Gli “esperimenti di progetto” degli studenti Iuav per la ricostruzione

Gli “esperimenti di progetto” degli studenti Iuav per la ricostruzione del duomo di S. Felice
Francesco Doglioni
Dipartimento di Culture del progetto – Università Iuav di Venezia
Gli “esperimenti di progetto” compiuti per il duomo di S. Felice dagli studenti di architettura
dell'Università Iuav di Venezia, Dipartimento di Culture del progetto, ed esposti nella mostra, sono
al tempo stesso frutto dell’immaginazione e precisamente riferiti alla realtà; quella realtà di macerie
ora rimosse e di parti murarie che ancora si reggono, ferite e scomposte ma significative.
L’accordo di collaborazione tra due istituzioni pubbliche, la Direzione Regionale e l’Università
Iuav di Venezia ha portato il nostro Laboratorio di fotogrammetria ad effettuare il rilievo accurato
dell’area del Duomo, ricorrendo anche ad un drone, un piccolo elicottero teleguidato con
apparecchiature fotografiche. Sulla base di questo rilievo di elevata precisione si è potuta sviluppare
prima la tesi di laurea di Claudia Cassai e Daniele Manzato, e successivamente gli “esperimenti di
progetto” condotti in parallelo da 32 gruppi di studenti.
La tesi di laurea, che ha consapevolmente rinunciato a proporre una soluzione compiuta, ha svolto
un impegnativo e importante lavoro di conoscenza e di preparazione per poter dare adeguato
fondamento alle successive scelte di indirizzo. Prima di mettere mano ai disegni è necessario
riflettere anche a lungo, approfondire per quanto possibile i dati di fatto nei loro diversi aspetti,
comparare diverse ipotesi e valutarne la fattibilità e le conseguenze.
Claudia Cassai e Daniele Manzato hanno studiato la storia costruttiva del Duomo attraverso le fonti
scritte, ne hanno osservato le rovine che impietosamente hanno messo in luce le molteplici vicende
costruttive, di certo corresponsabili del devastante crollo per l’insieme di discontinuità ed erosioni
cha hanno lasciato nella costruzione.
Hanno poi ricomposto, elaborando con appositi algoritmi le vecchie immagini fotografiche – poche,
purtroppo – e con l’aiuto dei disegni di Davide Calanca, la costruzione com’era prima del sisma,
una sorta di rilievo virtuale a posteriori, eseguito dopo il crollo. Hanno infine studiato altri casi in
cui ci si è trovati a dover intervenire su chiese semidistrutte, e hanno cercato punti di contatto con il
Duomo di Felice.
Sulla base di queste conoscenze, i 32 gruppi di studenti hanno potuto ricercare e percorrere, sia pur
in tempi abbreviati, una propria strada, di cui oggi, dopo circa quattro mesi, vediamo a confronto i
risultati.
Si è trattato di una sorta di “concorso di idee”, in quanto agli studenti non è stato posto un obiettivo
definito in termini di funzioni da attribuire alla nuova costruzione. Sono stati liberi di proporre, per
il loro progetto, la conferma della destinazione a chiesa parrocchiale, ma anche la sola protezione
delle strutture “a rudere”, per rispondere ad un obiettivo, questo sì dato dalla docenza: conservare,
se possibile valorizzare e comunque proteggere le strutture superstiti della vecchia chiesa.
Vi sono soluzioni che propongono di realizzare una biblioteca, una sala di danza, un museo, un
luogo della memoria… Altre che progettano una chiesa secondaria, ristretta rispetto a quella iniziale,
concepita come luogo più raccolto e meditativo, prendendo atto che già esiste una nuova chiesa, se
pur provvisoria, in grado di assolvere alle funzioni di moderna chiesa parrocchiale.
Altri costruiscono la chiesa nuova su quello che ora è il sagrato, e fanno dell’aula attuale una sorta
di chiostro o nartece. Vi è dunque un ventaglio piuttosto ampio di destinazioni previste, pur
prevalendo la riconferma della funzione iniziale.
Anche riguardo ai modi e – per semplificare – al linguaggio architettonico proposto, vi è una
varietà di indirizzi: molti accentuano il distacco tra nuove strutture e preesistenze, creando una
nuova fabbrica che in vari modi ingloba l’antica; altri cercano un maggiore raccordo e studiano le
possibili continuità strutturali, simboliche e spaziali.
Ci si può chiedere perché non vi sia un solo progetto che intraprenda con decisione la strada del
“com’era e dov’era”, la riproposizione fedele della chiesa perduta.
In parte, questo è dovuto a un fattore contingente, legato alla natura dei diversi insegnamenti di cui
il progetto stesso deve rappresentare un’esercitazione: oltre al restauro architettonico e alla
progettazione strutturale, il progetto deve costituire un “esperimento” di composizione
architettonica, che per sua natura richiede di cimentarsi con i linguaggi, i materiali e la spazialità
della cultura contemporanea.
Ma va detto che anche il restauro guarda con cautela mista a diffidenza a questa soluzione, e io
stesso, docente di restauro, pur non escludendo a priori questa scelta, ho invitato gli studenti a
valutarla con prudenza.
Mi sia permessa una nota autobiografica. Dopo il terremoto del Friuli del 1976, ho lavorato a lungo
e con convinzione alla ricostruzione di chiese grandi, come il duomo di Venzone, e piccole, come la
chiesa di S. Giacomo e Anna. In modo improprio si potrebbe dire che sono state ricostruite “come
erano e dove erano”, anche se mi sono sempre ribellato a questa semplificazione. Sì, sono state
ricostruite sullo stesso luogo e con le stesse grandi pietre squadrate, che avevamo pazientemente
riconosciuto e ricollocato nella stessa posizione in cui erano poste prima del crollo; sì, le immagini
delle chiese riprese prima del terremoto e dopo la ricostruzione, ad una vista rapida e distratta
possono identiche; osservandole più attentamente si nota però un tessuto di significative differenze.
Questo perché, anche per il restauro, l’edificio ricostruito non deve e non può coincidere con
l’edificio su cui sorge e che ingloba, come in effetti non coincide. Non può, perché non si cancella il
trauma del crollo senza stravolgere le parti vere e autentiche rimaste della chiesa, in quanto le pietre
e le murature ne recano ormai i segni profondi; e voler ricostruire quella chiesa presupponendo di
distruggere o alterare profondamente quello che ne è rimasto è una insanabile contraddizione. Ma a
mio avviso, il trauma non deve nemmeno essere cancellato, perché le parti che ne recano le tracce
saranno la testimonianza di una storia vissuta in prima persona da ciascuno di noi, insieme alla
comunità, assistendo prima alla rovina e poi alla ricostruzione. Che lo vogliamo o no, questo evento
è ormai parte della nostra vita, e non ha senso volerlo semplicemente cancellare. Certo, di queste
lacerazioni non dobbiamo nemmeno ostentare la crudezza, ma se riusciremo a far diventare cicatrici
quelle che oggi sono ferite aperte, faremo comunque un’azione di verità; non cercheremo di
ingannare il tempo e gli eventi, e nemmeno mentiremo a noi stessi e a chi verrà dopo di noi. Il
valore di “monumento” dell’edificio ricostruito ne risulterà accresciuto, non diminuito.
“Monumento”, lo dobbiamo ricordare, deriva il suo significato da “memento”, che è al tempo stesso
l’invito a non dimenticare pur con la nostalgia ciò che si è perduto, ma è anche un perentorio
richiamo al dovere di ricordare, un ammonimento per il futuro. Ricordi dolci e dolorosi si
sommeranno fino a confondersi nel ricordo, dando nuovo senso all’austera severità del termine
“monumento”.
Anche per questo ho chiesto ai nostri studenti, nel loro “esperimento di progetto”, di saper proporre
un ruolo vivido di memoria a ciò che resta della antica chiesa: non solo una rovina esposta in modo
compiaciuto, ma la testimonianza di un passato e di un evento insieme alla volontà di una continuità
con esso, anche nell’inevitabile cambiamento.
E ciò che resta può essere quantitativamente poco, rispetto all’entità delle parti crollate, ma è molto
in termini di percezione: pensiamo soprattutto alle cappelle del Crocefisso e del Rosario, ma anche
ad altre parti, in cui si può entrare in un ambiente confinato che è ancora in gran parte quello
precedente. Nella cappella del Crocefisso il crollo della volta ha introdotto una suggestione che l’ha
resa una sorta di pantheon involontario, e, anche qui per esperienza, sono sicuro che qualsiasi
ricostruzione ci farà queste immagini vivissime del cielo azzurro che si apre sopra gli stucchi.
Mi si può chiedere perché allora si è ritenuta possibile e praticata una strada che portava ad
avvicinarsi molto alla costruzione perduta, pur senza coincidere, e qui a San Felice mi mostro
riluttante.
Vi sono diverse ragioni. La prima è data dai materiali di cui sono composte le chiese, grandi pietre a
vista in buona parte squadrate nelle chiese friulane che ho ricordato, muro di mattoni il duomo di S.
Felice. Le grandi pietre, se recuperate dal crollo, possono essere ricomposte fino a dare nuovamente
forma alla costruzione crollata, con un procedimento di vero e proprio rimontaggio denominato
anastilosi. Le murature in mattoni invece devono essere interamente ricostruite, e anche se si
utilizzano gli stessi mattoni di recupero questi hanno ormai perduto lo specifico legame con la
fabbrica distrutta. Per inciso e se volete come precedente storico ricordo che la prima chiesa
ricostruita con le modalità – almeno in parte – dell’anastilosi, la trecentesca chiesa di S. Giacomo e
Anna a Venzone, è stata finanziata proprio da una legge speciale della Regione Emilia Romagna,
assessore Pierluigi Cervellati e presidente dell’Istituto Beni Culturali Giovanni Losavio.
Sotto certi aspetti, ritengo doverosa l’anastilosi dove può essere effettivamente praticata: se la si
può realmente realizzare, vuol dire che la costruzione è solo scomposta, ma non ancora distrutta nei
suoi elementi fondamentali, e che solo la mancata ricomposizione porterà a disperdere
definitivamente gli elementi della fabbrica, e dunque ne sancirà la definitiva distruzione,
caricandoci di questa responsabilità.
Per i muri di mattone, soprattutto se ricoperti di intonaco, la questione è molto diversa: il crollo
produce una maceria minuta che non può essere ricomposta, a maggior ragione se le malte che
legano le murature sono di mediocre qualità e si staccano alla prima sollecitazione dalla superficie
dei mattoni: come purtroppo abbiamo visto nelle macerie del Duomo di S. Felice.
Questo è un secondo problema. Per ricostruire in continuità su di essa, è necessario che la struttura
antica su cui basare la nuova sia – appunto – una struttura, e come tale possa essere consolidata e
ricondotta a piena funzionalità.
Nel duomo di S. Felice, l’insieme di fratture e lacerazioni prodotte dalla intromissione della chiesa
settecentesca nell’aula della chiesa più antica, al tempo stesso sfondando le pareti laterali per aprire
le nuove cappelle, ha dato luogo ad una costruzione ibrida e frammentaria, apparentemente unitaria
ma in realtà formata da frammenti murari slegati; per di più costruiti con malta non eccelsa.
Ci siamo perciò chiesti se alle antiche strutture, una volta consolidate con tecniche idonee, potesse
essere affidato nuovamente il compito di reggere una nuova grande chiesa, e la risposta che ci
siamo dati in tutta sincerità, pur se in attesa di indagini più approfondite, è stata che è opportuno
badino solo a se stesse o, per le cappelle, reggano solo la propria copertura; ma non una nuova
chiesa con un’aula ampia, che deve disporre di basi più solide e affidabili.
Perciò, se non vogliamo demolire e ricostruire anche le rovine emblematiche che ci restano
dell’antica chiesa – ad esempio gli stucchi della cappella del Crocefisso – dovremo pensare ad una
struttura parallela, una terza struttura innestata tra ciò che resta della chiesa iniziale e le parti
superstiti della chiesa settecentesca e ottocentesca.
Devo dire che nel corso dei rilievi e degli studi per la tesi abbiamo osservato un fatto piuttosto
sorprendente e, a mia memoria, inusuale. Le pareti della navata costruite nel Settecento all’interno
delle mura perimetrali della chiesa iniziale sono state distanziate di circa 50 cm. dai muri
preesistenti, lasciando pressoché su tutta la navata uno varco corrispondente tra le nuove e le
antiche murature.
Ragionando con alcuni studenti, si è vista l’opportunità di inserire in questi varchi le strutture della
nuova terza chiesa, la chiesa attuale dopo quella iniziale e quella settecentesca. Si è progettato
perciò di inserire elementi strutturali in metallo o in calcestruzzo, seminascosti dalle lesene o più
esplicitamente visibili. Queste strutture possono formare la base della nuova aula e contribuire
fisicamente a reggere le antiche murature dissestate; ma soprattutto far sì che la nuova terza chiesa
sia simbolicamente intrecciata con le due strutture preesistenti; dando atto che con il terremoto è
finito un ciclo, ma possiamo avviarne un altro ricercando la continuità.
Altri studenti, invece, hanno scelto un impianto strutturale diverso, con sostegni interni o esterni
alla vecchia chiesa.
Gli studenti hanno perciò potuto scegliere, nel loro progetto di ricostruzione, tra allontanamento e
avvicinamento alla antica fabbrica, comunque reinglobandola e proteggendola.
Alcuni hanno accentuato l’avvicinamento, pur senza giungere al “com’era e dov’era”, ma seguendo
un’idea di ricostruzione che evocasse la chiesa perduta negli spazi e nei volumi, pur con materiali e
forme almeno in parte diverse, ma affidando alle parti antiche restaurate e integrate il ruolo di
fondamentale e tangibile elemento di continuità. E’ quella ricerca che viene ricondotta al pensiero
del restauro “critico-conservativo”, una delle posizioni più originali e difficili del restauro italiano.
Altri studenti hanno sancito l’allontanamento, affidando alle murature antiche il ruolo di oggetto
musealizzato in situ e alla nuova struttura di “teca” in grado di proteggerli e consentirne la vista, più
o meno diretta e filtrata, confermando o mutando la funzione di chiesa parrocchiale.
In questi progetti, prevale il ruolo dell’architettura come nuovo mezzo simbolico; all’interno con
attenti studi sulla luce e sugli spazi, all’esterno come nuova forma riconoscibile nel paesaggio
urbano proprio attraverso la sua attualità.
Emergono poi, nell’osservazione dei progetti, temi specifici che le forme dei crolli hanno aperto
nella travagliata storia della chiesa. Tra questi, la grande lacerazione prodotta dal crollo di
presbiterio e abside, che ha creato un varco tra il rudere del campanile e la parte di catino absidale
rimasta sul fianco dell’edificio contiguo. Abside e presbiterio erano frutto dell’ampliamento forzoso
compiuto nel corso dell’Ottocento, fino a generare un impatto formalmente discutibile e
strutturalmente negativo con il campanile a nord e con le case contigue a est. Alcuni studenti hanno
considerato una opportunità significativa questa lacerazione, e hanno insediato in questi varchi
nuove strutture – una cappella feriale – disegnando un nuovo assetto, nella consapevolezza che in
questa parte la distanza con l’antica chiesa dovrà essere maggiore.
Il progetto potrà avere dunque naturalmente luoghi e parti in cui si avvicinerà alla antica chiesa
quasi fino a coincidere con essa, come ad esempio in alcune cappelle; in altri luoghi dovrà
necessariamente distanziarsi, ad esempio nell’abside: ritengo non sia né possibile né auspicabile,
anche solo per ragioni sismiche, che l’abside torni a incastonarsi negli edifici confinanti.
Ritengo che il progetto dovrà essere composito, avere la capacità di interpretare efficacemente sia la
conservazione e il reinserimento delle parti antiche, sia l’apertura e la quota di innovazione che
spesso proprio i varchi del terremoto segnalano come possibile e – forse – opportuna.
Ora, sulla base delle conoscenze raggiunte e di altre che si costruiranno nel corso dei prossimi mesi,
si va a mio avviso delineando un quadro entro il quale si possono – e in certa misura – si devono
assumere indirizzi e decisioni.
Credo che alla comunità civile e religiosa di S. Felice spetti decidere quale ruolo affidare all’antica
chiesa: se farla tornare ad essere nuova chiesa parrocchiale in continuità con l’antica, oppure chiesa
suffraganea secondaria con ruolo di luogo raccolto di memoria e riflessione; oppure un edificio in
cui innestare anche funzioni laiche, di studio -come la biblioteca- o semplicemente di visita e di
svago; o una rovina protetta e attentamente musealizzata.
Ritornando al paragone con l’esperienza compiuta in Friuli, sono convinto si debba intervenire sulla
chiesa non solo per restituire una funzione necessaria alla comunità o per salvaguardarne le rovine.
In Friuli, i centri erano interamente distrutti insieme alle chiese. Lo slogan del dopo-terremoto è
stato “prima le case e poi le chiese”: e la ricostruzione del Duomo di Venzone, la più complessa, è
stata completata quando ormai il centro era stato ricostruito e nuovamente abitato; al contrario, la
piccola chiesa si S. Giacomo e Anna è stata ultimata solo quattro anni dopo il sisma, perché si è
voluto dare attraverso di essa una dare una prova tangibile di fiducia e di possibilità di rinascita in
un territorio interamente devastato. E la ricostruzione delle chiese è stata perseguita con tenacia non
solo dai sacerdoti e dalla Diocesi, ma soprattutto dalle comunità che vi si riconoscevano; comunità
spesso fortemente coinvolte nella stessa scelta degli indirizzi progettuali, come ben espresso nei
volumi che documentano quel clima e quella tensione, il cui titolo, nell’impronunciabile friulano,
suona; cjase di Diu, Cjase nestre: casa di Dio, casa nostra.
A S. Felice, solo la chiesa e poche altre costruzioni sono interamente crollate, mentre le abitazioni
sono danneggiate in modo più a o meno grave. Si è dunque aperto un varco nel tessuto della
cittadina antica, complessivamente indebolita dai trasferimenti temporanei degli abitanti, delle
funzioni commerciali e delle diverse attività. E’ fondamentale richiudere il prima possibile questo
ed altri varchi, perché i centri antichi funzionano, mi si passi il paragone, come un arco a conci in
pietra: si reggono sul mutuo sostegno degli elementi, se ne viene a mancare anche uno soltanto,
cade l’intero arco.
Voglio ringraziare i colleghi della Direzione Regionale, in particolare Paola Ruggieri e Carla di
Francesco, che hanno reso possibile questi “esperimenti di progetto”, i collaboratori Michele
Bondanelli, Paola Squassina e Luca Scappin, oltre a Claudia Cassai e Daniele Manzato che hanno
continuato ad offrire il proprio apporto anche dopo la laurea.
Ma ringrazio soprattutto la nostra brigata internazionale di studenti italiani (di molte regioni),
europei (spagnoli, portoghesi, francesi, svizzeri, rumeni, olandesi), ed extraeuropei (cileni e
argentini) che hanno svolto il proprio “esperimento di progetto” con entusiasmo e serietà,
realizzando un’esperienza quale poche volte mi è capitato di poter svolgere nelle aule universitarie;
esperienza che credo sia stata per loro davvero formativa.
Alla Direzione Regionale e agli organi della Soprintendenza spetterà il non facile compito di
indirizzare l’opera di ricostruzione della chiesa di S. Felice. Per farlo dovrà avere la spinta anche
critica della comunità, suo vero committente oltre che destinatario.
Mi auguro che queste immagini e queste idee siano di stimolo e di riferimento per le decisioni che
la comunità e le istituzioni dovranno assumere per il Duomo di S. Felice. Che dunque siano
concretamente utili in un momento difficilissimo della vita di questa comunità e di questo
monumento ferito. Ma soprattutto auguro alla Comunità di S. Felice di saper trovare, nel
disorientamento e nella desolazione del dopo-terremoto, la forza di perseguite questo obiettivo di
rinascita e riaggregazione.