RASSEGNA STAMPA martedì 25 novembre 2014 L’ARCI SUI MEDIA INTERESSE ASSOCIAZIONE ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA RAZZISMO E IMMIGRAZIONE SOCIETA’ BENI COMUNI/AMBIENTE INFORMAZIONE CULTURA E SCUOLA ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO IL MANIFESTO AVVENIRE IL FATTO PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA Da Corriere.it del 25/11/14 Educare alle differenze, contro stereotipi e violenza di genere Si celebra oggi la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, una ricorrenza di cui da qualche anno si comincia a parlare anche nelle scuole. La commissione delle Elette del IV Municipio di Roma, attraverso il progetto “La scuola fa la differenza”, ha voluto sostenere e incoraggiare i programmi con gli studenti finalizzati alla decostruzione degli stereotipi di genere e alla promozione di una cultura inclusiva contro le discriminazioni. All’iniziativa hanno aderito una ventina di scuole medie, tra cui l’Istituto Comprensivo Angelica Balabanoff del quartiere Colli Aniene, nella periferia Est della città. “Ragazze e ragazzi hanno bisogno di confrontarsi sul tema delle differenze e della pluralità” spiega Tina Nastasi, insegnante di lettere che insieme a quattro colleghe (Ricci, Esposito, Sorrentini e Sabatini) e alla preside Anna Proietti, ha portato avanti il progetto. “Da settembre abbiamo dedicato spazio a una serie di attività e approfondimenti: la visita guidata della Casa internazionale delle donne, i laboratori teatrali svolti con il metodo del Teatro dell’Oppresso, la lettura di articoli di giornale e di brani tratti dal libro di Malala Yousafzai, la visione del video-documentario Da uomo a uomo realizzato da Michele Citoni per l’associazione Maschile Plurale. Un lavoro preparatorio che ci ha permesso di guidare i nostri alunni e consentire loro una riflessione che poi si è tradotta nella realizzazione di un’opera collettiva”. Lo scorso venerdì, nella sede Arci Malafronte di Pietralata, sono stati presentati i lavori delle diverse scuole, tra queste una tela con fiori di carta di giornale appesi con fili rossi. “È un’opera che comunica con un linguaggio simbolico – prosegue la Nastasi – e che vuole evocare le ferite delle relazioni in cui prevalgono violenze fisiche e psicologiche. I fiori sono stati creati con le pagine dei quotidiani, che troppo spesso riportano notizie di donne uccise in casa, e costituiscono un messaggio di speranza perché alludono agli affetti e alla tenerezza. Il filo rosso che li unisce trasporta, come piccole foglie che crescono, i pensieri e i desideri di studenti e studentesse per un presente e un futuro diversi”. Oggi nella sede del Municipio IV, in via Tiburtina, la cerimonia finale del progetto dove saranno riproposti i lavori dei ragazzi. E’ previsto anche l’intervento di Filomena Di Gennaro, una giovane donna sopravvissuta a un tentato omicidio da parte dell’ex fidanzato e da allora ridotta su una sedia a rotelle. Stefania Esposito, consigliera del municipio, dice: “Anche quest’anno abbiamo voluto dare spazio a un momento di riflessione sul fenomeno della violenza domestica. Crediamo molto nella valorizzazione dell’educazione sentimentale e di genere nelle scuole di primo e secondo grado, e intendiamo sostenere tutte le iniziative che possano contribuire allo sviluppo di una cultura di rispetto e dialogo”. http://scuoladivita.corriere.it/2014/11/25/educare-alle-differenze-contro-stereotipi-eviolenza-di-genere/ 2 ESTERI del 25/11/14, pag. 16 Iran-Usa, niente accordo sul nucleare VANNA VANNUCCINI DOPO dieci anni è arrivata l’ora della verità, aveva detto il ministro degli Esteri tedesco Steinmeier al suo arrivo a Vienna per la fase finale del negoziato. E la verità è che troppo profonda è ancora la grande sfiducia reciproca, soprattutto tra Iran e Stati Uniti. Ancora una volta i 5+1 — le cinque potenze che hanno potere di veto al Consiglio di Sicurezza più la Germania — non sono riusciti a trovare un accordo, che tutti volevano, sul programma nucleare dell’Iran. Lo volevano gli iraniani: in mattinata l’ayatollah Khamenei, il Leader supremo che al di sopra del Parlamento e del presidente ha l’ultima parola su tutto, aveva twittato il suo appoggio ai negoziatori. Era un gesto di sostegno per il presidente Rouhani, sotto attacco in Iran da parte dei conservatori che non vogliono l’avvicinamento all’Occidente. In gioco in questo negoziato infatti non c’è solo il programma nucleare, ma quali saranno in futuro le relazioni dell’Iran con l’Occidente: un esito positivo avrebbe potuto creare abbastanza fiducia da reinserire l’Iran nell’economia mondiale e nella cooperazione politica per contrastare le diverse crisi in corso in Medio Oriente. Anche il Segretario di Stato Kerry avrebbe volentieri annunciato la buona novella. Invece, poco prima che il tempo scadesse, i negoziatori hanno potuto annunciare soltanto una proroga, per evitare di dover ammettere il fallimento. L’ostacolo dirimente è stata la sfiducia. La Repubblica islamica teme che se darà all’Occidente piene e libere possibilità di controllo su tutti i suoi programmi, l’Occidente le userà per spiare e sabotare il regime. E la comunità internazionale non si fida dell’Iran perché in passato ha costruito di nascosto il suo programma nucleare e lo ha reso noto solo dopo essere stato colto in flagrante. L’accordo interinale firmato a Ginevra nel novembre scorso varrà ancora per sette mesi. Prevedibilmente la nuova scadenza sarà il primo luglio del 2015. Un accordo quadro dovrebbe essere pronto entro marzo, mentre i dettagli tecnici più sensibili come il numero delle centrifughe dovrebbero essere stabiliti entro giugno. «Nessuno esce depresso da questo negoziato», ha detto Steinmeier, annunciando «intense trattative già nelle prossime settimane». Il russo Lavrov ha parlato di «sostanziali progressi fatti» e ha detto di ritenere che fra tre o quattro mesi un documento conclusivo potrà essere firmato. E il presidente Rouhani ha annunciato più tardi alla tv iraniana che «le distanze si erano accorciate e che mai le posizioni erano state così vicine». Tutti insomma hanno fatto buon viso a cattivo gioco. Ma non si vede come le ombre che si sono sempre più infittite negli ultimi mesi possano diradarsi. A Washington in gennaio entra in funzione il nuovo Congresso dominato dai repubblicani, cosa che renderà ancora più difficile a Obama fare delle concessioni a Teheran. Anche in Iran le cose non andranno meglio: a marzo comincia il periodo preelettorale in vista delle elezioni parlamentari, e Rouhani, dicono i diplomatici occidentali a Teheran, avrà ancora meno libertà d’azione. Dietro le quinte i negoziatori a Vienna ne sono consapevoli: «La proroga non è un buon segno. Perché in realtà non siamo mai arrivati vicini a un accordo», ha confidato uno dei negoziatori a un giornale tedesco. Due i numeri chiave: quello delle centrifughe per l’arricchimento dell’uranio che saranno lasciate all’Iran e quello degli anni in cui resteranno in vigore le restrizioni. L’Iran ha oggi 9600 centrifughe operative e ne ha già installate altre 10.000 che però restano inattive in osservanza dell’accordo di Ginevra. 3 del 25/11/14, pag. 17 Obama silura il capo del Pentagono Chuck Hagel costretto a dimettersi a causa delle divergenze sulla strategia di lotta all’Is Una donna, l’ex sottosegretaria alla Difesa Michèle Flournoy, favorita per la successione FEDERICO RAMPINI DAL NOSTRO CORRISPONDENTE NEW YORK . Ora lo descrivono come un ministro della Difesa deludente, quasi un fallimento. E per di più, sempre schierato dalla parte sbagliata, nelle dispute sulla strategia da adottare in Siria, Iraq, Afghanistan. Forse è diventato un capro espiatorio, di fronte all’imprevista e folgorante ascesa dello Stato islamico. Chuck Hagel, ex senatore repubblicano del Nebraska cooptato nell’esecutivo di un presidente democratico, se n’è andato dopo meno di due anni. Il commiato è stato cortese, come comanda il galateo istituzionale. Barack Obama ha detto di essergli «eternamente grato per il suo servizio», Hagel ha risposto che la nomina alla Difesa è stato «il più grande privilegio della mia vita». Ma al di là delle buone maniere, il licenziamento è stato brutale, improvviso. Conferma l’insoddisfazione di Obama per il comportamento del Pentagono, e la volontà di Obama di imprimere una svolta. Che potrebbe, simbolicamente, portare la prima donna al vertice delle forze armate: in pole position per succedere a Hagel c’è l’ex sottosegretaria alla Difesa Michèle Flournoy. Un’altra donna figura in cima alla lista degli avversari di Hagel: Susan Rice, la National Security Adviser di Obama, una figura che oggi conta più del segretario di Stato. La Rice, di cui Obama ha la massima fiducia, si scontrava sempre più spesso con Hagel. Per il Pentagono, invece, il segretario alla Difesa è caduto vittima di un vizio di Obama: il micro management, ovvero il voler decidere nei dettagli anche ciò che sarebbe di competenza dei singoli dicasteri. È una critica già echeggiata in passato quando alla Difesa ci furono Robert Gates (repubblicano) e Leon Panetta (democratico). Per i consiglieri di Obama, se il mandato di Hagel è durato solo 22 mesi la colpa è soltanto sua. La Casa Bianca ha espresso insoddisfazione e frustrazione di fronte alle “opzioni” che Hagel aveva presentato per la strategia di lotta allo Stato Islamico. Di certo non hanno giovato al segretario uscente le troppo frequenti esternazioni di generali che continuano a ipotizzare un invio di truppe terrestri su quel fronte. Anche in Afghanistan le scelte da fare sono oggetto di duri scontri all’interno di questa Amministrazione. La settimana scorsa è trapelato che Obama lascerà “missioni da combattimento” ai 9.800 soldati americani destinati a rimanere in Afghanistan per tutto il 2015. Si prolungano anche i raid aerei, con cacciabombardieri e droni. Resta da verificare se le operazioni militari contro i Taliban proseguiranno anche nel 2016 e oltre, contravvenendo a una solenne promessa del presidente. Il Pentagono preme per rimane- re anche su quel fronte, dopo essere ritornato in Iraq. È proprio la “lezione irachena”, quella che i generali stanno usando per premere su Obama: guai a ritirarsi prematuramente da un fronte che potrebbe essere riconquistato molto in fretta dal nemico. Ma il presidente non tollera che la pressione dei generali si trasformi in un vero e proprio lobbying politico, con la sponda dei repubblicani che hanno la maggioranza nei due rami del Congresso. Il segretario alla Difesa dovrebbe essere un “uomo del presidente”, non un burattino manovrato dai generali o dai falchi della destra. A difendere Hagel, non a caso, ieri è subito intervenuto il suo compagno di partito John 4 McCain, l’ex avversario di Obama nell’elezione presidenziale del 2008. McCain, che in seguito alla vittoria dei repubblicani nel voto legislativo tornerà a presiedere la commissione Esteri del Senato, di fronte alle dimissioni ha dichiarato: «So che Chuck era frustrato per diversi aspetti della strategia di sicurezza nazionale, e per il processo decisionale in seno a questo esecutivo». In realtà a suo tempo Hagel era stato oggetto di un tiro al bersaglio anche dai suoi compagni di partito. I repubblicani al Senato fecero una battaglia di ostruzionismo contro la sua nomina, rendendolo fin dall’inizio ancora più debole in seno all’Amministrazione. Ora il processo di conferma della nomina del successore sarà ancora più in salita. Con l’elezione presidenziale del 2016 all’orizzonte, e una maggioranza repubblicana ringagliardita dal successo elettorale, la politica estera e militare dell’America torna ad essere più che mai un terreno di posizionamento dei futuri candidati alla Casa Bianca. Del 25/11/2014, pag. 7 Si dimette Hagel, Obama sempre più azzoppato Stati Uniti. Il ministro della Difesa che aveva preso il posto di Leon Panetta era a disagio con il decisionismo presidenziale. Secondo una fonte del governo «non era all’altezza». Ora il sostituto dovrà essere sottoposto al voto di un Congresso furioso per il decreto sull’immigrazione Luca Celada Con le improvvise dimissioni del ministro della Difesa Chuck Hagel l’amministrazione Obama perde una figura di spicco del governo, in vista di un biennio conclusivo che promette di essere il più difficile del suo mandato. Hagel era l’unico membro repubblicano dello staff della national security, un moderato che era succeduto a Leon Panetta nel febbraio del 2013. Nel darne l’annuncio ieri mattina Obama ha affermato che «se gli Stati Uniti oggi possono vantare le forze armate più potenti che il mondo abbia mai conosciuto lo si deve all’investimento in finanze e in sangue di molte generazioni e al carattere dei suoi leader». Il presidente ha ringraziato il dimissionario 24mo ministro della Difesa ricordando di averlo nominato «in un momento in cui le forze Usa affrontavano un periodo di importante transizione caratterizzato dal drawdown in Afghanistan, il bisogno di preparare le forze armate a future missioni facendo al contempo fronte a «difficili decisioni fiscali». Obama ha elogiato l’operato di Hagel nel gestire «una maggiore presenza americana in Europa centrale e orientale», il rafforzamento della Nato e dell’alleanza con paesi asiatici, compresa la Cina, oltre che i nuovi impegni militari e umanitari, specificamente l’escalation delle missioni contro l’Isis in Iraq e Siria e le operazioni in Africa per combattere Ebola. Missioni che confermano, ha concluso Obama come le forze armate americane siano oggi la «maggiore forza di bene» al mondo. Dietro ai convenevoli di circostanza tuttavia ci sarebbe qualcosa di meno roseo della decisione volontaria di «concludere il proprio servizio» citata nella conferenza stampa. Secondo fonti all’interno dello stesso dipartimento della difesa Hagel sarebbe stato spinto alle dimissioni senza tanti complimenti a causa di crescenti diverbi con la Casa bianca sulla gestione in particolare delle operazioni di Iraq e Afghanistan dove la “smobilitazione” di due anni fa è stata sostituita da una escalation su due fronti. L’intensificazione delle operazioni anti-Isis hanno ribaltato lo scenario della riduzione delle operazioni (e dei bilanci) militari che Hagel era stato chiamato a gestire. E contrariamente a quanto affermato ancora ieri da Obama la «fine delle operazioni afghane» 5 annunciata entro il 2015 appare ora assai più dubbia e flessibile. Proprio la scorsa settimana è trapelata la notizia che le «operazioni offensive» in Afghanistan potrebbero protrarsi ben oltre il limite annunciato. Hagel, ministro moderato scelto per gestire una «decrescita» si sarebbe insomma trovato fuori sincrono con un presidente riscoperto «decisionista» o, come dichiara più asciuttamente una fonte del governo, «Hagel non era all’altezza del compito». Secondo I repubblicani si tratta invece dell’ennesimo esempio di fallimentare politica estera dell’amministrazione Obama. Il senatore McCAin, capo dei falchi Gop, ha suggerito che la dipartita di Hagel sia stata determinata dalle interferenze della Casa bianca nella gestione della politica estera. Simili accuse sono state avanzate da Leon Panetta, predecessore di Hagel allo stesso dicastero, nella recente autobiografia in cui imputa a Obama un ritiro «prematuro» dall’Iraq e un «temporeggiamento» sulla Siria che avrebbero entrambi favorito la degenerazione della situazione mediorientale. Dal canto suo Obama, che durante tutto il mandato ha mostrato un inquietante predisposizione alle operazioni covert utilizzando Cia, droni e forze speciali, non ha sicuramente favorito i rapporti sereni col Pentagono. Qualunque siano i retroscena, l’amministrazione perde, dopo il ministro di giustizia Holder, un altro pezzo cruciale nel momento meno propizio per il presidente “azzoppato” dalla recente cocente sconfitta elettorale che perdipiù ora dovrà sottoporre un sostituto a un congresso la cui maggioranza, inferocita dal decreto sull’immigrazione, ha ogni motivo per ostacolarlo. del 25/11/14, pag. 18 Il bancomat di Putin per i nazionalisti d’Europa In fila anche la Lega “Ogni aiuto ben accetto” Esplode il caso dell’oro russo dopo i fondi alla Le Pen Gli analisti: dall’Ukip all’Afd, strategia per far implodere la Ue ETTORE LIVINI NICOLA LOMBARDOZZI MOSCA DIFFICILE che nel faccia a faccia di metà ottobre a Milano, e poi nella sua visita lampo a Mosca della settimana successiva, Matteo Salvini possa avere ottenuto molto di più che una forte comprensione e un potente riconoscimento internazionale. I 9 milioni di euro concessi alla Le Pen, attraverso una banca ceco-russa sono frutto di una ben più lunga intesa politica che risale addirittura al padre Jean-Marie. E anche del fatto che Mosca ritiene la Francia assai più ostile dell’Italia dove, sotto sotto, nemmeno il governo in carica viene ritenuto visceralmente anti russo come “il perfido Hollande”. Ma la speranza che prima o poi aiuti in denaro possano arrivare in qualche modo da Mosca è rimane accesa nel clan di Salvini. Lui stesso conferma: «Noi facciamo un appello politico a tutto il mondo e ogni aiuto è ben accetto, anche perché abbiamo 70 dipendenti in cassa integrazione». Ma precisa: «Finora non è arrivato né un rublo né un euro. E non ci interessa chiederlo. Il nostro appoggio alla Russia è totalmente disinteressato». UN po’ per amore del vecchio metodo sovietico, un po’ per ripicca contro gli Usa che starebbero facendo altrettanto, Putin ha deciso di sostenere, accreditare e perfino finanziare una lista di partiti che in qualche modo possano creare problemi ai cosiddetti “governi ostili” e scompiglio nelle politiche dell’Unione europea. 6 Come? Il canale bancario — come è successo con la Le Pen — resta in teoria la strada più semplice e trasparente. La moral suasion del Cremlino, nel settore, è altissima. Cinque istituti di credito sono finiti nella lista delle sanzioni Ue e Usa. Tra di loro la Rossiya Bank di Yuri Kovalchuk e Nikolaj Shamalov (membri della Ozara Dacha, la cooperativa degli anni ‘90 da cui sono usciti i padroni della nuova Russia, Putin compreso) etichettata dalla Ue come «la banca personale dei vertici della repubblica russa». Esistono poi altri canali di finanziamento più tortuosi ma molto più efficaci per occultare i mandanti: il rapporto 2007 messo a punto dalla Cia sul tesoro nascosto di Putin — mai reso noto — descriveva secondo fonti d’intelligence Usa complesse triangolazioni nel mondo del trading energetico su petrolio e gas che coinvolgevano molti uomini dell’entourage del presidente. Una girandola di intermediari che dai giacimenti siberiani fino ai consumi finali faceva salire i prezzi della materia prima. Lasciando strada facendo piccole fortune nelle mani di chi (anche politici stranieri, dice il tam-tam a Washington) garantiva il suo appoggio alla linea di Mosca. Oggi, spiega un recentissimo rapporto di Political Capital Research — un thinktank ungherese che già nel 2009 raccontava dei rapporti tra Putin e l’estrema destra europea — il “soccorso rosso” a Le Pen & C. arriva anche in forme più immateriali: assistenza tecnica nell’organizzazione di manifestazioni, aiuti professionali con personale specializzato, accesso ai network media e internazionali sfruttando le liaison del Cremlino. Partite di giro che si chiudono spesso attraverso Ong e associazioni di amicizia bilaterali sostenute dai rubli di Putin. La lista dei possibili beneficiari, aggiornata quotidianamente dai consiglieri ultraconservatori che hanno conquistato la leadership nell’ufficio del Presidente, vede la Lega ormai stabilmente ai primi posti dopo l’irraggiungibile Marine Le Pen. E insieme ad altri partiti e movimenti che sembrano formare una vera e propria “Internazionale Nera”. Ci sono gli austriaci del Partito Popolare, i tedeschi di Afd e gli olandesi del Partito della Libertà, xenofobi e antieuro; i Tea party statunitensi, più a destra dei repubblicani; l’Ukip del pittoresco alleato di Beppe Grillo, Nigel Farage; gli antisemiti ungheresi di Jobbik; i “fratelli sla- vi” dei movimenti nazionalistici bulgari e serbi e polacchi; e in coda, per il momento, perfino i neonazisti dichiarati greci di Alba Dorata. «Una miscela letale che mira a far esplodere l’Unione europea dall’interno», dice Mitchell Orenstein, docente alla Boston University e collaboratore della rivista Foreign Affairs lanciando un allarme molto sentito negli Stati Uniti. In Russia intanto, le fonti ufficiali tacciono. «Avete mai sentito un governo ammettere di finanziare partiti stranieri? Sarebbe assurdo ma lo fanno tutti e gli americani in questo sono maestri », dice una fonte assolutamente anonima degli uffici che contano. Ma come si può giustificare un appoggio anche solo morale a una lista così impresentabile? La chiave è semplice: tutti quanti, difendono quelli che il Cremlino ritiene «sacri valori della tradizione, della famiglia e della cristianità». Applaudono alla omofobia di Stato di Mosca, scimmiottano il nazionalismo di Putin nelle loro richieste punitive contro immigrati e stranieri. L’anonimo del Cremlino spiega meglio: «Gli Stati Uniti finanziano rivoluzioni e colpi di Stato, usando sempre il vecchio slogan della Guerra Fredda dell’esportazione della democrazia. Lo hanno fatto palesemente in Ucraina dal 2004 al disastro di oggi. E nelle rivolte del Nord Africa. Perfino con i nostri oppositori di piazza, quelli che fino a due anni fa riempivano le piazze di Mosca con slogan anti-Putin preconfenzionati ». Non è poi così vero. Le proteste di piazza, che sembravano assolutamente spontanee, sono semmai state fatte fuori con leggi che hanno di fatto eliminato ogni forma di dissenso. E comunque non spiega il sostegno alle forze di destra sempre meno moderata. Ma al Cremlino nessuno si scandalizza: «L’Unione sovietica inviava gioielli e bonifici milionari ai partiti comunisti, ai rivoluzionari del Terzo Mondo, qualche volta anche ai terroristi, con il pretesto di diffondere la Rivoluzione proletaria. Adesso invece aiutiamo tutti coloro che ci aiutano a 7 combattere questa ondata di immoralità dell’Occidente. E nella lista non ci sono terroristi ma partiti democraticamente eletti». Parole che sono miele per Salvini e i suoi, e che invece non suonano molto piacevoli per l’italiano che più di ogni altro in questi vent’anni è stato considerato il vero grande amico di Putin. Gli ultimi anni di Berlusconi hanno però creato più di un imbarazzo al presidente russo. Prima le storie troppo indecenti di olgettine, lap-dance e del famoso lettone di Putin che, qui giurano, non è mai esistito. Poi una debolezza sul piano euroscettico e un fatale declino politico che lo rende sempre meno utile per la causa. La botta finale è arrivata dalla posizione di Forza Italia a favore dei matrimoni gay che, non a caso, Salvini continua a sottolineare ad ogni occasione con studiato stupore. Sorride il leader leghista e ne ha ragione. E spera in un messaggio di complimenti per la sua vittoria elettorale. Privilegio finora concesso solo alla bionda Marine. Nelle sue passeggiate moscovite mostrava con orgoglio una brutta maglietta con un Putin in mimetica e aggressive scritte in cirillico. Robaccia al confronto di quelle più raffinate che si possono trovare a soli dieci euro conoscendo i negozi giusti. Il suo trofeo feticistico sbiancherà alla prima lavata. Ma forse il futuro potrebbe portare qualcosa di più che una tshirt. Del 25/11/2014, pag. 7 A un anno da Euromajdan, Kiev pronta a entrare nella Nato Ucraina/Usa. Washington annuncia: nostre truppe fino al 2015 in Lituania, Estonia, Lettonia e Polonia Fabrizio Poggi <<L’esercito americano resterà qui in Lituania, Estonia, Lettonia e Polonia il tempo necessario per appoggiare i nostri alleati e scoraggiare l’aggressione della Russia. Come minimo per tutto il 2015», ha dichiarato ieri il Comandante delle forze di terra Usa in Europa Frederick Ben Hodges. Parole senza equivoci. Un po’ meno, ma altrettanto indubbie, quelle del presidente ucraino Pëtr Poroshenko che, durante l’incontro a Kiev con la Presidente lituana Dalia Grybauskaite, ha detto «Abbiamo messo a punto i criteri con cui potremo soddisfare i requisiti richiesti dalla Nato. Solo dopo, il popolo ucraino deciderà con un referendum se aderire o meno». Se si è dovuto attendere l’arrivo a Kiev, con la scusa dell’anniversario di Majdan, del vice Presidente Usa Joe Biden, perché i 5 partiti di destra entrati alla Rada con le elezioni del 26 ottobre riescano a firmare (forse dopodomani) l’accordo per la coalizione di governo, su un punto l’intesa è stata rapida: la coalizione intende abolire lo status di paese fuori dai blocchi, per riprendere il percorso di adesione alla Nato. Adesione alla Nato e ingresso nella Ue, dunque, gli obiettivi dei golpisti usciti da Euromajdan. Nello scorso fine settimana in Ucraina si è celebrata la Giornata della dignità e della libertà: uno slogan europeista per santificare l’inizio di Euromajdan. Il 21 novembre 2013, una settimana prima della firma dell’accordo di associazione tra Ucraina e Ue, l’ex presidente Viktor Janukovic annunciò la sospensione della firma. Tra i motivi della decisione: da un lato, il disinteresse della Ue stessa, dimostrato dall’irrisorio aiuto finanziario che Bruxelles avrebbe offerto, in cambio, all’Ucraina; dall’altro, la necessità di uno studio più dettagliato sulle misure da adottare e sugli scambi commerciali con i paesi della CSI. I Manifestanti si radunarono nella piazza centrale di Kiev per protestare contro 8 la decisione. Già a fine novembre le manifestazioni «europeiste» si trasformavano in incursioni nazionaliste e neonaziste; a febbraio 2014 c’erano già 100 vittime: i «cento celesti». Il 22 febbraio la Rada suprema, ormai controllata dai nazionalisti, aboliva la legge che riconosceva il russo quale lingua regionale, vietava i canali tv russi e stilava una lista di artisti (come avviene ora nei paesi baltici) cui era negato l’ingresso in Ucraina. Nel sudest del paese, in cui è predominante la popolazione di lingua russa, iniziavano le proteste; il 7 aprile Kiev dava inizio alle operazioni «anti-terrorismo» e, una settimana dopo, alle operazioni militari, cui prendevano parte attiva i cosiddetti battaglioni di volontari, nazionalisti e neonazisti. Il resto, purtroppo fino a oggi, è storia nota. E dopo le elezioni del 26 ottobre il potere ucraino si è spostato ancora più a destra, come dimostra il corso delle operazioni nel Donbass; l’accordo con la Lituania per la collaborazione nel settore degli armamenti e il via libera Usa alle forniture militari servono allo scopo. Ma cosa attende l’Ucraina nei prossimi mesi o settimane? Oltre ai 4.317 morti e 9.921 feriti (rapporto Onu del 18 novembre), gli eventi di quest’anno trascorso da Majdan hanno dato all’Ucraina un’inflazione al 19,8%, un debito pubblico — aumentato del 74,3% — che ha raggiunto i 63,29 miliardi di dollari. Il volume della produzione si è ridotto del 18,6% e quello del commercio al dettaglio del 6,8%; la produzione di energia elettrica è diminuita del 10,7%, l’estrazione del petrolio del 5,3%; cresciute del 40–60% le tariffe sui servizi comunali. Svalutata quasi del 100% la moneta: da 8 a 15 grivne per un dollaro. Per l’economista Sergei Bespalov, «agli Usa non interessano l’economia e il mercato ucraini, quantomeno in termini economici». Tanto l’ex Segretario di Stato Usa Henry Kissenger, che l’ex presidente ceco Vaclav Klaus rilevano come Maidan sia nata a Washington, per legare l’Ucraina alla sfera d’influenza occidentale e inserire un cuneo tra Russia e Ue. Il capo redattore del Kiev Telegraph Vladimir Skachko dice: «Nessuno accoglie l’Ucraina nella Ue; le viene solo promesso. Appendono la carota come esca davanti all’asino, e l’asino corre: può correre in circolo, in avanti, indietro, ma non otterrà mai la carota». Proprio in questi giorni il premier ungherese Orbàn ricordava come l’adesione di Kiev costerebbe alla Ue 25 miliardi di dollari l’anno. E per l’ex consigliere presidenziale Rostislav Ishchenko: «La popolazione è pronta a esplodere alla prima scintilla. Ma non c’è una forza di opposizione (antinazista) in grado di mettersi a capo delle proteste. Quindi, la situazione si evolverà probabilmente verso un altro golpe, ancora più radicale», diretto in prima battuta contro Poroshenko, ma che potrebbe rivelarsi esiziale anche per Yatsenjuk, che già ora rischia di finire sotto inchiesta per la perdita delle strutture del complesso militare-industriale nel Donbass. «Kiev non è in grado di vincere la Novorossija» dice ancora Ishchenko; «le milizie avranno presto la meglio sui soldati ucraini; ma potranno velocemente occupare tutto il territorio dello Stato solo se verranno appoggiate da sollevazioni di massa nei centri regionali e nella capitale. Per ora si può però pensare a sollevazioni antifasciste solo in 4 o 5 centri (Kharkov, Odessa, Dnepropetrovsk, Zaporozhe)». Ma non è escluso un ulteriore scenario, cioè che «dopo un nuovo golpe a Kiev, la Galizia (regioni di Lvov, Ivano-Frank, Ternopol) proceda alla separazione e alla costituzione di uno stato autonomo; e Lvov potrebbe avanzare pretese anche su Transcarpazia (Uzhgorod), Bucovina (Cernovtsi), Volinia (Lutsk, Rovno)». Scenario jugoslavo, insomma;si quando USA atque Nato utilitati est. Del 25/11/2014, pag. 9 Netanyahu insiste: Israele è solo degli ebrei Tel Aviv. Il premier non torna indietro nonostante le proteste di alcuni ministri e dei cittadini palestinesi. Ribadisce la sua ferma intenzione di far approvare dalla 9 Knesset la nuova legge che definisce Israele come Stato della nazione ebraica. L'opinione pubblica è con lui Michele Giorgio <<Quale è stata la reazione qui ad Arara?…Silenzio e preoccupazione, qualche amico mi ha chiesto che cosa sarà di noi adesso che il governo ha approvato quella legge. Alcuni sperano ancora che sia respinta dalla Knesset». Parla senza tradire particolare emozioni Mohammed Kabaha, attivista palestinese nella zona di Wadi Ara, nella bassa Galilea, adiacente alla Cisgiordania. Un’area che ad oltre 60 anni dalla proclamazione di Israele resta ancora a maggioranza palestinese. Perciò è un’area “a rischio”, dicono da queste parti. Se un giorno Israele e Olp dovessero mettersi d’accordo su scambi territoriali, nel quadro di un accordo finale (assai improbabile), Wadi Ara con le sue decine di migliaia di abitanti palestinesi, sarà la prima zona che qualsiasi governo israeliano offrirà al futuro Stato di Palestina in cambio delle porzioni di Cisgiordania dove sono situate le principali concentrazioni di colonie ebraiche. Uno scenario che, temono i palestinesi della Galilea, potrebbe rivelarsi concreto con la legge approvata domenica scorsa dal governo Netanyahu, volta a definire Israele “Stato della nazione ebraica”. A differenza di molti suoi amici e conoscenti, Mohammed Kabaha, guarda le cose da un altro angolo. «Penso che lo scenario del transfer sia possibile. Tuttavia – aggiunge – dobbiamo concentrarci sulle cose immediate e credo che questa nuova legge stia mostrando al mondo intero il vero volto di Israele, ben diverso da quello che cercato di dare in tutti questi anni. E noi palestinesi (in Israele) dobbiamo essere pronti ad usare politicamente questa situazione per mettere fine alle discriminazioni del presente e del futuro». Sulla stessa lunghezza d’onda è il deputato Ahmad Tibi che, l’altra sera, commentava che «Tutti ora si concentrano su questa nuova legge ma la definizione sino ad oggi conosciuta di Israele, Stato ebraico e democratico, già era un problema serio per le minoranze, per chi non fa parte della maggioranza (ebraica) del Paese». Simili le considerazioni che giungono da varie ong ed associazioni israeliane, non solo arabe anche ebraiche, che, inoltre, cercano di sottolineare che sono diversi i punti critici della nuova legge. Non ultimo quello che proclama fonte di legge primaria il diritto religioso ebraico, superiore anche ai principi della democrazia. In sostanza, dicono gli attivisti dei diritti umani e civili, la legislazione e le sentenze dei giudici dovranno ispirarsi maggiormente ai valori ebraici, sarà sostenuta di più l’educazione ebraica, per impedire che Israele diventi uno Stato di tutti i suoi cittadini. Nessuno sa con quale testo finale la legge arriverà alla Knesset. Netanyahu ha annunciato domenica che medierà tra le varie posizioni per garantire da un lato che Israele sia definito “Stato della nazione ebraica” e dall’altro che sia assicurata l’uguaglianza di tutti i cittadini. Il carattere democratico, ha argomentato, è radicato. Invece il carattere ebraico, secondo il premier, anche all’interno di Israele, sarebbe messo in discussione dalla minoranza araba e da diverse ong. Netanyahu sostiene che gli arabo israeliani (come sono definiti ufficialmente i cittadini palestinesi, 20% della popolazione) intenderebbero creare propri Stati in Galilea e nel Neghev. «Quello dello Stato nello Stato è un pretesto creato ad arte per giustificare certe decisioni politiche figlie del sionismo più estremista – sostiene Maha Masri, una insegnante di Acri – tutti sanno che la minoranza araba in Israele vuole solo uguaglianza a tutti i livelli con i cittadini ebrei». Il disegno di Netanyahu e del ministro ultranazionalista Naftali Bennett, secondo l’insegnante, «è quello di fare del futuro Stato di Palestina (che potrebbe un giorno nascere in Cisgiordania e Gaza, ndr) un contenitore di tutti i palestinesi e di costruire un Israele senza più arabi al suo interno». Secondo altre interpretazioni, la nuova legge rappresenterebbe anche una risposta indiretta alla Corte Suprema che nei mesi scorsi ha annullato una norma anti-immigrazione in Israele. In futuro i giudici avranno le mani legate. Ai vertici dell’establishment politico ed istituzionale israeliano il dibattito si concentra sullo scontro tra Netanyahu e i sei ministri centristi capeggiati da 10 Tzipi Livni e Yair Lapid contrari al suo progetto. La legge solleva talmente tanti dubbi di legittimità democratica che persino due esponenti politici dichiaratamente sionisti come Livni e Lapid, si dicono non disposti ad appoggiarla e si aspettano che il premier consegni alla Knesset un testo molto più morbido rispetto a quello approvato domenica. Forti perplessità hanno manifestato anche il Procuratore generale dello Stato Yehuda Weinstein e i capi dell’opposizione di centrosinistra. E’ probabile, spiegano gli analisti, che Netanyahu stia cercando di guadagnare il consenso della parte più oltranzista della destra israeliana, perchè è uscito “non vittorioso” dall’offensiva contro Gaza della scorsa estate. Bennett lo tiene sotto pressione nei sondaggi. «Si parla con insistenza di elezioni anticipate e Netanyahu si rivolge al suo elettorato, al suo partito, facendo leva sui sentimenti più nazionalistici allo scopo di guadagnare voti» ‚ci spiega il giornalista Shimon Schiffer di Yediot Ahronot. «E i provvedimenti nei confronti dei palestinesi che (il premier) ha varato in questi giorni – aggiunge — e la nuova legge godono dell’appoggio di larga parte degli israeliani, sempre più spostati a destra». Del 25/11/2014, pag. 7 “Podemos”: è in Spagna il modello degli orfani della nostra sinistra Un po’ Tsipras,un po’ Grillo, il movimento nato dagli Indignados è primo nei sondaggi Un “partito” che aiuta i cittadini e combatte “la casta”: può funzionare in Italia? Francesco Olivo A Madrid non si parla d’altro: Podemos, la nuova formazione nata dalle piazze degli Indignados, è il primo partito secondo i sondaggi. Un successo fulmineo, che negli ultimi tempi ispira anche la sinistra radicale italiana. Il fenomeno Tsipras è, dalle nostre parti, un po’ in ombra, alle Europee non è andata bene, tanto che della lista che portava il suo nome si sono perse le tracce. Il modello vincente, o perlomeno di sopravvivenza elettorale, arriva adesso dalla Spagna. Un partito nuovo, è nato nel gennaio scorso, un leader, Pablo Iglesias, dall’eloquio affascinante e con un look giovanile, che non ha paura di farsi chiamare «segretario politico». Insomma, una sinistra che sa reinventarsi e che piace ai giovani, un esempio da seguire per chi a sinistra non digerisce le scelte di Renzi, ma non può accontentarsi dello scarso appeal di Sel. Gli altri partiti spagnoli si mobilitano «contro il populismo», accusa che richiama il dibattito italiano. Le somiglianze con i Cinque Stelle esistono, ma sono più di forma che di sostanza: uso abile dei social network, primarie online e sfida alla «casta» (in italiano). Il cavallo di battaglia di Podemos è la lotta all’austerità, con accenti duri, propri della sinistra radicale, ma senza ipotesi di uscita dalla moneta unica. Più Tsipras che Grillo, tanto che la maggior parte degli eletti al Parlamento europeo fa parte del gruppo guidato dal politico greco. Il successo, per ora virtuale, è arrivato velocissimo. Nemmeno il tempo di trovare una sede che non sia un sottoscala. Mentre prosegue la ricerca immobiliare, Podemos (in spagnolo «possiamo»), compie balzi incredibili. Secondo un sondaggio pubblicato ieri dal Mundo, il movimento avrebbe scavalcato popolari e socialisti, inedito assoluto nella storia politica del paese: 28,3%, più del quadruplo dei voti presi alle Europee, due punti in più del partito di Rajoy, con il Psoe dell’astro nascente Pedro Sanchez fermo al 20%. Il terremoto è totale, gli imprenditori sono spaventati, e serve immaginazione per realizzare che tutto nasca da questo scantinato a Calle de Zurita, venti metri quadri con saracinesca 11 sporca, nel cuore di Lavapiés, quartiere interetnico di Madrid. Un po’ stupita sembra anche Fabiola Lopez, volontaria che da sola presidia il locale, lo pulisce e risponde alle richieste dei cittadini: «Ha letto El Mundo? Siamo primi – spiega, mentre sposta tavoli e piega volantini - forse è tempo di spostarsi in una sede più adeguata. Ma non abbiamo finanziamenti pubblici, non abbiamo nessun eletto in Spagna, andiamo avanti con donazioni online e con il merchandising». Sulle quattro mura campeggiano fotografie dell’assemblea che ha proclamato segretario Iglesias, professore universitario con destrezza mediatica. Nella Spagna dilaniata dalla crisi, il nuovo partito acquista consensi anche con un ruolo di mediazione sociale: aiuta i cittadini nel pagamento delle tasse, nell’iscrizione alle liste di disoccupazione, pure gli stranieri vengono alla Calle de Zarita per chiedere una mano. Basta uno sguardo superficiale alle pareti per capire che lo slogan di Iglesias «né destra, né sinistra» sia un espediente retorico. Fondatori, volontari e simpatizzanti hanno storie e linguaggi di sinistra, tanto che a fare le spese del boom sono Izquierda Unida e socialisti. Se alle politiche del 2015 finisse così, si produrrebbe uno stallo simile a quello italiano, con tre partiti nemici che non possono governare soli. Il tema, quindi, è quello delle alleanze: «Con Podemos nessun accordo possibile», spiega il socialista Sanchez. Una grande coalizione con i popolari è impensabile. Un patto con il nuovo partito lo chiede a gran voce Izquierda Unida. «Andiamo insieme», dicono i baschi di Bildu. Loro tacciono e, nel dubbio, evitano di presentarsi alle amministrative della prossima primavera. 12 INTERNI del 25/11/14, pag. 2 Il patto del Nazareno ora rischia di saltare Renzi: “Avanti anche soli alla palude dico no” Dopo le elezioni regionali Berlusconi non garantisce la tenuta Contatti con il premier. Ritorna l’ipotesi del voto anticipato CLAUDIO TITO ROMA . «Io mi sono stancato di trattare. Di farlo con tutti. Così diventa una palude». Ci può essere già una prima vittima, al momento invisibile e non dichiarata ufficialmente, di questo terremoto elettorale che ha avuto il suo epicentro in Emilia Romagna. È il patto del Nazareno. L’accordo tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi sulle riforme. Sull’Italicum e sull’abolizione del Senato. Nessuno lo dice apertamente, ma le sue fondamenta rischiano di sbriciolarsi. La sostanziale implosione di Forza Italia sta infatti mettendo all’angolo la sostanza e la tempistica di quell’accordo. La disaffezione mostrata dalla tradizionale base del consenso Pd non aiuta certo a puntellare un edificio che già scricchiolava. Aprendo così uno scenario che in questa fase sembrava accantonato: le elezioni anticipate. Il premier lo ha capito e ha iniziato a adottare le precauzioni del caso. Lo ha fatto nel volo che lo riportava da Vienna e poi dal suo studio a Palazzo Chigi. Inviando allo stato maggiore forzista una serie di messaggi piuttosto netti: «Avanti con voi o senza di voi. Di certo non accetto la palude». Ha parlato con Denis Verdini e con Gianni Letta. Li ha quasi minacciati: «Noi andiamo avanti anche senza di voi, non stiamo dietro alle fobie di Brunetta. La riforma elettorale sta in piedi anche senza di voi». Ma il punto è proprio questo. È che la potenziale palude non può più essere prosciugata dal Cavaliere. Forza Italia ha più che dimezzato i voti in Emilia Romagna e anche in Calabria. Soprattutto nella regione rossa è stata doppiata dalla Lega di Salvini. Il Carroccio si sta trasformando nel “motore” del centrodestra e tra i forzisti è scattato il panico. Il partito è “balcanizzato”. Si è formata una corrente maggioritaria che punta esplicitamente a cancellare la leadership dell’ex premier. I gruppi parlamentari stanno assumendo sempre più una struttura “anarchica”: tutti vanno in ordine sparso. Berlusconi e i suoi luogotenenti non sono allora in grado di fornire alcuna garanzia sulle prossime scadenze parlamentari. Tanto da dover riformulare a Palazzo Chigi la richiesta già avanzata due settimane fa: «Serve un po’ di tempo». Oggi riuniscono l’ufficio di presidenza di Forza Italia per provare a correre ai ripari. Ma tutto appare più friabile. Del resto è proprio la dote del «tempo» che il presidente del consiglio a questo punto ha esaurito. Renzi rivendica il risultato di questa tornata amministrativa. Parla di due a zero, di vittoria. Ma sa che sotto il velo del successo da parte dei “suoi” governatori, si è accumulata una “polvere politica” difficile da spazzare. Anche il Pd ha perso nel giro di sei mesi oltre il 50% dei voti in termini assoluti andando ad ingrossare le file dell’astensionismo. Il capo del governo tutto può fare tranne che concedere un’altra dilazione. Anzi, deve serrare. Presentare ai suoi militanti un saldo concreto anche in vista come minimo - della successiva tornata amministrativa: quella primaverile con ben sette regioni. «La legge elettorale subito». Berlusconi, in realtà, vorrebbe rispettare il patto. È combattuto tra il “cerchio magico” e gli amici di sempre come Letta, Confalonieri e Doris. Il Cavaliere, però, non è più il «sole che illumina » come si definiva lui stesso. È una stella cadente cui pochi nei suoi gruppi 13 parlamentari credono ancora. Anzi, quasi tutti gli rimproverano l’«appiattimento » sul governo a guida Pd. Insomma, un vero e proprio corto circuito che sta minando le basi di questa legisla- tura già nata zoppa. Nel suo ufficio a Palazzo Chigi il segretario democratico ha iniziato a mettere in campo le contromisure. Vuole il sì all’Italicum entro dicembre o al massimo a gennaio. Teme più di ogni altra cosa il pericolo di subire la metamorfosi della lumaca: movimenti lenti nel terreno melmoso delle estenuanti e infinite negoziazioni. Ma senza i forzisti con chi può accelerare il passo? Nel pallottoliere del presidenza del consiglio già vengono associati alla maggioranza governativa una ventina tra ex grillini e grillini in via d’uscita. Anche la Lega di Salvini? «No, sarebbe un errore tattico rincorrerlo adesso. La legge elettorale funziona, loro devono decidere cosa fare. Noi andiamo dritto. Il Pd non è mai stato così forte e governiamo ovunque». Eppure il quadro è meno limpido di quanto lo voglia descrivere il premier. Perché i voti in Parlamento dei berlusconiani non sono così facilmente sostituibili sulle riforme. E la probabile prossima elezione del presidente della Repubblica offre a tutti i suoi avversari una formidabile arma di ricatto. Anche dentro il suo partito, dove il fronte della minoranza bersaniana ha ripreso fiato proprio dopo il “caso” Emilia. «Le elezioni - ripete però Renzi servono a indicare chi governa e non solo per contare quanti votano». E rispondendo proprio a Pierluigi Bersani ha un moto di stizza: «Di fronte a qualche Solone del giorno dopo che solleva il tema dell’affluenza alle urne in maniera strumentale, è il caso di ricordare che da febbraio a oggi il Pd ha riportato a casa quattro regioni. Non possiamo aspettare l’analisi del voto interessata di quelli che non hanno mai vinto ». In questi giorni, però, l’esecutivo dovrà affrontare un altro test: il Jobs act. «Alla fine osserva però il capo del governo su oltre trecento deputati oggi (ieri ndr.) hanno votato contro l’abolizione dell’articolo 18 solo in 17». Come a dire che il fronte interno non è così preoccupante. Ma lo diventerà quando si voterà a scrutinio segreto sul successore di Napolitano. E allora una legislatura tenuta in vita dall’ossigeno del patto sulle riforme, potrebbe improvvisamente rimanere senza fiato e precipitare nelle urne. Non è un caso che il vicesegretario del Pd, Lorenzo Guerini, ieri dicesse con una punta di malcelata soddisfazione: «Per noi Salvini è l’avversario ideale. Se lui è contento, lo siamo anche noi. E se domani ci fossero le elezioni politiche, ci basterebbe un’affluenza del 75% per arrivare al 50% dei seggi». E non può essere una semplice coincidenza che nei giorni scorsi il ministro delle riforme, Maria Elena Boschi, dicesse senza troppi giri di parole che si può tornare al voto «con due sistemi diversi»: l’Italicum alla Camera e il Consultellum al Senato. Anche dopo questo novembre è difficile mettere ancora in calendario il via libera alle riforme costituzionali: senza il sì dei forzisti, nessuno può pensare di condurre in porto l’abolizione di palazzo Madama. E le chance che tutto rotoli verso le elezioni anticipate stanno progressivamente aumentando. Con un grande ostacolo di mezzo però: le dimissioni di Napolitano e la scelta del nuovo capo dello Stato. del 25/11/14, pag. 1/4 DI STEFANO FOLLI Le 24 ore che hanno cambiato la legislatura Il voto di due sole Regioni ha terremotato la scena politica e costringe Renzi a correre 14 SI È capito il giorno dopo quanto il risultato dell’Emilia Romagna abbia cambiato lo scenario politico. L’agenda della vigilia, fatta di lente trattative intorno alle riforme in attesa che il patto del Nazareno offrisse il miracolo di qualche frutto concreto, è stravolta. Forse non poteva essere altrimenti. Il Pd è uscito dalle urne vincitore ma devastato. Quei 700mila voti persi sono un drammatico allarme. Obbligano Renzi a guardare cosa sta succedendo nella base del partito di cui è segretario e a correre ai ripari. Quanto a Berlusconi, l’altro contraente del patto, è il grande sconfitto del voto insieme a Beppe Grillo. Per ore il presidente del Consiglio ha enfatizzato la conquista dei due «governatori » a Bologna e a Reggio Calabria e ha definito «fatto secondario» la valanga dell’astensione. Voleva rassicurare se stesso e i suoi. Ma in cuor suo Renzi ha sempre saputo che le conseguenze del voto non sono positive: al contrario, sono destabilizzanti. Escludono, in ogni caso, che il «partito di Renzi» possa accettare il «tran tran» di riforme sempre annunciate e mai realizzate. Non è nella psicologia del personaggio e nel suo interesse politico. Del resto, la fuga dalle urne a Bologna anticipa una trappola parlamentare: quella che scatterà a Montecitorio il giorno in cui si comincerà a votare per il nuovo capo dello Stato, se Renzi arriverà a quella scadenza senza intese politiche credibili e senza strumenti per obbligare alla resa i più riottosi del suo partito. Quindi lo scenario è cambiato. È in corso uno sforzo del premier per verificare quanto Berlusconi sia in grado di controllare i suoi parlamentari e quanto abbia ancora voglia di essere fedele al patto. Su quest’ultimo punto, ci sono pochi dubbi: Berlusconi intende rimanere alleato di Renzi perché lì e non altrove è il suo interesse. Ma non è detto che ci riesca, almeno non nel modo determinato che Renzi considera oggi indispensabile. Il voto in Emilia Romagna ha dato il senso a molti parlamentari di Forza Italia che la partita è finita, che l’era di Arcore è conclusa, che il domani probabilmente appartiene a Salvini. Se non siamo al rompete le righe nel centrodestra, poco ci manca. Renzi si muove sul palcoscenico di questo singolare “day after” con l’ansia di arrivare presto a un risultato. Che oggi può essere solo la riforma della legge elettorale secondo lo schema tracciato nell’ultimo incontro con Berlusconi. Ma sono pochi quelli convinti che il centrodestra nel suo complesso abbia voglia di impegnarsi in tal senso. Il ragionamento è semplice: legge elettorale vuol dire elezioni anticipate a breve; Forza Italia è quasi azzerata, quindi non ha interesse a correre alle urne; ergo — si ragiona — perché dobbiamo fornire i nostri voti per consentire a Renzi di metterci un cappio intorno al collo? Al netto della spavalderia, il presidente del Consiglio sa di dover giocare una partita delicata. Può convincersi che le riforme si possono fare con il sostegno della sua maggioranza, più qualche transfuga «grillino» o altro. Eppure la riforma elettorale è una legge di sistema che difficilmente può vedere la luce a colpi di maggioranza. Specie quando la situazione all’interno del Pd — sempre a seguito dell’Emilia Romagna — è tutt’altro che serena. L’astensione ben oltre il 60 per cento ha creato un «buco nero» che è pericoloso irridere o minimizzare come episodio secondario o danno collaterale. C’è un pezzo di storia della sinistra italiana in quello sciopero del voto. E la sfida di Renzi con il suo «partito della Nazione» consiste nel non perdere consensi a sinistra prima di aver conquistato in modo stabile i voti moderati di una parte del centrodestra. Per ora l’obiettivo resta lontano. Commettere un errore nel dopo-Emilia Romagna significa pregiudicarlo per sempre. 15 del 25/11/14, pag. 3 Il premier minimizza “Astensione secondaria quello del Pd è un 2 a 0” ROMA . La valanga di astensioni? «La non grande affluenza è un fatto che deve preoccupare tutti ma che è secondario». Matteo Renzi minimizza le urne vuote in Emilia e Calabria ed esalta la vittoria del Pd, dato che in ogni caso «oggi non tutti i partiti hanno perso, e chi ha contestato le riforme del governo può valutare il risultato ottenuto». E se a caldo il premier ha commentato con un 2-0 la vittoria, il risultato definitivo diventa un cappotto se sommato alle ultime tornate elettorali: «Ci sono state, negli ultimi 8 mesi, cinque elezioni regionali: il mio partito ha vinto 5 a 0, e ci siamo presi quattro regioni dal centrodestra. Oggi una qualsiasi persona normale dovrebbe essere felice per questo». Siluro chiaramente diretto alla minoranza interna. «L’agenda di governo non cambia». Sulla lettura “calcistica” del voto ha però da ridire Roberto Saviano, «2-0 netto. La metafora calcistica è una costante della nostra classe dirigente. Cittadini tifosi, Parlamento stadio». Ma è dentro e fuori il Pd che si scatenano dure polemiche col premier, soprattutto per l’imbarazzante 37 per cento di votanti nella ex roccaforte “rossa” emiliana. Frutto anche della rottura di Renzi con la Cgil? L’esito del voto finisce per rendere più incandescente lo scontro con la Camusso. Per la leader della Cgil «nessuno può rivendicare risultati esaltanti, visto il crollo della partecipazione», convinta che l’astensione «sia frutto del livello di divisione e frammentazione nel paese creato nel paese». E al premier non perdona di aver messo sullo stesso piano la Lega, («ha asfaltato Forza Italia e Grillo», constata Renzi) e la Cgil, presentata come una specie di “altra faccia” del rifiuto al governo, e peraltro perdente (nei risultati di domenica esce male la sinistra filo Camusso). «È un paragone insultante», s’indigna la segretaria della Cgil. Per gli iscritti al sindacato, per l’azione quotidiana all’unificazione del mondo del lavoro che invece «le scelte del governo vogliono dividere». La Camusso rispedisce al mittente, con gli interessi: «Quando Renzi si permette di dire che Cgil e Lega sono la stessa cosa, non capisce che in Italia è in corso una lotta ad un razzismo di ritorno che non è solo sul colore della pelle ma anche sulla paura della povertà». Sulla stessa lunghezza d’onda anche Maurizio Landini. Renzi sbaglia a sottovalutare l’astensione. «Come fa uno a governare una regione, e più in generale un Paese — chiede polemicamente il segretario della Fiom — quando rappresenta un’assoluta minoranza?». del 25/11/14, pag. 6 Partito in rivolta contro Berlusconi Risultato sotto ogni aspettativa, non raggiunti nemmeno duecentomila voti. Fitto e decine di parlamentari chiedono l’azzeramento delle cariche. Oggi l’ex Cavaliere alla resa dei conti nel comitato di presidenza CARMELO LOPAPA 16 ROMA . Forza Italia è esplosa, del resto bastava una scintilla. Invece i 100.478 voti raccolti in Emilia (neanche il 9 per cento), sommati ai 95.935 in Calabria (sotto i 200 mila in totale, su 5 milioni e mezzo di votanti) appiccano un incendio. Silvio Berlusconi è tramortito da un risultato oltre le peggiori previsioni, la situazione gli sfugge di mano e rianima gli oppositori interni. Adesso di azzurro resta colorata una sola regione, la Campania di Caldoro che va al rinnovo in primavera. Raffaele Fitto e decine di parlamentari con lui invocano l’«azzeramento di tutte le nomine», vogliono radere al suolo e rifondare il partito, sottrarlo al cerchio magico. Matteo Salvini punta dritto allo scettro del centrodestra, «siamo la vera alternativa a Renzi». Così, mai come in queste ore la stessa leadership di Berlusconi è messa in discussione. Altri, da Brunetta a Minzolini, vorrebbero vedere stracciato il patto del Nazareno e la linea trattavista con Renzi. Il capo di Forza Italia invece quel patto vorrebbe difenderlo a oltranza, ma ha perso ormai il controllo dei gruppi. Il quadro è fin troppo chiaro, tanto che l’ex premier convoca per oggi pomeriggio il comitato di presidenza. Sarà l’estremo tentativo di riprendersi il partito, di «spianare » l’opposizione a modo suo, prima di cantarle pubblicamente in occasione della presentazione del libro di Bruno Vespa in serata. «Con questo attacco, nel momento per noi più delicato, Fitto e tutti i suoi si sono messi fuori dal partito, di certo la ricandidatura se la sognano», è stato lo sfogo carico di rabbia dopo la lettura della nota dell’eurodeputato pugliese. Berlusconi tace per tutto il giorno, dopo i controlli al San Raffaele fa giusto una puntata a sorpresa all’assemblea milanese dei conciatori. Si sente sotto attacco, nel classico bunker: «Se Fitto vuole sfidarmi, lo faccia apertamente, si prenda il partito se ne è capace». Oggi la resa dei conti ci sarà, ma stavolta a distanza: il capo degli oppositori interni resterà a Strasburgo per la visita di Papa Francesco al Parlamento europeo. Tornerà per la nuova prova di forza in programma giovedì a Roma, quando circondato da una quartina di parlamentari e centinaia di simpatizzanti dirà la sua al Tempio di Adriano. La lettura della disfatta regionale porta Berlusconi a individuare tre cause, ma nessuna responsabilità personale: «L’astensionismo senza precedenti » che colpisce tutti, ma loro soprattutto; il suo status di «prigioniero politico», i vincoli che gli hanno impedito di muoversi in campagna elettorale a differenza di Salvini e Renzi; infine, la linea della «responsabilità». «Io sapevo che il patto del Nazareno avrebbe avuto un costo e che a breve lo avremmo pagato, ma non sarebbe onesto se ora ci tirassimo indietro», ha ripetuto al telefono da Arcore ai dirigenti. «Non possiamo tenerci fuori dai giochi che contano», insiste riferendosi al Quirinale in ballo a inizio 2015. Il fatto è che tanti parlamentari non sono più disposti a seguirlo. Non solo Maurizio Bianconi e altri nemici dell’intesa col premier. «Bisogna rivedere il patto», gli dice anche il capogruppo Brunetta, «ripensare subito le nostre scelte sulle riforme », rincara un fedelissimo come Altero Matteoli. Ma è l’affondo di Fitto, seguito dagli attacchi di decine di altri “suoi” senatori e deputati, a destabilizzare Forza Italia. Parla di «risultato drammatico» nelle due regioni, di «clamorosi errori » che hanno portato la lista a essere doppiata dalla Lega in Emilia. «Sono stati persi sei mesi», insiste, ora bisogna «azzerare tutte le nomine per un vero rinnovamento ». Vuol dire cancellare i vertici nazionali, i capigruppo, i coordinatori regionali e ripartire dal basso, magari con le primarie anche per scegliere il nuovo leader. Dello stesso tenore altri, da Capezzone («Occorre una terapia choc») a Saverio Romano, dalla Bonfrisco a Minzolini («Cambiare linea e classe dirigente »). Berlusconi si trattiene, tace, il suo medico Alberto Zangrillo twitta in milanese quel che il capo di certo pensa: «Se fossi Berlusconi io vi direi, quella è la porta», è la traduzione. La replica ufficiale invece è affidata al consigliere Giovanni Toti: «Qui non si tratta di fare processi», anche perché «chi punta il dito è dirigente del partito da anni» e il riferimento è proprio a Fitto. Ma è la giornata in cui 17 Mariastella Gelmini predica cautela e invita a non dividersi, a «non beccarci come i polli del Manzoni», e in cui anche Gasparri apre alle primarie. In fondo, che tutto un mondo stia venendo giù lo si capisce anche ascoltando l’amazzone d’un tempo, Michaela Biancofiore. «Niente coltelli alla gola a Berlusconi — spiega — ma la verità è che Forza Italia va rifondata». del 25/11/14, pag. 7 Matteo Salvini. Il leader del Carroccio si candida alla guida della destra: “Pronto a correre alle primarie” “Noi i soli a crescere andiamo ora alle urne e vediamo chi vince” RODOLFO SALA Da Matteo a Matteo: «Caro Renzi, a questo punto andiamo a votare; se ti senti così forte conviene anche a te, meglio così che tirare a campare: io sono pronto». È il messaggio del leader della Lega dopo la performance delle elezioni in Emilia Romagna: secondo partito in Regione, 20 per cento contro l’8 di Forza Italia. Onorevole Salvini, partiamo proprio dai risultati. «Sono straordinari. Abbiamo eletto nove consiglieri regionali, mai vista una cosa così in Emilia». E l’astensione? «È una sconfitta per tutti, anche per me che pure ho vinto. Per questo adesso i nostri consiglieri devono mettersi pancia a terra per mantenere gli impegni presi e pescare in quel 60 per cento che non ha votato». Avete preso 233 mila voti... «Erano 116mila nel maggio scorso: nonostante il forte astensionismo abbiamo raddoppiato i consensi, siamo gli unici col segno più. se si considerano i dati assoluti. E se guardiamo i flussi...». Già. Uno studio dell’Swg dice che 36mila voti vi arrivano da ex elettori del Pd, 35mila dai grillini, 49mila da Forza Italia e 30mila dal non voto. Quasi un quinto del vostro elettorato emiliano è costituito da gente che alle europee aveva votato Berlusconi. «Quest’ultimo non è un dato molto significativo, i nostri elettorati sono abbastanza contigui. Preferisco sottolineare che migliaia di elettori del Pd e dei 5Stelle stavolta hanno scelto un partito lepenista, razzista, fascista, per stare a come ci dipinge la sinistra». Però Forza Italia è scomparsa, ed è questo a rafforzarvi. Chissà che dispiacere per Berlusconi: l’ha sentito? «Domenica c’era il derby, e il Milan purtroppo non ha vinto. Silvio sarà di cattivo umore, ci sentiremo più avanti». Che cosa si aspetta dall’ex Cavaliere? «È una persona intelligente, non ha bisogno dei consigli di Salvini. A breve presenteremo le nostre proposte economiche, a partire dall’aliquota unica dell’Irpef che favorisce i meno abbienti. Spero che Forza Italia la sostenga. E la smetta di tenere un piede nella maggioranza e l’altro all’opposizione. Basta col Nazareno. E, in vista delle future alleanza, basta con Alfano, che sostiene Renzi». Ecco, l’altro Matteo. A lui che cosa dice? 18 «Che noi siamo pronti, che bisogna andare a votare. Non vorrei che il Paese restasse ostaggio dei continui litigi nel Pd. Succedeva anche nel centrodestra, quando eravamo al governo, sto rivedendo la stessa fotografia. Andiamo alle urne, e vediamo chi prende il 51 per cento». Tra voi due? «Renzi c’è già, è lì. E il suo sfidante deve essere scelto dagli italiani, non dalle segreterie dei partiti. Insomma, ci vogliono le primarie, una cosa ottima che io riconosco alla sinistra. Dopodiché, se serve, e con tutti i miei limiti, io sono a disposizione. Del resto l’anno scorso i giornali davano per morta la Lega, mentre adesso mi dipingono come un genio. Sbagliavano allora e sbagliano oggi, ma siamo pronti a dare un senso alla nostra battaglia». Nel weekend lei vedrà Marine Le Pen a Lione. Per fare che cosa? Per gettare le basi dell’Europa che verrà. Non quella delle banche, ma dei produttori». A Madame Le Pen stanno arrivando un bel po’ di soldi da Putin... «Buon per lei, la invidio. Noi abbiamo 70 dipendenti in cassa integrazione». Magari qualcosa l’ex capo del Kgb ve l’ha offerto, o no? «Ma quando mai. Comunque io le battaglie le faccio non perché Putin mi regali dei soldi, ma perché sono giuste. E lo è quella contro le sanzioni alla Russia, che per l’Italia significano cinque miliardi di esportazioni mancate. E poi lui è il migliore alleato dell’Europa contro il terrorismo islamico, non è certo un nemico». Venerdì il federale della Lega dovrà discutere del nuovo “contenitore” da lanciare nel centro-sud. Ci sarà il suo nome nel simbolo? «Questo mi stanno chiedendo. Ne terrò conto, nel Meridione ci sono 40mila persone pronte a impegnarsi al nostro fianco ». Fabrizio Cicchitto, del Ncd, dice che Salvini politicamente fa schifo... «Che cosa brutta, legittima le violenze che abbiamo subito in campagna elettorale». del 25/11/14, pag. 11 Da Pd, 5Stelle e Ncd astensioni record Studio del Cattaneo sul boom della disaffezione. Rispetto alle europee il movimento di Grillo cede 7 voti su 10, i democratici la metà, Forza Italia un quinto. Per la prima volta i disertori delle urne sorpassano le schede valide SILVIO BUZZANCA ROMA . Una Caporetto su tutta la linea. Il voto regionale di domenica segna in Emilia Romagna un vero e proprio spartiacque. Perché, spiega l’Istituto Cattaneo nella sua analisi sui flussi elettorali, per la prima volta il numero dei voti validi, 1.200.000, è inferiore a quello delle astensioni: 2.150.000. Cifre che, per fare un paragone, valgono 4 volte i 535 mila voti ottenuti dal Pd. Che rispetto alle Europee ha lasciato sul terreno 667 mila 283 voti. Una perdita pari al 55,9 per cento del bottino delle Europee. Dovrebbe bastare questo per preoccupare il mondo politico. Ma il Cattaneo segnala anche un’altra prima volta: domenica l’affluenza al 37,7 per cento straccia il record negativo relativo alle regionali del recente voto sardo dove si era toccata quota 40,9 per cento. Un risultato che ha dell’incredibile in una regione dove l’affluenza non era mai scesa sotto il 19 68 per cento. Infine, ciliegina sulla torta, ancora per la prima volta il presidente della Regione viene eletto con una percentuale inferiore al 50 per cento. I ricercatori del Cattaneo segnalano che questi risultati potrebbero essere il frutto della disaffezione dopo gli scandali dei rimborsi regionali, la ricaduta dello scontro fra Renzi e la Cgil, lo scarso appeal del candidato leghista del centrodestra e l’incapacità dei grillini di intercettare la protesta. Tutte motivazioni che si possono leggere nell’analisi dei flussi elettorali che il Cattaneo ha elaborato usando i dati della città di Parma e confrontandoli con quelli delle recenti Europee. E allora c’è da segnalare l’85 per cento perduto verso l’astensione dal Ncd di Angelino Alfano. Meglio non va Fratelli d’Italia che cede il 42,8 per cento al non voto e il 42,7 alla Lega. Ma in termini assoluti sono stati i grillini, ben più consistenti del Ncd, a cedere la quota maggiore di consensi al partito dell’astensione: meno 284.480 voti che equivalgono al 69,2 per cento del bottino europeo. Un po’ meglio, se così si può dire, del meno 76,3 per cento fatto segnare in Calabria. Inoltre i grillini cedono il 4,7 alla Lega e l’1,7 per cento alla sinistra. Unica consolazione un più 25 per cento rispetto alle regionali del 2010. Subito dopo in questa preoccupante classifica si piazza il Pd che cede alle astensioni quasi metà del suo risultato europeo: il 49,6 per cento. Il resto che manca all’appello va alla sinistra, 3,4 per cento, alla Lega, 3,8 per cento, e al M5S, 1,7 per cento. Alla fine vuol dire che il partito di Renzi ha confermato solo il 37,2 per cento del suo voto europeo. Ancora più altro il contributo alle astensioni che arriva dalla sinistra: 54,5 per cento, con una conferma del 34,4 per cento e una trasmigrazione del 3,4 per cento verso Ncd. Solo lo 0,8 per cento è invece andato verso la Lega. Il risultato di Forza Italia, meno 63,1 per cento rispetto alle Europee, meno 171. 472 voti in termini assoluti, si spiega con una fuga generalizzata dall’ex Cavaliere rispetto alle Europee. Il grosso, il 35,2 per cento ha scelto ha deciso di trasmigrare armi e bagagli verso la Lega di Matteo Salvini. Il 22,5 per cento si è rifugiato nell’astensione, ma c’è anche un 10 per cento che ha scelto il Pd e Matteo Renzi. Infine ci sono i vincitori. Almeno così li definisce il Cattaneo. E sono i leghisti. Anche se con qualche ombra. Infatti il Carroccio in voti assoluti non riesce a raggiungere la cifra ottenuta nel 2010. Ma alla fine doppia i forzisti, pagando un contributo del 27,2 per cento all’astensione, cedendo pochissimi alla sinistra, 1,7 per cento, e l’1,9 per cento al Ncd. In pratica Salvini vince conservando il 65,9 per cento dei voti che aveva ottenuto alle Europee e risucchiando voti un po’ a tutti. Del 25/11/2014, pag. 1-15 Le città ingovernabili, il collasso della democrazia Mal comune. Da Pisapia a De Magistris, da Doria a Marino, da Orlando a Pizzarotti, non c’è più un sindaco eletto sull’onda ed il bisogno di una svolta radicale che oggi non sia in crisi di consensi Tonino Perna Italo Calvino avesse scritto oggi il suo insuperabile «Le città invisibili» avrebbe incluso probabilmente un capitolo dedicato alla «città ingovernabile». Questa è infatti la condizione della gran parte delle città italiane negli ultimi cinque anni, da quando la crisi economica ha prodotto crescente disoccupazione, precarietà, disagio e paura crescenti. 20 Da Pisapia a De Magistris, da Doria a Marino, da Orlando a Pizzarotti, non c’è più un sindaco eletto sull’onda ed il bisogno di una svolta radicale che oggi non sia in crisi di consensi. Persino Renato Accorinti, eletto a Messina a furor di popolo un anno e mezzo fa, il sindaco con la maglietta «No Ponte», icona della pace e della difesa dell’ambiente, è oggi a corto di consensi nella sua città malgrado i risultati conseguiti. Esattamente venti anni fa si inaugurava la cosiddetta «stagione dei sindaci», partendo dalla rinascita della Napoli di Bassolino, passando per la primavera della Palermo del primo Orlando, e poi ancora Bianco a Catania e Falcomatà a Reggio Calabria, per citare i casi più famosi. Coincideva anche con una stagione di risveglio delle popolazioni meridionali a sostegno dei propri sindaci che avevano dato segni concreti di buon governo dopo la fallimentare gestione democristiana. Non a caso tutti rieletti al secondo mandato. Oggi sarebbe impossibile. Da una parte, i tagli dei trasferimenti statali ai Comuni, inaugurati dal governo Monti e portati alle estreme conseguenze da Renzi, dall’altra un debito insostenibile ereditato dalle amministrazioni passate, rendono impossibile rispondere ai bisogni crescenti della cittadinanza. Crisi economica e tagli ai bilanci comunali si traducono in una morsa che impedisce di rispondere a un disagio sociale crescente e, soprattutto, all’insofferenza. Gli abitanti delle periferie sono diventati ansiosi e intolleranti dopo aver sopportato decenni di abbandono e degrado. Infatti, bisogna ricordarlo, anche durante la cosiddetta «stagione dei sindaci» le periferie urbane, di Roma, Napoli o Catania erano rimaste sostanzialmente esterne alla riqualificazione urbana diretta soprattutto ai centri storici. Ma, non c’era la pesantezza di questa crisi e le popolazioni delle periferie si aspettavano ancora di essere incluse nel processo di rinascita cittadino. C’era ancora la speranza. In questi anni è stata seppellita. Oggi non si dice più «piove governo ladro», ma per ogni guasto sociale e ambientale il «punching ball» è il sindaco. Doria a Genova e Marino a Roma, solo per citare gli ultimi casi, avranno pure le loro mancanze ma sono stati messi alla gogna come gli unici responsabili del disastro dell’alluvione o del degrado/razzismo dei quartieri periferici. E non sono fenomeni isolati, ma destinati ad allargarsi perché il governo Renzi ha una strategia politica chiara: scaricare sugli enti locali il costo della crisi e del debito pubblico insostenibile. Ed è una strategia che funziona. I tagli alla sanità pesano sulle Regioni che si trovano di fronte una forte opposizione sociale alla cosiddetta «razionalizzazione dell’offerta ospedaliera» che comporta la chiusura di decine di ospedali per ogni regione. I tagli ai comuni si abbattono sui servizi sociali, i mezzi di trasporto locale e, soprattutto, aumentano le imposte locali. Quasi tutte le amministrazioni comunali sono diventate le più odiate dai commercianti, dai proprietari di case, dai soggetti deboli privati dell’assistenza necessaria. Risultato finale: lo scollamento/scontro tra popolazioni ed amministrazioni comunali porta al collasso della democrazia reale, perché è proprio a livello locale che è possibile praticare forme di democrazia partecipativa, di gestione dei Beni Comuni , di autogoverno. Viceversa tutte le cose positive le fa Renzi. E non solo gli 80 euro. Vorrei citare un fatto recentemente accaduto. In provincia di Cosenza una organizzazione cattolica, il Banco delle Opere di Carità, in collaborazione con diversi comuni collinari e montani, sta distribuendo gratuitamente la frutta alle popolazioni di questi comuni periferici (mele, prugne,ecc.) come sostegno economico alle fasce territoriali più povere. Si è sparsa la voce che questo insolito provvedimento (di solito la frutta che non si vendeva finiva sotto il trattore) sia opera del governo, e così la gente dice : «È arrivata la frutta di Renzi». Naturalmente c’è sempre il rovescio della medaglia. L’attacco al sindacato e ai lavoratori che scioperano toglie consensi al premier, ma non va sottovalutato il fatto che la strategia principe di Palazzo Chigi è tipica di un’azienda capitalistica: esternalizzare i costi, sociali ed ambientali, e internalizzare i profitti (consensi in questo caso). Per questo gli amministratori locali che rischiano in prima persona dovrebbero unirsi contro questo governo con più 21 forza e determinazione di quello che finora hanno fatto, a partire dalla richiesta di ristrutturazione dei debiti ereditati e non più sostenibili. del 25/11/14, pag. 1/13 Anche la partecipazione elettorale per la prima volta è stata più alta al Sud che nella storica roccaforte Pd Non si va più alle urne per confermare un’identità Quando l’elettore non fa più atti di fede così la Calabria si scopre più rossa dell’Emilia ILVO DIAMANTI NON c’è più religione. Almeno nel rapporto fra elettori e partiti. Il voto non è più un atto di fede, che si replica di volta in volta, per confermare la propria identità e la propria appartenenza a un sistema di valori, a una rete associativa e mondo di relazioni. Lo sapevamo già da tempo, ma mai era apparso così evidente come in queste elezioni regionali in Emilia-Romagna e in Calabria. Due idealtipi diversi e opposti, avevamo scritto. L’Emilia Romagna, stabilmente “rossa”, di sinistra. Grazie ai legami fra partiti di sinistra – comunisti e postcomunisti - e società. La Calabria, instabile e frammentata, dal punto di vista sociale e del comportamento di voto. Stavolta si sono scambiate orientamento e posizione. Per la prima volta nella storia repubblicana, la Calabria è più “rossa” dell’Emilia Romagna. In Calabria, Mario Oliverio, candidato del Centrosinistra, ha vinto con il 61% dei voti validi. Mentre Stefano Bonaccini, anch’esso candidato dal Centrosinistra, in Emilia Romagna, è stato eletto Governatore con il 49%. Per la prima volta, inoltre, la partecipazione elettorale è risultata più alta in Calabria che in Emilia Romagna. Ma, forse, converrebbe dire “meno bassa”. Infatti, l’affluenza alle urne, in Calabria, ha raggiunto il 44%: quasi 2 punti meno delle Europee dello scorso maggio, ma 15 meno delle Regionali del 2010. Sufficiente, però, a superare l’Emilia Romagna, dove la quota dei votanti, in questa occasione, è crollata sotto il 38%. E, dunque, 32 punti sotto alle recenti Europee e 30 meno delle Regionali del 2010. L’Emilia Romagna, dunque, non è più “rossa”. Non ha più un’identità diffusa, che dia un colore politico al territorio. Certo, il cambio d’epoca era già avvenuto in passato. Anzitutto e soprattutto, a Bologna, nel 1999, quando Giorgio Guazzaloca venne eletto sindaco, alla testa di una coalizione di centro-destra. Ma si era colto anche nel 2012, a Parma, dove, alle municipali, Federico Pizzarotti venne eletto sindaco, nelle liste del M5s. Ma questa volta è diverso. Perché non è avvenuto alcun ribaltone. Il candidato del Centrosinistra, Stefano Bonaccini, ha vinto largamente, sfiorando la maggioranza assoluta dei votanti. Lasciando a grande distanza gli sfidanti. Il leghista Alan Fabbri, capolista del Centrodestra (circa il 30%) e l’esponente del M5s, Giulia Gibertoni, poco sopra il 13%. Eppure oggi, più che della sua vittoria, si parla dell’astensione. Ed egli appare un Governatore a metà. Indebolito dall’avanzata del non-voto. Che molti elettori hanno usato come un “voto”. Un segno di dissenso o di distacco. Dalle analisi elettorali condotte dall’Istituto Cattaneo di Bologna – limitate alla città di Parma – appare evidente, infatti, che, rispetto al voto europeo, il flusso verso l’astensione ha coinvolto soprattutto il Pd (oltre il 15%). Ma non solo. Perché ha colpito in misura molto pesante anche il M5s: 8%. E, in misura marginale (1-2%), anche altri partiti, da destra (Ncd, Fi, Ln) a sinistra (Sel). Ciò segnala il rilievo 22 assunto dal sentimento di distacco verso la politica. Enfatizzato, in Emilia Romagna, dai legami fra il Partito e la società. Negli ultimi anni, d’altronde, il cedimento del retroterra della Sinistra era già emerso, evidente. In particolare, alle elezioni politiche del 2013, quando il M5s aveva eroso la Zona Rossa. Allora, il Pd, in Emilia Romagna, aveva ottenuto un “modesto” (per le tradizioni della regione) 37%. Risalendo, però, al 53% alle Europee di pochi mesi fa. Grazie al contributo “personale” di Renzi. A-ideologico ed estraneo alla tradizione comunista e postcomunista. Lontano dai miti e dai riferimenti della sinistra – storica. Ormai “sinistrati” (per citare un saggio di Edmondo Berselli, profondo conoscitore dei vizi della sinistra e dell’Emilia). Se alle Europee il Pd e il post-Pd si erano aggregati intorno a Renzi, questa volta sono entrati in contrasto. E se pochi elettori hanno abbandonato il Pd per un altro partito, molti hanno, semplicemente, rinunciato a votare. Tuttavia, ciò non ha dis-integrato il PD(R). Che ha, comunque, ottenuto il 44% - cioè, 4 punti più del 2010 (pur perdendo 300 mila voti). Mentre il neo-governatore, Bonaccini, si è fermato a 3 soli punti da Errani. Questa elezione, semmai, enfatizza la fine di una stagione politica all’insegna dell’appartenenza. Del voto come “fede” radicata sul territorio. Un passaggio d’epoca sottolineato dalle elezioni politiche del 2013 e dalle Europee di maggio. Quando il M5s e il PD(R) hanno ottenuto consensi distribuiti in tutto il territorio nazionale. In modo omogeneo. Così, stavolta, la stessa Lega, il partito territoriale per eccellenza, ha ottenuto un risultato molto rilevante: 19,4%. Ma senza scendere sotto il 15% in nessuna provincia. Neppure a Bologna e Rimini. FI, invece, è crollata ovunque. Ridotta a meno di metà della Lega. (E in Calabria si è fermata al 12%.) Un “partito personale”, incapace di sopravvivere al declino del Capo, Berlusconi. Oscurato dall’alleanza con un leader, Salvini, più visibile e giovane di lui. Un altro segno di questo passaggio d’epoca. Che non garantisce più certezze. Come avviene in altre democrazie rappresentative. Così, anche noi dovremo abituarci – o, almeno, rassegnarci - a considerare il voto un diritto e non un obbligo. E a valutare l’astensione, il non-voto, non come una malattia della democrazia. Ma una scelta - o una non-scelta. Perché oggi “non c’è più religione”. Votare non è più ritenuto un dovere morale e sociale. Riflesso di un’identità. E ogni elezione diventa una competizione aperta. Per vincerla, bisogna offrire agli elettori buone ragioni per votare un partito o un candidato. Ma, prima ancora, per votare. del 25/11/14, pag. 10 Una sola donna in consiglio, il record negativo della Calabria Bersaniana la maggioranza di Oliverio. Ncd supera la prova e attacca Pascale per le divisioni nel centrodestra DAL NOSTRO INVIATO COSENZA Calabria, regione di veri uomini: su trenta nuovi consiglieri regionali, una donna. Al massimo due, quando sarà interpretata la bizantina legge elettorale e si deciderà se la candidata presidente berlusconiana, la sconfitta Wanda Ferro, potrà avere un posto in consiglio. L’unica donna eletta, Flora Sculco, è figlia di un uomo politico, Enzo Sculco, già consigliere regionale della Margherita, che alla richiesta di restituire, a seguito di una condanna per concussione, 100 mila euro di vitalizi, rispose: «Me ne fotto». Niente da fare — restando alle parentele — per Antonietta Stumpo, sorella di Nico (già potente capo dell’Organizzazione del Pd bersaniano), vittima a Crotone della freddezza dei renziani. E niente da fare, passando al centrodestra, per Giacomo Mancini jr., nipote e 23 omonimo del segretario socialista degli Anni 70. Il padre, Pietro Mancini, ieri ha accusato direttamente la politica di Forza Italia in Calabria «delegata da Berlusconi alla sua giovane compagna Francesca Pascale». Per il resto, i calabresi hanno stroncato tutti gli uomini dell’Udc (qui in alleanza con il Nuovo centrodestra). E hanno stroncato quasi tutti i profughi dal centrodestra che avevano trovato posto nelle liste del nuovo presidente di centrosinistra, Mario Oliverio: bocciato anche Elio Belcastro, ex sottosegretario nel governo Berlusconi. Il trionfatore è Oliverio, che ora ha sulle spalle la Regione più disastrata d’Italia per criminalità, disoccupazione, povertà. Venerdì torna in Calabria Renzi e sarà l’occasione per stabilire un patto con il governo. Oliverio si è iscritto al Pci di Berlinguer nel 1972, quando Renzi non era ancora nato e ha vinto con tanti punti di percentuale quanti sono i suoi anni, 61. Pensa che con i sindacati «si debbano affrontare questioni di merito, senza ideologie». Renzi ci sta mettendo un po’ di ideologia? Oliverio alza gli occhi al cielo, non è il caso di fare polemiche adesso. Qui in Calabria ha vinto la «ditta» di Bersani e D’Alema e su 19 nuovi consiglieri di maggioranza i renziani sono al massimo tre, dell’ultima ora peraltro. Il secondo successo delle Regionali calabresi è del Nuovo centrodestra. Il partito di Alfano ha superato il quorum dell’8%. Racconta il senatore Antonio Gentile, plenipotenziario a Cosenza con il fratello Pino: «Quagliariello e Verdini avevano concluso l’accordo elettorale con Forza Italia, quando ci fu un’interferenza di natura femminile...». Francesca Pascale? «Lei e il cerchio tragico di Berlusconi e quella poveretta di Iole Santelli, che gestisce FI in Calabria. A quel punto Quagliariello ha provato con il Pd, ma Oliverio ha rifiutato l’accordo e siamo rimasti soli con quei poveretti dell’Udc, che non hanno dato un grande contributo...». Andrea Garibaldi Del 25/11/2014, pag. 1-15 Se la politica è simulacro non c’è società possibile Seconda repubblica. La «transizione italiana» ormai si fa costituente. Il paese in mezzo ai quattro punti cardinali è sofferente. Tra la via «ungherese» di Salvini e il «trasversalismo» di Grillo, la svolta «carismatica» di Renzi e la rotta «rappresentativa» della Cgil non c’è più alcuna continuità con il recente passato. Ogni argine è rotto. E la sofferenza dilaga Aldo Bonomi Negli ultimi mesi la politica italiana si è costellata di eventi che le hanno impresso un’accelerazione potente. Se non fosse che il termine è abusato, verrebbe da dire che siamo nel pieno di una fase costituente. Perché è tutto l’assetto dei rapporti tra politica e società che è in fibrillazione accelerata: al capolinea sono le forme di quel postfordismo italico fatto di capitalismo molecolare e concertazione con cui il paese ha gestito la sua lunga uscita dal fordismo e dal sistema dei partiti di massa cresciuti dentro la geopolitica dei blocchi. Il nodo dello scontro non è oggi tra le «due sinistre» o i «due Pd»: sinistra è oggi uno spazio da ridefinire. Riguarda invece, direttamente, le forme del rapporto tra politica, statualità e nuova composizione sociale dei lavori. In un bel libro uscito qualche mese fa, W.Streeck ha scritto che il capitalismo dagli anni ’70 non ha fatto altro che «guadagnare tempo». Inflazione, debito pubblico, finanziarizzazione subprime, sono stati modi 24 per rinviare il momento in cui prendere atto che un divorzio tra mercato e democrazia era in atto. In Italia abbiamo usato i nostri mezzi, peculiari: debito e occupazione pubblica a finanziare la cetomedizzazione dipendente, svalutazione, patto fiscale e territorio messo al lavoro per far crescere il capitalismo dei piccoli come blocco sociale capace di stare sul mercato; concertazione per dare un minimo di vertebre ad un paese il cui ceto dirigente era stato spazzato via dal vento di Tangentopoli. È stato un successo con cui abbiamo scavallato per un ventennio la fine della grande impresa pubblica e privata, ossatura del boom nel dopoguerra. Ricordo che dai ranghi del capitalismo molecolare è uscito il drappello di medie imprese globali sulle cui spalle oggi si regge la tenuta di larga parte dell’infrastruttura manifatturiera del paese. Oggi quella finestra storica si sta chiudendo. La «via italiana» al guadagnare tempo è terminata e gli 80 euro o il Tfr in busta paga non basteranno. Dentro il meccanismo europeo e della governance globale di tempo da guadagnare ce n’è sempre meno. Tocca sperimentare la fatica di ripensare un nuovo modello e un nuovo assetto nei rapporti tra società e politica se vogliamo uscirne in piedi. Il fatto è che per un ventennio, la cosiddetta «seconda repubblica», la politica italiana ha vissuto di simulacri delle culture politiche novecentesche: la reinvenzione del comunismo, la socialdemocrazia senza socialismo, il liberismo solo proclamato del centro-destra (visto che le vere privatizzazioni e liberalizzazioni le ha per lo più fatte l’altra parte), la società di mezzo delle rappresentanze a concertare una redistribuzione che già negli anni ’90 era a risorse decrescenti e senza più fabbrica. Oggi i nodi vengono al pettine e le fibrillazioni si moltiplicano. I quattro eventi politici delle ultime settimane a loro modo esprimono la drammaticità e l’accelerazione di questo passaggio, ciascuno prefigurando una possibile linea di uscita. La via ungherese –più che francese– della lega verde-bruna di Salvini, il radicalismo trasversale di Grillo con un occhio ai beni comuni e l’altro all’anti-immigrazione, la modernizzazione carismaticotecnocratica di Renzi con il doppio richiamo alle start-up e ai grandi flussi del capitale globale, la rappresentanza dei sofferenti materializzatasi nella piazza della Cgil. Con Berlusconi in mezzo, moderno Re Travicello. Quale via d’uscita prevarrà non sarà questione di vecchio o nuovo ma di chi mostrerà capacità di «connessione sentimentale» con una composizione sociale del paese frammentata e smarrita ma allo stesso tempo desiderosa di ricominciare a mangiare futuro. Prevarrà il partito della nazione o il partito nazional-populista? Il populismo internettiano e territoriale di Grillo o il «popolo» del sindacato? Se si guarda a quanto accaduto sabato 25 ottobre a Roma non si può non vedere una discontinuità storica rispetto alla manifestazione del 2002: i 3 milioni di Cofferati volevano essere la classe che poggiando sulla concertazione premeva sulla politica. Il milione della Camusso e di Landini oltre all’aspetto politico, rappresentano soprattutto il sindacato che si fa sociale in crisi, che prova a polarizzare e rappresentare la sofferenza sociale diffusa rispetto all’impatto della crisi. A San Giovanni c’era ciò che resta della forza propulsiva di Cofferati: pensionati, senza lavoro, tempi indeterminati senza più sicurezze, precari, esodati, ecc. Questo mi pare l’elemento nuovo da capire e valutare nel suo possibile divenire. Il venir meno della concertazione neocorporativa che aveva messo le braghe al paese nel ciclo precedente, rende impossibile riproporre una versione aggiornata dei grandi patti sociali fordisti senza più né fordismo né classe sociale. È l’eclisse della società di mezzo, per dirla con De Rita. Oggi ci sono i tavoli della «Leopolda» ma sono un’altra cosa: il thinktank del leader. In parte assemblea in parte meccanismo di reclutamento di nuove élite, i tavoli di Firenze sono la chiamata a raccolta delle tribù attorno al leader per costituire il suo cerchio magico. È il nuovo soggetto politico che nasce, non la concertazione. Un evento costituente di una forma politica la cui vera forza è la capacità del leader unico di ricostruire «in proprio» la capacità rappresentativa dei soggetti sociali da parte della poli25 tica oggi in crisi. A maggior ragione dopo il voto di domenica, è la crisi della rappresentanza, dunque, il tema da affrontare. Perché se la statualità è sempre più artefice e garante del nuovo capitalismo mercantile e sempre meno centro redistributore delle risorse, la funzione della società politica cambia. In questo quadro, che alcuni definiscono ormai postdemocratico, a me pare che il tema di fondo della politica sia ricostruire trama sociale, fare società dentro la transizione, ricostruire i tessuti connettivi tra società e politica. Claudio Napoleoni diceva che tra economia e politica va posta la società. Questo è l’unico modo per comporre una frattura tra «sofferenti» e «innovatori» che oggi mi pare molto ideologica, visto che molti degli innovatori, soprattutto se giovani guadagnano, quando va bene, 1.200 euro al mese e i sofferenti sono depositari di una cultura politica e produttiva che ha retto e regge l’industria del paese. La divaricazione tra questi due bacini di composizione sociale non salverebbe l’art. 18 né servirebbe a «modernizzare» il paese ma aprirebbe le porte alle altre due vie di uscita, probabilmente più capaci di raccogliere un conflitto che in assenza degli argini della rappresentanza da collettivo si fa molecolare. Se la politica si fa simulacro, gli ultimi giorni ci dicono che occorre tornare a raccontare il sociale e le sue sofferenze. Del 25/11/2014, pag. 6 Solo un decimo del Pd dirà «no» Jobs act. La minoranza «non dialogante» ascolterà una delegazione di operai. Non passa l’emendamento salva articolo18. Stasera o domani il via libera della Camera. Speranza e Damiano: abbiamo evitato la fiducia. Airaudo (Sel): è un’autodelega al governo Dubbi di costituzionalità sulla delega Massimo Franchi Votare «No» o uscire dall’aula. L’amletico dubbio percorre la minoranza — quella non dialogante — del Pd rispetto al voto finale sul Jobs act previsto per questa sera o al massimo domani mattina. La decisione verrà presa in una riunione prevista all’ora di pranzo. Quanti saranno i dissenzienti? Non arriveranno ad una trentina su un totale di 308: meno del 10 per cento. E di certo non avranno effetti sull’esito di un voto scontato e blindato. A convincerne qualcuno in più proverà una delegazione di una cinquantina di Rsu Fiom del nord Italia che già un mese fa aveva chiesto all’ex segretario Cgil Guglielmo Epifani di «non rottamare lo statuto dei lavoratori». Epifani non gli ha mai risposto. Il tutto mentre i «dialoganti» dell’area riformista gridano al miracolo per aver evitato l’ennesima fiducia posta dal governo. «Ha vinto il Parlamento che ha migliorato la delega grazie al lavoro della commissione», sostiene il capogruppo Roberto Speranza. «Contrariamente alle previsioni di alcuni profeti di sventura, non solo abbiamo cambiato nel profondo la delega sul lavoro con 37 emendamenti, ma abbiamo anche evitato la fiducia», ribadisce Cesare Damiano. «In realtà siamo stati noi, riducendo il numero degli emendamenti, ad evitare la fiducia — spiega Giorgio Airaudo di Sel — . Nel gruppo del Pd in aula intervengono solo quelli della commissione ribadendo che il compromesso non è il massimo, ma anche loro voteranno per un’autodelega in bianco al governo che manderà in soffitta lo statuto dei lavoratori», insiste.Gli unici brividi della giornata a Montecitorio vengono dai 17 voti di deputati Pd all’emedamento di Sel 1.68 che proponeva «che l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori si applichi integralmente trascorso un anno dalla data dell’assunzione». Fra tanti voti attesi — Pippo Civati, Gianni Cuperlo, Ileana Argentin, Barbara Pollastrini, Stefano Fassina — arriva a sorpresa anche quello dell’ex ministro per le Pari opportunità Barbara Pollastrini: «Ho riconosciuto e riconosco l’impegno del gruppo Pd 26 in commissione ma penso che l’aula abbia il dovere di esprimersi. E, per quanto riguarda la mia piccola storia, il tema dell’allargamento dei diritti intesi nella loro unitarietà, umani, civili e sociali, è una delle ragioni del mio impegno politico». Caos nell’aula invece quando i grillini tentano di imitare la nuova norma sul controllo a distanza riprendendo con i telefonini il lavoro dei deputati Pd e poi cercando di impedire al relatore della legge Cesare Damiano di intervenire. Il presidente di turno, Roberto Giachetti, decide di espellere i deputati del Movimento 5 stelle Ivan Della Valle e Michele Dell’Orco, dopo aver chiesto diverse volte ai deputati di abbassare i cellulari. La destra, come ormai le succede sempre, si spacca a colpi di improperi. La destra sociale ha la faccia di Renata Polverini di Forza Italia che messe da parte gli scandali giudiziari si è riscoperta sindacalista ed ha votato a «titolo personale» tutti gli emendamenti dell’opposizione che tentavano di salvare barlumi di articolo 18, rispondendo per le rime a Sergio Pizzolante dell’Ncd che accusava Forza Italia di «stato confusionale». Il Jobsact si avvicina dunque allo striscione della sua seconda approvazione, quella alla Camera. Al Senato la terza lettura sarà una facile e veloce tappa di trasferimento: l’accordo politico con Sacconi è blindato e non ci saranno sorprese. Rimane ancora da capire però quando e come arriveranno le deleghe legislative. La prima sarà certamente quella sul contratto a tutele crescenti che certifica l’addio all’articolo 18 per i neo-assunti e per coloro che cambieranno lavoro. L’idea del governo è di farlo entrare in vigore dal primo gennaio per legarli agli sgravi fiscali per le imprese che assumono previsti nella legge di stabilità. Il rischio però di profili di incostituzionalità è reale: la delega deve avere un parere non vincolante delle commissioni Lavoro e rischia di essere dunque retroattiva con tutti i problemi che questo comporterebbe. Sarà comunque la prima di un numero imprecisato di deleghe in bianco che riguarderanno l’intera legislazione sul lavoro: dai contratti . L’unica certezza è che i tanto sbandierati diritti e tutele ai precari saranno limitati ai soli al contratto di collaborazione coordinata e continuativa». Una goccia nel mare in espansione del precariato. del 25/11/14, pag. 1/19 Il virus Ebola contagia un medico italiano In Sierra Leone per Emergency, sarà curato allo Spallanzani di Roma: «Ce la farò» di Margherita De Bac e Michele Farina Un medico italiano di Emergency è risultato positivo al virus Ebola in Sierra Leone. Sarà trasferito oggi all’Istituto nazionale per le malattie infettive Spallanzani di Roma. Al volontario di Emergency, il paziente zero italiano, il ventunesimo curato al di fuori dell’Africa, è destinata una delle stanze speciali ad alta sicurezza del complesso ospedaliero. Viaggio nel reparto dove sarà curato. Ha curato malati per un mese, perdendo due litri di sudore al giorno nelle tute isolanti, dentro e fuori la «zona rossa» sotto le tende di Emergency. Ha festeggiato la guarigione della settantenne Iye, soprannominata «nonna Ebola», e quella di Momoh, 5 anni, orfano per il virus, che gli zii sono andati a prendere al cancello del centro di trattamento di Lakka, alla periferia di Freetown, pochi giorni fa. E con i colleghi italiani e britannici era pronto a trascorrere le feste in Sierra Leone, combattendo l’epidemia che ha già ucciso 5.500 persone in tre Paesi dell’Africa Occidentale. Come regalo natalizio i 14 inglesi arrivati giusto domenica a dare manforte avevano pensato a un dono collettivo: un minuto di 27 abbracci una tantum (con gli scafandri addosso) nella terra che ha abolito ogni forma di contatto anche tra operatori sanitari. Orgoglio, paura e niente abbracci: è tornato a casa nella notte, su un Boeing KC-767 dell’Aeronautica Militare, chiuso in una speciale struttura denominata «Aircraft Transit Isolator». Quattro ore in ambulanza fino all’aeroporto. E poi cinque di volo assistito da medici e infermieri dell’esercito, un team specializzato in «bio-contenimento». Dallo scalo di Pratica di Mare è stato trasportato all’Istituto Spallanzani di Roma, uno dei due centri specializzati nella cura delle febbri emorragiche. È un medico cinquantenne il primo italiano infettato da Ebola, uno dei 19 operatori internazionali contagiati da marzo a oggi. Una quindicina sono stati evacuati dall’Africa verso l’Europa e gli Stati Uniti usando la stessa compagnia privata di charter, l’americana Phoenix, fondata da un ex pilota della guerra in Vietnam e specializzata in voli con «ospiti» particolari: pinguini per un acquario, esplosivo per miniere, malati di Ebola. Il nostro connazionale ha viaggiato italiano: ha due figlie, e anche pensando a loro ha chiesto che il suo nome non venisse divulgato. Era partito per Freetown il 18 ottobre, per una missione di 11 settimane con Emergency, l’ong fondata da Gino Strada (per cui ha già lavorato in Iraq) che opera in Sierra Leone dal 2001. Domenica un leggero episodio febbrile. Si è «autodenunciato». Il primo test per la Pcr (la reazione a catena della polimerasi) e poi un secondo hanno confermato la positività al virus. «È stato assistito sin dai primissimi sintomi — ha detto ieri Cecilia Strada, presidente di Emergency —. Sappiamo che il tempo fa molta differenza. E in questo caso l’assistenza è stata immediata». Spesso Ebola è in agguato quando ci si toglie la tuta protettiva. Una disattenzione, la stanchezza? Non è ancora chiaro come il medico italiano abbia contratto il virus. «Non per un errore nei protocolli di sicurezza — dice Cecilia Strada al Corriere — altrimenti avremmo avuto un numero ben maggiore di casi, a fronte di due infettati su un totale di 450 operatori». Il primo, un medico ugandese curato in Germania, è tornato a casa sano e salvo mercoledì scorso. A Freetown la squadra dell’ong milanese conta 26 italiani. Infermieri, medici, logisti: tre case, stanze singole e spazi comuni, piatto preferito gli gnocchi con il ragù della cuoca locale. Nessuno ha chiesto di rientrare. «Gino e gli altri sono chiaramente preoccupati per la salute del nostro collega — dice ancora Cecilia — ma questo non li scoraggia: nel Paese ci sono cento nuovi casi al giorno». In tutto 6.500, con 1.700 morti e appena 356 letti disponibili. A metà dicembre Emergency prenderà in gestione un centro da 100 posti che il governo di Londra sta terminando. Ong italiana, soldi britannici. 28 LEGALITA’DEMOCRATICA del 25/11/14, pag. 21 Sottosegretario e capo degli 007 testimoni della difesa di Riina Strage del Rapido 904, il boss chiede la deposizione di Minniti e Massolo DAL NOSTRO INVIATO FIRENZE Un attentato di trent’anni fa, l’eccidio del Natale 1984 sul Rapido 904 Napoli-Milano, fu il primo atto della strategia terrorista della mafia; realizzato «con l’intento di operare pressioni sugli organi dello Stato, in un primo momento al fine di ottenere, tramite i suoi “referenti politici” dell’epoca, un intervento sul maxiprocesso, e successivamente per imporre con l’arma del ricatto un alleggerimento degli effetti delle predette sentenze». Ecco perché Totò Riina compare nuovamente alla sbarra in un giudizio per strage: la bomba che sventrò il treno in una delle gallerie dell’Appennino, appena dopo Firenze la sera del 23 dicembre ‘84, uccidendo 16 persone e ferendone molte altre. Davanti alla Corte d’assise del capoluogo toscano, oggi, comincerà il dibattimento nel quale il «capo dei capi» di Cosa nostra ha chiamato a deporre nientemeno che il sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega ai servizi segreti, Marco Minniti, e il capo dei Dipartimento per l’informazione e la sicurezza, Giampiero Massolo. In pratica il responsabile politico e quello operativo dell’ intelligence , indicati come testimoni a sostegno delle tesi difensive del boss. L’avvocato del capomafia, Luca Cianferoni, vuole chiedere loro notizie sulla «desecretazione di tutti gli atti afferenti alle indagini dei servizi di sicurezza relativi all’attentato del 23 dicembre 1984, e in ordine al contenuto dei medesimi», dopo la direttiva del premier Matteo Renzi di aprire gli archivi dei Servizi su alcuni fatti di sangue che hanno segnato la recente storia d’Italia. Una «iniziativa un po’ provocatoria», ammette il difensore di Riina, che continua a chiamare in causa gli apparati dello Stato in alcuni eventi dei quali è stato accusato (come l’eccidio di via D’Amelio che uccise il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti di scorta). Non solo. Il capomafia pluriergastolano ha citato come testimone a sua discolpa un altro boss già condannato all’ergastolo per quella strage: Pippo Calò, il «cassiere di Cosa nostra» arrestato a Roma tre mesi dopo l’esplosione, «su quanto a sua conoscenza» in relazione all’attentato. Un fatto del tutto inedito nei processi di mafia: un «uomo d’onore» che chiama a deporre davanti ai giudici un altro «uomo d’onore», nel tentativo di dimostrare la propria innocenza, segna l’abbandono di una delle regole basilari — la segretezza e la consegna del silenzio — su cui è prosperata l’organizzazione criminale. Oltre che a Calò il carcere a vita era stato inflitto al suo uomo di fiducia Guido Cercola, suicidatosi nella prigione di Sulmona a gennaio del 2005, dopo vent’anni di detenzione; ora il difensore di Riina vuole far deporre il direttore di quel penitenziario «sulla tenace manifestazione di innocenza da parte di costui rispetto alla strage per cui è a processo». Sarà la Corte d’assise a decidere quali e quanti testimoni ammettere, dopo che i pubblici ministeri avranno espresso il loro parere. A rappresentare l’accusa sarà il sostituto procuratore antimafia Angela Pietroiusti che stamane, alla prima udienza, verrà affiancata dal procuratore capo Giuseppe Creazzo. Per i pm — eredi di un processo spostato per competenza dopo le indagini avviate dalla Procura di Napoli che individuò il nesso fra la bomba e il ricatto allo Stato — la strage fu 29 decisa da Riina «nella qualità di capo indiscusso» di Cosa nostra, all’indomani degli arresti seguiti al «pentimento» di Tommaso Buscetta, che nel 1984 con le sue dichiarazioni al giudice istruttore Giovanni Falcone mise le basi per il maxi-processo a Cosa nostra. Una reazione alla prima vera risposta delle istituzioni al potere mafioso, otto anni prima della sentenza della Cassazione che, nel 1992, facendo diventare definitive le condanne dei boss, avrebbe scatenato la nuova stagione stragista prima in Sicilia (gli attentati a Falcone e Borsellino) e poi sul continente (Firenze, Roma e Milano) che fece da sfondo alla presunta trattativa sotto giudizio a Palermo. L’attentato terroristico al treno, realizzato con la collaborazione di elementi della camorra legati alla mafia, doveva servire a distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dall’emergenza mafiosa scoperchiata dalle dichiarazioni di Buscetta, facendo balenare un ritorno alle bombe sui treni di matrice eversiva. La composizione dell’esplosivo e alcuni congegni elettronici erano dello stesso genere di quello utilizzato per le stragi degli anni Novanta, come testimonierà il perito chiamato a deporre insieme ai nuovi pentiti di mafia. Giovanni Bianconi 30 SOCIETA’ del 25/11/14, pag. 1/31 Uomini che odiano il mistero delle donne MASSIMO RECALCATI LA CONTA degli stupri, dei maltrattamenti, degli omicidi di cui sono vittime le donne lascia sempre sgomenti. Tutta questa violenza brutale ha una chiara matrice razzista. Soprattutto se interpretiamo il razzismo, come ci invitava a fare Lacan, come odio irriducibile nei confronti della libertà dell’Altro. La donna, infatti, è una delle incarnazioni più forti, anarchiche, erratiche, impossibile da misurare e da governare, di questa libertà. Il suo stesso sesso non è visibile, sfugge alla rappresentazione, è nascosto, si sottrae alla presa dell’evidenza. La loro identità, difficile da decifrare, non risponde mai a quella della divisa fallica degli uomini. Proprio per questo le donne possono essere l’oggetto di una violenza inaudita. Possono essere aggredite, offese, maltrattate, uccise proprio perché sfuggono ad ogni tentativo di possesso, perché coincidono con la libertà. L’uomo può rispondere a questa coincidenza con l’arroganza razzista e insopportabile della sopraffazione provando in tutti i modi a cancellarla. È UN disegno fallimentare che costringe ad una iterazione disperata. Invece di scegliere la via dell’amore per la differenza prende quella dell’odio rabbioso e sterilmente rivendicativo (“sei mia!”). L’esercizio della violenza è sempre una alternativa secca a quella della parola. Mentre la legge della parola prova sempre a rendere giustizia della libertà dell’altro, la violenza la vorrebbe sopprimere, calpestarla, ridurla al silenzio. È innanzitutto una battaglia culturale che dovremmo cominciare magari ripensando seriamente a quello che usiamo chiamare “educazione sessuale”. Questa educazione non è forse innanzitutto — essenzialmente — una educazione alla legge della parola? Non dovremmo imparare dai poeti più che dalle slide che classificano scientificamente i sessi mostrando il funzionamento oggettivo dei loro organi? È davvero tutta lì quella che chiamiamo differenza sessuale? È davvero quello il mistero dell’amore? La battaglia culturale contro la violenza di genere non può non passare da un ripensamento dell’educazione sessuale come educazione della sessualità al mistero dell’amore. Non dovremmo inseguire l’ideale di una sessualità normale — che la psicoanalisi ha dichiarato non esistere — ma valorizzare l’incontro tra i sessi — a prescindere dalla loro anatomia — come un incontro tra differenze. Dovremmo pensare che l’educazione alla sessualità implichi sempre una educazione al rispetto dell’alterità. Dovremmo pensare che essa sia una educazione al discorso amoroso. La domanda d’amore che muove l’uno verso l’altro, non deve mai essere scambiata con il sopruso che annienta la libertà, ma come un dono di libertà. Non è questa la forma più alta e intensa dell’amore, quando c’è? Amare la libertà dell’altro, amare la sua differenza inassimilabile di cui la donna è il simbolo. Per questo Lacan affermava che si ama, quando si ama, sempre e solo una donna. Per questa ragione amare — dovremmo sempre aggiungere — contempla il rischio della caduta e dell’abbandono. È sempre una esposizione rischiosa all’altro che ci rende tutti più indifesi e più femminili. Ci esponiamo senza riserve alla libertà dell’altro che ha sempre, in ogni momento, il diritto di scegliere se rinnovare o interrompere il patto che ci unisce. Ed è, come sappiamo, di fronte a questo diritto del discorso amoroso che la violenza dei maschi può scagliarsi come una freccia avvelenata contro il corpo delle donne. Colpire, sfregiare, mutilare, straziare per ribadire una proprietà che non esiste. Per coloro che vivono senza educazione alla legge della parola la libertà della donna non è 31 sopportabile se non è imprigionata. Nemmeno per le donne è facile abitare quella alterità che esse portano con sé. Per questa ragione Freud sosteneva che il “rifiuto della femminilità” non riguardasse solo gli uomini, ma attraversasse anche le donne. Non è proprio questa difficoltà che talvolta può consegnare una donna nelle braccia di chi la umilia, la offende, la violenta, la uccide? La donna che rifiuta inconsciamente la propria femminilità può credere che si possa essere una donna solo consegnandosi passivamente ad un uomo, magari seguendo l’esempio sacrificale delle proprie madri. È però del tutto evidente che si tratta di una atroce illusione. Nessun uomo sa cosa sia una donna. Ecco allora consumarsi il terribile equivoco: lei si consegna nelle mani dell’uomo per essere una donna, ma si ritrova ad essere ridotta a corpo-cosa, corpo-strumento, a “roba”, come direbbe il Mastro Don Gesualdo di Verga. È una lezione disturbante che l’esperienza clinica può confermare. La violenza porta con sé una seduzione silente che in alcune donne può nutrire l’illusione fatale che avere un padrone possa sollevarle dal difficile compito di abitare la libertà radicale della femminilità. Ma tutto questo non deve scaricare in nessun modo sulle donne la responsabilità che grava solo su coloro che scelgono la via della violenza al posto di quella della parola. Questa scelta è sempre colpevole. Preferisce il dominio cieco al rischio dell’esposizione, l’affermazione autarchica del proprio Io al suo decentramento, la potenza narcisistica del fallo (sempre un po’ idiota, secondo Lacan) all’incontro con l’alterità di un corpo, come quello femminile, fatto di segreti. Se l’amore è sempre un salto nel vuoto è perché esso implica la rinuncia a rendere l’altro una nostra proprietà, la rinuncia alla violenza come soluzione (impossibile) del problema della libertà. del 25/11/14, pag. 26 Violenza, i fondi rimasti congelati Femminicidio, i 16 milioni mai distribuiti Il governo rilancia: nel 2015 più soldi ai centri Nella giungla delle norme e nell’incertezza dei criteri di distribuzione dei fondi, una cosa è certa: ai centri antiviolenza e alle case rifugio per ora non è arrivato nulla. Non hanno visto un euro di quel finanziamento di 17 milioni (diventati 16 milioni e 450 mila) previsto per il biennio 2013/2014 dalla legge 119, la cosiddetta contestata legge sul femminicidio. Soldi che in teoria dovrebbero integrare e non sostituire le scarse risorse di cui dispongono perlopiù i circa 350 centri attivi in Italia (secondo la mappatura approssimativa stilata sulla base del centralino d’emergenza nazionale 1522). Certo, in alcune Regioni più virtuose dove è stata fatta la delibera per l’assegnazione, i soldi sarebbero in dirittura d’arrivo, ma nella maggior parte dei casi i centri antiviolenza, privati o pubblici, si arrangiano tra bandi comunali, ricerca di fondi privati e autofinanziamenti. A fronte di questo panorama economicamente sconfortante grandi numeri vengono annunciati sulla carta con molte buone intenzioni: è l’atteso Piano nazionale antiviolenza interministeriale che dovrebbe coordinare strategie e risorse, peraltro sollecitato dalla stessa Convenzione di Istanbul (primo strumento giuridico internazionale per la prevenzione e il contrasto della violenza di genere), in vigore in Italia dal primo agosto 2014. Spiega l’onorevole Giovanna Martelli, consigliera alle Pari opportunità per il governo Renzi: «Per il 2015 abbiamo la certezza di 19 milioni e 100 mila euro di fondi per l’attuazione del Piano nazionale, più 7 milioni per il mantenimento dei centri. Presto 32 comunicheremo le azioni principali del Piano il cui varo definitivo avverrà a gennaio, dopo una costruzione partecipata». Quando dice «presto» la consigliera Martelli intende dire oggi. Perché proprio in occasione della Giornata mondiale contro la violenza sulle donne sarà lei stessa ad anticipare i passaggi-chiave del nuovo Piano. «Sarà molto importante — valuta — la conferenza Stato-Regioni del 27 novembre per definire alcuni dei punti principali». Qualche esempio? «Siglare i criteri minimi di funzionamento per centri antiviolenza e case di rifugio, che dovranno essere omogenei da Bolzano ad Agrigento e che serviranno anche per sciogliere il nodo sulla ripartizione dei fondi. E poi è prioritaria la costruzione di una banca dati che ci consentirà di fare una programmazione costruita, appunto, sui dati». Denuncia però il rischio di tutta l’operazione l’avvocata Titti Carrano, presidente di D.i.Re (Donne in Rete contro la violenza), che raggruppa 70 centri indipendenti e gestiti da donne: «Definire i requisiti strutturali per poter accedere ai finanziamenti significa burocratizzare l’intero sistema, cancellano la storia e l’identità dei centri antiviolenza. Anche l’idea di introdurre personale maschile stravolge l’approccio di genere che abbiamo sempre avuto. Come possono poi richiedere 365 giorni di apertura o un centralino telefonico attivo 24 ore su 24 se non ci sono mai stati dati i fondi per questi servizi?». Il problema, dati alla mano, è che solo una piccola parte di quei 16 milioni e mezzo del biennio 2013-14 viene (per ora in teoria) destinata ai centri e alle case rifugio: per l’esattezza 2 milioni e 204 mila euro. Gli altri fondi vengono accantonati per realizzare nuovi centri (5 milioni e 400 mila euro) oppure per creare reti istituzionali all’interno delle quali i centri esistenti dovrebbero essere recuperati (8 milioni e 800 mila euro). Da qui il timore che arriveranno solo le briciole. Ammette l’avvocata Manuela Ulivi, presidente della Casa delle donne maltrattate di Milano: «Non sappiamo come e quando verranno distribuiti i fondi. In Lombardia è già stato rinviato due volte il tavolo regionale al quale partecipiamo insieme ad altre 12 componenti non governative e 12 istituzionali. E anche il milione deliberato dalla Regione è disponibile per progetti di Rete. In altre parole: i soldi vanno ai centri solo se stanno all’interno delle istituzioni. L’unico a far la differenza è il Comune di Milano che ha stanziato 600 mila euro per sostenere direttamente alcuni centri ed enti convenzionati». Nel frattempo, da Milano a Palermo, si batte la strada dell’autofinanziamento: in piazza a vendere clementine o con spettacoli teatrali. Dice Maria Rosa Lotti dello storico centro Le Onde: «Un mese fa la nostra Regione ha inviato al governo un’ipotesi di progettualità. Siamo in attesa di risposta. Il nostro centro? È messo malissimo... Oggi possiamo contare sul contributo della Chiesa valdese! Gli stanziamenti governativi sono lontanissimi dalla copertura di una domanda sociale così diffusa». S ono briciole anche per la Regione Emilia-Romagna, che tuttavia ha già una delibera per finanziare i centri: «I primi fondi arriveranno entro l’anno e un altro 30% dopo il rinnovo della Giunta» si augura Angela Romanin, operatrice della Casa delle Donne per non subire violenza di Bologna. Ma resta un’ulteriore incognita: sono cumulabili o no i fondi che arrivano dai Comuni e dalla legge 119? C’è sempre il rischio che qualcuno dica: visto che adesso ci pensa il governo… Tra le più battagliere, Maria Luisa Toto del Centro pugliese Renata Fonte: «Vorrei sapere chi sono i cassieri della mia Regione! Dall’oggi al domani sono sbucati dal nulla 7, 8 nuovi centri che funzionano solo in teoria, non hanno alcuna competenza specifica. Il nostro centro esiste da 16 anni, siamo collegate al 1522, copriamo la provincia di Lecce e siamo tutte volontarie, per molto tempo abbiamo avuto come sostegno 5 mila euro finché nel 2012 di fronte al rischio chiusura ho fatto lo sciopero della fame. Risultato: oggi ne riceviamo 10 mila, bastano appena per le spese telefoniche». Giusi Fasano 33 Giovanna Pezzuoli del 25/11/14, pag. 10 Donne, centri antiviolenza in rivolta contro il governo NELLA GIORNATA INTERNAZIONALE ESPLODE LA POLEMICA DELLE ASSOCIAZIONI: ”NUOVI OBBLIGHI CON APPENA 6.000 EURO L’ANNO, VOGLIONO CANCELLARCI” di Elisabetta Ambrosi Non accettiamo che il governo decida come dobbiamo lavorare, soprattutto perché la donna non è una minus habens che deve essere messa dentro un percorso con una logica solo securitaria e sanitaria. E comunque se il governo ritiene che dobbiamo lavorare come un servizio di pronto intervento, almeno dovremmo avere le risorse, che invece non ci sono”. È netto il parere di Manuela Ulivi, presidente della Casa delle donne di Milano (primo centro antiviolenza in Italia), contro le linee guida elaborate dal Dipartimento delle Pari opportunità di Palazzo Chigi, che prescrivono i requisiti per poter accedere ai finanziamenti previsti dalla legge 119/2013, a partire dal 2015. Senza riconoscere la specificità dei luoghi dove le donne già sono accolte e aiutate, il documento, che verrà sottoposto il prossimo 27 novembre alla Conferenza Stato e Regioni, rischia di cancellare un patrimonio qualificato di esperienze acquisite da oltre venti anni dai centri antiviolenza. È QUESTO l’allarme che l’Associazione Dire, Donne in Rete contro la violenza, che raggruppa circa settanta centri sparsi sul territorio italiano, lancia proprio alla vigilia della giornata internazionale contro la violenza sulle donne, oggi 25 novembre. Oltre a non dare alcune priorità ai centri antiviolenza già esistenti nell’assegnazione dei fondi – nonostante un accordo tra l’Associazione nazionale comuni italiani e Dire – il documento redatto dal Dipartimento delle Pari opportunità prevede infatti criteri che, secondo l’associazione, non solo rischiano di escludere chi già opera sul campo ma che rispecchiano una metodologia del tutto diversa da quella con la quale, da anni, lavorano i centri. “Il documento impone infatti che debbano esserci psicologi e assistenti sociali, ma gli operatori sono considerati come figure indistinte, mentre i centri antiviolenza sono fatti da donne che si mettono in relazione ad altre donne. C’è una istituzionalizzazione che nasconde, secondo me, una volontà di controllo sulle donne”, continua Ulivi. “Il fatto è che gli stereotipi di genere”, spiegano proprio dall’associazione Dire, “attraversano le stesse istituzioni, quindi se le operatrici non sono formate le donne vittime di violenza rischiano di trovarsi di fronte psicologhe o anche avvocate che magari le valutano attraverso dei cliché, magari giudicandole poco collaborative, immature, ostili. Attraverso questi criteri, il governo impone una logica che appiattisce, istituzionalizza l’interven - to, lo riduce a un servizio: ma la violenza sulle donne non è un fatto solo psicologico, ma è un problema culturale, sociale e anche politico”. Ci sono poi altri due aspetti che vengono chiamati in causa: la separazione dei centri violenza dalle case rifugio dove vengono accolte le donne – “non hanno bisogno solo di un letto, ma di un percorso” – e il fatto che, mentre il governo ha deciso che i centri dovranno essere aperti cinque giorni a settimana, con un numero telefonico disponibile 24 ore su 24, i fondi che i centri antiviolenza hanno ricevuto sono pochissimi, circa 6.000 euro per due anni per ogni struttura. Interpellata dal Fatto , la 34 consigliera di Palazzo Chigi per le Pari opportunità, onorevole Giovanna Martelli, si è limitata a segnalare l’iniziativa governativa di domani a Roma: “Vincere la partita più importante: quella contro la violenza sulle donne”. Interverranno Maria Elena Boschi, e personalità del mondo del calcio e dello spettacolo. Durante l’evento, sarà lanciato l’ha shtag #cosedauomini, la nuova campagna di sensibilizzazione del governo italiano rivolta agli uomini. “Quando ho visto la locandina sono rimasta senza parole, volevo scrivere al governo”, conclude Manuela Ulivi”. “Quella è una logica che insegue gli applausi, noi invece non facciamo spettacolo. Noi siamo quelle che, di notte, rispondono alle telefonate delle donne impaurite. E con loro facciamo un percorso di consapevolezza che le tratta come soggetti adulti quali sono”. Del 25/11/2014, pag. 8 La violenza sulle donne e la paura di un vero cambiamento Luisa Betti 25 novembre è diventata una data che non passa più inosservata in Italia. Da quel lontano 1999, anno in cui le Nazioni Unite decisero per una giornata internazionale contro la violenza sulle donne, sono passati molti anni di silenzio e omertà in cui i giornali parlavano di donne uccise nel mistero o sbattevano in prima pagina l’immigrato di turno dando la sensazione di un territorio invaso da barbari stupratori. E mentre i maschi italiani agivano del tutto inosservati a casa propria e in piena impunità, anche quando i dati dell’Istat nel 2007 ci facevano notare che l’85% della violenza era violenza domestica, si è continuato per molto tempo a stigmatizzare la violenza sulle donne come un fatto che non riguardava le “famiglie normali” e su cui lo Stato poteva tranquillamente agire puntando il dito sul rumeno di turno. Per parlare della violenza maschile sulle donne in un modo più aderente alla realtà, e in maniera più corretta, è stata necessaria una vera e propria sollevazione delle donne che trasversalmente hanno cominciato a interrogarsi e a dialogare con chi sulla violenza ci lavorava da sempre: quei centri antiviolenza nati in maniera indipendente 30 anni fa che conoscevano bene cosa era la violenza domestica sulle italiane. Uno sforzo, quello delle donne e della società civile, che ha avuto il merito di porre al centro dell’attenzione politica il fenomeno, sia nell’informazione che di fronte alle istituzioni, dando diversa dimensione al femminicidio e a tutte le forme di discriminazione sulle donne in questo Paese e nel mondo. Un lavoro capillare e prezioso senza il quale oggi, questa giornata, continuerebbe a essere una come le altre. Una campagna di sensibilizzazione permanente sulle donne che ormai parte da ottobre in vista del 25 novembre, allungando la data fino a dicembre, riprende a gennaio in vista del One Billion Rising (14 febbraio) e culmina nell’8 marzo (che non è più solo la triste mimosa) per proseguire su questa scia fino all’estate. Un salto di qualità per un Paese dove, secondo il rapporto del World Economic Forum, ci vogliono ancora 81 anni per raggiungere una certa equità tra uomini e donne (l’Italia è al 69° posto nel Gender Gap) e in cui la discriminazione delle donne – nel lavoro, a casa, in famiglia, nelle aziende e in tutti i luoghi pubblici e privati – è ancora molto forte e sostenuta da una cultura lontana dall’abbattere definitivamente quegli stereotipi che sono alla base stessa della violenza maschile sulle donne. Ma una sensibilizzazione così massiccia, che in pochi anni ha cambiato molte carte in tavola, quali risultati ha avuto e quali sono state le risposte concrete da parte delle istituzioni? 35 In un recente report di We World Intervita, presentato alla camera una settimana fa dal titolo “Rosa shocking… e altre questione del genere”, si può leggere che se da una parte è certo un aumento notevole della sensibilizzazione sull’argomento violenza maschile sulle donne – triplicata in soli 5 anni (2009/2013) con un + 34% tra ‘12 e il ‘13 – dall’altra sono 65 i milioni di euro che le aziende spendono ogni mese per proporre a un enorme pubblico campagne pubblicitarie legate a un’immagine femminile oggettivizzata e stereotipata che va dalle donne decorative, a quelle manichino fino alle pre-orgasmiche: categorie che in ambito maschile vengono sostituite da professionisti di successo o sportivi. Cifre che fanno impallidire se paragonate a quello che le onlus in Italia hanno speso nel 2013 per valorizzare la figura femminile nel contrastare e prevenire la violenza sulle donne, malgrado sia aumentata passando da 6,3 milioni di euro a 16,1 milioni nel biennio 2012– 2013. Stereotipi, quelli legati alla donna come oggetto da usare ora per pubblicizzare una marca di caffè ora da utilizzare come schiava in casa, che in Italia sono ancora fortemente radicati nel tessuto sociale e che culturalmente classificano la donna come un accessorio utilizzabile dall’uomo dalla A alla Zeta, e che nella percezione della violenza porta a una sostanziale sottovalutazione del fenomeno: tanto che, sempre secondo We World, non solo 1 Italiano su 5 non considera violenza la denigrazione di una donna ma è convinto che se le donne non indossassero abiti provocanti non subirebbero violenza. Per 1 italiano su 3, ancora oggi e dopo quell’incremento così considerevole di sensibilizzazione sul fenomeno, la violenza domestica dovrebbe prima di tutto essere risolta in famiglia: l’esatto contrario di quello che ci indica la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, ratificata da noi lo scorso anno e ora in vigore. In Italia, nonostante le norme per il contrasto alla violenza sulle donne varate nel 2013 e malgrado la ratifica della citata Convenzione di Istanbul, ogni 3 giorni una donna viene uccisa dal partner, dall’ex o da un familiare, e in un anno più di 1 milione di donne hanno subito violenza maschile con oltre 25 casi di stalking al giorno: casi che possono essere anche archiviati, malgrado sia ormai chiara la pericolosità dello stalker e il fattore di rischio (di vita) che la donna ha soprattutto quando cerca di sottrarsi alla violenza e non è adeguatamente protetta. Se ancora in alcuni tribunali italiani si stenta a riconoscere la violenza all’interno delle mura di casa scambiandola per semplice “conflittualità”, non solo rivittimizzando la donna che denuncia ma a volte anche colpevolizzandola e sottraendo alla stessa i figli in quanto “madre malevola” rea di manipolazioni sulla prole che ha assistito o subisce direttamente la violenza di un padre, non ci possiamo stupire se la percezione degli italiani sulla violenza è così minimizzante. Una violenza che sempre We World ha monetizzato, con un’indagine fatta lo scorso anno (“Quanto costa il silenzio”), con una spesa di 17 miliardi di euro annui a carico dalla collettività per gli effetti devastanti di un fenomeno che è strutturale e per questo difficile da contrastare. Un nodo, quello tra stereotipi e violenza, ben presente anche ad alcune rappresentanti istituzionali di un certo peso, come la presidente della camera, Laura Boldrini, e la vicepresidente del senato, Valeria Fedeli, che durante la presentazione del rapporto di We World hanno lanciato anche delle proposte e suggerito riflessioni. Se Boldrini ha fatto notare l’importanza del cambiamento culturale a tutti i livelli e come le stesse aziende, che qui promuovono le donne “grechine”, altrove lanciano altri tipi di campagne proprio perché non hanno gli stessi agganci culturali, Fedeli ha valutato come necessari a un vero contrasto alla violenza la rappresentanza istituzionale delle donne, il dialogo tra istituzioni e società civile, una strategia di un quadro nazionale per l’implementazione della Convenzione di Istanbul, l’importanza della trasformazione della cultura attraverso scuola e media, una “commissione bicamerale” che relazioni a scadenza annuale i lavori e l’efficacia delle azioni istituzionali per contrastare la violenza sulle donne, “un osservatorio di genere presso la presidenza del consiglio che valuti “ex ante” le politiche che si scelgono”, e infine una rifles36 sione sulle stesse aziende italiane che possono scegliere di fare “campagne per una pubblicità sostenibile sul ruolo delle donne nella società”. Ma allora che cosa è che non funziona? Le italiane da parte delle istituzioni, oltre all’impegno costante di alcune rappresentanti, hanno avuto due risposte concrete sul tema della violenza: la prima è stata l’importante ratifica della Convenzione di Istanbul, la seconda le norme per il contrasto alla violenza sulle donne contenute nel pacchetto sicurezza poi diventata legge. Eppure se ancora oggi per un uomo su due – sempre secondo We World – il matrimonio viene considerato “il sogno di tutte le donne” e per quasi 7 uomini su 10 “è più facile per una donna fare dei sacrifici nella famiglia”, significa che quelle risposte o non sono efficaci, o non sono abbastanza, o c’è qualcosa che non va. Forse perché serve anche altro, come la vera e unica novità a livello istituzionale – poi messa nel cassetto – che fu l’iniziale e proficua interlocuzione con tutte le associazioni italiane fatta dalla ex ministra delle pari opportunità, Josefa Idem. Perché malgrado sia stata la ministra precedente, Mara Carfagna, a varare la legge sullo stalking, il primo piano antiviolenza nazionale in Italia (scaduto nel 2013) e il finanziamento per i centri antiviolenza, è stata la ministra Idem la prima a costituire una task force interministerale sulla violenza contro le donne, che avrebbe dovuto essere costantemente collegata ai tavoli delle ong, e a convocare tutte le associazioni italiane esistenti e operanti sul tema: un ponte che qui in Italia non si era mai fatto pubblicamente e con un impegno così esplicito. Ma cosa rimane oggi di quel lavoro? Un piano antiviolenza le cui linee principali dovrebbero essere illustrate oggi dall’onorevole Giovanna Martelli – consigliera delle pari opportunità del presidente del consiglio – all’Aranciera di San Sisto (via di Valle delle Camene 11 dalle ore 10) in occasione del lancio della campagna #cosedauomini e dal titolo “Vincere la partita più importante: quella contro la violenza sulle donne”, insieme alla ministra Boschi. Un piano che Martelli ha già dichiarato essere stato “costruito in modo partecipato, attraverso tavoli tematici” ma sul quale le stesse associazioni di donne che si sono sedute a quei tavoli hanno cominciato a contestare: a partire da DiRe (rete nazionale dei centri antiviolenza che oggi si riunisce a Roma – Sala Zuccari di Palazzo Giustiniani – con il convegno “Contrastare la violenza contro le donne, migliorare la qualità della vita”), che ha pubblicamente disconosciuto i lavori del piano i quali, secondo DiRe, disconoscerebbero “le specificità che caratterizzano il lavoro delle donne nei Centri antiviolenza e le competenze acquisite dalle operatrici dei centri”, prevedendo “la presenza di personale maschile”, dettando “criteri che schiacciano la connotazione politico-culturale dei centri antiviolenza”, e prevedendo finanziamenti che non solo non coprirebbero l’attività dei centri così come sono ma che sarebbero assolutamente insufficienti anche per applicare le linee decise dal Piano stesso. Una difficile eredità, quella ricevuta da Giovanna Martelli, che dalle mani di una ministra, Josefa Idem, è passata con una delega nelle mani della ex viceministra del lavoro, Cecilia Guerra, e che ora è invece rimasta stretta nelle mani del nuovo premier Renzi che ha incaricato Martelli di seguire i lavori del Dpo per suo conto la quale, come ha suggerito Boldrini, deve svolgere questa attività da una posizione ben differente da quella di una ministra. Ma perché il vuoto di una ministra come referente unico e con pieni poteri va così stretto a una società civile di donne che in pochi anni è riuscita a triplicare la sensibilizzazione sul femminicidio, portando il tema sull’agenda istituzionale e premendo sul tasto della discriminazione di genere? Effettivamente l’input da cui era partita la ex ministra Idem, interloquendo preliminarmente con tutte le associazioni presenti sul territorio nazionale – nessuna esclusa – ha dato un imprinting che, se anche stroncato sul nascere, è rimasto indelebile come punto di svolta, e che solo un’altra ministra con il suo stesso potere e le sue stesse capacità potrebbe por37 tare avanti fino a farne scaturire un quadro coerente ed efficace di risposta reale alla violenza contro le donne in questo Paese. Un’opinione, quella della necessità di una figura nel governo che sia un riferimento per le politiche di genere, condivisa anche da Boldrini e da Fedeli, su cui la stessa ex ministra Idem, intervenuta pochi giorni fa all’Adnkronos, ha dichiarato che “Bisogna ripristinare il ministero delle Pari opportunità e andare alla radice del male, concentrandosi sulla sua origine culturale. La legge sul femminicidio – ha spiegato – ha avuto sicuramente ricadute positive, incentivando le denunce e va valutata nel tempo, ma non basta. Quello che il governo sta facendo con l’istituzione di un consigliere ad hoc e l’azione del dipartimento per le Pari opportunità, non è sufficiente, perché manca un organismo di coordinamento dei centri sul territorio e soprattutto serve che ci sia qualcuno, al tavolo del Consiglio dei ministri, che ricordi la necessità di investire risorse. Se anche gli altri ministeri – ha detto Idem – vengono trattati allo stesso modo, sostituiti da strutture come queste perché si è dimostrato utile, allora mi piego a questa logica, ma se questo trattamento si riserva solo alle Pari opportunità, allora è chiaro che sta venendo meno l’attenzione su questo tema”. del 25/11/14, pag. 32 I nativi digitali la usano sempre meno. Dal 2016 la Finlandia la metterà al bando dalle classi Ma un esperimento italiano rilancia le virtù della scrittura manuale Migliora ricchezza lessicale e capacità di sintesi dei bambini La fine della penna MARIA NOVELLA DE LUCA IRENE MARIA SCALISE QUATTRO mesi, per quindici minuti al giorno. Provando a dimenticare tastiere e touch. Lettere maiuscole e lettere minuscole che scorrono sul foglio, intersecando segni e pensieri, simboli ed emozioni. Il tondo della “o”, il gambo della “g”, l’asta della “t”, il manico della “f”. Curve, linee, pieni e vuoti. E a sorpresa quattrocento bambini digitali di otto, nove e dieci anni riscoprono la scrittura in corsivo, e in poco più di cento giorni il loro lessico, punteggiatura e ortografia, migliorano sensibilmente. Così mentre il mondo celebra (o piange) la morte della calligrafia e degli esercizi a penna, mentre addirittura la Finlandia delle scuole più belle del pianeta annuncia, dal 2016, l’addio ad ogni forma di compilazione manuale, un piccolo esperimento italiano rilancia con forza le virtù del corsivo. Ri-alfabetizzazione di bambini e ragazzi che volando dallo stampatello alla tastiera, dicono i più pessimisti, rischiano di non saper più né leggere né scrivere. E di perdere a furia di esercitarsi sui tasti, quell’abilità sottile delle mani che l’uso della penna regala. È stato un famoso pedagogista italiano, il professor Benedetto Vertecchi, tenacemente convinto del pericolo che la scuola 2.0 cannibalizzi capacità e competenze dei più giovani, ad ideare un singolare progetto che ha coinvolto quasi quattrocento bambini di due scuole romane. «Abbiamo chiesto alle insegnanti di far scrivere ad ogni allievo, per quindici minuti al giorno, brevi testi e pensieri di quattro o cinque righe, utilizzando unicamente il corsivo. È ormai evidente — dice Vertecchi — che alla diminuzione della capacità di scrittura corrisponda una minore coordinazione tra pensiero e azione. Ma anche un peggioramento nell’organizzazione del discorso, un impoverimento del linguaggio e della memoria». I risultati di questo singolare laboratorio, dal titolo latino “Nulla dies sine linea”, citazione da Plinio il Vecchio, sono stati sorprendenti. «Man mano che i bambini si abituavano ad usare 38 la penna, visto che ormai anche in molte scuole primarie si stanno diffondendo le tastiere, abbiamo visto progressivi miglioramenti. Nell’accuratezza e ricchezza del linguaggio, nella struttura della frase, addirittura nell’ortografia». Segno cioè che nella scrittura corsiva il pensiero corre fluido dalla testa alla mano, a differenza di quanto accade con lo stampatello, che spinge invece al fraseggio sincopato e spezzettato. Un coraggioso ma solitario tentativo di rieducazione pedagogica quello ideato dal professor Vertecchi, che rischia di venire divorato dalla globalizzazione del sapere in “power point”. Profetizza infatti Paolo Ferri, docente alla Bicocca e grande esperto del rapporto tra culture tecnologiche ed educazione: «Un futuro digitale è inevitabile, anzi siamo in forte ritardo e il nostro sistema scolastico è assolutamente impreparato. Non c’è un linguaggio che deve sovrastare l’altro, il computer e la penna possono convivere, l’importante è evitare ai bambini di essere calati in un contesto schizoide». Mentre cioè a casa e con gli amici, anche i più piccoli vivono una vita da nativi digitali, quali effettivamente sono, in classe si ritrovano d’un colpo in un’altra epoca. «Frequentano aule dove non esiste nulla, neanche il computer, per non parlare di tablet e Lim. E da questa contraddizione spesso nascono gravi problemi di insegnamento ». Un punto di vista opposto dunque a quello di Vertecchi. Anche Ferri però concorda con la necessità di non perdere l’abilità manuale che la scrittura in corsivo sviluppa. «Paesi come la Finlandia, che puntano oggi soltanto sul digitale, non trascurano per niente la motricità fine, ma la sostituiscono con attività come il disegno, la creta, la musica che purtroppo nelle nostre scuole non sono sviluppate». Bisogna allora spostarsi in Umbria, a Giove, nella scuola elementare dove insegna il maestro Franco Lorenzoni. Qui il sapere dei bambini si crea in un particolare percorso dove lo studio e l’esperienza della natura e dell’arte, l’abilità di accendere un fuoco e quella di imparare una poesia si fondono insieme. Famoso per aver promosso nel 2012 una petizione, perché fino agli otto anni computer e lavagne digitali restino fuori dalle aule dei più piccoli, Lorenzoni ha di recente raccontato la sua esperienza di maestro nel libro “I bambini pensano grande. Cronaca di un’avventura pedagogica”. «Il corsivo sviluppa uno straordinario legame tra il pensiero e la mano, oggi i bambini sanno usare le tastiere ma non sanno più allacciarsi le scarpe. Trovo giusto lasciare maggiore libertà anche a chi vuole usare lo stampatello, ma l’importante è far recuperare a questa generazione l’uso delle mani, al di là dei pollici che servono per digitare i messaggi». Arte, natura, laboratori, la matematica, la storia, ma anche veder nascere un vitellino. Per Franco Lorenzoni, nei primi anni la scuola «deve essere un controcanto, preservare, essere anche un po’ anacronistica rispetto alla società: i bambini possono imparare che il sapere non è soltanto dentro il computer, ma dappertutto, nella vita, nell’esperienza...». Ma la scuola non è l’unica “imputata”. I piccoli scrivono sempre di meno non solo per l’abbuffata di pc e tablet che li circondano quanto per la mancanza di esempi. «Sono gli adulti, genitori compresi, a non saper più convivere con la penna — incalza la calligrafa Monica Dengo — non possiamo colpevolizzare soltanto gli insegnanti». A rischio poi c’è anche la memoria: «I contenuti scritti con la propria penna restano assai più impressi nella mente, rispetto a quando si utilizza il computer». E il paradosso, aggiunge Dengo, è che proprio i grandi guru della Silicon Valley se ne guardano bene dall’abbandonare i loro blocchi di appunti e le loro (lussuosissime) penne. «I tavoli dei manager di Microsoft e Google ospitano computer e tablet ma anche tanti fogli e appunti volanti». A riprova di quanto la manualità sottile sia una dote da non far cadere nell’oblio, la calligrafa Dengo ricorda: «Il Giappone dove si mangia con le bacchette, che richiedono abilità e delicatezza, è il paese nel quale i bambini hanno la più elevata capacità di uso della scrittura». 39 BENI COMUNI/AMBIENTE del 25/11/14, pag. 15 La bolletta dell’acqua rincara del 9% «Arrivano 5 miliardi di investimenti» Nel 2014 deciso un aumento del 3,9%, l’anno prossimo salirà di un altro 4,8% MILANO Che le nuove tariffe dell’acqua sarebbero aumentate già si sapeva. A dicembre 2013 l’Autorità dell’energia elettrica, il gas e il sistema idrico aveva annunciato la rivoluzione copernicana del settore: rincari concessi ai gestori che investono sul sistema idrico. Ieri l’aumento è stato quantificato: in media +3,9% nel 2014 e +4,8% nel 2015. Con anche la novità che si tratta di un metodo di calcolo per la prima volta omogeneo in tutta Italia. Gli utenti interessati sono 40 milioni, ma di questi quasi 6 milioni hanno avuto una riduzione del 10% nella bolletta. L’aumento per la stragrande maggioranza dei consumatori è legato alla ripresa degli investimenti «che erano fermi da decenni» da parte delle aziende che erogano i servizi idrici. Lo ha spiegato il presidente dell’Autorità per l’energia, Guido Bortoni, a Milano per fare il punto sull’attività dell’Authority nel corso della Conferenza nazionale sulla regolazione del comparto. Nei prossimi quattro anni risultano attivati 4,5 miliardi di investimenti per nuove infrastrutture, tutela ambientale e miglioramento dei servizi, un valore pari a quello degli impianti finora realizzati. In realtà il sistema idrico del Paese avrebbe bisogno di investimenti ben maggiori. Solo un anno fa l’Authority spiegava che per superare le carenze croniche e mettersi in regola con gli adempimenti europei sarebbero stati necessari oltre 25 miliardi in cinque anni. Resta il fatto che per le famiglie si tratta di un esborso ulteriore in un momento di crisi, come denunciato dalle associazioni dei consumatori. Per Elio Lannutti dell’Adusbef, l’Authority ignora i risultati del referendum 2011 contro la privatizzazione dell’acqua e «continua a stangare i consumatori deliberando aumenti e rincari sulle bollette, attribuendo tali oneri impropri alla “ripresa degli investimenti” delle aziende idriche, che non si comprende perché devono essere sopportate dalle famiglie». L’Adusbef ha calcolato «un aggravio pro capite sulle bollette 2014-2015 di oltre 130 euro a famiglia, per finanziare gli investimenti di nuove infrastrutture, che in un regime di libero mercato spettano esclusivamente alle imprese». Bortoni nella sua relazione ha ricordato che «con oltre 20 sentenze emesse nel corso del 2014 il Tar Lombardia ha respinto interamente i ricorsi presentati, contro il nuovo metodo tariffario dell’Autorità, da parte di alcuni soggetti che ne reclamavano l’illegittimità rispetto al portato referendario, nonché da parte di imprese di gestione». Quanto ai quasi 6 milioni di consumatori che avranno lo sconto del 10% in bolletta, il motivo è legato al loro gestore, che non ha inviato in tutto o in parte i dati richiesti ai fini tariffari. I «colpevoli» sono oltre 1.250, si tratta di municipalizzate piccole o piccolissime e la decisione dell’Authority del taglio della tariffa è una sorta di punizione per le gestioni inadempienti. Il Metodo tariffario idrico, che assorbe tutte le regolazioni passate, prevede quattro diversi tipi di schemi tariffari, rispetto ai quali ciascun soggetto competente può individuare la soluzione più adatta a seconda dei propri obiettivi di sviluppo e delle peculiarità territoriali. Bortoni nella sua relazione ha anche ricordato che nel corso del 2014 si è concluso il procedimento per la restituzione ai consumatori della componente tariffaria relativa alla 40 remunerazione del capitale, abrogata con il referendum del giugno 2011. Il rimborso riguarda i 5 mesi dalla consultazione popolare fino all’entrata in vigore, il primo gennaio 2012, del metodo tariffario transitorio con cui l’Authority ha eliminato la remunerazione del capitale investito nel rispetto del principio del full cost recovery . Il rimborso andrà a 14 milioni di utenti domestici per un valore di 55 milioni di euro (in media 3,9 euro a consumatore). Francesca Basso 41 INFORMAZIONE del 25/11/14, pag. 5 Rognoni attacca: «Sulla Rai solo promesse e gravi ritardi» ROMA «Il governo, sulla Rai, è in clamoroso ritardo rispetto alle eccellenti promesse iniziali. Ora l’unica via d’uscita è che Matteo Renzi se ne occupi personalmente e dica i due-tre punti che occorre affrontare. Altrimenti il suo governo sarà costretto a nominare i nuovi vertici di viale Mazzini con la legge Gasparri…». Carlo Rognoni è stato membro della Commissione di vigilanza Rai dal 1996 al 2001 e dal 2005 al 2008 consigliere di amministrazione, prima come uomo del Pds, poi Ds e infine Pd. Ora è consulente del gruppo del suo partito in Vigilanza. È preoccupato: «Gli annunci sul canone? L’ultimo argomento da affrontare. Prima occorre la legge sulla nuova governance. E io sono d’accordo che urga un amministratore delegato. Ma occorrerà dargli il tempo per un progetto di rifondazione della Rai da servizio pubblico radiotelevisivo a Media company». E poi, Rognoni? «Solo dopo aver stabilito le finalità della nuova Rai si può fissare il canone. Tanti annunci rischiano di essere inutili. Siamo a ridosso del 1° dicembre, data in cui la televisione pubblica è obbligata ad emettere le bollette tenendo conto dell’inflazione. In più, in questo clima, l’evasione del canone rischia di aumentare, anziché diminuire» Ma il sottosegretario alle Comunicazioni Antonello Giacomelli si sta muovendo per la riforma Rai… «All’inizio ha avuto un passo sicuro. Poi è inciampato in qualcosa. Magari in Renzi stesso che, mesi fa, aveva annunciato un grande ascolto degli italiani sulla rete per arrivare a un identikit della nuova Rai, a una clamorosa operazione prima di analisi e poi di sintesi. Che fine ha fatto? Silenzio. Si era anche detto di anticipare ai primi del 2015, addirittura a fine 2014, il rinnovo della concessione Rai-Stato in base a presupposti completamente diversi. Anche qui: che fine ha fatto? Di nuovo silenzio». Ma il Pd promette una nuova legge sulla governance in tempi molto rapidi… «Siamo comunque in ritardo. Le tante riforme annunciate da Renzi hanno creato un evidente ingorgo parlamentare. Ma se una legge non viene avviata concretamente adesso, assicurandole un corridoio preferenziale, non sarà mai pronta entro maggio, quando gli attuali vertici scadono. E allora… allora riecco la Gasparri! Una conclusione ridicola, dopo tante parole». Morale? «Beh, il sospetto che il patto del Nazareno nasconda qualcosa sulla Rai, adesso diventa più che un sospetto...». Paolo Conti 42
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