D ◆ Debriefing Processo che favorisce la mobilitazione delle notevoli capacità di superamento del vissuto traumatico di un individuo. Il d. può prevenire efficacemente l’insorgere di disturbi psichici più gravi, ma non deve necessariamente essere effettuato da professionisti del ramo psicoterapeutico o psichiatrico. Spesso è addirittura più indicato l’intervento di persone provenienti dalla medesima categoria di quelle coinvolte. Grazie ad un colloquio con una persona formata per questo tipo d’intervento, il d. permette di ridurre le possibili conseguenze nefaste di un avvenimento traumatico a livello psichico, come l’insorgere della sindrome da stress post-traumatico (PostTraumatic Stress Desease) e altre sindromi collegate. Nel corso del dialogo si affrontano progressivamente fatti, pensieri ed emozioni al fine ristabilire una migliore comprensione dell’avvenimento e permettere di reinserirlo nel corso della propria esistenza. ◆ Déjà vu [ESPERIENZA DI] Fenomeno psichico caratterizzato dalla sensazione di aver «già visto» una certa persona, episodio o scena. Viene considerato come un disordine della memoria, definito variamente come ecmnesia, crisi dismnesica o anche paramnesia. La sensazione opposta è quella del «jamais vu» (mai visto). Simili a questi due sono tutti i fenomeni descritti come «déjà entendu» (già compreso), «déjà éprouvé» (già provato), «déjà fait» (già fatto), «déjà pensé» (già pensato), «déjà raconté» (già raccon- tato), «déjà vécu» (già vissuto), «déjà voulu» (già voluto). Non si tratta di un inganno dei sensi o di una erronea rappresentazione, bensì di una esperienza paradossale del sentimento. Il fenomeno può essere spiegato come: a) perseverazione dello stato emozionale di una situazione precedente; b) associazione degli stimoli percepiti con ricordi rimossi; c) parziale somiglianza dell’insieme degli stimoli percepiti con esperienze precedenti. ◆ Deleuze, Gilles Filosofo francese (Parigi, 1925 - 1995). La sua riflessione filosofica intrattiene un rapporto diretto con la psicoanalisi e con la psichiatria critica (fu amico e collaboratore di Felix Guattari, psichiatra vicino alle correnti della antipsichiatria: molti testichiave sono stati scritti insieme dai due autori). Nelle sue prime opere gli autori di riferimento sono gli empiristi inglesi, Spinoza, Kant, Nietzsche, Bergson. Si tratta di momenti diversi della storia della filosofia che convergono nella critica dell’umanesimo classico. L’empirismo e il materialismo spinoziano confutano il concetto aristotelico di sostanza; la «molteplicità delle facoltà conoscitive» di Kant e lo «slancio vitale» di Bergson ridefiniscono il concetto tradizionale di conoscenza; soprattutto Nietzsche (cui D. dedica nel 1962 uno dei suoi libri più importanti: Nietzsche e la filosofia) porta a compimento la messa in questione dell’idea di soggetto tradizionale e del suo più autorevole corollario teoretico, la dialettica di origine hegeliana. La volontà di potenza nietzschiana (e Delirio simmetricamente le idee di oltreuomo e di eterno ritorno) non implica, secondo D., una volontà di dominio: piuttosto sembra spingere verso una liberazione del molteplice e della differenza. Il soggetto classico si frantuma in un pluralità di forze, in un flusso di energie che si affermano antagonisticamente. La volontà di potenza va interpretata come azione creativa («principio dell’affermazione multipla, principio donante, virtù che dona»). Da ciò deriva, per un verso, una visione della filosofia come creazione ludica e artistica di concetti, espressamente teorizzata in due opere della maturità: Differenza e ripetizione (1968) e Logica del senso (1969); per l’altro, una riformulazione della psicoanalisi e del suo statuto teorico, che trova la più celebre espressione ne L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia (1972, scritto con Guattari). Quest’opera, nata nel clima della contestazione studentesca del ’68, si pone come superamento del freudo-marxismo dialettico di Reich e Marcuse e mette sotto accusa il centro teorico della psicoanalisi freudiana, la dottrina dell’Edipo. Il punto di partenza è la potenza della repressione sessuale attuata dalla cultura contemporanea. Secondo D. e Guattari, la teoria freudiana è connivente con tale repressione. Freud avrebbe il merito storico di aver svelato il meccanismo dell’attività inconscia come dimensione «desiderante», eversivo/pulsionale, liberatoria e «affermativa» nel senso nietzscheano. Tuttavia, la concettualità edipica avrebbe inquadrato la sessualità sotto «il significato dispotico della castrazione». Analogo retaggio censorio rispetto al potere del desiderio si osserverebbe in Lacan che, come Freud, sembra incardinare l’inesauribilità della pulsione lipidica nella rete della dipendenza dall’Altro e dalla Legge paterna. Secondo D., il desiderio è, al contrario, profondamente «anedipico» e irriducibile — pena il suo spegnersi — ad alcuna tipologia ge- 174 rarchica, compresa quella della mancanza ontologica lacaniana. La via d’uscita consisterebbe, dunque, nella dissoluzione dell’Edipo come struttura psicosociale della modernità e nella pratica di una corporeità diffusa, affermativa e ludica, «senza organi» o limitazioni. ◆ Delirio Gli autori classici (Kraepelin, Bumke) consideravano il d. un «errore morboso di giudizio che non si lascia rettificare dall’esperienza e dalla critica», ponendo alla base dello stesso un disturbo cognitivo-razionale. Jaspers, con una definizione che è stata fatta propria dalla cultura psichiatrica di questo tempo, afferma che «le idee deliranti sono giudizi patologicamente falsati», poiché «solo là dove si opera con il pensiero e si esprime un giudizio può insorgere un d.». I tre criteri suggeriti da Jaspers della certezza soggettiva, dell’incorreggibilità e dell’impossibilità del contenuto rappresentano tuttora il punto di riferimento fondamentale per ogni accettabile definizione di d. Jaspers, infatti, afferma che «idee deliranti si chiamano in modo vago tutti i falsi giudizi che possiedono in elevata misura — anche se in modo impreciso — le seguenti caratteristiche esteriori: 1) la straordinaria convinzione con la quale vengono mantenuti, l’impareggiabile certezza soggettiva; 2) il fatto di non essere influenzati dall’esperienza concreta e da confutazioni stringenti; 3) l’impossibilità del contenuto». Anche la definizione del DSM-IV-R tiene globalmente conto di tali criteri, sottolineando in particolar modo la falsità di contenuto. Per Schneider, ciò che caratterizza il d. non è tanto il contenuto quanto la forma con cui si esprime. In tal senso, il d. viene definito come un’idea, o un sistema di idee, caratterizzato da modalità genetiche e formali assolutamente peculiari, estranee nelle premesse e nelle conclusioni al mondo comu- 175 ne e sostenute da un convincimento acritico. Una prima tipizzazione del d. può essere dipendente dallo stato di coscienza che lo accompagna. A seconda che vi sia o meno compromissione dello stato di coscienza, si parla di d. confuso o di d. lucido. Quest’ultimo può essere ulteriormente sottotipizzato per l’aspetto strutturale in d. sistematizzato, in cui le idee deliranti appaiono collegate tra loro secondo un sistema di nessi logici; o non sistematizzato, frammentario, costituito da idee elementari, isolate, non articolate tra loro. Secondo i caratteri genetico-formali, la tradizione psicopatologica tedesca ha differenziato il d. primario da quello secondario o deliroide. Il d. primario è «fenomenologicamente qualcosa di ultimo» (Jaspers), incomprensibile e psicologicamente inderivabile. A volte sorge apparentemente in modo improvviso, ma spesso è preceduto da uno stato d’animo predelirante (Wahnstimmung), dove perplessità, preoccupazione, terrore dominano il soggetto, che avverte il dissolversi dei normali punti di riferimento che lo legano al mondo. In tale contesto, nasce e si struttura il d., interpretabile come un tentativo di dare un senso a questa atmosfera enigmatica, «un punto fisso dove fermarsi e aggrapparsi» (Hagen). Tra i d. primari si distinguono la percezione delirante, l’intuizione delirante e la rappresentazione delirante. La prima viene definita come una condizione in cui a una percezione reale viene attribuito, senza motivo comprensibile, razionale o emotivo, un significato abnorme, generalmente nel senso dell’autoriferimento. L’intuizione delirante, invece, si fonda su una condizione falsa o impossibile, apparentemente non basata su un’alterazione del significato di un «oggetto» percepito. Nel primo caso, l’elemento patologico sta nell’alterato rapporto tra oggetto e significato, nell’intuizione delirante l’elemento patologico sta nel suo contenuto. Nella rap- Delirio presentazione delirante è un’immagine mnesica a essere investita da un significato abnorme. La falsità del contenuto è sicuramente più facile da valutarsi nella percezione delirante, poiché sussiste un preciso punto di riferimento esterno sulla percezione del quale esiste un ampio consenso sociale. Più complesso è il giudizio di falsità o impossibilità di una convinzione come l’intuizione delirante, in cui non vi è un chiaro e univoco punto di riferimento esterno. Schneider considerava le percezioni deliranti di rango superiore rispetto alle intuizioni deliranti e le considerava tra i sintomi di primo rango della schizofrenia. I d. secondari, le idee deliroidi (Jaspers) o le reazioni deliroidi (Schneider) sorgono «in modo comprensibile per noi» (Jaspers) da uno stato affettivo, da esperienze vissute o da alterazioni dello stato di coscienza e delle percezioni. I casi più frequenti sono: a) le interpretazioni deliranti, ossia i tentativi di dare un senso a esperienze abnormi, ad esempio un fenomeno allucinatorio; b) le elaborazioni deliranti, frutto dell’elaborazione da un d. primario; c) i d. olotimici, con derivazione da uno stato affettivo alterato, come i d. di colpa e di rovina del depresso e di grandezza nel maniacale; d) i d. caratterogeni, che si sviluppano in personalità psicopatiche. Attualmente, la distinzione tra d. primari e secondari non è più accettata. Il confine della comprensibilità, che sancisce la differenza, appare infatti estremamente variabile nella sua collocazione, essendo in rapporto anche all’approfondimento del paziente ottenuto dal medico e delle capacità di comprensione di quest’ultimo. Già Bleuler sosteneva che i d. fossero sempre secondari ad alterazioni dell’umore (olotimia) o a complessi ideoaffettivi (catatimia). La terminologia descrittiva adottata dal DSM-IV-R parla unicamente di d. congrui o incongrui al tono dell’umore. L’ana- Delirio lisi delle tematiche deliranti principali porta all’individuazione di alcune aree tematiche principali, con alto livello di stabilità e di consistenza, sia attraverso le varie culture, sia attraverso i vari periodi storici. Esse sembrano fare riferimento ad alcuni schemi di organizzazione emozionale e cognitiva relativamente semplici ed elementari e appartenenti più alla specie che ai singoli individui, come l’integrità corporea, la minaccia proveniente dall’esterno, la perdita, l’affermazione di sé. All’interno di tali tematiche, i contenuti specifici più descritti sono il d. di influenzamento, riferimento, persecuzione, colpa, indegnità, rovina, erotomanico, gelosia, grandezza, somatico e ipocondriaco, mistico e di negazione. Vengono detti bizzarri quei d. centrati su fenomeni che la cultura del soggetto considera totalmente non plausibili (DSM-IV-R). Il d. è riscontrabile in un gran numero di disturbi psichiatrici tra loro eterogenei sia su base organica certa sia cosiddetti funzionali. Il d. è il sintomo patognomonico del disturbo delirante (d. altamente strutturati); è spesso presente nella schizofrenia, nel disturbo schizofreniforme, nel disturbo schizoaffettivo e nel disturbo psicotico breve (nei quali possono essere presenti tutti i contenuti, ma i più rappresentati sono i d. di influenzamento, persecuzione e riferimento); può comparire nei disturbi dell’umore (congrui: colpa, rovina, indegnità, ipocondriaco nella depressione; di grandezza e di onnipotenza nella mania; incongrui: persecuzione, influenzamento, riferimento), nei disturbi organici cerebrali, nel disturbo psicotico indotto da sostanze e nell’epilessia temporale. L’alterazione del rapporto di realtà presente nel delirante secondo Jaspers è essenziale nella genesi del d. anche nell’interpretazione psicoanalitica di Freud, per il quale il meccanismo fondamentale alla base del d. sarebbe la proiezione che consente di elaborare la conflittualità di 176 base e di ricostruire un nuovo rapporto con la realtà. I momenti fondamentali della teoria freudiana sono quindi rappresentati dal disinvestimento oggettuale, dal ripiegamento narcisistico e dalla ricostruzione del rapporto con la realtà. Il d. costituisce un tentativo di guarigione, di ricostruzione del mondo esterno mediante la restituzione della libido agli oggetti, resa possibile grazie al meccanismo della proiezione. Secondo la concezione freudiana dell’apparato psichico così com’è articolata nella prima topica, il d. ha la significazione di un sintomo, vale a dire di una formazione sostitutiva le cui condizioni di comparsa derivano da un meccanismo comune alla nevrosi e alla psicosi. Se la rimozione consiste nel distaccare la libido dagli oggetti del mondo esterno, il ritorno del rimosso nella realtà consiste, invece, in un tentativo di restituzione della libido al mondo esterno. Il fenomeno delirante è strettamente connesso, secondo Freud, alla paranoia ed è articolato secondo tempi precisi: la libido, che in un primo momento è distaccata del mondo esterno a causa della rimozione, rimane fluttuante, poi giunge a rafforzare per regressione i diversi punti di fissazione prodottisi nel corso dello sviluppo psicosessuale, nonché il fantasma del desiderio omosessuale, rimosso primordialmente nell’infanzia. L’afflusso della libido omosessuale rappresenta una duplice minaccia: di rendere nulle le acquisizioni della sublimazione e di essere all’origine di rappresentazioni inaccettabili per la coscienza. Così Freud, a proposito del d., dice: «ciò che è stato rigettato dall’interno, ritorna dal di fuori». Da questa concezione freudiana iniziale, appoggiandosi proprio sul testo di Schreber (Memorie di un malato di nervi, 1903) Lacan ripartirà per mettere la questione della psicosi e del d. alla prova della tesi dell’inconscio strutturato come un linguaggio. Dal punto di vista cognitivo, il delirante sembra difettare 177 di metapensiero, cioè di consapevolezza critica delle proprie convinzioni. Dal punto di vista biologico, esisterebbe un’eterogeneità patogenetica. Il d., infatti, compare in diversi disturbi psichiatrici e meccanismi fisiopatologici differenti e si presenta spesso in associazione ad altri sintomi (allucinazioni, alterazioni formali del pensiero), risultando quindi difficile la discriminazione della base patogenetica specifica. I dati riguardano soprattutto gli studi sulla sintomatologia produttiva della schizofrenia, che hanno messo in luce in sottogruppi di pazienti un’iperattività relativa a livello sottocorticale, a livello dei nuclei della base, e un aumento significativo dei recettori D2 nella stessa sede che correla con la sintomatologia produttiva. L’esperienza clinica ha dimostrato che i bloccanti D2 agiscono in modo quasi specifico sui sintomi positivi della schizofrenia e hanno un’efficacia terapeutica evidente soprattutto nei d. a insorgenza acuta e subacuta, con caratteri polimorfi poco strutturati e scarsa fissità temporale, in qualsiasi disturbo psichiatrico si manifestino; molto minore è l’efficacia nei d. cronici, come nei disturbi deliranti. La sintomatologia delirante con le caratteristiche del primo tipo sembrerebbe associata a un’iperattività delle vie dopaminergiche mesolimbiche, conseguenza di un aumento della densità dei recettori D2 o di un’alterazione del rapporto funzionale tra sistemi dopaminergici e serotoninergici. Alcune ipotesi chiamano in causa anche un alterato rapporto funzionale tra i due emisferi cerebrali. Secondo il modello interpretativo proposto da Pancheri (1993), il d. comparirebbe ogniqualvolta a un’alterazione strutturale o biochimica di base si sovrappone un’alterazione dell’integrazione temporale per cause organiche o funzionali. Ciò comporterebbe la percezione delle produzioni dell’emisfero destro come aliene ed esterne. Tale alterazione sarebbe associata a un’iperatti- Demenza vità dopaminergica mesolimbica probabilmente per una ridotta inibizione. Dal punto di vista neuroanatomico, i dati sull’epilessia temporale suggeriscono che una sintomatologia produttiva può, con maggiore frequenza, essere associata a una lesione focale nella parte mediale profonda del lobo temporale sinistro. Alla base dell’esordio della schizofrenia, Stevens (1992) ha ipotizzato una rigenerazione sinaptica reattiva in regioni del cervello che ricevono proiezioni temporali distrofiche. ◆ Demenza Secondo il DSM-IV-R, consiste in un disturbo delle funzioni intellettive, acquisito, di natura organica, caratterizzato dalla compromissione della memoria a breve e lungo termine e di almeno una delle attività mentali primarie, quali il pensiero astratto, la capacità critica, il linguaggio, l’orientamento spaziale, in assenza di alterazioni della coscienza, tale da determinare una significativa compromissione dell’attività lavorativa e delle relazioni interpersonali. La prevalenza di sindromi demenziali gravi risulta pari al 4% nella popolazione di età superiore ai 65 anni, con un andamento direttamente proporzionale all’età, toccando il 10% nella fascia di età compresa tra 65 e 75 anni e oltre il 20% sopra gli 85 anni. Una sindrome demenziale può essere sostenuta, sotto il profilo eziopatogenetico, da numerose affezioni, la cui incidenza relativa risulta difficilmente precisabile; si ritiene attendibile che oltre la metà dei casi sia attribuibile al gruppo di d. a tipo Alzheimer (SDAT), il 15% a d. multinfartuale, il 15-20% a forme miste (in cui coesistono alterazioni istopatologiche a tipo Alzheimer e di tipo vascolari) e che il 10-15% riconosca una genesi degenerativa, carenziale, metabolica, endocrina, tossica, infettiva, traumatica, tumorale o da idrocefalo normoteso. Pur non riconoscendo un definito substrato neuropatologico, Demenza si rammenta in tale ambito il deficit cognitivo frequentemente associato a sindromi depressive, talvolta quale espressione clinicamente prevalente e, in passato, nosograficamente definito come pseudodemenza depressiva. In considerazione del fatto che talune di queste ultime forme sono suscettibili di terapia medica o chirurgica (ad es.: l’idrocefalo normoteso), risultando quindi potenzialmente reversibili, particolare importanza assume un adeguato approccio diagnostico differenziale sul piano semeiologico e strumentale. Pur in assenza di univoche caratteristiche cliniche e/o neuropatologiche, vengono classicamente distinte una d. corticale e una d. sottocorticale. Nella prima forma, le lesioni presenterebbero una localizzazione preferenziale a livello corticale e il quadro clinico sarebbe caratterizzato da precoci alterazioni delle funzioni simboliche, del pensiero astratto e della funzione mnesica. Nella forma definita sottocorticale, le alterazioni neuropatologiche sarebbero rilevabili prevalentemente a carico dei gangli della base, del talamo, del tronco rostrale e interesserebbero direttamente o indirettamente le proiezioni destinate alle aree frontali, mentre il quadro clinico sarebbe contraddistinto da un precoce rallentamento dei processi cognitivi, alterazioni della personalità con depressione, apatia, inerzia e rallentamento motorio. Sotto il profilo eziopatogenetico, le sindromi demenziali vengono classificate in d. primarie (SDAT – Senile Dementia Alzheimer Type – e primarie di attribuzione non determinata), d. vascolari, d. da malattie prioniche, d. associate a malattie diverse (quali malattie con degenerazione neuronale primaria, idrocefalo normoteso, traumi cranici, tumori cerebrali, sindromi paraneoplastiche da tumori extracerebrali, malattie endocrino-metaboliche, malattie infettive, disturbi carenziali, malattie autoimmuni). 178 Tabella CLASSIFICAZIONE EZIOPATOGENETICA DELLE SINDROMI DEMENZIALI — Demenze primarie (demenza tipo Alzheimer, malattia di Pick) — Demenze primarie di attribuzione non determinata (disfasia progressiva primaria, malattia dei corpi di Lewy diffusi, demenza primaria di tipo frontale, degenerazione cortico-basale) — Demenza vascolare (infarti multipli, stato lacunare, infarti di confine, malattie dell’aorta e dei vasi sopraortici, malattia di Binswanger, aneurismi e malformazioni arterovenose, anossia e ipossia) — Demenze associate a malattie da prioni (malattia di Creutzfeldt-Jakob, kuru, malattia di Gerstmann-Straussler-Scheinker, insonnia fatale familiare) — Demenza associata a malattie con degenerazione neuronale primaria (morbo di Parkinson, corea di Huntington, paralisi sopranucleare progressiva, degenerazione spino-cerebellare, malattia di Halleworden-Spatz, epilessia mioclonica progressiva) — Demenza da idrocefalo normoteso — Demenza traumatica — Demenza da tumori cerebrali o extracerebrali (sindromi paraneoplastiche) — Demenze da malattie endocrino-metaboliche (disfunzioni tiroidee, paratiroidee, pituitarie, malattie epatiche, uremia, morbo di Wilson, demenza dialitica) — Demenza da malattie carenziali (sindrome di Korsakoff-Wernicke, pellagra, malattia di Marchiafava-Bignami, deficit di B12 e folati, malattia di Whipple) — Demenza da encefalopatie tossiche e da farmaci — Demenza da processi infettivi e autoimmuni (criptococcosi, neurosifilide, AIDS, sclerosi multipla) Verranno discusse in tale ambito le forme primarie, quelle ad attribuzione non determinata e le forme vascolari. 1) Demenza di Alzheimer. È una d. primaria, caratterizzata da un’incidenza particolarmente elevata, con una prevalenza variabile tra 100 e 600/100.000 abitanti di tutte le età, e rappresenta il 55% di tutti i casi di d. Il disturbo colpisce con maggior frequenza il sesso femminile, verosimil- 179 mente in relazione alla maggior aspettativa di vita. Fattori di rischio significativi sono rappresentati dall’età avanzata, dalla familiarità (nel 5% dei casi è trasmessa con modalità dominante a dominanza completa, mentre nel 60% viene rilevata una semplice presenza di due individui affetti in differenti generazioni) e dalla bassa scolarità (verosimile espressione di una minor riserva biologica sinaptica con una secondaria, più precoce espressione clinica del disturbo). È stato inoltre evidenziato che parenti di pazienti con d. di Alzheimer possono avere un’aumentata frequenza di sindrome di Down. Alcuni studi epidemiologici avrebbero indicato tra i fattori protettivi il fumo delle sigarette (e quindi l’assunzione di nicotina); l’assunzione di farmaci antinfiammatori e, nelle donne, l’assunzione prolungata di farmaci estroprogestinici. L’eziopatogenesi è attualmente sconosciuta, seppur sempre maggiori evidenze cliniche, neuropatologiche e sperimentali supportino il ruolo fondamentale in tal senso svolto dall’amiloide, un aggregato insolubile di un peptide denominato proteina beta, che comporta una secondaria degenerazione del soma e una conseguente rarefazione neuronale e sinaptica, con formazione di filamenti a elica di proteina tau polimerizzata. L’amiloide che si forma nell’Alzheimer è un aggregato insolubile extracellulare di un peptide di 3942 aminoacidi, la proteina beta, che ha la proprietà di aggregare spontaneamente in fibre, proporzionalmente alla sua lunghezza e alla sua concentrazione, e rappresenta la porzione transmembrana della proteina precursore dell’amiloide (APP). L’accumulo di amiloide si verificherebbe per un’alterata dismissione cellulare di APP, per una sua aumentata produzione o per una produzione di beta proteina più lunga e quindi più polimerizzante. Mediante studi di linkage sono state osservate alcune alterazioni del gene codificante l’APP, si- Demenza tuato sul cromosoma 21, che ne influenzerebbero il metabolismo e quindi il deposito; un ulteriore linkage di una possibile alterazione genica, sottesa al disturbo, è stato identificato con una porzione del cromosoma 14. Per quanto concerne le forme di Alzheimer a espressione clinica più tardiva, è stato identificato un linkage con il cromosoma 19 e, più recentemente, è stata posta una correlazione con un particolare pattern allelico (forma 4) riguardante l’apolipoproteina E, una proteina carrier del colesterolo, ricorrente nel 10% della popolazione normale e nel 40% dei soggetti affetti dalla d. di Alzheimer, sia familiare tardiva sia sporadica, verosimilmente implicata nella dismissione cellulare e nel catabolismo dell’APP. A livello neuropatologico, l’encefalo appare di peso ridotto e atrofico, con assottigliamento della corteccia cerebrale (più accentuato nella porzione anteriore dei lobi temporali) e con ampliamento delle cavità liquorali. A livello microscopico, le alterazioni principali consistono in depositi di amiloide, alterazioni citoscheletriche e rarefazione neuronale e sinaptica. I depositi di amiloide sono rappresentati da placche neuritiche, composte da una porzione centrale compatta di fibre di amiloide e circondata da neuriti in degenerazione con reazione gliare circostante, placche diffuse, composte da materiale poco strutturato, e infiltrazione di amiloide nella tonaca muscolare delle arterie cerebrali. Le alterazioni citoscheletriche risultano prevalentemente costituite da accumuli di polimeri di proteina tau (probabilmente iperfosforilata), aggregata in filamenti a elica, espressione di un’alterazione della formazione dei microtubuli e fenomeno aspecifico di risposta a una sofferenza neuronale di varia natura. La rarefazione neuronale interessa prevalentemente gli strati III e V della corteccia frontale e temporale (con una riduzione dell’arborizzazione dendritica) e al- Demenza cune strutture sottocorticali, quali il nucleo basale, il locus coeruleus e il nucleo dorsale del rafe. Proprio la degenerazione di tali nuclei, ad ampia proiezione corticale, sarebbe responsabile della diffusa riduzione della concentrazione neurotrasmettitoriale. Clinicamente, il decorso viene distinto in 3 fasi, peraltro caratterizzate da limiti piuttosto indistinti. Nella fase di esordio si osservano una riduzione degli interessi, turbe mnesiche e indifferenza, talvolta associate a reazione depressiva; cui seguono (seconda fase) evidenti modificazioni della personalità, compromissione sociale, disturbi del linguaggio e delle funzioni simboliche, con un ulteriore aggravamento di quelle mnesiche. Nella terza fase l’evoluzione peggiorativa diventa ancor più consistente, con un interessamento anche del contingente mnesico remoto, falsi riconoscimenti, affaccendamento inoperoso, apatia, indifferenza. Ancor più tardivamente subentrano disturbi motori, con rigidità e ipocinesia, fino a sfociare in una tetraparesi in flessione; l’exitus avviene in condizioni di marcato scadimento generale, solitamente per complicanze infettive. Nella fase iniziale del disturbo è fondamentale la diagnosi differenziale con le cosiddette forme di d. trattabili e quindi reversibili (depressione, ipotiroidismo, forme carenziali, neoplasie, idrocefalo normoteso etc.). L’EEG è alterato per la presenza di attività lenta diffusa (che tende a diventare più evidente con il progredire della malattia), mentre le indagini radiodiagnostiche evidenziano un ampliamento dei solchi corticali e delle cavità liquorali, con un’ipodensità diffusa della sostanza bianca periventricolare. Di particolare ausilio, al fine di monitorare l’evoluzione del quadro clinico e le conseguenti implicanze medico-legali, risultano i test neuropsicologici, in particolare la Wechsler Adult Intelligence Scale, la Mini-Mental State Evaluation, la Blessed Dementia Scale, le fi- 180 gure di Rey, le matrici progressive di Raven, il Wisconsin Card Sorting Test e il test di Benton, destinati a esplorare aree di funzionamento frequentemente alterate in corso di morbo di Alzheimer, quali la memoria, il linguaggio, il pensiero astratto, le funzioni visuo-spaziali e l’attentività. Non esistono attualmente possibilità di diagnosi certa in vita: i criteri diagnostici sono quindi fondati sull’esclusione di altre cause di d. attraverso un protocollo standardizzato dal National Institute of Communicative Disorders and Stroke, che prevede una diagnosi di Alzheimer possibile (sindrome demenziale senza alterazioni di coscienza o affezioni che possano essere causa di d.), probabile (sindrome demenziale idiopatica, comprovata sulla base di osservazione clinica, test neuropsicologici e indagini strumentali), o definita (diagnosi istopatologica). Non esistono attualmente presidi terapeutici di comprovata efficacia clinica; si segnalano in tale ambito gli studi relativi agli inibitori dell’acetilcolinesterasi ad azione protratta, quali ad esempio la tacrina, il donepezil o la rivastigmina. Questi farmaci sembrerebbero migliorare la capacità di performance cognitiva nelle prime fasi della malattia. Di utile impiego risultano farmaci sintomatici destinati al controllo delle alterazioni comportamentali e psichiatriche concomitanti, quali antidepressivi, neurolettici, benzodiazepine e, soprattutto, gli antipsicotici atipici (clozapina, risperidone, olanzapina). Nelle d. primarie ad attribuzione non determinata la disfasia progressiva primaria è caratterizzata da un’afasia non fluente e da afasia nominum, in assenza di altre disfunzioni intellettive, a carattere non evolutivo verso la d., se non a distanza di una decina di anni. Sotto il profilo radiologico, si evidenzia un’atrofia perisilviana dell’emisfero dominante. La prevalenza è bassa, mentre risulta assai elevata la familiarità del disturbo; è ignota la patogenesi. La malattia 181 dei corpi di Lewy diffusi è caratterizzata dalla presenza di inclusioni intraneuronali contenenti determinanti antigenici dei neurofilamenti e ubiquitina, localizzati a livello dei nuclei sottocorticali e degli strati profondi della corteccia temporale, insulare e del cingolo. Questo tipo di d., sul versante clinico, risulta associata o meno al morbo di Alzheimer; nella forma pura si rileva una maggior frequenza di disturbi psicotici (deliri e allucinazioni) e manifestazioni extrapiramidali di tipo parkinsoniano, in assenza di tremore e con modesta risposta alla L-dopa. Sotto la classificazione di demenze primarie di tipo frontale sono raggruppate sindromi demenziali non caratterizzate da specifiche alterazioni neuropatologiche a prevalente espressione sintomatologica di tipo frontale (con turbe della personalità, difficoltà di rapporti interpersonali, apatia o disinibizione, raramente depressione dell’umore), esordio presenile e familiarità (possibile associazione con alterazioni a carico del cromosoma 17); nel corso dell’evoluzione clinica si possono evidenziare segni temporali (sindrome di Klüver-Bucy) ed extrapiramidali. La degenerazione corticobasale è caratterizzata da d., acinesia-ipertonia asimmetrica, aprassia (con fenomeno della «mano aliena»), talvolta accompagnate da tremore, distonie, deficit dell’oculomozione, segni piramidali e mioclonie focali. Sotto il profilo neuropatologico, si rilevano rigonfiamento neuronale, degenerazione della substantia nigra e a livello striatale, con inclusioni tau-reattive nei neuroni, nella glia e nella bianca sottocorticale, dove è collocata la malattia di Pick. 2) Demenze vascolari. Rappresenta il 15% di tutte le d., anche se alterazioni neuropatologiche di origine vascolare e a tipo Alzheimer risultano associate in un altro 15% di quadri demenziali. L’entità della perdita di tessuto cerebrale non risulta sempre correlabile all’entità clinica del disturbo Demenza cognitivo, potendo alcune aree, quali ad esempio talamo e ippocampo, risultare in tal senso strategiche. L’esordio è di solito improvviso, con decorso «a scalini» in relazione agli episodi ictali sottesi. Sul piano sintomatologico, si rilevano confusione notturna, labilità emotiva, turbe cenestesopatiche, declino cognitivo, con ridotta capacità di interazioni ambientali e interpersonali, alterazioni della critica e del giudizio, disturbi della memoria prevalentemente a breve termine, disorientamento spazio-temporale, inversione del ciclo sonno-veglia, con fluttuazioni infradiane della capacità di performance. All’esame obiettivo si possono riscontrare ipertensione arteriosa, diabete mellito, deficit focali neurologici, segni pseudobulbari e/o extrapiramidali. La TC e la RM encefaliche permettono di evidenziare aree ipodense/ ipointense, espressioni di lesioni ischemiche. Nella diagnosi differenziale con la malattia di Alzheimer può risultare utile l’impiego di apposite scale di valutazione, quali il Hachinski Ischemic Score. La terapia è rivolta alla prevenzione di nuovi episodi ischemici, mediante il compenso degli squilibri cardiovascolari ed endocrini e, laddove indicato, farmaci antiaggreganti o anticoagulanti. Nell’ambito delle d. vascolari vengono comprese la d. talamica e l’encefalopatia subcorticale arteriosclerotica (malattia di Binswanger): la prima è caratterizzata da lesioni bilaterali lacunari talamiche paramediane anteriori ed espressione sintomatologica rappresentata da un quadro demenziale caratterizzato da apatia, amnesia, rallentamento psicomotorio (sindrome fronto-limbica); mentre la seconda mostra distruzione mielinica a livello della bianca emisferica (in particolare temporale e occipitale), con ialinosi e ipertrofia della parete vasale arteriolare cerebrale, lesioni ischemiche lacunari multiple (gangli della base, talamo, ponte) e sostanziale rispetto delle fibre a Depersonalizzazione U. Il quadro clinico è rappresentato da compromissione cognitiva, deficit neurologici focali, segni di compromissione bulbare ed extrapiramidale e incontinenza urinaria. ◆ Depersonalizzazione Esperienza di distacco e di estraneità vissuta dal soggetto nei confronti della propria interiorità psichica (d. autopsichica), del proprio corpo (d. somatopsichica) o dell’ambiente esterno (d. allopsichica o derealizzazione). Si tratta di un’alterazione della coscienza dell’Io. Nella d. autopsichica il soggetto si sente diverso: la propria vita psichica, o alcuni suoi aspetti, evocano un sentimento di estraneità e di non appartenenza all’Io, che si accompagna a un sentimento angosciante, sino al timore di impazzire. Questo si può associare all’esperienza dell’automatismo della propria attività psichica e delle proprie azioni. Nella d. affettiva (presente nella depressione endogena) si ha il «sentimento della perdita del sentimento». Nella d. somatopsichica l’individuo prova una sensazione di estraneità verso il proprio corpo o sue parti, sino a configurare il delirio nichilistico. Possono essere presenti sensazioni di cambiamento o trasformazione degli organi. Nella d. allopsichica o derealizzazione è l’ambiente intorno al soggetto a essere sentito come estraneo. Il depersonalizzato, non trovando le parole che rendano conto del cambiamento che avverte, utilizza delle metafore: «il mondo è diventato freddo», «è visto attraverso un velo» etc. Si determina un sentimento di estraneità che colpisce la percezione di sé e del mondo: il soggetto perde quella qualità del percepito chiamata «familiarità» e che appare solo in quanto viene a mancare. La d. è stata studiata a partire dai concetti di immagine del corpo (Schilder), di frontiera dell’Io (Federn), della relazione d’oggetto (Bouvet), delle patologie del- 182 l’identificazione e del narcisismo (SamiAli, Jacobson). Secondo Lacan essa indica un superamento delle coordinate della posizione soggettiva. La derealizzazione è presente in diversi disturbi: dalla schizofrenia, alla depressione, alle psicosi organiche, all’epilessia, all’isteria, all’attacco di panico, all’affaticamento prolungato. ◆ Depressione Il termine è utilizzato per descrivere diverse forme di esperienza umana. Il suo uso è talmente esteso e riferito a così tante forme di sofferenza soggettiva da determinare notevole confusione. La d. intesa come condizione patologica rappresenta uno dei disturbi psichiatrici con cui più frequentemente gli operatori di salute mentale devono confrontarsi nella loro pratica quotidiana. Si tratta, infatti, di una condizione cui va incontro nell’arco dell’esistenza il 5-15% degli esseri umani. La d. può insorgere del tutto spontaneamente, oppure in seguito ad un evento scatenante. La reazione del soggetto appare, tuttavia, sproporzionata per intensità e/o durata rispetto all’evento stesso. È importante tenere presente che non esiste «la depressione», ma esistono «le depressioni», cioè una varietà di condizioni depressive, che si manifestano in maniera differente, che vengono prodotte da differenti combinazioni di fattori biologici, psicologici e sociali, che richiedono cure differenti. Questa varietà di condizioni può essere rappresentata come un «continuum», che porta agli estremi due quadri tipici: da un lato la d. maggiore melancolica e dall’altro la d. minore ansiosa. 1) Distinzioni generali. Nella pratica clinica, incontriamo diversi quadri depressivi che si avvicinano più o meno esattamente all’una o all’altra di queste due condizioni tipiche, ma anche diversi quadri che presentano caratteristiche intermedie o miste (che si dispongono, quindi, ideal- 183 mente nei vari punti del «continuum» compresi fra i due estremi). — La d. maggiore melancolica è caratterizzata dai seguenti aspetti: 1) umore depresso (il soggetto comunica con le parole, con la mimica e con il comportamento un vissuto di profondo dolore, abbattimento, prostrazione); questo vissuto è differente non solo quantitativamente (cioè, per intensità e durata), ma anche qualitativamente (cioè, per la sua natura) dalla tristezza «normale» cui qualsiasi individuo va incontro nelle situazioni sfavorevoli della sua esistenza, e, a differenza della tristezza «normale», è insensibile all’incoraggiamento, all’amicizia e all’amore; 2) marcata riduzione o scomparsa dell’interesse e del piacere per tutte o quasi tutte le attività (tutto ciò che abitualmente interessa quel soggetto e gli procura piacere — la compagnia del partner e dei figli, la musica, lo sport etc. — non lo interessa e non gli piace più; a volte addirittura lo infastidisce); 3) marcato rallentamento psichico e motorio (il soggetto parla e si muove poco, lentamente e a fatica); 4) mancanza di energia e affaticabilità; 5) sentimenti profondi di inadeguatezza, di inutilità, di disperazione; nei casi gravi idee deliranti di colpa (il soggetto si incolpa di atti malvagi o criminosi in realtà mai commessi) o di rovina (il soggetto è convinto che lui stesso e i suoi cari siano destinati al fallimento); 6) mancanza di appetito e perdita di peso; 7) disturbo del sonno (insonnia quasi totale o risveglio mattutino precoce); 8) pensieri di morte e a volte propositi o tentativi di suicidio (sempre assai determinati); 9) variazione diurna della sintomatologia (con peggioramento mattutino). — La d. minore ansiosa è caratterizzata dai seguenti aspetti: 1) umore depresso (il Depressione soggetto è triste e abbattuto, ma la profondità del suo vissuto depressivo è molto minore che nella forma precedente); tale vissuto, inoltre, è diverso quantitativamente (perché più intenso e duraturo), ma non qualitativamente, dalla tristezza «normale», e può essere sensibile alle influenze ambientali favorevoli; 2) ansia accentuata, in parte somatizzata (cioè, espressa attraverso sintomi fisici, come dolori o disturbi a varia localizzazione, di cui il soggetto ripetutamente si lamenta e da cui appare assai preoccupato); 3) pessimismo, sentimenti di incapacità e di inutilità (meno profondi rispetto all’altra forma; mancano sempre le idee deliranti); 4) tendenza ad autocompiangersi e ad incolpare gli altri delle proprie condizioni (mentre nell’altra forma il soggetto incolpa se stesso); 5) irrequietezza motoria (anziché rallentamento); 6) astenia e affaticabilità; 7) insonnia (difficoltà ad addormentarsi e fragilità del sonno); 8) irritabilità e apprensività; 9) disturbi della concentrazione e sensazione di «mente vuota». Possono esserci pensieri di morte e a volte anche propositi o tentativi di suicidio (questi ultimi, però, sono in genere «dimostrativi», cioè finalizzati a richiamare l’attenzione degli altri sulle proprie condizioni). Manca la variazione diurna della sintomatologia (oppure il soggetto riferisce di sentirsi un po’ peggio nelle ore pomeridiane e serali). Le d. sono patologie complesse che non hanno una «causa», ma riconoscono una serie di «fattori di rischio» che intervengono in misura differente da caso a caso. Quanto più il quadro clinico si avvicina al prototipo della d. maggiore melancolica, tanto più importanti sembrano essere la familiarità e i fattori scatenanti di natura biologica; quanto più il quadro clinico si avvicina al prototipo della d. minore ansiosa, tanto più significativo sembra esse- Depressione 184 re il ruolo dei fattori predisponenti e scatenanti di natura psicosociale. La d. può essere associata ad altri disturbi psichiatrici (schizofrenia, sindromi d’ansia, demenze), essere secondaria ad una malattia organica, all’assunzione di farmaci o droghe. 2) Terapia. Il trattamento della d. non può essere lo stesso in tutti i casi, ma deve essere personalizzato sulla base: delle caratteristiche del quadro clinico; delle informazioni disponibili circa il ruolo dei vari fattori predisponenti, scatenanti e protettivi nel caso specifico; delle attuali condizioni fisiche della persona depressa; della risposta che il paziente ha presentato ad eventuali trattamenti precedenti. In linea di massima quanto più il quadro clinico si avvicina al prototipo della d. maggiore melancolica, tanto più centrale è il ruolo dei farmaci; quanto più il quadro clinico si avvicina al prototipo della d. minore ansiosa, tanto più importante è il ruolo delle psicoterapie (tabella 1). Tabella 1 INTERVENTI TERAPEUTICI NELLA DEPRESSIONE Farmacoterapia Antidepressivi triciclici (ADT) Inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI) Inibitori della ricaptazione della serotonina e della noradrenalina (SNRI) Antidepressivi specifici noradrenergici e serotoninergici (NaSSA) Antidepressivi con prevalente attività noradrenergica (NARI) Inibitori delle MAO (IMAO), inibitori delle MAO-A (RIMA) Altri antidepressivi Psicoterapia Ad orientamento cognitivo Ad orientamento interpersonale Ad orientamento psicodinamico 3) Trattamento farmacologico. Il trattamento farmacologico dell’episodio depressivo, indipendentemente dalla scelta dell’antidepressivo, prevede tre fasi. — Fase acuta: l’obiettivo è la risoluzione dei sintomi depressivi e il ripristino del funzionamento sociale e lavorativo. Il dosaggio ottimale del farmaco deve essere raggiunto nell’arco di 10-12 giorni, iniziando sempre con dosi basse e frazionate durante la giornata. Nell’anziano, devono essere utilizzati dosaggi mediamente inferiori (30-50%). Allo scopo di evitare precoci sospensioni del trattamento è bene tenere presente che la latenza d’azione degli antidepressivi è variabile tra 7-15 giorni, e che la remissione della sintomatologia viene generalmente ottenuta nella 4-6a settimana di trattamento. In assenza di effetti collaterali, il trattamento non dovrebbe essere sospeso prima di 6-8 settimane (risposte tardive). — Fase di continuazione: mira a ridurre la probabilità di una ricaduta (cioè, la ricomparsa dei sintomi dell’episodio in atto entro i sei mesi successivi alla remissione) ed utilizza, qualora non esistano problemi di effetti indesiderati o di compliance, gli stessi dosaggi utilizzati nella fase acuta. La fase di continuazione deve essere protratta per almeno 4-6 mesi dalla remissione della sintomatologia depressiva. Nel caso in cui si renda necessario, la sospensione del trattamento deve essere effettuata sempre in modo graduale (riduzione di circa il 25-30% del dosaggio/die per settimana) allo scopo di evitare la comparsa di sintomi da sospensione. — Fase di mantenimento: ha l’obiettivo di prevenire l’insorgenza di un nuovo episodio depressivo (recidiva). I candidati al trattamento di mantenimento sono soprattutto pazienti con un’anamnesi positiva per tre o più precedenti episodi depressivi, con storia di precedenti ricadute entro un anno dall’interruzione del trattamento e con episodi depres- 185 Depressione sivi di notevole intensità e caratterizzati da elevato rischio suicidario. In questi casi si suggerisce di continuare il trattamento con lo stesso farmaco utilizzato nella fase di continuazione, per un periodo superiore ai 12-24 mesi. È possibile una riduzione a scalare della dose utilizzata nella fase acuta (fino al 50%). I dati presenti in letteratura indicano che circa il 25% dei pazienti depressi non risponde in maniera soddisfacente ai farmaci antidepressivi. Se il paziente non ha risposto del tutto o ha evidenziato una risposta sintomatologica minima alla farmacoterapia dopo 6 settimane, è necessario: 1) riconsiderare la correttezza della diagnosi; 2) rivalutare l’adeguatezza del trattamento (dosaggio, compliance). Nei casi in cui il trattamento è stato condotto in maniera adeguata sarà utile prendere in considerazione una delle opzioni indicate nella tabella 2. Tabella 2 STRATEGIE DA UTILIZZARE NEI PAZIENTI DEPRESSI CHE NON RISPONDONO AL TRATTAMENTO ANTIDEPRESSIVO 1. 2. 3. Sostituzione dell’antidepressivo con un altro composto di categoria differente (ad esempio, ADT con SSRI) Potenziamento dell’effetto antidepressivo mediante l’aggiunta di: — sali di litio o altri stabilizzanti dell’umore — ormoni tiroidei — pindololo — triptofano Associazione con antidepressivi della stessa categoria o di categoria differente (ADT + SSRI; SSRI + SSRI). La scelta dell’antidepressivo deve tenere conto delle caratteristiche del paziente (età, sesso, condizioni somatiche, altri trattamenti farmacologici in atto, risposta a precedenti trattamenti) e del quadro clinico (presenza di particolari manifestazioni sintomatologiche, gravità, decorso). È inol- tre importante una valutazione della tollerabilità (effetti indesiderati, tossicità) dell’antidepressivo da utilizzare. Per tutte le classi di antidepressivi, spesso l’identificazione del farmaco più appropriato nel singolo caso richiede vari tentativi successivi. Vanno distinti, in questo senso, come segue. — Antidepressivi triciclici (ADT). Gli ADT sono tuttora i farmaci maggiormente utilizzati nel trattamento della d. maggiore melancolica. Inibiscono il reuptake della serotonina, della noradrenalina, e in minor misura della dopamina a livello sinaptico. L’efficacia dei diversi ADT è sostanzialmente equivalente sul piano terapeutico. Alcuni ADT (amitriptilina, trimipramina) possiedono una maggiore attività sedativa, probabilmente legata alla maggiore attività á1-adrenolitica e antistaminica, e possono essere utilizzati nei quadri depressivi dove prevale la componente ansiosa e/o l’insonnia. Gli ADT presentano alcuni effetti collaterali frequenti e fastidiosi (tabella 3), possono abbassare la soglia di convulsività, causare riduzione della pressione arteriosa e turbe della conduzione cardiaca (blocchi di branca e A-V), aumento di peso e sono pericolosi in casi di sovradosaggio. Tali effetti sono legati prevalentemente al blocco dei recettori colinergici centrali e periferici, dei recettori á1-adrenergici e istaminergici. Gli ADT sono controindicati nell’ipertrofia prostatica, nel glaucoma ad angolo chiuso, nell’infarto del miocardio recente e nei gravi disturbi della conduzione cardiaca. Devono essere utilizzati con cautela nei pazienti con gravi epatopatie, nei pazienti epilettici e negli anziani. — Inibitori delle Monoaminossidasi (IMAO). Malgrado la loro efficacia antidepressiva, gli IMAO attualmente sono Depressione poco utilizzati, soprattutto per la loro scarsa tollerabilità e maneggevolezza. Questi farmaci inibiscono in modo irreversibile i sistemi enzimatici deputati al catabolismo delle amine biogene (MAO-A e MAO-B), aumentandone le concentrazioni intracellulari. Il ripristino dell’attività si avrà solo quando l’enzima è nuovamente sintetizzato, il che comporta la necessità di un wash-out di 7-8 giorni prima di poter intraprendere altre terapie. Inoltre, tali farmaci non possono essere associati ad altri antidepressivi e ad alimenti ad alto contenuto di tiramina (formaggio stagionato, fegato, salsiccia, pesce affumicato, vino rosso, estratto di lievito), in quanto la sua mancata inattivazione intestinale può determinare gravi crisi ipertensive. Una nuova classe di IMAO è rappresentata dagli inibitori reversibili delle MAO-A (RIMA), il cui capostipite è la moclobemide. È un farmaco dotato di una migliore tollerabilità e maneggevolezza, anche se l’efficacia antidepressiva sembra essere minore. — Inibitori Selettivi del Reuptake della Serotonina (SSRI). Sono farmaci antidepressivi, di più recente introduzione che agiscono selettivamente sul sistema serotoninergico. L’efficacia antidepressiva è sovrapponibile a quella degli ADT e sostanzialmente equivalente tra i vari composti inclusi in questa classe. La latenza di azione degli SSRI è di 7-8 giorni. Rispetto agli ADT sono meglio tollerati, in quanto quasi totalmente privi di attività anticolinergica, adrenolitica e antistaminica a livello sia centrale sia periferico. Gli effetti collaterali più frequentemente riferiti sono la nausea, il vomito, la diarrea, l’irritabilità, i tremori, l’insonnia, la cefalea, le vertigini, la diminuzione della libido e l’anorgasmia. La tollerabilità degli SSRI li ha resi più facili da assume- 186 re ed ha aumentato l’aderenza del paziente alla terapia, rendendoli appropriati per i trattamenti a lungo termine. — Inibitori del Reuptake della Serotonina e della Noradrenalina (SNRI). Gli SNRI sono una nuova classe di antidepressivi il cui capostipite è la venlafaxina, utilizzata al dosaggio giornaliero di 75-150 mg/die. La venlafaxina presenta una ridotta incidenza di effetti collaterali per la scarsa affinità con i recettori colinergici muscarinici, istaminici e á-adrenergici. Un aspetto peculiare della sua azione sarebbe rappresentato da una rapida induzione di una down-regulation dei recettori b-adrenergici, che determina un più rapido inizio dell’effetto antidepressivo. Gli effetti indesiderati più sovente riportati sono nausea e vomito, cefalea, vertigini e insonnia. — Antidepressivi Specifici Noradrenergici e Serotoninergici (NaSSA). Capostipite dei NaSSA è la mirtazapina, che agisce potenziando la trasmissione noradrenergica attraverso il blocco degli autorecettori á2-adrenergici e quella serotoninergica attraverso un meccanismo post-sinaptico di stimolazione dei recettori 5HT1 e di inibizione di quelli 5HT2 e 5HT3. Ha inoltre, elevata affinità per i recettori H1-istaminici, che ne condiziona il profilo degli effetti collaterali (tabella 3). — Antidepressivi a prevalente attività noradrenergica (NARI). In questa categoria rientra la mianserina, dotata di una marcata azione adrenolitica e antistaminica, che spiega la sua spiccata attività ansiolitica e sedativa. È consigliata in dose unica serale. Utile sopratutto nel trattamento delle d. ansiose, specie se resistenti al trattamento con ADT, e nei soggetti anziani. A questa categoria appartiene anche la reboxetina, attiva sui recettori sia á1 - sia b-adre- 187 Depressione nergici. Possiede un buon profilo di tollerabilità, non presenta interferenza con il sistema del citocromo P-450 e, pertanto, è più maneggevole se utilizzata in associazione ad altri farmaci. Non dà sedazione né sonnolenza, e sembrerebbe possedere un effetto «risocializzante». Tabella 3 EFFETTI INDESIDERATI DEGLI ANTIDEPRESSIVI Triciclici (ADT) Bocca secca, stipsi, ipotensione ortostatica, sedazione, aumento di peso, disturbi della sfera sessuale (eiaculazione ritardata, impotenza, anorgasmia), tremore alle mani, tachicardia sinusale, ritenzione urinaria, disturbi della sfera cognitiva. Inibitori delle Monoaminossidasi (IMAO) Stati di eccitamento, insonnia, irritabilità, ipotensione, disturbi della sfera sessuale, ittero, alterazioni epatiche (aumento delle transaminasi), tremori, cefalea, vertigini Inibitori Selettivi del Reuptake della Serotonina (SSRI) Nausea, vomito, diarrea, irritabilità, tremori, insonnia, cefalea, vertigini, diminuzione della libido, anorgasmia Inibitori del Reuptake della Serotonina e della Noradrenalina (SNRI) Nausea, vomito, vertigini, cefalea, insonnia Antidepressivi Specifici Noradrenergici e Serotoninergici (NaSSA) Bocca secca, sedazione, sonnolenza, aumento dell’appetito, incremento ponderale Antidepressivi a prevalente attività Noradrenergica (NARI) Sedazione, sonnolenza, cefalea, vertigini, tremori, discrasie ematiche (agranulocitosi), alterazioni della performance psicomotoria e cognitiva 4) Interazioni farmacologiche degli antidepressivi. Gli antidepressivi sono coinvolti in numerose interazioni farmacologiche. Infatti, sono metabolizzati da vari isoenzimi del sistema microsomiale epatico P-450 (CYP) di cui possono essere anche inibitori competitivi, determinando effetti farmacologici additivi o sinergici con il risultato di un aumento nell’azione dell’uno o dell’altro farmaco. I pazienti a rischio di interazioni farmacologiche sono soprattutto quelli con patologie mediche in trattamento con più di un farmaco, in particolare quelli che inibiscono molteplici vie metaboliche; gli anziani e i soggetti debilitati; i soggetti con epatopatie e/o nefropatie. Le più significative interazioni degli ADT si possono avere con i farmaci anticoliner- gici e sedativi con potenziamento delle rispettive azioni, e con gli IMAO, per il rischio di sindrome serotoninergica. Significativa sembra essere anche l’associazione con la clonidina, per un’inibizione dell’effetto anti-ipertensivo di quest’ultima, con l’efredina e con tutti i farmaci ad azione á-adrenolitica. Alcuni FANS e alcuni anticoagulanti possono dare fenomeni di spiazzamento e quindi determinare un aumento dei livelli plasmatici degli ADT. Per gli SSRI è controindicato l’uso in associazione con alcol, sedativi, antistaminici, anticolinergici, IMAO e triptofano (per il rischio di sindrome serotoninergica), propanololo, teofillina, digossina, warfarin (aumento del PT), cimetidina (aumento del first-pass effect). In particolare, per la fluo- Depressione xetina cautela deve essere utilizzata nell’associazione con gli ADT, i neurolettici butirrofenonici e fenotiazinici, la carbamazepina, l’acido valproico, le benzodiazepine ossidate come diazepam e alprazolam, per l’inibizione del CYP2D6 e il conseguente aumento dei livelli plasmatici. 5) Tossicità da sovradosaggio. Tutti gli ADT sono considerati farmaci a elevato indice di tossicità letale. L’intossicazione acuta da sovradosaggio accidentale o volontario interessa particolarmente il cuore e il SNC, con la possibile comparsa della triade caratterizzata da coma, convulsioni e gravi aritmie. Gli effetti cardiaci sono rappresentati dalla fibrillazione o flutter atriale o ventricolare, dal blocco A-V completo o incompleto, da ritmi ectopici, da asistolia. Un indicatore clinico precoce di intossicazione è il prolungamento dell’intervallo QRS oltre i 100 msec. Gli effetti a carico del SNC, includono agitazione psicomotoria, stato confusionale, disartria, convulsioni, paralisi respiratoria e coma. Altri sintomi legati all’attività anticolinergica periferica sono l’areflessia pupillare e la midriasi, l’iperemia sclerale, la cute secca e iperemica, la diminuzione delle secrezioni mucose, la ritenzione urinaria e la paralisi intestinale. Il salicilato di fisiostigmina è il farmaco di scelta per il controllo dei sintomi dovuti all’azione anticolinergica degli ADT. In caso di convulsioni generalizzate è indicata la somministrazione endovenosa di diazepam. Per il controllo delle aritmie cardiologiche sono indicati il propanolo e la lidocaina. Il trattamento deve essere sempre effettuato in un’unità di terapia intensiva. Nell’intossicazione da IMAO e RIMA i sintomi più frequentemente descritti sono l’agitazione psicomotoria, gli stati confusionali, i fenomeni allucinatori, la violenta cefalea, l’ipertermia, l’alterazioni pressorie, le convulsioni, il trisma e il coma. Gli SSRI sono farmaci a basso indice di tossicità acuta e i 188 pochi casi ad esito letale descritti in letteratura riguardano soggetti che avevano assunto l’SSRI con altri farmaci e/o con dosi elevate di alcol. Una condizione tossica acuta, talora ad esito letale, descritta in pazienti che assumono un SSRI contemporaneamente ad altri farmaci dotati di attività serotoninergica (ad esempio, altri SSRI o IMAO) è nota come «sindrome serotoninergica». Questa è caratterizzata da crampi addominali, meteorismo, diarrea, ipertermia, tremori, disartria, mioclonie, euforia, collasso cardio-circolatorio, ipertensione, tachicardia, stato confusionale fino al coma. 6) Psicoterapia. Le psicoterapie oggi utilizzate nelle d. sono essenzialmente di tre tipi: — le psicoterapie ad orientamento cognitivo si propongono di identificare e correggere gli schemi mentali della persona (visione negativa di se stesso, del mondo e del futuro) che possono aver contribuito a produrre la condizione depressiva; — le psicoterapie ad orientamento interpersonale mirano a identificare e correggere i problemi nelle relazioni interpersonali attuali che possono aver precipitato la condizione depressiva; — le psicoterapie ad orientamento psicodinamico si propongono di ricostruire gli eventi e i conflitti di vecchia data che possono aver predisposto l’individuo alla depressione. Le psicoterapie ad orientamento cognitivo e interpersonale sono più brevi e la loro efficacia è documentata dalla ricerca. Le psicoterapie ad orientamento psicodinamico sono più lunghe e la loro efficacia non è al momento documentata scientificamente. Psicoterapie e farmaci non dovrebbero essere visti come antagonisti, ma piuttosto come compatibili e complementari. I farmaci sono rapidamente efficaci sulla sintomatologia depressiva, mentre gli interventi 189 psicoterapici possono aiutare i pazienti a modificare quegli aspetti dei modi di pensare e di relazionarsi agli altri che li rendono vulnerabili alla depressione. ◆ Deprivazione [→ Privazione]. ◆ Derealizzazione Perdita del senso di realtà e del contatto che abitualmente ognuno ha con la propria esperienza, realizzatasi tra le persone e le cose del proprio ambiente. La sensazione soggettiva che ne deriva è che l’ambiente circostante sia irreale o insolito, sensazione di una realtà che cambia. Alla d., spesso presente nella schizofrenia, talvolta si accompagna la depersonalizzazione, in cui il soggetto non coglie più se stesso come presente nella vita quotidiana né nell’interazione con gli altri. La manifestazione di tale fenomeno ha carattere episodico e può verificarsi anche in soggetti normali, in presenza di un particolare stato di affaticamento. La d. va distinta dal dereismo, inteso come attività mentale non concordante con la logica o l’esperienza. Ciò induce una frattura con i dati di realtà secondo la modalità di pensiero magico, che attende la soluzione dei problemi da riti, gesti, nonché formule, invece che dalla sequenza dei nessi causali. ◆ Didattica [ANALISI] Trattamento psicoanalitico cui si sottopongono coloro che vogliono svolgere la professione di psicoanalista. Dopo un’esperienza di autoanalisi Freud nel 1912 formulò la convinzione secondo la quale, non essendo possibile praticare l’attività analitica se non si accede alla conoscenza del proprio inconscio, è necessario che chi si propone di diventare psicoanalista si sottoponga a un’analisi didattica. Circa la natura di tale analisi Freud, pur sostenendola, tenne una posizione molto prudente, ritenendo che, Difesa l’analisi didattica per motivi pratici, può essere soltanto incompiuta, in quanto ha come scopo unico quello di portare il didatta a stabilire se il candidato possa o non possa essere ammesso alla formazione completa. Secondo Freud tale funzione sarebbe assolta solo se porta l’allievo al sicuro convincimento dell’esistenza dell’inconscio. Istituzionalizzata nel 1922 dall’Associazione Psicoanalitica Internazionale, l’a.d. ha trovato il suo più convinto sostenitore in Ferenczi, per il quale era necessario che un analista venisse analizzato prima di essere «assalito» dal paziente. L’a.d. viene completata con l’analisi di controllo o supervisione, dove un analista in formazione rende conto a un analista più esperto del proprio modo di condurre i trattamenti. La supervisione può essere diretta quando, attraverso opportuni mezzi tecnici, come lo specchio unidirezionale, il supervisore osserva direttamente il lavoro del terapeuta in formazione, come accade di frequente nella formazione dei terapeuti della famiglia; indiretta quando, attraverso relazioni orali o scritte, il supervisore controlla il lavoro del terapeuta in formazione e in particolare il suo controtranfert. ◆ Difesa [MECCANISMO DI] Termine psicoanalitico che indica processi dinamici e inconsci mobilitati dall’Io per far fronte a stati d’ansia o di stress generati dal conflitto tra le due istanze contrapposte dell’apparato psichico: l’Es, che tende all’appagamento immediato delle pulsioni, e il Super-Io, depositario di valori morali che avrebbero lo scopo di ripristinare l’equilibrio intrapsichico, regolare l’autostima e modulare l’angoscia escludendo dalla coscienza ciò che è ritenuto inaccettabile. Si tratta, dunque, di funzioni fondamentali per operare quell’ideale compromesso fra pulsione e coscienza morale di cui Freud per primo, nel 1894, nella sua opera Neuropsicosi di difesa, si
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