RASSEGNA STAMPA

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venerdì 19 settembre 2014
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Da Redattore Sociale del 18/09/14
Trenta testimonianze dai teatri di guerra in
Afghanistan, Israele, Siria, Iraq, Libia, Congo.
Pace, 30 scenari di guerra e come uscirne. Se
ne discute a Firenze
Con ospiti illustri come il governatore della Toscana, Enrico Rossi (che
portera' un saluto) e il leader di Sel, Nichi Vendola. E un invito recap...
Firenze - Trenta testimonianze dai teatri di guerra in Afghanistan, Israele, Siria, Iraq, Libia,
Congo. Con ospiti illustri come il governatore della Toscana, Enrico Rossi (che portera' un
saluto) e il leader di Sel, Nichi Vendola. E un invito recapitato allo stesso presidente del
Consiglio, Matteo Renzi. In occasione della giornata internazionale della pace, il 21
settembre, Rete della pace, Rete italiana per il disarmo, Sbilanciamoci e Tavolo interventi
civili di pace organizzano la manifestazione "Facciamo insieme un passo di pace", in
piazzale Michelangelo a Firenze. L'appuntamento e' per le 11 e l'iniziativa andra' avanti
fino alle 16 per diffondere "le proposte concrete e innovative di pace, disarmo e non
violenza gia' anticipate all'intergruppo parlamentari della pace come ulteriore momento di
un confronto aperto da qualche mese. Le hanno elaborate nella galassia di organizzazioni
e associazioni che hanno promosso e aderito all'evento e della societa' civile
internazionale che opera nei luoghi di conflitto.
Secondo Francesca Chiavacci, presidente nazionale di Arci nonche' referente della Rete
nazionale per la pace, "tante persone si ritroveranno a livello nazionale per un primo
passo. Gia' il 25 aprile a Verona si era svolta una grande manifestazione, che avevamo
chiamato l'arena di pace. Da allora le guerre sono aumentate- aggiunge, rimandando
all'escalation a Gaza come all'esplosione del conflitto internazionale contro gli islamisti
dell'Isis, oltre al complicarsi del braccio di ferro fra Ucraina e Russia- la convinzione che ci
anima e' che non si possono risolvere i conflitti con la guerra e con le azioni militari".
Negli ultimi 10 anni, prosegue Chiavacci, "abbiamo pensato di esportare la democrazia e
di portare la civilita' con l'azione militare e la guerra. Lo stesso nostro Governo ha pensato
recentemente di inviare le armi per risolvere i conflitti. Pensiamo che non sia la strada
giusta". Quello che succede ai confini dell'Ucraina e della Siria "e' il frutto di errori della
politica - aggiunge Sergio Bassoli, della Rete nazionale per la pace - siamo preoccupati,
perche' c'e' un'escalation di sottovalutazioni e di irresponsabilita' da parte delle Istituzioni.
Abbiamo assistito con indifferenza alla decisione, che mette in discussione la stessa
Costituzione, dell'invio delle armi senza una discussione parlamentare e senza cercare
delle soluzioni alternative".
Alla manifestazione aderiscono Sel, i comitati Tsipras, Prc e Pdci; su scala nazionale i
capifila sono Arci e Cgil, insieme ad una fitta rete di associazioni. "Ma non sara' una sfilata
di politici - fa sapere Bassoli - quelli che parteciperanno non potranno intervenire". La
logica e' di far esercitare a Renzi, Vendola e agli altri leader che aderiranno, "quell'idea di
'ascolto democratico' cosi' rilevante e utile, secondo il fondatore della non violenza politica
italiana, Aldo Capitini". Una regola che varrebbe per lo stesso premier, qualora
partecipasse: "Parlera' solo la societa' civile". Ad intervenire saranno Alex Zanotelli, Mai Al
Kaila (ambasciatrice palestinese in Italia), Goffredo Fofi, Cecilia Strada. Condurra' l'attrice
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Daniela Morozzi a cui tocchera' alternare i discorsi dei relatori con la musica del Ciclista,
Maran Ensemble e il duo Luca Lanzi della Casa del Vento e Francesco Moneti dei
Modena City Ramblers. A livello locale fra i supporter si contano, fra gli altri, Anpi, Partito
Marxista Leninista, Emergency, il forum immigrazione del Pd. (DIRE)
Da Radio 24 del 19/09/14
Intervista alla presidente nazionale Arci Francesca Chiavacci sulla manifestazione del 21
settembre a Firenze “Facciamo insieme un passo di pace”
Da Radio Popolare Roma del 19/09/14
Intervista alla presidente nazionale Arci Francesca Chiavacci sulla manifestazione del 21
settembre a Firenze “Facciamo insieme un passo di pace”
Da Giornale Radio Sociale del 19/09/14
Intervista ad Antonio Cannata, Arci
Podcast http://www.giornaleradiosociale.it/audio/19-09-2014/
Da il FattoQuotidiano.it del 18/09/14
Lampedusa: dopo le stragi arriva Sabir,
Festival diffuso delle culture mediterranee
Dal primo al 5 ottobre dibattiti, laboratori, eventi musicali e teatrali organizzati da Arci e Comitato 3 ottobre - per ricordare che essere tra
Europa e Africa fa dell’isola delle Pelagie un luogo di incontro e di
scambio di tradizioni e saperi. Ma anche per non dimenticare le tragedie
dei migranti
Dal primo al 5 ottobre Lampedusa ospiterà il Festival Sabir, cinque giorni di dibattiti,
laboratori, eventi teatrali e musicali e spazi dedicati alla letteratura, organizzati da Arci,
Comitato 3 ottobre e Comune di Lampedusa, con il patrocinio della Presidenza del
Consiglio dei Ministri e della Rai. Nell’isola siciliana tra Europa e Africa sono attesi ospiti
internazionali, europei e provenienti dalla sponda sud del Mediterraneo. Si parlerà di
guerra, frontiere, democrazia, lavoro dignitoso, reddito, diritti sociali e culturali, diritto al
futuro delle giovani generazioni e naturalmente di migranti.
Oggi Lampedusa, nell’immaginario collettivo, è soprattutto legata ai grandi flussi di
migranti, alle tragedie che nel canale di Sicilia si cono consumate, a un’accoglienza quasi
sempre fornita in condizioni di emergenza, nonostante la solidarietà di cui spesso hanno
dato prova, in condizioni difficili, i suoi abitanti. L’intento del Festival è quello di restituire
all’isola un’immagine diversa, di valorizzarne il potenziale sociale, economico e culturale,
di rafforzarne il ruolo di ponte tra le due sponde del Mediterraneo, per la costruzione di
uno spazio aperto e solidale tra i paesi che vi si affacciano.
Il 3 ottobre ci saranno varie iniziative in ricordo del tragico naufragio in cui persero la vita
368 migranti, iniziative di cui saranno protagonisti i familiari delle vittime e i superstiti. La
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direzione artistica degli eventi teatrali è affidata ad Ascanio Celestini, mentre per gli eventi
musicali la direzione artistica sarà di Fiorella Mannoia.
Sabir, che dà il titolo al festival, era un idioma parlato in tutti i porti del Mediterraneo dal
Medioevo fino a tutto il XIX secolo. Uno strumento di comunicazione in cui confluivano
parole di molte lingue del Mediterraneo e che consentiva ai marinai e ai mercanti dell’area
di comunicare fra loro. Il titolo ha l’intento di evocare la vocazione storica dell’isola di
Lampedusa, che le deriva dalla sua collocazione geografica e che ha visto, nel corso dei
secoli, il passaggio delle grandi civiltà mediterranee. Lampedusa, dunque, come luogo di
incontro e di scambio di culture, tradizioni e saperi.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/09/18/lampedusa-dopo-le-stragi-arriva-sabir-festivaldiffuso-delle-culture-mediterranee/1125826/
Da Left.it del 19/09/14
Alganesh Fessaha. Rosa nel deserto
di Tiziana Barillà
Alganesh Fessaha ha già salvato la vita a 3.500 persone, strappandole dalle mani dei
trafficanti di esseri umani. Il 3 ottobre tornerà a Lampedusa, un anno dopo la strage. Per
chiedere ai politici risposte concrete: «Altrimenti siete peggio degli scafisti»
Ogni mattina Alganesh Fessaha si sveglia con lo squillo del telefono. Dall’altra parte della
cornetta ci sono le madri e i parenti dei giovani eritrei, partiti alla volta dell’Europa, che non
hanno più traccia dei loro figli. «Vado a letto alle 2 del mattino e all’alba già cominciano a
chiamarmi, sono disperati», racconta a left. «Pensa che ancora non riusciamo a sapere
dove sono finite 244 persone partite lo scorso 6 giugno, non le troviamo». Una volta
segnati i nomi dei dispersi e riattaccato il telefono, Fessaha e i suoi collaboratori si
mettono alla ricerca. Dove? Nelle prigioni della Libia, del Sudan o dell’Egitto. E, poi,
provano a liberarli. Come? Trattando coi carcerieri, «ma senza pagare nessun riscatto».
Finora così ha strappato dalle loro mani 3.500 persone. Lo ha fatto insieme alla sua ong
“Gandhi”, che ha chiamato così in memoria del Mahatma ma anche di suo padre,
combattente pacifista per l’indipendenza dell’Eritrea, che nel suo Paese aveva lo stesso
soprannome. Il 3 ottobre Alganesh sarà a Lampedusa, dove dal primo al 5 del mese si
terrà il festival Sabir.
Medico specialista in medicina ayurvedica, Alganesh è cittadina italiana e lo scorso
dicembre ha ricevuto il prestigioso Ambrogino d’oro di Milano per il coraggio con il quale
da undici anni affronta i trafficanti nel deserto del Sinai. Alganesh – che in lingua eritrea
significa “tu sei il mio riposo” – racconta le sue atroci esperienze con voce pacata. Alla
guerra ci ha fatto l’abitudine, ci è cresciuta dentro sin da giovanissima, quando faceva la
resistenza in Eritrea. Ma allora c’erano il regime etiope e la lotta per l’indipendenza. Oggi
invece – e da 22 anni – c’è il regime di Isaias Afewerki, uno Stato militare in cui ai maschi
dall’età di 16 anni – e fino ai 50-54 – spetta un futuro certo: divisa e lavori forzati. «I
giovani non hanno avvenire, non possono studiare e se rimangono vengono schiavizzati,
costretti a costruire le case dei militari e dei vari ministri. Con uno stipendio di 10 euro al
mese. Perciò scappano». Ogni mese dall’Eritrea se ne vanno in 3mila. Ma fuggire dal
Corno d’Africa significa andare incontro alla morte – almeno 8mila i cadaveri consegnati
dal deserto del Sinai nell’ultimo decennio – o alla prigione. Perché i più giovani che
tentano la via della Libia, in questo percorso, vengono spesso rapiti dall’esercito egiziano
al confine con Israele o dai beduini del deserto. «Da questa situazione ne abbiamo liberati
3.500», ribadisce Fessaha.
http://www.left.it/2014/09/19/alganesh-fessaha-rosa-nel-deserto/17692/
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Da Padania.org del 19/09/14
Lampedusa: dopo le stragi arriva Sabir,
Festival diffuso delle culture mediterranee
Dal primo al 5 ottobre Lampedusa ospiterà il Festival Sabir, cinque giorni di dibattiti,
laboratori, eventi teatrali e musicali e spazi dedicati alla letteratura, organizzati da Arci,
Comitato 3 ottobre e Comune di Lampedusa, con il patrocinio della Presidenza del
Consiglio dei Ministri e della Rai.
http://www.padania.org/padania/giovani-e-lavoro.html
La notizia è a metà della pagina web
Da Immezcla del 19/09/14
3 Ottobre, tutto pronto per la Giornata della
memoria ma il Comitato si spacca
Scritto da Paola Suraci
Manca poco, ormai, al 3 ottobre. Una data che riporta la mente e il cuore ad un anno fa,
quando nel canale di Sicilia, in prossimità di Lampedusa, persero la vita in mare 368
persone.
Sull'onda di quell'emozione, con la voglia di fare, è nato il Comitato 3ottobre: per far
diventare proprio quella data, il 3 ottobre, giornata nazionale della Memoria e
dell’Accoglienza, per ricordare tutti i migranti morti nel tentativo di fuggire da persecuzioni,
dittature, guerre e miseria, nonché tutti gli uomini che per salvarli mettono a rischio la
propria vita.
A distanza di un anno, questa richiesta non ha ancora trovato un’adeguata risposta, come
pure l’esigenza di dare un nome alla stragrande maggioranza delle vittime.
Però mentre si cerca di organizzare questo primo, triste, anniversario, ecco che il Comitato
si spacca e la vicepresidente Paola La Rosa, (insieme ad altri quattro aderenti Laura
Biffi
,
Simone Nuglio
,Fabio Sanfilippo e Alice Scialoja) abbandona il direttivo e
l'associazione con una lettera pubblica nella quale spiega le sue ragioni:
“Quando – un anno fa – con altri cinque compagni di viaggio abbiamo dato vita al
Comitato 3 ottobre, ci siamo posti come primo obiettivo quello di far approvare dal
Parlamento una legge che istituisse il 3 ottobre di ogni anno la Giornata della memoria e
dell’accoglienza. Al contempo abbiamo posto la questione del riconoscimento delle vittime
della strage, identificazione possibile solo attraverso la comparazione del Dna. E ci siamo
subito messi al lavoro per organizzare – comunque – la prima Giornata della memoria e
dell’accoglienza, per non dimenticare e per dare dignità alle vittime e ai familiari ai quali
era stato negato persino il diritto a un funerale.
A un anno di distanza dalla strage la
proposta di legge – che non prevede spese – giace in qualche cassetto della Camera dei
Deputati, nonostante l'impegno dei parlamentari Beni, Chaouki e Realacci primi
firmatari.
A un anno di distanza le vittime senza nome continuano a essere tali, identificate
da un numero. Non sono ancora state stabilite le procedure per il prelievo e la
comparazione del Dna al fine di arrivare a un riconoscimento certo. Solo recentemente
sono stati assunti impegni per arrivare quantomeno alla definizione di un protocollo. Ma
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decine di familiari ancora oggi non hanno un luogo dove piangere i propri cari.
Volevamo
– avremmo voluto – che il 3 ottobre 2014 a Lampedusa si potesse stare tutti in silenzio,
uniti nel ricordo e in una preghiera comune a tutte le religioni. Volevamo evitare le
strumentalizzazioni e le passerelle politico-istituzionali e per questo in questi mesi
abbiamo ripetuto l'appello al silenzio nel giorno dedicato alla commemorazione delle
vittime del naufragio del 3 ottobre.
Perché pensiamo che ci sia un tempo e un luogo per ogni cosa. Questa era ed è la nostra
idea di Comitato 3 ottobre. Un’idea evidentemente non condivisa dall’intero gruppo
dirigente visto che – apprendiamo – il Comitato parteciperà a un dibattito-convegno
proprio il 3 ottobre a Lampedusa con esponenti politici e istituzionali, contraddicendo lo
spirito del movimento e negando il senso profondo della memoria e del ricordo. E
apprendiamo anche che il 3 ottobre non sarà possibile fare quel rito comune che avevamo
immaginato come momento altamente significativo dell’intera giornata di
commemorazione. Due fatti che in un sol colpo svuotano di significato la giornata del 3 e
tradiscono l’idea di Comitato che abbiamo. Per questo abbiamo deciso di lasciare il
direttivo del Comitato e la stessa associazione”.
Ma ecco che risponde il Comitato: “E’ vero, gli obiettivi che si è posto il Comitato,
l’istituzione della Giornata della Memoria e dell’Accoglienza il 3 ottobre di ogni anno, la
definizione di una procedura di riconoscimento tramite DNA per le vittime di tutti i naufragi,
non sono ancora stati raggiunti nonostante lo sforzo immenso compiuto da molti nel corso
di questi 12 mesi. Ma è proprio per questo che invece di arrenderci sentiamo ancora di più
il dovere di continuare.
Continueremo, come abbiamo fatto in molteplici incontri con le autorità, a rappresentare le
richieste che ci vengono fatte dai familiari delle vittime. Parteciperemo, già la settimana
prossima, ad un nuovo incontro con il Commissario straordinario del governo per le
persone scomparse e le ONG. Continueremo a sollecitare il supporto di tutti per far sì che
quella proposta di legge per l’istituzione della Giornata della Memoria, sostenuta da 50
parlamentari, venga discussa e approvata. Continueremo ad organizzare la
commemorazione del 3 ottobre a Lampedusa, nonostante sia stato necessario spostare la
funzione interreligiosa al 2 ottobre per questioni di sovrapposizione fuori dal nostro
controllo, e lo faremo per rispetto delle vittime e dei superstiti che da tutta Europa hanno
chiesto il nostro aiuto per tornare il 3 ottobre a Lampedusa.
Il Comitato Tre Ottobre ha da sempre auspicato che le vittime, i familiari ed i superstiti
fossero i soli protagonisti della Prima Giornata della Memoria e dell’Accoglienza. Essere
contrari alle passerelle ed alle strumentalizzazioni è giusto e condiviso da tutti. E’ molto più
difficile invece intraprendere la strada del dialogo con quelle istituzioni e con quella politica
che del Mediterraneo decidono le sorti, ma siamo convinti che sia l’unica strada possibile.
La questione del silenzio è stata molto dibattuta all’interno del Comitato. Noi
comprendiamo le idee che portano i nostri amici a sostenere la richiesta di silenzio da
parte della politica e delle istituzioni. Tuttavia abbiamo l’obbligo di ascoltare anche la
richiesta che ci hanno fatto i superstiti ed i familiari delle vittime, che non solo non vogliono
il silenzio ma esigono delle risposte. Abbiamo l’obbligo di ascoltare chi ci dice che è stanco
di non avere una voce, e sostenerlo diventando noi il megafono. Il Comitato Tre Ottobre,
contrariamente a quanto affermato dai nostri amici, non prenderà parola al
dibattito/convegno previsto la mattina del 3 a Lampedusa, ma accompagnerà i superstiti
ed i familiari ad incontrare le istituzioni Europee ed Italiane che saranno presenti e
sosterrà le loro richieste. Il programma degli eventi organizzati direttamente dal Comitato,
è stato condiviso, discusso ed approvato dai familiari ed i superstiti”.
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Dunque, tra poco sarà un anno esatto da quella strage e il Comitato 3 ottobre, assieme al
Comune di Lampedusa e all’Arci, vogliano celebrare quel primo anniversario con i
superstiti e con i familiari delle vittime.
“Lampedusa è pronta ad accoglierli, - spiega Tareke Brahne - ancora e si lascerà
dipingere, si lascerà colorare e attraversare. L’isola che c’è, ma che Mare nostrum ha
lasciato respirare dopo quella tragedia che per la prima volta ha mostrato al mondo la
morte nel mare. La morte sulla linea del confine. Il comitato 3 ottobre ha aiutato superstiti
e familiari delle vittime a fare un viaggio a ritroso per tornare indietro a Lampedusa.
Stavolta ognuno con il suo biglietto aereo in tasca pagato da generose associazioni
umanitarie. Ognuno con il suo documento di identità ed il suo permesso di soggiorno
concesso per motivi umanitari, perché ognuno di loro scappa da guerra e persecuzione e
ne ha diritto. In qualsiasi paese europeo ne ha diritto, anche se per raggiungerlo è
costretto a rischiare la vita e spesso, sempre più spesso, a perderla. Quella giornata la
celebriamo sotto uno slogan: proteggere le persone e non i confini. È il titolo che abbiamo
scelto per dire all’Europa che i suoi confini uccidono, che le politiche di accoglienza
devono cambiare. Un anno fa vennero a dire: mai più. Vennero a dirlo in coro i potenti
d’Europa. Oggi, duemilacinquecento morti dopo, vengono a dirci che l’operazione
umanitaria Mare nostrum, verrà sostituita da una operazione di polizia di frontiera che si
chiama Frontex plus. I morti si erano mostrati il 3 ottobre e avevano innescato la reazione
positiva di Mare nostrum, la più grande operazione di soccorso in mare mai vista. Ora i
morti che si mostrano, ognuno di loro, è un atto d’accusa contro chi non si decide ad agire,
ad andare oltre Mare nostrum e a facilitare l’accesso all’Europa a chi scappa da guerra e
persecuzione e ha diritto all’accoglienza e all’asilo. Programmi di ingresso agevolato,
corridoi umanitari. Sono le nostre parole d’ordine per il 3 ottobre di Lampedusa per il
festival Sabir che celebra l’isola dal 1 al 5 ottobre, per parlare di migrazioni, per gridare:
basta morti in mare. Corridoi umanitari. Non ci sono altre alternative. A meno di scegliere
che una linea invisibile continui ad uccidere. E allora ognuno si assuma le sue
responsabilità. E non si dica più che è colpa del mare”.
http://www.immezcla.it/inchieste-immigrazione/cittadinanza/item/539-lampedusa-comitato3-ottobre-morti-immigrati-mediterraneo-tareke-brahne-paola-la-rosa-simone-nuglio%20fabio-sanfilippo-alice-scialoja.html
Da Redattore Sociale del 19/09/14
"Impatto zero", un premio alle buone pratiche
di sostenibilità
C’è tempo fino a martedì 30 settembre per iscriversi alla quarta edizione del “Premio
impatto zero”, iniziativa di Arci che promuove e valorizza le buone pratiche sostenibili di
cittadini, associazioni e cooperative: scelte di vita e comportamenti ecologicamente
virtuosi che riducono lo sfruttamento di risorse, le emissioni, i rifiuti e contribuiscono a
diffondere la cultura della sostenibilità, migliorando così anche la qualità della vita della
comunità. È possibile candidarsi raccontando la propria buona pratica e iscrivendosi al sito
www.premioimpattozero.it. Un focus specifico sarà dedicato quest’anno alle pratiche di
consumo collaborativo e condiviso come il car e bike sharing, il car pooling, lo swapping, i
gruppi di acquisto solidale. Quattro le categorie in concorso: “sharing economy”, “tecno
green”; “savethefood”, “vivo verde”.
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INTERESSE ASSOCIAZIONE
Da IoDonna.it del 18/09/14
di Emilia Grossi
Firenze. Un passo di pace, presidio-corte
nazionale, piazzale Michelangelo, ore 11
Un evento nazionale per chiedere e compiere insieme un passo di Pace. Gaza, Palestina
e Israele, Ucraina, Siria, Iraq, Libia, Afghanistan, Congo. La lista delle aree di guerra in
questi anni, e soprattutto in questi mesi, si è allungata.
Fermare le guerre e le stragi significa dare finalmente il primato del governo globale del
pianeta e delle relazioni tra Stati alla politica multilaterale, ad un sistema delle Nazioni
Unite da riformare e da potenziare; significa cambiare il modello di sviluppo, non piu
orientato al consumo del pianeta per il benessere di pochi ma alla sostenibilita futura ed al
benessere di tutti; significa applicazione e rispetto da parte di tutti gli Stati degli accordi,
delle convenzioni internazionali e dei diritti umani con meccanismi sanzionatori e con un
sistema di polizia e di giustizia internazionale operativo; significa riconoscere il diritto
d'asilo e dare accoglienza ai profughi di guerra; significa investire nella ricerca,
nell'educazione, nell'ambiente, nell'economia e nel lavoro, nella giustizia sociale, nella
democrazia, nella cultura, nel dialogo, nella difesa civile, nella cooperazione, in funzione
della pacifica e plurale convivenza e del governo democratico globale, convertendo qui le
enormi risorse spese per armamenti e guerre decennali. A promuovere l'appello e il
presidio “Facciamo insieme un passo di pace” sono Rete della Pace, Rete Italiana
Disarmo, Campagna Sbilanciamoci e Tavolo Interventi Civili di Pace. (N.P.)
http://www.iodonna.it/viaggi/weekend/2014/agenda-13-settembre-appuntamenti5022426289_2.shtml#center
Da Vita.it del 18/09/14
Domenica 21 settembre, Firenze: "I governi
cambino politiche estere"
di Redazione
Nella capitale toscana si ritrovano movimenti per la pace e il disarmo di
tutta italia per una mobilitazione che vuole rilanciare la gestione
nonviolenta dei conflitti. Presenti molte persone che operano
nell'umanitario in contesti di guerra
Gaza, Palestina e Israele, Ucraina, Siria, Iraq, Libia, Afghanistan, Congo. La lista delle
aree di guerra in questi anni, e soprattutto in questi mesi, si è allungata, e ora
organizzazioni e movimenti italiani per la Pace ed il Disarmo hanno convocato per
domenica 21 settembre a Firenze, in iazzale Michelangelo, un evento nazionale per
chiedere e compiere insieme un passo di Pace. Il motivo? "La risposta dei Governi e delle
istituzioni internazionali non può continuare ad essere l'intervento militare: si è di fronte al
fallimento di tutti i tentativi di soluzione dei conflitti attraverso il ricorso alle armi".
A promuovere l'appello e il presidio Facciamo insieme un passo di pace sono Rete della
Pace, Rete Italiana Disarmo, Campagna Sbilanciamoci e Tavolo Interventi Civili di Pace.
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L'appuntamento di Firenze si pone in continuità con l'Arena di Pace e Disarmo tenutasi a
Verona lo scorso 25 aprile. Nel corso della giornata, con un programma che si snoderà
dalle 11 alle 16, si susseguiranno testimonianze provenienti dai teatri di guerra e le voci di
chi si oppone in Europa e nel mondo alle politiche di guerra.
Il presidio-evento rappresenterà un momento di raccolta e rilancio di richieste nei confronti
della politica e delle istituzioni, a partire da campagne che segnano un cambio di passo
nelle proposte per la soluzione politica dei conflitti, per la Pace, per i diritti, per la giustizia,
per il disarmo e la difesa civile non armata e nonviolenta.
"Per quanto difficile e ambizioso, un passo di Pace è urgente e necessario", indicano i
promotori. "Fermare le guerre e le stragi significa dare finalmente il primato del governo
globale del pianeta e delle relazioni tra Stati alla politica multilaterale, ad un sistema delle
Nazioni Unite da riformare e da potenziare; significa cambiare il modello di sviluppo, non
più orientato al consumo del pianeta per il benessere di pochi ma alla sostenibilità futura
ed al benessere di tutti; significa applicazione e rispetto da parte di tutti gli Stati degli
accordi, delle convenzioni internazionali e dei diritti umani con meccanismi sanzionatori e
con un sistema di polizia e di giustizia internazionale operativo; significa riconoscere il
diritto d'asilo e dare accoglienza ai profughi di guerra; significa investire nella ricerca,
nell'educazione, nell'ambiente, nell'economia e nel lavoro, nella giustizia sociale, nella
democrazia, nella cultura, nel dialogo, nella difesa civile, nella cooperazione, in funzione
della pacifica e plurale convivenza e del governo democratico globale, convertendo qui le
enormi risorse spese per armamenti e guerre decennali.
Il Comitato Promotore invita ad aderire all'appello partecipando alla manifestazione di
Firenze ed organizzando mobilitazioni in altre città europee e centri martoriati dai conflitti.
"Costruiamo insieme una nuova storia di Pace, di libertà, di diritti, di democrazia e di
giustizia: diamo vita a un'alleanza civica in Europa e nel Mediterraneo contro le guerre e
per il disarmo".
http://www.vita.it/mondo/attualita/domenica-21-settembre-firenze-i-governi-cambinopolitiche-estere.html
Da Rassegna.it del 19/09/14
‘Un passo di Pace', il 21 settembre Camusso
a Firenze
Il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, sarà presente, domenica 21
settembre, a Firenze, per la giornata di mobilitazione nazionale ed internazionale
'Facciamo insieme un passo di Pace'. Un’iniziativa di mobilitazione straordinaria per
fermare le guerre che circondano l'Europa, a partire dalla Palestina, al Medio Oriente,
all'Ucraina, ma anche una giornata di riflessione, di conoscenza e di sostegno alla
costruzione di un percorso di pace e giustizia.
L’iniziativa, promossa da Rete della Pace (di cui la Cgil fa parte), Rete Italiana per il
Disarmo, Sbilanciamoci! e Tavolo Interventi Civili di Pace, si terrà domenica a Firenze in
Piazza Michelangelo a partire dalle ore 11. "La Cgil - si legge in una nota di Corso Italia da sempre impegnata nella costruzione di un percorso di Pace è parte attiva, sia a livello
nazionale che locale, per la riuscita di questa importante giornata di mobilitazione e nella
definizione della piattaforma di richieste e di campagne ‘per un cambio di passo delle
politiche dei governi e delle istituzioni internazionali’, che verrà presentata a Firenze nel
corso dell'evento".
http://www.rassegna.it/articoli/2014/09/19/114580/un-passo-di-pace-il-21-settembrecamusso-a-firenze
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ESTERI
del 19/09/14, pag. 3
La cancelliera: ok alla Nato del commercio
Jacopo Rosatelli
Germania. Dopo la patrimoniale un altro voltafaccia del Partito
socialdemocratico
Promettere una cosa in campagna elettorale e poi farne un’altra quando si è al governo. Il
partito socialdemocratico tedesco (Spd) si sta specializzando in un’arte nella quale
spiccano per bravura alcuni esponenti politici italiani attualmente in voga, ma che non
conosce confini. Come ogni vera arte che si rispetti. Il primo clamoroso voltafaccia è stato
quello su introduzione della patrimoniale e aumento delle aliquote fiscali più alte: proposte
sbandierate nei comizi prima delle elezioni politiche federali dello scorso anno, e poi
sacrificate sull’altare della grosse Koalition con i democristiani (Cdu/Csu) della cancelliera
Angela Merkel. E ora è il turno del Ttip (Transatlantic Trade and Investment Partnership), il
famigerato Trattato di libero scambio fra Unione europea e Stati uniti sul quale è in corso
un segretissimo negoziato da oltre un anno. Ufficialmente la Spd si è sempre espressa in
modo molto critico verso quella che alcuni chiamano «la Nato del commercio»: nella
campagna per le europee Martin Schulz non si lasciava scappare occasione per mostrarsi
molto dubbioso. Ora la situazione non è più la stessa, e le aperture sono decisamente più
ampie delle riserve.
Fra i due casi, in realtà, c’è una differenza, che rende il cambio di orientamento sul Ttip
ancora più grave. Sull’aumento delle imposte, infatti, la rinuncia della Spd ad affermare il
proprio punto di vista fu dovuta ad uno scambio politico alla luce del sole, presentato come
tale anche alla base (che poi ratificò la scelta in un referendum interno): nell’intesa di
governo con la Cdu/Csu i socialdemocratici ottennero l’introduzione del salario minimo
legale e l’abbassamento dell’età pensionabile a 63 anni ma dovettero in cambio
abbandonare ogni velleità di maggiore giustizia fiscale. In una logica di coalizione –
piaccia o no – i compromessi si devono fare. Il ripensamento sul trattato Ue-Usa, invece, è
tutta farina del sacco del vicecancelliere e ministro dell’industria, il leader
socialdemocratico Sigmar Gabriel. Che, da un paio di mesi, intravede le magnifiche sorti e
progressive che si stagliano di fronte al mondo economico tedesco nel caso in cui fra le
due sponde dell’Atlantico si possa commerciare senza troppi lacci e lacciuoli (leggasi:
norme a tutela di lavoratori e ambiente).
Il segretario della Spd vuole che tutta l’organizzazione lo segua, in modo da avere le
spalle coperte: non sia mai che qualcuno lo accusi di avere tradito, con un colpo di mano,
la linea. E quindi sottoporrà all’assemblea nazionale del partito (Parteikonvent), in
programma domani nella sede centrale a Berlino, un documento con il quale verrebbe
democraticamente sancito il nuovo orientamento. E cioè: un sensibile ammorbidimento dei
toni dell’opposizione al trattato, e soprattutto l’avvio di un nuovo processo di
«approfondimento» interno, il cui esito desiderato dal vicecancelliere è fin d’ora molto
chiaro. Sì o sì. In numerose occasioni pubbliche, infatti, Gabriel – parlando soprattutto in
veste di ministro dell’Industria – non ha fatto mistero di pensare che il Ttip significherebbe
addirittura «dare regole alla globalizzazione».
Consapevole delle difficoltà nel far ingoiare la sua posizione al partito, dove la sinistra
interna sta dando battaglia, il leader socialdemocratico cerca alleati di peso. Come il
sindacato. Secondo informazioni diffuse dall’autorevole quotidiano Süddeutsche Zeitung,
sarebbe imminente l’uscita di una dichiarazione ufficiale sottoscritta dal ministero
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dell’industria e dalla confederazione unitaria Dgb nella quale si dà il via libera alla firma del
trattato Ue-Usa.
La notizia ha creato non poco scalpore, perché ha riproposto all’interno
dell’organizzazione dei lavoratori gli stessi problemi in cui si dibatte la Spd: una
«correzione» di linea adottata senza il necessario consenso dei quadri e dei militanti.
E in Germania a regole e procedure sono abbastanza affezionati. Le reazioni non si sono
fatte attendere. In assenza di conferme o smentite ufficiali, la principale federazione di
categoria, la Ig Metall, ha emesso un durissimo comunicato nel quale ha ribadito punto per
punto tutte le ragioni per le quali è contraria alla stipula del trattato. Una presa di posizione
di grande rilevanza, se si pensa che i metalmeccanici non sono la sinistra, ma la destra
della confederazione. E se si tiene in considerazione che l’industria meccanica tedesca
(auto e non solo) prospera proprio grazie all’export, che, almeno in teoria, sarebbe favorito
da un commercio ancora più libero tra le due sponde dell’Atlantico.
del 19/09/14, pag. 1/14
Scozia, affluenza record Primi exit-poll
sull’indipendenza “No in vantaggio con il
54%”
Delegazioni di baschi, catalani, corsi e sardi a tifare per la secessione
Vertice d’emergenza tra il ministro del Tesoro e la Banca d’Inghilterra
ENRICO FRANCESCHINI
DAL NOSTRO INVIATO
EDIMBURGO .
Il primo exit poll arriva alle 11 di sera da YouGov, più importante istituto di rilevamenti
statistici britannico e solitamente prudente: 54 per cento “no”, 46 per cento “sì”, un dato
basato su un campione di 1828 elettori sentiti dopo il voto. Il direttore di YouGov, Peter
Kellner, si sente di predire «al 99 per cento» la vittoria dei no. Perfino più ampia, a dargli
retta, delle previsioni dell’ultimo sondaggio, che dava i “no” in testa 53 a 47 per cento. Ma
anche sondaggi ed exit poll a volte sbagliano e nessuno dei protagonisti della sfida,
mentre inizia il conteggio dei risultati ufficiali, si azzarda a dichiarare un verdetto. Nicola
Sturgeon, vice-premier indipendentista scozzese, si limita a dire che quella di ieri è stata
“un’emozionante celebrazione della democrazia”: sapremo stamane se è un modo per
mettere le mani avanti.
Quelli che votano “sì” arrivano ai seggi come per una festa, ballando, cantando, guidati da
suonatori di cornamusa in kilt, in una marcia che sperano trionfale. Quelli del “no” ci
arrivano isolati, silenziosi, a occhi bassi, mettono la croce sulla scheda e filano via, come
vergognandosi di avere fatto qualcosa che ritengono razionalmente giusto ma forse
emotivamente sbagliato, Braveheart certo non li approverebbe. All’uscita delle urne li
aspettano torme di catalani, corsi, cinesi di Formosa, sardi, baschi, le minoranze di ogni
angolo del pianeta, venute qui a offrire solidarietà agli scozzesi e a pubblicizzare la propria
battaglia. Gli occhi della Gran Bretagna, dell’Europa, di mezzo mondo, sono puntati sulla
Scozia. E la Scozia stamane si sveglia divisa, più o meno a metà, chiunque abbia vinto la
sfida. Di certo votano in tanti, in questa giornata “storica”, come la definisce il premier
indipendentista scozzese Alex Salmond: più di 4 milioni di persone, circa il 90 per cento
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degli aventi diritto, un’affluenza record, che include per la prima volta i 16enni e
comprende pure gli stranieri, comunitari o no, basta risiedere in Scozia.
Mi infilo nel seggio dentro la Camera di Commercio, dove si vota nel corridoio antistante
gli ascensori: dall’alto delle scale è quasi possibile scrutare se la croce è sul “sì” o sul “no”,
solo mezzo separé protegge la privacy. Paola, sarda, studentessa e cameriera per
mantenersi all’Edinburgh University, vota anche lei, ma non rivela come. Arrivano spavaldi
scozzesi con distintivo all’occhiello: tanti “yes” esibiti, ma anche tanti “no” con l’Union Jack
britannica. In mattinata Andy Murray, campione di tennis scozzese, scioglie la riserva e
rivela di votare per l’indipendenza, scocciato dalla campagna “troppo negativa” di Londra.
Qualche incidente, piccoli tafferugli, un arresto, turbano il “giorno del destino” e “del
giudizio”, come lo chiamano lo Scotsman e l’Herald, i maggiori quotidiani di Scozia. A un
incrocio sotto il celebre castello, da secoli simbolo della città, un gruppo di militanti del “sì”
agita cartelli con su scritto: «Se siete per l’indipendenza, suonate il clacson». Non pochi
automobilisti lo strombazzano. Clima pacifico, perlomeno civile, per una questione che
divide profondamente, che rischia di spaccare una regione, anzi una “nazione”, perché
tale è la Scozia anche se non diventasse stato; e che minaccia ripercussioni altrove, dalla
Catalogna alle Fiandre, passando pure per il nostro paese (non manca una delegazione
della Lega). Poi alle 22, quando chiudono i seggi e comincia la conta, restano aperti i pub,
per una lunga notte di calcoli, birra, whisky, discussioni, fino all’alba di stamane, quando si
prevede l’annuncio di chi ha vinto. La polizia moltiplica discretamente la presenza, per
scongiurare eccessi, dettati dalla politi- ca, magari esasperati dall’alcol.
Più a sud, nell’altra capitale, a Londra, hanno aspettato fino all’alba l’esito del referendum,
chissà se pure lì fortificati da un whisky, anche il governatore della Banca d’Inghilterra,
Mark Carney, e il ministro del Tesoro britannico, George Osborne, rientrati
anticipatamente dal summit del G20 in Australia per monitorare il voto in Scozia e le sue
conseguenze in caso di vittoria dei “sì”, pronti a immettere liquidità nelle banche se ci
fosse un assalto ai bancomat e a prendere iniziative per calmare i mercati. Non a caso il
Times, quotidiano dell’establishment londinese, titola “D-day per il Regno Unito” le pagine
sul referendum, evocando il “giorno più lungo”, lo sbarco in Normandia, lo spirito della
seconda guerra mondiale, la lotta per la sopravvivenza del paese. Si dice che David
Cameron ha usato immagini analoghe, una settimana fa, per arringare il gotha del
business e spingerlo a parlare contro l’indipendenza. Così ieri sera, a Edimburgo come
sotto il Big Ben, non hanno chiuso occhio in tanti, domandandosi speranzosi o angosciati
come sarebbe andata a finire “la notte più lunga”.
del 19/09/14, pag. 18
Califfato tv, ora la jihad è diventata uno show
a puntate
VITTORIO ZUCCONI
WASHINGTON
CERTAMENTE più sottile della lama che trancia la gola, ancora più umiliante delle
confessioni estorte con la tortura, lo show televisivo che un altro prigioniero dell’Is lancia
via YouTube è un segnale della nuova strategia mediatica dei jihadisti assassini e forse un
sintomo di debolezza. La prima puntata del “magazine” tv del Califfato che John Cantlie,
fotoreporter inglese ostaggio, ha illustrato ieri attraverso la Rete viene subito dopo il
“prossimamente” grandguignolesco del trailer hollywoodiano diffuso dai terroristi e dopo
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quelle tre decapitazioni che hanno devastato quel poco di simpatia che la loro campagna
di schiavizzazione e di sterminio dei kafir, degli infedeli, poteva avere sollevato.
La tecnica del prigioniero costretto a pronunciare editti favorevoli al boia è naturalmente
antica e ben collaudata. Il ricordo corre subito alle disperate lettere di Moro dai covi delle
BR e alle testimonianze filmate dei prigionieri americani nell’”Hanoi Hilton”, il lager
nordvietnamita, convinti da mesi di percosse e privazioni a denunciare l’infame attacco
dell’imperialismo. Ma l’idea di uno show televisivo, un magazine a puntate prodotto
dall’interno dell’organizzazione che ha in pugno il povero “anchorman” è nuova.
Testimonia non soltanto dell’influenza occidentale sulla propaganda jihadista, ma della
necessità di rispondere al disgusto che spettatori e cittadini di buon senso nel mondo civile
stanno provando per la loro brutalità.
John Cantlie, per ora vivo e sicuro di rimanerlo fino a quando servirà come conduttore
dello show come lui stesso mestamente dice, è un giornalista di caratura professionale e
peso internazionale assai superiore ai due disgraziati freelancer americani maciullati o al
cooperante inglese che abbiano visto sgozzare. ll suo pedigree familiare è molto upper
class borghese, con padre e nonno imprenditori e costruttori di ferrovie in Asia. Il suo
curriculum è di prima categoria, come inviato per tutte le maggiori testate giornalistiche
inglesi, dal Times al Daily Mail, e il suo coraggio ammirevole: già era stato catturato da
fazioni dei ribelli anti-governativi in Siria e liberato con una fuga disperata. Un colpo di
Kalashnikov lo aveva raggiunto al braccio sinistro, semiparalizzandolo. Eppure, curato,
aveva voluto tornare sulla scena per essere di nuovo rapito e poi passato di mano, di
banda in banda, fino al fondo del pozzo, del Nuovo Califfato.
La sua voce è chiara. Il suo aspetto smagrito, ma non sofferente, per essere reso
presentabile. Il tono rassegnato, dentro la solita tuta arancione scelta dai costumisti di
questi spettacoli per richiamare l’aspetto dei prigionieri degli americani. La dizione è
perfetta, da public school britannica, che non sfigurerebbe in un un notiziario della Bbc. La
pretesa di giornalismo è, e deve essere soprattutto per lui che la professione ha praticato
davvero, palesemente grottesca, come lui stesso, con appena uno “hint”, quel sospetto di
ironia molto inglese insinua, quando ammette di parlare «sotto la minaccia di morte dei
miei carcerieri» facendo il gesto di portarsi una rivoltella alla tempia.
Il nostro inviato nel mattatoio dei fondamentalisti — «può darsi che viva, può darsi che mi
uccidano» — dice ovviamente ciò che gli viene imposto di dire, anche se non può mai
essere scontata quella “Sindrome di Stoccolma” che induce le vittime a solidarizzare con i
loro aguzzini. Chiede, come tutte le marionette parlanti o scriventi dalla prigionia, una
trattativa per salvarlo, rimproverando ai governi di Londra e di Washington di non volere
negoziare, a differenza di altri Paesi e di correre verso la guerra. Ma soprattutto promette
molte puntate di contropropa- ganda.
Sarà l’anchor di documentari costruiti per mostrare «l’altra faccia della storia», perché
«ogni storia ha due facce» ed è facile immaginare quali collage di orrori perpetrati dagli
altri formeranno i suoi futuri show. L’idea del programma è infatti un classico di ogni
propaganda: gli altri, loro, quelli che vi fanno credere di essere migliori, sono anche peggio
di noi. Radio Mosca, Radio Praga, la tv sovietica, i media cinesi negli anni della
Rivoluzione Culturale pullulavano di “documenti” che illustravano le infamie della vita nei
Paese capitalisti e borghesi.
Colpisce, nei tre minuti della presentazione, la qualità tecnica della produzione e della
postproduzione. Ci sono almeno tre angoli di ripresa, sempre in primissimo piano, prima
frontale e poi dal due lati del volto, quasi a voler sottolineare subliminalmente lo slogan
della «due facce» della storia. È un altro salto di qualità nettissimo dai video sgranati e
dilettantistici, dalle audiocassette gracchianti spedite dalle grotte e dai bunker di Osama
bin Laden, l’indizio — come aveva detto ieri un produttore televisivo americano — che fra i
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tagliagole del-l’Is ci deve essere qualcuno che non soltanto ha masticato molto cinema e
molta tv degli “infedeli”, ma può avere imparato il mestiere a Londra o in America.
Il “tv magazine” dall’abisso non servirà certamente a rovesciare l’esecrazione per tutto ciò
che l’Is rappresenta e che pratica, anche se l’illuminazione, la scenografia e la produzione
si fanno sempre più lucidi e sofisticati. Tradiscono semmai il sospetto che i tagliagole
pensino di avere un pochino ecceduto, con quelle macellazioni e quei tentativi di genocidio
e vogliano, attraverso un prigioniero, dipingersi un volto più umano sopra il
passamontagna nero. Cantlie, per sopravvivere, dovrebbe dare credibilità alle menzogne
dell’Is e gli auguriamo eccellente share e ampia audience, per salvargli la vita.
Quando John Cantlie ci implora di guardarlo, di vedere «all’altro volto» di questa guerra,
sembra di leggere la speranza che, a lui, i carcerieri lascino quel volto sul corpo.
del 19/09/14, pag. 17
Ebola, attacco al team di soccorso massacrati
medici e giornalisti: 8 vittime
Informavano i villaggi sul virus. “Avevano la gola tagliata” L’allarme
dell’Onu: “L’epidemia minaccia la pace nel mondo”
ARTURO ZAMPAGLIONE
NEW YORK .
Nel giorno in cui le Nazioni Unite hanno per la prima volta definito l’epidemia di Ebola
come «una minaccia per la pace e la sicurezza del mondo », i cadaveri di otto persone, tra
cui alcuni medici, infermieri e tre giornalisti, sono stati ritrovati nei gabinetti pubblici di
Wome, un villaggio vicino alla città di Nzerekore, in Guinea. Avevano la gola squarciata.
Dietro alla strage, la rabbia degli abitanti di quella regione poverissima dell’Africa
occidentale e il loro timore che la squadra di giornalisti e tecnici, giunta lì per un’opera di
educazione, disinfezione e prevenzione, stesse invece diffondendo il virus.
L’epidemia di Ebola, che ad oggi ha fatto 2600 vittime per lo più in tre paesi (Sierra Leone,
Guinea, Liberia), è scoppiata in una città di frontiera nel Sud Est della Guinea, Guéckédou,
che non è lontana dal luogo dell’eccidio. Il team era arrivato lì martedì scorso ed era stato
subito accolto con il lancio di pietre, tanto che gli otto avevano subito tentato di
nascondersi. Da quel momento non si è saputo più nulla della loro sorte. Il governo ha
cercato di raggiungere la zona, ma non c’è riuscito per via di un ponte bloccato. Poi, ieri,
c’è stata la terribile scoperta.
L’eccidio è una conferma della rapida trasformazione della crisi del Ebola da sanitaria ad
economica e sociale. Tra le popolazioni colpite il livello di istruzione è molto basso. Le
condizioni sanitarie sono pessime. La povertà è endemica. Molti abitanti sono persino
convinti che Ebola non esista e si rifiutano di collaborare con le autorità.
Dopo tanti ritardi, che non hanno fatto altro che aggravare la situazione, la comunità
internazionale sta cominciando a muoversi con più impegno e determinazione. Martedì
Barack Obama, durante una visita al centro per le malattie infettive di Atlanta, ha deciso
l’invio a Monrovia di un contingente di 3mila uomini guidati da un generale per coadiuvare
gli aspetti della sicurezza. E sempre gli Stati Uniti, che hanno la presidenza di turno del
Consiglio di sicurezza, hanno convocato ieri una riunione ad hoc dell’organismo esecutivo
dell’Onu su come affrontare l’emergenza in Africa occidentale.
Secondo quanto ha riferito il segretario generale del Palazzo di vetro, Ban Ki-moon, al
termine della riunione, le Nazioni Unite hanno lanciato una missione speciale di
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emergenza (Unmeer) col mandato di contrastare la diffusione del virus. Guidata da David
Nabarro, che da coordinatore Onu per l’emergenza è stato promosso sul campo inviato
speciale, la missione avrà come priorità strategiche di fermare la diffusione della malattia,
curare i pazienti colpiti dal virus, garantire servizi essenziali, preservare la stabilità e
prevenire la diffusione nei Paesi dove il virus non si è ancora diffuso.
Alla riunione di ieri a New York ha partecipato anche il direttore dell’Oms (Organizzazione
mondiale della sanità) Margaret Chan. E’ stata lei che ha parlato di «una crisi umanitaria,
sociale, economica e una minaccia per pace e sicurezza internazionale» che va ben al di’
là dell’emergenza sanitaria. E’ la terza volta nella storia dell’Onu che il Consiglio di
Sicurezza si riunisce su una epidemia, la prima volta in cui i quindici paesi membri
definiscono l’epidemia una minaccia alla pace e alla sicurezza del mondo.
In risposta a questa crisi il Consiglio di Sicurezza ha adottato una risoluzione per
espandere la risposta globale alla diffusione di Ebola. Il documento, che chiede di non
isolare i Paesi colpiti, è stato sponsorizzato da ben 131 paesi-membri, un record nei 69
anni della storia delle Nazioni Unite: tra questi l’Italia. Ed è stato approvato all’unanimità.
I primi team della missione Unmeer arriveranno nella regione a fine mese: lo ha
annunciato Ban Ki-moon ringraziando i paesi che già hanno fornito aiuti, tra cui l’Italia. Nel
corso della riunione del Consiglio Nabarro ha detto che serve una risposta internazionale
almeno venti volte maggiore dell’attuale: «E’ essenziale non solo per i paesi colpiti, ma per
il mondo intero».
del 19/09/14, pag. 7
Due manifestazioni, scontri e feriti a Quito
Geraldina Colotti
Ecuador. In piazza la principale confederazione sindacale
È finita con 15 poliziotti feriti una manifestazione contro il governo di Rafael Correa,
organizzata nella capitale ecuadoriana, Quito, dal Frente unitario de Trabajadores, la
principale confederazione sindacale. La protesta ha avuto per oggetto alcune modifiche
alla legge del lavoro, che i manifestanti ritengano potrebbe limitare il diritto di sciopero.
Alla mobilitazione hanno preso parte anche alcune organizzazioni indigene, studenti e
pensionati. «Non escludiamo uno sciopero generale», ha minacciato Carlos Pérez,
presidente di Ecuarunari, un’organizzazione indigena della sierra.
In contemporanea, la capitale ha ospitato una grande dimostrazione in appoggio alla
«revolución ciudadana» di Correa e alla coalizione di governo Alianza Pais, il Festival
della musica e della cultura per la rivoluzione del lavoro. Tre aree che il governo ha
sostenuto di voler approfondire e radicalizzare. «Vogliono destabilizzare la rivoluzione
come stanno cercando di fare in Venezuela — ha detto Correa — l’origine della
disuguaglianza è nel plusvalore, un tema che certa stampa e la restaurazione
conservatrice, che hanno vissuto di privilegi, e prosperato sulla speculazione e sul
latifondo, non possono certo accettare». Correa ha poi accusato i dirigenti sindacali che
hanno organizzato lo sciopero di «non aver fatto nulla» per farla finita con la
terziarizzazione e di criticare «con cinismo il governo che più ha fatto per i lavoratori».
Quindi, ha promesso un maggior impegno perché tutti abbiano «un lavoro dignitoso» e ha
precisato che il progetto di legge è comunque ancora un progetto e che verrà prima
ampiamente discusso.
Per andare incontro alloscontento, che arriva sia dalle componenti di centro ma anche da
quelle più radicali e corporative, la sinistra ecuadoriana ha costituito una sorta di fronte
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ampio costituito da 15 organizzazioni, nazionali e territoriali. Qualcosa di simile al Polo
patriottico che esiste in Venezuela in appoggio al socialismo chavista. Una coalizione
inedita nella storia politica del paese, che si chiamerà Unidos e alla quale partecipano sia
partiti politici che collettivi: «Si tratta di uno spazio di aggregazione politica di diversi
soggetti con uno spettro che abbraccia dalla sinistra storica fino alle componenti
progressiste e di centro», ha spiegato Oscar Bonilla, segretario di Acción Politica di
Alianza Pais. Una chiamata a raccolta di tutte le componenti che hanno appoggiato fin
dall’inizio la «revolución ciudadana» ( che, per l’estrema sinistra, ha perso per strada molti
dei suoi fondamenti). Un’idea, quella del fronte ampio, che ha preso piede durante le
ultime elezioni municipali, in cui la coalizione ha subito alcuni rovesci significativi.
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INTERNI
Del 19/09/2014, pag. 10
Franchi tiratori e assenti
Consulta, è ancora stallo
Il patto con Sel non basta
Mancano all’appello alcuni senatori a vita
ROMA — L’ intesa con Sel non è bastata, ora servono anche i 36 voti della Lega per
tentare di risolvere il caos delle votazioni a vuoto sui due giudici della Consulta e sui due
«laici» del Csm ancora mancanti all’appello. Per la Corte c’è stata la tredicesima fumata
nera: conquistano posizioni preziose Luciano Violante (542 voti) e Donato Bruno (527) ma
il traguardo (570 voti, i 3/5 degli aventi diritto) è ancora lontano. Per il premier Matteo
Renzi, che ha parlato prima della fumata nera, «ha ragione il presidente della Repubblica
sul fatto che si debba fare veloce... e credo che il Parlamento riuscirà a chiudere con una
soluzione di alto livello». E una bacchettata ai parlamentari è arrivata dall’ex presidente
della Consulta Giuseppe Tesauro: «Un’istituzione come la Corte merita ben altro
trattamento...». Ai piani alti di Pd e FI, dopo aver incassato un accordo con Sel che chiede
l’ingresso Paola Balducci al Csm, tutti sperano nel soccorso verde della Lega. E martedì
alle 12, sempre con il ticket Violante-Bruno, va in scena la prova definitiva perché, se si
rivelasse ininfluente anche l’accordo stretto a sinistra con Sel e a destra con il Carroccio,
per ora non esiste un «piano B».
Al partitone delle larghe intese (maggioranza di governo più Forza Italia) continuano a
mancare un centinaio di voti e ora, oltre ai franchi tiratori (una settantina), iniziano a
pesare anche le assenze. Tra le altre quelle di alcuni senatori a vita che non amano le
trasferte alla Camera; a parte Carlo Azeglio Ciampi che ha problemi di salute, ieri nella
lista degli assenti ingiustificati non figuravano l’ex premier Mario Monti e l’architetto Renzo
Piano, ma erano ben stampigliati i nomi del fisico Carlo Rubbia e della biologa molecolare
Elena Cattaneo: «La senatrice — spiegano dalla sua segreteria — ha votato quattro volte
nelle ultime sei votazioni e quando è a Roma si reca sempre alla Camera per la chiama».
Ma martedì la senatrice a vita ci sarà per il quattordicesimo scrutinio? «Martedì potrebbe
esserci...». Oltre i franchi tiratori e le assenze (Popolari, Fratelli d’Italia, Scelta civica e
Forza Italia erano, in proporzione, i gruppi meno presenti ieri) pesano anche gli errori e la
superficialità: Violante ha ottenuto 18 voti per il Csm che, sommati a quelli buoni per la
Consulta, lo avrebbero fatto volare a quota 560 (dieci voti dal traguardo). Stesso discorso
per Bruno: 544 voti con le 17 schede sbagliate. Stallo infine anche per le due caselle
mancanti al Csm. Pierantonio Zanettin, il nuovo candidato di FI, passa da 449 a 470 voti
(ancora insufficienti per il quorum dei 3/5 dei votanti) mentre la new entry Paola Balducci
ottiene 148 voti: una trentina di Sel e, come «acconto», 110 del Pd.
Del 19/09/2014, pag. 10
Berlusconi tratta il sì decisivo del Carroccio
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L’incontro con Calderoli. E ai suoi rivela: porto Salvini a Milan-Juve e lo
convinco
ROMA — «A convincere la Lega ci penso io. Vediamo se già sabato riesco ad andare allo
stadio con Matteo Salvini...». Il percorso è accidentato, con ostacoli disseminati lungo tutto
il percorso che accompagnerà gli abitanti del «Palazzo» alla giornata di martedì, quando è
in calendario la prossima votazione sui giudici della Consulta. Ma se il tentativo che Silvio
Berlusconi ha promesso a Matteo Renzi va in porto, allora Luciano Violante e Donato
Bruno potrebbero essere i primi giudici della storia della Consulta a ottenere un’elezione
virtuale durante una partita di calcio. Che, nella fattispecie, è Milan-Juventus in
programma domani a San Siro. A dispetto delle ricostruzioni, secondo cui durante il vertice
Renzi-Berlusconi si sarebbe parlato solo di legge elettorale, ieri l’altro il premier e l’ex
Cavaliere avrebbero affrontato anche l’impasse parlamentare sui giudici costituzionali.
Entrambi sono poco appassionati ai nomi. Ed entrambi, soprattutto Renzi, vogliono a tutti i
costi lasciarsi alle spalle «lo stallo». In quella sede, poi, ci sarebbe stata una specie di
divisione dei compiti. Col leader pd che si sarebbe fatto carico di convincere i vendoliani di
Sel e Berlusconi che, sul fronte centrodestra, avrebbe promesso di convincere la Lega.
La prima parte del piano, quella affidata a Renzi, è stata messa in pratica già ieri. Anche
se i voti di Sel non sono stati sufficienti a provocare la fumata bianca. Il compito affidato a
Berlusconi, invece, ha tempi più lunghi. Quando esce dall’incontro di Palazzo Chigi, e
siamo a mercoledì sera, l’ex premier arriva a Palazzo Grazioli e, poco prima dell’incontro
coi sindacati di polizia, annuncia ai suoi: «Domani (ieri, ndr) vedrò Calderoli. Dopodiché
sabato proverò a portare con me Salvini allo stadio».
Ieri mattina va in scena il primo incontro. «Siamo stati esclusi dal confronto. Anzi, voi di
Forza Italia e Renzi, per essere più precisi, ci avete esclusi dal dialogo», lamentano i
componenti della delegazione leghista, capitanata da Roberto Calderoli. Berlusconi, a quel
punto, sfodera il più rassicurante dei sorrisi e, rispettando alla lettera il suo canovaccio
politico dell’ultimo ventennio, dà ragione all’interlocutore. «Su questo non posso darvi
torto. Ma sapete, molte votazioni sono state convocate all’ultimo, c’è stato poco tempo per
coinvolgere tutti...», argomenta di fronte ai leghisti. Che l’incontro sia andato bene lo
dimostrano due dettagli. Il primo è la riconferma del ticket Violante-Bruno, sancita sia dal
capogruppo democratico Speranza sia dal suo omologo forzista Renato Brunetta. Il
secondo è la frase sui rapporti col Carroccio che Berlusconi lascia trapelare qualche ora
più tardi: «Ora riprenderò l’usanza delle cene del lunedì con la Lega. Finora non c’è stata
una cena con Salvini perché Bossi era geloso... ».
L’impresa è ancora lontana. C’è da confermare l’appuntamento allo stadio con Salvini e,
nel caso, c’è ancora da strappargli il «sì» su Violante e Bruno. Riuscisse nel «filotto»,
Berlusconi riuscirebbe in quello che è il suo vero intento. Quello di mostrarsi come «colui»
che ha sbloccato l’impasse parlamentare. In palio, c’è una significativa risalita nella
gerarchia istituzionale che l’ex Cavaliere — dopo il patto del Nazareno, l’assoluzione al
processo Ruby e il voto sulla riforma del Senato — ha ripreso a scalare.
Piani B? Spunteranno se anche martedì ci sarà una fumata sera. Berlusconi, intanto,
rassicura anche il partito. Commissaria di fatto i club, inglobandoli ai circoli tradizionali,
promuove una campagna di tesseramento, garantisce congressi comunali e provinciali per
l’inizio dell’anno, parla ai coordinatori regionali di una «sorpresa che non vi posso
annunciare». Una, di sorpresa, l’ha però anticipata: «Ho intenzione di rimanere presidente
di Forza Italia ancora a lungo e di ricostruire una coalizione di centrodestra classico».
Primarie e successioni, per ora, rimangono fuori dai radar.
Tommaso Labate
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Del 19/09/2014, pag. 13
L’offerta del premier: soglia unica al 5% e
premio alle liste anziché alle coalizioni
ROMA — «Il colloquio è andato bene ma devo dare una risposta definitiva a Renzi
lunedì»: lo ha spiegato Silvio Berlusconi ai fedelissimi che gli chiedevano come fosse
andato l’incontro dell’altro giorno a Palazzo Chigi. E quella dell’ex Cavaliere sarà una
risposta che potrà determinare una svolta per la legge elettorale e imprimere veramente
un’accelerazione a questo provvedimento che, comunque, verrà incardinato in
commissione Affari costituzionali del Senato la prossima settimana.
Già, perché durante il tira e molla sulle soglie, le percentuali e i quorum il presidente del
Consiglio ha calato la sua carta: il premio di maggioranza potrebbe andare non alla
coalizione ma alla lista. Questo potrebbe risolvere tutti i problemi che ci sono stati finora
sugli sbarramenti da mettere alle forze politiche che si presenteranno alle elezioni. Se
infatti Berlusconi accettasse questa opzione cadrebbe tutto il discorso sullo sbarramento al
4 per cento per i partiti che si alleano e all’8 per quelli che invece vogliono andare da soli.
A quel punto, ovviamente, vi sarebbe una soglia unica per tutti, dal momento che non vi
sarebbero più coalizioni. Una soglia del 5 per cento, per l’esattezza.
È un’ipotesi, questa, che non dispiace affatto al leader di Forza Italia, il quale va dicendo in
giro da giorni: «Basta alleanze, questo esperimento lo abbiamo già fatto e non è andato
bene». È un’opzione che mette Angelino Alfano e il Nuovo centrodestra di fronte a un
bivio: tentare l’avventura con le altre forze del centro, correndo anche il rischio di non
raggiungere quella soglia, oppure tornare a casa, da Berlusconi. È un’opzione che
favorisce il Partito democratico nei suoi rapporti di forza con Sel. Difficilmente infatti
Sinistra ecologia e libertà sarebbe in grado di raggiungere il 5 per cento da sola.
Se passasse uno schema simile il movimento di Nichi Vendola sarebbe costretto a
percorrere la strada che è stata già indicata da alcuni suoi esponenti di spicco come
Giuliano Pisapia. Non è un caso infatti che il sindaco di Milano si stia spendendo per
arrivare a un matrimonio tra Sel e il Partito democratico. E per Renzi sarebbe un modo per
non ripetere le esperienze dell’Unione e dell’Ulivo, con i loro strascichi negativi: l’alto tasso
di litigiosità interna, i veti incrociati. Del resto, il presidente del Consiglio lo ha sempre
detto: «Le forze politiche minori devono essere rappresentate in Parlamento ma non
possono più avere potere di veto». E, indubbiamente, Sel inglobata nel Pd, quel potere
non lo avrebbe più. Ma c’è un terzo soggetto che trarrebbe vantaggio da una soluzione di
questo tipo: il Movimento 5 Stelle. Finora, infatti, la debolezza dei grillini è sempre stata
quella di essere una forza che non riesce ad aggregare attorno a sé altri soggetti politici e
a dare quindi vita a una coalizione. Con un sistema siffatto, in cui il premio di maggioranza
non andrebbe più a un’alleanza di partiti ma a una lista, il Movimento 5 Stelle avrebbe
delle chances in più nelle elezioni politiche. E questo è un particolare di non poco conto.
Perché se è scontato che i grillini non potrebbero mai siglare un’intesa con il Partito
democratico e con Forza Italia sulla riforma della legge elettorale, è altrettanto scontato
che, al di là delle dichiarazioni polemiche e delle accuse contro il «famigerato» patto del
Nazareno, i pentastellati non alzerebbero le barricate al Senato per bloccare un ddl di
questo tipo. Farebbero opposizione sì, ma nessun ostruzionismo duro e puro come per la
riforma del Senato. E ciò consentirebbe a Renzi di portare a casa la riforma della legge
elettorale in tempi relativamente brevi. Certo, tutto è rinviato a lunedì, giorno in cui il patto
dovrebbe chiudersi definitivamente. Ma Matteo Renzi appare abbastanza ottimista, tant’è
vero che con i suoi non ha avuto dubbi nel confermare l’esito positivo dell’incontro con l’ex
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Cavaliere: «Con Berlusconi è andata bene». Assai meno entusiasti gli esponenti della
minoranza del Pd, che con il bersaniano D’Attorre frenano sui tempi della riforma: «Che
bisogno c’è di accelerare?». Altrettanto sospettosi gli alleati del Nuovo centrodestra che
con Fabrizio Cicchitto chiedono di vederci chiaro su questo accordo in cui finora non sono
stati coinvolti.
Maria Teresa Meli
Del 19/09/2014, pag. 25
Expo e le dimissioni a metà
Acerbo resta al Padiglione Italia
Il manager indagato lascia solo il posto di subcommissario
MILANO — «Non si tratta di un compromesso», assicura il commissario unico di Expo,
Giuseppe Sala. Ma gli assomiglia molto. La società ha chiesto ieri all’ingegner Antonio
Acerbo, che ha ricevuto un avviso di garanzia con l’accusa di corruzione per l’appalto sulle
Vie d’Acqua, di dimettersi dall’incarico di subcommissario delegato. Resterà però
operativo come «responsabile unico di procedimento» per il Padiglione Italia, incarico che
sta ricoprendo da un anno. «È stata una riflessione di convenienza più che d’obbligo»,
ribadisce Sala al termine del vertice avuto ieri con il commissario del Padiglione Italia
Diana Bracco e il presidente dell’Autorità anticorruzione, Raffaele Cantone. La società
pare fare quadrato intorno al manager: «Non sappiamo ancora di che cosa sia accusato
— osserva Sala — e comunque un avviso di garanzia non è sufficiente per obbligarmi a
chiedere un passo indietro a un mio collaboratore». Cantone si chiama fuori: «Si tratta di
valutazioni discrezionali che può fare solo la società Expo e le loro scelte interne non
possono essere certo valutate dal presidente di Anac. Sempre che non si riverberino sulla
legittimità di atti». Non è un caso che Cantone faccia l’inciso: «Voglio ricordare che per il
Padiglione Italia non ci sono appalti in corso, se si fa eccezione per l’Albero della Vita,
visto che su Palazzo Italia e cardo siamo in fase attuativa. Per questo ritengo che, allo
stato, non ci siano particolari problemi». Aggiunge poi, il capo dell’Anticorruzione, che «al
momento non risultano elementi probatori che possano portare a un commissariamento
dell’appalto per le Vie d’Acqua».
Compromesso o meno, questa soluzione (che Cantone definirà poi «interlocutoria» e che
anche Sala potrebbe modificare «nel caso in cui la Procura facesse emergere elementi più
gravi e circostanziati») mette almeno per il momento in sicurezza il Padiglione Italia,che è
sicuramente lo spazio più importante dell’esposizione e che sarà, come in ogni Expo, il più
visitato. Acerbo è punto di riferimento unico di tutta la squadra e di tutto il progetto e
opinione condivisa è che senza di lui l’operazione sarebbe stata a rischio.
E mentre Sala ricorda a chi lo incalza che «la mia scomoda poltrona rimane a disposizione
di chi mi dovesse chiedere di alzarmi, io resto perché rispondo a chi mi chiede di restare»,
in casa centrosinistra la spaccatura comincia a farsi sentire. Già all’indomani della notizia
dell’avviso di garanzia, il sindaco Giuliano Pisapia aveva preso tutti in contropiede
chiedendo ad Acerbo il passo indietro. Ieri, poi, il presidente della commissione Antimafia
e il presidente della commissione Expo, entrambi pd, hanno contestato la soluzione
trovata: «Siamo consapevoli del momento estremamente delicato e confuso. Siamo
altrettanto convinti che si debba tutelare l’immagine di Expo nel mondo, e non capiamo
come ciò sia possibile nel momento in cui Antonio Acerbo mantenga un incarico così
delicato e di grande responsabilità politica ed esecutiva». Rincara la dose il presidente del
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consiglio comunale Basilio Rizzo: «Ma se una persona non è giudicata affidabile come
subcommissario per le Vie d’acqua, perché dovrebbe esserlo per il Padiglione Italia?».
Elisabetta Soglio
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LEGALITA’DEMOCRATICA
del 19/09/14, pag. 21
“Il pentito di mafia pagato dai Servizi”
l’indagine segreta che agita Palermo
Fascicolo di Scarpinato sull’uomo di Provenzano che aveva smentito il
teste-chiave sulla Trattativa
SALVO PALAZZOLO
PALERMO .
Una nuova indagine antimafia corre dentro il cuore delle istituzioni. Ormai da un mese e
mezzo, in gran segreto. Il procuratore generale Roberto Scarpinato ha riaperto uno dei
capitoli più oscuri della storia d’Italia, quello dei rapporti fra uomini della mafia ed
esponenti dei servizi segreti. Ed è andato dritto a una storia attualissima, che è emersa
all’improvviso a giugno. Una storia che racconta dei contatti stretti fra uno degli ex
fedelissimi di Bernardo Provenzano, il capomafia di Bagheria oggi pentito Sergio Flamia e
alcuni 007 dell’Aisi, il servizio segreto civile. Secondo la ricostruzione della procura
generale, sono stati contatti equivoci, che si sarebbero ripetuti fino a pochi mese fa. Fra
Palermo e Bagheria. Addirittura, dentro un carcere. Non è ancora chiaro perché.
Nel pieno di questa delicatissima indagine è arrivata l’irruzione nella stanza di Scarpinato,
il 3 settembre, con il recapito di una lettera anonima sulla scrivania. «Lei sta esorbitando
dai suoi compiti e dal suo ruolo», gli hanno scritto. «Noi non facciamo eroi», hanno
aggiunto. Minaccia evidente di colpire in modo subdolo. Magari con una calunnia, una
terribile bugia. Una minaccia da «menti raffinatissime ».
Al momento, è solo un’inquietante coincidenza temporale: l’indagine sui servizi segreti e le
minacce. Ma, adesso, questa coincidenza è anche una delle piste principali seguite dal
procuratore di Caltanissetta Sergio Lari per cercare di decifrare il raid nella stanza di
Scarpinato.
Di sicuro, l’indagine sugli 007 siciliani continua ad essere in pieno svolgimento. E il
procuratore generale di Palermo la sta conducendo in stretto contatto con i colleghi della
procura che cercano dentro i segreti della trattativa Stato-mafia. Così, passato e presente
dei rapporti fra Cosa nostra e uomini delle istituzioni sono tornati dentro un’unica grande
lente d’ingrandimento. A partire da Flamia, che è un pezzo di storia di Cosa nostra. Lo
racconta lui stesso, perché da qualche mese ha deciso di diventare un collaboratore di
giustizia a tutti gli effetti. È il colpo di scena di questa storia. E anche la genesi della nuova
indagine sui servizi segreti.
Dopo anni di frequentazioni con gli 007, Flamia ha deciso infatti di ufficializzare il suo
ruolo. È avvenuto all’indomani dell’ennesimo arresto dei carabinieri, che l’avevano
sorpreso a fare estorsioni a Bagheria. L’ormai ex boss ha confessato anche omicidi. E poi
ha messo a verbale una frase sibillina su uno dei testimoni chiave del processo trattativa
Stato-mafia, il boss Luigi Ilardo. «Si diceva di lui che era un confidente, lo tenevamo a
distanza». Tradotto: non è possibile che abbia incontrato il capomafia Provenzano, il 31
ottobre 1995, il giorno del mancato blitz contestato al generale dei carabinieri Mario Mori.
La chiosa di Flamia sembra dunque mettere in crisi un pezzo del processo per la trattativa,
e potrebbe chiudere velocemente il processo d’appello per Mori, già assolto in primo grado
dall’accusa di aver protetto la latitanza di Provenzano. I magistrati del pool Stato-mafia ne
hanno preso atto, anche perché intanto le dichiarazioni del neo pentito avevano fatto
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arrestare una cinquantina fra boss ed esattori del pizzo. Subito dopo, però, sono iniziate le
indagini sul passato di Flamia. Era l’inizio di giugno. I primi contatti con i servizi segreti
sono saltati fuori in alcune intercettazioni conservate negli archivi della procura: erano
state fatte dalla squadra mobile, che fra il 2008 e il 2009 aveva indagato sulla mafia di
Bagheria. I pm del processo trattativa hanno approfondito, interrogando Flamia. E lui
stesso ha ammesso a denti stretti di avere preso soldi dagli 007, circa 150 mila euro. Ha
raccontato di essersi consultato con loro in un momento determinante della sua carriera
criminale, la «punciuta» rituale. In quell’occasione, un esponente dell’intelligence lo
avrebbe invitato ad intensificare la sua partecipazione in Cosa nostra.
È una storia dai contorni ancora poco chiari. Flamia avrebbe ammesso candidamente che
gli 007 si sono fatti vivi persino dopo l’inizio della sua collaborazione con i magistrati. Un
episodio strano, perché durante i sei mesi previsti dalla legge per le dichiarazioni del neo
pentito, solo la magistratura può avere contatti con i mafiosi che decidono di passare dalla
parte dello Stato.
Del 19/09/2014, pag. 7
Crocetta e i 12 pupi
Comparse e piscine della giunta siciliana
ACCUSE DI “FALSO MORALISMO” E DI “ANTIMAFIA DI POTERE” TRA UNO
SCANDALO E L’ALTRO C’È CHI PREPARA L’INCIUCIO
Di Enrico Fierro
Crocetta dice che gli facciamo più paura noi della mafia. Poteva dircelo prima quando ci
ha chiesto i voti”. Nel partito di Matteo Renzi scoppia il “caso Sicilia”. Da una parte il Pd,
dall’altra l’uomo che aveva promesso la rivoluzione. Parla Fausto Raciti, il giovane
segretario del partito sull’Isola. “Sia - mo autonomi dal governo regionale. Nei prossimi
giorni parleremo con sindaci, cittadini, giovani. Staremo tra la gente, respireremo aria
pura, non quella del clima mefitico che ammorba le stanze del governatore e dei suoi
accoliti”. Bisogna aggrapparsi a Pirandello per tentare di leggere i personaggi in campo in
questa disfida siciliana, o forse a De Roberto per decifrare le manovre degli eterni viceré
che si muovono nel ventre del potere siculo. Per Rosario Crocetta quelli che oggi chiedono
la sua testa sono gli stessi che ai tempi di Totò Cuffaro e Raffaele Lombardo avevano
preferito la gestione di quote di sottopotere a una infruttuosa opposizione. Ancora Raciti:
“Mi sono veramente rotto di quest’uso selettivo della moralità praticato da Crocetta e dal
suo cerchio tragico. Chi è con me è puro, chi è contro è parte del vecchio sistema, o
peggio è un amico dei mafiosi. La verità è un’altra: il governo regionale si regge su una
politica di scambio permanente tra il presidente e i parlamentari. E se vogliamo parlare di
Cuffaro e Lombardo, è Crocetta ad aver ereditato in toto i loro sistemi di potere. Lui e la
sua ristretta cerchia, l’antima - fia tristemente di potere del senatore Beppe Lumia. Ma
smettiamola con i moralismi da quattro soldi, appena eletto Crocetta andò a Messina, nella
patria di Francantonio Genovese per ringraziare”. Buttanissima Sicilia è l’ulti - mo libro di
Pietrangelo Buttafuoco, lui, scrittore di destra, la pensa esattamente come il giovane
democrat di fede cuperliana. “...eroe dell’antimafia, Crocetta fa dell’antimafia un
automatismo. Eroe, appunto, che condivide però lo stratega della continuità di governo –
cioè Beppe Lumia, Pd, il più professionista dei professionisti dell’antimafia – con il suo
predecessore Raffaele Lombardo...”. Buttanissima e confusissima Sicilia, perché se è
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vero, come è vero, che Beppe Lumia, parlamentare dal 1994, eletto al Senato proprio
grazie ai voti di Crocetta, era uno dei pilastri del governo Lombardo, il secondo è Antonello
Cracolici, parlamentare regionale del Pd, acerrimo nemico di Crocetta. Intanto i vecchi
viceré del potere, con il codazzo di una immutabile schiera di alti burocrati, aspettano di
capire da che parte schierarsi. Totò Cardinale, democristiano di antichissima data, già
ministro e una figlia, Daniela, a Montecitorio, è il traghettatore di pezzi della destra nella
maggioranza crocettiana. È l’inciucio prossimo venturo, dicono nei palazzi della politica.
Che indicano come esempio di continuità col vecchio sistema una nomina dell’ultima ora,
quella di Antonio Fiumefreddo alla Spi, la società immobiliare della Regione. Ex avvocato
di Raffaele Lombardo, Fiumefreddo provò l’ebbrezza di sedere sulla poltrona di assessore
regionale ai Beni culturali, ma solo per pochi giorni. Travolto dalle polemiche sui buchi del
Teatro Bellini di Catania e per una storia di affidamenti a ditte espressione della famiglia
mafiosa degli Ercolano, dovette dimettersi. La stessa sorte è toccata giorni fa all’assessore
al Territorio Mariarita Sgarlata, renziana di Siracusa. La storia ha fatto il giro della Sicilia
ed è quella di una piscina di 12 metri per sei che l’assessore ha impiantato nella sua villa.
“Volevo fare contento mio figlio”, si è giustificata. Crocetta l’ha cacciata, lei si è difesa
(“vittima della macchina del fango”), l’opposizione è salita sulle barricate. “Eppure –ha
allargato le braccia il governatore – me ne parlavano come di una ambientalista convinta”.
Saro, nel senso di Rosario, è così, pigro, distratto, sceglie male gli assessori. Boatos di
Palazzo, che ebbero una prima conferma con la clamorosa sostituzione di Franco Battiato,
fiore all’occhiello del primo governo “rivoluzionario”, con la bergamasca Michela
Stancheris. Curriculum: quando Crocetta era europarlamentare, lei era la sua assistente.
Nei guai anche la giovane assessora alla Formazione professionale Nelli Scilabra per il
fallimento del click-day. In sintesi, 50 mila giovani partecipano a un bando per 1.600
tirocini da 500 euro al mese, la gestione della selezione per via informatica viene affidata
per via diretta alla Ett di Genova. Il sistema salta, la selezione pure, è tutto da rifare.
Nessuno paga. Tutto immutabile, tutti al loro posto. Come il segretario generale della
Regione Patrizia Monterosso. Un ruolo vitale, il suo, un “punto di riferimento” che Crocetta
non intende mettere in discussione, nonostante la funzionaria sia stata condannata dalla
Corte dei Conti a risarcire un milione e 300 mila euro per una storia di finanziamenti agli
enti della formazione professionale. “Patrizia non si tocca”, risponde il governatore ai
Cinque stelle che ne chiedono la rimozione. Il potere della Monterosso, che qui chiamano
“lady Regione”, è inspiegabile: è stata accanto a Cuffaro e poi a Lombardo, ora è più del
braccio destro di Crocetta. L’eterno, vecchio sistema non muore mai.
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
del 19/09/14, pag. 23
Dagli archivi della polizia spuntano i messaggi destinati alle mogli e alle
fidanzate rimaste in patria Parole che raccontano l’altra faccia di una
tragedia senza fine
“Amore mio, non morire ti porterò in Italia
con me” le lettere mai spedite dei migranti
sepolti in mare
FRANCESCO VIVIANO
POZZALLO .
«Mio adorato amore, per favore non morire, io ce l’ho quasi fatta. Dopo mesi e giorni di
viaggio sono arrivato in Libia. Domani mi imbarco per l’Italia. Che Allah mi protegga.
Quello che ho fatto, l’ho fatto per sopravvivere. Se mi salverò, ti prometto che farò tutto
quello che mi è possibile per trovare un lavoro e farti venire in Europa da me. Se leggerai
questa lettera, io sarò salvo e noi avremo un futuro. Ti amo, tuo per sempre Samir».
Questa è una lettera che non è mai arrivata a destinazione, una delle tante. Si conosce
solo il mittente, “Samir”, probabilmente egiziano, età apparente 20-25 anni. È la lettera di
un morto, uno dei tanti cadaveri giunti nei barconi a Pozzallo o ripescati da mercantili in
navigazione e dalle navi della nostra Marina militare dell’operazione Mare Nostrum, che
nel Canale di Sicilia da mesi raccolgono vivi e morti.
Quella di Samir è una delle tante lettere d’amore e di speranza inviate dagli uomini in fuga
dal Sud del mondo alle mogli e fidanzate che hanno in Ghana, Nigeria, Egitto, Palestina,
Etiopia, Eritrea. Lettere che non sono mai state spedite e che sono state trovate nelle loro
tasche, molte chiuse in buste di plastica per non farle distruggere dal mare e che
portavano addosso come reliquie. Spesso le reliquie sono diventati inutili testamenti.
«Troviamo di tutto in quelle tasche e nelle buste di plastica che portano attorno al collo»,
racconta uno dei poliziotti della squadra mobile di Ragusa da mesi impegnato a Pozzallo,
«fotografie dei figli, delle mogli, dei genitori. Non sono utili alle indagini, ma quando le
traducono ti fanno venire un groppo in gola». Sono lettere scritte in arabo, francese e
inglese, come quella di “George”, probabilmente di origine liberiana, che avrebbe scritto
alla sua amata quando dal porto di Zuhara salì su uno dei barconi salpato verso le coste di
Lampedusa: «Amore mio, finalmente sono arrivato. La vita comincia adesso, spero di
tornare presto per portarti con me e vivere insieme lontani dalla guerra. Ti Amo».
Fotogrammi di una tragedia senza fine che si consuma ogni giorno nelle acque
internazionali, tra la costa libica e quella siciliana. Spesso, consapevoli di non arrivare vivi
alla destinazione sperata, i fuggitivi copiano queste lettere e le consegnano ad altri
compagni di viaggio nella speranza che possano sopravvivere e inviare notizie ai loro
congiunti. Su un pacchetto di sigarette trovato nelle tasche di uno dei tanti cadaveri ormai
sepolti senza nome in uno dei tanti cimiteri sparsi tra le province di Ragusa e Agrigento e
ritrovato da un collega del New York Times, c’era una brevissima lettera scritta a mano in
dialetto tigrino, una delle lingue eritree. C’era scritto: «Volevo essere con te. Non osare
dimenticarmi. Ti Amo tantissimo, il mio desiderio è che tu non mi dimentichi mai. Stai bene
amore mio. A ama R». Era una lettera indirizzata ad una ragazza il cui nome cominciava
per “A” e scritta da “R”. Mai arrivata a destinazione, ormai parte degli archivi dei fantasmi
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del mare. Racconta il poliziotto di Ragusa: «In alcuni fogli si leggono racconti della
prigionia nelle carceri libiche, in attesa del trasferimento sui barconi che li avrebbero dovuti
portare, vivi, in Italia». Lettere scritte alle madri dove ragazzi raccontavano la loro odissea,
la traversata nel deserto, il pizzo pagato a ogni frontiera e il saldo ai trafficanti, i biglietti
numerati presi per salire a bordo delle carrette che non si sa mai se arriveranno a
destinazione.
L’archivio della speranza e della morte è lunghissimo. Nelle tasche dei molti morti e di
alcuni sopravvissuti marinai e poliziotti hanno trovato le foto delle loro ragazze e dei figli
lasciati in Eritrea, le fotocopie dei documenti d’identità dei loro bambini nella speranza che,
un giorno o l’altro, anche loro li avrebbero raggiunti.
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SOCIETA’
del 19/09/14, pag. 41
SE L’UNIONE EUROPEA ALLONTANA
PERSONE E DIRITTI
STEFANO RODOTÀ
NEL Preambolo alla Carta dei diritti fondamentali si afferma che l’Unione europea «pone la
persona al centro della sua azione». Parlando di “persona”, non si è evocata una
astrazione. Al contrario. Con quella parola ci si voleva allontanare proprio dalle astrazioni,
consegnate a termini come soggetto o individuo, e si intendeva dare rilievo alla vita
materiale, alle condizioni concrete dell’esistere, ad un “costituzionalismo dei bisogni”
fondato sull’inviolabile dignità di tutti e ciascuno.
Ma nel Mediterraneo ormai quasi ogni giorno muoiono centinaia di persone che all’Europa
guardano con speranza, fuggendo dalla guerra, dalle persecuzioni, dalla miseria. I numeri
impressionano, ma non sollecitano l’adempimento della promessa scritta nel Preambolo
della Carta dei diritti, della quale Juncker ha parlato come di un riferimento obbligato per
l’attività dell’Unione europea. Questa disattenzione fa sì che l’Unione stia diventando
complice di un “omicidio di massa”, come giustamente l’Onu ha definito questa terribile e
infinita vicenda. Siamo di fronte ad uno degli effetti, niente affatto “collaterali”, della
riduzione della politica a calcolo economico e finanziario, alimentando gli egoismi nazionali
e spegnendo ogni spirito di solidarietà. Le parole contano, dovrebbero risuonare con forza,
per dare senso ad una Europa che si sta spegnendo proprio perché rinnega se stessa, il
suo essere storicamente terra di diritti. Dalla Presidenza italiana dell’Unione europea,
anche per la responsabilità assunta in politica estera all’interno della Commissione (sia
pure non ancora formalizzata), dovremmo allora attenderci parole forti, liberate da ogni
convenienza, pronunciate dallo stesso presidente Renzi che oggi può e deve parlare a
nome dell’Europa. Non è tempo di attese, e anche le mosse simboliche contano,
soprattutto se poi riescono ad essere accompagnate da proposte concrete. Ve ne sono già
molte, e la politica ufficiale dovrebbe prenderle in considerazione, riflettendo sui visti
umanitari, sullo status di rifugiato comunitario, facendo un “investimento di cittadinanza”,
ricorrendo a “bond” europei per la cittadinanza (ne ha parlato Mauro Magatti).
L’Europa non impallidisce soltanto in questa dimensione che ha davvero assunto il
carattere della tragedia. Vi sono le infinite tragedie della vita quotidiana, moltiplicate in
questi anni di crisi e che sono espresse da parole divenute terribilmente familiari:
disoccupazione, perdita dei diritti sociali, diseguaglianza. Di nuovo l’Unione europea
allontana da sé la persona con i suoi diritti, contraddice le parole che aprono la Carta —
«la dignità umana è inviolabile » — perché si nega quel diritto a «un’esistenza dignitosa »
di cui parla l’articolo 34 della stessa Carta. A quell’abbozzo di costituzione europea
affidato al Trattato di Lisbona e alla Carta dei diritti fondamentali è stata in questi anni
contrapposta una sorta di “controcostituzione”, che ha il suo cuore nel “fiscal compact” e
che ha portato ad una indebita amputazione dell’ordine giuridico europeo proprio
attraverso la sostanziale cancellazione della Carta dei diritti, che pure ha lo stesso valore
giuridico dei trattati. Nel momento in cui giustamente si contesta la pericolosa riduzione
dell’Unione ad una pura logica contabile, proprio la rivendicazione dell’importanza dei diritti
è essenziale per muoversi in un orizzonte più largo. Cominciamo a sfruttare i segnali che
vengono dalla stessa Unione, dalla sua Corte di giustizia, ad esempio, che con una
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sentenza del 13 maggio ha affermato che i diritti fondamentali, in via di principio,
prevalgono sul mero interesse economico.
La ricostruzione di una cultura europea di nuovo sensibile ai diritti permetterebbe di uscire
dalla spersonalizzazione e dalla assuefazione indotte dalle cifre. Registriamo le centinaia
di morti in mare, e le spostiamo nelle pagine interne dei giornali o le facciamo scendere
nell’ordine delle notizie televisive. Registriamo i dati statistici sulla disoccupazione
crescente, sulla povertà assoluta e relativa, come se fossero l’effetto di uno tsunami al
quale non ci si può opporre. Una attenzione vera per i diritti ci obbligherebbe ad arrivare
alle persone che stanno dietro quei numeri, a svegliarci da un inquietante e ormai protratto
sonno della ragione. Ipnotizzati dalle cifre, corriamo il maggiore dei pericoli: il ritorno
all’astrazione dalle concrete condizioni del vivere, che ci spinge verso la progressiva
riduzione delle persone ad oggetti del caluna colo economico, dunque “non persone”. E
come si può parlare di democrazia quando l’azione politica si separa dalle persone e dai
loro diritti?
Acuta in Europa, la questione si fa acutissima in Italia. Ancora ieri il rapporto Bertelsmann
ha impietosamente confermato il nostro continuo precipitare nell’ingiustizia sociale, con
processi di esclusione che mettono concretamente a rischio la coesione sociale. Si può
davvero ritenere che una ulteriore riduzione dei diritti sociali, che troppi insistentemente
continuano ad invocare, sia la via d’uscita dalle difficoltà che stiamo vivendo? O dobbiamo
prendere le mosse proprio dal riferimento alla Repubblica «fondata sul lavoro», e da ciò
che questo significa oggi in termini di diritti?
Bisogna aggiungere che, da decenni ormai, l’intera cultura dei diritti ha conosciuto in Italia
inquietante eclisse. Nella deprecata e presunta inefficiente prima Repubblica, gli anni
Settanta furono una straordinaria stagione dei diritti, che mutarono nel profondo la società
italiana e l’organizzazione istituzionale. Divorzio e aborto, statuto dei lavoratori e riforma
del diritto di famiglia, processo del lavoro e riforma carceraria, attuazione delle regioni a
statuto ordinario e introduzione del referendum, nuove norme sulla carcerazione
preventiva e abolizione dei manicomi sono lì a testimoniare che una politica dei diritti è
possibile nella linea segnata dalla Costituzione. Questa non è una rievocazione nostalgica,
ma un invito a riflettere su quali siano state le spinte propulsive che resero possibile tutto
questo. Sicuramente il riferimento ai principi e ai diritti costituzionali. Sicuramente la
capacità delle forze politiche di guardare alle dinamiche sociali senza pretese di
subordinarle a convenienze e strumentalizzazioni (divorzio e aborto furono approvati in
anni di forte potere della Dc). Sicuramente l’esistenza di canali di comunicazione tra
cultura e politica, che si alimentarono reciprocamente, produssero innovazione non di
facciata, ma veri strumenti istituzionali di cambiamento.
Negli ultimi decenni chiusure ideologiche e regressione culturale hanno determinato un
divorzio tra politica e società proprio sul terreno dei diritti. Ne vediamo i segni ancora in
questi giorni. Dopo che le regioni avevano concordato alcune linee guida sulla
fecondazione eterologa, coerentemente con quanto stabilito dalla Corte costituzionale
cancellando un altro pezzo illegittimo della straideologica legge in materia, ecco la
Regione Lombardia legare l’accesso a questa tecnica di fecondazione a costi che negano
l’eguaglianza tra le persone, richiamata proprio dalla Corte costituzionale. Riprenderà il
“turismo procreativo”, questa volta da regione a regione?
Questo caso ci ricorda come in questi anni difficili, e di silenzio della politica, i giudici siano
stati i veri “custodi dei diritti”, non assumendo un ruolo di supplenza, ma di attuazione della
legalità costituzionale, com’è loro dovere, tenendoci anche al riparo da prevaricazioni
politiche (pochi giorni fa il Consiglio di Stato ha definitivamente accertato l’illegittimità
dell’intervento ministeriale che tentò di impedire il trasferimento in una clinica di Eluana
Englaro).
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Oggi sarebbe il tempo del ritorno della buona politica, che guardi alla società senza filtri
ideologici e convenienze di maggioranza, e così dia segnali chiari contro l’omofobia;
riconosca senza alcun pregiudizio le unioni tra le persone dello stesso sesso, che i comuni
stanno affrontando con la trascrizione dei matrimoni contratti all’estero; riconosca il diritto
di decidere sul morire. Sono questi i modi in cui la società interroga la politica e, poiché
troppe volte sentiamo dire “ce lo chiede l’Europa”, proprio dall’Europa e dal mondo ci
vengono segnali sempre più univoci che, in materia di diritti, dovremmo cominciare a
seguire, riconoscendo in essi anche quello che, con lungimiranza, aveva già indicato la
Costituzione.
del 19/09/14, pag. 40
I GEMELLI DIVISI E UNA LEGGE CHE
NON C’È
CHIARA SARACENO
L‘ASSENZA di una regolamentazione nazionale delle modalità in cui può avvenire la
riproduzione assistita con donatore e/o donatrice sta già producendo i suoi effetti negativi.
Sembrava che le linee guida approvate dalla conferenza delle regioni potesse avere un
positivo ruolo di supplenza e di stimolo a ministra, governo e parlamento. Invece sta
succedendo proprio quello che i piú ottimisti, me compresa, paventavano come rischio in
una situazione giuridicamente non vincolante.
Nonostante le linee guida siano state approvate all’unanimità da tutte le regioni, alla prova
dei fatti ciascuna ha deciso di interpretarle a proprio modo, creando un ennesima
situazione di frammentazione e diversificazione dei diritti su base terri- toriale. Chi —
limitatamente alle coppie eterosessuali — può accedere alla riproduzione assistita
cosiddetta eterologa varia da regione a regione in base all’età e al costo, quindi al censo.
E in alcune regioni non può farlo del tutto.
In questa assenza di una normativa condivisa, si rischia di tornare al far west che a suo
tempo legittimò, come reazione, l’infausta legge 40, successivamente pressoché
smantellata dalle diverse sentenze delle Corti.
Il caso di Cattolica, dove si programma di dare a due diverse coppie la possibilità di far
nascere come proprio figlio/a uno ciascuno di due gemelli genetici, perché concepiti con la
donazione incrociata di gameti e ovocita da parte di un partner per coppia, è frutto di
questa mancanza di regolazione condivisa. È vero, come ha affermato una delle due
aspiranti madri, la possibilità di ricorrere alla fecondazione assistita eterologa fa,
inevitabilmente, sì che in giro per il mondo ci siano persone che dal punto di vista genetico
siano mezzi fratelli/sorelle, pur non essendolo dal punto di vista legale, so- ciale,
relazionale. Proprio per evitare che questa situazione si diffonda troppo, le linee guida
preparate dalla commissione di esperti nominata dalla ministra Lorenzini avevano indicato
in dieci il numero massimo di bambini nati con i gameti di un donatore/donatrice. Questa
indicazione era stata recepita anche dalle linee guida regionali. La scelta dell’ospedale di
Cattolica, invece, programma addirittura la nascita di due bambini che, se pur non avranno
lo stesso patrimonio genetico, dato che si tratterà di gemelli eterozigoti, nati dalla
fecondazione da parte di due diversi spermatozoi di due diversi ovuli, saranno tuttavia
geneticamente totalmente fratelli. Per giustificare questa soluzione, i medici e le coppie si
nascondono dietro la «praticità », se non fortuna, di poter disporre di due coppie a donatori
incrociati, di cui si garantisce l’anonimato reciproco. È bello che ci siano donne disposte a
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donare i propri ovociti «in eccesso», prodotti nel percorso da loro stesse fatto nella
riproduzione assistita. Per certi versi è meglio, o non aggiunge sovraccarichi e rischi per la
salute, che nel caso di una donna che si sottopone a stimolazione ovarica solo a fini di
donazione. Così come è bello che un uomo doni parte del proprio sperma in eccesso
rispetto a quello necessario per la fecondazione degli ovuli della sua compagna. Ma
occorrerebbe evitare incroci come quelli di Cattolica, soprattutto pensando a chi nascerà.
È vero che il patrimonio genetico non è tutto, e che si diventa figli perché qualcuno
accoglie e fa crescere. Ma produrre intenzionalmente due gemelli che non saranno mai
fratelli/sorelle, e che in futuro potrebbero interrogarsi sulla casualità per cui sono diventati
figli dell’una piuttosto che dell’altra coppia, mi sembra un passo che richiederebbe
maggiore cautela e riflessione.
Del 19/09/2014, pag. 31
Entro un anno in farmacia la cannabis
terapeutica
Via alla produzione italiana
Firmato l’accordo: gratuita su prescrizione
ROMA — La parola cannabis evoca fantasmi. È legata agli spinelli, al rischio che
costituisca l’anticamera di droghe pesanti. Bisognerà mettere da parte questo pregiudizio
e, una volta tanto, pensare positivamente al più antico degli stupefacenti, usato già in
epoca neolitica per le sue proprietà miorilassanti, analgesiche e sedative.
Apre nuove prospettive di cura l’accordo firmato dai ministri Beatrice Lorenzin (Salute) e
Roberta Pinotti (Difesa) per la prima produzione nazionale di sostanze e preparazioni di
origine vegetale. La piantina verrà coltivata nei terreni dell’Istituto militare chimico
farmaceutico, a Firenze, per estrarne il principio attivo da trasformare poi in preparazioni
galeniche impiegate in pazienti con dolore neuropatico centrale. La terapia sarà gratuita,
prescritta dai medici quando gli altri farmaci non funzionano. La stima è di 500-900 mila
malati in Italia. I cannabinoidi hanno avuto il via libera per l’impiego farmaceutico nel 2007.
Da allora però non sono entrati realmente nei prontuari regionali, passaggio che avrebbe
permesso la distribuzione gratuita. Abruzzo, Marche, Piemonte, Sicilia e Emilia Romagna
(pochi giorni fa) hanno deliberato senza tuttavia che fossero attivate, dopo gli annunci, le
procedure per rendere disponibile la terapia. Dopo il via alla produzione nazionale il
ministero appronterà entro ottobre un protocollo da far approvare al Consiglio Superiore di
Sanità da poco rinnovato, ai vertici due donne, Roberta Siliquini e Eleonora Porcu. Poi la
coltivazione nei campi militari. Il principio attivo sarà preparato e distribuito da farmacie
territoriali e ospedaliere. Tempi, entro il 2015. Il sistema prevede piena tracciabilità per il
controllo del consumo e dei destinatari. Finora la materia prima è stata importata
dall’estero a costi più alti. «L’Italia sarà autosufficiente — dice Lorenzin —. Distinguiamo,
però. La droga fa male, un giovane su quattro fuma cannabis, siamo preoccupati. L’uso di
sostanze per terapie è ben diverso. Noi ragioniamo in termini sanitari. Altro punto da
chiarire. Questo non è assolutamente il primo passo per permettere l’auto-coltivazione da
parte dei malati. Sono contraria a provvedimenti naif». Per Annarosa Racca, presidente
dell’associazione Federfarma, è una bella novità: «Siamo pronti a lavorare».
Il consumo di oppioidi per la cura del dolore da noi è ancora basso nonostante il progresso
di fatturato. I medici prescrivono poco e permane una certa resistenza culturale,
alimentata anche dalla politica. Wiliam Raffaeli, presidente della Fondazione Isal per la
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ricerca sul dolore (il 27 settembre al via le giornate per sensibilizzare i cittadini), non
ammaina la bandiera: «C’è ancora molto da fare. C’è ancora molta inappropriatezza nel
combattere il dolore cronico. Il 50% delle spese sono per gli antinfiammatori, una minima
parte per gli oppiacei, come la morfina». E sulla cannabis aggiunge: «Ben venga. Io la
prescrivo, ma le famiglie se la sono pagata da sé. È un farmaco di cui bisogna sfruttare le
potenzialità anche se non esistono prove schiaccianti per la sua efficacia. Molti malati ne
traggono benefici ed è questo che conta».
Margherita De Bac
[email protected]
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INFORMAZIONE
Del 19/09/2014, pag. 12
Il quotidiano «Europa» è in liquidazione
A meno di due mesi dalla chiusura dell’Unità , la storica testata della sinistra italiana,
rischia di arrivare alla fine della sua corsa anche l’altro quotidiano di area dem. La testata
Europa ha infatti annunciato la prossima sospensione delle pubblicazioni per «liquidazione
volontaria con i conti in ordine e in pieno equilibrio patrimoniale». Così il presidente della
società Edizioni Dlm Europa, Enzo Bianco, e il suo vice Arnaldo Sciarelli: «Speriamo che
la storia continui. Ci sono le condizioni aziendali e strategiche perché questo possa
avvenire». Dura la redazione, che in un comunicato dal titolo «Ora azienda e Pd ci dicano
la verità» definiscono la notizia «irricevibile tanto più perché non motivata da urgenze
finanziarie». Il segretario della Fnsi Franco Siddi osserva che «la liquidazione di un
giornale non è la stessa cosa di un qualsiasi atto liberatorio per allontanare un possibile
problema a venire».
Del 19/09/2014, pag. 10
Rai, meno 2,9 mln nei sei mesi e quasi 78
milioni in totale
LA RAI chiude la semestrale di quest’anno con una perdita di 2,9 milioni di euro e con una
perdita consolidata di 77,9, a causa del prelievo dei 150 milioni di euro del governo voluto
da Matteo Renzi per coprire parte degli 80 euro in busta paga pre-elettorali. Il risultato è in
linea con quello dello stesso periodo del 2013. Il consiglio di amministrazione, riunitosi ieri
a Milano sotto la presidenza di Anna Maria Tarantola, fa sapere di “aver preso atto
dell’andamento gestionale del Gruppo Rai”. Ma la Relazione Semestrale ufficiale sarà
presentata e approvata nel prossimo cda. Secondo i dati del report gestionale, nonostante
la presenza di costi per i grandi eventi sportivi (68 milioni di euro nel primo semestre 2014)
e un livello di morosità per il canone in aumento, i costi di gestione e del personale hanno
portato alla perdita di 2.9 milioni di euro nei primi sei mesi. Fino al 30 giugno 2014 la
posizione finanziaria netta del gruppo è risultata negativa per 170 milioni di euro, con un
miglioramento di 271 milioni rispetto al 2013. La perdita accumulata causerebbe l’erosione
del patrimonio netto di Rai spa di 220 milioni di euro, oltre i due terzi del capitale sociale.
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CULTURA E SCUOLA
del 19/09/14, pag. 6
Scuola, il «piano» Renzi fa acqua
Roberto Ciccarelli
Lo stato pietoso degli edifici scolastici nel Rapporto di Cittadinanzattiva
Non basta il piano Renzi sull’edilizia scolastica per mettere al sicuro istituti pericolanti per
scarsa manutenzione. In questa situazione si trovano quattro edifici su dieci, oltre il 70%
dei 213 edifici scolastici monitorati in 14 regioni, (oltre 70mila gli studenti iscritti e oltre
7mila i docenti) presenta lesioni strutturali. In un caso su tre gli interventi non vengono
effettuati mentre tanti sono gli istituti in zona a rischio sismico e idrologico.
Lo denuncia il dodicesimo Rapporto sulla sicurezza, qualità e accessibilità a scuola di
Cittadinanzattiva presentato ieri a Roma. «Pur apprezzando il notevole sforzo dell’attuale
governo – ha spiegato Adriana Bizzarri, coordinatrice nazionale dell’associazione —
riteniamo che affidarsi esclusivamente a quanto segnalato dai sindaci, significa non aver
agito secondo criteri oggettivi e misurabili di urgenza e gravità».
Il metodo seguito da Renzi, invitare gli ex colleghi sindaci a segnalare per lettera le
situazioni più gravi, non è esattamente un metodo «scientifico».
Per Cittadinanzattiva mostra, anzi, ampi margini di arbitrio. Uno dei casi di «lampante non
oggettività» del metodo renziano segnalato dal rapporto l’Istituto Giovanni Caso di
Piedimonte Matese, in condizioni pessime dal punto di vista della sicurezza ma non ha
ricevuto un euro di finanziamento.
Da tempo Cittadinanzattiva segnala l’assenza dell’unico strumento utile a monitorare
l’edilizia scolastica più disastrata d’Europa. Si tratta dell’anagrafe dell’edilizia scolastica
nazionale e delle anagrafi regionali. La prima è attesa inutilmente da 18 anni, ma nessun
governo l’ha mai attivata fino ad oggi, nemmeno quello Renzi. Le seconde sono attive in
tutte le regioni tranne Campania, Molise, Lazio e Sardegna, ma i database sono
accessibili solo dagli enti locali, scuole e uffici scolastici. Un ricorso al Tar Lazio dovrebbe
obbligare il Miur a rendere noti i dati.
A questo problema strutturale se ne aggiunge uno più contingente, legato all’erogazione
delle risorse stanziate dall’esecutivo. Per il progetto «scuole sicure» (una delle tre gambe
dell’intervento sull’edilizia scolastica), il governo sostiene di avere aperto più del 93% dei
cantieri, ma solo il 4,2% dei lavori sono stati conclusi. Il 2,6% dei progetti non è stato
ancora avviato.
Per questa tranche di interventi saranno investiti 150milioni di euro provenienti dal
«Decreto del Fare» del governo Letta. L’attuale esecutivo ha stanziato 400 milioni di euro
che finanzieranno 1.639 interventi nelle regioni escluse dal precedente decreto. Questi
lavori partiranno solo dal 2015.
Cittadinanzattiva avanza anche dubbi sulla tipologia degli interventi pianificati dal governo.
In Sicilia, Campania e Calabria, dove c’è il maggior numero di scuole in zone a rischio
sismico (rispettivamente 4.894, 4.872 e 3.199) avrebbero bisogno di «interventi ben più
pesanti dal punto di vista strutturale e non certo solo di abbellimento e decoro». Il rapporto
presta particolare attenzione alla qualità del monitoraggio degli interventi.
Non basta, infatti, erogare i fondi. Bisogna seguire l’andamento dei lavori.
I dati sono preoccupanti: il 41% degli edifici ha uno stato di manutenzione mediocre o
pessimo. Quasi tre scuole su quattro presentano lesioni strutturali sulla facciata esterna.
Una scuola su tre possiede il certificato di agibilità statica, poco più del 35% quello
igienico-sanitario e il 23% quello di prevenzione incendi. Una scuola su quattro è priva di
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posti per disabili nel cortile o nel parcheggio interno e quasi una su due non ne ha
nemmeno nei pressi dell’edificio. Nel 2013 sono stati 766 gli incidenti accorsi a studenti e
personale scolastico.
Del 19/09/2014, pag. 14
Sfratto Eliseo
Roma chiude i suoi palchi
DOPO IL VALLE E IL CINEMA AMERICA, RISCHIA DI FINIRE LA GLORIOSA STORIA
DEL TEATRO DI EDUARDO E BERLINGUER: UN BUCO DA 10 MILIONI (E UN
FUTURO DA SALA GIOCHI?)
Di Tommaso Rodano
I lavoratori del Teatro Eliseo di Roma sono in assemblea permanente per combattere
contro l’ipotesi di sfratto e di chiusura dello storico palco di via Nazionale. Accolgono i
giornalisti e raccontano la propria storia nella stanza adiacente a quello che una volta
era il camerino di Eduardo De Filippo. Oggi è una sala spoglia, dalle pareti bianche: è
diventata l’an - ticamera della sartoria. Non è stato solo Eduardo a rendere grande
questo posto. Il palcoscenico dell’Eliseo – e del suo fratello minore, il Piccolo – è stato
calcato da alcuni degli artisti più importanti della storia contemporanea di questo Paese:
Anna Magnani, Giorgio Strehler, Giorgio Albertazzi, Andreina Pagnani, Gino Cervi. E
poi, ancora in questi anni e in questi giorni, Umberto Orsini, Giancarlo Sepe, Maria
Paiato. L’ELISEO è anche una delle case storiche della sinistra italiana. È il luogo –tra
gli altri –di Enrico Berlinguer e del suo “discorso sull’austerità” del 1977. Sempre
all’Eliseo, nel 1991, si celebrò una delle sue infinite scissioni: quella di chi si rifiutò di
aderire alla nascita del Pds e alla morte del Pci, e diede i natali a Rifondazione
comunista. Ora questo tempio della cultura romana e nazionale rischia di lasciare
l’ennesimo vuoto. L’Eliseo è un teatro privato sin dalla nascita. Oggi il suo destino è
anche una questione di famiglia. La società che possiede il palazzo si chiama Eliseo
Immobiliare . I soci proprietari sono tre: Carlo Eleuteri, Stefania Marchini Corsi e
Vincenzo Monaci. Il figlio di quest’ultimo, Massimo, gestisce il teatro attraverso un’altra
azienda, l’Eliseo Srl: Massimo Monaci è il responsabile, in pratica, sia della direzione
artistica che di quella economica. Ecco il paradosso dell’Eli - seo: la società del figlio è
morosa nei confronti di quella del padre. Come lamentano gli altri soci dell’Eliseo
Immobiliare, il canone d’affitto del palazzo di via Nazionale non viene pagato da quasi
due anni. I debiti accumulati negli anni si avvicinano ai 10 milioni di euro. L’ufficiale
giudiziario ha già visitato l’Eliseo due volte, e per due volte ha posticipato la data dello
sfratto. La spada di Damocle che pende sul teatro adesso è fissata al 30 settembre, tra
due settimane scarse. Ma in questi giorni, per scongiurare lo scenario della messa dei
sigilli, potrebbe sbloccarsi una delle trattative con gli imprenditori interessati a prendere
in gestione lo stabile. La prima cordata, a lungo favorita, fa capo al gruppo alimentare
Cavicchi, proprietario anche di una discoteca a Ciampino. Per questo motivo si è diffusa
la voce – priva di riscontri –che il Piccolo Eliseo rischi di essere trasformato in una pista
da ballo o addirittura in una sala giochi. L’ipotesi più concreta, invece, ora è legata
all’imprenditore teatrale Francesco Bellomo. Una soluzione sicuramente meno
traumatica, che garantirebbe la continuità e la sopravvivenza del palcoscenico; una
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speranza per i trenta dipendenti fissi del teatro (e gli altri 250 e passa “stagionali” che
lavorano all’Eliseo ogni anno) e per gli amanti dell’arte e della cultura di Roma.
Chiunque arriverà a gestire il teatro, in ogni caso, si troverà di fronte a una crisi
drammatica, tra taglio dei contributi pubblici (il Fondo Unico per lo Spettacolo,
progressivamente ridotto, oggi porta nelle casse dell’Eliseo 1.337.705 euro) e una
diminuzione del pubblico che è diventata sempre più pesante a partire dal 2011. IL
MINISTRO della Cultura, Dario Franceschini, aveva incontrato i lavoratori dell’Eliseo il 10
luglio, rassicurandoli e promettendo l’avvio delle procedure per vincolare la destinazione
d’uso del palazzo di via Nazionale. Stessa promessa fatta anche agli occupanti del
cinema America di Trastevere, qualche settimana più tardi. L’America però è stato
sgomberato pochi giorni dopo la sua visita. Lo stato dell’arte e dei suoi luoghi, a Roma, è
disarmante. C’è il Teatro Valle arrivato tra mille incertezze alla fine di un’occupazione
durata oltre tre anni. Ci sono le tantissime sale dismesse e abbandonate: Metropolitan,
Volturno, Gioiello, Pasquino, Paris e molti ancora. C’è la crisi –e un buco da 13 milioni di
euro – del Teatro dell’Opera. E ci sono i numeri impietosi dell’ul - timo rapporto di
Federculture: dal 2012 gli spettatori nei cinema sono diminuiti del 5,7 per cento, nei teatri
del 17%.
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ECONOMIA E LAVORO
del 19/09/14, pag. 4
Il Pd si beve i diritti
Antonio Sciotto
Jobs Act. Sì di tutti i senatori in Commissione al nuovo contratto, ma il
partito resta diviso. Damiano minaccia un «ping pong» del testo. Sel e
M5S si alzano senza votare. E Sacconi stappa lo spumante, in siciliano:
«Comu finisci, si cunta. Ne riparliamo alla fine. Ma intanto io festeggio
già ora, non mi pare che altri lo facciano»
La Commissione Lavoro del Senato ha approvato la delega lavoro: il Jobs Act modificato
dall’emendamento sul contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti così si avvia
verso l’Aula, dove verrà votato martedì prossimo. Maurizio Sacconi, Ncd e presidente della
Commissione, parla di «giornata storica». Secondo l’ex ministro del Lavoro del governo
Berlusconi, infatti, ieri è defunto l’articolo 18. Il Pd invece resta diviso, a tratti nel caos, ma
il dorso convintamente renziano che lo guida è già pronto a festeggiare con Sacconi e
Pietro Ichino.
Tutti gli 8 componenti Pd della Commissione del Senato hanno votato sì alla delega,
mentre Sel e M5S si sono alzati al momento del voto, e Forza Italia si è astenuta. Per
quanto riguarda il Pd, c’è solo da sperare nella Camera, e nel pressing ininterrotto di
alcuni esponenti critici. Ieri Matteo Orfini, presidente dell’assemblea nazionale del partito,
ha parlato della «necessità di correzioni importanti al testo», mentre l’ex segretario
Pierluigi Bersani ha citato «intenzioni surreali» che avrebbe visto nell’azione del governo.
Ma soprattutto resta agguerrito Cesare Damiano, presidente della Commissione Lavoro
della Camera: luogo dove il Jobs Act è atteso una volta licenziato dal Senato. In una
intervista al Sole 24 Ore, ieri ha notato che questa volta l’iter delle tre letture si concluderà
al Senato («al contrario di quanto è avvenuto con il decreto Poletti»), e che quindi se si
vorrà «stare nei tempi stabiliti», ovvero entro fine ottobre, il Senato dovrà «ratificare le
modifiche che proporremo alla Camera».
Damiano intende introdurre cambiamenti su «demansionamento e videosorveglianza», ma
anche «sull’articolo 19 dello Statuto, sulla rappresentanza». Sul nodo chiave, quello
dell’articolo 18, per ora preferisce non dichiarare se presenterà emendamenti o meno,
perché prima vuole «che sia definita la posizione del Pd»: nella direzione del 29
settembre, ma pure attraverso una riunione ad hoc di tutti i parlamentari Pd con il governo,
che ha richiesto proprio ieri con una nota.
Se il Senato non dovesse ratificare le modifiche della Camera, «potrebbe avviarsi un ping
pong», spiega Damiano, che moltiplicherebbe i passaggi, allungando i tempi. Certo,
dall’altro lato il premier avrebbe sempre pronta la carta, già minacciata e per ora tenuta in
caldo, del decreto d’urgenza: Renzi ha già chiarito che nel suo progetto il Jobs Act deve
essere approvato entro la fine di ottobre, per arrivare entro marzo ai decreti delegati. Che,
va ricordato, prevedono solo un passaggio consultivo alle commissioni competenti, e
nessun voto in Aula.
Non è detto però che gli “scontenti” del Pd saranno disposti ad accettare il diktat della
maggioranza, quando si sarà fatto un punto alla direzione del 29: potrebbero procedere, in
sede di voto parlamentare, a titolo personale. «Ciascuno di noi valuterà come comportarsi,
come è già avvenuto con la legge elettorale – ha concluso il presidente della Commissione
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Lavoro – È in gioco il patrimonio di valori della sinistra». Ma potrebbero essere solo
generose testimonianze di bandiera, tanto più vista la spregiudicatezza del capo del
governo nel cercare il sostegno di Forza Italia, quando serve.
Ieri comunque dallo staff di Renzi si è fatto sapere che all’ultimo incontro con Berlusconi,
in effetti leader di Fi avrebbe offerto il suo sostegno, rifiutato però dal premier. Ma ogni
giorno ha il suo affanno, e si sa che Renzi preferirebbe optare per la soluzione
Sacconi/Ichino, che elimina il reintegro.
Alcuni esponenti del Pd hanno già chiarito la propria posizione, andando oltre l’ambiguità
della formula della delega, che lascia aperte entrambe le possibilità: mantenere il
reintegro, o sostituirlo con un risarcimento. Alessandra Moretti, dall’europarlamento, invita
il Paese a «farsene una ragione: l’articolo 18 è stato superato dalla realtà». E propone uno
scambio: «Ammortizzatori sociali e tutele crescenti, in cambio del reintegro».
La battaglia, a questo punto, sarà sull’interpretazione della formula ambigua della delega.
Anzi, a rigore, poiché il testo non introduce un nuovo contratto di inserimento a tutele
crescenti, idea originaria del Pd, ma un «contratto indeterminato a tutele crescenti» (che
quindi sostituisce quello attuale), potrebbe aver ragione il duo Sacconi/Ichino, visto che in
effetti non si cita mai il reintegro.
Sacconi infatti ieri dichiarava, in siciliano, al Corsera: «Comu finisci, si cunta, se ne riparla
quando tutto sarà finito. Io festeggio già ora, altri non mi pare lo facciano».
Del 19/09/2014, pag. 5
C’è un primo sì al Senato sul Jobs act
Ma la sinistra pd spacca il partito Bindi e Bersani: niente deleghe in
bianco. Orfini chiede correzioni
ROMA — «È ora di finirla con la caricatura dei Flintstones, che girano sulle ruote di pietra
sventolando la bandiera della Cgil...». Gianni Cuperlo ruba un’immagine al celebre cartone
ambientato nell’età della pietra per marcare la distanza da Renzi: «Nel Pd non c’è una
componente che innova e un’altra che grida “Wilma, dammi la clava!”, non è così...
L’innovazione siamo noi». Il «noi» scandito dall’ex presidente del partito rivela quanto
profonda sia la spaccatura sull’articolo 18. «Niente deleghe in bianco» è il messaggio che
Bersani ha spedito all’indirizzo di Palazzo Chigi, denunciando le «intenzioni surreali» del
governo e chiedendo chiarimenti: «Si descrive un’Italia come vista da Marte. E poi in tutta
Europa esiste la reintegra, ancorché non obbligatoria...».
E adesso, tra coloro che si smarcano, c’è anche il presidente Matteo Orfini, il quale
condivide i titoli del Jobs act e non lo svolgimento: «Servono correzioni importanti al
testo». Per non dire di Stefano Fassina, il più duro contro il governo che vuole superare la
norma simbolo dello Statuto dei lavoratori: «È una linea inaccettabile, opposta al
programma del Pd e di Renzi. Peggiorerà le condizioni dei lavoratori e aggraverà la
recessione». Anche Alfredo D’Attorre, preoccupato perché «il quadro si sta sfilacciando»,
ritiene «insostenibile una delega in bianco al governo che consenta di fare tutto e il suo
contrario». L’ala sinistra e riformista del Pd non vuole votare con la destra su una
questione cruciale, non vuole cancellare la possibilità di reintegrare i lavoratori licenziati e
si appresta a salire sulle barricate. Il dilemma è, scendere in piazza o no? I sindacati si
mobilitano e l’idea di una fronda che possa aderire a scioperi e manifestazioni preoccupa il
Nazareno. Orfini frena: «Cosa farò se la Cgil scenderà in piazza? Vedrò al tg come è
andata la manifestazione. Annunciare scioperi prima di avere un testo definitivo sarebbe
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un errore». E Roberto Speranza, leader dell’area riformista: «Lo sciopero? Parlarne mi
pare prematuro. Studieremo e troveremo un compromesso».
Per gli ex ds l’articolo 18 è una questione politica di vita o di morte. E non solo per loro,
visto lo stato d’animo della cattolica Rosy Bindi: «Per essere di sinistra non c’è bisogno di
essere comunisti...Quando ero nella Margherita andai alla manifestazione di Cofferati,
quella dei tre milioni di persone. E certo non cambio idea adesso, che sono nel Pd». Non
voterà la riforma? «Voglio essere chiara. Sul diritto al reintegro non si danno deleghe in
bianco al governo». La ex presidente si prepara a saldare i suoi dubbi con quelli
dell’opposizione bersaniana e dalemiana: «Io sono per il superamento del bicameralismo,
ma per rafforzare il Parlamento e non per renderlo subalterno al premier».
La commissione del Senato ha approvato la delega lavoro e gli otto «dem» si sono
espressi a favore, ma Erica D’Adda ha chiesto di essere sostituita per non votare no. La
fronda si allarga. Fassina, Civati, Damiano e i senatori già «dissidenti» vicini a Chiti si
vedranno all’inizio della settimana. E ieri mattina, quando Luigi Zanda ha riunito il gruppo,
l’aria era elettrica. Walter Tocci: «Ci fate fare incontri interlocutori e intanto andate avanti
come caterpillar». L’ex viceministro Cecilia Guerra: «Noi la delega la vogliamo, ma così è
troppo aperta. Non si può dare il messaggio che il rilancio del mercato del lavoro passi per
una riduzione dei diritti. Io sono contraria». Il Pd non può arrivare spaccato di fronte al
testo definitivo del governo. La mediazione va trovata prima, a costo di litigare per ore
nella direzione che Renzi ha convocato ad hoc per il 29 settembre. Si cerca un accordo,
che scongiuri una frattura. E se Debora Serracchiani avverte che «la linea non la decide
Fassina» e che il Pd andrà «fino in fondo», Lorenzo Guerini si dice certo che si troverà
una soluzione condivisa.
Monica Guerzoni
del 19/09/14, pag. 2
Lavoro, si spacca il Pd minoranza dem
attacca “Quel testo deve cambiare”
Critiche anche su legge elettorale e gestione del partito Mercoledì
vertice degli “antirenziani” per le contromosse
ALBERTO D’ARGENIO
ROMA .
La Commissione lavoro del Senato approva l’emendamento del governo sul contratto a
tutele crescenti per i nuovi assunti, testo che di fatto apre la strada alla modifica
dell’articolo 18. Il Jobs Act sbarcherà in aula martedì. Si tratta della riforma che Renzi
vuole approvare entro dicembre, anche a costo di bypassare le Camere con un decreto in
caso di palude, per placare l’Europa pronta a mettere sotto tutela l’Italia per il mancato
risanamento dei conti. In commissione, per quanto spaccato al suo interno, il Pd vota
compatto, con i suoi otto rappresentanti tutti a favore della delega. Si astiene Forza Italia
mentre abbandonano la seduta Sel e M5S. Il ministro Poletti si dice «soddisfatto» per
l’approvazione della delega che giudica «migliorata nei suoi punti più significativi». Ma i
democratici sono divisi sull’epocale riforma dello Stato dei lavoratori. Dopo le critiche a
Renzi pronunciate da Stefano Fassina, anche Bersani dice che il governo ha «intenzioni
surreali». Il presidente dell’Assemblea nazionale del Pd Matteo Orfini affida il suo pensiero
a Twitter: «I titoli del Jobs Act sono condivisibili, lo svolgimento meno. Ne discuteremo in
direzione ma servono correzioni importanti al testo». Anche Pippo Civati, leader della
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minoranza del partito, attacca, chiede un referendum tra gli elettori del Pd e parla di «una
proposta alternativa che non prevede di scannarsi sui diritti dei lavoratori che si potrebbe
approvare domani mattina accontentando non solo l’Europa, ma anche chi l’emergenza la
vive in prima persona perché il lavoro non ce l’ha». Cesare Damiano, presidente della
commissione Lavoro di Montecitorio, afferma che «è necessario convocare tutti i
parlamentari del Pd in una riunione con il governo per svolgere una approfondita
riflessione». Mercoledì vertice dei critici per le contromosse contro il governo, nel mirino
anche per legge elettorale e gestione del partito. Ma i renziani fanno quadrato. Per il
vicesegretario Lorenzo Guerini «è giusto che se ne discuta, poi il partito si troverà unito».
Debora Serracchiani riconosce: «Può darsi che non saremo tutti d’accordo, ma questo non
significa che non siamo in di dare agli italiani il cambiamento che aspettano. Arriveremo
fino in fondo». Spinge sull’acceleratore il Nuovo Centrodestra che con Sacconi dopo il voto
della commissione parla di «una pagina storica» e auspica che il Jobs Act diventi legge
entro novembre.
del 19/09/14, pag. 4
«E ora pensioni e sanità». Il Fmi vede nero: –
0,1%
Red. Eco.
In recessione. L’economia si contrarrà anche nel 2014, pil in calo per il
terzo anno consecutivo. Disoccupazione ai massimi dal dopoguerra.
Christine Lagarde sferza il governo: bene il Jobs act, avanti con le
riforme
L’economia si contrarrà anche nel 2014, con il pil in calo dello 0,1% a certificare il terzo
anno consecutivo di recessione (nel 2013 il dato segnò –1,9%, nel 2012 –2,4%).
Dopo l’Ocse (che ha stimato un –0,4%), è arrivato anche il Fondo monetario
internazionale a gelare l’Italia rivedendo al ribasso la previsione di crescita. Che sembra
sarà tagliata ancora in ottobre, quando verranno presi in considerazione gli ultimi dati
negativi. Il pil tornerà a crescere nel 2015 (+1,1%), per poi accelerare nel 2016 a +1,3%.
Il Fmi rivede invece al rialzo i dati sul deficit di bilancio e sul debito pubblico. Nel 2014 il
disavanzo raggiungerà il 3% del pil e nel 2015 il 2,1%. Il debito italiano salirà, toccando il
picco, al 136,4% del pil nel 2014, per poi scendere progressivamente. L’ispezione del Fmi
nell’economia italiana vede nero anche sul lavoro: la disoccupazione salirà quest’anno ai
massimi dal dopoguerra, al 12,6% (nel 2013 era al 12,2%). E resterà a due cifre fino al
2017.
Nel rapporto sull’Italia diffuso ieri, l’article IV (in base all’articolo IV dello statuto del fondo),
l’istituzione di Washington, accanto ai dati, dice la sua sulle riforme e l’operato del
governo. Dunque, la spendig review è uno «strumento importante», ma le analisi
suggeriscono che «ulteriori risparmi saranno difficili senza affrontare l’elevata spesa per le
pensioni», che rappresentano il 30% della spesa totale, fa i conti il Fmi che suggerisce:
«L’obiettivo dovrebbe spostarsi verso i risparmi sulle pensioni attuali, magari attraverso
una maggiore indicizzazione progressiva». E ce n’è anche per la spesa sanitaria.
Il Fmi sferza «l’agenda di riforme ambiziose» di Renzi. Il Jobs act, secondo l’ispezione di
Christine Lagarde, andrebbe nella giusta direzione.
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del 19/09/14, pag. 4
L’intervista/ Susanna Camusso, leader della Cgil
“Si assiste a una rappresentazione distorta, come se il problema
dell’Italia fossero le organizzazioni sindacali Renzi fa l’errore di ritenere
che la perdita di competitività dipenda dai diritti e non dalla mancanza
di investimenti”
“Il governo sceglie misure di destra la sua
unica logica è attaccare i sindacati”
ROBERTO MANIA
ROMA .
«Abbiamo una deflazione che ci può divorare, siamo stretti tra il patto di stabilità e il blocco
degli investimenti, e il tema diventa: come rendere più facili i licenziamenti? Mi sembra
sbagliata e grave l’idea che possa esserci una decretazione d’urgenza sui licenziamenti.
Di certo con queste misure non crescerà il Pil, il Paese resterà in deflazione e non
recupereremo il 25 % di capacità produttiva che abbiamo perso. La logica scelta non è
quella di aggredire le cause dell’economia ma solo attaccare il sindacato. Peccato che in
gioco ci siano i lavoratori e il Paese». Mentre Susanna Camusso, segretario generale della
Cgil, parla la Commissione Lavoro del Senato sta dando il via libera alla legge delega sul
lavoro. Quella che cambierà il nostro mercato del lavoro ma anche che manderà in soffitta
l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
Questa, segretario, è la vostra Caporetto. Una sconfitta subita senza nemmeno
sparare un colpo.
«Con queste misure la Caporetto rischia di farla la nostra economia. Quanto a non sparare
un colpo aspetti a dirlo. Mi sembra che anche lei sia preda della propaganda. Il problema
non è il sindacato, ma come si crea lavoro e quali sono le condizioni dei lavoratori. Si
assiste a una rappresentazione distorta come se il problema fossero le organizzazioni
sindacali. Qual è la visione che ha del lavoro il nostro presidente del Consiglio? Mi ha
colpito che abbia parlato di apartheid nel mercato del lavoro. Per restare nella metafora,
vorrei ricordare che mai in Sudafrica si è pensato di superare l’apartheid peggiorando le
condizioni della popolazione bianca. Si continua a perseverare nell’errore di ritenere che la
perdita di competitività dipenda da quei diritti mentre invece è la precarizzazione e la
mancanza di investimenti formativi su quei lavoratori ad aver contribuito al nostro declino
competitivo».
A parte la propaganda, resta il fatto che chi è tutelato oggi dall’articolo 18 non
succederà nulla. E oggi i lavoratori protetti dall’articolo 18 sono meno della metà.
«Per la verità sono il 60% di chi lavora, e come si sa la deterrenza coinvolge tutti. Poi
l’obiettivo di questo governo non doveva essere quello di costruire l’universalità delle
tutele, di far diventare tutti i lavoratori di serie A? Mi pare invece che così, oltre a ridurre le
protezioni, si introducano ulteriori divisioni».
Il contratto a tutele crescenti non toglie i diritti a nessuno.
«Dipenderà da come verranno scritte le norme nei decreti attuativi. Per ora ci sono
soltanto dei titoli. E in quello che deciderà il governo si capirà quale valore intende
attribuire al lavoro. La Cgil è per un contratto a tutele crescenti che alla fine abbia una
pienezza di diritti per il lavoratore e poche altre forme contrattuali».
Secondo lei cosa farà il governo?
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«Certo se il governo dovesse, come sembra, superare l’articolo 18 per i neoassunti
tradirebbe i principi con cui si è presentato ai giovani e ai precari. Ma non c’è solo il tema
dei licenziamenti, il governo pensa di riscrivere parti fondamentali dello Statuto dei
lavoratori, dando la possibilità alle imprese di demansionare i lavoratori. La Costituzione
prevede che a parità di lavoro sia data parità di retribuzione. A quel principio bisogna
restare ancorati».
Considera Renzi un riformista o un conservatore?
«Dipende. Non investire sul lavoro e sulla sua qualità è quello che hanno fatto i governi
degli ultimi vent’anni».
Eppure dice di volere unificare il mercato del lavoro, superare le attuali differenze.
Nella delega questi principi ci sono. Lei non li vede?
«Nella dichiarazioni del governo c’è molta ambiguità. L’introduzione del contratto a tutele
crescenti vuole dire che si aboliscono le attuali 46 tipologie di contratti? Vuol dire che il
decreto Poletti sui contratti a termine verrà superato?».
Per queste ragioni la Cgil si prepara allo sciopero generale?
«In assenza di un confronto e risposte alle osservazioni di chi come noi — piaccia o meno
— rappresenta milioni di lavoratori, non potremo che mettere in campo una grande
mobilitazione, che mi auguro unitaria con Cisl e Uil. Nulla può essere escluso, nemmeno
lo sciopero ».
Per combattere una battaglia, come ha detto nel vostro direttivo, il segretario dei
pensionati Carla Cantone, serve l’esercito. Qual è oggi l’esercito dei sindacati?
«Ho un’idea meno militaresca, ma l’esercito del sindacato si chiama mondo del lavoro. Di
coloro che sono inclusi e preoccupati per il proprio futuro e di quelli che sono esclusi ai
quali bisognerebbe estendere i diritti. Questa è la riforma dello Statuto che la Cgil
proporrà. Per questo mi ha molto colpito che nel suo discorso in Parlamento il premier non
ha parlato di come creare occupazione e ha assunto la cancellazione dello tutele dei
lavoratori, come faceva la destra».
Vuol dire che Renzi è di destra?
«No. E poi sta a lui collocarsi».
Pensa che le sue politiche siano di destra, allora?
«Non tutte, sarebbe sbagliato sostenerlo. Non lo è stato di certo il provvedimento sugli 80
euro. Ma l’articolo 18 è da sempre una bandiera della destra».
Oggi è l’Europa che ci chiede alcuni interventi sul mercato del lavoro.
«Guardi, credo che Renzi stia usando la bandierina dell’articolo 18 perché in Europa non è
riuscito a strappare nulla sul piano delle politiche economiche. Probabilmente pensa di
ottenere così maggiore flessibilità. Ma l’Europa è contro un mercato del lavoro duale, in
Europa è il contratto a tempo indeterminato ad essere considerato lo standard ».
del 19/09/14, pag. 4
Ancora non è sciopero, ma la Fiom vuole
accelerare
Antonio Sciotto
Jobs Act. I sindacati pronti a mobilitarsi in difesa dell'articolo 18.
Landini a un'iniziativa dei pensionati Spi: "Potremmo anticipare la
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manifestazione del 25 ottobre". Cgil, Cisl e Uil in attesa di una decisione
comune
Il fronte sindacale scalda i motori, e gradualmente si compatta. Dall’interno della Cgil, c’è
da notare il saldarsi dell’alleanza tra la Fiom e lo Spi (i pensionati, che in piazza portano
grossi numeri): la segretaria Carla Cantone ha ospitato ieri Maurizio Landini a un direttivo
a Cattolica, e il segretario della Fiom ha fatto ricorso alla platea degli over 60 per
annunciare che potrebbe anticipare la manifestazione prevista il 25 ottobre.
«La data – ha spiegato Landini riferendosi alla manifestazione – sarebbe il 25 ottobre ma
la valutazione che stiamo facendo è se valga la pena o no di anticiparla, vista
l’accelerazione» sul lavoro imposta dal governo. «Il diritto al reintegro è un fatto di civiltà
che deve essere esteso – ha aggiunto poi il segretario Fiom – Dietro l’articolo 18 c’è un
riassetto del sistema di relazioni: il demansionamento, il controllo a distanza dei lavoratori,
la possibilità di licenziare, il superamento del contratto nazionale: cose che si sono forse
sottovalutate all’origine, dal caso della Fiat di Pomigliano».
Carla Cantone ha dato man forte a Landini: già al Direttivo nazionale Cgil, due giorni fa,
aveva segnalato la necessità che tutta la confederazione si muova, e ieri ha rincarato.
«Sul fronte del lavoro – ha detto la leader dei pensionati Spi – pensiamo davvero di dare
battaglia sull’articolo 18 e il Jobs Act». E poi, rivolta al Pd: «Fate le cose per bene se
volete mantenere quel 41% che avete preso».
Ora bisognerà capire come tutto questo «magma» che si muove dentro la Cgil – da
ricordare che anche i pubblici si mobiliteranno per il contratto – si potrà trasformare in una
iniziativa coerente.
Ovviamente, per capire le prossime mosse di Susanna Camusso, si deve guardare anche
a quelle di Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti: la segretaria ha detto chiaramente al
Direttivo che prima di indire iniziative della sola Cgil, vuole verificare una possibile
mobilitazione unitaria. Ieri il leader della Cisl ha spiegato che nei prossimi giorni incontrerà
la numero uno della Cgil.
«I sindacati devono incontrarsi perché il governo ha fatto di tutto per intorbidire le acque
sull’articolo 18 – ha detto Bonanni – Noi chiediamo i dati su quante risoluzioni e quante
conciliazioni ci sono state. A senatori e deputati dico “state attenti”: c’è chi sull’articolo 18
vuole dividere l’Italia, ma oggi mi sembra più responsabile unire».
La Fim, i metalmeccanici Cisl, manifesterà il 30 settembre davanti a Palazzo Chigi. Il
segretario Giuseppe Farina dice a Renzi che «sopprimere l’articolo 18 non crea lavoro:
servono piuttosto il rilancio dell’industria e gli investimenti».
Dal fronte Uil, dove Luigi Angeletti è pronto a lasciare la guida del sindacato dopo 14 anni
di guida ininterrotta (si dimetterà il 10 novembre; il congresso si svolgerà a Roma dal 19 al
21 novembre), parla il probabile successore, Carmelo Barbagallo. «La Uil è pronta a
mobilitarsi – spiega Barbagallo – ma al momento non con uno sciopero generale. Meglio
iniziative articolate, che decideremo al nostro interno, lunedì prossimo».
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