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uesta settimana
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DA NON SALTARE
Il secolo di Campana
I Canti Orfici fanno 100
Fiume amaro
“
Da questo momento non sono più
una politica, ho già dato troppo
senza ricevere nulla. Mi hanno boicottata
in tutti i modi, i compagni
di partito buttavano i miei
santini nella spazzatura
Castrovilli e Bertolani a pagina 2
PICCOLE ARCHITETTURE
Da dove viene
il latte di Firenze
Iva Zanicchi
Stammer a pagina 5
OCCHIO X OCCHIO
Addio ad un altro
fotoreporter
Cecchi a pagina 7
C’È VITA IN ITALIA
Una storia
di cristallo
RIUNIONE
DI FAMIGLIA
a pagina 4
Il gioco
della
democrazia
Cucina
angloligure
Capezzuoli e Mancini a pagina 15
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sabato 31 maggio 2014
di Dino Castrovilli
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icordo una vecchia città, rossa di
mura e turrita, arsa su la pianura
sterminata nell’Agosto torrido, con
il lontano refrigerio di colline verdi
e molli sullo sfondo. Archi enormemente
vuoti di ponti sul fiume impaludato in
magre stagnazioni plumbee… Non è un
monologo del Roy Batty di Blade Runner, ma l’attacco dei Canti Orfici di Dino
Campana (Marradi 1885-Castelpulci
1932). E’ il libro che cento anni fa, nell’estate del 1914 (e qui prendo in prestito
Giovanni Pascoli) squarcia come un
lampo la notte della poesia italiana. Un
bagliore che pochi eletti vedranno immediatamente, tutti gli altri con maggiore lentezza, solo dopo aver messo da
parte una strumentazione critica del
tutto inadeguata a comprendere la novità, la profondità e la dirompenza di un
testo che è poesia, prosa, spesso mescolate o alternate tra loro – si è parlato di
poema in prosa – che, pur attraversato da
numerosi “richiami”, diretti e indiretti, a
grandi artisti, scrittori, poeti (Leonardo,
Michelangelo, Segantini, Whitman,
Nietzsche...), si presenta come una rara
e potente espressione della fusione tra
arte e vita perseguita con estrema lucidità e determinazione da Dino Campana nella sua drammatica esistenza.
Per i Canti Orfici si è parlato giustamente
di un, anzi del, Libro unico e qui vorrei
riportare solo uno degli elementi che
convalidano questa affermazione.
Unico perché è il solo libro pubblicato in
vita da Dino Campana: “la sola giustificazione della mia esistenza”, dirà il poeta
al critico Emilio Cecchi, in rigorosa coerenza con quanto aveva scritto il 6 gennaio 1914 a Giuseppe Prezzolini:
“Scrivo novelle poetiche e poesie; nessuno mi vuole stampare e io ho bisogno
di essere stampato; per provarmi che esisto,
per scrivere ancora ho bisogno di essere
stampato. Aggiungo che io merito di essere stampato perché io sento che quel
poco di poesia che so fare ha una purità
di accento che è oggi poco comune, da
noi”.
Le vicende relative alla scrittura, alla
pubblicazione e alle riedizioni dei Canti
Orfici, anche queste – come tutta la vita
di Campana – avvincente mix di leggenda e verità (a cui non era estraneo lo
stesso poeta) – hanno del drammatico,
dello sconcertante e a volte anche dell’esilarante.
“Il libro più drammatico del Novecento
italiano” G. Mughini) viene riscritto da
Dino Campana – un po’ a memoria, parecchio in base a taccuini che il poeta
conservava – dopo lo “smarrimento”
(deliberato? casuale?) del manoscritto
de Il più lungo giorno consegnato da
Campana a Giovanni Papini e Ardengo
Soffici nel dicembre del 1913. (Il manoscritto sarà ritrovato nel 1971 dalla figlia
di Soffici in una cassapanca piena di altri
materiali. Messo all’asta, vent’anni dopo,
dagli eredi Campana, ai quali era stato
restituito, fu acquistato dalla Cassa di Risparmio di Firenze per circa 200mila
euro e affidato alla Biblioteca Marucelliana di Firenze). Dino Campana fu co-
Un libro
unico
Il frontespizio
del contratto
stretto, un po’ come l’amato Nietzsche,
a essere editore di se stesso. La pubblicazione fu resa possibile da una raccolta
di fondi tra 44 sottoscrittori marradesi,
che in cambio avrebbero ricevuto una
copia del libro, promossa dall’amico
Luigi Bandini su perentoria intimazione
del poeta. La stampa del libro (il contratto fu sottoscritto il 7 giugno 1914 tra
Campana e il tipografo Bruno Ravagli)
fu “animata” - per usare un eufemismo dalle continue dispute tra Campana e il
tipografo, sia per le continue correzioni
e integrazioni che il poeta voleva aggiungere in corso di stampa sia per gli arbitrari interventi del Ravagli che non
riusciva ad accettare la punteggiatura e
altre “innovazioni” della scrittura campaniana. Il prodotto finito consta(va) di
un libro di poco più di 176 pagine, stampato su diversi tipi carta, con diverse gradazioni di inchiostro, senza il titolo in
caratteri rossi come invece stabilito nel
contratto, tutti riportanti - a pagina 8 (la
prima a essere numerata), la parola
“tratto” rovesciata, alcuni recanti a pagina 174 l’errata corrige “Essendo andata
all’aria l’ultima riga della pagina 151 riportante l’ultima riga della pagina 151 la
riproduciamo qui”. Avute le prime copie
di sua spettanza, Campana interviene
nuovamente di suo: cancellando – era
scoppiata la guerra con la Germania - la
dedica a “Gugliemo II imperatore dei
Germani” e/o il sottotitolo “La tragedia
dell’ultimo dei Germani in Italia”, apportando delle correzioni a mano, aggiungendo di suo pugno altre liriche,
strappando pagine (Roberto Maini e
Piero Scapecchi hanno pubblicato un’interessante ricerca sulla stampa dei Canti
Orfici e sulla “localizzazione” degli esem-
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plari 1914, con relative varianti, tuttora
in circolazione).
L’altra manomissione inusitata è l’edizione Vallecchi del 1928, che comunque
avrà il merito di “rilanciare” Dino Campana. Prefazione “esaltante” di Bino Binazzi (inizia la costruzione del “mito”) e
operazione inaudita e probabilmente
mai effettuata con un altro autore vivente, di “ripulitura” del libro: scompaiono il sottotitolo, la dedica, l’epigrafe
whitmaniana (“Erano tutti stracciati e
coperti col sangue del fanciullo”), viene
“integrato” da cinque Liriche e costellato
di varianti del tutto arbitrarie, apportate
nella convinzione – con tutta probabilità
in buona fede – che le parole, o i segni
d’interpunzione, originali fossero errati
per motivi di stampa o di “confusione”
dell’autore. Dino Campana è da dieci
anni internato nel manicomio di Castelpulci: lì per lì sembra non dar tanto peso
all’operazione (“A Marradi presso l’editore Ravagli si devono trovare ancora almeno cinquecento copie ne la lezione
originale: la Vallecchi varia qua e là non
so perché: poco importa giacché è un
compenso dovuto a la modernità dell’edizione senza dubbio. (…) Tutto va
per il meglio nel peggiore dei mondi
possibili: variante vallecchiana”’), ma
due anni dopo, sempre da Castelpulci
ma con estrema lucidità, scriverà al fratello Manlio: “Tempo fa ebbi l’occasione
di vedere la ristampa dei miei Canti Orfici edita da Vallecchi Firenze. In qualche
momento di tranquillità potei notare i
continui errori del testo, che è così irriconoscibile. Vi ànno pure aggiunto poesie
di lezione fantastica. Non sono più in
grado di occuparmi di studi letterari,
pure vedendo che il testo va così perduto.
Ti pregherei ricercare l’edizione originale di Marradi, per conservarla per ricordo.”: è l’ennesima riprova –
basterebbe già sfogliare Il più lungo
giorno – di come Campana componesse
lucidamente e fosse “rigorosisimo critico
del proprio testo” (F. Ceragioli, a cui si
deve la migliore edizione critica dei
Canti).
Anche altre edizioni successive non si
sono sottratte al desiderio di “migliorare” l’originale.
E’ il destino di un libro fatto, parafrasando Campana, “per essere bruciato”
(manco a farlo apposta diverse copie durante la seconda guerra mondiale furono
bruciate per scaldarsi dai soldati accampati a Marradi). Di un libro che “serve ad
ammazzare la gente” (Campana allo psichiatra Pariani) che, nonostante il disprezzo di certi “colleghi” suoi
contemporanei, si è rivelato “un best seller della poesia italiana del Novecento“
(C. Fini), con decine di edizioni (diverse
ormai introvabili), numerose traduzioni
(segnaliamo tra tutte quella inglese di
J.L. Salomon, New York 1968, ristampata poi dalla City Lights di Lawrence
Ferlinghetti, 2001, quella francese di M.
Sager, Paris 1977, con introduzione di
M. L. Spaziani e quella argentina, curata
da Gabriel Cacho Millet, il più autorevole ricercatore di documenti campaniani), una bibliografia vastissima.
Il libro unico che cento anni dopo continua a emanare poesia allo stato puro.
7 giugno 1914
7 giugno 2014
Cento anni
dal
contratto
per la
stampa
dei Canti
di Dino
Campana
di Lorenzo Bertolani
[email protected]
“E
gregio Signor Prezzolini
[…] Io sono un povero
diavolo che scrive come
sente: Lei forse vorrà
ascoltare […] Scrivo novelle poetiche
e poesie; nessuno mi vuole stampare e
io ho bisogno di essere stampato: per
provarmi che esisto […] Aggiungo
che io merito di essere stampato perché io sento che quel poco di poesia
che so fare ha una purità di accento
che è oggi poco comune da noi. Non
sono ambizioso ma penso che dopo
essere stato sbattuto per il mondo,
dopo essermi fatto lacerare dalla vita,
la mia parola che nonostante sale ha il
diritto di essere ascoltata.”; così scriveva Dino Campana a Giuseppe Prezzolini nel gennaio 1914… “per
provarmi che esisto”…
La prova dell’esistenza artistica del
poeta si definiva cento anni fa, il 7 giugno 1914, quando a Marradi veniva
stipulato il contratto per la stampa dei
Canti Orfici. Il documento, scritto a
mano, così si conclude: “Data del presente contratto/Sette Giugno millenovecentoquattordici sottoscritto
in/Marradi/Bruno Ravagli/ Accettato
in ogni sua parte da me/Dino Campana/Luigi Bandini testimonio/ Fabroni Camillo teste”.
Oltre al tipografo Bruno Ravagli e allo
stesso poeta, tra i sottoscrittori vi era il
professor Luigi “Gigino” Bandini di
Marradi, bibliotecario, traduttore e
scrittore. Allo stesso Bandini, poco
tempo prima, Dino Campana così si
rivolgeva: “Dunque, se sei meno fetido
filisteo di quello che in verità sembri,
mi devi tu stesso aiutare per farli pubblicare”.
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altro libro ma il mio ideale sarebbe
stato di completarlo formandone un
piccolo Faust con accordi di situazioni
e di scorcio.” Campana prosegue poi
sempre nella stessa lettera: “la Vallecchi varia qua e là non so perché: poco
importa giacché è un compenso dovuto a la modernità de l’edizione senza
dubbio. Rimasugli di versi, povertà,
strofe canticchiate se ne potrebbe
Una pagina del contratto
Bandini si dimostrò “meno fetido filisteo”, come Campana da lui pretendeva, facendosi garante della stampa
del libro, sfatando così in parte quella
fama di “persecutori” del poeta
che si erano guadagnati i compaesani marradesi, reputazione alimentata talvolta
anche dalle parole dello
stesso Campana, come
quelle scritte a Emilio Cecchi nel 1916: “Quelli del
mio paese che mi avevano
sempre perseguitato con
una infamia e una ferocia
tutte lazzaronescamente italiane e clericali […]”.
Dopo alcune settimane dunque i
Canti Orfici furono pubblicati e Campana poté finalmente toccare con
mano la prova della sua esistenza artistica, in quella foggia “meschina”,
come la definirà, con l’accezione di
“povera”, Sibilla Aleramo e dopo la lettura delle cui pagine, due anni più
tardi, ella libererà i suoi capelli, disponendosi all’incontro appassionato col
poeta: “Chiudo il tuo libro,/sciolgo le
mie treccie,/o cuor selvaggio,/musico
cuore…”.
Campana scrisse un solo volume, questo, un “piccolo Faust”, come egli
stesso avrebbe voluto concepirlo e
come lo definirà in una lettera del
1930 al giornalista Bino Binazzi dal
manicomio di Castelpulci, all’indomani della pubblicazione della seconda edizione dei Canti, uscita per
Vallecchi nel 1928: “Ricevetti molti
mesi fa una copia della ristampa dei
Canti Orfici. Le condizioni de la mia
salute non mi permettevano allora di
apprezzarla: ora per il momento mi
sento più riposato e leggendola ho ricordato i nostri sogni d’arte. Credo mi
avessi consigliato allora a scrivere un
riempire un quadernetto. Ma che
farne, tutto va per il meglio nel peggiore dei mondi possibili: variante vallecchiana.” Sempre in
riferimento alla seconda edizione
dei Canti, il 2
giugno del
1930, il
poeta scriverà al fratello
Manlio:
“Tempo fa
ebbi l’occasione di vedere
la ristampa dei
miei Canti Orfici
edita da Vallecchi-Firenze. In
qualche momento di tranquillità potei
notare i continui errori del testo che è
così irriconoscibile […] Non sono più
in grado di occuparmi di studi letterarii, pure vedendo che il testo va così
perduto. Ti pregherei ricercare l’edizione originale di Marradi, per conservarla per ricordo.” In questo ultimo
passaggio il poeta ci fa dunque capire
che l’unica edizione da considerare riguardo ai suoi scritti è quella marradese del 1914.
Un libro breve e potente, i Canti Orfici,
come un fulmine improvviso che cade
vicino e stordisce, su cui sarebbero
state scritte e si scriveranno, segno
delle più ampie motivazioni e suggestioni contenute, numerosissime pagine, su cui sono state pronunciate e si
pronunceranno infinite parole; non ultime quelle di Mario Luzi quando, a
una mia domanda su quale fosse il significato della poesia di Campana nel
secolo appena trascorso, rispose:
“Credo che sia una testimonianza, in
un secolo di infedeli, della sacralità che
c’è nella poesia.”
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RIUNIONE DI FAMIGLIA
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I CUGINI ENGELS
LE SORELLE MARX
Cucina
Il gioco della democrazia
angloUn grande classico del giorno delle
un po’ meno, in fondo saligure
Chissà come sarà andato davvero l'inelezioni è la foto al politico o al vip
rebbe proibito per legge
contro fra Grillo e Farage definito “incontro animato e molto amichevole”?
Il Grillin Selvaggio era arrivato parecchio innervosito: capirete, si era fatto il
viaggio in Ryanair con Salvini.
Quando si è trovato di fronte il Farage
“analfabeta digitale” (la definizione è
della moglie e si può capire il motivo di
un epiteto non proprio carino visto la
considerazione poco lusinghiera che il
Pallido Albione ha delle donne),
Beppe è rimasto deluso: uno così flaccido che ha conquistato la maggioranza degli inglesi mentre lui così
nerboruto si era appena preso un ceffone elettorale memorabile, incredibile!
Si narra poi che Grillo abbia donato
dei gadget “spiritosi” all'alleato inglese:
bombette puzzolenti, petardi che gli ha
fatto scoppiare sotto la sedia, una finta
cacca di plastica e poi lo ha fatto sedere
su una membrana rumorosa. Allora il
Grillo spiritoso si è sciolto in sonore risate (non altrettanto Farage, sembra,
ma si sa gli inglesi non hanno sense of
humor). Alle terza bottiglia di Chianti
i due hanno trovato l'intesa e sono diventati amiconi. Qualcuno li ha visti
intonare “Amore dammi quel fazzolettino” dedicata alla Marine Le Pen; ma
altri giurano che fosse “Rule, Britannia!” Poi si sono buttati sulle trofie alla
genovese e sul Pudding e lì è davvero
scoppiato l'amore. Un menù rivoluzionario e vino rosso a fiumi per cambiare
l'Europa.
che svolge il suo diritto-dovere democratico. Nei giornali locali la
corsa normalmente è immortalare il
candidato a sindaco (come se fosse
strano che chi ambisce alla carica di
primo cittadino scelga il mare alle
urne...), sulle cronache nazionali inveceè caccia ai leader e leaderini
degli schieramenti per quello che, il
giorno dopo risultati alla mano, potrebbe essere l’ultimo scampolo di
notorietà. Quindi è importante presentarsi bene al seggio, un po’ come
il giorno della foto di classe a
scuola: ben vestisti, pettinati, meglio
se con famiglia al seguito per dimostrare che almeno a casa la pensiamo tutti uguale. Poi ci sono
anche gli anticonformisti: il principe
di questa tornata è stato il segretario della Lega Nord Matteo Salvini
che si è presentato in bermuda (ci
sta, inizia a far caldo), con la felpa
con scritto Milano a mo’ di squadra
di calcio (ci sta anche questa, per rimarcare l’appartenza padana) e
con l’Ipad in mano con cui è entrato
in cabina elettorale. E questo ci sta
per evitare di fotografare il voto come testimonianza. Non credendo possibile che
sia stato per fare voto di scambio (con
chi l’avrebbe potuto fare, com se
stesso?), l’ipotesi è una colpevole dimenticanza, ma Salvini ci ha tenuto a
far sapere sul suo profilo Facebook , da
leader duro e puro, che è stato un gesto
volontario “Ebbene, lo confesso: avevo
in corso una entusiasmante partita di
Hay Day, e i 10 secondi passati a votare non potevo proprio sprecarli..!!”.
Visti i risultati dello spoglio ci sta però
che si distratto e abbia votato Renzi.
Finzionario
di Paolo della Bella e Aldo Frangioni
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LA STILISTA DI LENIN
Dove ho visto
quelle foto?
Eppure quelle foto erano familiari. Cosa
ricordasse quell’immagine della ministra
Boschi in aereo a farsi fare la treccina
dalla bambina congolese che riportava
in patria, non è stato subito chiaro.
Anche perché subito è scoppiata la polemica sull’opportunità che un ministro
che nella vicenda non ha alcuna competenza, fosse diventata l’icona dell’operazione umanitaria. No, c’era qualcos’altro
che frullava in testa. Si era già vista una
foto di una donna potente in un aereo di
stato, occupata in missioni umanitarie.
C’è voluto un po’ perché quella donna, o
meglio quelle donne, sono completamente estranee alla nostra democrazia.
Quella donna era Michelle Obama e
prima di lei Laura Bush e via via almeno fino a Nancy Regan. La First
Lady degli Stati Uniti è infatti molto di
più della consorte del Presidente è spesso
il volto pubblico, familiare, amichevole
delle amministrazioni americane. Un
ruolo codificato e politico che da noi non
esiste. Senza nessuna malizia, il ministro
Boschi, ne incarna la funzione pubblica
senza alcun legame con il Premier sia
chiaro anzi in un passaggio politico,
dove il ruolo non è affidato per matrimonio ma per scelta e merito; che è comunque significativo di questi tempi. Al di là
delle sue competenze assegnatele dal giuramento il ministro Boschi è la faccia
rassicurante e pubblica del governo
Renzi, in contrappunto col premier e la
sua straripanza, svolge una funzione
analoga nel tranquillizzare dove lui spaventa. Nel mostrare l’altra faccia del renzismo quella che si fa fare le treccine e
guadagna altrettanti voti che coi proclami di riforma.
LO ZIO DI TROTSKY
Registrazione del Tribunale di Firenze
n. 5894 del 2/10/2012
direttore
simone siliani
redazione
sara chiarello
aldo frangioni
rosaclelia ganzerli
michele morrocchi
progetto grafico
emiliano bacci
editore
Nem Nuovi Eventi Musicali
Viale dei Mille 131, 50131 Firenze
contatti
www.culturacommestibile.com
[email protected]
[email protected]
www.facebook.com/
cultura.commestibile
“
“
Con la cultura
non si mangia
Giulio Tremonti
O’ miracolo
di
Silvio
Quando, negli anni d'oro, Berlu-
“Qualcuno doveva aver telefonato per calunniarlo, perché una mattina, senza che lui ne
sapesse nulla A. fu svegliato da un idraulico”. Inizia così, kafkianamente, il romanzo di
Giovanni V.S. Conti “Odissea Edilizia”, sottotitolato “I lavori in casa non sono un pranzo
di gala”. L'idraulico si rivolge all'assonnato A. dicendo che un coinquilino del quarto piano
si è lamentato per il rumore prodotto dalla goccia che scende cadenzata da un rubinetto.
Impossibile, pensa A, che da così lontano si possa avvertire il suono. Ma, effettivamente,
quel rubinetto, anche se chiuso a forza, perde. A. fa entrare l'idraulico in bagno. L'artigiano
inizia subito a svitare il rubinetto, ma non avendo chiuso quello centrale allega mezza casa.
L'idraulico spazza l'acqua verso la doccia intasandola, ma afferma “E' stata una fortuna,
con questo piccolo incidente sono venute fuori molte magagne, innanzitutto le sue fosse biologiche non ricevuno bene vanno aperte e ispezionate. Tornerò domani con il muratore. In
effetti le fosse perdono e disperdono liquami sotto tutto l'appartamento. Il muratore impiega
quindici giorni per asportare il pavimento ed intercettare i tubi, ma lo scavo provoca una
piccola lesione in un muro portante che va subito rinforzato con un putrella. Contemporaneamente gli impianti del riscaldamento, del telefono e dell'elettricità vanno completamente rifatti. Ma mentre A. vede arrivare il condomino, che giorni prima aveva mandato
l'idraulico, si desta completamente sudato: era stato tutto un sogno.
sconi prometteva (a se stesso, in verità)
miracoli e lunga vita, non scherzava affatto. Lo vediamo soltanto oggi, lungo il
suo viale del tramonto che lo ha portato
a svolgere il servizio sociale a sconto pena
nel Centro Anziani di Cesano Boscone.
Qui, il Berlusca ha mostrato di che pasta
è fatto sconfiggendo, definitivamente e in
modo indiscutibile, l'Alzheimer e la demenza senile. Solo così, infatti, possiamo
spiegare i risultati elettorali alle recenti
elezioni europee e comunali nel seggio
n.10 costituito presso l'Istituto Sacra Famiglia a Cesano Boscone. Ebbene, anche
qui, Berlusconi ottiene risultati ai minimi
storici: 9 voti su 50 alle europee (pari al
18%) e 5 voti su 35 alle comunali (meno
del 15%). Media nazionale, zero tituli.
Insomma, delle due l'una: o il Berlusca
ha perso la sua capacità di imbonitore
politico, oppure ha guarito l'Alzheimer.
“Berlusca, fa 'o miracolo”!
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PICCOLE ARCHITETTURE PER UNA GRANDE CITTÀ
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sabato 31 maggio 2014
di John Stammer
L
a nuova sede della Centrale del
Latte di Firenze è un elegante edificio posto nella zona industriale
della città. La sua storia merita di essere raccontata. Anche perché parte da
lontano. Giorgio La Pira sindaco di Firenze agli inizi degli anni ‘50 del secolo
scorso decise che per dare il latte, sano e
a prezzo accesssibile, alle persone meno
abbienti, la città doveva avere una apposita azienda. Fu così che il 27 agosto del
1951 si costituì il “Consorzio per la Centrale del Latte di Firenze”. Nel dicembre
del 1954 inizia la produzione nello stabilimento di via Circondaria. Lo stabilimento era stato costruito nell’area di
proprietà del Comune di Firenze dove
erano stati ospitati per lunghi anni i macelli della città. Un’area allora semi periferica e ampiamente sufficiente per la
produzione. Ma negli anni ‘80 del secolo
scorso, dopo la crisi degli anni ‘60 che
vide la quasi completa acquisizione della
società da parte del Comune di Firenze
che evitò il fallimento, la Centrale del
Latte si accresce con l’acquisizione della
centrale di Pistoia e quella di Livorno. Lo
spazio inizia ad essere prezioso e anche
le strutture della produzione risentono
del tempo che passa. La stessa area molti
anni dopo, nel 1999, fu prescelta, dal Comune di Firenze, per localizzare la nuova
stazione della linea ferroviaria ad Alta Velocità. La Centrale del Latte doveva essere spostata. Fu l’occasione per
ripensare strategicamente il futuro dell’azienda ed iniziare un percorso complesso e accidentato per la costruzione
del nuovo stabilimento. Un percorso che
ha dovuto superare lunghe discussioni
pubbliche del consiglio comunale e complesse trattative sindacali, sia per lo spostamento sia sulla nuova “mission”
dell’azienda rinnovata. Un percorso che
tuttavia ha consentito di avere un nuovo
grande stabilimento e soprattutto un futuro certo per i lavoratori della Centrale.
Il nuovo stabilimento nasce anch’esso in
area pubblica della Mercafir (Azienda
pubblica che gestisce i mercati generali)
nella periferia nord ovest della città. Ferrovie dello Stato, attraverso la controllata
Tav, contribuirono con 35 miliardi di lire
alla realizzazione, che complessivamente
è costata oltre 40 milioni di euro. Il protocollo d’intesa, che sanciva l’impegno
all’acquisto da parte di Tav, dell’area occupata dalla Centrale del Latte, fu firmato nel 2001. Un anno dopo il progetto
preliminare, redatto da Andrea Bruschi,
consentiva di avviare il percorso di costruzione attraverso la procedura dell’appalto di progettazione esecutiva e
costruzione. Il progetto si concentra fondamentalmente su due aspetti. Da un
lato la struttura produttiva, che si articola
in tre fasi (arrivo imballaggi e materie
prime,produzione,confezionamento magazzino e spedizione), e dall’altro la struttura direzionale e di rappresentanza.
Nella prima prevalgono gli aspetti tecnologici, e le grandi strutture della produzione che contengono anche novità
importanti, dal punto di vista tecnologico e della qualità della produzione, nel
percorso di pastorizzazione del latte.
Il latte
di Firenze
Nella seconda prevalgåono gli aspetti di
rappresentanza e di immagine pubblica
della società.
Le due parti della struttura sono “visivamente” collegate attraversando la galleria
vetrata posta internamente al piano
primo degli uffici che, sviluppandosi su i
due lati del salone del confezionamento
dei prodotti, consente di osservare,
anche ai visitatori degli uffici, la lavorazione dei reparti sottostanti
L’edificio si presenta, alla vista principale
dalla strada pubblica, con un paramento
di cotto a faccia vista che rappresenta una
sorta di “quinta” scenica dietro alla quale
si nascondono buona parte degli uffici e
anche una parte delle strutture di produzione. Da dietro la quinta, che pure in
una parte contiene uffici direzionali, appare una grande parete vetrata, che costituisce il corpo principale della direzione
dell’azienda, e che è introflessa in un cortile centrale ornato da un grande olivo. Il
tutto inserito in un contesto territoriale
caratterizzato dalla presenza, oltre che
del classico lessico delle architetture della
produzione, anche dallo storico insediamento di via delle Sciabbie, con il quale
il complesso produttivo sceglie di non
dialogare, salvo che nella vista dalla
strada principale, mascherandosi con
una alta cortina arborea.
L’intero complesso, che ospita oltre 200
lavoratori, e che si sviluppa per oltre
20.000 mq di calpestio, occupa 37.000
m² di cui 12.000 m² di superficie coperta
e produce circa 100 milioni di litri all’anno di latte fresco e altopastorizzato,
nonché 35 milioni circa di litri all’anno
di latte UHT.
Lo stabilimento, con oltre 150 automezzi, rifornisce circa 11.000 punti vendita e rappresenta ancora oggi il
maggiore produttore di latte e derivati
dell’area centrale della regione Toscana.
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ISTANTANEE AD ARTE
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sabato 31 maggio 2014
di Laura Monaldi
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er un artista contemporaneo
la creazione è il momento di
maggiore simbiosi con la vita:
quell’apice espressivo della
presa di coscienza pragmatica, attraverso cui l’intellettualità si fa concreta
nell’attimo dell’ispirazione, rendendolo partecipe a un presente fuggente
ed enigmatico. Nel momento della
creazione artistica il senso estetico si
dissigilla dinnanzi alla spontaneità del
quotidiano, sfugge alla comprensione
veicolata o non-veicolata dal senso
comune, agli schematismi precostituiti, alle convenzioni artistiche e linguistiche, in una dimensione schiusa
al presente e alla molteplicità delle
percezioni.
Nelle opere di Alain Arias-Misson il
principio artistico crea uno spazio
inedito, tridimensionale e narrativo,
in cui prendono vita significati e significanti, molteplici e in sintonia con
la riflessione attiva, sperimentale e
creativa dell’artista. Le immagini mediatiche si amalgamano a personali
interventi dal sapore ludico e poetico,
in una verbo-visualità lontana da una
visione prettamente critica e provocatoria del moderno, più incline piuttosto a far rivivere la poesia nella sua
essenza.
Il piccolo
mondo
di Alain Arias-Misson
Sopra The aeroplane of Kafka and
Max Brod in the scene of Susanna in
her bath: the poet’s spouse as child
watches, 1988. A sinistra Theatre box,
1973-1977 Composizione di 30 teatrini cm 30x38x20 cadauno
Tutte Courtesy della Collezione Carlo
Palli di Prato
Dotato di una forte ispirazione estetica e di una grande creatività, l’artista
esplora il sistema del linguaggio contemporaneo, sovrapponendo svariati
elementi, in uno spazio senza limiti
né confini. In questa dimensione la
parola si libera dalla sua condizione
di prigionia linguistica e ideologica,
ritorna alla sua purezza originaria di
essere mera espressione e si adegua
allo scorrere della vita. Per Alain
Arias-Misson si tratta di una visione
estetica a 360 gradi sul mondo e sulla
forza espressiva della parola. Nei suoi
poemi e nei suoi teatrini crea, infatti,
uno spazio di energie, narrativo e dialogante, a più dimensioni, in cui il
contenuto semantico e tecnologico,
scaturisce da un processo di estrazione/astrazione, in grado di mettere
in rilievo la capacità espressiva dell’attuale sistema linguistico, nonostante
le critiche della tradizione. Si tratta di
opere cariche di significati complessi
e multiformi da decriptare attentamente: allo spettatore non resta che
leggere, guardare e contemplare elementi e personaggi che si stagliano su
un palcoscenico ideale, conscio di appartenere a un piccolo mondo creato
ad hoc dall’artista, affinché possa
fruire liberamente della parola poetica.
C
OCCHIO X OCCHIO
U
O
.com
o
di Danilo Cecchi
[email protected]
D
obbiamo registrare un’altra
vittima dell’informazione visiva, un altro giornalista ucciso nell’arco di pochi giorni,
dobbiamo raccontare ancora una storia che nessuna rubrica di fotografia
vorrebbe raccontare. Non vorremmo
farlo, ma non possiamo tacere. Perché
la fotografia non è solo arte, ricerca,
moda, gioco intellettuale, piacere
degli occhi e della mente. E’ prima di
tutto una professione, un mestiere
che può essere duro e pericoloso, soprattutto quando l’immagine è anche
un documento, che non può essere ricreato in studio o sul set, non è frutto
di invenzione o immaginazione, ma
deve essere cercato nel mondo reale,
in mezzo alla gente, buona o cattiva,
mettendo in gioco la propria persona, la propria sicurezza, la propria
incolumità, nei casi estremi la propria
vita. Questa volta è toccato ad un giovane italiano, Andrea (Andy) Rocchelli, e non è successo nel fondo di
una sperduta vallata afghana o in una
regione remota del centro Africa, non
in un altro mondo o in un altro continente, ma nella vecchia Europa, a
Sloviansk presso Donetsk, a poco più
di duemila chilometri da qui, dove le
milizie filorusse e l’esercito ucraino si
fronteggiano ormai da tempo. Andrea
è stato ucciso, insieme al suo “fixer”,
interprete e guida, Andrej Mironov,
sembra, da un colpo di mortaio, mentre il fotografo francese William Roguelon che era con loro è rimasto
ferito nello stesso “incidente”. L’auto
su cui i tre viaggiavano, in una zona
controllata dai miliziani, è stata colpita da numerosi proiettili sparati da
pistole e kalashnikov, che hanno ferito gli occupanti, ad eccezione dell’autista che è prontamente fuggito.
Poi sono piovuti numerosi colpi di
mortaio, uno dei quali sembra che
abbia centrato il fossato o canale in
cui Andrea ed Andrej si erano rifugiati. Come sempre, i miliziani filorussi ed i militari ucraini si rimpallano
la responsabilità dell’accaduto, i primi
affermano di non disporre neppure di
mortai, i secondi negano di avere
fatto fuoco in quel momento. Come
se la provenienza dei colpi cambiasse
qualcosa. Andrea aveva lavorato con
l’agenzia Grazia Neri, poi come assistente di Alex Majoli, ed infine aveva
fondato nel 2008 con altri fotografi
free-lance il collettivo Cesura Lab.
Aveva trent’anni ed un figlio di due
anni, aveva lavorato molto all’estero,
aveva seguito gli scontri di piazza
Maidan, ed era tornato in Ucraina
solo da pochi giorni. Collaborava con
testate nazionali ed internazionali, si
spingeva sempre un poco oltre, ma le
sue immagini raramente venivano apprezzate, soprattutto dai giornali italiani. Troppo dure, troppo crude,
troppo esplicite. In poche parole,
troppo vere. Su questo punto Andrea
era irremovibile. Come molti dei suoi
colleghi cercava la verità, non poteva
Andy Rocchelli
sopportare di nasconderla dietro parole o immagini false, e non gli importava se poi questa verità non
veniva resa pubblica, se i giornali preferivano altre immagini, più morbide, addolcite, retoriche. Lui non
lavorava per i giornali, lavorava per la
storia. E la storia è spietata, non perdona niente a nessuno, neppure se è
protetti da un lasciapassare con
scritto in bella evidenza “international press”. Nonostante da giorni si ripetano gli appelli per la salvaguardia
dei giornalisti, o forse proprio per
questo.
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n 78 PAG.
sabato 31 maggio 2014
Fotoreporter
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RI-FLESSIONI
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.com
di Laura Mazzanti
[email protected]
E
anche questa volta molti elettori
hanno deciso di non andarsene
al mare, ma di assolvere al proprio diritto, nonché dovere, di
votare. Ma ciò che ha catturato maggiormente la mia attenzione, al di là
dello strabiliante risultato elettorale
del Pd, certamente superiore a qualsiasi più rosea aspettativa, sono stati
gli scrutatori elettorali. Sì, proprio
loro. Non sono esattamente una elettrice di lunga esperienza, ma senz’altro non ho messo la croce per la
prima volta. Ebbene, posso affermare
con assoluta certezza che le facce
degli scrutatori che ho visto negli
anni sono state quasi sempre le stesse.
Votando in un piccolo comune pensavo dipendesse dalle dimensioni ridotte o forse da una mancanza di
personale. Ma inaspettatamente lo
scorso lunedì mattina ho compreso
nel chiacchiericcio cittadino, freneticamente rivolto ad inondare ogni
possibile mezzo di trasporto pubblico
con discorsi da politologia accademica, di non essere l’unica ad avere la
sensazione che le facce degli scrutatori fossero sempre le stesse. In effetti,
io stessa nel mio lungo peregrinar fra
i banchi della università, ricordo di
aver fatto domanda per diventare
scrutatrice nel mio comune, domanda probabilmente caduta nel dimenticatoio.
Sono perfettamente consapevole che
tori per essere costantemente riconfermati di volta in volta? Nessuna, in
realtà. Per diventare scrutatori, infatti,
occorre semplicemente essere iscritti
all’Albo Unico degli Scrutatori di Seggio elettorale – registrazione che si effettua presso l’Ufficio anagrafe del
proprio comune -, aver compiuto 18
anni, essere cittadini italiani ed essere
iscritti alle liste elettorali del proprio
comune. Quindi niente di più facile.
Ma c’è un dettaglio, sicuramente non
trascurabile,
che deve essere considerato. Fino al
2005 la nomina degli
scrutatori avveniva
per
sorteggio casuale, ma dal
2005 la legge
ha previsto
che tale nomina avvenga per chiamata
diretta della commissione elettorale.
E sorpresa delle sorprese, la commissione elettorale è composta dal Sindaco e dai consiglieri comunali.
Svelato quindi il motivo per cui a me,
come a tante altre persone evidentemente, sembra di avere continui déjà
vu ogni volta che andiamo a votare al
seggio elettorale. Dopo il 2005, infatti, essendo la commissione elettorale stessa a procedere alle nomina,
ciò ha aperto la strada al favoritismo
e alle raccomandazioni. È venuta
meno la trasparenza, elemento fonda-
Un oscuro
scrutare
le lamentele raccolte sui mezzi di trasporto pubblico non possono certo
essere considerate completamente attendibili e costituire quindi una base
per qualche presupposto scientifico,
in ogni caso mi sono sentita sollevata
nel sapere che non è un problema che
riguarda soltanto il mio comune. È facile comprendere quanto possa essere
ambito il posto di scrutatore, non
tanto e non solo per il ruolo in sé,
quanto per il compenso più che dignitoso. Allora viene spontaneo chiedersi: quali specifiche competenze
possono vantare i nostri cari scruta-
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8
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sabato 31 maggio 2014
mentale per garantire una maggiore
equità. Certo, qualcuno potrebbe
obiettare che anche lo stesso sorteggio casuale può risultare altrettanto
iniquo, dal momento che non è in
grado di garantire corsie preferenziali
per coloro che invece avrebbero maggiormente bisogno del buon compenso ottenuto come scrutatore.
Obiezione molto giusta, peccato però
che ci troviamo in questa meravigliosa penisola, dove tutto può diventare merce di scambio. Ecco perché
un semplice posto come scrutatore si
trasforma in un “mercato” perfetto,
dove raccomandazioni, figli di, nipoti
di, iscritti a, sono i principali elementi
del baratto. Intendiamoci, sono perfettamente consapevole che esistono
favoritismi ben peggiori, al punto tale
che la sospetta nomina degli scrutatori non desta più di tanto scalpore.
Ad ogni modo è l’ennesima riprova
che le malefatte colpiscono tanto i livelli alti della società quanto quelli
più bassi, nord come sud, comuni
come province e che forse la raccomandazione costituisce parte integrante della nostra cultura, della
nostra mentalità, e chissà, forse col
tempo ne siamo diventati portatori
sani.
Ma dopo questa strabiliante tornata
elettorale e la conseguente aria di
cambiamento che ha travolto il paese,
speriamo che il rottamatore riesca a
modificare il sistema della nomina diretta degli scrutatori. Gli studenti universitari squattrinati ringrazierebbero.
ANIMALI IN POESIA
Anna Maria Guidi e la festevole solidarietà
di Franco Manescalchi
[email protected]
Anna Maria Guidi, fiorentina di nascita e residenza, dal ’98 ha pubblicato, a cura di illustri letterati, 6 libri
di poesia (‘Esercizi’, ‘Incontri’, ‘Tenacia d’ombra’, ‘Certezze’, ‘In transito’, ‘Senz’alfabeto’) e 1 di saggistica
(‘La carità erotica nell’edonismo geoestetico di S.Penna: un approccio
psicocritico’) ricevendo premi assoluti in numerosi concorsi e prestigiosi consensi critici sulle migliori
riviste, antologie e letterature, dove
compare anche la sua intensa produzione poetica e saggistica. Fattiva
promotrice culturale dell’interazione fra le discipline - per 30 anni
responsabile del Dipartimento di
Neuroscienze dell’Ateneo fiorentino- ha collaborato alla stesura di
testi neuropsicofisiologici per congressi e convegni, nonché di conferenze da lei stessa presentate.
Consigliere della ‘Camerata dei
Poeti’, è attualmente consulente di
‘Pianeta poesia’, per cui ha presentato nel primo decennio 2000 i programmi ‘Incontri con l’Autore’ e ‘A
due voci’ al Caffè Letterario ‘Le
Giubbe Rosse’. E’ Socia Onoraria
del ‘Centro d’Arte Modigliani’ di
Scandicci e Presidente di giuria nel
‘Premio G. La Pira’. In rete è presente sul portale di ‘Novecento poesia’ e su Literary.
Alla domanda “Gli animali perché”
la poetessa risponde: Perché ci
guardano e ci vedono, ci fiutano e ci
scelgono, ci riconoscono e ci addomesticano nell’ ‘apprivoisement’ reciproco e progressivo, fedeli per la
vita a quella prima scelta istintuale
che si ri-conferma ogni momento,
senza negarsi né rinnegarci mai.
Perché inconsapevoli praticano il
coraggio della fiducia (virtù desueta, se non abiurata dagli umani)
che ci accordano assoluta e costante, duttilmente pronta a qualsiasi ri-prova. Perché sono la nostra
s-coperta di ritratto, che tra-dice e
traduce nel linguaggio mimico dei
sensi la lingua senz’ alfabeto del nostro segreto paesaggio interiore.
Perché dell’arcobaleno di quel paesaggio sono il barometro che ne
pre-sente, con-segna e con-segue i
mutevoli colori e umori in un benefico transfert che non ha bisogno di
psicoterapie ma solo di quell’ attenzione che è primum movens dell’amore: premessa senza promesse,
che ci mantiene e sostiene senza fini
né fine condividendo e rallegrando
la nostra umana solitarietà con la festevole solidarietà che con noi gioisce, patisce, reagisce e animal-mente
(ci) capisce senza alcuna paura né
misura.
Tale sentimento è ben espresso
nella poesia A Puccio.
Oggi più non ti move irruente all’emozione
la traccia degli odori e l’abbaglio dei
colori
l’effluvio dei sapori e il clamore dei
suoni
in gara nell’indifferente fissità del
tempo.
A sorpresa ti travolse la p(i)ena
del nostro amore viziato d’ egoismo
-o d’egoismo tracimante d’amoreche condannando alla grazia
la tua fierezza indocile e ritrosa
non concessero al tuo declinare
l’insulto dell’epilogo scomposto
in piaghe purulenti di sfacelo.
Sei incluso ora nell’ambra della vita,
fossile frutto di cruda pietà
còlto prima del tempo, eppure già
s-finito
torpida-mente pronto alla consegna.
E non sapremo mai, mentre volgevi
a noi
tremuli d’acqua gli occhi di cucciolo
invecchiato,
se ci chiedevi ancora nell’ultima carezza
una briciola di luce: o un lago d’ombra
fondo di quietudine, da nuotare per
sempre.
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VUOTI&PIENI
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di Cristina Pucci
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prima piscina privata riscaldata. Una veranda-giardino d’inverno ha deliziosi divani di camoscio verde acqua. Negli
ambienti contigui alla zona pranzo, tutti
collegati con citofoni, portavivande e
ascensore, negli armadi, sono in bella mostra serviti e biancheria ricamata in uso
per ricevere. Ringhiera delle scale a doppia
greca di ottone, una bellezza. Al primo
piano le camere delle padrone di casa,
bagni splendidi, negli spazi antistanti guardaroba per asciugamani, quello per gli accappatoi è a persiana, per scongiurare
residue umidità, gli armadi sono di preziosi legni e si mascherano come fossero
pareti rivestite, al loro interno borse, cappelli, scarpe, pelliccie delle due sorelle.
Altre due camere, con bagno, per gli ospiti,
[email protected]
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na gita a Milano, per visitarne
centro e “bellurie” non è male. Si
scopre che il Duomo, nel mio immaginario “troppo” e come di grigio cemento, è in realtà bellissimo, di
marmo chiaro, ricamato quasi ad alleggerirne imponenza e peso. Si scoprono bellissime chiese, una, S. Maurizio,
completamente affrescata, sorta di nordica
Cappella Sistina. La Pinacoteca di Brera
delude, meno ricca di quanto pensavo, ci
sono abitazioni private visitabili, vere ed
entusiasmanti “chicche”. Di Villa Necchi
Campiglio vi parlerei, architetto Piero Portaluppi. Gigina e Nedda Necchi, figlie di
un ricchissimo industriale della ghisa
smaltata, una sera che da Pavia avevano
presenziato alla Scala, si spersero nella
nebbia e trovarono un giardino, fra le case,
in pieno centro, che le stregò....Lo vollero,
senza badare a spese lo acquistarono, incaricarono poi Portaluppi, architetto
molto in voga e, senza limiti di tempo e
budget, gli commissionarono la costruzione di una casa. Fra il 1932 e il 1935
colui mise su un luogo magico per la sua
semplice, squadrata, razionale e raffinatissima bellezza. Io devo dire che i cambiamenti apportati dopo guerra da tal
Tommaso Buzzi in stile settecento, come
imponeva allora il gusto della straricca
Borghesia meneghina, peggiorano le
stanze interessate, mentre la collezione di
opere d’arte donata da Claudia Gian Ferrari si integra perfettamente, i Balla, De
Pisis, Carrà, De Chirico e i busti di Martini
sembrano nati apposta per stare lì. La casa
è su quattro piani, al seminterrato locali di
servizio e svago, l’ultimo per il personale,
500 mq per piano, erano necessari almeno
quattro lavoratori a tempo pieno, anche se
la villa fu abitata sempre e solo dalle due
sorelle e il marito di una di esse. Piano terra
per ricevere, salotti, studio, sala da pranzo,
biblioteca. I materiali e la realizzazione di
mobili, finestre e porte è, a mio parere, la
cosa più spettacolare, pavimenti a doghe
di noce e palissandro, carta da parati di
pergamena, soffitti stuccati a losanghe,
mobili dalla essenziali forme deco realizzati da artigiani che possono essere assimilati a veri e propri artisti. Le finestre sono
enormi, le porte fra gli ambienti altrettanto, a vetrate scorrevoli, a scomparsa e
in linea in modo da permettere, volendo,
la vista del giardino da ogni lato. In esso la
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sabato 31 maggio 2014
Non solo la Madonnina
Villa Necchi
a Milano
una “del Pricipe” Enrico d’’Assia, l’altra
“della Principessa”, Maria Gabriella di Savoia, amici ed ospiti delle cosiddette “Gigine”. Questa è ora occupata dalla
collezione De Micheli, 130 oggetti del
‘700, mobili, miniature , porcellane, quadri
che pur interessanti, sono, a mio giudizio,
fuori luogo. A questo piano la camera della
guardarobiera, unica della servitù ad abitare al piano nobile, disponibile 24 ore su
24, non si sa mai, un improvviso rammendo, un bottone da riattaccare. Al di là
dell’inevitabile piacere voyeuristico dello
sbirciare la vita dei ricchi, si ammira il
gusto squisito e il razionalista equilibrio
deco di Portaluppi, si riflette sull’effimero
destino della “roba”: le Necchi, senza eredi,
lasciano immobile e contenuti al Fai. I loro,
pare bellissimi, gioielli e i quadri furono
venduti ad un’asta a favore del centro di
Veronesi.
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LUCE CATTURATA
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di Sandro Bini
www.deaphoto.it
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sabato 31 maggio 2014
Firenze 2008-2013 Itinerari notturni
Sandro Bini - Florence Night Movida (2008)
Florence Night Movida
.com
MUSICA MAESTRO
di Alessandro Michelucci
[email protected]
Il rebetiko è musica dei bassifondi, intrisa di alcool e di hashish, segnata da
uno spirito ribelle. Si è sviluppata in
Grecia e in Turchia fra gli anni Venti e
gli anni Quaranta del secolo scorso.
Fino al 1821 la Grecia aveva fatto
parte dell’impero ottomano; da
quest’ultimo, caduto in seguito alla
Prima Guerra Mondiale, era nata nel
1923 la Turchia.
In Grecia, dati i contrasti politici fra i
due paesi, il regime autoritario di Metaxas (1936-1941) bandì il rebetiko
per nascondere questo legame culturale col paese vicino. Successivamente
questa espressione musicale è stata riscoperta, diventando oggetto di un
crescente interesse.
In Italia, prima che Vinicio Capossela
pubblicasse il CD Rebetiko Gymnastas
(La Cupa/Warner, 2012), era noto
soltanto a una cerchia ristretta di appassionati. Poco dopo il cantautore
italo-tedesco ha ribadito il proprio
amore per il rebetiko con Tefteri
(Mondadori, 2013), il libro dove
narra il proprio viaggio alla scoperta
degli ultimi artisti che suonano questa
musica.
L’unico limite del progetto di Capossela, comunque meritorio, consiste
L’altra faccia del rebetiko
nel presentarcela
come un fenomeno
quasi esclusivamente greco. Con il
CD Mortissa
(Asphalt Tango,
2013), invece, la
cantante Çiğdem Aslan sottolinea
che il rebetiko non è un paradigma
musicale ed esistenziale e musicale legato unicamente alla Grecia, ma che
sconfina nella vicina Turchia.
“Mortissa” è una parola greca difficil-
mente traducibile: una versione
approssimativa può essere “donna
fiera, indipendente”. Non una donna
qualunque, ma una di quelle che si
poteva trovare nelle osterie dove si
suonava il rebetiko.
Çiğdem Aslan è un esempio vivente
della varietà culturale che caratterizza
il suo paese d’origine: nata a Istanbul
in una famiglia di kurdi aleviti, ha trovato nella metropoli eurasiatica gli stimoli ideali per affinare il proprio
linguaggio musicale.
Nel 2003 si è stabilita
a Londra e si è unita a
due gruppi, il Dunav
Balkan Group e
She’Koyokh, dove ha
ampliato ulteriormente la propria perizia vocale e il proprio
repertorio. Quindi,
sebbene Mortissa sia il
suo primo lavoro, non
è certo il disco di
un’esordiente.
Prodotto dalla cantante insieme a un
musicista ellenico, Nikolas Baimpas, il
disco sottolinea i legami fra il mondo
turco e quello greco. “Nenni”, per
esempio, è un tradizionale greco con
testo in turco. Al tempo stesso, il fatto
che la protagonista sia una donna bilancia il maschilismo implicito nel rebetiko.
Alcuni brani sono cantati in greco,
altri in turco; per ciascuno il libretto
riporta la traduzione inglese. La strumentazione è molto varia: chitarra,
basso, violino, mandolino, ma anche
bouzouki, darbuka, kanun e santouri.
Buona parte dei musicisti, come il chitarrista Matt Bacon e la violinista Meg
Hamilton, sono gli stessi dei suddetti
She’Koyokh. Proprio per questo alcuni brani profumano di umori klezmer (“Ferece”, “Trava vre manga kai
alani”). Il risultato è un lavoro esemplare, grazie al quale Çiğdem Aslan
appare molto più di una semplice promessa.
Prima di finire, un consiglio. Chi volesse approfondire la conoscenza del
rebetiko può leggere il bel libro di
Elias Petropulos Rebetiko. Vita, musica,
danza tra carceri e fumi dell’hashish
(Nautilus, 2013). Si tratta di un’opera
fondamentale che non era mai stata
pubblicata in italiano. Questo conferma che spesso sono proprio le piccole case editrici a colmare le lacune
più grandi.
C
VISIONARIA
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n 78 PAG.
sabato 31 maggio 2014
di Simonetta Zanuccoli
[email protected]
I
l parco Phoenix in promenade
des Anglais a Nizza, ad ovest della
città in una zona nuova vicino all’aeroporto, è stato pensato come
un grande contenitore verde di tesori
botanici e artistici di grande pregio.
Ha una serra che con la sua altezza di
25 metri e una superficie di 7000
metri quadri è una delle più grandi
d’Europa. All’interno una sofisticata
tecnologia crea le condizioni climatiche per coltivare centinaia di specie
rarissime di orchidee e piante tropicali. I giardini tematici ricostruiscono
all’esterno le caratteristiche territoriali di diverse parti del mondo. Farfalle e animali popolano questo
paradiso di relax. Nel mezzo del suo
lago artificiale sorge un piccolo gioiello: il museo Delle Arti Asiatiche
progettato nel 1998 da Kenzo Tange,
uno dei fondatori dell’architettura
giapponese moderna. L’edificio che si
ispira alla simbologia dei mandala tibetani si erge con mirabile leggerezza,
quasi sospeso, a filo dell’acqua. L’architettura fatta con forme piene e pa-
reti trasparenti è composta da un
cilindro (il cerchio simbolo del cielo)
che si appoggia su quattro cubi (il
quadrato simbolo della terra) che
rappresentano le civiltà orientali della
Cina, Giappone, Sud Est asiatico e
India. Come spesso accade in Francia
un opera d’arte contemporanea racchiude al suo interno tesori la cui origine si perde nei secoli creando
quell’armonia che sottolinea la capacità dell’arte di comunicare in tutti i
tempi bellezza. I tre piani invasi dalla
luce del riverbero dell’acqua e dalle
ombre ospitano pochissimi e bellissimi pezzi, molti dei quali provenienti
dalla vasta collezione del museo Guimet di Parigi. L’esposizione mescola
oggetti vecchi e moderni, preziosi e
tradizionali, l’arte della corte con
espressioni di artigianato popolare e
Il mandala di Kenzo Tange
Il museo delle
Arti Asiatiche
sulla
promenade des
Anglais
a Nizza
con opere contemporanee cercando
di creare un suggestivo percorso estetico che simbolicamente ruota attorno alla splendida scala a spirale.
L’acqua del lago popolato di uccelli
acquatici esalta il bianco dei muri di
questo piccolo gioiello ed evoca con
raffinata poesia, secondo l’intento di
Kenzo Tange “un cigno che galleggia
sulle acque tranquille”.
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DONNE SPORTIVE
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di Lorenzo Liverani
[email protected]
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n’altra atleta di colore che ha il
diritto di essere ricordata è
Wilma Rudolph. Scampata, durante l’infanzia, alla scarlattina
ma non agli esiti della poliomielite, fu
costretta fino all’età di 10 anni a indossare un tutore per l’arto inferiore dx. Da
adolescente divenne una campionessa
di basket ma i successi maggiori li ottenne nell’atletica leggera partecipando
a soli 16 anni all’Olimpiade di Melbourne. Il trionfo arrivò nelle Olimpiadi di Roma nel 1960 dove vinse ben
tre medaglie d’oro nelle specialità dei
100 m. (corsi in 11 secondi), dei 200 m.
e della staffetta 4x100. Fu giudicata la
donna più veloce del mondo. Questa
grande atleta si disse ispirata al grande
Jesse Owens, eroe di colore delle Olimpiadi di Berlino del 1936 che distrusse
le fanatiche speranze di Adolf Hitler di
trionfo sportivo della razza ariana.
Delle conseguenze di una spietata invasione di ideologie politiche nazionaliste
e trionfaliste furono vittime moltissime
atlete in diversi nazioni nel corso degli
anni successivi all’Olimpiade del 1960.
Furono gli anni ‘70 e ‘80 quelli durante
i quali iniziò a diffondersi in tutto il
mondo sportivo l’uso sciagurato degli
anabolizzanti. A farne le spese furono
soprattutto le donne atlete.
In nome dei successi sportivi, nella ex
RDT, prima della caduta del muro, fu
condotta, per circa trenta anni, una sperimentazione farmacologica direttamente sugli esseri umani, specie di
sesso femminile, senza alcun rispetto
delle regole etiche e delle garanzie di
sperimentazione.
Le giovani atlete di questo paese, in
quel periodo, subirono le più sciagurate
conseguenze di queste aggressive e prolungate sperimentazioni, per altro condotte da medici, studiosi, allenatori,
membri delle istituzioni sportive governative, che riferivano direttamente alla
polizia segreta, la famigerata Stasi.
Il successo delle atlete della RDT fu
così spettacolare che la somministrazione di anabolizzanti fu rapidamente
imitata da atlete di altri paesi, compresa
la Germania dell’Ovest e gli Stati Uniti.
Le donne con ambiguità naturali delle
caratteristiche sessuali (scoperte con
l’introduzione dei test di genere negli
anni 60) furono sostituite da donne
con ambiguità delle caratteristiche sessuali indotte farmacologicamente.
Tra queste ragazze si sono verificati,
successivamente molti casi di suicidio
e di morti premature, ma il caso più
eclatante fu quello di Heidi Kriger. Vincitrice dell’Oro ai campionati mondiali
del 1986 ha cambiato, diversi anni
dopo, il proprio genere, diventando,
anche anagraficamente, un uomo, Andreas, che si è successivamente unito in
matrimonio con una donna. Delle sofferenze patite, “Heidi – Andreas “ ricorda che “… è come se avessero
assassinato la ragazza Heidi che era in
me”.
Le storie di “grandi donne “ che hanno
onorato l’appartenenza al loro genere,
Un’eroina
per tutte
o
Samia
Yusuf
Omar
BIZZARRIA DEGLI OGGETTI
a cura di Cristina Pucci
[email protected]
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n 78 PAG.
sabato 31 maggio 2014
Dalla collezione
di Rossano
Una rastrelliera d’antan
uanto sono brutte le attuali e moderne rasrelliere per biciclette, file di pali arcuati piantati in terra cui si aggrappano bici e pezzi di esse, e quanto è bella questa! Porta bicicletta in ghisa dell'inizio del '900. Gli oggetti liberty in ghisa hanno sempre una tale
grazia di forme, curve e decori da far dimenticare il peso del materiale e farli apparire
gradevoli e quasi leggeri. Fra i molti musei o sedicenti tali sul tema bici, scelgo il
"Museo Storico della Bicicletta" di Cesiomaggiore (Belluno), paese le cui strade principali portano il nome dei più famosi "corridori". Nato nel 1997 intorno alla collezione
di bici antiche o appartenute a ciclisti di chiara ed eroica fama, messa su nel corso di
più di venti anni da Sergio Sanvido, classe 1928, commerciante, riparatore e poi restauratore di bici e ciclista a tempo perso. Questo grande e speciale "maniaco seriale" decide infine di donare la sua creatura alla collettività e Regione e Comune, collaboranti,
mettono a disposizione l'ultimo piano di una scuola. Le bici sono ordinate e per periodo storico, la più antica un "celerifero" del 1791, e per destinazione d'uso, da bambino, da guerra, da lavoro, da corsa, ognuna ha la sua carta di identità, molte sono
quelle appartenute a campioni, Coppi, Bartali e Pantani compresi, straordinari accessori d'epoca come fanali con candela o altri bizzarri, tipo selle arieggiate o scopini per
parafanghi, le corredano. In fieri apposita officina d'epoca. Foto, cimeli e magliette si
sprecano, segnalo una collezione artistica, copertine, disegnate a mano, della Domenica del Corriere dedicate al ciclismo. L'oggetto di Rossano non sfigurerebbe.
allo sport e che hanno offerto prove di
straordinario coraggio sono moltissime
ed è impossibile citarle tutte in una
breve relazione come questa, ma un
omaggio particolare va attribuito a
Samia Yusuf Omar, una coraggiosissima ragazza somala nata a Mogadiscio
nel 1991 e annegata nel mar mediterra-
neo nel 2012, dopo aver cercato in tutti
i modi e soffrendo chissà quali pene di
poter partecipare alle Olimpiadi di
Londra.
La ragazza appassionatissima della
corsa si allenava lungo le strade, distrutte dalla guerra, della sua città e
niente riusciva ad impedirle di praticare
il suo sport preferito resistendo anche
alle minacce dell’integralismo islamico
ed ebbe la soddisfazione di partecipare
alle Olimpiadi di Pechino del 2008 per
la bandiera della Somalia. Nella gara dei
200 m. arrivò ben 10 secondi dopo la
prima concorrente vittoriosa, e fu incoraggiata da tutto lo stadio, vista la vistosa disparità di mezzi atletici rispetto
alle più titolate avversarie (corse con
scarpette regalate da altre atlete olimpiche). La sconfitta non la scoraggiò, anzi
la convinse che, con una adeguata preparazione e assistenza tecnica, avrebbe
sicuramente riscattato la precedente e
deludente prestazione ai Giochi Olimpici successivi. A tale scopo decise di lasciare clandestinamente il suo paese per
raggiungere l’Europa, dove sperava di
poter esprimere il suo vero potenziale.
Dopo varie peregrinazioni, tipiche di
questi viaggi, riuscì ad imbarcarsi su una
delle solite carrette del Mediterraneo,
ma non ce la fece a realizzare il suo
sogno perché l’imbarcazione affondò in
un punto non precisato del mare.
Per questa indimenticabile ragazza potrebbe essere associato l’epitaffio inscritto sulla tomba di un altro atleta
fanciullo di epoca romana:
“io Florio qui giaccio,un tempo auriga
bambino –
rapido volli correre e rapido precipitai nelle
ombre”
Purtroppo Samia non ha nemmeno la
opportunità di essere onorata con tali
commoventi parole.
Credo che questa atleta abbia veramente offerto la massima prova di innocenza, di coraggio e di amore per lo
sport e la libertà.
C
LO STATO DELLA POESIA
U
O
.com
di Matteo Rimi
S
[email protected]
iQualcuno ha rinunciato a credere alla parte più libera di sé,
come se cedere alla poesia
fosse una debolezza che mostra il fianco al cinico nemico sempre
in agguato.
Qualcuno evita di riflettere sopra lo
stato delle cose temendo che tanta
empatia lasci inermi innanzi a tutto
ciò che è ancora da farsi.
Qualcuno si è ormai rassegnato all’idea che gli avvenimenti epocali si
compiono solo altrove.
Qualcuno ha dimenticato che le
grandi cose possono succedere anche
in spazi piccoli. Piccolissimi. Come su
un foglio di carta o nella penna che lo
verga. Ma anche nella mano che la
stringe, la stessa mano capace di racchiudere un infinitesimo ed embrionale granello di energia che attende
solo l’occasione di essere condiviso.
Per diventare luce.
Qualcuno aveva posto un granello simile sul mio palmo, forse volato lì per
un sospiro da una pagina sfogliata, e
per troppo tempo creduto incapace di
poter trasformarsi in altro; ma bruciava, quel granello, come che io non
fossi braciere abbastanza ampio a contenerlo.
Un granello potenzialmente in grado
LUCE CATTURATA
P
ronto
Il confine dei luoghi
di far ripartire il necessario processo
di riavvicinamento dell’essere umano
alla sua natura più pura, la sua trascendenza più forte dalla propria corporeità alla spiritualità illimitata di colui
che deve ancora dare nome a tutto.
Una lucciola che deve trovare ossigeno tra le infinite possibilità di
Marco e la visionarietà di Liliana. Una
scintilla che deve rafforzarsi tramite il
senso di responsabilità di Kiki, la consapevolezza di David e la sapienza di
Paolo. Una fiamma che deve imparare
a non nuocere acquisendo l’umanità
di Caterina, il naturale essere di Bernardo e la serenità di Mariella. Un
fuoco che non deve perdere la semplicità di Rosaria né l’umiltà di Iacopo.
Un incendio che attende, come predice Lorenzo, di riconoscere la propria Voce protetta insieme ad altre in
un Archivio prima di diluirsi nell’esperienza anonima di essere, con il MeP,
presenza su un muro. Una rivoluzione
che, scegliendo di esprimersi come
Anna tra le tante ecletticità che Davide mostra, si nutre di convinzione
come in Leonardo.
Ma è poesia, questo fuoco, il nuovo ed
eterno Big Bang dentro il quale, come
su un affilato stilo sopra una bianca
superficie, tutto può succedere, anche
che la materia possa restare racchiusa
in una periferica porzione del cervello
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come aprirsi fin che c’è aria nel teatro
infinito delle nostre esistenze.
Un teatro. Sì, un Teatro riuscirà a contenere tutto ciò: caotico, sfaccettato,
popolato, dolce, malinconico, professionale, allegrotto, lo Stato si compirà.
Un Teatro che dall’Antica Roma arriva
fino a Fiesole e diventa luogo di Fondazione, di Dichiarazioni ed, infine, di
Liberazione.
Perché tutto questo ha ragione di essere stato vissuto, cercato e voluto, sofferto e ponderato solo se infine
riuscirà ad affrancarsi. Solo se esisterà
un luogo dove più persone possibile
potranno condividere la luce emanata
da quel granello senza doverne sopportare il peso, liberando loro stessi e
lasciando che sia Lo Stato LIBERO
della Poesia
avrà volontà nuove
l’uomo nuovo
giovane forza
di stupita fierezza
avrà pensieri nuovi
di visioni aperte
di mondo senza confini
umanità senza grettezza
sarà nuovo e libero
perché non saprà
guerra
di Stefano Bartolini
[email protected]
C
PECUNIA&CULTURA
U
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.com
di Barbara Setti e Simone Siliani
twitter @Barbara_Setti e [email protected]
I
numeri sono spietati e, almeno entro
certi limiti, non mentono. Quelli relativi ai flussi finanziari pubblici nel
settore Cultura e Servizi Ricreativi,
oggetto della monografia 2013 dello studio “L'Italia secondo i Conti Pubblici
Territoriali” realizzato dal Dipartimento
per lo Sviluppo e la Coesione Economica
della Presidenza del Consiglio dei Ministri, ci restituiscono un'Italia che, come
l'Imperatore che credeva di indossare il
più sontuoso dei vestiti nuovi, era in realtà nudo. Il quadro di un pesante disinvestimento dei diversi soggetti pubblici
in cultura che emerge nell'analisi del periodo 2000-2011, fa piazza pulita di tutta
l'assordante retorica con la quale ogni
uomo politico di qualsiasi livello di governo, se interrogato sulla cultura, non
manca di parlarne come del petrolio o
comunque come di un asset strategico
per la sua politica. E invece non è proprio
così: tutti gli indicatori sono in flessione
costante e qualcuno è pure in caduta libera. Dalla spesa complessiva a quella in
conto capitale (che rappresenta ciò che
lo Stato spende per contribuire alla formazione del capitale produttivo del
paese), dalla spesa pro capite a quella per
sostenere offerta e domanda.
L’Italia, con lo 0,9% del PIL fino al 2009
e lo 0,8% nel 2010 si colloca tra i Paesi
che spendono meno nel settore (come
Irlanda, Malta, Germania, Bulgaria),
mentre lo 0,6% del 2011 la pone in coda
alla graduatoria insieme alla Grecia. Da
noi è più elevato anche il disinvestimento
tra il 2000 e il 2011, con un peso molto
ridotto della spesa primaria dedicata al
Il re è nudo
settore (1,7%nel 2010 e l’1,3% nel 2011).
Anche la partecipazione alla cultura da
parte dei cittadini ci vede in fondo alla
classifica europea: l’indice sintetico di
partecipazione culturale mostra infatti
che tutti i paesi dell’Europa del Nord,
presentano alti livelli di partecipazione:
43% in Svezia, 36% in Danimarca, 34%
nei Paesi Bassi, a fronte dell’8% dell’Italia,
del 5% della Grecia, del 6% del Portogallo. Indubbiamente la crisi (tanto per la
limitazione alla spesa pubblica, quanto
per il ridotto potere d'acquisto delle famiglie) incide su questa situazione, ma qui
è utile rilevare come al calare della spesa
pubblica in cultura corrisponda anche
una flessione della partecipazione culturale a dimostrazione di quanto strategica
sia la spesa pubblica in questo settore.
Ora in questo contesto rovinoso per l'Italia, la ricerca mette in rilievo la situazione
delle singole regioni. Qui, la Regione Toscana non brilla, anzi presenta una delle
peggiori performance, tanto in valori assoluti, quanto per la reputazione di regione della cultura che appare
fortemente offuscata da questi numeri. In
Toscana si spendevano nel 2000 circa
200 euro pro capite che sono dimezzati
nel 2011 (111 euro, pari a -44%), cosa
che la porta dal 7° posto fra le Regioni al
13°. Soprattutto negli investimenti il disimpegno è significativo: questi rappresentavano nel 2000 circa 66 euro pro
capite della spesa, che scendono a neppure 27 nel 2011. Chi investe di più sono
le Amministrazioni Locali (30%), segue
l'Amministrazione Centrale dello Stato
(25%), mentre solo il 5% è dell'Amministrazione Regionale e appena il 6,6%
delle Imprese Pubbliche Locali. Anche
questo dato dimostra che chi sostiene
maggiormente il patrimonio culturale in
Toscana sono le Amministrazioni Locali
(con una media fra il 50 e il 60% negli
anni considerati per tutta la spesa culturale), mentre lo Stato arretra dal 44% al
37% (con un picco in negativo del 23%
nel 2006, epoca Urbani-Buttiglione). Risibile il contributo dell'Amministrazione
Regionale con una media del 2,3% nel
periodo.
La composizione della spesa mette in risalto che la maggiore riduzione è stata
sopportata dal settore investimenti (56%) e dal personale (-50%): due dati in-
MENÙ
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quietanti perché dimostrano il sottrarsi
dal formarsi del capitale produttivo, dalla
programmazione pluriennale e il depauperamento delle risorse umane. Anche in
questo caso l'Amministrazione Regionale
offre un contributo quasi nullo a queste
due voci: se è plausibile per la parte del
personale (in quanto la Regione non gestisce direttamente istituti culturali), lo è
molto meno nell'ambito degli investimenti.
Situazione paradossale perché lo studio
mette in rilievo un forte incremento della
domanda culturale fra il 2008 e il 2010:
mentre lo Stato disinveste, le persone
chiedono più cultura, nonostante la crisi
(la quota di spesa delle famiglie destinata
alla cultura sul totale dei consumi rimane
sostanzialmente costante tra il 2000 e il
2010, intorno all'8%). Un altro mito da
sfatare è che la Toscana sia la regione a più
alta densità di risorse del patrimonio culturale per 100 kmq: infatti, se il 40% è un
dato nettamente superiore a quanto rilevato nel Nord e nel Mezzogiorno, è nettamente inferiore al resto delle regioni
centrali (47% in Umbria, Marche e
Lazio). Tuttavia, colpisce il rapporto fra
la bassa spesa pubblica in cultura in Toscana (inferiore al 10% sul totale in Italia)
rispetto alla comunque alta dotazione di
beni e istituti culturali.
Dunque, il re è nudo. Sarebbe dunque
meglio evitare di applaudire inneggianti
al passaggio del corte regale e mettersi
dalla parte del bambino che si rende
conto della reale situazione, non per ridere del sovrano, ma per suggerirgli qualche indumento meno sfarzoso ma più
dignitoso. Non escluderemmo neppure
una bella tuta da lavoro.
ICON
di Michele Rescio
[email protected]
La coda alla vaccinara è un piatto tipicamente romano, costituito dalla coda
del bovino stufata, condita con verdure e sugo di pomodoro. Un tempo
considerato un piatto “per stomaci
forti”, è stato invece rivalutato e oggi è
servito nelle migliori trattorie della capitale. Prepararlo in casa richiede un
certo impegno, ma se vi armate di attenzione e pazienza potrete anche voi
cucinare un’ottima coda alla vaccinara
e servirla con orgoglio ai vostri ospiti e
familiari!
Ingredienti per 4 persone: 1 kg. di coda
di bue, 30 g di strutto, 100 g di lardo, 1
carota, 1 costa di sedano, 1 gambo di
sedano, 1 ciuffo abbondante di prezzemolo, 1 cipolla, 1 spicchio d’aglio, ½
bicchiere di vino bianco, ½ litro di passata di pomodoro, sale e pepe
Preparazione: Lavate bene la coda
sotto l’acqua corrente, per eliminare
ogni traccia di sporcizia o di sangue;
tagliate la coda a tocchetti, facendo attenzione a tagliare fra una vertebra e
l’altra. Immergete i pezzi di coda in
una pentola d’acqua in ebollizione.
Sbollentateli per circa 10 minuti,
asciugateli e teneteli da parte. Fate un
trito finissimo di aglio, prezzemolo, sedano, carota e cipolla. Tritate anche il
Coda per stomaci forti
lardo. Mettete lo strutto in una casseruola, fate scaldare, aggiungete le verdure e il lardo tritato e fate soffriggere.
Unite i pezzetti di coda al soffritto, mescolate e rosolate. Quando la carne
avrà preso un po’ di colore, aggiungete
sale e pepe per insaporire. Continuate
a soffriggere aggiungendo a poco a
poco del vino bianco. Fate evaporare,
intanto diluite la salsa di pomodoro in
300 ml d’acqua calda e versatela nel
soffritto. Chiudete la pentola con un
coperchio e lasciate cuocere a fuoco
basso per 4 ore. Se il sugo si asciuga
troppo bagnate di tanto in tanto con
dell’acqua calda. Ora pulite il gambo
di sedano, lavatelo, tagliatelo a pezzi,
unitelo alla carne dopo le 4 ore di cottura e lasciate cuocere ancora per 30
minuti. A questo punto, versate la vostra coda alla vaccinara nei piatti insieme al sugo e buon appetito!
Il potere
del denaro
La riflessione amara sul potere del diodenaro e sull’incapacità dell’uomo di
ritrovare la propria vera identità a
causa della sua fragilità è il tema portante della mostra personale di Maria
Antonietta Scarpari dal titolo “The colour of money” che sarà ospitata nel
Lu.C.C.A. Lounge dal 20 maggio al 22
giugno 2014 (ingresso libero). Diverse
le installazioni realizzate dall’artista
umbra sul concetto di “ricerca della felicità” attraverso i soldi che sembrano
l’unico mezzo per essere accettati nella
società contemporanea a cui si aggiunge il video “Sheng” – realizzato nel
2013 e prodotto da Blue Blade.
C
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C’È VITA IN ITALIA
di Roberto Mancini e Vinicio Capezzuoli
[email protected] e [email protected]
M
ario e Franco Brogi partirono
da Colle ValdD'Elsa che avevano diciott'anni per cercare
lavoro all'estero. All'epoca
erano già artigiani esperti perché fin da
giovanissimi avevano cominciato a lavorare come apprendisti nelle vetrerie della
zona. Uno se ne andò in Svizzera, l'altro
trovò lavoro in l'Irlanda, finché, nel 1962
la chiusura di una vetreria di Colle non
fornì loro l'occasione per tornare in Italia.
Mettendo insieme i risparmi rilevarono
infatti quella fabbrica e cominciarono una
nuova avventura professionale. Erano
bravi e appassionati del loro lavoro ed
erano determinati a rimanere a Colle
dove, nel frattempo, avevano messo su famiglia. Erano maestri vetrai e conoscevano alla perfezione tutti i segreti del
mestiere, segreti che non condividevano
con nessuno, salvo con il più fidato dei collaboratori. La ditta, che si chiamò Vilca
(dal 1971 si chiamerà Nuova Vilca e successivamente ColleVilca) si trovava proprio in paese e aveva una stanza, sempre
chiusa a chiave, dove si mescolavano gli ingredienti per produrre il cristallo. Il cristallo Vilca era per loro un vanto, era – ed
è tutt'oggi – il migliore che si trovi sul mercato, il più fine, il più splendente, il più trasparente. La Vilca divenne in poco tempo
una azienda d'eccellenza, unica nel suo genere. Ciononostante non fu al riparo da
problemi e complicazioni perché essere
dei bravissimi maestri della bufferia, non
necessariamente significava essere anche
versati nella gestione aziendale. Tuttavia,
nonostante alcuni periodi burrascosi e
dopo vari riassetti organizzativi, l'azienda
ha sempre continuato a produrre e oggi,
dopo aver cambiato sede, si trova nella
zona di San Marziale, dove occupa un
grande edificio di un bel rosso pompeiano.
Alla sua guida c'è il figlio di Franco, Giampiero, che dà lavoro a una ventina di artigiani, molti dei quali giovani apprendisti.
In questi anni però il personale si è molto
ridotto perché la crisi si è fatta cocente, soprattutto da quando il mercato è stato invaso da prodotti esteri di scarsa qualità, di
pessima fattura e di nessun valore estetico,
ma dai costi concorrenziali. Alla ColleVilca il cosiddetto 'stanzino dei segreti'
non c'è più perché oggi non avrebbe
senso: i laboratori di analisi di tutto il
mondo sono in grado infatti di determinare i composti dei cristalli con assoluta
precisione. Nonostante ciò nessuna 'fabbrica' riesce a lavorare il cristallo come alla
Vilca perché quel che conta ancora, in
questo tipo di lavorazione, è l'abilità del
maestro vetraio, il suo occhio e la sua
mano. La capacità di decidere quando la
pasta vitrea è al punto giusto per essere
estratta dal forno di fusione e quando si
deve procedere alla soffiatura. È una questione di sensibilità, di abilità e di esperienza: è questo il lato artigianale della
produzione che fa la differenza perché difficilmente può essere eguagliato o superato dalle macchine automatiche. I cristalli
che escono da questa azienda nascono da
processi accurati: è meditato il sistema di
lavorazione così come lo sono, specularmente, le fasi di tirocinio per gli apprendi-
Una storia
cristallina
sti, perché questo mestiere non si impara
in un mese e, forse, nemmeno in un anno.
Ma non si tratta di una questione di tradizione o di pura conservazione di metodi
arcaici mantenuti in vita per spirito nostalgico. La bottega di un artigiano è un sistema complesso di saperi la cui
trasmissione ha carattere pratico, si svolge
sul piano della parola e funziona tramite
l'esempio, per questo richiede tempo. In
ciò – ed è stato storicamente così - si avvicina di certo alla bottega dell'artista, e non
a caso è facile trovare sulla 'piazza' della
Vilca, tra i vapori e le fuliggini dei forni di
fusione, certi giovani artisti che sono lì ad
imparare come reagisce un cristallo nel
suo modellarsi, come si comporta una
massa vitrea e come viene manipolata dai
maestri vetrai. Alla Vilca essi trovano
anche un archivio straordinario, un repertorio incredibile di forme. Tutto ciò che è
stato prodotto lungo mezzo secolo di vita
è stato infatti catalogato e conservato in un
archivio i cui scaffali occupano una vasta
sala sul retro dell'officina di lavorazione. Si
tratta di una collezione di stampi di grande
importanza, alcuni dei quali 'firmati' da
desiner e artisti famosi come David Palterer, Ambrogio Pozzi e Shiro Kuramata,
approdati alla Vilca per dare un impulso
all'innovazione formale e di prodotto. Perché Giampiero si è posto l'obiettivo di coniugare le esigenze di mercato con le
tecniche classiche di lavorazione del cristallo e l'invenzione creativa.
D'altra parte l'innovazione formale è sempre stato uno dei tratti più caratteristici
dell'artiginato toscano, e non solo, ovvia-
mente, per quanto riguarda la produzione
del vetro e del cristallo. La Toscana del più
grande artigianato è, infatti, in tutti suoi
comparti, una miscela di tensione e innovazione culturale, come ben si vede, per
quanto riguarda l'arte della bufferia, dal
ruolo che, nel secolo scorso, ebbero Giò
Ponti, Piero Fornasetti, Giovanni Michelucci o Guido Balsamo Stella. E come dimostra, spostandoci più avanti negli anni
la formazione dei distretti industriali che
hanno avuto una importante funzione
propulsiva e innovatiova perché ha funzionato da coagulo ad insiemi di competenze
che altrimenti sarebbero rimaste disseminate e si sarebbero disperse.
Oggi tuttavia questo amalgama di saperi e
di elementi infrastrutturali non basta più
a garantire una continuità a queste produzioni di eccellenza perché queste piccole
imprese artigiane come la Vilca dispongono di risorse molto limitate da destinare
alla innovazione e alla sperimentazione. È
perciò necessario – come ci dice Giampero Brogi - ripensare la natura distrettuale
valdelsana della lavorazione del vetro e del
cristallo che passi attraverso una ridefinizione complessiva del settore che si è
molto appannata. L'arte della buffereia ha
bisogno di trovare una sua precisa collocazione per poter competere sui mercati.
A partire da una migliore comprensione
di che cosa sia – o di cosa possa essere –
questo antico e pregiato mestiere. Una
questione che con grande lungimiranza
Enzo Mari già poneva nel 1981 in occasione di una sua singolare mostra fiorentina intitolata Where the Artisan is? Che
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intendeva sollecitare una ridefinizione
concettuale dell'idea stessa di artigianato
per ricomprenderlo all'interno del sistema
produttivo di tipo industriale senza snaturarne i tratti fondamentali. E potremmo
dire che a quella domanda alcuni comparti artigianali hanno risposto in modo
egregio: il settore dell'abbigliamento, per
esempio, ha saputo acquisire e valorizzare
tutto il savoire faire artigianale contestualizzandolo in aziende (o insiemi di
aziende) capaci di competere sul mercato.
Così non è stato però per la produzione
del cristallo che è rimasta infatti periferica
rispetto ai prodotti toscani di alta qualità.
E probabilmente ciò è dipeso da una serie
innumerevoole di errori, ma l'errore più
grande è stato quello di credere che la valorizzazione di un prodotto potesse dipendere esclusivamente dal messaggio
promozionale da imbastirgli tutto attorno
con una ripetizione di ovvietà e di luoghi
comuni perfino imbarazzante. Al contrario
la questione del posizionamento dell'artigianalità nel quadro degli odierni processi
produttivi è la questione basilare che deve
essere affrontata. E quando il giovane
Giampiero Brogi ci ha parlato in modo accorato della solitudine nella quale la sua
Vilca si trova ad operare, indirettamente ha
come riproposto quell'interrogativo di
trent'anni fa: dov'è l'artigiano? E la risposta
non può che essere che gli artigiani (della
Vilca, ma non solo) devono essere lì dove
si innova e si inventa, dove si fa impresa
moderna, e cioè dove si riescono a trovare
le risorse per gli investimenti. Purtroppo
tali propositi si infrangono e naufragano
anche a causa di certa retorica celebrativa
dell'artigianato toscano, peraltro del tutto
sorda a quel 'lato umano' del lavoro artigianale che pur si prometterebbe di esaltare. Basta andare a cercare, tra le
abbondanti pagine che sono state scritte
sul cristallo della Valdelsa, qualcuna che
parli dei maestri artigiani delle loro esperienze di vita e di lavoro, o che ricostruisca
le loro biografie. Non troveremo quasi
niente, nessuno che si sia interessato a
quelle piccole o grandi avventure, cosicché
– ed è un paradosso parlando di artigianato - nessuno riesce oggi a imparare dall'esperienza altrui. E quindi a immaginarsi
un futuro. La celebrazione infatti sta sempre al di qua o sopra la concretezza. Chi
era, per esempio, Modesto Boschi delle
Vetrerie Operaie Riunite? E chi inventò il
'vetro sonoro'? E chi era mai Ubaldo Pacini
che negli anni Sessanta mise a punto la formula del cristallo? Le loro vite sono come
scomparse, diluite nelle storie di impresa
e nelle ricostruzioni folkloriche, nelle infinite pubblicazioni catalografiche evocative di un felice - e mai esistito - tempo che
fu. Per uno strano scherzo del destino, il
catalogo di quella che era stata la più promettente iniziativa sull'artigianato moderno: la già ricordata mostra Where the
artisan is? fu stampato da Electa con un vistoso errore di traduzione e andò al pubblico col titolo Dov'è l'artigiano, senza cioè
il punto di interrogazione. Il che lasciava
credere, una volta di più, che fosse sufficiente 'trovare' gli artigiani e le loro botteghe per poi, magari, farne oggetto di
oleografici depliant turistici. Una mistificazione spersonalizzante al tempo stesso
ingiusta e ingenua.
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ODORE DI LIBRI
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di Paolo Marini
[email protected]
Q
uante volte sei salito a Fiesole? A
consumare una cena, a prendere il fresco con gli amici, a corteggiare una donna, a
contemplare il panorama. Vista da Firenze, abbarbicata sui propri rilievi e con
l'agile campanile della cattedrale che fa
buona guardia, Fiesole è una salutare elevazione; è la compagna (o complice) fedele e rassicurante di una vita condotta
(per lo più) a valle, dove tutto sembra
più greve e provvisorio. Vivendo 'quaggiù', è come se Fiesole ti avesse dischiuso
plasticamente la naturale superiorità di
una civiltà formatasi nel contesto multiforme e dinamico che alterna la pianura
alle colline, il torpore o il rigore dei climi
orizzontali alla relativa freschezza e dinamicità di pur modeste altezze. In realtà
Fiesole non è nata per farti compagnia o
per ispirarti poetiche riflessioni. Essa ha
- ed è - una storia antica, lunga, un mosaico indipendente di mille piccoli e
grandi tesori, a volte insospettati, disseminati nel suo ampio territorio. Come
mostra lo storico Mario Cantini nel suo
libro “Fiesole tra cronaca e storia” (Polistampa, pp. 368, € 19,00), frutto di
un'ampia ricerca archivistica eseguita tra
l'Archivio Comunale e quelli Vescovile e
Capitolare - oltre che presso veri e propri
'archivi' viventi.
Aprendo il volume di Cantini passi in
rassegna il territorio, con il mutare dei
confini amministrativi (quelli attuali essendo sanciti da una legge del 1910,
quando Fiesole perse le frazioni di Rovezzano, Settignano, Pellegrino e parti di
quelle di Coverciano e Mensola), gli artisti e i personaggi che le hanno dato lustro (Adriano Mari, Giovanni Dupré,
Gabriele D'Annunzio, Bernard Berenson, Frank Lloyd Wright, Ugo Ojetti e
Herman Hesse, per citarne solo alcuni),
cronache, avvenimenti e aspetti di vita
Fiesole
dal Medioevo
in poi
quotidiana, acquedotti, lapidi e muri,
monumenti, chiese, teatri e oratori: lo diresti un autentico 'fiesolario', capace di
fornire un solido 'perché' a tutti coloro
che la vivono, che la frequentano e che
comunque la amano.
Per esempio, vi scopri – se non lo sapevi
– che tra Fiesole e Settignano corre una
rivalità risalente, dato che Settignano “fin
dal medioevo aveva fatto parte della
Lega e poi della Comunità di Bagno a
Ripoli, fino a diventare, durante l'occupazione francese (1808-1814), un territorio autonomo con la comunità di
Rovezzano”.
Tra i tanti tesori spicca il Teatro Romano,
letteralmente riesumato nel XIX° secolo
e inaugurato a nuova vita il 20 aprile
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VINTAGE
Il Franco
Miratore
Gli epigrammi
di Franco Manescalchi
nelle pagine di Ca Balà
a cura di Paolo della Bella
OTTOBRE
1972
1911, con la recita dell'Edipo Re di Sofocle. Poi incontri lo splendore di pietra
e di affreschi della cattedrale, voluta da
Iacopo il Bavaro e consacrata nel 1028,
con i caratteristici due piani costruiti ai
tempi di Sant'Andrea Corsini (13021374).
Insomma, con il patrimonio collazionato
da Cantini ritrovi in Fiesole una madre
(come ricorda l'iscrizione “A matre et
filia aeque disto” posta all'incrocio tra via
della Piazzola e via Barbacane ) che ti circonda di affetto, con una dolcezza e una
misura che evocano questi versi, del
resto mai dimenticati: “Fresche le mie
parole ne la sera / ti sien come il fruscìo
che fan le foglie / del gelso ne la man di
chi le coglie...”
L’APPUNTAMENTO
di Sara Chiarello
Vargas Llosa a Firenze
[email protected]
Lo scrittore e drammaturgo peruviano Mario Vargas Llosa, Premio
Nobel per la Letteratura 2010, sarà a
Firenze da martedì 3 a giovedi 5 giugno per ricevere la Laurea Honoris
Causa, conferitagli dall’Università
degli Studi di Firenze. Mario Vargas
Llosa parteciperà a tre giorni di
eventi, tra incontri con il pubblico,
mostre d’arte e concerti, ad ingresso
libero. L’iniziativa è organizzata dal
Centro Studi Jorge Eielson per la diffusione della cultura latinoamericana,
presieduto dalla scrittrice e docente
di letteratura Martha Canfield, in collaborazione con il Consolato del Perù
a Firenze, l’Università di Firenze, il
Robert F. Kennedy Center di Firenze,
la Galleria Il Chiostro Arte Contemporanea di Saranno, l’Associazione
NEM – Nuovi Eventi Musicali e la
rassegna Leggere per non dimenticare (www.centroeielson.com). Durante il conferimento del titolo
accademico (mercoledì 4 giugno, ore
10.30, Aula Magna del Rettorato,
Piazza San Marco n.4, ingresso libero
fino a esaurimento posti), Mario Vargas Llosa terrà la lectio magistralis, in
lingua italiana, ‘Boccaccio in scena’,
in cui racconterà il suo nuovo lavoro
teatrale ‘Los cuentos de la peste’ (I
racconti della peste), inedito e ispirato al Decameron. Poi, alle ore
18.00, presso la RFK International
House (Sala delle Colonne Ottagonali, Le Murate, via Ghibellina
12/A), Mario Vargas Llosa, in qualità
di Direttore del Comitato Scientifico
del Centro Studi Jorge Eielson, introdurrà la mostra d’arte ‘Gesti ancestrali e forme attuali’, che, fino al 4
luglio, esporrà 30 capolavori di Jorge
Eielson, scrittore e artista concettuale
peruviano, a 90 anni dalla nascita
(Lima, 1924 – Milano, 2006). Le
opere (molte è la prima volta che
vengono esposte al pubblico) sono
provenienti dal Fondo Eielson e dalla
Galleria Il Chiostro Arte Contemporanea di Saranno. Oltre ad originali
elaborazioni astratte, su tela e materiali vari, ed installazioni, sarà possibile apprendere la nascita e
l’evoluzione della celebre serie dei
‘Quipu’, opere di tela annodata di
varie dimensioni e colori, che si rifanno ai quipus incaici, un antico sistema di comunicazione della cultura
inca basato sui nodi. Infine, giovedi 5
giugno, alle ore 17.00, presso il Teatro Romano di Fiesole (via Portigiani), l’Associazione Nuovi Eventi
Musicali conferirà a Mario Vargas
Llosa il Premio ‘NEM Edizioni’ per il
suo libro ‘La civiltà dello spettacolo’,
pubblicato da Einaudi. Seguirà il dibattito sul ruolo della cultura, a cui
interverranno Mario Setti (Presidente Nuovi Eventi Musicali), Giorgio Van Straten (scrittore) e Tomaso
Montanari (scrittore e docente dell’Università di Napoli). Al termine
dell’incontro, il violinista Edoardo
Rosadini eseguirà la ‘Ciaccona’, dalla
Partita n°2, di Bach. Per ulteriori informazioni www.nuovieventimusicali.it
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PECUNIA&CULTURA
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di Roberto Giacinti
Mibact, degli enti locali e delle regioni.
In particolare si dispone che sussista il
possesso della personalità giuridica,
spesso ostacolato dagli organi di controllo
quando l’ente non dispone di un fondo di
dotazione adeguato secondo regole non
omogenee tra regioni ed enti controllori.
C’è chi sostiene che sia importante utilizzare la leva fiscale per accordare benefici
indiretti.
Ad esempio il decreto 91/2913, detto Valore cultura, ha previsto disposizioni per
la tutela e la valorizzazione del patrimonio
culturale, con meccanismi fiscali quali il
tax credit per il cinema e per la musica, un
credito d’imposta per le imprese organizzatrici e produttrici di spettacoli di musica
dal vivo, ecc.
E’ recente anche il decreto del Ministro
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ecenate, influente consigliere
ed amico dell'imperatore
Augusto, formò un circolo di
intellettuali e di poeti di cui
sostenne la produzione artistica, contribuendo ad elevare il tono della vita culturale dell'era di Augusto, ma fu il
mecenatismo rinascimentale a rappresentare un fenomeno diffuso e di grandissima rilevanza.
In tale periodo, tra gli esempi più noti
delle sfarzose corti nobiliari che offrivano
vitto ed alloggio ai più illustri artisti dell'epoca, purché questi dedicassero loro alcune opere, così da aumentare il prestigio
delle varie casate, vi è sicuramente quello
di Firenze, con Cosimo il Vecchio e suo
nipote Lorenzo il Magnifico.
La storia si ripete, oggi, con le generose
donazioni offerte da due maison fiorentine: Ferragamo per gli Uffizi e Stefano
Ricci per la nuova illuminazione del
Ponte Vecchio.
Il mecenatismo ricco è utile ad ambedue
i contraenti, ma serve solo alle grandi istituzioni che possono beneficiare di grandi
apporti economici, e che, contemporaneamente, possono esaltare il loro brand.
Purtroppo gli importanti tagli all’economia, quelli delle erogazioni delle fondazioni bancarie ed il sempre più difficile
ricorso al fund rising verso privati non
consentiranno più la sopravvivenza delle
piccole e numerose realtà presenti sul territorio.
Intanto a questi enti vengono richiesti altri
adeguamenti burocratici con la legge di
Stabilità 2014, la quale, pur promettendo
semplificazione e celerità dei procedimenti, prescrive i requisiti che gli istituti
devono possedere per poter accedere ai
benefici, la formazione di un elenco dei
beneficiari delle sovvenzioni statali, per
evitare le duplicazioni con i contributi del
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sabato 31 maggio 2014
dei Beni culturali Franceschini che promuove il meccanismo fiscale di incentivazione che consentirà a grandi e piccoli
gruppi industriali, ma anche a privati, di
poter intervenire sui beni artistici, infatti,
da quest’anno, diventa strutturale la destinazione della quota al 3% delle risorse per
le infrastrutture alla spesa per investimenti
nei beni culturali
Sul fronte degli sgravi fiscali i contribuenti
che elargiranno erogazioni liberali per i
beni culturali, potranno detrarre l’Irpef
nella misura del 65% nel biennio 20142015.
Ma questi interventi non saranno sufficienti per cui occorre, con urgenza, avviare un progetto catalizzatore delle
risorse disponibili per la sopravvivenza
dei piccoli enti culturali.
Nuove regole per il Mecenatismo
ICON
di Claudio Cosma
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Il fiori di Cardenas
Una piccola mostra di disegni botanici di Hugo Cardenas, giovane artista colombiano che disegna come
Jacopo Ligozzi.
I disegni in esposizione sono stati eseguiti per Sensus.
Una occasione per incontrarsi prima della chiusura
estiva di Sensus che coinciderà con la fine di questa
esposizione.
Ricordo che Sensus è una collezione privata aperta al
pubblico con questo orario: il venerdì e il sabato dalle
18 alle 20.
La sede è in viale Gramsci 42a, a Firenze.
Le inaugurazioni da Sensus non hanno nulla di diverso rispetto agli altri giorni di apertura, anzi, essendoci meno visitatori, tali giorni saranno da
preferirsi per guardare con la dovuta attenzione i lavori esposti.
GRANDI STORIE IN PICCOLI SPAZI
di Fabrizio Pettinelli
[email protected]
Nel maggio del 1938 Hitler visitò l’Italia; la tappa finale della visita, il 9 maggio, sarebbe stata Firenze, con sosta
dalle 14:00 alle 24:00. Il Comune di
Firenze entrò in fibrillazione e fin dal
febbraio costituì un apposito “Ufficio
per i festeggiamenti in occasione della
visita del Führer”, che si ingegnò per
utilizzare nel modo migliore i
18.000.000 di lire messi a disposizione
dal governo centrale; riportato ai valori odierni, ogni minuto trascorso da
Hitler a Firenze costò alla collettività
oltre € 27.000!
Come furono spesi quei 18.000.000
milioni mi pare ben esplicitato da questa foto. Sul lato Arrivi di Piazza Stazione fu costruita una tribuna alta 14
metri, adornata con false siepi e con
sculture di cartapesta, calce e gesso
che riproducevano i leoni della Loggia
dell’Orcagna e le fontane di Boboli. La
tribuna sortiva un duplice risultato:
accogliere gli invitati che dovevano
osannare l’arrivo del dittatore tedesco
Piazza della Stazione
Firenze
di cartapesta
e coprire il cantiere che occupava l’aerea dell’ex-Via Valfonda, la cui evidente contraddizione con il perfetto
“ordine” fascista avrebbe potuto turbare il Führer.
D’altra parte Galeazzo Ciano, Ministro degli Esteri, era stato chiaro nelle
sue direttive: lungo la linea ferroviaria
percorsa da Hitler dovevano essere
esposte scritte inneggianti al Führer e
all’asse Roma-Berlino e inoltre “dei
cartelloni pubblicitari dovranno essere collocati per mascherare le case
che non è possibile migliorare imbandierandole”. I funzionari fiorentini calarono alla lettera le disposizioni
“ferroviarie” sulle strade cittadine
lungo l’itinerario di Hitler.
La loro azione ricorda quella degli
operai che, nel film di Luigi Zampa
“Anni ruggenti” (credendo i maggiorenti della cittadina che Nino Manfredi, agente di un’assicurazione, sia un
alto gerarca in incognito), murano vivi
i poveri della città, per non farli vedere, e, per lo stesso motivo, spostano
un vespasiano da un punto all’altro del
paese tallonati da un vecchietto incon-
tinente.
I nostri non murarono vivo nessuno,
né risulta che abbiano operato sui servizi igienici, ma è pur vero che le stradette che da Via Maggio portano in
Piazza Pitti furono sbarrate con dei
falsi muri di cartapesta dai quali spuntavano piante che simulavano giardini,
che Via Mazzetta fu bloccata da un
plotone di soldati in assetto di combattimento (considerato che nei
giorni precedenti sui muri di Santo
Spirito erano state dipinte enormi falci
e martello) e via dicendo. Qualche
isolata protesta ci fu: un pasticciere del
centro, come prescritto, espose nelle
sua vetrina le foto dei due dittatori e,
fra di esse, una scatola di biscotti “Fratelli Lazzaroni”.
Il leit-motiv delle varie realizzazioni fu
quello di sovrapporre strutture “effimere” ai monumenti storici fiorentini,
al fine di valorizzare, in quelle sovrastrutture, la simbologia fascista e nazista (aquile, svastiche e fasci littori a
volontà), a scapito, ovviamente, della
severa bellezza degli antichi palazzi
fiorentini.
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L’ULTIMA IMMAGINE
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sabato 31 maggio 2014
Jack in the Box, San Jose, California, 1972
[email protected]
Dall’archivio di Maurizio Berlincioni
“Jack-in-the Box” è il
nome di un famoso giocattolo per bambini e
consiste in un pupazzo
animato di “pannolenci” vestito da Clown
racchiuso un una “box”
appunto, una scatola!
Premendo un bottone il
coperchio si apre e il
pupazzo salta fuori con
un grande sorriso.
Credo che tutti i bambini del mondo abbiano visto questo tipo
di giocattolo o qualcosa
di simile. Si racconta
che questa specie di
diavoletto risalga addirittura al 1400 quando,
nel Buckinghamshire,
un sacerdote inglese, Sir
John Schorne, rinchiuse
in una scatola un diavolo per proteggere i
parrocchiani del suo villaggio. Bene, una catena
di Fast Food fondata
nel 1951 a san Diego in
California decise di utilizzare questo pupazzo
come richiamo per i
suoi Drive-in Fast Food
punti di vendita che
espansero in un batter
d’occhio in tutta la California e non solo.