RASSEGNA STAMPA lunedì 10 novembre 2014 L’ARCI SUI MEDIA INTERESSE ASSOCIAZIONE ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA RAZZISMO E IMMIGRAZIONE SOCIETA’ BENI COMUNI/AMBIENTE INFORMAZIONE CULTURA E SCUOLA ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO IL MANIFESTO AVVENIRE IL FATTO PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA Da il Salvagente del 6/13 novembre 2014, pag. 8 E se invece del bonus bebè si puntasse sul welfare? Di Francesca Chiavacci, presidente nazionale Arci Il Bonus bebè di 80 euro per ogni nuovo nato, annunciato dal Governo, ha certamente un pregio: riportare al centro del dibattito il tema degli investimenti per l'infanzia. Perchè questi investimenti siano efficaci servono però provvedimenti mirati nell'utilizzo delle risorse. Le condizioni di vita dei bambini italiani sono caratterizzate da una povertà crescente, con un fortissimo divario nel livello dei servizi erogati dalle diverse Regioni. Come Arci e Arciragazzi (che lavora quotidianamente sui diritti dell'infanzia) denunciamo quindi il fallimento di un sistema di welfare che non riesce ad offrire pari opportunità a tutti i cittadini. I tagli degli ultimi anni, in particolare quelli alla spesa per l’Infanzia e l’Adolescenza, hanno aggravato queste diseguaglianze. In questo quadro, il provvedimento annunciato dal Governo rischia di incidere molto poco sulla qualità di vita dei bambini e delle bambine. Assegnare un bonus bebè della stessa entità a tutte le famiglie con reddito fino a 90.000 euro rischia di disperdere risorse essenziali che potrebbero invece essere indirizzate al rilancio del sistema di welfare. Arciragazzi , per esempio, propone di rifinanziare ai livelli precedenti al 2009 il Fondo per l’Infanzia e l’Adolescenza (come pure quelli dedicati allo sviluppo delle politiche giovanili e per la famiglia) attraverso l'introduzione di una tassa di scopo sul cosiddetto ‘cibo spazzatura’. Si tratta di una proposta che mette al centro la promozione del benessere e dei diritti di bambini e ragazzi e che indirizzerebbe le risorse in modo più selettivo. I 500 milioni stanziati per il bonus bebé andrebbero quindi più utilmente finalizzati a provvedimenti mirati, come il potenziamento degli asilo-nido, gli incentivi economici alle famiglie in difficoltà e l'estensione dei servizi previsti dalla legge 285/97 a tutto il Paese (attualmente riguarda solo le città metropolitane). Solo così, rafforzando nel suo insieme il sistema di welfare, è possibile dare risposte efficaci per la salvaguardia dei diritti dell’infanzia. Da Corriere del Mezzogiorno del 10/11/14 Napoli mercoledì alle 20 e 30 il docu-recital «Le cose belle», il film diventa concerto Il cinema Modernissimo si fa music hall Live Enzo Della Volpe, uno degli attori, con Loguercio, Rocco De Rosa, Franco Ricciardi, Ivan Granatino e tanti altri NAPOLI - «Le Cose belle» diventa concerto. Il premiatissimo film diretto da Agostino Ferrente e Giovanni Piperno si fa «Cine-Concerto». Il mattatore è Enzo della Volpe, uno degli attori (il «posteggiatore» che stornella Passione) della pellicola, accompagnato dagli autori della colonna sonora del film e da tanti ospiti tra i quali Canio Loguercio e Rocco De Rosa. Guest star Franco Ricciardi e Ivan Granatino. L’appuntamento è al Modernissimo 2 mercoledì 12 novembre alle 20.30 (ingresso 10 euro, ridotto 8 euro studenti, anziani, gruppi, tessera Mod), a cura di Pirata M.C., Parallelo 41 e Stella Film in collaborazione con Arci Movie, Associazione Piano terra e Save the Children - “Progetto Crescere al Sud”. Enzo della Volpe si esibirà in un’inedita versione del repertorio napoletano, classico e non. Con Enzo due musicisti di Ponticelli, Marco Vidino al mandolino, curatore anche gli arrangiamenti e Domenico De Luca alla chitarra a cui si aggiungerà il contrabbassista Emanuele Ammendola. Parterre ricco: al concerto parteciperanno il cantante e autore Canio Loguercio e il compositore Rocco de Rosa (che hanno collaborato alla colonna sonora) che, tra l’altro, eseguiranno alcuni brani del loro repertorio insieme all’organettista Alessandro D’Alessandro. Introducono l’evento Luciano Stella, patron del Modernissimo, e Federico Vacalebre che ha collaborato all’ allestimento del docu-recital musicale. Nel film, in cui gli attori sono ‘veri’ e vere sono le storie narrate, Enzo è il bimbo che accompagna il papà posteggiatore nei ristoranti, costretto poi, da grande, a rinunciare alla musica e cercare lavoretti saltuari. Al Modernissimo Enzo omaggerà, in chiave molto personale, il genere melodico partenopeo e in particolare i pezzi cult della «posteggia», oggi ancora tramandata oralmente da cantori di menestrelli e trovatori. La scaletta è però elastica ed arriva a comprendere Caruso, Pino Daniele e pure gli Almamegretta (la cover di Nun te scurda’). «Questo un piccolo “happy ending”,una cosa bella… che abbiamo cercato di regalare ad Enzo - spiega il regista Agostino Ferrente, che già aveva inventato “Il Cine-Concerto per il suo “L’Orchestra di Piazza Vittorio” - per risarcirlo in parte di quello che la vita gli ha tolto, cercando di salvare quel talento che il contesto sociale in cui è cresciuto non gli aveva consentito di valorizzare con i dovuti studi». http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/notizie/spettacoli/2014/10-novembre2014/cose-belle-film-diventa-concerto-230507312511.shtml Da Repubblica.it del 10/11/14 (Napoli) Torna al Modernissimo “Le cose belle” Il cinema Modernissimo rinnova l'appuntamento con "Le cose belle", film dello scorso giugno, proiettato per la prima volta proprio nel multisala di via Cisterna dell'Olio. Mercoledì 12 alle 20.30 tornerà in sala la pellicola diretta da Agostino Ferrente e Giovanni Piperno che, senza ricorrere a budget enormi o cast stellari, è riuscito a commuovere il pubblico di tutta Italia e collezionato numerosi premi e consensi. I protagonisti delle storie raccontate, infatti, sono quattro ragazzi napoletani e non attori professionisti: Adele, Enzo, Fabio e Silvana, seguiti dai registi a partire dal 1999. Tredici anni di vita vera, dalle fiduciose aspirazioni adolescenziali alle difficoltà dell'età adulta. Sullo sfondo una Napoli problematica, che spegne le speranze e lascia ben poche chance. Per festeggiare i cinque mesi di programmazione, dopo la proiezione, avrà luogo il concerto live di uno dei quattro protagonisti del film, Enzo della Volpe, "l'ultimo posteggiatore". Fin da piccolo ha lavorato con il padre in giro per ristoranti e locali. come maestro della cosiddetta "posteggia". Da adolescente, per motivi economici, fu costretto a rinunciare agli studi musicali e a cercare lavoro. Durante la serata, Enzo tornerà alla sua prima passione e omaggerà, in chiave personale, la canzone napoletana. Il giovane artista sarà accompagnato dai suoi due inseparabili musicisti, originari di Ponticelli e da, ospiti d'eccezione, Marco Vidino (mandolino), Domenico De Luca (chitarra) e Emanuele Ammendola (contrabbasso). Parteciperanno alla serata anche Canio Loguercio e Rocco De Rosa, autori di alcuni dei 3 brani della colonna sonora, che si esibiranno con l'organettista Alessandro D'Alessandro. E ancora: Franco Ricciardi e Ivan Granatino, creatori della hit presente nel film "A storia e Maria". Il recital sarà introdotto dal critico musicale Federico Vacalebre e dal patron del Modernissimo, Luciano Stella. "Le cose belle" è stato prodotto dagli stessi registi e da Antonella Di Nocera per la napoletana Parallelo 41 produzioni. L'appuntamento speciale è organizzato a cura di "Pirata M. C.", Parallelo 41 e Stella Film, in collaborazione con Arci Movie, Associazione Piano terra e Save the Children - "Progetto Crescere al Sud". http://napoli.repubblica.it/cronaca/2014/11/09/foto/torna_al_modernissimo_le_cose_belle100162913/#1 4 INTERESSE ASSOCIAZIONE Del 10/11/2014, pag. 23 Gli adempimenti. La legge 125/14 ha dettato un nuovo iter anche per gli enti già riconosciuti idonei Niente automatismi per qualificarsi Onlus La nuova disciplina sulla cooperazione internazionale per lo sviluppo (legge n. 125/14) mette a rischio la qualifica di Onlus delle organizzazioni non governative (Ong). Le 232 Ong ad oggi riconosciute idonee dal ministero degli Affari esteri erano finora considerate anche Onlus di diritto in forza dell’esplicito riferimento alla vecchia norma (legge n.49/87); ora la legge di 27 anni fa verrà definitivamente abrogata allo scadere del sesto mese successivo all’emanazione del regolamento che farà nascere - almeno sulla carta l’Agenzia italiana per lo sviluppo internazionale. Il Parlamento, per evitare che nel frattempo le Ong perdessero questo importante status di natura fiscale, aveva dapprima previsto di iscrivere di diritto questi enti all’anagrafe delle Onlus, ma successivamente ha virato verso una norma transitoria (art. 32, comma 7) che obbliga le Ong a presentare un’istanza alla direzione regionale delle Entrate di competenza, al fine di ottenere l’iscrizione all’Anagrafe delle Onlus. Il termine di presentazione dell’istanza è il 25 febbraio 2015; se le Ong non presenteranno l'istanza o se questa sarà respinta cadranno gli effetti della vecchia norma sulla cooperazione internazionale e, in automatico, anche le agevolazioni riconosciute a queste organizzazioni. Il conto rischia pertanto di essere molto salato. Grazie alla norma Onlus le Ong, ad oggi, possono iscriversi al 5 per mille, far applicare alle persone fisiche e aziende la deducibilità delle erogazioni liberali nei limiti del 10% del reddito dichiarato fino ad un massimo di 70.000 euro, ottenere l'esenzione dall’imposta di bollo, la riduzione di quella di registro, la riduzione o l’esenzione Irap (a seconda delle legislazioni regionali); hanno diritto all’esenzione dall’imposta sulle successioni e donazioni, possono realizzare manifestazioni di sorte locali (ad es. lotterie), ottenere i premi non richiesti né assegnati dai partecipanti in occasione dei concorsi a premio organizzati da aziende. Tutte queste agevolazioni, pertanto, rischiano di non essere più alla portata di quegli enti (già Ong) che non inizieranno nei termini l’iter di iscrizione all’anagrafe delle Onlus o che se la vedranno respinta dall’Amministrazione finanziaria. 5 ESTERI del 10/11/14, pag. 1/12 I catalani hanno risposto in massa alla consultazione “simbolica” promossa dalla Generalitat. Esulta il leader nazionalista Artur Mas: “Un successo pieno, ora abbiamo diritto a un referendum definitivo” Due milioni al voto la prova di forza della Catalogna per l’indipendenza ALESSANDRO OPPES BARCELLONA SVILITA , decaffeinata, svuotata in parte del suo significato originale per l’azione congiunta del governo di Madrid e del Tribunale costituzionale. Ma alla fine la giornata del «dret a decidir», il diritto di scegliere, è arrivata. E poco importa che non abbia, formalmente, nessun valore giuridico. I catalani hanno comunque risposto in massa, forse persino oltre le attese dello stesso esecutivo della Generalitat e dell’intero fronte separatista. Più di due milioni, oltre il 40 per cento degli elettori — secondo i primi dati parziali — hanno depositato nelle urne di cartone dei 6695 seggi allestiti in quasi tutti i comuni della regione la scheda con la risposta alla doppia domanda: «Volete che la Catalogna sia uno Stato?». E, «in caso affermativo, volete che sia uno Stato indipendente?». Solo oggi conosceremo il risultato dello scrutinio, anche se tutto lascia pensare che il “Sì-Sì” potrebbe superare ampiamente il 90 per cento, considerato che i partiti difensori dell’unità di Spagna hanno invitato i loro simpatizzanti a restare a casa. Ma quello che contava davvero ieri era il dato della partecipazione, per capire la reale consistenza del movimento separatista, per sapere se il processo verso l’addio alla Spagna è un cammino senza ritorno. A mezzogiorno, quando il presidente Artur Mas si è presentato alla porta della Escola Pia de Balmes, nel quartiere della buona borghesia dell’Eixample alto, ma a due passi dal barri de Gracia, zona popolare roccaforte dell’indipendentismo, il clima era già di entusiasmo alle stelle. Ovazione prolungata, applausi sullo sfondo dello slogan «In-Inde-Independencia» per il leader nazionalista che già un anno fa aveva promesso «schede e urne » per il 9 novembre 2014, e ha mantenuto la promessa, pur avendo dovuto sostituire l’impegnativo termine «referendum» con un edulcorato «processo di partecipazione dei cittadini». Ostacoli e trappole non sono mancati neppure nelle ultime ore, tanto alla vigilia come nel corso della giornata del voto. Prima con gli attacchi informatici contro il sito web del governo regionale e i virus nei telefoni cellulari dei dirigenti della Assemblea Nacional Catalana e di Òmnium Cultural, i due movimenti che in questi anni hanno avuto un ruolo centrale nella mobilitazione separatista. E poi con la richiesta della procura generale dello Stato (direttamente dipendente dal governo) al Tribunale supremo catalano perché valutasse se la cessione di locali pubblici per la consultazione non fosse costitutiva di reato. Ieri, a seggi già aperti, sono arrivate una raffica di denunce, tanto dal partito neonazista Plataforma per Catalunya, come dai nostalgici del franchismo della Falange, ma anche da UPyD, la formazione anti-nazionalista guidata dall’ex dirigente socialista Rosa Díez, durissima nel chiedere l’arresto del presidente per «disobbedienza e prevaricazione » e lo «sgombero e chiusura dei centri di votazione» con un «uso proporzionale della forza in caso di resistenza». Pretese alle quali la magistratura non ha 6 dato ascolto. Anzi, a metà pomeriggio, quando mancavano poco più di tre ore alla chiusura dei seggi, il Tribunale supremo catalano ha compiuto un passo definitivo per allentare la tensione giudicando «sproporzionato » il ritiro delle urne installate e indicando ai tribunali che hanno ricevuto le denunce di rifiutarsi di adottare questa misura. In serata un Artur Mas raggiante ha dato il sigillo del trionfo sulla giornata: «È stato un successo pieno. I due milioni di catalani andati alle urne hanno dato una lezione di democrazia ». Ma già in mattinata il presidente aveva replicato alle polemiche con un tono di sfida: «Se la procura vuole sapere chi è il responsabile dell’apertura delle scuole pubbliche, solo deve guardare me. Eccomi, il responsabile sono io», ha detto risolvendo l’ambiguità sul fatto che la gestione diretta delle operazioni di voto dovesse essere attribuita al governo regionale o fosse stata delegata all’ultimo momento — per schivare conseguenze penali — a movimenti della «società civile» attraverso l’esercito dei quarantamila volontari impegnati nelle sezioni. Da Madrid, la risposta della Moncloa è dura. Il premier Mariano Rajoy parla di «esercizio antidemocratico e inutile» e accusa Mas di «complicare parecchio il futuro» con il suo atteggiamento. Ma il presidente ora si sente più forte: «Ci siamo guadagnati il diritto a un referendum definitivo». La prossima mossa tocca al governo centrale. del 10/11/14, pag. 12 Lo «strappo» della Catalogna Due milioni in coda, si profila un plebiscito indipendentista. Unionisti pronti ai ricorsi Mas: «Un successo totale, ora vogliamo un vero referendum». Il fastidio di Rajoy DAL NOSTRO INVIATO BARCELLONA Inutile, illegale, una pagliacciata propagandistica, uno spreco di denaro, un voto fai da te degno solo di Ikea. Ma anche un’allegria, un diritto, meno di un referendum però più di un sondaggio, un passo in più verso l’indipendenza. Hanno detto di tutto sul voto di ieri in Catalogna, ma il risultato è che voi, come milioni di cittadini nel mondo, ne state leggendo. Il presidente spagnolo Mariano Rajoy aveva assicurato un anno fa che il referendum non si sarebbe tenuto e invece ieri le code ai seggi di Barcellona calpestavano i veti di Madrid lasciando Rajoy politicamente ferito. Certo non è stato un vero referendum, le schede infilate nelle urne sono decaffeinate, senza forza legale, ma i catalani si sono messi in coda a centinaia di migliaia e hanno testimoniato il proprio dissenso dalla condotta del governo centrale. Ieri sera, con il 90% delle schede scrutinate, il Govern catalano anticipava che avevano votato 2 milioni e 250 mila persone, oltre il 35% degli aventi diritto, ma considerando le affluenze medie abbastanza per cantare vittoria anche perché i «sì» sarebbero stati l’80,7%. I conti sull’affluenza sono inverificabili perché elaborati nell’esecutivo regionale e forniti da 40 mila volontari che hanno fatto da scrutinatori. Tutti indipendentisti e «controllati» da osservatori internazionali a loro volta separatisti nei loro Paesi. Gli stessi dubbi si potranno coltivare stamane quando verranno diffusi i risultati. Nonostante ogni maligno sospetto, però, la giornata catalana è stata un esempio di mobilitazione civica. Un po’ di silicone spalmato nella serratura di una scuola e cinque ragazzotti «spagnolisti» che hanno preso a calci un’urna, non hanno intaccato la calma dei separatisti. Le file ai seggi (illegali per Madrid) parlano di tanti, tantissimi cittadini convinti che il resto della Spagna sottragga risorse alla Catalogna per sovvenzionare le regioni povere del Sud, che Madrid neghi le infrastrutture necessarie ad affrontare la sfida della 7 globalizzazione e imponga il suo modello sociale a una nazione, la catalana, orgogliosa della propria lingua, cultura e originalità politica. La risposta unionista è affidata alle carte bollate. L’UPyD, partito centralista, ha chiesto il sequestro delle urne, la chiusura dei seggi e l’incriminazione del governo regionale per malversazione e disobbedienza. Il magistrato di turno non ha riscontrato né l’urgenza né l’opportunità di ordine pubblico per fermare il voto. Indagherà invece sulle responsabilità dei politici. Non è l’unico scricchiolio nella coesione istituzionale. L’esecutivo Rajoy aveva domandato ai Mossos d’Esquadra, la polizia locale, i nomi dei presidi che mettevano le scuole a disposizione della «consulta» vietata. Gli agenti hanno disobbedito, limitandosi a stilare l’elenco degli edifici senza identificare nessuno. Mano a mano che passavano le ore e si allontanava la possibilità di un intervento clamoroso di Madrid, il President catalano Artur Mas alzava il tono della sfida. «Se cercano un responsabile, eccomi, sono io e il mio governo. È stato un successo totale. Oggi abbiamo guadagnato il diritto ad un referendum definitivo, come in un Paese civile». Il Partito popolare di Rajoy rispondeva a muso duro con l’eurodeputato Esteban González Pons: «Fino a che governeremo noi, nessuno spagnolo sarà obbligato ad andarsene dalla Catalogna». Non un buon clima per riaprire il dialogo. A. Ni. del 10/11/14, pag. 14 Obama: “Ora via a una nuova fase contro l’Is passiamo all’offensiva” L’Iraq: “Al Baghdadi è stato ferito” L’annuncio del presidente che adesso ha un Congresso più propenso alla linea dura Washington non dà conferme sul Califfo. Testimoni iracheni: “Ucciso uno dei suoi vice” FEDERICO RAMPINI DAL NOSTRO INVIATO PECHINO . L’invio di altri 1.500 soldati americani segna «l’avvio di una nuova fase nella lotta contro lo Stato islamico». Lo annuncia Barack Obama in un’intervista alla Cbs, andata in onda mentre il presidente è in volo per Pechino dove da oggi partecipa al vertice Apec (AsiaPacifico). Mentre il ministero della Difesa iracheno annuncia che è stato ferito il leader dei jihadisti Abu Bakr al Baghdadi (notizia non confermata fino a ieri sera da Washington), il presidente Usa spiega l’escalation dell’offensiva per ricacciare indietro le milizie dell’Is. «La prima fase puntava ad avere un governo inclusivo e credibile in Iraq, e ci siamo riusciti», dice Obama, riferendosi alla necessità che sunniti, sciiti e curdi facciano fronte comune contro la minaccia jihadista. «Adesso non ci accontentiamo di fermare l’avanzata dello Stato islamico, siamo in condizioni di all’offensiva», aggiunge il presidente, sottolineando che lo sforzo militare sul terreno spetta all’esercito regolare iracheno. La nuova fase, dunque, non significa riportare “scarponi americani sul fronte”, anche se il presidente non ha escluso di poter in futuro autorizzare l’invio di altri soldati. Gli attuali 1.500 rinforzi ufficialmente sono in funzione di adde- stramento delle truppe locali: «Intanto daremo tutto il sostegno aereo che sarà necessario una volta che l’esercito iracheno è 8 pronto a scatenare la controffensiva. Ma non manderemo a combattere i nostri soldati». L’efficacia dei raid aerei Usa sarebbe in aumento, tuttavia, se è vero che proprio in uno di questi bombardamenti è stato ferito al Baghdadi. Lo scenario che illustra Obama è ottimistico, se lo si confronta con i rapporti di forze sul campo fino a pochi mesi fa. Nella prima fase dell’avanzata dello Stato islamico, l’esercito iracheno era andato incontro a una débâcle. Molte sue divisioni si erano smembrate, ritirandosi in disordine o rifiutando di combattere. Ai primi di agosto, due mesi dopo la sorprendente avanzata dell’Is in Iraq, Obama aveva annunciato l'avvio di raid aerei contro i jihadisti. Alla fine di settembre, i bombardamenti della coalizione si erano estesi anche alla Siria. Negli Stati Uniti molti avevano accusato la Casa Bianca e il Pentagono di avere capito in ritardo la pericolosità delle nuove forze jihadiste, la minaccia diretta contro l’America e l’Occidente. Un brutale risveglio era arrivato al momento delle esecuzioni di alcuni giornalisti riprese in video. La decisione di Obama di aprire una “nuova fase” è anche una concessione ai nuovi rapporti di forze al Congresso di Washington. Dopassare po la vittoria repubblicana alle elezioni di midterm martedì scorso, la destra avrà la maggioranza anche al Senato. John McCain, il senatore repubblicano che fu l’avversario di Obama nell presidenziali del 2008, dovrebbe tornare a presiedere la commissione Difesa al Senato, riacquistando un’influenza di primo piano. McCain è da sempre un falco in politica estera. McCain sarebbe favorevole anche all’invio di truppe terrestri americane, una posizione che non tutti i repubblicani condividono. Con l’ulteriore invio di 1.500 soldati, il contingente di “consiglieri” americani sale a 3.100. Pur contenuto, è comunque un’inversione di rotta per il presidente che si era posto come obiettivo il ritiro dalle due guerre ereditate da George Bush, Iraq e Afghanistan. Al-Baghdadi, il quarantenne iracheno che ha preso la guida dello Stato Islamico dal 2010 con l’obiettivo di costruire un Grande Califfato in Medio Oriente, ha sulla sua testa una taglia da 10 milioni di dollari offerta dagli Stati Uniti per chi ne favorirà l’uccisione o la cattura. Venerdì sera il Pentagono aveva lanciato nuovi raid aerei per colpire un raduno di leader jihadisti vicino alla città di Mosul nell’Iraq settentrionale. Altri bombardamenti avevano colpito al-Qaim, tra Iraq e Siria nella regione occidentale di Anbar: testimoni raccontano che gli uomini dell’Is avrebbero fatto evacuare l’ospedale locale per portare i loro feriti, chiedendo sangue alla popolazione. Le stesse fonti danno per «grave » il Califfo. Patrick Ryder, il portavoce del Centcom (US Central Command) che dirige le operazioni in Medio Oriente, pur non confermando fino a ieri sera il ferimento di al-Baghdadi, ha detto che i raid «sono la prova della pressione che continuiamo ad esercitare su quella rete di terroristi». L’obiettivo che i raid aerei continuano a perseguire, secondo Ryder, è «di limitare sempre più la loro capacità di manovra, di comunicazione e di comando». Fonti irachene indicano che raid americani avrebbero ucciso Abu Suja, «uno dei più stretti collaboratori di al- Baghdadi». del 10/11/14, pag. 15 “Armi pesanti dai russi per i separatisti dell’Est” l’allarme di Usa e Ue NEW YORK . Il governo americano è «molto preoccupato» per il riaccendersi dei combattimenti nella zona di Donetsk, nell’est Ucraina, con i ribelli filorussi che continuano a ricevere rinforzi e 9 nuovi armamenti da Mosca. Anche Federica Mogherini, responsabile della politica estera dell’Unione europea, ha definito «uno sviluppo estremamente preoccupante» le notizie dell’arrivo di rinforzi nelle regioni orientali ucraine di Donetsk e Lugansk. L’Associated Press ha segnalato veicoli militari in movimento nei giorni scorsi vicino a Donetsk e più a est. Molti, che erano senza insegne, trasportavano artiglieria. Secondo le autorità ucraine, una colonna di mezzi militari e armi pesanti è entrata nel Paese dalla Russia attraverso un tratto di frontiera sotto il controllo dei filorussi. Mosca smentisce, ma anche gli osservatori dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa hanno segnalato colonne di blindati e veicoli per il trasporto truppe senza insegne di riconoscimento, in movimento verso l’interno del territorio controllato dal separatisti. Sia l’ex segretario di Stato Usa Henry Kissinger che l’ex leader sovietico Mikhail Gorbaciov, in due diverse interviste, hanno lanciato l’allarme per il rischio di una nuova Guerra fredda. A Donetsk i colpi di artiglieria si sono sentiti nella notte di sabato e ieri mattina, poco dopo l’alba. Quattro edifici sono stati distrutti, non ci sono informazioni su eventuali vittime. Da quando l’accordo di cessate il fuoco è stato raggiunto il 5 settembre, la tregua è stata violata quasi quotidianamente. del 10/11/14, pag. 14 Obama vola in Asia Missione per evitare l’abbraccio Putin-Xi DAL NOSTRO INVIATO PECHINO Barack Obama accolto coi fuochi d’artificio — si annuncia un trionfo pirotecnico — per la sua prima visita in Cina dal 2009 e la partecipazione all’Apec, il summit dei Paesi del Pacifico che, insieme, fanno più della metà del Pil mondiale e il 40% della popolazione del Pianeta: un vertice organizzato quest’anno da Pechino che ha trasformato l’evento in una celebrazione della sua potenza economica. Per il presidente americano una preziosa occasione per riaprire l’agenda di politica estera — e sulla pagina che gli sta più a cuore, quella del «ribilanciamento» degli Usa, decisi a rafforzare il loro ruolo in Estremo Oriente e nel Sud-Est Asiatico — accantonando per qualche giorno le amarezze della sconfitta elettorale. Ma Obama ha davanti a sé un percorso arduo, pieno di insidie. Nella sede multilaterale il presidente spera di poter portare avanti il Tpp, il negoziato per un’alleanza di libero scambio coi Paesi asiatici alleati che esclude la Cina: tre anni di trattative ma traguardo ancora lontano soprattutto perché il Congresso di Washington non ha dato alla Casa Bianca i poteri necessari per siglare un patto vincolante. La vittoria parlamentare dei repubblicani, più aperti al «free trade» dei democratici, potrebbe sbloccare la situazione, ma intanto la Cina fa le sue contromosse organizzando alleanze alternative, fondando a Pechino una banca per il finanziamento delle grandi infrastrutture in Asia e cementando con un accordo di forniture energetiche da 400 miliardi di dollari la nuova intesa tra due presidenti — Xi Jinping e Vladimir Putin — che mostrano di capirsi molto bene: hanno tutti e due una cultura politica che si è formata in un ambito militare — tra tensioni con l’Occidente per le loro pretese territoriali, dispute sui diritti civili e progetti d’investimento condivisi — hanno scoperto di avere molti interessi comuni. Obama schiacciato tra il dragone cinese e l’orso russo? E’ un rischio: Putin, sotto pressione per l’aggressione all’Ucraina, è sempre tentato di reagire con sfrontatezza. Quando ha un palcoscenico internazionale, ostenta ostilità e sarcasmo verso gli Usa. Ma la vera partita politica stavolta Obama se la gioca con Xi che, da buon padrone di casa, lo 10 accoglierà con cortesia, ostentando spirito di collaborazione. Ma, dietro la cortina del garbo diplomatico, il confronto sarà duro: dal loro ultimo incontro, un anno e mezzo fa in California, il presidente Usa si è molto indebolito, mentre Xi, allora appena insediato, ha conquistato un potere quasi assoluto a Pechino usando una retorica populista e cavalcando il nazionalismo. Nonostante gli enormi interessi economici comuni (562 miliardi di dollari di scambi commerciali) nell’ultimo anno le relazioni Usa-Cina si sono molto deteriorate: il divieto di volo sulle isole giapponesi rivendicate dalla Cina decretato unilateralmente da Pechino e subito violato dai B-52, i pescherecci sequestrati, una piattaforma petrolifera cinese spuntata davanti alle coste del Vietnam, ma anche una moltiplicazione degli episodi di cyberspionaggio. Una situazione pericolosa che, però, tutti e due i leader hanno interesse a non far degenerare: la Casa Bianca ha preparato con cura questa visita (missioni a Pechino di Kerry, Susan Rice e Podesta perché sono possibili progressi importanti sui temi ambientali) al termine della quale i cinesi decideranno se negoziare ancora con questo presidente o aspettare il suo successore. Obama non rinuncia a rafforzare la presenza militare lungo la costa orientale del Pacifico (in Australia pronuncerà un discorso sul ruolo dell’America in questa parte del mondo) ma vuole evitare che le frizioni inevitabili tra la superpotenza e una potenza emergente sfocino in una nuova «guerra fredda». Questo è anche l’obiettivo di Xi e alcuni segnali recenti — meno retorica antigiapponese a Pechino, Obama prudente sulla rivolta a Hong Kong — sembrano indicare una volontà di disinnescare, o contenere, le tensioni. Massimo Gaggi 11 INTERNI del 10/11/14, pag. 5 Renzi esclude il voto anticipato «Alla fine il Cavaliere dirà di sì» Il messaggio di Palazzo Chigi: avanti con urgenza, ma l’orizzonte è quello del 2018 ROMA «Vedrete che alla fine Berlusconi dirà di sì». Matteo Renzi non appare spiazzato da uno scenario che già conosceva, l’uscita di scena di Napolitano a fine anno. Resta convinto che sia questione di ore, o di giorni, ma alla fine si riuscirà ad incardinare la legge elettorale al Senato in modo da avere un voto prima della fine dell’anno. Se in Forza Italia leggono le cose in modo diverso, convinti che il premier non ha più la minaccia delle elezioni anticipate visto che il Parlamento dovrà occuparsi da gennaio dell’elezione del nuovo capo dello Stato, a Palazzo Chigi tengono ferma la linea degli ultimi giorni: martedì prossimo si comincia in prima commissione a Palazzo Madama, il capo del governo dice agli alleati che alla fine il Cavaliere sarà della partita, e che riuscirà persino a trovare una sintesi fra il Nuovo centrodestra di Alfano e le richieste di Forza Italia. «Noi andiamo avanti con le riforme, con urgenza e determinazione sapendo che l’orizzonte del governo è quello dei mille giorni, del 2018», ha fatto sapere ieri pomeriggio il premier, sottolineando il ruolo di presidio e garanzia di Napolitano e smentendo di puntare ad elezioni anticipate, o di voler strappare un’accelerazione al Cavaliere per questo motivo. Lasciando poi al sottosegretario Delrio la definizione più completa della sua posizione: «Il Matteo Renzi che conosco io vuole governare il Paese e aiutarlo ad uscire da problemi gravissimi, non vuole andare a votare, finché il Parlamento ci darà la fiducia e avremo i numeri per farlo staremo fortemente attaccati non alle nostre poltrone ma ai bisogni del Paese». Contatti diretti con Berlusconi non ce ne sono stati, almeno sino ad ieri all’ora di cena. Renzi voleva una telefonata che arrivasse prima di oggi. È probabile che l’ex premier abbia deciso di non muovere un dito anche per ragioni di orgoglio: se poi il patto del Nazareno sia ancora in piedi, da registrare con nuovi incontri o sia prossimo allo scioglimento, saranno i prossimi giorni a dirlo, quando inizierà la discussione sulla nuova legge elettorale in Senato. Intanto stasera si terrà il vertice di maggioranza con il partito di Alfano. La nota di ieri del Colle è stata accolta positivamente: il premier conosceva la decisione della prima carica dello Stato, è soddisfatto che sia stata fatta chiarezza e che si siano in qualche modo fermate, attraverso le precisazioni di Napolitano, illazioni e suggestioni. Che al momento, si affrettano a rimarcare nel governo, non entrano e non incrociano il percorso delle riforme. E se Berlusconi sostiene il contrario, intravede un Renzi indebolito, a Palazzo Chigi non legano le cose. Del resto il capo del governo è convinto che non ci siano alternative ad un calendario che preveda un nuovo voto sulla legge elettorale entro la fine dell’anno, si mostra sicuro di riuscire ad andare avanti, se sarà il caso, «anche senza Forza Italia». Resta l’obiettivo di un Jobs act rivendicato come «di sinistra», che sia vigente «dal primo gennaio», mentre l’apposizione della fiducia parlamentare arriverà «solo se necessario». E non allarma nemmeno lo scontro che non scema con la Cgil, «opposizione a prescindere», la chiama il premier. 12 Una confidenza complessiva che ha riflessi anche sull’agenda internazionale: prima di partecipare al G20 di Brisbane, in Australia, nel fine settimana, Renzi farà una tappa a Bucarest, per dare una mano al collega socialista Victor Ponta e rafforzare il fronte europeo anti austerity. Per la stessa ragione ha accettato l’invito di partecipare al congresso del Ps portoghese, su invito del nuovo leader, António Costa. Marco Galluzzo del 10/11/14, pag. 1/6 Responsabilità civile, toghe in guerra “Sciopero se si lede indipendenza” LIANA MILELLA ROMA . Non scioperano sul taglio delle ferie «perché sarebbe un autogol, la gente non capirebbe e sarebbe contro di noi». Ma sulla riforma della responsabilità civile non esitano. Se il testo resta quello del governo o peggiora, sarà sciopero perché, come dicono tanti dei 400 magistrati che si ritrovano nell’aula magna del palazzaccio, «è una misura che lede la nostra autonomia e indipendenza». La maggioranza (1.718 voti per via delle deleghe) batte la minoranza (230). Nel primo gruppo c’è la sinistra (Area), il centro (Unicost), ma pure una parte della destra (Mi). Nel secondo i movimentisti di Proposta B e, ironia del caso, il gruppo dei “ferriani” di Mi, quelli che per anni hanno avuto come riferimento il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri, quando era il loro più votato segretario. Sciopero bianco subito perché «il taglio delle ferie senza contraddittorio è un vulnus» (Antonio Racanelli, Mi). Il nome di Renzi non risuona mai. Semmai si parla di governo. Ma sono per lui gli strali più duri, «dibattito pubblico superficiale, intriso di propaganda, di pregiudizi, di luoghi comuni, accuse infondate e ingiuriose d’inefficienza e irresponsabilità». Poi gli «slogan propagandistici», tipo «chi sbaglia paghi» di renziana memoria. «Manteniamo la schiena diritta con l’orgoglio d’essere magistrati» dice il presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli quando apre l’assemblea. Seguono più di 30 interventi. Non si sottrae Henry John Woodcock, il pm di inchieste famose che sembra spiazzare i colleghi. «Le ferie? Un falso problema. Sono favorevole a ridurle purché facciano una riforma globale con autoriciclaggio, falso in bilancio e prescrizione». Bacchetta sulla responsabilità: «Nessun magistrato dovrà mai rispondere per il solo fatto d’aver svolto indagini, come nessun indagato potrà strumentalmente creare presupposti affinché il processo finisca ad altro giudice». Questa è la paura. Che il Guardasigilli Andrea Orlando tenta di esorcizzare perché «non è un attacco all’indipendenza dei magistrati bensì un intervento a tutela dei cittadini». Più duro il vice ministro Enrico Costa per cui «lo sciopero sarebbe stato uno strappo difficile da ricucire». Ma le certezze delle toghe sono altre. L’ex segretario dell’Anm Giuseppe Cascini, pm a Roma: «È sbagliato dire che l’unico problema della giustizia sono i magistrati. Non bisogna cadere nelle provocazioni, stipendi ridotti, età pensionabile tagliata, ferie accorciate, ma tenere i nervi saldi». Giovanni Diotallevi, Cassazione: «Il magistrato, anche se fa il suo lavoro, scontenta sempre qualcuno. Lo sciopero? Ce lo teniamo se toccano la responsabilità». Fabrizio Vanorioo, pm a Napoli: «Abbiamo vissuto una stagione difficile di attacchi all’assetto costituzionale della magistratura, ma la gente scendeva in piazza al nostro fianco. Ci offende non il taglio delle ferie ma il modo in cui veniamo dipinti». Ezia 13 Maccora, gip a Bergamo: «A Orlando farei una domanda: perché Grasso ha presentato un ddl che non ha camminato? Dove sono i ddl del governo? Passa il decreto sul civile che toglierà solo il 3% dell’arretrato. L’Anm deve incalzare il doverno con domande puntuali ». Mario Fresa, Cassazione: «Ci sono processi sulla P3 e P4, ma già lavorano P5 e P6. La nuova responsabilità porterà a un conformismo diffuso. Le riforme sono demagogiche, populiste, ingannatrici. Si cancellino la Cirielli e le altre leggi ad personam». Carlo Fucci: «Questa mi sembra la storia del film “Le parole che non ti ho detto”. Allora diciamo subito “sciopero”». del 10/11/14, pag. 1/21 La scelta del Colle e quella partita a tre PIERO IGNAZI UN PRESIDENTE condiviso: questo l’auspicio che tutti si fanno quando si incomincia a parlare di Quirinale. Però, sarà difficile che qualcuno possa raccogliere un consenso così ampio come quello di cui ha goduto l’anno scorso Giorgio Napolitano. La sua rielezione avvenne infatti in condizioni eccezionali. CONDIZIONI dovute al collasso politico del Pd dopo il naufragio della candidatura di Romano Prodi. Cosa è cambiato nel frattempo? I numeri sono quasi gli stessi di allora: la composizione politica dei grandi elettori, fatta salva la scissione del Ncd, lo spappolamento di Scelta Civica e le espulsioni del M5s, grosso modo riflette quella uscita dalle urne nel 2013. Semmai si à rafforzato numericamente il Pd che ha conquistato quattro regioni (che nominano tre grandi elettori ciascuna) e ha attratto alcuni fuoriusciti dalle formazioni minori. Molto diverso è invece il “quadro politico”, vale a dire i rapporti di forza politici tra le formazioni in campo. Il Pd non è nemmeno paragonabile a quel partito frastornato e afasico del post-elezioni: il dinamismo del nuovo segretario, riportato nell’attività di governo, e il successo “scioccante” alle elezioni europee, fanno del Pd il perno di ogni decisione in merito. Mentre allora Bersani si fece irretire da un Berlusconi ringalluzzito dal quasi successo della sua coalizione in una inutile ed umiliante trattativa e non riuscì ad imbastire un rapporto con un M5s in pieno delirio di onnipotenza per il suo trionfo elettorale, oggi Renzi ha tutte le carte in mano (al netto delle divisioni interne) per gestire la successione a Napolitano . Forza Italia è all’angolo. Non è tanto la condanna di Berlusconi, che continua a fare tranquillamente attività politica come se niente fosse (tanto in Parlamento non ci andava mai), ad averla resa praticamente irrilevante: Forza Italia ha perso capacità di iniziativa politica perché indebolita dalla scissione di Alfano al punto da diventare ininfluente per la sopravvivenza del governo, e divisa al proprio interno tra chi vede negli accordi con Renzi una trappola mortale e chi, come il Cavaliere, li considera vitali per sopravvivere politicamente (e forse anche economicamente). Soprattutto, Berlusconi non controlla più il proprio partito, come hanno dimostrato le votazioni per il Csm e la Consulta. L’incrinarsi della sua leadership in Forza Italia la rende un soggetto inaffidabile per accordi leonini sull’elezione del prossimo presidente della Repubblica. In queste condizioni il segretario del Pd non può essere sicuro di quanto gli potrebbe garantire e promettere il Cavaliere. E proprio per rimediare in qualche modo a questa sua debolezza Fi smetterà di fare le bizze sulla riforma elettorale. Se Renzi può gestire agevolmente la pratica Berlusconi, il rapporto con il M5s necessita invece di maggior attenzione. Qui il problema non riguarda certo la carenza di leadership di Grillo o la fedeltà dei parlamentari cinquestelle. Una volta partito l’ordine da Genova, 14 l’ubbidienza è considerata ancora una virtù tra i grillini. Ma cosa ha in mente Grillo? Non si è capito bene se abbia condiviso o mal digerito l’accordo siglato con il Pd per le nomine dei membri della Corte Costituzionale e del Csm. A seguire le sue ultime uscite Grillo sembra ancorato ad una contrapposizione frontale nei confronti del sistema e in primis con il premier. Per lui ogni contatto con le forze politiche tradizionali, a incominciare dal Pd, corrompe e perverte il movimento dalla sua purezza originaria. Lo stop intimato a Di Maio l’estate scorsa quando aveva avviato un confronto con il partito democratico sulla riforma elettorale rifletteva questa impostazione. Ora però i parlamentari si sono riproposti come un gruppo responsabile, disposto a siglare accordi purché alla luce del sole . Una condizione veramente minima, che sottende piuttosto il desiderio di contare; o, altrimenti detto, il desiderio di mettere in pratica il mandato elettorale sbandierato tante volte, e cioè quello di far sentire e pesare la voce dei cittadini in Parlamento. Forse i grillini si muoveranno ancora come un sol uomo seguendo le indicazioni di Grillo, ma è certo che questa volta vogliono esserci, entrare in gioco. A questo punto le elezioni per il Quirinale possono diventare un momento di ridefinizione del sistema partitico, con un Pd al centro, master and commander delle relazioni con gli altri gruppi, attratti o coinvolti dalla sua forza magnetica. A Forza Italia e M5s, in particolare, non rimane che adeguarsi o restare isolati ad abbaiare alla luna; due scelte perdenti, a meno che non mettano sul tavolo una wild card, una proposta in grado di spiazzare il partito democratico. 15 RAZZISMO E IMMIGRAZIONE del 10/11/14, pag. 13 Immigrati, teste rasate e la tentazione Le Pen Così sprofonda Calais Nella Lampedusa francese rabbia e condizioni disumane Aline Arlettaz Calais è una città del Nord della Francia, sulla Manica. Proprio davanti all’Inghilterra, che si può raggiungere dal mare o, ancora più rapidamente, attraverso il tunnel. Oltre duemila immigrati clandestini si trovano lì in questo momento, pronti a tutto per raggiungere il loro Eldorado. Spesso a rischio della loro stessa vita. Come quelli che ogni giorno si nascondono all’interno dei camion e trattengono il più possibile il respiro, infilando la testa in un sacchetto di plastica, così che i poliziotti francesi addetti a controlli sistematici, non possano rilevare la CO2 del loro respiro, un modo per capire se nei Tir si nascondano clandestini. Si stima che una trentina di loro, ogni notte, riescano a raggiungere l’Inghilterra. A Sangatte, vicino a Calais, esisteva un centro per questi sans-papier. La sua chiusura nel 2002, per decisione di Nicolas Sarkozy, non ha fatto altro che spostare il problema dei migranti. Da qualche mese il loro numero si è moltiplicato. Prima si trattava soprattutto di ragazzi e giovani tra i 16 e i 35 anni. Un anno più tardi si è registrato un afflusso di donne, spesso con i loro bambini. La composizione di questa popolazione cambia a seconda dei conflitti in corso nel mondo. Adesso ci sono siriani, eritrei, etiopi, sudanesi ed egiziani. Trovano rifugio in baracche e campi insalubri, tra le diverse comunità scoppiano delle risse e gli abitanti sono esasperati. Il Comune, la polizia e le associazioni sono disarmati. Il sindaco di Calais, Natacha Bouchart, dell’Ump (centrodestra), dice di comprendere la rivolta dei cittadini che ogni giorno sopportano i vagabondaggi di questi stranieri. Sa molto bene chi si avvantaggia di questa situazione: il Fronte Nazionale. Quindici giorni fa, Marine Le Pen si è fatta vedere a Calais. Come aveva fatto nel marzo 2011 a Lampedusa, dove era andata incontro ai migranti. All’epoca aveva dichiarato: «Io, se ascoltassi solo il mio cuore, certo vi offrirei di salire sulla mia barca, solo che la mia barca è troppo fragile e se vi prendo a bordo colerà a picco e noi annegheremo insieme... L’Europa non è più in grado di accogliere tutti questi clandestini ». A Calais, ha denunciato l’immigrazione clandestina. La signora sindaco dunque deve prendere urgentemente provvedimenti. In primo luogo, trovare un luogo aperto di giorno dove i migranti possano farsi una doccia in condizioni decenti. Perché ormai si tratta di un problema sanitario. David Lacour, direttore di un centro d’accoglienza per donne e bambini a Calais, spiega che da un mese e mezzo le docce della struttura non funzionano più e che c’è solo una doccia mobile. È catastrofico, aggiunge, pensare che il Paese dei diritti umani lasci incancrenire così una situazione. Allo stato delle cose questi immigrati si lavano usando le manichette d’acqua dei pompieri o approfittano delle toilette dei bar. Ma da qualche giorno, ci sono dei baristi che rifiutano l’accesso ai loro locali. Invocando l’igiene o per paura delle risse o anche, spiegano, per via dell’eccessivo consumo di alcol. Ed ecco che s’immischiano dei gruppuscoli d’estrema destra. Il 7 settembre scorso la prefettura ha autorizzato una manifestazione dell’associazione «Salviamo Calais». Davanti al municipio, una formazione, peraltro ufficialmente sciolta dal ministero dell’Interno, ne ha approfittato per tenere un incontro. E 16 che incontro! Il suo leader, Yvan Benedetti, ha incitato la popolazione di Calais, tra cui si trovavano dei giovani tatuati con simboli delle SS, ad attaccare i migranti. E ci sono stati degli incitamenti all’odio. Come uscire da una simile situazione? La settimana scorsa il sindaco di Calais è andata a Londra per allertare i parlamentari britannici e chiedere aiuto. L’accoglienza è stata piuttosto glaciale. Gli onorevoli le hanno detto che stava a lei, in quanto sindaco, risolvere il problema e spetta alla Francia controllare le frontiere. Mercoledì, il ministro dell’Interno francese, socialista, che sollecitava anche lui la collaborazione della polizia inglese, ha ricevuto un cortese ma fermo rifiuto dal suo omologo britannico. Lo stallo è totale. In effetti, a Calais come a Lampedusa, occorrerebbe una politica dell’immigrazione europea. Che al momento non esiste. Intanto gli immigrati continuano ad arrivare. Sempre con il sogno di attraversare la Manica. [traduzione di Carla Reschia] Del 10/11/2014, pag. 19 Crisi e immigrazione. Secondo l’analisi di Fondazione Moressa lavorano soprattutto in piccole aziende e sono più propensi ad accettare orari scomodi Raddoppiano gli stranieri a termine Il tasso di occupazione supera quello degli italiani ma dal 2007 ha subìto un arretramento maggiore Hanno un tasso di occupazione superiore rispetto agli autoctoni, ma frequentemente svolgono attività disagevoli, e sono pronti ad accettare orari “asociali”. Inoltre, nonostante siano disposti ad accettare una retribuzione sotto la media, si dichiarano poco propensi a spostarsi in altre città o ad abbandonare l’Italia per trovare un impiego. E, comunque, anche gli stranieri in Italia - contrariamente a quel che si tende a credere risentono di un generale peggioramento del quadro generale rispetto a sette anni fa, prima dell’inizio della grande crisi. A grandi linee è questa la fotografia che emerge dalla ricerca realizzata dalla Fondazione Leone Moressa su «Come è cambiato il lavoro negli anni della crisi» che, sulla base dei dati Istat, ha messo a confronto la situazione lavorativa attuale degli stranieri e degli italiani nel 2013, rapportandola anche ai dati relativi al 2007, ultimo anno positivo prima dell’ingresso nel tunnel della crisi. «La crisi ha inciso profondamente sugli indici occupazionali dei lavoratori nel nostro Paese - osserva Stefano Solari, direttore scientifico della Fondazione Leone Moressa -. A rimetterci maggiormente sono stati gli immigrati, in quanto prevalentemente occupati nei settori più esposti alla crisi. Tra gli effetti di questa difficoltà troviamo la crescita dei contratti a tempo determinato e l’aumento della disoccupazione di lunga durata. Tuttavia, i cittadini stranieri dimostrano una adattabilità maggiore rispetto agli italiani, come conferma la disponibilità a lavorare negli orari più scomodi». Gli indicatori ci dicono prima di tutto che il tasso di occupazione degli immigrati è molto più alto rispetto a quello degli italiani (57,1 contro 41,8%). Questo fatto però si spiega facilmente se si pensa che si tratta di soggetti mediamente più giovani rispetto alla popolazione autoctona (dove c’è un’elevata componente di pensionati) e che per rinnovare il permesso di soggiorno devono dimostrare di avere un lavoro. Dal 2007 a oggi però la crisi ha colpito più duramente gli immigrati: infatti per loro il tasso di disoccupazione è peggiorato di 9 punti, mentre “soltanto” di 5,6 per gli italiani. 17 E se è vero che oltre un occupato su dieci oggi è straniero (quando nel 2007 erano circa il 6%) è anche vero che dall’inizio della crisi è raddoppiata la percentuale di immigrati assunti con un contratto a tempo determinato (sono il 13% dei lavoratori stranieri, sei punti in più rispetto al 2007, contro il 9,5% degli italiani) ed è ferma al 13% la quota di chi riesce a mantenersi cimentandosi in un’attività autonoma o da collaboratore (si veda la tabella a fianco). L’obiettivo “permesso di soggiorno” spiega anche la maggiore disponibilità degli stranieri ad accettare i lavori meno qualificati, ma soprattutto posti con minori tutele, orari disagevoli e retribuzioni sotto la media. Elaborando le rilevazioni delle forze di lavoro dell’Istat, la ricerca di Fondazione Moressa mette in luce la forte presenza di stranieri in imprese piccole e medie, ossia in realtà dove non trova applicazione l’articolo 18: tra i dipendenti nel settore privato quelli che possono ricorrere alla protezione dello Statuto dei lavoratori in caso di licenziamento senza giusta causa sono solo meno di un terzo tra gli stranieri (contro una media complessiva del 55%). Quanto al maggior grado di adattabilità, lo si evince dalla percentuale di immigrati che accettano di lavorare in orari asociali, nei fine settimana, di sera o di notte: il 53% (contro il 46,6% tra gli italiani), un dato peraltro in aumento su entrambi i segmenti di lavoratori e chiaro sintomo della crisi in atto. Anche sulla busta paga lo straniero è disponibile a fare più di un passo indietro: al mese la media si aggira sui 960 euro contro i 1.250 di un lavoratore italiano, circa un quarto di differenza. Una volta arrivato in Italia, comunque, chi viene da un Paese straniero non sembra trovarsi poi tanto male: pur di avere un impiego, quasi un disoccupato italiano su tre sarebbe disposto a trasferirsi in un’altra città nella penisola (17%) o all’estero (13%). Invece, tra gli stranieri, meno del 20% si muoverebbe di nuovo per un’altra destinazione in Italia (10%) o all’estero (8,5%). 18 SOCIETA’ del 10/11/14, pag. 1/13 Il mito della Padania si è offuscato, ma restano forti spinte locali all’autonomia. Lo spirito indipendentista fa breccia anche nelle Isole e nelle Regioni “rosse” del centro. E conquista operai e lavoratori autonomi Separatisti d’Italia uno su tre favorevole all’addio a Roma Il vento che sta scuotendo l’Europa soffia anche da noi Nordest in prima linea: in Veneto pronto al sì il 53% ILVO DIAMANTI IERI , in Catalogna, si è svolta la consultazione sull’indipendenza dalla Spagna, dichiarata illegale dal governo centrale e dalla Corte Costituzionale. Ma le autorità catalane hanno proceduto egualmente e la partecipazione è stata massiccia. Come il consenso ottenuto dalla rivendicazione catalana. Anche 2 mesi fa, in Scozia, comunque, il 45% dei cittadini aveva votato contro l’unione con Londra. Il vento indipendentista, dunque, soffia forte in Europa. Soprattutto dove esistono divisioni territoriali – economiche e culturali - profonde e radicate. Neppure in Italia la questione dell’indipendenza regionale è nuova. La Lega ne ha fatto una bandiera, fin dalle origini. Ha minacciato la secessione, negli anni Novanta. Senza grande successo, alla prova dei fatti. Quando, nel settembre 1996, organizzò una marcia sul Po, per dichiarare – appunto – l’indipendenza della nazione Padana. Con un seguito molto scarso, però. D’altronde, la Padania era – e resta – un’entità immaginaria. Ma l’indipendenza è un obiettivo perseguito anche da altri gruppi e movimenti, soprattutto in Veneto. Con azioni dimostrative, come l’assalto al campanile di San Marco, da parte dei Serenissimi, nel 1997. O, nello scorso mese di marzo, attraverso un referendum autogestito. Azioni localizzate, ad opera di soggetti localizzati. Nel Nord, ma soprattutto in Veneto, appunto. Eppure, come abbiamo già suggerito altre volte, conviene non sottovalutare questi eventi. Né considerarli segni di un malessere territoriale espresso dai “soliti veneti”. Che strepitano tanto ma, all’atto pratico, combinano poco. La sindrome indipendentista, in effetti, non è così limitata né delimitata. Appare, invece, diffusa, se oltre il 30% del campione nazionale (rappresentativo della popolazione) intervistato da Demos, nelle scorse settimane si dice d’accordo con l’indipendenza della propria regione dall’Italia. Quasi uno su tre, dunque. Distribuito diversamente, anzitutto su base territoriale. Il sentimento indipendentista, com’era prevedibile, è concentrato, anzitutto, nel Nord. In particolare nel Nordest, dove è condiviso da oltre metà della popolazione. Soprattutto in Veneto, dove supera il 53%. Un dato praticamente identico a quello rilevato in un sondaggio dello scorso marzo. Il campione, nelle altre due regioni di quest’area, è, invece, troppo limitato per suggerire stime (ma in Friuli Venezia Giulia l’adesione al referendum andrebbe oltre il 60%). Ma l’indice di indipendentismo risulta superiore alla media anche in Piemonte e in Lombardia (dove scavalca il 35% della popolazione). La “questione settentrionale”, dunque, non sembra essersi assorbita, nel corso degli anni. Semmai, si è “regionalizzata” maggiormente. Ma continua a generare distacco dall’identità nazionale. Il sentimento indipendentista risulta, però, molto esteso anche nelle due grandi isole, Sardegna e Sicilia, dotate di Statuto 19 autonomo. In entrambi i casi, circa il 45% della popolazione (intervistata) afferma di ambire all’indipendenza. Nonostante la “dipendenza” dai trasferimenti dello Stato centrale. Più sorprendente, invece, risulta l’ampiezza (superiore alla media) degli indipendentisti nel Lazio (35%). Ma in questo caso, probabilmente, conta l’influenza di “Roma capitale”. La tendenza (e la tentazione), cioè, di sovrapporre le due entità e identità. Roma all’Italia. E viceversa. In questo caso, cioè, si tratterebbe di vocazione all’auto-dipendenza. Lo spirito indipendentista, invece, presenta valori limitati nel Mezzogiorno (ad eccezione delle Isole) e nelle regioni “rosse” dell’Italia centrale. E ciò suggerisce alcune importanti ragioni - ulteriori rispetto alla storia e ai fattori geopolitici. Ragioni socio-economiche, connesse al reddito e all’attività professionale, anzitutto. L’aspirazione indipendentista, infatti, raggiunge la massima diffusione fra gli operai, i lavoratori indipendenti (imprenditori e autonomi) e, inoltre, fra i disoccupati. In altri termini, tra le figure professionali maggiormente coinvolte nel mercato del lavoro. Su versanti opposti. Gli imprenditori, i lavoratori in-dipendenti del Nord e del Nordest, soffrono per i vincoli – fiscali e burocratici - imposti dallo Stato, in profondo contrasto con l’instabilità dei mercati globali – e senza regole – in cui sono proiettati. Mentre i lavoratori “dipendenti” ed “esclusi”, i disoccupati, soffrono per la debolezza delle tutele pubbliche. E per le conseguenze sul mercato del lavoro di un’economia – e di una finanza – senza confini. Le stesse ragioni che hanno accelerato i flussi demografici e migratori. Che inquietano, più degli altri, gli strati sociali periferici. Gli ultimi e i penultimi della società. Così si comprende – e appare conseguente - anche il profilo politico dell’indipendentismo. Largamente maggioritario fra gli elettori della Lega (oltre tre su quattro). Ma fortemente marcato anche nella base di Forza Italia (45%). Il “forza-leghismo” (secondo la “definitiva definizione” di Edmondo Berselli), dunque, riassume l’indipendentismo dei “forti” e dei “deboli”. Del Nord e del Sud. Uno spirito diverso e diversificato. Unificato da un comune senso di distacco dallo Stato. Da un comune spaesamento rispetto al mondo che incombe come una minaccia - alla condizione di vita e alla comprensione di ciò che avviene intorno. In altri termini, lo spirito indipendentista che alita nel Paese, più che l’avanzata del regionalismo, riflette il crescente distacco dallo Stato. Non compensato da altre e diverse appartenenze, da altri e diversi ambiti di governo. Inter- nazionali, come la Ue. Ma neppure territoriali, come le stesse Regioni. Patrie alternative: stanno perdendo consenso, fra i cittadini. Così, c’è il rischio, per gli italiani, di ritrovarsi, alla fine, davvero indipendenti. Da tutti. Cioè: soli. del 10/11/14, pag. 6 Più ottimisti che pessimisti ma dopo sei anni di crisi siamo soprattutto attendisti La maggioranza non vede ancora la luce alla fine del tunnel C’è più fiducia nel Paese che nella propria situazione personale Daniele Marini Stanchi e provati come dopo un lungo e tortuoso viaggio del quale ancora non si vede chiaramente il traguardo. Durante il tragitto, le condizioni di vita per molti sono peggiorate e l’orizzonte è sempre molto incerto, quasi imperscrutabile. Tuttavia, nello stesso tempo, si 20 guarda al futuro con una qualche speranza, soprattutto con un atteggiamento di attesa disincantata, dopo tante disillusioni e mancate promesse. è il sentimento generale degli italiani che emerge dall’ultima rilevazione dell’indagine LaST (Community Media Research in collaborazione con Intesa Sanpaolo, per La Stampa). Potrebbe essere diversamente, dopo che sono trascorsi oltre sei anni dall’avvio conclamato della crisi economica? Dopo che, nel frattempo, abbiamo sperimentato in rapida successione quattro esecutivi (Berlusconi, Monti, Letta, Renzi)? Dopo che la disoccupazione è cresciuta a ritmi elevati e investito una parte consistente delle giovani generazioni, facendo diventare il lavoro (e con esso il senso del futuro) la preoccupazione maggiore degli italiani? Evidentemente no, non potrebbe essere altrimenti. E questo anche a dispetto dei piccoli segnali recenti che hanno messo in luce qualche positività. Il numero degli occupati che – per il momento – ha conosciuto un lieve miglioramento. Il novero delle persone che hanno ricominciato a cercare attivamente un’occupazione. Le banche che segnalano una ripresa dei risparmi delle famiglie, ma che rimangono giacenti. Indicatori oggettivamente positivi, ma soggettivamente ancora non in grado di influenzare gli orientamenti. Perché la percezione determina la realtà. E ciò spiega – com’era plausibile ipotizzare – come mai gli 80 euro non sono finiti nei consumi, ma nei risparmi, in attesa di tempi più certi e migliori. Lo si può comprendere meglio se consideriamo come gli italiani percepiscono le loro condizioni economiche. Rispetto a tre anni fa, in generale, una leggera maggioranza (53,4%) ritiene che il proprio bilancio economico familiare sia rimasto sostanzialmente stabile. Fra questi, soltanto meno di un decimo (8,7%) l’ha visto aumentare. Per il 46,6%, invece, il reddito mensile disponibile in famiglia è diminuito. Dunque, le risorse economiche disponibili per gli italiani quando è andata bene sono rimaste invariate e per una parte assai consistente sono andate peggiorando. Di sicuro, non abbiamo conosciuto alcuna mobilità economica, e quindi sociale, ascendente. I più penalizzati da questa situazione sono le donne, i 50-60enni, chi possiede un basso livello di studio e le persone ai margini del mercato del lavoro (disoccupati, pensionati e casalinghe). Se queste sono le condizioni economiche oggi, rispetto a tre anni fa, quali sono le prospettive? Quando si prevede di uscire da questa crisi? L’incertezza è l’elemento dominante. Complessivamente, tre interpellati su quattro (75,1%) ritengono si dovrà aspettare almeno un anno e mezzo prima di uscire dalle difficoltà e fra questi ben il 68,2% vede la fine del tunnel oltre l’anno e mezzo. Pochi (10,2%) immaginano si debba aspettare al più solo un anno prima di conoscere prospettive migliori e una quota marginale (2,2%) intravede già segni di ripresa. Se a chi rinvia ad almeno un anno e mezzo l’attesa di un miglioramento aggiungiamo quanti non se la sentono di fare previsioni (12,5%), otteniamo che quasi i nove decimi della popolazione vivono nel day by day, privi di un orizzonte temporale definito: si naviga a vista, in assenza di una direzione precisa. L’aspetto preoccupante è che questa indeterminatezza sul futuro sembra innervare in misura maggiore le prospettive economiche personali e familiari, più ancora di quelle del territorio in cui si vive, dell’Italia o dell’Europa. A immaginare che nel futuro prossimo la situazione economica conoscerà un miglioramento per il proprio nucleo familiare è in media il 42,1% degli italiani. Analogamente, il 61,1% fra gli intervistati ritiene che ciò accadrà per l’area di residenza, il 62,5% per l’Italia e il 46,3% per l’intera Europa. Dunque, si pensa (o si auspica) che l’economia del Paese possa riprendersi, ma si medita che le proprie condizioni faranno più fatica a risollevarsi. 21 Una conferma indiretta a questa difficoltà a sognare un futuro positivo viene dal recente Prosperity Index 2014 (Legatum Institute) che mette a confronto 142 Paesi sull’idea di sviluppo futuro: l’Italia si colloca al 37° posto, perdendo cinque posizioni rispetto al 2013. Per provare a offrire una misura di sintesi, abbiamo creato un indicatore di fiducia sul futuro, sommando le prospettive di crescita economica per i diversi ambiti. Ne scaturiscono quattro profili prevalenti. Gli Ottimisti sono un terzo degli interpellati (34,3%) e annoverano chi, per tutte le dimensioni, ipotizza percorsi di miglioramento economico e, in proporzione, comprendono quanti sono oggi più in difficoltà (operai), i sessantenni o hanno avuto una diminuzione di reddito rispetto agli anni precedenti. Quindi, un ottimismo dettato dalla speranza. Il gruppo più cospicuo, però, è quello degli Attendisti (39,2%), quanti oscillano attorno a una condizione di stabilità o di leggero miglioramento. Il terzo gruppo è quello dei Preoccupati (21,7%): comprende ha una visione tendenzialmente pessimista per le condizioni economiche future, idea particolarmente diffusa fra le giovani generazioni e chi ha un titolo di studio elevato. Infine, troviamo i Pessimisti (4,8%), nucleo marginale che prevede un sostanziale declino generalizzato. Fiducia e senso di un futuro possibile sono il motore dello sviluppo. Ma questi lunghi anni di difficoltà hanno intaccato l’aspettativa di realizzare un miglioramento per sé e per i propri familiari. Come se negli italiani si stesse incrinando la proverbiale capacità di adattamento alle difficoltà. E, in questa lunga traversata, avessero tirato un po’ i remi in barca. del 10/11/14, pag. 22 Addio postini, centralinisti e agricoltori: il futuro è di nanomedici, banchieri del tempo e informatici super-specializzati. La rivoluzione digitale sta cancellando negli Usa metà dei mestieri tradizionali. Ecco come quest’onda lunga arriverà presto anche in Italia Il lavoro che verrà ETTORE LIVINI BANCHIERE del tempo. No, meglio nanomedico. Oppure, per amor di natura, agricoltore verticale. C’era una volta l’Italia dove i bambini sognavano di fare i calciatori, le ballerine o i pompieri. C’era una volta perché oggi quell’Italia e quel mondo non ci sono più. La rivoluzione digitale sta cambiando i lavori del futuro a ritmi più rapidi di un corso di laurea. Azzeccare quello giusto (nanomedici & C. sono scommesse del think-tank Fastfuture) è impresa da Mago Otelma. «Oggi si studia in vista di professioni non ancora create, fatte con tecnologie da inventare per problemi che adesso non conosciamo», riassume Andrea Cammelli, direttore di Almalaurea, la più importante banca dati dei laureati in Italia, consultata da enti ed imprese. A guidare il cambiamento — più che medici o avvocati — sono algoritmi, formule fisiche e nuvole informatiche. E l’America, locomotiva globale dell’hi-tech, ha deciso di giocare tutte le sue carte sui campioni dello Stem — l’acronimo sta per science, technology, engineering e math — le facoltà tecnico-scientifiche su cui la Casa Bianca ha concentrato i piani di incentivazione allo studio (con 2,6 miliardi di investimenti solo nel 2014) e dove le iscrizioni negli ultimi anni sono cresciute del 48%. Fabbriche di lavoro certo e ben remunerato, promette l’amministrazione Usa. Ma 22 soprattutto il volano educativo grazie a cui gli States contano di mantenere la loro leadership tecnologica nei prossimi decenni. L’ERA DEGLI STEM Le classifiche, in questo caso, rischiano di sviare. Buona parte delle professioni che creeranno più posti da oggi al 2022 — per l’invecchiamento e per la legge dei grandi numeri — sono legate alla salute. In testa alle graduatorie ufficiali del ministero del lavoro Usa ci sono gli infermieri per l’assistenza sanitaria a domicilio. Brillano pure fisioterapisti e consulenti genetici, esplode (+53%) la domanda per psicologi aziendali. E persino per i muratori (+43%), un omaggio alla concretezza della old economy , è previsto un inatteso revival. L’apparenza però inganna. E la scommessa della Casa Bianca guarda a un dato d’insieme ben più significativo: «Il 27% del totale dell’occupazione generata nei prossimi tre anni in America arriverà da discipline legate a scienza, tecnologia, ingegneria o matematica », come calcola una ricerca della Economic Modelling society. Competenze destinate a condizionare in modo pervasivo il lavoro di tutti, dagli infermieri in corsia fino ai carpentieri in cantiere. Il 47% dei posti di lavoro negli States — calcola una ricerca dell’Università di Oxford — è a rischio sostituzione con i computer. Cifra che in Europa (Fondazione Bruegel) sale al 50%. E la Stem-generation sarà il carburante che darà un colpo d’acceleratore decisivo per colmare questo gap. La rivoluzione è già iniziata e il boom delle iscrizioni è solo la punta dell’iceberg: i laureati tecnico-scientifici trovano lavoro in metà tempo rispetto agli studenti di altre discipline e guadagnano da subito in media 65mila dollari l’anno contro i 49mila degli altri corsi per il National Center for education statistics. Il tasso di crescita dell’occupazione nei loro settori è al 17% contro la media nazionale del 9,8%. L’80% dei laureati (dati Pew Research) dice di trovare lavori legati a filo doppio al corso di studi. E uno studente straniero su tre che sceglie di iscriversi a un corso di laurea Usa — grazie ai piani di attrazione di cervelli del governo — finisce inevitabilmente per occuparsi di scienza, tecnologia, ingegneria o matematica. L’ESPERIENZA ITALIANA L’Italia, su questo fronte, viaggia con il freno a mano tirato ma non fa eccezione. I dati dicono che dalle nostre parti, quanto a professioni con un futuro, vale ancora la regola dell’”usato sicuro”: nel 2013, a cinque anni dalla laurea il 96,7% dei medici (dati Almalaurea) aveva un posto, come il 91,9% degli ingegneri e il 91% dei diplomati in economia. Classici del genere. Scontati come l’elenco delle Cenerentole: nella zona bassa della classifica arrancano geo-biologi e reduci da facoltà letterarie. Soldi e occupazione, visto che piove sempre sul bagnato, vanno a braccetto: un lustro dopo la tesi, un ingegnere guadagna 1.708 euro netti al mese in media, un medico 1.646 mentre chi ha in curriculum un cursus honorum umanista si deve accontentare di mille euro. I piccoli germogli Stem nel nostro Paese — dove resistono le molte baronie a prova di tecnologie e dove la disoccupazione giovanile è al 44% — si stanno però già confermando come promettenti fabbriche di lavoro. «Noi siamo in piena occupazione a un anno dalla laurea — assicura Marco Taisch, delegato del Rettore al Politecnico di Milano per il placement — Succede anche in settori come la computer science che sembravano passati di moda». Lo stesso vale per il Politecnico di Torino e per i corsi ad alto contenuto innovativo che stanno iniziando a spuntare lungo tutta la penisola. TRA CONOSCENZE E COMPETENZE Il boom degli Stem e l’addio a postini, centralinisti, agricoltori e stenografi — le professioni a rischio estinzione per l’Us Labour of statistics — non significa in assoluto il trionfo dell’hitech e dei guru di Silicon Valley. Qualche Cassandra fuori dal coro sostiene che la spinta dell’amministrazione Obama sugli Stem rischia di inondare il mercato del lavoro di troppa 23 offerta da qua a pochi anni. Molti economisti e accademici puntano invece il dito contro l’eccesso di specializzazione cui si sta arrivando. «Il problema — dice persino un neokeynesiano come il Nobel Ned Phelps — è non aumentare indefinitivamente i laureati in discipline scientifiche». Padroneggiare algoritmi e data-flow non è tutto. Anzi. In un mondo dove le tecnologie nascono e muoiono alla velocità della luce «la tecnica va puntellata con le soft skills umanistiche e figlie di storia, filosofia e letteratura necessarie a sviluppare lo spirito critico e di iniziativa necessari per gestire il cambiamento», aggiunge l’economista. «Oltre alle conoscenze, oggi servono le competenze», ammette anche Cammelli. Capacità di far gruppo, di avere la mente aperta alla formazione continua e al cambiamento. Più che una virtù, una necessità. La generazione Erasmus sa benissimo che il lavoro del futuro, per sfuggire all’etichetta facile di “bamboccioni” un po’ “choosy” (copyright Elsa Fornero), devi inseguirlo all’estero o nelle aree dove si fa davvero innovazione. Londra ha importato un milione di abitanti in dieci anni. Il 50% del business alla Silicon Valley è generato da gente che non è nata e cresciuta lì. Ben 94mila giovani italiani — il doppio dell’anno precedente — ha lasciato nel 2013 il Belpaese per cercare un posto oltrefrontiera. Le università hi-tech si sono già adeguate. Inserendo accanto alle lezioni 100% Stem più tesine e lavori di gruppo per sviluppare i soft skills degli studenti. E potenziando i master dove ormai il 50% dei partecipanti sono persone che già lavorano e devono aggiornare conoscenze scientifiche invecchiate nel giro di una breve stagione. La realtà, oggi, obbliga a un sano esercizio di pragmatismo. Altro che fantasticare di fare i calciatori o i pompieri. L’unico sogno consentito ancora oggi, a non voler davvero tenere i piedi per terra, è quello di fare gli astronauti. Il decollo dei voli orbitali privati — altra disciplina molto Stem — è già una realtà, assicura il dipartimento al lavoro Usa. Il lavoro c’è. Basta cercarlo nello spazio. del 10/11/14, pag. 23 Il gap che dobbiamo colmare prima che sia troppo tardi RICCARDO LUNA NON si può dire che non ci avesse avvertito. Nel 1995 il futurologo Jeremy Rifkin ci scrisse sopra un libro: La fine del lavoro si intitolava, e non poteva essere più chiaro di così. Sono passati vent’anni e oggi, guardando i dati sulla disoccupazione crescente quasi ovunque dalle nostre parti, possiamo dirlo: sul lavoro Rifkin aveva ragione. L’automazione, indotta dalle nuove tecnologie, ha avuto e sta avendo davvero un effetto devastante sugli operai, gli impiegati, i commercianti e i liberi professionisti. Basta guardare alla cronaca: la catena di fast food McDonald’s ha appena annunciato di voler introdurre dei tablet per ricevere le ordinazioni riducendo i camerieri; il colosso dell’e-commerce Amazon sta assumendo 10 mila robot nei propri magazzini per sbrigare lo smistamento dei pacchi; mentre da tempo sappiamo che gli algoritmi introdotti da Google e da altri per guidare le auto funzionano alla perfezione ed è solo per una questione di assicurazione (chi paga in caso di incidente?) che non abbiamo ancora auto senza autisti. Torna in mente un altro saggio profetico, questa volta del 2000, scritto da uno dei guru di Silicon Valley, Bill Joy: «Il futuro ha ancora bisogno di noi?». Anche stavolta la risposta è nella cronaca, in quello che accade ogni giorno, magari senza fare notizia. Qualche giorno fa a Dublino si è chiuso il Web Summit, uno dei più grandi eventi del mondo dedicati agli startupper, una definizione dietro la quale dovete 24 immaginare dei giovani che hanno visto un problema e realizzato una soluzione con il digitale, e che quindi sperano di diventare ricchi in fretta. Bene, ce n’erano circa duemila di startupper a Dublino, da tutto il mondo. E indovinate chi è risultato il numero uno? Una startup italiana, Nextome, un navigatore per musei, gallerie d’arte, centri commerciali, aeroporti e hotel; funziona grazie ad una tecnologia basata sul wi-fi che è stata inventata e brevettata da quattro ragazzi pugliesi. Il giorno prima a Brescia il premio Federico Faggin — dal nome dell’inventore del primo microchip — era stato assegnato a un’altra startup pugliese, Blackshape, che realizza aerei in fibra di carbonio. Nel frattempo in California venivano ufficializzate le start up ammesse al prestigioso acceleratore 500startups: su trenta, due sono italiane. Ogni giorno ce n’è una, di storia così. Non sono più casi isolati, o stranezze. Sono un movimento di ragazzi che ha capito che il nostro tempo presenta rischi e opportunità, ma hanno deciso di provare a cogliere le seconde (far partire una start up è infinitamente più facile di una volta), per non tenersi solo i rischi. Forse, se lo sapessero, anche i Neet (i giovani che non studiano né cercano impiego) sarebbero meno rassegnati ad un futuro buio. Ciò detto, le startup non sono certo la soluzione ai problemi di disoccupazione di un Paese. Non bastano a risollevare il Pil e a invertire il ciclo economico. Ed è fuor di dubbio che fino ad ora la rivoluzione digitale deve mantenere tutte le sue promesse di un mondo migliore. E però una soluzione c’è. Sono finiti i lavori che possono fare le macchine meglio di noi, ma c’è un dannato bisogno di altri lavori: in Europa si calcola un milione di posti di lavoro pronti per persone che siano computer savvy , ovvero a proprio agio con i computer. È su questo punto che in Italia siamo in fondo a tutte le classifiche possibili. Ed è per questo che un ragionamento sui lavori del futuro non può non partire dalla scuola. Sono sempre le skills, le competenze, il prerequisito del work, del lavoro. E le competenze ormai sono, non possono non essere, legate alla rivoluzione digitale. 25 BENI COMUNI/AMBIENTE del 10/11/14, pag. 18 “Non bevete quell’acqua” Il veleno di Agatha Christie che fa tremare la Versilia Il tallio, residuo delle vecchie miniere, ha inquinato i pozzi Da tre anni concentrazioni altissime mai rilevate dalla Asl MARIO NERI FABIO TONACCI PIETRASANTA . Il veleno di Agatha Christie ha inquinato i pozzi della Versilia. Da almeno tre anni. Nell’acqua di Pietrasanta, cuore turistico e culturale della riviera con i suoi 39 ristoranti sempre pieni di vacanzieri e le sue famose gallerie d’arte, c’è il tallio. Nome dal suono greco, metallo prezioso quanto tossico, numero atomico 81 nella tavola degli elementi. Il farmacista Zacharia Osbourne, nel romanzo “Un cavallo per la strega” della scrittrice inglese lo usava per far fuori le sue vittime, arma letale e inodore. Ora terrorizza i versiliesi. Da quanto tempo il tallio galleggia nel loro acquedotto? Quanto ne hanno bevuto? Pietrasanta, tre giorni fa. Le auto del municipio che girano con gli altoparlanti a tutto volume: «Vietato bere, cucinare e lavarsi i denti con l’acqua del rubinetto…». Il sindaco Domenico Lombardi ha firmato l’ordinanza, è allarme. Settecento famiglie dovranno rifornirsi chissà per quanto dalle cisterne, ma qualcuno ha già scoperto di avere concentrazioni di tallio nei capelli cinquanta volte superiori alla norma. Il perimetro contaminato racchiude il centro storico e le aree vicine, compresa Valdicastello, casa natale del poeta Giosuè Carducci. Gli assessori dei quattro comuni della Versilia storica si telefonano, le giunte si interrogano, lo scaricabarile è nell’aria. «Al momento non ci sono pericoli per noi», spiega il primo cittadino di Forte dei Marmi Umberto Buratti, il cui territorio è servito da una sorgente non inquinata. Ma intanto la Asl di Viareggio ha disposto analisi urgenti ovunque, comprese le zone di villeggiatura balneare. Quelle, per capirci, della vacanza d’elite, dei bistrot di lusso, delle ville in stile “Scarface” comprate dai ricchi russi, che tanto hanno fatto la fortuna di chi le ha vendute. Questa storia è iniziata piano, al rallentatore. E non è priva di ombre. Un paio di mesi fa alcuni ricercatori dell’università di Pisa scoprono in una falda altissime concentrazioni di tallio: fino a 10,1 microgrammi al litro quando il limite tollerabile dall’organismo umano, secondo l’Epa, l’agenzia per la protezione ambientale degli Stati Uniti, è di 2 microgrammi. Oltre diventa tossico. La causa di tale presenza va cercata nelle vecchie miniere di pirite abbandonate di Valdicastello, carcasse industriali oggi di proprietà del comune e mai bonificate. L’11 settembre vengono avvertite le autorità, ma per quasi un mese non si muove una foglia: il divieto di usare l’acqua scatta solo il 3 ottobre e solo per l’area attorno alle miniere, dove abitano un migliaio di persone. Però qualcosa non torna. Il 22 settembre c’era stata una riunione tra l’amministrazione di Pietrasanta e Gaia, il gestore idrico. È spuntato un documento, di cui Repubblica è venuta in possesso, nel quale sono indicati valori oltre la soglia di sicurezza nei campioni del 2011. Già tre anni fa l’acqua era avvelenata. Perché nessuno ha fatto niente? La 26 giustificazione fornita dalla Asl 12 è una di quelle contorsioni burocratiche inaccettabili per qualunque cittadino che quell’acqua ha bevuto e soprattutto pagato. «Il tallio non rientra tra i parametri di qualità e conformità previsti dalla normativa e quindi non viene ricercato di routine. Lo abbiamo rilevato con nuove analisi soltanto adesso». Tradotto: bastava avere lo scrupolo di allargare lo spettro di informazioni richieste ai laboratori e la popolazione si sarebbe risparmiata tre anni di probabile intossicazione. Ma le istituzioni non hanno brillato per prontezza. Tant’è che la scoperta che il tallio ha infestato anche l’acquedotto di Pietrasanta non l’ha fatta né la Asl, né il gestore idrico. Il merito va a una signora che mercoledì scorso si è presentata nell’ufficio del sindaco con due fogli in mano: a spese proprie ha fatto controllare l’acqua di casa ed è saltato fuori che ne contiene 12 microgrammi al litro. «Abbiamo verificato — spiega Lombardi — i valori nel centro storico oscillano tra i 2,5 e i 5 mcg». Colpa, pare, di 5 chilometri di tubature incrostate di tallio. Nel mondo soltanto un’altra città ha sperimentato un analogo avvelenamento delle falde, in Cina. «Temo conseguenze per l’indotto turistico — prosegue il sindaco — Gaia spa si assuma le sue responsabilità e ci dia risposte chiare nell’interesse della salute e dell’immagine della Versilia». Che intanto ha paura. «Siamo sicuri che sia una contaminazione temporanea e che nessuno sapesse?», si domanda Michele Marcucci, titolare della celebre enoteca pietrasantina. Arrivano le prime disdette alle prenotazioni di tavoli, la procura di Lucca valuta l’apertura di un’inchiesta. Emilia Bramanti, ricercatrice del Cnr di Pisa, sta coordinando lo screening sulla popolazione di Valdicastello, dove anche lei vive. «I risultati delle analisi eseguite sui capelli delle mie due figlie di 12 e 16 anni — racconta — hanno dato valori di 50 volte superiori a quelle delle persone non esposte». Non è una buona notizia e non ci vuole Poirot per capirlo. 27 CULTURA E SCUOLA del 10/11/14, pag. 25 Alghe a Pompei e capperi al Colosseo: un team speciale per salvare l’archeologia Venti capolavori sotto assedio i biologi contro funghi e batteri IRENE MARIA SCALISE IL COLOSSEO e la Domus Aurea sono a rischio? Chiamate i biologi. La grande bellezza risorge grazie a questi Indiana Jones armati di microscopio e in camice bianco. Le piante di capperi infestano l’Anfiteatro Flavio, gli affreschi della Domus Aurea sono brutalizzati da radici di conifere e l’ailanto deturpa Pompei. Per restituirgli il ruolo di portabandiera delle italiche meraviglie, adesso arrivano i biologi, applicati in difesa del patrimonio culturale. Non solo l’arte del restauro, quindi, ma anche la scienza può fare molto per i 20 e più monumenti in difficoltà. «Con un corretto utilizzo della biologia si potrebbe risparmiare un terzo delle risorse che si investono quando il monumento è già rovinato», spiega Ermanno Calcatelli, presidente dell’Ordine nazionale dei biologi. «È fondamentale identificare gli organismi che minacciano il nostro patrimonio artistico e valutare, per esempio, se un lichene è aggressivo. Il risparmio potenziale è alto, visto che in Italia abbiamo oltre 60 mila siti archeologici». Aggiunge Giulia Caneva, biologa in prima linea nella cura del patrimonio culturale: «Tutti i monumenti vanno incontro a un degrado naturale: per loro serve una diagnosi che sia insieme preventiva e curativa». Certo, c’è malato e malato. La Domus Aurea, per la sua natura ipogea, è uno dei beni più a rischio perché le infiltrazioni d’acqua creano alghe e funghi che attaccano gli affreschi, mentre le radici degli alberi possono arrivare a distruggere le pitture. Doppie le incognite per il Colosseo: «Alla base c’è un proliferare di infestazione tipiche degli ambienti umidi come muschi, fichi e sambuco, mentre nella parte alta il cappero, grazie al sole, moltiplica le sue radici che vanno in profondità ». A volte gli interventi dell’uomo nati per riparare i danni finiscono per peggiorare il quadro. «Nella chiesa di San Clemente a Roma era stato ideato un impianto d’illuminazione non calibrato e sono sorti batteri originati dal caldo eccessivo — spiega Matteo Montanari, docente per la biologia del restauro — Un biologo può far risparmiare tempo e denaro, anche perché per un suo intervento non sempre servono sostanze chimiche». Gli istituti del restauro danesi, svedesi e britannici sono all’avanguardia nel monitoraggio predittivo e pretendono altrettanta cura. Un esempio per tutti? «Quando arrivò a Bologna il quadro della Ragazza con l’orecchino di perla di Vermeer - racconta Montanari - il facility report ( la relazione tecnica che fissa i requisiti della sala che prende in prestito l’opera) era richiesto il monitoraggio di insetti e muffe». Le tecniche per salvaguardare i nostri monumenti, assicura Montanari, spesso ci sono e costano poco: «Basterebbero dei dispositivi per i filtri dell’aria, per evitare l’umidità. Ovviamente, bisogna evitare di correre ai ripari quando il danno è fatto, ma per fortuna molti biologi lavorano già nei Beni culturali e negli istituti del restauro». Anche i chimici confermano l’importanza di giocare d’anticipo. «In Italia, l’incuria e la dimenticanza sono il problema principale», spiega Antonio Sansonetti del Cnr, consulente tecnico per gli interventi di conservazione, «l’acqua si porta dietro una quantità di microrganismi nocivi, mentre le radici degli alberi riescono a infiltrarsi nelle strutture 28 murarie. La loro sinergia con l’inquinamento può essere fatale, basti pensare che i nostri monumenti si sono degradati di più negli ultimi 40 anni che nei quattro secoli precedenti». Pochi sanno che a Roma arriva lo “spray marino” che dal mare viaggia sino a 200 chilometri l’ora. Oppure che le prime piogge sono nefaste perché l’acqua è carica di sostanze inquinanti. O ancora che il granito è un gran combattente mentre il travertino e il tufo napoletano sono i materiali più delicati. Lasciamoli curare (anche) dai biologi: per loro non hanno segreti. 29 ECONOMIA E LAVORO del 10/11/14, pag. 9 La Ue avverte l’Italia: pronti alla procedura La Commissione Juncker minaccia una nuova correzione da 3,3 miliardi sul 2015 e un early warning sul debito Palazzo Chigi spinge sul Jobs act: entro dicembre, anche con la fiducia. Ma in Parlamento i tempi sono stretti ROBERTO PETRINI ROMA . Palazzo Chigi tira dritto sul Jobs act e stila un calendario serrato: chiudere entro dicembre, varare i decreti attuativi sui quali sono già al lavoro i tecnici e avere regole certe a partire dal 1° gennaio del 2015. La posizione del governo va ad impattare sul percorso parlamentare della legge di Stabilità che questa settimana comincia l’esame in Commissione Bilancio con l’obiettivo di consegnare il testo all’aula entro il 24 novembre, data che potrebbe slittare di un paio di giorni come spesso avviene. Il rischio è quello di un «incrocio»: per assecondare il timing del governo potrebbe essere necessario dunque anticipare l’esame del Jobs act rispetto alla legge di Stabilità: la valutazione che viene fatta in Commissione Bilancio è che il ritardo potrebbe spostare la data di consegna della “Finanziaria” al Senato verso il 10 dicembre. Comprimendo l’esame di Palazzo Madama. A decidere sarà martedì la conferenza dei capigruppo in accordo con ministro dei rapporti con il Parlamento Maria Elena Boschi. Naturalmente la questione non è solo procedurale: dopo la fiducia al Senato (il 9 ottobre) al Jobs act, la minoranza Pd ha detto esplicitamente che vuole modifiche, soprattutto sul tema nodale dell’articolo 18, oggetto delle agitazioni sindacali di questi giorni, e che non intende votare una nuova fiducia al Senato (fiducia che peraltro Palazzo Chigi vuole utilizzate a Montecitorio solo se necessaria). La partita della legge di Stabilità non ha ancora un esito scontato. In prima linea il Tfr in busta paga, al quale Palazzo Chigi non vuole rinunciare, ma che il Tesoro ha già annunciato di essere pronto a cambiare. L’intervento che sembra più gettonato è quello di ridurre le tasse a chi chiede l’anticipo instaurando una neutralità fiscale con chi riscuote a fine rapporto. L’altra ipotesi di cambiamento, peraltro chiesta da tutti i gruppi parlamentari, riguarda la riduzione delle tasse sul rendimento dei fondi pensione. Del 10/11/2014, pag. 9 Strategie ancora poco attente ai più fragili Fondi sociali in lieve ripresa ma mancano i piani nazionali Nella legge di stabilità ci sono 700 milioni di euro per le politiche sociali, in leggera ripresa rispetto a quelli del 2014 (667 milioni), ma manca una strategia. Continuano, dunque, a latitare le riforme in grado di assicurare i servizi contro la povertà e a favore di non autosufficienti, disabili e infanzia. Eppure se ne parla da vent’anni. All’appello della legge di stabilità, le politiche sociali risultano assenti. Il testo del Governo, infatti, contiene poche risorse e nessuno dei necessari interventi migliorativi. Ciò è 30 accaduto perché il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, non ha sinora rivolto lo sguardo verso famiglie in povertà, anziani non autosufficienti, persone con disabilità e bambini nei nidi, cioè i principali destinatari delle politiche sociali. Lo stanziamento complessivo previsto nel 2015 per i due fondi nazionali principali ammonta a 700 milioni di euro (300 del Fondo nazionale politiche sociali e 400 del Fondo non autosufficienze), cifra che rappresenta un leggero incremento rispetto ai 667 milioni del 2014, ma una netta discesa dai 970 del 2008, che già allora tutti gli esperti giudicarono inadeguati ad affrontare lo storico sottofinanziamento delle politiche sociali. Ciononostante, a partire dal 2009 il governo Berlusconi ridusse i fondi statali, sino ad azzerarli nel 2012, poiché era contrario alla responsabilità pubblica nei confronti delle persone fragili. Nel 2013 è cominciata la parziale risalita fino agli attuali 700 milioni, ma nel frattempo la debolezza del settore si è ulteriormente accentuata. Oggi, per esempio, la spesa pubblica dedicata alla lotta contro la povertà risulta in Italia inferiore dell?80% alla media europea e quella nei servizi per le persone non autosufficienti (disabilità e anziani) lo è del 40 per cento. Il nocciolo della questione, comunque, non è l’esiguo importo dei fondi nazionali, bensì l’eredità della Seconda Repubblica. I fondi, infatti, furono allora introdotti intendendoli dichiaratamente come i primi mattoni sui quali costruire quelle riforme nazionali attuate perlopiù negli ultimi vent’anni, e a volte anche prima, in tutti i Paesi simili al nostro. In Italia, invece, se n’è discusso a lungo, qualche passo iniziale è stato appunto compiuto, ma come avvenuto solo in Grecia - nessuna riforma è stata realizzata. Si tratti di povertà, non autosufficienza o asili,l’impianto degli interventi è ovunque il medesimo. Primo, lo Stato incrementa i propri stanziamenti definendoli a partire non dai fondi dell’anno precedente, ma dalle reali esigenze del settore, affiancandoli a regole che assicurino l’adeguato sforzo finanziario di Regioni e Comuni. Secondo, per chi è in condizioni di fragilità s’introduce il diritto a ricevere risposte, oggi esistente in altri ambiti - come la sanità e l’istruzione - ma non nel sociale. In Italia, per esempio, i nuclei che vivono in povertà non hanno diritto ad alcun sostegno pubblico. Terzo, uno sforzo particolare viene dedicato a potenziare i servizi alla persona (come assistenza domiciliare per gli anziani, nidi per i bambini o servizi sociali per gli indigenti e così via) a fianco dei contributi economici, ora nettamente prevalenti. I servizi, infatti, mettono le persone in grado di organizzare diversamente la propria vita, mentre le erogazioni monetarie servono esclusivamente a ‘tamponare’ i bisogni. Le riforme debbono essere introdotte gradualmente, così da spalmare su più anni lo sforzo organizzativo e l’incremento di spesa che richiedono. Si tratta, dunque, di attivare piani nazionali che permettano di giungervi grazie a percorsi pluriennali che definiscano con chiarezza, sin dall’inizio, i finanziamenti e il punto di arrivo. Dell’avvio di simili percorsi non vi è, però, traccia nella legge di stabilità né in altri atti del Governo. All’estero le riforme nazionali sono state introdotte, perché lì come in Italia - le domande sociali crescono da tempo, ma gli enti locali non hanno le risorse e gli strumenti adeguati per rispondervi, dato che le loro funzioni sono state disegnate in un’epoca precedente, quando tali domande erano assai minori. Negli ultimi due decenni, intanto, l’incremento dei bisogni ha subìto un’ulteriore accelerazione, basti pensare alla povertà e all’invecchiamento della popolazione. Le riforme nazionali, dunque, risultano oggi più necessarie che mai. Quanto scritto sin qui è da contestualizzare nelle complessive vicende dei primi mesi del nuovo Esecutivo. Quest’ultimo ha concentrato i suoi sforzi iniziali sulla nostra profonda crisi economica e occupazionale, unanimemente riconosciuta come la priorità da affrontare. Coerentemente, nel welfare l?azione è stata rivolta principalmente al rafforzamento delle tutele contro la disoccupazione. In un quadro simile, i margini per un’attenzione sostanziale alle politiche sociali sono stati finora molto ristretti. Nel prossimo futuro, però, il Governo dovrà definire la propria posizione verso il 31 settore. Se vorrà occuparsene in modo incisivo, la strada è segnata: il punto non è destinare 100 milioni in più o in meno ai fondi, ma mettere in agenda le riforme nazionali. Del 10/11/2014, pag. 9 La sfida è conciliare diritti e investimenti L’ANALISI Giorgio Gori Per capire se le politiche sociali diventeranno una priorità del futuro bisogna, innanzitutto, esaminare come le concepisce Renzi. Lui e i suoi collaboratori propongono da almeno tre anni una stessa visione. Analogamente alla Social investment strategy promossa dalla Ue, il sociale è considerato un investimento per valorizzare le potenzialità dell'individuo e far sì che possa così contribuire allo sviluppo produttivo (attraverso il proprio lavoro). Non a caso, i renziani ricorrono abitualmente a due esempi: la necessità di ampliare gli asili nido e quella di realizzare contro la povertà interventi “attivanti”, in grado di rafforzare le competenze di chi vive tale condizione per consentirgli di trovare - o ritrovare - un impiego (indicazioni comunque sinora non tradotte in pratica). Si rappresenta un panorama fatto di bambini che, anche grazie ai nidi, diventeranno lavoratori adulti con migliori capacità cognitivo-relazionali, di giovani con un futuro davanti, di poveri per i quali è possibile un reinserimento occupazionale. Gli indigenti che non potranno ottenere un nuovo lavoro, le persone con disabilità, gli anziani non autosufficienti, e così via, non vi trovano posto. Un simile orientamento è positivo perché valorizza il welfare come costruzione di opportunità ma diventa inevitabilmente critico se risulta esclusivo. Piaccia o meno, infatti, la maggior parte dei destinatari delle politiche sociali non può offrire alla società un apporto dal punto di vista produttivo in senso stretto, mentre può farlo sul piano relazionale, dello sviluppo di comunità o altro. Lo mostrano tutte le ricerche scientifiche e l’esperienza delle famiglie coinvolte. Pertanto se l’interesse si rivolge solo agli interventi che permettono investimenti sociali, come sopra definiti, la gran parte delle reali politiche sociali viene esclusa. Renzi non ha mai precisato se ritenga debba esistere una responsabilità pubblica nei confronti delle persone fragili che non possono contribuire al contesto produttivo. Poiché la logica dell'investimento qui non è applicabile, bisogna decidere se spetti alla collettività assicurare loro uno standard di vita almeno decente e la possibilità di cercare di realizzare alcuni desideri, nei limiti dettati dalle condizioni di ognuno. Intanto, una mole crescente di studi internazionali mostra che il welfare ha successo solo se riesce a coniugare la Social investment strategy e la tutela dei diritti degli individui fragili, parti complementari che funzionano bene solo insieme. Emerge, inoltre, come in diversi Paesi l’enfasi posta sull’Investment strategy sia stata utilizzata a livello politico per gettare fumo sull’inadeguata salvaguardia pubblica di tali diritti. Il premier deve scegliere se concepire le politiche sociali solo come un trampolino per chi può inserirsi nel contesto produttivo o anche come uno strumento per garantire i diritti delle persone in condizione di fragilità. 32
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