RASSEGNA STAMPA lunedì 22 settembre 2014 ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA RAZZISMO E IMMIGRAZIONE SOCIETA’ BENI COMUNI/AMBIENTE INFORMAZIONE CULTURA E SCUOLA INTERESSE ASSOCIAZIONE ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO IL MANIFESTO AVVENIRE IL FATTO IL RIFORMISTA PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA del 22/09/14, pag. 7 FIRENZE · Domani nel capoluogo toscano manifestazione nazionale contro le guerre L’arcobaleno torna in piazza. Per la pace R. Ch. FIRENZE «Inviare le armi non ha mai fatto cessare i conflitti – ricorda Francesca Chiavacci piuttosto li ha ulteriormente esacerbati. Quanto alla cosiddetta ’esportazione’ della democrazia con gli interventi armati, a vent’anni dal primo tentativo nella ex Jugoslavia anche i fautori di quella strategia si sono resi conto che si tratta di azioni inefficaci ». Da questa doppia constatazione, sintetizzata dalla presidente Arci e referente della Rete per la pace, prende le mosse l’iniziativa «Facciamo un passo di pace», organizzata per domenica a Firenze da un comitato promotore forte anche della Rete italiana per il disarmo, di Sbilanciamoci e del Tavolo per gli interventi civili di pace. L’appuntamento al piazzale Michelangelo, dalle 11 del mattino fino al pomeriggio, si basa su questo assunto: «Visto quello che sta accadendo a Gaza, in Ucraina, in Siria, in Iraq, in Libia, in Afghanistan e nel Congo, oltre che nelle altre guerre ’dimenticate’, noi torniamo a chiedere un cambiamento radicale, dopo anni di fallimenti, delle politiche dei governi e delle istituzioni internazionali». Esemplifica Sergio Bassoli: «Quello che sta accadendo ai confini dell’Ucraina e della Siria è il frutto di gravissimi errori della politica: abbiamo assistito alla decisione, che mette in discussione la stessa Costituzione, dell’invio delle armi senza una discussione parlamentare, e senza cercare soluzioni alternative». Di fronte alla obiezione di essere delle «anime belle», le reti arcobaleno ribattono offrendo il palco alle vittime delle guerre: ragazze e ragazzi provenienti dalle aree di conflitto, coautori anche di una serie di schede con analisi della situazione e proposte concrete di intervento umanitario. In parallelo sarà lanciata la campagna per la difesa civile non armata, con una proposta di legge popolare per istituire un dipartimento ad hoc. Intervengono anche Alex Zanotelli, Mai Al Kaila ambasciatrice palestinese in Italia, Goffredo Fofi e Cecilia Strada, fra le adesioni i comitati Tsipras e l’Arci, Sel e la Cgil, Rifondazione e la Fiom, il Pdci, l’Anpi ed Emergency.Oltre agli interventi le musiche del Ciclista, il Maran Ensemble, Luca Lanzi della Casa del Vento e Francesco Moneti dei Modena City Ramblers. Attesi fra i partecipanti Enrico Rossi e Nichi Vendola, invitato anche Matteo Renzi. Da La VocedelTrentino.it del 19/09/14 Un passo di pace, disarmo, nonviolenza! L'autore Massimiliano Pilati Testimonianze da Afghanistan, Palestina, Israele, Siria, Iraq, Libia, Congo. Oltre 30 interventi, tra cui quelli di Alex Zanotelli, Enrico Rossi, Mai Al Kaila (Ambasciatrice Palestinese in Italia), Goffredo Fofi, Cecilia Strada. La musica de Il Ciclista, Maran Ensemble e un duo tutto speciale composto da Luca Lanzi della Casa del Vento e Francesco Moneti dei Modena City Ramblers. La conduzione sul palco a cura dell’attrice Daniela Morozzi. 2 Firenze. Si presenta così ‘Facciamo Insieme un Passo di Pace’, la manifestazione-evento nazionale in programma domenica prossima 21 settembre in piazzale Michelangelo a Firenze, dalle 11 alle 16, e promossa da quattro reti della società civile: Rete della Pace, Rete Italiana per il Disarmo, Sbilanciamoci, Tavolo Interventi Civili di Pace. Anche dal Trentino ci si muoverà con un pullman in partenza domenica mattina da Trento e Rovereto grazie al Comitato delle associazioni per la Pace e diritti umani. Secondo i promotori, le guerre hanno fallito e generato conflitti ormai fuori controllo. Non sarà una nuova operazione militare a sconfiggere l’Isis e a portare pace e democrazia in quell’area. Non è il ricorso alle armi lo strumento per la soluzione del conflitto israelopalestinese. Per questo, un passo di pace, per quanto difficile e ambizioso, è necessario. “Non siamo anime belle, ma siamo preoccupati dalla crescita della violenza e vogliamo che il mondo politico ci ascolti” – ha affermato a nome delle reti promotrici Sergio Bassoli, che, assieme a Francesca Chiavacci (presidente nazionale Arci) e Stefano Maruca (ufficio internazionali Fiom), ha partecipato alla conferenza stampa tenutasi questa mattina a Firenze. L’appuntamento di domenica prossima 21 settembre coincide con la Giornata Internazionale per la Pace istituita dalle Nazioni Unite come momento di riflessione e di richiamo verso la necessità di agire concretamente per la costruzione di un mondo privo di conflitti. In quella giornata saranno diffuse le proposte concrete e innovative di pace, disarmo e nonviolenza (già anticipate all’intergruppo Parlamentari per la Pace come ulteriore momento di un confronto aperto da qualche mese) elaborate dalla galassia di organizzazioni e associazioni che hanno promosso e aderito all’evento e dalla società civile internazionale che opera nei luoghi di conflitto. Inoltre, in questi giorni, le quattro reti promotrici hanno scritto una lettera di invito al Presidente del Consiglio. Un invito a partecipare alla giornata di mobilitazione, a non sottostimare la ricchezza del movimento pacifista e nonviolento italiano e a esercitare quell’idea di “ascolto democratico” così rilevante e utile, secondo il fondatore della nonviolenza politica italiana Aldo Capitini. “Negli ultimi tempi su vari temi (anche quelli che caratterizzano la nostra azione) – si legge nella lettera inviata nelle scorse ore – Lei ha interagito con molti organismi, internazionali in particolare con un confronto serrato con Unione Europea e Alleanza Atlantica. Perché dunque non prevedere anche un momento di confronto con la società civile italiana, che è in contatto e rappresenta anche quella europea? Perché non ascoltare anche le nostre indicazioni su come è possibile trasformare e risolvere i conflitti, senza limitarsi alle considerazioni di natura “strategica e militare” che avranno sicuramente portato alla Sua attenzione?” Associazioni, reti e organizzazioni legate all’evento di Firenze sono quindi pronte a fare un nuovo passo di pace, primo di una lunga serie necessaria. E proprio a Firenze, in vista dell’appuntamento di domenica prossima, gli studenti dell’Udu-Sinistra Universitaria e Rete Studenti Medi invitano a partecipare ad un flash-mob alle ore 17 di domani venerdì 19 settembre sul ponte Santa Trinita per sventolare bandiere e colori di pace. Facciamo insieme un passo di pace ha ricevuto il patrocinio della Regione Toscana e del Comune di Firenze e continuano a giungere le adesioni di numerose amministrazioni comunali. http://lavocedeltrentino.it/index.php/italia-estero/838-rubrichehomepage/pace-edisarmo/16232-un-passo-di-pace-disarmo-nonviolenza 3 Da Globalist.it del 20/09/14 La politica snobba i movimenti per la pace a Firenze Attesi domani in Piazzale Michelangelo 25 parlamentari; probabilmente assente il Governo. Lotti: preoccupante disinteresse istituzionale e mediatico Sono attesi almeno 25 parlamentari di vari partiti politici alla manifestazione per la pace in programma domenica al Piazzale Michelangelo di Firenze, presidio-evento, indetto da Rete della Pace, Rete Italiana per il Disarmo, Sbilanciamoci, Tavolo Interventi Civili di Pace per chiedere "un cambio delle politiche estere degli Stati e per riaffermare che non sono state, non sono e non saranno le guerre a portare pace e democrazia". A riferirlo è Giulio Marcon, deputato Sel, promotore della manifestazione con Sbilanciamoci e membro del Gruppo dei Parlamentari per la pace. Presenti, tra gli altri, Goffredo Fofi, Cecilia Strada, Susanna Camusso, Alex Zanotelli, Enrico Rossi. Probabilmente assente il Governo. "Un vero peccato - ha detto Marcon - che il Governo non voglia confrontarsi con le organizzazioni che promuovono questa manifestazione. Si fanno consultazioni per tutto, non vedo perché non si possa fare sui temi della pace, come ad esempio quello degli F 35". Posizioni simili per il coordinatore della marcia Perugia Assisi, Flavio Lotti, che dice: "Permane un preoccupante disinteresse istituzionale e mediatico. Per molti la pace non è un problema che merita attenzione e impegno - dice Lotti - Il Presidente della Repubblica ha parlato di una 'fase drammatica quale da tempo non conoscevamo' e Papa Francesco ha evocato lo spettro di una 'terza guerra mondiale in corso' Ma evidentemente questa 'terza guerra mondiale' non ci coinvolge ancora e possiamo permetterci di ignorarla". "Le guerre hanno fallito - ha detto la presidente dell'Arci nazionale Francesca Chiavacci É sempre più evidente come non abbiano portato pace e democrazia ma anzi aumentato conflitti senza controllo. È urgente ristabilire il primato della politica e intraprendere nelle aree di crisi percorsi di costruzione della democrazia, di disarmo, di nonviolenza". La manifestazione di Firenze si celebra nell'ambito della giornata internazionale della pace: è' atteso l'arrivo nel capoluogo toscano di circa cento pullman. Nel corso della manifestazione a piazzale Michelangelo si incroceranno esperienze, testimonianze, proposte provenienti dalla società civile italiana impegnata sui temi del disarmo della pace e anche da parte della società civile internazionale che opera nei luoghi di conflitto: Afghanistan, Palestina, Israele, Siria, Iraq, Libia, Congo. In tutto oltre 30 interventi, tra cui quelli di Alex Zanotelli, Enrico Rossi, Mai Al Kaila (Ambasciatrice Palestinese in Italia), Cecilia Strada. A condurre ci sarà l'attrice Daniela Morozzi. Mentre la musica musica è affidata alle esibizioni de Il Ciclista, Maran Ensemble e a un duo tutto speciale composto da Luca Lanzi della Casa del Vento e Francesco Moneti dei Modena City Ramblers. Oltre a Firenze, in programma due marce della pace, a Forlì e a Rovigo e altre iniziative in diverse città come Padova, Roma, Cosenza, Rovereto e Brindisi. Alla manifestazione di Firenze, dove sono attese almeno 5 mila persone, hanno intanto aderito anche gli scout laici del Cngei per "ribadire non soltanto il no alla guerra, alla corsa al riarmo, alla violenza, ma anche per rinnovare il proprio impegno educativo per contribuire alla costruzione di un mondo migliore attraverso l'educazione dei giovani alla pace". 4 Da Repubblica.it del 20/09/14 Sabir Festival, la solidarietà ai migranti di Lampedusa si trasforma in una festa di ANNA CEPOLLARO "Stiamo rischiando di abituarci alla morte come siamo abituati alla pioggia. Ecco a cosa serve questo festival, a ricordare che dietro le vittime degli sbarchi ci sono persone come noi", spiega Fiorella Mannoia, che ha curato gli eventi musicali della rassegna, mentre Celestini ha organizzato quelli teatrali. Dall'1 al 5 ottobre laboratori, spettacoli, dibattiti e tanti ospiti "Una volta nelle carte geografiche non c'era proprio. Poi, da quando è diventata la porta dei migranti, da quando hanno cominciato a sbarcare e a morire, è entrata nelle carte. Ma in un quadratino lontano". Ascanio Celestini racconta così Lampedusa, l'isola periferia dell'occidente, in cui i bambini crescono e giocano, ma per nascere devono andare sul continente. Il luogo che "per il resto del mondo è una notizia del telegiornale" dall'1 al 5 ottobre ospita il Sabir Festival, di cui Celestini ha curato gli eventi teatrali e Fiorella Mannoia quelli musicali. "Stiamo rischiando di abituarci alla morte come siamo abituati alla pioggia. Ecco a cosa serve Sabir, a ricordare che dietro le vittime degli sbarchi ci sono persone come noi, persone che avevano sogni, progetti da realizzare, famiglie", dice la cantante. Il "Festival diffuso delle culture mediterranee", con il patrocinio della Presidenza del Consiglio dei Ministri e della Rai, è promosso da Arci, Comune di Lampedusa e da quel Comitato 3 ottobre nato l'indomani della tragedia dei 368 migranti annegati nelle acque dell'isola. Cinque giorni di dibattiti con ospiti accorsi da ogni dove, anche da zone di guerra. E poi laboratori, concerti, teatro per bambini, spettacoli, come gli Italiani Cincali di Mario Perrotta e Andrea Satta (l'1) o Rumore di Acque con Alessandro Renda e i Fratelli Mancuso (il 2). Fino al concerto di Fiorella Mannoia e i suoi ospiti Elisa, Clementino, Frankie Hi-NRG (il 4). Il cuore non solo cronologico della manifestazione è il 3 ottobre che, a un anno esatto dalla tragica fine di tante povere vite, potrebbe diventare, secondo una proposta di legge depositata alla Camera, Giornata del ricordo. "Non per versare lacrime ma per chiedere di fare concretamente qualcosa", precisa Tareke Bhrane del Comitato 3 ottobre. E allora, in giro per l'isola per vedere i ragazzi del liceo dipingere i frangiflutti del molo con i superstiti, o realizzare un murales di fronte al Municipio insieme a Adal, il fratello di una delle vittime del naufragio, la cui storia è stata raccontata nel reportage di Valerio Cataldi La neve, la prima volta. All'imbrunire, dopo una lunga marcia silenziosa, i superstiti e i familiari delle vittime libereranno in cielo 368 lanterne, una per ciascuna persona annegata all'isola dei Conigli. La sera ancora teatro con Perrotta e Satta in La Turnata e con la Serata di Racconti di Ascanio Celestini, Mimmo Cuticchio e Giovanna Marini. E mentre il Festival si chiude con la partenza della Carovana antimafia, altre luci si accendono a Lampedusa il giorno dopo. "Viaggiare negli ultimi anni è diventato sinonimo di migrare. E al migrante vengono riservate solo tre possibilità: non arrivare mai, raggiungere la meta, non poter tornare". Da questa idea di Guido Barbieri nasce "Lampedusa: le nuove vie dei canti", un progetto del Ministero dell'Istruzione che dallo scorso febbraio ha coinvolto ragazzi e bambini dell'isola, che il 5 ottobre terranno uno spettacolo di musica e teatro itinerante. "Una sorta di Via Crucis laica" racconta Mario 5 Perrotta, che ne ha curato la regia e ha realizzato le interviste ai bambini, da cui ha tratto cinque monologhi recitati da altrettanti attori in ognuna delle cinque "stazioni". "Il loro punto di vista su ciò che è stata l'isola in questi anni è completamente diverso da quello a cui siamo abituati. I bambini vivono l'altro che viene dal mare come una risorsa e ti raccontano di aver portato a casa i figli degli immigrati anche se non si poteva fare. Li hanno aiutati a uscire attraverso un buco nella rete e a casa la mamma ha preparato i panini e loro sono andati a giocare a pallone". La musica i ragazzi di Lampedusa l'hanno imparata con i quattro docenti del progetto: hanno cantato insieme a Anna Di Baldo e Gianluca Ruggeri e suonato le percussioni con Fulvia Ricevuto e Antonio Caggiano. Nell'ultima tappa del concerto tutti insieme eseguiranno il "poema sonoro" che Paolo Marzocchi ha dedicato all'isola e ai suoi abitanti, mentre su un grande schermo dietro di loro scorreranno le immagini del "poema visivo" girato da Pier Giorgio Mangiarotti e Michele Fumeo. "Proveremo a fare un racconto diverso di quest'isola" conclude Perrotta. "Non è affatto un posto assediato come vogliono farci credere". http://www.repubblica.it/spettacoli/teatro-danza/2014/09/20/news/lampedusa-96232991/ Da Repubblica.it del 20/09/14 Lampedusa, arriva il festival delle culture mediterranee Lampedusa ospita all'1 al 5 ottobre il Sabir Festival, di cui Celestini ha curato gli eventi teatrali e Fiorella Mannoia quelli musicali. Il "Festival diffuso delle culture mediterranee", con il patrocinio della Presidenza del Consiglio dei Ministri e della Rai, è promosso da Arci, Comune di Lampedusa e dal Comitato 3 ottobre (nacque l'indomani della tragedia dei 368 migranti annegati l'anno scorso nelle acque dell'isola). Cinque giorni di dibattiti, laboratori, concerti, teatro per bambini, spettacoli, come gli Italiani Cincali di Mario Perrotta e Andrea Satta (l'1) o Rumore di Acque con Alessandro Renda e i Fratelli Mancuso (il 2). Fino al concerto di Fiorella Mannoia e i suoi ospiti Elisa, Clementino, Frankie Hi-NRG (il 4). Foto di Sara Prestianni Link alla fotogallery http://www.repubblica.it/spettacoli/teatrodanza/2014/09/20/foto/lampedusa_arriva_il_festival_delle_culture_mediterranee96237159/1/#1 Da Repubblica TV del 20/09/2014 Lampedusa, dal Sabir Festival a "Le nuove vie dei canti" Dall'1 al 5 ottobre Lampedusa ospita il Sabir Festival, promosso da Arci, Comune di Lampedusa e da quel Comitato 3 ottobre nato all'indomani della tragedia dei 368 migranti annegati nelle acque dell'isola. Cinque giorni di dibattiti con ospiti che arrivano da ogni dove, anche dalle zone di guerra. E poi laboratori, concerti, teatro per bambini, spettacoli. Poi, chiuso il festival, va in scena "Lampedusa: le nuove vie dei canti", il progetto del Ministero dell'Istruzione che dallo scorso febbraio ha coinvolto ragazzi e bambini dell'isola, 6 che il 6 ottobre terranno uno spettacolo di musica e teatro itinerante, nna sorta di Via Crucis laica. I ragazzi lampedusani la musica l'hanno imparata con i quattro docenti del progetto: Anna Di Baldo, Gianluca Ruggeri, Fulvia Ricevuto e Antonio Caggiano. Tutti insieme eseguiranno il "poema sonoro" che Paolo Marzocchi ha dedicato all'isola e ai suoi abitanti. Video di PIER GIORGIO MANGIAROTTI http://video.repubblica.it/spettacoli-e-cultura/lampedusa-dal-sabir-festival-a-le-nuove-viedei-canti/177782/176518?ref=twhv Da RaiNews del 20/09/2014 Dibattiti e incontri per parlare di culture mediterranee Lampedusa, dal primo al 5 ottobre c'è il Festival Sabir L'isola siciliana non solo simbolo di flussi migratori, ma anche crocevia di culture e tradizioni diverse. 5 giorni di dibattiti, laboratori, eventi teatrali e musicali e spazi dedicati alla letteratura, organizzati da Arci, Comitato 3 ottobre e Comune di Lampedusa, con il patrocinio della Presidenza del Consiglio dei Ministri e della Rai Lampedusa frontiera d'Europa e crocevia di culture e tradizioni diverse. Non solo di tragedie e flussi di migranti. Proprio per questo motivo, per sottolineare il ruolo che riveste per tutti i popoli mediterranei, dal primo al 5 ottobre l'isola siciliana ospiterà il Festival Sabir. Saranno cinque giorni di dibattiti, laboratori, eventi teatrali e musicali e spazi dedicati alla letteratura, organizzati da Arci, Comitato 3 ottobre e Comune di Lampedusa, con il patrocinio della Presidenza del Consiglio dei Ministri e della Rai. Nell’isola pelagia tra Europa e Africa sono attesi ospiti internazionali, europei e provenienti dalla sponda sud del Mediterraneo. Al centro del confronto ci saranno temi come la guerra, le frontiere, la democrazia, il lavoro dignitoso, il reddito, i diritti sociali e culturali, per non dimenticare il diritto al futuro delle giovani generazioni e naturalmente di migranti. Lampedusa è sempre stata una tra le mete turistiche più ambite d'Italia e d'Europa, addirittura del mondo per le sue bellezze e il suo paesaggio rigoglioso. Oggi, nell’immaginario collettivo il nome di Lampedusa si ricollega un po' automaticamente ai grandi flussi di migranti, alle tragedie avvenute nel canale di Sicilia, a un’accoglienza quasi sempre fornita in condizioni di emergenza, nonostante la solidarietà di cui spesso hanno dato prova gli abitanti, anche se in condizioni difficili. Obiettivo del Festival è quello di restituire all’isola un’immagine diversa, di valorizzarne il potenziale sociale, economico e culturale, di rafforzarne il ruolo ponte tra le due sponde del mar Mediterraneo. E proprio per ritornare al tema tragedie del mare, il 3 ottobre ci saranno varie iniziative in ricordo del tragico naufragio in cui persero la vita 368 migranti. In questa occasione a parlare saranno i familiari delle vittime, e chi miracolosamente è scampato alla strage. La direzione artistica degli eventi teatrali è affidata ad Ascanio Celestini, mentre per gli eventi musicali la direzione artistica sarà di Fiorella Mannoia. L'evento si intitola Festival Sabir perchè il Sabir era un idioma parlato in tutti i porti del Mediterraneo dal Medioevo fino a tutto il XIX secolo. Uno strumento di comunicazione in cui confluivano parole di molte lingue del Mediterraneo e che consentiva ai marinai e ai 7 mercanti dell’area di comunicare fra loro. E il titolo della manifestazione vuole proprio fare questo: ricordarci e ricordare la vocazione storica dell’isola di Lampedusa, che le deriva dalla sua collocazione geografica e che ha visto, nel corso dei secoli, il passaggio delle grandi civiltà mediterranee. http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/lampedusa-dal-primo-al-5-ottobre-Festival-Sabirsicilia-dibattiti-df83b963-6ca8-4183-b3b1-c2763ea11fe1.html Da Ansa del 20/09/14 Dal 1 al 5 ottobre, iniziative in ricordo vittime naufragio ROMA (ANSA) - ROMA, 20 SET - Lampedusa come luogo d'incontro e scambio di culture, Lampedusa approdo di tutte le grandi civiltà che hanno attraversato nei secoli il Mediterraneo: è il senso del 'Festival Sabir', la rassegna delle culture mediterranee in programma nell'isola dal 1 al 5 ottobre in concomitanza con il primo anniversario della strage del 3 ottobre, quando davanti all'isola un barcone con oltre 500 migranti naufragò e 368 persone trovarono la morte. Promosso dall'Arci, dal Comitato 3 ottobre e dal comune di Lampedusa, con il patrocinio della Presidenza del Consiglio e della Rai, Sabir punta a raccontare un'altra Lampedusa, una terra non di morte di incontro e scambio. La parola Sabir, infatti, sta a significare un idioma parlato in tutti i porti del Mediterraneo dal Medioevo fino a tutto il XIX secolo. Uno strumento di comunicazione in cui confluivano parole di molte lingue del Mediterraneo e che consentiva ai marinai e ai mercanti dell'area di comunicare fra loro. Per secoli dunque Lampedusa, che nell'immaginario collettivo di oggi è soprattutto luogo di emergenza e tragedie, è stata invece luogo d'incontro e di scambio di culture, tradizioni e saperi, grazie al passaggio delle grandi civiltà mediterranee. L'intento del Festival è dunque quello di valorizzare il potenziale sociale, economico e culturale dell'isola, rafforzandone il ruolo di ponte tra le due sponde del Mediterraneo. Nel corso dei 5 giorni del Festival, si alterneranno dibattiti con ospiti internazionali, europei e provenienti dalla sponda sud del Mediterraneo, comprese alcune delle aree di guerra; laboratori, eventi teatrali e musicali, spazi dedicati alla letteratura. La direzione artistica degli eventi teatrali è affidata ad Ascanio Celestini per quella degli eventi musicali sarà di Fiorella Mannoia. Il 3 ottobre, anniversario della tragedia, ci saranno varie iniziative in ricordo del naufragio: iniziative di cui saranno protagonisti i familiari delle vittime e i superstiti.(ANSA). Da Rai del 21/22/23 settembre Orari di programmazione dello spot scritto e diretto da Ascanio Celestini sul Festival Sabir 21/09 RAI UNO 12:55 21/09 RAI DUE 18:25 21/09 RAI TRE 23:25 22/09 RAI TRE 10:35 22/09 RAI DUE 14:35 22/09 RAI UNO 14:50 23/09 RAI TRE 08:00 23/09 RAI UNO 14:50 23/09 RAI DUE 15:15 8 Da Left del 20/09/14 Rosa nel deserto Alganesh Fessaha ha già salvato la vita a 3.500 persone, strappandole dalle mani dei trafficanti di esseri umani. 11 3 ottobre tornerà a Lampedusa, un anno dopo la strage. Per chiedere ai politici risposte concrete: «Altrimenti siete peggio degli scafìsti» Tiziana Barillà Ogni mattina Alganesh Fessaha si sveglia con lo squillo del telefono. Dall'altra parte della cornetta ci sono le madri e i parenti dei giovani eritrei, partiti alla volta dell'Europa, che non hanno più traccia dei loro figli. «Vado a letto alle 2 del mattino e all'alba già cominciano a chiamarmi, sono disperati», racconta a left. «Pensa che ancora non riusciamo a sapere dove sono finite 244 persone partite lo scorso 6 giugno, non le troviamo». Una volta segnati i nomi dei dispersi e riattaccato il telefono, Fessaha e i suoi collaboratori si mettono alla ricerca. Dove? Nelle prigioni della Libia, del Sudan o dell'Egitto. E, poi, provano a liberarli. Come? Trattando coi carcerieri, «ma senza pagare nessun riscatto». Finora così ha strappato dalle loro mani 3.500 persone. Lo ha fatto insieme alla sua ong "Gandhi", che ha chiamato così in memoria del Mahatma ma anche di suo padre, combattente pacifista per l'indipendenza dell'Eritrea, che nel suo Paese aveva lo stesso soprannome. Il 3 ottobre Alganesh sarà a Lampedusa, dove dal primo al 5 del mese si terrà il festival Sabir. Medico specialista in medicina ayurvedica, Alganesh è cittadina italiana e lo scorso dicembre ha ricevuto il prestigioso Ambrogino d'oro di Milano per il coraggio con il quale da undici anni affronta i trafficanti nel deserto del Sinai. Alganesh - che in lingua eritrea significa "tu sei il mio riposo" - racconta le sue atroci esperienze con voce pacata. Alla guerra ci ha fatto l'abitudine, ci è cresciuta dentro sin da giovanissima, quando faceva la resistenza in Eritrea. Ma allora c'erano il regime etiope e la lotta per l'indipendenza. Oggi invece - e da 22 anni - c'è il regime di Isaias Afewerki, uno Stato militare in cui ai maschi dall'età di 16 anni - e fino ai 50-54 - spetta un futuro certo: divisa e lavori forzati. «I giovani non hanno avvenire, non possono studiare e se rimangono vengono schiavizzati, costretti a costruire le case dei militari e dei vari ministri. Con uno stipendio di 10 euro al mese. Perciò scappano ». Ogni mese dall'Eritrea se ne vanno in 3mila. Ma fuggire dal Corno d'Africa significa andare incontro alla morte - almeno 8mila i cadaveri consegnati dal deserto del Sinai nell'ultimo decennio - o alla prigione. Perché i più giovani che tentano la via della Libia, in questo percorso, vengono spesso rapiti dall'esercito egiziano al confine con Israele o dai beduini del deserto. «Da questa situazione ne abbiamo liberati 3.500», ribadisce Fessaha. COME SI LIBERA UN PRIGIONIERO I trafficanti di esseri umani sono armati fino ai denti, spietati. Soprattutto nel deserto del Sinai. Alganesh, senza soldi per il riscatto e senza armi, li affronta da sola o affiancata da un amico, lo sceicco salafita Awwad Mohamed Ali Hassan. Un religioso che, per il suo credo, non può nemmeno toccare la mano di una donna ma che affianca Fessaha in queste imprese. «Lo fa per il Corano, mi dice spesso, se uccidi anche una sola persona è come se uccidi il mondo intero». Ma come funziona una liberazione nel deserto? <<Mi contattano - risponde - e mi danno un segnale, mi indicano un albero o una moschea. Io chiamo lo sceicco e lui va a cercare quel posto. E comincia la trattativa. Lui è un personaggio ascoltato e rispettato nel deserto, ogni venerdì legge il Corano, Si presenta per chiedere di quelle persone, all'inizio i beduini negano, ma lui insiste finché non riusciamo a portarli via, anche solo 3 su 10 ma li portiamo via. A quel punto li accompagno 9 al Cairo dove li consegno alle Nazioni Unite». Finora Alganesh, travestita come la gente del luogo, è sempre riuscita a farla franca. Ma «può capitare che ci siano ribelli che sparano e ci rincorrono o ci minacciano», conferma. «So bene che è pericoloso, anche loro hanno il mio numero di telefono e spesso mi chiamano per minacciarmi. Ma finché non mi scoprono va bene », dice Alganesh. Che subito dopo la visita di ottobre a Lampedusa tornerà nel deserto: «Abbiamo un centinaio di persone da liberare». I PROFUGHI E LE SPIE A Lampedusa. Alganesh Fessaha c'era stata anche un anno fa, subito dopo il naufragio del 3 ottobre. E allora denunciò con forza la presenza delle autorità e dell'ambasciatore eritreo sia sull'isola, sia ad Agrigento, in occasione dei funerali: «A Lampedusa hanno permesso che i gli uomini dei presidente Afewerki facessero da interpreti ai sopravvissuti ». Gli scampati alla morte si trovarono faccia a faccia con i responsabili di un governo dal quale erano in fuga: «Un'azione non solo illegale ma anche inumana. Perché se l'interprete è un funzionario del governo può riferire ai servizi chi era presente lì a Lampedusa. Ed è successo». Con conseguenti ritorsioni contro le famiglie rimaste in Eritrea: •<Per i parenti del giovane che scappa c'è il ricatto. Se il governo scopre che qualcuno non c'è più va dalla famiglia e gli chiede: dov'è tuo figlio? Riportalo qui oppure paghi 50mila nakfa, che sono oltre 2.500 euro. Soldi che non hanno, perciò anche loro si trovano costretti a fuggire». «Mi auguro che il governo italiano non rifaccia questo errore tra qualche giorno », avverte Fessaha. «Alla celebrazione del 3 ottobre potrebbero essere presenti ancora una volta le autorità eritree. Se è pur vero che la gran parte dei sopravvissuti a quella strage sono altrove, ci sono tanti altri eritrei sull'isola. E ci saranno anche molte spie tra i loro connazionali che verranno per la cerimonia». LE NUOVE ROTTE L'Europa diventa una meta sempre più pericolosa, perciò in Africa si provano a tracciare nuovi percorsi. E nuove direzioni: «I trafficanti si combattano tra di loro, in Libia e in Sudan, per questo i flussi si stanno tornando a spostare verso l'Egitto, ma questa volta ad Alessandria», spiega Alganesh. «È una rotta cominciata da molto poco e stanno già cercando di arginarla». A prendere piede, invece, è la rotta che passa dalla Nigeria verso il Sudamerica, per raggiungere dal Messico gli Usa. Secondo l'ong Gandhi, è già cominciata da 3 o 4 anni e «prenderà piede, perché finora tutti quelli che son passati da lì e sono arrivati in Sudamerica, non hanno vissuto le torture, se non il viaggio pesante e difficoltoso ». Niente di paragonabile a quello che si rischia nel deserto del Sinai o nelle prigioni libiche, egiziane e sudanesi. E infatti i prezzi sono alti: fino a 40mila dollari. Ma sono anche variabili, spiega Fessaha: «Dai 300 dollari per uno del Darfur ai 40mila per un eritreo». Dipende dall'appartenenza religiosa, dal Paese di provenienza. «Il cristiano è sempre quello che paga di più. Soprattutto l'eritreo, perché sanno che se un eritreo chiama urlando mentre lo torturano, la famiglia venderà la casa o farà debiti pur di pagare e farlo uscire. Fanno leva sul senso della diaspora e della solidarietà». CORRIDOI UMANITARI VS FRONTEX «I politici ipocriti sono peggio degli scafisti», è infuriata Alganesh. Perché «gli scafisti lo fanno per denaro, ma i politici dovrebbero difenderle le persone». Le sue accuse sono rivolte tanto al suo Paese di origine quanto all'Unione europea: «Dopo un anno non si può solo commemorare, che vengano i religiosi per pregare va bene. Ma i politici devono proporre qualcosa, di concreto». Di concreto, per il momento, si registrano l'interruzione di Mare Nostrum e la sua sostituzione con la nuova operazione europea Frontex plus. «È come mettere la polizia a controllare la frontiera», commenta Fessaha. «Non è quello che serve. Quello che serve è che partano immediatamente dei corridoi umanitari, che si possa andare a chiedere asilo nelle ambasciate. Non farlo significa 10 lasciare questa gente nelle mani dei trafficanti e della mafia, sia locale sia internazionale, che ogni anno guadagna miliardi sulla loro pelle. Aprire i corridoi umanitari è il modo per avere un controllo legale dei flussi migratori. I biglietti aerei, poi, chi fugge può anche pagarseli da sé. Già pagano i trafficanti, no?». E li pagano pure molto più cari. Da il FattoQuotidiano.it del 20/09/14 Musica a Lampedusa: ‘Sabir’, il festival delle polemiche di Silvia D’Onghia Per essere un Festival che vuole fare di Lampedusa un “ponte tra le culture”, la partenza non è proprio delle migliori. Il primo ottobre sull’isola sbarca “Sabir“, una kermesse di cinque giorni voluta dal sindaco Giusi Nicolini e organizzata da Arci, Comitato 3 ottobre e Comune di Lampedusa, che vede tra i padrini Fiorella Mannoia e Ascanio Celestini. Un ricco programma di dibattiti, eventi e spettacoli musicali che – si augurano gli organizzatori – possano richiamare a Lampedusa tanti turisti. Chissà se si riuscirà ad eguagliare il successo O’ Scia’, la manifestazione di Claudio Baglioni (dagli stessi obiettivi) che per dieci anni ha invaso la strade di Lampedusa e portato sulla spiaggia della Guitgia oltre 300 artisti italiani e stranieri. Il confronto è d’obbligo, perché la prima polemica legata a Sabir è nata proprio con la Fondazione O’ Scia’, presieduta dalla moglie di Baglioni, Rossella Barattolo. Nell’organizzazione della kermesse di quest’anno, infatti, il cantautore romano non è stato per niente coinvolto, nonostante l’impegno profuso in tutti questi anni e nonostante gli stessi lampedusani abbiano cercato invano di convincere l’amministrazione, anche per bocca di alcuni consiglieri comunali, a non disperdere l’esperienza di O’ Scia’. Pubblicità Non è solo questo, però: il problema è che ora Lampedusa, e Sabir in particolare, rischiano di prestarsi a cattive strumentalizzazioni. Con una delibera del 25 agosto scorso, la giunta guidata dalla Nicolini ha firmato un protocollo d’intesa che fa arrivare sull’isola i soldi di George Soros, il magnate ucraino naturalizzato americano a capo della Open Society Foundation. Colui che ha finanziato largamente la campagna presidenziale di Obama e che alla fine di luglio ha ammesso alla Cnn di essere responsabile della creazione di una fondazione in Ucraina che ha contribuito al colpo di Stato contro il presidente Ianukovitch. In Italia, come ha scritto il Sole 24 Ore, Soros – che nel 1992 speculò contro la lira causandone una svalutazione del 30% – nel giugno scorso ha messo gli occhi su 21 palazzi del Fondo immobili pubblici (Fip) messi in vendita dallo Stato. A Lampedusa finanzierà per sei mesi progetti come quello di Sabir, a partire proprio da quest’ultimo. Come se non bastasse, però, a polemiche si aggiungono polemiche: cinque membri del Comitato 3 ottobre, nato lo scorso anno dopo il naufragio in cui morirono quasi 400 persone, hanno deciso di lasciare l’associazione. “Avremmo voluto che il 3 ottobre a Lampedusa si potesse stare tutti in silenzio, uniti nel ricordo e in una preghiera comune a tutte le religioni – hanno scritto in una lettera aperta Laura Biffi, Paola La Rosa, Simone Nuglio, Fabio Sanfilippo e Alice Scialoja -. Volevamo evitare le strumentalizzazioni e le passerelle politico-istituzionali. Apprendiamo invece che il Comitato parteciperà a un dibattito-convegno proprio il 3 ottobre a Lampedusa con esponenti politici e istituzionali, 11 contraddicendo lo spirito del movimento e negando il senso profondo della memoria e del ricordo”. Contro Sabir, infine, si è mosso anche Andrea Camilleri, padrino di un altro “Sabir”, il “primo festival di letteratura araba contemporanea” che si svolge dal 2005 a Ragusa, Modica, Scicli e Siracusa. “Apprendo con stupore di questo nuovo festival Sabir – ha dichiarato lo scrittore -. Trovavo e trovo importantissimo l’intento di collaborazione e conversazione, appunto, tra i paesi che si affacciano sul Mediterraneo e mi auguro che si possa sempre collaborare e non creare discontinuità o peggio avversità, su un terreno così prezioso e oggi oltremodo minacciato”. “Discontinuità e avversità” all’immagine di un’isola che si è sempre contraddistinta per l’accoglienza e l’integrazione, di certo non giovano affatto. http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/09/20/musica-a-lampedusa-sabir-il-festival-dellepolemiche/1127635/ Da il Messaggero.it del 22/09/14 L'Aquila, psicosi Ebola tre stranieri con febbre alta di Marcello Ianni L'AQUILA - Tre nigeriani disidratati e soprattutto con febbre alta. È scattato nella notte di sabato al Pronto soccorso del San Salvatore, l’allarme per un presunto caso di ebola, escluso però nel corso della giornata di ieri dallo stesso nosocomio che tiene ricoverati i tre in un reparto attrezzato delle malattie infettive. L’allarme è scattato a tarda notte, quando in città sono arrivati settanta cittadini extracomunitari richiedenti asilo, di varie etnie, per sottoporsi a una serie di visite prima di essere dislocati nei vari centri di accoglienza del comprensorio. È stato un primo screening fatto dal personale sanitario nel complesso di Collemaggio ad accorgersi che per tre nigeriani, provenienti da Lampedusa, c’era qualcosa che andava verificato meglio. Ad allarmare il personale medico, soprattutto la febbre alta dei tre richiedenti asilo che sono stati immediatamente trasferiti al Pronto soccorso. Qui i medici hanno attuato il primo protocollo, quello dell’immediato trasferimento dei giovani nel reparto di malattie infettive che ha in sé un reparto particolare dotato di un ambiente cosiddetto a pressione negativa. Una stanza cioè con una pressione minore di quelle che la circondano, che causa un brusco spostamento d’aria verso di sé quando una porta o finestra è aperta. Questo sistema è solitamente usato in ospedale per mettere in quarantena persone afflitte da malattie altamente contagiose o mortali. Ed è in questo particolare ambiente asettico che i medici del reparto di Malattie infettive, diretto da Alessandro Grimaldi, che sono avvenute le prime analisi che hanno escluso la presenza soprattutto del virus Ebola, estremamente aggressivo per l’uomo che causa una febbre emorragica e conduce anche alla morte. I tre nigeriani restano ricoverati. In giornata sono attesi per loro altri esami prima di poter essere dimessi. La notizia del ricovero dei tre richiedenti asilo politico si è subito sparsa in città, destando in parecchi cittadini molta ansia. Comprensibile preoccupazione anche per il personale medico e degenti dell’ospedale, dato l’improvviso arrivo e ricovero dei tre pazienti. Una presenza in città quella dei richiedenti asilo non nuova. Infatti sono molti gli extracomunitari che in attesa di poter ricevere i documenti necessari, vengono ospitati in diverse strutture attrezzate: comitato territoriale Arci L’Aquila, Centro di servizi per il volontariato, Fraterna Tau Onlus, Caritas Diocesana Avezzano e Parrocchia Madonna delle Rocche di Rocca di Mezzo. Ospitalità che comprende anche altri comuni come 12 Castel del Monte e Avezzano (interporto). A fine luglio, proprio la Questura, per sancire la vicinanza delle forze di polizia e soprattutto l’integrazione culturale attraverso lo sport, aveva organizzato una partita di calcio. http://www.ilmessaggero.it/abruzzo/aquila_ebola_ospedale_febbre/notizie/915794.shtml 13 INTERESSE ASSOCIAZIONE Da Left del 20/09/14, pag. 12 MOBILITAZIONE PER LA PACE Un presidio per la pace a piazzale Michelangelo, uno dei Luoghi più belli del capoluogo toscano. Dove domenica 21 settembre dalle ore 11 alle 16 si danno appuntamento organizzazioni e movimenti per il disarmo. Le guerre ormai dilagano ovunque. Gaza, Palestina e Israele, Ucraina, Siria, Iraq, Libia, Afghanistan, Congo, sono Luoghi in cui i conflitti vengono risolti con le armi e con spargimenti di sangue. A promuovere l'appello e il presidio "Facciamo insieme un passo di pace" sono Rete della pace, Rete italiana disarmo, Campagna Sbilanciamoci e Tavolo interventi civili di pace. Occorre avviare un dialogo tra Stati e un processo che coinvolga le istituzioni, sostengono gli organizzatori dell'iniziativa che sottolineano quanto sìa importante la partecipazione dei cittadini per dare vita «a un'alleanza civica in Europa e nel Mediterraneo contro le guerre e per il disarmo». Il Comitato promotore invita ad aderire all'appello partecipando alla manifestazione dì Firenze. È un primo passo per estendere la mobilitazione in altre città europee e nei centri martoriati dai conflitti. Per le adesioni: [email protected]. Da Huffington Post del 19/09/14 Facciamo insieme un passo di pace Mao Valpiana Presidente nazionale del Movimento nonviolento In questo 2014, anno delle celebrazioni del centenario della prima guerra mondiale, abbiamo scoperto di essere entrati nella terza guerra mondiale, della quale si stanno svolgendo i singoli "capitoli" nei vari scenari del pianeta. Il Global Peace Index del 2014, che ogni anno misura il tasso di pace nel mondo in base agli indicatori significativi, segnala che dal 2008 la situazione è peggiorata in ben 111 Paesi su 162. Solo chi non ha tenuto conto della spaventosa crescita delle spese militari globali nell'ultimo decennio, che non ha eguali nella storia dell'umanità, può stupirsi della guerra che entra nelle nostre case con la violenza delle immagini e sbarca sulle nostre coste con la tragedia dei profughi. La violenza genera violenza, la guerra genera guerra. Nessuna guerra può generare un mondo più giusto. La prima guerra mondiale ha generato i fascismi che hanno portato alla seconda guerra mondiale, che a sua volta ha generato Hiroshima e Nagasaki, la corsa agli armamenti, l'incubo atomico nel quale viviamo ed una miriade di guerre infinite, a cominciare dal Medio Oriente, che oggi deflagrano in questa diffusa terza guerra mondiale, che si sta sviluppando in Palestina e Israele, in Siria, in Iraq, in Libia, in Afghanistan, in Ucraina, in Congo... Eppure la lezione non è servita. Dopo l'11 settembre 2001, che ha dato avvio alla guerra infinita, i governi non hanno approntato nessuno strumento di intervento nei conflitti alternativo alla guerra: non esiste un corpo civile capace di fare prevenzione nei conflitti prima che degenerino in guerre, di dare protezione e sostegno ai civili e ai movimenti disarmati, di operare una vera interposizione tra le parti nelle fasi acute, di promuovere la riconciliazione nelle fasi successive; la stessa ONU è stata svuotata politicamente ed economicamente, e non dispone di una vera polizia internazionale. Invece gli arsenali sono stati ricolmati di armi sempre più costose e micidiali, portando le spese militari globali 14 di gran lunga oltre il picco della corsa agli armamenti degli anni della guerra fredda tra Nato e Patto di Varsavia. La produzione e il commercio internazionale di armamenti non ha mai conosciuto epoca più fiorente, soprattutto verso il Medio Oriente e i Paesi in conflitto. Anziché chiedere all'ONU un intervento per proteggere in Iraq le vittime kurde dalla violenze dello "Stato islamico", il governo italiano ha deciso di mandare armi alla popolazione affinché si protegga da sé, alimentando ancor più la guerra di tutti contro tutti. Di fronte a questo scenario di violenze, di fronte alla reiterazione degli orrori ed alla follia della guerra, non possiamo rimanere silenti e inerti. Per questo, con le reti dell'associazionismo pacifista, disarmista, nonviolento italiano, abbiamo promosso la Manifestazione nazionale, straordinaria ed urgente, "Facciamo insieme un passo di pace" del 21 settembre a Firenze. Riuniti nel piazzale Michelangelo, dalle 11 alle 16, presenteremo le nostre proposte alla politica e all'opinione pubblica, ed assumeremo impegni e responsabilità. Fare un passo di pace per noi oggi significa investire nella ricerca, nell'educazione, nell'ambiente, nell'economia e nel lavoro, nella giustizia sociale, nella democrazia, nella cultura, nel dialogo, nella difesa civile, nella cooperazione, in funzione della pacifica e plurale convivenza e del governo democratico globale, convertendo le enormi risorse spese per armamenti; a cominciare dall'Italia. Questi sono i nostri passi di pace, verso la nonviolenza. http://www.huffingtonpost.it/mao-valpiana/facciamo-insieme-un-passo-dipace_b_5849364.html?utm_hp_ref=italy Da Repubblica Firenze del 21/09/2014 Duemila bandiere per la pace Duemila persone al raduno nazionale della Giornata per la pace al Piazzale Michelangelo. Ci sono anche la segretaria della Cgil Susanna Camusso, il leader di Sel Niki Vendola, la presidente di Emergency Cecilia Strada, oltre alle parlamentari Alessia Petraglia e Marisa Nicchi di Sel e Filippo Fossati del Pd. Un minuto di silenzio per ricordare le vittime delle guerre (foto Matteo Bovo) http://firenze.repubblica.it/cronaca/2014/09/21/foto/duemila_bandiere_per_la_pace96325462/1/#1 Da Articolo21 del 21/09/14 “Facciamo insieme un passo di pace!” Manifestazione Nazionale Firenze, 21 settembre Restiamo umani, facciamo sentire la nostra voce, mobilitiamo la società civile in Europa ed in Medio Oriente contro le guerre, contro le stragi di civili e contro i mercanti di armi, contro le politiche che quelle guerre hanno favorito, legittimato e a volte promosso. Diamo voce a chi resiste e si oppone in modo nonviolento alle guerre, alle pulizie etniche, alle politiche di guerra, ai regimi dittatoriali, al razzismo, all’apartheid. Costruiamo insieme una nuova storia di pace, di libertà, di diritti, di democrazia e di giustizia, diamo vita a un’alleanza 15 civica in Europa e nel Mediterraneo contro le guerre e per il disarmo. Lanciamo da Firenze una piattaforma di richieste e di campagne per un cambio di passo delle politiche dei governi e delle istituzioni internazionali. Il passo di pace che dobbiamo fare è tanto urgente quanto ambizioso e difficile. Perché fermare le guerre e le stragi significa dare finalmente il primato del governo globale del pianeta e delle relazioni tra Stati alla politica multilaterale, ad un sistema delle Nazioni Unite da riformare e da potenziare; significa cambiare il modello di sviluppo, non più orientato al consumo del pianeta per il benessere di pochi ma alla sostenibilità futura ed al benessere di tutti; significa applicazione e rispetto da parte di tutti gli Stati degli accordi, delle convenzioni internazionali e dei diritti umani con meccanismi sanzionatori e con un sistema di polizia e di giustizia internazionale operativo; significa riconoscere il diritto d’asilo e dare accoglienza ai profughi di guerra; significa investire nella ricerca, nell’educazione, nell’ambiente, nell’economia e nel lavoro, nella giustizia sociale, nella democrazia, nella cultura, nel dialogo, nella difesa civile, nella cooperazione, in funzione della pacifica e plurale convivenza e del governo democratico globale, convertendo qui le enormi risorse spese per armamenti e guerre decennali. Se questo cambio di passo delle politiche non si realizzasse in queste direzioni sappiamo bene cosa ci aspetta, è sotto gli occhi di tutti: sono i 2000 morti di Gaza, il carcere a cielo aperto per 1,8 milioni di palestinesi, i 47 anni di colonizzazione e occupazione israeliana della Palestina, una vita sotto minaccia per il popolo israeliano, la guerra, i prodromi della pulizia etnica, la violazione dell’autodeterminazione dei popoli in Ucraina, come in Palestina e nel Sahara Occidentale, le 200mila vittime del conflitto siriano e le circa 2000 vittime che il conflitto iracheno sta mietendo ogni mese; le infiltrazioni mafiose e criminali in ogni conflitto, l’uso del terrorismo anche da parte degli Stati, la tortura, la detenzione illegittima, gli scomparsi,il fondamentalismo, il sostegno a dittatori e monarchie medioevali per difendere potenti interessi di parte e i nostri approvvigionamenti energetici; sono le esecuzioni di massa, la proliferazione degli armamenti e dell’economia di guerra, i milioni di profughi e di disperati in fuga, la finanza speculativa, il fallimento degli Stati, il saccheggio dei beni comuni e la crisi delle democrazie, la propaganda e le informazioni strumentalmente distorte dai poteri forti che influenzano e condizionano l’opinione pubblica… un elenco infinito di drammatici eventi che si ripetono sistematicamente, diventando parte del nostro quotidiano come fossero disastri inevitabili per proseguire il corso della civiltà, la nostra. Questo è il bivio che abbiamo di fronte: continuare a denunciare in modo generico questa realtà o lavorare con determinazione e strategia per mutare le politiche responsabili della proliferazione delle guerre, per costruire un’alternativa a questo corso della storia? Puntare l’indice solo sugli effetti o denunciare e sradicare le cause della violenza diretta, culturale e strutturale che permea il nostro sistema, di cui siamo in parte tutti complici? Alla viltà, al cinismo ed alla violenza, vogliamo sostituire l’alternativa del coraggio, della nonviolenza, della disobbedienza civile. A Firenze, in continuità con l’Arena di Pace e Disarmo, ascolteremo testimonianze provenienti dai teatri di guerra e le voci di chi si oppone in Europa e nel mondo alle politiche di guerra, per fare assieme questo passo di pace. Raccoglieremo e lanceremo concrete richieste alla politica, campagne che segnano un cambio di passo nelle proposte per la soluzione politica dei conflitti, per la pace, per i diritti, per la giustizia, per il disarmo e la difesa civile non armata e nonviolenta. Invitiamo quindi ad aderire a questo appello partecipando alla manifestazione di Firenze ed organizzando mobilitazioni in altre città europee e centri martoriati dai conflitti. Vi chiediamo di inviare fin d’ora alla Segreteria dell’evento, oltre all’adesione, le proposte e 16 campagne concrete, già strutturate, che vorreste rilanciare durante la manifestazione e inserire nella piattaforma finale. Comitato Promotore: Rete della Pace, Rete Italiana Disarmo,Sbilanciamoci,Tavolo Interventi Civili di Pace Basta guerre! Mai più vittime! Fermiamo le stragi di civili indifesi, a Gaza, in Palestina e Israele, in Siria, Iraq, Libia, Afghanistan, Ucraina, Congo …. Per Libertà, Diritti, Dignità, Giustizia, Democrazia Manifestazione Nazionale - Firenze, 21 settembre 2014 Piazzale Michelangelo – Ore 11:00 – 16:00 21 settembre 2014 http://www.articolo21.org/2014/09/facciamo-insieme-un-passo-di-pace-manifestazionenazionale-firenze-21-settembre/ Da La Nazione.it del 21/09/14 Al piazzale sventolano i colori della pace Firenze, 21 settembre 2014 - Una bandiera arcobaleno di 15 metri per 30, un minuto di silenzio per la pace e decine di aeroplanini di carta lanciati dal palco per dire 'No agli F35' hanno animato oggi piazzale Michelangelo dove la Rete della pace, la Rete italiana per il disarmo, sbilanciamoci e il Tavolo interventi civili di pace hanno organizzato il presidio 'Facciamo insieme un passo di pace'. Alcune migliaia di persone - 5mila secondo gli organizzatori - si sono alternate al piazzale durante la manifestazione, iniziata alle 11 e terminata alle 16. Fra gli ospiti, il leader della Cgil Susanna Camusso e il segretario di Sel Nichi Vendola, oltre ai parlamentari del tavolo interparlamentare della pace: Giulio Marcon, Alessia Petraglia, Marisa Nicchi di Sel, Roberto Cotti del Movimento 5 stelle, Filippo Fossati e Paolo Beni del Pd. Intevenuti dal palco, fra gli altri, Alex Zanotelli, l'ambasciatrice palestinese in Italia Mai Al Kaila e Cecilia Strada. Sono state inoltre proiettate a testimonianze video da Palestina, Afghanistan, Israele, Siria, Iraq, Libia, Congo. Link al video e alla fotogallery http://www.lanazione.it/firenze/pace-manifestazionebandiera-1.232072#1 Da Redattore Sociale del 20/09/2014 Pace, a Firenze 5 mila persone chiedono un cambio di passo Appello di Alex Zanotelli alla Cei: "Apra le canoniche e i conventi vuoti ai rifugiati". Vignarca: "Le reti pacifiste si trovano davanti a un bivio". Il ricordo delle vittime di Gaza FIRENZE - Circa 5 mila persone hanno partecipato al Piazzale Michelangelo di Firenze alla manifestazione 'Un passo di pace', presidio-evento, indetto da Rete della Pace, Rete Italiana per il Disarmo, Sbilanciamoci, Tavolo Interventi Civili di Pace, per invocare la fine di ogni guerra nel mondo. Una location incantevole con la vista su tutta Firenze dove sono arrivati tanti fiorentini e quasi 100 pullman provenienti da varie regioni d'Italia. Presenti, tra gli altri, il segretario della Cgil Susanna Camusso e il leader di Sel Nichi Vendola. Entrambi hanno ribadito la loro posizione sull'articolo 18. "Se si comincia dal togliere diritti è poco 17 credibile credere di estenderli - ha detto Camusso - Bisogna smetterla di fare una battaglia ideologica come quella che sta facendo il presidente del consiglio". E poi Vendola: "La cancellazione dell'articolo 18 è la peggiore delle porcherie". E infine: "Renzi vola nel verso di Berlusconi ed è un grande dolore". Presenti anche Ceciia Strada e Padre Alex Zanotelli, che ha rivolto un invito alla Cei 'perché parli, con più coraggio, in difesa dei profughi e dei rifugiati, e perché apra le canoniche e i conventi vuoti ai rifugiati". E poi un gruppo di 6 parlamentari del tavolo interparlamentare per la pace (Giulio Marcon, Alessia Petraglia, Marisa Nicchi, Roberto Cotti, Filippo Fossati e Paolo Beni). Durante la manifestazione, cominciata alle 11 è stata stesa una grande bandiere della pace di 15 metri per 30. Tantissime bandiere della Palestina e numerosi ricordi delle vittime di Gaza. Proprio Susanna Camusso ha incontrato l'ambasciatrice palestinese in Italia Mai Alkaila e ha indossato commossa una kefya. Tanti anche gli interventi raccolti e rilanciati dai promotori sui social. "Le reti pacifiste si trovano davanti a un bivio: continuare a denunciare in modo generico questa realtà o lavorare per mutare le politiche responsabili della proliferazione delle guerre, per costruire un’alternativa a questo corso della storia?" E' il commento di Francesco Vignarca Coordinatore Rete Italiana per il Disarmo sulla manifestazione condiviso su Facebook. "Noi crediamo che serva davvero un Passo di Pace, con una richiesta forte di cambio di rotta alla politica, che deve imparare ad ascoltare le società civili di tutto il mondo, senza affidare alle armi la soluzione dei conflitti (RS/Jacopo Storni) 18 ESTERI Del 22/09/2014, pag. 13 Ma il rischio per l’Occidente sono i jihadisti di Khorasan «Più temuti dell’Isis». Il capo: un fedelissimo di Osama WASHINGTON — Muhsin al Fadhli è uno degli ultimi «soldati speciali» di Osama. Uno della vecchia guardia di Al Qaeda, fidato e grande organizzatore, tra i pochissimi ad essere informato in anticipo dell’attacco all’America. Un uomo che il movimento ha mandato, nell’aprile del 2003, in Siria con due missioni: 1) Mettere fine al dissidio tra i qaedisti di al Nusra e l’Isis. 2) Preparare cellule in grado di colpire target occidentali. La prima è fallita, la seconda è in corso d’opera. Fonti di intelligence, citate dal New York Times, hanno messo in guardia: al Fadhli ha creato il gruppo Khorasan, un nucleo transnazionale più pericoloso, sul piano operativo, dell’Isis. Ne fanno parte militanti arrivati dal Pakistan, dal Golfo Persico e dai Paesi nordafricani. Fazione che godrebbe dell’appoggio tecnico degli estremisti yemeniti e soprattutto del grande esperto di bombe «invisibili», al Asiri. A lui il compito di fornire ordigni che sfuggono ai controlli. Al Fadhli non spunta dal nulla. Già, qualche mese fa, avevamo segnalato sulle pagine del Corriere la sua presenza in Siria, come figura di raccordo nelle file estremiste. E avevamo anche sottolineato come fosse arrivato dall’Iran, un Paese che è avversario dei qaedisti ma che nel post-11 settembre ne ha ospitati diversi. Con il doppio intento di tenerli d’occhio e di usarli in qualche baratto sotterraneo. Nella terra degli ayatollah il terrorista si è stabilito dopo aver «lavorato» con intensità. Ha avuto un ruolo nell’attentato contro una petroliera francese, ha ideato un paio di attacchi anti-americani ed ha raccolto molti fondi nel natio Kuwait, dove associazioni e famiglie non si fanno pregare per versare dollari nelle tasche dei terroristi. Insomma, un facilitatore importante e temuto, sul quale gli americani hanno posto una taglia di 7 milioni di dollari. Con queste credenziali al Fadhli si è trasferito in Siria. Ufficialmente svolgeva la funzione di numero tre, davanti a lui altri due «ufficiali». In realtà il vero faro è sempre stato il kuwaitiano e la sua influenza è poi cresciuta quando i due «colleghi» sono stati eliminati. Uno dall’Isis e l’altro dal regime. Al Fadhli ha così rinsaldato i legami tra al Nusra e la casa madre in risposta alla sfida dell’Isis. Un atto di insubordinazione che prosegue e che si è anche allargato in questi mesi. Chi segue le mosse sul fronte siriano è molto cauto. Le dinamiche non sono sempre lineari, le parentele ideologiche sono superate da quelle dei clan e la realtà locale — villaggio, città, popolazione — possono incidere sugli schieramenti. Una premessa necessaria per capire meglio il gruppo Khorasan. Un’interpretazione sostiene che si tratti ormai di una formazione separata da al Nusra. Almeno sul piano formale. Questo perché al Nusra, sia pure fedele ad Al Qaeda, non vuole avere in questa fase problemi con l’Occidente. Ha tutto da guadagnare dalla possibile campagna aerea Usa contro l’Isis in Siria e cerca di sbiadire la sua collocazione estrema. Del resto i mujaheddin di al Nusra sono a pochi metri dalle linee israeliane sulle alture del Golan e fino ad oggi hanno evitato di colpire il nemico storico. I servizi di sicurezza statunitensi ritengono, invece, che gli uomini reclutati da al Fadhli siano decisi ad attaccare un obiettivo statunitense o europeo. E nella designazione del bersaglio la loro preferenza va al trasporto aereo, anche se non escludono obiettivi diversi. Il terrorismo è anche opportunità. 19 Guido Olimpio Del 22/09/2014, pag. 13 Battaglia nella capitale dello Yemen I ribelli sciiti mettono in fuga il premier Quattro giorni di scontri nella capitale Sanaa, con almeno 140 morti e migliaia di persone in fuga, sono culminati ieri nella «vittoria» dei ribelli sciiti Hawthi che hanno preso il controllo di molte strutture strategiche nella capitale — tra cui il ministero della Difesa, la Banca centrale, una importante base militare e l’università di Iman — e costretto il primo ministro (sunnita) Mohammed Basindwa alle dimissioni. In serata il governo e i leader degli Hawthi hanno annunciato di aver raggiunto un accordo per il cessate il fuoco: in base all’intesa toccherà ai ribelli sciiti la nomina del nuovo premier, entro tre giorni, e saranno loro riconosciuti maggiori diritti. La situazione resta però estremamente instabile: il presidente Abdrabbuh Hadi, succeduto ad Ali Abdallah Saleh deposto dalla rivoluzione nel 2012, ha dichiarato di non «essere al corrente delle dimissioni» del premier Basindwa. Lo scontro tra gli Hawthi del Nord e le tribù sunnite è esploso nel 2004 e nel 2010 si era arrivati a una tregua. Ma l’anno dopo la «primavera araba» ha riacceso le tensioni interne e l’instabilità nel Paese più povero della penisola arabica. Da allora, gli scontri tra sciiti e sunniti sono proseguiti con alterne fortune, fino al rafforzamento recente degli Hawthi che hanno fatto delle città di Saada, nel nord, la loro capitale. L’instabilità dello Yemen, da sempre un Paese diviso tra tribù con ampie zone in cui il governo centrale non ha alcun potere, è inoltre aggravata dalla crescente aggressività di gruppi jihadisti sunniti, soprattutto nel sud dove ha base la «filiale» di Al Qaeda considerata dagli Stati Uniti la più pericolosa al mondo. 20 INTERNI del 22/09/14, pag. 2 Ma la sinistra sfida il segretario: “Trattiamo o l’arma finale sarà il referendum nel partito” GOFFREDO DE MARCHIS ROMA . Come in Scozia, la frattura del Pd sulla riforma del lavoro potrebbe sfociare in un referendum. Gli iscritti del Partito democratico verrebbero chiamati a pronunciarsi sull’abolizione del reintegro in caso di licenziamento previsto dall’articolo 18. In questo caso l’appiglio è un altro articolo, il numero 27 dello Statuto del Pd, ovvero la consultazione vincolante dei tesserati su temi di grande rilevanza. La possono chiedere il segretario, la direzione a maggioranza, il 30 per cento dei delegati dell’assemblea nazionale oppure il 5 per cento degli iscritti. Una sfida tra il sì o il no che le opposizioni interne sono convinte premierebbe le loro ragioni sconfiggendo Renzi. Se il premier cerca davvero lo scontro finale, il referendum può scattare davvero. Avrebbe certo il sapore della rivincita, ma è uno strumento difficilmente criticabile dai renziani perché rivolto direttamente ai cittadini. Eppure la minaccia di questa arma finale contrasta con i tentativi per l’accordo che le due partiti stanno facendo in queste ore. «È una extrema ratio », ammette il bersaniano Alfredo D’Attorre. Per il momento siamo di fronte alle prove muscolari. Quelle del premier, sotto forma di video e lettere agli iscritti. Quelle della minoranza che conferma gli appuntamenti di domani. Una riunione con Civati, Cuperlo, Fassina, Damiano, D’Attorre e forse il lettiano Boccia per valutare insieme la linea da tenere in Parlamento sulla legge delega. In serata poi, al gruppo del Pd alla Camera, si riunisce l’assemblea dei parlamentari bersaniani di Area Riformista. Circa 110 persone tra deputati e senatori. Nel mirino non solo il Jobs Act ma anche la legge di stabilità. Sono messaggi di forza che gli sfidanti si lanciano e che scontano anche la futura assenza di Renzi, impegnato nel viaggio americano per una settimana. In questa categoria rientrano anche l’annunciato voto contrario, a prescindere dalla disciplina di partito, di Stefano Fassina. E la dichiarazione di Pier Luigi Bersani che sentenzia: «Su questa materia esiste la libertà di voto». In realtà, Renzi legge spiragli di apertura. Nelle prese di posizione della Cisl e della Uil che spaccano il fronte sindacale. Nel sostegno di Confindustria. Persino nelle parole di Bersani «che, al di là della questione personale, mi sembra pronto a ragionare», lascia detto il premier ai collaboratori prima di partire per gli States. Non a caso nella trattativa, che per Largo del Nazareno conduce come al solito Lorenzo Guerini, Renzi ha fatto sapere che «lo strumento del decreto legge è escluso ». Sta in piedi soltanto come arma di pressione, ma non è quello che cerca Palazzo Chigi. Sarebbe davvero una dichiarazione di guerra. Renzi punta invece a marcare il con- fine tra vecchio e nuovo con il suo discorso di lunedì prossimo in direzione. Lo farà sottolineando che accanto alla flessibilità sui licenziamenti, cioè una riduzione dei diritti attuali, se ne guadagneranno altri per i precari attraverso un’indennità di disoccupazione universale (i soldi, 2 miliardi, verrebbero subito stanziati nella manovra) e le tutele per la maternità. È possibile inoltre accorciare i tempi per il contratto a tutele crescenti. Ossia, l’assunzione a tempo indeterminato potrebbe essere anticipata da 3 anni a 2 anni. Dopo di che rimarrebbe il reintegro per discriminazione. «Mi pare ovvio. Quello non si tocca», spiega Renzi quando illustra il suo piano. 21 Togliendo il decreto dal tavolo, la discussione sulla legge delega potrebbe essere più semplice. Ma la minoranza chiede di definire bene i poteri del governo. «La smetta con gli ultimatum e la propaganda — avverte Gianni Cuperlo — e chiarisca meglio cosa vuole mettere nella delega». Le riunioni di domani serviranno a fare il punto sugli emendamenti da presentare alla Camera e al Senato «Non faremo una battaglia di conservazione — dice D’Attorre — . Cerchiamo di imporre il modello tedesco riscrivendo anche l’articolo 18. Pensiamo a dei miglioramenti e siamo sicuri che Renzi se ne renderà conto leggendo le nostre proposte. Così troverà un punto di sintesi». del 22/09/14, pag. 1/25 L’articolo 18 e il marketing politico ILVO DIAMANTI IL DISEGNO di legge sul lavoro, approvato, nei giorni scorsi, in Commissione al Senato, rispetta una priorità del governo. Ma l’ipotesi di superare l’articolo 18, in particolare, risponde a un obiettivo politico — prima ancora che economico — di Matteo Renzi. Costruire il suo partito. Post- ideologico e post-berlusconiano. Il post-partito di Renzi. Il PPR oppure il PdR. Che vada oltre il Pd. Il dibattito sull’art. 18, infatti, ha ri-evocato e risollevato antichi steccati. Fra la sinistra e il resto del mondo. Anche se l’art. 18, nella realtà, ormai, è poco utilizzato. Gran parte delle vertenze aziendali aperte su questa base si conclude con un accordo fra le parti. Senza considerare che il segno di questa norma è, quantomeno, ambiguo e ambivalente. Perché esclude ampi settori del mercato del lavoro. Peraltro, i più deboli: gli occupati delle piccole imprese, i precari e gli intermittenti. I giovani. NON a caso, nel 2003 venne promosso un referendum per superarne i limiti. Per iniziativa di gruppi e soggetti di sinistra. Tuttavia, il valore dell’articolo 18 è ad alto contenuto simbolico. Costituisce, infatti, una sorta di bandiera della Legge 300. Lo Statuto dei lavoratori. Per questo ogni tentativo di metterci mano, non importa in che modo e a quale titolo, suscita tante reazioni. Com’è avvenuto, puntualmente, anche in questa occasione. Proprio per questo Renzi ha deciso di intervenire sull’art. 18. Proprio in questo momento. Al di là dell’efficacia e del contenuto del provvedimento. Perché è utile, funzionale a marcare confini e limiti del “suo” partito. Contro i nemici interni ed esterni. Penso, peraltro, che egli non abbia in mente di riprodurre l’esperimento di Tony Blair, come molti hanno osservato. Non gli interessa, cioè, costruire un NewPd, più lib che lab. Ma andare “oltre” il Pd e il suo tradizionale bacino elettorale di Centro-Sinistra. Un po’ com’è avvenuto alle recenti elezioni europee, quando il “suo” Pd ha conquistato quasi il 41% dei voti. Quattro su dieci: “orientati al leader”. Circa il 17%, sul totale dei votanti, cioè, ha votato per Renzi piuttosto che in base all’appartenenza al partito (indagine postelettorale Demos- LaPolis, luglio 2014). E ciò gli ha permesso di sconfinare rispetto ai territori di caccia della sinistra. Non a caso, è risultato primo partito praticamente dovunque, in Italia (con le sole eccezioni di Sondrio, Isernia e Bolzano). Ma soprattutto, ha sfondato nelle province del Nord e nel Nord Est. Dunque, fra i lavoratori autonomi: artigiani e commercianti, tradizionalmente attratti dai forzaleghisti (per echeggiare, una volta di più, Edmondo Berselli). Oltre che fra le componenti sociali popolari: operai e disoccupati. Che alle politiche del 2013 avevano privilegiato il M5s. Renzi, dunque, ha rotto il muro anticomunista. E quello della protesta (anti) politica. Per questo il suo consenso personale, all’indomani delle europee, si è allargato, ben oltre il livello, molto ampio, del voto. Ha raggiunto, cioè, il 74%. Mentre la fiducia nel governo ha sfiorato il 70%. Cioè, oltre il 90% 22 fra gli elettori del Pd, ma tra il 55% e il 60% anche nella base dei partiti di Destra: Fi, Lega e Fdi. Oggi, però, le cose sembrano cambiate. Dopo l’estate, infatti, il consenso nei confronti del governo e del premier ha subito un brusco e sensibile arretramento (Atlante Politico di Demos, settembre 2014). Superiore a 10 punti. Così, Renzi appare ancora forte, nel Paese. Ma soprattutto nel centrosinistra. Fra gli elettori del Pd resta vicino al 90%. Ma crolla (soprattutto) a destra: nella base di Fi e degli altri partiti di centrodestra (20-30 punti in meno). Oltre che fra gli elettori del M5s (dal 36% a 20%). Allo stesso tempo, nelle stime di voto, il Pd resta saldamente attestato al 41%. In altri termini, come abbiamo sostenuto nei giorni scorsi, Matteo Renzi oggi appare leader indiscusso del Pd. E del Centro-sinistra. E qui è il problema. Perché, oggi, per la prima volta, dopo molto tempo, fatica a intercettare i consensi di destra. E, sul piano sociale, il voto dei ceti medi del Nord. Che cominciano a mostrare impazienza, in attesa delle riforme promesse. Mentre deve fare i conti con le resistenze di un Parlamento eletto “prima” del suo avvento alla guida del partito e del governo. In particolare, deve affrontare le trappole disseminate dal Pd, ma anche da Fi, come si sta verificando di fronte all’elezione dei due nuovi giudici della Corte Costituzionale. D’altronde, il progetto del PdR si rivolge anche a Fi. È questo il significato del dialogo aperto con Berlusconi. A Renzi non interessa negoziare o federare Fi. Ma svuotarla. Com’è avvenuto con i Centristi e l’Ncd (fra i suggeritori del provvedimento). E ciò spiega le tensioni interne ai parlamentari di Fi, quando si tratta di votare insieme al Pd, come se si appartenesse a un unico soggetto politico. Appunto… Così, per Renzi, l’articolo 18 diventa un’occasione, anzi: l’occasione, per superare le divisioni interne al PdR. Per costringere alla ragione il Pd — e i dissidenti. Per riaprire la comunicazione con la Destra. E soprattutto con gli elettori di Fi. E con le componenti sociali della piccola impresa e del lavoro autonomo del Nord. I forza-renziani (come li ha chiamati Fabio Bordignon). In modo da “isolare” il dissenso dei parlamentari di Fi. Così Renzi insiste — e insisterà ancora — su argomenti ad alto tasso simbolico, relativi al lavoro e, probabilmente, domani, all’etica (come le unioni civili tra omosessuali). Ma accentuerà ancora la connessione fra comunicazione e politica. Fra governo e linguaggio. Marcando le differenze fra sé e gli altri “politici”. Fra sé e le “burocrazie”. Non solo della pubblica amministrazione, ma anche del Sindacato e di Confindustria. In attesa di potersi, davvero, misurare con gli altri, in nuove elezioni. Quando, come ora, si presenterà più antipolitico di Grillo, più berlusconiano di Berlusconi, più “diretto”, nel rapporto con il “popolo”, rispetto ai leader del suo e degli altri partiti. Il vero problema, per Renzi, è che, per arrivare al voto con una nuova legge elettorale e con risultati da rivendicare, deve passare attraverso questo Parlamento, misurarsi con questi partiti. Con questi leader. Che, di certo, non si faranno rottamare senza resistere. D’altronde, per agire in Parlamento e per correre alle elezioni, serve un partito. Ma il PdR, per ora, è un partito che non c’è. Certo: ha un volto, uno stile. Un linguaggio. Ma per vincere, per affermarsi: non basta. del 22/09/14, pag. 4 E il voto sulla Consulta ora rischia di essere congelato LIANA MILELLA 23 ROMA . Per la Consulta e i due giudici già si va oltre il voto di domani a Montecitorio dando per scontata la fumata nera. Si fanno strada due ipotesi. La prima: blindare almeno il voto sul Csm, dove bisogna eleggere due consiglieri, per sbloccare la grave impasse dell’attuale Consiglio in prorogatio . Mentre la Consulta può funzionare con 13 giudici (e pure con 11), il Csm è congelato, con grave preoccupazione del suo presidente Napolitano per le numerose nomine da fare dopo il taglio dell’età pensionabile delle toghe. La seconda ipotesi, a votazione fallita, è chiedere ai presidenti delle Camere una pausa di riflessione, motivata da due fatti, l’assemblea dell’Onu a New York che non solo vede presente Renzi, ma comporta la partenza di un’ampia delegazione fatta di ministri, vice ministri, sottosegretari, presidenti e vice presidenti di commissione. Per la seduta di domani alle 12 i responsabili dei gruppi hanno chiesto di sospendere le missioni e di rinviare i voli, ma da quel momento verrebbe a mancare un nutrito gruppo di votanti. Non solo. Se né Bruno né Violante raggiungono l’alto quorum previsto – i 3/5 dei componenti l’assemblea – a quel punto, dopo 14 votazioni, si dovrà pensare a due nomi diversi. E il segretario del Pd è via per una settimana. L’esigenza del rinvio potrebbe trovare ascolto presso i presidenti delle Camere in tensione per il lavoro ordinario che si sta accumulando. La condizione però è che domani si dia il via libera ai due candidati per il Csm, il forzista Zanettin e la Balducci per conto di Sel. Il Pd sta lavorando su questa ipotesi, che ha una forte controindicazione: Sel, incassata Balducci, potrebbe non votare più Violante per la Corte. Ma è certo che, dopo il caso Isernia, Sel non voterà Bruno. Proprio l’affare Bruno, non bastasse quello sul lavoro, ha aperto nel Pd lo scontro su che fare con un indagato. Casson, su Repubblica, ha detto la sua, in sostanza non votare per lui. Ma c’è chi insiste sull’assenza di una conferma ufficiale sulla posizione di Bruno che non ha ricevuto un avviso di garanzia (non è obbligatorio). «Perché la procura di Isernia, come ha fatto Napoli per Vitali, non chiarisce ufficialmente la sua posizione?», dicono nel Pd. Ma ai giornalisti Isernia ha confermato che Bruno è indagato. Fi lo difende e Berlusconi ha detto ai suoi: «Sia chiaro che se cade il nostro Bruno cade pure Violante». Il Leader di Fi è convinto che, anche per via della rissa sul jobs act, Violante calerà i voti in chiave anti Renzi. Fi però avrebbe interesse a portare a casa la candidatura di Zanettin, genero dell’avvocato Coppi, ma non è riuscita a chiudere un’intesa con la Lega. Il Pd s’interroga su che fare con Violante che rischia di uscire malconcio, mentre avrebbe potuto essere nominato da Napolitano che entro il 9 novembre deve scegliere altri due giudici della Corte perché scadono il presidente Tesauro e Cassese. Una parte dei Dem si preoccupa di appannare Violante mettendolo da parte assieme all’indagato Bruno. Ma se il Pd insistesse su di lui, ufficializzando il no a Bruno, a quel punto Fi non lo voterebbe più. M5S lancia un segnale, sarebbe disposto a votare per Augusto Barbera. Per raggiungere quota 570 gli oltre cento voti grillini non sono da buttar via. del 22/09/14, pag. 6 Berlusconi punta alle larghe intese “Sul lavoro il Pd imploderà ora Fi può diventare decisiva” Brunetta: “Sì alla fiducia sul decreto, ma poi si apre la crisi di governo” E sulla legge elettorale l’ex premier adesso avanza molti dubbi RODOLFO SALA 24 DAL NOSTRO INVIATO SIRMIONE . «Guardate che cosa sta succedendo con l’articolo 18, nel Pd si comincia a ballare, e a un certo punto la minoranza interna lo farà collassare; teniamoci pronti, cominciamo col sostenere il jobs act, poi vedrete che anche sull’Italicum il solco tra Renzi e i suoi oppositori interni si allargherà, e a quel punto noi saremo davvero determinanti ». Pranzo leggero a Desenzano, sul lago di Garda, dove Berlusconi ha per commensali una dozzina di forzisti, reduci come lui dal convegno di Sirmione pensato dalla coordinatrice lombarda Mariastella Gelmini per valorizzare i giovani azzurri. L’ex Cavaliere, accompagnato da Francesca Pascale, è pimpante, rilassato, perfino gasato per la prospettiva che si apre a Straburgo: «Finalmente riavrò l’agibilità politica». E davanti a un coregone al burro svela la sua strategia delle larghe intese, a un manipolo di fedelissimi: la Gelmini, Giovanni Toti, Paolo Romani, Mara Carfagna, Maurizio Gasparri, l’ex sindaco “formattatore” di Pavia Alessandro Cattaneo, Maurizio Gasparri e il coordinatore del Veneto Marco Marin (passa anche Raffaele Fitto, ma solo per un saluto fugace). Insomma: le difficoltà del premier, alle prese con un partito in rivolta sull’articolo 18, possono aiutare Forza Italia a uscire dall’angolo. Fare da stampella — e stavolta in modo determinante in Parlamento — al presidente del Consiglio. Larghe intese, appunto. Certo sulla legge elettorale molto sembra ancora da chiarire: «Renzi vuole l’Italicum per far fuori quelli della minoranza e mettere i suoi uomini; mentre il Consultellum prevede le preferenze, e i suoi avversari interni sono bravi a ottenerle». A Fi, insiste Berlusconi, l’Italicum non conviene: «Con quella legge Renzi governerebbe da solo, con il Consultellum avrebbe bisogno di noi». Ma la prima mossa da fare è sul lavoro. In questi giorni almeno due big han fatto capire che qualcosa sta cambiando. Renato Brunetta ha esordito con un auspicio: «Se Renzi dimostra di avere gli attributi », poi ha rincarato la dose in un’intervista al Mattino ha rincarato la dose: «Pronti a votare la fiducia sul jobs act, ma se va così si apre la crisi». E ieri mattina Paolo Romani, capogruppo al Senato: «Il decreto sul lavoro è un passo avanti sorprendente, nuovo; Renzi è stato coraggioso, e noi dobbiamo stare molto attenti; ho detto ai nostri di astenersi in commissione, ma in aula dobbiamo valutare la situazione; se il Pd si spacca e ci può essere una maggioranza riformista sul mercato del lavoro, io un pensierino ce lo farei”. Altro che pensierino, l’ex premier sembra aver già deciso. Si materializza a Sirmione poco dopo mezzogiorno, con tanto di occhiali da sole e bretelle. L’incipit è una battuta: «Sono venuto ad ascoltare e anche a prendere nota, visto che con l’età calano la vista, l’udito e anche qualche altra cosa, ma non si può dire… No, intendevo i pantaloni, mi sono messo apposta le bretelle per non calarli, in nessuna occasione». Non li cala, ma qualcuno in Forza Italia rosica: «Non moriremo renziani», era stato, sabato, lo strillo di Daniele Capezzone. E pure Fitto, molto applaudito quando evoca una «selezione dal basso della classe dirigente», non pare entusiasta di questo calcolatissimo nuovo corso. Per il resto, Berlusconi sprona i giovani azzurri a fare di più e meglio nei Comuni dove operano, magari prendendo esempio proprio da Renzi,: «Per diventare sindaco ha preparato una lista di cento cose da fare in cento giorni, fa niente se ne ha fatte solo il 20 per cento in cinque anni…». Renzi, sempre lui. Berlusconi lo cita ancora quando parla del suo partito un po’ammaccato, «dopo vent’anni ci ritroviamo più stanchi e meno entusiasti, per questo c’è bisogno di energie nuove». Lui è ancora una bandiera, anche se «a mezz’asta », mentre quella del giovane premier «sventola alta». Ma la bandiera di Silvio «vediamo di utilizzarla ancora; per il resto largo ai giovani, che devono saper vendere al meglio il martire che hanno in casa». 25 del 22/09/14, pag. 7 Berlusconi punta alle larghe intese “Sul lavoro il Pd imploderà ora Fi può diventare decisiva” Brunetta: “Sì alla fiducia sul decreto, ma poi si apre la crisi di governo” E sulla legge elettorale l’ex premier adesso avanza molti dubbi RODOLFO SALA DAL NOSTRO INVIATO SIRMIONE . «Guardate che cosa sta succedendo con l’articolo 18, nel Pd si comincia a ballare, e a un certo punto la minoranza interna lo farà collassare; teniamoci pronti, cominciamo col sostenere il jobs act, poi vedrete che anche sull’Italicum il solco tra Renzi e i suoi oppositori interni si allargherà, e a quel punto noi saremo davvero determinanti ». Pranzo leggero a Desenzano, sul lago di Garda, dove Berlusconi ha per commensali una dozzina di forzisti, reduci come lui dal convegno di Sirmione pensato dalla coordinatrice lombarda Mariastella Gelmini per valorizzare i giovani azzurri. L’ex Cavaliere, accompagnato da Francesca Pascale, è pimpante, rilassato, perfino gasato per la prospettiva che si apre a Straburgo: «Finalmente riavrò l’agibilità politica». E davanti a un coregone al burro svela la sua strategia delle larghe intese, a un manipolo di fedelissimi: la Gelmini, Giovanni Toti, Paolo Romani, Mara Carfagna, Maurizio Gasparri, l’ex sindaco “formattatore” di Pavia Alessandro Cattaneo, Maurizio Gasparri e il coordinatore del Veneto Marco Marin (passa anche Raffaele Fitto, ma solo per un saluto fugace). Insomma: le difficoltà del premier, alle prese con un partito in rivolta sull’articolo 18, possono aiutare Forza Italia a uscire dall’angolo. Fare da stampella — e stavolta in modo determinante in Parlamento — al presidente del Consiglio. Larghe intese, appunto. Certo sulla legge elettorale molto sembra ancora da chiarire: «Renzi vuole l’Italicum per far fuori quelli della minoranza e mettere i suoi uomini; mentre il Consultellum prevede le preferenze, e i suoi avversari interni sono bravi a ottenerle». A Fi, insiste Berlusconi, l’Italicum non conviene: «Con quella legge Renzi governerebbe da solo, con il Consultellum avrebbe bisogno di noi». Ma la prima mossa da fare è sul lavoro. In questi giorni almeno due big han fatto capire che qualcosa sta cambiando. Renato Brunetta ha esordito con un auspicio: «Se Renzi dimostra di avere gli attributi », poi ha rincarato la dose in un’intervista al Mattino ha rincarato la dose: «Pronti a votare la fiducia sul jobs act, ma se va così si apre la crisi». E ieri mattina Paolo Romani, capogruppo al Senato: «Il decreto sul lavoro è un passo avanti sorprendente, nuovo; Renzi è stato coraggioso, e noi dobbiamo stare molto attenti; ho detto ai nostri di astenersi in commissione, ma in aula dobbiamo valutare la situazione; se il Pd si spacca e ci può essere una maggioranza riformista sul mercato del lavoro, io un pensierino ce lo farei”. Altro che pensierino, l’ex premier sembra aver già deciso. Si materializza a Sirmione poco dopo mezzogiorno, con tanto di occhiali da sole e bretelle. L’incipit è una battuta: «Sono venuto ad ascoltare e anche a prendere nota, visto che con l’età calano la vista, l’udito e anche qualche altra cosa, ma non si può dire… No, intendevo i pantaloni, mi sono messo apposta le bretelle per non calarli, in nessuna occasione». Non li cala, ma qualcuno in Forza Italia rosica: «Non moriremo renziani», era stato, sabato, lo strillo di Daniele Capezzone. E pure Fitto, molto applaudito quando evoca una «selezione dal basso della 26 classe dirigente», non pare entusiasta di questo calcolatissimo nuovo corso. Per il resto, Berlusconi sprona i govani azzurri a fare di più e meglio nei Comuni dove operano, magari prendendo esempio proprio da Renzi,: «Per diventare sindaco ha preparato una lista di cento cose da fare in cento giorni, fa niente se ne ha fatte solo il 20 per cento in cinque anni…». Renzi, sempre lui. Berlusconi lo cita ancora quando parla del suo partito un po’ammaccato, «dopo vent’anni ci ritroviamo più stanchi e meno entusiasti, per questo c’è bisogno di energie nuove». Lui è ancora una bandiera, anche se «a mezz’asta », mentre quella del giovane premier «sventola alta». Ma la bandiera di Silvio «vediamo di utilizzarla ancora; per il resto largo ai giovani, che devono saper vendere al meglio il martire che hanno in casa». 27 LEGALITA’DEMOCRATICA del 22/09/14, pag. 19 Stretta anti-inchini alla processione vescovo contestato il prefetto se ne va Salerno, soste vietate per ordine della curia Portatori in rivolta: “Ci fanno perdere la fede” DARIO DEL PORTO NAPOLI . L’arcivescovo di Salerno aveva cambiato le regole della processione di San Matteo in ossequio alle disposizioni anti-inchino diramate dalla Cei. Niente più soste, né “girate” delle statue dei santi patroni, niente fuochi d’artificio. Ma le paranze, i gruppi di quartiere in cui si riuniscono gli organizzatori della festa patronale, si sono ribellate alle nuove disposizioni. E la celebrazione più amata dal cuore popolare della città, dopo essere partita ieri sera con oltre un’ora di ritardo, si è trasformata in una via crucis per il presule, monsignor Luigi Moretti, bersagliato dai fischi per tutta la durata della processione e invitato a lasciare Salerno da alcuni “portatori” delle statue. Una contestazione severa, controllata a vista dagli agenti della Digos, che ha spinto il prefetto Gerarda Pantalone ad abbandonare il rito. Non si è visto invece il sindaco Vincenzo De Luca (rappresentato dal vice sindaco Eva Avossa), che già in mattinata aveva discusso animatamente con il parroco del Duomo perché non aveva trovato il posto assegnato nella chiesa dove doveva celebrarsi il Pontificale. È stata una festa rovinata, dunque. Il clima era apparso teso già alla vigilia, quando la Curia salernitana aveva comunicato di volersi uniformare alle indicazioni della Conferenza episcopale, dettate dalla volontà di evitare celebrazioni sfarzose o omaggi alle case dei boss come accaduto in Calabria. La processione di San Matteo si snoda nel centro di Salerno e prevedeva come tappe la caserma della Guardia di Finanza, corpo di cui San Matteo è protettore e il palazzo comunale, dunque il rischio di “inchini” a malavitosi non esisteva. Ma le paranze non hanno accettato di modificare il rito perché, hanno ribadito «questa festa appartiene al popolo e si fa così da sempre». «Niente fermata nella caserma della Finanza, niente fermata in Comune: troppi stravolgimenti. Quasi quasi ci fanno perdere la fede» ha lamentato ‘O Vichingo, della paranza di San Giuseppe. I portatori hanno ritardato la partenza dopo un confronto con il vescovo. Quindi, una volta incamminati lungo il percorso, quasi tutte le paranze non hanno rinunciato alle “girate” delle statue dei santi, accolte dagli applausi dei fedeli e accompagnate dai fischi all’indirizzo dell’arcivescovo. Più volte, durante il tragitto, i capi-paranza si sono fermati e hanno posato sull’asfalto le statue dei santi prima di ripartire. Il vescovo invece ha scelto di non fermarsi, portando come da tradizione la reliquia del santo e anticipando la processione diretta verso la cattedrale. Non tutti però hanno approvato la contestazione: «Io come tanti altri salernitani sono rimasta delusa dal comportamento dei portatori — ha detto Giuliana Scarpetta, avvocato che, tra gli altri, ha rappresentato la famiglia di Elisa Claps — Noi cittadini siamo disponibili a portare sulle nostra spalle San Matteo pur di non renderlo oggetto di questa diatriba». 28 RAZZISMO E IMMIGRAZIONE Del 22/09/2014, pag. 21 Gommone affonda al largo della Libia Dieci vittime, almeno trenta i dispersi L’allarme lanciato da un satellitare: 55 migranti raccolti da un mercantile Continua a salire il bilancio delle vittime dei viaggi della disperazione nel Mediterraneo che hanno come porto di sbarco l’Italia. Ieri, si è consumata l’ennesima tragedia con un gommone che si è capovolto a circa 30 miglia dalle coste libiche dopo aver iniziato la sua traversata verso la Sicilia. Il bilancio provvisorio parla di almeno dieci morti e una trentina di dispersi. Altri 55 migranti sono riusciti a non farsi inghiottire dalle onde grazie all’intervento dell’equipaggio di una nave mercantile che batteva bandiera di Singapore. L’imbarcazione è stata la prima a raggiungere lo specchio di mare dopo l’allarme lanciato dal Comando generale del Corpo delle Capitanerie di Porto di Roma. La richiesta di soccorsi era arrivato da un telefono satellitare Thuraya. L’equipaggio del mercantile ha confermato il naufragio e ha allertato le autorità italiane dicendo che molte persone erano in acqua. Per questo, la Guardia Costiera ha ordinato a tutti i mercantili in navigazione nell’area di raggiungere subito la zona del naufragio. La scena che si è presentata ai soccorritori è stata impressionante: almeno dieci cadaveri galleggiavano a pelo d’acqua. Le immediate operazioni di salvataggio hanno consentito di recuperare almeno 55 persone che oramai nuotavano stremate dalla fatica. I sopravvissuti, dopo aver ricevuto i primi soccorsi, hanno raccontato che a bordo del gommone erano almeno in un centinaio. Altri mercantili si sono messi alla ricerca di almeno una trentina di dispersi. Con il passare delle ore e l’arrivo della notte, però, diminuiscono sensibilmente le speranze dei soccorritori di trovare salvi altri naufraghi. Con questa tragedia, si allunga l’ormai lunghissimo elenco di vittime inghiottite dal mare negli ultimi mesi nel Canale di Sicilia. Il 2014, in particolare, rischia di essere ricordato come l’anno con più immigrati morti in naufragi. Da gennaio potrebbero essere almeno duemila le persone inghiottite dalle onde mentre speravano di raggiungere le coste siciliane. Di 250 persone non si hanno notizie da due mesi. Il calcolo è dell’agenzia Habeshia, che raccoglie e diffonde segnalazioni sulla sorte di migliaia di profughi e migranti finiti nella rete dei trafficanti. Fino a oggi, il record di lutti si era registrato nel 2011 quando almeno 1.800 persone, tra morti e dispersi, erano scomparse. È stato stimato anche che sarebbero almeno 20 mila le persone morte o disperse nel Mediterraneo negli ultimi 20 anni. Un bilancio che può essere paragonato a quello di una guerra. Alessio Ribaudo 29 SOCIETA’ Del 22/09/2014, pag. 23 Le sbronze (sottovalutate) degli adolescenti Emergenza soprattutto tra i giovanissimi. Viaggio tra locali, ospedali e social network C’è chi, a una certa ora della serata, non ne può fare a meno. E non esita ad alzare le mani e picchiare quando — com’è successo a Firenze — il negoziante rifiuta di dargli dell’alcol per non violare l’ordinanza comunale che vieta la vendita di bottiglie da asporto tra le 22 e le 6 del mattino. Un caso tra mille. Sono tanti i giovani, alcuni anche giovanissimi, che in Italia con l’alcol hanno più di un problema. Tanto da finire anche in coma etilico: intossicati da etanolo, svenuti per terra, con la respirazione che si blocca e il cuore che rischia di fermarsi se non c’è nessuno a soccorrere. Secondo il ministero della Salute gli under 30 «rappresentano il 9,1% dell’utenza a carico presso i servizi per l’alcoldipendenza». Quasi uno su dieci. La prima sbronza, poi, arriva sempre più presto: già tra gli 11 e i 12 anni, dicono i medici. E per l’Istat più di due ragazzi su cento (nella fascia 11-24 anni) si sono ubriacati almeno una volta. Mentre oltre un under 20 su tre — scrive Espad, progetto europeo di ricerca sul consumo di alcol e droghe tra gli studenti — è stato protagonista del «binge drinking», le abbuffate etiliche in un breve intervallo di tempo, nell’ultimo mese prima della rilevazione. Soprattutto al Nord, calcola il Dipartimento politiche antidroga: a superare più spesso i limiti sono i maschi, anche se le femmine sono in aumento. Vodka e whiskey, rum e gin mischiati con bevande energetiche, soda e succhi di frutta. «Shot», i bicchierini da liquore, riempiti fino all’estremità che si tirano giù in un sorso il fine settimana. Quindi le serate «speciali» con prezzi scontati. Il mercoledì, per esempio. O il giovedì. Cocktail a tre, quattro euro. Shot a uno. Per non parlare degli «appuntamenti» sui social network. Come la «Nek nomination». Va di «moda» su Facebook. Bevi il più possibile. Intanto qualcuno ti filma con il telefonino. Così puoi pubblicare il video sul tuo profilo. Un’emergenza sociale, insomma. Anche se i giovani italiani restano sotto la media europea. L’Est e la Scandinavia sono lontani. Però, spiega il ministero della Salute, da noi «si consolidano i nuovi comportamenti di consumo più vicini alle culture prevalenti nel Nord Europa». Che vuol dire sempre meno vino — «tipico della nostra tradizione» — e sempre più bevande ad altissima gradazione, sempre più fuori dai pasti e sempre più concentrati nel tempo. Leonard Berberi Del 22/09/2014, pag. 23 L’allarme del primario: «Qui ormai arrivano anche ragazzini di 12 anni» MILANO — È quasi l’una al Policlinico, dall’ambulanza scende un giovane, non avrà neppure vent’anni. Le ginocchia non lo reggono, due infermieri gli tengono le braccia come i fili di un burattino. «Come ti chiami?» chiedono. «Br..o» biascica lui, gli occhi all’indietro e l’aria perduta. «Bruno, hai bevuto stasera eh?». Poi il silenzio e una lunga attesa, da solo, 30 adagiato molle sulla sedia a rotelle, alternando sonno profondo a rantoli inquietanti. Il 118 è sul chi va là. A San Siro c’è Milan-Juve, che chiama overdose di birre e sambuche, alla Fabbrica del Vapore un party di musica elettronica, e poi le feste. Alcatraz, Tunnel, Lime light, in discoteca va in scena il rito del sabato sera, affogato in vodka pura da bere tutta d’un sorso. A fine serata Barbara Guglielmi, medico del Pronto Soccorso del San Raffaele, è stravolta: «Arrivano con le ambulanze chiamate da amici o passanti. Trovati a terra, non riescono a stare in piedi e quando gli parli reagiscono in maniera aggressiva e si addormentano continuamente». Sono sempre di più e sempre più giovani. Disorientati, in preda ad allucinazioni, privi di sensi. «Gli ospedali più battuti sono quelli con la Pediatria», spiega il capoturno del 118. In via della Commenda, centro città, alla clinica De Marchi, gli adolescenti in trance alcolica incrociano bambini con la febbre alta. Qui, nei primi mesi del 2014 i ricoveri sono in crescita del 66 per cento rispetto a due anni fa: 50 casi in sette mesi, quasi quanto l’intero 2012. Il primario Emilio Fossati è preoccupato: «L’età si è abbassata. Oltre ai giovani tra i 14 e i 18 anni, si iniziano a vedere anche i 12 e 13enni». La maggioranza sono femmine, che reggono le bastonate di una sbronza meno dei coetanei. «Sono disinibite, spesso appartenenti alla Milano bene», riprende Guglielmi del San Raffaele. Una forte ubriacatura può mandare in tilt il cervello, con l’interruzione dei rapporti tra i due emisferi e il rischio di arresto cardiocircolatorio e crisi respiratorie. Anna, 17 anni, studia al liceo scientifico Donatelli. S’infila due dita in gola sopra un’aiuola davanti all’Alcatraz. «Sto bene», assicura mentre barcolla e non sa il rischio che corre: indursi il vomito da soli — come ripetono i medici — è pericoloso perché si rischia il soffocamento. Chiara Liverani, 47 anni, medico rianimatore dell’ospedale di Sesto San Giovanni, dopo una notte di volontariato davanti agli spazi East end di via Mecenate, periferia Est della città, è scioccata: «Mi sono imbattuta in adolescenti ammassati a terra che si vomitavano addosso fra di loro — racconta —. E non erano casi isolati. Li ho trovati in ogni angolo. Piuttosto che un’altra notte del genere preferisco una settimana non stop in ospedale. Certo, anche qui arrivano adolescenti messi male che rischiano il coma etilico. Un esempio? Una 14enne che si è ubriacata alle sei del pomeriggio durante una festa in casa dove si è scolata un’intera bottiglia di vodka». È allarme baby alcolisti. Così, negli ultimi mesi, i 13enni delle scuole di Milano sono stati chiamati a compilare un questionario: in un’indagine promossa dall’Osservatorio permanente giovani e alcol sono stati presi per la prima volta in considerazione 300 alunni di terza media. «Dai risultati (che saranno presentati nei dettagli il 23 ottobre al Circolo filologico di Milano) emerge che solo l’11,9 per cento dei giovanissimi ha genitori che sono stati in grado di affrontare l’argomento», spiega il segretario generale dell’Osservatorio, Michele Contel. In particolare, emerge quanto gli adolescenti si facciano influenzare, vittime delle logiche di gruppo. «Dallo studio risulta che se gli amici si ubriacano, otto su dieci si lasciano condizionare», precisa Maurizio Tucci, presidente del Laboratorio Adolescenza. Se tu bevi, bevo anch’io . Simona Ravizza Giacomo Valtolina del 22/09/14, pag. 4 Chiuso per crisi: si spengono le insegne CAMBIA IL COMMERCIO E IL VOLTO DELLE CITTÀ LE VENDITE CALANO DEL 5-8 PER CENTO. COSÌ DEVONO ARRENDERSI ALTRI 31 14MILA NEGOZI E 2.500 RISTORANTI. UN FENOMENO CHE NON RIGUARDA SOLO DECINE DI MIGLIAIA DI COMMERCIANTI: LE STRADE SI SPENGONO E SCOMPARE UN PRESIDIO FONDAMENTALE PER LA VITA DEI QUARTIERI di Alessandro Ferrucci, Luigi Franco, Vincenzo Iurillo, Andrea Giambartolomei e Ferruccio Sansa Serrande abbassate, non è una questione di orario, giorno o stagione, sono abbassate perché il proprietario non ce la fa più, time out, addio, è stato bello finchè possibile. Un allarme che sbaglieremmo a considerare affare dei commercianti. I negozi, soprattutto le piccole botteghe, fanno parte del panorama e dell’identità delle nostre città. Senza le insegne illuminate, senza le vetrine che ci distraggono e ci accompagnano, si spengono le luci e anche la vita delle strade. Che diventano semplici luoghi di passaggio. Non solo: i negozi sono un presidio che assicura la cura e la pulizia delle vie. Sono, soprattutto, un fondamentale luogo di incontro. Per parlare, scambiare non solo merci, ma anche notizie sulla vita del quartiere e dei suoi abitanti. Sono un conforto, una compagnia per chi vive in solitudine. Milano, Torino, Genova, Roma o il Sud Italia, è sempre uguale, secondo Confesercenti i più colpiti sono bar e ristoranti, librerie e negozi di abbigliamento: tra luglio e agosto di quest’anno, per ogni nuova impresa commerciale avviata, ben due sono defunte. A giugno 2014 più del 40 per cento delle attività aperte nel 2010 hachiuso e bruciato investimenti per 2,7 miliardi di euro. Un collasso. Così basta passeggiare per le vie, non solo periferiche, ma anche centrali delle città per scoprire cartelli con su scritto vendesi o affittasi; in alcuni casi si parla di “obsolescenza”, riferito a tutte quelle attività colpite dallo sviluppo del commercio in rete, quindi le agenzie di viaggio, i negozi di musica, home video, le librerie o le edicole (quattro chiusure ogni due nuove aperture). Alcuni numeri: i ristoranti segnano un meno 2.500, malissimo il commercio in sede fissa (14mila negozi), il business delle sigarette elettroniche (4 chiusure per ogni nuova apertura), l’abbigliamento (addio a 3300 negozi). Inutile l’estremo tentativo dei saldi estivi: il Codacons stima che la quota di spesa media mensile dedicata al vestiario dalle famiglie italiane si è attestata dal 2012 al 5 per cento: quasi la metà del 13,6 registrato nel 1992, e che ci poneva, assieme al Giappone, al vertice della classifica mondiale. Milano, guai perfino in centro Corso Vercelli, corso Magenta, via Meravigli, avanti fino alla centralissima piazza Cordusio. Se ne contano 20 di saracinesche chiuse lungo i due chilometri e mezzo di una delle principali direttrici dello shopping milanese. La crisi c’è ancora: “Gli affitti sono troppo alti per la situazione di oggi”, lamenta la signora dietro al bancone del Food & drink Rossomagenta. Qualche passo più in là, la parrucchiera sulla soglia del locale guarda a destra e a sinistra: “Qui i negozi aprono e chiudono”. Di fronte, proprio all’imbocco di corso Magenta, la bottega Luxury lingerie non ha superato l’estate: “L’avevano inaugurato appena qualche mese fa”. Aprono e chiudono, i negozi. Sono più quelli che chiudono, a guardare i dati della Camera di commercio di Milano: a fine giugno 2014 le attività commerciali in città, esclusi bar e ristoranti, erano 12.216: 61 in meno di un anno prima. Soffrono di più i negozi di abbigliamento (-114), quelli di articoli da regalo e per fumatori (55, soprattutto per il crollo delle vendite delle sigarette elettroniche), i giornalai (-25) e le cartolerie (-20). Nemmeno le zone del centro vengono risparmiate. Anzi, qui le chiusure pesano per il 20% su tutte le cessazioni. Chi è fuori dai circuiti più fortunati del Quadrilatero della moda, di corso Vittorio Emanuele e di via Dante non sempre se la passa bene: per 100 metri quadri si pagano anche 100mila euro di affitto all’anno. Troppo, le vendite non sono più quelle di un tempo. “Il diradarsi di attività è un fenomeno che già da un po’ di anni colpisce le aree meno affascinanti – spiga Alessandro Prisco, presidente 32 di Asco Duomo, associazione di negozianti di 25 vie del centro –. Via Larga è piena di cartelli ‘affittasi’, la seconda parte di via Mazzini è desolante, come l’inizio di corso Italia”. All’angolo tra piazza Duomo e via Mercanti c’era un negozio di abbigliamento da montagna: via anche questo, s’è trasferito fuori Milano per lasciare il posto a un tem porary shop che vende accessori per la cucina. Due passi in più, di nuovo piazza Cordusio. Poi l’inizio di via Meravigli: aperto il Big’s bar e il negozio di candele Ceratina . Giù le saracinesche della storica cartoleria De Magistris , del centro fitness, della farmacia che da un po’ s’è spostata in un centro commerciale, giù quelle della boutique Ilaria Folli e del negozio di specialità dolciarie regionali, un’istituzione da 50 anni. Resistono un altro bar, la bottega di numismatica e quella di biancheria per la casa. Per ora. Genova Meno tre al giorno “Certi giorni scendo in strada e non riconosco la mia città”. Annalisa Parodi ha 84 anni, è vedova, se ne sta sulla porta del suo condominio e indica, una per una, le saracinesche abbassate. Poi aggiunge: “Sa, per me che sono sola il negozio era più che un posto dove comprare. Io mi mettevo il vestito bello per andarci. Era un’occasione per parlare, per sentire le notizie del quartiere, per partecipare alla vita degli altri. E se avevo bisogno di qualcosa, se non stavo bene, il macellaio mio amico veniva a darmi una mano. Ma ora anche lui ha chiuso”. Annalisa abita a Sestri Ponente , storico quartiere operaio di Genova, semplice, ma pieno di dignità e di vita. Oggi nel Ponente soprattutto alcune vie secondarie sembrano le strade di Atene durante gli anni più bui: una lunga fila di saracinesche abbassate. Succede qui e in tutta la città, come dimostrano i dati della Camera di Commercio. L’anno nero è stato il 2013: 573 aperture e ben 938 cessazioni di attività, per usare un termine burocratico che non racconta i dolori, talvolta i drammi, delle chiusure dei negozi. Alcuni con decenni di vita alle spalle. Accade nei quartieri meno ricchi, ma anche in quelli più benestanti, come Nervi (dove hanno casa professionisti e giocatori di serie A, per dire): storiche insegne hanno lasciato spazio a banche. Poi anche queste hanno ceduto e sono arrivati i cinesi. Sempre aperti, tutti con la stessa merce. E i genovesi, con meno soldi in tasca, li affollano. Paolo Odone, commerciante di vecchia data e presidente della Camera di Commercio, la spiega così: “Negli ultimi 5 anni il saldo fra le aperture e le chiusure dei negozi è stato sempre negativo, con un picco di -365 - un negozio in meno per ogni giorno dell’anno – nel 2013. La crisi economica non ha fatto che accentuare una situazione resa già critica dallo “sboom” demografico di una città che aspirava al milione di abitanti e si è ritrovata sotto i 600mila. In questa situazione, le famiglie dei commercianti hanno resistito spesso con il capitale, il cosiddetto fieno in cascina, ma oggi è finito anche quello. E con i prezzi in calo dello 0,2%, una Tari fuori da ogni proporzione e un sistema fiscale insostenibile, a fine anno rischiamo un nuovo tracollo”. Chiudono i negozi, le strade si desertificano. E la città diventa più grigia. I ragazzi a volte si ritrovano nei centri commerciali - con la polemica delle tante Coop fiorite in ogni quartiere - ma anche i colossi stanno male. A Roma lacrime diffuse Via del Tritone, a due passi da piazza di Spagna, lacrime per chi si ricorda come era un tempo “qui giravano i soldi, ora siamo dei pezzenti”, parola di negoziante in crisi. Via Merulana, tra Colosseo e piazza San Giovanni, la situazione è anche peggiore, difficile trovare una saracinesca alzata, è ruggine, polvere, malinconia, abbandono. In periferia, o comunque fuori dal centro, è anche peggio: la vecchia edilizia pensata e voluta da Caltagirone, prevedeva appartamenti sopra, attività commerciali sotto: ora è un perenne cartello vendesi. “Nei primi due mesi del 2014 sono stati chiusi 682 negozi”, raccontano i dati dell’Osservatorio Confesercenti e “nei tre settori di commercio, turismo e intermediazione, dove 451 fanno parte della categoria del ‘commercio al dettaglio in sede fissa’. Detto altrimenti, negozi e botteghe artigiane”. Ma complessivamente la situazione è 33 anche peggiore e racconta di oltre diecimila locali commerciali sfitti o invenduti, con orafi, corniciai e falegnami inseriti nella categoria “Panda”. “Persino i centri commerciali accusano il colpo, mentre le uniche attività che sembrano tener lontano la crisi sono i bar e i ristoranti. Sempre secondo la Confederazione nazionale dell’artigianato, in nove anni gli esercizi di ristoro nel cuore della Capitale sono passati dai 48 del 2003 ai 153 del 2012. Bar e ristoranti gestiti sì, da italiani, ma che appartengono sempre più a stranieri, cinesi per lo più”. Così è normale vedere a Roma delle saracinesche sollevarsi do notte, un momento, un attimo, e qualcuno varca la soglia solo per dormirci: la tariffa è tra i 30 e i 50 euro a notte, nessuna licenza, solo “un racimolare qualche soldo, sono mesi che cerco di affittare ma niente”, spiega un ex negoziante del centro. Quindi l’escamotage del dormitorio. “Ma se ha chiuso la Ferrari , pensa noi”, insiste. Vero. Soldi al 70 per cento per lo store del Cavallino, uno dei punti di gloria dell’era Montezemolo, ora non più, casse vuote, e nessuna voglia di ripianare, la soluzione è stata quella di mollare. Napoli ‘a nuttata non passa A Napoli citano Eduardo De Filippo e dicono: “Adda passà ‘a nuttata”. Ma la nottata del commercio partenopeo è buia e tempestosa. Nei primi sei mesi del 2014, tra Napoli e provincia, hanno serrato le saracinesche 2.244 negozi e 591 tra bar e ristoranti. L’elenco dei caduti vanta nomi illustri. Ha chiuso dopo 50 anni il negozio di abbigliamento De Vito. Hanno chiuso altri esercizi storici come Buonanno e De Nicola. Hanno svuotato i locali grandi firme come Diesel, in piazzetta Rodinò, Frette, un punto Armani. Alla fine dell’anno scorso ha chiuso dopo 95 anni la libreria Guida a Port’Alba dove acquistava Benedetto Croce e dove intere generazioni si erano rifornite di testi scolastici. Una recente inchiesta della Procura antimafia, pm Catello Maresca, ha dimostrato che gli interessi dei distributori di cd e dvd vergini e a poco prezzo, grazie all’evasione delle tasse, si saldano con quelli dei clan camorristici che con la pirateria audio-video ricavano ingenti profitti. Con la chiusura di un altro punto Guida e di Loffredo, l’intero quartiere Vomero, 200 mila abitanti, da dove proviene una nutrita fetta dell’intellighènzia napoletana (a cominciare dal sindaco Luigi de Magistris) è rimasta sprovvista di librerie. Per fortuna, o purtroppo, c’è Internet. Costrette alla chiusura, con centinaia di dipendenti sul lastrico, le grandi catene di elettronica e prodotti culturali come Eldo in piazza Matteotti, e Fnac . Nel solo settore dell’abbigliamento il calo in Campania è stato del 10,5%, il peggiore in Italia (dati Federmo - da- Confcommercio ). Poi quando apre una nuova azienda non bisogna esultare subito. “Le nuove iscrizioni al Registro delle Imprese sono operazioni finanziarie per mascherare stati di crisi” spiega il presidente della Camera di Commercio Maurizio Maddaloni, “e troppo spesso per agevolare attività illegali, come accade per alcuni ristoranti o negozi di abbigliamento che aprono e chiudono in poco tempo”. Ricorda il presidente Ascom, Pietro Russo: “Dal 2008 la provincia di Napoli ha perso 11 punti di Pil e 100 mila occupati, il 15% della forza lavoro. Poi ci sono tante criticità tipiche del nostro territorio: la vendita di merci contraffatte negli ultimi 5 anni ha tolto, solo in provincia di Napoli, ben 6 miliardi al circuito dell’economia legale; ed abbiamo una città a brandelli”. Torino, dopo gli operai le librerie Le ultime ad andarsene sono le librerie del centro di Torino. Qualche storico negozio lascerà gli spazi in cui stava da decenni: la libreria Zaniboni o la Dante Alighieri non riapriranno, mentre la Paravia si trasferirà in un quartiere meno centrale. La crisi ha colpito pure i negozi più grandi, come la Fnac che ha chiuso o la Coop che si è trasferita fuori città. Per rimanere in tema di libri, la trattoria Mama Licia, in passato frequentata dall’editore Giulio Einaudi, ha lasciato le sue cucine per gli affitti troppo alti. La situazione non cambia fuori dal centro fino alla periferia: che sia il ricco quartiere Crocetta o l’operaia Mirafiori, panetterie, piccoli alimentari, negozi d’abbigliamento e di sigarette elettroniche abbassano le serrande e i locali restano sfitti e invenduti per anni. In città, stando agli 34 ultimi dati della Confesercenti, dall’inizio dell’anno hanno chiuso 543 attività, quasi 1.200 se si considera la provincia. Nel 2013 non era andata meglio: spariti1.167 negozi, “con un saldo negativo di 181 esercizi in rapporto alle aperture”, stando all’Ascom e alla Camera di Commercio. È il sintomo di una crisi che è cominciata con la Fiat e i suoi operai, ha colpito il suo indotto e, a catena, i consumi e si ripercuote su tutta l’economia. A dare il colpo di grazia poi sono gli affitti sempre alti, soprattutto nella centralissima via Roma, tanto alti da soffocare anche attività economiche di lusso. Per abbattere i costi i gestori dello storico emporio alimentare Paissa hanno chiuso il locale di piazza San Carlo tenendo aperti gli altri locali più piccoli e dagli affitti meno alti in via Cernaia e in corso Alcide De Gasperi. Una libreria che chiuderà i battenti è la Dante Alighieri. Per Mimmo Fogola, che la gestisce insieme al fratello Nanni, il problema non è l’affitto: “La concorrenza delle grandi librerie: sebbene la legge imponga sconti fino al 15 per cento, loro arrivano al 25 per cento semplicemente chiamandole ‘promozioni’”. 35 BENI COMUNI/AMBIENTE del 22/09/14, pag. 29 Uno studio Usa: la popolazione mondiale raddoppierà entro il secolo “Boom di guerre per cibo ed energia” L’incubo del 2100 “Così sulla Terra saremo 13 miliardi” SILVIA BENCIVELLI NON ci fermeremo, o almeno non ci fermeremo nel corso di questo secolo. Perché la nostra specie non ha nessuna voglia di smettere di crescere. Gli esseri umani che affollano il Pianeta saranno sempre di più, raggiungendo la spaventosa cifra di dodici miliardi entro il 2100. È il risultato di una nuova analisi svolta dai demografi dell’università di Washington sui dati più recenti delle Nazioni Unite — e pubblicata sulla rivista Science — a far rivedere al rialzo tutte le stime sulla popolazione mondiale. In particolare, la ricerca smonta il mito del 2050 come anno del picco della nostra crescita, cioè il momento in cui l’umanità dovrebbe raggiungere il suo massimo assestandosi intorno ai nove miliardi di individui per poi cominciare a ridursi. No: «C’è una probabilità del 70 per cento che questo non avvenga affatto — spiega Adrian Raftery, autore dello studio — perciò il tema della crescita demografica, che ultimamente è stato quasi messo da parte nell’agenda mondiale, deve tornare a essere fondamentale ». Se i calcoli sono corretti, questioni come la disponibilità di acqua, cibo e servizi sanitari per tutti si riproporranno in maniera drammatica. Da queste dipenderanno anche i conflitti sociali, le nuove guerre, la sicurezza di tutti. E anche il successo o l’insuccesso delle nostre politiche ambientali, e più in generale il peso della nostra specie, assai invasiva, sul pianeta che abitiamo. Tutto questo avverrà presto, non tra qualche secolo. Quindi, notano gli autori dello studio, è il caso di rivedere in fretta le politiche impostate sull’ingenua convinzione che noi esseri umani prima o poi fermeremo la nostra crescita, a partire dalle analisi sui cambiamenti climatici nelle mani degli organismi nazionali e sovranazionali. E, insieme, è il caso di analizzare le ragioni di questa crescita costante e di studiare sistemi con cui contenerla. Che poi, sottolineano gli esperti, sono sempre gli stessi: l’educazione delle donne, la diffusione di metodi contraccettivi, la disponibilità di servizi sanitari. Ed ecco i numeri: oggi sulla Terra siamo circa 7,2 miliardi di persone. La nuova ricerca, basata sulla statistica più moderna e svolta con metodi decisamente più rigorosi di quelli usati finora, stima che molto probabilmente nel 2100 saremo tra i 9,6 e i 12,3 miliardi, seguendo un grafico che mostra una crescita costante e nessuna curva verso il basso. La parte del leone la farà il continente africano, dove si continueranno a fare tanti figli, più o meno come oggi (e il tasso di fertilità attuale è di 4,6 bambini per donna), ma si ridurrà la mortalità, soprattutto quella da malattie infettive. La proiezione dice che si passerà da un miliardo di persone (quindi meno di quelle che oggi abitano la sola India) a 3,5 — 5 miliardi nel 2100. E la Nigeria, che è già lo stato più popoloso d’Africa, farà un balzo che la porterà da meno di 200 milioni di abitanti a 900 milioni o, addirittura, all’estremo superiore della forchetta, a un miliardo e mezzo, cioè più della Cina di oggi. L’Asia ci riserverà invece meno sorprese: laddove oggi abitano 4,4 miliardi di persone, è molto probabile che si registrerà un picco a 5 miliardi nel 2050 e poi un lento declino. Tutto questo significa che a breve, su dieci abitanti del Pianeta presi a caso, quattro o cinque saranno africani, quattro o cinque asiatici e soltanto uno o due verranno da un altro 36 continente. Compreso il nostro. Americhe ed Europa conteranno assai poco. E dovranno semmai affrontare un altro grattacapo: la popolazione invecchierà e si dovrà capire come tenere in piedi le economie. La sorpresa è che anche Paesi come Brasile, India e Cina, oggi considerati giovani, dovranno presto fare i conti con la questione dell’invecchiamento. Mentre nel giro di qualche decennio la nuova, vera faccia dell’umanità sarà quella di un ragazzo africano. del 22/09/14, pag. 29 Da New York a Roma, la marcia per l’ambiente OLTRE un milione di persone in marcia per difendere il Pianeta dai cambiamenti climatici. Sono scese in piazza ieri in tutto il mondo per partecipare alla prima People’s Climate March: la più grande manifestazione per il clima mai organizzata, indetta per chiedere ai capi di Stato e ai leader della finanza che domani saranno al summit dell’Onu a New York di promuovere politiche economiche, energetiche e sociali che tutelino il futuro della Terra. Circa 2.700 i cortei che hanno sfilato in 162 Paesi, dall’India all’Australia e dal Brasile alla Gran Bretagna. «Non c’è un pianeta B» lo slogan delle centomila persone scese in strada a Manhattan, tra cui il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon a braccetto con il sindaco Bill de Blasio. A Roma migliaia di biciclette hanno invaso i Fori Imperiali, mentre sotto al Colosseo un cuore “verde” è stato immortalato dall’alto in un grande selfie collettivo scattato da un drone. Per ricordare ai grandi della Terra che «siamo sull’orlo della catastrofe ecologica». 37 CULTURA E SCUOLA del 22/09/14, pag. 1/25 Muti, addio all’Opera la fuga triste dell’ultimo maestro dal paese senza musica FRANCESCO MERLO LA FUGA di Riccardo Muti dall’Opera di Roma arretra l’Italia come le sconfitte della Ferrari, il fallimento dell’Alitalia, il tramonto della Fiat. E a Matteo Renzi dovrebbe stare più a cuore della mozzarella di Eataly e del gelato di Grom. ANCHE perché nel trionfo del grottesco mobbing sindacale degli orchestrali più pagati del mondo contro la bacchetta più geniale (e più fragile) c’è l’articolo 18 suonato nel Golfo mistico. C’è per parlare con Renzi, «la coperta di Linus della sinistra» e «la vecchia guardia» di Cgil e autonomi che spacciano il privilegio per diritto. E la clientela e il comparaggio travestono di cultura, quella dei «lavoratori dello spettacolo» per dirla in sindacalese da bacheca. I dispiaceri, gli ohibò, i caspita e i mizzica del sindaco Marino, del sovrintendente Fuortes e del ministro Franceschini sono il nuovo manierismo romano della decadenza. Non più il «ma che ce frega, ma che ce ‘mporta» dei Magnaccioni, ma il dare la colpa agli altri: «alla dissennata gestione che ci ha preceduti», che è lo scaricabile; «al sistema musicale», che è il legno storto dell’umanità; alla «conflittualità interna» che, per la verità, ha avuto per protagonisti anche Marino, Fuortes e Franceschini che ora disbrigano la “rogna” Muti come le buche sulla Laurentina, l’infruibilità della Domus Aurea, le bottigliate nelle strade della movida. Certo, è vero che ovunque la musica va in distorsione. A Genova per un’ipotesi di corruzione di 50 milioni. A Milano per il conflitto di interessi del sovrintendente Pereira che ha comprato per sé da se stesso: «parla di sé, tra sé e sé» cantava Gaber. A Torino perché l’artista Noseda è stato messo in fuga dal politico Vergnano. Il San Carlo di Napoli è commissariato. I teatri di Palermo e di Firenze sono appena usciti dal commissariamento. Il Comunale di Bologna ha una vita “povera e nuda”. Sino all’Orchestra Sinfonica Siciliana assegnata da Crocetta a una brava amministratrice di palestre, Valeria Grasso, per meriti …antimafia, come ha notato Gioacchino Lanza Tomasi. Ma è con Roma che si arriva al collasso dell’orchestra- Italia profetizzato da Fellini. È a Roma che il fallimento brucia di più, perché Muti è unico e perché finalmente la capitale sembrava avere un teatro all’altezza dell’antica storia dei Gavazzeni e dei Von Karajan. Va sottolineato che Muti fugge da Roma com’era fuggito dalla Scala nel 2005. Allora il maestro, cittadino del mondo e musicista con il diavolo in corpo, per salvare il proprio passato si rese invisibile eliminando fisicamente tutte le foto e le immagini di sé che stavano scolpite negli annali, nella pubblicità, nel sito Internet. Ora se n’è andato con un fax da Chicago, dove dirige una delle big five , e forse ha fatto una breve telefonata, “una frase, un rigo appena”, e mentre gli abbonamenti sono in corso. Non dirigerà l’ Aida né Le nozze di Figaro . In sei anni, con la testardaggine del carisma («alla peggio muovo le braccia e qualcosa sempre succede») Muti era riuscito a trasformare il teatro peggiore del mondo, una specie 38 di Armata Brancaleone di legno e ottoni, in un gioiello di fossa. Certo, l’uomo è vezzoso, non tollera le critiche ma, a parte la caduta di stile del “tengo famiglia” con la regia di Manon Lescault alla figlia Chiara, l’età lo ha reso più sobrio e forse la morte di Abbado gli ha affidato una malinconica saggezza e magari pure qualche rimpianto (rimorso?) per quel passato di «bollenti spiriti» e «giovanile ardore», quando l’Italia, invece di andar fiera dei suoi due grandissimi direttori, si divideva in mutiani e abbadiani, facendo partiti del talento che non ha partito. Di sicuro nel 2011 il bis del Nabucco «per la cultura italiana lontana e perduta», cliccato su You-Tube più di Pavarotti e Bocelli, rese mitica un’orchestra di 8 sigle sindacali e 7 note musicali. E il Macbeth purificò la giungla dei patti integrativi. Poi la vecchiaia del Simon Boccanegra sublimò l’anzianità degli straordinari crescenti. E la forza dell’ Attila acquietò la piccole barbarie dell’orario: su 180 giorni, ogni primo strumento ne passa la metà in legittimo riposo contrattuale: «notte e giorno faticar/ mangiar male e mai dormir». Pensate che solo per spostarsi dall’Opera a Caracalla gli orchestrali godono di un’indennità: il quarto d’ora a piedi più pagato del mondo, esteso anche a chi non si sposta (gli amministrativi) perché qui i fermi si muovono. Eppure un giorno, dodici dei primi strumenti, tutti Cgil o Fials, irruppero come furie nel camerino di Muti. E invece delle prove si riunivano in assemblea. In venti si sono poi “ammalati” per non andare in tournée. Al Lago dei cigni non si presentarono, ma una registrazione li sostituì. Ogni volta che la direzione toccava a Muti le minacce di sciopero andavano in crescendo per costringerlo a mediare. E lui si prestava: «sopire e tacere». Sino allo sciopero per la Bohème, eseguita a Caracalla con il solo pianoforte. Ma non si può dare tutta la colpa agli orchestrali sindacalizzati e assolvere il sindaco, il sovrintendente, il ministro e magari anche quel solito alto (altissimo) funzionario, Salvo Nastasi, a cui tutti da almeno dieci danno colpa e merito di tutto. La verità è che l’Italia predilige i Tromboni e fa scappare i Maestri, affida le istituzioni culturali alle clientele e al pascolo della retorica ma non regge la bellezza e la grandezza. E dell’artista asseconda soltanto i capricci. 39 ECONOMIA E LAVORO Del 22/09/2014, pag. 2 Tutele crescenti, incentivi, sussidi E indennizzi legati agli anni di lavoro Così si supera l’articolo 18. Il nuovo contratto costerà meno di quelli a termine Decreto legge o no, quella che ha in mente il governo Renzi è una riforma di sistema che cambierebbe le coordinate del mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali. L’abolizione dell’articolo 18, cioè del diritto al reintegro nel posto di lavoro per i licenziati senza giusta causa, è solo uno dei tasselli della riforma, ma è fondamentale per rendere appetibile il nuovo contratto di lavoro «a tutele crescenti», rilanciato qualche giorno fa con l’emendamento governo-maggioranza e fulcro del nuovo sistema. Al quale il governo intende arrivare rapidamente con i decreti attuativi del disegno di legge in discussione in Parlamento oppure, in caso di ritardo delle Camere, con un decreto legge, appunto. Solo due forme di lavoro Nel nuovo mondo del lavoro che ha in mente Renzi ci sono solo due forme di lavoro: autonomo e dipendente. Quella dipendente, a sua volta, si suddivide in tempo determinato e tempo indeterminato a tutele crescenti. Quest’ultima dovrebbe essere la forma più diffusa, perché l’azienda sarebbe incentivata a ricorrervi. Come? Con uno sconto sul costo del lavoro rispetto a un contratto a termine. Non solo. Se nella prima fase del contratto a tutele crescenti, poniamo tre anni, l’azienda risolvesse il rapporto di lavoro, dovrebbe restituire allo Stato lo sconto di cui ha beneficiato, perché essendo stato il contratto, alla prova dei fatti, a termine, esso appunto dovrebbe costare di più. Verrebbero così scoraggiati gli imprenditori che volessero fare i furbi mentre i contratti temporanei dovrebbero limitarsi ai soli casi nei quali effettivamente il lavoro si suppone a tempo determinato, per esempio le attività stagionali. Lavoratori tutti uguali Essendo i contratti a progetto e le altre forme di precariato cancellate, i lavoratori avrebbero tutti gli stessi diritti (minimi di retribuzione, maternità, ferie, ammortizzatori sociali) secondo il tipo di contratto (a termine o a tutele crescenti). Certo, è vero, a meno di sorprese, dovrebbe restare un nucleo forte di lavoratori protetti dal vecchio articolo 18 (circa 6 milioni e mezzo nel privato), poiché il nuovo contratto a tutele crescenti si applicherebbe solo alle assunzioni successive all’entrata in vigore della legge. Ma il bacino dei tutelati dall’articolo 18, anno dopo anno, dovrebbe restringersi. E comunque — sostengono i tecnici del governo, replicando a chi dice che così si approfondirebbe la spaccatura tra giovani e anziani — i giovani che verranno assunti col contratto a tutele crescenti avranno una serie di diritti e ammortizzatori che attualmente non hanno, perché non previsti dalle forme di lavoro precarie o perché lavorano in piccole aziende. Mentre oggi infatti solo il 15% delle assunzioni avviene a tempo indeterminato, nel nuovo sistema abbiamo visto che la stragrande maggioranza dei contratti dovrebbe essere di questo tipo. Le tutele crescenti Certo, ma «a tutele crescenti», che non equivale all’attuale «posto fisso» (nelle aziende con più di 15 dipendenti), dove l’articolo 18, anche se attenuato dalla riforma Fornero, prevede ancora la possibilità di reintegrare i lavoratori. Nel nuovo sistema, invece, il diritto al reintegro resterebbe solo sui licenziamenti discriminatori (fede religiosa, politica, 40 appartenenza sindacale, razza, eccetera) mentre in tutti gli altri casi l’azienda potrebbe licenziare liberamente il lavoratore dietro pagamento di un’indennità economica crescente in rapporto agli anni di servizio prestati (le ipotesi variano da uno a tre mesi di stipendio per anno di lavoro). Il nodo politico da sciogliere, soprattutto nel Pd, riguarda che cosa accade passata la prima fase del contratto, che si pensa durerà tre anni e durante la quale nessuno mette in discussione la libertà di licenziamento. La sinistra Pd e sindacale vogliono che, passati tre anni, torni la protezione dell’articolo 18 mentre il Nuovo centrodestra no e insiste per il solo indennizzo crescente. Il resto del Pd si divide tra quest’ultima ipotesi e quella di prevedere l’articolo 18 solo dopo un certo numero di anni di servizio (6-12-15) o una certa età del lavoratore. I nuovi ammortizzatori Una volta licenziato il lavoratore, in aggiunta all’indennizzo dall’azienda, avrebbe diritto all’indennità di disoccupazione dallo Stato. Si tratterebbe in pratica dell’Aspi (assicurazione sociale per l’impiego) già prevista dalla riforma Fornero, che però non entrerebbe più a regime nel 2017 ma prima. E che si estenderebbe a una platea più ampia, appunto perché ne avrebbero diritto tutti i lavoratori dipendenti nei quali confluirebbero circa 1,5 milioni di lavoratori attualmente impiegati in contratti a progetto, collaborazioni varie e altre forme di precariato. Per questo il governo è a caccia di circa un miliardo e mezzo di euro da mettere nella legge di Stabilità per il 2015. L’indennità avrebbe un tetto (per l’Aspi nel 2014 è di 1.165 euro) e una durata massima (potrebbe essere allungata da 18 a 24 mesi). I beneficiari dovrebbero però accettare le offerte di formazione e di lavoro congrue, altrimenti perderebbero l’assegno. Sparirebbero prima del previsto la cassa integrazione in deroga e l’indennità di mobilità. Via anche la cassa integrazione per chiusura di aziende. Resterebbe solo la cig ordinaria per momentanei cali di produzione e quella straordinaria per ristrutturazioni aziendali, che però potrebbe essere attivata solo dopo aver attuato riduzioni dell’orario. Il tutto finalizzato a limitare il ricorso alla cig solo ai casi di stretta necessità. Essa potrebbe essere estesa in qualche forma anche alle piccole imprese, che finora hanno beneficiato della cig in deroga a spese dei contribuenti. In questo caso dovrebbero invece pagare i contributi. Enrico Marro del 22/09/14, pag. 10 Vertice Cgil, Cisl e Uil “Manifestazione comune” ma è lite sull’articolo 18 Camusso vuole tutele massime per vecchi e i nuovi assunti Angeletti: pronti a mediare. Bonanni: alt alle finte partite Iva LUISA GRION ROMA . Trovare il punto d’incontro, puntare sulle idee comuni e andare in piazza assieme. Cgil, Cisl e Uil non hanno la stessa opinione sull’articolo 18, sul lavoro e sul Jobs Act, ma tutti e tre i sindacati sanno che manifestare separatamente vorrebbe dire servire al premier un regalo su un piatto d’argento. Renzi - a differenza di Berlusconi - non punta a dividerli, non li chiama nemmeno. Ecco perché, dimenticando le accuse che Camusso, Bonanni e Angeletti si sono scambiati negli ultimi giorni, i tre leader - in settimana - s’incontreranno per cercare di presentare assieme una mobilitazione su lavoro e articolo 18, ma non solo. 41 Si fa trapelare la notizia di un summit previsto per venerdì mattina (prima di partecipare assieme a un convegno del Cnel), ma è molto probabile che i tempi siano ben più stretti e che si ragioni non sui giorni, ma sulle ore. Aspettare il fine settimana avrebbe poco senso, visto che già dopo domani la legge delega va al Senato e che fra sette giorni ci sarà, sul tema, l’attesa e infuocata segreteria del Pd. Al di là dello scontro frontale fra governo e Cgil e dei colpi di fioretto scambiati nei giorni scorsi fra i tre leader, si cercherà quindi di fare fronte comune sul lavoro. Sia perché la Cgil sa che questa volta sarebbe impensabile pensare di portare in piazza milioni di persone contro l’abolizione dell’articolo 18 come Cofferati fece dodici anni fa, sia perché tutte e tre le sigle hanno urgenza di smarcarsi dall’angolo nel quale Renzi le ha confinate. Ecco perché si ragiona su tempi e modi di una manifestazione unitaria, con già in testa una data e un luogo. Se tutto va bene e l’intesa si trova, si ragiona su Piazza San Giovanni, a Roma, per sabato 11 ottobre. I tre temi sui quali lavorare con l’obiettivo di andarci assieme riguardano la politica fiscale (le tre sigle hanno già un piano condiviso), la lotta al precariato (Renzi accusa il sindacato di pensare solo a chi ha già i diritti; Cgil, Cisl e Uil vorrebbero rispondere portando i precari in piazza) e chiaramente il lavoro. Argomento però da trattare nel complesso, senza focalizzarsi solo sull’articolo 18 e sul diritto al reintegro. Sul preciso punto infatti i sindacati hanno posizioni diverse; mentre la Cgil non è disposta a rivedere l’articolo e vuole estenderlo alle nuove assunzioni («non siamo disposti a fare scambi con gli ammortizzatori sociali», ha precisato la Camusso) Cisl e Uil aprono a una trattativa con il governo e chiedono garanzie sul contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, ma senza scendere troppo nei particolari sull’articolo 18. Bonanni vuole prima di tutto uscire dal tunnel delle false partite Iva, dei lavori a progetto, dei co.co.co e co.co.pro e chiede che tutte queste forme di precariato spariscano, assorbite dal nuovo contratto; Angeletti vuole che non sia tolto l’articolo 18 a chi già ce l’ha, ma apre ad una possibile rivisitazione per i nuovi assunti. Carla Cantone, la leader dei pensionati Cgil, è convinta che «sia ora di farla finita con le battute, le botte e risposte. Sindacato e governo tornino al merito e sul merito non sarà difficile per Cgil, Cisl e Uil trovare un fronte comune sull’articolo 18». La trattativa interna è in corso: l’obiettivo è di ottenere sul lavoro, la stessa posizione comune raggiunta dai sindacati sul settore pubblico. Contro il nuovo blocco delle buste paga, l’8 novembre, Cgil, Cisl e Uil saranno in piazza assieme. del 22/09/14, pag. 13 Weidmann: gli aiuti Bce pagati dai contribuenti Il governatore tedesco a Francia e Italia: “Senza riforme non crescono”, critiche alla proposta Juncker di usare il fondo salva-Stati. Accordo al G20: dal 2017 scambio automatico delle informazioni fiscali. Padoan: “È una riforma strutturale su scala internazionale” ANDREA TARQUINI DAL NOSTRO CORRISPONDENTE BERLINO . La strategia di Mario Draghi è una svolta nella politica della Bce, e crea un precedente pericoloso, e se Italia e Francia non si danno una mossa decidendosi alle riforme condanneranno l’eurozona intera, dice a Der Spiegel il presidente della Bundesbank, Jens 42 Weidmann. L’idea di usare il fondo salva stati Esm per finanziare investimenti procrescita e pro-occupazione è fuorviante, lo Esm non ha nulla a che fare con ciò, incalza il ministro delle Finanze federale, Wolfgang Schaeuble sparando a zero sull’idea all’esame del presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker. Weidmann questa volta chiama i suoi paesi-bersaglio per nome: «Senza riforme in Italia e in Francia non se ne esce», dice, e sottolinea: «La calma sui mercati dopo gli annunci e le decisioni della Bce è ingannevole. Più a lungo questi due grandi paesi non creeranno condizioni per crescita e stabilità, più a lungo la debolezza dell’eurozona continuerà e con essa le pressioni sulla politica monetaria». Colpevoli insomma sono Parigi e Roma e non il rigore a oltranza targato Berlino. «Le misure della Eurotower curano i sintomi ma non la malattia, e tale calma ingannevole e solo apparente è anche pericolosa, perché libera i governi dal pressing per l’attuazione di riforme di struttura necessarie e urgenti, e senza riforme gli investimenti non verranno, e questa politica toglie rischi alle banche per scaricarle sulle spalle del contribuente», aggiunge, sparando a zero di fatto sulle aste Tltro (concessione di crediti bce agevolati alle banche se le banche offriranno più credito all’economia reale) volute da Draghi. Situazione senza precedenti: mai come ora la Banca centrale europea appare spaccata tra due linee, l’interventismo salva ripresa e pro-occupazione del presidente contro la borsa stretta a oltranza made in Germany. Su questo sfondo, tra l’altro, l’incontro di oggi a Berlino tra la Cancelliera Angela Merkel e il primo ministro francese Valls si annuncia d’una tensione . Il miglior risultato della giornata di ieri è l’accordo al G20 sullo scambio automatico d’informazioni sul fisco. Secondo il ministro dell’Economia italiano Pier Carlo Padoan, «è un esempio di riforma strutturale su scala internazionale, nuove regole che cambiano i comportamenti e producono risultati tangibili». Il vertice finanziario G20 si è concluso anche con l’impegno a lavorare per aumentare del 2 per cento la crescita globale, specie puntando su più infrastrutture e investimenti del 22/09/14, pag. 13 Piketty: “Basta con la dittatura del debito ma non si salva l’Europa con gli slogan” ANAIS GINORI «Errare è umano, perseverare è diabolico. Cambiamo strada, ora». Thomas Piketty è in testa alla classifica degli economisti che proprio non amano l’austerità. «Non per partito preso o per bieca ideologia» premette. «Semplicemente perché ho studiato la storia del debito pubblico dall’Ottocento ad oggi». A 43 anni appena compiuti è ormai entrato nella ristretta cerchia degli oracoli, o guru che dir si voglia. Tutta colpa, o merito, de “Il capitale del XXI secolo”, appena pubblicato in Italia da Bompiani, il libro con cui analizza l’esplosione delle disuguaglianze e un capitalismo basato sulla rendita finanziaria più che sul lavoro. Un bestseller mondiale a sorpresa, incensato da Paul Krugman, che addirittura mette Piketty sulla rampa di lancio per la candidatura al Nobel. «Non ero preparato a questo successo» racconta l’economista francese nel modesto ufficio alla Paris School of Economics. «Come vede — ironizza — l’università manca di fondi. Se pensiamo che solo lo 0,5% del Pil francese va all’istruzione e alla ricerca. Molto meno di quanto spendiamo per rimborsare il debito ». A sorpresa, però, Piketty non crede che il vulnus dell’eurozona sia economico, ma politico. La sua proposta: «I paesi dell’euro devono avere un parlamento che possa decidere in autonomia rispetto alle istituzioni dei 28 paesi dell’Ue. 43 Abbiamo creato un mostro: non possiamo più avere una moneta unica senza una politica di bilancio comune». Cominciamo dal debito pubblico. Smettiamo tutti di pagare? «I debiti pubblici non sono più elevati che in America, nel Regno Unito o in Giappone. Solo qui, in Europa, abbiamo trasformato questa situazione in una crisi di sfiducia e stagnazione dell’economia. Sono molto preoccupato. Vedo soprattutto un immenso spreco. Nel mio libro dimostro che i fondamentali dell’Europa sono migliori di quel che pensiamo. I patrimoni e redditi non sono mai stati così alti. Anzi, sono aumentati in percentuale del Pil più che i debiti pubblici. Sono i nostri governi ad essere poveri». Quale soluzione allora? «Per ridurre il debito con avanzi primari sul bilancio statale, come cerca di fare l’Italia, ci vogliono decenni. Nell’Ottocento il Regno Unito aveva il 200% di debito pubblico sul Pil. Nel 1910, attraverso continui avanzi primari, è arrivato al 20% del Pil. Ma in un secolo il Regno Unito ha speso più per rimborsare debito che per investire nel sistema educativo. E’ un esempio triste, che ci dovrebbe far riflettere». Più flessibilità sui deficit, come chiedono François Hollande e Matteo Renzi? «Mi fa paura l’assenza di proposte che colgo in Hollande e Renzi. Non si può dire solo meno austerità, più investimenti. Per la Germania è facile rifiutare. È come se qualcuno chiedesse di avere una carta di credito in comune, facendo la spesa per conto suo. Italia e Francia dovrebbero avere più coraggio. Mettere subito sul tavolo un progetto di unione politica. A quel punto, anche i tedeschi sarebbero in difficoltà». Cosa significa per lei unione politica? «Un parlamento dell’eurozona, anche con meno paesi degli attuali 18, ma con un bilancio comune, un solo ministro delle Finanze, un livello di deficit votato di anno in anno in base alla congiuntura. Non potrà mai funzionare una moneta unica con 18 sistemi economici e sociali, 18 debiti pubblici e 18 tassi di interessi su cui i mercati possono speculare». Quali paesi dovrebbero far parte di un eurogruppo ristretto? «Francia, Italia, Germania, Belgio, Olanda, Spagna. Serve un gruppo pilota per dimostrare che l’integrazione delle politiche di bilancio è possibile. Oggi i tassi di interesse sui titoli di Stato nell’eurozona vanno dallo 0 al 4%. Non è normale per paesi che fanno parte della stessa unione monetaria. I mercati continuano a mettere in conto che qualche paese possa fare default o uscire dall’euro». La governance europea non è già abbastanza farraginosa? «L’attuale sistema istituzionale è bloccato dalla regola dell’unanimità. In un sistema parlamentare le decisioni sarebbero prese attraverso compromessi e coalizioni. Bisogna dare fiducia alla democrazia. I cittadini sono pronti se spieghiamo che con un parlamento dell’eurozona si potranno adattare i deficit alla congiuntura, lottare meglio contro l’evasione fiscale, oppure votare un imposta sui redditi delle società. Oggi in Europa le multinazionali pagano meno tasse delle piccole e medie imprese. E’ un’assurdità». Il piano di investimenti della nuova Commissione può aiutare la ripresa? «Per arrivare a 300 o 400 miliardi di euro sono stati addizionati investimenti pubblici e privati che ci sarebbero stati comunque. Non ci sarà alcun impatto sui bilanci nazionali e sull’economia europea. E’ solo un trucco contabile ». Mario Draghi ha salvato l’Europa? «In questi anni ha fatto molto. Non a caso, la Bce è l’unica istituzione federale europea che non rispetta la regola dell’unanimità. Ma non si può chiedere tutto a Draghi. Ha limiti oggettivi. Se ogni mattina la Fed dovesse scegliere tra il debito di New York, Texas o California, cercando accordi sui singoli bilanci, sarebbe il caos. Solo con un fondo comune di redenzione dei debiti pubblici, che possa emettere eurobond a un solo tasso di interesse, la Bce potrà davvero stabilizzare il sistema». 44 L’uscita dall’euro è un pericolo? «Ritornare alla moneta nazionale sarebbe catastrofe. Ma l’unione monetaria senza unione fiscale e politica è la situazione peggiore. La speculazione sulle monete è stata sostituita da quella sui tassi d’interesse. E oggi i governi non hanno più l’arma della svalutazione. Siamo in trappola. Dobbiamo aprire gli occhi e trarre insegnamento dai nostri errori». 45
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