Fabio Cleto Intrigo internazionale Pop, chic, spie degli anni sessanta La casa editrice, esperite le pratiche per acquisire i diritti di riproduzione delle immagini, rimane a disposizione di quanti avessero a vantare ragioni in proposito. Sito & eStore – www.ilsaggiatore.com Twitter – twitter.com/ilSaggiatoreED Facebook – www.facebook.com/ilSaggiatore © il Saggiatore S.p.A., Milano 2013 intrigo internazionale l’opera – New York. Autunno 1964. Benvenuti nel luogo e nel tempo degli incontri spiazzanti, nel mix di upper class e working class, intellettuali e rifiuti umani, fan e star. James Bond, Andy Warhol, Susan Sontag, Victor J. Banis: spie e celebrità di ordini culturali diversi, figure dello scarto, icone d’identità clandestina, emblemi di un elitarismo di massa, dei margini del visibile. Protagonisti di un copione in maschera il cui modo è l’ironia, quella forma di perversione – è il camp, dirà Sontag, recuperando una tradizione radicata nell’esuberanza teatrale e nelle sessualità eccentriche di fine Ottocento – che celebra l’eccesso, la messinscena di sé, «le cose che sono ciò che non sono». Dal neon dei cinema alle gallerie d’arte, dalle riviste d’avanguardia alle atmosfere chiaroscurali dei pulp erotici, Intrigo internazionale racconta una storia di spie: una storia d’identità prêtes-à-porter, di informatori, talpe, agenti sotto copertura, trame segrete, doppi giochi, tradimenti, segni rivelatori e falsi indizi. La storia e la mappa di un fenomeno che, innestandosi sul pop, interpreta le istanze più complesse della cultura della celebrità, dell’isteria del consumo e di una società innervata da una tensione crescente fra sovversione e riaffermazione dell’ordine, sperimentazione, devianza e sberleffo. La mappa di una stagione irripetibile, quando farsi replica era ancora originale. Benvenuti all’inaugurazione dello Spettacolo Totale. Avete l’abito adatto? 9 l’autore – Fabio Cleto, saggista e critico, insegna Letteratura inglese e Storia del presente all’Università di Bergamo, dove dirige l’ORA – Osservatorio sui Segni del Tempo. Si interessa di immaginari della cultura di massa e di politica della rappresentazione. Fra i suoi lavori, i volumi Camp: Queer Aesthetics and the Performing Subject (University of Michigan Press, Ann Arbor & Edinburgh University Press, Edinburgh 1999), Percorsi del dissenso nel secondo Ottocento britannico (ecig, Genova 2001) e PopCamp (2 voll., Marcos y Marcos, Milano 2008). 10 Sommario Introduzione 13 Chic, brividi e segreti, i. Goldfingers 17 Chic, brividi e segreti, ii. La ragazza che sapeva troppo 49 Chic, brividi e segreti, iii. Il terzo «uomo» 85 La resa dei conti 111 48 anni dopo. Un sequel, di scarto 141 Note 149 Introduzione Autunno 1964: si apre a New York una stagione memorabile nella storia della cultura, dello spettacolo, del costume. Ora, per ottenere un successo – e un successo che «faccia stagione» – servono un bel copione, personaggi che abbattono la quarta parete, qualche nome importante sui cartelloni. Tanto meglio se ci si accompagnano pettegolezzi, magari un che di sexy, un pizzico di trasgressione: il pubblico non resisterà a questa miscela (e all’appello del box office), specie se alimentata da qualche controversia sui media. Del resto, scriveva Wilde nel 1893, nothing succeeds like excess: niente ha più richiamo dell’eccesso – involontaria complice, certo, l’indignazione pruriginosa che scatena. E nell’autunno del 1964, a New York, si trovano tutti questi ingredienti. Le pagine di cultura e spettacolo sono dominate da due fenomeni, due irresistibili icone pop che affiancano sfere assai distanti: la prima viene dal cinema, e guida milioni di fan adoranti; la seconda, benché scovata sul palco meno vistoso della critica culturale, avrà un ruolo non meno influente, perché codificherà un’intera epoca mietendo uno stuolo di insospettabili, talora ignari, seguaci. A queste due star se ne aggiunge peraltro una terza, stagliata su Twiggy, 1967 (Richard Avedon) uno scenario semiclandestino, fatto di aule di tribunale, di chiaroscuri urbani e sguardi furtivi, di identità celate, sospetto e impalpabili sintonie, a movimentare il copione, l’intreccio e l’intrigo – o, se si vuole, a creare un soggetto dall’indefinito potenziale di replica e sviluppo narrativo, di sequel, spin-off e imitazioni. Queste pagine cercheranno di suggerire in che modo e misura figure tanto diverse (la loro identità a tempo debito) si intreccino, coinvolgendo altri protagonisti di quella scena, rispecchiandosi, rivelandosi a vicenda e mettendo così in atto la complessa, paradossale economia – possiamo chiamarla fin da ora l’economia del segreto pop – che inquadra la produzione culturale transatlantica nella seconda metà degli anni Sessanta. 15 Shirley Eaton su Life, 6 novembre 1964 Chic, brividi e segreti, i Goldfingers Senza dubbio alcuno, la stella più luminosa nella cultura pop di fine 1964 porta il nome di James Bond e ha il volto di Sean Connery, colui che nell’immaginario collettivo incarna a tutt’oggi l’agente dei servizi segreti britannici creato da Ian Fleming. Una stella che dieci anni dopo la sua nascita letteraria lascia gli uffici dell’mi6 a Londra per assumere idealmente la residenza statunitense. Il terzo film tratto da Fleming, Missione Goldfinger, segna infatti la «svolta americana» nelle avventure seriali di 007: parzialmente ambientato in Kentucky e Florida, rappresenta il prototipo della serie cinematografica prodotta da Albert «Cubby» Broccoli e Harry Saltzman, con l’uso per esempio della formula del «minifilm» che precede i titoli di testa, a loro volta diventati marchio di fabbrica e modello di genere. La natura americana del film non si limita però a un dato d’ambientazione, o a una routine produttiva: è centrale al soggetto, imperniato sull’attacco al «cuore d’oro» di Fort Knox che Bond sembra sventare – ma che in realtà è lo stesso Bond, in un doppio gioco, a portare a termine con successo, fuori scena. L’attacco al cuore degli Stati Uniti (all’affetto oltre che al denaro degli spettatori), annunciato dalla copertina di Life del 6 novem- Honor Blackman alla prima londinese di Goldfinger, 17 settembre 1964 bre 1964 con la «dorata» Shirley Eaton, viene scatenato il 21 dicembre con la presentazione di Goldfinger al DeMille di New York, accompagnata da una promozione e una partecipazione di pubblico mai viste, adeguate insomma ai colossali investimenti di produzione. Una parata di limousine apre uno spettacolo stellare che trova il pari soltanto nella première londinese di poche settimane prima: il 17 settembre, all’Odeon di Leicester Square, una folla in delirio aveva accolto l’attrice Honor Blackman, una Pussy Galore di bellezza imperiale, tutta d’oro e di bianco vestita, con diecimila sterline di gioiello (suo personalissimo goldfinger) ad avvolgerle il mignolo della mano sinistra. L’eco dello straordinario successo londinese aveva immediatamente raggiunto gli Stati Uniti, annunciando una nuova incursione della British Invasion in atto dall’estate 1963 con i moti- La prima di Goldfinger, Londra, 17 settembre 1964 Fans al concerto dei Rolling Stones, Wimbledon Palais, Londra, agosto 1964 Tom Wolfe alla Galleria Castelli, New York 1966 (Bob Adelman) vi e le performance dei Beatles, seguite nel 1964 da quelle dei Kinks e dei Rolling Stones, colonna sonora della nuova, eccitante era dell’intrattenimento globale. Da un lato all’altro dell’Atlantico si moltiplicano perciò i sintomi di un’ossessione collettiva, una vera e propria Bondmania – pubblicità di capi d’abbigliamento che promettono un look «alla Goldfinger» o «alla Pussy Galore», e più in generale di tutto quanto riguarda 007: auto, orologi, champagne, acqua di colonia, cravatte ecc. Ed ecco l’agente segreto di Fleming, Broccoli e Saltzman affiancare le rockstar fra i miti pop e i simboli di un’epoca d’insuperabile iconicità, segnata dall’erosione iconoclastica dell’establishment come dall’idolatria, dal consumo di esperienze, mode e protagonisti tanto travolgenti quanto deperibili.1 Il cantore di questa stagione, di questa epica del pro20 tagonismo, è non a caso un giovane new journalist, il poco più che trentenne Tom Wolfe, che sulla capacità di intercettare il momento fonderà uno stile, uno sguardo, e il proprio stesso personaggio di dandy irriverente e iconoclasta. La sua ambigua celebrazione dei maliziosi, euforici anni Sessanta in «La Ragazza dell’Anno», articolo apparso il 6 dicembre sul supplemento domenicale del New York Herald Tribune, fotografa fin dall’apertura l’atmosfera frenetica, euforica, modaiola, sensazionale della New York di Andy Warhol, la New York della mobilità isterica e delle inedite combinazioni umane, sociali e artistiche: «Frangette criniere zazzere chignon cappelli alla Beatles visi di panna ciglia al mascara occhi sotto ombretto felpe a sbuffo push-up francesi pelle scampanata blue jeans fuseaux jeans attillati su fondoschiena dolcissimi gambe deliziose in stivali da folletto ballerine calzari, a centinaia, fanciulle in fiore entusiastiche che sobbalzano e urlano sfrecciando all’interno dell’Academy of Music Theater sotto la decrepita cupola dei cherubini – non sono strafavolosi?».2 Sull’accalcarsi isterico di corpi coJane Holzer alla Factory in attesa di uno screen test, 1965 (Nat Finkelstein) 21 Jane Holzer in The Thirteen Most Beautiful Women (1964-65) di Warhol lori e forme, ecco la ventiquattrenne Baby Jane Holzer, l’eroina eponima del pezzo di Wolfe, la Nuova Celebrità del tardo 1964. Di una simile figura Wolfe può cantare non le gesta, ma l’esserci, il valore simbolico del suo essere «in» e swinging, del riassumere in sé «tutto quanto vi sia di nuovo e chic dal punto di vista della moda». Celebrità più che eroina, Baby Jane interpreta la logica dello «pseudoevento» che solo due anni prima Daniel Boorstin aveva stigmatizzato come emblema della notorietà contemporanea, dello statuto cioè di chi è noto perché è noto.3 Forte della ricchezza del marito, il magnate Leonard Holzer, dell’affascinante impudenza della giovinezza e di una certa familiarità sia con il dernier cri della Pop Art newyorkese sia con l’istintiva verve del rock, scrive Wolfe, Jane Holzer è l’ultima erede della tradizione rituale del22 la Café Society degli anni Venti, «fatta di persone il cui status non dipende tanto dalla ricchezza o dal lignaggio, quanto da una serie di fattori effimeri, come lo show business, la pubblicità, le conoscenze, l’arte, il giornalismo o semplicemente nuove e variegate forme di ricchezza».4 Jane Holzer è l’epitome della scintillante società dello spettacolo di metà anni Sessanta, il cui elitarismo è fondato sul primato del «nuovo», del «sorprendente», di quanto è «giovane» e «trasgressivo»: la società dei connoisseurs liberal, insomma, di coloro che si sanno avventurare nei territori dell’underground, che sanno rovistare fra gli scarti della vita metropolitana recuperandoli entro i rituali mondani del- Brian Jones si presenta le riviste e delle gallerie ai magistrati della corte d’arte, di coloro che col- di West London, 2 giugno 1967 mano con stile, nello stile, il divario fra acculturati e diseredati, fra l’opulenza dell’alta borghesia americana e la vitalità della classe operaia britannica di cui i Rolling Stones, nel dicembre 1964, sono la mefistofelica, seducente versione pop. In questo scenario i Nuovi Artisti, «l’equivalente moderno degli Impressionisti nella Parigi del 1910», sono fotografi come Jerry Schatzberg, David Bailey, Brian Duffy e Nicky Haslam, artefici di stili, fe- David Bailey fotografato da Terry O’Neill sul set, 1964 nomeni e personaggi («Bailey è fantastico» dice Jane Holzer, «quell’estate ha creato quattro ragazze. Ha creato Jean Shrimpton, me, Angela Howard e Susan Murray»),5 fautori di un consumismo iconico del quale sono contemporaneamente causa e sintomo. Perché la celebrità non è tanto un individuo quanto un apparato cerimoniale, che ammanta d’aura al contempo l’oggetto, chi lo ritrae e il mezzo che lo riproduce. Nessuno meglio di Andy Warhol, a sua volta l’artista del 1964, il nome emergente della Pop Art che conquista le gallerie d’arte, incarna (e demistifica) l’ethos dell’aura tecnicamente prodotta e della Ragazza dell’Anno, dello pseudoevento umano spendibile nell’onnivoro spazio discorsivo dello show business, creato con quell’apparente assenza di sforzo con cui verrà presto rimpiazzato da nuove icone della moda, del cinema, della pubblicità, dell’arte. Perché Warhol non è solo un artista formatosi come grafico pubblicitario: è lui stesso il palcoscenico bohémien sul quale si misura questa stagione – sul quale si scrive questo copione – di consumo della mondanità. Warhol è insomma il motore, lo strumento, l’esito della produzione industriale di personalità «serigrafiche». Il suo studio di produzione, la Factory, incarna l’intera mistica della celebrità pop degli anni Sessanta, trasfigurando il quotidiano in sensazionale, il cinema underground nel passatempo della società alla moda, i reietti in «superstar» («Per Andy tutto è super» dice Jane, «Io sono una superstar, lui è un super-regista e insieme facciamo cose super-epiche»).6 Dandy tardomoderno, voyeur ossessivo, alchimista e Re Mida della business art, con la sua inseparabile macchina fotografica – pronta a trasformare in oro chiunque, qualsiasi cosa inquadri – Warhol fa della Factory un’utopia panoptica della (ri)produzione seriale: un’utopia del capitale e del plusvalore, in effetti, in 25 Lou Reed e Andy Warhol fotografati da Stephen Shore alla Factory, 1966 Andy Warhol, Gregory Markopoulos, Dennis Hopper, Taylor Mead, Gerard Malanga e Jack Smith alla Factory, 1963 grado di creare e ri-creare idoli in serie, e di introdurre alla gratificazione istantanea, anche se di breve durata, della nuova, chic, grande, democratica boutique americana – in costante rinnovamento – delle identità prêtes-à-porter.7 Ecco perché l’agente segreto 007 conquista – sotto mentite spoglie – Fort Knox. Emblema a sua volta di un’identità polimorfa, di un’alterità affascinante e di una trasgressione cheap & chic, la spia James Bond è un’icona dello Zeitgeist, del copione dell’autunno newyorkese 1964. Offre un personaggio e una trama popolari, imperniati su un consumo tanto e tale da acquietare con un sogghigno gli spettri di Kennedy, e da tacitare le minacce rivolte alla gerarchia sociale dalla rivoluzione etnica, culturale e sessuale dei primi anni Sessanta. L’esplosione dei consumi e gli effetti del baby boom, la mobilità di classe e l’ampliarsi dell’accesso all’istru27 Jo Dingemans, 1964 (Barbara Hulanicki) Helen Gurley Brown, 1964 (John Bottega) 28 zione, l’adolescenza come categoria sociale: tutto testimonia negli Stati Uniti come in Gran Bretagna, nel loro stretto abbraccio del dopoguerra, una società travolta da una trasformazione euforicamente, drammaticamente accelerata. Al centro, come non vederne i segni manifesti, la nuova libertà femminile di cui la moda si fa interprete. Da Carnaby Street a New York alla California, la minigonna di Mary Quant prima, certo, e poi, scandalo!, il monokini lanciato nel ’64 dall’espatriato austriaco Rudi Gernreich e dalla sua musa Peggy Moffitt, destinato a fornire un simbolo quanto mai glamorous all’emancipazione. La donna si scopre, infatti: scopre potere e piaceri del corpo esibito. Legge Nova (il «nuovo tipo di rivista per il nuovo tipo di donna», lanciato nel marzo 1965), il nuovo Cosmopolitan di Helen Gurley Brown e il suo Sex and the Peggy Moffitt indossa il monokini di Rudi Gernerich, 1964 (William Claxton) Poster di Sex and the Single Girl (Donne, v’insegno come si seduce un uomo, 1964) di Richard Quine Single Girl (Come si seduce un uomo), la guida alla vita da single metropolitana del ’62, e va anche a vedere il film del 1964 con Tony Curtis e Natalie Wood. Pure l’adolescente ha accesso a una moda sexy e trasgressiva: lo testimonia Honey, la prima rivista per ragazzine – dal 1962 destinata a una lettrice «giovane, gaia, che va lontano» – che, annunciando il 1965 quale «anno delle audaci», chiede alle sue lettrici «quanto in là siete pronte 18 Twiggy, maggio 1966 a spingervi?». Adolescente è del resto il modello proposto dalla moda, con Copertina di Honey, settembre 1964 l’immagine androgina di Twiggy, quasi una figurina di Erté che oblitera la femminilità esuberante e matronale degli anni Cinquanta e la società patriarcale che sembrava intrattenere, presupporre, confortare. La moda racconta proprio di una maschilità in crisi, con un uomo efebico, ambiguo, oppure (è quanto avviene 31 Copertina di Honey, gennaio 1965 al maschio cui presta il volto Michael Caine sulla copertina, di nuovo, di Honey del settembre 1964) ridotto a «best accessory for a girl». L’uomo, il miglior accessorio per ragazze? Nel 1964, insomma, l’ordine sociale sembra rimescolare tutte le carte. La risposta (l’unica possibile?) la troviamo nel volgere di qualche settimana nel corpo femminile coperto d’oro di Shirley Eaton, e nell’amabile misoginia di un Vodka Martini agitato, non mescolato. Avvenente, spregiudicato e sexy, violento, promiscuo e disinibito, un antieroe che ama bere, giocare d’azzardo e sedurre, e che se necessario uccide a sangue freddo, James Bond non sembra certo promuovere i valori e lo stile di vita della famiglia borghese. Sono in molti, fin dagli esordi letterari, a criticarne le gesta. Eppure, con la sua carica sessuale e il suo carattere dominante, Bond riconferma il primato dello sguardo maschile: offre ai suoi fan (maschi) una nuova, provocatoria «licenza di guardare», e al contempo rassicura le sue adoratrici – fra Copertina di Playboy, dicembre 1953 le quali non è difficile riconoscere le clienti di Gernreich e le lettrici di Honey – su quanto sia necessario (e, perché no?, anche piacevole) il loro ruolo di bambole sexy.8 (Non è un caso, ovviamente, che la nascita nel 1953 dell’epopea bondiana coincida con quella del tempio dell’erotismo di «buon gusto», Playboy, il cui primo numero – in copertina, l’impareggiabile idolo-bambola, Marilyn – esce nel dicembre dello stesso anno. Non lo è nemmeno che il 1964 veda la nascita del Calendario Pirelli, con immagini di Robert Freeman, il fotografo dei Beatles.)9 Ancorché estimatore di tutti i comfort della vita moderna, poco importa la loro provenienza, Bond viene da lontano e rilegittima valori antichi: rappresenta in effetti la tradizione, la classe e l’eleganza garantiti da un background britannico. È così abile da redimere nel suo virile abbraccio Pussy Galore, l’energica femme fatale dal sospetto lesbismo: da fornire cioè al voyeur eterosessuale sia una solleticante esperienza (per procura) dell’alterità sessuale e dell’emancipazione femminile, sia una conferma della «vera» maschilità che sa dominare entrambe. Il suo cosmopolitismo gli consente di rafforzare un nuovo tipo di imperialismo, che riafferma libertà (maschile) e consumismo (occidentale) a luogo di rifugio contro i totalitarismi, siano essi di natura politica (la s.m.e.r.s.h. sovietica) o finanziaria (la perfida s.p.e.c.t.r.e.). Incarna insomma un’immagine della trasgressione legittimata, e così facendo innesta l’aplomb, lo chic, il glamour nobiliare britannico sulla rivoluzione «anticlassista» e femminista dell’America degli anni Sessanta. Le sue maniere, i suoi gadget letali e ultramoderni, il suo stile di vita raffinato e sornione possono certo apparire discutibili, e l’ambiguità può a buon titolo essere la sua cifra: dopotutto, è un agente segreto. Ma tutto questo, come si fa a non capirlo?, è per il bene della nazione – il fatto che Bond si diverta, che tragga qualche piccolo spunto di piacere, dimostra solo che è un tipo davvero in gamba, qualcuno da frequentare e a cui assomigliare nella realtà, se possibile, oppure, faute de mieux, al cinema e nei sogni. Ora, la star vende prodotti e identità: in quanto mo34 Pussy Galore in Agente 007: Missione Goldfinger (1964) di Guy Hamilton William Tanner, The Book of Bond, Or Every Man His Own 007, Jonathan Cape, London 1965 Sheldon Lane (a c. di), For Bond Lovers Only, Panther, London 1965 dello di ruolo, promuove uno stile di vita e un corpo di consumo. È la sua stessa natura a essere funzione di identificazione e consumo, ossia di riproducibilità: le star esistono in quanto assimilate dai fan, riprodotte in imitazioni di varia specie, che si tratti di pratiche imitative nella vita quotidiana, o di beni che evocano somiglianza e familiarità con la star.10 Ecco dunque apparire i manuali che promettono a chiunque di diventare un perfetto 007 – come quello, dalla sottile ironia e dalla copertina «mimetica» utile «per agire sul campo» (la sovraccoperta dell’edizione cartonata era reversibile, e trasformava il volume in una «Bibbia rivista per essere interpretata come letteratura»), pubblicato da Kingsley Amis sotto lo pseudonimo Colonnello William Tanner, nome effettivo del capo dello staff dei servizi segreti britannici. 11 Non sorprende insomma che nel 1964 comincino a sbu36 care talpe e agenti segreti da ogni dove, e che oltretutto non si rivelino nemmeno brutti e cattivi come li dipingeva il maccartismo degli anni cinquanta. E così succede che la Bondmania diventa una mania per lo spionaggio in sé, per agenti segreti di ogni tipo e provenienza, a fornire un vero e proprio canovaccio culturale dominante fra il 1965 e il 1967. In quegli anni il pubblico può trovarne ovunque, Umberto Eco e Oreste del Buono (a c. di), The Bond Affair, Macdonald, London 1966 di spie. Nei romanzi ovviamente, non solo nelle costose edizioni rilegate ma anche in economicissimi tascabili, e pure nella saggistica con The Bond Affair (1966), traduzione di Il caso Bond, un’antologia di saggi curata nel 1965 da Oreste del Buono e Umberto Eco per Bompiani. Ma ancora più facilmente, le spie si incontrano al cinema. Nel 1965 escono negli Stati Uniti oltre cinquanta film di spionaggio, come Ipcress di Sidney J. Furie (dal romanzo di Len Deighton), A caccia di spie di Val Guest (da Passport to Oblivion di James Leasor), La spia che venne dal freddo di Martin Ritt (da John Le Carré, autore anche di Chiamata per il morto, da cui Sidney Lumet trarrà l’omonimo film nel 1967). Fra queste abbondano ovviamente le imitazioni, come Il nostro agente Flint di Daniel Mann (con un eroe di chiara matrice bondiana capace, secondo il cartellone pubblicitario, «di far l’amore in quarantasette lingue diverse!»); né mancano le versioni «al femmi37 Poster di Our Man Flint (1965) di Daniel Mann Locandina di The Spy with My Face (1965) di John Newland nile», capitanate a breve da Modesty Blaise (1966) di Joseph Losey.12 E chi al cinema non vuole andarci, le spie può trovarle direttamente a casa propria, con una quantità di serie televisive come The Man from u.n.c.l.e. (il cui primo episodio va in onda il 22 settembre 1964, seguito dal lungometraggio di John Newland, La spia dai due volti, nel 1965 e dalla serie The Michael Avallone,The Girl from Girl from u.n.c.l.e. nel 1966)13 u.n.c.l.e., Signet 1967 39 Poster di Modesty Blaise (1966) di Joseph Losey o Mission: Impossible, in onda a partire dal settembre 1966. Oppure, come le due serie di importazione britannica, Danger Man (la cui seconda stagione si afferma negli Stati Uniti nell’aprile 1965 con il titolo Secret Agent, e un tema musicale che fa epoca, Secret Agent Man di Johnny Rivers), e The Avengers: Agenti speciali, destinata al successo americano nel marzo 1966, quando Diana Rigg – maliziosa Emma Peel tutta stivali e pelle nera – prende il Diana Rigg nel ruolo di Emma Peel posto di Honor Blackman a in The Avengers (1966) fianco dell’agente gentiluomo John Steed. E si può pure movimentare la propria giornata con una colonna sonora adeguata, dato che non mancano i dischi – temi musicali, raccolte, brani come Agent Double-O-Soul di Edwin Starr – che cavalcano la voga spionistica. Insomma, le spie si incontrano ovunque negli anni Sessanta, dalla top ten ai grandi magazzini ai negozi di giocattoli: il termine stesso spia diventa in qualche modo sinonimo di profitto, e il mercato si impegna con passione a soddisfare ogni gusto e preferenza di ogni età e genere sessuale; sì, perché la spia, come abbiamo visto, invita uomini e donne a un medesimo, grande gioco d’identificazione e proiezione. La spia è un po’ il gioco di ruolo ideale per tutta la famiglia – anche per i bambi41 ni, che ci trovano un mondo immaginario di nuovi eroi da affiancare ai supereroi dei fumetti (a propria volta fonte d’ispirazione per le frotte di spie pop capitanate da James Bond), e che grazie a loro provano come ci si sente a essere un agente infiltrato o un giustiziere incappucciato, e ad avere trame nascoste, doppie vite e missioni segrete. Sintomo inconfondibile di successo, le – numerosissime – parodie della spia non si fanno attendere, culminando in una produzione dal cast stellare, Casino Royale (1967), che trasforma il primo episodio della saga di Fleming in una costosissima, formidabile parodia psichedelica del mito Bond, in cui tutti gli agenti dei servizi segreti britannici, uomini e donne, vengono rinominati James Bond. (Se il romanzo del 1953 metteva in scena la nascita della straordinaria macchina narrativa di 007, il film celebrava e dissacra42 Giocattoli per un’infanzia da 007 e Goldfinger (1964-65) Poster di Casino Royale (1967) Locandine dell’edizione italiana di Casino Royale (1967) va, tongue in cheek, la nascita del mito Bond, della sua ossessiva riproduzione seriale.)14 In altri termini, la figura della spia diventa un’arma fondamentale nella «controinvasione» britannica di quella che un tempo era una colonia – gli Stati Uniti – che ora sta a sua volta colonizzando l’Europa: la spia insomma come occasione di riscatto, un’arma che consente di restaurare, in una clamorosa operazione di maquillage, lo sbiadito prestigio britannico.15 Nelle parole di un critico cinematografico del londinese Observer, Ronald Bryden, «assieme alle minigonne in pvc e alla musica pop, i thriller parodici alla James Bond sono diventati uno dei modi attraverso cui la Gran Bretagna cerca di ricostruire il primato ormai perso nell’industria cotoniera, aeronautica o navale. Le parodie spionistiche […] hanno preso il posto dei musi44 Sean Connery in Agente 007: Si vive solo due volte (1966) di Lewis Gilbert 45 James Bond con Miss Moneypenny cal hollywoodiani nella fantasia globale».16 Perché di fantasia si tratta, di una fantasia spionistica che autorizza la trasgressione dislocandola altrove: nell’esotismo delle colonie che furono, e in una figura il cui fascino rinvia a un Impero che non c’è più, e all’affettata altezzosità dei suoi costumi. L’ironia insita in un tale fantastico risorgere della grandezza perduta è del resto perfettamente in tono con il distacco aristocratico, a propria volta ironico, che caratterizza Bond fin dalle sue origini letterarie, e pone tanto la vitalità della classe operaia quanto l’aplomb upper class quale seducente «altro» dell’America «senza classi» degli anni Sessanta, tutta pop, jet set e tracotanza inclusiva così propriamente middle class. Ecco serviti, dunque, gli ingredienti di una grande stagione culturale: abbiamo il personaggio, la star, un tono (ironico) e una sceneggiatura; uno script fatto di cospirazioni chic, segreti tentatori e inviti seducenti, e ovviamente una redenzione finale che riporta ai valori della vita ordinaria e alla materialità dei consumi. (In quanto emblema, la star-spia è del resto un indice – segnala un ordine infranto, e la necessità di ripristinarlo.) Perché ciò che rende Bond intrigante (lui, e la schiera dei suoi emulatori) è proprio la sua ironia, quell’ironia che gli consente di «comportarsi male» e di lasciare intuire che se, mentre sconfiggeva i nemici dell’umanità, ha infranto qualche tabù, in fondo non faceva sul serio. Che il suo cuore, dopotutto, appartiene a Miss Moneypenny. Come a dire: una spia serve certamente degli scopi, ma non quelli evidenti. E non agisce mai per conto proprio. 47 Copertina di Partisan Review, autunno 1964
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