N. 39 – Anno XX – Settembre 2014 – Pubblicazione riservata ai soli Soci GLI ORDINI MILITARI DELLA RECONQUISTA L’invasione mussulmana della penisola iberica ebbe luogo a partire dal 711, quando il condottiero Tarik, alla testa di una massa di armati, composta da berberi, siriani e arabi, superò lo stretto di Gibilterra. Nel volgere di un quinquennio cadde in mano islamica l’intera peninsula, a eccezione di poche regioni montane del nord, dove trovarono rifugio sparuti resti della bellicosa popolazione visigota, che l’avevano occupata e sottomessa due secoli prima. Nel 753 l’ Ommayade Abd-el-Rahman proclamò in Andalusia il Califfato di Cordoba, dando vita a uno stato ben più vasto dell’omonima attuale regione, in quanto aveva a confine settentrionale la linea che unisce al Tago l’Ebro e Pamplona a Coimbra. Orde mussulmane ne sconfinavano normalmente, irrompendo nei territori ancora in mano cristiana per razziare armenti e raccolti e ridurre in schiavitù la popolazione. Sin dal secolo XI, i regni della Spagna settentrionale ammontavano a cinque: il regno di Galizia (comprendente il Portogallo); quello di León; quello di Castiglia; quello di Navarra; quello d’Aragona. Galizia Leon Castiglia Navarra Aragona Da tali realtà prese avvio la Reconquista, che, da guerriglia sostanzialmente difensiva, si trasformò in progressione in una vera e propria Crociata, realizzata assai prima che risonasse in Europa il grido Dieu le veult! di Pietro l’Eremita. Essa assunse carattere di autentica iniziativa militare quando, nel 1031, il Califfato si dissolse, dando vita a una serie di città-stato (taifas), non in grado di porre in campo un forte esercito con comando unitario. Nel 1085 un significativo successo cristiano fu la presa di Toledo, che era stata l’antica capitale dei Visigoti. I principotti mussulmani, allora, chiamarono in soccorso una setta berbera, nota nell’Islam per il suo fanatismo guerriero, gli Almoravidi, che avevano inglobato nei propri ranghi le più feroci tribù del Sahara. Ma, malgrado l’edificazione di numerose fortezze-monastero di frontiera (ribat), nelle quali l’ascesi coranica veniva amalgamata con l’esaltazione alla jihād, e l’organizzazione di un poderoso pattuglia- men-to nelle zone di confine, gli stati cristiani non cessarono affatto di esercitare un’efficace pressione su di esse, traducentesi in un lento processo di accrescimento territoriale, grazie anche all’eccessivo gradimento dimostrato dagli ex nomadi Almoravidi per i generosi vini di Spagna e per gli agi di una vita stanziale. Sollecitarono a loro volta l’aiuto di un’altra setta, quella degli Almohadi, provenienti dal massiccio montuoso dell’Atlante. Giunsero nel 1147 con il loro capo, Abd-al-Moumin, che tenne fede al nome di Almohadi (significa ‘Unitari’), perché con pugno di ferro riunì l’Andalusia, ristabilendo il Califfato. Nel mondo occidentale del tempo la massima criticità dei sovrani era disporre di forze armate efficienti e adeguate. L’esercito feudale era disorganizzato, indisciplinato, precario per addestramento delle truppe e ‘stagionalità’ della ferma e neppure esente da pericolo di ammutinamenti. Gli ordini militari di Outremer, Templari e Ospedalieri in particolare, aderirono all’invito dei regni cristiani iberici e trasferirono un buon numero di cavalieri sul fronte spagnolo, dando vita a Precettorie i primi e a case-ospedale i secondi. Questi ultimi, però, oltre a privilegiare il compito istituzionale di dare assistenza agli ammalati, preferivano destinare i loro proventi (denaro e rifornimenti) ai loro confratelli operanti in Siria. Si sa bene, peraltro, che intercorrevano tra i due ordini rapporti tutt’altro che eccellenti. n. 1 n. 2 croci templari n.1 n.2 croci Gioannite Un evento eccezionale ebbe luogo nel 1134, alla morte di Alfonso el Batallador, quando si apprese che il regno d’Aragona era stato da lui devoluto in eredità, in parti uguali, agli Ordini del Tempio, dell’Ospedale e ai canonici del Santo Sepolcro. Furono i primi due ordini, il Tempio in specie, a esigere la parte del leone, in quanto disponeva dell’appoggio incondizionato di un altro potente sovrano, fattosi Templare, Ramón Berenguer IV, conte di Barcellona (a titolo di curiosità, morto a San Dalmazzo nel 1162). I Templari si insediarono nel castello reale di Saragozza e ottennero numerose fortezze. Nel 1143 ricevettero la piazzaforte di Monzon e, tre anni più tardi, stabilirono il loro quartier generale a Punta-la-Reyna. Da oltre un ventennio possedevano castelli e fortificazioni in Portogallo. In Castiglia, invece, furono preponderanti i Gioanniti, che, nel 1148, elessero a quartier generale l’importante nodo portuale di Amposta, sulla foce dell’Ebro. Ma non si trattava di una piazzaforte di frontiera, ma, piuttosto, di un punto d’imbarco per Outremer. Ordine di Calatrava La nascita del primo ordine militare spagnolo derivò da una renonce dell’Ordine del Tempio. Alfonso VII di Castiglia aveva conquistato nel 1147 Calatrava (“castello di guerra”), piazzaforte fondamentale per la difesa della capitale, Toledo. Il re ne affidò la difesa ai Templari, che sin dal primo momento espressero perplessità sulla sua difesa, in quanto non erano in grado in quel momento (era l’anno stesso della invasione degli Almohadi) di distaccare adeguato presidio. Alfonso VII insistette e il Tempio, pur conservando le sue riserve, rimase a Calatrava per altri dieci anni. Ma quando, nel 1157, si seppe che rientrava negli immediati propositi dei mussulmani di investire con gran forze la piazza, i Templari resero noto al successore di Alfonso, Sancho III, che avrebbero proceduto alla sua evacuazione. Si trovavano in quei giorni a Toledo due religiosi, di spirito veramente battagliero: Ramón Sierra, abate cistercense di S. Maria de Fitero, in Borgogna, e Diego Velasquez, un monaco di sangue illustre, amico intimo del re. Si presentarono al sovrano, offrendo il proprio appassionato impegno per organizzare la difesa di Calatrava. Probabilmente Sancho III non disponeva di truppe da destinare alla guarnigione, per cui accettò. Nel 1158, la fortezza e il suo territorio passarono alla comunità di Pitero. Ramón Sierra predicò la crociata e trasferì a Calatrava tutti i suoi monaci, cui si unirono numerosi soldati navarrini. Fu Diego Velasquez a curare l’organizzazione e l’addestramento all’uso delle armi di tutti, laici ed ecclesiatici, trasformandoli in un valido reparto di combattenti. Alla morte dell’abate Sierra, nel 1164 (per inciso, la piazzaforte non era stata ancora attaccata), i religiosi elessero un nuovo abate, ma i laici 2 scelsero un mestre, D. Garcia. Questi optò per la regola cistercense, ottenendo da Citeaux riconoscimento a pieno titolo. In quell’anno stesso, ottennero il riconoscimento di Alessandro III. Erano suddivisi in due categorie: chierici e cavalieri. I primi risiedevano nel monastero e loro compito era quello di pregare per la vittoria dei loro fratelli cavalieri. A tutti incombeva l’obbligo di fornire prove di quattro quarti di nobiltà e di limpieza de sangre (non avere ascendenti ebrei, maomettani o eretici). Le commende, veri e propri fortilizi, erano normalmente gestite da 12 cavalieri e da 1 cappellano. Alla morte del mestre, il suo luogotenente, detto comendador major, convocava a Calatrava tutti i cavalieri e cappellani per eleggere il successore. Il nuovo eletto veniva immesso nel possesso del sigillo, della spada e del vessillo dell’Ordine, mentre i confratelli intonavano il Te Deum. Giurata la fedeltà feudale al re di Castiglia, si insediava in trono, ricevendo l’omaggio dei fratelli. Essendo Calatrava annessa a Morimond, abbazia-madre di Borgogna, da cui dipendeva Fitero, l’elezione del Maestro (mestre) era valida se confermata da quell’abate. Terzo Ufficiale dell’Ordine era il castellano di Calatrava, detto clavero, assistito da un subclavero e da un obrero. Presiedeva gli ecclesiatici il gran priore, che aveva diritto a mitra e pastorale. I chierici vestivano una tunica bianca con cappuccio. Quella dei cavalieri era più corta, per consentire di montare a cavallo, sulla quale portavano un lungo mantello bianco, privo di maniche, identico a quello dei Templari, mentre si riparavano dai rigori invernali con una cappa foderata di pelliccia. L’armatura, come in tutti gli ordini militari di allora,che facevano professione di povertà, oltre che di castità e di obbedienza, era nera. Solo più tardi, nel 1397, verrà introdotta la croce gigliata rossa, per concessione di Benedetto XIII (antipapa). croce di Calatrava Ordine di Santiago Nella Spagna cristiana, da tempo, esistevano le hermangildas, delle piccole bande di volontari, per lo più formate da contadini, che avevano assunto un carattere semireligioso, quasi fossero delle confraternite, e i loro membri prendevano alcuni voti, come la difesa delle popolazioni dagli infedeli e la castità temporanea. Va ancora ricordato che in Galizia era stato ritrovato il corpo di San Giacomo Apostolo, a custodire il quale era stato edificato il grande santuario di Compostela, divenuto ben presto meta di uno dei pellegrinaggi più importanti d’Europa. La sua apparizione sui campi di battaglia, ove avrebbe combattuto a fianco degli armati cristiani, gli valse la denominazione di Matamoros, ‘ammazzamori’. Fu un’hermangilda di Cáceres, formata da tredici gentiluomini, che - commossa dalle sofferenze dei pellegrini del camino de Santiago, che, oltre i grandi disagi del lungo viaggio, dovevano sopportare le ruberie e le violenze di briganti (non solo mussulmani) – volle votarsi alla loro protezione, sotto la regola di S. Eligio di León. Verso il 1164 avevano già assunto nome di Caballeros de Cáceres e ottenevano un borgo fortificato castigliano da difendere, Uclés. Alessandro III li riconobbe nel 1175 come Orden de Santiago de l’Espada. Era composto da cavalieri, caconici e canonichesse. Tredici cavalieri, discendenti dai 13 fondatori, formavano il consiglio dell’Ordine e avevano, all’origine, diritto di eleggere il Maestro. Oltre i tre voti soliti (ai cavalieri Alessandro III consentì il matrimonio, per cui il loro voto era di ‘castità coniugale’), dovevano provare limpieza de sangre e quattro quarti di nobiltà paterna. Dal 1653, si aggiunse obbligo di prova anche dei quattro quarti di nobiltà materna. I novizi dovevano servire per sei mesi sulle galee dell’Ordine e trascorrere un mese in convento a studiare la regola, che era quella di S. Agostino. Concessioni, donazioni ed eredità fecero ben presto Santiago così opulento per possedimenti sconfinati in Spagna, Portogallo, Francia, Italia,Carinzia, Ungheria, Inghilterra e Terrasanta, da essere soprannominato el Rico e da far sì che il suo Gran Maestro venisse ritenuto il personaggio più potente della peninsula. L’abito dei cavalieri rientrava nella tradizione iberica: tunica e mantello bianchi (nel tempo, la tunica diverrà nera). Sulla spalla sinistra del secondo, la croce dell’Ordine in panno rosso. Santiago Matamoros Croce 3 Croce 1 Croce 4 Croce 2 Croce 5 La croce di Santiago è, di norma, rossa, coi bracci laterali gigliati. Il braccio superiore termina in un pomo, a foggia di cuore rovesciato, nel quale si volle talora vedere la lettera ‘M’, espressione classica di devozione Mariana, mentre quello inferiore è costituita dalla lama, appuntita, di una spada. Detta croce veniva chiamata espada o, per ragioni non chiare, lagario (lucertola). All’origine, una conchiglia d’argento (le conchiglie Saint-Jaques, simboli per eccellenza del pellegrinaggio) caricava all’altezza dell’elsa la spada, talora accostata da un sole e da una luna o da due crocette gigliate rosse. In qualche raffigurazione, il numero delle conchiglie appare in decisa crescita, come nella croce 5, ove, però, il braccio inferiore non è una lama di spada, ma gigliato come gli altri tre, per cui la croce sembra quella di Calatrava. L’Ordine portoghese usò talora una espada di porpora. Il motto di Santiago teneva fede alla tradizione eroica sì, ma decisamente granguignolesca: RUBER. ENSIS. SANGUINE. ARABUM. (rossa la spada del sangue degli arabi), mentre il grido di battaglia, molto più antico dell’Ordine, che se ne era appropriato, e in uso nell’esercito spagnolo fino a tutto il XVI secolo: SANTIAGO Y CIERRA ESPAÑA! (Santiago e Spagna sicura!). Ordine di Alcantara Derivò anch’esso da un’hermangilda, operante poco prima del 1170 sulla sempre critica frontiera del León. Era detta dei ‘cavalieri di San Julián del Pereyro o Ordine di Trujillo’ e sembra che portasse originariamente come insegna un albero di pero in campo d’oro. La sua fondazione va correttamente riferita al 1176, quando re Ferdinando II donò loro diverse terre. Lucio III li riconobbe nel 1183. Quattro anni più tardi, fu posto sotto la protezione dell’Ordine di Calatrava. Nel 1217 re Alfonso di León affidò a Calatrava la città di Alcántara (al-Qantar sta per ‘ponte’), strategica difesa del ponte sul Tago, ma Fra’ Martin Fernández de Quintana, maestro di Calatrava, preferì cedere Alcántara e tutti i possessi del suo Ordine in terra di León a quello di San Julián del Pereyro. Quest’ultimo assunse, infine, il nome di Ordine di Alcántara e, in forza del rapporto con quello di Calatrava (col quale condivideva statuti, regole e prove), la sua croce, posta sul bianco mantello, ma di colore verde. San Juan del Pereyro Alcantara Alcantara sfruttò abilmente i grandi possedimenti fondiari acquisiti, coltivandoli a grano e impiantando allevamenti di bestiame da macello, da soma e da tiro, il tutto grazie all’impiego di mano d’opera servile, offerta a titolo gratuito dai mudejar (schiavi mussulmani). L’Ordine divenne tanto ricco da poter permettersi il lusso d’ingaggiare truppe mercenarie. Ordine di Montesa Detto anche, e meglio, Orden de Caballeria de Nuestra Señora de Montesa, costituisce derivazione indiretta da quello del Tempio. Alla sua soppressione nel 1312, Giacomo II d’Aragona, avverso agli Ospedalieri, che avrebbero dovuto ereditare dai Templari i beni patrimoniali, ottenne da Giovanni XXII, con bolla del 1317, il riconoscimento di detto Ordine, da lui per l’occasione fondato e formato da 10 Cavalieri di Calatrava, autorizzati a tale passaggio. Montesa adottò la regola cistercense e, a proposito di prove di nobiltà si limitava a due quarti: quello paterno e quello materno. Sembra peraltro che l’ordine non guardasse tanto per il sottile, procedendo in più di un caso al ricevimento di cavalieri di nobiltà men che dubbia e, in più di un caso, anche di ebrei conversos. Tale ‘sregolatezza’ migliorò decisamente nel 1399, quando Benedetto XIII autorizzò la sua fusione con l’Ordine di San Jorge de Alfama, fondato nel 1201 e approvato nel 1363. Sul mantello bianco i cavalieri portarono originariamente una croce piana rossa, che, alla fusione, venne a caricare la croce gigliata nera di San Jorge. 3 Ordine del Cristo Ordine della Mercede L’Orden Real y Militar de Nuestra Señora de la Merced y la Redención de los Cautivos, fu fondato nel 1233 dal nobile provenzale Pere Nolasco, con la finalità di riscattare dai mussulmani gli schiavi cristiani poveri, con qualunque mezzo, guerra compresa. Tale ultimo scopo lo fece includere tra le religioni militari. La sua vita, in quanto tale, fu breve, perché nel 1317 cessò di essere militare e rimase ai confratelli clerici, puro ordine religioso. Portavano sull’abito bianco, appeso, al collo, uno scudetto con l’arma reale d’Aragona. L’Ordine religioso, esistente ancor oggi, usa uno scudetto con un Partito: nel 1, di rosso, alla croce patente d’argento; nel 2, di ARAGONA. Ordine della Mercede militar Ordine religioso Ordine d’Avis L’Ordine portoghese di San Benedetto d’Avis, risale al 1166, anno in cui fu fondato come Orden de Évora, e assunse nome di Orden de Avís dal 1211, quando fu conquistata la città di tal nome, con conferma papale del 1214. Esisteva sin dal 1147 una hermangilda di nobili, dedita alla lotta contro i mussulmani e re Alfonso I, che voleva difendere la città di Évora dagli attacchi islamici, approvò il progetto di costituzione dell’Ordine, che assoggettò alla regola cistercense. Godette sin dal principio dell’appoggio del potente Ordine di Calatrava e i cavalieri di Évora ne adottarono la costituzione e l’emblema, del quale mutarono il colore in verde. Nelle sue prime raffigurazioni la croce gigliata appariva accantonata da due aquilotti, simboleggianti la rapidità delle sue azioni militari. Portavano un largo mantello bianco, con cappuccio, del quale Bonifacio IX autorizzò l’accorciamento, unitamente al porto della sua croce, orlata d’oro, sull’omero sinistro. Nel 1385 il Gran Maestro Juan, bastardo di re Pedro I, ascese al trono. Da allora ricevette tante prebende, donativi ed eredità da divenire così prestigioso da competere con lo stesso Ordine del Cristo, sino al 1550, anno in cui fu annesso alla corona assieme al maggior rivale. Prove e voti come di norma, ma, al tempo di Paolo III, il voto di castità dei cavalieri fu convertito in quello di fedeltà coniugale. Ordine d’Avis sino al XVI secolo 4 Ordine d’Avis antico Ordine d’Avis moderno Diniz, re del Portogallo, era stato amico e protettore dei Templari (il primo paese d’Europa in cui si installarono era stato proprio il Portogallo, nel 1128) e non condivise la loro soppressione, per cui, nel 1319, ottenne da papa Giovanni XXII che i beni già del Tempio, presenti nel suo regno, fossero impiegati per la creazione di un nuovo ordine monastico-militare, preposto alla difesa dell’Algarve. La nuova istituzione assunse il nome di Ordine del Cristo. Come i Templari, i Cavalieri del Cristo adottarono la regola cistercense, richiesero i medesimi voti e prove e, sul mantello bianco, portarono la stessa croce patente rossa, carica, però, d’una croce latina bianca. Il noviziato nel nuovo Ordine era più lungo di quello previsto dal Tempio: era necessario partecipare per ben 3 anni a campagne militari contro la mezzaluna. L’ingresso, ciò nonostante, si rivelò, sin dagli esordi, ambitissimo non soltanto dai membri dell’alta aristocrazia lusitana, ma anche da principi del sangue. Lo stesso Enrico il Navigatore ricoperse - prima in qualità di erede al trono e poi volle conservarla da sovrano - la carica di Gran Maestro. L’Ordine cumulò un immenso patrimonio e re Manuel, anche lui Gran Maestro, si adoperò molto per aumentare il proselitismo. Alessandro VI mutò, nel 1496, il voto di castità in quello di fedeltà coniugale e nel 1505 Giulio II abolì il voto di povertà. Non poteva che essere annesso alla corona, come avvenne nel 1551, e da qual momento tutti i suoi Gran Maestri furono membri di casa reale. Gli ecclesiastici dell’Ordine furono obbligati a risiedere nello splendido castello fortificato di Thomar. Il giovane re Don Sebástian aveva in animo di riformare l’Ordine, riportandolo all’antico ruolo, ma la sua gloriosa, non meno che inutile, morte nel corso della folle spedizione in Africa, cancellò ogni speranza di resurrezione di quest’Ordine, vero erede di quello del Tempio. Un altro tentativo di rivitalizzazione avvenne durante il periodo di annessione alla Spagna, con Filippo IV, nel 1627, ma fu un fuoco di paglia e, forse, neppure s’accese. La Santa Sede dette vita al Supremo Ordine del Cristo, di carattere puramente onorifico, riservato ai capi di stato. Ordine di S. Maria de España Detto anche Orden de la Estrella, fu creato nel 1272 da Alfonso X il Savio al fine di assicurare alla Castiglia una difesa marittima. Seguiva il modello di Calatrava e la regola cistercense. La casa-madre dell’Ordine era a Cartagena e aveva sedi nei porti di San Sebástian, La Coruña e Santa Maria, ove erano alla fonda le sue galere. Sull’abito nero, i cavalieri indossavano una cappa rossa, sul lato sinistro della quale era cucita una stella d’oro ottagona, carica dell’arma reale di Castiglia. Condivideva con Cartagena la Patrona, la Virgen del Rosell. Ebbe vita estremamente breve, in quanto il suo regale fondatore rimase deluso delle sue prestazioni, sia in campo marittimo, che terrestre. Nel 1278, infatti, la sua flotta fu annientata dai mussulmani nello scontro navale di Algeciras e, due anni più tardi, non dette gran prova nella battaglia di Moclín, che vide la disfatta dell’esercito castigliano da parte di Muhammad II di Granada. In essa i cavalieri di Santiago, che costituivano il nucleo maggiore per numero e qualità dell’armata di Castiglia, caddero quasi tutti sul campo. Il re decise allora il passaggio al completo dei cavalieri di Santa Maria all’Ordine di Santiago, provocando la scomparsa del primo. la loro fortuna a las Ordenes: così i Figueroa, con un Mastro di Santiago; i Sotomayor, con due Maestri di Alcantara, e i Guzmán, forse la prima famiglia di Spagna, che aveva dato Maestri a tutti gli Ordini. Numerosi furono i tentativi di trasformare le Maestranze in ducati e qualcuno andò a buon fine, così come qualche commenda si trasformò in feudo nobile. E’ accaduto anche a casa nostra con l’Ordine più prestigioso, quello di San Giovanni Gerosolimitano. In Spagna, nel 1523, quando Carlo V aveva riunito nella sua persona i Gran Magisteri di tutti gli Ordini militari, fu costituito il Consejo de Ordenes Militares, che per tutto il secolo svolse un’attività abbastanza intensa, esprimendo pareri tecnici e intervenendo in materia di benefici e di commende ereditarie. Nel Seicento divenne, in certo senso, una consulta araldica, tanto che era anche noto come Consejo de la Nobleza. Esiste ancora. Ordine di San Michele dell’Ala La tradizione assegna a tale Ordine il pregio di essere il più antico del Portogallo. Sarebbe stato fondato da re Alfonso I nel 1147, dopo la conquista di Santarem. L’Arcangelo San Michele avrebbe fatto strage dei mussulmani e, in memoria del suo aiuto e delle sue possenti ali, sarebbe stato istituito l’Ordine. Non c’è un solo documento che confermi tale origine. Si sa ben poco su di esso: era fiorente nel medioevo, si ispirava all’Ordine di Santiago, esigeva – sembra – al suo interno il segreto, e la sua insegna era un’ala di porpora, nimbata di raggi d’oro, caricante la espada di Santiago. Divenne ben presto ordine dinastico. L’elenco degli ordini militari iberici non finirebbe qui, ma hopreferito omettere quelli non riconosciuti dalla Santa Sede (esempio: il pur antico, castigliano, Orden de Alcalá de la Selva) e quelli più che minori, a carattere strettamente locale, poco più o poco meno di un’hermangilda, più tollerati, che autorizzati. Furono i ‘grandi ordini a contribuire decisamente non soltanto alla Reconquista, ma a costituire la base sulla quale è stato modellato l’esercito spagnolo, invincibile per almeno due secoli. Gli ordini avevano già esaurita la loro funzione ben prima della caduta di Granada e i ricchi loro patrimoni, i grassi benefici, le opulente commende, alle volte elargiti a personaggi dai meriti discutibili e non sempre in regola con i requisiti, non potevano che divenire – come fu – appannaggio delle monarchie autocratiche, che dal secolo XVI in poi, si affermano in tutta l’Europa. Gli stessi ordini militari, in verità, avevano perduto, nel tempo, smalto e prestigio, contemporaneamente al loro carattere originario e allo zelo, feroce alle volte, ma pur sempre rigorosamente religioso, per fare luogo ad ambizioni di potere, a corruzione diffusa, a rilassatezza di costumi. Molte erano le famiglie della nobiltà iberica che dovevano la loro ascesa e Consejo de Ordenes Militares Nel 1981 il re Juan Carlos I conferì al proprio padre, il conte di Barcellona, la presidenza del Real Consejo des Ordenes Militares, che, alla sua scomparsa, è passato ad altro Infante di Spagna. bibliografia essenziale F. BONANNI, Ordinum Equestrium et Militarium Catalogus, III ediz., Roma, 1724 L. CIBRARIO, Descrizione storica degli ordini cavallereschi, Torino, 1846 F. CUOMO, Gli ordini cavallereschi nel miti e nella storia d’ogni tempo e paese, Roma, 1992 R. CUOMO, Ordini cavallereschi antichi e moderni, Napoli, 1890 A. FAVYN, Le theatre d’honneur et de chevalerie, Paris, 1620 B. GIUSTINIAN, Historie cronologiche dell’origine degl’Ordini militari e di tutte le Religioni cavalleresche, Venezia, 1692 D. W. LOMAX, La Orden de Santiago, Madrid, 1965 A. MENDO, De las Ordenes militares, Madrid, 1681 F. RADES y ANDRADA, Chrónica de las tres Ordenes y Cavallerías de Sanctiago, Calatrava y Alcántara, Toledo, 1572 H. de SAMPER, Montesa ilustrada, Valencia, 1669 F. SANSOVINO, Dell’origine de’ Cavalieri, Venezia, 1583 O. da SANTA MARIA, Dissertazioni sopra la cavalleria antica e moderna, secolare e regolare, Brescia, 1761 D. SEYMOUR, I monaci della guerra, Torino, 2005 A. de TORRES y TAPIA, Crónica de la Orden de Alcántara, Madrid, 1763 M. V****, Histoire générale des orders de chevalerie civile et militaire, Paris, 1810 ASCO 5 Proclamazione ed Ordinamento della Repubblica Ambrosiana La signoria dei Visconti si snodò altera, per circa due secoli, con una successione di uomini che, per quanto diversi nel carattere, nei gusti, e nei propositi, appaiono collegati da un comune senso di devozione alle sorti del proprio dominio ed alla loro città capitale: Milano. Una nobile stirpe, dalla quale, lo stato che presiedettero, fu avvantaggiato e reso illustre. Filippo Maria Visconti, il 13 agosto 1447, moriva nella sua rocca di Porta Giovia. Egli aveva, fino agli ultimi tempi della sua esistenza, pensato, anche al di sopra degli interessi del sangue, al proprio stato, del quale intuiva l’avvenire nella formazione di una grande unità politica italiana. Nessuno dei numerosi membri della famiglia Visconti, vigoreggiante nei rami collaterali, gli era stato vicino o aveva avuto e suscitato in lui, la qualità di successore e, nessuno di questi (sia perché l’investitura ufficiale del Ducato di Milano si riferiva ai soli successori di Gian Galeazzo, sia perché tutti erano forse paghi di quanto possedevano e sentivano di dover essere pronti alla difesa di loro possessi e dei loro diritti feudali) volle vantare diritti alla successione. Tra i molti, voglio ricordare, i Visconti di S.Alessandro, i Visconti di Castelletto Ornavasso, i Visconti della Pieve di Brebbia, i Visconti di Cassano Magnagro, i Visconti di Fontané Calvignano, i Visconti di Massimo Paruzzaro, i Visconti marchesi di Cislago e conti di Gallarate, i Visconti di Bisnate-Crema, i Visconti di Brignano e conti di Sezzé e di Gamalero e marchesi di S.Giorgio, i Visconti di Brignano marchesi di Borgoratto, i Visconti di Carono-Ghiringhello, i Visconti di Locate, i Visconti di Somma conti di Lonate, i Visconti di Somma, marchesi della Motta e di S.Vito, i Visconti di Melegnano, i Visconti marchesi di Riozzo e conti di Carimate. Filippo Maria, nonostante questa nutritissima propria parentela, aveva designato come suo erede un condottiero insigne, al quale aveva concesso in sposa Bianca Maria, natagli dalla sua fedelissima amante Agnese del Maino, Francesco Sforza. Morto però il Visconti, all’interno dello stato, la vitalità del vecchio spirito municipale sorse tanto forte che, la scomparsa di colui che rappresentava la sola forza di coesione esistente, fu salutata, in molte località, come il miglior modo di riconquistare le antiche autonomie. Il popolo milanese si fece influenzare da un gruppo di giureconsulti, tra i quali vanno annoverati Antonio Trivulzio, Teodoro Bossi, Giorgio Lampugnani, Innocenzo Cotta e Bartolomeo Morone, i quali sostenevano che: « la morte del Duca senza eredi legittimi, scioglieva i vincoli del giuramento e del privilegio imperiale che aveva investito Gian Galeazzo ed i suoi discendenti maschi, legittimamente nati». Il popolo rientrava, così, nei propri diritti e nel pieno esercizio della sua sovranità. La mattina del 14 agosto, il popolo, si radunò attorno al palazzo del Broletto e gridando «Libertà, Libertà» credette che, veramente, cessato il valore del voto popolare che aveva portato i Visconti al vicariato del popolo, sarebbe bastato un nuovo voto popolare per proclamare la Repubblica. 6 Le città del Ducato, legate da comuni interessi economici con la capitale, rimasero quiete ed aderirono alla nuova forma di governo. Il Vicario ed i Dodici della Provvigione (magistratura che reggeva il governo economico della città e del territorio soggetto alla sua giurisdizione) restati i soli arbitri della situazione, accolsero la volontà popolare e proclamarono la Repubblica dedicata a S.Ambrogio e nominarono subito un consiglio di ventiquattro cittadini (quattro per ciascuna porta urbica) intitolandoli Capitani e Difensori delle Libertà del Comune. Le assemblee parrocchiali e delle porte elessero i propri rappresentanti presso il Vicario della Provvisione per formare, il 17 agosto, il Consiglio Generale dei Novecento (rappresentanza del popolo che era formata di cittadini, scelti in numero di centocinquanta, da ciascuna porta, e che, in momenti di particolare gravità, era stata convocata, anche, da Filippo Maria). Il popolo mise a sacco la fortezza e ne iniziò la demolizione quale simbolo del potere ducale dal momento in cui, Carlo Gonzaga, governatore della rocca, l’aveva abbandonata dopo averne svuotato i forzieri. A Pavia, il governatore visconteo fu cacciato. Simil sorte toccò ai capitani di Tortona e Parma. Lodi, Piacenza, Verona, Brescia, Bergamo e la Ghiara d’Adda cacciarono i ghibellini viscontei e chiesero aiuto ai guelfi ed ai veneziani. Solamente Como, Alessandria, Novara e Crema rimasero fedeli. Fin dal 1428, Filippo Maria, aveva già ceduto Vercelli ad Amedeo duca di Savoia. Tutti principali confinanti: il duca di Savoia, il marchese d’Este, il marchese di Monferrato, i Fieschi delle riviere, i Fregoso di Genova, i Signori di Correggio, occuparono le terre di confine con lo stato di Milano sulle quali poterono facilmente estendersi. La Lombardia così si strinse attorno alla Repubblica Ambrosiana, ordinata aristocraticamente, con il Consiglio Generale dei Novecento, nominato dai delegati del popolo, con autorità sovrana e compiti legislativi. Il potere esecutivo fu affidato ai ventiquattro capitani e difensori del popolo, tutti tratti dalla nobiltà, (poi ridotti a dodici). Tra essi figurano nomi illustri per lignaggio: un conte Vitaliano Borromeo, (già tesoriere e camerlengo di Filippo Maria); Guarnerio Castiglione conte e cavaliere aurato (consigliere e senatore sotto Filippo Maria); il giureconsulto Giangiorgio Piatti ed altri. I capitani duravano in carica un bimestre. Dovevano tutelare le vedove, i pupilli ed i poveri ed indirizzare il governo. Ogni porta aveva un proprio consiglio; un governatore e tre consiglieri, portati, poi, a sei, che, oltre alle speciali ingerenze nelle loro necessità relative alla vita delle singole porte, avevano, anche, mansioni di governo, deliberando insieme ai capitani del popolo. Sopraintendevano alle milizie dei dodici della Balía di pace e di guerra, che duravano in carica un anno ed erano scelti in modo tale che, ogni porta, avesse due rappresentanti. Vi erano, altresì, sei censori, sei consiglieri di giustizia, sei sapienti, sei conservatori, che restavano in carica un anno, e sei sindaci, che duravano, in carica, solamente, sei mesi. Tutta questa organizzazione giuridico-amministrativa e militare, sostituiva, altre funzioni analoghe, svolte da magistrati, in carica sotto i Visconti. Furono conservati: il Vicario, i XII di provvisione, il Podestà, il Capitano di giustizia, i Maestri delle entrate ordinarie e straordinarie, i Consoli della mercanzia, gli Abati (capi delle arti e delle proprie corporazioni). La città, in quel periodo, pare comprendesse, circa, duecentomila abitanti. Ottantasei erano le parrocchie suddivise, a loro volta, in sei porte o sestieri, ciascuna delle quali portava un proprio vessillo. La porta romana era rappresentata da un drappo rosso. La porta ticinese da un drappo bianco caricato da uno sgabello rosso. La porta vercellina da un drappo troncato di rosso e di bianco. La porta comasina da un drappo scaccato di rosso e di bianco. La porta nuova in un primo tempo, da un drappo nero caricato da un leone bianco, poi, da un drappo inquartato di bianco e di nero. La porta orientale da un drappo bianco caricato da un leone nero. Arma delle Porte della Città di Milano Partito di uno, spaccato di due: Nel 1°, la Porta Romana Nel 2°, la Porta Ticinese Nel 3°, la Porta Orientale Nel 4°, la Porta Vercellina Nel 5°, la Porta Comasina Nel 6°, la Porta Nuova Sul tutto : del Comune e del Popolo. Alberto Gamaleri Calleri Gamondi Pula fra cronaca e storia E' questo il titolo di uno splendido libro scritto dal Prof Paolo Amat di San Filippo, storico e genealogista di grande cultura e capacità prestato alla chimica ed alle materie scientifiche e che affronta appunto con rigore scientifico la storia locale. Storia trascurata in genere perché sono in molti a correre dietro ai grandi avvenimenti, magari copiandosi l'uno con l'altro o attingendo a chi per primo ha scritto sull'argomento senza curare di controllare sui documenti e con seria ricerca d'archivio quel che dice. Appassionato cultore di storia locale il Prof. Amat con l'opera di cui si è citato il titolo, fornisce uno straordinaria serie di quadri che ricostruiscono la storia di questa antica città della Sardegna, dei quali ve ne è uno di particolare interesse per i cultori dell'araldica e della storia nobiliare, si tratta dell'Ottavo capitolo, che con un sorriso l'autore intitola "Famiglie notabili". Prima di passare a scorrere, purtroppo assai velocemente, questa parte dell'opera è forse opportuno precisare questa bellissima località sarda ha origini antichissime, fenicie e non solo perché nel suo territorio sono state trovate numerose tracce nuragiche. Nel suo territorio sono le rovine di Nora, di cui Pula è la prosecuzione storica, che fu la più importante città della Sardegna al tempo della conquista romana (285 a.C), sostituita poi da Cagliari, quale capitale della provincia, che dovette subire la rovinosa conquista dei Vandali. Sul nome della città esistono diverse ipotesi, due delle quali sono le più accreditate, la prima lo fa discendere dal termine tardo latino Pola o Pula che indica un litorale sabbioso ripreso poi dalla lingua catalana che lo utilizza per indicare una fascia costiera; la seconda fa derivare il nome da altro termine latino Padulis de Nura o Paulis de Nura, palude. Nel corso del Trecento si trova indicata come villa Pauli di Nures o Paulla de Nurres; in un documento del Cinquecento, nella relazione richiesta da Filippo II perché si individuassero i punti più adatto ove costruire le torri di avvistamento contro le azioni dei barbareschi viene citata come Pula, in seguito viene citata come Polla ed è indicata quale una delle baronie che costituiscono il marchesato di Quirra. Oggi è ricordata soprattutto come bellissimo luogo di villeggiatura. Le famiglie di una certa importanza per la storia della Sardegna che abitarono a Pula furono quelle che possedevano il feudo ed in seguito quelle che da esse discendevano o avevano ereditato per via femminile beni allodiali nel feudo. Scorrendo l'elenco presentato dall'autore si scopre molte fra le più importanti famiglie della nobiltà sarda in qualche modo sono legate a Pula, l'elenco comprende infatti i Cugia di Sant'Orsola, i Grondona, i Cossu Madau, i Fancello, i Nieddu, i Lostia, i Salazar, i Rossi, i Corinaldi, gli Asquer, gli Aymerich, gli Amat, i Santjust, i Pabis Carta, i Rogier, i Carta, i Sanna, i Leone, gli Azara, i Floris, i Randaccio, i Brundu ed i Frau. 7 I Cugia di Sant'Orsola La prima famiglia nobile che risedette a Pula fu quella dei Cugia di Sant'Orsola, discendenti di un Don Gaspare che nel 1664 aveva retto il feudo, erano Don Litterio Cugia Manca dei marchesi di Sant'Orsola che costruì la sua casa parte su terreno in parte acquistato e in parte cedutogli in enfiteusi dal feudatario, con lui vivevano inizialmente il fratello Andrea la sorella Isabella. Don Litterio sposò Caterina Cadello (sorella del cardinale Don Diego), Andrea si trasferì a Sassari dopo essersi coniugato ed Isabella convolò a nozze con Gavino Asquer Amat Manca. Fra i discendenti più noti il generale Don Efisio (18181872) che fu ministro della Guerra; Don Francesco (1829 1885) colonnello d'artiglieria e deputato al Parlamento, Don Raffaele anch'egli tenente generale, ultimo fra i militari Don Umberto ammiraglio che ottenne nel 1977 da S.M. Umberto II il titolo di conte di Santa Margherita, titolo che si era estinto con la morte dello zio materno caduto nel 1859 a Palestro. Numerosissime le alleanze matrimoniali con i Cadello, i Paliacio della Planargia, i Ledà di Ittiri, i Nieddu, i Serpi Liliu, i Sanna e molti altri che sarebbe difficile poterle citare tutte. Arma: Spaccato, nel 1° d'azzurro al cane d'argento nella sinistra dello scudo, passante e più in alto a destra un aquila pure d'argento volante verso un sole d'oro nell'angolo destro del capo; nel 2° d'oro all'olmo di verde nudrito sulla campagna erbosa del medesimo e sinistrato da un leone di rosso impugnante con la branca destra una spada d'argento alta in palo. I Grondona Altra famiglia che si insediò a Pula fu quella dei Grondona, della quale un Agostino (1707 -1784) nato a Genova, già sottufficiale dell'esercito spagnolo, che dopo aver lasciato le armi e datosi al commercio era entrato nelle grazie della marchesa di Quirra, [il cui nome dinastico (sic, per l'autore), era Gilaberta Carroz y Centelles] che nel 1766 riuscì dopo una lunghissima pratica a farlo ufficialmente incaricare di curare i suoi interessi nel feudo. La pratica era iniziata nel 1759 fortemente contrastata da un amministratore del precedente feudatario anche i redditi del feudo erano stati sequestrati in Spagna. Nel 1760 poi Agostino era stato espulso dalla Sardegna e nel 1761 perdonato e riammesso dopo aver promesso pronto a dare tutte le soddisfazioni che il ministro Bogino gli avesse richiesto. Rientrato si accordò con Gemiliano Deidda, un medico di Caglari appassionato di matematica ed idraulica, con questo provvide a regolarizzare il corso del torrente Pula, procedette alla bonifica della zona e a migliorare lo stato del feudo. Nel 1762 ad Agostino fu concessa la cittadinanza cagliaritana e nel marzo del 1774 Vittorio Amedeo III gli concesse il cavalierato ereditario, qualche mese dopo fu concessa 8 anche l'arma gentilizia, nella patente di concessione di essa si legge:«... A viemmaggiore ornamento di questa dignità accordiamo anche allo stesso Agostino Grondona ed ai suoi discendenti sopraddetti l'uso delle armi gentilizie che saranno in un campo d'argento nove tavolette quadre di colore poste cinque e quattro in fascia, e sormontate da un'Aquila nera, con elmo d'argento sopra lo scudo graticolato con cinque affibbiature, e co' lambrequini sormontato dal burletta proprio de' Cavalieri...». Tale stemma gentilizio era peraltro stato rivendicato da questo Agostino che si diceva discendente di tale Stefano Grondona, figlio di Lazzaro, sepolto nella chiesa di Sant'Agostino a Genova sulla tomba del quale si trovava scolpita tale arma. Nel 1777 ad Agostino venne concessa anche la nobiltà, recitava la patente reale «... di certa nostra scienza, Regia autorità, ed avuto il parere del nostro Consiglio concediamo allo stesso Agostino Grondona cavaliere, ed ai suoi figlioli discendenti maschi il privilegio di nobiltà creandoli e dichiarandoli veri nobili ...». C'è qui una curiosità da registrare, nella tradizione araldica sarda, quando il cavaliere precede il nome si intende che il soggetto è cavaliere e nobile, per cui gli spetta il titolo di don, quando invece il titolo di cavaliere segue il nome si intende che il soggetto è solo cavaliere di spada per cui non gli spetta il titolo di don. Agostino Grondona nel 1781 istituì a Pula una commenda Mauriziana di giuspatronato familiare intestata a Sant'Agostino e in quell'anno venne nominato che cavaliere dell'Ordine Militare dei Santi Maurizio e Lazzaro. Fra i suoi discendenti merita fra gli altri un ricordo particolare Don Antonio, ufficiale del reggimento di Sardegna distintosi particolarmente sull'Aution nel 1793, quindi aiutante di campo di Don Gavino, marchese della Planargia il comandante alle Armi della Sardegna assassinato, probabilmente su commissione dell'Angioi, nei moti del 1794, e quindi comandante delle piazze di Cagliari e Sassari, particolarmente stimato per la sua fedeltà e le sue capacità militari da Carlo Felice che nel maggio 1821, ripristinata la legalità in Piemonte lo nominò comandante della Cittadella di Torino e che nel 1827 divenne governatore di Sassari. Non da meno il fratello di questo Tomaso, ufficiale dei Dragoni Leggeri di Sardegna che raggiunse il grado di maggior generale e si distinse nei reprimere moti angioiani di fine Settecento-inizio Ottocento. Alleanze matrimoniali legarono i membri di questa famiglia, fra gli altri con i Lopez, i Lostia di Santa Sofia, i Salazar, i Solinas Nurra, i Brundu, gli Humana. Arma: D'argento a nove tavolette di rosso ordinate 5 e 4 in fascia e sormontate da un'aquila di nero. I Fancello Il primo di questa famiglia in relazione con Pula fu don Giuseppe Maria Fancello (1743 -1818) podatario del marchese di Nules e Quirra, don Filippo Carlo Maria Osorio di Cervellon, ed avvocato che fece carriera nell'ambito dell'amministrazione dello Stato ed al quale nel 1800 vennero concessi sia il titolo di cavaliere sia il privilegio della nobiltà. L'autore lo ritiene appartenente alla stessa famiglia di don Pietro Fancello, magistrato ed alto funzionario dell'amministrazione statale che nel 1814, aveva ricevuto il titolo comitale, ed è per questo che gli attribuisce lo stesso blasone. Senza voler fare dei pettegolezzi ma appoggiandosi alla storia, l'autore informa che nel periodo in cui Giuseppe Maria era stato in servizio a Torino (1793-1799) aveva vissuto more uxorio con Maria Tamietti, che probabilmente sposò con un matrimonio rimasto segreto. da cui aveva avuto una figlia Anna Maria Francesca che legittimò dopo la morte di Maria, moglie o compagna che fosse, poco prima che questa si sposasse con Pietro Nieddu Meloni. Quest'ultimo subentrò nell'amministrazione del feudo al suocero dopo la morte. Arma (relativa al conte don Pietro): Inquartato: nel 1° d'oro con un elmo d'acciaio in profilo a sinistra pennacchiato d'azzurro e di rosso; nel 2° di celeste con un sole dorato a raggi; nel 3° di colore ceruleo, tre pesci uscenti a metà da un mare ondeggiante; nel 4° d'oro con tre caldaie nere cioè 1 e 2, sormontato da un elmo d'acciaio bordato d'oro con sette affibbiature, posto in terzo, con lambrechini di rosso, d'azzurro e d'argento. I Nieddu. Il primo dei Nieddu a divenire podatario del marchesato di Quirra fu il sopraccitato Pietro, figlio di don Gavino Nieddu Garruccio, magistrato nella Sala criminale di quella che si chiamava la Reale Udienza, di fatto una sorta di Corte di Cassazione del tempo. Egli nel 1810 venne nominato podatario provvisorio e nel 1820, dopo essere andato in Spagna a presentarsi di persona al feudatario ebbe la conferma ufficiale dell'incarico. Operò con capacità migliorando i livelli di produzione della terra e la qualità dei prodotti e piantando una gran quantità di ulivi, nel 1833 Carlo Alberto gli concesse il titolo di conte, è anche in questo caso d'interesse riportare almeno in parte la patente di nomina: «... fra i speciali tratti che la Sovrana nostra munificenza suole adoperare per contraddistinguere quei casati, che per la ben nota loro antica civiltà e per particolari benemerenze godono di singolare estimazione, e pari considerazione nel pubblico, uno dei più onorevoli si è quello di fregiarli di titoli progressivi di nobiltà, i quali nell'accrescere vieppiù lo splendore servono, per chi se ne trova fregiato di possente, ed incessante stimolo a sempre più generose e virtuose azioni, ed a perpetuarne ne posteri ben grata memoria. Nel novero di questi con nostra particolare compiacenza rimirando noi la famiglia dell'Avv. Don Pietro Nieddu della Città Nostra di Cagliari, i di cui antenati seppero già con lunghi e distinti servizi prestati nella Carriera della magistratura meritarsi di essere sin dal 1777 fregiati del titolo di Cavalierato e di Nobiltà, ci siamo di buon grado disposti a dargli un pubblico contrassegno del conto in cui teniamo le sue commendevoli doti ed i suoi meriti personali, non che della speciale soddisfazione, con cui rimiriamo il lodevole impegno col quale ... si è adoperato per propagare nei suoi predii il piantamento ed innesto di ulivi con accordargli l'implorato titolo e la dignità di Conte trasmissibile ai suoi discendenti maschi ...». Nel 1839, gli venne concesso il predicato di Santa Margherita, in considerazione della Cappellania intestata alla Santa che Pietro aveva istituito in una locale chiesa rurale. Dal matrimonio di Pietro con Anna Maria Fancello nacquero quatto figli, dei quali i due maschi non ebbero discendenti, mentre ve ne furono dalle figlie Donna Vincenzina, moglie del vice prefetto Aurelio Pabis e da Donna Maria Rita moglie di don Litterio Cugia Ledà di Sant' Or sola. Lo stemma dei Nieddu fu concesso nel 1774, prima ancora che la famiglia venisse nobilitata, a Gavino Nieddu, padre di don Pietro, quale arma gentilizia all'avvocato collegiato presso l'Università di Cagliari. Arma: Di rosso, con due leoni d'oro affrontati e controrampanti ad una ruota pure d'oro, sormontata da una cometa d'argento, il tutto sostenuto da un terreno d'argento, ombreggiato di verde, col capo cucito d'azzurro caricato di una montagna d'oro accompagnata a destra da un uccello pure d'oro, volante verso la medesima. L'autore nel commentare il blasone mette in evidenza una curiosità araldica, come cioè lo stemma gentilizio concesso nella sua parte inferiore riporti lo stemma della famiglia Garruccio, e ne indica come possibile motivo il fatto che Gavino fosse figlio della nobile Donna Maria Rosa Garruccio. Riporta per rendere agevole il confronto sia lo stemma di Don Pietro Nieuddu conte di Santa Margherita e quello della più antica famiglia Garruccio. 9 I Lostia di Santa Sofia. Il primo ad abitare a Pula fu don Raffaele, ufficiale del reggimento di Sardegna che raggiunse il grado di colonnello e l'incarico di governatore di Alghero, la sua venuta in città si dovette al matrimonio con una figlia di Tomaso Grondona Lopez avvenuto nel 1811, era il quarto conte di questa famiglia. Dal suo matrimonio nacquero diversi figli: donna Giovanna che sposò l'avvocato Benedetto Ballero Melis; don Salvatore che sposò donna Battistina Cao dei conti di San Marco dalla quale ebbe don Raffaele e don Alberto; don Gioacchino divenuto generale sposato con Maria Teresa Grixoni ebbe anch'egli numerosi figli. Per l'importanza del nome e degli incarichi la famiglia godette di grande considerazione in paese, tanto che la stessa strada principale, oggi via Roma, nel 1890 si chiamava ancora via Lostia. Arma: Spaccato nel 1° d'azzurro al sole d'oro, nel 2° d'argento alla porta di rosso, chiusa. I Salazar. Anche nel caso dei Salazar l'arrivo della famiglia a Pula si dovete ad un matrimonio. Don Efisio, brillante ufficiale di carriera, nel 1824 sposò Rita Grondona, figlia di Gioacchino Grondona e Lopez, dalla quale ebbe numerosi figli fra i quali: don Tommaso che sposò donna Michelina Sanjust dei conti di San Lorenzo e don Luigi (fra il 1902 ed il 1905, consigliere comunale a Pula) che però vendettero le loro proprietà a dei cugini: don Raffaele Asquer Salazar visconte di Fluminimaggiore e Gessa e don Francesco Asquer Pes di San Vittorio. tempo in cui viveva don Litterio Cugia Manca loro congiunto per via femminile, avevano infatti altre proprietà quando acquistarono quelle di cui si è detto. Parte, probabilmente, possedute da don Raffaele in quanto appartenenti alla moglie, Anna Pes di San Vittorio, che a sua volta l'aveva ereditatat dal suo primo defunto marito. Don Raffaele fu anch'egli consigliere comunale, suo figlio don Francesco amministrò le sue proprietà per molti anni, e dal 1950 al 1952 fu anche sindaco della cittadina. Alla sua morte le proprietà degli Asquer Pula passarono alla figlia, donna Giuseppina che aveva sposato don Giuseppe Aymerich marchese di Laconi. Arma Asquer: Di verde al leone d'oro coronato dello stesso impugnante con la zampa destra una spada al naturale, alta in palo. Gli Aymerich Antica famiglia catalana che si trasferì in Sardegna nel corso del XIV secolo. I suoi membri ricoprirono incarichi di grande importanza in campo militare e civile nell'isola e svilupparono eccellenti rapporti con la Sicilia presso e della quale furono rappresentanti, rimasero anche legati alla terra d'origine ricoprendo anche incarichi a Barcellona. Ottennero il diploma di nobiltà nel 1521. Iniziarono ad avere dimora a Pula, quando, come sopra detto Giuseppina Asquer Gritti Rossi, sposò il marchese di Laconi. Questi fu professore ordinario di meccanica razionale e rettore dell'università di Cagliari ed i suoi figli hanno seguito le sue orme nel campo degli studi scientifici: don Carlo è professore ordinario presso la facoltà d'ingegneria di Cagliari, don Francesco è professore associato presso la facoltà di scienze matematiche, fisiche e naturali, don Eugenio è dirigente d'azienda e donna Maria Camilla è psicoterapeuta. Arma: Di rosso a 13 stelle d'oro ordinate 3,3,3,3 e 1 in punta. Gli Asquer. Famiglia di origine ligure giunta in Sardegna nella prima metà del XVII secolo, i suoi membri ricoprirono incarichi di rilievo sia in campo militare, sia nella magistratura, sia nell'amministrazione dello Stato. La frequentazione di Pula da parte degli Asquer risale ad ancora prima degli acquisti fatti dalla famiglia Salazar, al 10 Arma Aymerich: Inquartato nel 1° e nel 3° di Sicilia e d'Aragona, d'oro all'aquila bicipite imperiale di nero coronata del campo;nel 2° e nel 4° d'azzurro alla torre aperta e finestrata di nero, sormontata di tre bisanti d'argento ordinati in fascia. Gli Amat. Antica famiglia di origine spagnola si radicò in Sardegna con Jaime tenente generale spagnolo, comandante delletruppe nell'isola che nel 1507 divenne viceré interinale, per l'assenza del titolare. È oggi divisa in tre rami i marchesi Di Villarios, i baroni di Sorso ed i marchesi di San Filippo Gli Amat iniziarono a possedere terreni a Pula nel 1891 quando don Carlo Amat di San Flippo Quesada di San Sebastiano, acquistò una proprietà che la Banca Popolare e di Credito di Bologna aveva sequestrato ad un Lostia di Santa Sofia e messo all'asta. Nel 1927 don Carlo assegnò questa proprietà al figlio don Antonio Amat di San Filippo e Cartolari in occasione del suo matrimonio con donna Giuseppina Garruccio Fadda. Unione questa da cui nacque, fra gli altri, Paolo, l'autore del libro dal quale si traggono questi dati. anni nel consiglio civico di Cagliari di cui fu sindaco di 2^ classe nel 1842 -43, per i suoi interventi caritativi durante la carestia del 1846, Carlo Alberto la creò barone, ma per beghe interne con la scusa che non era di origine spagnola gli fu negato dalla Reale Udienza il titolo di don. Arma: D' azzurro allo scoiattolo in atto di mangiare, seduto di profilo verso destra sopra una zattera fluttuante sul mare, il tutto al naturale. Ci si è qui limitati a trattare il solo un aspetto particolare, là dove si tratta di un’opera di particolare interesse e non solo locale per la straordinaria quantità e qualità delle notizie che l’autore fornisce e della bella e ricca iconografia che impreziosisce il volume. Esso è stato stampato dalle Grafiche Ghiani di Monastir per la ASKOS Edizioni col copryright di Paolo Amat ALFS Si ringrazia il Professore Cav. Nob. Don Paolo Amat di Sanfilippo per aver concesso la riproduzione dei blasoni presenti nell’articolo Arma Amat: Di rosso al destrocherio armato, da nuvola uscente, movente dal fianco sinistro dello scudo ed impugnante una spada d'argento alta in palo sul mare fluttuoso d'argento Altre famiglie. Fra le famiglie di cui sono conosciuti i blasoni che ebbero la ventura di avere membri che abitarono a Pula si hanno: i Carta: che ebbero un solo rappresentate, don Efisio, morto per le ferite inflittegli nell'Oristanese nel corso di un sequestro Arma: D'azzurro all'aquila al naturale in atto di spiccare il volo, sormontata da una corona d'oro a 12 punte e tenente nel becco una carta bianca con la legenda CARTA; - i Rossi: i cui rapporti con la cittadina furono limitati alla gestione delle loro proprietà, il personaggio di maggior spicco: Salvatore, nel 1817 nominato console generale austriaco nel Regno di Sardegna, fu per diversi Attività della Società Lo scorso 31 maggio si è svolta la consueta assemblea generale della Società. Fra le decisioni di particolare rilievo: -per sabato 11 ottobre p.v. è stata fissata la data dell’annuale Convivio della Società. Essa avrà luogo nei locali della Società del Whist - Accademia Filarmonica in Piazza San Carlo 183 a Torino. La società mette a disposizioni per esigenze di questo tipo le sale al secondo piano che consentono sia lo svolgimento della riunione per la presentazione degli studi sia la consumazione della colazione di lavoro nell’intervallo fra la seduta del mattino e quella pomeridiana. I soci riceveranno come di consueto la documentazione relativa alla richiesta di partecipazione. Il numero massimo dei partecipanti è di 50 elementi, peraltro non si è stati mai più di tanti nei convegni degli ultimi 8 anni. La spesa sarà fra i 50 ed i 60 Euro a partecipante ; - si è ritenuto opportuno, tenuto conto degli impegni personali di lavoro e le specifiche competenze di suddividere in due le attività sino ad ora accentrate presso la segreteria, nominando. - il Dott. Marco di Bartolo responsabile del settore editoriale, è dunque a lui che ci si deve rivolgere per il materiale che va in stampa (articoli per Sul Tutto, studi da mettere nell’apposita rubrica del sito, atti relativi agli 11 interventi nei convegni, libri che vengano a far parte della collana della SISA); - l’ Arch. Gianfranco Rocculi responsabile per tutta l’attività segretariale, del contatto con i soci e lo scambio di informazioni sull’attività della società; - si è ritenuto di seguire con attenzione le attuali vicende relative al futuro della Rivista Araldica, disponibili come Società a fornire il proprio contributo scientifico per il proseguimento di questa importate ed antica pubblicazione . Il ramo austriaco dei Colloredo Mannefeld ebbe il titolo principesco, un Geronimo fu principe arcivescovo di Salisburgo e il principe Giuseppe Francesco nel 1885 era ciambellano, consigliere intimo dell’Imperatore e consigliere ereditario dell’Impero Colloredo Mels La famiglia Waldesee visconti di Mels nel 1302 ottenne dal Patriarca di Aquileia l’autorizzazione a costruire un castello nei pressi di Colloredo, il ramo della famiglia che vi si installò da allora iniziò a chiamarsi Colloredo Mels. Della famiglia sono esistiti ed esistono numerosi rami in Austria ed in Italia Sino al 1723 l’arma del ramo dei Colloredo Mels in Friuli fu Inserimento di nuovi studi nel sito della S.I.S.A. L’araldica dei Cavalieri di Santo Stefano del Prof. Elvio Giuffrida Sul tutto periodico della SISA riservato ai Soci del tutto simile a quello dei rami in Austria Dal 1724 a seguito del conferimento del titolo di conti dell’Impero il ramo friulano assunse l’arma Direttore Alberico Lo Faso di Serradifalco Comitato redazionale Marco Di Bartolo, Andrew Martin Garvey, Vincenzo Pruiti, Angelo Scordo Testata del periodico di † Salvatorangelo Palmerio Spanu Indirizzi postali Direttore: Piazza Vittorio Veneto n. 12 - 10123 Torino Redattore: Marco Di Bartolo, Via IV novembre n. 16 10092 Beinasco (Torino) Sito Internet www.socistara.it Posta elettronica [email protected] [email protected] Segreteria della Società Arch. Gianfranco Rocculi, Via S. Marco, 28 - 20121 MILANO MI I contributi saranno pubblicati se inviati su supporto ma-gnetico in formato word o via e-mail ai sopraccitati indirizzi. Quanto pubblicato è responsabilità esclusiva dell’autore e non riflette il punto di vista della Società o della redazione. Gli scritti verranno pubblicati compatibilmente con le esigenze redazionali ed eventualmente anche in due o più numeri secondo la loro lunghezza. La redazione si riserva la possibilità di apportare qualche modifica ai testi per renderli conformi allo stile del periodico. la famiglia prestò servizio nell’Impero Austriaco ricoprendo incarichi di alto rilievo, fra essi un Francesco di Paola fu cancelliere dell’Impero 12
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