Lucifero - Maggio - Alleanza Repubblicana

nuovo
Alliance of Liberals and Democrats for Europe
Alliance des Démocrates et des Libéraux pour l’ Europe
ANNO CXLIV 1-2 BIM.
7 GIUGNO 1914
PERIODICO REPUBBLICANO FONDATO NEL 1870
ANCONA GIUGNO - LUGLIO 2014
TAB. C: POSTE ITALIANE SPA - SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE - D.L.353/2003 (CONV. IN L. 27/02/2004 N. 46) ART. 1 COMMA 2, DBC ANCONA
7 GIUGNO 2014
CENTENARIO DELLA SETTIMANA ROSSA. I REPUBBLICANI INDICARONO, FIN DA ALLORA,
LE STRADE DEL RISCATTO SOCIALE ATTRAVERSO LA CONQUISTA DELLA LIBERTÀ E DELLA DEMOCRAZIA
La Settimana Rossa:
considerazioni storiografiche
di Mario Di Napoli
L
Le manifestazioni per il primo
centenario della Settimana rossa
(1914-2014) offrono l’occasione
per una più approfondita riflessione
su quella vicenda, finalizzata ad
assegnarle il posto che essa merita
nella storia d’Italia. Sino ad ora, la rivolta popolare
che prese le mosse da Ancona e divampò in molte
altre regioni della penisola non ha infatti ricevuto,
nonostante gli studi svolti in sede locale, un’adeguata
interpretazione storiografica. Non è da escludere che
il successivo scoppio della prima guerra mondiale
abbia proiettato una sorta di cono d’ombra sugli
eventi precedenti, creando una discontinuità tra
periodo prebellico e periodo postbellico. È tuttavia
molto evidente anche l’esistenza di un pregiudizio
storiografico che ha indotto ad accantonare la
Settimana rossa. La scuola marxista, non potendola
classificare nell’ortodossia rivoluzionaria, ne ha
infatti sottolineato il velleitarismo ed ha in ogni caso
teso a ridurne la valenza. La scuola moderata,
naturalmente, da un lato ne hanno stigmatizzato
l’impeto sanguinario, dall’altro hanno contribuito
all’oblio dell’episodio per conservare un’immagine
pacificata dell’Italia prefascista. Gli stessi storici di
matrice repubblicana e democratica hanno avuto
difficoltà a riconoscere come parte della propria
tradizione un evento indubbiamente non esente
da atti di violenza. È venuto dunque il momento di
superare i luoghi comuni e di cogliere il significato
storico della Settimana rossa, da cui potrebbero
derivare interessanti ed innovative chiavi di lettura
per la storia d’Italia. La rivolta popolare, che scoppia
in Ancona il 7 giugno 1914 e si diffonde a macchia
d’olio soprattutto nelle città e nelle province dove più
è radicato il movimento mazziniano, è innanzitutto
antimonarchica, perché non a caso ha luogo nel
giorno in cui si festeggiava lo Statuto albertino e
non a caso si indirizza contro il militarismo, vale a
dire contro il punto di forza del regime sabaudo. In
realtà, nessuno dei partiti politici ufficiali che pure
all’epoca rappresentavano le masse popolari è
alla testa del moto che è invece promosso da una
cultura politica sovversiva, trasversale ai partiti
stessi, in cui repubblicani, socialisti, anarchici e
sindacalisti rivoluzionari si confondono nella comune
aspirazione ad una rivoluzione che sia al tempo
stesso istituzionale e sociale. In questo inscindibile
nesso è da rintracciare la matrice mazziniana. La
Settimana rossa è la riprova della continuità storica
del repubblicanesimo risorgimentale, insoddisfatto
dell’esito unitario conseguito sotto i Savoia, convinto
dell’illegittimità di un governo privo di una rinnovata
sanzione costituzionale e di una base di consenso
popolare democraticamente espressasi. Questa
corrente politica si era costantemente alimentata
dell’intransigenza mazziniana e del volontarismo
garibaldino, recependo altresì gli apporti nuovi
delle idee anarchiche e sindacalistiche. Una
certa storiografia ha correttamente segnalato le
controversie ideologiche che avevano contribuito a
differenziare questo mondo politico carsico, ma in
realtà tali divisioni non debbono essere esacerbate
al punto da non cogliere la forza unitaria derivante
dal comune obiettivo polemico rappresentato
dal regime monarchico in Italia e dal dispotismo
genericamente inteso nel resto d’Europa. In un
certo senso, si può affermare che le distinzioni
esistenti a livello teorico vengono meno quando
prevale il richiamo all’azione, sia in patria che
al di fuori dei confini nazionali. L’intensità e la
propagazione del moto rivoluzionario anconetano
dimostra poi i limiti del tentativo giolittiano di
coinvolgere nello Stato le classi popolari. In realtà,
se il governo si era mosso in quella direzione nel
primo decennio del nuovo secolo per riscattare la
sfiducia culminata nell’assassinio del re Umberto
I, la guerra di Libia costituisce uno spartiacque
più o meno consapevole che riporta l’asse politico
verso destra. Anche la concessione del suffragio
universale tanto sbandierata risultava piuttosto un
mero inganno in quanto restava ancorata al sistema
dei collegi uninominali. Non è un caso che in quel
momento entri in crisi pure l’esperienza di governo
locale incarnata da Ernesto Nathan a Roma sotto
il segno dei blocchi popolari e nell’ottica della
democratizzazione della monarchia che era invero
stata celebrata nella primavera dello stesso 1911
in occasione del cinquantenario dell’unificazione.
Così come, del resto, si dividono sull’avventura
libica sia i socialisti che i repubblicani, gli uni con
Bissolati, gli altri con Barzilai. In opposizione a
tale contesto, la Settimana rossa non è soltanto
un’esplosione di antimilitarismo ed anticolonialismo,
né di un generico ribellismo, ma sta a provare la
maturità rivoluzionaria del proletariato italiano
da mettere in relazione, tuttavia, più con le sue
radici risorgimentali, da Mazzini a Bakunin per
dirla con il celebre titolo di Nello Rosselli, che
con l’appiccicaticcio catechismo marxista ovvero
positivista rabberciato dal PSI. Sono arcinoti, al
riguardo, gli argomenti di certa storiografia che ha
bollato quelle radici come velleitarie e piccoloborghesi, ma alla prova dei fatti è dal volontarismo
risorgimentale che il movimento operaio italiano
ha tratto la sua linfa più profonda, anche sotto
il profilo associativo ed organizzativo, senza
distaccarsi dal resto della società. Qui sta infatti
il punto distintivo molto spesso ignorato, che dà
ragione del successivo insuccesso del biennio
rosso all’indomani della prima guerra mondiale,
vale a dire la sostanziale separatezza tra le masse
popolari e le loro classi dirigenti derivante proprio
dall’assenza del tessuto connettivo tra moto politico
e moto sociale che il mazzinianesimo aveva invece
coltivato e che era stato buttato alle ortiche con
troppa faciloneria. Prima ancora dello scoppio
del conflitto mondiale, la Settimana rossa non fu
compresa dagli stessi capi della sinistra italiana
perché fuorisciva dalla tempistica rivoluzionaria
dell’ortodossia marxista. L’errore non sarebbe
sfuggito a Mussolini che ebbe modo di mettere
a frutto quell’esperienza e di impadronirsi nel
dopoguerra di quel potenziale rivoluzionario
sprigionatosi da Ancona e di strumentalizzarlo
ai suoi fini. In tale ottica, si può concordare sul
fatto che la prima guerra mondiale abbia dato lo
scrollone finale allo Stato liberale, ma tenendo
ben presente che la sua debole legittimazione
popolare era però precedente e persistente, perché
aveva origine dall’esito inadeguato del processo
unitario. Di ciò erano peraltro assai consapevoli
molti esponenti dell’Italia liberale che avevano in
vario modo cercato di correre ai ripari, da Crispi a
Jacini, da Sonnino a Franchetti. Quanto a Giolitti,
la sua visione fu limitata alla sfera parlamentare,
in cui pure tentò efficacemente di confrontarsi con
i partiti popolari, ma senza cogliere la necessità di
un più ampio confronto su base nazionale con tutta
la società e non soltanto con la sua rappresentanza
politica ed istituzionale. D’altra parte, sarà bene
cominciare a rendersi conto che c’è un prima
ed un poi dell’esperienza giolittiana che di fatto
esaurisce nel primo decennio del secolo la sua
carica innovativa. Dal Patto Gentiloni alla guerra
di Libia, Giolitti ripiega sulle istanze conservatrici
in modo netto ed irreversibile, forse al di là delle
sue stesse intenzioni. La riprova della specificità
della Settimana rossa sta nello sbocco successivo
della gran parte dei suoi promotori – esemplare
al riguardo il comportamento del fondatore della
Federazione giovanile repubblicana, Oddo Marinelli
- nell’interventismo democratico, vale a dire
nell’accettazione della sfida a sovvertire l’equilibrio
conservatore europeo di stampo triplicista. Come
è noto, ancora una volta l’internazionalismo si
declinerà diversamente: i socialisti italiani si
trincereranno nel “non aderire, non sabotare” fedeli
ad una visione pacifista, mentre gli eredi della
tradizione mazziniana e garibaldina non avranno
dubbi ad accorrere sin dallo scoppio del conflitto
in soccorso della Francia repubblicana, sulle orme
della spedizione di Digione. Il sangue versato
dai rivoluzionari smentirà fieramente l’accusa
pronunciata in Parlamento dal Governo del tempo
di essere antimonarchici ed antinazionali! Solo che
la loro nazione non era quella sabauda, ma quella
mazziniana in cui lo spirito della Giovine Italia si
confondeva con quello della Giovine Europa.
SEGUE A PAG. 4
Fine di un’epoca: la politica italiana e la
Settimana Rossa alla vigila della Grande Guerra
di Luigi Lotti
Gli anni culminanti della politica di
gradualismo progressista di Giolitti,
dal marzo 1911 al marzo 1914,
videro due vicende di straordinaria
rilevanza: la conquista della Libia e
l’adozione del suffragio universale,
all’epoca ovviamente solo maschile, per le elezioni
politiche e locali, a cominciare dall’elezione della
Camera dei deputati nell’ottobre e novembre 1913.
La guerra di Libia fu determinata da contingenze e
accordi internazionali più che da scelte specifiche
momentanee, e cioè il diritto riconosciuto all’Italia di
acquisire il possesso della Libia qualora la Francia
avesse preso il controllo del Marocco: cosa che
avvenne in quel 1911 dopo una lunga contesa con la
Germania. Ma imporre un protettorato a un debole
sovrano locale come la Francia aveva attuato da
tempo in Tunisia e ora replicava in Marocco era
un’impresa molto più facile e rapida che conquistare
militarmente un territorio come la Libia che era
sotto la sovranità dell’impero ottomanno, e perciò
acquisibile solo mediante una vera e propria guerra
contro la Turchia. La conseguenza nella politica
italiana fu la rottura traumatica fra il pur variegato
mondo liberale pervaso da un entusiasmo frenetico
e la sinistra estrema assolutamente contraria:
sia della parte prevalente di quella repubblicana,
soprattutto in Romagna, sia di quella socialista,
nella quale l’ala estremista guidata da Mussolini
portò all’estromissione dell’ala riformista dalla
guida del partito. A maggior motivo si accentuò
la spinta dei sindacalisti rivoluzionari e più ancora
di ridare motivi di rilancio e ripresa dell’anarchismo
di Malatesta in nome dell’antimilitarismo. In altre
parole creando per la prima volta da anni il coagulo
di tutte le tendenze estremiste.
L’allargamento del diritto di voto a tutti, anche
agli analfabeti, come era stato invece negato
G
posizioni estreme, rese ancora più animose nelle
ex-legazioni pontificie dalla continuità anticlericale,
ora accentuata dal vistoso ritorno politico dei
cattolici. Con l’ulteriore risultato di avvicinare gli
stati d’animo verso un’aspettativa comune, ma
più nella base che fra i dirigenti. L’esplosione della
Settimana Rossa sta in questo ritorno a lontane
SOMMARIO
pag. 2
Sergio Sparapani - Roberto Giulianelli
Pietro Caruso
pag. 3
Michele Millozzi
pag. 4
Sauro Mattarelli - Sara Samorì
pag. 5
Gilberto Piccinini - Gwenola Spataro
pag. 6
Luca Guazzati - Nicola Sbano
Giancarlo Castagnari
pag. 7
Agostino Pendola - Manlio Bovino
Sottoscrizioni - Ringraziamenti
pag. 8
Beppe Grossi - Redazione
Roberto Signorini - Filippo Giulioli In casa nostra
aspirazioni, ora congiunte con le nuove aspettative
rivoluzionarie. Non a caso si manifestò ad Ancona
nella prima domenica di giugno, che coincideva
sempre con la festa nazionale dello statuto. Le
cerimonie ufficiali si svolsero regolarmente, ma
con un forte servizio di controllo; nel pomeriggio
gli antimilitaristi si riunirono alla Villa Rossa, come
concordato con le autorità:
parlarono Nenni, allora
giovane
direttore
del
repubblicano Il Lucifero,
Malatesta e altri due a nome
della Camera del lavoro e
della Lega dei ferrovieri.
Ma al termine, temendo
che i dimostranti volessero
inoltrarsi verso il centro
della città, il commissario
di servizio ne bloccò gli
accessi,
ostacolando
però così la dispersione
dei convenuti. Ne venne
uno
scontro
insensato,
Villa Rossa di Via Torrioni, antica sede dei Repubblicani di Ancona
improvvisamente aggravato
nell’ampliamento degli aventi diritto nel 1882,
da due spari in aria di una guardia di pubblica
segnò il punto più avanzato di tutta la politica
sicurezza, che fuorviarono i carabinieri, dodici dei
giolittiana, una scelta verso la democrazia, così
quali spararono uccidendo tre dimostranti. Fu
come rivendicata da decenni dalle ali radicali e
la miccia che accese il turbine della Settimana
progressiste. Era una conquista di ineguagliabile
Rossa. Immediatamente il PSI e la Confederazione
importanza; solo che la concessione del suffragio
Generale del Lavoro proclamarono lo sciopero
universale seguiva all’abbandono da parte della
generale di protesta in tutta Italia, mentre ad
Chiesa dell’astensionismo protestatario successivo
Ancona la vita della città rimase sospesa fra due
all’unità, e la convergenza del crescente voto
autorità contrapposte ma inerti, quella di governo
cattolico a sostegno dei candidati liberali. L’esito
e quella degli improvvisati dirigenti dell’opposizione
elettorale non aveva modificato sostanzialmente
estremista, entrambi incapaci di prevalere sull’altra,
il quadro parlamentare: i liberali erano ancora
ma ad un tempo impegnati a non esasperare
largamente prevalenti, seppur con un calo parziale;
la situazione locale e a valutare gli immediati
i radicali erano aumentati da 45 a 73, i repubblicani
sviluppi nazionali, sia nella protesta dei partiti e
erano calati da 24 a 19, per di più divisi tra contrari o
delle organizzazioni del lavoro, sia nelle decisioni
favorevoli alla conquista della Libia; i socialisti erano
del governo. Furono entrambi sorprendenti. La
aumentati da 41 a 79, ma divisi fra 52 esponenti del
prima perché la Romagna esplose in un vero e
PSI, 19 del nuovo partito riformista e 8 indipendenti.
proprio moto insurrezionale, in cui confluirono la
Ma vi era in realtà un cambiamento più consistente:
tradizionale vocazione repubblicana, le crescenti
non solo la presenza di 29 rappresentanti di collegi
animosità sociali e le agitazioni antimilitariste: che si
elettorali a forte organizzazione cattolica, ma più
affermò però nelle campagne e non nelle città, ove
ancora che 200 dei 310 deputati liberali avevano
le autorità mantennero o recuperarono rapidamente
ottenuto il voto cattolico. Questo determinò il
il controllo. Nelle campagne, soprattutto in quelle a
distacco dei radicali dalla maggioranza progressista
forte o quasi esclusiva presenza bracciantile, era
giolittiana e di conseguenza la nascita di una
più accentuato l’anelito al riscatto sociale e più
nuova maggioranza, fondata come le precedenti
pronto il passaggio dalla protesta all’insurrezione:
sul centro, ma ora alleata e caratterizzata dalla
per di più sulla spinta di una passione trascinante
destra guidata da Salandra, nuovo Presidente del
ma fuorviata da mancanza di informazioni
Consiglio. In definitiva, al termine del triennio dal
immediate e anzi esaltata dalla diffusione di notizie
1911 al 1914, il governo sterzava a destra, mentre
SEGUE A PAG. 5
a sinistra si consolidava la convergenza delle
Pag. 2
7 GIUGNO 1914
CENTENARIO DELLA SETTIMANA ROSSA
ANCONA NELL’ETA’ GIOLITTIANA. PROGRESSI
E FERMENTI POLITICI “LUCIFERINI”
di Sergio Sparapani
Pane e lotta politica. Nel decennio che
precede la Settimana rossa e, ben più
grave, la guerra mondiale, Ancona, e
l’Italia,
vedono
intensificarsi
le
rivendicazioni sociali e politiche e gli
sforzi per uscire dall’indigenza di larga
parte della popolazione. Eppure non mancano i
progressi nell’età giolittiana, con l’incremento
della produzione agricola e la bonifica di vaste
zone paludose. Anche ad Ancona cresce il tenore
di vita e lo sviluppo industriale. Tra l’altro si
riorganizza un grande stabilimento per le
costruzioni navali che assorbe numerosi lavoratori.
Aperta già alla fine degli anni Ottanta del XIX
secolo, questa stagione di opere pubbliche trae
linfa dal Piano regolatore dei porti italiani
approvato dal parlamento nel 1907, piano che
nella sua declinazione anconitana invita a
realizzare barriere per contenere le correnti
marine, costruire nuovi pontili e banchine, e
rimuovere alcuni ostacoli ai collegamenti viari
interni e a quelli con la vicina stazione ferroviaria.
Riformisti del calibro di Alessandro Bocconi
fondano la Camera del lavoro con la partecipazione
di operai e professionisti. Cattolici, non più impediti
dal non expedit, e socialisti, partecipano alla vita
politica. La contesa vede affrontarsi da una parte
i repubblicani, i socialisti e gli anarchici, che
fondano l’associazione “Giordano Bruno”,
dall’altra i democratici costituzionali e i cattolici
ormai vicini alle correnti governative. Nell’età
giolittiana (1901-1914) la città svolge un ruolo
importante di laboratorio politico e sociale e
assume anche il ruolo, a posteriori forse esagerato,
di incubatrice di idee rivoluzionarie. Tra le figure
più significative che marchiano questa fase ad
Ancona vi sono Oddo Marinelli, Errico Malatesta,
P
7 GIUGNO 2014
Ancona e gli anarchici alla vigilia
della Settimana Rossa
di Roberto Giulianelli
firmandosi “La Massoneria anconetana”. Le due
logge cittadine più grandi sono la Garibaldi e la
Faiani. Il Risorgimento è ancora al centro delle
ricorrenze.
Nel
1910
il
cinquantennio
dell’annessione delle Marche al Regno d’Italia è
celebrato con solenni manifestazioni. Nel 1912 è
inaugurato a Castelfidardo, presente il re, il
monumento alla battaglia. Il 29 settembre dello
stesso anno l’ormai anziano Augusto Elia, con
Garibaldi a Calatafimi, riceve l’omaggio della sua
città. Sono anche gli anni dell’esperienza murriana.
Nel gennaio del 1907 si tiene nel capoluogo un
incontro di forze democratico - cristiane in seguito
al quale sorge la Federazione marchigiana della
Lega democratica nazionale , ispirata alle idee
progressiste di Romolo Murri in polemica con le
forze clericali di “vecchio tipo”, come scrive Enzo
Santarelli. E’ attivo nello stesso periodo anche un
altro personaggio immeritatamente quasi
dimenticato: Rodolfo Ragnini, definito clericofascista, per la sua successiva adesione al regime,
Ragnini in realtà è stato, tra l’altro, fondatore di
circoli cattolici e operai, canonico del Duomo, che
poi eresse in Basilica, fondatore, a proprie spese,
di un osservatorio meteorologico, fondatore e
direttore di giornali, istitutore della banca Cattolica
di Ancona, storico e ricercatore, cappellano
militare volontario nella Grande guerra, oratore e
conferenziere appassionato e, certo, cantore del
regime ma anche istitutore, dopo aver dilapidato il
patrimonio di famiglia, di un asilo infantile, un
ospedale e un pronto soccorso.
I repubblicani
rischiano di dividersi sull’impresa di Libia del
1911, con il deputato Domenico Pacetti che si
dichiara favorevole. Quando Giolitti decide di
strappare alla mezzaluna lo “scatolone di sabbia”
si moltiplicano le manifestazioni, anche ad
Ancona. Nel partito repubblicano la crisi
interna è superata da un ordine del
giorno concordato nel congresso di
Ancona del 1912. Di fronte a mille
delegati, nell’aprile del 1914 si tiene al
teatro Vittorio Emanuele II (oggi ex
cinema Metropolitan), il XIV Congresso
nazionale del partito socialista, presenti
tra gli altri Benito Mussolini, direttore
dell’Avanti, Filippo Turati, Amedeo
Bordiga,
Giacomo
Matteotti
e
naturalmente Bocconi. Ancona viene
scelta quale sede perché <è ormai
riconosciuta come centro catalizzatore
delle energie più feconde del movimento
proletario>, scrive Massimo Papini. Il Congresso
passa alla storia per lo scontro sull’incompatibilità
tra socialisti e appartenenza alle logge segrete.
Mussolini è capofila degli intransigenti, forse
perché, come ha malignato qualche storico, a suo
tempo venne rifiutato da una loggia. Lo è anche
Matteotti ma il suo ordine del giorno è più
moderato. Non c’è posto invece per le posizioni
turatiane di Bocconi e dei suoi, fautori tra l’altro di
una alleanza locale con i repubblicani filo
massonici. Ma l’attacco alla massoneria è la punta
dell’iceberg nell’evoluzione di un partito che dal
Congresso di Ancona esce su posizioni
decisamente più a sinistra, classiste, antiborghesi
e antigovernative. Una serie di violente
manifestazioni si svolgono subito dopo la nomina
del nuovo presidente del consiglio Antonio
Salandra e Ancona, che sta acquisendo la fama
nazionale di “covo” di anarchici e repubblicani,
non manca di inserirsi in questi fermenti. La
“fama” di Ancona è legata, tra l’altro, al fatto che la
città dorica è stata teatro di importanti congressi
nazionali (socialista e repubblicano), che
l’organizzazione sindacale è in collegamento con
le Camere del lavoro più importanti dirette da
sindacalisti rivoluzionari e che il sindacato
ferrovieri trasferisce la sua sede nazionale ad
Pietro Nenni e lo stesso Bocconi. Marinelli, allora
antigiolittiano e antiparlamentare, nel 1904
organizza la federazione giovanile repubblicana a
livello nazionale. Nel 1905 ad Ancona fonda
l’organo della federazione giovanile, La Giovine
Italia. Nelle Marche, nel 1910, gli iscritti sono ben
1.498. Critico con l’impresa libica, passerà poi su
posizioni interventiste allo scoppio della Grande
guerra. Errico Malatesta è il massimo esponente
del movimento anarchico italiano. Sceglie ben
due volte Ancona come base per la ripresa del
movimento, nel biennio 1897-’98 e nel 1914. Ai
vecchi anarchici anconetani, scossi dalle sconfitte
di fine secolo, si aggiungono nuove leve, Cecili,
Felicoli e altri che rilanciano parole d’ordine
barricadere attraverso la pubblicazione di fogli
come Agitazione e Vita operaia. Il giovane Nenni
odia la monarchia e i preti e l’approdo alla
collaborazione con Lucifero è nelle cose. Nel 1912
il giovane romagnolo riceve un appello da parte
dei repubblicani di Ancona a trasferirsi nel
capoluogo. Agitatore, propagandista carismatico,
nel novembre 1913 assume la direzione del
giornale, definito “seriamente sovversivo” dove <il
popolo che soffre troverà l’espressione del proprio
sentimento>. Alessandro Bocconi è invece una
limpida figura di riformista turatiano. E’ uno dei
massimi
esponenti
del
socialismo riformista in Italia
ed Europa. Anconetano
acquisito,
il
deputato
socialista, fonda numerose
leghe operaie e contadine e,
nel 1900, la Camera del
lavoro del capoluogo.
La
lotta dei sindacalisti si svolge
fin dal 1905 contro lo Stato
che,
con
legge
di
nazionalizzazione
delle
ferrovie, mette la sordina al
diritto di sciopero. La sinistra
sembra
non
approvare
questa
impopolare
mobilitazione.
Solo
i
repubblicani
anconetani,
attraverso Lucifero, plaudono
all’agitazione.
Fino
alla
La imponente immagine del funerale delle vittime
Settimana rossa l’azione del
sindacato ferrovieri di Ancona, e del leader
Ancona proprio all’inizio del 1914. A tutto ciò si
Sigilfredo Pelizza, si concretizza nella lotta contro
aggiunga la presenza ad Ancona di Errico
“un sistema sociale basato sulla violenza e
Malatesta, dopo quindici anni di esilio a Londra, di
l’inganno” che avrà il suo culmine con lo sciopero
socialisti e repubblicani intransigenti (Pietro Nenni
generale del 1907. Da segnalare anche la lotta
e lo stesso Oddo Marinelli), ed ecco apparire
dei raffinanti dorici, ossia dei lavoratori degli
quella miscela di rivendicazioni, fremiti rivoluzionari
zuccherifici. Forte è anche la massoneria che
e autoritarismo governativo che faranno da sfondo
talvolta interviene anche sulle pagine del Lucifero
ai fatti di giugno del 1914.
Q
Quando esplode la protesta per
i fatti di Villa Rossa nel giugno
1914, Ancona è il principale
centro dell’anarchismo italiano.
A testimoniarlo sono anzitutto i
settecento libertari che, secondo le autorità di
polizia, abitano il capoluogo e la sua provincia.
Per lo più, sono sorvegliati. I rapporti che gli agenti
di pubblica sicurezza redigono sulla loro attività
vengono puntualmente raccolti nel Casellario
politico centrale, attrezzo per il controllo dei
“sovversivi” ideato dal governo Crispi nel 1894
e mantenuto in vita dallo Stato italiano fino alla
seconda guerra mondiale. Tale è il peso degli
anarchici nella zona, che all’inizio del Novecento
la Questura di Ancona aveva deciso di riservare
ai libertari una sezione speciale del proprio
Casellario, distinta da quella comprendente
anche i socialisti, i repubblicani e i sindacalisti
rivoluzionari.La fama di “città anarchica”, Ancona
se l’era conquistata tre lustri prima, dando
rifugio per alcuni mesi al più noto esponente del
movimento libertario italiano (Errico Malatesta)
e dando fuoco alla miccia di quelli che i libri di
storia avrebbero ricordato come i “moti di fine
secolo”. Da allora, l’anarchismo era cambiato,
stretto fra lo sforzo di riaversi dopo la repressione
seguita alla sollevazione del 1898 e la necessità
di dialogare con un Paese che, all’inizio del
Novecento, vive una profonda transizione.
Quest’ultimo processo è scandito, in primo
luogo, dalla strategia adottata dai governi Giolitti
nei confronti del conflitto sociale, strategia che
abbandona il pugno di ferro crispino, puntando
a circoscrivere la dialettica fra lavoratori e datori
di lavoro all’interno delle relazioni industriali o,
quantomeno, a ridurre le occasioni e l’entità degli
scontri di piazza. A muovere il quadro italiano
concorrono poi altri fattori: il consolidamento
del Partito socialista, pur dilaniato da correnti
interne (quella moderata “turatiana” e quella
oltranzista “labrioliana”); la rimozione del Non
expedit di Pio IX, con il conseguente ingresso
dei cattolici nell’agone politico (e sindacale);
l’introduzione del suffragio (quasi) universale
maschile, che apre le urne ai ceti popolari, fino
ad allora esclusi dalla battaglia elettorale; una
modernizzazione economica che passa per un
decollo industriale faticoso, tardivo, ristretto al
solo Nord Ovest, e tuttavia determinante per
quelli che saranno i destini del Paese; infine, il
colonialismo cui anche l’Italia, dopo il tentativo
naufragato ad Adua nel 1895, prova a partecipare
prendendosi la Libia. A questo cambiamento di
scenario gli anarchici reagiscono rinunciando
alla “propaganda con il fatto”, la pratica cioè
degli attentati politici, alla quale la corrente
individualista del movimento libertario si era
affidata nell’ultima parte dell’Ottocento e che
ha nel regicidio di Monza del luglio 1900 l’ultima
sua manifestazione. Essi si aprono inoltre a
istanze inedite e cercano, attraverso queste,
abboccamenti con le altre anime del movimento
operaio, in particolare quella repubblicana e
quella socialista. Gli anarchici si aprono anzitutto
al sindacato, che ad Ancona più che in altre parti
d’Italia contribuiscono non solo a organizzare,
ma anche a dirigere. La Camera del lavoro del
capoluogo marchigiano viene infatti fondata
nel dicembre 1900 da socialisti, repubblicani e
libertari, con questi ultimi capaci addirittura di
esprimerne i primi tre segretari (Adelmo Smorti,
Alberigo Angelozzi, Rodolfo Felicioli). Nel 1912
il legame fra anarchismo e sindacalismo verrà
sancito, su scala nazionale, dalla nascita a
Modena dell’USI (Unione Sindacale Italiana).
Una ulteriore pista battuta dai libertari è quella
dell’istruzione popolare, che ha il suo massimo
esponente nel mantovano Luigi Molinari, ma che
beneficia anche dell’intensa opera prestata dal
fabrianese Luigi Fabbri. La campagna di Libia
e l’avvicinarsi della Grande guerra alimentano,
inoltre, un antimilitarismo che tocca l’acme con il
“caso Masetti” (il soldato di leva che, a Bologna,
spara contro un ufficiale alla vigilia della partenza
per l’Africa) e la polemica sulle “compagnie di
disciplina” (i reparti di punizione cui vengono
assegnati i soldati in odore di sovversivismo). Ed
è proprio da una manifestazione antimilitarista,
com’è noto, che la Settimana Rossa prenderà le
mosse. Nel giugno 1914 Ancona, si diceva, è il
fulcro del movimento anarchico italiano. Lo è per i
suoi trascorsi, ma più ancora per il suo presente,
marcato dalla figura di Malatesta. Dopo un lungo
esilio speso fra l’Africa, l’America e l’Europa
centro-settentrionale, Questi era tornato in Italia
nel febbraio 1913, stabilendosi nel capoluogo
marchigiano, così come già allo scadere
dell’Ottocento. A spingerlo al rientro in un Paese
dove era ricercato per evasione (nel 1899 era
fuggito dal domicilio coatto di Lampedusa) è la
convinzione che lo Stato liberale stia vivendo
una crisi terminale, che coincide con il crollo del
modello giolittiano. Si aprono perciò varchi per
quella soluzione rivoluzionaria che Malatesta
continua a ritenere la sola strada percorribile per
giungere a una società davvero libera e giusta.
Lo schema d’azione che l’anarchico campano
adotta è identico a quello sperimentato alla
fine del XIX secolo, e fa perno su tre elementi.
In primo luogo, un gruppo di militanti capaci e
fidati, quelli stretti attorno al Circolo Studi Sociali,
fra i quali spiccano Cesare Agostinelli, Ariovisto
Pezzotti e i già ricordati Smorti, Angelozzi e
Felicioli. In secondo luogo, un giornale a larga
tiratura e ampia diffusione sul territorio nazionale
– “Volontà” (nel 1897-98 questo ruolo era stato
svolto da “L’Agitazione”) – che egli affida alla
cura redazionale di Agostinelli e Fabbri. Infine,
una densa tournée di conferenze e comizi ad
Ancona, nella sua provincia, nel resto delle
Marche e in Romagna. L’obiettivo di questa opera
di propaganda è duplice. Da un lato, preparare
il terreno, fra i ceti popolari, in vista di una
rivoluzione che egli ritiene imminente. Dall’altro,
cercare sponde fra le componenti del movimento
operaio più vicine alle posizioni anarchiche,
in particolare i repubblicani, che con i libertari
condividono l’ostilità per la monarchia. Sono
proprio l’ingombrante presenza di Malatesta e
l’impegno da questi profuso a cavallo fra il 1913
e il 1914 per diffondere il “verbo rivoluzionario”
ad accendere, fra il popolo ma anche fra le forze
dell’ordine, quegli animi che divamperanno nei
giorni seguiti ai fatti di Villa Rossa.
Mussolini e Nenni. Cronaca di un’amicizia finita
di Pietro Caruso
N
Nell’umanizzazione
di
Benito
Mussolini, soprattutto in Romagna,
permane
tenace
un’idea
dei
“compagni di Mussolini” che rimasero
in qualche modo amici anche dopo la
trasformazione del leader massimalista socialista
in duce del fascismo. L’idea poi che il socialista
Mussolini e il repubblicano Nenni abbiano
mantenuto quel legame è in realtà più il racconto
della vedova Rachele Guidi che una solida realtà.
E’ vero che il “no” all’impresa regia in Libia vide il
sindacalista repubblicano di origine faentina e il
segretario della federazione socialista forlivese li
vide accomunati e addirittura in prigione insieme,
ma fra il 1911 e il 1914 maturano due percorsi
diversi sui cui tratti, probabilmente, gli storici
potrebbero indagare fuori di ogni agiografia
che, per altro, non costituisce mai un probante
elemento di valutazione. Diciamo pure che il
legame di simpatia personale fra i due nacque
da una condivisione esistenziale: un maestro
elementare con un’infanzia tormentata e ribelle
e un orfano ribelle a ogni autorità come tanti
ragazzi sia pure in una non perfetta coincidenza
anagrafica si rilevavano nell’Italia a cavallo fra
Ottocento e Novecento con una certa facilità. Il
fatto di essere nati a distanza di poco meno di
venti chilometri uno dall’altra rendeva attraverso
il dialetto e la consuetudine di origine contadina,
oltre che della povertà, un tratto comune. Solo che
la militanza repubblicana di Nenni costituì una
sua iniziazione alla società e alla politica, mentre
la militanza socialista di Mussolini divenne ben
presto la rivalsa sociale e morale squisitamente
individualista forte anche della delusione per la
mancata carriera politica del padre Alessandro
che era stato un socialista internazionalista
consigliere comunale d’opposizione a Predappio.
Nenni maturerà un’adesione al socialismo
attraverso l’esaltazione di una concezione
collettiva e della suggestione sia pure solo
iniziale alla rivoluzione dei Soviet, per Mussolini
il percorso sarà inverso: più difficoltà alla sua
ascesa incontrerà nei socialisti, soprattutto
nella Milano dei riformisti Turati e Treves...di
cui si ricorderà Giacomo Matteotti, maggiore si
realizzerà un distacco violento e stizzito come era
nel soma della personalità di Mussolini. Rispetto
alla tradizione repubblicana coerente, ma anche
capace di isolarsi nell’esperienza politica del Pri,
Nenni e Mussolini saranno personalità diverse
ma legate da profonde inquietudini personali. In
occasione della Settimana Rossa però Nenni
seppe dimostrare di volere continuare ad essere
l’organizzatore sindacale dotato di una forte
carica utopica e rivoluzionaria, mentre Mussolini
di lì a pochi mesi inizierà quel percorso che lo
renderà un interventista di primo rango nella
Prima guerra mondiale. Gli storici sono in grado
di dimostrare che sia da parte inglese, sia da
parte francese quella sua svolta avrà anche
incentivi finanziari sostenuti per il Popolo d’Italia
e la sua veloce nascita come strumento di
propaganda e di proselitismo. Nenni difenderà
l’Avanti! dall’assalto di una squadraccia fascista,
Mussolini metterà all’indice gli ex-compagni e
li manderà al confino. Certo ai più pericolosi
intellettualmente come Matteotti e i fratelli
Rosselli ordinerà di eseguire verso di loro delle
vere condanne a morte. Altro che “compagni” di
Benito, amabile e in fondo umano. Come Caligola
solo chi si lasciò sedurre fu risparmiato. Questo in
occasione del centenario della Settimana Rossa
non va comunque dimenticato.
Pag. 3
CENTENARIO DELLA SETTIMANA ROSSA
7 GIUGNO 1914
7 GIUGNO 2014
“Settimana Rossa”: la lettura coeva dei fatti in un editoriale di Piero Pergoli
di Michele Millozzi
A
Allorché ci si rivolga alla letteratura
storica per una lettura degli eventi
scaturiti dal circolo repubblicano
anconitano di “Villa Rossa” (poi
detti e tramandatici della “Settimana
Rossa”) che caratterizzarono alcuni giorni di
subbuglio tra la prima e la seconda decade del
giugno 1914, si rileva l’univocità del giudizio
nell’individuare in quegli eventi non un vero
e proprio tentativo insurrezionale mirato ad
abbattere la monarchia quanto, piuttosto, un
moto avviato dall’istintiva reazione popolarepolitica all’uccisione di tre giovani: i repubblicani
Nello Budini e Antonio Casaccia, e l’anarchico
Attilio Giambrigoni.
Il tragico episodio, verificatosi ad Ancona nel
pomeriggio di domenica 7 giugno, avviene nel
momento in cui, dopo un comizio antimilitarista
(voluto contraltare alla tradizionale festa dello
Statuto allora, però, già percepita come giorno
di celebrazione della monarchia) tenuto dal
repubblicano Pietro Nenni e da altri oratori
della sinistra antisistema, si forma un corteo
dimostrativo che muove dal rione Capodimonte,
ove sorgeva appunto “Villa Rossa”, per dirigersi
verso Piazza Roma, al centro della città, dove si
stava esibendo una banda musicale. Alcuni carabinieri già presenti in servizio
di pubblica sicurezza all’assemblea di “Villa
Rossa”, non autorizzati all’uso delle armi, ma
forse provocati e impauriti perché fatti oggetto
di scherno e di aggressioni non solo verbali da
parte dei dimostranti più giovani, al tentativo
di costoro di sfondare il cordone protettivo
che avevavo steso intorno alla sfilata proprio
per evitare possibili disordini, presi dal panico,
sparano sulla folla. In città, sulla scia di questi
fatti, per l’onda della crescente, furiosa protesta
popolare subito innescatasi, avviene che lo
sciopero generale, pur immediatamente indetto
dalla Confederazione Generale del Lavoro, in
effetti si “attui prima ancora di essere proclamato”
e, comunque, viene esteso il giorno dopo a tutta
Italia. É così che lo spontaneo moto di ribellismo
anconitano diventa una sorta miccia per altri
“incendi” rivoltosi che, sviluppatisi in reazione a
catena, divampano in altre località marchigiane,
in città di altre regioni italiane e, in particolare,
nella vicina Romagna dove la rivolta raggiungerà
i più alti livelli di violenza e di devastazione.
Ora esula dal compito di questo intervento
intrattenersi nella narrazione degli eventi che si
susseguirono tra il 7 e qualche altro giorno di
quel giugno 1914 che - a nostro modo di vedere
- sono soltanto riconducibili nell’ambito di una
reazione popolare impulsiva e, inevitabilmente,
rabbiosa e aggressiva (nella quale, senza
dubbio, giocò anche la permanente situazione
di forte conflittualità politico-sociale dell’epoca)
ad un atto di smarrimento della ragione,
ispirato da cedimento nervoso che, lì per lì, al
momento della tragedia, venne però ritenuto e
vissuto dalla folla come una scoperta, insistita
e arrogante sopraffazione dell’oppressore
stato monarchico. Una reazione popolare ben
presto enfatizzata da certa retorica dei partiti
protagonisti di quelle giornate di insurrezione
popolare elevate a tentativo rivoluzionario
vero e proprio, e tramandateci, appunto, sotto
l’estesa e non proprio puntuale denominazione
“Settimana Rossa”. Consapevolmente, cioè, un
moto di spontaneismo (è il termine più ricorrente
nell’indagine storiografica e nella pubblicistica
sul tema) ribellista, certamente significativo di
per sé e con sviluppi dell’agitazione popolare
tutti e solo interni alle singole località tra loro non
collegate, viene collocato, per l’invocazione
dottrinaria
alla lotta
per l’instaurazione
dell’agognata repubblica che lo animò, nella
dimensione del mito rivoluzionario, mito
subito evocato nel corso del “Biennio Rosso”,
alimentato clandestinamente nel buio del
periodo fascista, affermato come tale nel
clima politico dell’immediato dopoguerra, ma
rivisitato e ridimensionato già nel declino degli
anni Cinquanta e primi Sessanta.E il ricorso
alla denominazione “Settimana Rossa” per
ricordarlo, risulta funzionale alla creazione del
mito dell’evento stesso e del suo perpetuarsi
nella memoria collettiva poiché, da un lato,
veniva esteso ad una “settimana” il periodo
temporale dell’agitazione che, in effetti, andava
spegnendosi già nella notte tra l’11 e il 12 giugno
e, da un altro, si aggiungeva a “settimana” quel
“rossa”, (giocando, forse, sull’aggettivo cromatico
già qualificante la sede repubblicana anconitana,
la “Villa Rossa”, appunto, ma aggettivo nel
richiamo dell’evento diversamente spendibile)
per definirlo in senso politico, squisitamente
politico, ma politicamente generico perché
riferito al blocco, alla coalizione di quei partiti
della sinistra antisistema che potevano essere
individuati - posti nel crogiolo di un eterogeneo
unicum (ci si passi la contraddizione in termini)
- come appartenenti ad una sinistra solo
genericamente definita “rossa”. E’ un fatto però
- o almeno così ci pare - che nel tempo, da
quella definizione degli eventi originati da “Villa
Rossa”, grazie ad una sorta di “appropriazione”,
magari pure involontaria
di gestione del
mito da parte del solo partito socialista scomparso il sindacalismo rivoluzionario e
decaduto l’anarchismo - gliene sia discesa
una sorta di primogenitura e di principale
protagonista della “Settimana Rossa”, favorito
pure, nell’accreditarsi in questo ruolo, proprio
dal passare degli anni. In questa direzione si
pensi, ad esempio, quanto, nel trascorrere delle
generazioni, possa essersi diluito nella memoria
comune il ricordo di Nenni repubblicano e di
leader repubblicano e, per contro, quanto vi si
sia accreditata e costantemente radicata la sua
figura di socialista e di leader socialista; così
come, allo stesso tempo, nella conoscenza
ordinaria, il “rosso” sia diventato il colore
distintivo, insegna emblematica e identificativa
dei partiti della sinistra marxista. Ma, nella
memoria storica, la direzione dei moti di quel
giugno 1914, quantomeno ad Ancona e in altre
località marchigiane come, ad esempio, nella
vicina Jesi, fu soprattutto - come ha affermato
Raffaele Molinelli - “nelle mani di repubblicani
e anarchici, anche se i socialisti presero parte
attiva ai moti”. Tuttavia, nel rapido esaurirsi
dei fatti della cosiddetta “Settimana Rossa”,
pur fortemente caratterizzati da vandalismi
e devastazioni consumati a danno di edifici
pubblici, di più e differenti uffici statali , di luoghi
religiosi e privati, ma ben presto “superati”
nell’attenzione della comunità civile e politica
all’eccidio, coinvolti anch’essi emotivamente ma
presumendo di sé, smarrita ogni lucidità, vollero
inneggiare alla rivoluzione per la Repubblica
(peraltro - a ben guardare - unico elemento
effettivamente comune nei differenti patrimoni
dottrinari), sbandierato passaporto istituzionale
salvifico
dall’opppressione
monarchica,
dall’ingiustizia sociale, dal militarismo, dal
clericalismo,
dall’anticolonialismo,
dalle
ignominie della politica giolittiana. Ritennero,
quei capi, che l’eccidio, appena perpetrato, fosse
il momento giusto e atteso, la “miccia”, appunto,
per accendere la rivoluzione per la repubblica
sociale: in altre parole, credettero, nell’immediato
dell’uccisione dei tre giovani, che la condizione
per avviare l’evento definitivamente eversivo
si fosse creato e che stava ora a loro guidarlo
adeguatamente. E nell’iniziare a cavalcare l’onda
- è detto con accezione positiva del termine
- del risentimento, del dolore, della rabbia
popolare - la proclamazione immediata dello
sciopero generale da parte della locale Camera
del Lavoro, in sintonia politica unitaria, sembrò
ai partiti “rossi” il primo, necessario passo in
quella direzione. Naturalmente, con altrettanta
rapidità, si accorsero che si sbagliavano, che,
in effetti, il successo dell’azione rivoluzionaria
necessitava di un’organizzazione che andasse
ben oltre l’invocazione, l’appello alla lotta per
la Repubblica, a partire da una preparazione
minuziosa per la quale - come ricorderà alcuni anni
PRINCIPALI MANIFESTAZIONI
Giovedi 5 Giugno Archivio di Stato via Maggini, 60 - ore 17,30
Presentazione del volume di Marco Severini
“LA SETTIMANA ROSSA”
Sabato 7 giugno Mole Vanvitelliana - ore 17,30
Inaugurazione
Giovedi 19 Giugno Mole Vanvitelliana - ore 17,30
Tavola rotonda
Venerdi 27 Giugno Mole Vanvitelliana - ore 17,30
Presentazione Numero Speciale del Lucifero
Sono previsti nei diversi incontri la partecipazione di:
Valeria Mancinelli - Sindaco di Ancona
Patrizia Casagrande - Commissario Provincia (An)
Pietro Marcolini - Assessore Cultura Regione Mrche
Mario Di Napoli - Presidente Nazionale A.M.I.
Marco Severini - Università di Macerata
Roberto Balzani - Università di Bologna
Luigi Lotti - Università di Firenze
Nino Lucantoni - Direttore Instituto Gramsci Marche
Pietro Caruso - Direttore de "Il Pensiero Mazziniano”
Filippo Giulioli - Presidente A.M.I. Ancona
dall’incombente scoppio della “Grande Guerra”,
degli eventi di quei pochi e caotici giorni vanno
ricordati almeno due aspetti significativi per la
loro effettiva comprensione. Da un lato se, al
ritorno della calma, la magistratura diede il via
ad una serie di arresti dei capi delle rivolte (ad
Ancona, tra gli altri, quello del vivacissimo Nenni,
allora alla Segreteria
della Consociazione
Repubblicana Marchigiana e direttore di
Lucifero, mentre riusciranno ad evitare la cattura
il leader anarchico Malatesta e il repubblicano
Oddo Marinelli), arresti cui seguiranno sì
i relativi processi ma anche l’ ampia amnistia
del 29 dicembre 1914, va allo stesso tempo
rilevato che nel corso della rivolta l’autorità
dello stato non venne mai meno conservando,
al tempo stesso, un atteggiamento - diremmo
oggi - responsabile, non ostacolando comizi
e dimostrazioni e limitandosi ad arginare, per
quanto possibile e senza far ricorso all’uso delle
armi, le azioni di distruzioni e di vandalismo.
Dall’altro, è un fatto che che i leaders dei partiti
antisistema, repubblicani, anarchici, socialisti
e sindacalisti rivoluzionari nei momenti seguiti
dopo Pietro Nenni - “occorrevano armi, denaro,
forze”, nonché da un minimo di coordinamento,
che non c’era, tra le località coinvolte. Infatti, le
rivolte scoppiate in giro per l’Italia, andarono
subito sviluppandosi senza alcun collegamento
tra loro, del tutto disarticolate e “col solo vincolo
- come ha scritto Luigi Lotti - della stessa
passione repubblicana”. Ne derivò che, preso
atto dell’errore di valutazione commesso per
la compresa impossibilità di dare uno sbocco
politico unitario al movimento protestatario
anche per l’evidente tenuta dell’apparato dello
stato, lo sciopero generale fu revocato dalla
CGdL con la stessa fretta con la quale era
stato indetto e, ad Ancona, la decisione di porre
fine all’agitazione venne subito realisticamente
avanzata da Nenni agli altri partiti, che avevano
costituito con i repubblicani una sorta di Governo
provvisorio, da loro accettata dopo qualche
iniziale resistenza.Dunque, tra la notte de 12
e il mattino del 13 giugno, cessato lo sciopero,
si spengono gli ultimi fuochi dell’agitazione
nata dai fatti della repubblicana “Villa Rossa”
di Ancona.A distanza di poco più che un mese,
nell’ editoriale di Lucifero del 26 luglio 1914,
su più aspetti degli eventi della “Settimana
Rossa” espone le sue riflessioni Piero Pergoli,
un giovanissimo - appena ventenne - militante
mazziniano destinato a collocarsi nella storia
politica del Novecento tra le figure di eccellenza
del movimento repubblicano non solo
marchigiano; un personaggio che, per il suo
straordinario spessore etico e culturale nonché
per la personale, lunga storia di impegno politico
mazziniano, ha incarnato passioni e valori propri
di di quella cosiddetta ”terza forza” della vita
politica nazionale nota come democrazia laica.
E’, questo suo lontano editoriale, prova palmare
di una cultura
generale e specificamente
politica già acquisite, nonché la manifestazione
di una personale, naturale inclinazione per un
giornalismo vivace e combattivo (caratteristiche
di cui le pagine di Lucifero godranno per tratti
assai lunghi della vita di Piero Pergoli), un
“insieme” davvero notevole considerata la sua
età che, comunque, fornisce all’editoriale in
questione, anche il “condimento” di un’adeguata
dose di baldanza giovanile. Lo scritto del giovane
repubblicano è strutturato come un vero e
proprio saggio. Un primo paragrafo, di carattere
introduttivo, si intrattiene sul superamento del
“conflitto permanente” dei partiti della sinistra
e sul loro approdo ad una “meravigliosa
concordia”, trovata grazie allo spontaneismo
popolare e al comune sentimento dottrinale
antimonarchico e repubblicano in occasione dei
fatti della “settimana Rossa”. Ne seguono altri
tre sottotitolati Verso la Repubblica Sociale, La
preparazione insurrezionale, I sovversivi di fronte
alla reazione ed una conclusione, anch’essa
sottotitolata, Unione! Unione! e quest’ultimo
paragrafo - più o meno volontariamente redatto
nella logica di un romanzo “circolare” - nella
sua invocazione imperativa riconnettendosi
al titolo dello scritto Per la Concentrazione
Rossa sintetizza in qualche parola il pensiero
dell’autore dell’articolo: pur a fronte del fallimento
dell’esperienza degli eventi della “Settimana
Rossa”, la coesione delle forze delle sinistre,
“l’unione dei rossi di ogni tendenza”, nel rispetto
dei loro dettati teorici, è ritenuta presupposto
e condizione necessaria, prioritaria alla lotta
antimonarchica per l’avvento della repubblica e
va da sé che questa posizione espressa da Piero
Pergoli, in quanto enunciata nell’editoriale di
Lucifero, allora organo di partito dei repubblicani
intransigenti, esprimeva la linea politica del partito
stesso. Scriveva testualmente Pergoli: “Non si
tratta di amalgamare le ideologie più disparate,
non si tratta di confondere in una torbida palude
i programmi più diversi, non si tratta di abdicare
alle particolari vedute dottrinarie, di rinunciare
alle divergenze ideologiche. Repubblicani,
anarchici, mazziniani, socialisti, sindacalisti
conservino inalterate le loro caratteristiche, ma
si tengano pronti a combattere gli uni al fianco
degli altri il giorno dell’azione”. Esortati così
i partiti della sinistra all’unitarismo operativo
e prefigurando all’azione corale del “blocco
rosso” un futuro di sicuro successo - con piglio
agitatorio ed un pizzico di ingenuità mista
a giovanile spavalderia espresse nello stile
retorico dell’epoca - concludeva: “Uniamoci e
la monarchia, questo colosso dai piedi di creta,
precipiterà nell’abisso travolgendo nella sua
rovina ogni privilegio di casta, ogni predominio
di classe”.In effetti il fiducioso appello di Piero
Pergoli è destinato, almeno per l’immediato, a
cadere nel vuoto. La dichiarazione di guerra
del 28 giugno 1914 dell’Austria alla Serbia sta
per aprire in Italia un altro scenario, quello del
periodo “neutralista” nel corso del quale le
posizioni dei partiti di sinistra, soprattutto quella
tra repubblicani favorevoli all’ingresso dell’Italia
in guerra e socialisti rivoluzionari, contrari si
allontaneranno. E - intervenuta peraltro nel
corso della “Grande Guerra” la rivoluzione
russa - si attesteranno su una linea di netta
contrapposizione nel primo dopoguerra sino al
momento di definitivo assalto del fascismo allo
stato liberale, sino cioè ai primi giorni dell’agosto
1922 quando, in occasione della proclamazione
dello “sciopero generale legalitario” indetto dall’
Alleanza del Lavoro, quella lontana esortazione
all’unità d’azione troverà, anche e soprattutto
ad Ancona, il suo momento attuazione. Si
tratterà, però, in tempi del tutto mutati rispetto
all’anteguerra, di un momento di azione corale
strumentale effettuata in chiave solo difensiva,
di ultimo baluardo di lotta unitaria di resistenza,
purtroppo soccombente, all’avanzata fascista
verso la presa del potere, e non di quel
movimento offensivo di slancio unitario auspicato
da Piero Pergoli e mirato all’ instaurazione della
Repubblica. Per l’avvento della Repubblica,
dell’Italia repubblicana, bisognerà attendere il
secondo dopoguerra, i secondi anni Quaranta,
poco più di 30 anni dai giorni di quel giugno
1914 : ma è stata davvero, questa Repubblica
finalmente raggiunta, il sogno realizzato di
quegli uomini e di quei partiti che, invocandola,
diedero vita ai fatti della “Settimana Rossa”?
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CENTENARIO DELLA SETTIMANA ROSSA
7 GIUGNO 1914
7 GIUGNO 2014
I GIORNI ROSSI NEL RAVENNATE La Settimana Rossa: la “battaglia” delle idee
Le nuove sfide per la sinistra
di Sauro Mattarelli
I
Il 7 giugno 1914: i partiti della sinistra
hanno indetto ad Ancona una manifestazione di protesta contro le compagnie di
disciplina dell’esercito. Il contemporaneo
svolgimento di una rivista militare induce
le autorità a vietare l’iniziativa che però, in
qualche modo, si svolge ugualmente: sotto forma di
un comizio a cui partecipano, tra gli altri, il repubblicano Pietro Nenni, direttore del giornale “Lucifero” e l’anarchico Errico Malatesta. Al termine viene
improvvisato un corteo che si scontra presto con le
forze dell’ordine, le quali ricorrono all’uso delle armi
da fuoco. Due manifestanti repubblicani e uno anarchico cadono uccisi. Per il giorno dopo viene proclamato uno sciopero generale che dilaga in tutta
l’Italia. In Romagna, soprattutto nel ravennate, la
protesta assume le dimensioni di una insurrezione
popolare. Vengono presi di mira i cosiddetti simboli
dell’oppressione con varie modalità: barricate, posti
di blocco, alberi della libertà eretti nelle piazze, assalti a chiese. L’esplosione di rabbia istintiva, viene
espressa soprattutto contro le cose; nonostante le
violenze infatti l’unica vittima sarà un commissario
di polizia, colpito al capo da una bottiglia. Ma la Romagna in quei giorni resta tagliata fuori da ogni comunicazione e le notizie, provenienti dalle altre città
con modalità vaghe e imprecise, creano un clima
per cui sono in molti a credere che la rivoluzione
sia scoppiata in tutto il Paese. Scriverà Luigi Lotti
che “un’inebriante ventata rivoluzionaria sommosse
in un attimo tutta la regione” e proprio sotto la spinta
di queste “false voci” si accesero gli antichi fervori
ribellistici, coltivati da anni di lunghe lotte sindacali
e politiche. Ingenuità e rivolta, unite in un singolare
miscuglio, descrivono bene lo stato dell’Italia alla
vigilia dello sparo di Sarajevo: un Paese con gravi
problemi sociali, forti radicalizzazioni e istituzioni
pericolosamente logore e inefficaci. Repubblicanesimo, anarco-sindacalismo e socialismo in questo
scenario si confrontano a distanza ravvicinata, sia
come concorrenti per la guida della sinistra, sia
come potenziali alleati. A Ravenna le cooperative
socialiste, “rosse”, di Nullo Baldini fronteggiavano
da anni quelle repubblicane, “gialle”, di Pietro Bondi
in una sfida che, oltre che ideologica, assumeva i
caratteri di una vera e propria competizione economica. Queste strutture, unitamente alle organizzazioni sindacali, rappresentavano un baluardo contro
la povertà e, nel contempo, un forte potere politicoeconomico. I terreni acquisiti dalla cooperazione e i
lavori eseguiti dalle associate alla Federazione delle Cooperative (socialista) e al Consorzio autonomo (repubblicano) avevano in effetti raggiunto cifre
ragguardevoli. La città era amministrata da giunte
repubblicane. Tutto questo implicava una qualche
forma di dialogo con le istituzioni monarchiche che
la settimana rossa mette in discussione, sotto l’onda
della “rivolta anomala”. Quelle ore convulse evidenziano con nuova luce la distanza che si interpone tra
la classe dirigente dei partiti dell’estrema e la base.
I “giorni rossi”, almeno in apparenza, uniscono infatti “dal basso” repubblicani, socialisti, mazziniani
intransigenti e anarchici, che lottano istintivamente
uno al fianco dell’altro e superano gli steccati ideologici in nome di un umanitarismo capace di attingere
dalle remote radici comuni. Le cooperative, rosse o
gialle poco importa, diventano in un attimo la metafora della Repubblica. Sintesi popolare mirabile, di
laicismo, anticlericalismo, opzione antimonarchica.
Il canto repubblicano “bangera rossa” inneggia a Pirolini, uno dei pochi capipopolo presenti e “accettati”
sulle tumultuose piazze romagnole; il refrain è lo
stesso di quello che sarebbe poi diventato uno dei
più noti inni comunisti d’Italia (Bandiera rossa).
Gli altri dirigenti risultano invece distanti, assenti,
diffidenti nel momento dell’azione. La successiva vit-
di Sara Samorì
toria del riformismo della CGL avrebbe enfatizzato
la sostanziale impreparazione del Partito socialista
e dei partiti della sinistra verso un’azione concretamente rivoluzionaria e quelle giornate scandiscono,
per l’appunto, l’abissale lontananza tra le istanze
ribellistiche di vasti strati popolari e un gruppo dirigente che ormai sembra destinare i proclami rivoluzionari solo per le piazze più calde, mentre in realtà
risulta sempre più calato nel ruolo di “gestore” delle
nuove strutture economiche e politiche “riformiste”,
se non di “fabbricatore di cerotti sociali e di empiastri
politici”, come scrisse sprezzante il giornale “Iniziativa” il 13 giugno del 1914. Si evidenzia, in altri termini, un inedito scollamento tra le masse e la casta
dei leader, secondo gli anarchici ormai schiacciata
da una “deriva riformista” che porta all’autoreferenza e alla difesa di una nuova, micidiale, burocrazia
sindacale. Da questa prospettiva non sono quindi le
divisioni ideologiche a dilaniare la sinistra, quanto,
piuttosto, gli affaristi senza scrupoli, gli opportunisti che riescono a infiltrarsi per “inconfessabili fini”
svuotando o depotenziando la carica rivoluzionaria dei partiti. Ma l’inno allo spontaneismo contro il
“burocratismo unidirezionale” si scontra con chi, già
allora, vede negli eccessi arbitrari dei rivoltosi, nel
loro distacco dai vertici, una “deriva populista”, una
pericolosa trasformazione della massa in “teppa”
miope, influenzabile, manipolabile. Il dibattito, sotto
forme e vesti variegate, avrebbe lacerato la sinistra
italiana anche negli anni a seguire.
Piazza di Fusignao (RA)
La cittadinanza innalza l’albero della libertà
In sintesi, la settimana rossa, oltre a sancire le divisioni “dall’alto” all’interno della sinistra, nel contempo registra la sconfitta dell’ala massimalista che,
nel fin dal congresso socialista di Ancona, aveva
proposto un’allettante opzione unitaria nel nome
di Amilcare Cipriani. Questo epilogo nel ravennate aveva avuto precedenti importanti: la scissione
nel movimento cooperativo e sindacale tra il 1909
e il 1910; la contrapposizione fra internazionalisti
e anticolonialisti, in occasione dell’impresa tripolina
del 1911; e infine, appena pochi giorni dopo questi
eventi, la definitiva rottura tra interventisti e neutralisti allo scoppio della Grande guerra, il 28 giugno
del 1914.
Siamo in piena «settimana rossa»: i cavalleggeri presidiano le campagne romagnole.
Sui muri bianchi dei cascinali spiccano le scritte della protesta libertaria e pacifista.
P
(10-24 giugno 1914)
Per una settimana, in quell’ultimo
scampolo di primavera del 1914,
sembrava che la rivoluzione in Italia
fosse a portata di mano. Che l’utopia
dell’emancipazione sociale, politica ed
economica delle masse popolari – idea
particolarmente cullata in terra di Romagna
dagli uomini del variegato mondo dell’Estrema
– potesse avverarsi, trasformando la ribellione
in un progetto politico più solido. In realtà,
anziché raggiungere un livello d’azione capace
di trasformare le aspirazioni in leggi, progetti e
strutture, la Settimana Rossa rappresentò, di
fatto, l’epilogo di un’epoca. Pochi giorni dopo,
infatti, i colpi sparati dal giovane nazionalista
slavo Gavrilo Princip a Sarajevo uccisero
l’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono
dell’Impero d’Austria-Ungheria, e la moglie
Sofia, innescando le micce di tutti i nazionalismi
e aprendo le macabre danze della Grande
Guerra. Merita una riflessione speciale il fatto
che mentre i lustrini, i decori e i costumi della
Belle Èpoque affascinavano l’Occidente, nel
ventre di quelle stesse società si muovevano
filoni culturali e politici molto distanti fra loro:
alcuni spronati da visioni egualitaristiche e
patriottismo; altri alimentati da mentalità
colonialista e sciovinismo. In mezzo a queste
coordinate si muovevano trasformismi di varia
natura e sfruttatori di opportunità che portarono
– come, ad esempio, con il voto favorevole agli
armamenti da parte di storici partiti della sinistra
europea – a far saltare alleanze ideali di carattere
internazionale, nel nome di una difesa che
mascherava frustrazione e velleità di supremazia.
Nel vortice degli eventi di quel drammatico
giugno 1914 è possibile riconosce una soglia
simbolica, con l’inizio di un’epoca caratterizzata
da conflitti di nuovo tipo, con lo sviluppo
tecnologico a decretare un salto di scala in
termini di distruzioni e morte, con il coinvolgimento
progressivo della popolazione civile nelle
vicende belliche, con l’ampliamento degli
scacchieri militari che assunsero una dimensione
mondiale. Non fu sufficiente la carneficina della
Prima guerra mondiale a chiudere questa
stagione. Anzi, le tensioni pregiudicarono
irrimediabilmente il quadro internazionale da far
piombare molte nazioni nella morsa di regimi
totalitari. E solo dopo aver pagato il prezzo di
dittature, conflitti e genocidi, quell’epoca si
concluse consegnando il testimone, fra il 1944 e
il 1948, a un sistema mondiale strutturato su
nuove regole e nuovi equilibri. Come è stato più
volte sottolineato correttamente, in sede
storiografica, le vicende della Settimana Rossa
vanno interpretate seguendo il solco delle forme
di protesta radicale che, soprattutto in Romagna,
aveva visto negli anni precedenti momenti di
altissima tensione - come le manifestazioni
contro la Guerra in Libia del 1911 e le proteste
divampate in seguito alla notizia della condanna
a morte del repubblicano e anticlericale catalano
Francisco Ferrer – declinando, nel caso di Forlì,
a precise chirurgie politiche come l’assalto alla
statua della beata vergine nella piazza principale
che ne determinò la rimozione. Ma non basta.
Le vicende del giugno 1914, vanno
contestualizzate in riferimento alle crisi
economiche e sociali determinatesi dalla fine
dell’Ottocento in poi e incalzate, da un lato, da
un decorso naturale degli eventi prodotti dalla
“grande” politica, dai processi di omologazione
dei partiti e dell’opinione pubblica; dall’altro,
dalle trasformazioni economiche che scandirono
i ritmi lunghi dei processi di modernizzazione e
la formazione di una prima base industriale. Per
il giovane ghota romagnolo che stava
soppiantando il notabilato postunitario si trattava
di suggellare una saldatura, rapida e ideale, ai
valori dominanti della nuova classe dirigente
italiana nata dopo la fine della parabola di Crispi
e la reazione alle manifestazioni contro il rincaro
del prezzo della farina e del pane che patirono a
fine aprile del 1898 dalla Romagna e che
culminarono con la carneficina di Milano nelle
giornate dal 6 al 9 maggio con le truppe del
generale Bava Beccaris che aprirono il fuoco sul
popolo. Gli albori dell’età giolittiana coincisero
con l’avvento delle prime amministrazioni
popolari con repubblicani e socialisti pronti a
guidare città e territorio.
A connotare
drammaticamente lo scenario economico della
Romagna e dell’Emilia di fine Ottocento erano
stati, da un lato, gli effetti della crisi nazionale
innescata dal fallimento della Banca Romana,
dall’altro, in sede locale, i fallimenti di diversi
istituti di credito, come le Banche Popolari di
Forlì e Meldola e il Banco di Sconto Riminese.
Da un punto di vista economico, l’intero territorio
romagnolo – che agli albori del XX secolo
stimava una popolazione di circa 700 mila
abitanti
–
presentava
una
vocazione
prevalentemente agricola dove coesistevano
segni di arretratezza a effetti del processo di
modernizzazione che aveva ricevuto un forte
impulso nel corso degli ultimi decenni
dell’Ottocento. Pur nel generale “ritardo”, la
tradizione di cultura agronomica che era stata
lanciata dai Comizi Agrari, dalle Cattedre
Ambulanti di Agricoltura, dai primi Istituti
sperimentali e dalla nascita di vere e proprie
scuole tecniche come il “Regio Istituto Agrario di
Cesena”, cominciava a produrre esiti. La
trasformazione del panorama economico
romagnolo dei primi due decenni del Novecento
ebbe come principali protagonisti il rapporto di
mezzadria in agricoltura – fondato su una solida
flessibilità e capace di assorbire facilmente le
innovazioni – e le nuove funzioni delle città in cui
s’imposero il ruolo “imprenditoriale” della classe
politica locale e una dimensione commerciale
imperniata su tre livelli: mercato cittadino, foro
boario e scalo merci della ferrovia. Da un punto
di vista sociale e politico, particolare rilievo
assunsero le Leghe e le Camere del Lavoro che
organizzarono la lotta sindacale. Nel 1901-1902,
le campagne furono attraversate da conflitti
sociali per la conquista di un nuovo patto di
mezzadria e dalle lotte bracciantili contro la
disoccupazione. Un nuovo corso, ormai, era
nelle mani dei nascenti partiti popolari. Il segno,
però, più emblematico del percorso giolittiano
nella “nostra periferia” venne offerto, qualche
anno più tardi, dalla reazione al devastante
uragano del 23 giugno 1905 che piegò la fiorente
agricoltura del territorio. Tuttavia, la svolta
liberale aveva portato con sé anche una
rinnovata vocazione pubblica che si concretizzò
grazie all’azione di Alessandro Fortis, che era in
quel momento Presidente del Consiglio dei
Ministri, e che fece estendere alla Romagna la
legge sulla calamità naturali già in vigore in
Veneto, ed ottenere, quindi, sostanziali
provvedimenti in campo creditizio. Un decennio
dopo, fra il 7 e il 14 giugno 1914, diversi focolai
politico-sociali in diverse parti d’Italia – anche in
Emilia Romagna – raggiunsero il punto apicale
nella cosiddetta Settimana rossa che precedette
il Primo conflitto mondiale. La scintilla, infatti,
che scatenò la reazione popolare e operaia,
ebbe origine ad Ancona, domenica 7 giugno
1914. Nei locali del circolo repubblicano “Villa
Rossa”, una compagine politica “mista” composta
da repubblicani, anarchici e socialisti, ospitarono
un comizio antimilitarista, contro le famigerate
“Compagnie di disciplina” dell’esercito e
protestando per le sorti del soldato bolognese
Masetti, inviato in un manicomio criminale a
Imola per avere sparato contro il proprio
colonnello all’inizio dell’impresa libica, e Antonio
Moroni che per le sue idee anti-militariste, subì
un destino analogo, subendo sevizie in una
Compagnia di disciplina dove era stato coscritto.
L’intenzione, nemmeno troppo celata, era quella
di dirigersi in corteo a piazza Roma per
protestare contro le celebrazioni della Festa
dello Statuto, “accarezzata”, storicamente, dai
favori liberali e monarchici. Per impedire il
passaggio del corteo, le forze dell’ordine
spararono sulla folla causando una decina di
feriti e tre morti: due giovani repubblicani – Nello
Budini, appena diciassettenne e Antonio
Casaccia, di soli ventiquattro anni – e un
anarchico, il ventiduenne Attilio Giambrignoni.
La notizia raggiunse rapidamente tutte le
principali città e territori italiani – da Milano,
Torino, Roma e Bologna, a Parma, Reggio
Emilia, Ravenna e Forlì – sollevando una
reazione a catena di rabbia e indignazione. La
“battaglia” delle idee, era appena iniziata.
SEGUE DA PAG. 1
considerazioni storiografiche
di Mario Di Napoli
La vicenda storica della Settimana rossa sta a
testimoniare che il solo potenziale rivoluzionario
che nell’Italia monarchica sia stato vivo è quello che
non si distaccava dalla tradizione risorgimentale
ma ne traeva anzi alimento, tenendo insieme
questione sociale e questione istituzionale, come
del resto era avvenuto anche per i fasci siciliani ed
i fatti di Lunigiana. La sostanziale astrazione che
da quella tradizione operò il partito socialista, sia
nella versione riformista che in quella massimalista,
finì per isolare i successivi moti post-bellici del
cosiddetto “biennio rosso” dal resto della società,
consentendo al nascente fascismo il facile gioco
di strumentalizzarli per demolire il già fiacco Stato
liberale che i venti di guerra avevano definitivamente
compromesso. In tale ottica, si può concludere che
la Settimana rossa fu un’occasione storica perduta
per una rivoluzione italiana da sinistra. Quella da
destra avrebbe invece di lì a pochi anni vinto senza
quasi combattere!
Dobbiamo ringraziare tutti i sottoscrittori
per la partecipazione a sostenere le
spese; una particoalre citazione la
rivolgiamo alla Direzione Nazionale della
Associazione Nazionale Mazziniana
Italiana A.M.I. ed al Centro Cooperativo
"Pensiero e Azione” di Senigallia per il
loro generoso sostegno.
Pag. 5
CENTENARIO DELLA SETTIMANA ROSSA
7 GIUGNO 1914
7 GIUGNO 2014
Cento anni fa: la Settimana rossa
SEGUE DA PAG. 1
Fine di un’epoca...
di Luigi Lotti
entusiasmanti, tanto frutto di speranze quanto
infondate. E oltre alla Romagna le manifestazioni
che esplosero in varie città italiane indicarono
un’esasperazione fortissima e una determinazione
inedita: nessuna assunse aspetti insurrezionali
come in Romagna, ma di tale inattesa virulenza da
sospingere le forze dell’ordine all’uso delle armi e
all’uccisione di altri tredici dimostranti oltre ai tre di
Ancona. L’atteggiamento del governo agli occhi dei
rivoltosi fu ancora più stupefacente: perché fu colto
di sorpresa, ma non si allarmò affatto, considerando
gli eventi come gravi ma non particolarmente
pericolosi per palese mancanza di possibilità di
sviluppi e di un piano operativo e perché frutto di
una spontaneità disorganica; e comunque perché
erano eventi riconducibili nell’ordine senza uso
drastico delle forza, ma solo con l’opportuno
spostamento di reparti di truppa per ripristinare
l’autorità dello stato con la sola presenza. Così
ad Ancona, ove reparti furono portati dalla
marina militare per ovviare ai ritardi provocati
dalla sciopero ferroviario; così in Romagna, dove
peraltro l’euforia iniziale si spense presto alle prime
cocenti smentite, sancite poi dalla cessazione dello
sciopero generale decisa dalla Confederazione
del Lavoro. Ma oltre al cauto atteggiamento del
governo fu ancor più sorprendente per i rivoluzionari
vedere le popolazioni cittadine acclamare le forze
dell’ordine, nonché l’improvvisa comparsa di
manifestazioni giovanili inneggianti alla patria e
all’esercito. Ovviamente le ire dei rivoluzionari si
scatenarono contro la Confederazione, ma erano
solo alibi ad un fallimento inevitabile e incombente.
D’altra parte era impensabile e assurdo che i nuclei
rivoluzionari potessero fare affidamento sulla
maggiore organizzazione del lavoro in Italia, che era
anche la roccaforte del riformismo graduale. Tutti si
impegnarono a magnificare la vastità e la forza del
movimento che esprimeva un autentico e profondo
anelito di rinnovamento democratico. Pensarono
che fosse stato comunque il preludio ad un rilancio
successivo. Anche Mussolini intitolò sull’Avanti
“Tregua d’armi” l’annuncio della fine dello sciopero;
del resto egli era sicuro che il moto sarebbe stato
schiacciato, ma che dovesse essere una “giornata
storica” foriera di avvenire. L’Italia ufficiale aveva
vinto; ma restava il quadro drammatico di un’ Italia
divisa e contrapposta. Quale futuro l’aspettasse
nessuno poteva saperlo. Al momento era vincente la
Stato risorgimentale garante dell’ordine e dei valori
di libertà da cui era nato e che stava gradualmente
proiettandosi verso trasformazioni democratiche; ed
era perdente la vocazione rivoluzionaria, sospinta
da finalità plurime ma ora con forte accentuazione
di quella classista. Ma quindici giorni dopo la
settimana rossa fu ucciso a Sarajevo l’erede al
trono dell’Impero austro-ungarico e un mese più
tardi scoppiò la prima guerra mondiale. Tutto il
quadro politico italiano ne fu stravolto dal dilemma
fra interventismo e neutralismo, sia fra quanti si
riconoscevano nello stato sia fra quanti si erano
riconosciuti nelle aspettative rivoluzionarie. Più
ancora l’intera Europa si avviò inconsapevolmente
verso il proprio suicidio tramite il turbine della
guerra, e poi dei regimi autoritari e della rivoluzione
russa che avrebbero condizionato la storia del
ventesimo secolo.
di Gwenola Spataro
A distanza di mezzo secolo dall’unica
monografia sul tema – quella di Luigi
Lotti – un nuovo libro presenta una
ricostruzione ampia e diversificata di
quel moto di agitazione, scioperi e
contestazioni verso lo Stato liberale
che esattamente un secolo fa mise a dura prova
il nuovo governo guidato da Antonio Salandra. Si
registrarono 17 morti e centinaia di feriti; un
generale dell’esercito consegnò la propria spada
ai manifestanti e un viceprefetto cedette i poteri
all’esercito senza avvisare preventivamente il
ministero dell’Interno; si susseguirono lungo tutta
la penisola notizie vere e altre completamente
destituite di fondamento come la fuga del
monarca e la proclamazione della repubblica.
Insomma c’era proprio bisogno di rinfrescare la
storia e la memoria di quella che da allora in
avanti è stata chiamata la Settimana rossa e lo fa
opportunamente questo volume collettaneo (La
Settimana rossa, a cura di Marco Severini,
Aracne, Roma 2014, pp. 415) appena uscito e
presentato, lo scorso maggio, al XXVII Salone
Internazionale del Libro di Torino.L’opera è stata
realizzata da ventuno studiosi che, sfruttando un
vasto materiale archivistico, pubblicistico e
documentario (in buona parte inedito),
presentano una ricostruzione organica e
minuziosa della genesi, dello sviluppo e delle
conseguenze - specie sul terreno politico, civile e
memoriale - degli eventi del giugno 1914. Rossa
viene dal soprannome dato comunemente alla
villa anconetana di via Torrioni dove si trovava la
sede del circolo repubblicano “Gioventù ribelle”
in cui si svolgevano dibattiti e discorsi politici e da
dove è scaturito il moto insurrezionale: l’aggettivo
rossa, inoltre, si riferisce sia alle bandiere rosse
che campeggiarono dai balconi di molte città in
quei giorni drammatici sia al sangue versato
durante le risse contro le forze dell’ordine. Nella
prima parte del volume sono analizzati gli eventi
del giugno del 1914, a partire dagli eccidi compiuti
ad Ancona e nel resto del Paese. In questa
storica settimana (7-14 giugno 1914) si sono
distinte personalità come Pietro Nenni, esponente
repubblicano e direttore del giornale “Lucifero”;
Errico Malatesta, leader anarchico e penna
infuocata del periodico “Volontà”; il socialista
massimalista Benito Mussolini direttore de
“l’Avanti!”. Solo i primi due, però, hanno
partecipato attivamente alla Settimana rossa ad
Ancona, mentre il terzo è rimasto a Milano,
giocando un ruolo – come già scrisse Renzo De
Felice – sostanzialmente secondario. Il contesto
storico dei dieci primi anni del Novecento era
perturbato.
C’erano
scioperi
importanti,
manifestazioni, un malcontento generale. Il
premier Giovanni Giolitti aveva rassegnato le
dimissioni il 10 marzo 1914; giungeva, dopo una
fitta rete di consultazioni, alla presidenza del
Consiglio il conservatore pugliese Antonio
Salandra. Ad Ancona, il 7 maggio 1914 - giorno
della festa dello Statuto - , a Villa Torrioni si tenne
un comizio in cui Nenni e Malatesta arringarono
davanti a centinaia di persone, parlando l’uno
contro il militarismo e l’altro contro i propositi dell’
“Avanti!”. Nel tardo pomeriggio, la forza pubblica
impedì ai manifestanti di raggiungere la piazza
centrale del capoluogo marchigiano in cui si
A
stava suonando la marcia reale. Cominciò allora
una rissa. I carabinieri sentirono un colpo di
rivoltella e si misero a fare fuoco sui manifestanti:
persero la vita i giovani repubblicani Nello Budini
e Antonio Casaccia e l’anarchico Attilio
Giambrignoni (in realtà Ciambrignoni, ci informa
il libro). Nell’arco di poco tempo la notizia fece il
giro d’Italia e, in segno di protesta, il Psi, la Cgdl
e il Sindacato ferrovieri proclamarono lo sciopero
generale. Oltre alla ricostruzione dettagliata
degli avvenimenti di quella drammatica
settimana, la prima parte dell’opera è dedicata
all’analisi della sovversiva – anarchici,
repubblicani e socialisti fecero fronte comune
contro il governo, ma il loro scopo non era lo
stesso; i malatestiani volevano abbattere lo
Stato, mentre i socialisti volevano riformarlo -,
del ruolo della stampa attraverso diverse
testimonianze, del dibattito parlamentare e della
dimensione processuale. Il repubblicanesimo,
che aveva da poco ratificato la “scelta di sinistra”
patrocinata dai giovani dirigenti marchigiani
Conti e Zuccarini (segretario del Pri) e sostenuta
dal direttore del «Lucifero» Nenni, giocò un ruolo
di primo piano nei fatti di giugno, anche se si
espresse attraverso forme e modalità diverse da
località a località: Nenni fu con Malatesta il
protagonista degli eventi anconetani successivi
all’eccidio del 7 giugno; il militante Antonio
Magrini, nato a Roma e radicatosi dal 1907 nelle
Marche, primeggiò negli eventi di Senigallia e
del suo circondario; in altri casi, i leader
repubblicani locali mediarono tra la forza pubblica
e le frange più violente dei manifestanti, evitando
pericolose conseguenze. Conclusi gli eventi
sovversivi, la stampa ricordò per qualche tempo
l’anniversario, ma presto gli avvenimenti
scomparvero dalle colonne dei giornali. Con il
trascorrere del Novecento – e la crisi della
politica – si è parlato sempre di meno della
Settimana rossa anche perché questa fu seguita,
tre settimane dopo, dallo scoppio della prima
guerra mondiale. Un disegno di legge per la
nomina di una Commissione parlamentare
d’inchiesta venne presentato per condannare i
colpevoli degli eventi di giugno. Però, poco dopo,
il Parlamento smise di interessarsi della vicenda.
Sul piano giudiziario, dopo le denunce inoltrate
dall’autorità di Pubblica sicurezza alla Procura di
Ancona e i numerosi mandati di arresto spiccati,
l’amnistia concessa il 30 dicembre 1914 da
Vittorio Emanuele III in seguito alla nascita della
sua ultimogenita liberò i detenuti per i fatti di
giugno. La seconda parte dell’opera si occupa
del contesto internazionale, esaminando, altresì,
una figura importante come quella di Filippo
Corridoni; altre pagine documentate e non meno
rilevanti si occupano del ruolo giocato dal
Sindacato ferrovieri, dalla massoneria nel
tramonto dell’età giolittiana e della risposta
cattolica a quel drammatico episodio. Negli Stati
Uniti e in Inghilterra, nello stesso frangente, si
verificarono lotte operaie e proteste contro lo
Stato. Figura rilevante del movimento operaio
americano fu Eugene V. Debs, fondatore del
movimento sindacalista. Nel 1905, è stato
fondato il Partito mondiale dei lavoratori industriali
da Williams Haywood e Mary “Mother” Jones. In
Inghilterra, l’emblema socialista fu Robert
Blackford. La terza parte si focalizza sulle
periferie italiane interessate dalla Settimana
rossa: la Romagna che condivise con
l’Anconetano il carattere insurrezionale del moto;
l’Emilia, con un capitolo particolare, molto
documentato, su Parma; Roma e Firenze; Torino,
Genova e il Nord-ovest; Milano e il Nord-est e per
finire, nel Sud, Napoli e Palermo. Al di là delle
Marche e della Romagna, nel resto del Paese si
verificarono consistenti proteste, il blocco delle
comunicazioni ferroviarie e dei giornali,
l’astensione lavorativa e numerosi scioperi. Ma
alla fine, tutto tornò alla normalità. Il volume, che
si conclude con una parte concernente la
dimensione biografica e storiografica della
Settimana rossa, presenta una serie di elementi
indubbiamente innovativi: la rivisitazione attenta
e minuziosa dei percorsi biografici di protagonisti
e comprimari; l’analisi circostanziata delle
principali periferie coinvolte nel moto, del modo
con cui giunsero agli eventi sovversivi e delle
conseguenze che questi ultimi ebbero sulla lotta
politico-amministrativa; una narrazione degli
eventi calata in un contesto storico e storiografico
più ampio e problematico; lo sviluppo di
orientamenti di studio aggiornati alla più
accreditata storiogragfia (il ruolo delle donne;
l’eco della stampa; i rapporti centro-periferia; i
riflessi delle lotte operaie in Europa e negli Stati
Uniti, etc.); il supporto di ineludibili strumenti di
storicità (come l’accurato indice dei nomi che
invece mancava nel lavoro di Lotti). La Settimana
rossa fallì per mancanza di coordinamento e di
gestione tra le anime del sovversivismo italiano,
ma molti italiani si convinsero che fosse giunta
l’ora della rivoluzione; si sbagliavano perché –
come afferma in più parti l’opera – sarebbero
presto caduti vittime, nei più diversi sensi, di una
tragedia ancora più grande e assurda che
avrebbe cambiato radicalmente il corso della
storia.
ANCONA CITTA’ RIBELLE
di Gilberto Piccinini
I tumultuosi avvenimenti del giugno di
cento anni fa costituirono il momento più
alto di un periodo, almeno un quindicennio,
in cui scioperi e manifestazioni di piazza
avevano segnato la vita cittadina come
tangibili testimonianze di una realtà sociale e politica
in fermento, quasi sempre imposti da crisi economiche
e di sistema, rispetto alle quali non c’erano state
adeguate risposte da parte delle istituzioni locali e
nazionali. E l’unico mezzo, ritenuto il più efficace a
ogni occasione, fu intravisto nell’uso della forza e della
repressione poliziesca, con il continuo rinvio a tempi
migliori di opportune decisioni per affrontare di petto
la disoccupazione e la miseria della popolazione.
Ancona conobbe un processo di industrializzazione
lento nel primo trentennio dopo l’unificazione e le
nuove imprese avevano continuato a sorgere attorno
a quella che era stata per secoli la prima occasione
di ricchezza, ovverossia lo scalo portuale, nei cui
confronti lo stato unitario non seppe mai compiere
la scelta se farne un punto di forza degli scambi
commerciali o una base navale delle forze armate. La
stessa vicenda della presenza in Ancona della Marina
militare o degli altri organismi dell’esercito, sul ruolo
dei quali non ci si può soffermare oltre, ne è stata
buona testimonianza. Gli stessi scambi commerciali
dipesero a lungo dal trasporto delle derrate agricole
e del carbone, primaria fonte energetica per gli
usi civili e industriali. La crisi dell’ultimo decennio
dell’ottocento che si aggravò sempre più man mano
che s’intravvedeva il passaggio al XX secolo, aveva
dato luogo a forti sommosse popolari, già nel gennaio
del 1898, con qualche mese d’anticipo su quanto
avverrà a Milano nel maggio successivo, quando
il generale Bava Beccaris ordinerà alle truppe di
sparare sulla folla tumultuante al grido di “pane e
lavoro!”. Anche in Ancona la rivolta era stata dettata
I
dalla fame e l’unica risposta dei ceti dirigenti era stata
quella di riversare le colpe su anarchici e socialisti.
In quell’occasione pochi avevano visto giusto nella
valutazione della presa dell’anarchismo sul mondo
operaio e dei sempre più consistenti consensi raccolti
da Enrico Malatesta, con le sue frequenti presenze
in città. L’indifferenza o incapacità dei governanti
portò a nuove sollevazioni popolari nel dicembre del
1905, quando ancora gli scioperanti furono costretti
a scendere in piazza contro i rincari dei prezzi dei
generi di maggior consumo. Moti popolari, questi
ultimi, attraverso i quali si manifestò pure il disagio
creatosi fin da quando, appena entrati nel nuovo
secolo, aveva incominciato a incepparsi la macchina
comunale a causa dei contrasti politici che avevano
portato a frequenti passaggi di mano tra sindaci,
giunte e commissari prefettizi, con la conseguente
assenza di governo della città e del territorio. Tra
il 1900 e il 1914, Ancona registrò il transito di 10
sindaci e 8 commissari prefettizi e, ovviamente, ad
ogni dimissione del sindaco aveva fatto seguito lo
scioglimento del consiglio comunale e il richiamo
dell’elettorato alle urne. Un elettorato più che mai in
subbuglio conteso tra le vecchie forze conservatrici
del partito liberale, rinvigorite dal ritorno e dalla
rapida ascesa al governo di Giovanni Giolitti, da una
sempre più forte presenza di socialisti, repubblicani
e anarchici, via via che s’allargò l’elettorato. Ma
c’è da tener conto pure del ruolo dei cattolici,
organizzati e rafforzati sul piano politico dalla lezione
murriana della prima democrazia cristiana, che
in Ancona ebbe successo e crescente numero di
consensi attraverso l’organizzazione di validi circoli e
associazioni dove si trattavano argomenti attinenti al
lavoro, al credito, all’educazione, all’emancipazione
femminile e quindi si curava in modo particolare
una qualificata preparazione alla vita politica.
Un’attività che aveva trovato modo di farsi conoscere
attraverso un giornale, “La Patria” e il sostegno di
un vescovo, il cardinal Manara, prossimo al Murri
e ai modernisti. Una breve stagione che non andrà
oltre il 1907, destinata a tramontare dopo la morte di
papa Leone XIII, e l’ascesa al pontificato di Pio X, la
quasi contemporanea morte del cardinal Manara e
l’avvento di Giovan Battista Ricci, uomo più attento
agli indirizzi vaticani, che volle la chiusura de “La
Patria”, l’allontanamento di Murri e poi, da ultimo,
la sua sospensione “a divinis”. Tali fatti porteranno a
una serie di provvedimenti contro uomini di chiesa
e laici ritenuti d’idee e di principi troppo rivoluzionari
all’interno del mondo cattolico. Ma le repressioni
non significarono il cedimento in blocco dei cattolici
che continueranno, comunque, seppure a ranghi
ridotti, ad occuparsi di politica e a fiancheggiare
il ceto liberale fino a trovare una nuova energia
dopo l’accordo intervenuto tra il liberale Giolitti e il
cattolico Gentiloni, che permetterà di superare il
non expedit di Pio IX e la possibilità, quindi, per i
cattolici di concorrere al seggio parlamentare nelle
elezioni politiche del 1913. Quella tornata elettorale,
lo ricordiamo, fu la prima a suffragio universale, alla
quale poterono partecipare tutti i maschi, senza limiti
di censo, ossia di reddito, ma che escludeva ancora
le donne, destinate a rimanere lontano dalle urne
fino al referendum istituzionale del 2 giugno 1946,
attraverso il quale gli Italiani scelsero la nuova forma
istituzionale della Repubblica. Il suffragio universale
era stato considerato una vittoria che a livello
comunale aveva portato, però, all’elezione di un
Sindaco, l’avv. Veschi, debole di fronte alle pressioni
dei suoi sostenitori liberalcattolici. Veschi non restò
a lungo alla guida del Comune e fu, a sua volta,
sostituito da un commissario prefettizio, al quale
toccò il compito di far fronte alle principali questioni
che resero bollente la primavera del 1914. Difatti si
fecero sentire con i toni più forti i contrasti tra le ali del
socialismo riformista e quelle rivoluzionarie nel corso
del XIV congresso nazionale del PSI, che si tenne
in Ancona dal 26 al 29 aprile, e che vide vincitrice
i rivoluzionari capeggiati da Benito Mussolini, da
poco più di un anno direttore dell’Avanti. Anche i
repubblicani in quei mesi si trovarono di fronte a difficili
scelte e non poco si sentì la voce del direttore del
loro storico giornale “Lucifero”, Pietro Nenni. C’erano
in campo anche le prime agguerrite formazioni
di nazionalisti che avevano mostrato la loro forza
ancor prima dell’intervento italiano in Cirenaica e
più ancora nel periodo del conflitto, ideologicamente
preparati anche dalle ripetute presenze in città di
Gabriele D’Annunzio. Tra le poche realizzazioni
avviate nei tre lustri d’inizio secolo, si possono
ricordare i programmi di sviluppo edilizio oltre la
cinta muraria cinquecentesca nella piana degli orti,
agevolati dall’approvazione, nel 1903, di un piano
regolatore. In quelle aree sorgerà il nuovo Ospedale,
iniziato nel 1906 e inaugurato nel 1911, il quartiere
per gli impiegati, che assumerà la denominazione di
“Adriatico”, e poi, dal 1913, saranno avviati i lavori per
il tracciato del viale Adriatico (ora viale della Vittoria),
giunto a completamento nell’arco di venticinque anni,
in piena era fascista. Quasi in contemporanea sorsero
le nuove abitazioni di edilizia popolare nelle periferie,
forti delle agevolazioni fiscali approntate con la
legge Luzzatti del 1903. Altri interventi riguardarono
l’edilizia scolastica nel centro urbano e nelle frazioni;
la realizzazione dell’acquedotto pubblico ultimato
tra il 1910 e l’11; un generale riassetto della viabilità
urbana ed extraurbana, con la progettazione della
filovia per Falconara, adatta a poter cogliere le nuove
opportunità di lavoro e di sostentamento offerte dalla
balneazione sulla spiaggia di Palombina.
Pag. 6
7 GIUGNO 1914
CENTENARIO DELLA SETTIMANA ROSSA
7 GIUGNO 2014
Quelle tre giovani vite sulla bilancia della storia Ancona ed il Mediterraneo a fine ‘800
Brilla da Ancona la fiammella della rivoluzione
di Luca Guazzati
La situazione politica, il “sentire
comune” in una città come Ancona fra
1914 e 1920 sono indicativi di un grande
cambiamento. Dapprima gli entusiasmi
per i fatti nazionali, poi l’ascesa di un
certo Mussolini, della sua rivoluzione
e quindi della legge fascista. In tal senso, fra
la Settimana Rossa e la guerra, l’ambiente di
Ancona è scaldato da rivolgimenti epocali. Le
forze d’opposizione e sovversive prendono forza.
Formano alleanze insospettabilmente salde che
si allargano via via. La vicenda di Domenico
Pacetti deputato e sindaco, rispecchia il delicato
divenire dei massoni.
Così, il deciso “scivolare”
dei repubblicani e gran
parte
dei
socialisti,
verso
nazionalismo
e interventismo. Non
ultimo c’è l’Anarchismo,
ancor più estremista,
contro “birri”, blasone,
regole e monarchia, ad
interpretare lo scontento
di massa. Malatesta è
amato dagli anconetani
perché
dice
senza
mezze misure che la
guerra se la possono
permettere i ricchi, che i governi tolgono diritti e
beni ai cittadini, che i preti hanno perduto ogni
missione educativa. Ad essere messa all’indice è
per prima la massoneria. Al Congresso Socialista
di Ancona, il 27 aprile 1914, l’inconciliabilità
e la divergenza secondo il giovane Mussolini
diventano incompatibilità, pericolosità, addirittura
vigliaccheria… dentro il partito socialista. E’ il
prodromo delle leggi fasciste che vieteranno
anche il libero pensiero. Il 1914 fu un anno molto
particolare per Ancona. Dopo poche settimane
dal Congresso Socialista, il 7 giugno, festa dello
Statuto, anarchici e repubblicani protestano a
Villa Rossa contro le punizioni inflitte ai soldati
Masetti e Moroni rifiutatisi di partire per la Libia.
Notabili e alta borghesia stavolta non stanno alla
porta e si schierano per la sommossa chiamando
a raccolta le forze tradizionalmente vicine: ex
garibaldini, repubblicani, socialisti, intellettuali
progressisti, fianco a fianco in piazza, con gli
anarchici. E’ qui il punto di incontro dei facinorosi
seguaci di Malatesta con i prìncipi del Foro dorico.
Da Vecchini allo stesso Marinelli che difenderà
da legale gli accusati della Settimana Rossa. La
protesta di strada si organizza e muove verso
Villa Rossa, in quel funesto giorno. I disordini
crescono, il “birro” si sente minacciato, spara.
Restano sul selciato tre giovani vite. I capi della
L
rivolta sono anarchici, repubblicani, garibaldini.
Una forza crescente, sovversiva, minacciosa…
ma ancora magma indefinito. Mussolini lo vede
subito. E frena l’onda rivoluzionaria dei suoi,
con intuizione da grande stratega. I socialisti
rimangono indietro, indecisi sull’appoggio ulteriore
ai moti di piazza. Ma i sindacalisti non raccolgono
il messaggio sovversivo… facendo fallire sul
nascere lo sciopero generale, che doveva dare il
via alla rivoluzione nazionale. Lo stesso Mussolini
è già verso quell’interventismo nazionalista
che sarà del nuovo fascismo. Oddo Marinelli,
giovane avvocato, attivista repubblicano, diventa
protagonista da Ancona
a livello nazionale. La sua
storia segna quella della
massoneria dorica dove
ricopre tutte le cariche.
Torna poi a segnare il
passo, nell’anonimato,
dopo la serie di fallimenti
inanellata con ultima
proprio l’insorgenza di
Ancona, l’Anarchismo. I
suoi leader incarcerati,
perseguitati,
additati,
precipitano nel buio. Al
contempo il contrasto fra
riformisti e rivoluzionari
si manifesta più forte e finisce nella confusione di
orientamenti ed indirizzi alimentata dal sistema
politico giolittiano. E’ in crisi tutta la concezione
liberal democratica. Infine, l’accolita sovversiva
dei “rossi” trova per la prima volta la resistenza
“bianca” del movimento cattolico e dei popolari.
In questo momento la radicalizzazione mancata
dell’insurrezione causa il distacco dalle forze
democratiche, moderate e liberali, di nuove
correnti nazionaliste. Una crisi che evidenzia
limiti e carenze delle forze anarcosindacaliste
e rafforza la convinzione che ci sia bisogno di
nuove prove di forza, per dirla alla Mussolini. La
guerra di Libia ne era stata un primo esempio.
Poi, verrà l’irredentismo, a scaldare quegli animi
e quindi, il buio periodo della grande guerra. Su
Lucifero appaiono inni alla certezza della vittoria.
La necessità di dichiararsi ed agire da “oltranzisti”
– parole di Marinelli – per sconfiggere la Germania
che nega le virtù personali e collettive. Ma ancora
più aperta e palese è la tendenziale simpatia dei
repubblicani per l’interventismo, quando lontani e
al fronte sono personaggi come Zuccarini, Conti
e Pergoli. Nenni, Gabani e Marinelli, nel maggio
1915, guidano un altro corteo minaccioso, proprio
interventista, fin sotto Villa Rossa. Gli ideali sono
ormai del tutto cambiati.
I
di Nicola Sbano
In questo numero speciale de Il Lucifero,
da più autori di contributi si fa riferimento
alla spedizione italiana di Libia del
1911, grande regione nordafricana
allora ricompresa nei confini dell’Impero
ottomano, che valse, usando l’immagine
pascoliana, alla grande Proletaria la conquista di
una colonia. Il ricordo di questo fatto storico ha fatto
riaffiorare alla mia memoria una ricerca fatta vari
anni fa su due avvocati iscritti all’Ordine di Ancona
dagli ultimi anni del secolo XIX sino agli anni ’20 del
successivo, ma residenti stabilmente uno, Enrico
Lusena, a Il Cairo ed il secondo, Elio Martinetti,
ad Alessandria d’Egitto. Ebbi così l’occasione di
cercare di spiegare il motivo di queste inusuali
iscrizioni. Con legge consolare del 1858, il Regno
di Sardegna costituì presso le sedi consolari di
città di altri Paesi che vedevano la presenza di
importanti comunità italiane di emigranti, tribunali
consolari presieduti dal console che, coadiuvato
da due cittadini meritevoli della comunità residente,
avevano la competenza sulle controversie civili che
potevano insorgere tra emigrati italiani e sui reati che
essi potevano commettere anche contro non italiani.
Come intuibile, questa giurisdizione aveva una
antica storia, risalente alle Capitolazioni stipulate
nel XVI secolo tra Solimano il Magnifico e il Re di
Francia. Tagliando il molto che sarebbe da illustrare,
debbo dire che le sentenze civili e penali emanate
dai tribunali consolari delle città mediterranee
dell’Impero Ottomano (Il Cairo, Alessandria d’Egitto,
Porto Said, Smirne, Costantinopoli, Salonicco,
salvo altre città), erano impugnabili avanti la
Corte di Appello di Ancona e questo già spiega la
ragione della iscrizione all’albo Avvocati della città,
di due avvocati esercenti la professione in Egitto e
colà residenti.Accertai anche che un professore
dell’Università di Urbino, Piergiacomo Magri, storico
del diritto, circa vent’anni prima, primi anni ’90, aveva
promosso lo studio e la catalogazione delle sentenze
rese in grado di appello dalla Corte di Ancona, con
la collaborazione del giovane studioso Enzo Fimiani,
ora direttore della Biblioteca Provinciale di Pescara.
La lettura dei dispositivi mi consentì di conoscere
non solo i reati addebitati e la qualità delle persone
processate, tutte italiane, ma anche quali fossero
la provenienza, la vita e le sofferenze dei nostri
emigranti stabiliti in città nordafricane o del Medio
Oriente. L’eccellente lavoro diretto dal professor
Magri ha messo in luce uno spaccato della esistenza
e della composizione sociale di queste comunità,
fornendo informazioni di eccezionale interesse,
sinora ignorate o inspiegabilmente trascurate dagli
storici sociali e dai sociologi. La storia è sempre
stata molto complessa e non può essere fatta a
colpi di buonismo semplicione, con senno del poi,
ignorando le situazioni e le condizioni del tempo ed in
particolare cos’era la Libia agli inizi del XX secolo, chi
la popolava e quale fosse la sua società, quale fosse
all’epoca la nostra migrazione nel Mediterraneo, da
Salonicco a Malta, da Smirne ad Alessandria d’Egitto
ed a Tunisi, che non sembra affatto affermativa di
spirito di conquista, ma mossa da necessità di lavoro,
da realizzare nello spirito di una koinè mediterranea.
In questa molte comunità italiane, prevalentemente
di diseredati, hanno il cercato il loro posto al sole.
Ricordo che questa migrazione verso città del
Mediterraneo è stata imponente, con centinaia di
migliaia di nostri concittadini sparsi ovunque, anche
in Paesi diversi dall’Impero Ottomano; questo mi
ha convinto che la guerra di Libia del 1911 non sia
insorta per motivazioni semplicemente coloniali
e nazionalistiche, ma da ragioni più complesse
e popolari che hanno visto sensibili sia la piccola
borghesia produttiva del Nord d’Italia, sia i proletari
del Mezzogiorno e tali da dividere in Parlamento sia
i liberali, sia i democratici italiani sia la sinistra. La
lettura del lavoro mi ha dato anche un’altra sorpresa,
avendo come appendice una raccolta delle notizie
relative all’Africa pubblicate da “Il Lucifero” tra il 1871
ed il 1921. Fra le notizie pubblicate appaiono necrologi
e commemorazioni di repubblicani combattenti
nelle guerre di indipendenza, residenti e morti ad
Alessandria d’Egitto o a Il Cairo, sottoscrizioni “a
soccorso alla stampa repubblicana” di repubblicani
mazziniani residenti nelle due città con i nomi dei
donatori, lettere sulle e dalle “colonie” italiane di Tunisi
e di Cipro, articoletti su processo penale deciso dalla
Corte di Appello di Ancona a carico di un “innocente”
repubblicano residente in Egitto, difeso avanti la
Corte da un avvocato di Ancona; proteste contro la
giustizia italiana e la stampa filomonarchica; prese
di posizione sulla spedizione militare in Eritrea;
lettere di delusione di “ex africanisti convinti”; notizie
di conferenze organizzate dai circoli “I democratici
cairini” e “Giuseppe Mazzini” di Alessandria; la
commemorazione del defunto oratore della Loggia
cinque giornate de Il Cairo, di cui una tenuta da un
altro avvocato di Ancona; ironici articoli contro la
festa da ballo tenutasi a Massawa per il compleanno
della regina Margherita e contro il generale Barattieri;
lettere di condoglianze e di sottoscrizioni per la morte
del deputato repubblicano di Ancona Domenico
Barilari; articoli contro le avventure coloniali ed
altro. La persistenza e l’intensità del rapporto con la
madrepatria ed anche con Il Lucifero da parte degli
emigrati appaiono stupefacenti. Per chiudere, ricordo
che la Corte di Appello di Ancona si occupò anche
del processo a carico dell’anarchico romagnolo
Amilcare Cipriani, colonnello della Comune di
Parigi, già in rapporti con Mazzini ed Andrea Costa,
già condannato per triplice omicidio dal Tribunale
Consolare di Alessandria d’Egitto. Ma riproporre
questa complicatissima vicenda in questa sede non
è possibile, anche se il triplice omicidio è avvenuto in
seno alla grande comunità italiana alessandrina.
Il popolo della “Settimana rossa” Fabriano 7-14 giugno 1914
di Giancarlo Castagnari
Ai lamenti di miseria
La tirannide borghese
Ci risponde con le offese
E col piombo militar
(Da un inno repubblicano di A. Scocchi del 1903)
I
Il centenario della “Settimana rossa”
induce ad approfondire la conoscenza
della realtà degli anni a cavallo dei
secoli XIX e XX ed in particolare del
primo quindicennio del Novecento
che si identifica con l’età giolittiana.
La storiografia del periodo indicato ha prodotto
divergenti
e
interessanti
interpretazioni,
alimentate da spunti di attualizzazione politica
durante le rievocazioni per il cinquantesimo dello
storico evento celebrato nel 1964.La “Settimana
rossa” è stata oggetto anche di studi che hanno
avuto lo scopo di giungere ad una ricostruzione
storica obiettiva basata sulle fonti documentarie
e sulle testimonianze disponibili. Questo risultato
positivo è stato ottenuto da Luigi Lotti con la sua
lucida e circostanziata monografia pubblicata
dall’editore Le Monnier. Seguono gli studi di
Enzo Santarelli: Aspetti del movimento operaio
nelle Marche del 1956 e Le Marche dall’Unità al
fascismo. Democrazia repubblicana e movimento
socialista del 1964. Altri saggi monografici a
cura di Gilberto Piccinini e Marco Severini sono
riuniti nel volume La settimana rossa nelle
Marche del 1996, inserito nella collana “Studi
e ricerche”, edita dall’Istituto per la Storia del
Movimento Democratico e Repubblicano nelle
Marche, del quale fu primo presidente nel 1978
Max Salvadori. Di particolare interesse è la
recente opera di Massimo Papini Ancona e il
mito della “Settimana Rossa”data alle stampe
nel dicembre 2013.La maggior parte della
storiografia è quasi unanime nel riconoscere
quella sommossa di popolo come lo sciopero
generale più importante mai attuato nell’Italia
unita, proclamato nelle Marche e in Romagna a
seguito dell’eccidio di Ancona del 7 giugno 1914
ed esteso in tutta Italia: da Milano a Napoli, da
Torino a Bologna, a Firenze , a Palermo. Infatti
nelle principali città, ma anche nei piccoli centri
della provincia italiana, repubblicani, mazziniani,
sindacalisti anarchici, socialisti, radicali furono
le componenti attive della insurrezione che
unite dimostrarono la loro avversione alle
istituzioni monarchiche, al militarismo regio,
alle compagnie di disciplina dell’esercito, alla
guerra, all’autoritarismo giolittiano, alla dilagante
crisi economica, al fenomeno dell’emigrazione.
Periodico repubblicano anarchico radicale e socilalista
che si stampava a Fabriano
Fu una rivolta unitaria e spontanea che vide la
borghesia progressista e libertaria e il movimento
operaio pronti a lottare per una società più libera,
più giusta, democratica e repubblicana. Così
accadde a Fabriano capoluogo dell’alto Esino
nell’area appenninica delle Marche centrali. Un
comune montano caratterizzato da un sistema
economico diviso tra l’agricoltura povera della
vasta campagna caratterizzata dalla conduzione
mezzadrile e dalla parcellizzata proprietà
terriera a coltivazione diretta e il centro urbano
con poco più di 8.000 residenti su un totale di
circa 25.000 abitanti, con una popolazione attiva
dedita all’artigianato e con un’industria cartaria,
la famosa cartiera Miliani, che impiegava quasi
mille unità lavorative, di cui circa la metà donne,
guidata da Giambattista Miliani, prestigioso
leader dell’imprenditoria regionale e autorevole
parlamentare di parte liberale. Al principio
del Novecento anche a Fabriano si avvertano
apertamente i fermenti che preannunciano un
periodo di irrequietezza profonda del corpo sociale
dovuta al corso politico impresso dal governo
centrale, all’intensificarsi delle lotte sindacali
e delle agitazioni agrarie, alla riorganizzazione
delle forze cattoliche e all’azione dei partiti
popolari; fermenti con effetti destinati a scuotere
le fondamenta dello Stato liberale governato
dalla figura carismatica di Giovanni Giolitti.
Prendono consistenza il movimento anarchico, i
partiti repubblicano e socialista difensori dei diritti
dei lavoratori ed eredi di quella Confederazione
Operaia Democratica che nel 1891, dopo
aver riunito le società dei calzolai, dei pellai,
dei fabbri, dei vasai e dei cartai, nelle elezioni
amministrative del 1891 era riuscita ad eleggere
tre suoi rappresentanti,permettendo per la prima
volta l’ingresso dell’opposizione di sinistra in
consiglio comunale. Nel 1914 a Fabriano i partiti
popolari rappresentano la classe operaia e la
media borghesia artigiana, in aperto contrasto
con la ricca borghesia liberale, e amministrano il
Comune con una Giunta presieduta dal Sindaco
avvocato Michele Pagnani radicale, mentre il
ceto rurale e contadino, orientato dal clero e
dalle forze cattoliche, accentua la dicotomia
tra città e campagna. Vivace e battagliero
svolge una funzione di sostegno delle forze di
sinistra il settimanale “il Popolare. Fondato nel
1909, diretto dall’anarchico Virgilio Virgili, è in
contrapposizione con il cattolico “L’Azione”,
che esce nel 1911 ad opera di don Agostino
Crocetti. In un ambiente cittadino così sensibile
ai problemi politico-sociali dell’epoca, orientato
verso i partiti popolari, libertari e progressisti,
la notizia dell’eccidio di Villa Rossa suscitò lo
sdegno di gran parte del popolo fabrianese che
spontaneamente aderì allo sciopero generale e
divenne la protagonista delle manifestazioni e dei
fatti che caratterizzarono l’infuocata settimana.
Quegli uomini e quelle donne, abbandonato
il lavoro nelle fabbriche, nelle officine, nelle
scuole, nelle botteghe artigiane seppero
assumere – come afferma anche “Lucifero” nella
pagina dedicata a Fabriano del 7 giugno 1964
per ricordare e narrare i fatti della “Settimana
rossa” – la responsabilità che il momento storico
imponeva loro, tramutandosi da pacifici cittadini
in accesi giacobini. In quei giorni essi divennero
i diretti prosecutori della sinistra risorgimentale
le cui idealità ed il cui programma tendevano
non solo all’unità territoriale e politica d’Italia,
ma anche alla rinascita sociale ed economica
della nazione. L’insegnamento mazziniano
postunitario concentrato sulla questione sociale
favorisce il crearsi di un’atmosfera insurrezionale
che nel popolo non si limitava ad un’azione
prettamente protestataria e quindi velleitaria,
ma si traduceva in rivoluzione per la conquista
del potere, l’abbattimento della monarchia
e l’instaurazione dello Stato repubblicano e
democratico apportatore di giustizia sociale
nella libertà. Dopo cento anni è difficile dare un
giudizio su quei fatti più volte rievocati e viene
spontaneo riconoscere che in quei sette giorni
di sciopero prevalsero nella maggior parte dei
protagonisti una grande ingenuità, un eccessivo
ottimismo sulla riuscita della sommossa e sul
trionfo della causa, appena contenuto da coloro
che a capo dell’insurrezione, pur animati dagli
stessi ideali della maggioranza dei dimostranti,
seppero affrontare la situazione con maggiore
realismo per impedire che altro sangue venisse
versato. Ma forse quella fu una sacra ingenuità,
quello un eroico ottimismo. Si deve però
riconoscere quanto generoso fu quello slancio di
popolo, quell’anelito di libertà, quel desiderio di
instaurare la repubblica per creare una società
nuova dove il mondo del lavoro potrà divenire
parte essenziale e fondamentale del progresso
sociale. Uno slancio e un anelito che qualcuno
pagò con la propria vita come i giovani Antonio
Casaccia, Attilio Giambrignoni, Nello Budini in
Ancona e Nicolò Riccioni a Fabriano. Ora resta
solo credere che il loro non fu un vano sacrificio.
Pag. 7
7 GIUGNO 1914
CENTENARIO DELLA SETTIMANA ROSSA
Le manifestazioni a Genova
di Agostino Pendola
G
Gli avvenimenti della Settimana
Rossa a Genova si concentrarono nei
comuni industrializzati del Ponente
(Sampierdarena e Sestri Ponente
– che entrarono a far parte della
Grande Genova solo nel 1926) e in misura
minore nel capoluogo. Quasi a voler significare
una predominanza dell’industria su quello
che fino a quel momento era stato il maggior
punto di confronto tra capitale e lavoro, il porto.
Nel dicembre del 1900, in occasione dello
scioglimento della Camera del Lavoro da parte
del governo, lo sciopero si era diffuso dal porto
all’intera città. Dopo tre giorni la Camera del
Lavoro venne riaperta. La vicende ebbe una
vasta risonanza perchè Luigi Einaudi, allora
giovane giornalista, ne fece un fedele resoconto
su La Stampa. L’anno seguente, i carbunin (gli
scaricatori del carbone) furono protagonisti
di uno sciopero che durò quaranta giorni,
con il sostanziale disinteresse del governo.
L’industrializzazione di Sampierdarena e Sestri
Ponente risaliva a metà Ottocento, ma anche il
movimento cooperativo vi era stato imponente.
Al suo apice impegnava diecimila persone. Si
trattava in gran parte di cooperative di ispirazione
mazziniana, riunite attorno alla Società di Mutuo
Soccorso Universale Giuseppe Mazzini e alla
Società Anonima Cooperativa di produzione
di Sampierdarena, che fabbricava, tra l’altro,
caldaie e locomotive. Una presenza industriale
importante, nella quale capitale e lavoro erano
nelle stesse mani, che al suo apice, nel 1886,
aveva anche espresso un deputato, Valentino
Armirotti, il secondo parlamentare operaio
italiano. Con l’inizio del Novecento i repubblicani
erano stati soppiantati lentamente dai socialisti,
portatori della lotta di classe che Mazzini aveva
combattuto, e i conflitti si erano inaspriti.
Anche nel Ponente genovese, come da altre
parti in Italia, il giorno dello Statuto, 7 giugno
1914, aveva visto un affollatissimo comizio
presso al Casa del Popolo nel quale erano
intervenuti Mecheri per i Giovani Socialisti di
Sestri, Dante Chiesserini dell’USI di Milano,
Pasquale Binazzi de «Il Libertario» di La Spezia
(nella foto), Fusi per la locale sezione socialista,
Bisio per la Federazione Repubblicana Ligure.
Venne approvato questo ordine del giorno:
“I lavoratori di Sestri Ponente riuniti a comizio dal
Circolo Giovanile Socialista colla adesione della
CdL e dei partiti politici per esprimere in questo
giorno, in cui la borghesia sta commemorando
l’anniversario delle libertà statutarie contenute
nella corte albertina, la propria protesta contro
un governo liberticida e mistificatore che
mantiene quella barbarie medioevale che sono
le compagnie di disciplina, ammonisce il governo
a rilasciare Augusto Masetti e Antonio Moroni e
tutte le vittime del militarismo, tenendosi pronti
ad una eventuale azione collettiva di tutto il
proletariato italiano per il raggiungimento di
tale liberazione e per la soppressione della
compagnia di disciplina”.
Un altro affollato comizio si svolse a
LUCIFERO: “ICONA” LAICA DA CONSERVARE
di Manlio Bovino
C
Ci eravamo posti l’obiettivo di
Sampierdarena dove alcuni giovani operai
realizzare, per il 7 giugno. un progetto:
fischiarono ripetutamente la banda musicale
ricordare un evento che, cento anni or
Risorgimento che suonava la Marcia Reale.
sono, ha segnato una data importante
Appena si sparse in città la notizia dell’eccidio
nella eterna lotta per l’emancipazione
di Ancona le Camere del Lavoro presenti nel
delle genti. Le pagine che sfogliamo, che trattano
genovesato proclamarono ventiquattro ore di
quasi in esclusiva la storia della Settimana
sciopero generale; a Genova e Sampierdarena
Rossa, sono la materializzazione del progetto.
vennero convocati alle ore 16 del 9 giugno i
Ma andiamo per ordine. Per prima cosa avevamo
consigli direttivi delle organizzazioni esistenti
bisogno di risorse economiche per affrontare le
nelle due città e aderenti alle Camere del
spese tipografiche e della spedizione postale del
Lavoro, riunite in seduta comune a Genova, con
giornale; abbiamo lanciato un appello, il risultato è
lo “scopo di esaminare la situazione e prendere
stato buono ma non sufficiente per affrontare tutte
opportune conseguenti deliberazioni”.
le spese. Ci sono venuti in aiuto le rappresentanze
Lo
Stabilimento
Elettrotecnico
materiali
di quel mondo associativo da sempre vicino alle
d’Artiglieria di Cornigliano entrò in sciopero il 9
nostre impostazioni: la Direzione Nazionale
per restarci tre giorni fino all’11 giugno compreso
della Associazione Mazziniana (AMI) e il Centro
; in sciopero anche lo Stabilimento Fonderie
Cooperativo Mazziniano di Senigallia. Da molte
e Acciaierie. Scrisse Il Secolo XIX, giornale
parte d’Italia, comunque,ci sono giunti contributi in
di parte industriale a proposito dei fatti di
denaro. Repubblicani,
Sampierdarena,
mazziniani, laici e
il 10 giugno:
liberi
pensatori
ci
“gli operai dello
hanno fatto pervenire
Stabilimento
la loro partecipazione:
A n s a l d o
poco importa l’entità
e n t r a r o n o
dell’elargizione (grandi,
tranquilli al lavoro
piccole e minute cifre).
quando
poco
Tutte assieme queste
dopo arrivarono
risorse, ci
hanno
davanti
allo
consentito di realizzare
S t a b i l i m e n t o,
la pubblicazione del
preceduti da un
Lucifero a otto pagine.
numeroso branco
Grazie è la sola parola
di ragazzi, gli
che riusciamo a dire
scioperanti
ma dietro a quella
che
tentarono
Scioperanti dopo un comizio durante la “Settimana Rossa”.
semplice espressione
di entrare per
c’è tutta la gratitudine
far
cessare
il
di una piccola struttura redazionale che ha
lavoro. Furono affrontati da alcuni ingegneri e
curato l’uscita del giornale. E’ significativo aver
da due carabinieri che si trovavano lì presso
raccolto una somma per avviare l’opera ed è
una pattuglia. Gli scioperanti dopo una breve
altrettanto importante che alla sottoscrizione
discussione si allontanarono, ma giunti davanti
abbiano partecipato, così numerosi, donne e
al portone principale presero a spingere un
uomini che non hanno vissuto direttamente
vagone ferroviario che era fermo sul binario e lo
gli avvenimenti che vengono narrati in queste
fecero andare a dare di cozzo contro il portone
colonne: rappresentano infatti la terza e quarta
che all’urto violento venne spalancato …
generazione dei protagonisti della storia rievocata.
Intanto venne dato l’ordine di lasciare le
Sono i figli, i nipoti e i pronipoti di coloro che hanno
maestranze e in breve nello Stabilimento il
partecipato direttamente ai tumulti scoppiati
lavoro completamente cessò. Lo stesso avvenne
dal 7 al 14 giugno dell’anno 1914 ad Ancona e
negli Stabilimenti di Campi dipendenti dalla ditta
che, comunque in qualche modo, l’hanno vista
Ansaldo”. Velocemente com’era cominciato,
nascere e svilupparsi. Vogliamo sottolineare con
terminò.
questo collegamento, tra il vecchio e il nuovo, il
Le stessa sera del 10 giugno la Confederazione,
legame tra le generazioni di repubblicani, i ricordi
senza prendere contatto con il Partito Socialista,
delle scelte politiche e le lotte dei padri e dei nonni
comunicò la fine dello sciopero che l’Agenzia
che hanno trovato continuità con i discendenti.
Stefani trasmise in tutta Italia.
Da notare nel sentimento filiale non solo il
A Genova il giornale socialista Il Lavoro riportò
rispetto per gli avi, molto diffuso nella famiglia
l’ordine della CGdL, che sconfessava ogni
tradizionale dello scorso secolo, ma anche la
prosecuzione dello sciopero, ma le agitazioni
permeabilità della predicazione mazziniana che
continuarono per qualche tempo.
poggia, oggi come allora, su valori etici, sociali
Addirittura a Sampierdarena ci furono degli
e sulla solidarietà.Parliamo ancora del Lucifero,
abbozzi di barricate da parte dei sindacalisti, a
antica testata fra i periodici politici che fiorirono
Sestri Ponente si tenne un importante comizio
in particolar modo nel 1800. Il nostro foglio,
molto critico nei confronti dei riformisti.
presente già nel 1870, ha accompagnato intere
Alla fine furono registrati, tra Genova e i comuni
generazioni di seguaci della scuola sociale
limitrofi, 150 arresti.
del mazzinianesimo, mantenendosi interprete
SOTTOSCRIZIONI
Lucianetti Oliviero di Ancona € 30,00
“In memoria di mio padre Marini”
Cerra Pietro di Decollatura (CZ) € 25,00
Belegni Alessandro di Ancona € 10,00
Bedini Floriana di Ancona € 25,00
“In ricordo di nostro padre Bruno”
Perucci Gianna di Ancona € 50,00
“Abbonamento anno 2014”
Perfetti Guido di Pescara € 20,00
“In ricordo degli amici Galli F. e Merciaro G”
Lucianetti Eugenio di Ancona € 30,00
“In memoria di mio padre”
Nacciarito Fiorenzo di Falconara M. (AN) € 25,00
“Sottoscrizione 2014 - no al peronismo in gonnella”
Rossini Nicola di Parma € 30,00
Associazione Mazziniana di Milano€ 100,00
“Sottoscrizione 2014”
Nunzi Nunzio di Fermo € 10,00
Di Marcelli Luciano di Senigallia (AN) € 50,00
Bernardoni Silvano di Pavullo s. Frignano (MO) € 50,00
Ricciotti Mario di Ancona € 15,00
Avogadro Giovanni di Segrate (MI) € 30,00
Pezzi Vittorio di Cesena (FC) € 30,00
“Per continuare”
Sartori Paolo di Ronchi dei Legionari (GO) € 20,00
Pettinari Giampiero di Senigallia (AN) € 20,00
Arrostuto Stefania di Cefalù (PA) € 10,00
“Abbonamento al periodico 2014”
Borioni Lorenzo di Ancona € 20,00
“Lorenzo e Costanza in memoria del padre Antonio”
Pettinari Marino di Filottrano (AN) € 50.00
Giampaoletti Mario di Cupramontana (AN) € 80,00
“Contributo al Lucifero”
Paci Luciano di Ancona € 50,00
Gaeta Giovanni di Camerino (MC) € 50,00
Zema Nicola Angelo di Ascoli Piceno € 50,00
“Contr. Rievocazione Centenario Settimana Rossa”
Balducci Franco di Ancona € 50,00
7 GIUGNO 2014
Sacchi Egisto di Mercatello sul Metauro (PU € 50,00
“Plaudio alla iniziativa, cari saluti all’amico Manlio”
Mazzoli Roberto di Montecarotto (AN) € 10,00
Bernardini Federico di Ancona € 20,00
Nacciariti Fiorenzo di Falconara M. (AN € 50,00
“Contr. Numero Settimana Rossa”
Sebastianelli Maurizio di Ancona € 50,00
“In memoria di mio padre Giancarlo”
Bruni Leonardo di Senigallia (AN) € 25,00
Martelli Roberto di Castelraimondo (MC) € 15,00
Maffieri Mario di Roma € 30,00
“Per ricordare un mio Maestro del PRI – O. Zuccarini”
Di Trapani Francesco di Fabriano (AN) € 70,00
Danieli Giovanni di Ancona € 50,00
Pasquali Ivo di Cotignola (RA) € 30,00
Chiozza Giuseppe di Sestri Levante (GE) € 20,00
Lattanzi Giulio di Castelsantangelo sul Nera (MC) € 50,00
Pettenati Paolo di Ancona € 50,00
Castagnari Giancarlo di Fabriano (AN) € 25,00
“Prima rata per Lucifero – speciale Settimana Rossa”
Alessandroni Massimo di Ancona € 50,00
“Ricorrenza storica”
Orciani Adelmo di Ancona € 30,00
“Quota sociale 2014”
Cojutti Alberto di Udine € 50,00
“Contributo spese pubblicazione”
Menotti Marco di Falconara M. (AN) € 10,00
Garibaldi Pietro di Leivi (GE) € 25,00
Galeazzi Renato di Ancona € 50,00
“Contr. Centenario Settimana Rossa”
Giovagnoli Giorgio di Ancona € 30,00
Duranti Renato di Ancona € 10,00
Nunzi Nunzio di Fermo € 30,00
Calzolari Franco di Piombino (LI) € 20,00
“Per sostenere ancora questa voce che possa
continuare ad uscire”
Moroni Marcello di Ancona € 51,00
(In memoria di Moroni Renato e Burattini Bruna)
Poliandri Umberto di S.Benedetto d. Tronto (AP) € 10,00
Di Luigi Marco di Roma € 25,00
Poggiolini Nicola di Modigliana (FC) € 50,00
“Contributo per numero speciale”
Corduas Ggliola di Roma € 50,00
Balloni Valeriano di Ancona € 50,00
Dariani Luigi di Jesi (AN) € 25,00
Tittarelli Alberto di Ancona € 20,00
Bottiglieri Costantino di Ascoli Piceno € 20,00
Panfighi Carlo di Ancona “Pro P.R.I.” € 50,00
Un resto anonimo € 4,00
Giombi Elio di Ancona € 20,00
Carbini Pierpaolo di Serra de Conti (AN) € 50,00
Bernardoni Silvano di Pavullo s. Frignano (MO) € 50,00
Fiori Bindo di Falconara M. (AN) € 50,00
Orso Angelo di Falconara M. (AN) € 50,00
Guerrini Fabio di Castelfidardo (AN) € 50,00
Michelangeli Giacomo di S.Benedetto del T. (AP) € 20,00
“Per la vita di una voce repubblicana e mazziniana”
Fogliardi Raffaele di Ancona € 10,00
Murri Lorenzo di Cisterna di Latina (LT) € 10,00
Marani Mauro di Saturnia (GR) € 15,00
Ientile Luigi di Genova € 25,00
Centro Cooperativo di Senigallia (AN) €500,00
“Sostegno alle celebrazioni Settimana Rossa”
Di Marcelli Luciano di Senigallia (AN) € 50,00
Boni Romano di Roma
€ 20,00
“Per un autentico rilancio degli ideali mazziniani”
Baccarini Alberto di Fiuggi (FR) € 25,00
“Per continuare a leggere il Lucifero”
Direzione Nazionale
Associazione Mazziniana Italiana (A.M.I.) € 2.000,00
Cappannini Mauro di Camerino (MC) € 50,00
“perché questa voce non si spenga”
Coccioli Attilio di Ancona € 50,00
Bruni Leonardo di Senigallia (AN) € 25,00
Carletti Guido di Filottrano (AN) € 60,00
“Ricordando Cesare Flamini, Isidoro e Silvana Carletti”
dei fermenti di emancipazione e di stimolo alle
lotte sociali per migliorare le condizioni di vita
in special modo delle classi più umili. Quel
lontano 1914 il Lucifero era sulle barricate
ad accompagnare passo passo le battaglie
politiche della società anconitana che viveva
una intensa lotta di emancipazione. Ci si voleva
riscattare, non solo dal regime monarchico
opprimente, ma anche per la difesa dei prezzi dei
prodotti di prima necessità, contro le avventure
militari alla conquiste delle terre oltremare, ma
soprattutto si è lottato per allargare gli spazi,
molto esigui, della libertà politica, della giustizia
sociale e delle riforme agricola e del lavoro. Il
Lucifero, di concerto con la struttura politica dei
repubblicani di allora, si è mostrato oltremodo
sensibile alle richieste che provenivano non solo
da quegli ambienti, ma anche dal ceto medio,
culturalmente più evoluto e colto ma sofferente
per le privazioni della libertà associativa e degli
spazi di partecipazione democratica. Ceto
medio maturo quindi per reagire all’oppressione
di un regime dispotico e poliziesco a fianco
dei lavoratori. I motti della Settimana Rossa
prendono le mosse da una siffatta realtà,
iniziano il 7 giugno e terminano a distanza di
una settimana lasciando sul terreno morti e
feriti in un clima di rivolta popolare. I motivi della
rivendicazione non si fermano alla sola città di
Ancona e alle Marche, coinvolgono la confinante
Romagna e molte altre regioni italiane. Gli
storici e i ricercatori descrivono sulle pagine del
giornale, con dovizia di notizie, gli avvenimenti
fornendone una variegata angolazione degli
eventi. La presenza del Lucifero, in questa
ricorrenza storica, aveva una e mille ragioni di
essere garantita, la sua storia si interseca alla
perfezione con tutte le vicende politiche e sociali
verificatesi nel corso di un secolo, possiamo dire
che il nostro Lucifero rappresenta una “icona”
del pensiero laico e democratico italiano. E’ la
vita e la presenza del Lucifero di oggi a creare
preoccupazione: la storica testata, per concludere
il nostro intervento, è sempre più minacciata
dalle precarietà delle risorse finanziarie, che in
parte è presente anche in questa occasione e
che si è manifestata più nettamente in diversi
mesi del 2013 e all’inizio del 2014 quando,
appunto, il Lucifero non è uscito con regolarità
per mancanza di denaro. Quanto sopra è fonte di
preoccupazione di tanti lettori ed estimatori ma
ancor più angustia il piccolo gruppo di operatori
che prende il nome di “Associazione Amici del
Lucifero”, referente editoriale delle pubblicazioni.
E’ composta da repubblicani di antica data che,
pur provenendo da esperienze lavorative diverse,
si sono improvvisati giornalisti e redattori con un
unico intento: pubblicare il giornale e impedire,
contemporaneamente, che la testata diventi
appannaggio di soggetti molto interessati allo
sfruttamento del nome storico del giornale per
fini diversi.
Buona lettura e fraterni saluti a tutti.
Presidente Associazione Amici del Lucifero
RINGRAZIAMENTO
AGLI AUTORI
L’Associazione Amici del Lucifero ringrazia sentitamente
gli illustri storici, studiosi e cultori di storia che hanno
accettato di dare il loro contributo di pensiero in questo
numero speciale del giornale; ad essi si è lasciata
piena libertà di scrivere secondo il personale punto di
vista. Si ritiene che la varietà delle opinioni e dei modi
di ricordare l’evento costituisca un motivo di interesse
aggiuntivo, così come di indubbio arricchimento siano
i contributi forniti dagli amici romagnoli. E’ doveroso
da parte nostra ricordare tutti gli autori sottolineando,
nel contempo, la valenza degli elaborati, che devono
restare a disposizione anche per altre eventuali analisi:
PIETRO CARUSO, giornalista e direttore de “Il Pensiero
Mazziniano”; GIANCARLO CASTAGNARI, già direttore
della biblioteca di Fabriano e cultore di storia; MARIO
DI NAPOLI, Dirigente della Camera dei Deputati,
storico, Presidente Nazionale dell’A.M.I.: FILIPPO
GIULIOLI, cultore di storia e presidente sezione AMI di
Ancona: ROBERTO GIULIANELLI, professore di storia
dell’Università Politecnica delle Marche; BEPPE GROSSI
giornalista e pubblicista; LUCA GUAZZATI, giornalista,
scrittore di libri e cultore di storia: LUIGI LOTTI, autore,
ricercatore sulla Settimana Rossa, professore emerito
dell’Università di Firenze, presidente della Fondazione
“la casa di Oriani”; MICHELE MILOZZI, già professore
ordinario di storia Università di Macerata, autore di
libri di storia: SAURO MATTARELLI è autore di testi
scolastici, docente di discipline economiche; AGOSTINO
PENDOLA, giornalista, e autore di saggi di storia locale
di Genova: GILBERTO PICCININI, già professore di storia
dell’Università di Urbino, presidente della Deputazione
di Storia Patria di Ancona; SARA SAMORI’, ricercatrice
dell’Università di Verona; NICOLA SBANO, avvocato
e cultore di storia; SERGIO SPARAPANI, giornalista
e cultore di storia; GWENOLA SPATARO ricercatrice e
cultore di storia.
Pag. 8
25 APRILE 1945
12 LUGLIO 1964
A RICORDO DI FRANCESCO ANGELINI
di Beppe Grossi
N
Non è facile parlare, oggi, a distanza
di 69 anni, del 25 aprile 1945 e di
che cosa esso abbia rappresentato.
Innumerevoli le versioni quasi sempre
interessate. Cercherò di farlo anch’io
anche se di parte, cercando di essere, però,
oggettivo, come si suole dire, nel ricordo del
mio vissuto di ragazzo di quei tempi (avevo
16 anni) nella Milano di allora, semidistrutta
dagli sfracelli provocati dai “liberatori”. Credo
di doverlo fare in quanto i testimoni oculari
sono sempre meno, le voci narranti arrivano
da lontananze sempre più difficili da colmare,
le immagini sbiadiscono, le commemorazioni
sono macchiate da troppa contemporaneità,
annacquate, sbiadite, spesso sminuite o
troppo esaltate, unitamente ad altre mutate
dinamiche antropologiche. Ciò non di meno un
grande lavoro è stato fatto per salvaguardare
la memoria, ricercare e conservare le carte
anche se nella scuola nulla o quasi è stato fatto,
particolarmente nei testi scolastici. Per nostra
fortuna abbiamo avuto i Calvino, i Fenoglio,
i Cassola, i Pavese, e tanti altri ancora che
ci hanno descritto la Resistenza in maniera
esemplare, fuori – direi – dalla necessaria
retorica di una per me giusta guerra partigiana
e patriottica. Si dice che molto spesso la storia
non è fatta dagli uomini, ma che è la storia che
li forma, li costruisce, li realizza, mettendoli di
fronte a scelte estreme alle quali si deve dare
risposta. E proprio questo è stato lo scenario in
cui si mossero i giovani degli anni ’20 (sbandati
o renitenti alla leva, che importa ?), quando ci
fu da mettersi da una parte o dall’altra, o coi
fascisti o con l’embrione di un esercito senza
stellette, o con Salò o “sulla Langa”, come
diceva Bocca, e quindi METTERSI DA UNA
PARTE, non FARSI DA PARTE….nonostante
il famigerato bando Graziani rendesse più
facile la scelta repubblichina ! E, quindi, la
guerra di liberazione inizialmente contro “il
solo tedesco” trasformatasi quasi subito in
guerra civile, con le sue crudeltà, i suoi eccessi
da entrambe le parti, ma con un macabro
saldo di caduti o di morti ammazzati della
Resistenza, campi di concentramento inclusi,
oltre ai caduti dell’Esercito del Corpo Italiano di
Liberazione, di ben 5,6, volte superiore a quello
fascista, come ha scritto Giampaolo Pansa. E’
il ricordo della libertà conquistata il 25 aprile
che deve essere oggi più che mai conservato.
Beppe Fenoglio aveva visto e capito meglio e
più acutamente degli altri come la memoria
dell’uomo sia predisposta all’oblio e per evitare
che ciò avvenisse aveva trasformato l’epopea
della resistenza in mito. Il mito degli uomini
delle montagne, delle cascine, degli studenti,
degli ex soldati del “Regio”, dei poeti inglesi e
di semplici personaggi, trasformandoli in eroi.
Una nuova mitologia perché la Resistenza non
fosse stata invano.
In casa nostra
Paolo Marchi ci ha lasciato.
Come non ricordare il fervente Mazziniano che in
ogni consesso ove ha operato ha dato una grande
prova di passione, di fede e di amore.
Nella Direzione Nazionale A.M.I., nel Comitato
Interregionale Marche, Umbria, Abruzzi e quale
Presidente della Sezione di Ancona A.M.I.
ha sempre profuso la sua variegata capacità
propositiva per la crescita dell’ A.M.I. nella
nostra realtà quotidiana . A noi il compito di dare
continuità al suo insegnamento.
F.G.
Il 25 maggio, mentre andavamo in stampa,
abbiamo appreso che era scomparso il dottor
Mario Dubbini, laico di profonda umanità,
farmacista, velista, coniuge dell’amica Livia
Pergoli; ci ha lasciato a novantadue anni, vissuti
sino all’ultimo gagliardamente, animati dalla
cultura dell’innovazione e del progresso, amando
il mare e gli orizzonti lontan.
Sabato 31 maggio abbiamo appreso della
scomparsa di Ezio Capannelli, negli anni ’80
segretario provinciale del PRI e uomo di sport, già
funzionario della Cassa di Risparmio di Ancona,
rimasto sempre caro amico di molti repubblicani
della città. La direzione è dispiaciuta di non avere
disponibile più spazio per ricordarli. Si porgono
alle famiglie Dubbini Pergoli e Capannelli molte
condoglianze.
N.S.
È scomparso Gianni Pettirossi di Ancona. Ci
univa un buon rapporto di amicizia, ricordo che
la conoscenza prese forma negli uffici delle
Cooperative Repubblicane di via Curtatone. Tante
sono state le opportunità gli impegni nell'ambito
del Partito Repubblicano, dai compiti più umili di
piegatura dei giornali all'affissione dei manifesti
sui muri cittadini durante le campagne elettorali.
Ci si vedeva anche nei congressi e nelle riunioni
di sezione. Negli ultimi tempi gli incontri, molto
più rari, erano occasioni per cercare nuove vie di
azione politica che potessero fermare il declino
del nostro partito.
M.B.
Q
Sindaco Repubblicano
Quest’anno, il prossimo 12 luglio,
ricorre il cinquantenario della morte
di Francesco Angelini che ricordiamo
oltre che come industriale di grandi
intuizioni che sapeva anticipare il
futuro, come pubblico amministratore illuminato,
Sindaco di Ancona per quattordici anni, come
repubblicano convinto dell’ideale di democrazia
di concezione mazziniana.
Quando cento anni fa, Francesco Angelini
intraprese i primi passi di piccolo produttore
di medicine, era difficile prevedere il successo
della sua iniziativa, essendo il mercato
farmaceutico dominato dalle grandi industrie
tedesche ed inglese e poche e di media
dimensione le società farmaceutiche italiane
più ragguardevoli; ma evidentemente la
preoccupazione non faceva i conti con le
qualità dell’allora giovane nostro concittadino
di adozione, che sapeva unire acutezza di
intelletto e la capacità straordinaria di essere
concreto, alla visione del progresso sociale ed
economico che doveva essere raggiunto e per il
quale valeva la pena battersi, facendo valere le
virtù civile che l’educazione morale mazziniana,
più delle altre, riusciva a trasmettere. Il giovane
industriale, seppure alle prese con la crescita
della sua ancora piccola azienda, nell’autunno
del 1920, in un anno in cui le violenze ed il
malessere politico del biennio rosso rendevano
molto problematico il dopoguerra, accettava di
far parte dell’amministrazione presieduta dal
sindaco repubblicano Domenico Pacetti, appena
subentrata a quella liberal-conservatrice del
sindaco Rinaldo Vignini (1919-1920), a sua volta
succeduta all’amministrazione di Alfredo Felici
che aveva governato la città per tutto il periodo
bellico. Fu quella di Pacetti un’amministrazione
molto attiva e certamente il giovane assessore,
poco più che trentenne, dette alla stessa il
suo contributo dinamico, ma, come è intuibile,
quella è stata la Giunta, l’ultima democratica,
che dovette sostenere il peso dell’affermazione
del fascismo. La grande concentrazione ad
Ancona degli squadristi dell’autunno 1922, fu
l’occasione della morte dei due giovani fratelli
Giombi di Torrette, repubblicani, e, poco dopo,
della caduta dell’amministrazione. Si apriva in
L’A.M.I. DI ANCONA NEL RICORDO
DEI MEMORABILI GIORNI DELLA
STORIA DELLA NOSTRA CITTA’
di Filippo Giulioli - Presidente della Sezione di Ancona
L
L’ Associazione Mazziniana sez. di
Ancona ha aderito con entusiasmo
alle varie celebrazioni del centenario
della Settimana Rossa che si terranno
ad Ancona. L’impegno unitario con le
varie Associazioni, Enti si svilupperà in dibattiti,
incontri, teatro e la nostra presenza si evidenzierà
anche con la preparazione e pubblicazione
di un numero straordinario del ‘’Lucifero’’. Con
entusiasmo ed ampia partecipazione degli
iscritti, anche di provenienza da altri territori ove
i moti insurrezionali si sono estesi, i Mazziniani
sentono anche il dovere di fare alcune
considerazioni e riflessioni che non debbono
o possono attenuare il grande valore di quegli
avvenimenti. L’evento storico del 7 giugno 1914
è stato variamente considerato da alcuni esperti
ed analizzatori delle problematiche storicosociali del tempo. Tralasciando quanto esposto
da chi aprioristicamente ha valutato ( giornali
governativi dell’epoca ) con negatività assoluta
quello storico avvenimento, è necessario
riflettere su alcune distorsioni emerse da alcuni
osservatori dell’evento. A nostro modesto avviso
occorre nell’analisi dei fatti , a distanza di vari
decenni, collocare l’avvenimento nella situazione
politica dell’epoca. Lo spirito progressista
comune a tutti i partecipanti a quegli eventi non è
mai venuto meno. Ovviamente i fatti che si sono
quel momento una nuova stagione della politica
della città, con l’estromissione della classe
dirigente liberale e della sinistra. Angelini si
dedicò allora allo sviluppo della sua azienda,
che si avviava ad avere una dimensione
importante, costruita con una fedeltà al
lavoro fuori del comune, diremmo laicamente
religiosa, da un industriale che voleva essere
anche il primo impiegato della ditta, nella
ricerca di un esemplarità di portamenti che
dobbiamo ritenere di altri tempi. Difatti il nucleo
dei suoi collaboratori ed impiegati era chiamato
a convivere la quotidianeità della sua vita, mai
trascesa da una sobrietà che era anche scelta
etica. Politicamente allora si chiuse a riccio, in
rigoroso afascismo, che chiudeva la porta ad
ogni compromesso e a qualsivoglia cedimento
al Regime che, peraltro, per quanto si sa,
seppe restare fuori della porta degli stabilimenti
di produzione e dei laboratori. La separatezza
fra industria e sistema di governo, consentì ad
Angelini di fare i primi passi nella ricerca e nella
scienza applicata, terreni ritenuti in prospettiva
essenziali per restare nel mercato. L’azienda
e le sue attività patirono poi il dramma delle
distruzioni belliche; ma questo disastro fu
anche la molla del rilancio che Angelini seppe
affrontare coraggiosamente, senza attendere
alcuna politica assistenzialista, ma rischiando
di suo, dando dimostrazione di essere tra i
primi imprenditori italiani capace di conciliare
l’economia di mercato e l’etica protestante
che affianca all’utile privato il rispetto delle
leggi ed il sacrificio personale. Nel 1948 venne
eletto consigliere comunale e nel 1949 divenne
sindaco di Ancona, succedendo a Giuseppe
Mario Marsigliani, pure repubblicano.
Salvo una breve parentesi tra il 1950 ed il 1951,
Angelini restò sindaco di Ancona e ciò sino
alla sua morte, avvenuta il 12 luglio del 1964.
Ebbe a fianco amici repubblicani, come Enrico
Sacripanti, Alberto Mario Burattini, Leonida
Cagli, Mazzini Montanari, nonchè Claudio
Salmoni e Guido Monina, che divennero
anch’essi prestigiosi sindaci di Ancona, il cui
ricordo si accompagna a quello per Angelini.
Va aggiunto il ricordo del vicesindaco
democristiano Alfredo Trifogli, da poco
scomparso, che per molti anni ha collaborato
con lui, più tardi succedendogli. Faremmo
un torto ad Angelini se dimenticassimo la
sua passione e la sua attività in seno al
Movimento Federalista Europeo, impegno
questo che testimonia la qualità di visione
prospettica del grande personaggio che
ricordiamo, rimasto repubblicano anche nei
momenti difficili del P.R.I., nel 1963 rimasto
rappresentato in Parlamento da una pattuglia
di soli cinque deputati. Pensiamo che Angelini
abbia allora intuito che fra questi vi era una
grande personalità politica come quella di Ugo
La Malfa. Sappiamo che Angelini non volle
neppure il laticlavio proposto dalla D.C., con la
candidatura in una lista congiunta della D.C. e
del P.R.I.. Angelini rifiutò perché la proposta era
un pasticcio, ma anche perché nella sua vita
pubblica portava la virtù morale del disinteresse
personale. A questo grande uomo va il ricordo
dei repubblicani di Ancona e di chi altro lo ha
apprezzato.
Il LUCIFERO
susseguiti dal 1914 ai giorni d’oggi hanno mutato
le collaborazioni politiche della sinistra storica ma
questo non può comportare distinguo o addirittura
ricerca di distorte riflessioni su personaggi
presenti in quel periodo. A noi non interessa
sapere o evidenziare se la 1a guerra mondiale
(1915-1918) abbia comportato una divisione tra
coloro che uniti hanno partecipato alle giornate
della Settimana Rossa. Come si può valutare
negativamente l’adesione all’interventismo
che era essenzialmente per il recupero degli
ultimi territori italiani in mano allo straniero?
E cosi potremmo continuare analizzando le
problematiche storico-politiche relative ai vari
decenni di guerra fredda. Il coordinatore Nino
Lucantoni ha avuto la capacità e l’intelligenza di
riunire Varie Associazioni culturali e con questo
spirito andremo unitariamente a ricordare quei
giorni di vera lotta democratica.
SOTTOSCRIVI PER
IL LUCIFERO
SUL
C/C POSTALE
N° 1016613059
A disposizione dei nostri lettori per ulteriore
invio del giornale a soggetti diversi
12 AGOSTO 1998
Guido MONINA
Sindaco Repubblicano
N
Noi uomini di questo tribolatissimo
tempo abbiamo sempre meno
memoria. La società sta via via
perdendo la propria memoria
storica. E questo per un Paese,
per una comunità è una vera iattura. Senza
memoria storica si lascia alle spalle un
passato che comunque ci appartiene e
si rischia concretamente di costruire un
futuro annacquato nei valori e negli ideali.
Fuor di ogni retorica, senza passato non
c’è futuro. Anche se oggi si parla con la
gente per slogan, anche se oggi speranza
e rabbia sono diventate il punto di rottura
del cambiamento. Ecco perché ricordare
Guido Monina, il repubblicano Guido Monina
significa windsurfare l’onda dei ricordi
per puntare diritti a riva. Oggi che non ci
sono ormai da decenni monarchici in giro,
parlare di repubblicanesimo sembrerebbe
recuperare dei fossili. Ma non è così. Ancona
senza Guido Monina (sindaco del capoluogo
dal 1976 al 1988) e senza amministratori
capaci ed onesti sarebbe un’altra città. Il
repubblicano Monina prese il testimone dal
democristiano Alfredo Trifogli (altro grande
protagonista del post sisma del 1972) e
anno dopo anno si è imposto come il sindaco
della ricostruzione pulita e senza scandali.
Scomparso nell’agosto 1998 Monina era
un repubblicano duro e puro che per amore
della sua città non esitò a governare con i
comunisti (tanto che il segretario Ugo La
Malfa non gli risparmiò una bella reprimenda)
in un periodo, dai rapporti tra partiti, di certo
non facile. Di lui restano e resteranno le tante
opere della moderna Ancona realizzate in
dodici anni da sindaco della città ma resterà
soprattutto il senso di un impegno politico
ed amministrativo a tutto campo. Senza
mai perdere il senso dell’ironia, il gusto di
una battuta. Egli è stato davvero il sindaco
di tutti, ponendo particolare attenzione alle
fasce più deboli. Basti pensare a quanto
ha fatto per il Salesi, per gli anziani, per
coniugare la crescita con la qualità della vita.
Ancona ha potuto risanare le ferite del sisma
recuperando il centro storico ed al tempo
stesso articolare la propria crescita proprio
grazie a quest’uomo schivo ma risoluto
e determinato. Anche la grande frana di
Posatora del 1982 lo vide battersi come un
leone. Insomma la nuova Ancona, quella del
terzo millenio gli deve più di qualcosa. Ma si
sa che la gratitudine non è di questo mondo.
Pur tuttavia, a tutti coloro che hanno avuto la
fortuna di conoscerlo e di collaborarci resta il
ricordo indelebile di un uomo che ha amato
profondamente la sua, la nostra Ancona.
A cura di Roberto Signorini
PERIODICO REPUBBLICANO - FONDATO NEL 1870
Giovanni Filosa
Direttore Responsabile
PERIODICO MENSILE DI INFORMAZIONE E CULTURA POLITICA
Stampa: Tipolitografia GEMA - via A. Volta,8
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C. C. P. 1016613059
Autorizz. Trib. Ancona Registro periodici n. 13/96 del 15/04/96
Chiuso in tipografia 9/06/2014