COGNOME NOME 24/03/2015 ALBERTI M. CRISTINA 15,30

Milano 9 dicembre 2014
Il contratto a termine nella prospettiva europea
Enzo Martino
L'evoluzione della disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato dal 2001 ad oggi – dal
punto di vista di chi difende i diritti dei lavoratori - può essere rappresentata da una parabola (non in
senso evangelico, naturalmente).
Con il decreto Poletti n. 34 (convertito in legge 16.5.2014, n. 78) si raggiunge il “fuoco”, cioè il
punto più basso, della figura geometrica piana: e cioè la liberalizzazione totale dell'istituto e dunque
il raggiungimento dell'altrettanto totale dell'agognato obiettivo datoriale della flessibilità pressoché
completa in entrata (quella in uscita sta arrivando con il Jobs act parte seconda).
Come tutti sappiamo, il decreto legislativo 368/2001
è stato emanato in attuazione della
Direttiva CE 70/1999 e dell'accordo sindacale europeo in essa recepito.
Finalità dichiarata della direttiva e dell'accordo quadro - unitamente a quella di realizzare il
principio di non discriminazione - è quella di “creare un quadro normativo per la prevenzione degli
abusi derivanti dell'utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo
determinato”.
Per perseguire tale finalità vengono individuati una o più misure, da introdurre da parte degli
Stati membri (previa consultazione delle parti sociali), in assenza di disposizioni equivalenti.
Tali misure sono:
a) ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo;
b) la durata massima totale dei rapporti a temine;
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c) il numero dei rinnovi.
Da notare che, nella disciplina comunitaria, il primo contratto è libero da vincoli (nel senso che
non è prevista alcuna necessaria misura ostativa), perché la normativa è espressamente finalizzata a
prevenire gli abusi nella successione dei contratti.
Spetta invece al legislatore nazionale di stabilire:
- quando i contratti debbono considerarsi successivi;
- quando gli stessi debbano considerarsi a tempo indeterminato;
Il nostro ordinamento, facendo propria la finalità di prevenzione degli abusi della disciplina
europea, aveva optato, con il decreto legislativo 368/2001, per la prima delle tre misure, quella
delle ragioni obiettive, introducendo il cosiddetto “causalone” e ribadendo, in sintonia con
l'accordo quadro, il principio secondo cui il contratto a tempo indeterminato costituisce la forma
comune del rapporto di lavoro (regola/eccezione).
Mi permetto una digressione, sul piano più delle politiche economiche che su quello dello stretto
diritto, sottolineando un'altra disposizione, a mio avviso di fondamentale importanza, dell'accordo
quadro, disposizione del tutto trascurata nella propaganda attuale in favore di una flessibilità
indiscriminata in entrata:
Mi riferisco al “considerando” n. 6 dell'accordo quadro, secondo il quale il rapporto a tempo
indeterminato viene privilegiato come “forma comune” del rapporto di lavoro non soltanto perché
contribuisce a migliorare la qualità della vita dei lavoratori interessati, ma anche perché migliora il
loro rendimento.
Questo “considerando andrebbe “considerato” con più attenzione da chi predica una ricetta di
uscita dalla crisi tutta incentrata sulla compressione del costo della manodopera, e non
sull'incremento della produttività e sull'innovazione di progetto e di prodotto (strada più
impegnativa, ma l'unica possibile per molti economisti, come è stato dimostrato dall'esperienza
negli anni delle rincorsa salariale, che furono anche quelli più espansivi della nostra economia nel
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secondo dopoguerra).
Dopo il decreto legislativo 368/2001 – peraltro già ben più flessibile della disciplina pregressa sono intervenuti ben 11 interventi normativi sul suo testo, alcuni di mero restyling, altri più
sostanziali (penso al contratto acausale di un anno della riforma Fornero).
Quasi interpolazioni normative sono in gran parte andate nel senso della maggior flessibilità, ma
rappresentano tutte bazzecole se si comparano alla rivoluzione del decreto Poletti il quale, abolendo
il “causalone”, sia per i contratti a TD che per la somministrazione a TD, ha abbandonato del
tutto la prima delle misure ipotizzate dall'accordo quadro e dalla direttiva (le “ragioni obiettive per
la giustificazione del rinnovo”).
La nuova disciplina secondo alcuni rispetterebbe però le prescrizioni della disciplina
comunitaria, in quanto l'abolizione delle ragioni obiettive sarebbe compensata dalla previsione del
tetto dei 36 mesi come limite massimo alla durata del contratto, comprensivo delle proroghe, il cui
numero massimo è fissato nel numero di cinque.
La legge parla di proroghe, ma in realtà, trattandosi di proroghe pur esse “acausali”, sfugge del
tutto dal punto di vista giuridico la differenza con i rinnovi.
All'ossequio formale della direttiva non corrisponde a mio avviso il rispetto sostanziale della sua
ratio, in particolare per quanto attiene al rispetto delle sue finalità.
Prima di riassumere brevemente il contenuto dell'esposto che la CGIL nazionale ha presentato
una
Denuncia alla Commissione europea contro la Repubblica italiana per violazione degli
obblighi derivanti dalla disciplina comunitaria, vorrei fosse chiaro un concetto, che, a quanto ho
letto e sentito in questi mesi, non mi pare sia stato da tutti ancora metabolizzato nella sua piena
portata.
Dopo il decreto Poletti, nel nostro ordinamento, non soltanto è ammissibile l'assunzione a
termine anche fronte della più stabile delle occasioni di lavoro, ma anche è possibile ricorrervi per
un numero indeterminato e potenzialmente altissimo di volte.
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Ciò perché l'abolizione della causale convive con il mantenimento in vita della disciplina dei
rinnovi (art. 5 d. legisl. 368; successione dei contratti).
E' vero che il nuovo comma 1 prevede che sia consentita “l'apposizione di un termine alla durata
del contratto di lavoro subordinato di durata non superiore a trentasei mesi, comprensiva di
ulteriori proroghe......” ma è altrettanto vero che il mantenimento in vita del cit. art. 5 rende
ammissibile, nell'ambito dei trentasei mesi, la stipula di una pluralità di contratti a TD brevissimi,
tutti prorogabili sino a 5 volte, purché separato dall'intervallo temporale di 10 giorni previsto
dall'art. 5 (intervallo peraltro accorciabile dalla contrattazione collettiva).
Ipotizzando contratti di 15 giorni con 5 proroghe di 3 giorni per un totale di 30 giorni
complessivi, sarebbero in ipotesi possibili 36 successivi contratti
con 180 proroghe (purché
intervallati da almeno 10 giorni non lavorati) , senza alcuna ragione oggettiva che ne giustifichi la
stipula.
A ciò si aggiunga che:
- il limite dei 36 mesi è liberamente derogabile dalla contrattazione collettiva anche aziendale ex
comma 8 L. 142/2011;
- utilizzando la somministrazione si può coprire gli intervalli non lavorati;
- la somministrazione a TD non è soggetta al limite dei 36 mesi (lo è solo se utilizzata insieme ai
contratti a termine);
- dopo il decorso dei 36 mesi lo stesso lavoratore può essere riassunto a termine sia pure in
mansioni diverse;
- sotto i 5 dipendenti, per i lavoratori stagionali, agricoli ed altre fattispecie il tetto temporale non
opera (cfr. art. 10 decr. Legisl).
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Né la fissazione del tetto massimo del 20% di contratti a TD rispetto all'organico può essere
considerato un temperamento significativo della nuova disciplina, posto che:
- il tetto già era previsto dalla contrattazione collettiva (che ora peraltro si vede attribuita la
possibilità di aumentare la percentuale di legge) senza che ciò rappresentasse un valido argine,
tanto che le sentenze in materia sono pochissime, anche per la difficoltà da parte del lavoratore di
avere i dati numerici significativi;
- è dubbio che la violazione del tetto – riconosciuto dalla scarsa giurisprudenza esistente in
materia di violazione dei tetti contrattuali - ora provochi la conversione del contratto, posto che è
stata espressamente introdotta una specifica sanzione amministrativa, tra l'altro riducibile ex art.16
legge 689/1981.
Se questo è il quadro, a me pare incontestabile che l'affermazione circa il fatto che nella
sostanza:
- la solenne dichiarazione secondo cui il contratto a tempo indeterminato sia la forma comune
del rapporto di lavoro nell'ordinamento italiano si traduce ora in una collassale ipocrisia;
-l'ordinamento italiano non contempla più misure idonee a fronteggiare l'abuso nella successione
dei contratti a TD così come prescritto dalla Direttiva.
Le violazioni della disciplina comunitaria evidenziate nel ricorso alla Commissione della CGIL
sono molteplici:
- l'abolizione delle ragioni oggettive non può essere considerata compensata dalla durata
massima di 36 mesi (la sent. Adelener non ha infatti ritenuto sufficiente il limite massimo di 24
mesi previsto della legge ellenica, tra l'altro giudicando inadeguato anche l'intervallo di 20 gg. tra
un contratto e l'altro). Il limite temporale come detto è allungabile, e comunque il rischio di abusi
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nella successione di contratti e proroghe è più che reale.
- la normativa europea richiede comunque che il contratto a TD non sia finalizzato a soddisfare
esigenze stabili e durature del datore di lavoro (sent. Angelidaki), e ciò anche in una fattispecie in
cui susstevano due delle tre misure previste dalla clausola 5 dell'accordo (nella specie ragioni
obiettive e durata massima); la normativa italiana consente invece il ricorso al contratto a TD anche
per esigenze stabili; ciò in applicazione del principio di effettività del diritto comunitario, per cui
non basta il rispetto formale delle direttive, ma occorre perseguirne nella sostanza gli obiettivi.
- la violazione dell'art. 30 della Carta dei diritti fondamentali di Nizza e l'art. 24 della Carta
sociale europea, perché di fatto l'esistenza di rapporti a TD così lunghi ed acausali svuota la tutela
dai licenziamenti arbitrari. A ciò non osta il fatto che il mancato rinnovo alla scadenza non
costituisca un licenziamento in senso tecnico, posto che se la regola è diventata l'eccezione, e
l'eccezione regola, nella sostanza la maggior parte degli occupati (i TD rappresentano già il 70% dei
neo assunti) è del tutto priva di tutele;
- la violazione delle direttive contro la discriminazione fondata sull'età (giovani ed
ultracinquantenni) e sul genere (donne); il ricorso è corredato da una premessa ricca di dati statistici
sull'utilizzo dei contratti a TD in relazione a queste categorie cui per sintesi mi richiamo.
- la violazione del principio di non regresso, perché la legge di conversione, richiamando
espressamente la direttiva europea, dunque rientra nell'ambito di applicazione della clausola, che
risulta violata perché la riforma del 2014 ha carattere generalizzato, introduce modifiche fortemente
peggiorative, incide sul generale livello di tutela e non prevede misure che possano compensare il
peggioramento complessivo. Peraltro
la dichiarata (ma generica) finalità di incrementare
l'occupazione non può essere invocata per giustificare il peggioramento delle tutele perché è del
tutto ipotetica e smentita dai riscontri statistici menzionati nella premessa del ricorso.
Mi auguro quindi che proprio dall'Europa , troppo spesso invocata a sproposito per ragioni di
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mera opportunità politica, arrivi un segnale forte di inversione di tendenza, in modo che dal “fuoco”
della parabola si possa ripartire con la curva verso l'alto.
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