N. 39 – Anno XX – Settembre 2014 – Pubblicazione riservata ai soli

N. 39 – Anno XX – Settembre 2014 – Pubblicazione riservata ai soli Soci
GLI ORDINI MILITARI DELLA
RECONQUISTA
L’invasione mussulmana della penisola iberica ebbe luogo
a partire dal 711, quando il condottiero Tarik, alla testa di
una massa di armati, composta da berberi, siriani e arabi,
superò lo stretto di Gibilterra. Nel volgere di un
quinquennio cadde in mano islamica l’intera peninsula, a
eccezione di poche regioni montane del nord, dove
trovarono rifugio sparuti resti della bellicosa popolazione
visigota, che l’avevano occupata e sottomessa due secoli
prima. Nel 753 l’ Ommayade Abd-el-Rahman proclamò in
Andalusia il Califfato di Cordoba, dando vita a uno stato
ben più vasto dell’omonima attuale regione, in quanto
aveva a confine settentrionale la linea che unisce al Tago
l’Ebro e Pamplona a Coimbra. Orde mussulmane ne
sconfinavano normalmente, irrompendo nei territori ancora
in mano cristiana per razziare armenti e raccolti e ridurre in
schiavitù la popolazione. Sin dal secolo XI, i regni della
Spagna settentrionale ammontavano a cinque: il regno di
Galizia (comprendente il Portogallo); quello di León;
quello di Castiglia; quello di Navarra; quello d’Aragona.
Galizia
Leon
Castiglia
Navarra
Aragona
Da tali realtà prese avvio la Reconquista, che, da guerriglia
sostanzialmente difensiva, si trasformò in progressione in
una vera e propria Crociata, realizzata assai prima che
risonasse in Europa il grido Dieu le veult! di Pietro
l’Eremita. Essa assunse carattere di autentica iniziativa
militare quando, nel 1031, il Califfato si dissolse, dando
vita a una serie di città-stato (taifas), non in grado di porre
in campo un forte esercito con comando unitario. Nel 1085
un significativo successo cristiano fu la presa di Toledo,
che era stata l’antica capitale dei Visigoti. I principotti
mussulmani, allora, chiamarono in soccorso una setta
berbera, nota nell’Islam per il suo fanatismo guerriero, gli
Almoravidi, che avevano inglobato nei propri ranghi le più
feroci tribù del Sahara. Ma, malgrado l’edificazione di
numerose fortezze-monastero di frontiera (ribat), nelle
quali l’ascesi coranica veniva amalgamata con
l’esaltazione alla jihād, e l’organizzazione di un poderoso
pattuglia- men-to nelle zone di confine, gli stati cristiani
non cessarono affatto di esercitare un’efficace pressione su
di esse, traducentesi in un lento processo di accrescimento
territoriale, grazie anche all’eccessivo gradimento
dimostrato dagli ex nomadi Almoravidi per i generosi vini
di Spagna e per gli agi di una vita stanziale. Sollecitarono a
loro volta l’aiuto di un’altra setta, quella degli Almohadi,
provenienti dal massiccio montuoso dell’Atlante. Giunsero
nel 1147 con il loro capo, Abd-al-Moumin, che tenne fede
al nome di Almohadi (significa ‘Unitari’), perché con
pugno di ferro riunì l’Andalusia, ristabilendo il Califfato.
Nel mondo occidentale del tempo la massima criticità dei
sovrani era disporre di forze armate efficienti e adeguate.
L’esercito feudale era disorganizzato, indisciplinato,
precario per addestramento delle truppe e ‘stagionalità’
della ferma e neppure esente da pericolo di ammutinamenti.
Gli ordini militari di Outremer, Templari e Ospedalieri in
particolare, aderirono all’invito dei regni cristiani iberici e
trasferirono un buon numero di cavalieri sul fronte
spagnolo, dando vita a Precettorie i primi e a case-ospedale
i secondi. Questi ultimi, però, oltre a privilegiare il compito
istituzionale di dare assistenza agli ammalati, preferivano
destinare i loro proventi (denaro e rifornimenti) ai loro
confratelli operanti in Siria. Si sa bene, peraltro, che
intercorrevano tra i due ordini rapporti tutt’altro che
eccellenti.
n. 1
n. 2
croci templari
n.1
n.2
croci Gioannite
Un evento eccezionale ebbe luogo nel 1134, alla morte di
Alfonso el Batallador, quando si apprese che il regno
d’Aragona era stato da lui devoluto in eredità, in parti
uguali, agli Ordini del Tempio, dell’Ospedale e ai canonici
del Santo Sepolcro. Furono i primi due ordini, il Tempio in
specie, a esigere la parte del leone, in quanto disponeva
dell’appoggio incondizionato di un altro potente sovrano,
fattosi Templare, Ramón Berenguer IV, conte di Barcellona
(a titolo di curiosità, morto a San Dalmazzo nel 1162). I
Templari si insediarono nel castello reale di Saragozza e
ottennero numerose fortezze. Nel 1143 ricevettero la
piazzaforte di Monzon e, tre anni più tardi, stabilirono il
loro quartier generale a Punta-la-Reyna. Da oltre un
ventennio possedevano castelli e fortificazioni in
Portogallo. In Castiglia, invece, furono preponderanti i
Gioanniti, che, nel 1148, elessero a quartier generale
l’importante nodo portuale di Amposta, sulla foce
dell’Ebro. Ma non si trattava di una piazzaforte di frontiera,
ma, piuttosto, di un punto d’imbarco per Outremer.
Ordine di Calatrava
La nascita del primo ordine militare spagnolo derivò da una
renonce dell’Ordine del Tempio. Alfonso VII di Castiglia
aveva conquistato nel 1147 Calatrava (“castello di guerra”),
piazzaforte fondamentale per la difesa della capitale,
Toledo. Il re ne affidò la difesa ai Templari, che sin dal
primo momento espressero perplessità sulla sua difesa, in
quanto non erano in grado in quel momento (era l’anno
stesso della invasione degli Almohadi) di distaccare
adeguato presidio. Alfonso VII insistette e il Tempio, pur
conservando le sue riserve, rimase a Calatrava per altri
dieci anni. Ma quando, nel 1157, si seppe che rientrava
negli immediati propositi dei mussulmani di investire con
gran forze la piazza, i Templari resero noto al successore di
Alfonso, Sancho III, che avrebbero proceduto alla sua
evacuazione. Si trovavano in quei giorni a Toledo due
religiosi, di spirito veramente battagliero: Ramón Sierra,
abate cistercense di S. Maria de Fitero, in Borgogna, e
Diego Velasquez, un monaco di sangue illustre, amico
intimo del re. Si presentarono al sovrano, offrendo il
proprio appassionato impegno per organizzare la difesa di
Calatrava. Probabilmente Sancho III non disponeva di
truppe da destinare alla guarnigione, per cui accettò. Nel
1158, la fortezza e il suo territorio passarono alla comunità
di Pitero. Ramón Sierra predicò la crociata e trasferì a
Calatrava tutti i suoi monaci, cui si unirono numerosi
soldati navarrini. Fu Diego Velasquez a curare
l’organizzazione e l’addestramento all’uso delle armi di
tutti, laici ed ecclesiatici, trasformandoli in un valido
reparto di combattenti. Alla morte dell’abate Sierra, nel
1164 (per inciso, la piazzaforte non era stata ancora
attaccata), i religiosi elessero un nuovo abate, ma i laici
2
scelsero un mestre, D. Garcia. Questi optò per la regola
cistercense, ottenendo da Citeaux riconoscimento a pieno
titolo. In quell’anno stesso, ottennero il riconoscimento di
Alessandro III. Erano suddivisi in due categorie: chierici e
cavalieri. I primi risiedevano nel monastero e loro compito
era quello di pregare per la vittoria dei loro fratelli
cavalieri. A tutti incombeva l’obbligo di fornire prove di
quattro quarti di nobiltà e di limpieza de sangre (non avere
ascendenti ebrei, maomettani o eretici). Le commende, veri
e propri fortilizi, erano normalmente gestite da 12 cavalieri
e da 1 cappellano. Alla morte del mestre, il suo
luogotenente, detto comendador major, convocava a
Calatrava tutti i cavalieri e cappellani per eleggere il
successore. Il nuovo eletto veniva immesso nel possesso
del sigillo, della spada e del vessillo dell’Ordine, mentre i
confratelli intonavano il Te Deum. Giurata la fedeltà
feudale al re di Castiglia, si insediava in trono, ricevendo
l’omaggio dei fratelli. Essendo Calatrava annessa a
Morimond, abbazia-madre di Borgogna, da cui dipendeva
Fitero, l’elezione del Maestro (mestre) era valida se
confermata da quell’abate. Terzo Ufficiale dell’Ordine era
il castellano di Calatrava, detto clavero, assistito da un subclavero e da un obrero. Presiedeva gli ecclesiatici il gran
priore, che aveva diritto a mitra e pastorale. I chierici
vestivano una tunica bianca con cappuccio. Quella dei
cavalieri era più corta, per consentire di montare a cavallo,
sulla quale portavano un lungo mantello bianco, privo di
maniche, identico a quello dei Templari, mentre si
riparavano dai rigori invernali con una cappa foderata di
pelliccia. L’armatura, come in tutti gli ordini militari di
allora,che facevano professione di povertà, oltre che di
castità e di obbedienza, era nera. Solo più tardi, nel 1397,
verrà introdotta la croce gigliata rossa, per concessione di
Benedetto XIII (antipapa).
croce di Calatrava
Ordine di Santiago
Nella Spagna cristiana, da tempo, esistevano le
hermangildas, delle piccole bande di volontari, per lo più
formate da contadini, che avevano assunto un carattere
semireligioso, quasi fossero delle confraternite, e i loro
membri prendevano alcuni voti, come la difesa delle
popolazioni dagli infedeli e la castità temporanea. Va
ancora ricordato che in Galizia era stato ritrovato il corpo di
San Giacomo Apostolo, a custodire il quale era stato
edificato il grande santuario di Compostela, divenuto ben
presto meta di uno dei pellegrinaggi più importanti
d’Europa. La sua apparizione sui campi di battaglia, ove
avrebbe combattuto a fianco degli armati cristiani, gli valse
la denominazione di Matamoros, ‘ammazzamori’.
Fu un’hermangilda di Cáceres, formata da tredici
gentiluomini, che - commossa dalle sofferenze dei
pellegrini del camino de Santiago, che, oltre i grandi disagi
del lungo viaggio, dovevano sopportare le ruberie e le
violenze di briganti (non solo mussulmani) – volle votarsi
alla loro protezione, sotto la regola di S. Eligio di León.
Verso il 1164 avevano già assunto nome di Caballeros de
Cáceres e ottenevano un borgo fortificato castigliano da
difendere, Uclés. Alessandro III li riconobbe nel 1175 come
Orden de Santiago de l’Espada. Era composto da cavalieri,
caconici e canonichesse. Tredici cavalieri, discendenti dai
13 fondatori, formavano il consiglio dell’Ordine e avevano,
all’origine, diritto di eleggere il Maestro. Oltre i tre voti
soliti (ai cavalieri Alessandro III consentì il matrimonio,
per cui il loro voto era di ‘castità coniugale’), dovevano
provare limpieza de sangre e quattro quarti di nobiltà
paterna. Dal 1653, si aggiunse obbligo di prova anche dei
quattro quarti di nobiltà materna. I novizi dovevano servire
per sei mesi sulle galee dell’Ordine e trascorrere un mese in
convento a studiare la regola, che era quella di S. Agostino.
Concessioni, donazioni ed eredità fecero ben presto
Santiago così opulento per possedimenti sconfinati in
Spagna, Portogallo, Francia, Italia,Carinzia, Ungheria,
Inghilterra e Terrasanta, da essere soprannominato el Rico e
da far sì che il suo Gran Maestro venisse ritenuto il
personaggio più potente della peninsula. L’abito dei
cavalieri rientrava nella tradizione iberica: tunica e
mantello bianchi (nel tempo, la tunica diverrà nera). Sulla
spalla sinistra del secondo, la croce dell’Ordine in panno
rosso.
Santiago Matamoros
Croce 3
Croce 1
Croce 4
Croce 2
Croce 5
La croce di Santiago è, di norma, rossa, coi bracci
laterali gigliati. Il braccio superiore termina in un
pomo, a foggia di cuore rovesciato, nel quale si volle
talora vedere la lettera ‘M’, espressione classica di
devozione Mariana, mentre quello inferiore è costituita
dalla lama, appuntita, di una spada. Detta croce veniva
chiamata espada o, per ragioni non chiare, lagario
(lucertola). All’origine, una conchiglia d’argento (le
conchiglie Saint-Jaques, simboli per eccellenza del
pellegrinaggio) caricava all’altezza dell’elsa la spada,
talora accostata da un sole e da una luna o da due
crocette gigliate rosse. In qualche raffigurazione, il
numero delle conchiglie appare in decisa crescita, come
nella croce 5, ove, però, il braccio inferiore non è una
lama di spada, ma gigliato come gli altri tre, per cui la
croce sembra quella di Calatrava. L’Ordine portoghese
usò talora una espada di porpora. Il motto di Santiago
teneva fede alla tradizione eroica sì, ma decisamente
granguignolesca: RUBER. ENSIS. SANGUINE.
ARABUM. (rossa la spada del sangue degli arabi),
mentre il grido di battaglia, molto più antico
dell’Ordine, che se ne era appropriato, e in uso
nell’esercito spagnolo fino a tutto il XVI secolo:
SANTIAGO Y CIERRA ESPAÑA! (Santiago e Spagna
sicura!).
Ordine di Alcantara
Derivò anch’esso da un’hermangilda, operante poco prima
del 1170 sulla sempre critica frontiera del León. Era detta
dei ‘cavalieri di San Julián del Pereyro o Ordine di
Trujillo’ e sembra che portasse originariamente come
insegna un albero di pero in campo d’oro. La sua
fondazione va correttamente riferita al 1176, quando re
Ferdinando II donò loro diverse terre. Lucio III li riconobbe
nel 1183. Quattro anni più tardi, fu posto sotto la protezione
dell’Ordine di Calatrava. Nel 1217 re Alfonso di León
affidò a Calatrava la città di Alcántara (al-Qantar sta per
‘ponte’), strategica difesa del ponte sul Tago, ma Fra’
Martin Fernández de Quintana, maestro di Calatrava,
preferì cedere Alcántara e tutti i possessi del suo Ordine in
terra di León a quello di San Julián del Pereyro.
Quest’ultimo assunse, infine, il nome di Ordine di
Alcántara e, in forza del rapporto con quello di Calatrava
(col quale condivideva statuti, regole e prove), la sua croce,
posta sul bianco mantello, ma di colore verde.
San Juan del Pereyro
Alcantara
Alcantara sfruttò abilmente i grandi possedimenti fondiari
acquisiti, coltivandoli a grano e impiantando allevamenti di
bestiame da macello, da soma e da tiro, il tutto grazie
all’impiego di mano d’opera servile, offerta a titolo gratuito
dai mudejar (schiavi mussulmani). L’Ordine divenne tanto
ricco da poter permettersi il lusso d’ingaggiare truppe
mercenarie.
Ordine di Montesa
Detto anche, e meglio, Orden de Caballeria de Nuestra
Señora de Montesa, costituisce derivazione indiretta da
quello del Tempio. Alla sua soppressione nel 1312, Giacomo
II d’Aragona, avverso agli Ospedalieri, che avrebbero dovuto
ereditare dai Templari i beni patrimoniali, ottenne da
Giovanni XXII, con bolla del 1317, il riconoscimento di
detto Ordine, da lui per l’occasione fondato e formato da 10
Cavalieri di Calatrava, autorizzati a tale passaggio. Montesa
adottò la regola cistercense e, a proposito di prove di nobiltà
si limitava a due quarti: quello paterno e quello materno.
Sembra peraltro che l’ordine non guardasse tanto per il
sottile, procedendo in più di un caso al ricevimento di
cavalieri di nobiltà men che dubbia e, in più di un caso,
anche di ebrei conversos. Tale ‘sregolatezza’ migliorò
decisamente nel 1399, quando Benedetto XIII autorizzò la
sua fusione con l’Ordine di San Jorge de Alfama, fondato
nel 1201 e approvato nel 1363. Sul mantello bianco i
cavalieri portarono originariamente una croce piana rossa,
che, alla fusione, venne a caricare la croce gigliata nera di
San Jorge.
3
Ordine del Cristo
Ordine della Mercede
L’Orden Real y Militar de Nuestra Señora de la Merced y
la Redención de los Cautivos, fu fondato nel 1233 dal
nobile provenzale Pere Nolasco, con la finalità di riscattare
dai mussulmani gli schiavi cristiani poveri, con qualunque
mezzo, guerra compresa. Tale ultimo scopo lo fece
includere tra le religioni militari. La sua vita, in quanto tale,
fu breve, perché nel 1317 cessò di essere militare e rimase
ai confratelli clerici, puro ordine religioso. Portavano
sull’abito bianco, appeso, al collo, uno scudetto con l’arma
reale d’Aragona. L’Ordine religioso, esistente ancor oggi,
usa uno scudetto con un Partito: nel 1, di rosso, alla croce
patente d’argento; nel 2, di ARAGONA.
Ordine della Mercede militar
Ordine religioso
Ordine d’Avis
L’Ordine portoghese di San Benedetto d’Avis, risale al
1166, anno in cui fu fondato come Orden de Évora, e
assunse nome di Orden de Avís dal 1211, quando fu
conquistata la città di tal nome, con conferma papale del
1214. Esisteva sin dal 1147 una hermangilda di nobili,
dedita alla lotta contro i mussulmani e re Alfonso I, che
voleva difendere la città di Évora dagli attacchi islamici,
approvò il progetto di costituzione dell’Ordine, che
assoggettò alla regola cistercense. Godette sin dal principio
dell’appoggio del potente Ordine di Calatrava e i cavalieri
di Évora ne adottarono la costituzione e l’emblema, del
quale mutarono il colore in verde. Nelle sue prime
raffigurazioni la croce gigliata appariva accantonata da due
aquilotti, simboleggianti la rapidità delle sue azioni militari.
Portavano un largo mantello bianco, con cappuccio, del
quale Bonifacio IX autorizzò l’accorciamento, unitamente
al porto della sua croce, orlata d’oro, sull’omero sinistro.
Nel 1385 il Gran Maestro Juan, bastardo di re Pedro I,
ascese al trono. Da allora ricevette tante prebende, donativi
ed eredità da divenire così prestigioso da competere con lo
stesso Ordine del Cristo, sino al 1550, anno in cui fu
annesso alla corona assieme al maggior rivale. Prove e voti
come di norma, ma, al tempo di Paolo III, il voto di castità
dei cavalieri fu convertito in quello di fedeltà coniugale.
Ordine d’Avis
sino al XVI secolo
4
Ordine d’Avis
antico
Ordine d’Avis
moderno
Diniz, re del Portogallo, era stato amico e protettore dei
Templari (il primo paese d’Europa in cui si installarono era
stato proprio il Portogallo, nel 1128) e non condivise la loro
soppressione, per cui, nel 1319, ottenne da papa Giovanni
XXII che i beni già del Tempio, presenti nel suo regno,
fossero impiegati per la creazione di un nuovo ordine
monastico-militare, preposto alla difesa dell’Algarve. La
nuova istituzione assunse il nome di Ordine del Cristo.
Come i Templari, i Cavalieri del Cristo adottarono la regola
cistercense, richiesero i medesimi voti e prove e, sul
mantello bianco, portarono la stessa croce patente rossa,
carica, però, d’una croce latina bianca.
Il noviziato nel nuovo Ordine era più lungo di quello
previsto dal Tempio: era necessario partecipare per ben 3
anni a campagne militari contro la mezzaluna. L’ingresso,
ciò nonostante, si rivelò, sin dagli esordi, ambitissimo non
soltanto dai membri dell’alta aristocrazia lusitana, ma
anche da principi del sangue. Lo stesso Enrico il
Navigatore ricoperse - prima in qualità di erede al trono e
poi volle conservarla da sovrano - la carica di Gran
Maestro. L’Ordine cumulò un immenso patrimonio e re
Manuel, anche lui Gran Maestro, si adoperò molto per
aumentare il proselitismo. Alessandro VI mutò, nel 1496, il
voto di castità in quello di fedeltà coniugale e nel 1505
Giulio II abolì il voto di povertà. Non poteva che essere
annesso alla corona, come avvenne nel 1551, e da qual
momento tutti i suoi Gran Maestri furono membri di casa
reale. Gli ecclesiastici dell’Ordine furono obbligati a
risiedere nello splendido castello fortificato di Thomar. Il
giovane re Don Sebástian aveva in animo di riformare
l’Ordine, riportandolo all’antico ruolo, ma la sua gloriosa,
non meno che inutile, morte nel corso della folle spedizione
in Africa, cancellò ogni speranza di resurrezione di
quest’Ordine, vero erede di quello del Tempio. Un altro
tentativo di rivitalizzazione avvenne durante il periodo di
annessione alla Spagna, con Filippo IV, nel 1627, ma fu un
fuoco di paglia e, forse, neppure s’accese.
La Santa Sede dette vita al Supremo Ordine del Cristo, di
carattere puramente onorifico, riservato ai capi di stato.
Ordine di S. Maria de España
Detto anche Orden de la Estrella, fu creato nel 1272 da
Alfonso X il Savio al fine di assicurare alla Castiglia una
difesa marittima. Seguiva il modello di Calatrava e la
regola cistercense. La casa-madre dell’Ordine era a
Cartagena e aveva sedi nei porti di San Sebástian, La
Coruña e Santa Maria, ove erano alla fonda le sue galere.
Sull’abito nero, i cavalieri indossavano una cappa rossa, sul
lato sinistro della quale era cucita una stella d’oro ottagona,
carica dell’arma reale di Castiglia. Condivideva con
Cartagena la Patrona, la Virgen del Rosell.
Ebbe vita estremamente breve, in quanto il suo regale
fondatore rimase deluso delle sue prestazioni, sia in campo
marittimo, che terrestre. Nel 1278, infatti, la sua flotta fu
annientata dai mussulmani nello scontro navale di
Algeciras e, due anni più tardi, non dette gran prova nella
battaglia di Moclín, che vide la disfatta dell’esercito
castigliano da parte di Muhammad II di Granada. In essa i
cavalieri di Santiago, che costituivano il nucleo maggiore
per numero e qualità dell’armata di Castiglia, caddero quasi
tutti sul campo. Il re decise allora il passaggio al completo
dei cavalieri di Santa Maria all’Ordine di Santiago,
provocando la scomparsa del primo.
la loro fortuna a las Ordenes: così i Figueroa, con un
Mastro di Santiago; i Sotomayor, con due Maestri di
Alcantara, e i Guzmán, forse la prima famiglia di Spagna,
che aveva dato Maestri a tutti gli Ordini. Numerosi furono i
tentativi di trasformare le Maestranze in ducati e qualcuno
andò a buon fine, così come qualche commenda si
trasformò in feudo nobile. E’ accaduto anche a casa nostra
con l’Ordine più prestigioso, quello di San Giovanni
Gerosolimitano.
In Spagna, nel 1523, quando Carlo V aveva riunito nella
sua persona i Gran Magisteri di tutti gli Ordini militari, fu
costituito il Consejo de Ordenes Militares, che per tutto il
secolo svolse un’attività abbastanza intensa, esprimendo
pareri tecnici e intervenendo in materia di benefici e di
commende ereditarie. Nel Seicento divenne, in certo senso,
una consulta araldica, tanto che era anche noto come
Consejo de la Nobleza. Esiste ancora.
Ordine di San Michele dell’Ala
La tradizione assegna a tale Ordine il pregio di essere il più
antico del Portogallo. Sarebbe stato fondato da re Alfonso I
nel 1147, dopo la conquista di Santarem. L’Arcangelo San
Michele avrebbe fatto strage dei mussulmani e, in memoria
del suo aiuto e delle sue possenti ali, sarebbe stato istituito
l’Ordine. Non c’è un solo documento che confermi tale
origine. Si sa ben poco su di esso: era fiorente nel
medioevo, si ispirava all’Ordine di Santiago, esigeva –
sembra – al suo interno il segreto, e la sua insegna era
un’ala di porpora, nimbata di raggi d’oro, caricante la
espada di Santiago. Divenne ben presto ordine dinastico.
L’elenco degli ordini militari iberici non finirebbe qui, ma
hopreferito omettere quelli non riconosciuti dalla Santa
Sede (esempio: il pur antico, castigliano, Orden de Alcalá
de la Selva) e quelli più che minori, a carattere strettamente
locale, poco più o poco meno di un’hermangilda, più
tollerati, che autorizzati. Furono i ‘grandi ordini a
contribuire decisamente non soltanto alla Reconquista, ma
a costituire la base sulla quale è stato modellato l’esercito
spagnolo, invincibile per almeno due secoli. Gli ordini
avevano già esaurita la loro funzione ben prima della
caduta di Granada e i ricchi loro patrimoni, i grassi
benefici, le opulente commende, alle volte elargiti a
personaggi dai meriti discutibili e non sempre in regola con
i requisiti, non potevano che divenire – come fu –
appannaggio delle monarchie autocratiche, che dal secolo
XVI in poi, si affermano in tutta l’Europa. Gli stessi ordini
militari, in verità, avevano perduto, nel tempo, smalto e
prestigio, contemporaneamente al loro carattere originario e
allo zelo, feroce alle volte, ma pur sempre rigorosamente
religioso, per fare luogo ad ambizioni di potere, a
corruzione diffusa, a rilassatezza di costumi. Molte erano le
famiglie della nobiltà iberica che dovevano la loro ascesa e
Consejo de Ordenes Militares
Nel 1981 il re Juan Carlos I conferì al proprio padre, il
conte di Barcellona, la presidenza del Real Consejo des
Ordenes Militares, che, alla sua scomparsa, è passato ad
altro Infante di Spagna.
bibliografia essenziale
F. BONANNI, Ordinum Equestrium et Militarium
Catalogus, III ediz., Roma, 1724
L. CIBRARIO, Descrizione storica degli ordini
cavallereschi, Torino, 1846
F. CUOMO, Gli ordini cavallereschi nel miti e nella storia
d’ogni tempo e paese, Roma, 1992
R. CUOMO, Ordini cavallereschi antichi e moderni,
Napoli, 1890
A. FAVYN, Le theatre d’honneur et de chevalerie, Paris,
1620
B. GIUSTINIAN, Historie cronologiche dell’origine
degl’Ordini militari e di tutte le Religioni cavalleresche,
Venezia, 1692
D. W. LOMAX, La Orden de Santiago, Madrid, 1965
A. MENDO, De las Ordenes militares, Madrid, 1681
F. RADES y ANDRADA, Chrónica de las tres Ordenes y
Cavallerías de Sanctiago, Calatrava y Alcántara, Toledo,
1572
H. de SAMPER, Montesa ilustrada, Valencia, 1669
F. SANSOVINO, Dell’origine de’ Cavalieri, Venezia,
1583
O. da SANTA MARIA, Dissertazioni sopra la cavalleria
antica e moderna, secolare e regolare, Brescia, 1761
D. SEYMOUR, I monaci della guerra, Torino, 2005
A. de TORRES y TAPIA, Crónica de la Orden de
Alcántara, Madrid, 1763
M. V****, Histoire générale des orders de chevalerie
civile et militaire, Paris, 1810
ASCO
5
Proclamazione ed Ordinamento della
Repubblica Ambrosiana
La signoria dei Visconti si snodò altera, per circa due
secoli, con una successione di uomini che, per quanto
diversi nel carattere, nei gusti, e nei propositi, appaiono
collegati da un comune senso di devozione alle sorti del
proprio dominio ed alla loro città capitale: Milano.
Una nobile stirpe, dalla quale, lo stato che presiedettero,
fu avvantaggiato e reso illustre.
Filippo Maria Visconti, il 13 agosto 1447, moriva nella
sua rocca di Porta Giovia.
Egli aveva, fino agli ultimi tempi della sua esistenza,
pensato, anche al di sopra degli interessi del sangue, al
proprio stato, del quale intuiva l’avvenire nella formazione
di una grande unità politica italiana.
Nessuno dei numerosi membri della famiglia Visconti,
vigoreggiante nei rami collaterali, gli era stato vicino o
aveva avuto e suscitato in lui, la qualità di successore e,
nessuno di questi (sia perché l’investitura ufficiale del
Ducato di Milano si riferiva ai soli successori di Gian
Galeazzo, sia perché tutti erano forse paghi di quanto
possedevano e sentivano di dover essere pronti alla difesa
di loro possessi e dei loro diritti feudali) volle vantare
diritti alla successione.
Tra i molti, voglio ricordare, i Visconti di S.Alessandro, i
Visconti di Castelletto Ornavasso, i Visconti della Pieve di
Brebbia, i Visconti di Cassano Magnagro, i Visconti di
Fontané Calvignano, i Visconti di Massimo Paruzzaro, i
Visconti marchesi di Cislago e conti di Gallarate, i Visconti
di Bisnate-Crema, i Visconti di Brignano e conti di Sezzé e
di Gamalero e marchesi di S.Giorgio, i Visconti di Brignano
marchesi di Borgoratto, i Visconti di Carono-Ghiringhello, i
Visconti di Locate, i Visconti di Somma conti di Lonate, i
Visconti di Somma, marchesi della Motta e di S.Vito, i
Visconti di Melegnano, i Visconti marchesi di Riozzo e conti
di Carimate.
Filippo Maria, nonostante questa nutritissima propria
parentela, aveva designato come suo erede un condottiero
insigne, al quale aveva concesso in sposa Bianca Maria,
natagli dalla sua fedelissima amante Agnese del Maino,
Francesco Sforza.
Morto però il Visconti, all’interno dello stato, la vitalità
del vecchio spirito municipale sorse tanto forte che, la
scomparsa di colui che rappresentava la sola forza di
coesione esistente, fu salutata, in molte località, come il
miglior modo di riconquistare le antiche autonomie.
Il popolo milanese si fece influenzare da un gruppo di
giureconsulti, tra i quali vanno annoverati Antonio
Trivulzio, Teodoro Bossi, Giorgio Lampugnani, Innocenzo
Cotta e Bartolomeo Morone, i quali sostenevano che: « la
morte del Duca senza eredi legittimi, scioglieva i vincoli
del giuramento e del privilegio imperiale che aveva
investito Gian Galeazzo ed i suoi discendenti maschi,
legittimamente nati». Il popolo rientrava, così, nei propri
diritti e nel pieno esercizio della sua sovranità.
La mattina del 14 agosto, il popolo, si radunò attorno al
palazzo del Broletto e gridando «Libertà, Libertà» credette
che, veramente, cessato il valore del voto popolare che
aveva portato i Visconti al vicariato del popolo, sarebbe
bastato un nuovo voto popolare per proclamare la
Repubblica.
6
Le città del Ducato, legate da comuni interessi economici
con la capitale, rimasero quiete ed aderirono alla nuova
forma di governo.
Il Vicario ed i Dodici della Provvigione (magistratura che
reggeva il governo economico della città e del territorio
soggetto alla sua giurisdizione) restati i soli arbitri della
situazione, accolsero la volontà popolare e proclamarono
la Repubblica dedicata a S.Ambrogio e nominarono
subito un consiglio di ventiquattro cittadini (quattro per
ciascuna porta urbica) intitolandoli Capitani e Difensori
delle Libertà del Comune.
Le assemblee parrocchiali e delle porte elessero i propri
rappresentanti presso il Vicario della Provvisione per
formare, il 17 agosto, il Consiglio Generale dei
Novecento (rappresentanza del popolo che era formata di
cittadini, scelti in numero di centocinquanta, da ciascuna
porta, e che, in momenti di particolare gravità, era stata
convocata, anche, da Filippo Maria).
Il popolo mise a sacco la fortezza e ne iniziò la
demolizione quale simbolo del potere ducale dal momento
in cui, Carlo Gonzaga, governatore della rocca, l’aveva
abbandonata dopo averne svuotato i forzieri.
A Pavia, il governatore visconteo fu cacciato. Simil sorte
toccò ai capitani di Tortona e Parma. Lodi, Piacenza,
Verona, Brescia, Bergamo e la Ghiara d’Adda cacciarono i
ghibellini viscontei e chiesero aiuto ai guelfi ed ai
veneziani.
Solamente Como, Alessandria, Novara e Crema rimasero
fedeli.
Fin dal 1428, Filippo Maria, aveva già ceduto Vercelli ad
Amedeo duca di Savoia.
Tutti principali confinanti: il duca di Savoia, il marchese
d’Este, il marchese di Monferrato, i Fieschi delle riviere, i
Fregoso di Genova, i Signori di Correggio, occuparono le
terre di confine con lo stato di Milano sulle quali poterono
facilmente estendersi.
La Lombardia così si strinse attorno alla Repubblica
Ambrosiana, ordinata aristocraticamente, con il Consiglio
Generale dei Novecento, nominato dai delegati del
popolo, con autorità sovrana e compiti legislativi.
Il potere esecutivo fu affidato ai ventiquattro capitani e
difensori del popolo, tutti tratti dalla nobiltà, (poi ridotti a
dodici).
Tra essi figurano nomi illustri per lignaggio: un conte
Vitaliano Borromeo,
(già tesoriere e camerlengo di Filippo Maria); Guarnerio
Castiglione conte e cavaliere aurato (consigliere e
senatore sotto Filippo Maria); il giureconsulto
Giangiorgio Piatti ed altri.
I capitani duravano in carica un bimestre.
Dovevano tutelare le vedove, i pupilli ed i poveri ed
indirizzare il governo.
Ogni porta aveva un proprio consiglio; un governatore e
tre consiglieri, portati, poi, a sei, che, oltre alle speciali
ingerenze nelle loro necessità relative alla vita delle
singole porte, avevano, anche, mansioni di governo,
deliberando insieme ai capitani del popolo.
Sopraintendevano alle milizie dei dodici della Balía di
pace e di guerra, che duravano in carica un anno ed erano
scelti in modo tale che, ogni porta, avesse due
rappresentanti.
Vi erano, altresì, sei censori, sei consiglieri di giustizia,
sei sapienti, sei conservatori, che restavano in carica un
anno, e sei sindaci, che duravano, in carica, solamente, sei
mesi.
Tutta questa organizzazione giuridico-amministrativa e
militare, sostituiva, altre funzioni analoghe, svolte da
magistrati, in carica sotto i Visconti.
Furono conservati: il Vicario, i XII di provvisione, il
Podestà, il Capitano di giustizia, i Maestri delle entrate
ordinarie e straordinarie, i Consoli della mercanzia, gli
Abati (capi delle arti e delle proprie corporazioni).
La città, in quel periodo, pare comprendesse, circa,
duecentomila abitanti.
Ottantasei erano le parrocchie suddivise, a loro volta, in
sei porte o sestieri, ciascuna delle quali portava un proprio
vessillo.
La porta romana era rappresentata da un drappo rosso.
La porta ticinese da un drappo bianco caricato da uno
sgabello rosso.
La porta vercellina da un drappo troncato di rosso e di
bianco.
La porta comasina da un drappo scaccato di rosso e di
bianco.
La porta nuova in un primo tempo, da un drappo nero
caricato da un leone
bianco, poi, da un drappo
inquartato di bianco e di nero.
La porta orientale da un drappo bianco caricato da un
leone nero.
Arma delle Porte della Città di Milano
Partito di uno, spaccato di due:
Nel 1°, la Porta Romana
Nel 2°, la Porta Ticinese
Nel 3°, la Porta Orientale
Nel 4°, la Porta Vercellina
Nel 5°, la Porta Comasina
Nel 6°, la Porta Nuova
Sul tutto : del Comune e del Popolo.
Alberto Gamaleri Calleri Gamondi
Pula fra cronaca e storia
E' questo il titolo di uno splendido libro scritto dal Prof
Paolo Amat di San Filippo, storico e genealogista di
grande cultura e capacità prestato alla chimica ed alle
materie scientifiche e che affronta appunto con rigore
scientifico la storia locale. Storia trascurata in genere
perché sono in molti a correre dietro ai grandi
avvenimenti, magari copiandosi l'uno con l'altro o
attingendo a chi per primo ha scritto sull'argomento senza
curare di controllare sui documenti e con seria ricerca
d'archivio quel che dice. Appassionato cultore di storia
locale il Prof. Amat con l'opera di cui si è citato il titolo,
fornisce uno straordinaria serie di quadri che
ricostruiscono la storia di questa antica città della
Sardegna, dei quali ve ne è uno di particolare interesse per
i cultori dell'araldica e della storia nobiliare, si tratta
dell'Ottavo capitolo, che con un sorriso l'autore intitola
"Famiglie notabili".
Prima di passare a scorrere, purtroppo assai velocemente,
questa parte dell'opera è forse opportuno precisare questa
bellissima località sarda ha origini antichissime, fenicie e
non solo perché nel suo territorio sono state trovate
numerose tracce nuragiche. Nel suo territorio sono le
rovine di Nora, di cui Pula è la prosecuzione storica, che fu
la più importante città della Sardegna al tempo della
conquista romana (285 a.C), sostituita poi da Cagliari,
quale capitale della provincia, che dovette subire la
rovinosa conquista dei Vandali. Sul nome della città
esistono diverse ipotesi, due delle quali sono le più
accreditate, la prima lo fa discendere dal termine tardo
latino Pola o Pula che indica un litorale sabbioso ripreso
poi dalla lingua catalana che lo utilizza per indicare una
fascia costiera; la seconda fa derivare il nome da altro
termine latino Padulis de Nura o Paulis de Nura, palude.
Nel corso del Trecento si trova indicata come villa Pauli di
Nures o Paulla de Nurres; in un documento del
Cinquecento, nella relazione richiesta da Filippo II perché
si individuassero i punti più adatto ove costruire le torri di
avvistamento contro le azioni dei barbareschi viene citata
come Pula, in seguito viene citata come Polla ed è
indicata quale una delle baronie che costituiscono il
marchesato di Quirra. Oggi è ricordata soprattutto come
bellissimo luogo di villeggiatura.
Le famiglie di una certa importanza per la storia della
Sardegna che abitarono a Pula furono quelle che
possedevano il feudo ed in seguito quelle che da esse
discendevano o avevano ereditato per via femminile beni
allodiali nel feudo.
Scorrendo l'elenco presentato dall'autore si scopre molte
fra le più importanti famiglie della nobiltà sarda in qualche
modo sono legate a Pula, l'elenco comprende infatti i
Cugia di Sant'Orsola, i Grondona, i Cossu Madau, i
Fancello, i Nieddu, i Lostia, i Salazar, i Rossi, i Corinaldi,
gli Asquer, gli Aymerich, gli Amat, i Santjust, i Pabis
Carta, i Rogier, i Carta, i Sanna, i Leone, gli Azara, i
Floris, i Randaccio, i Brundu ed i Frau.
7
I Cugia di Sant'Orsola
La prima famiglia nobile che risedette a Pula fu quella dei
Cugia di Sant'Orsola, discendenti di un Don Gaspare che
nel 1664 aveva retto il feudo, erano Don Litterio Cugia
Manca dei marchesi di Sant'Orsola che costruì la sua casa
parte su terreno in parte acquistato e in parte cedutogli in
enfiteusi dal feudatario, con lui vivevano inizialmente il
fratello Andrea la sorella Isabella. Don Litterio sposò
Caterina Cadello (sorella del cardinale Don Diego),
Andrea si trasferì a Sassari dopo essersi coniugato ed
Isabella convolò a nozze con Gavino Asquer Amat Manca.
Fra i discendenti più noti il generale Don Efisio (18181872) che fu ministro della Guerra; Don Francesco (1829 1885) colonnello d'artiglieria e deputato al Parlamento,
Don Raffaele anch'egli tenente generale, ultimo fra i
militari Don Umberto ammiraglio che ottenne nel 1977 da
S.M. Umberto II il titolo di conte di Santa Margherita,
titolo che si era estinto con la morte dello zio materno
caduto nel 1859 a Palestro. Numerosissime le alleanze
matrimoniali con i Cadello, i Paliacio della Planargia, i
Ledà di Ittiri, i Nieddu, i Serpi Liliu, i Sanna e molti altri
che sarebbe difficile poterle citare tutte.
Arma: Spaccato, nel 1° d'azzurro al cane d'argento nella
sinistra dello scudo, passante e più in alto a destra un
aquila pure d'argento volante verso un sole d'oro
nell'angolo destro del capo; nel 2° d'oro all'olmo di verde
nudrito sulla campagna erbosa del medesimo e sinistrato
da un leone di rosso impugnante con la branca destra una
spada d'argento alta in palo.
I Grondona
Altra famiglia che si insediò a Pula fu quella dei
Grondona, della quale un Agostino (1707 -1784) nato a
Genova, già sottufficiale dell'esercito spagnolo, che dopo
aver lasciato le armi e datosi al commercio era entrato
nelle grazie della marchesa di Quirra, [il cui nome
dinastico (sic, per l'autore), era Gilaberta Carroz y
Centelles] che nel 1766 riuscì dopo una lunghissima
pratica a farlo ufficialmente incaricare di curare i suoi
interessi nel feudo. La pratica era iniziata nel 1759
fortemente contrastata da un amministratore del precedente
feudatario anche i redditi del feudo erano stati sequestrati
in Spagna. Nel 1760 poi Agostino era stato espulso dalla
Sardegna e nel 1761 perdonato e riammesso dopo aver
promesso pronto a dare tutte le soddisfazioni che il
ministro Bogino gli avesse richiesto. Rientrato si accordò
con Gemiliano Deidda, un medico di Caglari appassionato
di matematica ed idraulica, con questo provvide a
regolarizzare il corso del torrente Pula, procedette alla
bonifica della zona e a migliorare lo stato del feudo. Nel
1762 ad Agostino fu concessa la cittadinanza cagliaritana e
nel marzo del 1774 Vittorio Amedeo III gli concesse il
cavalierato ereditario, qualche mese dopo fu concessa
8
anche l'arma gentilizia, nella patente di concessione di essa
si legge:«... A viemmaggiore ornamento di questa dignità
accordiamo anche allo stesso Agostino Grondona ed ai
suoi discendenti sopraddetti l'uso delle armi gentilizie che
saranno in un campo d'argento nove tavolette quadre di
colore poste cinque e quattro in fascia, e sormontate da
un'Aquila nera, con elmo d'argento sopra lo scudo
graticolato con cinque affibbiature, e co' lambrequini
sormontato dal burletta proprio de' Cavalieri...». Tale
stemma gentilizio era peraltro stato rivendicato da questo
Agostino che si diceva discendente di tale Stefano
Grondona, figlio di Lazzaro, sepolto nella chiesa di
Sant'Agostino a Genova sulla tomba del quale si trovava
scolpita tale arma. Nel 1777 ad Agostino venne concessa
anche la nobiltà, recitava la patente reale «... di certa nostra
scienza, Regia autorità, ed avuto il parere del nostro
Consiglio concediamo allo stesso Agostino Grondona
cavaliere, ed ai suoi figlioli discendenti maschi il
privilegio di nobiltà creandoli e dichiarandoli veri nobili
...». C'è qui una curiosità da registrare, nella tradizione
araldica sarda, quando il cavaliere precede il nome si
intende che il soggetto è cavaliere e nobile, per cui gli
spetta il titolo di don, quando invece il titolo di cavaliere
segue il nome si intende che il soggetto è solo cavaliere di
spada per cui non gli spetta il titolo di don.
Agostino Grondona nel 1781 istituì a Pula una commenda
Mauriziana di giuspatronato familiare intestata a
Sant'Agostino e in quell'anno venne nominato che
cavaliere dell'Ordine Militare dei Santi Maurizio e
Lazzaro. Fra i suoi discendenti merita fra gli altri un
ricordo particolare Don Antonio, ufficiale del reggimento
di Sardegna distintosi particolarmente sull'Aution nel
1793, quindi aiutante di campo di Don Gavino, marchese
della Planargia il comandante alle Armi della Sardegna
assassinato, probabilmente su commissione dell'Angioi,
nei moti del 1794, e quindi comandante delle piazze di
Cagliari e Sassari, particolarmente stimato per la sua
fedeltà e le sue capacità militari da Carlo Felice che nel
maggio 1821, ripristinata la legalità in Piemonte lo nominò
comandante della Cittadella di Torino e che nel 1827
divenne governatore di Sassari. Non da meno il fratello di
questo Tomaso, ufficiale dei Dragoni Leggeri di Sardegna
che raggiunse il grado di maggior generale e si distinse nei
reprimere moti angioiani di fine Settecento-inizio
Ottocento.
Alleanze matrimoniali legarono i membri di questa
famiglia, fra gli altri con i Lopez, i Lostia di Santa Sofia, i
Salazar, i Solinas Nurra, i Brundu, gli Humana.
Arma: D'argento a nove tavolette di rosso ordinate 5 e 4
in fascia e sormontate da un'aquila di nero.
I Fancello
Il primo di questa famiglia in relazione con Pula fu don
Giuseppe Maria Fancello (1743 -1818) podatario del
marchese di Nules e Quirra, don Filippo Carlo Maria
Osorio di Cervellon, ed avvocato che fece carriera nell'ambito dell'amministrazione dello Stato ed al quale nel
1800 vennero concessi sia il titolo di cavaliere sia il privilegio della nobiltà. L'autore lo ritiene appartenente alla
stessa famiglia di don Pietro Fancello, magistrato ed alto
funzionario dell'amministrazione statale che nel 1814, aveva ricevuto il titolo comitale, ed è per questo che gli attribuisce lo stesso blasone. Senza voler fare dei pettegolezzi
ma appoggiandosi alla storia, l'autore informa che nel periodo in cui Giuseppe Maria era stato in servizio a Torino
(1793-1799) aveva vissuto more uxorio con Maria Tamietti, che probabilmente sposò con un matrimonio rimasto
segreto. da cui aveva avuto una figlia Anna Maria Francesca che legittimò dopo la morte di Maria, moglie o compagna che fosse, poco prima che questa si sposasse con
Pietro Nieddu Meloni. Quest'ultimo subentrò nell'amministrazione del feudo al suocero dopo la morte.
Arma (relativa al conte don Pietro): Inquartato: nel 1°
d'oro con un elmo d'acciaio in profilo a sinistra
pennacchiato d'azzurro e di rosso; nel 2° di celeste con un
sole dorato a raggi; nel 3° di colore ceruleo, tre pesci
uscenti a metà da un mare ondeggiante; nel 4° d'oro con
tre caldaie nere cioè 1 e 2, sormontato da un elmo
d'acciaio bordato d'oro con sette affibbiature, posto in
terzo, con lambrechini di rosso, d'azzurro e d'argento.
I Nieddu.
Il primo dei Nieddu a divenire podatario del marchesato di
Quirra fu il sopraccitato Pietro, figlio di don Gavino
Nieddu Garruccio, magistrato nella Sala criminale di
quella che si chiamava la Reale Udienza, di fatto una sorta
di Corte di Cassazione del tempo. Egli nel 1810 venne
nominato podatario provvisorio e nel 1820, dopo essere
andato in Spagna a presentarsi di persona al feudatario
ebbe la conferma ufficiale dell'incarico. Operò con capacità migliorando i livelli di produzione della terra e la qualità
dei prodotti e piantando una gran quantità di ulivi, nel
1833 Carlo Alberto gli concesse il titolo di conte, è anche
in questo caso d'interesse riportare almeno in parte la patente di nomina: «... fra i speciali tratti che la Sovrana
nostra munificenza suole adoperare per contraddistinguere quei casati, che per la ben nota loro antica civiltà e
per particolari benemerenze godono di singolare estimazione, e pari considerazione nel pubblico, uno dei più
onorevoli si è quello di fregiarli di titoli progressivi di
nobiltà, i quali nell'accrescere vieppiù lo splendore servono, per chi se ne trova fregiato di possente, ed incessante
stimolo a sempre più generose e virtuose azioni, ed a
perpetuarne ne posteri ben grata memoria.
Nel novero di questi con nostra particolare compiacenza
rimirando noi la famiglia dell'Avv. Don Pietro Nieddu
della Città Nostra di Cagliari, i di cui antenati seppero già
con lunghi e distinti servizi prestati nella Carriera della
magistratura meritarsi di essere sin dal 1777 fregiati del
titolo di Cavalierato e di Nobiltà, ci siamo di buon grado
disposti a dargli un pubblico contrassegno del conto in cui
teniamo le sue commendevoli doti ed i suoi meriti personali, non che della speciale soddisfazione, con cui rimiriamo il lodevole impegno col quale ... si è adoperato per
propagare nei suoi predii il piantamento ed innesto di ulivi
con accordargli l'implorato titolo e la dignità di Conte
trasmissibile ai suoi discendenti maschi ...».
Nel 1839, gli venne concesso il predicato di Santa Margherita, in considerazione della Cappellania intestata alla Santa che Pietro aveva istituito in una locale chiesa rurale.
Dal matrimonio di Pietro con Anna Maria Fancello nacquero quatto figli, dei quali i due maschi non ebbero discendenti, mentre ve ne furono dalle figlie Donna Vincenzina, moglie del vice prefetto Aurelio Pabis e da Donna
Maria Rita moglie di don Litterio Cugia Ledà di Sant' Or
sola. Lo stemma dei Nieddu fu concesso nel 1774, prima
ancora che la famiglia venisse nobilitata, a Gavino Nieddu,
padre di don Pietro, quale arma gentilizia all'avvocato
collegiato presso l'Università di Cagliari.
Arma: Di rosso, con due leoni d'oro affrontati e
controrampanti ad una ruota pure d'oro, sormontata da
una cometa d'argento, il tutto sostenuto da un terreno
d'argento, ombreggiato di verde, col capo cucito d'azzurro
caricato di una montagna d'oro accompagnata a destra da
un uccello pure d'oro, volante verso la medesima.
L'autore nel commentare il blasone mette in evidenza una
curiosità araldica, come cioè lo stemma gentilizio concesso
nella sua parte inferiore riporti lo stemma della famiglia
Garruccio, e ne indica come possibile motivo il fatto che
Gavino fosse figlio della nobile Donna Maria Rosa Garruccio. Riporta per rendere agevole il confronto sia lo
stemma di Don Pietro Nieuddu conte di Santa Margherita
e quello della più antica famiglia Garruccio.
9
I Lostia di Santa Sofia.
Il primo ad abitare a Pula fu don Raffaele, ufficiale del
reggimento di Sardegna che raggiunse il grado di
colonnello e l'incarico di governatore di Alghero, la sua
venuta in città si dovette al matrimonio con una figlia di
Tomaso Grondona Lopez avvenuto nel 1811, era il quarto
conte di questa famiglia. Dal suo matrimonio nacquero
diversi figli: donna Giovanna che sposò l'avvocato
Benedetto Ballero Melis; don Salvatore che sposò donna
Battistina Cao dei conti di San Marco dalla quale ebbe don
Raffaele e don Alberto; don Gioacchino divenuto generale
sposato con Maria Teresa Grixoni ebbe
anch'egli
numerosi figli. Per l'importanza del nome e degli incarichi
la famiglia godette di grande considerazione in paese,
tanto che la stessa strada principale, oggi via Roma, nel
1890 si chiamava ancora via Lostia.
Arma: Spaccato nel 1° d'azzurro al sole d'oro, nel 2°
d'argento alla porta di rosso, chiusa.
I Salazar.
Anche nel caso dei Salazar l'arrivo della famiglia a Pula si
dovete ad un matrimonio. Don Efisio, brillante ufficiale di
carriera, nel 1824 sposò Rita Grondona, figlia di
Gioacchino Grondona e Lopez, dalla quale ebbe numerosi
figli fra i quali: don Tommaso che sposò donna Michelina
Sanjust dei conti di San Lorenzo e don Luigi (fra il 1902
ed il 1905, consigliere comunale a Pula) che però
vendettero le loro proprietà a dei cugini: don Raffaele
Asquer Salazar visconte di Fluminimaggiore e Gessa e don
Francesco Asquer Pes di San Vittorio.
tempo in cui viveva don Litterio Cugia Manca loro
congiunto per via femminile, avevano infatti altre proprietà
quando acquistarono quelle di cui si è detto. Parte,
probabilmente, possedute da don Raffaele in quanto
appartenenti alla moglie, Anna Pes di San Vittorio, che a
sua volta l'aveva ereditatat dal suo primo defunto marito.
Don Raffaele fu anch'egli consigliere comunale, suo figlio
don Francesco amministrò le sue proprietà per molti anni,
e dal 1950 al 1952 fu anche sindaco della cittadina. Alla
sua morte le proprietà degli Asquer Pula passarono alla
figlia, donna Giuseppina che aveva sposato don Giuseppe
Aymerich marchese di Laconi.
Arma Asquer: Di verde al leone d'oro coronato dello
stesso impugnante con la zampa destra una spada al
naturale, alta in palo.
Gli Aymerich
Antica famiglia catalana che si trasferì in Sardegna nel
corso del XIV secolo. I suoi membri ricoprirono incarichi
di grande importanza in campo militare e civile nell'isola e
svilupparono eccellenti rapporti con la Sicilia presso e
della quale furono rappresentanti, rimasero anche legati
alla terra d'origine ricoprendo anche incarichi a Barcellona.
Ottennero il diploma di nobiltà nel 1521.
Iniziarono ad avere dimora a Pula, quando, come sopra
detto Giuseppina Asquer Gritti Rossi, sposò il marchese
di Laconi. Questi fu professore ordinario di meccanica
razionale e rettore dell'università di Cagliari ed i suoi figli
hanno seguito le sue orme nel campo degli studi
scientifici: don Carlo è professore ordinario presso la
facoltà d'ingegneria di Cagliari, don Francesco è
professore associato
presso la facoltà di scienze
matematiche, fisiche e naturali, don Eugenio è dirigente
d'azienda e donna Maria Camilla è psicoterapeuta.
Arma: Di rosso a 13 stelle d'oro ordinate 3,3,3,3 e 1 in
punta.
Gli Asquer.
Famiglia di origine ligure giunta in Sardegna nella prima
metà del XVII secolo, i suoi membri ricoprirono incarichi
di rilievo sia in campo militare, sia nella magistratura, sia
nell'amministrazione dello Stato.
La frequentazione di Pula da parte degli Asquer risale ad
ancora prima degli acquisti fatti dalla famiglia Salazar, al
10
Arma Aymerich: Inquartato nel 1° e nel 3° di Sicilia e
d'Aragona, d'oro all'aquila bicipite imperiale di nero
coronata del campo;nel 2° e nel 4° d'azzurro alla torre
aperta e finestrata di nero, sormontata di tre bisanti
d'argento ordinati in fascia.
Gli Amat.
Antica famiglia di origine spagnola si radicò in Sardegna
con Jaime tenente generale spagnolo, comandante delletruppe nell'isola che nel 1507 divenne viceré interinale,
per l'assenza del titolare. È oggi divisa in tre rami i
marchesi Di Villarios, i baroni di Sorso ed i marchesi di
San Filippo
Gli Amat iniziarono a possedere terreni a Pula nel 1891
quando don Carlo Amat di San Flippo Quesada di San
Sebastiano, acquistò una proprietà che la Banca Popolare e
di Credito di Bologna aveva sequestrato ad un Lostia di
Santa Sofia e messo all'asta. Nel 1927 don Carlo assegnò
questa proprietà al figlio don Antonio Amat di San Filippo
e Cartolari in occasione del suo matrimonio con donna
Giuseppina Garruccio Fadda. Unione questa da cui
nacque, fra gli altri, Paolo, l'autore del libro dal quale si
traggono questi dati.
anni nel consiglio civico di Cagliari di cui fu sindaco di 2^
classe nel 1842 -43, per i suoi interventi caritativi durante
la carestia del 1846, Carlo Alberto la creò barone, ma per
beghe interne con la scusa che non era di origine spagnola
gli fu negato dalla Reale Udienza il titolo di don.
Arma: D' azzurro allo scoiattolo in atto di mangiare,
seduto di profilo verso destra sopra una zattera fluttuante
sul mare, il tutto al naturale.
Ci si è qui limitati a trattare il solo un aspetto particolare,
là dove si tratta di un’opera di particolare interesse e non
solo locale per la straordinaria quantità e qualità delle
notizie che l’autore fornisce e della bella e ricca
iconografia che impreziosisce il volume. Esso è stato
stampato dalle Grafiche Ghiani di Monastir per la ASKOS
Edizioni col copryright di Paolo Amat
ALFS
Si ringrazia il Professore Cav. Nob. Don Paolo Amat di
Sanfilippo per aver concesso la riproduzione dei
blasoni presenti nell’articolo
Arma Amat: Di rosso al destrocherio armato, da nuvola
uscente, movente dal fianco sinistro dello scudo ed
impugnante una spada d'argento alta in palo sul mare
fluttuoso d'argento
Altre famiglie.
Fra le famiglie di cui sono conosciuti i blasoni che ebbero
la ventura di avere membri che abitarono a Pula si hanno:
i Carta: che ebbero un solo rappresentate, don Efisio,
morto per le ferite inflittegli nell'Oristanese nel corso di un
sequestro
Arma: D'azzurro all'aquila al naturale in atto di spiccare
il volo, sormontata da una corona d'oro a 12 punte e
tenente nel becco una carta bianca con la legenda
CARTA;
- i Rossi: i cui rapporti con la cittadina furono limitati
alla gestione delle loro proprietà, il personaggio di
maggior spicco: Salvatore, nel 1817 nominato console
generale austriaco nel Regno di Sardegna, fu per diversi
Attività della Società
Lo scorso 31 maggio si è svolta la consueta assemblea
generale della Società. Fra le decisioni di particolare
rilievo:
-per sabato 11 ottobre p.v. è stata fissata la data
dell’annuale Convivio della Società. Essa avrà luogo nei
locali della Società del Whist - Accademia Filarmonica in
Piazza San Carlo 183 a Torino. La società mette a
disposizioni per esigenze di questo tipo le sale al secondo
piano che consentono sia lo svolgimento della riunione per
la presentazione degli studi sia la consumazione della
colazione di lavoro nell’intervallo fra la seduta del mattino
e quella pomeridiana. I soci riceveranno come di consueto
la documentazione relativa alla richiesta di partecipazione.
Il numero massimo dei partecipanti è di 50 elementi,
peraltro non si è stati mai più di tanti nei convegni degli
ultimi 8 anni. La spesa sarà fra i 50 ed i 60 Euro a
partecipante ;
- si è ritenuto opportuno, tenuto conto degli impegni
personali di lavoro e le specifiche competenze di
suddividere in due le attività sino ad ora accentrate presso
la segreteria, nominando.
- il Dott. Marco di Bartolo responsabile del settore
editoriale, è dunque a lui che ci si deve rivolgere per il
materiale che va in stampa (articoli per Sul Tutto, studi da
mettere nell’apposita rubrica del sito, atti relativi agli
11
interventi nei convegni, libri che vengano a far parte della
collana della SISA);
- l’ Arch. Gianfranco Rocculi responsabile per tutta
l’attività segretariale, del contatto con i soci e lo scambio
di informazioni sull’attività della società;
- si è ritenuto di seguire con attenzione le attuali vicende
relative al futuro della Rivista Araldica, disponibili come
Società a fornire il proprio contributo scientifico per il
proseguimento di questa importate ed antica pubblicazione .
Il ramo austriaco dei Colloredo Mannefeld ebbe il titolo
principesco, un Geronimo fu principe arcivescovo di
Salisburgo e il principe Giuseppe Francesco nel 1885 era
ciambellano, consigliere intimo dell’Imperatore
e
consigliere ereditario dell’Impero
Colloredo Mels
La famiglia Waldesee visconti di Mels nel 1302 ottenne
dal Patriarca di Aquileia l’autorizzazione a costruire un
castello nei pressi di Colloredo, il ramo della famiglia che
vi si installò da allora iniziò a chiamarsi Colloredo Mels.
Della famiglia sono esistiti ed esistono numerosi rami in
Austria ed in Italia
Sino al 1723 l’arma del ramo dei Colloredo Mels in Friuli
fu
Inserimento di nuovi studi nel sito della S.I.S.A.
L’araldica dei Cavalieri di Santo Stefano del Prof.
Elvio Giuffrida
Sul tutto periodico della SISA riservato ai Soci
del tutto simile a quello dei rami in Austria
Dal 1724 a seguito del conferimento del titolo di conti
dell’Impero il ramo friulano assunse l’arma
Direttore
Alberico Lo Faso di Serradifalco
Comitato redazionale
Marco Di Bartolo, Andrew Martin Garvey,
Vincenzo Pruiti, Angelo Scordo
Testata del periodico
di † Salvatorangelo Palmerio Spanu
Indirizzi postali
Direttore: Piazza Vittorio Veneto n. 12 - 10123 Torino
Redattore: Marco Di Bartolo, Via IV novembre n. 16 10092 Beinasco (Torino)
Sito Internet
www.socistara.it
Posta elettronica
[email protected]
[email protected]
Segreteria della Società
Arch. Gianfranco Rocculi, Via S. Marco, 28 - 20121
MILANO MI
I contributi saranno pubblicati se inviati su supporto ma-gnetico
in formato word o via e-mail ai sopraccitati indirizzi. Quanto
pubblicato è responsabilità esclusiva dell’autore e non riflette il
punto di vista della Società o della redazione. Gli scritti verranno
pubblicati compatibilmente con le esigenze redazionali ed eventualmente anche in due o più numeri secondo la loro lunghezza.
La redazione si riserva la possibilità di apportare qualche
modifica ai testi per renderli conformi allo stile del periodico.
la famiglia prestò servizio nell’Impero Austriaco ricoprendo incarichi di alto rilievo, fra essi un Francesco di Paola
fu cancelliere dell’Impero
12