1 Settembre Santi Egidio ed Arcano da Sansepolcro 3 Settembre

1 Settembre
Santi Egidio ed Arcano da Sansepolcro
La tradizione indica con questi due nomi i pellegrini che, sul finire del X secolo, avrebbero costruito un primo
oratorio dedicato al Santo Sepolcro di Cristo, attorno al quale sorsero successivamente un’abbazia
benedettina (poi camaldolese) e il borgo che darà origine all’attuale città di Sansepolcro. Secondo le antiche
cronache, la cui cronologia è stata in parte riordinata nei secoli XIX e XX, i due pellegrini sarebbe giunti nella
zona di Sansepolcro, al tempo detta ‘Noceato’ o ‘Noceati’, fra 936 e 996. L’abbazia è documentata dal 1012.
In passato l’intera città festeggiava le proprie origini il 1° settembre, giorno della dedicazione dell’abbazia
(l’odierna cattedrale) dedicato a sant’Egidio. In questo giorno si tenevano una grande fiera e gare di tiro con
la balestra, mentre i rappresentanti delle arti offrivano la cera all’abbazia e, dopo il 1520, alla cattedrale.
Non esiste un riconoscimento ecclesiastico ufficiale del loro culto, ma vengono citati nella bolla di erezione
della diocesi di Sansepolcro nel 1520 (papa Leone X). Sono indicati come santi nella Biblioteca Sanctorum
(vol. II, coll. 374-375). Attualmente sono ricordati il 1° settembre, giorno in cui si celebra la solennità della
dedicazione della Basilica Cattedrale di Sansepolcro.
3 Settembre
San Gregorio I, detto Magno Papa e dottore della Chiesa
Fu uno dei più grandi Padri nella storia della Chiesa, uno dei quattro dottori dell’Occidente: Papa san
Gregorio, che fu Vescovo di Roma tra il 590 e il 604, e che meritò dalla tradizione il titolo di Magnus/Grande.
Gregorio fu veramente un grande Papa e un grande Dottore della Chiesa! Nacque a Roma, intorno al 540,
da una ricca famiglia patrizia della gens Anicia, che si distingueva non solo per la nobiltà del sangue, ma
anche per l’attaccamento alla fede cristiana e per i servizi resi alla Sede Apostolica. Da tale famiglia erano
usciti due Papi: Felice III (483-492), trisavolo di Gregorio, e Agapito (535-536). La casa in cui Gregorio
crebbe sorgeva sul Clivus Scauri, circondata da solenni edifici che testimoniavano la grandezza della Roma
antica e la forza spirituale del cristianesimo. Ad ispirargli alti sentimenti cristiani vi erano poi gli esempi dei
genitori Gordiano e Silvia, ambedue venerati come santi, e quelli delle due zie paterne, Emiliana e Tarsilia,
vissute nella propria casa quali vergini consacrate in un cammino condiviso di preghiera e di ascesi.
Gregorio entrò presto nella carriera amministrativa, che aveva seguito anche il padre, e nel 572 ne
raggiunse il culmine, divenendo prefetto della città. Questa mansione, complicata dalla tristezza dei tempi,
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gli consentì di applicarsi su vasto raggio ad ogni genere di problemi amministrativi, traendone lumi per i futuri
compiti. In particolare, gli rimase un profondo senso dell’ordine e della disciplina: divenuto Papa, suggerirà ai
Vescovi di prendere a modello nella gestione degli affari ecclesiastici la diligenza e il rispetto delle leggi
propri dei funzionari civili. Questa vita tuttavia non lo doveva soddisfare se, non molto dopo, decise di
lasciare ogni carica civile, per ritirarsi nella sua casa ed iniziare la vita di monaco, trasformando la casa di
famiglia nel monastero di Sant’Andrea al Celio. Di questo periodo di vita monastica, vita di dialogo
permanente con il Signore nell’ascolto della sua parola, gli resterà una perenne nostalgia che sempre di
nuovo e sempre di più appare nelle sue omelie: in mezzo agli assilli delle preoccupazioni pastorali, lo
ricorderà più volte nei suoi scritti come un tempo felice di raccoglimento in Dio, di dedizione alla preghiera, di
serena immersione nello studio. Poté così acquisire quella profonda conoscenza della Sacra Scrittura e dei
Padri della Chiesa di cui si servì poi nelle sue opere. Ma il ritiro claustrale di Gregorio non durò a lungo. La
preziosa esperienza maturata nell’amministrazione civile in un periodo carico di gravi problemi, i rapporti
avuti in questo ufficio con i bizantini, l’universale stima che si era acquistata, indussero Papa Pelagio a
nominarlo diacono e ad inviarlo a Costantinopoli quale suo “apocrisario”, oggi si direbbe “Nunzio Apostolico”,
per favorire il superamento degli ultimi strascichi della controversia monofisita e soprattutto per ottenere
l’appoggio dell’imperatore nello sforzo di contenere la pressione longobarda. La permanenza a
Costantinopoli, ove con un gruppo di monaci aveva ripreso la vita monastica, fu importantissima per
Gregorio, poiché gli diede modo di acquisire diretta esperienza del mondo bizantino, come pure di accostare
il problema dei Longobardi, che avrebbe poi messo a dura prova la sua abilità e la sua energia negli anni del
Pontificato. Dopo alcuni anni fu richiamato a Roma dal Papa, che lo nominò suo segretario. Erano anni
difficili: le continue piogge, lo straripare dei fiumi, la carestia affliggevano molte zone d’Italia e la stessa
Roma. Alla fine scoppiò anche la peste, che fece numerose vittime, tra le quali anche il Papa Pelagio II. Il
clero, il popolo e il senato furono unanimi nello scegliere quale suo successore sulla Sede di Pietro proprio
lui, Gregorio. Egli cercò di resistere, tentando anche la fuga, ma non ci fu nulla da fare: alla fine dovette
cedere. Era l’anno 590. Riconoscendo in quanto era avvenuto la volontà di Dio, il nuovo Pontefice si mise
subito con lena al lavoro. Fin dall’inizio rivelò una visione singolarmente lucida della realtà con cui doveva
misurarsi, una straordinaria capacità di lavoro nell’affrontare gli affari tanto ecclesiastici quanto civili, un
costante equilibrio nelle decisioni, anche coraggiose, che l’ufficio gli imponeva. Si conserva del suo governo
un’ampia documentazione grazie al Registro delle sue lettere (oltre 800), nelle quali si riflette il quotidiano
confronto con i complessi interrogativi che affluivano sul suo tavolo. Erano questioni che gli venivano dai
Vescovi, dagli Abati, dai clerici, e anche dalle autorità civili di ogni ordine e grado. Tra i problemi che
affliggevano in quel tempo l’Italia e Roma ve n’era uno di particolare rilievo in ambito sia civile che
ecclesiale: la questione longobarda. Ad essa il Papa dedicò ogni energia possibile in vista di una soluzione
veramente pacificatrice. A differenza dell’Imperatore bizantino che partiva dal presupposto che i Longobardi
fossero soltanto individui rozzi e predatori da sconfiggere o da sterminare, san Gregorio vedeva questa
gente con gli occhi del buon pastore, preoccupato di annunciare loro la parola di salvezza, stabilendo con
essi rapporti di fraternità in vista di una futura pace fondata sul rispetto reciproco e sulla serena convivenza
tra italiani, imperiali e longobardi. Si preoccupò della conversione dei giovani popoli e del nuovo assetto
civile dell’Europa: i Visigoti della Spagna, i Franchi, i Sassoni, gli immigrati in Britannia ed i Longobardi,
furono i destinatari privilegiati della sua missione evangelizzatrice. Abbiamo celebrato ieri la memoria
liturgica di sant’Agostino di Canterbury, il capo di un gruppo di monaci incaricati da Gregorio di andare in
Britannia per evangelizzare l’Inghilterra. Per ottenere una pace effettiva a Roma e in Italia, il Papa si
impegnò a fondo - era un vero pacificatore - , intraprendendo una serrata trattativa col re longobardo
Agilulfo. Tale negoziazione portò ad un periodo di tregua che durò per circa tre anni (598 – 601), dopo i quali
fu possibile stipulare nel 603 un più stabile armistizio. Questo risultato positivo fu ottenuto anche grazie ai
paralleli contatti che, nel frattempo, il Papa intratteneva con la regina Teodolinda, che era una principessa
bavarese e, a differenza dei capi degli altri popoli germanici, era cattolica, profondamente cattolica. Si
conserva una serie di lettere del Papa Gregorio a questa regina, nelle quali egli rivela dimostrano la sua
stima e la sua amicizia per lei. Teodolinda riuscì man mano a guidare il re al cattolicesimo, preparando così
la via alla pace. Il Papa si preoccupò anche di inviarle le reliquie per la basilica di S. Giovanni Battista da lei
fatta erigere a Monza, né mancò di farle giungere espressioni di augurio e preziosi doni per la medesima
cattedrale di Monza in occasione della nascita e del battesimo del figlio Adaloaldo. La vicenda di questa
regina costituisce una bella testimonianza circa l’importanza delle donne nella storia della Chiesa. In fondo,
gli obiettivi sui quali Gregorio puntò costantemente furono tre: contenere l’espansione dei Longobardi in
Italia; sottrarre la regina Teodolinda all’influsso degli scismatici e rafforzarne la fede cattolica; mediare tra
Longobardi e Bizantini in vista di un accordo che garantisse la pace nella penisola e in pari tempo
consentisse di svolgere un’azione evangelizzatrice tra i Longobardi stessi. Duplice fu quindi il suo costante
orientamento nella complessa vicenda: promuovere intese sul piano diplomatico-politico, diffondere
l’annuncio della vera fede tra le popolazioni. Accanto all’azione meramente spirituale e pastorale, Papa
Gregorio si rese attivo protagonista anche di una multiforme attività sociale. Con le rendite del cospicuo
patrimonio che la Sede romana possedeva in Italia, specialmente in Sicilia, comprò e distribuì grano,
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soccorse chi era nel bisogno, aiutò sacerdoti, monaci e monache che vivevano nell’indigenza, pagò riscatti
di cittadini caduti prigionieri dei Longobardi, comperò armistizi e tregue. Inoltre svolse sia a Roma che in
altre parti d’Italia un’attenta opera di riordino amministrativo, impartendo precise istruzioni affinché i beni
della Chiesa, utili alla sua sussistenza e alla sua opera evangelizzatrice nel mondo, fossero gestiti con
assoluta rettitudine e secondo le regole della giustizia e della misericordia. Esigeva che i coloni fossero
protetti dalle prevaricazioni dei concessionari delle terre di proprietà della Chiesa e, in caso di frode, fossero
prontamente risarciti, affinché non fosse inquinato con profitti disonesti il volto della Sposa di Cristo. Questa
intensa attività Gregorio la svolse nonostante la malferma salute, che lo costringeva spesso a restare a letto
per lunghi giorni. I digiuni praticati durante gli anni della vita monastica gli avevano procurato seri disturbi
all’apparato digerente. Inoltre, la sua voce era molto debole così che spesso era costretto ad affidare al
diacono la lettura delle sue omelie, affinché i fedeli presenti nelle basiliche romane potessero sentirlo.
Faceva comunque il possibile per celebrare nei giorni di festa Missarum sollemnia, cioè la Messa solenne, e
allora incontrava personalmente il popolo di Dio, che gli era molto affezionato, perché vedeva in lui il
riferimento autorevole a cui attingere sicurezza: non a caso gli venne ben presto attribuito il titolo di consul
Dei. Nonostante le condizioni difficilissime in cui si trovò ad operare, riuscì a conquistarsi, grazie alla santità
della vita e alla ricca umanità, la fiducia dei fedeli, conseguendo per il suo tempo e per il futuro risultati
veramente grandiosi. Era un uomo immerso in Dio: il desiderio di Dio era sempre vivo nel fondo della sua
anima e proprio per questo egli era sempre molto vicino al prossimo, ai bisogni della gente del suo tempo. In
un tempo disastroso, anzi disperato, seppe creare pace e dare speranza. Quest’uomo di Dio ci mostra dove
sono le vere sorgenti della pace, da dove viene la vera speranza e diventa così una guida anche per noi
oggi. Nonostante i molteplici impegni connessi con la sua funzione di Vescovo di Roma, egli ci ha lasciato
numerose opere, alle quali la Chiesa nei secoli successivi ha attinto a piene mani. Oltre al cospicuo
epistolario – il Registro a cui accennavo nella scorsa catechesi contiene oltre 800 lettere – egli ci ha lasciato
innanzitutto scritti di carattere esegetico, tra cui si distinguono il Commento morale a Giobbe - noto sotto il
titolo latino di Moralia in Iob -, le Omelie su Ezechiele, le Omelie sui Vangeli. Vi è poi un’importante opera di
carattere agiografico, i Dialoghi, scritta da Gregorio per l’edificazione della regina longobarda Teodolinda.
L’opera principale e più nota è senza dubbio la Regola pastorale, che il Papa redasse all’inizio del pontificato
con finalità chiaramente programmatiche. Volendo passare in veloce rassegna queste opere, dobbiamo
anzitutto notare che, nei suoi scritti, Gregorio non si mostra mai preoccupato di delineare una “sua” dottrina,
una sua originalità. Piuttosto, egli intende farsi eco dell’insegnamento tradizionale della Chiesa, vuole
semplicemente essere la bocca di Cristo e della sua Chiesa sul cammino che si deve percorrere per
giungere a Dio. Esemplari sono a questo proposito i suoi commenti esegetici. Egli fu un appassionato lettore
della Bibbia, a cui si accostò con intendimenti non semplicemente speculativi: dalla Sacra Scrittura, egli
pensava, il cristiano deve trarre non tanto conoscenze teoriche, quanto piuttosto il nutrimento quotidiano per
la sua anima, per la sua vita di uomo in questo mondo. Nelle Omelie su Ezechiele, ad esempio, egli insiste
fortemente su questa funzione del testo sacro: avvicinare la Scrittura semplicemente per soddisfare il proprio
desiderio di conoscenza significa cedere alla tentazione dell’orgoglio ed esporsi così al rischio di scivolare
nell’eresia. L’umiltà intellettuale è la regola primaria per chi cerca di penetrare le realtà soprannaturali
partendo dal Libro sacro. L’umiltà, ovviamente, non esclude lo studio serio; ma per far sì che questo risulti
spiritualmente proficuo, consentendo di entrare realmente nella profondità del testo, l’umiltà resta
indispensabile. Solo con questo atteggiamento interiore si ascolta realmente e si percepisce finalmente la
voce di Dio. D’altra parte, quando si tratta di Parola di Dio, comprendere non è nulla, se la comprensione
non conduce all’azione. In queste omelie su Ezechiele si trova anche quella bella espressione secondo cui
“il predicatore deve intingere la sua penna nel sangue del suo cuore; potrà così arrivare anche all’orecchio
del prossimo”. Leggendo queste sue omelie si vede che realmente Gregorio ha scritto con il sangue del suo
cuore e perciò ancora oggi parla a noi. Questo discorso Gregorio sviluppa anche nel Commento morale a
Giobbe. Seguendo la tradizione patristica, egli esamina il testo sacro nelle tre dimensioni del suo senso: la
dimensione letterale, la dimensione allegorica e quella morale, che sono dimensioni dell’unico senso della
Sacra Scrittura. Gregorio tuttavia attribuisce una netta prevalenza al senso morale. In questa prospettiva,
egli propone il suo pensiero attraverso alcuni binomi significativi - sapere-fare, parlare-vivere, conoscereagire -, nei quali evoca i due aspetti della vita umana che dovrebbero essere complementari, ma che spesso
finiscono per essere antitetici. L’ideale morale, egli commenta, consiste sempre nel realizzare un’armoniosa
integrazione tra parola e azione, pensiero e impegno, preghiera e dedizione ai doveri del proprio stato: è
questa la strada per realizzare quella sintesi grazie a cui il divino discende nell’uomo e l’uomo si eleva fino
alla immedesimazione con Dio. Il grande Papa traccia così per l’autentico credente un completo progetto di
vita; per questo il Commento morale a Giobbe costituirà nel corso del medioevo una specie di Summa della
morale
cristiana.
Di notevole rilievo e bellezza sono pure le Omelie sui Vangeli. La prima di esse fu tenuta nella basilica di
San Pietro durante il tempo di Avvento del 590 e dunque pochi mesi dopo l’elezione al Pontificato; l’ultima fu
pronunciata nella basilica di San Lorenzo nella seconda domenica dopo Pentecoste del 593. Il Papa
predicava al popolo nelle chiese dove si celebravano le “stazioni” - particolari cerimonie di preghiera nei
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tempi forti dell’anno liturgico - o le feste dei martiri titolari. Il principio ispiratore, che lega insieme i vari
interventi, si sintetizza nella parola “praedicator”: non solo il ministro di Dio, ma anche ogni cristiano, ha il
compito di farsi “predicatore” di quanto ha sperimentato nel proprio intimo, sull’esempio di Cristo che s’è fatto
uomo per portare a tutti l’annuncio della salvezza. L’orizzonte di questo impegno è quello escatologico:
l’attesa del compimento in Cristo di tutte le cose è un pensiero costante del grande Pontefice e finisce per
diventare motivo ispiratore di ogni suo pensiero e di ogni sua attività. Da qui scaturiscono i suoi incessanti
richiami alla vigilanza e all’impegno nelle buone opere. Il testo forse più organico di Gregorio Magno è la
Regola pastorale, scritta nei primi anni di Pontificato. In essa Gregorio si propone di tratteggiare la figura del
Vescovo ideale, maestro e guida del suo gregge. A tal fine egli illustra la gravità dell’ufficio di pastore della
Chiesa e i doveri che esso comporta: pertanto, quelli che a tale compito non sono stati chiamati non lo
ricerchino con superficialità, quelli invece che l’avessero assunto senza la debita riflessione sentano nascere
nell’animo una doverosa trepidazione. Riprendendo un tema prediletto, egli afferma che il Vescovo è
innanzitutto il “predicatore” per eccellenza; come tale egli deve essere innanzitutto di esempio agli altri, così
che il suo comportamento possa costituire un punto di riferimento per tutti. Un’efficace azione pastorale
richiede poi che egli conosca i destinatari e adatti i suoi interventi alla situazione di ognuno: Gregorio si
sofferma ad illustrare le varie categorie di fedeli con acute e puntuali annotazioni, che possono giustificare la
valutazione di chi ha visto in quest’opera anche un trattato di psicologia. Da qui si capisce che egli
conosceva realmente il suo gregge e parlava di tutto con la gente del suo tempo e della sua città. Il grande
Pontefice, tuttavia, insiste sul dovere che il Pastore ha di riconoscere ogni giorno la propria miseria, in modo
che l’orgoglio non renda vano, dinanzi agli occhi del Giudice supremo, il bene compiuto. Per questo il
capitolo finale della Regola è dedicato all’umiltà: “Quando ci si compiace di aver raggiunto molte virtù è bene
riflettere sulle proprie insufficienze ed umiliarsi: invece di considerare il bene compiuto, bisogna considerare
quello che si è trascurato di compiere”. Tutte queste preziose indicazioni dimostrano l’altissimo concetto che
san Gregorio ha della cura delle anime, da lui definita “ars artium”, l’arte delle arti. La Regola ebbe grande
fortuna al punto che, cosa piuttosto rara, fu ben presto tradotta in greco e in anglosassone. Significativa è
pure l’altra opera, i Dialoghi, in cui all’amico e diacono Pietro, convinto che i costumi fossero ormai così
corrotti da non consentire il sorgere di santi come nei tempi passati, Gregorio dimostra il contrario: la santità
è sempre possibile, anche in tempi difficili. Egli lo prova narrando la vita di persone contemporanee o
scomparse da poco, che ben potevano essere qualificate sante, anche se non canonizzate. La narrazione è
accompagnata da riflessioni teologiche e mistiche che fanno del libro un testo agiografico singolare, capace
di affascinare intere generazioni di lettori. La materia è attinta alle tradizioni vive del popolo ed ha lo scopo di
edificare e formare, attirando l’attenzione di chi legge su una serie di questioni quali il senso del miracolo,
l’interpretazione della Scrittura, l’immortalità dell’anima, l’esistenza dell’inferno, la rappresentazione
dell’aldilà, temi tutti che abbisognavano di opportuni chiarimenti. Il libro II è interamente dedicato alla figura
di Benedetto da Norcia ed è l’unica testimonianza antica sulla vita del santo monaco, la cui bellezza
spirituale appare nel testo in tutta evidenza. Nel disegno teologico che Gregorio sviluppa attraverso le sue
opere, passato, presente e futuro vengono relativizzati. Ciò che per lui conta più di tutto è l’arco intero della
storia salvifica, che continua a dipanarsi tra gli oscuri meandri del tempo. In questa prospettiva è significativo
che egli inserisca l’annunzio della conversione degli Angli nel bel mezzo del Commento morale a Giobbe: ai
suoi occhi l’evento costituiva un avanzamento del Regno di Dio di cui tratta la Scrittura; poteva quindi a
buona ragione essere menzionato nel commento ad un libro sacro. Secondo lui le guide delle comunità
cristiane devono impegnarsi a rileggere gli eventi alla luce della Parola di Dio: in questo senso il grande
Pontefice sente il dovere di orientare pastori e fedeli nell’itinerario spirituale di una lectio divina illuminata e
concreta, collocata nel contesto della propria vita. Prima di concludere è doveroso spendere una parola sulle
relazioni che Papa Gregorio coltivò con i Patriarchi di Antiochia, di Alessandria e della stessa Costantinopoli.
Si preoccupò sempre di riconoscerne e rispettarne i diritti, guardandosi da ogni interferenza che ne limitasse
la legittima autonomia. Se tuttavia san Gregorio, nel contesto della sua situazione storica, si oppose al titolo
di “ecumenico” assunto da parte del Patriarca di Costantinopoli, non lo fece per limitare o negare la sua
legittima autorità, ma perché egli era preoccupato dell’unità fraterna della Chiesa universale. Lo fece
soprattutto per la sua profonda convinzione che l’umiltà dovrebbe essere la virtù fondamentale di ogni
Vescovo, ancora più di un Patriarca. Gregorio era rimasto semplice monaco nel suo cuore e perciò era
decisamente contrario ai grandi titoli. Egli voleva essere - è questa la sua espressione - servus servorum
Dei. Questa parola da lui coniata non era nella sua bocca una pia formula, ma la vera manifestazione del
suo modo di vivere e di agire. Egli era intimamente colpito dall’umiltà di Dio, che in Cristo si è fatto nostro
servo, ci ha lavato e ci lava i piedi sporchi. Pertanto egli era convinto che soprattutto un Vescovo dovrebbe
imitare questa umiltà di Dio e così seguire Cristo. Il suo desiderio veramente era di vivere da monaco in
permanente colloquio con la Parola di Dio, ma per amore di Dio seppe farsi servitore di tutti in un tempo
pieno di tribolazioni e di sofferenze; seppe farsi “servo dei servi”. Proprio perché fu questo, egli è grande e
mostra
anche
a
noi
la
misura
della
vera
grandezza.
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5 Settembre
Beata Teresa di Calcutta (Agnes Gonxha Bojaxiu)
Al piano terra della Mother House, la casa-madre nella Lower Circular Road di Calcutta, c’è la cappella
semplice e disadorna dove dal 13 settembre 1997, dopo i solenni funerali di Stato, riposano le spoglie
mortali di Madre Teresa. Fuori, nel fitto dedalo di viuzze, i rumori assordanti della metropoli indiana:
campanelli di risciò, vociare di bimbi, lo sferragliare di tram scalcinati attraverso i gironi infernali della miseria.
Dentro, invece, il tempo sembra fermarsi ogni volta, cristallizzato in una specie di bolla rarefatta: la cappella
accoglie una tomba povera e spoglia, un blocco di cemento bianco su cui è stata deposta la Bibbia
personale di Madre Teresa e una statua della Madonna con una corona di fiori al collo, accanto a una lapide
di marmo con sopra inciso, in inglese, un versetto tratto dal Vangelo di Giovanni: “Amatevi gli uni gli altri
come io ho amato voi” (15,12). Madre Teresa di Calcutta, al secolo Agnes Gonxha Bojaxhiu, era nata il 26
agosto 1910 a Skopje (ex-Jugoslavia, oggi Macedonia), da una famiglia cattolica albanese. A 18 anni decise
di entrare nella Congregazione delle Suore Missionarie di Nostra Signora di Loreto. Partita nel 1928 per
l’Irlanda, un anno dopo è già in India. Nel 1931 la giovane Agnes emette i primi voti prendendo il nuovo
nome di suor Mary Teresa del Bambin Gesù(scelto per la sua devozione alla santa di Lisieux), e per circa
vent’anni insegnerà storia e geografia alle ragazze di buona famiglia nel collegio delle suore di Loreto a
Entally, zona orientale di Calcutta. Oltre il muro di cinta del convento c’era Motijhil con i suoi odori acri e
soffocanti, uno degli slum più miserabili della megalopoli indiana, la discarica del mondo. Da lontano suor
Teresa poteva sentirne i miasmi che arrivavano fino al suo collegio di lusso, ma non lo conosceva. Era l’altra
faccia dell’India, un mondo a parte per lei, almeno fino a quella fatidica sera del 10 settembre 1946, quando
avvertì la “seconda chiamata” mentre era in treno diretta a Darjeeling, per gli esercizi spirituali. Durante
quella notte una frase continuò a martellarle nella testa per tutto il viaggio, il grido dolente di Gesù in croce:
“Ho sete!”. Un misterioso richiamo che col passare delle ore si fece sempre più chiaro e pressante: lei
doveva lasciare il convento per i più poveri dei poveri. Quel genere di persone che non sono niente, che
vivono ai margini di tutto, il mondo dei derelitti che ogni giorno agonizzavano sui marciapiedi di Calcutta,
senza neppure la dignità di poter morire in pace. Suor Teresa lasciò il convento di Entally con cinque rupie in
tasca e il sari orlato di azzurro delle indiane più povere, dopo quasi 20 anni trascorsi nella congregazione
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delle Suore di Loreto. Era il 16 agosto 1948. La piccola Gonxha di Skopje diventava Madre Teresa e iniziava
da
questo
momento
la
sua
corsa
da
gigante.
Il 7 ottobre 1950 la nuova Congregazione ottiene il suo primo riconoscimento, l’approvazione diocesana. È
una ricorrenza mariana, la festa del Rosario, e di certo non è casuale, dal momento che a Maria è dedicata
la nuova famiglia religiosa. L’amore profondo di Madre Teresa per la Madonna aveva salde radici nella sua
infanzia, a Skopje, quando mamma Drone, che era molto religiosa, portava sempre i suoi figli (oltre a
Gonxha c’erano Lazar e Age) in chiesa e a visitare i poveri, ed ogni sera recitavano insieme il rosario. “La
nostra Società – si legge nel primo capitolo delle Costituzioni – è dedicata al Cuore Immacolato di Maria,
Causa della nostra Gioia e Regina del Mondo, perché è nata su sua richiesta e grazie alla sua continua
intercessione si è sviluppata e continua a crescere”. La figura della Vergine ha ispirato lo Statuto delle
Missionarie della Carità, al punto che ognuno dei 10 capitoli delle Costituzioni è introdotto da una citazione
tratta dai passi mariani dei Vangeli. La Madonna è detta la prima Missionaria della Carità in ragione della
sua visita a Elisabetta, in cui dette prova di ardente carità nel servizio gratuito all’anziana cugina bisognosa
di aiuto. In aggiunta ai tre usuali voti di povertà, castità e obbedienza, ogni Missionaria della Carità ne fa un
quarto di "dedito e gratuito servizio ai più poveri tra i poveri", riconoscendo in Maria l’icona del servizio reso
di tutto cuore, della più autentica carità. (…)La devozione al Cuore Immacolato di Maria è l’altro aspetto del
carisma mariano e missionario dell’opera di Madre Teresa, praticato con i mezzi più tradizionali e più
semplici: il S. Rosario, pregato ogni giorno e in ogni luogo, persino per la strada; il culto delle feste mariane
(la professione religiosa delle sue suore cade sempre in festività della Madonna); la preghiera fiduciosa a
Maria affidata anche alle “medagliette miracolose”( Madre Teresa ne regalava in gran quantità alle persone
che incontrava); l’imitazione delle virtù della Madre di Dio, in special modo l’umiltà, il silenzio, la profonda
carità. "I thirst" (ho sete), c’è scritto sul crocifisso della Casa Madre e in ogni cappella – in ogni parte del
mondo – di ogni casa della famiglia religiosa di Madre Teresa. Questa frase, il grido dolente di Gesù sulla
croce che le era rimbombato nel cuore la fatidica sera della "seconda chiamata", costituisce la chiave della
sua spiritualità. La figura minuta di Madre Teresa, il suo fragile fisico piegato dalla fatica, il suo volto solcato
da innumerevoli rughe sono ormai conosciuti in tutto il mondo. Chi l’ha incontrata anche solo una volta, non
ha più potuto dimenticarla: la luce del suo sorriso rifletteva la sua immensa carità. Essere guardati da lei, dai
suoi occhi profondi, amorevoli, limpidi, dava la curiosa sensazione di essere guardati dagli occhi stessi di
Dio. Attiva e contemplativa al tempo stesso, nella Madre c’erano idealismo e concretezza, pragmatismo e
utopia. Lei amava definirsi "la piccola matita di Dio", un piccolo semplice strumento fra le Sue mani.
Riconosceva con umiltà che quando la matita sarebbe diventata un mozzicone inutile, il Signore l’avrebbe
buttata via, affidando ad altri la sua missione apostolica: "Anche chi crede in me compirà le opere che io
compio, e ne farà di più grandi" (cfr. Gv 14, 12). Madre Teresa è scomparsa a Calcutta la sera del venerdì 5
settembre 1997, alle 21.30. Aveva 87 anni. Il 26 luglio 1999 è stato aperto, con ben tre anni di anticipo sui
cinque previsti dalla Chiesa, il suo processo di beatificazione; e ciò per volontà del S. Padre che, in via del
tutto eccezionale, ne ha voluto accelerare la procedura: per la gente Madre Teresa è già santa. Il suo
messaggio è sempre attuale: che ognuno cerchi la sua Calcutta, presente pure sulle strade del ricco
Occidente, nel ritmo frenetico delle nostre città. “Puoi trovare Calcutta in tutto il mondo – lei diceva – , se hai
occhi per vedere. Dovunque ci sono i non amati, i non voluti, i non curati, i respinti, i dimenticati”. I suoi figli
spirituali continuano in tutto il mondo a servire “i più poveri tra i poveri” in orfanotrofi, lebbrosari, case di
accoglienza per anziani, ragazze madri, moribondi. In tutto sono 5000, compresi i due rami maschili, meno
noti, distribuiti in circa 600 case sparse per il mondo; senza contare le molte migliaia di volontari e laici
consacrati che portano avanti le sue opere. “Quando sarò morta – diceva lei –, potrò aiutarvi di più…”.
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7 Settembre
Beato Guido da Arezzo
Si è discusso e si discute ancora sul luogo di nascita di questo beato: chi ha pensato a qualche località
francese, chi ad Arezzo, basandosi su testimonianze di antichi scrittori e sui mss. dei piú vetusti codd.
guidoniani, chi di recente ha sostenuto che è originario di Pomposa, giacché in alcune lettere, ancora
inedite, afferma di essere "Pomposiano agro exhortus". Circa la precisa data di nascita mancano documenti;
generalmente è fatta oscillare fra il 990 e il 1000. All'età di ventidue anni entrò nel celebre monastero di
Pomposa ove si formò sotto la direzione dell'abate Guido di Ravenna. In quel tempo l'apprendimento della
musica presentava gravi difficoltà perché mancava una notazione scritta, ed il canto era eseguito ad
orecchio. Guido intese portare un ordine nella notazione musicale e cominciò ad attuare un nuovo metodo di
insegnamento del canto. Ma, come spesso accade agli innovatori, il suo sistema trovò ostacoli negli stessi
monaci di Pomposa, per cui, venuto in disaccordo con lo stesso abate Guido, preferí spontaneamente
abbandonare il monastero (ca. 1025). In alcune biografie si legge che peregrinò vario tempo in Italia e in
Europa, ma sembra che la sua nuova dimora fosse proprio Arezzo, dove fu accolto dal vescovo Teodaldo
che lo autorizzò alla predicazione e lo incaricò dell'insegnamento della musica ai pueri cantores della
cattedrale. Egli attuò il suo nuovo metodo, ottenendo un successo che ne aumentò notevolmente la fama.
Su consiglio dello stesso vescovo di Arezzo compose un libro, il Micrologus, in cui esponeva i criteri seguiti
nel canto e nella teoria musicale e che dedicò in segno di riconoscenza al presule. La notizia delle
innovazioni del monaco-maestro aretino giunse a Giovanni XIX che ben tre volte lo invitò a Roma. Guido vi
si recò verso il 1030-1032 accompagnato dal preposto Pietro e dall'abate Grunwaldo. Dai suoi cantori fece
eseguire vari saggi che trovarono piena approvazione nel pontefice, il quale avrebbe voluto che si fermasse
nella città eterna per istruirne i cantori, ma Guido, colpito da malaria e per il clima non confacente alla sua
salute, preferí ritornare nella sua Arezzo. A Roma ebbe occasione di incontrare il suo vecchio abate di
Pomposa, dal quale ricevette le scuse per le incomprensioni subite e l'invito a rientrare nel suo primitivo
monastero. Guido promise, ma non mantenne. In qualche biografia invece si afferma che sarebbe succeduto
a Guido di Ravenna nell'ufficio di abate. In realtà dopo il rientro da Roma le notizie sul monaco musicista si
fanno sporadiche e saltuarie. Probabilmente fu a Fonte Avellana, ove si afferma (a torto) divenisse abate, e
a Camaldoli. Questo fatto sembra suffragare l'affermazione che egli sia stato un monaco-eremita
camaldolese, ma in proposito manca un accordo fra gli studiosi. E' certo però che continuò nella sua attività
musicale, come ne fanno testimonianza i suoi numerosi scritti fra cui vanno ricordati il Praefatio in
antipLonarium e le Regulae rithmicae. Ignoto è l'anno della morte: la data oscilla fra il 1045 e il 1050. Da
qualche scrittore dell'Ordine Camaldolese è presentato come beato, ma notizie di culto mancano prima del
sec. XVI come pure ogni menzione nei martirologi dell'Ordine. La commemorazione è posta al 7 settembre.
7
8 Settembre
Natività della Beata Vergine Maria
Nella data odierna le chiese d’Oriente e d’Occidente celebrano la nascita di Maria, la madre del Signore. La
fonte prima che racconta l’evento è il cosiddetto Protovangelo di Giacomo secondo il quale Maria nacque a
Gerusalemme nella casa di Gioacchino ed Anna. Qui nel IV secolo venne edificata la basilica di sant’Anna e
nel giorno della sua dedicazione veniva celebrata la natività della Madre di Dio. La festa si estese poi a
Costantinopoli e fu introdotta in occidente da Sergio I, un papa di origine siriana. «Quelli che Dio da sempre
ha conosciuto, li ha anche predestinati»: Dante sembra quasi parafrasare il versetto di san Paolo quando
definisce Maria «termine fisso d’eterno consiglio». Dall’eternità, Il Padre opera per la preparazione della
Tuttasanta, di Colei che doveva divenire la madre del Figlio suo, il tempio dello Spirito Santo. La
geneaologia di Gesù proposta dal Vangelo di Matteo culmina nell’espressione «Giuseppe, lo sposo di Maria,
dalla quale è nato Gesù chiamato Cristo». Con Maria, dunque, è venuta l’ora del Davide definitivo, della
instaurazione piena del regno di Dio. Con la sua nascita inoltre prende forma il grembo offerto dall’umanità a
Dio perché si compia l’incarnazione del Verbo nella storia degli uomini. Maria bambina infine è anche
immagine dell’umanità nuova, quella da cui il Figlio suo toglierà il cuore di pietra per donarle un cuore di
carne che accolga in docilità i precetti di Dio. Onorando la natività della Madre di Dio si va al vero significato
e il fine di questo evento che è l'incarnazione del Verbo. Infatti Maria nasce, viene allattata e cresciuta per
essere la Madre del Re dei secoli, di Dio". E’ questo del resto il motivo per cui di Maria soltanto (oltre che di
S. Giovanni Battista e naturalmente di Cristo) non si festeggia unicamente la " nascita al cielo ", come
avviene per gli altri santi, ma anche la venuta in questo mondo. In realtà, il meraviglioso di questa nascita
non è in ciò che narrano con dovizia di particolari e con ingenuità gli apocrifi, ma piuttosto nel signifi cativo
passo innanzi che Dio fa nell'attuazione del suo eterno disegno d'amore. Per questo la festa odierna è stata
celebrata con lodi magnifiche da molti santi Padri, che hanno attinto alla loro conoscenza della Bibbia e alla
loro sensibilità e ardore poetico. Leggiamo qualche espressione del secondo Sermone sulla Natività di Maria
di S. Pier Damiani: “Dio onnipotente, prima che l'uomo cadesse, previde la sua caduta e decise, prima dei
secoli, l'umana redenzione. Decise dunque di incarnarsi in Maria”. "Oggi è il giorno in cui Dio comincia a
mettere in pratica il suo piano eterno, poiché era necessario che si costruisse la casa, prima che il Re
scendesse ad abitarla. Casa bella, poiché, se la Sapienza si costruì una casa con sette colonne lavorate,
questo palazzo di Maria poggia sui sette doni dello Spirito Santo. Salomone celebrò in modo solennissimo
l'inaugurazione di un tempio di pietra. Come celebreremo la nascita di Maria, tempio del Verbo incarnato? In
quel giorno la gloria di Dio scese sul tempio di Gerusalemme sotto forma di nube, che lo oscurò. Il Signore
che fa brillare il sole nei cieli, per la sua dimora tra noi ha scelto l'oscurità (1 Re 8,10-12), disse Salomone
nella sua orazione a Dio. Questo nuovo tempio si vedrà riempito dallo stesso Dio, che viene per essere la
luce delle genti. "Alle tenebre del gentilesimo e alla mancanza di fede dei Giudei, rappresentate dal tempio di
Salomone, succede il giorno luminoso nel tempio di Maria. E’ giusto, dunque, cantare questo giorno e Colei
che
nasce
in
esso".
8
12 Settembre
Santissimo Nome di Maria
Nella storia dell'esegesi ci sono state diverse interpretazioni del significato del nome di Maria:
1) "AMAREZZA"
questo significato e` stato dato da alcuni rabbini: fanno derivare il nome MIRYAM dalla radice MRR = in
ebraico "essere amaro". Questi rabbini sotengono che Maria, sorella di Mose`, fu chiamata cosi` perche',
quando nacque, il Faraone comincio` a rendere amara la vita degli Israeliti , e prese la decisione di uccidere
i bambini ebrei. Questa interpretazione puo` essere accettata da noi Cristiani pensando quanto dolore e
quanta amarezza ha patito Maria nel corredimerci: [Lam. 1,12] Voi tutti che passate per la via, considerate e
osservate se c'e` un dolore simile al mio dolore... Inoltre il diavolo, di cui il Faraone e` figura, fa guerra alla
stirpe della donna, rendendo amara la vita ai veri devoti di Maria, che, per altro, nulla temono, protetti dalla
loro Regina.
2) "MAESTRA E SIGNORA DEL MARE"
Secondo questa interpretazione il nome di Maria deriverebbe da MOREH (ebr. Maestra-Signora) + YAM (=
mare): come Maria, la sorella di Mose`, fu maestra delle donne ebree nel passaggio del Mar Rosso e
Maestra nel canto di Vittoria (cf Es 15,20), cosi` "Maria e` la Maestra e la Signora del mare di questo secolo,
che Ella ci fa attraversare conducendoci al cielo" (S.Ambrogio, Exhort. ad Virgines) Altri autori antichi che
suggeriscono questa interpretazione: Filone, S. Girolamo, S. Epifanio. Questo parallelo tipologico tra Maria
sorella di Mose` e Maria, madre di Dio, e` ripreso da Ps. Agostino, che chiama Maria "tympanistria nostra"
(Maria sorella di Mose` e la suonatrice di timpano degli Ebrei, Maria SS. e` la tympanistria nostra, cioe` dei
Cristiani: il cantico di Mose` del N.T sarebbe il Magnificat, cantato appunto da Maria: questa interpretazione
e` sostenuta oggi dal P. Le Deaut, uno dei piu` grandi conoscitori delle letteratura tergumica ed ebraica in
genere: secondo questo autore, S. Luca avrebbe fatto volontariamente questo parallelismo.
3) "ILLUMINATRICE, STELLA DEL MARE"
Secondo questa interpretazione il nome di Maria deriverebbe da: prefisso nominale (o participiale) M + 'OR
(ebr.= luce) + YAM (= mare): Cosi` S. Gregorio Taumaturgo, S. Isidoro, S. Girolamo (insieme alla
precedente) Alcuni autori ritengono che S. Girolamo in realta` non abbia interpretato il nome come "stella del
mare", ma come "stilla maris", cioè: goccia del mare. La presenza della radice di "mare" nel nome di Maria,
ha suggerito diverse interpretazioni e/paragoni di Maria con il "mare": Pietro di Celles (+1183) Maria = "mare
di grazie": di qui Montfort riprende: "Dio Padre ha radunato tutte le acque e le ha chiamate mare, ha
radunato tutte le grazie e le ha chiamate Maria" (Vera Devozione, 23). Qohelet 1,7: "tutti i fiumi entrano nel
mare"; S. Bonaventura sostiene che tutte le grazie (= tutti i fiumi) che hanno avuto gli angeli, gli apostoli, i
martiri, i confessori, le vergini, sono "confluite" in Maria, il mare di grazie. S.Brigida: "ecco perche` il nome di
Maria e` soave per gli angeli e terribile per i demoni" Ave maris stella, Dei Mater alma, atque semper virgo,
felix coeli porta... Questo inno sembra una meditazione sul nome di Maria, in rapporto a Maria sorella di
Mosè: "Ave maris stella" (cf significato 3); "Dei Mater ALMA atque semper virgo": Maria, sorella di Mose`,
viene chiamata in Es 2,8, `ALMAH = "vergine" e, etimologicamente "nascosta"; "felix coeli porta", cioe`
"maestra del mare" di questo secolo che Ella ci fa attraversare (cf. significato 2)
4) PIOGGIA STAGIONALE
Secondo questa interpretazione il nome di Maria deriverebbe da MOREH (ebr. PRIMA PIOGGIA
STAGIONALE) Maria e` considerata come Colei che manda dal cielo una "pioggia di grazia" e "pioggia di
grazia essa stessa". Questa interpretazione, che C. A Lapide attribuisce a Pagninus, viene in parte ripresa
da S. Luigi di Montfort nella Preghiera Infuocata: commentando Ps. 67:10 "pluviam voluntariam elevasti
Deus, hereditatem tuam laborantem tu confortasti" (Una pioggia abbondante o Dio mettesti da parte per la
tua eredita`), il Montfort dice: "[P.I. 20] Che cos'e`, Signore, questa pioggia abbondante che hai separata e
scelta per rinvigorire la tua eredita` esausta? Non sono forse questi santi missionari, figli di Maria tua sposa,
che tu devi scegliere e radunare per il bene della tua Chiesa cosi` indebolita e macchiata dai peccati dei suoi
figli?" Maria, pioggia di grazie, formera` e mandera` sulla terra una pioggia di missionari
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5) ALTEZZA
Secondo questa interpretazione il nome di Maria deriverebbe da MAROM (ebr. ALTEZZA, EXCELSIS):
questa ipotesi e` sostenuta, tra gli antichi dal Caninius, e, tra i moderni, da VOGT, soprattutto in base alle
recenti scoperte dei testi ugaritici, che hanno permesso la comprensione di molte radici ebraiche.
Luca 1:78 per viscera misericordiae Dei nostri in quibus visitavit nos oriens EX ALTO questo versetto, in
base al testo greco e alla retroversione in ebraico, puo` essere tradotto: ci ha visitati dall'alto un sole che
sorge: Cristo e` il sole che sorge che viene dall'alto (il Padre) oppure ci ha visitati un sole che sorge
"dall'alto" = da Maria Di tutti queste ipotesi, qual e` quella giusta? forse la Provvidenza ci ha lasciato nel
dubbio perche' nel nome di Maria possiamo trovare nel contempo tutti i significati che l'analogia della fede ci
suggerisce.
14 Settembre
Esaltazione della Santa Croce
La festa in onore della Croce venne celebrata la prima volta nel 335, in occasione della “Crucem” sul
Golgota, e quella dell'"Anàstasis", cioè della Risurrezione. La dedicazione avvenne il 13 dicembre. Col
termine di "esaltazione", che traduce il greco hypsòsis, la festa passò anche in Occidente, e a partire dal
secolo VII, essa voleva commemorare il recupero della preziosa reliquia fatto dall'imperatore Eraclio nel 628.
Della Croce trafugata quattordici anni prima dal re persiano Cosroe Parviz, durante la conquista della Città
santa, si persero definitivamente le tracce nel 1187, quando venne tolta al vescovo di Betlem che l'aveva
portata nella battaglia di Hattin. La celebrazione odierna assume un significato ben più alto del leggendario
ritrovamento da parte della pia madre dell'imperatore Costantino, Elena. La glorificazione di Cristo passa
attraverso il supplizio della croce e l'antitesi sofferenza-glorificazione diventa fondamentale nella storia della
Redenzione: Cristo, incarnato nella sua realtà concreta umano-divina, si sottomette volontariamente
all'umiliante condizione di schiavo (la croce, dal latino "crux", cioè tormento, era riservata agli schiavi) e
l'infamante supplizio viene tramutato in gloria imperitura. Così la croce diventa il simbolo e il compendio della
religione cristiana. La stessa evangelizzazione, operata dagli apostoli, è la semplice presentazione di "Cristo
crocifisso". Il cristiano, accettando questa verità, "è crocifisso con Cristo", cioè deve portare quotidianamente
la propria croce, sopportando ingiurie e sofferenze, come Cristo, gravato dal peso del "patibulum" (il braccio
trasversale della croce, che il condannato portava sulle spalle fino al luogo del supplizio dov'era conficcato
stabilmente il palo verticale), fu costretto a esporsi agli insulti della gente sulla via che conduceva al Golgota.
Le sofferenze che riproducono nel corpo mistico della Chiesa lo stato di morte di Cristo, sono un contributo
alla redenzione degli uomini, e assicurano la partecipazione alla gloria del Risorto.
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15 Settembre
Beata Vergine Maria Addolorata
La Madonna è venerata nel mondo cristiano con un culto di iperdulia, che si estrinseca in vari titoli, quanti le
sono stati attribuiti nei millenni per le sue virtù, il suo patrocinio, la sua posizione di creatura prediletta da
Dio, per il posto primario occupato nel piano della Redenzione, per la sua continua presenza accanto
all’uomo evidenziata anche dalle tante apparizioni. Nel calendario delle celebrazioni mariane vi sono: 1°
gennaio la B.V.M. Madre di Dio; 23 gennaio lo Sposalizio della B.V.M.; 2 febbraio la Presentazione al
Tempio di Gesù e la Purificazione di Maria; 11 febbraio Beata Vergine di Lourdes; 25 marzo
l’Annunciazione; 26 aprile B.V.M. del Buon Consiglio; 13 maggio Beata Vergine di Fatima; 24 maggio
Madonna Ausiliatrice; 31 maggio Visitazione di M.V.; a giugno Cuore Immacolato di Maria; 2 luglio Madonna
delle Grazie; 16 luglio B.V. del Carmelo; 5 agosto Madonna della Neve; 15 agosto Assunzione della Vergine;
22 agosto B.V.M. Regina; 8 settembre Natività di Maria; 12 settembre SS Nome di Maria; 15 settembre B. V.
Addolorata; 19 settembre B. V. de La Salette; 24 settembre B.V. della Mercede; 7 ottobre B.V. del Rosario,
21 novembre Presentazione della B.V.M.; 8 dicembre Immacolata Concezione, 10 dicembre B. V. M. di
Loreto. Inoltre l’intero mese di Maggio è dedicato alla Madonna, senza dimenticare la suggestiva e devota
Novena dell’Immacolata, poi vi sono le celebrazioni locali per i tantissimi Santuari Mariani esistenti; come si
vede la Vergine ha un culto così diffuso, che non c’è mese dell’anno in cui non la si ricordi e veneri. A mio
parere però, fra i tanti titoli e celebrazioni, il più sentito perché più vicino alla realtà umana, è quello di Beata
Vergine Maria Addolorata; il dolore è presente nella nostra vita sin dalla nascita, con il primo angosciato
grido del neonato, che lascia il sicuro del grembo materno per proiettarsi in un mondo sconosciuto, non più
legato alla madre e in preda alla paura e spavento; poi il dolore ci segue più o meno intenso, più o meno
costante, nei suoi vari aspetti, fisici, morali, spirituali, lungo il corso della vita, per ritrovarlo comunque al
termine del nostro cammino, per l’ultimo e definitivo distacco da questo mondo. E il dolore di Maria, creatura
privilegiata sì, ma sempre creatura come noi, è più facile comprenderlo, perché lo subiamo anche noi,
seppure in condizioni e gradi diversi, al contrario delle altre prerogative che sono solo sue, Annunciazione,
Maternità divina, Immacolata Concezione, Assunzione al Cielo, Apparizioni, ecc. le quali da parte nostra
richiedono un atto di fede per considerarle. Veder morire un figlio è per una madre il dolore più grande che ci
sia, non vi sono parole che possano consolare, chi naturalmente aspettando di poter morire dopo aver
generato, allevato ed educato, l’erede e il continuatore della sua umanità, vede invece morire il figlio mentre
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lei resta ancora in vita, quel figlio al quale avrebbe voluto ridare altre cento volte la vita e magari sostituirsi
ad esso nel morire. I milioni di madri che nel tempo hanno subito questo immenso dolore, a lei si sono rivolte
per trovare sostegno e consolazione, perché Maria ha visto morire il Figlio in modo atroce, consapevole
della sua innocenza, soffrendo per la cattiveria, incomprensione, malvagità, scatenate contro di lui,
personificazione della Bontà infinita. Ma non fu solo per la repentina condanna a morte, il dolore provato da
Maria fu l’epilogo di un lungo soffrire, in silenzio e senza sfogo, conservato nel suo cuore, iniziato da quella
profezia del vecchio Simeone pronunziata durante la Presentazione di Gesù al Tempio: “E anche a te una
spada trapasserà l’anima”. Quindi anche tutti coloro che soffrono nella propria carne e nel proprio animo, le
pene derivanti da malattie, disabilità, ingiustizia, povertà, persecuzione, violenza fisica e mentale, perdita di
persone care, tradimenti, mancanza di sicurezza, solitudine, ecc. guardano a Maria, consolatrice di tutti i
dolori; perché avendo sofferto tanto già prima della Passione di Cristo, può essere il faro a cui guardare nel
sopportare le nostre sofferenze ed essere comprensivi di quelle dei nostri fratelli, compagni di viaggio in
questo nostro pellegrinare terreno. Ma la Madonna è anche corredentrice per Grazia del genere umano,
perché partecipe dell’umanità sofferente ed offerta del Cristo, per questo lei non si è ribellata come madre
alla sorte tragica del Figlio, l’ha sofferta indicibilmente ma l’ha anche offerta a Dio per la Redenzione
dell’umanità. E come dalla Passione, Morte e Sepoltura di Gesù, si è passato alla trionfale e salvifica
Resurrezione, anche Maria, cooperatrice nella Redenzione, ha gioito di questa immensa consolazione e
quindi maggiormente è la più adatta ad indicarci la via della salvezza e della gioia, attraversando il crogiolo
della sofferenza in tutte le sue espressioni, della quale comunque non potremo liberarci perché retaggio del
peccato originale.
Culto
La devozione alla Madonna Addolorata, che trae origine dai passi del Vangelo, dove si parla della presenza
di Maria Vergine sul Calvario, prese particolare consistenza a partire dalla fine dell’XI secolo e fu
anticipatrice della celebrazione liturgica, istituita più tardi. Il “Liber de passione Christi et dolore et planctu
Matris eius” di ignoto (erroneamente attribuito a s. Bernardo), costituisce l’inizio di una letteratura, che porta
alla composizione in varie lingue del “Pianto della Vergine”. Testimonianza di questa devozione è il
popolarissimo ‘Stabat Mater’ in latino, attribuito a Jacopone da Todi, il quale compose in lingua volgare
anche le famose ‘Laudi’; da questa devozione ebbe origine la festa dei “Sette Dolori di Maria SS.” Nel secolo
XV si ebbero le prime celebrazioni liturgiche sulla “compassione di Maria” ai piedi della Croce, collocate nel
tempo di Passione. A metà del secolo XIII, nel 1233, sorse a Firenze l’Ordine dei frati “Servi di Maria”,
fondato dai Ss. Sette Fondatori e ispirato dalla Vergine. L’Ordine che già nel nome si qualificava per la
devozione alla Madre di Dio, si distinse nei secoli per l’intensa venerazione e la diffusione del culto
dell’Addolorata; il 9 giugno del 1668, la S. Congregazione dei Riti permetteva all’Ordine di celebrare la
Messa votiva dei sette Dolori della Beata Vergine, facendo menzione nel decreto che i Frati dei Servi,
portavano l’abito nero in memoria della vedovanza di Maria e dei dolori che essa sostenne nella passione
del Figlio. Successivamente, papa Innocenzo XII, il 9 agosto 1692 autorizzò la celebrazione dei Sette Dolori
della Beata Vergine la terza domenica di settembre. Ma la celebrazione ebbe ancora delle tappe, man mano
che il culto si diffondeva; il 18 agosto 1714 la Sacra Congregazione approvò una celebrazione dei Sette
Dolori di Maria, il venerdì precedente la Domenica delle Palme e papa Pio VII, il 18 settembre 1814 estese la
festa liturgica della terza domenica di settembre a tutta la Chiesa, con inserimento nel calendario romano.
Infine papa Pio X (1904-1914), fissò la data definitiva del 15 settembre, subito dopo la celebrazione
dell’Esaltazione della Croce (14 settembre), con memoria non più dei “Sette Dolori”, ma più opportunamente
come “Beata Vergine Maria Addolorata”.
Le devozioni
I Sette Dolori di Maria, corrispondono ad altrettanti episodi narrati nel Vangelo: 1) La profezia dell’anziano
Simeone, quando Gesù fu portato al Tempio “E anche a te una spada trafiggerà l’anima”. – 2) La Sacra
Famiglia è costretta a fuggire in Egitto “Giuseppe destatosi, prese con sé il Bambino e sua madre nella notte
e fuggì in Egitto”. – 3) Il ritrovamento di Gesù dodicenne nel Tempio a Gerusalemme “Tuo padre ed io
angosciati ti cercavamo”. – 4) Maria addolorata, incontra Gesù che porta la croce sulla via del Calvario. – 5)
La Madonna ai piedi della Croce in piena adesione alla volontà di Dio, partecipa alle sofferenze del Figlio
crocifisso e morente. – 6) Maria accoglie tra le sue braccia il Figlio morto deposto dalla Croce. – 7) Maria
affida al sepolcro il corpo di Gesù, in attesa della risurrezione. La liturgia e la devozione hanno compilato
anche le Litanie dell’Addolorata, ove la Vergine è implorata in tutte le necessità, riconoscendole tutti i titoli e
meriti della sua personale sofferenza. La tradizione popolare ha identificato la meditazione dei Sette Dolori,
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nella pia pratica della ‘Via Matris’, che al pari della Via Crucis, ripercorre le tappe storiche delle sofferenze di
Maria e sempre più numerosi sorgono questi itinerari penitenziali, specie in prossimità di Santuari Mariani,
rappresentati con sculture, ceramiche, gruppi lignei, affreschi. Le processioni penitenziali, tipiche del periodo
della Passione di Cristo, comprendono anche la figura della Madre dolorosa che segue il Figlio morto,
l’incontro sulla salita del Calvario, Maria posta ai piedi del Crocifisso; in certi Comuni le processioni
devozionali, assumono l’aspetto di vere e proprie rappresentazioni altamente suggestive, specie quelle
dell’incontro tra il simulacro di Maria vestita a lutto e addolorata e quello di Gesù che trasporta la Croce tutto
insanguinato e sofferente. In certe località queste processioni, che nel Medioevo diedero luogo anche a
rappresentazioni sacre dette “Misteri”, assumono un’imponenza di partecipazione popolare, da costituire
oggi un’attrattiva oltre che devozionale e penitenziale, anche turistica e folcloristica, cito per tutte la grande
processione barocca di Siviglia.
Le espressioni artistiche
Al testo del celebre “Stabat Mater”, si sono ispirati musicisti di ogni epoca; tra i più illustri figurano Palestrina,
Pergolesi, Rossini, Verdi, Dvorak. La Vergine Addolorata è stata raffigurata lungo i secoli in tante espressioni
dell’arte, specie pittura e scultura, frutto dell’opera dei più grandi artisti che secondo il proprio estro, hanno
voluto esprimere in primo luogo la grande sofferenza di Maria. La vergine Addolorata è di solito vestita di
nero per la perdita del Figlio, con una spada o con sette spade che le trafiggono il cuore. Altro soggetto
molto rappresentato è la Pietà, penultimo atto della Passione, che sta fra la deposizione e la sepoltura di
Gesù. Il termine ‘Pietà’ sta ad indicare nell’arte, la raffigurazione dei due personaggi principali Maria e Gesù,
la madre e il figlio; Maria lo sorregge adagiato sulle sue ginocchia, oppure sul bordo del sepolcro insieme a
s. Giovanni apostolo (Michelangelo e Giovanni Bellini). Capolavoro dell’intensità del dolore dei presenti, è il
‘Compianto sul Cristo morto’ di Giotto. Nel Santuario dell’Addolorata di Castelpetroso (Isernia), secondo
l’apparizione del 1888, Gesù è adagiato a terra e Maria sta in ginocchio accanto a lui e con le braccia aperte
lo piange e lo offre nello stesso tempo. In virtù del culto così diffuso all’Addolorata, ogni città e ogni paese ha
una chiesa o cappella a lei dedicata; varie Confraternite assistenziali e penitenziali, come pure numerose
Congregazioni religiose femminili e alcune maschili, sono poste sotto il nome dell’Addolorata, specie se
collegate all’antico Ordine dei Servi di Maria. L’amore e la venerazione per la Consolatrice degli afflitti e per
la sua ‘compassione’, ha prodotto, specie nell’Ordine dei Servi splendide figure di santi, ne citiamo alcuni: I
Santi Sette Fondatori, s. Giuliana Falconieri, s. Filippo Benizi, s. Pellegrino Laziosi, s. Antonio Maria Pucci, s.
Gabriele dell’Addolorata (passionista), senza dimenticare, primo fra tutti, s. Giovanni apostolo ed
evangelista, sempre accanto a lei per confortarla e condividerne l’indicibile dolore, accompagnandola fino al
termine della sua vita. Il nome Addolorata ebbe larga diffusione nell’Italia Meridionale, ma per l’evidente
significato, ora c’è la tendenza a sostituirlo con il suo derivato spagnolo Dolores.
13
17 settembre
San Francesco d'Assisi, Impressione delle
Stimmate
Il Martirologio Romano al 17 settembre rievoca: “Sul monte della Verna, in Toscana, la commemorazione
dell'Impressione delle sacre Stimmate, che, per meravigliosa grazia di Dio, furono impresse nelle mani, nei
piedi e nel costato di san Francesco, Fondatore dell'Ordine dei Minori”.
Poche e sintetiche parole per descrivere un evento straordinario, e mai sino ad allora verificatosi, che si
compì sul monte della Verna, mentre un’estate della prima metà del ‘200 volgeva al termine, e che schiere
innumerevoli di santi, uomini e donne di Dio, ripeterono nella loro vita.
Anche numerosi artisti si ispirarono a quel primo episodio, immortalandolo in tele ed affreschi. Basti solo
ricordare qui, tra i più famosi, quelli di Giotto nella Basilica superiore del Poverello in Assisi.
Poche parole quelle del Martirologio, dunque. Maggiori dettagli li forniscono i primi biografi del Santo. In
special modo, S. Bonaventura da Bagnoregio che, nella sua “Legenda Major”, non manca di riferirne con
dovizia anche i particolari. Correva l’anno 1224. S. Francesco d’Assisi, due anni prima di morire, voleva
trascorrere nel silenzio e nella solitudine quaranta giorni di digiuno in onore dell'arcangelo S. Michele. Era,
del resto, abitudine del Santo d’Assisi ritirarsi, come Gesù, in luoghi solitari e romitori per attendere alla
meditazione ed all’unione intima con il Signore nella preghiera. Sapeva, infatti, che ogni apostolato era
sterile se non sostenuto da una crescita spirituale della propria vita interiore. Molti luoghi dell’Umbria, della
Toscana e del Lazio vantano di aver ospitato il Poverello d’Assisi in questi suoi frequenti ritiri.
La Verna era uno di questi e certamente era quello che il Santo prediligeva. Già all’epoca di Francesco era
un monte selvaggio – un “crudo sasso” come direbbe Dante Alighieri – che s’innalza verso il cielo nella valle
del Casentino. La sommità del monte è tagliata per buona parte da una roccia a strapiombo, tanto da farla
assomigliare ad una fortezza inaccessibile. La leggenda vuole che la fenditura profonda visibile, con enormi
blocchi sospesi, si sia generata a seguito del terremoto che succedette alla morte di Gesù sul Golgota. Esso
era proprietà del conte Orlando da Chiusi di Casentino, il quale, nutrendo una grande venerazione per
Francesco, volle donarglielo. Qui i frati del Poverello vi costruirono una piccola capanna.
In quello luogo Francesco era intento a meditare, per divina ispirazione, sulla Passione di Gesù quando
avvenne l’evento prodigioso. Pregava così: “O Signore mio Gesù Cristo, due grazie ti priego che tu mi
faccia, innanzi che io muoia: la prima, che in vita mia io senta nell’anima e nel corpo mio, quanto è possibile,
quel dolore che tu, dolce Gesù, sostenesti nella ora della tua acerbissima passione, la seconda si è ch' io
senta nel cuore mio, quanto è possibile, quello eccessivo amore del quale tu, Figliuolo di Dio, eri acceso a
sostenere volentieri tanta passione per noi peccatori”. La sua preghiera non rimase inascoltata. Fu fatto
degno, infatti, di ricevere sul proprio corpo i segni visibili della Passione di Cristo. Il prodigio avvenne in
maniera così mirabile che i pastori e gli abitanti dei dintorni riferirono ai frati di aver visto per circa un’ora il
monte della Verna incendiato di un vivo fulgore, tanto da temere un incendio o che si fosse levato il sole
prima del solito. Scriveva S. Bonaventura da Bagnoregio: “Un mattino, all'appressarsi della festa
dell'Esaltazione della santa Croce, mentre pregava sul fianco del monte, vide la figura come di un serafino,
con sei ali tanto luminose quanto infocate, discendere dalla sublimità dei cieli: esso, con rapidissimo volo,
tenendosi librato nell'aria, giunse vicino all'uomo di Dio, e allora apparve tra le sue ali l'effige di un uomo
crocifisso, che aveva mani e piedi stesi e confitti sulla croce. Due ali si alzavano sopra il suo capo, due si
stendevano a volare e due velavano tutto il corpo. A quella vista si stupì fortemente, mentre gioia e tristezza
gli inondavano il cuore. Provava letizia per l'atteggiamento gentile, con il quale si vedeva guardato da Cristo,
sotto la figura del serafino. Ma il vederlo confitto in croce gli trapassava l'anima con la spada dolorosa della
compassione. Fissava, pieno di stupore, quella visione così misteriosa, conscio che l'infermità della passione
non poteva assolutamente coesistere con la natura spirituale e immortale del serafino. Ma da qui comprese,
finalmente, per divina rivelazione, lo scopo per cui la divina provvidenza aveva mostrato al suo sguardo
quella visione, cioè quello di fargli conoscere anticipatamente che lui, l’amico di Cristo, stava per essere
trasformato tutto nel ritratto visibile di Cristo Gesù crocifisso, non mediante il martirio della carne, ma
mediante l'incendio dello spirito” (Leg. Maj., I, 13, 3). Fu Gesù stesso, nella sua apparizione, a chiarire a
Francesco il senso di tale prodigio: “Sai tu … quello ch' io t’ho fatto? Io t’ho donato le Stimmate che sono i
segnali della mia passione, acciò che tu sia il mio gonfaloniere. E siccome io il dì della morte mia discesi al
limbo, e tutte l’anime ch' io vi trovai ne trassi in virtù di queste mie Istimate; e così a te concedo ch' ogni
anno, il dì della morte tua, tu vadi al purgatorio, e tutte l’anime de’ tuoi tre Ordini, cioè Minori, Suore e
Continenti, ed eziandio degli altri i quali saranno istati a te molto divoti, i quali tu vi troverai, tu ne tragga in
virtù delle tue Istimate e menile alla gloria di paradiso, acciò che tu sia a me conforme nella morte, come tu
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se’ nella vita” (“Delle Sacre Sante Istimate di Santo Francesco e delle loro considerazioni”, III
considerazione). Continuava ancora S. Bonaventura che, scomparendo, la visione lasciò nel cuore del Santo
“un ardore mirabile e segni altrettanto meravigliosi lasciò impressi nella sua carne. Subito, infatti, nelle sue
mani e nei suoi piedi, incominciarono ad apparire segni di chiodi, come quelli che poco prima aveva
osservato nell'immagine dell'uomo crocifisso. Le mani e i piedi, proprio al centro, si vedevano confitte ai
chiodi; le capocchie dei chiodi sporgevano nella parte interna delle mani e nella parte superiore dei piedi,
mentre le punte sporgevano dalla parte opposta. Le capocchie nelle mani e nei piedi erano rotonde e nere;
le punte, invece, erano allungate, piegate all'indietro e come ribattute, ed uscivano dalla carne stessa,
sporgendo sul resto della carne. Il fianco destro era come trapassato da una lancia e coperto da una
cicatrice rossa, che spesso emanava sacro sangue, imbevendo la tonaca e le mutande” (Leg. Maj., I, 13,
3). A proposito ancora dei segni della Passione, il primo biografo del Santo, l’abruzzese Tommaso da
Celano, nella sua “Vita Prima di S. Francesco d’Assisi”, sosteneva che “era meraviglioso scorgere al centro
delle mani e dei piedi (del Poverello d’Assisi), non i fori dei chiodi, ma i chiodi medesimi formati di carne dal
color del ferro e il costato imporporato dal sangue. E quelle stimmate di martirio non incutevano timore a
nessuno, bensì conferivano decoro e ornamento, come pietruzze nere in un pavimento candido” (II,
113). Nonostante le ampie descrizioni e resoconti ed il fatto che vi fossero numerosi testimoni oculari delle
stigmate, non può tacersi la circostanza che la bolla di canonizzazione di S. Francesco del 19 luglio 1228
“Mira circa nos”, risalente ad appena due anni dopo la morte del Santo, non ne faccia alcun cenno. Non
mancarono in verità, già da parte di alcuni contemporanei, contestazioni ed opposizioni, ritenendo quei segni
impressi nelle carni del Patrono d’Italia frutto di una frode. Lo stesso Gregorio IX, prima di procedere alla
canonizzazione di Francesco, pare nutrisse dei dubbi riguardo a quel fatto prodigioso. E’ sempre S.
Bonaventura, nel capitolo della sua “Legenda Major” dedicato alla “Potenza miracolosa della Stimmate” del
Poverello, a parlarne. Scriveva che “Papa Gregorio IX, di felice memoria, al quale il Santo aveva profetizzato
l’elezione alla cattedra di Pietro, nutriva in cuore, prima di canonizzare l’alfiere della croce (cioè S.
Francesco), dei dubbi sulla ferita del costato. Ebbene, una notte, come lo stesso glorioso presule raccontava
tra le lacrime, gli apparve in sogno il beato Francesco che, con volto piuttosto severo, lo rimproverò per
quelle esitazioni e, alzando bene il braccio destro, scoprì la ferita e gli chiese una fiala, per raccogliere il
sangue zampillante che fluiva dal costato. Il sommo Pontefice, in visione, porse la fiala richiesta e la vide
riempirsi fino all'orlo di sangue vivo. Da allora egli si infiammò di grandissima devozione e ferventissimo zelo
per quel sacro miracolo, al punto da non riuscire a sopportare che qualcuno osasse, nella sua superbia e
presunzione, misconoscere la realtà dei quei segni fulgentissimi, senza rimproverarlo duramente” (Leg. Maj.,
II, 1, 2). Tale episodio fu magistralmente rievocato da Giotto negli affreschi della Basilica superiore del Santo
in Assisi. La Chiesa, comunque, dopo maturo giudizio, con ben nove bolle pontificie (di Gregorio IX, di
Alessandro IV e di Niccolò III), susseguitesi tra il 1237 ed il 1291, difese la realtà delle stigmate di
Francesco, senza peraltro esprimere un’interpretazione definitiva del fenomeno, la cui genesi è
soprannaturale e deriva dall’Amore. Non a caso un dottore della Chiesa, S. Francesco di Sales, nel suo
“Trattato dell'amor di Dio” del 1616, metteva in relazione le stigmate del Santo d'Assisi con l'amore di
compassione verso il Cristo crocifisso, affermando che quest’ultimo trasformò l’anima del Poverello in un
“secondo crocifisso”. S. Giovanni della Croce aggiungeva che le stigmate sono la manifestazione, la
conseguenza della ferita d'amore e che per renderle visibili occorresse un intervento soprannaturale. La
Chiesa riconobbe la straordinarietà del fenomeno verificatosi nel 1224, inteso quale segno privilegiato
concesso da Cristo al suo umile servo di Assisi, anche da un punto di vista liturgico, inserendo la ricorrenza
nel calendario. Papa Benedetto XI Boccasini da Treviso, infatti, concesse all’Ordine Francescano ed
all’intero Orbe cattolico di celebrarne annualmente il ricordo il 17 settembre.
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19 Settembre
San Gennaro
Fra i santi dell’antichità è certamente uno dei più venerati dai fedeli e se poi consideriamo che questi fedeli,
sono primariamente napoletani, si può comprendere per la nota estemporaneità e focosa fede che li
distingue, perché il suo culto, travalicando i secoli, sia giunto intatto fino a noi, accompagnato
periodicamente dal misterioso prodigio della liquefazione del suo sangue, che tanto attira i napoletani.
Prima di tutto il suo nome diffuso in Campania e anche nel Sud Italia, risale al latino ‘Ianuarius’ derivato da
‘Ianus’ (Giano) il dio bifronte delle chiavi del cielo, dell’inizio dell’anno e del passaggio delle porte e delle
case. Il nome era in genere attribuito ai bambini nati nel mese di gennaio “Ianuarius”, undicesimo mese
dell’anno secondo il calendario romano, ma il primo dopo la riforma del II secolo d.C.
Gennaro appartenne alla gens Ianuaria, perché Ianuarius che significa “consacrato al dio Ianus” non era il
suo nome, che non ci è pervenuto, ma il gentilizio corrispondente al nostro cognome. Vi sono ben sette
antichi ‘Atti’, ‘Passio’, ‘Vitae’, che parlano di Gennaro, fra i più celebri gli “Atti Bolognesi” e gli “Atti Vaticani”.
Da questi documenti si apprende che Gennaro nato a Napoli? nella seconda metà del III secolo, fu eletto
vescovo di Benevento, dove svolse il suo apostolato, amato dalla comunità cristiana e rispettato anche dai
pagani per la cura, che impiegava nelle opere di carità a tutti indistintamente; si era nel primo periodo
dell’impero di Diocleziano (243-313), il quale permise ai cristiani di occupare anche posti di prestigio e una
certa libertà di culto. Nella sua vecchiaia però, sotto la pressione del suo cesare Galerio (293), firmò ben tre
editti contro i cristiani, provocando una delle più feroci persecuzioni, colpendo la Chiesa nei suoi membri e
nei suoi averi per impedirle di soccorrere i poveri e spezzare così il favore popolare. E in questo contesto
s’inserisce la storia del martirio di Gennaro; egli conosceva il diacono Sosso (o Sossio) che guidava la
comunità cristiana di Miseno, importante porto romano sulla costa occidentale del litorale flegreo; Sosso fu
incarcerato dal giudice Dragonio, proconsole della Campania, per le funzioni religiose che quotidianamente
venivano celebrate nonostante i divieti. In quel periodo il vescovo di Benevento Gennaro, accompagnato dal
diacono Festo e dal lettore Desiderio, si trovavano a Pozzuoli in incognito, visto il gran numero di pagani che
si recavano nella vicinissima Cuma ad ascoltare gli oracoli della Sibilla Cumana e aveva ricevuto di nascosto
anche qualche visita del diacono di Miseno (località tutte vicinissime tra loro). Gennaro saputo dell’arresto di
Sosso, volle recarsi insieme ai suoi due compagni Festo e Desiderio a portargli il suo conforto in carcere e
anche con alcuni scritti, per esortarlo insieme agli altri cristiani prigionieri a resistere nella fede. Il giudice
Dragonio informato della sua presenza e intromissione, fece arrestare anche loro tre, provocando le proteste
di Procolo, diacono di Pozzuoli e di due fedeli cristiani della stessa città, Eutiche ed Acuzio. Anche questi tre
furono arrestati e condannati insieme agli altri a morire nell’anfiteatro, ancora oggi esistente, per essere
sbranati dagli orsi, in un pubblico spettacolo. Ma durante i preparativi il proconsole Dragonio, si accorse che
il popolo dimostrava simpatia verso i prigionieri e quindi prevedendo disordini durante i cosiddetti giochi,
cambiò decisione e il 19 settembre del 305 fece decapitare i prigionieri cristiani nel Foro di Vulcano, presso
la celebre Solfatara di Pozzuoli. Si racconta che una donna di nome Eusebia riuscì a raccogliere in due
ampolle (i cosiddetti lacrimatoi) parte del sangue del vescovo e conservarlo con molta venerazione; era
usanza dei cristiani dell’epoca di cercare di raccogliere corpi o parte di corpi, abiti, ecc. per poter poi
venerarli come reliquie dei loro martiri. I cristiani di Pozzuoli, nottetempo seppellirono i corpi dei martiri
nell’agro Marciano presso la Solfatara; si presume che s. Gennaro avesse sui 35 anni, come pure giovani,
erano i suoi compagni di martirio. Oltre un secolo dopo, nel 431 (13 aprile) si trasportarono le reliquie del
solo s. Gennaro da Pozzuoli nelle catacombe di Capodimonte a Napoli, dette poi Catacombe di S. Gennaro,
per volontà dal vescovo di Napoli, s. Giovanni I e sistemate vicino a quelle di s. Agrippino vescovo. Le
reliquie degli altri sei martiri, hanno una storia a parte per le loro traslazioni, ma in maggioranza ebbero culto
e spostamento nelle loro zone di origine. Durante il trasporto delle reliquie di s. Gennaro a Napoli, la
suddetta Eusebia o altra donna, alla quale le aveva affidate prima di morire, consegnò al vescovo le due
ampolline contenenti il sangue del martire; a ricordo delle tappe della solenne traslazione vennero erette due
cappelle: S. Gennariello al Vomero e San Gennaro ad Antignano. Il culto per il santo vescovo si diffuse
fortemente con il trascorrere del tempo, per cui fu necessario l’ampliamento della catacomba. Affreschi,
iscrizioni, mosaici e dipinti, rinvenuti nel cimitero sotterraneo, dimostrano che il culto del martire era vivo sin
dal V secolo, tanto è vero che molti cristiani volevano essere seppelliti accanto a lui e le loro tombe erano
ornate di sue immagini. Va notato che già nel V secolo il martire Gennaro era considerato ‘santo’ secondo
l’antica usanza ecclesiastica, canonizzazione poi confermata da papa Sisto V nel 1586. La tomba divenne
come già detto, meta di continui pellegrinaggi per i grandi prodigi che gli venivano attribuiti; nel 472 ad
esempio, in occasione di una violenta eruzione del Vesuvio, i napoletani accorsero in massa nella
catacomba per chiedere la sua intercessione, iniziando così l’abitudine ad invocarlo nei terremoti e nelle
eruzioni, e mentre aumentava il culto per s. Gennaro, diminuiva man mano quello per s. Agrippino vescovo,
16
fino allora patrono della città di Napoli; dal 472 s. Gennaro cominciò ad assumere il rango di patrono
principale della città. Durante un’altra eruzione nel 512, fu lo stesso vescovo di Napoli, s. Stefano I, ad
iniziare le preghiere propiziatorie; dopo fece costruire in suo onore, accanto alla basilica costantiniana di S.
Restituta (prima cattedrale di Napoli), una chiesa detta Stefania, sulla quale verso la fine del secolo XIII,
venne eretto il Duomo; riponendo nella cripta il cranio e la teca con le ampolle del sangue. Questa
provvidenziale decisione, preservò le suddette reliquie, dal furto operato dal longobardo Sicone, che durante
l’assedio di Napoli dell’831, penetrò nelle catacombe, allora fuori della cinta muraria della città, asportando le
altre ossa del santo che furono portate a Benevento, sede del ducato longobardo. Le ossa restarono in
questa città fino al 1156, quando vennero traslate nel santuario di Montevergine (AV), dove rimasero per tre
secoli, addirittura se ne perdettero le tracce, finché durante alcuni scavi effettuati nel 1480, casualmente
furono ritrovate sotto l’altare maggiore, insieme a quelle di altri santi, ma ben individuate da una lamina di
piombo con il nome. Il 13 gennaio 1492, dopo interminabili discussioni e trattative con i monaci dell’abbazia
verginiana, le ossa furono riportate a Napoli nel succorpo del Duomo ed unite al capo ed alle ampolle.
Intanto le ossa del cranio erano state sistemate in un preziosissimo busto d’argento, opera di tre orafi
provenzali, dono di Carlo II d’Angiò nel 1305, al Duomo di Napoli. Successivamente nel 1646 il busto
d’argento con il cranio e le ormai famose ampolline col sangue, furono poste nella nuova artistica Cappella
del Tesoro, ricca di capolavori d’arte d’ogni genere. Le ampolle erano state incastonate in una teca preziosa
fatta realizzare da Roberto d’Angiò, in un periodo imprecisato del suo lungo regno (1309-1343). La teca
assunse l’aspetto attuale nel XVII secolo, racchiuse fra due vetri circolari di circa dodici centimetri di
diametro, vi sono le due ampolline, una più grande di forma ellittica schiacciata, ripiena per circa il 60% di
sangue e quella più piccola cilindrica con solo alcune macchie rosso-brunastre sulle pareti; la liquefazione
del sangue avviene solo in quella più grande. Le altre reliquie poste in un’antica anfora, sono rimaste nella
cripta del Duomo, su cui s’innalza l’abside e l’altare maggiore della grande Cattedrale. San Gennaro è
conosciuto in tutto il mondo, grazie anche al culto esportato insieme ai tantissimi emigranti napoletani, suoi
fedeli, non solo per i suoi prodigiosi interventi nel bloccare le calamità naturali, purtroppo ricorrenti che
colpivano Napoli, come pestilenze, terremoti e le numerose eruzioni del vulcano Vesuvio, croce e vanto di
tutto il Golfo di Napoli; ma anche per il famoso prodigio della liquefazione del sangue contenuto nelle antiche
ampolle, completamente sigillate e custodite in una nicchia chiusa con porte d’argento, situata dietro l’altare
principale, della già menzionata Cappella del Tesoro. Il Tesoro è oggi custodito in un caveau di una banca,
essendo ingente e preziosissimo, quale testimonianza dei doni fatti al santo patrono da sovrani, nobili e
quanti altri abbiano ricevuto grazie per sua intercessione, o alla loro persona e famiglia o alla città stessa. Le
chiavi della nicchia, sono conservate dalla Deputazione del Tesoro di S. Gennaro, da secoli composta da
nobili e illustri personaggi napoletani con a capo il sindaco della città. Il miracolo della liquefazione del
sangue, che è opportuno dire non è un’esclusiva del santo vescovo, ma anche di altri santi e in altre città,
ma che a Napoli ha assunto una valenza incredibile, secondo un antico documento, è avvenuto per la prima
volta nel lontano 17 agosto 1389; non è escluso, perché non documentato, che sia avvenuto anche in
precedenza. Detto prodigio avviene da allora tre volte l’anno; nel primo sabato di maggio, in cui il busto
ornato di preziosissimi paramenti vescovili e il reliquiario con la teca e le ampolle, vengono portati in
processione, insieme ai busti d’argento dei numerosi santi compatroni di Napoli, anch’essi esposti nella
suddetta Cappella del Tesoro, dal Duomo alla Basilica di S. Chiara, in ricordo della prima traslazione da
Pozzuoli a Napoli, e qui dopo le rituali preghiere, avviene la liquefazione del sangue raggrumito; la seconda
avviene il 19 settembre, ricorrenza della decapitazione, una volta avveniva nella Cappella del Tesoro, ma
per il gran numero di fedeli, il busto e le reliquie sono oggi esposte sull’altare maggiore del Duomo, dove
anche qui dopo ripetute preghiere, con la presenza del cardinale arcivescovo, autorità civili e fedeli, avviene
il prodigio tra il tripudio generale. Avvenuta la liquefazione la teca sorretta dall’arcivescovo, viene mostrata
quasi capovolgendola ai fedeli e al bacio dei più vicini; il sangue rimane sciolto per tutta l’ottava successiva e
i fedeli sono ammessi a vedere da vicini la teca e baciarla con un prelato che la muove per far constatare la
liquidità, dopo gli otto giorni viene di nuovo riposta nella nicchia e chiusa a chiave. Una terza liquefazione
avviene il 16 dicembre “festa del patrocinio di s. Gennaro”, in memoria della disastrosa eruzione del Vesuvio
nel 1631, bloccata dopo le invocazioni al santo. Il prodigio così puntuale, non è sempre avvenuto, esiste un
diario dei Canonici del Duomo che riporta nei secoli, anche le volte che il sangue non si è sciolto, oppure con
ore e giorni di ritardo, oppure a volte è stato trovato già liquefatto quando sono state aperte le porte argentee
per prelevare le ampolle; il miracolo a volte è avvenuto al di fuori delle date solite, per eventi straordinari. Il
popolo napoletano nei secoli ha voluto vedere nella velocità del prodigio, un auspicio positivo per il futuro
della città, mentre una sua assenza o un prolungato ritardo è visto come fatto negativo per possibili calamità
da venire. La catechesi costante degli ultimi arcivescovi di Napoli, ha convinto la maggioranza dei fedeli, che
anche la mancanza del prodigio o il ritardo vanno vissuti con serenità e intensificazione semmai di una vita
più cristiana. Del resto questo “miracolo ballerino”, imprevedibile, è stato oggetto di profondi studi scientifici,
l’ultimo nel 1988, con i quali usando l’esame spettroscopico, non potendosi aprire le ampolline sigillate da
tanti secoli, si è potuto stabilire la presenza nel liquido di emoglobina, dunque sangue. La liquefazione del
sangue è innegabile e spiegazioni scientifiche finora non se ne sono trovate, come tutte le ipotesi contrarie
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formulate nei secoli, non sono mai state provate. È singolare il fatto, che a Pozzuoli, contemporaneamente al
miracolo che avviene a Napoli, la pietra conservata nella chiesa di S. Gennaro, vicino alla Solfatara e che si
crede sia il ceppo su cui il martire poggiò la testa per essere decapitato, diventa più rossa. Pur essendo
venuti tanti papi a Napoli in devoto omaggio e personalmente baciarono la teca lasciando doni, la Chiesa è
bene ricordarlo, non si è mai pronunciata ufficialmente sul miracolo di s. Gennaro. Papa Paolo VI nel 1966,
in un discorso ad un gruppo di pellegrini partenopei, richiamò chiaramente il prodigio: “…come questo
sangue che ribolle ad ogni festa, così la fede del popolo di Napoli possa ribollire, rifiorire ed affermarsi”.
21 Settembre
San Matteo
Non si capisce subito il disprezzo per i pubblicani, ai tempi di Gesù, nella sua terra: erano esattori di tasse, e
non si detesta qualcuno soltanto perché lavora all’Intendenza di finanza. Ma gli ebrei, all’epoca, non
pagavano le tasse a un loro Stato sovrano e libero, bensì agli occupanti Romani; devono finanziare chi li
opprime. E guardano all’esattore come a un detestabile collaborazionista. Matteo fa questo mestiere in
Cafarnao di Galilea. Col suo banco lì all’aperto. Gesù lo vede poco dopo aver guarito un paralitico. Lo
chiama. Lui si alza di colpo, lascia tutto e lo segue. Da quel momento cessano di esistere i tributi, le finanze,
i Romani. Tutto cancellato da quella parola di Gesù: "Seguimi". Gli evangelisti Luca e Marco lo chiamano
anche Levi, che potrebbe essere il suo secondo nome. Ma gli danno il nome di Matteo nella lista dei Dodici
scelti da Gesù come suoi inviati: “Apostoli”. E con questo nome egli compare anche negli Atti degli
Apostoli. Pochissimo sappiamo della sua vita. Ma abbiamo il suo Vangelo, a lungo ritenuto il primo dei
quattro testi canonici, in ordine di tempo. Ora gli studi mettono a quel posto il Vangelo di Marco:
diversamente dagli altri tre, il testo di Matteo non è scritto in greco, ma in lingua “ebraica” o “paterna”,
secondo gli scrittori antichi. E quasi sicuramente si tratta dell’aramaico, allora parlato in Palestina. Matteo ha
voluto innanzitutto parlare a cristiani di origine ebraica. E ad essi è fondamentale presentare gli
insegnamenti di Gesù come conferma e compimento della Legge mosaica. Vediamo infatti – anzi, a volte
pare proprio di ascoltarlo – che di continuo egli lega fatti, gesti, detti relativi a Gesù con richiami all’Antico
Testamento, per far ben capire da dove egli viene e che cosa è venuto a realizzare. Partendo di qui,
l’evangelista Matteo delinea poi gli eventi del grandioso futuro della comunità di Gesù, della Chiesa, del
Regno che compirà le profezie, quando i popoli "vedranno il Figlio dell’Uomo venire sopra le nubi del cielo in
grande potenza e gloria" (24,30). Scritto in una lingua per pochi, il testo di Matteo diventa libro di tutti dopo la
traduzione in greco. La Chiesa ne fa strumento di predicazione in ogni luogo, lo usa nella liturgia. Ma di lui,
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Matteo, sappiamo pochissimo. Viene citato per nome con gli altri Apostoli negli Atti (1,13) subito dopo
l’Ascensione al cielo di Gesù. Ancora dagli Atti, Matteo risulta presente con gli altri Apostoli all’elezione di
Mattia, che prende il posto di Giuda Iscariota. Ed è in piedi con gli altri undici, quando Pietro, nel giorno della
Pentecoste, parla alla folla, annunciando che Gesù è "Signore e Cristo". Poi, ha certamente predicato in
Palestina, tra i suoi, ma ci sono ignote le vicende successive. La Chiesa lo onora come martire.
23 Settembre
San Pio da Pietrelcina
Quando muore, il 23 settembre 1968, a 81 anni, le stimmate scompaiono dal suo corpo e, davanti alle circa
centomila persone venute da ogni dove ai suoi funerali, ha inizio quel processo di santificazione che ben
prima che la Chiesa lo elevasse alla gloria degli altari lo colloca nella devozione dei fedeli di tutto il mondo
come uno dei santi più amati dell’ultimo secolo. Francesco Forgione era nato a Pietrelcina, provincia di
Benevento, il 25 maggio 1887. I suoi genitori, Grazio e Giuseppa, erano poveri contadini, ma assai devoti: in
famiglia il rosario si pregava ogni sera in casa tutti insieme, in un clima di grande e filiale fiducia in Dio e
nella Madonna. Il soprannaturale irrompe assai presto nella vita del futuro santo: fin da bambino egli
riceveva visite frequenti di Gesù e Maria, vedeva demoni e angeli, ma poiché pensava che tutti avessero
queste facoltà non ne faceva parola con nessuno. Il 22 gennaio 1903, a sedici anni, entra in convento e da
francescano cappuccino prende il nome di fra Pio da Pietrelcina. Diventa sacerdote sette anni dopo, il 10
agosto 1910. Vuole partire missionario per terre lontane, ma Dio ha su di lui altri disegni, specialissimi. I
primi anni di sacerdozio sono compromessi e resi amari dalle sue pessime condizioni di salute, tanto che i
superiori lo rimandano più volte a Pietrelcina, nella casa paterna, dove il clima gli è più congeniale. Padre
Pio è malato assai gravemente ai polmoni. I medici gli danno poco da vivere. Come se non bastasse, alla
malattia si vanno ad aggiungere le terribili vessazioni a cui il demonio lo sottopone, che non lasciano mai in
pace il povero frate, torturato nel corpo e nello spirito. Nel 1916 i superiori pensano di trasferirlo a San
Giovanni Rotondo, sul Gargano, e qui, nel convento di S. Maria delle Grazie, ha inizio per Padre Pio una
straordinaria avventura di taumaturgo e apostolo del confessionale. Un numero incalcolabile di uomini e
donne, dal Gargano e da altre parti dell’Italia, cominciano ad accorrere al suo confessionale, dove egli
trascorre anche quattordici-sedici ore al giorno, per lavare i peccati e ricondurre le anime a Dio. È il suo
ministero, che attinge la propria forza dalla preghiera e dall’altare, e che Padre Pio realizza non senza grandi
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sofferenze fisiche e morali. Il 20 settembre 1918, infatti, il cappuccino riceve le stimmate della Passione di
Cristo che resteranno aperte, dolorose e sanguinanti per ben cinquant’anni. Padre Pio viene visitato da un
gran numero di medici, subendo incomprensioni e calunnie per le quali deve sottostare a infamanti ispezioni
canoniche; il frate delle stimmate si dichiara “figlio dell’obbedienza” e sopporta tutto con serafica pazienza.
Infine, viene anche sospeso a divinis e solo dopo diversi anni, prosciolto dalle accuse calunniose, può
essere reintegrato nel suo ministero sacerdotale. La sua celletta, la numero 5, portava appeso alla porta un
cartello con una celebre frase di S. Bernardo: “Maria è tutta la ragione della mia speranza”. Maria è il segreto
della grandezza di Padre Pio, il segreto della sua santità. A Lei, nel maggio 1956, dedica la “Casa Sollievo
della Sofferenza”, una delle strutture sanitarie oggi più qualificate a livello nazionale e internazionale, con
70.000 ricoveri l’anno, attrezzature modernissime e collegamenti con i principali istituti di ricerca nel
mondo. Negli anni ‘40, per combattere con l’arma della preghiera la tremenda realtà della seconda guerra
mondiale, Padre Pio diede avvio ai Gruppi di Preghiera, una delle realtà ecclesiali più diffuse attualmente nel
mondo, con oltre duecentomila devoti sparsi in tutta la terra. Con la “Casa Sollievo della Sofferenza” essi
costituiscono la sua eredità spirituale, il segno di una vita tutta dedicata alla preghiera e contrassegnata da
una devozione ardente alla Vergine. Da Lei il frate si sentiva protetto nella sua lotta quotidiana col demonio,
il “cosaccio” come lo chiamava, e per ben due volte la Vergine lo guarisce miracolosamente, nel 1911 e nel
1959. In quest’ultimo caso i medici lo avevano dato proprio per spacciato quando, dopo l’arrivo della
Madonna pellegrina di Fatima a San Giovanni Rotondo, il 6 agosto 1959, Padre Pio fu risanato
improvvisamente, tra lo stupore e la gioia dei suoi devoti. “Esiste una scorciatoia per il Paradiso?”, gli fu
domandato una volta. “Sì”, lui rispose, “è la Madonna”. “Essa – diceva il frate di Pietrelcina – è il mare
attraverso cui si raggiungono i lidi degli splendori eterni”. Esortava sempre i suoi figli spirituali a pregare il
Rosario e a imitare la Madonna nelle sue virtù quotidiane quali l’umiltà,la pazienza, il silenzio,la purezza,la
carità.“Vorrei avere una voce così forte – diceva - per invitare i peccatori di tutto il mondo ad amare la
Madonna”. Lui stesso aveva sempre la corona del rosario in mano. Lo recitava incessantemente per intero,
soprattutto nelle ore notturne. “Questa preghiera – diceva Padre Pio – è la nostra fede, il sostegno della
nostra speranza, l’esplosione della nostra carità”. Il suo testamento spirituale, alla fine della sua vita, fu:
“Amate la Madonna e fatela amare. Recitate sempre il Rosario”. Intorno alla sua figura in questi anni si sono
scritti molti fiumi di inchiostro. Un incalcolabile numero di articoli e tantissimi libri; si conta che
approssimativamente sono più di 200 le biografie a lui dedicate soltanto in italiano. “Farò più rumore da
morto che da vivo”, aveva pronosticato lui con la sua solita arguzia. Quella di Padre Pio è veramente una
“clientela” mondiale. Perché tanta devozione per questo san Francesco del sud? Padre Raniero
Cantalamessa lo spiega così:“Se tutto il mondo corre dietro a Padre Pio – come un giorno correva dietro a
Francesco d’Assisi - è perché intuisce vagamente che non sarà la tecnica con tutte le sue risorse, né la
scienza con tutte le sue promesse a salvarci, ma solo la santità. Che è poi come dire l’amore”.
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26 Settembre
San Damiano e Cosma
Abbiamo informazioni abbondanti e di grande interesse sul culto che Cosma e Damiano hanno avuto già
poco tempo dopo la morte: dedicazione di chiese e monasteri a Costantinopoli, in Asia Minore, in Bulgaria,
in Grecia, a Gerusalemme. La loro fama è giunta rapida in Occidente, partendo da Roma, con l’oratorio
dedicato loro da papa Simmaco (498- 514) e con la basilica voluta da Felice IV (526-530). I loro due nomi,
poi, sono stati pronunciati infinite volte, sotto tutti i cieli, ogni giorno a partire dal VI secolo, nel Canone della
Messa, che dopo gli Apostoli ricorda dodici martiri, chiudendo l’elenco appunto con i loro nomi: Cosma e
Damiano. Poco si sa invece della loro vita. Li ricorda il Martirologio Romano, ispirandosi a una narrazione
che vuole Cosma e Damiano nati in Arabia. Sono fratelli, e cristiani. Per invito dello Spirito Santo, si
dedicano alla cura dei malati, dopo aver studiato l’arte medica in Siria. Ma sono medici speciali, appunto in
virtù della loro missione: non si fanno pagare. Di qui il soprannome di anàgiri (termine greco che significa
“senza argento”, “senza denaro”). Solo una volta, si narra – e contro la volontà di Cosma –, Damiano ha
accettato un compenso da una donna che ha guarito: tre uova. Questa attenzione ai malati è pure uno
strumento efficacissimo di apostolato cristiano. E appunto l’opera di proselitismo costa la vita ai due fratelli,
martirizzati insieme con altri cristiani. In un anno imprecisato del regno dell’imperatore Diocleziano (tra il 284
e il 305, forse nel 303), il governatore romano li sottopone a tortura e poi li fa decapitare. Questo avviene a
Ciro, città vicina ad Antiochia di Siria (oggi Antakya, in Turchia) dove i martiri vengono sepolti. Un’altra
narrazione dice che furono uccisi a Egea di Cilicia, in Asia Minore, per ordine del governatore Lisia, e poi
traslati a Ciro. Ma abbiamo la voce di Teodoreto, vescovo appunto di Ciro, uno dei grandi protagonisti delle
battaglie dottrinali nel V secolo: e questa voce parla di Cosma e Damiano, "illustri atleti e generosi martiri",
con ammirazione e affetto di concittadino. Il culto per i due guaritori, passato dall’Oriente all’Europa, "si
mantenne straordinariamente vivo fino a tutto il Rinascimento, dando luogo a un’iconografia tra le più ricche
dell’Occidente, specie in Italia, Francia e Germania" (Maria Letizia Casanova). A più di mille anni dalla loro
morte, si dà il nome di uno di loro a quello che poi i fiorentini chiameranno padre della patria: Cosimo de’
Medici il Vecchio. E la casata chiama a illustrare la vita dei due santi guaritori artisti come il Beato Angelico,
Filippo Lippi e Sandro Botticelli.
21
27 Settembre
San Vincenzo de' Paoli
Nella storia della cristianità, fra le innumerevoli schiere di martiri e santi, spiccano in ogni periodo storico
delle figure particolari, che nel proprio campo di apostolato, sono diventate dei colossi, su cui si fonda e si
perpetua la struttura evangelica, caritatevole, sociale, mistica, educativa, missionaria, della Chiesa.
E fra questi suscitatori di Opere, fondatori e fondatrici di Congregazioni religiose, pastori zelanti di ogni
grado, ecc., si annovera la luminosa figura di san Vincenzo de’ Paoli, che fra i suoi connazionali francesi era
chiamato “Monsieur Vincent”.
Gli anni giovanili
Vincenzo Depaul, in italiano De’ Paoli, nacque il 24 aprile del 1581 a Pouy in Guascogna (oggi SaintVincent-de-Paul); benché dotato di acuta intelligenza, fino ai 15 anni non fece altro che lavorare nei campi e
badare ai porci, per aiutare la modestissima famiglia contadina. Nel 1595 lasciò Pouy per andare a studiare
nel collegio francescano di Dax, sostenuto finanziariamente da un avvocato della regione, che colpito dal
suo acume, convinse i genitori a lasciarlo studiare; che allora equivaleva avviarsi alla carriera ecclesiastica.
Dopo un breve tempo in collegio, visto l’ottimo risultato negli studi, il suo mecenate, giudice e avvocato de
Comet senior, lo accolse in casa sua affidandogli l’educazione dei figli. Vincenzo ricevette la tonsura e gli
Ordini minori il 20 dicembre 1596, poi con l’aiuto del suo patrono, poté iscriversi all’Università di Tolosa per i
corsi di teologia; il 23 settembre 1600 a soli 19 anni, riuscì a farsi ordinare sacerdote dall’anziano vescovo di
Périgueux (in Francia non erano ancora attive le disposizioni in materia del Concilio di Trento), poi continuò
gli studi di teologia a Tolosa, laureandosi nell’ottobre 1604. Sperò inutilmente di ottenere una rendita come
parroco, nel frattempo perse il padre e la famiglia finì ancora di più in ristrettezze economiche; per aiutarla
Vincent aprì una scuola privata senza grande successo, anzi si ritrovò carico di debiti. Fu di questo periodo
la strabiliante e controversa avventura che gli capitò; verso la fine di luglio 1605, mentre viaggiava per mare
da Marsiglia a Narbona, la nave fu attaccata da pirati turchi ed i passeggeri, compreso Vincenzo de’ Paoli,
furono fatti prigionieri e venduti a Tunisi come schiavi. Vincenzo fu venduto successivamente a tre diversi
padroni, dei quali l’ultimo, era un frate rinnegato che per amore del denaro si era fatto musulmano. La
schiavitù durò due anni, finché riacquistò la libertà fuggendo su una barca insieme al suo ultimo padrone da
lui convertito; attraversando avventurosamente il Mediterraneo, giunsero il 28 giugno 1607 ad Aigues-Mortes
in Provenza. Ad Avignone il rinnegato si riconciliò con la Chiesa, nelle mani del vicedelegato pontificio Pietro
Montorio, il quale ritornando a Roma, condusse con sé i due uomini. Vincenzo rimase a Roma per un intero
anno, poi ritornò a Parigi a cercare una sistemazione; certamente negli anni giovanili Vincenzo de’ Paoli non
fu uno stinco di santo, tanto che alcuni studiosi affermano, che i due anni di schiavitù da lui narrati, in realtà
servirono a nascondere una sua fuga dai debitori, per la sua fallimentare conduzione della scuola e
pensionato privati. Riuscì a farsi assumere tra i cappellani di corte, ma con uno stipendio di fame, che a
stento gli permetteva di sopravvivere, senza poter aiutare la sua mamma rimasta vedova.
Parroco e precettore
Finalmente nel 1612 fu nominato parroco di Clichy, alla periferia di Parigi; in questo periodo della sua vita,
avvenne l’incontro decisivo con Pierre de Bérulle, che accogliendolo nel suo Oratorio, lo formò a una
profonda spiritualità; nel contempo, colpito dalla vita di preghiera di alcuni parrocchiani, padre Vincenzo
ormai di 31 anni, lasciò da parte le preoccupazioni materiali e di carriera e prese ad insegnare il catechismo,
visitare gli infermi ed aiutare i poveri. Lo stesso de Brulle, gli consigliò di accettare l’incarico di precettore del
primogenito di Filippo Emanuele Gondi, governatore generale delle galere. Nei quattro anni di permanenza
nel castello dei signori Gondi, Vincenzo poté constatare le condizioni di vita che caratterizzavano le due
componenti della società francese dell’epoca, i ricchi ed i poveri. I ricchi a cui non mancava niente, erano
altresì speranzosi di godere nell’altra vita dei beni celesti, ed i poveri che dopo una vita stentata e
disgraziata, credevano di trovare la porta del cielo chiusa, a causa della loro ignoranza e dei vizi in cui la
miseria li condannava. Anche la signora Gondi condivideva le preoccupazioni del suo cappellano, pertanto
mise a disposizione una somma di denaro, per quei religiosi che avessero voluto predicare una missione
ogni cinque anni, alla massa di contadini delle sue terre; ma nessuna Congregazione si presentò e il
cappellano de’ Paoli, intimorito da un compito così grande per un solo prete, abbandonò il castello senza
avvisare nessuno.
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Gli inizi delle sue fondazioni – Le “Serve dei poveri”
Le fondazioni di Vincenzo de’ Paoli, non scaturirono mai da piani prestabiliti o da considerazioni, ma bensì
da necessità contingenti, in un clima di perfetta aderenza alla realtà. Lasciato momentaneamente il castello
della famiglia Gondi, Vincenzo fu invitato dagli oratoriani di de Bérulle, ad esercitare il suo ministero in una
parrocchia di campagna a Chatillon-le-Dombez; il contatto con la realtà povera dei contadini, che specie se
ammalati erano lasciati nell’abbandono e nella miseria, scosse il nuovo parroco. Dopo appena un mese dal
suo arrivo, fu informato che un’intera famiglia del vicinato, era ammalata e senza un minimo di assistenza,
allora lui fece un appello ai parrocchiani che si attivassero per aiutarli, appello che fu accolto subito e
ampiamente. Allora don Vincenzo fece questa considerazione: “Oggi questi poveretti avranno più del
necessario, tra qualche giorno essi saranno di nuovo nel bisogno!”. Da ciò scaturì l’idea di una confraternita
di pie persone, impegnate a turno ad assistere tutti gli ammalati bisognosi della parrocchia; così il 20 agosto
1617 nasceva la prima ‘Carità’, le cui associate presero il nome di “Serve dei poveri”; in tre mesi l’Istituzione
ebbe un suo regolamento approvato dal vescovo di Lione. La Carità organizzata, si basava sul concetto che
tutto deve partire da quell’amore, che in ogni povero fa vedere la viva presenza di Gesù e
dall’organizzazione, perché i cristiani sono tali solo se si muovono coscienti di essere un sol corpo, come già
avvenne nella prima comunità di Gerusalemme. La signora Gondi riuscì a convincerlo a tornare nelle sue
terre e così dopo la parentesi di sei mesi come parroco a Chatillon-les-Dombes, Vincenzo tornò, non più
come precettore, ma come cappellano della massa di contadini, circa 8.000, delle numerose terre dei Gondi.
Prese così a predicare le Missioni nelle zone rurali, fondando le ‘Carità’ nei numerosi villaggi; s. Vincenzo
avrebbe voluto che anche gli uomini, collaborassero insieme alle donne nelle ‘Carità’, ma la cosa non
funzionò per la mentalità dell’epoca, quindi in seguito si occupò solo di ‘Carità’ femminili. Quelle maschili
verranno riprese un paio di secoli dopo, nel 1833, da Emanuele Bailly a Parigi, con un gruppo di sette
giovani universitari, tra cui la vera anima fu il beato Federico Ozanam (1813-1853); esse presero il nome di
“Conferenze di S. Vincenzo de’ Paoli”. Intanto nel 1623 Vincenzo de’ Paoli, si laureò in diritto canonico a
Parigi e restò con i Gondi fino al1625.
Le “Dame della Carità”
Vincenzo de’ Paoli, vivendo a Parigi si rese conto che la povertà era presente, in forma ancora più dolorosa,
anche nelle città e quindi fondò anche a Parigi le ‘Carità’; qui nel 1629 le “Suore dei poveri” presero il nome
di “Dame della Carità”. Nell’associazione confluirono anche le nobildonne, che poterono dare un valore
aggiunto alla loro vita spesso piena di vanità; ciò permise alla nobiltà parigina di contribuire economicamente
alle iniziative fondate da “monsieur Vincent”. L’istituzione cittadina più importante fu quella detta dell’”Hotel
Dieu” (Ospedale), che s. Vincenzo organizzò nel 1634, essa fu il più concreto aiuto al santo nelle molteplici
attività caritative, che man mano lo vedevano impegnato; trovatelli, galeotti, schiavi, popolazioni affamate per
la guerra e nelle Missioni rurali. Fra le centinaia di associate a questa meravigliosa ‘Carità’, vi furono la futura
regina di Polonia Luisa Maria Gonzaga e la duchessa d’Auguillon, nipote del Primo Ministro, cardinale
Richelieu. Le prime ‘Carità’ vincenziane sorsero in Italia a Roma (1652), Genova (1654), Torino (1656).
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29 Settembre
San Michele Arcangelo
Il nome dell’arcangelo Michele, che significa “chi è come Dio ?”, è citato cinque volte nella Sacra Scrittura;
tre volte nel libro di Daniele, una volta nel libro di Giuda e nell'Apocalisse di s. Giovanni Evangelista e in tutte
le cinque volte egli è considerato “capo supremo dell’esercito celeste”, cioè degli angeli in guerra contro il
male, che nell’Apocalisse è rappresentato da un dragone con i suoi angeli; esso sconfitto nella lotta, fu
scacciato dai cieli e precipitato sulla terra. In altre scritture, il dragone è un angelo che aveva voluto farsi
grande quanto Dio e che Dio fece scacciare, facendolo precipitare dall’alto verso il basso, insieme ai suoi
angeli che lo seguivano. Michele è stato sempre rappresentato e venerato come l’angelo-guerriero di Dio,
rivestito di armatura dorata in perenne lotta contro il Demonio, che continua nel mondo a spargere il male e
la ribellione contro Dio. Egli è considerato allo stesso modo nella Chiesa di Cristo, che gli ha sempre
riservato fin dai tempi antichissimi, un culto e devozione particolare, considerandolo sempre presente nella
lotta che si combatte e si combatterà fino alla fine del mondo, contro le forze del male che operano nel
genere umano. Dante nella sua ‘Divina Commedia’ pone il demonio (l’angelo Lucifero) in fondo all’inferno,
conficcato a testa in giù al centro della terra, che si era ritirata al suo cadere, provocando il grande cratere
dell’inferno dantesco. Dopo l’affermazione del cristianesimo, il culto per san Michele, che già nel mondo
pagano equivaleva ad una divinità, ebbe in Oriente una diffusione enorme, ne sono testimonianza le
innumerevoli chiese, santuari, monasteri a lui dedicati; nel secolo IX solo a Costantinopoli, capitale del
mondo bizantino, si contavano ben 15 fra santuari e monasteri; più altri 15 nei sobborghi. Tutto l’Oriente era
costellato da famosi santuari, a cui si recavano migliaia di pellegrini da ogni regione del vasto impero
bizantino e come vi erano tanti luoghi di culto, così anche la sua celebrazione avveniva in tanti giorni diversi
del calendario. Perfino il grande fiume Nilo fu posto sotto la sua protezione, si pensi che la chiesa funeraria
del Cremlino a Mosca in Russia, è dedicata a S. Michele. Per dirla in breve non c’è Stato orientale e nord
africano, che non possegga oggetti, stele, documenti, edifici sacri, che testimoniano la grande venerazione
per il santo condottiero degli angeli, che specie nei primi secoli della Chiesa, gli venne tributata. In Occidente
si hanno testimonianze di un culto, con le numerosissime chiese intitolate a volte a S. Angelo, a volte a S.
Michele, come pure località e monti vennero chiamati Monte Sant’Angelo o Monte San Michele, come il
celebre santuario e monastero in Normandia in Francia, il cui culto fu portato forse dai Celti sulla costa della
Normandia; certo è che esso si diffuse rapidamente nel mondo Longobardo, nello Stato Carolingio e
nell’Impero Romano. In Italia sano tanti i posti dove sorgevano cappelle, oratori, grotte, chiese, colline e
monti tutti intitolati all’arcangelo Michele, non si può accennarli tutti, ci fermiamo solo a due: Tancia e il
Gargano. Sul Monte Tancia, nella Sabina, vi era una grotta già usata per un culto pagano, che verso il VII
secolo, fu dedicata dai Longobardi a S. Michele; in breve fu costruito un santuario che raggiunse gran fama,
parallela a quella del Monte Gargano, che comunque era più antico. La celebrazione religiosa era all’8
maggio, data praticata poi nella Sabina, nel Reatino, nel Ducato Romano e ovunque fosse estesa l’influenza
della badia benedettina di Farfa, a cui i Longobardi di Spoleto, avevano donato quel santuario. Ma il più
celebre santuario italiano dedicato a S. Michele, è quello in Puglia sul Monte Gargano; esso ha una storia
che inizia nel 490, quando era papa Gelasio I; la leggenda racconta che casualmente un certo Elvio
Emanuele, signore del Monte Gargano (Foggia) aveva smarrito il più bel toro della sua mandria, ritrovandolo
dentro una caverna inaccessibile. Visto l’impossibilità di recuperarlo, decise di ucciderlo con una freccia del
suo arco; ma la freccia inspiegabilmente invece di colpire il toro, girò su sé stessa colpendo il tiratore ad un
occhio. Meravigliato e ferito, il signorotto si recò dal suo vescovo s. Lorenzo Maiorano, vescovo di Siponto
(odierna Manfredonia) e raccontò il fatto prodigioso. Il presule indisse tre giorni di preghiere e di penitenza;
dopodiché s. Michele apparve all’ingresso della grotta e rivelò al vescovo: “Io sono l’arcangelo Michele e sto
sempre alla presenza di Dio. La caverna è a me sacra, è una mia scelta, io stesso ne sono vigile custode. Là
dove si spalanca la roccia, possono essere perdonati i peccati degli uomini…Quel che sarà chiesto nella
preghiera, sarà esaudito. Quindi dedica la grotta al culto cristiano”. Ma il santo vescovo non diede seguito
alla richiesta dell’arcangelo, perché sul monte persisteva il culto pagano; due anni dopo, nel 492 Siponto era
assediata dalle orde del re barbaro Odoacre (434-493); ormai allo stremo, il vescovo e il popolo si riunirono
in preghiera, durante una tregua, e qui riapparve l’arcangelo al vescovo s. Lorenzo, promettendo loro la
vittoria, infatti durante la battaglia si alzò una tempesta di sabbia e grandine che si rovesciò sui barbari
invasori, che spaventati fuggirono. Tutta la città con il vescovo, salì sul monte in processione di
ringraziamento; ma ancora una volta il vescovo non volle entrare nella grotta. Per questa sua esitazione che
non si spiegava, s. Lorenzo Maiorano si recò a Roma dal papa Gelasio I (490-496), il quale gli ordinò di
entrare nella grotta insieme ai vescovi della Puglia, dopo un digiuno di penitenza. Recatosi i tre vescovi alla
grotta per la dedicazione, riapparve loro per la terza volta l’arcangelo, annunziando che la cerimonia non era
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più necessaria, perché la consacrazione era già avvenuta con la sua presenza. La leggenda racconta che
quando i vescovi entrarono nella grotta, trovarono un altare coperto da un panno rosso con sopra una croce
di cristallo e impressa su un masso l’impronta di un piede infantile, che la tradizione popolare attribuisce a s.
Michele. Il vescovo san Lorenzo fece costruire all’ingresso della grotta, una chiesa dedicata a s. Michele e
inaugurata il 29 settembre 493; la Sacra Grotta è invece rimasta sempre come un luogo di culto mai
consacrato da vescovi e nei secoli divenne celebre con il titolo di “Celeste Basilica”. Attorno alla chiesa e alla
grotta è cresciuta nel tempo la cittadina di Monte Sant’Angelo nel Gargano. I Longobardi che avevano
fondato nel secolo VI il Ducato di Benevento, vinsero i feroci nemici delle coste italiane, i saraceni, proprio
nei pressi di Siponto, l’8 maggio 663, avendo attribuito la vittoria alla protezione celeste di s. Michele, essi
presero a diffondere come prima accennato, il culto per l’arcangelo in tutta Italia, erigendogli chiese,
effigiandolo su stendardi e monete e instaurando la festa dell’8 maggio dappertutto. Intanto la Sacra Grotta
diventò per tutti i secoli successivi, una delle mete più frequentate dai pellegrini cristiani, diventando insieme
a Gerusalemme, Roma, Loreto e S. Giacomo di Compostella, i poli sacri dall’Alto Medioevo in poi. Sul
Gargano giunsero in pellegrinaggio papi, sovrani, futuri santi. Sul portale dell’atrio superiore della basilica,
che non è possibile descrivere qui, vi è un’iscrizione latina che ammonisce: “che questo è un luogo
impressionante. Qui è la casa di Dio e la porta del Cielo”. Il santuario e la Sacra Grotta sono pieni di opere
d’arte, di devozione e di voto, che testimoniano lo scorrere millenario dei pellegrini e su tutto campeggia
nell’oscurità la statua in marmo bianco di S. Michele, opera del Sansovino, datata 1507. L’arcangelo è
comparso lungo i secoli altre volte, sia pure non come sul Gargano, che rimane il centro del suo culto, ed il
popolo cristiano lo celebra ovunque con sagre, fiere, processioni, pellegrinaggi e non c’è Paese europeo che
non abbia un’abbazia, chiesa, cattedrale, ecc. che lo ricordi alla venerazione dei fedeli. Apparendo ad una
devota portoghese Antonia de Astonac, l’arcangelo promise la sua continua assistenza, sia in vita che in
purgatorio e inoltre l’accompagnamento alla S. Comunione da parte di un angelo di ciascuno dei nove cori
celesti, se avessero recitato prima della Messa la corona angelica che gli rivelò. I cori sono: Serafini,
Cherubini, Troni, Dominazioni, Potestà, Virtù, Principati, Arcangeli ed Angeli. La sua festa liturgica principale
in Occidente è iscritta nel Martirologio Romano al 29 settembre e nella riforma del calendario liturgico del
1970, è accomunato agli altri due arcangeli più conosciuti, Gabriele e Raffaele nello stesso giorno, mentre
l’altro arcangelo a volte nominato nei testi apocrifi, Uriele, non gode di un culto proprio. Per la sua
caratteristica di “guerriero celeste” s. Michele è patrono degli spadaccini, dei maestri d’armi; poi dei doratori,
dei commercianti, di tutti i mestieri che usano la bilancia, i farmacisti, pasticcieri, droghieri, merciai;
fabbricanti di tinozze, inoltre è patrono dei radiologi e della Polizia. È patrono principale delle città italiane di
Cuneo, Caltanissetta, Monte Sant’Angelo, Sant’Angelo dei Lombardi, compatrono di Caserta. Difensore
della Chiesa, la sua statua compare sulla sommità di Castel S. Angelo a Roma, che come è noto era
diventata una fortezza in difesa del Pontefice; protettore del popolo cristiano, così come un tempo lo era dei
pellegrini medievali, che lo invocavano nei santuari ed oratori a lui dedicati, disseminati lungo le strade che
conducevano alle mete dei pellegrinaggi, per avere protezione contro le malattie, lo scoraggiamento e le
imboscate dei banditi. Per quanto riguarda la sua raffigurazione nell’arte in generale, è delle più vaste; ogni
scuola pittorica in Oriente e in Occidente, lo ha quasi sempre raffigurato armato in atto di combattere il
demonio. Sul Monte Athos nel convento di Dionisio del 1547, i tre principale arcangeli sono così raffigurati,
Raffaele in abito ecclesiastico, Michele da guerriero e Gabriele in pacifica posa e rappresentano i poteri
religioso, militare e civile.
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San Gabriele Arcangelo
Gabriele (Forza di Dio) è uno degli spiriti che stanno davanti a Dio (Lc 1, 19), rivela a Daniele i segreti del
piano di Dio (Dn 8, 16; 9, 21-22), annunzia a Zaccaria la nascita di Giovanni (Lc 1, 11-20) e a Maria quella di
Dio (Lc 1, 26-38). Il nuovo calendario ha riunito in una sola celebrazione i tre arcangeli Michele, Gabriele e
Raffaele, la cui festa cadeva rispettivamente il 29 settembre, il 24 marzo e il 24 ottobre. Dell'esistenza di
questi Angeli parla esplicitamente la Sacra Scrittura, che dà loro un nome e ne determina la funzione. S.
Michele, l'antico patrono della Sinagoga, è ora patrono della Chiesa universale; S. Gabriele è l'angelo
dell'Incarnazione e forse dell'agonia nel giardino degli ulivi; S. Raffaele è la guida dei viandanti. S. Gabriele,
"colui che sta al cospetto di Dio" (è il suo "biglietto di presentazione " quando si reca ad annunciare a Maria
la sua scelta come madre del Redentore), è l'annunciatore per eccellenza delle divine rivelazioni. E’ lui che
spiega al profeta Daniele come avverrà la piena restaurazione, dal ritorno dall'esilio all'avvento del Messia. A
lui è affìdato l'incarico di annunciare la nascita del precursore, Giovanni, figlio di Zaccaria e di Elisabetta. La
missione più alta che mai sia stata affìdata ad una creatura è : l'annuncio dell'Incarnazione del Figlio di Dio.
Egli gode per questo di una particolare venerazione anche presso i maomettani.
San Raffaele Arcangelo
Per gli adolescenti ed i giovani che vanno fuori di casa per la prima volta c’è un patrono d’eccezione,
l’arcangelo San Raffaele. II motivo di tale patronato è presto detto. Egli è quello spirito creato da Dio che
compare nel libro di Tobia, il libro della Bibbia che, per la verità, inizia con I’attribuzione a Tobith, suo padre.
Trattasi di un racconto edificante, variamente datato fra il periodo persiano e l’epoca delle rivolte
maccabaiche. Le vicende del padre, improvvisamente cieco, e del figlio, esiliati dal regno di Israele a Ninive
nel VIII secolo a.C., al tempo cioè della deportazione assira, sono intrecciate intorno al “puro” e all’“impuro” e
più in generale intorno all’obbedienza alla Legge. Nucleo centrale del libro è il viaggio intrapreso da Tobia
per recuperare, in terra lontana, un credito del padre divenuto indigente,con il “sicuro” accompagnamento di
un personaggio che si rivelerà essere alla fine l’arcangelo Raffaele. Una volta giunti sulle rive del Tigri, Tobia
veniva invitato a pescare nel fiume con le mani un pericoloso pesce in parte per alimentarsi ma, soprattutto,
per conservarne il cuore, il fegato ed il fiele. Nel complicato e avventuroso viaggio essi diventeranno
elementi di clamorose guarigioni. Con i profumi dei due organi posti sopra un braciere, Sarra, posseduta dal
demonio che le aveva fatto morire i primi sette mariti, ne verrà liberata e diventerà,senza più pericolo, moglie
di Tobia. Più avanti, con il fiele applicato sugli occhi del padre, il giovane riuscirà a guarirlo dalla cecità. Col
credito recuperato si trattava, a conclusione del racconto, di ricompensare il generoso accompagnatore.
Raffaele però, svelatosi come colui che “presenta il ricordo delle preghiere davanti alla Gloria del Signore”
(12,12), rifiutava ogni offerta e, invitando a ringraziare Iddio, saliva in alto. Nel Medioevo gli adolescenti ed i
giovani che lasciavano la casa per la prima volta si ponevano sotto la protezione di San Raffaele e
portavano con loro una tavoletta che li raffigurava nei panni di Tobia accompagnato dall’arcangelo. Dal
racconto biblico si comprende anche come Raffaele sia invocato contro molte malattie dell’anima e del
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corpo. Negli ultimi tempi la sua festività liturgica è stata portata dal 24 ottobre al 29 settembre, insieme a
quella di Michele e di Gabriele. Ancora oggi i farmacisti lo ricordano ogni anno come loro principale patrono.
30 Settembre
San Girolamo (o Gerolamo)
San Girolamo è un Padre della Chiesa che ha posto al centro della sua vita la Bibbia: l’ha tradotta nella
lingua latina, l’ha commentata nelle sue opere, e soprattutto si è impegnato a viverla concretamente nella
sua lunga esistenza terrena, nonostante il ben noto carattere difficile e focoso ricevuto dalla natura.
Girolamo nacque a Stridone verso il 347 da una famiglia cristiana, che gli assicurò un’accurata formazione,
inviandolo anche a Roma a perfezionare i suoi studi. Da giovane sentì l'attrattiva della vita mondana (cfr Ep.
22,7), ma prevalse in lui il desiderio e l'interesse per la religione cristiana. Ricevuto il battesimo verso il 366,
si orientò alla vita ascetica e, recatosi ad Aquileia, si inserì in un gruppo di ferventi cristiani, da lui definito
quasi «un coro di beati» (Chron. Ad ann. 374) riunito attorno al Vescovo Valeriano. Partì poi per l'Oriente e
visse da eremita nel deserto di Calcide, a sud di Aleppo (cfr Ep. 14,10), dedicandosi seriamente agli studi.
Perfezionò la sua conoscenza del greco, iniziò lo studio dell'ebraico (cfr Ep. 125,12), trascrisse codici e
opere patristiche (cfr Ep. 5,2). La meditazione, la solitudine, il contatto con la Parola di Dio fecero maturare
la sua sensibilità cristiana. Sentì più pungente il peso dei trascorsi giovanili (cfr Ep. 22,7), e avvertì
vivamente il contrasto tra mentalità pagana e vita cristiana: un contrasto reso celebre dalla drammatica e
vivace "visione", della quale egli ci ha lasciato il racconto. In essa gli sembrò di essere flagellato al cospetto
di Dio, perché «ciceroniano e non cristiano» (cfr Ep. 22,30). Nel 382 si trasferì a Roma: qui il Papa Damaso,
conoscendo la sua fama di asceta e la sua competenza di studioso, lo assunse come segretario e
consigliere; lo incoraggiò a intraprendere una nuova traduzione latina dei testi biblici per motivi pastorali e
culturali. Alcune persone dell’aristocrazia romana, soprattutto nobildonne come Paola, Marcella, Asella, Lea
ed altre, desiderose di impegnarsi sulla via della perfezione cristiana e di approfondire la loro conoscenza
della Parola di Dio, lo scelsero come loro guida spirituale e maestro nell’approccio metodico ai testi sacri.
Queste nobildonne impararono anche il greco e l’ebraico. Dopo la morte di Papa Damaso, Girolamo lasciò
Roma nel 385 e intraprese un pellegrinaggio, dapprima in Terra Santa, silenziosa testimone della vita
terrena di Cristo, poi in Egitto, terra di elezione di molti monaci (cfr Contra Rufinum 3,22; Ep. 108,6-14). Nel
386 si fermò a Betlemme, dove, per la generosità della nobildonna Paola, furono costruiti un monastero
maschile, uno femminile e un ospizio per i pellegrini che si recavano in Terra Santa, «pensando che Maria e
Giuseppe non avevano trovato dove sostare» (Ep. 108,14). A Betlemme restò fino alla morte, continuando a
svolgere un'intensa attività: commentò la Parola di Dio; difese la fede, opponendosi vigorosamente a varie
eresie; esortò i monaci alla perfezione; insegnò la cultura classica e cristiana a giovani allievi; accolse con
animo pastorale i pellegrini che visitavano la Terra Santa. Si spense nella sua cella, vicino alla grotta della
Natività, il 30 settembre 419/420. La preparazione letteraria e la vasta erudizione consentirono a Girolamo la
revisione e la traduzione di molti testi biblici: un prezioso lavoro per la Chiesa latina e per la cultura
occidentale. Sulla base dei testi originali in greco e in ebraico e grazie al confronto con precedenti versioni,
egli attuò la revisione dei quattro Vangeli in lingua latina, poi del Salterio e di gran parte dell'Antico
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Testamento. Tenendo conto dell'originale ebraico e greco, dei Settanta, la classica versione greca
dell’Antico Testamento risalente al tempo precristiano, e delle precedenti versioni latine, Girolamo, affiancato
poi da altri collaboratori, poté offrire una traduzione migliore: essa costituisce la cosiddetta "Vulgata", il testo
"ufficiale" della Chiesa latina, che è stato riconosciuto come tale dal Concilio di Trento e che, dopo la recente
revisione, rimane il testo "ufficiale" della Chiesa di lingua latina. E’ interessante rilevare i criteri a cui il grande
biblista si attenne nella sua opera di traduttore. Li rivela egli stesso quando afferma di rispettare perfino
l’ordine delle parole delle Sacre Scritture, perché in esse, dice, "anche l’ordine delle parole è un mistero"
(Ep. 57,5), cioè una rivelazione. Ribadisce inoltre la necessità di ricorrere ai testi originali: «Qualora
sorgesse una discussione tra i Latini sul Nuovo Testamento, per le lezioni discordanti dei manoscritti,
ricorriamo all'originale, cioè al testo greco, in cui è stato scritto il Nuovo Patto. Allo stesso modo per l'Antico
Testamento, se vi sono divergenze tra i testi greci e latini, ci appelliamo al testo originale, l'ebraico; così tutto
quello che scaturisce dalla sorgente, lo possiamo ritrovare nei ruscelli» (Ep. 106,2). Girolamo, inoltre,
commentò anche parecchi testi biblici. Per lui i commentari devono offrire molteplici opinioni, «in modo che il
lettore avveduto, dopo aver letto le diverse spiegazioni e dopo aver conosciuto molteplici pareri – da
accettare o da respingere –, giudichi quale sia il più attendibile e, come un esperto cambiavalute, rifiuti la
moneta falsa» (Contra Rufinum 1,16). Confutò con energia e vivacità gli eretici che contestavano la
tradizione e la fede della Chiesa. Dimostrò anche l'importanza e la validità della letteratura cristiana,
divenuta una vera cultura ormai degna di essere messa confronto con quella classica: lo fece componendo il
De viris illustribus, un'opera in cui Girolamo presenta le biografie di oltre un centinaio di autori cristiani.
Scrisse pure biografie di monaci, illustrando accanto ad altri itinerari spirituali anche l'ideale monastico;
inoltre tradusse varie opere di autori greci. Infine nell'importante Epistolario, un capolavoro della letteratura
latina, Girolamo emerge con le sue caratteristiche di uomo colto, di asceta e di guida delle anime. Che cosa
possiamo imparare noi da San Girolamo? Mi sembra soprattutto questo: amare la Parola di Dio nella Sacra
Scrittura. Dice San Girolamo: "Ignorare le Scritture è ignorare Cristo". Perciò è importante che ogni cristiano
viva in contatto e in dialogo personale con la Parola di Dio, donataci nella Sacra Scrittura. Questo nostro
dialogo con essa deve sempre avere due dimensioni: da una parte, dev'essere un dialogo realmente
personale, perché Dio parla con ognuno di noi tramite la Sacra Scrittura e ha un messaggio ciascuno.
Dobbiamo leggere la Sacra Scrittura non come parola del passato, ma come Parola di Dio che si rivolge
anche a noi e cercare di capire che cosa il Signore voglia dire a noi. Ma per non cadere nell'individualismo
dobbiamo tener presente che la Parola di Dio ci è data proprio per costruire comunione, per unirci nella
verità nel nostro cammino verso Dio. Quindi essa, pur essendo sempre una Parola personale, è anche una
Parola che costruisce comunità, che costruisce la Chiesa. Perciò dobbiamo leggerla in comunione con la
Chiesa viva. Il luogo privilegiato della lettura e dell'ascolto della Parola di Dio è la liturgia, nella quale,
celebrando la Parola e rendendo presente nel Sacramento il Corpo di Cristo, attualizziamo la Parola nella
nostra vita e la rendiamo presente tra noi. Non dobbiamo mai dimenticare che la Parola di Dio trascende i
tempi. Le opinioni umane vengono e vanno. Quanto è oggi modernissimo, domani sarà vecchissimo. La
Parola di Dio, invece, è Parola di vita eterna, porta in sé l'eternità, ciò che vale per sempre. Portando in noi
la Parola di Dio, portiamo dunque in noi l'eterno, la vita eterna. E così concludo con una parola di San
Girolamo a San Paolino di Nola. In essa il grande Esegeta esprime proprio questa realtà, che cioè nella
Parola di Dio riceviamo l'eternità, la vita eterna. Dice San Girolamo: «Cerchiamo di imparare sulla terra
quelle verità la cui consistenza persisterà anche nel cielo» (Ep. 53,10).
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