nuovo Alliance of Liberals and Democrats for Europe Alliance des Démocrates et des Libéraux pour l’ Europe ANNO CXLIV 1-2 BIM. 7 GIUGNO 1914 PERIODICO REPUBBLICANO FONDATO NEL 1870 ANCONA GIUGNO - LUGLIO 2014 TAB. C: POSTE ITALIANE SPA - SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE - D.L.353/2003 (CONV. IN L. 27/02/2004 N. 46) ART. 1 COMMA 2, DBC ANCONA 7 GIUGNO 2014 CENTENARIO DELLA SETTIMANA ROSSA. I REPUBBLICANI INDICARONO, FIN DA ALLORA, LE STRADE DEL RISCATTO SOCIALE ATTRAVERSO LA CONQUISTA DELLA LIBERTÀ E DELLA DEMOCRAZIA La Settimana Rossa: considerazioni storiografiche di Mario Di Napoli L Le manifestazioni per il primo centenario della Settimana rossa (1914-2014) offrono l’occasione per una più approfondita riflessione su quella vicenda, finalizzata ad assegnarle il posto che essa merita nella storia d’Italia. Sino ad ora, la rivolta popolare che prese le mosse da Ancona e divampò in molte altre regioni della penisola non ha infatti ricevuto, nonostante gli studi svolti in sede locale, un’adeguata interpretazione storiografica. Non è da escludere che il successivo scoppio della prima guerra mondiale abbia proiettato una sorta di cono d’ombra sugli eventi precedenti, creando una discontinuità tra periodo prebellico e periodo postbellico. È tuttavia molto evidente anche l’esistenza di un pregiudizio storiografico che ha indotto ad accantonare la Settimana rossa. La scuola marxista, non potendola classificare nell’ortodossia rivoluzionaria, ne ha infatti sottolineato il velleitarismo ed ha in ogni caso teso a ridurne la valenza. La scuola moderata, naturalmente, da un lato ne hanno stigmatizzato l’impeto sanguinario, dall’altro hanno contribuito all’oblio dell’episodio per conservare un’immagine pacificata dell’Italia prefascista. Gli stessi storici di matrice repubblicana e democratica hanno avuto difficoltà a riconoscere come parte della propria tradizione un evento indubbiamente non esente da atti di violenza. È venuto dunque il momento di superare i luoghi comuni e di cogliere il significato storico della Settimana rossa, da cui potrebbero derivare interessanti ed innovative chiavi di lettura per la storia d’Italia. La rivolta popolare, che scoppia in Ancona il 7 giugno 1914 e si diffonde a macchia d’olio soprattutto nelle città e nelle province dove più è radicato il movimento mazziniano, è innanzitutto antimonarchica, perché non a caso ha luogo nel giorno in cui si festeggiava lo Statuto albertino e non a caso si indirizza contro il militarismo, vale a dire contro il punto di forza del regime sabaudo. In realtà, nessuno dei partiti politici ufficiali che pure all’epoca rappresentavano le masse popolari è alla testa del moto che è invece promosso da una cultura politica sovversiva, trasversale ai partiti stessi, in cui repubblicani, socialisti, anarchici e sindacalisti rivoluzionari si confondono nella comune aspirazione ad una rivoluzione che sia al tempo stesso istituzionale e sociale. In questo inscindibile nesso è da rintracciare la matrice mazziniana. La Settimana rossa è la riprova della continuità storica del repubblicanesimo risorgimentale, insoddisfatto dell’esito unitario conseguito sotto i Savoia, convinto dell’illegittimità di un governo privo di una rinnovata sanzione costituzionale e di una base di consenso popolare democraticamente espressasi. Questa corrente politica si era costantemente alimentata dell’intransigenza mazziniana e del volontarismo garibaldino, recependo altresì gli apporti nuovi delle idee anarchiche e sindacalistiche. Una certa storiografia ha correttamente segnalato le controversie ideologiche che avevano contribuito a differenziare questo mondo politico carsico, ma in realtà tali divisioni non debbono essere esacerbate al punto da non cogliere la forza unitaria derivante dal comune obiettivo polemico rappresentato dal regime monarchico in Italia e dal dispotismo genericamente inteso nel resto d’Europa. In un certo senso, si può affermare che le distinzioni esistenti a livello teorico vengono meno quando prevale il richiamo all’azione, sia in patria che al di fuori dei confini nazionali. L’intensità e la propagazione del moto rivoluzionario anconetano dimostra poi i limiti del tentativo giolittiano di coinvolgere nello Stato le classi popolari. In realtà, se il governo si era mosso in quella direzione nel primo decennio del nuovo secolo per riscattare la sfiducia culminata nell’assassinio del re Umberto I, la guerra di Libia costituisce uno spartiacque più o meno consapevole che riporta l’asse politico verso destra. Anche la concessione del suffragio universale tanto sbandierata risultava piuttosto un mero inganno in quanto restava ancorata al sistema dei collegi uninominali. Non è un caso che in quel momento entri in crisi pure l’esperienza di governo locale incarnata da Ernesto Nathan a Roma sotto il segno dei blocchi popolari e nell’ottica della democratizzazione della monarchia che era invero stata celebrata nella primavera dello stesso 1911 in occasione del cinquantenario dell’unificazione. Così come, del resto, si dividono sull’avventura libica sia i socialisti che i repubblicani, gli uni con Bissolati, gli altri con Barzilai. In opposizione a tale contesto, la Settimana rossa non è soltanto un’esplosione di antimilitarismo ed anticolonialismo, né di un generico ribellismo, ma sta a provare la maturità rivoluzionaria del proletariato italiano da mettere in relazione, tuttavia, più con le sue radici risorgimentali, da Mazzini a Bakunin per dirla con il celebre titolo di Nello Rosselli, che con l’appiccicaticcio catechismo marxista ovvero positivista rabberciato dal PSI. Sono arcinoti, al riguardo, gli argomenti di certa storiografia che ha bollato quelle radici come velleitarie e piccoloborghesi, ma alla prova dei fatti è dal volontarismo risorgimentale che il movimento operaio italiano ha tratto la sua linfa più profonda, anche sotto il profilo associativo ed organizzativo, senza distaccarsi dal resto della società. Qui sta infatti il punto distintivo molto spesso ignorato, che dà ragione del successivo insuccesso del biennio rosso all’indomani della prima guerra mondiale, vale a dire la sostanziale separatezza tra le masse popolari e le loro classi dirigenti derivante proprio dall’assenza del tessuto connettivo tra moto politico e moto sociale che il mazzinianesimo aveva invece coltivato e che era stato buttato alle ortiche con troppa faciloneria. Prima ancora dello scoppio del conflitto mondiale, la Settimana rossa non fu compresa dagli stessi capi della sinistra italiana perché fuorisciva dalla tempistica rivoluzionaria dell’ortodossia marxista. L’errore non sarebbe sfuggito a Mussolini che ebbe modo di mettere a frutto quell’esperienza e di impadronirsi nel dopoguerra di quel potenziale rivoluzionario sprigionatosi da Ancona e di strumentalizzarlo ai suoi fini. In tale ottica, si può concordare sul fatto che la prima guerra mondiale abbia dato lo scrollone finale allo Stato liberale, ma tenendo ben presente che la sua debole legittimazione popolare era però precedente e persistente, perché aveva origine dall’esito inadeguato del processo unitario. Di ciò erano peraltro assai consapevoli molti esponenti dell’Italia liberale che avevano in vario modo cercato di correre ai ripari, da Crispi a Jacini, da Sonnino a Franchetti. Quanto a Giolitti, la sua visione fu limitata alla sfera parlamentare, in cui pure tentò efficacemente di confrontarsi con i partiti popolari, ma senza cogliere la necessità di un più ampio confronto su base nazionale con tutta la società e non soltanto con la sua rappresentanza politica ed istituzionale. D’altra parte, sarà bene cominciare a rendersi conto che c’è un prima ed un poi dell’esperienza giolittiana che di fatto esaurisce nel primo decennio del secolo la sua carica innovativa. Dal Patto Gentiloni alla guerra di Libia, Giolitti ripiega sulle istanze conservatrici in modo netto ed irreversibile, forse al di là delle sue stesse intenzioni. La riprova della specificità della Settimana rossa sta nello sbocco successivo della gran parte dei suoi promotori – esemplare al riguardo il comportamento del fondatore della Federazione giovanile repubblicana, Oddo Marinelli - nell’interventismo democratico, vale a dire nell’accettazione della sfida a sovvertire l’equilibrio conservatore europeo di stampo triplicista. Come è noto, ancora una volta l’internazionalismo si declinerà diversamente: i socialisti italiani si trincereranno nel “non aderire, non sabotare” fedeli ad una visione pacifista, mentre gli eredi della tradizione mazziniana e garibaldina non avranno dubbi ad accorrere sin dallo scoppio del conflitto in soccorso della Francia repubblicana, sulle orme della spedizione di Digione. Il sangue versato dai rivoluzionari smentirà fieramente l’accusa pronunciata in Parlamento dal Governo del tempo di essere antimonarchici ed antinazionali! Solo che la loro nazione non era quella sabauda, ma quella mazziniana in cui lo spirito della Giovine Italia si confondeva con quello della Giovine Europa. SEGUE A PAG. 4 Fine di un’epoca: la politica italiana e la Settimana Rossa alla vigila della Grande Guerra di Luigi Lotti Gli anni culminanti della politica di gradualismo progressista di Giolitti, dal marzo 1911 al marzo 1914, videro due vicende di straordinaria rilevanza: la conquista della Libia e l’adozione del suffragio universale, all’epoca ovviamente solo maschile, per le elezioni politiche e locali, a cominciare dall’elezione della Camera dei deputati nell’ottobre e novembre 1913. La guerra di Libia fu determinata da contingenze e accordi internazionali più che da scelte specifiche momentanee, e cioè il diritto riconosciuto all’Italia di acquisire il possesso della Libia qualora la Francia avesse preso il controllo del Marocco: cosa che avvenne in quel 1911 dopo una lunga contesa con la Germania. Ma imporre un protettorato a un debole sovrano locale come la Francia aveva attuato da tempo in Tunisia e ora replicava in Marocco era un’impresa molto più facile e rapida che conquistare militarmente un territorio come la Libia che era sotto la sovranità dell’impero ottomanno, e perciò acquisibile solo mediante una vera e propria guerra contro la Turchia. La conseguenza nella politica italiana fu la rottura traumatica fra il pur variegato mondo liberale pervaso da un entusiasmo frenetico e la sinistra estrema assolutamente contraria: sia della parte prevalente di quella repubblicana, soprattutto in Romagna, sia di quella socialista, nella quale l’ala estremista guidata da Mussolini portò all’estromissione dell’ala riformista dalla guida del partito. A maggior motivo si accentuò la spinta dei sindacalisti rivoluzionari e più ancora di ridare motivi di rilancio e ripresa dell’anarchismo di Malatesta in nome dell’antimilitarismo. In altre parole creando per la prima volta da anni il coagulo di tutte le tendenze estremiste. L’allargamento del diritto di voto a tutti, anche agli analfabeti, come era stato invece negato G posizioni estreme, rese ancora più animose nelle ex-legazioni pontificie dalla continuità anticlericale, ora accentuata dal vistoso ritorno politico dei cattolici. Con l’ulteriore risultato di avvicinare gli stati d’animo verso un’aspettativa comune, ma più nella base che fra i dirigenti. L’esplosione della Settimana Rossa sta in questo ritorno a lontane SOMMARIO pag. 2 Sergio Sparapani - Roberto Giulianelli Pietro Caruso pag. 3 Michele Millozzi pag. 4 Sauro Mattarelli - Sara Samorì pag. 5 Gilberto Piccinini - Gwenola Spataro pag. 6 Luca Guazzati - Nicola Sbano Giancarlo Castagnari pag. 7 Agostino Pendola - Manlio Bovino Sottoscrizioni - Ringraziamenti pag. 8 Beppe Grossi - Redazione Roberto Signorini - Filippo Giulioli In casa nostra aspirazioni, ora congiunte con le nuove aspettative rivoluzionarie. Non a caso si manifestò ad Ancona nella prima domenica di giugno, che coincideva sempre con la festa nazionale dello statuto. Le cerimonie ufficiali si svolsero regolarmente, ma con un forte servizio di controllo; nel pomeriggio gli antimilitaristi si riunirono alla Villa Rossa, come concordato con le autorità: parlarono Nenni, allora giovane direttore del repubblicano Il Lucifero, Malatesta e altri due a nome della Camera del lavoro e della Lega dei ferrovieri. Ma al termine, temendo che i dimostranti volessero inoltrarsi verso il centro della città, il commissario di servizio ne bloccò gli accessi, ostacolando però così la dispersione dei convenuti. Ne venne uno scontro insensato, Villa Rossa di Via Torrioni, antica sede dei Repubblicani di Ancona improvvisamente aggravato nell’ampliamento degli aventi diritto nel 1882, da due spari in aria di una guardia di pubblica segnò il punto più avanzato di tutta la politica sicurezza, che fuorviarono i carabinieri, dodici dei giolittiana, una scelta verso la democrazia, così quali spararono uccidendo tre dimostranti. Fu come rivendicata da decenni dalle ali radicali e la miccia che accese il turbine della Settimana progressiste. Era una conquista di ineguagliabile Rossa. Immediatamente il PSI e la Confederazione importanza; solo che la concessione del suffragio Generale del Lavoro proclamarono lo sciopero universale seguiva all’abbandono da parte della generale di protesta in tutta Italia, mentre ad Chiesa dell’astensionismo protestatario successivo Ancona la vita della città rimase sospesa fra due all’unità, e la convergenza del crescente voto autorità contrapposte ma inerti, quella di governo cattolico a sostegno dei candidati liberali. L’esito e quella degli improvvisati dirigenti dell’opposizione elettorale non aveva modificato sostanzialmente estremista, entrambi incapaci di prevalere sull’altra, il quadro parlamentare: i liberali erano ancora ma ad un tempo impegnati a non esasperare largamente prevalenti, seppur con un calo parziale; la situazione locale e a valutare gli immediati i radicali erano aumentati da 45 a 73, i repubblicani sviluppi nazionali, sia nella protesta dei partiti e erano calati da 24 a 19, per di più divisi tra contrari o delle organizzazioni del lavoro, sia nelle decisioni favorevoli alla conquista della Libia; i socialisti erano del governo. Furono entrambi sorprendenti. La aumentati da 41 a 79, ma divisi fra 52 esponenti del prima perché la Romagna esplose in un vero e PSI, 19 del nuovo partito riformista e 8 indipendenti. proprio moto insurrezionale, in cui confluirono la Ma vi era in realtà un cambiamento più consistente: tradizionale vocazione repubblicana, le crescenti non solo la presenza di 29 rappresentanti di collegi animosità sociali e le agitazioni antimilitariste: che si elettorali a forte organizzazione cattolica, ma più affermò però nelle campagne e non nelle città, ove ancora che 200 dei 310 deputati liberali avevano le autorità mantennero o recuperarono rapidamente ottenuto il voto cattolico. Questo determinò il il controllo. Nelle campagne, soprattutto in quelle a distacco dei radicali dalla maggioranza progressista forte o quasi esclusiva presenza bracciantile, era giolittiana e di conseguenza la nascita di una più accentuato l’anelito al riscatto sociale e più nuova maggioranza, fondata come le precedenti pronto il passaggio dalla protesta all’insurrezione: sul centro, ma ora alleata e caratterizzata dalla per di più sulla spinta di una passione trascinante destra guidata da Salandra, nuovo Presidente del ma fuorviata da mancanza di informazioni Consiglio. In definitiva, al termine del triennio dal immediate e anzi esaltata dalla diffusione di notizie 1911 al 1914, il governo sterzava a destra, mentre SEGUE A PAG. 5 a sinistra si consolidava la convergenza delle Pag. 2 7 GIUGNO 1914 CENTENARIO DELLA SETTIMANA ROSSA ANCONA NELL’ETA’ GIOLITTIANA. PROGRESSI E FERMENTI POLITICI “LUCIFERINI” di Sergio Sparapani Pane e lotta politica. Nel decennio che precede la Settimana rossa e, ben più grave, la guerra mondiale, Ancona, e l’Italia, vedono intensificarsi le rivendicazioni sociali e politiche e gli sforzi per uscire dall’indigenza di larga parte della popolazione. Eppure non mancano i progressi nell’età giolittiana, con l’incremento della produzione agricola e la bonifica di vaste zone paludose. Anche ad Ancona cresce il tenore di vita e lo sviluppo industriale. Tra l’altro si riorganizza un grande stabilimento per le costruzioni navali che assorbe numerosi lavoratori. Aperta già alla fine degli anni Ottanta del XIX secolo, questa stagione di opere pubbliche trae linfa dal Piano regolatore dei porti italiani approvato dal parlamento nel 1907, piano che nella sua declinazione anconitana invita a realizzare barriere per contenere le correnti marine, costruire nuovi pontili e banchine, e rimuovere alcuni ostacoli ai collegamenti viari interni e a quelli con la vicina stazione ferroviaria. Riformisti del calibro di Alessandro Bocconi fondano la Camera del lavoro con la partecipazione di operai e professionisti. Cattolici, non più impediti dal non expedit, e socialisti, partecipano alla vita politica. La contesa vede affrontarsi da una parte i repubblicani, i socialisti e gli anarchici, che fondano l’associazione “Giordano Bruno”, dall’altra i democratici costituzionali e i cattolici ormai vicini alle correnti governative. Nell’età giolittiana (1901-1914) la città svolge un ruolo importante di laboratorio politico e sociale e assume anche il ruolo, a posteriori forse esagerato, di incubatrice di idee rivoluzionarie. Tra le figure più significative che marchiano questa fase ad Ancona vi sono Oddo Marinelli, Errico Malatesta, P 7 GIUGNO 2014 Ancona e gli anarchici alla vigilia della Settimana Rossa di Roberto Giulianelli firmandosi “La Massoneria anconetana”. Le due logge cittadine più grandi sono la Garibaldi e la Faiani. Il Risorgimento è ancora al centro delle ricorrenze. Nel 1910 il cinquantennio dell’annessione delle Marche al Regno d’Italia è celebrato con solenni manifestazioni. Nel 1912 è inaugurato a Castelfidardo, presente il re, il monumento alla battaglia. Il 29 settembre dello stesso anno l’ormai anziano Augusto Elia, con Garibaldi a Calatafimi, riceve l’omaggio della sua città. Sono anche gli anni dell’esperienza murriana. Nel gennaio del 1907 si tiene nel capoluogo un incontro di forze democratico - cristiane in seguito al quale sorge la Federazione marchigiana della Lega democratica nazionale , ispirata alle idee progressiste di Romolo Murri in polemica con le forze clericali di “vecchio tipo”, come scrive Enzo Santarelli. E’ attivo nello stesso periodo anche un altro personaggio immeritatamente quasi dimenticato: Rodolfo Ragnini, definito clericofascista, per la sua successiva adesione al regime, Ragnini in realtà è stato, tra l’altro, fondatore di circoli cattolici e operai, canonico del Duomo, che poi eresse in Basilica, fondatore, a proprie spese, di un osservatorio meteorologico, fondatore e direttore di giornali, istitutore della banca Cattolica di Ancona, storico e ricercatore, cappellano militare volontario nella Grande guerra, oratore e conferenziere appassionato e, certo, cantore del regime ma anche istitutore, dopo aver dilapidato il patrimonio di famiglia, di un asilo infantile, un ospedale e un pronto soccorso. I repubblicani rischiano di dividersi sull’impresa di Libia del 1911, con il deputato Domenico Pacetti che si dichiara favorevole. Quando Giolitti decide di strappare alla mezzaluna lo “scatolone di sabbia” si moltiplicano le manifestazioni, anche ad Ancona. Nel partito repubblicano la crisi interna è superata da un ordine del giorno concordato nel congresso di Ancona del 1912. Di fronte a mille delegati, nell’aprile del 1914 si tiene al teatro Vittorio Emanuele II (oggi ex cinema Metropolitan), il XIV Congresso nazionale del partito socialista, presenti tra gli altri Benito Mussolini, direttore dell’Avanti, Filippo Turati, Amedeo Bordiga, Giacomo Matteotti e naturalmente Bocconi. Ancona viene scelta quale sede perché <è ormai riconosciuta come centro catalizzatore delle energie più feconde del movimento proletario>, scrive Massimo Papini. Il Congresso passa alla storia per lo scontro sull’incompatibilità tra socialisti e appartenenza alle logge segrete. Mussolini è capofila degli intransigenti, forse perché, come ha malignato qualche storico, a suo tempo venne rifiutato da una loggia. Lo è anche Matteotti ma il suo ordine del giorno è più moderato. Non c’è posto invece per le posizioni turatiane di Bocconi e dei suoi, fautori tra l’altro di una alleanza locale con i repubblicani filo massonici. Ma l’attacco alla massoneria è la punta dell’iceberg nell’evoluzione di un partito che dal Congresso di Ancona esce su posizioni decisamente più a sinistra, classiste, antiborghesi e antigovernative. Una serie di violente manifestazioni si svolgono subito dopo la nomina del nuovo presidente del consiglio Antonio Salandra e Ancona, che sta acquisendo la fama nazionale di “covo” di anarchici e repubblicani, non manca di inserirsi in questi fermenti. La “fama” di Ancona è legata, tra l’altro, al fatto che la città dorica è stata teatro di importanti congressi nazionali (socialista e repubblicano), che l’organizzazione sindacale è in collegamento con le Camere del lavoro più importanti dirette da sindacalisti rivoluzionari e che il sindacato ferrovieri trasferisce la sua sede nazionale ad Pietro Nenni e lo stesso Bocconi. Marinelli, allora antigiolittiano e antiparlamentare, nel 1904 organizza la federazione giovanile repubblicana a livello nazionale. Nel 1905 ad Ancona fonda l’organo della federazione giovanile, La Giovine Italia. Nelle Marche, nel 1910, gli iscritti sono ben 1.498. Critico con l’impresa libica, passerà poi su posizioni interventiste allo scoppio della Grande guerra. Errico Malatesta è il massimo esponente del movimento anarchico italiano. Sceglie ben due volte Ancona come base per la ripresa del movimento, nel biennio 1897-’98 e nel 1914. Ai vecchi anarchici anconetani, scossi dalle sconfitte di fine secolo, si aggiungono nuove leve, Cecili, Felicoli e altri che rilanciano parole d’ordine barricadere attraverso la pubblicazione di fogli come Agitazione e Vita operaia. Il giovane Nenni odia la monarchia e i preti e l’approdo alla collaborazione con Lucifero è nelle cose. Nel 1912 il giovane romagnolo riceve un appello da parte dei repubblicani di Ancona a trasferirsi nel capoluogo. Agitatore, propagandista carismatico, nel novembre 1913 assume la direzione del giornale, definito “seriamente sovversivo” dove <il popolo che soffre troverà l’espressione del proprio sentimento>. Alessandro Bocconi è invece una limpida figura di riformista turatiano. E’ uno dei massimi esponenti del socialismo riformista in Italia ed Europa. Anconetano acquisito, il deputato socialista, fonda numerose leghe operaie e contadine e, nel 1900, la Camera del lavoro del capoluogo. La lotta dei sindacalisti si svolge fin dal 1905 contro lo Stato che, con legge di nazionalizzazione delle ferrovie, mette la sordina al diritto di sciopero. La sinistra sembra non approvare questa impopolare mobilitazione. Solo i repubblicani anconetani, attraverso Lucifero, plaudono all’agitazione. Fino alla La imponente immagine del funerale delle vittime Settimana rossa l’azione del sindacato ferrovieri di Ancona, e del leader Ancona proprio all’inizio del 1914. A tutto ciò si Sigilfredo Pelizza, si concretizza nella lotta contro aggiunga la presenza ad Ancona di Errico “un sistema sociale basato sulla violenza e Malatesta, dopo quindici anni di esilio a Londra, di l’inganno” che avrà il suo culmine con lo sciopero socialisti e repubblicani intransigenti (Pietro Nenni generale del 1907. Da segnalare anche la lotta e lo stesso Oddo Marinelli), ed ecco apparire dei raffinanti dorici, ossia dei lavoratori degli quella miscela di rivendicazioni, fremiti rivoluzionari zuccherifici. Forte è anche la massoneria che e autoritarismo governativo che faranno da sfondo talvolta interviene anche sulle pagine del Lucifero ai fatti di giugno del 1914. Q Quando esplode la protesta per i fatti di Villa Rossa nel giugno 1914, Ancona è il principale centro dell’anarchismo italiano. A testimoniarlo sono anzitutto i settecento libertari che, secondo le autorità di polizia, abitano il capoluogo e la sua provincia. Per lo più, sono sorvegliati. I rapporti che gli agenti di pubblica sicurezza redigono sulla loro attività vengono puntualmente raccolti nel Casellario politico centrale, attrezzo per il controllo dei “sovversivi” ideato dal governo Crispi nel 1894 e mantenuto in vita dallo Stato italiano fino alla seconda guerra mondiale. Tale è il peso degli anarchici nella zona, che all’inizio del Novecento la Questura di Ancona aveva deciso di riservare ai libertari una sezione speciale del proprio Casellario, distinta da quella comprendente anche i socialisti, i repubblicani e i sindacalisti rivoluzionari.La fama di “città anarchica”, Ancona se l’era conquistata tre lustri prima, dando rifugio per alcuni mesi al più noto esponente del movimento libertario italiano (Errico Malatesta) e dando fuoco alla miccia di quelli che i libri di storia avrebbero ricordato come i “moti di fine secolo”. Da allora, l’anarchismo era cambiato, stretto fra lo sforzo di riaversi dopo la repressione seguita alla sollevazione del 1898 e la necessità di dialogare con un Paese che, all’inizio del Novecento, vive una profonda transizione. Quest’ultimo processo è scandito, in primo luogo, dalla strategia adottata dai governi Giolitti nei confronti del conflitto sociale, strategia che abbandona il pugno di ferro crispino, puntando a circoscrivere la dialettica fra lavoratori e datori di lavoro all’interno delle relazioni industriali o, quantomeno, a ridurre le occasioni e l’entità degli scontri di piazza. A muovere il quadro italiano concorrono poi altri fattori: il consolidamento del Partito socialista, pur dilaniato da correnti interne (quella moderata “turatiana” e quella oltranzista “labrioliana”); la rimozione del Non expedit di Pio IX, con il conseguente ingresso dei cattolici nell’agone politico (e sindacale); l’introduzione del suffragio (quasi) universale maschile, che apre le urne ai ceti popolari, fino ad allora esclusi dalla battaglia elettorale; una modernizzazione economica che passa per un decollo industriale faticoso, tardivo, ristretto al solo Nord Ovest, e tuttavia determinante per quelli che saranno i destini del Paese; infine, il colonialismo cui anche l’Italia, dopo il tentativo naufragato ad Adua nel 1895, prova a partecipare prendendosi la Libia. A questo cambiamento di scenario gli anarchici reagiscono rinunciando alla “propaganda con il fatto”, la pratica cioè degli attentati politici, alla quale la corrente individualista del movimento libertario si era affidata nell’ultima parte dell’Ottocento e che ha nel regicidio di Monza del luglio 1900 l’ultima sua manifestazione. Essi si aprono inoltre a istanze inedite e cercano, attraverso queste, abboccamenti con le altre anime del movimento operaio, in particolare quella repubblicana e quella socialista. Gli anarchici si aprono anzitutto al sindacato, che ad Ancona più che in altre parti d’Italia contribuiscono non solo a organizzare, ma anche a dirigere. La Camera del lavoro del capoluogo marchigiano viene infatti fondata nel dicembre 1900 da socialisti, repubblicani e libertari, con questi ultimi capaci addirittura di esprimerne i primi tre segretari (Adelmo Smorti, Alberigo Angelozzi, Rodolfo Felicioli). Nel 1912 il legame fra anarchismo e sindacalismo verrà sancito, su scala nazionale, dalla nascita a Modena dell’USI (Unione Sindacale Italiana). Una ulteriore pista battuta dai libertari è quella dell’istruzione popolare, che ha il suo massimo esponente nel mantovano Luigi Molinari, ma che beneficia anche dell’intensa opera prestata dal fabrianese Luigi Fabbri. La campagna di Libia e l’avvicinarsi della Grande guerra alimentano, inoltre, un antimilitarismo che tocca l’acme con il “caso Masetti” (il soldato di leva che, a Bologna, spara contro un ufficiale alla vigilia della partenza per l’Africa) e la polemica sulle “compagnie di disciplina” (i reparti di punizione cui vengono assegnati i soldati in odore di sovversivismo). Ed è proprio da una manifestazione antimilitarista, com’è noto, che la Settimana Rossa prenderà le mosse. Nel giugno 1914 Ancona, si diceva, è il fulcro del movimento anarchico italiano. Lo è per i suoi trascorsi, ma più ancora per il suo presente, marcato dalla figura di Malatesta. Dopo un lungo esilio speso fra l’Africa, l’America e l’Europa centro-settentrionale, Questi era tornato in Italia nel febbraio 1913, stabilendosi nel capoluogo marchigiano, così come già allo scadere dell’Ottocento. A spingerlo al rientro in un Paese dove era ricercato per evasione (nel 1899 era fuggito dal domicilio coatto di Lampedusa) è la convinzione che lo Stato liberale stia vivendo una crisi terminale, che coincide con il crollo del modello giolittiano. Si aprono perciò varchi per quella soluzione rivoluzionaria che Malatesta continua a ritenere la sola strada percorribile per giungere a una società davvero libera e giusta. Lo schema d’azione che l’anarchico campano adotta è identico a quello sperimentato alla fine del XIX secolo, e fa perno su tre elementi. In primo luogo, un gruppo di militanti capaci e fidati, quelli stretti attorno al Circolo Studi Sociali, fra i quali spiccano Cesare Agostinelli, Ariovisto Pezzotti e i già ricordati Smorti, Angelozzi e Felicioli. In secondo luogo, un giornale a larga tiratura e ampia diffusione sul territorio nazionale – “Volontà” (nel 1897-98 questo ruolo era stato svolto da “L’Agitazione”) – che egli affida alla cura redazionale di Agostinelli e Fabbri. Infine, una densa tournée di conferenze e comizi ad Ancona, nella sua provincia, nel resto delle Marche e in Romagna. L’obiettivo di questa opera di propaganda è duplice. Da un lato, preparare il terreno, fra i ceti popolari, in vista di una rivoluzione che egli ritiene imminente. Dall’altro, cercare sponde fra le componenti del movimento operaio più vicine alle posizioni anarchiche, in particolare i repubblicani, che con i libertari condividono l’ostilità per la monarchia. Sono proprio l’ingombrante presenza di Malatesta e l’impegno da questi profuso a cavallo fra il 1913 e il 1914 per diffondere il “verbo rivoluzionario” ad accendere, fra il popolo ma anche fra le forze dell’ordine, quegli animi che divamperanno nei giorni seguiti ai fatti di Villa Rossa. Mussolini e Nenni. Cronaca di un’amicizia finita di Pietro Caruso N Nell’umanizzazione di Benito Mussolini, soprattutto in Romagna, permane tenace un’idea dei “compagni di Mussolini” che rimasero in qualche modo amici anche dopo la trasformazione del leader massimalista socialista in duce del fascismo. L’idea poi che il socialista Mussolini e il repubblicano Nenni abbiano mantenuto quel legame è in realtà più il racconto della vedova Rachele Guidi che una solida realtà. E’ vero che il “no” all’impresa regia in Libia vide il sindacalista repubblicano di origine faentina e il segretario della federazione socialista forlivese li vide accomunati e addirittura in prigione insieme, ma fra il 1911 e il 1914 maturano due percorsi diversi sui cui tratti, probabilmente, gli storici potrebbero indagare fuori di ogni agiografia che, per altro, non costituisce mai un probante elemento di valutazione. Diciamo pure che il legame di simpatia personale fra i due nacque da una condivisione esistenziale: un maestro elementare con un’infanzia tormentata e ribelle e un orfano ribelle a ogni autorità come tanti ragazzi sia pure in una non perfetta coincidenza anagrafica si rilevavano nell’Italia a cavallo fra Ottocento e Novecento con una certa facilità. Il fatto di essere nati a distanza di poco meno di venti chilometri uno dall’altra rendeva attraverso il dialetto e la consuetudine di origine contadina, oltre che della povertà, un tratto comune. Solo che la militanza repubblicana di Nenni costituì una sua iniziazione alla società e alla politica, mentre la militanza socialista di Mussolini divenne ben presto la rivalsa sociale e morale squisitamente individualista forte anche della delusione per la mancata carriera politica del padre Alessandro che era stato un socialista internazionalista consigliere comunale d’opposizione a Predappio. Nenni maturerà un’adesione al socialismo attraverso l’esaltazione di una concezione collettiva e della suggestione sia pure solo iniziale alla rivoluzione dei Soviet, per Mussolini il percorso sarà inverso: più difficoltà alla sua ascesa incontrerà nei socialisti, soprattutto nella Milano dei riformisti Turati e Treves...di cui si ricorderà Giacomo Matteotti, maggiore si realizzerà un distacco violento e stizzito come era nel soma della personalità di Mussolini. Rispetto alla tradizione repubblicana coerente, ma anche capace di isolarsi nell’esperienza politica del Pri, Nenni e Mussolini saranno personalità diverse ma legate da profonde inquietudini personali. In occasione della Settimana Rossa però Nenni seppe dimostrare di volere continuare ad essere l’organizzatore sindacale dotato di una forte carica utopica e rivoluzionaria, mentre Mussolini di lì a pochi mesi inizierà quel percorso che lo renderà un interventista di primo rango nella Prima guerra mondiale. Gli storici sono in grado di dimostrare che sia da parte inglese, sia da parte francese quella sua svolta avrà anche incentivi finanziari sostenuti per il Popolo d’Italia e la sua veloce nascita come strumento di propaganda e di proselitismo. Nenni difenderà l’Avanti! dall’assalto di una squadraccia fascista, Mussolini metterà all’indice gli ex-compagni e li manderà al confino. Certo ai più pericolosi intellettualmente come Matteotti e i fratelli Rosselli ordinerà di eseguire verso di loro delle vere condanne a morte. Altro che “compagni” di Benito, amabile e in fondo umano. Come Caligola solo chi si lasciò sedurre fu risparmiato. Questo in occasione del centenario della Settimana Rossa non va comunque dimenticato. Pag. 3 CENTENARIO DELLA SETTIMANA ROSSA 7 GIUGNO 1914 7 GIUGNO 2014 “Settimana Rossa”: la lettura coeva dei fatti in un editoriale di Piero Pergoli di Michele Millozzi A Allorché ci si rivolga alla letteratura storica per una lettura degli eventi scaturiti dal circolo repubblicano anconitano di “Villa Rossa” (poi detti e tramandatici della “Settimana Rossa”) che caratterizzarono alcuni giorni di subbuglio tra la prima e la seconda decade del giugno 1914, si rileva l’univocità del giudizio nell’individuare in quegli eventi non un vero e proprio tentativo insurrezionale mirato ad abbattere la monarchia quanto, piuttosto, un moto avviato dall’istintiva reazione popolarepolitica all’uccisione di tre giovani: i repubblicani Nello Budini e Antonio Casaccia, e l’anarchico Attilio Giambrigoni. Il tragico episodio, verificatosi ad Ancona nel pomeriggio di domenica 7 giugno, avviene nel momento in cui, dopo un comizio antimilitarista (voluto contraltare alla tradizionale festa dello Statuto allora, però, già percepita come giorno di celebrazione della monarchia) tenuto dal repubblicano Pietro Nenni e da altri oratori della sinistra antisistema, si forma un corteo dimostrativo che muove dal rione Capodimonte, ove sorgeva appunto “Villa Rossa”, per dirigersi verso Piazza Roma, al centro della città, dove si stava esibendo una banda musicale. Alcuni carabinieri già presenti in servizio di pubblica sicurezza all’assemblea di “Villa Rossa”, non autorizzati all’uso delle armi, ma forse provocati e impauriti perché fatti oggetto di scherno e di aggressioni non solo verbali da parte dei dimostranti più giovani, al tentativo di costoro di sfondare il cordone protettivo che avevavo steso intorno alla sfilata proprio per evitare possibili disordini, presi dal panico, sparano sulla folla. In città, sulla scia di questi fatti, per l’onda della crescente, furiosa protesta popolare subito innescatasi, avviene che lo sciopero generale, pur immediatamente indetto dalla Confederazione Generale del Lavoro, in effetti si “attui prima ancora di essere proclamato” e, comunque, viene esteso il giorno dopo a tutta Italia. É così che lo spontaneo moto di ribellismo anconitano diventa una sorta miccia per altri “incendi” rivoltosi che, sviluppatisi in reazione a catena, divampano in altre località marchigiane, in città di altre regioni italiane e, in particolare, nella vicina Romagna dove la rivolta raggiungerà i più alti livelli di violenza e di devastazione. Ora esula dal compito di questo intervento intrattenersi nella narrazione degli eventi che si susseguirono tra il 7 e qualche altro giorno di quel giugno 1914 che - a nostro modo di vedere - sono soltanto riconducibili nell’ambito di una reazione popolare impulsiva e, inevitabilmente, rabbiosa e aggressiva (nella quale, senza dubbio, giocò anche la permanente situazione di forte conflittualità politico-sociale dell’epoca) ad un atto di smarrimento della ragione, ispirato da cedimento nervoso che, lì per lì, al momento della tragedia, venne però ritenuto e vissuto dalla folla come una scoperta, insistita e arrogante sopraffazione dell’oppressore stato monarchico. Una reazione popolare ben presto enfatizzata da certa retorica dei partiti protagonisti di quelle giornate di insurrezione popolare elevate a tentativo rivoluzionario vero e proprio, e tramandateci, appunto, sotto l’estesa e non proprio puntuale denominazione “Settimana Rossa”. Consapevolmente, cioè, un moto di spontaneismo (è il termine più ricorrente nell’indagine storiografica e nella pubblicistica sul tema) ribellista, certamente significativo di per sé e con sviluppi dell’agitazione popolare tutti e solo interni alle singole località tra loro non collegate, viene collocato, per l’invocazione dottrinaria alla lotta per l’instaurazione dell’agognata repubblica che lo animò, nella dimensione del mito rivoluzionario, mito subito evocato nel corso del “Biennio Rosso”, alimentato clandestinamente nel buio del periodo fascista, affermato come tale nel clima politico dell’immediato dopoguerra, ma rivisitato e ridimensionato già nel declino degli anni Cinquanta e primi Sessanta.E il ricorso alla denominazione “Settimana Rossa” per ricordarlo, risulta funzionale alla creazione del mito dell’evento stesso e del suo perpetuarsi nella memoria collettiva poiché, da un lato, veniva esteso ad una “settimana” il periodo temporale dell’agitazione che, in effetti, andava spegnendosi già nella notte tra l’11 e il 12 giugno e, da un altro, si aggiungeva a “settimana” quel “rossa”, (giocando, forse, sull’aggettivo cromatico già qualificante la sede repubblicana anconitana, la “Villa Rossa”, appunto, ma aggettivo nel richiamo dell’evento diversamente spendibile) per definirlo in senso politico, squisitamente politico, ma politicamente generico perché riferito al blocco, alla coalizione di quei partiti della sinistra antisistema che potevano essere individuati - posti nel crogiolo di un eterogeneo unicum (ci si passi la contraddizione in termini) - come appartenenti ad una sinistra solo genericamente definita “rossa”. E’ un fatto però - o almeno così ci pare - che nel tempo, da quella definizione degli eventi originati da “Villa Rossa”, grazie ad una sorta di “appropriazione”, magari pure involontaria di gestione del mito da parte del solo partito socialista scomparso il sindacalismo rivoluzionario e decaduto l’anarchismo - gliene sia discesa una sorta di primogenitura e di principale protagonista della “Settimana Rossa”, favorito pure, nell’accreditarsi in questo ruolo, proprio dal passare degli anni. In questa direzione si pensi, ad esempio, quanto, nel trascorrere delle generazioni, possa essersi diluito nella memoria comune il ricordo di Nenni repubblicano e di leader repubblicano e, per contro, quanto vi si sia accreditata e costantemente radicata la sua figura di socialista e di leader socialista; così come, allo stesso tempo, nella conoscenza ordinaria, il “rosso” sia diventato il colore distintivo, insegna emblematica e identificativa dei partiti della sinistra marxista. Ma, nella memoria storica, la direzione dei moti di quel giugno 1914, quantomeno ad Ancona e in altre località marchigiane come, ad esempio, nella vicina Jesi, fu soprattutto - come ha affermato Raffaele Molinelli - “nelle mani di repubblicani e anarchici, anche se i socialisti presero parte attiva ai moti”. Tuttavia, nel rapido esaurirsi dei fatti della cosiddetta “Settimana Rossa”, pur fortemente caratterizzati da vandalismi e devastazioni consumati a danno di edifici pubblici, di più e differenti uffici statali , di luoghi religiosi e privati, ma ben presto “superati” nell’attenzione della comunità civile e politica all’eccidio, coinvolti anch’essi emotivamente ma presumendo di sé, smarrita ogni lucidità, vollero inneggiare alla rivoluzione per la Repubblica (peraltro - a ben guardare - unico elemento effettivamente comune nei differenti patrimoni dottrinari), sbandierato passaporto istituzionale salvifico dall’opppressione monarchica, dall’ingiustizia sociale, dal militarismo, dal clericalismo, dall’anticolonialismo, dalle ignominie della politica giolittiana. Ritennero, quei capi, che l’eccidio, appena perpetrato, fosse il momento giusto e atteso, la “miccia”, appunto, per accendere la rivoluzione per la repubblica sociale: in altre parole, credettero, nell’immediato dell’uccisione dei tre giovani, che la condizione per avviare l’evento definitivamente eversivo si fosse creato e che stava ora a loro guidarlo adeguatamente. E nell’iniziare a cavalcare l’onda - è detto con accezione positiva del termine - del risentimento, del dolore, della rabbia popolare - la proclamazione immediata dello sciopero generale da parte della locale Camera del Lavoro, in sintonia politica unitaria, sembrò ai partiti “rossi” il primo, necessario passo in quella direzione. Naturalmente, con altrettanta rapidità, si accorsero che si sbagliavano, che, in effetti, il successo dell’azione rivoluzionaria necessitava di un’organizzazione che andasse ben oltre l’invocazione, l’appello alla lotta per la Repubblica, a partire da una preparazione minuziosa per la quale - come ricorderà alcuni anni PRINCIPALI MANIFESTAZIONI Giovedi 5 Giugno Archivio di Stato via Maggini, 60 - ore 17,30 Presentazione del volume di Marco Severini “LA SETTIMANA ROSSA” Sabato 7 giugno Mole Vanvitelliana - ore 17,30 Inaugurazione Giovedi 19 Giugno Mole Vanvitelliana - ore 17,30 Tavola rotonda Venerdi 27 Giugno Mole Vanvitelliana - ore 17,30 Presentazione Numero Speciale del Lucifero Sono previsti nei diversi incontri la partecipazione di: Valeria Mancinelli - Sindaco di Ancona Patrizia Casagrande - Commissario Provincia (An) Pietro Marcolini - Assessore Cultura Regione Mrche Mario Di Napoli - Presidente Nazionale A.M.I. Marco Severini - Università di Macerata Roberto Balzani - Università di Bologna Luigi Lotti - Università di Firenze Nino Lucantoni - Direttore Instituto Gramsci Marche Pietro Caruso - Direttore de "Il Pensiero Mazziniano” Filippo Giulioli - Presidente A.M.I. Ancona dall’incombente scoppio della “Grande Guerra”, degli eventi di quei pochi e caotici giorni vanno ricordati almeno due aspetti significativi per la loro effettiva comprensione. Da un lato se, al ritorno della calma, la magistratura diede il via ad una serie di arresti dei capi delle rivolte (ad Ancona, tra gli altri, quello del vivacissimo Nenni, allora alla Segreteria della Consociazione Repubblicana Marchigiana e direttore di Lucifero, mentre riusciranno ad evitare la cattura il leader anarchico Malatesta e il repubblicano Oddo Marinelli), arresti cui seguiranno sì i relativi processi ma anche l’ ampia amnistia del 29 dicembre 1914, va allo stesso tempo rilevato che nel corso della rivolta l’autorità dello stato non venne mai meno conservando, al tempo stesso, un atteggiamento - diremmo oggi - responsabile, non ostacolando comizi e dimostrazioni e limitandosi ad arginare, per quanto possibile e senza far ricorso all’uso delle armi, le azioni di distruzioni e di vandalismo. Dall’altro, è un fatto che che i leaders dei partiti antisistema, repubblicani, anarchici, socialisti e sindacalisti rivoluzionari nei momenti seguiti dopo Pietro Nenni - “occorrevano armi, denaro, forze”, nonché da un minimo di coordinamento, che non c’era, tra le località coinvolte. Infatti, le rivolte scoppiate in giro per l’Italia, andarono subito sviluppandosi senza alcun collegamento tra loro, del tutto disarticolate e “col solo vincolo - come ha scritto Luigi Lotti - della stessa passione repubblicana”. Ne derivò che, preso atto dell’errore di valutazione commesso per la compresa impossibilità di dare uno sbocco politico unitario al movimento protestatario anche per l’evidente tenuta dell’apparato dello stato, lo sciopero generale fu revocato dalla CGdL con la stessa fretta con la quale era stato indetto e, ad Ancona, la decisione di porre fine all’agitazione venne subito realisticamente avanzata da Nenni agli altri partiti, che avevano costituito con i repubblicani una sorta di Governo provvisorio, da loro accettata dopo qualche iniziale resistenza.Dunque, tra la notte de 12 e il mattino del 13 giugno, cessato lo sciopero, si spengono gli ultimi fuochi dell’agitazione nata dai fatti della repubblicana “Villa Rossa” di Ancona.A distanza di poco più che un mese, nell’ editoriale di Lucifero del 26 luglio 1914, su più aspetti degli eventi della “Settimana Rossa” espone le sue riflessioni Piero Pergoli, un giovanissimo - appena ventenne - militante mazziniano destinato a collocarsi nella storia politica del Novecento tra le figure di eccellenza del movimento repubblicano non solo marchigiano; un personaggio che, per il suo straordinario spessore etico e culturale nonché per la personale, lunga storia di impegno politico mazziniano, ha incarnato passioni e valori propri di di quella cosiddetta ”terza forza” della vita politica nazionale nota come democrazia laica. E’, questo suo lontano editoriale, prova palmare di una cultura generale e specificamente politica già acquisite, nonché la manifestazione di una personale, naturale inclinazione per un giornalismo vivace e combattivo (caratteristiche di cui le pagine di Lucifero godranno per tratti assai lunghi della vita di Piero Pergoli), un “insieme” davvero notevole considerata la sua età che, comunque, fornisce all’editoriale in questione, anche il “condimento” di un’adeguata dose di baldanza giovanile. Lo scritto del giovane repubblicano è strutturato come un vero e proprio saggio. Un primo paragrafo, di carattere introduttivo, si intrattiene sul superamento del “conflitto permanente” dei partiti della sinistra e sul loro approdo ad una “meravigliosa concordia”, trovata grazie allo spontaneismo popolare e al comune sentimento dottrinale antimonarchico e repubblicano in occasione dei fatti della “settimana Rossa”. Ne seguono altri tre sottotitolati Verso la Repubblica Sociale, La preparazione insurrezionale, I sovversivi di fronte alla reazione ed una conclusione, anch’essa sottotitolata, Unione! Unione! e quest’ultimo paragrafo - più o meno volontariamente redatto nella logica di un romanzo “circolare” - nella sua invocazione imperativa riconnettendosi al titolo dello scritto Per la Concentrazione Rossa sintetizza in qualche parola il pensiero dell’autore dell’articolo: pur a fronte del fallimento dell’esperienza degli eventi della “Settimana Rossa”, la coesione delle forze delle sinistre, “l’unione dei rossi di ogni tendenza”, nel rispetto dei loro dettati teorici, è ritenuta presupposto e condizione necessaria, prioritaria alla lotta antimonarchica per l’avvento della repubblica e va da sé che questa posizione espressa da Piero Pergoli, in quanto enunciata nell’editoriale di Lucifero, allora organo di partito dei repubblicani intransigenti, esprimeva la linea politica del partito stesso. Scriveva testualmente Pergoli: “Non si tratta di amalgamare le ideologie più disparate, non si tratta di confondere in una torbida palude i programmi più diversi, non si tratta di abdicare alle particolari vedute dottrinarie, di rinunciare alle divergenze ideologiche. Repubblicani, anarchici, mazziniani, socialisti, sindacalisti conservino inalterate le loro caratteristiche, ma si tengano pronti a combattere gli uni al fianco degli altri il giorno dell’azione”. Esortati così i partiti della sinistra all’unitarismo operativo e prefigurando all’azione corale del “blocco rosso” un futuro di sicuro successo - con piglio agitatorio ed un pizzico di ingenuità mista a giovanile spavalderia espresse nello stile retorico dell’epoca - concludeva: “Uniamoci e la monarchia, questo colosso dai piedi di creta, precipiterà nell’abisso travolgendo nella sua rovina ogni privilegio di casta, ogni predominio di classe”.In effetti il fiducioso appello di Piero Pergoli è destinato, almeno per l’immediato, a cadere nel vuoto. La dichiarazione di guerra del 28 giugno 1914 dell’Austria alla Serbia sta per aprire in Italia un altro scenario, quello del periodo “neutralista” nel corso del quale le posizioni dei partiti di sinistra, soprattutto quella tra repubblicani favorevoli all’ingresso dell’Italia in guerra e socialisti rivoluzionari, contrari si allontaneranno. E - intervenuta peraltro nel corso della “Grande Guerra” la rivoluzione russa - si attesteranno su una linea di netta contrapposizione nel primo dopoguerra sino al momento di definitivo assalto del fascismo allo stato liberale, sino cioè ai primi giorni dell’agosto 1922 quando, in occasione della proclamazione dello “sciopero generale legalitario” indetto dall’ Alleanza del Lavoro, quella lontana esortazione all’unità d’azione troverà, anche e soprattutto ad Ancona, il suo momento attuazione. Si tratterà, però, in tempi del tutto mutati rispetto all’anteguerra, di un momento di azione corale strumentale effettuata in chiave solo difensiva, di ultimo baluardo di lotta unitaria di resistenza, purtroppo soccombente, all’avanzata fascista verso la presa del potere, e non di quel movimento offensivo di slancio unitario auspicato da Piero Pergoli e mirato all’ instaurazione della Repubblica. Per l’avvento della Repubblica, dell’Italia repubblicana, bisognerà attendere il secondo dopoguerra, i secondi anni Quaranta, poco più di 30 anni dai giorni di quel giugno 1914 : ma è stata davvero, questa Repubblica finalmente raggiunta, il sogno realizzato di quegli uomini e di quei partiti che, invocandola, diedero vita ai fatti della “Settimana Rossa”? Pag. 4 CENTENARIO DELLA SETTIMANA ROSSA 7 GIUGNO 1914 7 GIUGNO 2014 I GIORNI ROSSI NEL RAVENNATE La Settimana Rossa: la “battaglia” delle idee Le nuove sfide per la sinistra di Sauro Mattarelli I Il 7 giugno 1914: i partiti della sinistra hanno indetto ad Ancona una manifestazione di protesta contro le compagnie di disciplina dell’esercito. Il contemporaneo svolgimento di una rivista militare induce le autorità a vietare l’iniziativa che però, in qualche modo, si svolge ugualmente: sotto forma di un comizio a cui partecipano, tra gli altri, il repubblicano Pietro Nenni, direttore del giornale “Lucifero” e l’anarchico Errico Malatesta. Al termine viene improvvisato un corteo che si scontra presto con le forze dell’ordine, le quali ricorrono all’uso delle armi da fuoco. Due manifestanti repubblicani e uno anarchico cadono uccisi. Per il giorno dopo viene proclamato uno sciopero generale che dilaga in tutta l’Italia. In Romagna, soprattutto nel ravennate, la protesta assume le dimensioni di una insurrezione popolare. Vengono presi di mira i cosiddetti simboli dell’oppressione con varie modalità: barricate, posti di blocco, alberi della libertà eretti nelle piazze, assalti a chiese. L’esplosione di rabbia istintiva, viene espressa soprattutto contro le cose; nonostante le violenze infatti l’unica vittima sarà un commissario di polizia, colpito al capo da una bottiglia. Ma la Romagna in quei giorni resta tagliata fuori da ogni comunicazione e le notizie, provenienti dalle altre città con modalità vaghe e imprecise, creano un clima per cui sono in molti a credere che la rivoluzione sia scoppiata in tutto il Paese. Scriverà Luigi Lotti che “un’inebriante ventata rivoluzionaria sommosse in un attimo tutta la regione” e proprio sotto la spinta di queste “false voci” si accesero gli antichi fervori ribellistici, coltivati da anni di lunghe lotte sindacali e politiche. Ingenuità e rivolta, unite in un singolare miscuglio, descrivono bene lo stato dell’Italia alla vigilia dello sparo di Sarajevo: un Paese con gravi problemi sociali, forti radicalizzazioni e istituzioni pericolosamente logore e inefficaci. Repubblicanesimo, anarco-sindacalismo e socialismo in questo scenario si confrontano a distanza ravvicinata, sia come concorrenti per la guida della sinistra, sia come potenziali alleati. A Ravenna le cooperative socialiste, “rosse”, di Nullo Baldini fronteggiavano da anni quelle repubblicane, “gialle”, di Pietro Bondi in una sfida che, oltre che ideologica, assumeva i caratteri di una vera e propria competizione economica. Queste strutture, unitamente alle organizzazioni sindacali, rappresentavano un baluardo contro la povertà e, nel contempo, un forte potere politicoeconomico. I terreni acquisiti dalla cooperazione e i lavori eseguiti dalle associate alla Federazione delle Cooperative (socialista) e al Consorzio autonomo (repubblicano) avevano in effetti raggiunto cifre ragguardevoli. La città era amministrata da giunte repubblicane. Tutto questo implicava una qualche forma di dialogo con le istituzioni monarchiche che la settimana rossa mette in discussione, sotto l’onda della “rivolta anomala”. Quelle ore convulse evidenziano con nuova luce la distanza che si interpone tra la classe dirigente dei partiti dell’estrema e la base. I “giorni rossi”, almeno in apparenza, uniscono infatti “dal basso” repubblicani, socialisti, mazziniani intransigenti e anarchici, che lottano istintivamente uno al fianco dell’altro e superano gli steccati ideologici in nome di un umanitarismo capace di attingere dalle remote radici comuni. Le cooperative, rosse o gialle poco importa, diventano in un attimo la metafora della Repubblica. Sintesi popolare mirabile, di laicismo, anticlericalismo, opzione antimonarchica. Il canto repubblicano “bangera rossa” inneggia a Pirolini, uno dei pochi capipopolo presenti e “accettati” sulle tumultuose piazze romagnole; il refrain è lo stesso di quello che sarebbe poi diventato uno dei più noti inni comunisti d’Italia (Bandiera rossa). Gli altri dirigenti risultano invece distanti, assenti, diffidenti nel momento dell’azione. La successiva vit- di Sara Samorì toria del riformismo della CGL avrebbe enfatizzato la sostanziale impreparazione del Partito socialista e dei partiti della sinistra verso un’azione concretamente rivoluzionaria e quelle giornate scandiscono, per l’appunto, l’abissale lontananza tra le istanze ribellistiche di vasti strati popolari e un gruppo dirigente che ormai sembra destinare i proclami rivoluzionari solo per le piazze più calde, mentre in realtà risulta sempre più calato nel ruolo di “gestore” delle nuove strutture economiche e politiche “riformiste”, se non di “fabbricatore di cerotti sociali e di empiastri politici”, come scrisse sprezzante il giornale “Iniziativa” il 13 giugno del 1914. Si evidenzia, in altri termini, un inedito scollamento tra le masse e la casta dei leader, secondo gli anarchici ormai schiacciata da una “deriva riformista” che porta all’autoreferenza e alla difesa di una nuova, micidiale, burocrazia sindacale. Da questa prospettiva non sono quindi le divisioni ideologiche a dilaniare la sinistra, quanto, piuttosto, gli affaristi senza scrupoli, gli opportunisti che riescono a infiltrarsi per “inconfessabili fini” svuotando o depotenziando la carica rivoluzionaria dei partiti. Ma l’inno allo spontaneismo contro il “burocratismo unidirezionale” si scontra con chi, già allora, vede negli eccessi arbitrari dei rivoltosi, nel loro distacco dai vertici, una “deriva populista”, una pericolosa trasformazione della massa in “teppa” miope, influenzabile, manipolabile. Il dibattito, sotto forme e vesti variegate, avrebbe lacerato la sinistra italiana anche negli anni a seguire. Piazza di Fusignao (RA) La cittadinanza innalza l’albero della libertà In sintesi, la settimana rossa, oltre a sancire le divisioni “dall’alto” all’interno della sinistra, nel contempo registra la sconfitta dell’ala massimalista che, nel fin dal congresso socialista di Ancona, aveva proposto un’allettante opzione unitaria nel nome di Amilcare Cipriani. Questo epilogo nel ravennate aveva avuto precedenti importanti: la scissione nel movimento cooperativo e sindacale tra il 1909 e il 1910; la contrapposizione fra internazionalisti e anticolonialisti, in occasione dell’impresa tripolina del 1911; e infine, appena pochi giorni dopo questi eventi, la definitiva rottura tra interventisti e neutralisti allo scoppio della Grande guerra, il 28 giugno del 1914. Siamo in piena «settimana rossa»: i cavalleggeri presidiano le campagne romagnole. Sui muri bianchi dei cascinali spiccano le scritte della protesta libertaria e pacifista. P (10-24 giugno 1914) Per una settimana, in quell’ultimo scampolo di primavera del 1914, sembrava che la rivoluzione in Italia fosse a portata di mano. Che l’utopia dell’emancipazione sociale, politica ed economica delle masse popolari – idea particolarmente cullata in terra di Romagna dagli uomini del variegato mondo dell’Estrema – potesse avverarsi, trasformando la ribellione in un progetto politico più solido. In realtà, anziché raggiungere un livello d’azione capace di trasformare le aspirazioni in leggi, progetti e strutture, la Settimana Rossa rappresentò, di fatto, l’epilogo di un’epoca. Pochi giorni dopo, infatti, i colpi sparati dal giovane nazionalista slavo Gavrilo Princip a Sarajevo uccisero l’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono dell’Impero d’Austria-Ungheria, e la moglie Sofia, innescando le micce di tutti i nazionalismi e aprendo le macabre danze della Grande Guerra. Merita una riflessione speciale il fatto che mentre i lustrini, i decori e i costumi della Belle Èpoque affascinavano l’Occidente, nel ventre di quelle stesse società si muovevano filoni culturali e politici molto distanti fra loro: alcuni spronati da visioni egualitaristiche e patriottismo; altri alimentati da mentalità colonialista e sciovinismo. In mezzo a queste coordinate si muovevano trasformismi di varia natura e sfruttatori di opportunità che portarono – come, ad esempio, con il voto favorevole agli armamenti da parte di storici partiti della sinistra europea – a far saltare alleanze ideali di carattere internazionale, nel nome di una difesa che mascherava frustrazione e velleità di supremazia. Nel vortice degli eventi di quel drammatico giugno 1914 è possibile riconosce una soglia simbolica, con l’inizio di un’epoca caratterizzata da conflitti di nuovo tipo, con lo sviluppo tecnologico a decretare un salto di scala in termini di distruzioni e morte, con il coinvolgimento progressivo della popolazione civile nelle vicende belliche, con l’ampliamento degli scacchieri militari che assunsero una dimensione mondiale. Non fu sufficiente la carneficina della Prima guerra mondiale a chiudere questa stagione. Anzi, le tensioni pregiudicarono irrimediabilmente il quadro internazionale da far piombare molte nazioni nella morsa di regimi totalitari. E solo dopo aver pagato il prezzo di dittature, conflitti e genocidi, quell’epoca si concluse consegnando il testimone, fra il 1944 e il 1948, a un sistema mondiale strutturato su nuove regole e nuovi equilibri. Come è stato più volte sottolineato correttamente, in sede storiografica, le vicende della Settimana Rossa vanno interpretate seguendo il solco delle forme di protesta radicale che, soprattutto in Romagna, aveva visto negli anni precedenti momenti di altissima tensione - come le manifestazioni contro la Guerra in Libia del 1911 e le proteste divampate in seguito alla notizia della condanna a morte del repubblicano e anticlericale catalano Francisco Ferrer – declinando, nel caso di Forlì, a precise chirurgie politiche come l’assalto alla statua della beata vergine nella piazza principale che ne determinò la rimozione. Ma non basta. Le vicende del giugno 1914, vanno contestualizzate in riferimento alle crisi economiche e sociali determinatesi dalla fine dell’Ottocento in poi e incalzate, da un lato, da un decorso naturale degli eventi prodotti dalla “grande” politica, dai processi di omologazione dei partiti e dell’opinione pubblica; dall’altro, dalle trasformazioni economiche che scandirono i ritmi lunghi dei processi di modernizzazione e la formazione di una prima base industriale. Per il giovane ghota romagnolo che stava soppiantando il notabilato postunitario si trattava di suggellare una saldatura, rapida e ideale, ai valori dominanti della nuova classe dirigente italiana nata dopo la fine della parabola di Crispi e la reazione alle manifestazioni contro il rincaro del prezzo della farina e del pane che patirono a fine aprile del 1898 dalla Romagna e che culminarono con la carneficina di Milano nelle giornate dal 6 al 9 maggio con le truppe del generale Bava Beccaris che aprirono il fuoco sul popolo. Gli albori dell’età giolittiana coincisero con l’avvento delle prime amministrazioni popolari con repubblicani e socialisti pronti a guidare città e territorio. A connotare drammaticamente lo scenario economico della Romagna e dell’Emilia di fine Ottocento erano stati, da un lato, gli effetti della crisi nazionale innescata dal fallimento della Banca Romana, dall’altro, in sede locale, i fallimenti di diversi istituti di credito, come le Banche Popolari di Forlì e Meldola e il Banco di Sconto Riminese. Da un punto di vista economico, l’intero territorio romagnolo – che agli albori del XX secolo stimava una popolazione di circa 700 mila abitanti – presentava una vocazione prevalentemente agricola dove coesistevano segni di arretratezza a effetti del processo di modernizzazione che aveva ricevuto un forte impulso nel corso degli ultimi decenni dell’Ottocento. Pur nel generale “ritardo”, la tradizione di cultura agronomica che era stata lanciata dai Comizi Agrari, dalle Cattedre Ambulanti di Agricoltura, dai primi Istituti sperimentali e dalla nascita di vere e proprie scuole tecniche come il “Regio Istituto Agrario di Cesena”, cominciava a produrre esiti. La trasformazione del panorama economico romagnolo dei primi due decenni del Novecento ebbe come principali protagonisti il rapporto di mezzadria in agricoltura – fondato su una solida flessibilità e capace di assorbire facilmente le innovazioni – e le nuove funzioni delle città in cui s’imposero il ruolo “imprenditoriale” della classe politica locale e una dimensione commerciale imperniata su tre livelli: mercato cittadino, foro boario e scalo merci della ferrovia. Da un punto di vista sociale e politico, particolare rilievo assunsero le Leghe e le Camere del Lavoro che organizzarono la lotta sindacale. Nel 1901-1902, le campagne furono attraversate da conflitti sociali per la conquista di un nuovo patto di mezzadria e dalle lotte bracciantili contro la disoccupazione. Un nuovo corso, ormai, era nelle mani dei nascenti partiti popolari. Il segno, però, più emblematico del percorso giolittiano nella “nostra periferia” venne offerto, qualche anno più tardi, dalla reazione al devastante uragano del 23 giugno 1905 che piegò la fiorente agricoltura del territorio. Tuttavia, la svolta liberale aveva portato con sé anche una rinnovata vocazione pubblica che si concretizzò grazie all’azione di Alessandro Fortis, che era in quel momento Presidente del Consiglio dei Ministri, e che fece estendere alla Romagna la legge sulla calamità naturali già in vigore in Veneto, ed ottenere, quindi, sostanziali provvedimenti in campo creditizio. Un decennio dopo, fra il 7 e il 14 giugno 1914, diversi focolai politico-sociali in diverse parti d’Italia – anche in Emilia Romagna – raggiunsero il punto apicale nella cosiddetta Settimana rossa che precedette il Primo conflitto mondiale. La scintilla, infatti, che scatenò la reazione popolare e operaia, ebbe origine ad Ancona, domenica 7 giugno 1914. Nei locali del circolo repubblicano “Villa Rossa”, una compagine politica “mista” composta da repubblicani, anarchici e socialisti, ospitarono un comizio antimilitarista, contro le famigerate “Compagnie di disciplina” dell’esercito e protestando per le sorti del soldato bolognese Masetti, inviato in un manicomio criminale a Imola per avere sparato contro il proprio colonnello all’inizio dell’impresa libica, e Antonio Moroni che per le sue idee anti-militariste, subì un destino analogo, subendo sevizie in una Compagnia di disciplina dove era stato coscritto. L’intenzione, nemmeno troppo celata, era quella di dirigersi in corteo a piazza Roma per protestare contro le celebrazioni della Festa dello Statuto, “accarezzata”, storicamente, dai favori liberali e monarchici. Per impedire il passaggio del corteo, le forze dell’ordine spararono sulla folla causando una decina di feriti e tre morti: due giovani repubblicani – Nello Budini, appena diciassettenne e Antonio Casaccia, di soli ventiquattro anni – e un anarchico, il ventiduenne Attilio Giambrignoni. La notizia raggiunse rapidamente tutte le principali città e territori italiani – da Milano, Torino, Roma e Bologna, a Parma, Reggio Emilia, Ravenna e Forlì – sollevando una reazione a catena di rabbia e indignazione. La “battaglia” delle idee, era appena iniziata. SEGUE DA PAG. 1 considerazioni storiografiche di Mario Di Napoli La vicenda storica della Settimana rossa sta a testimoniare che il solo potenziale rivoluzionario che nell’Italia monarchica sia stato vivo è quello che non si distaccava dalla tradizione risorgimentale ma ne traeva anzi alimento, tenendo insieme questione sociale e questione istituzionale, come del resto era avvenuto anche per i fasci siciliani ed i fatti di Lunigiana. La sostanziale astrazione che da quella tradizione operò il partito socialista, sia nella versione riformista che in quella massimalista, finì per isolare i successivi moti post-bellici del cosiddetto “biennio rosso” dal resto della società, consentendo al nascente fascismo il facile gioco di strumentalizzarli per demolire il già fiacco Stato liberale che i venti di guerra avevano definitivamente compromesso. In tale ottica, si può concludere che la Settimana rossa fu un’occasione storica perduta per una rivoluzione italiana da sinistra. Quella da destra avrebbe invece di lì a pochi anni vinto senza quasi combattere! Dobbiamo ringraziare tutti i sottoscrittori per la partecipazione a sostenere le spese; una particoalre citazione la rivolgiamo alla Direzione Nazionale della Associazione Nazionale Mazziniana Italiana A.M.I. ed al Centro Cooperativo "Pensiero e Azione” di Senigallia per il loro generoso sostegno. Pag. 5 CENTENARIO DELLA SETTIMANA ROSSA 7 GIUGNO 1914 7 GIUGNO 2014 Cento anni fa: la Settimana rossa SEGUE DA PAG. 1 Fine di un’epoca... di Luigi Lotti entusiasmanti, tanto frutto di speranze quanto infondate. E oltre alla Romagna le manifestazioni che esplosero in varie città italiane indicarono un’esasperazione fortissima e una determinazione inedita: nessuna assunse aspetti insurrezionali come in Romagna, ma di tale inattesa virulenza da sospingere le forze dell’ordine all’uso delle armi e all’uccisione di altri tredici dimostranti oltre ai tre di Ancona. L’atteggiamento del governo agli occhi dei rivoltosi fu ancora più stupefacente: perché fu colto di sorpresa, ma non si allarmò affatto, considerando gli eventi come gravi ma non particolarmente pericolosi per palese mancanza di possibilità di sviluppi e di un piano operativo e perché frutto di una spontaneità disorganica; e comunque perché erano eventi riconducibili nell’ordine senza uso drastico delle forza, ma solo con l’opportuno spostamento di reparti di truppa per ripristinare l’autorità dello stato con la sola presenza. Così ad Ancona, ove reparti furono portati dalla marina militare per ovviare ai ritardi provocati dalla sciopero ferroviario; così in Romagna, dove peraltro l’euforia iniziale si spense presto alle prime cocenti smentite, sancite poi dalla cessazione dello sciopero generale decisa dalla Confederazione del Lavoro. Ma oltre al cauto atteggiamento del governo fu ancor più sorprendente per i rivoluzionari vedere le popolazioni cittadine acclamare le forze dell’ordine, nonché l’improvvisa comparsa di manifestazioni giovanili inneggianti alla patria e all’esercito. Ovviamente le ire dei rivoluzionari si scatenarono contro la Confederazione, ma erano solo alibi ad un fallimento inevitabile e incombente. D’altra parte era impensabile e assurdo che i nuclei rivoluzionari potessero fare affidamento sulla maggiore organizzazione del lavoro in Italia, che era anche la roccaforte del riformismo graduale. Tutti si impegnarono a magnificare la vastità e la forza del movimento che esprimeva un autentico e profondo anelito di rinnovamento democratico. Pensarono che fosse stato comunque il preludio ad un rilancio successivo. Anche Mussolini intitolò sull’Avanti “Tregua d’armi” l’annuncio della fine dello sciopero; del resto egli era sicuro che il moto sarebbe stato schiacciato, ma che dovesse essere una “giornata storica” foriera di avvenire. L’Italia ufficiale aveva vinto; ma restava il quadro drammatico di un’ Italia divisa e contrapposta. Quale futuro l’aspettasse nessuno poteva saperlo. Al momento era vincente la Stato risorgimentale garante dell’ordine e dei valori di libertà da cui era nato e che stava gradualmente proiettandosi verso trasformazioni democratiche; ed era perdente la vocazione rivoluzionaria, sospinta da finalità plurime ma ora con forte accentuazione di quella classista. Ma quindici giorni dopo la settimana rossa fu ucciso a Sarajevo l’erede al trono dell’Impero austro-ungarico e un mese più tardi scoppiò la prima guerra mondiale. Tutto il quadro politico italiano ne fu stravolto dal dilemma fra interventismo e neutralismo, sia fra quanti si riconoscevano nello stato sia fra quanti si erano riconosciuti nelle aspettative rivoluzionarie. Più ancora l’intera Europa si avviò inconsapevolmente verso il proprio suicidio tramite il turbine della guerra, e poi dei regimi autoritari e della rivoluzione russa che avrebbero condizionato la storia del ventesimo secolo. di Gwenola Spataro A distanza di mezzo secolo dall’unica monografia sul tema – quella di Luigi Lotti – un nuovo libro presenta una ricostruzione ampia e diversificata di quel moto di agitazione, scioperi e contestazioni verso lo Stato liberale che esattamente un secolo fa mise a dura prova il nuovo governo guidato da Antonio Salandra. Si registrarono 17 morti e centinaia di feriti; un generale dell’esercito consegnò la propria spada ai manifestanti e un viceprefetto cedette i poteri all’esercito senza avvisare preventivamente il ministero dell’Interno; si susseguirono lungo tutta la penisola notizie vere e altre completamente destituite di fondamento come la fuga del monarca e la proclamazione della repubblica. Insomma c’era proprio bisogno di rinfrescare la storia e la memoria di quella che da allora in avanti è stata chiamata la Settimana rossa e lo fa opportunamente questo volume collettaneo (La Settimana rossa, a cura di Marco Severini, Aracne, Roma 2014, pp. 415) appena uscito e presentato, lo scorso maggio, al XXVII Salone Internazionale del Libro di Torino.L’opera è stata realizzata da ventuno studiosi che, sfruttando un vasto materiale archivistico, pubblicistico e documentario (in buona parte inedito), presentano una ricostruzione organica e minuziosa della genesi, dello sviluppo e delle conseguenze - specie sul terreno politico, civile e memoriale - degli eventi del giugno 1914. Rossa viene dal soprannome dato comunemente alla villa anconetana di via Torrioni dove si trovava la sede del circolo repubblicano “Gioventù ribelle” in cui si svolgevano dibattiti e discorsi politici e da dove è scaturito il moto insurrezionale: l’aggettivo rossa, inoltre, si riferisce sia alle bandiere rosse che campeggiarono dai balconi di molte città in quei giorni drammatici sia al sangue versato durante le risse contro le forze dell’ordine. Nella prima parte del volume sono analizzati gli eventi del giugno del 1914, a partire dagli eccidi compiuti ad Ancona e nel resto del Paese. In questa storica settimana (7-14 giugno 1914) si sono distinte personalità come Pietro Nenni, esponente repubblicano e direttore del giornale “Lucifero”; Errico Malatesta, leader anarchico e penna infuocata del periodico “Volontà”; il socialista massimalista Benito Mussolini direttore de “l’Avanti!”. Solo i primi due, però, hanno partecipato attivamente alla Settimana rossa ad Ancona, mentre il terzo è rimasto a Milano, giocando un ruolo – come già scrisse Renzo De Felice – sostanzialmente secondario. Il contesto storico dei dieci primi anni del Novecento era perturbato. C’erano scioperi importanti, manifestazioni, un malcontento generale. Il premier Giovanni Giolitti aveva rassegnato le dimissioni il 10 marzo 1914; giungeva, dopo una fitta rete di consultazioni, alla presidenza del Consiglio il conservatore pugliese Antonio Salandra. Ad Ancona, il 7 maggio 1914 - giorno della festa dello Statuto - , a Villa Torrioni si tenne un comizio in cui Nenni e Malatesta arringarono davanti a centinaia di persone, parlando l’uno contro il militarismo e l’altro contro i propositi dell’ “Avanti!”. Nel tardo pomeriggio, la forza pubblica impedì ai manifestanti di raggiungere la piazza centrale del capoluogo marchigiano in cui si A stava suonando la marcia reale. Cominciò allora una rissa. I carabinieri sentirono un colpo di rivoltella e si misero a fare fuoco sui manifestanti: persero la vita i giovani repubblicani Nello Budini e Antonio Casaccia e l’anarchico Attilio Giambrignoni (in realtà Ciambrignoni, ci informa il libro). Nell’arco di poco tempo la notizia fece il giro d’Italia e, in segno di protesta, il Psi, la Cgdl e il Sindacato ferrovieri proclamarono lo sciopero generale. Oltre alla ricostruzione dettagliata degli avvenimenti di quella drammatica settimana, la prima parte dell’opera è dedicata all’analisi della sovversiva – anarchici, repubblicani e socialisti fecero fronte comune contro il governo, ma il loro scopo non era lo stesso; i malatestiani volevano abbattere lo Stato, mentre i socialisti volevano riformarlo -, del ruolo della stampa attraverso diverse testimonianze, del dibattito parlamentare e della dimensione processuale. Il repubblicanesimo, che aveva da poco ratificato la “scelta di sinistra” patrocinata dai giovani dirigenti marchigiani Conti e Zuccarini (segretario del Pri) e sostenuta dal direttore del «Lucifero» Nenni, giocò un ruolo di primo piano nei fatti di giugno, anche se si espresse attraverso forme e modalità diverse da località a località: Nenni fu con Malatesta il protagonista degli eventi anconetani successivi all’eccidio del 7 giugno; il militante Antonio Magrini, nato a Roma e radicatosi dal 1907 nelle Marche, primeggiò negli eventi di Senigallia e del suo circondario; in altri casi, i leader repubblicani locali mediarono tra la forza pubblica e le frange più violente dei manifestanti, evitando pericolose conseguenze. Conclusi gli eventi sovversivi, la stampa ricordò per qualche tempo l’anniversario, ma presto gli avvenimenti scomparvero dalle colonne dei giornali. Con il trascorrere del Novecento – e la crisi della politica – si è parlato sempre di meno della Settimana rossa anche perché questa fu seguita, tre settimane dopo, dallo scoppio della prima guerra mondiale. Un disegno di legge per la nomina di una Commissione parlamentare d’inchiesta venne presentato per condannare i colpevoli degli eventi di giugno. Però, poco dopo, il Parlamento smise di interessarsi della vicenda. Sul piano giudiziario, dopo le denunce inoltrate dall’autorità di Pubblica sicurezza alla Procura di Ancona e i numerosi mandati di arresto spiccati, l’amnistia concessa il 30 dicembre 1914 da Vittorio Emanuele III in seguito alla nascita della sua ultimogenita liberò i detenuti per i fatti di giugno. La seconda parte dell’opera si occupa del contesto internazionale, esaminando, altresì, una figura importante come quella di Filippo Corridoni; altre pagine documentate e non meno rilevanti si occupano del ruolo giocato dal Sindacato ferrovieri, dalla massoneria nel tramonto dell’età giolittiana e della risposta cattolica a quel drammatico episodio. Negli Stati Uniti e in Inghilterra, nello stesso frangente, si verificarono lotte operaie e proteste contro lo Stato. Figura rilevante del movimento operaio americano fu Eugene V. Debs, fondatore del movimento sindacalista. Nel 1905, è stato fondato il Partito mondiale dei lavoratori industriali da Williams Haywood e Mary “Mother” Jones. In Inghilterra, l’emblema socialista fu Robert Blackford. La terza parte si focalizza sulle periferie italiane interessate dalla Settimana rossa: la Romagna che condivise con l’Anconetano il carattere insurrezionale del moto; l’Emilia, con un capitolo particolare, molto documentato, su Parma; Roma e Firenze; Torino, Genova e il Nord-ovest; Milano e il Nord-est e per finire, nel Sud, Napoli e Palermo. Al di là delle Marche e della Romagna, nel resto del Paese si verificarono consistenti proteste, il blocco delle comunicazioni ferroviarie e dei giornali, l’astensione lavorativa e numerosi scioperi. Ma alla fine, tutto tornò alla normalità. Il volume, che si conclude con una parte concernente la dimensione biografica e storiografica della Settimana rossa, presenta una serie di elementi indubbiamente innovativi: la rivisitazione attenta e minuziosa dei percorsi biografici di protagonisti e comprimari; l’analisi circostanziata delle principali periferie coinvolte nel moto, del modo con cui giunsero agli eventi sovversivi e delle conseguenze che questi ultimi ebbero sulla lotta politico-amministrativa; una narrazione degli eventi calata in un contesto storico e storiografico più ampio e problematico; lo sviluppo di orientamenti di studio aggiornati alla più accreditata storiogragfia (il ruolo delle donne; l’eco della stampa; i rapporti centro-periferia; i riflessi delle lotte operaie in Europa e negli Stati Uniti, etc.); il supporto di ineludibili strumenti di storicità (come l’accurato indice dei nomi che invece mancava nel lavoro di Lotti). La Settimana rossa fallì per mancanza di coordinamento e di gestione tra le anime del sovversivismo italiano, ma molti italiani si convinsero che fosse giunta l’ora della rivoluzione; si sbagliavano perché – come afferma in più parti l’opera – sarebbero presto caduti vittime, nei più diversi sensi, di una tragedia ancora più grande e assurda che avrebbe cambiato radicalmente il corso della storia. ANCONA CITTA’ RIBELLE di Gilberto Piccinini I tumultuosi avvenimenti del giugno di cento anni fa costituirono il momento più alto di un periodo, almeno un quindicennio, in cui scioperi e manifestazioni di piazza avevano segnato la vita cittadina come tangibili testimonianze di una realtà sociale e politica in fermento, quasi sempre imposti da crisi economiche e di sistema, rispetto alle quali non c’erano state adeguate risposte da parte delle istituzioni locali e nazionali. E l’unico mezzo, ritenuto il più efficace a ogni occasione, fu intravisto nell’uso della forza e della repressione poliziesca, con il continuo rinvio a tempi migliori di opportune decisioni per affrontare di petto la disoccupazione e la miseria della popolazione. Ancona conobbe un processo di industrializzazione lento nel primo trentennio dopo l’unificazione e le nuove imprese avevano continuato a sorgere attorno a quella che era stata per secoli la prima occasione di ricchezza, ovverossia lo scalo portuale, nei cui confronti lo stato unitario non seppe mai compiere la scelta se farne un punto di forza degli scambi commerciali o una base navale delle forze armate. La stessa vicenda della presenza in Ancona della Marina militare o degli altri organismi dell’esercito, sul ruolo dei quali non ci si può soffermare oltre, ne è stata buona testimonianza. Gli stessi scambi commerciali dipesero a lungo dal trasporto delle derrate agricole e del carbone, primaria fonte energetica per gli usi civili e industriali. La crisi dell’ultimo decennio dell’ottocento che si aggravò sempre più man mano che s’intravvedeva il passaggio al XX secolo, aveva dato luogo a forti sommosse popolari, già nel gennaio del 1898, con qualche mese d’anticipo su quanto avverrà a Milano nel maggio successivo, quando il generale Bava Beccaris ordinerà alle truppe di sparare sulla folla tumultuante al grido di “pane e lavoro!”. Anche in Ancona la rivolta era stata dettata I dalla fame e l’unica risposta dei ceti dirigenti era stata quella di riversare le colpe su anarchici e socialisti. In quell’occasione pochi avevano visto giusto nella valutazione della presa dell’anarchismo sul mondo operaio e dei sempre più consistenti consensi raccolti da Enrico Malatesta, con le sue frequenti presenze in città. L’indifferenza o incapacità dei governanti portò a nuove sollevazioni popolari nel dicembre del 1905, quando ancora gli scioperanti furono costretti a scendere in piazza contro i rincari dei prezzi dei generi di maggior consumo. Moti popolari, questi ultimi, attraverso i quali si manifestò pure il disagio creatosi fin da quando, appena entrati nel nuovo secolo, aveva incominciato a incepparsi la macchina comunale a causa dei contrasti politici che avevano portato a frequenti passaggi di mano tra sindaci, giunte e commissari prefettizi, con la conseguente assenza di governo della città e del territorio. Tra il 1900 e il 1914, Ancona registrò il transito di 10 sindaci e 8 commissari prefettizi e, ovviamente, ad ogni dimissione del sindaco aveva fatto seguito lo scioglimento del consiglio comunale e il richiamo dell’elettorato alle urne. Un elettorato più che mai in subbuglio conteso tra le vecchie forze conservatrici del partito liberale, rinvigorite dal ritorno e dalla rapida ascesa al governo di Giovanni Giolitti, da una sempre più forte presenza di socialisti, repubblicani e anarchici, via via che s’allargò l’elettorato. Ma c’è da tener conto pure del ruolo dei cattolici, organizzati e rafforzati sul piano politico dalla lezione murriana della prima democrazia cristiana, che in Ancona ebbe successo e crescente numero di consensi attraverso l’organizzazione di validi circoli e associazioni dove si trattavano argomenti attinenti al lavoro, al credito, all’educazione, all’emancipazione femminile e quindi si curava in modo particolare una qualificata preparazione alla vita politica. Un’attività che aveva trovato modo di farsi conoscere attraverso un giornale, “La Patria” e il sostegno di un vescovo, il cardinal Manara, prossimo al Murri e ai modernisti. Una breve stagione che non andrà oltre il 1907, destinata a tramontare dopo la morte di papa Leone XIII, e l’ascesa al pontificato di Pio X, la quasi contemporanea morte del cardinal Manara e l’avvento di Giovan Battista Ricci, uomo più attento agli indirizzi vaticani, che volle la chiusura de “La Patria”, l’allontanamento di Murri e poi, da ultimo, la sua sospensione “a divinis”. Tali fatti porteranno a una serie di provvedimenti contro uomini di chiesa e laici ritenuti d’idee e di principi troppo rivoluzionari all’interno del mondo cattolico. Ma le repressioni non significarono il cedimento in blocco dei cattolici che continueranno, comunque, seppure a ranghi ridotti, ad occuparsi di politica e a fiancheggiare il ceto liberale fino a trovare una nuova energia dopo l’accordo intervenuto tra il liberale Giolitti e il cattolico Gentiloni, che permetterà di superare il non expedit di Pio IX e la possibilità, quindi, per i cattolici di concorrere al seggio parlamentare nelle elezioni politiche del 1913. Quella tornata elettorale, lo ricordiamo, fu la prima a suffragio universale, alla quale poterono partecipare tutti i maschi, senza limiti di censo, ossia di reddito, ma che escludeva ancora le donne, destinate a rimanere lontano dalle urne fino al referendum istituzionale del 2 giugno 1946, attraverso il quale gli Italiani scelsero la nuova forma istituzionale della Repubblica. Il suffragio universale era stato considerato una vittoria che a livello comunale aveva portato, però, all’elezione di un Sindaco, l’avv. Veschi, debole di fronte alle pressioni dei suoi sostenitori liberalcattolici. Veschi non restò a lungo alla guida del Comune e fu, a sua volta, sostituito da un commissario prefettizio, al quale toccò il compito di far fronte alle principali questioni che resero bollente la primavera del 1914. Difatti si fecero sentire con i toni più forti i contrasti tra le ali del socialismo riformista e quelle rivoluzionarie nel corso del XIV congresso nazionale del PSI, che si tenne in Ancona dal 26 al 29 aprile, e che vide vincitrice i rivoluzionari capeggiati da Benito Mussolini, da poco più di un anno direttore dell’Avanti. Anche i repubblicani in quei mesi si trovarono di fronte a difficili scelte e non poco si sentì la voce del direttore del loro storico giornale “Lucifero”, Pietro Nenni. C’erano in campo anche le prime agguerrite formazioni di nazionalisti che avevano mostrato la loro forza ancor prima dell’intervento italiano in Cirenaica e più ancora nel periodo del conflitto, ideologicamente preparati anche dalle ripetute presenze in città di Gabriele D’Annunzio. Tra le poche realizzazioni avviate nei tre lustri d’inizio secolo, si possono ricordare i programmi di sviluppo edilizio oltre la cinta muraria cinquecentesca nella piana degli orti, agevolati dall’approvazione, nel 1903, di un piano regolatore. In quelle aree sorgerà il nuovo Ospedale, iniziato nel 1906 e inaugurato nel 1911, il quartiere per gli impiegati, che assumerà la denominazione di “Adriatico”, e poi, dal 1913, saranno avviati i lavori per il tracciato del viale Adriatico (ora viale della Vittoria), giunto a completamento nell’arco di venticinque anni, in piena era fascista. Quasi in contemporanea sorsero le nuove abitazioni di edilizia popolare nelle periferie, forti delle agevolazioni fiscali approntate con la legge Luzzatti del 1903. Altri interventi riguardarono l’edilizia scolastica nel centro urbano e nelle frazioni; la realizzazione dell’acquedotto pubblico ultimato tra il 1910 e l’11; un generale riassetto della viabilità urbana ed extraurbana, con la progettazione della filovia per Falconara, adatta a poter cogliere le nuove opportunità di lavoro e di sostentamento offerte dalla balneazione sulla spiaggia di Palombina. Pag. 6 7 GIUGNO 1914 CENTENARIO DELLA SETTIMANA ROSSA 7 GIUGNO 2014 Quelle tre giovani vite sulla bilancia della storia Ancona ed il Mediterraneo a fine ‘800 Brilla da Ancona la fiammella della rivoluzione di Luca Guazzati La situazione politica, il “sentire comune” in una città come Ancona fra 1914 e 1920 sono indicativi di un grande cambiamento. Dapprima gli entusiasmi per i fatti nazionali, poi l’ascesa di un certo Mussolini, della sua rivoluzione e quindi della legge fascista. In tal senso, fra la Settimana Rossa e la guerra, l’ambiente di Ancona è scaldato da rivolgimenti epocali. Le forze d’opposizione e sovversive prendono forza. Formano alleanze insospettabilmente salde che si allargano via via. La vicenda di Domenico Pacetti deputato e sindaco, rispecchia il delicato divenire dei massoni. Così, il deciso “scivolare” dei repubblicani e gran parte dei socialisti, verso nazionalismo e interventismo. Non ultimo c’è l’Anarchismo, ancor più estremista, contro “birri”, blasone, regole e monarchia, ad interpretare lo scontento di massa. Malatesta è amato dagli anconetani perché dice senza mezze misure che la guerra se la possono permettere i ricchi, che i governi tolgono diritti e beni ai cittadini, che i preti hanno perduto ogni missione educativa. Ad essere messa all’indice è per prima la massoneria. Al Congresso Socialista di Ancona, il 27 aprile 1914, l’inconciliabilità e la divergenza secondo il giovane Mussolini diventano incompatibilità, pericolosità, addirittura vigliaccheria… dentro il partito socialista. E’ il prodromo delle leggi fasciste che vieteranno anche il libero pensiero. Il 1914 fu un anno molto particolare per Ancona. Dopo poche settimane dal Congresso Socialista, il 7 giugno, festa dello Statuto, anarchici e repubblicani protestano a Villa Rossa contro le punizioni inflitte ai soldati Masetti e Moroni rifiutatisi di partire per la Libia. Notabili e alta borghesia stavolta non stanno alla porta e si schierano per la sommossa chiamando a raccolta le forze tradizionalmente vicine: ex garibaldini, repubblicani, socialisti, intellettuali progressisti, fianco a fianco in piazza, con gli anarchici. E’ qui il punto di incontro dei facinorosi seguaci di Malatesta con i prìncipi del Foro dorico. Da Vecchini allo stesso Marinelli che difenderà da legale gli accusati della Settimana Rossa. La protesta di strada si organizza e muove verso Villa Rossa, in quel funesto giorno. I disordini crescono, il “birro” si sente minacciato, spara. Restano sul selciato tre giovani vite. I capi della L rivolta sono anarchici, repubblicani, garibaldini. Una forza crescente, sovversiva, minacciosa… ma ancora magma indefinito. Mussolini lo vede subito. E frena l’onda rivoluzionaria dei suoi, con intuizione da grande stratega. I socialisti rimangono indietro, indecisi sull’appoggio ulteriore ai moti di piazza. Ma i sindacalisti non raccolgono il messaggio sovversivo… facendo fallire sul nascere lo sciopero generale, che doveva dare il via alla rivoluzione nazionale. Lo stesso Mussolini è già verso quell’interventismo nazionalista che sarà del nuovo fascismo. Oddo Marinelli, giovane avvocato, attivista repubblicano, diventa protagonista da Ancona a livello nazionale. La sua storia segna quella della massoneria dorica dove ricopre tutte le cariche. Torna poi a segnare il passo, nell’anonimato, dopo la serie di fallimenti inanellata con ultima proprio l’insorgenza di Ancona, l’Anarchismo. I suoi leader incarcerati, perseguitati, additati, precipitano nel buio. Al contempo il contrasto fra riformisti e rivoluzionari si manifesta più forte e finisce nella confusione di orientamenti ed indirizzi alimentata dal sistema politico giolittiano. E’ in crisi tutta la concezione liberal democratica. Infine, l’accolita sovversiva dei “rossi” trova per la prima volta la resistenza “bianca” del movimento cattolico e dei popolari. In questo momento la radicalizzazione mancata dell’insurrezione causa il distacco dalle forze democratiche, moderate e liberali, di nuove correnti nazionaliste. Una crisi che evidenzia limiti e carenze delle forze anarcosindacaliste e rafforza la convinzione che ci sia bisogno di nuove prove di forza, per dirla alla Mussolini. La guerra di Libia ne era stata un primo esempio. Poi, verrà l’irredentismo, a scaldare quegli animi e quindi, il buio periodo della grande guerra. Su Lucifero appaiono inni alla certezza della vittoria. La necessità di dichiararsi ed agire da “oltranzisti” – parole di Marinelli – per sconfiggere la Germania che nega le virtù personali e collettive. Ma ancora più aperta e palese è la tendenziale simpatia dei repubblicani per l’interventismo, quando lontani e al fronte sono personaggi come Zuccarini, Conti e Pergoli. Nenni, Gabani e Marinelli, nel maggio 1915, guidano un altro corteo minaccioso, proprio interventista, fin sotto Villa Rossa. Gli ideali sono ormai del tutto cambiati. I di Nicola Sbano In questo numero speciale de Il Lucifero, da più autori di contributi si fa riferimento alla spedizione italiana di Libia del 1911, grande regione nordafricana allora ricompresa nei confini dell’Impero ottomano, che valse, usando l’immagine pascoliana, alla grande Proletaria la conquista di una colonia. Il ricordo di questo fatto storico ha fatto riaffiorare alla mia memoria una ricerca fatta vari anni fa su due avvocati iscritti all’Ordine di Ancona dagli ultimi anni del secolo XIX sino agli anni ’20 del successivo, ma residenti stabilmente uno, Enrico Lusena, a Il Cairo ed il secondo, Elio Martinetti, ad Alessandria d’Egitto. Ebbi così l’occasione di cercare di spiegare il motivo di queste inusuali iscrizioni. Con legge consolare del 1858, il Regno di Sardegna costituì presso le sedi consolari di città di altri Paesi che vedevano la presenza di importanti comunità italiane di emigranti, tribunali consolari presieduti dal console che, coadiuvato da due cittadini meritevoli della comunità residente, avevano la competenza sulle controversie civili che potevano insorgere tra emigrati italiani e sui reati che essi potevano commettere anche contro non italiani. Come intuibile, questa giurisdizione aveva una antica storia, risalente alle Capitolazioni stipulate nel XVI secolo tra Solimano il Magnifico e il Re di Francia. Tagliando il molto che sarebbe da illustrare, debbo dire che le sentenze civili e penali emanate dai tribunali consolari delle città mediterranee dell’Impero Ottomano (Il Cairo, Alessandria d’Egitto, Porto Said, Smirne, Costantinopoli, Salonicco, salvo altre città), erano impugnabili avanti la Corte di Appello di Ancona e questo già spiega la ragione della iscrizione all’albo Avvocati della città, di due avvocati esercenti la professione in Egitto e colà residenti.Accertai anche che un professore dell’Università di Urbino, Piergiacomo Magri, storico del diritto, circa vent’anni prima, primi anni ’90, aveva promosso lo studio e la catalogazione delle sentenze rese in grado di appello dalla Corte di Ancona, con la collaborazione del giovane studioso Enzo Fimiani, ora direttore della Biblioteca Provinciale di Pescara. La lettura dei dispositivi mi consentì di conoscere non solo i reati addebitati e la qualità delle persone processate, tutte italiane, ma anche quali fossero la provenienza, la vita e le sofferenze dei nostri emigranti stabiliti in città nordafricane o del Medio Oriente. L’eccellente lavoro diretto dal professor Magri ha messo in luce uno spaccato della esistenza e della composizione sociale di queste comunità, fornendo informazioni di eccezionale interesse, sinora ignorate o inspiegabilmente trascurate dagli storici sociali e dai sociologi. La storia è sempre stata molto complessa e non può essere fatta a colpi di buonismo semplicione, con senno del poi, ignorando le situazioni e le condizioni del tempo ed in particolare cos’era la Libia agli inizi del XX secolo, chi la popolava e quale fosse la sua società, quale fosse all’epoca la nostra migrazione nel Mediterraneo, da Salonicco a Malta, da Smirne ad Alessandria d’Egitto ed a Tunisi, che non sembra affatto affermativa di spirito di conquista, ma mossa da necessità di lavoro, da realizzare nello spirito di una koinè mediterranea. In questa molte comunità italiane, prevalentemente di diseredati, hanno il cercato il loro posto al sole. Ricordo che questa migrazione verso città del Mediterraneo è stata imponente, con centinaia di migliaia di nostri concittadini sparsi ovunque, anche in Paesi diversi dall’Impero Ottomano; questo mi ha convinto che la guerra di Libia del 1911 non sia insorta per motivazioni semplicemente coloniali e nazionalistiche, ma da ragioni più complesse e popolari che hanno visto sensibili sia la piccola borghesia produttiva del Nord d’Italia, sia i proletari del Mezzogiorno e tali da dividere in Parlamento sia i liberali, sia i democratici italiani sia la sinistra. La lettura del lavoro mi ha dato anche un’altra sorpresa, avendo come appendice una raccolta delle notizie relative all’Africa pubblicate da “Il Lucifero” tra il 1871 ed il 1921. Fra le notizie pubblicate appaiono necrologi e commemorazioni di repubblicani combattenti nelle guerre di indipendenza, residenti e morti ad Alessandria d’Egitto o a Il Cairo, sottoscrizioni “a soccorso alla stampa repubblicana” di repubblicani mazziniani residenti nelle due città con i nomi dei donatori, lettere sulle e dalle “colonie” italiane di Tunisi e di Cipro, articoletti su processo penale deciso dalla Corte di Appello di Ancona a carico di un “innocente” repubblicano residente in Egitto, difeso avanti la Corte da un avvocato di Ancona; proteste contro la giustizia italiana e la stampa filomonarchica; prese di posizione sulla spedizione militare in Eritrea; lettere di delusione di “ex africanisti convinti”; notizie di conferenze organizzate dai circoli “I democratici cairini” e “Giuseppe Mazzini” di Alessandria; la commemorazione del defunto oratore della Loggia cinque giornate de Il Cairo, di cui una tenuta da un altro avvocato di Ancona; ironici articoli contro la festa da ballo tenutasi a Massawa per il compleanno della regina Margherita e contro il generale Barattieri; lettere di condoglianze e di sottoscrizioni per la morte del deputato repubblicano di Ancona Domenico Barilari; articoli contro le avventure coloniali ed altro. La persistenza e l’intensità del rapporto con la madrepatria ed anche con Il Lucifero da parte degli emigrati appaiono stupefacenti. Per chiudere, ricordo che la Corte di Appello di Ancona si occupò anche del processo a carico dell’anarchico romagnolo Amilcare Cipriani, colonnello della Comune di Parigi, già in rapporti con Mazzini ed Andrea Costa, già condannato per triplice omicidio dal Tribunale Consolare di Alessandria d’Egitto. Ma riproporre questa complicatissima vicenda in questa sede non è possibile, anche se il triplice omicidio è avvenuto in seno alla grande comunità italiana alessandrina. Il popolo della “Settimana rossa” Fabriano 7-14 giugno 1914 di Giancarlo Castagnari Ai lamenti di miseria La tirannide borghese Ci risponde con le offese E col piombo militar (Da un inno repubblicano di A. Scocchi del 1903) I Il centenario della “Settimana rossa” induce ad approfondire la conoscenza della realtà degli anni a cavallo dei secoli XIX e XX ed in particolare del primo quindicennio del Novecento che si identifica con l’età giolittiana. La storiografia del periodo indicato ha prodotto divergenti e interessanti interpretazioni, alimentate da spunti di attualizzazione politica durante le rievocazioni per il cinquantesimo dello storico evento celebrato nel 1964.La “Settimana rossa” è stata oggetto anche di studi che hanno avuto lo scopo di giungere ad una ricostruzione storica obiettiva basata sulle fonti documentarie e sulle testimonianze disponibili. Questo risultato positivo è stato ottenuto da Luigi Lotti con la sua lucida e circostanziata monografia pubblicata dall’editore Le Monnier. Seguono gli studi di Enzo Santarelli: Aspetti del movimento operaio nelle Marche del 1956 e Le Marche dall’Unità al fascismo. Democrazia repubblicana e movimento socialista del 1964. Altri saggi monografici a cura di Gilberto Piccinini e Marco Severini sono riuniti nel volume La settimana rossa nelle Marche del 1996, inserito nella collana “Studi e ricerche”, edita dall’Istituto per la Storia del Movimento Democratico e Repubblicano nelle Marche, del quale fu primo presidente nel 1978 Max Salvadori. Di particolare interesse è la recente opera di Massimo Papini Ancona e il mito della “Settimana Rossa”data alle stampe nel dicembre 2013.La maggior parte della storiografia è quasi unanime nel riconoscere quella sommossa di popolo come lo sciopero generale più importante mai attuato nell’Italia unita, proclamato nelle Marche e in Romagna a seguito dell’eccidio di Ancona del 7 giugno 1914 ed esteso in tutta Italia: da Milano a Napoli, da Torino a Bologna, a Firenze , a Palermo. Infatti nelle principali città, ma anche nei piccoli centri della provincia italiana, repubblicani, mazziniani, sindacalisti anarchici, socialisti, radicali furono le componenti attive della insurrezione che unite dimostrarono la loro avversione alle istituzioni monarchiche, al militarismo regio, alle compagnie di disciplina dell’esercito, alla guerra, all’autoritarismo giolittiano, alla dilagante crisi economica, al fenomeno dell’emigrazione. Periodico repubblicano anarchico radicale e socilalista che si stampava a Fabriano Fu una rivolta unitaria e spontanea che vide la borghesia progressista e libertaria e il movimento operaio pronti a lottare per una società più libera, più giusta, democratica e repubblicana. Così accadde a Fabriano capoluogo dell’alto Esino nell’area appenninica delle Marche centrali. Un comune montano caratterizzato da un sistema economico diviso tra l’agricoltura povera della vasta campagna caratterizzata dalla conduzione mezzadrile e dalla parcellizzata proprietà terriera a coltivazione diretta e il centro urbano con poco più di 8.000 residenti su un totale di circa 25.000 abitanti, con una popolazione attiva dedita all’artigianato e con un’industria cartaria, la famosa cartiera Miliani, che impiegava quasi mille unità lavorative, di cui circa la metà donne, guidata da Giambattista Miliani, prestigioso leader dell’imprenditoria regionale e autorevole parlamentare di parte liberale. Al principio del Novecento anche a Fabriano si avvertano apertamente i fermenti che preannunciano un periodo di irrequietezza profonda del corpo sociale dovuta al corso politico impresso dal governo centrale, all’intensificarsi delle lotte sindacali e delle agitazioni agrarie, alla riorganizzazione delle forze cattoliche e all’azione dei partiti popolari; fermenti con effetti destinati a scuotere le fondamenta dello Stato liberale governato dalla figura carismatica di Giovanni Giolitti. Prendono consistenza il movimento anarchico, i partiti repubblicano e socialista difensori dei diritti dei lavoratori ed eredi di quella Confederazione Operaia Democratica che nel 1891, dopo aver riunito le società dei calzolai, dei pellai, dei fabbri, dei vasai e dei cartai, nelle elezioni amministrative del 1891 era riuscita ad eleggere tre suoi rappresentanti,permettendo per la prima volta l’ingresso dell’opposizione di sinistra in consiglio comunale. Nel 1914 a Fabriano i partiti popolari rappresentano la classe operaia e la media borghesia artigiana, in aperto contrasto con la ricca borghesia liberale, e amministrano il Comune con una Giunta presieduta dal Sindaco avvocato Michele Pagnani radicale, mentre il ceto rurale e contadino, orientato dal clero e dalle forze cattoliche, accentua la dicotomia tra città e campagna. Vivace e battagliero svolge una funzione di sostegno delle forze di sinistra il settimanale “il Popolare. Fondato nel 1909, diretto dall’anarchico Virgilio Virgili, è in contrapposizione con il cattolico “L’Azione”, che esce nel 1911 ad opera di don Agostino Crocetti. In un ambiente cittadino così sensibile ai problemi politico-sociali dell’epoca, orientato verso i partiti popolari, libertari e progressisti, la notizia dell’eccidio di Villa Rossa suscitò lo sdegno di gran parte del popolo fabrianese che spontaneamente aderì allo sciopero generale e divenne la protagonista delle manifestazioni e dei fatti che caratterizzarono l’infuocata settimana. Quegli uomini e quelle donne, abbandonato il lavoro nelle fabbriche, nelle officine, nelle scuole, nelle botteghe artigiane seppero assumere – come afferma anche “Lucifero” nella pagina dedicata a Fabriano del 7 giugno 1964 per ricordare e narrare i fatti della “Settimana rossa” – la responsabilità che il momento storico imponeva loro, tramutandosi da pacifici cittadini in accesi giacobini. In quei giorni essi divennero i diretti prosecutori della sinistra risorgimentale le cui idealità ed il cui programma tendevano non solo all’unità territoriale e politica d’Italia, ma anche alla rinascita sociale ed economica della nazione. L’insegnamento mazziniano postunitario concentrato sulla questione sociale favorisce il crearsi di un’atmosfera insurrezionale che nel popolo non si limitava ad un’azione prettamente protestataria e quindi velleitaria, ma si traduceva in rivoluzione per la conquista del potere, l’abbattimento della monarchia e l’instaurazione dello Stato repubblicano e democratico apportatore di giustizia sociale nella libertà. Dopo cento anni è difficile dare un giudizio su quei fatti più volte rievocati e viene spontaneo riconoscere che in quei sette giorni di sciopero prevalsero nella maggior parte dei protagonisti una grande ingenuità, un eccessivo ottimismo sulla riuscita della sommossa e sul trionfo della causa, appena contenuto da coloro che a capo dell’insurrezione, pur animati dagli stessi ideali della maggioranza dei dimostranti, seppero affrontare la situazione con maggiore realismo per impedire che altro sangue venisse versato. Ma forse quella fu una sacra ingenuità, quello un eroico ottimismo. Si deve però riconoscere quanto generoso fu quello slancio di popolo, quell’anelito di libertà, quel desiderio di instaurare la repubblica per creare una società nuova dove il mondo del lavoro potrà divenire parte essenziale e fondamentale del progresso sociale. Uno slancio e un anelito che qualcuno pagò con la propria vita come i giovani Antonio Casaccia, Attilio Giambrignoni, Nello Budini in Ancona e Nicolò Riccioni a Fabriano. Ora resta solo credere che il loro non fu un vano sacrificio. Pag. 7 7 GIUGNO 1914 CENTENARIO DELLA SETTIMANA ROSSA Le manifestazioni a Genova di Agostino Pendola G Gli avvenimenti della Settimana Rossa a Genova si concentrarono nei comuni industrializzati del Ponente (Sampierdarena e Sestri Ponente – che entrarono a far parte della Grande Genova solo nel 1926) e in misura minore nel capoluogo. Quasi a voler significare una predominanza dell’industria su quello che fino a quel momento era stato il maggior punto di confronto tra capitale e lavoro, il porto. Nel dicembre del 1900, in occasione dello scioglimento della Camera del Lavoro da parte del governo, lo sciopero si era diffuso dal porto all’intera città. Dopo tre giorni la Camera del Lavoro venne riaperta. La vicende ebbe una vasta risonanza perchè Luigi Einaudi, allora giovane giornalista, ne fece un fedele resoconto su La Stampa. L’anno seguente, i carbunin (gli scaricatori del carbone) furono protagonisti di uno sciopero che durò quaranta giorni, con il sostanziale disinteresse del governo. L’industrializzazione di Sampierdarena e Sestri Ponente risaliva a metà Ottocento, ma anche il movimento cooperativo vi era stato imponente. Al suo apice impegnava diecimila persone. Si trattava in gran parte di cooperative di ispirazione mazziniana, riunite attorno alla Società di Mutuo Soccorso Universale Giuseppe Mazzini e alla Società Anonima Cooperativa di produzione di Sampierdarena, che fabbricava, tra l’altro, caldaie e locomotive. Una presenza industriale importante, nella quale capitale e lavoro erano nelle stesse mani, che al suo apice, nel 1886, aveva anche espresso un deputato, Valentino Armirotti, il secondo parlamentare operaio italiano. Con l’inizio del Novecento i repubblicani erano stati soppiantati lentamente dai socialisti, portatori della lotta di classe che Mazzini aveva combattuto, e i conflitti si erano inaspriti. Anche nel Ponente genovese, come da altre parti in Italia, il giorno dello Statuto, 7 giugno 1914, aveva visto un affollatissimo comizio presso al Casa del Popolo nel quale erano intervenuti Mecheri per i Giovani Socialisti di Sestri, Dante Chiesserini dell’USI di Milano, Pasquale Binazzi de «Il Libertario» di La Spezia (nella foto), Fusi per la locale sezione socialista, Bisio per la Federazione Repubblicana Ligure. Venne approvato questo ordine del giorno: “I lavoratori di Sestri Ponente riuniti a comizio dal Circolo Giovanile Socialista colla adesione della CdL e dei partiti politici per esprimere in questo giorno, in cui la borghesia sta commemorando l’anniversario delle libertà statutarie contenute nella corte albertina, la propria protesta contro un governo liberticida e mistificatore che mantiene quella barbarie medioevale che sono le compagnie di disciplina, ammonisce il governo a rilasciare Augusto Masetti e Antonio Moroni e tutte le vittime del militarismo, tenendosi pronti ad una eventuale azione collettiva di tutto il proletariato italiano per il raggiungimento di tale liberazione e per la soppressione della compagnia di disciplina”. Un altro affollato comizio si svolse a LUCIFERO: “ICONA” LAICA DA CONSERVARE di Manlio Bovino C Ci eravamo posti l’obiettivo di Sampierdarena dove alcuni giovani operai realizzare, per il 7 giugno. un progetto: fischiarono ripetutamente la banda musicale ricordare un evento che, cento anni or Risorgimento che suonava la Marcia Reale. sono, ha segnato una data importante Appena si sparse in città la notizia dell’eccidio nella eterna lotta per l’emancipazione di Ancona le Camere del Lavoro presenti nel delle genti. Le pagine che sfogliamo, che trattano genovesato proclamarono ventiquattro ore di quasi in esclusiva la storia della Settimana sciopero generale; a Genova e Sampierdarena Rossa, sono la materializzazione del progetto. vennero convocati alle ore 16 del 9 giugno i Ma andiamo per ordine. Per prima cosa avevamo consigli direttivi delle organizzazioni esistenti bisogno di risorse economiche per affrontare le nelle due città e aderenti alle Camere del spese tipografiche e della spedizione postale del Lavoro, riunite in seduta comune a Genova, con giornale; abbiamo lanciato un appello, il risultato è lo “scopo di esaminare la situazione e prendere stato buono ma non sufficiente per affrontare tutte opportune conseguenti deliberazioni”. le spese. Ci sono venuti in aiuto le rappresentanze Lo Stabilimento Elettrotecnico materiali di quel mondo associativo da sempre vicino alle d’Artiglieria di Cornigliano entrò in sciopero il 9 nostre impostazioni: la Direzione Nazionale per restarci tre giorni fino all’11 giugno compreso della Associazione Mazziniana (AMI) e il Centro ; in sciopero anche lo Stabilimento Fonderie Cooperativo Mazziniano di Senigallia. Da molte e Acciaierie. Scrisse Il Secolo XIX, giornale parte d’Italia, comunque,ci sono giunti contributi in di parte industriale a proposito dei fatti di denaro. Repubblicani, Sampierdarena, mazziniani, laici e il 10 giugno: liberi pensatori ci “gli operai dello hanno fatto pervenire Stabilimento la loro partecipazione: A n s a l d o poco importa l’entità e n t r a r o n o dell’elargizione (grandi, tranquilli al lavoro piccole e minute cifre). quando poco Tutte assieme queste dopo arrivarono risorse, ci hanno davanti allo consentito di realizzare S t a b i l i m e n t o, la pubblicazione del preceduti da un Lucifero a otto pagine. numeroso branco Grazie è la sola parola di ragazzi, gli che riusciamo a dire scioperanti ma dietro a quella che tentarono Scioperanti dopo un comizio durante la “Settimana Rossa”. semplice espressione di entrare per c’è tutta la gratitudine far cessare il di una piccola struttura redazionale che ha lavoro. Furono affrontati da alcuni ingegneri e curato l’uscita del giornale. E’ significativo aver da due carabinieri che si trovavano lì presso raccolto una somma per avviare l’opera ed è una pattuglia. Gli scioperanti dopo una breve altrettanto importante che alla sottoscrizione discussione si allontanarono, ma giunti davanti abbiano partecipato, così numerosi, donne e al portone principale presero a spingere un uomini che non hanno vissuto direttamente vagone ferroviario che era fermo sul binario e lo gli avvenimenti che vengono narrati in queste fecero andare a dare di cozzo contro il portone colonne: rappresentano infatti la terza e quarta che all’urto violento venne spalancato … generazione dei protagonisti della storia rievocata. Intanto venne dato l’ordine di lasciare le Sono i figli, i nipoti e i pronipoti di coloro che hanno maestranze e in breve nello Stabilimento il partecipato direttamente ai tumulti scoppiati lavoro completamente cessò. Lo stesso avvenne dal 7 al 14 giugno dell’anno 1914 ad Ancona e negli Stabilimenti di Campi dipendenti dalla ditta che, comunque in qualche modo, l’hanno vista Ansaldo”. Velocemente com’era cominciato, nascere e svilupparsi. Vogliamo sottolineare con terminò. questo collegamento, tra il vecchio e il nuovo, il Le stessa sera del 10 giugno la Confederazione, legame tra le generazioni di repubblicani, i ricordi senza prendere contatto con il Partito Socialista, delle scelte politiche e le lotte dei padri e dei nonni comunicò la fine dello sciopero che l’Agenzia che hanno trovato continuità con i discendenti. Stefani trasmise in tutta Italia. Da notare nel sentimento filiale non solo il A Genova il giornale socialista Il Lavoro riportò rispetto per gli avi, molto diffuso nella famiglia l’ordine della CGdL, che sconfessava ogni tradizionale dello scorso secolo, ma anche la prosecuzione dello sciopero, ma le agitazioni permeabilità della predicazione mazziniana che continuarono per qualche tempo. poggia, oggi come allora, su valori etici, sociali Addirittura a Sampierdarena ci furono degli e sulla solidarietà.Parliamo ancora del Lucifero, abbozzi di barricate da parte dei sindacalisti, a antica testata fra i periodici politici che fiorirono Sestri Ponente si tenne un importante comizio in particolar modo nel 1800. Il nostro foglio, molto critico nei confronti dei riformisti. presente già nel 1870, ha accompagnato intere Alla fine furono registrati, tra Genova e i comuni generazioni di seguaci della scuola sociale limitrofi, 150 arresti. del mazzinianesimo, mantenendosi interprete SOTTOSCRIZIONI Lucianetti Oliviero di Ancona € 30,00 “In memoria di mio padre Marini” Cerra Pietro di Decollatura (CZ) € 25,00 Belegni Alessandro di Ancona € 10,00 Bedini Floriana di Ancona € 25,00 “In ricordo di nostro padre Bruno” Perucci Gianna di Ancona € 50,00 “Abbonamento anno 2014” Perfetti Guido di Pescara € 20,00 “In ricordo degli amici Galli F. e Merciaro G” Lucianetti Eugenio di Ancona € 30,00 “In memoria di mio padre” Nacciarito Fiorenzo di Falconara M. (AN) € 25,00 “Sottoscrizione 2014 - no al peronismo in gonnella” Rossini Nicola di Parma € 30,00 Associazione Mazziniana di Milano€ 100,00 “Sottoscrizione 2014” Nunzi Nunzio di Fermo € 10,00 Di Marcelli Luciano di Senigallia (AN) € 50,00 Bernardoni Silvano di Pavullo s. Frignano (MO) € 50,00 Ricciotti Mario di Ancona € 15,00 Avogadro Giovanni di Segrate (MI) € 30,00 Pezzi Vittorio di Cesena (FC) € 30,00 “Per continuare” Sartori Paolo di Ronchi dei Legionari (GO) € 20,00 Pettinari Giampiero di Senigallia (AN) € 20,00 Arrostuto Stefania di Cefalù (PA) € 10,00 “Abbonamento al periodico 2014” Borioni Lorenzo di Ancona € 20,00 “Lorenzo e Costanza in memoria del padre Antonio” Pettinari Marino di Filottrano (AN) € 50.00 Giampaoletti Mario di Cupramontana (AN) € 80,00 “Contributo al Lucifero” Paci Luciano di Ancona € 50,00 Gaeta Giovanni di Camerino (MC) € 50,00 Zema Nicola Angelo di Ascoli Piceno € 50,00 “Contr. Rievocazione Centenario Settimana Rossa” Balducci Franco di Ancona € 50,00 7 GIUGNO 2014 Sacchi Egisto di Mercatello sul Metauro (PU € 50,00 “Plaudio alla iniziativa, cari saluti all’amico Manlio” Mazzoli Roberto di Montecarotto (AN) € 10,00 Bernardini Federico di Ancona € 20,00 Nacciariti Fiorenzo di Falconara M. (AN € 50,00 “Contr. Numero Settimana Rossa” Sebastianelli Maurizio di Ancona € 50,00 “In memoria di mio padre Giancarlo” Bruni Leonardo di Senigallia (AN) € 25,00 Martelli Roberto di Castelraimondo (MC) € 15,00 Maffieri Mario di Roma € 30,00 “Per ricordare un mio Maestro del PRI – O. Zuccarini” Di Trapani Francesco di Fabriano (AN) € 70,00 Danieli Giovanni di Ancona € 50,00 Pasquali Ivo di Cotignola (RA) € 30,00 Chiozza Giuseppe di Sestri Levante (GE) € 20,00 Lattanzi Giulio di Castelsantangelo sul Nera (MC) € 50,00 Pettenati Paolo di Ancona € 50,00 Castagnari Giancarlo di Fabriano (AN) € 25,00 “Prima rata per Lucifero – speciale Settimana Rossa” Alessandroni Massimo di Ancona € 50,00 “Ricorrenza storica” Orciani Adelmo di Ancona € 30,00 “Quota sociale 2014” Cojutti Alberto di Udine € 50,00 “Contributo spese pubblicazione” Menotti Marco di Falconara M. (AN) € 10,00 Garibaldi Pietro di Leivi (GE) € 25,00 Galeazzi Renato di Ancona € 50,00 “Contr. Centenario Settimana Rossa” Giovagnoli Giorgio di Ancona € 30,00 Duranti Renato di Ancona € 10,00 Nunzi Nunzio di Fermo € 30,00 Calzolari Franco di Piombino (LI) € 20,00 “Per sostenere ancora questa voce che possa continuare ad uscire” Moroni Marcello di Ancona € 51,00 (In memoria di Moroni Renato e Burattini Bruna) Poliandri Umberto di S.Benedetto d. Tronto (AP) € 10,00 Di Luigi Marco di Roma € 25,00 Poggiolini Nicola di Modigliana (FC) € 50,00 “Contributo per numero speciale” Corduas Ggliola di Roma € 50,00 Balloni Valeriano di Ancona € 50,00 Dariani Luigi di Jesi (AN) € 25,00 Tittarelli Alberto di Ancona € 20,00 Bottiglieri Costantino di Ascoli Piceno € 20,00 Panfighi Carlo di Ancona “Pro P.R.I.” € 50,00 Un resto anonimo € 4,00 Giombi Elio di Ancona € 20,00 Carbini Pierpaolo di Serra de Conti (AN) € 50,00 Bernardoni Silvano di Pavullo s. Frignano (MO) € 50,00 Fiori Bindo di Falconara M. (AN) € 50,00 Orso Angelo di Falconara M. (AN) € 50,00 Guerrini Fabio di Castelfidardo (AN) € 50,00 Michelangeli Giacomo di S.Benedetto del T. (AP) € 20,00 “Per la vita di una voce repubblicana e mazziniana” Fogliardi Raffaele di Ancona € 10,00 Murri Lorenzo di Cisterna di Latina (LT) € 10,00 Marani Mauro di Saturnia (GR) € 15,00 Ientile Luigi di Genova € 25,00 Centro Cooperativo di Senigallia (AN) €500,00 “Sostegno alle celebrazioni Settimana Rossa” Di Marcelli Luciano di Senigallia (AN) € 50,00 Boni Romano di Roma € 20,00 “Per un autentico rilancio degli ideali mazziniani” Baccarini Alberto di Fiuggi (FR) € 25,00 “Per continuare a leggere il Lucifero” Direzione Nazionale Associazione Mazziniana Italiana (A.M.I.) € 2.000,00 Cappannini Mauro di Camerino (MC) € 50,00 “perché questa voce non si spenga” Coccioli Attilio di Ancona € 50,00 Bruni Leonardo di Senigallia (AN) € 25,00 Carletti Guido di Filottrano (AN) € 60,00 “Ricordando Cesare Flamini, Isidoro e Silvana Carletti” dei fermenti di emancipazione e di stimolo alle lotte sociali per migliorare le condizioni di vita in special modo delle classi più umili. Quel lontano 1914 il Lucifero era sulle barricate ad accompagnare passo passo le battaglie politiche della società anconitana che viveva una intensa lotta di emancipazione. Ci si voleva riscattare, non solo dal regime monarchico opprimente, ma anche per la difesa dei prezzi dei prodotti di prima necessità, contro le avventure militari alla conquiste delle terre oltremare, ma soprattutto si è lottato per allargare gli spazi, molto esigui, della libertà politica, della giustizia sociale e delle riforme agricola e del lavoro. Il Lucifero, di concerto con la struttura politica dei repubblicani di allora, si è mostrato oltremodo sensibile alle richieste che provenivano non solo da quegli ambienti, ma anche dal ceto medio, culturalmente più evoluto e colto ma sofferente per le privazioni della libertà associativa e degli spazi di partecipazione democratica. Ceto medio maturo quindi per reagire all’oppressione di un regime dispotico e poliziesco a fianco dei lavoratori. I motti della Settimana Rossa prendono le mosse da una siffatta realtà, iniziano il 7 giugno e terminano a distanza di una settimana lasciando sul terreno morti e feriti in un clima di rivolta popolare. I motivi della rivendicazione non si fermano alla sola città di Ancona e alle Marche, coinvolgono la confinante Romagna e molte altre regioni italiane. Gli storici e i ricercatori descrivono sulle pagine del giornale, con dovizia di notizie, gli avvenimenti fornendone una variegata angolazione degli eventi. La presenza del Lucifero, in questa ricorrenza storica, aveva una e mille ragioni di essere garantita, la sua storia si interseca alla perfezione con tutte le vicende politiche e sociali verificatesi nel corso di un secolo, possiamo dire che il nostro Lucifero rappresenta una “icona” del pensiero laico e democratico italiano. E’ la vita e la presenza del Lucifero di oggi a creare preoccupazione: la storica testata, per concludere il nostro intervento, è sempre più minacciata dalle precarietà delle risorse finanziarie, che in parte è presente anche in questa occasione e che si è manifestata più nettamente in diversi mesi del 2013 e all’inizio del 2014 quando, appunto, il Lucifero non è uscito con regolarità per mancanza di denaro. Quanto sopra è fonte di preoccupazione di tanti lettori ed estimatori ma ancor più angustia il piccolo gruppo di operatori che prende il nome di “Associazione Amici del Lucifero”, referente editoriale delle pubblicazioni. E’ composta da repubblicani di antica data che, pur provenendo da esperienze lavorative diverse, si sono improvvisati giornalisti e redattori con un unico intento: pubblicare il giornale e impedire, contemporaneamente, che la testata diventi appannaggio di soggetti molto interessati allo sfruttamento del nome storico del giornale per fini diversi. Buona lettura e fraterni saluti a tutti. Presidente Associazione Amici del Lucifero RINGRAZIAMENTO AGLI AUTORI L’Associazione Amici del Lucifero ringrazia sentitamente gli illustri storici, studiosi e cultori di storia che hanno accettato di dare il loro contributo di pensiero in questo numero speciale del giornale; ad essi si è lasciata piena libertà di scrivere secondo il personale punto di vista. Si ritiene che la varietà delle opinioni e dei modi di ricordare l’evento costituisca un motivo di interesse aggiuntivo, così come di indubbio arricchimento siano i contributi forniti dagli amici romagnoli. E’ doveroso da parte nostra ricordare tutti gli autori sottolineando, nel contempo, la valenza degli elaborati, che devono restare a disposizione anche per altre eventuali analisi: PIETRO CARUSO, giornalista e direttore de “Il Pensiero Mazziniano”; GIANCARLO CASTAGNARI, già direttore della biblioteca di Fabriano e cultore di storia; MARIO DI NAPOLI, Dirigente della Camera dei Deputati, storico, Presidente Nazionale dell’A.M.I.: FILIPPO GIULIOLI, cultore di storia e presidente sezione AMI di Ancona: ROBERTO GIULIANELLI, professore di storia dell’Università Politecnica delle Marche; BEPPE GROSSI giornalista e pubblicista; LUCA GUAZZATI, giornalista, scrittore di libri e cultore di storia: LUIGI LOTTI, autore, ricercatore sulla Settimana Rossa, professore emerito dell’Università di Firenze, presidente della Fondazione “la casa di Oriani”; MICHELE MILOZZI, già professore ordinario di storia Università di Macerata, autore di libri di storia: SAURO MATTARELLI è autore di testi scolastici, docente di discipline economiche; AGOSTINO PENDOLA, giornalista, e autore di saggi di storia locale di Genova: GILBERTO PICCININI, già professore di storia dell’Università di Urbino, presidente della Deputazione di Storia Patria di Ancona; SARA SAMORI’, ricercatrice dell’Università di Verona; NICOLA SBANO, avvocato e cultore di storia; SERGIO SPARAPANI, giornalista e cultore di storia; GWENOLA SPATARO ricercatrice e cultore di storia. Pag. 8 25 APRILE 1945 12 LUGLIO 1964 A RICORDO DI FRANCESCO ANGELINI di Beppe Grossi N Non è facile parlare, oggi, a distanza di 69 anni, del 25 aprile 1945 e di che cosa esso abbia rappresentato. Innumerevoli le versioni quasi sempre interessate. Cercherò di farlo anch’io anche se di parte, cercando di essere, però, oggettivo, come si suole dire, nel ricordo del mio vissuto di ragazzo di quei tempi (avevo 16 anni) nella Milano di allora, semidistrutta dagli sfracelli provocati dai “liberatori”. Credo di doverlo fare in quanto i testimoni oculari sono sempre meno, le voci narranti arrivano da lontananze sempre più difficili da colmare, le immagini sbiadiscono, le commemorazioni sono macchiate da troppa contemporaneità, annacquate, sbiadite, spesso sminuite o troppo esaltate, unitamente ad altre mutate dinamiche antropologiche. Ciò non di meno un grande lavoro è stato fatto per salvaguardare la memoria, ricercare e conservare le carte anche se nella scuola nulla o quasi è stato fatto, particolarmente nei testi scolastici. Per nostra fortuna abbiamo avuto i Calvino, i Fenoglio, i Cassola, i Pavese, e tanti altri ancora che ci hanno descritto la Resistenza in maniera esemplare, fuori – direi – dalla necessaria retorica di una per me giusta guerra partigiana e patriottica. Si dice che molto spesso la storia non è fatta dagli uomini, ma che è la storia che li forma, li costruisce, li realizza, mettendoli di fronte a scelte estreme alle quali si deve dare risposta. E proprio questo è stato lo scenario in cui si mossero i giovani degli anni ’20 (sbandati o renitenti alla leva, che importa ?), quando ci fu da mettersi da una parte o dall’altra, o coi fascisti o con l’embrione di un esercito senza stellette, o con Salò o “sulla Langa”, come diceva Bocca, e quindi METTERSI DA UNA PARTE, non FARSI DA PARTE….nonostante il famigerato bando Graziani rendesse più facile la scelta repubblichina ! E, quindi, la guerra di liberazione inizialmente contro “il solo tedesco” trasformatasi quasi subito in guerra civile, con le sue crudeltà, i suoi eccessi da entrambe le parti, ma con un macabro saldo di caduti o di morti ammazzati della Resistenza, campi di concentramento inclusi, oltre ai caduti dell’Esercito del Corpo Italiano di Liberazione, di ben 5,6, volte superiore a quello fascista, come ha scritto Giampaolo Pansa. E’ il ricordo della libertà conquistata il 25 aprile che deve essere oggi più che mai conservato. Beppe Fenoglio aveva visto e capito meglio e più acutamente degli altri come la memoria dell’uomo sia predisposta all’oblio e per evitare che ciò avvenisse aveva trasformato l’epopea della resistenza in mito. Il mito degli uomini delle montagne, delle cascine, degli studenti, degli ex soldati del “Regio”, dei poeti inglesi e di semplici personaggi, trasformandoli in eroi. Una nuova mitologia perché la Resistenza non fosse stata invano. In casa nostra Paolo Marchi ci ha lasciato. Come non ricordare il fervente Mazziniano che in ogni consesso ove ha operato ha dato una grande prova di passione, di fede e di amore. Nella Direzione Nazionale A.M.I., nel Comitato Interregionale Marche, Umbria, Abruzzi e quale Presidente della Sezione di Ancona A.M.I. ha sempre profuso la sua variegata capacità propositiva per la crescita dell’ A.M.I. nella nostra realtà quotidiana . A noi il compito di dare continuità al suo insegnamento. F.G. Il 25 maggio, mentre andavamo in stampa, abbiamo appreso che era scomparso il dottor Mario Dubbini, laico di profonda umanità, farmacista, velista, coniuge dell’amica Livia Pergoli; ci ha lasciato a novantadue anni, vissuti sino all’ultimo gagliardamente, animati dalla cultura dell’innovazione e del progresso, amando il mare e gli orizzonti lontan. Sabato 31 maggio abbiamo appreso della scomparsa di Ezio Capannelli, negli anni ’80 segretario provinciale del PRI e uomo di sport, già funzionario della Cassa di Risparmio di Ancona, rimasto sempre caro amico di molti repubblicani della città. La direzione è dispiaciuta di non avere disponibile più spazio per ricordarli. Si porgono alle famiglie Dubbini Pergoli e Capannelli molte condoglianze. N.S. È scomparso Gianni Pettirossi di Ancona. Ci univa un buon rapporto di amicizia, ricordo che la conoscenza prese forma negli uffici delle Cooperative Repubblicane di via Curtatone. Tante sono state le opportunità gli impegni nell'ambito del Partito Repubblicano, dai compiti più umili di piegatura dei giornali all'affissione dei manifesti sui muri cittadini durante le campagne elettorali. Ci si vedeva anche nei congressi e nelle riunioni di sezione. Negli ultimi tempi gli incontri, molto più rari, erano occasioni per cercare nuove vie di azione politica che potessero fermare il declino del nostro partito. M.B. Q Sindaco Repubblicano Quest’anno, il prossimo 12 luglio, ricorre il cinquantenario della morte di Francesco Angelini che ricordiamo oltre che come industriale di grandi intuizioni che sapeva anticipare il futuro, come pubblico amministratore illuminato, Sindaco di Ancona per quattordici anni, come repubblicano convinto dell’ideale di democrazia di concezione mazziniana. Quando cento anni fa, Francesco Angelini intraprese i primi passi di piccolo produttore di medicine, era difficile prevedere il successo della sua iniziativa, essendo il mercato farmaceutico dominato dalle grandi industrie tedesche ed inglese e poche e di media dimensione le società farmaceutiche italiane più ragguardevoli; ma evidentemente la preoccupazione non faceva i conti con le qualità dell’allora giovane nostro concittadino di adozione, che sapeva unire acutezza di intelletto e la capacità straordinaria di essere concreto, alla visione del progresso sociale ed economico che doveva essere raggiunto e per il quale valeva la pena battersi, facendo valere le virtù civile che l’educazione morale mazziniana, più delle altre, riusciva a trasmettere. Il giovane industriale, seppure alle prese con la crescita della sua ancora piccola azienda, nell’autunno del 1920, in un anno in cui le violenze ed il malessere politico del biennio rosso rendevano molto problematico il dopoguerra, accettava di far parte dell’amministrazione presieduta dal sindaco repubblicano Domenico Pacetti, appena subentrata a quella liberal-conservatrice del sindaco Rinaldo Vignini (1919-1920), a sua volta succeduta all’amministrazione di Alfredo Felici che aveva governato la città per tutto il periodo bellico. Fu quella di Pacetti un’amministrazione molto attiva e certamente il giovane assessore, poco più che trentenne, dette alla stessa il suo contributo dinamico, ma, come è intuibile, quella è stata la Giunta, l’ultima democratica, che dovette sostenere il peso dell’affermazione del fascismo. La grande concentrazione ad Ancona degli squadristi dell’autunno 1922, fu l’occasione della morte dei due giovani fratelli Giombi di Torrette, repubblicani, e, poco dopo, della caduta dell’amministrazione. Si apriva in L’A.M.I. DI ANCONA NEL RICORDO DEI MEMORABILI GIORNI DELLA STORIA DELLA NOSTRA CITTA’ di Filippo Giulioli - Presidente della Sezione di Ancona L L’ Associazione Mazziniana sez. di Ancona ha aderito con entusiasmo alle varie celebrazioni del centenario della Settimana Rossa che si terranno ad Ancona. L’impegno unitario con le varie Associazioni, Enti si svilupperà in dibattiti, incontri, teatro e la nostra presenza si evidenzierà anche con la preparazione e pubblicazione di un numero straordinario del ‘’Lucifero’’. Con entusiasmo ed ampia partecipazione degli iscritti, anche di provenienza da altri territori ove i moti insurrezionali si sono estesi, i Mazziniani sentono anche il dovere di fare alcune considerazioni e riflessioni che non debbono o possono attenuare il grande valore di quegli avvenimenti. L’evento storico del 7 giugno 1914 è stato variamente considerato da alcuni esperti ed analizzatori delle problematiche storicosociali del tempo. Tralasciando quanto esposto da chi aprioristicamente ha valutato ( giornali governativi dell’epoca ) con negatività assoluta quello storico avvenimento, è necessario riflettere su alcune distorsioni emerse da alcuni osservatori dell’evento. A nostro modesto avviso occorre nell’analisi dei fatti , a distanza di vari decenni, collocare l’avvenimento nella situazione politica dell’epoca. Lo spirito progressista comune a tutti i partecipanti a quegli eventi non è mai venuto meno. Ovviamente i fatti che si sono quel momento una nuova stagione della politica della città, con l’estromissione della classe dirigente liberale e della sinistra. Angelini si dedicò allora allo sviluppo della sua azienda, che si avviava ad avere una dimensione importante, costruita con una fedeltà al lavoro fuori del comune, diremmo laicamente religiosa, da un industriale che voleva essere anche il primo impiegato della ditta, nella ricerca di un esemplarità di portamenti che dobbiamo ritenere di altri tempi. Difatti il nucleo dei suoi collaboratori ed impiegati era chiamato a convivere la quotidianeità della sua vita, mai trascesa da una sobrietà che era anche scelta etica. Politicamente allora si chiuse a riccio, in rigoroso afascismo, che chiudeva la porta ad ogni compromesso e a qualsivoglia cedimento al Regime che, peraltro, per quanto si sa, seppe restare fuori della porta degli stabilimenti di produzione e dei laboratori. La separatezza fra industria e sistema di governo, consentì ad Angelini di fare i primi passi nella ricerca e nella scienza applicata, terreni ritenuti in prospettiva essenziali per restare nel mercato. L’azienda e le sue attività patirono poi il dramma delle distruzioni belliche; ma questo disastro fu anche la molla del rilancio che Angelini seppe affrontare coraggiosamente, senza attendere alcuna politica assistenzialista, ma rischiando di suo, dando dimostrazione di essere tra i primi imprenditori italiani capace di conciliare l’economia di mercato e l’etica protestante che affianca all’utile privato il rispetto delle leggi ed il sacrificio personale. Nel 1948 venne eletto consigliere comunale e nel 1949 divenne sindaco di Ancona, succedendo a Giuseppe Mario Marsigliani, pure repubblicano. Salvo una breve parentesi tra il 1950 ed il 1951, Angelini restò sindaco di Ancona e ciò sino alla sua morte, avvenuta il 12 luglio del 1964. Ebbe a fianco amici repubblicani, come Enrico Sacripanti, Alberto Mario Burattini, Leonida Cagli, Mazzini Montanari, nonchè Claudio Salmoni e Guido Monina, che divennero anch’essi prestigiosi sindaci di Ancona, il cui ricordo si accompagna a quello per Angelini. Va aggiunto il ricordo del vicesindaco democristiano Alfredo Trifogli, da poco scomparso, che per molti anni ha collaborato con lui, più tardi succedendogli. Faremmo un torto ad Angelini se dimenticassimo la sua passione e la sua attività in seno al Movimento Federalista Europeo, impegno questo che testimonia la qualità di visione prospettica del grande personaggio che ricordiamo, rimasto repubblicano anche nei momenti difficili del P.R.I., nel 1963 rimasto rappresentato in Parlamento da una pattuglia di soli cinque deputati. Pensiamo che Angelini abbia allora intuito che fra questi vi era una grande personalità politica come quella di Ugo La Malfa. Sappiamo che Angelini non volle neppure il laticlavio proposto dalla D.C., con la candidatura in una lista congiunta della D.C. e del P.R.I.. Angelini rifiutò perché la proposta era un pasticcio, ma anche perché nella sua vita pubblica portava la virtù morale del disinteresse personale. A questo grande uomo va il ricordo dei repubblicani di Ancona e di chi altro lo ha apprezzato. Il LUCIFERO susseguiti dal 1914 ai giorni d’oggi hanno mutato le collaborazioni politiche della sinistra storica ma questo non può comportare distinguo o addirittura ricerca di distorte riflessioni su personaggi presenti in quel periodo. A noi non interessa sapere o evidenziare se la 1a guerra mondiale (1915-1918) abbia comportato una divisione tra coloro che uniti hanno partecipato alle giornate della Settimana Rossa. Come si può valutare negativamente l’adesione all’interventismo che era essenzialmente per il recupero degli ultimi territori italiani in mano allo straniero? E cosi potremmo continuare analizzando le problematiche storico-politiche relative ai vari decenni di guerra fredda. Il coordinatore Nino Lucantoni ha avuto la capacità e l’intelligenza di riunire Varie Associazioni culturali e con questo spirito andremo unitariamente a ricordare quei giorni di vera lotta democratica. SOTTOSCRIVI PER IL LUCIFERO SUL C/C POSTALE N° 1016613059 A disposizione dei nostri lettori per ulteriore invio del giornale a soggetti diversi 12 AGOSTO 1998 Guido MONINA Sindaco Repubblicano N Noi uomini di questo tribolatissimo tempo abbiamo sempre meno memoria. La società sta via via perdendo la propria memoria storica. E questo per un Paese, per una comunità è una vera iattura. Senza memoria storica si lascia alle spalle un passato che comunque ci appartiene e si rischia concretamente di costruire un futuro annacquato nei valori e negli ideali. Fuor di ogni retorica, senza passato non c’è futuro. Anche se oggi si parla con la gente per slogan, anche se oggi speranza e rabbia sono diventate il punto di rottura del cambiamento. Ecco perché ricordare Guido Monina, il repubblicano Guido Monina significa windsurfare l’onda dei ricordi per puntare diritti a riva. Oggi che non ci sono ormai da decenni monarchici in giro, parlare di repubblicanesimo sembrerebbe recuperare dei fossili. Ma non è così. Ancona senza Guido Monina (sindaco del capoluogo dal 1976 al 1988) e senza amministratori capaci ed onesti sarebbe un’altra città. Il repubblicano Monina prese il testimone dal democristiano Alfredo Trifogli (altro grande protagonista del post sisma del 1972) e anno dopo anno si è imposto come il sindaco della ricostruzione pulita e senza scandali. Scomparso nell’agosto 1998 Monina era un repubblicano duro e puro che per amore della sua città non esitò a governare con i comunisti (tanto che il segretario Ugo La Malfa non gli risparmiò una bella reprimenda) in un periodo, dai rapporti tra partiti, di certo non facile. Di lui restano e resteranno le tante opere della moderna Ancona realizzate in dodici anni da sindaco della città ma resterà soprattutto il senso di un impegno politico ed amministrativo a tutto campo. Senza mai perdere il senso dell’ironia, il gusto di una battuta. Egli è stato davvero il sindaco di tutti, ponendo particolare attenzione alle fasce più deboli. Basti pensare a quanto ha fatto per il Salesi, per gli anziani, per coniugare la crescita con la qualità della vita. Ancona ha potuto risanare le ferite del sisma recuperando il centro storico ed al tempo stesso articolare la propria crescita proprio grazie a quest’uomo schivo ma risoluto e determinato. Anche la grande frana di Posatora del 1982 lo vide battersi come un leone. Insomma la nuova Ancona, quella del terzo millenio gli deve più di qualcosa. Ma si sa che la gratitudine non è di questo mondo. Pur tuttavia, a tutti coloro che hanno avuto la fortuna di conoscerlo e di collaborarci resta il ricordo indelebile di un uomo che ha amato profondamente la sua, la nostra Ancona. A cura di Roberto Signorini PERIODICO REPUBBLICANO - FONDATO NEL 1870 Giovanni Filosa Direttore Responsabile PERIODICO MENSILE DI INFORMAZIONE E CULTURA POLITICA Stampa: Tipolitografia GEMA - via A. Volta,8 Camerata Picena (AN) - Tel e Fax 071 946375 e-mail: [email protected] Direzione - Redazione - Amministrazione Editore: ASSOCIAZIONE AMICI DEL LUCIFERO - 60122 Ancona via Curtatone, 21 - Tel e Fax 071 2071349 e-mail: [email protected] C. C. P. 1016613059 Autorizz. Trib. Ancona Registro periodici n. 13/96 del 15/04/96 Chiuso in tipografia 9/06/2014
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