scandalizzarci delle piaghe di Cristo, ad addentrarci nel mistero della misericordia divina che sempre spera, sempre perdona, perché sempre ama”. Ulteriori aspetti della personalità dei nuovi santi papa Francesco li ha evidenziati nei messaggi inviati qualche giorno prima ai bergamaschi e ai polacchi in vista delle canonizzazioni. Del papa bergamasco ha scritto tra l’altro: “Vi invito a ringraziare il Signore per il grande dono che la sua santità è stata per la Chiesa universale, e vi incoraggio a custodire la memoria del terreno nel quale essa è germinata: un terreno fatto di profonda fede vissuta nel quotidiano, di famiglie povere ma unite dall’amore del Signore, di comunità capaci di condivisione nella semplicità. Certo, da allora il mondo è cambiato, e nuove sono anche le sfide per la missione della comu- nità cristiana. Tuttavia, quell’eredità può ispirare ancora oggi una Chiesa chiamata a vivere la dolce e confortante gioia di evangelizzare, ad essere compagna del cammino di ogni uomo, “fontana del villaggio” alla quale tutti possono attingere l’acqua fresca del Vangelo. Il rinnovamento voluto dal Concilio Ecumenico Vaticano II ha aperto la strada, ed è una gioia speciale che la canonizzazione di Papa Roncalli avvenga assieme a quella del beato Giovanni Paolo II, che tale rinnovamento ha portato avanti nel suo lungo pontificato. Sono certo che anche la società civile potrà sempre trovare ispirazione dalla vita del Papa bergamasco e dall’ambiente che lo ha generato, ricercando modalità nuove ed adatte ai tempi per edificare una convivenza basata sui valori perenni della fraternità e della solidarietà”. Per parlare del papa polacco invece il papa argentino utilizzato le parole del papa emerito tedesco: “Papa Benedetto XVI ha notato giustamente, tre anni fa, nel giorno della beatificazione del suo Predecessore (1 maggio 2011, n.d.R.), che quello che Giovanni Paolo II chiedeva a tutti, cioè di non avere paura e di spalancare le porte a Cristo, egli stesso lo ha fatto per primo: ‘Ha aperto a Cristo la società, la cultura, i sistemi politici ed economici, invertendo con la forza di un gigante- forza che gli veniva da Dio una tendenza che poteva sembrare irreversibile. Con la sua testimonianza di fede, di amore e di coraggio apostolico, accompagnata da una grande carica umana, questo esemplare figlio della Nazione polacca ha aiutato i cristiani di tutto il mondo a non avere paura di dirsi cristiani, di appartenere alla Chiesa, di parlare del Vangelo. In una parola: ci ha aiutato a non avere paura della verità, perché la verità è garanzia della libertà’. Mi identifico pienamente con queste parole del Papa Benedetto XVI. Sappiamo tutti che, prima di percorrere le strade del mondo, Karol Wojtyła è cresciuto al servizio di Cristo e della Chiesa nella sua patria, la Polonia. Lì si è formato il suo cuore, cuore che poi si è dilatato alla dimensione universale, prima partecipando al Concilio Ecumenico Vaticano II, e soprattutto dopo il 16 ottobre del 1978, perché in esso trovassero posto tutte le nazioni, le lingue e le culture. Giovanni Paolo II si è fatto tutto a tutti”. Giugno 2014 a cura di Stanislao Fioramonti Cari fratelli e sorelle, buona e santa Pasqua! uesto è il culmine del Vangelo, è la Buona Notizia per eccellenza: Gesù, il crocifisso, è risorto! Questo avvenimento è alla base della nostra fede e della nostra speranza: se Cristo non fosse risorto, il Cristianesimo perderebbe il suo valore; tutta la missione della Chiesa esaurirebbe la sua spinta, perché è da lì che è partita e che sempre riparte. Il messaggio che i cristiani portano al mondo è questo: Gesù, l’Amore incarnato, è morto sulla croce per i nostri peccati, ma Dio Padre lo ha risuscitato e lo ha fatto Signore della vita e della morte. In Gesù, l’Amore ha vinto sull’odio, la misericordia sul peccato, il bene sul male, la verità sulla menzogna, la vita sulla morte. In ogni situazione umana, segnata dalla fragilità, dal peccato e dalla morte, la Buona Notizia non è soltanto una parola, ma è una testimonianza di amore gratuito e fedele: è uscire da sé per andare incontro all’altro, è stare vici- Q 5 no a chi è ferito dalla vita, è condividere con chi manca del necessario, è rimanere accanto a chi è malato o vecchio o escluso. L’Amore è più forte, l’Amore dona vita, l’Amore fa fiorire la speranza nel deserto. Con questa gioiosa certezza nel cuore, noi oggi ci rivolgiamo a te, Signore Risorto! Aiutaci a cercarti affinché tutti possiamo incontrarti, sapere che abbiamo un Padre e non ci sentiamo orfani; che possiamo amarti e adorarti. Aiutaci a sconfiggere la piaga della fame, aggravata dai conflitti e dagli immensi sprechi di cui spesso siamo complici. Rendici capaci di proteggere gli indifesi, soprattutto i bambini, le donne e gli anziani, a volte fatti oggetto di sfruttamento e di abbandono. Fa’ che possiamo curare i fratelli colpiti dall’epidemia di ebola in Guinea Conakry, Sierra Leone e Liberia, e quelli affetti da tante altre malattie, che si diffondono anche per l’incuria e la povertà estrema. Consola quanti oggi non possono celebrare la Pasqua con i propri cari perché strappati ingiustamente ai loro affetti, come le numerose persone, sacerdoti e laici, che in diverse parti del mondo sono state sequestrate. Conforta coloro che hanno lasciato le proprie terre per migra- re in luoghi dove poter sperare in un futuro migliore, vivere la propria vita con dignità e professare liberamente la propria fede. Gesù glorioso, fa’ cessare ogni guerra, ogni ostilità grande o piccola, antica o recente! Ti supplichiamo, in particolare, per la Siria, l’amata Siria, perché quanti soffrono le conseguenze del conflitto possano ricevere i necessari aiuti umanitari e le parti in causa non usino più la forza per seminare morte, soprattutto contro la popolazione inerme, ma abbiano l’audacia di negoziare la pace, ormai da troppo tempo attesa! Gesù glorioso, ti domandiamo di confortare le vittime delle violenze fratricide in Iraq e di sostenere le speranze suscitate dalla ripresa dei negoziati tra Israeliani e Palestinesi. Ti imploriamo che venga posta fine agli scontri nella Repubblica Centroafricana e che si fermino gli efferati attentati terroristici in alcune zone della Nigeria e le violenze in Sud Sudan. Ti chiediamo che gli animi si volgano alla riconciliazione e alla concordia fraterna in Venezuela. Ti preghiamo di illuminare e ispirare iniziative di pacificazione in Ucraina, perché tutte le parti interessate, sostenute dalla Comunità internazionale, intraprendano ogni sforzo per impedire la violenza e costruire, in uno spirito di unità e di dialogo, il futuro del Paese. Per tutti i popoli della Terra ti preghiamo, Signore: tu che hai vinto la morte, donaci la tua vita, donaci la tua pace! Cari fratelli e sorelle, buona Pasqua! Giugno 2014 6 Pier Giorgio Liverani L ’abbreviazione a soli sei mesi della durata delle pratiche da svolgere per ottenere un divorzio, è stata decisa dal Parlamento alla metà di maggio, vale a dire in coincidenza quasi perfetta con il triste anniversario del fallito referendum per l’abolizione del divorzio (12 e 13 maggio 1974). Quarant’anni dopo tutto quello che era stato previsto e si voleva evitare con il referendum, si è invece e purtroppo realizzato. Anzi: una sedicente scienza ginecologica che non rispetta la dignità della persona ha saputo andare al di là anche dell’immaginazione. Ha inventato tecniche sempre nuove per fabbricare bambini per soddisfare i desideri (umanamente comprensibili, ma eticamente inaccettabili) di tanti mancati genitori. Ormai su ogni principio di etica e di rispetto della persona prevale il cosiddetto “diritto” (civile) al figlio, diritto che riduce di fatto, quest’ultimo, a un oggetto da possedere. I quarant’anni che ci separano da quel tentativo di evitare tante ferite alla famiglia sono quelli in cui la società italiana si è maggiormente trasformata sotto la bandiera di una triste “modernizzazione” della società. Non soltanto i progressisti hanno dimenticato che quello che una donna socialista, la senatrice Lina Merlin, colei che più di ogni altra si batté per la dignità della donna, aveva osservato: che il divorzio altro non è se non «il frutto della più decadente mentalità borghese». Oggi un quotidiano ha avuto il coraggio, per l’occasione, di scrivere che «la dignità della persona umana e il rispetto dei diritti individuali sono la bussola del mondo nuovo». È vero, invece, quello che ha scritto un altro, cioè che «la nostra società ha metabolizzato il principio della separazione coniugale»: tutto diventa naturale, tutto si fa con disinvoltura, non ci sono più scrupoli. Un altro giornale ancora, però, ha costatato che «il matrimonio con la M maiuscola sembra non esistere più. Ora l’individualismo è più centrale della famiglia». È vero, chi aveva puntato sulla demolizione dell’istituzione che più di ogni altra garantiva la solidità della nostra società - la famiglia - può oggi dirsi soddisfatto: siamo su quella strada. Quarant’anni fa aveva ragione chi prevedeva che, oltre lo sfascio di tante famiglie con conseguenze gravissime per i figli, al divorzio sarebbe seguito l’aborto, e poi l’eutanasia (quella che oggi si chiama “fine vita” o “diritto di morire”, idea che, se non fosse tragica, sarebbe quasi ridicola). Non erano ancora previste, allora, la fecondazione artificiale umana con tutte le sue varianti (commercio di gameti, uso di quelli eterologhi, uteri in affitto eccetera) né l’istituzione delle coppie di fatto e tanto meno la valorizzazione dell’omosessualità con la previsione del matrimonio e dell’adozione omosessuali. Nonostante ciò sarebbe un errore lasciarsi trascinare dal pessimismo. La famiglia è ferita, si è detto, ma non è stata ancora demolita: nella crisi morale dilagante essa resiste e, in un certo senso, il suo contrasto con tutti gli aspetti della crisi morale di una gran parte del popolo italiano, ne dimostra ancora più il valore per una società che sembra in disfacimento. Eccone le ferite: oggi un matrimonio su tre si scioglie mentre la durata media delle nozze (comprese, però, quelle durevoli) è di 15 anni. Frequentissimi sono i matrimoni che durano solo tre o quattro anni, un’avventura. E la tendenza è verso una durata sempre più breve: secondo l’Istat, di 1000 matrimoni celebrati nel 1975 ne sopravvivevano, dieci anni dopo, 954; nel 2010 di 1000 celebrati nel 2000 solo 876 erano ancora in piedi. Nel 1991 i divorziati e separati erano già un milione, nel 2001 salirono a 3 milioni e 200mila, tra il 2001 e il 2011 questo numero aumentò di un altro milione e 400mila. L’ultimo dato noto è l’esistenza, oggi, di 2milioni e 400mila famiglie mono- genitoriali. Contemporaneamente sono andate crescendo senza misura le coppie di fatto, il cui numero, comprensibilmente, è quasi impossibile registrare, e sono fortemente diminuiti sia i matrimoni sia le nascite. Quest’ultimo fenomeno provocato sia dal numero assai alto di aborti, sia da una diffusa tendenza all’instabilità familiare e, quindi, a non avere figli o a ritardarne la nascita o a limitarne il numero a uno o due, anche se ciò si scontra, logicamente, con la forte domanda di procreazioni medicalmente assistite (PMA). Questi sono i dati diffusi dall’Istat, ma nessuna statistica potrà misurare le conseguenze psichiche e morali dei divorzi come degli aborti sulle singole persone e, soprattutto sui figli, infine delle nascite da fecondazioni artificiali, soprattutto se si tiene conto che, per ciascun bambino concepito in provetta o in utero affittato, una decina, in media, di suoi fratellini in embrione muoiono per varie cause. Un autorevole quotidiano milanese ha sostenuto arditamente, in questi giorni, che questi morti e questi sfasci familiari, questi traffici di gameti estranei alla coppia e queste invasioni (barbariche, anche se tecnicamente perfette) di persone estranee e di gameti eterologhi nei rapporti più intimi e delicati di due sposi furono solo «il test rivelatore e non il motivo scatenante del processo di secolarizzazione della società già in atto anche in Italia». Un giudizio, questo, certamente discutibile e che andrebbe a sua volta analizzato. Di fatto, un personaggio come Pier Paolo Pasolini anch’egli discutibile (morì malamente poco più di un anno dopo), ma assai lucido nei suoi giudizi, osservò, a referendum concluso, che la prevalenza dei “no” rispecchiava sì la vittoria «dell’Italia più avanzata», ma allo stesso tempo anche dell’«ideologia edonistica del consumo e della conseguente tolleranza modernistica di tipo americano». Cominciò con quel voto, in sostanza, la secolarizzazione della società italiana. E va esattamente in questa direzione pericolosa anche l’odierna decisione politica di facilitare ulteriormente il divorzio, accorciandone i tempi. Mai, però, tutto è perduto. Anzi, la crisi suggerisce il modo di vincerla. La Chiesa o, meglio, i cristiani devono saper cogliere l’occasione di una chiara e profetica distinzione tra matrimonio sacramento e matrimonio civile. Cioè - dice il sociologo Mauro Magatti, dell’Università Cattolica di Milano - «bisogna accettare la sfida sulla consapevolezza del significato della famiglia e di un matrimonio stabile come il sacramento proclama». In altre parole: si apre oggi e forse era già aperto da quarant’anni, «un grande spazio per qualificare il matrimonio sacramentale rispetto alla sua limitata dimensione civile». È un ampio spazio di testimonianza: l’occasione di «recuperare la vera dimensione sacramentale (ma anche laica) del matrimonio, che non è soltanto un contratto civile a disposizione dei cittadini». Infatti il sacramento è assai più di un atto pubblico: viene da Dio, non dal Sindaco. Giugno 2014 7 Rigel Langella* “Una generazione narra all’altra le tue opere, annunzia le tue meraviglie”: così proclama il salmista (sal 145,4), ma a quanto pare dalle parti nostre le cose non stanno proprio così. Come possiamo affermarlo? A dirlo è lo storico Alberto Melloni, il più grande specialista della materia, dimostrandolo nelle 500 pagine del Rapporto sull’analfabetismo religioso in Italia, curato per Il Mulino, con la collaborazione di altri autorevoli studiosi. Come in tutti i dati sociologici c’è una notizia buona e una cattiva. Cominciamo da quella buona: l’analfabetismo di base, quello del leggere e scrivere, è stato praticamente debellato, tra gli italiani. Ma quella cattiva è molto sconfortante: se non siamo analfabeti generici, lo siamo in modo «speciale», in tre macroaree: religione, musica e arte. Che questo avvenga in Italia, dove conserviamo (si fa per dire) il 60% dei beni artistici del mondo; da dove abbiamo esportato l’Opera, il melodramma e il bel canto nel mondo, dove ha sede il successore di Pietro è massimamente sconfortante, ma ben noto a qualsiasi operatore culturale. Melloni, allora, prende in considerazione il grande buco nero dell’ignoranza religiosa mettendoci davanti al freddo e triste dato statistico. Tra i relatori, in occasione della presentazione al Senato, lo scorso maggio, anche mons. Nunzio Galantino, segretario generale CEI che ha fatto riferimento a una fede light, da superare, per fornire contenuti di fede da adulti: «Il preoccupante tasso di analfabetismo religioso registrato dal Rapporto - spiega Galantino - penso che, almeno in parte, sia anche il frutto, amaro ma evidente, di un sentimento religioso che poggia su tracce cristiane infantilistiche, anche nel linguaggio e nelle immagini, che rivelano tutta la loro inadeguatezza e tutta la loro marginalità rispetto a ciò che conta nel “mondo adulto”, che domanda sempre di più al credente di “saper dare ragione della speranza” che lo anima e che innerva le sue progettualità» (www.chiesacattolica.it). Paolo Naso, docente all’Università La Sapienza di Roma, ha redatto per il volume tre contributi significativi: di particolare interesse il saggio che illustra i dati di una ricerca commissionata a GFK Eurisko dalla Tavola valdese, su un campione rappresentativo dell’intera popolazione italiana, alla quale i media hanno dato molto risalto, proprio per il quadro desolante che ne emerge. Ecco gli esempi forniti: «Chi ha scritto la Bibbia? Per il 50% degli italiani Gesù e Mosè; più del 50% non sa chi abbia dettato i dieci comandamenti e comunque il 60% non sa citarne più di uno, generalmente “non rubare”; tra i più negletti, il primo, l’architrave del monoteismo ebraico e cristiano. Buio profondo anche sui fondamentali del catechismo cattolico: l’80% ignora quali siano le virtù teologali». L’analisi è impietosa e non si può minimizzare mettendo questi dati in relazione al generale decadimento della cultura, cui i nostri governanti, ormai da un ventennio, destinano appena la metà della media di tutti i paesi europei, anche di quelli in crisi, come la Spagna. Il dato viene analizzato anche per i costi sociali di questa ignoranza, particolarmente preoccupante in un paese che è ormai multireligioso e mulcontinua a pag. 8 Caro dottor Liverani, mons. Mancini mi ha portato a conoscenza della lettera con cui ella ci fa partecipi della sua decisione di interrompere la collaborazione stabile con il nostro mensile diocesano. Comprendo benissimo e condivido le sue motivazioni, mentre sento il dovere di ringraziarla per il prezioso contributo, prestato fedelmente e disinteressatamente durante tutti questi anni. La sua firma, di giornalista professionalmente affermato e cristianamente impegnato nella difesa dei valori umani e civili, è stata per “Caro don Angelo, a 85 anni compiuti (il 28 aprile scorso) si comincia a sentire il peso di tanti impegni e il bisogno e, forse, anche il diritto di tirare qualche remo in barca. (…) Con grande dispiacere debbo dirle che, dopo molta riflessione e molti dubbi, ho deciso di interrompere la lunga serie di articoli mensili per Ecclesia, una rivista alla quale mi ero davvero affezionato… anche se ciò non significa la fine della mia collaborazione.” bbiamo voluto riportare parte della lettera con cui il dott. Liverani ci ha comu- A noi titolo di vanto e punto di riferimento per tanti lettori. Le siamo ulteriormente grati per la sua disponibilità ad offrirci ulteriori contributi saltuari ed occasionali e continueremo a seguirla sulle pagine di Avvenire. Le auguriamo, comunque, anni ancora numerosi e fecondi, anche perché le pagine che ella scrive non dimostrano l’età del loro autore. Il Signore benedica lei, la sua amata consorte e tutta la sua famiglia, che hanno tutto il diritto di godere più distesamente del suo affetto e delle sue attenzioni. Con grande riconoscenza e stima, mi confermo nicato l’impossibilità di poter essere presente sul nostro mensile. Attraverso questo piccolo spazio vogliamo, come comunità ecclesiale e civile, ringraziarlo per il servizio che ci ha reso in questi anni attraverso i suoi articoli sempre attenti al tema della Vita e dell’Educazione. Temi sui quali si sono Suo devotissimo Vincenzo Apicella, vescovo Diocesi di Velletri-Segni combattute battaglie importanti e per le quali abbiamo sempre potuto contare sulla sua voce puntuale, professionale e formata ma soprattutto sapiente e sensibile che ci ha rivelato una coscienza retta e amante della Vita dal suo concepimento. Nel ribadire la nostra stima e gratitudine le assicuriamo la nostra vicinanza nella preghiera perché il Signore possa continuare a sostenerla nel suo prezioso servizio e nei suoi affetti familiari. Don Angelo Mancini, direttore 8 segue da pag. 7 tietnico, che ci piaccia o meno: 355 parrocchie cristiano ortodosse per un milione e 500 mila immigrati dai paesi dell’Est; 655 luoghi di culto islamici per un milione 650 immigrati musulmani; 658 chiese neo-pentecostali africane; senza dimenticare gli 80mila sikh, con 36 templi (Gurudwara) di cui uno presente anche nella nostra diocesi. Il quotidiano Avvenire a proposito del fattore «R» (che sta per «religioso»), va giù altrettanto pesante: nella Penisola è sempre più un grande sconosciuto, tanto che meno di un italiano su tre riesce a citare correttamente tutti e quattro gli evangelisti (ignorati dal 53% dei laureati!) e in campo biblico regna la massima confusione. Non c’è da meravigliarsi, perché appena il 29% ammette di leggere la Bibbia. L’Italia, dunque, fa i conti con l’ignoranza del sacro: sia quello d’impronta ebraico-cristiana da cui traggono linfa le nostre radici, sia quello connesso ai flussi migratori che hanno trasformato il paesaggio delle fedi nel Paese. Della scarsa trasmissione del sapere religioso, da una generazione all’altra, si era parlato anche all’ultimo, recente corso di aggiornamento per soci ATI (Associazione Teologica Italiana), aperto a Roma da Chiara Saraceno, senza far carico di tutto questo all’istituzione più traballante della nostra società, la famiglia, che anche se zoppicante, formata da divorziati o separati, non deve essere esclusa dal percorso di trasmissione della fede, per evitare la paventata cesura generazionale, ormai in atto. Gli italiani aspettano risposte alla loro esigenza di formazione dalla scuola, dall’università, dai media e non solo dalle parrocchie o dalle comunità religiose di appartenenza. Le risposte però sono considerate insoddisfacenti o nulle. In sostanza, secondo Melloni e i curatori del Rapporto, il nostro essere cattolici è stato eccessivamente ideologizzato, facendoci (erroneamente) ritenere di possedere un substrato religioso certo che, dunque, non avesse bisogno di verifiche, approfondimenti, conoscenza. Il primo imputato è stato identificato nell’aver bandito la teologia dalle università di Stato, un ulteriore tassello a questo disegno inspiegabile che ha accomunato integralisti e anticlericali, con la pretesa di relegare l’insegnamento religioso nei Seminari e magari in un’unica ora a scuola: «così è affiorata una buona dose di ignoranza che accomuna credenti e non credenti, praticanti e non praticanti». Mentre ciò non è accaduto in Germania, Stati Uniti o Svizzera, con centri attivissimi di formazione, dialogo interreligioso, divulgazione ad alto livello di temi teologici. Vorrei aggiungere, per mia esperienza, la chiusura degli ISR che, dopo il Concilio, avevano rappresentato l’apertura di una finestra di conoscenza teologica formativa per il laicato, con un percorso strutturato. Questo specialmente negli ultimi anni quando, esaurite le possibilità di ottenere un titolo per l’IRC, vedevo arrivare trafelati, negli orari serali più faticosi e improbabili, a seguire le mie lezioni di cristologia, viceprefetti, primari ospedalieri, docenti universitari, imprenditori, ingegneri e tante altre persone ammirevoli, uomini e donne di buona volontà, che chiedevano di approfondire le ragioni del proprio credere e la loro fede (credo ut intelligam, intelligo ut credam, secondo Agostino d’Ippona). Tutti loro, superimpegnati o alla ricerca di lavoro che fossero, giovani o anziani, uomini o donne, magnifico spaccato dell’essere Popolo di Dio, con la loro testimonianza vissuta e la loro esperienza di vita mi mettevano continuamente alla prova, come avviene normalmente nella società civile e come in parrocchia non usa fare. Tutto finito, ora, e la teologia è tornata nei seminari e nelle segrete stan- Giugno 2014 ze dei nostri piccoli cenacoli religiosi, dove, come diceva Carlo Maria Martini bisognerebbe “aprire le finestre e ricambiare l’aria”. La formazione religiosa, come emerge dal Rapporto, non serve soltanto a interpretare il passato, ma è essenziale anche per essere persone con una coscienza matura e una sensibilità raffinata. Come diceva il teologo Karl Barth: in una mano la Bibbia e nell’altra il giornale, per capire il mondo. Il Rapporto mi ha fatto tornare alla mente l’inizio e la fine del mio percorso di formazione teologica. La spinta a iniziare, oltre al carisma specifico di mons. Giuseppe Centra per i laici e la cultura mi venne entrando in Santa Maria Novella in Firenze. Guardando ammirata gli affreschi del Ghirlandaio ne capivo lo stile, la prospettiva, la tecnica, ma nulla di quanto era raffigurato. Non ero in grado di distinguere se un signore in barca con la barba era Noè sulle acque del diluvio o Pietro a Tiberiade. Mentre stanca, mi sedetti scoraggiata e smisi di guardare, con un occhio gli affreschi e con l’altro la guida del TCI, mi scattò una molla. Una voce dentro di me mi disse: ma come mai con tanta cultura, tanti titoli, tante pubblicazioni resti instupidita davanti a quella che è una Biblia pauperum, ossia affreschi che, come fumetti, raffigurano la Storia sacra dell’antico e nuovo Testamento, per chi era proprio analfabeta? Una volta alzata da quel banco la decisione era presa: non potevo restare tanto ignorante! Così arrivai al dottorato di teologia perché amavo l’arte più di tutto… In negativo la riprova dell’analfabetismo religioso ai massimi livelli, l’ho avuta a Perugia, davanti a un affresco del Pinturicchio, restaurato impeccabilmente, raffigurante la nascita di Gesù, con l’iconografia classica di Maria sdraiata a letto e la levatrice con la bacinella, pronta a lavare il bebè. La spiegazione, redatta dalla Sovrintendenza, faceva riferimento, udite udite, a: presenza di misteriosa figura di offerente… Il Rapporto, dunque, ha parlato proprio del fatto che il mondo accademico non riesce a cogliere la valenza culturale dell’elemento religioso, con conseguente incapacità di decifrare il Tesoro Italia: «Senza le coordinate che permettono di avere un’idea su che cosa accadde col passaggio del Mar Rosso o che cosa sia l’Ultima Cena non possiamo comprendere parte delle opere letterarie, artistiche o musicali concepite qui», ha affermato Naso, in un’intervista a www.evangelici.net. Per contrastare l’analfabetismo religioso occorreranno - ha ribadito Melloni - intellettuali con una significativa competenza teologica che contribuiscano ad affrontare i problemi legati al dialogo interculturale e all’integrazione sociale. I tassi di analfabetismo funzionale in Italia sono molto alti e i suoi effetti determinano un innalzamento del disagio e della conflittualità sociale. Se è vero che la Chiesa non pratica più il principio del “sapere è potere”, allora, la via per fugare l’ignoranza è solo una, quella del secondo elemento, praticata e insegnata dai Gesuiti, che mi hanno formata, ai quali si ispira evidentemente anche Melloni: se è buio accendi la luce! Oppure: chiama chi sa fare l’elettricista, perché di giacimenti culturali inutilizzati, anche la Chiesa non difetta… *Associazione Teologica Italiana A. MELLONI (a cura di), Rapporto sull’analfabetismo religioso in Italia, Il Mulino, Bologna 2014, pp. 528, € 38,00. Giugno 2014 9 Sara Gilotta 1914: Esattamente un secolo fa moriva Papa Pio X ,canonizzato nel 1954 da Pio XII. Dunque il cosiddetto secolo breve tanto drammatico dal punto di vista storico ha avuto in dono dallo Spirito Santo ben tre pontefici elevati agli onori degli altari, di cui il più noto è senza dubbio Papa Woytila. Il primo fu, appunto, Pio X di cui è interessante ricordare qualcosa delle tante ed importanti che caratterizzarono il suo pontificato. Egli salì al trono pontificio nel 1903 e fu eletto, per così dire, a sorpresa perché il conclave decise di seguire la volontà dell’imperatore d’ Austria che non condivideva l’elezione del segretario di stato Rampolla, secondo lui, troppo favorevole alla Francia. Ma, fatto riferimento a tale questione storico- politica, si deve dire che il Papa che veniva da un’esperienza quasi esclusivamente pastorale,dopo aver affidato la direzione della diplomazia della Curia Romana al cardinale Merry Del Val nominato segretario di stato, si occupò essenzialmente dell’indirizzo teologico da dare alla Chiesa, guidato dal suo amore per la semplicità e l’umiltà, tanto che scelse come l’attuale pontefice di non vivere in Vaticano, ma in una dimora molto più modesta. Per alcune delle sue scelte è ricordato come un tradizionalista,come si considerò in particolare evidente nell’enciclica Pascendi Domenici gregis e il Decreto Lamentabilis Sane Exitu. L’enciclica non è facilmente sintetizzabile, ma certamente il documento pontificio voleva riaffermare, come dice chiaramente il titolo, il compito del Pontefice di pascere il gregge di Cristo anche per difenderlo dalle false novità che miravano a “scrollare la Chiesa dai fondamenti”. Il papa si riferiva appunto alle cosiddette teorie moderniste e ai loro fautori che giudicava “fra i nemici più dannosi” della chiesa stessa. Perché egli era convinto che le idee moderniste compendiassero in sé varie e pericolose dottrine, tra le quali la più dannosa si doveva considerare quella dell’agnosticismo, che pretendeva di restringere la ragione esclusivamente nel campo dei fenomeni, cioè solo a quel che “apparisce” e non oltre. E’ chiaro che la fede e la capacità dell’uomo di innalzarsi a Dio erano esclusi e preclusi alla ragione così interpretata, mentre, secondo il papa, esse potevano essere attinte dalla ragione naturale, oltre che dalla divina rivelazione. L’agnosticismo, perciò, fu considerato vera propria ignoranza che sapeva solo ingannare, anche riducendo “la persona di Gesù”a semplice realtà umana, svilendo in tal modo il sentimento religioso e quasi sovvertendo l’ ordine soprannaturale. Dunque la preoccupazione del pontefice si basò sulla convinzione che le ragioni del modernismo potessero influire al negativo sulle ragioni stesse dei dogmi più importanti delle religioni e di quella cattolica innanzitutto, per affermare in modo forte e chiaro che la “scienza è tutta nella realtà dei fenomeni e, mentre la fede dovrebbe, secondo i modernisti, armonizzarsi con la scienza, quest’ ultima rimaneva del tutto indipendente dalla fede. E forse i timori del Santo Pontefice non erano del tutto infondati, almeno a guardare a quanto è accaduto successivamente ed ancora sta accadendo con la “sovranità” della scienza e della tecnologia. Naturalmente l’enciclica è assai più complessa nel contenuto e nei concetti da ciò che molto brevemente ho detto, ma che ben descrive le convinzioni e le preoccupazioni di un papa che anche cronologicamente si colloca alla fine di un ‘epoca storica , che gli anni e gli avvenimenti successivi muteranno fin nel profondo. A cominciare dalla realtà e dagli effetti della prima guerra mondiale, che era paven- tata dal Santo papa già da qualche tempo e che da lui fu definita “guerrone”. Ma di Papa Sarto forse si ricorda più facilmente nell’ambito del suo indirizzo teologico, la redazione del nuovo catechismo fatto di semplici domande ed altrettanto semplici e brevi risposte sul quale molte generazioni di bambini hanno studiato per prepararsi alla prima comunione. 1958 sale al trono di Pietro Angelo Roncalli, il Patriarca di Venezia, come Giuseppe Sarto: E’ molto anziano, ma il conclave , si diceva allora, lo scelse perché la curia non desiderava alcun tipo di cambiamento. Ed invece Giovanni XXIII convocò il Concilio Vaticano II, che per le sue innovazioni forse ancor oggi non è stato completamente adempiuto. Ma credo che, per cercare di ricordare il magistero del nuovo santo sia interessante ricordare la più nota delle sue enciclica la “Pacem in terris “promulgata l’undici aprile del 1963, solo un anno prima che il pontefice morisse dopo circa cinque anni di regno. Cinque anni difficili per il mondo, cui Egli seppe far sentire sempre il suo profondo senso di umanità e a cui non mancò mai il conforto della sua parola semplice e spontanea:, come quelle del famoso discorso della luna, in cui chiese a quelli che affollavano piazza San Pietro di portare la carezza del papa ai bambini rimasti a casa. La luna e i bambini “un sigillo” colmo di tenerezza del suo pontificato peraltro ricchissimo di iniziative che hanno riscritto la storia della chiesa. E se tra tutte la più importante fu il concilio, credo che, a dimostrare la grandezza e la lungimirante consapevolezza nel comprendere i tempi nuovi che il mondo e la chiesa stavano vivendo ed affrontando , non si possa non fare riferimento almeno, come dicevo, alla “Pacem in terris”. Perché questa enciclica, fu voluta dal Papa buono “al culmine della guerra fredda, quando il mondo stava ancora venendo a patti con la minaccia costituita dall’esistenza e dalla proliferazione di armi di distruzione di massa “. Queste parole scritte da Benedetto XVI colgono certamente l’aspetto più importante su cui si fondò il messaggio papale, ma è anche vero che nelle pagine dell’enciclica viene delineata una nuova visione del mondo, un mondo in cui l’uomo deve essere al centro della realtà, così come del lavoro, che deve rispettarne la dignità e favorirne l’ascesa sociale ed economica nel rispetto dei diritti fondamentali, tra cui il diritto alla vita, all’integrità fisica e alla libertà religiosa. Diritti, se si vuole, semplici che però il mondo attuale stenta a realizzare anche nel progredito occidente. Ma l’enciclica, e fu un’ altra grande novità, si rivolgeva a tutti gli uomini di buona volontà, perché solo tutti insieme si può realizzare sulla terra il bene comune e la pace. Bene comune e pace che devono coniugarsi basando non solo i rapporti tra i singoli individui, ma viepiù quelli tra le comunità e le nazioni sulla verità, sulla giustizia e sulla solidarietà. E se si aggiunge che Giovanni XXIII afferma che, per partecipare alla vita politica, è necessario essere competenti, ma soprattutto, è fondamentale svolgere le proprie attività “nell’ambito dell’ordine morale”, si comprende come dei concetti semplici abbiano mostrato e stiano ancora mostrando tutta la loro difficoltà di realizzazione, se è vero che il nostro tempo soffre come e più gravemente di allora di mancanza di morale. E i risultati oltre che offendere la dignità dell’uomo, impediscono o per lo meno rallentano il progresso e l’attuazione di una società di uguali, in cui l’autorità non può e non deve essere basata sull’oppressione, sull’utilitarismo più bieco ed egoista. Dell’ultimo : Giovanni Paolo II sarebbe troppo difficile dire in breve l’importanza del suo pontificato e per questo eventualmente scriverò la prossima volta. continua Giugno 2014 10 p. Vincenzo Molinaro* L e sentenze della corte costituzionale, in particolare l’ultima, in materia di procreazione assistita, hanno messo in movimento non solo le coppie alla ricerca di ottenere un figlio anche attraverso la inseminazione eterologa, ma potremmo dire un universo inquieto che a partire dai centri di ricerca di sessuologia e affini spingono sempre più avanti gli obbiettivi dei loro studi. Dietro a questi segue, con l’aspettativa di applicare alle proprie esigenze i risultati delle acquisizioni scientifiche, il numero notevole di persone e famiglie che desiderano un figlio a qualunque costo e con qualunque strumento. L’obbiettivo non dichiarato di questo processo è affrancare l’uomo da quelli che vengono presentati come condizionamenti della natura, in particolare la sessualità e il suo uso con le implicanze evidenti di carattere fisiologico sulla generazione umana. Nei fatti si intende liberare non solo la donna ma in generale l’essere umano dal dato inoppugnabile della natura in cui l’uomo è creato “maschio e femmina” e come tale si intende staccare la nascita di un bambino dalla relazione di coppia. La coppia di genitori, padre e madre, verrebbe sostituita da genitore uno e genitore due, separando i gesti dell’amore dall’esercizio della sessualità e ancor più dal concepimento di un figlio. Questi andrà cercato altrove, in un laboratorio e risponderà ai gusti e alle preferenze dell’acquirente come quando uno va al supermercato e sceglie la marca preferita del tonno o della birra. Questa premessa riassume la mentalità corrente presso tutti quei luoghi collegati dai media e dalle lobbies che tentano in tutti i modi di fissare i canoni del politicamente corretto e del socialmente accettato. A questi nuovi canini votati alla distruzione dell’umano, si oppone con la sua parola semplice ma forte Papa Francesco. Il 14 febbraio ha detto ai fidanzati quelle parole che si sono scolpite nelle loro menti: “Il marito ha il compito di fare più donna la moglie e la moglie ha il compito di fare più uomo il marito. Crescere anche in umanità, come uomo e come donna”. Sembrano parola di circostanza finché non si solleva il telo della semplicità a tutti i costi e non si ascoltano con il cuore aperto: Il Papa parla di fare più uomo, più donna, di crescere in umanità. La sua preoccupazione non è rivolta né alla preghiera, né ai sacramenti, né alla carità: E’ rivolta invece alla umanità. Più donna, più uomo…Come se dicesse che una misura adeguata di umanità è indispensabile per fondarvi sopra un sacramento. L’intervento di febbraio 2014 ha avuto già i suoi precedenti, a cominciare dalla indizione dei Sinodi dei vescovi che verranno celebrati in questo autunno e in quello successivo con la tematica della famiglia in agenda. Allo scopo, ricorderete il questionario che ha fatto il giro del mondo per coinvolgere tutte le persone di buona volontà a far arrivare alla Commissione preparatoria del Sinodo il pensiero del Popolo di Dio, al quale Papa Francesco riconosce la prerogativa di sapere offrire al Sinodo stesso opinioni e suggerimenti. Questa riflessione del Papa elaborata nella Lumen Fidei…52, ispira il grande progetto che la Chiesa italiana si è prefisso in questi due anni anche come originale contributo alla preparazione al Sinodo. Così si è tenuto a Nocera Umbra (23-26 aprile 2014) il primo Convegno di studi, con il titolo indicato e il sottotitolo altrettanto significativo: Le radici sponsali della persona umana. L’intento è di offrire alla cultura contemporanea la ricchezza della differenza sessuale, la reciprocità tra maschile e femminile e i vari luoghi in cui tale bellezza può emergere. Per tutti coloro che vorranno preparare adeguatamente il futuro Sinodo sarà utile fornirsi degli Atti del Convegno, non appena saranno pubblicati. Inoltre, lo dico non solo per gli addetti ai lavori, ma per tutti coloro che seguono questa tematica dal punto di vista della fede, della cultura, della filosofia. Il convegno del prossimo anno sarà ugualmente importante, da non perdere. Nel frattempo si possono trovare quasi tutte le relazioni sul sito della chiesa cattolica, al servizio della pastorale della famiglia. Tra tutte le relazioni voglio ricordarne almeno due perché particolarmente vicine alla nostra sensibilità di famiglie credenti che si interrogano sul proprio futuro e su quello dei figli. E’ possibile approfondire gli aspetti biblici nella relazione di Mons. G. Benzi, dal titolo suggestivo: Ma io non sono solo (Gv 16,32): il vangelo della relazione dalla creazione a Cristo. L’altro testo straordinario è quello intitolato: Uomo e donna: le radici sponsali della persona umana, presentato da Padre José Granados, vice presidente del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per gli Studi su Matrimonio e Famiglia. Relazioni da leggere più volte e da meditare con la certezza che non sarà fatica vana. Esse apriranno la nostra curiosità intellettuale verso nuovi traguardi che costituiscono l’orizzonte sul quale la Chiesa ci invita a proiettarci. *Delegato diocesano per la Pastorale famigliare Giugno 2014 don Andrea Pacchiarotti ileggere la Sacrosanctum Concilium (SC) nel cinquantesimo anniversario della sua promulgazione avvenuta il 4 dicembre 1963, è stata un’impresa complessa, perché ripercorrere tutto il documento conciliare non permetteva una rilettura globale, seria e approfondita. In quest’ultimo intervento mi limiterò a richiamare tre passaggi della SC che a mio parere meritano di essere ripresi e meditati ancora: 1. La liturgia come “culmen et fons” della vita della chiesa (SC 10) 2. La “nobile simplicitas” (SC 34). 3. La “actuosa participatio” (SC 14) espressione che, come visto, ritorna undici volte nella costituzione liturgica. Al numero 10 di SC leggiamo: «La Liturgia è il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, insieme, la fonte da cui promana tutta la sua virtù. Infatti, le fatiche apostoliche sono ordinate a che tutti, diventati figli di Dio mediante la fede e il battesimo, si riuniscano in assemblea, lodino Dio nella Chiesa, partecipino al Sacrificio e mangino la cena del Signore». L’interrogativo che ci siamo posti nella nostra rilettura, è se la liturgia è veramente il culmine e la fonte della vita della chiesa e dunque della vita spirituale di ogni credente. La nostra preoccupazione non deve soffermarsi solamente su come i credenti vivono la liturgia, quanto piuttosto se i credenti vivono della liturgia che celebrano. Come ricorda G. Boselli: “vivere della liturgia che si celebra significa vivere di ciò che la liturgia fa vivere: il perdono invocato, la parola di Dio ascoltata, l’azione di grazie innalzata, l’Eucaristia ricevuta come comunione. Se vivono della liturgia, i credenti vivranno diversamente la liturgia perché è essa stessa ad avere in sé quelle energie spirituali essenziali per essere sorgente della vita spirituale dei credenti. La liturgia, infatti, è il modo specifico attraverso il quale la chiesa vive di Cristo e per Cristo, e fa vivere i credenti di Cristo e per Cristo. Le parole e i gesti liturgici sono in ordine a questo: Per me vivere è Cristo (Fil 1,21)”. Occorre dunque predisporre tutto affinché i ciascuno trovi nella liturgia il nutrimento della vita di fede, diversamente celebreremo sempre la liturgia senza vivere di essa. Al numero 34 della SC si legge: «I riti splendano per nobile semplicità; siano chiari per brevità ed evitino inutili ripetizioni; siano adattati alla capacità di comprensione dei fedeli e non abbiano bisogno, generalmente, di molte spiegazioni». Questo testo invita tutti a vigilare affinché la liturgia resti fedele allo spirito della riforma liturgica del Vaticano II che ha cercato di declinare la nobile simplictas nelle forme e nello stile. Lo stile liturgico che manifesta fasto e ostentazione e che ricerca queste come uniche forme capaci di manifestare sacralità e narrare lo splendore di Dio è un’illusione. Parlare, infatti, di una liturgia semplice non significa in nessun modo cedere a una liturgia sciatta, trascurata e per questo inespressiva. La bellezza semplice della liturgia deve essere invece ricerca- R 11 ta con impegno e fatica, fino a rappresentare un punto di arrivo desiderato. È molto più facile declinare la bellezza nello sfarzo, nella sontuosità, nel lusso che sono le forme mondane di bellezza. La bellezza della liturgia cristiana non è imitazione della bellezza mondana ma riflesso della bellezza stessa di Dio, per questo possiamo domandarci ancora una volta le nostre liturgie rappresentano il Vangelo che annunciano? In SC 14 leggiamo: «La Madre Chiesa desidera ardentemente che tutti i fedeli vengano guidati a quella piena consapevole e attiva partecipazione delle celebrazioni liturgiche, che è richiesta dalla natura stessa della Liturgia e alla quale il popolo cristiano, stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo di acquisto (1Pt 2,9; cf. 2,4-5), ha diritto e dovere in forza del Battesimo». Il concetto di partecipazione attiva è un’acquisizione fondamentale e necessaria del Concilio. Sulla base di un’errata interpretazione della partecipazione attiva, si è forse troppo insistito sull’esteriorizzazione nella liturgia. Una esteriorizzazione che privilegia la necessità di esprimere le devozioni, i sentimenti, di manifestare le emozioni nella ricerca di un clima per lo più di incontro e di festa. Oggi si avverte, o forse si riscopre, che la liturgia prima di essere la somma delle emozioni di un gruppo umano è anzitutto «interiorizzazione», ovvero accoglienza di una Parola che convoca l’assemblea, la nutre al fine di permetterle di vivere ciò che ha ricevuto. G. Boselli ripete spesso il bisogno di trovare nella liturgia: un’atmosfera più orante e più meditativa. In altri termini, il desiderio di una liturgia contemplativa che accordi il primato all’interiorità e all’interiorizzazione, ovvero dell’appropriazione personale da parte del cristiano di ciò che si dice e si fa nell’azione liturgica. Semplificando molto, si potrebbe dire una liturgia più spirituale e meno conviviale. Più contemplativa e meno festante. Dove vi siano meno parole e più Parola. Meno segni improvvisati e più significati compiuti. Siamo qui per fare festa sembra essere – non sempre ma spesso la monizione con la quale introdurre la comunità alla celebrazione. L’autentica festa liturgica è anzitutto interiore, silenziosa, calma e sobria, perché è festa della fede. Parlare di festa interiore, di interiorizzazione e di interiorità non significa in alcun modo auspicare un ritorno all’intimismo e tanto meno cedere al rifiuto e al disprezzo della insostituibile manifestazione corporale e sensibile che la liturgia necessariamente implica in quanto azione anche umana e anche destinata all’uomo. La chiesa ha sempre creduto che la liturgia è la sua azione più efficace, perché in essa Dio, per l’azione del suo Spirito, agisce in modo infinitamente più reale e potente di quanto agisca in qualunque altra attività che la chiesa decide di intraprendere. Questa consapevolezza il Concilio Vaticano II l’ha espressa in SC 7 quando afferma: «Ogni celebrazione liturgica … è actio sacra per eccellenza, e nessun’altra azione della chiesa ne uguaglia l’efficacia allo stesso titolo e allo stesso grado». Giungere a credere che la liturgia è l’azione più efficace della chiesa richiede un serio cammino di conversione individuale e comunitaria, umana e pastorale al tempo stesso. La rilettura di SC si pone nel solco di questo cammino di conversione e spero che tale riflessione diventino le capacità, le possibilità e gli strumenti per una partecipazione sempre più piena, attiva e consapevole alla liturgia che celebriamo. Giugno 2014 12 Claudio Capretti “O Dio, tu sei il mio Dio, dall’aurora io ti cerco, ha sete di te l’anima mia, desidera te la mia carne in terra arida, senz’acqua”. l’ora sesta, l’ora in cui la mia gente rimane chiusa nelle case per ripararsi dal caldo. Per me, invece, è l’ora in cui posso uscire per prendere l’acqua dal pozzo. Se lo facessi in un ora diversa da questa, incontrerei persone e di sicuro attirerei commenti e sguardi che mal sopporterei. Questa è la mia vita, non degna di essere raccontata infatti, non godo del favore della mia gente ed ho come la sensazione che il disprezzo che il mio popolo ha per me, è simile a quello che i Giudei hanno per il mio popolo. Noi samaritani siamo considerati degli impuri in quanto discendenti dell’unione tra i coloni Assiri e gli Israeliti. Siamo distanti anche per le questioni cultuali, come il tempio. Infatti, se i Giudei adorano Dio nel tempio di Gerusalemme, noi lo adoriamo nel tempio sul monte Garizim. Qualcosa ci unisce, come il rispetto per lo shabbat e la convinzione che arriverà il Messia. Con il capo coperto, mi avvicino sempre di più al pozzo di Giacobbe, e man mano che avanzo diventa sempre più chiara una figura di Uomo che, seduto sull’orlo del pozzo, sembra riposarsi o attendere qualcosa o forse qualcuno. Chi sei giudeo, perché in questa ora così insolita per tutti tranne che per me ti trovo qui? Il passo si arresta dinnanzi a questo Uomo, i nostri sguardi si incrociano per un solo istante, abbasso la testa per poi iniziare ad attingere l’acqua. Sento i suoi occhi su di me e dal suo respiro avverto che è affaticato. “Dammi da bere”. La richiesta mi disorienta, come posso darti ciò che ancora non ho? E soprattutto: “Come mai tu che sei giudeo, chiedi da bere a me che sono una donna samaritana?”. Cosa penserebbero i tuoi se ti vedessero parlare con una donna, che per giunta è una samaritana? Non verresti considerato un eretico? Non mi dai il tempo di aggiungere altro, e mi dici: “ Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è È colui che ti dice:”Dammi da bere”, tu avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva”, replicando così alla mia domanda, dandomi una risposta non attinente a ciò che ti ho chiesto. Ed ho l’impressione che Tu vorresti condurmi altrove, darmi risposte diverse dalle mie domande. Ma non riesco ad andare oltre, e quindi non ho altro da dirti che: “Signore non hai un secchio e il pozzo è profondo; da dove prendi dunque quest’acqua viva? Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe, che ci diede il pozzo e ne bevve lui con i suoi figlie il suo bestiame?” . Mi guardi con una fermezza e una delicatezza mai incontrata in nessun uomo e mi rispondi:“Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna”. Chi sei Tu per promettermi qualcosa di mai udito finora?. Nessuno mi aveva accennato ad un’acqua viva di cui mi stai parlando. Ma allora…, se mi dici che c’è un acqua viva, deve esserci anche un acqua morta? Ed è forse a questa fonte che io ho condotto finora la mia anima? E’ per questo che la mia vita è così arsa? E per quale motivo vuoi donarmi quest’acqua viva e come posso diventare io stessa una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna? Forse vuoi farmi volare su ali d’aquila, ma la mia incapacità mi spinge solo a dirti: “Signore, dammi di quest’acqua, perché io non abbia più sete e non continui a venire ad attingere acqua”. La mia vita è limitata, vivo costretta ad inseguire l’istante che passa e che in breve tempo svanisce nel nulla. Abbasso gli occhi su di Te, come a voler rinunciare a Te, ma il mio sguar- do è ora ricondotto a Te, quando mi dici: “Và a chiamare tuo marito e ritorna qua”. Perché mi chiedi questo, e perché lo fai con una delicatezza che finora nessuno mi ha mai usata?. E’ la tua tenerezza che mi spinge a mettermi nella verità, a confidare in Te e dirti: “Io non ho marito”. Ho infatti vissuto cercando di spegnere una sete dissetandomi all’acqua dell’illusorio, ma Tu mi stai mettendo dinnanzi la mia vita. Non riesco ancora a capire chi sei, e perché mai oggi sei qui ad aspettarmi? Fermi di nuovo i miei pensieri, e mi dici:“Hai detto bene: “Io non ho marito”. Infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero”. E’ vero Signore, il sesto marito non è mio marito, ma solo il culmine di scelte sbagliate, che hanno privato il mio cuore dell’acqua viva, Tu oggi ti presenti a me nell’ora sesta anteponendoti al mio sesto marito e a indicarmi dov’è la vera salvezza. Ma l’anima mia è ancora ribelle, vuole ancora sfuggirti. “Signore, vedo che tu sei un profeta! I nostri padri hanno adorato su questo monte; voi invece dite che è a Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare”. Mi sento ancora indegna di tutto questo, cerco di distogliere l’attenzione su di me, ponendoti vecchi conflitti tra noi Samaritani e voi Giudei. Non mostri nessuna impazienza al mio sfuggirti, forse in cuor tuo sai che non posso andare lontano dal tuo spirito, forse hai già arrestato la mia corsa verso il niente. “Credimi, donna, viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate ciò che non conoscete, noi adoriamo ciò che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. Ma viene l’ora - ed è questa - in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità”. E il cuore per tua grazia avanza un po’ di più verso il tuo, indicandomi un Padre che è la vera fonte di ogni paternità. continua nella pag. accanto Giugno 2014 13 Gruppo Caritas parrocchiale* L ’attuale Gruppo Caritas di S. Maria Intemerata si è costituito nel 2009, sotto la direzione del Parroco, Padre Vincenzo Molinaro. La formazione del nostro gruppo è stata curata dall’Equipe della Caritas Diocesana: a questo proposito vogliamo qui ricordare in modo particolare l’opera della Sig.ra Giusi che, in pochi mesi, prima della sua prematura scomparsa, è riuscita a trasmetterci il senso della vera carità che è principalmente amore verso il prossimo. Il gruppo ad oggi è composto da quindici volontari che si alternano durante i giorni di ricevimento dell’Utenza: lunedì e mercoledì mattina, giovedì pomeriggio. Sono in dotazione della parrocchia due container, uno per la distribuzione di vestiario, l’altro per lo stoccaggio di generi alimentari che i nostri volontari si prodigano a tenere in ordine e disponibili per gli indigenti. Il Centro di Ascolto parrocchiale è rivolto alle persone ed ai nuclei familiari con problematiche socio economiche: mancanza di lavoro, malattie invalidanti, situazioni familiari critiche, psicolabili, ecc. In maniera più rilevante si dà sostegno alle problematiche lavorative, economiche (pagamento di utenze etc.) e morali di coloro che sono soli o che hanno malati in famiglia. In quest’ottica è iniziata a gennaio 2013 l’opera di volontariato denominata “Aiuto alla Persona” che si effettua presso le abitazioni di persone sole, di anziani, malati, nuclei familiari in particolare stato di disagio. Dopo un breve, ma intenso corso formativo, tenuto dai Volontari della Caritas di Roma, alcuni volontari del nostro servizio Caritas hanno cominciato a visitare queste persone tenendo loro compagnia una volta alla settimana. Attualmente gli assistiti sono circa una decina, ma contiamo di poterne annoverare ancora. L’obiettivo principale di queste visite è l’assistenza domiciliare leggera: fare compagnia e prendersi cura della persona sola, ammalata o anziana per infonderle fiducia dimostrandole la nostra disponibilità; accompagnarla per piccole commissioni e disbrigo di eventuali pratiche burocratiche. Le segnalazioni dei Ministri Straordinari per l’Eucarestia sono state di grande ausilio per l’individuazione delle persone che potevano rientrare nel nostro progetto. Nei primi tempi ci era sembrato un compito arduo abbattere l’iniziale barriera di diffidenza dei nostri assistiti poi, come un piccolo miracolo, le case e i cuori si sono aperti: attendevano con ansia la nostra visita. A Lariano, centro abitativo più piccolo e più amicale rispetto alla gran- segue da pag. 12 Lentamente mi stai conducendo sempre di più verso di Te. Un’unica domanda mi rimane ancora prima di abbandonarmi definitivamente a Te, per questo ti chiedo: “So che deve venire il Messia, chiamato Cristo: quando egli verrà, ci annuncerà ogni cosa”. Torna ancora una volta il tuo sguardo a posarsi su di me, e con solennità mi dici: “Sono io che parlo con te”. E il mio cuore che credevo morto si apre ora a Te che sei il nuovo battito, la nuova vita a cui avevo rinunciato, annullando il disincanto della mia esistenza. Mio Signore, solo ora vedo che Tu sei la Forza de città, il nostro operato assume una connotazione familiare: per noi volontari fare questo servizio significa andare a trovare un amico, un fratello. E allora, tra un caffè e un dolce, le ore scorrono parlando delle preoccupazioni che li affliggono, sorridendo al ricordo dei momenti piacevoli della nostra vita, aiutando ad “impastare” le fettuccine oppure recitando il S. Rosario. Mentre siamo da questi nuovi amici la presenza di Dio è sempre viva nei nostri cuori: davanti a noi abbiamo persone che portano la loro croce, talvolta con disperazione, talvolta con grande coraggio o con rassegnazione. Vediamo delle piccole, ma grandi donne combattere la propria malattia o quella dei loro cari, pregando la nostra Madre Celeste di dare loro la forza di andare avanti. E noi, ogni volta che usciamo da una di queste case, sentiamo di avere ricevuto un grande dono: ci hanno dato amore, forza di vivere e la certezza di compiere la nostra missione: Donare un sorriso a chi è triste e speranza a chi è afflitto. In conclusione i giorni destinati a questo servizio scorrono velocemente, gli operatori si mettono nell’atteggiamento dell’ascolto, attento e disponibile. Le persone che vengono al Centro a volte devono attendere, perché la fila è lunga, specialmente in alcuni giorni, ma tutto si svolge nella serenità. Ci piacerebbe avere a disposizione un ambiente più confortevole, più autonomo, con locali più ampi: alla fine però ci accorgiamo che la differenza la fanno le persone che accolgono con discrezione, pazienza e semplicità tutti coloro che, mossi dal bisogno, si avvicinano. ammantata di debolezza, che si è chinata sulla mia storia, non per condannarla, ma solo per svelarne dolcemente la mia debolezza e per liberarmi. Eri ad attendermi presso il pozzo, luogo dove gli innamorati si incontrano, ed eri assetato di me, della mia fede. Tu sei il pozzo da cui sale l’acqua viva per poi ridiscendere sulle nostre piccole vite e renderle vive. Ti sei manifestato a me per dissetare la mia anima arsa dalle cose e dai sensi del mondo indicandomi una sorgente di acqua viva che ignoravo. Ora lo so, ora lo comprendo, Tu sei il Messia che attendiamo, che viene nella debolezza per entrare nella nostra debolezza e trasformarla *S. Maria Intemerata, Lariano in forza,ed io non sono che l’anfora vuota da riempire di Te. Abbandono a terra ciò che non serve più, l’anfora, poiché urge che io annunci a tutti chi sei. Non posso trattenere per me la sorgente di acqua viva, devo restituirla al mio prossimo. Corro in paese e non temo di bussare alle porte delle case e di infrangere ogni mio isolamento, poiché Tu, o Signore, non hai avuto disgusto della mia vita. Ad ognuno di loro do ragione della mia speranza e dico: “Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia lui il Cristo?”. Giugno 2014 14 don Antonio Galati N el pomeriggio di sabato 10 maggio, nei locali della chiesa di San Francesco in Velletri, si è tenuto un laboratorio teorico per la riscoperta e l’incentivazione del volontariato, come valore che permette il miglioramento non solo della vita sociale, perché questo è evidente, ma anche personale. Aiutati da Elisa Simonetti e Eleonora Fusco, operatrici Caritas, rispettivamente, della nostra diocesi e della diocesi di Roma, i partecipanti hanno potuto riflettere su tutte le dinamiche che si mettono in moto nel volontario quando presta il suo servizio. Si è visto come l’opera pratica di assistenza e aiuto porta con sé tutta una serie di motivazioni, modalità, dette anche abiti mentali, e strumenti spesso dati per scontato o anche sconosciuti, che però agiscono e sono comunque sempre presenti nell’opera del volontario. Esplicitarli diventa allora il modo di dare a questo valore tutto il suo peso nella vita del volontario, perché mettendo in pratica il suo servizio in maniera più consapevole, riesce a conoscere le sue stesse dinamiche interne che informano la sua vita, e, conoscendole, può rafforzarle, e ciò tutto a proprio beneficio e per una maturazione personale, oltre che degli altri. Inoltre, una delle ultime conclusioni a cui si è arrivati insieme è che si è volontari non solo in una struttura di assistenza che si occupa delle necessità degli altri, ma, essendo il volontario colui che fa il bene all’altro, è sufficiente avere accanto una persona per poter stare a suo servizio, e ciò succede in ogni occasione, perché l’uomo, in quanto essere sociale e vivendo di relazione, ha sempre qualcuno accanto, partendo dai propri familiari e dai propri parrocchiani e fratelli battezzati. La formula è stata quella di un laboratorio teorico, perché, in quanto laboratorio, i partecipanti non erano semplici ascoltatori, ma l’incontro andava avanti secondo il contributo di ciascuno, ma essendo un confronto su modalità, motivazioni e strumenti, il tutto si è svolto a livello teorico, con l’auspicio, però, che la cosa non resti sul piano dell’idea ma che i partecipanti, vivendo nel mondo, portino le cose dette sul piano pratico della loro vita e del proprio impegno, insegnando anche agli altri come esplicitare ciò che spinge il loro agire per incentivarne gli aspetti positivi, tutto a beneficio, quindi, personale e anche degli altri che si incontrano e si aiutano e, quindi, alla fine, per il bene di tutti. In ultima analisi è risultato vero quello che il Manzoni, ne I Promessi Sposi¸ riportando un’espressione del fantomatico testo anonimo seicentesco che a suo dire ha ispirato il romanzo, ebbe a dire: «si dovrebbe pensare più a far bene, che a star bene: e così si finirebbe anche a star meglio». Giugno 2014 15 don Antonio Galati N el numero precedente di Ecclesia in cammino ci si è soffermati sul fenomeno generale del volontariato e della peculiarità di quello cristiano. In questo articolo l’attenzione viene posta sulla vitalità nuova che il volontariato, se espresso al meglio, introduce nella società. Infatti, la presenza del volontariato all’interno della società civile, se da una parte è segno dell’attenzione dell’uomo all’uomo, dall’altra è una critica profonda alla società stessa perché sottolinea la sua assenza, o comunque una sua presenza insufficiente, in quegli ambiti che domandano un aiuto e che, senza l’impegno volontario dei cittadini, resterebbero carenti. In questo essere presenti nella società in maniera disinteressata e per l’aiuto ai bisognosi, i volontari si comportano anche come profeti, perché annunciatori di una cultura alternativa, fondata su: - rapporti comunitari, alternativi a quelli di forza o elitari; responsabilità personale che chiama in causa e all’impegno, rispetto all’individualismo deresponsabilizzante; - rapporti e attenzioni personalizzate, al posto di servizi standardizzati attenti al problema ma non alla persona; - il servizio vissuto “con” l’assistio, per sostenere la sua auto-promozione, e non solo “per” l’assistito; - l’equilibrio tra carità e giustizia per il giusto peso dei diritti degli uomini, invece di una serie di sporadiche “buone azioni”; - la gratuità dell’impegno, contro la ricerca esagerata del guadagno. In questo essere profeti di una nuova società “allocentrica”, cioè centrata sugli altri, i volontari diventano anche testimoni della possibilità di realizzare questo nuovo stile societario, perché nel loro servizio realizzano quanto espresso in teoria. La società allocentrica è la civiltà dell’amore sognata da Paolo VI “Sogniamo noi forse quando parliamo di civiltà dell’amore? No, non sogniamo. Gli ideali, se autentici, se umani, non sono sogni: sono dove- ri. Per noi cristiani, specialmente. Anzi tanto più essi si fanno urgenti e affascinanti, quanto più rumori di temporali turbano gli orizzonti della nostra storia. E sono energie, sono speranze. Il culto, perché tale diventa, il culto che noi abbiamo dell’uomo a tanto ci porta, quando ripensiamo alla celebre, antica parola di un grande Padre della Chiesa, S. Ireneo: Gloria […] Dei vivens homo, gloria di Dio è l’uomo vivente”1. Tutto ciò che il volontario realizza, nella sua attività, non è altro che la concretizzazione individuale di quella che sarebbe la società intera se fosse permeata totalmente dai valori cristiani, valori che spingono a mettere al centro dell’interesse del singolo e della società non il tornaconto personale o comunitario, ma il benessere dell’uomo e dell’ultimo specialmente. Detto in altro modo, la realizzazione della civiltà dell’amore pensata da Paolo VI e che i volontari in qualche modo attuano è la concretizzazione del Regno di Dio: infatti esso è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo, cioè nell’amore2, e quello che i volontari fanno è instaurare, dove manca, la giustizia, la pace e la gioia per la dignità degli uomini, specie degli ultimi. Recuperando la parafrasi, fatta già nell’articolo precedente, dell’affermazione tomista secondo cui tutta la verità, da chiunque viene detta, proviene dallo Spirito Santo3, si può affermare che tutto l’amore, da chiunque viene fatto, proviene dallo Spirito Santo. Applicando questo principio alla civiltà dell’amore, si può comprendere meglio l’idea che Paolo VI aveva nei confronti del vero progresso, che è tale e corrispondente alla sua vocazione solo se scaturisce dalla carità verso l’uomo. Il progresso così inteso avrà sicuramente delle connotazioni più umane e permetterebbe di sostenere lo sviluppo integrale della persona e di tutti i popoli, perché sarebbe la persona stessa che starebbe al centro dell’attenzione. E questo, anche se messo in campo da una società laica, sarebbe sicuramente opera di Dio, perché Egli stesso ha messo l’uomo al centro delle sue attenzioni nel momento in cui ha deciso di mandare il Suo Figlio per la nostra salvezza. Il rinnovamento che il papa vedeva come necessario e che il volontario profetizza con la sua vita è il rinnovamento della politica, intesa nel suo senso più ampio di attenzione condivisa alla polis, cioè alla città. Un rinnovamento che si basa sulla carità e l’attenzione al prossimo che deve interessare necessariamente il politico di professione nel suo servizio all’interno delle istituzioni di governo e amministrative, ma che deve interessare ogni singolo cittadino: “la sapienza dell’amore fraterno, la quale ha caratterizzato in virtù ed in opere, che cristiane sono giustamente qualificate, il cammino storico della santa Chiesa, esploderà con novella fecondità, con vittoriosa felicità, con rigenerante socialità. Non l’odio, non la contesa, non l’avarizia sarà la sua dialettica, ma l’amore, l’amore generatore d’amore, l’amore dell’uomo per l’uomo, non per alcun provvisorio ed equivoco interesse, o per alcuna amara e mal tollerata condiscendenza, ma per l’amore a Te; a Te, o Cristo scoperto nella sofferenza e nel bisogno di ogni nostro simile. La civiltà dell’amore prevarrà nell’affanno delle implacabili lotte sociali, e darà al mondo la sognata trasfigurazione dell’umanità finalmente cristiana”4. 1 PAOLO VI, Udienza generale. Mercoledì 31.12.1975. 2 Cfr. Rm 14,17. 3 Cfr. Summa Theologiae, p. I-II, q. 109, a. 1 ad 1. 4 PAOLO VI, Omelia. Natale del Signore 25.12.1975. Giugno 2014 16 don Gaetano Zaralli H o faticato un po’ a mettere insieme i pensieri che un ateo mi ha scaricato sulla posta elettronica. Lui è portoghese e ha trovato difficoltà a riportare, in una lingua che non è la sua, la complessità di un discorso che merita a mio parere particolare attenzione. E’ il giorno della Prima Comunione della figliola e, da padre responsabile, Renato, questo il vero nome, desidera motivare il suo “esserci”, senza peraltro rinunciare al suo “essere”… Cara Comunità di San Michele Arcangelo, mia figlia Sara farà la sua 1a comunione oggi 11 maggio 2014 all’età di 9 anni… Pare che sia la prassi per quanto riguarda l’età… Ecco mi viene il dubbio che sia una prassi generalizzata, una “operazione”, appunto, con indicazioni precise, con protocolli da rispettare… Molta forma certamente… e tutti sappiamo come la “forma” può riempire i cuori, trascurando spesso i “contenuti”. A cosa serve la 1a comunione non lo so bene, lo ammetto. Non ho studiato le carte… Ho seguito tutto da una certa distanza (ma neanche tanta)… Ho frequentato quasi tutte le domeniche degli ultimi mesi le messe. Ho frequentato più messe in questi ultimi tempi che non nel resto della mia vita… Ho ascoltato come voi le prediche… La vostra fortuna è che non sono un “ateo” in cerca di proseliti… Avrei poco lavoro da fare del resto dopo quelle messe!… Non vi ho neanche detto che credere in un Dio, in un Gesù che è resuscitato, in una Madonna che fa miracoli sarebbe pressoché lo stesso che credere nella magia… Per fortuna viviamo nel XXI secolo e voi non avete provato a bruciare l’eretico quale io sono. Sinceramente non mi siete antipatici a tal punto da non potervi accettare così come siete: fondamentalmente mi sono sempre trovato bene qui con voi… perché questa Comunità va al di là dell’aspetto spettacolare della religiosità. Sarebbe questo il grande lascito di un prete… Anche nel giorno, sempre lontano, in cui lui non ci fosse più, il seme ci sarà. Potrà essere striminzito, potrà apparire sbiadito, ma ci sarà… Per quanto riguarda la comunione, dovresti farvi una semplice domanda. Se non ci fosse un Dio, se Gesù fosse solo un uomo dei suoi tempi che predicava l’amore verso gli altri come soluzione ai tanti mali del mondo, se la Madonna fosse solamente una madre disperata che ha perso suo figlio per un ideale, come è successo o potrebbe succedere a tante altre donne, non sarebbe tutto ciò sufficiente a svuotare le parole, le testimonianze che avete scritto insieme, per voi, per tutti in questa assemblea? Avete, forse, bisogno di un Dio o della speranza di una vita nell’aldilà, di una Chiesa… per passare ai posteri l’idea di un mondo migliore, per avvalorare le vostre idee, i vostri pensieri, per vivere quello che vi è presentato ogni domenica da un sacerdote?… E i vostri figli hanno bisogno anche loro di seguire il tortuoso cammino imposto dalle “forme” per poter fare parte della vostra comunità, di avere con voi quella che è la vera comunione, che è lo stare insieme? Io vi dico che non è cosi, semplicemente perché, se il solo credere è la locomotiva delle nostre azioni c’è alla base qualcosa di inconsistente! Se per caso un giorno vi viene dimostrata la inesistenza di Dio, cosa farete? Un mondo “migliore” abbiamo il diritto/dovere di ottenerlo su questo posto nell’Universo dove il caso ci ha fatto nascere, e per ciò, forse, ogni giorno dovrà essere una prima comunione per voi, per noi, per tutti… Io sono felice che Sara faccia la sua 1a comunione in questo posto, in questa assemblea. Sono felice, non perché improvvisamente sia diventato credente nel vostro Dio, ma perché sono convinto della gioia semplice, non banale che passa da queste parti… e questo mi basta. Renato Rodrigues Pousada Di tutto il discorso ciò che crea maggiormente disagio è la domanda quasi innocente che Renato pone all’assemblea in preghiera: “Se per caso un giorno vi viene dimostrata la inesistenza di Dio, cosa farete?” La tentazione è grande nel voler assecondare la sfida. Provino i credenti in Dio, magari solo per un tempo limitato, a vivere come se Dio non esistesse… Cosa potrebbe accadere loro? Forse quelle affermazioni che si ripetono a memoria fin dalla giovane età, potrebbero rivelarsi all’improvviso fragili e appese appena a delle vecchie tradizioni… Forse, quelle tante parole che sono struttura portante di liturgie vecchie potrebbero perdersi d’un tratto nel vago colore di labili speranze… Forse… Lui, l’ateo, non ha nessuna voglia di fare proselitismo, lui vive tranquillo i suoi giorni… e il comandamento dell’amore che per noi credenti affonda le radici nel vangelo, lui lo ha dentro di sé, perché l’amore è una risorsa essenziale della natura umana e non prerogativa esclusiva di una religione… Conosco Renato e posso assicurarvi che nei suoi comportamenti è più cristiano di me… Conosco Renato e lui conosce me e ciò che mi assilla è l’eventuale cattivo esempio che da me potrebbe ricevere, nonostante il mio credere in Dio. “Io sono felice che Sara faccia la sua 1a comunione in questo posto, in questa assemblea. Sono felice, non perché improvvisamente sia diventato credente nel vostro Dio, ma perché sono convinto della gioia semplice, non banale che passa da queste parti… e questo mi basta.” Grazie, Renato, per la GIOIA SEMPLICE che ci riconosci… Grazie, Renato, perché ora, almeno per me, dopo averti letto, è più SEMPLICE credere in Dio. Nell’immagine del titolo: un’opera pittorica di Carel Willing. Giugno 2014 Mons. Franco Risi N ella Chiesa Cattolica, a partire dal secolo XII, si è sviluppata una particolare forma di culto che si ispira al Cuore di Gesù: simbolo di tutto il Suo amore per il Padre e per l’intera umanità. Il cuore è una parola originaria ed indica il centro stesso della persona. Questa devozione ricalca con forti tinte l’aspetto umano della personalità di Cristo. Le immagini del Sacro Cuore ci presentano perlopiù la sua dolcezza e la sua bontà verso tutti e mettono in evidenza i dolori di Gesù vissuti durante la sua Passione. Contemporaneamente dobbiamo mettere anche in evidenza la Resurrezione del Cristo che, capo della Chiesa e del mondo, rivela Dio come futuro dell’umanità e come destino trascendente dell’uomo. Per meglio comprendere la devozione al Sacro Cuore di Gesù è opportuno riflettere su tre punti fondamentali: storia della devozione; riferimenti alla Sacra Scrittura, dove si insiste sul fatto che “Dio è Amore” (1 Gv 4, 8) e infine i vantaggi del culto al Sacro Cuore per la vita di ogni cristiano. Riguardo alla storia, i gesuiti, nel secolo XVII, si impegnarono intensamente in tale devozione, portandola anche nelle missioni. San Giovanni Eudes (1601-1680) fece approvare il 20 ottobre 1672 dall’arcivescovo di Rouen e da molti altri vescovi francesi il primo Ufficio con la Messa e le Litanie proprie al Sacro Cuore di Gesù. Santa Maria Margherita Alacocque (16481690) ebbe direttamente da Nostro Signore la rivelazione della devozione al Sacro Cuore in quattro speciali apparizioni, la più importante delle quali avvenne nell’ottava del Corpus Domini nel 1675. Gesù le mostrò «quel cuore che ha tanto amato gli uomini» dalla maggior parte dei quali non riceve che ingratitudine ed oltraggi, e chiese che venne istituita una speciale festa riparatrice in onore del Sacro Cuore di Gesù. 17 Attualmente i padri gesuiti, attraverso l’Apostolato della preghiera, contribuiscono a diffondere e tenere viva questa devozione, con pubblicazione di libri, della rivista “Il messaggio del Cuore di Gesù”, ed invio di foglietti alle parrocchie, per far pregare le comunità secondo le intenzioni del Papa per la conversione dei peccatori e la riparazione dei peccati. Tutta la Sacra Scrittura ci aiuta non solo a comprendere l’importanza di tale devozione, ma anche ci esorta ad impegnarci ad attuarla nella propria vita per la salvezza propria e degli altri. Da essa comprendiamo che Dio Padre misericordioso viene incontro all’umanità, realizzando con essa un’alleanza che culmina nella morte redentrice del Figlio: «Dio ha tanto amato il mondo, da dare il suo Unigenito Figlio» (Gv 3, 16). Questa nuova alleanza si compie sul Golgota, dove «uno dei soldati con una lancia gli (ndr. Gesù) colpì il fianco e subito ne uscì sangue ed acqua» (Gv 19, 34); l’acqua «simbolo del battesimo, l’altro dell’Eucarestia. Il soldato aprì il costato: dischiuse il tempio sacro, dove ho scoperto un tesoro e dove ho la gioia di trovare splendide ricchezze[…]. Per il suo sangue nasciamo, con il suo sangue alimentiamo la nostra vita. Come la donna nutre il figlio con il proprio latte, così il Cristo nutre costantemente con il suo sangue coloro che ha rigenerato» (san Giovanni Crisostomo). Per questo il cristiano che vuol capire la missione della Chiesa, e di riflesso la propria, deve guardare al Cuore trafitto, da dove ha avuto origine la Chiesa di Cristo. Per questa ragione Pio XII afferma che la devozione al Cuore di Gesù «è in sostanza il culto dell’amore che Dio ha per noi in Cristo, ed insieme la pratica del nostro amore verso Dio e verso gli altri uomini». Nella sua Enciclica, Haurietis aquas, il Papa ha approfondito le parti dogmatiche della Sacra Scrittura, la dottrina dei Padri, la Liturgia e i documenti del Magistero riguardanti il culto al Sacro Cuore; certo, per il cristiano sarebbe molto utile leggere e meditare questo documento per comprendere meglio l’importanza di questa devozione in onore di Gesù, nostro vero Salvatore. Tra le figure più significative che hanno contribuito alla diffusione del culto del Cuore di Gesù lungo i secoli, spicca quella di santa Margherita Maria Alacoque (1647-1690). In alcune lettere della Santa sono riportate le promesse di Gesù per coloro che onorano il Suo Cuore, ne elenco alcune: «Porterò soccorso alle famiglie che si trovano in difficoltà e metterò la pace nelle famiglie divi se» (Lett. 35 - 131); «Spargerò abbondanti benedizioni sopra tutte le loro opere» (Lett. 141); «Benedirò i luoghi dove l’immagine del Sacro Cuore verrà riposta e onorata» (Lett. 35); «Il nome di coloro che propagheranno la devo zione al Sacro Cuore sarà scritto nel mio Cuore e non verrà mai cancellato» (Lett. 39 – 41 - 89); «Io prometto, nell’eccesso della misericordia del Sacro Cuore, che il mio amore onnipotente con cederà a tutti quelli che si comunicheranno nel primo venerdì del mese per nove mesi conse cutivi, la grazia della penitenza finale. Essi non moriranno in mia disgrazia, né senza ricevere i Sacramenti, ed il mio Cuore sarà asilo sicuro in quell’ora estrema». Da questa Grande Promessa possiamo comprendere che Gesù mette a nostra disposizione l’Onnipotenza del suo amore per la nostra salvezza eterna. Inoltre incoraggiamo anche agli altri alla devozione dei primi venerdì perché «chi salva un’anima, assicura la salvezza della sua». L’importanza della devozione dei primi nove venerdì del mese è confermata dalle apparizioni alle Tre Fontane a Roma, dove, come riferiscono Bruno Cornacchiola e i suoi tre figli, la Madonna gli apparve per la prima volta il 12 aprile 1947, mentre egli stava leggendo la Bibbia per preparare argomenti contro l’Immacolata Concezione. Maria gli parlò dicendo: «Sono Colei tu mi perseguiti: ora basta! Entra nell’ovile santo. I nove venerdì del Sacro Cuore che tu facesti prima di entrare nella via della menzogna, ti hanno salvato […]». Da quanto detto, il culto al Sacro Cuore di Gesù aiuta il cristiano a scoprire il volto personale di Dio, ricordandoci che solo Lui può aiutarci a vivere e ad amare il nostro prossimo, facendolo felice nella vita quotidiana. Il Cuore di Cristo, sorgente di una vita nuova, ci fa chiamare Dio come Padre e ci fa rifiutare ogni indebita divinizzazione delle cose di questo mondo, in quanto c’è un solo Dio (cfr. Dt 10, 17) e un solo mediatore di salvezza (1 Tm 2, 5). In secondo luogo, il culto al Sacro Cuore contribuisce efficacemente a trasformare la nostra esperienza religiosa in una testimonianza di amore verso gli altri. Tutto ciò ci fa capire che il cristiano che contempla il Cuore di Cristo, pieno di misericordia per i più lontani e per i più peccatori, trova il coraggio di perdonare settanta volte sette (cfr. Mt 18, 31): è la forza di rendere bene per male, poiché l’amore che ha imparato dal suo maestro copre una moltitudine di peccati (cfr. Gc 5, 20). Infine, l’amore verso il cuore di Gesù ci insegna cosa l’amore è capace di fare: donare e perdonare sempre e ci conduce ad una piena gioia di salvare e rendere felice ogni uomo che incontriamo nella nostra vita. Nell’immagine del titolo: Il Sacro cuore, A. Mariani, Cattedrale S. Clemente, Velletri. Giugno 2014 18 don Daniele Valenzi S pesso sentiamo dire che la nostra Chiesa sente l’esigenza di un rinnovamento soprattutto in quell’ambito importante e difficile che è la catechesi. Questi ultimi anni hanno visto l’operoso impegno e anche le fatiche dei nostri vescovi per cercare itinerari che conducano per la prima volta o ad una rinnovata scoperta della persona di Cristo e al conseguente impegno di vita cristiana. Nel 2015 la Conferenza Episcopale Italiana affronterà una rivisitazione globale dell’ambito riguardante l’Iniziazione Cristiana. In vista di questo appuntamento, a livello regionale e diocesano si è approfondito e sviscerato questo tema sotto i diversi punti di vista. Dal lavoro effettuato è emerso un documento provvisorio, che è stato proposto all’attenzione degli uffici catechistici regionali. In questo lavoro viene sottolineato che non è in crisi l’iniziazione cristiana in quanto tale, ma la sua pedagogia. La considerazione da cui muovere per ripensare un modello di iniziazione cristiana dei ragazzi adatto al nostro contesto riguarda la risposta da dare al cambio culturale e dei processi di socializzazione, che sembrano non favorire il tradizionale modo di realizzare l’iniziazione ecclesiale. Per superare questo ostacolo, occorre mettere in stretta unione il rapporto tra passaggi della fede, passaggi della vita e condizioni di apprendimento, trasformazione ed elaborazione del personale progetto di vita. Occorre, infatti, un modello di itinerario olististico, capace, cioè, di includere le dimensioni della vita: conoscenza, adesione della volontà, abilitazione a realizzare. Il lavoro risultante è stato consegnato nelle mani dei nostri vescovi che lavorando alacremente hanno stilato un documento, che è già stato approvato dalla conferenza episcopale e che presto sarà affidato alle nostre comunità cristiane che sarà fondamentale per il rinnovo della catechesi di iniziazione cristiana, preziosissimo strumento di lavoro. Certo si tratterà di avere il coraggio di proporre una sfida nuova prima di tutto ai catechisti, testimoni del Signore, che con il loro vissuto si troveranno ad accompagnare quanti gli saranno affidati in questo nuovo itinerario di accostamento alla fede in Cristo Gesù, in seconda istanza alle comunità cristiane che saranno parte integrante di questa propedeutica di discepolato. È difficile prevedere quelli che potranno essere i risvolti di questa nuova impostazione, ma certamente si tratta di una scelta fondamentale e fondante per la Chiesa del nostro tempo. “I periodi di rinnovamento della Chiesa sono anche tempi forti della catechesi. Infatti vediamo che nella grande epoca dei Padri della Chiesa santi vescovi dedicano alla catechesi una parte importante del loro ministero” così leggiamo nella prefazione del Catechismo della Chiesa Cattolica. Anche noi stiamo attraversando un periodo di transizione e di rinnovamento grande e la catechesi non può esserne esclusa. Sono sempre più convinto che le scelte importanti non siano quelle solenni, ma quelle nelle quali e per siamo pronti a spendere tempo ed energie questo antico insegnamento viene direttamente dal Figlio di Dio che, proprio per iniziarci alla fede, sceglie di venire “ad abitare in mezzo a noi” perché noi vedessimo e toccassimo il Verbo della Vita non considerando un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio. Giugno 2014 Fabio Ciardi* C hissà quante idee e immagini ti frullano in testa quando senti questa parola un po’ misteriosa: vocazione. A me fa subito venire in mente una cosa semplice e straordinaria: un rapporto di amore intimo e concreto che si intesse tra Dio e me, un colloquio che si va svolgendo tra lui e me giorno per giorno, con accenti sempre nuovi. Ogni uomo, ogni donna è chiamato a questo incontro con l’Amore: siamo fatti costitutivamente per amare, per incontrarci con la sorgente stessa dell’Amore. Siamo fatti per vivere in rapporto di comunione con lui. La realtà più bella e profonda della nostra umanità è la capacità di stare davanti a Dio a tu per tu: è nostro padre e noi siamo figli e figlie suoi. L’iniziativa di questo rapporto è certamente di Dio stesso che, liberamente e mosso solo dall’amore, da sempre si prende cura di noi e ci chiama alla comunione con sé. Dio infatti - ci ricorda il Concilio- “nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi, per invitarli e ammetterli alla comunione con Sé” (Dei Verbum 2). Il popolo d’Israele ha sperimentato l’amore di Dio in modo così forte che l’ha paragonato ad uno sposo e lui, il popolo, si è paragonato ad una sposa. Dio si apre e si rivela, chiama e si comunica. Quanti, raggiunti da tale amore, rispondono - e a loro volta si aprono e si donano -, si trovano coinvolti in un rapporto con lui che tende alla comunione più piena. Il senso profondo della vocazione, prima di ogni altra ulteriore esplicitazione, è racchiuso in questo fecondo dialogo d’amore: è questo stesso dialogo d’amore. In questo dialogo l’iniziativa è di chi ama di più, ed è l’Amore stesso che si protende verso di noi. “In questo sta l’amore - ci ricorda l’apostolo Giovanni -: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi” (1Gv 4,10). È lui che per primo, come lo sposo del Cantico dei Cantici, ci viene incontro e ci chiama: “Alzati amica mia, mia bella, e vieni” (Ct 2,10). L’iniziativa è sempre sua. È suo il primato d’amore. “Come possiamo amare, se prima non siamo stati amati?” si domandava s. Agostino. Se “noi amiamo”, ci ricorda ancora l’apostolo Giovanni, è “perché egli ci ha amato per primo” (1Gv 4,19). 19 Incontrarsi con Dio è incontrarsi con l’Amore ed essere avvolti dall’amore. Ogni rapporto con lui ha in questo amore il suo inizio e il suo compimento. È la grande luce che brilla nel cuore di colui che crede e che gli fa gridare: sono amato dall’Amore! È quella prima autentica illuminazione interiore di cui parla la lettera agli Ebrei: “Richiamate alla memoria quei primi giorni nei quali foste illuminati” (10,32). Da essa parte l’autentica vita cristiana. È la scoperta gioiosa di avere un Padre che ci ama al punto “da dare il suo Figlio, l’Unigenito” (Gv 3,16). La scoperta che il Figlio, fattosi uomo per amore, ci ama fino a dare “la sua vita per noi” (1Gv 3,16). La scoperta che lo Spirito si riversa in noi come amore (cf. Rm 5,5): Dio è Amore! E perché amore… ci ama, personalmente, uno per uno. S. Paolo comunicava con gioia ai suoi cristiani della Galizia la scoperta che aveva rivoluzionato interamente la sua vita dandole finalmente un senso vero: il Figlio di Dio “mi ha amato e ha dato se stesso per me” (2,20). Paolo non è certo rimasto indifferente davanti alla scoperta di essere amato personalmente da Cristo, suo Signore e suo Dio. Si è buttato a riamarlo con tutto se stesso. Amore chiama amore. La rivelazione di Dio Amore non lascia inerte o indifferente nessuno. Essa coinvolge la persona in tutta la sua interezza. Fa appello al cuore, alla mente, alla volontà. Quando Giovanni nella sua prima lettera scriveva: “noi abbiamo riconosciuto e creduto all’amore” (4,16), esprimeva la sua adesione totale e incondizionata al dono ricevuto. Il dialogo che si instaura tra Dio e l’uomo è intrinsecamente coinvolgente. “Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre”, gridava Geremia (20,7) incapace di resistere alla forza travolgente dell’amore di Dio. Allo svelamento che Dio fa di sé è così legata intrinsecamente una chiamata. Rivelazione di Dio e chiamata si postulano a vicenda. La luce brillando illumina. Il fuoco bruciando riscalda. Così la manifestazione che Dio fa di sé come Amore è comunicazione dell’Amore e nello stesso tempo appello a rispondere all’amore con l’adesione di tutto se stesso. È come venire rapiti dall’amore di Dio, in quell’incanto che fa esclamare, con la sposa del Cantico dei Cantici: “Come sei bello, mio diletto” (Ct 1,16). In lui si scopre la pienezza della luce, della vita, della bellezza, l’appagamento di ogni anelito più profondo. È un ritrovarsi pienamente in lui. È l’illuminazione, il primo amore, l’inizio della fede cristiana. Parlando di questo amore san Bernardo scriveva che “l’amore basta a se stesso; si compiace di se stesso e per se stesso. L’amore in se stesso è un merito, ed è la ricompensa a se stesso. Al di là di sé, non cerca nessuna causa e nessun effetto: il suo effetto è tutt’uno con la sua pratica. Amo, perché amo; amo perché posso amare… Quando Dio ama, non vuole altro che essere amato; perché egli ama con il solo scopo di poter essere amato,sapendo che coloro che lo amano sono benedetti da quello stesso amore” (Commento al Cantico dei Cantici, 83,4). La vocazione è prima di tutto questa gratuità dell’amore: scoprire di essere amati e sentirsi chiamati a rispondere all’amore con l’amore. *tratto da SE VUOI, www.apostoline.it a cura delle Suore Apostoline di Velletri Nell’immagine: icona di Gesù che chiama Zaccheo. Giugno 2014 20 Suore Apostoline Velletri O gni vita nasce dall’amore, dall’incontro. Così anche ogni vocazione può nascere solo dall’amore e crescere nell’amore. L’amore genera vocazioni. E una vocazione vissuta nell’amore e per amore fa nascere altre vocazioni. La nostra Chiesa diocesana è chiamata ogni giorno a crescere nell’amore affinché nascano e crescano altre vocazioni. Ciascuno di noi e tutta la comunità ecclesiale ha il compito e la responsabilità di chiedere al Signore il dono di nuove vocazioni e di pregare perché quanti hanno risposto alla chiamata del Signore possano essere fedeli testimoni del suo Vangelo. In questo tempo di grazia ringraziamo il Signore per il dono della vita e della vocazione di don Teodoro Beccia, della parrocchia del SS. Salvatore in Velletri, che il 28 giugno sarà ordinato sacerdote a servizio della nostra Diocesi. Il documento Nuove vocazioni per una nuova Europa al n.22a così scrive: “Il ministero ordinato ha un servizio di comunione nella comunità e, in forza di questo, ha l’inderogabile compito di promuovere ogni vocazione. Di qui la traduzione pastorale: il ministero ordinato per tutte le vocazioni e tutte le vocazioni per il ministero ordinato nella reciprocità della comunione”. Accompagniamo nella preghiera don Teodoro e auguriamo ogni bene per la sua vita, donandogli le parole che papa Francesco domenica 11 maggio ha rivolto ai neo-sacerdoti: “Quanto a voi, fratelli e figli dilettissimi, che state per essere promossi all’ordine del presbiterato, considerate che esercitando il ministero della sacra dottrina sarete partecipi della missione di Cristo, unico maestro. Dispensate a tutti quella Parola, che voi stessi avete ricevuto con gioia, dalle vostre mamme, dalle vostre catechiste. Leggete e meditate assiduamente la parola del Signore per credere ciò che avete letto, insegnare ciò che avete appreso nella fede, vivere ciò che avete insegnato. Sia dunque nutrimento al popolo di Dio la vostra dottrina, che non è vostra: voi non siete padroni della dottrina! E’ la dottrina del Signore, e voi dovete essere fedeli alla dottrina del Signore! Sia dunque nutrimento al popolo di Dio la vostra dottrina, gioia e sostegno ai fedeli di Cristo il profumo della vostra vita, perché con la parola e l’esempio edifichiate la casa di Dio, che è la Chiesa. (…) Non stancatevi mai di essere misericordiosi! Per favore! Abbiate quella capacità di perdono che ha avuto il Signore, che non è venuto a condannare, ma a perdo- nare! Abbiate misericordia, tanta! E se vi viene lo scrupolo di essere troppo “perdonatori”, pensate a quel santo prete del quale vi ho parlato, che andava davanti al tabernacolo e diceva: “Signore, perdonami se ho perdonato troppo. Ma sei tu che mi hai dato il cattivo esempio!”. La nostra Chiesa Diocesana è in festa il 29 giugno per l’ordinazione diaconale permanente di due nostri fratelli: Luciano Taddei, della parrocchia Santa Lucia di Velletri e Gaetano Di Laura, della parrocchia Santa Barbara di Colleferro. “Il suggello più vero della vocazione cristiana è il servizio. Un servizio della fede, nella speranza, con carità. (…) Nella Chiesa del Signore i primi posti e la vera grandezza sono riservati al servitore, a chi è disposto a dare la sua vita per l’ “altro” senza cercare ricompense. (…) Il diacono, con il suo carisma di servizio della carità, ascolta il grido che sempre giunge alla Chiesa dalle esigenze del povero, di colui che soffre, dell’umile. I diaconi sono così servitori di Cristo e della comunità, missionari della Parola, portatori e strumenti di grazia, di giustizia e pace, al fine di costruire la nuova società basata sull’amore”. Assicuriamo a Gaetano e Luciano e alle loro famiglie la nostra preghiera, perché possano essere sempre più disponibili e generosi nel servire Dio e il prossimo. Giugno 2014 Monica Casini G aetano Di Laura di Colleferro e Luciano Taddei di Velletri verranno ordinati Diaconi permanenti. Il loro cammino, li aveva visti arrivare insieme il 1° Maggio dello scorso anno all’ammissione tra i candidati a questo sacro ordine, dopo un lungo periodo di studio e discernimento. Saranno i primi due aspiranti che giungono alla grazia della consacrazione al Diaconato permanente, portando la testimonianza della loro vocazione in seno ad un gruppo, che è andato formandosi in tempi diversi, accogliendo ricerche in cammino e aprendosi alla gioia del dono. Il Diaconato permanente, ricostituito grazie allo Spirito che ha soffiato nel Concilio Vaticano II, rappresenta una stupenda ed importante vocazione, la condizione di un servizio pastorale, che ha la forma propria di un Ministero, distinto da quello del sacerdote, ma collegato per la gloria di Dio e il bene della Chiesa. “Cercate sette uomini di buona reputazione, pie- 21 ni di Spirito e di sapienza.” ( At. 6,3 ) La comunità elesse Stefano, Filippo, Pròcoro, Nicànaore, Timone, Parmenàs e Nicola, per assistere gli Apostoli nel loro compito. Furono chiamati Diaconi perché erano a servizio della comunità; “ Diakonìa “ è un termine tipicamente biblico ed ecclesiale: significa servizio, e richiama istintivamente il gesto compiuto da Gesù nell’ultima cena, nella lavanda dei piedi agli Apostoli. Questo ordine sacro offre a uomini sposati o celibi la possibilità di servire la Chiesa in questo particolare modo. Il Vescovo consacra il Diacono perché sia a disposizione della comunità mediante il servizio della Parola, della Liturgia e della Carità, edificandola e orientandola nel cammino verso la santità come ha fatto Gesù. I Diaconi sposati condividono il loro Ministero con le loro spose, che danno il loro assenso incondizionato a quello che sarà un cammino di coppia benedetto nuovamente all’interno della sacramentalità del matrimonio. Infatti, la vocazione al Diaconato, per sua natura coinvolge, tutta la persona, a partire dai suoi affetti e dal suo compito, segnando tutti i rapporti e le circostanze in cui si dispiega la vita. L’Ordinazione Diaconale è certo una specifica vocazione e, nella Chiesa un segno sacramentale di Cristo Servo che ci presenta gli ideali e la realtà della vita comunitaria dei cristiani del I secolo, ( At. 2,42 - 47) dimostrando come la storia della salvezza si realizzi nel concreto della vita. Per questo è ancora oggi fonte di ispirazione per le comunità di fede ed incentivo all’operato di ogni cammino vocazionale, sprone ad imparare,ad ascoltare la Parola come insegnamento ed il relativo impegno concreto nella vita. Pregando per ogni vocazione, in questo tempo che regala alla nostra Diocesi due nuovi Diaconi, ci uniamo a loro e alle loro famiglie come comunità festante! I due nuovi diaconi si aggiungono al collegio dei diaconi composto attualmente da dodici membri. Giugno 2014 22 Suore Apostoline Velletri L ’equipe del Centro Diocesano Vocazioni ha preparato in occasione della 51a Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni alcuni incontri nella parrocchia di san Giovanni Battista a Velletri. Ha animato un rosario vocazionale, ha organizzato un incontro con il gruppo giovani molto impegnato in parrocchia nella catechesi, oratorio, caritas, coro, ha incontrato il gruppo dei cresimandi e i genitori dei bambini del primo e del secondo anno comunione. Tutto è culminato con la Veglia di preghiera per le vocazioni presieduta dal nostro Vescovo e partecipata dalle diverse realtà della nostra diocesi. Il tema che ha guidato queste giornate è stato “Apriti alla Verità. Porterai la Vita”: è necessario aprirsi alla Verità, che è Cristo, alla sua Parola, aprirsi con fiducia e coraggio alla verità della nostra storia personale, per poter leggere e riconoscere, accogliere i segni dell’amore di Dio. Questo permette alla nostra vita di portare vita, quella vita che non finisce mai! A Sua Eccellenza Mons. Vincenzo Apicella Partecipo intimamente al grave lutto che ha colpito la nostra Diocesi con la morte del carissimo Don Antonio, parroco della “Madonna del Rosario” in Velletri. Ho sempre conosciuto il caro confratello come vero amico e zelante pastore di anime. Anche recentemente l’ho incontrato e non immaginavo la sua scomparsa dopo breve malattia. Prego con affetto che il Signore lo accolga tra le braccia della Sua misericordia. La morte di Don Antonio sia partecipe del gaudio della risurrezione. Segni, 12 maggio 2014 lle prime luci di sabato 10 maggio 2014 entrava nella gioia del Signore Don Antonio Carughi parroco della Parrocchia Madonna del Rosario in Velletri l’annuncia il vescovo mons. Apicella unitamente al Presbiterio e alla Comunità parrocchiale Madonna del Rosario. Domanda per il laborioso sacerdote la preghiera che l’accompagni a ricevere la corona di gloria per i tanti anni di servizio alla Chiesa e al popolo cristiano. Le esequie hanno avuto luogo martedì 13 maggio 2014 nella Cattedrale di San Clemente I in Velletri. Nella solenne concelebrazione alla presenza di tanti sacerdoti e tanta parte del popolo di Dio il vescovo commentando il vangelo del giorno di Giovanni sul buon pastore ha tracciato un sintetico profilo di don Antonio come colui che ha partecipato alla missione del Buon Pastore per partecipare a tutti la vita eterna affinché nessuno vada perduto. Anche il vescovo emerito mons. Andrea M. Erba A Mons. Andrea Maria Erba, Vescovo Emerito ha voluto far giungere per iscritto un suo sentito ricordo e caro saluto. Ovviamente alla celebrazione era presente, insieme a tanti amici, una folta rappresentanza della Parrocchia Madonna del Rosario e i partecipanti al Cammino Neocatecumenale. Don Antonio era nato a Genova il 12.02.1937. Entrò tra i Cistercensi di Casamari nei primi anni ’60 e il 19.12.1964 fu ordinato sacerdote dall’allora vescovo di Alatri mons. Ottaviani nella stessa abbazia di Casamari. Nel 1978 avendo lasciato la vita monastica entra nel clero diocesano svolgendo il suo ministero pastorale nelle parrocchie di santa Maria in Trivio Velletri nel 1978 e successivamente a Gavignano, nel 1984 ritorna a Velletri in qualità di parroco della parrocchia della Madonna del Rosario a Colle Jonci. Contemporaneamente ha insegnato religione nelle scuole statali. n. r. d. Giugno 2014 23 Collaboratori parr. S. Paolo Velletri P er volontà di don Mauro De Gregoris, Parroco della Parrocchia San Paolo Apostolo e di Nadia Vita, dopo circa tre mesi di lavoro, il 30 aprile è stata messa in scena la Sacra Rappresentazione “Il Servo Umile”. Il lavoro semplice, pur nella sua profondità e ricco di catechesi, ha voluto soffermarsi sugli ultimi giorni terreni di Gesù Cristo, dalla condanna a morte mediante crocifissione, fino alla Sua risurrezione. Splendidi i costumi, ideati e realizzati da Nadia Vita e le scenografie, ideate e realizzate da Settimio Specchi, ma anche la scel- ta del sottofondo musicale (brani da: “Mosè’”“Fratello Sole e sorella Luna” - “Gesù di Nazareth”), arricchita da pezzi classici dal vivo del Maestro Luka Hoti (violino) e cantati: “Panis Angelicus” (durante la preparazione dell’ “ultima cena”) e “Pietà Signore” (durante la flagellazione). Rappresentati nei minimi particolari: l’arresto nel Getsemani e gli incontri sulla Via del Calvario con Maria, con Simone di Cirene, con Veronica e con le pie donne. Nei locali del “Velydance messi a disposizione dai coniugi Rolando ed Elisa Colonnelli, si son mossi tutti, interpretando i famosi personaggi storici da Caifa a Pilato, dai Sacerdoti a Nicodemo dalle guardie giudaiche a quelle romane, da Barabba agli Apostoli e alla folla che (prima), festante mentre Cristo entra in Gerusalemme (poi), impaurita e senza speranza, vede soffrire e morire il Figlio di Dio, ucciso come uno dei peggiori malfattori! La voce narrante di Elio Delle Chiaie sottolineava, intanto, i momenti di pura cronaca, alternati a brani biblicoliturgici per far meditare i presenti durante il continuo susseguirsi di dialoghi incalzanti da parte degli attori, non certo professionisti: uomini, donne e bambini, abitanti nel territorio parrocchiale, non abituati alle luci della ribalta! Nonostante ciò, gli stessi hanno saputo catturare l’interesse di un’attenta e commossa platea. Le scene più toccanti: l’innalzamento del crocifisso e il suo ultimo respiro con la morte in croce di Gesù (Gregory Specchi), ma anche la deposizione dalla croce di quel corpo inerme tra le braccia di Maria (Giovanna Latini). Giugno 2014 24 Daniele e Monica L a festa del 1° maggio al Centro di Spiritualità S. Maria dell’Acero è ormai una tradizione e un appuntamento fisso e atteso per la nostra Diocesi. Anche quest’anno è stato molto bello condividere questa giornata di festa con tante persone, giovani, fami- glie, ragazzi,… che sono venuti da varie parrocchie della diocesi. La mattina gli educatori dell’ACR hanno animato i giochi con i ragazzi, mentre le famiglie hanno potuto ascoltare un’interessante rifles- sione tenuta dal prof. Gigi Avanti. Da qualche anno questa giornata infatti è proprio dedicata alle famiglie. Abbiamo chiesto a una famiglia della parrocchia di S. Martino di condividerci l’incontro: “Metti un bel giorno di maggio, con un sole che sembra sorridere; sembra lo scenario ideale per parlare di AMABILITA’ NELLA FAMIGLIA. Questo il tema del IV° incontro delle famiglie che si tiene durante la Festa dell’Acero del 1° maggio. L’amabilità è presente in ognuno di noi, ma spesso facciamo fatica a dimostrarlo, sì perché assurdamente ci dimentichiamo di farci amare; dimentichiamo tutte le espressioni di tenerezza, anche San Giovanni Paolo II diceva che: “il nostro tempo così carico di tensioni era povero di tenerezza” e che “nelle nostre famiglie c’è così poca vita umana”. Ma non perché non amiamo ma perché imponiamo il nostro amore e non trasmettiamo il nostro amore vivendo amabilmente. Gesù è amabile, è affabile, è accogliente; anche quando sembrava che si arrabbiasse, non era rabbia, ma amore verso le cose del Padre Giugno 2014 suo. La sua espressione di amabilità è il Suo affidarsi agli uomini, nonostante lo tradiscano e lo condannino a morte. Il vestito di questa amabilità che i coniugi vestono è il sorriso. Il muso è un peccato coniugale, è sintomo di rottura; Dio non mette mai il muso, può essere adirato ma parla. L’amabilità coltivata giorno dopo giorno porta alla raccolta di quei frutti che San Paolo elenca nella lettera ai Galati: amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; frutti che entrano e trasformano le nostre relazioni. Per poter far maturare questi frutti dobbiamo amorevolmente usare le 3 parole che papa Francesco ha posto come fondamento di ogni comunità e aggregazione, tra cui la famiglia: SCUSA – PERMESSO – GRAZIE. Il nostro primo grazie va al Prof. Gigi Avanti per averci aiutato a riflettere e anche sorridere sui nostri numerosi spigoli, e un grazie a padre Vincenzo Molinaro, direttore dell’Ufficio della Famiglia, per aver donato alle famiglie della nostra Diocesi questa bella esperienza”. Il centro della giornata è stata la celebrazione eucaristica presieduta dal nostro vescovo Vincenzo, nella quale c’è stata l’ammissione tra i candidati all’ordine del diaconato permanente di Giuseppe e Claudio. 25 Claudio el pomeriggio c’è stata una bella animazione tra musica, canti, balli e giochi popolari che ha permesso alle persone di divertirsi e creaN re proprio un clima famigliare e semplice! A conclusione della festa c’è stata l’estrazione della lotteria. Ci teniamo a ringraziare tutti i volontari che ogni anno permettono la realizzazione della festa: le persone che hanno cucinato e preparato i pasti, quelle impegnate nel servizio al bar, quelle che si sono rese disponibili alla pesca di beneficienza, quanti hanno offerto un po’ del loro tempo per preparare l’animazione del pomeriggio, gli educatori dell’ACR, le famiglie e tutti coloro che hanno davvero contribuito a rendere bello e accogliente questo posto e bella questa festa per tutti! Speriamo di essere sempre più numerosi e soprattutto di crescere come Chiesa diocesana anche attraverso questi momenti di convivialità e di fraternità! Il prossimo anno aspettiamo anche te! I l 1° maggio, nella piacevole cornice della Festa della Famiglia, tenutasi, come ormai di consueto, presso il Centro di Spiritualità dell’Acero, durante la Celebrazione Eucaristica, presieduta dal nostro Vescovo, Sua Eccellenza Reverendissima Monsignor Vincenzo Apicella, sono stati ammessi all’Ordine Sacro del Diaconato permanente due membri della nostra Comunità Diocesana: Claudio Barone, della Parrocchia San Giovanni Battista in Velletri e Giuseppe Baroni della Parrocchia di Santa Maria degli Angeli in Segni. Ai due neo ammessi gli auguri della Comunità intera affinché si facciano portatori della Parola con l’Ascolto prima di tutto da parte loro, con l’Obbedienza docile e con il Servizio verso i bisognosi, grati a Cristo per la chiamata. Giugno 2014 26 Giovanni Zicarelli N ei primi quattordici anni del XXI secolo, si è assistito ad una vera e propria esplosione informatica, peraltro ancora in atto, di cui la causa più evidente è la vista, ovunque, di gente che guarda costantemente un monitor, che sia quello di un pc o quello di un cellulare. Si naviga senza muoversi, si comunica con centinaia o anche migliaia di “amici” nella solitudine di una stanza. È in questo contesto che si pongono il pensiero e l’appello di don Luigi Verdi, che ha tenuto, martedì 13 maggio, un incontro all’interno della navata della chiesa di San Bruno, in Colleferro, ospitato del parroco don Augusto Fagnani ed organizzato da don Cesare Chialastri, direttore della Caritas diocesana che, con una breve introduzione, seguita alla presentazione di Sara Bianchini, ha spiegato al pubblico intervenuto la figura di don Luigi, fondatore della Fraternità di Romena, situata nella Pieve di Romena, nei pressi di Pratovecchio in Casentino (provincia di Arezzo) ove, all’avventore, si vuol far comprendere l’importanza di recuperare l’autenticità della vita e dei rapporti sociali. Proprio dalla solitudine a cui sta portando la tecnologia è iniziata l’esposizione del sacerdote, che ha posto il primo punto sull’assurdità del vedere gruppi di ragazzi i quali, pur uscendo insieme, sono isolati in se stessi, intenti a chattare o anche a giocare, ognuno con il proprio telefonino. Ragazzi soli a casa e soli in gruppo che con i genitori scambiano, al più, qualche raro monosillabo. Padri e madri presi, specie nei grossi centri urbani, dal vortice della vita moderna, concepita come una miriade di cose da fare nel poco tempo gli lascia il lavoro, compreso, anche per loro, il digitare sulla tastiera di un computer o di un cellulare. Ecco, don Luigi Verdi ci dice che è tempo di tirare su il fiato, di fermarsi un momento, di fare, come si dice, il punto sulla situazione. È fondamentale porre l’uomo al centro del proprio interesse, iniziando da se stessi. Dobbiamo sapere chi siamo davvero e perché ciò avvenga, è essenziale non rinnegare nulla della nostra vita, le gioie come le sofferenze, poiché ciò che siamo lo dobbiamo ad ogni singola nostra esperienza a cominciare dal rapporto con il proprio padre e la propria madre di cui dobbiamo amare le carezze ma anche i castighi perché tutto ha contribuito a fare di noi ciò che siamo. Poi non resterà che aprirsi ai propri compagni, ai propri figli, al mondo; quello degli sguardi, quello che si tocca, quello che dà calore. Giugno 2014 27 Jacopo Giammatteo Q uello che si è visto domenica 11 maggio presso la cittadina diocesana di Colleferro è un qualcosa di straordinario. Più di duecento ragazzi e ragazze si sono sfidati a calcetto e pallavolo dando vita alla terza edizione del torneo sportivo diocesano “Giochiamo da Dio”. Provenienti da ogni paese della diocesi (e non solo visto che c’è stata la partecipazione di alcuni ragazzi della diocesi di Albano, che hanno vinto il torneo di calcetto maschile) i ragazzi hanno foggiato una giornata di sport emozionante, in cui si è subito notata la differenza con i fatti di cronaca, che hanno riempito le prime pagine dei quotidiani nazionali. L’intento del Servizio Diocesano per la Pastorale Giovanile, organizzatrice del torneo, è stato quello di voler dimostrare che si può essere testimoni autentici e credibili del Vangelo di Gesù anche nell’ambito delle attività sportive. I ragazzi hanno reso vivo questo intento, dimostrando che essere testimoni significa mettere l’uomo al centro dell’attività fisica, dedicandosi alla pratica sportiva con agonismo, serietà e voglia di vincere, senza però dimenticare che dietro ad ogni avversario c’è una persona, che deve essere rispettata e onorata. Tutti i partecipanti hanno capito che lo sport rappresenta, in maniera più o meno immediata, molte situazioni della vita e accompagna chi lo pratica con impegno ad affrontarle gradualmente e senza timore, consapevoli che ogni occasione è un’opportunità donata da Dio per migliorarsi e imparare dagli errori che si sono com- messi. Inoltre, si è fatto palese che tra la sfera sportiva e quella dell’esperienza di fede c’è un parallelismo molto intenso, che può essere sintetizzato prendendo ad esempio l’esperienza della sconfitta. Infatti è nel momento più triste dello sportivo che lo sport insegna a non fermarsi, a rialzarsi per riprovare, ed è in questi momenti che la fede va in soccorso dello sconfitto, invitandolo a riprendere il cammino e soprattutto a non perdere la speranza. Ed è proprio la speranza che è stata rinvigorita; infatti grazie a questi ragazzi si potuto mostrare, una volta per tutte, che l’attività sportiva è un mezzo volto a educare e aiutare l’individuo lungo tutto il suo percorso di vita. Un bel messaggio dato da questi ragazzi, un raggio di sole in un periodo arido di luce per alcuni ambiti dello sport italiano. Il pomeriggio è iniziato con una cerimonia di apertura che, dopo la sfilata di tutte le squadre partecipanti, è stata arricchita dall’ascolto di un estratto del discorso che papa Francesco ha rivolto alle nazionali di calcio di Italia e Argentina in occasione della loro partita amichevole svoltasi a Roma nell’agosto dell’anno scorso, per poi concludersi con alcune coreografie curate dalle scuole di ballo Old Fox di Colleferro e Lucy Dance di Rocca Priora. Dato il via ufficiale al torneo, si sono svolte le partite, sia maschili che femminili, di calcio a 5 e di pallavolo, provenienti da ogni parte della diocesi e non solo (vista la partecipazione, come già rivelato più sopra, di una squadra di calcio a 5 maschile provenien- te da una parrocchia di Albano) di appartenenza sia parrocchiale che scolastica, oltre che di gruppi di amici. In tutto anno partecipato 4 squadre per la pallavolo sia maschile che femminile, 4 per il calcio a 5 femminile, e 20 squadre per il calcio a 5 maschile. Il tutto è terminato in tarda serata con la premiazione delle tre migliori squadre per ogni disciplina sportiva. Giugno 2014 28 Lo staff dell’Oratorio di S. Maria Intemerata S iamo ormai al termine di questo percorso oratoriale. Sembra che siano passati solo pochi giorni da quando abbiamo programmato i nostri incontri: 12 amen per dire la fede. Un bel percorso che ha richiesto pomeriggi interi per organizzare gli appuntamenti. collaboratori parrocchiali S. Maria Intemerata, Lariano U na giornata che suscita tanti ricordi, dal 13 maggio di Fatima al 1981 quando San Giovanni Paolo II subì l’attentato in piazza S. Pietro. Questi eventi sono stati la cornice per un pomeriggio di preghiera mariana vissuto in un contesto particolare: la Fonte Ontanese. Essa è tanto cara alla popolazione di Lariano. In questi ultimi anni essa viene tenuta pulita e quindi è un luogo di passeggio specialmente per tutti coloro che vogliono camminare in tranquillità. Da anni sopra la fonte è stata posta una statua dell’ Immacolata. Visitata e venerata da molti, ogni tanto meta di piccoli pellegrinaggi. Purtroppo anche da noi ci sono dei vandali, pensiamo ragazzotti in cerca di emozioni. Infatti non vogliamo pensare al peggio. Questi circa tre mesi or sono hanno distrutto la statua e la piccola grotta dove era collocata. La Associazione la Sorgente si è fatta carico di riposizionare una nuova statua. Così il 13 maggio si è pregato il Rosario lungo il cammino pedonale e poi la statua nuova è stata benedetta e collocata al suo posto. La proposta che ha suscitato molti consensi è di andare frequentemente, a pregare il rosario, sia individualmente che nei gruppi ecclesiali. Ora aspettiamo di far decollare l’iniziativa. Le autorità comunali presenti in loco, a cominciare dal sindaco Maurizio Caliciotti, hanno fatto eco alla volontà popolare e l’hanno incoraggiata impegnandosi per una maggiore custodia. Presenti diversa Associazioni, si civili che religiose, tutte decise a dare a questo luogo una valenza di spiritualità che la fonte e la statua della Vergine suscitano quasi d’istinto. Vivere la Messa: dal segno della croce iniziale, l’atto penitenziale, glorificare Dio, la preghiera di colletta, la professione di fede, la preghiera dei fedeli, quindi l’offertorio, la consacrazione del pane e del vino, la processione verso l’Eucaristia, la preghiera silenziosa dopo aver ricevuto Gesù, e ecco uscire per portare frutto, esattamente come gli apostoli. Tutto questo è stato possibile grazie alla catechesi su brani biblici, attività, giochi, canti e preghiere. Quanti bei momenti vissuti con i nostri ragazzi; di riflessione, condivisione e soprattutto confidenze personali…di fiducia. La maggior parte di loro sono ormai prossimi a ricevere il sacramento della confermazione, come poter lasciare nel loro cuore ancora un segno? Abbiamo così pensato di svolgere il nostro ultimo incontro all’Ontanese, un luogo meraviglioso dove la presenza del nostro Creatore è respirabile in ogni angolo. Qui si sono svolti giochi, abbiamo cucinato carne alla brace, tante risate e per finire un riepilogo dei nostri 12 amen dipinti su un grande striscione. Il vento ha iniziato a soffiare con forza, e mentre due animatori cercavano di piegare lo striscione per andare via ci siamo resi conto che i nostri amen erano sospesi in aria, era davvero uno spettacolo: le nostre ultime parole sono state perché tutti i nostri amen abbiano effetto per portare frutto nella nostra vita. L’elemento presente in tutti è uno solo lo Spirito santo con il soffio che meravigliosamente inarcava il nostro striscione, allo stesso modo, silenzioso, soffia nel cammino di ognuno e ogni giorno continua a compiere prodigi. Giugno 2014 29 Sara Calì Q uest’anno la statua della Madonna delle Grazie è rimasta nella Chiesa di Santa Croce fino al 1 giugno. Per noi artenesi la possibilità di poter pregare la sacra immagine, godendone della soave vista, una settimana in più rispetto alla normale procedura, è stata fonte di un’immensa e insperata gioia. Non potevamo avere regalo più bello noi che nella chiesa del Santuario preghiamo la Santa Madre celeste coperta da uno velo spesso per tutto il resto dell’anno, non aspettando altro che quei pochissimi giorni in cui viene “scoperta”. Sabato 17 maggio la processione in suo onore ha attraversato il paese, ricreando la suggestione di sempre, soprattutto nella splendida cornice del centro storico, con le varie Confraternite precedute dai loro stendardi e con i “Cristi infiorati”, sempre di una bellezza commovente per varietà di temi e di colori. Quest’anno, al profumo delle rose, si aggiunge quello dei gigli e dei garofani, dato il lungo periodo di esposizione nel periodo di massima fioritura della primavera. La processione della Madonna delle Grazie, come sempre, apre le porte all’arrivo dell’estate e di un lungo e fervido periodo di feste: il 1° giugno si ricorda l’Ascensione di Gesù, l’8 è la Pentecoste. Il 13 per Artena si snoderà un’altra importante processione, quella in onore di Sant’Antonio da Padova, che vede una grande partecipazione di fedeli, molti dei quali il 15, in occasione della SS. Trinità, si recheranno, come vuole la tradizione artenese, in pellegrinaggio al Santuario di Vallepietra. Seguirà, poco dopo, il 22 giugno, la processione in onore del Corpus Domini e due giorni dopo quella in onore di San Giovanni, molto sentita nella frazione di Colubro, la cui chiesa è intitolata al Santo. La festa, molto particolare, per la sopravvivenza e la commistione di usanze precristiane, prevede, la sera precedente, di saltare sul “peleo”, ovvero, un fascio di erbe aromatiche raccolte l’anno prima, messo a bruciare per saltarci su come segno di buon augurio. Un tempo si soleva anche scambiarsi il “garofano di San Giovanni” per chiamarsi “comare” o “compare”. Chiude il mese la festività dei SS. Apostoli Pietro e Paolo il 29 giugno. Nell’ambito delle attività delle parrocchie, invece, colgo l’occasione per ricordare, a chiunque fosse interessato, che ogni quarto sabato del mese sono aperti al pubblico il museo e la biblioteca del Convento francescano con visite guidate gratuite. Giugno 2014 30 Valeriano Valenzi* iovanni XXIII e Giovanni Paolo II, accomunati nella solenne celebrazione del 27 aprile in piazza San Pietro, sono testimoni fedeli del Vangelo nel mondo di oggi che ha bisogno non tanto di maestri, ma di testimoni coerenti. La cerimonia ha richiamato a Roma una folla immensa di pellegrini, di fedeli alla ricerca di una conferma, di individui smarriti, ansiosi di Verità e di Luce. I “media” hanno ampiamente illustrato, mediante l’intervento di biografi, di storici e di teologi, la personalità dei due nuovi Santi, ripercorrendo le tappe del loro cammino spirituale ed ecumenico in un mondo che, emerso dalle rovine del secondo conflitto mondiale, affrontava le incognite della globalizzazione. Di papa Giovanni XXIII che si definiva “un sacco vuoto che lo Spirito Santo ha riempito improvvisamente di forza” è emersa con chiarezza l’intuizione decisiva dell’idea dell’aggiornamento riferita al rinnovamento della Chiesa, ma radicata nella lotta per il raggiungimento di una autentica Santità. Di Giovanni Paolo II è stata evidenziata la tenace difesa della presenza cristiana nella società, il riconoscimento dei martiri cristiani di tutte le chiese come testimoni nostri contemporanei: Karol Wojtyla, ancor prima di diventare papa, era stato un combattente della fede, un cristiano capace di leggere anche le responsabilità dei cristiani nella storia. Le due canonizzazioni sono state volute da papa Francesco per indicare che la Chiesa, anche in un’epoca di crisi, è in grado di esprimere la santità e che questi ultimi successori di Pietro, coeren- G ti alla grande tradizione, l’hanno servita, rendendola viva, capace di essere ascoltata dall’uomo contemporaneo. Nell’emozione dell’evento che ha coinvolto un po’ tutti i credenti, nell’ottimismo o, meglio, nella spiritualità della speranza, mi sono chiesto che cosa sono state per me, per il mio vissuto quotidiano queste due grandi figure che la Chiesa ci propone come guida per la cristianità del terzo millennio. Di papa Roncalli, che non ho avuto la fortuna di conoscere personalmente, è rimasto vivo nel mio animo il ricordo della famosa omelia “del chiaro di luna” quando si rivolse alle madri presenti, quella sera in piazza San Pietro, pregandole di portare ai loro bambini “la carezza del Papa”: si apriva in quel momento una nuova epoca della Chiesa, un nuovo porsi del Pastore nei confronti del gregge, più vicino alle pagine del Vangelo. Nel 1958, quando l’allora Patriarca di Venezia fu eletto al soglio pontificio, alcuni anziani della nostra comunità rammentarono un certo Mons. Roncalli, segretario dell’istituto “De propaganda fide” che era venuto a Segni nell’ottobre del ’22 per una serie di prediche in occasione delle Missioni. Su richiesta del vescovo, Mons. Sinibaldi, Angelo Roncalli era stato segnalato quale valente predicatore dal cardinale Oreste Giorgi di Valmontone. Durante il breve soggiorno nella nostra città, ospite del rev. Canonico Vincenzo Boccardelli, presso la sua abitazione di via della Pretura, 5, si era agevolmente adeguato alle abitudini locali; la sera, dopo la recita del Rosario, apprezzava molto le caldarroste accompagnate dal “cacciammitti” 1. Alla preghiera rivoltagli da don Vincenzo di non impegnare con prediche troppo lunghe i fedeli, stanchi per il lavoro giornaliero nei cantieri e nei boschi, il futuro Pontefice avrebbe risposto: “Lo so. Al mio paese, nel bergamasco, è diffuso il detto “prediche corte e salsicce lunghe!”. Forse, la fantasia popolare ha colorito l’aneddoto, ma certamente, tra i fedeli si era diffusa l’impressione di una naturale laconica e franchezza del personaggio! Più documentata è la presenza di Mons. Roncalli a Segni nel luglio del successivo anno 1923 in occasione delle celebrazioni tenutesi per l’ottavo centenario della morte di San Bruno, patrono della città. Nell’archivio del Capitolo della Cattedrale2 ho trovato la “Memoria” dei “Festeggiamenti religiosi e civili celebratesi in Segni”, redatta, nell’agosto 1923, per mano del Segretario Capitolare, canonico don Gaetano Colaicomo. In tale documento viene precisato: “A tarda ora, per nove sere continue, con grande concorso di popolo, che aumentava di giorno in giorno, si celebrò una funzione solenne, durante la quale veniva eseguita egregiamente scelta musica: prima della benedizione eucaristica forbiti discorsi erano tenuti da dotti oratori, quali il Reverendo Canonico don Bernardino Belloni nelle prime sei sere e il Rev. Giovanni Lupidi O.E.S.A., il Rev.mo Don Carlo Bolotti, di Solero, città natale del Santo. Il Rev.mo Mons. Roncalli, direttore della “Propagazione della Fede”, per gli ultimi tre giorni”. Il 28 ottobre 1960 Mons. Roncalli divenuto ormai Pontefice con il nome di Giovanni XXIII, durante la cerimonia di consacrazione vescovile del nostro concittadino, Mons. Pericle Felici3, nella sua omelia, come testimoniano vari concittadini, tra cui Mons. Franco Fagiolo, ricordò il suo soggiorno nella nostra città. A questo proposito mi auguro che, in occasione dell’attuale canonizzazione, si provveda ad affiggere una lapide a ricordo dell’onore di quell’evento, di cui la nostra cittadinanza può frecontinua nella pag. accanto Giugno 2014 31 Segni saluta Suor Camilla D omenica 25 maggio u.s. la comunità cristiana che è in Segni ha ricordato con affetto Suor Camilla Calibeo, suora della Carità di Santa Giovanna Antida Thouret, vissuta per molti anni a Segni presso l’Istituto San Gioacchino di cui fu superiora. La Messa in suffragio è stata celebrata da Mons. Franco Fagiolo presso la cattedrale Santa Maria Assunta. All’inizio della celebrazione è stato delineato un sintetico profilo della religiosa che di seguito riportiamo. Suor Camilla, un nome caro ai segnini, capace di suscitare ricordi preziosi ed intimi. Arrivata giovanissima nel nostro paese da subito entrò in sintonia con la comunità mettendo i propri carismi a servizio di quanti, adulti o bambini, gravitavano attorno all’Istituto San Gioacchino.Tranne brevi parentesi ha speso interamente a Segni la sua vocazione religiosa, segnina a pieno titolo, ha vissuto da protagonista le vicende del nostro paese. Validissima insegnante di scuola elementare e, negli anni conclusivi della sua carriera scolastica, di scuola dell’infanzia, ha aiutato intere generazioni a crescere. Artefice di una didattica illuminata e all’avanguardia stimolava, nei giovani a lei affidati, l’elevamento culturale, morale e spirituale. Catechista attenta e responsabile ha accompagnato tantissimi in percorsi di fede che li han- segue da pag. 30 giarsi. Più personale e coinvolgente è la memoria di Giovanni Paolo II, che ho avuto il privilegio di incontrare tre volte. In occasione dell’udienza generale ai giornalisti della stampa italiana ed estera, in due momenti successivi, fui ammesso agli abituali incontri che il Pontefice concedeva ai rappresentanti dei “media” che, nella sua lungimiranza, considerava nuovi strumenti di evangelizzazione. L’incontro che, in un certo senso, ha segnato la mia vita, risale al 10 febbraio 1989: nella sala delle udienze, alle ore 12.00, senza quasi avvedermene, mi ritrovai in prima fila al passaggio del Papa che, soffermandosi per un attimo, mi fece una carezza, sorridendomi con uno sguardo limpido e penetrante. Oggi le immagini televisive ci hanno abituato all’umanità immediata e spontanea di Papa Francesco, ma, un quarto di secolo fa, quel gesto di Giovanni Paolo II fu da me percepito come qualcosa di straordinario. Il 1 giugno 1988 avevo già incontrato il Pontefice, grazie all’interessamento di Mons. Vincenzo Fagiolo, arcivescovo della diocesi di Chieti4, cui mi ero rivolto per la ricorrenza delle mie nozze d’argento. Avevo realizzato un quadro con lo scorcio di vicolo Colabucci, la casa natale del Mons. Angelo Felici5, allora Nunzio Apostolico a Parigi e pensai di farne dono al Pontefice, che mostrò di apprezzare l’omaggio, come si evince dal ringraziamento fattomi pervenire attraverso la Segreteria di Stato, in data 11 giugno 1988. Tali incontri hanno avvalorato nel mio animo l’immagine di una grande personalità che, con estre- ma coerenza, con la trasparenza e il coraggio di mostrare la sofferenza e la fragilità umana, ha dato concretezza alla sua predicazione. Ora, nella solennità della canonizzazione dei due Papi, il ricordo di quello sguardo sorridente e di quella carezza, dà luce e serenità alla mia vecchiaia. *Storico Segnino 1 Primo vinello. AIS- Atti diversi, busta n. 107. 3 Il vescovo, Mons. Pericle Felici, nominato da Giovanni XXIII, fu segretario generale del Concilium Vaticano II. Divenuto cardinale, come Decano, annunciò l’elezione dei Papi Giovanni Paolo I e Giovanni Paolo II. 4 Ordinato cardinale, Giurista pontificio in diritto canonico, è divenuto Presidente del Pontificio Consiglio per l’interpretazione dei testi legislativi. 5 Nunzio apostolico in Francia, ordinato cardinale, fu prefetto della Congregazione per la causa dei Santi. 2 no portati a ricevere i sacramenti fondamentali della vita cristiana. Abile nel disegno e nella musica metteva volentieri a disposizione i suoi doni per animare e rendere coinvolgente la liturgia. Ritiri spirituali, pellegrinaggi, campi scuola, gite, rappresentazioni teatrali l’hanno vista intraprendente e solerte animatrice. Il suo fare operoso, il suo stile essenziale, capace di andare al cuore delle cose, ha fatto di lei, negli anni, un punto di riferimento per quanti avevano bisogno di consiglio, di discernimento, di consolazione e di incoraggiamento. Con tanti aveva intessuto un rapporto di fiducia e di condivisione mantenuto anche negli ultimi anni quando, ormai anziana, si trovava a vivere nella casa di Palestrina. Poi, inattesa, la notizia della morte di Suor Camilla. Le sue esequie sono state celebrate il mercoledì della Settimana Santa, in quei giorni in cui le parole devono essere ridotte al minimo per lasciare spazio alla meditazione del mistero di un Dio che si è fatto uomo ed è morto per la nostra redenzione. Anche Suor Camilla se ne è andata in silenzio, secondo il suo modo di fare, abbandonandosi fiduciosa nelle braccia del Padre. Per lei ci sentiamo di ripetere le parole di San Paolo: “Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede. ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno; e non solo a me, ma anche a tutti coloro che attendono con amore la sua manifestazione”. Giugno 2014 32 Stanislao Fioramonti S an Franco nacque a Roio, diocesi di Forcona (nel 1256 trasferita all’Aquila), durante il pontificato di Adriano IV (1154-59). Di famiglia benestante, fece i primi studi con un sacerdote del paese, Palmerio, poi entrò nell’abbazia benedettina di S. Giovanni Battista di Collimento a Lucoli (AQ), costruita e dotata dal conte Odorisio nel 1077 quando era vescovo di Forcona S. Raniero. Dopo 20 anni lasciò la “sicurezza” del monastero per vivere come eremita, scelta allora piuttosto comune. Passò un primo periodo nei boschi di Lucoli, cibandosi herbulis, glandulis et agrestibus pomulis (erbe, bacche e frutta selvatica). In un secondo periodo, più incerto, errò prima per la catena centrale dell’Appennino abruzzese, culminante nel monte Velino, poi per la catena del Gran Sasso. Il terzo periodo lo passò sui monti di Assergi: 5 anni al Vasto, 15 sulle balze del Pizzo Cefalone (m 2533) (foto 1). Al Vasto scelse un luogo erto e pittoresco, ma arido e privo di rifugi, a quota 1730 sotto la cima del monte più occidentale della catena del Gran Sasso (m. 2132), che avrebbe preso il suo nome; si costruì una capanna secondo il sistema tradizionale dei pastori e alle sue preghiere l’acFoto 1: Pizzo Cefalone Foto 2: Grotta di san Franco al Pizzo Cefalone qua zampillò dalla rupe: ancora oggi i pellegrini salgono a bere e a lavarsi all’”acqua di San Franco”, per guarire dalle malattie specie della pelle. Dopo alcuni anni, per sfuggire ai visitatori sempre più frequenti, si trasferì tra i monti Sabini e infine si fermò in una località più vicina ad Assergi, ma più impervia, dove secondo la leggenda un’orsa con tre orsacchiotti lo guidò a una grotta e gli fece a lungo compagnia; si tratta della grotta dei Peschioli, sul sentiero per il passo della Portella (m 2260), che collega attraverso le alte quote il versante aquilano di Assergi con quello teramano di Pietracamela. Da qui, per evitare il traffico dei viandanti, si spostò ancora più in alto, a circa 1800 metri di quota, sotto le rocce del Cefalone (foto 2). Non essendo sacerdote, nelle feste principali si recava in paese per ricevere la Comunione nella chiesa abbaziale di S. Maria in Silice, costruita e consacrata nel 1150 dal vescovo di Forcona Berardo. Qui avvenne l’episodio del bambino in fasce salvato dalla bocca di un lupo, divenuto un elemento costante dell’iconografia del santo (foto 3). Quando l’eremita sentì prossima la morte, chiese i sacramenti e si ritirò nella sua grotta sotto il Cefalone. Nella notte sul 5 giugno di un anno intorno al 1220, quando le campane del paese suonarono da sole prima del solito e i galli cantarono fuori tempo, la gente si svegliò, vide una luce sulla grotta e capì; gli uomini salirono per riprenderne il corpo del loro santo e dargli sepoltura nella cripta della chiesa. I miracoli dell’eremita del Gran Sasso richiamarono pellegrini da tutta la regione, specie dall’Aquilano e dal Teramano; ai primi del ‘300, quando nella chiesa di Assergi al monastero subentrò un capitolo di sacerdoti secolari, già si celebrava la sua festa il 5 giugno. All’inizio del ‘400 la chiesa che conservava le sue spoglie si arricchì di una pregiata facciata romanica in pietra, mentre nel 1481 i resti del santo furono chiusi nell’artistica urna d’argento lavorata dal maestro sulmonese Giacomo di Paolo (foto 4). Nel 1757 il vescovo Sabatini ottenne l’estensione della festa di San Franco a tutta la diocesi dell’Aquila. Aspirando a una dura vita eremitica, Franco rimase sempre nel ristretto ambito dei suoi impervi eremi del versante meridionale del Gran Sasso, rifuggendo le cariche alle quali poteva aspirare quale uomo di cultura. Quanto ai suoi miracoli, secondo il Clementi egli opera con il meraviglioso: fa uscire l’acqua, fa continua nella pag. accanto Giugno 2014 sollevare un masso dal peso enorme, devia valanghe. Sono miracoli che non hanno riflessi positivi nella vita d’assieme, ma si esauriscono nella mirificità di sé stessi. Nella tradizione popolare però, nota Edoardo Micati, è proprio tale mirificità ad aver lasciato la traccia più profonda, come è evidente dai molti luoghi di culto dedicati al Santo (un monte, due grotte-eremi, una fonte) e dalla profonda devozione dei numerosi fedeli che giungono da tutta la regione. Per visitare i suoi luoghi di culto si può iniziare dalla stazione di partenza della funivia del Gran Sasso, a Fonte Cerreto di Assergi, prendendo una strada bianca che risale il Vallone della Portella fra i pini di un rimboschimento. La carrareccia gradualmente diventa un largo sentiero dal quale a tratti si scorgono, sulla destra, le rupi della località Peschioli. A circa 1700 metri di quota, in corrispondenza di un tornante, si devia a destra, si supera un arido valloncello e si percorre in diagonale il fianco della montagna giungendo in breve al pinnacolo dove è la prima grotta-eremo di S. Franco, quella dei Peschioli appunto. Tornati sul sentiero principale, si continua a salire fin quasi ai limite del rimboschimento; a un altro tornante si devia a sinistra e per tracce di sentiero si punta verso la base di una fascia di pareti. Si sale tenendosi sotto le pareti e si raggiunge la sommità di una piccola cresta e poi una valletta piuttosto ripida, che si attraversa puntanFoto 4: Urna di S. Franco nella chiesa di Assergi. do verso il limite superiore del bosco. Dopo un brevissimo tratto fra gli alberi si prende a destra un’altra valletta ripidissima, che in poche centinaia di metri ci conduce alla grotta sotto le rocce del Cefalone, a circa 1800 metri di altezza, dove S. Franco morì. Per raggiungere l’acqua di S. Franco (foto 5) invece occorre prendere la statale 17 bis dell’altopiano del Vasto, che collega Assergi con il Passo delle Capannelle. Poco prima della chiesetta rurale di S. Antonino si prende una strada bianca sulla destra. Poco dopo che questa ha incrociato il ruscello che scende dall’Acqua di S. Franco, si devia a sinistra per un sentierino che 33 sale dapprima ripido su un terreno incoerente, poi traversa in diagonale verso la cappellina, così descritta da un cartellone curato da Archeoclub Pescara Majambiente: “In questa cappellina dedicata al Santo, edificata superiormente a due cabine entro le quali l’acqua scaturisce dalla roccia, si può osservare una lapide1 che ricorda il restauro fatto nel 1945 e, sopra la lapide, un pannello composto da 24 formelle in maiolica che raffigura un miracolo del Santo: vi fu posto in occasione della costruzione della chiesetta da Matteo e Luigi Cappelli nel 18542. E’ interessante notare, nella parte alta di tale quadro, la rappresentazione della sorgente e di alcune persone che vi si bagnano completamente nude. Non è escluso che tale usanza fosse un tempo più comune di oggi. Il 5 giugno, ricorrenza della morte del Santo, numerosi pellegrini giungono alla sorgente provenienti dai paesi vicini e da alcuni paesi della Marsica e del Pescarese. Dopo aver visitato la cappella e asciugato il sudore della salita, i fedeli vanno a bagnarsi alla sorgente. Si riempiono bottiglie e taniche per riportare a casa l’acqua che sarà distribuita ai vicini e spedita ai parenti emigrati. L’acqua di S. Franco, usata per curare ogni genere di malat- Foto 3: iconografia di san Franco. tia, ha la sua specifica applicazione nelle malattie della pelle”. 1 “Anno 1945 - mese di giugno -13 agosto. A S. Franco Patrono Cipicchia Vincenzo ha offerto la ricostruzione di cotesto edificio a proprie spese, per la memoria del proprio figlio geometra Tonino, caduto per la Patria il 20 giu gno 1944. Ringraziamenti di collaborazione al parroco don Ermanno Morelli, al capomastro Cocco Domenico, a tutti gli operai trasportatori ed al popolo di Assergi per aver portato a termine i lavori dopo molte difficoltà”. 2 “S. Franco di Assergi. A div(ozio)ne di Matteo e Luigi Cappelli. A.D. 1854”. (La famiglia Cappelli era allora proprietaria della montagna, che oggi è comunale per la transazione del 13 giugno 1949). Altre scritte lasciate negli ultimi anni dai pellegrini dicono: “A S. Franco, questo luogo scelto dal suo figlio prediletto per essere più vicino a Dio, il popolo di Rojo, in memoria ed eterna devozione pose. 13/08/2002”. “Il mio pensiero è rivolto a te, san Franco, perché sono certo che tu abbia salvato mio fratello Sabatino il 15 agosto 2004 da un volo di 30 metri. Hai Foto 5: l'acqua di san Franco alle teso le tue braccia mentre cadeva ai piedi delfalde del monte omonimo. la fonte e la mia devozione mi ha riportato qui un anno dopo a dirti grazie.15/08/2005. Giovanni e la sua famglia (Loredana, Antonio, Cristina e Paolo)”. Una targa, infine, è stata dedicata da alcuni amici in memoria di un Franco appena scompaso. Bibliografia: Pasquale Ottaviani, voce in Bibliotheca Sanctorum, vol. V, col. 1248, PUL 1964. Demetrio Gianfrancesco, S. Franco di Assergi eremita del Gran Sasso, L’Aquila 1979. Giugno 2014 34 Antonio Venditti I l nuovo Ministro del M.I.U.R (Ministero dell’Istruzione, dell’Università, della Ricerca), Stefania Giannini, ha dichiarato proprio che si devono bloccare le riforme, intese come “grandi e lunghi processi”, non esenti da complicazioni e contrapposizioni che generano, quanto meno, disagi nel mondo della scuola. Tale presa di posizione non significa affatto che tutto resterà immutato, ma tutt’altro, perché già sono stati indicati intenti di modifica della situazione esistente. Innanzitutto ci si deve soffermare sul significato che assume il proposito di porre uno “stop alle riforme”, in considerazione anche di tutto ciò che è stato scritto sulla lunga stagione riformatrice attuata in Italia, dall’inizio del nuovo millennio, con tangibili trasformazioni in atto, peraltro lungamente attese nella seconda metà del secolo passato. A mio avviso, il riferimento non è alla “Riforma” che ha trasformato, rinnovando profondamente, l’assetto generale della Scuola italiana, ma ad un persistente “riformismo”, tipico, del resto, di una mentalità diffusa in vari settori, dov’è evidente la volontà di rimettere tutto in discussione, volendo sempre sperimentare diverse soluzioni. La contrarietà del nuovo Ministro è stata, infatti, espressa in rilevazione alla “sperimentazione” del ciclo breve negli Istituti superiori (quattro anno) invece dei cinque regolamentari, che, a differenza del precedente Ministro, ritiene necessari. La riduzione di un anno della durata del secondo ciclo dell’istruzione, non è, infatti, modifica marginale, e riaprirebbe un vecchio dibattito, legato alla durata complessiva degli studi in Italia, ma anche alla solidità dei medesimi; se proprio si rende necessario uniformare tale durata a quella di altri paesi, con il termine ai diciotto anni, si può agire sull’anticipazione dell’inizio della scuola primaria, del resto già operante, secondo il mese di nascita. Una volontà d’intervento incisivo, è stata, invece, chiaramente indicata dal Ministro, in un anello dell’istruzione, che ritiene “debole”: il triennio della scuola media, cioè della scuola secondaria inferiore, con la precisazione che non ha in mente una “riforma”, ma una “rivisitazione” di tale segmento intermedio e, come tale, “strategico” per la riuscita dell’intero processo di formazione. Il neo Ministro del M.I.U.R, docente di Linguistica nell’Università per stranieri di Perugia, nella prima dichiarazione “programmatica”, ha indicato tre punti che, a suo parere, assumono parti- colare rilievo: 1° il diritto allo studio, per il quale intende esaltare il “merito” e combattere il fenomeno della “evasione”; 2° i titoli di studio, per difenderne il valore; 3° riconoscere per testimoniare. Se per l’Università, il rapporto docenti-discenti, può rappresentare una necessità da costruire, in molti casi, perché, soprattutto nelle grandi realtà, esiste, e non da oggi, una separazione, che va a detrimento della formazione, si deve riconoscere che, invece, l’integrazione già si realizza nelle scuole del primo e del secondo ciclo; si tratta soltanto di vivificare sempre più tale rapporto, che è operante nel processo di insegnamentoapprendimento, nella quotidiana frequentazione, e favorisce la formazione integrale della personalità. L’Università, quindi, uniformemente, dovrebbe arricchirsi di tale dimensione umana, in una ristrutturazione organizzativa radicale, che permetta sempre il contatto continuo e diretto tra docente e studente. Così il “diritto allo studio” è rettamente inteso e così può emergere, nella relazione educativa profonda, il merito, non misurabile nel frettoloso esame, al termine delle lezioni cattedratiche, rivolte a centinaia di discenti, distanti e sconosciuti; così verrebbe posto argine all’abbandono dello studio, nei primi anni di università, di proporzioni ben più vaste dell’evasione dell’”obbligo scolastico”. Il valore del titolo di studio, non giuridico, ma sostanziale, riguarda, innanzitutto, il titolo conseguito con l’Esame di Stato, al termine del secondo ciclo d’istruzione, ma si estende, inevitabilmente, al conseguimento della Laurea, che dev’essere il risultato di una formazione incisiva, con l’acquisizione delle competenze previste dal piano di studi e corrispondenti ai livelli europei, con possibilità effettiva di rapido e adeguato inserimento nel mondo del lavoro. In siffatta impostazione, al di là di ogni formalismo, autoreferenzialità e mistificazione, il merito assume il giusto valore, da riconoscere ed utilizzare opportunamente. In tale contesto, emerge la funzione degli insegnanti, in ogni ordine e grado d’istruzione: funzione da risollevare dallo stato di abbandono in cui versa, per effetto, principalmente della crisi economica, ma anche per l’indifferenza, non solo politica, nei confronti di una categoria, sostanzialmente non considerata, nella fondamentale funzione che svolge ed emarginata socialmente. Prima ancora dell’adeguamento, senz’altro necessario, delle retribuzioni, tra le più basse in Europa, occorre restituire, nella proclamata “centralità della scuola”, valore alla funzione docente, indispensabile per il raggiungimento degli obiettivi formativi e sociali. Per far questo, non c’è bisogno di alcuna riforma, ma soltanto del rilancio dell’istituzione scolastica, dotata dei mezzi necessari per l’efficienza organizzativa e per l’efficacia dell’azione educativa e didattica. Non basta, quindi, il piano di ristrutturazione edilizia, pur importante per la risoluzione dei problemi logistici: necessita un piano urgente, per restituire “dignità” e motivazione ai docenti, impegnandoli, con serenità ed entusiasmo, nel fondamentale servizio culturale e sociale. Giugno 2014 35 Mara Della Vecchia I n concomitanza con la canonizzazione di papa Giovanni Paolo II, sono state promosse numerose iniziative culturali, oltre che religiose e spirituali, dunque assistiamo a molteplici pubblicazione di libri, articoli, periodici, trasmissioni televisive, opere teatrali. Non poteva mancare il musical, linguaggio che unisce più discipline artistiche: teatro, musica, danza e che per questo riesce ad arrivare a un vasto pubblico, diffondendosi anche oltre la singola rappresentazione attraverso i momenti musicali più belli e significativi. Il titolo dell’opera musical è Karol Wojtila la vera storia, dedicato, quindi, all’uomo oltre che al Pontefice. La prima mondiale dell’opera è stata rappresentata a Cracovia, città che ospiterà la prossima Giornata Mondiale della Gioventù, il 2 aprile scorso, dove è rimasta fino al giorno 5 per poi iniziare a viaggiare per tutto il mondo. In Italia è già stata rappresentata a Roma al teatro Brancaccio e sta continuando a girare nei teatri di altre città italiane. L’originalità dell’opera consiste nell’uso, per la prima volta a teatro, di due tecnologie diverse e cioè le immagini in 3D e l’ologramma. La regia dello spettacolo è di Duccio Forzano, che è anche uno degli autori, più conosciuto per aver diretto il festival di Sanremo e altri programmi televisivi. Le musiche originali e inedite sono di Noa e Solis String Solist. Il cast è formato da ben ventisette attori, tra cui anche un giovanissimo interprete, nel ruolo dei Karol bambino. Lo spet- tacolo, proprio grazie alla tecnologia, si articola su due piani: quello reale e quello virtuale, allo scopo di raccontare sia gli accadimenti che attraversano la vita del protagonista, sia la sua interiorità, il suo viaggio personale per arrivare al sacerdozio e infine approdare al soglio pontificio. La narrazione della vita di Giovanni Paolo II inizia con il drammatico evento dell’attentato del 13 maggio 1981, in piazza San Pietro e ripercorre gli eventi salienti della sua vita attraverso dei flashback sin dall’infanzia nella sua città natale Wadovice, perché, come era solito affermare Giovanni Paolo II, in questa cittadina polacca aveva avuto inizio tutto: la vita, la scuola, gli studi, il sacerdozio e si snoda attraverso il racconto degli episodi che mettono in luce la sua determinazione, il suo coraggio, la sua grande umanità e compassione. Poi la sua vita pubblica come pontefice della Chiesa cattolica, nota a tutti con i numerosissimi viaggi apostolici in tutto il mondo, gli incontri con le personalità più potenti della Terra, il suo profondo e appassionato interesse verso i giovani e le sue indimenticabili Giornate della Gioventù. Il risultato è uno spettacolo molto bello e coinvolgente dove la commistione di recitazione, coreografie, musica, video 3D e ologrammi trasportano lo spettatore in un’avventura emozionante. Giugno 2014 36 Giovanni Abruzzese I l Preside Antonio Venditti torna nel panorama letterario con un altro romanzo: “Il Mondo in soffitta”, il terzo dopo “Il Bandito della Regina” e “Albero secolare del 1999”. Il libro, in copertina e al suo interno è impreziosito dalle stampe dei dipinti del maestro Agostino De Romanis. La storia, di pura fantasia, ambientata in una località immaginaria, probabilmente in Abruzzo, narra di una famiglia che si tramanda di padre in figlio i valori della vita. Tre, anzi quattro generazioni, si scambiano il testimone per tenere alti i principi di lealtà, onestà, filantropia, socialità… insomma quei valori di cui tanto, da sempre, il mondo ha un assetato bisogno e che soli saprebbero garantire quel modello di vita giusto, ideale che spesso è definito utopistico. Dalle voci greche ο «non» e τ πος «luogo»; letteralmente significa «luogo che non esiste», si sottintende nella realtà. È, certamente assicurato questo assioma, quando non esistono le volontà individuali e collettive a che certi obiettivi, sogni, progetti… si realizzino: quando, cioè, venga a mancare la “Volontà buona” perché diventino Realtà. I protagonisti principi della storia sono, oltre alla famiglia Temmeroni, un manipolo di personaggi a questa legati da affetto, stima, condivisione di idee e relazioni parentali. Questi fanno squadra nel tentativo di isolare o quantomeno contenere i propositi immorali di una schiera di sostenitori del sindaco in carica: Olimpio Mascioni che volendo riconfermarsi tale alle elezioni successive imbastisce una campagna elettorale fatta di proclami, promesse ambiziose e spropositate che hanno lo scopo di ottenere il consenso a poter continuare a fare della cosa pubblica un’opportunità di affare privato da condividere tra una ristretta schiera di speculatori e clienti senza scrupoli. A contendere l’ufficio di sindaco vi è Cosimo Temmeroni, un meccanico, che mostrerà di possedere le straordinarie doti di uomo probo, giusto, onesto, paziente, umile… insomma doti opposte a quelle del Mascioni. L’Autore, con abile capacità di analisi, sa attribuire ad ogni personaggio quelle caratteristiche tipiche che fanno di alcuni dei disonesti profittatori e di altri dei semplici esseri umani tenacemente innamorati della Vita in tutte le espressioni in cui questa si manifesta. Questi si mostrano sensibili al bello naturale dei paesaggi, delle tradizioni culturali, delle opere d’arte in tutte le sue forme: pittoriche, architettoniche, musicali, letterarie…, all’animo umano che si esprime attraverso la diversità che è ricchezza di varietà dell’essere persona. Insomma si tratta della lotta tra una visione oltre che razionale, anche romantica della vita e la visione solo materialistica. Il lettore potrà individuare la gamma dei comportamenti opposti che si differenziano per modo di esprimersi, per strategia adottata e per stile personale. Così ognuno potrà riportare alla mente o alla coscienza ingiustizie, raggiri, beffe, tradimenti, soprusi subiti, ma anche aiuti, solidarietà, azioni benefiche, gentilezze, donazioni ricevute. L’Autore, nel mantenere sempre un atteggiamento assolutamente equilibrato nel condurre la sua disamina della realtà, non scade mai nella lamentazione, né nella spietata denuncia di comportamenti riprovevoli: sempre li tratta con pietas, con l’atteggiamento, per nulla superbo, di chi ha coscienza che la realtà si compone anche di questo e che, pur essendo determinato ad opporsi ai comportamenti ingiusti, sa che ci si deve sforzare di fare salvi i personaggi che li adottano, perché comunque anch’essi figli di Dio, che potranno sempre redimersi e convertirsi al bene prima o poi se sarà forte e determinata la ragione dei giusti. Se veramente si vuole partecipare alla realizzazione di un mondo migliore dobbiamo imparare tutti a saper cogliere il positivo e celebrarlo ogni qualvolta si manifesti. Lasciarsi andare a perverso desiderio di concentrarsi più sugli scandali che sui gesti “normali”, significa rischiare di fare della “anormalità” la “normalità” e viceversa: questo giustificherebbe la vera fine del mondo! Il Padre di Cosimo, ritirato nella soffitta di casa sua, parla con i nipoti della possibilità che il mondo finisca. Da questi viene frainteso e solo alla fine scoprono che le parole del nonno vogliono significare che, pur morendo ogni istante il mondo precedente, ogni giorno, ogni anno, ogni era, sempre e subito ve ne è uno successivo che si fa spazio e che avanza sostituendosi al primo. Questo non si fonda mai dal nulla, si impernia su quello vecchio appena superato. L’immagine rende bene il senso della vita e della storia dove il passato, il presente e il futuro devono formare un ordito, che con le necessarie diversità mantenga integre alcune forme, alcu- ni colori, alcuni fili a garantire armonia al tessuto. Solo quando questa armonia dovesse essere veramente e definitivamente compromessa da uno strappo irriducibile, allora sì, il mondo finirebbe per davvero! Nel testo si aprono una serie di quadretti che contengono specifici dialoghi sulla cultura, sulla politica, sull’amicizia, sull’amore figliale, parentale, coniugale e sensuale, sul sentimento religioso, sul concetto di pace, difesa, comunicazione, filosofia, violenza… insomma è uno spaccato rappresentativo del mondo e di chi lo abita. Vi sono colpi di scena che, lasciando il lettore stupefatto, lo invitano anche a porsi tutta una serie di domande, del tipo: “come mi sarei comportato io di fronte ad una situazione del genere? Avrei ceduto alla pressione del condizionamento dei luoghi comuni oppure sarei stato capace di agire liberamente, facendomi dettare le regole di comportamento dalla mia coscienza e dalla ragione?”. La lettura di questo libro ci invita ad entrare nella dimensione dell’umanità, della natura, dei principi morali ed etici, in quel mondo che troppo spesso rischiamo di perdere di vista presi dalla frenesia di operare, produrre, consumare, confliggere dimentichi che il Mondo, quello vero, non va messo in soffitta per essere dimenticato, semmai per conservarlo e poterlo sempre guardare ancora con occhi rinnovati ed entusiastici. Il Preside Venditti, in questa opera manifesta tutto lo spirito politico che da sempre ha animato e giustificato il suo agire, come uomo, marito, padre di famiglia, nonno, ma anche e soprattutto come professionista: insegnante, prima, preside, poi. Avendo avuto il privilegio di lavorare con lui e di essergli vicino, ho preso ancor più coscienza di ciò che nella mia coscienza già aveva preso ad avanzare: La Politica, quella con la “P” maiuscola ogni cittadino dovrebbe agirla innanzitutto nell’ambito della propria contingenza, sforzandosi di tradurre in atti tutti i propositi, le idee, i valori che a parole si professano comunemente, per sconfiggere la corruzione, l’arroganza, l’accidia, il delirio di onnipotenza e quant’altro contribuisca a generare un mondo degradato. La differenza tra un “omuncolo” e un “Uomo” degno di essere così classificato, sta nel fatto che il primo agisce per il limitato fine di perseguire suoi personali e individuali interessi, il secondo lo fa sempre tenendo ben in vista il destino dell’intera umanità di cui sa di essere solo una parte significante, ma non propriamente e necessariamente significativa. Questi sa che il suo operato, se positivo, riverbererà per il resto del tempo a venire e che così potrà sopravvivere alla morte corporale, restando protagonista, con lo spirito, nel mondo che continuerà a vivere dopo di lui. Il libro è in vendita presso la Libreria “Numero 6” di Roberto Zaccagnini, in via Croce. L’intero ricavato sarà devoluto all’Associazione umanitaria “Nuova Velletri per il Mali” del prof. Pier Luigi Starace, per aiutare quelle sfortunate popolazioni. Giugno 2014 37 Edoardo Baietti I n questi giorni di giugno, ben due eventi culturali interesseranno la struttura del Museo Diocesano, preludio ad un’estate veliterna ricca di sorprese. Seguendo l’ordine temporale, la prima iniziativa su cui rendicontiamo è la mostra fotografica “Le Madonnelle di Velletri ed altre immagini sacre“, inaugurata sabato 31 maggio. Partecipando all’esposizione, curata dall’Associazione Culturale “Click Paolopacephoto” grazie al patrocinio del Comune di Velletri e del Museo Diocesano, i visitatori avranno la possibilità di visionare oltre cento fotografie, frutto di appassionata ricerca e documentazione. Le Madonnelle e le immagini sacre, da Tevola ai Cinque Archi, da Pratolungo all’Artemisio. La mostra rimarrà aperta fino a domenica 8 giugno,ospitata presso la sala Silvana Paolini Angelucci. Speriamo che l’invito possa raccogliere un vasto consenso, visto che proprio dalla partecipazione della cittadinanza eventi del genere trovano linfa vitale. Da segnare sull’agenda l’appuntamento del 13 giugno, con la presentazione presso il Museo Diocesano alle ore 17,00 del volume “In carrozza con il Cardinale Duca - Enrico Stuart: i suoi luoghi, il suo tempo” di Gregorio Grande. Una conferenza sulla figura protagonista del libro vedrà interventi di Claudio Lurati, Giorgio Orioli, Luca Leoni e Giulio Bernini. Nel corso dell’evento avremo anche la possibilità di apprezzare le icone della Theotokos dei maestri Roberto Roncaccia e Fabio Pontecorvi. È sempre piacevole vedere l’arte e la cultura andare a braccetto con il sociale, e anche in questo caso ne abbiamo un esempio lodevole: la diffusione del volume si inserisce nella campagna “Basta un libro per salvare una vita”, promossa dall’associazione “Lares et Urbs” a sostegno della maternità dell’ospedale di Kalongo -Uganda, in collaborazione con la Fondazione Dr. Ambrosoli Memorial Hospital. Di seguito, alcune note tratte dalla scheda tecnica del libro, un piccolo assaggio prima dell’imminente presentazione: “Il volume ripercorre la vita e i luoghi di Enrico Stuart, Cardinale duca di York (17251807), che fu principe e vescovo di Frascati per oltre quarant’anni. Ma il Cardinale Duca era anche l’erede legittimo del trono d’Inghilterra: con lui si estinse il ramo principale degli Stuart, che aveva regnato sulle isole britanniche dalla morte di Elisabetta I alla “Glorious Revolution” del 1688. Cosa aveva portato l’ultimo degli Stuart a nascere a Roma e a diventare Cardinale della Chiesa cattolica? Perché l’insurrezione scozzese del 1745 prese le mosse dal palazzo Savelli di Albano? Qual è il filo sottile che lega al territorio dei Castelli Romani una dinastia protagonista della grande storia europea?” esclusivo, seppur piacevole, divertissement. Albano, Castelgandolfo, Colonna, Frascati, Grottaferrata, Lanuvio, Monte Compatri, Monte Porzio Catone, Rocca Di Papa e Velletri i tanti comuni interessati e congiunti dalle parole dell’autore Grande, che collega le varie tappe con la passione dello scrittore e l’accuratezza del ricercatore. Completano il volume alcuni documenti inediti dagli archivi dell’Abbazia di Grottaferrata. Dopo la conferenza seguirà una visita guidata Queste brevi note di presentazione chiaramente non rendono un’epitome onesta della complessità del libro di Gregorio Grande, testo che si snoda tra i vari luoghi del territorio toccati dai protagonisti, con un minuzioso lavoro di documentazione che non solo impreziosisce il volume, ma lo rende adatto per una lettura approfondita e non di al Museo Diocesano e alla Cappella della Madonna delle Grazie, a cura della dott.ssa Sara Bruno. Tante le opportunità, dunque, offerte da questo libro: apprezzare una piacevole lettura che al valore documentale unisce uno stimolante percorso, territoriale da un lato e di riflessione dall’altro; analizzare una riscoperta della nostra Velletri e dei comuni limitrofi interessante sia per l’esperto che per il lettore onnivoro, curioso di conoscere segreti ed eventi che hanno scandito le strade che oggi percorriamo ma secoli prima delle nostre nascite; infine, oltre all’arricchimento culturale, si potrà avere anche la soddisfazione di poter contribuire con un piccolo gesto ad un importante progetto di beneficenza. Un doppio appuntamento al museo tra arte, storia, cultura e impegno sociale. Di questi tempi, in cui la qualità troppo spesso soccombe a logiche seriali o iniziative futili, la presenza di iniziative di sostanza ci rende senz’altro più fiduciosi. Giugno 2014 38 Tiziano Vecellio, Amor sacro e Amor profano, data presunta 1514-15, Galleria Borghese, Roma / 1 don Marco Nemesi* Q uesto quadro è uno dei simboli della Galleria Borghese e una delle opere più belle di Tiziano Vecellio giovane: colori intensi e corposi, figure femminili sensuali, un paesaggio reso naturalisticamente. Una vera celebrazione della bellezza e della maestrìa coloristica del pittore. Ma l’opera condivide lo stesso destino di altri celebri quadri rinascimentali (La Primavera di Botticelli, La Tempesta di Giorgione, La Flagellazione di Piero della Francesca): non ne conosciamo la data sicura di esecuzione e nemmeno il soggetto reale dipinto. L’opera, di cui non si avrà alcuna notizia sino alla metà del Seicento e per la quale alla fine dell’Ottocento i banchieri Rotschild offrirono invano un prezzo enorme per poterla avere, è la più significativa del percorso giovanile di Tiziano, sicuramente una delle più studiate dell’intera storia dell’arte e ancora oggi non del tutto chiarita nei suoi significati simbolici. Qui ogni elemento, anche il più minuto e almeno apparentemente marginale, diventa il segnale di un nuovo modo di pensare e di riproporre il tema figurativo, quale mai prima di allora si era visto nella pittura italiana. Solo il restauro compiuto nel 1990-93 ha permesso di scoprire la complessa genesi della composizione: i numerosi pentimenti emersi dalle radiografie indicano i dubbi che attanagliarono il pittore sia riguardo alla concezione generale sia a proposito dell’esecuzione dell’opera. Il dipinto fu realizzato in un periodo in cui la repubblica di Venezia, dopo l’occupazione di Bisanzio da parte dei turchi e la conquista dell’America da parte degli spagnoli, che spostarono i traffici dal Mediterraneo all’Atlantico, si era vista costretta a espandersi verso l’entroterra, ampliando il suo raggio d’azione commerciale a spese del- le terre romagnole dello Stato della chiesa e di quasi l’intero Lombardo-Veneto, spingendosi fino ai possedimenti imperiali, come il Friuli, Gorizia, Trieste e Fiume Contro di essa la chiesa organizzò la Lega di Cambrai, al fine di spartirsi, con l’appoggio dei francesi (che non volevano cedere a Venezia il ducato milanese), degli spagnoli (imparentati con gli imperiali di Massimiliano I d’Austria) e delle signorie di Ferrara e di Mantova, tutti i territori della Serenissima. Fu il maggior conflitto delle guerre italiane del Rinascimento, in quanto ai contendenti presto si unirono inglesi, scozzesi, ungheresi, svizzeri, fiorentini e urbinati, in guerra tra loro o contro Venezia o contro i francesi. Grazie alla sua abilità diplomatica e con uno sforzo enorme, in termini di uomini e di finanze, Venezia riuscì a rovesciare le alleanze più volte, vincere la guerra (1509-1516) e ritornare quasi agli originali confini. Questo anche perché il papato, ormai sempre più filo-spagnolo, aveva capito che nel caso in cui avessero vinto gli anticlericali francesi, intenzionati a espandersi nella penisola, questi sarebbero stati un nemico assai peggiore di Venezia, la quale, pur avendo occupato alcuni territori della Romagna e pretendendo di nominare il clero nei propri territori, era sicuramente meno potente della Francia. Conclusa la guerra, si apre per Venezia, una delle città più importanti d’Europa (la più popolosa d’Italia dopo Napoli), un periodo di nuovi entusiasmi e di ambiziosi progetti di rinnovamento architettonico e artistico. E Tiziano, il maggior discepolo di Giorgione, si accingeva a diventare il pittore ufficiale della Repubblica. Il committente del dipinto Amor Sacro e Amor Profano, di Tiziano Vecellio, è stata desunto da un fregio della fontana-sarcofago, identificato dal Gnoli nel 1902 e confermato dal Mayer nel 1939, come lo stemma araldico del gran cancelliere di Venezia, Niccolò Aurelio, dotto umanista e collezionista, committente del dipinto per le sue nozze con Laura Bagarotto nel 1514. L’Aurelio era divenuto gran cancelliere nel 1523, ma poi, caduto in disgrazia, fu condannato all’esilio a vita. Il blasone della famiglia della spo- sa, nella decorazione del piatto d’argento sul bordo della fontana, è stato invece identificato nel 1975 dal Wethey. Niccolò Aurelio, già segretario del Consiglio dei Dieci sin dal 1507, aveva contribuito a condannare a morte, durante la guerra della Lega di Cambrai, il padre della sposa, Bertuccio Bagarotto, giurista padovano, in quanto, dopo la disfatta di Venezia nella battaglia di Agnadello del 1509 e in seguito alla caduta di Padova sotto gli imperiali, egli aveva accettato da quest’ultimi la carica di “Deputato ad Impiria“, pensando di riuscire in qualche maniera a tutelare gli interessi della repubblica veneziana. Quella mossa però fu interpretata dal Consiglio dei Dieci come un tradimento e quando Venezia riconquisterà Padova, il doge Andrea Gritti fece arrestare Bagarotto, impiccandolo a Venezia nel 1511. Pare dunque che il matrimonio fosse stato in un certo senso “riparatore”, in quanto, appurata la falsità dell’accusa, Venezia voleva rappacificarsi con Padova. L’opera comunque doveva essere non solo un importante dono di nozze e di riconciliazione col casato della moglie, ma anche un atto politico da cui derivasse un simbolo dello splendore degli Aurelii presso i veneziani. Il titolo attuale, Amor Divino e Amor Profano, dato nel corso di un inventario del 1693 presso la Galleria Borghese, è castigato, in quanto nel dipinto non vi è nulla di “sacro”, nel senso “cristiano” del termine. In verità nel catalogo della Galleria è indicato con differenti diciture, di cui la prima del 1613 è probabilmente quella più vicina alle intenzioni dell’autore: “Beltà disornata e Beltà ornata”, che probabilmente non metteva in forma nettamente oppositiva le due figure, essendo peraltro incredibilmente somiglianti L’Amore libero della donna seminuda, ammantato di rosso, è raffigurato in piena luce, poiché non è condizionato da interessi di sorta, mentre l’Amore convenzionale della donna sposata è fasciato da ricche vesti e si staglia contro uno sfondo ombroso: il bilanciamento luministico, cromatico e compositivo assume quindi anche un preciso significato simbolico. L’opera è di grande importanza per quanto riguarcontinua nella pag. accanto Giugno 2014 da la poetica di Tiziano: si tratta infatti dell’unica tela interpretabile in chiave neoplatonica (corrente caratteristica dell’ambiente toscano, cui si contrapponeva l’aristotelismo tipico di Venezia). Il raffinato classicismo, ricco di sottili allusioni simboliche, è una conquista tutta personale del giovane Tiziano, che si recherà a Roma solo nel 1545. Vi è inoltre un altro livello di lettura dell’opera, oggi considerato piuttosto superato, alludente al comportamento che una buona moglie deve tenere in privato e in società, all’immagine irreprensibile che deve dare di sé la moglie di un personaggio politico come Niccolò Aurelio, peraltro anche amico ed estimatore del Bembo, il maggior sostenitore del ritorno al Petrarca e all’uso della lingua italiana. Notevoli restano le proporzioni del dipinto, decisamente inconsuete per un tema allegorico e per il nudo femminile. Lo sfondo su cui sono collocate le due figure sembra rappresentare il tentativo di mettere in opposizione il piacere (la “Felicità Eterna” che disprezza le corruttibili cose terrene) col dovere (la “Felicità Breve”, adorna di gemme e soddisfatta da una effimera felicità mondana, terrena), in quanto il paesaggio non ha una continuità vera e propria; anzi, viene in un certo senso diviso da una folta vegetazione (dietro il putto), così come i bassorilievi del sarcofago sono separati visivamente da un arbusto. Tuttavia le due differenti orografie possono anche essere viste come complementari, in quanto la donna nuda pare guardare Cupido (l’eros) come possibile mediazione in grado di collegare l’etica con l’estetica. E’ probabile che il giovane Tiziano pensasse ancora all’amore come ideale perseguibile da una classe borghese che non volesse rinunciare alla propria umanizzazione. A sinistra, dietro l’Amore etico, convenzionale, istituzionale, codificato, si nota un paesaggio oscuro, con una vegetazione lussureggiante, una città fortificata su un colle e due lepri o conigli (simbolo di fertilità animale), con un sentiero in salita percorso da un cavaliere diretto al castello, metafora di una vita faticosa per giungere alla realizzazione di sé sul piano secolare, civile, politico, economico. L’alba indica appunto un inizio. A destra il paesaggio più rustico e pianeggiante, al tramonto, punteggiato da greggi al pascolo che evocano le utopie bucoliche; in lontananza si scorgono dei cavalieri che si godono una battuta di caccia, una lepre inseguita da un altro 39 animale, una coppia di pastori e una chiesetta di campagna con tanto di campanile (la religione qui è vista in maniera popolare, non istituzionale). Alcuni critici hanno ipotizzato che il Tiziano si sia ispirato al paesaggio della Val Lapisina, presso Serravalle, per alcuni anni residenza del pittore: così il castello di sinistra corrisponderebbe alla torre di San Floriano e lo specchio d’acqua al lago Morto. Secondo E. Panofsky il dipinto rappresenta le “Due Veneri gemelle” nel senso di Ficino. La figura nuda è la “Venere celeste”, che simboleggia il principio della bellezza eterna e universale, puramente intellegibile, priva di aspetti esteriori (e l’Amorino che gioca con l’acqua sarebbe suo figlio). La seconda è la “Venere terrena”, che simboleggia la “forza generatrice” che crea le immagini temporanee ma visibili e tangibili della bellezza sulla terra. Ambedue sono pertanto, secondo l’espressione ficiniana, “onorevoli e degne di lode, ciascuna a modo suo”. Il tema delle due Veneri può derivare anche dal Simposio di Platone. Nella visione neoplatonica, condivisa da Tiziano e dalla cerchia degli umanisti veneziani, la contemplazione della bel- lezza del creato era finalizzata a percepire la perfezione dell’ordine del cosmo, che non necessariamente doveva avere un contenuto religioso. Anzi se nel dipinto vi fosse, apparirebbe alquanto blasfemo, poiché il simbolo religioso per eccellenza, il campanile della chiesa sullo sfondo, non è stato posto dietro la donna vestita ma dietro quella nuda. In ogni caso Stato e chiesa appaiono qui separati. Venere rappresenta la felicità eterna, celestiale e l’amore spirituale; il manto rosso e la fiaccola che arde nella sua mano, sono il simbolo della sua natura passionale (il mantello rosso e il lenzuolo bianco sono invertiti nei ruoli delle due donne). Sullo sfondo, alle sue spalle si vede una chiesa per sottolineare il carattere sacro della Venere celeste; il paesaggio è montuoso e per un sen- tiero si inerpica un cavaliere: questo per significare che il cammino per raggiungere la virtù suprema è lungo e faticoso. La donna che indossa un sontuoso abito nuziale bianco e rosso, stretto da una cintura, e che reca nei biondi capelli sciolti una coroncina di mirto, pianta sacra a Venere e simbolo dell’amore coniugale, allegoricamente rappresenta l’iniziazione ai misteri dell’amore, aiutata, in questo, dalla Venere nuda e dal suo pupillo, Cupido, che smuove le acque in superficie nella fontana, giocando con il destino dell’uomo. Alla condizione di sposa alludono anche il mazzetto di rose nella mano destra e i guanti. Appare come una gran dama formosa, in atteggiamento di estraneità e aristocratico distacco rispetto all’altra e a Cupido, come fosse assorta nello svolgimento di un ruolo prestabilito, che le dà un certo prestigio sociale. È stabilmente seduta, più “incassata” rispetto all’altra, come bloccata nell’azione, a mostrare la sua sicura materialità nei confronti dell’aerea spiritualità della sua compagna, che invece è più sciolta, disinvolta, slanciata, armoniosa, mobile, il cui sfondo luminoso le dà maggiore serenità. Paradossalmente, nonostante la propria nudità, sembra esibirsi meno lei dell’altra. La donna sposata può guardare l’osservatore proprio perché esprime l’etica, mentre l’altra, se l’avesse fatto, sarebbe parsa eccessivamente seducente, provocante, ammiccante. continua *Direttore Uff. diocesano Beni culturali, Chiese e Arte sacra
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