La storia ricomincia dall`est - Centro di Analisi delle Politiche

La storia ricomincia dall’est
Sette dialoghi su migrazioni e scenari
demografici, su Cina e leadership
mondiale e su molto altro ancora
Michele Bruni
Centro per l’Analisi delle Politiche Pubbliche
Dipartimento di Economia Marco Biagi
Immagine di copertina: Salvador Dalì
“Mercato di schiavi con busto invisibile
di Voltaire”, 1940.
Dalì descrisse il suo lavoro dicendo che:
“… rendeva normale l’anormale e
anormale il normale”.
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Il termine dialogo (dal greco dià, "attraverso" e logos, "discorso") indica il confronto
verbale tra due o più persone.
«La scrittura ha una strana qualità, simile veramente a quella della
pittura. I prodotti della pittura ci stanno davanti come se vivessero;
ma se domandi loro qualcosa, tengono un maestoso silenzio. Nello
stesso modo si comportano i discorsi. [...] Una volta che sia messo
per iscritto, ogni discorso si rivolge a tutti, tanto a chi l'intende
quanto a chi non se ne fa nulla [...]; esso da solo non può difendersi
né aiutarsi»
Platone, Fedro
Personaggi e interpreti in ordine alfabetico
John: E’ americano, repubblicano e liberista; insegna storia in un liceo di Austin,
Texas. Divorziato, i figli già grandi e sposati, viene spesso in Italia, un paese che
conosce bene e di cui apprezza la cultura, soprattutto quella gastronomica.
Li: E’ arrivato in Italia all’inizio degli anni ’80. Apprezza il suo nuovo paese di
residenza nel quale ha avuto un discreto successo economico, ma non ha mai
rinunciato alla cittadinanza cinese. Negli ultimi anni il suo orgoglio nazionale è
cresciuto a un ritmo analogo a quello del Prodotto Interno Lordo del suo paese.
Lavora presso una società che si occupa di import export.
Mario: Ha lavorato in un Centro di ricerca sindacale; adesso insegna all’università e
opera nel campo della formazione. I suoi principali interessi culturali sono rivolti alla
psicologia, ma lettore curioso e onnivoro cerca di mantenersi al corrente dei progressi
di quasi tutte le discipline scientifiche.
Michele: Professore di economia in pensione, si è sempre occupato di mercato del
lavoro e di demografia e delle loro interrelazioni. E’ vissuto per parecchi anni in Cina
e ha lavorato come economista del lavoro in progetti internazionali in numerosi paesi
dei Balcani, in Estremo Oriente e in Africa.
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Table of Contents
Personaggi e interpreti in ordine alfabetico............................................................. 3
Indice analitico .................................................................................................................... 8
Frammenti dal futuro ..................................................................................................... 10
Primo dialogo - Riuscirà la Cina a conquistare la leadership mondiale? .... 13
Mentre l’oriente sorge, l’occidente tramonta ........................................................ 13
Il dibattito sul sorpasso: alcune tesi a confronto ...........................................................14
Crescita della produzione e sorpasso economico ..........................................................19
Misure alternative della produzione: il PIL a prezzi correnti e il PIL a prezzi
costanti .................................................................................................................................................... 21
Il PIL a Parità di Potere d’Acquisto .............................................................................................. 22
Alcuni confronti internazionali ..................................................................................................... 22
Indicatori e tempi di sorpasso ....................................................................................................... 24
Le misure del benessere .........................................................................................................27
Il PIL pro capite .................................................................................................................................... 28
Che cosa misura il PIL ....................................................................................................................... 29
L’Indice di Sviluppo Umano ............................................................................................................. 31
L’Indice Lordo di Felicità ........................................................................................................34
Secondo dialogo - Le sfide demografiche della Cina: passato e futuro ................. 39
Stessa spiaggia, stesso mare ........................................................................................ 39
Carenza di lavoro e mobilità interna in Cina.............................................................. 39
Il crollo della popolazione in età lavorativa, le conseguenze sull’offerta di
lavoro e la proposta della Banca Mondiale ............................................................ 40
Le sfide demografiche del passato............................................................................. 43
La sfida al sistema educativo ....................................................................................................43
La sfida occupazionale................................................................................................................44
Il sistema dell’Hukou ......................................................................................................................... 45
Deng e il nuovo corso dell’economia cinese............................................................................. 46
Modello di sviluppo di Lewis e offerta illimitata di lavoro ................................................ 48
La politica del figlio unico ................................................................................................................ 51
La popolazione fluttuante ................................................................................................ 55
Le dimensioni del fenomeno .................................................................................................55
Province di arrivo e province di partenza ........................................................................57
L’impatto delle migrazioni interne sull’economia e sull’offerta illimitata di
lavoro .............................................................................................................................................59
Una prima valutazione della proposta della Banca Mondiale ......................... 61
Terzo dialogo - Le lontane origini del declino demografico .................................... 64
Elezioni, sistemi elettorali e informazione ................................................................... 64
Tasso di fecondità, benessere economico e andamento demografico..................... 66
La complessa relazione tra fecondità e sviluppo ...........................................................67
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La transizione demografica ...................................................................................................70
Il Malthus pensiero ...................................................................................................................70
Benessere economico e fecondità .......................................................................................72
La rivoluzione demografica: dalla crescita alla contrazione della popolazione .. 73
L’invenzione dell’agricoltura ................................................................................................74
L’apologo delle formiche tagliafoglie .................................................................................74
Il grande decollo ........................................................................................................................75
Introduzione dell’agricoltura e prima transizione demografica .............................76
Speciazione e problem solving .............................................................................................77
Crescita delle disponibilità energetica e crescita demografica ................................78
Transizione o rivoluzione demografica?...........................................................................80
Le fasi della “Transizione demografica” ............................................................................81
Dal regime naturale al regime della consapevolezza e della scelta ........................83
Quarto dialogo - Il futuro demografico del pianeta secondo le Nazioni Unite:
realismo delle ipotesi e affidabilità delle proiezioni demografiche ........................ 86
Il capodanno cinese ........................................................................................................... 86
La dinamica della transizione demografica ................................................................. 88
Transizione demografica e livello di sviluppo ............................................................. 89
I paesi sottosviluppati ..............................................................................................................89
I paesi in via di sviluppo ..........................................................................................................91
I paesi sviluppati ........................................................................................................................92
La transizione demografica a livello globale ...................................................................93
Le proiezioni demografiche della Population Division...................................... 95
Il futuro demografico della Cina...........................................................................................97
Cina e Nigeria: due paesi agli estremi del percorso della transizione
demografica. ................................................................................................................................98
La polarizzazione dello sviluppo demografico ...............................................................99
La procedura di proiezione demografica utilizzata dalle Nazioni Unite. ..............99
Le ipotesi delle Nazioni Unite ............................................................................................. 100
Le ipotesi sulla mortalità ..................................................................................................................100
Una digressione su transizione demografica e “ordine demografico” ............................... 102
Le ipotesi sulla fecondità ...............................................................................................................103
Le ipotesi sulla migratorietà ............................................................................................................105
Le grandi tendenze dei flussi migratori.................................................................106
Modelli economici e modelli demografici dei flussi migratori ......................108
Quinto dialogo Un modello stock flussi del mercato del lavoro. ..................113
A proposito di tortelloni, ricotta e governo delle larghe intese ....................113
Il modello stock-flussi ..................................................................................................115
Le fasi della vita ....................................................................................................................... 116
Popolazione, condizioni socio - economiche e passaggi di condizione. .............. 118
Flussi generazionali e flussi temporanei ....................................................................... 119
Il modello di breve periodo e il modello generazionale ........................................... 121
Paradigmi, peyote e piselli ............................................................................................................121
Il modello microeconomico del mercato del lavoro ........................................................... 123
Il lavoro: fattore variabile o fattore fisso?...............................................................................125
Una digressione su realismo delle ipotesi e capacita previsiva ..................................... 126
Il modello stock flussi: seconda parte ............................................................................. 128
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L’apologo del Cinema Italia ...........................................................................................................128
Le determinanti della partecipazione al mercato del lavoro .......................................... 131
Perché ai giovani non bisogna far sapere in quali mestieri potrebbero trovare
lavoro più facilmente. ......................................................................................................................133
Il ruolo della domanda sostitutiva e della domanda aggiuntiva .................................... 133
Fonte: Elaborazione su Dati ISTAT ......................................................................................... 134
La definizione di crisi economica ..................................................................................... 134
Un modello per spiegare e prevedere i flussi migratori in ingresso ...........136
Sesto Dialogo – Il futuro demografico della Cina: Ipotesi, modelli e
procedure per la costruzione di scenari demografici e del mercato del
lavoro. ................................................................................................................................139
Notizie provenienti dall’interno e dall’estero .....................................................139
John fa il punto................................................................................................................141
Le ipotesi sulla migratorietà della Population Division...........................................141
Ciò che non convince Michele ................................................................................................ 141
Il caso italiano .......................................................................................................................... 141
Il rapporto Chamie e l’immigrazione sostitutiva ........................................................ 142
La verifica della tesi da domanda ............................................................................145
La verifica storica ................................................................................................................... 145
Le migrazioni che anche il più convinto dei neoclassici farebbe fatica a spiegare dal
lato dell’offerta: schiavi e lavoratori a contratto. .............................................................. 145
La grande migrazione intercontinentale .................................................................................148
La verifica empirica ............................................................................................................... 149
Paesi di partenza e paesi di arrivo .............................................................................................149
Carenza d’offerta e saldo migratorio.........................................................................................150
Una procedura alternativa per la costruzione congiunta di scenari
demografici e del mercato del lavoro .....................................................................153
Dalla teoria alla pratica: il futuro demografico della Cina ..............................156
Popolazione in età lavorativa e forze di lavoro ........................................................... 156
Domanda di lavoro e fabbisogno di occupati ............................................................... 158
Scenari migratori e di popolazione in età lavorativa in un mercato del lavoro
aperto. ......................................................................................................................................... 159
L’impatto dei flussi migratori sulla natalità ................................................................. 161
Invecchiamento e carico sociale ....................................................................................... 163
Il futuro demografico della Cina nel medio periodo .................................................. 166
Uno sguardo a un futuro più lontano .............................................................................. 166
Settimo dialogo - Il secolo della grande migrazione ................................................168
Le riforme del Plenum cinese........................................................................................168
La presenza straniera nei paesi di arrivo .............................................................169
Proiezioni, percezioni e politiche: il caso della Cina .........................................171
Le politiche per ridurre il fabbisogno di manodopera straniera .......................... 172
Le politiche dal lato della domanda: aumentare la produttività e delocalizzare la
produzione ...........................................................................................................................................172
Le politiche dal lato dell’offerta: età di pensionamento, mobilità interna, fecondità
...................................................................................................................................................................173
Il contesto demografico mondiale ...........................................................................176
6
Transizione demografica e polarizzazione demografica ......................................... 176
Tutti insieme appassionatamente verso la terza fase della transizione ............ 176
Popolazione in età lavorativa e offerta di lavoro: dove cresce (troppo) e dove
cala (dopo) ................................................................................................................................ 178
I saldi migratori internazionali: previsioni a confronto .......................................... 179
Le migrazione internazionali: calamità o opportunità? .................................181
Il Fondo Migrazione Educazione ....................................................................................... 183
Da idea a progetto: ci vorrebbe un miracolo .......................................................186
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Indice analitico
Nella prima giornata i nostri amici cominciano a discutere se e quando l’economia cinese
sorpasserà quella degli Stati Uniti e conquisterà la leadership del mondo, ma finiscono poi
con l’approfondire il significato e i limiti dei diversi indicatori utilizzati per valutare
produzione e benessere.
Nella seconda giornata si prospetta l’incredibile calo demografico che attende la Cina nel
corso del XXI secolo. Si ricordano le grandi sfide demografiche in campo scolastico e
occupazionale che il paese ha già affrontato e le politiche adottate. La conversazione si chiude
su un dubbio inquietante: la Cina dovrà rinunciare alla propria omogeneità etnica per
conquistare la leadership mondiale?
Nella terza giornata i nostri amici partono dalla considerazione che la Cina è solo uno dei
tanti paesi che sono o saranno interessati da un calo della popolazione in età lavorativa. Dopo
aver parlato di tassi di fecondità e del rapporto tra natalità e benessere economico, spuntano
Malthus e la teoria della transizione demografica. E’ l’occasione per ripercorrere la storia
demografica dell’umanità e discuterne gli aspetti più salienti.
Nella quarta giornata si traccia il percorso della transizione demografica analizzandone le
conseguenze in tre gruppi di paesi a diverso livello di sviluppo economico. Si affronta poi il
tema delle proiezioni demografiche delle Nazioni Unite e si considerano alcuni degli elementi
estremamente preoccupanti che ne emergono, per passare poi a valutare le ipotesi su
mortalità, fertilità e migratorietà che sono alla base di tali risultati. La discussione finisce col
concentrarsi sui limiti delle ipotesi in tema di migrazioni.
Nella quinta giornata si prende in considerazione un modello stock-flussi del mercato del
lavoro le cui variabili sono delle popolazioni che si muovono nel tempo reale. In tale
prospettiva, l’andamento del mercato del lavoro è determinato dall’interazione tra la sfera
demografica, che influenza l’offerta di lavoro, e la sfera economica, che condiziona la
domanda. Da questo si deduce il perché i flussi migratori stiano progressivamente
aumentando e cambiando la loro direzione.
Nella sesta giornata vengono proposti elementi storici e statistici che danno supporto al
modello dei flussi migratori proposto nella chiacchierata precedente. Michele illustra poi la
procedura da lui elaborata per costruire in maniera congiunta scenari demografici e del
mercato del lavoro e che incorpora il modello da lui proposto. Sulla base dei recenti dati
censuari, questa procedura mostra che la Cina sta per essere colpita da una carenza strutturale
di offerta di lavoro senza precedenti storici e che la stessa cosa sta per accadere in oltre
cinquanta paesi che hanno nel loro insieme una dimensione demografica analoga a quella
della Cina.
Nella settima giornata le decisione prese dal recente Plenum cinese forniscono lo spunto per
analizzare le politiche che possono ridurre il fabbisogno di immigrati agendo o sulla domanda
o sull’offerta di lavoro. La conclusione è però che tali politiche possono solo alleviare, ma
non risolvere il problema. Allargando l’analisi al contesto internazionale, Michele evidenzia
che nei prossimi anni la transizione demografica provocherà una crescente polarizzazione tra
paesi caratterizzati da una violenta contrazione della popolazione in età lavorativa e un
numero decrescente di paesi dell’Africa sub-sahariana e dei paesi più poveri dell’Asia nei
quali la popolazione in età lavorative esploderà con una velocità senza precedenti storici. Ciò
consente di valutare che nel corso dei prossimi 50 anni oltre 700 milioni di persone si
sposteranno dai paesi ad alta fertilità nei paesi a bassa fertilità, attratti dalla loro carenza
strutturale di lavoro. Secondo Michele questa è la grande occasione che la transizione
demografica offre agli abitanti del pianeta per ridurre diseguaglianze economiche e razzismo.
Perché ciò non rimanga un sogno, ma un progetto servirebbe la creazione di una apposita
Organizzazione Mondiale che gestisca i flussi migratori, una proposta che però ha qualche
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probabilità di vedere la luce solo se troverà il supporto di uno sponsor con la necessaria
autorità morale.
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Frammenti dal futuro
Notlim Namdeirf chiuse gli occhi e staccò il contatto mentale dalla memoria universale
dopo essersi assicurato di aver alzato tutte le barriere protettive che un amico hacker aveva
predisposto per lui. Da quando i suoi colleghi avevano saputo che l’opera fondamentale alla
quale stava lavorando da oltre venti anni era quasi terminata, gli attacchi si erano ripetuti
sempre più frequenti. I Sentimentalisti avrebbero fatto di tutto per cercare di leggere il suo
lavoro e poter così mettere a punto le loro velenose critiche.
La visione globale della sua opera gli aveva dato un piacere quasi sensuale. Si presentava
perfetta in tutte le sue parti, armoniosa nella costruzione, irrefutabile nelle conclusioni. Certo
non era stato facile costruirla partendo da un materiale così limitato, ma erano ormai cinque
anni che i suoi assistenti non erano più riusciti a ripescare alcun frammento.
Era stato il caso che l’aveva portato sulle tracce di quel mondo perduto subito dopo aver
iniziato la sua carriera universitaria. Ma gli era bastato decodificare i primi frammenti che
aveva recuperato dal cyberspazio di quel lontano pianeta per decidere che ne avrebbe fatto il
suo campo di studio. Di quel mondo non era rimasto nulla, tutto ciò che copriva la sua
superficie era stato fuso in una compatta ed omogenea materia di color viola che esalava
ancora miasmi mortali. Ma lui, partendo da quei frammenti, aveva saputo ricostruire non solo
la psicologia di quei lontani progenitori, ma anche i loro comportamenti di vita quotidiana.
Ciò che lo aveva affascinato di quella civiltà perduta era che essa presentava caratteristiche
che non si erano più ripresentate nei successivi mille anni.
Il principio che guidava l’operare di quegli uomini era la più pura razionalità. Ogni loro
azione era mirata all’ottenimento del massimo vantaggio, alla massimizzazione del risultato
perseguito.
Quegli antichi saggi avevano una tale perfetta conoscenza della propria psiche da poterla
rappresentare attraverso delle funzioni matematiche che erano visualizzate da curve di livello
la cui pendenza misurava il trade off tra le alternative disponibili. Si trattava, e su questo tutti
i testi concordavano, di curve convesse verso l’origine perché essi amavano un consumo
bilanciato e non avrebbero mai e poi mai preferito quattro banane e due mele o quattro mele e
due banane a tre banane e tre mele. Sulla base del loro reddito, essi potevano così distribuirlo
esattamente e senza alcuna incertezza fra i vari “panieri di consumo”. Una strana terminologia
questa che gli aveva suggerito, anche se su questo punto non se l’era sentito di essere
categorico, la visione di una vita agreste ancora a diretto contatto con la natura.
Anche le loro attività produttive avevano luogo in una situazione di massima efficienza,
senza sprechi, minimizzando i costi e massimizzando i profitti. Ciò che l’aveva colpito era la
loro capacità di misurare le variazioni al margine di tutte le variabili coinvolte, un approccio
che da allora era sempre stato scartato perché ritenuto matematicamente interessante, ma
irrealistico.
Così quel mondo era vissuto in una situazione di equilibrio economico generale in cui vi
era una massima equità sociale dato che tutte le risorse erano retribuite in base al loro
contributo alla produzione. La povertà di alcuni, comunque relativa, dipendeva solo da una
scarsa dotazione di capitale umano. L’inquinamento veniva tenuto al livello ottimale e il
sentiero di sviluppo economico e sociale veniva tracciato con precisione matematica da una
serie di equazioni macroeconomiche che catturavano le immutabili leggi dell’economia.
Ma il capitolo di cui era più orgoglioso, quello in cui la sua opera aveva raggiunto il
massimo di accuratezza e d’interesse, era quello dedicato al mondo del lavoro. Questa società
era stata capace di una totale mancanza di superbia. Le modalità attraverso le quali la forza
lavoro era venduta ed acquistata erano del tutto identiche a quelle di qualunque altro bene, si
trattasse di zucche, di aragoste del Maine o di widget, qualunque cosa fossero. I lavoratori,
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perfettamente razionali e i cui processi decisionali erano tra di loro completamente
indipendenti, in ogni data unità di tempo potevano decidere sulla base del livello salariale se
lavorare o meno e, nel caso in cui il salario offerto fosse sufficiente a controbilanciare la
disutilità che sarebbe venuta loro dal rinunciare al proprio tempo libero, per quante ore farlo.
Era chiaro quindi che in quella felice società se qualcuno non lavorava era per sua libera
scelta. Come non concludere che si doveva essere trattato di una società opulenta, in cui
nessuno era schiavo delle necessità materiali e i cui membri potevano in qualunque momento
concedersi anche lunghi periodi di disoccupazione, ovviamente volontaria, per recarsi in
qualche amena località turistica.
Tutto questo non sarebbe bastato a far funzionare il sistema se gli straordinari abitanti di
quel pianeta non avessero usufruito di altre due capacità. Era stato questo che lo aveva
convinto che si trattasse di una popolazione che aveva raggiunto un livello evolutivo mai più
raggiunto: perfetta conoscenza e istantanea mobilità. La perfetta conoscenza -che doveva
consistere in qualche cosa di simile, anche se molto più perfezionato alla possibilità di
connettersi alla memoria universale- consentiva loro di visualizzare in tempo reale tutte le
schede di domanda e di offerta, mentre la perfetta mobilità permetteva loro di raggiungere
immediatamente il luogo di lavoro. Inizialmente Notlim aveva avuto paura di sostenere che la
popolazione che aveva abitato quel pianeta avesse avuto simili doti. Poi un giorno aveva
trovato la prova decisiva. Si trattava di pochissimi fotogrammi che erano stati girati su di una
immensa nave stellare, l’Enterprise , in cui si vedeva un umano, di nome Spock, che si
comportava con la razionalità che egli già sapeva essere tipica di quel popolo e che usava una
macchina che gli permetteva di trasferirsi da un luogo ad un altro in maniera istantanea, una
macchina che evidentemente era stata poi perfezionata. Quei pochi fotogrammi gli avevano
anche permesso di scoprire che quel popolo aveva lunghe orecchie appuntite.
La capacità di allocare istantaneamente il lavoro nei vari processi produttivi, sulla base
dello loro caratteristiche tecnologiche e del livello della domanda, rendeva tale fattore
perfettamente variabile, nei fatti qualcosa di simile all’energia, attivabile e disattivabile
spingendo un pulsante. Ciò eliminava ogni necessità di pianificare il parco uomini necessario
per far fronte a variazioni della produzione. Un mondo che gli industriali di Arret avevano
sempre sognato, ma ovviamente mai ottenuto.
La sua tesi avrebbe incontrato - Notlim ne era perfettamente consapevole- le critiche
sarcastiche dei Sentimentalisti che avevano delineato un’immagine totalmente diversa. La
loro tesi era che ciò che lui aveva preso per realtà fosse invece un modello che quel popolo
arcaico aveva prodotto per analizzare, spiegare e prevedere i comportamenti socio-economici.
Notlim non poteva credere che un gruppo di scienziati capaci di utilizzare strumenti
logico-matematici avanzati come quelli di cui aveva trovata traccia sul pianeta forse chiamato
Terra potessero ignorare il semplice e fondamentale principio che le ipotesi di un modello
debbono riflettere gli elementi essenziali di quella fetta di realtà che si vuole rappresentare.
Anche su Arret vi erano stati periodi oscuri durante i quali gli scienziati avevano dovuto
affermare che i loro modelli non erano rappresentazioni fedeli della realtà, ma meri strumenti
di calcolo. Essi lo avevano fatto non perché abbracciassero tale posizione, ma per evitare le
persecuzioni della classe sacerdotale, in quel momento al potere, e i cui sacri testi
sostenevano posizioni diverse. Era rimasta famosa l’introduzione che un sacerdote aveva
scritto per poter pubblicare un fondamentale testo di astronomia che aveva sconvolto la
precedente visione dell’universo. In essa si leggeva: “non vi è alcuna necessità che queste
ipotesi siano vere o in qualche modo vicine alla realtà; è sufficiente che esse forniscano
calcoli che siano coerenti con le osservazioni”. Ma poi la superstizione era stata sconfitta e gli
scienziati di Arret avevano potuto continuare nella loro ricerca della “verità”, pur nella
consapevolezza che si sarebbe sempre trattato di una verità relativa, condizionata dalla loro
struttura sensoriale e dalla posizione ideologica implicita nella scelta delle ipotesi e dei
termini non definiti posti alla base dei vari modelli.
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Certo era successo che qualche altro scienziato avesse in seguito provato di portare avanti
la cosiddetta tesi strumentalista, secondo la quale un modello non deve essere giudicato sulla
base della veridicità delle sue ipotesi, ma sulla sua capacità di prevedere il futuro corso dei
fenomeni. Questa posizione aveva sempre trovato ferma opposizione.
In primo luogo come si poteva ritenere che fosse più importante prevedere che spiegare?
La capacità previsiva di un modello è di fatto la conseguenza della sua capacità esplicativa
che a sua volta dipende dalla capacità delle sue ipotesi di cogliere gli aspetti fondamentali del
fenomeno analizzati dal modello. Rifiutare una tale posizione significava mettere sullo stesso
piano gli scienziati con astrologi e cartomanti. Cosa sarebbe successo se le previsioni relative
all’andamento del PIL o dell’occupazione fatte da un mago fossero risultate migliori di quelle
degli economisti? Avrebbero essi deciso di abbandonare i loro modelli a favore dei tarocchi, o
dei meridiani ?
E poi se si fosse anche deciso di giudicare un modello sulla base della sua capacità
previsiva si sarebbero dovute stabilire le regole del gioco. Chi avrebbe deciso quali margini di
errore fossero accettabili? A chi sarebbe stato affidato il compito di effettuare le verifiche?
Come fare ad evitare che giudici e giudicati finissero col coincidere? E come evitare che la
mancata capacità previsiva del modello non venisse giustificata con motivi ad hoc del tutto
contingenti e tale visione imposta in maniera autoritaria da chi nel mondo accademico
deteneva il potere? Notlim non poteva accettare che studiosi così raffinati non fossero
consapevoli di questi problemi e avessero accettato posizioni strumentaliste. Quindi ciò che
gli scienziati di quel mondo avevano descritto non poteva essere che una rappresentazione
veritiera della loro realtà.
Certo anche Notlim aveva visto parte dei frammenti che i Sentimentalisti avevano
utilizzato per fornire una visione diametralmente diversa di quel mondo. Violenza, miseria,
corruzione, sfruttamento erano rappresentati a vive tinte. Sembrava di capire che la stragrande
maggioranza degli abitanti di quel mondo vivesse sotto il limite della povertà; che i paesi
ricchi avessero fatto ogni sforzo per rendere egemone la loro cultura e che avessero utilizzato
senza troppi scrupoli il loro potere militare per farlo, giustificando le guerre da loro intraprese
come strumento per portare la democrazia e diffondere quel rispetto dei diritti umani che essi
erano i primi a violare.
Le scene più drammatiche riguardavano però gli eventi che avevano determinato la fine di
quel mondo. La popolazione dei paesi più poveri aveva cominciato a crescere in maniera
smisurata e fuori controllo. A quel punto i paesi ricchi, terrorizzati dall’idea di essere invasi
da bande di straccioni affamati, avevano iniziato a far pattugliare i propri confini dall’esercito
e dalla marina, con l’aiuto dell’aviazione e dei satelliti. L’ordine era quello di respingere con
qualunque mezzo chiunque si avvicinasse. Però l’unico risultato era stato quello di far
lievitare i profitti delle organizzazioni che gestivano l’immigrazione clandestina e ancora di
più il numero dei morti. Ben presto fu evidente che azioni puramente difensive erano
insufficienti. Fu allora che, con la connivenza di alcuni gruppi di potere, i servizi segreti
presero in mano la situazione e cominciarono a fomentare scontri e guerre fra fazioni
avversarie dei paesi poveri, fornendo contemporaneamente armi a tutti i contendenti. Anche
questo risultò insufficiente a disinnescare la bomba demografica e allora si decise di
diffondere alcuni virus letali che erano però sfuggiti al controllo e si erano diffusi anche nei
paesi ricchi. Pensando di essere sotto attacco batteriologico, uno di questi aveva rispolverato
alcune bombe nucleari che aveva inavvertitamente dimenticato di distruggere. Purtroppo,
anche altri paesi erano incorsi nello stesso sbaglio e in 24 ore tutta la vita del pianeta era stata
annientata.
Notlim però non si era fatto confondere da quelle immagini. Egli sapeva quanto la fiction
fosse popolare su quel pianeta: i suoi collegati avevano semplicemente preso una telenovela
per la realtà.
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Ramòn: Quando un uomo con la pistola incontra un uomo
con il fucile, l’uomo con la pistola è un uomo morto.
Joe: Vediamo se è vero.
Dal film di Segio Leone “ Per un pugno di dollari”, 1964
Primo dialogo - Riuscirà la Cina a conquistare la leadership mondiale?
Cesenatico, una delle località più note e simpatiche della riviera romagnola. E' una mattina
di fine primavera che sembra preannunciare un’estate più calda del solito. Mario e Michele
si sono alzati presto e hanno deciso di andare a prendere un cappuccino nel loro bar
preferito. Appena arrivati, si uniscono a John che sta facendo colazione a un tavolino da cui
s’intravvede, tra pini e capanni, un po’ di mare. Dopo poco arriva anche Li sventolando
l’ultimo numero del China Daily 1 che scarica regolarmente da Internet e traduce (in maniera
un po’ creativa) il titolo dell’articolo di fondo: “La Cina ha messo la freccia, pochi anni
ancora e il sorpasso sarà cosa fatta”.
Mentre l’oriente sorge, l’occidente tramonta
John, assaporando la sua colazione all’inglese: Mio caro Li, la vostra voglia di sorpasso
è pericolosa soprattutto se chi guida tirava la carretta fino a pochi anni fa; il vostro è un
motore ancora in rodaggio e potrebbe surriscaldarsi. E poi non si possono certo escludere
errori di manovra. Nessun economista cinese ha ancora vinto il premio Nobel. Insomma, se
fossi in voi, starei attento a non andare a sbattere. Che vi piaccia o no, il futuro è ancora a
stelle e strisce.
Mario: Ha parlato John Wayne. Guarda John che l’attuale crisi mondiale è partita dal tuo
paese ed è stata provocata dalle politiche liberiste che tanto ti piacciono e dalla
deregolamentazione dei mercati finanziari. D’altra parte non mi sembra che la presenza di
tanti premi Nobel nelle vostre Università sia servita a molto. E poi il problema è più generale.
Il merito non è tutto della Cina: mentre l’oriente sorge, l’occidente tramonta.
John: L’unico modo per essere efficienti e competitivi è quello di affidarsi al mercato e di
minimizzare il ruolo dello Stato.
Mario: Senti, perché non vai a fare due chiacchiere con i milioni di americani 2 che hanno
perso la casa a seguito della crisi finanziaria? Sta solo attento perché i tuoi connazionali
continuano ad avere il grilletto facile e nessuno è ancora riuscito non dico a eliminare, ma
neppure a ridurre l’arsenale che si nasconde nelle vostre case. Tu come sei messo ad
artiglieria?
John: Sarò di destra come dite voi, ma non sono a favore del possesso indiscriminato di
armi.
1
Con oltre mezzo milione di copie; un terzo delle quali diffuse all’esteero via satellite, il China Daily è il giornale
cinese in lingua inglese con la circolazione piu ampia.
2
Tra il 2007 e il 2012 i pignoramenti effettuati negli Stati Uniti furono quasi 16 milioni e le banche si sono riprese
oltre 5 milioni di case.
13
Michele: Lo sappiamo John, Mario scherzava; comunque, una fede cieca nella “mano
invisibile” è fuori luogo. I limiti del libero mercato non sono pochi. Perfino Adam Smith li
vide con grande chiarezza e uno dei risultati più importanti della ricerca economica del XX
secolo è stato quello di aver dimostrato che i mercati sono efficienti solo nella misura in cui
siano rispettate tutta una serie di condizioni, molto difficili da riscontrare nella realtà, come ad
esempio l’assenza di poteri monopolistici e la presenza di perfetta informazione 3. Quando
queste condizioni non sono presenti, si registrano, come ben sai, i cosiddetti fallimenti del
mercato.
Mario: Sì, che tutti noi conosciamo anche di persona!
Michele: I fallimenti di mercato sono situazione nelle quali il mercato non produce esiti
efficienti 4. Ma torniamo alla crisi. Stiglitz, che non è proprio l’ultimo arrivato dato che ha
vinto il premio Nobel ed è stato Direttore della Banca Mondiale, ha detto che non è rimasto
per niente sorpreso dal fatto che la crisi finanziaria non fosse stata prevista, dato che il
modello utilizzato dalla Banca Centrale americana rappresenta un mondo caratterizzato da
perfetta informazione e nel quale la bolla non poteva scoppiare perché non poteva esserci 5.
Ma forse la miglior testimonianza del fallimento di tutto un modo di ragionare, che dimentica
i limiti del mercato, fu offerta proprio dalla testimonianza data da Greenspan, allora
Governatore della Banca Centrale, davanti al Congresso americano e che io stesso ricordo di
aver seguito in diretta sulla CNN 6. Fu un momento sorprendente quando il Governatore
riconobbe di aver commesso un errore nel ritenere che i mercati sarebbero stati capaci di
gestire meglio i rischi e dichiarò di essere rimasto molto sorpreso. D’altra parte il mondo non
è ancora uscito dalla crisi. Si deve tuttavia riconoscere che Stati Uniti e Cina si sono mossi in
maniera più intelligente dell’Europa: hanno capito che per uscire dalla crisi non serve
l’austerità, ma è necessario rilanciare l’economia.
Il dibattito sul sorpasso: alcune tesi a confronto
Mario: (che è alla seconda brioche, una chiara indicazione che i fallimenti del mercato lo
lasciano al momento abbastanza indifferente) Ragazzi non cominciamo con le discussioni di
principio e torniamo al problema del sorpasso. Forse a John è sfuggito il dibattito sulla caduta
dell’Impero Americano e l’atteso passaggio del testimone dalla cultura occidentale a quella
orientale. C’è ad esempio un recente articolo del Prof. McCoy 7 che non è cinese, non fa parte
dell’equipaggio dell’Enterprise 8, ma insegna storia del Sud est asiatico all’Università di
Wisconsin - Madison. Secondo lui, il crollo dell’America è dietro l’angolo. La sua tesi è che,
malgrado l’aura di onnipotenza che li circonda, gli Imperi siano organismi fragili e il loro
collasso è stato spesso improvviso e veloce. Ad esempio, a suo dire, il crollo dell’Impero
Portoghese si compì in un anno, quello dell’Unione Sovietica in due, quello dell’Impero
3
Tra I lavori fondamentali vi sono l’articolo di Gerard Debreu e Kenneth Arrow: “Exixtence of a competitive
equilibrium for a competitive economy del 1954 e la monografia di Debreu: Theory of Value: An Axiomatic
Analysis of Economic Equilibrium, del 1959. Entrambi i lavori sono fortemente sconsigliati ai non matematici.
4
Tra i maggiori fallimenti del mercato vi sono quelli collegati all’inquinamento.
5
Joseph Stiglitz, “The Failure of Macroeconomics in America”, China & World Economy, pp. 17 – 30, Vol. 19,
No. 5, 2011.
6
Si veda anche, Felsenthal, Mark (September 13, 2007). "Greenspan says didn't see subprime storm brewing".
Reuters. Retrieved June 22, 2009.
7
Alfred W. McCoy, “The Decline and Fall of the American Empire. Four Scenarios for the End of the American
Century
by
2025”,
affisso
su
Tom
Dispatch
il
5
dicembre
2010;
http://www.tomdispatch.com/archive/175327/alfred_mccoy_the_decline_and_fall_of_the_American_empire
8
Ovviamente Michele si riferisce al popolare Dottor McCoy della serie Star Trek, noto anche come Bones (Ossa),
un appellativo che, viste le tesi che sostiene, potrebbe essere utilizzato anche per l’omonimo professore
universitario.
14
Ottomano in undici, quello della Gran Bretagna in diciassette. Sempre secondo McCoy, il
crollo dell’Impero Americano si compirà in ventidue anni a contare dal 2003, l’anno fatidico
in cui Bush decise di invadere l’Iraq.
John: Mi sembra che questo McCoy dia i numeri e poi bella riconoscenza per il
Presidente che ha guidato la guerra contro il terrorismo e gli stati canaglia 9.
Mario: Guarda caso, i terroristi vivono sempre in paesi pieni di petrolio o di altri minerali
interessanti, mentre nessuno se l’è mai presa con tutti quei sanguinari dittatori che hanno o
stanno ancora sfruttando in maniera ignobile le popolazioni di paesi poveri di risorse naturali.
Come diceva Agatha Christie, se una cosa capita una volta sola può essere una coincidenza,
ma se capita più volte diventa un indizio. Ti ricordo anche che gli Stati Uniti sono l’unico
paese che è stato condannato per terrorismo internazionale dalla Corte Mondiale e che ha
respinto una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu che richiamava i paesi a
rispettare il diritto internazionale 10. Eravamo negli anni ’80 e Reagan, sconfitti gli indiani,
aveva deciso di sradicare il comunismo dovunque si annidasse. Tutti gli strumenti erano
buoni, incluse le squadre della morte.
Michele: Mario, adesso ti ci metti anche tu! Torniamo al crollo del potere americano, un
fatto che la maggior parte degli studiosi ritiene ormai assodato. Perfino lo US National
Intelligence Council 11 ha ammesso che il potere globale degli Stati Uniti sia in fase
discendente, anche se ritiene che il processo sarà lungo e si concluderà con un atterraggio
morbido. Secondo McCoy, invece, l’Impero Americano sarà un ricordo del passato già prima
del 2030 e la cosa non sarà piacevole per i suoi cittadini. La caduta degli imperi, secondo lui,
ha effetti demoralizzanti, determina prolungate crisi economiche e spesso disordini politici. A
dire la verità, vi è anche chi come Joseph Nye, il guru neoliberale della politica estera
americana, non crede che gli Stati Uniti stiano declinando e tanto meno che la Cina possa
assurgere al ruolo di leader mondiale 12.
John (attaccando il secondo uovo all’occhio di bue): Questo è parlare! E non si tratta di
un’opinione isolata. Guardate che anch’io ho letto un po’ di roba su questo tema -anche se mi
sembra tempo perso- e che anche il vostro amico Obama ha dichiarato che non avrebbe mai
accettato che gli Stati Uniti scendessero al secondo posto 13 .
Mario: Beh, che cosa ti aspetti dal Presidente degli Stati Uniti, che faccia il tifo per la
Cina? Il punto è che sono proprio gli studiosi occidentali a sostenere che la leadership
mondiale stia per passare all’Oriente e a discutere le possibili caratteristiche di questo nuovo
ordine mondiale.
9
E’ la traduzione creativa del temine inglese rogue state che letteralmente significa stato isolato dalla comunità
internazionale. Nella visione originaria dell’Amministrazione Clinton, per essere canaglia uno stato doveva: i)
essere diretto da un regime autoritario, ii) non rispettare i diritti umani, iii) sponsorizzare organizzazione terroriste,
iv) prdurre armi di sterminio di massa e, ovviamente, v) essere critico nei confronti degli Stati Uniti. Corea del
Nord, Libia, Iraq e Iran avevano tutte le caratteristiche richieste per essere degli stati canaglia. L’Amministrazione
Bush passò alla dizione Asse del male, un appellativo che fu usato per la prima volta da G. B. Bush durante il
Discorso dell’Unione tenuto nel gennaio del 2002. Nella visione di Bush il comportamento di questi paesi non
poteva cambiare perché era implicito nella loro natura malvagia. Nel 2010 Obama ha definito l’Iran e la Corea del
Nord “outliers”, suggerendo così che questi paesi possono adottare comportamenti accettabili, anche mantenendo
gli attuali regimi. Si veda Robert S. Litwak, From “Rogues” to “Outliers”, the Globalist, 4/5/2010
http://www.theglobalist.com/storyid.aspx?StoryId=8438
10
The United States is a Leading Terrorist State”; Una intervista con Noam Chomsky di David Barsamian;
monthlyreview.org/2001/.../the-united-states-is-a-leading-terroriststate.
11
US Intelligence Council (2010), Global Trends 2025.
12
Joseph S. Nye, The Future of Power, Public affairs, New York, 2010.
13
Discorso sullo Stato dell’Unione tenuto da Obama nel gennaio del 2010.
15
Michele: A chi ti riferisci? A Martin Jacques e Ian Morris? 14
Mario: Sì, anche se a dire la verità di Jacques mi sono limitato a guardare il video su
Youtube 15 e il libro do Morris non l’ho letto tutto: settecento pagine sono molte anche per uno
come me che ama i libri di storia. Comunque, se ho ben capito, Jacques sottolinea che il
sorpasso della Cina presenta elementi totalmente nuovi: per la prima volta la leadership
mondiale sarebbe presa da un paese in via di sviluppo e che appartiene geograficamente
all’oriente. Sul primo punto non ci sono dubbi. Sul secondo, invece, Ian Morris, anche lui
Professore di storia, ma presso l‘Università di Stanford in California, ha sostenuto che negli
ultimi 15.000 anni l’Occidente ha mantenuto la leadership fino al 550 d.C. quando il
testimone passò alla Cina per i successivi 1.200 anni. A quel punto, siamo all’inizio della
rivoluzione industriale, l’Occidente tornò in testa e ci dovrebbe rimanere fino al 2103.
John: Quindi, stiamo vincendo per quattordici millenni a uno. Ma c’era bisogno di risalire
a 11.000 anni prima di Adamo, di Eva, e del serpente 16 per capire quello che sta succedendo
adesso?
Mario: Morris sostiene che per cogliere “la forma della storia” bisogna cominciare
dall’inizio.
John: E la straordinaria precisione nel fissare la data del prossimo sorpasso?
Tarocchi o sfera di cristallo?
Mario: Morris insegna a Stanford non a Hogwarts 17. La “precisione” delle sue previsioni
dipende dalla trovata fondamentale del libro: utilizzare un indice di sviluppo che misuri la
capacità delle varie società di padroneggiare l’ambiente fisico e intellettuale che le circonda.
Michele: Si tratta di una scelta che consente di raccontare la storia del mondo come una
gara fra Ovest ed Est sul filo di una sola variabile, un fantomatico indicatore di sviluppo. A
me sembra però che il concetto di sviluppo utilizzato da Morris sia poco convincente. Il suo
indice –che si basa su quattro indicatori che riguardano l’energia, l’organizzazione sociale, la
tecnologia dell’informazione e la capacità di fare la guerra- misura forse la capacità o la
potenzialità di dominare in campo economico e militare il mondo circostante, ma ciò non
coincide con quello che normalmente intendiamo per sviluppo. Sarà pure vero, come dice
Morris, che gli uomini sono tutti uguali da sempre, ma le società alle quali hanno dato vita,
no. Esse sono cambiate nel tempo e sono sempre state diverse fra loro anche nello stesso
periodo. Pretendere di catturare tale varietà di livelli e tipologie di sviluppo (sociale,
economico, culturale, educativo, psicologico, ecc.) con un solo numero è, a dir poco,
superficiale. Se la comprensione di tutto ciò che è complesso (e io credo che la complessità
non sia una novità del nostro tempo, l’uomo e le sue società lo sono sempre stati) richiede un
processo di semplificazione, è anche vero che oltre un certo punto la semplificazione falsa e
14
Martin Jacques (2012), When China rules the World. The end of the Western World and the Birth of a
New Global Order; seconda edizione; Penguin books, (prima edizione 2009); Ian Morris (2010), Why the west
rules – for now, Profile Books.
15
http://www.youtube.com/watch?v=Og8zBhDDkEQ
16
Come Ian Morris, anche l’Arcivescovo James Ussher amava adottare metodologie quantitative e nel 1650
pubblicò gli Annales Veteris Testamenti, in cui certificò che Dio aveva creato l’Universo il 23 ottobre 4004 a.C. e,
in questo facendo meglio di Morris, indicò anche l’ora esatta: le 12 in punto. Ovviamente non sono mancate le
critiche e altri autori hanno fornito date alternative come il 5199 a.C. e del 3760 a.C. Comunque mi sembra
rassicurante il fatto che l’intervallo tra le varie stime non sia molto ampio.
17
Per chi avesse perso l’occasione di leggersi la saga di Henry Potter, Hogwarts è la sede della più famosa facoltà
di magia della Gran Bretagna.
16
tradisce la realtà che vuole catturare. Così ciò che io ho gradito di più nel libro di Morris è
stata la ricchezza delle informazioni e l’interesse delle storie che racconta.
Mario: Come direbbe Confucio, sic transit Morris 18.
John: Ragazzi, a me tutta questa discussione sembra impostata male; credo che stiamo
dimenticando un punto fondamentale. So anch’io che l’economia cinese sta crescendo più
rapidamente di quelle occidentali, un fenomeno che d’altra parte si registra in molti paesi in
via di sviluppo. E’ anche evidente che la Cina sta assumendo un ruolo e un peso sempre più
rilevanti sulla scena internazionale. Ma c’è qualcos’altro che succede in quel paese e che è
evidente a chiunque lo visiti anche per pochi giorni. I cinesi si stanno occidentalizzando; la
crescita economica e lo sviluppo sociale li stanno rendendo sempre più simili a noi nel
comportamento e nei valori. Perciò questa differenza tra occidente e oriente è del tutto fasulla.
Noi, la nostra civiltà, abbiamo vinto per definizione perché alla fine saranno la nostra cultura,
i nostri principi, i nostri valori a prevalere. Insomma, come si usa dire per gli abitanti di Hong
Kong, anche i Cinesi dell’entroterra diventeranno come le banane: gialli fuori, bianchi dentro.
Mario: Caro John, Jacques sostiene proprio l’opposto e a me pare che i suoi argomenti
siano convincenti. Secondo lui, l'American way of life non è né il mito, né l’obiettivo dei
Cinesi. Insomma la Cina non è occidente e non vuole diventarlo. A prima vista può sembrare
che il consumismo, oggi imperante e strumentalizzato dal governo cinese per tenere alto il
tasso di crescita della produzione in una fase in cui la domanda estera sta drammaticamente
calando per effetto della crisi globale, sia portatore e indice di una omologazione alla cultura,
o meglio ad un certo tipo di cultura, occidentale. Così non è. A sostegno di questa tesi,
Jacques cita tre differenze fondamentali tra noi e la Cina.
John: Che sono?
Mario: La prima riguarda la natura dello stato. La nostra identità si basa su principi e
valori piuttosto recenti introdotti dall'illuminismo nel XVIII secolo. I cinesi, invece, si
definiscono e si sentono tali facendo riferimento a una civiltà che risale per lo meno al terzo
secolo a.C., ma che affonda le proprie radici in un passato ben più lontano. Nel 221 a.C., Qin
Shi Huang, per intenderci quello dei guerrieri di terracotta, della prima grande muraglia 19 e
dell’ancora inviolato tumulo sepolcrale, diede vita all’Impero cinese sconfiggendo ed
occupando gli stati confinanti. Pertanto, a differenza di noi, la Cina ha le proprie radici in un
passato lontano, in una lunghissima tradizione culturale, è uno “Stato Civilizzazione”. In
secondo luogo, gli stati europei sono il risultato di processi di disgregazione: in Europa si è
passati da vasti imperi a stati relativamente piccoli. La Cina ha seguito il percorso opposto e
le numerose dinastie che si sono succedute sul trono dell’Impero Celeste, pur con alti e bassi,
hanno progressivamente ampliato il territorio da esse controllato. La terza differenza tra la
Cina e i paesi occidentali riguarda il modo in cui guardiamo allo stato. Date un’occhiata ai
giornali che abbiamo comperato questa mattina. Lo sport principale della stampa italiana, ma
18
L’espressone completa è “Sic transit gloria mundi” che letteralmente significa “Cosi passa la gloria del
mondo”, una frase che viene spesso usata per indicare come siano effimere le cose di questo mondo. Per i più
curiosi, l’espressione è tratta dalla Imitazione di Cristo, un’opera medioevale fortemente consigliata a chi voglia
conoscere la via da percorrere per raggiungere la perfezione ascetica. Il testo, normalmente attribuito al monaco
tedesco Thomas da Kempis, potrebbe aspirare a un Guinness per essere il libro più letto dopo la Bibbia. Presenta
anche un’interessante analogia con il libro che state leggendo: anch’esso è scritto sotto forma di dialogo. Tornando
all’espressione incriminata, essa è stata usata, invero con un’efficacia molto modesta, nelle cerimonie
d’incoronazione dei papi tra il 1409 e il 1963.
19
La costruzione della Grande Muraglia fu proseguita da altre Dinastie e soprattutto dai Ming fin quasi alla fine
del XV secolo.
17
forse anche una delle sue principali ragioni di esistere, è quello di analizzare criticamente le
azioni del governo, di qualunque governo. In Cina, per la stragrande maggioranza dei
cittadini, ciò non ha molta importanza. Per i cinesi lo Stato è il capo-famiglia delle ormai
perdute tradizioni, il padre che ci ama e che, conoscendoci profondamente, sa qual è il nostro
bene e lo persegue senza che noi ci si debba preoccupare. In sostanza, lo stato cinese gode di
una legittimità molto maggiore e ciò da ben prima della comparsa del partito unico, ben prima
di Mao.
Michele: Mi ricordi un episodio che mi è successo ormai tanti anni fa quando studiavo in
California. Un giorno un amico indiano che studiava per conseguire un dottorato in
ingegneria mi disse che doveva tornare a casa per sposarsi. Gli chiesi chi era la promessa
sposa e lui mi confessò candidamente che non la conosceva e che non l’aveva mai vista di
persona; l’aveva scelta la sua mamma. Gli domandai se era matto a sposare una donna che
non aveva mai visto e che non amava. Lui molto tranquillamente mi rispose che la sua
mamma lo conosceva bene e che sicuramente aveva scelto la ragazza giusta; l’amore sarebbe
venuto col tempo.
Mario: Fatemi finire la tesi di Jacques. Un'altra differenza rilevante riguarda l’omogeneità
etnica. Oltre il 90% della popolazione cinese appartiene all’etnia Han 20.
Michele: A me pare che ciò abbia valenze sia positive, sia negative. Da un lato,
l’omogeneità etnica è uno dei collanti fondamentali dello stato cinese; dall’altro, contribuisce
a creare, diciamo così, un senso di superiorità che oggi è alimentato anche dai successi
conseguiti negli ultimi trenta anni sul piano economico e politico e dal fatto che le sconfitte
del passato non siano state ancora del tutto digerite 21. Per essere espliciti, il razzismo non è
un problema solo dell’occidente.
Li: Non è facile dimenticare ciò che hanno fatto i giapponesi, prima e durante la seconda
guerra mondiale, quando anche adesso, dopo quasi 70 anni dalla fine del conflitto, i loro
governi continuano a non mostrare la minima sensibilità su questi temi; senza parlare del fatto
che non vi sia stato alcun gesto di pentimento rispetto agli orrori di cui le truppe giapponesi si
sono macchiate. E non parlo solo delle stragi perpetrate a Nanchino e in altre città, ma
dell’aver usato le nostre donne come confort women, per usare un eufemismo, e dell’aver
condotto orrendi esperimenti medici e chimici su prigionieri cinesi 22.
Michele: Li, su questo hai tutta la mia comprensione. Lascia, tuttavia, che ti confessi che
io, da bianco normalmente non esposto al problema, ho capito cosa fosse il razzismo proprio
in Cina, tanti anni fa, passeggiando per Guangzhou con una ragazza cinese. Fui circondato da
20
Vi sono solo due province nelle quali gli Han non sono la maggioranza: lo Xinjiang e il Tibet, entrambi al centro
di gravi disordini negli ultimi anni.
21
Si pensi alla tensione fra i due paesi generata dalla disputa su alcune isole disabitate (le isole Senkaku per i
giapponesi e Diaoyu per i Cinesi) del Mar Cinese Orientale, attualmente sotto l’amministrazione giapponese e i
sensi di rivalsa riaccesi ogni anno dalle visite di uomini politici al tempio schintoista di Yasukuni dove si venerano
i caduti di guerra giapponesi, fra i quali vi sono alcuni criminali di guerra.
22
Li si riferisce agli orrendi esperimenti (incluse vivisezioni) condotti da medici giapponesi su prigionieri cinesi,
ma non solo, tra il 1937 ed il 1945 presso la Unità 731 che operava nella città di Harbin sotto il comando del
generale Shiro Ishii. Alla maggior parte degli “scienziati” coinvolti gli Stati Uniti concessero l’immunità in cambio
d’informazioni sugli strumenti di guerra biologica che erano stati sviluppati presso l’Unità 731. Come scrisse a
Washington il generale Douglas MacArthur, comandante in capo delle Forze Alleate: “Forse potremo ottenere dati
aggiuntivi, possibilmente dalle dichiarazioni di Ishii, informando i giapponesi coinvolti che le informazioni
rimarranno nei canali dell’intelligence e non verranno utilizzate come prove di “Crimini di Guerra”. Un accordo in
questo senso fu raggiunto l’anno seguente. Harris, Sheldon H. Factories of Death: Japanese Biological Warfare
1932-45 and the American Cover-Up, Routledge, 1994. ISBN 0-415-09105-5 ISBN 0-415-93214-9.
18
un gruppo di uomini che non gradivano che una loro compatriota andasse in giro in
atteggiamento affettuoso con uno straniero e sembravano decisi a farmi passare la voglia di
un matrimonio misto. Fu la mia amica a convincerli che non era il caso di mandarmi
all’ospedale, ma non fu facile. So per esperienza personale che, per quanto riguarda i bianchi,
le cose sono cambiate, almeno nelle grandi città. Tuttavia, anche stando a recenti articoli sul
China Daily sono rimaste più o meno le stesse nei confronti dei neri.
Li: Hai ragione; non c’è dubbio, in Cina c’è ancora molto razzismo.
John: Vediamo di ricapitolare quello che ha raccontato Mario. Secondo Jacques, lo stato
cinese è destinato a prendere la leadership del globo prima di aver raggiunto un elevato livello
di sviluppo e mantenendo una propria diversa e specifica identità che non sarà modificata più
di tanto dalla crescita economica e dallo sviluppo sociale. Infatti, essa affonda le proprie
radici in un passato lontano. Inoltre, lo stato cinese è etnicamente omogeneo - o forse più
realisticamente sta omogeneizzando senza fare troppo rumore i suoi diversi - e il suo governo
gode di una legittimità sconosciuta nei nostri paesi. Sono però convinto che ci vorrà molto
tempo perché gli occidentali si fidino dei cinesi come si sono fidati di noi.
Michele: Bella forza! Siete stati capaci di fare il lavaggio del cervello a mezzo mondo.
Voi e la vostra industria cinematografica siete riusciti a venderci una lunga serie di miti
fasulli e razzisti a partire dall’epopea del Far West (oggi la si definirebbe una pulizia etnica),
per continuare con le guerre contro i cosiddetti musi gialli, per finire, come dicevamo prima,
con gli stati canaglia produttori di petrolio. Forse sarebbe ora che gli Stati Uniti si sdraiassero
su di un lettino e cercassero di guardarsi dentro in maniera onesta, come suggerirono gli
studenti nel lontano ‘68. E poi, a dire la verità, non so in quanti continuino a fidarsi degli Stati
Uniti con le loro armi intelligenti, i loro droni, ma soprattutto con il loro perbenismo bigotto.
John: Ah. Adesso capisco perché porti solo camicie a fiori …
Li: Sentite, mi sembra che stiate facendo un dialogo sui massimi sistemi. Se la Cina
prenderà o meno la leadership mondiale, che tipo di leader sarà e come governerà il mondo
sono certo domande interessanti. Suppongo però che la leadership mondiale richieda la
supremazia anche in campo tecnologico e militare e certamente coinvolga anche valori e
aspetti culturali. A me sembra che la premessa fondamentale necessaria, anche se certamente
non sufficiente, sia però rappresentata dal raggiungimento della leadership economica. Sono
anche convinto che questo sorpasso avrà importanti implicazioni psicologiche sia per noi, sia
per gli americani, sia per tutti gli altri paesi del mondo. Insomma, si tratta di qualcosa che
potrebbe aprire una nuova fase della storia umana. Vi confesso, tuttavia, che non mi è del
tutto chiaro se stiamo parlando di una previsione basata su fatti o sia noi cinesi, sia voi
occidentali, stiamo semplicemente dando voce a speranze e timori.
Crescita della produzione e sorpasso economico
Michele: Supponiamo che vi siano due ciclisti e che quello più indietro stia cercando di
raggiungere quello davanti. L’inseguimento sarà coronato da successo se l’inseguitore saprà
mantenere una velocità più elevata. Il tempo che impiegherà per raggiungere il corridore in
testa dipenderà dalla distanza e dalla velocità relativa. Ora, nel nostro caso, la distanza è data
dalla differenza tra il Prodotto Interno Lordo degli Stati Uniti e della Cina, mentre la velocità
dei due paesi è misurata dalla crescita percentuale dei rispettivi Prodotti Interni Lordi. Il
problema è che l’economia non è come la fisica. I fisici sanno calcolare esattamente quanto
tempo impieghi una sonda spaziale per raggiungere Marte perché possono prevedere con
19
grande precisione la distanza tra Marte e il centro di lancio del satellite in qualunque
momento futuro, conoscono la traiettoria e la velocità con cui Marte si sposta nel cielo e
possono programmare la traiettoria e la velocità della sonda. I modelli degli economisti non
hanno certo capacità analoghe.
Li: E allora?
Michele: Lascia che ti racconti una barzelletta. Su un’isola deserta ci sono un fisico, un
chimico e un economista. Un giorno un improvviso colpo di fortuna: i tre trovano una grossa
scatola di tonno, ma non hanno nessuno strumento per aprirla. Il chimico dice: “Sono certo
che su questa isola ci sono delle sostanze che mi possono consentire di costruire un solvente
che sciolga il coperchio della scatoletta”. Il fisico dice: “Se metto questa pietra su quella
roccia e la faccio cadere sulla scatoletta con la giusta inclinazione, penso di riuscire a far
saltare il coperchio”. L’economista dice: “Supponiamo di avere un apriscatole”.
Li guarda Michele con aria attonita e non ride.
Michele: OK. Questo è un tipico problema culturale. Anch’io non ho mai trovato una
barzelletta cinese che mi facesse ridere. Comunque, quello che volevo dire è che, in assenza
di modelli capaci di predire la crescita del Prodotto Interno Lordo dei due paesi per i prossimi
trenta anni, l’unica cosa che gli economisti possono fare è formulare delle ipotesi e quindi
delle previsione sostanzialmente “naso metriche” basate sulle tendenze passate e le percezioni
dello studioso che le effettua. Ovviamente quello che succede è che quasi ogni economista
che si cimenta in questo gioco esce con delle ipotesi e quindi dei risultati diversi. C’è un
ulteriore problema che è quello di scegliere quale Prodotto Interno Lordo utilizzare così da
rendere confrontabile la produzione dei due paesi.
Li: Suppongo che comunque si parta dal fatto che negli ultimi anni il Prodotto Interno
Lordo della Cina sia cresciuto molto più rapidamente di quello degli Stati Uniti e la distanza
si sia ridotta. Ad esempio abbiamo già raggiunto e superato il Giappone.
Michele: Esatto. Però, tanto per darti un’idea del problema, secondo molte fonti il
sorpasso del Giappone sarebbe avvenuto solo di recente. Secondo altri autorevoli esperti, il
sorpasso si sarebbe invece verificato una ventina di anni fa. Sentite preferirei discutere questo
tema avendo più informazioni fattuali. Non posso andare a memoria. Che ne direste di
continuare questa sera davanti ad un aperitivo. Questo mi lascerebbe il tempo per
documentarmi un po’ meglio.
Stesso posto verso le sei di sera; i nostri quattro amici hanno ordinato prosecco e
stuzzichini.
Li: rivolgendosi a Michele e Mario: Vedo che siete venuti armati di computer. Da Michele
me l’aspettavo, ma tu Mario ...
Mario: Aspettati ben altro. Siamo solo all’inizio. Ti sorprenderò!
Michele: Ho scaricato alcuni dati e preparato una simulazione che ci potrà aiutare a capire
meglio il problema del sorpasso. In fondo, non c’è niente di male se anche noi proviamo a
dare i numeri.
20
John: Se ho capito bene quello che hai detto stamattina, quando si affronta il problema del
sorpasso, ci sono due problemi: il primo riguarda quale misura della produzione usare; il
secondo le ipotesi sui tassi di crescita.
Misure alternative della produzione: il PIL a prezzi correnti e il PIL a prezzi costanti
Michele: Purtroppo alcuni aspetti tecnici non possono essere evitati. Se mi permettete di
fare il professore di economia per qualche minuto, comincerei con una definizione di Prodotto
Interno Lordo, per gli amici PIL. Anche il PIL è una di quelle parole che è entrata nel
linguaggio comune, ma questo non significa che tutti sappiano che cosa voglia dire
esattamente.
Li: Hai perfettamente ragione, almeno per quanto mi riguarda.
Michele: Non ti preoccupare, sei sicuramente in numerosa e qualificata compagnia.
Comunque, il PIL misura il valore dei beni e dei servizi prodotti da un paese, all’interno dei
suoi confini, nel corso di un determinato periodo, di solito un anno. Per evitare duplicazioni,
nel calcolo del PIL si considerano solo i prodotti finali destinati al consumo, all’investimento
o alle esportazioni.
John: Puoi fare un esempio?
Michele: Supponiamo che il paese di Fruttilandia produca due beni: pere e mele. Vi
ricorderete che alle elementari ci hanno insegnato che non si possono sommare le mele con le
pere? Per calcolare il PIL lo dobbiamo fare. Per risolvere il problema basta rendere i due beni
omogenei e questo risultato si raggiunge utilizzando non le quantità dei due beni, ma il loro
valore. In sostanza, il PIL sarà uguale alla somma del valore delle mele e delle pere, valore
che si ottiene moltiplicando la quantità prodotta per il prezzo. Nel caso descritto nella parte
sinistra della Tavola 1, il PIL di Fruttilandia è uguale a 25 nell’anno A. Supponiamo adesso
che, come mostra la parte a destra della stessa Tavola, nell’anno successivo (anno B) si
registri un aumento sia delle quantità prodotte, sia dei prezzi cosicché il PIL di Fruttilandia
sale a 42. L’aumento è dovuto alla crescita sia delle quantità, sia dei prezzi, cioè
all’inflazione.
Tavola 1- Fruttilandia; Prodotto Interno Lordo a Prezzi correnti; anno A e anno B
Anno A
Anno B
Quantità Prezzo
Valore
Quantità Prezzo
Valore
Mele
5
2
10
6
3
18
Pere
3
5
15
4
6
24
PIL
25
42
Mario: E’ possibile distinguere il contributo delle due componenti?
Michele: Certo. In primo luogo ricalcoliamo il PIL dell’anno B utilizzando i prezzi
dell’anno A, cosi da annullare l’effetto dell’aumento dei prezzi (Tavola 2). Il PIL (adesso a
prezzi costanti) sale a 32 e ciò ci consente di concludere che la quantità di frutta prodotta in
Fruttilandia è aumentata del 28 per cento.
John: E l’inflazione?
Michele: Per calcolare il tasso d’inflazione, vale a dire la crescita percentuale dei prezzi,
basa calcolare la differenza percentuale tra il PIL a prezzi correnti dell’anno B e il PIL a
prezzi costanti dello stesso anno:
(42-32)/32 *100 = 31 per cento
21
Adesso sappiamo che la produzione è aumentata del 28 per cento e i prezzi del 31 per cento.
Tavola 2 - Fruttilandia; Prodotto Interno Lordo a prezzi costanti dell’anno B
Mele
Pere
PIL
Quantità
6
4
Prezzo
2
5
Valore
12
20
32
Li: Scusami Michele, non capisco perché ci dobbiamo sorbettare questa roba, anche se è
meno complicata di quello che credevo, per discutere il problema del sorpasso.
Il PIL a Parità di Potere d’Acquisto
Michele: Il problema che abbiamo è quello di confrontare la produzione di paesi diversi
nei quali non solo si producono quantità diverse degli stessi beni, ma anche i prezzi sono
diversi. La soluzione consiste nel misurare la produzione di tutti i paesi con gli stessi prezzi,
normalmente quelli degli Stati Uniti, ed esprimere il tutto in dollari. In questo caso si parla di
Prodotto Interno Lordo a Parità di Potere d’Acquisto (PIL a PPA).
Li: Mi hai dato un’idea. Un indicatore del passaggio della leadership globale alla Cina sarà
l’adozione di prezzi cinesi e dello yuan per misurare il PIL, come hai detto che si chiama?
Michele: A Parità di Potere d’Acquisto. Hai ragione. Se cominciassimo a guardarci
intorno di questi esempi di “predominio culturale” ne troveremmo moltissimi. Potrebbe essere
divertente farne una lista e poi spulciarla progressivamente, costruendo così un indice di
Passaggio della Leadership Mondiale (il famoso IPLM); ma torniamo al nostro problema. Lo
possiamo illustrare utilizzando i dati delle tavole precedenti. Supponiamo che i dati dell’anno
A siano quelli della Cina e i dati dell’anno B quelli degli Stati Uniti. Pertanto il PIL della
Cina è di 25 e quello degli Stati Uniti di 42. Supponiamo adesso di calcolare il PIL della Cina
utilizzando i prezzi degli Stati Uniti. Il PIL della Cina sale a 33. Fa una bella differenza. Nel
primo caso il PIL della Cina è il 59,5 per cento di quello statunitense, nel secondo il 78,6 per
cento. In sostanza, la distanza da colmare è molto diversa a seconda della definizione di PIL
che si utilizza, quella a prezzi correnti, cioè ai prezzi pagati dai consumatori nei loro paesi, o
quella a Parità di Potere d’Acquisto in cui il valore dei beni è ottenuto usando i prezzi degli
USA. Ovviamente, anche il tempo necessario per il sorpasso sarà molto diverso.
John: Nella realtà le differenze sono così marcate come nell’esempio?
Alcuni confronti internazionali
Michele: Beh forse anche di più. Guardate queste tabelle. I valori si riferiscono al 2010.
Nella prima (Tav. 3) ho riportato il PIL a prezzi correnti dei primi quindici paesi per livello di
produzione. Come potete vedere gli Stati Uniti hanno un ruolo di assoluto predomino. Il loro
PIL è pari a oltre il 23 per cento della produzione mondiale, il che è veramente
impressionante dato che la popolazione americana rappresenta meno del 6 per cento della
popolazione mondiale. Nessun altro paese ha una quota superiore al 10 per cento: al secondo
posto vi è la Cina con il 9.3, al terzo il Giappone con 8,7 per cento e al quarto la Germania
con il 5,2. Le quote di tutti i paesi dal quinto al quindicesimo posto sono comprese tra il 4,1
per cento della Francia e l’1,6 per cento di Messico e Corea del Sud. Inoltre, il PIL cinese è
pari al 40,5% di quello statunitense, quelli di Giappone e Germania al 37,6 e al 22,6 per cento
22
rispettivamente. Passiamo alla tavola successiva dove ho riportato il PIL a Parità di Potere
d’Acquisto. Lo scenario cambia in maniera sostanziale. Gli Stati Uniti rimangono
naturalmente al primo posto, ma il loro “contributo” alla produzione mondiale scende sotto il
20 per cento. La cosa più interessante è però che il PIL della Cina è adesso pari a quasi il 70
per cento del PIL statunitense ed è 2,3 volte quello del Giappone. Notate poi che l’India sale
dal nono al quarto posto, la Russia dall’undicesimo al sesto, il Messico dal quattordicesimo
all’undicesimo. Insomma la classifica diventa molto più favorevole ai paesi in via di sviluppo.
Mario: Colpisce vedere la Germania superata dall’India, il Regno Unito dalla Russia, la
Francia e l’Italia dal Brasile. Si tratterebbe di un G8 ben diverso da quello attuale!
Li: Mi sembra di aver capito, ma preferirei che me lo spiegassi ancora una volta, perché
usando il PIL a Parità di Potere d’Acquisto la differenza tra la produzione cinese e quella
statunitense si riduce in maniera così pronunciata.
Tav. 3 – PIL nominale dei primi quindici paesi; valore assoluto e percentuale rispetto al
PIL mondiale e al PIL degli Stati Uniti; 2010
Fonte: World Bank
Michele: Sta tutto nel fatto che i prezzi degli Stati Uniti, ma anche del Giappone e degli
altri paesi più sviluppati sono molto più alti di quelli cinesi e indiani e, in generale, di quelli
dei paesi in via di sviluppo. Così, se prendiamo i beni prodotti in Cina e li moltiplichiamo per
i prezzi ai quali sarebbero venduti negli Stati Uniti, otteniamo un valore molto più elevato di
quello che si ottiene valutandoli a prezzi cinesi. Detto in altro modo, il PIL a valori correnti,
cioè stimato ai prezzi di vendita in Cina, porta a sottostimare, e di molto, la produzione cinese
rispetto a quella statunitense e lo stesso ragionamento vale per tutti i paesi meno sviluppati
dove molti prezzi sono notevolmente inferiori.
23
Tav. 5 – PIL a PPA; primi quindici paesi; valore assoluto e percentuale rispetto al PIL
mondiale e al PIL degli Stati Uniti; 2010.
Fonte: World Bank
Indicatori e tempi di sorpasso
Li: Suppongo che ciò abbia serie conseguenze per i tempi del sorpasso.
Michele: Cominciamo dal caso del Giappone. Se utilizziamo il PIL a valori correnti, la
Cina ha sorpassato il Giappone nel 2009 e lo sopravanza di poco. Invece, se utilizziamo il PIL
a PPA il sorpasso si è verificato nell’ormai lontano 1992 e nel 2010 la produzione del
Giappone era pari a solo il 40% di quella cinese 23.
Li: Insomma, abbiamo festeggiato con 17 anni di ritardo!
John: Con il Giappone ce l’avete fatta, ma con noi è tutta un’altra storia e il sorpasso non
mi sembra cosi scontato. Il passato è pieno di previsioni errate. Non so se vi ricordate che alla
fine degli anni ’80 il Professor Paul Kennedy che insegnava a Yale 24 sostenne che il
Giappone avrebbe superato gli Stati Uniti entro pochi anni.
Mario: Me ne ricordo bene. Allora si faceva un sacco di formazione sulle modalità
organizzative introdotte dalle imprese giapponesi.
John: E poi, che cosa è successo? Il sogno è tramontato in pochi anni; l’economia
giapponese è entrata in una lunga fase di stasi e invece di raggiungere gli Stati Uniti è stata
superata dalla Cina. Non tutte le previsioni si avverano.
Michele: John potrebbe avere ragione, ma prima di discutere questo punto proviamo
anche noi a dare i numeri. Avevo pensato di preparare un gioco che volevo chiamare “Caccia
agli USA”, in cui almeno per una volta John Wayne sarebbe stato la preda e non il predatore.
23
Angus Maddison and Harry X. Wu, 2008, “Measuring China Economic Performance”, World Economics, Vol.
9, n. 2, Aprile-Giugno, 2008.
24
John si riferisce a un libro di Paul Kennedy intitolato Rise and Fall of the Great Powers: Economic Change
and Military Conflict From 1500 to 2000, pubblicato nel 1987 dalla Random House.
24
Quello che avevo in mente era una specie di gioco dell’oca in cui un giocatore parte con un
certo vantaggio e l’altro giocatore deve raggiungerlo. La particolarità di questa variante del
gioco stava nel dare al giocatore in testa, alla preda, un dado con solo tre valori 1, 2, e 3, e
all’inseguitore un dado con i numeri da 5 a 10. Fuori metafora, l’ipotesi è che il tasso di
crescita del PIL degli Stati Uniti non superi il 3 per cento, mentre quello della Cina sia
destinato a scendere progressivamente, ma a rimanere comunque sopra il 5 per cento.
John: Con queste regole, la preda non ha alcuna speranza di sfuggire. L’unico dubbio è
quanto tempo ci metterà l’inseguitore a raggiungerla.
Michele: Proprio così. D’altra parte questo riflette la posizione della maggior parte degli
esperti, incluso il tuo amico Nye.
John: Sì, che però rimane molto dubbioso sulla possibilità del sorpasso visto che la Cina è
ancora priva di quelli che lui definisce i soft powers, cose come Hollywood e università di
livello mondiale.
Michele: Forse ti sorprenderà, ma anch’io sono abbastanza scettico, anche se per un
motivo al quale nessuno ha pensato finora; tuttavia di questo parleremo dopo. Alla fine il
gioco può prendere una forma più semplice, quella di due grafici che servono per
rappresentare l’andamento del PIL a prezzi correnti e a parità di potere d’acquisto per gli
USA e per la Cina, in funzione dei rispettivi tassi di crescita, per il ventennio 2010-2030.
Basta inserire il tasso medio di crescita della Cina e il tasso medio di crescita degli Stati Uniti
per leggere sui grafici l’anno del sorpasso. Proviamo ad esempio con 2 per cento per gli Stati
Uniti e 7,5 per cento per la Cina. Come potete vedere il sorpasso avverrebbe nel 2029 per il
PIL a prezzi correnti e nel 2018 per il PIL a parità di potere d’acquisto. Cambiando i tassi di
crescita troviamo immediatamente le nuove soluzioni. Per esempio, se il tasso di crescita
degli USA salisse al 3 per cento e quello cinese scendesse al 5 per cento, il sorpasso del PIL a
prezzi correnti sarebbe posticipato verso il 2050 e quello a PPA avverrebbe solo nel 2029.
Com’è ovvio, la data del sorpasso si avvicina sia riducendo il tasso di crescita statunitense, sia
alzando quello cinese.
Li: Vuoi dire che le date del sorpasso che ci sono proposte non si basano su teorie e
complicati modelli matematici, ma solo su ipotesi? Insomma, che è un vero gioco dell’oca?
Michele: Mi dispiace deluderti, ma la cassetta degli attrezzi degli economisti è un po’
meno fornita di quella dei fisici e degli astronomi. Ovviamente ci sono numerose
considerazioni che avvalorano, da un lato, il fatto che la crescita cinese sarà più alta di quella
americana, per lo meno per i prossimi venti anni e, dall’altro, che i tassi di crescita cinesi
tenderanno progressivamente a ridursi. Il primo fatto da tener presente è che la Cina è riuscita
a mantenere per trenta anni un livello di crescita che nessun economista avrebbe ritenuto
possibile: stiamo parlando di circa il 10 per cento, secondo l’Ufficio di statistica cinese. Tanto
per fare un paragone, tra il 1990 e il 2011 il tasso medio di crescita del PIL statunitense è
stato di circa il 2,5 per cento, in nessun anno la crescita ha superato il 5 per cento e in tre anni
i valori sono stati negativi.
John: Chi ci assicura che le stime cinesi non siano state gonfiate a scopi puramente
politici?
Gafici 1 e 2 – Cina e Stati Uniti; Prodotto Interno Lordo a prezzi correnti e a PPA;
scenari alternativi di crescita
25
Fonte: Elaborazione su dati World Bank
Michele: E’ certamente successo e ci sono casi clamorosi come quello relativo al periodo
1996-98 e, in particolare, al 1998. Secondo le stime ufficiali i tassi di crescita di quel triennio
furono 10, 9,3 e 7,8 per cento, mentre stime indipendenti hanno ridimensionato quei valori a
2,1 per cento, 5,3 e a solo lo 0,3 per cento per il 1998. Comunque, anche secondo gli autori di
questa drastica revisione 25, l’economia cinese avrebbe registrato tra il 1992 e il 2003 uno
straordinario tasso medio di crescita del 8,7 per cento, cha ha portato a una crescita della
produzione del 173 per cento in 12 anni. Notate che la straordinaria crescita economica ha
consentito alla Cina di portare fuori dalla povertà circa 500 milioni di persone, cioè quasi la
metà della sua popolazione. Ma la storia della Cina non è solo la storia di uno straordinario
successo socio-economico. Malgrado rimanga un paese in via di sviluppo, la Cina si sta già
muovendo come una grande potenza internazionale. Inoltre, il fatto che non abbia un passato
coloniale e si attenga a una politica di non interferenza costituisce un grande vantaggio sul
piano diplomatico, in particolare in Africa, dove la Cina cerca le materie prime di cui ha
bisogno. Anche sul piano tecnologico ed organizzativo gli sviluppi sono stati impressionanti.
Ormai nei lontani anni sessanta la Cina si dotò di armi nucleari, quinto paese a fare ciò dopo
Stati Uniti, Russia, Regno Unito e Francia. Oggi la Cina dispone di 16 impianti nucleari e ne
sta costruendo altri 26 così da portare la percentuale di energia prodotta con impianti atomici
da 1 a 6 per cento.
Grafico 3 – Cina; Tassi di crescita del Prodotto Interno Lordo; 1992 2003
Fonte: Cina; National Bureau of Statistics; Maddison Wu
Mario: Questo non mi sembra un dato positivo.
Michele: Sono d’accordo con te; volevo solo sottolineare le conquiste tecnologiche.
Scommetterei, ad esempio, che il prossimo uomo che poserà i piedi sul suolo lunare sarà
cinese, dato che la Cina è l’unico paese che può permettersi di anteporre gli aspetti mediatici
e di propaganda a quelli economici. E i fatti testimoniano che la Cina sta procedendo
25
Maddison e Wu, op. cit.
26
speditamente in questa direzione 26. Rimanendo nel campo aerospaziale, a Shangai è in
costruzione un aereo di grandi dimensioni 27. L’esempio più impressionante della
modernizzazione della Cina è però quello in campo ferroviario, a partire dalle nuove stazioni
di Pechino e Shanghai e da treni che, viaggiando costantemente a 300 Km orari, uniscono le
due città in meno di cinque ore. Inoltre la Cina ha in programma la costruzione di 14.000 km
di ferrovie per l'alta velocità. Sempre in tema di trasporti, già ora la Cina ha la seconda rete
autostradale al mondo e ha costruito i tre ponti sul mare più lunghi del mondo. Poi due banche
cinesi sono fra le prime dieci del mondo, 61 imprese cinesi sono fra le prime 500 al mondo e
nel 2010 un centro di ricerca cinese ha costruito il computer più veloce del mondo (noto come
Tianhe-1°) levando il primato agli Stati Uniti.
Li: Insomma non ci sono dubbi. Ci sono tutte le premesse perché prima della fine di
questo decennio saremo al primo posto per livello di produzione e negli anni successivi
distanzieremo gli Stati Uniti come abbiamo già fatto con il Giappone.
Mario: Mettiamo pure che sia così. Però, se non vado errato, la popolazione cinese è più o
meno tre volte e mezzo quella statunitense. Quindi, quando il PIL cinese supererà quello
americano, il PIL pro capite dei cinesi sarà un po’ meno del 30 per cento di quello dei
cittadini statunitensi.
John: Bravo Mario. La strada è ancora lunga e credo che la Cina farà in tempo a cadere
nel caos politico prima che quel giorno arrivi.
Le misure del benessere
Mario: Guarda John che le mie motivazioni nel sollevare questo argomento sono diverse e
potrebbero coinvolgere anche una diversa valutazione della situazione nel tuo paese. Tutte
queste disquisizioni sul PIL ci portano a dimenticare, da un lato, le modalità con le quali
questo indicatore viene costruito e, dall’altro, i problemi di distribuzione del reddito. C’è
sempre il rischio che un aumento della ricchezza sia accompagnato da un aumento
dell’infelicità e che nel contempo milioni di bambini continuino a morire di fame.
Li: Non in Cina
John: Viva il capital-comunismo che darà a tutti una Ferrari o una Lamborghini, a scelta.
A proposito avete già deciso se comprerete prima la Ferrari o la Lamborghini. Io vi
consiglierei la Ferrari, per via del colore. Poi potreste suggerire ai figli dei vostri leader di
guidare solo Ferrari per fare pubblicità ai prodotti cinesi nel mondo. Altro che ventaglietti per
cocktail e t-shirt!
Li: John, come diceva Confucio: “Non di solo pane vive l’uomo” 28. Per i cinesi sarebbe
già una bella soddisfazione riuscire a produrre più degli Stati Uniti. Non ti devi dimenticare
che trenta anni fa nessuno avrebbe scommesso neanche uno yuan su questo sorpasso, che
adesso tutti danno per scontato.
26
Il riuscito attracco di una navicella a una stazione spaziale rimane un passo significativo nella storia della
tecnologia cinese anche se americani e russi riuscirono in questa impresa oltre trenta anni fa.
27
Si tratta del C919 che dovrebbe poter ospitare 190 passeggeri e rivaleggiare con il Boeing 737 e l’Airbus A320.
28
Non mi è stato possibile verificare se Confucio l’abbia detto o solo pensato. La cosa è irrilevante in quanto credo
che tutti gli uomini abbiano sempre provato il bisogno di qualche cibo ”spirituale”, anche se non necessariamente
divino, come suggerito in modo molto limitativo dal Deuteronomia (Dt. 8.3) dove si legge: “(Dio) ti ha fatto
provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, \ per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo
vive di quanto esce dalla bocca del Signore”» (Dt 8,3). Secondo Matteo e Luca (Matteo 4,4 e Luca 4,4) Gesù
riprese questa frase per rispondere all’invito fattogli dal diavolo di trasformare in pane le pietre del deserto, per
saziare la fame sopravvenutagli dopo 40 giorni e 40 notti di digiuno. Personalmente penso che se qualcuno ha
queste capacità e non le usa per sfamare i milioni di persone che muoiono di fame è privo del concetto di caritas.
27
Il PIL pro capite
Michele: Ragazzi, ragazzi, un po’ di calma e di ordine. Propongo di cominciare con
qualche dato sul PIL pro capite a PPA per vedere come sono messi i vari paesi e, in
particolare, gli Stati Uniti e la Cina; poi ci chiederemo quali siano i limiti di questo indicatore.
John: Suppongo che il PIL pro capite si ottenga dividendo il PIL totale per la
popolazione.
Michele: Sì; normalmente per una stima della popolazione a metà anno. Di fatto parecchie
organizzazioni internazionali propongono una graduatoria dei paesi per PIL pro capite a PPA
29
. La figura che vedete (figura 1) è della Banca Mondiale e ci fornisce una visione d’insieme
della situazione. La Tavola 5, che viene dalla stessa fonte, vi da invece l’ordinamento e gli
ordini di grandezza. La classifica è guidata da piccoli paesi quali Lussemburgo (1), Macau
(2), Singapore (5), Hong Kong (8) e da paesi produttori di petrolio [Qatar (3), Norvegia (4),
Brunei (7) Kuwait (10)], ma include anche la Svizzera (6). Il gruppo successivo è guidato
dagli Stati Uniti con un PIL pro capite di quasi 50.000 dollari. Nell’intervallo tra i 30.000 e i
50.000 dollari troviamo, oltre a Canada, Australia e Nuova Zelanda, la maggior parte dei
paesi Europei. L’Italia occupa il 26esimo posto con 33.111 dollari; un valore in linea con la
media dell’Unione europea (33.014). In questo gruppo vi sono anche gli Emirati Arabi, il
Giappone, le Bahamas e la Corea del Sud.
Figura 1 – Paesi del mondo per livello del PIL pro capita a PPA; 2011
Li: E la Cina?
Michele: La Cina si trova circa a metà della classifica, al 93esimo posto (tra la Bosnia e le
Maldive), con 9.233 dollari. Ciò significa che il PIL pro capite a PPA della Cina è uguale al
18,5 per cento di quello degli Stati Uniti, al 28 per cento di quello medio dell’Unione Europea
e al 26,2 per cento di quello del Giappone. In fondo alla graduatoria, ben diciassette degli
29
In particolare, la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, la CIA.
28
ultimi venti paesi sono in Africa e gli ultimi otto hanno un PIL pro capite inferiore a 1.000
dollari 30.
Li: Insomma, mi sembra di capire che se la strada per diventare la prima potenza
economica del mondo non è molto lunga e potremmo dire che la cosa è a portata di mano, ben
diversa è la situazione per quanto riguarda il benessere. A occhio e croce stiamo parlando di
una trentina di anni, a essere ottimisti.
Tavola 5 – Reddito pro capite a Parità di Potere d’Acquisto; primi trenta e ultimi trenta
paesi; 2010
Fonte: Elaborazione su dati World Bank
Che cosa misura il PIL
Mario: Fermo lì, mio caro Li. Il PIL non misura il benessere. Nel marzo del 1968, in un
intervento pieno di pathos e divenuto famosissimo, Robert F. Kennedy sostenne che il
Prodotto Interno Lordo misura tutto, tranne ciò che rende la vita degna di essere vissuta 31.
Michele: Me lo ricordo. Fu un intervento memorabile, in linea con i sentimenti liberal
della California di quegli anni. Tuttavia, Kutnetz, uno dei padri della contabilità nazionale 32,
30
Mozambico, Madagascar, Malawi, Repubblica dell’Africa Centrale, Niger, Burundi, Eritrea, Liberia,
Repubblica Democratica del Congo.
31
L’intervento fu tenuto presso l’Università del Kansas il 18 marzo del 1968. Robert F. Kennedy fu ucciso tre
mesi dopo. Kennedy sostenne con forza che: “Il PIL comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità
delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana. Il PIL mette
nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle.
Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini.
Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, comprende anche la ricerca per migliorare la
disseminazione della peste bubbonica, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e
non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari. Il PIL non tiene conto della
salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non
comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere o
l’onestà pubblici dipendenti. Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell’equità nei rapporti fra di
noi. Il Pil non misura né la nostra arguzia, né il nostro coraggio, né la nostra saggezza, né la nostra conoscenza, né
la nostra compassione, né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita
veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull’America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere
Americani."
29
aveva già ricordato più volte che il PIL non è una misura del benessere. Pertanto, prima di
sparare a zero sul PIL, vediamo quali sono gli obiettivi della contabilità nazionale: potremmo
scoprire che il problema non è l’indicatore, ma l’uso che ne viene fatto.
John: Ok professore, sentiamo la lezioncina.
Michele: La contabilità nazionale fornisce una stima della quantità di beni e di servizi
prodotti dall’economia. Consente di conoscere la quota di reddito che è stata risparmiata (e
può quindi essere utilizzata per finanziare gli investimenti) e la quota che è stata spesa in beni
di consumo. Una volta nota l’occupazione, si può valutare la produttività del lavoro. La
raccolta sistematica di questi dati consente di valutare l’andamento nel tempo della
produzione e verificare se e come cambi la sua struttura. E’ quindi evidente che si tratta di un
sistema che fornisce valutazioni strettamente quantitative e limitate ai beni di mercato, cioè
quei beni che hanno un prezzo, senza alcuna valutazione della loro utilità o della loro
dannosità. Come osservò lo stesso Kennedy, il PIL include anche i beni che mettono a rischio
la nostra vita e le nostre società, che distruggono l’ambiente in cui viviamo o lo rendono
meno attraente, che danneggiano l’ecosistema, che depauperano il pianeta di risorse non
riproducibili. Di contro, non include tutti quei beni e servizi che non sono venduti sul
mercato, ma che contribuiscono in maniera sostanziale al nostro benessere come il lavoro
domestico, il lavoro volontario e comunque tutte quelle produzioni generate da lavoro non
retribuito. Inoltre, non può per definizione tenere conto della produzione del settore informale
e quindi soprattutto di una larga quota di attività femminili. In conclusione il PIL misura solo
una parte della produzione, mescola il buono con il cattivo e quindi non è una misura di
benessere.
Mario: Io aggiungerei che questo indicatore non tiene conto in alcun modo della
distribuzione del reddito che, fra l’altro, sta diventando sempre più ineguale in quasi tutti i
paesi del mondo.
Li: In conclusione?
Michele: In conclusione, il problema non è la contabilità nazionale, che credo svolga
onestamente il compito di fornirci alcune importanti informazioni sul livello e l’andamento di
produzione, produttività, investimenti, commercio internazionale, ecc., ma l’uso a dir poco
estensivo, disinvolto e spesso inappropriato d’indicatori come PIL e PIL pro capite.
Mario: Supponiamo che il governo italiano decida di erigere un mausoleo, o meglio un
grande lingam a Berlusconi. Ciò aumenterebbe il PIL, ma qualcuno dei soliti comunisti
prevenuti potrebbe pensare che il monumento distolga risorse da investimenti che avrebbero
un impatto più costruttivo sullo sviluppo socio-economico del paese.
Michele: Certo, il Pil non distingue il reddito prodotto scavando buche per terra e poi
riempiendole, erigendo giganteschi lingam in onore del Presidente Berlusconi o mostruosi
alberghi in località incontaminate, da un lato, e il reddito generato dalla costruzione di scuole,
dal miglioramento del sistema dei trasporti, da investimenti in educazione e ricerca, o
comunque da tutte quelle spese che contribuiscono a elevare lo sviluppo di un paese,
dall’altro.
Mario: Rimane da capire come mai questo indicatore, nato con obiettivi limitati e ben
definiti, abbia finito con acquisire un ruolo così importante tanto da dominare i comunicati
32
E’ stato Simon Kutnetz a sviluppare, all’inizio degli anni trenta, il primo insieme di misure del reddito
nazionale.
30
televisivi, gli articoli di giornale, i confronti internazionali e continui ad oscurare l’uso di
indicatori che potrebbero fornire una visione più a tutto tondo della realtà socio-economica.
Michele: Onestamente non so quale sia la risposta: posso solo speculare insieme a voi. La
seconda metà del XX secolo è stata dominata da una cieca fede nel potere taumaturgico della
crescita economica, vista come il toccasana di tutti i problemi. Il PIL e il PIL pro capite
incarnano meglio di ogni altro indicatore questa ideologia.
John: Perché non è forse vero che la crescita economica risolve tutti i problemi di una
società? “La crescita economica ci rende più alti: sovrastiamo di circa sette pollici i nostri
antenati preindustriali. Ci rende più sani: oggi la speranza di vita alla nascita non è di venti,
ma di settant’anni. Ci consente una maggiore quantità di tempo libero: la giornata lavorativa è
oggi di otto ore e non è più vero che “l’uomo lavora dall’alba al tramonto, mentre il lavoro
della donna non è mai finito”. Ci fornisce abbastanza vestiti per non soffrire il freddo,
abbastanza riparo da non bagnarci e abbastanza cibo da non soffrire la fame. Ci fornisce
divertimento e svago cosicché di sera abbiamo possibilità diverse da quella di accalcarci
attorno al fuoco del villaggio, per ascoltare ancora una volta quel poeta cieco che viene
dall’altra parte dell’Egeo raccontare l’unica storia che conosce, quella su Achille e
Agamennone. Col passare del tempo quelli che erano lussi, diventano cose utili e poi
necessità e ciò che era inimmaginabile persino nelle fantasie più selvagge diventa un sogno e
poi un lusso” 33.
Michele: Bella citazione. Che memoria! Aggiungo che alla fede nella crescita economica
si unisce quella nel progresso tecnologico al quale è affidato il compito di riparare i danni
collaterali, comunque giudicati ampiamente giustificati dai vantaggi che si sono ottenuti. Il
risultato di questo connubio è un cocktail ideologico al quale è difficile resistere anche perché
quasi tutte le previsioni catastrofiche degli oppositori della crescita non si sono avverate o se
si stanno avverando hanno un impatto diffuso e differenziato sul pianeta che non consente o
rende molto difficile a chi ne soffre di fare un fronte comune.
Li: Sentite io sono l’unico qui che ha visto il proprio paese immerso in una profonda
miseria ed è consapevole che molti suoi compatrioti si trovano ancora in una situazione
spesso disperata. Per me è evidente che se la crescita economica non porta necessariamente la
felicità, però aiuta a vivere meglio. Penso anche che non si possa chiedere a chi non ha
neppure il minimo necessario per sopravvivere di preoccuparsi per l’ambiente e per
l’esaurimento delle risorse provocato da quelli che hanno i mezzi per consumarle.
L’Indice di Sviluppo Umano
Mario: Sono d’accordo con te. Come diceva Confucio: “E’ facile predicare quando si ha
la pancia piena e i piedi al caldo”. Mi sembra evidente che per misurare il benessere di un
paese si debba necessariamente ricorrere non a uno, ma a una batteria d’indicatori che
prendano in considerazione non solo gli aspetti economici, ma anche altre dimensioni della
vita umana. E’ questa la strada che fu intrapresa nel 1990 dell’economista pakistano Mahbub
ul Haq che costruì l’Indice di Sviluppo Umano poi adottato dal Programma della
Organizzazione delle Nazioni Unite per lo Sviluppo 34.
33
La citazione viene da una recensione di J. B. Delong al libro di B. M. Friedman, The moral consequences of
Economic Growth. dhttp://harvardmagazine.com/2006/01/growth-is-good.htm
34
Alla costruzione dell’Indice contribuirono anche i lavori del premio Nobel Amartya Sen. UNDP ha
regolarmente pubblicato lo Human Development Report a partire dal 1990. I rapporti presentano una visione ampia
e articolata della situazione economica mondiale, dei diversi sentieri di sviluppo in cui i vari paesi si sono
incamminati e delle modalità di sviluppo adottate. L’ultimo rapporto (The Rise of the South. Human Progress in a
31
Li: Com’è costruito questo indicatore?
Michele: Nella sua ultima formulazione, l’Indice di Sviluppo Umano, noto come Human
Development Index (HDI) è ottenuto come media di tre indici: il primo è la vita attesa alla
nascita; il secondo è un indicatore di scolarità; il terzo è il nostro vecchio amico, il Prodotto
Nazionale Lordo pro capite in PPA. Sulla base dell’HDI le Nazioni Unite classificano i paesi
del mondo 35 in quattro gruppi composti ognuno da 47 paesi, ad eccezione del primo che ne
contiene 48, quelli ad Altissimo Sviluppo Umano. Nel rapporto che si riferisce al 2012 la
classifica è guidata dalla Norvegia, seguita da Australia e Stati Uniti. L’Italia occupa il
25esimo posto preceduta non solo da numerosi paesi europei, dalla Nuova Zelanda e dal
Canada, ma anche da quattro paesi asiatici: Giappone, Corea del Sud, Hong Kong e
Singapore. Tra i successivi 23 paesi del primo gruppo troviamo poi Brunei, Qatar, Barbados,
Cile, Emirati Arabi, Argentina e Seychelles.
Li: E la Cina?
Michele: Di fatto la situazione è simile a quella del PIL pro capite a PPA. La Cina occupa
il 101esimo posto con un valore dell’ISU (0,699) di poco superiore alla media mondiale
(0,694). Degli altri paesi BRICS, due sono classificati peggio (L’India e il Sud Africa,
rispettivamente al 136esimo e al 121esimo posto) e due meglio: il Brasile al 85esimo e la
Russia al 55esimo.
Li: Mi aspettavo qualcosa di più dal mio paese.
Michele: Credo che l’aspetto più interessante di questo indicatore sia la storia che ci
racconta. Prendendo come punto di partenza il 1990, la Cina presenta la performance di gran
lunga migliore degli 8 paesi che ho considerato. Come mostra il Grafico 4, nel periodo 19902012 l’ISU mondiale è aumentato in media ogni anno dello 0,71 per cento. L’Indicatore
cinese, di contro, è cresciuto di quasi 1,9 per cento. Fra gli altri paesi la performance migliore
-e l’unica a essere più pronunciata della media mondiale- è stata quella dell’India con 1,6 per
cento. Il Brasile è sulla media mondiale e precede i paesi sviluppati che registrano valori
intorno alla metà della media mondiale. La Russia con 0,36 per cento registra un valore
analogo a quello dell’Italia, mentre il Sud Africa è buon ultimo con un valore del tutto
marginale (0,06 per cento). Ancora più interessante è la situazione che emerge analizzando i
due sottoperiodi (1990-2000 e 2000-2012) che il Grafico 5 ordina rispetto ai valori del
periodo più recente. Nella maggior parte delle situazioni considerate, inclusa la media
mondiale, la performance del secondo periodo è stata migliore. Le due eccezioni più rilevanti
sono fornite da Stati Uniti e Giappone. Tra il 2000 e il 2012 la crescita dell’HDI registrata
dalla Cina è stata più che doppia rispetto a quella del periodo precedente (2,28 contro 1,09 per
cento). In questa fase tutti i BRICS, ad eccezione del Sud Africa, (nell’ordine India, Russia e
Brasile), hanno registrato valori superiori alla media mondiale. Sorprendentemente l’Italia ha
fatto meglio di Giappone e Stati Uniti, mentre la performance del Sud Africa, pur essendo
leggermente aumentata, rimane quasi nulla.
Diverse World, 2013) sottolinea il fatto che la crescita economica non si traduce automaticamente in un aumento
dello sviluppo umano e che il progresso richiede più di un semplice aumento del relativo Indice, ma anche una più
pronunciata equità nella distribuzione del reddito, modalità di consumo sostenibili e una maggiore coesione
sociale. Il rapporto sottolinea la necessità di allargare il concetto di sviluppo umano dato che i risultati raggiunti
nei campi della sanità, dell’educazione e del reddito non garantiscono il progresso nello sviluppo umano se le
condizioni sociali ostacolano i risultati individuali e se le percezioni di progresso sono diverse.
35
L’Indice è calcolato per 185 dei 193 paesi membri delle Nazioni Unite, Hong Kong e i Territori Palestinesi.
32
Li: Quindi ce la faremo a raggiungere il livello di Sviluppo Umano degli Stati Uniti?
Grafico 4 – Indice di Sviluppo Umano in alcuni paesi; crescita percentuale media
annua; 1990-2012
Fonte: Elaborazione su Dati UNDP
Grafico 5 - Indice di Sviluppo Umano in alcuni paesi; crescita percentuale media annua;
1990/2000 e 2000-2012
Fonte: Elaborazione su Dati UNDP
Michele: Credo che la domanda rilevante sia piuttosto quella di sapere quanto tempo ci
vorrà alla Cina per diventare un paese di serie A. Ora, il primo gruppo di merito è incluso tra
un massimo di 0,955 e un minimo di 0,805. Se questi confini non saranno modificati, alla
velocità attuale la Cina dovrebbe entrare in questo gruppo verso il 2020. Insomma è pensabile
che in una decina di anni la Cina diventi un paese ad altissimo sviluppo umano anche se il suo
reddito pro capita sarà ancora meno di un terzo di quello degli Stati Uniti e meno della metà
di quello dell’Unione Europea. C’e però da chiedersi se questo indicatore ci dia una visione
alternativa a quella del PIL. Come vedete dalla Tavola sei, i due ordinamenti sono molto
simili. Per i nostri otto paesi, l’unica differenza riguarda Cina e Sud Africa. Il PIL pro capite
premia il Sud Africa, l’ISU la Cina. Nel complesso mi sembra che l’ISU non costituisca un
passo in avanti particolarmente rilevante, anche se penalizza i paesi produttori di petrolio i cui
proventi non vanno certo ai più poveri. Cosi il Qatar passa dalla seconda al 36esima
posizione, il Kuwait dalla quinta alla 54esima, il Brunei dalla sesta alla 30esima, gli Emirati
dalla nona alla 41esima e la Guinea Equatoriale addirittura dalla 21esima alla 136esima.
Comunque, anche con questo indice si rimane lontani dalla capacità di cogliere il benessere e
la dizione “Indice di Sviluppo Umano” è certamente ottimistica e fuorviante.
John: Tu cosa suggeriresti?
33
Michele: Come ho già detto, credo che la realtà sia complessa, che la complessità vada
accettata e anzi si debba fare uno sforzo per educare alla complessità i non addetti ai lavori, e
ciò in tutti i campi del sapere. L’idea di sintetizzare il livello di benessere in un solo numero
può essere attraente a livello di comunicazione, ma il prezzo che si paga è quello di trascurare
l’analisi dei punti deboli e di mantenere il dibattito a un livello superficiale.
Tavola 7 – Posizione di alcuni paesi negli ordinamenti in base al Prodotto Interno Lordo
a Parità di Potere d’Acquisto e Indice di Sviluppo Umano; 2012
Fonte:Elaborazione su dati World Bank e UNDP
L’Indice Lordo di Felicità
Mario: Arrivati a questo punto lasciate che vi racconti la storia di una grande intuizione
culturale che, a mio avviso, si sta trasformando in una delle iniziative più innovative nel
campo della valutazione del benessere e del modo di scegliere le politiche dello sviluppo. Nel
1972 il quarto re del Bhutan Jigme Singye Wangchuck introdusse il concetto di Indice Lordo
di Felicità (ILF in inglese Gros National Happiness Index, GNHI). Per il Bhutan, paese
impregnato di spiritualità Buddista, non era un’idea nuova dato che già un codice legale del
1729 dichiarava: “Niente giustifica l’esistenza di un governo che non sappia dare la felicità al
proprio popolo”. Se i nostri politici prendessero sul serio questa scontata perla di saggezza
Buddista non so quanti governi resterebbero in piedi.
Michele: Fortunatamente per loro e sfortunatamente per noi credo che la maggioranza dei
politici non ne abbia mai sentito parlare. La cosa interessante è che quella che poteva essere
niente più di una boutade del re di un piccolissimo paese sperduto sulle montagne himalaiane,
si è trasformata in uno sofisticato strumento statistico che non solo è ora utilizzato per
misurare il benessere del piccolo regno e guidarne le politiche di sviluppo, ma ha anche
attratto l’attenzione di economisti e statistici occidentali.
John: Mi stai incuriosendo; che cosa s’intende per felicità nel lontano regno del Bhutan?
Mario: Il primo Rapporto del Centro Studi del Bhutan, relativo al 2010, non ne fornisce
una vera e propria definizione 36. Osserva però che la felicità è un concetto olistico e
multidimensionale; che la felicità aumenta solo se si sviluppano contemporaneamente e in
maniera complementare aspetti materiali e spirituali; che non si può essere felici quando i
nostri vicini soffrono, e che la felicità deriva dal servire gli altri e vivere in armonia con la
natura. Il rapporto specifica poi che l’indicatore deve non solo misurare la felicità e il
benessere degli individui, ma essere in grado di cogliere l’impatto delle politiche, permettere
36
Karma Ura, Sabina Alkire e Tshoki Zangmo, Ura, “Gross National Happines and the GNH Index” in John
Helliwell, Richard Layard and Jeffrey Sachs (ed.) (2010), World Happiness Report.
34
confronti temporali fra aree caratterizzate da situazioni climatiche, culture, accesso a servizi e
mezzi di sostentamento molto diversi fra loro, come è il caso del Bhutan. Infine, la sua
struttura deve permettere di promuovere un concetto di sviluppo che trascenda il
soddisfacimento materiale e dia indicazioni per l’allocazione territoriale e sociale delle
risorse.
John: Per raggiungere tutti questi obiettivi e soddisfare questi requisiti si deve trattare di
un indicatore molto complesso.
Mario: Sì, l’indicatore prende in considerazione molti aspetti materiali e spirituali della
vita ed è difficile fornire una breve sintesi della sua struttura. Si va dagli ambiti usuali
(standard di vita, scolarità e salute) ad altri che riguardano l’uso del tempo, la governance e
l’ambiente, per finire con aspetti veramente innovativi come il benessere psicologico, la
vitalità delle comunità, e le differenze culturali. Inoltre, tutti i nove ambiti considerati sono
misurati in maniera innovativa.
John: Ad esempio?
Mario: Prendiamo il caso dell’istruzione. Di solito la valutazione del livello educativo si
basa sui concetti di alfabetismo (il saper leggere e scrivere), sul titolo scolastico o
universitario conseguito o sul numero di anni di presenza nel sistema educativo. L’indicatore
del Bhutan prende in considerazione anche la conoscenza delle tradizioni locali (leggende,
feste, canzoni), la conoscenza delle modalità di trasmissione dell’AIDS e della costituzione
del paese. Considera poi i valori e lo fa chiedendo agli intervistati se uccidere, rubare,
mentire, provocare disarmonia nelle relazioni con gli altri e comportamenti sessuali scorretti
siano giustificabili. Ancora più interessante l’introduzione dell’ambito “benessere
psicologico” che è definito da quattro dimensioni. La prima è la valutazione che gli
intervistati danno del loro livello di soddisfazione per quanto riguarda salute, lavoro, famiglia,
standard di vita, e il rapporto vita-lavoro. La seconda è data dal saldo tra emozioni positive
(compassione, generosità, comprensione, appagamento, calma) e negative (egoismo, gelosia,
rabbia, paura, preoccupazione). Infine vi è la dimensione spiritualità che è misurata da quattro
variabili: la valutazione soggettiva della spiritualità, la frequenza con la quale l’intervistato
riflette sul suo karma, prega e medita.
John: Beh è certo che qui si stanno battendo strade nuove. Ma gli abitanti del Bhutan sono
felici?
Mario: Il rapporto non si propone di misurare il livello della felicità del paese e di
esprimerlo con un numero. L’obiettivo è di individuare quelli che non raggiungono un livello
minimo di felicità e capire quali siano le cause del loro malessere materiale ed emotivo.
Questa è la premessa indispensabile per poter formulare delle politiche dello sviluppo che
portino sopra la soglia minima della felicità quelli che non la raggiungono o per lo meno
mitighino la sofferenza di quelli che non sono felici.
John: OK; comunque dammi qualche indicazione. Sono curioso.
Mario: Come abbiamo visto, l’indice di felicità si basa su nove domini. La scelta del
Centro Studi del Bhutan è stata quella di considerare non felici quelli che non raggiungono la
sufficienza in almeno 5 di essi e marginalmente felici quelli che la raggiungono in 5. Questi
due gruppi includono circa il 59 per cento dei cittadini del Bhutan, mentre solo il 10,4 per
cento rientra nel primo gruppo. In conclusione, secondo il Primo Rapporto sulla Felicità,
35
relativo alla rilevazione del 2010 in cui furono intervistate 7.000 persone, circa il 41 per cento
degli abitanti del Bhutan ha un livello accettabile di felicità.
Graf. 6 – Distribuzione della popolazione del Bhutan per livello di felicità; 2010
Fonte: Elaborazione su dati World Happiness Report.
John: Non male. Sarebbe interessante avere valutazioni analoghe per i nostri paesi.
Michele: Credo che ci arriveremo visto l’interesse che questa idea sta suscitando.
Comunque lo GNHI è un’altra delle tante testimonianze del ruolo crescente che l’oriente sta
assumendo sulla scena mondiale, anche se non ha ancora raggiunto il livello di popolarità del
Gangnam style di PSY 37.
Mario: Mi sembra che gli elementi di novità siano molti. L’indicatore del Bhutan rispetta
la complessità della società umana, ne valuta gli aspetti materiali ed emotivi che misura
affidandosi senza timore alle percezioni individuali (forse non confrontabili fra loro, ma
certamente alla base delle nostre scelte), riconosce il ruolo della comunità, delle relazioni,
delle tradizioni, dei valori, della natura; ma la cosa più importante è il messaggio di cui è
portatore. Per fare politiche dello sviluppo bisogna individuare coloro che soffrono e capirne
il perché; disegnare e implementare le politiche che consentano loro di uscire da tale
condizione. I Bhutanesi sanno che non si può essere felici se coloro che ci stanno attorno
soffrono.
John: E gli occidentali?
Michele: Anche gli economisti occidentali si stanno cimentando nel compito di sviluppare
nuovi indicatori di benessere. Nel 2009 è stato pubblicato il cosiddetto rapporto Zarkosy 38,
mentre l’anno scorso è uscito il primo World Happiness Report 39.
John: Roba interessante?
Michele: Essendo stati scritti da alcuni dei più famosi economisti del mondo, entrambi i
rapporti sono ovviamente ben informati, saggi e pieni di osservazioni intelligenti. La loro
analisi ci porterebbe però fuori strada. Il problema non sono gli indicatori, ma la concezione
dello sviluppo e le politiche in funzione delle quali essi sono individuati. Fin tanto che lo
sviluppo dei paesi più poveri sarà nelle mani dei burocrati degli organismi internazionali che
come pastori abitudinari spingono i paesi più poveri, ai loro occhi pecore riluttanti e
37
Per chi l’avesse dimenticato, si tratta del primo e per il momento unico video a superare il miliardo di hit su
YouTube.
38
Joseph E. Stiglitz, Amartya Sen, Jean_Paul Fitoussi, 2010, Report by the Commission on the Measurement
of Economic Performance and Social progress.
39
John Helliwell, Richard Layard and Jeffrey Sachs (ed.) (2010), World Happiness Report
36
scarsamente intelligenti, lungo il tratturo consunto della crescita economica a tappe scandite
dai livelli di PIL con l’unico obiettivo di accatastarli attorno agli stessi parametri di reddito, le
prospettive di un vero sviluppo umano sono ben poche.
John: Non capisco che cosa vuoi, con queste critiche da figlio dei fiori.
Michele: L’accettazione delle differenze, l’umiltà di ascoltare le idee e le emozioni degli
altri, la fantasia di suggerire sentieri di sviluppo coerenti con la natura e la cultura dei singoli
paesi.
John: Spazio alla poesia!
Li: Sentite, a me interesserebbe capire quali sono le conseguenze di tutte queste
chiacchiere e tornare al problema del sorpasso. Questi americani, li prendiamo o no?
Mario: Quello che sto cercando di dire è che per la Cina raggiungere lo stesso prodotto
pro capite degli Stati Uniti o lo stesso HDI è un falso problema perché questi indicatori non
misurano né il benessere né la felicità.
Michele: Sono d’accordo. Anch’io penso che la Cina non debba preoccuparsi troppo degli
indicatori standard, soprattutto di quelli sintetici. Gli obiettivi andrebbero elencati e per
ognuno di essi dovrebbe essere stimato il valore di partenza ed enunciato quello di arrivo. Ciò
aiuterebbe a individuare le politiche, consentirebbe di monitorarle e valutarne l’impatto. Gli
obiettivi non mancano, primo fra tutti ridurre la crescente diseguaglianza economica e sociale
tra città e campagna e tra le province, in particolare fra quelle dove si è concentrata fino ad
ora la crescita economica e le altre.
Li: Forse era questa l’idea di Hu Jintao quando propose la creazione di una società
armoniosa.
Michele: Le parole d’ordine mi fanno la stessa impressione degli indicatori sintetici.
Vanno bene come mezzi di comunicazione di massa, ma poi vorrei capire che cosa vogliano
veramente dire, soprattutto quando, come in questo caso, sono usate anche in contesti sospetti
40
.
Li: Sì, credo anch’io che un po’ più di concretezza farebbe bene, visto che sono molti gli
obiettivi sociali che molti cinesi vorrebbero veder raggiunti. Ad esempio, potremmo smettere
di fare a gara con gli Stati Unti su chi controlla di più la sfera privata, incluse le
comunicazioni telefoniche e Internet, abolire prima di loro la pena di morte, combattere
l’omofobia, garantire il diritto ai servizi di base a chi lascia la propria residenza per motivi di
lavoro, non intervenire nelle scelte riproduttive delle famiglie, accettare l’espressione di
opinioni diverse.
Michele: Aggiungerei che la Cina deve accelerare lo sviluppo del sistema educativo e
formativo, un passaggio indispensabile per spostare il processo produttivo verso settori a più
alta intensità di capitale e per sostenere la terziarizzazione in atto. E poi, ci sono le zone rurali
che accusano ancora un notevole ritardo in quasi tutti i campi.
40
Il concetto di armonia è legato alla musica che, nella visione confuciana, ha il potere di creare equilibrio negli
individui, nella natura e nella società. Il concetto di una “Armoniosa Società Socialista ” cominciò a essere diffuso
nel 2006 come uno degli elementi fondanti della leaderdship di Hu Jintao che indicava nella lotta alle
diseguaglianze economiche e alle ingiustizie sociali uno dei suoi obiettivi principali. Di fatto il concetto è stato
spesso usato dal governo cinese per giustificare la soppressione del dissenso e un accentuato controllo
dell’informazione.
37
John: Ragazzi è tardi comincio ad essere stanco.
Li: Fermi tutti, prima di salutarci devo chiedere a Michele perché anche lui ha dei dubbi
sulla capacità della Cina di sorpassare gli Stati Uniti.
Michele: Per un motivo molto semplice: la Cina sta per rimanere senza lavoratori.
Li, John e Mario a una voce: Stai scherzando, lo stato più popoloso del mondo senza
manodopera?
Michele: Tutto è relativo. Comunque è un discorso lungo. Perché non lo rimandiamo alla
prossima cena?
Li: Mi stai facendo preoccupare. Spero che riusciremo a parlarne presto.
38
Perché dovremmo controllare le nascite
quando possiamo aumentare le morti?
Pubblicità per la Grande Caccia, dal Film
di Elio Petri “La decima vittima”, 1965.
Secondo dialogo - Le sfide demografiche della Cina: passato e futuro
Un ristorante in riva al mare. Sotto i pini l'atmosfera pre-serale è decisamente piacevole. I
nostri quattro amici siedono a un tavolo un po’ in disparte, vicino alla spiaggia, per parlare
senza essere disturbati dalle conversazioni degli altri clienti. Si potrebbe pensare che Cina e
Stati Uniti siano molto lontani.
Stessa spiaggia, stesso mare
Li: Spaghetti allo scoglio per tutti? Ci facciamo preparare anche qualche grigliata mista?
John: Io direi che un paio di grigliate siano indispensabili.
Mario: Che vino prendiamo?
John: Che ne direste di una bottiglia di Verdicchio?
Il Verdicchio arriva e mentre aspettano gli spaghetti, i nostri amici cominciano a bere e a
chiacchierare.
Carenza di lavoro e mobilità interna in Cina
Li: Michele, è da venerdì che sto pensando come ti possa essere venuta l’idea che alla Cina
stia per mancare la manodopera. Mi sembra impossibile che una cosa del genere possa
accadere al paese più popoloso del mondo. Mi sono però ricordato di aver visto parecchi
articoli, anche sul China Daily, che raccontano di fabbriche che non riescono a trovare operai
e altri sul fatto che nelle zone di confine ci siano immigrati clandestini provenienti dal
Vietnam, che lavorano non solo nelle fabbriche, ma anche nei campi 41. Tuttavia, pensavo si
trattasse di fenomeni isolati dovuti all’arrivo di poveretti che non riuscivano a trovare lavoro a
casa loro.
Michele: Credo invece che siano le prime avvisaglie di una vera e propria tempesta. Ci
sono stati anche articoli relativi a rivendicazioni per ottenere migliori condizioni economiche
e di lavoro e ai risultati, in alcuni casi positivi, che ne sono derivati. Non si tratta di fenomeni
casuali, ma di segnali ben precisi inviati dal mercato. Quando le persone che cercano lavoro
sono molto più numerose dei posti disponibili, quando cioè l’offerta di lavoro eccede
largamente la domanda 42, com’è successo per lungo tempo in Cina, chi lavora è costretto ad
accettare un salario appena sufficiente per sopravvivere 43 e le condizioni di lavoro che gli
vengono imposte. Se la manodopera inizia a scarseggiare, la situazione cambia. I lavoratori
41
“ Working-age population set to decline”, China Daily, 1/9/2006; “Illegal immigration from Vietnam surges in
China”, China Daily, 11/04, 2010; http://www.chinadaily.com.cn/china/2010-04/11/content_9713105.htm
42
Nel linguaggio degli economisti la domanda di lavoro è espressa dalle imprese e l’offerta dalle famiglie.
43
In questo caso gli economisti parlano di salario di sussistenza.
39
cominciano ad avere un maggiore potere contrattuale, a pretendere salari più adeguati e
condizioni di lavoro più umane.
John: Ma saranno fenomeni locali dovuti al fatto che i cinesi non possono muoversi
all’interno del loro paese.
Michele: E’ un divieto che non ha mai avuto molto effetto. L’unica conseguenza è che gli
“immigrati clandestini” non hanno diritto ai servizi forniti dalle amministrazioni locali.
D’altra parte, nessun paese è mai riuscito a bloccare completamente i flussi migratori, né in
uscita, né in entrata. Fra l’altro, un segno dei tempi che stiamo vivendo e dei cambiamenti che
sono intervenuti negli ultimi venti-trenta anni è che mentre prima numerosi paesi creavano
barriere quasi insormontabili –muri, fili spinati, posti di blocco e che più ne ha più ne mettaper impedire l’uscita ai propri cittadini e richiedevano un visto di uscita difficilissimo da
ottenere, adesso altri paesi pongono barriere ugualmente insormontabili, inclusi muri
fortificati, reti metalliche, l’esercito e la marina per impedire l’ingresso ai cittadini di altri
paesi 44. Inoltre, mentre prima le misure restrittive all’uscita erano condannate come barbare e
contrarie ai più normali diritti umani e civili, adesso l’atteggiamento speculare passa
sostanzialmente sotto silenzio. Tuttavia, le restrizioni non sono mai riuscite a fermare chi
vuole costruire un futuro migliore per sé e per la propria famiglia, soprattutto quando è
convinto, molto spesso a ragione, che la probabilità di trovare un lavoro nei paesi di arrivo sia
elevata. Immaginiamoci se restrizioni prive di forti sanzioni potevano funzionare all’interno
di un paese dalle dimensioni della Cina e che si trova in una fase ancora iniziale del proprio
sviluppo socio-economico. E così negli ultimi trent’anni più di 250 milioni di cinesi hanno
abbandonato il proprio luogo di nascita per andare a lavorare nei grandi centri urbani e nelle
province lungo la costa, dove l’offerta locale di lavoro era divenuta insufficiente. Come
hanno sottolineato gli stessi cinesi 45, si è trattato del più grande esodo nella storia
dell’umanità.
Li: Noi quando facciamo una cosa la facciamo in grande.
Michele: D’altra parte, caro John, mi sembra che le vostre operazioni paramilitari contro
gli immigrati messicani non abbiano molto successo e che anche nel vostro melting pot
nuotino più di undici milioni di clandestini 46. Vi posso comunque assicurare che in Cina la
mancanza di lavoro sta per diventare un problema nazionale e non lo dico io, ma lo si deduce
dai dati della Population Division.
Il crollo della popolazione in età lavorativa, le conseguenze
sull’offerta di lavoro e la proposta della Banca Mondiale
Li: Che cos’è la Population Division? Non ne ho mai sentito parlare.
44
A partire dal vallo di Adriano e dalla grande Muraglia fino ad arrivare al muro di Berlino, i tentativi di utilizzare
il settore delle costruzioni per tenere lontani gli invasori o rinchiudere i propri cittadini non sono certo mancati.
Dato che alcuni dei grandi esempi storici sono diventati delle attrazioni turistiche, in altri paesi si sta alacremente
lavorando per il turismo del futuro. Le iniziative di maggior respiro sono certamente quelle in corso negli Stati
Uniti e in Israele.
45
National Population and Family Planning, Report on the Development of China’s Floating Population, 2010
46
Nel 2012 l’amministrazione Obama ha speso 18 miliardi di dollari in programmi volti a combattere
l’immigrazione illegale.
40
Michele: E’ uno dei più autorevoli istituti di analisi demografiche del pianeta che da oltre
60 anni pubblica proiezioni per oltre 200 paesi 47. Secondo questo istituto delle Nazioni Unite,
la popolazione cinese dovrebbe raggiungere un massimo di un miliardo e quattrocento
cinquantadue milioni nel 2030 per poi scendere a un miliardo e ottantasei milioni nel 2100,
una diminuzione del 25 per cento 48. Cosa ancora più rilevante, la popolazione tra i 15 ed i 64
anni dovrebbe diminuire del 40 per cento, scendendo da un valore massimo di un miliardo e
quindici milioni, raggiunto nel 2015, a uno di 615 milioni alla fine del secolo.
John: E quindi anche l’offerta di lavoro diminuirebbe in maniera vertiginosa e devastante!
Li: Ci giochiamo il sorpasso?
Mario: Com’è che nessuno parla di un evento così straordinario? Sembrerebbe quasi un
fenomeno di rimozione.
Michele: E’ un fatto che tutti i politologi e gli storici che si sono occupati del futuro della
Cina e, in particolare, dell’eventuale sorpasso -sia quelli che lo vedono come inevitabile, sia
quelli che prevedono esiti completamente diversi- non abbiano preso in considerazione il
problema demografico. Diverso il caso degli economisti che, pur essendo consapevoli degli
scenari delle Nazioni Unite e di altri organismi, sembrano ritenere che il problema possa
essere facilmente risolto. L’esempio più sorprendente è fornito da un recente, voluminoso
rapporto redatto dalla Banca Mondiale e dal Centro di Ricerca sullo Sviluppo del Consiglio di
Stato Cinese 49. Lo studio propone che tra il 2015 e il 2030 il livello dell'occupazione
diminuisca, in parallelo con le forze di lavoro, del 4 per cento vale a dire di 30 milioni.
Mario: Qual è la logica di questa proposta?
Michele: Questa “soluzione” ha il pregio di salvare capre e cavoli, cioè di mantenere il
mercato del lavoro cinese in una situazione di pieno impiego, scongiurando, allo stesso tempo
le tensioni salariali che verrebbero create dalla mancanza di offerta di lavoro.
John: Stai dicendo che la Banca Mondiale ha capito che alla Cina sta per mancare la
manodopera e ha suggerito un percorso programmato di riduzione dell’occupazione? E alla
produzione cosa succederebbe?
Michele: Ah, qui sta la trovata. Affinché i conti tornino, lo studio ipotizza che la
produttività del lavoro cresca in eccesso della produzione di un ammontare esattamente
uguale al calo dell’occupazione.
Li: Non capisco. Potresti fare un esempio.
Michele: Supponiamo che la produzione aumenti del 6 per cento e l’occupazione
diminuisca dello 0,2 per cento. Per rendere coerenti questi valori bisognerà che la produttività
media del lavoro cresca del 6,2 per cento. In sostanza che gli occupati rimasti riescano non
solo a far fronte all’aumento della produzione, ma si prendano anche carico di quello che
avrebbero prodotto i lavoratori mancanti. In conclusione, la produzione può aumentare anche
se l’occupazione diminuisce purché l’incremento della quantità prodotta in media da ogni
lavoratore sia tale da coprire non solo la crescita della produzione, ma anche il calo
dell'occupazione.
47
La Population Division pubblicò il primo insieme di stime e proiezioni demografiche nel 1951. A partire dal
1990 I World Population Prospects sono aggiornati ogni due anni.
48
Population Division, World Population Prospects: the 2012 Revision. Highlights, 2013
49
World Bank, 2012, China 2030; Building a modern harmonious and creative high-income society, New
York, The World Bank.
41
Mario: Non essere sicuro di aver capito.
Michele: Facciamo un esempio numerico. Supponiamo che 10 operai producano 1.000
spillini e abbiano quindi una produttività media, cioè producano ognuno, cento spillini. Otto
operai potranno produrne 1,200 se la produzione media salirà a 150 spillini.
Mario: Ci sono. Quindi, se capisco bene, il calo dell’occupazione non sarebbe il risultato di
una crisi economica o comunque di un fenomeno fuori controllo, ma un intervento teleguidato
commisurato all’andamento demografico.
Michele: Proprio così, ma non è una soluzione senza problemi. In primo luogo, se anche
l’economia fosse retta da leggi immutabili, cosa che non è, di certo gli economisti non le
hanno ancora scoperte. I fisici possono inviare un SUV su Marte e farlo scendere dolcemente
con una procedura programmata prima della partenza dalla terra; gli economisti non sono
certo in grado di guidare il PIL a loro piacimento e tanto meno il livello dell’occupazione. Lo
mostra chiaramente il fatto che non solo periodi di prosperità e di crisi si succedono gli uni
agli altri senza che si riesca a fare molto per evitarlo, ma anche e soprattutto il fatto che gli
economisti siano divisi su quale sia la ricetta giusta per uscire dalle crisi. L’attuale dibattito su
austerità e misure espansive ne è la dimostrazione migliore. Inoltre, disegnare una soluzione è
una cosa, metterla in pratica un’altra.
Mario: Suppongo che il Rapporto prenda in considerazione anche le trasformazioni che si
verificherebbero nella struttura del sistema produttivo cinese.
Michele, facendo apparire quasi per incanto il suo computer dallo zaino arancione che
non abbandona mai: Speravo di evitarlo, ma a questo punto mi sembra inevitabile dare
un’occhiata ad alcune tavole statistiche.
Li: Lo sapevo che ci saremmo ricaduti.
Michele: La tavola riassume le principali tendenze dell’occupazione per settore ipotizzate
dalla Banca Mondiale da qui al 2030. Nel 2010, con circa il 38 per cento dell’occupazione
totale, l’agricoltura era il settore più rilevante, seguita da Servizi e Industria. Secondo la
Banca Mondiale questa situazione è destinata a modificarsi drasticamente. La quota
dell’Agricoltura si dovrebbe ridurre progressivamente di oltre 25 punti percentuali, mentre la
quota dei Servizi ne dovrebbe guadagnare quasi altrettanti e quella dell’Industria rimanere
stazionaria. Così nel 2030 il 59 per cento degli occupati cinesi dovrebbe lavorare nei Servizi,
il 28,5 per cento nell’Industria e solo il 12,5 per cento nell’Agricoltura. Insomma, in venti
anni la Cina si trasformerebbe da paese agricolo in paese post-industriale.
Tavola 1 – Popolazione in età lavorativa, occupati totali e per settore; valori assoluti,
variazioni assolute e composizione percentuale.
42
Fonte: World Bank, China 2030. 2012
Li: Si tratterebbe di cambiamenti straordinari, ma la Cina ha saputo fare ben altro.
John: E’ vero, ma credo che ci si debba chiedere se si tratti di trasformazioni in linea con
quelle del passato e coerenti con gli obiettivi del governo cinese. Ad esempio, credevo che
nella “fabbrica del mondo” l’industria avrebbe continuato a dare un contributo fondamentale
alla dinamica dell’occupazione.
Michele: Per rispondere dobbiamo guardare a quello che è successo nel passato.
Mario: Va bene, ma non farla troppo lunga.
Le sfide demografiche del passato
Michele: Ci proverò. Nel secolo scorso la Cina è stata oggetto di una vera e propria
esplosione demografica. In sessanta anni, dal 1950 al 2010, la popolazione totale è aumentata
di due volte e mezzo e la popolazione in età lavorativa è triplicata. Ciò ha posto alla Cina due
grandi sfide: la prima, al suo sistema educativo e della formazione tecnico-professionale, la
seconda al mercato del lavoro.
Li: Bravo Michele, credo si parli troppo poco di questi aspetti. Il dibattito sulla Cina
rimane molto spesso ancorato a pregiudizi ideologici e si dimenticano i problemi che la Cina
ha dovuto affrontare e saputo risolvere.
La sfida al sistema educativo
Michele: Quando il primo Ottobre del 1949 Mao si affacciò su Tian An Men per
annunciare l’inizio di una nuova fase storica, la Repubblica Popolare Cinese era un paese
poverissimo, ma i suoi 544 milioni di abitanti, l’85 per cento dei quali era analfabeta, ne
facevano lo stato più popoloso della terra. Essi rappresentavano il 21,5 per cento della
popolazione mondiale e “producevano” più di un quarto dei bambini che vedevano la luce
ogni anno sul pianeta. Il numero annuo dei nati rimase costantemente sopra i 20 milioni fino
al 1995 e tra il 1965 e il 1970 la media fu addirittura di quasi 29 milioni. Ovviamente, ciò si
tradusse in un enorme aumento dei ragazzi e delle ragazze in età scolare. Il numero di quelli
tra i 5 e i 19 anni -che corrisponde più o meno al numero dei potenziali fruitori del sistema
educativo- crebbe da 162 a 357 milioni, per scendere sotto i 300 milioni solo dopo il 2005 50.
Malgrado ciò, la Cina ha conseguito risultati straordinari in campo educativo. In occasione
del recente censimento demografico, il tasso di analfabetismo della popolazione con oltre 15
anni era già sceso sotto il 5 per cento e gli analfabeti erano soprattutto anziani che vivevano
nelle zone rurali. Alla stessa data la percentuale della popolazione con almeno un diploma di
scuola media superiore era del 22,9 per cento 51, con percentuali molto più elevate nelle grandi
zone urbane come Pechino (52,7 per cento), Shanghai (42,8per cento) e Tianjin (38,1 per
cento). Certo la situazione non era così rosea dappertutto. Per esempio in Tibet la percentuale
dei diplomati era di poco superiore al 9,9 per cento.
Li: Dite quello che volete, ma questi dati mi fanno sentire orgoglioso di essere cinese,
soprattutto se penso ai fallimenti della maggior parte dei paesi che erano in una situazione
simile alla nostra. Ho davanti agli occhi la mia scuola elementare all’inizio degli anni ‘70.
50
In occasione del censimento la popolazione tra 5 e 19 anni era di 246 milioni.
Il tasso di analfabetismo è più elevato per le donne che per gli uomini, mentre la percentuale di coloro che hanno
come minimo dodici anni di scolarità è più elevata per gli uomini che per le donne
51
43
Eravamo almeno cinquanta in ogni classe e ogni settimana pulivamo le aule, cosa di cui
andavamo fieri. D’inverno portavamo da casa la legna per riscaldare la scuola. Anche se
spesso faceva veramente freddo, ci impegnavamo al massimo per soddisfare le aspettative
della nostra famiglia. Non era certo il paradiso ma, data la situazione, era già tanto che il
sistema garantisse a tutti o quasi la possibilità di imparare a leggere e scrivere. Certo,
pensando all’atmosfera politica di quel periodo viene un po’ da ridere.
La sfida occupazionale
Michele: Tornando alle sfide demografiche, secondo i dati ufficiali, che ovviamente vanno
presi con grande cautela, la Cina è anche riuscita nel quasi incredibile compito di generare
una crescita occupazionale in linea con quella della popolazione in età lavorativa. Tuttavia, si
sono registrate diverse fasi. Nella prima, durata fino al 1978, la Cina fu governata da una
rigida economia di piano; nella seconda, ancora in corso, si è avuta una progressiva
evoluzione verso un sistema di mercato. Nella prima fase non si può parlare di mercato del
lavoro così come normalmente lo definiamo. L’allocazione dei posti avveniva in maniera
amministrativa e rispondeva agli obiettivi della produzione e delle politiche volte a ridurre la
povertà, un obiettivo che fu perseguito col cosiddetto sistema della “ciotola di ferro per il
riso” che tendeva a garantire a tutti un lavoro e quindi salario e pensione a vita.
Li: In quel periodo la crescita economica fu piuttosto modesta.
Michele: Mica tanto. Stando ai dati ufficiali, tra il 1953 e il 1978 il PIL crebbe in media
del 6,2 per cento. Non male, visto che durante quel periodo ai disastri naturali si sommarono
alcune politiche socio-economiche disastrose, a partire dall’introduzione delle comuni
agricole. Inoltre, sul piano politico quella fu anche la fase del grande balzo in avanti, della
rivoluzione culturale e di violente lotte di potere. Il risultato fu che ad anni di crescita molto
elevata si alternarono anni di profonda crisi.
John: Cosa ci si poteva aspettare da una politica imperniata su di una rigida
collettivizzazione dell’agricoltura e che cercò di aumentare la produzione del ferro con le
fornaci da cortile. Se non ricordo male, si ricorse anche, e con risultati terribili per le
popolazioni rurali, alle tecniche di coltivazione suggerite da uno scienziato russo totalmente
pazzo che sosteneva fra l’altro che si potevano abituare le piante a fare senz’acqua
diminuendo progressivamente l’irrigazione 52.
Michele: Sì di storielle su quel periodo ve ne sono molte, inclusi i record di nuoto di Mao,
il Grande Timoniere. Comunque, al di là del folklore, la strategia economica seguì un duplice
binario: da un lato, aumentare la produzione agricola per sostenere il consumo urbano e le
esportazioni, dall’altro sviluppare l’industria pesante per rendere la Cina indipendente dalla
Russia.
52
John si riferisce a Trofim Lysenko le cui tesi in campo agricolo dominarono lo scenario sovietico dalla fine
degli anni 20 fino alla metà degli anni 60. Lysenko, uno “scienziato” scalzo nato in Ucraina alla fine del XIX
secolo, riuscì in maniera rocambolesca ad acquisire un enorme potere nella Russia di Stalin, potere che mantenne
fino agli anni 60. Durante questi trenta anni egli condizionò in maniera drammatica la ricerca scientifica del suo
paese. L’idea che lo rese famoso emerse da un esperimento condotto nel 1928 e pubblicizzato in maniera del tutto
acritica dalla Pravda. Secondo Lysenko, per rafforzare le seminagioni primaverili bisognava “vernalizzare” le
sementi durante l’inverno, sottoponendole al freddo e all’umidità. In seguito sostenne anche che i semi prodotti da
piante vernalizzate non richiedevano più la vernalizzazione. Lysenko riusci a fare disastri non solo la Russia, ma
anche la Cina dove nel 1958 Mao, affascinato dalle sue idee, impose ai contadini di quadruplicare i semi per ettaro
(per poi raddoppiarli ancora l’anno successivo), di non fertilizzare i campi, di arare i campi fino ad una profondità
di 1,2, 1,5 metri per favorire lo sviluppo delle radici. Il risultato fu una delle peggiori carestie che abbiano colpito
l’umanità. Sul’impatto delle idee di Lysenko in Cina, si veda Jasper Becker, Hungry Ghosts: Mao’s Secret
Famine, An Owl Book, Henry Holt and Company, New York.
44
Il sistema dell’Hukou
Li: Bisogna anche ricordare che in quella fase fu introdotto il permesso di residenza che
però sarebbe più esatto definire il divieto di circolazione interna, tuttora in vigore.
John: Da dove venne questa idea bislacca?
Li: Secondo alcuni l’hukou, così si chiama in cinese, fu ispirato dai registri di famiglia
utilizzati da sempre nel mio paese per raccogliere le tasse, per la leva militare e per il
controllo sociale. Ma è più probabile che l’idea sia stata suggerita dal passaporto per
spostamenti interni utilizzato in Russia 53.
John: E quando fu introdotto esattamente?
Michele: La legislazione complessiva su questo tema fu approvata nel 1958, anche a
seguito dei consistenti flussi migratori dalla campagna alla città che si erano registrati
nell’anno precedente e molto probabilmente, come ha già suggerito Li, sulla scorta
dell’esempio russo. Il governo cinese voleva creare una propria industria pesante. Per
finanziare l’operazione e assicurare il cibo agli operai, si diede vita a un sistema di scambio
ineguale tra città e campagna che richiedeva un rigido controllo dei movimenti migratori
interni. D’altra parte, è evidente che il sistema del hukou forniva al governo anche i mezzi e le
informazioni necessari per assicurare l’ordine sociale e il controllo politico.
Li: La conseguenza peggiore del hukou fu la divisione dei cinesi in due gruppi. Il primo,
largamente maggioritario, era costituito da coloro che vivevano nelle zone rurali; il secondo
da coloro che vivevano in città. I membri del primo gruppo erano in buona sostanza cittadini
di seconda classe: solo chi viveva nei centri urbani riceveva un lavoro dal governo, aveva
accesso ai servizi sociali e, in questa prima fase, razioni alimentari. Inoltre, per spostare la
propria residenza in un centro urbano, gli abitanti delle campagne dovevano chiedere una
autorizzazione che veniva concessa molto raramente. I bambini erano registrati nel luogo di
residenza della madre al momento della nascita e ciò predeterminava quali scuole avrebbero
potuto seguire e di quali benefici sociali (assistenza medica, pensione, ecc.) avrebbero potuto
usufruire. Il punto è che questi benefici erano -e in buona parte sono ancora- assenti nelle
zone rurali.
Mario: ma oggi è possibile cambiare la propria residenza?
Li: Rimane molto difficile e le modalità variano da zona a zona. Il modo più classico è
quello di sposarsi, ma anche in questo caso ci sono talvolta restrizioni relative alla durata del
matrimonio. Vi è poi la possibilità di ottenere una residenza urbana competendo per uno degli
hukou (pochi) messi a bando ogni anno dalle principali Università tra i propri laureati o
ottenendo lavori di solito molto qualificati. E poi, per chi può permetterselo, c’è sempre la via
del guanxi 54 e delle bustarelle. Insomma, anche l’hukou può essere comprato in certi casi
regolarmente, più spesso sul mercato nero.
53
Si tratta della propiska, o registrazione del luogo di residenza, che fu introdotta da Stalin per controllare gli
spostamenti delle persone all’interno dei vasti confini dell’Unione Sovietica. Ancora oggi, la propiska continua a
complicare la vita dei cittadini russi. Per trasferirsi da una città all’altra occorre, infatti, iscriversi ad una nuova
anagrafe e la procedura può trasformarsi in vero e proprio incubo burocratico. Il governo ha però annunciato che le
pratiche di iscrizione anagrafica saranno presto drasticamente semplificate e il direttore del Servizio federale per le
migrazioni, Konstantin Poltoranin, ha addirittura lasciato intendere che la pratica potrebbe essere abolita e che i
russi potranno cambiare residenza per posta o via Internet.
54
La parola guanxi significa letteralmente relazioni, rapporti; in pratica si riferisce alla rete di relazioni che lega
fra loro vari attori e si sostanzia nel reciproco aiuto. Insomma anche in Cina, una mano lava l‘altra.
45
John: Il divieto di muoversi sul territorio cinese è stata sempre applicato in maniera
rigida?
Li: Solo fino alla fine degli anni 70.
Michele: D’altra parte i dati mostrano chiaramente che fino all’inizio degli anni ‘90 i
flussi migratori furono modesti e che solo negli anni successivi le migrazioni interne
divennero un fenomeno di massa. La Cina stava cominciando a cambiare!
Deng e il nuovo corso dell’economia cinese
Li: Beh nel frattempo era arrivato Bottiglietta Deng 55, ed era cominciato il nuovo corso
dell’economia Cinese. Le sue massime hanno fatto storia e riassumono bene il suo pensiero.
Mario: Com’era quella dei gatti?
Li: Diceva più o meno così: non importa se un gatto sia bianco o nero, ciò che conta è che
acchiappi i topi.
Michele: Il 1979 segna l’inizio della trasformazione della Cina da economia pianificata a
economia di mercato. In questa fase, tuttora in corso, il governo ha introdotto
progressivamente una serie di misure volte a combinare pianificazione e mercato allo scopo
di favorire un più elevato progresso tecnologico, aumentare la produttività e innalzare il
tenore di vita. E, come abbiamo visto, i risultati non sono mancati. Ovviamente questo
comportò l’introduzione del mercato anche nel mondo del lavoro.
Mario: In pratica?
Michele: All’inizio degli anni ’80 il governo cinese cominciò a concedere alle imprese di
stato la possibilità di assumere e licenziare i propri dipendenti in maniera autonoma e di
commisurare il salario alla produttività. Nel 1986 stabilì poi non solo che le nuove assunzioni
avvenissero sulla base di contratti individuali, ma che tale principio fosse esteso anche ai
lavoratori già presenti nelle imprese. Fu in quegli anni che la ciotola per il riso pur essendo di
ferro cominciò a incrinarsi e i lavoratori cinesi dovettero cominciare a cercarsi un lavoro e a
preoccuparsi di poterlo perdere. Tuttavia, nel corso degli anni ’80 il governo chiese alle
imprese di stato di evitare i licenziamenti e così l’occupazione aumentò in misura notevole,
malgrado il rallentamento nella crescita del PIL che si registrò alla fine di quel decennio.
John: E nelle campagne?
Michele: I primi interventi innovativi furono attuati proprio nelle campagne con
l’introduzione dei “contratti di responsabilità”. Con questo sistema le famiglie potevano
affittare un appezzamento di terra per un periodo fino a trenta anni in cambio del versamento
allo stato di una data quota della produzione. La principale novità consisteva nel fatto che le
famiglie contadine potevano vendere sul libero mercato, o eventualmente allo stato, la quota
di prodotto che non consumavano.
55
In cinese il nome di questo straordinario leader (Xiaoping) suona simile a bottiglietta. Deng nacque nel 1905 nel
Sichuan da una famiglia benestante che gli fornì un’educazione tradizionale. Visse in Francia dal 1920 al 1926
dove lavorò come operaio, conobbe il marxismo e si iscrisse al Partito Comunista Cinese che era stato fondato nel
1921. Si trasferì poi a Mosca dove continuò a studiare il marxismo e fu testimone diretto della rivoluzione. Tornato
in Cina partecipò alla lunga Marcia. Piccolo di statura, oratore non certo entusiasmante, rifuggì dalla notorietà e
arrivò al massimo ad essere il numero tre del partito. Nel 1976 successe a Zhou Enlai che lo aveva protetto nei
complicati anni precedenti. Accusato di pragmatismo da un morente Mao, rimase nell’ombra fin al 1980. La
vittoria della sua linea di pensiero fu sancita dal XII Congresso del partito comunista che si tenne nel settembre del
1982.
46
Li: I contratti di solidarietà apparvero per la prima volta nel 1981 in un piccolo villaggio
dell’Ánhui per poi diffondersi con grande rapidità in tutte le province della Cina. Deng
Xiaoping li definì una grande invenzione dei contadini cinesi.
Michele: L’introduzione dei contratti di solidarietà determinò un aumento sia della
produttività, sia della produzione. Inoltre, la possibilità di commercializzare parte della
produzione, e quindi di utilizzare il denaro ricavato per fare acquisti, introdusse le famiglie
contadine nel circuito monetario sia come venditori, sia come acquirenti. Tornando al
processo di modernizzazione, nel corso degli anni 90 le imprese pubbliche, che all’inizio del
decennio davano ancora lavoro all’80 per cento dei lavoratori dell’industria, cominciarono a
essere sempre più esposte alla concorrenza del settore privato e tra il 1998 e il 2002
l’industria pubblica attraversò una fase di drastica ristrutturazione.
Li: Dovevamo prepararci per entrare nell’Organizzazione Mondiale del Commercio.
Michele: Proprio così. Nel 2002 la Cina entra nell’Organizzazione Mondiale del
Commercio e comincia una fase caratterizzata da un’ulteriore progressiva contrazione del
settore pubblico, da uno straordinario aumento degli investimenti stranieri 56 e da una
elevatissima crescita economica, tirata soprattutto dalle esportazione. Questa fase dura fino a
quando anche la Cina comincia a risentire della crisi globale in cui ci troviamo in questo
momento.
Mario: Ma questo processo di modernizzazione, questa transizione da piano a mercato
avrà avuto effetti negativi sul mercato del lavoro, così come è successo nei paesi dell’Est?
Michele: Di fatto gli anni ‘80 sono stati uno dei periodi nei quali l’occupazione ha
registrato una crescita maggiore. A ciò contribuirono sia l’industria, malgrado le imprese
pubbliche cambiassero le relazioni contrattuali con i propri dipendenti, sia il settore dei
servizi. Secondo le fonti statistiche ufficiali, i due settori crearono rispettivamente 5,5 e 5,8
milioni di posti di lavoro all’anno. Tuttavia, la crescita della popolazione in età lavorativa fu
molto sostenuta e l’agricoltura, il mondo contadino, continuarono ad assorbire tutti coloro (e
furono oltre 8 milioni l’anno) che non riuscivano a trovare lavoro nei settori moderni. Così,
quando si arriva al 1991, l’occupazione in agricoltura raggiunge il proprio massimo storico
con oltre 390 milioni di addetti, circa il 60 per cento dell’occupazione totale. Di certo molti di
quei contadini non davano alcun contributo effettivo, nel senso che la produzione non sarebbe
diminuita se essi avessero trovato un lavoro altrove. In pratica erano dei disoccupati nascosti.
Tavola 2 – Occupati totali e per settore; valori assoluti (in milioni) e composizione
percentuale; 1952 - 2008
Fonte: Ufficio Statistico Nazionale della Cina, Annuario statistico, anni diversi
56
Nel 2003 gli investimenti stranieri in Cina furono uguali a quasi 50 miliardi di dollari. Negli anni successivi essi
sono progressivamente aumentati e, dopo una leggera flessione nel 2012, hanno raggiunto un massimo di 347
miliardi nel 2013, a dimostrazione che la fiducia nel futuro della Cina rimane, se non immutata, certamente molto
alta.
47
Modello di sviluppo di Lewis e offerta illimitata di lavoro
John: Quello che dici mi ricorda un modello che studiai all’Università in un corso di
economia dello sviluppo, ma non riesco a ricordarne il nome.
Michele: Penso che tu ti riferisca al modello di Lewis che fu pubblicato nel lontano 1954 e
prese il nome dal suo ideatore, un economista giamaicano che a quel tempo insegnava
all’Università di Manchester e proprio per quel lavoro vinse il premio Nobel nel 1979 57.
Mario: Credevo che la Giamaica fosse specializzata solo nella produzione di velocisti!
John: Si, adesso mi ricordo. Se non sbaglio l’idea di Lewis -che comunque aveva un
nome reso poi famoso da un velocista- era che in molti paesi sottosviluppati la popolazione è
così numerosa che i capitali e le risorse naturali del paese non sono sufficienti a dare lavoro a
tutti. Allora, gli imprenditori che fanno investimenti possono pagare salari di sussistenza,
fintanto che nelle campagne o nei settori informali dell’economia vi è quella che Lewis definì
un’offerta illimitata di lavoro. Ciò genera un grosso vantaggio competitivo e consente
all’economia di svilupparsi.
Michele: John, spero che tu non sia un caso isolato. Ho sempre pensato che i miei studenti
dimenticassero tutto quello di cui avevo parlato nel giro di pochi mesi. Tu mi rincuori.
John: Non essere così pessimista. Ognuno di noi ricorda i propri docenti, nel bene e nel
male e, se sapevano insegnare, anche un po’ di quello che ci hanno raccontato.
Michele: Mi fai venire in mente che un paio di anni fa mentre camminavo in Via
Indipendenza 58 vidi un signore completamente calvo, e che a me parve molto anziano, virare
velocemente verso di me. Arrivatomi vicino, cominciò a stringermi calorosamente la mano.
Mi disse che era stato un mio studente e che non si sarebbe mai dimenticato una cosa che
avevo detto in classe. Ora, a parte il fatto che la vista di quello “studente” mi diede la
sensazione concreta e spiacevole di quanto fossi invecchiato, la cosa buffa fu che io non solo
non mi ricordavo assolutamente di aver mai pronunciato quelle parole (che a lui parevano
così sagge e che io mi sono di nuovo dimenticato), ma mi sembrò anche impossibile averle
dette. Comunque hai ragione. Anch’io sono stato molto influenzato da alcuni dei miei
insegnanti e alcuni li ricordo ancora con affetto e moltissimo rispetto. La mia maestra della
seconda elementare, la Signora Donnini, e il maestro Maestri che ebbi dalla terza alla quinta
elementare; al Liceo la professoressa Goretti che insegnava filosofia e che faceva sembrare
ciascun filosofo come qualcuno che aveva scoperto la verità assoluta per poi distruggerlo
completamente nella lezione successiva; e il professor Patrizi che non insegnava arte, ma la
rappresentava e mi fece capire più di ogni altro l’importanza di un approccio
multidisciplinare. E poi, all’università a Firenze, il prof. Tosi con cui feci la tesi e il prof.
Sartori; e negli Stati Uniti, a Berkeley, George Akerlof senza il cui aiuto non sarei mai
riuscito a completare il mio dottorato; Carlo Cipolla non solo un grande storico, ma anche un
vero signore italiano che faceva lezione davanti al camino della sua bella villa sulle colline di
Berkeley offrendoci dei vini dell’Oltre Po pavese; e infine Benjamin Ward, che mi diceva
sempre di chiamarlo Ben, ma che io non riuscii mai a chiamare se non Professore perché
rappresentava ai miei occhi il Professore con la P maiuscola, colui che non ti insegna delle
cose, ma come guardare alle cose.
John: Ehi mi stai diventando sentimentale, al limite del patetico.
57
A.W. Lewis, 1954, Economic development with Unlimited spploies of labor”, The Manchester School of
Economics and Social Studies, n. 22, pagg. 139-191.
58
Via Indipendenza è una delle strade principali di Bologna; collega il centro con la stazione ferroviaria.
48
Michele: OK. Allora lasciate che racconti una storiellina che definisce l’intelligenza che il
Prof Ward cercava di sviluppare nei suoi allievi. La maestra dice alla classe:” Disegnate una
testa”. Tutti i bambini cominciano a disegnare, ad eccezione di Pierino che dopo un po’ si
alza e chiede: “Dal di dentro o dal di fuori?”
Li: E’ finita?
John: Li, non ti preoccupare, si tratta solo del solito caso di differenza culturale in campo
umoristico. Ricordati che hai promesso di raccontarci delle barzellette cinesi per fare una
prova contro-fattuale. Ma torniamo al modello di Lewis; è così che viene spiegato il miracolo
cinese?
Michele: Sì, questa è l’ipotesi prevalente e adesso la discussione verte sul fatto se questa
offerta illimitata di lavoro esista ancora o se il mercato del lavoro cinese stia entrando in una
situazione nella quale i salari non potranno più essere di sussistenza e finiranno con l’essere
collegati alla produttività del lavoro. Insomma si discute se il mercato cinese abbia raggiunto
il cosiddetto punto di svolta di Lewis, vale a dire la situazione in cui un aumento della
domanda di lavoro genera un aumento dei salari 59.
Li: Insomma, gli articoli sui giornali farebbero vedere che la nostra riserva di lavoro è agli
sgoccioli. Comunque da qui a dire che alla Cina manca il lavoro ce ne corre.
Michele: Hai ragione, ma vedrai che saprò giustificare questa affermazione. Torniamo alla
nostra storia. La prospettiva introdotta dal modello di Lewis ci perrmette di dividere i sessanta
anni di storia cinese che stiamo esaminando in due periodi. Nel primo, che arriva fino
all’inizio degli anni 90, si assiste alla grande accumulazione di forza lavoro nelle zone rurali.
Il secondo, che sta terminando in questi anni, è quello della grande de-accumulazione
prodotta dalla domanda di lavoro generata dagli ingenti investimenti, effettuati soprattutto
nelle regioni costiere, e dal progressivo calo delle entrate nella popolazione in età lavorativa.
Mario: Spiegati meglio.
Michele: Nel primo periodo la crescita occupazionale fu elevatissima, oltre 11 milioni
all’anno. Quasi la metà fu però dovuta al settore agricolo e quindi soprattutto al processo di
accumulazione nelle campagne dell’eccesso di offerta di origine demografica. A partire dal
1991, lo scenario cambia totalmente. La crescita occupazionale media annua scende a 7
milioni, che sono però il risultato di una crescita dell’occupazione nell’industria di 8 milioni e
nei servizi di 10,5 a cui si contrappone un calo in agricoltura di 11,5 milioni. Entrando più
nel dettaglio, tra il 1991 e il 1998 solo l’industria e i servizi creano posti di lavoro aggiuntivi
dato che l’occupazione in agricoltura comincia a contrarsi. La crescita dell’occupazione
industriale è, tutto sommato, modesta rispetto ai periodi precedenti, in media meno di 4
milioni l’anno, ed è quindi il terziario con oltre 9 milioni di posti di lavoro aggiuntivi a
59
Si veda, ad esempio, Cai Fang and Wang Dewen (2005), “Demographic transition: implications for growth”,
Institute of Population and Labor Economics, CASS, Working Paper Series No.47; Cai Fang (2007), “How to deal
with the future labour shortage?” China Daily; Cai Fang (2008), ”Approaching a triumphal span: How far is China
towards its Lewisian turning point?”, Research Paper, UNU-WIDER, United Nations University (UNU), No.
2008/09; Cai Fang (2008), ”Lewis turning point: a Coming new stage of China’s economic development”, Social
Sciences Academic Press; Bruni, Michele (2011), “China’s new demographic challenge: From unlimited supply of
labour to structural lack of labour supply. Labour market and demographic scenarios: 2008–2048,” Department of
Political
Economy,
University
of
Modena
and
Reggio,
Working
Paper
No.
643:
www.dep.unimore.it/materiali_discussione/ 0643.pdf.; Bruni, Michele and Claudio Tabacchi (2011), “Present and
future of the Chinese labour market. Dualism, migration and demographic transition,” Department of Political
Economy, University of Modena and Reggio, Working paper No. 647.
49
mantenere alta la dinamica occupazionale. Vengono poi quattro anni nei quali la
ristrutturazione delle imprese pubbliche porta a un calo dell’occupazione industriale di circa
17 milioni. Allora l’agricoltura torna ad agire come una spugna, assorbendo l’eccesso di
offerta di lavoro. Superata anche questa fase e con l’ingresso della Cina nella Associazione
Mondiale del Commercio, entriamo nel periodo durante il quale la Cina diventa la grande
fabbrica del mondo. In dieci anni l’occupazione industriale aumenta di 76 milioni, quella nei
servizi di 67, ma l’occupazione agricola perse 109 milioni.
Tavola 1 – Occupati Totali e per settore; 1952-2012
Fonte: Ufficio Statistico Nazionale della Cina, Annuari statistici, anni diversi
Grafico 1 – Occupazione totale e per settore; variazione media annua in milioni; valori medi
annui; 1952-91 e 1991-2012.
Fonte: Ufficio Statistico Nazionale della Cina, Annuari statistici, anni diversi
Mario: Insomma si registra un trasferimento in massa di lavoratori dall’agricoltura ai
settori moderni.
Michele: Questa è l’interpretazione normale, ma le cose sono più complesse. Ciò che
normalmente succede è che vi sono dei lavoratori anziani che escono dall’agricoltura per
invecchiamento o morte, mentre i loro figli entrano direttamente nei settori moderni.
Tornando all’esaurimento di quella che era un’offerta illimitata di lavoro, la sua causa
50
principale è certamente rappresentata dal calo delle entrate nella popolazione in età lavorativa
dovuta al crollo delle nascite.
La politica del figlio unico
Li: Suppongo che sia il risultato della politica del figlio unico.
Michele: Credo che sia difficile valutare quanti bambini sarebbero nati se la politica del
figlio unico non fosse stata introdotta e io penso che i suoi effetti siano stati sovrastimati.
John: Comunque, converrete con me che si tratta di una politica disumana e inaccettabile.
Michele: Io credo invece che ci si debba chiedere se in certe situazioni un paese non abbia
il diritto d’imporre restrizioni anche gravose ai propri cittadini quando esse siano
indispensabili per costruire un mondo migliore. Insomma, a mio avviso, si trattò di una mossa
coraggiosa e intelligente anche se non vi sono dubbi che in moltissimi casi fu attuata in
maniera violenta e incivile, causando enormi sofferenze.
John: Michele, come fai a dire queste cose? Lo sai che moltissime donne sono state
costrette ad abortire con la forza e che casi di questo genere si registrano ancora?
Michele: Nel tuo paese li chiamereste danni collaterali 60. Personalmente penso che si sia
trattato di comportamenti inaccettabili, ma sono anche dolorosamente consapevole della
situazione in cui si trovano tanti bambini che vivono in paesi la cui crescita demografica è
così elevata che nessuna politica di sviluppo ne può tenere il passo e che se dovessero
sopravvivere alla mancanza di cibo e di affetto dovrebbero poi affrontare una vita senza un
lavoro decente e produttivo. Quando vedo bambini che vivono sui campi di rifiuti di tante
megalopoli o che sono costretti ad accettare con gratitudine il lavoro a salari di fame loro
offerto da grandi corporation e piccole imprese locali, la loro denutrizione, le loro malattie, la
loro disperazione, credo che i cinesi abbiano dimostrato più umanità di tanti che si battono per
il cosiddetto diritto alla vita, ma accettano e sostengono sistemi economici e politici che tali
diritti negano a coloro che nascono e quindi non si assumono la responsabilità delle
conseguenze della loro ideologia. Senza contare che in questo modo si creano generazioni di
ragazzi disperati che non possono che dare poco o nessun valore alla propria vita ed essere
facili vittime non solo della criminalità organizzata, spesso l’unico datore di lavoro presente
sul mercato, ma anche di qualunque forma di fanatismo religioso e ideologico. Comunque, si
tratta di un tema complesso la cui analisi richiederebbe molto tempo.
Mario: Io vorrei invece andare un po’ più a fondo su questo tema cosi controverso. Prima
di tutto pensavo che il Marxismo fosse contrario al controllo delle nascite e che
originariamente la Cina si fosse schierata con forza contro questo idea.
Michele: Hai ragione; all’inizio il partito comunista condannò il controllo delle nascite e
giunse a vietare l’importazione di preservativi e l’aborto. Lo stesso Mao nel 1949 sostenne
che la popolazione avrebbe potuto moltiplicarsi di molte volte e che la Cina avrebbe fatto
fronte al problema aumentando la produzione. Nel 1965 reiterò che la crescita demografica è
una cosa buona e nel 1974 denunciò le politiche della popolazione come misure imperialiste.
Mario: Posizioni tutto sommato in linea con quelle di Papa Benedetto XVI. Quindi,
60
Un eufemismo che probabilmente fu usato per la prima volta durante la guerra del Vietnam per indicare il
“fuoco amico”, l’uccisione di civili e la distruzione delle loro proprietà durante operazioni militari. L’espressione
divenne popolare a partire dalla prima Guerra del Golfo ed è stata usata anche dalla Nato nel contesto della Guerra
del Kosovo. Svolge l’importante ruolo di nascondere la drammatica e sanguinosa realtà delle operazioni militari
dietro una terminologia neutra e difficile da decodificare.
51
all’inizio la popolazione cinese crebbe moltissimo.
Michele: Tra il 1950 e il 1980 la popolazione cinese crebbe dell’80 per cento. Superò il
traguardo del miliardo nel 1982, mentre la percentuale di bambini tra 0 e 14 anni sorpassò il
40 per cento nel corso degli anni 80. Tuttavia, alla fine degli anni 70 la crescita media annua
della popolazione era scesa da un valore massimo di 2,7 per cento a meno di 1,5 per cento.
Nello stesso periodo la vita attesa alla nascita era cresciuta di quasi il 50 per cento salendo a
66 anni 61, anche grazie al fatto che la mortalità infantile si era ridotta drammaticamente,
scendendo dal 122 al 42 per mille. Ancora più sorprendente è il calo della fecondità totale che
passa da oltre sei a circa tre bambini per donna con una velocità che non ha uguali in nessun
paese del mondo. Ad esempio, nei paesi dell’Europa occidentale per ottenere questo risultato
ci sono voluti 75 anni.
Mario: E queste trasformazioni epocali avvennero senza alcun intervento?
Michele: Non proprio. Gli interventi furono numerosi, ma contraddittori e altalenanti. A
partire dal 1953, la Cina cominciò a fornire servizi di pianificazione familiare nell’ambito di
un programma volto a migliorare la salute delle madri e dei bambini. Questa politica fu però
bloccata nel 1958 al tempo del Grande Balzo in Avanti. In tale occasione, Hu Yaobang,
segretario della Lega dei Giovani Comunisti, osservò: “Una popolazione numerosa significa
una maggiore Forza lavoro”. E, preso dalla foga, aggiunse: “La forza di 600 milioni di
persone liberate è decine di volte più forte di un’esplosione nucleare”. Non sorprende quindi
che nel 1960 il governo cinese rimuovesse dalla sua posizione di Presidente dell’Università di
Pechino il Professor Ma che aveva ricoperto tale carica dal 1951 e che nel 1914 aveva
conseguito un Dottorato in Economia presso la Columbia University di New York. Il
Professor Ma era responsabile di aver sostenuto, nel giugno del 1957, che un’ulteriore
crescita della popolazione sarebbe stata dannosa per la Cina, una tesi che gli causò anche
l’allontanamento dalla vita pubblica fino al 1979, quando fu riabilitato. Dopo la grande
carestia del 1962, indotta proprio dal Grande Balzo non proprio in Avanti, il programma di
pianificazione famigliare fu silenziosamente riattivato per essere nuovamente sospeso durante
la Rivoluzione culturale. Il quarto piano quinquennale lanciato nel 1970 conteneva però tra i
propri obiettivi un rallentamento della crescita demografica. Nel corso degli anni 70 le
famiglie cinesi furono sollecitate a ritardare la nascita del primo figlio, ad allungare gli
intervalli fra un figlio e l’altro e a ridurre il loro numero. 62
John: Visto il calo della fertilità che era già stato ottenuto, c’era veramente bisogno di una
politica cosi violenta e in contrasto con quello che pensavano molti membri del partito?
Michele: L’andamento era incoraggiante, ma non devi dimenticare che i trend demografici
hanno una grande inerzia, che il numero delle donne in età fertile era aumentato quasi in
parallelo con la popolazione e che il numero dei giovani in età riproduttiva sarebbe continuato
a crescere in maniera impressionante ancora per molti anni. Sono anche convinto che la
dirigenza cinese credesse veramente che questa politica fosse indispensabile per assicurare la
crescita socio-economica della Cina.
61
In Cina all’inizio degli anni 1950 La vita attesa era più o meno uguale a quella dei paesi più sviluppati
(Inghilterra, Francia, USA) nel 1850. Va sottolineato che in soli 60 anni la vita attesa della Cina ha quasi raggiunto
quella di questi paesi; anche se il livello di reddito pro capite è ancora molto più basso.
62
Le citazioni sono tratte da Laura Fitzpatrick, “China’s one child policy”, Time, 27 luglio, 2009
http://www.time.com/time/world/article/0,8599,1912861,00.html
52
Mario: Comunque fu certamente un “salto di qualità” nelle politiche demografiche. A chi
venne la brillante idea?
Michele: La storia è curiosa. Dietro questa pensata ci sarebbero un certo Song Jian e un
gruppo di matematici cinesi che si occupavano dei sistemi di controllo dei missili; vi furono
anche alcune coincidenze abbastanza sorprendenti.
Tavola 3 – Cina; Principali Indicatori demografici; 1950/55-2005/10
Fonte: elaborazione su dati UN DESA, World Population Prospects, The 2012 Revision.
Li: E chi è questo Song Jian? Non ne ho mai sentito parlare.
Michele: Secondo la biografia ufficiale, Song è stato presidente dell’Accademia Cinese di
Ingegneria e dovrebbe essere ancora membro dell’Accademia Cinese delle Scienze, anche se
non sono riuscito a trovare sue notizie successive al 2000. Song studiò a Mosca dove ottenne
un dottorato in cibernetica nel 1960. Tornato in Cina lavorò come ricercatore della China
Aviation Industry Corporation e divenne direttore dello State Science and Technology
Committee. Negli anni 70 lavora alla progettazione dei sistemi di controllo di numerosi
missili, ma fonda anche una nuova disciplina che chiama teoria del Controllo della
Popolazione. Fin qui la biografia ufficiale 63.
Li: Non si sa nient’altro?
Michele: In una recente intervista un matematico olandese, Geert Jan Olsder, ha
raccontato che alla metà degli anni ‘70 fu attratto dal problema del controllo della crescita
demografica. In quel periodo Olsder si trovò a bere una birra con un matematico cinese che
faceva parte di un gruppo di scienziati in visita alla sua università. Il discorso finì col cadere,
con grande interesse dell’ospite, su come il controllo delle nascite potesse servire per guidare
la crescita demografica. Lo scienziato cinese era Song e Olsder ritiene che quella
conversazione e il paper che egli spedì al collega cinese abbiano contribuito alla “nascita”
della politica del figlio unico 64.
Mario: Una birra densa di conseguenze.
Michele: Di fatto, come ha magistralmente raccontato Susan Greenhalgh 65 in un recente
volume, le cose furono molto più complicate. La tesi dell’antropologa americana -che è stata
per 10 anni membro del Population Council degli Stati Uniti e che ha potuto giovarsi della
conoscenza diretta di molti dei decisori politici del tempo per intervistarli personalmente- è
che l’adozione della politica del figlio unico da parte dei massimi leader politici del tempo,
fra cui Deng Xiaoping, segnò una svolta nel modo di fare politica. Essa si appoggiò, infatti,
63
http://www.chinavitae.com/biography/Song_Jian
http://freakonomics.com/2011/11/04/the-academic-origins-of-chinas-one-child-policy/
65
Susan Greenhalgh, 2008, Just One Child: Science and Policy in Deng’s China, Berkeley, UC Press
64
53
come abbiamo già visto, sui modelli e sulle proiezioni “scientifiche” di un gruppo di esperti
missilistici che sostenevano che il problema demografico era biologico e non sociale, che era
estremamente urgente, e che poteva essere controllato con strumenti simili a quelli usati per
dare alla Cina una capacità missilistica. Inoltre, la Greenhalgh afferma che le radici di questa
politica non affondano solo nel suolo cinese, ma anche nelle drammatiche previsioni
formulate dal Club di Roma, note ai matematici cinesi a seguito della loro frequentazione di
conferenze internazionali 66.
John: Tuttavia, secondo i tuoi dati, all’inizio la politica del figlio unico non fu molto
efficace.
Michele: Proprio così. Nel corso degli anni 80 il tasso di fecondità rimase sostanzialmente
costante. Il fatto è che nel 1981 entrò in vigore una legge che abbassava l’età minima per
sposarsi a venti anni per le donne e a ventidue per gli uomini. Secondo la legislazione
precedente, l’età minima era di 23 e 25 anni nelle zone rurali e di 25 e 28 in quelle urbane.
Questa norma provocò un notevole aumento dei matrimoni e un temporaneo aumento del
tasso di fertilità che, essendo però basato su di un più elevato numero di coorti in grado di
riprodursi, è certamente sovrastimato rispetto ai precedenti. Quindi, è solo a partire dall’inizio
degli anni ‘90, una volta che fu assorbito l’impatto di questa norma, che il tasso di fertilità
registra la seconda forte contrazione e scende rapidamente sotto il livello di rimpiazzo,
ponendo le premesse per il drastico calo demografico di cui abbiamo parlato.
John: Tutti bei discorsi, ma cosa mi dici dei comportamenti disumani che hanno
accompagnato l’applicazione di questa legge?
Michele: Non ho alcuna intenzione di evitare l’argomento. Anzi, t’invito a leggere il
drammatico quadro che ne ha fatto di recente il demografo Wang Feng, direttore di un
importante centro di ricerca di Pechino 67. Wang Feng comincia con il sottolineare che la
politica del figlio unico è stata probabilmente l’esempio più draconiano d’ingegneria sociale
messo in essere da un governo; ricorda poi che essa si è tradotta in una diffusa pratica di
aborti forzati, di sterilizzazioni e inserzione di spirali contraccettive effettuate contro la
volontà delle donne che le hanno subite; che ha portato a privare numerose famiglie contadine
delle loro case, dei loro animali e della loro terra e si è anche tradotta in lunghe detenzione.
D’altra parte, i sostenitori dell’efficacia di questa norma citano il fatto che negli ultimi
quaranta anni gli aborti siano stati oltre 300 milioni e ne misurano cosi l’impatto sulla crescita
demografica.
Li: Fatemi aggiungere che c’erano anche inaccettabili intromissioni nella vita privata
come quando si esponevano i grafici dei periodi mestruali delle donne del vicinato in modo
da generare un controllo sociale su situazioni “sospette”. Ho letto da poco un libro di Zhang
Lijia 68 che racconta come lei dovesse mostrare i propri assorbenti bagnati di sangue alla
funzionaria dell’Ufficio di Pianificazione per averne un’altra confezione.
66
Il Club di Roma fu fondato nel 1968 a Roma, presso la sede dell’Accademia dei Lincei, da un imprenditore
italiano Aurelio Peccei e da uno scienziato scozzese Alexander King insieme a numerosi premi Nobel e leader
politici e intellettuali. Il Club attrasse l’attenzione mondiale pubblicando nel 1972 il Rapporto sui Limiti dello
Sviluppo. La tesi era che la crescita economica non poteva continuare indefinitivamente a causa della limitata
disponibilità delle risorse naturale, in particolare del petrolio, e della limitata capacità del pianeta di assorbire
inquinanti. I prossimi decenni permetteranno di verificare la correttezza delle previsioni del rapporto che
riguardavano il periodo successivo al 2020.
67
Dopo aver insegnato all’Universita di Califofnia a Irvine e di Fudan a Shanghai; Wang Feng è ora il direttore del
Brookings-Tsinghua Center for Public Policy in Beijing. Si veda “The Future of a Demographic Overachiever:
Long-Term Implications of the Demographic Transition in China”
68
Zhanh Lijia (2008), Il socialismo è grande, l’esperienza del lavoro in fabbrica negl ianni ’80, Cooper.
54
Mario: Ma insomma, questa norma è servita o no?
Michele: Se vuoi la mia opinione è stata importante per lo sviluppo socio economico della
Cina, ma una corretta lettura dei dati demografici avrebbe dovuto portare alla sua abolizione
alla fine del secolo scorso.
Mario: A questo punto mi sembra indispensabile entrare nel merito di questa legge.
Michele: La prima cosa da dire è che dagli anni 90 la politica del figlio unico è evoluta in
un sistema complesso, estremamente articolato e diversificato, che si basa sempre meno sulla
coercizione e sempre più su di un pianificazione famigliare consapevole e, di fatto, è
diventata la politica del figlio e mezzo 69. Inoltre i cambiamenti socio economici intervenuti
nel frattempo hanno portato il tasso di fertilità di moltissime regioni ben al di sotto del limite
“di legge”, soprattutto nelle aree urbane, come a Shanghai, dove le stime locali parlano di un
indice di fertilità inferiore a 1. Le ragioni sono, come in altri paesi sviluppati, ricollegabili a
problemi di reddito, mancanza di tempo libero, di uso alternativo delle risorse, ma anche a
ragioni specifiche come i problemi burocratici che le coppie cinesi incontrano nel chiedere
l’autorizzazione per avere il secondo figlio.
Li: Ovviamente chi ha dei soldi se ne frega. L’ultimo caso riportato dalla stampa è quello
di Zhang Yimou, il regista di Lanterne rosse, che avrebbe avuto sette figli da quattro donne
diverse 70.
John: Comunque continuo a non capire come mai questa legge non venga abolita.
Michele: A dirti la verità me lo chiedo anch’io, visto che tutte le recenti analisi 71 indicano
che una sua abolizione non causerebbe grosse conseguenze sulle nascite, mentre continuano a
inasprirsi i problemi dell’invecchiamento e della carenza di donne. Di questo però vorrei
parlarne solo dopo che vi avrò esposto le mie previsioni sul futuro demografico della Cina.
Adesso tornerei al fatto che la crescita della domanda di lavoro si è concentrata in alcune aree
e che è stato qui che si sono diretti i flussi migratori interni.
La popolazione fluttuante
Le dimensioni del fenomeno
Li: In Cina non si è mai parlato di migrazioni interne, ma solo di popolazione fluttuante;
una terminologia che fornisce un’immagine del tutto distorta del fenomeno. Negli ultimi
trenta anni si è registrato un esodo senza precedenti storici di persone che lasciavano le zone
rurali e le province a basso livello di sviluppo per cercare un lavoro in maniera permanente
nelle zone in cui la crescita economica era così elevata da rendere insufficiente l’offerta locale
di lavoro. In sostanza, si è verificata una migrazione di massa di carattere economico. E il
punto fondamentale è che proprio facendo ciò questi migranti “irregolari” hanno dato un
contributo fondamentale al miracolo economico del paese. Sono loro che hanno fornito e
69
Wang, Feng (2005), “Can China afford to continue its one-child policy?,” Asia Pacific Issues, No.17, Honolulu:
East-West Center.
70
Secondo notizie dell’ultima ora, dopo aver negato di aver avuto sette figli da varie donne, Zhang Yimou ha però
pagato una multa di 1,23 milioni di dollari per avere avuto ed allevato due figli “eccedentari “ con la moglie Chen
Ting.
71
Gu Baochang, and Wang Feng (2009), “An Experiment of Eight Million People: Reports from Areas with Twochild Policy”, Beijing, China Social Sciences Academic Press; Gu Baochang and Yong Cai (2011), “Fertility
Prospects In China”, UN DESA Population Division, Expert Paper, No. 2011.4.
55
stanno ancora fornendo il carburante umano per alimentare la locomotiva cinese.
Mario: Ma di quanta gente stiamo parlando?
Michele: Fino al 1978 i fenomeni d’inurbamento furono modesti sia perché il divieto di
lasciare la propria residenza era imposto in modo più rigoroso, sia perché le occasioni di
lavoro nei centri urbani erano molto più ridotte. Secondo valutazioni ufficiali, nel 1978 la
“popolazione fluttuante” era di 7 milioni che salgono a 22 nel 1990, a 79 nel 2000, a 147 nel
2005 e ad oltre 260 milioni in occasione del Censimento del 2010.
John: Una cosa biblica! Credevo che la mobilità interna fosse una caratteristica americana
e che facesse parte solo della nostra cultura l’idea che in qualunque momento si potesse
saltare su di un cavallo o su di un carro per andare verso Ovest alla ricerca di un mondo
migliore. Non avrei mai pensato che in Cina succedessero cose analoghe.
Li: Beh, noi prendiamo o l’autobus o il treno. Comunque una differenza c’è: in Cina
siamo andati verso est.
Michele: I vecchi miti sono duri a morire e la Cina non ha ancora trovato uno Steinbeck e
un Ford che facessero della violazione del hukou una dolorosa epopea 72. Non bisogna
dimenticare che, come in tutti i paesi del mondo, l’immigrazione illegale fa comodo a molti.
Non solo alle imprese che si trovano nella condizione di poter sfruttare una manodopera
indifesa, ma anche alle famiglie più abbienti che possono avere servizi domestici a buon
mercato. Comunque, gli Stati Uniti rimangono il paese con la maggiore mobilità interna,
anche se il fenomeno è in progressiva contrazione, in particolare dopo l’inizio dell’attuale
crisi finanziaria.
Mario: Suppongo che la dimensione della popolazione fluttuante, così come quella della
mobilità interna, dipenda dalla definizione adottata.
Michele: Sì; i dati si riferiscono a persone che al momento della rilevazione si trovavano
da almeno sei mesi in una località diversa da quella in cui sono registrate e classificano i
migranti sulla base della lunghezza del percorso migratorio: persone che si sono mosse
all’interno di una contea, all’interno di una provincia, o si sono spostate da una provincia a
un’altra. Le analisi hanno mostrato che l’incidenza delle migrazioni “lunghe” è
progressivamente aumentata a seguito degli ingenti flussi migratori verso le province della
costa.
John: Ci puoi dare qualche indicazione quantitativa?
Michele: In occasione del censimento del 2010 le persone che si trovavano in un luogo
diverso da quello di registrazione erano poco più di 260 milioni –quasi equamente divise nei
tre gruppi che abbiamo appena indicato – e che rappresentano il 19,6 per cento della
popolazione. I dati mostrano che vi sono immigrati in tutte le province e municipalità.
Tuttavia oltre la metà è concentrata in otto province e municipalità, prima fra tutte il
Guangdong con il 14,1 per cento, seguito dallo Zhejiang (7,6 per cento) e dallo Jangsu (7 per
cento) 73. Se invece guardiamo dove gli immigrati hanno un’incidenza maggiore, troviamo al
primo posto le due grandi “capitali” della Cina, Pechino e Shanghai dove ben oltre la metà
degli abitanti è costituita da immigrati, seguite da Tianjin con il 38,5. Con valori sopra al 30
72
Michele si riferisce al capolavoro di John Steinbeck del 1939, The Grapes of Wrath, che John Ford portò quasi
immediatamente sullo schermo:
73
Le altre province e municipalità sono Shandong, Shanghai, Sichuan, Fujian e Beijing.
56
per cento troviamo poi lo Zhejiang, il Guangdond e il Fujian. Precedenti analisi hanno
mostrato che la motivazione principale dei flussi migratori è rappresentata dalla ricerca del
lavoro, la seconda dai ricongiungimenti familiari. La prima riguarda soprattutto le persone
nelle classi centrali di età, la seconda i giovani e gli anziani. Anch’io ho fatto alcune stime dei
flussi migratori interni, ma utilizzando dati demografici 74.
John: E cosa hai trovato?
Michele: Prima di tutto tenete presente che i dati che vi ho appena fornito non contengono
gli immigrati regolari, vale a dire coloro che sono riusciti a spostare il proprio hukou.
Mario: Vuoi dire che nei paesi occidentali si conosce la consistenza dell’immigrazione
regolare e si hanno solo valutazioni vaghe su quella irregolare, mentre in Cina è l’opposto?
Michele: Esattamente. In secondo luogo le rilevazioni degli uffici statistici cinesi
forniscono stime della presenza d’immigrati nelle zone di arrivo, ma nulla ci dicono sulla loro
provenienza. Io ho cercato di verificare la consistenza complessiva (migrazione regolare e
irregolare) dei flussi campagna-città e tra le varie province. Per quanto riguarda il primo
aspetto, le mie stime mostrano che dal 1993 al 2008 almeno 217 milioni di cinesi hanno
lasciato le zone rurali per le zone urbane e che quindi oltre 4/5 della crescita della
popolazione urbana che si è registrata in quel periodo è da imputare all’immigrazione. I dati
mostrano poi che anche i flussi campagna-città, molto elevati fino al 2008, sono in
progressiva diminuzione. Forse ancora più interessanti per la nostra discussione sono i
movimenti a lungo raggio, vale a dire le migrazioni da provincia a provincia.
Province di arrivo e province di partenza
Li: E’ un punto interessante. Io sento sempre parlare di Cina, ma la Cina è una realtà
complessa e non solo per la concentrazione di minoranze etniche in alcune province. In Cina
si parlano ancora molte lingue e vi sono norme e usanze molto diverse, per non parlare delle
differenze relative alla cucina.
Michele: In questo Cina e Italia sono molto simili. Li, prima o poi potresti farci
apprezzare questo aspetto della Cina.
Li: Che ne direste di venire a cena a casa mia?
Michele: Credo che nessuno si opporrà a questa proposta. Se tu ti impegni a parlarci delle
diverse cucine regionali, io posso concentrarmi sugli aspetti quantitativi. Tanto per
cominciare lo sapevate che una provincia cinese (il Guangdong) ha più di 100 milioni di
abitanti e due (lo Shandong e lo Henan) ne hanno più di 90, sono cioè più popolose della
Germania? E che sette hanno tra i 50 ed i 90 milioni e che, di queste, quattro sono più
popolose dell’Italia? Vi sono poi anche nove province cha hanno tra i trenta e i cinquanta
milioni di abitanti. Sono anche sicuro che se chiedessimo in giro quali sono le province più
popolose della Cina, ben pochi saprebbero rispondere.
John: Io faccio parte del gruppo.
Li: Molto male. Si vede che non hai letto l’Arte della Guerra di Sun Tzu 75.
John: Perché?
74
Bruni Michele e Claudio Tabacchi, 2011, “Present and Future of the Chinese labour Market”, Centro di Analisi
delle Politiche Pubbliche, CAPaper., n. 83 www.capp.unimore.it/pubbl/cappapers/Capp_p83.pdf
75
Sun Tzu (2003), L’arte della Guerra, Mondadori.
57
Li: Avresti imparato che per vincere una battaglia senza subire perdite non è sufficiente
conoscere se stessi, ma è anche indispensabile conoscere il nemico.
John: Non ti preoccupare, ci pensa la CIA.
Mario: A me sembra comunque molto curioso che anche le persone istruite dell’occidente,
noi inclusi, sappiano così poco di un paese che non solo è la seconda potenza mondiale, ma
possiede un terzo del debito pubblico americano.
Li: Anche noi conosciamo ben poco dell’occidente.
Michele: A nostra discolpa va detto che a tutt’oggi, o meglio fino alla recente
pubblicazione dell’ultimo censimento, le informazioni statistiche sulle province cinesi erano
molto limitate e che le differenze provinciali sugli aspetti demografici e del mercato del
lavoro sono poco discusse anche dalla letteratura accademica. Vi immaginate se, come
avviene attualmente in Cina, avessimo solo un’idea approssimativa dei tassi di occupazione e
disoccupazione dell’Europa e non sapessimo quello della Germania o dell’Italia? Alcune cose
però si sanno. Ad esempio, se è vero che nel complesso il tasso di crescita della popolazione
cinese è molto basso e si sta avvicinando a zero, a livello provinciale i tassi di crescita
naturale, vale a dire la differenza tra natalità e mortalità, vanno da valori inferiori all’uno per
cento nella provincia del Liaoning e nelle tre municipalità di Shanghai, Tianjin e Pechino a
valori prossimi al sei per cento nelle regioni autonome dello Xinjiang e del Tibet. E’ stato
utilizzando queste informazioni e alcune semplici ipotesi che ho calcolato i saldi migratori
delle singole province tra il 2003 e il 2008.
Li: E che cosa è emerso?
Michele: Che ci sono province di partenza e provincie di arrivo, come ci si poteva
attendere in una situazione in cui la crescita economica è concentrata in alcune aree e la
crescita demografica in altre. Quindi, non solo vi sono stati intensi flussi migratori dalle zone
rurali alle zone urbane, ma tra il 2003 ed il 2008, ben 28 milioni di cinesi si sono spostati da 8
province dell’interno verso le province della costa e le tre grandi municipalità di Pechino,
Shanghai e Tianjin. Mettendo insieme questi dati, ne esce un quadro notevolmente
complesso. Vi è un gruppo di sei province che rappresentano il polo d’attrazione principale
dei flussi migratori e in cui l’enorme crescita delle zone urbane è spiegata da notevoli
fenomeni d’inurbamento, ma anche e soprattutto da immigrati provenienti da altre province.
Di contro, vi sono cinque province che presentano un pronunciato saldo migratorio negativo
dovuto al fatto che coloro che hanno abbandonato le zone rurali si sono diretti verso altre
province. Per finire, vi sono province che sembra siano state interessate da veri e propri
processi di ruralizzazione 76. A seguito di questa mobilità così pronunciata e della modesta
dinamica delle nascite, non è poi sorprendente che siano soprattutto i flussi migratori a
determinare l’andamento demografico. Se prendiamo, ad esempio, le otto principali province
e municipalità di arrivo, ¾ della loro crescita demografica è dovuta all’immigrazione. D’altra
parte, i flussi in uscita hanno reso negativo il saldo demografico delle principali regioni di
partenza i cui saldi naturali erano largamente positivi 77.
Mario: Insomma, mettendo insieme tutto quello che hai detto, mi sembra di capire che la
straordinaria crescita economica cinese sia stata propiziata dalla presenza di un’offerta, come
76
Shandong, Fujian, Jilin, Tibet, Jiangxi. E’ tuttavia probabile che per alcune province questo risultato sia dovuto
al fatto che zone definite rurali sono state infatti scelte come aree di insediamenti industriale, a seguito della loro
vicinanza con le zone urbane.
77
Sichuan, Anhui, Henan, Hunan, Hubei, Chongqing, Guizhou e, sia pure marginalmente, Guangxi.
58
l’hai definita, illimitata di lavoratori disposti a lasciare le loro famiglie, accettare salari
estremamente bassi e subire senza fiatare condizioni di lavoro spesso disumane.
Li: Non pensate che sia più facile per i cinesi che per voi occidentali. Credo, anche per
esperienza personale, che alla base vi sia stato e vi sia tuttora un forte senso della famiglia e
una conseguente disponibilità a soffrire per il bene dei propri figli. Per quel po’ che capisco
dell’Italia, credo che le motivazioni siano state simili a quelle di chi lasciò il vostro paese per
cercare fortuna in terre lontane.
Michele: Ben detto Li. Ogni tanto fa bene pensare non solo alle differenze, ma anche alle
similarità. Tornando a quello che diceva Mario, penso proprio che propiziare sia la parola
giusta. Tutti i fenomeni economici e sociali sono complessi, molto complessi, e non possono
essere spiegati da una sola variabile. Io credo che la presenza di un eccesso strutturale di
lavoro nelle zone rurali e in alcune aree più povere del paese non sia di per sé sufficiente a
innescare lo sviluppo, come dimostrano tanti paesi poverissimi che si trovano in questa
condizione. Ciò detto, credo che non si darà mai abbastanza merito ai milioni di cinesi che
hanno sopportato incredibili disagi fisici e morali (non dimentichiamo che gli immigrati non
godono mai di buona fama nelle città in cui arrivano e la Cina non fa certo eccezione) per
migliorare anche solo marginalmente la vita dei loro famigliari rimasti nelle campagne e per
far studiare i figli, la più grande aspirazioni di ogni famiglia cinese. Inoltre, con i loro sacrifici
essi hanno dato un contributo essenziale alla crescita economica del paese.
L’impatto delle migrazioni interne sull’economia e sull’offerta illimitata di
lavoro
John: Suppongo che la mobilità abbia portato a una maggiore uguaglianza economica tra
le varie province.
Michele: John, i risultati del modello di libera concorrenza riguardano una struttura
economica ideale e aspettarsi che i mercati reali portino a tale risultati è totalmente utopistico.
E’ notizia di questi giorni che negli Stati Uniti la diseguaglianza è cresciuta anche durante la
presidenza Obama. La stessa cosa si sta verificando in Cina, malgrado tutte le dichiarazioni
d’intenti della classe dirigente, cosicché quella che, secondo Deng, doveva essere soltanto una
necessaria fase di passaggio sta diventando una costante del sistema. Si tratta di una sfida
politica cruciale per il governo cinese, soprattutto se consideriamo che le disuguaglianze
socio-economiche sono molto pronunciate non solo nelle aree urbane e che lo straordinario
sviluppo economico dell’ultimo ventennio ha determinato una crescente diseguaglianza fra le
province.
Li: Malgrado tutto ciò, tu dici che siamo arrivati al punto in cui l’offerta illimitata di
lavoro si è esaurita e la pacchia per gli investitori cinesi e stranieri è finita. Mi sembra però di
aver letto che, secondo un qualche organismo internazionale, la Cina avrebbe avuto ancora
un’enorme disponibilità di lavoro. Si parlava, mi sembra, di 150 milioni di persone. Qui
qualcuno si sbaglia.
Michele: Certo, non sono mancate e non mancano opinioni diverse da quelle che vi ho
appena esposto. Nel 2009 un noto studioso cinese sostenne che l’offerta di lavoro sarebbe
stata sufficiente per altri quaranta anni e che nel 2050 la popolazione in età lavorativa sarebbe
stata ancora uguale a circa un miliardo, un dato in contrasto con tutte le proiezioni
59
demografiche disponibili 78. Debbo però dire che, già a partire dal 2006 quando la stampa
cominciò a segnalare le prime carenze di offerta, numerosi studiosi fra cui esponenti di spicco
dell’Accademia Cinese delle Scienze Sociali hanno ben documentato l’opinione opposta79. E’
stato, ad esempio, mostrato che i salari stavano aumentando rapidamente (come succede
quando l’offerta di lavoro non è più illimitata) e che 3 su 4 dei 2.800 villaggi analizzati in una
recente indagine non avevano più risorse umane in eccesso 80. Altre stime sostenevano che
non vi erano più di 45 milioni di contadini disponibili a lavorare nei settori moderni.
John: Suppongo che tu sia d’accordo con queste stime.
Michele: Bisogna tener distinti due concetti. Il primo è l’ammontare di persone di cui un
settore può fare a meno senza per questo diminuire la propria produzione. Si tratta di un
valore che è determinato dall’innovazione tecnologica. In Cina la meccanizzazione
dell’agricoltura è ai suoi inizi e la produttività del lavoro varia molto da provincia a provincia.
Se tutte le province avessero la stessa produttività che si registra nel Jangsu, la provincia in
cui si registra la più elevata produttività media del lavoro nel settore agricolo, circa la metà
dei lavoratori del settore, vale a dire più o meno 150 milioni, risulterebbe ridondanti. A questo
punto ci si deve però chiedere quanti di questi lavoratori rappresentino un’offerta potenziale
per i settori moderni. Il primo elemento da considerare è l’età: oltre un terzo degli occupati in
agricoltura ha più di cinquanta anni. Essi rappresentano ¾ di tutti gli occupati in quelle classi
di età. Il secondo è il livello educativo: solo poco più del 6 per cento dei lavoratori agricoli ha
un titolo di studio superiore alla scuola dell’obbligo. Se si tengono presenti questi fatti si
giunge alla conclusione che la disponibilità di lavoratori agricoli per i settori moderni è
sostanzialmente esaurita 81.
Mario: Quindi le zone rurali non rappresentano più un serbatoio di manodopera per i
settori moderni e i flussi migratori da provincia a provincia si arresteranno?
Michele: Non ho detto questo; infatti credo che sarà vero l’opposto. Se guardiamo alla
dinamica occupazionale vediamo, ad esempio, che tra il 2003 ed il 2012 l’occupazione è
aumentata di 119 milioni nelle zone urbane ed è diminuita di 85 in quelle rurali e la crescita
netta di 34 milioni si è concentrata in poche province, in particolare nel Guangdong, nello
Zhejiang, nello Jangsu. Se, com’è probabile, la crescita occupazionale continuerà a
concentrarsi in poche province, i flussi migratori interni continueranno; il problema è che non
saranno sufficienti a soddisfare la domanda.
John: Mi sembra arrivato il momento di fare il punto. L’economia cinese si è sviluppata in
modo geograficamente sbilanciato. La crescita si è concentrata nelle grandi città e nelle
province costiere che offrivano condizioni migliori in termini d’infrastrutture. Quando
l’offerta di lavoro presente in tali aree è stata completamente assorbita, la crescita è
continuata indisturbata grazie alla presenza di un’offerta illimitata di lavoro nelle zone rurali
e, più in generale, nelle province più povere, che ha alimentato elevatissimi flussi migratori. I
78
Questa tesi e stata sostenuta nel non lontano 2010 da Ma Li membro della National Population and Family
Planning Commission, oggi National Health and family Planning Commission. Secondo Ma Li le forze di lavoro
cinese sarebbero cresciute fino al 2026 ma si sarebbero poi mantenute sopra al livello attuale fino al 2050. Sono
d’accordo con la conclusione, ma ritengo che ciò sarà possibile solo con massicci flussi migratori
79
Cai Fang (2006), “How to deal with the future labour shortage”, China Daily, March.
80
Cai Fang, Yang Du, Meyan Wang (2009), “Employment and inequality outcomes in China”, Institute of
Population and Labour Economics, Chinese Academy of Social Sciences.
81
Bruni, Michele and Claudio Tabacchi (2011), “Present and future of the Chinese labour market. Dualism,
migration and demographic transition,” Department of Political Economy, University of Modena and Reggio,
Working paper No. 647.
60
flussi migratori hanno mantenuto il salario ai livelli si sussistenza, per altro senza gravare sui
costi delle amministrazioni locali che erano “protette” dalla illegalità del fenomeno. E così la
Cina, dove nel frattempo si stavano concentrando ingentissimi investimenti stranieri, si è
trasformata nella “fabbrica del mondo”. Questa fase si sta concludendo perché la popolazione
in età lavorativa è destinata a diminuire e ciò provocherà inevitabilmente un calo dell’offerta
di lavoro. Di fronte a questa situazione la proposta della Banca Mondiale è che la Cina
approfitti della caduta dell’occupazione agricola, ormai in corso senza interruzione dal 2002,
punti sulla terziarizzazione della propria economia e mantenga inalterata l’occupazione nel
settore industriale destinato ad abbandonare progressivamente le produzioni ad alta intensità
di lavoro per spostarsi su clusters produttivi a più elevato contenuto tecnologico. Michele, mi
sembra però di capire che tu non creda in questo scenario.
Una prima valutazione della proposta della Banca Mondiale
Michele: No, e per numerose ragioni di cui avremo occasione di parlare. Per il momento
vi cito solo la terziarizzazione. In una fase di forte espansione dei servizi è difficile
immaginare che la produttività possa aumentare più della produzione.
John: Mi piacerebbe però sapere se esistono esempi in cui un’economia è cresciuta mentre
il livello dell’occupazione diminuiva.
Michele: Da un punto di vista teorico non ci sono motivi perché la produttività del lavoro
non possa aumentare in misura tale da garantire l’incremento della produzione e permettere
anche una diminuzione del numero degli occupati. Però, se esaminiamo cos’è successo fino
ad ora l’occupazione è aumentata ovunque.
John: Ad esempio?
Michele: Gli Stati Uniti sono l’esempio più paradigmatico.
Li: Paradigma che? Michele per piacere parla come mangi. Io sono un povero cinese del
Fujian.
Michele: Li, sei certamente del Fujan, ma permetti che io non sia d’accordo sul “povero”.
Comunque, volevo dire rappresentativo di questa situazione. Prendiamo gli Stati Uniti. Tra il
1960 e il 2010 il livello dell’occupazione è passato da 60 ad oltre 160 milioni. In sostanza,
l’occupazione è aumentata del 166 per cento. Nello stesso periodo il PIL è aumentato del 370
per cento. Dividendo la crescita percentuale dell’occupazione (166) per la crescita percentuale
della produzione (370) otteniamo un numero che gli economisti chiamano elasticità
occupazione prodotto. In questo caso 0,45, che ci dice quale è stato l’aumento percentuale
dell’occupazione per ogni punto percentuale di crescita del PIL.
John: E’ molto o poco?
Michele: E’ molto. Nel lungo periodo gli Stati Uniti hanno creato un numero molto elevato
di posti di lavoro e l’occupazione ha dato un contributo molto rilevante alla crescita della
produzione. Negli ultimi 20 anni la dinamica occupazionale degli Stati Uniti non è stata tra le
più elevate, come vedete nel grafico che mostra la crescita percentuale della occupazione tra
il 1990 e il 2008 in una serie di paesi sviluppati. I valori sono compresi tra un massimo di 120
per cento in Lussemburgo e minimi inferiori al 10 per cento in paesi come la Danimarca, la
Francia, il Giappone, l’Italia, la Svezia e la Finlandia. Anche in questo periodo gli Stati Uniti
sono nella parte alta della classifica, pur essendo preceduti da Spagna, Corea, Olanda e
61
Australia. Il punto fondamentale è però che l’occupazione è aumentata in tutti i paesi
industrializzati. Vi è anche un altro tipo di evidenza empirica che può aiutare a chiarire
meglio la mia posizione. Numerosi paesi sono già stati interessati da una caduta tendenziale e
sostenuta della loro popolazione in età lavorativa e quindi dell’offerta di lavoro autoctona.
Grafico 2 – Tassi percentuali di crescita dell’occupazione in alcun paesi industrializzati,
tra il 1980 e il 2008
Fonte: Elaborazione su dati ILOSTAT
Nella tavola ho riportato alcuni esempi significativi: Germania, Italia, Spagna, Russia, e
Giappone. Tra il 1990 e il 2010 nei quattro paesi europei il saldo naturale della popolazione in
età lavorativa è stato fortemente negativo, ma in tutti e quattro esso è stato totalmente (Italia,
Spagna, Russia) o largamente (Germania) coperto dal saldo migratorio. Nel caso del
Giappone il calo della popolazione in età lavorativa è iniziato solo nell’ultimo quinquennio
del secolo scorso, raggiungendo però molto rapidamente una dimensione notevole. Il saldo
migratorio è stato positivo, ma ha coperto solo il 17 per cento del saldo naturale. Bisogna però
tenere presente che il Giappone ha sperimentato una situazione di stagnazione economica,
tanto che tra il 1995 e il 2011 il PIL del Giappone è cresciuto in media meno dell’1 per cento
all’anno. La tabella riporta anche il caso di Singapore cha si trova alla soglia del punto di
svolta di Lewis e il fenomeno migratorio ha già un ruolo molto rilevante, contribuendo per
oltre il 90 per cento alla crescita della popolazione in età lavorativa.
Tav. 5 – Saldo naturale. Saldo migratorio e saldo totale in alcuni paesi; 1990-2010
Fonte: Elaborazione su dati UN DESA, World Population Prospects, The 2012 Revision
62
John: Non starai mica suggerendo che la Cina dovrà importare mano d’opera?
Michele: Proprio così. Stando ai recenti dati censuari, nei prossimi venti anni la
popolazione in età lavorativa della Cina diminuirà in maniera molto più pronunciata di quanto
stimato dalla Banca Mondiale e anche dalle ultime proiezioni delle Nazioni Unite 82. Pertanto
la Cina non potrà evitare d’importare manodopera e, viste le sue dimensioni, si tratterà di
numeri senza precedenti storici.
Li: Di nuovo la nostra mania di grandezza. E il sorpasso?
Michele: Rimane possibile, ma la Cina dovrà mettere in gioco la sua omogeneità etnica.
Li: E’ un’idea difficile da digerire. Come siamo arrivati a questa situazione?
Michele: E’ una storia lunga, troppo lunga per questa sera.
John: Non ci rimane che rinviare il tutto alla prossima occasione.
82
Bruni Michele (2014), “Dwindling labour supply in China: Scenarios for 2010-2060”, in Attané
Isabelle, Gu Baochang (a cura di), Analyzing China’s Population, INEd Population Studies, n.3,
Springer
63
La mente è come il paracadute: funziona
solo quando è aperta.
Frank Zappa
Terzo dialogo - Le lontane origini del declino demografico
E’ il 6 novembre del 2012, la sera delle elezioni americane. John ha invitato Li, Mario e
Michele a casa sua per seguire l’evento alla televisione. Mario e Michele fanno il tifo per
Obama, John per Romney. Li pensa che per la Cina non faccia alcuna differenza anche se,
tutto sommato, ha l’impressione che sarebbe meglio Obama.
Elezioni, sistemi elettorali e informazione
John: Sarà una sfida all’ultimo voto, roba da OK Corral. Ragazzi cosa volete da bere?
Sono abbastanza ben rifornito.
Mario: Senti se cominciassimo con del vino e tenessimo la roba forte per il gran finale?
John: OK, Prosecco per Michele per evitare che gli vengano le emorroidi e per noi un bel
rosso: Amarone o Brunello?
Mario: Wow… Fai sul serio. Io mi accontentavo di un Sangiovese.
John: Ragazzi oggi è un giorno speciale. Gli Stati Uniti stanno per tornare ad avere un
presidente come si deve che riporterà il paese ai suoi veri valori, farà scelte corrette in campo
economico e i Cinesi dovranno dimenticare l’idea del sorpasso.
Mario: Il tuo Romney non ha una probabilità su cento di farcela. Alla fine gli americani si
renderanno conto che Obama è riuscito se non proprio a tirarli fuori dalla … crisi, a muovere
il paese nella direzione giusta. Se non avesse trovato tanta opposizione, forse sarebbe riuscito
a rendere gli Stati Uniti un paese un po’ più avanzato anche sul piano sociale.
Li: Per noi, invece, non ci sará molta suspense. Sappiamo giá che il prossimo presidente
sará Xi Jinping che è ormai “in formazione” da molti mesi. Quindi, non mi aspetto che
stampa e televisioni mondiali seguano con attenzione il prossimo Congresso Nazionale del
Partito Comunista che procederà alla sua nomina nella Grande Sala del Popolo di Pechino.
John: Li, non credo che si tratti solo di questo. Devi ammettere che voi non siete molto
folkloristici e che i vostri rituali politici sono noiosi e impaludati. Durante il capodanno
cinese, i vostri leader vanno regolarmente a trovare le vecchiette, soprattutto quelle che
vivono in capanne senza riscaldamento, per portare loro il calore del partito e ne approfittano
per stringere la mano ai bambini di due anni che vivono in zona; e poi mai che nei vostri
congressi di partito si veda un palloncino, che spunti una qualche amante segreta e appena
qualcuno prova a dire che un leader si è arricchito, come è normale che sia in un paese con
tanta corruzione come il vostro, apriti cielo: non si interviene sul leader ma sui social
network. La conseguenza è che si parla ancora molto poco della vita politica cinese e lo si fa
come se si trattasse di qualcosa di misterioso e difficile da capire. Sono curioso di vedere se il
partito comunista farà qualche scelta innovativa quando ci saranno i processi di Bo Xilai e di
sua moglie. Potrebbe essere l’occasione buona per sollevare un po’ il coperchio e dare una
64
sbirciatina a cosa bolle dentro la pentola del potere cinese. Comunque, anch’io non so quando
inizierà il Congresso del Partito Comunista Cinese.
Li: Beh, i lavori stanno per cominciare e di solito durano tra 5 e 10 giorni.
John: Tanto i giochi sono già fatti sotto l’attento controllo dei vostri vegliardi.
Li: sì, se vuoi la puoi mettere così. Tuttavia io non sono molto sicuro di vedere dei grossi
vantaggi nel vostro metodo che porta all’elezione di un presidente scelto tra un piccolo
numero di miliardari o comunque di persone sostenute da qualche lobby e che raccoglie il
consenso di poco più di un quarto dei potenziali elettori, molti dei quali siamo onesti, sanno
ben poco di quello che succede fuori dal loro paesino e votano sulla base di stereotipi e frasi
fatte. Da noi c’è certamente un disinteresse diffuso per la politica. Molti sono convinti che i
nostri leader s’impegnino a fare il bene del paese e del popolo, come dei buoni padri di
famiglia. Altri non ci credono ma, come avviene anche nel Montana, se ne fregano totalmente
della vita politica e i loro interessi si fermano alla famiglia e al lavoro. Però, c’è una
concorrenza selvaggia tra i membri del partito. Per arrivare in cima non serve solo
appartenere alla cordata giusta, ma anche essere in gamba, molto in gamba. Credo che questo
non si possa dire di alcuni degli ultimi presidenti americani, uno per tutti il buon George
Bush.
Mario: Ragazzi non scadiamo nel qualunquismo. La democrazia è una cosa importante,
anche se poi le forme con cui viene attuata possono essere ben lontane dai nostri desideri.
John: Forse la soluzione è la rete che diffonde una quantità d’informazione senza
precedenti e dà a tutti la possibilità di esprimere la propria opinione.
Michele: Io credo, invece, che si stia esagerando sul contributo che Internet può dare alla
democrazia. Non ci sono dubbi che i nuovi strumenti informatici e telematici abbiano
aumentato il flusso di dati, ma la disponibilità d’informazione rappresenta solo una premessa
per l’aumento di consapevolezza, sapere e cultura, tutte cose che richiedono un grosso
impegno e hanno quindi un prezzo elevato in termini di sforzo personale. Bisogna anche
interrogarsi sulla qualità e comprensibilità dell’informazione, sulla sua origine e sul ruolo dei
grandi interessi economici. E poi, questa idea che tutti usino Internet credo che vada
ridimensionata.
Mario: L’espansione dell’utenza di Internet è stata strabiliante. Si è passati dai 361 milioni
del 2000 agli attuali 2,4 miliardi che, se rapportati alla popolazione mondiale, danno un tasso
di penetrazione della rete del 34,4 per cento. In Asia vi sono 1,07 miliardi di utenti, ma il il
tasso di penetrazione è del 27,5%. A livello di continenti la classifica del tasso di
penetrazione è guidata dal Nord America con il 78,6 per cento, seguito dall’Oceania con il
67,6 per cento, dall’Europa con il 63,2 per cento, dall’America Latina con il 42,9 per cento.
L’Africa chiude la classifica con il 15,6 per cento 83.
John: Non ti sarai mica fatto applicare un chip collegato a Wikipedia. Comunque, tanto
che ci siamo, puoi dirci anche qual’è la situazione a livello di paesi.
Mario: Il tasso di penetrazione più elevato è quello del Principato di Monaco, dove vi
sono più utenti che abitanti (100,6%). Sopra l’80 per cento troviamo numerosi paesi
dell’Europa del Centro nord: Islanda (97,1%). Norvegia (96,9%), Olanda (92,9%),
Lussemburgo (90,9%), Danimarca (90%), Liechtenstein (85%), Finlandia (89.4%), Germania
83
Le informazioni fornite da Mario sono tratte da: Internet World Stats - Usage and population statistics,
http://www.internetworldstats.com/stats.htm
65
(83%), e Belgio (81,3%), nonchè il Canada (83%) e la Corea del Sud (82,5%). Seguono:
Austria (79,8%) Francia (79,6), Giappone (79,5), Stati Uniti (78,1), Brunei (78%), Taiwan
(75,4%), Singapore (75%) e Hong Kong (74,5%).
Michele: E l’Italia?
Mario: L’Italia con il 58,4 per cento non è certo ai primi posti.
Michele: Hai anche qualche statistica sull’aumento del numero di cazzate apparse su
twitter e sugli altri social networks?
Mario: Non ancora, ma mi sto organizzando.
John: La stampa ha certamente dato un notevole contributo alla diffusione della
conoscenza e della democrazia. Perché non dovrebbe farlo anche la rete?
Michele: Voi sapete che il libro di cui sono state stampate più copie è un vecchio libro di
favole?
John: I fratelli Grimm?
Michele: No, la Bibbia che nella classifica dei libri più stampati è seguita dal Libretto
Rosso di Mao e dal Corano; sopra i 100 milioni di copie vi è anche il libro dei Mormoni. Per
fortuna tra i primi dieci troviamo anche il Piccolo Principe, Il Signore degli Anelli e Dieci
Piccoli Indiani. Comunque, la buona notizia è che il numero delle copie stampate non è
uguale al numero delle copie lette. E’ l’unico pensiero che mi da sollievo tutte le volte che in
una camera di albergo trovo una delle bibbie distribuite dalla Bible Society.
Li: Che cos’è? Un tour operator?
Michele: No; un gruppo di persone convinte di contribuire a risolvere i problemi del
mondo stampando e distribuendo Bibbie.
John: Sentite, mi sembra che abbiamo già cazzeggiato abbastanza; perché non cerchiamo
di colmare quest’attesa snervante parlando di cose serie?
Tasso di fecondità, benessere economico e andamento
demografico
Li: Io riprenderei il discorso da dove l’abbiamo lasciato. Michele, prima ci ha detto che in
Cina la popolazione in età lavorativa sta per cominciare a diminuire, poi hai sostenuto che ciò
obbligherà la Cina a importare manodopera da altri paesi. Insomma, qual’è la situazione?
Michele: Per dirla tutta, io credo che se la Cina vorrà continuare a crescere dovrà
diventare il più grande importatore di manodopera nella storia della società umana. D’altra
parte la Cina non sarebbe certo un caso isolato; numerosi paesi stanno già importando
manodopera per far fronte ad una crescente carenza di offerta di lavoro e molti altri dovranno
cominciare a farlo nei prossimi 50 anni.
John: L’hai visto nella tua palla di vetro?
Michele: No, mi sono limitato a guardare i valori del Tasso di Fecondità Totale in giro per
il mondo.
Li: Spiega
66
Michele: Il TFT, cosi lo chiamano quelli del mestiere, ci dice il numero medio di figli che
ogni donna (o se per questo ogni uomo) produce nel corso della vita 84. Il trucco sta nel fatto
che se ogni individuo ha due figli, la popolazione rimane invariata, dato che i due bambini
sostituiscono uno la madre, l’altro il padre. Se il tasso di fecondità ha un valore superiore a
quello di rimpiazzo, cioè due 85, la popolazione tenderà ad aumentare, se inferiore a diminuire.
Li: Semplice; non ci avevo mai pensato in questi termini. Qual’è la situazione attuale?
Michele, che non aspettava altro, estrae rapidamente il computer dallo zaino arancione.
La complessa relazione tra fecondità e sviluppo
Michele: A livello mondiale il tasso medio di fecondità è di 2,5 figli per donna e quindi la
popolazione della terra sta ancora aumentando. Però i paesi più ricchi e sviluppati, hanno un
tasso medio di fecondità di 1,7, ben al di sotto del livello di rimpiazzo; i paesi in via di
sviluppo un tasso del 2,4, mentre i paesi più poveri con un tasso medio del 4,5 sono ancora
ben lontani dalla stabilità demografica.
Mario: Suppongo che questi dati siano il frutto di una lunga evoluzione storica.
Tavola 1 – Mondo e regioni a diverso livello di sviluppo; Tasso di Fecondità Totale;
1970-75 e 2005-2010
Mondo
Paesi sviluppati
Paesi in via di sviluppo
Paesi meno sviluppati
1970-75
4,4
2,2
5,2
6.8
2005-10
2,5
1,7
2,4
4,5
Diff. assoluta
-2,1
-0,5
-2,8
-2,2
Diff. percentuale
-43,0
-22,7
-53,6
-32,9
Fonte: Elaborazione su dati UN DESA, World Population Prospects, The 2012 Revision
Michele: Sì, la situazione è in evoluzione da oltre duecento anni ed è cambiata
drasticamente soprattutto negli ultimi quaranta. Dal 1970 a oggi il numero medio di figli per
donna è sceso del 43 per cento. Il contributo maggiore è venuto dai paesi in via di sviluppo e
la Cina ha certamente svolto un ruolo rilevante. Inoltre, quarant’anni fa i paesi con una
fecondità sotto il livello di rimpiazzo erano meno di 20 e quasi tutti in Europa 86 , oggi sono
una settantina.
Jonh: Insomma c’è una relazione inversa tra livello di reddito e fecondità. Man mano che
il reddito di un paese aumenta, il suo tasso di fecondità diminuisce e questo dovremmo
poterlo vedere sia seguendo un paese nel tempo, sia confrontando la situazione dei vari paesi
nello stesso momento.
84
La fertilità è la manifestazione concreta della capacità fisiologica potenziale di procreare. Il tasso di fertilità
totale è il numero medio di figli che una coorte di donne genera nel corso della propria vita. Per ottenere tale dato
bisogna quindi attendere che tutte le donne della coorte siano uscite dalla loro fase fertile. A quel punto
l’indicatore ha un interesse di carattere puramente storico. Per ovviare a questo problema e avere un valore più
attuale il tasso di fertilità totale viene stimato sommando i tassi specifici di fertilità registrati in un dato anno e che
ci dicono il numero medio di figli che le donne di una data età hanno avuto nel corso di tale anno. Quindi il tasso
di fertilità totale ci dice il numero medio di bambini che una donna immaginaria genererebbe se nel corso di un
solo anno si muovesse attraverso il suo periodo fertile e fosse soggetta ai tassi di fertilità specifici registrati nel
corso di quell’anno. Esso non va confuso con il tasso generico di natalità che è dato dal rapporto tra il numero di
bambini nati in un determinato anno e la popolazione totale. Questo indicatore è fortemente influenzato dalla
struttura per classe di età della popolazione, mentre il TFT e immune da questa distorsione in quanto tutte le classi
di età hanno lo stesso peso e quindi lo stesso impatto sull’indicatore.
85
In pratica il valore é un po’ più di due dato che un certo numero di donne muore prima di aver concluso la
propria fase fertile.
86
Si tratta di Austria, Belgio, Germania, Lussemburgo, Olanda, Svizzera, Malta, Croazia, Gran Bretagna, Svezia,
Latvia, Finlandia, Danimarca, Ucraina, Russia, Ungheria, Stati Uniti, Canada, Macao.
67
Michele: In generale è vero, ma la situazione è molto articolata. Basti pensare che i tassi
di fecondità sono compresi fra un massimo di 7,6 del Niger ed un minimo di 0,9 di Macao,
una dispersione senza precedenti storici. Se poi entriamo un po’ più nel dettaglio, dei 203
paesi presi in considerazione dalle statistiche delle Nazioni Unite, come ho già detto 70 sono
sotto la soglia di rimpiazzo ed altri 60 hanno un tasso di fertilità tra due e tre. Insomma, vi
sono già 130 paesi in cui la popolazione totale, in assenza d’immigrazioni, sta diminuendo o
diminuirà in un futuro non troppo lontano. Dall’altra parte, 32 paesi hanno un tasso di
fecondità uguale o superiore a cinque.
John: Suppongo che si tratti dei paesi piú poveri.
Michele: Casualmente ho una cartina che ci può aiutare. I paesi con il TFT sotto il livello
di rimpiazzo sono quelli colorati in giallo e quelli che, con tutta probabilità, entreranno in
questo gruppo entro breve tempo, in verde. Come vedete ci sono ormai macchie di giallo in
tutti i continenti, ma la loro distribuzione è ben lungi dall’essere omogenea. L’area del
declino demografico è concentrata nell’emisfero nord. Essa copre tutta l’Europa e si estende
anche su buona parte dell’Asia dove include la Cina, la Corea del Sud e il Giappone, ma
anche Singapore, Tailandia e Vietnam; ed infine Armenia, Azerbaijan, Cipro, Georgia,
Libano, Iran e Emirati Arabi. Sempre nella parte nord dell’emisfero troviamo Canada e Stati
Uniti. Nell’emisfero Sud questa situazione è molto meno diffusa e riguarda solo Australia,
Mauritius, Cile e numerosi paesi dei Caraibi fra i quali Cuba 87. I paesi ad alta fertilità sono
quasi tutti concentrati nel continente africano, ma includono anche Afghanistan e TimorLeste, quasi tutta l’America Centrale alcuni stati dell’America Meridionale.
Figura 1 – Paesi per livello di fertilità
Fonte: Elaborazione su dati UN DESA, World Population Prospects, The 2010 Revision
John: Insomma, miseria e alta fecondità vanno di pari passo.
Michele: Se date un’occhiata al prossimo grafico potete vedere che quello che dice John è
vero in linea di massima, ma che la situazione è molto articolata 88. Ogni punto del grafico si
riferisce a un paese e ne indica i) il reddito pro capite a parità di potere d’acquisto e ii) il tasso
di fecondità totale. Nel suo insieme il grafico mostra, come ha detto John, che la fecondità è
alta in corrispondenza di redditi pro capite molto bassi e diminuisce all’aumentare del reddito;
in sostanza che esiste una relazione inversa tra queste due variabili. Mostra però che la
diminuzione è molto rapida per aumenti dei redditi più bassi, ma diventa progressivamente
meno accentuata man mano che il reddito pro capite aumenta. Inoltre, vi è una notevole
dispersione dei valori attorno al trend. In sostanza, se è vero che la fertilità tende a ridursi
87
I paesi interessati sono Cuba, Trinidad, Tobago, Barbados, Giamaica, Martinica, Antille Olandesi, Porto Rico e
Santa Lucia.
88
Il grafico riporta i dati di 180 paesi. I valori del reddito pro capite a parità di potere d’acquisto sono quelli forniti
dalla Banca Mondiale, mentre i tassi di fecondità sono della Population Division
68
all’aumentare del reddito pro capite, soprattutto in una fase iniziale del processo di sviluppo, è
però anche vero che vi sono paesi in cui il reddito è molto basso e la fecondità relativamente
alta e viceversa. Ad esempio, la Repubblica della Moldovia -che con un reddito procapite di
circa 3.400 dollari occupa il 129esimo posto del ranking mondiale- per quanto riguarda
questo indicatore, ha un tasso di fecondità totale di 1,25 che dovrebbe essere associato ad un
reddito di circa 35,000 dollari. D’altra parte, gli Emirati con un reddito pro capite di oltre
48.000 dollari si trovano all’ottavo posto nell’ordinamento per PIL procapite, ma hanno un
tasso di fecondità totale di 3,42. In sostanza, il livello di benessere economico influenza la
fecondità, ma non ne è l’unica determinante. Inoltre, è del tutto possibile che la rilevanza del
livello di reddito nello spiegare la fecondità dipenda dal fatto che esso è correlato con una
serie di altre variabili quali il livello d’istruzione, in particolare delle donne, la presenza
femminile nel mercato del lavoro, ecc., mentre altre variabili quali la religione e la cultura
predominante o la diversa distribuzione del reddito possono spiegare l’ampia dispersione che
osserviamo nel grafico.
Figura 2 – PIL pro capite a PPA e Tasso di Fecondità totale, 2010
Fonte: Elaborazione su dati World Bank e UN DESA
Li: Mi sbaglio o il tuo grafico potrebbe aiutarci a capire se e in che misura la legge sul
figlio unico abbia avuto effetto?
Mario: Buona idea. Potremmo vedere se il TFT della Cina sia coerente con il suo reddito
pro capite e potremmo fare la stessa cosa anche con il Vietnam che ha adottato una legge che
consente due figli per coppia.
Michele: Lasciate che evidenzi la Cina colorando di rosso il suo “punto”. Come vedete la
sua localizzazione indica una performance riproduttiva molto diversa da quella suggerita dal
suo reddito pro capite. Infatti, la Cina ha un tasso di fecondità simile a quello dell’Italia, ma
un reddito pro capite pari a un quarto. Prima che saltiate a delle conclusioni, vi faccio però
notare che la Moldavia, l’Armenia e la Georgia, che hanno un reddito pro capite decisamente
inferiore a quello cinese, e la Bosnia & Erzegovina, con un reddito pro capite leggermente
superiore, hanno un TFT analogo a quello della Cina senza avere nessuna limitazione
legislativa al numero delle nascite .
John: E il Vietnam?
Michele: Anche il Vietnam ha una fecondità inferiore a quella che sarebbe coerente con il
suo livello di reddito pro capite, ma anche nel suo caso valgono le osservazioni precedenti.
Insomma, sia nel caso della Cina, sia nel caso del Vietnam il tasso di fecondità è inferiore al
valore atteso, ma questo tipo d’analisi non è sufficiente a dimostrare che la causa sia la
legislazione adottata dai due paesi.
69
John: Comunque, guardando un grafico come questo è difficile sottrarsi all’idea che i
comportamenti che esso riassume non rispondano a leggi ben precise e non siano la risultante
di evoluzioni socio-economiche di lunghissimo periodo che spingono la specie umana lungo
un sentiero comune.
La transizione demografica
Michele: Non sei il primo a pensarla così. Fu un demografo americano –mi sembra si
chiamasse Warren Thompson 89 - a osservare per primo, verso il 1920, che negli ultimi 200
anni i paesi industrializzati erano stati caratterizzati da una tendenza demografica comune che
li aveva condotti da una situazione iniziale di alta natalità e alta mortalità a una situazione di
bassa natalità e bassa mortalità. Da qui si è poi sviluppato il modello, secondo alcuni la teoria,
della transizione demografica. Certo il grafico precedente è, per dirla in inglese, impressive. A
prima vista, esso sembra avere tutte le caratteristiche per giustificare il fatti che qualche
demografo, invidioso della capacità dei colleghi fisici di scoprire le leggi eterne che Dio ha
scritto nell’Universo, a quanto sembra usando una matematica abbastanza avanzata, abbia
pensato che andamenti del tipo appena descritto rinchiudano gli elementi per una grande
teoria della popolazione. Fra i più convinti c’é Chesnais; anzi secondo questo demografo
francese la transizione demografica sarebbe l’unica teoria in possesso dei demografi, “una
scienza nella quale le teorie generali sono rare” 90. La cosa interessante, e tutto sommato
paradossale, è che si tratta di un fenomeno macroscopico che ha assunto dimensioni globali
toccando ormai tutti i paesi del nostro pianeta, ma per il quale non disponiamo di una
spiegazione condivisa.
Li: Cosa vuoi dire?
Michele: Voglio dire che non c’è accordo tra i demografi né sulle cause di questo
fenomeno, né su quale sarà la sua evoluzione futura. Insomma, siamo di fronte ad una
regolarità statistica per la quale abbiamo molte possibili spiegazioni, ma nessuna di esse
soddisfa tutti gli studiosi della materia. D’altra parte, non è la prima volta che qualcuno prova
a sviluppare una grande teoria della popolazione e fallisce.
Il Malthus pensiero
Mario: Ti riferisci a Malthus?
Li: Ragazzi parlate di roba che non ho mai visto. Che cos’ha tutto ciò a che fare con la
Cina?
Michele: Scusa Li, hai ragione. Ricapitoliamo. Abbiamo visto che la Cina si trova
sull’orlo di un disastro di origine demografica, per dirla con gli americani, di un demographic
cliff, e che dovrà affrontare una situazione che, a prima vista, può apparire ridicola per il
paese più popoloso del mondo: una contrazione paurosa della sua popolazione che porterà a
una analoga contrazione della sue forze di lavoro e quindi a una significativa carenza di
manodopera. Lo stesso fenomeno sta già interessando numerosi paesi europei e sta per
interessarne numerosi altri sparsi in tutto il globo. Insomma, la Cina sará in buona compagnia.
89
Warren Thompson (1887–1973) pubblicò una prima versione della teoria della Transizione demografica in un
articolo apparso nel 1929 quando era direttore della Scripps Foundation for Research in Population Problems,
presso l’Università di Miami a Oxford, Ohio. Importanti contributi alla teoria della transizione demografica
vennero poi dai lavori dei sociologi Dudley Kirk e Kingsley Davis, e dell’economista Frank Notenstein, tra il 1944
e il 1946. Nel 1943 Thompson pubblicò insieme a Whelpton degli scenari demografici per gli Stati Uniti che
ponevano la popolazione americana al 2000 tra 129 e 198 milioni. Insomma, fin dall’inizio le proiezioni
demografiche sono state dei fallimenti. Si veda: Warren Thompson (1929), ”Population”, American Journal of
Sociology, 34 (6), pp. 959-975; Thompson, Warren S., and P. K. Whelpton (1943), Estimates of Future
Population of the United States, 1940-2000, Washington, D.C. National Resources Planning Board.
90
Jean Claude Chesnais (1986), La transition demographique. Etapes, forms, implications economiques, PUF,
Parigi, p. 3.
70
A questo punto stiamo cercando di capire cosa stia succedendo e quali siano le origini e le
spiegazioni di questo fenomeno. Per questo abbiamo cominciato a parlare del modello della
transizione demografica che è stato il primo a cogliere, sia pure parzialmente, le tendenze in
atto. E in questo contesto è venuto fuori Malthus che circa due secoli fa propose una diversa
teoria dell’evoluzione demografica.
Li: Allora cominciate con lo spiegarmi meglio chi è questo Malthus e che cosa ha detto.
Mario: Lasciate che sia io a stupirvi questa volta, perché Malthus mi ha sempre incuriosito
e su di lui ho letto parecchio. La prima cosa da sapere è che si trattava di un pastore anglicano
con la passione della matematica. Al tempo in cui pubblicò il suo “Saggio sul principio della
popolazione e i suoi effetti sullo sviluppo futuro della società” 91 si era in piena epoca
illuminista, un periodo nel quale si aveva fiducia nelle capacità razionali dell’uomo. Pertanto,
molti intellettuali, alcuni dei quali, come Rousseau, amici della sua famiglia, erano convinti
che la società umana avesse delle ottime possibilità di migliorare la propria condizione.
Malthus non condivideva questa visione ottimista del futuro. La sua era una visione cupa che
non lasciava adito a molte speranze. Egli riteneva che crescita demografica e crescita del
benessere non potessero coesistere. La società umana è inserita in un circolo vizioso che
dipende, da un lato, dal fatto che le risorse naturali, e in particolare la terra da coltivare, siano
limitate e, dall’altro, dal fatto che l’uomo sia inevitabilmente vittima della propria lussuria. La
sua tesi era tutto sommato semplice. In una situazione di discreto benessere economico, e
quindi di sufficiente disponibilità di cibo, la popolazione tende ad aumentare sotto la spinta
degli irrefrenabili desideri sessuali di cui l’uomo è vittima. Tuttavia, poiché la terra fertile è
limitata, ben presto diventa impossibile aumentare la produzione di beni alimentari al ritmo
della crescita demografica e ciò finisce col provocare una carenza di risorse alimentari che
finisce col provocare un calo della popolazione, il che apre la strada all’inizio di un nuovo
ciclo. Malthus era convinto che si trattasse di una “trovata divina” per insegnare agli uomini
un comportamento virtuoso.
Li: Mi sembra che questo Malthus non l’abbia proprio azzeccata.
Mario: Già. Le predizioni di Malthus non si sono avverate perché se è vero che la terra
fertile è limitata, è anche vero che l’uomo è riuscito a trovare altri modi per aumentare il
prodotto per unità di superficie coltivata. Ovviamente, soprattutto negli ultimi cinquanta anni,
la capacità del pianeta di soddisfare un numero crescente di bocche è anche dovuta alle
disperate condizioni di povertà -e quindi di sottoconsumo- di gran parte della popolazione
umana. Mi chiedo se la produzione agricola sarebbe sufficiente qualora tutta la popolazione
terrestre seguisse la “dieta americana”.
John: Mario, non prendertela sempre e solo con gli Stati Uniti. Mi risulta che anche
“Biggest Looser Asia” 92 sia un grande successo.
Michele: Al di lá delle errate previsioni, vale però la pena riflettere su di una serie di cose.
La prima è che, a mia conoscenza, Malthus è l’unico religioso che abbia messo in guardia
l’umanità dal crescere e moltiplicarsi, spiegando che era uno sforzo inutile.
Mario: Ovviamente Malthus vedeva in una virtuosa astinenza la cura del male, anche se
era intimamente convinto che il suo consiglio non sarebbe stato seguito data la natura
lussuriosa dell’uomo, particolarmente evidente nel comportamento delle classi inferiori.
Aveva invece una fiducia totale e incondizionata nell’impatto della povertà che tali
comportamenti avrebbero inevitabilmente generato e nell’eventuale sostegno di qualche
91
Di fatto Malthus ne pubblicò sei edizioni tra il 1798 e il 1826.
Si tratta di un reality show televisivo che è andato in onda nel 2009 e nel 2010 sulle orme della celebre serie
Americana nella quale un gruppo di obesi sono sottoposti a sevizie fisiologiche e psicologiche del tipo già
ampiamente trattato in alcune opere fondamentali di Paolo Villaggio. Si veda ad esempio il suo incontro col
famoso dottor Birkermeier: www.youtube.com/watch?v=vsQjAh8bFvg
92
71
misericordioso atto di Dio (epidemie, carestie, disastri naturali) che avrebbe contribuito a
riportare più rapidamente la popolazione a una situazione, sia pure temporanea, di equilibrio.
Michele: A Malthus va comunque riconosciuto il merito di aver sollevato il problema del
rapporto tra popolazione e risorse disponibili sul pianeta, un dibattito che rimane vivo in un
mondo la cui popolazione si appresta a essere dieci volte più numerosa di quella dei tempi di
Malthus.
John: Guardate che il problema non è la popolazione: la povertà non deriva
dall’andamento demografico. I problemi nascono dall’adozione di politiche sbagliate, da
strutture economiche inadeguate e da un’organizzazione sociale carente. Di fatto, una
popolazione numerosa favorisce lo sviluppo economico aumentando la probabilità della
comparsa di nuovi geni e rendendo più vivace la concorrenza tra individui.
Mario: Bell’intervento John, ma credo che qui tu sia l’unico a credere in queste panzane.
Fatemi anche ricordare che Malthus usò le sue tesi per opporsi a ogni riforma sociale (incluse
le Poor Laws), essendo convinto che tali misure avrebbero consentito ai poveri di avere
ancora più figli, annullando così i benefici di qualunque intervento volto ad aiutarli.
Michele: Mente progressista e aperta, come quella di molti religiosi non solo del suo
tempo! Comunque, su questi temi torneremo perché, non importa come uno la pensi, sarebbe
opportuno che si discutesse di piú di demografia e del suo rapporto con l’economia. Tornando
a Malthus, un altro punto fondamentale della sua tesi era che ci fosse una relazione positiva
tra benessere e numero dei figli.
Mario: Quindi l’opposto di quello che succede oggi.
Jonh: Le motivazioni degli uomini rimangono le stesse sempre e ovunque, solo che
situazioni diverse richiedono ricette diverse. In una società contadina la famiglia massimizza
il proprio benessere producendo molti figli che forniscono braccia per i campi e sicurezza per
la vecchiaia. Nelle società urbane il benessere delle famiglie richiede, invece, pochi bambini
ben istruiti, coerentemente con un mondo che vuole persone ben preparate e famiglie non
ostacolate da una prole eccessiva.
Benessere economico e fecondità
Michele: Mi fa piacere vedere che le ideologie non sono morte. Comunque, ciò che i dati
mostrano, al di lá di ogni dubbio, è che le strategie riproduttive delle famiglie tendono a
modificarsi all’aumentare del reddito e sono diverse in contesti con redditi diversi. D’altra
parte, come abbiamo già visto, vi sono numerose variabili che si muovono insieme al reddito
pro capite e che potrebbero avere un effetto diretto sul numero dei figli, prima fra tutte il
livello educativo delle donne e, perché no, dei loro mariti.
Mario: A me pare che il passaggio dalla società contadina alla società industriale e postindustriale abbia determinato, insieme all’aumento del reddito procapite, numerosi altri
cambiamenti strutturali e valoriali dei quali dobbiamo tenere conto per comprendere le
dinamiche demografiche. Tanto per citarne alcuni: l’affermarsi della famiglia mononucleare,
il declino delle credenze religiose, una crescente libertà sessuale, la centralità dell’individuo,
il diritto delle donne alle scelte riproduttive, i concetti stessi di consumo e tempo libero come
importanti componenti della vita.
Michele: Il problema è proprio questo. Le possibili spiegazioni del passaggio da una
relazione diretta a una relazione inversa tra fecondità e livello di benessere sono tante che non
vi è accordo su quali siano quelle fondamentali. Conviene, pertanto, tornare per il momento al
modello, o meglio alla meccanica del modello della cosiddetta transizione demografica.
72
La rivoluzione demografica: dalla crescita alla contrazione della
popolazione
Li: Prima di tutto vorrei capire bene cos’è questa ”transizione demografica”.
Michele: Una transizione è la fase intermedia tra due condizioni, il passaggio da una
condizione a un’altra. Ad esempio, si parla di transizione scuola-lavoro. La transizione
demografica indica il passaggio dal regime demografico tradizionale, caratterizzato da alta
natalità e alta mortalità, al regime demografico moderno caratterizzato da bassa natalità e
bassa mortalità.
Li: Insomma, tra il regime demografico che caratterizza il mondo contadino e quello che
caratterizza le società industriali e post-industriali.
Michele: Esatto. Però uno degli aspetti fondamentali della teoria della transizione
demografica è che entrambi i regimi sono descritti come regimi di equilibrio, vale a dire come
situazioni in cui la popolazione è sostanzialmente stabile.
John: E’ un aspetto che non ricordo.
Michele: Una delle idee che domina l’analisi demografica è che fino all’inizio della
rivoluzione industriale il tasso di crescita della popolazione mondiale sia stato molto modesto,
con valori di lungo periodo vicini a zero. In sostanza, le società preindustriali sarebbero state
in una situazione di quasi-equilibrio demografico nella quale il numero delle nascite era
sostanzialmente uguale a quello delle morti.
Mario: Mi sembra un’affermazione alquanto strana. Non so se lo sapete, ma tra il 69.000 e
il 77.000 a.C. il supervulcano Toba che si trova nel nord dell’isola di Sumatra –un posto che
mi piacerebbe tanto vedere – provocò una delle più grandi eruzioni che si siano mai registrate,
precipitando tutto il pianeta in un inverno che durò tra i sei e i dieci anni e provocando un
consistente abbassamento della temperatura che sembra sia durato qualcosa come 1.000 anni.
Questo catastrofico evento avrebbe ridotto la popolazione umana a poche migliaia di unità il
che spiegherebbe la scarsa variabilità genetica della nostra specie 93. Penso che abbia avuto
effetti analoghi anche sui nostri cugini primati che quindi saranno partiti anche loro da una
situazione numerica analoga alla nostra 94. Tuttavia, quando arriviamo verso il 1750 d.C. la
popolazione umana ha toccato, correggetemi se sbaglio, quasi 800 milioni di unità, un valore
che non credo fosse stato raggiunto da scimpanzé o gorilla. Insomma, la storia dell’umanità è
la storia di uno straordinario successo demografico, soprattutto viste le mostruose carestie e
pestilenze che l’hanno punteggiata e l’indole non proprio pacifica della nostra specie.
John: Posso aggiungere una curiosità. Recenti ricerche hanno portato ad aumentare la
stima del numero di persone che sono vissute fino ad ora.
Mario: Dimmi, dimmi. Mi sono sempre chiesto quante persone siano nate prima di me.
John: Verso il 1970 si riteneva che la popolazione di quel periodo rappresentasse circa 3/4
di tutti gli uomini che erano vissuti precedentemente. Dato che la popolazione mondiale era
allora di quasi 4 miliardi, si giungeva alla conclusione che gli uomini vissuti fino al 1970
erano stati meno della popolazione attuale. Più recentemente è stata proposta una stima molto
93
E’ stata la giornalista Ann Gibbon a suggerire per prima nel 1993 l’esistenza di un possibile legame tra
l’eruzione del supervulcano Toba e il collo di bottiglia nell’evoluzione umana. A livello accademico l’idea è stata
ripresa prima da Michael R. Rampino della New York University e da Stephen Self della Universita delle Hawai a
Manoa. Nel 1998, la teoria del collo di bottiglia fu ulteriormente sviluppata da Stanley H. Ambrose della
Università dell’Illinois a Urbama-Champaign; Ambrose Stanley H. (1998), Late Pleistocene human population
bottlenecks, volcanic winter, and differentiation of modern humans. Journal of Human Evolution 34 (6): 623–651.
94
Mario pensa di aver fatto una trovata, ma l’esistenza di un bottleneck anche in altri mammiferi è già stata
studiata. Per quanto riguarda scimpanzé e orangutan si veda ad esempio Goldberg, T.L. (1996), Genetics and
biogeography of East African chimpanzees (Pan troglodytes schweinfurthii), Harvard University, unpublished
PhD Thesis, and Steiper, M.E. (2006), "Population history, biogeography, and taxonomy of orangutans (Genus:
Pongo) based on a population genetic meta-analysis of multiple loci", Journal of Human Evolution (50): 509–522.
73
diversa: 106 miliardi prima del 2002 il che ridurrebbe la percentuale della popolazione attuale
sul totale dei nati a meno del 6 per cento 95.
Mario: Insomma, l’andamento demografico precedente al 1800 non darebbe molto
supporto alla tesi della stabilità demografica proposta da Malthus che, d’altra parte, non
disponeva d’informazioni sull’andamento demografico dei secoli precedenti. Certamente non
aveva cognizione che nel 10.000 a.C. la popolazione umana era di circa 10 milioni e che
quindi era aumentata di oltre settanta volte tra il momento in cui fu scoperta l’agricoltura e il
1800.
L’invenzione dell’agricoltura
Michele: Quando facevo le elementari, nessuno dubitava del fatto che Cristoforo Colombo
avesse “scoperto” l’America. Poi ci si è resi conto che l’America era stata scoperta almeno
quattordicimila anni prima da una piccola pattuglia di nostri progenitori asiatici che riuscirono
ad attraversare lo stretto di Bering. Più recentemente abbiamo capito che anche l’agricoltura e
l’allevamento non furono delle scoperte, ma il b-product di una complessa serie di eventi e di
scelte effettuate senza alcuna consapevolezza delle loro conseguenze e che ebbero luogo in
maniera indipendente in diverse aree del pianeta. Se adottiamo una visione globale, ci
accorgiamo che la comparsa dell’agricoltura è distribuita su di un arco temporale di circa
8.000 anni. Si va, infatti, da circa il 10.000 a.C., quando l’agricoltura compare nella
cosiddetta mezzaluna fertile 96, al 2.500 a.C. quando compare nel Nord America. Il periodo
diventa ancora piú lungo se includiamo il continente australe e le isole del Pacifico dove
l’agricoltura fu portata dagli europei. Se poi prendiamo in considerazione il fatto che
l’agricoltura fu introdotta indipendentemente in ecosistemi notevolmente diversi, mi pare
molto difficile e comunque poco credibile cercare una causa unica della sua comparsa.
Insomma, se non è esistito un Archimede Pitagorico che scoprì l’agricoltura una volta per
tutte, dobbiamo concludere o che gli Archimede Pitagorici sono stati parecchi o, più
probabilmente, che l’agricoltura non è stata scoperta, ma è stata il frutto di processi evolutivi.
Mario: Michele, mi fai venire in mente la storia delle formiche tagliafoglie.
Li: Cosa c’entrano le formiche?
L’apologo delle formiche tagliafoglie
Mario: Servono per confermare quello che ha appena detto Michele, che cioè l’agricoltura
non è una scoperta. Dovete sapere che le formiche tagliafoglie, che sono diffuse su tutto il
continente americano, circa 50 milioni di anni fa passarono da una fase guerriera e di caccia,
che ancora contraddistingue molte altre specie di formiche, ad una fase basata sull’agricoltura
e sull’allevamento. Le tagliafoglie adulte si cibano di linfa, ma le larve sono nutrite con un
fungo, o meglio con dei corpuscoli rotondi chiamati gonglicidi prodotti dai funghi. I
gonglicidi, da cui dipende la sopravvivenza della specie, sono il risultato di un complesso
processo produttivo che inizia con la ricerca e la raccolta di foglie idonee, prosegue con il
trasporto al formicaio e la distribuzione delle foglie in numerosi centri di coltivazione, dove
sono lavorate e trasformate nell’humus per la cultura dei funghi; si conclude con la
coltivazione vera e propria, la raccolta e la distribuzione del prodotto. L’ultimo aspetto di
grande rilievo è che, per proteggere le loro colture, le formiche utilizzano degli antibiotici
prodotti da dei batteri.
Li: E’ una storia affascinante!
Mario: L’introduzione dell’agricoltura ha avuto effetti profondi sulla vita delle
95
Haub, Carl (November/December 2002). "How Many People Have Ever Lived on Earth?". Population Today
(Population Reference Bureau) 30 (8).
96
Come dice la parola stessa, è la fertile regione a forma di mezzaluna che include la Mesopotamia e il Levante ed
è caratterizzata da estate calde, secche e lunghe, e da inverni piovosi e miti.
74
tagliafoglie. Esse vivono in centri urbani in grado di rivaleggiare per dimensione e
complessità organizzativa con le nostre metropoli. Il loro sistema economico è centralizzato;
il prodotto è accumulato e distribuito a tutti i membri della comunità e ciò ha reso possibile
una divisione del lavoro molto articolata che, a sua volta, si è tradotta nell’evoluzione di
formiche di forme e dimensioni differenti, coerenti con il lavoro svolto, ma anche nella
comparsa di classi sociali. Vi sono gli scout che trovano le foglie, le tagliatrici, le
trasportatrici, le distributrici -le cui dimensioni diminuiscono man mano che si scende nelle
viscere del formicaio-, le soldatesse di grandi dimensioni, le spazzine e le addette alle
discariche a cui è fatto divieto di entrare nel formicaio e vengono uccise se cercano di farlo.
Insomma queste formiche hanno inventato anche gli intoccabili. Infine, il passaggio
all’agricoltura ha fortemente ridotto il loro spirito guerriero, ma ció non toglie che le
tagliafoglie siano le formiche dominanti ovunque si trovino.
Li: Ma come hanno fatto le formiche a inventare l’agricoltura?
Mario: Il punto è proprio questo: non l’hanno inventata. Si è trattato di un processo di coevoluzione, vale a dire di adattamento reciproco di tre specie (le formiche, i funghi e i batteri)
che hanno originato uno dei più complessi esempi di mutualismo 97.
John: Non sono sicuro di aver capito tutto, ma mi sembra una prospettiva molto
interessante e che ci aiuta a capire cosa possa essere successo ai nostri antenati. Comunque,
Mario, dove le impari queste cose?
Mario: Hai presente la rubrica: “Lo sapevate che …” sulla Settimana Enigmistica.
Un’altra rubrica fondamentale che vi consiglio è “Strano ma vero”.
John: Non fare l’asino! Tu e Michele state dicendo che anche per gli uomini si è trattato
di un processo di co-evoluzione dell’uomo con le piante che avrebbe poi coltivato e con gli
animali che avrebbe poi allevato? Insomma, gli uomini avrebbero seguito un percorso
analogo a quello delle tagliafoglie, ma con un ritardo di cinquanta milioni di anni?
Il grande decollo
Michele: Esattamente, e come ha detto Mario molte delle conseguenze socio-economiche
sono state simili. Comunque, l’uomo aveva già fatto un lungo percorso che lo rendeva pronto
a sfruttare quella co-evoluzione in direzioni sempre nuove, cosa che le formiche non hanno
saputo fare rimanendo ferme allo stesso processo produttivo e alla stessa organizzazione
sociale per decine di milioni di anni. In particolare c’è un momento speciale nella storia della
nostra specie. Circa 40.000-50.000 anni fa –siamo nel periodo della cosiddetta cultura CroMagnon- apparvero in maniera improvvisa una serie d’innovazioni tecnologiche che si
pongono su di un piano totalmente diverso da quelle introdotte fino ad allora. L’uomo di CroMagnon adotta nuovi materiali, quali l’osso e l’avorio, costruisce strumenti composti di più
parti e mirati a scopi specifici tutt’ora facilmente riconoscibili; introduce armi più efficaci
quali il lancia-dardi e l’arco; inizia a pescare e utilizza subito strumenti sofisticati quali ami
ed arpioni, mentre inventa la corda con cui costruisce lenze e reti; cuce i propri vestiti e
costruisce le prime case. Questa fase di grande esplosione creativa culmina nelle prime
affascinanti produzioni artistiche nei campi della pittura, della scultura e della musica, mentre
i gioielli rinvenuti in numerose tombe testimoniano non solo la presenza di un avanzato gusto
estetico, ma evidenziano anche la presenza di una stratificazione sociale della quale i gioielli
sono gli strumenti di comunicazione. Infine, questa data segna l’inizio dell’espansione a tutti i
continenti di un uomo moderno sia da un punto di vista biologico, sia comportamentale 98.
97
Il mutualismo e la modalità con cui due o piu organismi di specie diverse esistono in una relazione da cui
entrambi traggono beneficio.
98
Jarred Diamond (1997), Guns, Germs and Steel: The Fates of Human Societies: W.W. Norton & Company,
pag. 39
75
Mario: Diamond ha parlato di Grande balzo in avanti e Mithen di Big bang 99.
Michele: Io credo, che si dovrebbe parlare di Grande decollo perché la razza umana non è
mai atterrata e la sua velocità di crociera non è mai diminuita, ma semmai è aumentata. Credo
poi che alla domanda quando inizi la nostra storia si debbano dare due risposte: la prima, da
quando comparve la prima cellula vivente, il che stabilisce con chiarezza la nostra
connessione con tutti gli organismi viventi, monocellulari e multicellulari presenti sul pianeta;
la seconda, alla fase che abbiamo appena descritto. E’ da quel momento che l’uomo comincia
a evidenziare in maniera chiara il suo aspetto più caratterizzante, la capacità di creare e
innovare.
Mario: Dawkins ha sostenuto che se qualcuno ci osservasse da un altro pianeta e potesse
cogliere con un solo colpo d’occhio tutti i traguardi raggiunti dall’uomo nell’era moderna -e
se ricordo bene vi include, oltre a quelli in campo informatico, la Cappella Sistina, la
Relatività speciale, le Variazioni di Goldberg e la congettura di Goldback- le potrebbe
tranquillamente considerare coeve della Venere di Willendorf e della grotta di Lascaux.
Li: Continuate a dimenticarvi che i miei riferimenti culturali sono diversi!
Michele: Scusa Li. Al di lá delle citazioni dotte di Mario –che ogni tanto si lascia prendere
un po’ la mano- stiamo solo cercando di dire che la storia dell’uomo moderno comincia circa
40.000 anni fa e questo nel bene e nel male. Molti studiosi sono, infatti, convinti che la
scomparsa dei Neandertal, l’altra specie umana con cui abbiamo condiviso una parte del
pianeta per oltre 100.000 anni e della quale sembra esista qualche traccia nel nostro DNA, fu
dovuta a quei nostri antenati così come appare sospetta la sparizione della megafauna in
Australia e nelle Americhe non appena essi raggiunsero questi continenti.
Li: Abbiamo cominciato bene.
Mario: … e continuato meglio. La totale indifferenza per l’ambiente che ci circonda o
meglio l’idea di poter sfruttare tutto ciò che si trova sulla terra senza alcuna considerazione
del futuro sembra sia stata con noi sin dall’inizio.
Introduzione dell’agricoltura e prima transizione demografica
Michele: Ragazzi, torniamo alla “scoperta” dell’agricoltura. Essa ha certamente
rappresentato una tappa fondamentale della storia umana e quindi non è sorprendente che
alcuni demografi abbiano pensato di individuare anche una transizione demografica collegata
alla transizione produttiva dalla fase della caccia e della raccolta a quella dell’agricoltura.
Secondo Livi Bacci -cha ha introdotto questa tesi poi riproposta da Bocquet-Appel 100 - il
passaggio all’agricoltura avrebbe generato un’accelerazione della crescita demografica.
John: Suppongo che la causa sia individuata nella sedentarietà.
Michele: Esatto. Secondo Livi Bacci, nel periodo in cui la vita era nomade, le nascite
erano scandite dal periodo necessario ai nuovi nati per diventare autonomi. Comunque, il
controllo della crescita demografica sarebbe stato affidato soprattutto a un tipico meccanismo
malthusiano di aumento della mortalità a seguito di un aumento della popolazione101.
Insomma, anche la fase della caccia e della raccolta sarebbe stata caratterizzata da una
crescita demografica praticamente nulla.
Mario: Questi demografi sono proprio fissati con l’idea di una popolazione stabile!
99
Jarred Diamond, op. cit.; Mithen, S. J. (1996), The Prehistory of the Mind, a search for the origins of art,
religion, and science, London, Thames and Hudson.
100
M. Livi Bacci (2002), Storia Minima della Popolazione, Il Mulino, pag. 57; J.P. Bocquet-Appel (2002),
Paleoanthropological Traces of Neolithic Demographic Transition, Current Anthropology, 43, pagg. 638–650.
101
Davis Kingsley (1986), “Below Replacement fertility in Industrial Societies. Causes, consequences, policies”;
Population and development Review; A Supplement to Volume 12, Cambridge University, Cambridge, pag. 49
76
Michele: Il concetto di popolazione stazionaria è duro a morire perché è molto comodo da
un punto di vista analitico. Questa idea di una prima transizione mi sembra, comunque, più
che altro una curiosità intellettuale, difficile da verificare. Per farlo bisognerebbe avere dati
relativi alla popolazione mondiale e alla sua distribuzione territoriale in tre momenti di tempo,
ad esempio il 18.000 a.C., il 10.000 a.C. e l’anno 1, cosa ovviamente impossibile. Tenete
inoltre presente che non c’è neppure accordo su come si sarebbe verificata.
Mario: Cioé?
Michele: Beh, ci sono due scuole di pensiero. La prima imputa l’accelerazione della
crescita demografica a un calo della mortalità dovuto al miglioramento del livello nutritivo
prodotto dall’introduzione dell’agricoltura e dell’allevamento. L’altra scuola di pensiero
obietta che l’agricoltura avrebbe invece prodotto un’alimentazione più povera e meno variata,
nonché l’insorgere e il diffondersi di malattie infettive. Di contro, la vita sedentaria avrebbe
garantito un incremento della fecondità maggiore di quello della mortalità.
Mario: Tu cosa ne pensi?
Michele: Io sono un demografo dilettante. Però ho l’impressione che questa tesi di una
prima transizione sia forzata e ispirata dall’idea che, come il passaggio dall’agricoltura
all’industria è stato accompagnato da uno sconvolgimento demografico, lo stesso sia successo
con il passaggio dalla fase di caccia e raccolta alla fase agricola. Ora, non solo si tratta di una
tesi basata su indizi e prove indirette, ma ci sono altre considerazioni che creano seri dubbi. In
primo luogo sappiamo che anche nel primo neolitico il numero di figli poteva essere
elevato 102. Ma anche ammettendo che l’agricoltura porti a una dinamica demografica piú
accentuata, non solo il suo inizio in aree diverse del mondo è distribuito su oltre 10.000 anni,
ma la sua diffusione dai centri di partenza prese tempi molto lunghi. Nell’Europa del Nord, ad
esempio, il passaggio all’agricoltura, avvenne tra il 5.000 e il 3.500 a.C., fu molto graduale e
numerose comunità rimasero a lungo in una situazione intermedia. Infine, parlare di
agricoltura tout court è una semplificazione eccessiva. Nella fertile mezzaluna, e di riflesso
anche in Europa, la messa a coltura delle piante che dovevano poi costituire una delle fonti
principali di nutrimento della popolazione avvenne su di un periodo di circa 6.000 anni.
L’agricoltura mista, che accoppia coltivazione dei campi e allevamento di animali che
forniscono sia proteine, sia forza motrice rendendo l’agricoltura più efficiente e produttiva, è
rimasta del tutto assente in numerose aree del pianeta fino a tempi recenti per la mancanza di
animali idonei. Altri contributi alla produttività del settore agricolo sono venuti
dall’introduzione di utensili migliori, tecnologie sempre più raffinate per la conservazione dei
prodotti agricoli e l’irrigazione dei campi, quali i mulini a vento e ad acqua, tutti eventi che si
distribuiscono su tempi lunghi. La conclusione è che, a partire dal 10.000 a.C., il settore
agricolo è stato caratterizzato dalla presenza di comunità a diversi livelli di sviluppo
tecnologico e organizzativo. Insomma, fatte tutte queste premesse, anche ammettendo che un
sistema agricolo consenta una maggiore fecondità o riduca la mortalità, è difficile individuare
quando ciò sia successo nelle varie aree del mondo e quindi quale sia stato il suo contributo
all’accelerazione della crescita demografica.
Speciazione e problem solving
Mario: Io vorrei tornare alla storia delle formiche.
Li: Ma è una fissazione!
102
Mary Jackes and Chris Meiklejohn, “Building a method for the study of the mesolithic – neolithic transition in
Portugal”. Documenta Praehistorica, XXXI. Lo studio riguarda alcuni siti portoghesi che coprono il periodo dal
6000 al 4000 A.C. e che permettono di analizzare il passaggio dal mesolitico al neolitico. L’analisi, basata su di
una analisi estremamente accurata degli scheletri rinvenuti nei siti di Moita, Casa de Moura e Arruda, porta i due
autori a sostenere che l’ultima fase del mesolitico fu caratterizzata da un progressivo incremento della fertilità
riconducibile ad un cambiamento di stile di vita (maggiore sedentarietà) ed ottenuto tramite un riduzione degli
intervalli fra i parti.
77
Mario: Si, sono colpito dalle conseguenze dell’introduzione dell’agricoltura. Nel caso
delle formiche, l’agricoltura ha generato una sofisticata divisione del lavoro ed
un’organizzazione sociale estremamente articolata. D’altra parte, anche le differenze con ciò
che è successo nella nostra società sono ugualmente istruttive. L’agricoltura delle tagliafoglie
è rimasta monoprodotto, l’articolazione dei mestieri non è stata accompagnata da innovazioni
tecnologiche, ma da un’evoluzione biologica (non nuovi strumenti, ma formiche diverse).
Infine, l’agricoltura non è stata imposta alle altre specie di formiche che per altro non l’hanno
copiata e le formiche coltivatrici non hanno invaso il pianeta.
John: Qual’è l’implicazione di tutto ciò?
Mario: Che la caratteristica principale dell’uomo è la sua capacità di risolvere problemi
attraverso soluzioni innovative e creative. Per tutti gli altri esseri viventi la necessità di far
fronte a situazioni climatiche diverse, a una diversa disponibilità delle risorse opera nella
direzione di privilegiare la selezione degli individui pi idonei, un processo che in presenza di
limitato interscambio con altri territori o vincoli sessuali porta alla speciazione. Negli ultimi
200.000 anni l’uomo ha affrontato situazioni di questo genere inventando nuove tecnologie il
che gli ha permesso, da un lato, di mantenere un’elevatissima omogeneità genetica, dall’altro,
di espandere l’ammontare delle risorse disponibili.
Michele: Sono d’açcordo anche perché non mi sembra di cogliere nell’evoluzione
demografica delle società tradizionali molte evidenze di un equilibrio di lungo periodo come
conseguenza di vincoli di carattere economico.
Mario: Hai una proposta alternativa?
Crescita delle disponibilità energetica e crescita demografica
Michele: Io credo che l’agricoltura fornisca una prospettiva troppo limitata e convenga
ipotizzare che il livello della popolazione dipenda dall’ammontare di energia che l’uomo
riesce a estrarre dall’ambiente sotto forma di cibo e di combustibile e che la dinamica
demografica di lungo periodo dipenda dalla capacità di aumentare tale livello.
John: Va avanti.
Michele: In questa prospettiva, l’estensione degli stanziamenti umani e la capacità di
sfruttare le risorse naturali disponibili su tale territorio costituiscono sia le premesse della
crescita demografica, sia i suoi vincoli. Ve lo faccio vedere con un grafico.
Li: Sei sicuro che aiuti?
Figura 3 – Popolazione e livello di utilizzo dell’energia
78
Michele: Certo. Sull’ordinata (l’asse verticale) mettiamo la popolazione e sull’ascissa
(l’asse orizzontale) il livello di sfruttamento dell’energia disponibile. Ogni curva si riferisce a
un periodo della storia umana. In ogni periodo la popolazione dispone di una combinazione –
un paniere direbbe un economista- di risorse costituite dal territorio che occupa e dalle risorse
naturali che esistono su tale territorio e quindi di un dato ammontare potenziale di energia. La
popolazione iniziale può crescere aumentando il livello di sfruttamento delle risorse. Tuttavia,
aumenti uguali della popolazione richiedono aumenti via via crescenti delle risorse disponibili
utilizzate. Il caso più semplice è quello classico in cui le terre messe progressivamente a
coltura hanno livelli di fertilità decrescenti. In generale, tuttavia, l’origine di questo
fenomeno, di questi rendimenti decrescenti, può essere individuato nella crescente
complessità del processo di sfruttamento delle risorse e/o nella presenza di una quantità fissa
di qualche risorsa fondamentale.
John: Suppongo che sia questo che determina la forma concava delle curve.
Michele: Esatto.
Mario: Quindi, se capisco bene, ogni curva è un caso malthusiano in cui la popolazione
umana ha un limite superiore che raggiunge quando le risorse disponibili in tale fase storica
siano completamente sfruttate.
Michele: Sì, ma il punto è che nel corso della storia l’uomo ha saputo aumentare il paniere
delle risorse disponibili, acquisendo nuovi territori, trovando nuovi prodotti agricoli e nuove
risorse naturali, ma soprattutto mediante un progresso tecnologico che in certi momenti ha
fatto compiere veri e propri balzi alla quantità di energia disponibile. Il grafico visualizza
questo fenomeno con una serie di traslazione verso l’alto della relazione tra livello della
popolazione e livello di utilizzo delle risorse.
John: Vediamo se ho capito. Le singole curve rappresentano quello che possiamo
chiamare il breve periodo in cui le risorse sono date. In questo caso la crescita della
popolazione umana incontra crescenti difficoltà e ha un limite superiore. Tuttavia, gli uomini
sono riusciti a traslare verso l’alto questa curva soprattutto tramite la capacita di innovare,
d’introdurre nuove prodotti e nuove tecnologie.
Michele: Esattamente e quindi possiamo utilizzare il grafico per “disegnare” la storia della
popolazione umana tramite un sentiero di espansione, una linea che collega le varie curve di
livello pur snodandosi in parte lungo di esse. Se nel lungo periodo il nostro sentiero presenta
un andamento chiaramente ascendente, non sono però mancate fasi durante le quali la
popolazione umana si è contratta, ridiscendendo lungo la curva su cui si trovava o scivolando
su di una curva piú bassa. In genere arresti e regressi della crescita demografica sono stati
provocati da pestilenze, carestie, guerre che non credo siano state provocate dalla crescita
demografica.
Mario: Ma qual’è stata l’effettiva evoluzione demografica?
Michele: Secondo la stima più ottimistica, nel periodo in cui agricoltura e allevamento
fecero la loro comparsa la popolazione umana ammontava a circa 10 milioni. Essa sarebbe
poi raddoppiata nei successivi 5.000 anni, per aumentare di 20 volte nei 5.000 successivi.
All’inizio dell’era cristiana, la popolazione umana sarebbe stata di 400 milioni, un valore che
pur tra alti e bassi non sarebbe più stato raggiunto fino alla fine dell’undicesimo secolo. Nei
secoli successivi l’andamento demografico fu positivo, ma altalenante a causa di una serie
impressionante di epidemie, carestie e guerre.
Mario: Fino a quando possiamo utilizzare il modello che ci hai presentato?
79
Figura 4 – L’andamento demografico di lungo periodo
Michele: Direi che il rapporto tra popolazione ed energia che ho ipotizzato è tuttora
valido, anche se l’interazione con l’ambiente è oggi cosà complessa che una semplificazione
di questo genere può essere eccessiva e fuorviante. In sostanza, credo che il modello illustri
bene quello che è successo fino alla seconda metà del XIX secolo, anche se non può rendere
conto di singole situazioni che debbono essere analizzate non con il telescopio, ma con il
microscopio.
Figura 5 – La popolazione mondiale dal 10.000 a.C al 1950 d.C.
Fonte: Census Bureau degli Stati Uniti
Li: Perché fino alla seconda metà del diciannovesimo secolo?
Michele: Perché è in quel periodo che in Europa si palesa in maniera rilevante la
rivoluzione demografica che sta ormai interessando quasi tutti i paesi del mondo e che è
all’origine della futura carenza di manodopera della Cina.
Li: Quindi, è colpa vostra.
Michele: Solo nel senso che il fenomeno è cominciato in questa parte del mondo.
John: Perché hai detto rivoluzione e non transizione?
Transizione o rivoluzione demografica?
Michele: Come ho già detto, la teoria della transizione demografica prevede il passaggio
da un regime demografico tradizionale, caratterizzato da alta natalità e alta fertilità, a un
80
regime demografico moderno, caratterizzato da bassa natalità e bassa mortalità. Essa prevede
cioè che il calo del tasso di fecondità si arresti al valore di rimpiazzo di due figli per donna e
ciò in base all’idea che la popolazione mondiale sia sempre stata caratterizzata da una
sostanziale stabilità di lungo periodo. In sostanza, secondo la teoria della transizione
demografica, ciò che è successo negli ultimi duecento anni e succederà nei prossimi cento
sarebbe solo un’eccezione.
Mario: Mi sembra che ci voglia un notevole coraggio per definire il casino demografico
che ci circonda un’eccezione.
Michele: Vi sono stati anche demografi che hanno sostenuto che non vi fosse alcuna
ragione teorica o evidenza empirica per ritenere che il tasso di fecondità avrebbe frenato
bruscamente una volta giunto in vista del magico valore di due e che l’esito più probabile
delle attuali tendenze sarebbe un calo della popolazione 103. Comunque, il punto è che, se il
fenomeno che stiamo vivendo non è il passaggio da una situazione di equilibrio a un’altra
situazione di equilibrio, non vi è alcun motivo di parlare di transizione e sarebbe più
opportuno parlare di rivoluzione demografica. Purtroppo la dizione transizione è ormai
talmente radicata che dubito si riuscirebbe a cambiarla, anche se fosse chiaro che ci stiamo
dirigendo verso una fase di disequilibrio demografico permanente.
Mario: Di cosa parliamo quando diciamo alta natalità e alta mortalità?
Michele: Nelle società tradizionali i tassi di natalità e mortalità si aggiravano tra il 40 e il
50 per mille. Quindi, in un villaggio con 1.000 abitanti vi erano un funerale e un battesimo
quasi tutte le settimane.
Mario: Ottima situazione per i preti.
John: Magari è la transizione demografica che spiega la caduta delle vocazioni.
Mario: Numeri impressionanti che dovevano generare una società molto diversa da quella
in cui viviamo.
Michele: Certo e molto diversa da quella che vediamo nei lindi villaggi dei film in
costume, così piacevolmente rappresentata da Mel Brooks 104.
Li: Adesso però vorrei poter vedere qualcosa che mi facesse capire meglio di cosa stiamo
parlando.
John: Ragazzi veloci però perché il mio Romney ..,
Mario: Non dovresti aver fretta di perdere.
Le fasi della “Transizione demografica”
Michele: Pochissimi paesi dispongono di serie storiche sufficientemente lunghe per
visualizzare tutta la transizione demografica. Un’eccezione è rappresentata dalla Svezia che
ha dati relativi ai tassi di natalità e mortalità a partire dal 1735. All’inizio della storia i tassi di
natalità e di mortalità erano, come da copione, elevati e stazionari, con una leggera prevalenza
del tasso di natalità. Verso l’inizio del XIX secolo il tasso di mortalità comincia a diminuire,
mentre il tasso di natalità rimane sui valori tipici del regime tradizionale. Dopo circa 70 anni
anche il tasso di natalità comincia a diminuire e lo fa ad una velocità superiore a quella del
tasso di mortalità. Cosi dopo circa 100 anni i valori dei due indici convergono su di un valore
103
Nel 1992, ad esempio J.C. Caldwell aveva osservato che non vi era niente nelle ricerche da lui condotte che
suggerisse qualche ragione per la quale il calo della fertilità, determinato dalla transizione demografica, dovesse
arrestarsi al livello di rimpiazzo, come suggerito dalla teoria classica della transizione demografica. Egli sostenne
che l’ipotesi piu probabile era che la popolazione dei paesi occidentale cominicasse a diminuire all’inizio del xxi
secolo e quella del mondo alla fine del secolo. J.C. Caldwell, 1992, Theory of Fertility Decline, Academic Press,
New York; pag. 264.
104
Il riferimento e al film del 1993, Robin Hood: Men in Tights.
81
di circa il 10 per cento. Arriviamo infine alla terza e ultima fase della transizione nella quale il
valore del tasso di natalità scende sotto il valore del tasso di mortalità.
Li: Credo di aver capito l’idea generale. Adesso mi piacerebbe sapere che cosa ci sia dietro
a questa storia e che cosa l’abbia innescata
Figura 6 – La transizione demografica in Svezia; tasso lordo di natalità e tasso
lordo di mortatità; 1735-1995
Fonte: http://en.wikipedia.org/wiki/Demographic_transition
Michele: Tra il 1750 e il 1850 la popolazione europea aumentò dell’88,3 per cento,
passando da 111 a 209 milioni, una crescita record per il nostro continente che aveva
registrato aumenti massimi del 51 per cento tra il 1200 e il 1340 e del 24,7 per cento tra il
1600 e il 1750. Secondo l’interpretazione prevalente, il fenomeno fu dovuto a un calo della
mortalità riconducibile a due cause fondamentali: da un lato, la riduzione delle grandi crisi di
mortalità dovute a carestie ed epidemie, dall’altro, il calo della mortalità normale da imputare
essenzialmente alla diminuzione della mortalità infantile. Tuttavia, fino a oltre la metà del
secolo, gli indicatori demografici non facevano certo presagire quello che stava per accadere.
Ancora nel 1850 in tutti i maggiori paesi europei, ad eccezione della Francia, la fecondità era
su livelli tipici del regime tradizionale e la stessa cosa vale anche per la mortalità, addirittura
fino al 1880. Comunque, sempre secondo questa tesi, l’iniziale diminuzione della mortalità
provocò un’accelerazione della crescita economica e l’aumento della pressione sulle risorse
mise in moto dei meccanismi riequilibratori, in particolare una contrazione della fecondità
che fu, a sua volta, il frutto di una rallentata nuzialità e di un controllo volontario delle
nascite.
Tavola 2 – Alcuni paesi europei; Tasso di Fecondità Totale (1850 e 1950) e Speranza di
Vita (1880 e 1950)
1850
Inghilterra
Francia
Svezia
Germania
Italia
Paesi Bassi
4.56
3.27
4.28
5.17
4.67
4.98
Tasso di Feconditá Totale
1950
Var. assoluta
-2.38
2.18
2.73
-0.54
2.21
-2.07
2.16
-3.01
2.32
-2.35
2.85
-2.13
Var. %
-52.2
-16.5
-48.4
-58.2
-50.3
-42.8
1880
43.3
42.1
48.5
37.9
45.4
41.7
Speranza di vita
1950 Var. assoluta Var. %
69.2
25.9
59.8
66.5
24.4
58.0
71.8
23.3
48.0
67.5
29.6
78.1
66
20.6
45.4
72.1
30.4
72.9
Fonte: Massimo Livi Bacci, Storia Minima della Popolazione, 2002
John: Il tutto mi sembra molto meccanico.
82
Michele: Lo é. E infatti non mancano analisi più articolate che fanno riferimento alle
trasformazioni socio-economiche messe in moto dalla rivoluzione industriale e che Mario ha
già in parte ricordato. Possiamo aggiungere anche le spiegazioni economicistiche secondo le
quali in una società industriale il costo dei figli aumenta determinando una minore attività di
shopping in questa direzione.
Mario: Michele, tu come la vedi?
Dal regime naturale al regime della consapevolezza e della scelta
Michele: A me sembra che si tenda ad esagerare il ruolo dell’industrializzazione e della
urbanizzazione. I dati della tavola che vi ho appena fatto vedere (tenete presente che non ve
ne sono molti di più) mostrano che in Europa le trasformazioni più pronunciate degli
indicatori demografici si verificarono nella seconda metà del XIX secolo e nella prima metà
del XX quando la popolazione era ancora prevalentemente contadina e l’impatto
dell’industrializzazione riguardava una quota limitata della popolazione. D’altra parte le tesi
economicistiche potrebbero eventualmente avere una qualche capacità esplicativa solo dopo
la seconda guerra mondiale.
Mario: E allora?
Michele: Sono convinto che le cause della rivoluzione demografica siano state molto
numerose e in mix diversi in paesi diversi. Tuttavia, il progresso economico, l’aumento del
reddito, l’urbanizzazione non possono di per sé ridurre la fecondità e aumentare la durata
della vita; ne sono premessa indispensabile, condizione necessaria, ma non sufficiente.
Servono anche una discreta comprensione dei processi riproduttivi e adeguate conoscenze
della fisiologia umana. In conclusione, anche se potrà sembrare una semplificazione
eccessiva, sarei propenso a dividere la storia della popolazione in sole due fasi.
John: Quali?
Michele: La prima fase è quella che definirei del Regime Naturale nella quale la capacità
degli uomini di controllare natalità e mortalità è praticamente nulla.
Mario: Per quello che ne so io, sempre con il supporto della settimana enigmistica e di
Wikipedia, il controllo volontario della fecondità è stato attuato in maniera cosciente in
pochissime società: tra le élite romane nella fase di massimo fulgore dell’Impero, tra i
borghesi ginevrini del XVII secolo e in Francia all’inizio del XIX secolo 105. Per il resto si è
sempre trattato di meccanismi di controllo indiretti che si realizzavano attraverso prassi
relative all’età al matrimonio o al prevalere di contesti socio-economici che consentivano solo
ad una parte della popolazione di formarsi una famiglia. Credo, però, che sarebbe sbagliato
attribuire il mancato controllo della fecondità solo alla mancanza di conoscenze. Un ruolo
importante l’ha certamente avuto anche la visione fatalistica che pervadeva molte società
africane e dell’Asia meridionale, ma anche quelle più vicine a noi per le quali i bambini
rappresentavano un dono di Dio. Per quanto riguarda la morte, malgrado i documentari che
cercano di stupirci illustrandoci la capacità di alcuni nostri progenitori di trapanare il cranio di
poveri disgraziati affetti da emicrania, resto convinto che ne uccidessero più i medici delle
malattie.
Michele: Sono totalmente d’accordo. Credo che questa situazione sia durata
ininterrottamente fino alla seconda metà del secolo XIX. E’ allora che inizia la seconda fase
della storia della popolazione mondiale caratterizzata da un crescente controllo dell’uomo
105
Per una conferma si veda Massimo Livio Bacci, op. cit.
83
sulla procreazione e sulla morte. E’ questo controllo che a me pare l’elemento fondamentale
della rivoluzione demografica alla quale stiamo assistendo e della sua diffusione. Insomma
quello che si sta imponendo è il Regime della conoscenza, della consapevolezza e della scelta.
Mario: Non c’è dubbio che è alla metà del secolo XIX che inizia uno straordinario
processo di crescita delle conoscenze chimiche e biologiche. Cose che oggi sembrano
scontate ebbero effetti importantissimi, a partire dall’indicazione che era opportuno che
coloro che attendevano un parto si lavassero le mani 106 e dall’introduzione di pratiche
operatorie antisettiche 107. La scoperta che certe malattie erano causate da specifici organismi
aprì la strada allo sviluppo di vaccini per le malattie contagiose più diffuse 108. Nel 1899 fu
scoperta l’aspirina, nel 1929 la penicillina e nel 1943 la streptomicina. La seconda metà del
XX secolo si apre con la scoperta della struttura del DNA -che per il momento non ha certo
prodotto i risultati che ci si attendeva, ma che potrebbe finire con il farlo nei prossimi anniseguita da una impressionante accelerazione dei progressi della medicina nel campo dei
trapianti e dello sviluppo di nuovi medicinali.
Michele: E’ sempre in questo periodo che si diffondono le conoscenze relative ai
meccanismi riproduttivi e vengono introdotti sistemi anticoncezionali più sicuri e di facile uso
(in particolare la spirale e la pillola) che permettono alle coppie di avere una fecondità
controllata, cioè non di subire, ma di scegliere il numero di figli.
John: Insomma, secondo te la popolazione umana sarebbe andata attraverso due sole fasi
caratterizzate, la prima, da un Regime demografico naturale in cui gli uomini non avevano
nessun controllo su fecondità e durata della vita e una seconda fase in cui tale controllo è
divenuto sempre più completo.
Michele: Esattamente. Allo stesso tempo l’aumento della durata della vita è stato
perseguito “automaticamente” da tutte le popolazioni, man mano che le possibilità di cura
aumentavano e divenivano utilizzabili a seguito dell’aumento del reddito. Gli strumenti per
controllare la fecondità hanno reso possibile scelte riproduttive coscienti, ma la loro adozione
ha richiesto e richiede trasformazioni socio-economiche che sono il portato dello sviluppo
economico, a parità però anche di altri fattori, fra cui quello religioso. Infine, sono convinto
che queste due fasi demografiche finiranno con avere esiti opposti. La prima è stata
caratterizzata da un lento aumento della popolazione. La seconda, che inizia con una
esplosione demografica che si è estesa e si sta estendendo da un paese all’altro come in una
106
Questa idea geniale e rivoluzionaria venne al medico austriaco Ignaz Semmelweis verso il 1848. Anche quella
di Ignaz è una storia interessante. Ignaz, noto come il padre del controllo delle infezioni, nacque in Ungheria e si
laureò in medicina a Vienna nel 1844. Nel 1847 ricevette un incarico biennale di assistente presso un reparto di
ostetricia. Fu così che gli capito di osservare che le donne che erano assistite da medici e studenti in medicina
registravano una mortalità più elevata delle donne assistite da ostetriche. Ignaz ipotizzò che la cosa fosse dovuta al
fatto che medici e studenti maneggiavano cadaveri prima di assistere ai parti. Portò così avanti un esperimento che
prevedeva l’obbligo di lavarsi le mani prima di andare in sala parto e poi il lavaggio degli strumenti medici.
L’esperimento dimostrò la validità della sua tesi. Come da copione, il suo capo, il celebre Prof Klein, negò
l’evidenza e sostenne -sulla base del paradigma condiviso che dava la colpa delle infezioni ai cosiddetti miasmiche la riduzione delle morti fosse dovuta al nuovo impianto di condizionamento. Ignaz perse il posto di lavoro,
tornò in Ungheria e dopo una serie di esperienze di lavoro non troppo felici in cui cercò con poco successo di
promuovere la propria tesi, mori in un manicomio, dopo cinque anni di degenza.
107
Joseph Lister procedendo lungo ls strada aperta da Ignaz Semmelweis, e sulla base dei suggerimenti di Pasteur,
pubblicò nel 1867 un volume dal titolo: “Antispetic principles fo the practice of Surgery”
108
Dopo I primi esperimenti di vaccinazione contro il vaiolo fatti da Jenner alla fine del XVIII secolo, il vaccino
contro il colera fu scoperto nel 1879, quello contro l’antrace nel 1881, contro la rabbia nel 1882, contro la febbre
tifoide nel 1896, contro la plaque nel 1897, contro la difterite nel 1923, contro il tifo nel 1937, contro l’influenza
nel 1945, contro la poliomelite nel 1955, contro il morbillo nel 1964, contro gli orecchioni nel 1967.
84
catena di fuochi d’artificio, porterà invece a un notevole calo della popolazione umana, forse
tale da consentire una riduzione del consumo delle risorse naturali.
Li: Prima di parlare dei grandi scenari, io vorrei capire bene come questa rivoluzione
demografica possa produrre carenza di manodopera in Cina e in altri paesi e
contemporaneamente condannare numerosi paesi africani ed asiatici ad una spaventosa
esplosione demografica.
Michele: Questo è il punto centrale di tutta la vicenda.
John: Fermi tutti. Anche a me questa cosa interessa moltissimo, ma non possiamo
parlarne adesso: stanno per arrivare i primi risultati. Lasciate che vi riempia i bicchieri per
brindare alla vittoria di Romney.
Ciò che successe quella notte che si chiuse con il grande coro al McCormick Place di
Chicago è ormai storia. John rimase depresso per lungo tempo. Li fece notare che Obama
era stato eletto con 65 milioni di voti che rappresentavano poco più di un quarto degli
elettori. Mario e Michele brindarono a Obama augurandosi che riuscisse finalmente a fare
alcune delle cose che aveva promesso, come ad esempio chiudere Guantanamo e trovare una
soluzione più umana ai problemi dell’immigrazione.
85
Erronee credenze possono avere una
sorprendente capacità di sopravvivere, … ,
sfidando l’evidenza e senza l’aiuto di
cospirazioni.
Karl
R.
Popper,
Congetture
e
confutazioni. Lo sviluppo della conoscenza
scientifica.
Quarto dialogo - Il futuro demografico del pianeta secondo le Nazioni Unite:
realismo delle ipotesi e affidabilità delle proiezioni demografiche
E’ il 9 di febbraio del 2013 e, secondo il calendario lunare, è l’ultimo giorno del
2012 109. La moglie e i figli di Li sono andati in Cina per festeggiare con la famiglia la
più importante festa del calendario cinese e torneranno in Italia solo dopo la festa
delle lanterne che si celebra il quindicesimo giorno del nuovo anno. Li ha colto
l’occasione per invitare gli amici a casa sua per il cenone dell’ultimo dell’anno.
Il capodanno cinese
Mario (suonando il campanello e guardando gli striscioni di carta rossa incollati
sulla porta): Si vede subito che è festa.
Li: Entrate amici; entrate. Guo nian hao!
John: Suppongo che la risposta giusta sia: buon anno. Ho visto tante volte
striscioni di carta rossa simili a quelli che hai messo sulla porta, ma non ho mai capito
bene cosa fossero.
Li: Sono dei Chuen lian.
John: Questo chiarisce tutto!
Li: Aspetta, è una vecchia storia. Si narra che nella notte dei tempi vi fosse un
mostro, il Nian, che all’inizio della primavera usciva dal suo nascondiglio per
distruggere le coltivazioni e uccidere i contadini. Questo mostro aveva però alcuni
punti deboli: la luce, il rosso e i rumori molto forti. Dopo l’ennesimo attacco gli
abitanti di un villaggio si riunirono e stabilirono un piano di azione: prima di tutto
dipinsero di rosso le mura delle loro case; poi decisero di spaventare il mostro con
fuochi di artificio, tamburi e altri strumenti a percussione che facevano un fracasso
d’inferno, mentre ballerini vestiti di colori brillanti percorrevano le strade del
villaggio 110.
Michele: Dunque è questa l’origine della danza del leone?
Li: Sì e anche degli striscioni di carta rossa che mettiamo all’ingresso delle nostre
case. Il Nian è il simbolo di tutto ciò che è cattivo e da temere. Una volta era la
109
La numerazione del calendario cinese inizia dal regno dell’Imperatore Giallo, ma é univoca e vi sono almeno
tre date per il 2013: 4650, 4710, 4711.
110
Per un cartone animato molto carino che racconta la storia del Nian si veda
www.youtube.com/watch?v=0uJbp8d_d9c
86
distruzione del raccolto e la guerra. Oggi è la povertà. La leggenda del Nian
suggerisce anche che di fronte al pericolo non bisogna rimanere passivi, ma agire.
Così, all’arrivo dell’anno nuovo, ci attrezziamo per tenere lontano dalla nostra
famiglia le cose che temiamo maggiormente.
Mario: E le scritte?
Li: Come vedete, sulla porta vi sono tre striscioni di carta, uno orizzontale e due
verticali. In quelli verticali sono scritti dei versi: il primo a destra, è la testa; il
secondo a sinistra, la coda.
Mario: Un distico.
Li: Se lo dici tu. La cosa interessante è che questi piccole poesie devono
rispondere a regole ben precise. In primo luogo i due versi devono avere lo stesso
numero di caratteri. Poi i singoli caratteri devono essere in qualche relazione con il
corrispondente carattere dell’altro verso; infine, i toni del secondo verso debbono
avere la sequenza opposta a quelli del primo.
John: Quindi queste poesiole sono difficili da comporre.
Li: Molto difficili. Quelli veramente belli sono pochi e di solito sono stati scritti da
grandi poeti. Una volta le persone colte scrivevano i propri distici e li copiavano con
la propria calligrafia. Adesso li si compra nei negozi, ma la qualità è molto bassa.
Mario: Un’altra cosa che non ho mai capito, e che neppure la Settimana
Enigmistica ha mai spiegato, è come mai la Festa della Primavera cada in pieno
inverno.
Li: Hai ragione e devo confessare che non ci avevo mai pensato neppure io. A
volte non vediamo le cose che ci circondano e nel mezzo delle quali siamo cresciuti.
E’ stato un mio amico italiano a farmelo notare e allora ho cercato la spiegazione …
Mario: Ovviamente su Internet.
Li: La cosa risale al 1913 quando la Nuova Repubblica Cinese fondata da Sun Yat
Sen introdusse il calendario gregoriano. A quel punto c’era bisogno di un nome nuovo
per il capodanno cinese che rimaneva comunque la festa più importante dell’anno e si
decise per Festa della Primavera, anche se il nome era chiaramente in contrasto con la
stagione, soprattutto nel Nord. Sedetevi, vado a prendere qualcosa da bere.
Mario: Fammi indovinare: del vero maotai a 53 gradi 111.
Michele: Ha parlato James Bond. Secondo me Mario ha fatto i compiti a casa
prima di venire a cena.
Li arriva con la bottiglia di maotai e la stappa mentre l’attenzione di John, Mario e
Michele è attratta da una serie di paper cutting incollati alle finestre. Li riempie i
bicchiere
Li: Cambai
John: Stasera il cinese è di rigore.
Li: Come disse Confucio: “Quelli che comprano maotai non lo bevono; quelli che
lo bevono non lo comprano”. Io sono un’eccezione: l’ho anche comprato.
111
Il Maotai è il liquore nazionale cinese e prende il nome dalla città dove viene prodotto.
87
John: Suppongo che abbiate numerose altre tradizioni per la Festa della
Primavera.
Li: Certamente, anche se arrivati a questo punto non so quanto dureranno. Molte
prevedono la preparazione di cibi tradizionali già a partire da tre settimane prima
dell’arrivo dell’anno nuovo. Poi, sei o sette giorni prima di capodanno, si pulisce la
casa, ma anche gli abiti, le coperte e gli utensili di cucina. Il significato è chiaro:
spazzare via la sfortuna. Questo è anche il periodo in cui si acquistano cose nuove con
cui si da il benvenuto all’anno nuovo. Il primo giorno dell’anno i bambini ricevono
una busta rossa con dentro del denaro, una tradizione che si è anche estesa ai
dipendenti. Nei primi giorni dell’anno poi si visitano i parenti e gli amici e si
scambiano regali. La festa di primavera si conclude con la festa delle lanterne che si
celebra il quindicesimo giorno dell’anno nuovo. Sentite, proporrei di mangiare più
tardi. Nel frattempo potremmo continuare la nostra chiacchierata sul futuro della Cina
che mi sta appassionando. Prima però vi riempio i bicchieri. Cambai!
La dinamica della transizione demografica
Li: L’ultima volta che ci siamo visti, l’annuncio dei risultati delle elezioni
americane interruppe la nostra chiacchierata sul più bello; così, sono rimasto con la
curiosità di sapere come sia possibile che la transizione demografica provochi
contemporaneamente in alcuni paesi il calo della popolazione, in altri un’esplosione
demografica.
John: Non fatemi ricordare quella serata!
Mario: Coraggio John. Fidati, vi è andata fatta bene.
John: Meglio parlare della transizione demografica.
Michele: La transizione demografica è come una tempesta che all’inizio alza onde
via via più alte che scorrono sulla superficie del mare; poi, quando si acqueta, le onde
diventano via via più basse. Così, la transizione demografica, in una prima fase
produce generazioni di nuovi nati sempre più imponenti e poi, in una seconda fase,
generazioni di dimensioni decrescenti. Scorrendo lungo le età della vita, queste
generazioni provocano prima un aumento dei giovani, poi della popolazione nella fase
lavorativa e, infine, degli anziani. Cosi, in un primo momento la popolazione
ringiovanisce, in una seconda fase invecchia.
Li: Fin qui ti seguo.
Michele: Quello che è successo è che la tempesta ha avuto inizio in momenti
diversi nei vari oceani della terra. Fuori di metafora, la transizione demografica è
iniziata in Svezia, Inghilterra e Francia alla fine del settecento, inizio dell’ottocento;
nei paesi europei più arretrati, come Italia e Russia, nella seconda metà del XIX
secolo. Si è poi diffusa negli altri paesi con tempi e modalità che sono stati ritmati
dalla interazione di numerosi elementi economici, sociali e legislativi. Nei paesi più
poveri e socialmente più arretrati la transizione sta iniziando solo ora. Il risultato è che
paesi diversi si trovano in fasi diverse della transizione. In alcuni, siamo nella fase di
crescita demografica accelerata; in altri, la popolazione cresce ancora, ma a tassi
sempre più ridotti; in altri, siamo ormai nella fase finale durante la quale la
popolazione diminuisce.
Li: Continua però a sfuggirmi come il calo della fecondità possa andare di pari
passo con l’aumento delle nascite e della popolazione.
88
Michele: Hai ragione; la cosa non è per niente intuitiva, anche se poi il
meccanismo è abbastanza semplice. Come abbiano visto nel grafico della Svezia, la
transizione demografica inizia con la caduta della mortalità, provocata soprattutto
dalla diminuzione della mortalità infantile. Come conseguenza, le generazioni che,
dopo una ventina di anni, raggiungono l’età della riproduzione sono più numerose
delle precedenti, ma hanno lo stesso livello di fecondità. Ciò innesca la crescita del
numero delle nascite che, a sua volta, provoca col tempo un ulteriore aumento della
popolazione in età riproduttiva. Quando, dopo trenta o più anni, anche la fecondità
comincia a diminuire, il numero delle donne in età fertile è così elevato che l’effetto
numerosità prevale sulla contrazione della fecondità per un periodo che può essere
anche molto lungo. A ciò si deve aggiungere che questa fase è stata quasi ovunque
caratterizzata da un aumento della durata media della vita.
John: Vorrei provare a ripetere con le mie parole per vedere se ho capito. A un
certo momento in una società tradizionale l’adozione di norme igieniche, la
disponibilità di medicinali, l’arrivo di missionari intenzionati a far aumentare i
potenziali clienti per il paradiso o quant’altro determinano una riduzione della
mortalità infantile e così, dopo venti, trenta anni, il numero di giovani coppie che si
dedicano con impegno al piacevole compito della riproduzione aumenta. Poiché in
questa fase la fecondità è ancora a livello tradizionale, ognuna di esse dà un
sostanziale contributo alla popolazione che sta già aumentando per via della riduzione
della mortalità. In questo modo si crea una differenza crescente tra nati e morti. Col
tempo anche la fecondità comincia a diminuire e, prima o poi, lo fa ad un ritmo
maggiore di quello della mortalità che, ad un certo punto, inizia ad aumentare perché
la popolazione invecchia e il numero dei candidati a questo evento aumenta. Così, i
tassi di natalità e mortalità convergono e la crescita della popolazione si riduce
progressivamente e alla fine inizia a diminuire.
Michele: Perfetto!
John: I riassunti sono sempre stati il mio forte.
Transizione demografica e livello di sviluppo
Mario: Se ho capito bene, pochi paesi possiedono informazioni statistiche che
consentano, come nel caso della Svezia, di documentare la loro transizione
demografica. Quindi, non c’è modo di verificare direttamente quanto hai appena
detto.
Michele: E’ vero! Possiamo però aggirare l’ostacolo analizzando tre gruppi di
paesi a un diverso livello di sviluppo (i paesi sviluppati, i paesi in via di sviluppo e i
paesi meno sviluppati) e porli in sequenza così da ricostruire l’intera storia. Lo faremo
utilizzando i dati della Population Division.
Mario: Sarei per tornare a chiamarli “paesi sottosviluppati”; capisco essere
rispettosi, però cosi facendo non si denuncia la disperata situazione socio-economica
in cui questi paesi si trovano e le insormontabili difficoltà che li aspettano, alla faccia
dell’atteggiamento ottimistico di molte organizzazioni internazionali, a mio avviso del
tutto ingiustificato.
I paesi sottosviluppati
Michele: Sono d’accordo con te. Cominciamo, quindi, con i paesi sottosviluppati
che, essendo stati gli ultimi a iniziare il lungo percorso della transizione demografica,
89
permettono di documentarne la fase iniziale. Nel grafico ho riportato i tassi di natalità
e di mortalità dei 47 paesi più poveri del mondo, nonché la differenza tra questi due
tassi) che misura il tasso di crescita percentuale della popolazione totale ed è
rappresenta con degli istogrammi. Come vedete, in questi paesi nel 1950 il tasso di
natalità era di poco inferiore al 50 per mille, mentre il tasso di mortalità era sotto il 30
per mille 112.
John: Dunque, la mortalità era già scesa sotto il livello “naturale”.
Michele: Sì, e quindi la transizione demografica era già iniziata, sia pur da poco.
Gli istogrammi mostrano che all’inizio degli anni ‘50 il tasso di crescita della
popolazione era del 21 per mille, un valore molto al di sopra di quelli che si registrano
durante il regime naturale. Negli anni successivi, il tasso di mortalità è diminuito più
rapidamente del tasso di natalità e la differenza tra i due indicatori è aumentata fino a
raggiungere un massimo di 28,4 per mille tra il 1980 e il 1985. A questo punto il tasso
di natalità comincia a contrarsi più velocemente, cosicché nel 2010 il tasso di crescita
della popolazione scende al 24,7 per mille. Secondo le ultime proiezioni dovrebbe
essere del 13,4 per mille nel 2060 e del 5,5 per mille alla fine del secolo.
Grafico 1 – Paesi meno sviluppati; tasso di natalità, tasso di mortalità e tasso di
crescita della popolazione; valori medi annui; 1950-2100
Fonte: elaborazione su dati UN DESA, World Population Prospects, The 2012
Revision
Li: Quindi anche nei paesi meno sviluppati la situazione sta migliorando.
Michele: E’ una conclusione ottimistica che non prende in considerazione i costi
umani e sociali dell’esplosione demografica che è un inevitabile prodotto della
transizione. Tanto per darvi un’idea del problema, con un tasso di crescita del 20 per
mille (cioè del 2 per cento) la popolazione di un paese raddoppia in trentacinque
anni 113. Il grafico 2 rappresenta il percorso della transizione demografica utilizzando
112
Il tasso di natalità lordo è dato dal rapporto tra il numero delle nascite e la popolazione totale. Nel caso del tasso
di mortalità il numeratore è il numero dei decessi. Si noti che questi indicatori sono fortemente condizionati dalla
struttura della popolazione per classe di età. Non deve, ad esempio, sorprendere che il tasso di mortalità dello
Zambia, sia analogo a quello dell’Italia (10,4 per mille) malgrado la vita attesa alla nascita sia molto inferiore
(51,6 anni contro 81,5); la spiegazione sta nell’età mediana (l’età che divide una popolazione in due gruppi della
stessa dimensione) che è di 16,5 anni nello Zambia e di 43,3 in Italia.
113
Una semplice regoletta per capire l’effetto di lungo periodo di una crescita ad un dato tasso fisso é che la
variabile interessata raddoppia in un tempo pari a 70 diviso per il tasso di crescita. Alternativamente se una
grandezza aumenta ad un tasso di crescita percentuale costante, in 70 anni tale grandezza sarà raddoppiata un
90
il numero delle nascite e delle morti. Nel 1950 i paesi sottosviluppati avevano una
popolazione complessiva di 195 milioni, che allora rappresentava il 7,7 per cento
della popolazione mondiale. Ogni anno vi nascevano 10 milioni di bambini e vi erano
6 milioni di decessi: quindi la popolazione aumentava di 4 milioni all’anno. Adesso vi
sono circa 28 milioni di nascite che dovrebbero superare i 42 milioni verso il 2065,
per poi mantenersi su tale livello fino alla fine del secolo; le morti sono poco più di 8
milioni e raggiungeranno i 26 nel 2100. La conseguenza è che adesso la popolazione
di questi paesi cresce a un ritmo di 21 milioni l’anno, che saliranno a oltre 27 verso il
2040, e starà ancora crescendo ad un ritmo di 16 milioni all’anno alla fine del secolo.
Così la popolazione dei paesi più poveri del mondo, che é ora di 878 milioni,
dovrebbe superare i 2,9 miliardi nel 2100 quando sarà pari al 27 per cento della
popolazione mondiale.
Grafico 2 – Paesi meno sviluppati; nascite, morti e crescita della popolazione;
valori medi annui in milioni; 1950-2100
Fonte: elaborazione su dati UNDESA, World Population Prospects, The 2012
Revision
Li: Più del doppio della popolazione cinese di oggi! Una cosa agghiacciante e
difficile da immaginare pensando alla situazione in cui si trovano questi paesi.
I paesi in via di sviluppo
Michele: Non potrei essere più d’accordo. I paesi in via di sviluppo ci permettono
di cogliere l’arrivo della seconda fase della transizione, quella in cui la crescita della
popolazione rimane positiva, ma diminuisce progressivamente convergendo verso
zero. Nel 1950 i paesi in via di sviluppo avevano una popolazione di 1,5 miliardi, pari
al 60 per cento della popolazione mondiale. Ogni anno vi nascevano 69 milioni di
bambini, mentre i decessi erano 36 milioni (Grafico 4). Quindi, la popolazione
aumentava di 33 milioni all’anno. La transizione demografica era più avanzata che nei
paesi sottosviluppati: il tasso di mortalità era sceso al 23 per mille, mentre il tasso di
natalità era già entrato nella fase discendente (Grafico 3). La differenza massima fra
nati e morti fu raggiunta, con 73 milioni, tra il 1985 e il 1990, sessanta anni prima dei
paesi più poveri. Negli anni successivi natalità e mortalità cominciano a convergere e
il calo del tasso di natalità diventa così pronunciato che anche il numero dei nati
numero di volte pari al suo tasso di crescita. Si veda il video di Albert Bartlett al seguente sito:
http://www.youtube.com/watch?v=umFnrvcS6AQ; si veda anche: http://www.lanxsatura.org/
91
comincia a diminuire e converge verso il numero dei morti. La popolazione totale
inizierà a diminuire a partire dal 2085
Grafico 3 – Paesi in via di sviluppo; tasso di natalità, tasso di mortalità e tasso di
crescita della popolazione totale; valori medi annui; 1950-2100
Fonte: elaborazione su dati UN DESA, World Population Prospects, The 2012
Revision
Grafico 4 – Paesi in via di sviluppo; nascite, morti e variazione assoluta della
popolazione; valori medi annui in milioni; 1950-2100
Fonte: elaborazione su dati UN DESA, World Population Prospects, The 2012
Revision
I paesi sviluppati
Michele: Veniamo infine ai paesi sviluppati, i paesi dove la transizione
demografica è nella fase più avanzata. Già nel 1950 il tasso di mortalità di questi
paesi era sceso a poco più del 10 per mille e quello di natalità, ormai in caduta libera,
a circa il 22 per mille (Grafico 5). Il processo di convergenza dei due tassi è
continuato negli anni successivi cosicché alla fine del secolo scorso la popolazione
dei paesi sviluppati era sostanzialmente stazionaria. Secondo la Population Division,
questa situazione dovrebbe continuare fino al 2020 quando la popolazione dei paesi
sviluppati comincerà a diminuire. D’altra parte, come abbiamo già visto, numerosi
paesi sviluppati registrano da tempo tassi di fertilità sotto il livello di rimpiazzo e se la
popolazione dei paesi economicamente più progrediti non sta ancora diminuendo è
92
solo perché alcuni di essi, primo fra tutti gli Stati Uniti, mantengono una natalità
elevata.
Grafico 5 – Paesi sviluppati; tasso di natalità, tasso di mortalità e tasso di
crescita della popolazione totale; valori medi annui; 1950-2100
Fonte: elaborazione su dati UNDESA, World Population Prospects, The 2012
Revision
Grafico 6 – Paesi sviluppati; nascite, morti e variazione assoluta della
popolazione; valori medi annui in milioni; 1950-2100
Fonte: elaborazione su dati UNDESA, World Population Prospects, The 2012 Revision
Li: Come mai?
John: Devi tenere conto dei milioni d’immigrati che sono arrivati nella seconda
metà del ventesimo secolo e che hanno mantenuto, almeno per un certo periodo, l’alta
fecondità del paese di partenza. Il fenomeno è evidente anche in altri paesi
d’immigrazione storica come Australia e Nuova Zelanda.
La transizione demografica a livello globale
Michele: Veniamo ora al livello globale che è il risultato delle tre diverse
situazioni che abbiamo appena descritto. Nel 1950 il tasso di mortalità era di poco
sotto il 20 per mille, mentre quello di natalità era ancora vicino al 37 per mille. La
distanza massima fra i due indicatori fu raggiunta dopo una quindicina d’anni, con un
dato di poco superiore al 20 per mille. L’aspetto più interessante che emerge dal
Grafico 7 è però rappresentato dalla caduta tendenziale del tasso di natalità, caduta
che decelera progressivamente; cosicché il tasso di natalità si assesta nell’ultima parte
93
del secolo intorno al 12, 13 per mille. In parallelo vediamo un crollo iniziale del tasso
di mortalità che dimezza il suo valore tra il 1950 e il 1990. Rimane poi
sostanzialmente stazionario fino a quasi la metà del secolo per aumentare leggermente
nel periodo successivo. E’ comunque evidente che in questa prospettiva il progressivo
annullamento della crescita demografica è da imputare alla natalità.
Grafico 7 – Mondo; tasso di natalità, tasso di mortalità e tasso di crescita della
popolazione totale; valori medi annui; 1950-2100
Fonte: elaborazione su dati UNDESA, World Population Prospects, The 2012 Revision
Li: Come al solito, io preferirei vedere i valori assoluti.
Grafico 8 – Mondo; nascite, morti e variazione assoluta della popolazione; valori
medi annui in milioni; 1950-2100
Fonte: elaborazione su dati UNDESA, World Population Prospects, The 2012 Revision
Michele: Ti accontento subito. In una prima fase, il numero dei nati aumenta,
passando dai 98 milioni del 1950 ai 139 del 1990, e ciò perché il numero delle donne
in età fertile è più che raddoppiato, mentre il numero dei figli per donna è calato solo
del 31 per cento. Nella lunga fase successiva la fecondità cala leggermente, ma un po’
di più di quanto non aumenti il numero delle donne tra i 15 e i 49 anni che dovrebbe
raggiungere il proprio massimo verso il 2090. Di conseguenza, il numero dei nati non
dovrebbe mai scendere sotto i 120 milioni 114. L’aspetto forse più impressionante di
questa storia è però rappresentato dal cambiamento della distribuzione geografica
delle nascite. Alla fine del secolo, quasi un terzo dei bambini dovrebbe vedere la luce
nei paesi più poveri della terra, e ciò rende difficile immaginare che la situazione
economica e sociale di questi paesi possa migliorare.
114
A puro titolo di curiosità ciò corrisponde a una nascita ogni 4 secondi
94
John: Questi dati cominciano a preoccuparmi! Quali sono le principali tendenze
demografiche che emergono dalle proiezioni? Dopo tutto non stiamo parlando di
fantascienza, ma del mondo in cui vivranno i nostri figli e i nostri nipoti.
Grafico 9 – Gruppi di paesi per livello di sviluppo economico; distribuzione
percentuale delle nascite; 1950-55, 2005-10 e 2095-2100
Fonte: elaborazione su dati UN DESA, World Population Prospects, The 2012 Revision
Le proiezioni demografiche della Population Division
Michele: In primo luogo, nelle sue ultime stime la Population Division ha alzato il
livello della popolazione mondiale previsto per il 2100 a 10,9 miliardi (la stima
precedente era di 9,7 miliardi) a seguito di un aggiustamento verso l’alto della
fecondità e della durata della vita, soprattutto nei paesi sub-sahariani. Come abbiamo
già accennato, uno degli aspetti più drammatici è poi la concentrazione di una quota
crescente della popolazione mondiale in Africa. Nel 1960 solo 9 persone su cento
abitavano in questo continente; nel 2010 sono salite a 15 e nel 2100 dovrebbero
arrivare a 39. Notate anche che l’Africa ha attualmente meno abitanti sia della Cina,
sia dell’India, ma nel 2100 dovrebbe avere più abitanti di questi due paesi messi
insieme. Questo risultato è ovviamente la conseguenza della drammatica crescita della
popolazione dei paesi più poveri che abbiamo appena visto e che si trovano quasi tutti
in Africa. Nel frattempo dovrebbero calare le quote degli altri continenti; in
particolare, l’Asia dovrebbe scendere dal 60,3 al 43,4 per cento. Tuttavia, alla fine del
secolo Africa e Asia dovrebbero ospitare l’82 per cento della popolazione mondiale.
Ovviamente il peso degli altri continenti diventerebbe marginale con l’Europa al 5,9
per cento, a fronte del 21,7 del 1950, l’America all’11,5 contro un iniziale 13,4 per
cento e l’Oceania allo 0,6 per cento.
Tavola 1 – Popolazione totale dei continenti; valori assoluti in milioni e
composizione percentuale; 1950, 2010 e 2100
Fonte: elaborazione su dati UN DESA, World Population Prospects, The 2012 Revision
95
John: E a livello dei singoli paesi?
Michele: Le trasformazioni sono ugualmente impressionanti. In primo luogo
dovrebbe aumentare il numero e la dimensione dei grandi paesi. Nel 2010 i paesi con
una popolazione tra i 50 e i 100 milioni erano quattordici e quelli con oltre 100 undici.
Nel 2100 il numero dei primi dovrebbe salire a ventotto e quello dei secondi a
ventiquattro. Dovrebbero poi sparire dalla lista dei venticinque paesi più popolosi
della terra tutti i paesi europei: Russia, Germania, Francia, Gran Bretagna e Italia. Il
caso più impressionante è quello della Germania che dovrebbe perdere 25 milioni di
abitanti e passare dal quindicesimo al quarantaduesimo posto in classifica.
Mario: Secondo te l’hanno già detto alla Merkel?
Tavola 2 – Popolazione nei venticinque paesi più popolosi; valori in milioni; 2010
e 2100
Fonte: elaborazione su dati UN DESA, World Population Prospects, The 2012 Revision
Michele: Non lo so; comunque i politici non sono mai molto interessati a quello
che succederà dopo di loro. Fra l’altro la Germania, scesa a 57 milioni, sarebbe
largamente sopravanzata dalla Francia con 79 milioni e sarebbe appena più popolosa
dell’Italia a 55 milioni. Dovrebbe sparire dalla lista dei venticinque paesi più popolosi
del mondo anche il Giappone che dovrebbe perdere 43 milioni di abitanti e scendere
dal decimo al ventinovesimo posto. Dovrebbero sparire anche Iran, Turchia,
Tailandia, Myanmar e Sud Africa. Come vi aspetterete dopo quello che ho detto, a
parte l’Iraq che sale al ventunesimo posto, le new entry sono tutte africane: Tanzania,
Uganda, Niger, Kenia, Zambia, Sudan, Mozambico, Madagascar, Mali e Angola.
Li: La popolazione tenderà ovviamente a invecchiare.
Michele: Sì. Tanto per darvi un’idea del fenomeno, a livello globale la percentuale
delle persone con 65 anni e più dovrebbe quasi triplicarsi, salendo da un valore attuale
di 7,7 per cento a uno di 21,9 per cento nel 2100. Il processo dovrebbe essere
particolarmente accentuato nei paesi più poveri, dove si dovrebbe passare dal 3,5 per
96
cento al 15,4 per cento e nei paesi in via di sviluppo, dal 6,2 al 23,4 per cento, un
valore di poco inferiore al 28,7 per cento dei paesi sviluppati, che però sono già al
16,1 per cento.
Mario: Mi stai dicendo che il mondo si trasformerebbe in un gigantesco ricovero
per anziani e che la professione del futuro sarà quella del badante?
Michele: E’ una possibilità che va presa in seria considerazione.
Li: In tutto questo che cosa dovrebbe succedere alla Cina?
Grafico 10 – Gruppi di paesi per livello di sviluppo economico; percentuale di
persone con 65 anni e più; 1950, 2010 e 2100
Fonte: elaborazione su dati UN DESA, World Population Prospects, The 2012 Revision
Il futuro demografico della Cina
Michele: Ti accontento subito: sulla Cina sono organizzatissimo. Il grafico 11
rappresenta l’andamento del numero medio annuo di nati e di morti e il relativo saldo
che, come ormai sappiamo, misura la crescita assoluta della popolazione totale. Il
grafico sintetizza buona parte della storia della demografia cinese che abbiamo
discusso durante la nostra ultima chiacchierata. Tra il 1950 e il 1990 il numero delle
nascite oscilla attorno ai 25 milioni a seguito dell’effetto contrastante di riduzione
della fecondità, aumento della popolazione in età riproduttiva, abbassamento del’età
legale per il matrimonio, introduzione e applicazione molto dura della politica del
figlio unico. A partire dal 1990, il numero medio dei nati comincia a diminuire e,
secondo la Population Division, questo trend negativo dovrebbe continuare per tutto il
secolo. D’altra parte, il miglioramento delle condizioni igieniche ed economiche
nonché gli interventi specifici nel campo della salute ebbero subito un effetto positivo
sulla mortalità, così che il numero dei morti diminuì dai circa 14 milioni del 1950-55
a meno di 5 milioni nel 1970-75. A partire da quel momento il numero dei morti
ricomincia a salire e dovrebbe uguagliare il numero dei nati verso il 2030. La
popolazione totale entrerebbe allora in una fase di progressivo e inarrestabile declino.
Il grafico permette di vedere chiaramente le tre fasi della transizione demografica: la
prima, caratterizzata da aumenti via via crescenti della popolazione, dura fino al 1970;
la seconda, caratterizzata da aumenti decrescenti, dura i successivi 65 anni; la terza
che inizia verso il 2030 dovrebbe vedere il progressivo calo della popolazione totale.
97
Li: Non so se ci vedo giusto, ma se l’area sotto l’ordinata rappresenta una
diminuzione, la popolazione cinese rischia di sparire.
Michele: Sparire no, ma si porrebbero le premesse perché ciò possa accadere nel
secolo successivo.
Grafico 11 – Cina; nati, morti e saldo naturale; valori medi annui in milioni;
1950-2060
Fonte: elaborazione su dati UNDESA, World Population Prospects, The 2012 Revision
Li: Ma ti sembra possibile?
Michele: A dirti la verità, ritengo che queste proiezioni siano totalmente infondate
e trovo incredibile che le Nazioni Unite le facciano circolare senza riflettere sulle
potenziali conseguenze che questi dati potrebbero avere.
John: Forse contano sul fatto che nessuno le prenda sul serio! Oppure la Cina
rappresenta un caso speciale?
Michele: Tutt’altro! Anzi ne approfitterei per raccontarvi la visione demografica
del futuro del pianeta secondo le Nazioni Unite, cominciando da un confronto tra
Cina e Nigeria.
Li: Perché proprio la Nigeria?
Cina e Nigeria: due paesi agli estremi del percorso della transizione
demografica.
Michele: In primo luogo perché se la Cina è il gigante dell’Asia, la Nigeria 115 è il
gigante dell’Africa. Inoltre, mentre la Cina è il prototipo dei paesi che stanno per
entrare nella terza fase della transizione demografica, quella in cui la popolazione
diminuisce, la Nigeria è uno dei paesi in cui la transizione è appena agli inizi. Come
vi ho già raccontato in una precedente chiacchierata, la popolazione cinese dovrebbe
raggiungere un massimo di un miliardo e 453 milioni nel 2030 per poi calare
progressivamente fino a un miliardo e 86 milioni alla fine del secolo. In sostanza, nel
corso di 70 anni dovrebbe perdere 5 milioni di persone all’anno. Questo secondo la
115
Vale la pena ricordare che la Nigeria è stata anche la culla di alcune delle maggiori civiltà africane e ha
prodotto le più belle sculture di questo continente: Purtroppo oggi rappresenta il miglior esempio di come le
ricchezze minerarie non portino che la distruzione ambientale e l’ingiustizia social ai paesi produttori
sottosviluppati.
98
Variante media, quella che Population Division considera la più probabile. Nella
variante bassa -che prevede un livello di fecondità inferiore di mezzo figlio 116- la
popolazione cinese riuscirebbe solo a sfiorare il miliardo e 400 milioni nel 2021, per
poi scendere a 608 milioni nel 2100, con un calo medio annuo di 10 milioni di
persone.
Li: Quindi il livello della fecondità fa una differenza sostanziale.
Michele: Certamente, tanto che nella variante alta la popolazione cinese
continuerebbe a crescere per tutto il secolo fino a toccare, nel 2100, il traguardo di un
miliardo e 778 milioni. Se le altre varianti sono irrealistiche, questa lo è ancora di più.
Li: Comincio a capire l’importanza della pianificazione famigliare!
Michele: I dati della Nigeria ti possono fornire ulteriore materiale di riflessione. In
Nigeria, il paese più popoloso dell’Africa, la transizione è appena agli inizi. Pensate
che nel 2010 la popolazione totale di questo grande paese era di 160 milioni. Secondo
le Nazioni Unite nel 2100 la popolazione della Nigeria sarà compresa tra un minimo
di 644 milioni nell’ipotesi di natalità bassa e un massimo di un miliardo e 262 milioni
nell’ipotesi di natalità alta, passando per il valore della variante intermedia di 914
milioni.
John: Quindi, secondo la Population Division ci sono buone probabilità che la
popolazione della Nigeria sorpassi quella della Cina nel corso del secolo e che la
crescita demografica che la Cina ha dovuto fronteggiare nel secolo scorso sia roba da
ridere, rispetto a quella che aspetta la Nigeria nel corso di questo secolo.
La polarizzazione dello sviluppo demografico
Michele: Sì: qui non si parla di una crescita di 2,5 volte com’è avvenuto in Cina,
ma nell’ipotesi media di 4,7 volte, un dato tuttavia modesto se confrontato con la
crescita di 11,8 volte prevista per il Niger e di 8,4 volte prevista per la Zambia.
Li: Dati impressionanti anche per uno come me abituato al sovraffollamento!
John: Anche a me sembrano numeri che avrebbero effetti socio-economici persino
difficili da immaginare; ma queste proiezioni sconvolgenti, che tutto sommato stanno
passando inosservate, sono realistiche?
Michele: Come per tutte le proiezioni, la loro probabilità di avverarsi dipende dal
realismo delle ipotesi.
John: E quindi?
La procedura di proiezione demografica utilizzata dalle Nazioni Unite.
Michele: Partiamo dalla procedura. Il meccanismo è semplice. Si prende una
popolazione iniziale della quale si conosce la struttura per sesso e classe di età. Nel
caso di una popolazione chiusa, che cioè non è interessata da flussi migratori, sarà
sufficiente stimare, da un lato, il numero dei nati e, dall’altro, il numero dei morti per
ogni classe di età per il periodo successivo. I nati sono inseriti nella prima classe di
età, mentre i morti sono dedotti dalle classi di età interessate.
Li: Ti dispiacerebbe fare un esempio?
116
Se, ad esempio, nella variante media il tasso di fertilità ipotizzato e di due bambini per donna, in quella bassa
sarà di 1,5 e in quella alta di 2,5.
99
Michele: Prendiamo una popolazione di 100 persone, composta da cinque classi di
età, ognuna di cinque anni di ampiezza e consideriamo un intervallo temporale
anch’esso di cinque anni. Formuliamo poi delle ipotesi sul livello e la tendenza della
fecondità e della mortalità. Sulla base dei dati e delle ipotesi, possiamo stimare i nati
nel corso dell’intervallo considerato. Supponiamo che siano quindici. Calcoliamo poi
i morti di ogni classe di età e li sottraiamo dalle classi di appartenenza. Così, ad
esempio, tra il tempo t e il tempo t+5, si dovrebbe registrare un solo decesso nella
prima classe di età. Pertanto, al tempo t+5 la seconda classe di età, composta al tempo
iniziale da venti individui, ne conterà 19. Effettuando questa operazione per tutte le
classi di età successive, otteniamo il loro livello al tempo t+5. A questo punto
ripetiamo il procedimento per quanti intervalli desideriamo. Tornando all’esempio, i
nati sono meno dei morti e quindi la popolazione diminuisce. Potete anche vedere che
la consistenza delle prime 4 quattro classi è diminuita, mentre quella dell’ultima è
aumentata, provocando così un invecchiamento della popolazione.
Tavola 3 – Popolazione per classi di età quinquennali al tempo t e al tempo
t+5; nati, morti e saldo naturale.
0-4
5-9
10-14
15-19
20-24
Totale
Pop (t)
20
25
25
20
10
100
Nati
Morti
Saldo
15
15
-1
-3
-7
-9
-10
-30
-15
Pop (t+5)
15
19
22
18
11
85
John: Vediamo le ipotesi adottate dalla Population Division.
Le ipotesi delle Nazioni Unite
Le ipotesi sulla mortalità
Michele: Cominciamo dalla mortalità. La Population Division ipotizza che la
durata media della vita continuerà ad aumentare, ma che gli aumenti saranno
inversamente correlati ai valori attuali.
Mario: Cioè?
Michele: La vita attesa alla nascita è molto diversa da paese a paese. A fronte di un
valore medio mondiale di 68,7 anni, nei paesi sviluppati la vita attesa è di 76,9 anni e
nei paesi sottosviluppati di 58,4, con un dato dei paesi in via di sviluppo praticamente
uguale alla media mondiale. Come vedete dalla Tavola 4, la situazione è decisamente
migliore di quella del 1950, ma i progressi non sono stati uniformi. I risultati più
consistenti sono quelli dei paesi in via di sviluppo; seguono i paesi più poveri che
partivano da una situazione analoga a quella dei paesi europei all’inizio della
rivoluzione industriale. Per ultimi vengono i paesi sviluppati nei quali la durata media
della vita negli ultimi sessanta anni è aumentata di circa dodici anni.
100
Tavola 4– Mondo e gruppi di paesi per livello di sviluppo; vita attesa alla
nascita; 1950-55, 2005-10, 2095-2100
Fonte: elaborazione su dati UN DESA, World Population Prospects, The 2012 Revision
Li: Quindi la differenza tra paesi ricchi e paesi poveri è diminuita.
Michele: Nella media sì, ma rimangono molti casi drammatici, soprattutto in
Africa dove vi sono 11 paesi nei quali la vita attesa è tra i 40 ed i 50, mentre in altri
29 è tra i 50 e i 60. Malgrado ciò, le previsioni della Population Division sono
abbastanza ottimistiche e prevedono sia un ulteriore aumento della vita attesa, sia un
ulteriore riavvicinamento tra i tre gruppi di paesi. Così la vita attesa dovrebbe salire a
88,9 anni nei paesi avanzati, a 82,2 nei paesi in via di sviluppo e a 77,6 nei paesi
meno sviluppati, un valore questo superiore al valore attuale dei paesi più ricchi. Per
rendere confrontabile quanto è successo negli ultimi 60 anni con le previsioni relative
ai prossimi novanta, ho riportato nel grafico la crescita media annua dei due periodi
espressa in mesi. Come vedete, a livello mondiale la crescita della durata della vita
dovrebbe più che dimezzarsi; scendendo da 4,8 a 1.7 mesi, soprattutto a causa del
rallentamento “previsto” nei paesi in via di sviluppo che sono quelli nei quali
l’allungamento della vita è stato più accentuato negli ultimi sessanta anni. Anche così
il processo porta a risultati sorprendenti. Se ora la durata media della vita supera gli
80 anni in diciassette paesi, primo fra tutti il Giappone con circa 83 anni, nel 2100
essa dovrebbe superare i 95 anni in Corea, e i 90 in altri quarantadue paesi. Dopo la
Corea troviamo Hong Kong e Giappone. L’Italia occupa il settimo posto, prima di
tutti i grandi paesi occidentali. All’altra estremità, vi dovrebbero essere solo tre paesi
sotto i settanta; un limite al quale oggi non arrivano ben ottantacinque paesi.
Grafico 12 - Mondo e gruppi di paesi a diversi livelli di sviluppo; vita attesa alla
nascita; crescita media in mesi tra il 1950-55 e il 2005-10
Fonte: elaborazione su dati UN DESA, World Population Prospects, The 2012 Revision
Mario: Comunque la Population Division sembrerebbe accettare l’idea che vi
siano limiti biologici alla durata della vita.
101
Michele: Credo che i dati che vi ho appena fornito riflettano semplicemente le
tendenze in atto che mostrano come maggiore la durata della vita, minori i progressi
che sono compiuti. Va però detto che anche in questo caso negli ultimi 150 anni la
realtà ha largamente superato l’immaginazione ed è possibile che la cosa si ripeta.
Mario: Il futurologo Ray Kurzweil 117 ha sostenuto che chi riuscirà ad essere
ancora in vita verso il 2040 avrà buone probabilità di diventare immortale o quasi
perché a quel tempo disporremo di nanorobots in grado di distruggere le cellule
cancerogene, fare il backup delle nostre memorie e rallentare l’invecchiamento.
Tuttavia, anche l’opinione opposta ha numerosi sostenitori che osservano come,
malgrado tutti gli sviluppi della scienza, non siamo ancora riusciti a spingere verso
l’alto il limite massimo di vita che rimane intorno ai 120 anni.
Michele: Ciò che emerge dalle proiezioni delle Nazioni Unite è soprattutto una
concentrazione della mortalità tra gli anziani.
Li: Comunque, aver debellato o ridotto la mortalità infantile e dei bambini piccoli
non è cosa da poco.
Michele: Certo. A livello mondiale negli ultimi 60 anni la mortalità infantile si è
ridotta di due terzi. Nei paesi ricchi il problema è stato quasi totalmente debellato,
mentre rimane rilevante nei paesi in via di sviluppo e soprattutto nei paesi più poveri
che hanno fatto grandi passi in avanti, ma sono ancora su livelli disastrosi tanto che 7
bambini su 100 muoiono durante il primo anno di vita. Secondo la Population
Division, nel 2100 il problema dovrebbe essere sostanzialmente risolto anche in questi
paesi.
Una digressione su transizione demografica e “ordine demografico”
Mario: Comincio a pensare che nessuno abbia guardato questi numeri nel loro
insieme. Si prospetta che il problema della mortalità infantile venga quasi totalmente
risolto, mentre la popolazione esplode. Non ha alcun senso.
Michele: Totalmente d’accordo, ma c’è di peggio.
Tavola 5 – Mortalità infantile in tre gruppi di paesi a diverso livello di sviluppo;
1950-55, 2005-0, 2095-00
Fonte: elaborazione su dati UN DESA, World Population Prospects, The 2012 Revision
Li: Comunque, mi sembra che questi dati mostrino che si muore sempre più al
momento giusto.
Michele: E’ stato già sostenuto che il passaggio dal sistema demografico
tradizionale a quello moderno rappresenta il passaggio dal disordine e
dall’inefficienza, all’ordine e all’efficienza. Nel regime tradizionale c’era bisogno di
molte nascite per generare una crescita demografica modesta, mentre adesso ne
bastano molte di meno per far crescere la popolazione. La macchina demografica
riuscirebbe, quindi, ad andare più veloce utilizzando meno carburante. D’altra parte, il
117
Kurzweil Ray and Terry Grossman, 2004, Fantastic Voyage. Live Long Enough to Live Forever, Plume
102
sistema tradizionale era disordinato nel senso che la morte non dava la precedenza ai
vecchi e falcidiava la popolazione in maniera casuale e imprevedibile. Insomma, nel
regime tradizionale i figli spesso morivano prima dei genitori, nel regime moderno ciò
avviene molto raramente.
John: Mi sembra un’osservazione interessante, anche se per il momento questa
non è certamente la situazione prevalente in moltissimi paesi.
Michele: Livi Bacci, l’autore di queste osservazioni, parla in prospettiva, dando
per scontato che la transizione demografica finirà con investire tutto il mondo 118. Però
questa evoluzione non è stata e non è senza costi. Lo stesso Livi Bacci osserva che il
regime demografico moderno comporta nuove vulnerabilità: le strutture familiari
divengono più fragili e la perdita di un figlio unico, o la perdita dei genitori in giovane
età, possono avere pesanti effetti sui sopravvissuti. A mio avviso gli effetti più
devastanti della transizione demografica sono però quelli generati dai disequilibri che
si creano nel mercato del lavoro e le conseguenze che essi generano. Lasciate però
che passi alle ipotesi sulla fecondità perché ho ancora molte cose da dire sulla
metodologia dalla Population Division. Per i demografi è la fecondità che gioca il
ruolo fondamentale nel determinare le future tendenze demografiche. Pertanto, a
fronte di un solo scenario sulla mortalità e di due scenari sull’immigrazione, la
Population Division calcola e pubblica cinque scenari di fecondità: oltre ai tre che
abbiamo già incontrato (con fecondità bassa, media e alta) vi sono quelli a fertilità
costante e a rimpiazzo istantaneo, anche se questi ultimi rappresentano più che altro
delle curiosità.
Le ipotesi sulla fecondità
Li: Quando abbiamo parlato dell’evoluzione della popolazione cinese e nigeriana,
hai detto che la fecondità ha un grosso impatto sul livello della popolazione.
Michele: Sì, molto maggiore della mortalità. Ad esempio, nel 2100 la popolazione
mondiale raggiunge i 10,9 miliardi nella variante intermedia, mentre è di solo 6,8
miliardi nell’ipotesi bassa e di ben 16,6 nell’ipotesi alta. Se poi la fecondità rimanesse
ai valori attuali, si supererebbero i 28 miliardi.
John: Mi sembrano intervalli troppo ampi per dare qualche indicazione sul futuro,
a parte il fatto che tutto può succedere.
Michele: E’ vero, ma il punto di riferimento è la variante media e, a partire dalle
proiezioni del 2010, la stima dei futuri livelli della fecondità in questa variante si basa
su di una complessa procedura statistica che tiene conto non solo delle tendenze
passate di ogni singolo paese, ma anche di quelle dei paesi che appartengono alla
stessa regione e all’andamento globale.
John: Comunque una procedura in cui il futuro è dedotto dal passato.
Michele: Non proprio, perché queste proiezioni vengono poi “corrette” per tenere
conto di un’ipotesi fondamentale, vale a dire che la popolazione dei singoli paesi -e
quindi anche la popolazione globale- tenda verso una stabilità di lungo periodo.
Mario: Vuoi dire che correggono le stime a mano?
Michele: Più o meno. D’altra parte il mio professore di Politica economica, che
non era l’ultimo arrivato, diceva che i modelli econometrici sono quella cosa che
118
Massimo Livi Bacci (2100), Storia Minima della Popolazione, Il Mulino,
103
produce delle previsioni che poi gli economisti aggiustano con il buon senso e
l’esperienza.
Mario: In questo caso cosa suggeriscono ai demografi buon senso ed esperienza?
Michele: Non sono sicuro che in questo caso si possa parlare di buonsenso. L’idea
è che in tutti i paesi del mondo il livello della fecondità converga, sia pure in tempi e
con modalità diverse, verso il magico valore di 2, dall’alto se hanno una fecondità
maggiore, dal basso se partono da un valore inferiore. Il grafico mostra le
conseguenze di questa ipotesi di convergenza utilizzando i soliti tre gruppi di paesi.
Grafico 13 – Tassi di fertilità totale in tre gruppi di paesi a diversa livello di
sviluppo; 1910/15-2095/2100 - variante intermedia
Fonte: elaborazione su dati UN DESA, World Population Prospects, The 2012 Revision
John: Spiega meglio.
Michele: S’ipotizza che nei paesi in cui il Tasso di fecondità totale sia superiore al
livello di rimpiazzo, la fecondità diminuisca progressivamente e possa anche scendere
sotto tale livello, ma poi, raggiunto un minimo, il trend s’inverta e la fecondità risalga
verso il valore di equilibrio. Qualora invece tale valore minimo sia stato già raggiunto,
la fecondità dovrebbe risalire verso due. Un esempio del primo caso è fornito dalla
Libia, dove la fecondità totale raggiunse un massimo di quasi 8 figli per donna verso
il 1980. E’ ora scesa a 2,38 e la Population Division ipotizza che scenda a un minimo
di 1,62 verso la metà del secolo per poi risalire a 1,81 nel 2100. Un tipico caso del
secondo tipo è quello della Cina che dal valore attuale di 1,66 119 dovrebbe
progressivamente risalire a 1,88 verso la fine del secolo.
Mario: L’idea di questo yoyo demografico è nuova?
Michele: Direi di sì. Nella precedente revisione, quella del 2010, si era ipotizzato
che la convergenza avvenisse sul valore di 1,85 il che, insieme alla progressiva
omogeneizzazione dei comportamenti riproduttivi, portava a prevedere una
progressiva riduzione della popolazione mondiale. Adesso siamo ritornati all’idea che
la convergenza si realizzi su di un valore di equilibrio e che quindi nel futuro la
popolazione mondiale si stabilizzerà attorno agli 11 miliardi.
Mario: Tu come la vedi?
119
Secondo gli ultimi dati censuari si tratterebbe di un dato in eccesso; si veda Zhao, Z. (2011), China’s far below
replacement fertility and its long-term impact. Demographic Research, 25, 819–836; Guo Zhigang e Gu
Baochang (2010), “China’s Low Fertility: Evidence from the 2010 Census”, Springer.
104
Michele: A me pare che, se non ci mettessimo i paraocchi dell’equilibrio e
guardassimo a quello che sta succedendo senza pregiudizi, emergerebbero tendenze
molto diverse da quelle ipotizzate dalla Population Division e che non darebbero
supporto all’ipotesi di una popolazione stabile. Demografi ben più preparati ed esperti
di me hanno già da tempo sollevato seri dubbi su di un ritorno a tempi brevi ad una
situazione di equilibrio demografico e sostenuto che ci troviamo in una situazione di
transito verso una massiccio calo della popolazione mondiale 120. Comunque, questo
equilibrio demografico mondiale, che dovrebbe essere raggiunto verso la fine del
secolo, sarebbe il risultato di una generalizzata situazione di disequilibrio a livello dei
singoli paesi e questo ci porta al punto più debole di tutta questa impalcatura
previsiva: le ipotesi sul processo migratorio. D’altra parte i demografi sono da sempre
consapevoli che le ipotesi sull’andamento delle migrazioni siano le più difficili da
formulare e le più deboli del modello previsivo da essi adottato.
John: E allora?
Le ipotesi sulla migratorietà
Michele: Negli ultimi quindici anni la Population Division ha esplorato e proposto
diverse ipotesi. La soluzione standard, prescelta per lungo tempo e comunque fino a
quando le proiezioni arrivavano al 2050, era che il livello dei flussi migratori
rimanesse uguale al valore medio del decennio precedente l’anno d’inizio. In
occasione delle proiezioni di lunghissimo periodo del 2004 –che si spingevano fino al
2300- s’ipotizzò che i saldi migratori fossero nulli a partire dal 2050. Nelle ultime due
proiezioni, quelle del 2010 e del 2012, con orizzonte al 2100, si è invece ipotizzato
che tra il 2050 e il 2100 i saldi migratori si riducano progressivamente fino ad
annullarsi.
John: Mi sembrano ipotesi caute e ragionevoli? Cos’è che non va?
Michele: Quasi tutto. Le proiezioni partono dall’assunto che il livello futuro della
popolazione dipenda dall’andamento di tre variabili: nati, morti e saldo migratorio. I
demografi non si chiedono che cosa spieghi il livello e le tendenze di queste variabili,
ma si limitano a utilizzare i dati storici per stimare i loro valori futuri. Inoltre, ognuna
delle tre variabili è proiettata separatamente. In sostanza, s’ipotizza che non vi sia
alcuna relazione tra di esse -ad esempio tra diminuzioni o aumenti della popolazione e
flussi migratori o tra flussi migratori e fecondità- o che tali relazioni siano incorporate
nei dati passati. Infine, mentre per nati e morti si tiene conto delle tendenze presenti
nei dati storici, nel caso dei saldi migratori il valore utilizzato è mantenuto costante
per una quarantina d’anni e poi portato progressivamente a zero per la fine del secolo.
Mario: Insomma, stai dicendo che poiché non si sa da che cosa dipenda il numero
dei nati e dei morti, si prendono i valori passati, si tira una riga in mezzo e la si
prolunga?
Michele: In sostanza sì, anche se per tirare quella riga si usano sistemi super
complicati, resi possibili solo dalla potenza degli attuali computer. Tenete poi
presente che nel caso della fecondità si usa il freno a mano per bloccare la decrescita
demografica. Tuttavia, per quanto riguarda nati e morti non ho sostanziali obiezioni a
una estrapolazione che arrivi a 30, 50 anni dato che si tratta in entrambi i casi di
120
Coale Ansley J. (1986), “Demographic effects of below-replacement fertility and their social implications in
Kingley Davis e altri, Below Replacement Fertility in Industrial Societies: Causes, Consequences, Policies,
Population and Development Review, Supplement to Vol. 12, New York, Population Council.
105
variabili lente e che, in assenza di eventi drammatici e comunque non prevedibili,
non presentano particolari sussulti. E poi non esistono alternative.
Mario: Tornando ai saldi migratori, tu pensi che in questo caso il passato non sia
un buon indicatore del futuro.
Michele: Sicuramente no. In secondo luogo credo che non sia realistico ipotizzare
che i flussi migratori crolleranno durante la seconda metà del secolo. Infine, credo che
le migrazioni dipendano anche dalle tendenze demografiche, mentre fecondità e
mortalità sono certamente influenzate dal livello e dalla tipologia dei flussi migratori.
In sostanza sono convinto che la spiegazione dei flussi migratori vada ricercata in
un’analisi delle interrelazione tra variabili demografiche e variabili economiche.
Li: Comunque, se tu ci raccontassi cosa è successo ai flussi migratori, anche noi
potremmo confrontare le tendenze degli ultimi 50, 60 anni con quelle ipotizzate dalle
Nazioni Unite.
Le grandi tendenze dei flussi migratori
Michele: I saldi migratori internazionali hanno subito grossi cambiamenti. Il primo
è uno straordinario aumento del livello: si è passati da poco più di un milione
d’immigrati all’anno, all’inizio degli anni 1950, a più di sei milioni nell’ultimo
quinquennio così che, secondo le più recenti valutazioni, nel mondo vi sarebbero circa
233 milioni di emigrati. A parte il picco del 1990-95, dovuto alla caduta del muro di
Berlino, l’aumento è stato regolare e progressivo. Quindi, ipotizzare che i saldi
migratori rimangano costanti per i prossimi quaranta anni e poi diminuiscano è in
totale contrasto con le tendenze degli ultimi sessanta anni.
Mario: D’altra parte; se le migrazioni internazionali continuassero ad aumentare ai
ritmi attuali si arriverebbe a trenta milioni di migranti all’anno verso la metà del
secolo e questo mi sembra un risultato non politicamente corretto.
Michele: Sembrano tanti, ma potrebbe essere il numero giusto. Il secondo
fenomeno è stato un aumento più che proporzionale delle migrazioni intercontinentali
che, nello stesso periodo, sono cresciute da 6,3 milioni nel decennio 1950-60 a 33,2
milioni nel decennio 2000-2010. L’incidenza delle migrazioni intercontinentali è così
cresciuta dal 48 al 55 per cento. Infine, si è registrato un cambiamento molto
pronunciato nella struttura geografica delle partenze e delle destinazioni. Tra il 1950 e
il 1960 i flussi intercontinentali furono generati, in ordine d’importanza, da Europa,
Africa e Sud America, mentre i principali paesi di arrivo furono i paesi del Nuovo
Mondo (gli Stati Uniti, il Canada, l’Australia e la Nuova Zelanda) e l’Asia. Tra il
2000 e il 2010, le partenze sono state generate soprattutto dall’Asia, dall’America
centrale e meridionale e dall’Africa, mentre l’Europa, i paesi del Nuovo Mondo e i
paesi del Golfo sono stati le principali aree di arrivo. Pertanto, in sessanta anni,
l’Europa è passata da essere il principale fornitore di manodopera del mondo a essere
il principale importatore, mentre dal lato dell’offerta l’Asia ha preso il posto
dell’Europa.
Mario: Insomma, livello e direzione dei flussi migratori possono cambiare in
maniera sostanziale anche in tempi brevi.
Michele: Non vi è alcun dubbio. Gli esempi non mancano. Nel corso degli anni
‘70, il saldo migratorio d’Italia, Spagna, Portogallo e Grecia divenne negativo e questi
paesi, che erano stati per oltre cento anni tra i principali esportatori di manodopera,
106
sono ora ai primi posti della classifica dei principali paesi importatori. Pensate che tra
il 1950 e il 1970 gli stessi paesi esportarono 2 milioni e mezzo di persone, mentre tra
il 1990 e il 2010 ne hanno importate quasi 12 milioni.
Grafico 14 – Numero totale d’immigrati internazionali e d’immigrati
intercontinentali; valori quinquennali in milioni dal 1950-55 al 2005-10
Fonte: elaborazione su dati UN DESA, World Population Prospects, The 2012 Revision
Tavola 6 – Numero dei paesi di arrivo e di partenza; immigrati ed emigrati per
continente in milioni; 1950-60 e 2000-10
Fonte: elaborazione su dati UNDESA, World Population Prospects, The 2012 Revision
Tavola 7 – Grecia, Italia, Portogallo e Spagna; saldi migratori in due periodi:
1950-1970 e 1990-2010
107
Fonte: elaborazione su dati UN DESA, World Population Prospects, The 2012 Revision
Li: Forse si è trattato di un caso isolato e particolare.
Michele: Assolutamente no. Negli anni successivi Russia, Repubblica Ceca,
Ungheria, Irlanda, Slovenia, Malta e Cipro hanno registrato lo stesso fenomeno,
mentre la Repubblica Moldova si è trasformata da paese importatore di manodopera
in paese esportatore.
John: A questo punto si deve dedurre che in tutti questi paesi è successo qualcosa
di simile che ha causato questa radicale trasformazione. Una volta noto il
meccanismo, lo potremmo usare per formulare delle ipotesi più realistiche sul futuro
andamento dei flussi migratori.
Michele: Stai dicendo che invece di fare proiezioni meccaniche delle serie storiche
dei flussi migratori, immaginando che essi avvengano nel vuoto, dovremmo utilizzare
un modello?
John: Esattamente
Michele: Vedo che i tuoi studi di economia hanno “plasmato” la tua mente. Ma c’è
un problema: tale modello non è disponibile.
Modelli economici e modelli demografici dei flussi migratori
John: Stai scherzando. Anch’io ho studiato dei modelli economici dei flussi
migratori. E poi, anche i demografi avranno le loro idee a proposito.
Michele: Fammi riassumere brevemente la situazione, partendo da una breve
rassegna della impostazione dei modelli economici. Le caratteristiche fondamentali
del marginalismo -che rappresenta il pensiero economico prevalente- sono
l’atomismo, il razionalismo e l’edonismo. Per dirla in maniera che non faccia subito
arrabbiare Mario e Li, esso si basa sull’analisi del comportamento dei singoli attori
economici, siano essi consumatori, imprenditori o lavoratori. Il marginalismo ipotizza
che le loro scelte siano guidate dalla razionalità, siano cioè volte a massimizzare un
qualche obiettivo, e che l’obiettivo che essi perseguono sia il “piacere”. Le teorie
sull’immigrazione non fanno eccezione. Gli economisti scoprirono questo tema solo
negli anni 50, proprio col lavoro di Lewis del quale abbiamo già parlato, nel quale le
“migrazioni” dal settore arretrato verso il settore moderno costituiscono allo stesso
tempo un meccanismo di sviluppo e di riequilibrio. Semplificando al massimo, la
teoria economica immagina che il potenziale migrante faccia un confronto fra la
situazione nella quale si troverebbe rimanendo nel proprio paese e quella nella quale
si troverebbe emigrando. Affinché tale scelta possa attuarsi in maniera razionale, il
modello ipotizza perfetta conoscenza. Il progetto migratorio verrà attuato nel caso in
cui egli giunga alla conclusione che l’emigrazione produca un aumento del suo
benessere. Il modello economico suggerisce, quindi, che gli emigranti tendano a
spostarsi nei paesi nei quali i salari e i redditi sono più elevati, dove la probabilità di
trovare lavoro è maggiore, dove le prospettive per il futuro delle loro famiglie sono
migliori. Quindi, i differenziali di benessere, sviluppo e disoccupazione sono le
determinanti principali della decisione di emigrare.
John: Tutto ciò mi sembra molto ragionevole.
108
Michele: E’ proprio questo il problema. Il fatto che una cosa sia ragionevole non
significa che sia giusta. Credo sia sempre opportuno guardarsi dalle cose troppo ovvie
e, a dire il vero, molto banali come quelle che ho appena enunciato.
John: Io non ho niente contro l'ovvietà.
Michele: Purtroppo cose che sembrano ragionevoli e innocue hanno talvolta
implicazioni e conseguenze non immediatamente evidenti. Se sono spiegate dal lato
dell’offerta, le migrazioni non sono altro che una fuga dalla mancanza di lavoro e
dalla miseria, dalla degradazione sociale, economica e politica generata dal
sottosviluppo e la decisione di migrare risponde all’interesse dei migranti, non a
quelle dei paesi di arrivo. Questa visione ha fortemente contribuito a presentare
l’immigrazione come un’invasione di persone che, quando non sono dei criminali,
come minimo rubano il lavoro ai cittadini dei paesi di arrivo; in sostanza, a dipingere
l’immigrazione come un pericolo e come una minaccia. Pertanto, il pensiero
economico prevalente ha condizionato in maniera negativa l’atteggiamento di molti
nei confronti degli immigrati. Nella peggiore delle ipotesi, è alla base di posizione
xenofobe e razziste; nei casi migliori, suggerisce atteggiamenti buonisti. Se in buona
fede siamo convinti che gli immigrati siano dei poveretti che fuggono dalla fame e
dalla miseria e siamo persone generose e di buon cuore cercheremo di aiutarli per
quanto possiamo; ma è però normale che, prima o poi, specialmente se si creano
situazioni particolari e di emergenza che ci danneggiano, stanchezza e rabbia
finiscano con l’affiorare. E allora ci sarà sempre qualche politico che, interpretando il
pensiero di buona parte di una popolazione disinformata e facendo ricorso al suo
maggior buon gusto e alle sue superiori qualità linguistiche, esclami: “Fora di ball” 121.
Per quanto riguarda le politiche poi, questa visione suggerisce che è giusto che un
paese faccia tutto il necessario per fermare l’invasione.
John: Questa tua lettura del modello è interessante. Tuttavia non basta per
dimostrare che le cose non funzionino così.
Mario: Questa impostazione non è di stampo liberista?
Michele: Certamente. Essa si basa sull’idea che la società sia una somma
d’individui e che i comportamenti globali (non solo migrazioni, ma anche consumi,
produzione, investimenti) siano la somma di comportamenti individuali. In
conclusione, ciò che spiega il comportamento del singolo, spiega anche il
comportamento globale. Ovviamente, così facendo, questa tesi nega (o per lo meno
nasconde) che i flussi migratori siano un fenomeno demografico, economico e sociale
estremamente complesso.
John: Ma il liberismo non è favorevole alla libera circolazione dei prodotti e dei
fattori di produzione e considera questa una condizione necessaria e indispensabile
per lo sviluppo e la crescita economica?
Michele: E’ vero. Il modello neoclassico sostiene che i flussi migratori tendano a
generare condizioni di equilibrio tra paesi di partenza e paesi di arrivo. Riducendo
l’offerta di lavoro delle zone di partenza e aumentando l’offerta delle zone di arrivo,
essi contribuiscono a livellare salari e costi del lavoro, mentre il trasferimento di
rimesse favorisce la crescita economica dei paesi di partenza.
Mario: Quindi i paesi capitalisti dovrebbero essere favorevoli ai flussi migratori,
assicurarsi che il passaggio delle loro frontiere non presenti difficoltà e, qualora vi
121
La Repubblica, 29 marzo 2011
109
fossero ostacoli, rimuoverli. Gli imprenditori dovrebbero sostenere questa politica che
renderebbe le loro imprese più competitive e contribuirebbe a creare mercati di
sbocco per le loro merci.
Michele: Cosa vuoi che ti dica. A volte la carne è debole e la paura di essere invasi
dai diseredati della terra ha sempre prevalso, spingendo tutti i governi dei paesi di
arrivo a stabilire quote ed elevare muri. Insomma, i dirigenti dei paesi di arrivo sono
convinti che gli abitanti dei paesi poveri siano irrazionali, mentre nei loro paesi sia la
razionalità a prevalere.
Li: Ma tu credi veramente che se le frontiere fossero aperte non saremmo invasi? I
poveri del mondo sono tanti.
Michele: Credo che ci siano tutte le evidenze necessarie per sostenere che se le
frontiere fossero aperte il numero degli immigrati sarebbe su per giù uguale a quello
che si ha con tutti i divieti messi in essere dai vari paesi del mondo.
John: Non mi convinci.
Michele: In primo luogo è evidente, come sostiene anche il modello neoclassico,
che gli emigranti economici vanno dove esiste una maggiore probabilità di trovare
lavoro. In secondo luogo, se guardi il mercato del lavoro dei paesi d’arrivo, vedrai che
il tasso di disoccupazione degli immigrati non è mai di molto superiore a quello dei
residenti. In sostanza, i migranti vanno dove c’è lavoro e lo fanno in una misura
corretta. Fra l’altro questa è la tesi sostenuta ormai da molto tempo da Nigel Harris,
uno dei più interessanti studiosi inglesi d’immigrazione 122.
John: Quindi il modello neoclassico potrebbe eventualmente spiegare le partenze.
Michele: Eventualmente. Ma la domanda dirimente è se esso possa essere
utilizzato per fare previsioni; vale a dire se esso consenta di stimare i flussi in uscita
dai paesi di partenza e, cosa ancora più importante, la loro distribuzione tra i paesi di
arrivo. In questo momento in Italia, ma anche in altri paesi europei, vi sono persone
che provengono da circa 200 paesi. Anche volendoci limitare ai principali, si
tratterebbe pur sempre di svolgere l’analisi presso una decina di paesi di partenza.
Supponiamo, ad esempio, di voler studiare i flussi in uscita dalle Filippine. Per farlo
in maniera corretta, dovremmo disporre di serie storiche delle partenze totali e per
destinazione e poi metterle in relazione con gli indicatori dei paesi di arrivo,
rapportati agli indicatori delle Filippine. Ti posso subito dire che queste informazioni
statistiche non sono disponibili e che se lo fossero richiederebbero comunque un
grossissimo lavoro di omogeneizzazione. D’altra parte, che la situazione sia questa lo
dimostra il fatto che, a mia conoscenza, di studi di questo genere non ve ne sono. La
conclusione è che se il modello non può essere stimato su dati retrospettivi, non è
possibile utilizzarlo per fare previsioni.
John: Stai dicendo che, al di là della sua validità teorica che sembra tu consideri se
non proprio nulla comunque molto modesta, il modello neoclassico non consente di
stimare il livello delle partenze e la distribuzione per paese di sbocco perché le
informazioni statistiche necessarie non sono disponibili?
Michele: Esattamente. E, prendendo sempre come esempio l'Italia, in assenza di
stime che ci dicano come varia il numero di filippini, albanesi, ecuadoregni, ecc. che
vogliono venire nel nostro paese al variare, ad esempio, dei relativi differenziali del
122
Nigel Harris (2000), I Nuovi Intoccabili, Il Saggiatore, Milano
110
tasso di disoccupazione o di reddito pro-capite, non potremo costruire non solo delle
previsioni, ma neppure degli scenari degli arrivi. Va anche sottolineato che il numero
di filippini che decidono di venire in Italia non dipende solo dal variare della
condizioni relative dei due paesi, ma anche delle condizioni economiche degli altri
paesi potenziali di sbocco. A questo punto, dovrebbe essere evidente che un modello,
giusto o sbagliato che sia, che fornisce una spiegazione delle migrazione dal lato
dell’offerta è comunque inutilizzabile per costruire scenari degli arrivi nei singoli
paesi di destinazione. A mio avviso, l’unico risultato che questi modelli hanno
raggiunto è stato quello di proporre una visione dei flussi migratori errata e dannosa
sia per i paesi di partenza, sia per quelli di arrivo.
John: E i demografi?
Michele: Come abbiamo visto, le migrazioni fanno parte dell’agenda degli
economisti da una sessantina anni; invece, esse sono da sempre uno dei temi centrali
della demografia così che in tema di migrazioni la voce dei demografi è ancora la più
autorevole e la più ascoltata dai politici. L’obiettivo principale della demografia è
quello di descrivere e “spiegare” l’evoluzione delle popolazioni. Lo strumento di base
è il cosiddetto bilancio demografico che “spiega” la variazione del livello di una
popolazione come risultante di flussi di entrata e di uscita dovuti, da un lato, a
fenomeni naturali (nascita e morte) e, dall’altro, ai movimenti delle persone da
un’area geografica ad un’altra (emigrazione ed immigrazione). In sostanza, la
variazione della popolazione in un dato intervallo temporale è “spiegata”, da un lato,
dalla differenza tra nascite e morti (saldo naturale) e, dall’altro, dalla differenza tra
immigrati ed emigrati (saldo migratorio).
Mario: Questo è quello che ci hai già detto quando abbiamo parlato della
metodologia previsiva, ma suppongo che si tratti solo del primo livello di
“spiegazione”.
Michele: I demografi spiegano l’andamento delle nascite con l’andamento della
fecondità e del numero delle donne in età fertile e l’andamento delle morti con la
struttura della popolazione per classi di età e coi tassi di mortalità. In sostanza, la
demografia è una disciplina eminentemente descrittiva e non ha mai sviluppato
modelli che spieghino i flussi migratori, ma si è da sempre limitata a descrivere il
fenomeno dandone, per altro, interpretazioni diverse a seconda dei contesti e delle fasi
storiche. Tuttavia, la “teoria” demografica delle migrazioni condivide, in maniera più
o meno esplicita, numerosi elementi dell’impostazione economica. In primo luogo, il
contesto liberista e quindi l’interesse prioritario per l’analisi delle decisioni
individuali di partenza. Anche le analisi demografiche tendono poi a vedere i flussi
migratori come elementi di riequilibrio delle situazioni demo-economiche dei vari
paesi. La situazione tipica è quella in cui cause di ordine demografico ed economico
portano alla costituzione di un eccesso di popolazione che non può trovare sbocco nel
mercato locale del lavoro o che comunque non trova sostentamento nel processo
economico dell’area di residenza. A questo punto s’ipotizza che, come in un sistema
di vasi comunicanti, l’acqua si riversi dai bacini con un livello più elevato a quelli in
cui il livello è più basso finché i livelli non si siano eguagliati. Così una parte delle
persone che vivono in paesi caratterizzati da un eccesso relativo di popolazione è
soggetta a una pressione che spinge una parte dei suoi componenti ad emigrare verso
altri paesi dove la popolazione è relativamente carente. In sostanza, i demografi
ritengono che i flussi migratori siano attivati da una crescita demografica non
111
accompagnata da un’adeguata crescita economica, cioè da un eccesso di offerta di
lavoro.
John: E’ cosi che sono state spiegate le grandi migrazioni del XIX secolo?
Michele: Si. E’ stato sostenuto che le migrazioni intercontinentali del secolo
scorso furono attivate dall’accumularsi nelle campagne Europee, tra il 1870 e l’inizio
della prima guerra mondiale, di un’offerta di lavoro che eccedeva largamente il
fabbisogno di lavoro generato dal processo d’industrializzazione che si stava attuando
nelle città. Analogamente si è sostenuto che l’inizio del grande esodo migratorio
dall’Italia fosse stato causato da una situazione di eccesso di offerta di lavoro
provocato, da un lato, dalla crescita demografica e, dall’altro, dalla crisi agraria del
1880.
Mario: Quindi, anche i demografi spiegano le migrazioni dal lato dell’offerta?
Michele: Vi sono anche analisi attente alla situazione delle zone e dei paesi di
arrivo e quindi al ruolo dell’attrazione dovuto alla carenza di lavoro. In generale,
tuttavia, è il ruolo della sovrappopolazione e dell’eccesso di offerta a prevalere e la
domanda di lavoro non svolge mai un ruolo paritetico a quello dell’eccesso di offerta.
Va tuttavia riconosciuto che le analisi dei demografi sono più articolate di quelle degli
economisti, anche se molto meno formalizzate e spesso inclini a spiegazioni ad hoc e
contingenti.
Mario: In conclusione ci stai dicendo che i demografi non dispongono di modelli
che spieghino le migrazioni, mentre gli economisti hanno i modelli, ma questi modelli
potrebbero eventualmente spiegare le partenze, ma non gli arrivi e comunque non vi
sono i dati per stimarli.
Michele: Proprio così.
John: Senti, comunque vada la tua rimane una tesi anomala che credo tu ci debba
provare partendo da quello che dicevamo prima e cioè mostrandoci che è la domanda
che spiega le tendenze dei saldi migratori e le modifiche nella struttura delle partenze
e degli arrivi.
Michele: E’ quello che intendo fare anche perché è su questa impostazione che si
basa la possibilità di formulare proiezioni realistiche dei flussi migratori e quindi
creare scenari demografici credibili.
Li: Ragazzi, io ne avrei abbastanza di demografia; è ora di cominciare il nostro
cenone di capodanno. La tavola e pronta, manca solo il cibo.
Mario: Ma quanta roba hai preparato!
Li: Per noi il cenone di capodanno è una cosa seria, voi direste una grande
abbuffata. Aiutatemi a portare tutto in tavola e intanto vi spiego.
112
Nonostante le certezze di molti autori che si occupano di
questo argomento, non ho trovato alcun elemento
convincente per asserire che sono le privazioni a spingere la
massa dei lavoratori emigranti (distinti dai rifugiati) a lasciare
i propri paesi, mentre abbondano i riscontri del fatto che il
movimento e la sua composizione (per qualifiche,
educazione, sesso, ecc.) sono fortemente sensibili alla
domanda di lavoro nei paesi di destinazione.
Nigel Harris, I nuovi intoccabili, pag. 11
Quinto dialogo Un modello stock flussi del mercato del lavoro.
Una pizzeria nel centro di Bologna la città dove Michele vive ormai da un paio d’anni con
la famiglia.
A proposito di tortelloni, ricotta e governo delle larghe intese
Li: Vada per la pizza, ma la prossima volta si torna a mangiare cinese.
John: Il tuo cenone di capodanno è stato fantastico, ma per me una buona bistecca rimane
il massimo. Mi hanno appena detto che a Bologna c’è un nuovo ristorante argentino e non mi
dispiacerebbe provare le sue bistecche.
Michele: Ma allora sarebbe meglio organizzare una gita in Valdichiana e farsi una bella
fiorentina.
Mario: Lo sapevate che
Li: ci risiamo..
Mario: .. la Chianina è una delle razze bovine più antiche ed è stata descritta da Columella
123
già nel 55 a.C.?
Li: No, e adesso che lo so mi sento veramente molto meglio.
Mario: Comunque, io penso che dovremmo evitare la carne. Se mangiassimo le calorie
corrispondenti in verdura, cereali e frutta risparmieremmo denaro, staremmo meglio,
faremmo il bene delle mucche e, soprattutto, non devasteremmo l'ambiente.
Michele: Risalire la scala alimentare è certamente una mossa intelligente, ma io sono un
animale carnivoro. Comunque, questa sera sono disposto a venire incontro ai desideri di
Mario e a sacrificarmi ordinando un piatto di tortelloni burro e oro. Qui la pasta è fatta a
mano e la cuoca appartiene alla scuola di pensiero che per il ripieno usa gli spinaci e non il
prezzemolo, proprio come faceva mia nonna. La ricotta, poi, la comprano direttamente da uno
dei pochi pastori che vive ancora nei dintorni. Credo venga dal Marocco (il pastore, non la
ricotta). Trent'anni fa, al massimo sarebbe venuto dalla Sardegna. Un altro esempio di come
le tendenze demografiche ed economiche modifichino costantemente il livello e la direzione
dei flussi migratori!
123
L. Iunius Moderatus Columella, c.55 a.C, De Re Rustica, Liber Sextus
113
Mario: Che palle con questi tortelloni. Non so quante volte ci hai parlato dei tortelloni che
fanno in quel ristorante, vicino al tuo paese natale, dal nome un po’ enigmatico: Al Bivio.
Michele: Niente di enigmatico o ambiguo; semplice descrizione del contesto stradale.
Purtroppo la nuova gestione per quanto buona non è al livello della precedente.
John che non si lascia facilmente distrarre da diatribe in tema di tortelloni, tortellini,
ecc: Il problema sta tutto nell'esplosione demografica e nella crescente povertà di tanti paesi
dell’Africa e dell’Asia.
Mario: Vedo che siete “casualmente” ritornati al punto nel quale ci eravamo lasciati.
Li: Prima di cominciare a bisticciare, ordiniamo. Come diceva Confucio, si discute meglio
con la pancia piena. Avete scelto?
Convinti da questa perla di saggezza orientale:
Michele: Confermo i tortelloni burro e oro.
John: Io mi faccio una pizza speciale gigante.
Mario: Per me un’ortolana.
Li: Per me spaghetti allo scoglio.
John: Che cosa beviamo? Birra, prosecco o, meglio, ancora, un bianco di Napa Valley?
Alla fine quelli che hanno scelto pizza ordinano birra, gli altri un buon prosecco che anche
il resto della compagnia non disdegna come aperitivo.
Mario: Dopo l’ultima chiacchierata mi è tornato in mente quello che ho letto sui giornali e
ho visto negli ultimi anni in televisione in tema di migrazioni. Si tratta soprattutto d’immagini
di disperati in fuga dalla miseria e dalla degradazione sociale, di gommoni e battelli
sovraccarichi di uomini, donne e bambini, del villaggio vacanze a cinque stelle organizzato
per loro a Lampedusa dal nostro Ministero degli Interni, di selvaggi assalti a ville venete e
lombarde da parte di affiliati alle mafie albanesi e serbe, di accoltellamenti nella Chinatown
milanese. Ben poche le analisi sulle ragioni della presenza in Italia di milioni d’immigrati che
non siano basate sull’idea della fuga dalla miseria e facciano riferimento a un fabbisogno del
nostro mercato del lavoro, a parte alcune denunce della mancanza di badanti e infermiere.
Non ricordo di aver udito nessuno affermare che gli immigrati sono qui semplicemente
perché il nostro sistema produttivo ne ha bisogno.
John: A me questa tesi non convince e prima che io l’accetti deve argomentarla molto
meglio, dati alla mano.
Michele: Facciamo così. Vi proporrò la mia tesi e poi proverò di convincervi con un
pizzico di storia, il tutto condito da statistiche quanto basta. L’unico rischio è che poi la pizza
vi rimanga sullo stomaco.
Li: Ok; minimizziamo il rischio; racconta la tua tesi prima che ci servano.
Michele: Non so se c’è il tempo perché prima bisogna che vi racconti come funziona il
mercato del lavoro. Comunque, diciamo al cameriere che aspetti un po’ a portarci i primi e, se
proprio non ce la facciamo, sarà per la prossima volta.
Li, vedendo Michele aprire il suo zaino arancione: Bisogna rassegnarsi. Mai che se lo
dimentichi. Approfittiamone per brindare alla formazione del governo delle larghe intese.
114
Michele, tirando fuori il computer dallo zaino: Prepariamoci al peggio!
Mario: Non vedo che cosa ci sia da festeggiare! Andare al governo con Berlusconi non
può certo portarci ai cambiamenti radicali dei quali il nostro paese ha bisogno. Questo è, tutto
sommato, un governo democristiano. Avrei preferito che i grillini facessero un atto di
responsabilità e di realismo e si alleassero con la sinistra.
John: Non sarebbe stato coerente con il loro programma elettorale. Inoltre anche la
politica è un mestiere e, come tutti i mestieri, richiede professionalità.
Mario: A volte rimpiango i democristiani di una volta. E’ morto anche Andreotti. C’è
rimasto solo Cirino Pomicino che vedo spesso al mattino su la Sette: un grande.
Michele mentre cerca una presa, attacca il computer e lo accende: Un pateracchio che ci
consentirà di bordeggiare, ma non di uscire dalla crisi nella quale ci troviamo; che terrà i conti
in ordine e ci farà sembrare dei bravi ragazzi all’occhio della Unione economica europea e
della culona tedesca la quale vincerà le elezioni giocando sul doppio standard: guanto di
velluto per i suoi elettori, guanto di ferro per gli sfaticati del sud.
John: Un po’ di rispetto verso una statista di calibro che sta conducendo con mano salda il
suo paese e l’Europa verso un futuro migliore.
Mario: Sul calibro non ci sono dubbi! Sull’incapacità di comprendere i bisogni
dell’economia europea solo certezze! Le economie del sud dell’Europa non possono
rimettersi su di un solido sentiero di crescita se i consumatori sono obbligati a ridurre i
consumi e le aziende non hanno liquidità per investire.
Il modello stock-flussi
Michele: Torniamo a noi. Sono pronto. La figura che vedete sullo schermo del mio
computer ci può aiutare prima di tutto a capire come funzioni il mercato del lavoro e poi a
spiegare i flussi migratori e costruire una metodologia per “prevederli”.
Mario: Miracoloso! Un disegno molto carino, ma per il momento non ci vedo tutte le cose
che hai detto.
Michele: Fatemi spiegare. Anche se a prima vista può non essere del tutto evidente, quella
che avete davanti a voi è una rappresentazione della vita umana.
John: Non l’avrei mai detto!
115
Le fasi della vita
Michele: Piantatela di fare gli spiritosi. Un po’ di rispetto per la scienza con la S
maiuscola. Il rettangolo rappresenta la popolazione di un paese ed è diviso in tre parti che si
riferiscono alle tre fasi fondamentali della vita umana vista da una prospettiva economica: la
fase formativa, la fase lavorativa, la fase post lavorativa.
Mario: Insomma se mentre andavi a Tebe, tu avessi incontrato la Sfinge, l’avresti
sgamata.
Li: State parlando per enigmi.
Michele: Hai detto la parola giusta: enigma. Mario sta delicatamente insinuando che la
mia non è una gran trovata, dato che anche la Sfinge e Edipo, che vissero su per giù 3.000
anni fa, lo sapevano.
Li: Sapevano cosa? E chi erano la Sfinge e Edipo?
Mario: La Sfinge era una leonessa alata con la testa umana. Se ne stava appollaiata su di
una roccia che sovrastava la strada che conduceva a Tebe. Era un po’ come il vostro Nian, ma
più intellettuale. La Sfinge poneva a tutti quelli che volevano entrare in Tebe il seguente
indovinello: “Qual è l’animale che la mattina cammina a quattro zampe, a mezzogiorno con
due e alla sera con tre?” Chi non sapeva la risposta non prendeva un brutto voto, ma veniva
mangiato e ciò non aiutava le attività commerciali e turistiche di Tebe. Il re della città,
Creonte, promise il trono e la mano della sorella Giocasta a chi avesse saputo rispondere al
quesito della Sfinge. Ci riuscì un certo Edipo che così divenne re di Tebe e sposò Giocasta.
Li: Tutto è bene ciò che finisce bene!
Michele: In questo caso non fu proprio cosi perché Edipo -che senza saperlo aveva già
fatto fuori suo padre- sposò Giocasta che era sua madre, cosa che fu poi fonte di altri terribili
disastri, ma qualche millennio dopo offrì la possibilità prima a Freud e poi a Jung di parlare
del complesso di Edipo.
Li: Ragazzi, non state migliorando la situazione. Limitatevi a dirmi che rapporto c’è tra la
Sfinge e il grafico di Michele.
116
Mario: Beh, la risposta all’enigma della Sfinge è l’uomo che da bambino gattona, quando
è adulto, cammina su due piedi e quando è vecchio, si aiuta con un bastone. Il punto è che sia
la Sfinge, sia Edipo avevano già chiaro che l’uomo nel corso della vita attraversa tre fasi.
Michele: Posso continuare? Grazie. La vita umana fluisce continua al ritmo che il tempo
ha sul nostro pianeta. Viviamo nel continuo 124, ma per capire e interpretare la storia abbiamo
bisogno di tracciare barriere temporali, creare discontinuità. Così, fin dai tempi più antichi, la
vita umana è stata percepita come una successione di fasi, ritmate da discontinuità biologiche
e caratterizzate da diversi ambiti di attività, diritti e doveri, definiti e regolati da consuetudini,
norme e prassi.
Mario: Quasi poetico e un po’ aulico!
Michele: E’ un argomento che m’ispira. A meno di spiacevoli incidenti di percorso, tutti
gli uomini attraversano, sospinti dal trascorrere del tempo, le tre fasi. La fase formativa è la
fase della socializzazione, della crescita fisica, della maturazione psicologica.
John: Beh, è la fase in cui ognuno di noi costruisce il proprio capitale umano.
Michele: Certamente, dopo aver preso carta e matita e aver eseguito un attento confronto
125
tra varie alternative per decidere razionalmente se prendere la terza asilo o un dottorato . La
fase formativa dovrebbe essere dedicata ad apprendere le cose necessarie a divenire degli
adulti psicologicamente maturi e dei buoni cittadini. Gli aspetti produttivi, l’apprendimento di
competenze coerenti con le nostre capacità e aspirazioni hanno una grande importanza
individuale e sociale solo se inserite in un contesto formativo che premi gli aspetti
psicologici, sociali e culturali. Buttarla tutta sull’aspetto economico mi sembra a dir poco
riduttivo e svilente vista la complessità della natura umana. Poi questa terminologia “capitale
umano” non mi va giù.
Mario: Sapete, l’altra settimana sono andato in banca a chiedere un prestito. Il direttore mi
ha detto che c’era bisogno di garanzie; io gli ho detto che avevo un notevole capitale umano,
un paio di lauree e molta esperienza. Mi ha guardato per un attimo e poi, forse sospettando un
Alzheimer precoce, mi ha accompagnato gentilmente alla porta. Appena uscito, mi è
sembrato di sentirlo sghignazzare in maniera scomposta insieme agli altri impiegati.
Michele (trascurando l’interruzione): La fase lavorativa è la fase della maturità, durante
la quale gli uomini si costruiscono una famiglia, si riproducono e danno vita ai più importanti
giuochi di potere e d’interazione sociale. E’ agli individui in questa fase che è affidata la
sopravvivenza e il miglioramento delle condizioni socio-economiche del loro paese. Nelle
società tradizionali la fase post-lavorativa era la fase della saggezza e i pochi che la
raggiungevano erano altamente rispettati. Le cose stanno cambiando rapidamente. Il numero
degli anziani è in rapida crescita e le pantere grigie stanno perdendo il loro fascino in una
società in cui l’anziano è sempre più uno scarto, magari per un po’ riciclato come babysitter e
incaricato della manutenzione ordinaria della famiglia, ma poi da rottamare non appena la sua
produttività si riduce. A livello sociale poi, gli anziani sono percepiti sempre più come un
124
Di fatto non sappiamo ancora se vi sia una quantità minima di tempo. Comunque sia, non è un problema di cui
preoccuparci troppo.
125
Il concetto di capitale umano fu discusso per la prima volta da A. C. Pigou nell’ormai lontano 1928 per essere
poi introdotto nel contesto neoclassico da Jacob Mincer (“Investment in Human Capital and Personal Income
Distribution”, Journal of Political Economy, 1958). Ma la sua consacrazione come uno dei capisaldi del pensiero
neoclassico si ebbe con la pubblicazione nel 1964 del libro Human Capital da parte di Gary Becker. Becker vinse
il premio Nobel nel 1992 per aver ampliato il campo della macroeconomia a un ampio spettro di comportamenti e
interazioni umane anche al di fuori dell’ambito di mercato.
117
peso e un pericolo per i costi crescenti che la comunità deve sopportare per pagare loro
pensioni e assistenza medica.
John: Ehi mi sembri un po’ troppo coinvolto in questa discussione sugli anziani.
Michele: Figurati. Ho appena fatto il primo tagliando.
John: Forse hai perso il conto.
Michele: Non mi disturbate che se no arrivano i tortelloni mentre siamo sul più bello.
Notate che il rettangolo della fase lavorativa include delle ripartizioni ulteriori che mettono in
evidenza le forze di lavoro e le non forze di lavoro e che le forze di lavoro sono ulteriormente
divise in occupati, persone in cerca di prima occupazione e disoccupati.
Mario: Insomma, le persone in età lavorativa possono o lavorare o cercare lavoro o essere
fuori dal mercato del lavoro e dedicarsi allo studio, ai lavori domestici, e c’è sicuramente
anche qualcuno che vive di rendita.
Popolazione, condizioni socio - economiche e passaggi di condizione.
Michele: I censimenti e altre rilevazioni misurano la dimensione della popolazione totale e
delle sub-popolazioni nelle condizioni socio-economiche che ho appena elencato. Ci dicono
quanti sono gli abitanti di un paese (l’area del rettangolo), quanti di loro sono studenti,
occupati, persone in cerca di occupazione, oltre a fornircene la struttura per sesso e classe di
età. Insomma, i censimenti fotografano il livello e la struttura della popolazione di un paese in
un dato istante di tempo.
Li: Fin qui ci sono. Adesso però m’incuriosiscono tutte quelle frecce che hai messo nel tuo
grafico.
Michele: Le frecce rappresentano i flussi che collegano le sub-popolazioni e che
determinano il loro continuo divenire, i loro cambiamenti quantitativi e qualitativi.
Mario: Suppongo che tu stia usando il termine popolazione nella sua accezione tecnica.
Michele: Sì; una popolazione è un insieme d’individui che vivono su di un determinato
territorio e condividono una qualche caratteristica. Si tratta, tuttavia, di un concetto molto
generale che può essere utilizzato non solo per le persone che abitano in un dato paese, o per
gli elefanti che vivono nel Parco Nazionale di Addo, ma anche per le stelle che formano la
Via Lattea. Tuttavia, l’aspetto più caratterizzante di una popolazione è il suo continuo
modificarsi, il suo continuo divenire. Un censimento fotografa una popolazione in un dato
momento di tempo. Le fotografie scattate da censimenti successivi permettono non solo di
cogliere i cambiamenti quantitativi della popolazione, ma anche di vedere come sia cambiata
la sua struttura e quindi la sua composizione per sesso, classe di età, livello scolastico e
educativo, peso delle varie condizioni socio-economiche. Ed è qui che entrano in gioco i
flussi, i cambiamenti di condizione. Il modo in cui una popolazione cambia è, infatti, il
risultato di entrate e di uscite e delle differenze quantitative e qualitative tra questi due flussi,
nonché dei cambiamenti registrati dai sopravvissuti a causa del trascorrere del tempo, dei loro
comportamenti e delle loro decisioni e dei comportamenti e delle decisioni degli individui con
cui essi hanno interagito. Prima che Li mi chieda qualche esempio di come questa cosa
funzioni, eccone alcuni. L’aumento della presenza femminile nelle forze di lavoro è dovuto al
fatto che le donne che entrano sono più di quelle che escono. L’aumento del livello educativo
degli occupati è dovuto all’ingresso di persone con una scolarità maggiore di quelli che
escono. Il calo degli occupati in agricoltura, contrariamente a quanto normalmente si sostiene,
118
non è dovuto a fenomeni d’inurbamento, ma al fatto che sono pochi i figli di contadini che
entrano nel settore, rispetto agli anziani che ne escono per cause naturali.
Mario: Non condivido il fatto che la tua rappresentazione della vita non preveda l’eterno
ricambio generato dalle rinascite
Michele: Insomma vorresti che la freccia di uscita girasse intorno al rettangolo e si
collegasse alla freccia d’ingresso, che cioè collegassi le uscite definitive con gli ingressi
naturali, le morti con le nascite. Mi sembra un suggerimento interessante e che, per così dire,
chiuderebbe il cerchio. Tuttavia, per il momento, lascia che mi limiti all’approccio
demografico che, sia pure in maniera più prosaica e materialista, vede la variazione del livello
di una popolazione come la conseguenza del saldo naturale, dato dalla differenza tra nati e
morti, e del saldo migratorio, dato dalla differenza tra immigrati ed emigrati. Quello che a me
interessa è utilizzare questo approccio per imputare le variazioni delle subpopolazioni nelle
diverse condizioni socio-economiche (forze di lavoro, occupati, non forze di lavoro, ecc.) a
entrate e uscite. Inoltre, intendo usare solo flussi definitivi.
Li: Cosa vuol dire?
Flussi generazionali e flussi temporanei
Michele: I cambiamenti di condizione sono di due tipi: definitivi e temporanei. Il primo
tipo, che preferisco chiamare generazionale, si riferisce agli eventi che i demografi
definiscono non rinnovabili o fatali, nel senso che avvengono una volta sola e non consentono
un ritorno alla situazione precedente.
Li: Credevo che l’unico evento fatale fosse la morte.
Michele: Beh, anche qui non si può essere categorici. Sembra, infatti, che 2000 anni fa in
Palestina vi siano state almeno un paio di eccezioni. Anche a Berkeley, verso il 1970,
comparvero dei manifesti che preannunciavano la resurrezione di un santone indiano che,
prima della sua prematura dipartita, aveva promesso ai propri fedeli che sarebbe ritornato in
vita. Tuttavia, pian piano, ci dovemmo convincere che qualcosa era andato storto e non
saremmo riusciti ad assistere a questo interessante evento. Comunque, oltre alla morte, vi
sono altri cambiamenti di condizione che normalmente non sono ripetibili e non consentono
un ritorno alla condizione precedente. La nascita preclude il ritorno alla condizione di feto,
l’ingresso nella scuola preclude il ritorno nella popolazione composta da coloro che non
hanno mai frequentato la scuola, l’ingresso nell’occupazione preclude il ritorno tra coloro che
non hanno mai lavorato e cosi via. Sono questi i passaggi di condizione che chiamo definitivi
o generazionale. Inoltre, questi passaggi rappresentano le tappe fondamentali della vita delle
persone e delle generazioni.
Mario: E il secondo tipo?
Michele: Sono i passaggi di condizione seguiti da un ritorno nella condizione di partenza;
si tratta quindi di passaggi temporanei. Nel caso del mercato del lavoro, il caso più comune è
quello del passaggio dalla condizione di occupato a quella di disoccupato, spesso seguito da
un ritorno nella condizione di occupato. Ovviamente, nel caso in cui il passaggio alla
disoccupazione non sia seguito da un ritorno nell’occupazione si tratterà di un passaggio
definitivo.
Li: Tanto per essere sicuro di aver capito: il matrimonio rappresenta un passaggio di
condizione definitivo o temporaneo?
119
Michele: Dipende. Se uno rimane sposato tutta la vita, si tratta di un passaggio definitivo;
in caso di divorzio o morte del coniuge il passaggio diventa temporaneo. Notate che un
passaggio è temporaneo anche nel caso in cui sia l’inizio di una catena di passaggi che
finisce, però, per riportare alla condizione di partenza. Di fatto, i flussi temporanei sono quelli
che riportano alla condizione di partenza. Ad esempio:
Occupato => Disoccupato => Non Forza di lavoro => Disoccupato => Occupato
John: Quindi in molti casi la tipologia di un passaggio di condizione, se sia cioè definitivo
o temporaneo, la si conosce solo ex post.
Michele: Esatto, ma questo non inficia la validità di questa distinzione necessaria per
comprendere il funzionamento del mercato del lavoro e spiegarne la dinamica. Sono i flussi
generazionali che ritmano la vita degli individui e permettono di tracciare i percorsi di vita.
Tutti noi con la nascita siamo entrati, in maniera del tutto inconsapevole, ma certamente
traumatica, nella popolazione; abbiamo percorso una fase formativa, più o meno lunga, alla
fine della quale abbiamo vissuto la seconda transizione, anche questa spesso traumatica, dal
mondo della scuola al mondo del lavoro. I più fortunati hanno trovato un lavoro duraturo o
sono passati con facilità da un lavoro a un altro. Altri hanno faticato a trovare un lavoro e a
mantenerlo, trascorrendo molto tempo nella condizione di disoccupato. Altri, soprattutto altre,
hanno trascorso la fase lavorativa della vita tra le non forze lavoro, ma lavorando ugualmente,
se non di più, provvedendo alla manutenzione ordinaria delle forze di lavoro e alla cura dei
giovani e degli anziani. Poi per tutti arriva il momento della terza grande transizione, quella
dal mondo del lavoro alla fase post lavorativa. Questa transizione conduce nella sala d’aspetto
dell’ultimo e definitivo cambio di condizione, una sala d’aspetto che può essere ancora
vivacizzata da attività di supporto al proprio nucleo famigliare o alla frequentazione di
Disneyland specializzate in anziani, ma che poi spesso conduce alla frequentazione di meno
allegri luoghi di degenza. Se i flussi generazionali mostrano le tappe fondamentali del
percorso di vita, i flussi temporanei ci fanno vedere le deviazioni che abbiamo scelto o a cui
siamo stati costretti. Ad esempio, molte donne escono dal mercato del lavoro quando i figli
sono piccoli per rientrare quando sono cresciuti. Il modello del mercato del lavoro che vi
voglio presentare si concentra sulla fase lavorativa, ma la figura che vi ho fatto vedere
permette di evidenziare la sua relazione con la fase precedente, quella formativa, e con la fase
successiva, quella post lavorativa. Infine, esso non contiene meccanismi che generino
automaticamente situazioni di equilibrio. Al contrario, consente di evidenziare eventuali
situazioni di disequilibrio strutturale, analizzarne le cause e fornire cosi gli strumenti analitici
necessari per disegnare e implementare politiche di medio lungo periodo.
John: Mi fai riaffiorare lontani ricordi dei tempi dell’Università.
Michele: Beh l’analisi di flusso del mercato del lavoro non l’ho inventata io. Il mio
contributo è stato l’introduzione della distinzione tra flussi generazionali e flussi temporanei
126
126
La rappresentazione di flusso del mercato del lavoro ha una lunga storia che risale al dopoguerra e raggiunse la
maturità a cavallo degli anni ’70 in una serie di studi del National Bureau of Economic Research; subito dopo
l’attenzione degli economisti del lavoro si spostò però sul tema della durata della disoccupazione. Tuttavia, in tutti
questi studi manca la distinzione tra flussi generazionali e flussi temporanei, fondamentale per comprendere la
dinamica del mercato del lavoro. Franco Franciosi ed io la introducemmo in una serie di lavoro scritti a partire
dalla fine degli anni ’70. Solo molto più tardi, lavorando sulla storia della letteratura sui flussi del mercato del
lavoro, mi sono imbattuto in un articolo passato ignorato (I. Sobel and C Wilcock (19556), "Secondary labor force
mobility in four mid-western shoe towns", Industrial and Labor Relations Review) in cui gli autori
ponevano con chiarezza tale distinzione:” "Movement into and out of the labor force, or labor force mobility, can
120
John: E così importante?
Il modello di breve periodo e il modello generazionale
Michele: Questa distinzione permette di formulare due diversi modelli del mercato del
lavoro e specificare diversi indicatori del mercato del lavoro. Un modello che consideri sia i
flussi generazionali, sia quelli temporanei permette di apprezzare come il movimento e il
cambiamento siano le caratteristiche dominanti del mercato del lavoro. Consente di
analizzarne la flessibilità, di misurare la durata della disoccupazione e di verificare se e in che
misura vari gruppi socio-economici ne siano affetti in modo diverso Il modello generazionale
che rappresenta può, invece, rispondere a domande di carattere strutturale: farci capire, ad
esempio, quale sia il meccanismo che permette alle generazioni che escono una dopo l’altra
dal sistema formativo di trovare lavoro, come mai per alcune sia più difficile che per altre
ottenere tale risultato, perché alcuni giovani risultino relativamente avvantaggiati, ma anche
perché alcune generazioni possano essere numericamente insufficienti a fronteggiare la
127
domanda di lavoro .
John: Belle domande! Non ricordo che durante il mio corso di economia del lavoro ci si
sia interrogati su questi problemi.
Paradigmi, peyote e piselli
Michele: La parte difficile della ricerca scientifica non è rispondere alle domande sul
128
tappeto, prima o poi qualcuno ci riesce , ma formulare domande nuove. Studiare comporta
l’apprendimento di modi di interpretare la realtà e questi modi di guardare al mondo sono
attaccaticci. L’attaccamento tende spesso a diventare viscerale soprattutto nel caso dei
ricercatori professionisti per i quali quelle rappresentazioni cessano di essere strumenti, ma
diventano una bandiera e una fonte di reddito e di potere. Quello che voglio dire è che la
maggior parte dei ricercatori svolge il proprio lavoro indossando dei paraocchi che limitano il
campo visivo e rendono molto difficile, se non impossibile, porsi domande nuove e vedere
problemi diversi, ma spesso più interessanti di quelli al centro delle loro analisi.
be classified into two basic types. One is an inevitable function of the human aging process and is characterized by
movements into the labor force upon the completion of schooling and movement out when a worker retires or is
retired because of age. The other consists of the entrances and exits of those persons who are not regularly or
consistently in the labor force during the usual span of working years but who move into and out of the labor force
intermittently or are in the labor force only once or twice for relatively short periods of time".
127
Il modello generazionale fu introdotto alla fine degli anni ’70 (Bruni Michele e F.B. Franciosi (1979),
“Domanda di lavoro e tassi di attività”, Rivista Trimestrale di Economia, Istruzione, e Formazione
Professionale, n. 6), ma le prime esposizioni esaustive sono degli anni ’80, quando il modello fu utilizzato per
formulare gli scenari che furono alla base del Piano Decennale dell’Occupazione: M. Bruni e F.B. Franciosi
(1985), "Scenari alternativi di domanda e di offerta di lavoro: un'analisi in termini di flusso", in Ministero del
Lavoro e della Previdenza Sociale, La politica occupazionale per il prossimo decennio, Roma; si veda anche M.
Bruni e F.B. Franciosi (1985), "Il mercato del lavoro in Italia: un'analisi di flusso", in M. Schenkel, (a cura di.),
L'offerta di lavoro in Italia. Problemi di rilevazione, valutazione, costruzione, di modelli di comportamento,
Marsilio, Venezia; M. Bruni (1988), “A stock flow model to analyse and forecast labor market variables", Labour,
n.1; M. Bruni (1993), "Per una economia delle fasi della vita", in Associazione Italiana di Statistica, Popolazione,
tendenze demografiche e mercato del lavoro, Roma. La prima esposizione del modello congiunturale,
sviluppato per analizzare il mercato del lavoro della Valle d’Aosta a supporto delle attività di programmazione
delle politiche regionali del lavoro compare in M. Bruni e D. Ceccarelli, “I mercati locali del lavoro: un modello
per l’analisi congiunturale”, Franco Angeli, Milano, 1995.
128
Uno dei casi più sensazionali è stata certamente la dimostrazione dell’ultimo teorema di Fermat presentata da
Wiles nel 1995, dopo sette anni di lavoro condotto in assoluta segretezza. Il teorema era stato formulato nel
lontano 1637. Fermat aveva altresì notato: “ Dispongo di una meravigliosa dimostrazione di questo teorema che
non può essere contenuta nel margine troppo stretto della pagina” e c’è da credergli dato che la dimostrazione di
Wiles occupa circa 200 pagine.
121
Mario: Mi viene il dubbio che da giovane tu sia stato influenzato dal libriccino di quel
fisico che, dovendo tenere un corso di storia della scienza in quel di Harvard, si era messo a
leggere non i riassunti, ma i testi originali di Aristotele e si accorse che lo stagirita, come lo
chiamava il mio professore di filosofia, poteva sembrare veramente ignorante se ci si
dimenticava di inserirlo nel contesto culturale in cui si muoveva.
Michele: La reading list del corso di sistemi economici comparati che seguii nel lontano
1970 conteneva due titoli che cambiarono il mio modo di vedere il mondo e di guardare alle
interpretazioni che ne sono date. Il primo era il libriccino di Thomas Kuhn a cui Mario si è
riferito in maniera cosi dotta e elegante; il secondo era “A Scuola dallo stregone” di Carlos
129
Castaneda .
John: Per citare ancora una volta Confucio “Dalle stelle alle stalle”. Scusa Michele li ho
letti anch’io, ma non vedo il nesso.
Michele: Non pensi che Don Juan la pensasse un po’ come Kuhn quando sosteneva che il
nostro modo di veder il mondo dipende da ciò che ci è stato insegnato da bambini, ed è per
questo che non ci accorgiamo che siamo fatti come delle uova con tanti tentacoli?
Mario: Non starai suggerendo che un giro di peyote farebbe accelerare il passo del
progresso scientifico?
Michele: Non è più aria e non vorrei apparire nostalgico. Malgrado l’inevitabile
invecchiamento, le mie papille gustative trovano che l’uva di oggi non sia più cattiva di quella
di una volta. Ho tuttavia l’impressione che fantasia, creatività e umorismo siano in calo,
mentre si sta riaffacciando in molti la certezza che ciò che abbiamo capito sulla realtà che ci
circonda sia sostanzialmente vero e che siamo sempre più vicini alla Verità con la V
130
maiuscola . Io rimango scettico e credo che solo il confronto con paradigmi scientifici
sviluppati in altri pianeti potrebbe dirci qualcosa sul valore universale e definitivo del nostro
sapere, inclusa la matematica. In attesa degli alieni, un evento che però anch’io credo vada
131
visto con molta preoccupazione , penso che non si debba sottostimare l’inerzia dei
paradigmi e gli interessi costituiti che li reggono e quindi il freno che essi pongono a idee
nuove. Gli esempi d’illustri vittime di conservatorismo scientifico non mancano.
Mario: Un esempio su tutti, il povero Mendel!
Li: Ci risiamo. Chi è il povero Mendel? Quello dei piselli?
Mario: Sì proprio lui e la sua è una triste storia.
John: Cosa gli è successo? Credevo che fosse nell’Olimpo della scienza come padre della
genetica e per aver fornito l’anello mancante alla teoria evoluzionista di Darwin.
Mario: Sì, il dramma è che lui non l’ha mai saputo. A un certo punto della sua vita,
Gregor Mendel -che di professione non faceva l’orticultore, come si potrebbe pensare, ma il
129
Thomas Kuhn (1962), The Structure of Scientific Revolutions, Chicago University Press; Carlos Castaneda,
(1968), The Teachings of Don Juan: A Yaqui Way of Knowledge.
130
Si veda ad esempio Primack J.R e N.E. Abrams, 2006, The View from the Center of the Universe.
Discovering our extraordinary Place in the Cosmos, Riverhead Books, New York.
131
Il Professore Simon Conway Morris dell’Università di Cambridge, sostenitore di una visione teistica
dell’evoluzione, ha ipotizzato che se gli alieni esistono sono simili a noi. Questa conclusione si basa su due ipotesi:
la prima che la vita sulla terra si è sviluppata tollerando limiti fisici e chimici estremi non solo sulla terra ma
nell’universo; la seconda che l’evoluzione agisce in maniera prevedibile e produce quindi risultati prevedibili. Se
cosi è, per Morris un incontro con gli alieni ci dovrebbe preoccupare parecchio. Una tesi analoga è stata sostenuta
anche da Stephen Hawking.
122
monaco, scelta alla quale era stato obbligato per poter continuare i suoi studi- si diede a
investigare i principi della ereditarietà e se ne uscì con le relative leggi. Come sapete ogni
individuo presenta somiglianze e differenze rispetto ai suoi genitori. Mendel definì le regole
statistiche con cui i tratti dei genitori si trasmettono ai figli. Si trattava di una teoria diversa da
quella prevalente e gli accademici del suo tempo non lo presero sul serio, fornendo così un
bell’esempio di resistenza e inerzia dei paradigmi anche di fronte all’evidenza empirica. Nel
frattempo la teoria darwiniana dell’evoluzione rimaneva priva di una spiegazione di quali
fossero i meccanismi attraverso i quali certe caratteristiche finiscono con l’imporsi. Solo
132
verso il 1930 fu riconosciuta l’importanza delle scoperte del monaco di Brno, anche se la
sua città natale rimane più famosa per il circuito motociclistico che per i piselli.
Michele: Lasciate che riprenda la mia storia proprio dalle domande che vi ho appena
citato. Di fatto esse mi furono poste durante un incontro di orientamento da ragazzi che
stavano terminando il liceo. Volevano sapere se per la loro generazione sarebbe stato facile o
difficile trovare un lavoro e quali percorsi universitari o formativi li avrebbero avvantaggiati.
Vi potrà sembrare strano, ma nello schema neoclassico del mercato del lavoro non vi è spazio
per domande di questo genere.
Li: Spiegati meglio.
Il modello microeconomico del mercato del lavoro
Michele: La microeconomia oggi insegnata da New York a Pechino, passando
probabilmente anche per Pyongyang …
Li: La micro cosa?
Michele: Li, un po’ di greco è indispensabile per vivere nel mondo occidentale! Come
dice la parola stessa, la microeconomia è la disciplina che spiega il comportamento
economico degli individui e poi, per aggregazione, quello della società che è vista come una
somma di individui. Insomma, come diceva il buon Ronald Reagan, una volta che hai visto
una sequoia le hai viste tutte. Per quanto riguarda il mercato del lavoro, l’obiettivo dell’analisi
microeconomica è quello di spiegare la distribuzione del reddito definendo il salario e
l’occupazione di equilibrio. Un’inevitabile conclusione del modello è che quelli che sono
senza lavoro debbono rimproverare solo se stessi. Fra l’altro credo che anche noi siamo stati
causa del nostro male quando abbiamo detto al cameriere di non aver fretta a portarci i primi.
Lasciate almeno che ordini un’altra bottiglia di prosecco.
John, mentre Michele parla con il cameriere: In un’economia di mercato esistono solo
dei disoccupati “volontari”.
Mario: Certo, ed è evidente che ci troviamo di fronte a una diffusa forma virale di
masochismo che ultimamente si è venuta diffondendo in maniera molto veloce nei paesi
dell’Europa del sud, in particolare tra i giovani.
Michele: Funziona cosi. Le famiglie offrono lavoro e la quantità offerta aumenta
all’aumentare del salario. Le imprese domandano lavoro e la quantità che sono disposte ad
assumere è tanto maggiore quanto minore è il salario. Quindi, come mostra il grafico,
132
Fu in tale periodo che genetisti matematici (J.B.S. Haldane e Ronal Fisher nel Regno Unito e Sewall Wright
negli Stati Uniti) unirono genetica e selezione naturale in un meccanismo evolutivo accettato da tutti che venne
definito Sintesi moderna o Neodarwinismo. In questa impostazione sono i geni a trasmettere le variazioni di una
specie da una generazione alla successiva. Si veda Rose Hilary e Steven Rose (2013), Geni Cellule e Cervelli.
Speranze e Delusioni della Nuova Biologia, Le Scienze.
123
l’offerta di lavoro è crescente, mentre la domanda è decrescente. Pertanto, le due curve hanno
una buonissima probabilità di incontrarsi. Il punto dove ciò avviene, è il punto di equilibrio
133
che individua il salario reale
(W*) in corrispondenza del quale le famiglie piazzano
esattamente l’ammontare di lavoro che sono disposte a cedere a quel salario e le imprese
assumono esattamente la quantità di lavoro che sono disposte ad assumere a quel salario
(SL*). Insomma, il migliore dei mondi che rende tutti felici in quanto realizza
contemporaneamente i desideri delle famiglie e delle imprese.
Figura 3 – Equilibrio del mercato del lavoro
John: Piena occupazione e disoccupazione strettamente volontaria, ecco cosa produce il
mercato.
Michele: Come tutti voi potete chiaramente vedere guardandovi intorno! Tre, quattro euro
all’ora è il salario al quale il mercato assicura il pieno impiego agli immigrati nel settore della
raccolta della frutta in Puglia. Che poi uno con questa cifra debba vivere in una baraccopoli,
in una situazione che definire di sussistenza è guardare al mondo con un ottimismo del tutto
ingiustificato non interessa. Il concetto di sfruttamento non entra in questo schema che non
considera la differenza di potere contrattuale degli individui che sono considerati tutti uguali,
non importa su quale curva si trovino. Ma, all’interno della logica sulla quale il modello si
basa, è innegabile che chi non lavora è perché pretende troppo e non può che biasimare se
stesso e la sua mancanza di flessibilità.
Mario: Un modo elegante per scaricare la colpa della disoccupazione sui lavoratori!
Li: Mi piacerebbe sapere da dove esca una … trovata di questo genere e come possa essere
che si perda tempo e denaro a insegnarla nelle università.
John: La microeconomia è fondamentale per capire il funzionamento di un’economia di
mercato.
133
Come recita correttamente il dizionario del cittadino: “Per salario nominale (o monetario) si intende la quantità
di moneta che viene data al lavoratore dipendente, periodicamente, in cambio della sua prestazione. Per salario
reale si intende, invece, il potere d'acquisto del salario nominale, cioè la quantità di beni e servizi che il lavoratore
può ottenere con esso. Di conseguenza, il salario reale è pari al salario nominale diviso per un indice dei prezzi
(infatti, a parità di salario nominale, il salario reale sarà alto se i prezzi dei beni e dei servizi sono bassi, e
viceversa).” http://www.pbmstoria.it/dizionari/dizcittadino/lemmi/397.htm “
124
Mario: O forse per giustificare l’attuale ordine sociale e politiche a favore di pochi, ricchi
e potenti! Michele, io però vorrei sapere perché hai detto che questa conclusione era
inevitabile.
Michele: Perché essa è implicita nelle ipotesi del modello, ipotesi che, a loro volta, sono
state scelte non perché rappresentino fedelmente il mondo che ci circonda, ma proprio perché
134
conducono inevitabilmente a un equilibrio stabile . In sostanza, per dimostrare che il libero
mercato è il migliore dei mondi, il modello deve fare delle importanti concessioni alla realtà.
John: Quali?
Il lavoro: fattore variabile o fattore fisso?
Michele: In primo luogo, quando il modello neoclassico parla di lavoro non intende
lavoratori, ma servizi di lavoro; in secondo luogo esso ipotizza che vi sia una relazione diretta
tra l’ammontare di lavoro che le famiglie sono disposte a cedere e il salario, e che vi sia
invece una relazione inversa per le imprese.
Mario: Cosa intendi per servizi di lavoro?
Michele: Faccio un esempio. Supponiamo che tu abbia bisogno di risolvere un problema
di trasporto per motivi di lavoro o di svago. Hai diverse possibilità. Puoi acquistare
un’automobile, fare un leasing o decidere di chiamare un taxi tutte le volte che ti devi
spostare. Se decidi di chiamare un taxi quello che fai è di acquistare un servizio dal
proprietario del taxi. Il modello neoclassico rappresenta un mercato del lavoro che si ispira a
questa immagine. Vi sono delle famiglie che posseggono della forza lavoro e sono disponibili
ad affittarla alle imprese. Le imprese, dal canto loro, posseggono macchine e tecnologie e
affittano servizi di lavoro nelle misura e alle condizioni compatibili con l’ammontare di
produzione che desiderano effettuare e con le macchine di cui dispongono. In questo modo,
dunque, il lavoro è perfettamente frazionabile e variabile cioè perfettamente aggiustabile ai
bisogni degli imprenditori. Insomma è come se ogni mattina le imprese potessero decidere,
come nel caso del taxi, di quante ore di lavoro abbiano bisogno e da chi “affittarlo”.
John: Ma è proprio questa flessibilità che consente alle imprese di essere efficienti, di
ridurre i prezzi al consumo favorendo così i consumatori, e di conquistare nuovi mercati.
Michele: Forse in un mondo pre-capitalistico dove quasi tutte le imprese sono
piccolissime, c’è poca varietà di prodotti e non sono richieste ai lavoratori particolari
competenze: Nel nostro mondo la costituzione di un parco uomini competenti e affidabili è
ugualmente importante, se non addirittura più importante, della creazione di un parco
macchine con la giusta tecnologia. Insomma, la distinzione tra un fattore fisso, le macchine, e
un fattore variabile, il lavoro, è una distinzione fasulla: per essere efficiente un’impresa deve
investire non solo in macchine, ma anche in uomini. Quindi, nel mondo reale le imprese,
sopratutto quelle di dimensioni medio grandi, non affittano servizi di lavoro, ma assumono
uomini e donne in carne e ossa, li scelgono per le loro competenze, per la loro storia e per la
loro esperienza; in molti casi, inutile negarlo, preferiranno uomini a donne, o donne a uomini.
Infine tenderanno a investire in essi e a fidelizzarli. In sostanza, le aziende non mirano solo ad
avere un determinato parco macchine, ma anche un ben definito “parco uomini” e a tenerlo in
efficienza con una continua attività di manutenzione. In questo contesto, sempre più
134
Si ha una situazione di equilibrio quando nessuno degli attori ha interesse a cambiare in maniera unilaterale il
proprio comportamento. Un equilibrio si dice poi stabile se tende a ritornare nella posizione iniziale qualora si
siano verificate delle perturbazioni che l’abbiano disturbato.
125
importante in una società fortemente terziarizzata, la favola neoclassica non riflette più la
realtà e ha ben poco da insegnarci.
Mario: Hai detto che c’era un secondo problema.
Michele: Sì; per raggiungere una situazione di pieno impiego il modello ipotizza anche
che più elevato il salario, più elevata sia la quantità di lavoro che le famiglie sono disposte a
cedere. Però, come potete vedere nella Figura seguente, nel caso in cui l’offerta di lavoro sia
illimitata (il caso della Cina fino a pochi anni fa) l’offerta è piatta al livello del salario di
sussistenza fino al Punto di Svolta di Lewis (PSL). In sostanza, fin tanto che la domanda non
raggiunge quel livello, vale a dire non è sufficientemente elevata da assorbire tutti i lavoratori
disposti a lavorare a un salario di sussistenza, le imprese possono espandere la propria
occupazione senza dover pagare un salario più elevato. Nel grafico quella domanda è D2. Nel
caso in cui la domanda sia D1, il lavoro assorbito sarà SL* e la distanza tra SL1 e PSL
rappresenta un eccesso strutturale di offerta di lavoro.
Li: Insomma tu dici che il mondo descritto dal modello neoclassico non ha niente a che
vedere con il mondo in cui viviamo e che quindi quel modello ci serve ben poco.
Figura 4 – Mercato del lavoro con offerta illimitata alla Lewis
Una digressione su realismo delle ipotesi e capacita previsiva
John: Un modello non va giudicato in base al realismo delle sue ipotesi, ma alla sua
capacita di prevedere.
Li: Chi l’ha detto: Confucio?
Michele: No, Milton Friedman, che vinse il premio Nobel per l’economia nel 1976.
All’inizio degli anni 50 Friedman ebbe il merito, si fa per dire, di porre un argine alle
numerose critiche che venivano mosse, soprattutto dagli economisti di Cambridge, Gran
Bretagna, alla mancanza di realismo delle ipotesi che erano alla base del modello neoclassico.
Il buon Milton sostenne, come ha appena detto John, che un modello non va giudicato in base
al realismo delle ipotesi, ma alla capacità di prevedere, una tesi che fu accolta con immediato
favore dalla stragrande maggioranza degli economisti e permise loro di scrivere brillanti
pagine di fantascienza senza doversi giustificare.
John: Scusa, ma le riviste di economia sono piene di verifiche econometriche.
Michele: Ne hai mai vista una che giunga alla conclusione che il modello testato è una
vera e propria schifezza e deve essere buttato via? D’altra parte non mi sembra che ci sia
bisogno di studi approfonditi per accorgersi che, contrariamente a quanto previsto dal
modello neoclassico, nelle economie di mercato i ricchi stanno diventando più ricchi e i
poveri più poveri, mentre la distanza tra paesi sviluppati e sottosviluppati è venuta
126
aumentando progressivamente, malgrado lo straordinario aumento degli scambi commerciali,
dei flussi migratori internazionali e dei flussi finanziari. Però, il modello neoclassico è ancora
lì. In fondo non è colpa del modello se il mondo non è perfetto!
Mario: Tu cosa suggerisci?
Michele: Prima di tutto a me sembra strano che un modello che si basa su ipotesi balzane
possa fare previsioni corrette. A parte questo, credo che per studiare il mercato del lavoro dei
nostri giorni e porsi domande rilevanti, ci sia bisogno di modelli che considerino uomini e
donne in carne e ossa, con le loro storie di vita, la loro cultura, i loro vincoli; uomini e donne
che si muovono nel tempo reale. Ciò è tanto più vero se si deve affrontare il problema dei
flussi migratori.
Li: Ragazzi, fortunatamente pizze e primi sono in arrivo. L’economia m’incuriosisce, ma
sto cominciando a boccheggiare.
Michele: Ti ho visto più silenzioso del solito! Mi sembrava tuttavia di leggere sul tuo
volto intelligente una grande attenzione.
Li: Si; a quello che succedeva in cucina!
Michele: Uomo di poca fede, non riuscirai a scoraggiarmi. Ho ancora molte cose da
raccontare per completare la presentazione del mio modello del mercato del lavoro senza il
quale non potremmo capire il futuro della Cina e del pianeta nel suo complesso.
John: Cala!
Per oltre mezzora cibo e alcolici distolgono la mente dei nostri amici dal mercato del
lavoro. John cerca di convincere Li a andarlo a trovare negli Stati Uniti promettendogli un
135
viaggio coast to coast, lungo Route 66 sulle orme di Saetta McQueen . Mario continua,
invece, a parlare delle manchevolezze del modello neoclassico, anche se Michele lo ascolta
con un orecchio solo e preferirebbe dedicarsi anima e corpo ai tortelloni. Mario sostiene di
aver perso interesse in questo modello non appena si è accorto che esso pretendeva di
spiegare i comportamenti sociali partendo da quelli dei singoli attori, per giunta tutti
animati dagli stessi valori e con gli stessi obiettivi, e basando il successo del sistema sulla
concorrenza. Lui è invece convinto che la società non possa essere ridotta a una somma
d’individui, una tesi riduzionista che si è rivelata del tutto illusoria anche in altre
discipline, prima fra tutte la genetica. Il sogno di capire che cosa sia l’uomo, una volta
decodificato il genoma, un’idea che era stata portata avanti con convinzione da scienziati
come Dawkins, si è rivelata del tutto infondata. D’altra parte, anche dalla settimana
enigmistica vengono forti segnali volti a rivalutare le idee del Principe Kropotkin che
compare sempre più spesso non solo nella classica domanda “le iniziali di”, ma più
recentemente anche come “Celebre anarchico russo” e addirittura “Evoluzionista russo
che credeva nell’importanza della cooperazione”. Come sosteneva il principe, le società che
prevalgono sono quelle basate non su di una feroce concorrenza, ma quelle animate da
spirito cooperativo. La storia delle formiche tagliafoglie è lì a dimostrare l’importanza della
cooperazione che è stata più recentemente riproposta anche da Bateson 136.
135
Saetta Mcqueen, in inglese Lightning McQueen, è il protagonista di Car, il film di maggior successo della
Pixar, fortemente consigliato a chi l’avesse mancato.
136
Gregory Bateson (1972), Steps to an Ecology of Mind; (1979), Mind and Nature – A necessary Unity.
127
Il modello stock flussi: seconda parte
Li che ha colto le ultime parole di Mario ha un sussulto: Non tirerai fuori di nuovo le
formiche. In questo caso preferisco tornare ai modelli del mercato del lavoro. E’ quasi un
anno che aspetto di conoscere l’opinione di Michele sul futuro della Cina.
John: Temo sempre più che sarete voi cinesi a vincere il peluche, anche se i dubbi che
Michele ha espresso qua e là mi danno ancora qualche speranza. Comunque, prima di andare
avanti, vorrei riassumere quello che è emerso dalla nostra chiacchierata, anche se oggi più che
una chiacchierata è stato un monologo del professore.
Li: Ti ringrazio. Non mi è del tutto chiaro dove stiamo andando e forse neanche da dove
veniamo.
Mario: Spero almeno che tu ti ricordi ancora chi siamo.
John: Michele ha cominciato dicendoci che per affrontare in maniera corretta il problema
delle migrazioni doveva farci vedere un suo modello stock-flussi del mercato del lavoro. Di
fatto, per il momento, ha speso quasi tutto il tempo per far emergere i limiti del modello
neoclassico suppongo per evidenziare quali debbano essere le caratteristiche di un buon
modello. Secondo Michele, il problema del modello neoclassico sta nel fatto che esso non
prende in considerazione uomini veri con le loro storie di vita e si muove al di fuori del tempo
reale; trascura, infine, quella che lui dice essere la caratteristica fondamentale del mercato del
lavoro, il suo continuo divenire. Il prof. ha cominciato facendoci vedere un rettangolo diviso
in rettangoli più piccoli e ci ha informato che si trattava di una rappresentazione sintetica
della vita umana, delle sue fasi fondamentali e delle principali condizioni socioeconomiche
nelle quali gli uomini si possono trovare. In questa prospettiva la popolazione totale risulta
articolata in una serie di sottopopolazioni la cui dimensione è regolarmente misurata dai
censimenti e da altre rilevazioni campionarie. Se invece consideriamo un intervallo di tempo,
prendono vita le frecce che collegano le varie condizioni, vale a dire i flussi di persone che
passano da una condizione a un’altra. Michele ha concentrato la sua attenzione sul modello
generazionale che si basa unicamente su flussi definitivi, vale a dire i cambiamenti di
condizione irreversibili e senza ritorno, come la nascita e la morte, ma anche come l’uscita
definitiva dalla fase formativa e l’entrata per la prima volta nell’occupazione o tra le persone
in cerca di prima occupazione. A me sembra però che i flussi di entrata e di uscita forniscano
solo una spiegazione meccanica delle variazioni del livello delle popolazioni e dei
cambiamenti strutturali. Mi aspetto quindi che Michele trasformi questa rappresentazione
descrittiva in un modello vero e proprio e ci faccia vedere qual è il meccanismo attraverso il
quale le diverse generazioni si succedono nel mercato del lavoro, perché per alcune di esse sia
più facile che per altre la transizione scuola-lavoro e infine perché alcuni paesi siano paesi
d’immigrazione e altri d’emigrazione e cosa spieghi i saldi migratori.
Michele: Come al solito un riassunto perfetto. Posso tornare alla mia storia?
Li: Questa sera è come essere a scuola.
John: Non proprio; qui si può bere. Lasciatemi offrire un giro di bourbon.
L’apologo del Cinema Italia
Incurante delle interruzioni, Michele riattacca la sua storia: Come vi ho già detto, tanti
anni fa, credo fosse la meta degli anni 80, mi trovavo in un cinema pieno di ragazzi per un
incontro di orientamento. Fu quella situazione a fornirmi lo spunto per un apologo, che avrei
128
137
poi chiamato la favola del Cinema Italia . Furono i ragazzi a darmi lo spunto chiedendomi
se sarebbero riusciti a trovare lavoro, quanto tempo ci avrebbero messo, se andare
all’università li avrebbe aiutati e infine a quali facoltà si dovevano iscrivere per essere
avvantaggiati nel mercato del lavoro. All’improvviso mi resi conto che il mio bagaglio di
strumenti neoclassici non mi permetteva di dare delle risposte valide a quelle domande e che
serviva qualcos’altro. Ed ebbi un’ispirazione.
Mario: Ti apparve San Giuseppe patrono dei lavoratori?
Michele: No, me la cavai da solo. Cominciai ponendo ai ragazzi la seguente domanda.
Supponiamo che vi sia una sala cinematografica nella quale si proietta un film di successo e
che, a un certo momento del pomeriggio, tutti i posti siano occupati: quante persone potranno
trovare posto nel cinema nelle due ore successive? Tenete presente che eravamo all’inizio
degli anni 80 e che nei cinematografi non solo si poteva fumare, ma si poteva entrare in
qualunque momento, anche durante la proiezione. I ragazzi ci pensarono un po’ e giunsero
rapidamente alla soluzione del problema: poiché all’inizio tutte le sedie erano occupate, le
entrate sarebbero state determinate unicamente dalle uscite; era anche evidente che più gente
usciva, più gente sarebbe riuscita a entrare. A quel punto suggerii che per amore di
completezza dovevamo considerare uno di quei cinema estivi, all’aperto, dove in caso di
necessità il proprietario può aggiungere delle sedie, magari quelle pieghevoli di legno. I
ragazzi osservarono subito che, in questo caso, gli ingressi sarebbero stati uguali alle sedie
lasciate libere dagli spettatori che avevano finito di vedere lo spettacolo o erano dovuti uscire
per l’arrivo di qualche emergenza (non temporanea), più le sedie aggiunte dal gestore del
cinema.
Mario: Voglio vedere se ho capito. La sala cinematografica rappresenta il mercato del
lavoro, le sedie i posti di lavoro, il gestore del cinema gli imprenditori e il governo. I giovani
che si presentano al botteghino per comprare i biglietti sono l’offerta di lavoro, quelli che
riescono ad entrare sono i giovani che hanno trovato un lavoro e quindi misurano la domanda.
Michele: Esatto; solo che in questo caso parleremo di offerta e di domanda di flusso.
John: Carina questa storia, ma il mondo è molto più complicato.
Michele: Di fatto, l’immagine che proposi ai ragazzi fu più articolata. Osservai che nel
cinema Italia, come nel mercato del lavoro, vi sono posti di vario ordine: poltrone di prima
fila, molto comode ma poco numerose; posti di seconda e terza fila, posti molto scomodi nella
vecchia galleria che non è stata ancora ristrutturata. Si possono vedere persone che tengono
occupati due posti; altre sedie sono occupate da due o più persone; alcuni spettatori siedono
su sedie di fortuna e in ogni momento temono di essere fatti sloggiare dalle maschere. Avrete
riconosciuto i doppio-lavoristi, i lavoratori part time, i lavoratori precari. Alcune sedie sono
poste dietro a delle colonne e sono occupate da spettatori che, pur essendo nel cinema, non
riescono a vedere lo spettacolo (sono i cassaintegrati). Inoltre, quelli che sono appena entrati
siedono di solito nelle ultime file e hanno le sedie più scomode. Solo col tempo, man mano
che gli spettatori seduti sulle comode poltrone delle prime file escono dal cinema, alcuni di
essi riescono ad occupare poltrone più comode.
John: Uscendo di metafora, da cosa dipendono gli ingressi nella occupazione e nelle forze
di lavoro?
137
L’apologo del cinema Italia fu pubblicato per la prima volta in Isfol, 1984, Manuale delle Professioni, e poi in
Michele Bruni, 1988, “A stock flow model to analyse and forecast labour market variables”, Labour, n. 1.
129
Michele: Cominciamo con gli ingressi nell’occupazione perché la mia ipotesi è che sia la
domanda di lavoro a giocare il ruolo dominante. Seguendo l’analogia con il cinema, gli
ingressi nell’occupazione sono uguali alla somma delle uscite definitive e dei posti di lavoro
aggiuntivi creati dal sistema produttivo. Le uscite definitive sono imputabili a due cause: la
morte e il pensionamento. Queste ultime dipendono dalla struttura degli occupati per classe di
età: più alta l’età media degli occupati, maggiore il numero delle uscite definitive per
pensionamento. Il numero dei posti aggiuntivi dipende invece dalla crescita economica e dalla
tipologia dello sviluppo: maggiore la crescita economica e minore l’intensità di capitale delle
nuove attività, maggiore l’incremento dei posti di lavoro generato dal sistema economico. In
sostanza, il numero di giovani che riescono a trovare lavoro per la prima volta, in ogni dato
intervallo di tempo, è uguale alla somma, da un lato, dei posti lasciati vacanti dai pensionati e
da coloro che sono morti in età lavorativa e, dall’altra, dei posti aggiuntivi. Insomma le
entrate generazionali nell’occupazione sono il risultato di due componenti: la domanda
sostitutiva e la domanda aggiuntiva che, a loro volta, dipendono dalle tendenze demografiche,
dalla crescita economica e dall’innovazione tecnologica. Quindi, mentre la domanda
sostitutiva è sempre positiva, la domanda aggiuntiva può essere anche negativa. In questo
caso le entrate generazionali - quella che chiamo domanda di flusso- saranno inferiori alle
uscite definitive, il che significa che non tutti i posti lasciati liberi da quelli che hanno finito di
vedere lo spettacolo o sono dovuti uscire per forza maggiore vengono ricoperti: una parte
viene distrutta.
John, Mario e Li fanno cenno di aver capito, anche se in maniera più o meno convinta.
Michele: Veniamo all’offerta di flusso. Essa è rappresentata dalle entrate nelle forze di
lavoro e la determinante principale è costituita dalle entrate nella popolazione in età
lavorativa. Non dobbiamo però dimenticare che se tutti quelli che sono sopravvissuti per i
primi quattordici anni della loro vita, o comunque fino alla fine della fase formativa, entrano
automaticamente nella popolazione in età lavorativa, sul livello e la struttura delle entrate
nelle forze di lavoro incidono pesantemente i sistemi valoriali del paese e la probabilità di
trovare lavoro.
John: E il salario e il reddito? Stai distruggendo tutte le mie certezze!
Michele: Credimi, in questo caso non è una perdita grave. Pensi veramente che ci sia
qualcuno che un giorno sì e un giorno no sceglie se lavorare o meno in base al livello del
salario reale e del reddito, e che le imprese decidano tutte le mattine quante persone
occupare?
John: A me è sempre parsa un’idea geniale, compatta ed elegante. Dammi almeno una
alternativa.
Michele: Non sto mettendo in discussione la bellezza estetica del modello neoclassico, ma
la sua capacità di spiegare cosa succede nel mercato del lavoro. In tutte le società occidentali,
ma credo anche nella stragrande maggioranza delle altre, gli uomini non hanno scelta: per
loro il lavoro è un diritto dovere che li accompagna per tutta la durata della vita lavorativa. Se
un ragazzo non trova lavoro immediatamente al termine degli studi, tutti avranno la massima
comprensione; famiglia e amici entreranno in azione per aiutarlo a trovare una soluzione
utilizzando amicizie e conoscenze. Ma se la cosa dura un po’ troppo, il disoccupato si
trasforma da vittima del sistema in un fannullone, uno sfaticato, un disoccupato volontario, e
non nel senso neoclassico, ma in quello più prosaico della lingua comune.
Mario: E le donne?
130
Michele: Vi sono donne che hanno un comportamento del tutto simile a quello degli
uomini, vuoi per scelta, vuoi per necessità economica. E’ il caso di donne vedove o divorziate
con bambini o altri carichi famigliari o quello delle donne sempre più numerose che vedono il
lavoro come lo sbocco naturale della fase formativa. Vi è poi un secondo gruppo di persone
composto soprattutto da donne, ma anche da giovani in età scolare e da anziani. Sono le forze
di lavoro secondarie. Esse, scelgono se entrare o meno a far parte delle forze di lavoro,
generalmente in maniera temporanea, in base alla situazione economica della loro famiglia: la
decisione sarà influenzata dall’età, dal livello educativo, dal contesto sociale in cui vivono,
dalla situazione economica del “capofamiglia”. E’ il caso, fra l’altro, delle donne che
decidono di rimanere fuori dal mercato del lavoro quando i bambini sono piccoli e di lavorare
quando i figli sono grandi. Infine, vi è un terzo gruppo, anche questo composto quasi
unicamente da donne, che decide di restare fuori dal mercato del lavoro per tutta la fase
lavorativa e dedicarsi alla cura della famiglia.
Mario: Quindi, in ogni intervallo le entrate generazionali nel mercato del lavoro hanno un
nucleo duro composto dagli uomini che hanno terminato la fase formativa e dalle donne che
pure hanno finito il loro percorso formativo e che vedono nel mercato del lavoro lo sbocco
naturale o necessario della loro vita. A questo si può aggiungere una quota, più o meno
numerosa, a seconda della fase ciclica, di forze di lavoro secondarie composta da studenti,
casalinghe e pensionati.
Michele: Stai cominciando a parlare come un economista.
John: Quindi, secondo te, anche per quanto riguarda l’offerta, salario e reddito famigliare
hanno un ruolo del tutto marginale?
Le determinanti della partecipazione al mercato del lavoro
Michele: Il reddito famigliare è spesso una causa non secondaria del successo nel mercato
del lavoro; credo invece che la partecipazione al mercato del lavoro sia spiegata da aspetti
strutturali, storici e culturali, mentre salario e reddito famigliare abbiano un qualche ruolo
138
solo per le forze di lavoro secondarie. Ad esempio, secondo voi, il tasso di partecipazione
(*) è più alto in Germania o in Cambogia?
John: Ovviamente in Germania.
Michele: Sbagliato, è più elevato in Cambogia per almeno un paio di ragioni. In primo
luogo perché in Cambogia l’agricoltura è il settore dominante e la maggior parte della
popolazione rurale comincia a lavorare non appena può dare un contributo, anche minimo,
alla sussistenza della propria famiglia e continua a farlo finché si regge in piedi. Mia nonna
Letizia ricordava di aver cominciato a fare calzini per tutta la famiglia all’età di quattro anni.
John: Era cambogiana?
Michele: Non fare il furbo. Era italiana, ma era nata in una famiglia di braccianti agricoli
in un contesto rurale non certo più avanzato di quello della Cambogia di oggi. Il secondo
motivo è che i giovani tedeschi frequentano la scuola in una percentuale e per un periodo più
lungo dei loro coetanei cambogiani e ciò riduce il numero di persone presenti nel mercato del
lavoro. Veniamo più vicino a noi: e tra Germania e Italia?
John: Qui non ci sono dubbi: vince la Germania.
138
Il tasso di partecipazione è dato dal rapporto tra forze di lavoro e popolazione in
età lavorativa.
131
Michele: Giusto, ma prima che tu mi offra una spiegazione basata sulla minore operosità
di noi meridionali, lascia che ti dica che il motivo è un altro: in Germania vi è un maggior
numero di occasioni di lavoro o, per essere più precisi, il rapporto tra occupati e popolazione
in età lavorativa è più elevato e ciò trascina in alto anche il livello dell’offerta perché aumenta
la probabilità di trovare lavoro per i lavoratori secondari.
John: Ma come gestisci il problema della non omogeneità del lavoro?
Michele: Immaginando che davanti al cinema ci siano tante file quante sono le professioni
e che coloro che cercano lavoro si mettano in una fila coerente con il loro titolo di studio e le
loro precedenti esperienze lavorative. Adesso abbiamo tutto ciò che serve per sapere se una
generazione sarà più o meno avvantaggiata o svantaggiata rispetto alle generazioni precedenti
e quali siano i percorsi formativi premianti.
Mario: Se intuisco correttamente, le generazioni avvantaggiate sono quelle per le quali il
rapporto tra domanda e offerta di flusso è più alto e lo stesso vale per le persone con percorsi
educativi e formativi che risultino relativamente rari sul mercato.
Michele: Risposta esatta. A parità di livello di domanda di flusso, generazioni in uscita
dalla fase formativa relativamente piccole saranno avvantaggiate rispetto a generazioni più
numerose. Risulteranno altresì relativamente avvantaggiati quelli che escono dal sistema
formativo con titoli di studio “rari” rispetto alla domanda. Insomma, se il numero dei laureati
in lettere è relativamente più alto rispetto alla domanda di laureati in lettere di quanto non lo
sia il numero degli ingegneri rispetto alla domanda di ingeneri, gli ingegneri in media avranno
una probabilità più elevata di trovare lavoro. Osservate anche che se, in un dato intervallo, il
numero delle persone che vogliono entrare nel cinema (le persone in cerca di occupazione) è
circa uguale al numero di posti che si rendono disponibili la lunghezza della fila rimarrà
costante. Nel caso in cui il numero sia più elevato, la fila tenderà ad allungarsi, nel caso
opposto ad accorciarsi.
John: Perché tenderà?
Michele: Perché il numero di persone che decide di andare al cinema non dipende solo dal
numero delle entrate nella popolazione in età lavorativa, ma anche dalla lunghezza della loro
specifica fila di attesa e dal suo trend.
Mario: Spiega.
Michele: La lunghezza della fila dà ai potenziali entranti un’idea di quanto tempo
dovranno aspettare per entrare nel cinema, cioè il livello della disoccupazione e il suo
andamento forniscono una indicazione della probabilità di trovare lavoro. Di solito accade
che una disoccupazione alta e crescente generi fenomeni di scoraggiamento tra le forze di
lavoro secondarie, mentre una fila breve e che sta diminuendo incoraggi il loro ingresso nel
mercato del lavoro. Insomma, in periodi di crisi è molto probabile che il numero dei
disoccupati sia inferiore a quello di coloro che vorrebbero trovare lavoro. Molte persone
smettono, infatti, di cercare attivamente un’occupazione scoraggiate dalla bassa probabilità di
trovarne una. Comunque vada, la probabilità di trovare lavoro non dipende solo dalla
domanda, ma anche dell’offerta e questo è uno dei motivi per i quali bisogna stare attenti a
sbandierare previsioni in tema di professioni.
Mario: Quindi secondo te non bisogna dire ai giovani quali file saranno lunghe e quali
saranno corte, quali file scorreranno velocemente e quali lentamente?
132
Perché ai giovani non bisogna far sapere in quali mestieri potrebbero trovare
lavoro più facilmente.
Michele: Lasciate che racconti un’altra favoletta.
Li: Questa è una serata per bambini!
Michele: In un paese di cui non vi dirò il nome, alle sei di sera tutti i bambini sono seduti
davanti alla televisione a guardare l’ultimo episodio dei Pokemon e sia Ash, sia Pikachu li
consigliano di studiare informatica se vogliono trovare un lavoro. C’è però un bambino che è
andato in cortile a giocare a palla. Così, mentre tutti i piccoli teledipendenti studiano
informatica, lui studia greco antico. Chi troverà lavoro più facilmente?
Li: Il bambino che studia greco perché non avrà concorrenza. E allora?
Michele: La conclusione è che l’unico consiglio che dobbiamo dare ai ragazzi è di non
ascoltare i consigli dei propri genitori, dei propri insegnanti, dei propri amici, e neppure di
Ash e Pikachu e soprattutto di guardarsi da tutte le previsioni sul mercato del lavoro. L’unica
cosa seria è insegnare ai ragazzi a guardarsi dentro con onestà per capire che cosa amino fare,
che cosa li appassioni di più e aiutarli a realizzare i loro sogni. Credo che questa sia la ricetta
139
se non per il successo, almeno per evitare rimpianti e frustrazioni . Credo anche che
l’amore per una qualunque disciplina o attività sia la chiave per uscire dal sistema educativo e
formativo con una buona preparazione ed entrare nel mercato del lavoro con l’entusiasmo e la
determinazione necessari a convincere i datori di lavoro di essere la persona giusta per quel
lavoro.
Il ruolo della domanda sostitutiva e della domanda aggiuntiva
Mario: C’è un’altra cosa che ti vorrei chiedere. Cosa conta di più nel determinare il
numero di giovani che trovano lavoro: la domanda sostitutiva o quella aggiuntiva?
Michele: In generale la domanda sostitutiva. Vi sono però paesi come la Cina e gli Stati
Uniti nei quali il sistema economico ha creato un enorme numero di posti di lavoro e dove la
domanda aggiuntiva ha svolto un ruolo molto rilevante.
Mario: E l’Italia?
Michele: L’Italia rientra nel gruppo dei paesi nel quale il contributo della domanda
aggiuntiva è stato modesto. Se mi date un attimo, vi trovo dei dati. Ecco. In Italia, tra il 1966
e il 2006 tutti coloro che erano occupati all’inizio del periodo sono stati sostituti da giovani
usciti dal sistema formativo, provocando così un totale ricambio generazionale. In questo
periodo hanno, infatti, trovato lavoro quasi 24 milioni di persone. Quindi, ogni anno sono
entrati per la prima volta nell’occupazione circa 600.000 giovani; però solo 4,2 milioni, pari a
meno del 19 per cento, devono il loro ingresso alla crescita dell’occupazione. Gli altri 19,6
milioni sono entrati in sostituzione o di lavoratori che sono morti (2,8 milioni) o hanno
raggiunto i 65 anni (16,8 milioni). Inoltre, mentre per gli uomini la domanda aggiuntiva è
stata praticamente irrilevante (solo 1,5 per cento degli entrati lo deve all’aumento dei posti di
lavoro), per le donne essa spiega quasi il 40 per cento delle entrate.
139
Nel dire queste cose non posso non ricordare chi me le ha insegnate, Luisa Pombeni una cara amica
tragicamente scomparsa.
133
Tav. 1 – Entrati nell’area dell’occupazione per sesso e causa; 1966-2006
Fonte: Elaborazione su dati Istat
John: Come si spiega questa differenza?
Michele: I motivi principali sono due. Il primo è che per l’Italia questo è stato il periodo
della terziarizzazione. Tra il 1966 e il 2006 la quota dei servizi è passata dal 35,1 al 65,6 per
cento e l’occupazione del settore è aumentata di 8,5 milioni, mentre l’agricoltura ha distrutto
3,5 milioni posti di lavoro e l’industria oltre 500.000. I lavori nei servizi non solo erano
culturalmente più compatibili con l’immagine della donna, ma anche più consoni, per la
minore gravosità e durata media della settimana lavorativa, a chi deve quasi sempre
cominciare un secondo lavoro appena ha finito il primo. Cosi le donne hanno occupato il 60
per cento dei posti aggiuntivi del settore dei servizi e i 3/4 della domanda di flusso da esso
generato. Il secondo motivo è che all’inizio del periodo le donne occupate erano poche
(l’occupazione femminile toccò un minimo storico all’inizio degli anni 70) e giovani. Quindi,
negli anni successivi le uscite definitive non potevano che dare un contributo modesto
all’assorbimento delle nuove generazioni di donne. Notate che questa situazione caratterizza
anche le professioni nuove che non possono che generare un numero relativamente contenuto
d’ingressi per sostituzione.
Mario: Quindi, è la domanda sostitutiva che da il contributo maggiore all’assorbimento
dei giovani, mentre l’andamento della domanda aggiuntiva riflette le oscillazioni cicliche.
Michele: Vero; sempre nel caso italiano, si va da una situazione come quella del periodo
1991-96, quando il sistema economico distrusse in media 150mila posti all’anno, a quella
degli anni successivi quando il sistema economico seppe creare oltre 250mila posti di lavoro
all’anno e a quella degli ultimi cinque anni durante i quali almeno un milione di posti di
lavoro è andato distrutto.
Tav. 2 – Entrati nell’area del’occupazione per causa e quinquennio; 1966-2006
Fonte: Elaborazione su Dati ISTAT
La definizione di crisi economica
John: Comunque l’Italia sta finalmente per uscire dalla crisi.
Michele: John tu ricordi sicuramente la definizione di crisi economica.
John: Un paese si dice tecnicamente in crisi quando registra una variazione negativa del
PIL per due trimestri consecutivi.
134
Michele: Perfetto! Non pensate che anche in questo caso ci troviamo di fronte a uno dei
tanti esempi della disumanizzazione dell’economia? La crisi viene definita come una
diminuzione della produzione dei beni e dei sevizi e ciò mette in primo piano non l’obiettivo
della attività economica, il miglioramento delle condizioni degli uomini, ma lo strumento con
il quale viene perseguito, la crescita economica.
John: Per favore, non ritorniamo a discutere i limiti del concetto di prodotto interno lordo.
Michele: Non è questo il punto, anche se è interessante notare che l’uscita dalla crisi viene
definita dalla crescita del Pil e non del PIL pro capite. No, il punto è che l’aspetto
fondamentale di una crisi economica è l’aumento del numero di persone che non hanno un
lavoro o si trovano in condizioni lavorative precarie. Questo problema non viene
necessariamente risolto dal fatto che il livello della produzione torni eventualmente a
crescere.
Mario: Cosa ci vuole?
Michele: Supponiamo che nel corso del prossimo anno si registri una congiuntura
astrologica favorevole e il PIL italiano registri una variazione positiva, diciamo del 1 per
cento. Secondo la definizione che John ci ha ricordato l’Italia sarebbe “tecnicamente” uscita
dalla crisi. Gli economisti applaudirebbero, ma i lavoratori italiani, e soprattutto i giovani alla
ricerca di lavoro, potrebbero non accorgersene perché il livello dell’occupazione potrebbe
continuare a diminuire. Infatti, vista la perdita di competitività registrata dal sistema
economico italiano negli ultimi anni, è molto probabile che l’aumento della produttività risulti
più elevato della crescita del PIL, diciamo ad esempio del 2 per cento. In questo caso
l’occupazione diminuirebbe.
Mario: Vuoi dire che l’occupazione può diminuire anche in periodi che non sono
tecnicamente di crisi?
Michele: Esattamente; basta che la produttività aumenti più della produzione. Se vi
ricordate è quello che la Banca Mondiale auspica che avvenga in Cina nei prossimi 15 anni
per risolvere il problema della carenza di offerta. Per quanto riguarda l’Italia, credo che
l’occupazione avrà qualche possibilità di aumentare solo se la crescita del PIL toccherà
almeno il due per cento, un miraggio con le attuali politiche di austerità richieste dall’Unione
europea.
Mario: In conclusione?
Michele: Bisogna rimettere gli uomini al centro dell’economia, anche dando loro
informazioni rilevanti. Io suggerirei, prima di tutto, che radio e televisione smettessero di
comunicarci l’andamento della borsa di Tokio tutte le volte che ci sediamo a tavola. Anche la
chiusura della borsa di New York non dovrebbe essere considerato uno show da prima serata:
ha sicuramente effetti dannosi sui minori anche se accompagnati. Sarebbe molto meglio se i
media ci fornissero analisi del mercato del lavoro e degli andamenti demografici. Sarebbe poi
opportuno che si adottasse una definizione di crisi rilevante per coloro che ne pagano il costo
e che si basasse sull’andamento non della produzione, ma dell’occupazione.
Li: Sentite, il tema della crisi economica è certamente interessante, ma il tempo passa e
dovremmo parlare delle cause dei flussi migratori.
135
Un modello per spiegare e prevedere i flussi migratori in
ingresso
Michele: Li ha ragione. E’ arrivato il momento di utilizzare l’approccio al mercato del
lavoro che vi ho proposto per affrontare il tema centrale delle nostre chiacchierate: un
modello che spieghi i flussi migratori in arrivo. Vi ricordo che i demografi non hanno mai
sviluppato un modello delle migrazioni dato che ciò esula dagli obiettivi della disciplina,
mentre gli economisti neoclassici si sono limitati a modellare le partenze
John: Continuo ad avere molti dubbi che tu riesca a fare meglio dei tuoi colleghi
neoclassici. Ma vediamo!
140
Michele: In termini molto sintetici il mio modello parte dall’idea che nel lungo periodo
un paese registri un saldo migratorio positivo qualora abbia una carenza strutturale di offerta
di lavoro; ipotizza inoltre che il livello del saldo migratorio sia commisurato al numero di
posti di lavoro che l’offerta locale non riesce a ricoprire. Ovviamente, ciò presuppone la
presenza di un eccesso strutturale di offerta di lavoro in altri paesi. Usando la metafora del
cinema, sarebbe come se nel momento in cui i giovani del posto non riescono a riempire tutte
le sedie del teatro, ciò attirasse spettatori di altri paesi dove, al contrario, la fila di attesa è
lunghissima e la probabilità di riuscire a vedere modelli formalizzati delle migrazioni,.
John: Potresti definire i concetti di carenza strutturale e eccesso strutturale di lavoro.
Michele: Un paese presenta una carenza strutturale di offerta di lavoro quando il suo
mercato del lavoro è caratterizzato da una differenza rilevante e duratura tra le entrate nelle
forze di lavoro e le entrate nell’occupazione, vale a dire tra l’offerta di lavoro di flusso e la
domanda di lavoro di flusso. Insomma, al gestore del cinema non basta proiettare un film più
attraente, magari in 3D, o ridurre il prezzo del biglietto per riempire il cinema. Definiremo
eccesso strutturale di offerta la situazione opposta. In questo caso coloro che desiderano
vedere lo spettacolo sono così numerosi che è impossibile che il gestore riesca ad aumentare
il numero di sedie tanto da poter accogliere tutti i potenziali spettatori.
John: Adesso comincio a capire perché abbiamo parlato tanto di transizione demografica.
La transizione demografica è iniziata in momenti diversi in paesi diversi e così vi sono paesi
nella terza fase, durante la quale le entrate nella popolazione in età lavorativa diminuiscono, e
paesi nella prima fase nella quale le entrate aumentano a tassi crescenti. I paesi del primo tipo
sono i paesi che possono essere caratterizzati da una carenza strutturale di lavoro; i paesi del
secondo tipo sono quasi certamente caratterizzati da un eccesso strutturale di offerta. E’ la
carenza di lavoro dei primi che determina la direzione e l’ammontare delle migrazioni
internazionali, mentre i secondi offrono i migranti.
Michele: Perfetto. Non mi è rimasto quasi niente da dire.
Li: Faccio fatica a crederlo.
Michele: Aggiungo poche cose.
Li: Così va meglio.
Michele: Negli ultimi sessanta anni il numero di paesi nella terza fase della transizione
demografica è progressivamente aumentato, mentre molti paesi in via di sviluppo vedevano la
140
Per una presentazione esaustiva del modello si veda Michele Bruni (2009), “The century of the great migration.
Demographic forecast, migration and transition theory: A labor market perspective”, Papeles de Poblacion, Vol.
15. N. 62, pp. 9-73; Michele Bruni (2012), Migration and demographic projections: A new methodology to jointly
build labor market and demographic scenarios”, Genus, Vol. 68, n. 3 pp. 1-26.
136
loro popolazione aumentare in maniera molto pronunciata. Ciò ha creato la premessa per il
notevole aumento dei flussi migratori che si è registrato dal 1950 a oggi. Tuttavia, anche le
variabili economiche hanno avuto un ruolo rilevante.
Mario: Hai un’idea di quanto abbiano inciso?
Michele: E’ una questione empirica e l’affronteremo verificando la capacità esplicativa
del modello. Il secondo punto che voglio accennare è che l’avvicinarsi di una situazione di
carenza strutturale di lavoro è spesso segnalato dalla mancanza di persone con specifiche
professionalità. Solo in una seconda fase la carenza di offerta porta a una diminuzione del
numero di persone in cerca di occupazione, provoca un aumento dei flussi migratori interni
dalle zone con eccesso di lavoro alle zone in cui la carenza si è già manifestata e, infine, a un
aumento della partecipazione di forze di lavoro secondarie. Ma se il paese si trova nella terza
fase della transizione quasi inevitabilmente arriva il momento che l’immigrazione rappresenta
l’unica soluzione possibile. Il problema è spesso aggravato dal fatto che si continua a negare o
a sottovalutare l’esistenza del fabbisogno e quindi non si adottano neppure le politiche che
potrebbero rendere il problema meno acuto.
Mario: Credo che l’Italia fornisca un perfetto esempio di questo processo.
Michele: Sono completamente d’accordo. Basti pensare che bisogna arrivare al 1998
perché il governo italiano riconosca l’esistenza, anche se limitatamente a certe professioni, di
un fabbisogno strutturale di manodopera e introduca l’ovvia considerazione che nello stabilire
i flussi si debba prendere in considerazione la situazione del mercato del lavoro. Tuttavia, né
allora né in seguito venne fornita una definizione teorica e tantomeno empirica del concetto di
fabbisogno o meglio le indicazioni che venivano fornite per stimarlo erano, volendo essere
generosi, criptiche e non operative, ma a voler essere seri mostravano semplicemente che chi
le aveva formulate non avevano alcuna idea di cosa volesse misurare Cosi, malgrado alcune
illuminate proposte avanzate nel 2006 da Livi Bacci, che a quel tempo sedeva in Parlamento,
141
la situazione non è cambiata e le migrazioni sono ancora regolate dalla legge Bossi Fini .
Mario: Parafrasando un vecchio Carosello “Bastano i nomi”.
Michele: Un dato su tutti: dal 1995 al 2005, le quote hanno consentito l’ingresso regolare
di 250mila lavoratori extra comunitari a tempo indeterminato; nello stesso periodo si ebbero
tre sanatorie che portarono alla regolarizzazione di oltre 1,1 milioni di lavoratori già presenti
in maniera irregolare sul territorio. Nel complesso ciò ha consentito a 1.350.000 lavoratori di
risiedere regolarmente sul nostro territorio, ma ben 82 per cento deve questo a sanatorie.
Dopo il breve intermezzo del governo Prodi che con i decreti flussi del 2006 e del 2007
consentì l’ingresso a quasi 700.000 lavoratori, le cose sono tornate come prima.
Mario: Con le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti: lo sfruttamento da parte di
imprese, non solo meridionali, di lavoratori clandestini, ma necessari al sistema produttivo come viene poi regolarmente riconosciuto dalle regolarizzazioni- e l’affidamento del lucroso
business del trasporto dei migranti alla criminalità organizzata.
John: A mio avviso, queste osservazioni non sono sufficienti per dimostrare che le
migrazioni sono generate dalla domanda. Serve qualcosa di più.
Michele: Sono d’accordo e vi porterò altri argomenti, ma adesso è troppo tardi.
141
Per una storia dettagliata degli interventi legislativi in tema di migrazione e delle relative analisi di appoggio, si
veda Michele Bruni, 2008, “Il boom demografico prossimo venturo. Tendenze demografiche, mercato del lavoro
ed immigrazione: scenari e politiche”, Dipartimento di Economia Politica, Università di Modena e Reggio,
Materiali di Discussione; n. 607; www.dep.unimore.it/materiali_discussione/0607.pdf
137
Li: Spero che la prossima volta non parleremo solo di modelli, ma cercheremo anche di
capire quale sarà il futuro dello Cina.
Michele: Promesso, a costo di metterci tutto il giorno.
138
Da molti punti di vista, la transizione demografica che
sta interessando la Cina è un evento da celebrare: riflette
una riduzione della mortalità senza precedenti e uno
straordinario sviluppo economico. Ha consentito alle
donne di spogliarsi dalla loro tradizionale condizione di
macchine da riproduzione e ha aiutato milioni di studenti
a raggiungere il desiderato livello educativo. Ma la
rapida riduzione dei tassi di fertilità si è spinta troppo
oltre e la Cina dovrà implementare rilevanti riforme
strutturali per annullarne l’impatto. Dopo anni di crescita
demografica accelerata, il treno cinese ad alta velocità
sta correndo verso un precipizio demografico. La sfida
per coloro che sono incaricati di disegnare le politiche è
di prevenire che superi il crinale 142.
Wang Feng
Sesto Dialogo – Il futuro demografico della Cina: Ipotesi,
modelli e procedure per la costruzione di scenari demografici
e del mercato del lavoro.
I nostri amici si sono riuniti nell’appartamento di Mario a Cesenatico con l’intenzione di
farsi una bella mangiata di pesce. Di ritorno dal mercato sono tutti in cucina impegnati a
pulire frutti di mare, polipi e cefali. Ovviamente si stanno sostenendo con una bottiglia di
albana locale.
Notizie provenienti dall’interno e dall’estero
Michele: Ragazzi nelle ultime settimane è successo un po’ di tutto a cominciare dalla
piroetta parlamentare di Berlusconi, sorprendente e scenografica anche se non aveva la
calzamaglia.
Mario: A volte la vecchiaia toglie la grandezza. Avrei preferito vederlo combattere fin in
fondo e non piangere come un vecchio leone che ha perso i denti 143.
Michele: L’uomo ci riproverà. Non è di quelli che capiscono la bellezza di uscire di scena
dopo aver ottenuto il più lungo applauso della propria carriera.
John: Anche gli Stati Uniti hanno dato uno spettacolo penoso. Chiudere bottega per
riaprire pochi minuti prima del disastro e per di più con una prospettiva a termine 144, dà una
misura della crescente incapacità di gestire aspetti fondamentali della nostra politica.
142
Traduzione dell’autore.
Era il 3 ottobre del 2013 quando Berlusconi, dopo aver dato il voto a Letta, scoppiò in lacrime.
144
Per una storia dei fallimenti del governo americano, passati e recentemente temuti, si veda
http://www.politico.com/story/2013/10/debt-limit-government-default-98252.html
143
139
Comincio veramente a temere che questo secolo vedrà il progressivo tramonto del mio paese.
I segnali non mancano.
Li: Per non parlare delle attività di spionaggio 145. Dove è andato a finire il rispetto per i
diritti umani che il vostro governo sbandiera continuamente sotto il naso di tutti se poi i vostri
servizi segreti entrano, a loro insaputa, nella intimità di milioni di persone?
Michele: Comunque l’evento più drammatico è stato la strage preannunciata nel mare di
Lampedusa 146.
John: Questi continui sbarchi sono la dimostrazione più chiara che l’emigrazione è spinta
dalla drammatica situazione dei paesi di partenza.
Michele: John, non bisogna confondere i rifugiati politici con gli emigrati economici. I
primi fuggono effettivamente dai teatri di guerra del medio oriente e vengono in Europa alla
ricerca di una vita normale, spesso con i propri famigliari. Gli immigrati economici sono
invece attratti dalla mancanza di lavoro che caratterizza molti paesi europei. In entrambi i
casi, l’Italia è spesso solo il paese di transito più vicino.
Mario: Sarebbe quindi giusto che l’Italia non fosse lasciata sola a gestire questo problema
e che l’Unione Europea gestisse in prima persona il problema dei rifugiati.
Michele: …e anche le migrazioni economiche visto che tutti i paesi europei dovranno
importare manodopera se vorranno continuare a crescere e che gli immigrati debbono spesso
attraversare altri paesi europei per arrivare alla loro meta finale.
John: La tua tesi è ancora tutta da dimostrare!
Michele che sta mettendo sul fuoco un grosso tegame pieno di cozze che ha appena
accuratamente pulito con uno spazzolino di ferro: Va bene, ma diamoci un obiettivo per la
serata o meglio per questo week end, visto che resteremo tutti a Cesenatico fino a domani
sera.
Mario: In primo luogo una degustazione di prodotti del mare: spaghetti allo scoglio e
grigliata mista.
John: Poi, almeno una passeggiata sulla spiaggia.
Li: A me piacerebbe che arrivassimo finalmente a capire cosa sta per succedere in Cina.
John: .. e a me come funziona la procedura di Michele per effettuare proiezioni
demografiche realistiche.
Michele: Ok. Credo allora che io dovrei, prima di tutto, dimostrarvi che il mio modello dei
flussi migratori trova sostegno nei fatti, poi farvi vedere come esso porti a modificare la
procedura per effettuare proiezioni demografiche e, infine, applicare la procedura alla Cina.
Mario: Stiamo per mettere molto pesce sul fuoco!
Li: Però a me non dispiacerebbe che prima John ci ricordasse dove siamo arrivati.
145
Si tratta di un vizietto che testimonia soprattutto un atteggiamento mentale di superiorità morale che non trova
certo sostegno nella storia degli Stati Uniti.
146
Il 3 ottobre del 2013 un barcone con oltre 500 rifugiati prende fuoco e s’inabissa nei pressi dell’isola di
Lampedusa. E’ il peggior disastro registratosi fino ad allora, ma il primo di una lunga serie alla quale l’opinione
pubblica si sta lentamente anestetizzando, mentre governi e istituzioni internazionali mostrano la loro totale
impotenza.
140
John fa il punto
John: Eccomi … Durante la penultima cena Michele ci ha raccontato che le proiezioni
demografiche si basano su tre set di ipotesi. Il primo, che i demografi considerano il più
importante, riguarda la fecondità. Esso consente di prevedere il numero dei nati che vengono
inseriti alla base della piramide dell’età. Il secondo riguarda la mortalità. Esso consente di
prevedere l’evoluzione quantitativa delle coorti successive. In un paese chiuso, senza
immigrati, questi due insiemi d’ipotesi sono sufficienti per costruire scenari demografici.
Mortalità e fertilità sono variabili lente che normalmente si modificano lungo il trend messo
in evidenza dai valori precedenti. Pertanto, su orizzonti temporali di medio periodo queste
proiezioni sono abbastanza affidabili. Quando si passa a un paese aperto, entra in gioco il
terzo insieme d’ipotesi, quello relativo ai saldi migratori. E qui, come disse Confucio, casca
l’asino, perché ne i demografi ne gli economisti sanno spiegare i saldi migratori. Cosi i
demografi si limitano a ipotizzare che i saldi migratori futuri sia positivi, sia negativi saranno
uguali a quelli passati. Secondo Michele, si tratta di un’ipotesi del tutto assurda perché
l’attuale situazione demografica è caratterizzata da una continua evoluzione sia del livello, sia
della direzione dei flussi migratori. Secondo il prof., il problema può essere risolto solo
facendo ricorso a un modello che individui le cause del fenomeno e permetta quindi di fare
previsioni.
Michele: Perfetto. Posso cominciare.
John: A costo di sembrarti un rompiballe, mi sembra impossibile che i demografi siano
cosi poco astuti come ce li racconti e vorrei capire bene quali sono le tue critiche alle ipotesi
in tema di migrazioni adottate dalla Population Division e dagli altri enti che si occupano di
proiezioni demografiche.
Le ipotesi sulla migratorietà della Population Division
Ciò che non convince Michele
Michele: La mia obiezione principale è molto semplice. I flussi migratori internazionali
sono diventati un fenomeno sempre più rilevante tanto che in parecchi paesi sono essi che
spiegano l’evoluzione demografica. Pertanto, cogliere in maniera corretta il loro andamento
futuro è essenziale per produrre proiezioni demografiche realistiche. E’ evidente che, in un
contesto demografico estremo come l’attuale, tale risultato non può essere raggiunto
utilizzando semplici estrapolazioni dell’andamento passato. Sarebbe come qualcuno
prevedesse che domani pioverà perché è piovuto ieri, pur sapendo che domani inizia la
stagione secca. L’ovvia soluzione è di utilizzare un modello che colleghi i saldi migratori a
variabili demografiche ed economiche, anche per evitare i continui fallimenti delle proiezioni
e la necessità di modificarle sempre più spesso e in maniera sempre più pronunciata.
John: Ad esempio?
Il caso italiano
Michele: Mi sembra di avervi già detto come, alla fine degli anni sessanta, i demografi
non abbiano saputo prevedere un fenomeno macroscopico come l’inversione del segno dei
saldi migratori che stava per verificarsi in numerosi paesi, a partire da quelli della sponda sud
del Mediterraneo. Comunque, per capire rapidamente la situazione, lasciate che vi riassuma
cosa è successo in Italia. Le prime proiezioni demografiche furono effettuate dall’IRP,
141
l’Istituto di Ricerca sulla Popolazione, nel 1984; a queste ne seguirono delle altre nel 1988 147.
In entrambi i casi, furono ipotizzati saldi migratori nulli, malgrado fosse già evidente che la
popolazione italiana stava per entrare in una fase di rapida decrescita, tanto che lo stesso IRP
stimava che la popolazione del Centro-nord sarebbe diminuita di 5 milioni nei trenta anni
successivi. In un esercizio fatto dallo stesso Istituto nel 1998, sulla falsariga di un precedente
lavoro di Coale 148, si ipotizzarono due saldi migratori costanti di 50mila e 80mila unità per un
periodo di cento anni. In entrambi i casi, i saldi migratori non sono collegati in nessun modo
al diverso andamento demografico prodotto dai quattro tassi di fertilità ipotizzati
nell’esercizio e che producono riduzioni della popolazione totale fino all’82 per cento 149.
Questa impostazione si mantiene anche nelle proiezioni successive quando entra in azione
l’ISTAT, l’Istituto italiano di statistica. Nelle proiezioni del 2001 il saldo migratorio
ipotizzato viene posto, sotto l’incalzare degli eventi, a 125mila unita e poi a 200mila in quelle
del 2008. Nelle ultime, quelle del 2011, il saldo migratorio è alzato ulteriormente a 325mila
unita, ma in questo caso, in linea con le indicazioni della Population Division, si ipotizza che
esso scenda a 175mila nel 2065 per poi annullarsi nei 35 anni successivi 150. Insomma, in 30
anni i demografi italiani hanno alzato l’ipotesi sul numero medio annuo di immigrati da 0 a
325.000, sono passati da una ipotesi di costanza nel tempo a una di progressivo declino, ma si
sono mantenuti fedeli all’idea che il fenomeno sia indipendente dall’andamento economico e
da quello demografico.
John: Scusa, se le cose stanno come dici tu, cosa giustifica il perseverare nell’errore?
Michele: Si è a lungo pensato che i flussi migratori giocassero un ruolo poco rilevante
nella dinamica demografica e questa idea permane, dato che la percentuale dei migranti sulla
popolazione totale non sta aumentando. Allo stesso tempo è opinione diffusa tra i demografi
che le ipotesi sui saldi migratori siano le più difficili da formulare. Quindi, perché non
affidarsi a metodi meccanici che hanno anche il vantaggio di non generare controversie su di
un tema cosi sensibile politicamente? Non sarebbe facile per un demografo che lavora in un
organismo nazionale o internazionale sostenere una tesi da domanda che porterebbe
inevitabilmente a saldi migratori di dimensioni “politicamente scorrette”.
John: Fermati un momento. Stai dicendo che il problema non è tecnico, ma politico?
Il rapporto Chamie e l’immigrazione sostitutiva
Michele: Per lo meno anche politico. Lasciate che vi racconti una storia. Nel marzo del
2000 Joseph Chamie, allora direttore della Population Division, presentò al meeting annuale
della Population Association of America, tenutosi a Los Angeles, un Rapporto dal titolo
molto suggestivo e controtendenza: “L’immigrazione sostitutiva rappresenta una soluzione al
declino e all’invecchiamento di una popolazione?” 151. Lo studio presentava una serie di
scenari demografici che arrivavano fino al 2050 per otto paesi (Italia, Francia, Germania,
Gran Bretagna, Stati Uniti, Federazione Russa, Repubblica della Corea e Giappone) e due
147
CNR e IRP (1988), Secondo Rapporto sulla situazione demografica in Italia, Roma.
Ansley J., Coale (1986), “Demographic effects of below-replacement fertility and their social implications”, in
Kingley Davis e altri, Below Replacement Fertility in Industrial Societies: Causes, Consequences, Policies,
Population and Development Review, Supplement to Vol. 12, New York, Population Council.
149
IRP (1994), Tendenze demografiche e politiche per la popolazione. Terzo rapporto IRP, Il Mulino,
Bologn.
150
Istat (1997), Previsioni della popolazione residente per sesso, età e regione: Base 1.1.1996, Informazioni,
N. 34; Istat (2001), Previsioni della popolazione residente per sesso, età e regione dal 1.1.2001 al 1.1.2051;
Istat (2006), Previsioni demografiche nazionali, 1 gennaio 2005 – 1 gennaio 2050, Nota Informativa, 22 marzo;
Istat (2009), Previsioni demografiche 1 gennaio 2007-2051.
151
UN DESA (2000), Replacement Migration, is it a solution to declining and ageing population? New York
148
142
regioni (Europa e Unione Europea). Il Rapporto Chamie “calcolava” il saldo migratorio in
funzione di alcuni indici di “fabbisogno” dei paesi di arrivo. La sostituzione nel titolo è,
infatti, quella necessaria per mantenere costanti alcuni indicatori demografici, il più
interessante dei quali è certamente la popolazione in età lavorativa.
John: I risultati?
Michele: Secondo questo rapporto, per mantenere costante la popolazione in età lavorativa
al livello massimo che sarebbe stato raggiunto tra il 2000 e il 2050, la Russia dovrebbe
importare 36 milioni di immigrati, il Giappone 32, la Germania 24 e l’Italia 19. L’Europa nel
suo complesso avrebbe bisogno di 161 milioni d’immigrati e gli Stati Uniti di 18 milioni.
John: E allora
Michele: Si trattava di una rivoluzione, come mostra un confronto tra i valori medi annui
del Rapporto Chamie con quelli che la Population Division ha proposto nel 1998 e poi nel
2010 152. Ma ancora piu interessante è il confronto tra i dati delle poiezioni del 1998 e quelle
del 2010, entrambe basate su una estrapolazione del passato. Il fabbisogno della Russia
aumenta di 64 volte, quello dell’Italia di 22, quello della Francia di 15, quello della Gran
Bretagna di 9, mentre quello della Germania si dimezza. Il dato del Giappone passa da 0 a
53mila unità, quello della Corea da negativo a +43mila. Il dato degli Stati Uniti, che registra
un ritocco di “solo” il 32 per cento, è il più stabile. Non male per proiezioni che dovrebbero
consentire di disegnare politiche di lungo periodo!
Tavola 1 – Saldi migratori in tre scenari alternativi della Population DIvision; valori
medi annui in migliaia
Fonte: elaborazione su UN DESA, 1998, 2001, 2010
Li: Mi stai confondendo con tutti questi numeri. Cosa non va nello studio di Chamie?
Michele: Niente. Anzi, dal mio punto di vista si tratta di uno studio molto importante
perché rompe con la tradizione di “prevedere” le migrazioni solo sulla base dei valori passati
e suggerisce che le migrazioni possono avere a che fare con i buchi demografici che si creano
nei paesi di arrivo a seguito della transizione demografica.
Mario: E poi che cosa è successo?
Michele: La Population Division ha fatto marcia indietro.
John: Perché?
152
UN DESA, World Population Prospects , the 2008 and the 2010 Revisions
143
Michele: Non appena il Rapporto Chamie fu presentato, fioccarono critiche di tutti i
generi, molte anche ingiustamente sarcastiche 153. Si sostenne che dietro l’esercizio
demografico si celava una ben precisa proposta politica che individuava nelle migrazioni di
massa il toccasana per affrontare il problema del calo della popolazione totale, della
popolazione in età lavorativa e dell’invecchiamento 154. Di fatto il Rapporto partiva dal
presupposto, per me scontato, che nel medio periodo solo le migrazioni internazionali
possono modificare la tendenza al declino demografico e all’invecchiamento. E questo perché
se vi è qualche possibilità che nei paesi sviluppati la natalità aumenti nei prossimi decenni, è
però del tutto improbabile che essa possa riportarsi a quel valore di circa 2,1 figli per donna
che garantisce la stabilità del livello della popolazione. D’altra parte, tutti i paesi e tutte le
istituzioni internazionali si pongono l’obiettivo di ridurre la mortalità e ciò comporta
l’inevitabile accelerazione del processo d’invecchiamento della popolazione.
Mario: Interessante.
Michele: Venne anche sostenuto, da quelli che vedono la cultura come qualcosa di statico
e da conservare come se si trattasse di carciofini, che migrazioni delle dimensioni indicate dal
Rapporto avrebbero portato alla perdita d’identità delle comunità di arrivo 155. Vi furono poi i
soliti struzzi che, alla faccia del footprint ecologico 156, sostennero che dopo tutto non è un
grosso problema se la popolazione cresce e invecchia. Le critiche più ragionevoli, se
interpretate al di fuori del contesto massimalista nel quale furono pronunciate, segnalavano
che vi erano altri strumenti, altre politiche per fare fronte al declino demografico e
all’invecchiamento, anche se poi si limitavano a suggerire le solite cose: aumenti della
produttività e della partecipazione al mercato del lavoro. Non un solo demografo difese una
visione del futuro del nostro pianeta caratterizzata da flussi migratori delle dimensioni
previste da Chamie o espresse qualche interesse verso l’idea di considerare la situazione
demografica dei paesi di arrivo per stimare i flussi. Poco dopo Chamie andò in pensione e le
Nazioni Unite tornarono alle solite ipotesi.
Mario: Ma tu cosa ne pensi?
Michele: Quello di Chamie era certamente un esercizio, ma gettava un sasso nelle acque
stagnanti delle previsioni demografiche. Non solo innovava rispetto alla metodologia
standard, ma conteneva l’idea del tutto nuova per le Nazioni Unite di collegare le migrazioni
alla situazione demografica dei paesi d’arrivo. Tuttavia, la metodologia proposta da Chamie
presentava due grossi limiti: si basava su obiettivi demografici privi di qualunque significato
economico e non prendeva in considerazione la domanda di lavoro.
Li: Anche in questo caso se tu potessi fornire un esempio non guasterebbe.
Michele: Te lo fornirò, ma più avanti. Veniamo adesso alla situazione attuale. Nelle
proiezioni del 2012 la Population Division ipotizza non solo che fino al 2050 i saldi migratori
rimangano sostanzialmente uguali al valore medio registrato negli ultimi dieci anni, ma
153
Scrisse Coleman: “Nel 2000 la possibilità di un salvataggio demografico dal problema dell’invecchiamento
mediante flussi migratory fu risvegliato fra i creduli da un Rapporto della Population Division delle Nazioni Unite
inn tema di “Migrazione di rimpiazzo” (traduzione dell’autore). D.A. Coleman (2002), “Replacement Migration,
or why everyone is going to have to live in Korea: a fable for our times from the United Nations”, Philosophical
Transactions of the Royal Society B, 357.
154
McNicoll G. (2000), “Reflection on replacement migration”, Place and People. Vol. 8, n. 4
155
D. Coleman op. cit.; molto più pacata la valutazione dell’australiano McNicoll, op. cit.
156
L’impronta ecologica è un indicatore utilizzato per valutare il consumo umano di risorse naturali rispetto alla
capacità della terra di rigenerarle. Il concetto è stato introdotto nel 1996 da Mathis Zackermagel e William Rees
nel loro libro Our Ecological Footprint, Gabriola Island, New Society Publishers.
144
anche, come ho già accennato, che la loro consistenza si riduca progressivamente fino ad
annullarsi nei successivi cinquanta anni.
Mario: A questo punto sono veramente curioso di vedere a quali risultati portino queste
ipotesi.
Michele: Credo che potremo fornire una valutazione più corretta confrontando le
proiezioni della Population Division con quelle che si ottengono con la mia procedura.
John: OK, allora torniamo al nostro programma iniziale. Prima di vedere. i risultati ci devi
dare qualche valido motivo per comperare la tua tesi da domanda.
La verifica della tesi da domanda
Michele: Non aspetto altro e cercherò di farlo fornendovi prove sia storiche sia empiriche
della mia tesi.
John: Cosa intendi per prove storiche?
Michele: Vorrei ripercorrere con voi la storia delle migrazioni e dei grandi spostamenti
geografici che hanno caratterizzato la storia dell’uomo per cercare di capire che cosa le abbia
determinate.
Mario impegnato a pulire un notevole quantitativo di aglio: Scacciati dal paradiso
terrestre e liberi finalmente di cedere alle tentazioni della carne, gli uomini e le donne si
sparsero su tutta la terra in cerca di attraenti compagne e di non meno attraenti compagni.
La verifica storica
Le migrazioni che anche il più convinto dei neoclassici farebbe fatica a
spiegare dal lato dell’offerta: schiavi e lavoratori a contratto.
Michele: Il primo grande fenomeno di spostamento di forza lavoro 157 di cui abbiamo una
buona documentazione si verificò nell'Antica Roma quando i contadini italici furono chiamati
a formare le invincibili legioni che avrebbero conquistato il mondo occidentale e la
coltivazione dei campi venne affidata a schiavi provenienti da tutti i paesi del Mediterraneo e
non solo. L’idea piacque anche ai romani di Roma che cominciarono ad usare schiavi per
svolgere tutte le faccende domestiche, incluso l’insegnamento, spesso affidato a colti schiavi
della magna Grecia, una soluzione che riduceva le spese di manutenzione della casa e della
città eterna. Così, all'inizio dell'era cristiana, circa il 40 per cento del milione di romani era
costituito da schiavi. In sostanza, nella Roma dei Cesari c'erano più stranieri che nella Roma
di Marino 158.
John: Ma quelli erano schiavi. Non vedo il nesso tra schiavitù e migrazioni?
Michele: La mia ipotesi è che sia sempre stata la carenza di lavoro e/o la ricerca di modi
per ridurre i costi di produzione a provocare gli spostamenti di manodopera, non importa che
si tratti di spostamenti volontari o involontari, di uomini liberi o di schiavi. La caduta
dell'Impero romano e il declino economico che si registrò in tutta Europa, resero inutile
l'importazione massiccia di manodopera straniera per moltissimi secoli, mentre gli arabi non
157
Va tenuta distinta la mobilità sul territorio -che risale a tempi molto precedenti alla comparsa di homo sapienscon lo spostamento di risorse mane a scopo produttivo.
158
Si veda Keith Hopkins (1981), Conquerors and Slaves, Cambridge University Press.
145
fecero mai un uso rilevante di schiavi. Poi “scopriamo” l'America e in nome della fede
cristiana e a causa della ostinazione degli indios a non voler salvare la propria anima e a
difendere le loro famiglie, le loro case e i loro modesti averi massacriamo quasi
completamente la popolazione nativa.
John: Le solite esagerazioni ideologiche. Gli indios morirono d’influenza e altre malattie.
Mario: Il dibattito è ancora aperto su quanti milioni di indios morirono per le malattie 159 che comunque erano state portate dagli spagnoli- e quanti vennero torturati ed uccisi dagli
invasori, pardon scopritori, anche in base al fatto che la chiesa ci mise un po’ di tempo a
decidere se si trattasse di essere umani o di un nuovo tipo di scimmie, una incertezza sulla
quale pesò certamente l’aspetto economico della vicenda 160 .
Michele: Comunque sia andata, quando si arriva verso la metà del sedicesimo secolo, gli
indios non erano più sufficienti per coltivare le piantagioni e sfruttare le miniere. Allora, per
rispondere a una crescente domanda di lavoro e per unire l'utile al dilettevole, i portoghesi per
primi, seguiti a ruota da inglesi, spagnoli, francesi e olandesi si dedicarono con crescente
entusiasmo al cosiddetto “commercio triangolare”, un’invenzione fondamentale nella storia
dell’uomo che contribuì notevolmente alla creazione degli imperi coloniale e alla costituzione
di enormi fortune famigliari.
Li: Interessante! Cos’è il commercio triangolare? Lo si può fare ancora?
Michele: Forse sì, basta trovare le merci giuste e il triangolo giusto. L'idea è molto
semplice. Si partiva dal paese di origine verso l’Africa con un carico di manufatti di poco
valore con i quali si compravano dai locali mercanti di carne umana degli schiavi che
venivano caricati su navi speciali. Ogni schiavo disponeva di circa due metri quadrati di
spazio (servizi in comune) così che per la carenza di cibo e le pessime condizioni igieniche
circa il 25% moriva durante la traversata. I superstiti erano venduti nelle colonie dell'America
centrale e meridionale. Con il ricavato si acquistava a buon mercato il prodotto del lavoro di
precedenti schiavi: cotone, zucchero, tabacco, melassa e rum che venivano poi portati sui
mercati europei. Si chiudeva così il cerchio, o meglio il triangolo, con enormi profitti.
John: Non dimenticare che se molti trassero guadagno dalla tratta degli schiavi, ci furono
anche consistenti movimenti per la sua abolizione.
Mario: La Repubblica Serenissima di Venezia abolì la schiavitù nel X secolo, con grande
anticipo sugli altri stati europei.
Michele: .. che vuoi per motivi ideali, ma soprattutto economici abolirono la tratta degli
schiavi solo nella prima metà del XIX secolo. Cominciò l'Inghilterra, seguita da Spagna e
Portogallo e, infine, dalla Francia. In Europa molti erano a favore della schiavitù che
159
Massimo Livi Bacci (2006), Conquista. La distruzione degli indios americani, Il Mulino, Bologna.
Bisogna arrivare al 1537 perché la chiesa scopra che “Indios veros homines esse”. Questa straordinaria
realizzazione, in gran parte dovuta all’azione di missionari come il Vescovo Bartolomé de Las Casas che avevano
avuto occasione di assistere alle atrocità perpetrate dai conquistadores, si trova nella Bolla Veritas Ipsa di Paolo
III che vietava di ridurre in schiavitù gli indigeni delle Americhe. La Bolla rovesciava la posizione che la Chiesa
aveva assunto in due Bolle precedenti, la Dum diversas del 1452 e la Romanus Pontifex del 1455 che consentivano
ai cristiani il diritto di ridurre in schiavitù i non cristiani. Come se questo non bastasse, dopo la scoperta delle
Americhe c’erano stati i soliti zelanti servitore dei poteri finanziari che avevano prontamente argomentato che gli
indios non potevano essere umani dato che il buon Dio aveva negato loro la conoscenza dei Vangeli per 1500 anni.
Ovviamente la Veritas Ipsa non ebbe molto effetto su coloni e conquistadores. Le eccezioni non mancarono
neanche nei pressi del Vaticano visto che nel 1545 Paolo III tornò a consentire la compravendita di schiavi a Roma
dove sembra ci fosse carenza di questo essenziale fattore di produzione.
160
146
consentiva l’importazione di prodotti esotici sempre più ricercati anche per i loro prezzi molto
contenuti. Insomma, in quel periodo l’America con i suoi schiavi svolgeva lo stesso ruolo
svolto oggi dalla Cina e dagli altri paesi del sud est asiatico con la loro manodopera a buon
mercato. L'abolizione della tratta non significò comunque né l'abolizione della schiavitù, né
l'abolizione del commercio di uomini.
Lì: Che differenza c'è?
Michele: Si tratta di una differenza puramente formale. Quando la tratta degli schiavi fu
abolita, rimase il problema di trovare manodopera a buon mercato non solo per le piantagioni
e per le miniere, ma anche per le grandi opere infrastrutturali, prima fra tutte la ferrovia del
Pacifico.
Mario: Nel profondo sud si provò a risolvere il problema con la produzione in loco, ma le
farms del posto non riuscirono a far fronte alla domanda 161.
Poi, rivolto a Li: Anche in questo caso foste voi cinesi a trovare la soluzione. Non solo
siete stati i primi a scoprire la polvere da sparo, la bussola, la stampa a caratteri mobili e la
carta, ma avete anche inventato il commercio dei lavoratori a contratto. Ancora una volta
furono però gli occidentali a trovare le applicazioni più redditizie. Le cose procedevano così.
Uomini armati raccoglievano, in campi recintati e sorvegliati, persone raccolte nelle strade e
che oggi definiremmo marginali (ubriachi, vagabondi, accattoni etc.), insieme ad altre
catturate e imprigionate a forza. Veniva poi proposto loro un contratto con il quale essi si
vendevano per un periodo variabile tra i 5 e i 7 anni. Probabilmente era una proposta che non
si poteva rifiutare dato che mancano testimonianze di cosa accadesse a coloro che non
firmavano.
Lì: Non sapevo questa storia.
Michele: I libri cinesi ne dovrebbero parlare perché se è vero che i “lavoratori a contratto”
furono un’invenzione locale è anche vero che furono le popolazioni cinesi ed indiane della
costa l'obiettivo principale di quelle prime agenzie private di collocamento a livello
internazionali che, non a caso, si stanno riproponendo alla grande in questi ultimi anni in
attesa di un futuro che potrebbe diventare per loro molto luminoso. Non solo, ma mentre si
stima che gli schiavi africani arrivati in America siano stati meno di 15 milioni, per i
lavoratori a contratto le stime parlano di 30-40 milioni tra cinesi e indiani. Ovviamente il
numero così alto dipende dal fatto che, come per gli schiavi, la sopravvivenza media era
molto ridotta (secondo alcune testimonianze nelle miniere del Perù non oltre sei mesi) e che
quei pochi che riuscivano a giungere alla fine del contratto spesso ne firmavano uno nuovo,
non perché fosse loro piaciuto il lavoro, ma per una totale mancanza di alternative. D’altra
parte, come tu sai la grande ferrovia che collega l'Atlantico con il Pacifico fu in gran parte
costruita dai tuoi antenati.
Li: Sì, ho visto un ottimo film con Jakie Chang 162!
John: Il nostro Li sta diventando sempre più spiritoso.
Michele: Meglio di Xiao Ming 163. Ah! Mi sono dimenticato una cosa. C'era una grossa
differenza tra gli schiavi e i lavoratori a contratto. Le navi erano le stesse e i servizi simili, ma
161
L’opinione espressa da Mario si basa soprattutto su racconti di diretti interessati e prove indirette. Anche
secondo William Fogel e Stanley Engerman (Time on the Cross; The Economics of American Negro Slavery,
W,W. Norton; 1995) le evidenze di attività sistematiche di riproduzione di schiavi negli stati del sud sono scarse.
162
Li si riferisce forse al film “Shanghai noon”.
147
i lavoratori a contratto pagavano il biglietto, solo andata. In conclusione la fine della tratta
degli schiavi non determinò la fine del traffico di carne umana, ma fu sostituita da un traffico
ugualmente crudele di cui però si parla molto meno anche perché nel frattempo l'Oceano
Atlantico veniva attraversato dalle prime grandi ondate di emigranti europei: italiani,
irlandesi, tedeschi, polacchi, ecc..
Mario: Prima che Michele continui con la sua storia, lasciate che aggiunga alcune cose
sulla schiavitù. Fine della tratta e fine della schiavitù, non sono la stessa cosa. La
dichiarazione d'indipendenza americana, promulgata nel 1776, asseriva che tutti gli uomini
sono stati creati uguali e posseggono diritti inalienabili tra cui la vita, la libertà e la ricerca
della felicità, anche se poi, come abbiamo visto, gli Stati Uniti continuano a misurare il PIL e
non l’Indice Lordo di Felicita proposto dal Bhutan. Nello stesso anno, un abolizionista inglese
fece notare, riferendosi a Thomas Jefferson, come fosse ridicolo un patriota americano che
con una mano firmava la dichiarazione d'indipendenza e con l'altra frustava i suoi schiavi.
Pochi anni dopo, contrariamente a quanto avveniva negli Stati Uniti, la rivoluzione francese
abolì la schiavitù che però fu reintrodotta, per motivi economici e politici, da Napoleone
all'inizio del secolo successivo e, non a caso, fu proprio la Francia il paese che si oppose più a
lungo all'abolizione della tratta. Infine, se è vero che tutti i paesi europei hanno abolito la
schiavitù entro la metà del XIX secolo, ben diverso è stato il comportamento di alcuni dei
loro alleati. A parte il caso disperato -e solo saltuariamente ricordato da qualche indagine
giornalistica - della Mauritania dove la schiavitù è stata formalmente abolita nel 1980, ma è
ancora ampiamente praticata, l'Arabia Saudita e lo Yemen hanno abolito la schiavitù solo nel
1962. Per non parlare dei bambini usati nei paesi dell’Africa occidentale dall’industria del
cioccolato e di quello che sta succedendo nei paesi del golfo!
La grande migrazione intercontinentale
John: Arriviamo così all'era moderna nella quale i poveri, i diseredati e coloro che
ritengono di non avere un futuro nel loro paese partono verso terre lontane per cercare un vita
migliore per sé e per i propri figli.
Michele: Ritengo che il mio modello si applichi anche a questa fase, una volta chiarito che
i Padri Pellegrini erano dei rifugiati politici. Non sono il primo a notare che le grandi
migrazioni intercontinentali dell’ottocento e dei primi del novecento ebbero luogo quando
solo l’Europa si trovava nella prima fase della transizione demografica 164. A questo va
aggiunto che i paesi di destinazione erano quelli che offrivano alte probabilità di trovare un
lavoro dipendente o di inventarsi una qualche attività artigianale o imprenditoriale. In
sostanza, anche per i milioni di emigranti europei che attraversarono l’Atlantico fino all’inizio
della prima guerra mondiale non si trattò di una fuga dalla miseria e dalla mancanza di lavoro,
ma dell’attuazione di progetti migratori rivolti ai paesi che offrivano potenzialità di lavoro.
D’altra parte, il fenomeno si arrestò in occasione della grande depressione. Insomma anche in
quel caso non possiamo trascurare il semplice fatto che si emigrò verso l’America e
l’Australia, e non verso il centro dell’Africa, e limitatamente al periodo durante il quale quei
163
Anche i cinesi hanno il loro Pierino.
Jean Claude Chesnais (1986), La transition démographique: Etapes, formes, implications économique,
Paris, Puf.
164
148
paesi offrivano ottime occasioni di lavoro, una situazione che ritroviamo anche nel secondo
dopoguerra 165.
John: Tu appoggi la tua tesi da domanda sul fatto che nel tempo il lavoro sia stato una
merce al centro di un fiorente commercio internazionale alimentato da una domanda che non
poteva essere soddisfatta localmente -non diversamente da quanto avveniva per il cotone in
Inghilterra e negli altri paesi europei- e sostieni che la stessa cosa sia vera anche per gli attuali
migranti. A me pare che ci sia una sostanziale differenza tra le due situazioni. Insomma,
prima di accettare la tua tesi vorrei avere un più robusto supporto empirico della tua tesi.
Michele (scolando le cozze e passandole a Mario che ha già pronto un sughetto un po’
piccante in cui metterle): Nessun problema. Ribadisco il concetto. La mia tesi è che i
migranti partono non perché spinti dalla povertà, dalla carenza di occasioni di lavoro, ma
perché sono attratti colà dove tali probabilità esistono. Ciò implica, tra l’altro, che coloro che
emigrano non sono i più poveri e i più disperati, ma i più preparati e intraprendenti. Se quello
che sostengo è vero, i flussi migratori si dirigono verso i paesi caratterizzati da una carenza
strutturale di offerta di lavoro e il loro livello è correlato alla dimensione di tale carenza o
fabbisogno. Lasciate che vi proponga un test che ho preparato in attesa di questa
chiacchierata.
Mario: Quale periodo hai preso in considerazione?
Michele, levandosi il grembiule: Scusate prima trasferiamoci in sala da pranzo. Vado a
prendere il computer.
John: Ci obblighi a prendere un’altra bottiglia di albana.
Dopo cinque minuti i nostri amici sono seduti intorno al tavolo della sala da pranzo con i
bicchieri pieni e Michele ha già acceso il computer.
La verifica empirica
Paesi di partenza e paesi di arrivo
Michele: Per dimostrarvi la mia tesi ho scelto l’intervallo 1990-2010 perché i dati sono più
affidabili di quelli dei periodi precedenti 166. Inoltre, si conoscono i livelli dell’occupazione di
cui avevo bisogno per il mio esercizio. In questo periodo si sono registrati circa 94 milioni di
migranti che si sono trasferiti da 119 paesi di partenza in 83 paesi di arrivo. Però, come
vedete nella tavola, sia gli arrivi, sia le partenze sono concentrati in un piccolo numero di
paesi. Nel caso degli arrivi, gli Stati Uniti con 23 milioni di immigrati pesano per un quarto
del totale; i primi cinque paesi d’arrivo (che includono, oltre gli USA, Russia, Spagna,
Emirati Arabi e Spagna) spiegano oltre il 50 per cento e i primi sedici l’80 per cento degli
arrivi 167. La classifica dei paesi di partenza è guidata dal Messico con 7,6 milioni. I successivi
sei paesi sono asiatici: nell’ordine Bangladesh (7,3), Cina (5.6), India (5,4), Pakistan (5,2),
Filippine (3,8) e Kazakistan (2.8). Questi sette paesi spiegano quasi il 40 per cento delle
165
Michele Bruni (2008), “Il boom demografico prossimo venturo. Tendenze demografiche, mercato del lavoro ed
immigrazione: scenari e politiche”, Dipartimento di Economia Politica, Università di Modena e Reggio, Materiali
di Discussione; n. 607op. cit.
166
Per utilizzare dati omogenei ho usato per tutti i paesi i dati demografici della Population Division, mentre per
l’occupazione e per il tasso di partecipazione ho fatto ricorso alla base dati dell’Ufficio Internazionale del Lavoro,
LABORSTA.
167
Fra i primi 16 vi sono anche Canada e Australia, Italia, Gran Bretagna e Francia, il Sud Africa e l’Arabia
Saudita e tre paesi asiatici (Malesia Giappone e Singapore).
149
partenze. Per arrivare al 50 per cento bisogna aggiungere l’Egitto, i Paesi caraibici, il
Marocco e il Vietnam. Osservate la lista dei paesi di partenza. Notate niente di strano?
John: Sono tutti paesi in via di sviluppo.
Michele: Vero, ma la cosa più sorprendente è che tra i paesi di partenza non vi sono i
paesi più poveri. Se si è troppo poveri, non si riesce neppure a emigrare! Anche questa è una
cosa da tenere presente quando si dice che l’emigrazione è motivata dalla miseria e si
descrivono gli emigranti come dei diseredati della terra.
Mario: Abbiamo il quadro. Torniamo al tuo modello e alla sua verifica.
Tavola 2 - Paesi d’arrivo e di partenza; primi trenta per ordine d’importanza dei saldi
migratori; valori in milioni 1990-2010
Fonte: elaborazione su dati UN DESA, World Population Prospects, The 2012 Revision
Carenza d’offerta e saldo migratorio.
Michele: Il primo passaggio è stato quello di verificare se, come ipotizzato, i paesi di
arrivo siano o meno caratterizzati da una carenza strutturale di offerta. Per fare ciò ho
calcolato la differenza tra la variazione dell’offerta di lavoro e la variazione della domanda di
lavoro, cioè tra la variazione delle forze di lavoro e quella della occupazione, al netto
dell’emigrazione, tra il 2010 e il 1990. Se il saldo è negativo, possiamo dire che il paese è
caratterizzato da una carenza di offerta, se positivo da un eccesso di offerta.
Mario: Un esempio numerico non guasterebbe.
Michele: Prendiamo il caso italiano. Come vedete nella Tavola 2, tra il 1990 e il 2010 in
Italia la popolazione in età lavorativa è passata da 38,987 a 39,735 milioni registrando quindi
un incremento di 748.000 unita. Nello stesso periodo, il saldo migratorio è stato di 4,1
milioni. Ne possiamo quindi dedurre che, in assenza di migrazioni, la popolazione in età
lavorativa sarebbe diminuita di circa 3,4 milioni, il che mostra altresì che l’Italia era ormai da
tempo nella terza fase della transizione demografica 168. Ho poi moltiplicato la variazione
della popolazione in età lavorativa per il tasso di attività del 2010. Ciò mi ha consentito di
168
In Italia il tasso di fertilità totale è sotto il livello di sostituzione dal lontano 1977 e il saldo naturale della
popolazione in età lavorativa è negativo dal 1991. Per una analisi dettagliata si veda Bruni Michele (1988), op. cit.
150
verificare l’impatto delle tendenze demografiche sulle forze di lavoro. Come potete notare, in
assenza di migrazioni, le Forze di lavoro sarebbero diminuite di 2,2 milioni. Poiché nello
stesso periodo l’occupazione è aumentata di 1,4 milioni, l’Italia ha registrato un fabbisogno di
manodopera straniera pari a quasi 3,7 milioni che non sono nient’altro che la somma della
crescita dell’occupazione e del calo delle forze di lavoro autoctone.
John: Stai dicendo che senza gli immigrati, l’offerta di lavoro presente nel paese non
sarebbe riuscita a coprire quasi 3,7 milioni di posti di lavoro?
Tavola 3 - Italia; Popolazione in età lavorativa, variazione delle forze di lavoro e
dell’occupazione; carenza di offerta e saldo migratorio.
Fonte: elaborazione su dati UN DESA, World Population Prospects, The 2012 Revision; ILO,
LABORSTA
Michele: Esattamente. Infine, poiché il saldo migratorio è stato di 4,1 milioni, l’Italia ha
registrato 1.130 immigrati per ogni 1.000 di fabbisogno, vale a dire una reattività
immigrazione/occupazione di 1,13.
Li: Mi sembra di aver intuito l’essenziale. Magari ti chiederò qualche precisazione quando
ci farai vedere i risultati complessivi.
Michele: Ho poi applicato questa procedura a tutti i paesi più importanti tra quelli che
hanno avuto una saldo migratorio positivo e per i quali erano disponibili le informazioni
statistiche necessarie. Le omissioni più rilevanti riguardano i paesi del golfo che sono stati tra
i principali paesi d’arrivo nel corso di questo secolo, ma per i quali non erano disponibili i
dati sull’occupazione. Ho così ottenuto per ogni paese una coppia di valori relativi
rispettivamente al fabbisogno di manodopera straniera e al saldo migratorio.
John: Il risultato?
Michele: E’ emerso che tutti i venticinque paesi del campione hanno registrato una
carenza di offerta di lavoro, il che costituisce una prima conferma della mia ipotesi. Vi sono
tuttavia due situazioni diverse. In un primo gruppo di undici paesi, in assenza d’immigrati, le
forze di lavoro sarebbero diminuite. In pratica, la crescita dell’occupazione ha esacerbato una
carenza potenziale di offerta di lavoro di origine demografica 169. Negli altri quattordici il
saldo della popolazione in età lavorativa, e quindi dell’offerta, è stato positivo 170. In questi
paesi la crescita dell’occupazione è stata maggiore della crescita delle forze di lavoro,
rendendo l’offerta locale insufficiente.
John: Quindi, nel primo caso la mancanza di lavoro è di origine puramente demografica,
nel secondo è stata causata dall’azione congiunta delle tendenze demografiche ed
economiche.
Michele: Il che dimostra che un approccio puramente demografico non è sufficiente per
spiegare i flussi migratori. La situazione è riassunta da questo diagramma di dispersione.
169
Si tratta di dieci paesi europei (Austria, Belgio, Danimarca, Germania, Grecia, Italia, Lussemburgo, Portogallo,
Spagna, Svizzera) e del Giappone.
170
Questo gruppo include i quattro paesi del Nuovo Mondo (Stati Uniti, Canada, Australia, Nuova Zelanda), sei
paesi dell’Europa del centro nord (Francia, Gran Bretagna, Irlanda, Norvegia, Olanda, e Svezia) e quattro paesi
asiatici (Hong Kong Macau, Malesia, Singapore).
151
Ogni punto individua il fabbisogno di manodopera e il saldo migratorio di ciascuno dei paesi
presi in considerazione.
Li: Un altro disegnino interessante. Che cos’è quella retta che passa attraverso i punti?
Michele: La retta mostra il comportamento medio dei ventiquattro paesi e conferma la mia
ipotesi. Il fatto che la retta sia inclinata positivamente indica, infatti, che maggiore il
fabbisogno, maggiore il livello del saldo migratorio. Inoltre, i dati si trovano abbastanza vicini
alla retta e questo indica che la spiegazione è una buona spiegazione.
Figura 1 - Fabbisogno occupazionale e saldo migratorio in 25 paesi; 1990-2010
Fonte: elaborazione su dati UN DESA, World Population Prospects, The 2012 Revision;
Banca Mondiale
Li: Però, non tutti i punti si trovano sulla retta.
Michele: Chiedi un po’ troppo. A me sembra già straordinario che la relazione sia cosi
forte. Vi sono tre paesi -Spagna, Svizzera e Australia - che registrano un saldo migratorio
praticamente uguale al fabbisogno e i punti che li individuano sono molto vicini alla retta.
Per quanto riguarda gli altri paesi ve ne sono alcuni il cui saldo migratorio è inferiore, talvolta
largamente inferiore, al fabbisogno. I punti relativi a questi paesi si trovano sotto la retta. Altri
registrano un saldo migratorio maggiore del fabbisogno e i loro punti si trovano sopra la retta.
Li: E gli Stati Uniti te li sei dimenticati? Non sono il principale paese di arrivo?
Michele: Mi hai scoperto! Però gli USA sono un caso particolare. Il fabbisogno e il saldo
migratorio degli Stati Uniti sono almeno il triplo di quelli degli altri paesi. Inoltre, il rapporto
tra saldo migratorio e fabbisogno è uguale a 2,8, un valore del tutto anomalo.
John: Come lo spieghi?
Michele: Da un punto di vista meccanico ciò è dovuto al fatto che, a seguito della crisi, dal
2007 al 2010 l’occupazione statunitense è diminuita di ben sette milioni, mentre i flussi
migratori sono rimasti più o meno in linea con quelli del quinquennio precedente. Ciò non è
sorprendente data la rilevanza delle catene migratorie che collegano gli Stati Uniti con gli altri
paesi americani - in particolare con il Messico - e che avevano certamente già portato a
definire molti progetti migratori prima dell’arrivo inaspettato della crisi. Ma il punto
fondamentale è un altro. Gli immigrati sono funzionali all’occupazione irregolare, l’unica che
152
si espande durante le crisi. A mio avviso è stato questo a sfalsare completamente la relazione
rappresentata nel grafico: mentre l’occupazione regolare diminuiva, la domanda di lavoro
irregolare aumentava e ciò ha continuato ad attrarre i lavoratori dei paesi vicini.
John: Esiste anche la possibilità che una parte degli immigrati che si recano negli Stati
Uniti fuggano dalla miseria e dalla mancanza di lavoro dei loro paesi.
Michele: E’ possible, ma ripeto vanno negli Stati Uniti perché pensano, a ragione, che la
probabilità di trovare lavoro, un qualche tipo di lavoro; quasi sempre irregolare, sia maggiore
negli Stati Uniti che nel loro paese.
John: Quindi tu ne concludi che il saldo migratorio dipende dal fabbisogno dei paesi di
arrivo ed è ad esso commisurato.
Michele: Esattamente e questo mi permette di effettuare proiezioni demografiche e
costruire scenari utilizzando una procedura diversa da quella delle Nazioni Unite e i cui
risultati sono certamente più realistici.
Li: Vediamo.
Una procedura alternativa per la costruzione congiunta di
scenari demografici e del mercato del lavoro
Michele: La procedura che vi propongo si basa sul modello dei flussi migratori che vi ho
esposto durante l’ultima cena. Partirei con un paio di figure che vi chiariranno tutto.
Li: Sei sempre troppo fiducioso.
Michele: I miei disegnini sono dei prototipi di chiarezza lapalissiana! La prima figura
presenta la procedura in maniera sintetica. Il primo passaggio è la costruzione di scenari del
saldo migratorio utilizzando il mio modello. Il procedimento si snoda su due percorsi
paralleli. Nel primo, quello demografico, palla in alto, si proietta la popolazione in età
lavorativa e si stimano scenari alternativi di offerta di lavoro utilizzando diversi valori dei
tassi specifici di partecipazione per sesso e classe di età. Nel secondo, quello economico,
palla in basso, si stimano scenari di domanda di lavoro formulando ipotesi alternative sul
tasso di crescita della produzione e sulla tipologia di sviluppo socio-economico. I due percorsi
confluiscono per fornirci delle stime degli scenari di fabbisogno occupazionale e del saldo
migratorio. Questa fase produce anche una proiezione della popolazione in età lavorativa. A
questo punto si passa alla seconda fase. In primo luogo si somma la Popolazione in età
lavorativa con le diverse stime dal saldo migratorio. Ovviamente otterremo un numero di
scenari della popolazione in età lavorativa in un mercato del lavoro aperto ai flussi migratori
uguale a quello degli scenari dei saldi migratori. Ci siete fin qui?
Li: La cosa continua a essere un po’ misteriosa, ma va pure avanti. Come disse Confucio:
“La speranza è l’ultima a morire”!
Michele: Entriamo nella terza fase. Ogni scenario della PEL con immigrati contiene anche
una stima del numero delle donne in età fertile. La formulazione d’ipotesi standard su
fecondità e mortalità consente di stimare, da un lato, i nati e, dall’altro, gli anziani. A questo
punto abbiamo tutto l’occorrente per produrre scenari demografici completi. Disponiamo,
infatti, per ciascun scenario della popolazione in età lavorativa, dei giovani e degli anziani, la
cui somma ci fornisce la popolazione totale.
153
John: Credo di avere il quadro generale, ma mi piacerebbe avere qualche dettaglio in più
sulla procedura di calcolo.
Figura 2 – La costruzione di scenari demografici del mercato del lavoro e della popolazione
Michele: La ricetta da seguire è abbastanza semplice. Passiamo alla Figura 3.
Mario: Stai scherzando; mi sembra un percorso a ostacoli.
Michele: Lasciati guidare per mano. Cominciamo dall’offerta (parte alta della Figura). Il
primo passaggio consiste, come abbiamo già visto, nel proiettare la popolazione in età
lavorativa in assenza di migrazioni. Prendiamo, a titolo di esempio, un orizzonte temporale di
quindici anni sufficiente per programmare la maggior parte delle politiche strutturali. In
questo caso i giovani che entreranno nella popolazione in età lavorativa sono già nati: sono i
bambini che hanno tra 0 e 14 anni nell’anno di partenza delle proiezioni, supponiamo il 2015.
Come vi ho fatto vedere in una precedente chiacchierata, basterà allora applicare alle singole
classi di età quinquennali presenti nel 2015 i relativi tassi di sopravvivenza per il
quindicennio successivo. E’ evidente che in questo caso i margini di errore saranno molto
modesti.
John: Quindi a questo punto, oltre al dato relativo al 2015, avremo anche stime della
popolazione in età lavorativa (definita tra i 15 e i 64 anni) nel 2020, nel 2025 e nel 2030.
Michele: Esattamente. Veniamo ora al secondo passaggio il cui obiettivo è quello di
costruire degli scenari di offerta di lavoro. Per farlo dovremo formulare delle ipotesi
sull’evoluzione della partecipazione al mercato del lavoro. Potremmo considerare, ad
esempio, tre scenari che riflettano diverse evoluzioni della scolarità, del comportamento
partecipativo della componente femminile e degli anziani.
John: Fammi indovinare. A questo punto si moltiplica la stima della popolazione in età
lavorativa per i tassi di partecipazione ipotizzati e si ottengono tre scenari delle forze di
lavoro nel 2020, nel 2025 e nel 2030.
154
Michele: … e potremo calcolare per ogni intervallo quinquennale, a partire da quello tra il
2015 e il 2020, le variazioni delle forze di lavoro dovute alle tendenze demografiche e
all’evoluzione dei comportamenti partecipativi.
Figura 3 – Metodologia per la costruzione di scenari congiunti del mercato del lavoro e
della popolazione
Mario e Li fanno cenno di aver capito anche loro.
Michele: Passiamo alla domanda di lavoro. Qui la cosa è più semplice. Basterà formulare
delle ipotesi, ad esempio tre, sul tasso di crescita dell’occupazione per calcolarne il livello
nel 2020, nel 2025 e nel 2030 e quindi le variazioni assolute nei singoli intervalli. A questo
punto il gioco è fatto: intersecando gli scenari di domanda e di offerta, potremo calcolare per
ognuno di essi il fabbisogno occupazionale, dato dalla differenza tra le variazioni della
domanda e dell’offerta di lavoro, e poi il saldo migratorio.
Mario: Quanti scenari avremmo in questo esempio?
Michele: Incrociando i tre scenari di offerta con i tre scenari di domanda, avremmo nove
scenari migratori che rappresentano l’obiettivo intermedio della procedura.
John: Se ti ho seguito fin qui, questi nove scenari dei saldi migratori ci consentono di
costruire altrettanti scenari di popolazione in età lavorativa in una economia aperta.
Michele: … e quindi anche della popolazione femminile in età feconda. E’ vero, ma
probabilmente a questo punto si potrebbero selezionare i tre scenari più significativi e
utilizzarli per calcolare gli scenari demografici completi. Questo ultimo passaggio si baserà
sull’utilizzo di due o tre ipotesi di fecondità con cui calcoleremo i nati da inserire nella parte
inferiore della piramide delle età. Come ho già detto prima, a questo punto avremo degli
scenari demografici completi, articolati per classi di età.
Mario: Riassumendo, quali sono le variabili da cui dipendono i tuoi scenari?
Michele: Gli scenari dipendono, da un lato, dall’evoluzione del comportamento
partecipativo e, dall’altro, dall’andamento della produzione e dalla intensità di lavoro del
modello di sviluppo -le variabili che determinano i saldi migratori- e poi ovviamente dai tassi
di fecondità e mortalità. Il punto fondamentale è però rappresentato dall’introduzione di un
155
modello per stimare il saldo migratorio in funzione della carenza strutturale di offerta di
lavoro al posto di una ipotesi meccanica sulla migratorietà.
Mario: Prima che lo dica Li, lo dico io. Per capire bene la tua metodologia bisogna che tu
ci faccia vedere come funziona in pratica.
Michele: Va bene. Per prendere due piccioni con una fava vi farò vedere come funziona il
modello utilizzandolo per costruire degli scenari per la Cina.
Li: Ci avviciniamo alla conclusione della nostra lunga marcia!
John: Li abbi pietà. Non ce le faccio più. E’ arrivato il momento di accendere la
carbonella. Dato che questa sera ci fermiamo tutti a Cesenatico, consiglio di riprendere la
cosa domani mattina. Dopo esserci bevuti un cappuccino, ripartiamo da dove siano arrivati.
Li: Però stavolta non mi fregate. Non ci si alza dal tavolo se non so cosa sta per succedere
in Cina.
La cena fu un successo, ma i nostri amici andarono a letto piuttosto tardi e piuttosto
allegri. Gli argomenti demografici furono attentamente evitati per non turbare il laborioso
processo digestivo che li aspettava. Adesso sono circa le dieci del mattino. I nostri eroi sono
seduti a un tavolino del loro caffè preferito nei pressi della spiaggia. Mario e Michele
sorseggiano un cappuccino; John ha optato per una spremuta di arance rosse e Li si è fatto
preparare un te verde che il barista tiene solo per lui.
Dalla teoria alla pratica: il futuro demografico della Cina
Michele: Come avevo promesso ieri sera, vi mostrerò come funziona la mia procedura
applicandola ai dati del censimento demografico che la Cina ha effettuato nel 2010 171.
Li: Finalmente saprò come va a finire!
Michele: Come vi ricorderete il primo passaggio è quello di proiettare la popolazione in
età lavorativa e stimare gli scenari dell’offerta di lavoro.
Popolazione in età lavorativa e forze di lavoro
Michele:. Secondo l’ultimo Censimento demografico, nel 2010 la popolazione cinese
ammontava a 1,338 milioni, 22 in meno della stima proposta dalle Nazioni Unite.
Li: Beh, tutto sommato si tratta di una differenza modesta.
Michele: La cosa interessante è che la differenza è spiegata dalla minore consistenza delle
prime classi di età (0-14): 221 milioni per il censimento e 247 milioni per la Population
Division, mentre il dato sulla popolazione in età lavorativa è molto simile: 993 milioni contro
996.
Li: E allora?
Michele: La cosa è molto importante perché implica che nei prossimi 15, 20 anni gli
ingressi nella popolazione in età lavorativa saranno inferiori a quelli già molto ridotti previsti
dalle Nazione Unite e il numero delle donne in età fertile subirà un calo ancora più massiccio.
Li: Potresti farci vedere un po’ di numeri.
171
Per essere precisi il primo novembre. L’Ufficio Nazionale Cinese di Statistica ha affermato che la qualità del
censimento è stata molto alta. Il livello di copertura è stato molto elevato tanto che la percentuale di mancata
copertura è stata solo dello 0,12 per cento, un valore molto inferiore a quello registrato nel censimento del 2000
(1,81 per cento) e di quelli osservati nei recenti censimenti di altri paesi molti dei quali hanno registrato valori di
circa 1,5 per cento.
156
Michele: Ho proiettato la popolazione in età lavorativa usando i tassi di sopravvivenza
delle classi di età quinquennali dedotti dalle proiezioni delle Nazioni Unite e ipotizzando
costante il tasso di fecondità 172. Il grafico visualizza entrate, uscite e saldo relativi a ogni
quinquennio tra il 2010 e il 2060.
Figura 4 – Cina; Popolazione in età lavorativa; entrate, uscite e saldo; dal 2010-15 al
2055-60
Fonte: Elaborazione su dati del Censimento demografico cinese del 2010
Li: L’area verde misura il calo della popolazione in età lavorativa?
Michele: Sì. Dopo un modesto incremento nel quinquennio in corso, tra il 2015 e il 2030
la popolazione in età lavorativa diminuirebbe di 66 milioni e tra il 2030 e il 2060 di 336
milioni, per un totale di oltre 400 milioni. In sostanza la popolazione in età lavorativa
scenderebbe da 996 a 598 milioni, registrando una diminuzione di circa il 40 per cento.
Li: Agghiacciante!
Michele: Anche secondo le Nazioni Unite la popolazione in età lavorativa dovrebbe
diminuire, ma “solo” del 25.9 per cento. Come mostra la tavola 4, la differenza è dovuta a un
numero minore di ingressi riconducibili inizialmente solo alla minore consistenza delle classi
più giovani e poi, in un secondo momento, anche a un minor numero di donne in età fertile.
John: Se ricordo bene, da qui al 2030, secondo la World Bank la popolazione in età
lavorativa dovrebbe diminuire in maniera molto meno pronunciata di quanto stimato da te.
Michele: Esattamente e questo è molto importante perché i miei dati, o meglio i dati
censuari, portano a stimare un calo molto più massiccio anche dell’offerta di lavoro, il che ha
rilevanti implicazioni per il fabbisogno di manodopera.
Mario: Quali sono gli ordini di grandezza?
Michele: Ho considerato due ipotesi: tassi di partecipazione costanti 173 e tassi decrescenti.
La seconda ipotesi è più realistica in quanto nei prossimi anni si registrerà sicuramente un
aumento della scolarità e della partecipazione agli studi superiori.
172
173
L’ipotesi sulla fecondità ha effetto a partire dal 2025.
Anche questi valori sono stati elaborati utilizzando i dati del Censimento del 2010.
157
Tavola 4 – Cina; Popolazione in età lavorativa; entrate uscite e saldo in alcuni periodi;
valori totali e valori medi annui
Fonte: Elaborazione su dati Censimento Demografico 2010 e UN DESA, World Population
Prospects, The 2012 Revision.
Li: E in persone?
Michele: Nel primo caso le forze di lavoro diminuirebbero di 73 milioni, nel secondo di
100.
John: Stai dicendo che, bene che vada, in quindici anni la Cina dovrà gestire un calo delle
forze lavoro uguale a quello che si registrerebbe in Europa se sparissero contemporaneamente
la Francia e la Germania?
Michele: Esattamente 174; nel secondo scenario sarebbe addirittura come se nel Sud
America sparisse il Brasile, la cui popolazione in età lavorativa ammonta a 100 milioni.
Li: Non mi sembra credibile!
Michele: Se i dati censuari sono corretti 175, la cosa è più che probabile, dato che non si
tratta di previsioni, ma di proiezioni basate sul numero di bambini che sono già nati o che
stanno nascendo in questi anni. Comunque non dimenticatevi che, diversamente da quanto
sostenuto dalla Population Division, questo non è quello che succederà, ma quello che
succederebbe se non vi fossero immigrazioni.
John: Andiamo avanti. Se ricordo il tuo disegnino, adesso tocca agli scenari di domanda.
Domanda di lavoro e fabbisogno di occupati
Michele: Ottima memoria. Nel caso della domanda, ho considerato tre ipotesi:
occupazione costante (E2); un calo degli occupati uguale a quello suggerito dallo scenario
della Banca Mondiale (E1); una occupazione che aumenta, ma in maniera decrescente (E3).
Li: Come al solito io vorrei vedere i numeri.
Michele: Secondo i dati censuari, nel 2010 gli occupati erano 715 mila che nello scenario
E1 scenderebbero a 686,000, mentre salirebbero a 765 mila nello scenario E3. (Tav. 5). Nella
Tavola 6 ho invece riportato il fabbisogno occupazionale, cioè i posti di lavoro che non
possono essere coperti da lavoratori locali, nei sei scenari che si ottengono combinando i due
scenari delle forze di lavoro (A e B) con i tre dell’occupazione (1,2, 3).
Mario: Il fabbisogno è calcolato sottraendo dalla variazione delle forze di lavoro la
variazione dell’occupazione?
174
Le forze di lavoro della Francia ammontano a 29 milioni, quelle della Germania a 42.
Per una difesa della validità dei dati censuari e in particolare di quelli relativi ai bambini tra 0 e 14 anni si veda
Zhao, Z. (2011), “China’s far below replacement fertility and its long-term impact”. Demographic Research, 25,
819–836; Guo Zhigang e Gu Baochang “China’s Low Fertility: Evidence from the 2010 Census”, Springer.
175
158
Michele: Esatto; quindi valori negativi indicano una carenza di manodopera, valori
positivi segnalano il potenziale aumento della disoccupazione
Tavola 5 - Proiezione della popolazione in età lavorativa, di forze di lavoro e
occupazione in scenari alternativi di partecipazione e crescita e crescita economica;
2010-2030
Fonte: Elaborazione su dati Censimento demografico cinese, 2010
Li: Quindi, se prendo lo scenario B1, tra il 2010 e il 2015 avremmo una diminuzione delle
Forze di lavoro di 6 milioni e un aumento dell’occupazione di 21 milioni e, in totale,
mancherebbero 27 milioni di persone.
Tavola 6 - Fabbisogno di occupati in sei scenari alternativi di partecipazione e
occupazione; dal 2010-15 al 2025-30
Fonte: Elaborazione su dati del Censimento cinese della Popolazione del 2010.
Michele: Esatto. Come vedete, già in questo quinquennio la Cina si troverebbe in carenza
di forza lavoro in tutti gli scenari, a eccezione dello scenario nel quale sia il tasso di
partecipazione, sia il livello dell’occupazione rimangono costanti. Nel complesso il
fabbisogno del periodo 2010-2030 –vale a dire il numero di posti di lavoro che non possono
essere coperti dall’offerta locale- è incluso tra un minimo di 35 milioni (scenario A1, il più
“ottimistico” nel quale il tasso di partecipazione rimane costante e l’occupazione diminuisce)
e un massimo di 149 milioni (scenario B3, il più pessimistico, nel quale il tasso di
partecipazione diminuisce a l’occupazione aumenta).
Li: A questo punto.
Scenari migratori e di popolazione in età lavorativa in un mercato del lavoro
aperto
John: A questo punto il modello di Michele ipotizza che il fabbisogno sia coperto da
immigrati.
Michele: Per essere precisi ho ipotizzato che il saldo migratorio tenda a eccedere il
fabbisogno. Nei paesi di lunga immigrazione, una quota del saldo è sempre imputabile a
159
congiunti e famigliari. Nel caso della Cina, che non ha precedenti esperienze di
immigrazione, ho stimato il saldo migratorio ipotizzando che, al primo apparire del
fabbisogno, il saldo sia uguale al fabbisogno e ho poi alzato progressivamente il rapporto
saldo/fabbisogno così che nel quarto periodo di immigrazione esso fosse pari a 1.15.
Li: Comunque i saldi migratori sono diversi da scenario a scenario?
Michele: Certamente, dato che essi dipendono dal livello del fabbisogno. A questo punto,
come da procedura, ho stimato gli scenari di popolazione in età lavorativa “aperta”
sommando alla popolazione chiusa -quella che si avrebbe in assenza d’immigrati- con la
stima del saldo migratorio. I dati sono riportati nella tavola 7.
Mario: In sintesi.
Michele: Il risultato più interessante è che la mia procedura provoca un aumento della
popolazione in età lavorativa in tutti gli scenari, tranne nello scenarioA1 (Tavola 7).
John: Interessante! Mentre la Population Division profetizza un drammatico crollo della
popolazione cinese in età lavorativa, tu sostieni l’opposto.
Mario: Se ci pensi è ovvio che sia così. Le Nazioni Unite sostengono non solo che la
Popolazione in età lavorativa diminuirà per motivi naturali, ma che malgrado ciò i Cinesi
continueranno a emigrare. Michele ritiene, invece, che il calo naturale delle PEL genererà una
diminuzione dell’offerta di lavoro. Se -come è molto probabile- l’offerta non sarà sufficiente
a soddisfare la domanda di lavoro si genererà un fabbisogno che attirerà inevitabilmente
un’immigrazione più che sostitutiva.
Tavola 7 - Livelli della popolazione in età lavorativa in uno senario senza immigrazione
e in sei scenari di immigrazione; 2010-203
Fonte: Elaborazione su dati censuari 2010
Li: Di quanti immigrati stiamo parlando?
Michele: Parecchi. La situazione è sintetizzata nella tavola 8 e nella Figura 5. Nella tavola
ho riportato i saldi naturali della popolazione in età lavorativa unitamente ai saldi migratori e
ai saldi totali relativi ai singoli periodi quinquennali nei sei scenari. Nei venti anni considerati,
il saldo migratorio totale sarà compreso tra un minimo di 38 milioni (scenario A1) e un
massimo di 162 milioni (scenario B3). Poiché il saldo naturale è negativo e pari a 63 milioni,
il saldo totale risulta negativo solo nello scenario A1. In tutti gli altri scenari, la popolazione
in età lavorativa aumenta e la crescita è massima nello scenario B3 (quasi 100 milioni).
Infine, la dinamica migratoria risulta diversa a seconda delle ipotesi relative alle forze di
lavoro. Negli scenari A, nei quali i tassi di partecipazione sono costanti, il saldo migratorio
cresce progressivamente, mentre negli scenari B caratterizzati da tassi di partecipazione
decrescenti, i valori massimi sono raggiunti in quinquenni diversi.
160
Li: Vorrei essere sicuro di aver capito bene. Stai dicendo che la Cina dovrà importare
lavoro forse fin da subito, ma certamente tra il 2015 e il 2020 e che tra il 2015 e il 2030 il
saldo migratorio si aggirerebbe sui 5, 6 milioni l’anno?
Tavola 8 – Saldo naturale, saldo migratorio e saldo totale in scenari alternativi; 20102030
Figura 5 – Saldo migratorio e saldo totale della popolazione in età lavorativa in scenari
alternativi-;2010-2030
Michele: Esatto e le sorprese non sono finite!
John: Che bello!
L’impatto dei flussi migratori sulla natalità
Michele: La prima conseguenza è un aumento delle donne in età fertile. Nel caso della
Cina si può ipotizzare che almeno la metà degli immigrati sarà costituita da donne, dato che
una buona parte del fabbisogno sarà nel settore del lavoro domestico e negli altri comparti del
terziario.
161
Li: Questo potrebbe aiutare a ridurre uno dei disequilibri demografici della Cina, la
carenza di giovani donne, che è molto pronunciata in alcune zone 176.
John: L’impatto principale dovrebbe però essere sul numero delle nascite.
Michele: Credo che l’immigrazione non farà aumentare solo i nati, ma anche la fecondità,
perché le immigrate mantengono, almeno per un certo periodo, la fecondità del paese di
partenza
John: Pensavo che su questo tema vi fossero opinioni contrastanti 177.
Michele: Sì; ma credo che la mia ipotesi sia realistica. Essa è condivisa da numerosi
istituti statistici. Ad esempio, nel 2004 le Nazioni Unite sostennero che l’ipotesi che le
immigrate adottassero istantaneamente la fertilità del paese di arrivo era stata adottata non
perché così fosse, ma per semplicità di calcolo. Le ultime proiezioni effettuate dall’Istituto
Italiano di Statistica ipotizzano che le immigrate abbiano un tasso di fecondità uguale al
valore di rimpiazzo, e quindi molto più elevato di quello delle donne italiane.
Mario: Se non sbaglio, in Italia le donne straniere stanno dando un grosso contributo al
numero delle nascite.
Michele: Non c’è dubbio. Dovrei avere dei dati. Eccoli
Li: Il tuo computer è una miniera.
Michele: In Italia, dal 2002 al 2012 l’incidenza dei bambini nati da donne straniere è
passato dal 6,2 a quasi il 15 per cento, ma si supera il 20 per cento se si considerano i bambini
nati da coppie nelle quali almeno uno dei genitori è straniero.
Mario: Quindi; l’immigrazione potrebbe frenare la caduta del numero dei nati!
Michele: Ipotizzando che i tassi specifici di natalità rimanessero costanti ai valore del
2010, in assenza d’immigrazioni il numero dei bambini si ridurrebbe più o meno nella stessa
misura delle donne in età fertile e scenderebbe quindi da 15,1 a 11,6 milioni. La cosa cambia
in presenza di migrazioni. Ho considerato tre casi: i) senza immigrazione e fertilità costante:
ii) con immigrazione e fertilità uguale a quella delle donne cinesi: iii) con immigrazione e
immigrate con fertilità di rimpiazzo, per tutti e sei gli scenari. In tutti e tre la diminuzione
sarebbe inferiore e nell’ipotesi più favorevole il numero dei nati rimarrebbe sostanzialmente
costante. Si tratta di un fatto importante non solo nell’orizzonte temporale che stiamo
analizzando, ma ancora di più nel lungo periodo.
Li: Perché?
Michele: Nella mia ottica le immigrazioni potrebbero essere necessarie fintanto che il
disequilibrio demografico non sarà ricostituito. Ad esempio, tra il 2030 e il 2045 le uscite
dalla popolazione in età lavorativa saranno uguali a 340 milioni (circa 23 milioni all’anno)
un numero che non può essere modificato, dato che si tratta di coloro che sono adesso nelle
classi di età centrali. Ora, se le nascite fossero quelle delineate nello scenario a fertilità
costante e senza immigrazione la popolazione in età lavorativa diminuirebbe di 150 milioni e,
176
A livello nazionale, la percentuale di donne nella popolazione tra i 15 e i 49 anni è del 49,1 per cento. Il
disequilibrio di genere è particolarmente pronunciato nelle grandi città (Shanghai 47,6, Pechino 47,5, Tianjin 45,1
per cent).
177
Per un’analisi della letteratura internazionale su questo tema e sulle evidenze empiriche si veda Anne Genereux
(2007), “A review of migration and fertility theory through the lens of African immigrant fertility in France”,
MPIDR, Working paper WP 2007-2008.
162
anche nel caso dello scenario B3 con immigrazione elevata e fertilità di rimpiazzo, il buco di
offerta ci sarebbe, ma scenderebbe a 112 milioni.
Tavola 9 – Cina; numero di nati in scenari alternativi; 2010-2030
Fonte: Elaborazione su dati del Censimento cinese del 2010
Li: Altre implicazioni?
Invecchiamento e carico sociale
Michele: Si, l’impatto sull’invecchiamento. E’ il problema che fino ad ora ha attratto
maggiormente l’attenzione di economisti e demografi e l’unico di cui si discute ampiamente.
Tutti sono convinti che le attuali tendenze demografiche provocheranno un carico sociale
insostenibile.
John: Non dirmi che non sei d’accordo neanche su questo!
Michele: E per ottimi motivi.
John: Quali
Michele: Il fatto è che questa conclusione si basa sull’uso d’indicatori che non sono idonei
né a capire il problema, né a indicare possibili soluzioni.
Mario: Cosa c’è che non va?
Michele: Quasi tutto. Gli indicatori di carico sociale sono ottenuti dividendo il numero di
giovani, di anziani e la loro somma per la popolazione in età lavorativa 178
John: E allora?
Michele: Le leggi della natura non sono soggette a cambiamenti per lo meno su tempi a
scala umana; quindi i loro indicatori rimangono validi nel tempo. Lo stesso non si può dire
della società e delle sue modalità di funzionamento. Nella fase storica in cui gli indicatori di
carico sociale sono stati ideati, le società erano prevalentemente rurali e anche gli abitanti
delle città erano tutti disponibili a lavorare (uomini, donne e bambini) a qualunque
condizione. Quindi, identificare la popolazione in età lavorativa con coloro che mantengono
era una buona approssimazione. Questo non è certamente vero oggi. Sono gli occupati che
mantengono la restante popolazione ed essi rappresentano circa il 60 per cento della
popolazione in età lavorativa che include anche numerosi studenti, casalinghe e altre persone
che non mantengono, ma sono mantenuti.
178
Il tasso di dipendenza giovanile (TDG) si ottiene dividendo il numero dei giovani per la popolazione in età
lavorativa; il tasso di dipendenza degli anziani (TDA) dividendo il numero degli anziani per la popolazione in età
lavorativa. Il tasso di dipendenza totale (TDT) è la somma del tasso di dipendenza giovanile e del tasso di
dipendenza degli anziani.
163
John: E quindi cosa suggerisci?
Michele: Una cosa molto semplice: sostituire la popolazione in età lavorativa con gli
occupati 179. Insomma, invece d’indicatori puramente demografici, la mia proposta è di
costruire indicatori economici che oggigiorno sono possibili perché la maggioranza dei paesi
dispone, quasi in tempo reale, di stime del livello e della struttura dell’occupazione,
unitamente a dati su numerose altre condizioni socio-economiche.
Mario: Ci sarebbero dei vantaggi?
Michele: Numerosi. Il primo è disporre di una misura corretta del carico sociale, basato su
di una imputazione dei “mantenuti” a coloro che effettivamente li mantengono. Il secondo è
di poter articolare il carico totale non soltanto su giovani e anziani, ma su di un numero più
numeroso di categorie dotate di un maggiore significato economico 180. Altra cosa molto
importante è che questo indicatore permette di capire se i cambiamenti registrati in un dato
periodo sono dovuti a cause demografiche o alla incapacità del sistema di creare posti di
lavoro aggiuntivi. Infine, esso consente confronti tra paesi che utilizzano diverse definizioni
della popolazione in età lavorativa e i suoi valori rimarranno validi anche quando la
definizione di popolazione in età lavorativa verrà cambiata, cosa che succederà tra non molto
visto il progressivo allungamento della vita umana e della fase formativa. Last but not least,
l’indicatore economico permette di calcolare l’aumento dell’occupazione che permetterebbe
di mantenere costante il livello totale del carico sociale. Insomma esso è anche uno strumento
per disegnare le necessarie politiche dell’occupazione.
Mario: Troppa grazia San Antonio. Cambi un denominatore e succede tutto questo!
Li: Fermi! Non riesco neanche a ricordarmi tutti i punti che Michele ha elencato.
Michele: Anche in questo caso la cosa migliore è fare ricorso a degli esempi. Partiamo
dagli indicatori demografici. In Cina, secondo la Population Division, il tasso demografico di
dipendenza totale ha raggiunto un massimo di 810 per mille nel 1965. E’ poi
progressivamente diminuito ed ha toccato un minimo di 360 nel 2010. Nei successivi 90 anni
dovrebbe aumentare progressivamente fino a toccare un valore di 770 nel 2100 181. Per
mettere questi valori in una prospettiva internazionale, la tavola 10 confronta gli indicatori
cinesi con quelli di Australia, Francia, Italia e Stati Uniti. Come potete vedere le tendenze
sono sostanzialmente analoghe. Secondo l’indicatore demografico nei prossimi anni le
persone a carico dovrebbero più che raddoppiare in Cina, che ha attualmente l’incidenza più
bassa, e aumentare di una percentuale compresa tra il 57 e il 73 è per cento negli altri.
John: Tutto il mondo invecchia!
179
Lo stesso suggerimento era già stato avanzato da George Tapinos (2001), “The role of migration in moderating
the effect of population ageing, Migratio, 2. Tapinos non sottolineò però il cambiamento di prospettiva e le
numerose implicazioni della proposta.
180
Ad esempio, minori in età di obbligo scolastico, altre persone nella fase formativa, persone in cerca di
occupazione, casalinghi/e, altre non forze di lavoro in età lavorativa, non forze di lavoro in età post lavorativa.
181
Nell’intervallo considerato il ruolo relativo di giovani e anziani s’inverte. Nel 1965 i bambini rappresentavano
il 91,4 per cento delle persone a carico, nel 2010 il 69,4 e nel 2100 dovrebbero rappresentare il 35,1 per cento.
164
Tavola 10 – Cina e altri paesi; Indicatore demografico di carico sociale totale; circa
1960, 2010 e 2100.
Fonte: elaborazione su dati UN DESA, World Population Prospects, The 2012 Revision;
ILO, LABORSTA
Michele: Questo è evidente, ma io credo che si sbagli a rappresentare l’invecchiamento
come un evento determinato unicamente da tendenze demografiche irreversibili e quindi da
subire in maniera passiva. Per capirlo basta guardare al fenomeno da una prospettiva che
tenga conto della crescita occupazionale, usando l’indicatore che vi ho appena proposto. In
primo luogo esso evidenzia in maniera più realistica che mille occupati debbono mantenere
870 persone. Ho poi messo in evidenza che gli occupati non mantengono solo bambini e
anziani, ma anche gli inattivi in età lavorativa (TDI) che includono studenti, disoccupati,.
casalinghe, ammalati, ecc.. Di fatto con il 38,5 per cento dei dipendenti è questa la categoria
più numerosa. Tra il 2010 e il 2030, il valore dell’indicatore economico supera le mille unità
in tutti e tre gli scenari considerati. Tuttavia, la sua crescita è inversamente correlata alla
dinamica dell’occupazione. Inoltre, maggiore è la crescita dell’occupazione, maggiore la
crescita della percentuale dei giovani e minore quella degli anziani.
Tavola 11 – Cina; indicatore economico di carico sociale in scenari alternativi; 2010 e
2030
Fonte: elaborazione su dati Censimento Cinese, 2010
Mario: Insomma, tu stai suggerendo che la riduzione delle pensioni non è ne l’unico ne il
miglior modo per fare fonte all’invecchiamento.
Michele: Infatti, io sono convinto che per affrontare il cosiddetto problema
dell’invecchiamento si debba in primo luogo fare ricorso ad una ingegneria delle fasi della
vita che colleghi l’età di uscita dal sistema formativo con l’età di uscita dall’occupazione, e
questa non con l’età biologica; ma con la capacita lavorativa. La cosa più importante è però
capire che, in attesa di un riequilibrio demografico, la soluzione sta nella crescita economica
che aumentando il numero degli occupati riduce quello dei dipendenti per occupato.
Li: Michele si sta facendo tardi; vorresti mettere insieme tutti i pezzi e farci capire cosa sta
per succedere alla popolazione cinese.
165
Il futuro demografico della Cina nel medio periodo
Michele: Cominciamo dal periodo 2010-2030. Come abbiamo visto, la mia procedura
evidenzia come vi sia un’alta probabilità che un calo naturale della popolazione porti a una
immigrazione più che sostitutiva e quindi a un aumento di questo aggregato. Ciò innescherà
un aumento del numero delle donne in età fertile e quindi dei nati. Poiché gli anziani non
possono che aumentare la conclusione è che anche la popolazione totale aumenterà. Se ciò ti
consola credo quindi che si possa escludere che presto l’India divenga il paese più popoloso
della terra, come suggerito dalla Population Division 182.
Mario: In conclusione il tuo modello ribalta le conclusioni della Population Division.
Michele: Si; secondo la Population Division, la fase finale della transizione demografica
provoca necessariamente una diminuzione della popolazione totale, una ancora più
pronunciata contrazione della popolazione in età lavorativa, un inarrestabile e irreversibile
processo d’invecchiamento. Io ritengo, invece, che questa conclusione si basi sull’assurda e
ideologica premessa che i sistemi economici non continueranno lungo il loro processo di
crescita rinunciando ad attrarre da altri paesi le risorse umane necessarie per la loro crescita. E
se lo faranno, ciò comporterà non solo un aumento della popolazione in età lavorativa e un
aumento, sia pure meno pronunciato, della popolazione totale, ma porterà anche ad aumenti
delle nascite e della fecondità e a un rallentamento del processo d’invecchiamento.
Li: E dopo?
Uno sguardo a un futuro più lontano
Michele: Si, ma senza pretendere di leggere il futuro con precisione. Per la Cina, gli
scenari che vi ho presentato suggeriscono che, a meno di una crisi economica di dimensioni
tali da mettere in crisi anche il resto del mondo, la Cina dovrà importare 80, 90 milioni di
lavoratori e che il problema tenderà ad accentuarsi col passare del tempo.
Li: Cioè?
Michele: Abbiamo già visto che tra il 2030 e il 2060, le uscite dalla popolazione in età
lavorativa sono valutabili in circa 660 milioni, circa 22 milioni all’anno. Questo è quindi il
numero di nascite che si dovrebbero verificare in media ogni anno tra il 2015 e il 2045 per
mantenere inalterata la popolazione in età lavorativa. E’ difficile ipotizzare che ciò possa
avvenire anche in presenza di sostenuti flussi migratori che al massimo potrebbero potare il
numero delle nascita a 15, 16 milioni. Tuttavia ciò porterebbe la riduzione della popolazione
in età lavorativa a soli 200 milioni a fronte dei 260 previsti dalle Nazioni Unite e dei 335
dello scenario basato sui dati censuari a fertilità costante.
John: Quindi, se applicassimo il metodo Chamie gli immigrati sarebbero solo 200 milioni.
Michele: Esatto. Ma come abbiamo visto dovremmo ipotizzare che la partecipazione al
mercato del lavoro rimanesse costante e soprattutto che l’occupazione non aumentasse, o
meglio che tutta la crescita del PIL fosse gestita con aumenti della produttività. In sostanza a
questo numero dovremmo aggiungere la crescita occupazionale e l’impatto di una più che
probabile diminuzione della partecipazione. Insomma a tenersi bassi, altri 100 milioni di
persone.
Li: Fammi fare un po’ di conti all’ingrosso. Tu stai dicendo che nei prossimi 15 anni la
Cina dovrà importare almeno 80 milioni di persone e che nei trenta anni successivi il
182
Il sorpasso dovrebbe avvenire verso il 2035.
166
fabbisogno sarà di almeno 300. Siamo quindi a un totale di 380 milioni e questo mentre le
Nazioni Unite dicono che ci potremo permettere di esportare 15 milioni di persone.
Michele: Esatto. Aggiungerei che possiamo tranquillamente ipotizzare che un numero
analogo d’immigrati sarà necessario agli altri paesi che sono già o stanno per entrare nella
terza fase della transizione demografica.
John: Quindi, stai dicendo che nei prossimi 45 anni i saldi migratori saranno dell’ordine
di 750 milioni.
Michele: Sì, questo è il risultato a cui porta l’ipotesi che i flussi migratori siano
determinati dalla carenza strutturale di offerta di lavoro. Sono convinto che il ventunesimo
secolo sarà ricordato come il secolo della grande migrazione.
Li: Lo scenario che tu dipingi non include però possibili interventi del governo cinese e
dei governi degli altri paesi. Si potranno pure fare politiche mirate a risolvere il problema
della carenza di offerta di lavoro.
Michele: Le politiche non mancano e la Cina avrebbe già dovuto attivarle. Il problema è
che per farlo dovrebbe prima accettare che gli scenari che vi ho presentato sono affidabili,
cosa che per il momento non mi sembra molto probabile. Comunque, vedremo cosa uscirà dal
prossimo Plenum.
Mario: Ragazzi è quasi mezzogiorno. Che ne direste di una passeggiatina sulla spiaggia
come aperitivo?
167
Quella che il bruco chiama la fine del mondo,
per il suo padrone è una farfalla.
Richard Bach, “Illusions”
Settimo dialogo - Il secolo della grande migrazione
E’ la vigilia di Natale. I nostri amici sono a casa di Michele per tirare le somme delle loro
lunghe chiacchierate e, cosa non secondaria, per il rituale cenone. E’ ancora pomeriggio:
seduti sulle poltrone del soggiorno, le lucine dell’albero di Natale che si accendono e si
spengono alle loro spalle, cercano la risposta a due domande di grande respiro. Vogliono
sapere quale sarà il futuro demografico del mondo e se la Cina riuscirà a prenderne la
leadership. Consapevoli che i grandi della terra attendono con ansia le loro conclusioni, si
stanno sostenendo con una classica pinza di Natale alla bolognese, mentre dalla cucina
arriva il profumo del brodo di cappone in cui verranno cucinati i tortellini 183.
Le riforme del Plenum cinese
Mario: Ragazzi, dall’ultima volta che ci siamo visti di cose ne sono successe parecchie.
Tanto per citarne alcune, la vittoria di Renzi alle primarie, la morte di Mandela, i primi
accordi con l’Iran, l’allunaggio di una sonda cinese, la vergognosa incapacità dei nostri centri
di accoglienza di svolgere il proprio lavoro in maniera dignitosa e umana 184.
Li: Ti stai dimenticando l’evento per noi più importante: le direttive emanate dal terzo
Plenum del Partito Comunista Cinese 185.
Mario: No, volevo lasciare a te l’onore. Tutti i media hanno annunciato la fine della
politica del figlio unico, la chiusura dei campi di rieducazione, la riforma dell’hukou e
l’innalzamento dell’età di pensionamento.
Li: A dire la verità ci sono state molte inesattezze dovute anche al fatto che il governo
cinese in quanto a capacità comunicativa fa ancora pena. Il primo comunicato, diffuso subito
dopo la chiusura del Plenum, era infatti scritto in un cino-politichese noto a un ristretto
circolo di esperti. Solo più tardi, è stata pubblicata una relazione più comprensibile che è però
arrivata quando l’attenzione mondiale si era già spostata su altri eventi 186. Così, la stampa e
le televisioni internazionali si sono concentrate sulle misure relative alle norme che da sempre
fanno scandalo, non su quelle più rilevanti.
Michele: Il tuo parere?
183
La ricetta dei tortellini è stata depositata il 7 dicembre 1974 con atto notarile presso la Camera di Commercio di
Bologna dalla Dotta Confraternita del Tortellino, in collaborazione con l’Accademia Italiana della Cucina. Si veda
http://www.confraternitadeltortellino.it/ita.
184
E’ il 5 dicembre quando Mandela lascia il mondo che lo ha visto lottare per tutta la vita contro razzismo e
diseguaglianza; è l’8 dicembre quando con il 68 per cento di oltre tre milioni di voti, Renzi vince le primarie
contro Cuperlo e Civati; è il 16 dicembre quando Chang’e 3 tocca il suolo del nostro pianeta nella Baia degli
arcobaleni e fa sbarcare Yutu, un rover a sei ruote del peso di 140 chili; è il 18 dicembre quando viene divulgato
un video sul vergognosop trattamento subito dagli immigranti in un centro di accoglienza di Lampedusa.
185
L’attuale leadership cinese fu nominata nel novembre del 2012. Di norma la leadership cinese tiene una
sessione plenaria all’anno, ad eccezione del primo. La seconda sessione si è pertanto tenuta nel febbraio del 2013,
poco prima del Congresso di Marzo, per preparare il cambio di leadership. La terza si tiene normalmente in ottobre
o novembre ed è stata spesso usata per svelare i piani politici della nuova leadership, le sue priorità e lanciare
riforme economiche e politiche. Nel 2013 la terza riunione del plenum è stata tenuta dal 9 al 12 novembre.
186
http://www.china.org.cn/china/third_plenary_session/2014-01/15/content_31203056.htm
168
Li: Mi è piaciuto il grande slancio riformista del documento. Ad esempio il fatto che esso
parli del grande sogno di ringiovanire la nazione cinese e che affidi al mercato un ruolo
decisivo nell’allocazione delle risorse e nel promuovere uno sviluppo giusto e sostenibile. Su
altri punti, mi è sembrato ancora troppo timoroso e reticente.
Mario: Abbiate fede! Forse il vostro RenZi è già nato e sta vagendo in un qualche sperduto
villaggio di campagna o nella periferia di una megalopoli. Se è cosi starà già chiedendosi cosa
fare, sena interrogarsi troppo sul dove andare. Sarebbe interessante sapere se la sua nascita è
stata annunciata dalla comparsa di una stella rosa nel cielo della Cina.
John: Li, non fargli caso e parlaci delle singole misure.
Li: Cominciamo da quelle che sono state prese in considerazione solo dagli addetti ai
lavori. In primo luogo, il documento da molto spazio alla riforma delle imprese di stato e
concede ai privati la possibilità di effettuare investimenti in quasi tutti i settori. Il governo si è
poi impegnato a favorire gli investimenti stranieri in Cina e quelli cinesi all’estero; a portare
avanti l’integrazione verticale del sistema giudiziario; a unificare i mercati urbani e rurali
della terra edificabile. E’ stata poi prevista la costituzione di un gruppo di lavoro che avrà il
compito di rendere più incisive le riforme e che risponderà direttamente alla leadeship del
partito.
John: Mio caro Li, la cosa difficile dei piani non è scriverli, ma attuarli. Non mi sembra
un caso che manchi una chiara indicazione di quando i vari interventi saranno attuati.. Il tuo
governo potrebbe decidere di implementare le cose facili e rinviare quelle difficile. Però,
l’aspetto più preoccupante è che mentre si riduce il ruolo del governo e della burocrazia,
quello del partito ne esce rafforzato.
Li: Mio caro John, non è che sotto sotto cominci a soffrire dell’invidia del dittatore?
Guarda che il governo cinese, proprio a causa di quella che tu chiami mancanza di
democrazia, può portare avanti le riforme di cui il paese ha bisogno in maniera molto più
rapida ed efficace di quanto non riesca a fare il vostro Obama che, malgrado tutta la buona
volontà, non è ancora riuscito a riformare la sanità, a chiudere Guantanamo, a fare una legge
umana sugli immigrati e ad evitare ogni pochi mesi un ridicolo tira e molla con il Senato per
riuscire a pagare gli stipendi dei dipendenti pubblici. Dobbiamo smettere di pensare che
ciascuno di noi abbia il diritto di esportare i propri valori e le proprie istituzioni e di criticare
quelle degli altri. Michele, tu cosa ne pensi delle nuove Direttive?
Michele: Io mi sono concentrato sulle misure relative ai temi che stiamo discutendo.
Vorrei però che ripartissimo dal problema del fabbisogno di manodopera straniera anche
perché questo ci permetterà di dare una prospettiva globale alla nostra chiacchierata.
Mario: Insomma, da quei 350 milioni di immigrati di cui la Cina avrebbe bisogno nei
prossimi 40, 50 anni, ma anche dai 350 di cui avrebbero bisogno gli altri paesi a bassa
fertilità.
La presenza straniera nei paesi di arrivo
Michele: Cominciamo col mettere in prospettiva questi numeri che, a prima vista, possono
sembrare incredibili. Come già sappiamo, negli ultimi sessanta anni il saldo migratorio dei
paesi di arrivo è cresciuto in maniera molto pronunciata e tra il 2000 e il 2010 ogni anno oltre
5 milioni di persone hanno lasciato la loro patria per cercare lavoro in un altro paese. Così, a
169
metà del 2013 il numero complessivo d’immigrati internazionali era stimato in 231 milioni187.
Quindi, se le migrazioni continuassero al ritmo attuale, alla fine del secolo la somma dei saldi
migratori registrati in cento anni supererebbe il mezzo miliardo.
Mario: Forse è proprio per evitare un numero così politicamente scorretto che la
Population Division ipotizza che le migrazioni internazionali finiranno per scomparire.
Michele: Come direbbe Confucio: “Honi soit qui mal y pense” 188. D’altra parte, sono già
numerosi i paesi nei quali la percentuale d’immigrati sulla popolazione totale è estremamente
elevata.
Mario: Secondo gli ultimi dati, vi sono 27 paesi nei quali la percentuale d’immigrati e
rifugiati è superiore al 10 per cento 189. I casi più eclatanti sono quelli di tre paesi del golfo:
gli Emirati Arabi con l’83,7 per cento, il Qatar e il Kuwait con il 73,8 e il 60,2 per cento
rispettivamente. Il gruppo successivo, con valori superiori al 30 per cento, include altri tre
paesi arabi (Giordania, Arabia Saudita e Oman) insieme a due delle piccole tigri asiatiche:
Singapore e Hong Kong. L’incidenza degli schiavi nella Roma imperiale era analoga, ma le
loro condizioni di vita erano certamente migliori, una cosa che mi sembra particolarmente
grave e ripugnante visto che questi paesi non hanno certo bisogno di sfruttare il lavoro altrui.
Tra il 20 e il 30 per cento vi sono molti degli storici paesi d’immigrazione (Svizzera,
Australia, Nuova Zelanda e Canada), ma anche Israele e Kazakistan. Gli Stati Uniti sono il
paese che ha il maggior numero d’immigrati, quasi 46 milioni, pari a circa il 20 per cento di
tutti gli emigrati internazionali. Tuttavia, con un’incidenza sulla popolazione totale del 14,3
per cento, gli Stati Uniti sono in un gruppo di 13 paesi, quasi tutti europei, con percentuali tra
il 10 e il 20 per cento.
John: E l’Italia?
Mario: Malgrado le leggi poliziesche volte più al controllo delle frontiere che a
regolamentare i flussi migratori in funzione dei fabbisogno del mercato del lavoro, a metà del
2013 gli immigrati presenti in Italia erano quasi 6 milioni e rappresentavano il 9,4 per cento
della popolazione totale. Il dato diventa ancora più rilevante quando si consideri il mercato
del lavoro dove gli immigrati rappresentano ormai più del 10 per cento delle forze di lavoro.
Tabella 1 – Paesi con la più alta percentuale di stranieri
187
United Nations Department of Economic and Social Affair (2013), Trends in International Migrant Stock: The
2013 Revision; http://esa.un.org/unmigration/TIMSA2013/migrantstocks2013.htm?mhome
188
“Vergogna a chi ne pensa male”. Come il dotto lettore avrà realizzato, ancora una volta il povero Confucio è del
tutto innocente. Si tratta, in effetti, del motto che sormonta la giarrettiera che contraddistingue il più antico ed
elevato ordine cavalleresco inglese che da essa prende il nome.
189
I dati non sono omogenei in quanto, in alcuni casi, si riferiscono a nati all’estero, in altri a stranieri e possono
includere o meno i rifugiati.
170
Fonte: UN DESA, Trends in International Migrant Stock. The 2013 Revision
Proiezioni, percezioni e politiche: il caso della Cina
Michele: Comunque ciò che mostra meglio di ogni altra cosa il realismo delle mie
previsioni è proprio ciò che è successo in Cina dove, negli ultimi venti anni, si sono registrati
circa 250 milioni di migranti, quaranta in più dei migranti internazionali degli ultimi sessanta
anni. Essi sono la risposta al fabbisogno di manodopera generato nelle province costiere dalle
tendenze demografiche e dalla crescita economica 190.
Li: Nessuno può più negare che il mercato del lavoro cinese sia a corto di manodopera. Lo
straordinario aumento dei salari (85 per cento in 4 anni) e la crescente conflittualità sui luoghi
di lavoro sono lì a testimoniarlo 191. Io continuo però a pensare che la Cina non potrà mai
accettare l’idea che tutti gli sforzi fatti per tenere gli “stranieri” fuori dal proprio territorio,
Grande Muraglia inclusa, vengano nullificati dalla crescita economica. D’altra parte, le tue
stime valgono in assenza di nuove politiche e il governo cinese si sta muovendo.
Michele: Io non ci conterei troppo.
Li: Perché?
Michele: La carenza di lavoro non sarà un fenomeno marginale e temporaneo, ma
strutturale e di lunghissimo periodo. Per affrontarlo in maniera efficace il governo cinese
dovrebbe agire immediatamente, ma per farlo, come ho già detto l’altra volta, dovrebbe
accettare l’idea che la Cina si trova sull’orlo di un baratro demografico senza precedenti e, a
dirti la verità, non mi sembra che neanche questo Plenum abbia avvertito il pericolo o sia
disposto a farlo 192.
Mario: Mi sembra curioso che, mentre trentacinque anni fa i demografi cinesi seppero
leggere con chiarezza le implicazioni socio-economiche delle loro proiezioni demografiche e
i leader di quel tempo ebbero il coraggio di prendere il più estremo dei rimedi, per di più
rompendo con una lunga e solida tradizione culturale, oggi nessuno veda le conseguenze del
crollo demografico indicato dalle proiezioni delle Nazioni Unite e di altri Istituti Statistici
nazionali.
John: Eh non ci sono più i cinesi di una volta! E poi si vede che non vanno a farsi una
birra con le persone giuste.
Michele: Spiritoso! Per quello che mi riguarda io a Pechino ci sono andato e di birre ne ho
bevute più di una e credo, tutto sommato, anche con le persone giuste, ma di risultati per il
momento non ne ho visti. Comunque, i cinesi sono in buona e numerosa compagnia visto che
190
Michele Bruni e Claudio Tabacchi (2011), “Present and Future of the Chinese Labour Market”, CAPPaper n.
83
191
Secondo una ricerca del China Economic Bulletin, tra il giugno del 2011 e la fine del 2013, la stampa e i media
cinesi hanno registrato oltre mille scioperi e proteste messe in essere soprattutto da parte di lavoratori delle
province del Sud. Il 40 per cento degli scioperi si è verificato nel settore manifatturiero e il 26 per cento nei
trasporti. Nella prima metà del 2014 il fenomeno, molto sottostimato da questa stima in quanto molti scioperi e
proteste non sono registrati dai media, sta accelerando. Per un aggiornamento in tempo reale del numero degli
scioperi e della loro localizzazione si veda la mappa defli scioperi; disponibile sul sito del China Economic
Bulletin http://www.numble.com/PHP/mysql/clbmape.html
192
Va ricordato che anche la Cina dispone di previsioni demografiche (non pubblicate) che, malgrado il
bassissimo numero di nati registrati dal censimento e e la ridotta consistenza delle prime classi di età (dati
confermati anche dalla rilevazioni successive), sono ancora, a dir poco, molto ottimistiche. Ad esempio reagendo
alle direttive del Plenum, la National Health and Family Planning Commission ha emesso una dichiarazione in cui
sostiene che, malgrado la popolazione tra i 15 e 59 anni abbia già cominciato a diminuire, la Cina riuscirà a
mantenere una forza lavoro di oltre 800 milioni fino al 2030.
171
nessuno degli altri paesi che si trovano nella stessa condizione ha il coraggio di riconoscere il
proprio fabbisogno di immigrati.
Mario: Un’ulteriore dimostrazione dell’incredibile inerzia dei paradigmi scientifici e della
globalizzazione del sapere.
Michele: … ma anche di una profondo e inconfessata avversione al diverso.
Li: Comunque vada, a me piacerebbe sapere cosa si può fare.
Le politiche per ridurre il fabbisogno di manodopera straniera
Michele: Come sappiamo il fabbisogno di manodopera straniera è causato dalla carenza
strutturale di offerta di lavoro, una situazione che si determina quando la domanda di lavoro
eccede in maniera pronunciata e continuativa l’offerta di lavoro. Ne consegue che il
fabbisogno di manodopera straniera può essere ridotto agendo sia sulla domanda, sia
sull’offerta. E questo è vero non solo per la Cina, ma per tutti i paesi che si trovano nella
stessa situazione.
Le politiche dal lato della domanda: aumentare la produttività e delocalizzare la
produzione
John: Se ricordo bene, nel caso della Cina, la Banca Mondiale ha proposto di ridurre
progressivamente il livello dell’occupazione.
Michele: Niente di nuovo sotto il sole. Sono più di venti anni che economisti e demografi
suggeriscono questa soluzione a tutti i paesi che si trovano a dover fronteggiare un calo della
popolazione in età lavorativa, incitandoli ad aumentare la produttività e a delocalizzare la
produzione. Tuttavia nessuno di questi paesi è riuscito ad evitare massicci flussi d’immigrati.
Li: Ma insomma che cosa dobbiamo fare?
Michele: Sul fatto che la Cina debba ricercare aumenti della produttività -che d’altra parte
saranno imposti dagli aumenti salariali, inevitabili in un fase di carenza di offerta- e trasferire
all’estero i comparti produttivi ad alta intensità di lavoro non ci piove. E’ anche evidente che
la Cina ha ampi margini per aumentare la produttività, in particolare nel settore agricolo,
ancora molto arretrato sul piano della meccanizzazione e caratterizzato da aziende di
dimensioni troppo piccole per garantire uno sfruttamento ottimale del territorio. Allo stesso
tempo, ci si può aspettare che la Cina sposti la propria produzione su clusters
tecnologicamente più avanzati e ad alta intensità di capitale, generando quindi sensibili
aumenti di produttività nel settore industriale.
Li: Allora siamo a cavallo!
Michele: Non proprio. Io rimango convinto che la Cina non riuscirà ad aumentare la
produttività in maniera sufficiente a ridurre in maniera sostanziale la propria domanda di
lavoro per un periodo così lungo come quello richiesto dalle tendenze demografiche.
Li: Ci hai già detto che nessuno c’è mai riuscito. Ma, se permetti, la Cina è un’altra cosa.
Michele: Sì, ma anche nel senso che dovrà affrontare problemi particolari e di dimensioni
colossali. In primo luogo l’aumento della produttività dipenderà anche dalla capacità della
Cina di alzare il livello educativo e la preparazione professionale dei ragazzi che usciranno da
scuole, centri di formazione e università. Come ovunque, anche in Cina, la fertilità è molto
più elevata nelle zone rurali e nelle province meno sviluppate così che la maggioranza dei
172
giovani sotto i 18 anni vive ancora in queste aree 193. Questi ragazzi stanno studiando in scuole
il cui livello non è certamente comparabile a quello delle zone urbane.
Li: Vero, ma sono certo, che il governo cinese saprà intervenire e risolvere il problema.
Michele: Speriamo, ma tutto prende tempo e la Cina è ormai fuori tempo massimo. Un
ulteriore problema è che nei prossimi anni l’economia cinese entrerà in una fase di
terziarizzazione sempre più spinta e ciò non potrà che ridurre la crescita della produttività del
lavoro.
Li: Quindi tu escludi che riusciremo a ridurre la domanda di lavoro attraverso aumenti
della produttività?
Michele: Mi auguro che la Cina riesca dove tutti gli altri paesi hanno fallito, ma
oggettivamente non riesco a immaginare che la Cina possa mantenere un tasso di crescita
della produttività maggiore di quello della produzione per i prossimi cinquanta anni.
Li: Ci resta sempre la possibilità di delocalizzare.
Michele: Anche in questo caso se a livello teorico non c’è motivo che la cosa non
funzioni, sul piano pratico non mancano limiti e problemi.
Li: Ad esempio …
Michele: La prima e più ovvia considerazione è che non tutto può essere prodotto
all’estero e sarebbe quindi opportuno che la Cina cominciasse fin da subito a pianificare quali
attività produttive delocalizzare e dove, anche perché si troverà a competere con paesi come
Giappone, Corea e Taiwan che hanno ormai acquisito una lunga esperienza in questo settore e
possono contare su agenzie di internazionalizzazione ben collaudate, mentre le imprese cinesi
utilizzano la propria manodopera anche all’estero.
Li: Insomma, stai dicendo che produttività e delocalizzazione possono aiutare, ma non
risolvere il problema.
Michele: Sì, d’altra parte è quanto emerge anche dall’esperienza dei paesi che si sono già
trovati in una situazione di carenza strutturale di lavoro, un caso su tutti quello dell’Italia le
cui aziende di settori ad alta intensità di lavoro, come calzature e tessile, già a partire dagli
anni novanta, hanno delocalizzato la produzione in numerosi paesi, senza che ciò abbia
influito in maniera sensibile sul fabbisogno di manodopera straniera.
Li: Se non possiamo diminuire la domanda di lavoro, possiamo almeno aumentare
l’offerta?
Le politiche dal lato dell’offerta: età di pensionamento, mobilità interna, fecondità
Michele: Di politiche che agiscono sull’offerta di lavoro vi è un’ampia scelta. Alcune
hanno un impatto nel breve periodo, altre nel periodo medio lungo. Nel breve periodo il modo
più semplice per aumentare l’offerta di lavoro è aumentare il numero di classi di età copresenti sul mercato del lavoro, innalzando l’età legale di pensionamento.
Li: Secondo le norme in vigore ormai da una sessantina di anni, in Cina gli uomini vanno
in pensione a 60 anni e le donne tra i 50 e i 60.
Michele: Nel frattempo la durata media della vita è aumentata di una ventina di anni. Il
Plenum ha pertanto ritenuto che fosse necessario aumentare l’età di pensionamento per
193
La popolazione delle zone rurali rappresenta il 49,7 per cento della popolazione totale; tuttavia i bambini con
meno di un anno sono il 61 per cento, la popolazione tra 0 e 14 il 57,4 e quella tra 15 e 34 il 44 per cento.
173
ridurre il carico pensionistico. Non ho però trovato da nessuna parte l’idea che questa misura
potrebbe anche portare a un aumento dell’offerta di lavoro.
John: Perché dici potrebbe?
Michele: In primo luogo perché la presenza degli anziani nel mercato del lavoro è già
molto elevata: il tasso di occupazione degli uomini tra i 60 e i 64 anni è del 57,8 per cento,
mentre i tassi di attività delle donne tra i 50 e i 64 vanno dal 61,5 per cento (50-54) (69-64) al
40,3 per cento 194. In secondo luogo perché i giovani studiano sempre più a lungo ed entrano
sempre più tardi nella fase lavorativa della vita, il che può controbilanciare l’innalzamento
dell’età media di uscita dal mercato del lavoro. Non è quindi chiaro quale sarebbe l’effetto
finale di uno spostamento verso l’alto dell’età legale di pensionamento in questa specifica
fase storica.
Li: Un intervento che comunque non è stato ancora attuato perché, anche in Cina come
altrove, non è certo ben visto dai lavoratori.
Michele: Vero tanto che, da una parte, esso è stato criticato perché renderebbe più difficile
l’ingresso nell’occupazione dei giovani, mentre coloro che la difendono sono comunque a
favore di un’implementazione lenta, graduale e selettiva 195.
Li: Quindi?
Michele: Credo che lo slittamento dell’età pensionabile ridurrebbe il carico pensionistico,
ma avrebbe un effetto molto limitato sull’offerta di lavoro.
Mario: Passiamo alle altre politiche dal lato dell’offerta.
Michele: E’ molto probabile che la carenza di lavoro continuerà a essere localizzata in
alcune aree e l’eccesso di lavoro in altre.
Li: Quindi la cosa giusta da fare sarebbe facilitare la mobilità interna, abolendo l’hukou.
Michele: Certamente, anche se il vero problema non è l’abolizione del divieto di mobilità
interna, fra l’altro già totalmente disatteso, quanto la concessione agli immigrati degli stessi
diritti dei residenti in aree quali educazione e salute. E questo è soprattutto un problema
finanziario che riguarda le città d’immigrazione che vedrebbero esplodere le loro spese.
Li: D’altra parte se queste misure non fossero adottate, la Cina continuerebbe a far pagare
ai più poveri il costo della crescita economica, come pure il benessere dei residenti nei centri
urbani. E’ una vecchia e consolidata tradizione del mio paese, ma potrebbe non essere un
atteggiamento intelligente in una fase in cui la carenza di lavoro sta facendo aumentare il
potere contrattuale dei lavoratori, immigranti inclusi!
John: Ma scusa, se le migrazioni interne continueranno, perché la Cina dovrebbe aver
bisogno di lavoratori stranieri?
Michele: Le migrazioni interne possono fare ben poco per ridurre il fabbisogno totale.
Anzi, l’esodo dei contadini provocherà una carenza di manodopera anche nelle zone più
povere che finirà per attrarre lavoratori stranieri, disposti a fare i più umili lavori delle
194
China Statistical Yearbook, 2013
E’ stato, infatti, suggerito l’innalzamento dell’eta legale di pensionamento sia attuata prima e più velocemente
per le donne -che sono penalizzate dall’attuale sistema- e per le professioni impiegatizie, in particolare quelle del
settore pubblico
195
174
campagne. E’ un fenomeno che in Italia è stato molto evidente e ha portato intere comunità
straniere a stanziarsi in zone agricole marginali.
Li: Quindi, non ci rimane che fare più figli!
Michele: Esatto; nel lungo periodo l’unica alternativa all’immigrazione e alla contrazione
della produzione è l’ingresso nella popolazione in età lavorativa di coorti più numerose e ciò
si può ottenere solo con un aumento della natalità, visto che il numero delle donne in età
fertile è destinato a diminuire progressivamente.
Li: Mi sembra che anche in questo caso il Plenum si sia mosso con eccessiva prudenza.
Michele: Con una prudenza che definirei colpevole. Di fatto, la politica del figlio unico
non è stata abolita, ma ci si è limitati ad estendere la possibilità di avere due figli alle coppie
nelle quali almeno uno dei coniugi è figlio unico. Come sapete, facevano già eccezione le
minoranze etniche, le coppie rurali il cui primo figlio è una femmina, le coppie nelle quali
entrambi i componenti sono figli unici.
Li: La politica del figlio unico è ormai in vigore da oltre trenta anni. Quindi, con questa
deroga le coppie che non possono avere due figli divengono più l’eccezione che la regola.
Michele: Personalmente ritengo che l’impatto di questa misura sarà se non nullo,
certamente molto modesto perché la storica preferenza dei cinesi per una famiglia numerosa è
ormai tramontata e i giovani coniugi -spesso entrambi occupati a tempo pieno e sempre meno
aiutati dalle rispettive famiglie- hanno ormai aderito al nuovo paradigma riproduttivo che
caratterizza tutti i paesi sviluppati e quelli che si affacciano alla modernità196. Tenete presente
che se per i prossimi quindici anni non c’e più modo di evitare un declino della PEL, per
raggiungere tale risultato a patire dal 2030 bisognerebbe che il numero delle nascite salisse
immediatamente dagli attuali 13, 14 milioni ad oltre 23 e non credo proprio che la nuova
deroga alla politica del figlio unico possa produrre tale risultato.
Li: C’è rimasta qualche altra politica dal lato dell’offerta?
Michele: Si può facilitare il ritorno dei cinesi che vivono all’estero, ma soprattutto portare
ragazzi dei paesi sottosviluppati a studiare nelle scuole e nelle università cinesi. Il primo
intervento contribuirebbe a ridurre il provincialismo culturale della popolazione cinese,
mentre giovani stranieri cresciuti ed educati in Cina rappresenterebbero un’ottima alternativa
a immigrati che abbiano terminato il percorso formativo nei loro paesi e avrebbero quindi
difficoltà ad adattarsi a un paese nuovo e alla sua lingua. In entrambi i casi non ci può però
aspettare grandi numeri 197.
Li: In conclusione, tu ritieni che le misure adottate dal governo cinese non solo potranno
fare ben poco per ridurre il fabbisogno di lavoratori stranieri, ma che anche l’adozione di un
insieme coordinato di politiche demografiche e del mercato del lavoro potrebbe forse ridurre,
ma certo non eliminare il disequilibrio demografico.
Michele: Hai detto bene! Bisogna tener presente che il vero problema dei paesi nell’ultima
fase della transizione è quello di trovare una soluzione strutturale al disequilibrio demografico
196
Zheng Z, Cai Y, Wang F. & Gu B. (2009), “Below replacement fertilitty and childbearing intention in Jangsu
provincre”, Asian Population Studies. 5(3), 329-347
197
Nel 2011 gli studenti stranieri in Cina erano quasi 300.000 a fronte dei 110.000 che si registravano nel 2004.
Con il 21,3 per cento la Corea del sud dava il contributo maggiore, seguita da Stati Uniti e Giappone. E’ quindi
evidente che per il momento la presenza straniera non risponde alla logica sostenuta da Michele. Sempre nel 2011
vi erano quasi 340.000 studenti cinesi all’estero. http://www.iie.org/Services/Project-Atlas/China
175
e alla conseguente carenza di forza lavoro. In assenza di tale soluzione, la popolazione locale
continua a diminuire e il fabbisogno di manodopera straniera a perdurare 198.
Li: Ma alla fine della favola, ce la farà la Cina a prendere la leadership mondiale!
Michele: Mio caro Li, mi sembra di aver già espresso chiaramente il mio parere.
Li: Sii più esplicito.
Michele: Il futuro socio-economico della Cina, il suo livello di crescita economica e di
sviluppo sociale, e quindi la sua capacità di assumere la leadership mondiale, dipenderanno in
maniera cruciale dalla sua capacità di accogliere e integrare lavoratori stranieri, un gran
numero di lavoratori stranieri. D’altra parte, credo anche che la forza del mercato sia tale che
ciò avverrà, non importa quali saranno le posizioni del governo.
Li: Insomma, ce la faremo.
John: Se Michele ha ragione, il vostro sistema salterà, il paese si spezzerà tra zone ricche
e zone povere e il sogno di un’egemonia mondiale della Cina tramonterà definitivamente.
Michele: Si accettano scommesse. Comunque, la situazione della Cina non può essere
discussa in isolamento e deve essere inquadrata nel contesto mondiale. Non dimenticatevi che
saranno numerosi i paesi che si troveranno nelle stesse condizioni demografiche della Cina,
dovranno affrontare gli stessi problemi e tutti competeranno per l’eccesso strutturale di forza
lavoro presente nei paesi più poveri.
John: Ce ne hai già parlato e a questo punto vorrei capire le dimensioni del fenomeno.
Li: Temo che neanche il Santo Natale ci proteggerà da un pacco di statistiche.
Il contesto demografico mondiale
Transizione demografica e polarizzazione demografica
Michele: Lasciate prima di tutto che vi ricordi alcuni dati che già conosciamo. Come
conseguenza dell’inesorabile procedere della transizione demografica, la popolazione in età
lavorativa (15-64) mondiale sta convergendo verso il proprio massimo storico, ma in un
contesto demografico caratterizzato, da un lato, dalla presenza di un numero crescente di
paesi interessati da un calo massiccio della popolazione in età lavorativa e, dall’altro, da un
numero decrescente di paesi su cui incomberà una mostruosa esplosione demografica. In
sostanza tra un gruppo di paesi nei quali l’offerta di lavoro diminuirà in maniera drammatica
e un gruppo di paesi nei quali avverrà l’opposto.
Li: A questo punto sono curioso anch’io di sapere qualcosa di più sui compagni di viaggio
della Cina.
Tutti insieme appassionatamente verso la terza fase della transizione
Michele: Tra il 2015 e il 2020 i paesi del primo gruppo saranno 54, 37 dei quali Europei.
Tra il 2050 e il 2055 i paesi in questa situazione saranno diventati la maggioranza (111 contro
90) 199. Notate che gli ingressi nel secondo gruppo di paesi saranno particolarmente numerosi
198
Le conseguenze di lungo periodo di una fertilita sotto il livello di rimpiazzo furono indicate già nel lontano
1988 in un esercizio previsivo proposto da J. Bourgeois-Pichat, “Du XX au XXI siècle: l’Europe et sa population
après l’an 2000”, Population, 1, pp. 9-44.
199
Si è deciso di terminare l’analisi nel 2055 perché da tale anno le proiezioni della popolazione in età lavorativa
risentono dell’ipotesi sulla convergenza della fecondità a livello di sostituzione, ipotesi che non ritengo fondata.
176
in Asia, dove il fenomeno interesserà ben 29 paesi. Di conseguenza, nel 2055 i paesi asiatici
nella terza fase della transizione demografica saranno 39, come in Europa. Dei 90 paesi la cui
popolazione in età lavorativa dovrebbe continuare ad aumentare, ben 50 sono in Africa; degli
altri 40, 12 sono in Asia, 18 in America Latina, 9 in Oceania e solo 1 in Europa.
Tavola 2 –Paesi con variazioni negative della popolazione in età lavorativa; 2015-2020 e
2050-55
Fonte: UN DESA – Word Population Prospects. The 2012 Revision
Mario: Un cambiamento drammatico del panorama demografico mondiale.
Michele: .. e che diventa ancora più drammatico se guardiamo i dati e in particolare i dati
della popolazione in età lavorativa. Nella Tabella 3 ho riportato l’elenco dei venti paesi la cui
popolazione in età lavorativa dovrebbe registrare la maggior crescita e dei venti la cui
popolazione in età lavorativa dovrebbe registrare la maggior contrazione. I primi dieci paesi
del primo gruppo sono tutti africani e dei secondi dieci, solo tre (Tagikistan, Kuwait e
Honduras) non appartengono a questo continente. Notate anche che la popolazione in età
lavorativa dell’ultimo paese di questa lista, la Costa d’Avorio, dovrebbe “solo” triplicare. Il
secondo gruppo contiene invece paesi molto diversi fra loro e rispetto ai quali è difficile
trovare un legame. Vi sono paesi africani, asiatici, europei e dell’America latina; paesi
relativamente grandi e paesi piccoli; paesi cattolici, protestanti, mussulmani e buddisti; paesi
da tempo tra i paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo. Ciò che li accomuna è un calo della
popolazione in età lavorativa superiore al 31 per cento. Il valore massimo è quello della
Mongolia che è seguita dal Bahrain, dall’Uruguay e dal Costarica, tutti paesi la cui
popolazione totale dovrebbe più che dimezzarsi. Notate anche che questi dati sottostimano il
fenomeno, poiché considerano la variazione tra il 2010 e il 2100 e non tra il valore massimo
che molti di essi devono ancora raggiungere e la fine del secolo. Ad esempio, la Cina non è
inclusa in questa tabella anche se, come abbiamo già visto, la sua popolazione in età
lavorativa dovrebbe diminuire di circa il 40 per cento tra il 2030 e il 2100, anche ipotizzando
un aumento della fertilità.
Li: Continuo a pensare che queste proiezioni siano assurde e non riesco a capire come sia
possibile che i grandi paesi del mondo non intervengano per dirlo, e quindi implicitamente le
accettino, e nel contempo non facciano nulla per evitare che esse si realizzino.
Mario: Forse il mondo spera che le teorie Malthusiane siano vere e che saranno fame e
denutrizione, o magari qualche provvidenziale virus, a disinnescare la bomba demografica.
Sarebbe meglio far sorvolare il paese da aerei che sganciassero preservativi a grappolo, che i
bambini non li uccidono, ma li prevengono.
177
Tavola 3 – I primi venti paesi per crescita e contrazione demografica; scenario in
assenza di migrazioni; 2010 - 2100
Fonte: Elaborazione su dati UN DESA, Word Population Prospects. The 2012 Revision
Popolazione in età lavorativa e offerta di lavoro: dove cresce (troppo) e dove
cala (dopo)
Michele: Ma torniamo ai dati. Il modo migliore per capire cosa stia per succedere è
tracciare le variazioni della popolazione in età lavorativa nei due gruppi di paesi. Nel grafico
1 sono riportati i valori medi annui:
1. Dell’incremento della popolazione in età lavorativa nel primo gruppo di paesi (area
blu);
2. Del calo della popolazione in età lavorativa nel secondo gruppo di paesi (area rossa); 200
3. Del saldo tra variazioni positive e negative che corrisponde alla variazione assoluta
della popolazione mondiale in età lavorativa (barre verdi).
Grafico 1 – Popolazione in età lavorativa; saldi positivi, saldi negativi e saldi totali;
2015-2055
Fonte: Elaborazione su dati UN DESA Word Population Prospects. The 2012 Revision
200
In entrambi i gruppi, il numero di paesi cambia progressivamente a seguito del passaggio di alcuni di essi dal
primo al secondo gruppo.
178
John: Quindi, tra il 2015 e il 2020, la popolazione mondiale in età lavorativa dovrebbe
aumentare in media ogni anno di 45 milioni, come differenza tra una crescita di 52 milioni nei
paesi in espansione demografica e un calo di 7 nei paesi in contrazione demografica. Dopo
quaranta anni, la crescita si dovrebbe ridurre, come abbiamo già visto, a 13 milioni a causa
del calo dei saldi positivi (a 34 milioni) e dell’aumento del valore assoluto dei saldi negativi
(a 21 milioni).
Michele: Guardate adesso la distribuzione dei saldi positivi e dei saldi negativi per
continente e la loro evoluzione in questa prima metà del secolo. Tra il 2015 e il 2020 la
crescita della popolazione mondiale in età lavorativa dovrebbe essere concentrata in Asia
(53,7 per cent) e in Africa (35,4 per cent), mentre l’America latina dovrebbe contribuire con il
10,6 per cento. Tra il 2050 e il 2055 la quota dell’Africa dovrebbe salire all’86,7 per cento e
quella dell’Asia scendere al 10,9 per cento, con l’America latina all’1,9 per cento. Venendo ai
saldi negativi, nel 2015-20 l’Europa dovrebbe dare un contributo maggioritario (53.4 per
cento), seguita dall’Asia (41,2 per cento) e al terzo posto dai paesi del nuovo mondo, (Stati
Uniti, Canada, Australia e Nuova Zelanda). Tra il 2050 e il 2055 la situazione è totalmente
cambiata. L’Asia è ora di gran lunga al primo posto con un peso del 75,7 per cento (la Cina
da sola rappresenta il 55,9 per cento), seguita dall’Europa il cui peso si dovrebbe ridurre al
15,1 per cento e dall’America Latina con il 5,8 per cento. I paesi del Nuovo Mondo
dovrebbero dare un contributo marginale (2,6 per cento).
Tavola 4 – Saldi postivi e negativi; distribuzione per continente; 2015-20 e 2050-55
Fonte: Elaborazione su dati UN DESA Word Population Prospects. The 2012 Revision
I saldi migratori internazionali: previsioni a confronto
Michele: Notate che, in assenza di flussi migratori, all’inizio del periodo il mantenimento
del tasso di occupazione imporrebbe al primo gruppo di paesi la creazione ogni anno di circa
30 milioni di posti di lavoro, che sarebbero scesi a circa venti alla fine. Di contro i secondi
dovrebbero distruggerne 4 all’inizio e 12 alla fine. Incrociando le informazioni del grafico
con quelle della tavola è evidente che la stragrande maggioranza dei posti di lavoro aggiuntivi
dovrebbe essere creata in Africa e negli altri paesi più poveri, mentre la riduzione
dell’occupazione dovrebbe concentrarsi in Europa e in alcuni paesi asiatici.
Mario: Credo che non serva essere demografi o economisti raffinati per capire che un tale
disequilibrio demografico non potrà che generare flussi migratori di dimensioni senza
precedenti storici e questo sia che si creda in una tesi da domanda, sia che si creda in una tesi
da offerta.
Michele: Spiacente di deluderti, almeno per quanto riguarda i demografi. Ti ricordo che,
secondo la Population Division, nei quaranta anni considerati i flussi migratori non solo
dovrebbero ammontare ad appena 90 milioni, vale a dire meno di quelli registrati negli ultimi
quaranta anni, ma i valori medi annui dovrebbero progressivamente diminuire. E infine, come
179
vi ricorderete, secondo questi dotti demografi non vi dovrebbe essere quasi nessuna relazione
tra andamento demografico e saldi migratori.
John: Il tuo modello porta ovviamente a conclusioni completamente diverse.
Michele: Certo. La mia impostazione porta a visualizzare un futuro demografico antitetico
a quello proposto dalle proiezioni della Population Division. La prima differenza
fondamentale è che i flussi migratori internazionali non tenderanno a scomparire per lasciare
posto solo a flussi turistici, ma aumenteranno progressivamente tanto da divenire la
caratteristica principale del secolo in cui stiamo vivendo. Se guardiamo al problema nel suo
complesso, la somma dei saldi negativi registrati dai singoli paesi tra il 2015 e il 2055
dovrebbe essere di quasi 500 milioni. Questo sarebbe dunque il saldo migratorio necessario
per mantenere inalterata la popolazione in età lavorativa al valore iniziale. Tuttavia, come
abbiamo già visto, questo valore sottostimerebbe il saldo migratorio per almeno due ragioni
che vale la pena ricordare. Un’immigrazione che mantenga inalterata la Popolazione in età
lavorativa può non essere sufficiente per fronteggiare un aumento dell’occupazione, come
possiamo attenderci che avvenga in numerosi paesi di questo gruppo. Ve ne potranno poi
essere altri che, pur non essendo inclusi nel gruppo di paesi nella terza fase della transizione e
che registreranno quindi un’espansione della popolazione in età lavorativa, avranno bisogno
d’immigrati a causa di aumenti dell’occupazione maggiori di quelli della popolazione in età
lavorativa. E’ quanto si è verificato negli ultimi dieci anni nei paesi del golfo e che potrebbe
ripetersi anche in futuro in questi o altri paesi a causa delle segmentazioni educative,
occupazionali e di genere che caratterizzano sia la domanda, sia l’offerta di lavoro. A titolo
puramente indicativo possiamo pertanto ipotizzare, anche sulla base di precedente analisi, che
il numero d’immigrati sia pari a una volta e mezzo il calo della popolazione in età lavorativa.
Il grafico riassume che cosa succederebbe in questo scenario nei prossimi quaranta anni.
Li: Il solito grafico facile, facile.
Grafico 2 - Saldo migratorio totale e dei principali continenti di sbocco; valori medi
annui in milioni
Fonte: Elaborazione su dati UN DESA – Word Population Prospects. The 2012 Revision.
Michele: Gli istogrammi misurano il valore medio annuo dei flussi migratori globali,
mentre le linee descrivono l‘andamento degli arrivi in Asia ed Europa, nonché il dato
residuale relativo ai paesi del nuovo mondo e ad alcuni piccoli stati soprattutto dell’America
180
latina e caraibica 201. Nel primo quinquennio (2015-20) il saldo migratorio medio annuo
dovrebbe essere di circa 10 milioni, un valore che è comunque il doppio di quello del periodo
2000-2010. In questo periodo gli arrivi dovrebbero essere divisi quasi equamente tra Asia ed
Europa, con una leggera prevalenza di quest’ultima. Il numero dei migranti dovrebbe poi
progressivamente aumentare fino al 2040, tirato dalla rapida progressione del dato asiatico,
mentre quello europeo dovrebbe rimanere sostanzialmente costante. Dopo una breve fase di
declino, il numero medio annuo dei migranti dovrebbe salire oltre i 30 milioni, ancora una
volta sotto l’impulso dell’Asia e, in particolare, della Cina.
John: Insomma, tu confermi le stime che ci avevi fornito l’altra volta di oltre 700 milioni
di immigrati nei prossimi quarant’anni e che ovviamente crescerebbero oltre il miliardo prima
della fine del secolo.
Michele: E questo determina la seconda differenza fondamentale rispetto alle proiezioni
delle Nazioni Unite. Nella mia impostazione i paesi caratterizzati da un calo naturale della
popolazione in età lavorativa sarebbero interessati da saldi migratori più che compensativi e
vedrebbero quindi aumentare tutti i segmenti della popolazione, come abbiamo già visto,
analizzando gli scenari per la Cina .
John: A dire la verità, non so se essere più scettico sulle proiezioni delle Nazioni Unite o
sui tuoi scenari migratori. Comunque, anche tu prospetti un disastro planetario.
Michele: Al contrario, se si facessero le cose giuste, nel modo giusto, al momento giusto
questa situazione potrebbe rappresentare una grande opportunità.
John: Non scherziamo, una grande opportunità per chi?
Le migrazione internazionali: calamità o opportunità?
Michele: Per i paesi ricchi; in quanto consentirebbe loro di continuare a crescere; per i
pesi più poveri; in quanto contribuirebbe a innescare un processo di sviluppo e a levare
milioni di persone da livelli di povertà persino difficili da immaginare. Le migrazioni
attutirebbero il divario socioeconomico tra paesi ricchi e paesi poveri, anche frenando una
crescita demografica insensata; promuoverebbero il progressivo avvicinamento a un mondo
nel quale la popolazione del pianeta avrà tutte le possibili sfumature di colore, levando cosi al
razzismo una delle sue ragioni di base; favorirebbero un più rapido, anche se più morbido
ingresso in una fase storica in cui la popolazione in età lavorativa prima, e la popolazione
totale poi, inizieranno a diminuire, ponendo così le premesse per una consistente riduzione
dello sfruttamento delle risorse non rinnovabili.
John: Ma come fai a pensare che quattrocento milioni d’immigrati in Cina e altrettanti nei
paesi con carenza di offerta possano essere una cosa positiva? Continuo a pensare che le
conseguenze d’immigrazioni di massa come quelle che tu ipotizzi sarebbero devastanti.
Michele: Sarebbe sciocco pensare che flussi migratori di questa portata non genererebbero
seri problemi nei paesi d’arrivo. Tuttavia, le loro caratteristiche e dimensioni dipenderanno
dal modo in cui il problema sarà gestito. Sono convinto che essi porterebbero anche una serie
di vantaggi e che il saldo finale sarebbe positivo.
201
Il caso piu rilevante dei paesi caraibici è Cuba la cui popolazione in età lavorativa dovrebbe diminuire di quasi
2,5 milioni nei prossimi 40 anni.
181
LI: Michele, anch’io sono molto scettico. Basta guardarsi attorno per vedere che i flussi
migratori sono accompagnati da drammi di tutti i generi.
Michele: .. ma che sono però dovuti soprattutto alle politiche di tipo poliziesco adottate
dai paesi d’arrivo e che, a loro volta, sono la conseguenza del radicato, ma non per questo
meno errato, convincimento che i flussi migratori siano generati dal lato dell’offerta. Le cose
cambierebbero radicalmente se si arrivasse a comprendere non solo con la mente, ma anche
con la pancia che gli immigrati vengono nei nostri paesi per rispondere ai fabbisogni del
nostro mercato del lavoro, che se non servissero non verrebbero e comunque non
rimarrebbero. La prova controfattuale è che gli immigrati non vanno nei paesi che non hanno
bisogno di manodopera straniera.
Mario: Va bene, ma consideriamo con più attenzione le tue considerazioni. Nella tua
ottica, il primo e fondamentale contributo dei flussi migratori -e quello che giustifica tutta la
tua analisi- è che gli immigrati non sono un optional, ma rappresentano l’unica possibilità per
i paesi nella terza fase della transizione demografica di continuare a crescere.
Michele: Certo, questo è il pilastro su cui poggiano tutte le considerazioni successive e
credo di aver mostrato che si tratta di una tesi del tutto giustificata sia dalle evidenze storiche,
sia da quelle empiriche. Per avere un quadro completo dell’impatto delle migrazioni sulla
situazione economica e sociale dei paesi di arrivo dobbiamo considerare altri aspetti dei flussi
migratori ai quali abbiamo già accennato nel corso delle nostre chiacchierate e che adesso
possiamo riassumere. Gli immigrati sono in media più giovani della popolazione dei paesi di
arrivo e quindi rallentano il processo d’invecchiamento nel senso che frenano l’aumento della
percentuale degli anziani. Vengono da paesi a più alta fecondità ed è possibile che, almeno
per un certo periodo, producano più bambini della popolazione locale. La giovane età e una
maggiore propensione al rischio, senza la quale essi non farebbero parte di quella minoranza
che ha deciso di lasciare il proprio paese, ne porta una parte rilevante a divenire imprenditore.
Infine, gli immigrati contribuiscono a rendere una società più cosmopolita e più aperta al
mondo.
John: Quindi, secondo te gli immigrati sarebbero il toccasana per quasi tutti i problemi
delle nostre società. Forniscono ai paesi più sviluppati la manodopera necessaria per
continuare lungo un sentiero di crescita economica, riducono l’invecchiamento, conducono il
paese d’arrivo verso una situazione di equilibrio demografico di tipo naturale, aumentano il
tasso d’imprenditorialità, rendono una società aperta al mondo e, suppongo, aiutino anche a
superare i pregiudizi razziali. Non ti sembra eccessivo?
Michele: No, credo che sia realistico. Anche se è evidente che coloro la cui sopravvivenza
politica dipende in buona parte dal fornire una visione negativa dei flussi migratori
insisteranno nella loro posizione, indipendentemente da tutte le prove fornite.
Li: Come ha detto l’antico saggio cinese: non c’è peggior cieco di chi non vuole vedere!
Michele: D’altra parte l’alternativa, ammesso che sia praticabile, cosa di cui non sono
affatto convinto, è quella di società che invecchiano inesorabilmente e imboccano una spirale
di declino demografico, che si rinchiudono in abitudini prive della dinamica che solo il
rinnovo generazionale può dare -e che quindi cessano di essere cultura per divenire un
monumento alla memoria del tempo che fu- che perdono contatto con il mondo esterno, che
imboccano la via della stagnazione se non addirittura della crisi economica.
182
Mario: Comunque, ho l’impressione che una migrazione delle dimensioni che tu indichi
avrebbe effetti ancora più rilevanti sui paesi di partenza.
Michele: Questo è forse il punto più interessante. Tra il 2015 e il 2055, in assenza di flussi
migratori, la popolazione in età lavorativa dei paesi ancora in espansione demografica
aumenterebbe di 1,7 miliardi, mentre quella dei paesi in contrazione diminuirebbe di 500
milioni. Se vi fossero 700 milioni di migranti, l’aumento della popolazione in età lavorativa
del primo gruppo scenderebbe di gran lunga sotto il miliardo perché le migrazioni
ridurrebbero il numero delle donne in età fertile e, molto probabilmente, anche la fecondità.
Così, a occhio e croce, potremmo ipotizzare che la crescita della popolazione in età lavorativa
dei paesi in espansione demografica sarà solo di 800 milioni. Quindi il fabbisogno di posti
aggiuntivi, necessario per mantenere inalterato il tasso di occupazione si dimezzerebbe,
scendendo attorno al mezzo miliardo. Si tratta sempre di un valore molto alto, ma non
irraggiungibile, anche perché una migrazione così massiccia porterebbe certamente a una
notevole quantità di rimesse che, se opportunamente gestite, potrebbero dare un contributo
rilevante alla crescita economica e dell’occupazione. A sua volta, la crescita economica
aumenterebbe il livello di benessere il che comporterebbe un aumento del livello di scolarità
della componente femminile e accelererebbe ulteriormente il declino della fertilità. Senza
dimenticare che la crescita economica dei paesi poveri comporterebbe la comparsa di nuovi
mercati per i prodotti dei paesi più sviluppati. Il grafico riassume le cose che ho appena detto.
Il Fondo Migrazione Educazione
John: Aspetta, cos’è quel cerchio giallo in mezzo alla Figura con la scritta “Fondo
Migrazione Educazione”.
Michele: Se fosse qualcosa su cui scherzare, direi la ciliegina sulla torta. La tesi da offerta
sostiene che i migranti con un basso livello educativo e privi di competenze sono persone che
fuggono dalla miseria, mentre quelli con un alto livello educativo e competenze professionali
elevate sono persone in cerca di un reddito più elevato e di una vita migliore. La tesi da
domanda ci porta invece alla conclusione che un numero crescente di paesi non riesce a
produrre internamente le risorse umane di cui ha bisogno per portare avanti ed eventualmente
183
accrescere la propria produzione. Si trovano quindi nella necessità di acquisire tali risorse da
altri paesi così come numerosi paesi devono acquisire all’estero beni capitale necessari per la
produzione. La differenza è che mentre le macchine vengono pagate, gli immigranti portano
in dono i corpi e le competenze necessarie al processo produttivo.
John: Stai suggerendo che i paesi di arrivo dovrebbero pagare per gli immigrati? Non ti
basta che debbano pattugliare i mari per salvare le vite di migranti e rifugiati, sopportare i
costi di accoglienza e gestire i difficile problemi dei loro inserimento sociale e economico?
Michele: John, la conseguenza della tesi da domanda è che l’arrivo d’immigranti risponde
al bisogno dei paesi di arrivo e quindi porta all’acquisizione gratuita di fattori di produzione
indispensabili per mantenere o accrescere il livello produttivo. A questo punto è
semplicemente giusto che i paesi d’arrivo rimborsino i paesi di partenza almeno dei costi di
“produzione” che hanno dovuto sostenere.
John: Ma scusa se gli immigrati lavorano vengono retribuiti.
Michele: Il salario è la retribuzione per il lavoro svolto, necessario per la manutenzione
ordinaria dei lavoratori e che permette loro di riprodursi. Il salario corrisponde alle spese che
le imprese sostengono per assicurare il funzionamento delle macchine come energia e
manutenzione. Qui stiamo parlando dell’investimento affrontato dal paese di partenza e che
viene vanificato dall’emigrazione.
Li: Puoi spiegarti meglio.
Michele: Supponiamo che vi siano due paesi. Nel primo le nascite sono sufficienti per
fornire la forza lavoro di cui il paese ha bisogno. Il paese deve ovviamente sostenere una
parte dei costi, fissi e variabili, per l’educazione e la formazione. Questi costi si trasferiscono
in parte sulle imprese tramite l’imposizione fiscale e quindi sui costi di produzione. Il
secondo paese importa tutta la manodopera da altri paesi e quindi le sue imprese hanno
minori costi e godono così di un vantaggio competitivo nei confronti dell’altro paese.
John: OK; supponiamo che tu abbia ragione. In primo luogo si dovrebbe fare una
valutazione di quanto valga ogni immigrato e poi di come gestire e utilizzare i fondi.
Michele: Si tratta ovviamente di un processo molto complesso i cui passaggi principali
dovrebbero essere la definizione del “valore” degli immigrati, e quindi dell’ammontare di
denaro che ogni paese dovrebbe versare, la riscossione del denaro, la definizione insieme ai
governi dei paesi di partenza dei processi educativi e formativi più idonei per promuovere lo
sviluppo sociale ed economico del paese, l’attivazione dei progetti, il loro monitoraggio e la
loro valutazione. I fondi potrebbero poi essere usati per costruire nuove scuole e migliorare le
condizioni igienico-sanitarie di quelle esistenti, assumere nuovi insegnanti e migliorarne le
retribuzioni così da attrarre in questo settore nevralgico persone capaci e dedicate, dare uguali
opportunità agli abitanti delle zone rurali, promuovere l’uguaglianza di genere.
Mario: Come si fa a stabilire il valore di un immigrato?
Michele: Beh si potrebbe semplicemente far versare il denaro necessario per educare in
maniera analoga un'altra persona.
Mario: Sarebbe un po’ come decidere che chi utilizza il legname di alberi cresciuti in altri
paesi consegnasse a un ente per la riforestazione il denaro necessario per far crescere un
numero uguale di alberi e l’ente s’impegnasse, insieme al paese di partenza a realizzare
184
questo obiettivo. In questo modo il paese di partenza risulterebbe depauperato delle risorse
arboree solo temporaneamente. Senti come ti è venuta questa idea?
Michele: In primo luogo c’è un problema di equità e la necessità di garantire il rispetto
delle regole della concorrenza. Ma il punto fondamentale è un altro. I paesi sottosviluppati
non riescono a innescare percorsi di crescita e di sviluppo anche perché le loro risorse vanno
soprattutto a rimborsare i paesi ricchi e gli organismi internazionali dei prestiti ricevuti e dei
relativi interessi. Il fondo Migrazione Educazione potrebbe ridurre i prestiti dei paesi ricchi ai
paesi poveri e i corrispondenti interessi, consentire loro di costruire una forza lavoro più
preparata, indispensabile non solo per spostare la produzione su cluster a più elevata
tecnologia, ma anche per attrarre capitali stranieri.
Mario: Mi sembra che una proposta analoga sia già stata avanzata, ma non si sia mai
riusciti a metterla in pratica.
Michele: Forse ti riferisci alla così detta Bagwati tax che fu sul punto di fruttare
all’economista indiano che la propose negli anni 70 il premio Nobel, ma che, contrariamente
alla mia proposta, affonda le proprie radici in una spiegazione dei flussi migratori dal lato
dell’offerta. Bhagwati partiva, infatti, dall’idea che paesi come l’India registrano
l’emigrazione di professionisti che “abbandonano” il loro paese per recarsi in altri paesi,
attratti dalla possibilità di guadagni più elevati. Propose quindi che i paesi di partenza
potessero tassare il reddito di questi professionisti che lavoravano all’estero, un’emigrazione
di élite che oggi è numericamente del tutto marginale 202.
Mario: Forse hai ragione, ma mi sembra veramente difficile che le tue proposte possano
essere accettate;
John: E chi farebbe tutto questo?
Michele: Credo che si dovrebbe creare un organismo internazionale, una Organizzazione
Mondiale delle Migrazioni (l’OMM), come è stato suggerito recentemente anche da Livi
Bacci, sia pure per motivi diversi. 203
Mario: Cioè?
Michele: Lasciatemi chiarire una cosa. Ho dedicato buona parte delle precedenti
chiacchierate a sostenere che la causa dominante dei flussi migratori è la carenza strutturale di
offerta di lavoro che caratterizza alcuni paesi, in presenza di una offerta illimitata in altre aree
del mondo. Sono convinto che questa sia la prospettiva che consente di spiegare e prevedere
gli aspetti fondamentali del fenomeno migratorio, la direzione e la consistenza dei flussi.
Questo non significa che non sia consapevole dell’enorme complessità che caratterizza il
fenomeno migratorio, “per il modo in cui i flussi si incontrano, si accavallano e si respingono
in un mutevole movimento”, per gli interessi che coinvolgono sia nei paesi di partenza sia nei
paesi di arrivo, per l’enorme diversità delle politiche migratorie esistenti, per il fatto che il
mondo è “senza regole che contemperino e garantiscano i diritti e gli interessi delle parti in
causa” 204. E’ partendo dalla constatazione di questa situazione che Livi Bacci ha proposto di
202
Bhagwati J. N., Dellafar (1973), “The Brain Drain and Income Taxation”, World Development, 1; Bhagwati J.
N., Hamada K. (1974) “The Brain Drain International Integration of Markets for Professionals and
Unemployment: A Theoretical Analysis”, Journal of Development Economics, 1, 19-24.
203
Massimo Livi Bacci (2012), Migrazioni. Vademecum di un Riformista, Associazione Neodemos,
http://www.neodemos.it/doc_eventi/Vademecum_Migrazione.pdf
204
“Anzitutto quelli del protagonista più debole, il migrante, stretto tra le regole imposte dal paese di partenza e
quelle proprie del paese di arrivo. Poi quelli delle società di origine che perdono risorse umane che depauperano le
comunità, i gruppi, le famiglie. Infine i paesi di arrivo che accolgono migranti per sostenere il proprio equilibrio
185
dare vita a un organismo internazionale (l’Organizzazione Mondiale delle Migrazioni) che
desse ordine alle migrazioni.
Mario: Facendo cosa?
Michele: Livi Bacci propone che questa Agenzia acquisisca progressivamente tre
funzioni: funzioni di studio (analisi, informazione, formazione e raccordo); funzioni di più
diretta rilevanza per le politiche migratorie; infine funzioni di coordinamento, orientamento,
garanzia e governo dei flussi.
John: E quello che vorreste anche tu?
Michele: Senza negare la rilevanza di queste funzioni io proporrei altre priorità.
L’Agenzia dovrebbe sì occuparsi di approfondire la conoscenza del fenomeno migratorio, ma
nella mia ottica questo implica sviluppare e mettere in essere metodologie per valutare il
fabbisogno di manodopera dei paesi che ne hanno una carenza strutturale su orizzonti
temporali intermedi (10, 15 anni) e, possibilmente, per livelli educativi e principali profili
professionali. Allo stesso tempo l’OMM dovrebbe mappare l’eccesso di offerta. Dovrebbe poi
coordinare il matching della domanda e dell’offerta di lavoro a livello internazionale
occupandosi di gestire direttamente o indirettamente tutti gli aspetti connessi: formazione,
trasporto degli emigrati, pratiche per l’avviamento al lavoro. Questa stessa Organizzazione
dovrebbe poi essere incaricata di gestire il Fondo Migrazione Educazione con le modalità che
ho indicato in precedenza .
Mario: Mi sembra molto difficile che questa proposta possa avere un futuro. Iniziative ben
più solide e sollecitate da persone ben più influenti di te sono già fallite. Ad esempio la
Global Commisison on Migration and Development, creata da Kofi Annan nel 2003, ha
concluso i propri lavori con una proposta non solo molto più modesta (una commissione di
semplice coordinamento), ma che è rimasta lettera morta.
Da idea a progetto: ci vorrebbe un miracolo
Michele: Sono d’accordo con te. Dovrei sperare che le mie previsioni non attraessero solo
l’attenzione delle Agenzie internazionali di collocamento, ma che le loro implicazioni
economiche e sociali, ma soprattutto politiche venissero prese in considerazione o per lo
meno riuscissero a spaventare i policy maker sia dei paesi di arrivo sia dei paesi di partenza.
A dire la verità, l’ipotesi più probabile è che le mie tesi non incontrino ne il favore del mondo
accademico, ne quello dei funzionari di organismi internazionali, ne tantomeno dei politici
(nessuno dei quali ha un particolare interesse a corree dei rischi lasciando la strada vecchia
per la nuova) e vengano semplicemente ignorate. 205
John: E allora? Hai qualche idea di come trasformare questa proposta in un progetto? Ci
vorrebbe un miracolo.
Michele: Hai ragione. Forse basterebbe trovare lo sponsor giusto. Qualcuno che creda
come me che i flussi migratori possono costituire uno strumento fondamentale ''per
contribuire alla costruzione di una società più giusta, una democrazia più compiuta, un Paese
sociale ed economico esprimono potenti interessi che non sempre coincidono con quelli dei propri cittadini e che
spesso confliggono con quelli dei migranti e dei paesi di origine” Ibidem p. 12.
205
A quanto mi risulta, gli articoli pubblicati da Michele non hanno fino ad ora ricevuto ne commenti positivi ne
commenti negativi, ma sono stati semplicemente ignorati, come le tendenze demografiche in atto e l’incapacità
degi organi preposti di prevederle.
186
più solidale, un mondo più fraterno” e che abbia la statura intellettuale e l’autorevolezza
morale per convincere il mondo a discutere queste idee e a fare i passi necessari per attuarle.
Mario: Non stari mica pensando a ..
Michele: Certo. E’ il solo uomo che potrebbe portare avanti idee come queste e poi è uno
che ha familiarità con i miracoli.
Mario: Cosa fai, mi cambi bandiera?
Michele: Le convergenze tra il mondo religioso e la sinistra laica in tema di migrazioni
non sono nuove; il problema è che le armi usate da entrambi sono spuntate. Non basta
sostenere che “è necessario un cambio di atteggiamento verso i migranti e rifugiati da parte di
tutti; il passaggio da un atteggiamento di difesa e di paura, di disinteresse o di emarginazione
- che, alla fine, corrisponde proprio alla “cultura dello scarto” - ad un atteggiamento che abbia
alla base la “cultura dell'incontro”, l'unica capace di costruire un mondo più giusto e fraterno,
un mondo migliore.” Ne è sufficiente battersi per pari dignità e uguali diritti di tutte le
persone del mondo. C’è bisogno di una proposta operativa che poggi su di una base teorica
convincente, che coniughi i bisogni dei paesi ricchi e dei paesi poveri, che aiuti entrambi a
muoversi verso un equilibrio demografico naturale con cui affrontare il momento in cui la
popolazione mondiale comincerà a diminuire e bisognerà imparare a guidare l’economia in
discesa.
Mario: Come pensi di fare a coinvolgerlo?
Michele: Sono convinto che se potessimo farci una chiacchierata, magari davanti a un
piatto di tortelloni burro e oro ci capiremmo.
Tutti ebbero l’impressione che nella mangiatoia il bue e l’asinello ammiccassero divertiti.
187
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