Il comportamento umano tra geni e ambiente: nuove acquisizioni dalla genetica molecolare Silvia Pellegrini, Pietro Pietrini* Dipartimento di Patologia Chirurgica, Medica, Molecolare e dell’Area Critica, Università di Pisa. *U.O. di Psicologia Clinica - Dipartimento di Neuroscienze, Azienda Ospedaliero Universitaria Pisana - Pisa Indirizzo per la corrispondenza: Dott. Silvia Pellegrini Dipartimento di Patologia Chirurgica, Medica, Molecolare e dell’Area Critica, Università di Pisa. S.D. di Patologia Clinica Universitaria - AUOP - Ospedale S. Chiara, via Roma 67, 56126 Pisa Tel. 050 2211251 Fax 050 992806 e-mail: [email protected] Molte ricerche compiute negli ultimi anni confermano l’esistenza di un legame tra patrimonio genetico e comportamento. Aspetti della personalità umana quali l’intelligenza, l’introversione e l’estroversione, il comportamento antisociale o prosociale, l’abuso di sostanze, la ricerca continua di nuove sensazioni, sono alcuni tra i temi di maggior interesse, oggetto di studio della genetica comportamentale. Lo sviluppo recente di innovative metodologie di biologia molecolare ha portato al sequenziamento dell'intero genoma umano e ha aperto lo studio delle basi molecolari del comportamento. In questo capitolo, vengono presentate le più recenti acquisizioni in questo campo della ricerca. Geni e comportamento: gli studi sui gemelli Le prime indicazioni che l'assetto genetico di un individuo interviene nel modulare il suo comportamento derivano dagli studi osservazionali condotti sui gemelli (Segal, 1999, Ebstein et al, 2010). Questi studi rappresentano un ottimo strumento per stabilire il grado di ereditarietà di un tratto comportamentale. Il disegno sperimentale più comune prevede il confronto tra gemelli monozigoti (MZ) e dizigoti (DZ). I gemelli MZ condividono tutte le sequenze genetiche, mentre i DZ hanno in comune circa il 50% dei propri geni. Assumendo che le influenze ambientali siano le stesse per le coppie di gemelli MZ e DZ cresciuti dalle stesse famiglie, un diverso grado di correlazione nel comportamento di due MZ rispetto a due DZ, permette di stimare quanto il comportamento osservato sia ereditabile. Ad esempio, l’autismo, malattia rara ma grave dell’infanzia, in cui i bambini mostrano marcati deficit della comunicazione, fino agli anni ’80 si pensava che fosse causato esclusivamente dall’essere cresciuti in un ambiente famigliare freddo e ostile o dal sopraggiungere di un danno cerebrale. Studi successivi, che hanno messo a confronto il rischio di autismo tra gemelli MZ e DZ, indicano che se un gemello di una coppia monozigote è autistico, l’altro ha una probabilità del 60% di esserlo, mentre per i gemelli DZ questa probabilità scende al 10% (Folstein and Rutter, 1977; Burmeister et al, 2009). Allo stesso modo, i gemelli MZ di individui schizofrenici, hanno una probabilità del 48% di sviluppare la malattia, probabilità che si abbassa al 17% per quelli DZ (Gottesman, 1991; Burmeister et al, 2009). 2 Anche la correlazione con le capacità cognitive generali cambia tra gemelli MZ e DZ,: si ha, infatti, un 85% di somiglianza tra i primi e un 60% tra i secondi (Bouchard and McGue, 1981). Considerando altri tratti della personalità, come, ad esempio, l’eccessiva propensione per le situazioni pericolose, definita come “sensation-seeking” e l’uso e l’abuso di droghe e alcool, è stato dimostrato, sempre con gli studi sui gemelli, che l’influenza della genetica è sostanziale (Legrand e coll, 1999; Kendler and Prescott, 1998; Burmeister et al, 2009). Ne deriva, quindi, che l’assetto genetico influisce sulla capacità di apprendimento di un individuo, sul suo modo di interagire con gli altri, sulle scelte che opera e su tutti gli altri aspetti della personalità, sia normale che patologica, contribuendo a determinare la varietà di comportamenti che caratterizza il genere umano. La genetica molecolare Il completamento di un progetto ambizioso come il sequenziamento del Genoma Umano ha aperto nuove prospettive, consentendo di studiare la genetica del comportamento anche da un punto di vista molecolare. Il genoma è l'insieme di tutte le sequenze di DNA presenti nel nucleo cellulare, depositarie delle informazioni che permettono alle cellule di vivere, replicarsi, rispondere agli stimoli esterni, decidere di morire. All'interno del genoma si localizzano i geni, segmenti di DNA che codificano per la produzione di molecole di RNA messaggero che a loro volta funzionano come stampo per la sintesi di proteine. Ogni persona possiede due copie di ciascun gene in ogni cellula del proprio corpo, con l'eccezione delle cellule germinali (spermatozoi ed ovociti), i globuli rossi e i geni localizzati sui cromosomi X ed Y nei maschi. Una copia è ereditata dalla madre, l'altra dal padre. Ciascuna delle due copie di un gene costituisce un allele. Quando due alleli sono identici si dice che l'individuo è omozigote per quel gene mentre, quando sono diversi, si definisce eterozigote. Gli alleli di un gene possono differire tra di loro anche per la sostituzione di un solo nucleotide (i nucleotidi sono le unità costituenti la molecola DNA). Il concetto di base è che non esiste un’unica sequenza del genoma umano, ma ogni individuo ha un genoma unico. Confrontando il DNA di due o più soggetti ci si accorge che 3 la maggior parte delle sequenze sono uguali e molte di esse sono le stesse anche per gli altri primati, per gli altri mammiferi e perfino per organismi che occupano posizioni molto inferiori nella scala evolutiva. Ciononostante, all'incirca ogni due - trecento nucleotidi si possono trovare delle differenze, che costituiscono dei polimorfismi genetici quando sono presenti in più dell’1% degli individui. La maggior parte di queste varianti è data dalla sostituzione di un nucleotide con un altro e costituisce un polimorfismo a singolo nucleotide (SNP, secondo la dizione inglese Single Nucleotide Polymorphism). Altre tipologie di varianti sono invece costituite dalla ripetizione in tandem di corti tratti di sequenza (VNTR, dall'inglese Variable Number of Tandem Repeats), che sono presenti in numero diverso da individuo a individuo. Un altro tipo ancora di varianti del genoma, di più recente scoperta, sono i CNV (Copy Number Variation), sequenze che si estendono da 1 kb fino a diverse megabasi di lunghezza, che possono essere aggiuntive o mancanti nel genoma di un individuo se confrontato con quello di un altro. Tali varianti spesso sono derivate ex novo e sono state associate con patologie mentali complesse come l'autismo e la schizofrenia (Cook e Scherer, 2008). E' probabile che anch'esse contribuiscano a fenotipi "dimensionali", i cosiddetti QTL (Quantitative Trait Loci) che caratterizzano molti tratti comportamentali sia clinici che non (Cook e Scherer, 2008). Le varianti che cadono all’interno di porzioni codificanti o regolatrici dei geni, cioè in quei tratti di sequenza deputati alla trascrizione e alla traduzione dei geni in proteine, sono quelli che determinano un effetto diretto sul fenotipo. Un esempio è dato dalla seconda forma più comune di ritardo mentale dopo la Sindrome di Down, la Sindrome dell'X fragile. Il nome X fragile deriva dal fatto che i cromosomi X di questi pazienti tendono a rompersi quando le cellule sono fatte crescere su un dato terreno di coltura. Il fenomeno dell'X fragile è interessante perché costituisce un tipo particolare di alterazione genica, in cui una corta sequenza (CGG) presente nel gene FMR1 viene ripetuta erroneamente più di 200 volte (Verkerk e coll., 1991). Questo tipo di difetto genetico è alla base anche di altre patologie neuropsichiatriche come, ad esempio, la Corea di Huntington (Duyao et al, 1993). Non sempre, però, l’effetto di una variante genetica è tale da inattivare completamente il prodotto del gene e quindi da generare con certezza lo sviluppo di un fenotipo patologico. Nella maggior parte dei casi queste varianti sono all’origine di effetti più sottili, cioè si 4 comportano come fattori di suscettibilità che, sommati tra loro, possono dare origine a tratti complessi, come appunto la maggior parte di quelli comportamentali. Nel caso dei geni di suscettibilità la presenza di una determinata variante non significa che l’individuo mostrerà necessariamente quel fenotipo, ad esempio una malattia, ma solo che avrà una probabilità maggiore rispetto agli individui senza quell’allele di svilupparlo. La variante è condizione né necessaria né sufficiente per la manifestazione del fenotipo: si può avere l’allele di suscettibilità e non ammalarsi mai di quella malattia e ci si può ammalare di quella malattia senza avere l'allele. Tuttavia, se si va a vedere qual è la frequenza di quell’allele tra gli ammalati e tra i sani, si nota che nei primi è molto più alta che nei secondi. Si parla pertanto di variante allelica che aumenta la suscettibilità o vulnerabilità a quella determinata patologia. E’ evidente che altri fattori, genetici o ambientali, concorreranno a far sì che alcuni individui sviluppino la patologia mentre altri no. Questo è il caso, ad esempio, dell’allele epsilon 4 del gene APOE, che conferisce un rischio quattro volte maggiore di sviluppare la Malattia di Alzheimer, forma grave di demenza che affligge un individuo su cinque dopo gli 80 anni. Si tratta di una patologia complessa, nella cui insorgenza, almeno per la forma sporadica che rende conto del 95% dei casi, è implicata l’alterazione di più geni (Rocchi et al, 2003; Alzgene database-www.alzgene.org). La presenza della variante epsilon 4 di APOE, però, non è condizione necessaria né sufficiente perché si manifesti la malattia, così come la sua assenza non preserva dalla possibilità di sviluppare demenza di Alzheimer. Il fatto che queste varianti, singolarmente, abbiano un effetto relativamente modesto sul fenotipo fa sì che non siano semplici da identificare. Per individuarle si utilizzano solitamente gli studi di associazione in cui si valuta se esiste una diversa frequenza di alcuni polimorfismi, selezionati in geni candidati, in un gruppo di soggetti con fenotipo di interesse, ad esempio un tratto comportamentale, rispetto ad un gruppo di soggetti di controllo senza quel fenotipo. Una maggior frequenza di un certo polimorfismo nei soggetti con il fenotipo studiato permette di ipotizzare che ci sia una relazione tra questo e la variante genetica considerata e quindi che il gene in questione possa conferire predisposizione verso quel comportamento. Spesso, però, l'utilizzo di geni candidati, scelti sulla base di ciò che si conosce della loro funzione, può portare a risultati non sempre replicabili. 5 Più completo è l'approccio degli studi GWA (Genome Wide Association), i quali, utilizzando piattaforme che consentono di studiare milioni di polimorfismi contemporaneamente, hanno rivoluzionato gli studi genetici e prodotto indicazioni promettenti sulla possibile associazione tra alcuni loci cromosomici e certe malattie mentali complesse quali la schizofrenia (Allen et al, 2008), l’ADHD (Brookes et al, 2006), il disturbo bipolare (Gershon et al, 2008) e la dipendenza da alcool (Treutlein et al, 2009). Grazie al veloce avanzamento delle tecnologie e ad alcuni grossi progetti successivi al Progetto Genoma Umano, quale ad esempio "1000 Genomes - A deep catalog of human genetic variation" (www.1000genomes.org/) - che si propone di sequenziare il genoma di 2500 persone (ad oggi 1092 sono già stati completati) appartenenti a 25 popolazioni delle quattro etnie principali- è stato possibile identificare e catalogare nelle banche dati a disposizione della comunità scientifica più di 20 milioni di polimorfismi umani da utilizzare per gli studi GWA. Il punto di forza di questi studi sta nel fatto che non sono guidati da un’ipotesi iniziale ma analizzano contemporaneamente tutti i polimorfismi noti. La loro debolezza, al contempo, nasce dalla possibilità di produrre un gran numero di falsi positivi e falsi negativi, che può essere contenuta solo con l’applicazione di metodi statistici robusti. La conferma definitiva di un’associazione genetica deriva però solo da lavori successivi di meta-analisi, in cui dati provenienti da studi indipendenti sono confrontati e raggruppati con metodo scientifico allo scopo di mantenere solo quelli replicati da più autori. Un esempio di un dato comportamentale-genetico confermato da meta-analisi è rappresentato dall’associazione tra alcuni alleli del gene MAOA e il comportamento antisociale (Taylor e Kim-Cohen, 2007). Il gene MAOA codifica per la monoaminoossidasi A, un enzima centrale nel metabolismo della serotonina, importante neurotrasmettitore cerebrale coinvolto nella regolazione del tono dell’umore e nella modulazione del comportamento. Nel promotore di questo gene, vale a dire nella sequenza di DNA che ne regola l’espressione, è presente un polimorfismo VNTR di cui si conoscono sei varianti alleliche. Quattro di queste varianti (quelle con 2, 3.5, 4 e 6 ripetizioni della sequenza VNTR) determinano un’espressione normale del gene e quindi una normale attività dell’enzima codificato, mentre le altre due (con 3 e 5 ripetizioni) producono una ridotta espressione del gene e quindi una minore attività 6 dell’enzima (Sabol et al, 1998). Si è visto che la tendenza a sviluppare comportamenti violenti è scarsa sia per gli individui che hanno una normale attività enzimatica sia per coloro che hanno un’attività enzimatica ridotta, se l’ambiente in cui sono cresciuti è un ambiente sano e protettivo (Meyer-Lindenberg et al, 2006). Al contrario, tra gli individui cresciuti in un ambiente socialmente malsano, che li ha esposti ad abusi e maltrattamenti fin dall’infanzia, quelli con la variante MAOA che riduce l’espressione dell’enzima, mostrano comportamenti violenti con una frequenza significativamente maggiore rispetto agli individui con normale attività enzimatica (Caspi et al, 2002; Taylor e Kim-Cohen, 2007). Dunque, possedere la variante allelica a bassa attività non determina di per sè lo sviluppo di un comportamento aberrante, ma costituisce un fattore di maggior vulnerabilità ad eventi esterni avversi che può dare adito allo sviluppo di un comportamento anormale. Interessante è rilevare come sia stata riscontrata per la prima volta l’associazione tra gene MAOA e comportamento violento. Nel 1993, infatti, Brunner e collaboratori, si accorsero che in una famiglia olandese i cui componenti di sesso maschile si comportavano in maniera particolarmente violenta macchiandosi dei reati più gravi, ricorreva una mutazione sul cromosoma X (che nei maschi, ricordiamo, è presente in singola copia) che portava all’inattivazione completa del gene MAOA (Brunner et al, 1993). La conferma del legame tra l'inattivazione completa di MAOA e il comportamento violento venne poi dalla creazione di topi knock-out per il gene MAOA che riproducevano lo stesso comportamento aberrante (Cases et al, 1995; Scott et al, 2008 ). La variante olandese non è stata mai ritrovata in altri soggetti al di fuori di quella famiglia, mentre la variante VNTR di cui sopra si trova nel 2-3% degli individui. Un altro polimorfismo per cui è stata ampiamente riportata un’associazione con il comportamento antisociale, modulata dall’ambiente esterno, è l’allele Short del polimorfismo 5HTTLPR, localizzato nel promotore del gene che codifica per il trasportatore della serotonina. Questa variante esiste in due forme, la L (long), che ha in più una sequenza di 44 nucleotidi che invece manca nell’allele S (short) (Heils et al, 1996). L’allele S è responsabile di una ridotta espressione, pari al 30-40%, del trasportatore della serotonina, che causa un dimezzamento nell’efficienza di trasporto di questo neurotrasmettitore (Heils et al, 1996). Numerosi studi riportano un’associazione tra l’allele Short di 5HTTLPR e una maggiore 7 predisposizione al comportamento antisociale, violento ed impulsivo (Virkkunen et al, 1995, Sakai et al, 2006, Haberstick et al, 2006). Questa vulnerabilità al comportamento aggressivo sembra accentuarsi in presenza di condizioni ambientali stressanti (Reif et al, 2007). L’influenza del genotipo 5-HTTLPR (SS/SL vs. LL) sullo sviluppo di comportamento violento sembra modulata dalle avversità psicosociali incontrate nell’infanzia (Retz et al, 2008). Allo stesso modo la presenza dell’allele S determina una maggiore vulnerabilità all’ansia e alla depressione, soprattutto in condizioni ambientali sfavorevoli (Caspi et al, 2003). Per questo motivo, i soggetti con genotipo S/L o S/S sembrano essere maggiormente inclini a manifestare aggressività, ansia e depressione di fronte ad eventi di vita particolarmente stressanti (Craig, 2007, Reif et al, 2007). Il ruolo dell'ambiente I dati descritti sopra stanno cambiando anche il modo di interpretare il ruolo dell’ambiente nella modulazione del comportamento. Molti fattori considerati dalle scienze comportamentali come influenze ambientali, infatti, in realtà sembrano subire a loro volta un condizionamento genetico. Alcuni studi, ad esempio, suggeriscono che la variabilità nella risposta di certe aree cerebrali, misurata mediante risonanza magnetica funzionale (fMRI), di fronte a stimoli con la medesima valenza emotivo-affettiva venga modulata geneticamente. Hariri e collaboratori hanno dimostrato che si ha una maggiore attivazione dell’amigdala - il cosiddetto computer emotivo del cervello - in risposta a stimoli terrifici (percezione di facce con espressione di paura), in soggetti che posseggono la forma allelica più corta di 5HTTLPR rispetto ai soggetti con i due alleli più lunghi (Hariri e coll., 2002). Come è noto, stimoli a contenuto emotivo negativo, quali espressioni di paura, rabbia, disgusto, aggressività, inducono una risposta selettiva dell’amigdala e di altre strutture del sistema limbico in rapporto con essa (Zalla e coll., 2000). Questa risposta dell’amigdala a percezioni a contenuto avverso è comune a tutti e riveste certamente un ruolo fondamentale nei meccanismi di sopravvivenza, in quanto consente di mantenere uno stato di allerta nei confronti dell’ambiente che ci circonda e di mettere rapidamente in atto la risposta comportamentale più adeguata in caso di pericolo. 8 Hariri e collaboratori hanno ipotizzato che la presenza dell’allele corto e la conseguente alterazione a carico del trasportatore della serotonina possano favorire una sorta di iperattività dell’amigdala che risponderebbe in maniera abnorme anche di fronte a stimolazioni relativamente neutre. In altre parole, verrebbero percepiti come potenzialmente pericolosi stimoli che in realtà non lo sono e pertanto il soggetto si troverebbe a vivere in uno stato continuo di allerta e di ansia. L'utilizzo di dati di esplorazione funzionale del cervello in associazione con tecniche di genetica molecolare si è rivelata una strategia importante nella definizione delle basi neurobiologiche del comportamento umano (Hariri e Weinberger, 2003). I dati funzionali ottenuti con le neuroimmagini, infatti, rappresentano degli endofenotipi, vale a dire dei fenotipi intermedi misurabili, che permettono di definire in maniera maggiormente oggettiva e quantitativa i tratti comportamentali studiati. La definizione più esatta possibile del fenotipo, infatti, è condizione indispensabile per poter ricavare dei dati di associazione genetica attendibili, mentre la non replicabilità di molti di questi studi dipende proprio da un'errata o non precisa scelta del fenotipo (Esslinger et al, 2009). L'influenza che i geni esercitano nel mitigare o esacerbare l'effetto delle variabili ambientali, quindi, sembra essere riconducibile al ruolo che i geni svolgono nel determinare tratti personologici dell'individuo e, di conseguenza, la sua capacità di rispondere in modo adattativo a specifici stimoli ambientali (Kendler et al, 1999; Plomin et al, 1990). Se allo stato attuale non si può affermare che alcun gene sia in grado di causare direttamente un dato comportamento, sia esso normale o deviante, non si possono nemmeno ignorare le evidenze che fino ad ora la ricerca ha prodotto. Come si è visto, infatti, il possedere una determinata variante allelica di geni che regolano il metabolismo di neurotrasmettitori coinvolti nella modulazione del tono dell'umore, nel controllo degli impulsi e nei meccanismi di gratificazione e punizione può essere associato ad un aumentato rischio di comportamenti anormali e socialmente inaccettabili (Pellegrini, 2009). Al contrario, varianti localizzate sui geni che codificano per i neuropeptidi ossitocina (OXT) e vasopressina (AVP) e per i loro recettori sembrano influenzare positivamente tratti comportamentali pro-sociali e affiliativi quali generosità, fiducia e capacità di comprendere lo stato mentale e affettivo degli altri (Israel et al., 2008; Lerer et al., 2008; Meyer-Lindenberg 9 et al., 2009; Ebstein et al, 2012). Gli stessi geni, grazie all'interazione con l'asse ipotalamoipofisi-surrene, sono stati messi in relazione anche con la capacità di reagire allo stress attraverso differenti meccanismi, quali la riduzione dei livelli di cortisolo (Heinrichs et al, 2003; Knox e Uvnas-Moberg, 1998), l’inibizione della risposta cardiovascolare (Knox e Uvnas-Moberg, 1998) e la minor attivazione dell'amigdala in risposta a stimoli di natura emotiva (Domes et al, 2007). Esperimenti condotti su topi, nei quali è stato silenziato il gene che codifica per il recettore dell'ossitocina, evidenziano lo svilupparsi in questi animali di comportamenti sociali ed emotivi devianti, che includono l'aggressività e l'assenza di cure parentali (Nishimori et al., 2008;Takayanagi et al,. 2005). Tuttavia, l’effetto modesto che da sola ciascuna delle varianti genetiche ad oggi identificate esercita nei confronti di fenotipi comportamentali complessi suggerisce che molti sono i geni, così come gli stimoli ambientali, che cooperano nel determinare il comportamento umano. Come l'ambiente modula i geni: l'epigenoma Ciò che emerge chiaramente è che l’interazione geni-ambiente è il nodo fondamentale nella regolazione del comportamento. Abbiamo visto che i geni influenzano la risposta individuale agli stimoli ambientali, ma oggi sappiamo che anche l’ambiente modula l'influenza dei geni, ad esempio regolandone l’espressione. Alla luce delle acquisizioni più recenti della genetica molecolare, si è scoperto che anche i gemelli MZ, in realtà, non sono perfettamente identici da un punto di vista genetico. Essi, infatti, posseggono numerose differenze epigenetiche, che possono giocare un ruolo importante nell'indurre variazioni nel fenotipo, comportamento compreso (Fraga et al, 2005; Kaminsky et al, 2009; Poulsen et al, 2007). Epigenetici sono definiti quei cambiamenti ereditabili - presenti sia nelle cellule germinali, i gameti, che in quelle somatiche dell'espressione dei geni, che avvengono senza produrre cambiamenti nella sequenza nucleotidica del DNA (Bollati e Baccarelli, 2010). I geni devono essere trascritti in RNA e poi tradotti in proteine per funzionare, ma prima di essere trascritto un gene deve essere 10 "acceso", cioé attivato. I geni non si attivano da soli, ma sono "accesi" o "spenti" dall'epigenoma, vale a dire dal complesso sistema biochimico di regolazione che silenzia, attiva e modifica l'attività trascrizionale dei geni senza modificare la sequenza stessa del DNA (Bernstein et al, 2007). Quanto questi cambiamenti incidano sul fenotipo è illustrato chiaramente dal ruolo che l'epigenoma esercita nella differenziazione cellulare: una cellula cardiaca, ad esempio, differisce da un neurone dello stesso organismo, non perché le due cellule siano diverse nella sequenza del DNA, ma perché posseggono un diverso programma epigenetico. Ci sono evidenze sempre maggiori del ruolo che le modifiche epigenetiche esercitano durante lo sviluppo dei neuroni e della loro influenza nel modulare funzioni cognitive normali quali la percezione, la memoria, l'apprendimento, le emozioni e il comportamento (Allen et al, 2008; Meza-Sosa et al, 2012; Molfese, 2011). Un'errata regolazione epigenetica può contribuire ad una espressione genica anomala alla base di numerose malattie neuropsichiatriche e neurodegenerative, inclusi l'autismo, la schizofrenia, la depressione, e la Malattia di Alzheimer (Abdolmaleky et al, 2011; Coppieters et al, 2011; Gruber et al, 2011). Numerosi studi hanno mostrato come l'ambiente perinatale può programmare l'epigenoma con conseguenze comportamentali che perdurano tutta la vita (Cameron et al, 2011; Goyal et al, 2010; Champagne et al, 2008). L'esempio migliore deriva da studi condotti sui ratti riguardanti la relazione stretta che esiste tra comportamento materno e capacità di risposta allo stress della prole. Le madri di ratto esibiscono delle differenze interindividuali nel loro modo di comportarsi nei confronti dei cuccioli. Ratti allevati da madri che li leccano e mordicchiano spesso mostrano, da adulti, un livello decisamente ridotto di stress rispetto a quegli animali allevati da madri che interagiscono molto poco con loro (Liu et al, 1997). Allo stesso tempo, le femmine tenderanno a riprodurre da adulte lo stesso comportamento della madre nei confronti della propria prole e, se allevate da madri adottive, tenderanno ad assomigliare più a queste ultime nel comportamento materno anziché alle loro madri biologiche (Barah et al, 2007; Champagne e Curley, 2009). Weaver et al, (2004) osservarono che i ratti allevati da madri con i due comportamenti parentali opposti mostravano diversi livelli di metilazione (uno dei meccanismi principali di regolazione epigenetica) nel promotore del gene che codifica per il recettore dei glucocorticoidi. Quelli allevati da madri più "affettuose" mostravano una ridotta metilazione corrispondente ad una maggiore espressione del recettore nell'ippocampo e di conseguenza ad una diminuita risposta allo 11 stress. Si ritiene che queste caratteristiche di metilazione che si mantengono anche nel ratto adulto siano funzione diretta del comportamento materno. Anche l'ambiente prenatale sembra influire in maniera epigenetica sullo sviluppo neuronale. Ad esempio, studi epidemiologici hanno dimostrato che un'insufficiente disponibilità di proteine dovuta a scarsa alimentazione, anche moderatamente ridotta, così come lo stress subito dalla madre durante la gravidanza hanno effetti negativi sullo sviluppo cerebrale e di conseguenza sul comportamento, le capacità cognitive e la reattività emotiva della prole (Mueller e Bale, 2008; Oberlander et al, 2008; Morgan e Bale, 2011; Zucchi et al, 2013). Da quanto detto fin qui, si intuisce che la semplice presenza di una variante genetica nel profilo di un individuo non significa necessariamente che quella variante sia in grado di essere trascritta e quindi di influire sul fenotipo. Questo aiuta a spiegare, almeno in parte, il cosiddetto "problema dell'ereditabilità mancante", cioè del perché, nonostante l'enorme numero di studi GWA e di associazione con geni candidati, pochi geni sono stati identificati come realmente responsabili di fenotipi comportamentali (Charney, 2012). Ciò dipende dalla plasticità fenotipica che può essere definita come la capacità di un organismo di cambiare il fenotipo in risposta all'ambiente, in un'ottica di una migliore capacità di adattamento e di sopravvivenza della specie. Se ne deduce, quindi, che la progenie eredita dai propri genitori non solo i geni ma anche l'ambiente o, meglio, le modifiche che l'ambiente produce sull'espressione dei geni. Tutto ciò, pur complicando ulteriormente la possibilità di chiarire i fenomeni neurobiologici alla base del comportamento, ci dà ancora una volta di più la misura di quanto l'assetto genetico di ogni individuo, insieme all'ambiente in cui si è trovato a crescere, in particolar modo l'ambiente pre e perinatale, siano determinanti sul suo comportamento. Riferimenti Bibliografici • Abdolmaleky, H. M., Yaqubi, S., Papageorgis, P., Lambert, A. W., Ozturk, S., Sivaraman, V. & Thiagalingam, S. (2011) Epigenetic dysregulation of HTR2A in the 12 brain of patients with schizophrenia and bipolar disorder. Schizophrenia Research 129(2):183 90. • Allen, N. D. (2008) Temporal and epigenetic regulation of neurodevelopmental plasticity. Philosophical Transactions of the Royal Society B 363:23 38. • Allen, N.C., Bagade, S., McQueen, M.B., Ioannidis, J.P., Kavvoura, F.K., Khoury, M.J., Tanzi, R.E., and Bertram, L. (2008). 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